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Full text of "La vita. Introduzione e note di Luigi Negri. Con due tavole"

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COLLEZIONE 

DI 

CLASSICI  ITALIANI 

CON  NOTE 

FONDATA  DA  PIETRO  TOMMASINI-MATTIUCCI 

diretta  da 

GUSTAVO  BALSAMO-CRIVELLI 

Volume  II 


TORINO 
UNIONE  TIPOGRAFICO -EDITRICE  TORINESE 

(fU  trattni  romtt  LUroj  In  PHnelpk^  itttt  OortraU  H  H  •  ITM) 


VITTORIO  ALFIERI 


LA    VITA 


INTRODUZIONE    E    NOTE 
di 

LUIGI   NEGRI 


C»i  due  tavole. 


TORINO 

UNIONE  TIPOGRAFICO -EDITRICE  TORINESE 

itU  fnuU  Pemta  Utral  (a  PHmtrt»  ifU»  Cvmlrmda  ti  ft  ■  J796) 


PCI- 
H8I 

/la 

I3ZI 


PROPRIETÀ  LEITERARIA  E  ARTISTICA 


Torino  —  Tipografia  A.  Biamino  —  1926. 


CLASSICI  ITALIANI 


Voi.  Il,  Tav.  I. 


(Qnailro  ili  /-".  .s".  hiihn 


VITTORIO    ALFIERI 


CLASSICI  ITALIANI 


Voi.  II,  Tav.  II. 


(Quadro  di  F.  S.  Fabre). 


'  Anderson  ). 


LA  CONTESSA  D'ALBANY 


PREFAZIONE 


a.  ~  aastlrl  UatiaiU.  N.  ì 


Ha  scritto  Descartes  nella  prima  parte  del  Discours  de 
la  Méthode  che  <  la  lettura  di  tutti  i  buoni  libri  è  come 
una  conversazione  cogli  uomini  migliori  dei  secoli  scorsi, 
i  quali  ne  sono  gli  autori  ;  una  conversazione  studiata  anzi, 
in  cui  essi  non  ci  rivelano  che  i  loro  migliori  pensieri.  » 
Questa  affermazione  sembra  non  potersi  meglio  riferire, 
nella  nostra  letteratura,  che  alle  opere  di  Vittorio  Alfieri, 
specialmente  alla  Vita  scritta  dal  piemontese,  nel  quale 
parve  rivivere  il  genio  di  Dante,  secondo  l'espressione 
del  Gioberti',  che,  nonostante  diversità  di  fede,  seppe 
valutare  l'opera  dell'astigiano;  opera  umana  e  letteraria, 
da  giudicare  essenzialmente  in  rapporto  ai  tempi  in  cui 
egli  visse,  perchè  in  essi  sembra  quasi  si  debbano  ricer- 
care il  movente  della  sua  penna,  la  cagione  del  suo  ci- 
piglio, quale  appare  nel  ritratto  dipinto  dal  Fabre,  ora  ad 
Asti,  nella  camera  ove  nacque  il  poeta,  e  che  egli  come 
somigliantissimo  aveva  inviato  alla  sorella  Giulia ^  Esso 
colpisce  per  la  vivezza  e,  diremmo  quasi,  la  mobilità  degli 
occhi,  rivelatori,  come  nel  capolavoro  di  Houdon,  la  statua 
di  Voltaire  al  teatro  della   ComMie-Frangaise  di  Parigi, 


>  Del  Primato,  con  €  Introduzione  »  di  O.  Balsamo-Crivelli  (Torino, 
Unione  TipograFico-Editrice,  s.  a.,  HI,  p.  162). 

»  V.  la  lettera  dell'Alfieri  alla  sorella,  in  data  2  aprile  1798  {Opere,  Torino, 
Paravia,  1903,  li,  p.  261)  ;  in  questa  ristampa,  fatta  in  occasione  del  primo 
centenario  della  morte  dell'A.,  il  testo  della  Vita  riproduce  quello  dato 
dal  Teza,  da  noi  stolto  (cfr.  p.  xix). 


vili  Prefazione 

della'^siiperiorjtà  dell'  uomo";  ma  nello  sguardo  dell'asteiise, 
in  quegli  *  occhi  chiari  '  sotto  due  '  cjglia  aggrottate  '  ', 
qualcosa  di  diverso  si  può  scorgere,  l'atteggiamento  del- 
l'occhio e  dei  suoi  muscoli  rivela  più  che  una  folta  ridda 
di  j)ensieri,  la  collera  morale,  che,  si  può  dire  non  ab- 
bandonò mai  *  il  supremo  atleta  de  l' italo  agon  '  \ 

Non  è  possibile  affermare  che  egli,  quando  nel  giro  di 
quattordici  versi  racchiuse  il  proprio  ritratto  ^  conoscesse 
un'operetta  anonima  pubblicata  nel  1746  dal  benedittino 
Pernetti,  col  titolo  di  Lettres  philosophiques  sur  la  phy- 
sionomie;  ad  ogni  modo  abbia  o  no  avuto  presente  lo 
scritto  dell'abate  francese,  il  quale  segnava  una  via  nuova 
nello  studio  psicologico  della  fisionomia  umana,  l'Alfieri 
vide  r  importanza  di  uno  studio  di  tal  genere,  e  nella  Vita 
scritta  da  esso  si  propose  di  presentare  una  visione  com- 
pleta, le  diverse  *  vedute  '  anzi,  per  usare  un  termine  delle 
arti  figurative,  caro  ad  un  prosatore  da  lui  studiato  ed 
ammirato  della  propria  figura  morale. 

In  questo  intento  stanno  appunto  i  molti  pregi  ed  al- 
cuni difetti  del  libro  che,  pel  soverchio  studio  del  vero, 
finisce  talvolta  col  darci  l'idea  di  un  Alfieri  unilaterale, 
tratteggiato  sempre  da  eroe,  alle  volte  abbellito,  alle  volte 
anche  inferiore  all'originale. 


•  M.  D'Azeglio,  /  miei  ricordi,  IV. 

»  O.  Carducci,  Juvenilia,  XLIII;  è  il  sonetto:  e  O  de  l'italo  agon  su- 
premo atleta  ». 

8  Riferiamo  l' intero  sonetto  dell'Alfieri  {Op.,  Ili,  p.  120)  che  non  è  privo 
di  interesse: 

Sublime  specchio  di  veraci  detti, 
Mostrami  in  corpo  e  in  anima  qual  sono: 
Capelli,  or  radi  in  fronte,  e  rossi  pretti  ; 
Lunga  statura,  e  capo  a  terra  prono; 

Sottil  persona  in  su  due  stinchi  schietti; 
Bianca  pelle,  occhi  azzurri,  aspetto  buono; 
Giusto  naso,  bel  labro,  e  denti  eletti; 
Pallido  in  volto,  più  che  un  re  sul  trono: 

Or  duro,  acerbo,  ora  pieghevol,  mite; 
Irato  sempre,  e  non  maligno  mai  ; 
La  mente  e  il  cor  meco  in  perpetua  lite: 

Per  lo  pili  mesto,  e  talor  lieto  assai. 
Or  stimandomi  Achille,  ed  or  Tersìte  : 
Uom,  se'  tu  grande,  o  vii?  Muori,  e  il  saprai. 


Prefazione  ix 

Dotato  di  forte  sentimento,  lo  scrittore  ebbe  la  precisa 
coscienza  del  suo  carattere,  ma  la  rappresentazione  di 
questa  coscienza  venne  alterata,  deformata  quasi  sempre, 
dalla  stessa  affettività  del  poeta.''  Quesla  osservazione  ne- 
cessaria a  chi  studi  le  maggiori  figure  del  secolo  XVIII", 
lo  è  specialmente  per  lui,  che,  uomo  di  quel  secolo  ne 
subì  l'influsso  pur  disconoscendone  i  benefizi:  il  'fiero 
Allobrogo  '  come  lo  disse  il  Parini  ',  in  fondo  fu  sempre 
ligio  al  suo  Piemonte,  e  più  che  ad  esso  alle  tradizioni 
aristocratiche  della  vecchia  nobiltà  sabauda.  Dei  cortigiani 
di  Vittorio  Amedeo  IH  e  di  Carlo  Emanuele  IV,  tra  i  quali 
tuttavia  non  volle  essere  annoverato,  egli,  il  conte  subal- 
pino che  tanto  disprezzava  il  Voltaire,  perchè  «  nato  plebeo, 
e  sottoscrittosi  nelle  sue  firme  per  lo  spazio  di  settanta  e 
più  anni:  Voltaire  gentiluomo  ordinario  del  re*?  ha  in 
sé  qualche  cosa,  la  suscettibilità  e  la  ostentazione.  11  si- 
lenzio della  sua  autobiografia  sui  grandi  fatti  svoltisi  at- 
torno a  lui,  le  vicende  della  rivoluzione  francese  che  ei 
vide,  mentre  era  a  Parigi,  le  giornate  di  entusiasmo  e 
quelle  di  follia  in  cui  egli  visse,  perchè  non  trovano  una 
eco  in  queste  pagine?  E  non  solo  in  queste,  ma  neppure 
in  altre;  eco  intendiamo  la  quale  si  effonda  quasi  in  una 
visione  di  tempi  di  miglior  giustizia,  come  non  manca 
alcune  volte  nel  teatro  del  Goldoni  e  negli  scritti  londi- 
nesi del  Baretti,  per  citare  anche  un  piemontese  ;  l'Alfieri 
ci  ha  dato  il  Misogallo  che  nelle  "  Ultime  volontà  esposte 
e  raccomandate  alla  contessa  d'Albany  "  ei  desiderava 
fosse  <  sparso  abbondantissimamente  in  tutta  l'Italia,  af- 
finchè egli  serva  di  commento,  e  di  contravveleno  a  tutte 
le  sinistre  interpretazioni  ed  effetti  che  potessero  forse 
provenire  dalla  pubblicazione  del  Principe  e  della  Tiran- 
nide *,  cos\,  x\t\  capo  d'anno  del  1799  si  esprimeva  il 
poeta,  allora  sulla  cinquantina,  e  colla  mente  non  turbata  ^ 


>  Odi,  e  Alla  Marchesa  Paola  Castiglioni  >  (Il  Dono). 
»  Vita,  IV,  16. 


X  Prefazione 

dalla  visione  di  una  prossima  fine;  ciò  nonostante  il  Mi- 
sognilo  è  e  rimane  fra  le  di  lui  opere  la  più  personale 
quanto  all'argomento:  nelle  giornate  di  Parigi  egli  forse 
vide  poco  pili  che  i  suoi  mobili  e  i  suoi  libri  saccheg- 
giati, e  la  passione  che  lo  rese  ingiusto,  se  pure  non  anche 
invidioso  verso  il  Vate  di  Ferney  di  cui  dimostra  o  di 
ignorare  o  di  disconoscere  l'opera  umanitaria  e  civile,  sia 
pure  vanagloriosamente  strombazzata,  lo  rese  del  pari 
scortese  verso  il  Lagrange*  e  verso  il  Ginguené^  ministro 
di  Francia  a  Torino,  quando  questi  gli  offerse  la  sua  opera 
pel  ricupero  delle  carte  e  dei  libri  sequestrati  a  Parigi,  sgar- 
bato col  Pindemonte,  col  Monti  e  col  generale  Miollis^ 

La j^flilera  nell'occhio  dell'Alfieri  non  fu  celestiale,  come 
quella  classica  degli  angeli,  nell'affresco  di  Eliodoro  cac- 
ciato dal  Tempio,  fu  tulta-Uinana ;  ed  alla  collera  s'unì  in 
lui  un'estrema  suscettività,  non  disgiunta  da  sensibilità 
quasi  morbosa  e  da  filautia,  onde  mentre  il  Gioberti*,  per 
quanto  concerne  il  sentimento  del  genio  italiano  e  lo  scopo 
civile  del  magistero  poetico  Io  considera  a  fianco  del 
JVlanzoni,  l'Alfieri  uomo  sta  invece,  per  molti  tratti  carat- 
teristici, fraj^LRo^usseau.e  il-Byron  e  può,  anche  crono- 
logicamente, essere'  considerato  come  continuatore  del- 
l'uno,  precursore  dell'altro." 

Gli  accenni  all'Àifieri  sono  frequenti  nelle  opere  del 
poeta  inglese,  congiunti  spesse  volte  ad  espressioni  di 
ammirazione,  come  ntW Avvertimento  premesso  alla  Pa- 
risina'^,  ove  l'astigiano  è  paragonato  ai  grandi  poeti  dram- 
matici antichi  e  allo  Shakespeare  ;  in  alcune  lettere  egli 
si  dimostra  affascinato  dall'arte  del  piemontese  nella  Mirra, 


>  V.  la  lettera  dell'Alfieri  scritta  di  suo  pugno  dietro  l'ultima  pag^ina 
di  una  copia  manoscritta  del  Misogalh  (Op.,  II,  p.  305)  e  intitolata  «  Al 
matematico  La  Grangia  Vittorio  Alfieri,  Salute  con  Oloria  »,  Firenze,  di 
5  agosto  1800. 

»  Vita,  IV,  26;  IV,  28. 

»  Vita,  IV,  29. 

*  Prolegomeni  del  Primato,  Brusselle,  1845,  p.  285. 

»  Byron,  Works,  London,  Murray,  139S-1904  ;  Poetry,  III,  p.  503. 


Prefazione  Xt 

alla  cui  rappresentazione  ha  assistito',  e  In  una  nota  al 
canto  IV  dello  Childe  Harold  questi  vien  chiamato  «  il 
bardo  della  libertà*  ».  Tali  accostamenti  non  sono  fortuiti; 
il  Byron  trovò  nel  nostro  tragico  un  riflesso  di  quel  ca- 
rattere forte  e  passionale,  impetuoso  e  sensibile,  quale 
traspare  anche  nei  di  lui  scritti,  per  cui  il  Taine  ebbe  a 
dire  che  solo  un  cieco  può  non  scorgere  in  lui  i  senti- 
menti dei  personaggi  suoi  ;  e  difatti  lo  stesso  poeta  inglese 
ammise  questa  somiglianza  di  umore,  di  carattere  col- 
l' Alfieri'  ed  a  lui  dedicò  assieme  a  Michelangelo,  Galileo, 
Machiavelli  e  Canova  due  stanze*  le  quali,  mentre  non 
sarebbero  indegne  del  poeta  dei  Sepolcri,  onorano  ad  un 
tempo  la  terra  nostra  e  chi  le  dettò: 

In  Santa  Croce's  holy  precints  lie 
Ashes  which  make  it  holier,  dust  which  is 
Even  in  itself  an  immortality, 
Though  there  were  nothing  save  the  past,  and  this, 
The  particle  of  those  sublimities 
Which  bave  relapsed  to  chaos:  —  here  repose 
Angelo's,  Alfieri's  bones,  and  bis, 
The  starry  Galileo,  with  bis  woes; 
Here  Machia velli's  earth  return 'd  to  wbence  it  rose. 

These  are  four  minds  which,  like  the  elements, 
Migbt  fumish  forth  creation;  —  Italy! 
Time,  which  hath  wrong'd  thee  with  ten  thousand  rents. 
Of  thine  imperiai  garment,  sball  deny, 
And  batb  denied,  to  every  otber  sky, 
Spirits  wbicb  soar  from  ruin  :  —  tby  decay 
Is  stili  impregnate  with  divinity, 
Which  gilds  it  with  revivifying  ray 
Such  as  the  great  of  yore,  Canova  is  to-day.» 


>  Lettere  datate  da  Bologna  12  e  24  agosto  1819. 
»  St.  Liv,  vv.  6-7  ;   Works,  Poetry,  II,  491  e  seg. 

•  Works,  Poetry,  II,  pp.  369-370. 

*  Childe  Harold's  Pilgrimagf,  IV,  liv-lv. 

»  Nel  sacro  recinto  di  Santa  Croce  vi  sono  ceneri  che  il  fan  più  tacro, 
polvere  che  già  in  sé  stessa  è  un' imniorla!it:i,  quand'anche  nulla  vi  fosse 
tranne  il  passato,  e  ouesta,  frammento  di  splendori  ricaduti  nel  caos;  -  qui 
riposan  le  ossa  di  Michelangelo,  di   Alfieri  e,   colle  sue  sventure,  quelle 


2„  Prefazione 

Ed  il  Byron  che  coli' Alfieri  ebbe  comune  il  culto  del- 
l'Alighieri S  di  cui  è  nobile  espressione   The  profecy  of 
Dante,  fu  anche,  al  pari  di  lui  fervidamente  italiano  pe, 
suoi  affetti,  pei  suoi  amori  e  per  gli  odi.  ^  per  la   con- 
templazione storica,  scrive  lo  Scherillo^  del  nostro  pas- 
sato, per  la  visione  sicura  del  prossimo  n/>^  .^  "^^/f 
mento,  dell'avvenire  immancabile  di  gloria  che  ci  attende., 
e  l'odio  per  lo  straniero  lo  portò  a  collaborare  ....amor, 
a  tutte  le  generose  imprese  aventi  per  scopo  di  «liberare 
V  Italia  e  il  mondo  intero  dall'  infame  oppressione  di  questa 
canaglia  tedesca  e  austriaca.,  afferma  ^gH  fsso  >"  ""^ 
lettera  del  16  febbraio  18213:  in  questa  Vita,  che,  sap- 
piamo egli  lesse*,  trovò  l'orgogUo  indomabile  per  ^  "  -  t, 
natali,  l'amore  dei  cavalli  e  dell'agiatezza,  e  pm  ancora 
l'aspirazione  indefinita  ad  un  domani  più  ""^'"7'  ^  ;7;- 
razione  alla  libertà  di  un  animo  irrequieto,  melanconico 
e  perennemente   scontento   di  sé,  in   preda   allo   splen 
quale  già  appariva  l'Alfieri  fin  dai  primi  anm,  «  taciturna 
e  placido,  per  lo  più;  ma  alle  volte  loquacissimo  e  viva- 
ci^imo;  e  quasi  sempre  negli  estremi  contrari:  o  tinato 
e  restio  contro  la  forza;  pieghevolissimo  agli  aws    amo- 
revoli; rattenuto  più  che  da  nessun'altra  <^«^.%f;y";;.°:^. 
d'essere  sgridato;  suscettibile  di  vergognarsi  fino  ali  ec 

dello  stellato  OaUleo;  qui,  donde  era  sorta,  è  tornata  la  terrena  argilla  di 
Machiavelli.  elementi,  potrebbero  empiere 

"".'pSton.  .1  aun,.  eli.  d.U  di  R...n...  »  ..«.mbr.  1821. 


prefazione  Xill 

Cesso,  e  inflessibile  se  egli  veniva  preso  a  ritroso.  »'  Ein 
una  frase  italiana  del  poeta  inglese,  che  dedica  il  canto  IV 
étWAroldo  all'amico  John  Hobbouse,  ricompare  degna- 
mente il  nome  dell'Alfieri  :  «  Mi  pare  che  in  un  paese 
tutto  poetico,  che  vanta  la  lingua  la  più  nobile  ed  insieme 
la  pili  dolce,  tutte  tutte  le  vie  diverse  si  possono  tentare, 
e  che  sinché  la  patria  di  Alfieri  e  di  Monti  non  ha  per- 
duto l'antico  valore,  in  tutte  esse  dovrebbe  essere  la 
prima  »^ 

Quando  nel  marzo  1816  il  cantore  di  Lara,  l'eroe  del- 
l'orgoglio e  della  passione,  indirizzava  alla  moglie  miss 
Anna  Isabella  Milbanke,  che  più  non  doveva  rivedere, 
VAddio^  straziante  della  prima  delle  Domestic  Pieces,  già 
da  tredici  anni  la  vita  dell'Alfieri  era  spenta,  ed  una  donna 
egli  pure  aveva  incontrato  che  forse  non  fu  del  tutto 
estranea  alla  sua  morte,  la  contessa  Luisa  d'Albany,  figlia 
di  Gustavo  Adolfo  principe  di  Stolberg-Geldern,  sulla 
quale  Massimo  d'Azeglio*  ci  ha  lasciato  curiosi  partico- 
lari, concernenti  anche  i  frequentatori  della  casa  della 
vedova  dej  pretendente  al  trono  di  Scozia,  Carlo  Odoardo 
Stuart. 

L'amore  forse  li  volle  unire  ancora  in  un  destino  comune. 


Col  Rousseau  l'Alfieri  non  fu  in  relazione  diretta,  ne 
subì  tuttavia  il  fascino  come  Byron  il  suo,  e  per  lo  stesso 
motivo,  non  poco  di  somiglianza,  di  affinità  nel  carattere; 
è  noto  anzi  come  sulla  ventina  egli  abbia  voluto  leggere 


'  Vita,  I,  4. 

»  Works,  Poetry,  li,  p.  324. 

*  Eccone  la  prima  stanza  : 

«  Fare  thee  well  !  and  if  for  ever, 
Stili  for  cver,  fare  thee  well: 

Even  thoujjh  imforgivinj;,  never 
'Oainst  thee  sball  my  bcart  rebel  *. 
«  /  miei  ricordi,  IV. 

b.  -  riisflfl  Italiani    N.  2. 


jjjy  Prefazione 

la  Nuova  Eloisa,  «  più  volte,  così  si  esprimeS  mi  ci  provai; 
ma  benché  io  fossi  di  un  carattere  per  natura  appassio- 
natissimo.  e  che  mi  trovassi  allora  fortemente  innamorato, 
io  trovava  in  quel  libro  tanta  maniera,  tanta  "^ercatezza 
tanta  affettazione  di  sentimento,  e  si  poco  sentire,  tanto 
calor  comandato  di  capo,  e  sì  gran  freddezza  di  cuore 
che  mai  non  mi  venne  fatto  di  poterne  terminare  il  primo 
volume.  Alcune  altre  sue  opere  politiche,  come  il  Con- 
tratto  Sociale,  io  non  le  intendeva  e  perciò    e  lasciai  >> 
Nel  secondo  soggiorno  in  Parigi,  nel  1771,  egU  contmuaS 
«avrei  facilmente  potuto  vedere  ed  anche  trattare  i    ce- 
lebre  Gian  Giacomo  Rousseau,  per  mezzo  d  un  italiano 
mio  conoscente  che  aveva  contratto  seco  una  certa  fam^ 
guarita,  e  dicea  di  andare  egli  molto  a  gemo  al  suddetto 
Rousseau.  Quest' italiano  mi  ci  volea  assolutamente  intro- 
durre, entrandomi  mallevadore  che  ci  saremmo  scambie- 
volmente piaciuto  l'un  l'altro,  Rousseau  ed  io.  Ancorché 
io  avessi  infinita  stima  del  Rousseau  più  assai  per  il  suo 
carattere  puro  ed   intero  e  per  la  di  lui  sublime  e  indi- 
pendente 'condotta,  che   non   pe'  suoi  libri,  di  cu.  que 
pochi  che  avea  potuti  pur  leggere  mi  aveano  piuttosto 
tediato  come  figli  di  affettazione  e  di  stento;  con  tutto 
e  6  non   essendo   io  per   mia   natura   molto  curioso   ne 
punto  sofferente,  e  con  tanto  minori  rag.om  sentendom 
fn  cuore  tanto  più  orgoglio  e  inflessibilità  di  lui;  non  mi 
volli   piegar  mai  a   quella   dubbia   presentazione  ad  un 
uomo  superbo  e  bisbetico,  da  cui  se  mai  avessi  ricevuta 
Smezza  scortesia   glie  n'avrei  restituite  ^lec.   petxhè 
sempre  così  ho  operato  per  istinto  ed  impeto  di  natura 
di  rendere  con  usura,  sì  il  male  che  il  bene   Onde  non 
s    ne  fece  altro.  >  Ad  ogni  modo  l'Alfieri  che  a  quella 
dubbia  presentazione  ad  un  uomo  superbo  e  b^sbeUco  non 
volle  piegarsi,  più  che  altro  per  orgoglio,  se  poco  apprezzò 


t  Vita,  in,  7. 
tWita,  li!,  V- 


Prefazione  xv 

le  opere  di  Gian  Giacomo  perchè,  come  giustamente  ri- 
leva il  Bertana',  la  repubblica  dell'Alfieri  non  poteva 
essere  quella  del  ginevrino,  qualcosa  inavvertentemente 
prese  da  lui,  e  nella  stessa  Vita  non  manca  qualche  ana- 
logia colle  Confessioni. 

Rousseau  «  si  accinge  ad  un  compito  che  non  ha  esempi 
e  che  non  avrà  imitatori  »,  vuol  «  mostrare  ai  suoi  simili 
un  uomo  nella  intera  verità  della  natura  »,  e  quest'uomo 
sarà  egli  stesso;  l'Alfieri  dirige  principalmente  lo  scopo 
della  sua  opera  allo  studio  dell'uomo  in  genere,  ma  di 
qual  uomo  «  si  può  egli  meglio  e  più  dottamente  parlare 
che  di  sé  stesso?^  »  Per  l'astigiano  il  libro  dei  libri,  il 
quale  gli  fece  trascorrere  delle  beate  ore  di  rapimento, 
strappandogli  lagrime  di  dolore  e  di  rabbia,  fu  Plutarco*; 
su  quella  stessa  lettura  Gian  Giacomo  si  formò  «  quello 
spirito  indipendente  e  repubblicano,  quel  carattere  indo- 
mabile e  fiero,  insofferente  di  giogo  e  di  serviti!  »  che 
doveva  tormentarlo  per  tutta  la  vita*;  giovine  ancora  egli 
abbandona  la  casa  paterna  per  acquistarsi  l'indipendenza, 
per  entrare  nel  vasto  spazio  del  mondo,  per  trovarvi  feste, 
tesori,  avventure,  amici';  il  piemontese  animato  da  «  una 
frenetica  voglia  di  viaggiare"  »  più  che  alla  moda  dei 
viaggi  *  ne  le  Gallie  e  in  Albione*,  soggiace  all'animo  suo 
impaziente  di  freni,  vago  dell'imprevisto,  a  quella  pas- 
sione diametralmente  opposta  alla  nostalgia,  determinata 
da  brama  d'indipendenza  o  da  speranza  di  una  felicità 
immaginaria,  non  rara  nei  giovani.  Cosi  mentre  il  Rous- 


»  E.  Bertana,   Vittorio  Alfieri,  Torino,  Loescher,  1902,  p.  302. 
■  Vita,  «  Introduzione  •. 

•  Con/.,  I,  I  ;  che  Rousseau  leggesse  Plutarco  anche  in  età  matura  afferma 
egli  stesso  nelle  Rèveries  du  Promtneur  solitaire,  IV. 

•  Con/.,  1,  il. 
»  Vita,  II,  10. 

•  Parini,  //  Mattino,  v.  17.  Sulla  moda  dei  viaggi  invalsa  nel  secolo  XVIII, 
e  colpita  dalla  satira  del  Parini  e  dello  stesso  Alfieri  (Satire,  IX),  ricordiamo 
«n'opera  del  tempo,  il  Discours  sur  futi  lite  des  voyages  di  Joseph  Oros 

j  DP.  BespLAS,  pubblicata  nel  1763. 


XVI  Prefazione 

seau  serba  un  ricordo  incancellabile  del  viaggio  a  piedi 
fatto  da  giovane  da  Annecy  a  Torino,  a  traverso  la  Sa- 
voia*, l'Alfieri  rivolgendosi  alla  d'Albany  rievoca  'le  or- 
ride selve  atre  d'abeti  ' 

Ch'irto  fan  dell'aspre  Alpi  il  fero  dorso 

già  da  lui  valicato  anni  addietro  ^ 

Nel  1752  Gian  Giacomo  dopo  il  successo  riportato  a 
corte  dal  suo  Deviti  du  Village,  alla  vigilia  di  essere  pre- 
sentato a  Luigi  XV  il  quale  voleva  annunciargli  perso- 
nalmente il  conferimento  di  una  pensione,  passò  una  notte 
di  tormenti,  e  l'indomani  preferì  rinunciare  all'assegno 
pur  di  conservare  la  propria  indipendenza  e  il  proprio 
disinteresse,  sacrificando,  così  si  esprima,  l'apparenza  alla 
realtà;  egli  non  si  presentò^  11  poeta  subalpino  che  nel 
1769  a  Vienna  rifiutò  di  stringere  amicizia  o  famigliarità 
«  con  una  musa  appigionata  o  venduta  all'autorità  despo- 
tica  da  lui  si  caldamente  abborrita  »,  il  Metastasio  cioè, 
al  quale  aveva  visto  fare  nei  giardini  imperiali  di  Schoen- 
brunn,  «  con  una  faccia  sì  servilmente  lieta  e  adulatoria 
la  genuflessioncella  di  uso*  »  all'imperatrice  Maria  Teresa, 
in  quello  stesso  anno  volle  essere  presentato  a  Federico  II 
di  Prussia 

—  Quel  Federigo,  ch'or  ci  tocca  udire 

Denominar  col  titolo  di  Grande  % 

alla  vista  del  sovrano  non  provò  «  alcun  moto  né  di  mera- 
viglia né  di  rispetto,  ma  d'indegnazione  bensì  e  di  rabbia  », 
son  sue  parole*. 

Tali  confronti  ai  quali  molti  altri  se  ne  potrebbero  ag- 
giungere,  lungi   dal   provare   una   qualsiasi   dipendenza 


>  Conf.,  I,  II. 

*  Op.,  Ili,  p.  148,  €  Per  queste  orride  selve  atre  d'abeti  >. 
»  Conf.,  II,  vili. 

«  Vita,  III,  8. 

»  Satire,  *  I  viaggi  >,  II. 

•  Vita,  III,  8. 


prefazione  xvii 

della  Vita  dalle  Confessioni,  dinotano  tuttavia  una  note- 
vole affinità  spirituale  tra  l'astigiano  ed  il  ginevrino. 

Questi    ha  dipinto  sé  stesso   in    una   pagina   notevole 
quando  narra  del  progetto  di  ritirarsi  nell' isola  di  Saint- 
Pierre,  sul  lago  di  Bienne,  e  del  cui  soggiorno  discorre 
a  lungo  nelle  Réveries  da  Promcneur  solitaire:  «  l'ozio 
dei  circoli,  così  egli  si  esprime',  è  micidiale,  perchè  è  di 
necessità,  quello  della   solitudine   è   incantevole,  perchè 
libero  e  di  elezione.  In  società  per  me  è  doloroso  il  non 
far  nulla,  essendovi  costretto.  Debbo  rimaner  lì  inchiodato 
su  una  seggiola  o  in  piedi,  come  impalato,  ridotto  all'im- 
mobilità quasi  assoluta,  senza  osare  né  di  correre,  né  di 
saltare,  né  di  cantare    né   di   gridare   né   di    gesticolare 
quando  me  ne  vien  voglia,  senza  osare  neppure  di  so- 
gnare; oppresso  ad  un  tempo  dalla  noia  dell'ozio  e  dal 
tormento  della  costrizione,  debbo  star  attento  a  tutte  le 
corbellerie   che   si  dicono,  a   tutti  i   complimenti  che  si 
fanno  e  senza   tregua  stancar  la  mia   Minerva   per  non 
mancar  di  far  posto,  alla  mia  volta,  al  mio  rebus  ed  alla 
mia  menzogna.  »  L'Alfieri  ha  qualche  cosa  di  questo  Gian 
Giacomo;  non  pare  di  vederlo  a  disagio  fra  tutta  la  gente 
che  s'aggira  attorno  alla  Stolberg,  nel  palazzo  della  rue 
de  Bourgogne,  a  Parigi,  nel  1785,  in  mezzo  al  chiacchierio 
assordante   di    una   folla   cosmopolita,  ove  il   suo    amor 
proprio  si  sente  mortificato^?  Che  se  invece  a  Siena  egli 
SI  trovò  felice,   in  una  minuscola  brigata  di  amici,  si   è 

perchè  ne  era  l'anima,  perchè  vi  primeggiava. 


Da  questi  rapidi  paralleli  tra  l'Alfieri  ^  il  Byron  e 
Rousseau  nulla  è  ancor  balzato  fuori  di  uno  dei  lati,  ap- 
parenti almeno,  per  cui  oggi  maggiormente  sembra  so- 

»  Con/.,  II,  XII. 

*  Vernon  Lee,  The  eoantess  of  Albany,  London,  1884,  pp.  159-161  ; 
Bf-RTAna,  op.  eit.,  p.  223  e  seg. 


xviii  Prefazione 

pravvivere  la  figura  dell'Alfieri  uomo;  la  volontà  cioè, 
della  quale  egli  è  divenuto  come  un  simbolo,  una  perso- 
nificazione quasi,  un  esempio  della  volontà  dantesca,  la 
quale 

...fa  come  natura  face  in  fuoco, 
se  mille  volte  violenza  il  torza. 

La  critica  più  recente  ha  fatto  giustizia  di  questo  luogo 
comune,  raccolto  e  diffuso  dal  Gioberti,  da  Domenico 
Berti,  e  perfino  dal  Tommaseo,  assai  poco  tenero  dell'Al- 
fieri: è  merito  della  scuola  lumbrosiana,  dell'Antonini  e 
del  Cognetti  De  Martiis'  avere  non  dirò  dimostrato  il 
contrario,  ma  infirmato  tale  leggenda.  Del  resto  il  lettore 
spregiudicato  rifletta  sugli  episodii  della  Vita  relativi  agli 
amori  del  poeta  colla  marchesa  Gabriella  Falletti  di  Villa- 
falletto  moglie  di  Giovanni  Turinetti  marchese  di  Priero^, 
con  Penelope  Pitt,  moglie  di  lord  Edoardo  Ligonier^  ai 
moti  violenti  col  servo  Elia*,  per  non  parlare  di  tante 
altre  intemperanze  di  carattere  dell'Alfieri  che  dalla  auto- 
biografia non  risultano,  e  potrà  col  Biagi  concludere  che 
il  voglio  alfieriano  più  antipatico  che  simpatico  nella  sua 
ostentata  affermazione,  fu  «  maschera,  non  freno  al  ca- 
rattere^ »;  egli,  in  ogni  cosa,  scrisse  un  contemporaneo, 
«  fin  da  ragazzo  volle,  e  costantemente  ed  efficacemente 
volle  ne'  suoi  modi  ne'  portamenti  nelle  foggie,  nello  staVe 
e  nello  andare,  nel  parlare  e  nel  tacere,  finalmente  anche 
in  ogni  cosa,  far  colpo  e  sceneggiare®.  » 


»  O.  Antonini  e  L.  Coonetti  de  Martiis,  Vittorio  Alfieri,  stadio  psico- 
patologico, Torino,  Bocca,  1898. 
»  Vita,  III,  13  e  14. 
«  Vita,  III,  10;  cfr.  anche  IV,  21. 

*  Vita,  III,  12. 

*  Buoi,  Alfieriana,  in  e  Aneddoti  letterari  >,  Milano,  1887,  p.  17. 

*  Ottavio  Falletti  di  Barolo,  Quattro  lettere  indirizzate  al  Sìg.  Pro- 
spero Balbo,  rettore  dell' Accad.  di  Torino,  intorno  ad  alcune  opere  postume 
di  V.  Alfieri  ultimamente  stampate,  Torino,  1809,  p.  13. 


Prefazione  xix 


Queste  poche  cose  varranno  a  far  meglio  giudicare  a 
traverso  il  libro  la  pianta  uomo,  secondo  una  espressione 
alfieriana  raccolta  dal  Byron  in  una  lettera  a  John  Hob- 
house*. 

Incominciata  nell'aprile  del  1790  la  Vita  venne  rapida- 
mente condotta  fino  a  quel  tempo;  movente,  mal  celato 
dal  pretesto  di  voler  evitare  che  uno  scrittore  mercenario 
non  lo  coprisse  immeritamente,  dopo  morte,  delle  più 
smaccate  lodi,  fu  in  sostanza  l'ambizione  di  fama,  di  gloria, 
il  desiderio  di  parlar  di  sè^;  cosicché  se  nella  Vita  non 
v'è  episodio  che  possa  dirsi  inventato,  non  c'è  forse  nep- 
pure una  pagina  che  rispecchi  il  candore  di  S.  Agostino, 
e  nella  quale  non  si  possa  scorgere  il  lavoro  dell'imma- 
ginazione: l'Alfieri,  personaggio  straordinario,  è  l'eroe  del 
libro,  eroe  seminudo,  dice  egli  stesso,  degno  di  studio  per 
le  sue  affinità  psichiche  coi  personaggi  delle  tragedie,  e 
specialmente  col  SauP. 

Ligio  a  vecchie  teoriche  stilistiche,  l'Alfieri  doveva  cer- 
care un  modello  per  la  sua  autobiografia,  e  questo  nella 
nostra  letteratura  non  poteva  essere  che  la  Vita  di  Ben- 
venuto Cellini;  non  poteva  essere  diciamo,  perchè  man- 
cavano altri  esempi:  il  De  Vita  propria  di  Gerolamo  Car- 
dano oltre  all'esser  scritta  in  latino,  ormeggiava  troppo  i 
Pensieri  di  Marco  Aurelio,  il  Soliloquio  del  Paruta,  pub- 
blicato la  prima  volta  nel  1559  era  opera  di  un  giovinetto 
non  ancor  ventenne,  le  Memorie  inutili  scritte  e  pubbli- 
cate per  umiltà  da  Carlo  Gozzi  non  videro  la  luce  che 
nel  1797  e  V  Autobiografia  di  Pietro  Giannone  fu  stam- 
pata postuma  alla  fine  del  secolo  scorso;  l'Alfieri  poteva 


»  In  data  di  Venezia,  2  gennaio  1818,   Works,  Poetry,  II,  324. 
*  Vita,  «  Introduzione  >. 

»  Cfr,  CooNETTi  DK  Martiis,  La  pazzia  di  Saul  nella  tragedia  alfif 
riana,  in  «  Rivista  moderna  >,  1891,  I,  61. 


XX  Prefazione 

solo  conoscere  la  Storia  della  fuga  dalle  prigioni  di  Ve- 
nezia chiamate  i  Piombi  di  Giacomo  Casanova  (1787)  e  le 
Memorie  di  Carlo  Goldoni  (1788),  tra  i  cui  sottoscrittori 
non  figura,  entrambi  però  scritte  in  francese.  Fatto  sta  ed 
è  che  fin  dall'estate  del  1789  egli  si  faceva  leggere  dal 
suo  giovine  segretario  toscano  Gaetano  Polidori,  la  prosa 
del  Cellini;  tal  lettura,  di  cui  questi  era  tediato,  riusciva  » 
attraente  al  poeta  desideroso  di  '  spiemontizzarsi  '  anche 
nella  lingua,  e  più  ancora  forse,  perchè  egli  volgeva  in 
animo  di  stendere  la  propria  autobiografia. 

Afferma  il  Bertana*  che  l'Alfieri  avendo  incominciato 
a  scrivere  la  sua  vita  nell'aprile  nel  1790  la  condusse  ra- 
pidamente a  termine  in  due  mesi,  «  mentre  proprio  allora 
uscivano  a  luce  le  Confessioni  di  Q.  G.  Rousseau  ».  Ve- 
ramente la  prima  parte  dell'opera  del  Ginevrino,  sei  libri 
i  quali  giungono  al  1741  erano  stati  pubblicati  fin  dal 
17812;  gli  ultimi  sei,  la  parte  cioè  che  giunge  al  1765  vide 
la  luce,  sebbene  con  numerosi  tagli,  nel  17883;  popera  fu 
poi  pubblicata  nella  sua  integrità  solo  nel  1795.  Da  ciò 
risulta  che  il  1790  non  ha  nulla  a  che  vedere,  ed  è  invece 
degno  di  nota  che  apparsa  la  seconda  parte  delle  Con- 
fessioni nel  1788,  l'anno  dopo  l'Alfieri  leggesse  o  rileg- 
gesse la  Vita  del  Cellini:  per  noi  è  quasi  evidente  che 
la  lettura  delle  memorie  del  ginevrino  determinò  l'asti- 
giano a  scrivere  la  propria  vita. 

La  Vita  dell'Alfieri  risente  della  '  triviale  e  spontanea 
naturalezza  '  dell'artista  fiorentino  e  se  lo  stile  non  è  forse, 
come  vuole  il  Bcrtana,  perfetto,  si  deve  pur  riconoscere 
che  è  schiettamente  personale,  sebbene  abbia  molto  di 
comune  col  modello;  alle  stravaganze  che  riempiono  la 
vita  del  Cellini  fan  riscontro  quelle  della  Vita  dell'Alfieri, 


»  Op.  clt.,  p.  1. 

«  Ginevra,  2  voli.  in-8\  ^     ,      ■     , 

a  Ginevra,  Moultou  fils,  2  voli.  in-S-.   Nel  1790  le  Confessioni  vennero 

pure  pubblicate  a  Neuchàfel,  dal  Dii  Peyroii,  assieme  alla  Corrispondenza 

(}i  RoussuAi),  in  5  voli,  in-S", 


Prefazione  xxi 

a  motivo,  come  per  Rousseau  e  pel  Byron  di  affinità  di 
carattere;  l'avventura  presso  l'oste  di  Chioggia  in  com- 
pagnia del  Tribolo,  lo  sfratto  all'  inquilino  del  castello  do- 
natogli dal  re  di  Francia,  il  calcio  al  garzone  mentre  la- 
vorava al  Giove,  sono  documenti  della  natura  violenta  di 
Benvenuto,  il  quale  non  ostante  abbia  pianto,  pare,  in  tutta 
la  vita  «  due  volte  e  mezzo  >,  diceva  sul  serio  di  essere  per 
natura  malinconico!  Eppure  non  mentiva:  anch' egli  come 
l'Alfieri  crede  ciò  che  pensa  e  questo  scrive  senza  medi- 
tarvi su  più  che  tanto;  anch' egli  stende  la  sua  vita  per 
amor  di  se,  poiché  tutti  gli  uomini  che  hanno  fatto  qualche 
cosa  che  sia  virtuosa  ...  doverieno  ...  di  lor propria  mano 
descrivere  la  loro  vita  *  / 

Scritta  a  sfogo  del  cuore ^  e  lasciando  fare  la  penna', 
la  Vita  dell'Alfieri  è  indubbiamente  la  miglior  sua  prosa; 
se  non  che  mentre  ogni  parola  nel  modello  scolpisce 
un'idea,  fa  rivivere  un  personaggio,  nonostante  la  sintassi 
a  volte  smarrita,  malgrado  certe  contraddizioni  e  interru- 
zioni, e  dà  nel  complesso  l'idea  di  un  libro  scritto  come 
vien  viene,  in  un  toscano  naturalissimo,  dettato  alla  buona 
al  ragazzetto  di  bottega,  il  libro  del  piemontese  invece 
appare  in  tutto  studiato;  i  personaggi  scompaiono  di  fronte 
a  lui;  che  vi  apprendiamo  in  fondo  del  Paciaudi,  di  José 
d'Acunha,  di  Oori  Gandellini  e  delle  tante  virtù  della 
contessa  d'Albany?  Tutti  si  perdono  in  uno  sfondo  gri- 
giastro, e  nulla  vale  a  far  distinguere  Torino  da  Napoli, 
Parigi,  Londra  e  le  altre  grandi  metropoli.  Nel  libro  del- 
l'orafo fiorentino  invece,  Francesco  I  e  Madama  di  Tampes, 
Clemente  VII,  il  Tribolo,  il  Vasari,  il  Bandinelli  o  il  me- 
dico Jacopo  Berengario  da  Carpi  sono  altrettante  figure 
se  non  vere,  viventi,  caratterizzate  ognuna  da  una  parola 
<^  da  una  scenetta  che  vale  a  fissarla  nella  mente  del  tet- 
re, sotto  una  luce  particolare;  non  solo,  ma  manca  pure 

«  vita,  I,  1, 

»  Vita,  IV,  19. 

f  Vita,  t  Introduzione  >, 


XXII  Prefazione 

del  tutto  all'Alfieri  una  descrizione  quale  quella  del  tem- 
porale che,  presso  Lione,  colse  il  Cellini  di  ritorno  in 
patria*.  Afferma  lo  Scherillo^  che  il  nostro  ebbe  vivo  il 
sentimento  degli  spettacoli  naturali,  dalle  albe  infocate, 
ai  malinconici  tramonti;  il  lettore  però  ben  poco  troverà 
nella  Vita  che  ricordi  le  descrizioni  di  Rousseau,  iride- 
scenti di  mille  tinte  della  natura,  o  quelle  indimenticabili 
che  ricorrono  nell'opera  di  Bio-on,  dalle  acque  del  Po  alla 
Pineta  di  Ravenna  o  alla  dantesca  rievocazione  dell'ora 
del  tramonto,  che  sembra  ancor  risuonare  nei  versi  del 
Carducci^ 


Ave  Maria!  Quando  su  l'aure  corre 
l'umil  saluto,  i  piccoli  mortali 
scovrono  il  capo,  curvano  la  fronte 
Dante  ed  Aroldo. 


Se  non  che  mentre  possiamo  leggere  le  autobiografie 
del  Cellini,  del  Goldoni,  del  Duprè  o  di  Massimo  d'Azeglio 
a  scopo  di  mero  diletto,  quella  dell'Alfieri  va  letta  ed 
anche  meditata,  perchè  a  giudizio  del  Foscolo*,  sebbene 
le  idee  non  vi  si  trovino  in  abbondanza,  «  pure  quelle 
che  si  presentano  sono  svolte  con  chiarezza  e  precisione, 
succedendosi  l'una  all'altra  secondo  i  precetti  della  buona 
logica  »  ;  se  da  una  parte  l'elocuzione  non  sempre  pura, 
le  espressioni  errate,  le  improprietà,  le  sgrammaticature, 
gli  aggettivi  ridondanti,  la  sincope  dei  verbi  piìi  che  la 
imperfetta  preparazione  letteraria  del  piemontese,  come 
taluno  vorrebbe',  ricordano  il  fraseggiare  dell'orafo  to- 
scano, lo  stile  severo,  preciso,  ricco  di  arcaismi  e  denso 


>  Vita,  II,  50. 

*  LOC.   Cit.,   p.    XLIV. 

»  Rime  e  Ritmi,  «  La  Chiesa  di  Polenta  ». 

*  Dtlla  letteratura  italiana. 

'  F,  Visconti,  L'Alfieri  autobiografo,  Avellino,  1903,  p.  65  e  segg. 


Prefazione  xxiii 

di  contenuto  morale,  per  l'ideale  classico  repubblicano 
facente  capo  al  trinomio  Roma  Atene  e  Sparta,  nelle  quali 
si  concretano  l'amore  della  patria  e  della  virtù  ed  il  rispetto 
alle  leggi,  derivano  dalle  opere  deli'  immortale  Machia- 
velli', '  sublime  e  libero  autore^',  alle  quali  sembrano 
aver  aggiunto  vivezza  e  maggior  lucidità  gli  scritti  di 
Rousseau,  la  prosa  di  Montesquieu,  di  Elvezio  e  dello 
stesso  Voltaire  ^  contro  il  quale  l'Alfieri  nutrì  una  costante 
antipatia,  pur  somigliandogli  in  molte  cose,  specialmente 
nell'orgoglio  ed  in  politica  nell'odio  per  la  democrazia. 


La  Vita  dell'Alfieri  fu  pubblicata  la  prima  volta  dopo 
la  morte  del  poeta  a  Firenze  nel  1804,  colla  falsa  data  di 
Londra,  e  a  dimostrare  i  suoi  pregi  stanno  le  numerose 
edizioni  fatte  fino  ad  oggi,  oltre  la  trentina  in  Italia,  senza 
contare  una  diecina  di  traduzioni  di  cui  cinque  francesi, 
una  inglese,  una  tedesca,  una  danese,  ecc.  Tra  le  edizioni 
recenti  la  prima  notevole  è  quella  del  Teza*,  riproducente 
l'autografo  esistente  nella  Biblioteca  Laurenziana;  a  questo, 
seguito  pure  dal  Bertana,  ci  atteniamo  nella  presente  ri- 
stampa: le  poche  note  da  noi  aggiunte  vorremmo  vales- 
sero a  far  meglio  conoscere  l'uomo',  che,  rassomigliato 
al  Byron  nella  vita  avventurosa  e  nell^  ardenti  passioni, 
riformò  moralmente  e  letterariamente   la  Patria,  ed  infe- 
riore al   Goethe  come  poeta,  come    uomo   supera   mille 
volte  il  ciambellano  di   Weimar,  la  cui  calma   per  nulla 
si  commosse   all'invasione   francese;  l'uomo  infine,  che 


>  Vita,  ni,  6. 

«  Vita,  IV,  6. 

»  Vita,  in,  7. 

«  Vita  Oiornali  Lettere  di  V.  Ai.rieiti  per  cura  di  E.Tw»,  Firenze,  1861. 

'  Ecco  dò  che  nelle  Ultime  volontà  cit.,  l'Aineri  scrìveva  della  Vita, 
non  ancor  terminata:  t  Scritta  sino  a  tutto  l'anno  1789  opera  prolissa,  e 
piena  forse  di  molte  inezie,  ma  pure  non  del  tutto  inutile  per  quel  che 
rìsguarda  l'arte  mia  particolarmente  e  il  cuore  dell'uomo  in  generale  ». 


XXIV  Prefazione 

non  senza  ragione  il  Macaulay  paragonò  a  Guglielmo 
Cowper,  per  aver  entrambi  rialzata  la  patria  caduta  in 
sventura,  con  una  musa  nobile  e  degna  dei  tempi,  per 
aver  entrambi,  Mosè  novelli,  infranto  le  porte  della  schia- 
vitù, senza  poter  porre  piede  nella  terra  promessa. 


Dell'opera  di  Vittorio  Alfieri,  forse  anche  a  motivo  del 
tramonto  irremediabile  deJl'arte  di  Gustavo  Modena  e  di 
Adelaide  Ristori,  poco  oggi  rimane:  pochissimi  leggono 
le  tragedie,  le  rime  e  le  prose  politiche,  e  piìi  quasi  non 
si  contendono  il  campo  due  giudizi  disparati,  quello  del 
Gioberti  pel  quale  l'Alfieri  volle  «  essere  poeta  e  il  fu  », 
e  quello  antitetico  del  De  Sanctis,  «  l'Alfieri  volle  essere 
poeta  e  noi  fu  ».  Oggi  si  esalta  ancora  l'apostolo  d^la 
jibertà,  il  rigeneratore  della  coscienza  nazionale  ed  il  fer- 
uvente  patriotta,  nonostante  che  nel  settembre  del  1792  egli, 
in  età  di  solo  quarantadue  anni,  se  ne  stesse  comoda- 
mente a  Firenze  sfoggiando  magari  quella  vistosa  uni- 
forme militare  azzurra  e  rossa  dell'esercito  sardo,  di  cui 
troppo  forse  si  compiacque',  e  di  cui  avrebbe  potuto  far 
miglior  mostra  su  l'Alpi,  contro  lo  straniero  invasore  della 
Savoia,  quando  nella  terra  sabauda  risuonava  ancora  la 
canzone  dialettale,  alla  quale  non  manca  la  nota  guer- 
riera, per  la  morte  del  barone  di  Leutrum,  canto  forma- 
tosi verso  il  1755,  e  che,  scrisse  il  Nigra^  onora  il  Pie- 
monte; delle  opere  dell'astigiano  si  legge  ancora  oggi 
l'autobiografia,  con  diletto  anche,  perchè  vi  sj  può  tro- 
vare l'uomo,  non  quale  egli  stesso  in  buona  fede  si  cre- 
deva di  essere,  ma  quale  ei  fu.  Del  resto  questa  prosa 
alferiana  che  non  fa  parte  di  quei  libri  dal  Carducci  giu- 
dicati codice  letterario,  la  cui  pubblicazione  coincide  colla 


1  Vita,  IV,  6. 

•  Canti  popolari  del  Piemonte,  Torino,  Loescher,  1888,  p.  524  e  seg^. 


Prefazione  xxv 

partenza  dì  Lafayette  per  l'America,  a  combattervi  quei 
privilegi  e  quei  diritti  all'ombra  dei  quali  egli  era  cre- 
sciuto, è  notevole  pel  sentimento  di  energia  patria  proprio 
dell'Alighieri,  di  cui  l'astigiano  fu  fervente  ammiratore, 
facendone  rivivere,  nella  sua  pienezza,  il  valore  dell'  io 
umano  superiore  ad  invidie  e  bassure;  e  perchè  egli, 
anche  in  queste  pagine,  rinnovellando  le  aspirazioni  del 
Segretario  Fiorentino,  vagheggiò  l'ideale  di  una  patria 
pagana:  se  ciò  spaventò  il  Gioberti  pel  quale  «  non  bi- 
sogna seguir  l'Alfieri  senza  il  Manzoni,  né  il  Manzoni 
senza  l'Alfieri  »,  noi  siamo  invece  convinti  che  lo  spirito 
del  poeta  piemontese,  aleggiando  sui  destini  della  Patria, 
non  per"  vane  declamazioni,  ma  penetrando  nelle  coscienze, 
possa  ancor  valere  a  far  sparire  le  '  non  giustizie  tante  * 
e  le  tante  imposture  contro  le  quali  egli  già  rivolse  la  sua 
concisa  e  mordente  parola. 

Luigi  Neori. 


BIBLIOGRAFIA 


Basti  qui  ricordare  i  più  notevoli  scritti  sull'Alfieri,  rinviando 
•hi  volesse  maggiori  informazioni  alla  Bibliografia  di  V.  A.  di 
O.  BusTico,  2*  ediz.,  Salò,  1908  (Supplemento,  Domodossola, 
1911),  che  potrà  essere  completata  con  qualcuna  delle  seguenti 
indicazioni: 

Bertana  e.,  Vittorio  Al/ieri,  Torino,  Loescher,  1902. 

Berti  D.,  La  volontà  e  il  sentimento  religioso  nella  vita  e  nelle 
opere  di  V.  A.,  in  Nuova  Antologia,  1872,  voi.  XX. 

BusETTO  N.,  La  vita  e  le  opere  di  V.  A.,  Livorno,  1914. 

BusTico  G.,  La  fortuna  di  V.  A.,  in  Rivista  ligure,  XLiii,  L 

Carducci  G.,  Di  alcune  opere  minori  di  V.  A.,  in  Satire  e  poesie 
minori  di  V.  A.,  Firenze,  Barbera  e  Bianchi,  1858;  Del  Prin- 
cipe e  delle  Lettere  e  altre  prose  di  V.  A.,  Firenze,  1859  (ripub- 
blicate prima  in  Bozzetti  critici  e  discorsi  letterari,  Livorno, 
*  Vigo,  1876,  indi  in  Studi,  saggi  e  discorsi). 

Del  Lungo  L,  A.  poeta  e  cittadino,  in  Patria  italiana,  1,  Bo- 
logna, 1912. 

Calassi  NI  A.,  Le  Vite  delFA.  e  del  Cellini,  in  Rassegna  Nazio- 
nale, 1880,  IL 

Mazzatinti  G.,  Le  carte  alfieriane  di  Montpellier,  in  Giornale 
storico  della  letteratura  italiana.  III,  p.  27  e  segg.,  p.  337  e 
segg.;  IV,  p.  129  e  segg. 

Messeri,  La  Rivoluzione  francese  e  V.  A.,  Pistoia,  1893. 

Reumont  a..  Die  Qràfin  von  Albany,  Berlin,  1860. 

Scandura  S.,  //  pensiero  politico  di  V.  A.  e  U  sue  fonti,  Ca- 
Unia,  1919. 

Visconti  F.,  L'A.  autobiografo,  Avellino,  1903. 

Zoncada,  Alfieri  e  Rousseau  (Conferenza),  Pavia,  1885. 


Le  note  coatraddistìnte  con  \B.\  tono  di  Emilio  Bertana. 


V/TA  DI  VITTORIO  ALFIERI 

PARTE   PRIMA 


1.  -  CUusM  ItaUant.  N.  X 


INTRODUZIONE 


Plerìque  suam  ipsi  vitatn  narrare,  fìduciam 
potìus  morum,  quam  arrogantiatn,  arbi- 
trati tunt. 

TxaTO,  Vita  di  Agricola. 


11  parlare,  e  molto  più  lo  scrivere  di  se  stesso,  nasce  senza 
dubbio  dal  molto  amor  di  se  stesso.  Io  dunque  non  voglio  a 
questa  mia  Vita  far  precedere  né  deboli  scuse,  né  false  o  illusorie 
ragioni,  le  quali  non  mi  verrebbero  a  ogni  modo  punto  credute 
da  altri;  e  della  mia  futura  veracità  in  questo  mio  scritto  assai 
mal  saggio  darebbero.  Io  perciò  ingenuamente  confesso,  che  allo 
stendere  la  mia  propria  vita  inducevami,  misto  forse  ad  alcune 
altre  ragioni,  ma  vie  più  gagliardo  d'ogni  altra,  l'amore  di  me 
medesimo  :  quel  dono  cioè,  che  la  natura  in  maggiore  o  minor  dose 
concede  agli  uomini  tutti,  ed  in  soverchia  dose  agli  scrittori,  prin- 
cipalissimamente poi  ai  poeti,  od  a  quelli  che  tali  si  tengono.  Ed 
è  questo  dono  una  preziosissima  cosa  ;  poiché  da  esso  ogni  alto 
operare  dell'uomo  proviene,  allor  quando  all'amor  di  se  stesso 
congiunge  una  ragionata  cognizione  dei  proprj  suol  mezzi,  ed  un 
illuminato  trasporto  pel  vero  ed  il  bello,  che  non  son  se  non  uno. 

Senza  proemizzare  dunque  più  a  lungo  sui  generali,  io  passo 
ad  assegnare  le  ragioni  per  cui  questo  mio  amor  di  me  stesso 
mi  trasse  a  ciò  fare  :  e  accennerò  quindi  il  modo  con  cui  mi  pro- 
pongo di  eseguir  questo  assunto. 

Avendo  io  oramai  scritto  molto,  e  troppo  più  forse  che  non 
avrei  dovuto,  è  cosa  assai  naturale  che  alcuni  di  quei  pochi  a 
chi  non  saranno  dispiaciute  le  mie  opere  (se  non  tra'  miei  con- 


4  Vittorio  Alfieri  | 

temporanei,  tra  quelli  almeno  che  vivran  dopo)^  avranno  qualche     { 
uTosità  di  sapere  qual  io  mi  fossi.  Io  ben  posso  cìo  cr  d  r. 
senza  neppur  troppo  lusingarmi,  poiché  di  ogni  f'^^^^'^     , 
anche  minimo  quanto  al  valore,  ma  voluminoso  ^-nto  f  11  °P^^  . 
si  vede  ogni  giorno  e  scrivere  e  leggere,  o  vendere  ahnen^a     . 
vita.  Onde,  quand'anche  nessun'altra  ragione  vi  fosse,  e  certo 
pu   sempre  che,  morto  io.  un  qualche  librajo  per  -va-  f  ""      ] 
più  soldi  da  una  nuova  edizione  delle  mie  opere,  e    farà  pre- 
mettere una  qualunque  mia  vita.  E  quella,  verrà  verisimilmente 
Sa  da  uno  che  non  mi  aveva  o  niente  «  mal  conosciu^. 
Thè  avrà  radunato  le  materie  di  essa  da  font,  o  d^bbJ  <>  P  - 
ziali;  onde  codesta  vita  per  certo  verrà  ad  essere,  se  non  altro 
alquanto  meno  verace  di  quella  che  posso  dare  io  stesso.  E  ciò 
tlpm.  perchè  lo  scrittore  a  soldo  dell'editore  suol  sempre 
a^    uno'st'olto  panegirico  dell'autore  che  si  "stamP^' ^timando 
amenduedi  dare  così  più  ampio  smercio  alla  loro  comune  mer 
Tuzia  Affinchè  questa  mia  vita  venga  dunque  tenuta  per  meno 
carnvaellquanto  più  vera,  e  non  meno  imparziale  di  qualunque 
a  rverrebbe  scritU  da  altri  dopo  di  me;  io.  che  assai  più  largo 
mantenitore  che  non  promettitore  fui  sempre,  mi  impegno  qm 
Ton  me  stesso,  e  con  chi  vorrà  leggermi,  di  disappassionarm  per 
quanTo    U'uo^osia  dato;  e  mi  vi  impegno,  perchè  esaminatom 
e  conosciutomi  bene,  ho  ritrovato,  o  mi  pare,  essere  in  me  di 
Jalcun  poco   maggiore  la  somma  del  bene  a  quella  del  rnale. 
^Snde.'e  io  non'avr5  forse  il  coraggio  o  l'in^isc^-^^^^^^^^^^ 
di  me  tutto  il  vero,  non  avrò  certamente  la  viltà  di  dir  cosa  che 

"ouanTo  polli  metodo,  affine  di  tediar  meno  il  lettore,  e  dargli 
qualche  riposo  e  anche  i  mezzi  di  abbreviarsela  -1  tralascerà 
quegli  anni  di  essa  che  gli  parranno  meno  <=""-' j/^J^.P^^^ 
Jongo  di  ripartirla  in  cinque  Epoche,  corrispondenti  alle  cinque 
età  dell' uomo,  e  da  esse  intitolarne  le  divisioni.  Puerizia,  Adole- 
jtX  O^vl^ezza.  Virilità,  e  Ve^.-  Ma  già,  dal  modocon 

T^iTT^netto  .  Tempo  verrà,  tornerà  U  giorno,  in  cui ..  posto  pe. 
conclusione  al  Misogallo. 

alla  <  Virilità  >. 


La  vita  5 

cui  le  tre  prime  parti  e  più  che  mezza  la  quarta  mi  son  venute 
scritte,  non  mi  lusingo  più  ormai  di  venire  a  capo  di  tutta  l'opera 
con  quella  brevità,  che  più  di  ogni  altra  cosa  ho  sempre  nelle 
mie  opere  adottata  o  tentata;  e  che  tanto  più  lodevole  e  neces- 
saria forse  sarebbe  stata  nell'atto  di  parlar  di  me  stesso.  Onde 
tanto  più  temo  che  nella  quinta  parte  (ove  pure  il  mio  destino 
mi  voglia  lasciar  invecchiare)  io  non  abbia  di  soverchio  a  cader 
nelle  chiacchiere,  che  sono  l'ultimo  patrimonio  di  quella  debole 
età.  Se  dunque,  pagando  io  in  ciò,  come  tutti,  il  suo  diritto  a 
natura,  venissi  nel  fine  a  dilungarmi  indiscretamente,  prego  anti- 
cipatamente il  lettore  di  perdonarmelo,  sì;  ma,  di  gastigarmene 
a  un  tempo  stesso,  col  non  leggere  quell'ultima  parte. 

Aggiungerò  nondimeno,  che  nel  dire  io  che  non  mi  lusingo 
di  essere  breve  anche  nelle  quattro  prime  parti,  quanto  il  dovrei 
e  vorrei,  non  intendo  perciò  di  permettermi  delle  risibili  lungag- 
gini accennando  ogni  minuzia;  ma  intendo  di  estendermi  su 
molte  di  quelle  particolarità,  che,  sapute,  contribuir  potranno  allo 
studio  dell'uomo  in  genere;  della  qual  pianta  non  possiamo  mai 
individuare  '  meglio  i  segreti  che  osservando  ciascuno  se  stesso. 

Non  ho  intenzione  di  dar  luogo  a  nessuna  di  quelle  altre  par- 
ticolarità che  potranno  risguardare  altre  persone,  le  di  cui  peri- 
pezie si  ritrovassero  per  così  dire  intarsiate  con  le  mie:  stante 
che  i  fatti  miei  bensì,  ma  non  già  gli  altrui,  mi  propongo  di 
scrivere.  Non  nominerò  dunque  quasi  mai  nessuno,  individuan- 
done* il  nome,  se  non  nelle  cose  indifferenti  o  lodevoli. 

Allo  studio  dunque  dell*  uomo  in  genere  è  principalmente  diretto 
Io  scopo  di  questa  opera.  E  di  qual  uomo  si  può  egli  meglio  e 
più  dottamente  parlare,  che  di  se  stesso?  quale  altro  ci  vien  egli 
venato  fatto  di  maggiormente  studiare?  di  più  addentro  cono- 
scere? di  più  esattamente  pesare?  essendo,  per  cosi  dire,  nelle 
più  intime  di  lui  viscere  vissuto  tanti  anni? 

Quanto  poi  allo  stile,  io  penso  di  lasciar  fare  alla  penna,  e  di 
pochissimo  lasciarlo  scostarsi  da  quella  triviale  e  spontanea  natu- 
ralezza, con  cui  ho  scritto  quest'opera,  dettata  dal  cuore  e  non 
''-•!I' ingegno;  e  che  sola  può  convenire  «  così  umile  tema. 

Spedfictre. 
Cfr.  nota  prec. 


EPOCA   PRIMA 
PUERIZIA 

ABBRACCIA   NOVE  ANNI   DI   VEGETAZIONE 


CAPITOLO  PRIMO 

Nascita,  e  parenti. 

Nella  città  d'Asti'  in  Piemonte,  il  dì  17  gennaio  dell'anno  174Q*, 
io  nacqui  di  nobili',  agiati,  ed  onesti  parenti.  E  queste  tre  loro 
qualità  ho  espressamente  individuate,  e  a  gran  ventura  mia  le 
ascrivo  per  le  seguenti  ragioni.  Il  nascere  della  classe  dei  nobili, 
mi  giovò  appunto  moltissimo  per  poter  poi,  senza  la  taccia  d'in- 
vidioso e  di  vile,  dispregiare  la  nobiltà  per  se  sola,  svelarne 
le  ridicolezze,  gli  abusi,  ed  i  vizj  ;  ma  nel  tempo  stesso  mi  giovò 
non  poco  la  utile  e  sana  influenza  di  essa,  per  non  contaminare 
poi  mai  in  nulla  la  nobiltà  dell'arte  che  io  professava*.  Il  nascere 
agiato  mi  fece  e  libero  e  puro;  ni  mi  lasciò  servire  ad  altri  che 
al  vero.  L'onestà  poi  de'  parenti  fece  si,  che  non  ho  dovuto  mai 


>  Cfr.  il  sonetto  <  Asti,  antiqua  dttà,  che  a  me  pà  desti  La  culla,  t  non 
darai  (pare)  la  tomba  >,  ecc.,  con  cui  legava  alla  città  diletta,  i  suoi  libri 
«  in  fìlial  tributo  >. 

*  Egli  veramente  nacque  il  giorno  16,  il  17  fu  battezzato.  [B.]. 

*  Sul  casato  degli  Alfieri  cfr.:  E.  Masi,  Asti  t gli  Alfieri,  Firenze,  '001. 
E.  Casanova,  Tavole  genealogiche  della  famiglia  Alfieri,  Torino,  1903. 

*  Li  letteratura. 


8  Vittorio  Alfieri 

arrossire  dell'esser  io  nobile.  Onde,  qualunque  di  queste  tre  cose 
fosse  mancata  ai  miei  natali,  ne  sarebbe  di  necessità  venuto  assai 
minoramento  alle  diverse  mie  opere;  e  sarei  quindi  stato  per 
avventura  o  peggior  filosofo,  o  peggior  uomo,  di  quello  che 
forse  non  sarò  stato. 

Il  mio  padre  chiamavasì  Antonio  Alfieri';  la  madre,  Monica 
Maillard  di  Tournon.  Era  questa  di  origine  savojarda,  come  i 
barbari  di  lei  cognomi  dimostrano  :  ma  i  suoi  erano  già  da  gran 
tempo  stabiliti  in  Torino.  Il  mio  padre  era  un  uomo  purissimo 
di  costumi,  vissuto  sempre  senza  impiego  nessuno,  e  non  conta- 
minato da  alcuna  ambizione  ;  secondo  che  ho  inteso  dir  sempre 
da  chi  l'aveva  conosciuto.  Provveduto  di  beni  di  fortuna  suffi- 
cienti al  suo  grado,  e  di  una  giusta  moderazione  nei  desideri, 
egli  visse  bastantemente  felice.  In  età  di  oltre  cinquantacinque 
anni  invaghitosi  di  mia  madre,  la  quale,  benché  giovanissima, 
era  allora  già  vedova  del  marchese  di  Cacherano,  gentiluomo 
astigiano,  la  sposò.  Una  figlia  femmina"  che  avea  di  quasi  due 
anni  preceduto  il  mio  nascimento,  avea  più  che  mai  invogliato 
e  insperanzito  il  mio  buon  genitore  di  aver  prole  maschia:  onde 
fu  oltre  modo  festeggiato  il  mio  arrivo.  Non  so  se  egli  si  ralle- 
grasse di  questo  come  padre  attempato,  o  come  cavaliere  assai 
tenero  del  nome  suo  e  della  perpetuità  di  sua  stirpe:  crederei 
che  di  questi  due  affetti  si  componesse  in  parte  eguale  la  di  lui 
gioja.  Fatto  si  è,  che  datomi  ad  allattare  in  un  borghetto  distante 
circa  due  miglia  da  Asti,  chiamato  Rovigliasco,  egli  quasi  ogni 
giorno  ci  veniva  a  piedi  a  vedermivi,  essendo  uomo  alla  buona 
e  di  semplicissime  maniere.  Ma  ritrovandosi  già  oltre  l'anno  ses 
sagesimo  di  sua  età,  ancorché  fosse  vegeto  e  robusto,  tuttavia 
quello  strapazzo  continuo,  non  badando  egli  né  a  rigor  di  sta- 
gione né  ad  altro,  fé  sì  che  riscaldandosi  un  giorno  oltre  modo 
in  quella  sua  periodica  visita  che  mi  faceva,  si  prese  una  puntura 
di  cui  in  pochi  giorni  morì.  Io  non  compiva  allora  per  anco  il 
primo  anno  della  mia  vita.  Rimase  mia  madre  incinta  di  un  altro 
figlio  maschio,  il  quale  morì  poi  nella  sua  prima  età.  Le  resta- 
vano dunque  un  maschio  e  una  femmina  di  mio  padre,  e  due 
femmine'  ed  un  maschio  del  di  lei  primo  marito,  marchese  di 


>  Dei  conti  di  Cortemilia. 
«  La  sorella  Giulia,  di  cui  v.  oltre. 

»  Eleonora,  poi^  marchesa  di  Cavoretto,  e  Oins^ppina,  poi  contessa  di 
Levaldiggi. 


La  vita  9 

Cacherano.  Ma  ess^  benché  vedova  due  volte,  trovandosi  pure 
assai  giovine  ancora,  passò  alle  terze  nozze  col  cavaliere  Gia- 
cinto Alfieri  di  Magliano,  cadetto  '  di  una  casa  dello  stesso  nome 
della  mia,  ma  di  altro  ramo.  Questo  cavalier  Giacinto,  per  la 
morte  poi  del  di  lui  primogenito  che  non  lasciò  figli,  divenne 
col  tempo  erede  di  tutto  il  suo,  e  si  ritrovò  agiatissimo.  La  mia 
ottima  madre  trovò  una  perfetta  felicità  con  questo  cavalier  Gia- 
cinto, che  era  di  età  all' incirca  alla  sua,  di  bellissimo  aspetto,  di 
signorili  ed  illibati  costumi:  onde  ella  visse  in  una  beatissima  ed 
esemplare  unione  con  lui;  e  ancora  dura,  mentre  io  sto  scrivendo 
questa  mia  vita  in  età  di  anni  quarantuno.  Onde  da  più  di 
37  anni  vivono  questi  due  coniugi  vivo  esempio  d'ogni  virtù 
domestica,  amati,  rispettati,  e  ammirati  da  tutti  i  loro  concittadini  ;  e 
massimamente  mia  madre,  per  la  sua  ardentissima  eroica  pietà  con 
cui  si  è  assolutamente  consacrata  al  sollievo  e  servizio  dei  poveri. 
Ella  ha  successivamente  in  questo  decorso  di  tempo  perduti  e 
il  primo  maschio  del  primo  marito  e  la  seconda  femmina;  così 
pure  i  due  soli  maschi  del  terzo,  onde  nella  sua  ultima  età  io 
solo  di  maschi  le  rimango;  e  per  le  fatali  mie  circostanze  non 
posso  star  presso  di  lei;  cosa  di  cui  mi  rammarico  spessissimo*  ; 
ma  assai  più  mi  dorrebbe,  ed  a  nessun  conto  ne  vorrei  stare 
continuamente  lontano,  se  non  fossi  ben  certo  ch'ella  e  nel  suo 
forte  e  sublime  carattere,  e  nella  sua  vera  pietà  ha  ritrovato  un 
amplissimo  compenso  a  questa  sua  privazione  dei  figli.  Mi  si 
perdoni  questa  forse  inutile  digressione,  in  favor  d'una  madre 
stimabilissima. 

CAPITOLO    SECONDO 

Reminiscenze  dell'  infanzia. 

Ripigliando  dunque  a  parlare  della  mia  primissima  età,  dico  che 
di  quella  stupida  vegetazione  infantile  non  mi  è  rimasta  altra 
^memoria  se  non  quella  d'uno  zio  paterno,  il  quale  avendo  io  tre 
in  quattr'anni,  mi  faceva  por  ritto  su  un  antico  cassettone,  e 
quivi  molto  accarezzandomi  mi  dava  degli  ottimi  confetti.  Io  non 
mi  ricordava  più  quasi  punto  di  lui,  né  altro  me  n'era  rimasto 


»  Figlio  non  primogenito,  il  qnale  però  non  succede  nel  titolo  comitale, 
td  è  semplicemente  cavaliere:  ciò  per  l'allora  vigente  majoraseato,  ab»> 
lito  dalla  Rivoluzione  francese. 

»  Cfr.  Vita,  I,  v;  IV,  xiii. 


10  Vittorio  Alfieri 

fuorch'egli  portava  certi  scarponi  riquadrati  in  punta.  Molti  anni 
dopo,  la  prima  volta  che  mi  vennero  agli  occhi  certi  stivali  a 
tromba,  che  portano  pure  la  scarpa  quadrata  a  quel  modo  stesso 
dello  zio  morto  già  da  gran  tempo,  né  mai  più  veduto  da  me  da 
che  io  aveva  uso  di  ragione,  la  subitanea  vista  di  quella  forma 
di  scarpe  del  tutto  oramai  disusata,  mi  richiamava  ad  un  tratto 
tutte  quelle  sensazioni  primitive  ch'io  aveva  provato  già  nel 
ricevere  le  carezze  e  i  confetti  dello  zio,  di  cui  i  moti  ed  i  modi, 
ed  il  sapore  perfino  dei  confetti  mi  si  riaffacciavano  vivissima- 
mente ed  in  un  subito  nella  fantasia.  Mi  sono  lasciata  uscir  di 
penna  questa  puerilità,  come  non  inutile  affatto  a  chi  specula 
sul  meccanismo  delle  nostre  idee,  e  sull'affinità  dei  pensieri  colle 
sensazioni*. 

Nell'età  di  cinque  anni  in  circa,  dal  mal  de'  pondi"  fui  ridotto 
in  fine  ;  e  mi  pare  di  aver  nella  mente  tuttavia  un  certo  barlume 
de'  jpi^i-EalioifiDti  ;  e  che  senza  aver  idea  nessuna  di  quello  che 

Jossg  JajnortCj  ^urg  la  desiderava  comeline  fi'  dolore  ;  perchè 
quando  era  morto  quel  mìo  fratello  minore,  avea  sentito  dire 
ch'egli  era  diventato  un  angioletto. 

Per  quanti  sforzi  io  abtia  fatti  spessissimo  per  raccogliere  le 
idee  primitive,  o  sia  le  sensazioni  ricevute  prima  de'  sei  anni, 
non  ho  potuto  mai  raccapezzarne  altre  che  queste  due.  La  mia 
sorella  Giulia,  ed  io,  seguitando  il  destino  della  madre,  eramo 
passati  dalla  casa  paterna  ad  abitare  con  lei  nella  casa  del  pa- 
trigno, il  quale  pure  ci  fu  più  che  padre  per  quel  tempo  che  ci 
stemmo.  La  figlia  ed  il  figlio  del  primo  letto  rimasti,  furono  suc- 
cessivamente inviati  a  Torino,  X'uno  nel  Collegio  dei  Gesuiti, 
l'altra  nel  monastero';  e  poco  dopo  fu  anche  messa  in  monastero, 
ma  in  Asti  stessa,  la  mia  sorella  Giulia,  essendo  io  vicino  ai 
sett'anni.  E  di  quest'avvenimento  domestico  mi  ricordo  benis- 
simo, come  del  primo  punto  in  cui  le  facoltà  mie  sensitjve  die- 

'  dero  cenno  di  se.  Mi  sono  presentissimi  i  dolori  e  le  lagrime 
eh'  io  versai  in  quella  separazione  di  tetto  solamente,  "cBe  pure 
a  principio  non  impediva  ch'io  la  visitassi  ogni  giorno.  E  spe- 
culando poi  dopo  su  quegli  effetti  e  sintomi  del  cuore  provati 
allora,  trovo  essere  stati  per  l'appunto  quegli  stessi  che  poi  in 


>  Secondo  11  sensismo  di  Condillac,  scifulto  dall'A. 

•  Dissenteria. 

»  Per  l'istruzione. 


La  vita  11 

appresso  provai  quando  nel  bollor  degli  anni  giovenili  mi  trovai 
costretto  a  dividermi  da  una  qualche  amata  mia  donna  ;  ed  anche 
ne!  separarmi  da  un  qualche  vero  amico,  che  tre  o  quattro  suc- 
cessivamente ne  ho  pure  avuti  finora:  fortuna  che  non  sarà  toc- 
cata a  tantL  altri,  che  gli  avranno  forse  meritati  più  di  me.  Dalla 
reminiscenza  di  quel  mio  primn  Hnlnrp  jy;]  mnrp,  ne  ho  poi 
dedottaJa_p.rova,  che  tutti  gli  amori  dell'uomo,  ancorchè_diversi, 
hanno  lo  stesso  motore. 

Rimasto  dunque  io  solo  di  tutti  i  figli  nella  casa  materna,  fui 
dato  in  custodia  ad  un  buon  prete,  chiamato  don  Ivaldi,  il  quale 
m'insegnò  cominciando  dal  compitare  e  scrivere,  fino  alla  classe 
quarta,  in  cui  io  spiegava  non  male,  per  quanto  diceva  il  maestro, 
alcune  vite  di  Cornelio  Nipote,  e  le  solite  favole  di  Fedro.  Ma  il 
buon  prete  era  egli  stesso  ignorajituccio.  a  quel  che  io  combinai'  '*» 
poi  dopo;  e  se  dopo  i  nov'anni  mi  avessero  lasciato  alle  sue 
mani,  verisimilmente  non  avrei  imparato  più  nulla.  I  parenti 
erano  anch'essi  ignorantissimi,  e  spesso  udiva  loro  ripetere  quella 
usuale  massima  dei  nostri  nobili  di  allora;  che  ad  un  signore 
non  era  necessario  di  diventar  un  dottore.  Io  nondimeno  aveva 
per  natura  una  certa  inclinazione  allo  studio;  e  specialmente 
dopo  che  uscì  di  casa  la  sorella,  quel  ritrovarmi  in  solitudine 
col  maestro  mi  dava  ad  un  tempo  malinconia  e  raccoglimento. 


CAPITOLO  TERZO 
Primi  sintomi  di  nn  carattere  appassionato. 

Ma  qui  mi  occorre  di  notare  un'altra  particolarità  assai  strana, 
quanto  allo  sviluppo  delle  mie  facoltà  amatorie.  La  privazione 
della  sorella  mi  aveva  lasciato  addolorato  per  lungo  tempo,  e 
molto  più  serio  in  appresso.  Le  mie  visite  a  quella  amata  sorella 
erano  sempre  andate  diradando,  perchè  essendo  sotto  il  maestro, 
e  dovendo  attendere  allo  studio,  mi  si  concedeano  solamente  nei 
giorni  di  vacanza  o  di  festa,  e  non  sempre.  Una  tal  quale  con- 
solazione di  quella  mia  solitudine  mi  si  era  andata  facendo  sen- 
tire a  poco  a  poco  nell'assuefarmi  ad  andare  ogni  giorno  alla 
chiesa  del  Carmine  attigua  alla  nostra  casa;  e  di  sentirvi  spesso 
della  musica,  e  di  vedervi  uffiziare  quei  frati,  e  far  tutte  le  cere- 

>  Compresi  ;  cfr.  la  ut.  VI  dell'A.,  L'Edaeaxìone. 


!/'• 


12  Vittorio  Alfieri 

monie  della  messa  cantata,  processione,  e  simili.  In  capo  a  più 
mesi  non  pensavo  più  tanto  alla  sorella,  ed  in  capo  a  più  altri, 
non  ci  pensavo  quasi  più  niente,  e  non  desiderava  altro  che  di 
essere  condotto  mattina  e  giorno  al  Carmine.  Ed  eccone  la 
ragione.  Dal  viso  di  mia  sorella  in  poi,  la  quale  aveva  circa 
nov'anni  quando  uscì  di  casa,  io  non  aveva  più  veduto  usual- 
mente altro  viso  di  ragazza  né  di  giovine,  fuorché  certi  fraticelli 
novizi  del  Carmine,  che  potevano  avere  tra  i  quattordici  e  se- 
dici anni  all' incirca,  i  quali  coi  loro  roccetti^  assistevano  alle  di- 
verse funzioni  di  chiesa.  Questi  loro  visi  giovenili,  e  non  dissi- 
mili da'  visi  donneschi,  aveano  lasciato  nel  mio  tenera,  ed  ine- 
sperto  cuore  a  un  di  presso  quella  stessa  traccia  e  quel  medesimo 
dwiderio  di  loro,  che  mi  vi  aveva  già  impresso  il  viso-delia 
sorella.  E  questo  insomma,  sotto  tanti  e  sì  diversi  aspetti,  era 
atiiore  ;  come  poi  pienamente  conobbi  e  me  ne  accertai  parecchi 
anni  dopo,  riflettendovi  su;  perchè  di  quanto  io  allora  sentissi 
o  facessi  nulla  affatto  sapeva,  ed"  pWjediva  al  puro  istinto  ani- 
nnale: Ma  questo  mio  innocente  amore  péPqùe'^  novizj,  giunse 
tant'oltre,  che  io  sempre  pensava  ad  essi  ed  alle  loro  diverse 
funzioni  ;  ora  mi  si  rappresentavano  nella  fantasia  coi  loro  devoti 
ceri  in  mano,  servienti  la  messa  con  viso  compunto  ed  angelico, 
ora  coi  turiboli  incensando  l'altare;  e  tutto  assorto  in  codeste 
imagini,  trascurava  i  miei  studj,  ed  ogni-occupazinne,  p_ com- 
pagnia mi  noiava.  Un  giorno  fra  gli  altri,  stando  fuori  di  casa 
il  maesfrò7  trovatomi  solo  in  camera,  cercai  ne'  due  vocabolari 
latino  e  italiano  l'articolo  frati;  e  cassata  in  ambidue  quella  pa- 
parola,  vi  scrissi  Padri  ;  così  credendomi  di  nobilitare,  o  che  so 
io  d'altro,  quei  novizietti  ch'io  vedeva  ogni  giorno,  con  nessun 
dei  quali  avea  però  mai  favellato,  e  da  cui  non  sapeva  assoluta- 
mente quello  ch'io  mi  volessi.  L'aver  sentito  alcune  volte  con 
qualche  disprezzo  articolare  la  parola  Frate-,  e  con  rispetto  ed 
amore  quella  di  Padre,  erano  le  sole  cagioni  per  cui  m'indussi 
a  correggere  quei  dizionari  ;  e  codeste  correzioni  fatte  anche 
grossolanamente  col  temperino  e  la  penna,  le  nascosi  poi  sempre 
con  gran  sollecitudine  e  timore  al  maestro,  il  quale  non  se  ne 
dubitando,  né  a  tal  cosa  certamente  pensando,  non  se  n'avvide 
poi  mai.  Chiunque  vorrà  riflettere  alquanto  su  quest'inezia,  e 


»  Cotte. 

<  Da  secoli  1  frati  erano  coperti  di  ridicolo  dalla  satira  letteraria  e  popolare. 


La  vita  13 

rintracciarvi  il  seme  delle  passioni  dell'uomo;  non  la  troverà 
forse  né  tanto  risibile  né  tanto  puerile,  quanto  ella  pare. 

Da  questi  sì  fatti  effetti  d'amore  ignoto  intieramente  a  me 
stesso,  ma  pure  tanto  operante  nella  mia  fantasia,  nasceva,  per 
quanto  ora  credo,  q"^''"'nftr  mali"'''""'^"i  che  a  poco  a  poco 
si  insignoriva  di  me.  e  dominava  poi  sempre  su  tutte  le  altre 
qualità  dell'indole  mia.  Tra  i  sette  ed  ott'anni,  trovandomi  un 
giorno  in  queste  disposizioni  malinconiche,  occasionate  forse 
anche  dalla  salute  che  era  gracile  anzi  che  no,  visto  uscire  il 
maestro,  e  il  servitore,  corsi  fuori  del  mio  salotto  che  posto  a 
terreno  riusciva  in  un  secondo  cortile  dove  eravi  intomo  intomo 
molt'erba.  E  tosto  mi  posi  a  strappame  colle  mani  quanta  ne 
veniva,  e  ponendomela  in  bocca  a  masticarne  e  ingojame  quanta 
più  ne  'poteva,  malgrado  il  sapore  ostico  ed  amarissimo.  Io 
avea  sentito  dire  non  so  da  chi,  né  come,  né  quando,  che  v'era 
un'erba  detta  cicuta  che  avvelenava  e  faceva  morire;  io  non 
avea  mai  fatto  pensiero  di  voler  morire,  e  poco  sapea  quel  che 
il  morire  si  fosse  ;  eppure  seguendo  così  un  non  so  quale  istinto 
naturale  misto  di  un  dolore  di  cui  m'era  ignota  la  fonte,  mi 
spinsi  avidissimente  a  mangiar  di  quell'erba,  figurandomi  che  in 
essa  vi  dovesse  anco  essere  della  cicuta.  Ma  ributtato  >  poi  dalla 
insopportabile  amarezza  e  cmdità  di  un  tal  pascolo,  e  sentendomi 
provocato  a.  dare  di  stomaco,  fuggii  nell'annesso'  giardino,  dove 
non  veduto  da  chi  che  sia  mi  liberai  quasi  interamente  da  tutta 
l'erba  ingojata,  e  tornatomene  in  camera  me  ne  rimasi  soletto  e 
tacito  con  qualche  dolomzzo  di  stomaco  e  di  corpo.  Tornò  frat- 
tanto il  maestro,  che  di  nulla  si  avvide,  ed  io  nulla  dissi.  Poco 
dopo  si  dovè  andare  in  tavola,  e  mia  madre  vedendomi  gli  occhi 
gonfi  e  rossi,  come  sogliono  rimanere  dopo  gli  sforzi  del  vomito, 
domandò,  insistendo,  e  volle  assolutamente  saper  quel  che  fosse  ; 
ed  oltre  i  comandi  della  madre  mi  andavano  anche  sempre  più 
punzecchiando  i  dolori  di  corpo,  sì  ch'io  non  potea  punto 
mangiare,  e  parlar  non  voleva.  Onde  io  sempre  duro  a  tacere,  ed 
a  vedere  di  non  mi  scontorcere,  la  madre  sempre  dura  ad  inter- 
rogare e  minacciarmi;  finalmente  osservandomi  essa  ben  bene, 
e  vedendomi  in  atto  di  patire,  e  poi  le  labbra  verdiccie,  che  io 
non  aveva  pensato  risciaqnarmele,  spaventatasi  molto,  ad  un  tratto 


>  Nanteato. 
•  Attiguo. 


14  Vittorio  Alfieri 

si  alza,  si  approssima  a  me,  mi  parla  dell'insolito  color  delie 
labbra,  mi  incalza  e  sforza  a  rispondere,  finché  vinto  dal  timore 
e  dolore  io  tutto  confesso  piangendo.  Mi  vien  dato  subito  un 
qualche  leggiero  rimedio,  e  nessun  altro  male  ne  segue,  fuorché 
per  più  giorni  fui  rinchiuso  in  camera  per   gastigo;  e  quindi 

nuovo  pascolo  e  fnmpjrjr»   all'llTP"''  ma\\xiC4SMM^    v^ 


CAPITOLO  QUARTO 

Sviluppo  dell'indole  indicato  da  varj  fattarelli. 

L' indole,  che  io  andava  intanto  manifestando  in  quei  primi 
anni  della  nascente  ragione,  era  questa.  Taciturno  e  placido,  per 
lo  più;  ma  alle  volte  loquacissimo  e  vivacissimo;  e  qujsi  sempre 
negK  estremi"  cbntràrjì  ostinato  e  restìo  contro  la  forza  ;  pieghe- 
volissimo agli  avvisi  amorevoli;  rattenuto  più  che  da  nessun'altra 
cosa  dal  timore  d'essere  sgridato;  suscettibile  di  vergognarmi 
fino  all'eccesso,  efnfléssibTle  se  io  veniva  preso  a  ritroso. 

Ma,  per  meglio  dar  conto  ad  altrui  e  a  me  stesso  di  quelle 
qualità  primitive  che  la  natura  mi  avea  improntate  nell'animo,  ^ 
fra  molte  sciocche  istoriette^  accadutemi  in  quella  prima  età,  ne 
allegherò  due  o  tre  di  cui  mi  ricordo  benissimo,  e  che  ritrar- 
ranno al  vivo  il  mio  carattere.  Di  quanti  gastighi  mi  si  potessero 
dare,  quello  che  smisuratamente  mi  addolorava,  ed  a  segno  di 
farmi  ammalare,  e  che  perciò  non  mi  fu  dato  che  due  volte  sole, 
egli  era  di  mandarmi  alla  messa  colla  reticella  da  notte*  in  capo, 
assetto  che  nasconde  quasi  interamente  i  capelli.  La  prima  volta 
ch'io  ci  fui  condannato  (né  mi  ricordo  più  del  perchè)  venni 
dunque  trascinato  per  mano  dal  maestro  alla  vicinissima  chiesa 
del  Carmine;  chiesa  abbandonata,  dove  non  si  trovavano  mai 
40  persone  radunate  nella  sua  vastità:  tuttavia  sì  fattamente 
mi  afflisse  codesto  gastigo,  che  per  più  di  tre  mesi  poi  rimasi 
irreprensibile.  Tra  le  ragioni  ch'io  sono  andato  cercando  in  ap- 
presso entro  di  me  medesimo,  per  ben  conoscere  il  fonte  di  un 
simile  effetto,  due  principalmente  ne  trovai,  che  mi  diedero  in- 
tera soluzione  del  dubbio.  L'una  si  era,  che  io  mi  credeva  gli 
occhi  di  tutti  doversi  necessariamente  affissare  su  quella  mia 


»  Fatterelli. 

s  Portata  allora  anche  dagli  adulti,  usandosi  i  capelli  lunghi. 


La  vita  15 

reticella,  e  ch'io  dovea  essere  molto  sconcio  e  diforme  in  codesto 
assetto,  e  che  tutti  mi  terrebbero  per  un  vero  malfattore  veden- 
domi punito  così  orribilmente.  L'altra  ragione  si  era,  ch'io  temeva 
di  esser  visto  dagli  amati  novizj  ;  e  questo  mi  passava  veramente 
il  cuore.  Or  mira,  o  lettore,  in  me  omiccino  il  ritratto  e  tuo  e 
di  quanti  anche  uomini  sono  stati  o  saranno;  che  tutti  slam  pur 
sempre,  a  ben  prendere,  bambini  perpetui. 

Ma  l'effetto  straordinario  in  me  cagionato  da  quel  gastigo, 
aveva  riempito  di  gioja  i  miei  parenti  e  il  maestro  ;  onde  ad  ogni 
ombra  di  mancamento,  minacciatami  la  reticella  abborrìta,  io 
rientrava  immediatamente  nel  dovere,  tremando.  Pure,  essendo 
poi  ricaduto  al  fine  in  un  qualche  fallo  insolito,  per  iscusa  del 
quale  mi  occorse  di  articolare  una  soiennissima  bugia  alla  si- 
gnora madre,  mi  fu  di  bel  nuovo  sentenziata  la  reticella:  e  di 
più,  che  in  vece  della  deserta  chiesa  del  Carmine,  verrei  con- 
dotto così  a  quella  di  San  Martino,  distante  da  casa,  posta  nel 
bel  centro  della  città,  e  frequentatissima  su  l'ora  del  mezzo 
giorno  da  tutti  gli  oziosi  del  bel  mondo.  Oimè,  qual  dolore  fu 
il  mio!  pregai,  piansi,  mi  disperai;  tutto  invano.  Quella  notte, 
ch'io  mi  credei  dover  essere  l'ultima  della  mia  vita,  non  che 
chiudessi  mai  occhio,  non  mi  ricordo  mai  poi  di  averne  in 
nessun  altro  mio  dolore  passata  una  peggio.  Venne  alfin  l'ora; 
ìnreticellato,  piangente,  ed  urlante  mi  avviai  stiracchiato  dal 
maestro  pel  braccio,  e  spinto  innanzi  dal  servitore  per  di  dietro  ; 
e  in  tal  modo  traversai  due  o  tre  strade,  dove  non  era  gente 
nessuna;  ma  tosto  che  si  entrò  nelle  vie  abitate,  che  si  avvici- 
navano alla  piazza  e  chiesa  di  San  Martino,  io  immediatamente 
cessai  dal  piangere  e  dal  gridare,  cessai  dal  farmi  strascinare; 
e  camminando  anzi  tacito  e  di  buon  passo,  e  ben  rasente  al  prete 
Ivaldi,  sperai  di  passare  inosservato  nascondendomi  quasi  sotto 
il  gomito  del  talare  maestro,  al  di  cui  fianco  appena  la  mia  sta- 
turina  giungeva.  Arrivai  nella  piena  chiesa,  guidato  per  roano 
come  orbo  eh'  io  era  ;  che  in  fatti,  chiusi  gli  occhi  all'  ingresso, 
non  gli  apersi  più  finché  non  fui  inginocchiato  al  mio  luogo  di 
udir  la  messa;  né,  aprendoli  poi,  li  alzai  mai  a  segno  di  potervi 
distinguere  nessuno.  E  rifattomi  orbo  all'uscire,  tomai  a  casa 
con  la  morte  in  cuore,  credendomi  disonorato  per  sempre.  Non 
volli  in  quel  giorno  mangiare,  né  parlare,  né  studiare,  né  pian- 
gere. E  fu  tale  in  somma  e  tanto  il  dolore,  e  la  tensione  d'animo, 
che  mi  ammalai  per  più  giorni;  né  mai  più  si  nominò  pure  in 


16  Vittorio  Alfieri 

casa  il  supplizio  della  reticella,  tanto  era  lo  spavento  che  cagionò 
alla  amorosissima  madre  la  disperazione  ch'io  ne  mostrai.  Ed  io 
parimenti  per  assai  gran  tempo  non  dissi  piìi  bugia  nessuno;  e 
chi  sa  s'io  non  devo  poi  a  quella  benedetta  reticella  l'essere 
riuscito  in  appresso  un  degli  uomini  i  meno  bugiardi  ch'io 
conoscessi. 

Altra  storìetta.  Era  venuta  in  Asti  la  mia  nonna  materna,  ma- 
trona di  assai  gran  peso  in  Torino,  vedova  di  uno  dei  barbas- 
sori' di  Corte,  e  corredata  di  tutta  quella  pompa  di  cose,  che  nei 
ragazzi  lasciano  grand' impressione.  Questa,  dopo  essere  stata 
alcuni  giorni  con  la  mia  madre,  per  quanto   mi  fosse  andata 
accarezzando  moltissimo  in  quel  frattempo,  io   non   m'era  per 
niente  addimesticato  con    lei,  come  salvatichetto   ch'io   m'era: 
onde,  stando  essa  poi  per  andarsene,  mi  disse  eh'  io  le  doveva 
chiedere  una  qualche  cosa,  quella  che  più  mi  potrebbe  soddi- 
sfare, e  che  me  la  darebbe  dì  certo.  Io,  a  bella  prima  per  ver- 
gogna e  timidezza  ed  irresoluzione,  ed  in  seguito  poi  per  osti- 
nazione e  ritrosia,  incoccio  sempre  a  rispondere  la  stessa  e  sola 
parola,  Niente:  e  per  quanto  poi  ci  si  provassero  tutti  in  venti 
diverse  maniere  a  rivoltarmi  per  pure  estrarre  da  me  qualcosa 
altro  che  non  fosse  quell'  ineducatìssimo  Niente,  non  fu  mai  pos- 
sibile ;  né  altro  ci  guadagnarono  nel  persistere  gli  interrogatori, 
se  non  che  da  principio  il  Niente  veniva  fuori  asciutto,  e  rotondo  ; 
poi  verso  il  mezzo  veniva  fuori  con  voce  dispettosa  e  tremante 
ad  un  tempo;  ed   in   ultimo,  fra   molte   lagrime,  interrotto  da 
profondi  singhiozzi.  Mi  cacciarono  dunque,  come  io  ben  meri- 
tava, dalla  loro  presenza,  e  chiusomi  in  camera,  mi  lasciarono 
godermi  il  mio   così   desiderató'^^STTTaTibnna   partì.  Ma 
quell' istesso  io,  che   con   tanta   pertinacia   aveva   ricusato  ogni 
dono  legittimo  della  nonna,  più  giorni  addietro  le  aveva  pure 
involato  in  un  suo  forziere  aperto  un  ventaglio,  che  poi  celato 
nel  mio  letto,  mi  fi»  ritrovato  dopo  alcun  tempo:  ed  io  allora 
dissi,  com'era  vero,  di  averlo  preso  per  darlo  poi  alla  mia  so- 
rella. Gran  punizione  mi  toccò  giustamente  per  codesto  furto: 
ma,  benché  il  ladro  sia  alquanto    peggiore   del  bugiardo,  pure 
non  mi  venne  più  né  minacciato  né  dato  il  supplizio  della  reti- 
cella: tanta  era  più  la  paura  che  aveva  la  mia  madre  di  farmi 
ammalare  di  dolore,  che  non  di  vedermi  riuscire  un  po'  ladro: 


1  Dignitari:  Ironicamente. 


La  vita  l7 

difetto,  per  il  vero,  da  non  temersi  poi  molto,  e  non  difficile  a 
sradicarsi  da  qualunque  ente*  non  ha  bisogno  di  esercitarlo.  Il 
rispetto  delle  altrui  proprietà,  nasce  e  prospera  prestissimo  negli 
individui  che  ne  posseggono  alcune  legittime  loro. 

E  qui,  a  guisa  di  storietta,  inserirò  pure  la  mia  prima  confes- 
sione spirituale,  fatta  tra  i  sette  ed  otto  anni.  Il  maestro  mi  vi 
andò  preparando,  suggerendomi  egli  stesso  i  diversi  peccati  cìie 
io  poteva  aver  commessi,  dei  più  de'  quali  io  ignorava  persino 
i  nomi.  Fatto  questo  preventivo  esame  in  comune  col  don  Ivaldi, 
si  fissò  il  giorno  in  cui  porterei  il  mio  fastelletto  ai  piedi  del 
Padre  Angelo,  Carmelitano,  il  quale  era  anche  il  confessore  di 
mia  madre.  Andai  :  né  so  quel  che  me  gli  dicessi,  tanta  era  la 
mia  naturai  ripugnanza  e  il  dolore  di  dovere  rivelare  i  miei 
segreti  fatti  e  pensieri  ad  una  persona  ch'io  appena  conosceva. 
Credo,  che  il  frate  facesse  egli  stesso  la  mia  confessione  per  me; 
fatto  si  è  che  assolutomi  m' ingiungeva  di  prosternarmi  alla 
madre  prima  di  entrare  in  tavola,  e  di  domandarle  in  tal  atto 
pubblicamente  perdono  di  tutte  le  mie  mancanze  passate.  Questa 
penitenza  mi  riusciva  assai  dura  ad  ingojare;  non  già,  perchè  io 
avessi  ribrezzo  nessuno  di  domandar  perdono  alla  madre;  ma 
quella  prosternazione  in  terra,  e  la  presenza  di  chiunque  vi  po- 
trebbe essere,  mi  davano  un  supplizio  insoffribile.  Tornato 
dunque  a  casa,  salito  a  ora  di  pranzo,  portato  in  tavola,  e  an- 
dati tutti  in  sala,  mi  parve  di  vedere  che  gli  occhi  di  tutti  si  fis- 
sassero sopra  di  me;  onde  io  chinando  i  miei  me  ne  stava  dub- 
bioso e  confuso  ed  immobile,  senza  accostarmi  alla  tavola,  dove 
ognuno  andava  pigliando  il  suo  luogo:  ma  non  mi  figurava  per 
tutto  ciò,  che  alcuno  sapesse  i  segreti  penitenziali  della  mia  con- 
fessione. Fattomi  poi  un  poco  di  coraggio,  m'inoltro  per  sedermi 
a  tavola;  ed  ecco  la  madre  con  occhio  arcigno  guardandomi,  mi 
domanda  se  io  mi  ci  posso  veramente  sedere  ;  se  io  ho  fatto  quel 
ch'era  mio  dovere  di  fare;  e  se  in  somma  io  ifqn_Jio_5uJla_da 
tiinj)roverare_a  jJi«-&tfi5S0.  Ciascuno  di  questi  quesiti  mi  era  una 
pugnalata  nel  cuore;  rispondeva  certamente  per  me  l'addolorato 
mio  viso  ;  ma  il  labro  non  poteva  proferir  parola  :  né  ci  fu  mezzo 
mai,  che  io  volessi  non  che  eseguire,  ma  né  articolare  ne  ac- 
cennar pure  la  ingiuntami  penitenza.  E  parimente  la  madre  non 
la  voleva  accennare,  per  non  tradire  il  traditor  confessore.  Onde 

*  Essere,  individuo. 
2,  -  Classici  Italiani.  N.  2. 


18  Vittorio  Alfieri 

la  cosa  finì  che  ella  perde  per  quel  giorno  la  prosternazione  da 
farglisi,  ed  io  ci  perdei  il  pranzo,  e  fors'anco  l'assoluzione  da- 
tami a  sì  duro  patto  dal  P.e  Angelo.  Non  ebbi  con  tutto  ciò  per 
allora  la  sagacità  di  penetrare  che  il  P.'  Angelo  aveva  concer- 
tato con  mia  madre  la  penitenza  da  ingiungermi.  Ma  il  core  ser- 
vendomi in  ciò  meglio  assai  dell'ingegno,  contrassi  d'allora  in 
poi  un  odietto  bastantemente  profondo  pel  suddetto  frate,  e  non 
molta  propensione  in  appresso  per  quel  sagramento,  ancorché 
nelle  seguenti  confessioni  non  mi  si  ingiungesse  poi  mai  piìi 
nessuna  pena  pubblica. 


CAPITOLO  QUINTO 

Ultima  storietta  puerile. 

Era  venuto  in  vacanza  in  Asti  il  mio  fratello  maggiore,  il  mar- 
chese di  Cacherano,  che  da  alcuni  anni  si  stava  educando  in 
Torino  nel  Collegio  dei  Gesuiti.  Egli  era  in  età  di  circa  anni  14 
al  più,  ed  io  di  otto.  La  di  lui  compagnia  mi  riusciva  ad  un 
tempo  di  sollievo  e  d'angustia.  Siccome  io  non  lo  avea  mai  co- 
nosciuto prima  (essendomi  egli  fratello  uterino  soltanto),  io  vera- 
mente non  mi  sentiva  quasi  nessun  amore  per  esso;  ma  siccome 
egli  andava  pure  un  cotal  poco  ruzzando  con  me,  una  certa  in- 
clinazione per  lui  mi  sarebbe  venuta  crescendo  con  l'assuefa- 
zione. Ma  egli  era  tanto  piìi  grande  di  me;  avea  più  libertà  di 
me,  pili  danari,  più  carezze  dai  genitori  ;  avea  già  vedute  più 
assai  cose  di  me,  abitando  in  Torino;  avea  spiegato  il  Virgilio; 
e  che  so  io,  tante  altre  cosarelle  aveva  egli,  che  io  non  avea, 
che  allora  finalmente  io  conobbi  per  la  prima  volta  l'invidia. 
Ella  non  era  però  atroce,  poiché  non  mi  traeva  ad  odiare  pre- 
cisamente queir  individuo,  ma  mi  faceva  ardentissimamente  desi- 
derare di  aver  io  le  stesse  cose,  senza  però  volerle  togliere  a  lui. 
E  questa  credo  io,  che  sia  la  diramazione  delle  due  invidie,  di 
cui,  l'una  negli  animi  rei  diventa  poi  l'odio  assoluto  contro  chi 
ha  il  bene,  e  il  desiderio  d'impedirglielo,  o  toglierglielo,  anche 
non  lo  acquistando  per  se;  l'altra,  nei  non  rei,  diventa  sotto  il 
nome  di  emulazione,  o  di  gara,  un'inquietissima  brama  di  otte- 
nere quelle  cose  stesse  in  eguale  o  maggior  copia  dell'altro.  Oh 
quanto  è  sottile,  e  invisibile  quasi  la  differenza  che  passa  fra  il 
seme  delle  nostre  virtù  e  dei  nostri  vizj! 


La  vita  19 

Io  dunque,  con  questo  mio  fratello  ora  ruzzando,  ora  bistic- 
ciando, e  cavandone  ora  dei  regalucci,  ora  dei  pugni,  mi  pas- 
sava tutta  quella  state  assai  più  divertito  del  solito,  essendo  io 
fin  allora  stato  sempre  solo  in  casa;  che  non  v'è  pe'  ragazzi 
maggior  fastidio.  Un  giorno  tra  gli  altri  caldissimo,  mentre 
tutti  su  la  nona'  facevano  la  siesta,  noi  due  stavamo  facendo 
l'esercizio  alla  prussiana*,  che  il  mio  fratello  m' insegnava.  Io, 
nel  marciare,  in  una  voltata  cado,  e  batto  il  capo  sopra  uno  degli 
alari  rimasti  per  incuria  nel  caraminetto  sin  dall'inverno  prece- 
dente. L'  alare,  per  essere  tutto  scassinato  e  privo  di  quel  pomo 
d'ottone  solito  ad  innestarvisi  su  le  due  punte  che  sporgono  in 
fuori  del  camrainetto,  su  una  di  esse  mi  venni  quasi  ad  inchio- 
dare la  testa  un  dito  circa  sopra  l'occhio  sinistro  nel  bel  mezzo 
del  sopraciglio.  E  fu  la  ferita  così  lunga  e  profonda,  che  tut- 
tora ne  porto,  e  porterò  sino  alla  tomba  la  cicatrice  visibilissima. 
Dalla  caduta  mi  rizzai  immediatamente  da  me  stesso,  ed  anzi 
gridai  subito  a!  fratello  di  non  dir  niente;  tanto  più  che  in  quel 
primo  impeto  non  mi  parea  d'aver  sentito  nessunissimo  dolore, 
ma  bensì  molta  vergogna  di  essermi  così  mostrato  un  soldato 
male  in  gambe.  Ma  già  il  fratello  era  corso  a  risvegliare  il  maestro, 
e  il  rumore  era  giunto  alla  madre,  e  tutta  la  casa  era  sottosopra.  In 
quel  frattempo,  io  che  non  avea  punto  gridato  ne  cadendo  né  riz- 
zandomi, quando  ebbi  fatti  alcuni  passi  verso  il  tavolino,  al  sentirmi 
scorrere  lungo  il  viso  una  cosa  caldissima,  portatevi  tosto  le  mani, 
tosto  che  me  le  vidi  ripiene  di  sangue  cominciai  allora  ad  urlare. 
E  doveano  essere  di  semplice  sbigottimento  quegli  urli,  poiché  mi 
ricordo  benissimo,  che  non  sentii  mai  nessun  dolore  sinché  non 
venne  il  chirurgo  e  cominciò  a  lavare  a  tastare  e  medicare  la  piaga. 
Questa  durò  alcune  settimane,  prima  di  rimarginare,  e  per  più 
giorni  dovei  stare  al  bujo,  perchè  si  temeva  non  poco  per  l'occhio, 
stante  la  infiammazione  e  gonfiezza  smisurata,  che  vi  si  era  messa. 
Essendo  poi  in  convalescenza,  ed  avendo  ancora  gì' impiastri  e 
le  fasciature,  andai  pure  con  molto  piacere  alla  messa  al  Car- 
mine; benché  certo  quell'assetto  spedalesco  mi  sfigurasse  assai 
più  che  non  quella  mia  reticella  da  notte,  verde  e  pulita,  quale 
appunto  i  zerbini  d'Andalusia  portano  p>er  vezzo.  Ed  io  pure, 
poi  viaggiando  nelle  Spagne  la  portai  per  civetterìa  ad  imita- 


>  Dal  levar  del  sole;  le  tre  pomeridiane  circa,  ora  della  siesta. 

•  Allora  di  m"<i  "■•'  I'  '-tTii  <*>  r^.\.-r\rry  II  e  delle  sue  recenti  campagne. 


20  Vittorio  Alfieri 

zione  di  essi.  Quella  fasciatura  dunque  non  mi  facea  nessuna 
ripugnanza  a  mostrarla  in  pubblico;  o  fosse  perchè  l' idea  di  un 
pericolo  corso  mi  lusingasse  ;  o  che,  per  un  misto  d' idee  ancora 
informi  nel  mio  capicino  io  annettessi  pure  una  qualche  idea  di 
gloria  a  quella  ferita.  E  così  bisogna  pure  che  fosse;  poiché, 
senza  aver  presenti  alla  mente  i  moti  dell'animo  mio  in  quel 
punto,  mi  ricordo  bensì  che  ogniqualvolta  s'incontrava  qualcuno 
che  domandasse  al  prete  Ivaldi  cosa  fosse  quel  mio  capo  fasciato  ; 
rispondendo  egli,  ch'io  era  Cascato;  io  subito  soggiungeva  del 
'     mio,  Facendo  resercizio. 

Ed  ecco,  come  nei  giovanissimi  petti,  chi  ben  li  studiasse,  si 
vengono  a  scorgere  manifestamente  i  semi  diversi  delle  virtù  e 
dei  vizj.  Che  questo  certamente  in  mejera  un  seme  di  amor-<li 

^  gloria  :  ma,  né  il  prete  Ivaldi,  né  quanti  altri  mi  stavano  intorno, 
non  facevano  simili  riflessioni. 

Circa  un  anno  dopo,  quel  mio  fratello  maggiore,  tornatosene 
in  quel  frattempo  in  collegio  a  Torino,  infermò  gravemente  di 
un  mal  di  petto,  che  degenerato  in  etisia,  lo  menò  alla  tomba 
in  alcuni  mesi.  Lo  cavarono  di  collegio,  lo  fecero  tornare  in 
Asti,  nella  casa  materna,  e  mi  portarono  in  villa'  perché  non  lo 
vedessi:  ed  in  fatti  in  quell'estate  morì  in  Asti,  senza  ch'io  lo 
rivedessi  più.  In  quel  frattempo  il  mio  zio  paterno,  il  cavalier 
Pellegrino  Alfieri,  al  quale  era  stata  affidata  la  tutela  dei  miei 
beni  sin  dalla  morte  di  mio  padre,  e  che  allora  ritornava  di  un 
suo  viaggio  in  Francia,  Olanda,  e  Inghilterra,  passando  per  Asti 
mi  vide:  ed  avvistosi  forse,  come  uomo  di  molto  ingegno  che 
egli  era,  eh'  io  non  imparerei  gran  cosa  continuando  quel  sistema 
d'educazione,  tornato  a  Torino,  di  lì  a  pochi  mesi  scrisse  alla 
madre,  che  egli  voleva  assolutamente  pormi  nell'Accademia  di 
Torino.  La  mia  partenza  si  trovò  dunque  coincidere  con  la  morte 

/del  fratello:  onde  io  avrò  sempre  presenti  alla  mente  l'aspetto 
i  gesti  e  le  parole  della  mia  addoloratissima  madre,  che  diceva 
singhiozzando:  Mi  è  tolto  l'uno  da  Dio,  e  per  sempre:  e  que- 
st'altro, chi  sa  per  quanto!  Ella  non  aveva  allora  dal  suo  terzo 
marito  se  non  se  una  femmina;  due  maschi  poi  le  nacquero  suc- 
cessivamente, mentre  io  stava  in  Accademia  a  Torino.  Quel  suo 

vv  dolore  mi  penetrò  altamente:  ma  pure  la  brama  di  veder  cose 
nuove,  l'idea  di  dover  tra  pochi  giorni  viaggiar  per  le  poste,  io 

i  Nel  castello  di  MagUano.  \B.\. 


La  vita  21 

che  usciva  di  fresco  dall'aver  fatto  il  primo  viaggio  in  una  villa 
distante  15  miglia  da  Asti,  tirato  da  due  placidissimi  manzi;  e 
cento  altre  simili  ideuzze  infantili  che  la  fantasia  lusinghiera  mi 
andava  appresentando  alla  mente,  mi  alleggerivano  in  gran  parte 
il  dolore  del  morto  fratello,  e  dell'afflittissima  madre.  Ma  pure, 
quando  si  venne  all'atto  di  dover  partire,  io  mi  ebbi  quasi  a 
svenire,  e  mi  addolorò  di  dover  abbandonare  il  maestro  don 
Ivaldi  forse  ancor  più  che  lo  staccarmi  dalla  madre.  —  Incales- 
sato  poi  quasi  per  forza  dal  mio  fattore,  che  era  un  vecchio 
destinato  per  accompagnarmi  a  Torino  in  casa  dello  zio  dove 
doveva  andare  da  prima,  partii  finalmente  scortato  anche  dal 
servitore  destinatomi  fisso,  che  era  un  certo  Andrea,  alessan- 
drino, giovine  di  molta  sagacità  e  di  bastante  educazione  secondo 
il  suo  stato  ed  il  nostro  paese,  dove  il  saper  leggere  e  scrivere 
non  era  allora  comune.  Era  di  luglio  nel  1758,  non  so  qual 
giorno,  quando  io  lasciai  la  casa  materna  la  mattina  di  buonis- 
sima ora.  Piansi  durante  tutta  la  prima  posta;  dove  poi  giunto, 
nel  tempo  che  si  cambiava  i  cavalli,  io  volli  scendere  nel  cor- 
tile, e  sentendomi  molto  assetato  senza  voler  domandare  un  bic- 
chiere, né  far  attingere  dell'acqua  per  me,  accostatomi  all'abbe^ 
veratojo  de'  cavalli,  e  tuffatovi  rapidamente  il  maggior  corno 
del  mio  cappello',  tanta  ne  bevvi  quanta  ne  attinsi.  L'ajo  fattore, 
avvisato  dai  postiglioni,  subito  vi  accorse  sgridandomi  assai  ;  ma 
io  gli  risposi,  che  chi  girava  il  mondo  si  doveva  avvezzare  a  tai 
cose,  e  che  un  buon  soldato  non  doveva  bere  altrimente.  Dove 
poi  avessi  io  pescate  queste  id£e  acWH^sche,  non  lo  saprei: 
stante  che  la  madre  mi  aveva  sempre  educato  assai  mollemente, 
ed  anzi  con  risguardi  circa  là  salute  affatto  risibili.  Era  dunque 
anche  questo  in  me  un  impetino  di  natura  gloriosa,  il  quale  si  «y 
sviluppava  tosto  che  mi  veniva  Cóncéèso  "di  àlzà'ré'un  pocolino  il 
capo  da  sotto  il  giogo. 

E  qui  darò  fine  a  questa  prima  Epoca  della  mia  Puerizia,  entrando 
ora  in  un  mondo  alquanto  men  circoscritto,  e  potendo  con  maggior 
brevità,  spero,  andarmi  dipingendo  anche  meglio.  Questo  primo 
squarcio  di  una  vita  (che  tutta  forse  è  inutilissima  da  sapersi)  riuscirà 
certamente  inutilissìmo  per  tutti  coloro,  che  stimandosi  uomini  si 
vanno  scordando  che^ l'uomo  è  una  continuazione  del  bambino.  ' 

•  A  tricorno. 


EPOCA  SECONDA 
ADOLESCENZA 

ABBRACCIA  OTTO  ANNI   d'INEDUCAZIONE 

CAPITOLO  PRIMO 

Partenza  dalla  casa  materna,  ed  ingresso  nell'Accademia  di  Torino. 

e  descrizione  di  essa. 
Eccomi  or  dunque  per  le  poste  correndo  a  quanto  più  «  po- 
♦.v^r  grazia  che  io  al  pagar  della  prima  posta   aveva  inter- 

U  cuor  del  secondo.  Onde  costui  andava  come  un  fulmme,  ac 
mamente  e  russava  come  un  bue.  ^^^[""'"'^ '.....  „„cliè 

;.Ar^:sr;ie  d,  pU  .n  pos.   e™,  u       eo„.^„.  P.P. 
òr?  d.pn  mezzo  giorno.  Era  una  giornata  stupenda,  e  1  entrata 


La  vita  23 

di  quella  città  per  la  Porta  Nuova,  e  la  piazza  di  San  Carlo  fino 
all'Annunziata'  presso  cui  abitava  il  mio  zio,  essendo  tutto  quel 
tratto  veramente  grandioso  e  lietissimo  all'occhio,  mi  aveva  ra- 
pito, ed  era  come  fuor  di  me  stesso.  Non  fu  poi  così  lieta  la 
sera;  perchè  ritrovandomi  in  nuovo  albergo*,  tra  visi  sconosciuti, 
senza  la  madre,  senza  il  maestro,  con  la  faccia  dello  zio  che  ap- 
pena avea  visto  una  altra  volta,  e  che  mi  riusciva  assai  meno 
accarezzante,  e  amoroso,  della  madre  ;  tutto  questo  mi  fece  rica-  » 
dere  nel  dolore,  e  nel  pianto,  e  nel  desiderio  vivissimo  di  tutte 
quelle  cose  da  me  abbandonate  il  giorno  antecedente.  Dopo  al- 
cuni dì,  a\'vezzatomi  poi  alla  novità,  ripigliai  l'allegria  e  la  vi- 
vacità in  un  grado  assai  maggiore  ch'io  non  avessi  mostrata  mai; 
ed  anzi  fu  tanta,  che  allo  zio  parve  assai  troppa;  e  trovandomi 
essere  un  diavoletto,  che  gli  metteva  a  soqquadro  la  casa,  e  che 
per  non  avere  maestro  che  mi  facesse  far  nulla,  io  perdeva  as- 
solutamente il  mio  tempo,  in  vece  di  aspettare  a  mettermi  in 
Accademia'  all'ottobre  come  s'era  detto,  mi  v'ingabbiò  fin  dal  di 
1  d'agosto  dell'anno  1758. 

In  età  di  nove  anni  e  mezzo  io  mi  ritrovai  dunque  ad  un 
fratto  traspiantato  in  mezzo  a  persone  sconosciute,  allontanato 
affatto  dai  parenti,  isolato,  ed  abbandonato  per  cosi  dire  a_rne  '^. 
slessoJJ^  perchè  quella  specie  di  educazione  pubblica  (se  chia- 
marla pur  vorremo  educazione)  in  nessuna  altra  cosa  fuorché 
negli  studj,  e  anche  Dio  sa  come,  influiva  su  l'animo  di  quei 
giovinetti.  Nessuna  massima  di  morale  mai,  nessun  ammaestra-  -^ 
mento  della  vita  ci  veniva  dato.' E  chi  ce  l'avrebbe  dato,  se  gli 
educatori  stessi  non  conoscevano  il  mondo  né  per  teoria  né  per 
pratica  ? 

Era  quell'Accademia  un  sontuosissimo  edificio  diviso  in  quattro 
Iati,  in  mezzo  di  cui  un  immenso  cortile.  Due  di  essi  lati  erano 
occupati  dagli  educandi  ;  i  due  altri  dal  Regio  Teatro,  e  dagli 
Archivi  del  re.  In  faccia  a  questi  per  l'appunto  era  il  lato  che 
occupavamo  noi.  chiamati  del  Secondo  e  Terzo  Appartamento; 
In  faccia  al  teatro  stavano  quei  del  Primo,  di  cui  parlerò  a  suo 

In  via  Po.  L'A.  attraversò  i  quarHeri  pifi  ri!  e  più  notevoli  drll'cctitizia 
torinese  del  700. 

«  Casa. 

»  Su  questo  istituto  v.  :  O.  Ciarii  i  a,  .sui  pnmcnu  nruAirciacm.a  mili- 
tare di  Torino,  Torino,  188-';  O.  Roberti,  Oli  otto  anni  d'inedmazione 
di  V.  A.,  in  .  RasscRiia  Nazionale  .,  XXIV,  fase.  511. 


24  Vittorio  Alfieri 

tempo.  La  galleria  superiore  del  Iato  nostro,  chiamavasi  Terzo 
Appartamento,  ed  era  destinata  ai  più  ragazzi,  ed  alle  scuole 
inferiori:  la  galleria  del  primo  piano,  chiamata  Secondo,  era 
destinata  ai  più  adulti;  de'  quali  una  metà  od  un  terzo  studia- 
vano all'università,  altro  edificio  assai  prossimo  all'Accademia, 
gli  altri  attendevano  in  casa  agli  studj  militari.  Ciascuna  galleria 
conteneva  almeno  quattro  camerate  di  undici  giovani  ciasche- 
I  duna,  cui  presiedeva  un  pretuccio  chiamato  Assistente;  per  lo 
più  un  villan  rivestito,  a  cui  non  si  dava  salario  nessuno  ;  e  con 
la  tavola  sola  e  l'alloggio  si  tirava  innanzi  a  studiare  anch'egli 
la  teologia,  o  la  legge  all'università  :  ovvero  se  non  erano  anche 
essi  studenti,  erano  dei  vecchi  ignorantissimi  e  rozzissimi  preti. 
Un  terzo  almeno  del  lato  eh'  io  dissi  destinato  al  Primo  Appar- 
tamento, era  occupato  dai  paggi  del  re  in  numero  di  20,  o  25, 
che  erano  totalmente  separati  da  noi,  all'angolo  opposto  del 
vasto  cortile,  ed  attigui  agli  accennati  archivj. 

Noi  dunque  giovani  studenti  eramo  assai  male  collocati  così: 
fra  un  teatro,  che  non  ci  toccava  di  entrarvi  se  nori.se  cinque  o  sei 
sere  in  tutto  il  carnovale;  fra  i  paggi,  che  atteso  il  servizio  di 
corte,  le  caccie,  e  le  cavalcate,  ci  pareano  godere  di  una  vita 
tanto  più  libera  e  divagata  della  nostra;  e  tra  i  forestieri  final- 
mente che  occupavano  il  primo  appartamento,  quasi  ad  esclu- 
sione dei  paesani;  essendo  una  colluvie  di  tutti  i  boreali;  In- 
glesi principalmente,  Russi,  e  Tedeschi,  e  d'altri  stati  d'Italia; 
e  questa  era  più  una  Locanda  che  una  educazione,  poiché  a  ninna 
regola  erano  astretti,  se  non  se  al  ritrovarsi  la  sera  in  casa  prima 
della  mezza  notte.  Del  resto,  andavano,  e  a  corte,  e  ai  teatri,  e 
nelle  buone  e  nelle  cattive  compagnie,  a  loro  intero  piacimento. 
E  per  supplizio  maggiore  di  noi  poverini  del  secondo  e  terzo 
appartamento,  la  distribuzione  locale  portava  che  ogni  giorno 
per  andare  alla  nostra  cappella  alla  messa,  ed  alle  scuole  di 
ballo,  e  di  scherma,  dovevamo  passare  per  le  gallerie  del  primo 
appartamento,  e  quindi  vederci  continuamente  in  su  gli  occhi  la 
sfrenata  e  insultante  libertà  di  quegli  altri;  durissimo  paragone 
•*  colla,  severità  del  nostro  sistema,  che  chiamavamo  andari  temente 
^^  ~^  galera.''  Chi  fece  quetta^disTiriBuzione  era  uno  stolido,  e  non  co- 
~'  nósceva  punto  il  cuore  dell'uomo;  non  si  accorgendo  della  fu- 
nesta influenza  che  doveva  avere  in  quei  giovani  animi  quella 
continua  vista  di  tanti  proibiti  pomi. 


La  vita  25 


CAPITOLO  SECONDO 
Primi  studj,  pedanteschi,  e  mal  fatti. 

Io  era  dunque  collocato  nel  terzo  appartamento,  nella  came- 
rata detta  di  mezzo;  affidato  alla  guardia  di  quel  servitore  An- 
drea,  che  trovatosi  così  padrone  di  me  senza  avere  né  la  madre, 
ne  lo  Zio,  né  altro  mio  parente  che  lo  frenasse,  diventò  un  dia- 
volo scatenato.  Costui  dunque  mi  tiranneggiava  per  tutte  le  cose 
domestiche  a  suo  pieno  arbitrio.  E  così  l'assistente  poi  faceva 
di  me,  come  degli  altri  tutti,  nelle  cose  dello  studio,  e  della 
condotta  usuale.  Il  giorno  dopo  il  mio  ingresso  nell'Accademia, 
venne  da  quei  professori  esaminata  la  mia  capacità  negli  studj, 
e  fui  giudicato  per  un  fo'-te  Quartano,  da  poter  facilmente  in 
tre  mesi  di  assidua  applicazione  entrare  in  Terza'.  Ed  infatti  mi 
vi  accinsi  di  assai  buon  animo,  e  conosciuta  ivi  per  la  prima  volta 
l'utilissima  gara  dell'emulazione,  a  competenza  di  alcuni  altri 
anche  maggiori  di  me  per  età,  ricevuto  poi  un  nuovo  esame  nel 
novembre,  fui  assunto  alla  classe  di  terza.  Era  il  maestro  di  quella 
un  certo  don  Degiovanni,  prete,  di  forse  minor  dottrina  del  mio 
buono  Ivaldi;  e  che  aveva  inoltre  assai  minore  affetto  e  solleci- 
tudine per  i  fatti  miei,  dovendo  egli  badare  alla  meglio,  e  ba-  . 
dandovi  alla  peggio,  a  quindici,  o  sedici  suoi  scolari,  che  tanti 
ne  avea. 

Tirandomi  cosi  innanzi  in  quella  scoluccia.  asino,  fra  asini,  e  «^ 
sotto  un  asinof  io  vi  spiegava  Cornelio  Nipote,  alcune  egloghe 
di  Virgilio,  e  simili:  vi  si  facevano  certi  temi  sguajati  e  scioc- 
cfiissimi;  talché  in  ogni  altro  collegio  di  scuole  ben  dirette, 
quella  sarebbe  stata  al  più  più  una  pessima  Quarta.  Io  non  era 
:nai  l'ultimo  fra  i  compagni;  l'emulazione  mi  spronava  finché 
avessi  o  superato  o  agguagliato  quel  giovine  che  passava  per  il 
primo;  ma  pervenuto  poi  io  al  primato,  tosto  mi  rintiepidiva  e 
cadea  nel  torpore.  Ed  era  io  forse  scusabile,  in  quanto  nulla 
poteva  agguagliarsi  alla  npj'a  e  insipidità  di  così  fatti  studj.  Si 
traducevano  le  Vite  di  Cornelio  Nipote,  ma  nessuno  di  noi,  e 
forse  neppure  il  maestro,  sapeva  chi  si  fossero  stati  quegli  uo- 
mini di  cui  si  traducevan  le  vite,  né  dove  fossero  i  loro  paesi, 

>  Essendo  l'ordine  numerale  delle  classi  inverso  rispetto  al  nostro:  la 
4»  corrispondeva  all' incirca  alle  nostre  !•  e  2»  ginnasiale. 


26  Vittorio  Alfieri 

ne  in  quali  tempi  né  in  quali  governi  vivessero,  ne  cosa  si  fosse 
un  governo  qualunque.  Tutte  le  idee  erano  o  circoscritte,  o  false, 
o  confuse; 'nessuno  scopo  in  chi  insegnavajjiessumssimo  allet- 
^tamento  in  chTìmparava.:  Èrano  insomma  dei  vergognosissimi 
ferdigiorniS  non  c'invigilando  nessuno;  o  chi  lo  faceva,  nulla 
intendendovi.  Ed  ecco  in  qual  modo  si  viene  a  tradire  senza 
rimedio  la  gioventù. 

Passato  quasi  che  tutto  l'anno  1759  in  simili  studj,  verso  il 
novembre  fui  promosso  all'Umanità.   Il   maestro   di   essa,  don 
Amatis,  era  un  prete  di  molto  ingegno  e  sagacità,  e  di  sufficiente 
dottrina.  Sotto  di  questo,  io  feci  assai  maggiore  profitto;  e  per 
quanto  quel  metodo  di  mal  intesi  studj  lo  comportasse,  mi  rin- 
forzai bastantemente  nella  lingua  latina.  L'emulazione  mi  si  ac- 
crebbe, per  l'incontro  di  un  giovine  che  competeva  con  me  nel 
fare  il  tema;  ed  alcuna  volta  mi  superava;  ma  vieppiù  poi  mi 
vinceva  sempre  negli  esercizi  della  memoria,  recitando  egli  sino 
a  600  versi  delle  Georgiche   di  Virgilio   d'un   fiato,  senza  sba- 
gliare una  sillaba,  e  non  potendo  io  arrivare  neppure  a  400,  ed 
anche  non  bene;  cosa,  di  cui  mi  angustiava  moltissimo.  E  per 
quanto  mi  vo  ora  ricordando  dei  moti  del  mio  animo  in  quelle 
battaglie  puerili,  mi  pare  che  la  mia  indole  non  fosse  di  cattiva 
natura;  Vrchè  nell'atto  dell'essere  vinto. da  quei  dugeatft^ifsrsi 
di  più,  iojni  sentiva  beusl-soffocar -dalla  -collera,  .e-spessQ_PXQ- 
"^  rompeva  in  un  dirottissimo  pianto  elaJvoJtaLancheinatrQÒssime 
ingiurie  "contro  al  rivale^jjna  pure  poi,  o  sia  ch'egli  si  fosse  mi- 
glTore'di  me,  o  ch'io  mi  placassi  non  so  come,  essendo  noi  di 
forza  di  mano  uguali  all' incirca,  non  ci  disputavamo  però  quasi 
mai,  e  sul  totale  eramo  quasi  amici.  Io  credo,  che  la  mia  non 
-^-^piccola  àa^i^i^acdla  ritrovasse  consolazione  e  compenso  della 
inferiorità  della  memoria,  nel  premio  del  tema»,  che  quasi  sempre 
era  mio  ;  ed  inoltre,  io  non  gli  poteva  portar  odio,  perchè  egli 
era  bellissimo;   ed    io,  anche    senza   secondi   fini,  sempre  sono 
stato  assai  propenso  per  la  bellezza,  sì   degli  animali  che  degli 
uomini,  e  d'ogni  cosa  ;  a  segno  che  la  bellezza  per  alcun  tempo 
nella  mia  mente  preoccupa  il  giudizio,  e  pregiudica  spesso  al  vero. 
In  tutto  quell'anno  dell'Umanità,  i  miei  costumi   si  conserva- 
rono ancora  innocenU  e  purissimi  ;  se  non  in  quanto  la   natura 
da  se  stessa,  senza  ch'io  nulla  sapessi,  me  li  andava  pure  stur- 

I  Perditempi,  detto  di  quegli  studi. 
«  In  latino,  come  allora  usavasi. 


La  vita  27 

bando.  Mi  capitò  in  quell'anno  alle  mani,  e  non  mi  posso  ricor- 
dare il  come,  un  Ariosto,  l'opere  tutte  in  quattro  temetti.  Non 
la  comprai  certo,  perchè  danari  non  avea;  non  lo  rubai,  perchè 
delle  cose  rubate  ho  conservata  memoria  vivissima  :  ho  un  certo 
barlume,  che  lo  acquistassi  ad  un  tomo  per  volta  per  via  di  ba- 
ratto da  un  altro  compagno,  che  lo  scambiasse  meco  col  pollo 
che  ci  era  dato  per  lo  più  ogni  domenica,  un  mezzo  a  ciascuno  ; 
sicché  il  mio  primo  Ariosto  mi  sarebbe  costato  la  privazione  di 
an  par  di  polli  in  4  settimane.  Ma  tutto  questo  non  lo  posso 
accertare  a  me  stesso  per  l'appunto.  E  mi  spiace;  perchè  avrei 
caro  di  sapere  se  io  ho  bevuto  i  primi  sorsi  di  poesia  a  spese 
dello  stomaco,  digiunando  del  miglior  boccone  che  ci  toccasse 
Riai.  E  non  era  questo  il  solo  baratto  ch'io  mi  facessi,  perchè 
quel  benedetto  semipollo  domenicale,  io  mi  ricordo  benissimo 
di  non  lo  aver  mangiato  mai  per  dei  se'  mesi  continui,  perchè 
lo  aveva  pattuito  in  iscambio  di  certe  storie  che  ci  raccontava 
un  certo  Lignana,  il  quale  essendo  un  divoratore,  aguzzavasi 
l'intelletto  per  ritondarsi  la  pancia;  e  non  ammetteva  ascolta- 
tori dei  suoi  racconti,  se  non  se  a  retribuzione  di  vettovaglie. 
Comunque  accadesse  dunque  questa  mia  acquisizione,  io  m'ebbi 
un  Ariosto.  Lo  andava  leggendo  qua  e  là  senza  metodo,  e  non 
intendeva  neppur  per  metà  quel  ch'io  leggeva.  Si  giudichi  da 
ciò  quali  dovessero  essere  quegli  studj  da  me  fatti  fin  a  quel 
punto;  poiché  io,  il  principe  di  codesti  umanisti,  che  traduceva 
pur  le  Georgiche,  assai  più  difficili  dell'  Eneide,  in  prosa  ita- 
liana, eja  imbrogliato  d'intendere  il  più  facik  dei  nostri^  poeti,  u 
Sempre  mi  ricorderò,  chenel  cantò  d'Alcina,  a  quei  bellissimi 
passi  che  descrivono  la  di  lei  bellezza  io  mi  andava  facendo 
tutto  intelletto  per  capir  bene:  ma  troppi  dati  mi  mancavano  di 
ogni  genere  per  arrivarci.  Onde  i  due  ultimi  versi  di  quella 
stanza.  Non  cosi  strettamente  edera  preme,  non  mi  era  mai  pos- 
sibile d'intenderli:  e  tenevamo  consiglio  col  mio  competitore  di 
scuola,  che  non  li  penetrava  niente  più  di  me,  e  ci  perdevamo  in 
nn  mare  di  congetture.  Questa  furtiva  lettura  e  commento  su 
l'Ariosto  finì,  che  l'assistente  essendosi  avvisto  che  andava  per 
le  mani  nostre  un  libruccio  il  quale  veniva  immediatamente  oc- 
cultato al  di  lui  apparire,  lo  scoprì,  lo  confiscò,  e  fattisi  dar  gli 
litri  tomi,  tutti  li  consegnò  al  sottopriore,  e  noi  poetini  restammo 
orbati  d'ogni  poetica  guida,  e  scornati. 

l''irio  JcHa  classe:  ironico. 


28  Vittorio  Alfieri 

CAPITOLO  TERZO 

A  quali  de'  parenti  in  Torino  venisse  affidata  la  mia  adolescenza. 

Nello  spazio  di  questi  due  primi  anni  d'Accademia,  io  imparai 
dunque  pochissimo,  e  di  gran  lunga  peggiorai  la  salute^HèTcòrpo, 
^'*^  stante  la  total  differenza  e  quantità  dei  cibi^v  ècf  il  molto  stra- 
paz207  e  it  non  àBBàifàffzà  SòTinire  ;  co^è"  in  tutto  contrarie  al 
primo  metodo  tenuto  sino  ai  nove  anni  nella  casa  materna.  Io  non 
cresceva  punto  di  statura,  e  pareva  un  candelotto  di  cera  sotti- 
lissimo e  pallidissimo.  Molti,  malauini .SVlccessivamente  mi  anda- 
rono travagliando'.  L'uno,  tra  gli  altri,  cominciò  con  lo  "scop- 
piarmi  in  "pìtT  di  venti  luoghi  la  testa,  uscendone  un  umore 
viscoso  e  fetente,  preceduto  da  un  tale  dolor  di  capo,  che  le 
tempie  mi  si  annerirono,  e  la  pelle  come  incarbonita  sfoglian- 
dosi più  volte  in  diversi  tempi  mi  si  cambiò  tutta  in  su  la  fronte 
e  le  tempie.  Il  mio  zìo  paterno  il  cavalier  Pellegrino  Alfieri,  era 
stato  fatto  governatore  della  città  di  Cuneo',  dove  risiedeva  almeno 
otto  mesi  dell'anno:  onde  non  mi  rimaneva  in  Torino  altri  pa- 
renti che  quei  della  madre,  la  casa  Tornone,  ed  un  cugino  di  mio 
padre,  mio  semi-zio,  chiamato  il  conte  Benedetto  Alfieri.  Era 
questi  il  primo  architetto  del  re;  ed  alloggiava  contiguamente  a 
quello  stesso  regio  teatro  da  lui  con  tanta  eleganza  e  maestria 
ideato,  e  fatto  eseguire.  Io  andava  qualche  volta  a  pranzo  da  lui, 
ed  alcune  altre  volte  a  visitarlo  ;  il  che  stava  totalmente  nell'ar- 
bitrio di  quel  mio  Andrea,  che  dispoticamente  mi  governava,*alle- 
gando  sempre  degli  ordini  e  delle  lettere ^elTo  zìo^PCuneo. 

Era  quel  conte  Benedetto  un  veramente  degn'uorao,  ed  ottimo 
di  visceri.  Egli  mi  amava  ed  accarezzava  moltissimo;  era  appa- 
sionatissimo  dell'arte  sua  ;  semplicissimo  di  carattere,  e  digiuno 
quasi  d'ogni  altra  cosa,  che  non  spettasse  le  belle  arti.  Tra  molte 
altre  cose,  io  argomento  quella  sua  passione  smisurata  per  l' ar- 
chitettura, dal  parlarmi  spessissimo,  e  con  entusiasmo,  a  me  ragaz- 
zaccio ignorante  d'ogni  arte  eh'  io  m'era,  del  divino  Michelan- 
gelo Buonarroti,  ch'egli  non  nominava  mai  senza  o  abbassare  il 

>  V. :  O.  Antonini  e  L. Coqnetti  de  Mvrtiis,  Vittorio Alfterl  ecc.,  dt. 

•  Sopra  le  ardite  imprese  che  fecero  affidar  Cuneo  al  cavaljcr  P.  Alfieri, 
V.  V.  TuRLETTi,  Attraverso  le  Alpi,  Storia  aneddotica  dèìla  guerra  di 
montagna  dal  1742  al  174S,  Torino,  1897,  pp.  211,235. 


La  vita  29 

capo,  o  alzarsi  la  berretta  con  un  rispetto  ed  una  compunzione 
che  non  mi  usciranno  mai  della  mente.  Egli  avea  fatta  gran 
parte  della  vita  in  Roma;  era  pieno  del  bello  antico;  ma  pure 
poi  alle  volte  nel  suo  architettare  prevaricò  dal  buon  gusto  per 
adattarsi  ai  moderni.  E  di  ciò  fa  fede  quella  sua  bizzarra  chiesa 
di  Carignano,  fatta  a  foggia  di  ventaglio.  Ma  tali  picciole  macchie 
ha  egli  ben  ampiamente  cancellate  col  teatro  sopracitato,  la  volta 
dottissima  ed  audacissima  della  cavallerizza  del  Re,  il  salone  di 
Stupinigi,  e  la  soda  e  dignitosa  facciata  del  tempio  di  San  Pietro 
in  Ginevra.  Mancava  forse  soltanto  alla  di  lui  facoltà  architet- 
tonica una  più  larga  borsa  di  quel  che  si  fosse  quella  del  re  di 
Sardegna:  e  ciò  testimoniano  i  molti  e  grandiosi  disegni  ch'egli 
lasciò  morendo  e  che  furono  dal  Re  ritirati,  in  cui  v'erano  dei 
progetti  variatissimi  per  diversi  abbellimenti  da  farsi  in  Torino, 
e  tra  gli  altri  per  rifabbricare  quel  muro  sconcissimo  che  divide  * 
la  piazza  del  Castello  dalla  piazza  del  Palazzo  Reale;  muro  che 
si  chiama,  non  so  perchè,  il  Padiglione. 

