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BUCOLICHE
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PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino — Vnonio Boka, Tip. di S. M. e de* RR. Princìpi.
SALVATORE COGNETTI DE MARTUS
Stampini, Ytrgii. Bucol.
PREFAZIONE
La presente edizione delle Bucoliche di Virgilio è stata da
me condotta col metodo tenuto nell'edizione delle Georgiche;
del quale avendo io lungamente discorso nella Prefazione di
quell'opera, stimo inutile ripetere qui le cose già dette. Soltanto
non credo di dover tacere che ho voluto rendere piti ricco e più
indipendente dai lavori altrui questa edizione delle Bticoliche,
la quale, sì per il favore accordato al mio precedente lavoro,
sì per il mio lungo studio e il grande amore dell'opera virgiliana,
riuscirà, spero, bene accetta agli studiosi. E spero pure che si
riconoscerà il molto di mio che ho aggiunto alle illustrazioni
già da altri fatte, avendo voluto estendermi assai nelle note
d'ordine lessicale e grammaticale, particolarmente in relazione
colla sintassi storica ; per non dire che molte citazioni ed osser-
vazioni d'ogni genere, le quali il lettore troverà nel mio com-
mento, non sono state attinte da me ad alcun altro lavoro con-
simile, ma sono il frutto dei miei studi speciali. E se talora
ho persino dato luogo nelle mie annotazioni a qualche discus-
sione sul testo, l'ho fatto, ritenendola necessaria alla piena ed
esatta intelligenza del concetto virgiliano. Insomma ho voluto
fare un commento, che mostrasse bensì lo studio de' migliori
commenti delle Bmoliche^ ma fosse ad un tempo tale da non
apparire una semplice compilazione, per quanto diligente ed
utile, ma un'opera che avesse un'impronta sua propria e por-
tasse qualche non ispregevole contributo all'illustrazione del
testo. Di guisa che, quale che sia il merito del mio lavoro,
non credo di avere soverchia pretesa nutrendo la speranza che
esso possa degnamente figurare fra le più accurate e, tenuto
conto dell'enorme materiale già raccolto dai filologi che mi
hanno preceduto, fra le più originali edizioni delle Bucoliche.
Torino, 10 marzo 1889.
Ettore Stampini.
INTRODUZIONE
Non è mio intendimento, scrivendo questa Introduzione ad
una edizione commentata delle Bucoliche di Virgilio (1), di
affirontare con nuova ed estesa discussione le varie ed intricate
questioni che si riferiscono al lavoro virgiliano. Procurerò in-
vece di mettere specialmente in rilievo ciò che di più impor-
tante in alcuni punti dagli odierni studi mi sembra o piena-
mente assodato o dimostrato assai probabile, senza tuttavia
rinunziare ad emettere qua e là quelle ipotesi che le contro-
versie de' critici rendano necessarie.
E primieramente ci si presenta irta di difficoltà la questione
della cronologia delle Ecloghe, questione che si connette con
un'altra non meno complicata, quella della vita dì Virgilio, la
quale in alcuni de'suoi più importanti momenti è dalle Ecloghe
stesse ritratta. Certo non vi può essere dubbio ragionevole ri-
guardo al tempo in cui il poeta si accinse a coltivare la poesia
bucolica. Ce ne dà esplicita attestazione Tautore di un commen-
tario alle Bucoliche ed alle Georgiche, che va sotto il nome di
Probo (2), il quale si appoggiava in ciò all'autorità di Asconio
(1) Quanto alla forma latina Vergilitts, vedi ciò che ne scrissi nel mio
lavoro Le Georgiche di Virgilio commentate. Parte prima. Libri 1 e 11,
Torino, 1884, p. xvii segg. Riguardo poi al titolo di Ecloghe^ riferisco
Tosservazione del Forbioer (nel voi. Ili della 4" ediz. delle opere di Vir-
gilio, p. XIX, nota 16): Quae tamen inscriptio minus opta non a Ver-
gilio ipso profecta est^ sed posterioribus demum temporibus originem
debet, Cfr, Weichert. de L. Yarii et Cassii Parm. vita et carmm,,, p. 21
(Veramente avrebbe dovuto citare del W. Topera Poetarum Latt. Hostii^
Laevii^ ecc., p. 20 seg., n. 1). Bucolica autem haec carmina ab ipso
auctare appellata esse, Servius testatur in prooemdo Georgicis praemisso.
(2) M. Valerii Probi in Virgilii Bucolica et Georgich commentarius...
Edidit Henricus Keil, Halis, 1848. Non si può certamente reputare che
VI INTRODUZIONE
Pediano (1): e tale notizia è pure confermata da Servio (2).
Ora, siccome da queste testimonianze si ricava che Virgilio si
mise a scrivere a 28 anni, è chiaro che, essendo egli nato il
15 ottobre del 684/70, cominciò le Bucoliche negli ultimi
mesi del 712/42. Sappiamo inoltre che il poeta impiegò un
triennio attorno alle Bucoliche (3); dunque la composizione delle
dieci Ecloghe cade negli anni 712 fine — 715 di B. = 42 fine —
39 av. Cr.
Sin qui adunque non s'incontrano difficoltà, o almeno non si
dovrebbero incontrare. Ma queste cominciano realmente, quando
si voglia determinare il tempo nel quale ciascuna ecloga fu
scritta, e però il loro ordine cronologico; poiché è appena d'uopo
di ricordare che l'ordine, in cui sono a noi pervenute, non è
punto il. cronologico, come troviamo pure notato nel così detto
commentario di Probo (4). Ora non tutte le ecloghe ci danno
indizi sicuri per fissarne la data della composizione. Ne man-
cano la 2», la 3*, la 5* e la 7*: per altro osserviamo subito
che Virgilio stesso (V, 86 seg.) ci fa sapere di avere scritto
questo sia il genuino commentario dell'insigne grammatico di Borito; ma
nulla impedisce di ritenere che del magro commentario a noi pervenuto
« guter Kern auf Probus zurùckgehen mag », sebbene « durch eine
Menge freindartiger schlechter Zutaten fast erstickt ist ». (Teuffel-
ScHWABE, Róm. Lit, p. 678).
(1) P. 1, 12: Scripsit Bucolica annos naius Vili et XX, Theocritum
seeutus. P. 7, 7: cum certum sit eum, ut Asconins Pedianus dicit,
XXVIII annos natum Bucolica edidisse (dove edidisse si deve eviden-
temente ritenere come equivalente a scripsisse).
(2) Nel Proem. delle Bue, III, p. 3, 26 (ediz. Thilo): sane sciendum
Vergilium XXVIII annorum scripsisse bucolica. Gfr. a Georg., iv, 564.
(3) Gfr. la vita di V. attribuita a Donato, di fonte Svetoniana, nello
Svetonio di Rbiff., p. 60, 5: bucolica triennio... perfècit ; Servio nella vita
premessa al comm. delFEneide^ I, p. 2, 7 Th.: tunc ei proposuit Pollio
ut Carmen bucolicum scriberet, quod eum constai triennio scripsisse et
emendasse»
(4) P. 6, 9 K.: Bucolica scripsit, sed non eodem ordine edidit, quo
scripsit. Gfr. anche Servio nel Proem. cit. delle Bue, p. 3, 15 Th.: de
eclogis multi dubitant, quae licet decem sint, incertum, tamen est, quo
ordine scriptae sint.
INTRODUZIONE VII
la 2* e la 3* prima della 5^. Per vedere quindi qualche cosa
di probabile, se non di certo, ìq quest'arruffata questione, è
me^ierì avere presenti alcuni fatti della vita del poeta.
È noto che, dopo la battaglia di Filippi (a. 712/42), Otta-
viano, ritornato in Italia^ dovette soddisfare alle promesse date
ai soldati, che lo avevano aiutato ad assassinare la repubblica,
con larghi doni, e particolarmente, mancando di danari, con
distribuzioni di terre (1), impigliandosi in enormi difficoltà, sì
per le giuste querele e gli sdegni di coloro che erano barba-
ramente spogliati di ogni bene, sì per le ingorde brame dei
soldati che, rotta ogni disciplina, alla parte loro assegnata ag-
giungevano di proprio impulso, e senza riguardo ai capi, usur-
pazióni e spogliazioni d'ogni genere (2). Sentirono duramente
il peso di tale soldatesco dispotismo gli abitanti del Cremonese
e successivamente del Mantovano; ed il povero poeta rimase
privo del suo fondo. Era in quel tempo governatore della Qallìa
Cisalpina C. Àsinio Follione, il quale, dopo essersi adoperato
con fortuna nelle guerre civili a favore di C. Giulio Cesare, era
passato alla parte di Antonio (3), allora triumviro con Otta-
viano e Lepido, ed era già stato designato console. Era Follione
(1) Dione Cassio, Hist Rom., XLVIII, 6, notava, parlando di Ottaviano
e di Antonio, che *Hv... év xfl kXtipoux(<? d|ii<poTépoi<; fj irXciaTTi rfìq
òuvd^euiq èXTr(<; (An. 713).
(2) Credo opportuno, a schiarimento di ciò che qui io dico e che dirò
in appresso, di riferire i seguenti luoghi di Appiano, Bell, civ.^ ì quali
riguardano gli avvenimenti di cui si tratta. V, 12: auvióvT€^ dvà fbiépoc
è^ T^v *Pdi|Lir]v ot T€ véoi Kal yépovTcq, ^ al YuvatK€<; &^a tote; iraibioi^,
è<; Tf|v dYopàv, f^ tò icpà, èGpfivouv * oùòèv jièv dbiKfiaai XéYovreq,
'IxaXMliTai bé òvxeq dviaraoeai y^^ t€ xal tariac,^ ola bop(Xr]irTOi
13. *0 òè Katcrap rate; iróXeaiv èHcXoYctxo Jxfiv dvdYKTiv, koX èòÓKouv
oùb'(X»<; dpKéoeiv... dXX' ó arpaxò^ xal rotq y^ìtooiv èirépaivc oùv Oppei,
irXéovd T€ Til»v Ò€Òo|Liévuiv aq>iai ircpiairóibievoi, xal tò fi)Li€ivov éxXeYÓ-
)Li€voi' oòòè, èiTiiTXfi(T(TovTO<; aÙTotq Kttl òwpoujnévou TTOXXà dXXa TOO
Ka{aapo<;, èiraOovTo* èircl xal ti1»v dpxóvTUiv, ibq òco|Liévu/v aq>(Iiv è^TÒ
èYKpOTè^ Tf\(; dpxnq, xarccppóvouv 15. *0 òè Katoap oòk ^yvóci luèv
dòiKOUfiévou^, d|bif|xava ò* i^v aòxib. O0t€ Ydp dpYOpiov i^v éq ti|lit*iv Tf\(;
ffi^ bibooOai T0t<; YCWpYot? k. t. a.
(3) App., B. C, III, 97.
Vni INTRODUZIONE
uomo di larga coltura letteraria, oratore valente, amante della
poesia, critico acuto, atto insomma ad apprezzare degnamente
chiunque sapesse nell'arte dei versi elevarsi dalla mediocrità.
E Virgilio era appunto nel caso di destare vivo interesse in
siffatto uomo; imperocché da una parte il suo nome da parec-
chio t^mpo gli doveva essere favorevolmente noto per alcuni la-
vori poetici, fra i quali era notevole un poemetto intitolato
Culex {ly, e dall'altra, dimorando PoUione sin dalFa. 711/43
nella Qallia Cisalpina come luogotenente di Antonio, il poeta
doveva essergli stato presentato. E qui noto come, checché si
voglia dire dell'amore che il poeta avrebbe concepito per quel
servo di nome Alessandro, che ei conobbe alla mensa di Pol-
lione, e che, dopo averlo da questo avuto in dono, cantò nel-
l'ecloga 2^ sotto il nome di Alessi (2), il fatto solo del dono di
cotesto schiavo a Virgilio denota come questi avesse già stretta
amichevole relazione con Pollione, il quale anzi, riconoscendo
forse nei versi del poeta una spiccata disposizione a sentire e
ritrarre la vita in ciò che essa ha di più schietto e di più natu-
rale, una tendenza a rappresentare la libera e semplice vita pa-
storale e campagnola, lo aveva esortato a coltivare la poesia
bucolica (3) andando sulle orme del greco Teocrito.
(1) Il poemetto, che con questo nome è giunto sino a noi, non deve
essere di Virgilio, ma, come si congettura, un lavoro fatto da qualche
imitatore parecchi anni dopo la morte del poeta e sostituito al poemetto
genuino, dallo stesso Virgilio forse distrutto. Gfr. Teuffel-Schwàbe, R. L.,
p. 465 seg.
(2) Gfr. la Vita donatiana (p. 57, 1 R.): maxime dilexit.. Aleosàn-
drum^ quem secunda bucolicorum ecloga Alexin appellata donatum
sibi ab Asinio Pollione; inoltre Serv., ad Ecl.^ II, 1 e 15 e gli Scolii
Bernesi (ediz. Hagen) nel proem. alFEcl. cit.; Apuleio, Apol., 10. Mar-
ziale invece confonde Pollione con Mecenate (cfr. Vili, 56, 9 segg.: Risit
Tuscus eques.,. et nostrum^ dixit^ Alexin am.es; di più V, 16, 12; VI,
68, 6; VII, 29, 7 ; Vili, 73, 10); sed is, osserva il Ribbeck (Proleg,,^, 3),
cum, Afaecenatem prò PoUione nomineC, vagos se magis rumores qwim
Iiistoriae fidem sequi fassus,
(3) Lo dice esplicitamente Virgilio neirEcl. Vili, v. 11 seg., ove scrive
a Pollione: aecipe iussis | carmina coepta tuis. Cfr. Servio nella vita cit.
premessa all'Eneide, 1, p. 2, 7 Th.
INTRODUZIONE IX
Pertanto, quando Virgilio fu travolto nella sciagura dei Cre-
monesi e dei Mantovani, non si può dubitare che già avesse
dato qualche saggio di poesia bucolica: si deve anzi supporre
che già avesse scritto la seconda e la ^^era ecloga, delle quali
la seconda canta l'amore di Coridone per Alessi (il giovane
schiavo regalato al poeta da FoUione); e la terea^ oltre a men-
zionare con tono d'ammirazione i nova carmina (1) che FoUione
componeva, dimostra come al governatore della Cisalpina tornas-
sero graditi i versi del poeta, il quale fa dire a Menalca (v. 84):
« Pollìo amat nostrani, quamvis est rustica, musam ».
Da ciò mi pare che si possa inferire che la term ecloga sia
stata preceduta dalla seconda (2), nella quale il poeta chiara-
mente provava di aver messo in pratica il consiglio datogli da
FoUione. Di fatto Virgilio riprendendo, nell'amore di Coridone
per Alessi, il tema svolto da Teocrito nell'idillio XXIII di
un àvfip 'n:oXiiq)iXTpO(; che àm\yfio<;, ripar ècpdpuj (v. 1) — cosa
che diede probabilmente occasione agli allegoristi di inventare
un amore di Virgilio per il servo di FoUione — vi inserì anche
parte del soggetto dell'idillio III, dove Teocrito introduce un
capraio che cerca di guadagnarsi l'amore di Amarillide con
promesse di doni, e parte dell'idillio XI, nel quale Folifemo si
duole delle ripulse di Oalatea, cui cerca di piegare a più miti
consigli col ricordarle le sue ricchezze, la sua perizia nel canto
e via dicendo. Del resto ricordisi ciò che sopra si è detto, cioè
che la quinta ecloga fa menzigne della seconda e della terza:
ora, sebbene del tempo in cui fu dettata la quinta manchi un
certissimo indizio, si può nondimeno congetturare dal contenuto,
destituito di ogni allusione a persone e fatti aventi relazione
colla vita del poeta, che anche la quinta è anteriore alla per-
(1) Sul significato di questa espressione cfr. la mia nota al v. 86 del-
l'Ecloga.
(2) E quindi giustissima Tosservazìone del Kolster in Vergils Eklogen
in ihrer strophischen Gliederung nachgewiesen^ Leipz., 1882, p. 31 : « Es
ist diese Ekloge die erste, in welcher sich der Einfluss des Asinius Pollio
auf den Vergil zu erkennen giebt. »
X INTRODUZIONE
dita dei beni patita nel 713 dal poeta, come per altro rispetto
sembra confermato dal fatto che quest'ecloga è accennata nella
nana (1), la quale, come dimostreremo fra poco, deye cadere
nel 714, ed ha relazione strettissima coi casi occorsi al poeta
nella distribuzione del territorio mantovano ai soldati dei trium-
viri. Certo io non accetto Tidea di quei curiosissimi, come li
chiama il Bibbeck (2), allegoristi, che nel Dafni dell'ecloga V
pretendono avere il poeta voluto allegoricamente rappresentare
0. Qiulio Cesare, tanto più che lo stesso Servio lo dà tutt'altro
che come cosa sicura, anzi accenna a diverse altre interpreta-
zioni allegoriche dell'ecloga (3). Penso invece che il poeta vo-
lesse in apposita ecloga rappresentare più spiccatamente le tra-
dizioni della vita e della poesia pastorale greca, di cui Dafni è
appunto l'eroe leggendario, e al quale Teocrito aveva riservato
« une place d'honneur » nelle sue composizioni (4). E vedo con
piacere come quest'idea non sia affatto nuova, che, contro l'affer-
mazione di molti filologi e commentatori di Virgilio, l'hanno
sostenuta, non è molto, combattendo gli allegoristi, il Eol-
ster (5), il Krause (6) ed il Feilchenfeld (7) con argomenti
che, mi pare, non ammettono replica (8). Finalmente, quanto
(1) Cfr. i vv. 19 e 20 con Ed, V, 40.
(2) Proleg., p. 2.
(3) Ad Ecl, V, 20 : mulH dicunt, simpliciter hoc loco defleri Daphnim,..
alti dicunt significavi C. lulium Caesarem... alii.., Quintilium Varum.,.
tamen < crudeli funere » ad quemvis potest referri. Cfr. inoltre Fi-
largir. allo stesso passo (nel Servio di Lion, li, p. 326) : alii luctum Sa-
loniniy nonnulli Flacci fratris eius putant. Anche nella Vita donatiana
è detto che il poeta pianse in Dafni la morte del fratello Fiacco (p. 58,
1 R.). Cfr. anche gli Scolii Bernesi ad Ed,, V. Proem., e v. 20.
(4) JoLES Girard, La Pastorale dans Théocrite in Ètudes sur la
Poesie Grecque, Paris, 1884, p. 276. Cfr. Kolstbr, Op. cit., p. 78.
(5) Op. e pag. cit. e seg.
(6) Quibus temporibus quoque ordine VergiHus Eclogas scripserit.
Beri. 1884, p. 43 segg.
(7) Be Vergila Bucolicon temporibus, Lips., 1886, p. 17 seg.
(8) Non so davvero capire come possa anche il Góthling nel sommario
di quest'ecloga (vedi la sua edizione Teubneriana, 1886, p. xvui (affermare
che in essa Virgilio esaltò Cesare nella ricorrenza del suo natalizio nel-
INTRODUZIONE XI
alla settima ecloga, nulla vieta che sia riferita airanno 713 e
sia pure considerata come anteriore alla disgrazia toccata al
poeta in queiranno, e debba mettersi molto probabilmente dopo
la quinta.
Certo se il poeta, incoraggiato da Asinio Pollione, e forse anche
dal suo condiscepolo Cornelio Gallo (1), il quale aveva nella
Gallia Cisalpina il mandato di esigere denaro dai municipi ri-
sparmiati nella divisione di terre (2), recatosi a Boma, potè
in mezzo a tanta moltitudine inascoltata di infelici supplicanti
per la stessa cagione (3), ottenere da Ottaviano la restituzione
de' suoi beni, egli dovette il singolarissimo favore non solo alle
raccomandazioni, che le sempre crescenti e minacciose pretese
de' soldati, non soddisfatti degli assegni avuti, potevano rendere
inefficaci (4), ma particolarmente ai suoi meriti poetici, come,
se non erro, lo dice esplicitamente il poeta stesso nella IX
ecloga (5). E forse fin d'allora l'astuto triumviro ideava di farsi
Tanno 712. Del resto questa pretesa apoteosi di Cesare, che si attribuisce
a Virgilio, è assai bene spiegata dal Kolstbr, p. cit.: < Die Zeit, welche
auf Vergils Leben folgte, konnte von Apotheosen nicht horen^ obne sofort
an die Vergotterungen der Kaiser (bei Vergils Lebzeit natùrlicb des Julius
Gasar) zu denken, daber ist die Frage, ob sich nicht eine solcbe auch
hinter Daphnis' Apotheose berge, gar leicht erklàrt, und der nàchste
Schritt lag nahe, in Daphnis* Tod eine allegorische Hinweisung auf Gàsars
Ermordung zu suchen ».
(1) Gomm. di Prob,, p. 6, 1 K.: Sed insintMtus per ComeUum Gal*
lum^ condiscipulum suum, promeruit, ut agros suos reciperet.
(2) Gfr. RiBBECK, De vita et scriptis P. Yerg, nell'ediz. min., p. xix.
Il Kb AUSE però, Op. cit., p. 21, sostiene che Gornelio Gallo avesse tale
ufficio soltanto sotto ramministrazione di Varo, successore di Pollione, e
dà questa ragione, in vero poco convincente : Nam ante eclogam VI apttd
Yergilium mentio fit eius nulla, quamquam et ipse poeta fuit posteaque
Maranis amicus familiarissimus (cfr, ed. X).
(3) Gfr. i passi di Appiano riportati sopra a p. VII, not. 2.
(4) 11 RiBBEGR, Proleg,, p. 5, spiega la restituzione fatta a Virgilio col
desiderio che aveva Ottaviano di cattivarsi togatorum quoque animos
quantum fieri posset. E una ragione molto debole.
(5) V. 7 segg.: Certe equidem audieram... \ omnia carminibus vestrum
servasse Menalcan. Ed è anche giusta Tosservazione del Feilghenfbld,
a proposito delFecloga I, Op. cit., pag. 20 : quod Caesarem sibi permi-
XII INTRODUZIONE
del giovane poeta mantovano un cantore devoto alla sna poli-
tica, un glorificatore delle sue gesta e della sua casa. Chi co-
nosca alquanto, a fondo la tetra figura di Ottaviano, chi ricordi
il freddo calcolo che informò tutta la vita di quest'uomo, sin
dalla sua prima comparsa nel mondo politico romano, non ne-
gherà che, senza una grave ragione, non poteva indursi ad un
atto che avrebbe potuto provocare gravi malcontenti n^li uo-
mini sul cui braccio ei doveva necessariamente contare per co-
lorire i suoi disegni. Ad ogni modo sta il fatto che Virgilio
riebbe il suo, ed espresse tosto la sua viva riconoscenza per il
ricevuto benefizio neirecloga prima : ma, astenendosi dalla mera
espressione di un'egoistica compiacenza, manifestò anche deli-
catamente, mediante la figura dì Melibeo, la sua pietà per la
sorte degli sventurati suoi compatrioti. Per la qual cosa questa
ecloga deve essere stata composta verso il principio dell'anno 714,
quando Ottaviano già era entrato nel suo 23^ anno di età.
Se non che sembra che qui ci si presenti una difficoltà per
via della nona ecloga, nella quale il poeta dice chiaramente,
che le armi avevano reso vano il salutare effetto de' suoi
carmi (1), e però dimostra di essere stato spogliato de' suoi
beni. Tanto è vero che il Krause, esaminando con molta dot-
trina ed erudizione (2) la prima e la nona ecloga, non che
tutte le testimonianze antiche riguardanti e le ecloghe stesse
e la spogliazione de' beni sofferta dal poeta, credette di poter
venire alla conclusione, cui pure venne il Nettleship (3), che
cioè la prima ecloga sia stata composta dopo la nona, e che
per conseguenza il poeta fu afflitto, per ciò che concerne i suoi
sisse dicit ut securus oves pasceret et hucolicae poèsi incumberet (v. 10:
« ludere qttae vellem calamo permisit agresti ») haud scio an ipsam
poésin causam fuisse cur patrimonio suo parceretur ille intellegi vo-
luerit.
(1) V. 11 segg.4 carmina tantum, \ nostra valent, Lycida, tela inter
Martia, quantum i Chaonias dicunt aquila veniente columbas.
(2) Op. cit., p. 13 segg.
(3) Ancient lives of Vergila pag. 41 seg. Gfr. Feilchbnpbld, Op. cit.,
p. 21 seg.
INTRODUZIONE XIII
beni, da una sola ed unica calamità. A dire il vero, le testi-
monianze degli antichi non ci permettono di pensare ad una
nuova divisione di terre, per le quali al poeta fosse di nuovo
tolto ufficialmente, diremo così, quanto gli era già stato resti-
tuito: ma, levando via tutto ciò che in esse riscontrasi di vario
e di contradditorio ne' particolari, e mirando solo alla sostanza
del fatto, queste ci conducono ad aver per fermo che Virgilio
non potè a lungo fruire del privilegio ottenuto, causa la sol-
datesca prepotenza ; anzi, stando a ciò che si legge nel commen-
tario di Probo (1) , nella Vita attribuita a Donato (2) ed in
Servio (3), poco mancò che non fosse ucciso. Insomma il fatto
si può benissimo spiegare con una di quelle violenze che in
qne' tempi erano frequentissime, e che i capi erano impotenti
a reprimere (4). Virglio, reintegrato nel possesso de' suoi beni,
si trovava chiuso in un cerchio di ferro: i suoi vicini non
erano piìl i pacifici coloni di un giorno , ma soldati, barbari,
insaziabili, prepotenti, feroci, indignati del favore concesso al
poeta (5) : nulla di più naturale quindi che il poeta subisse la
sorte che tocca sempre al più debole in mezzo a coloro che
ripongono la giustizia nella forza brutale. Sulle modalità del
fatto non oserei fare alcuna congettura: stimo per altro inne-
gabile che la nona ecloga , nella quale, come si è veduto , si
accenna espressamente ad una concessione fatta al poeta, ma
resa irrita e nulla dalla empietà soldatesca, sia stata composta
(1) P. 6, 4 K. Più sotto (n. 5) è citato Finterò passo.
(2) P. 59, 7. R. Altri particolari sono esposti nella Prefaz. di Donato
alle BacoL, p. 5, ed. Mùller.
(3) Gfr. il Proemio alle Bue. I, p. 3, 5 Th. Inoltre ad Ecl IX, 1 ; 11 ;
16 ecc.
(4) Gfr. nuovamente i passi di Appiano citati più sopra a pagina VII,
nota 2.
(5) Gomm. di Prob., p. 6, 2 K: promeruit^ ut agros st40s reciperet, et
eo facto concitauerat in se ueteranos adeo^ ut a Milieno Torone primi-
pilari paene sit interfectus^ nisi fugisset^ ut contestatur ipse, cum ait,..
e qui sono citati i vv. 14-16 delFecloga IX.
Stahpim, Vergil, BucoL U
XIV INTRODUZIONE
dopo la prima (1), appartenendo pur sempre al medesimo
anno 714 e prima della pace di Brindisi.
Scampato al pericolo colla fuga, Virgilio non ritrovava più
nella Transpadana l'appoggio che prima lo aveva sostenuto va-
lidamente. In luogo di Pollione, richiamato dal governo di
quella regione, era stato mandato da Ottaviano nelF aprile del
714 Alfeno Varo (2), il quale , quantunque fosse stato , come
pare, condiscepolo del poeta, nella scuola dell'epicureo Sirene (3),
e sebbene Virgilio gli avesse promesso di cantare le sue im-
prese guerresche, qualora si fosse adoperato in favore dei Man-
tovani e di lui stesso (4), nonostante, o che non potesse, o che,
come è assai probabile (5), non volesse, frustrò le speranze che
in lui aveva riposto Virgilio. Questi allora con bel garbo si
sottrasse all'impegno preso di cantare epicamente l'uomo che
per i suoi concittadini e per lui nulla di buono aveva fatto ^
collo scrivere l'ecloga sesta, nella quale si scusa di non potere
cimentarsi nell'epica poesia, sentendosi atto soltanto a « deduc-
tum dicere Carmen » (v. 5), e soggiungendo, col rivolgersi a
Varo (v. 6-8):
« nunc ego (namque super tibi erunt qui dicere laudes,
Vare, tuas cupiant et tristia condere bella)
agrestem tenui meditabor harundine musam ».
Ma c'è di più: il poeta scaltramente cercò di temperare l'è-
(1) Bene adunque il Feilchenpeld, op. cit., p. 22 : hoc igitur ex nona
ecloga cognoscimus poétae agrum oh carminum eius laudem paulisper
servatum^ sed gliscente militum violentia ei ereptum esse nec multum
in hac re afuìsse quin ipse ab invadentibus occideretur.
(2) Serv. ad Ed, VI, 6; IX, 27 ecc.
(3) Serv. ad EcL, VI, 13. Gfr. gli Scolii Veronesi, uniti al Commentario
di Probo neiredìz. del Keil, p. 74, 5.
(4) EcL, IX, 27 segg.: Vare, tuum nomen superest modo Mantua
nobis, I Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae, \ cantantes sti-
bìime ferent ad sidera cycni.
(5) Di fatto più tardi venne accusato da Cornelio Gallo di non avere
ottemperato agli ordini categorici che aveva ricevuto per la divisione dei
terreni, non lasciando ai Mantovani che pochi tratti paludosi. Cfr. Serv.
ad Ed, IX, 10.
INTRODUZIONE XV
logie che indirettamente è fatto a Varo da' suoi versi, coU'in-
trodurre nell'ecloga le lodi di Cornelio Gallo (v. 64 segpf.), il
quale dovette nelle gravi circostanze del poeta niostrarsi molto
ben disposto verso di lui e probabilmente caldeggiò indamo
presso Varo la causa di Virgilio e dei Mantovani (1). Conse
guentemente l'ecloga sesta dovette succedere, con un breve in-
tervallo di tempo , alla nona, e però fu scritta nel 714, an-
ch'essa prima della^pace di Brindisi.
Besta che si dica del tempo in cui furono composte la
quarta^ Vottava e la decima ecloga. Rispetto alla quarta, nel-
l'Argomento da me premesso alla medesima (p. 61 di quest'edi-
zione), ho esposto le ragioni, le quali persuadono a ritenerla
scrìtta neiranno della pace di Brindisi, c^e è il 714 , anno in
cui Asinio Pollione ebbe definitivamente il consolato, al quale
da parecchio tempo era stato designato. Qui non ripeterò ciò
che ho scritto. Aggiungerò soltanto che, siccome la pace di
Brindisi fii conchiusa d'autunno, così l'ecloga si deve ascrivere
alla fine del 714. Quanto poi alle numerose e cervellotiche
ipotesi che si fecero su quest'ecloga per riguardo al miracoloso
fanciullo cantatovi dal poeta, oltre a quelle da me citate nel-
l'Argomento , basterà che io rimandi il lettore al proemio di
detta ecloga, quale si ha negli Scolii Bernesi, ove si trovano
le più disparate interpretazioni (2) , colle quali nobilmente ri-
valeggiano alcune di moderni filologi (3). E vengo 2ÌVottava
ecloga. Anche di questa si può agevolmente stabilire la data.