Mi  compiaccio  ora  moltissimo  nel  parlar  di  quel  mio  zio,  che 
sapea  pure  far  qualche  cosa;  ed  ora  soltanto  ne  conosco  tutto 
il  pregio.  Ma  quando  io  era  in  Accademia,  egli,  benché  amore- 
volissimo per  me,  mi  riusciva  pure  noiosetto  anzi  che  no;  e,  vedi 
stortura  di  giudizio,  e  forza  di  false  massime,Ha  cosa  che  di  esso 
mi  seccava  il  più  era  il  suo  benedetto  parlar  toscano,  ch'egli 
dal  suo  soggiorno  di  Roma  in  poi  mai  più  non  avea  voluto  smet- 
tere; ancorché  il  parlare  italiano  sia  un  vero  contrabbando  in 
Torino,  città  anfibia.  Ma  tanta  è  però  la  forza  del  bello  e  del 
vero  che  la  gente  stessa  che  al  principio  quando  il  mio  zio 
ripatriò,  si  burlava  del  di  lui  toscaneggiare,  dopo  alcun  tempo 
avvistisi  poi  ch'egli  veramente  parlava  una  lingua,  ed  essi  smoz- 
zicavano un  barbaro  gergo*,  tutti  poi  a  prova  favellando  con  lui 
andavano  anch'essi  balbettando  il  loro  toscano  ;  e  massimamente 
quei  tanti  signori,  che  volevano  rabberciare  un  poco  le  loro  case 
e  farle  assomigliar  dei  palazzi:  opere  futili  in  cui  gratuitamente 
per  amicizia  quell'ottimo  uomo  buttava  la  metà  del  r>uo  tempo 
compiacendo  ad  altrui,  e  spiacendo,  come  gli  sentii  dire  tante 
vulte,  a  se  stesso  ed  all'arte.  Onde  molte  e  molte  case  dei  primi 

>  Divideva  allora. 

'  Sforpiav.ino,  cioè,  il  francMe.  V.  In  O.  F.  Oalrani  Napione,  Dell'uso 
e  dei  pregi  drlla  lingua  italiana,  Lib.  I,  cap.  MI,  il  giudizio,  di  un  pie- 
montese contemporaneo  dcll'A.,  sulla  lingua  italiana. 


30  Vittorio  Alfieri 

di  Torino  da  lui  abbellite  o  accresciute,  con  atri,  e  scale,  e  por- 
toni, e  comodi  interni,  resteranno  un  monumento  della  facile  sua 
benignità  nel  servire  gli  amici,  o  quelli  che  se  gli  dicevano  tali. 
Questo  mio  zio  avea  anche  fatto  il  viaggio  di  Napoli  insieme 
con  mio  padre  suo  cugino,  circa  un  par  d'anni  prima  che  questi 
si  accasasse  con  mia  madre;  e  da  lui  seppi  poi  varie  cose  con- 
cernenti mio  padre.  Tra  l'altre,  che  essendo  essi  andati  al  Vesuvio, 
mio  padre  a  viva  forza  si  era  voluto  far  calar  dentro  sino  alla 
crosta  del  cratere  interno,  assai  ben  profonda:  il  che  praticavasi 
allora  per  mezzo  di  certe  funi  maneggiate  da  gente  che  stava 
sulla  sommità  della  voragine  esterna.  Circa  vent'anni  dopo, 
ch'io  ci  fui  per  la  prima  volta,  trovai  ogni  cosa  mutata,  ed  im- 
possibile quella  calata.  Ma  è  tempo,  ch'io  ritorni  a  bomba. 


CAPITOLO  QUARTO 

Continuazione  di  quei  non-studj. 

Non  c'essendo  quasi  dunque  nessuno  de'  miei  che  badasse 
altrimenti  a  me,  io  andava  perdendo  i  miei  piìi  begli  anni  non 
imparando  quasi  che  nulla,  e  deteriorando  di  giorno  in  giorno 
in  salute;  a  tal  segno,  ch'essendo  sempre  infermiccio,  e  piagato 
or  qua  or  là  in  varie  parti  del  corpo,  io  era  fatto  lo  scherno  con- 
tinuo dei  compagni,  che  mi  denominavano  col  gentilissimo  titolo 
di  carogna;  ed  i  più  spiritosi  ed  umani  ci  aggiungevano  anco 
l'epiteto  di  fradicia."Quello  stato  di  salute  mi  cagionava  delle 
fierissime  malinconjej-e  quindi  si  radicava  in  me_senT2rje_piìi 
l'amore  deila  solitudine.  Nell'anno  1760  passai  con  tutto  ciò  in 
RettoricaS" pèrche  Ifiiéì  mali  tanto  mi  lasciavano  di  quando  in 
quando  studicchiare,  e  poco  ci  volea  per  far  quelle  classi.  Ma 
il  maestro  di  rettorica  trovandosi  essere  assai  meno  abile  di  quello 
d'Umanità,  benché  ci  spiegasse  l'Eneide,  e  ci  facesse  far  dei 
versi  latini,  mi  parve,  quanto  a  me,  che  sotto  di  lui  io  andassi 
piuttosto  indietro  che  innanzi  nell'intelligenza  della  lingua  latina. 
Ma  pure,  poiché  io  non  era  l'ultimo  tra  quegli  altri  scolari,  da 
ciò  argomento  che  dovesse  esser  lo  stesso  di  loro.  In  quell'anno 
di  pretesa  rettorica,  mi  venne  fatto  di  ricuperare  il  mio  Ariostino, 
rubandolo  a  un  tomo  per  volta  al  sottopriore,  che  se  l'era  inne- 


>  Press'a  poco  il  nostro  ginnasio  supcriore. 


La  vita  31 

stato  fra  gli  altri  suoi  libri  in  un  suo  scaffale  esposto  alla  vista. 
E  mi  prestò  opportunità  di  ciò  fare,  il  tempo  in  cui  andavamo 
in  camera  sua  alcuni  privilegiati,  per  vedere  dalle  di  lui  finestre 
giuocare  al  pallon  grosso,  perchè  dalla  camera  sua  situata  di 
faccia  al  battitore,  si  godeva  assai  meglio  il  giuoco  che  non  dalle 
gallerie  nostre  che  stavangli  di  fianco.  Io  aveva  l'avvertenza  di 
ben  restringere  i  tomi  vicini,  tosto  ciie  ne  avea  levato  uno;  e  così 
mi  riuscì  in  quattro  giorni  consecutivi  di  riavere  i  miei  quattro 
temetti,  dei  quali  feci  gran  festa  in  me  stesso,  ma  non  lo  dissi  a 
chi  che  si  fosse.  Ma  trovo  pure  riandando  quei  tempi  fra  me, 
che  da  quella  ricuperazione  in  poi,  non  lo  lessi  quasi  più  niente; 
e  le  due  ragioni,  (oltre  forse  quella  della  poca  salute  che  era  la 
principale)  per  cui  mi  pare  che  lo  trascurassi,  erano  la  difficoltà 
dell'intenderlo  piuttosto  accresciuta  che  scemata  (vedi  rettorie©!) 
e  l'altra  era  quella  continua  spezzatura  delle  storie  ariostesche, 
che  nel  meglio  del  fatto  ti  pianta  lì  con  un  palmo  di  naso  ;  cosa 
che  me  ne  dispiace  anco  adesso,  perchè  contraria  al  vero,  e  distrug- 
^itrice  dell'effetto  prodotto  innanzi.  E  siccome  io  non  sapeva 
dove  andarmi  a  raccapezzare  il  seguito  del  fatto,  finiva  col  lasciarlo 
stare.  Del  Tasso,  che  al  carattere  mio  si  sarebbe  adattato  assai 
meglio,  io  non  sapeva  neppure  il  nome.  Mi  capitò  allora,  e  non 
mi  sovviene  neppure  come,  l'Eneide  dell'Annioal  Caro,  e  la 
lessi  con  avidità  e  furore  più  d'una  volta,  appassionandomi  molto 
per  Turno  e  Camilla.  E  me  ne  andava  poi  anche  prevalendo  di 
furto,  per  la  mia  traduzione  scolastica  del  tema  datomi  dal  maestro; 
il  che  sempre  più  mi  teneva  indietro  nel  mio  latino.  Di  nessu- 
n'altro  poi  de'  poeti  nostri  avea  io  cognizione,  se  non  sedi  alcune 
opere  del  Metastasi©,  come  il  Catone,  l'.^rtaserse,  l'Olimpiade,  ed 
altre  che  ci  capitavano  alle  mani  come  libretti  dell'Opera  di  questo, 
o  di  quel  carnovale.  E  queste  mi  dilettavano  sommamente  ;  fuorché 
al  venir  dell'arietta  interrompitrice  dello  sviluppo  degli  affetti, 
appunto  quando  mi  ci  cominciava  a  internare,  io  provavo  un 
dispiacere  vivissimo;  e  più  noja  ancora  ne  riceveva,  che  dagli 
interrompimenti  dell'Ariosto.  MT  capitarono  anche  allora  varie 
commedie  del  Goldoni,  e  queste  me  le  prestava  il  maestro  stesso; 
e  mi  divertivano  molto.  Ma  il  genio  per  le  cose  drammatiche,  di 
cui  forse  il  germe  era  in  n-.e,  si  venne  tosto  a  ricoprire  o  ad 
estinguere  in  me,  per  mancanza  di  pascolo,  di  incoraggimento, 
e  d'ogni  altra  cosa.  E,  somma  fatta,  la  ignoranza  mia  e  di  chi 
mi  educava,  e  la  trascuraggine  di  tutti  in  ogni  cosa  non  potea 
andar  più  oltre. 


32  Vittorio  Alfieri 

In  quegli  spessi  e  lunghi  intervalli  in  cui  per  via  di  salute  io 
non  poteva  andare  alla  scuola  con  gli  altri,  un  mio  compagno, 
maggiore  di  età,  e  di  forze,  e  di  asinità  ancor  più,  si  faceva  fare 
di  quando  in  quando  il  suo  componimento  da  me,  che  era  o  tra- 
duzione, o  amplificazione,  o  versi  ec;  ed  egli  mi  ci  costringeva 
con  questo  bellissimo  argomento.  Se  tu  mi  vuoi  fare  il  componi- 
mento, io  ti  do  due  palle  da  giuocare;  e  me  le  mostrava,  belline, 
di  quattro  colori,  di  un  bel  panno,  ben  cucite,  ed  ottimamente 
rimbalzanti:  se  tu  non  me  lo  vuoi  fare,  ti  do  due  scappellotti, 
ed  alzava  in  ciò  dire  la  prepotente  sua  mano,  lasciandomela  pen- 
dente sul  capo.  Io  pigliava  le  due  palle,  e  gli  faceva  il  compo- 
nimento. Da  principio  glie  lo  facea  fedelmente  quanto  meglio 
sapessi;  e  il  maestro  si  stupiva  un  poco  dei  progressi  inaspet- 
tati di  costui,  che  erasi  fin  allora  mostrato  una  talpa.  Ma  io  teneva 
religiosamente  il  segreto;  più  ancora  perchè  la  natura  mia  era 
di  essere  poco  comunicativo,  che  non  per  la  paura  che  avessi  di 
quel  Ciclope'.  Con  tutto  ciò,  dopo  avergli  fatto  molte  composi- 
zioni, e  sazio  di  tante  palle,  e  nojato  di  quella  fatica,  e  anche 
indispettito  un  tal  poco  che  colui  si  abbellisse  del  mio,  andai  a 
poco  a  poco  deteriorando  in  tal  guisa  il  componimento,  che  finii 
col  frapporvi  di  quei  tali  solecismi,  come  il  potebam,  e  simili,  che 
ti  fanno  far  le  fischiate  dai  colleghi,  e  dar  le  sferzate-  dai  maestri. 
Costui  dunque,  vistosi  così  sbeffato  in  pubblico,  e  rivestito  per 
forza  della  sua  naturai  pelle  d'asino,  non  osò  pure  apertamente 
far  gran  vendetta  di  me:  non  mi  fece  più  lavorare  per  lui,  e 
rimase  frenato  e  fremente  dalla  vergogna  che  gli  avrei  potuta 
fare  scoprendolo.  Il  che  non  feci  pur  mai:  ma  io  rideva  vera- 
mente di  cuore  nel  sentire  raccontare  dagli  altri  come  era  acca- 
duto il  fatto  del  potebam  nella  scuola:  nessuno  però  dubitava 
ch'io  ci  avessi  avuto  parte.  Ed  io  verisimilraente  era  anche  con- 
tenuto nei  limiti  della  discrezione,  da  quella  vista  della  mano  alza- 
tami sul  capo,  che  mi  rimaneva  tuttora  sugli  occhi,  e  che  doveva 
essere  il  naturale  ricatto  di  tante  palle  mal  impiegate  per  farsi 
vituperare.  Onde  io  imparai  sin  da  allora,  che  la  vicendevole 
paura  era  quella  che  governava  il  mondo'. 

Fra  queste  puerili  insipide  vicende,  io  spesso  infermo,  e  sempre 

1  Individuo  robusto,  nerboruto. 
<  Riprovate  dalla  pedagogia  moderna. 

*  Principio  desunto  dal  Leviathan,  di  Hobbes  (1651),  e  dall'A.  svolto 
nella  Tirannide. 


La  vita  33 

mai  sano,  avendo  anche  consumato  quell'anno  di  Rettorica,  chia- 
mato poi  al  solito  esame  fui  giudicato  oapace  di  entrare  in  Filo- 
sofia \  Gli  studj  di  codesta  filosofia  si  facevano  fuori  dell'Acca- 
demia, nella  vicina  università,  dove  si  andava  due  volte  al  giorno: 
la  mattina  era  la  scuola  di  geometria;  il  giorno,  quella  di  filosofia, 
o  sia  logica.  Ed  eccomi  dunque  in  età  di  anni  tredici  scarsi  diven- 
tato filosofo;  del  qual  nome  io  mi  gonfiava  tanto  più,   che  mi 
collocava  già  quasi  nella  classe  dei  Grandi  ;  oltre  poi  il  piacevo- 
lissimo balocco  dell'uscire  di  casa  due  volte  al  giorno;  il  che 
poi  ci  somministrava  spesso  l'occasione  di  fare  delle  scorsarelle 
per  le  strade  delle  città  così  alla  sfuggita,  fingendo  di  uscire  di 
scuola  per  qualche  bisogno.  Benché  dunque  io  mi  trovassi  il  più 
piccolo  di  tutti  quei  grandi  fra'  quali  era  sceso  nella  galleria  del 
secondo  appartamento,  quella  mia  inferiorità  di  statura,  di  età  e 
di  forze  mi   prestava  per  l'appunto  più  animo  ed   impegno  di 
volermi  distinguere.  Ed  in  fatti  da  prima  studiai  quanto  bisognava 
per  figurare  alle  ripetizioni  che  si  facevano  poi  in  casa  la  sera 
dai  nostri  ripetitori  accademici.  Io  rispondeva  ai  quesiti  quanto 
altri,  e  anche  meglio  talvolta;  il  che  dovea  essere  un  semplice 
frutto  di  memoria,  e  non  d'altro  ;  perchè  a  dir  vero  io  certamente 
non  intendeva  nulla  di  quella  filosofia  pedantesca,  insipida  per  se 
stessa,  ed  avviluppata  poi  nel  latino,  col  quale  mi  bisognava  tut- 
tavia contrastare,  e  vincerlo  alla  meglio  a  forza  di  vocabolario. 
Di  quella  geometria,  di  cui  io  feci  il  corso  intero,  cioè  spiegati  i 
primi  sei  libri  di  Euclide,  io  non  ho  neppure  mai  intesa  la  quarta 
proposizione;  come  neppure  la  intendo  adesso;  avendo  io  sempre 
avuta  la  testa  assolutamente  anti-geometrica.  Quella  scuola  poi 
di  filosofia   peripatetica  che  si  faceva  il  dopo   pranzo,  era  una 
isa  da  dormirvi  in  piedi.  Ed  in  fatti,  nella  prima  mezz'ora  si 
riveva  il  corso  a  dettatura  del  professore  ;  e  nei  tre  quarti  d'ora 
:nanenti,  dove  si  procedeva  poi  alla  spiegazione  fatta  in  latino, 
:o  sa  quale,  dal  catedratico,  noi  tutti  scolari,  inviluppati  intera- 
cnte  nei  rispettivi  mantelloni,  saporitissimamente  dormivamo; 
e  altro  suono  si  sentiva  tra  quei  filosofi,  se  non  se  la  voce  del 
professore  languente,  che  dormicchiava  egli  pure,  ed  i   diversi 
tuoni  dei  russatori,  chi  alto,  chi  basso,  e  chi  medio;  il  che  faceva 
1  bellissimo  concerto.  Oltre  il  potere  irresistibile  di  quella  papa- 
.    rica  filosofia,  contribuiva  anche  molto  a  farci  dormire,  princi- 

>  Il  nostro  liceo. 
3.  -  Oauiei  ItaUant.  N.  2. 


34  Vittorio  Alfieri 

palmente  noi  accademisti,  che  avevamo  due  o  tre  panche  distinte 
alla  destra  del  professore,  l'aver  sempre  i  sonni  interrotti  la  mat- 
tina dal  doverci  alzar  troppo  presto.  E  ciò,  quanto  a  me,  era  la 
principal  cagione  di  tutti  i  miei  incomodi,  perchè  lo  stomaco  non 
aveva  tempo  di  smaltir  la  cena  dormendo.  Del  che  poi  avvistisi 
a  mio  riguardo  i  superiori,  mi  concederono  finalmente  in  ques- 
t'anno di  filosofia  di  poter  dormire  fino  alle  sette,  in  vece  delle 
cinque  e  tre  quarti,  che  era  l'ora  fissata  del  doversi  alzare,  anzi 
essere  alzati,  per  scendere  in  camerata  a  dire  le  prime  orazioni, 
e  tosto  poi  mettersi  allo  studio  fino  alle  sette  e  mezzo. 


CAPITOLO  QUINTO 

Varie  insulse  vicende,  su  le  stesso  andamento  del  precedente. 

Nell'inverno  di  quell'anno  1762,  il  mio  zio,  il  governatore  di 
Cuneo,  tornò  per  alcuni  mesi  in  Torino  ;  e  vistomi  così  tisicuzzo, 
mi  ottenne  anche  alcuni  piccoli  privilegi  quanto  al  mangiare  un 
po'  meglio,  cioè  più  sanamente.  Il  che  aggiunto  ad  alquanta  più 
dissipazione  '  che  mi  procacciava  quell'  uscire  ogni  giorno  di  casa 
per  andare  all'università,  e  nei  giorni  di  vacanza  qualche  pran- 
zuccio  dallo  zio,  e  quel  sonnetto  periodico  dei  tre  quarti  d'ora 
nella  scuola  ;  tutto  questo  contribuì  a  rimpannucciarmi  un  pochino, 
e  cominciai  allora  a  svilupparmi  ed  a  crescere.  11  mio  zio  pensò 
anche,  come  nostro  tutore,  di  far  venire  in  Torino  la  mia  sorella 
carnale,  Giulia,  che  era  la  sola  di  padre  ;  e  di  porla  nel  monastero 
di  Santa  Croce,  cavandola  da  quello  di  Sant'Anastasio  in  Asti, 
dove  era  stata  per  più  di  sei  anni  sotto  gli  auspicj  di  una  nostra 
zia,  vedova  del  marchese  Trotti,  che  vi  si  era  ritirata.  La  Giulietta 
cresceva  in  codesto  monastero  in  Asti,  ancor  più  ineducata  di  me  ; 
stante  l'imperio  assoluto,  ch'ella  si  era  usurpato  su  la  buona  zia, 
che  non  se  ne  potea  giovare  in  nessuna  maniera,  amandola  molto, 
e  guastandola  moltissimo.  La  ragazza  si  avvicinava  ai  quindici 
anni,  essendomi  maggiore  di  due  e  più  anni.  E  quell'età,  nelle 
nostre  contrade  per  lo  più  non  è  muta,  ed  altamente  anzi  già 
parla  d'amore  al  facile  e  tenero  cuore  delle  donzelle.  Un  qualche 
suo  amoruccio,  quale  può  aver  luogo  in  un  monastero,  ancorché 
fosse  pure  verso  persona  che  convenientemente  l'avrebbe  potuta 

>  Distrazione. 


La  vita  35 

sposare,  dispiacque  allo  zio,  e  lo  determinò  a  farla  venire  in 
Torino;  affidandola  alla  zia  materna,  monaca  in  Santa  Croce. 
La  vista  di  questa  sorella,  già  da  me  tanto  amata,  come  accennai, 
e  che  ora  tanto  era  cresciuta  in  bellezza,  mi  rallegrò  anche  molto; 
e  confortandomi  il  cuore  e  lo  spirito,  mi  restituì  anche  molto  in 
salute.  E  la  compagnia,  o  per  dir  meglio  il  rivedere  di  tempo  in 
tempo  la  sorella,  mi  riusciva  tanto  più  grato,  quanto  mi  pareva 
ch'io  la  sollevassi  alcun  poco  dalla  sua  afflizione  d'amore; 
essendo  stata  cosi  divisa  dal  suo  innamorato,  che  pure  si  ostinava 
in  dire  di  volerlo  assolutamente  in  isposo.  Io  andava  dunque 
ottenendo  dal  mio  custode  Andrea,  di  visitare  la  mja  sorella  quasi 
tutte  le  domeniche  e  giovedì,  che  erano  i  nostri  due  giorni  di 
riposo.  E  assai  spesso  io  passava  tutta  la  mia  visita  di  un'ora  e 
più,  a  pianger  con  essa  alla  grata  ;  e.jiiiel_pjan^erej  pareva^  che 
mi. giovasse  moltissimo:  sicché  io  tornava  sempre  a  casa  più  sol- 
levato, benchènon  lieto.  Ed  io,  da  quel  filosofo  ch'io  m'era,  le 
dava^inche  coraggio,  e  l'incitava  a  persistere  in  quella  sua  scelta; 
e  che  finalmente  essa  poi  la  spunterebbe  con  lo  zio,  che  era 
quello  che  assolutamente  vi  si  opponeva  il  più.  Ma  il  tempo,  che 
tanto  opera  anco  su  i  più  saldi  petti,  non  tardò  poi  moltissimo 
a  svolgere  quello  di  una  giovanetta;  e  la  lontananza,  gl'impedi- 
menti, le  divagazioni,  e  oltre  ogni  cosa  quella  nuova  educazione 
di  gran  lunga  migliore  della  prima  sotto  la  zia  paterna,  la  guari- 
rono e  la  consolarono  dopo  alcuni  mesi. 

Nelle  vacanze  di  quell'anno  di  filosofia,  mi  toccò  di  andare 
per  la  prima  volta  al  Teatro  di  Carignano,  dove  si  davano  le 
opere  buffe.  E  questo  fu  un  segnalato  favore  che  mi  volle  fare 
Io  zio  architetto,  che  mi  dovè  albergare  quella  notte  in  casa  sua: 
Stante  che  codesto  teatro  non  si  poteva  assolutamente  combinare 
con  le  regole  della  nostra  Accademia,  per  cui  ogni  individuo 
.dev'essere  restituito  in  casa  al  più  tardi  a  mezz'ora  di  notte;  e 
nessun  altro  teatro  ci  era  permesso  fuorché  quello  del  re,  dove 
andavamo  in  corpo  una  volta  per  settimana  nel  solo  carnevale. 
Quell'opera  buffa  ch'io  ebbi  dunque  in  sorte  di  sentire,  mediante  il 
sotterfugio  del  pietoso  zio,  che  fece  dire  ai  superiori  che  mi  por- 
terebbe per  un  giorno  e  una  notte  in  una  sua  villa,  era  intitolata 
il  Mercato  di  Malmantile,  cantata  dai  migliori  buffi  d' Italia,  il 
Carratoli,  il  Baglioni,  e  le  di  lui  figlie;  composta  da  uno  dei  più 
celebri  maestri.  Il  brio,  e  la  varietà  di  quella  divina  musica  mi 
fece  una  profondissima  impressione,  lasciandomi  per  cosi  dire 


36  Vittorio  Alfieri 

un  solco  di  armonia  negli  orecchi  e  nella  imaginativa,  ed  agitan- 
domi ogni  più  interna  fibra,  a  tal  segno  che  per  piìi  settimane 
io  rimasi  immerso  in  una  malinconia  straordinaria  ma  non  dispia- 
cevole; dalla  quale  mi  ridondava  una  totale  svogliatezza  e  nausea 
per  quei  miei  soliti  studj,  ma  nel  tempo  stesso  un  singolarissimo 
bollore  d' idee  fantastiche,  dietro  alle  quali  avrei  potuto  far  dei 
versi  se  avessi  saputo  farli,  ed  esprimere  dei  vivissimi  affetti,  se 
non  fossi  stato  ignoto  a  me  stesso  ed  a  chi  dicea  di  educarmi. 
E  fu  questa  la  prima  volta  che  un  tale  effetto  cagionato  in  me 
dalla  musica,  mi  si  fece  osservare,  e  mi  restò  lungamente  im- 
presso nella  memoria,  perch'egli  fu  assai  maggiore  d'ogni  altro 
sentito  prima'.  Ma  andandomi  poi  ricordando  dei  miei  carnovali, 
e  di  quelle  poche  recite  dell'opera  seria  ch'io  aveva  sentite,  e 
paragonandone  gli  effetti  a  quelli  che  ancora  provo  tuttavia, 
quando  divezzatomi  dal  teatro  ci  ritorno  dopo  un  certo  inter- 
vallo, ritrovo  sempre  non  vi  essere  il  piìi  potente  e  indomabile 
agitatore  dell'animo,  cuore,  ed  intelletto  mio,  di  quel  che  lo  siano 
i  suoni  tutti,  e  specialmente  le  voci  di  contralto  e  di  donna.  Nes- 
suna cosa  mi  desta  più  affetti,  e  più  varj,  e  terribili.  E  quasi 
tutte  le  mie  tragedie  sono  state  ideate  da  me  o  nell'atto  del  sentir 
musica,  o  poche  ore  dopo. 

Essendo  scorso  così  il  mio  primo  anno  di  studj  nell'università, 
nel  quale  si  disse  dai  ripetitori  (ed  io  non  saprei  né  come  né 
perchè)  aver  io  studiato  assai  bene,  ottenni  dallo  zio  di  Cuneo  la 
licenza  di  venirlo  a  trovare  in  codesta  città  per  quindici  giorni 
nel  mese  di  agosto.  Questo  viaggetto,  da  Torino  a  Cuneo  per 
quella  fertilissima  ridente  pianura  del  bel  Piemonte,  essendo  il 
secondo  ch'io  faceva  da  che  era  al  mondo,  mi  dilettò,  e  giovò 
moltissimo  alla  salute,  perchè  l'aria  aperta  ed  il  moto  mi  sono 
sempre  stati  elementi  di  vita.  Ma  il  piacere  di  questo  viaggio  mi 
venne  pure  amareggiato  non  poco  dall'esser  costretto  di  farlo 
coi  vetturini  a  passo  a  passo:  io,  che  4  o  5  anni  prima,  alla  mia 
prima  uscita  di  casa,  aveva  così  rapidamente  percorso  quelle 
cinque  poste  che  stanno  tra  Asti  e  Torino,  Onde,  mi  pareva  di 
essere  tornato  indietro  invecchiando,  e  mi  teneva  molto  avvilito 
di  quella  ignobile  e  gelida  tardezza  del  passo  d'asino  di  cui  si 
andava;  onde  all'entrare  in  Carignano,  Racconigi,  Savigliano,  ed 

>  Cfr.  E.  Fondi,  //  sentimento  musicale  In  V.A.,  in  «  Rivista  musicale», 
XI,  3,  1904. 


La  vita  37 

in  ogni  anche  minimo  borgnzzo,  io  mi  rintuzzava'  ben  dentro  nel 
più  intimo  del  calessaccio,  e  chiudeva  anche  gli  occhi  per  non 
vedere  né  esser  visto  ;  quasi  che  tutti  mi  dovessero  conoscere  per 
quello  che  avea  altre  volte  corsa  la  posta  con  tanto  brio,  e  sbef- 
farmi ora  come  condannato  a  sì  umiliante  lentezza.  Erano  eglino 
in  me  questi  moti  il  prodotto  d'un  animo  caldo  e  sublime,  op- 
pure leggiero  e  vanaglorioso?  Non  lo  so;  altri  potrà  giudicarlo 
dagli  anni  miei  susseguenti.  Ma  so  bene,  che  se  io  avessi  avuto 
al  fianco  una  qualche  persona  che  avesse  conosciuto  il  cuore 
dell'uomo  in  esteso,  egli  avrebbe  potuto  cavare  fin  da  allora 
qualche  cosa  da  me,  con  la  potentissima  molla  dell'amóre  di  lode 
e  di  gloria. 

In  quel  mio  breve  soggiorno  in  Cuneo,  io  feci  il  primo  sonetto, 
che  non  dirò  mio,  perchè  egli  era  un  rifrittume  di  versi  o  presi 
interi,  o  guastati,  e  riannestati  insieme,  dal  Metastasio,  e  l'Ariosto, 
che  erano  stati  i  due  soli  poeti  italiani  di  cui  avessi  un  po'  letto. 
Ma  credo,  che  non  vi  fossero  né  le  rime  debite,  né  forse  i  piedi  ; 
stante  che,  benché  avessi  fatti  dei  versi  latini  esametri,  e  penta- 
metri, niuno  però  mi  avea  insegnato  mai  niuna  regola  del  verso 
italiano.  Per  quanto  io  ci  abbia  fantasticato  poi  per  ritornarmene 
in  mente  almeno  uno  o  due  versi,  non  mi  è  mai  piìi  stato  pos- 
sibile. Solamente  so,  ch'egli  era  in  lode  d'una  signora  che  quel 
mio  zio  corteggiava,  e  che  piaceva  anche  a  me.  Codesto  sonetto, 
non  poteva  certamente  esser  altro  che  pessimo.  Con  tutto  ciò  mi 
venne  lodato  assai,  e  da  quella  signora,  che  non  intendeva  nulla, 
e  da  altri  simili:  onde  io  già  quasi  mi  credei  un  poeta.  Ma  lo 
zio,  che  era  uomo  militare,  e  severo,  e  the  bastantemente  noti- 
tiziato  delle  cose  storiche  e  politiche  nulla  intendeva  né  curava 
di  nessuna  poesia,  non  incoraggi  punto  questa  mia  Musa  na- 
scente; e  disapprovando  anzi  il  sonetto  e  burlandosene  mi  dis- 
seccò quella  mia  poca  vena  fin  da  radice;  e  non  mi  venne  più 
voglia  di  poetare  mai,  sino  all'età  di  25  anni  passati.  Quanti  o 
buoni  o  cattivi  miei  versi  soffocò  quel  mio  zio,  con  quel  mio 
sonettaccio  primogenito! 

A  quella  bestiale  filosofia,  succede  l'anno  dopo  lo  studio  della 
fisica,  e  dell'etica,  distribuite  parimenti  come  le  due  altre  scuole 
anteriori;  la  fisica  la  mattina  e  la  lezione  di  etica  per  fare  la 
siesta.  La  fisica  un  cotal  poco  allettavami;  ma  il  continuo  con- 

Ri>:cantucciava. 


38  Vittorio  Al/ieri 

traslo  con  la  lingua  latina,  e  la  mia  totale  ignoranza  della  studiata 
geometria,  erano  impedimenti  invincibili  ai  miei  progressi.  Onde 
con  mia  perpetua  vergogna  confesserò  per  amor  del  vero,  che 
avendo  io  studiato  un  anno  intero  la  fisica  sotto  il  celebre  padre 
Beccaria \  neppure  una  definizione  me  n'è  rimasta  in  capo;  e 
niente  affatto  so  né  intendo  del  suo  dottissimo  corso  su  l'elettri- 
cità, ricco  di  tante  nobilissime  di  lui  scoperte.  Ed  al  solito  ac- 
cadde qui  come  mi  era  accaduto  in  geometria,  che  per  effetto  di 
semplice  memoria,  io  mi  portava  benissimo  alle  ripetizioni,  e 
riscuoteva  dai  ripetitori  più  lode  che  biasimo.  Ed  in  fatti,  in 
quell'inverno  del  1763  lo  zio  si  propose  di  farmi  un  regaluccio; 
il  che  non  m'era  accaduto  mai;  e  ciò,  in  premio  di  quel  che  gli 
veniva  detto,  che  io  studiava  cosi  bene.  Questo  regalo  mi  fu  an- 
nunziato tre  mesi  prima  con  enfasi  profetica  dal  servitore  Andrea  ; 
dicendomi  che  egli  sapeva  di  buon  luogo  che  lo  riceverei  poi 
continuando  a  portarmi  bene;  ma  non  mi  venne  mai  individuato 
cosa  sarebbe. 

Questa  speranza  indeterminata,  ed  ingranditami  dalla  fantasia, 
mi  riaccese  nello  studio,  e  rinforzai  di  molto  la  mia  pappagallesca 
dottrina.  Un  giorno  finalmente  mi  fu  poi  mostrato  dal  camerier 
dello  zio,  quel  famoso  regalo  futuro;  ed  era  una  spada  d'argento 
non  mal  lavorata.  Me  ne  invogliai  molto  dopo  averla  veduta  ;  e 
sempre  la  stava  aspettando,  parendomi  di  ben  meritarla;  ma  il 
dono  non  venne  mai.  Per  quanto  poi  intesi,  o  combinai,  in  ap- 
presso, volevano  che  io  la  domandassi  allo  zio:  ma  quel  mio 
carattere  stesso,  che  tanti  anni  prima  nella  casa  materna  mi  aveva 
inibito  di  chiedere  alla  nonna  qualunque  cosa  volessi,  sollecitato 
caldamente  da  lei  di  ciò  fare,  mi  troncò  anco  qui  la  parola;  e 
non  vi  fu  mai  caso  che  io  domandassi  la  spada  allo  zio;  e 
non  l'ebbi. 

CAPITOLO  SESTO 

Debolezza  della  mia  complessione  ;  infermiti»  continue  :  ed  incapacità 
d'ogni  esercizio,  e  massimamente  del  ballo,  e  perchè. 

Passò  in  questo  modo  anche  quell'anno  della  fisica;  ed  in  quel- 
l'estate il  mio  zio  essendo  stato  nominato  viceré  in  Sardegna,  si 
dispose  ad  andarvi.  Partito  egli  dunque  nel  settembre,  e  lascia- 


I  O.  B.  Beccaria,  monregalese  (1716-1781),  noto,  oltre  che  pel  suol  stiirf! 
sull'elettricità,  per  la  misurazione  del  grado  torinese. 


La  vita  39 

tomi  raccomandato  agli  altri  pochi  parenti,  od  agnati  ch'io  avtva 
in  Torino,  quanto  ai  miei  interessi  pecuniari  rinunziò,  o  accu- 
raunò  la  tutela  con  un  cavaliere  suo  amico  ;  onde  in  allora  inco- 
minciai subito  ad  essere  un  poco  più  allargato'  nella  facoltà  di 
spendere,  ed  ebbi  per  la  prima  volta  una  piccola  mensualità  fis- 
satami dal  nuovo  tutore;  cosa,  alia  quale  lo  zio  non  avea  voluto 
mai  consentire;  e  che  mi  pareva,  ed  anche  ora  mi  pare,  sragio- 
nevolissima. Forse  vi  si  opponeva  quel  servo  Andrea,  al  quale 
spendendo  egli  per  conto  mio  (e  suo,  credo  ad  un  tempo)  tor- 
nava più  comodo  di  far  delle  note,  e  di  tenermi  così  in  maggiore 
dipendenza  di  lui.  Aveva  codesto  Andrea  veramente  l'animo  di 
un  principe,  quali  ne  vediamo  ai  nostri  tempi  non  pochi,  illustri 
anche  quant'egli.  Nel  finire  dell'anno  62,  essendo  io  passato  allo 
studio  del  diritto  civile,  e  canonico;  corso,  che  in  quattr'anni  con- 
duce poi  lo  scolare  all'apice  della  gloria,  alla  laurea  avvocatesca  ; 
dopo  alcune  settimane  legali,  ricaddi  nella  malattia  già  avuta  due 
anni  prima,  quello  scoppio  universale  di  tutta  la  pelle  del  cranio: 
e  fu  il  doppio  dell'altra  volta,  tanto  la  mia  testa  era  insofferente 
di  fare  in  se  conserva  di  definizioni,  digesti,  e  simili  apparati 
dell'uno  e  dell'altro  Gius':  né  saprei  meglio  assimilare  lo  stato 
fisico  estemo  di  quel  mio  capo,  che  alla  terra  quando  riarsa  dal 
•^ole  si  screpola  per  tutti  i  versi,  aspettando  la  benefica  pioggia 
:ie  la  rimargini.  Ma  dal  mio  screpolìo  usciva  in  copia  un  umore 
i scoso  a  tal  segno,  che  questa  volta  non  fu  possibile  ch'io  sal- 
issi i  capelli  dalle  odiose  forbici  ;  e  dopo  un  mese  uscii  dì 
quella  sconcia  malattia  tosato  ed  imparruccato.  Quest'accidente 
fu  uno  dei  più  dolorosi  eh'  io  provassi  in  vita  mia  ;  sì  per  la 
privazione  dei  capelli,  che  pel  funesto  acquisto  di  quella  par- 
rucca, divenuta  immediatamente  lo  scherno  di  tutti  i  compagni 
petulantissimi.  Da  prima  io  m'era  messo  a  pigliarne  af>ertamente 
le  parti;  ma  vedendo  poi  ch'io  non  poteva  a  nessun  patto  salvar 
la  parrucca  mia  da  quello  sfrenato  torrente  che  da  ogni  parte 
assaltavala,  e  ch'io  andava  a  rischio  di  perdere  anche  con  essa 
me  stesso,  tosto  mutai  di  bandiera,  e  presi  il  partito  il»più  disin- 
volto, che  era  di  sparruccarmi  da  me  prima  che  mi  venisse  fatto 
quell'affronto,  e  di  palleggiare  io  stesso  la  mia  infelice  parrucca 
per  l'aria,  facendone  ogni  vitupero.  Ed  in  fatti,  dopo  alcuni  giorni, 

»  Libero. 

*  Il  diritto  civile  e  quello  canonico. 


40  Vittorio  Alfieri 

sfogatasi  l'ira  pubblica  in  tal  guisa,  io  rimasi  poi  la  meno  per- 
seguitata, e  direi  quasi  la  più  rispettata,  parrucca,  fra  le  due  o 
le  tre  altre  che  ve  n'erano  in  quella  stessa  galleria.  Allora  im- 
parai, che  bisognava  sempre  parere  di  dare  spontaneamente,  quello 
che  non  si  potea  impedire  d'esserti  tolto. 

In  quell'anno  mi  erano  anche  stati  accordati  altri  maestri;  di 
cimbalo,  e  di  geografia.  E  questa,  andandomi  molto  a  genio 
quel  balocco  della  sfera  e  delle  carte,  l'aveva  imparata  piuttosto 
bene,  e  mista  un  pocolino  alla  storia,  e  massimamente  all'antica. 
Il  maestro,  che  me  l'insegnava  in  francese,  essendo  egli  della 
Val  d'Aosta,  mi  andava  anche  prestando  varj  libri  francesi,  ch'io 
cominciava  anche  ad  intendere  alquanto  ;  e  tra  gli  altri  ebbi  il 
Gi/-Blas\  che  mi  rapì  veramente;  e  fu  questo  il  primo  libro 
ch'io  leggessi  tutto  di  seguito  dopo  V Eneide  dei  Caro;  e  mi  di- 
vertì assai  più.  Da  allora  in  poi  caddi  nei  Romanzi,  e  ne  lessi 
molti,  come  Cassandre",  Almachilde^  etc,  ed  i  più  tetri  e  i  più  te- 
neri mi  facevano  maggior  forza  e  diletto.  Tra  gli  altri  poi,  Les 
Mémoires  d'un  homme  de  qualité^:  eh'  io  rilessi  almen  dieci  volte. 
Quanto  al  cimbalo  poi,  benché  avessLuna  passione  smisurata 
per  la  musica,  e  non  fossi  privo  di  disposizioni  naturali,  con 
tutto  ciò  non  vi  feci  quasi  nessun  progresso,  fuorché  di  essermi 
sveltita  la  mano  su  la  tastiera.  Ma  la  musica  scritta  non  mi  vo- 
leva entrare  in  capo;  tutto  era  orecchia  in  me,  e  memoria,  e  non 
altro.  Attribuisco  altresì  la  cagione  di  quella  mia  ignoranza  in- 
vincibile nelle  note  musicali,  all'inopportunità  dell'ora  in  cui 
prendeva  lezione,  immediatamente  dopo  il  pranzo;  tempo  che  in 
ogni  epoca  della  mia  vita  ho  sempre  palpabilmente  visto  essermi 
espressamente  contrario  ad  ogni  qualunque  anche  minima  ope- 
razione della  mente,  ed  anche  alla  semplice  applicazione  degli 
occhi  su  qualunque  carta  od  oggetto.  Talché  quelle  note  musi- 
cali e  le  lor  cinque  righe  così  fitte  e  parallele  mi  traballavano 
davanti  alle  pupille,  ed  io  dopo  quell'ora  di  lezione  mi  alzava 
dal  cimbalo  che  non  ci  vedeva  più,  e  rimaneva  ammalato  e  stu- 
pido per  tutto  il  rimanente  del  giorno. 

Le  scuole  parimenti  della  scherma  e  del  ballo,  mi  riuscivano 

>  Histoire  de  Oil-Blas  de  Scintillane,  romanzo  di  costumi  di  Alain-René 
Lesage  (1715). 
a  Romanzo  di  Oauthier  dei  Lacalprenède  su  la  storia  di  Alessandro  (1649). 
»  Inclino  a  credere  si  tratti  deW'Almahide,  romanzo  della  Scndéry  (1660). 
i  Romanzo  dell'abate  Prévost  dTxilcs  (1697-1763), 


La  vita  41 

infruttuosissime;  quella,  perchè  io  era  assolutamente  troppo  de- 
bole per  poter  reggere  allo  stare  in  guardia,  e  a  tutte  le  attitu- 
dini di  codest'arte;  ed  era  anche  il  dopo  pranzo,  e  spesso  usciva 
dal  cimbalo  e  dava  di  piglio  alla  spada;  il  ballo  poi,  perchè  io 
per  natura  già  lo  abborriva,  e  vi  si  aggiungeva  per  piìi  contra- 
rietà il  maestro.  Francese,  nuovamente  venuto  di  Parigi,  che  con 
una  cert'aria  civilmente  scortese,  e  la  caricatura  perpetua  dei  suoi 
moti  e  discorsi,  mi  quadruplicava  l'abborrimento  innato  ch'era 
in  me  per  codest'arte  burattinesca.  E  la  cosa  addò  a  segno,  ch'io 
dopo  alcuni  mesi  abbandonai  affatto  la  lezione;  e  non  ho  mai 
saputo  ballare  neppure  un  mezzo  Minué  '  :  questa  sola  parola  mi 
ha  sempre  fin  d'allora  fatto  ridere  e  fremere  ad  un  tempo;  che 
son  i  due  effetti  che  mi  hanno  fatto  poi  sempre  in  appresso  i 
Francesi,  e  tutte  le  cose  loro,  che  altro  non  sono  che  un  perpetuo 
e  spesso  mal  ballato  Minué-.  Io  attribuisco  in  gran  parte  a  co- 
desto maestro  di  ballo  quel  sentimento  disfavorevole,  e  forse 
anche  un  poco  esagerato,  che  mi  è  rimasto  nell'intimo  del  cuore, 
su  la  nazion  francese,  che  pure  ha  anche  delle  piacevoli  e  ricer- 
cabili qualità.  Ma  le  prime  impressioni  in  quell'età  tenera  radi- 
cate, non  si  scancellano  mai  piìi,  e  difficilmente  s'indeboliscono, 
crescendo  gli  anni:  la  ragione  le  va  poi  combattendo,  ma  bisogna 
sempre  combattere  per  giudicare  spassionatamente,  e  forse  non 
ci  si  arriva.  Due  altre  cose  parimenti  ritrovo,  raccapezzando  così 
le  mie  idee  primitive,  che  m'hanno  persin  da  ragazzo  fatto  essere 
antìgallo:  l'una  è,  che  essendo  io  ancora  in  Asti  nella  casa  pa- 
terna, prima  che  mia  madre  passasse  alle  terze  nozze,  passò  di 
quella  città  la  duchessa  di  Parma,  Francese  di  nascita,  la  quale 
andava  o  veniva  di  Parigi.  Quella  carezzata  di  lei  e  delle  sue 
dame  e  donne,  tutte  impiastrate  di  quel  rossaccio  che  usavano 
allora  esclusivamente  le  Francesi,  cosa  ch'io  non  avea  vista  mai, 
mi  colpì  singolarmente  la  fantasia,  e  ne  parlai  per  più  anni, 
non  potendomi  persuadere  dell'intenzione,  né  dell'effetto  di  un 
ornamento  così  bizzarro  e  ridicolo,  e  contro  la  natura  delle  cose; 
poiché  quando,  o  per  malattia,  o  per  briachezza,  o  per  altra  ca- 
gione, un  viso  umano  dà  in  codesto  sconcio  rossore,  tutti  se  lo 
nascondono  potendo,  o  mostrandolo  fanno  ridere  o  si  fan  compa- 

«  Btilo  francese,  cfr,  A.  Moroni,  /  Minuetti.  Spigolature  storiche, 
Roma,  tato.  ' 

'  Dando  questo  ins^lusto  giudizio,  VA.  ha  fors*"  in  ircit?  r"  '"ìrf  della 
Rivoluzione  franrese, 


42  Vittorio  Alfieri 

tire.  Codesti  ceffi  francesi  mi  lasciarono  una  lunga  e  profonda 
impressione  di  spiacevolezza,  e  di  ribrezzo  per  la  parte  femminina 
di  quella  nazione.  L'altro  ramo  di  disprezzo  che  germogliava 
in  me  per  costoro,  era  nato,  che  imparando  poi  la  geografia 
tanti  anni  dopo,  e  vedendo  su  la  carta  quella  grandissima  diffe- 
renza di  vastità  e  di  popolazione  che  passava  tra  l'Inghilterra, 
o  la  Prussia  e  la  Francia,  e  sentendo  poi  sempre  dire  delle  nuove 
di  guerra,  che  i  Francesi  erano  battuti  e  per  mare  e  per  terra, 
aggiuntevi  poi  quelle  prime  notizie  avute  fin  dall'infanzia,  che 
i  Francesi  erano  stati  padroni  della  città  d'Asti  più  volte  ;  e  che 
in  ultimo  vi  erano  poi  stati  fatti  prigionieri  in  numero  di  6,  o 
7  mila  e  più,  presi  come  dei  vigliacchi  senza  far  punto  difesa', 
essendovisi  portati,  al  solito,  cosi  arrogantemente  e  tirannica- 
mente prima  di  esserne  scacciati:  queste  diverse  particolarità, 
riunite  poi  tutte,  e  poste  sul  viso  di  quel  mio  maestro  di  ballo, 
della  di  cui  caricatura  e  ridicolezza  parlai  già  sopra,  mi  lascia- 
rono poi  sempre  in  appresso  nel  cuore  quel  misto  di  abborri- 
mento  e  disprezzo  per  quella  nazione  fastidiosa.  E  certamente, 
chi  ricercasse  poi  in  se  stesso  maturo  le  cagioni  radicali  degli 
odj  od  amori  diversi  per  gl'individui  o  per  i  corpi  collettizj,  o 
per  i  diversi  popoli,  ritroverebbe  forse  nella  sua  più  acerba  età 
i  primi  leggerissimi  semi  di  tali  affetti;  e  non  molto  maggiori, 
né  diversi  da  questi  eh'  io  ho  di  me  stesso  allegati.  Oh,  picciola 
cosa  è  pur  l'uomo  ! 


CAPITOLO  SETTIMO 

Morte  dello  zio  paterno.  Liberazione  mia  prima. 
Ingresso  nel  primo  appartamento  dell'Accademia. 

Lo  zio,  dopo  dieci  mesi  di  soggiorno  in  Cagliari,  vi  morì.  Egli 
era  di  circa  60  anni,  ma  di  salute  assai  malandato,  e  sempre  mi 
diceva  prima  di  questa  sua  partenza  per  la  Sardegna,  che  io  non 
lo  avrei  più  riveduto.  Il  mio  affetto  per  lui  era  tiepidissima  cosa; 
atteso  che  io  di  radissimo  lo  avea  veduto,  e  sempre  mosfratomisi 
severo,  e  duretto,  ma  non  però  mai  ingiusto.  Egli  era  un  uomo 
stimabile  per  la  sua  rettitudine  e  coraggio:  avea  militato  con  di- 

»  Sopra  questi  fatti  v.  D.  Carutti,  Storia  del  Regno  di  Carlo  E/na- 
nuele  IH,  Torino,  1892. 


La  vita  43 

slinzione;  aveva  un  carattere  scolpito  e  fortissimo,  e  le  qualità 
necessarie  al  ben  comandare'.  Ebbe  anche  fama  di  molto  ingegno, 
alquanto  però  soffocato  da  una  erudizione  disordinata,  copiosa 
e  loquacissima,  spettante  la  storia  sì  moderna  che  antica.  Io  non 
fui  dunque  molto  afflitto  di  questa  morte  lontana  dagli  occhi, 
e  già  preveduta  da  tutti  gli  amici  suoi,  e  mediante  la  quale  io 
acquistava  quasi  pienamente  la  mia  libertà,  con  tutto  il  suffi- 
ciente patrimonio  paterno  accresciuto  anche  dall'eredità  non  pic- 
cola di  questo  zio.  Le  leggi  del  Piemonte  all'età  dei  14  anni 
liberano  il  pupillo  dalla  tutela,  e  lo  sottopongono  soltanto  al 
curatore,  che  lasciandolo  padrone  dell'entrate  sue  annuali,  non 
gli  può  impedire  legalmente  altra  cosa  che  l'alienazione  degli 
stabili.  Questo  mio  nuovo  stato  di  padrone  del  mio  in  età  di 
14  anni,  mi  innalzò  dunque  molto  le  corna,  e  mi  fece  con  la 
fantasia  spaziare  assai  per  iFvano.  In  quel  frattempo  mi  era  ancTìè 
staio  folto  il  servitore  àjo  Andrea,  per  ordine  del  tutore;  e  giu- 
stamente, perchè  costui  si  era  dato  sfrenatamente  alle  donne,  al 
vino,  e  alle  risse,  ed  era  diventato  un  pessimo  soggetto  pel  troppo 
ozio,  e  non  avere  chi  lo  invigilasse.  A  me  aveva  sempre  usato 
mali  termini,  e  quando  era  briaco,  cioè  4,  o  5  giorni  per  setti- 
mana, mi  batteva  per  anche,  e  sempre  poi  mi  maltrattava;  e  in 
quelle  spessissime  malattie  eh'  io  andava  facendo,  egli,  datomi 
da  mangiare  se  n'andava,  e  mi  lasciava  chiuso  in  camera  talvolta 
,!-,!  n-inzo  fino^alPora  di  cena;  la  guai  cosa  pi^  d'ogni  altra 
V a JL iion  farmi  Inrnar  satin,  pH  a  Irijìlira^Tf  in  mp  gufile 
orni). Il  malinconie  che  già  avea  sortite  dal  naturale  mio  tempe- 
ramento. Eppure,  chi  'T  crederebbe?  piansi  e  sospirai  per  la  per- 
dif^~3i  codest'Andrea  più  e  più  settimane;  e  non  mi  potendo 
opporre  a  chi  giustamente  voleva  licenziarlo,  e  me  l'avca  levato 
d'attorno,  durai  poi  per  più  mesi  ad  andarlo  io  visitare  ogni 
giovedì  e  domenica,  essendo  egli  inibito  di  porre  l  piedi  in  Ac- 
cademia. Io  mi  facea  condurre  a  vederlo  dal  nuovo  cameriere 
che  mi  avevano  dato,  uomo  piuttosto  grosso,  ma  buono  e  di 
dolcissima  indole.  Oli  somministrai  anche  per  del  tempo  dei  da- 
nari, dandogliene  quanto  ne  aveva,  il  che  non  era  molto:  final- 
mente poi  essendosi  egli  collocato  in  servizio  d'altri,  ed  io  distratto 
dal  tempo,  e  dalla  mutazione  di  scena  per  me  dopo  la  morte  di 


»  Cfr.  L.  CiRRARio,  Origine  e  profrresst  dfllì  Monarchia  di  Savoia,  Fi- 
renze, IS09,  p.  398. 


44  Vittorio  Alfieri 

mio  zio,  non  ci  pensai  poi  più.  Dovendomi  nei  seguenti  anni  render 
conto  in  me  stesso  della  cagione  di  quell'affetto  mio  sragione- 
vole per  un  sì  tristo  soggetto,  se  mi  volessi  abbellire,  direi  che 
ciò  proveniva  forse  in  me  da  una  certa  generosità  di  carattere  : 
ma  questa  per  allora  non  era  la  vera  cagione  :  benché  in  appresso 
poi,  quando  nella  lettura  di  Plutarco  io  cominciai  ad  infiammarmi 
dell'amor  della  gloria  e  della  virtù,  conobbi  ed  apprezzai,  e  pra- 
ticai anche  potendo,  la  soddisfacentissima  arte  del  rendere  bene 
per  male.  Quel  mio  affetto  per  Andrea  che  mi  avea  pur  dato 
tanti  dolori,  era  in  me  un  misto  della  forza  abituale  del  vederlo 
da  sett'anni  sempre  dintorno  a  me,  e  della  predilezione  da  me 
concepita  per  alcune  sue  belle  qualità;  come  la  sagaci^à  nel  ca- 
pire, la  sveltezza  e  destrezza  somma  nell'eseguire  ;  le  lunghe 
storiette  e  novelle  ch'egli  m'andava  raccontando,  ripiene  di  spi- 
rito, di  affetti,  e  d' imagini  :  cose  tutte,  per  cui,  passato  lo  sdegno 
delle  durezze  e  vessazioni  ch'egli  mi  andava  facendo,  egli  mi 
sapea  sempre  tornare  in  grazia.  Non  capisco  però,  come  abbor- 
rendo  tanto  per  mia  natura  l'essere  sforzato  e  malmenato,  mi 
fossi  pure  avvezzato  al  giogo  di  costui.  Questa  riflessione  in 
appresso  mi  ha  fatti  talvolta  compatire  alcuni  principi,  che  senza 
essere  affatto  imbecilli  si  lasciavano  pure  guidare  da  gente  che 
avea  preso  il  sopravvento  sovr'essi  nell'adolescenza:  età  funesta, 
per  la  profondità  delle  ricevute  impressioni. 

11  primo  frutto  eh'  io  raccolsi  dalla  morte  dello  zio,  fu  di  poter 
andare  alla  cavallerizza;  scuola  che  sino  allora  mi  era  stata 
sempre  negata,  e  ch'io  desiderava  ardentissimamente.  Il  priore 
dell'Accademia  avendo  saputa  questa  mia  smaniosa  brama  d'im- 
parare a  cavalcare,  pensò  di  approfittarsene  per  mio  utile  ; 
onde  egli  pose  per  premio  de'  miei  studj  la  futura  equitazione, 
quand'io  mi  risolvessi  a  pigliare  all'università  il  primo  grado 
della  scala  dottoresca,  chiamato  il  Magistero,  che  è  un  esame 
pubblico  alla  peggio  dei  due  anni  di  logica,  fisica,  e  geometria. 
Io  mi  vi  indussi  subito;  e  cercatomi  un  ripetitore  a  parte,  che 
mi  tornasse  a  nominare  almeno  le  definizioni  di  codeste  mal 
fatte  scuole,  in  quindici  o  venti  giorni  misi  assieme  alla  diavola 
una  dozzina  di  periodi  latini  tanto  da  rispondere  a  quei  pochi 
quesiti,  che  mi  verrebbero  fatti  dagli  esaminatori.  Divenni  dunque 
io  non  so  come  in  meno  d'un  mese  Maestro  matricolato  del- 
l'Arti, e  quindi  inforcai  per  la  prima  volta  la  schiena  di  un  ca- 
vulio;  arìo,  nella  quale  divenni  poi  veramente  maestro  molti  anni 


La  vita  4S 

dopo.  Mi  trovavo  allora  essere  di  statura  piuttosto  piccolo  e  assai 
graciletto,  e  di  poca  forza  nei  ginocchi  che  sono  il  perno  del 
cavalcare:  con  tutto  ciò  la  volontà  e  la  molta  passione  suppli- 
vano alla  forza,  e  in  breve  ci  feci  dei  progressi  bastanti,  massime 
nell'arte  della  mano,  e  dell'intelletto  reggenti  d'accordo,  e  nel 
conoscere  e  indovinare  i  moti  e  l'indole  della  cavalcatura.  A 
questo  piacevole  e  nobilissimo  esercizio  io  fui  debitore  ben  tosto 
della  salute,  della  cresciuta,  e  d'una  certa  robustezza  che  andai 
acquistando  a  occhio  vedente*,  ed  entrai  si  può  dire  in  una  nuova 
esistenza. 

Sepolto  dunque  lo  Zio,  barattato  il  tutore  in  curatore,  fatto 
Maestro  dell'Arti,  liberato  dal  giogo  di  Andrea,  ed  inforcato  un 
destriero,  non  è  credibile  quanto  andassi  ogni  giorno  più  alzando 
la  cresta.  Cominciai  a  dire  schiettamente  e  al  priore,  ed  al  cura- 
tore, che  quegli  studj  della  legge  mi  tediavano,  che  io  ci  perdeva 
il  mio  tempo,  e  che  in  una  parola  non  li  voleva  continuare  al- 
trimenti. Il  curatore  allora  abboccatosi  col  governatore  dell'Ac- 
cademia, conchiusero  di  farmi  passare  al  primo  appartamento, 
educazione  molto  larga,  di  cui  ho  parlato  più  sopra. 

Vi  feci  dunque  il  mio  ingresso  il  dì  8  maggio  1763.  In  quel- 
l'estate mi  ci  trovai  quasi  che  solo;  ma  nell'autunno  si  andò 
riempiendo  di  forestieri  d'ogni  paese  quasi,  fuorché  Francesi; 
ed  il  numero  che  dominava  era  degli  Inglesi.  Una  ottima  tavola* 
signorilmente  servita;  molta  dissipazione;  pochissimo  studio,  il 
molto  dormire,  il  cavalcare  ogni  giorno,  e  l'andar  sempre  più 
facendo  a  mio  modo,  mi  avevano  prestamente  restituita  e  dupli- 
cata la  salute,  il  brio  e  l'ardire.  Mi  erano  ricresciuti  i  capelli,  e 
sparruccatomi  io  mi  andava  vestendo  a  mio  modo,  e  spendeva 
assai  negli  abiti,  per  isfoganni  dei  panni  neri  che  per  regola 
dell'Accademia  impreteribile  avea  dovuti  portare  in  quei  cinque 
anni  del  Terzo  e  Secondo  Appartamento  di  essa.  Il  Curatore 
andava  gridando  su  questi  troppo  ricchi  e  troppi  abiti;  ma  il 
Sarto  sapendo  ch'io  poteva  pagare  mi  faceva  credito  quanto  i* 
volessi,  e  rivestiva  credo  anche  sé  a  mie  spese.  Avuta  l'eredità,  e 
la  libertà,  ritrovai  tosto  degli  amici,  dei  compagni  ad  ogni  im- 
presa, e  degli  adulatori,  e  tutto  quello  insomma  che  vien  coi 


>  A  vista  d'occhio. 

»  Nientemeno  che  sedid  portate  a  pranzo,  non  comprese  le  frutta,  ecc., 
•  dieci  a  cena.  {B.}. 


46  Vittorio  Alfieri 

danari,  e  fedelmente  con  essi  pur  se  ne  va.  In  mezzo  a  questo 
vortice  nuovo  e  fervente,  ed  in  età  di  anni  14  e  mezzo,  io  non 
era  con  tutto  ciò  né  discolo  né  sragionevole  quanto  avrei  potuto 
e  dovuto  fors'essere.  Di  tempo  in  tempo  avevo  in  me  stesso  dei 
taciti  richiami  a  un  qualche  studio,  ed  un  certo  ribrezzo  ed  una 
mezza  vergogna  per  l'ignoranza  mia,  su  la  quale  non  mi  veniva 
fatto  d'ingannare  me  stesso,  né  tampoco  mi  attentava  di  cercar 
d'ingannare  gli  altri.  Ma  non  fondato  in  nessuno  studio,  non 
diretto  da  nessuno,  non  sapendo  nessuna  lingua  bene,  io  non 
sapeva  a  quale  applicazione  darmi,  né  come.  La  lettura  di  molti 
romanzi  francesi  (che  degli  italiani  leggibili  non  ve  n'è)  ;  il  con- 
tinuo conversare  con  forestieri,  e  il  non  aver  occasione  mai  né 
di  parlare  né  di  sentir  parlare  italiano,  mi  andavano  a  poco  a 
poco  scacciando  dal  capo  quel  poco  di  tristo  toscano  ch'io  avessi 
potuto  intromettervi  in  quei  due  o  tre  anni  di  studj  buffoni  di 
umanità  e  rettoriche  asinine.  E  sottentrava  nel  mio  vuoto  capo  il 
francese  a  tal  segno,  che  in  un  accesso  di  studio  ch'io  ebbi  per 
due  o  tre  mesi  in  quel  prim'anno  del  primo  appartamento,  m'in- 
golfai nei  36  volumi  della  Storia  ecclesiastica  del  Fleury,  e  li 
lessi  quasi  tutti  con  furore;  e  m'accinsi  a  farne  anche  degli  estratti 
in  lingua  francese,  e  di'questi  arrivai  sino  al  libro  diciottesimo: 
fatica  sciocca,  noiosa,  e  risibile,  che  pure  feci  con  molta  ostina- 
zione, ed  anche  con  un  qualche  diletto,  ma  con  quasi  nessunis- 
simo utile.  Fu  quella  lettura  che  cominciò  a  farmi  cader  di 
credito  i  preti',  e  le  loro  cose.  Ma  presto  posi  da  parte  il  Fleury, 
e  non  ci  pensai  più.  E  que'  miei  estratti  che  non  ho  buttati  sul 
fuoco  sin  a  questi  anni  addietro,  mi  hanno  fatto  ridere  assai 
quando  li  riscorsi  un  pocoliuo,  circa  venti  anni  dopo  averli 
stesi.  Dall'  istoria  ecclesiastica  mi  ringolfai  nei  romanzi,  e  rileg- 
geva molte  volte  gli  stessi,  tra  gli  altri,  Les  Mille  et  une  Nuit^. 
Intanto,  essendomi  stretto  d'amicizia  con  parecchi  giovanotti 
della  città  che  stavano  sotto  l'ajo,  ci  vedevamo  ogni  giorno,  e 
si  facevano  delle  gran  cavalcate  su  certi  cavallucci  d'affitto,  cose 
pazze  da  fiaccarcisi  il  collo  migliaia  di  volte  non  che  una;  come 
quella  di  far  a  correre  all'  in  giìi  dall'Eremo  di  Camaldoli  fin  a 
Torino,  ch'è  una  pessima  selciata,  erta  a  picco,  che  non  l'avrei 
fatta  poi  neppure  con  ottimi  cavalli  per  nessun  conto  ;  e  di  cor- 

>  Basii  ricordare  che  i  discorsi  preliminari  a  quest'opera  erano  stati  elo- 
giati dal  Voltaire, 
s  Nella  traduzione  francese  di  Antonio  OallanJ  {!7<M). 


Lxi  vita  47 

fere  pe*  boschi  che  stanno  tra  il  Po  e  la  Dora,  dietro  a  quel 
mio  cameriere,  tutti  noi  come  cacciatori,  ed  egli  sul  suo  ronzino 
faceva  da  cervo;  oppure  si  sbrigliava  il  di  lui  cavallo  scosso',  e 
si  inseguiva  con  grandi  urli,  e  scoppietti  di  fruste,  e  comi  arte- 
fatti con  la  bocca,  saltando  fossi  smisurati,  rotolandovi  spesso 
in  bel  mezzo,  guadando  spessissimo  la  Dora,  e  principalmente 
nel  luogo  dove  ella  mette  nel  Po  ;  e  facendo  in  somma  ogni 
sorte  di  simili  scappataggini,  e  tali  che  nessuno  più  ci  voleva 
affittar  dei  cavalli,  per  quanto  si  volessero  strapagare.  Ma  questi 
stessi  strapazzi  mi  rinforzavano  notabilmente  il  corpo,  e  m'in- 
nalzavano molto  la  mente:  e  mi  andavano  preparando  l'animo 
al  meritare  e  sopportare,  e  forse  a  ben  valermi  col  tempo  del- 
l'acquistata mia  libertà  sì  fisica  che  morale. 


CAPITOLO  OTTAVO 

Ozio  totale.  Contrarietà  incontrate,  e  fortemente  sopportate. 

Non  aveva  altri  allora  che  s'ingerisse  de'  fatti  miei,  fuorché 
quel  nuovo  cameriere,  datomi  dal  curatore,  quasi  come  un  semi- 
ajo,  ed  aveva  ordine  di  accompagnarmi  sempre  dapertutto.  Ma 
a  dir  vero,  siccome  egli  era  un  buon  sciocco  ed  anche  interes- 
satuccio,  io  col  dargli  molto  ne  faceva  assolutamente  ogni  mio 
piacere,  ed  egli  non  ridiceva  nulla.  Con  tutto  ciò,  l'uomo  per 
natura  non  si  contentando  mai,  ed  io  molto  meno  che  niun  altro, 
mi  venne  presto  a  noja  anche  quella  piccola  suggezione  del- 
l'avermi sempre  il  cameriere  alle  reni,  dovunque  i'  m'andassi. 
E  tanto  più  mi  riusciva  gravosa  questa  servitù,  quanto  ch'ella 
era  una  particolarità  usata  a  me  solo  di  quanti  ne  fossero  in 
quel  primo  appartamento;  poiché  tutti  gli  altri  uscivano  da  sé, 
e  quante  volte  il  giorno  volevano.  Né  mi  capacitai  punto  della 
ragione  che  mi  si  dava  di  questo,  ch'io  era  il  più  ragazzo  di 
tutti,  essendo  sotto  ai  quindici  anni.  Onde  m' incocciai  in  quel- 
l'idea di  volere  uscir  solo  anche  io,  e  senza  dir  nulla  al  came- 
riere, né  a  chi  che  sia,  cominciai  a  uscir  da  me.  Da  prima  fui 
ripreso  dal  governatore;  e  ci  tornai  subito  :  la  seconda  volta  fui 
messo  in  arresto  in  casa,  e  poi  liberato  dopo  alcuni  giorni,  fui 
da  capo  all'uscir  solo.  Poi  riarrestato  più  strettamente,  poi  rill- 

'  Libero. 


4è  Vittorio  Alfteri 

berato  di  nuovo  e  riuscito  di  nuovo;  e  sempre  così  a  vicenda 
più  volte,  il  che  durò  forse  un  mese,  crescendomisi  sempre  il 
gastigo,  e  sempre  inutilmente.  Alla  per  fine  dichiarai  in  uno  degli 
arresti,  che  mi  doveano  tenere  in  perpetuo,  perchè  appena  sarei 
stato  liberato,  immediatamente  sarei  tornato  fuori  da  me,  non 
volendo  io  nessuna  particolarità  né  in  bene  né  in  male,  che  mi 
facesse  essere  o  più  o  meno  o  diverso  da  tutti  gli  altri  compagni  ; 
che  codesta  distinzione  era  ingiusta  ed  odiosa,  e  mi  rendeva  lo 
scherno  degli  altri;  che  se  pareva  al  signor  governatore  ch'io 
non  fossi  d'età  né  di  costumi  da  poter  fare  come  gli  altri  del 
primo,  egli  mi  poteva  rimettere  nel  secondo  appartamento.  Dopo 
tutte  queste  mie  arroganze  mi  toccò  un  arresto  così  lungo,  che 
ci  stetti  da  tre  mesi  e  più,  e  fra  gli  altri  tutto  l' intero  carnevale 
del  1764.  Io  mi  ostinai  sempre  più  a  non  voler  mai  domandare 
d'esser  liberato,  e  così  arrabbiando  e  persistendo,  credo  che  vi 
sarei  marcito,  ma  non  piegatomi  mai.  Quasi  tutto  il  giorno  dor- 
miva; poi  verso  la  sera  mi  alzava  da  letto,  e  fattomi  portare  una 
materassa  vicino  al  caminetto,  mi  vi  sdrajava  su  per  terra;  e  non 
volendo  più  ricevere  il  pranzo  solito  dell'Accademia,  che  mi  face- 
vano portar  in  camera,  io  mi  cucinava  da  me  a  quel  fuoco  della 
polenta,  e  altre  cose  simili.  Non  mi  lasciava  più  pettinare,  né  mi 
vestiva,  ed  era  ridotto  come  un  ragazzo  salvatico.  Mi  era  inibito 
l'uscire  di  camera;  ma  lasciavano  pure  venire  quei  miei  amici 
di  fuori  a  visitarmi  ;  i  fidi  compagni  di  quelle  eroiche  cavalcate. 
Ma  io  allora  sordo  e  muto,  e  quasi  un  corpo  disanimato,  giaceva 
sempre,  e  non  rispondeva  niente  a  nessuno  qualunque  cosa  mi 
si  dicesse.  E  stava  così  delle  ore  intere,  con  gli  occhi  conficcati 
in  terra,  pregni  di  pianto,  senza  pur  mai  lasciare  uscir  una 
lagrima. 


CAPITOLO  NONO 

Matrimonio  della  sorella.  Reintegrazione  del  mio  onore.  Primo  cavallo. 

Da  questa  vita  di  vero  bruto  bestia,  mi  liberò  finalmente  la 
congiuntura  del  matrimonio  di  mia  sorella  Giulia,  col  conte  Gia- 
cinto di  Cumiana.  Sejjuì  il  dì  primo  maggio  1764,  giorno  che  mi 
restò  impresso  nella  mente  essendo  andato  con  tutto  lo  sposalizio 
alla  bellissima  villeggiatura  di  Cumiana  distante  dieci  miglia  da 
Torino;   dove   pnssai   più   d'un  mese   allegrissimamente,  come 


La  vita  49 

dovea  essere  di  uno  scappato  di  carcere,  detenutovi  tutto  l'in- 
verno, il  mio  nuovo  cognato  avea  impetrata  la  mia  liberazione, 
ed  a  più  equi  patti  fui  ristabilito  nei  dritti  innati  dei  Primi 
Appartamentisti  dell'Accademia;  e  così  ottenni  l'eguaglianza  con 
i  compagni  mediante  più  mesi  di  durissimo  arresto.  Coll'occa- 
sione  di  queste  nozze  aveva  anche  ottenuto  molto  allargamento 
nella  facoltà  di  poter  spendere  il  mio,  il  che  non  mi  si  poteva  oramai 
legalmente  negare.  E  da  questo  ne  nacque  la  compra  del  mio 
primo  cavallo,  che  venne  anche  meco  nella  villeggiatura  di  Cu- 
miana.  Era  questo  cavallo  un  bellissimo  sardo,  di  mantello  bianco, 
di  fattezze  distinte,  massime  la  testa,  l'incollatura  ed  il  petto. 
Lo  amai  con  furore,  e  non  me  lo  rammento  mai  senza  una  vivis- 
sima emozione.  La  mia  passione  per  esso  andò  al  segno  di  gua- 
starmi la  quiete,  togliermi  la  fame  ed  il  sonno,  ogni  qual  volta 
egli  aveva  alcuno  incommoduccio;  il  che  succedeva  Tssai  spesso, 
perchè  egli  era  molto  ardente,  e  delicato  ad  un  tempo;  e  quando 
poi  l'aveva  fra  le  gambe,  il  mio  affetto  non  m' impediva  di  tormen- 
tarlo e  malmenarlo  anche  tal  volta  quando  non  volea  fare  a 
modo  mio.  La  delicatezza  di  questo  prezioso  animale  mi  servì 
ben  tosto  di  pretesto  per  volerne  un  altro  di  più,  e  dopo  quello 
dut  altri  di  carrozza,  e  poi  uno  di  calessetto,  e  poi  due  altri  di 
sella,  e  così  in  men  d'un  anno  arrivai  sino  a  otto,  fra  gli  schia- 
mazzi del  tenacissimo  curatore,  eh'  io  lasciava  pur  cantare  a  suo 
piacimento.  E  superato  così  l'argine  della  stitichezza  e  parsimonia 
di  codesto  mio  curatore;  tosto  traboccai'  in  ogni  sorte  di  spesa, 
e  principalmente  negli  abiti,  come  già  mi  par  d'avere  più  sopra 
accennato.  V'erano  alcuni  di  quegli  Inglesi  miei  compagni,  che 
spendevano  assai  ;  onde  io  non  volendo  essere  soverchiato,  cer- 
cava pure  e  mi  riusciva  di  soverchiare  costoro.  Ma,  per  altra 
parte,  quel  giovanotti  miei  amici  di  fuori  dall'Accademia,  e  coi 
quali  io  conviveva  assai  più  che  coi  forestieri  di  dentro,  per 
essere  essi  soggetti  ai  lor  padri,  avevano  pochi  quattrini;  onde 
benché  il  lor  mantenimento  fosse  decentissimo,  essendo  essi  dei 
primi  signori  di  Torino,  pure  le  loro  spese  di  capriccio  veni- 
vano ad  essere  necessariamente  tenuissime.  A  risguardo  dunque 
di  questi,  io  debbo  per  amor  del  vero  confessare  ingenuamente 
di  aver  allora  praticata  una  virtù,  ed  appurato  ch'ella  era  in  me 
naturale,  ed  invincibile:  ed  era  di  non  volere  né  potere  sovcr- 

'  Trasmodai. 
4.  —  Classici  ItaUatU.  N.  1. 


5o  Vittorio  Alfieri 

chiar  mai  in  nessuna  cosa  chi  che  sìa,  eh'  io  conoscessi  o  che  si 
tenesse  per  minore  di  me  in  forza  di  corpo,  d'ingegno,  di  gene- 
rosità, d'indole,  o  di  borsa.  Ed  in  fatti,  ad  ogni  abito  nuovo, 
e   ricco  o   di   ricami,  o  di  nappe,  o  di  pelli  ch'io  mandava 
facendo,  se  mi  veniva  fatto  di  vestirmelo  la  mattina  per  andare 
a  corte,  o  a  tavola  con  i  compagni  d'Accademia,  che  rivaleg- 
giavano in  queste  vanezze  con  me,  io  poi  me  lo  spogliava  subito 
al  dopo  pranzo,  ch'era  l'ora  in  cui  venivano  quegh  altri  da  me; 
e  li  faceva  anzi  nascondere  perchè  non  li  vedessero,  e  me  ne 
vergognava  in  somma  con  essi,  come  di  un  delitto;  e  tal  in 
fatti  nel  mio  cuore  mi  pareva,   e  l'avere,  e  molto  più  il^  farne 
pompa,  delle  cose  che  gli  amici  miei  non  avessero.  E  cosi  pure, 
dopo  avere  con  molte  risse  ottenuto  dal  curatore  di  farmi  una  ele- 
gante carrozza,  cosa  veramente  inutilissima  e  ridicola  per  un  ragaz- 
zaccio di  sedici  anni  in  una  città  così  microscopica  come  Tonno, 
io  non  vi  saliva  quasi  mai,  perchè  gli  amici,  non  l'avendo,  se  ne 
dovevano  andare  a  sante  gambe  sempre.  E  quanto  ai  molti  cavali, 
da  sella,  io  me  li  facea  perdonare  da  loro,  accomunandoli  con 
essi;  oltre  che  essi  pure  ne  aveano  ciascuno  il  suo    e  mante- 
nuto loro  dai  rispettivi  genitori.  Perciò  questo  ramo  di  lusso  mi 
dilettava  anche  più  di  tutti  gli  altri,  e  con  meno  misto  di  ribrezzo, 
perchè  in  nulla  veniva  ad  offendere  gli  amici  miei. 
Esaminando  io  spassionatamente  e  con  l'amor  del  vero  codesta 
/    mia  prima  gioventù,  mi  pare  di  ravvisarci  fra  le  tante  «torture  d. 
un'ptà  bollente,  oziosissima,  ineducata,  e  sfrenata,  una  certa  natu- 
\       rale'  pendenza  '  alla  giustizia,  all'eguaglianza,  ed  alla  generosità 
)      d'animo,  che  mi  pajono  gli  elementi  d'un  ente  Ubero,  o  degno 
'      di  esserlo. 

CAPITOLO  DECIMO 
Primo  amoruccio.  Primo  viaggetto.  Ingresso  nelle  truppe. 
In  una  villeggiatura  ch'io  feci  di  circa  un  mese  colla  famiglia 
di  due  fratelli,  che  erano  dei  principali  miei  amie  ,  e  compagni 
di  cavalcate,  provai  per  la  prima  volta  sotto  aspetto  no  du^b  o 
la  forza  d'amore  per  una  loro  cognata,  moglie  del  1°  <>  Jr^tello 
maggiore.  Era  questa  signorina'  una  brunetta  piena  di  brio  e  di 

;  pTeitshmo  col  quale  l'A.  traduce  la  voce  dialettale  madamln,  gio- 
vine  signora. 


La  vita  51 

na  certa  protervia  che  mi  facea  grandissima  forza.  I  sintomi  di 
uella  passione,  di  cui  fio  provato  dappoi  per  altri  oggetti  così 
ingaraente  tutte  le  vicende,  si  manifestarono  in  me  allora  nel 
eguente  modo.  Una  malinconia  profonda  ed  ostinata:  un  ricercar 
empre  l'oggetto  amato,  e  trovatolo  appena,  sfuggirlo:  un  non 
aper  che  le  dire,  se  a  caso  mi  ritrovava  alcuni  pochi  momenti 
non  solo  mai,  che  ciò  non  mi  veniva  fatto  mai,  essendo  ella  assai 
trettamente  custodita  dai  suoceri)  ma  alquanto  in  disparte  con 
ssa:  un  correre  poi  dei  giorni  interi  (dopo  che  si  ritornò  di 
illa)  in  ogni  angolo  della  città,  per  vederla  passare  in  tale  o  tal 
la,  nelle  passeggiate  pubbliche  del  Valentino  e  Cittadella:  un 
lon  poterla  neppure  udir  nominare,  non  che  parlar  mai  di  essa: 
d  in  somma  tutti,  ed  alcuni  più,  quegli  effetti  sì  dottamente  e 
ffettuosamente  scolpiti  dal  nostro  divino  maestro  di  questa  divina 
>assione,  il  Petrarca.  Effetti,  che  poche  persone  intendono,  e  po- 
hissime  provano:  ma  a  quei  soli  pochissimi  è  concesso  l'uscir 
lalla  folla  volgare  in  tutte  le  umane  arti.  Questa  prima  mia 
iamma,  che  non  ebbe  mai  conclusione  nessuna,  mi  restò  poi  lun- 
gamente semiaccesa  nel  cuore,  ed  in  tutti  i  miei  lunghi  viaggi 
atti  poi  negli  anni  consecutivi,  io  sempre  senza  volerlo,  e  quasi 
enza  awedermene,  l'avea  tacitamente  per  norma  intima  d'ogni 
nio  operare:  come  se  una  voce  mi  fosse  andata  gridando  nel  più 
icgreto  di  esso:  Se  tu  acquisti  tale,  o  tal  pregio,  tu  potrai  al 
itorno  tuo  piacer  maggiormente  a  costei;  e  cangiate  le  circo- 
;tanze,  potrai  forse  dar  corpo  a  quest'ombra. 

Nell'autunno  dell'anno  1765  feci  un  viaggetto  di  dieci  giorni 
1  Genova  col  mio  curatore;  e  fu  la  mia  prima  uscita  dal  paese, 
-avyl^deljnare  mi  rapì  veramejite  l'anima,  e  non  .iaÌ,poteva  mai 
laziare  di  contgoiprarlo.  Cosi  pure  la  posizione  magnifica  e  pit- 
oresca  di  quella  superba  città,  mi  riscaldò  molto  la  fantasia.  E  se 
o  allora  avessi  saputa  una  qualche  lingua,  ed  avessi  avuti  dei 
l>oeti  per  le  mani,  avrei  certamente  fatto  dei  versi  :  ma  da  quasi 
lue  anni  io  non  apriva  più  nessun  libro,  eccettuati  di  radissimo 
alcuni  romanzi  francesi,  e  qualcuna  delle  prose  di  Voltaire,  che 
mi  dilettavano  assai.  Nel  mio  andare  a  Genova  ebbi  un  sommo 
piacere  di  rivedere  la  madre,  e  la  città  mia,  di  dove  mancava 
fià  da  sette  anni,  che  in  quell'età  paiono  secoli.  Tornato  poi  da 
Osnova,  mi  pareva  di  aver  fatta  una  gran  cosa,  e  d'aver  visto 
Ma  quanto  io  mi  teneva  di  questo  mio  viaggio  cogli  amici 
ri   dell'Accademia  (benché  non   lo  dimostrassi  loro,  per 


52  Vittorio  Alfieri 

non  mortificarli),  altrettanto  poi  mi  arrabbiava  e  rimpiccioliva  in 
faccia  ai  compagni  di  dentro,  che  tutti  venivano  di  paesi  lontani, 
come  Inglesi,  Tedeschi,  Pollacchi,  Russi,  ecc.;  ed  a  cui  il  mio 
viaggio  di  Genova  pareva,  com'era  in  fatti,  una  babbuinata^  E 
questo  mi  dava  una  frenetica  voglia  di  viaggiare,  e  di  vedere  da 
me  i  paesi  di  tutti  costoro. 

In  quest'ozio  e  dissipazione  continua,  presto  mi  passarono  gli 
ultimi  diciotto  mesi  ch'io  stetti  nel  primo  appartamento.  Ed  es- 
sendomi io  fatto  inscrivere  nella  lista  dei  postulanti  impiego  nelle 
truppe  sin  dal  prim'anno  ch'io  v'era  entrato,  dopo  esservi  stato 
tre  anni,  in  quel  maggio  del  1766,  finalmente  fui  compreso  in 
una  promozione  generale  di  forse  150  altri  giovanotti.  E  benché 
io  da  più  d'un  anno  mi  fossi  intiepidito  moltissimo  in  questa 
vocazione  miritare,  pure  non  avendo  io  ritrattata  la  mia  petizione, 
mi  convenne  accettare;  ed  uscii  Porta-insegna  nel  reggimento 
provinciale  d'Asti.  Da  prima  io  aveva  chiesto  d'entrare  nella  ca- 
valleria, per  l'amore  innato  dei  cavalli;  poi  di  lì  a  qualche  tempo, 
aveva  cambiata  la  domanda,  bastandomi  di  entrare  in  uno  di  quei 
reggimenti  provinciali,  i  quali  in  tempo  di  pace  non  si  radu- 
nando all'insegne  se  non  due  volte  l'anno,  e  per  pochi  giorni, 
lasciavano  così  una  grandissima  libertà  di  non  far  nulla,  che  era 
appunto  la  sola  cosa  ch'io  mi  fossi  determinato  di  voler  fare.  Con 
tutto  ciò,  anche  questa  milizia  di  pochi  giorni  mi  spiacque  mol- 
tissimo; e  tanto  più,  perchè  l'aver  avuto  quell'impiego  mi  costrin- 
geva ad  uscire  dall'Accademia,  dove  io  mi  trovava  assai  bene, 
e  ci  stava  altrettanto  volentieri  allora,  quanto  ci  era  stato  male  e 
a  contragenio  nei  due  altri  appartamenti,  e  i  primi  diciotto  mesi 
del  primo.  Bisognò  pure  ch'io  m'adattassi,  e  nel  corrente  di  quel 
maggio  lasciai  l'Accademia,  dopo  esservi  stato  quasi  ott'anni.  E 
nel  settembre  mi  presentai  alla  prima  rassegna  del  mio  reggi- 
mento in  Asti,  dove  compiei  esattissimamente  ogni  dovere  del 
mio  impieguccio,  abborrendolo*;  e  non  mi  potendo  assolutamente 
adattare  a  quella  catena  di  dipendenze  gradate,  che  si  chiama 
subordinazione;  ed  è  veramente  l'anima  delia  disciplina  militare; 
ma  non  poteva  esser  l'anima  mai  d'un  futuro  poeta  tragico. 
All'uscire  dell'Accademia,  aveva  appigionato  un  piccolo  ma  gra- 
zioso quartiere  nella  casa  stessa  di  mia  sorella;  e  là  attendeva  a 

>  Ridicola  scimiotiatura. 

'  Cfr.  O.  RoBcinr,  V.  A.  e  il  reggimento  provinciale  dì' Asti,  In  •  la 
Stampa  »,  Tot  i. io,  maggio  1902. 


La  vita  53 

spendere  il  più  che  potessi,  in  cavalli,  superfluità  d'oggi  genere, 
e  pranzi  che  andava  facendo  ai  miei  amici,  ed  ai  passati  com- 
pagini dell'Accademia.  La  smania  di  viaggiare,  accresciutasi  in  me 
smisuratamente  col  conversare  moltissimo  con  questi  forestieri, 
m'indusse  contro  la  mia  indole  naturale  ad  intelaiare  un  raggi- 
retto  per  vedere  di  strappare  una  licenza  di  viaggiare  a  Roma  e 
a  Napoli,  per  un  anno.  E  siccome  era  troppo  certa  cosa,  che  in 
età  di  anni  17  e  mesi  ch'io  allora  mi  aveva,  non  mi  avrebbero 
mai  lasciato  andar  solo,  m'ingegnai  con  un  ajo  Inglese  cattolico, 
che  guidava  un  Fiammingo,  ed  un  Olandese  a  far  questo  giro, 
e  coi  quali  era  stato  già  più  d'un  anno  nell'Accademia,  a  vedere 
s'egli  voleva  anche  incaricarsi  di  me,  e  così  fare  il  sudetto  viaggio 
noi  quattro.  Tanto  feci  insomma,  che  invogliai  anche  questi  di 
avermi  per  compagno,  e  servitomi  poi  del  mio  cognato  per  otte- 
nermi dal  re  la  licenza  di  partire  sotto  la  condotta  del  sudetto 
ajo  Inglese,  uomo  maturo,  e  di  ottimo  grido,  finalmente  restò 
fissata  la  partenza  per  i  primi  di  ottobre  di  quell'anno.  E  questo 
fu  il  primo,  e  in  seguito  poi  l'uno  dei  pochi  raggiri  ch'io  abbia 
intrapresi  con  sottigliezza,  e  ostinazione  di  maneggio,  per  per- 
suadere quell'ajo,  e  il  cognato,  e  più  di  tutti  lo  stitichissimo 
curatore.  La  cosa  riusci,  ma  in  me  mi  vergognava  e  irritava  mol- 
tissimo di  tutte  le  pieghevolezze,  e  simulazioni,  e  dissimulazioni 
che  mi  conveniva  porre  in  opera  per  ispuntarla.  Il  re,  che  nel 
nostro  piccolo  paese  di  ogni  piccolissima  cosa  s'ingerisce,  non 
si  trovava  niente  propenso  ai  viaggi  de'  suoi  nobili,  e  molto 
meno  poi  di  un  ragazzo  uscito  allora  del  guscio,  e  che  indicava 
un  certo  carattere.  Bisognò  insomma  ch'io  mi  piegassi  moltis- 
simo. Ma,  grazie  alla  mia  buona  sorte,  questo  non  mi  tolse  poi 
di  rialzarmi  in  appresso  interissiffio. 

E  qui  darò  fine  a  questa  seconda  parte:  nella  quale  m'avvedo 
benissimo  che  avendovi  io  intromesso  con  più  minutezza  cose 
forse  anche  più  insìpide  che  nella  prima,  consiglierò  anche  il 
Lettore  di  non  arrestarvisi  molto,  o  anche  di  saltarla  a  pie  pari  ; 
poiché,  a  tutto  restringere  in  due  parole,  questi  otto  anni  della 
mia  adolescenza  altro  non  sono  che  infermità,  ed  ozio,  ed 
ignoranza'. 

«  Conclttsione  indubbi  in»nfe  esagerata. 


EPOCA   TERZA 
GIOVINEZZA 

ABBRACCIA  CIRCA   DIECI   ANNI   DI   VIAGGI,   E  DISSOLUTEZZE 


CAPITOLO  PRIMO 

Primo  viag^gio.  Milano,  Hrenze,  Romi. 

La  mattina  del  dì  quattro  ottobre  1766,  con  mio  indicibile  tras, 
porto,  dopo  aver  tutta  notte  farneticato  in  pazzi  pensieri  senzj; 
mai  chiuder  occhio,  partii  per  quel  tanto  sospirato  viaggio.  Eram< 
una  carrozzata  dei  quattro  padroni,  ch'io  individuai,  un  caless< 
con  due  servitori,  du' altri  a  cassetta  della  nostra  carrozza,  ed  i 
mio  cameriere  a  cavallo  da  corriere.  Ma  questi  non  era  già  que 
vecchiotto  datomi  a  guisa  di  ajo  tre  anni  prima,  che  quello  l 
lasciai  a  Torino.  Era  questo  mio  nuovo  cameriere,  un  Francese 
Elia,  stato  già  quasi  vent'anni  col  mio  zio,  e  dopo  la  di  lui  mort 
in  Sardegna,  passato  con  me.  Egli  aveva  già  viaggiato  col  sud 
detto  mio  zio,  due  volte  in  Sardegna,  ed  in  Francia,  Inghilterr£ 
ed  Olanda.  Uomo  di  sagacissimo  ingegno,  di  un'attività  non  ce 
mune,  e  che  valendo  egli  solo  più  che  tutti  i  nostri  altri  quattr 
servitori  presi  a  fascio,  sarà  d'ora  in  poi  l'eroe  protagonist 
della  commedia  di  questi  miei  viaggi;  di  cui  egli  si  trovò  imm< 
diatamente  essere  il  solo  e  vero  nocchiero,  stante  la  nostra  total 
incapacità  di  tutti  noi  altri  otto,  o  bambini,  o  vecchi  rimbambit 


La  vita  55 

La  prima  stazione  fu  di  quasi  quindici  giorni  in  Milano.  Avendo 
Io  già  visto  Genova  due  anni  prima,  ed  essendo  abituato  al  bel- 
lissimo locale  '  di  Torino,  la  topografia  milanese  non  mi  dovea, 
né  potea  piacer  niente.  Alcune  cose  che  vi  sarebbero  pur  da  ce- 
dersi, io  o  non  vidi,  o  male  ed  in  fretta,  e  da  quell'ignorantis- 
simo e  svogliato  eh'  io  era  d' ogni  utile  o  dilettevole  arte.  E  mi 
ricordo  tra  l'altre,  che  nella  Biblioteca  Ambrosiana,  datomi  in 
mano  dal  bibliotecario  non  so  più  quale  manoscritto  autografo 
del  Petrarca,  da  vero  barbaro  Allobrogo,  lo  buttai  là,  dicendo 
che  non  me  n'importava  nulla.  Anzi,  in  fondo  del  cuore,  io  ci 
aveva  un  certo  rancore  con  codesto  Petrarca  ;  perchè  alcuni  anni 
prima,  quando  io  era  filosofo,  essendomi  capitato  un  Petrarca 
alle  mani,  l'aveva  aperto  a  caso  da  capo,  da  mezzo,  e  da  piedi, 
e  per  tutto  lettine,  o  compitati  alcuni  pochi  versi,  in  ne^gun  luogo 
aveva  inteso  nulla,  né  mai  raccapezzato  il  senso;  onde  l'avea 
sentenziato,  facendo  coro  coi  Francesi  e  con  tutti  gli  altri  igno- 
ranti presuntuosi;  e  tenendolo  per  un  seccatore,  dicitor  di  ar- 
guzie e  freddure,  aveva  poi  così  ben  accolto  i  suoi  preziosissimi 
manoscritti. 

Del  resto,  essendo  io  partito  per  quel  viaggio  d' un  anno,  senza 
pigliar  meco  altri  libri  che  alcuni  Viaggi  d'Italia,  e  questi  tutti 
in  lingua  francese,  io  mi  avviava  sempre  più  alla  total  perfezione 
della  mia  già  tanto  inoltrata  barbarie.  Coi  compagni  di  viaggio 
si  conversava  sempre  in  francese,  e  così  in  alcune  case  milanesi 
dove  io  andava  con  essi,  si  parlava  pur  sempre  francese;  onde 
quel  pochin  pochino  ch'io  andava  pur  pensando  e  combinando 
nel  mio  povero  capino,  era  pure  vestito  di  cenci  francesi;  e  al- 
cune letteruzze  ch'io  andava  scrivendo,  erano  in  francese;  ed 
alcune  memoriette  ridicole  ch'io  andava  schiccherando  su  questi 
miei  viaggi,  eran  pure  in  francese:  e  il  tutto  alla  peggio,  non 
sapendo  io  questa  linguaccia  se  non  se  a  caso;  non  mi  ricordando 
più  di  nessuna  regola  ove  pur  mai  l'avessi  saputa  da  prima;  e 
molto  meno  ancora  sapendo  l'italiano,  raccoglieva  così  il  frutto 
dovuto  della  disgrazia  primitiva  del  nascere  in  un  paese  anfibio, 
e  della  valente  educazione  ricevutavi. 

Dopo  un  soggiorno  di  due  settimane  in  circa,  si  parti  di  Mi- 
lano. Ma  siccome  quelle  mie  sciocche  Memorie  sul  viaggio  fu- 
rono ben  presto  poi  da  me  stesso  corrette  con  le  debite  fiamme, 

t  Edilizia  bcUa,  regolare,  simmetrica,  ecc. 


56  Vittorio  Alfieri 

non  le  rinnoverò  io  qui  certamente,  col  particolarizzare  oltre  il 
dovere  questi  miei  viaggi  puerili,  trattandosi  di  paesi  tanto  noti: 
onde,  o  nulla  o  pochissimo  dicendo  delle  diverse  città,  ch'io, 
digiuno  di  ogni  bell'arte,  visitai  come  un  Vandalo^,  anderò  par- 
lando di  me  stesso,  poiché  pure  questo  infelice  tema,  è  quello 
che  ho  assunto  in  quest'  opera. 

Per  la  via  di  Piacenza,  Parma,  e  Modena,  si  giunse  in  pochi 
giorni  a  Bologna  ;  né  ci  arrestammo  in  Parma  che  un  sol  giorno, 
ed  in  Modena  poche  ore,  al  solito  senza  veder  nulla,  o  prestis- 
simo e  male  quello  che  ci  era  da  vedersi.  Ed  il  mio  maggiore, 
anzi  il  solo  piacere  ch'io  ricavassi  dal  viaggio,  era  di  ritrovarmi 
correndo  la  posta  su  le  strade  maestre  e  di  farne  alcune,  e  il  più 
che  poteva,  a  cavallo  da  corriere.  Bologna,  e  i  suoi  portici  e  frati, 
non  mi  piacque  gran  cosa:  dei  suoi  quadri  non  ne  seppi  nulla; 
e  sempre  incalzato  da  una  certa  impazienza  di  luogo,  io  era  lo 
sprone  perpetuo  del  nostro  ajo  antico,  che  sempre  lo  instigava  a 
partire.  Arrivammo  in  Firenze  in  fin  d'ottobre;  e  quella  fu  la 
prima  città,  che  a  luoghi  mi  piacque,  dopo  la  partenza  di  Torino; 
ma  mi  piacque  pur  meno  di  Genova,  che  aveva  vista  due  anni 
prima.  Vi  si  fece  soggiorno  per  un  mese;  e  là  pure,  sforzato 
dalla  fama  del  luogo,  cominciai  a  visitare  alla  peggio  la  Galleria, 
e  il  palazzo  Pitti,  e  varie  chiese;  ma  il  tutto  con  molta  nausea, 
senza  nessun  senso  del  bello  ;  massime  in  pittura  ;  gli  occ]ji  miei 
essendo  molto  ottusi  ai  colori  :  se  nulla  nulla  gustava  un  po'  più 
era  la  scoltura,  e  l'architettura  anche  più;  forse  era  in  me  una 
reminiscenza  del  mio  ottimo  zio,  1'  architetto.  La  tomba  di  Mi- 
chelangelo in  Santa  Croce  fu  una  delle  poche  cose  che  mi  fer- 
massero: e  su  la  memoria  di  quell'uomo  di  tanta  fama  feci  una 
qualche  riflessione:  e  fin  da  quel  punto  sentii  fortemente,  che 
non  riuscivano  veramente  grandi  fra  gli  uomini,  che  gnpì  pnrhig- 
simi  che  aveano  lasciata  alcuna  c6Sir"stafcrile  fatta  da  loro.  Ma 
una  tal  rifrèssrónén[solà{àTinmèzz6~S" qUèll'^Tril'nieTrejrdissipazione 
di  mente  nella  quale  io  viveva  continuamente,  veniva  ad  essere 
per  l'appunto  come  si  suol  dire,  una  goccia  di  acqua  nel  mare. 
Fra  le  tante  mie  giovenili  storture,  di  cui  mi  toccherà  di  arros- 
sire in  eterno,  non  annovererò  certamente  come  l'ultima  quella 
di  essermi  messo  in  Firenze  ad  imparare  la  lingua  inglese,  nel 
breve  soggiorno  di  un  mese  ch'io  vi  feci,  da  un  maestruccio 

^  Barbaro  ignorante. 


La  vita  57 

Inglese  che  vi  era  capitato  ;  in  vece  di  imparare  dal  vivo  esempio 
dei  beati  Toscani  a  spiegarmi  almeno  senza  barbarie  nella  loro 
divina  lingua,  ch'io  balbettante  stroppiava,  ogni  qual  volta  me 
ne  doveva  prevalere.  E  perciò  sfuggiva  di  parlarla,  il  piìi  che 
poteva:  stante  che  la  vergogna  di  non  saperla  potea  pur  qualche 
cosa  in  me:  ma  vi  potea  pure  assai  meno  che  la  infingardag- 
gine del  non  volerla  imparare.  Con  tutto  ciò  io  mi  era  subito 
ripurgata  la  pronunzia  di  quel  nostro  orribile  U  lombardo,  o 
francese,  che  sempre  mi  era  spiaciuto  moltissimo  per  quella  sua 
magra  articolazione,  e  per  quella  boccuccia  che  fanno  le  labbra 
di  chi  lo  pronunzia,  somiglianti  in  quell'atto  moltissimo  a  quella 
risibile  smorfia  che  fanno  le  scimmie,  allorché  favellano.  E  ancora 
adesso,  benché  di  codesto  U,  da  cinque  e  piìi  anni  ch'io  sto  in 
Fr.-incia  ne  abbia  pieni  e  foderati  gli  orecchi,  pure  egli  mi  fa 
ridere  ogni  volta  che  ci  bado;  e  massime  nella  recita  teatrale,© 
camerale  '  (che  qui  la  recita  è  perpetua),  dove  sempre  fra  questi 
labbrucci  contrattiche  paiono  sempre  soffiare  su  la  minestra  bol- 
lente, campeggia  principalmente  la  parola  Nature*. 

In  tal  guisa  io  in  Firenze,  perdendo  il  mio  tempo,  poco  ve- 
dendo, e  nulla  imparando,  presto  tediandomivi,  rispronai  l'an- 
tico nostro  mentore,  e  si  partì  il  dì  primo  dicembre  alla  volta 
di  Lucca  per  Prato  e  Pistoia.  Un  giorno  in  Lucca  mi  parve  un 
secolo  ;  e  subito  si  riparti  per  Pisa.  E  un  giorno  in  Pisa,  benché 
mollo  mi  piacesse  il  Camposanto,  mi  parve  anche  lungo.  E  su- 
bito, a  Livorno.  Questa  città  mi  piacque  assai  e  perché  somi- 
gliava alquanto  a  Torino,  e  per  via  del  mare,  elemento  del  quale 
io  non  mi  saziava  mai.  Il  soggiorno  vi  fu  di  otto  o  dieci  giorni; 
ed  io  sempre  barbaramente  andava  balbettando  l'inglese,  ed  avea 
chiusi  e  sordi  gli  orecchi  al  toscano.  Esaminando  poi  la  ragione 
di  una  si  stolta  preferenza,  ci  trovai  un  falso  amor  proprio  in- 
dividuale, che  a  ciò  mi  spingeva  senza  ch'io  pure  me  ne  avve- 
dessi. Avendo  per  piii  di  due  anni  vissuto  con  Inglesi;  sentendo 
per  tutto  magnificare  la  loro  potenza  e  ricchezza;  vedendone  la 
grande  influenza  politica:  e  per  l'altra  parte  vedendo  l' Italia  tutta 
esser  morta;  gl'Italiani,  divisi,  deboli,  avviliti  e  servi;  io  gran- 

>  Nelle  conversazioni  dei  salotti,  dice  l'A.,  i  Francesi  parlano  come  se 
recitassero. 

*  L'A.  ha  qui  nna  punta  d'ironia  contro  i  cosi  detti  diritti  naturali,  le 
col  teorie  vennero  elaborate  specialmente  in  Francia  nella  seconda  metà 
del  '700. 


58  Vittorio  Alfieri 

demente  mi  vergognava  d'essere,  e  di  parere  Italiano,  e  nulla 
delle  cose  loro  non  voleva  né  praticar,  né  sapere. 

Si  partì  di  Livorno  per  Siena;  e  in  quest'ultima  città,  benché 
il  locale  non  me  ne  piacesse  gran  fatto,  pure  tanta  è  la  forza  del 
bello  e  del  vero,  ch'io  mi  sentii  quasiché  un  vivo  raggio  che 
mi  rischiarava  ad  un  tratto  la  mente,  e  una  dolcissima  lusinga  | 
agli  orecchi  e  al  cuore,  nell'  udire  le  più   infime  persone  così  ' 
soavemente  e  con  tanta  eleganza,  proprietà  e  brevità  favellare. 
Con  tutto  ciò  non  vi  stetti  che  un  giorno  ;  e  il  tempo  della  mia 
conversione  letteraria  e  politica  era  ancora  lontano  assai  :  mi  bi- 
sognava uscire  lungamente  d'Italia  per  conoscere  ed  apprezzar 
gl'Italiani.  Partii  dunque  per  Roma,  con   una  palpitazione  di 
cuore  quasiché  continua,  pochissimo  dormendo  la  notte,  e  tutto  j 
il  dì  ruminando  in  me  stesso  e  il  San  Pietro,  e  il  Coliseo,  ed  il 
Panteon;  cose  che  io  aveva  tanto  udite  esaltare;  ed  anche  far- 
neticava non  poco  su  alcune  località  della  storia  romana,  la  quale 
(benché  senza  ordine  e  senza  esattezza)  così  presa  in  grande  mi 
era  bastantemente  nota  ed  in  mente,  essendo  stata  la  sola  istoria  ] 
ch'io  avessi  voluto  alquanto  imparare  nella  mia  prima  gioventù. 

Finalmente,  ai  tanti  di  dicembre  dell'anno  1766  vidi  la  sospi- 
rata porta  del  Popolo;  e  benché  l'orridezza  e  miseria  del  paese 
da  Viterbo  in  poi  mi  avesse  fortemente  indisposto,  pure  quella 
superba  entrata  mi  racconsolò,  ed  appagommi  l'occhio  moltis- 
simo. Appena  eramo  discesi  alla  piazza  di  Spagna  dove  si  al- 
bergò, subito  noi  tre  giovanotti,  lasciato  l'ajo  riposarsi,  comin- 
ciammo a  correre  quel  rimanente  di  giorno,  e  si  visitò  alla  sfug- 
gita, tra  l'altre  cose,  il  Panteon.  I  miei  compagni  si  mostravano 
sul  totale  più  maravigliati  di  queste  cose,  di  quel  che  lo  fossi  io. 
Quando  poi  alcuni  anni  dopo  ebbi  veduti  i  loro  paesi,  mi  sou 
potuto  dare  facilmente  ragione  di  quel  loro  stupore  assai  mag- 
giore del  mio.  Vi  si  stette  allora  otto  giorni  soli,  in  cui  non  si 
fece  altro  che  correre  per  disbramare  quella  prima  impaziente 
curiosità.  Io  preferiva  però  molto  di  tornare  fin  due  volte  il 
giorno  a  San  Pietro,  al  veder  cose  nuove.  E  noterò,  che  quel- 
l'ammirabile riunione  di  eose  sublimi  non  mi  colpì  alla  prima 
quanto  avrei  desiderato  e  creduto,  ma  successivamente  poi  la 
maraviglia  mia  andò  sempre  crescendo;  e  ciò,  a  tal  segno,  ch'io 
non  ne  conobbi  ed  apprezzai  veramente  il  valore  se  non  se  molti 
anni  dopo,  allorché  stanco  della  misera  magnificenza  oltramon- 
tana, mi  venne  fatto  di  dovermi  trattenere  in  Roma  degli  anni. 


La  vita  59 

CAPITOLO  SECONDO 
Continuazione  dei  viaggi,  liberatomi  anche  dell'ajo. 

Incalzavaci  frattanto  l' imminente  inverno  ;  e  più  ancora  incal- 
zava io  il  tardissimo  ajo,  perchè  si  partisse  per  Napoli,  dove 
s'era  fatto  disegno  di  soggiornare  per  tutto  il  carnevale.   Par- 
timmo dunque  coi  vetturini,  sì  perchè  allora  le  strade  di  Roma 
a  Napoli  non  erano  quasi   praticabili,  sì  per  via  del  mio  came- 
riere Elia,  che  a  Radicofani  essendo  caduto  sotto  il  cavallo  di 
posta,  si  era  rotto  un  braccio,  e  ricoverato  poi  nella  nostra  car- 
rozza aveva  moltissimo  patito  negli  strabalzi  di  essa,  venendo 
così  fino  a  Roma.  Molto  coraggio  e  presenza  di   spirito  e  vera 
fortezza  d' animo  aveva  mostrato   costui  in   codesto  accidente  ; 
poiché  rialzatosi  da  sé,  ripreso  il  ronzino  per  le  redini,  si  avviò 
soletto  a  piedi  sino  a  Radicofani  distante  ancora  più  d' un  miglio. 
Quivi  fatto  cercare  un  chirurgo,  mentre  Io  stava  aspettando  si 
fece  sparare  la  manica  dell'  abito,  e  visitandosi  il  braccio  da  sé, 
trovatolo  rotto,  si  fece  tenere  ben  saldamente  la  mano  di  esso 
stendendolo  quanto  più  poteva,  e  coli 'altra  che  era  la  man  dritta 
se  lo  riattò  sì  perfettamente,  che  il  chirurgo,  giunto  quasi  nel 
tempo  stesso  che  noi  sopraggiungevamo  con  la  carrozza,  lo  trovò 
rassettato  a  guisa  d'arte  in  maniera  che  senza  più  altrimenti  toc- 
carlo, subito  lo  fasciò,  e  in  meno  di  un'ora  noi  ripartimmo,  col- 
locando il  ferito  in  carrozza,  il  quale  pure  con  viso  baldo  e  for- 
tissimo pativa  non  poco.  Giunti  ad  Acquapendente  si  trovò  rotto 
il  timone  della  carrozza  ;  del  che  trovandoci  noi  tutti  impiccia- 
tissimi,  cioè  noi  tre  ragazzi,  il   vecchio  ajo,  e  gli  altri  quattro 
stolidi  servitori,  quel  solo  Elia  col  braccio  al  collo,  tre  ore  dopo 
la  rottura,  era  più  in  moto,  e  più  efficacemente  di  noi  tutti  ado- 
peravasi  per  risarcire  il  timone;  e  così  bene  diresse  quella  prov- 
visoria rappezzatura,  che  in  meno  di  du'  altre  ore  si  ripartì,  e 
l'infermo  timone  ci  trascinò  senz'altro  accidente  poi  sino  a  Roma. 
Io  mi  son  compiaciuto  d'individuare  questo  fatto  episodico, 
come  tratto  caratteristico  di  un  uomo  di  molto  coraggio  e  gran 
presenza  di  spirito,  molto  più  che  al  suo  umile  stato  non  parea 
convenirsi.  Ed  in    nessuna  cosa  mi   compiaccio   maggiormente, 
che  nel  lodare  ed   ammirare  quelle  semplici   virtù  di  tempera- 
mento, che  ci  debbono  pur  tanto  far  piangere  sovra  i  pessimi 
governi,  che  le  trascurano,  o  le  temono  e  le  soffocano. 


60  Vittorio  Alfieri 

Si  arrivò  dunque  a  Napoli  la  seconda  festa  del  Natale,  con  un 
tempo  quasi  di  primavera.  L'entrata  da  Capo  di  China  per  gli 
Studj  e  Toledo,  mi  presentò  quella  città  in  aspetto  della  piìi  lieta 
e  popolosa  eh'  io  avessi  veduta  mai  fin  allora,  e  mi  rimarrà  sempre 
presente.  Non  fu  poi  lo  stesso,  quando  mi  toccò  di  albergare  in 
una  bettolaccia  posta  nel  più  bujo  e  sozzo  chiassuolo  della  città  : 
il  che  fu  di  necessità,  perchè  ogni  pulito  albergo  ritrovavasi 
pieno  zeppo  di  forestieri.  Ma  questa  contrarietà  mi  amareggiò 
assai  quel  soggiorno,  stante  che  in  me  la  località  lieta  o  no  della 
casa,  ha  sempre  avuto  una  irresistibile  influenza  sul  mio  pueri- 
lissimo  cervello,  sino  alla  più  innoltrata  età. 

In  pochi  giorni  per  mezzo  del  nostro  ministro*  fui  introdotto 
in  parecchie  case;  e  il  carnevale,  sì  per  gli  spettacoli  pubblici, 
che  per  le  molte  private  feste  e  varietà  d'oziosi  divertimenti,  mi 
riusciva  brillante  e  piacevole  più  ch'altro  mai  ch'io  avessi  ve- 
duto in  Torino.  Con  tutto  ciò  in  mezzo  a  quei  nuovi  e  continui 
tumulti,  libero  interamente  di  me,  con  bastanti  danari,  d'età 
diciott'anni,  ed  una  figura  avvenente,  io  ritrovava  per  tutto  la 
sazietà,  la  noja,  il  dolore.  Il  mio  più  vivo  piacere  era  la  musica 
burletta  del  Teatro  Nuovo  ;  ma  sempre  pure  quei  suoni,  ancorché 
dilettevoli,  lasciavano  ngll'animo  mio  una  lunghissima  romba  di 
malinconia;  e  mi  si  venivancdestando  a  centina7ànè  idee  le  più 
Jùriesfè  è  lugubri,  nelle  quali  mi  compiaceva  non  poco,  e  me  le 
andava  poi  ruminando  soletto  alle  sonanti,  spiagge  dT  Cfifàjà^  e 
di  J?oftici.  Con  parecchi  giovani  signori  Napoletani  avea  fatto 
conoscenza,  amicizia  con  niuno:  la  mia  natura  ritrosa  anzi  che 
no  mi  inibiva  di  ricercare;  e  portandone  la  viva  impronta  sul 
viso,  ella  inibiva  agli  altri  di  ricercar  me.  Così  delle  donne,  alle 
quali  per  natura  era  moltissimo  inclinato,  non  mi  piacendo  se 
non  le  modeste,  io  non  piaceva  pure  che  alle  sole  sfacciate:  il 
che  mi  facea  rimaner  sempre  col  cuor  vuoto.  Oltre  ciò,  l'arden- 
tissima  voglia  ch'io  sempre  nutriva  in  me  di  viaggiare  oltre  i 
monti,  mi  facea  sfuggire  di  allacciarmi  in  nessuna  catena  d'amore; 
e  così  in  quel  primo  viaggio  uscii  salvo  da  ogni  rete.  Tutto  il 
giorno  io  correva  in  quei  divertentissimi  calessetti  a  veder  le 
cose  più  lontane;  e  non  per  vederle,  che  di  nulla  avea  curiosità 
e  di  nessuna  intendeva,  ma  per  fare  la  strada,  che  dell'andare 
non  mi  saziava  mai,  ma  immediatamente  mi  addolorava  lo  stare. 

>  L'ambasciatore  sardo. 


La  vita  61 

Inbodotto  a  corte,  benché  quel  re,  Ferdinando  VI,  fosse  allora 
in  età  di  15,  o  16  anni,  gli  trovai  pure  una  total  somiglianza  di 
contegno  con  i  tre  altri  sovrani  eh'  io  avea  veduti  fin  allora  ;  ed 
erano  il  mio  ottimo  re  Carlo  Emanuele,  vecchione;  il  duca  di 
Modena,  governatore  in  Milano;  e  il  granduca  di  Toscana  Leo- 
poldo, giovanissimo  anch' egli.  Onde  intesi  benissimo  fin  da  quel 
punto,  che  i  principi  tutti  non  aveano  fra  loro  che  un  solo  viso, 
e  che  le  corti  tutte  non  erano  che  una  sola  anticamera".  In  co- 
desto mio  soggiorno  di  Napoli  intavolai  il  mio  secondo  raggiro 
per  mezzo  del  nostro  ministro  di  Sardegna,  per  ottenere  dalla 
corte  di  Torino  la  pernrissione  di  lasciare  il  mio  ajo,  e  di  con- 
tinuare il  mio  viaggio  da  me.  Benché  noi  giovanotti  vivessimo 
in  perfetta  armonia,  e  che  l'ajo  non  più  a  me  che  ad  essi  cagio- 
nasse il  minimo  fastidio,  tuttavia  siccome  per  le  gite  da  una  al- 
l'altra città  bisognava  pure  combinarci,  per  muovere  insieme,  e 
siccome  quel  vecchio  era  sempre  irresoluto,  mutabile,  e  indugia- 
tore, quella  dipendenza  mi  urtava.  Convenne  dunque  ch'io  mi 
piegassi  a  pregare  il  ministro  di  scrivere  in  mio  favore  a  Torino, 
e  di  testimoniare  della  mia  buona  condotta  e  della  intera  capa- 
cità mia  di  regolarmi  da  me  stesso,  e  di  viaggiar  solo.  La  cosa 
mi  riuscì  con  mia  somma  soddisfazione,  e  ne  contrassi  molta  gra- 
titudine col  ministro,  il  quale  avendomi  preso  anche  a  ben  vo- 
lere, fu  il  primo  che  mi  mettesse  in  capo  ch'io  dovrei  tirarmi 
innanzi  a  studiar  la  politica  per  entrare  nell'aringo  diplomatico. 
La  cosa  mi  piacque  assai;  e  mi  parve  allora,  che  quella  fosse  di 
tutte  le  servitù  la  men  serva;  e  ci  rivolsi  il  pensiero,  senza  però 
studiar  nulla  mai.  Limitando  il  mio  desiderio  in  me  stesso,  non 
l'esternai  con  chi  che  sia,  e  mi  contentai  di  tenere  frattanto  una 
condotta  regolare  e  decente  per  tutto,  superiore  forse  alla  mia 
età.  Ma  in  questo  mi  serviva  la  natura  mia  assai  più  ancora  che 
il  volere;  essendo  io  stato  sempre  grave  di  costumi  e  di  modi 
(senza  impostura  però),  ed  ordinato,  direi,  nello  stesso  disordine; 
ed  avendo  quasi  sempre  errato  sapendolo. 

Io  viveva  frattanto  in  tutto  e  per  tutto  ignoto  a  me  stesso;  non  j^f 
mi  credendo  vera   capacità    per   nessuna  cosa   al   mondo;   non 
avendo  nessunissimo  impulso  deciso,  altro  che  alla  continua  ma- 
linconia; non  ritrovando  mai  pace  né  requie,  e  non  sapendo  pur 
mai  quello  che  io  mi  desiderassi.  Obbedendo  ciecamente  alla 

>  Erano  doi  tutte  piene  di  servi. 


62  Vittorio  Alfieri 

natura  mia,  con  tutto  ciò  io  non  la  conosceva  né  studiava  per 
niente  ;  e  soltanto  molti  anni  dopo  mi  avvidi,  che  la  mia  infelicità 
proveniva  soltanto  dal  bisogno,  anzi  necessità  ch'era  in  me  di 
avere  ad  un  tempo  stesso  il  cuore  occupato  da  un  degno  amore, 
e  la  mente  da  un  qualche  nobile  lavoro  ;  e  ogni  qual  volta  l'una 
delle  due  cose  mi  mancò,  io  rimasi  incapace  dell'altra,  e  sazio  e 
infastidito  e  oltre  ogni  dire  angustiato. 

Frattanto,  per  mettere  in  uso  la  mia  nuova  indipendenza  totale, 
appena  finito  il  carnovale  volli  assolutamente  partirmene  solo  per 
Roma,  atteso  che  il  vecchio,  dicendo  di  aspettar  lettere  di  Fiandra, 
non  fissava  nessun  tempo  per  la  partenza  dei  suoi  pupilli.  Io,  im- 
paziente di  lasciar  Napoli,  di  rivedere  Roma;  o,  per  dir  vero,  impa- 
zientissimo di  ritrovarmi  solo  e  signore  di  me  in  una  strada 
maestra,  lontana  trecento  e  più  miglia  dalla  mia  prigione  natia  ; 
non  volli  differire  altrimenti,  e  abbandonai  i  compagni:  ed  in  ciò 
feci  bene,  perchè  in  fatti  poi  essi  stettero  tutto  l'aprile  in  Napoli, 
e  non  furono  per  ciò  più  in  tempo  per  ritrovarsi  all'Ascensione 
in  Venezia,  cosa  che  a  me  premeva  allora  moltissimo. 


CAPITOLO  TERZO 

Proseguimento  dei  viaggi.  Prima  mia  avarizia. 

Giunto  a  Roma,  previo  *  il  mio  fidato  Elia,  azzeccai  a  pie  delle 
scalere  della  Trinità  de'  JVlonti  un  grazioso  quartierino  molto  gajo 
e  pulito,  che  mi  racconsolò  della  sudiceria  di  Napoli.  Stessa  dis- 
sipazione, stessa  noja,  stessa  malinconia,  stessa  smania  di  rimet- 
termi in  viaggio.  E  il  peggio  era,  stessissima  ignoranza  delle 
cose  le  più  svergognanti  chi  le  ignora  ;  e  maggiore  ogni  giorno 
l'insensibilità  per  le  tante  belle  e  grandiose  cose  di  cui  Roma 
ridonda;  limitandomi  a  quattro  e  cinque  delle  principali  che 
sempre  ritornava  a  vedere.  Ogni  giorno  poi  capitando  dal  conte 
di  Rivera  ministro  di  Sardegna,  degnissimo  vecchio,  il  quale 
ancorché  sordo  non  mi  veniva  pur  punto  a  noja,  e  mi  dava  degli 
ottimi  e  luminosi  consigli;  mi  accadde  un  giorno  che  si  trovò  da 
lui  su  una  tavola  un  bellissimo  Virgilio  in  folio,  aperto  spalan- 
cato al  sesto  delP  Eneide.  Quel  buon  vecchio  vedendomi  entrare, 
accennatomi  d'accostarmi,  cominciò  ad  intuonare  con  entusiasmo 

1  Avendo  spedito  innanzi. 


La  vita  t)3 

quei  beUissimi  versi  per  Marcello  così  rinomati  e  saputi  da  tutti'. 
Ma  io,  che  quasi  più  punto  non  gli  intendeva,  benché  gli  avessi 
e  spiegati  e  tradotti  e  saputi  a  memoria  circa  sei  anni  prima,  mi 
vergognai  sommamente  e  me  ne  accorai  per  tal  modo,  che  per 
pili  giorni  mi  ruminai  il  mio  obbrobrio  in  me  stesso,  e  non  ca- 
pitai piìi  dal  conte.  Con  tutto  ciò  la  ruggine  sovra  il  mio  intel- 
letto si  andava  incrostando  sì  densa,  e  tale  di  giorno  in  giorno 
sempre  piii  diveniva,  che  assai  più  tagliente  scalpello  ci  volea  che 
un  passaggiero  rincrescimento,  a  volemela  estirpare.  Onde  passò 
quella  sacrosanta  vergogna  senza  lasciare  in  me  orma  nessuna 
per  allora,  e  non  lessi  altrimenti  né  Virgilio,  né  alcun  altro  buon 
libro  in  nessuna  lingua,  per  degli  anni  parecchi. 

In  questa  mia  seconda  dimora  in  Roma  fui  introdotto  al  Papa, 
che  era  allora  Clemente  XHI,  bel  vecchio,  e  di  una  veneranda 
maestà;  la  quale  aggiunta  alla  magnificenza  locale  del  Palazzo 
di  Montecavallo',  fece  sì  che  non  mi  cagionò  punto  ribrezzo  la 
solita  prosternazione  e  il  bacio  del  piede,  benché  io  avessi  letta 
la  storia  ecclesiastica',  e  sapessi  il  giusto  valore  di  quel  piede. 

Per  mezzo  poi  del  predetto  conte  di  Rivera,  io  intavolai  e  riuscii 
il  mio  terzo  raggiro  presso  la  corte  patema  di  Torino,  per  otte- 
nere la  permissione  di  un  secondo  anno  di  viaggi  in  cui  desti- 
nava di  vedere  la  Francia,  l'Inghilterra  e  l'Olanda;  nomi  che  mi 
suonavano  maraviglia  e  diletto  nella  mia  giovinezza  inesperta. 
E  anche  questo  terzo  raggiretto  mi  riuscì  ;  onde,  ottenuto  quel- 
l'anno più*,  per  tutto  il  1768  in  circa  io  mi  trovava  in  piena 
libertà  e  certezza  di  poter  correre  il  mondo.  Ma  nacque  allora 
una  piccola  difficoltà,  la  quale  mi  contristò  lungamente.  Il  mio 
Curatore,  col  quale  non  si  era  mai  entrato  in  conti,  e  che  non 
mi  avea  mai  fatto  vedere  in  chiaro  con  esattezza  quello  ch'io 
m'avessi  d'entrata;  dandomi  parole  diverse  ed  ambigue,  ed  ora 
accordandomi  danari,  ora  no;  mi  scrisse  in  quell'occasione  del- 
l'ottenuta permissione,  che  pel  second'anno  mi  avrebbe  sqpinu- 
nistrata  una  credenziale  di  1500  zecchini',  non  me  ne  avendo  dati 
che  soli  1200  pel  primo  viaggio.  Questa  sua  intimazione  mi  sbi- 
gottì assai,  senza  però  scoraggirmi.  Udendo  io  sempre  mento- 

»  Entidf,  VI,  w.  855  e  «egg. 

*  Quirinale. 

»  Cfr.  Ep.  II,  cap.  vii. 

*  In  più. 

*  Circa  15.000  lire  delle  nostre. 


64  Vittorio  Al/ieri 

vare  la  gran  carezza  dei  paesi  oltramontani,  mi  riusciva  assai 
dura  cosa  di  dovermivi  trovare  sprovvisto,  e  di  esservi  costretto 
a  far  delle  triste  figure.  Per  altra  parte  poi,  io  non  mi  arrischiava 
di  scrivere  di  buon  inchiostro  allo  stitico  curatore,  perchè  a  quel 
modo  l'avrei  subito  avuto  contrario;  e  m'avrebbe  intuonato  la 
parola  Re,  la  quale  in  Torino  nei  più  interni  affari  domestici  si 
suole  sempre  intrudere,  fra  il  ceto  dei  nobili  '  ;  e  gli  sarebbe  stato 
facilissimo  di  divulgarmi  per  discolo  e  scialacquatore,  e  di  farmi 
come  tale  richiamar  subito  in  patria.  Non  feci  dunque  nessuna 
querela  col  curatore,  ma  presi  in  me  la  risoluzione  di  risparmiare 
quanti  più  danari  potrei  in  quel  primo  viaggio  dai  1200  zecchini 
già  assegnatimi,  per  così  accrescere  quanto  più  potrei  ai  1500  da 
esigersi,  e  che  mi  pareano  scarsissimi  per  un  anno  di  viaggi 
oltramontani.  In  questo  modo  io  per  la  prima  volta,  da  un  giusto 
e  piuttosto  largo  spendere,  ristrettomi  alla  meschinità,  provai  un 
doloroso  accesso  di  sordida  avarizia.  Ed  andò  questa  tant'oltre, 
che  non  solo  non  andava  più  a  visitare  nessuna  delle  curiosità 
di  Roma  per  non  dare  le  mancie,  ma  anche  al  mio  fidato  e  diletto 
Elia,  procrastinandolo  d'un  giorno  in  un  altro,  io  venni  a  negargli 
i  danari  del  suo  salario  e  vitto,  a  segno  ch'egli  mi  si  protestò 
ch'io  lo  sforzerei  a  rubarmeli  per  campare.  Allora,  di  mal  animo, 
glie  li  diedi. 

Rimpicciolito  così  di  mente  e  di  cuore,  partii  verso  i  primi  di 
maggio  alla  volta  di  Venezia;  e  la  mia  meschinità  mi  fece  pren- 
dere il  vetturino,  ancorché  io  abborrissi  quel  passo  mulare:  ma 
pure  il  divario  tra  la  posta  e  la  vettura  essendo  si  grande,  io  mi 
vi  sottoposi,  e  mi  avviai  bestemmiando,  lo  lasciava  nel  calesse 
Elia  col  servitore,  e  me  n'andava  cavalcando  un  umile  ronzino, 
che  ad  ogni  terzo  passo  inciampava  ;  onde  io  faceva  quasi  tutta 
la  strada  a  piedi,  conteggiando  così  sottovoce  e  su  le  dita  della 
mano  quanto  mi  costerebbero  quei  dieci  o  dodici  giorni  di  viaggio  ; 
quanto  un  mese  di  soggiorno  in  Venezia;  quanto  sarebbe  il 
risparmio  all'uscir  d'Italia,  e  quanto  questa  cosa,  e  quanto  ques- 
t'altra; e  mi  logorava  il  cuore  e  il  cervello  in  cotali  sudicierie. 

Il  vetturino  era  patteggiato  da  me  sino  a  Bologna  per  la  via 
di  Loreto;  ma  giunto  con  tanta  noja  e  strettezza  d'animo  in  Lo- 
reto, non  potei  più  star  saldo  all'avarizia  e  alla  mula;  e  non 
volli  più  continuare  di  quel  mortifero  passo.   E  qui  la  nascente 

1  Cfr.  Ep.  IV,  cip.  VI. 


tji  vita  ÓS 

gelata  avarìzia  rimase  vinta  e  sbeffata  dalla  bollente  indole  e 
dalla  giovanile  insofferenza.  Onde,  fatto  a  dirittura  un  grosso 
sbilancio,  sborsai  al  vetturino  quasi  che  tutto  il  pattuito  impor- 
tare di  tutto  il  viaggio  di  Roma  a  Bologna,  e  piantatolo  in  Lo- 
reto, me  ne  partii  per  le  poste  tutto  riavutomi;  e  l'avarizia  di- 
ventò d'allora  in  poi  un  giusto  ordine,  ma  senza  spilorceria. 

Bologna  non  mi  piacque  nulla  più,  anzi  meno  al  ritorno  che 
non  mi  fosse  piaciuta  all'andare;  Loreto  non  mi  compunse  di 
divozione  nessuna;  e  non  sospirando  altro  che  Venezia,  della 
quale  avea  udito  tante  maraviglie  già  fin  da  ragazzo,  dopo  un 
solo  giorno  di  stazione  in  Bologna  proseguii  per  Ferrara.  Passai 
anche  questa  città  senza  pur  ricordarmi,  eh'  ella  era  la  patria  e 
la  tomba  di  quel  divino  Ariosto'  di  cui  pure  avea  letto  in  parte 
il  poema  con  infinito  piacere,  e  i  di  cui  versi  erano  stati  i  primi 
primissimi  che  mi  fossero  capitati  alle  mani.  Ma  il  mio  povero 
intelletto  dormiva  allora  di  un  sordissimo  sonno,  e  ogni  giorno 
più  s' inrugginiva  quanto  alle  lettere.  Vero  è  però,  che  quanto 
alla  scienza  del  mondo  e  degli  uomini,  io  andava  acquistando 
non  poco  ogni  giorno  senza  avvedermene,  stante  la  gran  quan- 
tità di  continui  e  diversi  quadri  morali  che  mi  venivan  visti  e 
osservati  giornalmente. 

Al  ponte  di  Lagoscuro  m'imbarcai  su  la  barca  Corriera  di 
Venezia  ;  e  mi  vi  trovai  in  compagnia  d'alcune  ballerine  di  teatro, 
di  cui  una  era  bellissima;  ma  questo  non  mi  alleggerì  punto  la 
noja  di  quell'imbarcazione,  che  durò  due  giorni  e  una  notte, 
sino  a  Chiozza,  atteso  che  codeste  ninfe  faceano  le  Susanne,  e 
che  io  non  ho  mai  tollerato  la  simulata  virtù. 

Ed  eccomi  finalmente  in  Venezia.  Nei  primi  giorni  l'inusitata 
località  mi  riempi  di  maraviglia  e  diletto;  e  me  ne  piacque  per- 
fino il  gergo,  forse  perchè  dalle  commedie  del  Goldoni  ne  avea 
sin  da  ragazzo  contratta  una  certa  assuefazione  d'orecchio;  ed 
in  fatti  quel  dialetto  è  grazioso,  e  manca  soltanto  di  maestà.  La 
folla  dei  forestieri,  la  quantità  dei  teatri,  ed  i  molti  divertimenti 
e  feste  che,  oltre  le  solite  farsi  per  ogni  fiera  dell' Ascensa',  si 
davano  in  quell'anno  a  contemplazione^  del  duca  di  Wirtemberg, 
e  tra  l'altre  la  sontuosa  regata,  mi  fecero  trattenere  in  Venezia 
sino  a  mezzo  Giugno,  ma  non  mi  tennero  perciò   divertito.  La 

>  L'Arìosto  veramente  nacque  a  Reggio. 

*  Ascensione:  una  delle  magj^ìori  feste  veneziane. 

•  In  onore. 

'>■   -  Classici  Italiani.  N.  2. 


gg  Vittorio  Alfieri 

^     solita  malinconia,  la  noja.  e  i:Jnsofferenza  dello  «tare,  tHomin- 
?     ciav^no  a  darmi  i  loro  aspri  morsi  tosto  cheJajiovitadfifilLPg- 
\     getti  trovavasiammorzata.-passaTpIu  giorni  in  Venezia  sohssimo 
lenza  uscir  di  casaresenza  pure  far  nulla  che  stare  alla  fmest  a, 
dlTove  andava  facendo   dei   segnuzzi.  e   qualche  breve  d.alo- 
ghetto  con  una  signorina  che  mi  abitava  di  faccia;  e  il  rima- 
nente del  giorno  lunghissimo,  me  lo  passava  o  dormicchiando, 
"ruminando  non  saprei  che,  o  il  più  spesso  anche  piangendo, 
C-nèTdi  che.  sen_z^maMr^va^pace,.nèlnv^^ 
\    pffi=g'^eIircagiorrrdiriirin^S^^  MoUi  anni 

^  l^ssèiWnimTmrp^-meglio.  mi  convinsi  poi  che  questo 
era  ì;  me  un  accesso  periodico   d'ogni  anno   nella  primavera 
alle  volte  in  aprile,  alle  volte  anche  sino  a  tut  o  giugno;  e  p  u 
o  meno  durevole  e  da  me  sentito,  secondo  che  il  cuore  e  la  men  e 
:i":mbinavano  essere  allora  più  o  meno  vuoti  ed  oz.o^  Nel  o 
istesso  modo  ho  osservato  poi,  paragonando  il  mio  intelletto  ad 
uteccellente  barometro,  che  io  mi  trovava  avere  ««gegno  e  ca 
"cita  al  comporre  più  o  meno,  secondo  il  più  «  -ri  peso  del- 
l'aria;  ed  una  totale  stupidità  nei  gran  venti  solstmali  ed  equi 
noziali;  ed  una  infinitamente  minore  perspicacita  la  sera  che  la 
nLina';  e  assai  più  fantasia,  entusiasmo,  e  attitudine  al    inven 
tare  nel  sommo  inverno  e  nella  somma  state  che  non  nelle  sta 
iToni  di  mezzo.  Questa  mia  materialità,  che  credo  pure  in  gran 
par"  e  sere  comune  un  po'  più  un  po'  meno  a  tutti  g  i  uomin 
di  fibra  sottile,  mi  ha  poi  col  tempo  scemato  evannuUato  ogni 
o  gog  lo  del  poco  bene  ch'io  forse  andava  alle  volte  operando 
Tme'anche  mi  ha  in  gran  parte  diminuito  la  vergogna  del  an  o 
niù  male  che  avrò  certamente  fatto,  e  massime   ne  1  arte   mia, 
Ssendomi  pienamente  convinto  che  non  era  quasi  in  me  U  pò- 
tere  in  quei  dati  tempi  fare  altrimenti. 

CAPITOLO  QUARTO 
Fine  del  viaggio  d'Italia;  e  mio  primo  arrivo  a  Parigi. 

r.,  .  ro  v'iagpoToUraLn.ì,  no,,  ne  cavai  neppur.  U  m,n,™o 


La  vita  67 

basti  il  dire  con  mio  infinito  rossore,  che  né  pure  l'Arsenale. 
Non  presi  nessunissima  notizia,  anco  delle  più  alla  grossa,  su 
quel  governo  che  in  ogni  cosa  differisce  da  ogni  altro:  e  che, 
se  non  buono,  dee  riputarsi  almen  raro,  poiché  pure  per  tanti 
secoli  ha  sussistito  con  tanto  lustro,  prosperità,  e  quiete.  Ma  io, 
digiuno  sempre  d'  ogni  beli'  arte,  turpemente  vegetava,  e  non 
altro.  Finalmente  partii  di  Venezia  al  solito  con  mille  volte  assai 
maggior  gusto  che  non  c'era  arrivato.  Giunto  a  Padova,  ella  mi 
spiacque  molto;  non  vi  conobbi  nessuno  dei  tanti  professori  di 
vaglia,  i  quali  desiderai  poi  di  conoscere  molti  anni  dopo:  anzi, 
allora  al  solo  nome  di  professori,  di  studio,  e  di  Università,  io 
mi  sentiva  rabbrividire.  Non  mi  ricordai  (anzi  neppur  lo  sapeva), 
che  poche  miglia  distante  da  Padova  giacessero  le  ossa  del  nostro 
gran  luminare  secondo,  il  Petrarca*  ;  e  che  m' importava  egli  di 
lui,  io  che  mai  non  l'avea  né  letto,  né  inteso,  né  sentito,  ma 
appena  appena  preso  fra  le  mani  talvolta,  e,  non  v'  intendendo 
nulla,  buttatolo?  Perpetuamente  così  spronato  e  incalzato  dalla 
noja  e  dall'ozio,  passai  Vicenza,  Verona,  Mantova,  Milano,  e  in 
fretta  in  furia  mi  ridussi  in  Genova,  città  che  da  me  veduta  alia 
sfuggita  qualch'anni  prima,  mi  avea  lasciato  un  certo  desiderio 
di  sé.  Io  aveva  delle  lettere  di  raccomandazione  in  quasi  tutte  le 
-uddette  città,  ma  per  lo  piìi  non  le  ricapitava,  o  se  pur  lo  fa- 
ceva, il  mio  solito  era  di  non  mi  lasciar  più  vedere;  fuorché 
quelle  persone  non  mi  venissero  insistentemente  a  cercare,  il 
che  non  accadea  quasi  mai,  e  non  doveva  in  fatti  accadere.  Questa 
sì  fatta  selvatichezza  era  in  me  occasionata  in  parte  da  fie- 
riezza  e  inflessibilità  d' ineducato  carattere,  in  parte  da  una 
renitenza  naturale  e  quasi  invincibile  al  veder  visi  nuovi.  Ed  era 
pur  cosa  impossibile  davvero  di  andar  sempre  cangiando  paese 
senza  che  mi  si  cangiassero  le  persone.  Avrei  voluto  per  la  parte 
del  cuore  convivere  sempre  con  la  stessa  gente;  ma  sempre  in 
luogo  diverso. 

In  Genova'  dunque,  non  vi  essendo  allora  il  ministro  di  Sar- 
degna, e  non  conoscendovi  altri. dhe^ il  mio  banchiere,  non  tardai 
anche  molto  a  tediarmi  ;  e  già  aveva  fissato  di  partirne  verso  il 
fine  di  giugno,  allorché  un  giorno  quel  banchiere,  uomo  di  mondo 


>  Cfr.  Ep.  IV,  cap.  viii. 

»  V.:  A.  Nmi,  Ornava  e  V.  Alfieri,  in  e  Giornale  storico  e  letterario 
delU  Liguria  >.  IV.  7«9. 


68  Vittorio  Alfieri 

e  di  garbo,  v^tiittnmj^  a  visitare,  e  trovatomi  così  solitario^el- 
vatico  «malinconico,  volle  sapere  come  io  passassi  il  mio  tempo  ; 
e  Vid^domi  senza  libri,  senza  jconoscenze,  senza  occupazione 
altra  che"di-  StSTé^nBàTcónr,  e  correre  tutto  il  giorno  perje  vie 
di  Oeììó^^irrdiT^iiggi^  pel  lido  in  barchetta;  gli  prese  forse 
una  certa  compassione  di  me  e  della  mia  giovinezza,  e  volle 
assolutamente  portarmi  da  un  cavaliere  suo  amico.  Questi  era 
il  signor  Carlo  Negroni,  che  avea  passata  gran  parte  della  sua 
vita  in  Parigi,  e  che  vedendomi  cotanto  invogliato  di  andarvi, 
me  ne  disse  quel  vero  e  schietto,  al  quale  non  prestai  fede  se 
non  se  alcuni  mesi  dopo,  tosto  che  vi  fui  arrivato.  Frattanto  quel 
garbato  signore  mi  introdusse  in  parecchie  case  delle  primarie; 
e  all'occasione  del  famoso  banchetto  che  si  suol  dare  dal  Doge 
nuovo    egli  mi  servì  d'introduttore  e  compagno.  E  là  fui  quasi 
quasi  sul  punto  d'innamorarmi  d'una  gentil  signora,  la  quale 
mi  si  mostrava  bastantemente  benigna.  Ma  per  altra  parte  sma- 
niando io  di  correre  il  mondo  e  di  abbandonar  l' Italia,  Amore 
non  potè  per  quella  volta  afferrarmi,  ma  me  la  serbo  per  non 

molto  dopo.  ,i    j-  »„ 

Partito  finalmente  per  mare  in  una  feluchetta^  alla  volta  di  An- 
tibo  pareva  a  me  d'andare  all'  Indie.  Non  mi  era  mai  scostato 
da  terra  più  che  poche  miglia  nelle  mie  passeggiate  marittime; 
ma  allora,  alzatosi  un  venticello  favorevole,  si  prese  il  largo; 
successivamente  poi  rinforzò  tanto  il  vento,  che  fattosi  perico- 
loso fummo  costretti  di  pigliar  porto  in  Savona,  e  soggiornarvi 
due  dì  per  aspettare  buon  tempo.  Questo  ritardo  mi  nojo  ed  af- 
flisse moltissimoj  e  non  uscii  mai  di  casa,  neppure  per  visitare 
-Quella  famosissima  Madonna  di  Savona.  Io  non  voleva  più  asso- 
lutamente vedere  né  sentir  nulla  dell'Italia;  onde  ogni  istante 
di  più  che  mi  ci  dovea  trattenere,  mi  pareva  una  dura  difalca- 
zione  dei  tanti  diletti  che  mi  aspettavano  in  Francia.  Frutto  in 
me  di  una  sregolata  faptasja^  che  tutti  i  benU-lHitU-J^ali  mi 
ingrandiva^SiHp^TSitreiii^d^rpi^a"^^  ^""^^^^  P°'  ^'' 

uni  e  gli  altri,  e  princìFalmente  i  BèhTT  all'atto  pratico  poi  non 

mi  parevano  nulla. 