(1) L'accusa mossa da Cornelio Gallo a Varo (vedi la nota preced.) ne
è prova, sebbene indiretta.
(2) Oltre al Proem. airEcloga IV. cfr. gli Scolii ai w. 2, 7, 8, 15, ecc.
(3) Tra gli altri Th. Plùss, in Des VergiUus vierte Ecloge (nei Jahr-
bùcber far class. Phil., v. CXV a 1877), di cui ecco qualche tratto : p. 76
< ein kind des gottes Bacchus soli der kònig der verjùngten orde und des
verkiàrten menschengeschlechtes werden ». P. 78 : « wenn der vater Liber
ist, ist die mutter Libera ». — Naturalmente non è qui il luogo di discor-
rere, anche solo di volo, delle bizzarrie medievali concementi quest'ecloga.
Sol che vedi la classica opera del Comparstti, Virgilio nel Medio Evo^ I,
p. 133 segg.; Oraf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del
Medio Evo, II, p. 204 segg. ecc.
XVI INTRODUZIONE
Asìnio PoUione, cui è dedicata (1) , dopo il suo consolato, aveva
capitanato una spedizione nella lUirìa , riportando una splen-
dida vittoria sui Partini (2), dei quali trionfò il 25 di ottobre
del 715(3). Veramente Virgilio non menziona il trionfo, ma
solo la vittoria che di poco lo precedette (4) ; anzi i versi 6
e 7 (5) mostrano , ad onta delle difficoltà che presentano per
una retta interpretazione, che, mentre il poeta scriveva quest'e-
cloga, PoUione non era per anco tornato a Boma. Onde io stimo
che l'ecloga sia stata composta verso il principio deirautunno
del 715. E qui aggiungo un'osservazione. 11 nome di PoUione
non è neirecloga veramente espresso, ma non vi può essere
dubbio che le parole di dedicazione riguardino lui : per la qual
cosa giustamente fu òonfutato lo Schaper, perchè, accettando
una falsa interpretazione di Servio (ad Ed., Vili, 6), contrad-
detta tuttavia da altre indicazioni date nel suo commentario
(ad JEfe?., Vili, 10 e 12), volle vedere neirecloga ottava glo-
rificate le imprese di Ottaviano, trasportando conseguentemente,
come del resto fecero anche altri, Tecloga fuori del triennio di
cui sopra si è ampiamente parlato (6). Al contrario Y ecloga
ottava entra nel triennio, poiché^ anche volendo, ciò che non
è evidentemente necessario né ragionevole , stare col massimo
(1) Cfr. i vv. 6-13.
(2) Cfr. Dion. Gass., XLVIII, 41, ove però non è detto del trionfo, ri-
cordato invece da Graz., Od., II, 1, 14 segg.: Polito . . . | cui laurus ae-
ternos honores \ Dehnatico peperit triumpho.
(3) Vili K, Novem. Cfr. GIL, voi. I, p. 461 (in Acta triumphorum
Capitolina) e p. 478 (in Tabulae triumphorum Barberinianae).
(4) hanc sine tempora circum \ inter mctrices hederam Ubi serpere
laurus (v. 12 seg.).
(5) tu mihij seu magni superas iam soma Timavi, \ sive oram llly^
vici legis aequoris.
(6) Cfr. la 6« edizione curata dallo Schaper del Virgilio del Ladewig,
Berlino, 1876, voi. 1, p. 56 eeg. Vedi poi la confutazione dello Schaper
in Krausb, Op. cit., p. 58; in Feilchbnfkld, Op. cit., p. 40 segg. Gfr.
anche Ribbeck, Proleg.^ p. 11. È nota la teoria dello Schaper relativa-
mente ad una € zweite Recension » delle Bucoliche, cui sarebbero state
aggiunte, tra il 727/27 ed il 729/25, la 4», la 6« e la 10« ecloga.
INTRODUZIONE XVII
rigore alle date, quando si dice che un autore impiegò tanti
anni a scrivere un'opera, o cominciò nella tale o nella tale altra
età, Virgilio compì il suo 28® anno di età il 15 ottobre del
712/42, ed il trionfo di Pollione per la sua vittoria sui Par-
tini, preceduto dalla composizione dell' ecloga ottava^ avvenne
il 25 ottobre del 715/39, come si è già ricordato.
Ma a quale anno allora assegneremo la decima ecloga? A
detta di parecchi, questa ecloga, che il poeta chiama il suo
extremum laborem (v. 1) nel campo della poesia bucolica, sa-
rebbe stata composta parecchio tempo dopo il triennio cui ap-
partengono tutte le altre, e precisamente nella primavera del
717/37 (1). Ora, associandomi pienamente agii argomenti ad-
dotti dal Bibbeck, dal Krause e dal Feilchenfeld (2) , non
trovo nessuna ragione per negare che si debba la decima inchiu-
dere nel triennio sopra designato, e sostengo che va riferita
agli ultimi mesi del 715/39. Ed in vero coloro che la assegna-
rono, come il Forbiger, il Benoist (3), ecc. al 717 , si fondano
su una arbitraria interpretazione data ai vv. 44, segg. Si sa che
Teologa, di cui discorriamo, riguarda l'infelice amore di Cor-
nelio Gallo, amico del poeta, siccome s'è veduto, per una donna
di troppo facili costumi, che qui è chiamata Licoride e fu
cantata da Gallo stesso, insigne poeta elegiaco, anzi il primo
che trapiantò nel suolo romano l'elegia erotica degli Alessan-
drini (4). Era una mima conosciutissima in Boma e liberta di
Volumnio Eutrapelo: il suo vero nome era Citeride(5). Ora
Virgilio ci fa sapere (v. 23) che essa abbandonando Gallo,
< perqae nives alium perque horrida castra secutast »,
(1) È ridea del Voss (cfr. VirgiVs Idndliche Gedichte von J. H. Voss,
Einleitung airEcl. X; inoltre Kolster, Op. cit., p. 203 ecc.).
(2) Opp. citt. RiBBECRf p. 10 seg.; Krause, p. 59-65; Feilchenfeld,
p. 42 segg.
(3) Vedi Tediz. del Forbiger (4») del 1872, 1, p. 164 e quella del Benoist
del 1876^ I, p. 89, di cui cfr. pure la piccola ediz. del 1880, p. 5.
(4) Teuppel-Schwabb, Op. cit., p. 476.
(5) Cfr. Filargir., ad Ecl., X, 22 (nel Servio di Lion, II, p. 327) ; Servio,
Proem. ad Ed. X. Inoltre Gic, ad Fam.y W, 26.
XTin INTRODUZIONE
e fa che Gallo si lamenti in questi termini (y. 44 segg.) :
< nunc insanas amor duri me Martis in armis
tela inter media atque adversos detinet hostes.
tu procul a patria — nec sit mihi credere tantum —
Alpinas, ah dura, niyes et frigora Rheni
me sine sola videa. >
Ora non mi pare che si debba assolutamente interpretare questo
passo deirecloga nel senso che Licorìde seguisse in Gallia qual-
cuno che facesse parte della spedizione condotta in Aquitania
da Agrippa. Imperocché, come osservava giustamente il Bib-
beck (1), poteya benissimo Gallo nel suo animo addolorato
figurarsi i patimenti dell'amica, ancorché nulla intomo ad essa
ei sapesse di preciso, salvo « eam perque nives alium perque
horrida castra secutam esse » (2). Non voglio già dire con
ciò che nel 715 non ci sia stata nessuna impresa di Agrìppa
in Aquitania; anzi, contro la troppo assoluta affermazione di
parecchi, come il Krause (3) , che non vi sia testimonianza al-
cuna per mettere cotale impresa nel 715, si può osservare,
come già osservava il Eolster (4) , che, stando ad Eutropio (5),
sembra che si debba appunto ascrivere a quell'anno la vittoria
di Agrippa sopra gli Aquitani. Ma, comunque sia la cosa, noi
sappiamo che, fatta la pace di Brìndisi, per la quale fu effet-
tuata una nuova spartizione dell'impero fra i triumviri (6) , la
Grallia toccò ad Ottaviano, il quale poco dopo vi si recò per
sedare alcuni tumulti (7), mentre Antonio andò a combattere
i Farti. E così resta pure confutata l' affermazione di Servio ,
(1) Proleg., p. 10.
(2) Gfr. anche Krause, Op. cit., p. 59 seg.
(3), Pag. cit.
(4) Op. cit., p. 203.
(5) Hist. Rom. (ediz. Dietsch), VII, 4 (3) : Bellatum per Caesarem
Augustum Octavianum et M. Antonium adversus Sextum Pompetum.
Pax postremo convenite 5. Eo tempore M, Agrippa in Aquitania rem
prospere gessit. Anche il Ribbegk, p. cit., è di quest'opinione.
(6) Appian., V. 65.
(7; Appian., V. 75.
INTÌIODUZIONE XIX
che Licorìde scappasse con Antonio (1); e stimo che Servio
fosse tratto in siffatto errore dall'aver Ietto, che una volta essa
fu la ganza dì M. Antonio, confondendo evidentemente i tempi (2).
E questo basti intomo all'ecloga decima, che perciò io penso
debba appartenere alla fine del 715 (3).
Conchiudendo pertanto senz' altro (4) questa questione dalla
cronologia delle Ecloghe, possiamo ritenere almeno come pro-
babile, che l'ordine cronologico delle Ecloghe sia il seguente:
2% 3» 5», 7% 1% 9», 6% 4», 8», 10» da ripartirsi nel modo
seguente: 2» e 8» negli ultimi mesi del 712; 5* e 7* nel 713
prima della divisione dell'agro Mantovano; 1*^ verso il principio
del 714; 9* e 6» nel 714 prima della pace di Brindisi; 4* nel 714
dopo la pace di Brindisi ; 8* verso il principio dell'autunno del
715; 10» verso la fine del 715. Perchè poi il poeta abbia va-
riato l'ordine col quale venne dettando le sue Ecloghe, non è
dato di sapere con certezza. Soltanto pare che egli stesso (5)
ponesse in principio della collezione quella che ora è l'ecloga
prima, forse perchè tornava a glorificazione di Ottaviano. Besta
così aperto il campo alle congetture (6).
(1) Ad. Eclog.^ X, 1 ; hic. . . Gallus amavit Cytheridem meretricem^
libertam Volumnii, quae^ eo spreto, Antonium euntem ad Qallias est
secuta.
(2) Cfr. Cic, Philipp. II, 24, 58; ad Att. X, 10, 5; 16, 5. Quest'amore
di Antonio per Giteride, o Licorìde che dir si voglia, o anche Volumnia,
dal nome del patrono, si rìferìsce all'anno 705; ed il Ribbeck nota giu-
stamente che nel 708 Antonio Taveva lasciata, avendo sposato Fulvia.
(3) Naturalmente non posso qui esporre e neppure menzionare le altre
opinioni che si sono espresse intorno all'ecloga 10*. Certo alcuni filologi
con ipotesi strane, messe avanti per amore di novità, hanno, non chiarite,
ma ingarbugliate le questioni : è quindi bene lasciarle da parte, come p. e.
l'ipotesi del Flach (cfr. i Jahrbùcher cit., v. CXIX, a. 1879, p. 791-98), che
si fonda in parte sulla pretesa non identità di Giteride con Licorìde (p. 794).
(4) A ben diverse conclusioni pervenne il Sonntaq nei suoi Beitrdge
zur Erkldrung Yergilscher Eclogen^ Frankfurt, 1886, p. 5-7, nota; ad
ogni modo le sue osservazioni sulla 4* e la 10* Ecloga, di cui particolare
mente si occupa, non mancano di valore.
(5) Gfr. Georg., IV, 565 seg.; Ovid., Amor., I, 15, 25.
' (6) Vedine riferìte alcune dal Feilghenfeld, Op. cit., p. 15, noi. il
XX INTRODTJZIONK
Un'altra questione, certo di minore importanza, ma che non
può essere dimenticata per via degli studi e delle controversie
che ha promosso, è quella della così detta tessitura o composi*
zione strofica delle Ecloghe. Si sa che, dopo che alcuni filologi
si furono adoperati a dividere, chi in un modo chi in un altro,
in istrofe gli Idillii di Teocrito, il Ribbeck pensò di applicare
pure a Virgilio un analogo sistema (1), e dopo il Ribbeck ven-
nero il Qebauer (2) , il Peiper (3) , il Kolster (4) , che , quasi
gareggiando a chi meglio riuscisse a tagliuzzare in istrofe più
meno lunghe le povere Ecloghe, fecero bensì un grande sciupìo
d'ingegno e di carta, ma non vennero, secondo il mio parere,
a risultati accettabili; per non dire che dalle loro mani non
uscì sempre, senza essere malconcio, il testo delle Ecloghe. Del
resto nella stessa Germania non mancarono filologi, i quali
si mostrarono risolutamente avversi a quel sistema di partitura
strofica (5) ; anzi G. Hermann stesso, che s'era pure fra i primi
(1) Ueher die Composition von Yergilius* Eclogen in Jahrbùch. fùr class.
Phil. V. LXXV, a. 1857, p. 65-79.
(2) De poetarum graecorum bucolicorum, inprimis Theocriti carmi-
nibus in Eclogis a Vergilio expressis. Voi. I, Lips., 1861.
(3) Der refrain bei griechischen und lateinischen dichtern in Jahr-
bùch. ecc., V. LXXXVll, a. 1863, p. 617-623 e 762-766; v. LXXXIX, a. 1864,
p. 449-460 ; v. XCI, a. 1865, p. 344 seg.; v, XGVli, a. 1868, p. 167 seg,
(4) Op. cit.
(5) Ecco il giudizio del Teupfel (Op. cit., p. 455), cui recentemente il
GÙTHLiNG (Op. cit., p. vili), dichiarò di pienamente associarsi: « Wem
etwa durch die Ausstattung der Gedichte mit Aap d fi', aaaa, à à à a
U8W. das Yerstàndniss derselben und die Freude daran erhòht werden
solite, dem sei das von Herzen gegónnt; wir kònnen es nicht von uns
rùhmen und haben die tTberzeugung dasz die ganze Hypothese vor einer
unbefangenen Betrachtung der Eklogen selbst nicht Stand hàlt Auch
konnte dieselbe ohne die herkòmmliche Auswerfung einer Anzahl Verse
die ihr hinderlich waren und ohne Annahme etlicher Lùcken an Stellen
wo sonst Niemand etwas vermissen wùrde (wie 8, 58. 10, 47) nicht durch-
gefùhrt werden. Was bei den Wechselgesàgen (wie 3, 60. 7, 21) selbst-
verstàndliche Forderung war, das durfte, schoa zur Unterscheidung von
ienen, nicht kurzweg auf die Gedichte im Ganzen ùbergetragen werden ».
E presp di mira direttamente il Ribbeck. Anche il Klouger, nella sua
INTRODUZIONE XXI
occupato della questione a proposito della poesia bucolica greca (1),
aveva avvertito i filologi del pericolo cui si andava incontro col
volere ad ogni costo e senza notevoli riserve e distinzioni tro-
vare una composizione strofica negli Idillii di Teocrito. Di fatto,
d(^o di aver notato che gli Idillii di Teocrito si dividono in due
classi — precisamente come noi dobbiamo dividere le Ecloghe
di Virgilio — « pronti vel duo inter se canentes aut loquentes
introducuntur, vel unius tantum cantus sermove exponitur » (2) ;
e dopo di avere, quanto agli Idillii della seconda specie, distinto
quelli che sono caratterizzati da un verso intercalare, da quelli
che mancano dì tale caratteristica, pei quali ultimi avverte
come riesca più difficile la composizione strofica; dopo di avere
finalmente affermato come ad ogni modo, nel volerla determi-
nare, si venga, nella migliore ipotesi, soltanto ad un grado di
probabilità e non di certezza (3) , soggiunge queste memorande
parole : « maior etiam dubitatio moveri poterit de iis poematis,
in quibus nullum quod canatur Carmen profertur, sed poeta ipse
vel narrat aliquid vel sua cogitata exponit. Verendum est enim
ne* ìpsi nobis somnia fingamus perdamusque operam, si artifi-
ciosas stropharum comparationes comminiscamur, de quibus ipsi
poetae ne cogitaverint quidem. Viderique potest id eo probjabi-
lius esse, quod saepenumero dubitari potest, sic an aliter con-
stituendaesint strophae ». E non è a dire che gli strofisti,
come vorrei chiamarli, non abbiano avuto presenti queste cosi
sane avvertenze: p. e., il Gebauer così sì esprime, prima di
proporre il suo sistema riguardo a Teocrito e Virgilio (4) :
« Accedo jam ad quaestionem satis lubrìcam ac periculosam ,
quae, quo magis ìnterpretibus ansam dedit ad ingentem conjectu-
recente edizione delle Bucoliche e Georgiche (Praga, 1887), ne respinse il
sistema strofico. Cfr. Sabbadini in Riv. di Fil. ed Istr. class, v. XVI, p. 323.
(1) De arte poesis Graecorum Bucolicae (Opusc, Vili, p. 329 segg.).
(2) P. 330.
(3) P. 338: Si haec aliquid prohabilitatis habent^ quod fateor eiusmodi
esse ut, si quis veris similia esse concedati vera autem esse negete non possit
aUquo invictoargumento re/ufart(equiseguonole parole maior etiam eoe),
(-1) Op. cit., p. 78.
xxii nmiODUziONB
rarum audaciam, eo aorius devìtanda declìnardaque videtur:
eam dico questìonem, num verisimile sit, Theocrìtum et Yer-
gilium carmina stia in strophas divisisse ». Ma, persuaso che
si debbano riconoscere delle strofe nei due autori, ad onta delle
sue dichiarazioni di somma cautela (1) , cadde di fatto nell'ar-
bitrario e in contraddizione colle sue stesse premesse. E questa
<;ontraddizione fu giustamente rimproverata al Peiper dal
Haag (2), il quale invece, in ordine al sistema di divisione
strofica nelle Ecloghe , mette innanzi idee giudiziose, che si pos-
sono in massima accettare; e ciò dico perchè non voglio io
certamente, col censurare il Bibbeck ed i suoi seguaci, negare
che vi sia, in parte , in alcune ecloghe una tessitura strofina ,
cosa del resto che non negava neppure il Teuffel (3).
Il Dr. Haag, prepdendo le mosse da una distinzione analoga
a quella che abbiamo veduto proposta da G. Hermann , stabi-
lisce due classi di Ecloghe (pag. 4) : « Altera continentur car-
mina, in quibus ratione dramatica duo inter se canentes vel
loquentes introducuntur, altera, in quibus unius cantus sermove
pronuntiatur >. Inoltre: « Prior carminum classis, quae ambe-
baea vel alterna vocantur , in partes duas dividi potest: alte-
rius partis carmina ita composita sunt, ut qui prior cantat,
duos vel quattuor versus pronuntiet, eum autem ita alter exci-
piat, ut totidem versibus altercando alterum sive elegantia sua-
vitateque dicendi sive gravitate sententiarum superare conten-
dat (Ecl. Ili et VII); alterius partis carminibus continentur
magnae cantilenae vel ex versibus numero paribus compactae,
quae continenter canuntur (7, 20-44, 56-80) vel in pares ver-
suum numero strophas redàctae, quae versu intercalari inter se
(1) P. cit. Diligenter vero irta cavere studui, quae nisi vitaveris re-
igiosissime, haec tota doetrina vana et futtlis erit, ne aut ejicerem
versiis ad sensum necessarios aut adderem non necessarios aut conjun-
gerem quae sunt sejungenda, quae connectenda sunt separarem.
(2) De ratione strophica . carminum bucolicorum Vergila, Beri. 1875,
p. 3 : nonne mirandum est, Peiperum idem, quod in alios animadvertat^
ipsum peccasse?
(3) Vedi il passo più sopra citato (p. XX, noia 5).
INTRODUZIONE XXHl
discernuntur (Vili), ant colloquia ex versibus numero ìmpa-
ribus composita (I e IX). Altera vero classis carminum buco-
licorum, in quibus unius cantus sermove exponitur, ex eclogis II,
lY, VI, X eonstat » (p. 4 seg.). Data una tale divisione delle
Ecloghe, la quale stimo doversi totalmente accettare, il Haag
ammette potere esistere una distribuzione strofica nella prima
classe soltanto, ma non in tutte le ecloghe che ad essa appar-
tengono, e nemmeno in qualche ecloga intera, ma solamente
nella parte che abbraccia canti alterni ovvero cantilene estese.
Ne segue che una distribuzione strofica si può accettare in una
parte (la cantata) delle ecloghe III, VII ed Vili; ma neire-
cloga V tutto quello, che di certo si può osservare, è che il poeta
ha voluto stabilire una esatta proporzione fra le due cantilene,
quella di Mopso (w. 20-44) e quella di Menalca (vv. 56 80),
facendole entrambe di 25 versi. Non esistono strofe dove non
c'è canto, ma soltanto colloquio: onde nessuna partizione stro-
fica si ha da fare nell'ecloga I e nessuna nella IX ( « nisi
forte », dice il Haag a proposito dì questa (p. 16), « illas can-
tilenas Theocriteas Vergilianasqu^ excipis » (1)); e a più forte
ragione manca l'organismo strofico nelle ecloghe II, IV, VI, X.
E conchiude il Haag con queste parole, alle quali volentieri
sottoscrìvo: « Gomparationes strophicae carminum bucolicorum
Vergilianorum in exiguam partem compellendae sunt. In stro-
phas dividendi mea quidem opinione sunt tantum cantus alterni
et cantilenae, quas memoravimus » (p. 23).
Per altro, se appare subito una serie dì strofe di due versi
nell'ecloga III dal v. 60 al 107; di quattro versi nell'ecloga VII
dal V. 21 al 68, una difficoltà ci si presenta nell'VIII, dove il
verso intercalare (refrain)^ sì nella cantata di Damone, come in
quella dì Alfesibeo (vv. 17-61 e 64-109), distingue evidente-
mente le singole strofe. Poiché da una parte stando al testo
com'è, io trovo successivamente strofe di 5, 4, 6, 5, 6, 4, 5, 6,
m
4 versi (e le strofe sono nove)\ mentre dall'altra si hanno strofe
che sì succedono dì 5, 4, 4, 3, 5, 6, 4, 6, 4, 5 versi (e le strofe
(1) Di fatto ai vv. 23-25 rispondono i vv. 27-29; ai vv. 3943 i vv. 46^.
XXIV INTRODUZIONE
sono dieci). È manifesto quindi che, come è, il testo virgiliano non
si presta ad ana rispondenza strofica di una cantai^ all'altra:
ma bisogna vedere se non ci sia ragione di toccare il testo.
E qui confesso che, sebbene io sia in generale molto ripugnante
a toglier versi e indicare lacune nei testi, pure non posso nel
caso presente non riconoscere che il testo dell'ecloga Vili deve
essere leggermente modificato. E primieramente trovo inserito
infelicemente e afEatto fuori di luogo tra il v. 75 ed il 77 l'in-
tercalare « ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Da-
phnim », il quale distribuisce in due strofe separate versi evi-
dentemente collegati pel senso : ora, toglieìido quell'intercalare
intruso, si ottiene una strofa omogenea di 6 versi (1), corri-
spondente alla 3^ strofa, che è pure di 6 versi» del canto di
Damone. Inoltre mi par chiaro, che dopo il v. 58 vi sia una
lacuna di un verso : il senso è incompleto e dovrebbe necessa-
riamente attendersi uno sviluppo più ampio (2). Ora, se si am-
mette che è caduto un verso dal testo, noi abbiamo una strofa
di 5 versi, anzi che di 4, rùltima del canto di Damone, rispon-
dente ad una stro& del pari di 5 versi, che è pure l'ultima del
canto di Alfesibeo. In quella vece ridicolo ed ozioso è il verso
50^ (3): sopprimendolo, abbiamo una strofa di 4 versi, la terzul-
tima del canto di Damone» che corrisponde in guisa chiastica
alla penultima del canto di Alfesibeo, che è parimente di 4 versi;
(1) € terna tibi haec primum triplici diversa colore
Ucia circumdo, terque hanc altaria circum
effigiem duco; numero deus impare gaudet.
necte tribus nodis terno s^ Amarylli, colores ;
nectey Amarylli, modo, et ^Veneris' die ^'vincula necto*.
ducite ab urbe domum^ mea carmina, ducite Baphnim. »
(2) Gfr. il Bbnoist nella sua nota a questo verso. Del resto quasi tutti
i ocMnmentatori moderni riconoscono questa lacuna.
(3) Basta a convincersene, la semplice lettura dei vv. 48-50.
crudelis! tu quoque, mater^
erudelis mater, magis at puer improbus ille,
improbìÀS ille puer ; crudelis tu quoque, mater.
kw^ il GÒTHUMe nella sua citata ediz. ritiene come interpolato quest*ul-
làmo verso.
INTRODUZIONE XXV
laddove la terzultima di queste, che è di 6 versi, risponde alla
penultima di quello, che diventa, calcolando di un verso la la-
cuna^ similmente di 6 versi^ nel modo seguente:
4 6 5
X
6 4 5
e però le due cantate vengono a corrispondersi perfettamente
secondo questo schema :
546564465
X
546564645.
Ecco le uniche concessioni che posso fare agli strofisti, e sono
ben poche!
Ora sarebbe il caso di discorrere dell'arte di Virgilio e delle
relazioni che corrono tra le sue Ecloghe e gli Idilli di Teocrito :
ma l'argomento è troppo vasto, perchè io possa qui anche solo
toccarne le linee generali. Nel mio commento ho procurato di
far risaltare i principali passi, in cui è palese l'imitazione di
Teocrito: questo credo che possa essere bastante perchè lo stu-
dioso intelligente si faccia un' idea chiara del come Virgilio
siasi assimilato largamente il contenuto dei carmi teocritei.
Soltanto mi sia lecito esprimere qui una mia idea. Negli studi
letterari è invalsa la consuetudine di istituire de' confronti,
specialmente fra poeti di diversa età, cui o vocazione o delibe-
rato proposito spinse sulla stessa via nella regione dell'arte.
Tanto più poi si è tentati di addivenire a paragoni, quando è
accertato che un poeta cercò di conformare l'arte sua alle opere
lasciate da altro poeta, scegliendolo quale maestro e modello,
siccome è appunto il caso di Virgilio, che prese ad imitare
Teocrito. Ora io dico, che nel campo della poesia latina, certi
confronti non conducono sempre a risultati seri, quando si abbia
di mira la relazione che corre tra i poeti romani ed i greci.
Tutti sanno che i Romani tolsero da' Greci non pure gli schemi
de' vari generi poetici, eccezion fatta della satira, che è tutta
romana , ma idee , sentimenti , imagini , miti , comparazioni,
fatti dì ogni genere. I poeti romani, tolti i satirici, non s'in-
XXYI INTRODUZIONE
Balzarono mai, salvo in parte Gatallo e Lucrezio, a qaella po-
tente originalità, che è spiccatissima caratteristica della poesia
greca. Dacché Roma entrò nell'orbita dell'ellenismo, dacché
l'ammirazione per gli stupendi monumenti dell'arte greca di-
venne venerazione ed adorazione, dacché Roma si prefisse di ri-
valeggiare colla Grecia, non battendo una via propria nell'arte,
ma seguendo quella stessa nella quale i Greci avevano impresse
orme indelebili, la vera originalità diveniva impossibile: l'imi-
tazione, anche solo nell'aspetto formale dell'arte, produceva i
suoi effetti sul pensiero, trasportandolo necessariamente nella
cerchia dell'ellenismo. Persino la così detta epica storica, quan-
* tunque pigliasse i fatti dal mondo romano, nello sceglierli, nel-
l'ordinarli, nel vivificarli, per presentarli alla fantasia del let-
tore non già come fossili dissepolti della storia, ma come
creazioni viventi, non tradisce manifestamente lo studio del-
l'epopea e in generale dell'epica greca? E non fu certo piccolo
merito de'poeti romani, se, messisi in una via pericolosa, riu-
scirono, nonostante la palese imitazione dei modelli greci, a
imprimere nelle loro opere un'impronta profonda di romanità.
Ciò vuol dire, che seppero non di rado assai bene assimilarsi
l'arte greca : vuol dire, che seppero, in un lungo lavoro di pre-
parazione, sceverare nelle opere de' Greci gli elementi adatti
alla vita ed alla civiltà romana, da quelli che tali non ere-
devan che fossero. La poesia greca era adunque diventata pei
Bomani publica matenes (l), che legittimamente poteva dive-
nire privati iuris, date certe cautele e riserve, dalle quali però
a quella indipendenza, in che consiste Toriginalità, come la
concepiamo noi moderni, la distanza è ben grande. Di guisa
che, quando Terenzio nel prologo degli Adelphoe si appellava
al giudizio degli spettatori se, introducendo nella sua commedia,
che era tolta da Monandro, un luogo dei ZuvairoOvrjaKovTcg
di Difilo, egli commettesse un furto o non piuttosto si appro-
priasse cosa che era stata negletta da Plauto (2), si faceva te-
(1) Oim., Art. /'., V. l.U.
(2) Gfr. i vv. 6-14.
INTRODUZIONE XXVII
stìmone dì ciò che in fatto d'arte sentivano i Romani del suo
tempo> che per rammirazione e Timitazione degli exemplaria
graeca stanno molto al di sotto dei poeti dell'età augustea.
Non faccia adunque meraviglia che Virgilio abbia così am-
piamente imitato e, direi quasi, copiato Teocrito: egli voleva
diventare il Teocrito latino, senza scostarsi guari dal modello
che aveva davanti; l'imitazione diveniva necessaria: il suo se-
colo stesso, co' suoi pregiudizi letterari, gliel' imponeva. L'imi-
tazione tornava certo a scapito della fedele rappresentazione
della realtà: ma, badiamo, a molti particolari dell'arte, sui
quali noi moderni non possiamo e non vogliamo transigere,
non ci si badava punto da'Bomani: e però, come, a voler ci-
tare un esempio, Plauto non si faceva pùnto scrupolo di far
parlare attori palliati di Campidoglio, di Yelabro, di dittatori,
di pretori, di edili, di questori e via dicendo; di trasportare in-
somma in città greche costumi e fatti prettamente romani, anzi di
mescolare questi coi greci ; così, per converso, in Virgilio, vicino
alle rive del Mincio, raccolti in uno i loro greggi, si disputano
il premio del canto Coridone e Tirsi, Arcddes ambo (1).
Belativamente alle notizie sui principali e più antichi codici
contenenti le Bucoliche di Virgilio, mentre io rimando il let-
tore alla mia edizione delle Georgiche (2) e, per più ampie
indicazioni, ai Prolegomena del Eibbeck (3), qui stimo oppor-
tuno di notare che, dei sette codici scritti in carattere capitale,
che più meno monchi e malconci sono a noi pervenuti, quattro
soli contengono parte delle Bucoliche, e sono il Palatino (P),
il Komano (E), il Veronese (V) ed il Mediceo (M), ma in guisa
tale, che non è mai . possibile per alcuno degli 829 versi, i
quali compongono le Bucoliche, avere la lezione di tutti e
quattro: più spesso non si può avere che la lezione dì due
(1) Ech, VII, 4.