Giunto  pure  una  volta  in  Antibo,  e  sbarcatovi,  parca  che  tutto 
mi  racconsolasse  l'udire  altra  lingua,  il  vedere  altri  usi,  altro 

1  Nome  di  nave,  passato  poi  al  cappello  di  cui  ancora  fanno  uso  gli  uffi- 
ciali di  marina.  [R.\. 


La  vita  69 

fabbricato,  altre  faccie;  e  benché  tutto  fosse  piuttosto  diverso  in 
peggio  che  in  meglio,  pure  mi  dilettava  quella  piccola  varietà.  Tosto 
ripartii  per  Tolone;  e  appena  in  Tolone  volli  ripartir  per  Mar- 
siglia, non  avendo  visto  nulla  in  Tolone,  città  la  cui  faccia  mi 
dispiacque  moltissimo.  Non  così  di  Marsiglia, il  cui  ridente  aspetto, 
le  nuove,  ben  diritte  e  pulite  vie,  il  bel  corso,  il  bel  porto,  e  le 
leggiadre  e  proterve'  donzelle,  mi  piacquero  sommamente  alla 
prima  ;  e  subito  mi  determinai  di  starvi  un  mesetto,  per  lasciare 
sfogare  anche  gli  eccessivi  calori  del  luglio,  poco  opportuni  al 
viaggiare.  Nel  mio  albergo  v'era  giornalmente  tavola  rotonda, 
onde  io  trovandomi  aver  compag^nia  a  pranzo  e  cena,  senza  es- 
sere costretto  di  parlare  (cosa  che  sempre  mi  costò  qualche  sforzo, 
sendo  di  taciturna  natura),  io  passava  con  soddisfazione  le  altre 
ore  del  giorno  da  me.  E  la  mia  taciturnità,  di  cui  era  anche  in 
parte  cagione  una  certa  timidità  che  non  ho  mai  vinta  del  tutto 
in  appresso,  si  andava  anche  raddoppiando  a  quella  tavola,  at- 
tesa la  costante  garrulità  dei  Francesi,  i  quali  vi  si  trovavano  di 
ogni  specie;  ma  i  più  erano  uffiziali,  o  negozianti.  Con  nessuno 
però  di  essi  né  amicizia  contrassi  ne  famigliarità,  non  essendo 
io  in  ciò  mai  stato  di  natura  liberale  ne  facile.  Io  li  stava  bensì 
^'^coltando  volentieri,  benché  non  v'imparassi  nulla;  ma  lo  ascol- 

re  é  una  cosa  che  non  mi  ha  costato  mai  pena,  anche  i  più 
j.iocchi  discorsi,  dai  quali  si  apprende  tutto  quello  che  non  va 
detto. 

Una  delie  ragioni  che  mi  aveano  fatto  desiderare  maggiormente 
la  Francia,  si  era  di  poterne  seguitatamente  godere  il  teatro.  Io 
avea  veduto  due  anni  prima  in  Torino  unacompagnia  di  comici 
traricesi,  e  per  tutta  un'estate  l'aveva  assiduamente  praticata; 
onde  molte  delle  principali  tragedie,  e  quasi  tutte  le  più  celebri 
commedie,  mi  erano  note.  Io  debbo  però  dire  pel  vero,  che  sì 
in  Torino  che  in  Francia;  sì  in  quel  primo  viaggio,  come  nel 
secondo  fattovi  due  anni  e  più  dopo;  non  mi  cadde  mai  nel- 
l'animo, né  in  |>ensiero  pure,  ch'io  volessi  o  potessi  mai  scri- 
vere delle  composizioni  teatrali.  Onde  io  ascoltava  le  altrui  con 
attenzione  si,  ma  senza  intenzione  nessuna;  e,  eh 'è  più,  senza 
sentirmi  nessunissimo  impulso  al  creare  ;  anzi  sul  totale  mi  di- 
»i]3ÌX4_assai_piùJacoinmediaj  di  quello  che  uu^  toccisséla~Tra- 
gedia,  ancorché  per  natura  mia  fossi  tanto  più  inclinato  al  pianto 

«  Or.  Ep.  Ili,  ctp.  I. 


70  Vittorio  Al/ieri 

che  al  riso.  Riflettendovi  poi  in  appresso,  mi  parve  che  l'una 
delle  principali  ragioni  di  questa  mia  indifferenza  per  la  tra- 
gedia, nascesse  dall'esservi  in  quasi  tutte  le  tragedie  francesi 
delle  scene  intere,  e  spesso  anche  degli  atti,  che  dando  luogo  a 
personaggi  secondarli  mi  raffreddavano  la  mente  ed  il  cuore 
assaissimo,  allungando  senza  bisogno  l'azione,  o  per  meglio  dire 
interrompendola.  Vi  si  aggiungeva  poi,  che  l'orecchio  mio,  an- 
corché io  non  volessi  essere  Italiano,  pur  mi  serviva  ottimamente 
malgrado  mio,  e  mi  avvertiva  della  noiosa  e  insulsa  uniformità 
di  quel  verseggiare  a  pariglia  a  pariglia  di  rime^,  e  i  versi  a 
mezzi  a  mezzi  ^,  con  tanta  trivialità  di  modi,  e  sì  spiacevole  na- 
salità di  suoni:  onde,  senza  ch'io  sapessi  pur  dire  il  perchè, 
essendo  quegli  attori  eccellenti  rispetto  ai  nostri  iniquissimi; 
essendo  le  cose  da  essi  recitate  per  lo  più  ottime  quanto  all'af- 
fetto, alla  condotta,  e  ai  pensieri;  io  con  tutto  ciò  vi  andava 
provando  una  freddezza  di  tempo  in  tempo,  che  mi  lasciava  mal 
soddisfatto.  Le  tragedie  che  mi  andavano  più  a  genio,  erano  la 
Fedra ^,  l'Alzira,  il  Maometto*  e  poche  altre. 

Oltre  il  teatro,  era  anche  uno  de'  miei  divertimenti  in  Niar- 
siglia  il  bagnarmi  quasi  ogni  sera  nel  mare.  Mi  era  venuto  tro- 
vato un  luoghetto  graziosissimo  ad  una  certa  punta  di  terra 
posta  a  man  dritta  fuori  del  porto,  dove  sedendomi  su  la  rena 
con  le  spalle  addossate  a  uno  scoglio  ben  altetto  che  mi  toglieva 
ogni  vista  della  terra  da  tergo,  innanzi  ed  intorno  a  me  non 
vedeva  altro  che  mare  e  cielo;  e  così  fra  quelle  due  immensità 
abbellite  anche  molto  dai  raggi  del  sole  che  si  tuffava  nell'onde, 
io  mi  pa^avartm^of^^didelizie  fantasticaudo  ;  e  quivi  avrei  com- 
poste molte  poesie,  se  io  avessi  saputo  scrivere  o  in  rima  o  in 
prosa  in  una  lingua  qual  che  si  fosse. 

Ma  tediatomi  pure  anche  del  soggiorno  di  Marsiglia,  perchè 
ogni  cosa  presto  tedia  gli  oziosi;  ed  incalzato  ferocemente  dalla 
frenesia  di  Parigi;  partii  verso  il  10  d'agosto,  e  più  come  fug- 
gitivo che  come  viaggiatore,  andai  notte  e  giorno  senza  posarmi 
sino  a  Lione.  Non  Aix  col  suo  magnifico  e  ridente  passeggio; 
non  Avignone,  già  sede  papale,  e  tomba  della  celebre  Laura; 
non  Valchiusa,  stanza  già  sì  gran  tempo  del  nostro  divino  Pe- 

>  A  coppie  di  rime. 

«  Perchè  l'alessandrino  consta  di  due  settenari. 

»  Di  Racine. 

«  Entrambi  di  VoltairCi 


La  vita  71 

trarca;  nulla  mi  potea  distornare  dall'andar  dritto  a  guisa  di 
saetta  in  verso  Parigi.  In  Lione  la  stanchezza  mi  fece  trattenere 
due  notti  e  un  giorno;  e  ripartitone  con  lo  stesso  furore,  in 
meno  di  tre  giorni  per  la  via  della  Borgogna  mi  condussi  in 
Parigi. 

CAPITOLO  QUINTO 

Primo  soggiorno  in  Parigi. 

Era,  non  ben  mi  ricordo  il  dì  quanti  di  agosto,  ma  fra  il  15, 
e  il  20,  una  mattinata  nubilosa,  fredda  e  piovosa;  io  lasciava 
quel  bellissimo  cielo  di  Provenza  e  d'Italia;  e  non  era  mai  ca- 
pitato fra  sì  fatte  sudicie  nebbie  ;  massimamente  in  agosto  :  onde 
l'entrare  in  Parigi  pel  sobborgo  miserrimo  di  San  Marcello,  e  il 
progredire  poi  quasi  in  un  fetido  fangoso  sepolcro  nel  sobborgo 
di  San  Germano,  dove  andava  ad  albergo,  mi  serrò  sì  forte- 
mente il  cuore  ch'io  non  mi  ricordo  di  aver  provato  in  vita 
mia,  per  cagione  sì  piccola,  una  più  dolorosa  impressione.  Tanto 
affrettarmi,  tanto  anelare,  tante  pazze  illusioni  di  accesa  fantasia, 
per  poi  inabissarmi  in  quella  fetente  cloaca.  Nello  scendere  al- 
l'albergo, già  mi  trovava  pienamente  disingannato;  e  se  non  era 
la  stanchezza  somma,  e  la  non  picciola  vergogna  che  me  ne  sa- 
rebbe ridondata,  io  immediatamente  sarei  ripartito.  Neil'  andar 
poi  successivamente  dattorno  per  tutto  Parigi,  sempre  piti  mi 
andai  confermando  nel  mio  disinganno.  L'umiltà  e  barbarie  del 
fabbricato;  la  risibile  pompa  meschina  delle  poche  case  che  pre- 
tendono a  palazzi;  il  sudiciume  e  goticismo  delle  chiese;  la  van- 
dalica struttura  dei  teatri  d'allora;  e  i  tanti  e  tanti  e  tanti  oggetti 
spiacevoli  che  tutto  dì  mi  cadeano  sott' occhio,  oltre  il  più  amaro 
di  tutti,  le  pessimamente  architettate  faccie  impiastrate*  delle 
bruttissime  donne  ;  queste  cose  tutte  non  mi  venivano  poi  abba- 
stanza rattemperate  dalla  bellezza  dei  tanti  giardini,  dall'eleganza 
e  frequenza  degli  stupendi  passeggi  pubblici,  dal  buon  gusto  e 
numero  infinito  di  bei  cocchi,  dalla  sublime  facciata  del /.(^uvr^,  ' 
dagli  innumerabili  e  quasi  tutti  buoni  spettacoli^  e  da  altre  sì 
fatte  cose. 


«  Cfr.  Ep.  Il,  c«p.  VI. 

*  Antica  residenza  reale;  ora  sede  di  musei  unici  forse  al  mondo. 

•  leafrali. 


72  Vittorio  Alfieri 

Continuava  intanto  con  incredibile  ostinazione  il  mal  tempo, 
a  segno  che  da  15  e  più  giorni  d'agosto  ch'io  aveva  passati  in 
Parigi,  non  ne  aveva  ancora  salutato  il  sole.  Ed  i  miei  giudizj 
morali,  più  assai  poetici  che  filosofici,  si  risentivano  sempre  non 
poco  dell' inIIùéffzr'deiratmosfefa7~Quella  prima  impressione  di 
Pixigi  mi  éi  scolpì  sì  fortemente  nel  capo,  che  ancora  adesso 
(cioè  23  anni  dopo),  ella  mi  dura  negli  occhi  e  nella  fantasia, 
ancorché  in  molte  parti  la  ragione  in  me  la  combatta  e  condanni. 

La  Corte  stava  in  Compiegne,  e  ci  si  dovea  trattenere  per  tutto 
il  settembre;  onde  non  essendo  allora  in  Parigi  l'Ambasciatore 
di  Sardegna  per  cui  aveva  delle  lettere,  io  non  vi  conosceva 
anima  al  mondo,  altri  che  alcuni  forestieri  già  da  me  incontrati 
e  trattati  in  diverse  città  d' Italia.  E  questi  neppure  conosceano 
nessuna  onesta  persona^  in  Parigi.  Dunque  così  passava  io  il  mio 
tempo  fra  i  passeggi,  i  teatri,  le  ragazze  di  mondo,  e  il  dolore 
quasi  che  continuo:  e  così  durai  sino  al  fin  di  novembre,  tempo 
in  cui  da  Fontainebleau-  si  restituì  l'Ambasciatore  a  dimora  in 
Parigi.  Introdotto  io  allora  da  esso  in  varie  case,  principalmente 
degli  altri  Ministri  esteri,  dall'Ambasciatore  di  Spagna  dove  c'era 
un  Fjiraoncino*,  mi  posi  per  la  prima  volta  a  giuocare.  Ma  senza 
notabile  perdita  né  vincita  mai,  ben  presto  mi  tediai  anche  del 
giuoco,  come  d'ogni  altro  mio  passatempo  in  Parigi;  onde  mi 
determinai  di  partirne  in  gennaio  per  Londra  ;  slulo  di  Parigi, 
di  cui  non  conoscea  pure  altro  che  le  strade;  e  sul  totale  già 
molto  raffredd.ato  nella  smania  di  veder  cose  nuove  ;  tutte  sempre 
trovandole  di  gran  lunga  inferiori,  non  che  agli  enti  immagi- 
nar] ch'io  mi  era  andati  creando  nella  fantasia,  ma  agli  stessi 
oggetti  reali  già  da  ma  veduti  nei  diversi  luoghi  d'Italia:  talché 
in  Londra  poi  terminai  d'imparare  a  ben  conoscere  e  prezzare 
e  Napoli,  e  Roma,  e  Venezia,  e  Firenze. 

Prima  ch'io  partissi  per  Londra,  avendomi  proposto  l'Amba- 
sciatore di  presentarmi  a  Corte  in  Versailles*,  io  accettai  per  una 
certa  curiosità  di  vedere  una  Corte  maggiore  delle  già  vedute 
da  me  sin  allora,  benché  fossi  pienamente  disingannato  su  tutte. 
Ci  fui  pel  capo  d'anno  del  1768,  giorno  anche  più  curioso  at- 

'  Francesismo  :  honnétes  Rcns,  persone  di  cìvil  condizione. 

*  Come  Compiegne,  castello  reale  di  soggiorno  estivo,  riservato  alle  cacce. 

*  Faraone,  giuoco  d'azzardo  molto  in  voga  ne'  '700.  -  Il  diminutivo  sfa 
ad  indicare  che  si  giocava  moderatamente.  [Cj. 

1  Residenza  abituale  della  Corte, 


La  vita  73 

tese  le  varie  funzioni  che  vi  si  praticano.  Ancorché  io  fossi  pre- 
venuto, che  il  re  non  parlava  ai  forestieri  comuni,  e  che  certo 
poco  m' importasse  di  una  tal  privazione,  con  tutto  ciò  non  potei 
inghiottire  il  contegno  giovesco  di  quel  regnante,  Luigi  XV,  il 
quale  squadrando  l'uomo  presentatogli  da  capo  a  piedi,  non 
dava  segno  di  riceverne  impressione  nessuna;  mentre  se  ad  un 
gigante  si  dicesse:  «  Ecco  ch'io  gli  presento  una  formica;  »  egli 
pure  guardandola,  o  sorriderebbe,  o  direbbe  forse  :  e  Oh  che 
piccolo  animaluzzo!  »  o  se  anche  il  tacesse,  lo  direbbe  il  di  lui 
viso  per  esso.  Ma  quella  negativa  di  sprezzo  non  mi  afflisse  poi 
più  allorquando  pochi  momenti  dopo  vidi  che  il  re  andava  spen- 
dendo la  stessa  moneta  delle  sue  occhiate  sopra  degli  oggetti 
tanto  più  importanti  che  non  m'era  io.  Fatta  una  breve  pre- 
ghiera fra  due  suoi  Prelati,  di  cui  l'uno,  se  ben  mi  ricordo,  era 
cardinale,  il  re  si  avviò  per  andare  alla  Cappella,  e  fra  due  porte 
gli  si  fecero  incontro  il  Preposto  della  Mercanzia,  primo  uffi- 
ziale  della  Municipalità  di  Parigi,  e  gli  balbettò  un  complimen- 
tuccio  d'uso  pel  capo  d'anno.  Il  taciturno  sire  gli  rispose  con 
un'alzata  di  testa:  e  rivoltosi  ad  uno  dei  suoi  cortigiani  che  lo 
seguivano,  domandò  dove  fossero  rimasti  tes  Echevins^,  che  sono 
i  consueti  accoliti  del  suddetto  Preposto.  Allora  una  voce  corti- 
gianesca uscita  così  a  mezzo  dalla  turba  di  essi,  facetamente 
disse:  lls  soni  restés  embotirbés^.  Rise  tutta  la  corte,  e  lo  stesso 
Monarca  sorrise,  e  passò  oltre  verso  la  messa  che  lo  aspettava. 
La  incostante  fortuna  poi  voile,  che  in  poco  più  di  vent'anni  io 
vedessi  in  Parigi  nel  Palazzo  della  Città  un  altro  Luigi  re  rice- 
vere assai  più  benignamente  un  altro  assai  diverso  complimento 
fattogli  da  altro  Preposto  sotto  il  titolo  di  Maire,  il  dì  17  Luglio 
1789  ed  erano  allora  rimasti  embourbés  i  cortigiani  nel  venir  di 
Versailles  a  Parigi,  benché  fosse  di  fitta  estate:  ma  il  fangosa 
quella  strada  era  fino  a  quel  punto  fatto  perenne.  E  di  aver 
visto  tal  cosa  ne  loderei  forse  Dio,  se  non  temessi,  e  credessi 
pur  troppo,  che  gli  effetti  e  influenza  di  questi  re  plebei',  siano 
per  essere  ancor  più  funesti  alla  Francia  ed  al  mondo,  che  quelli 
dei  re  capetini. 


>  Oli  Scabinì. 

*  Son  rimasti  Impantanati. 

*  Oli  uomini  delU  Rivoluzione. 


74  Vittorio  Alfieri 

CAPITOLO  SESTO 

Viaggio  in  Inghilterra  e  in  Olanda.  Primo  intoppo  amoroso. 

Partii  dunque  di  Parigi  verso  il  mezzo  gennaio,  in  compagnia 
di  un  cavaliere  mio  paesano,  giovane  di  bellissimo  aspetto,  di 
età  circa  dieci  o  dodici  anni  più  avanzato  di  me,  di  un  certo 
ingegno  naturale;  ignorante,  quanto  me;  riflessivo,  assai  meno, 
e  più  amatore  del  gran  mondo  che  conoscitore  o  investigatore 
degli  uomini.  Egli  era  cugino  del  nostro  Ambasciatore  in  Pa- 
rigi, e  nipote  del  Principe  di  Masserano  allora  Ambasciatore  di 
Spagna  in  Londra,  in  casa  del  quale  egli  doveva  alloggiare. 
Benché  io  non  amassi  gran  fatto  di  legarmi  di  compagnia  per 
viaggio,  pure  per  andare  a  un  determinato  luogo  e  non  più,  m 
ci  accomodai  volentieri.  Questo  mio  nuovo  compagno  era  di  un 
umore  assai  lieto  e  loquace,  onde  con  vicendevole  soddisfazione 
io  taceva  e  ascoltava,  egli  parlava  e  lodavasi;  essendo  egli  for- 
temente innamorato  di  sé,  per  aver  piaciuto  molto  alle  donne: 
e  mi  andava  annoverando  con  pompa  i  suoi  trionfi  amorosi,  che 
io  stava  a  sentire  con  diletto,  e  senza  invidia  nessuna.  La  sera 
all'albergo,  aspettando  la  cena,  giuocavamo  a  scacchi,  ed  egli 
sempre  mi  vinceva,  essendo  stato  io  sempre  ottusissimo  a  tutti 
i  giuochi.  Si  fece  un  giro  più  lungo  per  Lilla,  e  Douay,  e 
Sant'Omero,  per  renderci  a  Calais;  ed  era  il  freddo  sì  ecces- 
sivo, che  in  un  calesse  stivatissimo  coi  cristalli,  ed  inoltre  un 
candelotto  che  ci  tenevamo  acceso,  ci  si  agghiacciò  in  una  notte 
il  pane,  ed  il  vino  stesso;  e  guftst'errpssn  mi  rallegrava,  perchè 
-^    io  per  natura  poco  gradisco  le  cose  di  mezzo. 

Lasciate  finalmente  le  rive  della  Francia,  appena  sbarcavamo 
a  Douvres,  che  quel  freddo  si  trovò  scemato  per  metà,  e  non 
trovammo  quasi  punta  neve  fra  Douvres  e  Londra.  Quanto  mi 
era  spiaciuto  Parigi  al  primo  aspetto,  tanto  mi  piacque  subito 
e  l'Inghilterra,  e  Londra  massimamente.  Le  strade,  le  osterie,  i 
cavalli,  le  donne,  il  ben  essere  universale,  la  vita  e  l'attività  di 
quell'isola,  la  pulizia  e  comodo  delle  case  benché  picciolissime, 
il  non  vi  trovare  pezzenti,  un  moto  perenne  di  danaro  e  d' in- 
dustria sparso  egualmente  nelle  province  che  nella  capitale; 
tutte  queste  doti  vere  ed  uniche  di  quel  fortunato  e  libero  paese, 


La  vita  75 

mi  rapirono  l'animo  a  bella  prima,  e  in  due  altri  viaggi  olire 
quello  eh'  io  vi  ho  fatti  finora,  non  ho  variato  mai  piìi  di  pa- 
rere, troppa  essendo  la  differenza  tra  l' Inghilterra  e  tutto  il  ri- 
manente dell'Europa'  in  queste  tante  diramazioni  della  pubblica 
felicità,  provenienti  dal  miglior  governo.  Onde,  benché  io  allora 
non  ne  studiassi  profondamente  la  costituzione,  madre  di  tanta 
prosperità,  ne  seppi  però  abbastanza  osservare  e  valutare  gli  ef- 
fetti divini. 

In  Londra  essendo  molto  maggiore  la  facilità  per  i  forestieri 
di  essere  introdotti  nelle  case,  di  quel  che  non  sia  in  Parigi;  io, 
che  a  quella  difficoltà  parigina  non  avea  mai  voluto  piegarmi 
per  ammollirla,  perchè  non  mi  curo  di  vincere  le  difficoltà  da  cui 
non  me  ne  ridonda  niun  bene,  mi  lasciai  allora  per  qualche  mesi 
strascicare  da  quella  facilità,  e  da  quel  mio  compagno  di  viaggio, 
nel  vortice  del  gran  mondo.  Contribuì  anche  non  poco  ad  in- 
frangere la  mia  naturale  rusticità  e  ritrosia  la  cortese  e  paterna 
amorevolezza  verso  di  me  del  Principe  di  Masserano,  Ambascia- 
tore di  Spagna,  ottimo  vecchio  appassionatissimo  dei  Piemon- 
tesi, essendo  il  Piemonte  la  sua  patria,  benché  il  di  lui  padre  si 
fosse  già  traspiantato  in  Ispagna.  Ma  dopo  circa  tre  mesi,  avve- 
dendomi che  in  quelk_^£glÌ£L.£_££UUL.£-ie&tini_ÌQ_jiii_ci— S£CCà^ 
purtroppo,  e  niente  hnparavaci,  scambiatami  allora  la  parte,  in 
vece  di  recitare  da  cavaliere  nella  veglia,  mi  elessi  di  far  da  coc- 
chiere alla  porta  di  essa,  e  incarrozzava  e  scarrozzava  di  qua  e 
di  là  per  tutto  Londra  il  mio  bel  Ganimede  compagno,  a  cui 
solo  lasciava  la  gloria  dei  trionfi  amorosi;  e  mi  era  ridotto  a 
far  si  bene  e  disinvoltamente  il  mio  servizio  di  cocchiere,  che 
anche  di  alcuni  di  quei  combattimenti  a  timonate  che  usano  tra 
j  cocchieri  inglesi  all'uscire  del  Renetawgh^,  e  dei  Teatri,  ne  uscii 
con  un  qualche  onore,  senza  rottura  di  legno  né  danno  dei  ca- 
valli. In  tal  guisa  dunque  terminai  i  miei  divertimenti  di  quel- 
l'inverno, col  cavalcare  quattro  o  cinqu'ore  ogni  mattina,  e  stare 
a  cassetta  due  o  tre  ore  ogni  sera  a  gtiidare,  per  qualunque 
tempo  facesse.  Nell'aprile  poi  col  mio  solito  compagno  si  fece 
una  scorsa  per  le' più  belle  province  d'Inghilterra.  Si  andò  a 
Portsmouth  e  Salsbury,  a  Bath,  Bristol,  e  si  tornò  per  Oxford 
a  Londra.  Il  paese  mi  piacque  molto,  e  l'armonia  delle  cose  di- 


L'anKlomania  è  sentimento  molto  diffuso  nella  trconda  meti  del  '70Q. 

rj,r,.i.,,Th    p,-jr(-o  di  Londra. 


76  Vittorio  Alfieri 

verse,  tutte  concordanti  in  quell'  isola  al  massimo  ben  essere  di 
tutti,  m'incantò  sempre  più  fortemente;  e  fin  d'allora  mi  nascea 
il  desiderio  di  potervi  stare  per  sempre  a  dimora;  non  che  gli 
individui  me  ne  piacessero  gran  fatto  (benché  assai  più  dei  Fran- 
cesi, perchè  più  buoni  e  alla  buona),  ma  il  locai  del  paese,  i 
semplici  costumi,  le  belle  e  modeste  donne  e  donzelle,  e  sopra 
tutto  l'equitativo'  governo  e  la  vera  libertà  che  n'è  figlia:  tutto 
questo  me  ne  faceva  affatto  scordare  la  spiacevolezza  del  clima, 
la  malinconia  che  sempre  vi  ti  accerchia;  e  la  rovinosa  carezza 
del  vivere. 

Tornato  poi  da  quel  giretto  che  mi  avea  rimesso  su  le  mosse, 
io  già  di  bel  nuovo  mi  sentiva  incalzato  dal  furore  dell'andare 
e  con  gran  pena  differii  ancora  sino  ai  primi  di  giugno  la  mia 
partenza  per  l'Olanda.  E  allora  poi,  per  la  via  di  Harwich  im- 
barcatomi per  Helvoetlvys,  con  un  rapidissimo  vento  in  dodici 
ore  vi  approdai. 

La  Olanda  è  nell'estate  un  ameno  e  ridente  paese;  ma  mi  sa- 
rebbe piaciuta  anche  più,  se  l'avessi  visitata  prima  dell' Inghil- 
tena;  atteso  che  quelle  stesse  cose  che  vi  si  ammirano,  popola- 
zione, ricchezza,  lindura,  savie  leggi,  industria  ed  attività  somma, 
tutte  vi  si  trovano  alquanto  minori  che  in  Inghilterra.  Ed  in  fatti 
poi,  dopo  molti  altri  viaggi  e  molta  più  esperienza,  i  due  soli 
paesi  dell'Europa  che  mi  hanno  sempre  lasciato  desiderio  di  sé, 
sono  stati  l'Inghilterra  e  l'Italia;  quella  in  quanto  l'arte  ne  ha 
per  così  dire  soggiogata  e  trasfigurata  la  natura;  questa  in  quanto 
la  natura  sempre  vi  é  robustamente  risorta  a  fare  in  mille  di- 
versi modi  vendetta  dei  suoi  spesso  tristi  e  sempre  inoperosi 
governi. 

Nel  mio  soggiorno  nell'  Haja,  che  riuscì  assai  più  lungo  che 
non  avea  disegnato,  io  incappai  finalmente  nell'amore,  che  mai 
fin  allora  non  mi  avea  potuto  raggiungere  né  afferrare.  Una 
gentil  signorina,  sposa  da  un  anno,  piena  di  grazie  naturali,  di 
modesta  bellezza,  e  di  una  soave  ingenuità,  mi  toccò  vivissima- 
mente nel  cuore  ;  ed  il  paese  essendo  piccolo,  e  poche  le  distra- 
zioni, nel  rivederla  io  assai  più  spesso  che  non  avrei  voluto  da 
prima,  tosto  poi  mi  venni  a  dolere  di  non  poterla  vedere  abba- 
stanza. Mi  trovai  preso,  senza  quasi  avvedermene,  in  una  ter- 
ribil  maniera;  talché  già  stava  ruminando  in  me  stesso  niente 

»  Equo,  giusto, 


La  vita  77 

meni»  che  di  non  mi  muover  mai  piìi  né  vìvo  né  morto  dall'  Haja, 
persuadendomi  che  mi  sarebbe  impossibilissima  cosa  di  vivere 
senz  essa.  Apertosi  il  mio  indurito   cuore    agli    strali  d'Amore, 
egli  avea  ad  un  tempo  stesso  dato  adito  alle  dolci  insinuazioni 
dell'amicizia.  Ed  era  il  mio  nuovo  amico,  il  signor  Don  losè 
D'Acunha,   ministro    allora  di   Portogallo  in   Olanda.   Egli  era 
uomo  di  mólto  ingegno  e  più  originalità,  di  una  bastante  col- 
tura, e  di  un  ferreo  carattere;   magnanimo  di  cuore,  di  animo 
bollente  ed  altissimo.  Una  certa  simpatia  fra  le  nostre  due  taci- 
turnità ci  avea  già  quasi  allacciati  vicendevolmente,  senza  che  ce 
ne  avvedessimo:  la  franchezza  poi   e    il   calore   dei   nostri  due 
animi  ben  tosto  ebbe  operato  il  di  più.   Io  dunque  mi  trovava 
felicissimo  nell'  Haja,  dove  per  la  prima  volta   in   vita  mia  mi 
occorreva  di  non  desiderare  altra  cosa  al  mondo  nessuna,  oltre 
l'amica,  e  l'amico.  Atp;>nt^  \q  ^H  amim,  riamato   da   entrambi  i 
soggetti,  traboccava  da  ogni  parte  gli  affetti,  parlando  dell'amata, 
all'amico,  e  dell'amico  all'amala;  e  gustava  così  dei  piaceri  vi- 
vissimi  incomparabili,  e  fino  a  quel  punto  ignoti  al  mìo  cuore, 
benché  tacitamente  pur  sempre  me  li  fosse  egli  andato  richie- 
dendo, e  additando  come  in  confuso.  Mille  savi  consigli  mi  dava 
continuamente  quel  degnissimo  amico;   e  quello  massimamente, 
di  cui  non  perderò  mai  la  memoria,  si  fu  del  farmi  con  destrezza 
ed  efficacia  arrossire  della  mia  stupida  oziosa  vita,  del  non  mai 
aprir  un  libro  qualunque,  dell'ignorar  tante  cose,  e  più  che  altro 
i  nostri,  pur  tanti  e  si  ottimi,  italiani  poeti  ed  i  più  distinti  (an- 
corché pochi)  prosatori  e  filosofi.  Tra  questi  l' immortai  Niccolò 
Machiavelli,  di  cui  null'altro  sapeva  io   che   il   semplice  nome, 
oscurato  e  trasfigurato  da  quei  pregiudizi  con  cui   nelle  nostre 
educazioni  ce  lo  deffiniscono  senza  mostrarcelo,  e  senza  averlo 
ì  detrattori  di  esso  né  Ietto,  né  inteso  se  pur  mai  visto  l' hanno. 
L'amico  D'Acunha  me  ne  regalò  un  esemplare,  che  ancora  con- 
servo', e  che  poi  molto  lessi,  e   alcun  poco  postillai,  ma  dopo 
molti  e  molti  anni.  Una  stranissima  cosa  però  (la  quale  io  notai 
molto  dopo,  ma  che  allora  vivamente  sentii  senza  pure  osser- 
varla) si  era,  che  io  non  mi  sentiva  mai  ridestare  in  mente  e  nel 
cuore  un  certo  desiderio  di  studj  ed  un  certo  impeto  ed  effer- 
vescenza d'idee  creatrici,  se  non  se  in  quei  tempi  in  cui  mi  tro- 
vava il  cuore  fortemente  occupato  d'amore;  il   quale,  ancorché 


k 


>  E  «i  trova  ogtp  nella  biblioteca  del  Museo  Fabre  in  Montpellier. 


78  Vittorio  Alfieri 

mi  distornasse  da  ogni  mentale  applicazione,  ad  un  tempo  stesso 
me  ne  invogliava:  onde  io  non  mi  teneva  mai  tanto  capace  di 
riuscire  in  un  qualche  ramo  di  letteratura,  che  allorquando 
avendo  un  oggetto  caro  ed  amato  mi  parca  di  potere  a  quello 
tributare  anco  i  frutti  del  mio  ingegno. 

Ma  quella  mia  felicità  olandese  non  mi  durò  gran  tempo.  Il 
marito  della  mia  donna,  era  un  ricchissimo  individuo,  il  di  cui 
padre  era  stato  governatore  di  Batavia  ;  egli  mutava  spessissimo 
luogo,  ed  avendo  recentemente  comprata  una  baronia  negli  Sviz- 
zeri, voleva  andarvi  a  villeggiare  in  quell'autunno.  Nell'agosto 
egli  fece  colla  moglie  un  viaggetto  all'acque  di  Spa  ;  ed  io  dietro 
loro,  non  essendo  egli  gran  fatto  geloso.  Nel  tornare  poi  di  Spa 
verso  l'Olanda,  si  venne  insieme  sino  a  Mastricht,  e  là  mi  fu 
forza  lasciarla,  perchè  ella  dovea  andar  in  villa  con  la  di  lei 
madre,  mentre  il  marito  andava  egli  solo  verso  la  Svizzera.  Io 
non  conosceva  la  di  lei  madre,  e  non  v'era  né  pretesto  né  mezzo 
decente  e  plausibile  per  intromettermi  in  casa  altrui.  J^adesta 
prima  separazione  mi  spaccò  veramente  il  cuore  ;  ma  rimanevaci 
pure  ancora  una  qualche  speranza  di  rivederci.  Ed  in  fatti,  tor- 
nato io  all'  Haja,  e  partito  il  marito  per  la  Svizzera,  di  lì  a  pochi 
giorni  ricompari  l'adorata  donna  nell'  Haja.  La  mia  contentezza 
fu  somma,  ma  fu  un  lampo  momentaneo.  Dopo  dieci  giorni,  in 
cui  veramente  mi  tenni  ed  era  beato  sopra  ogni  uomo,  non  sen- 
tendosi ella  il  cuore  di  dirmi  qual  giorno  dovesse  ripartire  per 
la  villa,  né  avendo  io  il  coraggio  di  domandarglielo;  una  mat- 
tina ad  un  tratto  mi  venne  a  vedere  l'amico  D'Acunha,  e  nel 
dirmi  ch'ell'era  sf orzatamente  dovuta  partire,  mi  diede  una  sua 
letterina  che  nii  colpì  a  morte,  benché  tutta  spirasse  affetto  ed 
f  ingenuità  Dell'annunziarmi  l'indispensabile  necessità  in  cui  si 
\  trovava,  di  non  poter  ptuèénza"  scandalo  differire  la  di  lei  par- 
tenza alla  volta  del  marito,  che  le  avèa  ìngiuntoUrraggrùngétTo. 
L'amicò  soavemente  ag^tangeva  in~vo'cè,  clienón'Vesséndo  ri- 
medio, bisognava  dar  luogo  alla  necessità  ed  alla  ragione. 

Non  sarei  forse  reputato  veridico,  se  io  volessi  annoverare 
tutte  le  frenesie  dell'addolorato  disperato  mio  animo.  A  ogni 
conto  voleva^  assoluISmèìTteTTforiré.'Tna  non  articolai  però  mai 
tal  parola  a  nessuno;  e  fingendomi  ammalato  perché  l'amico  mi 
lasciasse  feci  chiamare  il  chirurgo  perchè  mi  cavasse  sangue; 
venne  e  me  lo  cavai'.  Uscito  appena  il  chirurgo,  io  finsi  di  voler 

1  Feci  cavare. 


La  vita  79 

dormire,  e  chiusomi  fra  le  cortine  del  lette/  io  stava  qualche  mi- 
nuti fra  me  ruminando  a  quello  ch'io  stava  per  fare,  poi  prin- 
cipiai a  sfasciare  la  sanguigna,  avendo  fermo  in  me  di  cosi  dis- 
sanguarmi e  perire.  Ma  quel  non  raeyo  sagace  che  fido  Elia, 
che  mi  vedeva  in  tale  violento  stato,  e  che  anche  dall'amico  era 
stato  addottrinato  prima  di  lasciarmi,  simulando  che  io  lo  avessi 
chiamato  mi  tornò  alla  sponda  del  letto  rialzando  la  cortina  ad 
un  tratto:  onde  io  sorpreso  e  vergognoso  ad  un  tempo,  forse 
anche  pentito  o  mal  fermo  nel  mio  giovenile  proposto,  gli  dissi 
che  la  fasciatura  mi  s'era  disfatta;  egli  finse  di  crederlo,  e  me 
la  rifasciò,  né  piìi  mi  volle  perder  di  vista  un  momento.  Ed  anzi, 
fatto  di  nuovo  cercar  l'amico,  egli  corse  da  me,  ed  ambedue 
quasi  mi  sforzarono  ad  alzarmi  da  letto,  e  l'amico  mi  volle  por- 
tare a  casa  sua,  dove  mi  vi  trattenne  per  più  giorni,  nei  quali 
mai  non  mi  abbandonò.  Il  mio  dolore  era  cupo  e  taciturno;  o 
sia  che  mi  vergognassi,  o  che  mi  diffidassi^j<yaLj'ardiya_ester-' 
nare;  onde  o  taceami,  ovvero  piangeva.  Frattanto  ed  il  tempo, 
e  1  concigli  dell'amico,  e  le  piccole  divagazioni  a  cui  egli  mi 
costringeva,  e  un  qualche  raggio  d'incerta  speranza  di  poterla 
rivedere;  di  ritornare  in  Olanda  l'anno  dopo,  e  più  ch'ogni 
cosa  forse  la  naturai  leggerezza  di  quella  età  di  anni  diciannove, 
mi  andarono  a  poco  a  poco  sollevando.  Ed  ancorché  il  mio 
animo  non  si  risanasse  per  assai  gran  tempo,  la  ragione  mi 
rientrò  pure  intera  nello  spazio  di  pochi  giorni. 

Cosi  alquanto  rinsavito,  ma  dolentissimo,  fermai  di  partire 
alla  volta  d'Italia  riuscendomi  ingratissima  la  vista  di  un  paese 
e  luoghi  ai  quali  io  ridomandava  il  mio  bene  perduto  quasi  ad 
un  tempo  che  posseduto.  Mi  doleva  però  assaissimo  di  staccarmi 
da  un  tale  amico  ;  ma  egli  stesso,  vedendomi  si  gravemente  pia- 
gato, mi  incoraggi  al  partire.'essendo  ben  convinto  che  il  moto, 
la  varietà  degli  oggetti,  la  lontananza  ed  il  tempo  infallibilmente 
mi  guarirebbero. 

Verso  il  mezzo  settembre  mi  separai  dall'  amico  in  Utrecht, 
dove  mi  volle  accompagnare,  e  di  donde  per  la  via  di  Bruxelles, 
per  la  Lorena,  Alsazia,  Svizzera,  e  Savoja  non  mi  arrestai  più 
sino  in  Piemonte,  altro  che  per  dormire;  ed  in  meno  di  tre  set- 
timane mi  ritrovai  in  Cumiana  nella  villa  di  mia  sorella,  dove 
andai  subito  da  Susa  senza  passar  per  Torino,  per  isfuggire  ogni 
conao^-zioj;m.Tnp,  avcn<^"  b'^fg""  di  digerire  la  mia  febbre  nella 
piena  solitudine.  E  dnr?inte  tutto  il  viaggio,  nulla~^idì   in   tutte 


80  Vittorio  Alfieri 

quelle  città  di  passo  \  Nancy,  Strasborgo,  Basilea,  e  Ginevra,  altro 
che  le  mura;  né  mai  aprii  bocca  col  fidato  Elia,  che  adattandosi 
alla  mia  infermità,  mi  obbediva  a  cenni,  e  antiveniva  ogni  mio 
bisogrno. 


CAPITOLO  SETTIMO 

Ripatriato  per  un  mezz'anno,  mi  dò  agli  studj  filosofici. 

Tale  fu  il  primo  viaggio,  che  durò  due  anni  e  qualche  giorni. 
Dopo  circa  sei  settimane  di  villeggiatura  con  mia  sorella,  resti- 
tuendosi ella  in  città,  tornai  in  Torino  con  essa.  Molti  non  mi 
riconoscevano  quasi  più,  attesa  la  statura  che  in  quei  due  anni 
mi  si  era  infinitamente  accresciuta;  tanto  era  il  bene  che  mi 
aveva  fatto  alla  complessione  quella  vita  variata,  oziosa,  e  stra- 
pazzatissima.  Nel  passar  di  Ginevra  io  avea  comprato  un  pieno 
baule  di  libri.  Tra  quelli  erano  le  opere  di  Rousseau,  di  Mon- 
tesquieu, di  Helvetius,  e  simili".  Appena  dunque  ripatriato,  pieno 
traboccante  il  cuore  di  malinconia  e  d'amore,  io  mi  sentiva  una 
necessità  assoluta  di  fortemente  applicare  la  mente  in  un  qualche 
studio;  ma  non  sapeva  il  quale ^  stante  che  la  trascurata  educa- 
zione coronata  poi  da  quei  circa  sei  anni  di  ozio  e  di  dissipa- 
zione, mi  aveva  fatto  egualmente  incapace  di  ogni  studio  qua- 
lunque. Incerto  di  quel  che  mi  farei,  e  se  rimarrei  in  patria,  o 
se  viaggerei  di  bel  nuovo,  mi  posi  per  quell'inverno  a  stare  in 
casa  di  mia  sorella;  e  tutto  il  giorno  leggeva,  un  pochino  pas- 
seggiava, e  non  trattava  assolutamente  con  nessuno.  Le  mie  let- 
ture erano  sempre  di  libri  francesi.  Volli  leggere  l'Eloisa*  di 
Rousseau  piìi  volte  mi  ci  provai;  ma  benché  io  fossi  di  un  ca- 
rattere per  natura  appassionatissimo,  e  che  mi  trovassi  allora  for- 
temente innamorato,  io  trovava  in  quel  libro  tanta  maniera, 
tanta  ricercatezza,  tanta  affettazione  di  sentimento,  e  sì  poco 
sentire,  tanto  calor  comandato  di  capo,  e  sì  gran  freddezza  di 
cuore,  che  mai  non  mi  venne  fatto  di  poterne  terminare  il  primo 


1  Passaggio. 

3  Che  cioè,  al  par  di  quelli,  contribuirono  a  diffondere  le  nuove  idee 
della  Rivoluzione. 

»  Quale:  francesismo. 

*  Julie  ou  la  Nouvelle  Héloise,  romanzo  epistolare  pieno  di  una  senti- 
mentalità romanzesca  e  pasfionata,  e  d'un  vivisMuio  culto  della  natura  (1761). 


La  vita  81 

volume.  Alcune  altre  opere  politiche,  come  il  Contratto  sociale^, 
io  non  le  intendeva,  e  perciò  le  lasciai.  Di  Voltaire  mi  alletta- 
vano singolarmente  le  prose',  ma  i  di  lui  versi  mi  tediavano. 
Onde  non  lessi  mai  la  sua  Enriade^,  se  non  se  a  squarcetti;  poco 
più  la  Pucelle*,  perchè  l'osceno  non  mi  ha  diiettato  mai;  ed  al- 
cune delle  di  lui  tragedie.  Montesquieu^  all'incontro  lo  lessi  di 
capo  in  fondo  ben  due  volte,  con  maraviglia,  diletto,  e  forse 
anche  con  un  qualche  mio  utile.  L'Esprit  d'  Helvetius*  mi  fece 
anche  una  profonda  ma  sgradevole  impressione.  Ma  il  libro  dei 
libri  per  me,  e  che  in  quell'inverno  mi  fece  veramente  trascor- 
rere dell'ore  di  rapimento  e  beate,  fu  Plutarco,  le  vite  dei  veri 
grandi.  Ed  alcune  di  quelle,  come  Timoleone,  Cesare,  Bruto, 
Pelopida,  Catone,  ed  altre,  sino  a  quattro  e  cinque  volte  le  ri- 
lessi con  un  tale  trasporto  di  grida,  di  pianti,  e  di  furori  pur 
anche,  che  chi  fosse  stato  a  sentirmi  nella  camera  vicina  mi 
avrebbe  certamente  tenuto  per  impazzato.  All'udire  certi  gran 
tratti  di  quei  sommi  uomini,  spessissimo  io  balzava  in  piedi  agi- 
tatissimo,  e  fuori  di  me,  e  lagrime  di  dolore  e  di  rabbia  mi  sca- 
turivano del  vedermi  nato  in  Piemonte  ed  in  tempi  e  governi  ove 
niuna  alta  cosa  non  si  poteva  né  fare  né  dire,  ed  inutilmente 
appena  forse  ella  si  poteva  sentire  e  pensare.  In  quello  stesso 
inverno  studiai  anche  con  molto  calore  il  sistema  planetario,  ed 
i  moti  e  leggi  dei  corpi  celesti,  fin  dove  si  può  arrivare  a  ca- 
pirle senza  il  soccorso  della  per  me  inapprensibile  geometria. 
Cioè  a  dire  ch'io  studiai  malamente  la  parte  isterica  di  quella 
scienza  tutta  per  sé  matematica.  Ma  pure,  cinto  di  tanta  igno- 
ranza, io  ne  intesi  abbastanza  per  sublimare  il  mio  intelletto  alla 
immensità  di  questo  tutto  creato;  e  nessuno  studio  mi  avrebbe 
rapito  e  riempiuto  più  l'animo  che  questo,  se  io  avessi  avuto  i 
debiti  principii  per  proseguirlo. 

Tra  queste  dolci  e  nobili  occupazioni,  che  dilettandoml-pure. 
accresceano  nondimeno  la  mia  taciturnità^ malinconia  p  pa;ifpa  di 
ogni  comane  divertimento;  il  mio  cognato  mi  andava  continna- 

'  Opera  che  ebbe  una  fama  straordinaria,  e,  più  o  meno  bene  inteso, 
Ispirò  la  maggior  parte  del  politici  della  Rivoluzione  (1762). 

•  Innumerevoli:  filosoflche,  storiche,  oltre  a  racconti  e  romanzi. 
»  Poema  epico  sopra  Enrico  IV  (1723). 

•  Poema  glocoso-satirico  assai  licenzioso. 

•  Pubblicista  francese,  precursore  della  Rivoluzione  (1689-1755). 

•  Letterato  e  filosofo  parigino,  il  cui  capolavoro  De  l'esprit  (1758)  è  fon- 
damentale nella  storia  del  materialismo  metafisico. 

6.    —    Clattici   l'.yHnnl     N.  2. 


82  Vittorio  Alfieri 

mente  istigando  di  pigliar  moglie.  Io,  per  natura,  sarei  stato 
inclinatissimo  alla  vita  casereccia';  ma  l'aver  veduta  l'Inghilterra 
in  età  di  19  anni,  e  l'aver  caldamente  Ietto  e  sentito  Plutarco 
all'età  di  20  anni,  mi  ammonivano,  ed  inibivano  di  pigliar  moglie 
e  di  procrear  figli  in  Torino.  Con  tutto  ciò  la  leggerezza  di 
quella  stessa  età  mi  piegò  a  poco  a  poco  ai  replicati  consigli, 
ed  acconsentii  che  il  cognato  trattasse  per  me  il  matrimonio  con 
una  ragazza  erede,  nobilissima,  e  piuttosto  bellina,  con  occhi 
nerissimi  che  presto  mi  avrebbero  fatto  smettere  il  Plutarco, 
nello  stesso  modo  che  Plutarco  forse  avea  indebolito  in  me  la 
passione  della  bella  olandese.  Ed  io  confesserò  di  aver  avuto  in 
quel  punto  la  viltà  di  desiderare  la  ricchezza  più  ancora  che  la 
bellezza  di  codesta  ragazza";  speculando  in  me  stesso,  che  l'ac- 
crescere circa  di  metà  la  mia  entrata  mi  porrebbe  in  grado  di 
maggiormente  fare  quel  che  si  dice  nel  mondo  buona  figura. 
Ma  la  mia  buona  sorte  mi  servì  in  questo  affare  assai  meglio 
che  il  mio  debile  e  triviale  giudizio,  figlio  d'infermo  animo.  La 
ragazza,  che  da  bel  principio  avrebbe  inclinato  a  me,  fu  svolta 
da  una  sua  zia  a  favore  d'altro  giovinotto  signore,  il  quale  es- 
sendo figlio  di  famiglia  con  molti  fratelli  e  zii,  veniva  ad  essere 
allora  assai  men  comodo  di  me,  ma  godeva  di  un  certo  favore 
in  corte  presso  il  duca  di  Savoja  erede  presuntivo  del  trono,  di 
cui  era  stato  paggio,  e  dal  quale  ebbe  in  fatti  poi  quelle  grazie 
che  comporta  il  paese.  Oltre  ciò  il  giovine  era  di  un'ottima  in- 
dole, e  di  un'amabile  costumatezza.  Io,  al  contrario,  aveva  taccia 
di  uomo  straordinario  in  mal  senso,  poco  adattandomi  al  pen- 
sare, ai  costumi,  al  pettegolezzo,  e  al  servire  del  mio  paese,  e 
non  andando  abbastanza  cauto  nel  biasimare  e  schernire  quegli 
usi;  cosa,  che  (giustamente  a  dir  vero)  non  si  perdona.  Io  fui 
dunque  solennemente  ricusato,  e  mi  fu  preferito  il  sudetto  gio- 
vine. La  ragazza  fece  ottimamente  per  il  bene  suo,  poiché  ella 
felicissimamente  passò  la  vita  in  quella  casa  dove  entrò  ;  e  fece 
pure  ottimamente  per  l'util  mio,  poiché  se  io  incappava  in  co- 
desto legame  di  moglie  e  figli,  le  Muse  per  me  certamente  eran 
ite.  Io  da  quel  rifiuto  ne  ritrassi  ad  un  tempo  pena  e  piacere  j__ 
perchè  mentre  si  trattava  la  cosa  io  spessissimo  provava  dei  pen- 
timenti, e  ne  avea  una  certa  vergogna  di  me  stesso  che  non  ester- 

1  Casaliiiga. 

3  Eiirichetta  Roero  di  Pralornio,  che  poi  sposò  il  marchese  Vittorio  della 
Chiesa  di  Roddi. 


La  vita  83 

Qava,  ma  non  la  mentiva  perciò  meno;  arrossendo  in  me  mede- 
simo di  ridurmi  per  danari  a  far  cosa  che  era  contro  il  mio  in- 
timo modo  di  pensare.  Ma  una  picciolezza  ne  fa  due,  e  sempre 
poi  si  moltiplicano.  Cagione  di  questa  mia  non  certo  filosofica 
cupidità,  si  era  l'intenzione  che  già  dal  mio  soggiorno  in  Na- 
poli avea  accolta  nell'animo,  di  attendere  quando  che  fosse  ad 
impieghi  diplomatici.  Questo  pensiero  veniva  fomentato  in  me 
dai  consigli  del  mioc  ognato,  cortigiano  inveterato  ;  onde  il  desi- 
derio di  quel  ricco  matrimonio  era  come  la  base  delle  future  amba- 
scierie,  alle  quali  meglio  si  fa  fronte  quanto  più  si  ha  danari. 
Ma  buon  per  me,  che  il  matrimonio  ito  in  fumo,  mandò  pure 
in  fumo  ogni  mia  ambasciatoria  velleità  ;  né  mai  feci  chiesta  nes- 
suna di  tale  impiego;  e  per  mia  minor  vergogna  questo  mio 
stupido  e  non  alto  desiderio  nato  e  morto  nel  mio  petto,  non  fu 
(toltone  il  mio  cognato)  noto  a  chi  che  sia. 

Appena  iti  a  vuoto  questi  due  disegni,  mi  rinacque  subito  il 
pensiero  di  proseguire  i  miei  viaggi  per  altri  tre  anni,  per  veder 
poi  intanto  quello  che  vorrei  fare  di  me.  L'età  di  20  anni  mi 
lasciava  tempo  a  pensarci.  Io  aveva  aggiustati  i  miei  interessi 
col  curatore,  dalla  di  cui  podestà  si  esce  nel  mio  paese  al  suonar 
dei  venti  anni.  Venuto  più  in  chiaro  delle  cose  mie,  mi  trovai 
essere  molto  più  agiato  che  non  m'avea  detto  il  curatore  fino  a 
quel  punto.  Ed  egli  in  questo  mi  giovò  non  poco  avendomi 
piuttosto  avvezzato  al  meno  che  al  più.  Perciò  d'allora  in  poi 
quasi  sempre  fui  giusto  nello  spendere.  Trovandomi  dunque  al- 
lora circa  2500  zecchini  di  effettiva  spendibile  entrata,  e  non  poco 
danaro  di  risparmio  nei  tanti  anni  di  minorità,  mi  parve  nel  mio 
paese  e  per  un  uomo  solo  di  essere  ricco  abbastanza,  e  deposta 
ogni  idea  di  moltiplico'  mi  disposi  a  questo  secondo  viaggio  che 
volli  fare  con  più  spesa  e  maggiori  comodi. 


CAPITOLO  OTTAVO 

Secondo  viag^gio,  per  la  Oemunia,  la  Danimarca  e  la  Svezia. 

Ottenuta  la  solita  indispensabile  e  dura  permissione  del  re, 
parili  nel  maggio  del  I76Q  a  bella  prima  alla  volta  di  Vienna. 
Nel  viaggio,  abbandonando  l'incarico  noioso  del  pagare  al  mio 

'  Di  moltiplicare,  accrescere  il  patrìmonio. 


84  Vittorio  Alfieri 

f  idatissimo  Elia,  io  cominciava  a  fortemente  riflettere  su  le  cose 
del  mondo;  ed  in  vece  di  una  malinconia  fastidiosa  ed  oziosa, 
e  di  quella  mera  impazienza  di  luogo,  che  mi  aveano  sempre 
incalzato  nel  primo  viaggio,  in  parte  da  quel  mio  innamora- 
mento, in  parte  da  quella  applicazione  continua  di  sei  mesi  in 
cose  di  qualche  rilievo,  ne  avea  ricavata  un'  altra  malinconia  ri- 
flessiva e  dolcissima.  Mi  riuscivano  in  ciò  di  non  picciolo  aiuto 
(e  forse  devo  lor  tutto,  se  alcun  poco  ho  pensato  dappoi)  i  su- 
blimi Saggi  del  familiarissimo  Montaigne  ',  i  quali  divisi  in  dieci 
tometti,  e  fattisi  miei  fidi  e  continui  compagni  di  viaggio,  tutte 
esclusivamente  riempivano  le  tasche  della  mia  carrozza.  Mi  di- 
lettavano ed  instruivano,  e  non  poco  lusingavano  anche  la  mia 
ignoranza  e  pigrizia,  perchè  aperti  così  a  caso,  qual  che  si  fosse 
il  volume,  lettane  una  pagina  o  due,  lo  richiudeva,  ed  assai  ore 
poi  su  quelle  due  pagine  sue  io  andava  fantasticando  del  mio. 
Ma  mi  facea  bensì  molto  scorno  quell'  incontrare  ad  ogni  pagina 
di  Montaigne  uno  o  più  passi  latini,  ed  essere  costretto  a  cer- 
carne l'interpretazione  nella  nota,  per  la  totale  impossibilità  in 
cui  mi  era  ridotto  d'intendere  neppure  le  più  triviali  citazioni 
di  prosa,  non  che  le  tante  dei  più  sublimi  poeti.  E  già  non  mi 
dava  neppur  più  la  briga  di  provarmici,  e  asinescamente  leggeva 
a  dirittura  la  nota.  Dirò  più  ;  che  quei  sì  spessi  squarci  dei  nostri 
poeti  primarii  italiani  che  vi  s' incontrano,  anco  venivano  da  me 
saltati  a  pie  pari,  perchè  alcun  poco  mi  avrebbero  costato  fatica 
a  benissimo  intenderli.  Tanta  era  in  me  la  primitiva  ignoranza, 
e  la  desuetudine  poi  di  questa  divina  lingua,  la  quale  io  ogni 
giorno  più  andava  perdendo. 

Per  la  via  di  Milano  e  Venezia,  due  città  eh' Io  volli  rivedere  ; 
poi  per  Trento,  Inspruck,  Augusta,  e  Monaco,  mi  rendei  a  Vienna, 
pochissimo  trattenendomi  in  tutti  i  suddetti  luoghi.  Vienna  mi 
parve  avere  gran  parte  delle  picciolezze  di  Torino,  senza  averne 
il  bello  della  località.  Mi  vi  trattenni  tutta  l'estate,  e  non  vi  im- 
parai nulla.  Dimezzai  il  soggiorno,  facendo  nel  luglio  una  scorsa 
fino  a  Buda,  per  aver  veduta  una  parte  dell'Ungheria.  Ridive- 
nuto oziosissimo,  altro  non  faceva  che  andare  attorno  qua  e  là 
nelle  diverse  compagnie;  ma  sempre  ben  armato  contro  le  insidie 


>  Montaigne,  11  quale  visitò  l' Italia  e  ne  conobbe  la  letteratura,  lasciò 
nei  suoi  Essais  (1580)  un'opera  die  per  lo  scetticismo  assoluto,  bonario  e 
indulgente,  tornò  di  moda  nel  secolo  XVIll. 


La  vita  85 

d'Amore.  E  mi  era  a  questa  difesa  un  fidissimo  usbergo  il  pra- 
ticare il  rimedio  commendato  da  Catone'.  Io  avrei  in  quel  sog- 
giorno di  Vienna  potuto  facilmente  conoscere  e  praticare  il  ce- 
lebre poeta  Metastasi©,  nella  di  cui  casa  ogni  giorno  il  nostro 
ministro,  il  degnissimo  conte  di  Canale,  passava  di  molte  ore  la 
sera  in  compagnia  scelta  di  altri  pochi  letterati,  dove  si  leggeva 
seralmente  alcuno  squarcio  di  classici  o  greci,  o  latini,  o  italiani. 
E  quell'ottimo  vecchio  conte  di  Canale,  che  mi  affezionava,  e 
moltissimo  compativa  i  miei  perditempi,  mi  propose  piìi  volte 
d'introdurmivi.  Ma  io,  oltre  all'essere  di  natura  ritrosa,  era  anche 
tatto  ingolfato  nel  francese,  e  sprezzava  ogni  libro  ed  autore 
italiano.  Onde  quell'adunanza  di  letterati  di  libri  classici  mi 
parea  dover  essere  una  fastidiosa  brigata  di  pedanti.  Si  aggiunga, 
che  io  avendo  veduto  il  Metastasi©^  a  Schoenbrunn  nei  giardini 
imperiali  fare  a  Maria  Teresa  la  genuflessioncella  di  uso,  con  una 
faccia  sì  servilmente  lieta  e  adulatoria,  ed  io  giovenilmente  plu- 
tarchizzando,  mi  esagerava  talmente  il  vero  in  astratto,  che  io 
non  avrei  consentito  mai  di  contrarre  né  amicizia  né  familiarità 
con  una  Musa  appigionata  o  venduta  all'autorità  despotica  da 
me  si  caldamente  abborrita.  In  tal  guisa  io  andava  a  poco  a  poco 
assumendo  il  carattere  di  un  salvatico  pensatore  ;  e  queste  dispa- 
rate accoppiandosi  poi  con  le  passioni  naturali  all'  età  di  vent'anni 
e  le  loro  conseguenze  naturalissime,  venivano  a  formar  di  me 
un  tutto  assai  originale  e  risibile. 

Proseguii  nel  settembre  il  mio  viaggio  verso  Praga  e  Dresda, 
dove  mi  trattenni  da  un  mese;  indi  a  Berlino,  dove  dimorai  al- 
trettanto. All'entrare  negli  stati  del  gran  Federico,  che  mi  par- 
vero la  continuazione  di  un  solo  corpo  di  guardia,  mi  sentii  rad 
doppiare  e  triplicare  l'orrore  per  queir  infame  mestier  militare*, 
infamissima  e  sola  base  dell'autorità  arbitraria,  che  sempre  è  il 
necessario  frutto  di  tante  migliaia  di  assoldati  satelliti.  Fui  pre- 
sentato al  re.  Non  mi  sentii  nel  vederlo  alcun  moto  né  di  ma- 
raviglia, né  di  rispetto,  ma  d' indegnazione  bensì  e  di  rabbia: 
moti  che  si  andavano  in  me  ogni  giorno  afforzando  e  moltipli- 
cando alla  vista  di  quelle  tante  e  poi  tante  diverse  cose  che  non 
istanno  come  dovrebbero  stare,  e  che  essendo  false  si  usurpano 
pure  la  faccia  e  la  fama  di  vere.  II  conte  di  Finch,  ministro  del 

»  Cfr,  Orazio,  Satire,  I,  2,  vv.  31-35. 

«  Il  qutle  fu  poeta  Cesareo,  o  di  corte,  ietto  Carlo  VI,  poi  con  Mari»  Teresa. 

•  Per  «imili  Ire  dell'A.  v.  Della  Tirannide,  I,  vu,  e  U  satira  La  Milizia. 


86  Vittorio  Alfieri 

re,  il  quale  mi  presentava,  mi  domandò  perchè  io,  essendo  pure 
in  servizio  de!  mio  re,  non  avessi  quel  giorno  indossato  l'uni- 
forme. RiSi)osigli  :  perchè  in  quella  corte  mi  parea  ve  ne  fossero 
degli  uniformi  abbastanza.  Il  re  mi  disse  quelle  quattro  solite 
parole  di  uso;  io  l'osservai  profondamente,  ficcandogli  rispetto- 
samente gli  occhi  negli  occhi  ;  e  ringraziai  il  cielo  di  non  mi  aver 
fatto  nascer  suo  schiavo.  Uscii  di  quella  universa!  caserma  prus- 
siana verso  il  mezzo  novembre,  abborrendola  quanto  bisognava. 

Partito  alla  volta  di  Amburgo,  dopo  tre  giorni  di  dimora,  ne 
ripartii  per  la  Danimarca.  Giunto  a  Copenhagiien  ai  primi  di  de- 
cembre,  quel  paese  mi  i)iacque  bastantemente,  perchè  mostrava 
una  certa  somiglianza  coli' Olanda;  ed  anche  v'era  una  certa  at- 
tività, commercio,  ed  industria,  come  non  si  sogliono  vedere  nei 
governi  pretti  monarchici:  cose  tutte,  dalle  quali  ne  ridonda  un 
certo  ben  essere  universale,  che  a  primo  aspetto  previene'  chi 
arriva,  e  fa  un  tacito  elogio  di  chi  vi  comanda:  cose  tutte,  di 
cui  neppur  una  se  ne  vede  negli  Stati  prussiani  ;  benché  il  gran 
Federico  vi  comandasse  alle  lettere  e  alle  arti  e  alla  prosperità, 
di  fiorire  sotto  all'uggia"  sua.  Onde  la  principal  ragione  per  cui 
non  mi  dispiacea  Copenhaguen  si  era  il  non  esser  Berlino  né 
Prussia:  paese,  di  cui  niun  altro  mi  ha  lasciato  una  più  spiace- 
vole e  dolorosa  impressione,  ancorché  vi  siano,  in  Berlino  mas- 
simamente, molte  cose  belle  e  grandiose  in  architettura.  Ma  quei 
perpetui  soldati,  non  li  posso  neppur  ora,  tanti  anni  dopo,  in- 
goiare senza  sentirmi  rinnovare  lo  stesso  furore  che  la  loro  vista 
mi  cagionava  in  quel  punto. 

In  queir  inverno  mi  rimisi  alcun  poco  a  cinguettar  italiano  con 
il  ministro  di  Napoli  in  Danimarca,  che  si  trovava  essere  pisano; 
il  conte  Catanti,  cognato  del  celebre  primo  ministro  in  Napoli, 
marchese  Tanucci,  già  professore  nell'Università  pisana.  Mi  di- 
lettava molto  il  parlare  e  la  pronunzia  toscana,  massimamente 
paragonandola  col  piagnisteo  nasale  e  gutturale  del  dialetto  da- 
nese che  mi  toccava  di  udire  per  forza,  ma  senza  intenderlo,  la 
Dio  grazia.  Io  malamente  mi  spiegava  col  prefato  conte  Catanti, 
quanto  alla  proprietà  dei  termini,  e  alla  brevità  ed  efficacia  delle 
frasi,  che  è  somma  nei  Toscani;  ma  quanto  alla  pronunzia  di 
quelle  mie  parole  barbare  italianizzate,  eli'  era  bastantemente  pura 


I 


•  Favorevolmente. 

«  Ombra  malefica.  [B.\. 


La  vtta  87 

e  toscana;  stante  che  io  deridendo  sempre  tutte  le  altre  pronunzie 
italiane,  che  veramente  mi  offendeano  l' udito,  mi  era  avvezzo  a 
pronunziar  quanto  meglio  potea  e  la  a,  e  la  z,  e  gi,  e  ci,  ed 
ogni  altra  toscanità*.  Onde  alquanto  inanimito  dal  sudetto  conte 
Catanti  a  non  trascurare  una  sì  bella  lingua,  e  ohe  era  pure  la 
mia,  dacché  di  essere  io  francese  non  acconsentiva  a  niun  modo, 
mi  rimisi  a  leggere  alcuni  libri  italiani.  Lessi,  tra'  molti  altri,  i 
Dialoghi  dell'Aretino  *,  i  quali  benché  mi  ripugnassero  per  le  osce- 
nità, mi  rapivano  pure  per  l'originalità,  varietà,  e  proprietà  del- 
l'espressioni. E  mi  baloccava  così  a  leggere,  perchè  in  quell'in- 
verno mi  toccò  di  star  molto  in  casa  ed  anche  a  letto,  atteso  i 
replicati  incomoducci  che  mi  sopravvennero  per  aver  troppo  sfug- 
gito l'amore  sentimentale.  Ripigliai  anche  con  piacere  a  rileg- 
gere per  la  terza  e  quarta  volta  il  Plutarco  ;  e  sempre  il  Mon- 
taigne ;  onde  il  mio  capo  era  una  strana  mistura  di  filosofia,  di 
politica,  e  di  discoleria.  Quando  gl'incomodi  mi  permetteano 
d'andar  fuori,  uno  dei  maggiori  miei  divertimenti  in  quel  clima 
boreale  era  l'andare  in  slitta;  velocità  poetica,  che  molto  mi  agi- 
tava e  dilettava  la  non  men  celere  fantasia. 

Verso  il  fin  di  marzo  partii  per  la  Svezia;  e  benché  io  tro- 
vassi il  passo  del  Sund  affatto  libero  dai  ghiacci,  indi  la  Scania 
libera  dalla  neve;  tosto  ch'ebbi  oltrepassato  la  città  di  Norkoping, 
ritrovai  di  bel  nuovo  un  ferocissimo  inverno,  e  tante  braccia  di 
neve,  e  tutti  i  laghi  rappresi,  a  segno  che  non  potendo  più  pro- 
seguir colle  ruote,  fui  costretto  di  smontare  il  legno  e  adattarlo 
come  ivi  s'usa  sopra  due  slitte;  e  così  arrivai  a  Stockolm.  La 
•  novità  di  quello  spettacolo,  e  la  greggia  maestosa  natura  di  quelle 
immense  selve,  laghi  e,  dirupi,  moltissimo  mi  trasportavano  ;  e 
benché  non  avessi  mai  letto  l'Ossian*,  molte  di  quelle  sue  ima- 
gini  mi  si  destavano  ruvidamente  scolpite,  e  quali  le  ritrovai  poi 
descritte  allorché  più  anni  dopo  lo  lessi  studiando  i  ben  archi- 
tettati versi  del  celebre  Cesarotti. 

La  Svezia  locale,  ed  anche  i  suoi  abitatori  d'ogni  classe,  mi 
andavano  molto  a  genio;  o  sia  perchè  io  mi  diletto  molto  più 
degli  estremi,  o  altro  sia  ch'io  non  saprei  dire:  ma  fatto  si  è, 

>  Caratteristiche  della  fonetica  toscana. 

«  /  Ragionamenti  che  l'A.  caratterizza  qui  benissimo. 

*  I  poemi  di  Oiacomo  Macpherson,  e  da  lui  attribuiti  ad  un  preteso  antico 
bardo  caledonico,  Ossian,  mirabilmente  tradotti  in  italiano  da  Melchiorre 
Cesarotti.  V.  :  M.  Schcrillo,  Ossian,  Milano,  1895. 


88  Vittorio  Al/ieri 

che  s'io  mi  eleggessi  di  vivere  nel  settentrione,  preferirei  quella 
estrema  parte  a  tutte  l'altre  a  me  cognite.  La  forma  del  governo 
della  Svezia,  rimestata  ed  equilibrata  in  un  certo  tal  qual  modo 
che  pure  una  serailibertà  vi  trasparisce,  mi  destò  qualche  curio- 
sità di  conoscerla  a  fondo.  Ma  incapace  poi  di  ogni  seria  e  con- 
tinuata applicazione,  non  la  studiai  che  alla  grossa.  Ne  intesi 
pure  abbastanza  per  formarne  nel  mio  capino  un'idea:  che  stante 
la  povertà  delle  quattro  classi  votanti',  e  l'estrema  corruzione 
della  classe  dei  nobili  e  di  quella  dei  cittadini,  donde  nasceano 
le  venali  influenze  dei  due  corruttori  paganti,  la  Russia  e  la 
Francia,  non  vi  potea  allignare  né  concordia  fra  gli  ordini,  né 
efficacità  di  determinazioni,  né  giusta  e  durevole  libertà.  Con- 
tinuai il  divertimento  della  slitta  con  furore,  per  quelle  cupe  sel- 
vone,  e  su  quei  lagoni  crostati,  fino  oltre  ai  venti  di  aprile;  ed 
allora  in  soli  quattro  giorni  con  una  rapidità  incredibile  seguiva 
il  dimoiare  d'ogni  qualunque  gelo,  attesa  la  lunga  permanenza 
del  sole  su  l'orizzonte,  e  l'efficacia  dei  venti  marittimi;  e  allo 
sparir  delle  nevi  accatastate  forse  in  dieci  strati  l' una  su  l' altra, 
compariva  la  fresca  verdura;  spettacolo  veramente  bizzarro,  e 
che  mi  sarebbe  riuscito  poetico  se  avessi  saputo  far  versi. 


CAPITOLO  NONO 

Proseguimento  di  viaggi,  Russia,  Prussia  di  bel  nuovo, 
Spa,  Olanda  e  Inghilterra. 

Io  sempre  incalzato  dalla  smania  dell'andare,  benché  mi  tro- 
vassi assai  bene  in  Stockolm,  volli  partirne  verso  il  mezzo  maggio 
per  la  Finlandia  alla  volta  di  Pietroburgo.  Nel  fin  d'aprile  aveva 
fatto  un  giretto  sino  ad  Upsala,  famosa  Università,  e  cammin 
facendo  aveva  visitate  alcune  cave  del'  ferro,  dove  vidi  varie  cose 
curiosissime,  ma  avendole  poco  osservate,  e  molto  meno  notate, 
fu  come  se  non  le  avessi  mai  vedute.  Giunto  a  Grisselhamna, 
porticello  della  Svezia  su  la  spiaggia  orientale,  posto  a  rimpetto 
dell'entrata  del  golfo  di  Botnia,  trovai  da  capo  l'inverno,  dietro 
cui  pareva  ch'io  avessi  appostato*  di  correre.  Era  gelato  gran 


1  Nobiltà,  clèro,  borghesia  e  contadini, 
s  Di:  arcaismo. 
•  Preso  impegno. 


La  vita  89 

parte  di  mare,  e  il  tragitto  dal  continente  nella  prima  isoletta 
(che  per  cinque  ìsolette  si  varca  quest'entratura  del  suddetto  golfo) 
attesa  l'immobilità  totale  dell'acque,  riusciva  per  allora  impossi- 
bile ad  ogni  specie  di  barca.  Mi  convenne  dunque  aspettare  in 
quel  tristo  luogo  tre  giorni,  finché  spirando  altri  venti  cominciò 
quella  densissima  crostona  a  screpolarsi  qua  e  là,  e  far  crich, 
come  dice  il  Poeta  nostro  '  ;  quindi  a  poco  a  poco  a  disgiungersi 
in  tavoloni  galleggianti,  che  alcuna  viuzza  pure  dischiudevano  a 
chi  si  fosse  arrischiato  d' intromettervi  una  barcuccia.  Ed  in  fatti 
il  giorno  dopo  approdò  a  Grisselhamna  un  pescatore  venente  in 
un  battelletto  da  quella  prima  isola  a  cui  doveva  approdar  io, 
la  prima;  e  disseci  il  pescatore  che  si  passerebbe,  ma  con  qualche 
stento.  Io  subito  volli  tentare,  benché  avendo  una  barca  assai  più 
spaziosa  di  quella  peschereccia,  poiché  in  essa  vi  trasportava  la 
carrozza,  l'ostacolo  veniva  ad  essere  maggiore  ;  ma  però  era  assai 
minore  il  pericolo,  poiché  ai  colpi  di  quei  massi  nuotanti  di 
ghiaccio  dovea  più  robustamente  far  fronte  un  legno  grosso  che 
non  un  piccolo.  E  così  per  l'appunto  accadde.  Quelle  tante  gal- 
leggianti isolette  rendevano  stranissimo  l'aspetto  di  quell'orrido 
mare  che  parca  piuttosto  una  terra  scompaginata  e  disciolta,  che 
non  un  volume  di  acque  :  ma  il  vento  essendo,  la  Dio  mercé, 
tenuissimo,  le  percosse  di  quei  tavoloni  nella  mia  barca  riusci- 
vano piuttosto  carezze  che  urti  ;  tuttavia  la  loro  gran  copia  e  mo- 
bilità spesso  li  facea  da  parti  opposte  incontrarsi  davanti  alla 
mia  prora,  e  combaciandosi,  tosto  ne  impedivano  il  solco;  e  su- 
bito altri  ed  altri  vi  concorreano,  ed  ammontandosi  facean  cenno 
di  rimandarmi  nel  continente.  Rimedio  efficace  ed  unico,  veniva 
allora  ad  essere  l'ascia,  castigatrice  d'ogni  insolente.  Più  d'una 
volta  i  marinai  miei,  ed  anche  io  stesso  scendemmo  dalla  barca 
sovra  quei  massi,  e  con  delle  scurì  si  andavano  partendo,  e  stac- 
cando dalle  pareti  del  legno,  tanto  che  desser  luogo  ai  remi  e 
alla  prora;  poi  risaltati  noi  dentro  coli' impulso  della  risorta  nave, 
si  andavano  cacciando  dalla  via  quegli  insistenti  accompagna- 
tori: e  in  tal  modo  si  navigò  il  tragitto  primo  di  sette  miglia 
svezzesi  in  dieci  e  più  ore.  La  novità  di  un  tal  viaggio  mi  di- 
verti moltissimo;  ma  forse  troppo  fastidiosamente  sminuzzandolo 
lo  nel  raccontarlo,  non  avrò  egualmente  divertito  il  lettore.  La 
descrizione  di  cosa  insolita  per  gl'Italiani,  mi  vi  ha  indotto.  Fatto 

»  Dantb,  Inferno,  XXXII,  v.  30. 


90  Vittorio  Alfieri 

In  tal  guisa  il  primo  tragitto,  gli  altri  sei  passi  molto  più  brevi, 
ed  oltre  ciò  oramai  fatti  più  liberi  dai  ghiacci,  riuscirono  assai 
più  facili.  Nella  sua  salvatica  ruvidezza.  a?.enoJ_jin_dei_paesi 
d'Europa  che  mi  siano  andati  più  a  genio^  e  destate^più_  idee 
fantastiche,  malinconiche,  ed  andiè  grandjose,^per^n_certo  vasto  / 
indefinibile  sU£nzÌo_che  regna'in  quell'atmosfera,  ove  ti  parrebbe 
quasi  di  essere  fuor  del  globo.        ~~  '" 

Sbarcato  per"? ùltima  volta  in  Abo,  capitale  della  Finlandia 
svezzese,  continuai  per  ottime  strade  e  con  velocissimi  cavalli  il 
mio  viaggio  sino  a  Pietroborgo,  dove  giunsi  verso  gli  ultimi  di 
maggio  ;  e  non  saprei  dire  se  di  giorno  vi  giungessi  o  di  notte  ; 
perchè  sendo  in  quella  stagione  annullate  quasi  le  tenebre  della 
notte  in  quel  clima  tanto  boreale,  e  ritrovandomi  assai  stanco 
del  non  aver  per  più  notti  riposato  se  non  se  disagiatamente  in 
carrozza,  mi  si  era  talmente  confuso  il  capo,  ed  entrata  una  tal 
noja  del  veder  sempre  quella  trista  luce,  ch'io  non  sapea  più  né 
qual  dì  della  settimana,  né  qual  ora  del  giorno,  né  in  qual  parte 
del  mondo  mi  fossi  in  quel  punto;  tanto  più  che  i  costumi,  abiti, 
e  barbe  dei  Moscoviti  mi  rappresentavano  assai  più  Tartari  che 
non  Europei. 

Io  aveva  letta  la  storia  di  Pietro  il  Grande  nel  Voltaire^;  mi 
era  trovato  nell'Accademia  di  Torino  con  vari  moscoviti,  ed  avea 
udito  magnificare  assai  quella  nascente  nazione  ^  Onde  queste  cose 
tutte,  ingrandite  poi  anche  dalla  mia  fantasia  che  sempre  mi  an- 
dava accattando  nuovi  disinganni,  mi  tenevano  al  mio  arrivo  in 
Pietroborgo  in  una  certa  straordinaria  palpitazione  dall'aspetta- 
tiva. Ma,  oimè,  che  appena  io  posi  il  piede  in  quell'asiatico  ac- 
campamento di  allineate  trabacche,  ricordatomi  allora  di  Roma, 
di  Genova,  di  Venezia,  e  di  Firenze,  mi  posi  a  ridere.  E  da  quan- 
t' altro  poi  ho  visto  in  quel  paese,  ho  sempre  più  ricevuta  la  con- 
ferma di  quella  prima  impressione  ;  e  ne  ho  riportato  la  preziosa 
notizia  ch'egli  non  meritava  d'esser  visto.  E  tanto  mi  vi  andò  a 
contragenio  ogni  cosa  (fuorché  le  barbe  e  i  cavalli),  che  in  quasi 
sei  settimane  ch'io  stetti  fra  quei  barbari  mascherati  da  Europei, 
ch'io  non  vi  volli  conoscere  chi  che  sia,  neppure  rivedervi  due 
o  tre  giovani  dei  primi  del  paese,  con  cui  era  stato  in  Accademia 
a  Torino,  e  neppure  mi  volli  far  presentare  a  quella  famosa  au- 


1  Cioè  la  di  lui  Histolrt  de  l'Empire  de  Russie  sous  Pierre  le  Grand. 
«  Per  la  civiltà  europea  introdottavi  da  Tictro  il  Grande. 


La  vita  91 

tocratrice  Caterina  Seconda":  ed  in  fine  neppure  vidi  material- 
mente il  viso  di  codesta  regnante,  che  tanto  ha  stancata  a'  giorni 
nostri  la  fama.  Esaminatomi  poi  dopo,  per  ritrovare  il  vero  perchè 
di  una  così  inutilmente  selvaggia  condotta,  mi  son  ben  convinto 
in  me  stesso  che  ciò  fu  una  mera  intolleranza  di  inflessibil  ca- 
rattere, ed  un  odio  purissimo  della  tirannide  in  astratto,  appic- 
cicato poi  sopra  una  persona  giustamente  tacciata  del  piìi  orrendo 
delitto,  la  mandataria  e  proditoria  uccisione  dell'inerme  marito. 
E  mi  ricordava  benissimo  di  aver  udito  narrare,  che  tra  i  molti 
pretesti  addotti  dai  difensori  di  un  tal  delitto,  si  adduceva  anche 
questo:  che  Caterina  Seconda  nel  subentrare  all' impero,  voleva, 
oltre  i  tanti  altri  danni  fatti  dal  marito  allo  Stato,  risarcire  anche 
in  parte  i  diritti  dell'umanità  lesa  sì  crudelmente  dalla  schiavitù 
universale  e  totale  del  popolo  in  Russia,  col  dare  una  giusta 
costituzione.  Ora,  trovandoli  io  in  una  servitù  così  intera  dopo 
cinque  o  sei  anni  di  regno  di  codesta  Clitennestra"  filosofessa; 
e  vedendo  la  maladetta  genia  soldatesca  sedersi  sul  trono  di  Pie- 
troborgo  più  forse  ancora  che  su  quel  di  Berlino  ;  questa  fu 
senza  dubbio  la  ragione  che  mi  fé'  pur  tanto  dispregiare  quei 
popoli,  e  sì  furiosamente  abborrirne  gli  scellerati  reggitori.  Spia- 
ciutami dunque  ogni  moscoviteria,  non  volli  altrimenti  portarmi 
a  Mosca,  come  avea  disegnato  di  fare,  e  mi  sapea  mill'anni  di 
rientrare  in  Europa.  Partii  nel  finir  di  giugno,  alla  volta  di 
Riga  per  Narva,  e  Rewel;  nei  di  cui  piani  arenosi  ignudi  ed 
orribili  scontai  largamente  i  diletti  che  mi  aveano  dati  le  epiche 
^elve  immense  della  Svezia  scoscesa.  Proseguii  per  Konisberga 
e  Danzica;  questa  città,  fin  allora  libera  e  ricca,  in  quell'anno 
per  l'appunto  cominciava  ad  essere  straziata  dal  mal  vicino  des- 
pota prussiano,  che  già  vi  avea  intrusi  a  viva  forza  i  suoi  vili 
sgherri.  Onde  io  bestemmiando  e  Russi  e  Prussi,  e  quanti  altri 
sotto  mentita  faccia  di  uomini  si  lasciano  più  che  bruti  malme- 
nare in  tal  guisa  dai  loro  tiranni;  e  sforzatamente  seminando  il 
mio  nome,  età,  qualità  e  carattere,  ed  intenzioni  (che  tutte  queste 
cose  in  ogni  villaggiuzzo  ti  son  domandate  da  un  sergente  al- 
l'entrare, al  trapassare,  allo  stare,  e  all'uscire),  mi  ritrovai  final- 
mente esser  giunto  una  seconda  volta  in  Berlino,  dopo  circa  un 

I  Dispotica  e  violenta  seppe  far  dimenticare  le  sue  sregolatezze  colla  pro- 
tezione liberale  accordata  ai  letterati. 

>  La  quale  aveva  ucciso  il  marito  Agamennone,  mentre  Caterina  II  il  con- 
sorte Pietro  IH. 


92  Vittorio  Alfieri 

mese  di  viaggio,  il  più  spiacevole,  tedioso  e  oppressivo  di  quanti 
mai  se  ne  possano  fare:  inclusive  lo  scendere  all'orcOj  che  piìi 
buio  e  sgradito  ed.  inospito  non  può  esser  mai.  Passando  per 
Zorendorff,  visitai  il  campo  di  battaglia  tra'  Russi  e  Prussiani  ', 
dove  tante  migliaia  dell'uno  e  dell'altro  armento  rimasero  libe- 
rate dal  loro  giogo  lasciandovi  l'ossa.  Le  fosse  sepolcrali  vastis- 
sime, vi  erano  manifestamente  accennate  dalla  folta  e  verdissima 
bellezza  del  grano,  il  quale  nel  rimanente  terreno  arido  per  sé 
stesso  ed  ingrato  vi  era  cresciuto  e  misero  e  rado.  Dovei  fare 
allora  una  trista  ma  pur  troppo  certa  riflessione  ;  che  gli  schiavi 
son  veramente  nati  a  far  concio.  T.ittg  gnoc^t.  ppirriinnria  mi 
f acean r>_seTnprg  più  e  conoirfr°  f  dffgi^prnri"  la  hrntn  TncJliJ]^'"^"'^ • 

Mi  sgabellai^  dunque  in  tre  giorni  di  questa  mia  berlinata  se- 
conda; né  per  altra  ragione  mi  vi  trattenni  che  per  riposarmivi 
un  poco  di  un  sì  disagiato  viaggio.  Partii  sul  finir  di  luglio  per 
Magdebourg,  Brunswich,  Gottinga,  Cassel,  e  Francfort.  Nell'en- 
trare in  Gottinga,  città  come  tutti  sanno  di  Università  fioritis- 
sima, mi  abbattei  in  un  asinelio  ch'io  moltissimo  festeggiai  per 
non  averne  più  visti  da  circa  un  anno  dacché  m'era  ingolfato 
nel  settentrione  estremo  dove  quell'animale  non  può  né  gene- 
rare, né  campare.  Di  codesto  incontro  di  un  asino  italiano  con 
un  asinelio  tedesco  in  una  così  famosa  Università,  ne  avrei  fatto 
allora  una  qualche  lieta  e  bizzarra  poesia,  se  la  lingua  e  la  penna 
avessero  in  me  potuto  servire  alla  mente,  ma  la  mia  impotenza 
scrittoria  era  ogni  dì  più  assoluta.  Mi  contentai  dunque  di  fan- 
tasticarvi su  fra  me  stesso,  e  passai  così  una  festevolissima  gior- 
nata, soletto  sempre,  con  me  e  il  mio  asino.  E  le  giornate  fe- 
stive per  me  eran  rare,  passandomele  io  di  continuo  solo  solis- 
simo, per  lo  più  anche  senza  leggere  né  far  nulla,  e  senza  mai 
schiuder  bocca. 

Stufo  oramai  di  ogni  qualunque  tedescheria,  lasciai  dopo  due 
giorni  Francfort,  e  avviatomi  verso  Magonza,  mi  v'  imbarcai 
sopra  il  Reno,  e  disceso  con  quell'epico  fiumone*  sino  a  Colonia, 
un  qualche   diletto   lo    ebbi   navigando   fra  quelle  amenissime 


1  Vinta  da  Federico  II  nel  1758.  Si  rilevi  la  nobiltà  del  sentimento  nmt- 
nitario  dell'A.  nelle  parole  che  seguono. 

«  Liberai. 

*  Epico  fiume  maestoso:  per  le  leggende  che  ad  esso  si  ricollegano,  le 
quali  han  fornito  poi  al  Wagner  argomento  al  prologo  (L'oro  del  Rtno) 
della  sua  tetralogia  L'Anello  del  Nibelung. 


La  vita  93 

sponde.  Di  Colonia  per  Aquisgrana  ritornai  a  Spa,  dove  due 
anni  prima  a\eva  passato  qualche  settimana;  e  quel  luogo  mi 
avea  sempre  lasciato  un  qualche  desiderio  di  rivederlo  a  cuor 
libero;  parendomi  quella  essere  una  vita  adattata  al  mio  umore, 
perchè  riunisce  rumore  e  solitudine,  onde  vi  si  può  stare  inos- 
servato ed  ignoto  infra  le  pubbliche  veglie  e  festini.  Ed  in  fatti 
talmente  mi  vi  compiacqui,  che  ci  stetti  sin  quasi  al  fin  di  set- 
tembre dal  mezzo  agosto:  spazio  lunghissimo  di  tempo  per  me 
che  in  nessun  luogo  mi  potea  posar  mai.  Comprai  due  cavalli 
da  un  Irlandese,  dei  quali  l'uno  era  di  non  comune  bellezza,  e 
vi  posi  veramente  il  cuore.  Onde  cavalcando  mattina  e  giorno  e 
sera,  pranzando  in  compagnia  di  otto  o  dieci  altri  forestieri  di 
ogni  paese,  e  vedendo  seralmente  ballare  gentili  donne  e  don- 
zelle, io  passava  (o  per  dir  meglio  logorava)  il  mio  tempo  be- 
nissimo. Ma  guastatasi  la  stagione,  ed  i  più  dei  bagnanti  comin- 
ciando ad  andarsene,  partii  anch'  io  e  volli  ritornare  in  Olanda 
per  rivedervi  l'amico  D'Acunha,  e  ben  certo  di  non  rivedervi  la 
già  tanto  amata  donna,  la  quale  sapeva  non  essere  più  all'Haja, 
ma  da  più  d'un  anno  essere  stabilita  con  il  marito  in  Parigi. 
Non  mi  potendo  staccare  dai  miei  due  ottimi  cavalli,  avviai  in- 
nanzi Elia  con  il  legno,  ed  io,  parte  a  piedi  parte  a  cavallo,  mi 
avviai  verso  Liegi.  In  codesta  città,  presentandomisi  l'occasione 
di  un  ministro  di  Francia  mio  conoscente,  mi  lasciai  da  esso 
introdurre  al  principe  vescovo  di  Liegi,  per  condiscendenza  e 
stranezza:  che  se  non  avea  veduta  la  famosa  Caterina  Seconda, 
avessi  almeno  vista  la  corte  del  principe  di  Liegi.  E  nel  sog- 
giorno di  Spa  era  anche  stato  introdotto  ad  un  altro  principe 
ecclesiastico,  assai  più  microscopico  ancora,  l'abate  di  Stavelò 
nell'Ardenna.  Lo  stesso  ministro  di  Francia  a  Liegi  mi  avea  pre- 
sentato alla  corte  di  Stavelò,  dove  allegrissimamente  si  pranzò, 
ed  anche  assai  bene.  E  meno  mi  ripugnavano  le  corti  del  pasto- 
rale che  quelle  dello  schioppo  e  tamburo,  perchè  di  questi  due 
flagelli  degli  uomini  non  se  ne  può  mai  rider  veramente  di 
cuore.  Di  Liegi  proseguii  in  compagnia  de'  miei  cavalli  a  Brus- 
selle,  Anversa,  e  varcato  il  passo  del  Mordick,  a  Roterdamo, 
ed  all'Haja.  L'amico,  col  quale  io  sempre  avea  carteggiato 
dappoi,  mi  ricevè  a  braccia  aperte;  e  trovandomi  un  pocolin 
migliorato  di  senno  egli  sempre  più  mi  andò  assistendo  dei  suoi 
amorévoli,  caldi  e  luminosi  consigli.  Stetti  con  esso  circa  due 
mesi,  ma  poi  Infiammato  come  io  era  della  smania  di  riveder 


^4  Vittorio  Alfieri 

1» Inghilterra,  e  stringendo  anche  la  stagione,  ci  separammo  verso 
il  fin  di  novembre.  Per  la  stessa  via  fatta  da  me  due  e  più  anni 
prima  giunsi,  felicemente  sbarcato  in  Harwich,  in  pochi  giorni 
a  Lond'ra.  Ci  ritrovai  quasi  tutti  quei  pochi  amici  che  io  avea 
praticati  nel  primo  viaggio;  tra  i  quali  il  principe  di  Masserano 
ambascìator  di  Spagna,  ed  il  marchese  Caraccioli  ministro  di 
Napoli,  uomo  di  alto,  sagace  e  faceto  ingegno.  Queste  due  per- 
sone mi  furono  più  che  padre  in  amore  nel  secondo  soggiorno 
ch'io  feci  in  Londra  di  circa  sette  mesi,  nel  quale  mi  trovai  m 
alcuni  frangenti  straordinari  e  scabrosi,  come  si  vedrà. 


CAPITOLO  DECIMO 

Secondo  fierissimo  intoppo  amoroso  a  Londra. 

Fin  dal  primo  mio  viaggio  erami  in  Londra  andata  somma- 
mente a  genio  una  bellissima  signora»  delle  primarie,  la  di  cui 
immagine  tacitamente  forse  nel  cuore  mio  introdottasi  mi  avea 
fatto  in  gran  parte  trovare  sì  bello  e  piacevole  quel  paese,  ed 
anche  accresciutami  ora  la  voglia  di  rivederlo.  Con  tutto  ciò, 
ancorché  quella  bellezza  mi  si  fosse  mostrata  fin  d'allora  piut- 
tosto benigna,  la  mia  ritrosa  e  selvaggia  indole  mi  avea  preser- 
vato dai  di  lei  lacci.  Ma  in  questo  ritorno,  ingentilitomi  io  d'al- 
quanto, ed  essendo  in  età  più  suscettibil  d' amore,  e  non  abba- 
stanza rinsavito  dal  primo  accesso  di  quell'infausto  morbo,  che 
sì  male  mi  era  riuscito  nell'  Maja,  caddi  allora  in  quest'altra  rete, 
e  con  sì  indicibil  furore  mi  appassionai,  che  ancora  rabbrividisco 
pensandovi  adesso  che  lo  sto  descrivendo  nel  primo  gelo  del 
nono  mio  lustro.  Mi  si   presentava  spessissimo  l'occasione  di 
veder  quella  bella  inglese,  massimamente  in  casa  del  principe  di 
Masserano  S  con  la  di  cui  moglie  essa  era  compagna  di  palco  al 
teatro  dell'opera  italiana.  Non  la  vedeva  in  casa  sua,  perchè  a  - 
lora  le  dame  inglesi  non   usavano   ricevere  visite,  e  principal- 
mente di  forestieri.  Oltre  ciò  il  marito  ne  era  gelosissimo,  per 
quanto  il  possa  e  sappia  essere  un  oltramontano.  Questi  ostacoletti 
vieppiù  mi  accendevano;  onde  io  ogni  mattina  or& &\V Hyde-Park, 

1  Penelope  Pitt,  figlia  di  Sir  Giorgio  Pitt,  e  moglie  di  Lord  Edoardo 
Ligonier.  [B.\. 

2  Cfr.  Ep.  IH,  cap.  vi. 


La  vita  05 

ora  in  qualche  altro  passeggio  mi  incontrava  con  essa  ;  ogni  sera 
in  quelle  affollate  veglie,  o  al  teatro,  la  vedea  parimente;  e  la 
cosa  si  andava  sempre  più  ristringendo.  E  venne  finalmente  a 
tale,  che  io,  felicissimo  dell'essere  o  credermi  riamato,  mi  teneva 
pure  infelicissimo,  ed  era  dal  non  vedere  modo  con  cui  si  po- 
tesse con  securità  continuare  gran  tempo  quella  pratica.  Passa- 
vano, volavano  i  gforni  ;  inoltratasi  la  primavera,  il  fin  di  giugno 
al  più  al  più  era  il  termine,  in  cui  attesa  la  partenza  per  la  cam- 
pagna dove  ella  solca  stare  sette  e  più  mesi,  diveniva  assoluta- 
mente impossibile  il  vederla  né  punto  né  poco.  Io  quindi  vedeva 
arrivare  quel  giugno  come  1'  ultimo  termine  indubitabilmente 
della  mia  vita;  non  ammettendo  io  mai  nel  mio  cuore,  né  nella 
mente  mia  inferma,  la  possibilità  fisica  di  sopravvivere  a  un  tale 
distacco,  sendosi  in  tanto  più  lungo  spazio  di  tempo  rinforzata 
questa  mia  seconda  passione  tanto  superiormente  alla  prima.  In 
questo  funesto  pensiere  del  dover  senza  dubbio  perire  quando 
la  dovrei  lasciare,  mi  si  era  talmente  inferocito'  l'animo,  ch'io 
non  procedeva  in  quella  mia  pratica  altrimenti  che  come  chi  non 
ha  oramai  più  nulla  che  perdere.  Ed  a  ciò  contribuiva  parimente 
non  poco  il  carattere  dell'  amata  donna,  la  quale  pareva  non 
gustar  punto  né  intendere  i  partiti  di  mezzo.  Essendo  le  cose  in 
tal  termine,  e  raddoppiandosi  ogni  giorno  le  imprudenze  sì  mie 
che  sue,  il  di  lei  marito  avvistosene  già  da  qualche  tempo  avea 
più  volte  accennato  di  volermene  fare  un  qualche  risentimento'; 
ed  io  nessun'altra  cosa  ai  mondo  bramava  quanto  questa,  poiché 
dal  solo  uscir  esso  dei  gangheri  potea  nascere  per  me  o  alcuna 
via  di  salvamento,  ovvero  una  total  perdizione.  In  tale  orribile 
stato  io  vissi  circa  cinque  mesi,  finché  scoppiò  la  bomba  nel 
modo  seguente.  Più  volte  già  in  diverse  ore  del  giorno  con  grave 
rischio  di  ambedue  noi  io  era  stato  da  essa  stessa  introdotto  in 
casa;  inosservato  sempre,  attesa  la  piccolezza  delle  case  di  Londra, 
e  il  tenersi  le  porte  chiuse,  e  la  servitù  stare  per  lo  più  nel  piano 
sotterraneo,  il  che  da  campo  di  aprirsi  la  porta  di  strada  da  chi 
è  dentro,  e  facilmente  introdursi  l'estraneo  ad  una  qualche  ca- 
mera terrena  contìgua  immediatamente  alla  porta.  Quindi  quelle 
mie  introduzioni  dì  contrabbando  erano  tutte  francamente  riu- 
scite; tanto  più  ch'era  in  ore  ove  il  marito  era  fuor  di  casa,  e 


I  Esaluto,  esasperalo. 

'  Volermene  chiedere  soddisfazione. 


06  Vittorio  Al/ieri 

per  lo  più  la  gente  di  servizio  a  mangiare.  Questo  prospero 
esito  ci  inanimì  a  tentare  maggiori  rischi.  Onde,  venuto  il  maggio, 
avendola  il  marito  condotta  in  una  villa  vicina,  16  miglia  di 
Londra,  per  starci  otto  o  dieci  giorni  e  non  più,  subito  si  ap- 
puntò il  giorno  e  l'ora  in  cui  parimente  nella  villa  verrei  intro- 
dotto di  furto;  e  si  colse  il  giorno  d'una  rivista  delle  truppe  a 
cui  il  marito,  essendo  uffiziale  delle  guardie,  dovea  intervenir 
senza  fallo,  e  dormire  in  Londra.  Io  dunque  mi  ci  avviai  quella 
sera  stessa,  soletto,  a  cavallo;  ed  avendo  avuto  da  essa  l'esatta 
topografia  del  luogo,  lasciato  il  mio  cavallo  ad  un'osteria  distante 
circa  un  miglio  dalla  villa,  proseguii  a  piedi,  sendo  già  notte, 
fino  alla  porticella  del  parco,  di  dove  introdotto  da  essa  stessa 
passai  nella  casa,  non  essendo,  o  credendomi  tuttavia  non  essere, 
stato  osservato  da  chi  che  fosse.  Ma  cotali  visite  erano  zolfo  sul 
fuoco,  e  nulla  ci  bastava  se  non  ci  assicurava  del  sempre.  Si 
presero  dunque  alcune  misure  per  replicare  e  spesseggiar  quelle 
gite,  finché  durasse  la  villeggiatura  breve,  e  disperatissimi  poi 
se  si  pensava  alla  villeggiatura  imminente  e  lunghissima  che  ci 
sovrastava.  Ritornato  io  la  mattina  dopo  in  Londra,  fremeva  e 
impazziva  pensando  che  altri  due  giorni  dovrei  stare  senza  ve- 
derla, e  annoverava  l'ore  e  i  momenti.  Io  viveva  in  un  contìnuo 
delirio,  inesprimibile  quanto  incredibile  da  chi  provato  non 
l'abbia,  e  pochi  certamente  l'avranno  provato  a  un  tal  segno.  Non 
ritrovava  mai  pace  se  non  se  andando  sempre,  e  senza  saper 
dove;  ma  appena  quetatomi  o  per  riposarmi,  o  per  nutrirmi,  o 
per  tentar  di  dormire,  tosto  con  grida  ed  urli  orribili  era  co- 
stretto di  rimbalzare  in  piedi,  e  come  un  forsennato  mi  dibatteva 
almeno  per  la  camera,  se  l'ora  non  permetteva  di  uscire.  Aveva 
più  cavalli,  e  tra  gli  altri  quel  bellissimo  comprato  a  Spa,  e  fatto 
poi  trasportare  in  Inghilterra.  E  su  quello  io  andava  facendo  le 
più  pazze  cose,  da  atterrire  i  più  temerarj  cavalcatori  di  quel 
paese,  saltando  le  più  alte  e  larghe  siepi  di  slancio,  e  fossi  stra- 
larghì,  e  barriere  quante  mi  si  affacciavano.  Una  di  quelle  mat- 
tine intermedie  tra  una  e  l'altra  mia  gita  in  quella  sospirata  villa, 
cavalcando  io  col  marchese  Caraccioli,  volli  fargli  vedere  quanto 
bene  saltava  quel  mio  stupendo  cavallo,  e  adocchiata  una  delle 
più  alte  barriere  che  separava  un  vasto  prato  dalla  pubblica 
strada,  ve  Io  cacciai  di  carriera  ;  ma  essendo  io  mezzo  alienato  ', 

i  S«mi-infermo  di  mente,  non  sapendomi  quel  che  mi  facessi. 


La  vita  ^1 

e  poco  badando  a  dare  in  tempo  i  debiti  aiuti  e  la  mano  al  ca- 
vallo, egli  toccò  coi  pie  davanti  la  sbarra,  ed  entrambi  in  un 
fascio  precipitati  sul  prato,  ribalzò  egli  primo  in  piedi,  io  poi; 
né  mi  parve  di  essermi  fatto  male  alcuno.  Del  resto  il  mio  pazzo 
amore  mi  aveva  quadruplicato  il  coraggio,  e  pareva  ch'io  a  bella 
posta  mendicassi  ogni  occasione  di  rompermi  il  collo.  Onde,  per 
quanto  il  Caraccìoli,  rimasto  su  la  strada  di  là  dalla  mal  per  me 
saltata  barriera,  gridassemi  di  non  far*altro,  e  di  andar  cercare 
l'uscita  naturale  del  prato  per  riunirmi  a  lui,  io  che  poco  sapeva 
quel  che  mi  facessi,  correndo  dietro  il  cavallo  che  accennava  di 
voler  fuggire  pel  prato,  ne  afferrai  in  tempo  le  redini,  e  salta- 
tovi su  di  bel  nuovo,  lo  rispinsi  spronando  contro  la  stessa  bar- 
riera, e  ristorando  egli  ampiamente  il  mio  onore  ed  il  suo  la 
passò  di  volo.  La  giovenile  superbia  mia  non  godè  lungamente 
di  quel  trionfo,  che  dopo  fatti  alcuni  passi  adagino,  freddando- 
misi  a  poco  a  poco  la  mente  ed  il  corpo,  cominciai  a  provare 
un  fiero  dolore  nella  sinistra  spalla,  che  era  in  fatti  slogata,  e 
rotto  un  ossuccjo  che  collega  la  punta  di  essa  col  collo.  Il  do- 
lore andava  crescendo,  e  le  poche  miglia  che  mi  trovava  esser 
distante  da  casa  mi  parvero  fieramente  lunghe  prima  di  ricon- 
durmivi  a  cavallo  ad  oncia  ad  oncia.  Venuto  il  chirurgo,  e  stra- 
ziatomi per  assai  tempo,  disse  di  aver  riallogato  ogni  cosa,  e  fa- 
sciatomi, ordinò  ch'io  stessi  in  letto.  Chi  intende  d'amore  si  rap- 
presenti le  mie  smanie  e  furore  nel  vedermi  io  così  inchiodato 
in  un  letto,  la  vigilia  per  l'appunto  di  quel  beato  giorno  che 
era  prefisso  alla  mia  seconda  gita  in  villa.  La  slogatura  del 
braccio  era  accaduta  nella  mattina  del  sabato  ;  pazientai  per  quel 
giorno,  e  la  domenica  sino  verso  la  sera,  onde  quel  poco  di  ri- 
poso mi  rendè  alcuna  forza  nel  braccio,  e  più  ardire  nell'animo. 
Onde  verso  le  ore  sei  del  giorno  mi  volli  a  ogni  conto  alzare, 
e  per  quanto  mi  dicesse  il  mio  semi-ajo  Elia,  entrai  alla  meglio 
in  un  carrozzino  di  posta  soletto,  e  mi  avviai  verso  il  mio  de- 
stino. Il  cavalcare  mi  era  fatto  impossibile  atteso  il  dolore  del 
braccio,  e  l'impedimento  della  stringatissima  fasciatura,  onde  non 
dovendo  né  potendo  arrivare  sino  alla  villa  in  quel  carrozzino 
col  postiglione,  mi  determinai  di  lasciare  il  legno  alila  distanza 
di  circa  due  miglia,  e  feci  il  rimanente  della  strada  a  piedi  con 
l'un  braccio  impedito,  e  l'altro  sotto  il  pastrano  con  la  spada 
impugnata,  andando  solo  di  notte  in  casa  d'altri,  non  come  amico. 
La  scossa  del  legno  mi  avea  frattanto  rinnovato  e  raddoppiato 

T.  -  Classlei  Italiani.  N.  3. 


Oè  Vittorio  Alfieri 

il  dolore  della  spalla,  e  scompostane  la  fasciatura  a  tal  segno 
che  la  spalla  in  fatti  non  si  riallogò  poi  in  appresso  mai  più. 
Pareami  pur  tuttavia  di  essere  il  più  felice  uomo  del  mondo  av- 
vicinandomi al  sospirato  oggetto.  Arrivai  finalmente,  e  con  non 
poco  stento  (non  avendo  l'aiuto  di  chicchessia,  poiché  dei  con- 
fidenti non  v'era)  pervenni  pure  ad  accavalciare  gli  stecconi  del 
parco  per  introdurmivi,  poiché  la  porticella  che  la  prima  volta 
ritrovai  socchiusa,  in  quella  seconda  mi  riuscì  inapribile.  Il  ma- 
rito, al  solito  per  cagione  della  rivista  dell'indomani  lunedì,  era 
ito  anche  quella  sera  a  dormire  in  Londra.  Pervenni  dunque 
alla  casa,  trovai  chi  mi  vi  aspettava,  e  senza  molto  riflettere  né 
essa  né  io  all'accidente  dell'essersi  ritrovata  chiusa  la  porticella 
ch'essa  pure  avea  già  più  ore  prima  aperta  da  sé,  mi  vi  trat- 
tenni fino  all'alba  nascente.  Uscitone  poi  nello  stesso  modo,  e 
tenendo  per  fermo  di  non  essere  stato  veduto  da  anima  vivente, 
per  la  stessa  via  fino  al  mio  legno,  e  poi  salito  in  esso  mi  ri- 
condussi in  Londra  verso  le  sette  della  mattina  assai  mal  concio 
fra  i  due  cocentissirai  dolori  dell'averla  lasciata  e  di  trovarmi 
assai  peggiorata  la  spalla.  Ma  lo  stato  dell'animo  mio  era  sì 
pazzo  e  frenetico,  ch'io  nulla  curava  qualunque  cosa  potesse  ac- 
cadere, prevedendole  pure  tutte.  Mi  feci  dal  chirurgo  ristringere 
di  nuovo  la  fasciatura  senza  altrimenti  toccare  al  riallogamento 
o  slogamento  che  fosse.  Il  martedì  sera,  trovatomi  alquanto 
meglio,  non  volli  neppur  più  stare  in  casa,  e  andai  al  teatro 'ita- 
liano nel  solito  palco  del  principe  di  Masserano,  che  vi  era  con 
la  sua  moglie,  e  che  credendomi  mezzo  storpio  ed  in  letto, 
molto  si  maravigliarono  di  vedermi  col  solo  braccio  al  collo. 

Frattanto  io  me  ne  stava,  in  apparenza  tranquillo,  ascoltando 
la  musica,  che  mille  tempeste  terribili  mi  rinnovava  nel  cuore; 
ma  il  mio  viso  era,  come  suol  essere,  di  vero  marmo.  Quand'ecco| 
ad  un  tratto  io  sentiva,  o  pareami,  pronunziato  il  mio  nome  da 
qualcuno,  che  sembrava  contrastare  con  un  altro  alla  porta  del 
chiuso  palco.  Io,  per  un  semplice  moto  macchinale,  balzo  alla 
porta,  l'apro,  e  richiudola  dietro  me  in  un  attimo,  e  agli  occhi| 
mi  si  presenta  il  marito  della  mia  donna,  che  stava  aspettandc 
che  di  fuori  gli  venisse  aperto  il  palco  chiuso  a  chiave  da  quegli 
usati  custodi  dei  palchi,  che  nei  teatri  inglesi  si  trattengono  a  ' 
tal  effetto  nei  corridori.  Io  già  più  e  più  volte  mi  era  aspettato 
a  quest'incontro,  e  non  potendolo  onoratamente  provocare  io 
primo,  l'avea  pure  desiderato  più  che  ogni  cosa  al  mondo.  Pre- 


I 


La  vita  9Q 

dentatomi  dunque  in  un  baleno  fuori  del  palco,  le  parole  furon 
queste  brevissime.  Eccomi  qua,  gridai  io;  chi  mi  cerca?  Io,  mi 
rispos'egli,  la  cerco,  che  ho  qualche  cosa  da  dirle.  Usciamo,  io 
replico;  sono  ad  udirla.  Né  altro  aggiungendovi,  uscimmo  im- 
mediatamente dal  teatro.  Erano  circa  le  ore  ventitré  e  mezza 
d' Italia,  nei  lunghissimi  giorni  di  maggio  cominciando  in  Londra 
i  teatri  verso  le  ventidue.  Dal  teatro  AtW Haymarket  per  un  assai 
buon  tratto  di  strada  andavamo  al  Parco  di  San  Giacomo,  dove 
per  un  cancello  si  entra  in  un  vasto  prato,  chiamato  Green- 
park.  Quivi,  già  quasi  annottando,  in  un  cantuccio  appartato  si 
sguainò  senza  dir  altro  le  Spade.  Era  allor  d'uso  il  portarla 
anch' essendo  in  frack,  onde  io  mi  ero  trovato  d' averla,  ed  egli 
appena  tornato  di  villa  era  corso  da  uno  spadajo  a  provveder- 
sela. A  mezzo  la  via  di  Pallmall  che  ci  guidava  al  Parco  San 
Giacomo,  egli  due  o  tre  volte  mi  andò  rimproverando  ch'io  era 
stato  pili  volte  in  casa  sua  di  nascosto,  ed  interrogavami  del 
come.  Ma  io,  malgrado  la  frenesia  che  mi  dominava,  presentis- 
simo a  me,  e  sentendo  nell'intimo  del  cuor  mio  quanto  fosse 
giusto  e  sacrosanto  lo  sdegno  dell'avversario,  null'altro  mai  mi 
veniva  fatto  di  rispondere;  se  non  se:  Non  è  vera  tal  cosa:  ma 
quand'ella  pure  la  crede  son  qui  per  dargliene  buon  conto.  Ed 
egli  ricominciava  ad  affermarlo,  e  massimamente  di  quella  mia 
ultima  gita  in  villa  egli  ne  sminuzzava  sì  bene  ogni  particola- 
rità, ch'io  rispondendo  sempre.  Non  è  vero,  vedea  pure  benis- 
simo ch'egli  era  informato  a  puntino  di  tutto.  Finalmente  egli 
terminava  col  dirmi:  A  che  vuol  ella  negarmi  quanto  mi  ha  con- 
fessato e  narrato  la  stessa  mia  moglie?  Strasecolai  di  un  si  fatto 
discorso,  e  risposi  (benché  feci  male,  e  me  ne  pentii  poi  dopo): 
Quand'ella  il  confessi,  non  lo  negherò  io.  Ma  queste  parole  ar- 
ticolai, perché  oramai  era  stufo  di  stare  si  lungamente  sul  ne- 
gare una  cosa  patente  e  verissima;  parte  che  troppo  mi  ripu- 
gnava in  faccia  ad  un  nemico  offeso  da  me;  ma  pure  violen- 
tandomi, lo  faceva  per  salvare,  se  era  possibile,  la  donna.  Questo 
tra  stato  il  discorso  tra  noi  prima  di  arrivar  sul  luogo  ch'io 
accennai.  Ma  allorché  nell'atto  di  sguainar  la  spada,  egli  osservò 
ch'Io  aveva  11  manco  braccio  sospeso  al  collo,  egli  ebbe  la  gè- 
nerosità  di  domandarmi  se  questo  non  m'impedirebbe  di  bat- 
termi. Risposi  ringraziandolo,  ch'io  sperava  di  no,  e  subito  lo 
attaccai.  Io  sempre  sono  stato  un  pessimo  schermitore;  mi  ci 
butUI  dunque  fuori  d'ogni  regola  d'ai  le  come  un  disperato;  e 


100  Vittorio  Alfieri 

q  dJLJgrn  ift  nnn  ffprray?t  altro  che  di  farmi  ammazzare.  Poco 
saprei  descrivere  quel  ch'io  mi  facèS5Ì7  ma  cunvléli  pure  che 
assai  gagliardamente  lo  investissi,  poiché  io  al  principiare  mi 
trovava  aver  il  sole,  che  stava  per  tramontare,  direttamente  negli 
occhi  a  segno  che  quasi  non  ci  vedeva;  e  in  forse  sette  o  otto 
minati  di  tempo  io  mi  era  talmente  spinto  innanzi  ed  egli  ritrat- 
tosi e  nel  ritrarsi  descritta  una  curva  sì  fatta,  ch'io  mi  ritrovai 
col  sole  direttamente  alle  spalle.  Così  martellando  gran  tempo, 
io  sempre  portandogli  colpi,  ed  egli  sempre  ribattendoli,  giu- 
dico che  egli  non  mi  uccise  perchè  non  volle,  e  ch'io  non  lo 
uccìsi  perchè  non  seppi.  Finalmente  egli  nel  parare  una  botta, 
me  ne  allungò  un'altra  e  mi  colse  nel  braccio  destro  tra  l'im- 
pugnatura ed  il  gomito,  e  tosto  awisommi  ch'io  era  ferito;  io 
non  me  n'era  punto  avvisto,  né  la  ferita  era  in  fatti  gran  cosa. 
Allora  abbassando  egli  primo  la  punta  in  terra,  mi  disse  che 
egli  era  soddisfatto,  e  domandavami  se  lo  era  anch'io.  Risposi, 
che  io  non  era  l'offeso,  e  che  la  cosa  era  in  lui.  Ringuainò  egli 
allora,  ed  io  pure.  Tosto  egli  se  n'andò  ;  ed  io,  rimasto  un  altro 
poco  sul  luogo  voleva  appurare  cosa  fosse  quella  mia  ferita  ;  ma 
osservando  l'abito  essere  squarciato  per  lo  lungo,  e  non  sentendo 
gran  dolore,  né  sentendomi  sgocciolare  gran  sangue  la  giudicai 
una  scalfittura  più  che  una  piaga.  Del  resto  non  mi  potendo, 
aiutare  del  braccio  sinistro,  non  sarebbe  stato  possibile  di  ca- 
varmi l'abito  da  me  solo.  Aiutandomi  dunque  co'  denti  mi  con- 
tentai di  avvoltolarmi  alla  peggio  un  fazzoletto  e  annodarlo  sul 
braccio  destro  per  diminuire  così  la  perdita  del  sangue.  Quindi 
uscito  dal  parco,  per  la  stessa  strada  di  Pallmall,  e  ripassando 
davanti  al  Teatro,  di  donde  era  uscito  tre  quarti  d'ora  innanzi, 
ed  al  lume  di  alcune  botteghe  avendo  veduto  che  non  era  in- 
sanguinato né  l'abito,  né  le  mani,  scioltomi  coi  denti  il  fazzo- 
letto dal  braccio  e  non  provatone  più  dolore,  mi  venne  la  pazza 
voglia  puerile  di  rientrare  al  teatro,  e  nel  palco  donde  avea  preso 
le  mosse.  Tosto  entrando  fui  interrogato  dal  principe  di  Masse- 
rano,  perché  io  mi  fossi  scagliato  così  pazzamente  fuori  del  suo 
palco,  e  dove  fossi  stato.  Vedendo  che  non  aveano  udito  nulla 
del  breve  diverbio  seguito  fuori  del  loro  palco,  dissi  che  mi  era 
sovvenuto  a  un  tratto  di  dover  parlare  con  qualcuno,  e  che  perciò 
era  uscito  così:  né  altro  dissi.  Ma  per  quanto  mi  volessi  far 
forza,  il  mio  animo  trovavasi  jJure  inuna__estrema_agilazIone, 
pensando'quàrpulesse  fbbcie  II  Séguifó'drun  JaLuffarc,  e  tutti 


La  vita  101 

I  danni  che  stavano  per  accadere  all'amata  mia  donna.  Onde 
dopo  un  quarticello  me  n'andai,  non  sapendo  quel  che  farei  di 
me.  Uscito  dal  teatro  mi  venne  in  pensiero  (già  che  quella  ferita 
non  mi  impediva  di  camminare)  di  portarmi  in  casa  d'una  cognata 
della  mia  donna,  la  quale  ci  secondava,  e  in  casa  di  cui  ci  eramo 
anche  veduti  qualche  volta. 

Opportunissimo  riuscì  quel  mio  accidentale  pensiero,  poiché 
entrando  in  camera  di  quella  signora  il  primo  oggetto  che  mi 
si  presentò  agli  occhi,  fu  la  stessa  stessissima  donna  mia.  Ad  una 
vista  sì  inaspettata,  ed  in  tanto  e  sì  diverso  tumulto  di  affetti, 
io  m'  ebbi  quasi  a  svenire.  Tosto  ebbi  da  lei  pienissimo  schiari- 
mento del  fatto,  come  pareva  dover  essere  stato;  ma  non  come 
egli  era  in  effetto;  che  la  verità  poi  mi  era  dal  mio  destino 
riserbata  a  sapersi  per  tutt'altro  mezzo.  Ella  dunque  mi  disse, 
che  il  marito  sin  dal  primo  mio  viaggio  in  villa  n'avea  avuta 
la  certezza,  dalla  persona  in  fuori;  avendo  egli  saputo  soltanto 
che  quaicu.-  c'era  stato,  ma  nessuno  mi  avea  conosciuto.  Egli 
avea  appurato,  che  era  stato  lasciato  un  cavallo  tutta  la  notte  in 
tale  albergo,  tal  giorno,  e  ripigliato  poi  in  tal  ora  da  persona 
che  largamente  avea  pagato,  né  articolato  una  sola  parola.  Perciò 
all'occasione  di  questa  seconda  rivista,  avea  segretamente  appo- 
stato alcun  suo  familiare  perchè  vegliasse,  spiasse,  ed  a  pun- 
tino poi  lunedi  sera  al  suo  ritorno  gli  desse  buon  conto  d'ogni 
cosa.  Egli  era  partito  la  domenica  il  giorno,  per  Londra;  ed  io 
come  dissi,  la  domenica  al  tardi  di  Londra  per  la  villa  sua,  dove 
era  giunto  a  piedi  su  l'imbrunire.  La  spia  (o  uno  o  più  ch'ei 
si  fossero),  mi  vide  attraversare  il  cimitero  del  luogo,  accostarmi 
alla  porticella  del  parco,  e  non  potendola  aprire,  accavalciarne 
gli  stecconi  di  cinta.  Così  poi  m'avea  visio  uscire  su  l'alba,  ed 
avviarmi  a  piedi  su  la  strada  maestra  verso  Londra.  Nessuno  si 
era  attentato  né  di  mostrarmisi  pure,  non  che  di  dirmi  nulla; 
forse  perchè  vedendomi  venire  in  aria  risoluta  con  U  s^aJa  sotto 
il  braccio,  e  non  ci  avendo  e&v  intc/rt»*»  proprio,  gli  spassio- 
nati non  si  pareggiando  mai  cogli  innamorati,  pensarono  esser 
meglio  di  lasciarmi  andare  a  buon  viaggio.  Ma  cerio  si  è,  che 
se  all'entrare  o  all'uscire  a  quel  modo  ladronesco  dal  parco,  mi 
avessero  voluto  in  due  o  tre  arrestare,  la  cosa  si  riducea  per  me 
a  mal  partito;  poiché  se  tentava  fuggire,  avea  aspetto  di  ladro, 
8e  attaccarli  o  difendermi,  avea  aspetto  di  assassino:  ed  in  me 
Stesso  io  ero  ben  risoluto  di  non  mi  lasciar  prender  vivo.  Onde 


102  Vittorio  Alfieri 

bisognava  subito  menar  la  spada,  ed  in  quel  paese  di  savie  e 
non  mai  deluse  leggi  queste  cose  hanno  immancabilmente  seve- 
rissimo gastigo.  Inorridisco  anche  adesso,  scrivendolo:  ma  punto 
non  titubava  io  nell'atto  di  espormivi.  Il  marito  dunque  nel  ritor- 
nare il  lunedì  giorno*  in  villa,  già  dallo  stesso  mio  postiglione, 
che  alle  due  miglia  di  là  mi  aveva  aspettato  tutta  notte,  gli  venne 
raccontato  il  fatto  come  cosa  insolita,  e  dal  ritratto  che  egli  avea 
fatto  di  mia  statura,  forme,  e  capelli,  egli  mi  avea  benissimo 
riconosciuto.  Giunto  poi  a  casa  sua,  ed  avuto  il  referto  della  sua 
gente,  ottenne  al  fine  la  tanto  desiderata  certezza  dei  danni  suoi. 
Ma  qui,  nel  descrivere  gli  effetti  stranissimi  di  una  gelosia 
inglese,  la  gelosia  italiana  si  vede  costretta  di  ridere  :  cotanto 
son  diverse  le  passioni  nei  diversi  caratteri  e  climi,  e  massime 
sotto  diversissime  leggi.  Ogni  lettore  italiano  qui  sta  aspettando 
pugnali,  veleni,  battiture,  o  almeno  carcerazion  della  moglie,  e 
simili  ben  giuste  smanie.  Nulla  di  questo.  L'inglese  marito,  an- 
corché assaissimo  al  modo  suo  adorasse  la  moglie,  non  perde  il 
tempo  in  invettive,  in  minacce,  in  querele.  Subito  la  raffrontò, 
con  quei  testimonj  di  vista,  che  facilmente  la  convinsero  del  fatto 
innegabile.  Venuta  la  mattina  del  martedì,  il  marito  non  celò 
alla  moglie,  ch'egli  già  da  quel  punto  non  la  tenea  più  per  sua, 
e  che  ben  tosto  il  divorzio  legittimo  lo  libererebbe  di  lei.  Ag- 
giunse, che  non  gli  bastando  il  divorzio,  voleva  anche  che  io 
scontassi  amaramente  l'oltraggio  fattogli;  ch'egli  in  quel  giorno  ' 
ripartirebbe  per  Londra,  dove  mi  troverebbe  senz'altro.  Allora 
essa  immediatamente  per  mezzo  di  qualche  suo  affidato^  mi  avea 
segretamente  scritto,  e  spedito  l'avviso  di  quanto  seguiva.  Il  mes- 
saggiere,  largamente  pagato,  avea  quasi  che  ammazzato  il  cavallo 
venendo  a  tutt' andare  in  meno  di  du'  ore  a  Londra,  e  certa- 
mente vi  giunse  forse  un'ora  prima  che  non  giungesse  il  marito. 
Ma  per  mia  somma  fortuna,  non  avendomi  piìi  trovato  in  casa 
né  il  messaggiero,  né  il  marito,  io  non  fui  avvisato  di  nulla,  ed 
il  marito  vedendomi  uscito,  s'immaginò  ed  indovinò  ch'io  fossi 
al  teatro  italiano  ;  e  là,  come  io  narrai,  mi  trovò.  La  fortuna  in 
quest'accidente  mi  fece  due  sommi  beneficii;  che  io  non  mi  fossi 
slogato  il  braccio  destro  invece  del  manco;  e  ch'io  non  rice- 
vessi quella  lettera  dell'amata  donna,  se  non  se  dopo  l'incontro. 


>  Il  lunedì  pomeriggio, 
<  Fidato, 


^a  vita  103 

Non  so  se  non  avrei  in  qualche  parte  forse  operato  men  bene, 
ove  l'una  di  queste  due  cose  mi  fosse  accaduta.  Ma  intanto,  par- 
tito appena  il  marito  per  Londra,  per  altra  via  era  anche  partita 
la  moglie,  e  venuta  direttamente  a  Londra  in  casa  di  quella  sua 
cognata,  che  non  molto  lontana  abitava  dalla  casa  del  suo  ma- 
rito; quivi  già  avea  saputo  che  il  marito  meno  d'un' ora  prima 
era  tornato  a  casa  in  un  fiacre;  dal  quale  slanciatosi  dentro  si 
era  chiuso  in  camera,  senza  voler  né  vedere  né  favellare  con  chi 
che  si  fosse  di  casa.  Onde  essa  tenea  per  fermo  eh'  egli  mi  avesse 
incontrato,  ed  ucciso.  Tutta  questa  narrazione  a  pezzi  e  bocconi 
mi  veniva  fatta  da  lei;  interrotta,  come  si  può  credere,  dall'im- 
mensa agitazione  dei  sì  diversi  affetti  che  ambedue  ci  travaglia- 
vano. Ma  per  allora  però,  il  fine  di  tutto  questo  schiarimento 
scioglievasi  in  una  felicità  per  noi  inaspettata  e  quasi  incredibile  ; 
poiché,  atteso  l' imminente  inevitabil  divorzio,  io  mi  trovava  nel- 
r  impegno  (e  null'altro  bramava)  di  sottentrare  ai  lacci  coniugali 
che  ella  stava  per  rompere.  Ebro  di  un  tal  pensiero,  quasi  non 
mi  ricordava  più  punto  della  mia  feritnccia:  ma  in  somma  poi, 
alcune  ore  dopo,  visitatomi  il  braccio  in  presenza   dell'amata 
donna,  si  trovò  la  pelle  scalfitta  in  lungo,  e  molto  sangue  rag- 
grumato nei  pieghi  della  camicia,  senz'altro  danno.  Medicato  il 
braccio,  ebbi  la  giovenile  curiosità  di  visitare  anche  la  mia  spada, 
e  la  trovai,  dalle  gran  ribattiture  di  colpi  fatte  dall'avversario, 
ridotta  dai  due  terzi  in  giìi  della  lama  a  guisa  di  una  sega  adden- 
tellatissima;  e  la  conservai  poi  quasi  trofeo  per  più  anni  in  ap- 
presso. Separatomi  finalmente  in  quella  notte  del  martedì  assai 
inoltrata  dalla  mia  donna,  non  volli  tornare  a  casa  mia  senza 
passare  dal  marchese  Caraccioli,  per  informarlo  d'ogni  cosa.  Ed 
egli  pure,  dal  modo  in  cui  avea  saputo  il  fatto  in  confuso,  mi 
tenea  fermamente  per  ucciso,  e  che  fossi  rimasto  nel  parco,  che 
verso   la   mezz'ora   di   notte    suol   chiudersi.   Come   risuscitato 
dunque  mi  accolse,  ed  abbracciò  caldamente,  ed  in  varj  discorsi 
si  passarono  ancora  forse  du'  altre  ore  più  della  notte;  talché 
arrivai  a  casa  quasi  al  giorno'.  Corcatomi  dopo  tante  e  sì  strane 
peripezie  d'un  sol  giorno,  non  ho  dormito  mai  d'un  sonno  più 
tenace  e  più  dolce. 

>  In  quella  ste«M  »er«  l'A.  indo  ancora  a  racccnfare  l'accaduto  al  conte 
di  Sc^mafiifl,  ambasciatore  sardo,  perchè  non  trasmettesse  a  Torino  voci 
^avi  sul  duello,  e  tali  che  potessero  motivare  un  richiamo  in  patria.  Lo 
Scamafigi,  in  un  suo  dispaccio  del  10  maggio,  accenna  alla  visita  dell'A., 


104  Vittorio  Alfieri 


CAPITOLO  UNDECIMO 

Disinganno  orribile. 

Ecco  Intanto  a  puntino  come  erano  veramente  accadute  le  cose 
del  giorno  dianzi.  II  fidato  mio  Elia,  avendo  veduto  arrivare 
quel  messaggiero  col  cavallo  fradicio  di  sudore  e  trafelatissimo, 
e  che  tanto  e  poi  tanto  gli  avea  raccomandato  di  farmi  avere 
immediatamente  quella  lettera,  era  subito  uscito  per  rintrac- 
ciarmi; e  cercatomi  prima  dal  principe  di  Masserano  dove  mi 
credeva  esser  ito,  poi  dal  Caraccioli,  che  abitavano  a  più  miglia 
di  distanza,  avea  così  consumato  più  ore  ;  finalmente  riaccostan- 
dosi verso  casa  mia  che  era  in  Suffolk  Street,  vicinissima  al- 
VHay market  dov'è  il  teatro  dell'opera  italiana,  gli  venne  in  capo 
di  veder  se  io  ci  fossi  ;  benché  non  lo  credesse,  atteso  che  avea 
tuttora  il  braccio  slogato  fasciato  al  collo.  Appena  entrato  egli 
al  teatro,  e  chiesto  di  me  a  quei  custodi  dei  palchi  che  benis- 
simo mi  conoscevano,  gli  fu  detto  che  un  dieci  minuti  prima  era 
uscito  con  tal  persona,  che  era  venuta  a  cercarmi  espressamente 
nel  palco  dov'io  era.  Elia  sapeva  benissimo  (benché  non  lo  sa- 
pesse da  me)  quel  mio  disperato  amore;  onde  udito  appena  il 
nome  della  persona  che  mi  era  venuta  cercare,  e  combinato  la 
letteja  di  donde  veniva,  subito  entrò  in  chiaro  d'ogni  cosa.  Al- 
lora Elia,  sapendo  benissimo  quanto  mal  destro  spadaccino  io 
mi  fossi,  ed  inoltre  vedendomi  impedito  il  braccio  sinistro,  mi 
reputò  anch' egli  certamente  per  un  uomo  morto;  e  subito  corse 
al  Parco  San  Giacomo,  ma  non  essendosi  rivolto  verso  il  Green- 
park,  non  ci  rinvenne;  intanto  annottò;  ed  egli  fu  costretto  di 
uscir  del  parco,  come  ogni  altra  persona.  Non  sapendo  che  si 
fare  per  venir  in  chiaro  della  mia  sorte,  si  avviò  verso  la  casa 
del  marito,  credendo  quivi  poter  raccapezzare  qualcosa;  e  forse 
avendo  egli  azzeccato  cavalli  migliori  al  suo  fiacre,  che  non 
erano  stati  quelli  del  marito;  o  che  questi  forse  in  quel  frat- 
tempo fosse  andato  in  qualch' altro  luogo;  fatto  si  è,  che  Elia 
si  combinò  di  arrivar  egli  nel  suo  fiacre  vicino  alla  porta  del 
marito,  nel  punto  istesso  in  cui  esso  marito  era  giunto  a  casa 

e,  pur  specificando  1  particolari  del  fatto  dichiara  che  i  due  avversari  hanno 
solo  «  ferraiilé  sans  se  taire  aucunc  blessure  >.  [B.\. 


La  vita  105 

sna;  e  l'avea  benissimo  veduto  ritornare  colla  spada,  e  slanciarsi 
in  casa,  e  far  chiuder  la  porta  subito,  ed  in  aspetto  e  modi  molto 
turbati.  Sempre  più  si  confermò  Elia  nel  sospetto,  eh'  egli 
m'avesse  ucciso,  e  non  potendo  più  far  altro,  era  corso  dal 
Caraccioli,  e  gli  avea  dato  conto  di  quanto  sapeva,  e  di  quel  che 
temeva. 

Io  dunque,  dopo  una  sì  penosa  giornata,  rinfrancato  da  molte 
ore  di  placidissimo  sonno,  rimedicate  alla  meglio  le  mie  due 
ferite,  di  cui  quella  della  spalla  mi  dolca  più  che  mai,  e  l'altra 
sempre  meno,  subito  corsi  dalla  mia  donna,  e  vi  passai  tutto  in- 
tero quel  giorno.  Per  via  dei  servitori  si  andava  sentendo  quello 
che  faceva  il  marito,  la  di  cui  casa,  come  dissi,  era  assai  vicina 
di  quella  della  cognata,  dove  abitava  per  allora  la  mia  donna. 
E  benché  io  riputassi  in  me  stesso  ogni  nostro  guai  terminato 
col  prossimo  divorzio;  e  ancorché  il  padre  di  lei  (persona  a  me 
già  notissima  da  più  anni)*  fosse  venuto  in  quel  giorno  del  mer- 
coledì a  veder  la  figlia,  e  nella  di  lei  disgrazia  si  congratulasse 
pur  seco,  che  almeno  ad  un  uom  degno  (così  volle  dire)  le  toc- 
asse  di  riunirsi  in  un  secondo  matrimonio  ;  con  tutto  ciò  io  scor- 
geva una  foltissima  nube  su  la  bellissima  fronte  della  mia  donna, 
che  un  qualche  sinistro  mi  vi  parca  presagire.  Ed  ella,  sempre 
piangente,  e  sempre  protestandomi  che  mi  amava  più  d'oggi 
cosa;  che  lo  scandalo  dell'avvenimento  suo  e  il  disonore  che 
glie  ne  ridondava  nella  di  lei  patria,  le  venivano  largamente 
compensati  s'ella  potea  pur  vivere  per  sempre  con  me;  ma  ch'ella 
era  più  che  certa  che  io  non  l'avrei  mai  presa  per  moglie  mia. 
Questa  sua  perseverante  e  stranissima  asserzione  mi  disperava 
veramente;  e  sapendo  io  benissimo  ch'ella  non  mi  reputava  né 
mentitore  né  simulato,  non  poteva  assolutamente  intendere  questa 
sua  diffidenza  di  me.  In  queste  funeste  perplessità,  che  pur  tvoppo 
turbavano  ed  annichilivano  ogni  mia  soddisfazione  del  vederla 
Uberamente  dalla  mattina  alla  sera;  ed  inoltre  fra  le  angustie 
d'un  processo'  già  intavolato,  ed  assai  spiacente  per  chiunque 
abbia  onore  o  pudore;  così  si  passarono  i  tre  giorni  dal  mer- 
coledì a  tutto  il  venerdì,  finché  il  venerdì  sera  insistendo  io  for- 
temente per  estrarre  dalla  mia  donna  una  qualche  più  luce  nel- 


>  Il  Pitt,  padre  della  Penelope,  era  stato  gU  per  qnaJcbe  tempo  amba- 
sciatore d' Injfhilfrrra  proso  la  Corte  di  Torino.  [B.\. 
*  In  seguito  a  domanda  di  divorzio. 


106  Vittorio  Alfieri 

l'orrido  enimma  dei  di  lei  discorsi,  delle  sue  malinconie,  e 
diffidenze;  finalmente  con  grave  e  lungo  stento,  previo  un  do- 
loroso proemio  interrotto  da  sospiri  e  singhiozzi  amarissimi,  ella 
mi  veniva  dicendo  che  sapea  purtroppo  non  poter  essere  in  conto 
nessuno  omai  degna  di  me;  e  che  io  non  la  dovea  né  potea 
né  vorrei  sposar  mai...  perchè  già  prima...  di  amar  me...  ella 
avea  amato...  —  E  chi  mai^?  Soggiungeva  io  interrompendo  rnn 
impeto.  —  \JnJjìrh(iy  (fìncjiQj^^aix^mtrt)...  ch^stava...  in  casa 
di  mio  marito.  —  Ci  &tava  ?  ^  quando  ?  O  Dio,  mTsèiltó  morire  ! 
Ma  pefcHèdirmi  tal  cosa?  crudél  donnaTTOépò  era  uccidermi.  — 
Qui  m'interrompe  ancor  essa;  e  a  poco  a  poco  alla  per  fine 
esce  l'intera  confessione  sozzissima  di  quel  brutto  suo  amore; 
di  cui  sentendo  io  le  dolorose  incredibili  particolarità,  gelido, 
immobile,  insensato  mi  rimango  qual  pietra.  Quel  mio  degnissimo 
rivai  precursore  stava  tuttavia  in  casa  del  marito  in  quel  punto 
in  cui  si  parlava  ;  egli  era  stato  quello  che  avea  primo  spiato  gli 
andamenti  dell'amante  padrona;  egli  avea  scoperto  la  mia  prima 
gita  in  villa,  e  il  cavallo  lasciato  tutta  notte  nell'albergo  di  cam- 
pagna ;  ed  egli  con  altri  di  casa,  mi  aveva  poi  visto  e  conosciuto 
nella  seconda  gita  fatta  in  villa  la  domenica  sera.  Egli  finalmente, 
udito  il  duello  del  marito  con  me,  e  la  disperazione  di  esso  di 
dover  far  divorzio  con  una  donna  ch'egli  mostrava  amar  tanto, 
si  era  indotto  nel  giorno  del  giovedì  a  farsi  introdurre  presso 
al  padrone,  e  per  disingannar  lui,  vendicar  sé  stesso,  e  punire 
la  infida  donna  e  il  nuovo  rivale,  quell'amante  palafreniere  avea 
spiattellatamente  confessato  e  individuato  tutta  la  storia  de'  suoi 
triennali  amori  con  la  padrona,  ed  esortato  avea  caldamente  il 
padrone  a  non  si  disperar  più  a  lungo  per  aver  perduta  una  tal 
moglie,  il  che  si  dovea  anzi  recare  a  ventura.  Queste  orribili  e 
crudeli  particolarità,  le  seppi  poi  dopo  ;  da  essa  non  seppi  altro 
che  il  fatto,  e  menomato  quanto  più  si  potea. 

Il  mio  dolore  e  furore,  le  diverse  mie  risoluzioni,  e  tutte  false 
e  tutte  funeste  e  tutte  vanissime  ch'io,  andai  quella  sera  facendo 
e  disfacendo,  e  bestemmiando,  e  gemendo,  e  ruggendo,  ed  in 
njezzo  a  tant'ira  e  dolore  amando  pur  sempre  perdutamente  un 
cosi  indegno  oggetto;  non  si  possono  tutti  questi  affetti  ritrarre 
con  parole:  ed  ancor  vent'anni  dopo  mi  sento  ribollire  il  sangue 
pensandovi. 

La  lasciai  quella  sera,  dicendole:  ch'ella  troppo  bene  mi  cono- 
sceva neiravermi  detto  e  replicato  sì  spesso  che  io  non  l'avrei 


a  vita  107 

fatta  mai  mia  moglie  :  e  che  se  io  mai  fossi  venuto  in  chiaro  di 
tale  infamia  dopo  averla  sposata,  l'avrei  certamente  uccisa  di  mia 
mano,  e  me  stesso  forse  sovr'essa,  se  pure  l'avessi  ancor  tanto 
amata  in  quel  punto,  quanto  purtroppo  in  questo  l'amava.  Ag- 
giunsi; che  io  pure  la  dispregiava  un  po' meno,  per  l'aver  essa 
avuta  la  lealtà  e  il  coraggio  di  confessarmi  spontaneamente  tal 
cosa;  che  non  l'abbandonerei  mai  come  amico,  e  che  in  qua- 
lunque ignorata  parte  d'Europa  o  d'America  io  era  pronto  ad 
andare  con  essa  e  conviverci  purch'essa  non  mi  fosse  né  paresse 
mai  d'esser  moglie. 

Così  lasciatala  il  venerdì  sera,  agitato  da  mille  furie  alzatomi 
all'alba  del  sabato,  e  vistomi  sul~tavolinouno  di  quei  TSTTtt-fo- 
glioni  pubblici  che  usano  in  Londra,  vi  slancio  cosi  a  caso  i  miei 
occhi,  e  la  prima  cosache  mi  vi  camta  sotto  è  il  mio  nome.  Oli 
spalanco,  leggo  ufi^Eel  lunghettoarticolo,  in  cui  tutto  il  mio 
accidente  è  narrato,  individuato  minutamente  e  con  verità,  e 
v'imparo  di  più  le  funeste  e  risibili  particolarità  del  rivale  pala- 
freniere di  cui  leggo  il  nome,  l'età,  la  figura,  e  l'ampissima  con- 
fessione da  lui  stesso  fatta  al  padrone.  Io  ebbi  a  cader  morto  ad 
una  tal  lettura;  ed  allora  soltanto  riacquistando  la  luce  della 
mente,  mi  avvidi  e  toccai  con  mano,  che  la  perfida  donna  mi 
avea  spontaneamente  confessato  ogni  cosa  dopo  che  il  gazzet- 
tiere, in  data  del  venerdì  mattina,  l'avea  confessata  egli  al  pub- 
blico. Perdei  allora  ogni  freno  e  misura,  corsi  a  casa  sua,  dove 
dopo  averla  invettivata  con  tutte  le  più  amare  furibonde  e  spre- 
gianti  espressioni,  miste  sempre  di  amore,  di  dolor  mortalissimo, 
e  di  disperati  partiti,  ebbi  pure  la  vii  debolezza  di  ritornarvi 
dopo  averle  giurato  ch'ella  non  mi  rivedrebbe  mai  più.  E  tor- 
natovi, mi  vi  trattenni  tutto  quel  giorno  :  e  vi  tornai  il  susse- 
guente, e  più  altri,  finché  risolvendosi  essa  di  uscir  d'Inghilterra, 
dove  eli' era  divenuta  la  favola  di  tutti,  e  di  andare  in  Francia 
a  porsi  per  alcun  tempo  in  un  monastero',  io  l'accompagnai,  e 
si  errò  intanto  per  varie  province  dell'Inghilterra  per  prolun- 
gare di  stare  insieme,  fremendo  io  e  bestemmiando  dell'esservi, 
e  non  me  ne  potendo  pure  a  niun  conto  separare.  Colto  final- 
mente un  istante  in  cui  potè  più  la  vergogna  e  lo  sdegno  che 
l'amore,  la  lasciai  \n  Rochester,  d\  dove  essa  con  quella  di  lei  cognata 
si  avviò  per  Douvres  in  Francia,  ed  io  me  ne  tornai  a  Londra. 

>  Era  cattolica,  essendo  irland^e. 


^^S  Vittorio  Alfieri 

Giungendovi  seppi  che  il  marito  avea  proseguito  11  processo 
divorziale  in  mio  nome,  e  che  in  ciò  mi  avea  accordata  la  pre- 
ferenza sul  nostro  triumviro  terzo,  il  proprio  palafreniere;  che 
anzi  gh  stava  ancora  in  servizio:  tanto  è  veramente  generosa  ed 
evangelica  la  gelosia  degli  Inglesi.  Ma  ed  io  pure  mi  debbo  non 
poco  lodare  del  procedere  di  quell'offeso  marito.  Non  mi  volle 
uccidere,  potendolo  verisimilmente  fare:  né  mi  volle  multare  in 
danari,  come  portano  le  leggi  di  quel  paese,  dove  ogni  offesa 
ha  la  sua  tariffa,  e  le  corna  ve  l'hanno  altissima;  a  segno  che 
s  egli  in  vece  di  farmi  cacciar  la  spada  mi  avesse  voluto  far 
cacciar  la  borsa,  mi  avrebbe  impoverito  o  dissestato  di  molto- 
perchè  tassandosi   l'indennità  in  proporzione  del  danno    egli 
Uvea  ricevuto  sì  grave,  atteso  l'amore  sviscerato  ch'egli  por- 
tava alla  moglie,  ed  atteso  che  l'aggiunta  del  danno  recatogli 
dal  palafreniere,  che  per  essere  nullatenente  non  glie  l'avrebbe 
potuto  ristorare,  ch'io  tengo  per  fermo  che  a  recaria  a  zecchini 
IO  non  me  ne  sarei  potuto  uscir  netto  a  meno  di  dieci  o  dodici 
mila  zecchini,  e  forse  anche  più.  Quel  bennato  e  moderato  gio- 
vme  SI  comportò  dunque  meco  in  questo  sgradevole  affare  assai 
meglio  ch'io  non  aveva  meritato.  E  proseguitosi  in  mio  nome 
U  processo,  la  cosa  essendo  troppo  palpabile  dai  molti  tesHmonj 
e  dalle  confessioni  dei  diversi  personaggi,  senza  neppure  il  mio 
intervento,  ne  il  menomo  impedimento  alla  mia  partenza  dall'In- 
ghilterra, seppi  poi  dopo  ch'era  stato  ratificato  il  totale  divorzio 
Indiscretamente  forse,  ma  pure  a  bell'apposta  ho  voluto  smi- 
nuzzare in  tutti  i  suoi  amminicoli  questo  straordinario  e  per  me 
importante  accidente,  sì  perchè  se  ne  fece  grap  rumore  in  quel 
tempo,  sì  perchè  essendo  stata  questa  «na  delle  principali  occa- 
sioni in  cui  mi  è  venuto  fatto  di  ben  conoscere  e  porre  alla  prova 
diversamente  me  stesso,  mi  è  sembrato  che  analizzandolo  con  verità 
e  minutezza  verrei  anche  a  dar  luogo  a  chi  volesse  più  intimamente 
conoscermi,  di  ritrovarne  in  questo  fatto  un  ampissimo  mezzo. 

CAPITOLO  DUODECIMO 

Ripreso  il  viaggio  in  Olanda,  Francia,  Spagna,  Portogallo, 
e  ritorno  in  patria. 

Dopo  aver  sopportata  una  sì  feroce  borrasca,  non  potendo 
io  più  trovar  pace  finché  mi  cadeano  giornalmente  sotto  gli 
occhi  quel  luoghi  stessi  ed  oggetti,  mi  lasciai  facilmente  persua- 
dere  da  quei  pochi  che  sentivano  una  qualche  amichevole  pietà 


La  vita  109 

HAl^|t|mvmiAp<iggitnr.  ct^fn^  p  tr|i  iTidu«;°i  a!  Darti*;?.  Lascjaj  dunque 
r  Inghilterra  verso  il  finir  di   giugno,  p  fngjjnfi^nnr»  Hi  animo 
come  io  mi  sentiva,  ricercando  pur  qualcne  appoggio \  volli  diri- 
gere  i   miei   primi  passi  ^vérso^l' amico  D'Acunha   in   Olanda. 
Giunto  nell'Haja,  alcune  settimane  mi  trattenni  con  lui,  e  non 
vedeva  assolutamente  altri  che  lui  scio;  ed  egli  alcun  poco  mi 
consolava;  ma  era  profondissima  la  mia  piaga.  Sentendomi  dunque 
di  giorno  in  giorno  anzi  crescere  la  malinconia  che  scemare,   e 
pensando  che  il  moto  machinale,  e  la  divagazione  inseparabile 
dal  mutar  luogo  continuamente  ed  oggetti,  mi  dovrebbero  gio- 
vare non  poco,  mi  rimisi  in  viaggio  alla  volta  di  Spagna;  gita,  che 
fin  da  prima  mi  era  prefisso  di  fare,  essendo  quel  paese  quasi  il 
solo  dell'Europa  che  mi  rimanesse  da  vedere.  Avviatomi  verso 
Bruxelles  per  luoghi  che  ijnarcebivano  sempre  più  1p  ffrita^pl 
mio   troppo  lacerato  cuore,  massimamente  allorché  io  metteva  a  I 
confronto  quella  mia  prima  fiamma  olandese  con  questa  seconda 
ingTesej_jempre TàntastlcandoTdeTirando,  piangendo  e  tacendo, 
arrivai  finalmente  soletto  in  Parigi.  Ne  quella  immensa  città  mi 
piacque  ^iù  in"qTn;hU  aeconda  visita  che  nella  prima;  né  punto  né 
poco  mi  divagò.  Ci  stetti  pure  circa  un  mese  per  lasciare  sfogare  i 
gran  caldi  prima  d'ingolfarmi  nelle  Spagne.  In  questo  mio  se- 
condo soggiorno  in  Parigi  avrei  facilmente  potuto  vedere  ed  anche 
trattare  il  celebre  Gian  Giacomo  Rousseau,  per  mezzo  d'un  ita- 
liano mio  conoscente  che  avea  contratto  seco  una  certa  familia- 
rità, e  dicea  di  andar  egli  moito  a  genio  al  suddetto  Rousseau. 
Quest'italiano  mi  ci  volea  assolutamente  introdurre,  entrandomi 
mallevadore  che  ci  saremmo  scambievolmente  piaciuti  l'un  l'altro, 
Rousseau  ed  io.  Ancorché  io  avessi  infinita  stima  del  Rousseau  più 
essai  per  il  suo  carattere  puro^^djaicro,  e  per  la  di  lui  sublime 
ed  indipendente  condottacene  non   pe'  suoi  libri,  di  cui  que' 
pocìii  che  avea  potuti  pur  leggere  mi  aveano   piuttosto  tediato 
come  figli  di  affettazione  e  di  stento  ;  con  tutto  ciò,  non  essendo 
io  per  mia  natura  molto  curioso,  né  punto  sofferente,  e  con  tanto 
minori  ragioni  sentendomi  in  cuore  tanto  più  orgoglio  e  inflessi- 
bilità di  lui;  non  mi  volli  piegar  mai  a  quella  dubbia  presenta- 
zione ad  un  uomo  superbo  e  bisbetico',  da  cui  se  mai  avessi  ri- 


*  Conforto. 

•  Che  tuttavia  accolse  molto  cordialmente  il  Goldoni,  il  quale,  nelle  tue 
Memorie,  III,  xvii,  ebbe  a  «crivere  di  lui  :  «  Tutti  ti  affrettavano  di  vederlo { 
tna  egli  non  visibile  a  tutti  >. 


llO  Vittorio  Alfieri 

cevuta  una  mezza  scortesia  glie  n'avrei  restituite  dieci,  perchè 
sempre  così  ho  operato  per  istinto  ed  impeto  di  natura,  di  ren- 
dere con  usura  sì  il  male  che  il  bene.  Onde  non  se  ne  fece 
altro. 

Ma  in  vece  del  Rousseau,  intavolai  bensì  allora  una  conoscenza 
per  me  assai  più  importante  con  sei  o  otto  dei  primi  uomini  dell'  I- 
talia  e  del  mondo.  Comprai  in  Parigi  una  raccolta  dei  principali 
poeti  e  prosatori  italiani  in  36  volumi  di  picciol  sesto,  e  di  gra- 
ziosa stampa,  dei  quali  neppur  uno  me  ne  trovava  aver  meco  dopo 
quei  due  anni  del  secondo  mio  viaggio.  E  questi  illustri  maestri  mi 
accompagnarono  poi  sempre  da  allora  in  poi  dappertutto;  benché 
in  quei  primi  due  o  tre  anni  non  ne  facessi  a  dir  vero  grand'uso. 
Certo  che  allora  comprai  la  raccolta  più  per  averla  che  non  per  leg- 
gerla, non  mi  sentendo  nessuna  né  voglia  né  possibilità  di  applicar 
la  mente  in  nulla.  E  quanto  alla  lingua  italiana,  sempre  più  m'era 
uscita  dall'animo  e  dall'  intendimento  a  tal  segno,  che  ogni  qua- 
lunque autore  sopra  il  Metastasio *  mi  dava  molto  imbroglio  ad 
intenderlo.  Tuttavia,  così  per  ozio  e  per  noja,  squadernando  alla 
sfuggita  que'  miei  36  volumetti  mi  maravigliai  del  gran  numero  di 
rimatori  che  in  compagnia  dei  nostri  quattro  sommi  poeti  erano 
stati  collocati  a  far  numero:  gente,  di  cui  (tanta  era  la  mia  ignoranza) 
io  non  avea  mai  neppure  udito  il  nome  :  ed  erano  un  Torracchione, 
un  Morgante,  un  Ricciardetto,  un  Orlandino,  un  Malmantile'  e  che 
so  io;  poemi,  dei  quali  molti  anni  dopo  deplorai  la  triviale  facilità, 
e  la  fastidiosa  abondanza.  Ma  carissima  mi  riuscì  la  mia  nuova 
compra,  poiché  mi  misi  d'allora  in  poi  in  casa  per  sempre  que'  sei 
luminari  della  lingua  nostra,  in  cui  tutto  c'è:  dico  Dante,  Petrarca, 
Ariosto,  Tasso,  Boccaccio  e  Machiavelli;  e  di  cui  (pur  troppo 
per  mia  disgrazia  e  vergogna)  io  era  giunto  all'  età  di  circa 
ventidue  anni  senza  averne  punto  mai  letto,  toltone  alcuni  squarci 
dell'Ariosto  nella  mia  prima  adolescenza  essendo  in  accademia, 
come  mi  pare  di  aver  detto  a  suo  luogo. 

Munito  in  tal  guisa  di  questi  possenti  scudi  contro  l'ozio  e  la 
noja  (ma  invano,  poiché  sempre  ozioso  e  noioso  altrui  e  a  me 

1  Più  difficile  del  Metastasio. 

»  It  Torracchione  desolato  di  Bartolomeo  Corsini,  scritto  verso  il  1C60 
e  pubblicato  la  prima  volta  nel  1768;  il  Morgante  di  Luigi  Pulci  (I-I83); 
il  Ricciardetto  di  Nicolò  Forteguerri,  composto  tra  il  1716  e  il  1725  e  pub- 
blicato nel  1736;  l'Orlandino  di  Teofilo  Folengo  (1526);  il  A'.almantile 
riacquistato  di  Lorenzo  Lippi,  uscito  postumo  nel  1676. 


La  vita  111 

stesso  rimanevarai),  partii  per  la  Spagna  verso  il  mezzo  agosto. 
E  per  Orleans,  Tours,  Poitiers,  Bordeaux  e  Toulouse,  attraversata 
senza  occhi  la  più  bella  e  ridente  parte  della  Francia,  entrai  in 
Ispagna  per  la  via  di  Perpignano  ;  e  Barcellona  fu  la  prima  città 
dove  mi  volli  alquanto  trattenere  da  Parigi  in  poi.  In  tutto  questo 
lungo  tratto  di  viaggio  non  facendo  per  lo  più  altro  che  piangere 
tra  me  e  me  soletto  in  carrozza,  ovvero  a  cavano,  di  quando  m 
quando  andava  pur  ripigliando  alcun  tometto  del  mio  Montaigne, 
il  quale  da  più  di  un  anno  non  avea  più  guardato  in  viso.  Questa 
lettura  spezzata  mi  andava  restituendo  un  pocolino  di  senno  e  di 
coraggio,  ed  una  qualche  consolazione  anche  me  la  dava. 

Alcuni  giorni  dopo  essere  arrivato  a  Barcellona,  siccome  i  miei 
cavalli  inglesi  erano  rimasti  in  Inghilterra,  fuorché  il  bellissimo 
lasciato  in  custodia  al  marchese  Caraccioli;  e  siccome  io  senza 
cavalli  non  son  neppur  mezzo,  subito  comprai  due  cavalli,  di  cui 
uno  d'Andalusia  della  razza  dei  certosini  di  Xerez,  stupendo  ani- 
male, castagno  d'oro;  l'altro  un' Hacha  cordovese,  un  piccolo,  ma 
eccellente,  e  spiritosissimo.  Dacché  era  nato  sempre  avea  deside- 
rato cavalli  di  Spagna,  che  difficilmente  si  possono  estrarre  :  onde 
non  mi  parea  vero  di  averne  due  si  belli;  e  questi  mi  solleva- 
vano assai  più  che  Montaigne.  E  su  questi  io  designava  di  fare 
tutto  il  mio  viaggio  di  Spagna,  dovendo  la  carrozza  andare  a  corte 
giornate  a  passo  di  mula,  stante  che  posta  per  le  carrozze  non  v'é 
stabilita,  né  vi  potrebbe  essere  attese  le  pessime  strade  di  tutto 
quel  regno  affricanissimo.  Qualche  indisposizionuccia  avendomi 
costretto  di  soggiornare  in  Barcellona  sino  ai  primi  di  novembre, 
in  quel  frattempo  col  mezzo  di  una  grammatica  e  vocabolario  spa- 
gnuolo  mi  era  messo  da  me  a  leggicchiare,  quella  bellissima 
lingua,  che  riesce  facile  a  noi  Italiani;  ed  in  fatti  tanto  leggeva 
11  Don  Quixote^,  e  bastantemente  lo  intendeva  e  gustava;  ma  in 
ciò  molto  mi  riusciva  di  aiuto  l'averlo  già  altre  volte  letto  in 
francese. 

Postomi  in  vi*  per  Saragozza  e  Madrid,  mi  andava  a  poco 
a  poco  avvezzando  a  quel  nuovissimo  modo  di  viaggiare  f>er  quei 
deserti  ;  dove  chi  non  ha  molta  gioventù,  salute,  danari  e  pazienza, 
non  ci  può  resistere.  Pure  io  mi  vi  feci'  in  quei  quindici  giorni  di 
viaggio  sino  a  Madrid,  in  maniera  che  poi  mi  tediava  assai  meno 

•  Il  Don  Chisciotte  d»  Michele  Onantcs  (1605). 

•  Assuefeci,  ihltuai. 


112  Vittorio  Alfieri 

l'andare,  che  il  soggiornare  in  qualunque  di  quelle  semibarbare 
città:  ma  per  me  l'andare  era  sempre  il  massimo  dei  piaceri;  e  lo 
stare,  il  massimo  degli  sforzi;  così  volendo  la  mia  irrequieta 
indole.  Quasi  tutta  la  strada  soleva  farla  a  piedi  col  mio  bell'anda- 
luso accanto,  che  mi  accompagnava  come  un  fedelissimo  cane,  e 
ce  la  discorravamo  fra  noi  due;  ed  era  il  mio  gran  gusto  d'es- 
sere solo  con  lui  in  quei  vasti  deserti  dell'Arragona  ;  perciò  sem- 
pre facea  precedere  la  mia  gente  col  legno  e  le  mule,  ed  io  segui- 
tava di  lontano.  Elia  frattanto  sopra  un  muletto  andava  con  lo 
schioppo  a  dritta  e  sinistra  della  strada  cacciando  e  tirando  co- 
nigli, lepri  ed  uccelli,  che  quelli  sono  gli  abitatori  della  Spagna; 
e  precedendomi  poi  di  qualch'ora  mi  facea  trovare  di  che 
sfamarmi  alla  posata^  del  mezzogiorno,  e  così  a  quella  della  sera. 

Disgrazia  mia  (ma  forse  fortuna  d'altri)  che  io  in  quel  tempo 
non  avessi  nessunissimo  mezzo  né  possibilità  oramai  di  stendere 
in  versi  i  miei  diversi  pensieri  ed  affetti  :  che  in  quelle  solitudini 
e  moto  continuato  avrei  versato  un  diluvio  di  rime  :  infinite  es- 
sendo le  riflessioni  malinconiche  e  morali,  come  anche  le  imagini 
e  terribili,  e  liete,  e  miste  e  pazze,  che  mi  si  andavano  affacciando 
alla  mente.  Ma  non  possedendo  io  allora  nessuna  lingua,  e  non 
mi  sognando  neppure  di  dovere  né  poter  mai  scrivere  nessuna 
cosa  né  in  prosa  né  in  versi,  io  mi  contentava  di  ruminar  fra  me 
stesso,  e  di  piangere  alle  volte  dirottamente  senza  saper  di  che,  e 
nello  stesso  modo  di  ridere:  due  cose  che  se  non  sono  poi  segui- 
tate da  scritto  nessuno,  son  tenute  per  mera  pazzia,  e  lo  sono  ;  se 
partoriscono  scritti,  si  chiamano  poesia,  e  lo  sono. 

In  questo  modo  me  la  passai  in  quel  primo  viaggio  sino  a  Ma- 
drid ;  e  tanto  era  il  genio  che  era  andato  prendendo  per  quella 
vita  di  zingaro,  che  subito  in  Madrid  mi  tediai,  e  non  mi  vi  trat- 
tenni che  a  stento  un  mesetto  ;  né  ci  trattai  né  conobbivi  anima  al 
mondo,  eccetto  un  oriuolaio,  giovine  spagnuolo  che  tornava  allora 
di  Olanda,  dove  era  andato  per  l'arte  sua.  Questo  giovinetto  era 
pieno  d'ingegno  naturale,  ed  avendo  un  pocolino  visto  il  mondo 
si  mostrava  meco  addoloratissimo  di  tutte  le  tante  e  sì  diverse  bar- 
barie che  ingombravano  la  di  lui  patria.  E  qui  narrerò  brevemente 
una  mia  pazza  bestialità  che  mi  accadde  di  (are  contro  il  mio  Elia, 
trovandovisi  in  terzo  codesto  giovine  Spagnuolo.  Una  sera  che 
questo  oriuolajo  avea  cenato  meco,  e  che  ancora  si  stava  discor- 

I  Osteria,  in  spagnuolo  posada. 


La  vita  113 

rendo  a  tavola  dopo  cenati,  entrò  Elia  per  ravviarmi  al  solito  1 
capelli  per  poi  andarcene  tutti  a  letto  ;  e  nello  stringere  col  com- 
passo* una  ciocca  di  capelli,  me  ne  tirò  un  pochino  più  l'uno  che 
l'altro.  Io,  senza  dirgli  parola,  balzato  in  piedi  più  ratto  che  fol- 
gore, di  un  man  rovescio  con  uno  dei  candelieri  ch'avea  impu- 
gnato glie  ne  menai  un  così  fiero  colpo  su  la  tempia  diritta,  che  il 
sangue  zampillò  ad  uu  tratto  come  da  una  fonte  sin  sopra  il  viso 
e  tutta  la  persona  di  quel  giovine  che  mi  stava  seduto  in  faccia  dal- 
l'altra parte  di  quella  assai  ben  larga  tavola  dove  si  era  cenati. 
Quel  giovane,  che  mi  credè  (con  ragione)  impazzito  subitamente, 
non  avendo  osservato  né  potendo  dubitare  che  un  capello  tirato 
avesse  cagionato  quel  mio  improvviso  furore,  saltò  subito  su  egli 
pare  come  per  tenermi.  Ma  già  in  quel  frattempo  l'animoso  ed 
offeso  e  fieramente  ferito  Elia,  mi  era  saltato  addosso  per  pic- 
chiarmi ;  e  ben  fece.  Ma  io  allora  snellissimo  gli  scivolai  di  sotto, 
ed  era  già  saltato  su  la  mia  spada  che  stava  in  camera  posata  su 
un  cassettone,  ed  avea  avuto  il  tempo  di  sfoderarla.  Ma  Elia  infe- 
rocito mi  tornava  incontro,  ed  io  glie  l'appuntava  al  petto  ;  e  lo 
Spagnuolo  a  rattenere  ora  Elia,  ed  or  me;  e  tutta  la  locanda  a 
romore;  e  i  camerieri  saliti,  e  così  separata  la  zuffa  tragicomica 
e  scandalosissima  per  parte  mia.  Rappaciati  alquanto  gli  animi  si 
entrò  negli  schiarimenti  ;  io  dissi  che  l'essermi  sentito  tirar  i  capelli 
mi  avea  messo  fuor  di  me;  Elia  disse  di  non  essersene  avvisto  nep- 
pure; e  lo  Spagnuolo  appurò  ch'io  non  era  impazzito,  ma  che  pure 
savissimo  non  era.  Così  finì  quella  orribile  rissa,  di  cui  io  rimasi 
dolentisimo  e  vergognosissimo,  e  dissi  ad  Elia  ch'egli  avrebbe 
fatto  benissimo  ad  ammazzarmi.  Ed  era  uomo  da  farlo;  essendo 
egli  di  statura  quasi  un  palmo  più  di  me  che  sono  altissimo;  e  di 
coraggio  e  forza  niente  inferiore  all'aspetto.  La  piaga  della  tempia 
non  fu  profonda,  ma  sanguinò  moltissimo,  e  poco  più  in  su  che 
l'avessi  colto,  io  mi  trovava  aver  ucciso  un  nomo  che  amavo  mol- 
tissimo per  via  d'un  capello  più  o  meno  tirato.  Inorridii  molto 
di  un  così  bestiale  eccesso  di  collera;  e  benché  vedessi  Elia  al- 
quanto placato,  ma  non  rasserenato  meco,  non  volli  pure  né  mo- 
strare né  nutrire  diffidenza  alcuna  di  lui;  e  un  par  d'ore  dopo, 
fasciata  che  fu  la  ferita,  e  rimessa  in  sesto  ogni  cosa  me  n'andai 
a  Ietto,  lasciando  la  porticina  che  metteva  In  camera  di  Elia,  ade- 


1  Strumento  per  spartire  i  capelU. 
8.  -  CtanM  ItaUaid.  N.  2. 


114  Vittorio  Alfieri 

rente  alla  mia,  aperta  al  solito,  e  senza  voler  ascoltai  eie  Spagnuolo 
che  mi  avvertiva  di  non  invitare  così  un  uomo  offeso  e  irritato  di 
fresco  ad  una  qualche  vendetta.  Ma  io  anzi  dissi  forte  ad  Elia  che 
era  già  stato  posto  a  letto,  che  egli  poteva  volendo  uccidermi 
quella  notte  se  ciò  gli  tornava  comodo,  poiché  io  lo  meritava.  Ma 
egli  era  eroe  per  lo  meno  quanto  me;  né  altra  vendetta  mai  volle 
prendere,  che  di  conservare  poi  sempre  due  fazzoletti  pieni  zeppi 
di  sangue,  coi  quali  s'era  rasciutta  da  prima  la  fumante  piaga; 
e  di  poi  mostrarmeli  qualche  volta,  che  li  serbò  per  degli  anni 
ben  molti.  Questo  reciproco  misto  di  ferocia  e  di  generosità  per 
parte  di  entrambi  di  noi,  non  si  potrà  facilmente  capire  da  chi  non 
ha  esperienza  dei  costumi  e  del  sangue  di  noi  Piemontesi. 
Io,  nel  rendere  poi  dopo  ragione  a  me  stesso  del  mio  orribile 
./  trasporto,  fui  chiaramente  convinto,  che  aggiunta  all'eccessivo 
'  irascibile  della  natura  mia  l'asprezza  occasionata  dalla  continua 
solitudine  ed  ozio,  quella  tiratura  di  capello  avea  colmato  il  vaso, 
e  fattolo  in  quell'attimo  traboccare.  Del  resto  io  non  ho  mai 
battuto  nessuno  che  mi  servisse  se  non  se  come  avrei  fatto  un 
mio  eguale;  e  non  mai  con  bastone  né  altr'arme,  ma  con  pugni, 
o  seggiole,  o  qualunque  altra  cosa  mi  fosse  caduta  sotto  la  mano, 
come  accade  quando  da  giovine  altri,  provocandoti  ti  sforzi  a 
menar  le  mani.  Ma  nelle  pochissime  volte  che  tal  cosa  mi  av- 
venne, avrei  sempre  approvato  e  stimato  quei  servi  che  mi  aves- 
sero risalutato  con  lo  stesso  picchiare:  atteso  che  io  non  inten- 
deva mai  di  battere  il  servo  come  padrone,  ma  di  altercare  da 
uomo  ad  uomo*.  .  , 

Vivendo  così  come  orso  terminai  il  mio  breve  soggiorno  in 
Madrid,  dove  non  vidi  nessunissima  delle  non  nioUe  cose  che 
poteano  eccitare  qualche  curiosità;  né  il  P^^-f /«"'^Xiwrf 
famosissimo,  né  Aranjuez^  né  il  palazzo  pure  del  re  ;«  ^«^^  ^. 
non  che  vedervi  il  padrone  di  esso^  E  cagione  principale  d  questa 
straordinaria  salvatichezza  fu.  l'essere  io  mezzo  guasto  col  nostro 


>  Per  altri  episodi  che  dimostrano  la  natura  collenca  ed  «mPil^Jv»  J'J  A. 
rfr  D  S.LVAONi.  La  Corte  e  la  società  romana  ecc  Roma.  1834.  I, 
p.  387  ;  A  D'Ancona,  Varietà  storiche  e  letterarie.  1-  Serie,  Milano,  1883. 

''^.  cÌ:„re  monastero  fatto  erigere  da  Filippo  II  (1562  1584)  In  se^i.to 
ad  un  voto  da  lui  fatto  durante  la  battaglia  di  S.  Quintìno. 

»  Bel  castello,  residenza  reale,  sul  Tago. 

«  Carlo  III,  r«  di  Spagna  dal  1759  al  1788. 


La  vUa  115 

arabasciator  di  Sardegna';  ch'io  avea  conosciuto  in  Londra  dal 
primo  viaggio  ch'io  ci  avea  fatto  nel  1768,  dove  egli  era  allora 
ministro,  e  non  c'eramo  niente  piaciuti  l'un  l'altro.  Nell'arrivare 
io  a  Madrid,  saputo  ch'egli  era  con  la  corte  in  una  di  quelle 
ville  reali,  colsi  subito  il  tempo  ch'egli  non  v'era,  e  lasciai  il 
polizzino  di  visita  con  una  commendatizia  della  segreteria  di  stato 
che  avea  recato  meco  com'è  d'uso.  Tornato  egli  in  Madrid  fu 
da  me,  non  mi  trovò  ;  né  io  più  mal  cercai  di  lui,  né  egli  di  me. 
E  tutto  questo  non  contribuiva  forse  poco  a  sempre  più  innasprire 
il  mio  già  bastantemente  insoave  ed  irto  carattere.  Lasciai  dunque 
Madrid  verso  i  primi  del  dicembre,  e  per  Toledo,  e  Badajoz,  mi 
avviai  a  passo  a  passo  verso  Lisbona,  dove  dopo  circa  20  giorni 
di  viaggio  arrivai  la  vigilia  del  Natale. 

Lo  spettacolo  di  quella  città  la  quale  a  chi  vi  approda,  come 
io,  da  oltre  il  Tago,  si  presenta  in  aspetto  teatrale  e  magnifico 
quasi  quanto  quello  di  Genova,  con  maggiore  estensione  e  va- 
rietà, mi  rapì  veramente,  massime  in  una  certa  distanza.  La  ma- 
raviglia poi  e  il  diletto  andavano  scemando  all'approssimar  della 
ripa,  e  intieramente  poi  mi  si  trasmutavano  in  oggetto  di  tristezza 
e  squallore  allo  sbarcare  fra  certe  strade,  intere  isole  di  muriccie 
avanzi  del  terremoto  *,  accatastate  e  spartite  allineate  a  guisa  di 
isole  di  abitati  edifizi.  C  di  cotali  strade  se  ne  vedevano  ancora 
moltissime  nella  parte  bassa  della  città,  benché  fossero  già  oramai 
trascorsi  15  anni  dopo  quella  funesta  catastrofe. 

Quel  mio  breve  soggiorno  in  Lisbona  di  circa  cinque  settimane, 
sarà  p)er  me  un'epoca  sempre  memorabile  e  cara,  per  avervi  io 
imparato  a  conoscere  l'abate  Tommaso  di  Caluso^,  fratello  minore 
del  conte  Valperga  dì  Masino  allora  nostro  ministro  in  Portogallo. 
Quest'uomo,  raro  per  l'indole,  i  costumi  e  la  dottrina,  mi  rendè 
delizioso  codesto  soggiorno,  a  segno  che,  oltre  al  vederlo  per  lo 
più  ogni  mattina  a  pranzo  dal  fratello,  anche  le  lunghe  serate 
dell'inverno  io  preferiva  pure  di  passarmele  intere  da  solo  a  solo 
con  lui,  piuttosto  che  correre  attorno  pe'  divertimenti  sciocchis- 
simi del  gran  mondo.  Con  esso  io  imparava  sempre  qualche  cosa; 
e  tanta  era  la  di  lui  bontà  e  tolleranza,  che  egli  sapea  per  così 

>  n  conte  di  Viry.  \B.\. 

»  Rottami:  laterizi,  sassi,  avanzi  del  terremoto  del  1755  descritto  dal 
Baretti  {Lettere  familiari,  xiv). 

*  Tommaso  Valperga  di  Caluso,  dotto  astronomo  ed  orìentalitta,  nato  • 
morto  «  Torino  (1737-18IS). 


115  Vittorio  Alfieri 

dire  alleggerirmi  la  vergogna  ed  il  peso  della  mia  ignoranza 
estrema,  la  quale  tanto  più  fastidiosa  e  stomachevole  gh  dovea 
pur  comparire,  quanto  maggiore  ed  immenso  era  in  esso  il  sapere 
Cosa,  che  non  mi  essendo  fin  allora  accaduta  con  nessuno  de 
non  molti  letterati  ch'io  avessi  dovuto  trattare,  me  h  avea  fa  ti 
tutti  prendere  a  noja.  E  ben  dovea  essere  cos.,  non  essendo    n 
„,e  niente  minore  l'orgoglio,  che  l'ignoranza.  Fu  m  una  di  quelle 
dolcissime  serate,  ch'io  ErovaLnel  più  intimo  della  mente^e  del 
cuore  un  inmeiaJteramente  febeo,  di  i^pimeato-entuciaetic-  p-r 
l'artr^éirr^o^siT^^         pure  non  fu  cH^  un  brevissimo  lampo, 
chThSSI^atamente  si  tornò  a  spegnere,  e  dormì  poi  sotto  cenere 
ancora  degli  anni  ben  molti.  Il  degnissimo  e  compiacentissimo 
abate  mi  stava  leggendo  quella  grandiosa  ode  del  Ouidi  alla 
Fortuna^  ;  poeta,  di  cui  sino  a  quel  giorno  io  non  avea  neppur  mai 
udito  il  nome.  Alcune  stanze  di  quella  canzone,  e  specialmente  la 
bellissima  di  Pompeo,  mi  trasportarono  a  un  segno  indicibile 
talché  il  buon  abate  si  persuase  e  mi  disse  che  io  era  nato  per 
far  versi,  e  che  avrei  potuto,  studiando,  pervenire  a  farne  degl 
ottimi.  Ma  io,  passato  quel  momentaneo  furore,  trovandomi  così 
irrugginite  tutte  le  facoltà  della  mente,  non  la  credei  oramai  cosa 
possibile,  e  non  ci  pensai  altrimenti. 

Intanto  l'amicizia  e  la  soave  compagnia  di  quell'uomo  unico, 
che  è  un  Montaigne  vivo,  mi  giovò  assaissimo  a  riassestarmi  un 
POCO  l'animo;  onde,  ancorché  non  mi  sentissi  del  tutto  guanto 
L  riavvezzai  pure  a  poco  a  poco  a  legicchiare,  e  riflettere  assa 
più  che  non  avessi  ciò  fatto  da  circa  diciotto  mesi.  Quanto  po 
alla  città  di  Lisbona,  dove  non  mi  sarei  trattenuto  neppur  dieci 
giorni,  se  non  vi  fosse  stato  l'Abate,  nulla  me  ne  Pi-que  uor.hè 
fn  generale  le  donne,  nelle  quali  veramente  abonda    1  lubncus 
adspki  di  Orazio.  Ma,  essendomi  ridivenuta  mille  volte  più  cara 
"a  Se  dell'animo  che  quella  del  corpo,  io  mi  studiai  e  riuscii 
di  sfueeire  sempre  le  oneste. 

Verso  i  primi  di  febbraio  partii  alla  volta  di  Siviglia  e  di  Cadice; 
né  portai  meco  altra  cosa  di  Lisbona,  se  non  una  stima  ed  ami- 
cizia  somma  pel  suddetto  abate  di  Caluso.  eh'  io  sperava  di  rived  r 
poi,  quando  che  fosse,  in  Torino.  Di  Siviglia  me  ne  andò  a  gemo 
ilbel  clima.e  la  faccia  originalissima  e  spagnuolissima  che  tut- 


La  vita  117 

tavia  conservavasi  codesta  città  sovra  ogni  altra  del  regno.  Ed  lo 
sempre  ho  preferito  originale  anche  tristo  ad  ottima  copia.  La 
nazione  spagnuola,  e  la  portoghese,  sono  infatti  quasi  oramai  le 
sole  di  Europa  che  conservino  i  loro  costumi,  specialmente  nel 
basso  e  medio  ceto.  E  benché  il  buono  vi  sia  quasi  naufrago  in 
un  mare  di  storture  di  ogni  genere  che  vi  predominano,  io  credo 
tuttavia  quel  popolo  una  eccellente  materia  prima  per  potersi  ad- 
dirizzar facilmente  ad  operar  cose  grandi,  massimamente  in  virtù 
militare:  avendone  essi  in  sovrano  grado  tutti  gli  elementi;  co- 
raggio, perseveranza,  onore,  sobrietà,  obbedienza,  pazienza,  ed 
altezza  d'animo. 

In  Cadice  terminai  il  carnevale  bastantemente  lieto.  Ma  mi  av- 
vidi alcuni  giorni  dopo  esserne  partito  alla  volta  di  Cordova, 
che  riportato  n'avea  meco  delle  memorie  gaditane',  che  alcun 
tempo  mi  durerebbero.  Quelle  ferite  poco  gloriose  mi  amareg- 
giarono assai  quel  lunghissimo  viaggio  da  Cadice  a  Torino, 
ch'io  intrapresi  di  fare  d'un  sol  fiato  così  ad  oncia  ad  oncia  per 
tutta  la  lunghezza  della  Spagna  sino  ai  confini  di  Francia,  di 
dove  già  v'era  entrato.  Ma  pure  a  forza  di  robustezza,  ostina- 
zione e  sofferenza,  cavalcando,  sfangando  a  piedi,  e  strapazzan- 
domi d'ogni  maniera,  arrivai,  assai  mal  concio  a  dir  vero,  a  Per- 
pignano,  di  dove  poi  continuando  per  le  poste  ebbi  a  soffrir 
molto  meno.  In  quel  gran  tratto  di  terra  i  due  soli  luoghi  che 
mi  diedero  una  qualche  soddisfazione, furono  Cordova  e  Valenza: 
massimamente  poi  tutto  il  regno  di  Valenza,  che  misurai  per  lo 
lungo  sul  finir  di  marzo,  ed  era  per  tutto  una  primavera  tepida 
e  deliziosissima,  di  quelle  veramente  descritte  dai  poeti.  Le  adia- 
cenze poi  e  i  passeggi,  e  le  limpide  acque,  e  la  posizione  locale 
della  città  di  Valenza,  e  il  bellissimo  azzurro  del  di  lei  cielo,  e 
un  non  so  che  di  elastico  ed  amoroso  nell'atmosfera;  e  donne  i 
di  cui  occhi  protervi  mi  faceano  bestemmiare  le  gaditane;  e  un 
tutto  in  somma,  si  fatto  mi  si  appresentò  in  quel  favoloso  paese, 
che  nessun'altra  terra  mi  ha  lasciato  un  tale  desiderio  di  sé,  né 
mi  si  riaffaccia  si  spesso  alla  fantasia  quanto  codesta. 

Giunto  per  la  via  di  Toriosa  una  seconda  volta  in  Barcellona, 
e  tediatissimo  del  viaggiare  a  così  lento  passo,  feci  il  gran  di- 
stacco dal  mio  bellissimo  cavallo  andaluso,  che  per  essere  molto 


I  Di  Cadice;  memorie  che  il  Parini  (Mattino,  w.  16-19)  dice  ironica- 
■ente  <  onorate  >. 


"8  Vittorio  Alfieri 

affaticato  da  quest'ultimo  viaggio  di  trenta  e  piìi  giorni  conse- 
cutivi da  Cadice  a  Barcellona,  non  lo  volea  strapazzar  maggior- 
mente col  farmelo  trottar  dietro  il  legno  quando  sarei  partito  per 
Perpignano  a  marcia  duplicata.  L'altro  mio  cavallo,  il  cordovesino, 
essendomisi  azzoppito  fra  Cordova  e  Valenza,  piuttosto  che  trat- 
tenermi due  giorni  che  forse  si  sarebbe  riavuto,  lo  avea  regalato 
alle  figlie  di  una  ostessa  molto  belline,  raccomandandolo  che  se 
lo  curavano  e  gli  davano  un  po'  di  riposo,  rinsanito  lo  vendereb- 
bero benissimo;  né  mai  più  ne  seppi  altro.  Quest'ultimo  dunque 
rimastomi,  non  lo  volendo  io  vendere,  perchè  sono  per  natura 
nemicissimo  del  vendere,  lo  regalai  ad  un  banchiere  francese  do- 
miciliato in  Barcellona,  già  mio  conoscente  sin  dalla  mia  prima 
dimora  in  codesta  città.  E  qui,  per  definire  e  dimostrare  quel  che 
sia  il  cuore  di  un  pubblicano»,  aggiungerò  una  particolarità.  Es- 
sendomi rimaste  di  più  forse  un  trecento  doppie  d'oro  di  Spagna, 
che  attese  le  severe  perquisizioni  che  si  fanno  alle  dogane  di  fron- 
tiera all'uscire  di   Spagna,  difficilmente   forse   le   avrei   potuto 
estrarre 2,  essendo  cosa  proibita;  richiesi  al  suddetto  banchiere, 
dopo  avergli  regalato  il  cavallo,  che  mi  desse  una  cambiale  di 
codesta  somma  pagabile  a  vista  in  Monpellieri  di  dove  mi  toc- 
cava passare.  Ed  egli,  per  testificarmi  la  sua  gratitudine,  ricevute 
le  mie  doppie  sonanti,  mi  concepì  la  cambiale  in  tutto  quel  mas- 
simo rigore  di  cambio  che  f  acea  in  quella  settimana  ;  talché  poi 
a  JVlonpellieri  riscotendo  la  somma  in  luigi,  mi  trovai  aver  meno 
circa  il  sette  per  cento  di  quello  ch'io  avrei  ricavato  se  vi  avessi 
portate  e  scambiate  le  mie  doppie  effettive.  JV\a  io  non  avea  neppur 
bisogno  di  aver  provato  questa  cortesia  banchieresca  per  fissare 
la  mia  opinione  su  codesta  classe  di  gente,  che  sempre  mi  è  sem- 
brata l'una  delle  più  vili  e  pessime  del  mondo  sociale';  e  ciò  tanto 
più,  quanto  essi  si  van  mascherando  da  signori,  e  mentre  vi  danno 
un  lauto  pranzo  in  casa  loro  per  fasto,  vi  spogliano  per  uso  d 'arte 
al  loro  banco;  e  sempre  poi  sono  pronti  ad  impinguarsi  delle 
calamità  pubbliche.  A  fretta  in  furia,  facendo  con  danari  basto- 
nare le  tardissime  mule  mi  portai  dunque  in  due  giorni  soli  di 
Barcellona  a  Perpignano,  dove   ce  n'avea  impiegati  quattro  al 
venire.   E  la  fretta  poi  mi  era  sì  fattamente  rientrata  addosso, 


>  Appaltatore  delle  pubbliche  entrate;  uomo  d'affari. 

«  Portar  fuori. 

•  Cfr.  la  «'«tir»  dell'A.  :  //  Commercia. 


La  vUa  119 

che  di  Perpignano  in  Antìbo  volando  per  le  poste,  non  mi 
trattenni  mai,  né  in  Narbona,  né  in  Monpellieri,  né  in  Alx.  Ed 
in  Antibo  subito  imbarcatomi  per  Genova,  dove  solo  per  ripo- 
sarmi soggiornai  tre  giorni,  di  lì  mi  restituiva  in  patria  due  altri 
giorni  trattenendomi  presso  mia  madre  in  Asti  ;  e  quindi,  dopo 
tre  anni  di  assenza,  in  Torino,  dove  giunsi  il  dì  quinto  di  maggio 
dell'anno  1772.  Nel  passare  di  Monpellieri  io  avea  consultato  un 
chirurgo  di  alto  grido,  su  i  miei  incomodi  incettati  in  Cadice. 
Costui  mi  ci  voleri  far  trattenere;  ma  io,  fidandomi  alquanto  su 
l'esperienza  che  avea  ormai  contratta  di  simili  incomodi,  e  sul 
parere  del  mio  Elia,  che  di  queste  cose  intendeva  benissimo,  e 
m!  avea  già  altre  volte  perfettamente  guarito  in  Germania,  ed 
altrove;  senza  dar  retta  all'ingordo  chirurgo  di  Monpellieri,  avea 
proseguito,  come  dissi,  il  mio  viaggio  rapidissimamente.  Ma  lo 
strapazzo  stesso  di  due  mesi  di  viaggio  avea  molto  aggravato  il 
male.  Onde  al  mio  arrivo  in  Torino,  sendo  assaijnaLEÌdotto,_ebbt 
che  fare  quasi  tutta  l'estate-  per  rimettgfmi.ln"sahite.  E-ytesto  fa 
il  principal  frutto  dei  tre  anni  di  questo  secondo  mioj  viaggio. 


CAPITOLO  DECIMOTERZO 

Poco  dopo  essere  rimpatriato,  incappo  nella  terza  rete  amorosa. 
Primi  tentativi  di  poesia. 

Ma  benché  agli  occhi  dei  più,  ed  anche  ai  miei,  nessun  buon 
frutto  avessi  riportato  da  quei  cinque  anni  di  viaggi,  mi  si  erano 
con  tutto  ciò  assai  allargate  le  ide,  e  rettificato  non  poco  il  pen- 
sare; talché,  quando  il  mio  cognato  mi  volle  riparlare  d'impieghi 
diplomatici  che  avrei  dovuto  sollecitare,  io  gli  risposi  :  Che  avendd 
veduti  un  pochino  più  da  presso  ed  i  re,  e  coloro  che  gli  rap- 
presentano, e  non  li  potendo  stimare  un  jota  nessuni,  io  non 
avrei  voluto  rappresentare  né  anche  il  Gran  Mogol,  non  che  pren- 
dessi mai  a  rappresentare  il  più  piccolo  di  tutti  i  re  dell'Europa, 
qual  era  il  nostro:  e  che  non  rimaneva  altro  compenso  a  chi  si 
trovava  nato  in  simili  paesi,  se  non  di  camparvi  del  suo,  aven- 
dovelo,  e  d'impiegarsi  da  sé  in  una  qualche  lodevole  occupa- 
zione sotto  gli  auspici  i'avorevolissimi  sem.Dre^H^lla  hftat^l  '".'l'- 
pendenza.  Questi  miei  detti  fecero  torcere  moltissimo  il  muso  a 
quell'ottimo  uomo  che  trovavasi  essere  uno  dei  gentiluomini  di 
camera  del  re;  né  mai  più  avendomi  egli  parlato  di  ciò,  io  sempre 
più  mi  confermai  nel  mio  proposito 


120  Vittorio  Alfieri 

Io  mi  trovava  allora  in  età  di  ventitré  anni;  bastantemente 
ricco,  pel  mio  paese;  libero,  quanto  vi  si  può  essere;  esperto, 
benché  così  alla  peggio,  delle  cose  e  morali  e  politiche,  per  aver 
veduti  successivamente  tanti  diversi  paesi  e  tanti  uommi;  pen- 
satore, più  assai  che  non  lo  comportasse  quell'età;  e  presumente 
anche  più  che  ignorante.  Con  questi  dati  mi  rimaneano  neces- 
sariamente da  farsi  molti  altri  errori,  prima  che  dovessi  pur  ntro- 
vare  un  qualche  lodevole  ed  utile  sfogo  al  bollore  del  mio  impe- 
tuoso intollerante  e  superbo  carattere. 

In  fine  di  quell'anno  del  mio  ripatriamento,  provvistami  in 
Torino  una  magnifica  casa  posta   su  la  piazza   bellissima  di 
San  Carlo  \  e  ammobiliatala  con  lusso  e  gusto  e  singolarità,  mi 
posi  a  far  vita  di  gaudente  con  gli  amici,  che  allora  me  ne  ritrovai 
averne  a  dovizia.  Gli  antichi  miei  compagni  d'accademia,  e  di 
tutte  quelle  prime  scappataggini  di  gioventù,  furono  di  nuovo  i 
miei  intimi;  etra  quelli,  forse  un  dodici  e  più  di  persone,  strin- 
gendoci più  assiduamente  insieme,  venimmo  a  stabilire  una  so- 
cietà permanente,  con  ammissione  od  esclusiva  ad  essa  per  via 
di  voti   e  regole,  e  buffonerie  diverse,  che  poteano  forse  somi- 
gliare, ma  non  erano  però.  Libera  Muratoreria.  Né  di  tal  società 
altro  fine  ci  proponevamo,  fuorché  divertirci,  cenando  spesso 
insieme  (senza  però  nessunissimo  scandalo);  e  del  resto  nell  adu- 
nanze periodiche  settimanali  la  sera,  ragionando  o  sragionando 
sovra  ogni  cosa.  Tenevansi  queste  auguste  sessioni  in  casa  mia, 
perchè  era  e  più  bella  e  più  spaziosa  di  quelle  dei  compagm,  e 
perchè  essendovi  io  solo  si  rimaneva  più  Uberi.  C'era  fra  questi 
giovani  (che  tutti  erano  ben  nati  e  dei  primarj  della  citta)  un 
pò°  d'ogni  cosa;  dei  ricchi  e  dei  poveri,  dei  buoni,  dei  cattivucc. 
e  degli  ottimi,  degli  ingegnosi,  degli  sciocchetti,  e  dei  colt  :  onde 
da  sì  fatta  mistura,  che  il  caso  la  ^ornv^^^'^rò  oii.r..ra..^^- 
perata,  risultava  che  io  né  vi  potea,  né  avrei  voluto  Potendolo 
primeggiare  in  niun  modo,  ancorché  avessi  veduto  più  cose  di 
loro  Quindi  le  leggi  che  vi  si  stabilirono  furono  discusse  e  non 
già  dettate  ;  e  riuscirono  imparziali,  egualissime,  e  giuste  ;  a  segno 
c^e  un  corpo  di  persone  come  eramo  noi,  tanto  PO  «a  foiidare 
una  ben  equilibrata  repubblica,  come  una  ben  equilibrata  bu  fo- 
nerìa    La  sorte  e  le  circostanze  vollero  che  si  fabbricasse  piut- 

.  Presso  la  chiesa  di  S.  Carlo,  nel  palazzo  che  apparteneva  ai  conti  di 
Villa.  {B.\. 


La  vita  121 

tosto  questa  che  quella.  Sì  era  stabilito  un  ceppo  assai  ben  capace, 
dalla  di  cui  spaccatura  superiore  vi  si  introducevano  scritti  d'ogni 
specie,  da  leggersi  poi  dal  presidente  nostro  elettivo  ebdoma- 
dario, il  qaaie  tenea  di  esso  eeppo  la  ihiivc.  Fra  quegli  scritti 
se  ne  sentivano  talvolta  alcuni  assai  divertenti  e  bizzarri;  se  ne 
indovinavano  per  lo  più  gli  autori,  ma  non  portavano  nome.  Per 
nostra  comune  e  più  particolare  sventura,  quegli  scritti  erano 
tutti-in  (non  dirò  lingua),  ma  in  parole  francesi.  Io  ebbi  la  sorte 
d'introdurre  varie  carte  nel  ceppo,  le  quali  divertirono  assai  la 
brigata:  ed  erano  cose  facete  miste  di  filosofia  e  d'impertinenza, 
scritte  in  francese  che  dovea  essere  almeno  non  buono,  se  pure 
non  pessimo,  ma  riuscivano  pure  intelligibili  e  passabili  per  un 
uditorio  che  non  era  più  dotto  di  me  in  quella  lingua.  E  fra  gli 
altri,  uno  ne  introdussi,  e  tuttavia  lo  conservo,  che  fingeva  la 
scena  di  un  Giudizio  Universale,  in  cui  Dio  domandando  alle 
diverse  anime  un  pieno  conto  di  se  stesse,  ci  avea  rappresentate 
diverse  persone  che  dipingevano  i  loro  proprj  caratteri;  e  questo 
ebbe  molto  incontro  perchè  era  fatto  con  un  qualche  sale,  e  molta 
verità  ;  talché  le  allusioni,  e  i  ritratti  vivissimi  e  lieti  e  variati  di 
molti  sì  uomini  che  donne  della  nostra  città,  venivano  ricono- 
sciuti e  nominati  immediatamente  da  tutto  l'uditorio. 

Questo  piccolo  saggio  del  mio  poter  mettere  in  carta  le  mie 
idee  quali  ch'elle  fossero;  e  di  potere,  nel  farlo,  un  qualche 
diletto  recare  ad  altrui,  mi  andò  poi  di  tempo  in  tempo  saet- 
tando un  qualche  lampo  confuso  di  desiderio  e  di  speranza  di 
scrivere  quando  che  fosse  qualcosa  che  potesse  aver  vita;  ma 
non  mi  sapeva  neppur  io  quale  potrebbe  mai  essere  la  materia, 
vedendomi  sprovvisto  di  quasi  tutti  i  mezzi.  Per  natura  mia 
prima,  a  nessuna  altra  cosa  inclinava  quanto  alla  satira,  ed  all'ap- 
piccicare il  ridicolo  si  alle  cose  che  alle  persone.  Ma  pure  poi 
riflettendo  e  pensando,  ancorché  mi  vi  paresse  dovervi  aver  forse 
qualche  destrezza,  non  apprezzava  io  nell'intimo  cuore  gran  fatto 
questo  si  fallace  genere;  il  di  cui  buon  esito, spesso  momentaneo, 
é  posto  e  radicato  assai  più  nella  malignità  e  invidia  naturale 
degli  uomini  gongolanti  sempre  allorché  vedono  mordere  i  loro 
simili,  che  non  nel  merito  intrinseco^  del  morditore. 

Intanto  per  allora  la  divagazione  somma  e  continua,  la  libertà 
totale,  le  donne,  i  miei  24  anni,  e  i  cavalli  di  cui  avea  spinto  ti 
numero  sino  a  dodici  e  più,  tutti  questi  ostacoli  potentissimi  al 
non  far  nulla  di  buono,  presto  spegnevano  od  assopivano  In  me 


122  Vittorio  Alfieri 

ogni  qualunque  velleità  di  divenire  autore.  Vegetando  io  dunque 
così  in  questa  vita  giovenile  oziosissima,  non  avendo  mai  un 
istante  quasi  di  mio,  né  mai  aprendo  più  un  libro  di  sorte  nes- 
suna, incappai  (come  ben  dovea  essere)  di  bel  nuovo  in  un  tristo 
amore  ;  dal  quale  poi  dopo  infinite  angosce,  ^^ergogae,  e  dolori, 
ne  uscii  finalmente  col  vero,  fortissimo  e  frenetica  a.m.orp~aST'ga- 
pere  e  del  fare,  il  quale  d'allora  in  poi_npn.-»i-abbandonò_mai 
piuT  e  c&e,  se  non  altro,  mi  ha  una  volta  s9ttratto.iLagli__££{^ 
della  noja,  della  sazietàj^e  dell'ozio;  e^dirò  piii,  dalk  dispera- 
,  zionerVérs5'Tà~quale  a  poc5'Tt-po€o4o-«i--5enHva"stft'sciiM^ 
talmente,"che  se  non  fili  fossi  ingólf afo~pòl  ra~utia  continua' e 
f aratssima  occupazione  di  niente,  non  v^ra^-certaraèirt«rpSf~raè 
nessun  altro  compenso  che  mi  potesse  impedire  ^p^ina_deijtren- 
t'anni  dalL'JùffiipazzlrérQraflQgarinl.        "~"~ 

Questa  mia  terza  ebrezza  d'amore  fu  veramente  sconcia,  e  pur 
troppo  lungamente  anche  durò.  Era  la  mia  nuova  fiamma  una 
donna  \  distinta  di  nascita,  ma  di  non  troppo  buon  nome  nel  mondo 
galante,  ed  anche  attempatetta  ;  cioè  maggiore  di  me  di  circa 
nove  in  dieci  anni.  Una  passeggiera  amicizia  era  già  stata  tra 
noi,  al  mio  primo  uscire  nel  mondo,  quando  ancora  era  nel  primo 
appartamento  dell'Accademia.  Saio  più  anni  dopo,  il  trovarmi  allog- 
giato di  faccia  a  lei*,  il  vedermi  da  essa  festeggiato  moltissimo; 
il  non  far  nulla;  e  l'essere  io  forse  una  di  quelle  anime  di  cui 
dice  con  tanta  verità  ed  affetto  il  Petrarca: 

So  di  che  poco  canape  si  allaccia 
Un'anima  gentil,  quand'ella  è  sola, 
E  non  è  chi  per  lei  difesa  faccia: 

ed  in  somma  il  mio  buon  padre  Apollo  che  forse  per  tal  via 
straordinaria  mi  volea  chiamare  a  sé;  fatto  si  è,  ch'io,  benché 
da  principio  non  l'amassi,  né  mai  poi  la  stimassi,  e  neppure  la 
di  lei  bellezza  non  ordinaria  mi  andasse  a  genio;  con  tutto  ciò 
credendo  come  un  mentecatto  al  di  lei  immenso  amore  per  me, 
a  poco  a  poco  l'amai  davvero,  e  mi  c'ingolfai  sino  agli  occhi. 
Non  vi  fu  più  per  me  né  divertimenti,  né  amici;  per  fino  gli  ado- 
rati cavalli  furono  da  me  trascurati.  Dalla  mattina  all'otto  fino 


»  Gabriella  Falletti  di  Villafalletto,  moglie  di  Giovanni  Antonio  Ercole 
Turinettl  marchese  di  Priero.  [B.]. 

»  Essa  abitava  sul  lato  opposto  della  piazza,  accanto  alla  chiesa  di 
8.  Cristina.  1^]. 


La  vita  i23 

alle  dodici  della  sera  eternamente  seco,  scontento  dell'esserci,  e 
non  potendo  pnre  non  esserci:  bizzarro  e  tormentosissimo  stato, 
in  cui  vissi  non  ostante  (o  vegetai,  per  dir  meglio)  da  circa  il 
mezzo  dell'anno  1773;  sino  a  tutto  il  febbraio  del  75;  senza 
contar  poi  la  coda*  di  questa  per  me  fatale  e  ad  tm  tempo  fausta 
cometa. 

CAPITOLO  DECIMOQUARTO 

Malattia,  e  ravvedimento. 

Nel  lungo  tempo  che  durò  questa  pratica',  arrabbiando  io  dalla 
mattina  alla  sera,  facilmente  mi  alterai  la  salute.  Ed  in  fatti  nel 
fine  del  73  ebbi  una  malattia  non  lunga  ma  fierissima,  e  straor- 
dinaria a  segno  che  i  maligni  begl' ingegni,  di  cui  Torino  non 
manca,  dissero  argutamente  ch'io  l'avea  inventata  esclusivamente 
per  me.  Cominciò  con  lo  dar  di  stomaco  per  ben  trentasei  ore 
continue,  in  cui  non  v'essendo  più  neppur  umido  da  rigettare, 
si  era  risoluto  il  vomito  in  un  singhiozzo  sforzoso,  con  una  or- 
rìbile convulsione  del  diaframma  che  neppur  l'acqua  in  picco- 
lissimi sorsi  mi  permettea  d'ingoiare.  I  medici,  temendo  l'infiam- 
mazione, mi  cacciarono  sangue  dal  piede,  e  immediatamente 
cessò  lo  sforzo  di  quel  vomito  asciutto,  ma  mi  si  impossessò 
una  tal  convulsione  universale,  e  subsultazione  dei  nervi  tutti, 
che  a  scosse  terribili  ora  andava  percuotendo  il  capo  nella  te- 
stiera del  letto,  se  non  me  la  teneano,  ora  le  mani  e  massima- 
mente i  gomiti,  contro  qualunque  cosa  vi  fosse  stata  aderente. 
Né  alcunissimo  nutrimento,  o  bevanda,  per  nessuna  via  mi 
si  potea  far  prendere,  perchè  all'avvicinarsi  o  vaso  o  istro- 
mento  qualunque  a  qualunque  orifizio,  prima  anche  di  toccare  la 
patts,  era  tale  lo  scatto  cagionato  dai  subsuiti  nervosi,  che  nes- 
suna forza  valeva  a  impedirli:  anzi,  se  mi  voleano  tener  fermo 
con  violenza  era  assai  peggio,  ed  io  ammalato  dopo  anche 
quattro  giorni  di  totale  digiuno,  estenuato  di  forze,  conservava 
però  un  tale  orgasmo  di  muscoli,  che  mi  venivano  fatti  allora 
degli  sforzi  che  non  avrei  mai  potuti  fare  essendo  in  piena  sa- 
lute. In  questo  modo  passai  cinque  giorni  interi  In  cui  non  mi 
vennero  inghiottiti  forse  venti  o  trenta  sorsetti  di  acqua  presi 

«  Il  «ejfiiilo  di  quelli  religione  che  veramenfe  durò  anrort  fino  ti  *V 
*  ReitTione  itnoroM. 


124  ^    ,,  Vittorio  Alfieri 

così  a  contrattempo  di  volo,  e  spesso  immediatamente  rigettati. 
Finalmente  nel  sesto  la  convulsione  allentò,  mediante  le  cinque 
e  le  sei  ore  il  giorno  clie  fui  tenuto  in  un  bagno  caldissimo  di 
mezz'olio  e  mezz'acqua.  Riapertasi  la  via  dell'esofago  in  pochi 
giorni  col  bere  moltissimo  siere  fui  risanato.  La  lunghezza  del 
digiuno  e  gli  sforzi  del  vomito  erano  stati  tali,  che  nella  forcina 
dello  stomaco  fra  quei  due  ossucci  che  la  compongono  vi  si 
formò  un  tal  vuoto,  che  un  uovo  di  mezzana  grandezza  vi  potea 
capire  ;  né  mai  poi  mi  si  ripianò  come  prima.  La  rabbia,  la  ver- 
gogna, e  il  dolore,  in  cui  mi  facea  sempre  vivere  queir  indegno 
amore,  mi  aveano  cagionata  quella  singoiar  malattia.  Ed  io,  non 
vedendo  strada  per  me  di  uscire  di  quel  sozzo  laberinto,  sperai, 
e  desiderai  di  morirne.  Nel  quinto  giorno  del  male,  quando  più 
si  temeva  dai  medici  che  non  ne  ritornerei,  mi  fu  messo  intorno 
un  degno  cavaliere  mio  amico,  ma  assai  più  vecchio  di  me,  per 
indurmi  a  ciò  che  il  suo  viso  e  i  preamboli  del  suo  dire  mi  fe- 
cero indovinare  prima  ch'egli  parlasse;  cioè  a  confessarmi  e 
testare.  Lo  prevenni,  col  domandar  l'uno  e  l'altro,  né  questo  mi 
sturbò  punto  l'animo.  In  due  o  tre  aspetti  mi  occorse  di  rimirare 
ben  in  faccia  la  morte  nella  mia  gioventù;  e  mi  pare  di  averia 
ricevuS" 'semirrF"con~tOTtcSS^  Chi  sa  poi,  se  quando 

ella  mi  si  riaffaccierà  irremissibile  io  nello  stesso  modo  la  rice- 
verò. Bisogna  veramente  che  l'uomo  muoia,  perchè  altri  possa 
appurare,  ed  ei  stesso,  il  di  lui  giusto  valore. 

Risorto  da  quella  malattia,  ripigliai  tristamente  le  mie  catene 
amorose.  Ma  per  levarmene  pure  qualcun'altra  d'addosso,  non 
volli  più  lungamente  godermi  i  lacci  militari,  che  sommamente  mi 
erano  sempre  dispiaciuti,  abborrendo  io  quell'infame  mestiere 
dell'armi  sotto  un'autorità  assoluta  qualch'ella  sia;  cosa,  che 
sempre  esclude  il  sacrosanto  nome  di^^patrlaTNon  negherò  pure, 
che'TìTTrn^  Punto"TXTnTarVenere  non  fosse  più  assai  per  me 
opprobriosa  che  non  era  il  mio  Marte.  In  somma  fui  dal  colon- 
nello, e  allegando  la  salute  domandai  dimissione  dal  servìzio, 
che  non  avea  a  dir  vero  prestato  mai;  poiché  in  circa  ott'anni 
che  portai  l'uniforme  cinque  gli  avea  passati  fuor  del  paese,  e 
nei  tre  altri  appena  cinque  riviste  avea  passate,  che  due  l'anno 
se  ne  passavano  solo  in  quei  reggimenti  di  milizie  provinciali  in 
cui  avea  preso  servizio.  Il  colonnello  volle  ch'io  ci  pensassi  del- 
l'altro prima  di  chiedere  per  me  codesta  dimissione;  accettai  per 
civiltà  il  suo  invito,  e  simulando  di  avervi  pensato  altri  15  giorni, 
la  ridomandai  più  fermamente,  e  l'ottenni. 


La  vita  125 

Io  .frattanto  strascinava  i  miei  tnorni  nel  serventismo,  vergo- ^ 
gnoso  di  me  stesso,  noioso  e  annoiato,  sfuggendo  ogni  mio  co-  ^ 
noscente  ed  amico,  sui  di  cui  visi  io  benissimo  leggeva  tacita-  J 
mente  scolpita  la  mia  opprobriosa  dahenaggrine.  Avvenne  poi  nel 
gennaio  del  1774,  che  quella  mia  signora  s'ammalò  di  un  male 
di  cui  forse  poteva  esser  io  la  cagione,  benché  non  intieramente 
il  credessi.  E  richiedendo  il  suo  male  ch'ella  stesse  in  totale  ri- 
poso e  silenzio,  fedelmente  io  le  stava  a  pie  del  letto  seduto  per 
servirla  ;  e  ci  stava  dalla  mattina  alla  sera,  senza  pure  aprir  bocca 
per  non  le  nuocere  col  farla  parlare.  In  una  di  queste  poco  certo 
divertenti  sedute,  io  mosso  dal  tedio,  dato  di  piglio  a  cinque  o 
sei  fogli  di  carta  che  mi  caddero  sotto  mano,  cominciai  così  a 
caso,  e  senza  aver  piano  nessuno,  a  schiccherare  una  scena  di 
una  non  so  come  chiamarla,  se  tragedia,  o  commedia,  se  d'un 
sol  atto,  o  di  cinque,  o  di  dieci;  ma  in  somma  delle  parole  a 
guisa  di  dialogo,  e  a  guisa  di  versi,  tra  un  Potino,  una  Donna 
ed  una  Cleopatra  che  poi  sopravveniva  dopo  un  lunghetto  par- 
lare fra  codesti  due  prima  nominati.  Ed  a  quella  Donna,  doven- 
dole pur  dare  un  nome,  né  altro  sovvenendomene,  appiccicai 
quel  di  Lachesi,  senza  pur  ricordarmi  ch'ella  delle  tre  Parche 
era  l'una.  E  mi  pare,  ora  esaminandola,  tanto  più  strana  quella 
mia  subitanea  impresa,  quanto  da  circa  sei  e  più  anni  io  non 
aveva  mai  più  scritto  una  parola  italiana,  pochissimo  e  assai  di 
rado  e  con  lunghissime  interruzioni  ne  avea  letto.  Eppure  così 
in  un  subito,  né  saprei  dire  né  come  né  perchè,  mi  accinsi  a  sten- 
dere quelle  scene  in  lingua  italiana  ed  in  versi.  Ma,  affinchè  il 
lettore  possa  giudicar  da  sé  stesso  della  scarsezza  del  mio  patri- 
monio poetico  in  quel  tempo,  trascriverò  qui  in  fondo  di  pagina 
a  guisa  di  nota  un  bastante  squarcio  di  codesta  composizione',  e 
fedelissimamente  lo  trascriverò  dall'originale  che  tuttavia  con- 
servo, con  tutti  gli  spropositi  per  fino  di  ortografia  con  cui  fu 
scritto  :  e  spero,  che  se  non  altro  questi  versi  potranno  far  ridere 
chi  vorrà  dar  loro  un'occhiata,  come  vanno  facendo  ridere  me 
nell'atto  del  trascrìverli;  e  principalmente  la  scena  fra  Cleopatra 
e  Photino.  Aggiungerò  una  particolarità,  ed  è:  che  nessun' altra 
ragione  in  quel  primo  Istante  ch'Io  cominciai  a  imbrattar  que' 
fogli  mi  indusse  a  far  parlare  Cleopatra  piuttosto  che  Berenice, 
o  Zenobia,  o  qualunque  altra  regina  tragediabile,  fuorché  l'esser 

I  V.  Apptndict  •  questo  capitolo. 


128  Vittorio  Alfieri 

io  1VTS320  da  me^  ed  anni  a  vedere  nell'anticamera  di  queu* 
signora  alcuni  bellissimi  arazzi,  che  rappresentavano  varj  fatti  di 
Cleopatra  e  d'Antonio. 

Guarì  poi  la  mia  signort  di  codesta  sua  indisposizione;  ed  io 
senza  mai  più  pensare  a  questa  mia  sceneggiatura  risibile,  la 
depositai  sotto  un  cuscino  della  di  lei  poltroncina,  dove  ella  si 
stette  obbliata  circa  un  anno;  e  così  furono  frattanto  sì  dalla 
signora  che  vi  si  sedea  abitualmente,  sì  da  qualunque  altri  a  caso 
vi  si  adagiasse,  covate  in  tal  guisa  fra  la  poltroncina  e  il  sedere 
di  molti  quelle  mie  tragiche  primizie. 

rMa,  trovandomi  vie  più  sempre  tediato  ed  arrabbiato  di  far 
quella  vita  serventesca,  nel  maggio  di  quello  stesso  anno  74, 
\   presi  subitaneamente  la  determinazione  di  partire  per  Roma,  a 
provare  se  il  viaggio  e  la  lontananza  mi  guarirebbero  di  quella 
morbosa   passione.   Afferrai   l'occasione   d'una  acerba  disputa 
avuta  con  la  mia  signora  (e  queste  non  erano  rare),  e  senza  dir 
altro,  tornato  la  sera  a  casa  mia,  nel  giorno  consecutivo  feci  tutte 
le  mie  disposizioni,  e  passato  tutto  queir  intero  giorno  senza  ca- 
pitar da  lei,  la  mattina  dopo  per  tempissimo  me  ne  partii  alla 
volta  di  Milano.  Essa  non  lo  seppe  che  la  sera  prima  (credo  il 
sapesse  da  qualcuno  di  casa  mia),  e  subito  quella  sera  stessa  al 
tardi  mi  rimandò,  come  è  d'uso,  e  lettere  e  ritratto.  Quest'invio 
già  principiò  a  guastarmi  la  testa,  e  la  mia  risoluzione  già  tea 
tennava.  Tuttavia,  fattomi  buon  animo,  mi  avviai,  come  dissi, 
per  le  poste  verso  Milano.  Giunto  la  sera  a  Novara,  saettato 
tutto  il  giorno  da  quella  sguaiatissima  passione,  ecco  che  il  pen- 
timento, il  dolore  e  la  viltà  mi  muovono  un  si  feroce  assalto  al 
cuore,  che  fattasi  ornai  vana  ogni  ragion^:,  sordo  al  vero,  repen- 
tinamente mi  cangio.  Fo  proseguire  verso  Milano  un  abate  fran- 
cese ch'io  m'era  preso  per  compagno,  con  la  carrozza  e  i  miei 
servi,  dicendo  loro  di  aspettarmi  in  Milano.  In  tanto,  io  soletto, 
sei  ore  innanzi  giorno  salto  a  cavallo  col  postiglione  per  guida, 
corro  tutta  la  notte,  e  il  giorno  poi  di  buon'ora  mi   ritrovo 
un'altra  volta  a  Torino:   ma  per  non  mi  vi  far  vedere,  e  non 
esser  la  favola  di  tutti,  non  entro  in  città;  mi  soffermo  in  una 
osteriaccia  del  sobborgo,  e  di  là  supplichevolmente  scrivo  alla 
mia  signora  adirata:   perch'ella  mi  perdoni  questa  scappata,  e 
mi  voglia  accordare  un  po'  d'udienza.  Ricevo  tostamente  risposta. 
Elia,  che  era  rimasto  in  Torino  per  badare  alle  cose  mie  durante 
11  mio  viaggio  che  dovea  essere  d'un  anno;  Elia,  destinato  semprt 


La  vtta  127 

a  medicare,  o  palliar  le  mie  piaghe,  mi  riporta  quella  risposta. 
L'udienza  mi  vien  accordata,  entro  in  città  come  profugo,  su 
Pimbrupir  della  notte;   ottengo  il  mio  intero  vergog^noso  per- 
dono, riparto  all'alba  consecutiva  verso  Milano,  rimasti  d'ac- 
cordo fra  noi  due  che  in  capo  di  cinque  o  sei  settimane  sotto 
pretesco  di  salute  me  ne  ritornerei  in  Torino.  Ed  io  in  tal  g^isa  1 
palleggiato  a  vicenda  tra  la  ragione  e  l' insania,  appena  firmata  ! 
la  pace,  trovandomi  di  bel  nuovo  soletto  su  la  strada  maestra  J 
fra  i  miei  pensamenti,  fieramente  mi  sentiva  riassalito  dalla  ver-" 
gogna  di  tanta  mia  debolezza.  Così  arrivai  a  Milano  lacerato  da 
questi  rimorsi  in  uno  stato  compassionevole  ad  un  tempo  e  risi- 
bile. Io  non  sapeva  allora,  ma  provava  per  esperienza  quel  pro- 
fondo ed  elegante  bel  detto  del  nostro  maestro  d'amore,  il  Petrarca: 

Che  chi  disceme  è  vinto  da  chi  vuole. 

Due  giorni  appena  mi  trattenni  in  Milano,  sempre  fantasticando, 
ora  come  potrei  abbreviare  quel  maledetto  viaggio  ;  ed  ora,  come 
lo  potrei  far  durare  senza  tener  parola  del  ritomo:  che  libero 
avrei  voluto  trovarmi,  ma  liberarmi  non  sapea,  né  potea.  Ma, 
non  trovando  mai  un  po'  di  pace  se  non  se  nel  moto  e  divaga- 
zione del  correr  la  posta,  rapidamente  per  Parma,  Modena,  e 
Bologna  mi  rendei  a  Firenze  :  dove  né  pure  potendomi  trattener 
più  di  due  giorni,  subito  ripartii  per  Pisa  e  Livorno.  Quivi  poi 
ricevute  le  prime  lettere  della  mia  signora,  non  potendo  più  du- 
rare lontano,  ripartii  subito  per  la  via  di  Lerici  e  Genova,  dove 
lasciatovi  l'abate  compagno,  e  il  legno  da  risarcirsi,  a  spron  bat- 
tuto a  cavallo  me  ne  ritornai  a  Torino,  diciotto  giorni  dopo  es- 
serne partito  per  fare  il  viaggio  di  un  anno.  C'entrai  anche  di 
notte  per  non  farmi  canzonar  dalla  gente.  Viaggio  veramente 
burlesco,  che  pure  mi  costò  dei  gran  pianti. 

Sotto  l'usbergo  (non  del  sentirmi  puro)  ma  del  mio  viso  serio 
e  marmoreo,  scansai  le  canzonature  dei  miei  conoscenti  ed  amici, 
che  non  si  attentarono  di  darmi  il  ben  tornato.  Ed  in  fatti,  troppo 
era  mal  tornato;  e  divenuto  oramai  disprezzabilissimo  agli  stessi 
occhi  miei,  io  caddi  in  un  tale  avvilimento  e  malinconia,  che  se 
un  tale  stato  fosse  lungamente  durato,  avrei  dovuto  o  impazzire,  o 
scoppiare;  come  in  fatti  venni  assai  presso  all'uno  ed  all'altro. 

Ma  pure  strascinai  quelle  vili  catene  ancora  dal  finir  di  giugno 
del  74,  epoca  del  mio  ritorno  di  quel  semivl.iggio,  sino  al  gen- 
laio  del  75,  quando  alla  per  fine  il  bollore  della  mia  compressa 

^bbia  giunto  all'Mtremo  scoppiò. 


128 


Vittorio  Alfieri 


APPENDICB 


CLEOPATRA  PRIMA 

Abbozzacelo. 

SCENA  PRIMA 

LACHESI,  PHOTINO. 

Photino.  Della  mesta  regfìna  i  strazj  e  l'onte 

Chi  nato  è  in  riva  al  Nilo  ornai  non  puote 
Di  più  soffrir,  alla  vendetta  pronte 
Foran  l'Egizie  genti,  ove  il  consiglio 
Destar  potesse  un  negghittoso  core 
Che  alla  vendetta  non  pospone  amore: 

Lachesl.  Sconzìgliata  a  te  par  l'alma  regina, 

Son  questi  i  sensi  audaci  e  generosi 
Del  tuo  superbo  cuor,  ma  più  pietosi 
Gira  ver  ella  i  lumi,  e  allora  in  pianto 
Forse  sciogliendo  i  detti  giusti  e  amari 
Vedrai  che  pria  fu  donna  e  poi  regina 
Vedrai 

Photino.  T'accheta,  non  fu  doglia  pari 

A  quella  che  mi  strugge,  e  mi  consuma. 
De'  Tolomei,  l'illustre  ceppo  ha  fine, 
Con  lor  rovina  il  sventurato  Egitto, 
Benché  di  corte  all'aura  infida,  nato 
Nome  non  è  per  me  finto,  o  sognato 
Quel  bel  di  patria  nome,  che  nel  petto, 
Invan  mi  avvampa,  qual  divino  fuoco: 
Ma  de'  stati  la  sorte  allor  che  pende 
Da  un  sol,  quell'  un  tutti  infelici  rende. 

Lachesl.  Inutili  riflessi  ;  ora  fra'  mali 

Sol  fia  d'uopo  il  minor,  possenti  Dei, 
Voi  che  de'  miseri  mortali  > 
Reggete  colassù  le  vite,  e  i  fati 


»  Verso  brevino.  {A,\, 


La  vita 

Ah  pria  di  me,  se  l'ire  vostre  io  basto 
Tutte  a  placar,  il  pronto  morir  sia. 
La  vittimai 

Dell'infelice  antonio  il  rio  destino. 
Dove  mai,  Ma  che  vedo,  ecco  s' avanza. 
Cleopatra,  turbata. 


129 


SCENA  SECONDA 


CLEOPATRA,   PHOTINO,   LACMESI. 

Cleopatra.  Amici  ah  se  albergate  ancor  pietade. 

Nel  vostro  sen,  se  fidi  non  sdeg^nate. 
Voi  eh' alle  glorie  mie  parte  già  aveste. 
Esser  a  mie  sciagure  anco  compagni. 
Deh  non  v' incresca  il  gir  per  mare* 
Per  monti,  o  piani  o  selve,  meco  in  traccia 
Di  chi  piti  della  vita  og^nor  io  preggio 
L'incauto  pie  del  vacillante  trono 
Rimosse  amor,  il  vincitor  già  veggio 
alla  foce  approdar  sull'orme  audaci 
D'un  ingiusta  fortuna,  a  morte  pria 
Amor  mi  meni  che  a  scorno  o  ad  onta  ria.* 
Questi,  lo  so,  son  d'infelice  amante 
Non  di  altiera  Regina,  i  sensi,  e  l'opre 
Forse  m'ban  scelto  i  Dei  per  crudo  esempio. 
Per  far  vedere  alla  piìi  rozza  gente 
Che  talor  chi  li  regge,  indegno,  ed  empio. 
Fanne,  per  vii  passion,  barbaro  scempio. 

Pkotino,  Signora,  il  tuo  patir,  non  che  a  pietade. 

Ma  ad  insania  trarria  uomini  e  fere, 
E  qual  fra  i  poli  adamantino  core* 
Resisterebbe  a'  tuoi  aspri  lamenti  >, 
Il  fallo  emendi,  in  confessarlo,  e  forse 
Tu  sé  la  prima  fralli  Ré  superbi, 
Che  pieghi  alla  ragion  l'altera  fronte, 
Alla  ragione  a'  vostri  pari  ignota 
O  non  ben  dalla  forza  ancor  distinta; 
Sozza  non  fu  la  lingua  mia  giammai 
Dal  basso  stil  d'adulatori  iniqui,* 
Il  ver  ti  dissi  ognor.  Regina,  il  sai, 
E  lei  dirò  finché  di  vita  il  filo 


'  Verso  Abortivo.  \A.\. 

•  o  terra:  rimasto  nella  penna.  M.). 

»  Verso  lunghetto.  Un  dotto  lo  intitolerebbe,  Upercatalectico.  \A.\. 

•  NoU  quel  Fra  i  poli,  che  i  squisita  espressione.  \A.\. 
»  Almeno  il  punto  interrogativo  ci  fosse  stato.  \aI\. 

«  Lo  •crittore  era  nemico  giurato  del  punto  fermo.  \A,\. 


9.  -  CUuslel  rioflarrl,  N.  a. 


130  Vttiório  Alfieri 

Lasso,  terrammi,  al  tuo  destino  avvinto 
Cieco  amor,  vana  gloria,  al  fin  t' tian  spinto 
a  duro  passo  e  non  si  torce  il  piede, 
altro  scampo  Photino  oggi  non  vede 
Fuorché  nel  braccio  e  nell'ardir  d'Antonio, 
Di  lui  si  cerchi,  a  rintracciarlo  volo    - 
Non  men  di  lui  panni  superbo,  e  fiero 
Ma  assai  piìi  ingiusto  il  fortunato  Ottavio, 
Ah  se  l'aspre  querele,  e  i  torti'espressi 
Sotto  cui  giace  afflitta  umanitade. 
Se  vi  son  noti  in  ciel,  sarìa  pietade 
II  fulminar  color  che  ingiusti  e  rei 
Vonno  quaggiù  raffigurarvi,  o  dei.  (part^\ 


SCENA  TERZA 

CLEOPATRA,   E  LACHESI 

Lachesi.  O  veridico  amico,  o  raro  dono 

Del  ciel  co'  Regi  di  tal  dono  avari* 

Cleopatra.  Veri,  ma  inutil  foran  i  tuoi  detti 

Se  più  d'Antonio  il  braccio  invitto  a  lato 
Non  veglia  in  cura  della  gloria  mia>. 
Disperata  che  fo  ?  dove  m' aggiro  ? 
A  infame  laccio,  e  a  servii  catena, 
Tenderò,  dunque  umile  e  supplicante 
E  collo  e  braccia,  al  vincitore  altiero,? 
Questi  che  già  di  s)  bel  nodo  avvinti. 
Nodo  fatai,!*  funesto  amor!  che  pria 
Tua  serva  femmi,  e  poi  di  tirannia. 

Lachesi.  Signora,  ancor  della  nemica  corte 

Tentati  ancor  non  hai  li  guadi  estremi 
Forse,  chi  sa,  s'alle  nemiche  turbe 
avesse  la  Fortuna  volto  il  dorso. 
Se  Antonio  coi  g^errìer  fidi  ed  audaci. 
Rientrando  in  se,  dalle  lor  mani  inique. 
Non  strappò  la  vittoria 

Cleopatra.  Ab  no  che  fido 

Solo  all'amor,  più  non  curò  d'onore; 
L'incauta  fuga  mia  tutto  perdette, 
Sol  sconsigliata  io  fui,  sola  infelice, 
almen  del  Ciel  placar  potessi  io  l'ira 
Ma  se  a  pubblico  scorno  e!  mi  riserva, 
Saprò  con  mano  generosa,  e  forte 


1  Qui  le  Informi  reminiscenze  del  Metastasio  traevano  l'autore  a  rimare 
senza  avvedersene.  [^4.]. 

*  È  venuto  scritto  avari  in  vece  di  avaro.  {A.}. 
»  Sia  maladetto,  se  mai  un  punto  ci  casca.  |/t.j. 

*  Nascea  quest'  autore  con  una  predilezione  smaniosa  per  le  virgole.  \A.\t 


La  vita  làl 

Pone  smentire  i  suoi  decreti  ingiusti; 
Non  creder  gii,  che  sol  d'amante  il  core 
alberghi  in  sen,  eh' ancor  quel  di  Regina 
Nobile,  e  grande  ad  alto  fin  m'invita, 
L'infamia  ai  vii,  morte  nell'ardir  si  aspetta, 
Dubbia  non  è  fra  questi  due  la  scelta, 
Ma  almen,  potessi,  ancor  di  Marco  i, 
Dimmi,  noi  rivedrò  ?  per  lui  rovino. 
Lassa,  morir  senza  di  lui  degg'io? 

E  su  questo  bell'andare  proseguiva  questo  bel  dramma,  finché  vi  fu 
carta;  e  per^-enne  sino  a  metà  della  prima  scena  dell'atto  terzo,  dove  o 
cessasse  la  cat^ione  che  facea  scriver  l'autore,  o  non  gli  venisse  più  altro 
in  penna,  rimase  per  allora  arrenata  la  di  lui  debìt  barchetta,  troppo 
anche  mal  allestita  e  scema  d'ogni  carico,  perch'ella  potesse  neppur 
naufragare. 

E  parmi  che  i  versi  fin  qui  ricopiati  sian  anche  troppi,  per  dare  on 
sagg^io  non  dubbio  del  saper  fare  dell'autore  nel  Oennajo  dell'anno  1774. 


1  Rimaste  due  sillabe  nella  penna,  pel  troppo  delirante  affetto  [A.l. 


132  Vittorio  Alfieri 

CAPITOLO   DECIMOQUINTO 

Liberazione  vera.  Primo  sonetto. 
Tornato  io  una  tal  sera  dall'opera  (insulso  e  tediosissimo  diver- 
timento di  tutta  l'Italia)  dove  per  molte  ore  mi  era  trattenuto  nel 
palco  dell'odiosamata  signora,  mi  trovai  cosi  esuberantem  nte 
stufo  che  formai  la  immutabile  risoluzione  di  rompere  si  fatti 
egami  per  sempre.  Ed  avendo  io  visto  per  prova  che  ,1  correre  per 
le  poste  qua  e  là  non  mi  avea  prestato  forza  di  proponimento, 
che  anzi  me  l'avea  subito  indebolita  e  poi  tolta,  mi  voli  mettere 
a  maggior  prova,  lusingandomi  che  in  uno  sforzo  pm  difficile 
riuS  forse  m  glio.  stante  l'ostinazione  naturale  del  mio  erreo 
caratare    Fermai  dunque  in  me  stesso  di  non  muovere  di  casa 
mtch'come  dissi  le  stava  per  l'appunto  di  faccia;  di  vedere 
ritardare  ogni  giorno  le  di  lei  finestre,  di  vederla  passare;  di 
uddn  qualunque  modo  parlare;  e  con  tutto  dò,  di  non  cedere 
n«mai  a  nulla  né  ad  ambasciate  dirette  o  indirette,  ne  alle  rem  - 
:  sc™nze   ^è     cosa  che  fosse  al  mondo,  a  vedere  se  ci  creperei.  ,1 
niscenze,  ne  vincerei.  Formato  in 

eh.  poco  ■"■P°f  "2  •  °  Heglralvi  co„.rae„do  con  una  qualche 
™s:  aTor:„  :S;,K  df  v.r.o.»a,  scrusi  un  hi.He.,h,„  .d 
r„^.>co™.coe.ane    e    h        ,^^^^^^^^^ 

Ubile  ri»o  -z.one^  e  S'JS^rcrpelU,  con,.  n„  pegno  di  questo 

"'"  ":Sn\o  oaX  edTnlp^'i"'"'"  quasi  che  invincibile  al 
mio  subitaneo  partito,  eu  u        >:  essendo  allora  lolle- 

TTiairrsrero  roc'hf  r^itlani  :'  .annan.  finiva  il 
rato   un  tale  ^^^J^''^'  .^^^^^  ^i  snz  presenza  t  cor^ggw, 'ptt 

biglietto  col  pregarlo  d-^a^^^^^^^^^^^^  in  casa  mia.  proibiti  tutti 

rinfrancare  '^  ^^  ^^f^^^^^^do.'passai  i  primi  quindici  giorni 
'aiTuir  mUstna  liberazione.  Alcuni  amici  mi  visiUvano; 

.  Col  quale  avevo  trascorsa  l'adolescenza. 
>  Tosato. 


La  vita  133 

e  mi  parve  anco  mi  compatissero  ;  forse  appunto  perchè  io  non 
diceva  parola  per  lamentarmi,  ma  il  mio  contegno  ed  il  volto 
parlavano  in  vece  mia.  Mi  andava  provando  di  leggere  qualche 
cosuccia,  ma  non  intendeva  neppur  la  gazzetta,  non  che  alcun 
menomo  libro;  e  mi  accadeva  di  aver  letto  delle  pagine  intere 
cogli  occhi,  e  talor  colle  labbra,  senza  pure  saper  una  parola 
di  quel  ch'avessi  letto.  Andava  bensì  cavalcando  nei  luoghi  soli- 
tari, e  questo  soltanto  mi  giovava  un  poco  sì  allo  spirito  che  al 
corpo.  In  questo  semifrenetico  stato  passai  più  di  due  mesi  sino 
al  finir  di  marzo  del  75  ;  finché  ad  un  tratto  un'idea  nuovamente 
insortami  cominciò  finalmente  a  svolgermi  alquanto  la  mente  ed 
il  cuore  da  quell'unico  e  spiacevole  e  prosciugante  pensiero  di  un 
sì  fatto  amore.  Fantasticando  un  tal  giorno  così  fra  me  stesso, 
se  non  sarei  forse  in  tempo  ancora  di  darmi  al  poetare,  me 
n'era  venuto,  a  stento  ed  a  pezzi,  fatto  un  piccolo  saggio  in  quat- 
tordici rime,  che  io,  riputandole  un  sonetto,  inviava  al  gentile  e 
dotto  padre  Paciaudi',  che  trattavami  di  quando  in  quando,  e  mi 
si  era  sempre  mostrato  ben  affetto,  e  rincrescente  di  vedermi  così 
ammazzare  il  tempo  e  me  stesso  nell'ozio.  Trascriverò  qui,  oltre 
il  sonetto,  anco  la  di  lui  cortese  risposta  ^  Quest'ottimo  uomo  mi 


«  Paolo  Maria  Paciaudi,  dell'ordine  dei  Teatini,  erudito  torincse(1710-I785). 

»  Ecco  il  primo  sonetto:  «  Ho  vinto  alfin,  si  non  m'inganno,  ho  vinto; 
I  Spenta  è  la  fiamma,  che  vorace  ardeva  |  Questo  mio  cuor'da  indegni  lacci 
avvinto  I  I  cui  moti  l'amor  cieco  reggeva.  1  Prima  d'amarti,  o  Donna,  io 
li«n  sapeva  |  Ch'era  iniquo  tal  foco,  e  tal  respinto  |  L'ho  mille*. fiate,  e 
mille  Amor  vinceva  |  Sì  che  vivo  non  era,  e  non  estinto.  |  Il  lungo  duol, 
e  gli  affannosi  pianti,  |  Li  aspri  tormenti,  e  i  crudei  dubbj  amari  |  e  Onde 
s'intesse'il  viver  degli  amanti  >  |  Fisso  con  gli  occhi  non  di  pianto  avari.  | 
Stolto,  che  dissi?  è  la  virtù  fra'  tanti  {  Sogni,  la  sola  i  cui'pensier  siati 
cari.  —  Ed  ecco  la  lettera  del  p.  Paciaudi:  «  Messer  Francesco  s'accese 
d'amor  per  Monna  Laura,  e  poi  si  disinnamorò,  e  cantò  i  suoi  pentimenti. 
Tonio  ad  imbertonarsi  della  sua  Diva,  e  fini  i  suoi  giorni  amandola  non 
già  filosoficamente,  ma  come  tutti  ^li  uomini  hann'usato.  Ella,  mio  genti- 
linsimo  Sig.  Conte,  si  è  dato  a  poetare:  non  vorrei  che  imitasse  quel  padre 
C  rimatori  italiani  in  questa  amorosa  faccenda.  Se  l'uscir  dai  ceppi  è  stato 
!)r/.a  di  virtù,  com'clla.acrive,  conviene  sperare  che  non  andrà  ad  incep- 
parsi altra  volta.  Comunque  sia  per  avvenire,  il  Sonetto  è  buono,  senten- 
zioso, vibrato,  e  corretto  bastantemente.  Io  auguro  bene  per  lei  nella  carriera 
poetica,  e  pel  nostro  Pamasso  Piemontese,  che  abbisogna  tanto  di  chi  si  levi 
un  poco  tu  la  turba  voigsre.  Le  rimando  Vfminentissima  Cleopatra,  che 
veramente  non  è  che  infima  cosa.  Tutte  le  osservazioni  ch'ella  vi  ha  aggiunte 
«  mano,  sono  sensatissime,  e  vere.  VI  unisco  i  due  volumi  di  Plutarco,  e 
•'ella  resta  in  casa,  verrò  lo  stesso  a  star  seco  a  desco  per  ricrearmi  colla 
tua  dolce  società.  Sono  e  colla  più  ferma  stima  ed  osservanza  suo  ec.  Nota 
manus  ». 


134  Vittorio  AlfUrl 

era  sempre  andato  suggerendo  delle  letture  Italiane,  or  questa  or 
quella,  e  tra  l'altre,  trovata  un  giorno  su  un  muricciolo  la  Cleo- 
patra, ch'egli  intitola  eminentissima  per  essere  del  cardinal  Del 
fino»,  ricordatosi  ch'io  gli  avea  detto  parermi  quello  un  soggetto 
di  tragedia,  e  che  lo  avrei  voluto  tentare  (senza  pure  avergli  mai 
mostrato  quel  mio  primo  aborto,  di  cui  ho  mostrato  qui  addietro 
il  soggetto),  egli  me  la  comprò  e  donò.  Io  in  un  momento  di 
lucido  intervallo  avea  avuta  la  pazienza  di  leggeria,  e  di  postil- 
larla ;  e  glie  l'avea  così  rimandata,  stimandola  in  me  stesso  assai 
peggiore  della  mia  quanto  al  piano  e  agli  affetti,  se  io  veniva 
mai  a  proseguiria,  come  di  tempo  in  tempo  me  ne  rinasceva  il 
pensiero.  Intanto  il  Paciaudi,  per  non  farmi  smarrire  d'animo, 
finse  di  trovar  buono  il  mio  sonetto,  benché  né  egli  il  credesse, 
né  effettivamente  lo  fosse.  Ed  io  poi  di  lì  a  pochi  mesi  ingolfa- 
tomi nello  studio  dei  nosrtrì  ottimi  poeti  tosto  imparai  a  stimare 
codesto  mio  sonetto  per  quel  giusto  nulla  ch'egli  valeva.  Professo 
con  tutto  ciò  un  grand'obbligo  a  quelle  prime  lodi  non  vere,  e  a 
chi  cortesemente  le  mi  donò,  poiché  molto  mi  incoraggirono  a 
cercare  di  meritarne  delle  vere. 

Già  parecchi  giorni  prima  della  rottura  con  la  signora,  veden- 
dola io  indispensabile  ed  imminente,  mi  era  sovvenuto  di  ripe- 
scare di  sotto  il  cuscino  della    poltroncina  quella  mia  mezza 
Cleopatra,  stata  ivi  in  macero  quasi  che  un  anno.  Venne  poi 
dunque  quel  giorno,  in  cui  fra  quelle  mie  smanie  e  solitudine 
quasi  che  continua,  buttandovi  gli  occhi  su,  ed  allora  soltanto 
quasi  come  un  lampo  insortami  la  somiglianza  del  mio  stato  di 
cuore  con  quello  di  Antonio,  dissi  fra  me  ste^o:  Va  proseguita 
quest'impresa;    rifarla,  se  non   può   star  così;   ma  in   somma 
sviluppare   in  questa    tragedia    gli    affetti   che  mi    divorano,  e 
farla    recitare    questa    primavera    dai    comici   che  ci  verranno. 
Appena  mi  entrò  questa  idea,  ch'io  (quasiché  vi  avessi  ritrovata 
la  mia  guarigione)  cominciai  a  schiccherar  fogli,  rappezzare,  ri- 
mutare, troncare,  aggiungere,  proseguire,  ricominciare,    ed  in 
somma  a  impazzare  in  altro  modo  intorno  a  quella  sventurata  e 
mal  nata  mia  Cleopatra.   Né  mi  vergognai  anco  di  consultare 
alcuni  de'  miei  amici  coetanei,  che  non  avevano,  come  io,  trascu- 
rata tanti  anni  la  lingua  e  poesia  italiana  ;  e  tutti  ricercava  ed 
infastidiva,  quanti  mi  poteano  dar  qualche  lume  su  un'arte  di 


1  Giovanni  DolHn,  veneziano  (1617-1699). 


La  vita  135 

cui  cotaato  io  mi  trovava  al  baio.  E  in  questa  guisa,  null'altro 
desiderando  io  allora  che  imparare,  e  tentare  se  mi  poteva  riuscire 
quella  pericolosissima  e  temeraria  impresa,  la  mia  casa  si  andava 
a  poco  a  poco  trasformando  in  una  semiaccademia  di  letterati. 
Ma  essendo  io  in  quelle  date  circostanze  bramoso  d' imparare,  e 
arrendevole,  per  accidente  ;  ma  per  natura,  ed  attesa  l'incrostata 
ignoranza,  essendo  ad  un  tempo  stesso  agli  ammaestramenti  re> 
calcitrante  ed  indocile  ;  disperavami,  annoiava  altrui  e  me  stesso, 
e  quasiché  nulla  venivami  a  profitto.  Era  tuttavia  sommo  il  gua- 
dagno dell'andarmi  con  questo  nuovo  impulso  gancellando  dal 
cuore  quella  non  degna  fiamma,  e  di  andare  ad  oncia  ad  oncia 
riacquistando  il  mio  già  si  lungamente  allopiato*  intelletto.  Non 
mi  trovava  almeno  più  nella  dura  e  risibile  necessità  di  farmi 
legare  su  la  mia  seggiola,  come  avea  praticato  più  volte  fin  ailora, 
per  impedire  in  tal  modo  me  stesso  dal  potere  fuggir  di  casa,  e 
ritornare  al  mio  carcere.  Questo  era  anche  uno  dei  tanti  compensi 
ch'io  aveva  ritrovati  per  rinsavirmi  a  viva  forza.  Stavano  i  miei 
legami  nascosti  sotto  il  mantellone  in  cui  mi  avviluppava,  ed  avendo 
libere  le  mani  per  leggere,  o  scrivere,  o  picchiarmi  la  testa, 
chiunque  veniva  a  vedermi  non  s'accorgeva  punto  ch'io  fossi  at- 
taccato della  persona  alla  seggiola.  E  cosi  ci  passava  dell'ore  non 
poche.  Il  solo  Elia,  che  era  il  legatore,  era  a  parte  di  questo 
segreto;  e  mi  scioglieva  egli  poi,  quando  io  sentendomi  passato 
quell'eccesso  di  furiosa  imbecillità,  sicuro  di  me,  e  riassodato  il 
proponimento,  gli  accennava  di  sciogliermi.  Ed  in  tante  e  sì 
diverse  maniere  mi  aiutai  da  codesti  fierissimi  assalti,  che  alla  fine 
pure  scampai  dal  ricadere  in  quel  baratro.  E  tra  le  strane  maniere 
che  in  ciò  adoperai,  fu  certo  stranissima  quella  di  una  mascherata 
ch'io  feci  nel  finire  di  codesto  carnevale',  al  pubblico  ballo  del 
teatro.  Vestito  da  Apollo  assai  bene,  osai  di  presentarmivi  con  la 
cetra,  e  strimpellando  alla  meglio,  di  cantarvi  alcuni  versacci 
fatti  da  me,  i  quali  anche  con  mia  confusione  trascriverò  qui  in 
fondo  di  pagina  *.  Una  tale  sfacciataggine  era  in  tutio  contraria 
•Ila  mia  indole  naturale.  Ma  sentendomi  io  pur  troppo  debole 
ancora  a  fronte  di  quella  arrabbiata  passione,  poteva  forse  meri- 
tare un  qualche  compatimento  la  cagione  che  mi  movca  a  fare 


I  Alloppiato:  vinto  dal  sonno,  quasi  intorpidito  dall'oppio. 

•  Nel  feblraio  del  1775. 

*  V.  Appendice  I  a  quento  capitolo. 


136  Vittorio  Alfieri 

simili  scenate;  che  altro  non  era  se  non  se  il  bisogno  ch'io  sen- 
tiva in  me  stesso  di  frapporre  come  ostacolo  per  me  infrangibile 
la  vergogna  del  ricadere  in  quei  lacci  che  con  tante  pubblicità 
avrei  vituperati  io  medesimo.  E  in  questo  modo  senza  avveder- 
mene,  io  per  non  dovermi  vergognar  di  bel  nuovo,  in  pubblico 
mi  svergognava.  Né  queste  ridicole  e  insulse  colascionate  avrei 
osate  trascrivere,  se  non  mi  paresse  di  doverle,  come  un  auten- 
tico monumento  della  mia  imperizia  in  ogni  convenienza  e  de- 
cenza, qui  tributare  alla  verità. 

Fra  queste  sì  fatte  scede  *  io  mi  andava  pure  davvero  infiam- 
mando a  poco  a  poco  del  per  me  nuovo  bellissimo  ed  altissimo 
anjgjiejdigloria.  E  finalmente  dopo  alcuni  mesi  di  continui  con- 
sulti poetTCl^  e  di  logorate  grammatiche  e  stancati  vocabolari,  e  di 
raccozzati  spropositi,  io  pervenni  ad  appiccicare  alla  peggio 
cinque  membri  ch'io  chiamai  Atti,  e  il  tutto  intitolai,  Cleopatra 
Tragedia.  E  avendo  messo  al  pulito  (senza  forbirmene)  il  primo 
atto,  lo  mandai  al  benigno  padre  Paciaudi,  perch'egli  me  lo 
spilluzzicasse,  e  dessemene  il  di  lui  parere  in  iscritto.  E  qui  pure 
fedelmente  trascriverò  alcuni  versi  di  esso,  con  la  risposta  del 
Paciaudi.  Nelle  postille  da  lui  apposte  a  que'  miei  versi,  alcune 
eran  molto  allegre  e  divertenti,  e  mi  fecero  ridere  di  vero  cuore, 
benché  fosse  alle  spalle  mie:  e  questa  tra  l'altre.  Verso  184  «  // 
latrato  del  cor.  Questa  metafora  è  soverchiamente  canina.  La 
prego  di  torla».  Le  postille  di  quel  primo  atto,  ed  i  consigli  che  nel 
paterno  biglietto  le  accompagnavano,  mi  fecero  risolvere  a  tornar 
rifare  il  tutto  con  più  ostinazione  ed  arrabbiata  pazienza.  Dal  che 
poi  ne  uscì  la  cosidetta  Tragedia,  quale  si  recitò  in  Torino  a  dì 
16  giugno  1775:  della  quale  pure  trascriverò*,  per  terza  ed  ultima 
prova  della  mia  asinità  nella  età  non  poca  di  anni  venzei  e 
mezzo,  i  primi  versi,  quanti  bastino  per  osservare  i  lentissimi  pro- 
gressi, e  l'impossibilità  di  scrivere  che  tuttavia  sussisteva,  per 
mera  mancanza  dei  più  triviali^"  studi. 

E  nel  modo  stesso  con  cui  avea  tediato  il  buon  padre  Paciaudi 
per  cavarne  una  censura  di  quella  mia  seconda  prova,  andai  anche 
tediando  molti  altri,  tra  i  quali  il  conte  Agostino  Tana*  mio  coe- 

»  Sceda:  beffa  che  si  fa  contraffacendo  gli  atti  o  il  parlare  altrui;  buf- 
fonata in  genere. 

*  V,  Appendice  II  e  ///. 

»  Elementari. 

«  Il  Tana  (1745-1791)  lasciò  tre  tragedie.  Cfr.  su  di  lui  E.  Levi-Malvano, 
Un  consigliere  dell'Alfieri,  Alessandria,  1904. 


La  vua  137 

taneo,  e  stato  paggio  del  re  nel  tempo  ch'io  stava  nell'Accademia. 
L'educazione  nostra  era  perciò  stata  a  un  di  presso  consimile, 
ma  egli  uscito  di  paggio  avea  costantemente  poi  applicato  alle 
lettere  sì  italiane  che  francesi,  ed  erasi  formato  il  gusto,  massima- 
mente nella  parte  critica  filosofica,  e  non  grammaticale.  L'acume, 
grazia  e  leggiadria  delle  di  lui  osservazioni  su  quella  mia  infelice 
Cleopatra  farebbero  ben  bene  ridere  il  lettore,  se  io  avessi  il 
coraggio  di  mostrargliele  ;  ma  elle  mi  scotterebbero  troppo,  e  non 
sarebbero  anche  ben  intese,  non  avendo  io  ricopiato  che  i  soli 
primi  40  versi  di  quel  secondo  aborto.  Trascriverò  bensì  la  di  lui 
letterina  con  la  quale  mi  rimandò  le  postille,  e  basterà  a  farlo 
conoscere.  Io  frattanto  avea  aggiunta  una  farsetta,  che  si  recite- 
rebbe immediatamente  dopo  la  mia  Cleopatra;  e  la  intitolai 
/  Poeti.  Per  dare  anco  un  saggio  della  mia  incompetenza  in 
prosa,  ne  trascrivo  uno  squarcio.  Né  la  farsetta  però,  né  la  tra- 
gedia, erano  le  sciocchezze  d'uno  sciocco  ;  ma  un  qualche  lampo 
e  sale  qua  e  là  i.T  tutte  due  traluceva.  Nei  Poeti  aveva  introdotto 
me  stesso  sotto  il  nome  di  Zeusippo,  e  primo  io  era  a  deridere 
la  mia  Cleopatra,  la  di  cui  ombra  poi  si  evocava  dall'Inferno, 
perch'ella  desse  sentenza  in  compagnia  di  alcune  altre  eroine  da 
tragedia,  su  questa  mia  composizione  paragonata  ad  alcune  altre 
tragediesse  di  questi  miei  rivali  poeti',  le  quali  in  tutto  le  poteano 
ben  essere  sorelle:  col  divario  però,  che  le  tragedie  di  costoro 
erano  state  il  pario  maturo  di  una  incapacità  erudita,  e  la  mia 
era  un  parto  affrettato  di  una  ignoranza  capace. 

Furono  queste  due  composizioni  recitate  con  applauso  per  due 
sere  consecutive  ;  e  richieste  poi  per  la  terza,  essendo  io  già  ben 
ravveduto  e  ripentito  in  cuore  di  essermi  si  temerariamente 
esposto  al  pubblico,  ancorché  mi  si  mostrasse  soverchio  indul- 
gente, io  quanto  potei  mi  adoprai  con  gli  attori  e  con  chi  era  loro 
superiore,  per  impedirne  ogni  ulteriore  rappresentazione.  Ma,  da 
quella  fatai  serata  in  poi,  mi  entrò  in  ogni  vena  un  sì  fatto  bol- 
lore e  furore  di  conseguire  un  giorno  meritatamente  una  vera 
palma  teatrale,  che  non  mai  febbre  alcuna  di  amore  mi  avea  con 
tanta  impetuosità  assalito.  In  questa  guisa  comparvi  io  al  pub- 
blico la  prima  volta.  E  se  le  mie  tante,  e  pur  troppe,  composi- 
zioni drammatiche  in  appresso  non  si  sono  gran  fatto  dilungate 


>  Cfr.  E.  BcRTANA,   Teatro  tragico  italiano  del  see.  XVIII  prima  del' 
l'Alfieri,  in  <  Oiornale  Storico  della  letteratura  italiana  >,  suppl.  n.  4,  p.  19. 


138  Vittorio  AlfUrl 

da  quelle  due  prime,  certo  alla  mia  incapacità  ho  dato  principio 
in  un  modo  assai  pazzo  e  risibile.  Ma  se  all'incontro  poi,  verrò 
quando  che  sia  annoverato  fra  i  non  infimi  autori  s!  di  tragedie 
che  di  commedie,  converrà  pur  dire,  chi  verrà  dopo  di  noi,  che 
il  mio  burlesco  ingresso  in  Parnasso  col  socco  e  coturno  ad  un 
tempo,  è  riuscito  poi  una  cosa  assai  seria. 

Ed  a  questo  tratto  fo  punto  a  questa  epoca  di  giovinezza, 
poiché  la  mia  virilità  non  poteva  da  un  istante  più  fausto  ripeterà 
il  suo  cominciamento. 


La  vUa  139 


APPENDICE  L 


COLASCIONATA  PRIMA, 
tendo  mastheraio  da  Poeta  sadleio. 

Le  vicende  d'amor  strane,  ed  amare 
Colla  cetra  m'appresto  a  voi  cantare: 
Non  vi  spiacdale  udir  dal  labro  mio 
Che  sìncero  diroUe  affé  d'Iddio. 
Voi  le  provaste  tutti,  o  le  sentite. 
Onde  te  v'ingannassi,  mi  smentite. 

Sventurato  è  colui  ch'ama  davvero; 
Sol  felice  in  amor  è  il  menzognero. 
Ingannato  è  colui  che  non  inganna, 
E  le  frodi  donnesche  ei  si  tracanna. 

Amor  non  è  che  un  fanciullesco  giuoco, 
Chi  l'apprezza  di  più,  quant' è  da  '  poco  I 
Eppur,  miseri  noi,  la  quiete,  e  pace 
C'invola  spesso  il  traditor  rapace. 

Pria  che  d'amar,  pajono  dolci  i  lacci, 
Cosi  credergli  fan  con  finti  abbracci. 
Cresce  dappoi  delle, catene  il  peso 
A  misura  che  il  sciocco  resta  acceso. 
E  quando  egli  i  ben  bene  innamorato, 
Che  dura  i  la  catena  ha  già  scordato; 
O  se  la  sente  ancor,  la  scuote  invano, 
Ch'allacciata  le  vien  d'accorta  mano. 

L'innamorato  stolto,  un  uom  si  crede, 
E  eh' un'liom  non  i  più  già  non  s'avvede. 
Delirando  sen  va  sera,  e  mattina 
E  da  lui  la  ragion  fugge  tapina. 
Ogni  giorno  scemando  il  suo  cervello, 
Oià  non  disceme  più,  ne  il  buon,  né  il  bello. 
Va  gli  amici  fuggendo,  e  ancor  se  stesso 
Fugge,  per  non  sentir  l'error  commesso. 
Ni  l'ardisce  emendar,  piange,  sospira. 
Contro  il  perfido  amor,  stolto,  si  adira. 
La  donna,  ch'altro  vuol  ch'aspri  lamenti. 
Con  rimproveri  accrcKC  i  rei  tormenti; 


140  Vittorio  Alfieri 

E  nel  fiero  contrasto  ognor  più  sciocco, 
L'innamorato  sta,  come  un  allocco. 
Legge  in  viso  ad  ognun  la  sua  sentenza, 
E  si  rode  il  suo  fren  con  gran  pazienza. 
La  pazienza,  virtti  denominata, 
Ma  specialmente  all'asino  accordata. 
L'innamorato  almen  sembrasse  in  tutto 
Al  lascivo  animai,  immondo,  e  brutto. 
Spesso  lo  muove  poi  fredda  pazzia, 
Quella  nera  passion  di  gelosia. 
Non  sarebbe  geloso,  o  il  fora  invano, 
Se  palpasse  la  fronte  con  la  mano. 
Anime  de'  mariti  a  me  insegnate 
Per  non  esser  gelose,  eh  come  fate  ? 
Ho  capito,  di  già  stufi  ne  siete. 
Né  sempre  invan  recalcitrar  volete. 
Il  coniugale  amor  vien  presto  a  noja, 
E  nel  letto  sponsal  forza  è  che  muoja, 
E  stuffarsi  pur  denno  anco  gli  amanti 
Di  gettare  per  donna  all'aure  i  pianti. 

In  somma: 

L' innamorato  fa  trista  figura. 
Quando  di  farla  buona  ei  s' assicura. 
Ognun  ride  di  lui,  e  n'  ha  ragione, 
L'innamorato  sempre  è  un  gran  beccone. 

Io  finisco  col  dirvi,  amici  cari. 
Voi  eh'  inghiottite  ancor  boccon  sì  amari, 
Di  spicciarvi  al  piti  presto  che  possiate 
Delle  donne  che  vosco  strascinate. 

Io  già  rider  vi  ho  fatto,  e  rido  adesso 
Delle  donne,  di  voi,  e  di  me  stèsso. 


COLASCIONATA  SECONDA, 

sendo  mascherato  da  Apollo. 

Cortesi  donne,  amati  cavalieri, 
Cui  non  spiacque  ascoltar  la  rauca  cetra 
Di  sporchissimo  vate,  il  qual  nell'etra 
Percosse  sol,  con  li  suoi  detti  veri  ; 

Voi  attendete  già  dal  blando  aspetto 
Ch'io  ne  venga  a  smentir  quel  vii  cencioso 
Ch'ai  sciapiti  amator  fu  sì  nojoso; 
No,  diverso  pensier  racchiudo  in  petto. 

Io,  ch'Apolline  son  ;  ma  voi  ridete  ? 
E  sì  lieve  menzogna  or  vi  stupisce  ? 
Quando  parla  di  sé  ciascun  mentisce, 
E  ciò  spesso  v'accade,  e  non  ridete. 


La  vita  141 

Io  ch'ApoIline  son,  cantar  disdegno 

Con  stucchevoli  canni  il  rancio  amore; 

Da  più  strano  pensier,  più  grand'onore 

Conseguir  ne  vorrei,  se  ne  son  degno. 
lo  m'accingo  a  cantar  della  sciocchezza; 

Quest'è  un  vago  soggetto,  e  non  cantato 

Benché  spesso  dai  vati  adoperato; 

Or  sentite  da  lui  l'alta  bellezza. 
Io  comincio  da  voi,  donne,  e  vi  chieggio, 

Se  non  fossero  sciocchi,  i  dolci  sposi  ; 

Come  fareste  p>oi  cogli  amorosi  ? 

Ecco  che  già  fra  voi  sciocchezza  è  in  preggio. 
E  dirov\i  di  più,  se  un  scimunito 

Non  scorgeste  in  chi  v'ama  al  sol  parlare. 

Impazzireste  già,  per  non  sfogare 

Quello  di  civettar  dolce  prurito. 
Oh  quanto  giubilate,  voi  zitelle, 

Se  vi  trovate  aver  le  madri  sciocche  ! 

La  scuola  fate  li  di  filastrocche, 

Che  c'infilzate  poi,  leggiadre  e  belle. 
Dunque,  o  donne,  negar  non  mi  saprete 

Che  la  nostra  sciocchezza  vi  fa  liete. 

Passo  agli  uomini  adesso,  e  ben  distinti 

In  moltissime  schiere  li  ravviso. 

Oh  quanta  gioja  appar  dei  figli  in  \'iso. 

Ch'aver  stolidi  i  padri  son  convinti  ! 
I  lor  vizj  sen  vanno  nascondendo, 

E  se  avvien  eh'  un  molesto  creditore 

Stufo  di  passeggiar  mova  rumore. 

Il  buon  vecchietto  allor  paga  ridendo. 
Ed  all'incontro  poi  li  padri  avari 

Quanto  godon  d'aver  figliuoli  stolti, 

È  vero  che  di  questi  non  son  molti. 

Che  lor  chiedan  consigli  e  non  danari. 
Da  chi  poi  la  stoltezza  è  più  eh'  amata. 

La  cetra  oscuramente  qui  li  addita. 

Sono  que'  meschinelli,  a  cui  la  vita 

La  dabenaggin  nostra  ha  già  donata. 
Che  diremo  de'  brutti  bacchettoni  ; 

Percolendosi  il  petto,  e  lagrimuccie 

Costor  spargon  fri  gonzi;  alle  donnuccie 

Di  soppiatto  facendo  certi  occhioni. 
E  voi  ricchi,  ed  ignari  alti  Signori 

Alla  volgar  stupiditi  dovete 

Di  comparire  ognor  quel  che  non  siete. 

Via  ergetele  un  tempio,  e  ogn*  un  1'  adori. 
Voi  altri  Zerbinotti  casca-morti. 

Che  nella  testa,  seppur  testa  avete. 

Altro  che  freddi  semi  non  chiudete, 

Se  non  vi  fosser  stolti,  siete  morti. 
Voi  famelici  autori,  e  che  fareste  ? 

E  te  non  fosse  il  volgo  ignaro,  e  stolto 


1*2  Vittorio  Alfieri 

Vi  si  vedrla  la  fame  pinta  in  volto, 
Chi  sa,  d'inanizion  forse  morreste. 
Voi  d'ogni  autor  peggiori,  che  spiate 
Le  faccende  d'ognuno,  e  poi  le  dite. 
Ed  a  chi  non  le  cura  le  ridite. 
Della  stoltezza  voi,  quasi  abusate. 
Voi  che  inimici  al  ver,  già  posto  in  bando 
Crudamente  l'avete,  a  chi  direste 
Le  sciapite  bugiuzze,  tacereste 
Se  i  stolti  non  le  stessero  ascoltando. 
Le  velenose  lingue,  e  non  acute 
Che  di  mordere  han  voglia,  e  mal  lo  fanno 
Cangieriano  mestier,  se  il  barbagianno 
Non  le  trovasse  poi  pronte  ed  argute. 
Insomma  canterei  tre  ^omi  interi. 
Né  del  ricco  soggetto  la  bellezza. 
Ne  degli  ornati  suoi  la  vaga  ampiezza 
Io  descriver  saprei;  voglionvi  Omeri. 
In  due  versi  però  composti  a  stento 
Spiegherovvi  il  fallace  mio  pensiero. 
Dico,  e  ho  inteso  a  dir  che  il  mondo  intiero 
Da  stolidezza  è  retto  a  suo  talento. 
E  voi  che  qui  l'orecchie  spalancate 
Per  burlarvi  di  me,  Censor  sevèri, 
E  in  vestigar  miei  carmi  falsi  e  veri 
Se  lo  stolto  non  fossi,  allor  che  fate  ? 
Ma  tu,  cetra,  cantasti  già  di  tanti, 
E  chi  strider  ti  fa  vuoi  tralasciare, 
No  che  sarebbe  ingiusto,  hai  da  cantare; 
Per  la  soddisfazion  di  tutti  quanti. 
Dirò  dunque  di  me,  per  mia  disgrazia 
Che  senza  la  stoltezza  avrei  tacciuto, 
E  forse  molto  meglio  avria  valsuto, 
Per  conservar  di  voi  la  buona  grazia. 
O  né  poeti  innata  impertinenza  1 
Biasimare  si  vuó,  m'innalzo  al  cielo, 
Eppur  se  penso  a  me  io  sudo  e  gelo 
Ed  abusando  vó  della  pazienza. 
Lascio  giudici  voi;  sassi  gettate 
S'un  poeta  vi  pajo  da  sassate. 
Io  confesso  pian  pian,  che  vado  altero 
D'avervi  detto  scioccamente  U  vero. 

COLASCIONATA  TERZA. 

Apolline  già  stufo  di  vagare, 
Né  sapendo  che  far,  s'infinge  adesso 
Che  l'ha  pregato  alcun  di  ricantare; 

Ma  questo  non  è  ver,  se  l'ha  sognato. 
Chi  conosce  i  Poeti  ha  già  capito 
Cb'  Apolline  vuol  esser  corbellato» 


La  vita  143 

M'accingerò  de'  vizj  a  voi  cantare. 
No,  che  reggono  il  mondo,  e  a  me  potrebbe 
Da  ciò,  biasimo  e  lutto  ridondare. 
Della  vnrtude  adunque;  è  contrabbando, 
E  tanta  gli  han  imposta  la  gabella, 
Che  quasi  non  si  trova  anche  pagando. 
Dirò  della  bellezza  delle  donne  ? 
A  quanto  dicon  più  quei  dolci  sguardi 
Che  additan  che  son  Angeli  fra  gonne. 
Canterò  della  vita  ogni  vicenda. 
Ma  se  la  vita  è  un  sogno  molto  breve, 
Le  vicende  d'un  sogno,  e  chi  le  intende? 
De  ricchi  canterei  se  avessi  fronte 
Come  l'hanno  i  poeti  tutti  quanti, 
E  poi  già  tai  menzogne  a  voi  sono  conte. 
Dirovvi  della  morte;  oh  quanto  é  trista 
Non  ne  vorreste  udir  neppur  parola. 
Ma  nel  pensarci  mal,  nulla  s'acquista. 
Dirò  di  quest'alloro  qualcosetta 
Il  qual  cingerai  il  crin  modestamente. 
Zitto,  ch'io  mei  donai,  lo  strappo  in  fretti. 
Farovvi  di  miseria  un  quadro  bello 
È  ver  che  non  è  vizio  eppur  si  fugge. 
Ne  se  ne  parla  mai,  dov'ho  il  cervello? 
Della  felidtade,  oh  bel  soggetto; 
La  vi  cercando  ognun,  chi  l'ha  trovata 
Di  grazia  me  lo  dica,  eh'  io  l'aspetto. 
Tema  più  bello  ancor;  volete  udirlo? 
Quest'è  la  vanità;  ma  non  lo  canto 
Potrei  parlar  di  me  senza  sentirlo. 
Dirò  che  sono  un  pazzo  e  ben  m'  avvedo 
Che  lo  dite  voi  tutti  anche  tacendo, 
Finisco,  per  non  dir,  eh'  anch'  io  lo  credo. 


144 


Vittorio  Alfieri 


APPENDICE  II, 


CLEOPATRA  SECONDA 


ATTO   PRIMO 


SCENA  PRIMA 

DIOMEDE,   LAMIA. 

Diomede.  E  fia  pur  ver',  che  neghittosi,  e  vili 

Traggon  gli  Egizj,  in  ozio  imbelle,  i  giorni 
Allor  che  i  scorni  replicati,  e  l'onte 
Dovrian  destar  l'alme  a  vendetta,  e  all'ire? 
Cleopatra,  d'amor  ebra,  e  d'orgoglio 
Del  suo  regno  l'onor,  deca,  non  cura, 
O  se  pure  l'apprezza,  incauta,  giace 
Di  rea  fiducia  in  seno,  e  forse,  ignora 
Ch'a  lieve  fi!,  sta  il  suo  destino  appeso. 
M'affanna  il  duolo,  a  sì  funesto  aspetto, 
E  benché  avvezzo  all'empia  corte  iniqua, 
Più  cittadin,  che  servo,  oggi  compiango 
Le  pubbliche  sciagure.  Un  finto  nome 
Quel  di  patria  non  è,  che  in  cuor  ben  nato 
Arde,  ed  avvampa,  qual  divino  fuoco, 
Ed  invano  i  tiranni,  un  tanto  amore 
Taccian'  di  reo  delitto;  al  falso  grido 
S'oppon  natura,  e  dice,  eh' è  virtude. 

Lamia,  Di  Diomede  son  questi  i  sensi  audaci. 

Ti  diede  il  Cie!,  forse  per  tua  sventura 
Un'alma  forte,  generosa,  e  fiera: 
Inutil  dono  a  chi  fra  Corti  è  nato. 
Poiché,  dei  Regi  rispettando  i  falli 
Spesso  adorar  li  deve;  intanto  i  lumi 
Volgi  men  fieri,  a  mesta  donna,  inerme; 
Mira  Cleopatra,  impietosisci,  e  in  pianto 
Scioglier  ti  vedo  allor  gli  amari  detti. 
In  pianto  sì,  né  rifiutar  lo  puote 
A  si  fatte  miserie  un'alma  grande: 
E  rivendica  ognor  l'umanitade 
Oli  antichi  suoi  sacri  diritti,  e  augusti  t 
Son  gli  infelici  di  pietà  ben  degni, 
Ancor  che  rei. 


La  vita  145 

Diomede.  Da  me  l'abbiano  tutta; 

Ma  quando  sol  desta  pietà,  chi  impera, 
Si  piange  l'uora,  ma  si  disprezza  il  Rege. 
Avvilita  in  Egitto  è  da  molti  anni 
La  maestà  del  trono  ec.  ec, 

E  basti  di  questa  Seconda,  per  dimostrare  che  forse  era  peggio  della  Prima. 


LETTERA  DEL  PADRE  PAQAUDL 

Pregiatis.  mio  sig.  Conte. 

«  Non  le  rendo  ancora  il  suo  originale,  perchè  qualche  incomoduccio  mi 
ha  impedito  di  scrivere  le  mie  sincere  ed  amichevoli  osservazioni.  Par- 
lando in  generale  io  mi  sono  compiaciuto  dei  primi  tratti  della  Tragedia. 
Spicca  l'ingegno,  l'immaginazione  feconda,  e  il  giudizio  nella  condotta. 
Ma  con  uguale  schiettezza  le  dirò,  che  non  sono  contento  della  poesia.  I 
versi  sono  molte  volte  mal  torniti,  e  non  hanno  il  giro  italiano.  Vi  sono 
infinite  voci,  che  non  son  buone,  e  sempre  la  ortografia  è  mancante  e 
viziosa.  Condoni  alla  mia  naturai  ingenuità,  e  all'interesse,  che  prendo  a 
ciò  che  la  risguarda,  questo  avviso.  Bisogna  saper  bene  la  lingua  in  cui 
si  vuole  scrivere.  Perchè  non  tiene  ella  sul  tavolino  la  Ortografia  italiana, 
picciol  volume  in  ottavo  ?  Perchè  non  legge  prima  gli  Avvertimenti  gram- 
maticali, che  vanno  aggiunti  ?  Spero  di  restituirle  prima  di  sabato  il  suo 
manoscritto:  intanto  le  invio  il  Teatro  Italiano  raccolto  dal  marchese 
Maffei,  libro  piuttosto  raro  che  ho  fortunatamente  trovato  per  sei  lire  dal 
libraio  romano.  Parm!  necessario  ch'ella  legga  quei  primi  autori  stimati 
dal  nostro  teatro  per  facilità  di  una  corretta  versificazione.  Vi  troverà  una 
Cleopatra  del  card.  Delfino  autore  di  tragedie.  Se  la  rimembranza  non 
m'inganna  altri  ha  posto  sulle  scene  quest' istesso  soggetto:  ma  non  posso 
suir  istante  accennarle  chi  sia,  non  avendo  potuto  rinvenire  il  libro  italiano 
del  Riccoboni  tessente  il  catalogo  di  tutte  le  nostre  cose  teatrali.  Toma 
bene  osservare  chi  ha  scritto  prima  di  noi  in  un  argomento  medesimo  per 
conoscerne  le  bellezze,  come  gli  sbagli.  Mi  serbi  la  sua  grazia  che  pregio 
assaissimo  e  consenta  che  io  usurpi  l'onorevol  titol  di  suo  >  ec. 


10.  -   Classici  ttaUoHi.  N.  3. 


146 


Vittorio  Alfieri 


APPENDICE  ni. 

CLEOPATRA  TERZA 
Quale  fu  recitata  nel  Teatro  Italiano.  > 


ATTO  PRIMO 
SCENA  PRIMA 

CLEOPATRA,    ISMENE. 

Cleopatra.  Che  farò  ?...  Giusti  Dei...  Scampo  non  veggo 

Ad  {sfuggire  il  precipizio  orrendo. 
Ogni  stato,  benché  meschino,  e  vile, 
Mi  raffiguro  in  mente;  ogni  periglio 
Stolta  ravviso,  e  niun,  fra  tanti,  ardisco 
Affrontare,  o  fuggir:  dubbj  crudeli 
Squarcianmi  il  petto,  e  non  mi  fan  morire. 
Né  mi  lasciano  pur  riposo,  e  vita. 
Raccapriccio  d'orror;  l'onore,  il  regno 
Prezzo  non  son  d'un  tradimento  atroce; 
Ambo  mi  par  di  aver  perduti;  e  Antonio, 
Antonio,  sì,  vedo  talor  fra  l'ombre 
Gridar  vendetta,  e  trascinarmi  seco. 
Tanto  dunque,  o  rimorsi,  è  il  poter  vostro? 

Ismene.  Se  hai  pietà  di  te  stessa  i  moti  affrena 
D'un  disperato  cuor:  d'altro  non  temi. 
Che  non  piìi  riveder  quel  fido  amante  ? 
Ma  ignori  ancor,  se  vincitore,  o  vinto. 
Se  viva,  o  no 

Cleopatra.  E  s'ei  vivesse  ancora, 

Con  qual  fronte,  in  qua!  modo,  a  lui  davanti 
Presentanni  potrò,  se  l'ho  tradito? 
Della  virtù  qual  è  la  forza  ignota. 
Se  un  reo  neppur  può  tollerarne  i  guardi  ? 

Ismene.                No,  Regina,  non  è  si  reo  quel  core. 
Che  sente  ancor  rimorsi 

Cleopatra.  Ah!  si,  li  sento; 

E  notte,  e  di,  e  accompagnata,  e  sola, 
Sieguonmi  ovunque,  e  il  lor  funesto  aspetto 
Non  mi  lascia  di  pace  un  sol  momento. 


i  Teatro  Carignano  in  Torino. 


La  vita 


147 


Eppur,  gridano  invan;  nell'alma  mia 
Servir  dovranno  a  più  feroci  affetti; 
Né  scorgi  tu  questo  mio  cuor  qual  sia. 
Mille  rivolgo  atri  pensieri  in  mente, 
Ma  il  crudel  dubbio,  d'ogni  mal  peggiore, 
Vietami  ognor  la  necessaria  scelta. 

tsmene*.  Cleopatra,  perchè  prima  sciogliesti 

L'Egpzie  vele  all'aura,  allor  che  d'Azio 
N'  ingombravano  il  mar  le  navi  amiche  ? 
E  allor  che  il  Mondo,  alla  gran  lite  intento, 
Pendea  per  darsi  al  vincitore  in  preda. 
Chi  mai  t' indusse  a  così  incauta  fuga  ? 

Cleopatra.  Amor  non  è  che  m'avvelena  i  pomi; 

Mossemi  ognor  l'ambizion  d'impero. 
Tutte  tentai,  e  niuna  in  van,  le  vie, 
Che  all'alto  fin  trar  mi  dovean  gloriosa; 
Og^i  passione  in  me  soggiacque  a  quella. 
Ed  alla  mia  passion  le  altrui  servirò. 
Cesare  il  primo,  il  crin  mi  cinse  altero 
Del  gran  diadema;  e  non  al  solo  Egitto 
Leggi  dettai,  che  quanta  terra  oppressa 
Avea  già  Roma,  e  il  vincitor  di  lei, 
Vidi  talora  ai  cenni  miei  soggetta. 
Era  il  mio  cor  d'alta  corona  il  prezzo. 
Ne  l'ebbe  alcun,  fuorché  reggesse  il  Mondo. 
Un  trono,  a  cui  da  sì  gran  tempo  avea 
La  virtude,  l'onor)  la  fé,  donata. 
Non  io  volli  affidare  al  dubbio  evento, 
E  alla  sorte  inegual  dell'armi  infide... 
Serbar  lo  volli;  e  lo  perdei  fuggendo; 
Vacilla  il  pie  su  questo  inerme  soglio; 
E  a  disarmar  il  vincitor  nemico. 

Altro  piìi  non  mi  resta  che  il  mio  pianto 

Tardi  m'affliggo,  e  non  cancella  il  pianto 
Un  tanto  error,  anzi  lo  fa  più  vile. 

Ismene,  Regina,  il  tuo  dolor  desta  pietade 

In  ogni  cor,  ma  la  pietade  è  vana. 
Rientra  in  te,  rasciuga  il  pianto,  e  mira 
Con  più  intrepido  ciglio  ogni  sventura; 
_yè  soggiacer;  ch'alma  regale  è  forza 
Si  mostri  ognor  de'  mali  suoi  maggiore. 
I  mezzi  adopra  che  parran  più  pronti 
Alla  salute,  od  al  riparo  almeno 
Del  tuo  regno. 

Cleopatra.  Mezzi  non  vedo,  ignoto' 

Della  gran  pugna  essendo  ancor  l'evento; 


'  Codeste  Interrogazioni  d' Ismene,  più  assai  proprie  di  un  giudice  fiscale, 
che  non  di  una  dipendente  amica,  mi  hanno  pur  rallegrato  un  pochino,  e 
follevatami  col  riso  li  nnja  di  questa  copiatura.  |^.|. 

•  Anche  un  verso  falso  di  accenti,  e  da  non  potersi  strascinare  con  sei  par 
di  buoi,  mi  toccò  di  far  recitare  nella  mia  primi  comparsa  su  le  scene  ita- 
liane.  (/l.|. 


148 


Ismene. 


Cleopatra. 


Vittorio  Alfieri 

Né  error  novello,  ai  già  commessi  errori 

Aggiunger  so,  finché  mi  sia  palese. 

D'Azzio  lasciai  l'instabil  mar  coperto. 

Di  navi,  e  d'armi,  e  d'aguerrita  gente, 

Sì  che  l'onda  in  quel  dì  vermiglia,  e  tinta 

Di  sangue  fu,  di  Roma  a  danno  ed  onta. 

Era  lo  stuol  piìi  numeroso,  e  forte. 

Quel  ch'Antonio  reggea,  e  le  sue  navi, 

Ergendo  in  mar  i  minaccevol  rostri, 

Parean  schernir  coll'ampia  mole  i  legni 

Piccioli,  e  frali  del  nemico  altero; 

Sì,  questo  è  ver;  ma  avea  la  Sorte,  e  i  Numi 

Da  gran  tempo  per  lui  Augusto  amici; 

E  chi  amici  non  gli  ha  gli  sfida  invano. 

Or  che  d'Antonio  la  fortuna  è  stanca. 

Or  che  d'Augusto  mal  conosco  i  sensi, 

Or  che,  tremante,  inutil  voti  io  formo, 

Né  so  per  chi,  della  futura  sorte 

Fra  i  dubSj  orror,  sola  smaniando,  e  in  preda 

Ad  un  mortai  dolor,  che  più  sperare 

Mi  lice  omai?  tutto  nel  cuor  mi  addita, 

Che  vinta  son,  che  non  si  scampa  a  morte, 

E  a  morte  infame. 

Non  é  tempo  ancora 
Di  disperare  appien  del  tuo  destino. 
Chi  può  saper  s'alle  nemiche  turbe 
Non  avrà  volto  la  fortuna  il  tergo; 
Ovver  se  Augusto  vincitor  pietoso 
A  te  non  renderà  quanto  ti  diero 
Un  dì,  Cesare,  e  Antonio. 

Il  cor  nutrirmi 
Potrò  di  speme,  allor  che  ben  distinti 
Ravviserò  dal  vincitore  il  vinto; 
JVla  in  fin  che  ondeggia  infra  i  rivai  la  sorte 
Trapasserò  i  miei  dì  mesti  e  penosi 
In  vano  pianto;  e  di  dolor  non  solo 
Io  piangerò,  ma  ancor  di  sdegno,  e  d'onta. 
Ma  Diomede  s'appressa;...  il  cuor  mi  palpita. 


SCENA  SECONDA 

DIOMEDE,   CLEOPATRA,    ISMENE. 

Cleopatra.  Fedel  Diomede,  apportator  di  vita, 

0  di  morte  mi  sei?...  Che  rintracciasti? 
Si  compì  il  mio  destin  ?...  parla.  — 

Diomede.  Regina, 

1  cenni  tuoi  ad  adempir  n'andava. 
Quando  scendendo  alla  marina  in  riva 
Vidi  affollar  l'insana  plebe  al  porto, 


La  vita  149 

Confuse  grida  udii,  s'eran  di  pianto, 

Di  gioia,  o  di  stupor,  nulla  indagando,  ^ 

V'andai  io  stesso,  e  la  cagion  funesta 

Di  tal  rumor,  purtroppo  a  me  fu  nota. 

Poche,  sdruscite,  e  fuggitive  na\n. 

Miseri  avanzi  dell'audaci  squadre, 

Eran  l'oggetto  de'  perversi  gridi 

Del  basso  volgo,  che  schernisce  ognora 

Quei,  che  non  teme. 
Cleopatra.  E  in  essi  eravi  Antonio  ? 

Diomede.  Canidio,  Duce  alla  fuggiasca  gente 

Credea  trovarlo  ec.  ec. 

E  su  questo  andare  proseguiva  tutta  intera,  piuttosto  lunghetta,  essendo 
di  versi  1641.  Numero  al  quale  poi  non  sono  quasi  mai  più  arrivato  nelle 
susseguenti  tragedie  che  ho  scritte  sino  in  venti,  allorché  forse  mi  trovava 
poi  aver  qualcosa  più  da  dire.  Tanto  vagliono  per  l'essere  breve  i  mezzi 
del  poter  dire  in  un  modo  piuttosto  che  in  un  altro. 


LETTERA  DEL  CONTE  AGOSTINO  TANA 

Aristarco  all'Autore. 

€  Voi  m'avete  scelto  per  lo  vostro  Aristarco,  io  contraccambio  l'onore 
che  m'avete  fatto,  col  non  ricusarlo.  Preparatevi  dunque  alla  più  severa 
inesorabii  censura;  e  quali  pochi  hanno  il  coraggio  di  farla,  pochissimi 
di  soffrirla.  Io  sarò  fra  i  pochi,  e  voi  fra  i  pochissimi  annoverato.  La 
Plebe  letteraria,  lusinghiera,  mendace,  e  tracotante,  non  è  avvezza  certa- 
mente a  comportarsi  in  simil  guisa:  presenti,  si  lodano  senza  ritegno;  lon- 
tani si  biasimano,  e  si  tradiscono  senza  rossore.  Tal  cosa  non  potrà  acca- 
dere giammai  fra  l'amico  Censore,  e  l'autore  di  questa  Tragedia  ». 


150  VUtono  Alfieri 


APPENDICE  IV. 


I  POETI 

COMMEDIA   IN   UN   ATTO, 
recitata  nel  Teatro  stesso  dopo  la  Cleopatrassa. 

SCENA   PRIMA 

ZEUSIPPO,  solo. 

Ah  misero  Zeusippo  !  e  a  che  ti  serve  di  esserti  nell'accademia  degli 
stupidi  alteramente  denominato,  //  Sofocleo,  mentre  si  avvicina  l'ora  in 
cui  ti  sarà  forse  barbaramente  discinto  il  coturno  ?  io  sudo  e  gelo  nel 
pensare  all'esito  della  mia  povera  tragedia.  Ma  che  diavolo  di  capriccio 
fu  questo,  di  voler  balzar  d'un  salto  in  cima  al  Pamasso,  e  scrivere  il 
poema  il  più  difficile  a  ben  eseguirsi,  prima  quasi  d'aver  finito  d'impa- 
rare gli  elementi  grammaticali  della  toscana  favella  ?  ardir  veramente  poe- 
tico. —  Ma  queste  riflessioni  bisognava  farle  avanti  ;  ora  son  tarde  e  ridi- 
cole. —  Eppure  non  mi  posso  far  animo,  e  tremo  come  se  io  avessi  fatto 
lina  bricconeria:  ma  è  meglio  assai  di  farla,  che  di  scrivere  una  cattiva 
tragedia.  Non  tutti  i  bricconi  tremano;  è  vero  poi,  che  ne  anche  tutti  i 
cattivi  poeti.  Zeusippo,  segui  tracotante  le  orme  dei  poetastri,  e  se  spia- 
cerà la  tragedia,  concludi  ad  esempio  loro,  che  il  Pubblico  non  ha  gusto, 
non  ha  discernimento  ;  che  giudica  per  invidia  ;  e  che  tu  sei  un  eccellente 
poeta.  —  Muse  castissime,  benché  da  tanti  profanate;  biondo  Apollo,  la 
di  cui  cetra  è  assai  miglior  della  mia  ;  orgoglioso  Pegaso,  che  sì  sovente 
inciampi  quando  sei  carico  dal  soverchio  peso  d'un  cattivo  cavalcatore; 
tu  che  sì  raramente  spieghi  per  noi  le  tue  ale  per  innalzarti  a  volo:  tutti, 
tutti  v'imploro  in  queste  penosissime  circostanze.  Affascinate  gli  occhi  e 
gli  orecchi  de'  spettatori,  sì  che  l'infelice  Cleopatra  appaia  loro  degna 
almeno  di  compassione.  —  Ma  voi  barbare  Deità,  sorde  vi  mostrate:  io 
vi  abbandono,  non  fo  più  versi;  siete  troppo  ingrate:  dirò  del  male  di 
voi,  farò  un  madrigale;  disonorerò  tutta  la  vostra  famiglia:  tremate: 

Apollo  al  par  di  me  tristo,  e  meschino 

Dal  cielo  in  bando,  esule,  e  ramingo 

Ti  festi  pastorello,  poverino. 

In  Tessalia  d'Admeto;  e  ognor  solingo 

Non  ne  sapesti  pur  serbare  il  gregge; 

Te  l'involò  Mercurio...  te  l'involò 

Mercurio;...  Te  l'involò  Mercurio... 
diavolo,  la  rima  egge  m' è  mancata,  e  la  non  vuol  venire.  Va  che  sci  felice,- 
Apollo;  che  se  la  rima  veniva... 


La  vita  151 


SCENA   SECONDA 

ORPEO,    ZEUSIPPO. 