(2) Nota I, pp. xi-xiii.
(3) Gap. XIII, p. 265 segg. Consulta anche il 5^ fascicolo della Palèo-
graphie des Classiques Latins di Emile Ghatblain, Parigi 1887.
XXVIII
INTRODUZIONE
codici: di 92 versi non
si ha che la lezione di un solo co-
dice (R), come
lo dimostra il seguente
prospetto dato dal
Ribbeck (l):
Ecl.
I
1 m 26
PR
»
III
27 52
PBV
»
53 70
PR
»
71 — mi 51
R
»
mi
52 V85
PR
»
V
86 VI 21
PRV
»
VI
22 47
PR
»
48 86
MPR
»
VII
1 11
MP
»
12 37
MPV
»
38 Vili 18
MP
»
VIII
19 44
MPV
»
45 X9
MP
»
X
54.
10 fine.
MPR.
(1) Op. cit., p. 4
P. VERGILI MAEONIS
BV^OOLIO^
EGLOGA I.
ARGOMENTO.
Finge il poeta ohe il pastore Melibeo, cacciato dal possesso de* suoi campi per
effetto delia distribusione del territorio Mantovano fra i veterani dei triumviri,
mentre prende tristamente la via dòiresilio, spingendosi innanzi un gregge di capre,
incontri Titiro, il quale nella generale sventura se ne sta sicuro e tranquillo al-
Tombra di un faggio. Titiro spiega a Melibeo per qual cagione egli abbia potuto
fruire di cosi eccezionale fortuna e gli narra che andato a Roma, quando già era
entrato nella vecchiaia (v. S9) per ottenere la libertà dal suo padrone, non avendo
prima, per soddisfare a* capricci di Qalatea, potuto mettere insieme il necessario
peculio (v. 31 segg.), fu appagato nelle sue brame. Cosi, essendo state restituite da
Ottaviano al suo padrone le terre, che gli erano state tolte, egli rimaneva come
9ili€u$ al suo servizio traendo vita beata. Àirincontro Melibeo, paragonando mesta-
mente la felicità del vecchio Titiro, che si rimane in patria, colla sventura propria,
accenna alla vita errabonda che gii ò riserbata, e dà un addio ai luoghi ov*era
stato felice. Titiro, poiché s'è fatta sera, lo invita a cenare e passare la notte in
casa sua.
STAMPO», Vergil. BucoL
VERGILI BVCOLICA, I.
Meliboevs, Tittrvs.
Meliboevs.
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagì
^ìlvestrem tenui musam tueditaris avena:
L Tityre. L'etimologia di questo vocabolo è dubbia. Nel lessico di
Esichio si legge t ( t u p o <; . adrupo^ . KdXajiio^ . f\ 6pvt(;: al.qual luogo
M. Schmidt riporta in nota il passo di Eustazio, p. 1157, 38 : Tirupoi
AwpiKCJ^ oi adrupoi. Con questa spiegazione s'accorda Eliano, Var.
Hist.y HI, 40: oi auTXop^uTal AiovOaou Zdrupoi flaav ot ùu* èviuiv
TlTUpoi òvouaZó^cvoi. Gfr. Strab., X, 7, che mette i Titiri fra i Satiri
ed i Sileni. E Servio: Laconum lingua Tityrus dicitur arie.s maior
qui gregem anteire consuevit: sicut etiam in comoediis invenitur; e
gli Scotìi Bernesi : Tityrus Siculorum lingua hircus dicitur, vel Ti-
tyrus lingua Laconica villosus aries appellatur. Se e vera la spiega-
zione -di Servio : aries maior^ può forse ammettersi la derivazione del
vocabolo dalla rad. tu « crescere, essere grande, aver forza », con raddop-
piamento : Ti-TU-po^ ; cfr. Tt-xov, Zf-ouqpo-^. Par certo ad ogni mooo
che abbia un significato attinente alla vita pastorale e sia quindi un
nome adatto a pastori. Gfr. Teocr., Idyll.y III. — patulae^ da pateo^ che
distende largamente i suoi rami e perciò produce molta ombra. Gic, de
Orat,^ I, 7, 28 e Ovid., Met.^ VII, 622: patulis,.. ramis; Ovid., Afei., I,
106 : patula,.. arbore. Vedi del resto Teocr., IdylLy XII, 8: aKi€piP)v ò' ùirò
q)TiYÓv. — recubans = securus accumbens, — tegmine. Cfr. Lucr., II,
663 e Gic, Nat. Deor., II, 44, 112 (Aratea): sub tegmine caeli. —
fagi. Si è osservato che non crescono faggi nei dintorni di Mantova. Se
ciò era a' tempi del poeta, questi poteva però averne fatto crescere nel
suo podere, quasi per cospicuo ornamento. Gerto egli ne fa più volte
menzione. Gn*. Ect.^ Il, 3; IX, 9. — 2. silvestrem.,. musam = car^
men silvestre^ pastoricium. Gfr. Ecl.y VI, 8: agrestem tenui medi'
tabor harundine musam. Vedi anche III, 84. Lucr., IV, 587 : fistula
silvestrem ne cesset fundere musam^ ove troviamo appunto mìtsam nel
significato di carm^en, e V, 1396: agrestis,.. tum m>usa vigebat; Oraz.,
Sat.y II, 6, 17: m.usaque pedestri. — Il verbo, meritori vale qui « eser-
citare ». Il Bréal ed ilBailly nel loro Diction. Étymol, lat. alla voce me-
diar, p. 185, accettano la derivazione di quel verbo dal greco juicXc-
Tflv, come già stabilivano gli antichi, tra cui Servio, notando che, come
le parole incXérn, ineXérriiua erano divenute termini tecnici nelle scuole,
nel teatro e nell'arte militare, dovettero passare in tale qualità a Roma
e che appunto meditari e m^ditatio designano ogni specie di esercizi,
come appare da Plaut., Pers.^ IV, 2, 4 seg.; Terenz., Adelph., V, 6, 8;
Gic, Brut., 88, 302; Plin., Paneg., 13, 1; Geli., N. A., XX, 5, 2; Plin.,
H. N., XVII, 19, (30), 137; XI, 25, (30), 87 ecc. Gonfronta sovratutto per
questo passo Plin., H. N., X, 29, (43): meditantur [aliae intendi lusci-
niae].,. versusque quos imitentur accipiunt, -— tenui,,, avena. L'aggettivo
non esprime già il genere umile della poesia bucolica, come pensava
Servio, ma è un epiteto d'ornamento equivalente al nostro « sottile »,
VERGILI BVCOLICA, I. 3
nos patriàe fines et dulcia linqnìmus arva;
nos patrìam fiigimiis: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5
TiTYRVS.
Meliboee, deus nobìs baec otia fecit.
tratto dalla natura stessa del cannello o stelo delPavena selvatica
(armena), che serviva di strumento per comporre le rustiche melodie di
cui si valevano i pastori come di preludi ed intermezzi alle loro can-
zoni. Questo rustico flauto o sampogna è anche da Virgilio chiamato al
V. 10: calamus; EcL, II, 37; III, 22: fistula; III, 27: stipula; V, 85:
cicuta (cfr. II, 36}; VI, 8: harundo. Talvolta però lo strumento era più
complicato coirunione di diverse canne disumali; pel che vedi sotto Ècl,,, II,
36 seg. — 8. Vedi questo stesso concetto in Georg., II, 511 seg.: exsilio-
qtce domos et dulcia Umina mutant \ atque alio patriam quaerunt sub
sole iacentem. — 4. fugimus, nel senso del greco q)€uT€iv. Cfr. Plat.,
Apol., 5, 21 : 6|LiOùv tCD nX^iOei... HuvèpuTC Tf|v (puyfiv raOrriv : Oraz.,
Od,, I, 7, 21 seg. : Teucer Salamina patrenìque \ cum fugeret, e 11,
16, 19 seg. : patriae quis exsul \ se quoque fugit ì — lentus = securus,
otiosus, tranquillo, senza travagli che lo spingano ad un'azione agitata.
Cfr. analogo significato in Aen., XII, 237; lenti consedimus arvis e
Sulpicia in TibulL, IV, 11, 6; Ovid., Trist, II, 514. Questo signifi-
cato di lentus non è primitivo: esso è originato da lentus = fleanbilis
cosi spesso usato dal nostro poeta (vedi le citazioni nella nota ad Ècl.,
Ili, 38). Cfr. il diverso signincato di laxus in laooos... arcus {Aen,, XI,
874^ e laxum... caput (Pers. IH, 58). Lo stesso dicasi di remissum =
« allentato » (cfr. Oraz., Od., Ili, 27, 67 seg. : remisso \ ...arcu) e < lan-
guido » (cfr. Oraz., Epist., I, 18, 89 seg. : oderunt... \ sedatum celeres,
agilem navumque remissx). Nota del resto la forza di lentus con-
trapposto a fugimus. — 5. Senso : fai risonare Teco dei boschi del
nome della tua Amarillide. Cfr. sotto al v. 30. — formosam propria-
mente accennerebbe alla forma esterna, vale a dire alla proporzione
della forma per rispetto airocchio che la contemi>la; esprime Fidea di
bellezza, ma senza quello splendore e quell'attrattiva che si designano
rispettivamente con speciosus e venustus ; qui però esprime, come spesso,
bellezza senz'altro. — doces si unisce qui coU'acc. e l'inf. come spesso
anche nella prosa classica. — Amaryltida, forma d'acc. alla greca.
6. Meliboee, nome di pastore, dal greco jiiéXciv e PoOq, e significa
colui che ha cura dei buoi. — deus. Qui si allude a Cesare Ottaviano.
Veramente Ottaviano non fu posto pubblicamente fra gli dei, se non
molto più tardi del tempo in cui cade quest'Ecloga, quando gli si decre-
tarono e dedicarono are e templi nella Gallia, nelle Spagne, in Grecia,
nell'Asia ecc.; anzi ufficialmente dal senato romano fu solo riconosciuto
un dio dopo la sua morte (14 d. Cr.), giusta la testimonianza di Tacito,
Ann.^ I, 11, sebbene anche in Roma, come altrove, avesse, vivo an-
cora, onori divini. Pur non fa d'uopo pensare che i due versi seguenti
siano stati introdotti dal poeta in una seconda redazione : il solo sentimento
di gratitudine, come anche quello dell'ammirazione, può giustificare un
tale appellativo. Cfr. Gic, post. red. ad Quir., V, 11: P. Lentulus
TERGILI BTCOUCi, I.
iqne erit ille mihì semper deus, ìllius aram
»e tener nostris ab ovlUbas ìmbnet aguns.
meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ire qnae vellem calamo permisit agresti. 10
Melibobts.
equidem iDvideo, miror magis: undique totìs
]e adeo tnrbatur agrìs. en ìpse capellas
iren», deui, salus noslrae vitae ; ad Atl., IV, 16, 3 : deus ille
alo. Ed Orazio, Sai., U, 6, 52 : deos quonìam propius con-
udendo a Mecenate ed Agnppa e, secondo alcuni, tra cui fra
i lo Psendo-Acrone, anche Ottaviano. Vedi del resto Ih nota
— 7. illius, colla penultima breve, Cfr. Georg., I, 49; Aen.,
670 ecc. — 8. nostrU ab ovilibus dipende da agnus.
elio ohe il genitivo, volendosi mettere in rilievo il punto di
Iella vittima che muove al sacrifizio. Cfr. TibulU li, 1, 57
: datus a pieno, metnorabile munus, ovili \ duxpecoris curias
hireus opes. Cfr. anche sotto al v. 53; Oeorg., Ili, 2; Aera.,
nre BÌ designa pure un punto di partenza, sebbene in diverso
nostris. Titiro parla come se foss'egli il padrone. Cosi pure
i: deus nobis haec olia fedi (v. 6). il che è tanto più na-
quanto il suo padrone è a Roma, ed egli ne ha in cura il
qualità dì vilicus. — imbuet, sottint. sanguine suo. Cfr.
iigr., 1, 5: piunòv b'alnàEei K^paò; TpdToq outo^ fi t">^^- —
entre l'offerta sacrificale dei più poveri era un porcellino
icchi oflrivano un vitello, la gente ai mezzana condizione of-
ignello. Cfr. TiboU., 1, 1, 21 seg.: tunc vitula innumeros
caeaa iuvencos: \ nune ogna ewiguist hoslia parva soli. Del
icrifizio è fatto ad Ottaviano come ad un Lar f^miliaris. Cfr.
, 43. — 9. errare = libere pascere. Cfr. Ed.. 11, 21. —
per me ipsum. — 10. ludere, come il n«co iraiEéiv,
id animi causa scribere, cantare eco. Cfr. Ecl.rS\, 1; Georg.,
atull., 50, 5. — calamo, vedi sopra la nota al v. 2 in fine.
Ntm equidem invideo. Cfr. Teocr., Idyll,, 1, 62; koO toi tI
— magis è qui nel senso di polius. Cfr. Cic., de Orai., I, 42,
iClam arlem iuris civilis kabebitis, magis magnam atque
uam difjicilem et obscuram, dove magis può prendersi nel
di poliits. Più evidente però è questo significato di magis in
invili, 30: id... non esl lurpe, magis miserumsl; Staz., Aohill..
ide magis; Svet,, Octav,, 31: semlilem mensem e suo cogno-
unqiavit, magis g_uam septembrem. Cfr. anche Lucr., li,
— lotis agris. Virgilio coll'usare toiis vuol far spiccare l'idea
'era luogo nella campagna il quale non fosse sottosopra ; con
ivrebbe lasciato capire che lo sconvolgimento non s'era ancora
per tutto. Puoi tradurre per « ogni punto della campagna ».
ndeo, espressione impiegata in servizio di epifonema : collec-e
una relazione di conseguenza la prop. cui appartiene colla
Nàgelshach, Lai. Stil.'', p. 608 nota che tale eapression« è.
VERGILI B7C0LICA, I. 5
protinus aeger ago : hanc etìam yìx, Tityre, duco,
hic ìnter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit. 15
saepe malum hoc nobis, si mens non lae?a fùisset,
in epifonema, postclas^ca e ne cita un esempio di Seneca, Nat. Quaest^t
\, 3, 4. Ma anche disgiungendo, come alcuni fanno, t4sqt4e da adeo^ e
dando ad usque il significato di « senza interruzione, continuamente »
adeo, non potrebbe riguardarsi come prettamente classico, sebbene spesso
usato da Livio. Cicerone adonera usque eo, ed il passo de Offi, 1, 11, 36,
dove si trova cuieo, è interpolato. Ad ogni modo air espressione latina
corrisponde l'italiana « tanto è vero che ». — turbatur. Veramente il
codice Palatino ed il Romano danno con parecchi altri la lezione tur-
bamur; noi però abbiamo mantenuto la lezione turbatur sostenuta
da Servio e testimoniata in termini espliciti da Quintil., I, 4, 28. La
ragione data da Servio per- preferire questa lezione è che $i,.„. tur-
ba mur legeris^ vxdetur ad paucos re fèrri. Cfr. del resto Aen.^ I,
272: hic iam ter centum totos regnabitur annos, dove Servio annota:
impersonaUbus usus est^ quia de multis dicit. Quanto poi al significato,
il verbo turbare è ^ui usato assolutamente ed equivale a turbas ciere^
mettere lo scompiglio. Cfr. Aen., VI, 857: magno turbante tumultu;
Ter., Eun.^ IV, 3, 7: nescio quid profecto absente nobis turbatumst
domi ecc. — 13. protinus^ meglio che protenus^ che è lezione data dal
codice .Palatino, da Servio, dagli Scolii Bernesi ecc., ma forma ar-
caica. È insussistente la distinzione di protenus con e, quale avverbio di
luogo, come in questo verso, da protinus con t, quale avverbio di tempo.
Del resto protinus ha qui lo stesso significato di porro (gr. irpóaui)
« innanzi, oltre ». Cfr. Aen.^ X, ^^: protinus hastafugit; Cic, Dtv., I,
24, 49: ut pergeret protinus. — aeger esprime qui, più che il malessere
del corpo, Tamizione delFanimo. In significato analogo si trova pure in
Georg., I, 237 ; Aen., II, 268; Lucr., VI, 1 (cfr. Om., Od., XI, 19: heìXoìai
ppoTotaiv). — ago... duco. Il primo verbo si contrappone al secondo, come
le capre sane, che basta spingere avanti, a quelFuna che sofierente deve
essere faticosamente tratta dal pastore stesso. — 14. namque, in mezzo
alla proposizione come in Ecl., Ili, 33; Aen., VI, 72; X, 614. — corylos,
nocciuoli. Cfr. Ecl., V, 3; Georg., Il, 65; 299. — 15. spem gregis.
Come i bambini che nascono si dicono speranza de* genitori, cosi spe-
ranza del gregge gli agnelli, i vitelli, i capretti ecc. Cfr. Georg,, III,
473; IV, 162. — silice in nuda, sul nudo terreno sassoso. Questa circo-
stanza e Taltra espressa da reliquit conferiscono ad accrescere la pietà.
Si osservi poi che silice è qui di genere femminile per poetica licenza,
come nota Quintil., I, 6, 2. — conixa. 11 verbo coniti nel significato di
eniti, partorire, si trova qui per la prima volta. Virgilio doveva, secondo
Servio, evitare lo iato che avrebbe prodotto enixa. Se non che in realtà
la preposizione stabilisce una differenza fra i due verbi. L*uno (eniti)
accenna allo sforzo della bestia partoriente: Taltro al parto compiuto. E
poi da notarsi che non è corretta la lezione connixa ammessa da alcuni.
Cfr. il mio Trattato della ortografia latina, p. 29. — 16. malum hoc,
quest*esilio, questa fuga dalla patria. — laeva=stulta. Cfr. Oraz., Art.
poet., 301 : o ego laevtts. Nel significato opposto trovasi pure usato, come
in italiano, dexter^ dextre^ dextere. L'emisticnio si mens non laeva fuisset
6 TERGILI BYCOLICA, 1.
de caelo tactas memini praedicere quercus.
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre, nobis.
TiTYRVS.
Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego buie nostrae similem, quo saepe solemus 20
pastores ovìum teneros depellere fetus.
ricorre in Aen., Il, 54. Traduci per « accecata ». — 17. De caelo tangi^
frase solenne equivalente a fulmine tangi, Gfr. Gic, Bivin.^ II, 21, 47: aera
legum de caeto tacta. Secondo le superstiziose credenze degli antichi, un
fulmine che colpiva un albero fruttifero annunziava sventura; la sterilità,
se un ulivo; l'esilio, se una quercia. — Riguardo a caelo, scrìtto con
ae, notisi che i codici virgiliani danno costantemente e per caelum e
per i suoi derivati il dittongo ae. L*ortografia caelum riposa sulla falsa
derivazione dal greco KOtXo<;, mentre invece caelum o deriva da 'cavi-
lum, *ca'i'lum, *cailum che mutò poi l'arcaico ai in ae (rad. ku, kau^
cav), 0, come fu recentemente esposto (cfr. Fròhde in Bezz, Beitr.j X,
p. 298), da 'caes'lum (cfr. il gotico haiSy fiaccola). — memini è col pres.
mf., trattandosi di azione, passata, della quale la persona che si ram-
menta è stata testimone. E questa una costruzione assai frequente in
latino sin dai tempi anteclassici. Gfr. Plaut., Pseud., IV, 6, 27; Epid,^
V, 1, 33; Cist,^ II, 3, 10 ecc. Anzi la costruzione di memtm col perf.
infinito è afflitto estranea al latino antico e ci si present^t solo nel latino
classico dove per regola ci aspetteremmo un presente delFinfinito. Gfr.
Gic, prò Sex. Rose. Am.^ 42, 122 ecc. Vedi del resto altri esempi di
inf. pres. in Ecl., VII, 69; IX, 52; Aen., I, 619. Trovi il perf. in Georg.,
IV, i25127: memini me... Corvcium vidisse senem. — praedicere =
portendere. Gfr. Senec, Nat. Quaest, II, 32, 4. — 18. In alcune edi-
zioni tra questo verso ed il precedente si legge quest'altro: saepe si-
nistra cava praediooit ab ilice cornix^ che manca nella maggior parte
dei manoscritti e non è menzionato né nel commentario di Servio né
negli Scolii Bernesi. Lo si deve probabilmente ad un copista, che lo
interi)olò riportandolo con qualche modificazione dairecloga* IX, v. 15,
ove si legge: ante sinistra cava monuisset ab ilice comix. — sed
tamen esprime un contrapposto più forte che non il semplice sed o
tam^n. Gfr. Georg.^ I, 79. — iste = iste tuusy quem vocas deum, È
strano che siasi ^ui voluto trovare un certo tono mezzo befflsirdo d'in-
credulità ! — qui sit e non quis sit^ perche Melibeo non vuol pk sapere
il nome, ma la natura del dio protettore di Titiro. Quindi i più
autorevoli manoscritti danno la lezione qui e non quis. Traduci : « che
dio è cotesto ». — da, dimmi. Nello stesso senso il verbo dare si trova
in Gic, Acad. post,, I, 3, 10: sed da mihi nunc, satisne probas, ove
però altri legge : sed eam mihi non sane probas. Del resto vedi Terenz.,
Meaut, prol., 10: paucis dabo. Parimente Virgilio impiega accipere
per audire in Aen., I, 676; II, 65; 308; X, 675 ecc.
20. huic nostrae, cioè Mantova. — saepe solemus, è un pleonasmo
non infrequente. Gfr. Aen., II, 456; Ovid., Met., I, 639; Vili, 19; XIII,
417 ecc. — 21. depellere. I dintorni di Andes erano in posizione
J
VERGILI BVCOLICA, I. 7
sic canibus catulos similes, sie matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
vemm haec tantum alias inter caput extulit urbes,
quantum lenta solent inter viburna cupressi. 25
Meliboevs.
Et quae tanta fuit Bomam tibi causa videndi?
TiTYRYS.
Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
elevata rispetto a Mantova, per giungere alla quale città bisognava
quindi discendere. Qui dunque il verbo depellere e preso nel suo senso
proprio di deorsum pellere. Notisi poi Tefficacia deli espressione, poiché
i giovani agnelli non vogliono staccarsi dal gregge in cui son nati. In
altro senso trovi in Ed., Ili, 82 lo stesso verbo. — 22-25. Mediante
una comparazione assai rispondente all'indole ed alle cognizioni di un
pastore, Titiro dà ragione di quel termine stultus con cui si chiama al
v. 20. — sic... sic. In luogo di quest'anafora di sic, in prosa si userebbe
ut... sic. — parvis componere magna solebam. Analoga espressione si
riscontra anche in Georg., IV, 176 ; Ovid., Met., V, 416 seg. Il verbo
componere equivale a conferre, comparare. Cfr. anche Gic, de opt.
gen. orai., 6, 17: ut cum maocimis tninim,a conferam; Erodot., II, l(T:
0&^ T€ cTvai OjLiiKpà raOra |Li€TdXoiai aujnpaXetv. — lenta = fiemibilia.
Per quello che riguarda Tagg. lentits in questo, che è appunto il signi-
ficato originario della parola, da cui è poi nato quello di « indolente,
pigro, ozioso )> (cfr. sopra al v. 4), vedi la nota ad EcL, III, 38. —
'Muma. Scoi. Bem. : humilia arbusto, semper virentia, vineis com-
mudata. Appartiene probabilmente alla stessa radice vi, « intrecciare, le-
gare », donde derivano le parole vi-e-o, vi-men, vi-ii-s, vi-tex ecc. Ital.:
« lentaggine >.
26. Et. È largamente adoperata si nella poesia come nella prosa
latina la congiunzione et in principio di interrogazioni nelle quali si
vuole esprimere la curiosità e la meraviglia, od in generale una viva
commozione delPanimo. Cfr. Aen., I, 48 seg.: et quisquam numen lu-
nonis adorai Xpraetereaì Cfr. ancora Georg., Il, 4o3; Aen., IV, 215
segg. (ove il Kibbeck sopprime Tinterrogazione); VI, 806; Gic, Tusc,
1,^, 92; III, 16, 35; Ovid., Met., XIII, 338 ecc. Si adopera anche nel-
rinterrogazione allorquando si continua il discorso passando ad altro
argomento. Vedi Hand, Tursellinus, II, p. 492 seg., ove puoi trovare
altri esempi.
27. Per comprendere questo ed i versi seguenti bisogna notare che
presso i Romani i servi, cui era affidata dal padrone Famministrazione
di un podere od anche semplicemente Tincarico di custodire il gregge,
potevano, formandosi un peculio, comprare dal padrone la libertà, segui-
tando a rimanere nelle loro funzioni come servitori a soldo. Ora Titiro,
perduto d'amore per Galatea (v. 30 segg.), per soddisfarne i capricci
8 VERGILI BVCOIilCA, I.
candidior postquam tondenti barba cadebat;
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. 30
non aveva potato da giovane mettere insieme la somma necessaria per
redimersi. Diventato vecchio e lasciato Tamore di Galatea per quello di
Amarillide (v. 30), potè finalmente co' suoi risparmi ottenere la libertà.
Si spiega con ciò perchè la Libertà sera... respeocit inertem. — Libertas
avi si deve prendere, a cagione di respeant e venit (v. 29), nel senso
aella stessa dea Libertà che aveva culto e tempio in Roma. È chiaro
che ad essa dovevano indirizzare gli schiavi i loro voti. — Il verbo
respicere si adopera spesso nel significato di « guardar di buon occhio,
aver cura, favorire, aiutare », particolarmente riferito a divinità. Gfr.
Plaut., Bacch., IV, 3, 24; Ter., Phorm., V, 3, 34; Andr., IV, 1, 18;
Graz., Od.^ I, 2, 36. Quest'uso vale anche nella prosa. Gfr. Gic, ad Att,,
VII, 1, 2 : nisi idem deus... respexerit rem publicaiH. Vedi del resto
anche Aen., I, 603; IV, 225; 236; V, 689. — sera. L'aggettivo per l'av-
verbio sero. Gfr. Oraz., Od,, I, 2, 45: serus in caelum redeas ecc. —
inertem qui vale parum curantem, trascurato, per non essersi dato
pensiero di risparmiare la somma necessaria per la propria libertà. —
Perchè poi Titiro per la sua libertà andasse a Roma, vedi la nota al
V. 38. — 28. candidior. Per comprendere il valore di questo com-
parativo, bisogna collegarlo con cadebat^ imperfetto che esprime una
azione che si ripeteva senza limiti di tempo. Trattandosi dunque di
azione continua, giustamente è accompagnata dal comparativo^ che de-
signa come col trascorrer del tempo la barba divenisse più bianca.
Tradurrai quindi con « sempre più bianca ». Paragona del resto
l'ìtitero verso con Gioven., 1, 25: quo fondente gravis iuveni mihi barba
sonabat. — 80. postquam, vale « mentre che, dacché »: si con-
giunge col presente (habet), trattandosi di un'azione che dura ancora
rispetto a cni parla. Non si tratta dunque di un presente storico, ma di
un presente proprio. Tale costruzione, non infrequente nei comici (cfr.
Plaut., Bacch.^ Ili, 6, 2: postquam inanis sum; Curcul., II, 3, 46;
TrMC, II, 3, 24 ecc.; Ter., Adelph., V, 1, 3 ecc.), divenne poscia rara,
ma se ne hanno esempi anche nella prosa classica. Gfr. RJiet. ad
Herenn., IV, 18, 25; Gic, in Verr., act. II, lib. V, 39, 103 ove hai
posteaquam, che si congiunge pure col pres. proprio in Philip.^ XII, 1,
o; de Fin., V, 1, 2 ecc. Se ne hanno pure esempi in Livio, Seneca,
Tacito, Plinio il Giovane. Vedi anche Georg., Ili, 432. — - Amaryllis,
nome che s'incontra anche in Teocr., Idyll., Ili e IV, come pure quello
Laide], facendo parlare Aristippo cui si rinfacciava l'amore per
E ben a ragione il poeta non ha fatto dire a Titiro postquam ego
Amaryllidem habeo, perchè il pastore attribuisce alla benefica influenza
di Amarillide l'aver potuto redimersi in libertà. È falso poi quanto sup-
Sone Servio e con lui parecchi editori, che qui sieno allegoricamente
esignate con Galatea la città di Mantova, e Roma con Amarillide. Per
provare quest'asserto, che si trova già confutato negli Scolii Bern., bi-
sognerebbe dimostrare che Virgilio avesse chiuso il cuore ad ogni af-
fetto per la patria; mentre è credibile che con questa scena campestre
egli mirasse anche a svegliare sentimenti di pietà verso gl'infelici suoi
VERGILI BVCOLICA, I. • 9
namqne, fatebor enim, dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatìs erat nec cura peculi.
quamvis multa meìs exìret victima saeptis,
pinguìs et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat. 35
Meliboevs.
Mirabar quid maestà deos, Amarylli, vocares;
cui pendere sua patereris in arbore poma:
compatrioti. — 32. peculi. Si diceva peculium in istretto senso
quella parte del bestiame e in più largo senso quel danaro che il padre
o il padrone lasciava godere a piacimento dal figlio o dal servo. Gfr.
Varr., R. R., I, 2, 17; I, 17, 5; Cic, Farad., V, 2, 39; Gioven., III,
189 ecc. Qui si deve intendere il danaro che Titiro doveva risparmiare
per comperare la sua libertà. Quanto al genitivo in i in luogo di u vedi
la nota al v. 68. — 83. quamvis^ per quanto. — multa.., victima.
Nota Taggettivo multus usato al sin^., come spesso in poesia. Gfr. Aen.,
I, 334: multa... cadet hostia; XI, 788; multa premimus vestigia pr una.
Vedi anche Ed., VII, 60, dove è usato al sing. plurimus^ ecc. — victima,
secondo antichi grammatici^ dicesi comunemente dei vitelli, delle gio-
venche e dei buoi destinati al sacrifizio (cfr. Qeorg.j II, 146 seg.: ma-
mma taurus I victima); hostia si dice dei montoni o agnelli, ossia di
animali minori. Altra difierenza è data da Ovid., Fast, , I, 335 seg. Vedi
anche Fest., p. 371 (ed. Moller). — 34. ingratae. E comica questa
espressione di sdegno per parte di Titiro, che si lamenta di non aver
potuto trovare nella città colla vendita de* suoi prodotti sufficiente com-
penso, e taccia cosi d'ingratitudine la città che non riconosceva giusta-
mente i suoi meriti! — et Questa particella è qui posposta alla prima
parola della proposizione, come spesso. Gfì*. sotto al v. 68; Ed., IV, 54;
Georg., 1, 304; 402; Aen., Ili, 430; 668; IV, 512; 515; Vili, 517 ecc. —
premeretur, parola propria per Tidea che si vuol qui esprimere. Gfr.
sotto V. 81; Georg., Ili, 401; Plin., H. N., XI, 42, (97); specialmente
Golum.^ VII, 8, 4: rustici... cum paulo solidior caseus factus est, pon-
dera superponunt, quibus eooprimatur serum... uhi duratus est, vehe-
mentius premitur, ut conspissetur. — 35. Senso: della vendita
ch*io faceva non riportava a casa che pochi danari: il resto, cioè la
maggior parte del guadagno, lo consumavo a comprar cose da soddisfare
ai capricci di Galatea. Gfr. questo verso con Priapea, 84, 13 ediz.
L. MùUer, e Moretum, 82.
86. 11 senso è: ora intendo ciò che prima mi faceva meraviglia (mt-
rabar), perchè cioè tu, o Amarillide, mesta invocavi gli dei. Titiro era
assente, avendo dovuto recarsi a Roma per ottenere la libertà. Gfr. sotto
la nota al v. 38. Quindi il verbo mirari ha qui un significato affine a
quello di ignorare, come spesso sì in prosa come in poesia. Gfr. Gic,
Orat, 3, 11; de Nat. Deor., I, 34, 95 ecc.; Plaut., Amph., Prol., 86;
Aul, Prol, 1; Ter., Eun., II, 2, 59; Adelph., IV, 5. 8. — 87. cui,
per chi, a cagion di chi. — sua.,, in arbore va riferito a poma. Ama-
10 • VERGILI BVCOLICA, I.
Tityrus hinc aberai ipsae te, Tityre, pinus,
ìpsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant
TlTTRVS.
Quid facerem? neque servitio me exire licebat, 40
nec tam praesentes alibi GOgnosce):6 divos.
hic illum vidi ìuvenem, Meliboee, quotannis
bis senos cui nostra dies altarìa fiimant.
rillide, addolorata per Tassenza di Titiro, si dimenticava di raccogliere i
frutti, lasciandoli appesi agli alberi cui appartenevano (sua), Gfr. Ecl.^
VII, 54. Quanto a poma cfr. sotto al v. 80. — 38, 39. Titiro non
poteva, restando in patria, conseguire la bramata libertà. A Roma ai
trovava il padron suo, cioè il poeta, che vi si era recato con racco-
mandazioni di PoUione per riavere il fatto suo. Inoltre lo stimolava la
brama di conoscere il potente protettore del poeta, Ottaviano. Gfr. sotto
vv. 40, 41. — aberat colla sillaba finale lunga, trovandosi in arsi ed in
cesura ad un tempo. Cfr. Ecl, 111, 97; IV, 51; VI, 53; IX, 66; Georg.,
I, 31; 371; II, 5; 211 ; III. 76; 189; 332; IV, 137; 453; Aen., I, 308; 478;
III, 464; 702; IV, 64; V, 521; VII, 398; Vili, 98; IX, 610; X, 720; XI,
69; 111; 469; XII, 68; 772. Molti di questi esempi mostrano Tinfluenza
anche della sola arsi. Del resto questo fatto si nota molto spesso negli
antichi poeti romani, anche quando la sillaba non è in arsi. Ed in vero
la sillaba -af era originariamente lunga, e come tale si riscontra ancora
normalmente nella prosodia Plautina. Lo stesso dicasi di -et ed -tt, che
più tardi si abbreviarono del pari. — ipsae ecc. Due spiegazioni si sono
proposte cioè: 1^ le piante stesse, le fonti stesse rijìetevano il nome di
Titiro cui chiamava la desolata Amarillide ; 2^ le piante, le fonti deplo-
ravano insieme con Amarillide l'assenza di Titiro. Ora, considerando
che queste parole sono del pastore Melibeo, il quale prima ignorava la
causa del dolore di Amarillide (v. 36), io penso che il passo si debba
spiegare, interpretando e completando le parole di Melineo, nel modo
seguente : « comprendo ora, poiché eri assente tu, oggetto del suo amore,
come Amarillide dovesse, animando, nel suo cordoglio, i luoghi da te
prima freouentati, ritenerli partecipi del suo lutto e bramosi del tuo
ritorno ». Tradurrei adunque : « nel suo pensiero anche i pini, o Titiro,
anche le fonti, anche questi arbusti ti cniamavano ». — arbusta vale
qui non già, come spesso, per luoghi ove sorgono piante destinate a
sostegno deUe viti (cfr. Plin., E. N„ XVII, 2, (2), 19; 23, (35), 199 ecc.),
anche solo le piante stesse (cfr. Gat., R, i2., 7, 1 e Lucrez., I, 187;
351 ecc.), ma significa « cespugli », quali crescono nei luoghi destinati
a pascolo e nei noschi in genere. Del resto arhustum viene da arhos
{'arboS't(Hn\ come da salioo salictum.
40. Quid facerem? che dovev'io fare? Gfr. Ed., VII, 14; Georg.,
IV, 504; Terenz., AdeVph., II, 2, 6. Anche spesso si trova il pres. cong.
Gfr. Aen., IX, 399; Ovid., Mei., I, 617; II, 187; III, 204. — 41. prae-
sentes... divos =propitio8, fliventes deos. Pel senso cfr. v. 6. Quanto al
significato di praesens, cfr. Georg., I, 10; Aen., IX, 404; Gic, Tusc.,l,
iZ, 28. — 4d, 43. hiCt cioè Eomoé, — iuvenem. Ottaviano aveva
VERGILI BVCOLICA, I. 11
hìc mihi responsum primus dedit ille petenti:
«pascite, ut ante, boves, pueri; submittìte tauros ». 45
Meliboeys.
Fortunate senei! ergo tua rura manebunt.
et tìbi magna satis, quamvìs lapis omnia nudus
allora 23 anni. Anche in Georg.^ I, 500, Virgilio lo chiama iuvenem;
Sei che vedi la mia Bota al passo citato. — qtiqtannis bis senos,.. dies^
odici ffìornì alFanno, vale a dire un ffiorno ogni mese. È adoperato il
numerale distributivo, perchè Fazione designata dal poeta si ripete ogni
anno. Gfì*. Geùr^.^ I, 2^; per duodena regit mundiis sol aureus astra.
Questo passo poi dimostra che Ottaviano è da Titiro considerato come
un Lar famiìiaris, il genio protettore della casa. Catone, B, i2., 143
(144), 2 ci fa sapere come si dovesse far sacrifizi al Lare familiare il
giorno delle Galende, delle None e degli Idi. Pure erano principalmente
le Galende d^ogni mese, e soprattutto quelle di maggio, designate col
nome di Laralia, il giorno destinato alle offerte in omaggio al Lare della
famiglia. — cui va riferito a iuvenem « in onore del quale ». Gfì*.
Georg., I, 14. — Anche questi due versi, pel loro contenuto, da alcuni
son riguardati come inseriti in un^ seconda recensione fatta dal poeta. Vedi
le ra^oni in contrario esposte sopra nella nota al v. 6. — 44. primus.
Ottaviano fu la prima persona che desse alle domande di Titiro rassicu-
ranti risposte riguardo al suo avvenire, che poteva essere seriamente com-
promesso, quando al padron suo non fossero stati restituiti i beni. Titiro
non parla nemmeno aella ottenuta libertà: in quelFimmenso scompiglio
dell'agro mantovano la causa della conservazione del proprio stato dive-
niva necessariamente più importante di ogni altra. — responsum dedit.
Alcuno ha notato che questa irase si adopera particolarmente trattandosi di
oracoli ed è conveniente a questo luogo in cui Ottaviano è considerato come
un dio. È un voler sottilizzar troppo. Gfr. Oraz., Epod.^ VII, 14 : responsum
date. — 45. pueri. Gosl si chiamavano anche i servi, quale che
fosse la loro età. Gfr. il ^reco irat( da *iTaF-i(; che appartiene probabil-
mente alla medesima radice pu. In fine di certi composti ptcer si con-
trasse in por, come in Gaipor, Marcipor, Publipor, che erano in ge-
nerale appunto nomi di schiavi. — submittite tauros. Alcuni spiegano:
tauros stibmiitite iugo ad arandum. Gontro questa spiegazione sta il
fatto che il verbo submittere usato assolutamente non na mai nel nostro
poeta quel significato: è anzi il vocabolo proprio ossia un'espressione
tecnica per designare Tallevamento degli animali destinati a conservare la
razza. Gir. Georg. ^ 111, 73: in spem... submittere gentis; 159; quos... pecori
malint submittere habendo ; Yarr., R. R., 11, 3, 4 : mares solént submitti ad
admissuras; nello stesso capo, 8: In nutricatu haedi^ trim^stres cum
suntfactit tum submittuntur. Vedi anche Colum., Ili, 10, 17; VI, 24,
4; VII, 9, 4, 5 ecc. Gerto era più esatto scrivere vitulos; se non che
tauros chiarisce meglio lo scopo del submittere e, quasi a guisa pro-
lepcica, indica già 1 adempimento dello scopo. Dunque la frase equivale
a tauros alite qui gregem propagent.
46. tua non è qui attributivo ma predicativo. Gfr. £b^. III, 23 : IX,
4. Traduci: i campi resteranno a te. — 47. et, Gfr. Hand, TurseU
12 VERGILI BVCOLICA, L,
limosoque palus obducat pascua ìuniso.
. non insueta gravìs temptabunt pabula fetas,
nec mala vicini pecoris contagia laedent.
fortunate senex! hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum.
bine tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
50
>•
Unus^ li, p. 488 : Ubi aliqua notio, sive aliquod verbum, cum gr aviari
voculatione pronuntiandum est, et in sententia principatum optinet,
praemittitur ei et, quasi anacrusis. Quod quum non cognovissent,
grammatici docuerunt et esse et sane. — tibi, per te. — lapis...,
nudus, terreno nudo, senza coltura, senz'erba. Cfr. Liv., XXI^ 37, 4 :
ntida,.. cacumina [rupia]. — 48. palus. Le acque del Mincio , nelle
vicinanze del quale era il podere del poeta, formavano, straripando, delle
paludi ove cresceva il giunco, detto perciò limoso. — obducat =
tegat, — 49. gravis... fetas. Siccome fetus (partic. d'un inusato
*/feo *feor dalla rad. dhe, lat. /fe, donde fe-mina, fe-cundt^s, filius
per ^fe-lius) vale propriamente gravidus, cosi Tagg. gravis devesi qui
prendfere ^nel significato di sofferente. Cfr. Georg., 111,95; Oraz., Epod.,
II, 57. Notisi però che /feto* può anche significare « fresche di parto »,
come in Aen., Vili, 6o0; per cui potrebbe rimaner dubbio come si
debba tradurre quell'espressione. Se non che, essendo queste parole di
Melibeo, avuto riguardo a quanto egli stesso dice nei versi 14 e 15,
può ritenersii che qui fetas debbasi prendere appunto nel secondo signi-
cato, come sinonimo di enixas. — temptabunt. Questo verbo si ado-
pera spesso ad indicare Fazione di qualsiasi cosa che turbi l'organismo
ed alteri le funzioni della vita, p. es. di malattìe, come in questo passo
(cfr. Georg., Ili, 441; Gic, Tusc, IV, 14, 31); degli effetti del vino
(cfr. Georg., Il, 94) ecc. Traduci con « turbare, nuocere » e simili.
Quanto all'ortogr. di fetas vedi il mio Trattato delVort. lat., § 5, nota,
p. 8. L'ortografia poi di temptabunt è basata sulla testimonianza dei
codici più antichi, sebbene il p non abbia forse alcun valore etimolo-
gico. — 61. flumina. L'uso di questo plurale ha dato luogo a di-
verse interpretazioni. Servio e gli Scolii Bernesi spiegano: Padum et
Mincium. Alcuni moderni intendono il vocabolo nel senso di « ru-
scelli » « canali » intersecanti la campagna mantovana. Altri suppose
che, siccome talvolta Virgilio usa flumina per flumen (cfr. Aen., VII,
138; XI, 659; XII, 331), cosi qui si deve intendere solamente il Mincio
ed i luoghi vicini; che quindi inter flumina equivale ad inter arbores
ad Mincium positas. Io credo che qui il vocabolo si debba prendere in
largo. senso ed indichi ogni specie di corsi d'acqua. — nota per con-
trapposizione ai luoghi ignoti ove l'esule Melibeo deve condurre il
suo gregge. C£^. sotto vv. 64-66. — 52. fontis sacros, perchè gli an-
tichi, nel loro materialismo religioso, divinizzando ogni manifestazione
della natura inanimata, mettevano da per tutto una divinità, nei boschi,
nelle valli, nei fiumi, nelle fonti ecc. f Greci chiamavano col nome di
Natb€(; NaiLdòe(; le Ninfe dei fiumi e delle fonti. Cfr. Teocr. IdylL,
VII, 36, seg: tò b' èTY^0€v icpòv ^h\up \ Nuimqpav èE dvTpoio k. t. a.
— frigus opacum = frigus nemoris umbrosi. Cfr. Ed. , II , 8.
68-55. A rischiarare questo passo si sono travagliati, spesso inutil-
mente, parecchi commentatori; né si può pensare a corruzione del
VERGILI BYCOLIOA» I. 13
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro. 55
bine alta sub rape canet frondator ad auras:
testo, perchè riposa qiiesto non solo suirautorìtà de' più antichi codici,
ma anche sulla testimonianza di Prisciano (K. Ili, 300-P. 1176 seg.).
Per comprendere il senso alcuni notano: 1^ che qitae semper saepes è
una prop. relat. ellittica, il cui verbo è sttasit (cu*, suadebit al v. 55);
2^ che vicino ab limite è apposizione di hinCy come sotto al v. 56 hinc
ha per apposizione alta sub rupe (cfr. del resto Ecl., Ili, 12; Aen., 1,
235; II, 18 seg.; Ili, 6l6 seg.; Vi, 305; VII, 209). Quanto poi a quae
semper saepes, si fa considerare ancora che per attrazione saepes è
entrato nella prop. relat., mentre deve essere soggetto di suadebit.
Inoltre semper deve significare: « sempre sino ad ora )> ; cfr. Ecl.^ VI, 5.
Altri però alla proposizione relativa non danno per verbo stiasit, ma
depasta coirellissi delFausiliare est, che non è rara in Virgilio (cfr.
^/., 11,23; VIII, 24; Georg., IV, 89; Ae«., V, 192; IX, 675). Preferisco
la prima interpretazione, come quella che fa meglio spiccare la nessuna
interruzione, malgrado gH avvenimenti di que' giorni, della vita tran-
quilla di Titiro, che potrà quindi spesso, come sino allora faceva, ad-
dormentarsi al lieve susurro delle api cercanti il succo de' fiori alla
siepe vicina. Questo senso è dato appunto dalla contrapposizione di quae
$emper [sttasit^ e di saepe... suadebit. — limite. L'idea che si enuncia
con questa parola è spiegata dalla vicina voce saepes^ poiché le siepi ser-
vivano di delimitazione dei campi e in generale de' poderi, come aggiorni
nostri. Cfr. Qeorp.^ I, 126: partiri limite campum. — Hyblaeis apibus.
I poeti sogliono indicare certi generi di cose col nome di una delle
specie più notabili che loro appartengono. Ora in Sicilia si raccoglieva
del miele eccellente nelle vicinanze di una città chiamata Hybla, nome
che propriamente competeva a tre città della Sicilia. Secondo Servio si
trattereobe di Hybla minor, chiamata più tardi Megara. Negli Scolii
Bernesi si menziona un monte Hybla pure in Sicilia ed anche, come
in Servio, il nome è riferito ad un luogo dell'Attica. Ma è certo che qui si
tratta della SicUia. Cfr. Plin., H. N., XI, 13, (13); Marzial., XI, 42, 3:
mella iubes Hyblaea e IX, 27, 4; V, 39, 3 ecc. Del resto Hyblaeis apibus
è dativo di agente dip. da depasta. L'agente è espresso col dativo,
come non di rado in greco, particolarmente col perfetto passivo, perchè
si considera come interessato neirazione. Cfr. Ecl., IV, 16 e la nota. —
saepes... florem depasta = saepes cuius flores depascuntur. — florem
è pertanto un accusativo di relazione al modo greco, che dà maggiore
determinatezza all'idea del participio depasta, sul quale osserviamo che
fa l'ufficio, come non di rado in latino, del participio presente di cui la
lingua latina difetta. Cfr. Georg., 1, 206: vectis = qui vehuntur; Aeri»,
VI, 335 vectos. — salicti dipende da florem e non da saepes. Anche in
Georg., 11, 434 il salice è indicato come fonte di nutrimento alle api.
— suadebit inire. Cfr. Georg., IV, 264; suadebo incedere. E una co-
struzione che manca in Cesare. Sallustio e Livio, ma non in Cicerone
(cfr. de Orat, I, 59, 251 ; de Fin., II, 29, 95) e nella prosa postclassica. —
levi susurro, intendi delle api e non già dei rami scossi dal vento. Cfr. del
resto Teocr., Idyll., 1, 1: *Abù ti tò ipiGOpioina. — 56. hinc alta
sub rupe. Cfr. riguardo l'apposizione all'avverbio la nota al v. 53. —
frondator, lo sfronda^ore che taglia e rimonda gli alberi, o il potatore
14 VERCflLI BVCOLICA, I.
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.
TlTTRUS.
Ante leyes ergo pascentur in aethere cervi,
et freta destituent nudos in litore pisces; 60
ante, pererratis amborum finibus, exsul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,
che sfronda la vite dal soverchio rigoglio delle foglie. Gfr. Georg., II,
365; 400 seg.; 407; 410; Ed, li, 70; IX, 60 seg. — canet ad auras. Si
è osservato che ve divario tra ad auras e in auras. Ad auras ferri,
surgere ecc. dicesi di cose che, pur elevandosi, toccano ancor la terra
non se ne allontanan di troppo: invece in auras dicesi di cose che
s'innalzan di molto e penetrano, per così dire, nelFaria stessa e vi si
confondono. La prima locuzione trovasi anche in Georg., 1, 408; Aen.,
II, 699; 759; IV, 445; V, 861; VI, 554 ecc.; la seconda in Georg., Ili,
109; Aen., IV, 176; V, 257 ecc. — 57. nec tamen interea è da pa-
ragonarsi con nec minus interea, formola di transizione che ricorre
spesso in Virgilio. Gfr. Aen., I, 633; VI, 212; VII, 572. — tua cura,
oggetto delle tue cure. Gfr. Ecl., X, 22. Vedi pure Ecl., Ili, 66: metÀs
ianis, Amyntas. — palumbes, plur. della 3* declin. ed originariamente
dfella 5<^. Accanto a cotesta forma si trova palumba della 1% come ac-
canto ad avarities si ha avaritia. Del resto il vocabolo appartiene pro-
priamente al dialetto osco. La forma latina corrispondente è columba.
-^ 58. ffemere, vocabolo proprio per significare la voce delle tortore e
dei colombi. Gfr. Plin., E. iV., X, 35, (52): cantus omnibus [palumbi-
bus] similis atqice idem trino conficitur versu praeterque in clausula
gemitu.
59. aethere; altri legge aequore contro la testimonianza dei codici,
di Servio e di Probo. Ne è da dirsi che con aequore spicchi meglio la
impossibilità del fatto che si accenna nel verso; che ai cervi, cui è
conteso il volo, è dato il nuotare. Però aequore servirebbe meglio all'anti-
tesi col verso seguente. Molto probabilmente Virgilio aveva in mente
il passo di Lucrezio, I, 166 segg.: e mare primum homines, e terra
posset horiri | sqttamigerum genus et volucres ; erumpere caelo | ar-
mento atque aliae pecudes. — 60. freta destituent nudos... pisces
secondo alcuni è un*ipallage per: nudi pisces destituent freta. A me
piace invece vedere in questo verso una poetica animazione delle acque,
che depongono ed abbandonano sul lido i pesci a vivere non più coperti
da esse {nudos, che è quindi aggettivo proleptico). Gfr. Aen., VII, 676
seg.: dat euntibus ingens | silva locum et magno cedunt virgulta fra-
gore. — freta. Il nome fretum viene dalla rad. bhre (cfr. (ppé-ap) si-
gnificante < bollire, fluttuare », e dicesi propriamente di luogo del
mare dove le onde sono più agitate, specialmente di stretti e bassifondi.
Gfr. Georg., l, 327 ; fervetque fretis spirantibus aequor. — 61, 68. per-
erratis amborum finibus. Servio spiega: errore confusis. Non mi. pare
che questa spiegazione esprima esattamente il concetto del poeta, il
quale vuole indicare il percorrere errabondo che farebbero il Parto ed
VERGILI BVCOLICA, L 15
quam nostro illìus labatur pectore vultus.
MSUBOEYS.
At nos bine alii sitientis ìbìmus Afros,
pars Scythìam et rapidum cretae yenìemus Oaxen 65
il Germano le regioni (fnibus) dell'Arari e del Tì^ri, per fermar la
sede, il Parto presso rÀrari, il Germano presso il Tigri, lungi entrambi
dalla propria patria {exsuV). — amhorum^ dei due fiumi, TArari ed il
Tigri. È da notarsi che TArari (Arar o Araris)^ ora Saona , non era
fiume della Germania ma della Galiia. Se non che non si possono e
non si debbono prendere in istretto senso le indicazioni geografiche dei
poeti, che non si danno spesso cura della precisione severamente scien-
tifica. D'altra parte gli Svevi, guidati da Ariovisto, avevano nel tempo
di Cesare invaso il paese dei Sequani situati tra il lara, il Reno e
TArari, il quale e per questo e per la sua vicinanza alla Germania po-
teva essere anche scambiato per un fiume di quella regione. — ^ ea:sul
si dice anche di chi spontaneamente muta domicilio aM)andonando la
patria. — Parthus. I Partì erano un popolo bellicosissimo dell'Asia si-
tuato primitivamente al sud-est del Caspio tra ITrcania, la Carmania e
la Media (ad un dipresso il Khorassan attuale), ma elevatosi poscia a
grande potenza, in modo da estendersi dairEu&'ate airindo e dall'Oceano
Indiano sin oltre al Parapomiso (Indo-Koh).
64. Questo verso ed i seguenti contengono una poetica iperbole spie-
gata sufficientemente dal vivo dolore di Melibeo costretto ad abbando-
nare la sua patria. — alii si contrappone a pars del verso seg. Cfr.
Georg., II, 10, 14; aliae... pars ; IV, 158, 159; Aen., 1, 212, 213 ecc. —
sitientis... AfroSy pel grande calore e per la frequente» mancanza di
acqua. Cfr. Plin., E. N., X, 73, (94) e XXXI, 7, (39), 78: Africae si-
tientia. — ibimtts Afrós. In poesia coi verbi di moto si ommette talora
la preposizione davanti a nomi di regioni e di popoli e a nomi appel-
latici m genere. Cfr. Aen., 1, 2; 52; 11,742; 781; lll,fi01; IV, 124 ecc.;
I, 201; 307; 365; II, 752; III, 440 ecc. 11 che si verifica anche qualche
volta nella prosa, specialmente nella postclassica : ma molto più raro si
in prosa come in poesia è Tace, coi nomi di popolo. Questo passo vir-
giliano è il primo esempio di tale accusativo che s'incontri nella latinità
(cfr. Dràger, I«, 395). Cfr. Curz., IX, 8, 11; Tac, Ann., XII, 51. —
65. Scythiam, nome applicato a contrade diverse a differenti epoche.
Mentre Erodoto comprende sotto tate denominazione a un dipresso le
regioni tra i Carpazi ed il Tanai (Don) al sud-est dell'Europa, molto
più tardi all'epoca dell'impero romano s'intendeva per Scizia tutto il
nord dell'Asia dal Rha ^Vvolga), che la divideva dalla Sarmazia asia-
tica, sino alla Serica ali est, e al sud si estendeva sino all'India. —
rapidum cretae... Oaxen. Così spiega Servio: hoc est lutulentum: quod
romit cretam. tretam terram albam dixit. Nam Oaxis fluvius est
Mesopotamiae: qui velocitate sua rapiens albam terram, turbulentus
effidtur. Servio però accenna indirettamente ad un'altra interpretazione
cne farebbe di Óretae un nome proprio, interpretazione rigettata già
dagli Scolii Bernesi: Oaxes fluvius est Mesopotamiae, non Cretae.
Negli stessi Scolii si legge: Aliter: Oaaen, fluvius Scythiae, creteum
16 VERGHI BYCOLICA, I.
et penitus tato divisos orbe Britannos.
en umquam patrìos longo post tempore fines,
pauperìs et tuguri congestum caespite culmen
post aliquot, mea regna videns, mirabor arìstas?
colorem habens, et in Creta non est, sed cretei coloris est aqua: Certo
è quasi un assurdo che Virgilio accennasse ad un fiume rieirisola di
Greta per bocca d'un pastore che emigra col suo gregge. È molto più
verosimile che un pastore erri per terra, che non per mare. Inoltre un
fiume di Greta poteva ^essergli meno noto, che non un grande fiume,
particolarmente se di confine. Pel che io credo che si debba prendere
Oaoees come un fiume della Scizia e tutt'uno GÓÌTOofus (ora Amou).
Gfr. Gurzio, VII, 10, 13: ad flumen Oxum perventum est. hic, quia
limum vehit, turbidus semper, insalubris est potui; né è improbabile
che la lezione originaria, di cui non v'è traccia nei manoscritti, fosse
ad Oxum. Devesi adunque spiegare rapidum cretae per cui rapit ere-
tam, quindi lutulentum, turbidum, come già Servio e gii Scolii Ber-
nesi. — Oaxen è la lezione de' migliori manoscritti. Devesi leggere ad
Oxumì — 66. La Britannia a tempi di Virgilio era ancora, mal-
grado le spedizioni di Gesare, che non ebbero conseguenze per la con-
quista di quella regione, pressoché sconosciuta, e riguardata quasi fuori
de' confini del mondo abitato. Gfr. Tac, Agric, 10 e 30. Gatullo, XI,
11 seg. e Graz., Od,, I, 35, 29 seg. dicono ultimos... Britannos, —
67. en umquam. Gfr. Hand., TurselUnus, II, p. 371: Peculiaris for-
mula interrogationis est' en umquam-^ in qua eooponenda Gronovius
egregie versatus est. Nam ad Liv. 30, 21, 8 eos reprehendit, qui prò
simplici interrogatione acceperant, et formula est, inquit, TTaervTiio^
vehementer optantium, per interrogationem, aut etiam indignantium,
Addere debebat, non tantum iram et indignationem,, sed quem>cumque
vehementiorem animi affectum, praesertim desiderium et dolorem
hoc modo exprimi. Gfr. Plaut., Trin., II, 4, 188 seg.: pater, ] en
umquam aspiciam te? Vedi anche Ed,, Vili, 7 seg.: en erit um-
quam I ille dies, mihi cum liceai tua dicere factaì — 68. tuguri.
ÀI genitivo singolare dei temi in io Yi del tema e Yi finale si contrae-
vano dapprima regolarmente in un solo. Fu soltanto molto avanti nel-
l'età augustea che cominciò ad entrare nell'uso ii, Virgilio eccezio-
nalmente ne ofire un esempio in fluvii, Aen. Ili, 702, essendo spurio
il V. 151 del lib. IX ove si legge il genitivo Palladii. Gosi Orazio,
Manilio e Persio adoperano solo genitivi terminanti in i. Vedi del resto
le acute osservazioni del Lachmann nel suo Gomment. di Lucrez.,
pp. 325-^9. — congestum caespite cuhnen = congesto caespite exsiru-
ctum. Gfr. Aen., VI, 177 seg. : aramque sepulcro \ congerere arboribus ;
Georg., Il, 156: tot congesta manu praeruptis oppida saxis, dove con-
gesta vale pure exstructa. — caespes si scrive con ae meglio che con
e. Significa, secondo Servio: terra cum propria herba evulsa, Gfr. del
resto il fortuitum caespitem di Orazio, Od., II. 15, 17 cosi da lui chia-
mato, perchè si trova aovunque e senza spesa e fatica e può perciò ser-
vire a' poveri per costruire i tetti a' loro tuguri. Girca Vet posposto cfr.
la nota al v. 34. — 69. post è avverbio e risponde a longo post
tempore del v. 67 come in Georg., II, 259 e 261 multo ante,,, ante. —
m.ea regna equivale qui ad agros msos i. e. ubi dominatus sum,
come spiega Servio. Gir. Georg., Ili, 476 seg.: desertaque regna \ pa-
VERGILI BVCOLICA, L ^ 17
impius haec tam eulta novalia miles habebìt, 70
barbarus bus segetes: en quo discordia civis
produxit miseros: bis nos consevimus agros !
insere nunc, Meliboee, piros; pone ordine vites.
storum. — àUquot,., aristas^ qualche traccia di spiche, e quindi di col-
tivazione. — mirabor. Notisi la proprietà dell espressione, perchè il
ritrovare, in tanto disordine dell* agro mantovano, abbandonato nelle
mani di soldati affatto inesperti di agricoltura e repugnanti alla vita
agricola, ancora qualche traccia di coltivazione, doveva essere notato non
senza meraviglia da Melibeo, se mai gli fosse stato un giorno concesso di
rivedere i cari suoi luoghi. — 70. impius.,. miles. Empio è chia-
mato il soldato non solo perchè partecipa alle lotte civili (cfr. Georg.,
I, 51 1 : Mars impius ; Aen., VI, 612 seg. ; Xll, 31 : arma impia), ed
entra contro ogni diritto nel possesso dei beni altrui, ma anche perchè
la violenza, che gli è propria, contrasta singolarmente coir amor della
quiete e col rispetto alla giustizia proprio degli agricoltori. Cfr. Georg.^
il, 473 seg. Altri invece crede che Fepiteto impius abbia la sua ra-
gione nello squallore che il soldato lascerà venire nel campo altra volta
fertilissimo. — novalia aui vale semplicemente « campi ». Quanto al
suo proprio significato, veai la mia nota a Georg., I, 71. Del resto sia
dopo habebit, sia dopo a segetes del v. seg. ho soppresso l'interroga-
zione conservata ancora da alcuni editori. Mi pare che, più che un-
movimento di sdegno cui accennerebbe Tinterrogazione, qui si denoti
Tamarissima rassegnazione di Melibeo, che scoppia in più amara ironia
nei versi seguenti. — 71. barbarti. Tra i veterani, cui era stato
distribuito il territorio mantovano, si trovavano non pochi Galli e Ger-
mani che avevano militato sotto Cesare. — segetes. Siccome questa
scena fra i due pastori avviene verso l'autunno (cfr. sotto la nota al v. 81),
così qualche commentatore pensò che qui si tratti di una seminagione
autunnale successiva alla messe. Io preferisco dare a questo vocabolo il
suo proprio significato di « campo da seminare », come in Varr., R. i2.,
I, 69, 1 ecc. Vedi anche la mia nota a Georg., 1, 1 e 47. —- 73. prò-
duxit è la lezione dei due codici Palatino e Romano: in altri codici
meno antichi si legge perduant, lezione ugualmente corretta che non
varia sostanzialmente il senso. — his nos è la lezione dei due codici
predetti: la comune lezione è en quis, data pure da codici, ma meno
antichi ed autorevoli, dove quis varrebbe quibus = in quorum com-
modum. Del resto anche his è dativo di commodo. — 73. insere
nunc ecc. Amarissima ironia, che scoppia dal cuore di Melibeo vedendo
Tesito miserando di tutte le sue cure e di tutte le sue fatiche. Inserere
significa qui « innestare ». Cfr. Varr., R. R., I, 40, 5: si in pirum
siìvaticam inseveris pirum quamvis bonam; e la mia nota a óeorg.,
II, 69 per la doppia costruzione di questo verbo. — pone ordine vites
(cfr. Graz., Od., III, 1, 9 seg.: ordinet \ arbusta sulcis). Si accenna a
quella disposizione delle viti che era chiamata quincunx, giusta la se-
guente figura
♦ ♦ * *
al cui riguardo vedi la mia nota a Georg., II, 277, 278. Quanto ad or-
Stampimi, Vergil. Bueol. 2
18 VERGILI BVCOLICA, I.
ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
non ego vos posthac viridi proiectus in antro 75
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non, me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.