Orfeo.  Amatissimo  Zeusippo,  che  fai  ?  mi  par  che  sii  turbato.  Sempre 
naovi  pensieri,  eh  ?  componi  componi 

Zeusippo.  Signore  Orfeo  straccione,  la  non  mi  corbelli.  Io  g^à  ho  rinun- 
ziato alia  poesia;  e  stavo  facendo  qualche  rime  per  vendicarmi  d'Apollo; 
e  poi  finisco;  non  ne  vo'  più  sapere... 

Orfeo.  Farete  male,  male  assai,  e  qual  disgrazia  v'obbliga  a  rotolar  dal 
Parnasso  ?  La  vostra  tragedia  credo  avrà  un  ottimo  successo.  Ho  visto 
moltissima  gente  affollarsi  all'entrata:  questo  è  buon  segno.  Io  ci  sarei 
andato  pure,  se  mi  aveste  regalato  il  biglietto;  ma  ve  ne  siete  scordato. 
Eppure  vi  avrei  potuto  giovar  molto,  col  battere  delle  mani  a  proposito, 
coU'escIamare  con  entusiasmo  :  Oh  che  bella  parlata  !  Che  scena  !  Che 
sentimenti  !  Siccome  ho  ancor  io  (non  fo  per  dire)  un  qualche  g^do  nella 
letteraria  repubblica,  quei  pochi  sciocchi  che  mi  avrebbero  circondato, 
avrebbero  anch'essi  caldamente  applaudito;  e  forse,  forse... 

Zeusippo.  No,  caro  Orfeo  ;  questi  son  mezzi  troppo  vili  ;  e,  dovendovi 
regalare,  amico,  non  vi  darei  un  biglietto  d'ingresso;  non  avete  bisogno 
di  pascervi  lo  spirito  ;  sono  altre  necessità  più  essenziali  a  noi  poeti  ;  e  se 
fossi  ricco,  ricompenserei  in  altro  modo  la  vostra  sviscerata  amicizia.  Ma, 
credete,  che  pur  troppo  l' ingegno  non  fa  fortuna  ;  e  nel  vederci  accop- 
piati, chiunque  ci  prenderebbe  per  la  Discordia  e  l' Invìdia,  quali  si  dipin- 
gono dai  poeti  e  pittori.  Ah  duro  mestiere  invero  quello,  che  noi  prati- 
chiamo. Come  fate  voi,  Orfeo,  per  avere  una  faccia  cosi  allegra  e  giojosa  ? 
credo,  che  né  il  Tasso,  né  il  Petrarca,  né  alcun  altro  fra  i  più  celebri 
poeti  d'Italia,  avessero  mai  un  viso,  un  portamento  così  altero  e  così  con- 
tento di  sé  medesimo.  Io  all'incontro  poi,  pallido,  smunto,  macilento,  ed 
egro,  porto  scritti  in  fronte  tutti  I  più  funesti  attribuiti  della  poesia  infelice. 

Orfeo.  Questo  a  voi  sta  benissimo.  Così  dev'essere  il  poeta  tragico; 
sempre  peKsieroso,  guardar  bieco,  trattar  la  fame  eroicamente  ;  lodar  poco 
o  di  nascosto;  domandar  mercede  nelle  dedicatorie;  scegliere  i  più  alti 
Signori  per  indirizzarli  i  suoi  componenti,  sì  perchè  meno  degl'altri  gli 
intendono,  si  perché  più  d'ogni  altri  si  mostrano  generosi.  Io  all'  incontro, 
devo  aver  faccia  dì  Lirico,  e  questa  dev'essere  gioviale,  allegra,  ridente, 
sardonica,  ma  non  pìngue,  perché  non  sarebbe  poetica.  Io  con  un  sonetto 
mi  rendo  amico  un  innamorato  sciapito  che  vuol  lodare  la  sua  Diva,  ma 
che  disgraziatamente  non  ha  imparato  nei  suoi  primi  anni  a  leggere.  Io 
con  un  epitalamio  m'invito  destramente  ad  nn  convito  di  nozze,  colà  poe- 
ticamente mi  sfamo  per  parecchi  giorni.  Io  con  un  madrigaletto,  con  un 
epigramma,  che  so  io,  con  altre  simili  bagatelle,  mi  vò  procurando  giorni 
felici,  riputazion  mediocre;  e  dal  mio  basso  inalzo  ridendo  gli  sguardi 
temerari  «ino  alle  più  alte  piume  del  cimiero  de'  tragici  e  non  le  invidio. 

Zeusippo.  Ah,  non  insultate  così  il  coturno.  Io,  non  volendo  abbandonar 
la  poesia,  preferirei  di  gran  lunga  il  morir  di  fame  in  compagnia  de'  miei 
attori  al  quint'atto  di  una  mia  mediocre  tragedia,  all'arricchirmi  compo- 
nendo madrigali,  e  sonetti.  —  Ma  qualcuno  si  appressa:  io  tremo  di  bel 
nuovo.  Oh  cielo  !  vien  l'emulo  Leone;  egli  ha  un'aria  soddisfatta:  la  Cleo* 
patra  non  è  piaciuta;  io  son  perduto. 


152  Vittorio  Alfieri 


SCENA  TERZA 

LEONE,  ZEUSIPPO,  ORFEO. 

Leone.  Amici,  oh  che  felice  incontro  !  Zeusippo,  vi  ho  ascoltato  con 
molto  piacere,  dovevate  trovarvi  anche  voi  al  teatro,  avreste  fatto  sob- 
bissar  la  platea  dagli  applausi. 

Zeusippo.  Via,  signor  Leone,  voi  mi  dite  troppo  ;  non  vi  credo  ;  e  non 
ho  ancora  il  viso  bastantamente  sciacquato  da  Ippocrene,  per  presentarmi 
al  pubblico  senza  arrossire:  credo  che  sarei  morto  d'affanno,  se  io  mi 
trovava  alla  rappresentazione. 

Leone.  Eh,  che  rossore  ?  questo  non  è  color  poetico  ;  scacciate  coteste 
fanciullesche  imaginazioni.  Componete,  rappresentate  voi  stesso,  seguite 
gl'impulsi  del  genio  Febeo,  e  non  arrossite  mai. 

Zeusippo.  Seguirò  il  consiglio  che  voi  mi  predicate  ancor  più  efficace- 
mente con  l'esempio,  che  colle  vostre  lusinghiere  parole.  Ma,  alle  corte; 
noi  due  ci  corbelliamo  l'un  l'altro  ;  siamo  entrambi  poeti,  tragici  entrambi, 
entrambi  forse  cattivi:  noi  non  ci  possiamo  amare,  potressimo  però  gio- 
varci vicendevolmente,  se  volessimo  francamente  parlare  l'uno  dei  com- 
ponimenti dell'altro  ;  e  ciò,  con  quella  pietosa  f  ratellevole  discrezione,  che 
sogliono  aver  fra  loro  gli  autori  ec. 

E  basta  :  perchè  non  ce  n'entra  piìi  ;  e  perchè  troppo  ce  n'è  entrato  fin  qui.  i 


>  Altri  squarci  della  commedia  /  poeti  pubblicò  F.  Novati,  L'Alfieri 
poeta  comico,  in  «  Studi  critici  e  letterari  »,  Torino,  1900. 


EPOCA  QUARTA 
VIRILITÀ 

ABBRACCIA  TRENTA   E  PIÙ  ANNI   DI  COMPOSIZIONI 
TRADUZIONI,   E  STUDI   DIVERSI 


CAPITOLO   PRIMO 

Ideate,  e  stese  in  prosa  francese  le  due  prime  tragedie,  il  Filippo, 
e  il  Polinice.  Intanto  un  diluvio  di  pessime  rime. 

Eccomi  ora  dunque,  sendo  in  età  di  quasi  anni  venzette,  en« 
trato  nel  duro  impegno  e  col  pubblico  e  con  me  stesso,  di  f?7mi 
autor  tragico.  Per  sostenere  una  sì  fatta  temerità,  ecco  quali 
erano  per  allora  i  miei  capitali. 

Un  animo  risoluto,  ostinatissimo,  ed  indomito;  un  cuore  ridon- 
dante di  affetti  di  ogni  specie,  tra'  quali  predominavano  con  biz- 
zarra mistura  l'amore  e  tutte  le  sue  furie,  ed  una  profonda  fero- 
cissima rabbia  ed  abborrtmento  contraogni  qualsivoglia  tirannide. 
Aggiungevasi  poi  a  questo  semplice  istinto  della  natura  mia,  una 
debolissima  ed  incerta  ricordanza  delle  varie  tragedie  francesi  da 
me  viste  in  teatro  molti  anni  addietro  ;  che  debbo  dir  per  il  vero, 
che  fin  allora  lette  non  ne  avea  mai  nessuna,  non  che  meditata: 
aggiungevasi   una  quasi  totale  ignoranza  delle  regole  dell'arte 


*54  Vittorio  Alfieri 

tragica,  e  l' imperizia  quasi  che  totale  (come  può  aver  osservato 
il  lettore  negli  addotti  squarci)  della  divina  e  necessarissima  arte 
del  bene  scrivere  e  padroneggiare  la  mia  propria  lingua.  Il  tutto 
poi  si  ravviluppava  nell' indurita  scorza  di  una  presunzione,  o 
per  dir  meglio,  petulanza  incredibile,  e  di  un  tale  impeto  di  ca- 
rattere, che  non  mi  lasciava,  se  non  se  a  stento  e  di  rado  e  fre- 
mendo, conoscere,  investigare,  ed  ascoltare  la  verità.  Capitali 
come  ben  vede  il  lettore,  più  adatti  assai  per  estrarne  un  cattivo 
e  volgare  principe,  che  non  un  autor  luminoso  \ 

Ma  pure  una  tale  segreta  voce  mi  si  facea  udire  in  fondo  del 
cuore,  ammonendomi  in  suono  anche  più  energico  che  noi  fa- 
ceano  i  miei  pochi  veri  amici:  E'  ti  convien  di  necessità  retro- 
cedere, e  per  così  dir,  rimbambire,  studiando  ex  professo  da  capo 
la  grammatica,  e  susseguentemente  tutto  quel  che  ci  vuole  per 
sapere  scrivere  correttamente  e  con  arte.  E  tanto  gridò  questa 
voce,  eh'  io  finalmente  mi  persuasi  e  chinai  il  capo  e  le  spalle. 
Cosa  oltre  ogni  dire  dolorosa  e  mortificante,  nell'età  in  cui  mi 
trovava,  pensando  e  sentendo  come  uomo,  di  dover  pure  ristu- 
diare, e  ricompitare  come  ragazzo.  Ma  la  fiamma  di  gloria  sì 
avvampante  mi  tralucea,  e  la  vergogna  dei  recitati  spropositi  sì 
fortemente  incalzavamiper  essermi  quando  che  fosse  tolta  di  dosso, 
ch'io  a  poco  a  poco  mi  accinsi  ad  affrontare  e  trionfare  di  co^ 
desti  possenti  non  meno  che  schifosi  ostacoli. 

La  recita  della  Cleopatra  mi  avea,  come  dissi,  aperio  gli  occhi, 
e  non  tanto  sul  demerito  intrinseco  di  quel  tema  per  sé  stesso 
infelice,  e  non  tragediabile  da  chi  che  si  fosse»,  non  che  da  un  ine- 
sperto autore  per  primo  suo  saggio;  ma  me  gli  avea  anco  spa- 
lancati a  segno  di  farmi  ben  bene  osservare  in  tutta  la  sua  im- 
mensità lo  spazio  che  mi  conveniva  percorrere  all' indietro,  prima 
di  potermi,  per  così  dire,  ricollocare  alle  mosse,  rientrare  nell'a- 
ringo, e  spingermi  con  maggiore  o  minor  fortuna  verso  la  meta. 
Cadutomi  dunque  pienamente  dagli  occhi  quel  velo  che  fino  a 
quel  punto  me  gli  avea  sì  fortemente  ingombrati,  io  feci  con  me 
stesso  un  solenne  giuramento:  Che  non  rispamiierei  oramai  né 
fatica  né  noja  nessuna  per  mettermi  in  grado  di  sapere  la  mia 
lingua  quant'uomo  d'Italia.  E  a  questo  giurameftto  m'indussi, 
perchè  mi  parve,  che  se  io  mai  potessi  giungere  una  volta  al  ben 

>  Illustre. 

«  V.  il  Sentimento  dell'autore  sulla  tragedia  Antonio  e  Cleopatra,  edito 
dal  Milanesi  colle  Tragedie,  Firenze,  1866,  v.  II,  p.  565. 


■La  vita  155 

dire,  non  mi  dovrebbero  mai  poi  mancare  né  il  ben  ideare,  né 
il  ben  comporre.  Fatto  il  giuramento,  mi  inabissai  nel  vortice 
grammatichevole,  come  già  Curzio  *  nella  voragine,  tutto  armato, 
e  guardandola.  Quanto  piìi  mi  trovava  convinto  di  aver  fatto 
male  ogni  cosa  sino  a  quel  punto,  altrettanto  mi  andava  tenendo 
per  certo  di  poter  col  tempo  far  meglio  ;  e  ciò  tanto  piìi  tenen- 
done quasi  una  prova  evidente  nel  mio  scrigno.  E  questa  prova 
erano  le  due  tragedie,  il  Filippo,  ed  il  Poiini/:t,  le  quali  già  tra 
il  marzo  e  il  maggio  di  quell'anno  stesso  1775,  cioè  tre  mesi  circa 
prima  che  si  recitasse  la  Cleopatra,  erano  state  stese  da  me  in 
prosa  francese  ;  e  parimente  lette  da  me  ad  alcuni  pochi,  mi  era 
sembrato  che  ne  fossero  rimasti  colpiti.  Né  mi  era  persuaso  di 
quest'effetto  perché  me  l'avessero  piìi  o  meno  lodate;  ma  per 
l'attenzione  non  finta  né  comandata,  con  cui  le  aveano  di  capo  in 
fondo  ascoltate,  e  perché  i  taciti  moti  dei  loro  commossi  aspetti 
mi  parvero  dire  assai  più  che  le  loro  parole.  Ma  per  mia  somma 
disgrazia,  quali  che  si  fossero  quelle  due  tragedie,  elle  si  trova- 
vano concepite  e  nate  in  prosa  francese,  onde  rimanea  loro  lunga 
e  difficile  via  da  calcarsi,  prima  ch'elle  si  trasmutassero  in  poesia 
italiana.  E  in  codesta  spiacevole  e  meschina  lingua  le  aveva  io 
stese,  non  g^ià  perchè  io  la  sapessi,  né  punto  ci  pretendessi,  ma 
perché  in  quel  gergo  da  me  per  quei  cinque  anni  di  viaggio 
esclusivamente  parlato  e  sentito,  io  mi  veniva  a  spiegare  un  po' 
piti,  ed  a  tradire  un  po'  meno  il  pensiere  mio;  che  sempre  pur 
mi  accadeva  per  via  di  non  saper  nessuna  lingua  ciò  che  acca- 
derebbe  ad  un  volante'  dei  sommi  d' Italia,  che  trovandosi  infermo, 
e  sognando  di  correre  a  competenza  de'  suoi  eguali  o  inferiori, 
nuU'altro  gli  mancasse  ad  ottener  la  vittoria  se  non  se  le  gambe. 
E  questa  impossibilità  di  spiegarmi,  e  tradurre  me  stesso,  non 
che  in  versi  ma  anche  in  prosa  italiana,  era  tale,  che  quando  io 
rileggeva  un  atto,  una  scena,  di  quelle  ch'eran  piaciute  ai  miei 
ascoltatori,  nessuno  d'essi  le  riconosceva  piti  per  le  stesse,  e  mi 
domandavano  sul  serio,  perché  l'avessi  mutate:  tanta  era  l'in- 
fluenza dei  cangiati  abiti  e  panneggiamenti  alla  stessa  figura, 
ch'ella  non  era  più  né  conoscibile,  né  sopportabile.  Io  mi  arrab- 
biava e  piangeva  :  ma  invano.  Era  forza  pigliar  pazienza,  e  rifare  : 

I  II  leegendarìo  patrizio  romano  che  ti  ucrlficò  alla  grandezza  della 
patria. 

«  S«rvo  che  di  notte  teguiva  o  precedeva,  correndo  a  piedi,  le  carrozze, 
portando  una  fiaccola. 


156  Vittorio  Alfieri 

ed  intanto  ingoiarmi  le  più  insulse  e  antitragiche  letture  dei  nostri 
testi  di  lingua  per  invasarmi  di  modi  toscani;  e  direi  (se  non 
temessi  la  sguaiataggine  dell'espressione),  in  due  parole  direi  che 
mi  conveniva  tutto  il  giorno  spensare  per  poi  ripensare. 

Tuttavia,  l'aver  io  quelle  due  tragedie  future  nello  scrigno,  mi 
faceva  prestare  alquanto  più  pazientemente  l'orecchio  agli  avvisi 
pedagogici,  che  d'ogni  parte  mi  pioveano  addosso.  E  parimente 
quelle  due  tragedie  mi  aveano  prestata  la  forza  necessaria  per 
ascoltare  la  recita  a'  miei  orecchi  sgradevolissima  della  Cleopatra, 
che  ogni  verso  che  pronunziava  l'attore  mi  risuonava  nel  core 
come  la  più  amara  critica  dell'opera  tutta,  la  quale  già  fin  d'al- 
lora era  divenuta  un  nulla  ai  miei  occhi  ;  né  la  considerava 
per  altro,  se  non  se  come  lo  sprone  dell'altre  avvenire.  Onde, 
siccome  non  mi  avvilirono  punto  le  critiche  (forse  giuste  in  parte, 
ma  più  assai  maligne  ed  indotte)  che  mi  furono  poi  fatte  su  le 
tragedie  della  mia  prima  edizione  di  Siena  del  1783';  così  per 
l'appunto  nulla  affatto  m'insuperbirono,  né  mi  persuasero,  quegli 
ingiusti  e  non  meritati  applausi  che  la  platea  dì  Torino,  mossa 
forse  a  compassione  della  mia  giovenile  fidanza  e  baldanza,  mi 
volle  pur  tributare.  Primo  passo  adunque  verso  la  purità  toscana 
essere  doveva,  e  lo  fu,  di  dare  interissimo  bando  ad  ogni  qua- 
lunque lettura  francese.  Da  quel  luglio  in  poi  non  volli  più  mai 
proferire  parola  di  codesta  lingua,  e  mi  diedi  a  sfuggire  espres- 
samente ogni  persona  e  compagnia  da  cui  si  parlasse.  Con  tutti 
questi  mezzi  non  veniva  perciò  a  capo  d'italianizzarmi.  Assai 
male  mi  piegava  agli  studi  gradati  e  regolati  ;  ed  essendo  ogni 
terzo  giorno  da  capo  a  ricalcitrare  contro  gli  ammonimenti,  io 
andava  pur  sempre  ritentando  di  svolazzare  coll'ali  mie.  Perciò, 
ogni  qualunque  pensiero  mi  cadesse  nella  fantasia,  mi  provava 
di  porlo  inversi;  ed  ogni  genere,  ed  ogni  metro  andava  tasteg- 
giando, ed  in  tutti  io  mi  fiaccava  le  corna  e  l'orgoglio,  ma  l'osti- 
nata speranza  non  mai.  Tra  l'altre  di  queste  rimerie  (che  poesie 
non  ardirò  di  chiamarle)  una  me  ne  occorse  di  fare,  da  essere  da 
me  cantata  ad  un  banchetto  di  liberi  muratori  2.  Era  questa,  o 
dovea  essere  un  capitolo  allusivo  ai  diversi  utensili  e  gradi  e  offi- 

>  Cfr.  E.  Bkrtana,  Sulla  pubblicazione  delle  prime  dieci  tragedie  del- 
l'Alfieri, in  Raccolta  di  studi  critici  dedicata  ad  A.  D'Ancona,  Firenze, 
1901,  pp.  59  sgg. 

'  Per  la  diffusione  della  Massoneria  nella  seconda  metà  del  secolo  XVIII 
cfr.  O.  Dito,  Massoneria,  Carboneria  ed  altre  società  segrete,  Torino,  1905. 


La  vita  157 

ciali  di  questa  buffonesca  società.  E  benché  io  nel  primo  sonetto 
quassù  trascritto  avessi  rubato  un  verso  del  Petrarca  dai  suoi 
capitoli;  con  tutto  ciò,  tanta  era  la  mia  disattenzione  e  ignoranza, 
che  allora  cominciai  questo  mio  senza  più  ricordarmi,  o  noji  l'a- 
vendo forse  mai  bene  osservata,  la  regola  delle  terzine;  e  così 
me  la  proseguii  sbagliando  sino  alla  duodecima  terzina;  dove 
essendomene  nato  il  dubbio,  aperto  Dante,  conobbi  l'errore,  e  lo 
corressi  in  appresso,  ma  lasciai  le  dodici  terzine  com'elle  stavano; 
e  cosi  le  cantai  al  banchetto  ;  ma  quei  liberi  muratori  tanto  inten- 
devan  di  rime  e  di  poesia,  quanto  dell'arte  di  fabbricare;  e  il 
mio  capitolo  passò.  Per  ultima  prova  e  saggjio  degli  infruttuosi 
miei  sforzi,  trascriverò  ancora  qui,  o  gran  parte,  o  tutto  forse  quel 
capitolo;  secondo  che  mi  basterà  la  carta,  e  la  pazienza'. 

Verso  l'agosto  di  quell'anno  stesso  75,  credendomi  far  vita  troppo 
dissipata  stando  in  città,  e  non  potere  perciò  studiare  abbastanza, 
me  n'andai  nei  monti  che  confinano  tra  il  Piemonte  e  il  Delfinato, 
e  passai  quasi  due  mesi  in  un  borguccio,  chiamato  Cezannes  a' 
piedi  del  Monginevro,  dove  è  fama  che  Annibale  varcasse  l'Alpi. 
Io  benché  riflessivo  per  natura,  talvolta  pure  sconsiderato  per 
impeto,  non  riflettei  nel  prendere  quella  risoluzione,  che  in  quei 
monti  mi  tornerebbe  fra  i  piedi  la  maladettissima  lingua  francese, 
che  con  si  giusta  e  necessaria  ostinazione  io  m'era  proposto  di 
sfuggir  sempre.  Ma  a  questo  mi  indusse  quell'abate,  ch'io  dissi 
mi  avea  accompagnato  in  quel  viaggio  ridicolo  fatto  l'anno  in- 
nanzi a  Firenze.  Era  quest'abate  nativo  di  Cfzannes;  eh iamavasi 
Aillaud;  era  pieno  d'ingegno,  di  una  lieta  filosofia,  e  di  molta 
coltura  nella  letteratura  latina  e  francese.  Egli  era  stato  aio  di 
due  fratelli  coi  quali  io  m'era  trovato  assai  collegato  nella  prima 
gioventù,  ed  allora  aveamo  fatto  amicizia  l'Aillaud  ed  io;  e  con- 
tinuatala dappoi.  Debbo  dire  pel  vero,  che  codesto  abate  ne' 
miei  primi  anni  avea  fatto  il  possibile  per  ispirarmi  l'amore  delle 
lettere,  dicendomi  che  ci  avrei  potuto  riuscire;  ma  il  tutto  invano. 
E  alle  volte  si  era  fatto  fra  noi  il  seguente  risibile  patto:  Ch'egli 
mi  dovrebbe  leggere  per  un'ora  intera  del  romanzo,  o  novelliere, 
intitolato  Les  Mille  et  une  Nuits,  con  che  poi  io  mi  sottomet- 
tessi a  sentirmi  leggere  per  soli  dieci  minuti  uno  squarcio  delle 
tragedie  di  Racine.  Ed  io  me  ne  stavo  tutto  orecchi  nel  tempo  di 
quella  prima  insulsa  lettura,  e  mi  addormentava  poi  al  suono  dei 

>  V.  Appendice.  ,     /.• 


158  ViUorio  Alfieri 

dolcissimi  versi  di  quel  gran  tragico  ;  cosa  di  cui  l'Aillaud  arrab- 
biava, e  vituperavami,  con  gran  ragione.  Questa  era  la  mia  dispo- 
sizione a  diventar  tragico,  quando  stava  nel  primo  appartamento 
della  reale  Accademia.  Ma  neppur  dappoi  ho  potuto  ingoiar  mai 
la  cantilena  metodica  muta  e  gelidissima  dei  versi  francesi,  che 
non  mi  sono  sembrati  mai  versi;  né  quando  non  mi  sapea  che 
cosa  si  fosse  un  verso,  né  quando  poi  mi  parve  di  saperlo. 

Torno  a  quel  mio  ritiro  estivo  in  Cezannes,  dove,  oltre  l'abate 
letterato,  aveva  anche  meco  un  abate  citarista,  che  m'insegnava 
suonar  la  chitarra,  stromento  che  mi  parea -inspirare  poesia,  e 
pel  quale  una  qualche  disposizione  avea;  ma  non  poi  la  stabile 
volontà,  che  si  agguagliasse  al  trasporto  che  quel  suono  mi  ca- 
gionava. Onde  né  in  questo  stromento^  né  sul  cimbalo,  che  da 
giovane  avea  imparato,  non  ho  mai  ecceduta  la  mediocrità,  an- 
corché l'orecchio  e  la  fantasia  fossero  in  me  musichevoli  nel 
sommo  grado.  Passai  così  quell'estate  fra  codesti  due  abati,  di 
cui  l'uno  mi  sollevava  dalla  angoscia  per  me  sì  nuova  (dell'ap- 
plicar seriamente  allo  studio)  col  suonarmi  la' cetra;  l'altro  poi 
mi  facea  dar  al  diavolo  col  suo  francese.  Con  tutto  ciò  delizio- 
sissimi momenti  mi  furono,  ed  utilissimi,  quelli  in  cui  mi  venne 
pur  fatto  di  raccogliermi  in  me  stesso,  e  di  lavorare  efficacemente 
a  disrugginire  il  mio  povero  intelletto,  e  dischiudere  nella  memoria 
le  facoltà  dell'  imparare,  le  quali  oltre  ogni  credere  mi  si  erano 
oppilate^  in  quei  quasi  dieci  anni  continui  d'incallimento  nel  più 
vituperoso  letargico  ozio.  Subito  mi  accinsi  a  tradurre  o  ridurre 
in  prosa  e  frase  italiana  quel  Filippo  e  quel  Polinice,  nati  in  veste 
spuria.  Ma,  per  quanto  mi  ci  arrovellassi,  quelle  due  tragedie 
mi  rimanevano  pur  sempre  due  cose  anfibie,  ed  erano  tra  il  fran- 
cese e  l'italiano  senza  essere  né  l'una  cosa  né  l'altra;  appunto 
come  dice  il  poeta  nostro  della  carta  avvampante: 

Un  color  bruno, 

Che  non  è  nero  ancora,  e  il  bianco  muore. 

In  quest'angoscia  di  dover  fare  versi  italiani  di  pensieri  francesi 
mi  era  già  travagliato  aspramente  anche  nel  rifare  la  terza  Cleo- 
patra', talché  alcune  scene  di  essa,  ch'io  avea  stese  e  poi  lette 
in  francese  al  mio  censor  tragico  e  non  grammatico,  al  conte 
Agostino  Tana,  e  ch'egli  avea  trovate  forli,  e  bellissime,  tra  cui 
quella  d'Antonio  con  Augusto,  allorché  poi  vennero  trasmutate 

>  Ostruite. 


La  vita  159 

ne'  miei  versacci  poco  italiani,  slombati,  facili  e  cantanti,  esse  gli 
comparvero  una  cosa  men  che  mediocre;  e  me  lo  disse  chiara- 
mente; ed  io  lo  credei  ;  e  dirò  di  pivi,  che  lo  sentii  anche  io.  Tanto 
è  pur  vero  che  in  ogni  poesia  il  vestito  fa  la  metà  del  corpo,  ed 
in  alcune  (come  nella  lirica)  l'abito  fa   il   tutto:   a   segno  che 

alcuni  versi 

Con  la  lor  vanità  che  par  persona 

trionfano  di  parecchi  altri  in  cui 

Fosser  gemme  legate  in  vile  anello. 

E  noterò  pure  qui,  che  sì  al  padre  Paciaudi,  che  al  conte  Tana, 
e  principalmente  a  questo  secondo,  io  professerò  eternamente  una 
riconoscenza  somma  per  le  verità  che  mi  dissero,  e  per  avermi  a 
viva  forza  fatto  rientrare  nel  buon  sentiero  delle  sane  lettere. 
E  tanta  era  in  me  la  fiducia  in  questi  due  soggetti,  che  il  mio 
destino  letterario  è  stato  interamente  ad  arbitrio  loro;  ed  avrei 
ad  ogni  lor  minimo  cenno  buttata  al  fuoco  ogni  mia  composi- 
zione che  avessero  biasimata,  come  feci  di  tante  rime,  che  altra 
correzione  non  meritavano.  Sicché,  se  io  ne  sono  uscito  poeta, 
mi  debbo  intitolare,  per  grazia  di  Dio,  e  del  Paciaudi,  e  del  Tana. 
Questi  furono  i  miei  santi  protettori  nella  feroce  continua  bat- 
taglia in  cui  mi  convenne  passare  p^r  ben  tutto  il  primo  anno  della 
mia  vita  letteraria,  di  sempre  dar  la  caccia  alle  parole  e  forme 
francesi,  di  spogliare  per  dir  così  le  mie  idee  per  rivestirle  di 
nuovo  sotto  altro  aspetto,  di  riunire  in  somma  nello  stesso  punto 
lo  studio  d'un  uomo  maturissimo  con  quello  di  un  ragazzaccio 
alle  prime  scuole.  Fatica  indicibile,  ingratissima,  e  da  ributtare 
chiunque  avesse  avuto  (ardirò  dirlo)  una  fiamma  minor  della  mia. 
Tradotte  dunque  in  mala  prosa  le  due  tragedie,  come  dissi,  mi 
posi  all'impresa  di  leggere  e  studiare  verso  a  verso  per  ordine 
d'anzianità  tutti  i  nostri  poeti  primari,  e  postillarli  in  margine, 
non  di  parole,  ma  di  uno  o  più  tratticelli  perpendicolari  ai  versi; 
per  accennare  a  me  stesso  se  più  o  meno  mi  andassero  a  genio 
quei  pensieri,  o  quelle  espressioni,  o  quei  suoni.  Ma  trovando  a 
bella  prima  Dante  riuscirmi  pur  troppo  difficile,  cominciai  dal 
Tasso,  che  non  avea  mai  neppure  aperto  fino  a  quel  punto.  Ed 
io  leggeva  con  sì  pazza  attenzione,  volendo  osservar  tante  e  sì 
diverse  e  sì  contrarie  cose,  che  dopo  dieci  stanze  non  sapea  più 
quello  ch'io  avessi  letto,  e  mi  trovava  essere  più  stanco  e  rifinito 
assai  che  se  le  avessi  io  stesso  composte.  Ma  a  poco  a  poco  mi 


160  Vittorio  Alfieri 

andai  formando  e  l'occhio  e  la  mente  a  quel  faticosissimo  genere 
di  lettura  ;  e  così  tutto  il  Tasso,  la  Qerusalemme  ;  poi  l'Ariosto, 
//  Furioso  ;  poi  Dante  senza  commenti,  poi  il  Petrarca,  tutti  me 
li  invasai  d'un  fiato  postillandoli  tutti,  e  v'impiegai  forse  un 
anno.  Le  difficoltà  di  Dante,  se  erano  istoriche,  poco  mi  curava 
di  intenderle,  se  di  espressione,  di  modi,  o  di  voci,  tutto  faceva 
per  superarle  indovinando  ;  ed  in  molte  non  riuscendo,  le  poche 
ch'io  vinceva  mi  insuperbivano  tanto  più.  In  quella  prima  let- 
tura io  mi  cacciai  piuttosto  in  corpo  un'  indigestione  che  non  una 
vera  quintessenza  di  quei  quattro  gran  luminari  ;  ma  mi  preparai 
così  a  ben  intenderli  poi  nelle  letture  susseguenti,  a  sviscerarli, 
gustarli,  e  forse  anche  rassomigliarli'.  Il  Petrarca  però  mi  riuscì 
ancor  più  difficile  che  Dante;  e  da  principio  mi  piacque  meno; 
perchè  il  sommo  diletto  dai  poeti  non  si  può  mai  estrarre,  finché 
si  combatte  coli'  intenderli.  Ma  dovendo  io  scrivere  in  verso  sciolto, 
anche  di  questo  cercai  di  formarmi  dei  modelli.  Mi  fu  consigliata 
la  traduzione  di  Stazio  del  Bentivoglio  *.  Con  somma  avidità  la 
lessi,  studiai,  e  postillai  tutta  ;  ma  alquanto  fiacca  me  ne  parve  la 
struttura  del  verso  per  adattarla  al  dialogo  tragico.  Poi  mi  fecero 
i  miei  amici  censori  capitare  alle  mani  VOssian  del  Cesarotti';  e 
questi  furono  i  versi  sciolti  che  davvero  mi  piacquero,  mi  colpi- 
rono e  m'invasarono.  Questi  mi  parvero,  con  poca  modificazione, 
un  eccellente  modello  pel  verso  di  dialogo.  Alcune  altre  tragedie 
o  nostre  italiane,  o  tradotte  dal  francese,  che  io  volli  pur  leggere 
sperando  d'impararvi  almeno  quanto  allo  stile,  mi  cadevano  dalle 
mani  per  la  languidezza,  trivialità,  e  prolissità  dei  modi  e  del 
verso,  senza  parlare  poi  della  snervatezza  dei  pensieri.  Tra  le 
men  cattive  lessi  e  postillai  le  quattro  traduzioni  del  Paradisi  dal 
francese*,  e  la  Merope  originale  del  Maffei.  E  questa,  a  luoghi  mi 
piacque  bastantemente  per  lo  stile,  ancorché  mi  lasciasse  pur 
tanto  desiderare  per  adempirne  la  perfettibilità,  o  vera,  o  sognata, 
ch'io  me  n'andava  fabbricando  nella  fantasia.  E  spesso  andava 
interrogando  me  stesso:  Or,  perché  mai  questa  nostra  divina 
lingua,  sì  maschia  anco  ed  energica  e  feroce  in  bocca  di  Dante, 
dovrà  ella  farsi  così  sbiadata  ed  eunuca  nel  dialogo  tragico? 
Perchè  il  Cesarotti,  che  sì  vibratamente  verseggia  ntWOssian, 
cosi  fiaccamente  poi  sermoneggia  nella  Semiramide  e  nel  Mao- 

1  Imitarli,  uguagliarli. 

*  Il  cardinale  Cornelio  Bentivoglio  d'Aragona  (1668-1732). 

»  Cfr.  Epoca,  III,  cap.  Vili. 

«  Scelta  di  etctllenti  tragedie  francesi  tradotte,  Liegi  [Modena],  1764. 


La  vita  161 

metto  del  Voltaire  da  esso  tradotte?  Perchè  quel  pomposo  galleg- 
giante scioltista  caposcuola,  il  Frugoni,  nella  sua  traduzione  del 
Radamisto  del  Crebillon  \  è  egli  sì  immensamente  minore  del  Cre- 
billon  e  di  sé  medesimo?  Certo,  ogni  altra  cosa  ne  incolperò  che 
la  nostra  pieghevole  e  proteiforme  favella.  E  questi  dubbi  eh'  io 
proponeva  ai  miei  amici  e  censori,  nissuno  me  li  sciogliea.  L'ot- 
timo Paciaudi  mi  raccomandava  frattanto  di  non  trascurare  nelle 
mie  laboriose  letture  la  prosa,  ch'egli  dottamente  denominava  la 
nutrice  del  verso.  Mi  sovviene  a  questo  proposito,  che  un  tal 
giorno  egli  mi  portò  il  Galateo  del  Casa,  raccomandandomi  di 
ben  meditarlo  quanto  ai  modi,  che  certo  ben  pretti  toscani  erano, 
ed  il  contrario  d'ogni  franceseria.  Io,  che  da  ragazzo  lo  aveva 
(come  abbiam  fatto  tutti)  maledetto,  poco  inteso,  e  niente  gfusta- 
tolo,  mi  tenni  quasi  offeso  di  questo  puerile  o  pedantesco  con- 
siglio. Onde,  pieno  di  mal  talento  contro  quel  Galateo,  lo  apersi. 
Ed  alla  vista  di  quel  primo  Conciossiacosaché,  a  cui  poi  si  accoda 
quel  lungo  periodo  cotanto  pomposo  e  sì  poco  sugoso,  mi  prese 
un  tal  impeto  di  collera,  che  scagliato  per  la  finestra  il  libro,  gridai 
quasi  maniaco:  *  Ella  è  pur  dura  e  stucchevole  necessità,  che  per 
€  iscrivere  tragedie  in  età  di  venzett'anni  mi  convenga  ingoiare 
«  di  nuovo  codeste  baie  fanciullesche,  e  prosciugarmi  il  cervello 
«  con  sì  fatte  pedanterie  ».  Sorrise  di  questo  mio  poetico  inedu- 
cato furore  ;  e  mi  profetizzò  che  io  leggerei  poi  il  Galateo,  e  più 
d'una  volta.  E  così  fu  infatti;  ma  parecchi  anni  dopo,  quando 
poi  mi  era  ben  bene  incallite  le  spalle  ed  il  collo  a  sopportare 
il  gioco  grammatico.  E  non  il  solo  Galateo,  ma  presso  che  tutti 
quei  nostri  prosatori  del  trecento,  lessi  e  postillai  poi,  con  quanto 
frutto,  noi  so.  Ma  fatto  si  è,  che  chi  gli  avesse  ben  letti  quanto 
ai  lor  modi,  e  fosse  venuto  a  capo  di  prevalersi  con  giudizio  e 
destrezza  dell'oro  dei  loro  abiti,  scartando  i  cenci  delle  loro  idee, 
quegli  potrebbe  poi  ne'  suoi  scritti  si  filosofici  che  poetici,  o  isto- 
rici, o  d'altro  qualunque  genere,  dare  una  ricchezza,  brevità,  pro- 
prietà, e  forza  di  colorito  allo  stile  di  cui  non  ho  visto  finora  nessuno 
scrittore  italiano  veramente  andar  corredato.  Forse,  perchè  la  fa- 
tica è  ìmproba;  e  chi  avrebbe  l' ingegno  e  la  capacità  di  sapersene 
giovare,  non  la  vuol  fare,  e  chi  non  ha  questi  dati',  la  fa  invano. 

>  Prospero  Crebillon  (1674-1762),  poeta  tragico  francese,  padre  del  più 
■oto  romanziere  Claudio  (1707-1777). 
«  Requisiti,  doti.  

11.        CUtS'.fcì  Ita'!   -•    •>'    7 


162  Vittorio  Alfieri 


APPENDICE 


CAPITOLO  PRIMO 

Cetra,  che  a  mormorar  soltanto  avvezza, 
Indagasti  finor  spietatamente 
I  vizj,  e  n'hai  dimostra  la  laidezza; 

Tu  che  in  mano  ad  un  vate  impertinente 
Che  le  pubbliche  risa  nulla  apprezza, 
Benché  stolta,  credesti  esser  sapiente, 

E  di  che  canterai,  e  con  qual  fronte? 
Infra  uno  stuol  sì  venerando  e  augusto  ? 
Tu  che  neppur  vedesti  il  sacro  fonte. 

O  temeraria  cetra;  e  vuoi  dar  gusto 
Cicalando  di  cose  a  te  mal  conte 
Sacre  al  gelido  Scita  e  al  Libio  adusto  ? 

Chi  condottier  ti  fora  all'alta  impresa  ? 
Nelle  Muse  non  spera;  a  te  già  sorde 
S'armerebbero  in  van  per  tua  difesa. 

Rompi,  stritola,  o  abbrucia  le  tue  corde 
Se  da  fuoco  divin  non  vieni  accesa  ; 
Deluderai  così  le  Parche  ingorde. 

Quanti  Numi  in  inferno,  o  in  cielo,  o  in  onda 
I  favolosi  Greci  un  dì  creare, 
Tutti  forano  vani,  ognun  si  asconda. 

Tu,  chi  invocar  non  sai;  io  te  l'imparo: 
Inalza  il  voi  dalla  terrena  sponda. 
Scorgi  un  Nume  maggior,  e  a  noi  più  caro. 

Il  supremo  Fattor  dell'orbe  intero 
Rimira,  e  poi  impallidisci,  e  trema, 
E  se,  tant'osi,  a  luì  richiedi  il  vero. 

Per  lui  fia  in  te  già  l'ignoranza  scema 
Egli  ti  additi  il  murator  primiero. 
Del  grand' Ordine  infin  l'origo  estrema. 

E  se  pur  ti  svelasse  un  tanto  arcano, 
Avresti  tu  sì  nobili  concetti 
E  ad  inalzare  il  voi  bastante  mano? 

Ah  scusatela  sì,  fratei  diletti, 
Non  ragiona  l'insana,  oppur  delira 
Quando  canta  di  voi  con  versi  inetti. 

Cetra,  di  già  tu  m'hai  destato  all'ira. 
Taci,  rispetta,  credi,  e  umil  t'inchina. 
Tanto  e  non  piti  concede  or  chi  t'inspira. 


La  vita  163 

Tu  cantar  de'  misteri,  tu  meschina  ? 

Che  la  semplice  Loggia,  e  quanto  accfiiude. 

Mal  descriver  sapresti,  ahi  poverina  ! 
Di  quel  raggio  d'angelica  virtude. 

Che  in  viso  al  Venerabile  sfavilla, 

Come  cantar  con  le  tue  voci  crude  ? 
Come,  quella  di  noi  dolce  pupilla. 

Il  Primo  Vigilante,  in  cui  s'arresta 

Quando  emana  dal  Trono  ogni  scintilla  ? 
Come  il  Secondo,  che  la  Loggia  assesta 

Colla  fida  presenza,  ed  implorato 

Di  avvicinarci  al  Trono,  a  ciò  s'appresta  ? 
Come  di  quei  che  al  gran  Maestro  a  lato 

Siedono  maestosi  Consiglieri, 

Che  il  tempo  infra  i  Misterj  han  consumato  ? 
Come,  di  quei  ch'armato  il  braccio,  e  fieri 

Ai  Profani  vietando  ognor  l'ingresso 

Oiustamente  sen  van  di  tanto  altieri  ? 
Come,  di  quel  che  all'opra  si  indefesso. 

Necessario  Censor,"vi  molce  e  accheta, 

E  sì  nobile  esempio  dà  lui  stesso  ? 
Come,  di  quel  che  nella  sterìl  meta 

Di  vane  Cerimonie  a  cui  presiede 

N'  adempisce  il  dover  con  faccia  lieta  ? 
Come,  di  quel,  cui  l' instancabil  piede, 

(A  noi  non  Servo,  ma  Fratel  diletto) 

La  lautissima  mensa  oggi  provvede  ? 
Come  di  quel  che  con  sì  dolce  affetto 

Serve  e  v'illustra  con  la  penna  arguta 

Secretaro  gentile,  a  tutti  accetto  ?  — 
Cetra,  ti  veggo  già  stupida  e  muta 

Se  intraprendi  parlar  del  Sacro  Quadro 

Che  i  Profani  in  Fratelli  ci  commuta. 
Che  diresti  tu  poi  di  quel  leggiadro 

Baldacchin  del  Maestro,  il  quale  al  cielo 

Di  coprirlo  divieta,  invido  ladro  ? 
Fora  Inutile,  e  stolto  anche  il  tuo  zelo. 

Se  facci-^gessi  a  dir  dell'alma  Stella, 

Cui  più  lucido  il  Mastro  oggi  dà  velo. 
L'emblematica  ancor  Trina  Facella, 

E  le  Sante  Colonne,  e  il  Tempio  antico, 

Richiederìan  piìi  nobile  favella. 
Dunque  taci,  balorda,  io  tei  ridico; 

E  tei  dicono  pure  a  un  tempo  istesso 

Color  che  l'Architetto  han  per  amico. 
Se  d'arrossir  ti  fora  ancor  concesso, 

Pensando  solo  alla  scabrosa  impresa. 

Cetra,  davver  tu  arrossiresti  adesso. 

E  qui  finiva  questa  etema  invocazione  alla  Cetra,  la  quale  rispondeva  da 
par  sua.  Strano  è  che  fatti  tanti  Versi  inutili,  non  ve  ne  aggiungessi  uno 
in  line  necessario,  per  chiudere  il  Capitolo  con  la  rima  secondo  le  regole. 
Ma  ninna  regola  mi  s'era  a.nTr  fitta  in  capo. 


164  Vittorio  Al/Uri 


CAPITOLO  SECONDO 

Rimessomi  sotto  il  pedagogo  a  spiegare  Orazio. 
Primo  viaggio  letterario  in  Toscana. 

Verso  il  principio  dell'anno  76,  trovandomi  già  da  sei  e  più 
mesi  ingolfato  negli  studii  italiani,  mi  nacque  una  onesta  e  cocente 
vergogna  di  non  più  intendere  quasi  affatto  il  latino  ;  a  segno 
che,  trovando  qua  e  là,  come  accade,  delle  citazioni,  anco  le  più 
brevi  e  comuni,  mi  trovava  costretto  di  saltarle  a  pie  pari,  pei 
non  perder  tempo  a  diciferarle.  Trovandomi  inoltre  inibita  ogni 
lettura  francese,  ridotto  al  solo  italiano,  io  mi  vedeva  affatto  prive 
d'ogni  soccorso  per  la  lettura  teatrale.  Questa  ragione,  aggiun- 
tasi al  rossore,  mi  sforzò  ad  intraprendere  questa  seconda  fatica, 
per  poter  leggere  le  tragedie  di  Seneca \  di  cui  alcuni  sublim; 
tratti  mi  aveano  rapito;  e  leggere  anche  le  traduzioni  Ietterai 
latine  dei  tragici  greci,  che  sogliono  essere  più  fedeli  e  meno  te 
diose  di  quelle  tante  italiane  che  sì  inutilmente  possediamo.  M 
presi  dunque  pazientemente  un  ottimo  pedagogo,  il  quale  postom 
Fedro  in  mano,  con  molta  sorpresa  sua  e  rossore  mio,  vide  e  m 
disse  che  non  l'intendeva,  ancorché  l'avessi  già  spiegato  in  eti 
di  dieci  anni;  ed  in  fatti  provandomici  a  leggerlo  traducendok 
in  italiano,  io  pigliava  dei  grossissimi  granchi,  e  degli  sconc 
equivoci.  Ma  il  valente  pedagogo,  avuto  ch'egli  ebbe  così  ad  ur 
tempo  stesso  il  non  dubbio  saggio  e  della  mia  asinità,  e  della  m'u 
tenacissima  risoluzione,  m' incoraggi  molto,  e  in  vece  di  lasciarm 
il  Fedro  mi  diede  l'Orazio,  dicendomi  :  <  Dal  difficile  si  viene  a 
<  facile;  e  così  sarà  cosa  più  degna  di  lei..Facciamo  degli  spro 
€  positi  su  questo  scabrosissimo  principe  dei  lirici  latini  e  quest 
«ci  appianeran  la  via  per  scendere  agli  altri  ».  E  così  si  fece;  < 
si  prese  un  Orazio  senza  commenti  nessuni;  ed  io  spropositando 
costruendo,  indovinando,  tradussi  a  voce  tutte  l'Odi  dal  principic 
di  gennaio  a  tutto  il  marzo.  Questo  studio  mi  costò  moltissimi 
fatica,  ma  mi  fruttò  anche  bene,  poiché  mi  rimise  in  grammatici 
senza  farmi  uscire  di  poesia. 

1  Le  mediocri  ed  enfatiche  tragedie  che  vanno  sotto  il  nome  di  Seneci 
sono  generalmente  considerate  come  opera  del  filosofo  L.  Anneo  Sencci 
(2-66),  precettore  di  Nerone. 


La  vita  165 

In  quel  frattempo  non  tralasciava  però  di  leggere  e  postillare 
sempre  i  poeti  italiani,  aggiungendone  qualcuno  dei  nuovi,  come 
il  Poliziano,  il  Casa,  e  ricominciando  poi  da  capo  i  primarii;  tal- 
ché il  Petrarca  e  Dante  nello  spazio  di  quattr'anni  lessi  e  po- 
stillai forse  cinque  volte.  E  riprovandomi  di  tempo  in  tempo  a 
far  versi  tragici,  avea  già  verseggiato  tutto  il  Filippo.  Ma,  benché 
fosse  venuto  alquanto  men  fiacco  e  men  sudicio  della  Cleopatra, 
pure  quella  versificazione  mi  riusciva  languida,  prolissa,  fasti- 
diosa e  triviale.  Ed  in  fatti  quel  primo  Filippo,  che  poi  alla  stampa 
si  contentò  di  annoiare  il  pubblico  con  soli  1400  e  qualche 
versi,  nei  due  primi  tentativi  pertinacemente  volle  annoiare  e 
disperare  il  suo  autore  con  piìi  di  due  mila  versi,  in  cui  egli 
diceva  allora  assai  meno  cose,  che  nei  1400  dappoi. 

Quella  lungaggine  e  fiacchezza  di  stile,  ch'io  attribuiva  assai 
più  alla  penna  che  alla  mente  mia,  persuadendomi  finalmente 
ch'io  non  potrei  mai  air  bene  italiano  finché  andava  traducendo 
me  stesso  dal  francese,  mi  fece  finalmente  risolvere  di  andare  in 
Toscana  per  avvezzarmi  a  parlare,  udire,  pensare,  e  sognare  in 
toscano,  e  non  altrimenti  mai  più.  Partii  dunque  nell'aprile  del  76, 
coli' intenzione  di  starvi  sei  mesi,  lusingandomi  che  basterebbero 
a  disfranciosarmi.  Ma  sei  mesi  non  disfanno  una  triste  abitudine 
di  dieci  e  più  anni.  Avviatomi  alla  volta  di  Piacenza  e  di  Parma, 
me  n'andava  a  passo  tardo  e  lento,  ora  in  biroccio,  ora  a  cavallo, 
in  compagnia  dei  miei  poetini  tascabili,  con  pochissimo  altro  ba- 
gaglio, tre  soli  cavalli,  due  uomini,  la  chitarra,  e  le  molte  speranze 
della  futura  gloria.  Per  mezzo  del  Paciaudi  conobbi  in  Parma, 
in  Modena,  in  Bologna  e  in  Toscana,  quasi  tutti  gli  uomini  di 
un  qualche  grido  nelle  lettere.  E  quanto  io  era  stato  non  curante 
di  tal  mercanzia  ne'  miei  primi  viaggi;  altrettanto  e  più  era  poi 
divenuto  curioso  di  conoscere  i  grandi,  e  i  medi  in  qualunque 
genere.  Allora  conobbi  in  Parma  il  celebre  nostro  stampatore  Bo- 
doni',  e  fu  quella  la  prima  stamperia  in  cui  ponessi  mai  i  piedi, 
benché  fossi  stato  a  Madrid,  e  a  Birmingham,  dove  erano  le  due 
più  insigni  stamperie  d'  Europa,  dopo  il  Bodoni.  Talché  io  non 
aveva  mai  visto  un  a  di  metallo,  né  alcuno  di  quei  tanti  ordigni 
che  mi  doveano  poi  col  tempo  acquistare  o  celebrità  o  canzona- 
tura. Ma  certo  in  nessuna  più  augusta  officina  io  potea  mai  capi- 
tare per  la  prima  volta,  né  mai  ritrovare  un  più  benigno,  più 

'  O.  B.  Bodoni,  il  tipografo  piemontese  nato  a  Saluzzo  (1740-J813). 


166  Vittorio  Al/ieri 

esperto,  e  più  ingegnoso  espositore  di  quell'arte  maravigliosa 
che  il  Bodoni,  da  cui  tanto  lustro  e  accrescimento  ha  ricevuto  e 
riceve. 

Così  a  poco  a  poco  ogni  giorno  più  ridestandomi  dal  mio 
lungo  e  crasso  letargo,  io  andava  vedendo  e  imparando  (un  po' 
tardetto) assai  cose.  Ma  la  più  importante  si  era  per  m^,  ch'io 
andava  ben  conoscendo,  appurando  e  pesando  le  mie  facoltà  in- 
tettuali  letterarie,  per  non  isbagliar  poi,  se  poteva,  nella  scelta 
del  genere.  Né  in  questo  studio  di  me  medesimo  io  era  tanto 
novizio  come  negli  altri;  atteso  che  piuttosto  precedendo  l'età 
che  aspettandola,  io  fin  da  anni  addietro  avea  talvolta  impreso  a 
diciferare  a  me  stesso  la  mia  morale  entità;  e  l'avea  fatto  anche 
con  penna,  non  che  col  pensiero.  Ed  ancora  conservo  una  specie 
di  diario^  che  per  alcuni  mesi  avea  avuta  la  costanza  di  scrivere 
annoverandovi  non  solo  le  mie  sciocchezze  abituali  di  giorno  in 
giorno,  ma  anche  i  pensieri,  e  le  cagioni  intime  che  mi  faceano 
operare  o  parlare;  il  tutto  per  vedere,  se  in  così  appannato 
specchio  mirandomi,  il  migliorare  d'alquanto  mi  venisse  poi  a 
riuscire.  Avea  cominciato  il  diario  in  francese;  lo  continuai  in 
italiano,  non  era  bene  scritto  né  in  questa  lingua,  né  in  quella  ; 
era  piuttosto  originalmente  sentito  e  pensato.  Me  ne  stufai 
presto;  e  feci  benissimo;  perché  ci  perdeva  il  tempo  e  l'inchio- 
stro, trovandomi  essere  tuttavia  un  giorno  peggiore  dell'altro. 
Serva  questo  per  prova,  ch'io  poteva  forse  ben  per  l'appunto  co- 
noscere e  giudicare  la  mia  capacità  e  incapacità  letteraria  in  tutti 
i  suoi  punti.  Parendomi  dunque  oramai  discernere  appieno  tutto 
quello  che  mi  mancava  e  quel  poco  ch'io  aveva  in  proprio  dalla 
natura,  io  sottilizzava  anche  più  in  là  per  discernere  tra  le  parti 
che  mi  mancavano,  quali  fossero  quelle  che  mi  sarei  potute  ac- 
quistar nell'intero,  quali  a  mezzo  soltanto,  e  quali  niente  affatto. 
A  questo  sì  fatto  studio  di  me  stesso  io  forse  sarò  poi  tenuto  (se 
non  di  essere  riuscito)  di  non  avere  almeno  tentato  mai  nessun 
genere  di  composizione  al  quale  non  mi  sentissi  irresistibilmente 
spinto  da  un  violento  impulso  naturale;  impulso,  i  di  cui  getti 
sempre  poi  in  ogni  qualunque  bell'arte,  ancorché  l'opera  non 
riesca  perfetta,  si  distinguono  di  gran  lunga  dai  getti  dell'im- 
pulso comandato,  ancorché  potessero  pur  procreare  un'opera  in 
tutte  le  sue  parti  perfetta. 

>  I  Oiornall,  incominciati  nel  '74  e  ripresi  nel  '77, 


La  vita  lo7 

Giunto  in  Pisa,  vi  conobbi  tutti  i  più  celebri  professori,  e  ne 
andai  cavando  per  l'arte  mia  tutto  quell'utile  che  si  poteva. 
Nel  fregarmi  con  costoro,  la  piìi  disastrosa  fatica  eh  '  io  provassi, 
ell'era  d' interrogarli  con  quel  riguardo  e  destrezza  necessaria 
per  non  smascherar  loro  spiattellatamente  la  mia  ignoranza;  ed 
in  somma,  dirò  con  fratesca  metafora,  per  parer  loro  professo, 
essendo  tuttavìa  novizio*.  Non  già  ch'io  potessi  né  volessi  spac- 
ciarmi per  dotto  ;  ma  era  al  buio  di  tante  e  poi  tante  e  poi  tante 
cose,  che  coi  visi  nuovi  me  ne  vergognava;  e  pareami,  a  misura 
che  mi  si  andavano  dissipando  le  tenebre,  di  vedermi  sempre  piìi 
gigantesca  apparire  questa  mia  fatale  e  pertinace  ignoranza.  Ma 
non  meno  forse  gigantesco  era  e  facevasi  il  mio  ardimento. 
Quindi,  mentr'io  per  una  parte  tributava  il  dovuto  omaggio  al 
sapere  d'altrui,  non  mi  atterriva  punto  per  l'altra  il  mio  non 
sapere  ;  sentendomi  ben  convinto  che  al  far  tragedie  il  primo  sa- 
pere richiesto,  si  è  il  forte  sentire;  il  qual  non  s'impara.  Resta» 
vami  da  imparare  (e  non  era  certo  poco)  l'arte  di  fare  agli  altri 
sentire  quello  che  mi  parea  di  sentir  io. 

Nelle  sei  o  sette  settimane  ch'io  dimorai  in  Pisa,  ideai  e  distesi 
a  dirittura  in  sufficiente  prosa  toscana  la  tragedia  di  Antigone, 
e  verseggiai  il  Polinice  un  po'  men  male  che  il  Filippo.  E  subito 
mi  parve  di  poter  leggere  il  Polinice  ad  alcuni  di  quei  barbassori 
dell'Università,  i  quali  mi  si  mostrarono  assai  soddisfatti  della 
tragedia,  e  ne  censurarono  qua  e  là  l'espressioni,  ma  neppure 
con  quella  severità  che  avrebbe  meritata.  In  quei  versi,  a  luoghi 
si  trovavan  dette  cose  felicemente;  ma  il  totale  della  pasta  ne 
riusciva  ancora  languida,  lunga  e  triviale  a  giudizio  mio:  a  giudizio 
dei  Barbassori,  riusciva  scorretta  qualche  volta,  ma  fluida  diceano 
e  sonante.  Non  e'  intendevamo,  lo  chiamava  languido  e  triviale  ciò 
ch'essi  diceano  fluidoe  sonante  ;  quanto  poi  alle  scorrezioni,  essendo 
cosa  di  fatto  e  non  di  gusto,  non  ci  cadea  contrasto.  Ma  neppure  su 
le  cose  di  gusto  cadeva  contrasto  fra  noi,  perchè  io  a  maraviglia 
tenea  la  mia  parte  di  discente,  come  essi  la  loro  di  docenti:  era 
però  ben  fermo  di  volere  prima  d'ogni  cosa  piacere  a  me  stesso.  Da 
quei  signori  dunque  io  mi  contentava  d' imparare  negativamente, 
ciò  che  non  va  fatto;  dal  tempo,  dall'esercizio,  dall'ostinazione,  e 
da  me,  lo  mi  lusingava  poi  d'imparare  quel  che  va  fatto.  E  s'io 
volessi  far  ridere  a  spese  di  quei  dotti,  com'essi  forse  avran  riso 

>  Il  novìxio  diventa  professo  dopo  aver  pronunciato  i  voti. 


168  Vittorio  Alfieri 

allora  alle  mie,  potrei  nominare  taluno  fra  essi,  e  dei  più  petto- 
ruti, che  mi  consigliava,  e  portava  egli  stesso  la  Tancia^  del  Buo- 
narroti, non  dirò  per  modello,  ma  per  aiuto  al  mio  tragico  ver- 
seggiare, dicendomi  che  gran  dovizia  di  lingua  e  di  modi  vi 
troverei.  Il  che  equivarrebbe  a  chi  proponesse  a  un  pittore  di 
storia  di  studiare  il  Callotta".  Altri  mi  lodava  lo  stile  del  Meta- 
stasio  come  l'ottimo  per  la  tragedia.  Altri,  altro.  E  nessun  di  quei 
dotti  era  dotto  in  tragedia. 

Nel  soggiorno  di  Pisa  tradussi  anche  la  Poetica  d'Orazio*  in 
prosa  con  chiarezza  e  semplicità  per  invasarmi  que'  suoi  veridici 
e  ingegnosi  precetti.  Mi  diedi  anche  molto  a  leggere  le  tragedie 
di  Seneca,  benché  in  tutto  mi  avvedessi  esser  quelle  il  contrario 
dei  precetti  d'Orazio.  Ma  alcuni  tratti  di  sublime  vero  mi  tras- 
portavano, e  cercava  di  renderli  in  versi  sciolti  per  mio  doppio 
studio  di  latino,  e  d'italiano,  di  verseggiare  e  grandeggiare.  E 
nel  fare  questi  tentativi  mi  veniva  evidentemente  sotto  gli  occhi 
la  gran  differenza  tra  il  verso  giambo*  ed  il  verso  epico,  i  cui 
diversi  metri  bastano  per  distinguere  ampiamente  le  ragioni  del 
dialogo  da  quelle  di  ogni  altra  poesia;  e  nel  tempo  stesso  mi 
veniva  evidentemente  dimostrato  che  noi  italiani  non  avendo  altro 
verso  che  l'endecasillabo  per  ogni  componimento  eroico,  biso- 
gnava creare  una  giacitura  di  parole,  un  rompere  sempre  variato 
di  suono,  un  fraseggiare  di  brevità  e  di  forza,  che  venissero  a 
distinguere  assolutamente,  il  verso  sciolto  tragico  da  ogni  altro 
verso  sciolto  e  rimato  sì  epico  che  lirico.  I  giambi  di  Seneca  mi 
convinsero  di  questa  verità,  e  forse  in  parte  me  ne  procacciarono 
i  mezzi.  Che  alcuni  tratti  maschi  e  feroci  di  quell'autore  debbono 
per  metà  la  loro  sublime  energia  al  metro  poco  sonante,  e  spez- 
zato. Ed  in  fatti  qual'è  sì  sprovvisto  di  sentimento  e  d'udito, 
che  non  noti  l'enorme  differenza  che  passa  tra  questi  due  versi? 
l'uno,  di  Virgilio,  che  vuol  dilettare  e  rapire  il  lettore: 

Quadrupedante  putrem  sanità  qaatit  ungala  campum; 


1  Commedia  rusticale  di  Michelangelo  Buonarroti  (1568-1646),  figlio  d'un 
fratello  del  grande  artefice. 

«  Giacomo  Callot,  incisore  e  pittore  francese  il  cui  genio  ardito  e  fan^ 
tastico  si  manifesta  in  composizioni  di  finitezza  e  disegno  mirabili. 

»  Molti  versi  della  Poetica,  o  Hpistola  ai  Pisani,  di  Orazio  sono  dive- 
nuti proverbiali. 

*  Usato  nelle  tragedie  di  Seneca:  ad  esso,  proprio  della  poesia  dram- 
matica, si  contrappone  l'esametro,  versa  epico,  metro  di  quella  narrativa. 


La  vtta  169 

'altro,  di  Seneca  che  vuole  stupire,  e  atterrir  l'uditore  ;  e  carat- 
erizzare  in  due  sole  parole  due  personaggi  diversi: 

Concede  mortem. 

Si  recusares,  darem.^ 

Per  questa  ragione  stessa  non  dovrà  dunque  un  autor  tragico 
italiano  net  punti  più  appassionati  e  fieri  porre  in  bocca  de'  suoi 
dialogizzanti  personaggi  dei  versi,  che  quanto  al  suono  in 
nulla  somiglino  a  quei  per  altro  stupendi  e  grandiosissimi  del 
nostro  epico'  : 

Chiama  gli  abitator  dell'ombre  eteme 

Il  rauco  suon  della  tartarea  tromba. 

Convinto  io  nell'  intimo  del  cuore  della  necessità  di  questa  total 
differenza  da  serbarsi  nei  due  stili,  e  tanto  più  difficile  per  noi 
italiani,  quanto  è  giuoco  forza  crearsela  nei  limiti  dello  stesso 
metro,  io  dava  dunque  poco  retta  ai  saccenti  di  Pisa  quanto  al 
fondo  dell'arte  drammatica,  e  quanto  allo  stile  da  adoperarvisi : 
gli  ascoltava  beasi  con  umiltà  e  pazienza  su  la  purità  toscanesca 
e  grammaticale;  ancorché  neppure  in  questo  i  presenti  toscani 
gran  cosa  la  sfoggino. 

Eccomi  intanto  in  meno  d'un  anno  dopo  la  recita  della  Cleo- 
patra, possessore  in  proprio  del  patrimonietto  di  tre  altre  tragedie. 
E  qui  mi  tocca  di  confessare,  pel  vero,  di  quai  fonti  le  avessi 
tratte.  Il  Filippo,  nato  francese,  e  figlio  di  francese,  mi  venne  di 
ricordo  dall'aver  letto  più  anni  prima  il  romanzo  di  Don  Carlos, 
dell'Abate  di  San  Reale'.  11  Polinice,  gallo  ancli'egli,  lo  trassi  dai 
Fratelli  nemici,  del  Racine*.  V Antigone,  prima  non  imbrattata 
di  origine  esotica,  mi  venne  fatta  leggendo  il  duodecimo  libro 
di  Stazio  nella  traduzione  su  mentovata,  del  Bentivoglio.  Nel 
Polinice  l'avere  io  inserito  alcuni  tratti  presi  nel  Racine,  ed  altri 
presi  dai  Sette  Prodi  di  Eschilo,  che  legicchiai  nella  traduzion 
francese  del  padre  Brumoy*,  mi  fece  far  voto  in  appresso,  di 

»  Neir  0^/aWa. 

•  T.  Tasso. 

•  Cfr.  N.  Impallomcni,  //  Filippo  dell' A.,  Cosenza,  1890.  L'abate  Cesare 
di  Saint-Réal  (I63<)-1642)  è  più  noto  per  la  sua  Histotre  de  la  conspiration 
des  Espagnols  cantre  Venise. 

«  Cfr.  N.  Impailohcni,  //  Polinice  di  V.  A.,  In  Olornale  storico  della 
letteratura  italiana,  XXI,  pp.  75  sgg. 

•  Pietro  Brumoy,  gesuita  francese  (1638-1743),  collaborò  al  Journal  de 
Trévoux  ;  è  noto  pel  suo  THe'àtte  des  Orecs. 


170  Vittorio  Alfieri 

non  più  mai  leggere  tragedie  d'altri  prima  d'aver  fatte  le  mie, 
allorché  trattava  soggetti  trattati,  per  non  incorrere  così  nella 
taccia  di  ladro,  ed  errare  o  far  bene,  del  mio.  Chi  molto  legge 
prima  di  comporre,  ruba  senza  avvedersene,  e  perde  l'origina- 
lità, se  l'avea.  E  per  questa  ragione  anche  avea  abbandonato  fin 
dall'anno  innanzi  la  lettura  di  Shakespeare  (oltre  che  mi  toccava 
di  leggerlo  tradotto  in  francese).  Ma  quanto  più  mi  andava  a 
sangue  quell'autore  (di  cui  però  benissimo  distingueva  tutti  i 
difetti),  tanto  più  me  ne  volli  astenere. 

Appena  ebbi  stesa  \* Antigone  in  prosa,  che  la  lettura  di  Seneca 
■m'infiammò  e  sforzò^d' ideare  ad  un  parto  le  due  gemelle  tra- 
gedie, V Agamennone  e  V  Oreste.  Non  mi  pare  con  tutto  ciò, 
ch'elle  mi  siano  riuscite  in  nulla  un  furto  fatto  da  Seneca^  Nel 
fin  di  giugno  sloggiai  di  Pisa,  e  venni  in  Firenze,  dove  mi  trat- 
tenni tutto  il  settembre.  Mi  vi  applicai  moltissimo  all'  imposses- 
sarmi della  lingua  parlabile;  e  conversando  giornalmente  coi 
Fiorentini,  ci  pervenni  bastantemente.  Onde  cominciai  da  quel 
tempo  a  pensare  quasi  esclusivamente  in  quella  doviziosissima  ed 
elegante  lingua;  prima  indispensabile  base  per  bene  scriverla. 
Nel  soggiorno  in  Firenze  verseggiai  per  la  seconda  volta  il  Fi- 
lippo da  capo  a  fondo,  senza  neppur  più  guardare  quei  primi 
versi,  ma  rifacendoli  dalla  prosa.  Ma  i  progressi  mi  pareano 
lentissimi,  e  spesso  mi  parea  anzi  di  scapitare  che  di  migliorare. 
Nel  corrente  di  agosto,  trovandomi  una  mattina  in  un  crocchio  di 
letterati,  udii  a  caso  rammentare  l'anecdoto  storico  di  Don  Garzia 
ucciso  dal  proprio  padre  Cosimo  Primo.  Questo  fatto  mi  colpì; 
e  siccome  stampato  non  è,  me  lo  procurai  manoscritto,  estratto 
dai  pubblici  archivi  di  Firenze,  e  fin  d'allora  ne  ideai  la  tra- 
gedia. Continuava  intanto  a  schiccherare  molte  rime,  ma  tutte  mi 
riuscivano  infelici.  E  benché  non  avessi  in  Firenze  nessun  amico 
censore  che  equivalesse  al  Tana  e  al  Paciaudi,  pure  ebbi  abba- 
stanza senno  e  criterio  di  non  ne  dar  copia  a  chi  che  si  fosse,  e 
anche  la  sobrietà  di  pochissimo  andarle  recitando.  Il  mal  esito 
delle  rime  non  mi  scoraggiva  con  tutto  ciò;  ma  bensì  convince- 
vami  che  non  bisognava  mai  restare  di  leggerne  dell'ottime,  e 
d'impararne  a  memoria,  per  invasarmi  di  forme  poetiche.  Onde 
in  quell'estate  m' inondai  il  cervello  di  versi  del  Petrarca,  di 
Dante,  del  Tasso,  e  sino  ai  tre  primi  canti  interi  dell'Ariosto  ;  con- 

>  Un  furto  fatto  a  Seneca. 


Lu  Vita  171 

vinto  in  me  stesso,  che  il  giorno  verrebbe  infallibilmente,  in  cui 
tutte  quelle  forme,  frasi,  e  parole  d'altri  mi  tornerebbero  poi 
fuori  dalle  cellule  di  esso  miste  e  immedesimate  coi  miei  proprii 
pensieri  ed  affetti. 


CAPITOLO  TERZO 
Ostinazione  negli  studj  più  ingrati. 

Nell'ottobre  tomai  a  Torino,  perchè  non  avea  prese  le  misure 
necessarie  per  soggiornare  più  lungamente  fuor  di  casa,  non  già 
perchè  io  mi  presumessi  intoscanito  abbastanza.  Ed  anche  molte 
altre  frivole  ragioni  mi  fecero  tornare.  Tutti  i  miei  cavalli  lasciati 
in  Torino  mi  vi  aspettavano  e  richiamavano;  passione  che  in  me 
contrastò  lungamente  con  le  Muse,  e  non  rimase  poi  perdente 
davvero,  se  non  se  più  d'un  anno  dopo.  Né  mi  premeva  allora 
tanto  Io  studio  e  la  gloria,  che  non  mi  pungesse  anco  molto  a  ri- 
prese la  smania  del  divertirmi  ;  il  che  mi  riusciva  assai  più  facile 
in  Torino  dove  ci  avea  buona  casa,  aderenze  d'ogni  sorta,  bestie' 
a  sufficienza,  divagazioni  ed  amici  più  del  bisogno.  Malgrado 
tutti  questi  ostacoli,  non  rallentai  punto  lo  studio  in  quell'in- 
verno; ed  anzi  mi  accrebbi  le  occupazioni  e  gl'impegni.  Dopo 
Orazio  intero,  avea  letti  e  studiati  ad  oncia  ad  oncia  più  altri 
autori,  e  tra  questi  Sallustio.  La  brevità  ed  eleganza  di  quel- 
I' «storico  mi  avea  rapito  talmente,  che  mi  accinsi  con  molta  appli- 
cazione a  tradurlo  ;  e  ne  venni  a  capo  in  quel!'  inverno.  Molto, 
anzi  infinito  obbligo  io  debbo  a  quel  lavoro;  che  poi  più  e  più 
volte  ho  rifatto,  mutato  e  limato,  non  so  se  con  miglioramento  del 
l'opera,  ma  certamente  con  molto  mio  lucro  sì  nell'intelligenza 
della  lingua  latina,  che  nella  padronanza  di  maneggiar  l'italiana. 

Era  frattanto  ritornato  di  Portogallo  l' incomparabile  abate  Tom- 
maso di  Caluso  ;  e  trovatomi  contro  la  sua  aspettativa  ingolfato 
davvero  nella  letteratura,  e  ostinato  nello  scabroso  proposito  di 
farmi  autor  tragico,  egli  mi  secondò,  consigliò,  e  soccorse  di  tutti 
i  suol  lumi  con  benignità  e  amorevolezza  indicibile.  E  cosi  pure 
fece  reruditissimo  conte  di  San  Raffaele*,  ch'io  appresi  in  quel- 

>  Cavalli. 

«  Benvenuto  Robbio  di  S.  Raffaele  (1733-1794);  su  dì  lui  cfr.  O.  B.  Oerini, 
Oli  scrittori  pedagogici  italiani  dtl  Sec.  XVIll,  Torino,  1901,  pp.  352-381. 


172  Vittorio  Alfieri 

l'anno  a  conoscere,  e  altri  coltissimi  individui*,  i  quali  tutti  a  me 
superiori  di  età,  di  dottrina,  e  d'esperienza  nell'arte,  mi  compa- 
tivano pure,  ed  incoraggivano  ;  ancorché  non  ne  avessi  bisogno 
atteso  il  bollore  del  mio  carattere.  Ma  la  gratitudine  che  sovra 
ogni  altra  professo  e  sempre  professerò  a  tutti  i  suddetti  perso- 
naggi, si  è  per  aver  essi  umanamente  comportata  la  mia  incom- 
portabile petulanza  d'allora;  la  quale,  a  dir  anche  il  vero,  mi 
andava  però  di  giorno  in  giorno  scemando,  a  misura  che  riac- 
quistava lume. 

Sul  finir  di  quell'anno  76,  ebbi  una  grandissima  e  lungamente 
sospirata  consolazione.  Una  mattina  andando  dal  Tana,  a  cui 
sempre  palpitante  e  tremante  io  solca  portare  le  mie  rime,  ap- 
pena partorite  che  fossero,  gli  portai  finalmente  un  Sonetto  al 
quale  pochissimo  trovò  che  ridire,  e  lo  lodò  anzi  molto  come  i 
primi  versi  ch'io  mi  facessi  meritevoli  di  un  tal  nome.  Dopo  le 
tante  e  continue  afflizioni  e  umiliazioni  ch'io  avea  provate  nel 
leggergli  da  più  d'un  anno  le  mie  sconce  rime,  ch'egli  da  vero 
e  generoso  amico  senza  misericordia  nessuna  censurava,  e  di- 
ceva il  perchè,  e  il  suo  perchè  mi  appagava;  giudichi  ciascuno 
qual  soave  nettare  mi  giunsero  all'anima  quelle  insolite  sincere 
lodi.  Era  il  sonetto  una  descrizione  del  ratto  di  Ganimede,  fatto 
a  imitazione  dell' inimitabile  del  Cassiani"  sul  ratto  di  Proserpina. 
Egli  è  stampato  da  me  il  primo  tra  le  mie  rime.  E  invaghito 
della  lode,  tosto  ne  feci  anche  due  altri,  tratto  il  soggetto  dalla 
favola,  e  imitati  anch'essi  come  il  primo,  a  cui  immediatamente 
anche  nella  stampa  ho  voluto  poi  che  seguitassero.  Tutti  e  tre 
si  risentono  un  po'  troppo  della  loro  serva  origine  imitativa,  ma 
pure  (s'io  non  erro)  hanno  il  merito  d'essere  scritti  con  una  certa 
evidenza,  e  bastante  eleganza,  quale  in  somma  non  mi  era  venuta 
mai  fin  allora.  E  come  tali  ho  voluto  serbarli,  e  stamparli  con 
pochissime  mutazioni  molti  anni  dopo.  In  seguito  poi  di  quei 
tre  primi  sufficienti  sonetti,  come  se  mi  si  fosse  dischiusa  una 
nuova  fonte,  ne  scaturii  in  quell'inverno  troppi  altri;  i  più  amo- 
rosi: ma  senza  amore  che  li  dettasse.  Per  esercizio  mero  di  lin- 
gua e  di  rime  avea  impreso  a  descrivere  a  parte  a  parte  le  bel- 
lezze palesi  d'una  amabilissima  e  leggiadra  Signora';  né  per  essa 

Cfr.  E.  Bf.rtana,  V.  A.  cit.,  pp.  8Q  e  300. 

*  Il  modenese  Giuliano  Cassiani  {I7rj-17:^8)  delle  cui  rime  un   Saggio 
era  stato  pubblicato  a  Lucca  nel  1770. 

•  La  marchesa  di  Ozà. 


La  vita  173 

io  sentiva  neppure  la  minima  favìlluzza  nel  cuore  ;  e  forse  ci  si 
parrà  in  quei  sonetti  piìi  descritti^  che  affettuosi.  Tuttavia,  siccome 
non  mal  verseggiati,  ho  voluto  quasi  che  tutti  conservarli,  e  dar 
loro  luogo  nelle  mie  rime;  dove  agli  intendenti  dell'arte  possono 
forse  andare  additando  i  progressi  ch'io  allora  andava  facendo 
gradatamente  nella  difficilissima  arte  del  dir  bene,  senza  la 
quale  per  quanto  sia  ben  concepito  e  condotto  il  sonetto,  non  può 
aver  vita. 

Alcuni  evidenti  progressi  nel  rimare,  e  la  prosa  del  Sallustio 
ridotta  a  molta  brevità  con  sufficiente  chiarezza  (ma  priva  an- 
cora di  quella  variata  armonia,  tutta  propria  sua,  della  ben  con- 
cepita prosa),  mi  aveano  ripieno  il  cuore  di  ardenti  speranze.  Ma 
siccome  ogni  altra  cosa  ch'io  faceva,  o  tentava,  tutte  aveano 
sempre  per  primo  ed  allora  unico  scopo,  di  formarmi  uno  stile 
proprio  ed  ottimo  per  la  tragedia,  da  quelle  occupazioni  secon- 
darie di  tempo  in  tempo  mi  riprovava  a  risalire  alla  prima.  Nel- 
l'aprile del  77  verseggiai  perciò  V Antigone,  ch'io  come  dissi, 
avea  ideata  e  stesa  ad  un  tempo,  circa  un  anno  prima,  essendo 
in  Pisa.  La  verseggiai  tutta  in  meno  di  tre  settimane,  e  parendomi 
aver  acquistata  facilità,  mi  tenni  di  aver  fatta  gran  cosa.  Ma 
appena  l'ebbi  io  letta  in  una  società  letteraria,  dove  quasi  ogni 
sera  ci  radunavamo,  ch'io  ravvedutomi  (benché  lodato  dagli  altri) 
con  mio  sommo  dolore  mi  trovai  veramente  lontanissimo  da  quel 
modo  di  dire  ch'io  avea  tanto  profondamente  fitto  nell'intelletto, 
senza  pur  quasi  mai  ritrovarmelo  poi  nella  penna.  Le  lodi  di  quei 
colti  amici  uditori  mi  persuasero  che  forse  la  Tragedia  quanto 
agli  affetti  e  condotta  ci  fosse  ;  ma  i  miei  orecchi  e  intelletto  mi 
convinsero  ch'ella  non  c'era  quanto  allo  stile.  E  nessun  altri  di 
ciò  poteva  a  una  prima  lettura  essere  giudice  competente  quanto 
io  stesso,  perchè  quella  sospensione,  commozione,  e  curiosità  che 
porta  con  sé  una"  non  conosciuta  tragedia,  fa  si  che  l'uditore^ 
ancorché  di  buon  gusto  dotato,  non  può  e  non  vuole,  né  deve, 
soverchiamente  badare  alla  locuzione.  Quindi  tutto  ciò  che  non 
è  pessimo,  passa  inosservato,  e  non  spiace.  Ma  io  che  la  leggeva 
conoscendola,  fino  a  un  puntino  mi  dovea  avvedere  ogni  qual 
volta  il  pensiero  o  l'affetto  venivano  o  traditi  o  menomati  dalla 
non  abbastanza  o  vera,  o  calda,  o  breve,  o  forte,  o  pomposa 
espressione. 

>  Descrìttivi. 


174  Vittorio  Alfieri 

Persuaso  io  dunque  che  non  era  al  punto,  e  non  ci  arrivava, 
perchè  in  Torino  viveva  ancor  troppo  divagato,  e  non  abbastanza 
solo  e  con  l'arte,  subito  mi  risolvei  di  tornare  in  Toscana,  dove 
anche  sempre  più  mi  italianizzerei  il  concetto.  Che  se  in  Torino 
non  parlava  francese,  con  tutto  ciò  il  nostro  gergaccio  piemon- 
tese ch'io  sempre  parlava  e  sendva  tutto  il  giorno,  in  nulla  riu- 
sciva favorevole  al  pensare  e  scrivere  italiano. 


CAPITOLO  QUARTO 

Secondo  viaggio  letterario  in  Toscana,  macchiato  di  stolida  pompa  caval- 
lina. Amicizia  contratta  col  Gandellini.  Lavori  fatti  o  ideati  in  Siena. 


Partii  nei  primi  di  maggio,  previa  la  consueta  permissione  che 
bisognava  ottenere  dal  re  per  uscire  dai  suoi  felicissimi  stati. 
Il  ministro  a  chi  la  domandai,  mi  rispose  che  io  era  stato  anco 
l'anno  innanzi  in  Toscana.  Soggiunsi:  E  perciò  mi  propongo 
di  ritornarvi  quest'anno.  Ottenni  il  permesso;  ma  quella  parola 
mi  fece  entrar  in  pensieri,  e  bollire  nella  fantasia  il  disegno  che 
io  poi  in  meno  d'un  anno  mandai  pienamente  ad  effetto,  e  per 
cui  non  mi  occorse  d'allora  in  poi  mai  più  di  chiedere  permis- 
sione nissuna.  In  questo  secondo  viaggio,  proponendomi  di  stare 
più  tempo,  e  fra  i  miei  delirj  di  vera  gloria  frammischiandone 
pur  tuttavia  non  pochi  di  vanagloria,  ci  volli  condur  più  cavalli 
e  più  gente  ;  per  recitare  in  tal  guisa  le  due  parti  che  di  rado  si 
maritano  insieme,  di  poeta  e  di  signore.  Con  un  treno  dunque 
di  otto  cavalli,  ed  il  rimanente  non  discordante  da  esso,  mi  avviai 
alla  volta  di  Genova.  Di  là  imbarcatomi  io  col  bagaglio  e  il  bi- 
roccino, mandai  per  la  via  di  terra  verso  Lerici  e  Sarzana  i  ca- 
valli. Questi  arrivarono  felicemente  avendomi  preceduto.  Io  nella 
feluca  essendo  già  quasi  alla  vista  di  Lerici,  fui  rimandato  indietro 
dal  vento,  e  costretto  di  sbarcare  a  Rapallo,  due  sole  poste  di- 
stante da  Genova.  Sbarcato  quivi,  e  tediatomi  di  aspettare  che  il 
vento  tornasse  favorevole  per  ritornare  a  Lerici,  lasciai  la  feluca 
con  la  roba  mia,  e  prese  alcune  camicie,  i  miei  scritti  (dai  quali 
non  mi  separava  mai  più)  ed  un  sol  uomo,  per  le  poste  a  cavallo 
a  traverso  a  quei  rompicolli  di  strade  del  nudo'  Apennino  me  ne 

»  Brullo. 


La  vita  175 

venni  a  Sarzana,  dove  trovai  i  cavalli,  e  dovei  poi  aspettar  la 
feluca  più  di  otto  giorni.  Ancorché  io  ci  avessi  il  divertimento 
dei  cavalli,  pure  non  avendo  altri  libri  che  l'Orazietto  e  il  Petrar- 
chino  di  tasca,  mi  tediava  non  poco  il  soggiorno  di  Sarzana.  Da 
un  prete  fratello  del  mastro  di  posta  mi  feci  prestare  un  Tito 
Livio,  autore  che  (dalle  scuole  in  poi,  dove  non  l'avea  né  inteso 
né  gustato)  non  m'era  piìi  capitato  alle  mani.  Ancorché  io  smo- 
deratamente mi  fossi  appassionato  della  brevità  sallustiana,  pure 
la  sublimità  dei  soggetti,  e  la  maestà  delle  concioni  di  Livio  mi 
colpirono  assai.  Lettovi  il  fatto  di  Virginia,  e  gl'infiammati  di- 
scorsi d'Icilio,  mi  trasportai  talmente  per  essi,  che  tosto  ne  ideai 
la  tragedia;  e  l'avrei  stesa  d'un  fiato,  se  non  fossi  stato  sturbato 
dalla  continua  espettativa  di  quella  maledetta  feluca,  il  di  cui 
arrivo  mi  avrebbe  interrotto  la  composizione. 

E  qui  per  l'intelligenza  del  lettore  mi  conviene  spiegare  queste 
mie  parole  di  cui  mi  vo  servendo  si  spesso,  ideare,  stendere  e 
verseggiare.  Questi  tre  respiri  con  cui  ho  sempre  dato  l'essere 
alle  mie  tragedie,  mi  hanno  per  lo  piì»  procurato  il  beneficio  del 
tempo,  così  necessario  a  ben  ponderare  un  componimento  di 
quella  importanza;  il  quale  se  mai  nasce  male,  difficilmente  poi 
si  raddrizza.  Ideare  dunque  io  chiamo,  il  distribuire  il  soggetto 
in  atti  e  scene,  stabilire  e  fissare  il  numero  dei  personaggi,  e  in 
due  paginucce  di  prosacela  farne  quasi  l'estratto  a  scena  per 
scena  di  quel  che  diranno  o  faranno.  Chiamo  poi  stendere;  qua- 
lora ripigliando  quel  primo  foglio,  a  norma  della  traccia  accen- 
nata ne  riempio  le  scene  dialogizzando  in  prosa  come  viene  la 
tragedia  intera,  senza  rifiutar  un  pensiero,  qualunque  ei  siasi,  e 
scrivendo  con  impeto  quanto  ne  posso  avere,  senza  badare  al 
come.  Verseggiare  finalmente  chiamo  non  solamente  porre  in 
versi  quella  prosa,  ma  col  riposato  intelletto  assai  tempo  dopo 
scernere  tra  quelle  lungaggini  del  primo  getto  i  migliori  pen- 
sieri, ridurli  a  poesia,  e  leggìbili.  Segue  poi  come  di  ogni  altro 
componimento  il  dover  successivamente  limare,  levare,  mutare; 
ma  se  la  tragedia  non  v'è  nell' idearla  e  distenderla,  non  si  ritrova 
certo  mai  più  con  le  fatiche  posteriori.  Questo  meccanismo  io 
l'ho  osservato  in  tutte  le  mie  composizione  drammatiche  comin- 
ciando dal  Filippo,  e  mi  son  ben  convinto  ch'egli  è  per  sé  stesso 
più  che  i  due  terzi  dell'opera.  Ed  in  fatti,  dopo  un  certo  inter- 
vallo, quanto  bastasse  a  non  più  ricordarmi  affatto  di  quella  prima 
distribuzione  di  scene,  se  io,  ripreso  in   mano  quel  foglia,  alla 


176  Vittorio  AlfUri 

descrizione  di  ciascuna  scena  mi  sentiva  repentinamente  affollaf- 
misi  al  cuore  e  alla  mente  un  tumulto  di  pensieri  e  di  affetti  che 
per  così  dire  a  viva  forza  mi  spingessero  a  scrivere,  io  tosto  rice- 
veva quella  prima  sceneggiatura  per  buona,  e  cavata  dai  visceri 
del  soggetto.  Se  non  mi  si  ridestava  quest'entusiasmo,  pari  e 
maggiore  di  quando  l'avea  ideata,  io  la  cangiava  od  ardeva.  Ri- 
cevuta per  buona  la  prima  idea,  l'adombrarla  era  rapidissimo,  e 
un  atto  al  giorno  ne  scriveva,  talvolta  più,  raramente  meno;  e 
quasi  sempre  nel  sesto  giorno  la  tragedia  era,  non  dirò  fatta,  ma 
nata.  In  tal  guisa,  non  ammettendo  io  altro  giudice  che  il  mio 
proprio  sentire,  tutte  quelle  che  non  ho  potuto  scriver  così,  di 
ridondanza  e  furore,  non  le  ho  poi  finite;  o,  se  pur  finite,  non 
le  ho  mai  poi  verseggiate.  Così  mi  avvenne  di  un  Carlo  Primo 
che  immediatamenie  dopo  il  Filippo  intrapresi  di  stendere  in  fran- 
cese; nel  quale  abbozzo  a  mezzo  il  terz'atto  mi  si  agghiacciò  sì 
fattamente  il  cuore  e  la  mano,  che  non  fu  più  possibile  alla  penna 
il  proseguirlo.  Così  d'un  Romeo  e  Giulietta,  ch'io  pur  stesi  in 
intero,  ma  con  qualche  stento,  e  con  delle  pause.  Onde  più  mesi 
dopo,  ripreso  in  mano  quel!'  infelice  abbozzo,  mi  cagionò  un  tal 
gelo  nell'animo  rileggendolo,  e  tosto  poi  m' infiammò  di  tal  ira 
contro  me  stesso,  che  senza  altrimenti  proseguirne  la  tediosa  let- 
tura, lo  buttai  sul  fuoco.  Dal  metodo  eh'  io  qui  ho  prolissamente 
voluto  individuare,  ne  è  poi  nato  l'effetto  seguente:  che  le  mie 
tragedie  prese  in  totalità,  tra  i  difetti  non  pochi  eh'  io  vi  scorgo, 
e  i  molti  che  forse  non  vedo,  elle  hanno  pure  il  pregio  di  essere, 
o  di  parere  ai  più,  fatte  di  getto,  e  di  un  solo  attacco  collegate 
in  sé  stesse,  talché  ogni  parola  e  pensiero  ed  azione  del  quint'atto 
strettamente  s'immedesima  con  ogni  pensiero,  parola  e  disposi- 
zione del  quarto  risalendo  sino  ai  primi  versi  del  primo;  cosa, 
che,  se  non  altro,  genera  necessariamente  attenzione  nell'uditore, 
e  calor  nell'azione.  Quindi  è,  che  stesa  così  la  tragedia,  non  ri- 
manendo poi  all'autore  altro  pensiere  che  di  pacatamente  ver- 
seggiarla scegliendo  l'oro  dal  piombo,  la  sollecitudine  che  suol 
dare  alla  mente  il  lavoro  dei  versi  e  l'incontentabile  passione 
dell'eleganza,  non  può  più  nuocer  punto  al  trasporto  e  furore  a 
cui  bisogna  ciecamente  obbedire  nell'  ideare  e  creare  cose  d'af- 
fetto e  terribili.  Se  chi  verrà  dopo  me  giudicherà  ch'io  con  questo 
metodo  abbia  ottenuto  più  ch'altri  efficacemente  il  mio  intento, 
la  presente  digressioncella  potrà  forse  col  tempo  ilhiminare  e  gio- 
vare a  qualcuno  che  professi  quest'arte:  ove  lo  l'abbia  sbagliato, 
servirà  perchè  altri  ne  inventi  un  migliore. 


La  vita  177 

Kipiglip  il  filo  della  narrazione.  Giunse  finalmente  a  Lerici 
quella  tanto  aspettata  feluca  ;  ed  io,  avuta  la  mia  robba,  imme- 
diatamente partii  dì  Sarzana  alla  volta  di  Pisa,  accresciuto  il  mio 
poetico  patrimonio  di  quella  Virginia  di  più  ;  soggetto  che  mi 
andava  veramente  a  sangue.  Già  avea  disegnato  in  me  di  non 
trattenermi  questa  volta  in  Pisa  più  di  due  giorni'  ;  sì  perchè  mi 
lusingava  che  per  la  lingua  io  profitterei  più  in  Siena  dove  si 
parla  meglio,  e  vi  son  meno  forestieri  ;  sì  perchè  nel  soggiorno 
fattovi  l'anno  innanzi  io  mi  vi  era  quasi  mezzo  invaghito  di  una 
bella  e  nobile  signorina,  la  quale  anche  agiata  di  beni  di  fortuna 
mi  sarebbe  stata  accordata  in  moglie  dai  suoi  parenti,  se  io  l'avessi 
chiesta.  Ma  su  tal  punto  io  era  allora  d'assai  migliorato  di  al- 
cuni anni  prima  in  Torino,  allorché  avea  consentito  che  il  mio 
cognato  chiedesse  per  me  quella  ragazza  che  poi  non  mi  volle. 
Questa  volta  non  volli  io  lasciar  chiedere  per  me  quella  che  mi 
avrebbe  pur  forse  voluto,  e  che  sì  per  l'indole,  che  per  ogni  altra 
ragione  mi  sarebbe  convenuta,  e  mi  piaceva  anche  non  poco.  Ma 
ott'anni  di  più  ch'io  m'aveva,  e  tutta  l'Europa  quasi  eh'  io  avea 
o  bene  o  male  veduta,  e  l'amor  della  gloria  che  m'era  entrato 
addosso,  e  la  passion  dello  studioi  e  la  necessità  di  essere,  o  di 
farmi  libero,  per  poter  essere  intrepido  e  veridico  autore,  tutti 
questi  caldissimi  sproni  mi  facean  passar  oltre,  e  gridavanmi  fe- 
rocemente nel  cuore,  che  nella  tirannide  basta  bene  ed  è  anche 
troppo  il  viverci  solo,  ma  che  mai,  riflettendo,  vi  si  può  né  si 
dee  diventare  marito  né  padre.  Perciò  passai  l'Arno,  e  mi  trovai 
tosto  in  Siena.  E  sempre  ho  benedetto  quel  punto  in  cui  ci  ca- 
pitai, perchè  in  codesta  città  combinai  un  crocchietto  di  sei  o  sette 
individui  dotati  di  un  senno,  giudizio,  gusto  e  cultura,  da  non 
credersi  in  cosi  picciol  paese.  Fra  questi  poi  primeggiava  di  gran 
lunga  ì!  degnissimo  Francesco  Gori  Gandellini*,  di  cui  più  d'una 
volta  mi  è  occorso  di  parlare  in  varj  miei  scritti',  e  la  di  cui  dolce 
e  cara  memoria  non  mi  uscirà  mal  dal  cuore.  Una  certa  somi- 
glianza nei  nostri  caratteri,  lo  stesso  pensare  e  sentire  (tanto  più 
raro  e  pregevole  in  riii  che  in  me,  attese  le  di  lui  circostanze 
tanto  diverse  dalle  mie)  ed  un  reciproco  bisogno  di  sfogare  il 

>  Cfr.  V.  Cuv,  Vittorio  Alfieri  a  Pisa  In  IVaova  Antologia,  17  ott.  1003. 

»  Ricco  mercantf  di  »eta,  di  drca  dieci  anni  maggiore  dell'A.,  morì  il 
3  Kttcmbre  1784. 

»  Allude  8peci.\!nientc  alle  dediche  deW'Antigone  e  della  Congiura  dei 
Pani,  e  al  dialoi^o  La  virtù  sconosciuta. 

12.  -  Classici  ItaiianL  N.  2 


178  Vittorio  Alfieri 

cuore  ridondante  delle  passioni  stesse,  ci  riunirono  ben  tosto  in 
vera  e  calda  amicizia.  Questo  santo  legame  della  schietta  ami- 
cizia era,  ed  è  tuttavia,  nel  mio  modo  di  pensare  e  di  vivere  un 
bisogno  di  prima  necessità:  ma  la  mia  ritrosa  e  difficile  e  severa 
naturami  rende  e  renderà  finch'io  viva,  poco  atto  ad  inspirarla 
in  altrui,  e  oltre  modo  ritenuto  nel  porre  in  altri  la  mia.  Perciò 
nel  corso  del  mio  vivere  pochissimi  amici  avrò  avuti;  ma  mi 
vanto  di  averli  avuti  tutti  buoni  e  stimabili  assai  più  di  me.  Né 
io  mai  altro  ho  cercato  nell'amicizia  se  non  se  il  reciproco  sfogo 
delle  umane  debolezze,  affinchè  il  senno  e  amorevolezza  dell'amico 
venisse  attenuando  in  me  e  migliorando  le  non  lodevoli,  e  cor- 
roborando all'incontro  e  sublimando  le  poche  lodevoli, dalle  quali 
l'uomo  può  trarre  utile  per  altri  ed  onore  per  sé.  Tale  è  la  debo- 
lezza del  volersi  far  autore.  Ed  in  questa  principalmente,  i  consigli 
generosi  ed  ardenti  del  Gandellini  mi  hanno  certo  prestato  non 
piccolo  soccorso  ed  impulso.  Il  desiderio  vivissimo  ch'io  con- 
trassi di  meritarmi  la  stima  di  codesto  raro  uomo,  mi  diede  subito 
una  quasi  nuova  elasticità  di  mente,  un'alacrità  d'intelletto,  che 
non  mi  lasciava  trovar  luogo  né  pace,  s'io  non  procreava  prima 
qualche  opera  che  fosse,  o  mi  paresse  degna  di  lui.  Né  mai  io 
ho  goduto 'dell'intero  esercizio  delle  mie  facoltà  intellettuali  e 
inventive,  se  non  se  quando  il  mio  cuore  si  ritrovava  ripieno  e 
appagato,  e  l'animo  mio  per  così  dire  appoggiato  o  sorretto  da  un 
qualche  altro  ente  gradito  e  stimabile.  Che  all'incontro  quand'io 
mi  vedeva  senza  un  sì  fatto  appoggio  quasi  solo  nel  mondo,  con- 
siderandomi come  inutile  a  tutti  e  caro  a  nessuno,  gli  accessi  di 
malinconia,  di  disinganno  e  disgusto  d'ogni  umana  cosa,  eran 
tali  e  si  spessi  ch'io  passava  allora  dei  giorni  interi,  e  anco  delle 
settimane  senza  né  volere  né  potere  toccar  libro  né  penna. 

Per  ottenere  dunque  e  meritare  la  lode  di  un  uomo  così  sti- 
mabile agli  occhi  miei  quanto  era  il  Qori,  io  mi  posi  in  quel- 
l'estate a  lavorare  con  un  ardore  assai  maggiore  di  prima.  Da 
lui  ebbi  il  pensiero  di  porre  in  tragedia  la  Congiura  de'  Pazzi. 
Il  fatto  m'era  affatto  ignoto,  ed  egli  mi  suggerì  di  cercarlo  nel 
Machiavelli  a  preferenza  di  qualunque  altro  storico.  Così,  per 
per  una  strana  combinazione,  quel  divino  autore  che  dovea  poi 
in  appresso  farmisi  una  delle  mie  piìi  care  delizie,  mi  veniva 
la  seconda  volta  posto  in  mano  da  un  altro  veracissimo  amico, 
simile  in  molte  cose  al  già  tanto  a  me  caro  D'Acunha,  ma  molto 
più  erudito  e  colto  di  lui.  Ed  in  fatti,  benché  il  mio  terreno  non 


La  vita  179 

fosse  preparato  abbastanza  per  ricevere  e  fruttificare  un  tal  seme, 
pure  in  quel  luglio  ne  lessi  di  molti  squarci  qua  e  là,  oltre  la 
narrazione  del  fatto  della  congiura.  Quindi,  non  solo  la  tragedia 
ne  ideai  immediatamente,  ma  invasato  da  quel  suo  dire  origina- 
lissimo e  sugoso,  di  lì  a  pochi  giorni  mi  sentii  costretto  a  lasciare 
ogni  altro  studio,  e  come  inspirato  e  sforzato  a  scrivere  d'un  sol 
fiato  i  due  libri  della  Tirannide^  ;  quasi  per  l'appunto  quali  poi 
molti  anni  appresso  gli  stampai.  Fu  quello  uno  sfogo  di  un  animo 
ridondante  e  piagato  fin  dall'infanzia  dalle  saette  dell'abborrita 
e  universale  oppressione.  Se  in  età  più  matura  io  avessi  dovuto 
trattar  di  nuovo  un  tal  tema,  l'avrei  forse  trattato  alquanto  più 
dottamente,  corroborando  l'opinione  mia  colla  storia.  Ma  nello 
stamparlo  non  ho  però  voluto,  col  gelo  degli  anni  e  la  pedan- 
teria del  mio  sapere,  indebolire  in  quel  libro  la  fiamma  di  gio- 
ventù e  di  nobile  e  giusto  sdegno,  che  ad  ogni  pagina  d'esso 
mi  parve  avvampare,  senza  scompagnarsi  da  un  vero  e  incalzante 
raziocinio  che  mi  par  dominare.  Che  se  poi  vi  ho  scorti  degli 
sbagli,  o  delle  amplificazioni,  come  figli  d' inesperienza  e  non  mai 
di  mal  animo,  ce  li  ho  voluti  lasciare.  Nessun  fine  secondo,  nes- 
suna privata  vendetta  mi  ispirò  quello  scritto.  Forse  ch'io  avrò 
o  male,  o  falsamente  sentito,  ovvero  con  troppa  passione.  Ma  e 
quando  mai  la  passione  pei  vero  e  pel  retto  fu  troppa,  allorché 
massimamente  si  tratta  di  immedesimarla  in  altrui?  Non  ho  detto 
che  quanto  ho  sentito,  e  forse  meno  che  più.  Ed  in  quella  bol- 
lente età  il  giudicare  e  raziocinare  non  eran  fors'altro  che  un 
puro  e  generoso  sentire. 

CAPITOLO  QUINTO 
Degno  amore  mi  allaccia  finalmente  per  sempre. 

Sgravato  in  tal  guisa  l'esacerbato  mio  animo  dal  lungo  e  tra- 
boccante odio  ingenito  suo  contro  la  tirannide,  io  mi  sentii  tosto 
richiamato  alle  opere  teatrali;  e  quel  libercoletto,  dopo  averlo 
letto  all'amico,  ed  a  pochissimi  altri,  sigillai  e  posi  da  parte',  né 
mìù  ci  pensai  per  molti  anni.  Intanto,  ripreso  il  coturno,  rapidis- 
simamente distesi  ad  un  tratto  V Agamennone,  l'Oreste,  e  la  Vir- 

>  Son  dedicati  alla  <  divina  liberti  >;  l'A.  vi  esamina  la  costituzione  di 
nn  governo  assoluto,  ne  svela  i  mali  e  vi  contrappone  i  rimedi. 
*  Perchè  pericoloso. 


180  Vittorio  Alfieri 

ginia.  E  circa  aWOreste,  mi  era  nato  un  dubbio  prima  di  sten- 
derlo, ma  il  dubbio  essendo  per  sé  stesso  picciolo  e  vile,  mi 
venne  in  magnanima  guisa  disciolto  dall'amico.  Questa  tragedia 
era  stata  da  me  ideata  in  Pisa  l'anno  innanzi,  e  mi  avea  infiam- 
mato di  tal  soggetto  la  lettura  del  pessimo  Agamennone  di  Seneca. 
Nell'inverno  poi,  trovandomi  io  in  Torino,  squadernando  un 
giorno  i  miei  libri,  mi  venne  aperto  un  volume  delle  tragedie  del 
Voltaire,  dove  la  prima  parola  che  mi  si  presentò  fu,  Oreste  tra- 
gedia. Chiusi  subito  il  libro,  indispettito  di  ritrovarmi  un  tal  com- 
petitore fra  i  moderni,  di  cui  non  avea  mai  saputo  che  questa 
tragedia  esistesse.  Ne  domandai  allora  ad  alcuni,  e  mi  dissero 
esser  quella  una  delle  buone  tragedie  di  quell'autore  ;  il  che  mi 
avea  molto  raffreddato  nell'intenzione  di  dar  corpo  alla  mia. 
Trovandomi  io  dunque  poi  in  Siena,  come  dissi,  ed  avendo  già 
steso  V Agamennone,  senza  più  nemmeno  aprire  quello  di  Seneca 
per  non  divenir  plagiario,  allorché  fui  sul  punto  di  dover  stender 
l'Oreste,  mi  consigliai  con  l'amico  raccontandogli  il  fatto  e  chie- 
dendogli in  imprestìto  quello  del  Voltaire  per  dargli  una  scorsa, 
e  quindi  o  fare  il  mio  o  non  farlo.  Il  Oori,  negandomi  l' impre- 
stito dell'Oreste  francese,  soggiunse:  •  Scriva  il  suo  senza  legger 
quello;  e  se  ella  é  nato  per  far  tragedie,  il  suo  sarà  peggiore  o 
migliore  od  uguale  a  quell'altro  Oreste,  ma  sarà  almeno  ben  suo  ». 
E  cosi  feci.  E  quel  nobile  ed  alto  consiglio  divenne  d'allora  in 
poi  per  me  un  sistema  ;  onde,  ogni  qual  volta  mi  sono  accinto  a 
trattar  soggetti  già  trattati  da  altri  moderni,  non  li  lessi  mai  se 
non  dopo  avere  steso  e  verseggiato  il  mio;  e  se  gli  avea  visti 
in  palco,  cercai  di  non  me  ne  ricordar  punto;  e  se  mal  mio  grado 
me  ne  ricordava,  cercai  di  fare,  dove  fosse  possibile,  in  tutto  il 
contrario  di  quelli.  Dal  che  mi  è  sembrato  che  me  ne  sia  ridon- 
data in  totalità  una  faccia  ed  un  tragico  andamento,  se  non  buono, 
almeno  ben  mio. 

Quel  soggiorno  di  circa  cinque  mesi  in  Siena  fu  dunque  vera- 
mente un  balsamo  pel  mio  intelletto  e  pel  mio  animo  ad  un  tempo. 
Ed  oltre  tutte  le  accennate  composizioni,  vi  continuai  anche  con 
ostinazione  e  con  frutto  lo  studio  dei  classici  latini,  tra  cui  OÌo^ 
venale,  che  mi  fece  gran  colpo,  e  lo  rilessi  poi  sempre  in  ap- 
presso non  meno  di  Orazio.  Ma  approssimandosi  l'inverno,  che 
in  Siena  non  è  punto  piacevole,  e  non  essendo  io  ancora  ben 
sanato  dalia  giovanile  impazienza  di  luogo,  mi  determinai  nel- 
l'ottobre di  andare  a  Firenze,  non  ancora  ben  certo  se  vi  passerei 


La  vita  181 

pur  l'inverno,  o  se  me  ne  tornerei  a  Torino.  Ed  ecco,  che  appena 
mi  vi  fui  collocato  cosi  alla  peggio  per  provarmici  un  mese, 
nacque  tale  accidente,  che  mi  vi  collocò  e  inchiodò  per  molti  anni  ; 
accidente,  per  cui  determinatomi  per  mia  buona  sorte  ad  espa- 
triarmi per  sempre,  io  venni  fra  quelle  nuove  spontanee  ed  auree 
catene  ad  acquistare  davvero  l'ultima  mia  letteraria  libertà,  senza 
la  quale  non  avrei  mai  fatto  nulla  di  buono,  se  pur  l'ho  fatto. 

Fin  dall'estate  innanzi,  ch'io  avea  come  dissi  passato  intero  a 
Firenze,  mi  era  senza  ch'io  *1  volessi  occorsa  più  volte  agli  occhi 
una  gentilissima  e  bella  signora,  che  per  esservi  anch'essa  fore- 
stiera e  distinta,  non  era  possibile  di  non  vederla  e  osservarla  ;  e 
più  ancora  impossibile,  che  osservata  e  veduta  non  piacesse  ella 
sommamente  a  ciascuno.  Con  tutto  ciò,  ancorché  gran  parte  dei 
signori  di  Firenze,  e  tutti  i  forestieri  di  nascita  da  lei  capitassero, 
io  immerso  negli  studi  e  nella  malinconia,  ritroso  e  selvaggio  per 
indole,  e  tanto  più  sempre  intento  a  sfuggire  tra  il  bel  sesso 
quelle  che  più  aggradevoii  e  belle  mi  pareano,  io  perciò  in  quel- 
l'estate innanzi  non  mi  feci  punto  introdurre  nella  di  lei  casa: 
ma  nei  teatri  e  passeggi  mi  era  accaduto  di  vederla  spessissimo. 
L'impression  prima  me  n'era  rimasta  negli  occhi,  e  nella  mente 
ad  un  tempo,  piacevolissima.  Un  dolce  focoso  negli  occhi  neris- 
simi  accoppiatosi  (che  raro  addiviene)  con  candidissima  pelle  e 
biondi  capelli,  davano  alla  di  lei  bellezza  un  risalto,  da  cui  dif- 
ficile era  di  non  rimanere  colpito  e  conquiso.  Età  di  anni  venti- 
cinque; molta  propensione  alle  bell'arti  e  alle  lettere;  indole 
d'oro;  e,  malgrado  gli  agj  di  cui  abondava,  penose  e  dispiace- 
voli circostanze  domestiche,  che  poco  la  lasciavano  essere,  come 
il  dovea,  avventurata  e  contenta'.  Troppi  pregi  eran  questi,  per 
affrontarli. 

In  quell'autunno  dunque  sendomi  da  un  mio  conoscente  pro- 
posto più  volte  d'introdurmivi,  io  credutomi  forte  abbastanza  mi 
arrischiai  di  accostarmivi ;  né  molto  andò,  ch'io  mi  trovai  quasi 
senza  avvedermene  preso.  Tuttavia  titubando  io  ancora  tra  il 
si  e  il  no  di  quella  fiamma  novella,  nel  decembre  feci  una  scorsa 
a  Roma  per  le  poste  a  cavallo;  viaggio  pazzo  e  strapazzatissimo, 
che  non  mi  fruttò  altro  che  d'aver  fatto  il  Sonetto  di  Roma'  per- 

«  Era  cortei  la  contessa  Luis»  d'Albany,  figlia  di  Gustavo  Adolfo  prin- 
cipe di  Stolberg-Ocldcrn,  sposata  nel  1772  a  Carlo  Odoardo  Stuart,  pre- 
tendente al  trono  di  Scozia.  Cfr.  E.  Bertana,  V.  A.  cit.,  p.  IW  sgg. 

'  Cfr.  O.  Del  Finto,  Il  sonetto  dell'A.  contro  Roma  in  Nuova  Rassegna, 
22  aprile  1894,  p.  500  sgg. 


182  Vittorio  Alfieri 

nettando  in  una  bettolaccia  di  Baccano,  dove  non  mi  riuscì  mai 
di  poter  chiuder  occhio.  L'andare,  lo  stare  e  il. tornare,  furono 
circa  dodici  giorni.  Rividi  nelle  due  passate  da  Siena  l'amico 
Gori,  il  quale  non  mi  sconsigliò  da  quei  nuovi  ceppi,  in  cui  già 
era  più  che  mezzo  allacciato;  onde  il  ritorno  a  Firenze  me  li 
ribadì  ben  tosto  per  sempre.  Ma  l'approssimazione  di  questa  mia 
quarta  ed  ultima  febbre  del  cuore  si  veniva  felicemente  per  me 
manifestando  con  sintomi  assai  diversi  dalle  tre  prime.  In  quelle 
io  non  m'era  ritrovato  allora  agitato  da  una  passione  dell'intel- 
letto la  quale  contrappesando  e  frammischiandosi  a  quella  del 
cuore  venisse  e  formare  (per  esprimermi  col  poeta)'  un  misto  in- 
cognito indistinto,  che  meno  d'alquanto  impetuoso  e  fervente,  ne 
riusciva  però  più  profondo,  sentito  e  durevole.  Tale  fu  la  fiamma 
che  da  quel  punto  in  poi  si  andò  a  poco  a  poco  ponendo  in 
cima  d'ogni  mio  affetto  e  pensiero,  e  che  non  si  spegnerà  oramai 
più  in  me  se  non  colla  vita.  Avvistomi  in  capo  a  due  mesi  che 
la  mia  vera  donna  era  quella,  poiché  in  vece  di  ritrovare  in  essa, 
come  in  tutte  le  volgari  donne,  un  ostacolo  alla  gloria  letteraria,  un 
disturbo  alle  utili  occupazioni,  ed  un  rimpicciolimento  direi  di 
pensieri,  io  ci  ritrovava  e  sprone  e  conforto  ed  esempio  ad  ogni 
bell'opera  ;  io,  conosciuto  ed  apprezzato  un  sì  raro  tesoro,  mi  diedi 
allora  perdutissimamente  a  lei.  E  non  errai  per  certo,  poiché  più  di 
dodici  anni  dopo,  mentr'io  sto  scrivendo  queste  chiacchiere,  en- 
trato oramai  nella  sgradita  stagione  dei  disinganni,  vieppiù  sempre 
di  essa  mi  accendo  quanto  più  vanno  per  legge  di  tempo  sce- 
mando in  lei  quei  non  suoi  pregi  passeggieri  della  caduca  bel- 
lezza. Ma  in  lei  si  innalza,  addolcisce,  e  migliorasi  di  giorno  in 
giorno  il  mio  animo,  ed  ardirò  dire  e  creder  lo  stesso  di  essa,  la 
quale  in  me  forse  appoggia  e  corrobora  il  suo. 


CAPITOLO  SESTO 
Donazione  intera  di  tutto  il  mio  alla  sorella.  Seconda  avarizia. 

Cominciai  dunque  allora  a  lavorar  lietamente,  cioè  con  animo 
pacato  e  securo,  come  di  chf  ha  ritrovato  al  fine  e  scopo  ed  ap- 
poggio. Già  era  fermo  in  me  stesso  di  non  mi  muover  più  di 
Firenze,  fintanto  almeno  che  ci  rimarrebbe  la  mia  donna  a  dimora. 

»  Aliqhieri,  Divina  Commedia,  Purg.,  VII,  81. 


La  vita  183 

Quindi  mi  convenne  mandare  ad  effetto  un  disegno  ch'io  già 
da  gran  tempo  avea  direi  abbozzato  nella  mia  mente,  e  che  poi 
mi  si  era  fatto  necessità  assoluta  dacché  avea  sì  indissolubilmente 
posto  il  cuore  in  sì  degno  oggetto. 

Mi  erano  sempre  oltre  modo  pesate  e  spiaciute  le  catene  della 
mia  natia  servitù,  e  quella  tra  l'altre,  per  cui,  con  privilegio  non 
invidiabile,  i  nobili  feudatari  sono  esclusivamente  tenuti  a  chie- 
dere licenza  ?al  re  di  uscire  per  ogni  minimo  tempo  dagli  Stati 
suoi  ;  e  questa  licenza  si  otteneva  con  qualche  difficoltà,  o  sgar- 
betto,  dal  Ministro,  e  sempre  poi  si  ottenea  limitata.  Quattro  o 
cinque  volte  mi  era  accaduto  di  doverla  chiedere,  e  benché 
sempre  l'avessi  ottenuta,  tuttavia  trovandola  io  ingiusta  (poiché 
ne  i  cadetti,  né  i  cittadini  di  nessuna  classe,  quando  non  fossero 
stati  impiegati,  erano  costretti  di  ottenerla)  sempre  con  maggior 
ribrezzo  mi  vi  era  piegato,  quanto  più  in  quel  frattempo  mi  si 
era  rinforzata  la  barba.  L'ultima  poi,  che  mi  era  venuta  chiesta, 
e  che,  come  di  sopra  accennai,  mi  era  stata  accordata  con  una 
spiacevol  parola,  mi  era  riuscita  assai  dura  a  inghiottirsi.  Cre- 
sceano,  oltre  ciò,  di  giorno  in  giorno  i  miei  scritti.  La  Virginia, 
ch'io  avea  distesa  con  quella  dovuta  libertà  e  forza  che  richiede 
il  soggetto;  l'avere  steso  quel  libro  della  Tirannide  come  se  io 
fossi  nato  e  domiciliato  in  paese  di  giusta  e  verace  libertà;  il  leg- 
gere, gustare,  e  sentir  vivamente  Tacito  e  il  Machiavelli,  e  i  pochi 
altri  simili  sublimi  e  liberi  autori;  il  riflettere  e  conoscere  pro- 
fondamente quale  si  fosse  il  mio  vero  stato,  e  quanta  l' impossi- 
bilità di  rimanere  in  Torino  stampando',  o  di  stampare  rimanen- 
dovi; l'essere  pur  troppo  convinto  che  anche  con  molti  guai  e 
pericoli  mi  sarebbe  avvenuto  di  stampar  fuori,  dovunque  ch'io 
mi  trovassi,  finché  io  rimaneva  pur  suddito  di  una  legge  nostra, 
che  quaggiù  citerò:  aggiunto  poi  finalmente  a  tutte  queste  non 
lievi  e  manifeste  ragioni  la  passione  che  di  me  nuovamente  si  era, 
con  tanta  mia'felicità  ed  utilità,  impadronita;  non  dubitai  punto, 
ciò  visto,  di  lavorare  con  la  maggior  pertinacia  ed  ardore  all'im- 
portante opera  di  spiemontìzzarmi  per  quanto  fosse  possibile;  ed 
•T  lasciare  per  sempre,  ed  anche  a  qualunque  costo  il  mio  mal 
sortito  nido  natio. 


*  L«  leggi  del  Piemonte  ordinavano  che  nessun  professore  potesse  stam- 
pare senza  il  permesso  del  Magistrato  della  Riforma,  e  niun  suddito  stam- 
pare all'estero  senza  licenza  dei  regj  censori. 


184  Vittorio  Aljieri 

Più  d'un  modo  di  farlo  mi  si  presentava  alla  mente.  Quello, 
di  andar  prolungando  d'anno  in  anno  la  licenza,  chiedendola;  ed 
era  forse  il  più  savio,  ma  rimaneva  anche  dubbio,  né  mai  mi  vi 
potea  pienamente  affidare,  dipendendo  dall'arbitrio  altrui.  Quello 
di  usar  sottigliezze,  raggiri,  e  lungaggini,  simulando  dei  debiti, 
con  vendite  clandestine,  e  altri  simili  compensi  per  realizzare  il 
fatto  mio,  ed  estrarlo  da  quel  nobil  carcere.  Ma  questi  mezzi 
eran  vili,  ed  incerti;  né  mi  piacevano  punto,  fors'anche  perché 
estremi  non  erano.  Del  resto,  avvezzo  io  per  carattere  a  sempre 
presupporre  le  cose  al  peggio,  assolutamente  voleva  anticipando 
schiarire  e  decidere  questo  fatto,  al  quale  mi  conveniva  poi  a 
ogni  modo  un  giorno  o  l'altro  venirci,  o  rinunziare  all'arte  e  alla 
gloria  di  indipendente  e  veridico  autore.  Determinato  dunque  di 
appurar  la  cosa,  e  fissare  se  avrei  potuto  salvare  parte  del  mio 
per  campare  e  stampare  fuor  di  paese,  mi  accinsi  vigorosamente 
all'impresa.  E  feci  saviamente,  ancorché  giovine  fossi,  ed  appas- 
sionato in  tante  maniere.  E  certo,  se  io  mai  (visto  il  dispotico 
governo  sotto  cui  mi  era  toccato  di  nascere),  s' io  mai  mi  fossi 
lasciato  avvantaggiare  dal  tempo,  e  trovatomi  nel  caso  di  avere 
stampato  fuori  paese  anche  i  più  innocenti  scritti,  la  cosa  diveniva 
assai  problematica  allora,  e  la  mia  sussistenza,  la  mia  gloria,  la 
mia  libertà,  rimanevano  interamente  ad  arbitrio  di  quell'autorità 
assoluta,  che  necessariamente  offesa  dal  mio  pensare,  scrivere  ed 
operare  dispettosamente  generoso  e  libero,  non  mi  avrebbe  poi 
certamente  favorito  nell'  impresa  di  rendermi  indipendente  da  essa. 

Esisteva  in  quel  tempo  una  legge  in  Piemonte,  che  dice  :  «  Sarà 
«  pur  anche  proibito  a  chicchessia  di  far  stampar  libri  o  altri  scritti 
«  fuori  de'  nostri  Stati,  senza  licenza  de'  revisori,  sotto  pena  di 
«  scudi  sessanta,  od  altra  maggiore,  ed  eziandio  corporale,  se  così 
«esigesse  qualche  circostanza  per  un  pubblico  esempio  >'.  Alla 
qual  legge  aggiungendo  quest'altra:  «  I  vassalli  abitanti  ne'  nostri 
Stati  non  potranno  assentarsi  dai  medesimi  senza  nostra  licenza 
in  iscritto  ».  E  fra  questi  due  ceppi  si  vien  facilmente  a  conchiu- 
dere, che  io  non  poteva  essere  ad  un  tempo  vassallo  ed  autore. 
Io  dunque  prescelsi  di  essere  autore.  E,  nemicissimo  coni' io  era 
d'ogni  sotterfugio  ed  indugio,  presi  per  disvassallarmi  la  più 
corta  e  la  più  piana  via,  di  fare  una  interissima  donazione  in 
vita  d'ogni  mio  stabile  sì  infeudato  che  libero  (e  questo  era  più 

>  Leggi  e  costituzioni  di  S.  M.  del  7  aprile  1770,  capo  XVI,  §  13. 


La  vita  185 

che  1  due  terzi  del  tutto)  al  mio  erede  naturale,  che  era  la  mia 
sorella  Giulia,  maritata  come  dissi  col  conte  di  Cumiana.  É  cosi 
feci  nella  più  solenne  e  irrevocabile  maniera,  rìserbandomi  una 
pensione  annua  di  lire  quattordici  mila  di  Piemonte,  cioè  zecchini 
fiorentini  1400,  che  venivano  ad  essere  poco  più  in  circa  della 
metà  della  mia  totale  entrata  d'allora.  E  contentone  io  rimanevami 
di  perdere  l'altra  metà,  o  di  comprare  con  essa  l' indipendenza 
della  mia  opinione,  e  la  scelta  del  mio  soggiorno,  e  la  libertà 
dello  scrivere.  Ma  il  dare  stabile  ed  intero  compimento  a  codesto 
affare  mi  cagionò  molte  noie  e  disturbi,  attese  le  molte  formalità 
legali,  che  trattandosi  l'affare  da  lontano  per  lettere,  consuma- 
rono necessariamente  assai  più  tempo.  Ci  vollero  oltre  ciò  le  con- 
suete permissioni  del  re;  che  in  ogni  più  privata  cosa  In  quel 
benedetto  paese  sempre  c'entra  il  re.  E  fu  d'uopo  che  il  mio 
cognato,  facendo  per  se  e  per  me,  ottenesse  dal  re  la  licenza  di 
accettare  la  mia  donazione,  e  venisse  autorizzato  a  corrisponder- 
mene queir^nuale  prestazione  in  qualsivoglia  paese  mi  fosse 
piaciuto  dimorare.  Agli  occhi  pur  anche  dei  meno  accorti  mani- 
festissima cosa  era,  che  la  principal  cagione  della  mia  donazione 
era  stata  la  determinazione  di  non  abitar  più  nel  paese:  quindi 
era  necessarissimo  di  ottenerne  la  permissione  dal  governo,  il 
quale  ad  arbitrio  suo  si  sarebbe  sempre  potuto  opporre  allo  sborso 
della  pensione  in  paese  estero.  Ma,  per  mia  somma  fortuna,  il  re 
d'allora',  il  quale  certamente  avea  notizia  del  mio  pensare  (aven- 
done io  dati  non  pochi  cenni)  egli  ebbe  molto  più  piacere  di 
darmi  l'andare  che  non  di  tenermi.  Onde  egli  consenti  subito  a 
quella  mia  spontanea  spogliazione;  ed  ambedue  fummo  conten- 
tissimi: egli  di  perdermi,  io  di  ritrovarmi. 

Ma  mi  par  giusto  di  aggiungere  qui  una  particolarità  bastan- 
temente strana,  per  consolare  con  essa  i  malevoli  miei,  e  nello 
stesso  tempo  far  ridere  alle  spalle  mie  chiunque  esaminando  sé 
«tesso  si  riconoscerà  meno  infermo  d'animo,  e  meno  bambino 
ch'io  non  mi  fossi.  In  questa  particolarità,  la  quale  in  me  si  tro- 
verà accoppiata  con  gli  atti  di  forza  che  io  andava  pure  facendo, 
si  scorgerà  da  chi  ben  osserva  e  riflette,  che  talvolta  l'uomo,  o 
almeno,  che  io  riuniva  in  me,  per  cosi  dire,  il  gigante  ed  il  nano. 
Fatto  si  è,  che  nel  tempo  stesso  eh'  io  scriveva  la  Virginia,  ed  il 
liDro  della  Tirannide;  nel  tempo  stesso  ch'io  scuoteva  così  robu- 

>  Vittorio  Amedeo  III,  il  quale  regnava  dal  febbraio  del  1773. 


186  Vittorio  Alfieri 

stamente  e  scioglieva  le  mie  originarie  catene,  io  continuava  pure 
di  vestire  l' uniforme  del  re  di  Sardegna,  essendo  fuori  paese,  e 
non  mi  trovando  più  da  circa  quattr'anni  al  servizio.  E  che  diran 
poi  i  saggi,  quand'  io  confesserò  candidamente  la  ragione  perchè 
lo  portassi?  Perchè  mi  persuadeva  di  essere  in  codesto  assetto 
assai  più  snello  e  avvenente  della  persona.  Ridi,  o  lettore,  che 
tu  n'  hai  ben  donde.  Ed  aggiungi  del  tuo:  Che  io  dunque  in  ciò 
fare,  puerilmente  e  sconclusionatamente  preferiva  di  forse  parere 
agli  altrui  occhi  più  bello,  all'essere  stimabile  ai  miei. 

La  conclusione  di  quel  mio  affare  andò  frattanto  in  lunga  dal 
gennaio  al  novembre  di  quell'anno  78;  atteso  che  intavolai  poi 
e  ultimai  come  un  secondo  trattato  la  permuta  di  lire  cinque  mila 
della  prestazione  annuale  in  un  capitale  di  lire  cento  mila  di  Pie- 
monte da  sborsarmisi  dalla  sorella.  E  questo  soffrì  qualche  diffi- 
coltà più  che  il  primo.  Ma  finalmente  consentì  anche  il  re  che 
mi  fosse  mandata  tal  somma;  ed  io  poi  con  altre  la  collocai  in 
uno  di  quei  tanti  insidiosi  vitalizi  di  Francia*.  Non  già  ch'io  mi 
fidassi  molto  più  nel  cristianissimo  che  nel  sardo  re  ;  ma  perchè 
mi  pareva  intanto  che  dimezzato  così  il  mio  avere  fra  due  diverse 
tirannidi,  ne  riuscirei  alquanto  meno  precario,  e  che  salverei  in 
tal  guisa,  se  non  la  borsa,  almeno  l' intelletto  e  la  penna. 

Di  questo  passo  della  donazione,  epoca  per  me  decisiva  e  im- 
portante (e  di  cui  ho  sempre  dappoi  benedetto  il  pensiero  e  l'e- 
sito), io  non  ne  feci  parte  alla  donna  mia,  se  non  se  dopo  che  l'atto 
principale  fu  consolidato  e  perfetto.  Non  volli  esporre  il  delicato 
suo  animo  al  cimento  di  dovermi,  o  biasimare  di  ciò,  e  come  con- 
trario al  mio  utile,  impedirmelo;  ovvero  di  lodarlo  e  approvar- 
melo, come  giovevole  in  un  qualche  aspetto  al  sempre  più  dar 
base  e  durata  al  nostro  reciproco  amore  ;  poiché  questa  sola  de- 
terminazione mia  potevami  porre  in  grado  di  non  la  dovere  ab- 
bandonare mai  più.  Quand'ella  lo  seppe,  biasimollo  con  quella 
candida  ingenuità  tutta  sua.  Ma  non  potendolo  più  impedire, 
ella  vi  si  acquetò,  perdonandomi  d'averglielo  taciuto.  E  tanto  più 
forse  mi  riamò,  né  mi  stimò  niente  meno. 

Frattanto,  mentre  io  stava  scrivendo  letfere  a  Torino,  e  riscri- 
vendo, e  tornando  a  scrivere,  perchè  si  conchiudessero  codeste 
noie  e  stitichezze  reali,  legali,  e  parentevoli;  io,  risoluto  di  non 
dar  addietro,  qualunque  fosse  per  essere  l' esito,  avea  ordinato 

i  Vitalizi  divenuti  insidiosi  ai  tempi  della  Rivoluzione. 


La  vita  187 

la  mio  Elia  che  avea  lasciato  in  Torino,  dì  vendere  tutti  i  mobili 
ed  argenti.  Egli  in  due  mesi  di  tempo,  lavorando  indefessamente 
a  ciò,  mi  avea  messi  insieme  da  sei  e  più  mila  zecchini,  che  tosto 
gli  ordinai  di  farmi  sborsare  per  mezzo  di  cambiali  in  Firenze. 
Non  so  per  qual  caso  nascesse,  che  fra  l'avermi  egli  scritto  d'aver 
questa  mia  somma  nelle  mani,  e  l'eseguire  poi  l'incarico  ch'io 
gli  avea  dato  rispondendogli  a  posta  corrente  di  mandar  le  cam- 
biali, corsero  più  di  tre  settimane  in  cui  non  ricevei  più  né  let- 
tere di  lui,  né  altro;  né  avviso  di  banchiere  nessuno.  Benché  io 
non  sia  per  carattere  molto  diffidente,  tuttavia  potea  pur  ragione- 
volmente entrare  in  qualche  sospetto,  vedendo  in  circostanze  così 
urgenti  una  sì  strana  tardanza  per  parte  di  un  uomo  così  solle- 
cito ed  esatto  come  l'Elia.  Mi  entrò  dunque  non  poca  diffidenza 
nel  cuore;  e  la  fantasia  (in  me  sempre  ardentissima)  mi  fabbricò 
questo  danno  che  era  tra  i  possibili,  come  se  veramente  g^à  mi 
fosse  accaduto.  Onde  io  credei  fermamente  per  più  di  quindici 
giorni  che  i  miei  sei  mila  zecchini  fossero  iti  all'aria  insieme  con 
l'ottima  opinione  ch'io  mi  era  sempre  giustamente  tenuta  di  quel- 
l'Elia. Ciò  posto  io  mi  trovava  allora  in  dure  circostanze.  L'af- 
fare con  la  sorella  che  non  era  sistemato  ancora  ;  e  sempre  ricevendo 
nuove  cavillazioni  dal  cognato,  che  tutte  le  sue  private  obbiezioni 
me  le  andava  sempre  facendo  in  nome  e  autorità  del  re;  io  gli 
avea  finalmente  risposto  con  ira  e  disprezzo:  che  se  essi  non 
voleano  Donato,  pigliassero  pure  Pigliato;  perchè  io  a  ogni  modo 
non  ci  tornerei  mai,  e  poco  m' importava  di  essi,  dei  lor  danari  e 
del  loro  re,  che  si  tenessero  il  tutto  e  fosse  cosa  finita.  Ed  io  era 
in  fatti  risolutissimo  all'espatriazione  perpetua,  a  costo  pur  anche 
del  mendicare.  Dunque  per  questa  parte  trovandomi  in  dubbio 
d'ogni  cosa,  e  per  quella  dei  mobili  realizzati  non  mi  vedendo 
sicuro  di  nulla,  io  me  la  passai  così  fantasticando  e  vedendomi 
sempre  la  squallida  povertà  innanzi  agli  occhi,  finché  mi  perven- 
nero le  cambiali  d'  Elia,  e  vistomi  possessore  di  quella  piccola 
somma  non  dovei  più  temere  per  la  sussistenza.  In  quei  deliri  di 
fantasia,  l'arte  che  mi  si  presentava  come  la  più  propria  per  farmi 
campare,  era  quella  del  domacavalli',  in  cui  sono  o  mi  par  d'es- 
sere maestro;  ed  è  certamente  una  delle  meno  servili.  Ed  anche 
mi  sembrava  che  questa  dovesse  riuscirmi  la  più  combinabile  con 
quella  di  poeta,  potendosi  assai  più  facilmente  scriver  tragedie 
nella  stalla  che  in  corte. 

>  Cavallerizzo. 


188  Vittorio  Alfieri 

Ma  già,  prima  di  trovarmi  in  queste  angustie  più  immaginate 
che  vere,  appena  ebbi  fatta  la  donazione,  io  avea  congedato  tutti 
i  miei  servi  meno  uno  per  me,  ed  uno  per  cucinarmi,  che  poco 
dopo  anche  licenziai.  E  da  quel  punto  in  poi,  benché  io  fossi 
già  assai  parco  nel  vitto,  contrassi  l'egregia  e  salutare  abitudine 
di  una  sobrietà  non  comune  ;  lasciato  interamente  il  vino,  il  caffè, 
e  simili,  e  ristrettomi  ai  semplicissimi  cibi  di  riso,  e  lesso,  ed 
arrosto,  senza  mai  variare  le  specie  per  anni  interi.  Dei  cavalli, 
quattro  ne  avea  rimandati  a  Torino  perchè  si  vendessero  con 
quelli  che  ci  avea  lasciati  partendone  ;  ed  altri  quattro  lì  regalai 
ciascuno  a  diversi  signori  fiorentini,  i  quali  benché  fossero  sem- 
plicemente miei  conoscenti  e  non  già  amici,  avendo  tuttavia  assai 
meno  orgoglio  di  me  gli  accettarono.  Tutti  gli  abiti  parimente 
donai  al  mio  cameriere,  ed  allora  poi  anche  sagrificai  l'uniforme'  ; 
e  indossai  l'abito  nero  per  la  sera,  e  un  turchinaccio  per  la  mat- 
tina, colori  che  non  ho  poi  deposti  mai  più,  e  che  mi  vestiranno 
fino  alla  tomba.  E  così  in  ogni  altro  genere  mi  andai  sempre  più 
restrìngendo  anche  grettamente  al  semplicissimo  necessario,  a  tal 
segno  ch'io  mi  ritrovai  ad  un  medesimo  tempo  e  donator  d'ogni 
cosa  ed  avaro. 

Dispostissimo  in  questa  guisa  a  tutto  ciò  che  mai  mi  potrebbe 
accadere  di  peggio,  non  mi  tenendo  aver  altro  che  quei  sei  mila 
zecchini,  che  subito  inabissai  in  uno  dei  vitalizi  di  Francia;  ed 
essendo  la  mìa  natura  sempre  inclinata  agli  estremi,  la  mia  eco- 
nomia e  indipendenza  andò  a  poco  a  poco  tant'oltre,  che  ogni 
giorno  inventandomi  una  nuova  privazione,  caddi  nel  sordido 
quasi:  e  dico  quasi;  perchè  pur  sempre  mutai  la  camicia  ogni 
giorno  e  non  trascurai  la  persona  ;  ma  lo  stomaco,  se  a  lui  toc- 
casse di  scrivere  la  mia  vita,  tolto  ogni  quasi,  direbbe  ch'io 
m'era  fatto  sordidissimo.  E  questo  fu  il  secondo,  e  crederei  l' ul- 
timo eccesso  di  un  sì  fastidioso  e  sì  turpe  morbo,  che  degrada 
pur  tanto  l'animo,  e  l' intelletto  restringe.  Ma  benché  ogni  giorno 
andassi  sottilizzando  per  negarmi  o  diminuirmi  una  qualche  cosa, 
io  andava  pure  spendendo  in  libri,  e  non  poco.  Raccolsi  allora 
quasi  tutti  i  libri  nostri  dì  lìngua-,  ed  in  copia  le  più  belle  edi- 
zioni dei  classici  latini.  E  tutti  l'un  dopo  l'altro,  e  replicatamente 

1  Veramente  sappiamo  che  dnU'SS  all'SQ,  «  nelle  più  solenni  occorrenze  », 
egli  indossava  ancora  l'uniforme  sarda.  Cfr.  A.  D'Ancona,  Varietà  sto- 
riche e  letterarie,  1*  serie  cit.,  p.  181. 

*  I  nostri  testi  di  lingua. 


La  vita  189 

li  lessi,  ma  troppo  presto  e  con  troppa  avidità,  onde  non  mi  fecero 
quel  frutto  che  me  ne  sarebbe  ridondato  leggendoli  pacatamente, 
e  ingoiandomi  le  note.  Cosa  alla  quale  mi  son  poi  piegato  tar- 
dissimo, avendo  sempre  da  giovane  anteposto  l'indovinare  i  passi 
difficili,  o  il  saltarli  a  pie  pari,  all'appianarmeli  colla  lettura  e 
meditazione  dei  commenti. 

Le  mie  composizioni  frattanto  nel  decorso  di  quell'anno  bor- 
saio '  1778,  non  dirò  che  fossero  tralasciate,  ma  elle  si  risentivano 
di  tanti  disturbi  antiletterari  in  cui  m'era  ingolfato  di  necessità. 
E  circa  poi  al  punto  principale  per  me,  cioè  la  padronanza  della 
lingua  toscana,  mi  si  era  aggiunto  anche  un  nuovo  ostacolo,  ed 
era,  che  la  mia  donna  non  sapendo  allora  quasi  punto  l' italiano, 
io  mi  era  trovato  costretto  a  ricader  nel  francese,  parlandolo  e 
sentendolo  parlare  continuamente  in  casa  sua.  Nel  rimanente  del 
giorno  io  cercava  poi  il  contravveleno  dei  gallicismi  nei  nostri 
ottimi  e  noiosi  prosatori  trecentisti,  e  feci  su  questo  proposito 
delle  fatiche  niente  poetiche,  ma  veramente  da  asino.  A  poco  a 
poco  pure  spuntai,  che  l'amata  imparasse  perfettamente  l'italiano* 
si  per  leggere  che  per  parlare;  e  vi  riusci  quanto  e  più  ch'altra 
mai  forestiera  che  vi  si  accingesse  ;  e  lo  parlò  anzi  con  una  assai  mi- 
gliore pronunzia  che  non  lo  parlano  le  donne  d'Italia  non  Toscane, 
che  tutte,  o  sian  Lombarde,  o  Veneziane,  o  Napoletane  o  anche 
Romane,  lacerano  quale  in  un  modo  quale  nell'altro  ogni  orecchio 
che  siasi  avvezzo  al  soavissimo  e  vibratissimo  accento  toscano.  Ma 
per  quanto  la  mia  donna  non  parlasse  tosto  altra  lingua  con  me, 
tuttavia  la  casa  sua  sempre  ripiena  di  oltramontaneria  era  per  il 
mio  povero  toscanismo  un  continuo  martirio;  talché,  oltre  pa- 
recchie altre,  io  ebbi  anche  questa  contrarietà,  di  essere  stato 
presso  che  tre  anni  allora  in  Firenze,  e  d'avervi  assai  più  dovuto 
ingoiare  dei  suoni  francesi,  che  non  dei  toscani.  E  in  quasi  tutto 
il  decorso  della  mia  vita,  finora,  mi  è  toccata  in  sorte  questa  bar- 
barla di  gallicheria  :  onde,  se  io  pure  sarò  potuto  riuscire  a  scri- 
vere correttamente,  puramente,  e  con  sapore  di  toscanità  (senza 
però  ricercarla  con  affettazione  e  indiscrezione),  ne  dovrò  riportar 
doppia  lode,  attesi  gli  ostacoli:  e  se  riuscito  non  ci  sono,  ne 
meriterò  ampia  scusa. 

»  Anno  in  cui,  per  avarìzia,  mi  preoccupi!!  soverchiamente  del  miei  Inte- 
ressi materiali. 

*  Veramente  la  contessa. d'Albany  non  imparò  mal  perfettamente  VW».' 
liano,  e  si  servì  sempre  di  un  francese  scorrettissimo  e  stentato. 


190  Vittorio  Alfieri 

CAPITOLO  SETTIMO 
Caldi  studj  in  Firenze. 

Nell'aprile  del  78,  dopo  aver  verseggiata  la  Virginia,  e  quasi 
che  tutto  l'Agamennone,  ebbi  una  breve  ma  forte  malattia  infiam- 
matoria, con  un'angina,  che  costrinse  il  medico  a  dissanguarmi  ; 
il  che  mi  lasciò  una  lunga  convalescenza,  e  fu  epoca  per  me  di 
un  notabile  indebolimento  di  salute  in  appresso.  L'agitazione,  i 
disturbi,  lo  studio,  e  la  passione  di  cuore  mi  aveano  fatto  infer- 
mare ;  e  benché  poi  nel  finir  di  quell'anno  cessassero  interamente 
i  disturbi  d' interesse  domestico,  lo  studio  e  l'amore  che  sempre 
andarono  crescendo,  bastarono  a  non  mi  lasciar  più  godere  in 
appresso  di  quella  robustezza  d'idiota  ch'io  mi  era  andata  for- 
mando in  quei  dieci  anni  di  dissipazione,  e  di  viaggi  quasi  con- 
tinui. Tuttavia  nel  venir  poi  dell'estate,  mi  riebbi,  e  moltissimo 
lavorai.  L'estate  è  la  mia  stagion  favorita:  e  tanto  più  mi  si  confà, 
quanto  più  eccessiva  riesce;  massimamente  pel  comporre.  Fin  dal 
maggio  di  quell'anno  avea  dato  principio  ad  un  poemetto  in  ottava 
rima,  su  la  uccisione  del  duca  Alessandro  da'  Lorenzino  de'  Me- 
dici; fatto,  che  essendomi  piaciuto  molto,  ma  lo  non  trovando  su- 
scettibile di  tragedia,  mi  si  affacciò  piuttosto  come  poema.  Lo 
andava  lavorando  a  pezzi,  senza  averne  steso  abbozzo  nessuno, 
per  esercitarmi  al  far  rime,  da  cui  gli  sciolti  delle  oramai  già  tante 
tragedie  mi  andavano  deviando.  Andava  anche  scrivendo  alcune 
rime  d'amore,  sì  per  lodare  la  mia  donna,  che  per  isfogare  le 
tante  angustie  in  cui  attese  le  di  lei  circostanze  domesticlie  mi 
conveniva  passare  molt'ore.  E  hanno  cominciamento  le  mie  rime 
per  essa,  da  quel  sonetto  (tra  gli  stampati  da  me)  che  dice: 

Negri,  vivaci,  in  dolce  fuoco  ardenti: 

dopo  il  quale  tutte  le  rime  amorose  che  seguono,  tutte  sono  per 
essa,  e  ben  sue,  e  di  lei  solamente,  poiché  mai  d'altra  donna  per 
certo  non  canterò.  E  mi  pare  che  in  esse  (siano  con  più  o  meno  feli- 
cità ed  eleganza  concepite  e  verseggiate),  vi  dovrebbe  pure  per  lo 

1  Da  parte  di.  —  Allude  al  poemetto  in  quattro  canti  L'Etniria  vendi' 
cata,  stampato  a  Kehl  nel  1788-89  colla  data  del  MDCCC,  il  cui  intento 
fondamentale,  simile  a  quello  di  molte  tragedie,  è  la  esaltazione  dei 
tirannicidio. 


La  vita  191 

più  trasparire  quell'immenso  affetto  che  mi  sforzava  di  scriverle,  e 
ch'io  ogni  giorno  più  mi  sentiva  crescer  per  lei:  e  ciò  massi- 
mamente, credo,  si  potrà  scorgere  nelle  rime  scritte  quando  poi 
mi  trovai  per  gran  tempo  disgiunto  da  essa. 

Torno  alle  occupazioni  del  78.  Nel  luglio  distesi  con  una  febbre 
frenetica  di  libertà  la  tragedia  de^  Pazzi;  quindi  immediatamente 
il  Don  Garzia.  Tosto  dopo  ideai  e  distribuii  in  capitoli  i  tre  libri 
Del  principe  e  delle  lettere'^,  e  ne  distesi  i  tre  primi  capitoli.  Poi, 
non  mi  sentendo  lingua  abbastanza  per  ben  esprimere  i  miei  pen- 
samenti, lo  differii  per  non  averlo  poi  a  rifonder  tatto  allorché 
ci  tornerei  per  correggerlo.  Nell'agosto  di  quell'anno  stesso,  a 
^ggerimento  e  soddisfazione  dell'amata,  ideai  la  Aìaria  Stuarda. 
Dal  settembre  in  giù  verseggiai  l'Oreste,  con  cui  terminai  quel- 
l'anno per  me  travagliatissimo. 

Passavano  allora  i  miei  giorni  in  una  quasi  perfetta  calma;  e 
sarebbe  stata  intera,  se  non  fossi  f4»to  spesso  angustiato  del  ve- 
dere la  mia  donna  angustiata  da  continui  dispiaceri  domestici 
cagionatile  dal  querulo,  sragionevole,  e  sempre  ebro  attempato 
marito.  Le  sue  pene  eran  mie:  e  vi  ho  successivamente  patito 
dolori  di  morte.  Io  non  la  potevo  vedere  se  non  la  sera,  e  tal- 
volta a  pranzo  da  lei;  ma  sempre  presente  lo  sposo,  o  al  più 
standosi  egli  di  continuo  nella  camera  contigua.  Non  già  ch'egli 
avesse  ombra  di  me  più  che  d'altri  ;  ma  era  tale  il  di  lui  sistema; 
ed  in  nove  anni  e  più  che  vissero  insieme  quei  due  coniugi,  mai 
e  poi  mai  e  poi  mai  non  è  uscito  egli  di  casa  senza  di  lei,  né 
ella  senz'esso:  continuità,  che  riuscirebbe  stucchevole  per  fino  fra 
due  coetanei  amanti.  Io  dunque  tutto  l'intero  giorno  me  ne  stava 
in  casa  studiando,  dopo  aver  cavalcato  la  mattina  per  un  par 
d'ore  un  ronzino  d'affitto  per  mera  salute.  La  sera  poi  io  tro- 
vava il  sollievo  della  sua  vista,  ma  amareggiato  pur  troppo  dal 
vederla  come  dissi  quasi  sempre  afflitta,  ed  oppressa.  Se  io  non 
avessi  avuta  la  tenacissima  occupazione  dello  studio,  non  mi  sarei 
potuto  piegare  al  vederla  si  poco,  e  in  tal  modo.  Ma  anche,  se 
io  non  avessi  avuto  quell'unico  sollievo  della  sua  dolcissima  vista 
per  contravveleno  all'asprezza  della  mia  solitudine,  non  avrei  mai 
potuto  resistere  a  uno  studio  così  continuo,  e  così,  direi,  arrabbiato. 

«  In  questi  tre  libri,  compiuti  tra  il  1785  e  il  1786,  l'A.,  scettico  in  ma- 
teria di  progressi  scientifici,  tratta  degli  intenti  ch'egli  assegnava  rleUt- 
tere,  le  quali,  se  <  figlie  di  liberti  e  di  virtù  >,  possono  aiutare  e  promuo- 
vere il  «  bel  vivere  libero  e  civile  ». 


192  Vittorio  Ai/ieri 

In  tutto  il  79  verseggiai  la  Congiura  de'  Pazzi;  ideai  la  Ro~ 
smunda,  l'Ottavia,  e  il  Timoleone:  stesi  la  Rosmunda,  e  Maria 
Stuarda;  verseggiai  il  Don  Garzia;  terminai  il  primo  canto  del 
poema,  e  inoltrai  non  poco  il  secondo. 

In  mezzo  a  sì  calde  e  faticose  occupazioni  della  mente,  mi  tro- 
vava anche  soddisfatti  gli  affetti  del  cuore,  tra  l'amata  donna 
presente,  due  amici  lontani,  con  cui  mi  andava  sfogando  per  let- 
tere. Era  l'uno  di  questi,  il  Gori  di  Siena,  il  quale  anche  due  o 
tre  volte  era  venuto  in  Firenze  a  vedermi:  l'altro  era  l'ottimo 
abate  di  Caluso,  il  quale  verso  la  metà  di  quell'anno  79  venne 
poi  in  Firenze,  chiamatovi  in  parte  dall'  intenzione  di  godersi  per 
un  anno  quella  beatissima  lingua  toscana,  ed  in  parte  (me  ne 
lusingo)  chiamatovi  dal  piacere  di  essere  con  chi  gli  voleva  tanto 
bene  quanto  io  ;  ed  anche  per  darsi  ai  suoi  studi  più  quetamente 
e  liberamente  che  non  gli  veniva  fatto  in  Torino,  dove  fra  i  suoi 
tanti  e  fratelli,  e  nipoti,  e  cugini,  e  indiscreti  d'altro  genere,  la  di 
lui  mansueta  e  condiscendente  natura  lo  costringeva  ad  essere 
assai  più  d'altri  che  suo.  Un  anno  presso  che  intero  egli  stette 
dunque  in  Firenze  ;  ci  vedevamo  ogni  giorno,  e  si  passava  insieme 
di  molte  ore  del  dopo  pranzo.  Ed  io  nella  di  lui  piacevole  ed 
erudita  conversazione  imparai  senza  quasi  avvedermene  più  cose 
assai  che  non  avrei  fatto  in  molti  anni  sudando  su  molti  libri, 
E  tra  l'altre,  quella  di  cui  gli  avrò  eterna  gratitudine,  si  è  di 
avermi  egli  insegnato  a  gustare  e  sentire  e  discernere  la  bella 
ed  immensa  varietà  dei  versi  di  Virgilio,  da  me  fin  allora  sol- 
tanto Ietti  ed  intesi  ;  il  che  per  la  lettura  di  un  poeta  di  tal  fatta, 
e  per  l'utile  che  ne  dee  ridondare  a  chi  legge,  viene  a  dir  quanto 
nulla.  Ho  tentato  poi  (non  so  con  quanta  felicità)  di  trasportare 
nel  mio  verso  sciolto  di  dialogo  quella  incessante  varietà  d'ar- 
monia, per  cui  raramente  due  versi  somigliantisi  si  accoppino; 
quelle  diverse  sedi  d'interrompimento\  e  quelle  trasposizioni  (per 
quanto  l'indole  della  lingua  nostra  il  concede),  dalle  quali  il  ver- 
seggiar di  Virgilio  riesce  sì  maraviglioso,  e  si  diverso  da  Lucano, 
da  Ovidio,  e  da  tutti.  Differenze  difficili  ad  esprimersi  con  parole, 
e  poco  concepibili  da  chi  dell'arte  non  è.  Ed  era  pur  necessario 
ch'io  mi  andassi  aiutando  qua  e  là  per  far  tesoro  di  forme  e  di 
modi,  per  cui  il  meccanismo  del  mio  verso  tragico  assumesse  una 
faccia  sua  propria,  e  si  venisse  a  rialzare  da  per  sé,  per  forza  di 
struttura;  mentre  non  si  può  in  tal  genere  di  composizione  aiu- 

>  Cesura. 


La  vita  I9i 

tare  il  verso,  né  gonfiarlo  con  i  lunghi  periodi,  né  con  le  molte 
immagini,  né  con  le  troppe  trasposizioni,  né  con  la  soverchia 
pompa  o  stranezza  dei  vocaboli,  né  con  ricercati  epitteti  :  ma  la 
sola  semplice  e  dignitosa  sua  giacitura  di  parole  infonde  in  esso 
la  essenza  del  verso,  senza  punto  fargli  perdere  la  possibile  natu- 
ralezza del  dialogo.  Ma  tutto  questo,  ch'io  forse  qui  mal  esprimo, 
e  ch'io  avea  fin  d'allora,  e  ogni  dì  più  caldamente,  scolpito  nella 
mente  mia,  non  lo  acquistai  nella  penna  se  non  se  molti  anni 
dopo,  se  pur  mai  lo  acquistai:  e  forse  fu  quando  poi  ristampai 
le  tragedie  in  Parigi.  Che  se  il  leggere,  studiare,  gtistare,  e  di- 
scernere, e  sviscerare  le  bellezze  ed  i  modi  del  Dante  e  Petrarca 
mi  poterono  infonder  forse  la  capacità  di  rimare  sufficientemente 
e  con  qualche  sapore;  l'arte  del  verso  sciolto  tragico  (ove  ch'io 
mi  trovassi  poi  d'averla  o  avuta  o  accennata)  non  la  ripeterò  da 
altri  che  da  Virgilio,  dal  Cesarotti,  e  da  me  medesimo.  Ma  intanto, 
prima  che  io  pervenissi  a  dilucidare  in  me  l'essenza  di  questo 
stile  da  crearsi,  mi  toccò  in  sorte  di  errare  assai  lungamente  bran- 
colando, e  di  cadere  anche  spesso  nello  stentato  ed  oscuro,  per  voler 
troppo  sfuggire  il  fiacco  ed  il  triviale  ;  del  che  ho  ampiamente  par- 
lato altrove*,  quando  mi  occorse  di  dare  ragione  del  mio  scrivere. 
Nell'anno  susseguente,  1780,  verseggiai  la  Maria  Stuarda;  stesi 
VOtfavia  e  il  Timoleone;  di  cui,  questa  era  frutto  della  lettura 
di  Plutarco,  ch'io  avea  anche  ripigliato;  quella,  era  figlia  mera - 
di  Tacito,  eh'  io  leggeva  e  rileggeva  con  trasporto.  Riverseggiai 
inoltre  tutto  intero  il  Filippo,  per  la  terza  volta,  sempre  sceman- 
dolo di  parecchi  versi  ;  ma  egli  era  pur  sempre  quello  che  si  risen- 
tiva il  più  della  sua  origine  bastarda,  pieno  di  tante  forme  stra- 
niere ed  impure.  Verseggiai  la  Rosmunda,  e  gran  parte  AtW Ottavia, 
ancorché  verso  il  finir  di  quell'anno  la  dovessi  poi  interrompere, 
attesi  i  fieri  disturbi  di  cuore  che  mi  sopravvennero. 

CAPITOLO  OTTAVO 

Accidente,  per  cui  di  nuovo  rivedo  Napoli  e  Roma,  dove  mi  fisso. 

La  donna  mia  (come  più  volte  accennai)  vivevasi  angustiatis- 

•^ima;  e  tanto  poi  crebbero  quei  dispiaceri  domestici,  e  le  con- 

;iue  vessazioni  del  marito  si  terminarono  finalmente  in  una  si 


>  Nella  Risposta  al  Calssbigi. 

•  Vera  e  propria,  era  cioè  ispirata  ciclusivamonfe  da  Taciio. 


13.  -  Oastict  ItaUant.  N.  2. 


ÌH  \^ittorio  Alfieri 

violenta  scena  baccanale  nella  notte  di  Sant'Andrea,  ch'ella  per 
non  soccombere  sotto  sì  orribili  trattamenti'  fu  alla  per  fine 
costretta  di  cercare  un  modo  per  sottrarsi  a  sì  fatta  tirannia,  e 
salvare  la  salute  e  la  vita.  Ed  ecco  allora,  che  io  di  bel  nuovo 
dovei  (contro  la  natura  mia)  raggirare-  presso  i  potenti  di  quel 
governo,  per  indurli  a  favorire  la  liberazione  di  quell'innocente, 
vittima  da  un  giogo  sì  barbaro  e  indegno.  Io,  assai  ben  conscio 
a  me  stesso  che  in  codesto  fatto  operai  più  pel  bene  d'altri  che 
non  per  il  mio;  conscio,  ch'io  mai  non  diedi  consiglio  estremo 
alla  mia  donna,  se  non  quando  i  mali  suoi  divennero  estremi 
davvero,  perchè  questa  è  sempre  stata  la  massima  ch'io  ho  voluta 
praticare  negli  affari  altrui,  e  non  mai  ne'  miei  proprj  ;  e  conscio 
finalmente  ch'era  cosa  oramai  del  tutto  impossibile  di  proce- 
dere altrimenti,  non  mi  abbassai  allora  né  mi  abbasserò  mai  a 
purgarmi  delle  stolide  e  maligne  imputazioni  che  mi  si  fecero 
in  codesta  occorrenza.  Mi  basti  il  dire,  che  io  salvai  la  donna 
mia  dalla  tirannide  d'un  irragionevole  e  sempre  ubriaco  padrone, 
senza  che  pure  vi  fosse  in  nessunissimo  modo  compromessa  la 
di  lei  onestà,  né  leso  nella  minima  parte  il  decoro  di  tutti.  Il  che 
certamente  a  chiunque  ha  saputo  o  visto  dappresso  le  circostanze 
particolari  «della  prigionia  durissima  in  cui  ella  di  continuo  ad 
oncia  ad  oncia  moriva,  non  parrà  essere  stata  cosa  facile  a  ben 
condursi,  e  riuscirla,  come  pure  riuscì,  a  buon  esito. 

Da  prima  dunque  essa  entrò  in  un  monastero  in  Firenze,  con- 
dottavi dallo  stesso  marito  come  per  visitar  quel  luogo,  e  dovu- 
tavela  poi  lasciare  con  somma  di  lui  sorpresa,  per  ordine  e  dispo- 
sizioni date  da  chi  allora  comandava  in  Firenze^.  Statavi  alcuni 

>  Il  30  novembre  1780,  giorno  di  S.  Andrea,  il  Conte  convinto  della  cor- 
rispondenza amorosa  della  moglie  con  l'A.,  le  fece  una  scenata,  e  nella 
notte  pare  tentasse  strangolarla. 

»  Prestare  i  miei  offici. 

*  €  La  Stolberg  riusci  ad  uscir  dalle  mani  del  marito  con  una  ingegnosa 
astuzia.  Un  bel  giorno,  sui  primi  di  dicembre  una  certa  signora  Orlan- 
din!  accompagnata  da  un  irlandese,  suo  damo,  si  presenta  ai  palazzo  Gua- 
dagni, dimora  del  conte  d'Albany,  proponendo  alla  Contessa  di  recarsi  a 
vedere  certi  stupendi  lavori  d'ago  nel  monastero  delle;  Bianchette 'in  via 
del  Mandorlo.  La  proposta  è  accettata.  Il  Conte  però  accompagna  la  moglie, 
e  la  brigata  s'avvia:  le  donne  innanzi;  il  Conte  e  l'irlandese  dietro.  Ar- 
rivano al  monastero  ;  le  donne  salgono  speditamente  la  gradinata  che  mena 
alla  porta;  il  Conte  invece  deve  salire  più  lentamente;  e  quando  giunge 
alla  porta,  le  signore  sono  già  entrate,  e  la  porta  gli  è  chiusa  in  faccia. 
Non  valsero  strepiti  né  proteste;  la  moglie  non  potè  riaverla  più,  perchè 
il  governo  granducale  stava  contro  di  lui.  »  [J5.J. 


La  vita  195 

giorni,  venne  poi  dal  di  lei  cognato  chiamata  in  Roma,  dove  egli 
abitava,  e  quivi  pure  si  ritirò  in  altro  monastero  '.  E  le  ragioni 
di  sì  fatta  rottura  tra  lei  e  il  marito  furono  tante  e  sì  manifeste, 
che  la  separazione  fu  universalmente  approvata. 

Partita  essa  dunque  per  Roma  verso  il  finir  di  decembre,  io 
me  ne  rimasi  come  orbo  derelitto  in  Firenze  ;  ed  allora  fui  vera- 
mente convinto  nell'intimo  della  mente  e  del  cuore,  ch'io  senza 
di  lei  non  rimanea  neppur  mezzo,  trovandomi  assolutamente  quasi 
incapace  d'ogni  applicazione,  e  d'ogni  bell'opera,  né  mi  curando 
più  punto  né  della  tanto  ardentemente  bramata  gloria,  né  di  me 
stesso.  In  codesto  affare  io  avea  dunque  sì  caldamente  lavorato 
per  l'util  suo,  e  pel  danno  mio  ;  poiché  ninna  infelicità  mi  potea 
mai  toccare  maggiore,  che  quella  di  non  punto  vederla.  Io  non 
poteva  decentemente  seguitarla  sì  tosto  in  Roma.  Per  altra  parte 
non  mi  era  possibile  più  di  campare  in  Firenze.  Vi  stetti  tuttavia 
tutto  il  gennaio  dell'81,  e  mi  parvero  quelle  settimane,  degli  anni, 
né  potei  poi  proseguire  nessun  lavoro,  né  lettura,  né  altro.  Presi 
di^nqne  il  compenso  di  andarmene  a  Napoli  ;  e  scelsi,  come  ben  vede 
ciascuno,  espressamente  Napoli,  perché  ci  si  va  passando  di  Roma. 

Già  da  un  anno  e  più  mi  si  era  di  bel  nuovo  diradata  la  sozza 
caligine  della  seconda  accennata  avarizia.  AveVa  collocato  in  due 
volte  più  di  centosessanta  mila  franchi  nei  vitalizi  di  Francia;  il 
che  mi  facea  tenere  sicura  oramai  la  sussistenza  indipendente- 
mente dal  Piemonte.  Onde  io  era  tornato  ad  una  giusta  spesa; 
ed  avea  ricomperato  cavalli,  ma  soli  quattro,  che  ad  un  poeta 
n'avanzano.  Il  caro  abate  di  Caluso  era  anche  tornato  a  Torino 
da  più  di  sei  mesi  ;  quindi  io  senza  nessuno  sfogo  d'amicizia,  e 
privo  della  mia  donna,  non  mi  sentendo  più  esistere,  il  bel  primo 
di  febbraio  mi  avviai  bel  bello  a  cavallo  verso  Siena,  per  abbrac- 
ciarvi l'amico  Qori,  e  sgombrarmi  un  po'  il  cuore  con  esso.  Indi 
proseguii  verso  Roma,  la  di  cui  approssimazione  mi  facea  pal- 
pitare; tanto  è  diverso  l'occhio  dell'amante  da  tutti  gli  altri.  Quella 
regione  vuota  insalubre,  che  tre  anni  innanzi  mi  parea  quel  ch'era, 
in  questo  venire  mi  si  presentava  come  il  più  delizioso  soggiorno 
del  mondo. 

Oiunsi;  la  vidi,  (oh  Dio,  mi  si  spacca  ancora  il  cuore  pensan- 
dovi) la  vidi  prigioniera  dietro  una  grata,  meno  vessata  però  che 

»  D«l  cognato,  ctrdinale  Enrico  Benedetto  Stuart,  duca  di  York,  venne 
fatta  ospitare  alle  Orboline. 


196  Vittorio  Alfieri 

non  l'avea  vista  in  Firenze,  ma  per  altra  cagione  non  la  rividi 
meno  infelice.  Eramo  in  somma  disgiunti;  e  chi  potea  sapere 
per  quanto  il  saremmo?  Ma  pure,  io  mi  appagava  piangendo, 
ch'ella  si  potesse  almeno  a  poco  a  poco  ricuperare  in  salute;  e 
pensando,  eh'  ella  potrebbe  pur  respirare  un'  aria  più  libera,  dor- 
mire tranquilli  i  suoi  sonni,  non  sempre  tremare  di  quella  indi- 
visibile ombra  dispettosa  dell' ebro  marito,  ed  esistere  in  somma; 
tosto  mi  pareano  e  men  crudeli  e  men  lunghi  gli  orribili  giorni 
di  lontananza,  a  cui  mi  era  pur  forza  di  assoggettarmi. 

Pochissimi  giorni  mi  trattenni  in  Roma;  ed  in  quelli,  amore 
mi  fece  praticare  infinite  pieghevolezze  e  destrezze,  ch'io  non 
avrei  poste  in  opera  né  per  ottenere  l'imperio  dell'universo: 
pieghevolezze,  ch'io  ferocemente  ricusai  praticare  dappoi,  quando 
presentandomi  al  limitare  del  tempio  della  Gloria,  ancorché  molto 
dubbio  se  vi  potrei  ottenere  l'accesso  non  ne  volli  pur  mai  lusin- 
gare né  incensare  coloro  che  n'erano  o  si  teneano,  custodi  di 
esso.  Mi  piegai  allora  al  far  visite,  al  corteggiare  per  anche  il  di 
lei  cognato,  dal  quale  soltanto  dipendeva  oramai  la  di  lei  futura 
total  libertà,  di  cui  ci  andavamo  entrambi  lusingando.  Io  non  mi 
estenderò  gran  fatto  sul  proposito  di  questi  due  personaggi  fra- 
telli, perchè  furono  in  quel  tempo  notissimi  a  ciascheduno:  e 
sebbene  poi  verisimilmente  l'obblio  gli  avrà  sepolti  del  tutto  col 
tempo,  a  me  non  si  aspetta  di  trarneli,  laudare  non  li  potendo, 
né  li  volendo  biasimare.  Ma  intanto  l'aver  io  umiliato  il  mio 
orgoglio  a  costoro,  può  riuscire  bastante  prova  dell'immenso 
mio  amore  per  essa. 

Partii  per  Napoli,  come  promesso  l'avea,  e  come,  delicatamente 
operando,  il  dovea.  Questa  separazione  seconda  mi  riuscì  ancora 
più  dolorosa  della  prima  in  Firenze.  E  già  in  quella  prima  lon- 
tananza di  circa  quaranta  giorni,  io  avea  provato  un  saggio  fu- 
nesto delle  amarezze  che  mi  aspettavano  in  questa  seconda,  più 
lunga  ed  incerta. 

In  Napoli  la  vista  di  quei  bellissimi  luoghi  non  essendo  nuova 
per  me,  ed  avendo  io  una  si  profonda  piaga  nel  cuore,  non  mi 
diede  quel  sollievo  eh'  io  me  ne  riprometteva.  I  libri  erano  quasi 
che  nulla  per  me;  i  versi  e  le  tragedie  andavan  male,  o  si  sta- 
vano; ed  in  somma  io  non  campava  che  di  posta  spedita,  e  di 
posta  ricevuta,  a  nuli' altro  potendo  rivolger  l'animo  se  non  se 
alla  mia  donna  lontana.  E  me  n'andava  sempre  solitario  caval- 
cando per  quelle  amene  spiagge  di  Posilipo  e  Baja,  o  verso  Ca- 


La  vita  197 

pova  e  Caserta,  o  altrove,  per  lo  più  piangendo;  e  si  fattamente 
annichilato,  che  col  cuore  traboccante  d'affetti  non  mi  veniva 
con  tutto  ciò  neppur  voglia  di  tentare  di  sfogarlo  con  rime. 
Passai  in  tal  guisa  il  rimanente  di  febbraio,  sin  al  mezzo  maggio. 
Tuttavia  in  certi  momenti  meno  gravosi  facendomi  forza, 
qualche  poco  andai  lavorando.  Terminai  di  verseggiare  l'Ot- 
tavia', e  riverseggiai  piìi  che  mezzo  il  Polinice,  che  mi  pare  di 
una  pasta  di  verso  alquanto  migliorata.  Avendo  finito  l'anno  in- 
nanzi il  secondo  canto  del  poemetto,  mi  volli  accingere  al  terzo; 
ma  non  potei  procedere  oltre  la  prima  stanza,  essendo  quello  un 
t«ma  troppo  lieto ^  per  quel  mio  misero  stato  d'allora.  Sicché  lo 
scriver  lettere,  e  il  rileggere  cento  volte  le  lettere  ch'io  ricevea 
di  lei,  furono  quasi  esclusivamente  le  mie  occupazioni  di  quei 
quattro  mesi.  Gli  affari  della  mia  donna  si  andavano  frattanto 
rischiarando  alquanto,  e  verso  il  fin  di  marzo  ella  avea  ottenuto 
licenza  dal  Papa  di  uscire  di  monastero,  e  di  starsene  tacitamente 
come  divisa  dal  marito  in  un  appartamento  che  il  cognato  (abi- 
tante sempre  fuori  di  Roma)'  le  rilasciava  nel  di  lui  palazzo*  in 
città.  Io  avrei  voluto  tornar  a  Roma,  e  sentiva  pure  benissimo 
che  per  allora  non  si  doveva.  I  contrasti  che  prova  un  cuor  tenero 
ed  onorato  fra  l'amore  e  il  dovere,  sono  la  più  terribile  e  mortai 
passione  eh'  uomo  possa  mai  sopportare.  Io  dunque  indugiai  tutto 
l'aprile,  e  tutto  il  maggio  m'era  anche  proposto  di  strascinarlo 
così,  ma  verso  il  dodici  d'esso  mi  ritrovai,  quasi  senza  saperlo, 
in  Roma.  Appena  giuntovi,  addottrinato  ed  inspirato  dalla  ne- 
cessità e  da  amore,  diedi  proseguimento  e  compimento  al  già 
intrapreso  corso  di  pieghevolezze  e  astuziole  cortigianesche  per 
pure  abitare  la  stessa  città  e  vedervi  l'adorata  donna.  Onde  dopo 
tante  smanie,  fatiche,  e  sforzi  per  farmi  libero,  mi  trovai  trasfor- 
nlato  ad  un  tratto  in  un  uomo  visitante,  riverenziante,  e  pìag- 
giante  in  Roma,  come  un  candidato  che  avrebbe  postulato  inol- 
trarsi nella  prelatura.  Tutto  feci,  a  ogni  cosa  mi  piegai,  e  rimasi 
in  Roma,  tollerato  da  quei  barbassori,  e  aiutato  anco  da  quei 
pretacchiuoli  che  aveano  o  si  pigliavano  una  qualche  ingerenza 
negli  affari  della  donna  mia.  Ma  buon  per  essa,  che  non  dipen- 
deva dal  cognato,  e  dalla  di  lui  trista  sequela,  se  non  se  nelle 


'  Quale  l'uccisione  di  un  tiranno,  per  chi,  come  l'A.,  odiava  la  tirannia. 
*  Nella  sua  diocesi  d'Albano. 
»  Della  Caifclleria. 


198  Vittorio  Alfieri 

cose  di  mera  convenienza,  e  nulla  poi  nelle  di  lei  sostanze  le 
quali  essa  aveva  in  copia  per  altra  parte  ^  ed  assai  onorevoli,  e 
per  allora  sicurissime. 

CAPITOLO  NONO 

Studj  ripresi  ardentemente  in  Roma. 
Compimento  delle  quattordici  prime  Tragedie. 

Tosto  ch'io  un  tal  poco  respirai  da  codesti  esercizi  di  semi- 
servitù, contento  oltre  dire  di  un'onesta  libertà  per  cui  mi  era 
dato  di  visitare  ogni  sera  l'amata,  mi  restituii  tutto  intero  agli 
studi.  Ripreso  dunque  il  Polinice,  terminai  di  riverseggiarlo;  e 
senza  più  ripigliar  fiato,  proseguii  da  capo  l' Antigone,  poi  la 
Virginia,  e  successivamente  V  Agamennone,  V  Oreste,  i  Pazzi,  il 
Garzia  ;  poi  il  Timoleone  che  non  era  stato  ancor  posto  in  versi  ; 
ed  in  ultimo,  per  la  quarta  volta  il  renitente  Filippo.  E  mi  an- 
dava talvolta  sollevando  da  quella  troppa  continuità  di  far  versi 
sciolti,  proseguendo  il  terzo  canto  del  Poemetto  ;  e  nel  decembre 
di  quell'anno  stesso  composi  d'un  fiato  le  quattro  prime  Odi 
dell'America  libera*.  A  queste  m'indusse  la  lettura  di  alcune  bel- 
lissime e  nobili  Odi  del  Filicaja',  che  altamente  mi  piacquero.  Ed 
io  stesi  le  mie  quattro  in  sette  soli  giorni,  e  la  terza  intera  in 
un  giorno  solo;  ed  esse  cou  picciole  mutazioni  sono  poi  rimaste 
quali  furono  concepite.  Tanta  è  la  differenza  (almeno  per  la  mia 
penna)  che  passa  tra  il  verseggiare  in  rima  liricamente,  o  il  far 
versi  sciolti  di  dialogo. 

Nel  principio  dell'anno  82,  vedendomi  poi  tanto  inoltrate  le 
tragedie,  entrai  in  speranza,  che  potrei  dar  loro  compimento  in 
quell'anno.  Fin  dalla  prima  io  mi  ero  proposto  di  non  eccedere 
il  numero  di  dodici;  e  me  le  trovava  allora  tutte  concepite,  e 
distese,  e  verseggiate;  e  riverseggiate  le  piìi.  Senza  discontinuare 
dunque  proseguiva  a  riverseggiare,  e  limare  quelle  che  erano  ri- 
maste ;  sempre  progredendole^  successivamente  nell'ordine  stesso 
con  cui  elle  erano  state  concepite  e  distese. 

1  Cioè  la  pensione  costituita  dal  governo  francese  a  lei  ed  al  conte 
d'Albany,  all'atto  del  matrimonio. 

*  La  quinta  ed  ultima  di  queste  odi,  nelle  quali  il  poeta  inneggia  alle 
idee  di  libertà  diffuse  dalla  Francia,  fu  composta  nel  1783. 

»  Del  fiorentine».  Vincenzo  da  Filicnia  (1642-1707)  si  ricordano  ancora  le 
canzoni  i)cr  l'assedio  e  la  liberazione  di  Vienna  (16S3)  ed  i  sonetti  all'Italia. 

<  Portandole  a  maggior  compimento. 


La  vita  199 

In  quel  frattempo  verso  il  febbraio  dell' 82,  tornatami  un  gfiomo 
fra  le  mani  la  Merope  del  Maffei  per  pur  vedere  s'io  c'impa- 
rava qualche  cosa  quanto  allo  stile,  leggendone  qua  e  là  degli 
squarci  mi  sentii  destare  improvvisamente  un  certo  bollore  d' in- 
degnazione e  di  collera  nel  vedere  la  nostra  Italia  in  tanta  mi- 
seria e  cecità  teatrale  che  facessero  credere  o  parere  quella  come 
l'ottima  e  sola  delle  tragedie,  non  che  delle  fatte  fin  allora  (che 
questo  lo  assento  anch'io,  ma  di  quante  se  ne  potrebber  far  poi 
in  Italia.  E  immediatamente  mi  si  mostrò  quasi  un  lampo  altra 
tragedia  dello  stesso  nome  e  fatto,  assai  più  semplice  e  calda  e 
incalzante  di  quella.  Tale  mi  si  presentò  nel  farsi  ella  da  me 
concepire,  direi  per  forza.  S'ella  sia  poi  veramente  riuscita  tale, 
lo  decideranno  quelli  che  verran  dopo  noi.  Se  mai  con  qualche 
fondamento  chi  schicchera  versi  ha  potuto  dire.  Est  Deus  in 
riobis^:  lo  posso  certo  dir  io,  nell'atto  che  io  ideai,  distesi,  e  ver- 
seggiai la  mia  Merope,  che  non  mi  diede  mai  tregua  né  pace 
finch'ella  non  ottenesse  da  me  l'una  dopo  l'altra  queste  tre 
creazioni  diverse,  contro  il  mio  solito  di  tutte  l'altre,  che  con 
lunghi  intervalli  riceveano  sempre  queste  diverse  mani  d'opera. 
E  lo  stesso  dovrò  dire  pel  vero,  risguardo  al  Saulle.  Fin  dal 
marzo  di  quell'anno  mi  era  dato  assai  alla  lettura  della-  Bibbia, 
ma  non  però  regolatamente  con  ordine.  Bastò  nondimeno  perchè 
io  mi  infiammassi  del  molto  poetico  che  si  può  trarre  da  codesta 
lettura,  e  che  non  potessi  più  stare  a  segno,  s'io  con  una  qualche 
composizione  biblica  non  dava  sfogo  a  quell'invasamento  che 
n'avea  ricevuto.  Ideai  dunque,  e  distesi,  e  tosto  poi  verseggiai 
anche  il  Saulle,  che  fu  la  decimaquarta,  e  secondo  il  mio  pro- 
prosito  d'allora  l'ultima  dovea  essere  di  tutte  le  mie  tragedie.  E 
in  quell'anno  mi  bolliva  talmente  nella  fantasia  la  facoltà  inven- 
trice,  che  se  non  l'avessi  frenata  con  questo  proponimento,  al- 
meno altre  due  tragedie  bibliche  mi  si  affacciavano  prepotente- 
mente, e  mi  avrebbero  strascinato:  ma  stetti  fermo  al  proposito, 
e  parendomi  essere  le  quattordici  anzi  troppo  che  poche,  li  feci 
punto.  Ed  anzi  (nemico  io  sempre  del  troppo,  ancorché  ad  ogni 
altro  estremo  la  mia  natura  mi  soglia  trasportare)  nello  stendere 
la  Merope  e  il  Saulle  mi  facea  tanto  ribrezzo  l'eccedere  il  numero 
che  avea  fissato,  ch'io  promisi  a  me  stesso  di  non  le  verseggiare. 


'  Parole  di  Ovidio,  Fast.,\\,  5,  che  affermano  d'origine  divina  t'ispi* 
razione  poetica. 


200  Vittorio  Alfieri 

se  non  quando  avrei  assolutamente  finite  e  strafinite  tutte  l'altre; 
e  se  non  riceveva  da  esse  in  intero  l'effetto  stessissimo,  ed  anche 
maggiore,  che  avea  provato  nello  stenderle,  promisi  anche  a  me 
di  non  proseguirle  altrimenti.  Ma  che  valsero  e  freni,  e  promesse, 
e  propositi?  Non  potei  mai  far  altro,  né  ritornar  su  le  prime, 
innanzi  che  quelle  due  ultime  avessero  ricevuto  il  lor  compi- 
mento. Così  son  nate  queste  drfe  ;  spontanee  più  che  tutte  l' altre  ; 
dividerò  con  esse  la  gloria,  s'esse  l'avranno  acquistata  e  meri- 
tata :  lascerò  ad  esse  la  più  gran  parte  del  biasimo,  se  lo  in- 
contreranno ;  poiché  e  nascere  e  frammischiarsi  coli'  altre  a  viva 
forza  han  voluto.  Né  alcuna  mi  costò  meno  fatica,  e  men  tempo 
di  queste  Sue. 

Intanto  verso  il  fin  del  settembre  di  queir  anno  stesso  82,  tulle 
quattordici  furono  dettate,  ricopiate  e  corrette:  aggiungerei,  e 
limate:  ma  in  capo  a  pochi  mesi  m'avvidi  e  convinsi,  che  da 
ciò  eli'  erano  ancor  molto  lontane.  Ma  per  allora  il  credei,  e 
mi  tenni  essere  il  primo  uomo  del  mondo;  vedendomi  avere  in 
dieci  mesi  verseggiate  sette  tragedie;  inventatene,  stese  e  ver- 
seggiate due  nuove;  e  finalmente,  dettatene  quattordici,  correg- 
gendole. Quel  mese  di  ottobre,  per  me  memorabile,  fu  dunque 
dopo  sì  calde  fatiche  un  riposo  non  men  delizioso  che  neces- 
sario; ed  alcuni  giorni  impiegai  in  un  viaggetto  a  cavallo  sino 
a  Terni  per  veder  quella  famosa  cascata.  Pieno  turgido  di  vana- 
gloria, non  lo  diceva  però  ad  altri  mai  che  a  me  stesso,  spiat- 
tellatamente  ;  e  con  un  qualche  velame  di  moderazione  lo  accen- 
nava anche  alla  dolce  metà  di  me  stesso;  la  quale,  parendo  an- 
ch'essa (forse  per  l'affetto  che  mi  portava)  propensa  a  potermi 
tenere  per  un  grand' uomo;  essa  più  ch'altra  cosa  sempre  più 
m'impegnava  a  tutto  tentare  per  divenirlo.  Onde  dopo  un  par 
di  mesi  di  ebbrezza  di  giovenile  amor  proprio,  da  me  stesso  mi 
ravvidi  nel  ripigliare  ad  esame  le  mie  quattordici  tragedie,  quanto 
ancora  dì  spazio  mi  rimanesse  a  percorrere  prima  di  giungere 
alla  sospirata  meta.  Tuttavia,  trovandomi  in  età  di  non  ancora 
trentaquattr'anni,  e  nell'aringo  letterario  trovandomi  giovine  di 
soli  otto  anni  di  studio,  sperai  più  fortemente  di  prima,  che  ac- 
quisterei pure  una  volta  la  palma:  e  di  sì  fatta  speranza  non 
negherò  che  me  n'  andasse  tralucendo  un  qualche  raggio  sul 
volto,  ancorché  l'ascondessi  in  parole. 

In  diverse  occasioni  io  ero  andato  leggendo  a  poco  a  poco 
tutte  codeste  tragedie  in  varie  società;  sempre  miste  di  uomini 


La  vita  201 

e  donne,  di  letterati  e  d' idioti,  di  gente  accessibile  ai  diversi  affetti 
e  di  tangheri.  Nel  leggere  io  le  mie  produzioni,  avea  ricercato 
(parlando  pel  vero)  non  men  che  la  lode  il  vantaggio.  Io  cono- 
sceva abbastanza  e  gli  uomini  ed  il  bel  mondo,  per  non  mi  fidare 
né  credere  stupidamente  in  quelle  lodi  del  labro,  che  non  si 
negano  quasi  mai  ad  un  autore  leggente,  che  non  chiede  nulla, 
e  si  sfiata  in  un  ceto  di  persone  ben  educate  e  cortesi:  onde  a 
sì  fatte  lodi  io  dava  il  loro  giusto  valore,  e  non  più.  Ma  molto 
badava,  ed  apprezzava  le  lodi  ed  il  biasimo,  ch'io  per  contrap- 
posto al  labro  le  appellerei  del  sedere,  se  non  fosse  sconcia 
espressione';  cotanto  ella  mi  par  vera  e  calzante.  E  mi  spiego. 
Ogniqualvolta  si  troveranno  riuniti  dodici  o  quindici  individui, 
misti  come  dissi,  lo  spirito  collettivo  che  si  verrà  a  formare  in 
questa  varia  adunanza,  si  accosterà  e  somiglierà  assai  al  totale 
di  una  pubblica  udienza  teatrale.  E  ancorché  questi  pochi  non 
vi  assistano  pagando,  e  la  civiltà  voglia  ch'essi  vi  stiano  in  più 
composto  contegno;  pure,  la  noja  ed  il  gelo  di  chi  sta  ascol- 
tando non  si  possono  mai  nascondere,  uè  (molto  meno)  scam- 
biarsi con  una  vera  attenzione,  ed  un  caldo  interesse,  e  viva  curio- 
sità di  vedere  a  qual  fine  sia  per  riuscire  l'azione.  Non  potendo 
dunque  l'ascoltatore  né  comandare  al  proprio  suo  viso,  né  in- 
chiodarsi direi  in  su  la  sedia  il  sedere;  queste  due  indipendenti 
parti  dell'uomo  faranno  la  giustissima  spia  al  leggente  autore, 
degli  affetti  o  non  affetti  de'  suoi  ascoltanti.  E  questo  era  (quasi 
esclusivamente)  quello  che  io  sempre  osservava  leggendo.  E  m'era 
sembralo  sempre  (se  io  pure  non  travedeva)  di  avere  sul  totale 
di  una  intera  tragedia  ottenuto  più  che  i  due  terzi  del  tempo 
una  immobilità  e  tenacità  d'attenzione,  ed  una  calda  ansietà  di 
schiarire  lo  scioglimento;  il  che  mi  provava  bastantemente  che 
egli  rimaneva,  anche  nei  più  noti  soggetti  di  tragedia,  tuttavia 
pendente  ed  incerto  sino  all'ultimo.  Ma  confesserò  parimente, 
che  di  molte  lunghezze,  o  freddezze,  che  vi  poteano  essere  qua 
e  là,  oltre  che  io  medesimo  mi  era  spesso  tediato  nel  rileggerle 
ad  altri,  ne  ricevei  anche  il  sincerissimo  tacito  biasimo,  da  quei 
benedetti  sbadigli,  e  involontarie  tossi,  e  irrequieti  sederi,  che 
me  ne  davano,  senza  avvedersene,  certezza  ad  un  tempo  ed  av- 
viso. E  neppur  negherò,  che  anche  degli  ottimi  consigli,  e  non 

»  Arguta  espressione  che  ben  s'addice  a  quegli  applausi  convenzionati, 
di  gente  che  si  dimena  sulle  sedie  mentre  ascolta. 


202  Vittorio  Aljieri 

pochi,  mi  siano  stati  suggeriti  dopo  quelle  diverse  letture,  da 
uomini  letterati,  da  uomini  di  mondo,  e  spezialmente  circa  gli 
affetti,  da  varie  donne.  I  letterati  battevano  su  l'elocuzione  e  le 
regole  dell'arte;  gli  uomini  di  mondo,  su  l'invenzione,  la  con- 
dotta e  i  caratteri;  e  perfino  i  giovevolissimi  tàngheri,  col  loro 
più  o  meno  russare  e  scontorcersi;  tutti  in  somma,  quanto  a 
me  pare,  mi  riuscirono  di  molto  vantaggio.  Onde  io,  tutti  ascol- 
tando, di  tutto  •.♦^cordandomi,  nulla  trascurando,  e  non  disprez- 
zando individuo  nessuno  (ancorché  pochissimi  ne  stimassi),  ne 
trassi  poi  forse  e  per  me  stesso  e  per  l'arte  quel  meglio  che  con- 
veniva. Aggiungerò  a  tutte  queste  confessioni  per  ultima,  che 
io  benissimo  mi  avvedeva,  che  queir  andar  leggendo  tragedie  in 
semi-pubblico,  un  forestiere  fra  gente  non  sempre  amica,  mi  po- 
teva e  doveva  anzi  esporre  a  esser  messo  in  ridicolo.  Non  me 
ne  pento  però  di  aver  così  fatto,  se  ciò  poi  ridondò  in  beneficio 
mio  e  dell'arte:  il  che  se  non  fu,  il  ridicolo  delle  letture  an- 
derà  poi  con  quello  tanto  maggiore,  dell'averle  recitate,  e 
stampate. 

CAPITOLO  DECIMO 

Recita  dell'Antigone  in  Roma.  Stampa  delle  prime  quattro  tragedie. 
Separazione  dolorosissima.  Viaggio  per  la  Lombardia. 

Io  dunque  me  ne  stava  così  in  un  semiriposo  covando  la  mia 
tragica  fama,  ed  irresoluto  tuttavia  se  stamperei  allora,  o  se  in- 
dugierei  dell'altro.  Ed  ecco,  che  mi  si  presentava  spontanea 
un'occasione  di  mezzo  tra  lo  stampare  e  il  tacermi;  ed  era,  di 
farmi  recitare  da  un'eletta  compagnia  di  dilettanti  signori'.  Era 
questa  società  teatrale  già  avviata  da  qualche  tempo  a  reci- 
tare in  un  teatro  privato  esistente  nel  palazzo  dell'  ambasciatore 
di  Spagna,  allora  il  duca  Grimaldi.  Si  erano  fin  allora  recitate 
delle  commedie  e  tragedie,  tutte  traduzioni,  e  non  buone,  dal 
francese  ;  e  tra  queste  assistei  ad  una  rappresentazione  del  Conte 
(V  Essex  di  Tommaso  Corneille-,  messa  in  verso  italiano  non  so 
da  chi,  e  recitata  la  parte  di  Elisabetta  dalla  duchessa  di  Zaga- 
rolo,  piuttosto  male.  Con  tutto  ciò,  vedendo  io  questa  signora 
essere  assai  bella  e  dignitosa  di  personale,  ed  intendere  benis- 

>  Nobili  dilettanti. 

»  Fratello  del  maggior  tragico,  Pietro  (1625-1709). 


La  vita  203 

Simo  quel  che  diceva,  argomentai  che  con  un  po'  di  buona 
scuola  si  sarebbe  potuta  assaissimo  migliorare.  E  così  d'una  in 
altra  idea  fantasticando,  mi  entrò  in  capo  di  voler  provare  con 
quegli  attori  una  delle  troppe  mie.  Voleva  convincermi  da  me 
stesso,  se  potrebbe  riuscire  quella  maniera  che  io  avea  preferita 
a  tutt'aJtre;  la  nuda  semplicità  dell'azione;  i  pochissimi  perso- 
naggi ;  ed  il  verso  rotto  per  lo  più  su  diverse  sedi,  ed  impossi- 
bile quasi  a  cantilenarsi.  A  quest'effetto  prescelsi  V Antigone,  ri- 
putandola io  l'una  delle  meno  calde  tra  le  mie,  e  divisando  fra 
me  e  me,  che  se  questa  venisse  a  riuscire,  tanto  più  il  farebbero 
l'altre  in  cui  si  sviluppan  affetti  tanto  più  vari  e  feroci.  La  pro- 
posta di  provar  qMtsV  Antigone  fu  accettata  con  piacere  dalla 
nobile  compagnia-,  e  fra  quei  loro  attori  non  si  trovando  allora 
alcun  altro  che  si  sentisse  capace  di  recitare  in  tragedia  una 
parte  capitale  oltre  il  duca  di  Ceri,  fratello  della  predetta  du- 
chessa di  Zagarolo,  mi  trovai  costretto  di  assumermi  io  la  parte 
di  Creonte,  dando  al  duca  di  Ceri  quella  di  Emone;  e  alla  di 
lui  consorte,  quella  di  Argia:  la  parte  principalissima  dell'Anti- 
gone spettando  di  diritto  alla  maestosa  duchessa  di  Zagarolo. 
Così  distribuite  le  quattro  parti,  si  andò  in  scena;  né  altro  ag- 
giungerò circa  all'esito  di  quelle  rappresentazioni,  avendo  avuto 
occasione  di  parlarne  assai  lungamente  in  altri  miei  scritti  ^ 

InsuperLito  non  poco  del  prospero  successo  della  recita,  verso 
il  principio  del  seguente  anno  1783  mi  indussi  a  tentare  per  la 
prima  volta  la  terribile  prova  dello  stampare.  E  per  quanto  già 
mi  paresse  scabrosissimo  questo  passo,  ben  altrimenti  poi  lo  co- 
nobbi esser  tale,  quando  imparai  per  esperienza  cosa  si  fossero 
le  letterarie  inimicizie  e  raggiri,  e  gli  asti  librarii,  e  le  decisioni 
giornalistiche*,  e  le  chiacchiere  gazzettarie,  e  tutto  in  somma  il 
tristo  corredo  che  non  mai  si  scompagna  da  chi  va  sotto  i  torchi: 
e  tutte  queste  oose  mi  erano  fin  allora  state  interamente  ignote; 
ed  a  segno,  eh'  io  neppur  sapeva  che  si  facessero  giornali  lette- 
rari, con  estratti  e  giudizi  critici  delle  nuove  opere,  si  era  rozzo, 
e  novizio,  e.  veramente  purissimo  di  coscienza  nell'arte  scrivana. 

Decisa  dunque  la  stampa,  e  visto  che  in  Koma  le  stitichezze 
della  revisione'  eran  troppe,  scrissi  all'amico  in  Siena*,  di  volersi 

»  Nel  parere  %ìx\V Antigone.  Cfr.  D.  Silvaoni,  La  Corte  e  la  Società 
romana  cit.,  p.  395  sgg. 

*  La  critica  giornalistica  dalla  quale  l'A.  si  difese  con  vari  epigrammi. 

*  La  severità  della  censura  ecclesiastica. 

*  Francesco  Oorl. 


204  Vittorio  Alfieri 

egli  addossar  quella  briga.  Al  che  ardentissimamente  egli  in 
capite'^,  con  altri  miei  conoscenti  ed  amici,  si  prestò  di  vegliarvi 
da  sé,  e  fare  con  diligenza  e  sollecitudine  progredire  la  stampa. 
Non  volli  avventurare  a  bella  prima  che  sole  quattro  tragedie; 
e  di  quelle  mandai  all'  amico  un  pulitissimo  manoscritto  quanto 
al  carattere  e  correzione  ;  ma  quanto  poi  alla  lindura,  chiarezza, 
ed  eleganza  dello  stile,  mi  riuscì  pur  troppo  difettoso.  Innocen- 
temente allora  io  mi  credeva,  che  nel  dare  un  manoscritto  allo 
stampatore  fosse  terminata  ogni  fatica  dell'autore.  Imparai  poi 
dopo  a  mie  spese,  che  allora  quasi  si  riprincipia. 

In  quei  due  e  più  mesi  che  durava  la  stampa  di  codeste  quattro 
tragedie,  io  me  ne  stava  molto  a  disagio  in  Roma  in  una  con- 
tinua palpitazione  e  quasi  febbre  dell'animo,  e  più  volte,  se  non 
fosse  stata  la  vergogna,  mi  sarei  disdetto,  ed  avrei  ripreso  il 
mio  manoscritto.  Ad  una  per  volta  mi  pervennero  finalmente 
tutte  quattro  in  Roma,  correttissimamente  stampate,  grazie  all'  a- 
mico;  e  sudicissimamente  stampate,  come  ciascun  le  ha  viste, 
grazie  al  tipografo;  e  barbaramente  verseggiate  (come  io  seppi 
poi),  grazie  all'autore.  La  ragazzata  di  andare  attorno  attorno 
per  le  varie  case  di  Roma,  regalando  ben  rilegate  quelle  mie 
prime  fatiche,  a  fine  di  accattar  voti-,  mi  tenne  più  giorni  occu- 
pato, non  senza  parere  risibile  agli  occhi  miei  stessi,  non  che 
agli  altri.  Le  presentai,  tra  gli  altri,  al  papa  allora  sedente  Pio 
Sesto,  a  cui  già  mi  era  fatto  introdurre  fin  dall'anno  prima, 
allorché  mi  posi  a  dimora  in  Roma.  E  qui,  con  mia  somma  con 
fusione,  dirò  di  qual  macchia  io  contaminassi  me  stesso  in  quella 
udienza  beatissima*.  Io  non  molto  stimava  il  papa  come  papa;  e 
nulla  il  Braschi  come  uomo  letterato  né  benemerito  delle  lettere, 
che  non  lo  era  punto.  Eppure,  queir  io  stesso,  previa  una  osse- 
quiosa presentazione  del  mio  bel  volume,  che  egli  cortesemente 
accettava,  apriva,  e  riponeva  sul  suo  tavolino,  molto  lodandomi, 
e  non  acconsentendo,  ch'io  procedessi  al  bacio  del  piede,  egli 
medesimo  anzi  rialzandomi  in  piedi  da  genuflesso  ch'io  m'era; 
nella  quale  umil  positura  Sua  Santità  si  compiacque  di  palparmi 
come  con  vezzo  paterno  la  guancia:  quell'io  stesso,  che  mi  te- 
neva pure  in  corpo  il  mio  sonetto  su  Roma,  rispondendo  allora 


1  Alla  testa. 

•  Favore. 

»  Concessagli  dal  beatissimo  Padre,  il  pontefice. 


La  vita  205 

con  blandizia  e  cortigianerìa  alle  lodi  che  il  pontefice  mi  dava 
su  la  composizione  e  recita  dell'  Antigone,  di  cui  egli  avea  udito, 
disse,  maraviglie;  io,  colto  il  momento  in  cui  egli  mi  domandava 
se  altre  tragedie  farei,  molto  encomiando  un'arte  sì  ingegnosa 
e  sì  nobile  ;  gli  risposi  che  molte  altre  eran  fatte,  e  tra  quelle  un 
Saul,  il  quale  come  soggetto  sacro  avrei,  se  egli  non  lo  sdegnava, 
intitolato  a  Sua  Santità.  11  papa  se  ne  scusò,  dicendomi  ch'egli 
non  poteva  accettar  dedica  di  cose  teatrali  quali  che  elle  si  fos- 
sero; ne  io  altra  cosa  replicai  su  di  ciò.  Ma  qui  mi  convien  con- 
fessare, eh'  io  provai  due  ben  distinte,  ed  ambe  meritate,  morti- 
ficazioni: l'una  del  rifiuto  ch'io  m'era  andato  accattare  sponta- 
neamente ;  r  altra  di  essermi  pur  visto  costretto  in  quel  punto  a 
stimare  me  medesimo  di  gran  lunga  minore  del  papa,  poiché  io 
avea  pur  avuto  la  viltà,  o  debolezza,  o  doppiezza  (che  una  di 
queste  tre  fu  per  certo,  se  non  tutte  tre,  la  motrice  del  mio  ope- 
rare in  quel  punto)  di  voler  tributare  come  segno  di  ossequio  e 
di  stima  una  mia  opera  ad  un  individuo  ch'io  teneva  per  assai 
minore  di  me  in  linea  di  vero  merito.  Ma  mi  conviene  altresì 
(non  per  mia  giustificazione,  ma  per  semplice  schiarimento  di 
tale  o  apparente  o  verace  contradizione  tra  il  mio  pensare,  sen- 
tire e  operare)  candidamente  espor  la  sola  e  verissima  cagione, 
che  m'avea  indotto  a  prostituire  così  il  coturno  alla  tiara.  La 
cagione  fu  dunque,  che  io  sentendo  già  da  qualche  tempo  bollir 
dei  romori  preteschi  che  uscivano  di  casa  il  cognato'  dell'amata 
mia  donna,  per  cui  mi  era  nota  la  scontentezza  di  esso  e  di  tutta 
la  di  lui  corte  circa  alla  mia  troppa  frequenza  in  casa  di  essa; 
e  questo  scontentamento  andando  sempre  crescendo;  io  cercai 
coll'adulare  il  sovrano  di  Roma,  di  crearmi  in  lui  un  appoggio 
contro  alle  persecuzioni  ch'io  già  parea  presentire  nel  cuore,  e 
che  poi  in  fatti  circa  un  mese  dopo  mi  si  scatenarono  contro. 
E  credo  che  quella  stessa  recita  dellM/i/i^n/,  col  far  troppo  par- 
lare di  me,  mi  suscitasse  e  moltiplicasse  i  nemici.  Io  fui  dunque 
allora  e  dissimulato,  e  vile,  per  forza  d'amore;  e  ciascuno  in  me 
derida  se  il  può,  ma  riconosca  ad  un  tempo,  sé  stesso.  Ho  voluto 
di  questa  particolarità,  ch'io  poteva  lasciar  nelle  tenebre  in  cui  si 
stava  sepolta,  fare  il  mio  e  l'altrui  prò,  disvelandola.  Non  l'avea 
mai  raccontata  a  chicchessia  in  voce,  vergognandomene  non  poco. 
Alla  sola  mia   donna  la   raccontai  qualche   tempo   dopo.  L'ho 

>  Dalla  casa  del  cognato  :  modo  di  dire  fiorentino. 


206  Vittorio  Alfieri 

scritta  anche  in  parte  per  consolazione  dei  tanti  altri  autori  pre- 
senti e  futuri,  i  quali  per  una  qualche  loro  fatai  circostanza  si 
trovano,  e  si  troveranno  pur  troppo  sempre  i  più,  vergognosa- 
mente sforzati  a  disonorar  le  loro  opere  e  sé  stessi  con  dediche 
bugiarde  ;  ed  affinchè  i  malevoli  miei  possan  dire  con  verità  e 
sapore,  che  se  io  non  mi  sono 'avvilito  con  niuna  di  sì  fatte  si- 
mulazioni non  fu  che  un  semplice  effetto  della  sorte,  la  quale 
non  mi  costrinse  ad  esser  vile  o  parerlo. 

Nell'aprile^  di  quell'anno  1783  infermò  gravemente  in  Firenze 
il  consorte  della  mia  donna.  Il  di  lui  fratello  partì  a  precipizio, 
per  ritrovarlo  vivo.  Ma  il  male  allentò  con  pari  rapidità,  ed  egli 
lo  ritrovò  riavutosi,  ed  affatto  fuor  di  pericolo.  Nella  convale- 
scenza, trattenendosi  il  di  lui  fratello  circa  quindici  giorni  in 
Firenze,  si  trattò  fra  i  preti  venuti  con  esso  di  Roma,  ed  i  preti 
che  aveano  assistito  il  malato  in  Firenze,  che  bisognava  assolu- 
tamente per  parte  del  marito  persuadere  e  convincere  il  cognato, 
eh'  egli  non  poteva  né  dovea  più  a  lungo  soffrire  in  Roma  nella 
propria  casa  la  condotta  della  di  lui  cognata.  E  qui,  non  io  cer- 
tamente farò  l'apologia  della  vita  usuale  di  Roma  e  d'Italia  tutta, 
quale  si  suole  vedere  di  presso  che  tutte  le  donne  maritate.  Dirò 
bensì,  che  la  condotta  di  quella  signora  in  Roma  a  riguardo  mio 
era  piuttosto  molto  al  di  qua,  che  non  al  di  là  degli  usi  i  più 
tollerati  in  quella  città.  Aggiungerò,  che  i  torti,  e  le  feroci  e  pes- 
sime maniere  del  marito  con  essa,  erano  cose  verissime,  ed  a 
tutti  notissime.  Ma  terminerò  con  tutto  ciò,  per  amor  del  vero  e 
del  retto,  col  dire,  che  il  marito,  e  il  cognato,  e  i  lor  rispettivi 
preti  aveano  tutte  le  ragioni  di  non  approvare  quella  mia  troppa 
frequenza,  ancorché  non  eccedesse  i  limiti  dell'onesto.  Mi  spiace 
soltanto,  che  (quanto  ai  preti,  i  quali  furono  i  soli  motori  di  tutta 
la  macchina)  il  loro  zelo  in  ciò  non  fosse  né  evangelico,  né  puro 
dai  secondi  fini,  poiché  non  pochi  di  essi  coi  lor  tristi  esempi 
faceano  ad  un  tempo  l'elogio  della  condotta  mia,  e  la  satira  della 
loro  propria.  La  cosa  era  dunque,  non  figlia  di  vera  religione  e 
virtù,  ma  di  vendette  e  raggiri.  Quindi,  appena  ritornò  in  Roma 
il  cognato,  egli  per  l'organo  de'  suoi  preti  intimò  alla  signora  : 
che  era  cosa  oramai  indispensabile,  e  convenuta  tra  lui  e  il  fra- 
tello, che  s' interrompesse  quella  mia  assiduità  presso  lei  ;  e  ch'egli 
non  la  sopporterebbe  ulteriormente.  Quindi  codesto  personaggio, 

>  Nel  mese  di  marzo,  veramente. 


La  vita  207 

Impetuoso  sempre  ed  irriflessivo,  quasi  che  s' intendesse  con 
questi  modi  di  trattare  la  cosa  più  decorosamente,  ne  fece  fare 
uno  scandaloso  schiamazzio  per  la  città  tutta,  parlandone  egli 
stesso  con  molti,  e  inoltrandone  le  doglianze  sino  al  papa.  Corse 
allora  grido,  che  il  papa  su  questo  riflesso  mi  avesse  fatto  o  per- 
suadere o  ordinare  di  uscir  di  Roma;  il  che  non  fu  vero;  ma 
facilmente  avrebbe  potuto  farlo,  mercè  la  libertà  italica.  Io  però, 
ricordatomi  allora,  come  tanti  anni  prima  essendo  in  accademia, 
e  portando  com'  io  narrai  la  parrucca,  sempre  aveva  antivenuto  i 
nemici  sparruccandomi  da  me  stesso,  prima  che  essi  me  la  le- 
vasser  di  forza;  antivenni  allora  l'affronto  dell'esser  forse  fatto 
partire,  col  determinarmivi  spontaneamente.  A  quest'effetto  io 
fui  dal  ministro  nostro  di  Sardegna^,  pregandolo  di  far  partecipe 
il  segretario  di  stato,  che  io  informato  di  tutto  questo  scandalo, 
troppo  avendo  a  cuore  il  decoro,  l'onore,  e  la  pace  di  una  tal 
donna,  aveva  immediatamente  presa  la  determinazione  di  allon- 
tanarmene per  del  tempo,  affine  di  far  cessare  le  chiacchiere;  e 
che  verso  il  principio  del  prossimo  maggio  sarei  partito.  Piacque 
al  ministro,  e  fu  approvata  dal  segretario  di  stato,  dal  papa  e 
da  tutti  quelli  che  seppero  il  vero,  questa  mia  spontanea  e  do- 
lorosa risoluzione.  Onde  mi  preparai  alla  crudelissima  dipai^enza. 
A  questo  passo  m'indusse  la  trista  ed  orribile  vita  alla  quale 
prevedeva  di  dover  andare  incontro,  ove  io  mi  fossi  pure  rimasto 
in  Roma,  ma  senza  poter  continuare  di  vederla  in  casa  sua,  ed 
esponendola  ad  infiniti  disgusti  e  guai,  se  in  altri  luoghi  con 
affettata  pubblicità,  ovvero  con  inutile  ed  indecoroso  mistero, 
l'avessi  assiduamente  combinata.  Ma  il  rimaner  poi  entrambi  in 
Roma  senza  punto  vederci,  era  per  me  un  tal  supplizio,  ch'io 
per  minor  male,  d'accordo  con  essa*,  mi  elessi  la  lontananza  aspet- 
tando migliori  tempi. 

Il  di  quattro  maggio  dell'anno  1783,  che  sempre  mi  Mrì  ed  è  stato 
finoradi  amarìssima  ricordanza,  io  mi  allontanai  adunque  da  quella 
più  che  metà  di  me  stesso.  E  di  quattro  o  cinque  separazioni  che 
mi  toccarono  da  essa,  questa  fu  la  più  terribile  per  me,  essendo 
ogni  speranza  di  rivederla  pur  troppo  incerta  e  lontana. 

»  Il  conte  Valperg»  di  taglione  ;  ne  pubblicò  i  dispacci  alla  corte  di 
Torino  D.  Perribo,  V.  A.  e  gli  ultimi  Stuardi,  in  Rivista  Europea, 
18S1,  n.  24. 

«  Veramente  erano  state  fatte  istanze  perchè  la  contessa  stessa  pregaste 
'A.  d'allantanarsi. 


208  Vittorio  Alfieri 

Questo  avvenimento  mi  tornò  a  scomporre  il  capo  per  forse 
due  anni,  e  m'impedì,  ritardò  e  guastò  anche  notabilmente  sotto 
ogni  rispetto  i  miei  studi.  Nei  due  anni  di  Roma  io  avea  tratto 
una  vita  veramente  beata.  La  villa  Strozzi,  posta  alle  Terme  Dio- 
cleziane  \  mi  avea  prestato  un  delizioso  ricovero.  Le  lunghe  in- 
tere mattinate  io  ve  le  impiegava  studiando,  senza  muovermi 
punto  di  casa  se  non  se  un'ora  o  due  cavalcando  per  quelle  soli- 
tudini immense  che  in  quel  circondario  disabitato  di  Roma  invi- 
tano a  riflettere,  piangere,  e  poetare.  La  sera  scendeva  nell'abitato, 
e  ristorato  dalle  fatiche  dello  studio  con  l'amabile  vista  di  quella 
per  cui  sola  io  esisteva  e  studiava,  me  ne  ritornava  poi  contento 
al  mio  eremo,  dove  al  più  tardi  all'  undici  della  sera  io  era  ritirato. 
Un  soggiorno  più  gaio  e  più  libero  e  più  rurale,  nel  recinto 
d' una  gran  città,  non  si  potea  mai  trovare  ;  né  il  più  confacente 
al  mio  umore,  carattere  ed  occupazioni.  Me  ne  ricorderò,  e  lo 
desidererò  finch'io  viva. 

Lasciata  dunque  in  tal  modo  la  mia  unica  donna,  i  miei  libri, 
la  villa,  la  pace,  e  me  stesso  in  Roma,  io  me  n'andava  dilun- 
gando in  atto  d'uomo  quasi  stupido  ed  insensato.  M'avviai  verso 
Siena,  per  ivi  lagrimare  almeno  liberamente  per  qualche  giorni 
in  compagnia  dell'amico.  Né  ben  sapeva  ancora  in  me  stesso, 
dove  anderei,  dove  mi  starei,  quel  che  mi  farei.  Mi  riuscì  d'un 
grandissimo  sollievo  il  conversar  con  quell'  uomo  incomparabile  ; 
buono,  compassionevole  e  con  tanta  altezza  e  ferocia  di  sensi, 
umanissimo.  Né  mai  si  può  veramente  ben  conoscere  il  pregio 
e  l'utilità  d'un  amico  verace,  quanto  nel  dolore.  Io  credo,  che 
senz'esso  sarei  facilmente  impazzato.  Ma  egli,  vedendo  in  me  un 
eroe  così  sconciamente  avvilito  e  minor  di  sé  stesso;  ancorché 
ben  intendesse  per  prova  i  nomi  e  la  sostanza  di  fortezza  e  virtù, 
non  volle  con  tutto  ciò  crudelmente  ed  inopportunamente  op- 
porre ai  deliri  miei  la  di  lui  severa  e  gelata  ragione:  bensì  seppe 
egli  scemarmi,  e  non  poco,  il  dolore,  col  dividerlo  meco.  Oh 
rara,  oh  celeste  dote  davvero  ;  chi  sappia  ragionare  ad  un  tempo, 
e  sentire! 

Ma  io  frattanto,  menomate  o  sopite  in  me  tutte  le  mie  intellet- 
tuali facoltà,  altra  occupazione,  altro  pensiero  non  ammetteva, 

»  In  via  Viminale  ;  era  dei  Rospigliosi  :  «  per  dieci  scudi  al  mese  (grassi 
tempi  quelli!)  l'A.  godevasi  l'intero  palazzo  ammobigliato  e  l'ampio  giar- 
dino .  [fl.J. 


La  vita  20<) 

che  lo  scrivere  lettere:  e  in  questa  terza  lontananza  che  fu  la  più 
lunga,  scrissi  veramente  dei  volumi;  né  quello  ch'io  mi  scrivessi, 
il  saprei:  io  sfogava  il  dolore,  l'amicizia,  l'amore,  l'ira  e  tutti  in- 
somma i  cotanti  e  sì  diversi,  e  sì  indomiti  affetti,  d'un  cuor  tra- 
boccante, e  d' un  animo  mortalmente  piagato.  Ogni  cosa  letteraria 
mi  si  andava  ad  un  tempo  sfesso  estinguendo  nella  mente,  e  nel 
cuore:  a  tal  segno,  che  varie  lettere  ch'io  avea  ricevute  di  To- 
scana nel  tempo  de'  miei  disturbi  in  Roma,  le  quali  mi  mor- 
deano  non  poco  su  le  stampate  tragedie,  non  mi  fecero  la  mi- 
nima impressione  per  allora,  non  più  che  se  delle  tragedie  d'un 
altro  mi  avessero  favellato.  Erano  queste  lettere,  qualcuna  scritta 
con  sale  e  gentilezza,  le  più  insulsamente  e  villanamente;  alcune 
firmate,  altre  no;  e  tutte  concordavano  nel  biasimare  quasi  che 
esclusivamente  il  mio  stile,  tacciandomelo  di  durissimo,  oscaris- 
simo,  stravagantissimo;  senza  però  volermi,  o  sapermi,  indivi- 
duare gran  fatto  il  rome,  il  dove,  il  perchè.  Giunto  poi  in  To- 
scana, l'amico  per  divagarmi  dal  mio  unico  pensamento,  mi  lesse 
nei  foglietti  di  Firenze  e  di  Pisa,  chiamati  Giornali,  il  commento 
delle  predette  lettere,  che  mi  erano  state  mandate  in  Roma.  E 
furono  codesti  i  primi  così  detti  giornali  letterari  che  in  qua- 
lunque lingua  mi  fossero  capitati  mai  agli  orecchi  né  agli  occhi. 
E  allora  soltanto  penetrai  nei  recessi  di  codesta  rispettabile  arte, 
che  biasima  o  loda  i  diversi  libri  con  eguale  discernimento,  equità, 
e  dottrina,  secondo  che  il  giornalista  è  stato  prima  o  donato,  o 
vezzeggiato,  o  ignorato,  e  sprezzato  dai  rispettivi  autori.  Poco 
m'importò,  a  dir  vero,  di  codeste  venali  censure,  avendolo  allora 
l'animo  interamente  preoccupato  da  tutt'altro  pensiero. 

Dopo  circa  tre  settimane  di  soggiorno  in  Siena,  nel  qua!  tempo 
non  trattai  né  vidi  altri  che  l'amico,  la  temenza  di  rendermi 
troppo  molesto  a  lui,  poiché  tanto  pur  l'era  a  me  stesso;  l'im- 
possibilità di  occuparmi  in  nulla,  e  la  solita  impazienza  di  luogo 
che  mi  dominava  tosto  di  bel  nuovo  al  riapparire  della  noia  e 
dell'ozio  ;  tutte  queste  ragioni  mi  fecero  risolvere  di  muovermi 
viaggiando.  Si  avvicinava  la  festa  solita  dell'Ascensa  in  Venezia, 
che  io  avea  già  veduta  molti  anni  prima;  e  là  mi  avviai.  Passai 
per  Firenze  di  volo,  che  troppo  mi  accorava  l'aspetto  di  quei 
luoghi  che  mi  aveano  già  fatto  beato,  e  che  ora  mi  rivedevano 
si  angustiato  ed  oppresso.  Il  moto  del  cavalcare  massimamente,  e 
tutti  gli  altri  strapazzi  e  divagazioni  del  viaggio,  mi  giovarono,  se 
non  altro,  alla  salute  moltissimo,  la  quale  molto  mi  si  era  andata 

14.        Clatttel  Italiani.  N.  2. 


210  Vittorio  Alfieri 

alterando  da  tre  mesi  in  poi  pe' tanti  travagli  d'animo,  d'intel- 
letto, e  di  cuore.  Di  Bologna  mi  deviai  per  visitare  in  Ravenna 
il  sepolcro  del  Poeta,  e  un  giorno  intero  vi  passai  fantasticando, 
pregando,  e  piangendo.  In  questo  viaggio  di  Siena  a  Venezia  mi 
si  dischiuse  veramente  una  nuova  e  copiosissima  vena  delle  rime 
affettuose,  e  quasi  ogni  giorno  uno  o  più  sonetti  mi  si  facean 
fare,  affacciandosi  con  molto  impeto  e  spontaneità  alla  mia  agi- 
tatissima  fantasia.  In  Venezia  poi,  allorché  sentii  pubblicata  e 
assodata  la  pace^  tra  gli  Americani  e  l'Inghilterra,  pattuitavi  la 
loro  indipendenza  totale,  scrissi  la  quinta  Ode  dell'America  li- 
bera, con  cui  diedi  compimento  a  quel  lirico  poemetto''.  Di  Ve- 
nezia venuto  a  Padova,  questa  volta  non  trascurai,  come  nelle 
due  altre  anteriori,  di  visitare  la  casa  e  la  tomba  del  nostro  so- 
vrano maestro  d'amore  in  Arquà.  Quivi  parimente  un  giorno 
intero  vi  consecrai  al  pianto,  e  alle  rime,  per  semplice  sfogo 
del  troppo  ridondante  mio  cuore.  In  Padova  poi  imparai  a  cono- 
scere di  persona  il  celebre  Cesarotti,  dei  di  cui  modi  vivaci  e 
cortesi  non  rimasi  niente  raen  soddisfatto,  che  il  fossi  stato  sempre 
della  lettura  de'  suoi  maestrevolissimi  versi  ntWOssian^.  Di  Pa- 
dova ritornai  a  Bologna,  passando  per  Ferrara,  affine  di  quivi 
compiere  il  mio  quarto  pellegrinaggio  poetico,  col  visitarvi  la 
tomba,  e  i  manoscritti  dell'Ariosto.  Quella  del  Tasso  più  volte 
l'avea  visitata  in  Roma;  cosi  la  di  lui  culla  in  Sorrento,  dove 
nell'ultimo  viaggio  di  Napoli,  mi  era  espressamente  portato  ad 
un  tale  effetto.  Questi  quattro  nostri  poeti,  erano  allora,  e  sono, 
e  sempre  saranno  i  miei  primi,  e  direi  anche  soli,  di  questa  bel- 
lissima lingua;  e  sempre  mi  è  sembrato  che  in  essi  quattro  vi 
sia  tutto  quello  che  umanamente  può  dare  la  poesia  ;  meno  però 
il  meccanismo  del  verso  sciolto  di  dialogo,  il  quale  si  dee  però 
trarre  dalla  pasta  di  questi  quattro,  fattone  un  tutto,  e  maneg- 
giatolo in  nuova  maniera.  E  questi  quattro  grandissimi,  dopo 
sedici  anni  oramai  ch'io  li  ho  giornalmente  alle  mani,  mi  rie- 
scono sempre  nuovi,  sempre  migliori  nel  loro  ottimo,  e  direi 
anche  utilissimi  nel  loro  pessimo;  che  io  non  asserirò  con  cieco 
fanatismo,  che  tutti  e  quattro  a  luoghi  non  abbiano  e  il  mediocre 
ed  il  pessimo;  dirò  bensì  che  assai,  ma  assai,  vi  si  può  imparare 

>  Conclusa  col  trattato  di  Parigi  (1783)  tra  Francia,  Inghilterra,  StAti 
Uniti  e  Spagna. 
*  Cfr.  cap.  precedente. 
»  Cfr.  Ep.  IV,  cap.  i. 


La  vita  211 

anche  dal  loro  cattivo  ;  ma  da  chi  ben  si  addentra  nei  loro  mo- 
tivi e  intenzioni:  cioè  da  chi,  oltre  l'intenderli  pienamente  e 
gustarli,  li  sente. 

Di  Bologna,  sempre  piangendo  e  rimando  me  n'andai  a  Mi- 
lano ;  e  di  là,  trovandomi  così  vicino  al  mio  carissimo  abate  di 
Caluso,  che  allora  villeggiava  co'  suoi  nipoti  nel  bellissimo  loro 
Castello  di  Masino^  poco  distante  da  Vercelli,  ci  diedi  una  scorsa 
di  cinque  o  sei  giorni.  E  in  uno  di  quelli,  trovandomi  anche 
tanto  vicino  a  Torino,  mi  vergognai  di  non  vi  dare  una  scorsa 
per  abbracciar  la  sorella.  V'andai  dunque  per  una  notte  sola  col- 
l'amico,  e  l'indomani  sera  ritornammo  a  Masino.  Avendo  abban- 
donato il  paese  mio  colla  donazione,  in  aspetto  di  non  lo  voler 
pili  abitare,  non  mi  vi  volea  far  vedere  così  presto,  e  massime 
dalia  Corte.  Questa  fu  la  ragione  del  mio  apparire  e  sparire  in 
un  punto.  Onde  questa  scorsa  così  rapida  che  a  molti  potrebbe 
parere  bizzarra,  cesserà  d'esserlo  saputane  la  ragione.  Erano  già 
sei  e  più  anni,  ch'io  non  dimorava  più  in  Torino:  non  mi  vi 
parea  essere  né  sicuro,  né  quieto,  né  libero;  non  ci  voleva,  né 
doveva,  né  potea  rimanervi  lungamente. 

Di  Masino,  tosto  ritornai  a  Milano,  dove  mi  trattenni  ancora 
quasi  tutto  luglio;  e  ci  vidi  assai  spesso  l'originalissimo  autore 
del  MattinOy  vero  precursore  della  futura  satira  italiana*.  Da 
questo  celebre  e  colto  scrittore  procurai  d'indagare,  con  la  mas- 
sima docilità,  e  con  sincerissima  voglia  d'imparare,  dove  consi- 
siesse  principalmente  il  difetto  del  mio  stile  in  tragedia.  Il  Pa.'-ini 
con  amorevolezza  e  bontà  mi  avvertì  di  varie  cose,  non  molto 
a  dir  vero  importanti,  e  che  tutte  insieme  non  poteano  mai  co- 
stituire la  parola  stile,  ma  alcune  delle  menome  parti  di  esso.  Ma 
le  più,  od  il  tutto  di  queste  parti  che  doveano  costituire  il  vero 
difettoso  nello  stile,  e  che  io  allora  non  sapeva  ancor  ben  discer- 
nere da  me  stesso,  non  mi  fu  mai  saputo  o  voluto  additare  né 
dal  Parini,  né  dal  Cesarotti,  né  da  altri  valenti  uomini  ch'io  col 
fervore  e  l' umiltà  d' un  novizio  visitai  ed  interrogai  in  quel  viaggio 
per  la  Lombardia.  Onde  mi  convenne  poi  dopo  il  decorso  di 
molti  anni  con  molta  fatica  ed  incertezza  andar  ritrovando  dove 
stesse  il  difetto,  e  tentare  di  emendarlo  da  me.  Sul  totale  però, 
di  qua  dell'Appennino  le  mie  tragedie  erano   piaciute  assai  più 

1  DescriHo  dal  Caluso  nel  poemetto  iAìitolato  Caluso  (1791). 
*  Quale  tentò  poi  l'A.,  colle  sue  Satin. 


212  Vittorio  Alfieri 

che  in  Toscana;  e  vi  s'era  anclie  biasimato  Io  stile  con  molto 
minore  accanimento  e  qualche  più  lumi.  Lo  stesso  era  accaduto 
in  Roma  ed  in  Napoli,  presso  quei  pochissimi  che  le  aveano 
volute  leggere.  Egli  è  dunque  un  privilegio  antico  della  sola  To- 
scana, di  incoraggire  in  questa  maniera  gli  scrittori  italiani, 
allorché  non  iscrivono  delle  cicalate'. 


CAPITOLO  UNDECIMO 

Seconda  stampa  di  sei  altre  tragedie. 

Varie  censure  delle  quattro  stampate  prima. 

Risposta  alla  lettera  del  Calsabigi. 

Verso  i  primi  d'agosto,  partito  di  Milano,  mi  volli  restituire  in 
Toscana.  Ci  venni  per  la  bellissima  e  pittoresca  via  nuova  di 
Modena,  che  riesce  a  Pistoia.  Nel  far  questa  strada,  tentai  per 
la  prima  volta  di  sfogare  anche  alquanto  il  mio  ben  giusto  fiele 
poetico,  in  alcuni  epigrammi.  Io  era  intimamente  persuaso,  che 
se  degli  epigrammi  satirici,  taglienti,  e  mordenti,  non  avevamo 
nella  nostra  lingua,  non  era  certo  colpa  sua;  ch'ella  ha  ben  denti, 
ed  ugne,  e  saette,  e  feroce  brevità,  quanto  e  più  ch'altra  lingua 
mai  l'abbia,  o  le  avesse.  I  pedanti  fiorentini,  verso  i  quali  io 
veniva  scendendo  a  gran  passi  nell' avvicinarmi  a  Pistoia,  mi  pre- 
stavano un  ricco  soggetto  per  esercitarmi  un  pochino  in  quel- 
l'arte novella.  Mi  trattenni  alcuni  giorni  in  Firenze,  e  visitai 
alcuni  di  essi,  mascheratomi  da  agnello,  per  cavarne  o  lumi,  o 
risate.  Ma  essendo  quasi  impossibile  il  primo  lucro,  ne  ritrassi 
in  copia  il  secondo.  Modestamente  quei  barbassori  mi  lasciarono, 
anzi  mi  fecero  chiaramente  intendere:  che  se  io  prima  di  stam- 
pare avessi  fatto  correggere  il  mio  manoscritto  da  loro,  avrei 
scritto  bene.  Ed  altre  sì  fatte  mal  confettate  impertinenze  mi  dis- 
sero. M'informai  pazientemente,  se  circa  alla  purità  ed  analogia 
delle  parole,  e  se  circa  alla  sacrosanta  grammatica,  io  avessi  ve- 
ramente solecizzato,  o  barbarizzato,  o  sme frizzato.  Ed  in  questo 
pure,  non  sapendo  essi  pienamente  l'arte  loro,  non  mi  seppero 
additare  ninna  di  queste  tre  macchie  nel  mio  stampato,  indivi- 
duandone il  luogo:  abbenchè  pur  vi  fossero  qualche  sgramira- 
ticature;  ma  essi  non  le  conoscevano.  Si  appagarono  dunque  d! 
appormi  delle  parole,  dissero  essi,  antiquate;  e  dei  modi  insoli'l. 


>  Allusione  ironica  alle  cicalate  accademiche  del  '700. 


La  vita  213 

troppo  brevi,  ed  oscuri,  e  duri  all'orecchio.  Arricchito  io  in  tal 
guisa  di  sì  peregrine  notizie,  addottrinato  e  illuminato  nell'arte 
tragfica  da  sì  cospicui  maestri,  me  ne  tomai  a  Siena.  Quivi  mi 
determinai,  sì  per  occuparmi  sforzatamente,  che  per  divagarmi 
dai  miei  dolorosi  pensieri,  di  proseguirvi  sotto  i  miei  occhi  la 
stampa  delle  tragedie.  Nel  riferire  io  poi  all'amico  le  notizie  ed 
i  lumi  ch'io  era  andato  ricavando  dai  nostri  diversi  oracoli  ita- 
liani, e  massimamente  dai  Fiorentini  e  Pisani,  noi  gustammo  un 
pocolino  di  commedia,  prima  di  accingerci  a  far  di  nuovo  rider 
coloro  a  spese  delle  nostre  ulteriori  tragedie.  Caldamente,  ma 
con  troppa  fretta,  mi  avviai  a  stampare,  onde  in  tutto  settembre, 
cioè  in  meno  di  due  mesi,  uscirono  in  luce  le  sei  tragedie  in 
due  tomi,  che  giunti  al  primo  di  quattro,  formano  il  totale  di 
qudla  prima  edizione.  E  nuova  cosa  mi  convenne  allora  cono- 
scere per  dura  esperienza.  Siccome  pochi  mesi  prima  io  avea 
imparato  a  conoscere  i  giornali  ed  i  giornalisti;  allora  dovei  co- 
noscere i  censori  dei  manoscritti,  e  revisori  delle  stampe,  i  com- 
positori, i  torcolieri,  ed  i  proti.  Meno  male  di  questi  tre  ultimi, 
che  pagandoli  si  possono  ammansire  e  dominare:  ma  i  revisori 
e  censori,  sì  spirituali  che  temporali',  bisog^na  visitarli,  pregarli, 
lusingarli,  e  sopportarli,  che  non  è  picciol  peso.  L'amico  Cori 
per  la  stampa  del  primo  volume  si  era  egli  assunto  in  Siena 
queste  noiose  brighe  per  me.  E  così  forse  avrebbe  anche  potuto 
proseguire  egli  per  la  continuazione  dei  du' altri  volumi.  Maio, 
volendo  pure,  per  una  volta  almeno,  aver  visto  un  poco  di  tutto 
nel  mondo,  volli  anche  in  quell'occasione  aver  veduto  un  soprac- 
ciglio censorio,  ed  una  gravità  e  petulanza  di  revisore.  E  vi  sa- 
rebbe stato  da  cavarne  delle  barzellette  non  poche,  se  io  mi 
fossi  trovato  in  uno  stato  di  cuore  più  lieto  che  non  era  il  mio. 
E  allora  anche  per  la  prima  volta  abbadai  io  stesso  alla  cor- 
rezione delle  prove  :  ma  essendo  il  mio  animo  troppo  oppresso, 
ed  alieno  da  ogni  applicazione,  non  emendai  come  avrei  dovuto 
e  potuto,  e  come  feci  poi  molti  anni  dopo  ristampando  in  Parigi, 
la  locuzione  di  quelle  tragedie  ;  al  qual  effetto  riescono  utilissime 
le  prove  dello  stampatore,  dove  leggendosi  quegli  squarci  spez- 
zatamente e  isolati  dal  corpo  dell'opera,  vi  si  presentano  più 
presto  all'occhio  le  cose  non  abbastanza  ben  dette;  le  oscurità; 
i  versi  mal  torniti  ;  e  tutte  insomma  quelle  mendarelle,  che  raol- 

I  I  ceiMoii  «ccleshtstici  e  quelli  civili. 


214  Vittorio  Alfieri 

tiplicate  e  spesseggiaiiti  fanno  poi  macchia.  Sul  totale  però  queste 
sei  tragedie  stampate  secondo \  riuscirono,  anche  al  dir  dei  male- 
voli, assai  più  piane  delle  quattro  prime.  Stimai  bene  per  allora 
di  non  aggiungere  alle  dieci  stampate  le  quattro  altre  tragedie 
che  mi  rimanevano,  tra  le  quali  sì  la  Congiura  de^  Pazzi,  che 
la  Maria  Stuarda,  potevano  in  quelle  circostanze  accrescere  a 
me  dei  disturbi,  -ed  a  chi  assai  più  mi  premea  che  me  stesso*. 
Ma  intanto  quel  penoso  lavoro  del  riveder  le  prove,  e  si  affolla- 
tamente tante  in  sì  poco  spazio  di  tempo,  e  per  lo  più  rivedendole 
subito  dopo  pranzo,  mi  cagionò  un  accesso  di  podagra'  assai 
gagliardetto,  che  mi  tenne  da  15  giorni  zoppo  e  angustiato,  non 
avendo  voluto  covarla  in  letto.  Quest'era  il  secondo  accesso: 
il  primo  l'avea  avuto  in  Roma  un  anno  e  più  innanzi,  ma 
leggerissimo.  Con  questo  secondo  mi  accertai,  che  mi  tocche- 
rebbe quel  passatempo  assai  spesso  per  lo  rimanente  della  mia 
vita.  Il  dolor  d' animo,  e  il  troppo  lavoro  di  mente  erano  in  me 
i  due  fonti  di  quell'incomodo:  ma  l'estrema  sobrietà  nel  vitto 
l'andò  sempre  poi  vittoriosamente  combattendo;  tal  che  finora 
pochi  e  non  forti  sono  sempre  stati  gli  assalti  della  mia  mal  pa- 
sciuta* podagra.  Mentr'io  stava  quasi  per  finire  la  stampa,  ricevei 
dal  Calsabigi'  di  Napoli  una  lunghissima  lettera,  piena  zeppa  di 
citazioni  in  tutte  le  lingue,  ma  bastantemente  ragionata,  su  le 
mie  prime  quattro  tragedie.  Immediatamente,  ricevutala,  mi  posi 
a  rispondergli,  sì  perchè  quello  scritto  mi  pareva  essere  stato 
fin  allora  il  solo  che  uscisse  da  una  mente  sanamente  critica  e 
giusta  ed  illuminata;  sì  perchè  con  quell'occasione  io  poteva  svi- 
luppare le  mie  ragioni,  e  investigando  io  medesimo  il  come  e 
il  perchè  fossi  caduto  in  errore,  insegnare  ad  un  tempo  a  tutti 
i  tant'altri  inetti  miei  critici  a  criticare  con  frutto  e  discernimento, 
o  tacersi.  Quello  scritto  mio,  che  dal  ritrovarmi  io  allora  pienis- 
simo di  quel  soggetto,  non  mi  costò  quasi  punto  fatica,  poteva 
poi  anche  col  tempo  servire  come  di  prefazione  a  tutte  le  tragedie, 
allorché  l'avessi  tutte  stampate;  ma  me  lo  tenni  in  corpo  per 

>  Per  seconde. 

«  Perchè  la  prima  esaltava  il  tirannicidio,  l'altra  conteneva  allusioni  al 
Conte  d'Albany. 

s  Gotta. 

«  Non  favorita  dall'abbondante  cibo. 

6  Sul  livornese  Ranieri  de'  Calsabigi  (1714-95)  che  scrisse  all' A.  una 
famosa  lettera  Intorno  alle  Tragedie  v.  O.  Lazzf.ri,  La  vita  e  l'opera  let- 
teraria di  R.  C,  Città  di  Castello,  1907. 


La  vita  215 

allora,  e  non  lo  volli  apporre  alla  stampa  di  Siena,  la  quale  non 
dovendo  essere  altro  per  me  che  un  semplice  tentativo,  io  voleva 
uscire  del  tutto  nudo  d'ogni  scusa,  e  ricevere  così  da  ogni  parte  e 
d'ogni  sorte  saette  ;  lusingandomi  forse  che  n'avrei  così  ricevuto 
più  vita  che  morte;  ninna  cosa  più  ravvivando  un  autore,  che 
criticarlo  inettamente.  Né  questo  mio  orgoglietto  avrei  dovuto 
rivelare,  s'io  non  avessi  fin  dal  principio  di  queste  chiacchiere 
impreso  e  promesso  di  non  tacer  quasi  che  nulla  del  mie,  o  di  non 
dare  almeno  mai  ragione  del  mio  operare,  la  quale  non  fosse  la 
schiettissima  verità.  Finita  la  stampa,  verso  il  principio  d'ottobre 
pubblicai  il  secondo  volume  ;  e  riserbai  il  terzo  a  sostener  nuova 
guerra,  tosto  che  fosse  sfogata  e  chiarita  la  seconda. 

Ma  intanto,  ciò  che  mi  premeva  allora  sopra  ogni  cosa,  il  rive- 
dere la  donna  mia,  non  potendosi  assolutamente  effettuare  per 
quell'entrante  inverno,  io  disperatissimo  di  tal  cosa,  e  non  ritro- 
vando mai  pace,  né  luogo  che  mi  contenesse,  pensai  di  fare  un 
lungo  viaggio  in  Francia  ed  in  Inghilterra,  non  già  che  me  ne 
fosse  rimasto  né  desiderio  né  curiosità,  che  me  n'  era  già  saziato 
d'entrambi  dal  secondo  viaggio,  ma  per  andare;  che  altro  ri- 
medio o  sollievo  al  dolore  non  ho  saputo  ritrovar  mai.  CoU'oc- 
casione  di  questo  nuovo  viaggio  mi  proponeva  poi  anche  di 
comprare  dei  cavalli  inglesi  quanti  più  potrei.  Questa  era,  ed  è 
tuttavia,  la  mia  passione  terza:  ma  si  fattamente  sfacciata  ed 
audace,  e  sì  spesso  rinascente,  che  i  bei  destrieri  hanno  molte 
volte  osato  combattere,  e  vinto  anche  talvolta,  sì  i  libri  che  i 
versi;  ed  in  quel  punto  di  scontentezza  di  cuore,  le  Muse  aveano 
pochissimo  imperio  su  la  mente  mia.  Onde  di  poeta  ripristinatomi 
cavallaio',  me  ne  partii  per  Londra  con  la  fantasia  ripiena  ed  accesa' 
di  belle  teste,  be'  petti,  altere  incollature,  ampie  groppe,  o  nulla 
o  poco  pensando  oramai  alle  uscite  e  non  uscite  tragedie.  Ed  in 
sì  fatte  inezie  consumai  ben  otto  e  più  mesi,  non  facendo  più 
nulla,  né  studiando,  né  quasi  pure  leggendo,  se  non  se  a  squar- 
cetti  1  miei  quattro  Poeti,  che  or  l'uno  or  l'altro  io  mi  andava 
a  vicenda  intascando,  compagni  indivisibili  miei  nelle  tante  e 
tante  miglia  ch'io  faceva;  e  non  pensando  ad  altro  che  alla  lon- 
tana mia  donna,  per  cui  di  tempo  in  tempo  alcune  rime  di  pia- 
gnisteo andava  pur  anche  raccozzando  alla  meglio. 

'  Apntwlonato  amatore  di  cavalH. 


216  Vittorio  Alfieri 

CAPITOLO  DUODECIMO 

Terzo  viaggio  in  Inghilterra,  unicamente  per  comperarvi  cavalli. 

Verso  la  metà  d'  ottobre  lasciai  dunque  Siena,  e  partendo  alla 
volta  di  Genova,  per  Pisa  e  Lerici,  l'amico  Cori  mi  fece  com- 
pagnia sino  a  Genova.  Quivi  dopo  due  o  tre  giorni  ci  separammo  ; 
egli  ripartì  per  la  Toscana,  io  m'imbarcai  per  Antibo.  Rapidis- 
simamente e  con  qualche  pericolo  feci  quel  tragitto  in  poco  più 
di  diciott'ore.  Né  senza  un  qualche  timore  passai  quella  notte. 
La  feluca  era  piccola;  ci  aveva  imbarcata  la  carrozza,  la  quale 
faceva  squilibrio:  il  vento  ed  il  mare  gagliardissimi:  ci  stetti 
assai  male.  Sbarcato,  ripartii  per  Aix,  dove  non  mi  trattenni,  né 
mi  arrestai  fino  ad  Avignone,  dove  mi  portai  con  trasporto  a 
visitare  la  magica  solitudine  di  Vakhìusa;  e  Sorga ^  ebbe  assai 
delle  mie  lagrime,  non  simulate  e  imitative,  ma  veramente  di 
cuore  e  caldissim'e.  Feci  in  quel  giorno  nell'andare  e  tornare  di 
Valchiusa  in  Avignone  quattro  sonetti:  e  fu  quello  per  me  l'un 
dei  giorni  i  più  beati  e  nello  stesso  tempo  dolorosi,  ch'io  pas- 
sassi mai.  Partito  d'Avignone  volli  visitare  la  celebre  Certosa  di 
Grenoble,  e  per  tutto  spargendo  lagrime  andava  raccogliendo 
rime  non  poche,  tanto  ch'io  pervenni  per  la  terza  volta  in  Pa- 
rigi: e  sempre  lo  stessissimo  effetto  mi  fece  questa  immensis- 
sima  fogna  ;  ira  e  dolore.  Statovi  circa  un  mese,  che  mi  vi  parve 
un  secolo,  ancorché  vi  avessi  recate  varie  lettere  per  molti  lette- 
rati d'ogni  genere,  mi  disposi  nel  decembre  a  passare  in  Inghil- 
terra. I  letterati  francesi  son  quasi  tutti  presso  che  interamente 
digiuni  della  nostra  letteratura  italiana,  né  oltrepassano  l'intel- 
ligenza del  Metastasio.  Ed  io  poi  non  intendendo  nulla  né  vo- 
lendo saper  della  loro,  non  avea  luogo  discorso  tra  noi.  Bensì 
arrabbiatissimo  io  in  me  stesso  di  essermi  rimesso  nel  caso  di 
dover  riudire  e  riparlare  quell'antitoscanissimo  gergo  nasale, 
affrettai  quanto  più  potei  il  momento  di  allontanarmene.  Il  fana- 
tismo ebdomadario  di  quel  poco  tempo  ch'io  mi  vi  trattenni,  era 
allora  il  pallon  volante';  e  vidi  due  delle  prime  e  più  felici  espe- 

»  Piccola  riviera,  affluente  del  Rodano,  che  nasce  dalla  fonte  di  Val- 
chiusa  e  fu  cantata  dal  Petrarca. 

«  Cfr.  E.  Behtana,  //  sonetto  di  O.  Parinl  «  Per  la  macchina  areosta- 
tica  >,  in  Gior.  star,  d,  leti,  ital.,  XXXII. 


La  viia  Ì417 

rienze  delle  due  sorti  di  esso,  l'uno  di  aria  rareiaita  ripieno; 
l'altro,  d'aria  infiammabile';  ed  entrambi  portanti  per  aria  due 
persone  ciascuno.  Spettacolo  grandioso  e  mirabile,  tema  più  assai 
poetico  che  storico;  e  scoperta,  a  cui  per  ottenere  il  titolo  di 
sublime,  altro  non  manca  finora  che  la  possibilità  o  verosimi- 
glianza di  essere  adattata  ad  una  qualche  utilità".  Giunto  in 
Londra,  non  trascorsero  otto  giorni,  ch'io  cominciai  a  comprar 
dei  cavalli;  prima  un  di  corsa,  poi  due  di  sella,  poi  un  altro,  poi 
sei  da  tiro,  e  successivamente  essendomene  o  andati  male  o  morti 
vari  poliedri,  ricomprandone  due  per  un  che  morisse,  in  tutto  il 
marzo  dell'anno  84,  me  ne  trovai  rimanere  quattordici.  Questa 
rabidissima  '  passione,  che  in  me  avea  covato  sotto  cenere  oramai 
quasi  sei  anni,  mi  si  era  per  quella  lunga  privazione  totale,  o 
parziale,  s)  dispettosamente  riaccesa  nel  cuore  e  nella  fantasia,  che 
recalcitrando  contro  gli  ostacoli,  e  vedendo  che  di  dieci  com- 
pratine, cinque  mi  eran  venuti  meno  in  sì  poco  tempo,  arrivai 
a  quattordici;  come  pure  a  quattordici  avea  spinte  le  tragedie, 
non  ne  volendo  da  prima  che  sole  dodici.  Queste  mi  spossarono 
la  mente;  quelli  la  borsa:  ma  la  divagazione  dei  molti  cavalli  mi 
restituì  la  salute  e  l'ardire  di  fare  poi  in  appresso  altre  tragedie 
ed  altr'opere.  Furono  dunque  benissimo  spesi  quei  molti  danari, 
poiché  ricomprai  anche  con  essi  il  mio  impeto  e  brio,  che  a  piedi* 
languivano.  E  tanto  più  feci  bene  di  buttar  quei  danari,  poiché 
me  li  trovava  avere  sonanti.  Dalla  donazione  in  poi,  avendo  io 
vissuti  i  primi  quasi  tre  anni  con  sordidezza,  ed  i  tre  ultimi  con 
decente  ma  moderata  spesa  ;  mi  ritrovava  allora  una  buona  somma 
di  risparmio,  tutti  i  frutti  dei  vitalizi  di  Francia,  cui  non  avea 
mai  toccati.  Quei  quattordici  amici  me  ne  consumarono  gran 
parte  nel  farsi  comprare,  e  trasferire  in  Italia;  ed  il  rimanente 
poi  me  ne  consumarono  in  cinque  anni  consecutivi  nel  farsi  man- 
tenere: che  usciti  una  volta  della  loro  isola,  non  vollero  più  mo- 
rire nessuno,  ed  io  affezionatomi  ad  essi  non  ne  volli  vender 
nessuno.  Incavallatomi'  dunque  sì  pomposamente,  dolente  nel- 
l'animo per  la  mia  lontananza  dalla  sola  motrice  d'ogni  mio 
savio  ed  alto  operare,  io  non  trattava  né  cercava  mai  nessuno; 

>  Idrogeno. 

«  Vero5Ìinii^H.inza  che  l'A.,  nel  «no  scetticismo,  sembra  negare. 

*  Rabbiosissima. 

*  Senza  cavalli. 

*  Provvedutomi  di  cavalli. 


218  Vittorio  AlfUri 

o  me  ne  stava  co'  miei  cavalli,  o  scrivendo  lettere  su  lettere  su 
lettere.  In  questo  modo  passai  circa  quattro  mesi  in  Londra  ;  né 
alle  tragedie  pensava  altrimenti  che  se  non  l'avessi  né  pure  ideate 
mai.  Soltanto  mi  si  affacciava  spesso  fra  me  e  me  quel  bizzarro 
rapporto  di  numeri  fra  esse  e  le  mie  bestie  ;  e  ridendo  mi  dicea  : 
Tu  ti  sei  guadagnato  un  cavallo  per  ogni  tragedia  ;  pensando  ai 
cavalli  che  a  suono  di  sferza  ci  somministrano  i  nostri  Orbilj 
Pedagogi  \  quando  facciamo  nelle  scuole  una  qualche  trista  com- 
posizione. 

Così  vissi  io  vergognosamente  in  un  ozia  vilissimo  per  mesi 
e  mesi;  smettendo  ogni  dì  più  anche  il  leggere  i  soliti  poeti, 
e  insterilita  anco  affatto  la  vena  delle  rime  ;  tal  che  in  tutto  il 
soggiorno  di  Londra  non  feci  che  un  solo  sonetto,  e  due  poi  al 
partire.  Avviatomi  nell'aprile  con  quella  numerosa  carovana, 
venni  a  Calais,  poi  a  Parigi  di  nuovo,  poi  per  Lione  e  Torino 
mi  restituii  in  Siena.  Ma  molto  è  più  facile  e  breve  il  dire  per 
iscritto  tal  gita,  che  non  l'eseguirla,  con  tante  bestie.  Io  provava 
ogni  giorno,  ad  ogni  passo,  e  disturbi  e  amarezze,  che  troppo 
mi  avvelenavano  il  piacere  che  avrei  avuto  della  mia  cavalleria. 
Ora  questo  tossiva,  or  quello  non  volea  mangiare  :  l'uno  azzop- 
piva, all'altro  si  gonfiavan  le  gambe,  all'altro  si  sgretolavan  gli 
zoccoli;  e  che  so  io:  egli  era  un  oceano  continuo  di  guai,  ed  io 
n'era  il  primo  martire.  E  quel  passo  di  mare,  per  trasportarli  di 
Douvres,  vedermeli  tutti  come  pecore  in  branco  posti  per  za- 
vorra della  nave,  avviliti,  sudicissimi  da  non  più  si  distinguere 
neppure  il  beli'  oro  dei  loro  vistosi  mantelli  castagni  ;  e  tolte  via 
alcune  tavole  che  li  facevan  da  tetto,  vederli  poi  in  Calais,  prima 
che  si  sbarcassero,  servire  ì  loro  dossi  di  tavole  ai  grossolani 
marinai  che  camminavan  sopra  di  loro  come  se  non  fossero  stati 
vivi  corpi,  ma  una  vile  continuazione  di  pavimento;  e  poi  ve- 
derli tratti  per  aria  da  una  fune  con  le  quattro  gambe  spenzolate, 
e  quindi  calati  nel  mare,  perchè  stante  la  marea  non  poteva  la 
nave  approdare  sino  alla  susseguente  mattina  ;  e  se  non  si  sbar- 
cavano così  quella  sera,  conveniva  lasciarli  poi  tutta  la  notte  in 
quella  sì  scomoda  positura  imbarcati:  in  somma  vi  patii  pene 
continue  di  morte.  Ma  pure  tanta  fu  la  sollecitudine,  e  l'anti- 
vedere, e  il  rimediare,  e  l'ostinatamente  sempre  badarci  da  me, 


1  Pensando  alle  sferzate  dei  critici,  simili  al  pedagogo  Orbillo,  cantato 
da  Orazio  (Epistole,  II,  i). 


La  vita  219 

che  fra  tante  vicende,  e  pericoli,  ed  incomoducci,  li  condussi 
senza  malanni  importanti  tutti  salvi  a  buon  porto. 

Confesserò  anche  pel  vero,  che  io  passionatissirao  su  questo 
fatto,  ci  avea  anche  posto  una  non  meno  stolta  che  stravagante 
vanità  ;  talché  quando  in  Amiens,  in  Parigi,  in  Lione,  in  Torino, 
ed  altrove  quei  miei  cavalli  erano  trovati  belli  dai  conoscitori, 
io  me  ne  rimpettiva  e  teneva  come  se  gli  avessi  fatti  io.  Ma  la 
più  ardua  ed  epica  impresa  mìa  con  quella  carovana  fu  il  passo 
dell'Alpi  fra  Laneborgo,  e  la  NovalesaV  Molta  fatica  durai  nel 
ben  ordinare  ed  eseguire  la  marcia  loro,  affinchè  non  succedesse 
disgrazia  nessuna  a  bestie  sì  grosse,  e  piuttosto  gravi,  in  una 
strettezza  e  malagevolezza  si  grande  di  quei  rompicolli  di  strade. 
E  siccome  assai  mi  cogipiacqui  nell'ordinaria,  mi  permetta  anco 
il  lettore  ch'io  mi  compiaccia  alquanto  in  descriverla.  Chi  non 
la  vuole,  la  passi;  e  chi  la  vorrà  pur  leggere,  badi  un  po'  s'io 
meglio  sapessi  distribuire  la  marcia  di  14  bestie  fra  quelle  Ter- 
mopile, che  non  i  cinque  atti  d'una  tragedia. 

Erano  que'  miei  cavalli,  attesa  la  lor  giovinezza,  e  le  mie  cure 
paterne,  e  la  moderata  fatica,  vivaci  e  briosi  oltre  modo;  onde 
tanto  più  scabro  riusciva  il  guardarli  illesi  per  quelle  scale.  Io 
presi  dunque  in  Laneborgo  un  uomo  per  ciascun  cavallo,  che 
lo  guidasse  a  piedi  per  la  brìglia  cortissimo.  Ad  ogni  tre  ca- 
valli, che  l'uno  accodato  all'altro  salivano  il  monte  bel  bello, 
coi  loro  uomini,  ci  avea  interposto  uno  de'  miei  palafrenieri 
che  cavalcando  un  muletto  invigilava  su  i  suoi  tre  che  lo  prece- 
devano. E  così  via  via  di  tre  in  tre.  In  mezzo  poi  della  marcia 
stava  il  maniscalco  di  Laneborgo  con  chiodi  e  martello,  e  ferri 
e  scarpe  posticce  per  rimediare  ai  piedi  che  si  venissero  a  sfer- 
rare, che  era  il  maggior  pericolo  in  quei  sassacci.  Io  poi,  come 
capo  dell' espedizione,  veniva  ultimo,  cavalcando  il  più  pìccolo 
e  il  più  leggiero  de'  miei  cavalli,  Frontino*,  e  mi  tenea  alle  due 
staffe  due  aiutanti  di  strada,  pedoni  sveltissimi,  ch'io  mandava 
dalla  coda  al  mezzo  o  alla  testa,  portatori  de'  miei  comandi. 
Giunti  in  tal  guisa  felicissimamente  in  cima  del  Monsenigi*, 
quando  poi  fummo  allo  scendere  in  Italia,  mossa  in  cui  sempre 
i  cavalli  si  sogliono  rallegrare,  e  affrettare  il  passo,  e  sconside- 

'  Lanslebotirg:. 

*  Nome  del  cavallo  di  Rui;giero  e  Bradtmante;  questo  Trontino  è  ricor- 
dato dall'A.  in  alcune  delle  tue  rime. 

*  Moncenisio,  dal  francese  Montr^nis. 


^^u  Vittorio  Alfieri 

ratamente  anco  saitellarq,  io  mutai  di  posto^  e  sceso  di  cavallo 
mi  posi  in  t6?ta  di  tutti,  a  piedi,  scendendo  ad  oncia  ad  oncia  ;  e 
per  maggiormente  anche  ritardare  la  scesa,  avea  posti  in  testa  i 
cavalli  i  pili  gravi  e  più  grossi;  e  gli  aiutanti  correano  intanto 
su  e  giìi  per  tenerli  tutti  insieme  senza  intervallo  nessuno,  altro 
che  la  dovuta  distanza.  Con  tutte  queste  diligenze  mi  si  sferrarono 
nondimeno  tre  piedi  a  diversi  cavalli;  ma  le  disposizioni  eran 
sì  esatte,  che  immediatamente  il  maniscalco  li  potè  rimediare,  e 
tutti  giunsero  sani  e  salvi  alla  Novalesa,  coi  piedi  in  ottimo  es- 
sere, e  nessunissimo  zoppo.  Queste  mie  chiacchiere  potranno  ser- 
vire di  norma  a  chi  dovesse  passare  o  quell'Alpe,  o  altra  simile, 
con  molti  cavalli.  Io,  quant'ame,  avendo  sì  felicemente  diretto 
codesto  passo,  me  ne  teneva  poco  meno  che  Annibale  per  averci 
un  poco  pili  verso  il  mezzogiorno  fatto  traghettare  i  suoi  schiavi 
e  elefanti.  IVla  se  a  lui  costò  molt' aceto,  a  me  costò  del  vino  non 
poco,  che  tutti  coloro,  e  guide,  e  maniscalchi,  e  palafrenieri,  e 
aiutanti,  si  tracannarono^ 

Col  capo  ripieno  traboccante  di  queste  inezie  cavalline,  e  molto 
scemo  di  ogni  utile  e  lodevole  pensamento,  arrivai  in  Torino  in 
fin  di  maggio,  dove  soggiornai  circa  tre  settimane,  dopo  sette  e 
pili  anni  che  vi  avea  smesso  il  domicilio.  JVla  i  cavalli,  che  per 
la  troppa  continuità  cominciavano  talvolta  a  tediarmi,  dopo  sei, 
o  otto  giorni  di  riposo,  li  spedii  innanzi  alla  volta  della  Toscana, 
dove  li  avrei  raggiunti.  Ed  intanto  voleva  un  poco  respirare  da 
tante  brighe,  e  fatiche,  e  puerilità,  poco  in  vero  convenevoli  ad 
un  autor  tragico  in  età  di  anni  trentacinque  suonati.  Con  tutto 
ciò  quella  divagazione,  quel  moto,  quell'interruzione  totale  d'ogni 
studio  mi  aveva  singolarmente  giovato  alla  salute,  ed  io  mi  tro- 
vava rinvigorito,  e  ringiovenito  di  corpo,  come  pur  troppo  rin- 
giovenito  anche  di  sapere  e  di  senno,  i  cavalli  mi  aveano  a  gran 
passi  ricondotto  all'asino  mio  primitivo*.  E  tanto  mi  ero  già  di 
bel  nuovo  irruginita  la  mente,  ch'io  mi  riputava  ora  mai  nella 
totale  impossibilità  di  nulla  più  ideare,  né  scrivere. 


>  Le  spese  del  viaggio  da  Londra  a  Siena  l'A.  annotò  in  un  fascicolo  di 
26  foglietti;  cfr.  O.  Mazzatinti,  Le  carte  alfierìane  dì  Montpellier,  in 
Gior.  star.  d.  lett.  ital.,  Ili,  p,  383. 

*  Asinità. 


La  vita  221 

CAPITOLO  DECIMOTERZO 
Breve  soggiorno  in  Torino.  Recita  uditavi  della  Virginia. 

In  Torino  ebbi  alcuni  piaceri,  e  alcuni  piìi  dispiaceri.  Il  rive- 
dere gli  amici  della  prima  gioventù,  ed  i  luoghi  che  primi  si 
son  conosciuti,  ed  ogni  pianta,  ogni  sasso,  in  somma  ogni  og- 
getto di  quelle  idee  e  passioni  primitive,  eli' è  dolcissima  cosa. 
Per  altra  parte  poi  l'avere  io  ritrovati  non  pochi  di  quei  com- 
pagnoni d'adolescenza,  i  quali  vedendomi  ora  venire  per  una 
vi.i,  di  quanto  potean  più  lontano  mi  scantonavano;  ovvero, 
presi  alle  strette,  gelidamente  appena  mi  salutavano,  od  anche 
voltavano  il  viso  altrove;  gente,  a  cui  io  non  aveva  fatto  mai 
nulla,  se  non  se  amicizia  e  cordialità;  questo  mi  amareggiò  non 
poco  :  e  più  mi  avrebbe  amareggiato,  se  non  mi  fosse  stato 
detto  da  altri  pochi  e  benevoli,  che  gli  uni  mi  trattavan  così 
perchè  io  aveva  scritto  tragedie  ;  gli  altri,  perchè  avea  viaggiato 
tanto;  gli  altri,  perchè  ora  io  era  ricomparito  in  paese  con  troppi 
cavalli:  piccolezze  in  somma;  scusabili  però,  e  scusabilissime 
presso  chiunque  conosce  l'uomo  esaminando  imparzialmente  se 
stesso;  ma  cose  da  scansarsi  per  quanto  è  possibile,  col  non  abi- 
tare fra  i  suoi  nazionali,  allorché  non  si  vuol  fare  quel  che  essi 
fanno  o  non  fanno;  allorché  il  paese  è  piccolo,  ed  oziosi  gli 
abitanti;  ed  allorché  finalmente  si  è  venuto  ad  offenderli  invo- 
lontariamente, anche  col  solo  tentare  di  farsi  da  più  di  loro, 
qualunque  sia  il  genere  e  il  modo  in  cui  l'uomo  abbia  tentato 
tal  cosa. 

Un  altro  amarissimo  boccone  che  mi  convenne  inghiottire  in 
Torino,  fu  di  dovermi  indispensabilmente  presentare  al  re,  il 
quale  per  certo  si  teneva  offeso  da  me,  per  averlo  io  tacitamente 
rinnegato  coll'espatriazione  perpetua.  Eppure,  visti  gli  usi  del 
paese,  e  le  mie  stesse  circostanze,  io  non  mi  poteva  assolvere 
dal  fargli  riverenza,  ed  ossequio,  senza  riportare  la  giusta  taccia 
di  stravagante  e  insolente  e  scortese.  Appena  io  giunsi  in  To- 
rino, che  il  mio  buon  cognato,  allora  primo  gentiluomo  di  ca- 
mera, ansiosamente  subito  mi  tastò  per  vedere  se  io  mi  presen- 
terei a  corte,  o  no.  Ma  io  immediatamente  lo  acquetai  e  raccon- 
solai col  dirgli  positivamente  di  si;  ed  egli  insistendo  sul  quando. 


222  Vittotio  Alfieri 

non  volli  differire.  Fui  il  giorno  dopo  dal  ministro'.  Il  mio  co- 
gnato già  mi  avea  prevenuto,  .che  in  quel  punto  le  disposizioni 
di  quel  governo  erano  ottime  per  me  ;  onde  sarei  molto  ben  ri- 
cevuto; ed  aggiunse  anco  che  si  avea  voglia  d'impiegarmi. 
Questo  non  meritato  né  aspettato  favore  .  mi  fece  tremare  :  ma 
l'avviso  mi  servì  assai,  per  tener  tal  contegno  e  discorso  da  non 
mi  fare  né  prendere  né  invitare.  Io  dissi  dunque  al  ministro,  che 
passando  per  Torino  credeva  del  mio  dovere  di  visitare  lui  mi- 
nistro, e  di  richiedere  per  mezzo  suo  di  rassegnarmi  al  re,  sem- 
plicemente per  inchinarmegli.  Il  ministro  con  blande  maniere  mi 
accolse,  e  direi  quasi  che  mi  festeggiò.  E  di  una  parola  in  un'altra 
mi  venne  lasciando  travedere  da  prima,  e  poi  mi  disse  apertamente  : 
che  al  re  piacerebbe  ch'io  mi  volessi  fissare  in  patria;  che  si 
varrebbe  volentieri  di  me;  ch'io  mi  sarei  potuto  distinguere,  e 
simili  frasche.  Tagliai  a  dirittura  nel  vivo,  e  senza  punto  tergi- 
versare risposi:  che  io  ritornava  in  Toscana  per  ivi  proseguire 
le  mie  stampe  e  i  miei  studi;  ch'io  mi  trovava  avere  35 anni,  età 
in  cui  non  si  dee  oramai  più  cangiare  di  proposito  ;  che  avendo 
io  abbracciata  l'arte  delle  lettere,  o  bene  o  male  la  praticherei 
per  tutto  il  rimanente  di  vita  mia.  Egli  soggiunse  ;  che  le  lettere 
erano  belle  e  buone,  ma  che  esistevano  delle  occupazioni  più 
grandi  e  più  importanti,  di  cui  io  era  e  mi  dovea  sentir  ben  ca- 
pace. Ringraziai  cortesemente,  ma  persistei  nel  no  ;  ed  ebbi  anche 
la  moderazione  e  la  generosità  di  non  dare  a  quel  buon  galan- 
tuomo l'inutile  mortificazione,  ch'egli  si  sarebbe  pur  meritata; 
di  lasciargli  cioè  intendere,  che  i  loro  dispacci  e  diplomazie  mi 
pareano,  ed  eran  ben  certo,  assai  meno  importante  ed  alta  cosa 
che  non  le  tragedie  mie  o  le  altrui.  Ma  questa  specie  di  gente  è, 
e  dev'essere,  inconvertibile.  Ed  io,  per  natura  mia,  non  disputo 
mai,  se  non  se  raramente  con  quelli  con  cui  concordiamo  di  mas- 
sima: agli  altri  in  ogni  cosa  io  la  do  vinta  alla  prima.  Mi  con- 
tentai dunque  di  non  acconsentire.  Questa  mia  resistenza  nega- 
tiva verisimilmente  poi  passò  sino  al  re  pel  canale  del  ministro; 
onde  il  giorno  dopo,  eh'  io  vi  fui  a  inchinarlo,  il  re  non  mi  parlò 
punto  di  questo,  e  del  rimanente  mi  accolse  colla  massima  affa- 
bilità e  cortesia,  che  gli  è  propria.  Questi  era  (ed  ancora  regna) 
Vittorio  Amedeo  II,  figlio  di  Carlo  Emanuele,  sotto  il  cui  regno 
io  nacqui.  Ancorché  io  non  ami  punto  i  re  in  genere,  e  meno  i 


»  Il  primo  ministro,  marchese  d'Aigiieblanche. 


La  vita  223 

più  arbitrari,  debbo  pur  dire  ingenuamente  che  la  razza  di  questi 
nostri  principi  è  ottima  sul  totale,  e  massime  paragonandola  a 
quasi  tutte  l'altre  presenti  d'Europa.  Ed  io  mi  sentiva  nell'in- 
timo del  cuore  piuttosto  affetto  per  essi,  che  non  avversione; 
stante  che  sì  questo  re  che  il  di  lui  predecessore,  sono  di  ottime 
intenzioni,  di  buona  e  costumata  ed  esemplarissima  indole,  e  fanno 
al  paese  loro  più  bene  che  male.  Con  tutto  ciò  quando  si  pensa  e 
vivamente  si  sente  che  il  loro  giovare  o  nuocere  pendono  dal  loro 
assoluto  volere,  bisogna  fremere  e,  fuggirei  E  così  feci  io  dopo 
alcuni  giorni,  quanti  bastarono  per  rivedere  i  miei  parenti  e  cono- 
scenti in  Torino,  e  trattenermi  piacevolmente  e  utilmente  per  me  le 
più  ore  di  quei  giorni  coll'incomparabile  amico,  l'abate  di  Caluso, 
che  un  cotal  poco  mi  riassestò  anche  il  capo,  e  mi  riscosse  dal 
letargo  in  cui  la  stalla  mi  avea  precipitato,  e  quasi  che  seppellito. 
Nel  trattenermi  in  Torino  mi  toccò  di  assistere  (senza  ch'io 
n'avessi  gran  voglia)  ad  una  recita  pubblica  della  mia  Virginia, 
che  fu  fatta  su  lo  stesso  teatro,  nove  anni  dopo  quella  della 
Cleopatra,  da  attori  a  un  bel  circa  della  stessa  abilità.  Un  mio 
amico  già  d'Accademia  avea  preparata  questa  recita  già  prima 
ch'io  arrivassi  a  Torino,  e  senza  sapere  ch'io  ci  capiterei.  Egli 
mi  chiese  di  volermi  adoprare  nell' addestrare  un  tal  poco  gli 
attori  ;  come  avea  fatto  già  per  la  Cleopatra.  Ma  io,  cresciuto 
forse  alquanto  di  mezzi  %  e  molto  più  di  orgoglio,  non  mi  ci  volli 
prestare  in  nulla,  conoscendo  benissimo  quel  che  siano  finora  ed 
i  nostri  attori,  e  le  nostre  platee.  Non  mi  volli  dunque  far  com- 
plice a  nessun  patto  della  loro  incapacità,  che  senza  averli  sentiti 
ella  mi  era  già  cosa  dimostratissima.  Sapeva,  che  avrebbe  biso- 
gnato cominciare  dall'impossibile;  cioè  dall'insegnar  loro  a  par- 
lare e  pronunziare  italiano,  e  non  veneziano;  a  recitar  essi,  e 
non  il  rammentatore;  ad  intendere  (troppo  sarebbe  pretendere, 
s'io  dicessi  a  sentire),  ma  ad  intendere  semplicemente  quello 
che  volean  far  intendere  all'uditorio.  Non  era  poi  dunque  si 
Irragionevole  il  mio  niego,  né  sì  indiscreto  il  mio  orgoglio. 
Lasciai  dunque  che  l'amico  ci  pensasse  da  sé,  e  condiscesi  sol- 
tanto col  promettergli  a  mal  mio  grado  d'assistervi.  Ed  in  fatti 
ci  fui,  già  ben  convinto  in  me  stesso,  che  di  vivente  mio  non 
v'era  da  raccoglier  per  me  in  nessunissimo  teatro  d'Italia,  né 


Queste  parole  ben  esprimono  l'avversione  delI'A.  per  la  forma  monarchica. 
■  Capaciti. 


224  Vittorio  Alfieri 

lode  né  biasimo.  La  Virginia  ottenne  per  l'appunto  la  stessa  at- 
tenzione, e  lo  stessissimo  esito  che  avea  già  ottenuta  la  Cleo- 
patra; e  fu  richiesta  per  la  sera  dopo,  né  più  né  meno  di 
quella;  ed  io,  come  si  può  credere,  non  ci  tornai.  Ma  da  quel 
giorno  cominciò  in  gran  parte  quel  mio  disinganno  di  gloria,  in 
cui  mi  vo  di  giorno  in  giorno  sempre  più  confermando.  Con 
tutto  ciò  non  mi  rimoverò  io  dall'abbracciate  proposito  di  ten- 
tare ancora  per  altri  dieci  o  quindici  anni  all' incirca,  sin  sotto 
ai  sessanta  cioè,  di  scrivere  in  due  o  tre  altri  generi  delle  nuove 
composizioni,  quanto  più  accuratamente  e  meglio  il  saprò;  per 
avere,  morendo  o  invecchiando,  la  intima  consolazione  di  aver 
soddisfatto  a  me  stesso,  ed  all'arte  quant'era  in  me.  Che  quanto 
ai  giudizi  degli  uomini  presenti,  atteso  lo  stato  in  cui  si  trova 
l'arte  critica  in  Italia,  ripeto  piangendo,  che  non  v'é  da  sperare 
né  ottenere  per  ora,  né  lode  né  biasimo.  Che  io  non  reputo  lode, 
quella  che  non  discerne,  e  motivando  sé  stessa  inanima  l'autore  ; 
né  biasimo  chiamo,  quello  che  non  t' insegna  a  far  meglio. 

Io  patii  morte  a  codesta  recita  della  Virginia,  più  ancora  che 
a  quella  di  Cleopatra,  ma  per  ragioni  troppo  diverse.  Né  più  este- 
samente le  voglio  allegare  ora  qui;  poiché  a  chi  ha  ed  il  gusto  e 
l'orgoglio  dell'arte,  elle  già  sono  notissime;  per  chi  non  l'ha, 
elle  riuscirebbero  inutili  ed  inconcepibili. 

Partito  di  Torino,  mi  trattenni  tre  giorni  in  Asti  presso  l'ot- 
tima rispettabilissima  mia  madre.  Ci  separammo  poi  con  gran 
lagrime,  presagendo  ambedue  che  verisimilmente  non  ci  saremmo 
più  riveduti.  Io  non  dirò  che  mi  sentissi  per  lei  quanto  affetto 
avrei  potuto  e  dovuto;  atteso  che  dall'età  di  nove  anni  in  poi 
non  mi  era  mai  più  trovato  con  essa,  se  non  se  alla  sfuggita 
per  ore.  Ma  la  mia  stima,  gratitudine,  e  venerazione  per  essa  e 
per  le  di  lei  virtù  è  stata  sempre  somma,  e  lo  sarà  finch'io  vivo. 
Il  Cielo  le  accordi  lunga  vita,  poich'ella  sì  bene  la  impiega  in 
edificazione  e  vantaggio  di  tutta  la  sua  città.  Essa  poi  è  oltre 
ogni  dire  sviscerata  per  me,  più  assai  ch'io  non  abbia  mai  me- 
ritato. Perciò  il  di  lei  vero  ed  immenso  dolore  nell'atto  della 
nostra  dipartenza  grandemente  mi  accorò,  ed  accora. 

Appena  uscito  io  poi  dagli  Stati  del  re  sardo,  mi  sentii  come 
allargato  il  respiro:  cotanto  mi  pesava  tuttavia  tacitamente  sul 
collo  anche  l'avanzo  stesso  di  quel  mio  giogo  natio,  ancorché 
infranto  lo  avessi.  Talché  il  poco  tempo  ch'io  vi  stetti,  ogni  qual- 
volta mi  dovei  trovare  con  alcuno  dei  barbassori  governanti  di 


La  vita  225 

quel  paese,  io  mi  vi  teneva  piuttosto  in  aspetto  di  liberto  che  non 
d'uomo  libero  ;  sempre  rammentandomi  quel  bellissimo  detto  di 
Pompeo  nello  scendere  in  Egitto  alla  discrezione  ed  arbitrio  d'un 
Potino:  «  Chi  entra  in  casa  del  tiranno,  s'egli  schiavo  non  era 
si  fa.  »  Così,  chi  per  mero  ozio  e  vaghezza  rientra  nel  già  diser- 
tato suo  carcere,  vi  si  può  benissimo  ritrovar  chiuso  all'uscirne, 
finché  pur  carcerieri  rimangonvi. 

Inoltrandomi  intanto  verso  Modena,  le  nuove  ch'io  avea  rice- 
vute della  mia  donna  mi  andavano  riempiendo  or  di  dolore,  ora 
di  speranza,  e  sempre  di  molta  incertezza.  Ma  l'ultime  ricevute 
in  Piacenza  mi  annunziavano  finalmente  la  di  lei  liberazione  di 
Roma',  il  che  mi  empiva  d'allegrezza;  poiché  Roma  era  per  allora 
il  sol  luogo  dove  non  l'avrei  potuta  vedere  :  ma  per  altra  parte 
la  convenienza  con  catene  di  piombo  mi  vietava  assolutamente, 
anche  in  quel  punto,  di  seguitarla.  Ella  aveva  con  mille  stenti, 
e  con  dei  sacrifici  pecuniari  non  piccioli  verso  il  marito,  otte- 
nuto finalmente  dal  cognato,  e  dal  papa,  la  licenza  di  portarsi 
negli  Svizzeri  all'acque  di  Baden;  trovandosi  per  i  molti  disgusti 
la  di  lei  salute  considerabilmente  alterata.  In  quel  giugno  dunque 
dell'anno  1784  ell'erasi  partita  di  Roma,  e  bel  bello  lungo  la 
spiaggia  dell'Adriatico,  per  Bologna  e  Mantova  e  Trento,  si  av- 
viava verso  il  Tirolo,  nel  tempo  stesso  che  io  partitomi  di  Torino, 
per  Piacenza,  Modena  e  Pistoia  me  ne  ritornava  a  Siena.  Questo 
pensiero,  di  essere  allora  così  vicino  a  lei,  per  tosto  poi  di  bel 
nuovo  rimanere  così  disgiunti  e  lontani,  mi  riusciva  ad  un  tempo 
e  piacevole  e  doloroso.  Avrei  benissimo  potuto  mandar  per  la 
diritta  in  Toscana  il  mio  legno  e  la  mia  gente,  ed  io  a  traverso 
pur  le  poste  a  cavallo  soletto  l'avrei  potuta  presto  raggiungere, 
e  almen  l'avrei  vista.  Desiderava,  temeva,  sperava,  voleva,  disvo- 
leva: vicende  tutte  ben  note  ai  pochi  e  veraci  amatori:  ma  vinse 
pnr  finalmente  il  dovere,  e  l'amore  di  essa  e  del  di  lei  decoro, 
pili  che  di  me.  Onde,  bestemmiando  e  piangendo,  non  mi  scartai 
punto  dalla  strada  mia.  Così  sotto  il  peso  gravissimo  di  questa 
mia  dolorosa  vittoria  giunsi  in  Siena  dopo  dieci  mesi  in  circa  di 
viaggio;  e  ritrovai  nell'amico  Oori  l'usato  mio  necessarissimo 
conforto,  onde  andarvi  pure  strascinando  la  vita,  e  stancando 
orami  le  speranze. 

>  Fin  dal  3  aprile  di  quell'anno  cri  sfato  concluso  l'atto  di  separar!one 
della  Stolberg  dal  conte  d'Alb^ny. 

15    -  Classici  ItaUent.  N.  2. 


26  Vittorio  Alfieri 


CAPITOLO  DECIMOQUARTO 

Viaggio  in  Alsazia.  Rivedo  la  Donna  mia.  Ideate  tre  nuove  tragedie. 
Morte  inaspettata  dell'amico  Oori  in  Siena. 

Erano  frattanto  giunti  in  Siena  pochi  giorni  dopo  di  me  i  miei 
quattordici  cavalli,  e  il  decimoquinto  ve  l'avea  lasciato  io  in  cu- 
stodia all'amico;  ed  era  il  mio  bel  falbo S  il  Fido;  quello  stesso 
che  in  Roma  avea  più  volte  portato  il  dolce  peso  della  donna 
mia,  e  che  perciò  mi  era  egli  solo  più  caro  assai  che  tutta  la 
nuova  brigata.  Tutte  queste  bestie  mi  tenevano  scioperato  e  diva- 
gato ad  un  tempo;  aggiuntavi  poi  la  scontentezza  di  cuore,  io 
andava  invano  tentando  di  ripigliare  le  occupazioni  letterarie. 
Parte  di  giugno,  e  tutto  luglio  chMq.  stetti  senza  muovermi  di 
Siena,  mi  si  consumarono  così,  senza  ch'io  facessi  altroché  qualche 
rime.  Feci  anche  alcune  stanze  che  mancavano  a  terminare  il  terzo 
canto  del  poemetto-,  e  vi  cominciai  il  quarto  ed  ultimo.  Quell'opera, 
benché  lavorata  con  tante  interruzioni,  in  così  lungo  tempo,  e 
sempre  alla  spezzata,  e  senza  ch'io  avessi  alcun  piano  scritto,  mi 
stava  con  tutto  ciò  assai  fortemente  fitta  nel  capo:  e  l'avvertenza 
ch'io  vi  osservava  il  più,  era  di  non  l'allungare  di  soverchio:  il 
che,  se  io  mi  fossi  lasciato  andare  agli  episodj  o  ad  altri  ornamenti, 
mi  sarebbe  riuscito  pur  troppo  facile.  Ma  a  volerla  far  cosa  ori- 
ginale e  frizzante  d'un  agrodolce  terribile,  il  pregio  di  cui  più 
abbisognava  si  era  la  brevità.  Perciò  da  prima  io  l'avea  ideata 
di  tre  soli  canti;  ma  la  rassegna  dei  consiglieri  mi  avea  rubato 
quasi  che  un  canto;  perciò  furon  quattro.  Non  sono  però  ben 
certo  in  me  stesso,  che  quei  tanti  interrompimenti  non  abbiano 
influito  sul  totale  del  poema,  dandogli  un  non  so  che  di  sconnesso^. 

Mentre  io  stava  dunque  tentando  di  proseguire  quel  quarto 
canto,  io  andava  sempre  ricevendo  e  scrivendo  gran  lettere; 
queste  a  poco  a  poco  mi  riempirono  di  speranza,  e  vieppiù  m' in- 
fiammarono del  desiderio  di  rivederla  tra  breve.  E  tanto  andò 
crescendo  questa  possibilità,  che  un  bel  giorno  non  potendo  io 
più  stare  a  segno,  detto  al  solo  amico  Oori  dove  io  fossi  per 
andare,  e  finto  di  fare  una  scorsa  a  Venezia,  io  mi  avviai  verso 

1  Fulvo,  biondo. 

'  L'Etniria  vendicata. 

*  Cfr.  Ep.  IV,  cap.  vii. 


La  vita  227 

la  Germania  il  dì  quattro  d'agosto.  Giorno,  oimè!  di  sempre 
amara  ricordanza  per  me.  Che  mentre  io  baldo  e  pieno  di  gioia 
mi  avviava  verso  la  metà  di  me  stesso,  non  sapeva  io  che  nel- 
l'abbracciare  quel  caro  e  raro  amico,  che  per  sei  settimane  sole 
mi  credea  di  lasciarlo,  io  lo  lascerei  per  l'eternità.  Cosa,  di  cui 
non  posso  parlare,  né  pur  pensarci,  senza  prorompere  in  pianto, 
anche  molti  anni  dopo.  Ma  tacerò  di  questo  pianto,  poiché  altrove^ 
quanto  meglio  il  seppi  v'ho  dato  sfogo. 

Eccomi  dunque  da  capo  per  viaggio.  Per  la  solita  mia  dilet- 
tissima e  assai  poetica  strada  di  Pistoja  a  Modena,  me  ne  vo 
rapidissimamente  a  Mantova,  Trento,  Inspruck,  e  quindi  per  la 
Soavia  a  Colmar,  città  dell'Alsazia  superiore  alla  sinistra  del 
Reno.  Quivi  presso  ritrovai  finalmente  quella  ch'io  andava  sempre 
chiamando  e  cercando,  orbo  di  lei  da  più  di  sedici  mesi.  Io  feci 
tutto  questo  cammino  in  dodici  giorni,  né  mai  mi  pareva  di  muo- 
vermi, per  quanto  i'  corressi.  Mi  si  riaprì  in  quel  viaggio  piìi 
abbondante  che  mai  si  fosse  la  vena  delle  rime",  e  chi  potea  in 
me  più  di  me  mi  facea  comporre  sino  a  tre  e  più  sonetti  quasi 
ogni  giorno;  essendo  quasi  fuor  di  me  dal  trasporto  di  calcare 
per  tutta  quella  strada  le  di  lei  orme  stesse,  e  per  tutto  infor- 
mandomi! e  rilevando  ch'ella  vi  era  passata  circa  due  mesi  innanzi. 
E  col  cuore  alle  volte  gioioso,  mi  rivolsi  anche  al  poetare  feste- 
vole; onde  scrissi  cammin  facendo  un  capitolo  al  Cori,  per  dargli 
le  istruzioni  necessarie  per  la  custodia  degli  amati  cavalli,  che 
pure  non  erano  in  me  che  la  passione  terza:  troppo  mi  vergo- 
gnerei se  avessi  detto  seconda;  dovendo,  come  è  di  ragione,  al 
Pegaso  preceder  le  Muse. 

Quel  mio  lunghetto  capitolo,  che  poi  ho  collocato  fra  le  rime, 
fu  la  prima  e  quasi  che  la  sola  poesia  ch'io  mai  scrivessi  in  quel 
genere  bernesco,  di  cui,  ancorché  non  sia  quello  al  quale  ìa  na- 
tura m'inclini  il  più,  tuttavia  pure  mi  par  di  sentire  tutte  le  grazie 
e  il  lepore.  Ma  non  sempre  il  sentirle  basta  ad  esprimerle.  Ho 
fatto  come  ho  saputo.  Giunto  il  dì  16  agosto  presso  la  mia  donna, 
due  mesi  in  circa  mi  vi  sfuggirono  quasi  un  baleno.  Ritrovatomi 
coel  di  bel  nuovo  interissimo  di  animo  di  cuore  e  di  mente,  non 

1  Nel  dialogo  La  virtù  sconosciuta,  coi  cinque  sonetti  aggiuntivi;  poi 
in  una  lettera  del  17  settembre  nS4  a  M.  Bianchi  e  T.  Mocenni  e  nella 
epigrafe  latin»  della  lipide  ch'ei  fece  porre  all'aniico,  nella  chiesa  di  S.  Oio- 
vanri  in  Pantar.eto. 

*  Delle  migliori  anzi,  scritte  dall'A. 


228  Vittorio  Alfieri 

erano  ancora  passati  quindici  giorni  dal  dì  ch'io  era  ritornato 
alla  vita  rivedendola,  che  quell'istesso  io  il  quale  da  due  anni 
non  avea  mai  piìi  neppure  sognato  di  scrivere  oramai  altre  tra- 
gedie; quell'io,  che  anzi,  avendo  appeso  il  coturno  al  Saul,  mi 
era  fermamente  proposto  di  non  lo  spiccare  mai  più  ;  mi  ritrovai 
allora,  senza  accorgermene  quasi,  ideate  per  forza  altre  tre  tra- 
gedie ad  un  parto:  Agide,  Sofonisba,  Mirra^.  Le  due  prime,  mi 
erano  cadute  in  mente  altre  volte,  e  sempre  l'avea  discacciate; 
ma  questa  volta  poi  mi  si  erano  talmente  rifitte  nella  fantasia, 
che  mi  fu  forza  di  gettarne  in  carta  l'abbozzo,  credendomi  pure 
e  sperando  che  non  le  potrei  poi  distendere.  A  Mirra  non  avea 
pensato  mai;  ed  anzi,  essa  non  meno  che  Bibli-,  e  così  ogni  altro 
incestuoso  amore,  mi  si  erano  sempre  mostrate  come  soggetti  non 
tragediabili.  Mi  capitò  alle  mani  nelle  Metamorfosi  di  Ovidio  ^ 
quella  caldissima  e  veramente  divina  allocuzione  di  Mirra  alla 
di  lei  nutrice,  la  quale  mi  fece  prorompere  in  lagrime,  e  quasi  un 
subitaneo  lampo  mi  destò  l'idea  di  porla  in  tragedia:  e  mi  parve 
che  toccantissima  ed  originalissima  tragedia  potrebbe  riuscire, 
ogni  qual  volta  potesse  venir  fatto  all'autore  di  maneggiarla  in 
tal  modo  che  lo  spettatore  scoprisse  da  sé  stesso  a  poco  a  poco 
tutte  le  orribili  tempeste  del  cuore  infuocato  ad  un  tempo  e  pu- 
rissimo della  più  assai  infelice  che  non  colpevole  Mirra,  senza 
che  ella  neppure  la  metà  ne  accennasse,  non  confessando  quasi 
a  sé  medesima,  non  che  ad  altra  persona  nessuna,  un  sì  nefando 
amore.  In  somma  l'ideai  a  bella  prima,  ch'ella  dovesse  nella  mia 
tragedia  operare  quelle  cose  stesse,  ch'ella  in  Ovidio  descrive; 
ma  operarle  tacendole.  Sentii  fin  da  quel  punto  l'immensa  diffi- 
coltà ch'io  incontrerei  nel  dover  far  durare  questa  scabrosissima 
fluttuazione  dell'animo  di  Mirra  per  tutti  gl'interi  cinque  atti, 
senza  accidenti  accattati  d'altrove.  E  questa  difficoltà  che  allora 
vieppiù  m'infiammò,  e  quindi  poi  nello  stenderla,  verseggiarla, 
.'  stamparla  sempre  più  mi  fu  sprone  a  tentare  di  vincerla,  io 
jttavia  dopo  averla  fatta,  la  conosco  e  la  temo  quant'ella  s'è; 


>  V.  oltre  cap.  xvi. 