TiTYRVS.
Hic tamen banc mecum poteras requiescere noctem
fonde super viridi: sunt nobis mitia poma, 80
castaneae moUes et pressi copia lactis.
dine Giusto ordine^ insta ratione, cfr. Georg. , 1, 425; IV, 4; 376;
537 ecc. — 74. Cfr. qaesto ed i seguenti versi sino al 78 con Teocr.,
Idyll,^ I, 115 segg.: (ti XOkoi, d» Odic^, (h àv tlipea q>u)XdÒ6^ dpKTOi, j
XaipeO'* ó Pu)KÓXo<; C^jniv èTib Aà(pvi<; oùk ?t* àv* dXav k. t. a. —
felix quondam è la lezione del codice Romano : quondam felix è la dispo-
sizione di Servio e del codice Palatino. Colla prima disposizione Tanda-
mento è più patetico e più naturale. Il pensiero di Melibeo ricorre ai
jsuoi tempi felici, che erano pur tali per la sua greggia: ma questa
felicità gli si presenta tosto come inesorabilmente passata; onde l'aggiunta
del quondam. — 75. viridi.,, antro. Cfr. Ed., V, 6 seg.: aspice ut
antrum \ silvestris raris sparsit labrusca racemis^ e IX, 41 seg.: can-
dida populus antro \ imminet. — 76. dumosa,., rupe. Cfr. George.,
Ili, 3i5: am^ntis ardua dttmos. Quanto al senso vedi Golum., VII, 6,
1 : [caprinum pecus] dum^ta potius^ quam campestrem situm desi-
derati Ovid., ex Pont., l, 8, 51 : pendentis... rupe capellas. Traduci con
una frase del Poliziano : « pender da un*erta | le capre ». — 78. cy-
tisum (gr. KÓTiaoO, specie di frutice bianao, che fornisce gradito pa-
scolo ai greggi. Cfr. Ed., II, 64; Georg., II, 431 ove troverai altre ci-
tazioni nella mia nota. — salices. Cfr. Ed., 111,83: [dulce] lenta saliw
feto pecori e Georg., II, 434 segg. : salices... pecori frondem... sufficiunt,
79. Titiro invita Melibeo a pernottare con lui. Cfr. Teocr., Idyll., XI,
44 segg. — • poteras, tu potresti, cfr. Oraz., Sat., II, 1, 16,. Similmente
Ovid., Met., I, 679: hoc poteras mecum considere saxo, È usato l'im-
perfetto e non il presente perchè Melibeo si è già incamminato per
proseguire il triste suo viaggio. — hanc noctem, acc. di durata che
significa: per tutta questa notte, laddove la lezione hoc nocte seguita
da alcuni non può avere tal significato. Cfr. TibulL, III, 6, 53 segg.:
qtM.m vellem tecum longas requiescere noctes \ et tecum longos pervi-
gilare dies, — 80. mitia poma, L*agg. mitis riferito a frutti signi-
fica: «maturo» e perciò «dolce». Cfr. Oraz., Epod., II, 17: mitibus
pomis; Georg., I, 344: miti... Bacche; 448: tnitis... uvas, — poma di-
cesi di qualunque frutto edule, particolarmente se tenero. Cfr. Ed., IX,
50; Georg., I, 274; li, 59; 150; 516; Aen., VII, 111 e sopra al v. 37. —
81. molles si riferisce qui al sapore e significa « gustose :». Cfr. Georg.,
I, 341: moltissima vina; Oraz., Od,, l, 7, 19: molli,,, mero; Ovid.,
Met., XIII, 816: mollia fraf/a. Altri interpreta: «spogliate del loro
guscio spinoso e perciò godibili ». Del resto Taccennare che fa Titiro
YKRQILI BYGOLICA, I. 19
et iam summa procul villarum calmina famant,
maioresque cadunt altis de montibas umbrae.
alle castagne, di cui vuol far copia a Melibeo, indica che il dialogo
avvenne verso Tautunno. Nò è necessario ammettere, come fanno i commen-
tatori in genere, che si tratti di autunno avanzato, il che implicherebbe
una cotale contraddizione con quanto è detto di Titiro sedente alFombra
di un faggio, mentre vicino erra il gregge a pascolare. Nel settentrione
d'Italia si hanno castagne verso la metà ai settembre, e ciò normal-
mente. — pressi.., lactis ^ lactis in caseum coacH, Vedi sopra la nota
al V. 34. — 82. Si accenna alla preparazione della cena nelle case
di campagna, la quale si faceva verso sera e senza dubbio più tardi
che in città, dove si cenava generalmente verso la nona ora (ore 3 pom.
circa). — 88. maioresoue cadunt ecc. Servio: Cum sol caditi ma-
iores sunt umbrae, Gfr. Ect.^ II, 67 : et sol crescentes decedens duplicat
utnìfras.
P. VERGILI MARONIS
BVCOLIC^
EGLOGA IL
ARGOMENTO.
Goridone, ricco e libero pastore (v. 20 segg.), invaghitosi di Alesai, servo di lolla,
esprime il vivo dolore che prova per essere posto in non cale dalFoggetto del suo
amore, e cerca di piegarlo a più miti consigli col ricordargli le sue ricchesse, la
sua perizia nel canto (v. 23), la sua bellessa (v. 25), e gli promette che, quando
voglia dimorar seco, glMnsegneràrarte del canto (v.31 segg.), facendogli dono di una
eccellente sampogna (v. 3d), di due caprioli (v. 40), di fiori e di frutti (v. 45 segg.).
Passa quindi a far Telogio della vita rustica amata anche dagli dèi (v. 60 segg.);
ma in fine, rinsavito, condanna la sua demenza che gli fa trascurare i propri in-
teressi, e si consola colla speranza di trovare chi sappia corrispondere al suo amore.
Si crede generalmente che, sotto la persona di Goridone, Virgilio abbia voluto figu-
rare so stesso, e che in Alessi abbia allegoricamente rappresentato un servo, di nome
Alessandro, che gli era stato regalato da Asinio Poli ione e che egli teneramente
amava. Sul che vedi Tlntroduzione.
VERGHI.! BYCOLICA, II. 21
Alexis.
Formosum pastor Gorydon ardebat Alexìm,
delicias domini, riec quid speraret habebat.
tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos
adsidne yeniebai ibi haec incondita solus
1. Quanto al significato proprio dell'aggettivo formosus, vedi sopra 1,
5. — Corydon, Anche questo nome ricorre negli idillii di Teocrito. Gfr.
IdyU,^ IV. — ardebai. Questo verbo si unisce con un accusativo come
altri esprimenti affezione dell* animo. Gfr. Oraz., Od,, W, 9, 13 seg.:
comptos arsii adulteri | crines. In simil guisa e nello stesso significato
di « amare ardentemente » i comici usavano pereo^ depereo ed anche
demorior. Del resto anche nella prosa classica certi verbi, come indi-
gnor^ horreo^ doleOy maereo^ lugeo, stomackor ecc., esprimenti affetto,
costruisconsi coU'accusativo. Virgilio congiun&^e anche colVinfinito il verbo
ardeo, nel significato di cupere. Gfr. Aen., I, 515, al qual passo Servio,
citando appunto il primo verso di quest'ecloga, dice : ardeo autem et ac'
cusativum regit et ablativum, --- Alexim. Altri legge, sulFautorità del
codice Romano e di altri Alexin. E preferibile la prima lezione, che è del
codice Palatino. Del resto nessuna ragione metrica poteva avere il poeta
g9r preferire alla forma latina la greca. — 2. delicias domini, Gfr.
ic, ad Att,^ XVI^ 6, 4: Piliae salutem dicòs et Atticae^ deliciis atque
qmoribus meis; GatulL, III, 4 ipasser, deliciae meae puelkie, ^ domini,
È ^esti lolla. Gfr. sotto v. 57. Cforidone è un pastore libero, come appare
dai versi 19 segg.: quindi lolla è solo padrone di Alessi. — nec quia spe-
raret habebat. Si e giustamente osservato che questa frase significa non
già € non aveva che sperare », che corrisponderebbe a nec quod
speraret habebat, ma invece « non sapeva su che fondare le sue spe-
ranze », vale a dire « non sapeva a quali mezzi appigliarsi per farle
riuscire >, come appare dal seguente tantum = tantummoao, sola-
mente. — 3. Il solo mezzo impiegato da Goridone per far capire il
suo amore ad Alessi è indicato in questo e nei versi seg^. Perciò il
tantum di cui nella nota prec. — inter è qui usato, come m Aen,^ V,
618; X, 710; XII, 437, con un verbo di moto (veniebat, v. seg.). E si
noti che fu Virgilio il primo che impiegò inter ad esprimere un movi-
mento, mentre nel latino antico e nel classico esprime sempre una rela-
zione di quiete. Quest'uso virgiliano penetrò poi nella prosa a cominciare
da Livio, del quale cfr. Ili, 26, 4; V, 46, 1 ; XX V, 15, 4 ; ecc. Qui
però si può spiegare in modo proleptico: veniebat ad fagos, ut inter
eas esset. — umbrosa cacumina non è già accusativo di relazione da
unirsi a densas per umbrosis cacuminibus, ma apposizione a fagos.
Lo dimostra la cesura che cade appunto dopo densas e che nella
prima ipotesi perderebbe tutta la sua forza. L' apposizione ha qui il
valore duna proposizione relativa: girne habebant umbrosa cacumina,
Gfr. un passo parallelo sotto in ^cZ., IX, 9. — fagos. Gfr. sopra 1, 1. —
4. incondita. Si spiega generalmente questo vocabolo i>er « rozzo »,
€ disadorno», «senz^arte» e sim. lo vi. scorgo invece piuttosto Tidea
22 TERGILI BYGOUGA, n.
montibus et silyis stadio iactabat inani: 5
crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?
nil nostri misererò? mori me denique coges.
nunc etiam pecudes umbras et frigora captant,
nunc virides etiam occultant spineta lacertos,
Thestylìs et rapido fessis messoribus aestu 10
dell* improvvisazione. Livio difatto lo adopera con frequenza a (jualifi-
care i carmi trionfali, che si improvvisavano dai soldati (Troi^inaaiv
aÙTOOxc^^oi^ in Dionis., Aniiq., II, 34). Gfr. lib. IV, 20, 2, carmina in-
condita; lY, 53, 11, inconditi versus; V, 49, 7, iocos militar es, quos incon-
ditos iaciunt;\lU 10, 13, inter.,, incondita qimedam militariter ioculantes;
e inoltre Ylly38, 3; X, 30, 9. Naturalmente all'idea deirimprovvisazione si
associa anche quella di mancanza d'arte, d'ornamento. Stimerei quindi
di tradurre questo vocabolo per « rozzamente improvvisato ». —
5. studio,,, inani, con vano trasporto, quindi inutilmente. — iactabat
vale qui emittebat, effundebat, Gfr. sotto Ed,, V, 62; Aen,, I, 102; II,
588. Per tutto il passo cfr. Teocr., Idyll., XI, 17 seg.: KaOcS^óiuicvo^ ò'
itti Ttérpat; | óipiiXdc;, è<; uóvtov ópdùv deióe TOiaOxa. —
6. crudelis Alexi. Gfr. Teocr., Idyll.^ XXUl, 19: dTpi€ ira! Kal OTUfvé.
— nihil mea carmina curas ? Gfr. Teocr., Idyll., Ili, 33 : tò 6é |ii€u Xóyov
oùbéva iroifl. — 7. nil nostri misererei Gfr. Teocr., Idyll., VII, 119:
ó bOajLiopo^ oÒK èX€€! jLACU. — denique non ha qui il suo valore ordi-
nario di richiamare tutti i termini d'un' enumerazione; ma indica ciò
che si fa o si farà in ultimo luogo. Puoi tradurre : « alla fine ». Gfr.
Aen., II, 70; 295 ; Plaut., Trmww., IV, 2, 93; Terenz., Heaut,, III, 3, 8 ecc.
— coges. Meno efficace è la lezione cogis del cod. Palatino; del resto cfr.
Teocr., IdylL, III, 9: àirdTHaoeaC jli€ iioifìociq. — S. umbras et fri-
gora, figura d'endiadi (?v 6ià òuotv) per umbras frigidas, Gfr. Oeora.,
l, 173; 11, 192; 111, 56 ecc. Del resto anche in prosa e nell'interesse della
chiarezza si coordinavano talora con et, que, atque due sostantivi, di
cui l'uno doveva essere subordinato all'altro come suo complemento.
Gfr. Gic, Tusc, IH, 16, 35: medicina quam. adfert longinquitas
et dies. Talvolta l'endiadi si usava per supplire a difetto di aggettivo
per evitare l'incontro di più genitivi dipendenti l'uno dall'altro. Gfr.
Gic., de OraL, 111, 13, 48: subtilior cognitio ac ratio litterarum = « co-
gnizione metodica della letteratura»; ibid., Ili, 44, 173: delectationis
atque aurium causa. Devesi tuttavia osservare che si possono in questo
verso anche considerare i due sostantivi come indipendenti : si può cer-
care l'ombra ed il fresco. Quanto a frigora cfr. anche Ed., i, 52. —
captant = studiose quaerunt, exquirunt. Gfr. Georg., Ili, 331 : aestibus
at mediis umbrosam exquirere vallem. — 9. virides lacertos.
Anche Oraz., Od., I, 23, 6 seg. ha virides..,, lacertae. Ma Virgilio ha
qui usato il maschile lacertus, come in Georg., IV, 13. Gfr. poi questo
verso con Teocr., IdylL, VII, 22: àviKa òf| Kal oaOpo? è(p' aliiiaoiatoi
KaOeO&ci. — 10. Thestylis è la serva che prepara la vivanda ordi-
naria dei contadini, soldati e marinai romani, vale a dire il moretum
composto di aglio, cacio, aceto, olio ecc. Vedine la minuta descrizione
nel poemetto Moretum attribuito a Virgilio ; Golum., XII, 57. Anche in
Teocr., IdyU,, li, è introdotta un'ancella del medesimo nome. — ror
pido aestu. Gfr. Georg,, l, .92 e la mia nota. E abl. dipendente da
TERGILI BYCOLIGA, n. 23
alia serpyllumque heibas contundit olentìs.
at mecum raucis, tua dum yestìgia lustro.
sole sub ardenti resonant arbusta cicadis.
nonne fuit satin s, tristis Amaryllidis iras
atque superba pati fastidia? nonne Menalcan, 15
quamvis ille niger, quamyis tu candidus esses?
formose puer, nimium ne crede colori.
alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur.
fessis. — messoribus è dat. dì commodo. — 11. aUa meglio che
aUia. Gfr. Lachmann, Comm. in Lucr., ad I, 313, p. 32 seg.: Regula
est post longam vocalem e duabus 1 alteram suhtrahi^ si sequatur i
Uttera, nisi ea casuaUs sii. — serpyllum, gr. épTTuXXov, it. sermolino.
Gfr. Georg,, IV, 31. Plin. H. iV., XX, 22, (^): Serpyllum a serpendo
putant dictum. — herbas olentìs devesi interpretare non già per
erbe di grato o ingrato odore, ma semplicemente per « erbe ooorose y>
che entrano nella confezione del moretum, — contundit, Gfr. Golum.,
XII, 57: in mortarium coniicito et pistilUs conterito. — 12 e
13. at è particella che serve ad opporre un asserzione ad un'altra ovvero
fatti distinti, come è qui il caso, o pensieri contrari. — lustrare signi-
fica « mirare attorno attentamente », Quindi « osservare diligentemente »
e perciò qui « ricercare e seguire ». Ci. Aen., XI, 763. Vedi anche Aen,,
li, 564; Vili, 153. — mecum va congiunto con raucis cicadis ed equi-
vale a mea voce o meo cantu. Quindi il senso è: le piante (arbusta)
risaonano del mio canto e del rauco suono delle cicale. Gfr. Georg,, II,
328: avia tum resonant avibus virgulta canoris. — sole sub ardenti,
Gfr. Gatull., LXIV, 354. Questa espressione determina meglio il senso
generale dei due versi, ne* quali si vuol dire che in quelle ore meri-
diane, in cui tutti gli altri esseri riposano, egli solo è inquieto ed unisce
i suoi amorosi lamenti al canto delle cicale. Non devesi tacere che
altri, dividendo in due vocaboli distinti, mediante interpunzione, il mecum,
spiegherebbe: arbusta resonant me (cioè meam. vocem) cum raucis ci"
cadis. Gfr. Georg., Ili, 338: litoraque alcyonem resonant, acalanthida
dumi. Non è necessario ricorrere a questa dichiarazione. — 14. nonne
fuit satius ì non sarebbe stato meglio? Si noti Tuso del perfetto fuit,
perchè la cosa, cui si accenna, non è più possibile nel tempo in cui Go-
ridone esprime i suoi lamenti. A questo passo, oltre ad Ed., IH, 81 e
V, 10, pensò Ovidio scrivendo di Virgilio in Trist., Il, 537 seg.: Phyl-
lidis htc idem, teneraeque Amaryllidis ignes \ bucolicis iuvenis luserat
ante modis. — 15. pati accenna propriamente ad un sopportare con
rassegnazione e pazienza; ferre invece al sopportare con forza. —
nonne Menalcan, sottìnt. pati. — 16. gtcamvis quamvis. Riguardo
alla ripetizione di una stessa voce in principio del secondo membro del
verso, cfr. sotto v. 20; Ecl,m,6; 61; 62; V, 38; IX, 16 ecc. — niger,
dal color bruno, arsiccio. Gfr. Ecl., X, 38: fuscus Amyntas. —
17. nimium ne crede colori, non confidar troppo nella bellezza che ti
vien dalla candidezza del tuo corpo. — crede = confide. Si noti poi
Tubo poetico del ne colla seconda persona delFimperativo. Gfr. Aen,,
VI, 95; 544; Terenz., Arfe/pA., V,3, 16; Andr., V, 2, 27; Ovid., Fast,, IV, 931 ;
Met., IH, 116 ecc. — 18. Il senso è: il color fosco è non di rado
sv
F
N
24 . VERGILI BVCOLICA, li.
despectus tibi sum, nec qui sim quaeris, Alexi,
quam dìyes pecoris, nivei quam lactis abundans: 20
mille meae Sìculis errant in montibus agnae;
lac mihi non aestate novum, non frigore defit;
canto quae solìtus, siquando armenta vocabat,
Amphion Dìrcaeus in actaeo Aracyntho.
preferito al candido. — cadunt, cadono negletti, perchè nessuno li rac-
coglie. Quanto al ligustrum cfr. Plin., E. N,, Xll, 24, (51); XXIV, 10,
(45). — vaccinia. Gir. Plin., H. JV., XVI, 18 (31). Sono fiori o piuttosto
frutti che noi chiamiamo col nome di « vacini p e che a torto Servio
confonde colle viole ( Vaccinia vero sunt violae, errore che trovasi anche
negli Scolii Bernesi). Di fatto il poeta, Ecl.^ X, 39, ne fa una chiara
distinzione dicendo : et nigrae violae sunt et vaccinia nigra. Alcuni li
confondono coli* ùdKivOoq de' Greci, tratti dal confronto del passo testé
citato di Plinio con un altro dello stesso (XXI, 26, (97)). — nigra =
fusca^ violacea. Cfr. del resto questo verso con Teocr., IdylL, XXIII,
80 seg. : XeuKÒv tò Kptvov éari, luiapaivfcTai, àviKa iriTrTer | à he. xvhv
XeuKÓ, Kal TàK€Tai, àvina TTaxO^, e X, 28 seg.: Ktìi tó tov )iéXav ?vtì,
Kai à TpOTiTà ódKivOoq • 1 àXX' i^tiac; èv toK OT€(pdvoi<; rà irpaxa Xé-
Yovxai. — 19. Cfr. Teocr., Idyll., Ili, 7: fj f>à fjie jiiiaelt; ; — qui
sim. In qualche manoscritto leggesi malamente quis sim. Cfr. sopra la
nota al v. 18 deir£c/. I. Coridone vuol dire che Alessi ignora quale
uomo egli sia, come risulta anche dai versi segg., e non già chi egli
sia, cioè qual nome abhia. — 30. Per questo ed i seguenti versi,
sino al 24, cfr. Teocr., Idyll.^ XI, 34 segg.: dXX' u)Òtó<;, TOioOToq èihv,
Potò xiXioi Póokiju, | k^k toOtujv tò KpdTiOTov d|ui€XYÓ|uevo(; Y<i^ci
irivui • I Tupòq ò* oò X€ÌiT€i |Li' gOt* èv eépei, oOt' èv ònidpij, | où x^^H^"
voq dKpqj • rapaol ò* ùircpaxOèec; alci. — dives pecoris. Suole Virgilio
unire dives più spesso col genitivo che coirablativo. Cfr. Georg.^ II,
468; Aen., I, 14; II, 22: IX, 26; per Tabi. cfr. Aen., IV, 37 seg. Vedi
del resto Tibull., II, 5, 35: gregis diti.... magistro. e Om., Iliad,^ V,
554: d(pv€iòq pióToio. — nivei. Servio e con lui gli Scolii Bernesi ed
alcuni moderni riferiscono questo aggettivo a pecoris. Ma fu a ragione
osservato che niveus è epiteto solenne del latte: cfr. Tibull., Ili, 2, 20;
5, 34; Ovid., Met., XIII, 829; Fast, IV, 151 ; 780. Servio difende la sua spie-
gazione con dire che candidae oves in ingenti sunt pretio e cita a so-
stegno Georg. f III, 386 è 391. — 31. mille vneae agnae. Alcuni
interpretano male per mille ex meis agnis; significa invece: mille
agnae, quae meae sunt. — Siculis... in montibus. La Sicilia è qui in-
dicata come il luogo ove si svolge la scena, ciò che è pienamente giu-
stificato dall'essere stata la Sicilia patria della poesia pastorale greca.
Del resto qui si sente quanto mai l'imitazione di Teocrito, siracusano,
vero creatore di quella poesia. — 32. frigore = hieme. Gfr. Ecl.y
V, 70; X, 65; Georg., I, 300. — non... defit = adest* Gfr. Ovid., Met.,
XIII, 829: Lac mihi semper adest niveum. — 33. solitus, sottint.
erat. — si quando, ogni qual volta. — vocabat, intendi: radunava gli
armenti per ricondurli a casa. — 34. Amphion, figlio di Zeus e di
Antiope e sposo di Niobe. Unito al fratello Zeto marciò contro Tebe,
ove regnava Lieo, marito della madre loro Antiope, cui aveva ripu-
VERGILI BVCOLICA, H. 25
nec sum adeo informìs: nuper me in lìtore yìdi, 25
cum placidum ventis staret mare: non ego Daphnim,
indice te, metuam, si nnmqnam fallit imago.
tantum libeat mecum tibi sordida rura
atqne humilis habitare casas> et figere cervos,
diata e posta in prigione per isposare in seconde nozze Dirce, la quale
aveva sottoposto la povera prigioniera a duri strapazzi, finché questa
era riuscita a fuggire. Lieo e Dirce furono uccisi: guest' ultima dopo
essere stata trascinata da un toro sino a morire, lu gettata in una
fontana che da indi in poi ebbe il nome di Dirce. Per questo Amfione
è dal poeta chiamato ' Dircaeus^ termine che d'altra parte equivale a
Thébamts^ Boeotius, perchè la fontana Dirce si trovava presso Tebe.
Gfr. Ovid., Met, li, 239; Plin., E. JV., IV, 7, (12). — Aracyntho. Opinano
alcuni che fosse un monte posto al confine della Beozia e dell'Attica,
perciò sarebbe detto Actaeus da 'Akt/), antico nome dell'Attica. Altri
Io pongono in Acamania, come Plin., H. N,^ IV, 2, (3); ma realmente
apparteneva all'Etolia. Virgilio avrebbe quindi commesso un errore, ma
volontario, secondo un'opinione menzionata da Servio, ut ostendatur
rustici impernia. Ma se, come fu supposto, questo verso e per la ce-
sura trocaica, quasi insolita ai Latini, e per io iato tra il quarto ed il
quinto piede, deve essere la versione d'un verso greco, che suonava
'A|H(pìuiv AipKato^ èv àKxaiuj 'ApaKOvBip, non è improbabile che Virgilio
usasse actaet4s = dKTatoq = litoralis, come in Aen,^ V, 613 adopera
il vocabolo acia = àKTi?i, già trasportato in latino da Gic, in Yerr.^
Ac/.II,1. V, 25, 63; 31, 82; Gorn. Nep., Ages., 8, 2. Del resto cfr. questo passo
con Properz., IV [HI], 14 [15], 41 seg. : canebat \ paeana Amphion rupe,
Aracynthe, tua. — 25. adeo = nimis, admodum. Per questo
significato cfr. Hand, Tursellinus, I, pag. 149. Vedi del resto Teocr.,
Idyll.y VI, 34, Kttl Y<^p ®iv oòò' cTòoi; ?xu> KttKÓv, O&c; |ii€ Xé^ovri. —
nuper me in litore vidi = stans nuper in litore im,aginem meam, in
undis vidi. Gfr. Teocr., IdylL, VI, 35: i^ Y^p irpàv è(; ttóvtov è^é^Xeirov
{?{<; òè YaXdva). — 26. placidum ventis. Alcuni spiegano: placidum
a ventis. Prejferisco vedere in ventis un ablativo causuale. Di fatti si
attribuiva ai venti non solo la potenza di sollevare i flutti, ma anche
quella di appianarli. Gfr. Aen., Ili, 69 seg.: placataque venti \ dant
maria, e y, 763: placidi staverunt aequora venti, e Oraz., Od., I, 3,
15 seg. — staret. Questo verbo equivale non di rado a non moveri,
consistere. Gfr. Ovid., Met., VII, 200 seg. : concussaque sisto, | stantia
concutio cantu freta. — Daphnim, pastore siciliano, figlio di Mercurio
e di una ninfa. Fu istruito dal dio rane nell'arte di suonare il flauto e
fu riguardato come inventore della poesia bucolica. Era anche celebre
per la sua bellezza. Per questi motivi è riguardato come il tipo de' pa-
stori siciliani. — 27 .iudice te, metuam. Senso: non temo u giudizio
tuo, se anche tu mi ponga a confronto con Dafni. — fallit, molto meglio
che fallat, lezione del cod. Romano, perchè qui la cosa non è espressa
in forma di dubbio e quindi deve trovarsi l'indicativo. Perciò il si ha
un valore causale. Nota la modestia dell'espressione dovuta appunto al
si. ^ 28 e 29. tantum = solum. — libeat e non libèret, perchè
Goridone spera ancora nell'efiettuazione del suo desiderio. — L'epiteto
sordida come Vhumilis del v. seg. contiene un'idea che Goridone non
h-
26 VERGILI BVCOLICA, IL
haedorumque gregem viridi compellere hibisco! 30
mecam una in sii vis imitabere Pana canendo.
Pan prìmum calamos cera coniungere plures .
instituit, Pan corat ovis oviumqae magistros.
nec te paeniteat calamo trivisse labellum:
esprìme come sua, ma attrìbuisce ad Alessi. Qaindi i due epiteti equi-
vsugono a quae sordida eosistimas, qt4ae tibi humiles videntur. — fir
gere cervos, sottint. iaculo, telo. Il semplice figere si trova anche in
Georg, y I, 308; Aen., V, 516; VI, 802. Va notato che Servio ricorda
come alcuni interpretavano cervos per furcas, qtme. figuntur ad casae
sustentationem : quae dictae sunt cervi, ad similitudinem comuum
cervorum. Non è necessario ricorrere a tale spiegazione, sia perchè qui
si tratta di capanne già costrutte e non da costruirsi, sia perchè la caccia
era una delle occupazioni della campagna, sul che cfr. ÈcL, III, 12; 75;
Geora., I, 307 segg.; Ili, 404 segg.; Teocr., Idyll., V, 106 seg. —
30, hibisco è dativo equivalente allacc. con ad. Quest'uso del dativo è
assai frequente ne' poeti. Cfr. la mia nota a Georg., \, 322. Del resto
Vhibiscuin, ìt. malvavischio, è un'erba simile alla pastinaca, ma meno
sottile, damnatum in cibis, sed medicinae utile, eome dice Plin., JJ. N.,
XIX, 5, (27). Cfr. anche Plin., op. cit., XXVI, 4, (10). Essendo un'erba
legnosa, si adoperava anche a tessere fiscelle. Cfr. Ed,, X, 71: gracili
fiscellam tewit hibisco. — 31. in silvis, nei boschi, ove i pastori
conducono spesso i loro greggi. A torto pensano che quest'espressione
sia messa come un contrapposto all'idea dei prati in cui cresce Vhibi'
scum che può crescere benissimo nei boschi. — Pana, acc. di Pan. Cfr.
il V. seg. Quanto all'espressione, cfr. Ed., V, 73. — 32 e 33. Questi
due versi, quos non interpretatur Servius, interpolatione additos esse
conicio. Così il Ribbeck, il quale rimanda ad Ed., Vili, 24 e Tibull.,
Il, 5, 32, ove trovi espresse idee identiche. Che non vi sia interpola-
zione, oltre all'autorità de' codici antichi, lo dimostra il fatto che uori-
done, per rendere accettabile ad A lessi l'offerta di rimanere con lui
nella semplicità della vita pastorale, poteva opportunamente ricordargli
la tutela che le accorda il dio Pane e la speciale cura che ne prende.
Del resto Pan, figlio di Hermes o Mercurio e della ninfa Penelope e
dio de' pastori presso i Greci, era primitivamente un dio d'Arcadia la quale
fu sempre il centro del suo culto. Trae il suo nome dalla rad. pd, cui
secondo alcuni (cfr. la nota ad Ed., Y, 35) si rattacca anche il nome
di Pales, la divinità femminile della pastorizia presso i Latini, donde
*Trd-o-|uai, pa-soo, pa-s-tor = *pa-sC'tor, Lo si rappresentava er-
rante per le montagne e le valli d'Arcadia or cantando or accompa-
gnando le danze delle Ninfe. Inventò il flauto pastorale ossia la oOpitH,
sulla quale vedi sotto il verso 36 e IH, 25. Gir. anche Ed., Vili, 24.
Quanto alla corrispondenza di Pane al Fauno dei Romani cfr. la mia
nota a Georg., I, 11. — calamos cera coniungere, cfr. sotto al v. 36.