*  Principessa  della  Jonia,  la  quale  pose  fine  col  suicidio  al  violento 
amore  pel  fratello  Cauno:  questo  fatto  era  stato  argomento  di  una  tra- 
gedia del  modenese  Paolo  Emilio  Campi  (1774),  ammirata  dallo  stesso 
Voltaire;  un'opera  in  cinque  atti  del  Fleury,  musicata  dal  Lacoste,  sul 
medesimo  soggt-tlo,  era  stata  rappresentata  a  Parigi,  al  teatro  AtW'Opéra, 
il  6  novembre  1732. 

»  L.  X,  vv.  300  -^OO. 


La  vita  229 

lasciando  giudicar  poi  dagli  altri  s' io  1'  abbia  saputa  superare 
nell'intero,  od  in  parte,  od  in  nulla. 

Questi  tre  nuovi  parti  tragici  mi  raccesero  l'amor  della  gloria, 
la  quale  io  non  desiderava  i>er  altro  fine  oramai,  se  non  se  per 
dividerla  con  chi  mi  era  più  caro  di  essa.  Io  dunque  allora  da 
circa  un  mese  stava  passando  i  miei  giorni  beati,  e  occupati,  e 
da  nessunissima  amarezza  sturbati,  fuorché  dall'anticipato  orri- 
bile pensiero  che  al  più  al  più  fra  un  altro  mesetto  era  indispen- 
sabile il  separarci  di  nuovo.  Ma,  quasi  che  questo  sovrastante 
timore  non  fosse  bastato  egli  solo  a  mescermi  infinita  amarezza 
al  poco  dolce  brevissimo  ch'io  assaporava,  la  fortuna  nemica  me 
ne  volle  aggiungere  una  dose  non  piccola  per  farmi  a  caro  prezzo 
scontare  quel  passeggero  sollievo.  Lettere  di  Siena  mi  portarono 
nello  spazio  di  otto  giorni,  prima  la  nuova  della  morte  del  fra- 
tello minore  del  mio  Cori,  e  la  malattia  non  indifferente  di  esso; 
successivamente  le  prossime  nuove  mi  portarono  pur  anche  la 
morie  di  esso  in  sei  soli  giorni  di  malattia.  Se  io  non  mi  fossi 
trovato  con  la  mia  donna  al  ricevere  questo  colpo  sì  rapido  ed 
inaspettato,  gli  effetti  del  mio  giusto  dolore  sarebbero  stati  assai 
più  fieri  e  terribili.  Ma  l'aver  con  chi  pianger  menoma  il  pianto 
d'assai.  La  mia  donna  conosceva  essa  pure  e  moltissimo  amava 
quel  mio  Francesco  Gori;  il  quale  l'anno  innanzi,  dopo  avermi 
accompagnato,  come  dissi,  a  Genova,  tornato  poi  in  Toscana  erasi 
quindi  portato  a  Roma  quasi  a  posta  per  conoscerla,  e  soggior- 
natovi alcuni  mesi  l'aveva  continuamente  trattata,  ed  aveala  gior- 
nalmente accompagnata  nel  visitare  i  tanti  prodotti  delle  bell'arti 
di  cui  egli  era  caldissimo  amatore  e  sagace  conoscitore.  Essa  perciò 
nel  piangerlo  meco  non  lo  pianse  soltanto  per  me,  ma  anche  per 
se  medesima,  conoscendone  per  recente  prova  tutto  il  valore. 
Questa  disgrazia  turbò  oltre  modo  il  rimanente  del  breve  tempo 
che  si  stette  insieme;  ed  approssimandosi  poi  il  termine,  tanto 
più  amara  ed  orrìbile  ci  riusci  questa  separazione  seconda.  Ve- 
nuto il  temuto  giorno,  bisognò  obbedire  alla  sorte  ',  ed  io  dovei 
rientr.ire  in  ben  altre  tenebre,  rimancodo  questa  volta  disgiunto 
dalla  mia  donna  senza  sapere  per  quanto,  e  privo  dell'amico  colla 
funesta  certezza  ch'io  l'era  per  sempre.  Ogni  passo  di  quella 
slessa  via,  che  al  venire  mi  era  andato  sgombrando  il  dolore  ed 

Veramente  alla  necessità  di  ulvare  le  apparenze,  dovendo  la  Stolberg 

..  ;ure  in  Iialia, 


230  Vittorio  Alfieri 

i  tetri  pensieri,  me  lì  facea  raddoppiati  ritrovare  al  ritorno.  Vinto 
dal  dolore,  poche  rime  feci,  ed  un  continuo  piangere  sino  a  Siena 
dove  mi  restituii  ai  primi  di  novembre.  Alcuni  amici  dell'amico, 
che  mi  amavano  di  rimbalzo,  ed  io  così  loro,  mi  accrebbero  in 
quei  primi  giorni  smisuratamente  il  dolore,  troppo  bene  serven- 
domi nel  mio  desiderio  di  sapere  ogni  particolarità  di  quel  fu- 
nesto accidente  :  ed  io  tremando  pur  sempre  e  sfuggendo  di  udirle, 
le  andava  pur  domandando.  Non  tomai  più  ad  alloggio  (come 
ben  si  può  credere)  in  quella  casa  del  pianto,  che  anzi  non  l'ho 
rivista  mai  più.  Fin  da  quando  io  era  tornato  di  Milano  l'anno 
innanzi,  io  avea  accettato  dall'ottimo  cuor  dell'amico  un  molto 
gaio  e  solitario  quartierino  nella  di  lui  casa,  e  ci  vivevamo  come 
fratelli. 

Ma  il  soggiorno  di  Siena  senza  il  mio  Cori,  mi  si  fece  imme- 
diatamente insoffribile.  Volli  tentare  d'indebolirne  alquanto  il 
dolore  senza  punto  scemarmene  la  memoria,  col  cangiare  e  luoghi 
ed  oggetti.  Mi  trasferii  perciò  nel  novembre  in  Pisa',  risolutomi 
di  starvi  quell'inverno;  ed  aspettando  che  un  migliore  destino 
mi  restituisse  a  me  stesso;  che  privo  d'ogni  pascolo  del  cuore, 
veramente  non  mi  potea  riputar  vivo. 


CAPITOLO  DECIMOQUINTO 
Soggiorno  in  Pisa.  Scrittovi  il  Panegirico  a  Trajano,  ed  altre  cose. 

La  mia  donna  frattanto  era  per  le  Alpi  della  Savoia  rientrata 
anch'essa  in  Italia;  e  per  la  via  di  Torino  venuta  a  Genova, 
quindi  a  Bologna,  in  quest'ultima  città  si  propose  di  passare 
l'inverno;  combinandosi  in  questo  modo  per  lei  di  stare  negli 
Stati  Pontificii,  senza  pure  rimettersi  in  Roma  nell'usato  carcere^. 
Sotto  il  pretesto  dunque  della  stagione  troppo  inoltrata,  sendo 
giunta  a  Bologna  in  decembre,  non  ne  partì  altrimenti.  Eccoci 
dunque,  io  in  Pisa,  ed  essa  in  Bologna,  col  solo  Appennino  di 
mezzo,  per  quasi  cinque  mesi,  di  nuovo  disgiunti  e  pur  vicinis- 
simi. Questo  m'era  ad  un  tempo  stesso  una  consolazione  e  un 
martirio:  ne  riceveva  le  nuove  freschissime  ogni  tre  o  quattro 
giorni  ;  e  non  potea  pure  né  doveva  in  niun  modo  tentar  di  ve- 

>  Nel  palazzo  Prini,  in  vìa  S.  Maria. 

»  Il  palazzo  della  Cancelleria  ove  abitava  il  cognato  cardinale. 


La  vita  231 

derla;  atteso  il  gran  pettegolezzo  delle  città  piccole  d'Italia,  dove 
chi  nulla  nulla'  esce  dal  volgo,  è  sempre  minutamente  osservato 
dai  molti  oziosi  e  maligni.  Io  mi  passai  dunque  in  Pisa  quel  lun- 
ghissimo inverno,  col  solo  sollievo  delle  di  lei  spessissime  let- 
tere, e  perdendo  al  solito  il  mio  tempo  fra  i  molti  cavalli,  e  quasi 
nulla  servendomi  dei  pochi  ma  fidi  miei  libri.  Sforzato  pure  dalla 
noja,  e  nell'ore  che  cavalcare  ed  aurigare  non  si  poteva,  tanto  e 
tanto  qualcosa  andava  pur  leggicchiando,  massime  la  mattina  in 
letto,  appena  sveglio.  In  queste  semiletture  avea  scorse  le  lettere 
di  Plinio  il  Minore',  e  molto  mi  avean  dilettato  sì  per  la  loro  ele- 
ganza, sì  per  le  molte  notizie  su  le  cose  e  costumi  romani  che 
vi  si  imparano;  oltre  poi  il  purissimo  animo,  e  la  bella  ed  ama- 
bile indole  che  vi  va  sviluppando  l'autore.  Finite  l'epistole,  im- 
presi di  leggere  il  panegirico  a  Traiano,  opera  che  mi  era  nota  per 
fama,  ma  di  cui  non^avea  mai  letto  parola.  Inoltratomi  per  alcune 
pagine,  e  non  vi  ritrovando  quell'uomo  stesso  dell'epistole,  e 
molto  meno  un  amico  di  Tacito',  qual  egli  si  professava,  io  sentii 
nel  mio  intimo  un  certo  tal  modo  d' indegnazione;  e  tosto,  but- 
tato là  il  libro  *  saltai  a  sedere  sul  letto,  dov'  io  giaceva  nel  leg- 
gere ;  ed  impugnata  con  ira  la  penna,  ad  alta  voce  gridando  dissi 
a  me  stesso:  <  Plinio  mio,  se  tu  eri  davvero  e  l'amico,  e  l'emulo, 
€  e  l'ammiratore  di  Tacito,  ecco  come  avresti  dovuto  parlare  a 
«  Trajano  ».  E  senza  più  aspettar,  né  riflettere,  scrissi  d'impeto, 
quasi  forsennato,  cosi  come  la  penna  buttava,  circa  quattro  gran 
pagine  del  mio  minutissimo  scritto;  finché  stanco,  e  disebriato* 
dallo  sfogo  delle  versate  parole,  lasciai  di  scrivere,  e  quel  giorno 
non  vi  pensai  più.  La  mattina  dopo,  ripigliato  il  mio  Plinio,  o 
per  dir  meglio,  quel  Plinio  che  tanto  n^i  era  scaduto  di  grazia 
nel  giorno  innanzi,  volli  continuar  di  leggere  il  di  lui  panegi- 
rico. Alcune  poche  pagine  più,  facendomi  gran  forza,  ne  lessi; 
poi  non  mi  fu  possibile  di  proseguire.  Allora  volli  un  po'  rileg- 
gere quello  squarcione del  mio  panegirico,  ch'io  avea  scritto  deli- 
rando la  mattina  innanzi.  Lettolo,  e  piaciutomi,  e  rinfiammato 

i  Alquanto. 

<  Plinio  il  Olovane,  nipote  del  naturalista  Plinio  il  Vecchio,  le  cui  let- 
tere sono  importante  documento  per  la  storia  dei  tempi  suoi. 

*  Lo  storico  latino  che,  pur  sotto  l'impero,  esaltò  le  antiche  viriti  civiche 
romane. 

*  Il  Panegirico  di  Trajano  non  è   se   non    un   esempio   di  ampollosa 
rcttorìca. 

*  Calmata 


232  Vittorio  Alfieri 

più  di  prima,  d'una  burla  ne  feci,  o  credei  farne,  una  cosa  seris- 
sima; e  distribuito  e  diviso  alla  meglio  il  mio  tema,  senza  più 
pigliar  fiato,  scrivendone  ogni  mattina  quanto  ne  potevan  gli 
occhi,  che  dopo  un  par  d'ore  di  entusiastico  lavoro  non  mi  fanno 
più  luce;  e  pensandovi  poi  e  ruminandone  tutto  l'intero  giorno, 
come  sempre  mi  accade  allorché  non  so  chi  mi  dà  questa  febbre 
del  concepire  e  comporre  ;  me  lo  trovai  tutto  steso  nella  quinta 
mattina,  dal  dì  13  al  17  di  marzo  ;  e  con  pochissima  varietà,  tol- 
tone l'opera  della  lima,  da  quello  che  va  dattorno  stampato'. 

Codesto  lavoro  mi  avea  riacceso  l'intelletto,  ed  una  qualche 
tregua  avea  pur  anche  data  ai  miei  tanti  dolori.  Ed  allora  mi 
convinsi  per  esperienza,  che  a  voler  tollerare  quelle  mie  angustie 
d'animo,  ed  aspettarne  il  fine  senza  soccombere,  mi  era  più  che 
necessario  di  farmi  forza,  e  costringer  la  mente  ad  un  qualche 
lavoro.  Ma  siccome  la  mente  mia,  più  lib«ra  e  più  indipendente 
di  me,  non  mi  vuQle  a  niun  conto  obbedire;  tal  che,  se  io  mi 
fossi  proposto,  prima  di  leggere  il  Plinio,  di  voler  fare  un  pane- 
gu-ico  a  Trajano,  non  avrebbe  essa  forse  voluto  raccozzar  due 
idee;  per  ingannare  ad  un  tempo  e  il  dolore  e  la  mente,  trovai 
il  compenso  di  violentarmi  in  una  qualche  opera  di  pazienza,  e 
di  schiena  come  si  suol  dire.  Perciò  tornatomi  fra  mani  quel  Sal- 
lustio che  circa  dieci  anni  prima  avea  tradotto  in  Torino  per  sem- 
plice  studio,  lo  feci  ricopiare  col  testo  accanto,  e  mi  posi  seria- 
mente a  correggerlo,  coli' intenzione  e  speranza  ch'egli  riuscisse 
una  cosa.  Ma  neppure  per  questo  pacifico  lavoro  io  sentiva  il 
mio  animo  capace  di  continua  e  tranquilla  applicazione  ;  onde 
non  lo  migliorai  di  gran  fatto  :  anzi  mi  avvidi,  che  nel  bollore  e 
deliri  d'un  cuore  preoccupato  e  scontento,  riesce  forse  più  pos- 
sibile il  concepire  e  creare  una  cosa  breve  e  focosa,  che  non  il 
freddamente  limare  una  cosa  già  fatta.  La  lima  è  un  tedio,  onde 
facilmente  si  pensa  ad  altro,  adoprandola.  La  creazione  una 
febbre;  durante  l'eccesso,  non  si  sente  altro  che  lei.  Lasciato 
dunque  il  Sallustio  a  tempi  più  lieti,  mi  rivolsi  a  continuar  quella 
prosa  del  Principe  e  delle  Lettere,  da  me  ideata,  e  distribuita"  più 
anni  prima  in  Firenze.  Ne  scrissi  allora  tutto  il  primo  libro,  e 
due  o  tre  capitoli  del  secondo. 


»  Nel  Panegirico,  pubblicato  prima  nel  1787,  i'A.  finge  che  Plinio  esorti 
Trajano  a  ristabilire  la  repubblica. 
*  In  capitoli  ;  cfr,  Ep.  IV,  cap.  vii, 


La  vita  233 

Fin  dall'estate  antecedente,  al  mio  tornare  d' Inghilterra  in  Siena, 
io  aveva  pubblicato  il  terzo  volume  delle  tragedie  ^  e  mandatolo, 
come  a  molti  altri  valentuomini  d' Italia,  anche  all'egregio  Cesa- 
rotti, pregandolo  di  darmi  un  qualche  lume  sovra  il  mio  stile  e 
composizione  e  condotta.  Ne  ricevei  in  quell'aprile  una  lettela 
critica  su  le  tre  tragedie  del  terzo  volume,  alla  quale  risposi  al- 
lora brevemente,  ringraziandolo,  e  notando  le  cose  che  mi  pareano 
da  potersi  ribattere  ;  e  ripregandolo  di  indicarmi  o  darmi  egli  un 
qualche  modello  di  verso  tragico.  È  da  notarsi  su  ciò,  che  quello 
stesso  Cesarotti,  il  quale  aveva  concepiti  ed  eseguiti  con  tanta 
maestria  i  sublimi  versi  dell'Oss/an,  essendo  stato  richiesto  da  me, 
quasi  due  anni  prima,  di  volermi  indicare  un  qualche  modello 
di  verso  sciolto  di  dialogo,  egli  non  si  vergognò  di  parlarmi  d'al- 
cune sue  traduzioni  dal  francese,  della  Semiramide  e  del  Mao- 
metto di  Voltaire';  stampate  giada  molti  anni;  e  di  tacitamente 
propormele  per  modello.  Queste  traduzioni  del  Cesarotti  essendo 
in  mano  di  chiunque  le  vorrà  leggere,  non  occorre  ch'io  aggiunga 
riflessioni  su  questo  particolare:  ognuno  se  ne  può  far  giudice 
e  paragonare  quei  versi  tragici  con  i  miei  ;  e  paragonarli  anche 
con  i  versi  epici  dello  stesso  Cesarotti  ntWOssian,  e  vedere  se 
paiano  della  stessa  officina.  Ma  questo  fatto  servirà  pure  a  dimo- 
strare quanto  miserabil  cosa  siamo  noi  tutti  uomini,  e  noi  autori 
massimamente,  che  sempre  abbiam  fra  le  mani  e  tavolozza  e  pen- 
nello per  dipingere  altrui,  ma  non  mai  lo  specchio  per  ben  rimi- 
rarci noi  stessi  e  conoscerci. 

11  giornalista  di  Pisa'  dovendo  poi  dare  o  inserire  nel  suo  gior- 
nale un  giudizio  critico  su  quel  mio  terzo  tomo  delle  tragedie, 
stimò  più  breve  e  più  facil  cosa  il  trascrivere  a  dirittura  quella  let- 
tera del  Cesarotti,  con  le  mie  note  che  le  servono  di  risposta.  Io 
mi  trattenni  in  Pisa  sino  a  lutto  l'agosto  di  quell'anno  1785;  e 
non  vi  feci  più  nulla  da  quelle  prose  in  poi,  fuorché  far  rico- 
piare le  dieci  tragedie  stampate,  ed  apporvi  in  margine  molte 
mutazioni,  che  allora  mi  parvero  soverchie;  ma  quando  poi  venni 
a  ristamparle  in  Parigi,  elle  mi  vi  parvero  più  che  insufficienti,  e 
bisognò  per  lo  meno  quadruplicarle.  Nel  maggio  di  quell'anno 
godei  in  Pisa  del  divertimento  del  giuoco  del  Ponte  \  spettacolo 

«  Cfr.  Ep.  IV.  c«p.  x«. 

*  Cfr.  Ep.  IV,  cap.  vir. 

•  Il  compilatore  del  Oiornalt  del  letterati  à\  Pisa  nel  t.  LVIII,  pp.  254-76. 
»  Il  giuoco  liti  ponte  brevemente  descritto  dall'A.  alla  madre,  in  una 


234  Vittorio  Alfieri 

bellissimo,  che  riunisce  un  non  so  che  di  antico  e  d'eroico.  Vi 
si  aggiunse  anco  un'altra  festa  bellissima  d'un  altro  genere,  la 
luminara  di  tutta  la  detta  città,  come  si  costuma  ogni  due  anni 
per  la  festa  di  San  Ranieri».  Queste  feste  si  fecero  allora  riuni- 
tamente, all'occasione  della  venuta  del  re  e  della  regina  di  Na- 
poli in  Toscana  per  visitarvi  il  gran  duca  Leopoldo,  cognato  del 
suddetto  re.  La  mia  vanaglorietta  in  quelle  feste  rimase  bastan- 
temente soddisfatta,  essendomi  io  fatto  molto  osservare  a  cagione 
de'  miei  be'  cavalli  inglesi,  che  vincevano  in  mole,  bellezza  e 
brio  quanti  altri  mai  cavalli  vi  fossero  capitati  in  codest'occasione. 
Ma  in  mezzo  a  quel  mio  fallace  e  pueril  godimento,  mi  convinsi 
con  sommo  dolore  ad  un  tempo  stesso,  che  nella  fetida  e  morta 
Italia  ella  era  assai  più  facil  cosa  il  farsi  additare  per  via  di 
cavalli,  che  non  per  via  di  tragedie. 


CAPITOLO   DECIMOSESTO 

Secondo  viaggio  in  Alsazia,  dove  mi  fisso.   Ideativi,  e  stesi  i  due  Bruti, 
e  l'Abele.  Studj  caldamente  ripigliati. 

In  questo  frattempo  era  ripartita  di  Bologna  la  mia  donna, 
ed  avviatasi  verso  Parigi  nel  mese  di  aprile.  Non  volendo  essa 
tornare  a  Roma,  in  nessun  altro  luogo  ella  potea  più  convenien- 
temente fissarsi  che  in  Francia,  dove  avea  parenti,  aderenze,  e 
interessi.  Trattenutasi  in  Parigi  sino  all'agosto  inoltrato,  ella  ri- 
tornò in  Alsazia  in  quella  stessa  villa  dove  e' eramo  incontrati 
l'anno  innanzi''.  Onde  io  ai  primi  di  settembre  con  infinita  gioia 
e  premura  mi  vi  avviai  perla  solita  strada  dell'Alpi  Tirolesi.  Ma 
l'aver  perduto  l'amico  di  Siena,  e  l'essersi  oramai  la  mia  donna 
traspiantata  fuori  d' Italia,  mi  fece  anche  risolvere  di  non  dimo- 
rarci più  neppur  io.  E  benché  per  allora  né  volessi,  né  conve- 
nisse eh'  io  mi  fissassi  a  dimora  dove  ella,  io  cercai  pure  di  starle 
il  meno  lontano  ch'io  potessi,  e  di  toglierci  almeno  l'Alpi  di 

lettera  del  22  aprile  1785,  consisteva  in  una  finta  battaglia  sul  Ponte  di 
Mezzo,  tra  circa  400  uomini  armati  «  all'antica  »;  v.  F.  Fkrrari,  Ricerche 
bibliografiche  sul   Giuoco   del  Ponte,   Pisa,   IS'^S;  L.  Torri,  //  Giuoco 
del  Ponte,  in  Empori iim,  Bergamo,  dicembre    1900;   V.  Gian,  Alfieri 
Pisa,  cit. 

'  Patrono  di  Pisa. 

^-11  castello  di  Martinsburg  pres^so  (Ailm.'.r. 


La  vita  235 

mezzo.  Feci  dunque  muovere  anche  tutta  la  mia  cavalleria,  che 
sana  e  salva  arrivò  un  mese  dopo  di  me  in  Alsazia,  dove  allora 
ebbi  raccolto  ogni  mia  cosa,  fuorché  i  libri,  che  1  più  gli  avea 
lasciati  in  Roma.  Ma  la  mia  felicità  derivata  da  questa  seconda 
riunione  non  durò  né  potea  durare  altro  che  due  mesi  in  circa, 
dovendosi  la   mia  donna   restituire   in  Parigi   nell'inverno.  Nel 
decembre  l'accompagnai  sino  a  Strasborgo,  dove  con  mio  sommo 
dolore  costretto  di  lasciarla  me  ne  separai  per  la  terza  volta; 
ella  continuò  la  sua  strada  per  Parigi,  io  ritornai  nella  nostra 
villa.  Ancorché  io  fossi  scontento,  pure  la  mia  afflizione  riusciva 
ora  assai  minore  della  passata:  trovandoci  più  vicini,  potendo 
senza  ostacolo,  senza  pericolo  di  nuocerle  dare  una  scorsa  per 
vederla,  ed  avendo  in  somma  fra  noi  la  certezza  di  rivederci  nella 
p^-ossima  estate.  Tutte  queste  speranze  mi  posero  un  tal  balsamo 
in  corpo,  e  mi  rischiarirono  talmente  l'intelletto,  che  di  bel  nuovo 
intieramente  mi  diedi  in  braccio  alle  Muse.  In  quel  solo  inverno, 
nella  quiete  e  libertà  della  villa,  feci  assai  più  lavoro  che  non 
avessi  fatto  mai  in  così  breve  spazio  di  tempo  :  cotanto  la  con- 
tinuità del  pensare  ad  una  stessa  cosa,  e  il  non  aver  divagazioni 
né  dispiaceri,  abbreviandoci  l'ore  ad  un  tempo  ce  le  moltiplica. 
Appena  tornato  nel  mio  ritiro,  da  prima  finii  di  stendere  VAgide, 
che  fin  dal  decembre  precedente  avea  cominciato  in   Pisa;  poi 
infastidito  del  lavoro  (cosa  che  non  mi  accadeva  mai  nel  creare) 
•  m  lo  avea   più   potuto   proseguire.  Finitolo   ora   felicemente, 
nza  pigliar  più  respiro  stesi  in  quello  stesso  decembre  h  So- 
•nisba  e  la  Mirra.  Quindi  in  gennaio  finii  interamente  di  sten- 
ore  il  secondo  e  terzo  libro  del  Principe  e  delle  Lettere;  ideai 
e  stesi  il  dialogo  della  Virtù  sconosciuta;  tributo  che  da  gran 
tempo  mi  rimproverava  di  non  aver  pagato  alia  adorata  memoria 
del  degnissimo  amico  Oori;  e  ideai  inoltre,  e  distesi  tutta,  e  ver- 
seggiai la  parte  lirica  AeW  Abele  tramelogedia'  ;  genere  di  cui  mi 
occorrerà  di  parlare  in  appresso,  se  avrò  vita  e  mente  e  mezzi  da 
effettuare  quanto  mi  propongo  di  eseguire.  Postomi  quindi  al 
ir  versi  non  abbandonai  più  quel  mio  poemetto  ch'io  nonl'a- 
essi  interamente  terminato  col  quarto  canto;  e  quindi  dettati, 
ricorretti,  e  rìannestati  insieme  i  tre  altri,  che  nello  spazio  di 

'  Vocabolo  coniato  dall'A.,  ad  indicare  un  genere  nuovo  composto  di 
tragico  e  di  lirico,  una  tragedia  melica,  cioè  parte  cantabile  e  parte  reci- 
tabile. Cfr.  A.  Oraf,  Caino^  in  Nuova,  Antologia,  1907;  e  cap.  XX  di 
questa  Vita. 


236  Vittorio  Alfieri 

dieci  anni  essendo  stati  scritti  a  pezzi,  aveano  (e  forse  tuttora 
serbano)  un  non  so  che  di  sconnesso;  il  che  tra  i  miei  molli 
difetti  non  suole  però  avvenirmi  nelle  altre  composizioni.  Appena 
era  finito  il  poema,  mi  accadde  che  in  una  delle  tante  e  sempre 
a  me  graditissime  lettere  della  mia  donna,  essa  come  a  caso  mi 
accennava  di  aver  assistito  in  teatro  ad  una  recita  del  Bruto  di 
Voltaire,  e  che  codesta  tragedia  le  era  sommamente  piaciuta.  Io, 
che  l'avea  veduta  recitare  forse  dieci  anni  prima,  e  che  non  me 
ne  ricordavo  pUnto,  riempiutomi  instantaneamente  di  una  rabida 
e  disdegnosa  emulazione  sì  il  cor  che  la  mente,  dissi  fra  me  :  che 
Bruti,  che  Bruti  di  un  Voltaire?  io  ne  farò  dei  Bruti,  e  li  farò 
tutt'a  due:  il  tempo  dimostrerà  poi,  se  tali  soggetti  di  tragedia 
si  addicessero  meglio  a  me,  o  ad  un  francese  nato  plebeo,  e  sotto- 
scrittosi nelle  sue  firme  per  Io  spazio  di  settanta  e  più  anni: 
Voltaire  gentiluomo  ordinario  del  re^.  Né  altro  dissi;  né  di  questo 
toccai  pur  parola  nel  rispondere  alla  mia  donna  :  ma  subitamente 
d'un  lampo  ideai  ad  un  parto  i  due  Bruti,  quali  poi  li  ho  ese- 
guiti. In  questo  modo  uscii  per  la  terza  volta  dal  mio  proposito 
di  non  far  piìi  tragedie;  e  da  dodici  ch'essere  doveano,  son  ar- 
rivate a  diciannove.  Su  l' ultimo  Bruto  rinnovai  poi  il  giuramento 
ad  Apolline  più  solenne  ch'io  non  l'avessi  fatto  mai,  e  questo 
io  son  quasi  certo  di  non  l'aver  più  ad  infrangere*.  Gli  anni  che 
mi  si  vanno  ammontando  sul  tergo  me  n'entrano  quasi  malle- 
vadori; e  le  tante  altre  cose  di  altro  genere  che  mi  restan  da 
fare,  se  pure  farle  potrò  e  saprò. 

Dopo  aver  passati  cinque  e  più  mesi  in  villa  in  un  continuo 
bollore  di  mente,  poiché  appena  sveglio  la  mattina  per  tempis- 
simo io  scriveva  cinque  o  sei  pagine  alla  mia  donna;  poi  lavo- 
rava fino  alle  due  o  le  tre  dopo  mezzogiorno  ;  poi  andando  o  a 
cavallo,  o  in  biroccio  per  un  par  d'ore,  invece  di  divagarmi  e 
riposarmi,  pel  continuo  pensare  ora  a  quel  verso,  ora  a  quel  per- 
sonaggio, or  ad  altro,  mi  affaticava  assai  più  l'intelletto  che  non 
lo  sollevassi;  mi  ritrovai  perciò  nell'aprile  una  fierissima  podagra 
a  ridosso,  la  quale  m'inchiodò  per  la  prima  volta  in  letto,  e  mi 
vi  tenne  immobile  e  addoloratissimo  per  quindici  giorni  almeno, 
e  pose  così  una  spiacevole  interruzione  ai  miei  studi  sì  calda- 
mente avviati.  Ma  troppo  avea  impreso,  di  vivere  solitario  e  oc- 
cupato, né  ci  avrei  potuto  resistere  senza  i  cavalli  che  tanto  mi 

»  V.  dell'A.,  la  satira  VII,  VAntlrelìgìonerla, 
*  Cfr.  cap.  XXVI, 


La  vita  237 

sforzavano  a  pigliar  l'aria  aperta,  e  far  moto.  Ma  anche  coi  ca- 
valli, non  la  potei  durare  quella  perpetua  incessante  tensione 
delle  fibre  del  cervello  ;  e  se  la  gotta,  piìi  savia  di  me,  non  mi 
vi  facea  dar  tregua,  avrei  finito  o  col  delirar  d'intelletto,  o  col 
soccombere  delle  forze  fisiche,  sendomi  ridotto  a  quasi  nulla  ci- 
barmi, e  pochissimo  dormire.  Nel  maggio  tuttavia,  mercè  la  gran 
dieta,  e  il  riposo,  mi  trovai  bastantemente  riavuto  di  forze:  ma 
alcune  sue  circostanze  particolari  avendo  impedito  per  allora  la 
mia  donna  di  venire  in  villa,  e  dovendo  differire  la  consolazione 
unica  per  me,  del  vederla;  entrai  in  un  turbamento  di  spirito,  che 
mi  offuscò  per  piii  di  tre  mesi  la  mente,  talché  poco  e  male  lavorai, 
fino  al  fin  d'agosto,  quando  al  riapparire  dell'aspettata  donna 
tutti  questi  miei  mali  di  accesa  e  scontenta  fantasia  sparirono. 
Appena  riavutomi  di  mente  e  di  corpo,  dati  all'oblio  i  dolori 
di  questa  lontananza,  che  per  mia  buona  sorie  fu  l'ultima,  tosto 
mi  rimisi  al  lavoro  con  ardore  e  furore.  A  segno  che  verso  il 
mezzo  decembre,  che  si  partì  poi  insieme  per  Parigi,  io  mi  trovai 
aver  verseggiate  V Agide,  la  Sofonisba,  e  la  Mirra;  mi  trovai 
'stesi  i  due  Bruti;  e  scritta  la  prima  Satira.  Questo  nuovo  genere, 
di  cui  avea  già  ideato  e  distribuiti  i  soggetti  fin  da  nove  anni 
prima  in  Firenze\  l'aveva  anche  tentato  allora  in  esecuzione;  ma 
scarso  ancora  troppo  di  lingua  e  di  padronanza  di  rima,  mi  ci 
era  rotto  le  corna;  talché,  dubbio  del  potervi  riuscire  quanto  allo 
stile  e  verseggiatura,  ne  avea  quasi  deposto  il  pensiere.  Ma  il 
raggio  vivificante  della  donna  mia,  mi  ebbe  allora  restituito  l'ar- 
dire e  baldanza  necessari  da  ciò  ;  e  postomi  al  tentativo,  mi  vi  parve 
esser  riuscito,  a  principiare  almeno  l'aringo,  se  non  a  percorrerlo. 
E  così  pure,  avendo  prima  di  partir  per  Parigi  fatta  una  rassegna 
delle  mie  rime,  e  dettate  e  limate  gran  parte,  me  ne  trovai  in  buon 
numero,  e  forse  troppe. 

CAPITOLO  DECIMOSETTIMO 

Viaggio  a  Parigi.  Ritorno  in  Alsazia,  dopo  aver  fissato  col  Didot  in  Parigi 
la  stampa  di  tutte  le  diciannove  tragedie.  Malattia  ferissima  in  Alsazia, 
dove  l'amico  Caluso  era  venuto  per  passare  l'estate  con  noi. 

Dopo  quattordici  e  più  mesi  non  interrotti  di  soggiorno  in 
Alsazia,  partii  insieme  con  la  signora  alla  volta  di  Parigi;  luogo 
a  me  per  natura  sua  e  mia  sempre  spiacevolissimo,  ma  che  mi  si 

«  Cfr.  Fabbis  Stadi  alfifriani,  Firenze,  1895,  p.  46  sgg.;  O.  Mazza- 
II'. TI,  Carte  al/'eriane  dt.,  in   Gior.  stor.  d.  lett.  ital.,  Ili,  p.  38  igg. 


238  Vittorio  Alfieri 

facea  allor  paradiso  poiché  lo  abitava  la  mia  donna.  Tuttavia, 
essendo  incerto  se  vi  rimarrei  lungamente,  lasciai  gli  amati  ca- 
valli nella  villa  di  Alsazia,  e  munito  soltanto  di  alcuni  libri,  e 
di  tutti  i  miei  scritti,  mi  ritrovai  in  Parigi.  Alla  prima,  il  rumore 
e  la  puzza  di  quel  caos  dopo  una  si  lunga  villeggiatura,  mi  rat- 
tristarono assai.  La  combinazione  poi  del  ritrovarmi  alloggiato 
assai  lontano  dalla  mia  donna,  oltre  mill'altre  cose  che  di  quella 
Babilonia  mi  dispiaceano  sommamente,  mi  avrebbero  fatto  ripar- 
tirne ben  tosto  se  io  avessi  vissuto  in  me  stesso  e  per  me  :  ma 
ciò  non  essendo  da  tanti  anni  oramai,  con  molta  malinconia  rrl 
adattai  alla  necessità;  e  cercai  di  cavarne  almeno  qualche  utile 
coli' impararvi  qualche  cosa.  Ma  quanto  all' arte  del  verseggiare 
non  v'essendo  in  Parigi  nessuno  dei  letterati  che  intenda  più 
che  mediocremente  la  lingua  nostra,  non  e'  era  niente  da  impa- 
rarvi per  me  :  quanto  poi  all'arte  drammatica  in  massa,  ancorché 
i  Francesi  vi  si  accordino  essi  stessi  esclusivamente  il  primato, 
tuttavia  i  miei  principi!  non  essendo  gli  stessi  che  han  praticato 
i  loro  autori  tragici,  molta  e  troppa  flemma  mi  ci  volea  per  sen- 
tirmi dettare  magistralmente  continue  sentenze,  di  cui  molte  vere', 
ma  assai  male  eseguite  da  essi.  Pure,  essendo  il  mio  metodo  di 
poco  contradire,  e  non  mai  disputare,  e  moltissimo  e  tutti  ascol- 
tare, e  non  credere  poi  quasiché  mai  in  nessuno  ;  io  tanto  e  tanto 
imparava  da  quei  ciarlieri  la  sublime  arte  del  tacere. 

Quel  primo  soggiorno,  di  sei  e  più  mesi  in  Parigi,  mi  giovò, 
se  non  altro,  alla  salute  moltissimo.  Prima  del  mezzo  giugno  si 
riparti  per  la  villa  d'Alsazia.  Ma  intanto  stando  in  Parigi  aveva 
verseggiato  il  Bruto  primo,  e  per  un  accidente  assai  comico  mi 
era  toccato  di  rimpasticciare  tutta  intera  la  Sofonisba.  La  volli 
leggere  ad  un  francese  già  mio  conoscente  in  Torino,  dove  aveva 
soggiornato  degli  anni  ;  persona  intelligente  di  cose  drammatiche  ; 
e  che  più  anni  prima  mi  avea  ben  consigliato  sul  Filippo,  quando 
glie  lo  aveva  letto  in  prosa  francese,  di  trasporvi  il  consiglio  dal 
quarto  atto  dov'era,  nel  terzo  dove  poi  è  rimasto,  e  dove  nuoce 
assai  meno  alia  progressione  dell'azione,  di  quel  che  dianzi  nuo- 
ceva nel  quarto.  Sicché  leggendo  io  quella  Sofonisba  ad  un  giu- 
dice competente",  mi  immedesimava  in  lui  quant'io  più  poteva, 
per  argomentare   dal  di  lui   contegno  più   che  dai  di  lui  detti, 


>  Specialmente  quelle  del  Voltaire,  accolte  dall'A. 
»  Ippolito  Pindctnonte;  cfr.  B.  Montanari,  Storia  della  vita  e  delle  opere 
di  l.  P.,  nelle  Opere  del  Montanari,  voi.  V  e  VI,  Verona,  Antonelli,  1855. 


La  vita  239 

qual  fosse  il  suo  schietto  parere.  Egli  mi  stava  ascoltando  senza 
batter  palpebra  ;  ma  io,  che  altresì  mi  stava  ascoltando  per  due, 
incominciai  da  mezzo  il  second'  atto  a  sentirmi  assalire  da  una 
certa  freddezza,  che  talmente  mi  andò  crescendo  nel  terzo  ch'io 
non  lo  potei  pur  finire;  e  preso  da  un  impeto  irresistibile  la 
bultai  sul  fuoco,  che  stavamo  al  camminetto  noi  due  solissimi; 
e  parea  che  quel  fuoco  mi  fosse  come  un  tacito  invito  a  quella 
severa  e  pronta  giustizia.  L'amico,  sorpreso  di  quell'inaspettata 
stranezza  (stante  che  io  non  avea  neppur  detto  una  parola  fino 
a  quel  punto,  che  l'accennasse  neppure),  si  buttò  colle  mani  su 
lo  scartario  per  estrarlo  dal  fuoco,  ma  io  già  colle  molle  che 
aveva  rapidissimamente  impugnate,  inchiodai  sì  stizzosamente  la 
povera  Sofonisba  fra  i  due  o  i  tre  pezzi  che  ardevano,  che  le 
convenne  ardere  anch'essa;  uè  abbandonai,  da  esperto  carnefice, 
le  molle,  se  non  se  quando  la  vidi  ben  avvampante  e  abbron- 
zita andarsi  sparpagliando  su  per  la  gola  del  camminetto.  Questo 
moto  frenetico  fu  fratello  carnale  di  quello  di  Madrid  contro  il 
povero  Elia';  ma  ne  arrossisco  assai  meno,  e  mi  riuscì  d'un 
qualche  utile.  Mi  confermai  allora  nell'opinione  ch'io  avea  più 
volte  concepita  su  quel  soggetto  di  tragedia;  ch'egli  era  sgra- 
dito, traditore,  appresentante  alla  prima  un  falso  aspetto  tragico, 
e  non  lo  mantenendo  poi  saldo:  e  feci  quasi  proposito  di  non 
vi  pensare  altrimenti.  Ma  i  propositi  d'autore  son  come  gli  sdegni 
materni.  Mi  ricadde  due  mesi  dopo  quell'infelice  prosa  della 
giustiziata  Sofonisba  fra  mani,  e  rilettala,  trovandovi  pure  qualche 
cosa  di  buono,  la  ripigliai  a  verseggiare,  abbreviandola  assai,  e 
tentando  con  lo  stile  di  supplire  e  mascherare  le  mende  inerenti 
al  soggetto.  E  benché  io  sapessi,  e  sappia,  ch'ella  non  era  né 
sarebbe  mai  tragedia  di  prim' ordine,  non  ebbi  con  tutto  ciò  il 
coraggio  di  porla  da  parte,  perché  era  il  solo  soggetto  in  cui  si 
potessero  opportunamente  sviluppare  gli  alti  sensi  delle  sublimi 
Cartagine  e  Roma.  Onde  di  varie  scene  di  quella  debole  tragedia, 
io  mi  pregio  non  poco. 

Ma  la  totalità  delle  mie  tragedie  parendomi  a  quell'epoca  es- 
sersi fatta  oramai  cosa  matura  per  una  stampa  generale,  mi  pro- 
posi allora  di  voler  almeno  cavar  questo  frutto  dal  mio  soggiorno 
che  sarei  per  fissare  d'allora  in  poi  in  Parigi,  di  farne  una  edi- 
zione bella,  accurata,  a  bell'agio,  senza  risparmio  nessuno  né  di 

'  Ep.  IH,  cap.  jiii. 


240  Vittorio  Alfieri 

spesa,  né  di  fatica.  Prima  dunque  di  decidermi  per  questo  o  per 
quello  degli  stampatori  volli  fare  una  prova  dei  caratteri,  e  proti, 
e  maneggi  tipografici  parigini,  trattandosi  di  una  lingua  fore- 
stiera. Trovandomi  sin  dall'anno  innanzi  dettato  'e  corretto  il 
panegirico  a  Traiano,  lo  stampai  i  a  quest'  effetto,  ed  essendo  cosa 
breve,  in  un  mesetto  fu  terminato.  E  saviamente  feci  di  tentar 
quella  prova,  avendo  poi  cambiato  lo  stampatore  assai  in  meglio 
per  tutti  i  versi.  Onde,  accordatomi  con  Didot  Maggiore «,  uomo 
intendentissimo  ed  appassionato  dell'arte  sua,  ed  oltre  ciò  accu- 
rato molto,  e  sufficientemente  esperto  della  lingua  italiana,  io 
cominciai  sin  dal  maggio  di  quell'anno  1787  a  stampare  il  primo 
volume  delle  tragedie.  Ma  incominciai  per  impegnare  me  e  lui, 
più  che  per  altro  ;  sapendo  benissimo,  che  dovendo  io  partire 
nel  giugno  per  trattenermi  in  Alsazia  fino  all'inverno,  la  stampa 
in  quel  frattempo  non  progredirebbe  gran  fatto;  ancorché  si 
prendessero  le  misure  per  farmi  avere  settimanalmente  le  prove 
da  correggersi  in  Alsazia,  e  rimandarsi  in  Parigi.  In  questo  modo 
io  mi  legai  da  me  stesso  doppiamente  a  dover  ritornare  l'inverno 
in  Parigi;  cosa  alla  quale  sentiva  ripugnanza  ,non  poca:  volli 
perciò,  che  mi  vi  dovessero  costringere  parimente  e  la  gloria  e 
e  l'amore.  Lasciai  al  Didot  il  manoscritto  delle  prose  che  pre- 
cedono, e  quello  delle  tre  prime  tragedie,  ch'io  stupidamente 
credei  ridotte,  limate,  e  accurate  quanto  potessero  essere;  me 
n'avvidi  poi,  quando  fu  posto  mano  a  stamparie,  quanto  io  mi 
fossi  ingannato. 

Oltre  l'amor  della  quiete,  l'amenità  della  villa,  l'essere  quivi 
più  lungamente  con  la  mia  donna,  alloggiato  sotto  lo  stesso  tetto  ; 
l'avervi  i  miei  libri,  e  gli  amati  cavalli  ;  tutti  questi  oggetti  erano 
caldissimi  sproni  al  farmi  ritornare  con  delizia  in  Alsazia.  Ma 
un'altra  ragione  vi  si  aggiunse  anche  allora,  che  me  ne  dovea 
duplicare  il  diletto.  L'amico  Caluso  mi  aveva  insperanzito,  ch'egli 
verrebbe  in  Alsazia  a  passar  quell'estate  con  noi  ;  ed  era  questi 
l'ottimo  degli  uomini  da  me  conosciuti,  e  l'ultimo  amico  rima- 
stomi dopo  la  morte  del  Cori.  Dopo  alcune  settimane  del  nostro 
arrivo  in  Alsazia,  verso  il  fin  di  luglio  la  mia  donna  ed  io  par- 
timmo dunque  espressamente  per  andare  ad  incontrare  l'amico 


'  Ep.  IV,  cap.  XV. 

*  Francesco  Ambrogio  Didof  ainé  che  l'A.  dice  t  Maggiore  >,  appunto 
per  distinguerlo  dal  più  giovane  fratello  Pier  Francesco. 


La  vita  241 

fino  a  Ginevra  ;  indi  ce  ne  ritornammo  con  esso  per  tutta  la  Sviz- 
zera sino  alla  nostra  villa  presso  a  Colmar;  dove  ebbi  allora 
riunite  tutte  le  mie  più  care  cose.  Il  primo  discorso  eh'  io  ebbi 
a  tener  con  l'amico,  fu,  oltre  ogni  mia  espettazione,  di  affari 
domestici.  Egli  avea  avuto  dalla  mia  ottima  madre  un'incom- 
bensa^  assai  strana,  visto  l'età  mia,  le  occupazioni,  e  il  pensare 
mio.  Quest'era  una  proposizione  di  matrimonio.  Egli  me  la 
fece  ridendo  ;  ed  io  pure  ridendo  gliela  negai  ;  e  si  combinò  la 
risposta  da  farsi  alla  mia  amorosissima  madre,  che  ci  scusasse, 
ambedue.  Ma  per  dare  un  saggio  dell'affetto  e  semplice  costume 
di  quella  rispettabil  donna,  porrò  qui  in  fondo  di  pagina  la  di 
lei  lettera  su  questo  soggetto*. 

Finito  il  trattato  del  matrimonio,  ci  sfogammo  reciprocamente 
il  cuore  l'amico  ed  lo  coi  discorsi  delle  amatissime  lettere,  k» 
mi  sentiva  veramente  necessità  di  conversare  sull'arte,  di  parlar  ' 
italiano',  e  di  cose  italiane;  tutte  privazioni  che  da  due  anni  mi  si 
faceano  sentire  non  poco  ;  e  ciò  con  assai  glande  mio  scapito,  nel- 
l'arte principalmente  del  verseggiare.  E  certo,  se  questi  ultimi 
famosi  uomini  francesi,  come  Voltaire  e  Rousseau,  avessero  do- 
vuto gran  parte  della  loro  vita  andarsene  erranti  in  diversi  paesi 
in  cui  la  loro  lingua  fosse  stata  ignota  o  negletta,  e  non  aves- 
sero neppur  trovato  con  chi  parlarla,  essi  non  avrebbero  forse 
avuto  la  imperturbabilità  e  la  tenace  costanza  di  scrivere  per 
semplice  amor  dell'arte  e  per  mero  sfogo,  come  faceva  io,  ed 
ho  fatto  poi  per  tanti  anni  consecutivi,  costretto  dalle  circostanze 
di  vivere  e  conversare  sempre  con  barbari:  che  tale  si  può  fran- 
camente denominare  tutta  l'Europa  da  noi,  quanto  alla  lettera- 
tura italiana;  come  lo  è  pur  troppo  tuttavia,  e  non  poco,  una 
gran  parte  della  stessa  Italia,  sui  nescia.  Che  se  si  vuole  anche 
per  gli  Italiani  scrivere  egregiamente,  e  che  si  tentino  versi  ^n 
cui  spiri  l'arte  del  Petrarca  e  di  Dante,  chi  oramai  in  Italia,  chi 
è  che  veramente  e  legga  ed  intenda  e  gusti  e  vivamente  senta 
Dante  e  il  Petrarca?  uno  in  mille,  a  dir  molto.  Con  tutto  ciò, 
io  immobile  nella  persuasione  del  vero  e  del  bello,  antepongo 
d'assai  (ed  afferro  ogni  occasione  di  far  tal  protesta),  di  gran 
lunga  antepongo  di  scrivere  in  una  lingua  quasi  che  morta,  e 
per  un  popolo  morto,  e  di  vedermi  anche  sepolto  prima  di  mo- 

I  Incombenza.  «  V.  Appendice. 

•  Perchè  la  Stolbergion  parlava  italiano,  o  malistirao  almeno  ;  cfr.  Ep.  IV, 
ctp.  VI. 

16.  —  aattlei  Italia/U.  N.  2. 


242  Vittorio  Alfieri 

rire,  allo  scrivere  in  codeste  lingue  sorde  e  mute,  francese  ed 
inglese,  ancorché  dai  loro  cannoni  ed  eserciti  elle  si  vadano  po- 
nendo in  moda.  Piuttosto  versi  italiani  (purché  ben  torniti),  i 
quali  rimangano  per  ora  ignorati,  non  intesi,  o  scherniti;  che 
non  versi  francesi  mai,  od  inglesi,  o  d'altro  simil  gergo  prepo- 
tente, quando  anche  ne  dovessi  immediatamente  esser  letto,  ap- 
plaudito, ed  ammirato  da  tutti.  Troppa  é  la  differenza  dal  suonare 
la  nobile  e  soave  arpa  ai  propri  orecchi,  ancorché  nessuno  ti 
ascolti,  al  suonare  la  vii  cornamusa,  ancorché  un  volgo  intero 
di  orecchiuti  ascoltanti  ti  faccia  pur  plauso  solenne. 

Torno  all'amico,  con  cui  di  questi  e  simili  sfoghi  mi  occor- 
reva spesso  di  fare,  il  che  mi  riusciva  di  sommo  sollievo.  Ma 
poco  durò  quella  mia  nuova  ed  intera  felicità,  di  passare  quei 
beati  giorni  tra  così  amate  e  degne  persone.  Un  accidente  oc- 
corso all'amico  venne  a  sturbare  la  nostra  quiete.  Cavalcando 
egli  meco  fece  una  caduta,  in  cui  si  slogò  il  pugno.  Da  prima 
credei  rotto  il  braccio,  e  anche  peggio;  onde  me  ne  rimescolai 
fortemente;  e  tosto  al  di  lui  male  si  aggiunse  il  mio  proprio, 
ma  di  gran  lunga  maggiore.  Mi  assalì  due  giorni  dopo  una  dis- 
senteria ferocissima,  che  andò  sì  ostinatamente  crescendo,  che 
al  decimoquinto  giorno,  non  essendo  più  entrato  nel  mio  sto- 
maco altro  che  acqua  gelata,  e  le  pestilenziali  evacuazioni  oltre- 
passando il  numero  di  80  nelle  24  ore,  mi  ritrovai  ridotto  presso 
che  in  fine,  senza  pure  aver  quasi  punto  febbre.  La  mancanza 
del  calor  naturale  era  tale,  che  certe  fomente  di  vino  aromatiz- 
zato che  mi  si  facevano  su  lo  stomaco  e  ventricolo  per  rendere 
una  qualche  attività  a  quelle  parti  spossate,  ancor  che  esse  fo- 
mente fossero  bollenti  a  segno  che  i  famigliari  nel  maneggiarle 
vi  si  pelassero  le  mani,  ed  io  il  corpo  nell 'applicarmele,  con  tutto 
ciò  le  mi  parean  sempre  pochissimo  calde,  e  d'altro  non  mi  do- 
leva che  della  loro  freddezza.  Non  v'era  piìi  vita  nel  mio  indi- 
viduo, altro  che  nel  capo,  il  quale  indebolito  sì,  ma  chiarissimo 
rimanevamo  Dopo  i  quindici  giorni  il  male  allentò,  e  adagio 
adagio  retrocedendo,  verso  il  trentesimo  giorno  le  evacuazioni 
erano  però  ancora  oltre  20  nelle  24  ore.  Mi  trovai  finalmente 
libero  dopo  sei  settimane,  ma  inscheletrito  e  annichilato  in  tal 
modo,  che  per  altre  quattro  settimane  in  circa,  quando  mi  si 
dovea  rifar  il  letto,  mi  levavano  di  peso  per  traspormi  in  un 
altro  finché  fossi  riportato  nel  primo.  Io  veramente  non  credei 
di  poterla  superare.  Doleami  assai  di  morire,  lasciando  la  mia 


La  vita  243 

donna,  l'amico,  ed  appena  per  così  dire  abbozzata  quella  gloria, 
per  coi  da  dieci  e  piìi  anni  io  aveva  tanto  delirato,  e  sudato  :  che 
io  benissimo  sentiva  che  di  tutti  quegli  scritti  ch'io  lascerei  in 
quel  punto,  nessuno  era  fatto  e  finito  come  mi  parea  di  poterlo 
fare  e  finire,  avendone  il  dovuto  tempo.  Mi  confortava  per  altra 
parte  non  poco,  giacché  morir  pur  dovea,  di  morire  almen  li- 
bero, e  fra  le  due  più  amate  persone  ch'io  m'avessi,  di  culmi 
pareva  d'avere  e  di  meritare  l'amore  e  la  stima;  e  di  morii  final- 
mente innanzi  di  aver  provato  tanti  altri  mali  sì  fisici  che  morali, 
a  cui  si  va  incontro  invecchiando.  Io  aveva  communicato  all'amico 
tutte  le  mie  intenzioni  circa  alla  stampa  già  avviata  delle  tra- 
gedie, e  le  avrebbe  fatte  continuare  egli  in  mia  vece.  Mi  sono 
poi  ben  convinto  in  appresso,  quando  io  fui  all'atto  pratico  di 
quella  stampa  che  durò  poi  quasi  tre  anni,  che  atteso  l'assiduo, 
e  lunghissimo,  e  tediosissimo  lavoro  che  mi  vi  convenne  di  farvi 
sopra  le  prove,  se  poco  era  il  fatto  sino  a  quel  punto,  ove  fossi 
mancato  io,  quello  che  lasciava  sarebbe  veramente  stato  un  nulla, 
ed  ogni  fatica  precedente  a  quella  dello  stampare  era  intera- 
mente perduta,  se  quest'ultima  non  sopravveniva  per  convali- 
darla. Cotanto  il  colorito  e  la  lima  si  fanno  parte  assolutamente 
iotegrante  d'ogni  qualunque  poesia. 

Piacque  al  destino,  ch'io  la  scampassi  per  allora,  e  che  le  mie 
tragedie  ricevessero  da  me  poi  quel  compimento  ch'io  era  in 
grado  di  dar  loro  ;  e  di  cui  forse  (s'  elle  hanno  gratitudiney  po- 
tranno contraccambiarmi  col  tempo,  non  lasciando  totalmente 
perire  il  mio  nome. 

Guarii,  come  dissi,  ma  a  stento  ;  e  rimasi  così  indebolito  anche 
della  mente,  che  tutte  le  prove  delle  tre  prime  tragedie,  che  suc- 
cessivamente nello  spazio  di  circa  quattro  mesi  in  quell'anno  mi 
passarono  sotto  gli  occhi,  non  ricevettero  da  me  né  la  decima 
parte  delle  emendazioni  ch'avrei  dovuto  farvi.  Il  che  fu  poi  in 
gran  parte  cagione,  che  due  anni  dopo,  finito  di  stamparle  tutte, 
ricominciai  da  capo  a  ristampar  quelle  prime  tre';  a  solo  fine  di 
soddisfare  all'arte  e  a  me  stesso;  e  forse  a  me  solo;  che  pochis- 
simi al  certo  vorranno  o  sapranno  badare  alle  mutazioni  fattevi 
quanto  allo  stile;  le  quali,  ciascuna  per  sé  sono  inezie;  tutte 
itisieme,  son  molte  e  importanti,  se  non  per  ora,  col  tempo*. 

I  La  stampa  d«l  1787  venne  soppressa,  ed  è  ora  rarissima.  Se  ne  ha  però 
qualche  esemplare  con  le  correzioni  fattevi  dalt'A.  per  la  ristampa  [B.\. 
*  Tanta  era  l' importanza  che  egli  annetteva  al  lavoro  di  lima. 


244  Vittorio  Alfieri 


APPENDICE 


LETTERA  DELLA   MADRE  DELL'AUTORE 

Carissimo,  ed  amatissimo  figlio. 

Li  8  corrente  scrissi  al  Sig.  Abate  di  Caluso  acciò  vi  facesse  una  pro- 
posizione di  matrimonio  awantaggioso,  che  vi  si  offre  con  una  figlia  di 
famiglia  distintissima  per  padre  e  madre,  ed  ereditaria  della  maggior  parte 
del  bene  paterno  ;  il  qual  padre,  per  essere  stato  molto  amico  del  vostro, 
desidererebbe  di  dare  a  voi  la  sua  figlia  a  preferenza  di  alcun  altro,  per 
il  desiderio  di  far  rivivere  la  casa  Alfieri  in  questa  città.  Vi  ho  fatto  fare 
questa  proposizione  per  mezzo  del  vostro  amico,  sperando  che  egli  forse 
avrebbe  avuto  il  dono  di  persuadervi;  ed  anche,  acciò  con  lui  foste  più 
in  libertà,  senza  timore  di  contristarmi,  di  dare  il  vostro  sentimento  poiché 
Dìo  sa  quanto  vi  amo,  e  se  io  potessi  mai  idearmi  niente  in  questo  mondo 
di  mia  maggior  consolazione  e  conforto,  che  di  rivedervi  e  ristabilito  in 
paese  e  nella  stessa  vostra  città;  ma  pure  non  vorrei  contribuire  ad  una 
vostra  tal  risoluzione  che  non  fosse  di  vostro  genio  o  di  vostra  conve- 
nienza, perchè  io  ci  son  più  per  poco  in  questo  mondo;  e  però  non  vi  è 
da  aver  riguardo  a  me  per  un  tal  vincolo.  Però  sto  aspettando  la  vostra 
definitiva  determinazione  per  dare  la  risposta  a  chi  si  interessa  per  la 
Damigella,  e  spero  di  averla  o  da  voi  medesimo,  o  per  mezzo  del  Signor 
Abate  di  Caluso,  al  quale  vi  prego  di  porgere  li  miei  complimenti.  Mio 
marito  vi  saluta  caramente.  Ed  abbracciandovi  con  tutto  l'affetto,  sono 

Vostra  affezionatissima  Madre. 
Asti,  22  agosto  1787. 

Essendo  io  per  natura  poco  curioso,  non  ho  mai  poi  ricercato,  né  saputo, 
né  indovinato  chi  potesse  essere  questa  mia  destinata  sposa  :  né  credo  che 
l'amico  lo  sapesse  egli  stesso  :  non  glielo  domandai,  né  mostrò  di  saperlo. 


La  vita  245 


CAPITOLO  DECIMOTTAVO 

Soggiorno  di  tre  e  più  anni  in  Parigi.  Stampa  di  tutte  le  tragedie. 
Stampa  nel  tempo  stesso  di  molte  altre  opere  in  Kehl. 

Appena  io  cominciava  alquanto  a  riavermi,  che  l'amico  (an- 
ch'egli  molto  prima  guarito  della  slogatura  del  pugno),  avendo 
delle  occupazioni  letterarie  in  Torino,  dove  era  segretario  del- 
l'Accademia delle  scienze',  volle  far  una  scorsa  a  Strasborgo 
prima  di  ripartir  per  l'Italia.  Io,  benché  ancora  infermiccio,  per 
goder  più  lungamente  di  lui  ce  lo  volli  accompagnare.  Ed  anche 
la  signora  ci  venne,  e  fu  nell'ottobre.  Si  andò  fra  l'altre  cose  a 
vedere  la  famosa  tipografia  stabilita  in  Kehl  grandiosamente  dal 
signor  di  Beaumarchais,  coi  caratteri  di  Baskerville  comprati  da 
esso',  e  destinato  il  tutto  alle  molte  e  varie  edizioni  di  tutte  le 
opere  di  Voltaire.  La  bellezza  di  quei  caratteri,  la  diligenza  degli 
artefici,  e  l'opportunità  che  mi  somministrava  l'essere  io  molto 
conoscente  del  suddetto  Beaumarchais  dimorante  in  Parigi,  mi 
invogliarono  di  prevalermene  per  colà  stampare  tutte  l'altre  mie 
opere  che  tragedie  non  erano;  ed  alle  quali  avrebbero  potuto 
essere  d'intoppo  le  solite  stitichezze  censorie,  le  quali  esistevano 
allora  anche  in  Francia,  e  non  picciole.  Sempre  ha  ripugnato 
moltissimo  all'indole  mia  di  dover  subire  revisione  per  poi  stam- 
pare. Non  già  ch'io  creda,  né  voglia,  che  s'abbia  a  stampare 
ogni  cosa:  ma  per  me  ho  adottata  nell'intero  la  legge  d'Inghil- 
terra, ed  a  quella  mi  attengo;  né  fo  mai  nessuno  scritto,  che  non 
potesse  liberissimamente  e  senza  biasimo  nessuno  dell'autore  es- 
sere stampato  nella  beata  e  veramente  sola  libera  Inghilterra.  Opi- 
nioni, quante  se  ne  vuole:  individui  offesi,  nessuni:  costumi, 
rispettati  sempre.  Queste  sono  state,  e  saranno  sempre  le  sole 
mie  leggi;  né  altre  se  ne  può  ragionevolmente  ammettere,  né 
rispettare. 

>  Prese  tal  nome  nel  1783,  ma  la  sua  esistenza  risale  ad  un  quarto  di 
•ccolo  prima,  avendo  essa  origine  dalla  società  scientifica  costituita,  in  casa 
del  conte  Cesare  Satuzzo,  dal  Lagrange  e  dal  Cigna. 

*  Pietro  Agostino  Caron  de  Beaumarchais  (1732-99),  autore  del  Bar- 
biere di  Siviglia  (1784),  il  prologo  drammatico  della  rivoluzione,  aveva 
aperto  a  Kehl,  nel  Baden,  la  tipografia  di  cui  parla  l'A.,  per  farne  uno 
strumento  di  propaganda  politica  e  sociale,  dopo  aver  acquistato  nel  1779 
il  materiale  di  Giovanni  Baskerville  (1716-75),  celebre  tipografo  inglese, 
incisore  e  fonditore  di  caratteri  di  notevole  bellezza. 


246  Vittorio  Alfieri 

Ottenuta  io  dunque  direttamente  dal  Beaumarchais  di  Parigi  la 
permissione  di  prevalermi  in  Kehl  della  di  lui  ammirabile  stam- 
peria, con  quell'occasione  d'esservi  capitato  io  stesso,  lasciai  a 
que'  suoi  ministri  il  manoscritto  delle  mie  cinque  Odi,  che  inti- 
tolate avea  U America  Libera,  affine  che  quest'operetta  mi  ser- 
visse come  di  saggio.  Ed  in  fatti  ne  riuscì  così  bella  e  corretta 
la  stampa,  ch'io  poi  per  due  e  più  anni  consecutivi  vi  andai  suc- 
cessivamente stampando  tutte  quelle  altre  opere,  che  si  son  viste 
o  che  si  vedranno.  E  le  prove  me  ne  venivano  settimanalmente 
spedite  a  rivedere  in  Parigi;  ed  io  continuamente  andava  sempre 
mutando  e  rimutando  i  bei  versi  interi  ;  a  ciò  invitandomi,  oltre 
la  smisurata  voglia  del  far  meglio,  anche  la  singoiar  compia- 
cenza e  docilità  di  quei  proti  di  Kehl,  dei  quali  non  mai  abba- 
stanza mi  potrei  lodare;  diversissimi  in  ciò  dai  proti,  compo- 
sitori, e  torcolieri  del  Didot  in  Parigi,  che  mi  hanno  sì  lunga- 
mente  fatto  fare  il  sangue  verde,  e  cotanto  mi  hanno  taglieggiato 
nella  borsa,  facendomi  a  peso  d'oro  arbitrariamente  ricomprare 
ogni  mutazion  di  parola  ch'io  facessi:  tal  che  se  si  vuole  tal- 
volta nella  vita  ottenere  ricompensa  dell'emendarsi,  io  ho  do- 
vuto all'incontro  pagare  per  emendare  i  miei  spropositi,  o  per 
barattarli. 

Si  tornò  d'Argentina'  nella  villa  di  Colmar,  e  pochi  giorni  dopo, 
verso  il  finir  d'ottobre,  l'amico  se  ne  partì  per  Torino,  lascian- 
domi sempre  più  desiderio  di  sé,  e  della  sua  dotta  e  piacevole 
compagnia.  Si  stette  ancora  tutto  il  novembre,  e  parte  del  de- 
cembre  in  villa,  nel  qual  tempo  mi  andai  rimettendo  adagino 
della  grande  scossa  avuta  negli  intestini  ;  e  così  mezzo  impotente 
tanto  verseggiai  alla  meglio,  o  alla  peggio,  il  Bruto  Secondo, 
che  dovea  esser  l'ultima  tragedia  ch'io  mai  farei;  e  quindi  do- 
vendo venir  l'ultima  a  stamparsi,  non  mi  potea  mancar  poi  tempo 
di  limarla  e  ridurla  a  bene. 

Arrivati  in  Parigi,  dove  atteso  l'impegno  della  intrapresa  stampa, 
era  indispensabile  eh'  io  mi  fissassi  a  dimora,  cercai  casa,  ad  ebbi 
la  sorte  di  trovarne  una  molto  lieta  e  tranquilla,  posta  isolata 
sul  baluardo'-'  nuovo  nel  sobborgo  di  San  Germano,  in  cima  d'una 
strada  detta  del  Monte  Parnasso;  luogo  di  bellissima  vista,  di 

>  Strasburgo:  dal  nome  latino  Argentoratum. 

•  Baluardo  è  veramente  il  bastione  ai  quattro  angoli  d'una  fortezza; 
tale  parola  usa  qui  l'Alfieri,  con  piena  rispondenza  etimologica,  a  tradurre 
il  fmncese  boulevard. 


Lu  vita  247 

ottima  aria,  e  solitario  come  in  una  villa;  compagno  della  villa 
di  Roma  ch'io  avevo  abitata  due  anni  alle  Terme.  Si  portò  con 
noi  a  Parigi  tutti  i  cavalli,  di  cui  presso  che  metà  cedei  alla  si- 
gnora, sì  pel  di  lei  servizio,  che  per  diminuirne  a  me  la  troppa 
spesa  e  divagazione.  Così  collocatomi,  a  bell'agio  potei  atten- 
dere a  quella  difficile  e  noiosa  briga  dello  stampare;  occupa- 
zione in  cui  rimasi  sepolto  per  quasi  tre  anni  consecutivi. 

Venuto  intanto  il  febbraio  del  1788,  la  mia  donna  ricevè  la 
nuova  della  morte  del  di  lei  marito  seguita  in  Roma,  dove  egli 
da  più  di  due  anni  si  era  ritirato,  lasciando  Firenze.  E  benché 
questa  morte  fosse  preveduta  già  da  un  pezzo,  attesi  i  replicati 
accidenti  che  da  piìi  mesi  l'aveano  percosso;  e  lasciasse  la  vedova 
interamente  libera  di  sé,  e  non  venisse  a  perdere  nel  marito  un 
amico;  con  tutto  ciò  io  fui  con  mia  maraviglia  testimonio  ocu- 
lare, ch'ella  ne  fu  non  poco  compunta,  e  di  dolore  certamente 
non  finto,  né  esagerato;  che  nessun 'arte  mai  entrava  in  quella 
schiettissima  ed  impareggiabile  indole.  E  certo  quel  suo  marito, 
malgrado  la  molta  disparità  degli  anni,  avrebbe  trovato  in  lei 
un'ottima  compagna,  ed  un'amica  se  non  un'amante  donna,  sol- 
tanto che  non  l'avesse  esacerbata  con  le  continue  acerbe  e  rozze 
ed  ebre  maniere.  Io  doveva  questa  testimonianza  alla  pura  verità'. 

Continuata  tutto  l'SS  la  stampa,  e  vedendomi  oramai  al  fine 
del  quarto  volume,  io  stesi  allora  il  mio  parere  su  tutte  le  tra- 
gedie, per  poi  inserirlo  in  fine  dell'edizione.  Mi  trovai  in  quel- 
l'anno stesso  finito  di  stampare  in  Kehl  le  Odi,  il  dialogo*, 
V  Etruria  e  le  Rime.  Onde  ostinato  sempre  più  nel  lavoro,  e  per 
vedermene  una  volta  libero,  nel  susseguente  anno  continuai  con 
un  maggfior  fervore  e  verso  l'agosto  il  tutto  fu  terminato,  sì  in 
Parigi  i  sei  volumi  delle  Tragedie,  che  in  Kehl  le  due  prose,  del 
Principe  e  delle  Lettere  ,  e  della  Tirannide,  che  fu  l'ultima  cosa 
ch'io  vi  stampassi.  Ed  essendomi  in  quell'anno  tornato  sotto  gli 
occhi  il  Panegirico  prima  stampato  nell'ST,  e  trovatovi  molte  pic- 
cole cose  che  potrei  emendare,  lo  volli  stampare;  anche  per  aver 
tutte  le  opere  egualmente  bene  stampate.  Con  gli  stessi  caratteri 
ed  opera  del  Didot  lo  feci  dunque  eseguire;  e  v'aggiunsi  l'Ode 


>  Veramente  U  Stolberg  non  fu  troppo  compunta  per  la  morte  del  ma- 
rito: essa  non  fece  altro  che  piegarsi  alle  convenienze  mondane,  come, 
purtroppo,  fece  poi  anche  alla  morte  delI'A. 

•  la  virtù  sconosciuta. 


248  Vittorio  Alfieri 

di  Parigi  Sbastigliato^,  fatta  per  essermi  trovato  testimonio  ocu- 
lare del  principio  di  quei  torbidi,  e  tutto  il  volumetto  terminai 
con  una  favoluccia'*  adattata  alle  correnti  peripezie.  E  così,  vuo- 
tato il  sacco,  mi  tacqui:  nessuna  altra  mia  opera  avendo  trala- 
sciato di  stampare,  fuorché  la  tramelogedia  d'Abele,  perchè  in 
questo  nuovo  genere  facea  disegno  di  eseguirne  varie  altre;  e 
la  traduzion  di  Sallustio,  perchè  non  mi  pensava  mai  di  entrare 
nel  disastroso  ed  inestricabile*  labirinto  di  traduttore. 


CAPITOLO  DECIMONONO 

Principio  dei  tumulti  di  Francia,  i  quali  sturbandomi  in  più  maniere,  di 
autore  mi  trasformano  in  ciarlatore.  Opinione  mia  sulle  cose  presenti  e 
future  di  questo  regno. 

Dall'aprile  dell'anno  1789  in  appresso,  io  era  vissuto  in  molte 
angustie  d' animo,  temendo  ogni  giorno  che  un  qualche  di  quei 
tanti  tumulti  che  insorgevano  ogni  giorno  in  Parigi  dopo  la  con- 
vocazione degli  stati  generali,  non  mi  impedisse  di  terminare 
tutte  quelle  mie  edizioni  tratte  quasi  alla  fine,  e  che  non  dovessi 
dopo  tante  e  sì  improbe  spese  e  fatiche  affondare  alla  vista  del 
porto.  Mi  affrettava  quanto  più  poteva;  ma  così  non  facevano 
gli  artefici  della  tipografia  del  Didot,  che  tutti  travestitisi  in  poli- 
tici e  liberi  uomini,  le  giornate  intere  si  consumavano  a  leggere 
gazzette  e  far  leggi,  invece  di  comporre,  correggere,  e  tirare  le 
dovute  stampe.  Credei  d'impazzarvi  di  rimbalzo.  Fu  dunque  im- 
mensa la  mia  soddisfazione,  quando  pure  arrivò  quel  giorno,  in 
cui  finite,  imballate,  e  spedite  sì  in  Italia  che  altrove,  furono  le 
tanto  sudate  tragedie.  Ma  non  fu  lunga  quella  contentezza,  perchè 
le  cose  andando  sempre  peggio,  scemando  ogni  giorno  la  sicu- 
rezza e  la  quiete  in  questa  Babilonia,  e  accrescendosi  ogni  giorno 
il  dubbio,  e  i  sinistri  presagi  per  l'avvenire,  chi  ci  ha  che  fare 
con  questi  scimiotti,  come  disgraziatamente  siamo  nel  caso  sì  la 
mia  donna  che  io,  è  costretto  di  temer  sempre,  non  potendo  mai 
finir  bene. 


•  Con  questa  ode  politica  l'A.,  pieno  di  speranze,  saluta  l'inizio  della 
rivoluzione  e  vede  giurato  sulle  rovine  della  Basti^'lla,  tra  re  e  popolo,  un 
patto  di  alleanza,  foriere  di  libertà, 

'  Le  mosche  e  l'api. 


La  vita  249 

Io  dunque  oramai  da  più  d'un  anno  vo  tacitamente  vedendo 
e  osservando  il  progresso  di  tutti  i  lagrimevoli  effetti  della  dotta 
imperìzia  di  questa  nazione,  che  di  tutto  può  sufficientemente 
chiacchierare,  ma  nulla  può  mai  condurre  a  buon  esito,  perchè 
nulla  intende  il  maneggio  degli  uomini  pratici  ;  come  acutamente 
osservò  già  e  disse  il  nostro  profeta  politico,  Machiavelli*.  Laonde 
io  addolorato  profondamente,  sì  perchè  vedo  continuamente  la 
sacra  e  sublime  causa  della  libertà  in  tal  modo  tradita,  scam- 
biata, e  posta  in  discredito  da  questi  semifilosofi  ;  stomacato  del 
vedere  ogni  giorno  tanti  mezzi  lumi,  tanti  mezzi  delitti,  e  nulla 
in  somma  d' intero  se  non  se  l' imperizia  d' ogni  parte  ;  atterrito 
finalmente  dal  vedere  la  prepotenza  militare,  e  la  licenza  e  inso- 
lenza avvocatesca  posate  stupidamente  per  base  di  libertà;  io  nul- 
l'altro  ormai  desidererei,  che  di  poter  uscire  per  sempre  di  questo 
fetente  spedale,  che  riunisce  gli  incurabili  e  i  pazzi.  E  già  fuor 
ne  sarei,  se  la  miglior  parte  di  me  stesso  non  vi  si  trovasse  di- 
sgraziatamente per  lei  intralciata  dalle  sue  circostanze.  Instupidito 
dunque  io  pure  dal  perenne  dubitare  e  temere,  da  quasi  un  anno 
che  son  finite  le  tragedie,  piuttosto  vegetando  che  vivendo,  stra- 
scino assai  male  i  miei  giorni;  e  insterilitomi  anche  non  poco 
il  cervello  con  quasi  tre  anni  di  continuo  correggere  e  stampare, 
a  nessuna  lodevole  occupazione  mi  so,  né  posso  rivolgere.  Ho 
intanto  ricevuto,  e  vo  ricevendo  da  molte  parti  la  notizia,  esservi 
giunta  l'edizione  delle  mie  tragedie;  e  pare  che  trovino  smercio, 
e  non  dispiacciano.  Ma  siccome  le  nuove  mi  sono  date  da  per- 
sone piuttosto  amiche  mie,  o  benevole,  non  me  ne  lusingo  gran 
fatto.  Ed  in  fine  mi  sono  proposto  fra  me  e  me,  di  non  accettare 
né  lode,  né  biasimo,  se  non  mi  recano  e  l'uno  e  l'altro  il  loro 
perché  ;  e  voglio  dei  perchè  luminosi,  che  ridondino  in  utile  del- 
l'arte mia  e  di  me.  Ma  di  questi  perchè  pur  troppo  pochi  se  ne 
raccapezza,  e  nessuno  finora  me  n'é  pervenuto.  Onde  tutto  il 
rimanente  reputo  per  non  accaduto.  Queste  cose,  benché  io  le 
sapessi  già  prima  benissimo,  non  mi  hanno  però  fatto  mai  ri- 
sparmiare né  la  fatica,  né  il  tempo,  per  fare  il  meglio  quant'  era 
in  me.  Tanto  più  lode  ne  riceveranno  forse  le  mie  ossa  col  tempo, 
poiché  io  con  tale  tristo  disinganno  innanzi  agli  occhi,  ho  pure 

>  Specialmente  nef  Ritratti  delle  cose  di  Francia,  e  non  molto  benevoN 
mente,  quanto  ili'  indole  e  natura  dei  francesi,  In  un  particolar  tcritterello 
che  ad  essi  suol  andar  unito. 


250  Vittorio  Alfieri 

sì  ostinatamente  persistito  a  far  bene  più  assai  che  a  far  presto, 
non  mi  piegando  a  corteggiare  mai  altri  che  il  vero. 

Quanto  poi  alle  sei  mie  diverse  opere  stampate  in  Kehl,  non 
voglio  pubblicare  per  ora  altro  che  le  due  prime,  cioè  V Ame- 
rica libera,  e  la  Virtù  sconosciuta;  riserbando  l'altre  a  tempi 
men  burrascosi,  ed  in  cui  non  mi  possa  esser  data  la  vile  taccia, 
che  non  mi  par  meritare,  di  aver  io  fatto  coro  con  i  ribaldi,  di- 
cendo quel  ch'essi  dicono,  e  che  pur  mai  non  fanno,  né  fare  sa- 
prebbero né  potrebbero.  Con  tutto  ciò  ho  stampato  quelle  opere, 
perchè  l'occasione,  come  dissi,  mi  v'invitò;  e  perchè  son  con- 
vinto, che  chi  lascia  dei  manoscritti  non  lascia  mai  libri:  nessun 
libro  essendo  veramente  fatto  e  compito,  s'egli  non  è  con  somma 
diligenza  stampato,  riveduto,  e  limato  sotto  il  torchio,  direi,  dal- 
l'autore medesimo.  Il  libro  può  anche  non  esser  fatto  né  com- 
pito, a  dispetto  di  tutte  queste  diligenze  ;  pur  troppo  è  così  :  ma 
non  lo  può  certo  essere  veramente,  senz'esse. 

Il  non  aver  dunque  per  ora  altro  che  fare;  l'aver  molti  tristi 
presentimenti  ;  e  il  credermi  (lo  confesserò  ingenuamente)  di  avere 
pur  fatto  qualche  cosa  in  questi  quattordici  anni;  mi  hanno 
determinato  di  scrivere  questa  mia  vita,  alla  quale  per  ora  fo 
punto  in  Parigi,  dove  l'ho  stesa  in  età  di  anni  quarant'uno  e 
mesi,  e  ne  termino  il  presente  squarcio,  che  sarà  certo  il  mag- 
giore, il  dì  27  maggio  dell'anno  1790.  Né  penso  di  rileggere  più 
né  più  guardare  queste  mie  ciarle,  fin  presso  agli  anni  sessanta, 
se  ci  arriverò,  età  in  cui  avrò  certamente  terminata  la  mia  car- 
riera letteraria.  Ed  allora,  con  quella  freddezza  maggiore  che  por- 
tano seco  i  molti  anni,  rivedrò  poi  questo  scritto,  e  vi  aggiungerò 
il  conto ^  di  quei  dieci  o  quindici  anni  all'incirca,  che  avrò  forse 
ancora  impiegati,  in  comporre,  o  applicare.  Se  io  verrò  ad  ese- 
guire i  due  o  tre  diversi  generi  in  cui  fo  disegno  di  provare  le 
mie  ultime  forze,  aggiungerò  allora  quegli  anni  in  ciò  impiegati, 
a  questa  quarta  epoca  della  virilità  ;  se  no,  nel  ripigliare  questa 
mia  confession  generale,  incomincierò  da  quegli  anni  miei  ste- 
rili la  quinta  epoca;  della  mia  vecchiaia  e  rimbambimento,  la 
quale,  se  punto  avrò  senno  ancora  e  giudizio,  brevissimamente, 
siccome  cosa  inutile  sotto  ogni  aspetto,  la  scriverò. 

Ma  se  io  poi  in  questo  frattempo  venissi  a  morire,  che  è  il 
più  verisimile  ;  io  prego  fin  d'ora  un  qualche  mio  benevolo,  nelle 

>  Racconto. 


La  vita  251 

cnl  mani  venisse  a  capitar  questo  scritto,  di  fame  quell'uso  che 
glie  ne  parrà  meglio.  S'egli  lo  stamperà  tal  quale,  vi  si  vedrà, 
spero,  l' impeto  della  veracità  e  della  fretta  ad  un  tempo  ;  cose  che 
portan  seco  del  pari  la  semplicità  e  l'ineleganza  nello  stile.  Né, 
per  finire  la  mia  vita,  quell'amico  vi  dovrà  aggiungere  altro  di 
suo,  se  non  se  il  tempo,  il  luogo  ed  il  modo  in  cui  sarò  morto. 
E  quanto  alle  disposizioni  dell'animo  mio  in  quel  punto,  l'amico 
potrà  accertare  arditamente  in  mio  nome  il  lettore,  che  troppo 
conoscendo  questo  fallace  e  vuoto  mondo,  nessuna  altra  pena 
avrò  provato  lasciandolo,  se  non  se  quella  di  abbandonarvi  la 
donna  mia  ;  come  altresì  fin  eh'  io  vivo,  in  lei  sola  e  per  lei  sola 
vivendo  oramai,  nessun  pensiero  veramente  mi  scuote  e  atterrisce, 
fuorché  il  timore  di  perderla  :  né  d'altra  cosa  io  supplico  il  cielo, 
che  di  farmi  uscir  primo  di  queste  mondane  miserie. 

Ma  se  poi  l'amico  qualunque  a  cui  capitasse  questo  scritto,  sti- 
masse bene  di  arderlo,  egli  farà  anche  bene.  Soltanto  prego,  che 
se  diverso  da  quel  ch'io  l'ho  scritto  gli  piacesse  di  farlo  pub- 
blico, egli  lo  raccorcisca  e  lo  muti  pure  a  suo  piacimento  quanto 
all'eleganza  e  lo  stile,  ma  dei  fatti  non  ne  aggiunga  nessuno,  né 
in  verun  modo  alteri  i  già  descritti  da  me.  Se  io,  nello  stendere 
questa  mia  vita,  non  avessi  avuto  per  primo  scopo  l' impresa  non 
volgarisstma  di  favellar  di  me  con  me  stesso,  di  spacciarmi  qual 
sono  in  gran  parte,  e  di  mostrarmi  seminudo  a  quei  pochi  che 
mi  volevano  o  vorranno  conoscere  veramente  ;  avrei  saputo  veri- 
sìmilmente  anch'io  restringere  il  sugo,  se  alcun  ve  n'ha,  di  questi 
miei  quarantun  anni  di  vita  in  due  o  tre  pagine  al  più,  con  istu- 
diata  brevità  ed  orgoglioso  finto  disprezzo  di  me  medesimo  taci- 
teggiando'. Ma  io  allora  avrei  voluto  in  ciò  più  assai  ostentare 
il  mio  ingegno,  che  non  disvelare  il  mio  cuore,  e  costumi.  Sic- 
come dunque  all'ingegno  mio  (o  vero  o  supposto  ch'ei  sia)  ho 
ritrovato  bastante  sfogo  in  tante  altre  mie  opere,  in  questa  mi  son 
compiaciuto  di  dame  uno  più  semplice,  ma  non  meno  impor- 
tante, «1  cuor  mio,  diffusamente  a  guisa  di  vecchio  su  me  mede- 
simo, e  di  rimbalzo,  su  gli  uomini  quali  soglion  mostrarsi  in  pri- 
vato, chiacchierando. 

Firenze,  di  2  maggio  1803. 

Parigi.  Letto  nel  mano  del  1798  per  la  prima  volta  alla  mia  donna. 

1  Imitando  cioè  la  condiione  di  Tacito. 


VITA  DI  VITTORIO   ALFIERI 

PARTE  SECONDA 


EPOCA  QUARTA 

CONTINUAZIONE 


PROEMIETTO 


Avendo  riletto  circa  13  anni  dopo,  trovandomi  fisso  in  Firenze, 
tutto  quello  eh'  io  aveva  scritto  in  Parigi  concernente  la  mia  vita 
sino  all'età  di  anni  quarantuno,  a  poco  a  poco  lo  andai  ricopiando, 
e  un  pocolino  ripulendo,  perchè  riuscisse  chiaro  e  pianissimo  lo 
stile.  Dopo  averlo  ricopiato,  giacché  mi  trovava  ingolfato  nel 
parlar  di  me,  pensai  di  continuare  a  descrivere  questi  tredici  anni, 
nei  quali  mi  pare  anche  di  aver  fatto  pur  qualche  cosa  che  me- 
riti d'essere  saputa.  E  siccome  gli  anni  crescono,  le  forze  fisiche 
e  morali  scemano,  e  verosimilmente  oramai  ho  finito  di  fare, 
mi  lusingo  che  questa  seconda  parte,  che  sarà  assai  piii  breve 
della  prima,  sarà  anche  l' ultima  ;  poiché  entrato  nella  vecchiaja, 
di  cui  i  miei  55  anni  vicini  mi  hanno  già  introdotto  nel  limitare, 
e  atteso  il  gran  logoro  che  ho  fatto  di  corpo  e  di  spirito,  ancorché 
io  viva  dell'altro,  nulla  oramai  facendo,  pochissimo  mi  si  pre- 
sterà da  dire  >. 


'  Nota  nell'autografo:  «  Prima  di  ricopiare,  rileggi  ogni  capitolo,  ptr 
intitolarlo  oiù  brevemente  e  meglio  che  non  sono  adesso  ».  [T.]. 


256  Vittorio  Alfieri 


CAPITOLO  VIOESIMO 

Finita  interamente  la  prima  mandata  delle  stampe, 
mi  do  a  tradurre  Virgilio  e  Terenzio;  e  con  qual  fine  il  facessi. 

Continuando  dunque  la  quarta  epoca,  dico  che  ritrovandomi 
in  Parigi,  come  io  dissi,  ozioso  e  angustiato,  ed  incapace  di  crear 
nulla,  benché  molte  cose  mi  rimanessero,  che  avea  disegnato  dì 
fare;  verso  il  giugno  del  1790  cominciai  così  per  balocco  a  tra- 
durre qua  e  là  degli  squarci  dell'Eneide,  quelli  che  più  mi  rapi- 
vano ;  poi  vedendo  che  mi  riusciva  utilissimo  studio,  e  dilettevole, 
lo  cominciai  da  capo,  per  mantenermi  nell'uso  del  verso  sciolto. 
Ma  tediandomi  di  lavorare  ogni  giorno  la  stessa  cosa,  per  variare 
e  rompere,  e  sempre  più  imparare  bene  il  latino,  pigliai  anche 
a  tradurre  il  Terenzio  da  capo;  aggiuntovi  lo  scopo  di  tentare 
su  quel  purissimo  modello  di  crearmi  un  verso  comico,  per  poi 
scrivere  (come  da  gran  tempo  disegnava)  delle  commedie  di  mio  ; 
e  comparire  anche  in  quelle  con  uno  stile  originale  e  ben  mio, 
come  mi  pareva  di  aver  fatto  nelle  tragedie.  Alternando  dunque, 
un  giorno  l'Eneide,  l'altro  il  Terenzio,  in  quell'anno  90,  e  fino 
all'aprile  del  92,  che  partii  di  Parigi,  ne  ebbi  tradotto  dell'Eneide 
i  primi  quattro  libri  ;  e  dì  Terenzio,  l'Andria,  l'Eunuco  e  l'Eau- 
tontimoromeno^.  Oltre  ciò  per  sempre  più  divagarmi  dai  funesti 
pensieri,  che  mi  cagionavano  le  circostanze,  volli  disrugginirmi 
di  nuovo  la  memoria,  che  nel  comporre  e  stampare  avea  trasan- 
data affatto,  e  m'inondai  di  squarci  d'Orazio,  Virgilio,  Giovenale, 
e  dì  nuovo  di  Dante,  Petrarca,  Tasso  e  Ariosto,  talché  migliaia 
e  migliaia  di  versi  altrui  mi  collocai  nel  cervello.  E  queste  occu- 
pazioni di  second 'ordine  sempre  più  mi  isterilirono  il  cervello,  e 
mi  tolsero  di  non  far  più  nulla  del  mio.  Talché,  di  quelle  tramelo- 
gedie,  di  cui  doveano  essere  sei  al  meno,  non  vi  potei  mai  aggiun- 
gere nulla  alla  prima,  l'Abele;  e  sviato  poi  da  tante  cose,  perdei 
il  tempo,  la  gioventù,  e  il  bollore  necessario  per  una  tal  creazione, 
e  non  lo  ritrovai  poi  mai  più.  Sicché  in  quell'ultimo  anno,  eh'  io 
stetti  allora  in  Parigi,  e  così  poi  nei  due  e  più  seguenti  altrove, 

>  Commedie  di  Terenzio  il  cui  titolo  è  desunto  dal  personaggio  princi- 
pale: il  titolo  della  terza  l'A.  italianizzò  mutandolo  in  L' .ispreggia  -  sé  • 
stesso. 


La  J-Uu  257 

null'altro  più  scrissi  del  mio,  fuorché  qualche  Epigrammi  e  So- 
netti, per  isfogare  la  mia  giustissima  ira  contro  gli  schiavi  padroni, 
e  dar  pascolo  alla  mia  malinconia.  E  tentai  anche  di  scrivere  un 
Conte  Ugolino,  dramma  misto,  e  da  unirsi  poi  anche  alle  tramelo- 
gedie,  s€  l'avessi  eseguite.  Ma  dopo  averlo  ideato,  lo  lasciai,  né  vi 
potei  pili  pensare,  non  che  lo  stendessi.  L.^ Abele  in  tanto  era  finito, 
ma  non  limato.  Nell'ottobre  di  quell'anno  stesso  90,  si  fece  con 
la  mia  donna  un  viaggetto  di  quindici  giorni  nella  Normandia 
sino  a  Coen,  rHavre,  e  Roano;  bellissima  e  ricca  provincia,  ch'io 
non  conosceva  ;  e  ne  rimasi  molto  soddisfatto,  ed  anche  un  poco 
sollevato.  Perché  quei  tre  anni  fissi  di  stampa,  e  di  guai  con- 
tinui, mi  aveano  veramente  prosciugato  il  corpo  e  l'intelletto. 
L'aprile  poi  vedendo  sempre  piìi  imbrogliarsi  le  cose  in  Francia, 
e  volendo  almeno  tentare  se  più  pace  e  sicurezza  si  potrebbe  al- 
trove trovare;  oltre  ciò  la  mia  donna  spirandosi'  di  vedere  l'In- 
ghilterra, quella  sola  terra  un  po'  libera,  e  tanto  diversa  dall'altre 
tutte,  ci  determinammo  di  andarvi. 


CAPITOLO  VIOESIMOPRIMO 

Quarto  viaggio  in  Inghilterra  e  in  Olanda. 
Ritorno  a  Parigi  dove  ci  fissiamo  davvero,  costrettivi  dalle  dure  circostanze. 

Si  partì  dunque  verso  il  fine  d'aprile  del  91,  ed  avendo  inten- 
zione di  starvi  del  tempo,  ci  portammo  i  nostri  cavalli,  e  si  licenziò 
la  casa  in  Parigi.  Vi  si  arrivò  in  pochi  giorni,  e  il  paese  piacque 
molto  alla  mia  donna  per  certi  lati,  per  altri  no.  Io  invecchiato 
non  poco  dalle  due  prime  volte  in  poi  che  c'era  stato,  io  ammirai 
ancora  (ma  un  poco  meno),  quanto  agli  effetti  morali  del  governo, 
ma  me  ne  spiacque  sommamente,  e  più  che  nel  terzo  viaggio,  sì 
il  clima,  che  il  modo  corrotto  di  vivere;  sempre  a  tavola,  vegliare 
fino  alle  due  o  tre  della  mattina;  vita  in  tutto  opposta  aJlc  lettere, 
all'ingegno,  e  alla  salute.  Passata  dunque  la  novità  degli  oggetti 
per  la  mia  donna,  ed  io  tormentatovi  molto  dalla  gotta  vagante, 
che  in  quella  benedetta  isola  è  veramente  indigena,  presto  ci  te- 
diammo di  essere  in  Inghilterra.  Succede  nel  giugno  di  quell'anno 
la  famosa  fuga  del  re  di  Francia,  che  ripreso  in  Varennes,  come 

»  Morendo  di  desiderio.  —  L*  Stolberg  si  rectva  in  InghiUerrt  allo  scopo 
di  ottenere  da  quel  governo  una  pensione,  essendo  vcnut.i  a  mancare  quella 
corrisposta  dalla  Francia:  tale  il  vero  motivo  di  questo  viaggio. 

17.  -  ClassUl  ItaUani.  N.  2. 


258  Vittorio  Alfieri 

ciascun  seppe,  fu  ricondotto  più  che  mai  prigioniero  in  Parigi. 
Quest'avvenimento  abbuiò  sempre  più  gli  affari  di  Francia;  e 
noi  vi  ci  trovavamo  impicciatissimi  per  la  parte  pecuniaria,  avendo 
l'uno  e  l'altro  ì  due  terzi  delle  nostre  entrate  in  Francia,  dove  la 
moneta  sparita,  e  datovi  luogo  alla  carta  ideale,  e  sfiduciata  ogni  dì 
più,  settimanalmente  uno  si  vedeva  scemare  in  mano  il  suo  avere, 
che  prima  d'un  terzo,  poi  mezzo,  poi  due  terzi,  andava  di  carriera 
verso  il  bel  nulla.  Contristati  ambedue  e  costretti  da  questa  ne- 
cessità irrimediabile,  ci  determinammo  di  obbedirvi,  e  di  ritornare 
in  Francia,  dove  solo  con  la  nostra  cartaccia  potevamo  campare 
per  allora,  ma  con  la  trista  perspettiva  del  peggio.  Nell'agosto 
dunque,  prima  di  lasciar  l' Inghilterra,  si  fece  un  giro  per  l' isola, 
a  Batti,  Bristol,  e  Oxford,  e  tornati  a  Londra,  pochi  giorni  dopo 
ci  rimbarcammo  a  Douvres. 

Quivi  mi  accadde  un  accidente  veramente  di  romanzo,  che  bre- 
vemente narrerò.  Nel  mio  terzo  viaggio  in  Inghilterra  nell' 83  e 
84  non  aveva  punto  più  saputo  né  cercato  nulla  di  quella  famosa 
signora,  che  nel  mio  secondo  viaggio  mi  avea  fatto  pericolare  per 
tanti  versi  1.  Solamente  sentii  dire  ch'ella  non  abitava  più  Londra, 
che  il  marito,  da  cui  s' era  divorziata,  era  morto  e  che  si  credeva 
ne  avesse  sposato  un  altro,  oscuro  ed  ignoto.  In  questo  quarto 
viaggio,  nei  quattro  e  più  mesi  ch'io  era  stato  a  Londra,  non 
ne  avea  mai  sentito  far  parola,  né  cercatone  notizia,  e  non  sa- 
peva neppure  s'ella  fosse  ancor  viva,  o  no.  Nell'atto  d'imbar- 
carmi a  Douvres,  precedendo  io  la  donna  mia  forse  di  un  quarto 
d'ora  alla  nave,  per  vedere  se  il  tutto  era  in  ordine,  ecco,  che 
nell'atto,  che  dal  molo  stava  per  entrare  nella  nave,  alzati  gli 
occhi  alla  spiaggia  dove  era  un  certo  numero  di  persone,  la 
prima  che  i  miei  occhi  incontrano,  e  distinguono  benissimo  per 
la  molta  prossimità,  sì  é  quella  signora;  ancora  bellissima,  e 
quasi  nulla  mutata  da  quella  ch'io  l' avea  lasciata  vent'anni 
prima,  appunto  nel  1771.  Credei  a  prima  di  sognare;  guardai 
meglio,  e  un  sorriso  ch'ella  mi  schiuse  guardandomi,  mi  certificò 
della  cosa.  Non  posso  esprimere  tutti  i  moti,  e  diversi  affetti  con- 
trari che  mi  cagionò  questa  vista.  Tuttavia  non  le  dissi  parola, 
entrai  nella  nave,  né  più  ne  uscii;  e  nella  nave  aspettai  la  mia 
donna,  che  un  quarto  d'ora  dopo  giuntavi,  si  salpò.  Essa  mi  disse 
che  dei  signori,  che  l'accompagnarono  alla  nave,  gli  aveano*  in- 

I  V.  Ep.  Ili,  cap.  v  e  xi. 
«  Toscanisino  :  le. 


La  vita  259 

dicata  quella  signora;  e  nominategliela,  e  aggiuntovi  un  com- 
pendiuccio  della  di  lei  vita  passata  e  presente.  Io  le  raccontai 
come  mi  era  occorsa  agli  occhi,  e  come  andò  il  fatto.  Tra  noi 
non  v'era  mai  né  finzione,  né  diffidenza,  né  disistima,  né  querele. 
Si  arrivò  a  Calais  ;  di  dove  io  molto  colpito  di  quella  vista  così 
inaspettata,  le  volli  scrivere  per  isfogo  del  cuore,  e  mandai  la 
mia  lettera  al  banchiere  di  Douvres,  che  glie  la  rimettesse  in 
proprie  mani,  e  me  ne  trasmettesse  poi  la  risposta  a  Brusselles, 
dove  sarei  stato  fra  pochi  giorni.  La  mia  lettera  di  cui  mi  spiace 
di  non  aver  serbato  copia,  era  certamente  piena  d'affetti,  non  già 
d'amore,  ma  di  una  vera  e  profonda  commozione  di  vederla  an- 
cora menare  una  vita  errante  e  sì  poco  decorosa  al  suo  stato  e 
nascita,  e  il  dolore,  ch'io  ne  sentiva  tanto  più,  pensando  di  es- 
serne io  stato,  ancorché  innocentemente,  o  la  cagione  o  il  pretesto. 
Che  senza  lo  scandalo  succeduto  per  causa  mia  ella  forse  avrebbe 
potuto  occultare  o  tutto  o  gran  parte  le  sue  dissolutezze,  e  cogli 
anni  poi  emendarsene.  Ritrovai  poi  in  Brusselles  circa  quattro 
settimane  dopo  la  di  lei  risposta,  che  fedelmente  trascrivo  qui  in 
fondo  di  pagina'  per  dare  un'idea  del  di  lei  nuovo',  ed  ostinato 
mal  inclinato  carattere,  che  in  quel  grado  ella  è  cosa  assai  rara, 
massime  nel  bel  sesso.  Ma  tutto  serve  al  grande  studio  della 
specie  bizzarra  degli  uomini. 

Intanto  dunque  noi  imbarcati  per  Francia,  sbarcati  a  Calais, 
prima  di  imprigionarci  in  Parigi,  pensammo  di  fare  un  giro  in 
Olanda,  perché  la  donna  mia  vedesse  quel  raro  monumento  d'in- 
dustria, occasione,  che  forse  non  se  le  presenterebbe  poi  più. 
Si  andò  dunque  per  la  spiaggia  sino  a  Bruges  e  Ostenda,  di  là 
per  Anversa  a  Rotterdam,  Amsterdamo,  la  Haja,  e  la  Nort-Hol- 
landa,  in  circa  tre  settimane,  e  in  fin  di  settembre  fummo  di  ri- 
torno in  Brusselles,  dove  la  signora  avendovi  le  sorelle  e  la 
madre»,  ci  stette  qualche  settimana;  e  finalmente  dentro  l'ottobre, 
verso  il  fine,  fummo  rientrati  nella  cloaca  massima^,  dove  le  dure 
nostre  circostanze  ci  ritraevano  malgrado  nostro  ;  e  ci  costrinsero 
a  pensare  seriamente  di  fissarvlci  la  nostra  permanenza. 

>  V.  Apptndlct. 

«  Strano. 

*  La  madre  della  Stolbcrg,  alla  quale  essa  non  fu  troppo  affezionata, 
era  una  principessa  di  Hornes. 

«  Tutto  questo  capitolo  è  un  documento  di  ciò  che  possono  gli  inteiessi 
materiali  sul  giudizio  degli  nomini. 


260  Vittorio  Alfieri 


APPENDICE 


Monsleur. 

Vous  ne  deviez  poin  douter  que  !a  marque  de  votre  souvenir,  et  de  Un- 
terei que  vous  aver  la  bonté  de  prendre  a  mon  sort,  ne  me  soit  sensible 
et  requ  avec  reconnoissance  d'autant  plus  que  je  ne  puis  vous  *egarder 
comme  l'auteur  de  mon  raalheur  puis  que  je  ne  suis  poin  malheureuse 
quoìque  la  sensibilité  et  la  droiture  de  votre  ame  vous  le  fasse  craindre. 
Vous  éte  au  contraire  la  cause  de  ma  deliverance  d'un  monde  dans  le  quel 
je  nettoit  aucunnement  forme  pour  exister,  et  que  je  n'  al  jamais  un  seul 
instant  regretté.  Je  ne  sait  si  en  cela  j'ai  tort  ou  si  un  degré  de  fermeté 
ou  de  fierté  blamable  me  fait  illusion  mais  voila  comme  jai  constanment 
vu  ce  qui  m'est  arrivé  et  je  remercie  la  providence  de  m'avoir  place  dans 
une  situation  plus  heureuse  peut-elre  que  je  n'  ai  mérité.  Je  jouis  d'une 
sante  parfaite  que  la  liberte  et  la  tranquilite  augmènte,  je.necherche  que 
la  société  des  personnes  simples  et  honnetes  qni  ne  pretendent  ny  a  trop 
de  genie  ny  a  trop  de  connoissances  acquises  qui  embrouille  quelquefois 
la  cause,  et  au  deffaut  des  quelles  je  me  suffit  a  moi  méme  par  le  moyen 
des  livrea,  du  dessin,  de  la  musique  etc.  mais  ce  qui  m'assure  le  plus  le 
fond  d'un  bonheur  et  d'une  satisfation  réel  et  l'amifie  et  l'affection  in- 
muable  d'un  frère  que  j'ai  toujonrs  alme  par  desus  tout  le  monde,  et  qui 
possedè  le  meilleur  des  cceurs. 

C'est  pour  me  conformer  a  votre  volonté  que  je  vous  ai  fait  un  detaille 
aussi  long  de  ma  situation  et  permette  moi  a  mon  tour  de  vous  assurer 
du  plaisir  sensible  que  me  cause  le  connoissance  du  bonheur  dont  vous 
jouissais  et  que  je  suis  persuade  que  vous  avez  toujours  merité.  J'ai 
souvent  depuis  deux  ans  entendu  parler  de  vous  avec  plaisir  a  Paris 
comme  a  Londre,  ou  l'on  admire  et  estime  vos  ecrits  que  je  n'ai  poin  pu 
parvenir  à  voir.  L'on  dit  que  vous  éte  attaché  a  la  Princesse  avec  laquelle 
vous  voyagé,  qui  par  sa  phisionomie  ingenue  et  sensé  paroit  bien  faite 
pour  faire  le  bonheur  d'une  ame  aussi  sensible  et  delicate  que  la  votre: 
l'on  dit  aussi  quelle  vous  craint  je  vous  reconnois  bien  la,  sans  le  desirer 
ou  peut-etre  vous  en  aper^evoir  vous  avez  iresistablement  cet  assendant 
sur  tous  ceux  qui  vous  alme, 

Je  vous  desire  du  fond  de  mori  coeur  la  continuation  des  biens  et  des 
plaisirs  réel  de  ce  monde,  et  si  le  hasard  fait  que  nons  nous  recontrions 
encore  j'aurai  toujour  la  plus  grande  satisfaction  à  l'apprendre  de  votre 
main.  Adieu. 

Douvres  ce  26  avril. 

Penèlope.» 


»  La  scorretta  gralia  riproduce  quella  dell'Originale. 


La  vita  261 


CAPITOLO  VIGESIMOSECONDO 

Fuga  di  Parigi,  donde  per  le  Fiandre  e  tutta  la  Germania 
tornati  in  Italia  ci  fissiamo  in  Firenze. 

Impiegati,  o  perduti  circa  due  mesi  in  cercare,  ed  ammobiliare 
ona  nuova  casa,  nel  principio  del  92  ci  tornammo  ad  abitare  ;  ed 
era  bellissima  e  comodissima*.  Si  sperava  ogni  giorno,  che  ver- 
rebbe quello  di  un  qualche  sistema  di  cose  soffribile  ;  ma  più  spesso 
ancora  si  disperava  che  ornai  sorgesse  un  tal  giorno.  In  questo 
stato  di  titubazione,  la  mia  donna  ed  io  (come  anche  tutti,  quanti 
n'  erano  allora  in  Parigi  ed  in  Francia,  o  ci  aveano  che  fare  pe'  loro 
interessi)  andavano  strascinando  il  tempo.  Io,  fin  da  due  anni 
e  pili  innanzi,  avea  fatto  venir  di  Roma  tutti  ì  miei  libri  lascia- 
tivi neir83,  e  da  allora  in  poi  li  aveva  anche  molto  accresciuti 
sì  in  Parigi  che  in  quest'ultimo  viaggio  di  Inghilterra,  e  d'Olanda. 
Onde  per  questa  parte  poco  mi  mancava  ad  avere  ampiamente 
tutti  i  libri,  che  mi  potessero  esser  utili  e  necessari  nella  ristretta 
mia  sfera  letteraria.  Onde  tra  i  libri,  e  la  cara  compagna,  nessuna 
consolazione  domestica  mi  mancava  ;  solamente  mancavaci  la  spe- 
ranza viva,  e  la  verisimiglianza  che  ciò  potesse  durare.  Questo 
pensiero  mi  sturbava  da  ogni  occupazione,  e  mi  tiravo  innanzi 
per  traduttore*  nel  Virgilio  e  Terenzio,  non  potendo  far  altro. 
Frattanto,  né  in  quest'  ultimo,  né  nell'anteriore  mio  soggiorno  in 
Parigi,  io  non  volli  mai  né  trattare,  né  conoscere  pur  di  vista 
nessuno  di  quei  tanti  facitori  di  falsa  liberià  per  cui  mi  sentiva 
la  più  invincibile  ripugnanza,  e  ne  aveva  il  più  alto  disprezzo*. 
Quindi  anche  sino  a  questo  punto,  in  cui  scrivo,  da  più  di  14  anni 
che  dura  questa  tragica  farsa,  io  mi  posso  gloriare  di  esser  ver- 
gine di  lingua,  di  orecchi,  e  d'occhi  perfino,  non  avendo  mai  né 
visto,  né  udito,  né  parlato  con  qualunque  di  codesti  schiavi 
dominanti  francesi,  né  con  nessuno  dei  loro  schiavi  serventi. 

Nel  marzo  di  quell'anno  ricevei  lettere  di  mia  madre,  che  furon 
l'ultime;  ella  vi  esprimeva  con  caldo  e  cristiano  affetto  molta 
sollecitudine  di  vedermi,  diceva,  e  In  paese,  dove  sono  tanti  tor- 

«  L'A.  prese  tlloifu'o  rue  de  Province  i  VHSiel  de  Parts. 

•  Traducendo,  come  traduttore. 

»  Si  noti  però  che  il  «tlotto  della  Stolberg  era  frequentato  qntsi  e»cln- 

tivamente  da  ari^'ocratid. 


262  V'f*ono  Alfieri 

€  bidi,  dove  non  è  più  libero  l'esercizio  della  cattolica  religione, 
«  e  dove  tutti  tremano  sempre,  ed  aspettano  continui  disordini  e 
«disgrazie».  Pur  troppo  bene  diceva,  e  presto  si  avverò;  ma 
quando  mi  ravviai  verso  l' Italia,  la  degnissima  e  veneranda  ma- 
trona non  esisteva  più.  Passò  di  questa  vita  il  di  23  aprile  1792, 
in  età  di  anni  settanta  compiuti. 

Erasi  frattanto  rotta  la  guerra  coli'  Imperatore,  che  poi  divenne 
generale  e  funesta.  Venuto  il  giugno,  in  cui  si  tentò  già  di  abbat- 
tere intieramente  il  nome  del  re,  che  altro  più  non  rimaneva  ;  la 
congiura  di  quel  giorno  20  giugno  essendo  andata  fallita,  le 
cose  si  strascinarono  ancora  malamente  sino  al  famoso  dieci 
d'agosto,  in  cui  la  cosa  scoppiò  come  ognun  sa^. 

Accaduto  quest'avvenimento,  io  non  indugiai  più  neppure  un 
giorno,  e  il  mio  primo  ed  unico  pensiero  essendo  di  togliere  da 
ogni  pericolo  la  mia  donna,  già  dal  dì  12  feci  in  fretta  in  fretta 
tutti  i  preparativi  per  la  nostra  partenza.  Rimaneva  la  somma 
difficoltà  dell' ottenere  i  passaporti  per  uscir  di  Parigi  e  del  regno. 
E  tanto  c'industriammo  in  quei  due  o  tre  giorni,  che  il  dì  15,  o 
il  dì  16  già  gli  avevamo  ottenuti  come  forestieri,  prima  dai  mi- 
nistri di  Venezia  io,  e  di  Danimarca  la  signora,  che  erano  quasi 
che  i  soli  ministri  esteri  rimasti  presso  quel  simulacro  di  re.  Poi 
con  molto  più  stento  si  ottenne  dalla  sezione  nostra  comunitativa* 
detta  da  Montblanc  degli  altri  passaporti,  uno  per  ciascheduno 
individuo,  sì  per  noi  due,  che  per  ogni  servitore  e  cameriera, 
con  la  pittura  di  ciascuno,  di  statura,  pelo,  età,  sesso,  e  che  so  io. 
JVluniti  cosi  di  tutte  queste  schiavesche  patenti,  avevamo  fissato 
la  partenza  nostra  pel  lunedì  20  agosto  ;  ma  un  giusto  presenti- 
mento, trovandoci  allestiti,  mi  fece  anticipare,  e  si  partì  il  dì  18, 
sabato,  nel  dopo  pranzo.  Appena  giunti  alla  Barrière  Bianche, 
che  era  la  nostra  uscita  la  più  prossima  per  pigliar  la  via  di  San 
Dionigi  per  Calais,  dove  ci  avviavamo  per  uscire  al  più  presto 
di  quell'infelice  paese;  vi  ritrovammo  tre  o  quattro  soli  soldati 
di  guardie  nazionali,  con  un  ufiziale,  che  visti  i  nostri  passaporti, 
si  disponeva  ad  aprirci  il  cancello  di  quell'immensa  prigione,  e 

>  Il  20  giugno  1792  l'Assemblea  Nazionale  venne  invasa  dal  popolo  di 
Parigi,  il  quale  Fece  anche  irnizione  nel  palazzo  reale;  il  10  agosto,  colla 
sommossa  del  t  faubourg  S.  Antoine  »,  ebbe  inizio  la  municipalità  insur- 
rezionale; le  Tuileries  vennero  prese  d'assalto  e  il  re  si  rifugiò  in  seno 
all'Assemblea  Nazionale:  la  monarchia  era  tramontata, 

«  Della  comune;  municipale. 


La  vita  263 

lasciarci  ire  a  buon  viaggio.  Ma  v'  era  accanto  alla  barriera  una 
bettolacda,  di  dove  sbucarono  fuori  ad  un  tratto  una  trentina  forse 
di  manigoldi  della  plebe,  scamisciati,  ubriachi  e  furiosi.  Costoro, 
viste  due  carrozze,  che  tante  n'  avevamo,  molto  cariche  di  bauli 
e  imperiali',  ed  una  comitiva  di  due  donne  di  servizio,  e  tre  uo- 
mini, gridarono  che  tutti  i  ricchi  se  ne  voleano  fuggir  di  Parigi, 
e  portar  via  tutti  i  loro  tesori,  e  lasciarli  essi  nella  miseria  e  nei 
guai.  Quindi  ad  altercare  quelle  poche  e  triste  guardie  con  quei 
molti  e  tristi  birbi,  esse  per  farci  uscire,  questi  per  ritenerci.  Ed 
io  balzai  di  carrozza  fra  quelle  turbe,  munito  di  tutti  quei  sette 
passaporti,  ad  altercare,  e  gridare,  e  schiamazzar  più  di  loro; 
mezzo  col  quale  sempre  si  vien  a  capo  dei  Francesi.  Ad  uno  ad 
ano  si  leggevano,  e  facevano  leggere  da  chi  di  quelli  legger  sa- 
peva, le  descrizioni  delle  nostre  rispettive  figure,  lo  pien  di  stizza 
e  furore,  non  conoscendo  in  quel  punto,  o  per  passione  sprez- 
zando r  immenso  pericolo,  che  ci  soprastava,  fino  a  tre  volte  ri- 
presi in  mano  il  mio  passaporto,  e  replicai  ad  alta  voce  ;  e  vedete, 
sentite;  Alfieri  è  il  mio  nome;  Italiano  e  non  Francese;  glande; 
magro;  sbiancato;  capelli  rossi;  son  io  quello,  guardatemi:  ho 
il  passaporto:  l'abbiamo  avuto  in  regola  da  chi  lo  può  dare;  e 
vogliamo  passare,  e  passeremo  per  Dio  ».  Durò  piìi  di  mezz'ora 
questa  piazzata,  mostrai  buon  contegno,  e  quello  ci  salvò.  Si  era 
frattanto  ammassata  piìi  gente  intomo  alle  due  carrozze,  e  molti 
gridavano;  diamogli  il  fuoco  a  codesti  legni:  altri,  pigliamoli  a 
sassate:  altri,  questi  fuggono:  son  dei  nobili  e  ricchi,  portiamoli 
indietro  al  palazzo  della  Città,  che  se  ne  faccia  giustizia.  Ma  in 
somma  il  debole  aiuto  delle  quattro  guardie  nazionali,  che  tanto 
qualcosa  diceano  per  noi,  ed  il  mio  molto  schiamazzare  e  con 
voce  di  banditore  replicare  e  mostrare  i  passaporti,  e  più  di  tutto 
la  mezz'ora  e  più  di  tempo,  in  cui  quei  scimiotigri*  si  stanca- 
rono di  contrastare,  rallentò  l'insistenza  loro;  e  le  guardie  ac- 
cennatomi di  salire  in  carrozza,  dove  avea  lasciato  la  signora,  si 
paò  credere  in  quale  stato,  io  rientratovi,  rimontati  i  postiglioni 
a  cavallo  si  apri  il  cancello,  e  di  corsa  si  usci,  accompagnati  da 
fischiate,  insulti,  e  maledizioni  di  codesta  genia.  Ebuon  per  noi 
che  non  prevalse  di  essere  ricondotti  al  palazzo  di  Città,  che 

'  Ct«se  grandi  di  cuofo  sovrapposte  al  cielo  delle  carrozze  da  viaggio 
per  chiudervi  panni,  bauli,  ecc. 
•  Vocabolo  coniato  dall' A.:  esseri  ridicoli  e  feroci. 


264  Vittorio  Alfieri 

arrivando  così  due  carrozze  in  pompa  stracariche,  con  la  taccia 
di  fuggitivi,  in  mezzo  a  quella  plebaccia  si  rischiava  molto-  e 
saliti  poi  innanzi  ai  birbi  della  municipalità,  si  era  certi  di  non 
poter  più  partire,  e  d'andare  anzi  prigioni,  dove  se  ci  trovavamo 
nelle  carceri  il  dì  2  settembre,  cioè  quindici  giorni  dopo,  ci  era 
fatta  la  festa  insieme  con  tanti  altri  galantuomini,  che  crudel- 
mente vi  furono  trucidati'.  Sfuggiti  di  un  tale  inferno,  in  due 
giorni  e  mezzo  arrivammo  a  Calais,  mostrando  forse  40  e  più 
volte  1  nostri  passaporti:  ed  abbiamo  saputo  poi  che  noi  eramo 
stati  1  primi  forestieri  usciti  di  Parigi,  e  del  regno  dopo  la  cata- 
strofe del  10  agosto.  Ad  ogni  municipalità  per  istrada  dove  ci 
conveniva  andare  e  mostrare  i  nostri  passaporti,  quei  che  li  leg- 
gevano, rimanevano  stupefatti  ed  attoniti  alla  prima  occhiata  che 
ci  buttavano  sopra,  essendovi  quelli  stampati,  e  cassatovi  il  nome 
del  re.  Poco,  e  male  erano  informati  di  quel  che  fosse  accaduto 
in  Parigi,  e  tutti  tremavano.  Son  questi  gli  auspici  sotto  cui  fi- 
nalmente uscii  della  Francia,  con  la  speranza  ed  il  proponimento 
di  non  capitarvi  più  mai.  Giunti  a  Calais,  dove  non  ci  fecero 
difficoltà  di  proseguire  sino  alle  frontiere  di  Fiandra  per  Grave- 
lina,  preferimmo  di  non  c'imbarcare,  e  di  renderci  subito  a  Brus- 
selles.  Ci  eravamo  diretti  a  Calais,  perchè  non  essendo  ancora 
guerra  cogl' Inglesi,  si  pensò  che  si  poteva  più  facilmente  andare 
m  Inghilterra,  che  in  Fiandra,  dove  la  guerra  si  facea  vivamente 
Giunti  a  Brusselles,  la  signora  volle  rimettersi  un  poco  dalle 
paure  sofferte  con  lo  stare  un  mesetto  in  villa  colla  sorella  e  il 
degnissimo  suo  cognato.  Là  poi  si  ricevettero  lettere  di  Parigi 
dalla  nostra  gente  lasciatavi,  che  quello  stesso  lunedì  che  ave- 
vamo destinato  al  partire,  20  agosto,  ma  che  io  fortunatamente 
avea  anticipato  due  giorni,  era  venuta  in  corpo  quella  nostra  stessa 
sezione  che  ci  avea  dati  i  passaporti  (vedi  stupidità  e  pazzia),  per 
arrestare  la  signora  e  condurla  in  prigione.  Già  si  sa,  perchè  era 
nobile,  ricca,  ed  illibata^  A  me,  che  sempreho  valutomeno  diessa 
non  faceano  perallora  quell'onore.  Ma'in  somma,  non  ci  ritrovando 
aveano  confiscato  i  nostri  cavalli,  mobili,  libri,  e  ogni  cosa    Poi 
sequestrate  le  entrate,  e  dichiaratici  amendue  emigrati.  E  così 


i.UlrTf"°.  ^\  ^""  ''""  ^'''  P'-'S'oneri  politici  cominciato  il  2  set- 
t1:Z:SV:^.Sr'  -  ^'^^""°  ^'"^  "°"^'^  ^^'"^  -^'-''^  ^'  Verdun 
a  :ayir;Xi";esr';^u:b,ic°o.''^"''"  ^^^'-^  ''^•'=^"  percepito  un.  pe„sio„e 


La  vita  265 

,.are  poi  ci  fu  scritta  la  catastrofe  e  gli  orrori  segniti  in  Parigi 
il  dì  2  settembre,  e  si  ringraziò  e  benedì  la  Provvidenza  che  ce 
n'avea  scampati. 

Visto  poi  sempre  più  oscurarsi  il  cielo  di  quel  paese,  e  nata 
nel  terrore  e  nel  sangue  quella  sedicente  repubblica,  noi  savia- 
mente ascrivendo  a  guadagno  tutto  quello  che  ci  potea  rimanere 
altrove,  ci  ponemmo  in  via  per  l' Italia  il  dì  1  ottobre  ;  e  per  Aquis- 
grana,  Francfort,  Augusta  ed  Inspruch,  venuti  all'Alpi,  e  lieta- 
mente varcatele,  ci  parve  di  rinascere  il  dì  che  ci  ritrovammo  nel 
bel  paese  qui  dove  il  sì  suona.  Il  piacere  di  essere  fuori  di  car- 
cere, e  di  ricalcare  con  la  mia  donna  queste  stesse  vie,  che  più 
volte  avea  fatte  per  gire  a  trovarla  ;  la  soddisfazione  di  potere  li- 
beramente godere  la  sua  santa  compagnia,  e  sotto  l'ombra  sua 
di  potere  ripigliare  i  miei  cari  studj,  mi  tranquillizzarono,  e  se- 
renarono a  segno,  che  da  Augusta  sino  in  Toscana  mi  si  riaprì 
la  fonte  delle  rime,  e  ne  venni  seminando  e  raccogliendo  in  gran 
copia.  Si  arrivò  finalmente  il  dì  3  novembre  in  Firenze,  di  donde 
non  ci  siamo  più  mossi,  e  dove  ritrovai  il  vivo  tesoro  della  lingua, 
che  non  poco  mi  compensò  delle  tante  perdite  d'ogni  sorte  che 
dovei  sopportare  in  Francia. 


CAPITOLO  VIGESIMOTERZO 

A  poco  a  poco  mi  vo  rimettendo  allo  studio.  Finisco  le  tradurioni.  Rico- 
mincio a  scrivere  qualche  cosarella  di  mio.  Trovo  casa  pjacentissima  in 
Firenze,  e  mi  do  al  recitare. 

Appena  giunto  in  Firenze,  ancorché  per  quasi  un  anno  non  vi  si 
potesse  trovar  casa  che  ci  convenisse,  tuttavia  il  sentir  di  nuovo 
parlar  quella  sì  bella,  e  a  me  sì  preziosa  lingua,  il  trovar  gente 
qua  e  là  che  mi  andava  parlando  delle  mie  tragedie,  il  vederle 
qua  e  là  (benché  male),  pure  frequentemente  recitate',  mi  ridestò 
qualche  spirito  letterario,  che  nei  due  ultimi  decorsi  anni  mi  si 
era  presso  che  spento  nel  cuore.  La  prima  coserella,  che  mi  venne 
ideata  e  fatta  di  mio  (dopo  quasi  tre  anni  che  non  avea  più  com- 
posto nulla,  fuorché  qualche  rime)  fu  l'Apologia  del  re  Luigi  XVI*, 
che  scrissi  nel  decembre  di  quell'anno.  Successivamente  poi,  ri- 

'  Per  U  fortuna  del  (eatro  alfieriano  a  Firenze  t.  Sasso,  Vittorio  Alfieri 
a  Fitfitxe,  Firenze,  18%. 
'  Costituisce  ora  la  Prosa  ttrxa  del  Misogallo. 


266  Vittorio  Ai/ieri 

prese  caldamente  le  due  traduzioni  che  sempre  camminavan  di 
fronte,  il  Terenzio  e  l'Eneide,  nel  seguente  anno  93  le  portai  al 
fine,  non  però  limate,  né  perfette.  Ma  il  Sallustio,  che  era  stata 
quasi  che  la  sola  cosa  a  cui  un  pochino  avessi  atteso  nel  viaggio 
d'Inghilterra  e  d'Olanda  (oltre  tutte  le  opere  di  Cicerone,  che 
avea  caldamente  lette  e  rilette),  e  che  avea  moltissimo  corretto  e 
limato,  lo  volli  anche  ricopiare  intero  in  quell'anno  93,  e  così  mi 
credei  avergli  dato  l'ultimo  pulimento.  Stesi  anche  una  prosa 
storico-satirica  su  gli  affari  di  Francia S  compendiatamente,  la 
quale  poi,  ritrovatomi  un  diluvio  di  composizioni  poetiche,  sonetti 
ed  epigrammi  su  quelle  risibili  e  dolorose  vertenze,  ed  a  tutti  que' 
membri  sparsi  volendo  dar  corpo  e  sussistenza,  volli  che  quella 
prosa  servisse  come  di  prefazione  all'opera  che  intitolerei  il  Mi- 
sogallo;  e  verrebbe  essa  a  dare  quasi  ragione  dell'opera. 

Ravviatomi  così  a  poco  a  poco  allo  studio,  ancorché  forte 
spennacchiati  nell'  avere,  sì  la  mia  donna  che  io,  tuttavia  rima- 
nendoci pur  da  campare  decentemente;  ed  amandola  io  sempre 
più=,  e  quanto  più  bersagliata  dalla  sorte,  tanto  piìi  riuscendomi 
ella  una  cosa  e  carissima  e  sacra,  il  mio  animo  si  andava  acque- 
tando, e  più  ardente  che  mai  l'amor  del  sapere  mi  ribolliva  nella 
mente.  Ma  allo  studio  vero  quale  avrei  voluto  intraprendere,  mi 
mancavano  i  libri,  avendo  definitivamente  perduti  tutti  i  miei  in 
Parigi,  né  mai  più  pure  richiestili  a  chi  che  si  fosse,  se  non  se 
più  per  celia,  che  seriamente  una  volta  nel  95^ pel  mezzo  d'un 
mìo  conoscente  italiano,  che  trattava  degli  affari  in  Parigi';  e  gli 
mandai  un  epigramma,  in  cui  richiedeva  i  miei  libri.  Si  trova 
r  epigramma  e  la  risposta  e  la  ricevuta  mia  ultima  in  una  lunga 
mia  nota  addossata  in  fine  della  prosa  seconda  del  Misogallo. 
Quanto  poi  al  comporre,  benché  io  avessi  il  mio  piano  ideato 
per  altre  cinque  almeno  tramelogedie,  sorelle  AélV Abele,  attese 
le  passate  ed  anche  presenti  angustie  dell'animo,  mi  si  era  spento 
il  bollore  giovenile  inventivo,  la  fantasia  accasciata,  e  gli  anni 
preziosi  ultimi  della  gioventù  spuntati  ed  ottusi,  direi,  dalla  stampa 
ed  i  guai,  che  per  più  di  cinque  anni  mi  avean  sepolto  l'animo, 
non  me  la  sentivo  più;  ed  In  fatti  dovei  abbandonarne  il  pen- 
siero, non  mi  trovando  più  il  robusto  furore  necessario  ad  un 

>  Divenuta  la  Prosa  seconda  del  Misogallo. 

*  Cfr.  E.  Bertana,    V.  A.  dt.,  p.  238  sgg. 

8  II  conte  Francesco  Carletti,  diplomatico  toscano  a  Parigi, 


La  vUa  267 

tale  pazzo'  genere.  Smessa  dunque  quell'idea,  che  pur  tanto  mi 
era  stata  cara,  jni  volli  rivolgere  alle  Satire,  di  cui  fatto  avea  sol 
la  prima,  che  poi  serve  all'altre  di  prologo*;  bastantemente  mi 
era  andato  esercitando  in  quest'arte  negli  squarci  diversi  del 
Misogallo,  onde  non  disperava  di  riuscirvi;  e  ne  scrissi  la  se- 
conda, ed  in  parte  la  terza  ;  ma  non  era  ancora  abbastanza  rac- 
colto in  me  stesso;  male  alloggiato,  senza  libri,  non  avea  quasi 
il  cuore  a  nulla. 

Questo  mi  fece  entrare  in  un  nuovo  perditempo,  quello  del 
recitare.  Trovati  in  Firenze  alcuni  giovani,  e  una  signora,  che 
mostravano  genio  e  capacità  da  ciò,  si  imparò  il  Saul,  e  si  recitò 
in  casa  privata,  e  senza  palco,  a  ristrettissima  udienza,  con  molto 
incontro,  nella  primavera  del  93.  In  fine  poi  di  quell'anno,  si 
ritrovò  presso  il  Ponte  Santa  Trinità  una  casa  graziosissima 
benché  piccola,  posta  al  Lung'Amo  di  mezzogiorno,  casa  dei 
Gianfigliazzi,  dove  tornammo  in  novembre,  e  dove  ancora  mi 
trovo,  e  verisimilmente,  se  non  mi  saetta  altrove  la  sorte,  ci  morrò. 
L'aria,  la  vista,  ed  il  comodo  di  questa  casa  mi  restituì  gran 
parte  delle  mie  facoltà  intellettuali  e  creative,  meno  le  tramelo- 
gedie,  cui  non  mi  fu  più  possibile  mai  d'innalzarmi.  Tuttavia, 
avviatomi  l'anno  prima  al  balocco  del  recitare,  volli  ancora  per- 
dere in  questa  primavera  del  94  altri  tre  buoni  mesi  ;  e  si  recitò 
da  capo  in  casa  mia,  il  Saul,  di  cui  io  faceva  la  parte;  poi  il 
Bruto  primo,  di  cui  pure  faceva  la  parte.  Tutti  dicevano,  e  pa- 
reva anche  a  me  di  andar  facendo  dei  progressi  non  piccoli  in 
quell'arte  difficilissima  del  recitare;  e  se  avessi  avuto  più  gio- 
ventù, e  nessun  altro  pensiero,  mi  parea  di  sentire  in  me  cre- 
scere ogni  volta  ch'io  recitava,  la  capacità,  e  l'ardire,  e  la  rifles- 
sione, e  la  gradazione  dei  tuoni,  e  la  importantissima  varietà 
continua  dei  presto  e  adagio,  piano  e  forte,  pacato  e  risentito, 
che  alternate  sempre  a  seconda  delle  parole,  vengono  a  colorir 
la  parola,  e  scolpire  direi  il  personaggio,  ed  incidere  in  bronzo 
le  cose  eh'  ei  dice.  Parimente  la  compagnia  addestrata  al  mio 
modo  migliorava  di  giorno  in  giorno,  e  tenni  allora  per  cosa 
più  che  certa,  che  se  io  avessi  avuto  danari,  tempo  e  salute  da 
sprecare,  avrei  in  tre  o  quattr'anni  potuto  formare  una  compa- 
gnia di  tragici,  se  non  ottima,  almeno  assai,  e  del  tutto  diversa 

'  Strano,  Irregolare. 
•  Cfr.  Ep.  IV,  c«p.  XVI. 


268  Vittorio  Alfieri 

da  quelle  che  in  Italia  si  van  chiamando  tali,  e  ben  diretta  su 
la  via  del  vero  e  dell'ottimo. 

Questo  perditempo  mi  tenne  ancora  molto  indietro  nelle  mie 
occupazioni  per  tutto  quell'anno,  e  quasi  anche  il  seguente  95 
in  cui  poi  feci  la  mia  ultima  strionata,  recitando  in  casa  mia  il 
Filippo,  in  cui  feci  alternativamente  le  due  così  diverse  parti  di 
Filippo,  e  di  Carlo;  e  poi  da  capo  il  Saul,  che  era  il  mio  per- 
sonaggio più  caro,  perchè  in  esso  vi  è  di  tutto,  di  tutto  assolu- 
tamente.  Ed  essendovi  in  Pisa  in  casa  particolare  di  signori 
un'altra  compagnia  di  dilettanti,  che  vi  recitavano  pure  il  Saul 
io  invitato  da  essi  di  andarvi  per  la  luminara,  ebbi  la  pueril  va- 
nagloria di  andarvi,  e  là  recitai  per  una  sola  volta,  e  per  l'ul- 
tima la  mia  diletta  parte  del  Saul,  e  là  rimasi,  quanto  al  teatro 
morto  da  re*.  ' 

Intanto  nel  decorso  di  quei  due  e  più  anni  ch'io  eragià  stato 
m  Toscana,  mi  era  dato  a  poco  a  poco  a  ricomprar  libri,  e  riac- 
quistati quasi  che  tutti  i  libri  di  lingua  toscana  che  già  aveva 
avuti,  e  riacquistati  ed  accresciuti  anche  di  molto  tutti  i  Classici 
latini,  vi  aggiunsi  anche,  non  so  allora  perchè,  tutti  i  Classici 
greci  di  edizioni  ottime  gr.  lat.«  tanto  per  averii,  e  saperne  se 
non  altro  i  nomi. 

CAPITOLO  VIOESIMOQUARTO 

La  curiosità  e  la  vergogna  mi  spingono  a  leggere  Omero,  ed  i  traeici 
greci  nelle  traduzioni  letterali.  Proseguimento  tepido  delle  Satire  ed 
altre  cosarelle.  ' 

Meglio  tardi  che  mai.  Trovandomi  dunque  in  età  di  anni  46 
ben  suonati,  ed  aver  bene  o  male  da  20  anni  esercitata  e  pro- 
fessata l'arte  di  poeta  lirico  e  tragico,  e  non  aver  pure  mai  letto 
né  i  tragici  greci,  né  Omero,  né  Pindaro,  né  nulla  in  somma, 
una  certa  vergogna  mi  assali,  e  nello  stesso  tempo  anche  una 
lodevole  curiosità  dì  vedere  un  po'  cosa  aveano  detto  quei  padri 
dell'arte.  E  tanto  più  cedei  volentieri  a  questa  curiosità  e  ver- 
gogna, quanto  da  più  e  più  anni,  mediante  i  viaggi,  i  cavalli, 
la  stampa,  la  lima,  le  angustie  d'animo,  e  il  tradurre,  mi  trovava 
rinminchionito  a  tal  segno,  che  avrei  ben  potuto  oramai  aspi- 

»  Ricorda  le  parole  di  Saul  (Atto  V,  se.  V):  Me  troverai,  ma  almen  da 
re,  qui...  morto. 

«  Così  nelP  autografo  :  edizioni  greco-laHne,  cioè  di  testi  vttcì  con  la 
traduzione  latina  a  fronte. 


La  vita  2Ó9 

rare  all'erudito,  che  non  è  poi  in  somma  altro  che  buona  me- 
mpria  di  suo,  e  roba  d'altri.  Ma  disgraziatamente  anche  la  me- 
moria, ch'io  avea  già  avuta  ottima,  mi  si  era  assai  indebolita. 
Con  tutto  ciò  per  isf uggire  l'ozio,  cavarmi  dallo  ètrione,  ed  uscire 
un  pocolin  più  dall'asino,  mi  accinsi  all'impresa.  E  successiva- 
mente Omero,  Esiodo,  i  tre  tragici,  Aristofane,  ed  Anacreonte 
lessi  ad  oncia  ad  oncia  studiandoli  nelle  traduzioni  letterali  la- 
tine, che  sogliono  porsi  a  colonna  col  testo.  Quanto  a  Pindaro, 
vidi  ch'egli  era  tempo  perduto;  perchè  le  alzate  liriche  tradotte 
letteralmente  troppo  bestiai  cosa  riuscivano;  e  non  potendolo 
leggere  nel  testo,  lo  lasciai  stare.  Cosi  in  questo  assiduo  studio 
ingratissimo,  e  di  poco  utile  oramai  per  me,  che  spossato  non 
producea  più  quasi  nulla,  c'impiegai  quasi  che  un  anno  e  mezzo. 
Alcune  rime  intanto  andava  anche  scrivendo,  e  le  Satire  creb- 
bero in  tutto  il  96,  fino  a  sette  di  numero.  Quell'anno  96  funesto 
all'  Italia  per  la  finalmente  eseguita  invasione  dei  Francesi  \  che 
da  tre  anni  tentavano',  mi  abbuiò  sempre  più  l'intelletto,  veden- 
domi rombar  sovra  il  capo  la  miseria  e  la  servitù.  Il  Piemonte 
straziato,  già  già  mi  vedea  andare  in  fumo  l'ultima  mia  sussi- 
stenza rimastami  \  Tuttavia  preparato  a  tutto,  e  ben  risoluto  in 
me  stesso  di  non  accattar  mai,  né  servire,  tutto  il  di  meno  di 
queste  due  cose  lo  sopportava  con  forte  animo,  e  tanto  più  mi 
ostinava  allo  studio,  come  sola  degna  diversione  a  sì  sozzi  e 
noiosi  fastidi.  Nel  Misogallo,  che  sempre  andava  crescendo,  e 
che  anche  ornai  d'altre  prose,  io  aveva  riposto  la  mia  vendetta 
e  quella  della  mia  Italia;  e  porto  tuttavia  ferma  speranza,  che 
quel  libricciuolo  col  tempo  gioverà  all'Italia,  e  nuocerà  alla 
Francia  non  poco.  Sogni  e  ridicolezze  d'autore,  finché  non  hanno 
effetto:  profezie  di  inspirato  vate,  allorché  poi  l'ottengono. 

CAPITOLO  VIGESIMOQUINTO 

Per  qual  ragione,  in  qual  modo,  e  con  quale  scopo  mi  risolvessi  final- 
mente a  stodiare  da  radice  seriamente  da  me  stesso  la  lingua  greca. 

Fin  dall'anno  1778,  quando  si  trovava  meco  in  Firenze  il  ca- 
rissimo amico  Caluso,  io,  cosi  per  ozio  e  curiosità  leggierissima, 
mi  era  fatto  scrìvere  da  lui  sur  un   foglio  volante  il  semplice 

>  Nella  primavera  ebbe  luogo  la  prima  campagna  di  Bonaparte  in  Italia. 

•  Tentavano  penetrare  nella  penisola  dalla  Savoi.i. 

*  La  rendita  vitalizia  pagatagli  dalla  sorella. 


270  Vittorio  Alfieri 

alfabeto  greco,  maiuscolo  e  minuscolo,  e  cosi  alla  peggio  impa 
rato  a  conoscer  le  lettere,  ed  a  nominarle,  e  non  altro.  Non  e 
avea  poi  badato  mai  più  per  tanti  anni.  Ora  due  anni  addietro 
quando  mi  posi  a  leggere  le  traduzioni  letterali,  come  dissi,  ri 
pescai  quel  mio  alfabeto  fra  i  fogli,  e  trovatolo,  mi  rimisi  a  raf 
figurar  quelle  lettere,  e  dirne  il  nome;  col  solo  pensiero  di  get 
tare  di  quando  in  quando  gli  occhi  su  la  colonna  del  greco,  e 
vedere  semi  veniva  fatto  di  raccapezzare  il  suono  di  una  qualche 
parola,  di  quelle  che  per  essere  composte  o  straordinarie,  dalla 
traduzione  letterale  mi  destavano  curiosità  del  testo.  Edio  vera- 
mente guardava  di  tempo  in  tempo  quei  caratteri  posti  a  colonna, 
con  occhio  bieco  e  fremente,  appunto  come  la  volpe  della  favola 
guardava  i  proibiti  grappoli  invano  sospirati.  Mi  si  aggiungeva 
un  fortissimo  ostacolo  fisico  ;  che  le  mie  pupille  non  volean  saper 
niente  di  quel  maledetto  carattere;  e  foss' egli  grande  o  piccolo, 
sciolto  o  legato*,  mi  venivano  le  traveggole  tosto  ch'io  lo  fissava, 
e  con  molta  pena  compitando  ne  portava  via  una  parola  per 
volta,  delle  brevi;  ma  un  verso  intero  non  lo  potea  né  leggere, 
né  fissare,  né  pronunziare,  né  molto  meno  ritenerne  material- 
mente la  romba  a  memoria. 

Oltre  ciò,  per  natura  nemico,  non  assuefatto,  e  oramai  inca- 
pace di  applicazione  servile  di  occhio  e  di  mente  grammaticale, 
e  non  dotato  di  nessuna  facilità  per  le  lingue  (avendo  tentato 
due  volte  e  tre  l'inglese,  né  mai  venutone  a  capo;  ed  ultima- 
mente in  Parigi  nel  90  prima  d' ire  in  Inghilterra  la  quarta  volta  : 
e  tradussi  allora  di  Pope  il  Windsor^  e  cominciai  il  Saggio  su 
l'uomo)*;  venuto  a  tale  età  senza  aver  mai  saputa  una  gramma- 
tica qualunque,  neppur  l'italiana,  nella  quale  non  errava  forse 
oramai,  ma  per  abitudine  del  leggere,  non  per  poter  dare  né  ra- 
gione né  nomi  dell'operato;  con  questo  bel  corredo  d'impedi- 
menti fisici  e  morali,  tediato  dal  leggere  quelle  traduzioni,  presi 
con  me  stesso  l'impegno  di  voler  tentare  di  superarli  da  me; 
ma  non  ne  volli  parlare  con  chi  che  sia,  neppure  con  la  mia 
donna,  che  è  tutto  dire.  Consumati  avendo  dunque  già  due  anni 
su  i  confini  della  Grecia,  senza  mai  essermivi  potuto  introdurre 
altro  che  colla  coda  dell'occhio,  mi  irritai,  e  la  volli  vincere. 


>  Nei  nessi  una  volta  usati  ad  indicare  gruppi  di  lettere. 

*  Il  poemetto  intitolato  Wlndsor's  foresi. 

*  Serie  di  belle  epistole  filosofiche  del  Pope  (1733-34). 