— oviumqvie magistros = pastores. Cfr. Ed., Ili, 101, e Ovid., Fast,,
IV, 747 ove trovi anche una ripetizione elegante e significativa analoga
ad ovis oviumque. Vedi anche Georg., II, 529; III, 445, e Tibull., II, o,
35. — 34. nec te paeniteat. Questo verbo è qui adoperato nella sua
propria e più antica significazione di « non essere contento ». Quindi
traduci: « e non ti dispiaccia ». Cfr. Gic. in A. Geli., N. A., XVII, 1,
VERGILI BVCOLICA, H. 27
haec eadem ut sciret, quid non faciebat Amyntas? 35
est mihi disparibos septem compacta cìcutìs
fistula, Damoetas dono mihi quam dedit olim
et dixit morìens : « te nane habet ista secundnm ».
dixit Damoetas; invidit stultus Amyntas.
4: id numqttam tam acerbe feret M. CaeUtts^ ut eum pcteniteatj non
deformem esse natum^ ove Geli. § 9 nota Tuso antico del vocabolo, di-
verso dal comune e la sua derivazione ab eo, quod est * paene \ deri-
vazione accettata dal Bréal e che giustifica la forma ortografica con
ae, d'altra parte chiaramente attestata dalla Tavola di Lione dell'im-
peratore Claudio ove si legge due volte (cfr. il mio Tratt. delVortogr.
tot., p. 61) in pàenitendI e paenitet. Quanto al significato predetto di
onesto verbo cfr. anche Plaut., IWn., Il, 2, 39; Terenz., Heaut,^ 1, 1 20;
Èun.^ V, 6, 12; Phorm.^ I, 3, 20; Aggiungi Cic, de Sen.^ 6, 19; Acad.
prior.^ Il, 22, 69 ecc. — trivisse. Si nota qui un caso del così detto infinitivo
aoristico del perfetto così frequente nell antica latinità e nello stile delle
leggi e dei decreti (cfr. Senat, cons. de Bacch.: neiquis.,. habuise velet ecc.),
specialmente in dipendenza dei verbi volo^ nolo^ possum^ oportet e sim.
Mancano esempi in Cicerone, Cesare, Sallustio, Tacito, Val. Massimo,
Plinio il giovane e Svetonio, ma abbondano in Livio. Dipendendo da
espressioni come sufficit^ satis est, satis habes, abunde est, contentus
sum ecc. ha vero valore di perf. logico. Non si dimentichi però che i
poeti ne fanno spesso uso, in luogo oel presente, per canon del metro.
Cfr. Aen,, VI, 78 set.: Lucr., Ili, 69 ecc. Del resto luso del verbo
terere accenna qui ali azione del flauto che si muove, nel sonare, sulle
labbra sofiregandole. Cfr. Lucr., IV, 586; V, 1405. — 35. quid non
faciebat, che cosa non fece? che cosa lasciò d'intentato? L'uso dell'im-
perfetto non dipende qui dalla ragione che si tratta d'un fatto recente;
si vuole invece designare un'azione abituale o spesso ripetuta nel pas-
sato, caso questo in cui regolarmente si adopera Timpf. deirindic. in
latino. — Amyntas è un altro pastore emulo di Coridone. — 36 e
87. disparibus, sottint. magnitudine. V'è qui una descrizione della
sampogna formata a più canne (cicutis). Cfr. TibulL, II, V, 31 seg.:
Fistula cui semper aecresdt harundinis ordo: \ nam calamus cera
iungitur usque minor. Ve ne era di sette canne (cfr. Ovid., Met,, II,
682: dispar septenis fistula cannis), di nove (cfr. Teocr., Idyll, VIII,
18: aùpiTT* ^X^ èvv€d<puivov) ecc. Quanto a cicutis, così spiega Servio
qnesto vocabolo: Cicuta autem est [^patium] quod est inter cannarum
nodos, Cfr. Ècl., V, 85; Lucr., V, 1^1. Vedi ancora sopra la nota ad
Ecl.^ I, 2. — Damoetas, altro pastore, amico o maestro di Coridone
neirarte di suonare la sampogna. — 38. moriens deve riferirsi anche
a dedit del v. preced. — te nutnc habet ista secundum, vuol dire che
la sampogna donata a Coridone avrà in lui il possessore più degno dopo
Dameta. Cfr. Ed., V, 48 seg.: aequiparas magistrum | tu nunc
eris alter ab ilio: Oraz., Sat, II, 3, 193: Aiaas, heros ab Achille se-
cundus. — 89. Il Ribbeck crede ouesto verso interpolato, ma a
torto. La ripetizione contenuta in dixit Damoetas da una parte dà mag-
giore importanza alle parole pronunziate da lui, e dall'altra serve a
dar maggior risalto al fatto che ne fu conseguenza: invidit sttdtus
• i
28 VERGILI BVCOLIOA, II,
praeterea duo, nec tuta mihì valle reperti, 40
capreolì, sparsis etiam nunc pellibus albo;
bina die siccant ovis ubera; quos tibi servo.
iam pridem a me illos abducere Thestylis orat;
et faciet, quoniam sordent tibi munera nostra.
huc ades, o formose puer: tibi lilla plenis 45
ecce ferunt Nymphae calathis; tibi candida Nais,
Amyntas, — 40. Imitazione di Teocr., IdylL^ XI, 40 seg.; Ili, 34
seg. — nec tuta miài valle reperti^ parole che accrescono Timportanza
deirofferta che Goridone vaol fare, per la difficoltà ed il pericolo incon-
trato neirìmpadronirsene. — 41. sparsis... pellihus albo. Qui albo =
maculis albis. Gfr. Qeorg.y III^ 56: maculis insignis et albo ove trovasi
la nota figura di endiadi. Quanto ad etiam nunc, ecco la spiegazione di
Servio: Accessu,.. temporis mutant colorem : et eorum maculaeessegratiae
minoris incipiunt. Sogliono poi i commentatori citare a questo passo Se-
neca, Nat. Quaest., Ili, 25; se non che ivi Seneca discorre solo del cam-
biamento di colore che subiscono le pecore per efietto di certi fiumi, quae
pota inficiunt greges. Il codice Romano dà in luogo di albo la lezione
ambo preferita da alcuni, i quali pongono il punto dopo pellibus. — -
42. die = cotidie. Gfr. EcL, III, 34; Aen., XI, 397; Plin., E. N., XV,
6, (6), 22; Quintil., X, 3, 8; ma per lo più in questo senso si premetteva
la prep. in. Gfr. Plin., E. N., XVIIl, 7, (17} ecc., e inoltre Ecl., HI,
5. — bina. La presenza di questo numero distributivo dimostra che la
frase intera devesi così interpretare : « ciascuno de' caprioli succhia ogni
giorno le due mammelle di una pecora ». Altri invece ricorrendo ad
un'ipallape, per la anale Tidea del distributivo, anziché riferirsi a co*
preoli, SI collegherenbe con die, spiega meno verosimilmente: « suc-
chiano due volte al giorno le mammelle della medesima pecora >. —
siccant 2= exsugunt. Gfr. Oraz. Epod.^ 2, 46. -— 43. abducere
orat =: orat ut sibi Uceat abducere. Gfr. Aen., VI, 313: stabant orantes
primi trasmittere cursum. Il verbo oro è per analogia costruito come
volo^ cupio e simili, riferendosi allo stesso soggetto l'azione espressa
dall'infinito cui si unisce. Del resto orare colPinfin. si trova già in
Plauto, Mil. glor., V, 1, 12 ed è amato da Tacito; cfr. Ann., VI, 8 [Vi, 2];
XI, 32; XII, 9; XIII, 13. — Thestylis. Gfr. sopra v. 10. — 44. et.
Nota la forza speciale di qeesta particella esprimente qui minaccia,
come altra volta sdegno (Aen., I, 48), esortazione {Aen., VI, 806), inter-
rogazione ecc. Vedi su ciò Hand, Tursellinus^ II, p. 488, 4^ seg. — sor-
dmt tibi, da te son tenuti a vile. Gfr. Oraz., Epist, I, 11, 4; Gatull., LXI,
132. — 45. huc, ades, formola nota equivalente ad huc veni. Gfr.
Ecl., VII, 9; IX, 39 e 43; Tibull., I, 7, 49 ecc. Essendo inchiusa in ades
l'idea del movimento, il poeta adopera hitc e non hic. Vedi la mia nota
a Georg., II, 243 seg. — 46. rer piegare maggiormente Tanimo di
Alessi, Goridone gli rappresenta l'abbondanza di fiori che potrà trovare
presso di lui per tesserne corone, servendosi a tal uopo dell'immagine poe-
tica delle Ninfe che gli porteran fiori a pieni canestri intrecciandoli in
corone colle proprie mani. Gfr. Teocr., Idyll. XI, 56 seg. Quanto ad
ecce posto in mezzo alla proposizione per dar maggior vita ed evidenza
alla cosa, cfr. la nota ad Ècl.^ III, 50. — calathis dal gr. xdXaOoq, pa-
TERGILI BVCOLICA, U. 29
pallentis yiolas et summa papavera carpens,
narcìssum et florem iungìt bene olentìs anethi;
tum casìa atque alììs intexens suavìbus herbis
moUìa luteola pìngit vaccìnia caltha. 50
ipse ego cana legam tenera lanugine' mala,
castaneasque nuces, mea quas Amaryllis amabat;
nierino fatto di vimini, rotondo ed allargantesi man mano verso la
bocca, come i canestri da lavoro per donna si degli antichi come dei
moderni. — Nymphae,. Nais. Il primo è termine generico, il secondo
è specifico e designa una ninfa d'acqua dolce, come fonti, laghi, ecc.
Quindi, senza ammettere che, con questo ricordare una Naiade, voglia
Goridone indicare un corso d'acqua che irriga il suo giardino, è chiara
l'allusione alle acque sulle cui sponde crescono fiori campestri. -^ cath
dida. Quest'epiteto, come il greco Xaiutirpói;, designa spesso, come qui,
l'idea d'insigne bellezza. Gfr. Aen., V, 571; Vili, 138; Graz., Od., I, 18,
11; Epod., 3, 9; Catull., XIII, 4 ecc. Gfr. anche Teocr., Idyll, XI, 19;
(b XevKà faXdTCìa. La citazione che qui si suol fare di EcL, VII, 38 è
inesatta: candidior cycnis = più bianca d'un cigno. — 47. pallentis
violas non son già le viole di color purpereo, ma quelle che i Greci
chiamavano XeuKÓ'io, viole bianche, più esattamente dun giallo pallido.
L'epiteto paMentis ha qui appunto tale significato, come in Ovid., Met,
XI, HO: aaxutn quoque palluit auro, e XI, 145: arva riaent auro
madidis pallentia glaebis. Vedi un altro significato in Ed., Ili, 39; V^
16; VI, él. Del resto Plin., H, iV., XXI, 6, (14): YioUs honos proxumus,
earumque phtra genera purpureae, luteae, albae. — papavera, fiori,
campestri di color rosso. — 48. florem bene olentis anethi.
Gfr. Golum., X, 120: et bene odorati fiores sparguntur anethi. Questo
fiore, gr. fivriBov (cfr. Teocr., Idyll., VII, 63, e Mosc., Jdyll., Ili, 107),
sembra appartenere ad una pianta ortense simile al finocchio. —
49, 50. U reggimento di intexens è lo stesso di quello di pingit, cioè
vaccinia. L'espressione è poetica per casiam atque herbas vacdniis
intenxens. Gfr. Ed., V, 31: et foliis lentas intexere mollibus hastas;
Aen,, VII, 488: mollibus intexens omabat comua sertis. — casia, ti-
melea. Gfr. la mia nota a Georg., Il, 213. •— pingit = variat, distin'
guit. Si vuol significare che la Naiade intreccia il vacinio (cfr. sopra al
V. 18) col fiorrancio (caltha) in modo da far spiccare le varie grada-
zioni di colori. Gfr. Plin., H. N., XXI, 2, {ó): variari coeptum est
mioftura versicolori florum, quae invicem odores coloresque accenderei,
parlando delle corone che si davano in premio ne' sacri certami. -^
mollia è un epiteto contrapposto a luteola: accenna quindi non già a
morbidezza (Servio: Mollia autem, tactus plumei scilicet; cfr. Scoi.
Bem.), ma a color dolce e delicato. — luteola, giallognolo, dorato, con-
corda con caltha^ abl. sing. Trovasi anche calthum, t, Gfr. Golum., X,
97 : flaventia lumina calthae; 307: flammeola... caltha. -^ 61. cana...
tenera lanugine mala sono le mele cotogne coperte d'una leggera la-
nuffgine. Gfr. Plin., XV, 11, (10): mala quae vocamus cotonea et Oraeci
cySonea e Creta insula advecta. — 6S. castaneasque nuces. Ma-
crobio, Sat, III, 18, 7 (ed. Eyssen.) citando questo passo, nota : Nìax
castanea, de qua YergiUus , vocatur et Heradeotica. È la nostra
castagna. Gfr. Ed., 1, 81; Ovid., Art. am.^ II, 267 seg.: Adferat aui
30 VERGILI BVCOLICA, n.
addam cerea pruna: honos erit huic quoque pomo;
et vos, lauri, carpam, et te, proxuma myrte,
sic positae quoniam suavis mìscetis odores. 55
rustìcus es, Gorydon: nec munera curat Alexis,
nec, si muneribus cortes, concedat lollas.
heu, heu ! quid volui misero mihi ? florìbus Austrum
perditus et liquidis immisi fontibus apros.
uvas, aut quas Amaryllis amabat. , \ at nunc castaneas non amani illa
nuo&s, ^^ 53. cerea pruna. Servio: aut cerei colori: aut mollia.
Preferisco la prima interpretazione. Gfr. Ovid., Met^ XIII, 817 seg.:
prunaqtte^ non solum nigro liventia suco, | verum etiam generosa no-
vasque imitantia ceras. Le prune di questo colore erano riguardate
come di maggior pregio. — honos erit huic quoque pomo ; Sergio ag-
giunge: si a te dilectum fuerit; sicut castaneae in honore fuerunt
amatae AmaryllidL — Nota lo iato che è tra pruna ed honos^ in luogo
del quale in qualche manoscritto di poca importanza trovasi et o nam.
Questo iato si spiega, del resto assai raro, coli osservare che, quantunque
cada in tesi, trovasi tuttavia in una dieresi dopo una forte interpunzione
corrispondente ad una pausa molto spiccata del senso. Gfr. Ecl.^ III, 79;
et longum « formose^, vale^ vale >^ inquit^ € lolla », Aen., \, 405:
et vera incessu patuit dea - il le ubimatrem. — 54, 55. Il senso
è: e te, o lauro, io coglierò e te, o mirto, che gli cresci vicino; voi mi
fornirete i vostri rami, poiché uniti insieme spandete cosi soave odore.
Pertanto il v. 55 dà la spiegazione del proxuma del v. prec. Gfr. Oraz.,
Od., Ili, 4, 18 seg.: utpremerer sacra \ lauroque collataque myrto. —
56. Gfr. Teocr., Idylh, XX, 2 seg.: "E^if' du k\k€io \ Pu)kóXo<; fliv
èèéXeic ^c xOoai, rdXtxv ; id., id., 32 : dXX', òri pwKÓXoc; èmui, trapé-
òpa)ii€. — 57. si certes... concedat. Notisi Tuso del presente del con-
giuntivo nei due membri del periodo ipotetico, perchè si vuol esprimere
un fatto possibile. Il codice Romano na ceftet^ lezione meno efficace,
perchè qui Goridone parla a sé stesso, come ^à nel verso precedente.
Il senso poi del verso è : quand'anche tu volessi gareggiare con doni, tu
non potresti aver la preferenza su lolla. L'usare Findicativo, come alcuni
fanno, certas... conceaet^ afferma come reale ciò che devesi ritenere solo
come supposto. — concedati propr. « si ritirerebbe >, quindi « si di-
chiarereobe vinto ». È più efficace del semplice cedat. — lollas è il
I)adrone di Alessi. — 58, 59. Qui Goridone rimprovera a se stesso
a sua stoltezza accusandosi di fare, col suo folle amore, non altrimenti
di colui che scatenasse Tinfocato scirocco sui fiori dal suo giardino e
turbasse il suo limpido fonte collo spingervi dentro sozzi cinghiali. È
un rimpianto della pace perduta di fronte al grave turbamento della
vita presente. Vedi più sotto al v. 70. — Austrum^ è il scii*occo degli
Italiani. 1 Greci lo chiamavano vóto^ e perciò era anche detto Notus
dai Romani grecizzanti. In certe stagioni è un vento secco e soffocante,
pernicioso agli animali ed ai vegetali. — perditus, sottint. amore, delirante
d*amore. Gfr. Plaut., Cist,, I, 2, 13: amore haec perdita est. Trovi il sem-
plice perditus in Prop., I, 13, 7. Gfr. anche Ecl.^ Vili, 88. — liquidis vale
liquentibus e perciò limpidis. Gfr. Aen., IX, 679 : liquentia /lumina e
VERGILI BVCOIICA, H. 31
quem fdgis, a, demens ? habitarunt di quoque silvas 60
Dardanìusque Paris. Fallas, quas condìdit arces,
ìpsa colat: nobis placeant ante omnia silvae.
torva leaena lupum sequitur, lupus ipse capellam,
florentem cytìsum sequitur lasciva capella,
te Oorydon, o Alexi: trahit sua quemque voluptas. 65
aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci,
Gerog.^ II, 187: liquuntur rupibus amnes. — 60. quem fugis =
cur me fugis. Cfr. Ae»., V, 742; VI, 466. Anche in greco q>€iiY€iv si
dice di cni ripudia Famore d'un altro. Cfr. Teocr. Idyll,, VI, 17; XI,
24; 30; 75; Mosc, Idyll.y III, 60. — a si riferisce airintero concetto e
non al solo demens. — 61. Dardanius Paris. Pai ide, secondo figlio
di Priamo e di Ecuba, fu esposto dal padre sul monte Ida, ove fu rac-
colto ed educato da un pastore. Diventato grande, si distinse assai nel
difendere coraggiosamente le greggi ed i pastori : dal che ebbe anche il
nome di Alessandro o difensore d'uomini. -^ Pallas, divinità greca, che
si identificò colla Minerva dei Latini (cfr. la mia nota a Qeorg., 1, 18),
fondatrice e protettrice di città, detta perciò troXioOxoq, iroXidi;, dKpa{a,
àKpia, TTuXdiTK ecc., è qui contrapposta alle divinità protettrici ed abi-
tatrici dei campi e dei boschi. Inoltre arces^ richiamando Tidea di luogo
chiuso e cinto di mura, egregiamente si contrappone alla libera ed
aperta campagna prediletta da Coridone. ^ 63. ipsa colat = in-
colat. S'è aggiunto ipsa per far meglio spiccare il contrapposto nobis
placeant ecc., con cui cfr. Georg. ^ 11, 485: rura mihi et rigui placeant
in vallibus amnes. — ante omnia, cfr. Georg., II, 475. — 63-
65. Cfr. questo passo con Teocr., Idylh, X, 30 seg.: h alS tòv kùtioov,
ó Xt3K0<; TÒV atxci bidiKa, | à Yépavo(; TdùpoTpov • èy^ ^' ^irl tIv |Li€|Lidvii-
^at. — ipse fa risaltare il movimento del pensiero nello stesso verso e con-
trappone pure alla sua volta l'azione del lupo a quello della leonessa.
— cytisum. Cfr. sopra Ecl., I, 78. — sequitur nel v. 64 equivale ad
appetii — lasciva capella, Cfr. Ovid., Met., XIII, 791: tenero lasdvior
haedo. In questo luogo* lasciva non significa voluptuosa et desidiosa,
come spiega Servio, ma procax, petulans. Cfr. sotto Ecl.^ Ili, 64. —
a Aleooi; havvi iato tra i due vocaboli; di più l'interiezione o ha ab-
breviato la sua quantità, cosa insolita in Virgilio. In o ubi campi in
Georg., II, 486 ve pure lo iato, ma l'interiezione ha mantenuto la sua
quantità. La presenza del nome proprio e derivato dal greco Alexi
spiegherebbe siffatta licenza. — trahit sua quemque voluptas. Il verbo
trahere si dice delle cose che ci attirano e trattengono. Cfr. Cic, prò
Arch.y 11^ 26: trahimur omnes studio laudis et optimus quisque m^a-
xrme gloria ducitur. Forse il poeta aveva presente il passo di Lucr.,
11, 2^: progredimur quo ducit quemque voluntas (altri legge vo-
luptas). — 66. aspice sta pel vocabolo più usato ecce. Coridone ri-
volge a sé stesso il discorso. — aratra iugo referunt suspensa. Vi
sono due spiegazioni di questo passo. Altri facendo dipendere iugo (per
ex iugo) da suspensa^ trova un senso analogo a quello di Oraz., Bpod.,
II, 63 seg.: videre fessos vomerem inversum boves \ collo trahentes
languido, come già Servio e Porfirione al citato passo d'Orazio; imjje-
rocchè gli antichi ordinariamente usavano aratri senza ruote e perciò,
32 VERGILI BYCOLICA, n.
et sol crescentes decedens duplicai umbras.
me tarnen urit amor : quìs enim modus adsit amorì ?
a, OorydoD, Corydon, quae te dementia cepit !
semiputata tibì frondosa yitis in ulmo est. 70
quin tu aliquid saltem potìus, quorum indiget usus,
viminibus mollique paras detexere iunco?
tanto andando quanto tornando dai campi, sospendevano il vomere al
giogo de' buoi. Altri invece, confrontando il passo d'Ovidio, Fast^ V,
497 : tempus erat^ quo versa itigo referuntur aratro,^ spiegano : iuvenci
iugo referunt aratra suspensa = aratra ita suolata^ ut humum non
tangant, notando che il verbo suspendere dicesi talora di quelle cose che
toccano appena la terra, e quindi significa anche « tener sollevato da
terra » (cfr. Golum., XII, 18, 6; Plin., ff. JV., XXXIV, 8, (19), [14] ecc.;
né dimenticare Georg., I, 68). Ma in quest'ultima ipotesi che senso si
darà al vocabolo iugo tanto nel passo di Virgilio quanto in quello di
Ovidio? Preferisco quindi la prima interpretazione come più naturale e
che lascia anche al vocabolo suspensa il significato testé enunciato:
aratra iugo suspensa significa « aratri attaccati al giogo in modo che
non tocchino terra ». — referunt, sottint.: domum. — 67. decedens
= occidens. Cfr. Georg., 1, 222; 450 ecc. — crescentes... duplicata um-
bras. Le ombre al tramonto del sole sono più lunghe. Cfr. Ed., I, 83.
Del resto qui duplicai vale auget, come spiega Servio citando un passo
di Sallust. (lib. VI, Histor,): Et Marius victus duplicaverat helltmi. —
68. adsit, congiuntivo potenziale, Il senso é : « qual tregua mai conosce
l'amore? » -^ 69. Cfr. Teocr., Idyll. XI, 72: Oi KùkXwmi, KùkXujmj,
ir^ TÒ^ q)péva^ èKTreirÓTaoai; — 70. semiputata (fiir. €Ìp.). Servio
spiega : plus est, quam si imputata diceret. Tolerabilius enim est,
non incipere aliquid, quam incoepta deserere. Però i moderni inter-
preti spiegano : « potata una sol volta », considerando che le viti si po-
tavano due volte all'anno ; cfr. Plin., H. N., XXVllI, 26, (62) e (65);
Golum., IV, 27, 5 ecc.; Georg., II, 410. Preferisco la spiegazione di Servio
come più consentanea e alla forma del vocabolo ed al pensiero che si
vuole esprimere in questi versi. — vitis in ulmo. Gir. Georg., I, 2:
ulm>isque adiungere vites e II, 367. — 71. quin deve unirsi a potius.
Quest'espressione é spesso usata in latino per richiamare, nelle esorta-
zioni, ad un ordine diverso di pensieri. Gfr. Aen,, V, 99. — aliquid
saltem, almeno qualche cosa, per piccola che sia. Gfr. Ed., Ili, 73. —
quorum, indiget usus, intendi eorum (partitivo dip. da aliquid) quO'
rum ecc. È un'ellissi non infrequente in poesia. Gfr, Georg., I, 104:
quid dicam qui = de eo qui; Aen., XI, 81: manus, quos mitteret ecc.
= manus eorum, quos; e 172: tropaea ferunt, quos dai ecc. = tra-
paea eorum, guos ecc. — usus è qui nel senso del greco XP^^^^ cioè
l'uso necessario, il bisogno. Gfr. Georg., I, 133; Aen., Vili, 441 ecc.;
donde la frase usus est che ha quasi il senso opus est. Puoi tradurre
ususjaer « i bisogni della vita campestre ». Raffronta tutto questo passo
con Teocr., Idyll., XI, 73 seg. — 73. molli è qui preso nel signifi-
cato di « flessibile ». Gfr. Ed., V, 31 e la mia nota a Georg,, II, 389.
— detexere. Servio spiega: m.ultum. texere, finire, perfijcere. Nam
modo de non minuentis est, sed augentis. Gfr. Tibull., Il, 3, 15 : tum
YERGai BVCOUCA, II. 33
invenies alìum, si te hic fastidii, Alexim.
fiscella levi detecoast vimine iunci. Quanto poi a parare coll*infìné cfr.
Aen,, IV, 118 e 390 seg.; Ces., B. C, 1, 83, 4; Sallust., Itspurt., 13, 2. —
73. aUum.,. Aleosim^ un altro giovanetto che non ti disprezzi, somi-
gliante ad Alessi. Spesso alius ha questo valore di e simile, somigliante » .
Cfr. A^n., VI, 89: aliiis Latio iampartus Achilles ; Tac, ITisf., IV, 73:
ne quis alius Ariovistus regno GatUarum poteretur ecc. Lo stesso si-
gnincato ha talvolta alter ma unitamente alVidea di < secondo ». Cfr.
Cic, in Verr», Act. II, lib. V, 33, 87; ad Fam., V, 8, 4 ecc. — si te hic
fastidit. Nota Tuso delFindic. con 5t, perchè si tratta di cosa reale e nota
a chi parla. Ha perciò la cong. quasi il valore di « poiché, dacché ».
Cfr. sopra il V. 27. — Del resto paragona questo verso con Teocr., XI,
76: €Ópf|(T€t<; faXàTcìav t(Tw<; Kai koXMov* dXXav.
Stampimi, Verffil. Bucol, 8
P. VEHaiLI MARONIS
BV^COLIOA.
EGLOGA III.
ARGOMENTO.
Finge il poeta, imitando Teocrito (Idyll.y IV e V), che si trovino insieme due pa»
stori, Dameta e Menalca. Il primo sta pascolando il gregge di Egone, il secondo
quello di suo padre e di sua matrigna. I due pastori sono rivali in amore : quindi
s'accende facilmente fra loro una lotta di frizzi pungenti, finché si stabilisce una
gara poetica, di cui è fatto giudice Palemone venuto in buon punto. Dameta e Me-
nalca danno così principio ad un canto a versi alterni {carmen amoebaeum)^ di tal
fatta cioè, che colui, il quale comincia a cantare, esprime in pochi versi un con-
cetto, cui deve rispondere l'avversario con altrettanti, cercando di vincerlo in grasia
e poetico acume, o col proseguire in queirordine di idee o coiropporre pensieri af-
fatto differenti, e così di seguito, senza che sia necessaria una coerenza qualsiasi
nella serie delle idee che si vengono successivamente esponendo dagli avversari
(Per altro genere di carme amebeo, cfr. VEcloga V). — Palemone giudica i conten-
denti uguali' in merito.
VEcloga ha in qualche punto parole di elogio per Pollione e contiene parecchie pun-
ture contro Bavio e Mevio, poeti contemporanei di Virgilio.
VERGILI BVCOUCA, m. 85
Menalcas. Damoetas. Palaemon.
Menalcas.
Die mihi, Damoeta, cuium pecusP an MelìboeiP
Damoetas.
Non, veram Aegonis; nnper mihi tradidit Aegon.
Menalcas.
Infelix semper ovìs pecus! ipse Neaeram *
dum fovet ac ne me sibi praeferat illa Teretur,
1. cuium, neutr. dell'agg. cuius^ a, um (antic. quoiuSy a, um\ dal cui
maschile generalizzato e quasi fossilizzato vorrebliero alcuni , derivato il
genit. invariabile cuius (ant. ^tiotu5): equivale a € di chi? ». E freauente-
mente usato dai comici; Virgilio lo adopera solo qui ed EcL V, 87 ove
lipete queste stesse parole. Gfr. Plaut., Ittid.^ Ili, 4,40; Terenz., Andr.^
lY, 4, ^4, ecc. — an MeUbo^ì Nota Fuso dell'an affatto regolare, essendo
aggiunta alla domanda cuium pecus una risposta in forma di presun-
zione. Gfr. Gic, de Senect.^ 6, 15: A rebus gerendis senectus abstrahit.
Quibus f an iis, quae iuventute geruntur et viribus ì ; Terenz., Hec.<t III,
2, 11 : Quid aisf an venit Pamphilus f; Eun.^ V, 6, 16: Hem quid dixisti^
pessumaì an mentita' sì ecc. — Gfr. del resto questo verso con Teocr.,
IdyU,, lY, 1: Eiiré uot, (b Kopóòwv, t(vo<; ai ^ócq; ^ J^a <t>iXU)vba;
a. Gfr. Teocr., layll,,, IV, 2: oOk, àXX' AtYuivoq • Póokeiv he ^oi aÒTÒK^
èòuiKCv. Questo ed il precedente verso furono messi in burla, stando
alla vita di Virgilio attribuita a Donato, da un tale (Numitorius quù
dam secondo Hagen; innominatus quidam secondo Reifferscheid) che
rescripsit antibueolùsa, colla seguente parodia : die mihiy Damoeta,
cuium pecuSt anne latinumì | non: verum Aegonis nostri sic rure lo*
quuniur. — Dameta non era già servo di Egone, ma un contadino li-
bero, forse al servizio di Melibeo (cfr. il v. preced.), cui, non si sa per
quali fatti, Egone ha in sua assenza (cfr. v. 3 e 4) temporaneamente
affidata la custodia del suo greff^e. Gfr. più sotto al v. 16.
8. Nota che ovis è accusat. di esclamazione ed è forma appoggiata
all'autorità di Servio e dei migliori codici in luogo di oves. Quanto alla
collocazione delle parole infetioo ovis pecus, cfr. Georg,, IV, 168:
ignavum fucos pecus a praesepibus arcent. — ipse, intendi Egone,
padrone del gregge. — Neaeram, comune amica d'E^one e di Menalca.
Gfr. V. seg. — 4. fovet =amplectitur, così Servio, gli Scolii Ber-
nesi ed alcuni moderni commentatori. Ma confrontando Aen., IV, 686:
36 VERGILI BTCOLICA, HI.
hic alienus ovìs custos bis mulget in bora; 5
et sucus pecori et lac subducitur agnìs.
Damoetas.
Parcius ista virìs tamen obicienda memento,
novimus et qui te, transversa tuentibus hircis,
et quo — sed faciles nymphae risere — sacello.
semianimemque sinu germanam amplexa fovebat; Vili, 387 seg.: ni-
veis divatacertis | cunctantem amplexu molli fovet, mi par più
preciso spiegare fovet per subblanditur = accarezza. Gfr. anche Aen.,
% 718. — 6. Atc, per opposizione ad ipse (cioè Aegon^ v. 3), designa
Dameta, chiamato alienus cusios, perchè è un estraneo, an mercenario
che non ha alcun interesse speciale d'occuparsi del benessere del gregge
a lui affidato, e non pensa che al proprio comodo, smungendo fre-
quentemente le pecore (bis in hora). Gir. del resto Teocr., Idyll.^ IV,
3. — 6. siicus^ forma più corretta di succtis e data dai migliori
codici. — pecori et. Si osservi lo iato analogo a quello da me notato in
Georg. ^ I, 4. Vedi anche Georg. ^ III, 155; Aen., Ul, 74; X, 156.
7. Siccome Dameta, ne' due versi .seguenti, rimprovera acerbamente
Menalca rinfacciandogli certe azioni schifose, che in certa guisa lo fanno
escludere dal novero degli uomini, cosi, parlando di sé stesso, usa il
vocabolo viris =s mihi viroy cioè mihi qui sum in numero virorum. —
obicienda. Cosi devesi scrivere, e non con due i. Cfr. il mio Trattato
dell' Ort. lat., p. 32. Il senso poi è: « Pensa però che bisognerebbe es-
sere un po' più riservati (parcius) nel far tali rimproveri a chi è uomo,
come me, e non un cinedo, come sei tu ». — 8-9. novimus et
qui te, manca per pudibonda reticenza il verbo di cui qui è soggetto e
te oggetto, cioè, come spiega Servio, corruperint, ovvero corruperit o
altro simile verbo. ^ transversa tuentibus hircis. Vi sono due spiega-
zioni principali di questo passo. Chi vi scorgerebbe una riprovazione
dell'atto osceno espressa dal torvo sguardo dei capri; chi invece un
senso di lasciva gelosia che li obbligava a volgere altrove lo sguardo.
Golia prima interpretazione si avrebbe il senso: € persino i capri ti
guardavan di traverso »; parrebbe quindi che fosse quella che più si
attagliasse all'intenzione di Dameta. Se non che non si capirebbe come
ne dovesser ridere le Ninfe, che per di più vedevano profanato un loro
sacrario (vedi più sotto). La seconda invece, che noi seguiamo^ corri-
sponde a Teocr., Idyll., V, 41 seg., e toglie la mostruosa opposizione
cne il poeta porrebbe tra il senso morale dei bruti e l'indulgenza col-
pevole delle Ninfe, (guanto poi all'aggett. neutr. sing. o plur. usato in
luogo d'un avverbio in compagnia d un verbo o d'un partic, cfr. sotto
V. 63; Ecl,, IV, 43; Georg., Ili, 149; 239; 500; IV, 122; Aen., VI,
288 ; 467; VII, 399 seg.; 510; Vili, 248; IX, 125; 794; XI, 854; XII, 338
seg. ; 398. L'espressione poi transversa tueri, usata per designare odio,
ricorre in Val. Flacc, Argon., II, 154 seg. : quam [paelicem] iam mi-
seros transversa tuentem, \ letalesque dapes, infectaque pocula cerno.
— faciles, indulgenti verso tanta profanazione dfel loro sacrario (sacello)^
che doveva essere qualche antro. Di fatto Virgilio in Aen., I, 168, dice
d'un antro che è Nympharum, domus; e Lucrez., V, 945 seg. dice:
silvestria tempia tenebant \ Nympharum, per < antri silvestri ».
VERGILI BVCOLICA, III. 37
Menalcas.
Tum, credo, cum me arbustum videre Miconis 10
atque mala vitis incidere falce novellas.
Damoetas.
Aut hic ad veteres fagos cum Daphnidis arcum
fregìsti et calamos: quae tu, perverse Menalca,
et, cum vidistì puero donata, dolebas.
10, il. Menalca^ per rimbeccare Dameta, finge d'assentire, e sogffiange
persino il tempo, in cui sarebbe avvenuto il fatto rimproveratogli, ag-
giungendone ancora un altro, di cui, fingendo ironicamente di dar carico
a sé, accusa invece Tavversario. — arbustum, qui = arboretum, cioè
luogo piantato d'alberi, specialmente olmi, ai quali s'attaccavano le viti
(cfr. Écl,^ II, 70). Qui dunque corrisponde quasi a vinea, designando le
viti già alte aggrappate agli olmi, per opposizione alle vitis novellas ==
recens piantatasi che, essendo ancor basse, non potevano attaccarsi agli
alberi. Cfr. Georg,^ II, 362-366. — mala... falce. Ordinariamente l'ag-
gettivo mala è interpretato come equivalente a nociva, perniciosa. Ki-
tengo col Benotst che vi sia qui un'ipallage: la malvagità nropria di
chi usa a danno altrui la falce è attribuita alla falce stessa. Gfr. Tibull.
(Ligdam.), III, 5, 20: et modo nata mala veliere poma manu.
12. Dameta finge di non intendere le ironiche parole di Menalca e
continua perciò il discorso di costui, ma accusando in modo palese (dice
di fatto fregisti (v. 13), vidisti, dolebas (v. 14) ecc.) il suo avversario.
Devesi quindi collegare aut con tum,... cum, del verso 10 ed intendere:
aut tum, cfÀtn^ cioè aut tum [factum est quod narras], cum ecc. Tra-
duci in italiano : « di' piuttosto quando ». — hic aa veteres fagos.
È questo un altro esempio di un'apposizione posta ad un avverbio, sul
che cfr. Ecl,y I, 53 e la mia nota. — Quanto a faaos vedi la nota ad
Ecl^ I, 1. — 13. calamos = sagittas. Cfr. Oraz., Od„ I, 15, 17 :
Tiastas et calami spicula Gnosii; Ovid., Met, Vili, 30: inposito calamo
patulos sinuaverat arcus. — quae. Spesso l'aggettivo ed il pronome
che si riferiscono a più sostantivi, anche di genere identico, come qui
(arcum e calamos\ ma designanti cose inanimate, si pongono al neutro
plurale. Cfr. Cic, N. D., Ili, 24, 61 : quam [fortunam] nemo ab in-
constantia et temeritate seiunget : quae digna certe non sunt deo ;
Sallust., Cat.<i 20, 2: Ni virtus fidesque vostra spedata mihi forent;
Liv., XXXVII, 32 : ira et avaritia imperio potentiora erant ecc. — tu
rinforza l'accusa che Dameta fa direttamente e non per via d'ironia.
Cfr. la nota precedente. — perverse = malevole, inique. Cfr. Aen.^
VU, 584: perverso numine^ che Servio spiega per irato numine. —
Quanto al nome Menalcas, s'incontra ancne in Teocr., Idyll., Vili e
IX. — 14. puero, intendi Dafni. — donata, sottint. : a me. —
16. aliqua, forma del caso ìstrumentale equivalente, quanto al senso,
ad aUqtta via^ aUquo rAodo. È noto che propria del caso istromentale
S8 VERGILI BVCOLICA, III.
et, si non aliqua nocuisses, mortuus esses. 15
Menalo AS.
Quid domini faciant, audent cnm talia faresP
non ego te vidi Damonis, pessime, capram
excipere insidiis, multum latrante Lycisca?
sing. in latino è Tuscita in à (suffisso indog. H). Gfr. ctroà, suprà^ extra,
infra ecc. — mortuus esses, sottint. invidia. Gfr. Ed,, VII, 26 : invidia
rumpantur ut ilia Codro.
16. Il senso più probabile di questo verso è: < che possono adunque
fare i proprietarii, quando sono così arditi i ladri ? » Vuol dire il poeta
che coloro, i quali possiedono qualche cosa (domini), mal la possono
difendere dai ladri {fures), quando quésti hanno tale audacia (quale
descrive poi nei versi segg.). Qualche interprete, basandosi sulle parole
di Servio a questo passo : nam prò servo furem posuit, suppose che il
vocabolo domini fosse qui usato come contrapposto a fures =z servi, e
che in luogo di faciant si dovesse leggere facient come leggesi in
Gualche codice ; ne verrebbe quindi il senso : < che cosa faranno i pa-
roni, quando son cosi audaci i servi ? » per dire poi : < che cosa non
oserà far contro di me Egone, padrone di Dameta, e mio rivale nel-
l'amor di Neera, quando giunge a tale audacia il suo schiavo? » Ma
contro questa interpretazione sta il fatto: 1° che i migliori codici danno
faciant; 2^ che il vocabolo fur equivale bensì talora a servus, ma nel
linguaggio comico, per beffa ed insulto, come in Plaut., Aulul., II, 4,
46: Tun', trium litterarum hom>o, \ me vituperasi fur, etiam fur fur-
cifer^ ed anche in Oraz., Ep., I, 6, 46: ^ dominum fallunt et prosum
furibus (dove però si può anche pensare di ladri che non sieno servi);
3* che Dameta non appare punto in questa ecloga come un servo,
perchè Menalca, uomo libero, gli avrebbe certo gettato in faccia la sua
servii condizione, perchè dalPecloga appare che Dameta possiede oggetti
di un certo valore (cfr. v. 44 segg.) e del bestiame (cfr. v. 29 seg.) e
che deve essere perciò tenuto come un pastore libero ma, per mercede,
provvisoriamente al servizio di Egone. iNon vi è dunque opposizione tra
dominus e servus, ma tra dominus e fur, e perciò devesi anche re-
spingere rinterpretazione da altri proposta : « dacché tu, o ladro auda-
cissimo, rubi le cose dei vicini, molto meno ti asterrai da quelle del
padrone che hai sottomano ». — 17. non è qui usato come equiva-
lente di nonne, ma ha maggior forza. Si sa che nonne si usa nelle in-
terrogazioni dalle quali si aspetta una risposta, che deve essere affer-
mativa; ma anche m prosa in luogo di nonne si adopera non, quando
le proposizioni interrogative sono moltiplicate come in Cic, prò Sex.
Rose. Am., 35, dove dopo l'interrogazione: Nonne vohis haec, quae
ai*distis, cernere oculis videmini, iudices? ne seguono sei altre col non.
— pessime, cfr. Teocr., Idyll., V, 75: KàKiarc. — 18. excipere in-
sidiis = dolo capere, come spiega Servio, che cita anche Aen., ili, 332:
excipit incautum. — m,ultum latrante Lycisca, ad onta dei latrati di
Licisca. Di questo nome di cane dice Servio: lycisci sunt, ut etiam
Plinùti didt, canes nati ex lupis et canibus^ oum inter se fòrte mù
VERGILI BVCOLICA, IH. 39
et cum clamarem < quo none so prorìpit ìUe ?
Tityre, coge pecus ! » tu podt carecta latebas. 20
Damoetas.
An mihi cantando victus non redderet ìlio,
qnem mea carmìnibus meruisset fistula caprum ?
si nescìs, meus ille caper fuit; et mihi Damon
ipse fatebatur; sed reddere posse negabat.
sceantur. Veramente Plin., H. iVl, VITI, 40, (61), 148, parla di tali cani,
ma non ne dice il nome. Questo ricorre in Ovid., Met^ III, 220. —
19. cutn clamarem^ traduci : < io aveva un bel gridare ». 11 cum ha qui
pressoché valore concessivo. -- ille, quel là, cioè quel ladro. Il pro-
nome ille si adopera spesso riferito a cosa lontana da chi parla, sia
che si tratti di luogo, sia che si riguardi il tempo. Cfr. Acn., VI, 760;
767; 808; 836; 838 ecc. — 20. Tityre, è il mercenario o lo schiavo
di Damone: quanto a questo nome cfr. Ed., I, 1. — coge pecus, = in
unum redige, col che si avvertiva la presenza d*un ladro. — post. E noto
che questa particella, oltre a designare tempo, indica anche luogo,
come qui. Cfr. Ces., È. G., VII, 88, 3 : post tergum ; id., id., II, 9, 3 :
post nostra castra ecc. — carecta, luoghi piantati di carici (careos, tcis)^
cariceti. Cfr. salictum (salia, icis). Ed., I, 54.
21. an può considerarsi qui come equivalente di num. Quindi il Hand,
Tursellinus, I, p. 357: Charisius non errat p. 203 an prò num ac-
cipiens, negatione cum verbo tam arcte coniuncta, ut non redderet
esset recusaret. Altri tuttavia crede non essere necessaria qiiesta
spiegazione, essendovi un'ellissi. Ora, appunto perchè vi è un'ellissi,
reputo che an stia per num; devesi di fatto intendere : [noH me furti
incusare]; num [permitti poterai ut'] victus non redderet. Servio
spiega an per ergo. E negli Scolii Bernesi : An, prò ' num * ; rectius
prò ' ergo \ Traduci : « doveva egli dunque, dopo essere stato vinto
nel canto, frustrarmi del capro ecc. ?» — ille posto in fine del verso fa
una spiccata antitesi col mihi e mette anche in maggior rilievo lo
sdegno di Dameta. — 22. Per intendere questo verso devesi notare
che negli intervalli delle ariette che si cantavano dai pastori, ossia tra
una strofa e un'altra si eseguivano certe specie d'intermezzi colla sam-
pogna o col flauto. Di fatto m Ed.. Vili, 21 leggiamo : Incipe Maenalìos
mecum, mea tibia, versus, volendosi appunto significare cotali intermezzi.
Vedi del resto Ecl., I, 2; V, 14. Dunque carminibus, come nel passo
citato versus, equivale a modis. ~~ 23. 5i nescis, come il nostro « se
non lo sai », per dire : ut hoc scias, ne hoc ignores. Cfr. Ovid., Epist,,
XIX [XXl, 150, ed. Merkel : si nescis, dominum res habet ista suum ;
ex Pont, ili, 3, 28 : quae sunt, si nescis, invidiosa tibi, — 24. red-
dere posse negabat, sottint. se. Tale omissione del pronome personale
nella proposizione infinitiva non è solo propria della poesìa. Cicerone
ne ha parecchi esempi: numerosi sono in Livio ed in Tacito. Gfr. Gic,
Ora;t., 12, 38; Liv. I, 23, 5 ecc. Del resto reddere qui vale, come sopra
al V. 21, semplicemente dare.
40 VlIfeGILI BVCOLICA, HI.
Menalcas.
Cantando tu illum? aut umquam tibi fìstula cera 25
ìuncta faitP non tu in triviis^ indocte, solebas
strìdenti miserum stipula disperdere Carmen?
Damoetas.
Vis ergo inter nos, quid possit uterque, vicissim
experiamur? ego hanc vitulam — ne forte recuses,
25. Cantando tu illum ? sottìnt. vicisse te ais. — aut serve talvolta,
come qui, ad aggiungere o piuttosto sostituire una interrogazione ad
un'altra. Cfr. Ter. Adelph.^ Ili, 3, 42 seg.: Sinerem illum ì aut non sex
totis mensibus \ prius olfecissem, cruam ille quicquam coeperet ? —
cera, cfr. EcL, li, 32; 36. — 26. iuncta. Alcuni codici, tra cui il
Romano ed il Gudiano, danno invece la lezione vincta, che è pur
quella degli Scolii Bernesi. — non, cfr. v. 17. — in triviis. Servio:
consuetuao enim fuerat ut per trivia et quadrivia ulularent et flebile
^uiddam in honore Dianae cancreni rustici ad reddendam Cereris
tmitationem, quae raptam Proserpinam in triviis clamore requirebat.
Ora Dameta si sarebbe spesso provato in simili canti, ma senza riuscirvi
perchè novizio (indoctus) nellarte del canto. Altri, senza ricorrere ad
alcuna idea di solennità religiosa, intenderebbe qui accennate le volgari
e triviali canzoni strimpellate da gente plebea ed ignorante. Cfr. Gioven.,
VII, 55: communi feriat carmen triviale moneta, — 27. stridenti
= stridula, Cfr. Gatull., LXIV, 264: horribili stridebat tibia cantu;
Lucan., I, 432 : stridentes acuere tubae, — stipula equivale qui a canna,
cakzmus, harundo, avena, Cfr. Plin. H. N., XXXVlI, 10, (67): Syrin-
gitis stipulae internodio similis perpetua fistula cavatur. Vedi del
resto la nota ad Ed,, I, 2. Si tratta di uno strumento ad una sola
canna per contrapposizione alla fistula (v. 25) che ne aveva parecchie.
— miserum.., carmen, non già triste, flebile, come spiega Servio, ma
nel significato di « canto strapazzato, orribilmente eseguito ». — disper-
dere. Questo vocabolo, d'altra parte assai raro, e usato da Virgilio in
^[uesto solo passo, significa sempre: « rovinare, mandare a male > e
sim. Cfr. Plaut., Trin,, 11,2,53: aliquantum animi causa in deUctis
di^erdidit,
28. erfio è non di rado adoperato nelle proposizioni interrogative ed
ha maggior forza che il ne, il nuyn ecc., quando non si trovi anche
congiunto con tali particelle. Cfr. Cic, Acad, prior.. Il, 23, 74 : Num ergo
is excaecat nos aut orbat sensibus ecc.?; Plaut., Trin., IV, 2, 146; Ergo
ipsusne *5 ? — vicissim, intendi in un carme amebeo. Vedi sopra Targo-
inento. — 29. vitulam, qui sta per iuvencam,, giacché propriamente
significherebbe la femmina del genere bovino non ancor giunta ad un
anno d'età. Lo stesso dicasi di vitulus, che talvolta (come in Georg.,
IV, 299 : titm vitulus bim^ curvans iam cornua fronte) sta per iuven-
VERGILI BVCOLICA, IIL 41
bis venit ad mulctram, binos alit ubere fetus — 30
depono: tu die, mecum quo pignora cortes.
Menalgas.
De grege non ausim quicquam deponere tecum :
est mihi namque domi pater, est iniusta noverca;
bisque die numerant ambo pecus, alter et haedos.
verum, id quod multo tute ipso fatebere maius 35
— insanire libet quoniam tibi — , pocula ponam
CU5. Gfr. Varr.^ R, R,, lì, 5, 6: in tubulo genere aetatis gradus dù
cuntur qttattuor: prima vitulorum^ secunda iuvencorum, tertia boum
novellorum, quarta vetulorum. — 30. Sono indicati i pregi della
giovenca, perchè Menalca non abbia alcun pretesto per declinare la
scommessa. — mulctra e mulctrum è propriamente il secchio da mun-
gere. Gfr. Graz., Epod., XYl, 49: illic iniussae veniunt ad mulctra
capeUae, per dire che vanno a farsi mungere. — Siccome }e giovenche
gignunt raro geminos (Plin., H, N., Vili, 45, (70) ), e, malgrado i ge-
melli, la giovenca di Dameta ha tanto latte da esser manta due volte
al giorno, viene ad avere un notevole valore per la scommessa. Gfr. del
resto Teocr., IdylL^ I, 25 seg. — 31. d&pono, come sotto al v. 36
ponOy si adopera trattandosi di scommesse, come il KaTariBriiLii dei Greci.
Gfr. Om., Od., XIX, 572: xaraeiPiau) «cBXov; Teocr., IdylL, Vili, 11:
Xpiìaheiq KOTaGrtvai dcBXov (id., id., vv. 13 seg., è adoperato il semplice
TiOniLii). — quo pignore, sottint. oocito.
32-34. Gfr. Teocr,, Idyll, Vili, 15 seg. : où Oriadi -rroKa à|bivóv, èirel
XaXeiTÓ^ e* ó irari^p jieu | x' à |iiAt»ip • Tà bè i^aXa iroGéairepa .irdvx'
dpiOjbicOvTi. -^ ausim^ forma arcaica equivalente ad ausus sim, È pro-
priamente una forma di ottativo per *aud'sim. Gfr. fa^cim, axim per
'fao-sim, *ag-$im. — teoum: intendi non già in certamine tecum,, ma uti
tu pignus ponens. Gfr. Plaut., Cos., ProL, v. 75: id ni fit, mecum pi-
gnus, si quis volt, dato. Traduci dunque: « non oserei scommettere
teco alcun capo di bestiame >. Vedi del resto Georg., 1, 41; 11, 8; Aen.,
I, 675. — bisque die, cfr. la nota ad Ed., II, 42. Si noti poi che il
que ha qui un valore esplicativo in quanto aggiunge alla proposizione
precedente un concetto cne la spiega, ed equivale perciò ad et propterea,
et ita, et sic. — numerant ...pecus, Gfr. Ovid., Met., XIII, 824: pauperis
est numerare pecus. — ambo è contrapposto ad alter. Quello accenna
ad un*idea di comunanza, ad un insieme m cui le due unità sono fra loro
dipendenti; perciò il poeta non ha usato uterque, che rappresenta una
dualità in CUI le due unità sono fra loro indipendenti. Tradurrei: « tutt'e
due insième »; alter invece significa: < Tun de' due >, quindi il padre o
la matrigna secondo le circostanze. — 35. id va riferito grammati-
calmente a pocula ponam in maniera parentetica. Gfr. Gic, de Leg., I,
19, 52 : Pecuniam.ne igitur an honores... an, idquod turpissimum dictu
est, voluptatemf; id., de Off., II, 23, 83: At ille Qraecus, id quod fuit sor
pientis et praestantis vin, om,nibus consulendum jputavit. — 36. in-
sanirei col paragonarti meco. — pocula ponam. ufr. sopra al v. 31. —
42 YBRaiLI BVGOLICA, IH.
fàgina, caelatum divini opus Alcimedontis :
lenta quibus torno facili superaddita vitis
diffasos hedera vestit pallente corymbos.
in medio duo signa, Conon et... quis fiiit alter, 40
37. fagina ; l'epiteto accenna ad una materia conveniente alla povertà
dei pastori. Similmente Ovid., Met.^ Vili, 669 seg., fa porre smla po-
vera mensa da Baucide fahricata... fogo \ pocula, — divini. Qaest*agget-
tivo è spesso adoperato, anche in prosa, per eccimius, excellens: risponde
auindi spesso al nostro « straordinario >. Gfr. Gic, de Orat.^ I, 10, 40:
Èquidem et Ser. Galbam memoria teneo divinum hominem in dicendo.
— Alcimedontis; forse trattasi di un nome fìnto; ma siccome troviamo
che in Teocr., IdylL, Y, 104 seg., il pastore Gomata vanta il possesso di
un cratere lavorato da Prassitele (èvrl bé moi ... èvrl òè KpiiTTip, | ?pTov
TTpaStTéXeu<;)» potrebbe anch'essere che Alcimedonte sia veramente stato
un artefice, di cui si trovi solo menzione in Virgilio. — 88. lenta...
vitis == flecoibilis. Gfr. Eoi, 1, 25; 111, 83; V, 16; 31; IX, 42; X, 40;
Georg., Il, 12; IV, 34; 558, etc. Del resto non si tratta jui d'un sem-
plice epiteto ornans; l'idea espressa ha relazione con l'abilità eia grazia
aell'artefice nel rilevare la vite sulle tazze. — quibus, sui loro fianchi.
— torno, parola tratta dal greco TÓpvo^, dalla rad. ter (fregare, volgere,
forare). Glfr. l'omer. T€(p€i (*T€p-j€i), répCTpov, e il lat. teres, terebra.
Significa « tornio », istrumento con cui si arrotonda e si pulisce il legno,
l'avorio ecc. Ma generalmente si ritiene che non si prenda qui in tal
significato; sì in quello di scalprum e sim. Bisogna allora intendere
che l'artefice^ dopo di avere arrotondate al tornio le due tazze, abbia
aggiunto sui loro fianchi degli ornamenti in rilievo per mezzo dello scai^
peuo (opus anagly^ticum). Non manca però chi sostenga che anche
presso ài antichi si sa{)es8e lavorare in rilievo per mezzo del tornio.
— facui esprime la perizia del lavoratore trasportata figuratamente al
tornio. Gfr. TibuU., I, 1, 7 seg.: ipse seram... \ ...facili grandia poma
manu; Prop., Il, 1, 10: mtramwr, faciles ut premat arte mant^s. —
39. Gostruisci vestit corymbos diffusos hedera pallente. Il senso è: « la
vite intrecciandosi coll'edera semnra quasi ricoprire {vestit) colle larghe
sue foglie i grappoli {corymbos) che pendon qua e là dall'edera (hetJkra
diffusos). Preferisco 1 ortografia hedera (yh si trova nel codice Romano
ed è stato aggiunto nelle Schede Veronesi), conforme anche alla etimo-
logia (rad. ghed, cfr. prehend-ere per ^prae-hend-ere, praeda per
♦prae-Aee^a). Filargirio per contro: legitur et aedera, ab aerando
arboribus, et sine aspiratione dici debet; falso, perchè haerere per *Aa«-
sere si rapporta ad una rad. ghais diversa da quella cui appartiene il
vocabolo di cui si tratta. — pallente. Quest'epiteto mi par tutt'altro che
un semplice ornamento. Esso si adopera talora per indicare un verde che
inclina al cupo (cfr. Ed», V, 16: pallenti olivae; VI, 54: pallentis
herbas) e qui esprime appunto il. contrasto tra il verde cupo dell'edera
e quello vivo della vite, lo congetturo che questo lavoro in rilievo
dovesse essere dipinto al naturale, per dargli maggior risalto. —
40. in medio. La duplice ghirlanda, di vite e di edera, abbracciando la
tazza lascia libero uno spazio, una specie di scudo ove Tartista ha posto
due figure (duo signa). — Conon, distinto matematico ed astronomo,
nativo di Samo, vissuto ai tempi dei due Tolomei, Filadelfo .ed Evergete,
YBRGILI BVOOLIOA, m. 43
descrìpsit radio totum qui gentibus otbem,
tempora quae messor, quae caryns arator haberetP
necdum illis labra admovi, sed condita servo.
Damoetas.
Et nobis idem Alcimedon duo pocula fecit,
et molli circum est ansas amplexus acantho, 45
Orpheaque in medio posuit silvasque sequentes;
(283-222 ay. Gr^. Fu contemporaneo dì Arato e di Arohimede ed amico
di Callimaco. I suoi scritti andarono perduti. Vedine la menzione nel
carme Catulliano sulla chioma di Berenice (LXVI, 7 segg.). — et quis
futi alter. È verosimile che qui sia indicato Eudosso di Gnido, celebre
astronomo e matematico vissuto verso il 366 av. Cr., dei quale si dice
che insegnasse pel primo ai Oreci il movimento dei pianeti, iscrisse molte
opere, che non ci rimangono. Del resto invece di Eudosso si fanno altri
nomi, p^ ispiegare questo passo. Servio dice : stgnifioat autem aut
Aratum aut Ptoìomaeum aut Eudoxum^ riguardando erroneamente
Tolomeo come anteriore a Virgilio. — 41. raàiù è una verghetta
aguzza colla quale i matematici e gli astronomi segnavano figure nella
sabbia. Gfr. Cic, Tusc>^ V, 23, 64: numilem homunculum a pulvere et
radio exdtabo,» Archimedem. — 42. Si accennano opere d* indole
meteorotogica in relazione colla mietitura e coir aratura. Ed Eudosso
scrisse appunto TTcpl 6€<£»v Kai KÓa^ou koX Tdiv )yi€T€UjpoXoTOU)iévu)v. Si
osservi poi la mutata costruzione, per cui bisogna supplire : et definivit,
Cfr. Aen., 11, 2-5, e particolarmente V, 648 seg. : ardentisque notate
oculos, qui spiritus tm, | quis voltus 90cisque sonus vel gressus eunti.
Anche Tibull., II, 4, 17 seg. : nec refero solisque vias et qtMlis.,, | versis
luna recurrit eouis. — curvus arator^ perchò sta col corpo curvato
sul lavoro. Gfr. Plin., H, N.^ XVIII, 19, (49): Arator nisi incurvos praeva*
ricatur, — 48. Servio : hypallage est - pocula enim lahris adhi'
bemus ''f ut [Aen^ 111, 61]: dare classibus austros. Del resto cfr.
Teocr., IdyU., I, 59 seg. : oòbé xi ita irorl x^^0(; è|uiòv Oiycv, AXX' lx\
Kdxat I ftxpovTov.
45. molli non siniifica semplicemente « flessibile » come lenta al
T. 38 (cfr. Georg., IV, 123: fsooi... vimen acanthi, e 137 mollis... hya-
cinthi). Confrontando Quintil., XII, 10, 7, ove parlando di statue dice:
duriora.., Calion atque Hegesias, iatn minus rifida Calamis, mol^
li ora... Myron fecit, ed Oraz., che in A. P., 33, m cosa analoga dice:
mollis imitabitur aere capillos, credo che bisogni tradurre per morbido^
termine di statuaria con cui si designa cosa fatta con fine artifizio in
modo da parer molle e flessibile. Vedi del resto sopra al v. 38 cit. -^
circum, avverbio. -^ acantho, erba silvestre, in ital. comunemente detta
brancorsina. — .46. Cfr. riguardo ad Orfeo, che colla forza alletta-
trice del canto si trascina dietro gli alberi, Oraz., Od., I, 12, 7 segg.
Solla favola di Orfeo in genere ofr. Qeorg^ IV, 453-527, e Ovid., Mei.,
/
44 yBBGILI BYCOLIGA, IH.
necdum ìUìs labra admovi, sed condita servo :
si ad yitulam spectas, nihil est quod pocula laudes.
Menalcas.
Numquam hodie effugies ; veniam quocumque Yocaris.
audiat haec tantum... vel qui venit, ecce, Palaemon. 50
efficiam, posthac ne quemquam voce lacessas.
Damoetas.
Quin age, siquid habes; in me mora non erit uUa,
X, 1 segg. — 47. È ripetuto il v. 43, come avviene non di rado nei
carmi amebei. Gfr. sotto v. 104 e 106. Del resto Virgilio spesso ripete
interi versi con o senza alcuna mutazione. Nel primo caso, cfr. la mia
nota a Georg, ^ li, 472; pel secondo fa i seguenti riscontri: EcL^ 111, 87
con Aen.y Ix, 629; Georg. ^ I, 304 con Aen., IV, 418; Georg,^ II, 43 con
Aen., VI, 625; Georg, ^ II, 292 con Aen.^ IV, 445; Georg», 111, 233 segg. con
Aew., XII, 105 seg.; Georg.,, IV, 167 seg. con Aen., I, 434 seg.; Georg.,
IV, 171475 con A w.. Vili, 449453; Georg., IV, 338 con Aen., V, 826;
Georg., IV, 475-477 con Aen., VI, 306-308, ecc. — 48. Alcuni leg-
gono spectes senza Tappoggio dei migliori manoscritti. — La frase ad
aliquid spedare vale mtentis oculis aliquid intueri e quindi anche ali-
quid sibi adsequendum proponere. Cfr. Varr., R. i?., Ili, 6, 1: [pavones]
pauciores esse debent mares quam, feminae, si ad fructum spectes; si
ad delectationemy contra. Dameta vuol dire che Menalca non ha nessuna
ragione di magnificare le sue tazze, in paragone della giovenca, se vuole
addivenire alla scommessa. Gol che vuol dire che non i>uò accettare il
deposito di quelle, in luoffo d'un capo di bestiame, come il suo.