La  vita  271 

Comprate  dunque  grammatiche  a  iosa,  prima  nelle  greco-latine, 
poi  nelle  greche  sole,  per  far  due  studi  in  uno,  intendendo  e 
non  intendendo,  ripetendo  tutti  i  giorni  il  tupto^,  e  i  verbi  cir- 
conflessi, e  i  verbi  in  mi^  (il  che  presto  svelò  il  mio  arcano  alla 
signora,  che  vedendomi  sempre  susurrar  fra  le  labbra,  volle  final- 
mente sapere,  e  seppe  quel  ch'era);  ostinandomi  sempre  più, 
sforzando  e  gli  occhi  e  la  mente,  e  la  lingua,  pervenni  in  fine 
dell'anno  1797  a  poter  fissare  qualunque  pagina  di  greco,  qua- 
lunque carattere,  prosa  o  verso,  senza  che  gli  occhi  mi  trabal- 
lassero più;  ad  intendere  sempre  benissimo  il  testo,  facendo  il 
contrario  su  la  colonna  latina  di  quel  che  avea  fatto  dianzi  sul 
greco,  cioè  gittando  rapidamente  l'occhio  su  la  parola  latina  cor- 
rispondente alla  greca,  se  non  l'avea  mai  vista  prima,  o  se  me 
ne  fossi  scordato;  e  finalmente  a  leggere  ad  alta  voce  spedita- 
mente, con  pronunzia  sufficiente,  rigorosa  per  gli  spiriti,  e  ac- 
centi, e  dittonghi  come  sta  scritto,  e  non  come  stupidamente 
pronunziano  i  Greci  moderni,  che  si  son  fatti  senza  avvedersene 
un  alfabeto  con  cinque  jota;  talché  quel  loro  greco  è  un  con- 
tinuo iotacismo*,  un  nitrir  di  cavalli  più  che  un  parlare  del  più 
armonico  popolo,  che  già  vi  fosse.  Ed  aveva  vinto  questa  dif- 
ficoltà del  leggere  e  pronunziare,  col  mettermi  in  gola,  ed  ab- 
baiare ad  alta  voce,  oltre  la  lezione  giornaliera  di  quel  classico 
che  studiava,  anche  ad  altre  ore,  per  due  ore  continue,  ma  senza 
intendere  quasi  che  nulla,  attesa  la  rapidità  della  lettura,  e  la 
romba  della  sonante  alta  pronunzia,  tutto  Erodoto,  due  volte  Tu- 
cidide con  lo  Scoliaste*  suo,  Senofonte,  tutti  gli  oratori  minori, 
e  due  volte  il  Proclo  sovra  il  Timeo  di  Platone',  non  per  altra 
ragione,  fuorché  per  essere  di  stampa  più  scabra  a  leggersi,  piena 
di  abbreviature. 

Né  una  tale  improba  fatica  mi  debilitò,  come  avrei  creduto  e 
temuto,  r  intelletto.  Che  anzi  ella  mi  fece,  per  così  dire,  risor- 
gere dal  letargo  di  tanti  anni  precedenti.  In  quell'anno  97,  portai 

>  Uno  del  primi  verbi  studiiH  come  paradigmi. 

•  Una  delle  grandi  claasi  in  cui  si  dividono  i  verbi  gred. 

»  La  pronunzia  del  greco  moderno  non  corrisponde  sempre  né  a  quella 
antica,  ne  alla  grafia.  Jotaclsmo  è  il  prevalere  del  «nono  della  /,  chiamata 
appunto  In  greco  Iota. 

•  Il  suo  antico  commentatore. 

•  Proclo,  filosofo  della  scuola  neo-platonica  di  Alessandria,  compose  un 
celebre  commento  al  Timeo,  dialogo  nel  quale  Platone  espone  la  teoria 
delle  idee. 


272  Vittorio  Alfieri  ' 

le  satire  al  numero  di  17  come  sono.  Feci  una  nuova  rassegna 
delle  molte  e  troppe  rime,  che  fatte  ricopiare  limai,  E  finalmente,  i 
cominciatomi  ad  invaghire  del  greco  quanto  più  mi  parerd'an-  ' 
darlo  intendicchiando,  cominciai  anche  a  tradurre;  prima  l'Ai- 
ceste  d'Euripide,  poi  il  Filottete  di  Sofocle,  poi  i  Persiani  dì 
Eschilo,  ed  in  ultimo  per  avere,  o  dare  un  saggio  di  tutte»,  le 
Rane  di  Aristofane.  Né  trascurai  il  latino,  perchè  =  del  greco;  che 
anzi  in  quell'anno  stesso  97  lessi  e  studiai  Lucrezio  e  Plauto,  e 
lessi  il  Terenzio,  il  quale  per  una  bizzarra  combinaziona»io  mi 
trovava  aver  tradotto  tutte  le  sei  commedie  a  minuto  ^  senza  però 
averne  mai  letta  una  intera.  Onde  se  sarà  poi  vero  ch'io  l'abbia 
tradotto,  potrò  barzellettare  col  vero,  dicendo  d'averlo  tradotto, 
prima  d'averlo  letto,  o  senza  averlo  letto. 

Imparai  anche  oltre  ciò  i  metri  diversi*  d'Orazio,  spinto  dalla 
vergogna  di  averlo  letto,  studiato,  e  saputo  direi  a  memoria, 
senza  saper  nulla  de'  suoi  metri  ;  e  così  parimente  presi  una  suf- 
ficiente idea  dei  metri  greci  nei  Cori^  e  di  quei  di  Pindaro,  e 
d'Anacreonte.  In  somma  in  quell'anno  97,  mi  raccorcila  le  orec- 
chie di  un  buon  palmo  almeno  ciascuna;  né  altro  scopo  m'era 
prefisso  da  tanta  fatica,  che  di  scuriosirmi,  disasinirmi,  e  tornii 
il  tedio  dei  pensieri  dei  Galli,  cioè  disceltizzarmi. 

CAPITOLO  VIQESIMOSESTO 

Frutto  da  non  aspettarsi  dallo  studio  serotino  della  lingua  greca  ; 
io  scrivo  (spergiuro  per  l'ultima  volta  ad  Apollo)  VAlceste  Seconda. 

Non  aspettando  dunque,  né  desiderando  altro  frutto  che  i  so- 
pradetti, ecco,  che  il  buon  padre  Apollo  me  ne  volle  egli  spon- 
taneamente pure  accordar  uno,  e  non  piccolo,  per  quanto  mi 
pare.  Fin  dal  96  quando  stava  leggendo,  com'io  dissi,  le  tradu- 
zioni letterali,  avendo  già  letto  tutto  Omero,  ed  Eschilo,  e  So- 
focle, e  cinque  tragedie  di  Euripide,  giunto  finalmente  s\V Ai- 
ceste,  di  cui  non  avea  mai  avuta  notizia  nessuna',  fui  si  colpito, 

1  Sott.  le  opere  drammatiche  greche. 

*  Sott.  infatuato,  innamorato,  oppure  :  a  causa,  a  motivo  del  greco. 
»  Un  po'  alla  volta,  a  piccoli  brani. 

♦  La  metrica,  la  struttura  dei  versi  oraziani. 

•  Le  parti  liriche  delle  tragedie. 

•  Raccorciai. 
'  Alcuna. 


La  vUa  273 

e  intenerito,  e  avvampato  dai  tanti  affetti  di  quel  sublime  sog- 
getto, che  dopo  averla  ben  letta,  scrissi  su  un  fogliolino,  che 
serbo,  le  seguenti  parole.  *  Firenze  18  gennaio  1796.  Se  io  non 
«  avessi  giurato  a  me  stesso  di  non  più  mai  comporre  tragedie, 
«  la  lettura  di  questa  Alceste  di  Euripide  mi  ha  talmente  toccato 
«  e  infiammato,  che  così  su  due  piedi  mi  accingerei  caldo  caldo 
€  a  distendere  la  sceneggiatura  d'una  nuova  Alceste,  in  cui  mi 
€  prevarrei  di  tutto  il  buono  del  greco,  accrescendolo  se  sapessi, 
«  e  scarterei  tutto  il  risibile,  che  non  è  poco  nel  testo.  E  da  prima 
€  cosi  creerei  i  personaggi  diminuendoli  *.  E  vi  aggiunsi  i  nomi 
dei  personaggi  quali  poi  vi  ho  posto  ;  né  più  pensai  a  quel  foglio. 
E  proseguii  tutte  l'altre  di  Euripide,  di  cui  non  più  che  le  pre- 
cedenti, nessuna  mi  destò  quasi  che  niun  affetto.  Tornando  poi 
in  volta  l'Euripide  da  rileggersi,  come  praticava  di  leggere  ogni 
cosa  due  volte  almeno,  venuta  V Alceste,  stesso  effetto,  stesso  tras- 
porto, stesso  desiderio,  e  nel  settembre  dell'anno  stesso  96  ne 
stesi  la  sceneggiatura,  coli* intenzione  di  non  farla  mai.  Ma  in- 
tanto aveva  intrapresa  a  tradurre  la  prima  di  Euripide,  ed  in 
tutto  il  97  l'ebbi  condotta  a  termine:  ma  non  intendendo  allora, 
come  dissi,  punto  il  greco,  l'ebbi  per  allora  tradotta  dal  latino. 
Tuttavia  quell'aver  tanto  che  fare  con  codesta  Alceste  nel  tradurla, 
sempre  di  nuovo  mi  andava  accendendo  di  farla  di  mio;  final- 
mente venne  quel  giorno,  nel  maggio  98,  in  cui  mi  si  accese  tal- 
mente la  fantasia  su  questo  soggetto,  che  giunto  a  casa  dalla 
passeggiata,  mi  posi  a  stenderla,  e  scrissi  d'un  fiato  il  primo 
atto,  e  ci  scrissi  in  margine:  «  steso  con  furore  maniaco,  e  lagrime 
molte  »;  e  nei  giorni  susseguenti  stesi  con  eguale  impeto  gli  altri 
quattr'atti,  e  l'abbozzo  dei  cori,  ed  anche  quella  prosa  che  serve 
di  schiarimento,  e  il  tutto  fu  terminato  il  dì  26  maggio,  e  così 
sgravatomi  di  quel  si  lungo  e  si  ostinato  parto,  ebbi  pace;  ma  non 
per  questo  disegnava  io  di  verseggiarla,  né  di  ridurla  a  termine. 
Ma  nel  settembre  del  98  continuando,  come  dissi,  lo  studio 
vero  del  greco,  con  molto  fervore  mi  venne  pensiero  di  andare 
sul  lesto  riscontrando  la  mia  traduzione  dtWAlceste  prima,  per 
cosi  rettificarla,  e  sempre  imparar  qualche  cosa  di  quella  lingua, 
che  nulla  insegna  quanto  il  tradurre,  a  chi  s'ostina  di  rendere, 
o  di  almeno  accennare  ogni  parola,  imagine,  e  figura  del  testo. 
Rimpelagatomi  dunque  neWAlceste  prima*,  mi  si  riaccese  per  la 

>  Da  Ini  tradotta  dal  trsto  di  Euripide. 
18.  -  CUuiitl  ItaUarl.  N.  ?. 


274  Vittorio  Alfieri 

quarta  volta  il  furor  della  mia,  e  presala,  e  rilettala,  e  pianto 
assai,  e  piaciutami,  il  dì  30  settembre  98  ne  cominciai  i  versi,  e 
furon  finiti  anche  coi  cori  verso  il  dì  21  ottobre.  Ed  ecco  in  qual 
modo  io  mi  spergiurai  dopo  dieci  anni  di  silenzio.  Ma  tuttavia,  non 
volendo  io  essere  né  plagiario,  né  ingrato,  e  riconoscendo  questa 
tragedia  esser  pur  sempre  tutta  di  Euripide,  e  non  mia,  fra  le 
traduzioni  l' ho  collocata,  e  là  dee  starsi,  sotto  il  titolo  di  Alceste 
Seconda,  al  fianco  inseparabile  d&W  Alceste  Prima  sua  madre. 
Di  questo  mio  spergiuro  non  avea  parlato  con  chi  che  sia,  nep- 
pure alla  metà  di  me  stesso.  Onde  mi  volli  prendere  un  diver- 
timento, e  nel  decembre  invitate  alcune  persone  la  lessi  come 
traduzione  di  quella  di  Euripide,  e  chi  non  l'avea  ben  presente, 
ci  fu  colto  fin  passato  il  terz'  atto  ;  ma  poi  chi  se  la  rammentava 
svelò  la  celia,  e  cominciatasi  la  lettura  in  Euripide,  si  terminò  in 
me'.  La  tragedia  piacque;  ed  a  me  come  cosa  postuma  non  dis- 
piacque ;  benché  molto  ci  vedessi  da  torre  e  limare.  Lungamente 
ho  narrato  questo  fatto,  perché  se  qatW  Alceste  sarà  col  tempo 
tenuta  per  buona,  si  studi  in  questo  fatto  la  natura  spontanea 
dei  poeti  d' impeto,  e  come  succede  che  quel  che  vorrebbero  fare 
talvolta  non  riescono,  e  quel  che  non  vorrebbero  si  fa  fare  e 
riesce.  Tanto  é  da  valutarsi  e  da  obbedirsi  l'impulso  naturale 
febeo.  Se  poi  non  è  buona,  riderà  il  lettore  doppiamente  a  mie 
spese  sì  nella  Vita  che  ntW Alceste,  e  terrà  questo  capitolo  come 
un'  anticipazione  su  1'  Epoca  quinta  da  togliersi  alla  virilità,  e 
regalarsi  alla  vecchiaia. 

Queste  due  Alcesti  saputesi  da  alcuni  in  Firenze,  svelarono 
anche  il  mio  studio  di  greco,  che  avea  sempre  occultato  a  tutti  ; 
per  fino  all'amico  Caluso  ;  ma  egli  lo  venne  a  sapere  nel  modo 
che  dirò.  Aveva  mandato  verso  il  maggio  di  quest'anno  un  mio 
ritratto,  bel  quadro  molto  ben  dipinto  dal  pittore  Saverio  Fabre', 
nato  in  Montpellier,  ma  non  perciò  punto  Francese.  Dietro  a 


>  Su  questa  tragedia  v.  O.  Curiale,  L'Alceste  d'Euripide  e  dell'Alfieri, 
Palermo,  1907. 

«  Il  pittore  Pasquale  Saverio  Fabre  (1766-1834),  creato  poi  barone  da 
Luigi  XVIII,  fu  di  principj  conservatori  ed  aristocratici,  e  coll'A.  si  legò  in 
Firenze,  fin  dal  1793,  appunto  pel  comune  odio  verso  la  Rivoluzione  ;  sei  anni 
dopo,  se  non  già  prima,  nutriva  per  la  Stolberg  sentimenti  non  di  sola 
amicizia,  che  amareggiarono  gli  ultimi  anni  dell* A.,  il  quale  ha  serbato  un 
dignitoso,  austero  silenzio  sopra  questo  episodio  della  sua  vita.  Dalla 
Stolberg  il  Fabre  ereditò  carte,  libri  ecc.,  appartenuti  al  poeta,  che  egli 
lasciò  alla  sua  città  natale  e  fanno  ora  parte  del  Museo  Fabre. 


La  vita  275 

quel  mio  ritratto,  che  mandava  in  dono  alla  sorella,  aveva  scritto 
due  versetti  di  Pindaro.  Ricevuto  il  ritratto,  graditolo  molto,  vi- 
sitatolo per  tutti  i  lati,  e  visti  da  mia  sorella  quei  due  scaraboc- 
chini  greci,  fece  chiamare  l'amico  anche  suo  Caluso,  che  glie  li 
interpretasse.  L'abate  conobbe  da  ciò  che  io  aveva  almeno  im- 
parato a  formare  i  caratteri  ;  ma  pensò  bene,  che  non  avrei  fatta 
quella  boriosa  pedanteria  e  impostura  di  scrivere  un'epigrafe 
che  non  intendessi.  Onde  subito  mi  scrisse  per  tacciarmi  di  dis- 
simulatore, di  non  aver  mai  parlato  di  questo  mio  nuovo  studio. 
Ed  io  allora  replicai  con  una  letterina  in  lingua  greca,  che  da 
me  solo  mi  venne  raccozzata  alla  meglio,  di  cui  darò  qui  sotto 
il  testo  e  la  traduzione*,  e  ch'egli  non  trovò  cattiva  per  uno  stu- 
dente di  cinquant'anni,  che  da  un  anno  e  mezzo  circa  s'era  posto 
alla  grammatica;  ed  accompagnai  con  la  epistoluzza  greca,  quattro 
squarci  delle  mie  quattro  traduzioni,  per  saggio  degli  studi  fatti 
sin  a  quel  punto.  Ricevuto  così  da  lui  un  po'  di  lode,  mi  con- 
fortai a  proseguire  sempre  più  caldamente.  E  mi  posi  all'ottimo 
esercizio,  che  tanto  mi  avea  insegnato  si  il  latino  che  l'italiano, 
di  imparare  delle  centinaia  di  versi  di  più  autori  a  memoria. 

Ma  in  quello  stess'anno  98,  mi  toccò  in  sorte  di  ricevere  e 
scrivere  qualche  lettere  da  persona  ben  diversa  in  tutto  dall'a- 
mico Caluso.  Era,  come  dissi,  e  come  ognun  sa,  invasa  la  Lom- 
bardia dai  Francesi,  fin  dal  96,  il  Piemonte  vacillava,  una  trista 
tregua  sotto  il  nome  di  pace  avea  fatta  l'imperatore  a  Campo- 
Formio  col  dittator  francese  ;  il  papa  era  traballato,  ed  occupata 
e  schiavi-democrizzata  la  sua  Roma  ;  tutto  d'ogni  intorno  spirava 
miseria,  indegnazionc,ed  orrore.  Era  allora  ambasciatore  di  Francia 
in  Torino  un  Oinguené',  della  classe,  o  mestiere  dei  letterati  in 
Parigi,  il  quale  lavorava  in  Torino  sordamente  alla  sublime  im- 
presa di  rovesciare  un  re  vinto  e  disarmato*.  Di  costui  ricevei 
inaspettatamente  una  lettera,  con  mio  grande  stupore  e  ramma- 
rico ;  si  la  proposta  che  la  risposta  ;  e  la  replica  e  controreplica 

»  V.  Appendice  I. 

»  Pietro  Luigi  OinifUfné  (17481816),  ambasciatore  di  Francia  presso  la 
corte  sarda,  fu  letterato  non  spregevole,  come  vorrebbe  far  intendere  l'A., 
lasciò  tra  l'allro  una  ottima  Histoire  Uttéraire  de  l'Italie  che  giunge  alla 
neti  Jel  secolo  XVI  ;  quest'opera  venne  poi  continuata  a  tutto  il  '600  da 
Francesco  Salfi. 

»  Vittorio  Amedeo  HI,  il  quale  fu  coatrctto  ad  a(>dicare  nel  dicembre 
del  17W. 


276  Vittorio  Alfieri 

inserisco  qui  a  guisa  di  note\  affinchè  sempre  più  si  veda,  chi 
ne  volesse  dubitare,  quanto  siano  state  e  pure  e  rette  le  mie  in- 
tenzioni ed  azioni  in  tutte  codeste  rivoluzioni  di  schiaveria. 

Pare  dall'andamento  di  queste  due  lettere  del  Ginguené  che 
avendo  egli  ordine  dai  suoi  despoti  di  asservire  alla  libertà  fran- 
cese il  Piemonte  e  cercando  di  sì  fatta  iniquità  dei  vili  ministri, 
egli  mi  volesse  tastar  me  per  veder  se  mi  potevan  anco  disono- 
rare, come  mi  aveano  impoverito.  Ma  i  beni  mondani  stanno  a 
posta  della  tirannide,  e  l'onore  sta  a  posta  di  ciascuno  individuo 
che  ne  sia  possessore.  Quindi  dopo  la  mia  seconda  replica  non 
ne  sentii  più  parlare;  ma  credo  che  costui  si  servisse  poi  della 
notizia  che  l'abate  di  Caluso  gli  diede  per  parte  mia  circa  alle 
balle  mie  di  libri  non  pubblicati  per  farne  ricerca  e  valersene 
come  in  appresso  si  vedrà.  La  nota  dei  miei  libri  ch'egli  dicea 
volermi  far  restituire  e  ch'io  credo  che  già  tutti  se  li  fosse  ap- 
propriati a  sé  *,  sarebbe  risibile  s' io  qui  la  mostrassi.  Ella  era  di 
circa  100  volumi  di  tutti  gli  scarti  delle  più  infime  opere  italiane; 
e  questa  era  la  mia  raccolta  lasciata  in  Parigi  sei  anni  prima  di 
circa  1600  volumi  almeno;  scelti  tutti  i  Classici  italiani  e  latini. 
Ma  nessuno  se  ne  stupirebbe  di  una  tal  nota,  quando  sapesse 
ch'ella  dovea  essere  una  restituzione  francese. 


1  V.  Appendice  IL 

s  II  malanimo  dell'A.  che  or  ora  ha  affermato  la  sua  stima  pel  monar- 
chico ed  aristocratico  Fabre,  del  quale  avrebbe  avuto  ben  altro  che  da 
lodarsi,  si  rivela  qui  nella  sua  interezza:  oltre  all'avventare  contro  il  Oin- 
guené.'sol  perchè  repubblicano,  un  sospetto  ingiurioso  che  rasenta  la  ca- 
lunnia, non  gli  dimostra  neppur  la  benché  minima  gratitudine  per  la  resti- 
tuzione dei  suoi  manoscritti  (V.  lettere  !•  e  3»  AtW'App.  II).  Cfr.  del  resto 
lo  scritto  di  P.  L.  Oinquené,  Lettres  à  un  Académicien  de  l'Acarìcmie 
de  Turin  sur  un  passage  de  la  Vie  de  Vittorio  Al/ieri,  Paris,  1809. 


La  vita  277 

APPENDICE  I. 


Ttp  Ilavoóqpcp 
eSMAt  KAAOrSISt 

TaSxag  TievxTìxovxaEToOs  vsavCoxoo 

OriKTOPIOS  AA^HPIOS 

«tj  TÒg  'EXXTjvixàg  el-aYOYàj  x^  8i6T(qt 
aÙTo5i5axxoc  67r6|i::ev  sxet  qt4'€C* 

EnciÌT],  &  cpUxaxe,  àpxóvxoav  :iavxaxòu,  òXiyco  tzì,  xtov 
2o6X(0v,  8»jfi£u)v  xù)v  iyaOwv  éxifq)  èTcàvto  xf,f  xstpaXfJg  àsl 
èJitxeixai  6  néXéxyj'  xo3  X6  IlivSàpou  -apatvéaavxog,  fixi 

8óXiog  aìwv 

*En*  ivip&ai  xp&{xaxai 

'EXJoawv  PiÓTOo  Jiópov. 
èjiol   8é8oxxai   xtòv    Iwg  xfjg   oTjnepov  jrctvxtóv  fiou   ouTypap,- 
{idxtov,   ècp*  ole  1^    6Xtj  d;X»]9(3g  (i(  f&  [i(av  ?gofia£  noxe)  IjiTJ 
èjiv   o?)o(a,  dbXXà  (ìiqv  xèv   Tifvaxa    Jtpòg    oè,    wanep    èv    Uptf» 
a(Dd^T]od)i«voy,  napaSoDvai.  'E^^coao. 


Al  dottissimo 

TOMMASO  CALUSO 

questi  preposteri  trastulli  di  giovinetto 

quinquagenario 

VITTORIO   ALFIERI 

il  menomo  de'  diKepoli 

■gli  elementi  greci  in  un  biennio  per  se  stesso 

ammaestrato  mandava  l'anno  1797. 

Poiché,  o  carissimo,  dominando  presso  che  per  tutto  gli  schiavi  boja, 
sul  capo  a  ciascun  buono  sempre  sovrasta  la  scure,  e  ci  ammonisce  Pin- 
daro, che 

L'età  ingannevol  pende 

Sugli  uomini,  volgendo  della  vita 

Il  corso  e  la  partita; 
ho  ri>.oiuto  (il  tutte  l'opere  mie  sino  al  di  d'oggi,  che  sono  il  totale  avere 
(se  alcun  saranrte  mai)  veramente  mio,  almeno  l'indice  de'  titoli  deporre 
presso  di  te  quui  in  tempio,  che  il  salvi.  Sta  sano. 


278  Vittorio  Alfieri 

APPENDICE  IL 

Monsleur  le  Comte. 

Un  Frangais  ami  des  lettres,  pénétré  depuis  long-temps  d' admiration 
pour  votre  genie  et  vos  talents,  est  assez  heureux  pour  pouvoir  reniettre 
entre  vos  mains  un  dépòt  très  prédeux  que  le  hasard  a  fait  tomber  dans. 
les  siennes. 

Il  habite  en  ce  moment  une  partie  de  l'Italie  qui  se  glorifie  de  vou9 
avoir  vu  naìtre,  et  une  ville  ou  vous  avez  laissé  des  souvenirs,  des  adrai- 
rateurs,  et  sans  doute  aussi  des  amis.  Veuillez  écrire  à  l'un  de  ces  demiers, 
et  le  charger  de  venir  conférer  avec  lui  sur  cet  objet.  Le  premier  signe 
de  votre  accession  à  la  correspondance  qu'  il  désire  ouvrir  avec  vous, 
Monsieur  le  Comte,  lui  permettra  de  vous  exprimer  avec  plus  d'étendi:e 
et  de  liberté,  les  seiitiments  dont  il  fait  profession  pour  l'un  des  horames 
qui,  sans  distinction  de  pays,  honorent  le  plus  aujourd'hui  la  république 
des  lettres. 

Turin,  le  25  Floréal  an  6  de  la  République  Fran9aise.  (14  Mai  1798.  v.  st.). 

OlNOUENÉ 

Ambassadeur  de  la  Rép.  Fran(. 

à  la  Cour  de  Sardaiene, 

Membre  de  l'institat  N.  de  France. 


Sig.  Ambasciatore 

Padron  mio  Stimatissimo. 

Le  rendo  quante  so  più  grazie  per  le  gentilissime  espressioni  della  di 
lei  lettera,  e  per  la  manifesta  intenzione  ch'ella  mi  vi  dimostra  di  volermi 
prestare  un  segnalato  servigio,  non  conoscendomi.  Per  adattarmi  dunque 
pienamente  ai  mezzi  ch'ella  mi  propone,  scrivo  per  questo  stesso  Corriere 
al  Sig.  Abate  di  Caluso,  Segretario  di  codesta  Accademia  delle  Scienze, 
pregandolo  di  conferire  sul  vertente  affare  col  Sig.  Ambasciatore  qualora 
egli  ne  venga  richiesto.  Questi  è  persona  degnissima,  e  certamente  le  sar.ì 
noto  per  fama:  egli  è  mio  specialissimo  ed  unico  amico,  e  come  ad  un 
altro  me  stesso  ella  può  sicuramente  affidare  qualunque  cosa  mi  spetti. 

Non  so  qual  possa  essere  codesto  prezioso  deposito  ch'ella  si  compiace 
di  accennarmi:  so,  che  la  più  cara  mia  cosa  e  la  sola  oramai  prezir>sa  ai 
miei  occhi,  eli' è  la  mia  totale  indipendenza  priv.ita;  e  questa  anche  4  di- 
spetto dei  tempi,  io  la  porto  sempre  con  me  in  qualunque  luogo  o  stato 
piaccia  alla  sorte  di  strascinarmi. 

Non  è  perciò  di- nulla  minore  la  gratitudine  ch'io  le  professo  per  la  di 
lei  spontanea  e  generosa  sollecitudine  dimostratami.  E  con  tutta  la  stima 
passo  a  rassegnarmele 

Firenze  di  28  maggio  1798. 

Suo  Devotiss.  Serv» 
Vittorio  AtrieRi. 


La  vita  279 

Monsieur  le  Corate. 

Turin  le  16  Prairial  an  6  de  la  Rép.  Fram. 
(4  Jnin  1798.  v.  st.). 

Vous  ne  pouviez  choisir,  pour  recevoir  la  confidence  qne  j'avois  à  vous 
faire,  aucnn  intermédiaire  qui  me  fùt  plus  agréable  que  Mr.  l'Abbé  de  Ca- 
luso,  dont  je  connois  et  apprécie  la  science,  les  talens,  et  l'amabilité.  Je 
lui  ai  fait  ma  confession  et  lui  ai  remis  le  précieux  dépót  dont  je  m'étois 
chargé.  Vous  reverrez  des  enfans  qui  on  fait,  qui  font  encore,  et  feront 
de  plus  en  plus  du  bruit  dans  le  monde.  Vous  les  reverrez  dans  l'état  oìi 
ils  étoient  avant  de  sortir  de  la  maison  paternelle,  avec  leurs  premiers 
défauts,  et  les  traces  intéressantes  des  triples  soins  qui  les  en  ont  corrigés. 

Je  remets  donc  entre  les  mains  de  votre  ami,  ou  plutót  dans  les  vótres, 
Monsieur  le  Corate,  toute  votre  illustre  famille. 

Ne  me  parlez  point,  je  vous  prie,  de  reconnoissance.  Je  fais  ce  que  tout 
autre  homrae  de  lettres  eiit  sans  doute  fait  à  ma  place,  et  nul  certainement 
ne  l'eùt  fait  avec  autant  de  plaisir,  ni  par  conséquent  avec  moins  de  me- 
fite. .Wr.  l'Abbé  de  Caluso  vous  dira  la  seule  condition  que  je  prenne  la 
libcrté  de  vous  prescrirc,  et  j'y  compie  corame  si  j'en  avois  re?u  votre 
parole. 

Je  joins  id,  Monsieur  le  Corate,  la  liste  de  vos  livres  laissés  à  Paris, 
tels  qu'ils  se  sont  trouvés  dans  un  des  dépóts  publics,  et  tels  qu'on  les 
y  conserve.  J'ignore  commcnt  ils  y  ont  été  placés  sous  le  faux  prétexte 
d'éraigration.  Tout  cela  s'est  fait  dans  un  teras  dont  il  faut  gémir,  et  oìi 
]'étois  plongé  dans  un  de  ces  antres  dont  la  tyrannie  tiroit  chaque  jour 
ses  victiraes.  Jeté  depuis  dans  les  fonctions  publiques  qui  ne  sont  pour 
moi  qu'  une  autre  captivité,  j' ai  eu  le  bonheur  de  découvrir  dans  un  des 
établissemens  dont  j' avois  la  surveillance  generale,  vos  livres,  dont  j' ai 
fait  dresser  la  liste.  Veuillez,  Monsieur  le  Corate,  reconnottre  si  ce  sont  à 
peu  prè»  tous  ceux  que  vous  aviez  laissés.  S'  il  en  manquoit  d'importans, 
faites-en  la  note,  autant  que  vous  le  pourrez,  de  mémoire,  ou  ce  qui  vou- 
droit  encore  raieux,  recherchez  si  vous  n'en  auriez  point  quelque  part  le 
catalogue. 

Je  ne  demande  ensuite  qne  votre  permission  pour  réclamer  le  tout  en 
mon  propre  nom  et  sans  que  vous  soyez  p>our  rìen  dans  cette  affaire.  Je 
connois  tous  les  raotifs  qui  peuvent  vous  faire  désirer  que  cela  se  traite 
ainsi,  et  je  les  respecte. 

Jc  vottt  préviens,  Monsieur  le  Comte,  que  parrai  vos  livres  imprimés, 
U  »•  en  trouvera  un  de  moini  :  ce  sont  vos  oeuvres.  Dans  l'étude  assidue 
que  je  ials  de  votre  belle  langiie,  la  lecture  de  vos  tragédies-est  une  de 
celles  Oli  je  trouve  le  plus  de  fruit  et  de  plaisir.  Je  n'avois  que  votre  pre- 
miere édition:  je  me  suis  eniparé  de  la  seconde  (celle  de  Didot).  L'exem- 
pUire  que  j'ai  a  pourtant  deux  défauts  pour  moi,  celui  d'étre  trop  riche- 
raent  relié,  trop  mtgnifique,  et  celui  de  ne  m'éfre  pas  donne  par  vous. 
Si  vous  avcz  à  votre  disposi  tion  un  exemplaire  brocbé,  de  la  mcme  édition, 
ou  d'une  édition  posterie ure  faife  en  Italie,  je  le  reccvral  de  vous  avec  un 
plaisir  bien  vif,  corame  un  fémoijrnagc  de  quelqiie  part  dans  votre  estime, 
et  Je  remettral  à  Mr.  l'Abbé  de  Caluso  l'exeraplaire  trop  richc,  mais  unique, 
qni  reste  cbez  moi,  et  qui  n'y  reste  pas  oisif. 

Le  sort  a  voulu  que  de  tous  le»  Fran;ais  envoyés  presquc  en  m€mc 
tenips  dans  les  diverses  residence!  d' Italie,  celui  qui  aime  le  plus  ce  beau 


280  Vittorio  Alfieri 

pays,  sa  langue,  ses  arts,  qui  eùt  mis  le  plus  de  prix  à  le  parcourir  et 
en  eùt  peut-ètre  d'après  ses  études  antérieures  retiré  le  plus  de  fruit  lit- 
téraire,  a  été  fixé  daiis  le  péristyle  du  tempie,  sans  savoir  s'il  lui  sera 
permis  d'y  entrer. 

J'ai  maintenant  une  raison  de  plus  pour  désirer  bien  ardemment  d'aller 
ab  moins  jusqu'  à  Florence.  Je  m'estinierois  infiniment  heureux,  Monsieur 
le  Comte,  de  pouvoir  m'y  rendre  auprès  de  vous,  et  de  faire  personnel- 
lement  connoissance  avec  un  homme  qui  honore  sa  nation  et  son  siècle, 
par  son  genie,  et  par  l'élévation  des  sentimens  qui  respirent  dans  ses 
ouvrages. 

Agréez,  je  vous  prie,  l'assurance  de  ma  profonde  estime,  de  mon  admi- 
ration  et  de  mon  entier  dévoueraent. 

OlNGUENÉ 

Membre  de  l' Insti  t  ut  A',  de  Frane  e. 

Ambassadeur  de  la  Répnbl.  Franfaise 

près  S.  M.  le  roi  de  Sardaigne. 


Padrone  mio  stimatiss. 

11  Giugno  179S. 

Poich'ella  ha  letto  e  legge  qualche  volta  alcune  delle  mie  opere,  certa- 
mente è  convinta,  che  il  mio  carattere  non  è  il  dissimulare.  Le  asserisco 
dunque  candidamente,  che  quanto  mi  è  costato  di  dover  pure  rispondere 
alla  prima  sua  lettera,  altrettanto  con  ridondanza  di  cuore  io  replico  a 
questa  seconda;  poiché  in  una  certa  maniera  senza  essere  né  impudente 
ne  indiscreto,  separando  il  Sig.  Ginguené  letterato  dall'Ambasciator  di 
Francia,  io  posso  rispondere  al  figlio  d'Apollo  soltanto.  Le  grazie  eh'  io 
le  rendo  per  il  servigio  segnalatissimo  da  lei  prestatomi,  saran  molto  brevi  ; 
appunto  perchè  il  beneficio  è  tale  da  non  ammettere  parole.  Le  dico  dunque 
soltanto  che  il  di  lei  procedere  a  mio  riguardo  è  stato  per  l'appunto  quello 
che  io  in  simili  circostanze  avrei  voluto  praticare  verso  lei,  non  poco  pre- 
giandomi di  poterlo  pur  fare.  Circa  poi  al  segreto  su  di  ciò,  che  per  via 
del  degnissimo  abate  di  Caluso  mi  viene  inculcato,  e  che  a  lei  fu  promesso 
in  mio  nome  dall'amico,  io  lo  prometto  di  bel  nuovo  per  ora,  e  lo  debbo 
osservare:  ma  non  glie  lo  prometto  certamente  per  dopo  noi,  e  mutati  i 
tempi.  L'esser  vinto  in  generosità  non  mi  piace.  Onde  se  mai  le  mie  tra- 
gedie avran  vita,  non  è  giusto  che  chi  generosamente  salvava  la  loro  de- 
formità primitiva  dall'essere  forse  appalesata  e  derisa,  non  ne  riporti  quel 
testimonio  soletme  di  lealtà  meritato.  Intanto  a  quell'esemplare  di  esse, 
ch'ella  mi  dice  di  aver  presso  di  se,  coi  due  soli  difetti  di  essere  troppo 
pomposamente  legate,  e  non  donatele  da  me  stesso,  già  gli  vien  tolto  il 
secondo  difetto  fin  da  questo  punto,  in  cui  mi  fo  un  vero  pregio  di  tribu- 
targliele ;  ed  ella  mi  mortificherebbe  veramente  se  non  si  degnasse  accet- 
tarle; correggerò  poi  il  primo  difetto,  con  ispedirKiifne  altra  copi;»  ed 
aggiungervi  alcune  altre  mie  operette,  che  tutte  più  umilmente  legate, 
avranno  così  un  abito  piìi  conforme  alla  loro  persona. 

Quanto  poi  a  quella  nota  de'  miei  libri  ch'ella  sì  è  compi  icluta  di  trasmet- 
termi; offrendomi  con  delicatezza  degna  di  lei  d'intromettersi  per  la  resti- 


La  vita  281 

tazione  di  essi,  senza  eh'  io  ci  apparisca  in  nessuna  maniera  ;  le  dirò  pure 
sinceramente,  che  non  Io  gradirei,  ed  eccogliene  le  ragioni.  I  libri  da  me 
lasciati  in  Parigi  erano  assai  più  di  1500  volumi,  fra'  quili  erano  tutti  i  prin- 
cipali Classici  Greci,  Latini  e  Italiani.  La  lista  mandatami  non  contiene  che 
circa  150  volumi  e  tutti  quanti  libri  dì  nessun  conto.  Onde  vedo  chiaramente 
che  il  totale  de'  miei  libri  è  stato  o  disperso,  o  tolto  via,  o  riposto  in  diversi 
luoglii.  11  rintracciarlo  dunque  riuscirebbe  cosa  od  impossibile,  o  diKici- 
lissima,  p>enosissima,  e  fors' anche  pericolosa;  o  almeno  di  gran  disturbo 
per  lei,  quando  io  avessi  la  docilità  indiscreta  di  acconsentire  alle  sue  esi- 
bizioni. E  chiaro  che  non  si  può  riaver  cosa  tolta,  senza  ritoglierla  a 
qualch'  altro  ;  e  le  restituzioni  volontarie  son  rare  ;  le  sforzate  sono  odiose, 
e  non  senza  pericoli.  Aggiunga  poi  che  gran  parte  di  quei  libri  stessi  io 
gli  ho  poi  successivamente  ricomprati  in  questi  sei  anni  dopo  la  mia  par- 
tenza di  Parigi  ;  tutte  queste  considerazioni  m'inducono  a  ringraziarla  senza 
prevalermi  dell'offerta:  oltreché  poi  meglio  d'ogni  altra  cosa  si  confà  col 
mio  animo  il  non  chieder  mai  nulla  né  direttamente  né  indirettamente,  da 
chi  che  sia. 

Desidero  di  potere,  quando  che  sia,  in  qualche  maniera  testimoniarle  la 
mit  gratitudine,  e  la  stima  con  la  quale  me  le  professo 

Suo  Devotiss.  Servo 
Vittorio  Aifieru 


2S2  Vittorio  Alfieri 


CAPITOLO  VIOESIMOSETTIMO 

Misogallo  finito.  Rime  chiuse  colla  Teleutodia.  h' Abete  ridotto  ;  cosi,  le  due 
AlcesU,t  1  Ammonimento.  Distribuzione  ebdomadaria  di  studi  Prepa- 
rato  COS.,  e  munito  delle  lapide  sepolcrali,  aspetto  l'invasion  de*  Fran- 
cesi, che  segue  nel  Marzo  99. 

Cresceva  frattanto  ogni  dì  più  U  pericolo  della  Toscana,  stante 
la  leale  amicìzia  che  le  professavano  i  Francesi.  Già  fin  dal  de- 
cembre  del  98  aveano  essi  fatta  la  splendida  conquista  dì  Lucca, 
e  di  là  minacciavano  continuamente  Firenze,  onde  ai  primi  del  99 
parca  imminente  l'occupazione.  Io  dunque  volli  preparare  tutte 
le  cose  mie,  ad  ogni  qualunque  accidente  fosse  per  succedere. 
Fin  dall'anno  prima  avea  posto  fine  per  tedio  al  Misogallo,  e 
fatto  punto  all'occupazione  dì  Roma,  che  mi  pareva  la  più  bril- 
lante impresa  dì  codesta  schiaverìa.  Per  salvare  dunque  que- 
st'opera per  me  cara  ed  importante  ne  feci  fare  sino  in  dieci 
copie,  e  provvisto  che  in  diversi  luoghi  non  si  potessero  né  annul- 
lare, né   smarrire,  ma  al  suo  debito  tempo  poi  comparissero'. 
Quindi,  non  avendo  io  mai  dissimulato  il  mio  odio  e  disprezzo 
per  codesti  schiavi  malnati,  volli  aspettarmi  da  loro  ogni  vio- 
lenza, ed  insolenza,  cioè  prepararmi  bene  al  solo  modo  che  vi 
sarebbe  dì  non  le  ricevere.  Non  provocato,  tacerei  ;  ricercato  in 
qualunque  maniera,  darei  segno  dì  vita  e  di  libero.  Disposi  dunque 
tutto  per  vìvere  incontaminato,  e  libero,  e  rispettato,  ovvero  per 
morir  vendicato  se  fosse  bisognato  =.  La  ragione  che  mi  indusse 
a  scrivere  la  mia  vita,  cioè  perchè  altri  non  la  scrivesse  peggio 
di  me,  mi  indusse  allora  altresì  a  farmi  la  mia  lapide  sepolcrale, 
e  così  alla  mia  Donna,  e  le  apporrò  qui  in  note',  perchè  desi- 
dero questa  e  non  altra,  e  quanto  ci  dico  è  il  puro  vero,  sì  di 
me,  che  di  lei,  spogliato  di  ogni  fastosa  amplificazione. 

Provvisto  così  alla  fama,  o  alla  non  infamia,  volli  anco  prov- 
vedere ai  lavori,  limando,  copiando,  separando  il  finito  dal  no, 
e  ponendo  il  dovuto  termine  a  quello  che  l'età  e  il  mio  proposto 

1  II  Misogallo  non  vide  la  luce  che  dopo  la  morte  dell'A.,  colla  falsa 
data  di  Londra,  1800  [Firenze,  Piatti,  1804J. 

2  Dai  Misogallo,  a  cui  affidava  .  le  vendette  dell'Italia  e  ìh*  ..  Sembra 
ch'egli  avesse  disposto  affinchè  alla  sua  morte,  se  fosse  caduto  vittima  dei 
Francesi,  seguisse  immediata  la  pubblicazione  di  quel  libro  [B.\ 

•  V.  Appendice. 


La  vita  283 

volevano.  Perciò  volli  col  compiere  degli  anni  cinquanta  frenare 
e  chiudere  per  sempre  la  soverchia  fastidiosa  copia  delle  rime, 
e  ridottone  un  altro  tometto  purgato  consistente  in  Sonetti  70, 
Capitolo  1,  e  39  Epigrammi,  da  aggiungersi  alla  prima  parte  di 
esse  già  stampate  in  Kehl,  sigillai  la  lira,  e  la  restituii  a  chi  spet- 
tava, con  una  Ode  sull'andare  di  Pindaro,  che  per  fare  anche  un 
po'  il  grecarello  intitolai  Teleutodìa^.  E  con  quella  chiusi  bottega 
per  sempre  ;  e  se  dopo  ho  fatto  qualche  sonettuccio  o  epi- 
gramrauccio,  non  l'ho  scritto;  o  se  l'ho  scritto  non  l'ho  tenuto, 
e  non  saprei  dove  pescarlo,  e  non  lo  riconosco  più  per  mio.  Biso- 
gnava finir  una  volta,  e  finire  in  tempo,  e  finire  spontaneo,  e 
non  costretto.  L'occasione  dei  dieci  lustri  spirati,  e  dei  Barbari 
anttlirici  soprastantimi  non  potea  esser  più  giusta  ed  opportuna  ; 
l'afferrai,  e  non  ci  pensai  poi  mai  più. 

Quanto  alle  traduzioni,  il  Virgilio  mi  era  venuto  ricopiato  e 
corretto  tutto  intero  nei  due  anni  anteriori,  onde  lo  lasciava  sus- 
sistere; ma  non  come  cosa  finita.  II  Sallustio  mi  parea  potere 
stare;  e  lasciavalo.  Il  Terenzio  no,  perchè  una  sola  volta  lo  avea 
fatto,  né  rivistolo,  né  ricopiatolo  ;  come  non  lo  è  adesso  neppure. 
Le  quattro  traduzioni  dal  greco,  che  condannarle  al  fuoco  mi 
doleva,  e  lasciarle  come  cosa  finita  pur  non  poteva,  poiché  non 
l'erano,  ad  ogni  rischio  del  se  avrei  il  tempo  o  no,  intrapresi  di 
ricopiarle  sì  il  testo  che  la  traduzione,  e  prima  di  tutto  V  Alceste 
per  ritradurla  veramente  dal  greco,  che  non  mi  sapesse  poi  di  tra- 
duzione di  traduzione.  Le  tre  altre  bene  o  male,  erano  state  diret- 
tamente tradotte  dal  testo,  onde  mi  dovean  costar  poi  meno 
tempo  e  fatica  a  correggerle.  V  Abele,  che  era  oramai  destinata 
ad  essere  (non  dirò  unica)  ma  sola,  senza  le  concepite  e  non  mai 
eseguite  compagne,  l'avea  fatta  copiare,  e  limata,  e  mi  parea 
potere  stare.  Vi  si  era  pure  aggiunto  alle  opere  di  mio  negli 
anni  precedenti  una  prosacela  brevina  politica,  intitolata  Ammo- 
nimento alle  Potenze  italiane  ;  questa  pure  l'avea  limata,  e  fatta 
copiare,  e  lasciavala.  Non  già  che  io  avessi  la  stolida  vanagloria 
di  voler  fare  il  politico,  che  non  è  l'arte  mia;  ma  si  era  fatto  fare 
quello  scritto  dalla  giusta  indegnazione  che  mi  aveano  inspirata 
le  polìtiche,  certo  più  sciocche  della  mia,  che  in  questi  due  ul- 
timi anni  avea  visto  adoprare  dalla  impotenza  dell'Imperatore, 

I  Canto  rinale  :   parolt  contata  dall'A.,  al  quale  par>-e  atta  <  perfetta* 
mentr...  a  definire  un  agonizzante  poeta  ed  un  nascente  pedante  >. 


284  Vittorio  Alfieri 

e  dalle  impotenze  italiane.  Le  Satire  finalmente,  opera  ch'io  avea 
fatta  a  poco  a  poco,  ed  assai  corretta,  e  limitata,  le  lasciava  pu- 
lite, e  ricopiate  in  numero  di  17  quali  sono;  e  quali  pure  ho  fis- 
sato e  promesso  a  me  di  non  piìi  oltrepassare. 

Così  disposto,  e  appurato  del  mio  secondo  patrimonio  poetico 
smaltatomi  il  cuore',  aspettava  gli  avvenimenti.  Ed  affinchè  al 
mio  vivere  d'ora  in  poi,  se  egli  si  dovea  continuare,  venissi  a 
dare  un  sistema  più  confacente  all'età  in  cui  entrava,  ed  ai  di- 
segni ch'io  m'era  già  da  molto  tempo  proposti,  fin 'dai  primi 
del  99  mi  distribuii   un  modo   sistematico  di   studiare   regolar- 
mente ogni  settimana,  che   tuttora  costantemente  mantengo    e 
manterrò  finch'avrò  salute  e  vita  per  farlo.  Il  lunedì  e  martedì 
destinati,  le  tre  prime  ore  della  mattina  appena  svegliatomi,  alla 
lettura  e  studio  delia  sacra  Scrittura;  libro  che  mi  vergognava 
molto  di  non  conoscere  a  fondo,  e  di  non  averlo  anzi  mai  letto 
sino  a  quell'età.  Il  mercoledì  e  giovedì.  Omero,  secondo  fonte 
d'ogni  scriverei  II  venerdì,  sabato,  e  domenica,  per  quel  prim'anno 
e  più  II  consecrai  a  Pindaro,  come  il  più  difficile  e  scabro  di 
tutti  i  greci,  e  di  tutti  i  lirici  di  qualunque  lingua,  senza  eccet- 
tuarne Giobbe  e  i  profeti.  E  questi  tre  ultimi  giorni  mi  propo- 
neva poi,  come  ho  fatto,  di  consecrarli  successivamente  ai  tre 
tragici,  ad  Aristofane,  Teocrito,  ed  altri  sì  poeti  che  prosatori, 
per  vedere  se  mi  era  possibile  di  sfondare'',  questa  lingua,  e  noti 
dico  saperla  (che  è  un  sogno),  ma  intenderla  almeno  quanto  fo 
Il  latino.  Ed  il  metodo  che  a  poco  a  poco  mi  andai  formando, 
mi  parve  utile;  perciò  lo  sminuzzo,  che  forse  potrà  anche  gio- 
vare così,  o  rettificato,  a  qualch'altri  che  dopo  me  intrapren- 
desse questo  studio.  La  Bibbia  la  leggeva  prima  in  greco,  ver- 
sione dei  LXXS  testo  vaticano,  poi  la  raffrontava  col  lesto' ales- 
sandrino ;  quindi  gli  stessi  due,  o  al  più  tre  capitoli  di  quella 
mattina,  li  leggeva  nei  Diodati*  italiani,  che  erano  fedelissimi  al 
testo  ebraico;  poi  li  leggeva  nella  nostra  volgata  latina»,  poi  in 

1  Rivestitomi  di  smalto  11  cuore,  cioè  fattomi  impassìbile,  imperturbabile 
»  Primo  considerando  l'A.  la  Sacra  Scrittura. 

*  Penetrare  a  fondo,  approfondirsi  nella  conoscenza. 

«  Nome  dato  alla  traduzione  greca  dell'Antico  Testamento,  fatta  da  set- 
tantadue ebrei  di  Egitto,  per  ordine  di  Tolomeo  Filadelfo  nel  282  o  283 
a.  C.  E  la  versione  più  antica  e  più  celebre. 

0  Teologo  svizzero  (1576-161'))  ai  tempi  suoi  l'erudito  più  versato  negli 
studi  biblici.  La  sua  traduzione  italiana  della  Bibbia  (1607)  si  ristampa  ancora. 

•  Versione  latina  della  Bibbia  condotta  su  quella  dei  settanta  e  riveduta 


La  vita  285 

ultimo  nella  traduzione  interlineare  fedelissima  latina  del  testo 
ebraico  ;  col  quale  bazzicando  così  più  anni,  ed  avendone  impa- 
rato l'alfabeto,  veniva  anche  a  poter  leggere  materialmente  la 
parola  ebraica,  e  reccapezzarne  così  il  suono,  per  lo  piìi  brut- 
tissimo, ed  i  modi  strani  per  noi,  e  misti  di  sublime  e  di  barbaro. 

Quanto  poi  ad  Omero,  leggeva  subito  nel  greco  solo  ad  alta 
voce,  traducendo  in  latino  letteralmente,  e  non  mi  arrestando 
mai,  per  quanti  spropositi  potessero  venirmi  detti,  quei  60,  o  80, 
o  al  piìi  piìi  100  versi  che  volea  studiare  in  quella  mattina.  Stor- 
piati così  quei  tanti  versi,  li  leggeva  ad  alta  voce  prosodica- 
mente* in  greco.  Poi  ne  leggeva  lo  scoliaste  greco,  poi  le  note 
latine  del  Barnes,  Clarch,  ed  Ernesto-;  poi  pigliando  per  ultimo 
la  traduzione  letterale  latina  stampata,  la  rileggeva  sul  greco  di 
mio,  occhiando  la  colonna,  per  vedere  dove,  e  come,  e  perchè 
avessi  sbagliato  nel  tradurre  da  prima.  Poi  nel  mio  testo  greco 
solo,  se  qualche  cosa  era  sfuggita  allo  scoliaste  di  dichiararla, 
la  dichiarava  io  in  margine,  con  altre  parole  greche  equivalenti, 
al  che  mi  valeva  molto  di  Esichio*,  dell'Etimologico',  e  del  Fa- 
Torino'.  Poi  le  parole,  o  modi,  o  figure  straordinarie,  in  una 
colonna  di  carte  le  annotava  a  parte,  e  dìchiaravale  in  greco. 
Poi  leggeva  tutto  il  commento  di  Eustazio*  su  quei  dati  versi, 
che  così  m'erano  passati  cinquanta  volte  sotto  gli  occhi,  loro  e 
tutte  le  loro  interpretazioni  e  figure.  Parrà  questo  metodo  noioso,  e 
duretto  ;  ma  era  duretto  anch'io,  e  la  cotenna  di  50  anni  ha  bisogno 
di  ben  altro  scarpello  per  iscolpirvi  qualcosa,  che  non  quella  di  20. 

Sopra  Pindaro  poi,  io  aveva  già  fatto  gli  anni  precedenti  uno 
studio  più  ancora  di  piombo,  che  i  sopradetti.  Ho  un  Pindaretto, 
di  cui  non  v'è  parola,  su  cui  non  esista  un  mio  numero  aritmetico 
notatovi  sopra,   per  indicare,  coli' un,  due,  e  tre,  fino  talvolta 

da  S.  CHroIamo:  il  Concilio  di  Trento  decise,  nel  1546,  che  questo  testo 
(oMc  l'unico  invocato  dalla  Chiesa. 

•  Non  metricamente,  cioè  secondo  gli  accenti  tonici. 

»  OiosuèlBtrnes  (I6S4  1712)  erudito  inglese  di  cui  fu  celebre  una  edi- 
xlone  greco-latina  di  Omero.  —  Samuele  Clark  (I675-I729)  filosofo  e  teo- 
logo inglese  il  quale  si  era  accinto  ad  una  edizione  greco-latina  di  Omero 
•  lui  richiesta  da  Qiorgìo  I  pel  duca  di  Cumt>erland.  —  Giovanni  Augusto 
Ernest!  (1707-81)  teologo  e  filosofo  tedesco  il  quale  curò  buone  edizioni  del 
maggiori  classici  antichi. 

•  Lessicografo  alessandrino  del  V  secolo. 

«  FJymologIcum  maenam,  diHon.  etimol.  medievale  della  lingua  greca. 
»  Retore  e  sofisU  nato  ad  Aries,  morto  verso  il  135  dell'era  volgare. 

•  Vescovo  di  Tetsalonica,  vissuto  nel  tecolo  XII,  compilò  un  lessico 
omerico. 


289  Vittorio  Alfieri 

anche  a  quaranta  e  più,  qual  sia  la  sede,  che  ogni  parola  rico- 
struita al  suo  senso  deve  occupare  in  que*  suoi  eterni  e  labi- 
rintici periodi.  Ma  questo  non  mi  bastava,  ed  intrapresi  allora 
nei  tre  giorni  ch'io  gli  destinai,  di  prendere  un  altro  Pindaro 
greco  solo,  di  edizione  antica,  e  scorrettissimo,  e  mal  punteg- 
giato, quel  del  Calliergi'  di  Roma,  primo  che  abbiagli  scolj,  e 
su  quello  leggeva  a  prima  vista,  come  dissi  dell'Omero,  subito 
in  latino  letteralmente  sul  greco,  e  poi  la  stessa  progressione 
che  su  l'Omero;  e  di  più  poi  in  ultimo  una  dichiarazione  mar- 
ginale mia  in  greco  dell'intenzione  dell'autore;  cioè  il  pensiero 
spogliato  del  figurato  Così  poi  praticai  su  l'Eschilo  e  Sofocle, 
quando  sottentrarono  ai  giorni  di  Pindaro:  e  con  questi  sudori, 
e  pazze  ostinazioni,  essendomisi  debilitata  da  qualch'anni  assai 
la  memoria,  confesso  che  ne  so  poco,  e  tuttavia  prendo  alla 
prima  lettura  dei  grossissimi  granchi.  Ma  lo  studio  mi  si  è  ve- 
nuto facendo  sì  caro,  e  sì  necessario,  che  già  dal  96  in  poi,  per 
nessuna  ragione  mai  ho  smesso,  o  interrotto  le  tre  ore  di  prima 
svegliata,  e  se  ho  composto  qualche  cosa  di  mio,  come  l'Alceste, 
le  Satire,  e  Rime,  ed  ogni  traduzione,  l'ho  fatto  in  ore  secon- 
darie, talché  ho  assegnato  a  me  stesso  l'avanzo  di  me,  piuttosto 
che  le  primizie  del  giorno  ;  e  dovendo  lasciare,  o  le  cose  mie, 
o  lo  studio,  senza  nessun  dubbio  lascio  le  mie. 

Sistemato  dunque  in  tal  guisa  il  mio  vivere,  incassati  tutti  i 
miei  libri,  fuorché  i  necessari,  e  mandatili  in  una  villa  fuori  di 
Firenze,  per  vedere  se  mi  riusciva  di  non  perderli  una  seconda 
volta,  questa  tanto  aspettata  ed  abborrita  invasione  dei  Francesi 
in  Firenze  ebbe  luogo  il  dì  26  marzo  del  99,  con  tutte  le  parti- 
colarità, che  ognuno  sa,  e  non  sa,  e  non  meritano  d'essere  sapute, 
sendo  tutte  le  operazioni  di  codesti  schiavi  di  un  solo  colore  ed 
essenza.  E  quel  giorno  stesso,  poche  ore  prima  ch'essi  v'entras- 
sero, la  mia*  donna  ed  io  ce  n'andammo  in  una  villa  fuor  di 
Porta  San  Gallo  presso  a  Montughi*,  avendo  già  prima  vuotata 
interamente  d'ogni  nostra  cosa  la  casa  che  abitavamo  in  Firenze 
per  lasciarla  in  preda  agli  oppressivi  alloggi  militari. 

>  Zaccaria  Calliergi  filologo  greco  nato  a  Creta  alla  fine  del  secolo  XV;    ' 
diresse  la  tipografia  greca  istituita  a  Roma  da  Augusto  Chigi:  uscirono 
dai  suoi  torchi  parecchie  edizioni  di  classici  greci  famose  per  la  correzione 
del  testo  e  per  la  nitidezza  della  stampa;  si  ricordano  specialmente  un 
Teocrito  (1516)  ed  il  Pindaro  (1494)  al  quale  accenna  l'A. 

*  Piccola  località  a  settentrione  di  Firenze,  a  circa  un  chilometro  e  mezzo 
fuori  Porta  S.  Oallo. 


La  vita  287 

APPENDICE^ 


QVIESCIT  .  HIC  .  TANDEM 

VICTORIVS  .  ALFERIVS  .  ASTENSIS 

MVSARVM  .  ARDENTISSIMVS  .  CVLTOR 

VERITATI .  TANTVMMODO  .  OBNOXIVS 

DOMINANTIBUS  .  IDCIRCO  .  VIRIS 

PER/EQUE  .  AC  .  INSERVIENTIBVS  .  OMNIBVS 

INVISVS  .  MERITO 

MULTITVDINI 

EO  .  QVOD  .  NVLLA  .  VNQVAM  .  OESSERIT 

PVBLICA  .  NEQOTIA 

lONOTVS 

OPTIMIS  .  PERPAVCIS  .  ACCEPTVS 

NEMINI 

NISI  .  FORTASSE  .  SIBIMET  .  IPSI 

DESPECTVS 

VIXIT  .  ANNOS MENSES DIES  .... 

OBIIT DIE  .  .  .  MENSIS 

ANNO  .  DOMINI  .  MDCCC  .... 


HIC  .  SITA  .  EST 
ALOYSIA  .  E  .  STOLBEROIS 

ALBANIA  .  COMITISSA 

GENERE  .  FORMA  .  MORIBVS 

INCOMPARABILI  .  ANIMI .  CANDORE 

PR/ECLARISSIMA 

A  .  VICTORIO  .  ALFERIO 

IVXTA  .  QVEM  .  SARCOPHAGO  VNO  (•) 

TVMVLATA  .  EST 

ANNORVM SPATIO 

VLTRA  .  RES  .  OMNES  .  DILECTA 

ET .  QVASI  .  MORTALE  .  NVMEN 

AB  .  IPSO  .  CONSTANTER  .  HABITA 

ET  .  OBSERVATA 

VIXIT  .  ANNOS MENSES DIES  .... 

IN  .  HANNONIA  .  MONTIBVS  .  NATA 

OBIIT DIE  .  .  .  MENSIS 

ANNO  .  DOMINI .  MDCCC 

(*)  Sic  inscribendum,  me,  ut  optnor  et  opto,  pcmorìente  :  sed  aliter  Jnbente 
Dee,  aliter  intcrìbendum. 

QVI  .  IVXTA  .  EAM  .  SARCOPAOHO  .  VNO 
CONDITVS  .  CRIT  .  QVAM  .  PRIMVM. 

1  Queste  eplp^afi  vennero  fatte  incidere  dall'A.   tu   due   tavolette  di 
nrmo,  e  riireste  in  prllp  nera,  a  g^Ji-*  <!'  libro,  le  quali  si  conservano 
:  ci  Museo  Faore  a  Montiiellif.  Le  iscrizioni  peto  non  vennero  poste  sui 
sepolcri  ai  quali  erano  destin.i'e. 


^8^  Vittorio  Alfieri 


CAPITOLO  VIOESIMOTTAVO 

Occupazioni  in  villa.  Uscita  dei  Francesi.  Ritorno  nostro  in  Firenze.  Let- 
tere  del  Colli.  Dolore  mio  nell'udire  la  ristampa  prepararsi  in  Parigi  delle 
mie  opere  di  Kehl,  non  mai  pubblicate. 

In  tal  maniera  io  oppresso  dalla  comune  tirannide,  ma  non 
perciò  .soggiogato,  me  ne  stetti  in  quella  villa  con  poca  gente 
di  servizio,  e  la  dolce  metà  di  me  stesso,  ambedue  indefessa- 
mente occupati  nelle  lettere,  che  anch'essa  sufficientemente  perita 
nella  lingua  inglese  e  tedesca,  ed  egualmente  poi  franca  nell'ita- 
liano che  nel  francese,  la  letteratura  di  queste  quattro  nazioni 
conosce  quant'è,  e  dell'antica  non  ignora  l'essenza  per  mezzo 
delle  traduzioni  in  queste  quattro  lingue.  Di  tutto  adunque  po- 
tendo io  favellare  con  essa,  soddisfatto  egualmente  il  core  che 
la  mente,  non  mi  credeva  mai  più  felice,  che  quando  mi  toccava 
di  vivere  solo  a  solo  con  essa,  disgiunti  da  tutti  i  tanti  umani 
malanni.  E  così  eramo  in  quella  villa,  dove  pochissimi  dei  nostri 
conoscenti  di  Firenze  ci  visitavano  ',  e  di  rado,  per  non  insospettire 
la  militare  e  avvocatesca  tirannide,  che  è  di  tutti  i  guazzabugli 
politici  il  più  mostruoso,  e  risibile,  e  lagrimevole  ed  insoppor- 
tabile, e  mi  rappresenta  perfettamente  un  tigre  guidato  da  un 
coniglio. 

Subito  arrivato  in  villa  mi  posi  a  lavorare  di  fronte*  la  rico- 
piatura e  limatura  delle  due  Alcesti,  non  toccando  però  le  ore 
dello  studio  matutino,  onde  poco  tempo  mi  avanzava  da  pen- 
sare a'  nostri  guai  e  pericoli,  essendo  sì  caldamente  occupato. 
Ed  i  pericoli  erano  molti,  né  accadea  dissimularceli,  o  lusingarci 
di  non  v'essere;  ogni  giorno  mi  avvisava;  eppure  con  simile 
spina  nel  cuore,  e  dovendo  temere  per  due:  mi  facea  pure  animo, 
e  lavorava.  Ogni  giorno  si  arrestava  arbitrariamente,  al  solito 
di  codesto  sgoverno,  la  gente;  anzi  sempre  di  notte.  Erano  cosi 
stati  presi  sotto  il  titolo  di  ostaggi,  molti  dei  primarj  giovani 
della  città;  presi  in  letto  di  notte,  dal  fianco  delle  loro  mogli, 
spediti  a  Livorno  come  schiavi,  ed  imbarcativi  alla  peggio  per 
l'Isole  di  S.  Margarita.  Io,  benché  forestiere,  dovea  temere  e 
questo,  e  più,  dovendo  essere  loro  noto  come  disprezzatore  e 

>  Il  Fabre  vi  aveva  però  presa  stabile  dimora  \B\. 
*  Risohttani'  n(e. 


La  vita  289 

nemico.  Og^i  notte  poteva  esser  quella  che  mi  venissero  cercare  ; 
avea  provvisto  per  quanto  si  potea  per  non  lasciarmi  sorpren- 
dere, né  malmenare.  Intanto  si  proclamava  in  Firenze  la  stessa 
libertà,  ch'era  in  Francia,  e  tutti  i  piìi  vili  e  rei  schiavi  trionfa- 
vano. Intanto  io  verseggiava,  e  grecizzava,  e  confortava  la  mia 
donna.  Durò  questo  infelice  stato  dai  25  marzo  ch'entrarono,  fino 
al  di  5  luglio,  che  essendo  battuti,  e  perdenti  in  tutta  la  Lom- 
bardia, se  ne  fuggirono,  per  così  dir,  di  Firenze,  la  mattina  per 
tempissimo,  dopo  aver,  già  s'intende,  portato  via  in  ogni  genere 
tutto  ciò  che  potevano.  Né  io,  né  la  mia  donna  in  tutto  questo 
frattempo  abbiamo  mai  messo  piede  in  Firenze,  né  contaminati 
i  nostri  occhi  né  pur  con  la  vista  di  un  solo  Francese.  Ma  il  tri- 
pudio di  Firenze  in  quella  mattina  dell'  evacuazione,  e  giorni  dopo 
nell'ingresso  di  200  usseri  austriaci,  non  si  può  definir  con  parole. 
Avvezzi  a  quella  quiete  della  villa,  ci  volemmo  stare  ancora 
un  altro  mese,  prima  di  tornare  in  Firenze,  e  riportarvi  i  nostri 
mobili  e  libri.  Tornato  in  città,  il  mutar  luogo  non  mi  fece  mutar 
in  nulla  l'intrapreso  sistema  degli  studj,  e  continuava  anzi  con 
pili  sapore,  e  speranza,  poiché  per  tutto  quel  rimanente  del- 
l'anno 99,  essendo  disfatti  per  tutto  i  Francesi,  risorgeva  alcuna 
speranza  della  salute  dell'Italia,  ed  in  me  risorgeva  la  privata 
speranza,  che  avrei  ancor  tempo  di  finir  tutte  le  mie  piìi  che  am- 
mezzate opere.  Ricevei  in  quell'anno,  dopo  la  battaglia  di  Novi', 
una  lettera  del  marchese  Colli,  mio  nipote,  cioè  marito  di  una 
figlia  di  mia  sorella,  che  non  m'era  noto  di  persona,  ma  di  fama, 
come  ottimo  ufiziale  ch'egli  era  stato,  e  distintosi  in  quei  cinque 
e  piti  anni  di  guerra,  al  servizio  del  re  di  Sardegna  suo  sovrano 
naturale,  sendo  egli  d'Alessandria.  Mi  scrisse  dopo  essere  stato 
fatto  prigioniero,  e  ferito  gravemente,  sendo  allora  passato  al 
servizio  dei  Francesi,  dopo  la  deportazione  del  re  di  Sardegna 
fuori  dei  di  lui  Stati,  seguita  nel  gennajo  di  quell'anno  99.  La 
di  lui  lettera,  e  la  mia  risposta  ripongo  qui  tra  le  note'.  E  dirò 
qui  per  incidenza  quello  che  mi  scordai  di  dir  prima,  che  anzi 
l'invasion  dei  Francesi,  io  avea  veduto  in  Firenze  il  re  di  Sar- 
degna, e  fui  a  inchinarlo,  come  di  doppio  dover  mio,  sendo  egli 
stato  il  mio  re,  ed  essendo  allora  infelicissimo.  Egli  mi  accolse 

1  NflU  quale,  il  15  igosfo  1709,  i  Francesi  furono  vinti;  essi  si  rlnchiu- 
•ero  in  Ocnovt  con  non  pochi  Iialuni,  tra  i  quali  il  Foscolo. 
*  V.  Appendice. 

19.  -    Classiti  Italicni.  N.  2. 


290  Vittorio  Alfieri 

assai  bene;  la  di  lui  vista  mi  commosse  non  poco,  e  provai  i 
quel  giorno  quel  eh'  io  non  avea  provato  mai,  una  certa  vogli 
di  servirlo,  vedendolo  si  abbandonato,  e  sì  inetti  i  pochi,  eh 
gli  rimanevano:  e  me  gli  sarei  profferte,  se  avessi  creduto  e 
potergli  essere  utile;  ma  la  mia  abilità  era  nulla  in  tal  gener 
di  cose,  e  ad  ogni  modo  era  tardi.  Egli  andò  in  Sardegna;  va 
riarono  poi  intanto  le  cose,  egli  tornò  di  Sardegna,  ristette  de 
mesi  molti  in  Firenze  al  Poggio  Imperiale,  tenendo  gli  Austriac 
allora  la  Toscana  in  nome  del  Graa-Duca  ;  ma  anche  allora,  ma 
consigliato,  non  fece  nulla  di  quel  che  doveva  e  poteva  per  l'util 
suo  e  del  Piemonte  ;  onde  di  nuovo  poi  tornate  al  peggio  le  cose 
egli  si  trovò  interamente  sommerso.  Lo  inchinai  pure  di  nuovo  a 
ritorno  di  Sardegna,  e  vistolo  in  migliori  speranze,  molto  raen< 
mi  rammaricai  meco  stesso  di  non  potergli  esser  utile  in  nulla 
Appena  queste  vittorie  dei  difensori  dell'ordine  e  delle  prò 
prietà  mi  aveano  rimesso  un  poco  di  balsamo  nel  sangue,  chi 
mi  toccò  di  provare  un  dolore  acerbissimo,  ma  non  inaspettato 
Mi  capitò  alle  mani  un  manifesto  del  libraio  Molini  Italiano  d 
Parigi,  in  cui  diceva  di  aver  intrapreso  di  stampare  tutte  le  raii 
opere  (diceva  il  manifesto,  filosofiche,  sì  in  prosa  che  in  versi) 
e  ne  dava  il  ragguaglio,  e  tutte  pur  troppo  le  mie  opere  stam 
paté  in  Kehl,  come  dissi,  e  da  me  non  mai  pubblicate,  vi  si  tro 
vavano  per  estenso.  Questo  fu  un  fulmine  che  mi  atterrò  pe 
molti  giorni,  non  già  che  io  mi  fossi  lusingato,  che  quelle  mi( 
balle  di  tutta  l'edizione  delle  quattro  opere  Rime,  Etruria,  Ti 
rannide  e  Principe,  potessero  non  essere  state  trovate  da  chi  m 
aveva  svaligiato  dei  libri,  e  d'ogni  altra  cosa  da  me  lasciata  ii 
Parigi,  ma  essendo  passati  tant'anni,  sperava  ancora  dilazione 
Fin  dall'anno  93  in  Firenze,  quando  vidi  assolutamente  perdut 
i  miei  libri,  feci  pubblicare  un  avviso  in  tutte  le  Gazzette  d' Italia 
ove  diceva  essermi  stati  presi,  confiscati  e  venduti  i  miei  libri 
e  carte,  onde  io  dichiarava  già  fin  d'allora  non  riconoscer  pe 
mia  nessun' altra  opera,  fuorché  le  tali  e  tali  pubblicate  da  me 
Le  altre,  o  alterate,  o  supposte,  e  certamente  sempre  surre 
pitemi^nonle  ammetteva.  Ora  nel  99  udendo  questo  manifesti 
del  Molini,  il  quale  prometteva  per  l'80O  venturo  la  ristampi 
delle  suddette  opere,  il  mezzo  più  efficace  di  purgarmi  agi 
occhi  dei  buoni  e  stimabili,  sarebbe  stato  di  fare  un  contro 

i  Sottrattemi. 


La  vi!.:  291 

niantiesto,  e  confessare  i  libri  per  niiei,  uire  il  modo  con  cui 
m'erano  stati  furati,  e  pubblicare,  per  discolpa  totale  del  mio 
sentire  e  pensare,  il  Misogal/o,  che  certo  è  più  che  atto  e  ba- 
stante da  ciò.  Ma  io  non  era  libero,  né  il  sono;  poiché  abito  in 
Italia;  poiché  amo,  e  temo  per. altri'  che  per  me;  onde  non  feci 
questo  che  avrei  dovuto  fare  in  altre  circostanze  ;  per  esentarmi 
una  volta  per  sempre  dall'infame  ceto  degli  schiavi  presenti,  che 
non  potendo  imbiancare  sé  stessi,  si  compiacciono  di  sporcare 
gli  altri,  fingendo  di  crederli  e  di  annoverarli  tra  i  loro;  ed  io 
per  aver  parlato  di  libertà  sono  un  di  quelli,  ch'essi  si  asso- 
ciano volentieri,  ma  me  ne  dissocierà  ampiamente  poi  il  Miso- 
gallo,  agli  occhi  anche  dei  maligni  e  degli  stupidì,  che  son  i 
soli^  che  mi  posson  confondere  con  codestoro;  ma  disgraziata- 
mente, queste  due  categorie  sono  i  due  terzi  e  mezzo  del  mondo. 
Non  potendo  io  dunque  fare  ciò,  che  avrei  saputo  e  dovuto, 
feci  soltanto  quel  pochissimo  che  poteva  per  allora;  e  fu  di  ri- 
pubblicare di  nuovo  in  tutte  le  Gazzette  d'Italia  il  mio  avviso 
del  93,  aggiungendovi  la  poscritta,  che  avendo  udito  che  si  pub- 
blicava in  Parigi  delle  opere  in  prosa  e  in  versi,  sotto  il  mio 
nome,  rinnovava  quel  protesto  fatto  sei  anni  innanzi. 

Ma  il  fatto  si  era  che  quell'onesto  letterato  dell'ambasciator 
Qinguené  che  mi  aveva  scritto  le  lettere  surriferite  e  che  io  poi 
avea  fatto  richiedere  in  voce  dall'abate  di  Caluso,  giacché  egli 
voleva  pure  ad  ogni  costo  fare  p)er  me,  eh'  io  non  richiedeva  i 
miei  libri  né  altro,  ma  che  solamente  avrei  desiderato  raccapezzar 
qnelle  sei  balle  dell'  edizioni  non  pubblicate  ad  impedire  ogni 
circolazione:  fatto  si  é  dico  (a  quel  ch'io  mi  penso)  che  il  Qin- 
guené ritornato  poi  a  Parigi  avrà  frugato  tra  i  miei  libri  di  nuovo 
e  trovatavi  una  ballottina  contenente  4  soli  esemplari  di  quelle 
4  opere,  se  le  appropriò  :  ne  vendè  forse  al  Molini  un  esemplare 
perchè  si  ristampassero  e  le  altre  si  tenne  e  tradusse  le  prose  in 
francese  per  fame  bottega  e  donò,  non  essendo  sue,  alla  biblio- 
teca nazionale come  sta  scritto  nella   prefazione   stessa  del 

4*  volume  ristampato  dal  Molini  che  dice  non  essere  reperibile 
l'edizione  prima,  altro  che  A  esemplari  ch'egli  individua  cosi  come 
ho  detto  e  che  tornano  per  l'appunto  con  la  piccola  balla  da 
me  Usciata  fra  i  libri  altri  miei*. 

«  Non  occorre  «ottintenderc  un  più  :  non  temo  per  me,  ma  per  altri. 
*  Di  questo /a//tf,  attribuito  al  Oinguené,  non  vi  è  nessuna  prova. 


292  Vittorio  Alfieri 

Quanto  poi  alle  sei  balle  contenenti  più  di  500  esemplari  di 
ciascun' opera  non  posso  congetturare  cosa  ne  sia  avvenuto.  Se 
fossero  state  trovate  ed  aperte,  circolerebbero,  e  si  sarebbero 
vendute  piuttosto  che  ristampate,  sendo  sì  belle  l'edizioni,  la 
carta,  e  i  caratteri,  e  la  correzione.  Il  non  essere  venute  in  luce 
mi  fa  credere  che  ammontate  in  qualche  di  quei  sepolcri  di  libri, 
che  tanti  della  roba  perduta  ne  rimangono  intatti  a  putrefarsi  in 
Parigi,  non  siano  stati  aperti  ;  perchè  ci  avea  fatto  scrivere  su  le 
balle  di  fuori  —  Tragedie  Italiane.  —  Comunque  sia,  il  doppio 
danno  ne  ho  avuto  di  perdere  la  mia  spesa  e  fatica  nella  pro- 
prietà di  quelle  stampate  da  me,  e  di  acquistare  (non  dirò  l'in- 
famia) ma  la  disapprovazione  e  la  taccia  di  fai  da  corista  a  quei 
birbi,  nel  vedermele  pubblicate  per  mezzo  delle  stampe  d'altrui. 


La  vita  293 

APPENDICE 


Veneralisslrao  Sig.  Zio. 

Sul  punto  di  abbmdonare  l'Italia,  per  forse  tornarvi  mai  più,  mi  per- 
metta, Sig.  Zio  veneratiss.,  ch'io  le  parli  del  sommo  rincrescimento  che 
provo  nel  dovere  rinunciare  alla  speranza  che  da  tempo  nudrivo  di  cono- 
scerla una  volta  personalmente.  Questa  mia  determinazione,  che  a  me  pare 
dettata  da  delicatezza,  dai  molti  è  nommata  eccesso  d'amor  proprio  e  dai  più 
pregiudizio  ridicolo.  Forse  han  ragione  ;  ma  non  posso  far  forza  alla  mia 
natura  che  così  mi  dice;  e  quando  mi  fosse  stato  possibile,  le  minaccie 
di  esigilo  perpetuo,  di  confisca  de'  miei  beni,  che  mi  la  in  questo  punto 
il  Governo  Piemontese  se  non  rientro  subito  ;  queste  sole  minaccie  baste- 
rebbero a  rìffrancanni  nella  già  presa  determinazione.  —  Pugnai  contro 
i  Francesi  quando  erano  vittoriosi;  cominciai  a  pugnar  per  essi  quando 
furon  vinti,  e  non  posso  assolutamente  determinarmi  a  lasciarli  perdenti. 

Credo  che  non  anderà  guari  ch'io  sarò  cambiato.  Non  so  quando  le 
numerose  ferite  ultimamente  rilevate  mi  permetteranno  di  ritrattar  l'anni, 
certo  se  guerreggierò  non  sarà  mai  in  Italia.  —  Desidero  la  pace  (non  la 
credo  prossima),  affine  di  chiamare  a  me  l'amata  mia  Consorte,  virtuosis- 
sima Nipote  di  lei,  e  l'unico  mio  Figlio  ;  infinito  duolo  provo  in  separar- 
mene ;  oh,  quanto  desidererei  che  lei  la  conoscesse  !  Donna  più  dolce, 
più  teiiera,  di  anima  più  alta,  più  nobile,  di  sensi  più  sublimi,  non  seppi 
mai  neppure  immaginarla. 

Parto  domani  alla  volta  di  Oratz,  e  provo  una  vera  consolazione  nel- 
l'avere aperto  il  mio  cuore  a  Lei,  non  già  ch'io  creda  che  la  mii  con- 
dotta possa  venir  approvata,  ma  forse  qualcuno  fra  I  Piemontesi  capitati 
a  Firenze,  mi  avrà  dipinto  a  lei  come  un  fanatico,  o  un  uomo  di  smisu- 
rata ambizione;  non  sono  né  l'un  né  l'altro,  ero  forse  nato  per  viver  in 
un  altro  secolo,  fra  altri  uomini  ;  sono  veramente  ridicolo  in  questo  secolo, 
mi  trovavo  tale  fra  i  Piemontesi,  mi  vedo  tale  fra  i  Francesi. 

Spero  da  lei,  veneratissimo  Sig.  Zio,  compatimento  se  erro,  e  spero  pure 
vorrà  accettare  l'assicuranza  dei  sentimenti  di  verace  stima,  e  d'ossequioso 
attaccamento  co'  quali  mi  pregio  essere 

Di  VS.  Veneratiss. 

Treviso  H  2  Novembre  1799. 

Der.mo  ed  Obb.mo  Serv.  ed  Aff.mo  Nipote, 
Luioi  Colli. 


Nipote  mio. 

Firenze  di  16  Novembre  1799. 
Ad  uomo  di  allo  e  di  forte  animo,  quale  vi  reputo  e  siete,  o  queste 
poche  mie  veracissime  e  cordiali  parole  basteranno,  o  nessune. 

Olà  l'onor  vostro  avete  leso  voi  stesso  e  non  poco,  dal  punto  in  cui  voi, 
per  somma  vostra  fortuna  non  nato  Francese,  spontaneamente  pure  Indos- 
saste la  livrea  della  France«e  Tirannide.  Risarcirlo  potete  forse  ancora  voi 
stesto,  volendo:  ma  egli  sarà  pur  troppo  in  tutto  perduto,  e  per  sempre, 
•e  voi  persistete  in  una  cosi  obbrobriosa  servitù.  N>  lo  già  vi  dico  di 
eedere  alle  minaccie  di  confisca,  o  d'esiglio,  fattevi  da'.  Governo  Piemon- 
-  ;  ma  di  cedere  bensì  alle  ben  altre  incessanti  mintcde  che  vi  fanno 


294  ViUorio  Alfieri 

senza  dubbio  la  propria  vostra  cosdenza,  e  l'onore,  e  l' inevitabile  Tribù 
naie  terribile  di  chi  dopo  noi  ci  accorda,  o  ci  toglie  con  imparziale  giu- 
dizio la  fama.  La  vostra  era  stata  finora,  non  che  intatta,  gloriosa;  non 
uno  dei  Piemontesi  che  ho  visti  mi  ha  parlato  di  voi,  che  non  stimasse  e 
ammirasse  i  vostri  militari  talenti.  Riassumetela  dunque,  col  confessare  sì 
ai  Francesi  medesimi,  che  ai  vostri,  che  voi  avete  errato  servendo  gli 
oppressori  e  i  Tiranni  della  nostra  Italia.  Ed  ove  pure  vi  possa  premere 
la  stima  di  una  gente  niente  stimabile,  sappiate  che  gli  stessi  Francesi  vi 
stimeranno  assai  più  se  li  abbandonate,  di  quello  che  vi  stimeranno  anche 
valorosamente  servendoli. 

Del  resto,  quand'  anche  codesti  vostri  schiavi  parlanti  di  libertà  trionfas- 
sero, e  venissero  a  soggiogare  tutta  l'Europa;  o  quand'anche  voi  perve- 
niste fra  essi  all'apice  dei  massimi  loro  vergognosissimi  onori,  non  già 
per  questo  mai  rimarreste  voi  pago  di  voi  medesimo,' ne  con  sicura  e 
libera  fronte  ardireste  voi  inalzare  nei  miei  occhi  i  vostri  occhi,  incon- 
trandomi. La  mendicità  dunque,  e' la  più  oscura  vita  nella  vostra  patria 
(il  che  pure  non  vi  può  toccar  mai)  vi  farebbero  e  meno  oppresso,  e  men 
vile,  e  meno  schiavo  d'assai,  che  non  il  sedervi  su  l'uno  dei  cinque  Troni 
Direttoriali  in  Parigi.  Più  oltre  non  potreste  ascender  voi  mai;  né  mag- 
giormente contaminarvi. 

Ed  in  ultimo  vi  fo  riflettere,  che  voi  non  potete  la  degnissima  vostra 
Consorte  ad  un  tempo  stesso  amare  come  mi  dite  e  stimare,  e  macchiarla. 

Finisco,  sperando,  che  una  qualche  impressione  vi  avran  fatta  nell'animo 
questi  miei  duri  ma  «sincerissimi  ed  affettuosi  sentimenti,  ai  quali  se  voi 
non  prestate  fede  per  ora,  son  certo  che  il  giorno  verrà  in  cui  pienissima 
la  presterete  poi  loro;  ma  invano. 

Son  tutto  Vostro 
Vittorio  Alfieri. 


Riveritiss.  Sig.  Zio. 

Ebbi  l'onore  richiamarmi  alla  di  lei  ricordanza  nel  partire  d'Italia;  non 
so  se  la  mia  lettera  le  sarà  giunta.  Vi  ritorno,  e  la  prima  mia  premura  si 
è  di  ripetere  quest'atto  che  mi  vien  commandato  dalla  stima,  e  (mi  per- 
metta di  dirlo)  del  rispettoso  attaccamento  che  le  professo. 

Ritorno  in  Italia  coU'obbligo  stretto  di  convincere  il  Governo  Francese 
(o  per  dir  meglio  i  miei  amici  Moreau,  Desolles,  Bonaparie,  Orouchi,  Oré- 
nìer)  della  mia  riconoscenza  perde  non  dubbie,  reiterate,  ostinate  prove 
di  vivo  interessamento  a  mio  favore  dimostrate.  —  Combatterò  dunque 
ancora;  l'amicizia,  la  gratitudine  mi  faran  combattere...  Chi  sa,  forse 
l'ambizione  si  maschera  così. 

Non  starò  più  in  Piemonte,  se  il  re  di  Sardegna  vi  rientra  non  devo 
decentemente  starvi.  Se  il  Piemonte  si  democratizza  vi  sono  troppo  amato 
dai  Contadini  per  potere  starvi  senza  correre  il  rischio  d'ingelosire  i  debo- 
lissimi Governanti  della  nascente  Repubblica.  Non  so  ancora  dove  mi  fis- 
serò. Forse  in  Francia,  ma  non  mi  vi  decido  ancora.  Vado  a  Milano,  dovrò 
starvi  circa  15  giorni;  se  l'armistizio  durerà,  anderò  poi  a  Parigi;  ma 
prima,  se  me  lo  permette,  avrò  1'  onore  di  personalmente  assicurarla  degli 
ossequiosi  sentimenti  co'  quali  mi  pregio  essere 

Di  V.  S.  Reveritiss. 

Bologna  li  31  Ottobre  1800. 

Dev.mo  ed  Obb.mo  Serv.  ed  Affex.mo  Nipote, 
Colli. 


La  vita  295 


CAPITOLO  VIOESiMONONO 

Seconda  invasione.  Insistenza  nojosa  del  General  letterato.  Pace  tal  quale, 
per  cui  mi  scemano  d'alquanto  le  angustie.  Sei  Commedie  ideate  ad 
un  parto. 

Appena  per  qualche  mesi  aveva  l'Italia  un  poco  respirato  dal 
giogo  e  ruberie  francesi,  quando  la  favolosa  battaglia  di  Ma- 
rengo nel  giugno  del  1800  diede  in  poche  ore  l' Italia  tutta  in 
preda  di  costoro,  chi  sa  per  quant'  anni.  Io  la  sentiva  quanto  e 
piti  ch'altri,  ma  piegando  il  collo  alla  necessità,  tirava  a  finire 
le  cose  mie  senza  più  punto  curare  per  cosi  dire  un  pericolo, 
dal  quale  non  m'era  divezzato  ancora,  né  oramai,  visto  l'insta- 
bilità di  codeste  sozzure  politiche,  me  ne  divezzerò  mai  piìi.  As- 
siduamente dunque  lavorando  sempre  a  ben  ridurre  e  limare 
le  mie  quattro  traduzioni  greche,  e  nuli' altro  poi  facendo  che 
proseguire  ardentemente  gli  studj  troppo  tardi  intrapresi,  strasci- 
nava il  tempo.  Venne  l'ottobre,  e  il  dì  15  d'esso,  ecco  di  nuovo 
inaspettatamente  in  tempo  di  tregua  fissata  con  l'Imperatore, 
invadono  i  Francesi  di  nuovo  la  Toscana,  che  riconoscevano 
tenersi  pel  Gran-Duca,  col  quale  non  erano  in  guerra.  Non  ebbi 
tempo  questa  volta  di  andare  in  villa  come  la  prima,  e  bisognò 
sentirli  e  vederli,  ma  non  mai  altro,  s'intende,  che  nella  strada. 
Del  resto  la  maggior  noia  e  la  più  oppressiva,  cioè  l'alloggio 
militare,  venni  a  capo  presso  il  comune  di  Firenze  di  farmene 
esentare  come  forestiere,  ed  avendo  una  casa  ristretta  e  incapace. 
Assoluto  di  questo  timore,  che  era  il  più  incalzante  e  tedioso, 
del  resto  mi  rassegnai  a  quel  che  sarebbe.  Mi  chiusi  per  così 
dire  in  casa,  e  fuorché  due  ore  di  passeggiata  a  me  necessarie, 
che  faceva  ogni  mattina  nei  luoghi  più  appartati  e  soletto,  non 
mi  facea  mai  vedere,  né  desisteva  dalla  più  ostinata  fatica. 

Ma  se  io  sfuggiva  costoro,  non  vollero  essi  sfuggire  me,  e  per 
mia  disgrazia  il  loro  generale  comandante  in  Firenze',  pizzicando 
del  letterato,  volle  conoscermi,  e  civilmente  passò  da  me  una,  e 
due  volte,  sempre  non  mi  trovando,  che  già  avea  provvisto  di 
non  essere  reperibile  mai  ;  né  volli  pure  rendere  garbo  per  garbo 


»  Carlo  Francesco  Miollis  (1759-1828)  il  quale  fu  a  lungo  governatore  di 
Mantova,  poi  di  Roma,  dimcttrò  una  speciale  simpatia  per  la  nostra  let- 
teratura. 


296  Vittorio  Alfieri 

col  restituir  per  polizza  la  visita.  Alcuni  giorni  dopo  egli  mandc 
ambasciata  a  voce,  per  sapere  in  che  ore  mi  potrebbe  trovare, 
Io  vedendo  crescere  l' insistenza,  e  non  volendo  commettere  ad 
un  servitor  di  piazza  la  risposta  in  voce,  che  potea  venire  o  scam- 
biata o  alterata,  scrissi  su  un  fogliolino;  che  Vittorio  Alfieri, 
perchè  non  seguisse  sbaglio  nella  risposta  da  rendersi  dal  servo 
al  signor  generale,  mettea  per  iscritto  :  che  se  il  generale  in  qua- 
lità di  comandante  in  Firenze  intimavagli  di  esser  da  lui,  egli 
ci  si  sarebbe  immediatamente  costituito,  come  non  resistente  alla 
forza  imperante,  qual  ch'ella  si  fosse:  ma  che  se  quel  volermi 
vedere  era  una  mera  curiosità  dell'individuo,  Vittorio  Alfieri  di 
sua  natura  molto  selvatico  non  rinnovava  oramai  piìi  conoscenza 
con  chi  che  sia,  e  lo  pregava  quindi  di  dispensamelo.  Il  gene- 
rale rispose  direttamente  a  me  due  parole,  in  cui  diceva  che 
dalle  mie  opere  gli  era  nata  questa  voglia  di  conoscermi,  ma 
che  ora  vedendo  questa  mia  indole  ritrosa,  non  ne  cercherebbe 
altrimenti.  E  così  fece  ;  e  così  mi  liberai  di  una  cosa  per  me  più 
gravosa  e  accorante,  che  nessun  altro  supplizio  che  mi  si  fosse 
potuto  dare'. 

In  questo  frattempo  il  già  mio  Piemonte,  celtizzato  anch' egli, 
scimmiando  ogni  cosa  dei  suoi  servipadroni,  cambiò  l'Accademia 
sua  delie  scienze,  già  detta  reale,  in  un  Instituto  nazionale  a 
norma  di  quel  di  Parigi,  dove  avean  luogo,  e  le  belle  lettere, 
e  gli  artisti.  Piacque  a  coloro,  non  so  quali  si  fossero  (perchè 
il  mio  amico  Caluso  si  era  dimesso  del  segretariato  della  già 
Accademia),  piacque  dico  a  coloro  di  nominarmi  di  codesto  Isti- 
tuto, e  darmene  parte  con  lettera  diretta,  lo  prevenuto  già  dal- 
l'abate, rimandai  la  lettera  non  apertala,  e  feci  dire  in  voce  dal- 
l'abate,  che  io  non  riceveva  tale  aggregazione;  che  non  voleva 
essere  di  nessuna,  e  massimamente  d'una  donde  recentemente 
erano  stati  esclusi,  con  animosa  sfacciataggine,  tre  così  degni 
soggetti,  come  il  cardinale  Gerdil-,  il  conte  Balbo^,  ed  il  cavalier 
Morozzo*,  come  si  può  vedere  dalle  qui  annesse  lettere*  dell' a- 

»  Su  questo  episodio  cfr.  O.  Mazzatinti,  Carte  alfierlane  c\t,  \n  Qlor. 
stor.  della  lett.  ital.,  HI,  p.  342. 

«  Giacinto  Sigismondo  OerdiI,  cardinale  e  filosofo  savoiardo  (1718-1S02). 

«  Prospero  Balbo  (1762-1837),  padre  di  Cesare,  esercitò  pubblici  uffici 
anche  sotto  la  dominazione  francese. 

*  Carlo  Lodovico  Morozzo  (1746-1802),  patrizio  torinese,  illustratosi 
quale  chimico. 

»  V.  Appendice. 


La  vita  297 

mico  Caluso,  non  adducendo  di  ciò  altra  cagione,  fuorché  questi 
erano  troppo  realisti.  Io  non   sono  mai  stato,  né  sono  realista, 
ma  non  perciò  son  da  essere  misto  con  tale  genia  :  la  mia  re- 
pubblica non  è  la  loro,  e  sono,  e  mi  professerò  sempre  d'essere 
in  tutto  quel  ch'essi  non  sono.  E  qui  pure  pien   d'ira  pel  rice- 
vuto affronto,  mi    spergiurai    rimando   quattordici   versi    su  tal 
fatto,  e  li  mandai  all'amico;  ma  non  ne  tenni  copia,  né  questi 
né  altri  che  l' indegnazione  od  altro  affetto  mi  venisse  a  strappar 
dalla  penna,  non  registrerò  oramai  più  fra  le  mie  già  troppe  rime. 
Non  cosi  aveva  io  avuto  la  forza   di    resistere   nel   settembre 
dell'anno  avanti  ad  un   nuovo  (o  per  dir  meglio)  ad  un   rinno- 
vato impulso  naturale  fortissimo,  che  mi  si  fece  sentire  per  più 
giorni,  e  finalmente,  non  lo  potendo  cacciare,  cedei.  E  ideai   in 
iscritto  sei  commedie,  si  può  dire  ad  un  parto  solo.  Sempre  avea 
avuto  in  animo  di   provarmi  in   quest'ultimo  arringo;  ed  avea 
fissato  di  farne  dodici,  ma  1  contrattempi,  le  angustie  d'  animo, 
e  più  d'ogni  cosa  lo  studio  prosciugante  continuo  di  una  sì  im- 
mensamente vasta  lingua,  qual  è  la   greca,  mi  aveano  sviato  e 
smunto  il  cervello,  e  credeva  oramai  impossibile  ch'io  conce- 
pissi più  nulla,  né  ci  pensava  neppure.  Ma,  non  saprei  dir  come 
nel  più  triste  momento  di  schiavitù,  e  senza  quasi   probabilità, 
né  speranza  di  uscirne,  né  d'aver  tempo  io  più,  né  mezzi  per 
eseguire,  mi  si  sollevò  ad  un  tratto  lo  spirito,  e  mi  riaccese  fa- 
lle creatrici.  Le   prime  quattro  commedie'  adunque,  che  sono 
iasi  una  divisa  in  quattro,  perché  tendenti  ad  uno  scopo  solo, 
n  per  mezzi  diversi,  mi  vennero  ideate  insieme  in  una  passeg- 
iata.  e  tornando  ne  feci  l'abbozzo  al  solito  mio.  Poi  il  giorno 
ipo  fantasticandovi,  e   volendo    pur  vedere  se  anche   in   altro 
genere  ne  potrei  fare,  almeno  una  per  saggio,  ne  ideai  altre  due*, 
tli  cui  la  prima  fosse  di  un  genere  anche  nuovo  per  l'Italia,  ma 
diverso  dalle  quattro,  e  la  sesta  poi  fosse  la  commedia  mera  ita- 
liana dei  costumi  d'Italia  quali  sono  adesso;  per  non  avertacela 
!i  non  saperli  descrivere.  Ma  appunto  perché  i  costumi  variano, 
li  vuol   che  le    commedie  restino,  deve  pigliar  a   deridere,  ed 
emendare  l'uomo;  ma  non  l'uomo  d'Italia,  più  che  di  Francia 

"',  L'antidoto.  Le  tre  prime  commedie  sono  ri- 
5  ila   monarchia,  della   oligarchia   e   della   dcmo- 

'■'  .     ;.•  in  quakoi*  che  ha  della  monarchia  costittizio» 

.:e  »  «ipo  inglese. 

>  Im  finestrtna  e  //  div^rtlo:  allegorica  la  prima,  morale  la  s.  con  la. 


298  Vittorio  Alfieri 

o  di  Persia  ;  non  quello  del  1800,  più  che  quello  del  1500,  o  del 
2000,  se  no  perisce  con  quegli  uomini  e  quei  costumi,  il  sale 
della  commedia  e  l'autore.  Così  dunque  in  sei  commedie  io  ho 
creduto,  o  tentato  di  dare  tre  generi  diversi  di  commedie.  Le 
quattro  prime  adattabili  ad  ogni  tempo,  luogo,  e  costume;  la 
quinta  fantastica,  poetica,  ed  anche  di  largo  confine;  la  sesta 
nell'andamento  moderno  di  tutte  le  commedie  che  si  vanno  fa- 
cendo, e  delle  quali  se  ne  può  far  a  dozzina  imbrattando  il  pen- 
nello nello  sterco  che  si  ha  giornalmente  sotto  gli  occhi:  ma  la 
trivialità  d'esse  è  molta;  poco,  a  parer  mio,  il  diletto,  e  nessu- 
nissimo utile.  Questo  mio  secolo,  scarsetto  anzi  che  no  d' inven- 
zioni, ha  voluto  pescar  la  tragedia  dalla  commedia,  praticando 
il  dramma  urbano \  che  è  come  chi  direbbe  l'epopea  delle  Rane. 
Io  all'  incontro  che  non  mi  piego  mai  se  non  al  vero,  ho  voluto 
cavare  (con  maggiore  verisimiglianza  mi  credo)  dalla  tragedia 
la  commedia  ;  il  che  mi  pare  più  utile,  più  divertente,  e  più  nel 
vero;  poiché  dei  grandi  e  potenti  che  ci  fan  ridere  si  vedono 
spesso;  ma  dei  mezzani,  cioè  banchieri,  avvocati,  o  simili,  che 
si  facciano  ammirare  non  ne  vediamo  mai;  ed  il  coturno  assai 
male  si  adatta  ai  piedi  fangosi.  Comunque  sia  l'ho  tentato;  il 
tempo,  ed  io  stesso  rivedendole,  giudicherò  poi  se  debbano  stare, 
o  bruciarsi. 


»  O  tragedia  borghese,  avente  personaggi  non  storici  e  di  condizione 
non  elevata. 


La  vita  299 


APPENDICE 


Amico  carissimo. 

Firenze  li  6  Marzo  1801. 
Ho  ricevuto  per  mezzo  di  D  '  Albarey  le  due  vostre,  di  cui  l' ultima 
de'  25  Febbraio  mi  ha  molto  angustiato  per  la  notizia  che  mi  vi  date  di 
esser  io  stato  nominato  non  so  da  chi  per  essere  aggregato  a  codesta  adu- 
nanza letteraria.  Veramente  io  mi  lusingava  che  la  vostra  amicizia  per  me, 
e  la  pienissima  conoscenza  che  avete  del  mio  carattere  indipendente,  ritroso, 
orgoglioso,  ed  intero,  vi  avrebbero  impegnato  a  distornare  da  me  codesta 
nomina;  il  che  era  facilissimo  prima,  se  voi  aveste  pregato  i  nominanti  di 
sospenderla  finche  me  ne  aveste  prevenuto  ;  ovvero  se  con  quella  schiet- 
tezza e  libertà  che  si  può  sempre  adoprare  quando  si  parla  per  altri,  voi 
a%'este  addotto  il  mio  modo  invariabile  di  sentire  e  pensare  come  un  osta- 
colo assoluto  ad  una  tale  aggregazione  del  mio  individuo.  Comunque  sia, 
già  che  non  lo  avete  fatto  prima,  vi  prego  caldissimamente  di  farlo  dopo, 
e  di  liberarmene  ad  ogni  costo;  e  voi  lo  potete  far  meglio  di  me,  stante 
la  dolcezza  del  vostro  aureo  carattere.  Sicché,  restiamo  così  ;  che  io  non 
avendo  finora  ricevuto  lettera  nessuna  di  avviso,  caso  mai  la  ricevessi,  la 
dissimulerò  come  non  ricevuta,  finché  voi  abbiate  risposto  a  questa  mia, 
ed  annunziatomi  il  disimpegno  accettato.  E  questo  vi  sarà  facile,  perché 
io  consento  volentieri,  che  i  Nominanti  e  i  Proponenti  per  conservare  il 
loro  decoro  si  ritrattino  dell'avermi  aggregato,  e  mi  disnominino  per  così 
dire  con  la  stessa  plenipotenza  con  cui  mi  hanno  creato  ;  e  dicano  o  che 
fu  sbaglio,  o  che  a  pensier  maturato  non  me  ne  reputan  degno,  lo  non  ci 
metto  vanità  nessuna  nel  rifiuto,  ma  metto  importanza  moltissima  nel  non 
v'essere  in  nessuna  maniera  inscritto,  e  se  già  lo  sono  stato  ad  esseme 
assolutamente  cassato.  Io  non  cerco  come  ben  sapete  gli  onori,  né  veri, 
né  falsi  ;  ma  io  per  certo  non  mi  lascierò  addossare  mai  vergogna  nessuna. 
E  questa  per  me  sarebbe  massima,  non  già  per  il  ritrovarmi  io  in  com- 
pagnia di  tanti  rispettabili  soggetti  come  avete  fra  voi,  ma  per  l'esservi  in 
tali  circostanze,  in  tal  modo  ;  ed  in  somma  non  soffrirei  mai  di  essere  in- 
tmso  in  una  Società  Letteraria,  dalla  quale  sono  espulse  delle  persone  come 
il  conte  BaltH),  e  il  cardinal  Oerdil.  Sicché  le  tante  altre  e  validissime  ragioni 
che  avrei,  e  che  voi  conoscete  e  sentite  quanto  me,  reputandole  inutili,  a 
voi  non  le  scrivo;  ma  mi  troverei  poi  costretto  a  metterle  in  tutta  la  loro 
evidenza  e  pubblicità,  quando  per  mezzo  vostro  non  ottenessi  il  mio  intento. 

Se  dunque  voi  mi  cavate  di  questo  impiccio,  e  se  siete  in  tempo  a  rispar- 
tniarmi  la  lettera  d'avviso,  sarà  il  meglio.  Se  poi  la  riceverò,  e  sarò  costretto 
a  dame  discarico  con  risposta  diretta,  mi  spiacerà  di  dovermene  cavar  fuori 
io  stesso  con  mezzi  o  parole  spiacenti  non  meno  che  inutili,  quando  se  ne 
potea  f<ire  a  meno. 

Passo  ad  altro,  e  mi  dico  ec. 


Amico  carissimo. 

Torino  ì  18  Marzo  1801. 
Io  non  pensava  che  v'  avesse  certo  a  piacer  molto  la  nomina  e  aggrega- 
zion  vostra  a  questa  Accademia,  ma  neppure   avrei  creduto  che  vi  desse 
tanto  fastidio,  e  ad  ogni  modo  non  sarebbe  st.ito  conveniente  che  quando 


300  Vittorio  Alfiere 

siete  stato  proposto  nell'assemblea  di  tanti  accademici  più  della  metà  ora 
nuovi,  e  molti  di  niuna  mia  confidenza,  io  senza  espressa  vostra  commis- 
sione mi  fossi  voluto  far  interprete  delle  vostre  intenzioni,  e  dire:  che  non 
si  passasse  a  votare  per  voi  come  per  gli  altri  proposti  si  faceva.  Ma  questo 
non  vi  pone  in  impiccio  alcuno;  che  già  v'ho  sbrogliato.  Subito  ricevuta 
la  vostra,  sono  andato  a  parlare  a  uno  dei  nostri  Presidenti  e  al  Segretario 
che  vi  dovevano  scrivere,  per  vedere  se  fossi  a  tempo  che  non  vi  si  spedisse 
la  lettera.  Ma  essendo  essa  partita,  sono  rimasto  con  essi,  e  quindi  con 
l'altro  Presidente,  Segretari,  e  Accademici  della  classe  delie  Belle  Lettere  ec, 
adunata  jeri  sera,  che  si  tenga  l'Accademia  per  ringraziata  da  voi  senza 
che  sia  necessario  che  voi  rispondiate.  Ho  detto  che  voi  m'avevate  inca- 
ricato di  scusarvi  e  ringraziare,  desiderando  per  mio  mezzo  essere  disimpe- 
gnato senza  scrivere.  E  ciò  è  fatto;  e  non  sarete  posto  nell'elenco  che  si 
sta  stampando  degli  Accademici.  E  resto  abbracciandovi  con  tutto  il  cuore. 


Amico  carissimo. 

Firenze  28  Marzo  1801. 
La  vostra  ultima  che  mi  annunzia  la  mia  liberazione  da  codesta  iscrizione 
letteraria,  mi  ha  consolato  molto.  La  settimana  passata  soltanto  ho  ricevuto 
(o  per  dir  meglio  avuta,  poiché  non  la  ricevo)  la  lettera  accademica  ;  ella 
è  intatta,  e  ve  la  rimando  pregandovi  caldamente  di  farla  riavere  a  chi 
me  r  ha  scritta.  Questo  solo  manca  alla  mia  intera  purificazione  di  questo 
affare,  che  la  lettera  ritorni  al  suo* fonte  intatta,  con  quel  suo  rispettabil 
sigillo;  che  se  ad  essa  avessi  voluto  rispondere,  l'avrei  fatto  scrivendo 
intorno  al  non  infranto  sigillo  queste  quattro  sole  parole,  laconizzando: 
ti  Liot,  aùv  So'jÀoig;  ma  per  non  comprometter  voi,  ne  eccedere  senza 
bisogno,  mi  basta  che  la  lettera  sia  restituita  intatta,  perchè  conoscano  che 
io  i:on  r  ho  tenuta  per  diretta  a  me.  E  senza  tergiversare  vi  dico  anche, 
che  io  non  ingozzo  a  niun  patto  quell'infangato  titolo  di  Cittadino,  non 
perchè  io  voglia  esser  Conte,  ma  perchè  sono  Vittorio  Alfieri  libero  da 
tant'anni  in  qua,  e  non  liberto.  Mi  direte  che  quello  è  lo  stile  consueto  per 
ora  cos:à  nello  scrivere,  ma  io  risponderò  ;  che  costà  codestoro  non  doveano 
mai  ne  pensare  a  me,  né  nominarmi  mai  ne  in  bene  né  in  male  ;  ma  che 
se  pur  lo  faceano,  doveano  conoscermi,  e  non  mi  sporcare  con  codesta 
denominazione  stupida  non  meno,  che  vile  e  arrogante:  poiché  se  non  v'è 
conti  senza  contea,  molto  meno  v'  è  cittadini  senza  città.  Ma  basti  ;  perchè 
non  la  finirei  mai  ;  e  dico  cose  note  Lippis  et  -Tonsoribits.  Sicché  se  mai 
voi  non  poteste,  o  non  giudicaste  congruo  a  voi  di  restituir  la  lettera,  fate 
il  piacer  di  serbarla,  finché  io  ritrovo  chi  la  restituisca.  E  intanto  datemi 
riscontro  d'averla  ricevuta  intatta  quale  per  mezzo  del  carissimo  nipote  ve 
la  rimando.  La  Signora  vi  risponderà  essa  su  l'articolo  de' suoi  libri;  ed 
io  ora  finisco  per  non  vi  tediar  di  soverchio  con  le  mie  frenesie.  Ma  sap- 
piate che  la  mi  bolle  davvero  davvero,  e  che  se  non  avessi  cinquantadue 
anni,  stravaserei.  Inutilmente,  direte;  ma  non  è  mai  inutile  la  parola  che 
dura  dei  secoli,  ed  ha  per  base  il  vero  ed  il  giusto.  Son  vostro. 


La  vita  301 


CAPITOLO  TRIGESIMO 

Stendo,  un  anno  dopo  averle  ideate,  la  prosa  delle  Sei  Comicedie  ;  ed  un 
altr'  anno  dopo  le  verseggio  :  V  una  e  l' altra  di  queste  due  fatiche  con 
graWssimo  scapito  della  salute.  Rivedo  l'abate  di  Caluso  in  Firenze. 

Passò  pure  anche  quell'anno  lunghissimo  dell' 800,  la  di  cui 
seconda  metà  era  stata  sì  funesta  e  terribile  a  tutti  i  galantuo- 
mini; e  nei  primi  mesi  del  seguente  801  non  avendo  fatto  gli 
alleati  altro  che  spropositi,  si  venne  finalmente  a  quella  orribil 
sedicente  pace',  che  ancora  dura,  e  tiene  tutta  l'Europa  in  armi, 
in  timore,  ed  in  schiavitù,  cominciando  dalla  Francia  stessa,  che 
a  tutte  l'altre  dando  legge,  la  riceve  poi  essa  da  un  perpetuo 
console  più  dura  ed  infame,  che  non  la  dà. 

Ma  io  oramai  pel  troppo  sentire  queste  pubbliche  italiane  sven- 
ture fatto  direi  quasi  insensibile,  ad  altro  più  non  pensava,  che 
a  terminare  la  mia  già  troppo  lunga  e  copiosa  carriera  letteraria. 
Perciò  verso  il  luglio  di  quest'anno  mi  rivolsi  caldamente  a  pro- 
vare le  mie  ultime  forze  nello  stendere  tutte  quelle  sgi  commedie. 
E  così  pure  di  un  fiato  come  le  aveva  ideate  mi  vi  posi  a  sten- 
dere senza  intermissione,  circa  sei  giorni  al  più  per  ognuna; 
ma  fu  tale  il  riscaldamento  e  la  tensione  del  capo,  che  non  potei 
finire  la  quinta,  ch'io  mi  ammalai  gravemente  d'un' accensione 
al  capo,  e  d' una  fissazione  di  podagra  al  petto,  che  terminò  col 
farmi  sputare  del  sangue.  Dovei  dunque  smettere  quel  caro  la- 
voro, ed  attendere  a  guarirmi.  Il  male  fu  forte,  ma  non  lungo; 
lunga  fu  la  debolezza  della  convalescenza  in  appresso;  e  non  mi 
potei  rimettere  a  finir  la  quinta,  e  scrivere  tutta  la  sesta  com- 
media, fino  al  fin  di  settembre;  ma  ai  primi  di  ottobre  tutte 
erano  stese;  e  mi  sentii  sollevato  di  quel  martello  che  elle  mi 
aveano  dato  in  capo  da  tanto  tempo. 

Sul  fin  di  quest'anno  ebbi  di  Torino  una  cattiva  nuova;  la 
morte  del  mio  unico  nipote  di  sorella  carnale,  il  conte  di  Cu- 
roiana,  in  età  di  trent'anni  appena;  in  tre  giorni  di  malattia, 
senza  aver  avuto  nh  moglie,  né  figli.  Questo  mi  afflisse  non  poco, 
benché  io  appena  l'avessi  visto  ragazzo;  ma  entrai  nel  dolore 
della  madre  (il  di  lui  padre  era  morto  due  anni  innanzi),  ed 
anche  confesserò  che  mi  doleva  di  veder  passare  tutto  il  mio, 

>  In  seguito  ai  trattati  di  Lunéville,  Firenze  ed  Aniiens. 


302  Vittorio  Alfieri 

che  aveva  donato  alla  sorella,  in  mano  di  estranei.  Che  eredi 
saranno  della  mia  sorella,  e  cognato,  tre  figlie,  che  le  riman- 
gono,  tutte  tre  accasate  ;  una  come  dissi  col  Colli  d'Alessandria, 
l'altra  con  un  Ferreri  di  Genova,  e  l'altra  con  il  Conte  di  Cal- 
lanoi  d'Aosta.  Quella  vanitaduzza,  che  si  può  far  tacere,  ma  non 
si  sradica  mai  dal  cuore  di  chi  è  nato  distinto,  di  desiderare  una 
continuità  del  nome,  o  almeno  della  famiglia,  non  mi  s'era  nep- 
pure totalmente  sradicata  in  me,  e  me  ne  rammaricai  più  che 
non  avrei  creduto  ;  tanto  è  vero,  che  per  ben  conoscer  se  stessi, 
bisogna  la  viva  esperienza,  e  ritrovarsi  nei  dati  casi,  per  poter 
dire  quel  che  si  è.  Questa  orfanità  di  nipote  maschio,  mi  indusse 
poi  a  sistemare  amichevolmente  con  mia  sorella  altri  mezzi  per 
l'assicurazione  della  mia  pensione  in  Piemonte,  caso  mai  (che 
noi  credo)  ch'io  dovessi  sopravvivere  a  lei,  per  non  ritrovarmi 
all'arbitrio  di  codeste  nipoti,  e  dei  loro  mariti,  che  non  conosco. 

Ma  intanto  quella  quantunque  pessima  pace  avea  pure  ricon- 
dotto una  mezza  tranquillità  in  Italia,  e  dal  despotismo  francese 
essendosi  annullate  le  cedole  monetate  sì  in  Piemonte,  che  in 
Roma,  tornati  dalla  carta  all'oro  si  la  signora  che  io,  ella  di 
Roma^,  io  di  Piemonte  cavando,  ci  ritrovammo  ad  un  tratto  fuori 
quasi  dell'angustia,  che  avevamo  provato  negli  interessi  da  più 
di  cinque  anni,  scapitando  ogni  giorno  più  dell'avere.  Perciò 
sul  finire  del  sudetto  801  ricomprammo  cavalli,  ma  non  più  che 
quattro,  di  cui  solo  uno  da  sella  per  me,  che  da  Parigi  in  poi 
non  avea  mai  più  avuto  cavallo,  né  altra  carrozza  che  una  pes- 
sima d' affitto.  Ma  gli  anni,  le  disgrazie  pubbliche,  tanti  esempi 
di  sorte  peggior  della  nostra,  mi  aveano  reso  moderato  e  discreto; 
onde  i  quattro  cavalli  furono  oramai  anche  troppi,  per  chi  per 
molti  anni  appena  si  era  contentato  di  dieci,  e  di  quindici. 

Del  rimanente  poi  bastantemente  sazio  e  disingannato  delle 
cose  del  mondo,  sobrio  di  vitto,  vestendo  sempre  di  nero,  nulla 
spendendo  che  in  libri,  mi  trovo  ricchissimo,  e  mi  pregio  assai 
di  morire  di  una  buona  metà  più  povero,  che  non  son  nato. 
Perciò  non  attesi  alle  offerte  che  il  mio  nipote  Colli  mi  fece  dare 
dalla  sorella  di  adoprarsi  in  Parigi,  dove  egli  andava  a  fissarsi, 
presso  quei  suoi  amici,  ch'egli  senza  vergogna  mi  annovera  e 
nomina  nella  sua  seconda  lettera  che  ho  pure  trascritta,  di  ado- 


'  Challant. 

«  Dal  cognato  cardinale,  duca  di  York. 


La  vita  303 

prarsi,  dico,  presso  coloro  per  farmi  rendere  il  mio  confiscatomi 
in  Francia,  l'entrate,  ed  i  libri,  ed  il  rimanente.  Dai  ladri  non 
ripeto  mai  nulla;  e  da  una  risibil  tirannide,  in  cui  l'ottener  giu- 
stizia è  un?  grazia,  non  voglio  né  l'una  né  l'altra.  Onde  non 
ho  altrimenti  neppure  fatto  rispondere  al  Colli  nulla  su  di  ciò; 
come  neppure  nulla  avea  replicato  alla  di  lui  seconda  lettera,  in 
cui  egli  dissimula  di  aver  ricevuta  la  mia  risposta  alla  prima; 
ed  in  fatti  permanendo  egli  general  francese,  dovea  dissimular 
la  mia  sola  risposta.  Così  io  permanendo  libero  e  puro  uomo 
italiano,  dovea  dissimular  ogni  sua  ulteriore  lettera,  e  offerta, 
che  per  qualunque  mezzo  pervenir  mi  facesse. 

Venuto  appena  l'estate  dell' 802  (che  l'estate,  come  le  cicale  io 
canto),  subito  mi  posi  a  verseggiare  le  stese  commedie,  e  ciò  con 
lo  stesso  ardore  e  furore,  con  cui  già  le  avea  stese  e  ideate.  E 
quest'anno  pure  risentii,  ma  in  altra  maniera,  i  funesti  effetti  del 
soverchio  lavoro,  perchè,  come  dissi,  tutte  queste  composizioni 
erano  in  ore  prese  su  la  passeggiata,  o  su  altro,  non  volendo  mai 
toccare  alle  tre  credi  studio  ebdomadario  di  svegliata'.  Sicché 
quest'anno,  dopo  averne  verseggiate  due  e  mezza,  nell'ardor  del- 
l' agosto  fui  assalito  dal  solito  riscaldamento  di  capo,  e  più  da  un 
diluvio  di  fignoli-  qua  e  là  per  tutto  il  corpo;  dei  quali  mi  sarei 
fatto  beffe,  se  uno,  il  re  di  tutti,  non  mi  si  fosse  venuto  ad  inne- 
stare nel  piede  manco,  fra  la  noce  esterna  dello  stinco  ed  il  ten- 
dine, che  mi  tenne  a  letto  più  di  15  giorni  con  dolori  spasmodici, 
e  risipola  di  rimbalzo,  che  il  maggior  patimento  non  l'ho  avuto 
mai  a'  mici  gliomi.  Bisognò  dunque  smettere  anche  quest'anno 
le  commedie,  e  soffrire  in  letto.  E  doppiamente  soffersi,  perchè 
•i  combinò  in  quel  settembre,  che  il  caro  Caluso  che  da  molti 
anni  ci  prometteva  una  visita  in  Toscana,  potè  finalmente  capi- 
tarci quest'  anno,  e  non  ci  si  poteva  trattenere  più  di  un  mesetto, 
perchè  ci  veniva  per  ripigliare  il  suo  fratello  primogenito,  che  da 
circa  due  anni  si  era  ritirato  a  Pisa,  per  isfuggire  la  schiavitù  di 
Torino  celtLz2ato.  Ma  in  quell'anno  una  legge  di  quella  solita 
liberti  costringeva  tutti  i  Piemontesi  a  rientrare  in  gabbia  per  il 
di  tanti  settembre,  a  pena  al  solito  di  confiscazione,  e  espulsione 
dai  felicissimi  Suti  di  quella  incredibil  repubblica  \  Sicché  il  buon 

>  Appciu  sveglio. 
«  Foruncoli. 

»  Ugge  del  IO  messidoro  anno  X  (M  giugno  1802)  allt  qu«le  si  sot- 
traste l'A.  con  giuramento  prestato,  in  vece  sua,  dalla  sorella  Giulia,  di 


304  Vittorio  Alfieri 

abate,  venuto  così  a  Firenze,  e  trovatomi  per  fatalità  In  letto,  come 
mi  CI  avea  lasciato  15  anni  prima  in  Alsazia,  che  non  c'eramo  piìi 
visti,  mi  fu  dolce,  ed  amarissimo  il  rivederlo  essendo  impedito  e 
non  mi  potendo  né  alzare,  né  muovere,  né  occupare  di  nulla 
Oh  diedi  però  a  leggere  le  mie  traduzioni  dal  greco,  le  Satire 
ed  11  Terenzio,  e  il  Virgilio,  ed  in  somma  ogni  cosa  mia,  fuorché 
le  commedie,  che  a  persona  vivente  non  ho  ancora  né  lette  né 
nominate,  finché  non  le  vedo  a  buon  termine.  L'amico  si  mostrò 
sul  totale  contento  dei  miei  lavori,  mi  diede  in  voce,  e  mi  pose 
anche  per  iscritto  dei  fratellevoli  e  luminosi  avvisi  su  le  tradu- 
zioni dal  greco,  di  cui  ho  fatto  mio  prò,  e  sempre  più  lo  farò 
nel  dare  loro  l'ultima  mano.  iMa  intanto  sparitomi  qual  lampo 
dagli  occhi  l'amico  dopo  soli  27  giorni  di  permanenza,  ne  rimasi 
dolente,  e  male  l'avrei  sopportata,  se  la  mìa  incomparabile  com- 
pagna non  mi  consolasse  di  ogni  privazione.  Guarii  nell'ottobre, 
ripigliai  subito  a  verseggiar  le  commedie,  e  prima  dei  ...»  de- 
cembre,  le  ebbi  terminate,  né  altro  mi  resta  che  a  lasciarìe  matu- 
rare e  limarle. 

CAPITOLO  TI^QESIMOPRIMO 

Intenzioni  mie  su  tutta  questa  seconda  mandata  di  opere  inedite.  Stanco 
esaurito,  pongo  qui  fine  ad  ogni .ifupva  impresa;  atto  più  a  disfare  che 
a  fare,  spontaneamente  esco  dall'  Epoca  IV  virile,  ed  in  età  di  anni  54  Vo 
mi  do  per  vecchio,  dopo  28  anni  di  quasi  continuo  inventare,  verseggiare' 
tradurre,  e  studiare.  Invanito  poi  bambinescamente  dell'avere  quasiché 
spuntata  la  difficolta  del  greco,  invento  l'Ordine  d'Omero,  e  me  ne  creo 
àuxoxeìp  Cavaliere. 

Ed  eccomi,  s' io  non  erro,  al  fine  oramai  di  queste  lunghe  e  no- 
iose ciarle.  Ma  se  io  avea  fatte  o  bene  o  male  tutte  le  surriferite 
cose,  mi  conveniva  pur  dirie.  Sicché  se  io  sono  stato  nimio^  nel 
raccontare,  la  cagione  n'è  stata  l'essere  stato  troppo  facondo  nel 
fare.  Ora  le  due  anzidette  malattie  in  queste  due  ultimi  estati,  mi 
avvisano  ch'egli  é  tempo  di  finire  e  di  fare  e  di  raccontare. 
Onde  qui  pongo  termine  all'epoca  IV,  essendo  ben  certo  che  non 
voglio  più,  né  forse  potrei  volendo,  creare  più  nulla.  Il  mio  dì- 


rinunzia  .  à  toute  relation  avec  la  maison  de  Savoie,  avec  les  puissances 
étrangeres  .,  e  di  .  fidélité  à  la  Constitution  du  peuple  Francais .. 
Ctr.  t.  HtHTANA,   Vittorio  Alfieri  cit.,  p.  295  sgg. 

>  Nella  copia  del  Tassi:  degli  otto  \T.\. 

»  Troppo  minuto,  mi  sono  indugiato  troppo  (lat.  nimis  =  troppo). 


La  vita  305 

segno  si  è  di  andare  sempre  limando  e  le  produzioni,  e  le  tradu- 
zioni, in  questi  cinque  anni  e  mesi  che  mi  restano  per  giungere 
agli  anni  60,  se  Iddio  vuole  che  ci  arrivi.  Da  quelli  in  poi,  se  li 
passo,  mi  propongo,  e  comando  a  me  stesso  di  non  fare  più 
nulla  affatto,  fuorché  continuare  (il  che  farò  finché  ho  vita)  i  miei 
studi  intrapresi.  E  se  nulia  ritornerò  su  le  mie  opere,  sarà  per 
disfare,  o  rifare  (quanto  all'  eleganza),  ma  non  mai  per  aggiungere 
cosa  che  fosse.  Il  solo  trattato  aureo  della  vecchiaia  di  Cicerone*, 
tradurrò  ancora  dopo  i  sessanta  anni  ;  opera  adattata  all'età,  eia 
dedicherò  alla  mia  indivisibile  compagna,  con  cui  tutti  i  beni  o 
mali  di  questa  vita  ho  divisi  da  25  e  più  anni,  e  sempre  più 
dividerò. 

Quanto  poi  allo  stampare  tutte  queste  cose  che  mi  trovo,  o 
troverò  fatte,  ai  60  anni,  non  credo  oramai  più  di  farlo;  si  perchè 
troppa  è  la  fatica  ;  e  si  perché  stando  come  fo  in  governo  non 
libero,  mi  toccherebbe  a  soffrire  delle  revisioni,  e  a  questo  non 
mi  assoggetterei  mai.  Lascerò  dunque  dei  puliti  e  corretti  mano- 
scritti, quanto  più  potrò  e  saprò,  di  quell'opere  che  vorrò  la- 
sciare credendole  degne  di  luce;  brucierò  l'altre;  e  così  pure 
farò  della  vita  eh' io  scrivo,  rìducendola  a  pulimento,  o  brucian- 
dola. Ma  per  terminare  oramai  lietamente  queste  serie  filastrocche, 
e  mostrare  come  già  ho  fatto  il  primo  passo  dell'  epoca  V  di  rim- 
bambinare,  non  nasconderò  al  lettore  per  farlo  ridere,  una  mia 
ultima  debolezza  di  questo  presente  anno  1803.  Dopo  ch'ebbi 
finito  di  verseggiare  le  commedie,  credutele  in  salvo  e  fatte,  mi 
sono  sempre  più  figurato  e  tenuto  di  essere  un  vero  personaggio 
nella  posterità.  Dopo  poi  che  continuando  con  tanta  ostinazione 
nel  greco,  mi  son  visto,  o  creduto  vedere,  in  un  certo  modo  pa- 
drone di  interpretare  da  per  tutto  a  prima  rivista,  si  Pindaro, 
che  i  tragici,  e  più  di  tutti  il  divino  Omero,  si  in  traduzione  let- 
terale latina,  che  in  traduzione  sensata  italiana,  son  entrato  in  un 
certo  orgoglio  di  me  di  una  si  fatta  vittoria  riportata  dai  47  ai 
54  anni.  Onde  mi  venne  in  capo,  che  ogni  fatica  meritando  premio, 
io  me  lo  dovea  dare  da  me,  e  questo  dovea  essere  decoro,  ed 
onore,  e  non  lucro.  Inventai  dunque  una  collana,  col  nome  inci- 
lovi  di  23  poeti',  si  antichi  che  moderni,  pendente  da  essa  un 


'  Il  De  Seneetute,  capolavoro  di  ri^onatnento,  di  arguzia  e  di  (pmzia. 

)|»rc  Omero.  Le  pie<re  dure  $ono  ora  a  Montpellier  (Cfr.  O.  Mazza- 

:,  C'irte  alfiftiane  cH.,  in  Qior.  star,  della  lett.  ital.,  MI,  pp.  33-4)- 

portano  1  mml  di  12  poeti  ciaisicl  antichi  (Edodo,  Eachilo,  Sofocle,  Enri^ 

20.  -  ClasUci  Italiani.  N.  2. 


306  Vittorio  Alfieri 

carneo  rappresentante  Omero,  e  dìetrovi  incisi  (ridi,  o  lettore),  un 
mio  distico  greco;  il  quale  pongo  qui  per  nota  ultima,  colla  tra- 
duzione in  un  distico  italiano.  Si  l'uno  che  l'altro  li  ho  fatti 
prima  vedere  all'  amico  Caluso  ;  il  greco,  per  vedere  se  non  v'  era 
barbarismo,  solecismo,  od  errore  di  prosodia;  l'italiano,  perch'ei 
vedesse  se  avea  temperato  nel  volgare  la  forse  troppa  impertinenza 
del  greco  ;  che  già  si  sa,  nelle  lingue  poco  intese  l' autore  può 
parlar  di  sé  piìi  sfacciatamente  che  nelle  volgari.  Approvati  l'uno 
e  l'altro  dall'amico,  li  registro  qui,  perchè  non  si  smarriscano^. 
Quanto  poi  alla  collana  effettiva,  l' eseguirò  quanto  prima,  e  la 
farò  il  più  ricca  che  potrò,  sì  in  gioielli,  che  in  oro,  e  in  pietre 
dure.  E  così  affibbiatomi  questo  nuovo  ordine,  che  raeritatolmi  o 
no,  sarà  a  ogni  modo  d'invenzione  ben  mia,  s'egli  non  ispetterà 
a  me,  l' imparziale  posterità  lo  assegnerà  poi  ad  altri  che  più  di 
me  se  lo  sia  meritato.  A  rivederci,  o  lettore,  se  pur  d  rivedremo, 
quando  io  barbogio,  sragionerò  anche  meglio,  che  fatto  non  ho 
in  questo  capitolo  ultimo  della  mia  agonizzante  virilità. 
A  dì  14  maggio  1803,  Firenze. 

Vittorio  Alfieri. 

pide,  Pindaro,  Aristofane,  Virgilio,  Orazio  Plauto,  Ovidio,  Giovenale, 
Terenzio),  di  4  italiani  (Dante,  Petrarca,  Ariosto,  Tasso),  4  francesi  (Mo- 
lière, Racine,  Voltaire,  Corneille),  2  inglesi  (Milton,  Shakespeare)  e  1  por» 
toghese  (Camoens). 

1  'AuTÒv  TioiTQoag  'AXcpTjpiog  tjrné*  '0(i>Jpou 

Koipavixfjc  Tijiifjv  i^X^avs  5-eioTépav. 

Forse  inventava  Alfieri  un  Ordin  vero 
Nel  farsi  egli  stesso  Cavalier  d'Omero. 


INDICE 


Prcpazione Poe-      * 

PARTE  PRIMA 
iDtrodnzione /'O?-      3 

EPOCA  PRIMA.  —  Puerizia, 

Capitolo      I.  Nascita,  e  parenti Pag.  7 

»  II.  Reminiscenze  dell'infanzia >  9 

•  HI.  Primi  sintomi  di  nn  carattere  appassionato  .  .  >  II 
»  IV.  Sviluppo  dell'indole  indicato  da  varj  fattarelB»  >  M 
»  V.  Ultima  storiella  puerile >  18 

EPOCA  SECONDA.  —  Ai>OLC5f:ENZA. 

Capitolo       I.  Partenza  dalla  casa  materna,  ed  ingresso  nella 

Accademia  di  Torino,  e  descrizione  di  essa .  Pag.     22 

>  II.  Primi  studi,  pedantescU,  e  mal  fatti  .  .  .  .  >  25 
'           III.  A  quali  de'  parenti  in  Torino  venisse  affidata  la 

mia  adolescenza »        28 

»  IV.  Continuazione  di  quei  non-stud] >        30 

»  V.  Varie  Insulse  vicende,  su  lo  stesto  andamento 

del  precedente >       34 

•  VI.  Debolezza  della  mia  complessione  ;  infermiti  con- 

tinue; ed  incapaciti  d'ogni  esercizio,  e  mas- 
simamente del  ballo,  e  perchè >        38 

>  VII.  Morte  drllo  zio  paterno.  Liberazione  mia  prima. 

Ingresso  nel  primo  appartamento  dell'Acca- 
demia      »        42 

>  VIII.  Ozio  totale.  Contrarietl  incontrate,  e  fortemente 

sopportate >       47 


308  ìndici 

Capìtolo    IX.  Matrimonio  della  sorella.  Reintegrazione  dei  mio 

onore.  Primo  cavallo Pag.     Ai 

>  X.  Primo    amoruccio.    Primo   viaggetto.    Ingresso 

nelle  truppe •     >       50 


Capi 


Capi 


EPOCA  TERZA.  —  Giovinezza. 

OLD      I.  Primo  viaggio.  Milano,  Firenze,  Roma     .    .    .  Pag.    54 
II.  Continuazione  dei  viaggi,  liberatomi  anche  dal- 
l'ajo 

III.  Proseguimento  dei  viaggi.  Prima  mia  avarizia  . 

IV.  Fine  del  viaggio  d' Italia  ;  e  mio  primo  arrivo 
a  Parigi 

V.  Primo  soggiorno  in  Parigi 

VI.  Viaggio  in  Inghilterra  e  in  Olanda.  Primo  in- 
toppo amoroso 

VII.  Ripatrìato  per  un  mezz'anno,  mi  do  agli  studj 

filosofici 

Vili.  Secondo  viaggio,  per  la  Germania,  la  Danimarca 

e  la  Svezia 

IX.  Proseguimento  di  viaggi.  Rnssia,  Prussia  di  bel 

nuovo,  Spa,  Olanda  e  Inghilterra     .... 

X.  Secondo  fierissimo  intoppo  amoroso  a  Londra. 

XI.  Disinganno  orribile 

XII.  Ripreso  il  viaggio  in  Olanda,  Francia,  Spagna, 
Portogallo,  e  ritorno  in  patria 

XIII.  Poco   dopo    essere   rimpatriato,  incappo   nella 
terza  rete  amorosa.  Primi  tentativi  di  poesia 

XIV.  Malattia,  e  ravvedimento 

XV.  Liberazione  vera.  Primo  sonetto 


EPOCA  QUARTA.  —  Virilità. 

>  I.  Ideate,  e  stese  in  prosa  francese  le  due  prime 
tragedie  il  Filippo  e  il  Polinice.  Intanto  un 

diluvio  di  pessime  rime Pag. 

II.  Rimessomi  sotto  il  pedagogo  a  spiegare  Orazio. 
Primo  viaggio  letterario  in  Toscana.    .    .    . 

III.  Ostinazione  negli  sfudj  più  ingrati 

IV.  Secondo  viaggio  letterario  in  Toscana,  macchiato 

di  stolida  pompa  cavallina.  Amicizia  contratta 

col  Gandellini.  Lavori  fatti  o  ideati  in  Siena 

V.  Degno  amore  mi  allaccia  finalmente  per  sempre 

VI.  Donazione  intera  di  tutto  il  mio  alla  sorella.  Se- 
conda avarizia 

VII.  Caldi  studj  in  Firenze 

Vili.  Accidente,  per  cui  di  nuovo  rivedo  Napoli  e 
Roma,  dove  mi  fisso 

IX.  Studj  ripresi  ardentemente  in  Roma.  Compimento 
delle  quattordici  prime  tragedie 


Indice  300 

Ìapitolo  X.  Recita  dell'  Antigone  in  Roma.  Stampa  delle 
prime  quattro  tragedie.  Separazione  doloro- 
sissima. Viaggio  per  la  Lombardia  ....  Pag.  202 

>  XI.  Seconda  stampa  di  sei  altre  tragedie.  Varie  cen- 

sure delle  quattro  stampate  prima.  Risposta 

alla  lettera  del  Calsabigi >      213 

>  XII.  Terzo   viaggio   in    Inghilterra,   unicamente   per 

comperarvi  cavalli >      215 

»        XIII.  Breve  soggìorao  in  Torino.  Recita  uditavi  della 

Virginia >     221 

»  XrV.  >^aggio  in  Alsazia.  Rivedo  la  donna  mia.  Ideate 
tre  nuove  tragedie.  Morte  inaspettata  del- 
l'amico Oori  in  Siena >      226 

»  XV.  Soggiorno  In  Pisa.  Scrittovi  il  Paiugiricu  a  Tra- 

jano,  ed  altre  cose >      230 

»  XVI.  Secondo  viaggio  in  Alsazia,  dove  mi  fisso.  Idea- 
tivi, e  stesi  i  due  Bruti,  e  VAbelt.  Stndj  cal- 
damente ripigliati >      234 

»  XVII.  Viaggio  a  Parigi.  Ritomo  in  Alsazia,  dopo  aver 
fissato  col  Didot  in  Parigi  la  stampa  di  tutte 
le  diciannove  tragedie.  Malattìa  fierissima  in 
Alsazia,  dove  l'amico  Caluso  era  venuto  per 
passare  l'estate  con  noi »      237 

»  XVIII.  Soggiorno  di  tre  e  più  anni  in  Parigi.  Stampa 
di  tutte  le  tragedie.  Stampa  nel  tempo  stesso 
di  molte  altre  opere  in  Kehl »      245 

»  XIX.  Princìpio  dei  tumulti  in  Francia,  i  quali  stur- 
bandomi in  più  maniere,  di  autore  mi  tras- 
formano in  ciarlatore.  Opinione  mia  sulle  cose 
presenti  e  future  di  questo  regno     ....      »      248 


PARTE  SECONDA 

Continuazione  della  QUARTA  EPOCA. 
Proemi<tto Pag,  255 

Capitolo  XX.  Fiidla  interamente  la  prima  mandata  delle  stampe, 
mi  do  a  tradurre  Virgilio  e  Terenzio;  e  con 
qnal  fine  il  facessi >      256 

•  XXI.  Quarto  viaggio  in  Inghilterra  e  In  Olanda.  Ri- 
tomo a  Parigi  dove  d  fissiamo  davvero,  co- 
strettivi dalle  dure  circostanze »      257 

»  XXII.  Fuga  di  Parigi,  donde  per  le  Fiandre  e  tutta  la 
Oermania  tornati  in  Italia  ci  fissiamo  in  Fi- 
renze  261 


310  Indice 

Capit.  XXIII.  a  poco  a  poco  mi  vo  rimeitendo  allo  studio. 
Finisco  le  traduzioni.  Ricomincio  a  scrìvere 
qualche  cosarella  di  mio.  Trovo  casa  piacen- 
tissima  in  Firenze,  e  mi  do  al  recitare.    .    .  Pag. 

»  XXIV.  La  curiosità  e  la  vergogna  mi  spingono  a  leg- 
gere Omero,  ed  i  tragici  greci  nelle  tradu- 
zioni letterali.  Proseguimento  tepido  delle  sa- 
tire, ed  altre  cosarelle > 

»  XXV.  Per  qual  ragione,  in  qual  modo,  e  con  quale 
scopo  mi  risolvessi  finalmente  a  studiare  da 
radice  seriamente  da  me  stesso  la  lingua  greca      > 

»  XXVI.  Frutto  da  non  aspettarsi  dallo  studio  serotino 
della  lingua  greca;  io  scrivo  (spergiuro  per 
l'ultima  volta  ad  Apollo)  VAlceste  Seconda  .      » 

»  XXVII.  Misogallo  finito.  Rime  chiuse  colla  Teleutodta, 
L'Abele  ridotto  ;  così  le  due  Alcesti,  e  VAm- 
monìmento.  Dbtribuzìone  ebdomadaria  di 
studj.  Preparato  così,  e  munito  delle  lapidi 
sepolcrali,  aspetto  l' invasion  de'  Francesi,  che 
segue  nel  Marzo  99 > 

»  XXVIII.  Occupazioni  in  villa.  Uscita  dei   Francesi.  Ri- 

.    tomo  nostro  in   Firenze.  Lettere  del  Colli. 

Dolore  mio  nell'udire  la  ristampa  prepararsi 

in  Parigi  delle  mie  opere  di  Kehl,  non  mai 

pubblicate » 

»  XXIX.  Seconda  invasione.  Insistenza  nojosa  del  General 
letterato.  Pace  tal  quale,  per  cui  mi  scemano 
d'alquanto  le  angustie.  Sei  commedie  ideate 
ad  un  parto » 

»  XXX.  Stendo,  un  anno  dopo  averle  ideate,  la  prosa 
delle  sei  Commedie  ;  ed  un  altr'anno  dopo  le 
verseggio  :  l'una  e  l'altra  di  queste  due  fatiche 
con  gravissimo  scapito  della  salute.  Rivedo 
l'abate  di  Caluso  in  Firenze » 

>  XXXI.  Intenzioni  mie  su -tutta  questa  seconda  mandata 
di  opere  inedite.  Stanco,  esaurito,  pongo  qui 
fine  ad  ogni  nuova  impresa;  atto  più  a  dis- 
"fare,  che  a  fare,  spontaneamente  esco  dal- 
l' Epoca  IV  virile,  ed  in  età  di  anni  54  V,  mi 
do  per  vecchio,  dopo  28  anni  di  quasi  con- 
tinuo inventare,  verseggiare,  tradurre,  e  stu- 
diare. Invanito  poi  bambinescamente  dell'avere 
quasi  che  spuntata  la  difficoltà  del  greco, 
invento  l'ordine  d'Omero,  e  me  ne  creo 
i.\i\oytj6l(i  Cavaliero > 


3 


PQ  Alfieri,   Vittorio 

i^681  La  vita 

A2 

1921 


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