49. Menafca suppone cne Dameta alleghi dei pretesti per sottrarsi alla
gara, e delibera quindi di sottoporvisi a qualunque condizione, certo di
vincere. — numquam hodie effugies. Macrob., Sai,,, VI, 1, 38, confronta
questo passo con Nevio, Equ, Troi.: « numquam> hodie effugies, quin
mea manu moriare, imitato anche da Properz., II, 8^, 25 (ediz. L. Muiler):
Sed non effugies: m^ecum moriaris oportet. ^ numqtuim qui vale nullo
modo, nullo poeto, come in Aen., II, 670 : numquam omnes hodie tno-
riemur inulti, — veniam quocumque vocaris vale : < acconsento a tutto,
accetto qualsiasi condizione ». Si noti poi il futuro esatto vocaris che
indica un'azione che rispetto al veniam si concepisce come passata. —
50. Mentre Menaloa vuole indicare il nome di qualche pastore che debba
funger da giudice della scommessa, s'interrompe, essendosi presentato
Palemone, che egli sceglie a tale ufficio. — ecce. Questa particella di-
mostrativa, posta nel mezzo della proposizione^ dà maggior forza al con-
cetto che si vuole esprimere, e serve talora, come in Ecl., II, 46, a pre-
sentar come viva la cosa air immaginazione del lettore o delF uditore.
Quindi sta tra due virgole. Puoi tradurla con « vedilo ». Gfr. del resto
Teocr., Idyll.^ Vili, 25 seg.; V, 61 se^. — 61. voce lacessere vale ;
sfidare nel canto. Intendi dunque : « ti farò passar io la voglia di sfidare
gli altri in fatto di canto ».
62. Quin agCi si quid habes. Gfr. Teocr., Idyll., V, 78 : da Xér*, cT ti
VBRGILI BVCOLICA, IH. 45
nee quemquam fdgio; tantum, vicine Palaemon,
sensibus baec imis — res est non parva — reponas.
Palaemon.
Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba. 55
et nunc omnis ager, mine omnis parturit arbos,
nunc frondent sìlvae^ nunc formosìssimus annua,
incipe, Damoeta ; tu deinde sequere, Menalca.
altemis dicetìs: amant alterna Camenae.
Xétei^. Si noti poi la particella quin^ la quale dà forza maggiore ad age
col rompere bruscamente ogni rapporto fra il pensiero che precede e
quello cne se^ue. Riguardo a si quid habes, non y*è bisogno di supporre
che quid equivalga a quod o quidquid, pervia dell'indicati vo; equivale
a si quid habes^ quod oanas o anche si quid habes canere (cfr. Gic,
N. D., Ili, 39, 93. Haec fere dicere habui e il greco ^x*** clwelv). L'in-
dicativo è posto appunto perchè Dameta^ non senza un certo disprezzo,
fa mostra di credere alla valentia vantata dallavversario. •— in me mora
non erit^ cfr. Ter., Awdr., II, 5, 9; Ovid., Met.^ XI, 160 seg. Si dice anche
per me ecc. Cfr. Ter., Awdr., Ili, 4, 14; Sen., Thyest, 1022. — 63. Con
nec quemquam fugio Dameta risponde ai Numquam hodie effugies
(v. 49) di Menalca. — vicine Palaemon; Servio: benivolum reddit epo vi-
cinitatis Gommemoratione. Cfr. Ter., Heaut., li li 4 seg. vicinitas^ \ quod
ego in propinqua parte amidtiae puto, — 54. La frase imis sen-
sibus reponere significa « prestare profonda attenzione ». — res est non
parva: allude alla giovenca, che bisogna supporre sia da Dameta, nel
pronunziare tali parole, additata a Palemone, per fargli intendere che si
tratta d'una scommessa rilevante. Non si capirebbe di fatto, non essendo
stato Palemone presente al discorso tenuto prima dai due pastori, come
potesse poi dire al v. 109: et vitula tu dignus et hic.
55. Dicite sa canite. Cfr. Oraz., Od., l, 21, 1: Dianam tenerae dicite
virgines; inoltre Ecl, IV, 54; V, 2; 51; VI, 5; Vili, 5; X, 6; Georg.,
Ili, 6; Aen., VI, 644 ecc. — in molli.., herba. Cfr. Teocr., IdylL, VI,
45: èv |LiaXaK^...Tro((;i; -E'ci.,VII,45: somno mollior herba. — Ò^. par-
turit, Cfr. la mia nota a Georg., II, 330. — 57. nunc formosissimi^ an-
nus, siamo ora nella stagione più bella. Gfr^er questo significato di annus
Aen., VI, 311, frigidus annus, e Oraz., Épod., II, 29, unnus hibernits.
Quanto all'aggettivo formosus riferito a stagione, cfr. Ovid., Fast., IV,
129 : et formosa Venus formoso tempore digna est, — 58. Cfr. Teocr.,
IdylL, IX, 1 seg. — 59. altemis dicetis. Cfr. Teocr., Idyll., Vili,
61: raOra... òi' djLioipaiwv... fieiaav, ed ^b^., VII, 18: altemis .,. con-
tendere versibus. Quanto a dicetis vedi sopra al v. 55. — am^nt alterna
Camenae. Cfr. Om., //., I, 604: Mouoduiv e', at éleiòov d|a€ipó)yi€vai òttÌ
KaX^, e 0(£m., XXI V, 60: MoOaat ò'èvvéa iràcKii, d|Li€tpó|Li€vai òni KaXQ.
Cfr. anche Ecl., VII, 19. Per i carmi amebei in genere, vedi l'Argomento.
— Camenas, Questo vocabolo sta per ^Casmenae, *Qirmenae. È pa-
rola della stessa famiglia di Carmen (*casmen; cfr. il sanscr. gdsman).
46 TBRani bycolica, m.
Damoetas.
■
Ab love principìum, Muse: lovis omnia piena; 60
ille colit terras; illi mea carmina curae.
Menalo AS.
Et me Phoebns amat : Phoebo sua semper apnd me
Cfr. Varr., L. X., VII, 26 (2» ediz. Spengel) : Casmenarum primum vo-
cabuhdm ita natum ac scriptum est; aUbi Carmenae ab eadem origine
sunt decUnatae; più specialmente Feste, p. 67: antiqui dicebani cosmit-
fere prò committére et Casmenae prò Camenae. Sono ninfe appartenenti
airantichissima mitologia italica. Erano originariamente divinità delle
fonti. Anche posteriormente, q^uando furono trasformate, da una parte, in
divinità profetiche, dall'altra, in dee del canto e della poesia, si conservò
memoria della primitiva loro figurazione. Gfr. Servio, ad ÈcL, VII, 21:
secundum Varronem ipsae sunt nymphae quae et musae: [nam et in
aqtta consistere dicuntur, quae de fontibus manai, sicut eansiimaverunt
qui camenis fontem consecrarunt ; nam eis non vino, sed aqua et lode
sacrificari solet\. Del resto Tidentificazione delle Camenae colle Musae
dei Greci data dalle origini della poesia in Roma. Livio Andronico di
fatto traduceva cosi il primo verso deirOdissea: Yirum mihi, Cannena^
insece versutum (cfr. Geli., N. A., XVllI, 9, 5); e Nevio, nel suo fa-
moso epigramma, scriveva :,/2^6n^ divae Camenae Naemum poetam
(cfr. Geli., N. A., I, 24, 2). È falsa la grafia Camoenae.
60. Ab love principium, Servio ad Aen., IX, 621, spiega questa frase
con dire: omne initium et incrementum lovi debetur. Ma per la funzione
di Musae nel verso nostro egli si mostra incerto tra il gen. sing. e il vo-
cativo plur. A me pare indubitabile che si tratti d'un vocativo. Gfi^.
Teocv.^ Idyll,, XVII, 1: 'Ek Aiòq dpxibjjicaea, Kai è^ Aia X^y€T€ Motaai;
Ovid., Met.^ X, 148 seg. : Ab love Musa parens. -^ cedunt lovis
omnia regno — | carmina nostra move. Notisi per altro VAb love Mu-
sarum primordta, con cui Cicerone cominciava la sua versione dei
(t>aivó|Li6va di Arato (cfr. de Leg., II, 3, 7) da cui è realmente tratto il
pensiero di questo e del seg. verso: 'Ek Aiò( dpx(I»|ui€aea, t6v oòò^ttot*
Avbp€q èi2)|Li€v I dppriTOv* n^araì òé Aiò<; irfiaat juiév àyutat, | it&oai b'
dveptdiTUJv dYopal' |ui€OTf| bè edXaaaa, | kuì Xiiuéveq (vv.1-4^.— 61. colit
non ha qui il significato di frequentare, habitare, che si ha in Ecl., il,
62, ma bdnsì quello di curare (Servio spiega analogamente per amat).
Gfr. Georg,. I, 26: terrarumqi4e veUs curam. Di fatto Giove, nella sua
gualità di dio della pioggia, era anche il dio della fecondazione (dónde
i suoi epiteti di ahnus, frugifer, di Ruminus e di Pecunia)*, per il che
doveva avere sotto la sua protezione tutti coloro, come contadini e pa*
stori, che vivevano dei prodotti della terra, e quindi anche aver cura delle
loro canzoni {illi mea carmina curae, sottint. sunt).
62. Et me Phoebus ama^ Si noti che VEt non ha e non può avere
il significato di « anche ». È chiara Topposizione che instituisce Me-
nalca fra lui, affermandosi favorito di Apollo, e Dameta che vanta la
TERGILI JBVCOLICA, HI. 47
munera sunt, lauri et suave rubens hyacinthus.
Damobtàs.
Malo me Gfalatea petit, lasciva puella,
et fugit ad salices, et se cupit ante vìderi. 65
Menalcas.
At mihi sese offert ultro meas ignis Amyntas,
protezione di Giove. Al tempo di Virgilio, Apollo, divinità esclusivamente
greca, aveva assunto una grande importanza nel culto ufficiale romano,
non solamente per V indirizzo ellenizzante delFetà^ ma anche e partico-.
larmente perchè Ottaviano aveva per questo dio una predilezione perso-
nale. Egli, riuBendo neir Apollo Palatino tutte le attribuzioni degli Apollo,
che erano stati prima oggetto di culto, ed instituendo nuove feste in suo
onore, ne fece una divimtà pressoché di ugual grado a Giove. Si ag-
giunga che Apollo era essenzialmente un dio sapiente, il dio degli ora-
coli e della musica e perciò era il più indicato fra gli dèi per proteg-
gere i cultori della poesia e della musica pastorale. Anche Teocrito,
nell'Idillio V, v. 80 seg. fa dire a Gomata: xaì Mi&aai ine (piXeOvmroXù
TrXéov fj TÒv doibòv | Adcpviv; cui risponde Lacone, v. 82: xai T^p ?4*
'QiróXXiuv qpiXéei iiéfa. — stta^ a lui grati o dovuti. Gfr. per questo si-
gnificato di SU14S, Georg. t II, 393: ergo rite suum Baccho dicemus ho^
norem. In analogo significato = gratus et aptus è in Georg., IV, 22:
vere suo. Gfr. Servio a quest'ultimo passo. — 63. Il lauro ed il gia-
cinto sono grati ad Apollo, perchè in qxiello fu tramutata Dafne, da lui
teneramente amata (cfr. Ovid., Met, I, 452-567) ed in questo un do-
vane, pur chiamato Giacinto, che Apollo parimenti amava (cfr. Ovid.,
Met, A, 162-219). — suave rubens ritorna in Ed., IV, 43 (suave rur-
benti). Qui suave sta per suaviter^ come in Graz., Sat, l, 4, 76: suave
hcus voci resonat conclusus. Vedi ancora GatuU., LI, 5, e Graz., Oc?.,
I, 22, 23: dulce ridentem. Altri esempi di neutro sing. pet un avverbio:
Oraz., Od., II, 12, 14 seg.; 19, 6 seg.; Ili, 27, 67; Sat., I, 8, 41; II, 4, 18;
Sii. Ital., I, 398 ecc. Cfr. inoltre la nota sopra al v. 8. È poi notevole
in questo verso lo iato tra lauri ed et. Gfr. perciò la nota al v. 6.
64. malo da malum, pomo. Si sa che il pomo era sacro a Venere.
Quindi malo j^etere, m.atum, mittere, mala dissecta una comedere sono
frasi che designano dichiarazione d'amore. Traduci: « mi getta un
pomo ». Gfr. Teocr., Idull., V, 88 : pdXX€i xal ^dXoiai tòv aliróXov à
KXeapiara. — lasciva, cfr. Écl., II, 64. — 65. et se cupit ante videri,
intendi: antequam salicibus occultetur.
66. meus ignis, come diciam noi « la mia fiamma » per « Toggetlo
della mia fiamma o del mio amore ». Altrove il poeta usa ignis (Ed.,
V, 10; Georo., Ili, 244; 258; Aen., 1, 660, 688; IV, 2; VII, 355) e fiamma
(Aen^ l, 673 ecc.) per l'amore stesso. Del resto troviamo in un signi-
ficato analogo a quello che ha i^nis in questo verso cura e furor.
Gfr. Ed., X, 22: tua cura Lycons {ofv. Ed., 1, 57: raucae^ tua cura,
palumbes), e 37 seg. : sive esset Amyntas \ seu quicumque furor. —
VEROIU BYCOLICA, DI.
notìoF ut ism sit canìbna non Delia nostrit
Damobtas.
Parta meae Veneri sunt munera: namque
ipse loeuni, aeriae quo eongeesere palumbe
Menalcas.
Quod potai, puero silvestri ex arbore lecta
67. ut, consecutivo ^^ ita ut. — H b
venirmi spesso a trovare, è ormai oonoL _
Delia. Quanto a questo nome eoa! scrive Servio: Delia
priorem vohtnt, alti Dianam, quae est a Deh et e
per quQS venamur, quasi d^a venationis. La primi
avrebbe fondamento sull'uso, spesso indicato dai poeti,
che vanno a trovare l'oggetto del loro amore. Cfr, i
Nerine Galalea... { si qua tui Corvdonis habet le cure
II, 5, 35 eeg.: illa joepe gregis aiti plaeitura magis\
festatt vecia puella die; Ovid., Amor., I, 5, 9: ecce G
nica velata recineta. La seconda invece sarebbe fondai
Diana (Delia dall' isola di Delo ove sarebbe nata Art
dai Latini colla loro Diana, dea della luna, divinità fem
dente a lanus =^*I>ianus secondo il Preller) erano sacT
che al principio dell'ecloga {w. 3 e 4) Menalca dichia;
Preferisco la prima intorpretaìione. Menalca, prima di ^
68. meae Veneri ; noi diremmo : < alla mia bella
caso è Qalatea (v. 64). Cfr. Lucr., IV, 1177: nec Ven
fìiUit. — parta... sunt munera, son preparati i doni, i
con Teocr., Idi/ll., V, 90 aeg. — 69, ipse, di mia
dei segni nell'altiero. Cfr. per questo significato. di (psi
XII, 90. Qualche volta Virgilio usa ipse manu. Cfr.
IV, 389; Aen., II, 320 seg.; 645; III, 372; V, 24t; 49
XI, 74. — aeriae... palumbes. L'epiteto è qui assai sigi
equivalendo ad in alio nidi/icantes, indica la difficolta
qpcresce pregio al dono. Cfr. un pensiero analogo in
resto cfr. Lucr., I, 12 e V, ^2: aeriae ~- volueres;
aeriae ... grues ; Ovid., Etc Pont., Ili, 3, 19; aeriae.
Quanto alla forma palumbes cfr. Ed., I, 57. — con^*
lutamenle per nidum congessere. L'oggetto sottinteso s
mento rilevare dal contesto, come quando si usa ducere,
traicere, trammitiere (sotlint. eaercitum), conscendere
fiectere {iter), suslinere (hosies), ad contion^rt advocar
ferre (rem), ecc. Cfr. Draeger, Hist. Synt., I», p. 400 se
70. Menalca prende vantaggio su Dameta dicendo che
im presente al siovane da lui amato, mentre Dameta n
fatto alla sua Galatea. — quod poiui mostra la pena a
per procurarsi gli aurea mala (cfr. verso seg.). Del resto
VERGILI BVCOLIOA, III. 49
aurea mala decem misi; cras altera mittam.
Damoetas.
quotiens et quae nobis Galatea locuta est!
partem aliquam, venti, divum referatis ad aures!
Mbnalcas.
Quid prodest, quod me ipse animo non spernis, Amynta,
si, dam tu sectaris apros, ego retia servo? 75
quantum potui. Gfr. Ovid., H&roid., VIII, 5, quodpotui, renui, ne non
invita tenerer; id., Remed. amor., 167: quod potuit,,ne nil ilHc ageretur,
amamt ecc. — piiero. Aminta (cfr, v. 66). — 71. Si è fatto que-
stione se Fepiteto aurea riferito a mala designi qui una speciale qualità
di mele, come cotogne (cfr. Ecl., II, 51) o granate (mala punica)^ o
arance o anche cedri. Ma bisogna anzi tutto aver presente li silvestri
ex arbore lecta del v. prec, che esclude i frutti di giardino, ed il quod
potui che indica la difficoltà delP acquisto per Taltezza della pianta. .
Sembra quindi potersi concludere che aurea eqiiivale a pulcherrima.
Teocrito, Idyll., Ili, 10 (evidentemente qui imitato da Virgilio) ha:
^v(Ò€ Toi òéxa jidXa qp^pui, senza epiteto qualificativo di ^dXa; e Properz.,
imitando a sua volta Virgilio, III, 32 [d4], 69 ediz. L. MùUer: utque
i decem possint corrumpere mala puellas. Si tratta adunque di mele co-
muni. — misi=s donavi, Gfr. Terenz.^ Phorm.^ 1, 1, ÌQipuer causa erit
' mittundb. — altera vale qui € altrettante »; sta cioè per totidem altera
usato da Oraz., Epist., I, 6, 34.
f 72. quotiens. Gfr. il mio Trattato dell'Ortogr. lat., pag. 23 seg. Del
resto i codici migliori di Virgilio danno costantemente quotiens e totiens.
Gfr. Georg. ^ I, 471 ecc. — 73 Assai bene spiega Servio : tto, mg^wt^,
mecum duìce locuta est Oalatea^ ut deorum auditu eius diana sint
verba, È inaccettabile Tinterpretazione, secondo cui Dameta si lamente-
rebbe qui dell'infedeltà di Galatea, delle cui dolci promesse d'amore vor-
I rebbe che partem aliquam (cioè exiguam, quamvts eanguam; cfr. EcL,
n, 71) portassero i venti agli dei perchè punissero la spergiura; giacché
da tutto il contesto non, si può deaurre a carico di Galatea che un pò* di
civetteria (cfr. v. 65). È preferibile a questa l'ipotesi che i venti por-
tino alle orecchie degli dei le parole di Galatea, perchè essi, testimoni
delle sue promesse, la mantengano fedele all'amante.
74, 75. Menalca si duole perchè Aminta, sebbene corrisponda al suo
amore, tuttavia non rimane con lui quanto vorrebbe. — ipse fa spiccar
meglio il contrasto fra l'amore corrisposto di Menalca, espresso da Tne...
animo non spernis, e le frequenti assenze dell'oggetto amato indicate
da tutto il V. 75. — animo non spernis^ litote per amore prosequeris.
— ego retia servo. Solevano gli antichi circondare di una grande rete
un largo tratto di terreno nei boschi, prima di stanare il selvaggiume,
per impedirgli di salvarsi nell'aperto, formando cosi una specie di recinto
Stìwmpim, VergiL Bucol, 4
50 vergili bvcolica, ih.
Damoetas.
Phyllida mitte mihi: meus est natalis, lolla;
cum faciam vitula prò frugibus, ipso venito.
Menalcas.
Phyllida amo ante alias: nana me discedere flevit,
et longum « formose, vale, vale », inquit, « lolla».
chiuso, entro il quale i cani lo potessero cacciare e si potesse più facil-
mente prendere. Occorreva pertanto che, durante Tinseguimento, qual-
cuno rimanesse a guardia della rete perchè nessun animale la rompesse.
Ciò è qui indicato dal verbo servo = observo^ custodia^ sul qual signi-
ficato cfr. Ed., V, 12; Georg., I, 335; Aen., V, 25. Del resto era una
Srova d'amore al giovane cacciatore il guardarne o portarne le reti,
ifr. TibulL, I, 4, 49 seg.: nec, velit insidiis alias si claudere vai-
les, I dum placeas, umeri retta ferre negent; IV, 3, 11 seg. : ut tecum
Uceat... vagarti | ipsa ego per montes retta torta feram ; Ovid., Ars am.,
II, 189: saepe tulit lusso fallacia retia collo.
76. Da meta prende a canzonare il suo rivale lolla (intorno al quale
vedi sotto la nota al v. 79), invitandolo a mandargli la sua Fillide, vo-
lendo con lei festeggiare il suo di natalizio (natalis, sottint. dies). Quanto
al nome della pastorella cfr. Ecl., V, 10 e VII, 59. — 77. Si accen-
nano le feste dette AmharvaUa (cir. Georg., I, 339 segg. ove vedi le
mie note). Qui è da notarsi in particolar modo il s^^uente passo di Feste in
Macrob. Sat, III, 5, 7 (cfr. Paul. Diac. Excerpta in Fest. ediz. 0. MùUer, p. 5)
Ambarvalis hostia est, quae rei divinae causa circum arva ducitur db
his qui prò frugibus faciunt. \\ verbo facere in poesia e talora
anche in prosa è adoperato assolutamente, come il greco ^pòeiv o ^é2l€iv
ed il latino operari (cfr. la nota a Georg., I, 339), xar' ègoxnv per sacra
facere. Cfr. Plaut., Stich.,l,3,9d: quot agnis fecerat?; Gic, ad Att.,l,
13, 3: cum apud CJaesarem prò populo fieret (in Gic, ad Brut.^ I, 15,
8, invece di facere leggesi in parecchi codici sacri ficium facere); TibalL,
IV, 6, 14: ter tibi fit libo, ter, dea casta, mero; CoXxxva., II, 21 (22), 4:
nec oves tendere, nisi si catulo feceris. Conseguentemente vitula deve
considerarsi come ablativo di strumento (cfr. agnis, libo, mero, catulo,
nei passi testé citati).
78, 79. Si è molto disputato sul senso da darsi a questi due versi.
Sì sono fatte parecchie ipotesi. 1^ ipotesi: Menalca prende le parti di
lolla e per difenderlo e rispondere a Dameta, si trasforma, per così dire,
in lolla e parla come se fosse personalmente attaccato. Tal modo di di-
fesa è, a vero dire, molto strano, né d'altra parte abbastanza si capisce
il perché della difesa che Menalca fa di lolla, non essendo sufficiente a
spiegarlo la legge dei carmi amebei. 2" ipotesi: Menalca vuol contrastare
a Dameta Tamore di Fillide e beffarsi di lolla più che non abbia fatto
Dameta. Dice adunque d'essere innamorato di Fillide e di esseme corri-
sposto, tanto che essa pianse al suo partire e diede a lolla un ironico
saluto. Anche qui non si capisce che nesso possa esservi tra il dolore
vergili bucolica, ih. 51
Damoetas.
Triste lupus stabulis, maturis frugibus ìmbres, 80
le Fillide dimostra al partir di Menalca e il beffardo salato che rivolge
loUa (naturalmente in questa ipotesi l'ironia riposerebbe tutta su for-
che
a
mo5«). Questo piangere uiia persona e beffarsi ad un tempo di un'altra
mi par molto inverosimile. 3" ipotesi : 11 vocativo lolla non appartiene
a CIÒ che dice Fillide, ma deve esser messo in bocca a Menalca. Quindi
si dovrebbe intender così : « Più d'ogni altra io amo Fillide, perchè essa
pianse alla mia partenza dicendomi : ' addio, mio bel pastore, addìo *. Lo
intendi, o lolla? ». A me pare che in questo modo non s'interpreta, ma
8Ì stiracchia il concetto che il poeta ha voluto esprimere. 4^ ipotesi. E
quella di Servio, di cui cito le parole : hic postar aut habuit duo nomina,
nam supra eum Menalcam aixit: aut certe lollam eum quasi pasto-
rem optimum appellavit a quodam pastore nobilissimo^ sicut virum>
fortem plerumque Achillem, adulterum, Par in vocamus. A me
pare che questa sia ripotesi più semplice e ^iù naturale: l'addio ripe-
tuto che dà la mesta Fillide al suo amante si accorderebbe assai bene
col pianto che ella versa. Con auesta ipotesi inoltre si accordano pa-
recchie delle interpretazioni date ai longum,. Lo si è considerato da alcuni
come aggettivo riferito a vale sostantivamente usato {longum, vale =
vale miserabili voce aique in longum ducta pronuntiatum) : altri fanno di
longum un aggettivo neutro usato a guisa di avverbio e da riferirsi ad
inquit nel significato di diu (altri di Jonge, altri di magna voce): altri
vedono un longum vale = iiaxpà x^^^P^^v « addio per molto tempo », la
quale spiegazione però sarebbe solo accettabile nel caso che si volesse
vedere in questi versi un contenuto ironico. Io credo che il meglio sia
ritenere longum come equivalente a magna voce. Gfr. Oraz., Ar. Poet.,
459 seg.: « Succurrite » longum clamet € Io cives »; Omer., II., Ili, 81 :
Maxpòv dOoev fivaE àvòpoiv ATainéjivujv. — L'ultima sillaba del secondo
vale è breve e non si elide davanti ad inquit. Quest'abbreviamento è un
effetto normale della così detta legge delle parole giambiche. Si è osser-
vato che in una parola di più d'una sillaba la voce si appoggia di pre-
ferenza sulla sillaba iniziale; quindi, quando cotesta iniziale più intensa
era uxia breve, e la sillaba più debole, che la se^iva, era una lunga,
come avviene in parole giambiche, p. e. vale, volò ecc. o comincianti
con un gruppo giambico, volùptatum, si verificava nel latino una ten-
denza a ristabilre l'equilibrio coir abbreviamento della lunga; quindi
vate, volo ecc. (Questa legge però ha la sua maggiore applicazione nella
poesia comica, in Plauto ea in Terenzio. Gfr. Ed., VI, 44: « Hf^lìì,
Eyla"» omne sonarci; Ovid., Met, III, bOi: dictoque vale ^ vale! i>
inquit et Echo. Quanto allo iato cfr. Ecl.^ II, 53.
80. triste lupus. Cfr. Om., II., II, 204: oùk àTa6òv iroXuKOipavdi.
Similmente Aen., IV, 569 seg.: varium, et mutabile semper \ femina;
Ovid., Am,., I, 9, 4: turpe ^senex m,iles, turpe senilis amor. Vedi sotto
alv. 82: Dulcesatis umor.È un costrutto impropriamente chiamato gre-
cismo. Il neutro si spiega naturalmente per esser riferito ad un'idea
astratta, né qui lupus e sotto umor altro sono che termini astratti. Si
noti poi triste =i noxium. Cfr. Oraz., Od., Il, 13, 11: triste lignum. —
-^- -^
52 VERGILI BUCOLICA, IIL
arborìbus venti, nobìs Amaryllidis ìrae.
Menalcas.
Dulce satis umor, depulsis arbutus haedìs,
lenta salìx feto pecorì, mihì solus Amyntas.
Damoetas.
PoUio amat nostrani, quamvis est rustica, musam:
maturis frugibus imbres. Gfr. Georg.^ I, 313 segg.; Plin., E. iV., XVIII,
17, (44), 152: maturescentia frumenta imbre laeduntur et hordeum
magis. Del resto cfr. questo e il v. seg. con Teocr., IdylL^ Vili, 57-59:
òévbpcai |Lièv xciM^v cpoPepòv kokóv, i^haox 6* aùxMÓ^, | òpviaiv ò*
dairXaYS, àYpOTépoi<; òè Xiva • | dvbpl Òè irapeevixél^ àiraXfilq iróBo^. —
81. arboribus venti, specialmente l'austro, gr. vóxog; cfr. Ed., II, 58
seg.; oppure Teuro; cfr. Georg., I, 453. — Amaryllidis trae. Gfr. la
nota ad EcL, II, 14.
83. dulce satis umor. Gfr. la nota al v. 80. Scrivo umor senza Vh (rad.
ug: umor da *u^-mor; cfr. il greco ùy-pó?). La forma senz*^ è data dai mi-
gliori codici. Similmente scrivi umere, umiduSy uvidus, udus ecc. Pel
senso della frase cfr. Georg., I, 100 e 157. — depulsis... haedis, spop-
pati, divezzati. Qui il verbo depellere è usato assolutamente in taf si-
gnificato: diversamente EcL, VII, 15: depulsos a lacte... agnos; Georg.,
Ili, 187: depulsus ab ubere matris. Orazio, Od., IV, 4, 14 seg.: fonde
insieme oneste due frasi : matris ab ubere \ iam, lacte depulsum. leonem.
Vedi ancne Varr., R. R., II, 2, 17: cum depulsi sunt agni a matribus.
— arbutus, pianta grata alle capre. Gfr. Georg., Ili, 300 seg.; Oraz.,
Od., I, 17, 5 segg. — 83. Quanto ai salici che offron cibo gradito
alle capre, cfr. Ed., I, 77 seg. Per l'agg. lentus = flexibilis cfr. sopra
la nota al v. 38, e specialmente ad Ed., I, 25. — solus. Gfr. Teocr.,
Idyll., IV, 38 seg.: iiióvac; oéOcv oùbè Oavoiaac; I Xaoeùimecre'.
84. Pollio. Vedi intorno a questo personagjgio l'Introduzione. Secondo la
regola data da Lachmann, Comm. in Lucr., p. 32 seg., che è post longam
e auabus 1 alterarne subtrahi, si sequatur i littera, nisi ea casualis sii,
dovremmo scrivere Polio. IS» di fatto Servio al v. 86 avverte: sane alti
legunt Polio, ut prima producatur, alii Pollio. La prima forma
ha pure la sanzione di molti codici ed è preferita dai Greci (cfr. Lach-
mann p. 33) : ma io ho voluto attenermi all'autorità dei codici Romano
e Gudiano ed all'uso pur attestato da Servio. — quamvis est. Propria-
mente aspetteremmo quamquam. Il quamvis col? indicativo, in quanto
esprime una concessione riconoscendo in pari tempo la realtà del pen-
siero espresso, non è quasi mai usato nella prosa classica: manca asso-
lutamente in Gicerone (il passo dell'oraz. prò G. Rab, Post. 2, 4 quamvis
patrem suum numquam viderat è mal sicuro. Di fatto il Klotz ha so-
stituito senz'altro il qtmmquam. Gfr. Gor. Nep., Milt., 2, 3: quamvis
carebat nomine; Att., 20, 1: Quam^vis ... numquam... litteras misit; e
Liv., II, 40, 7 : quam,vis infesto animo et minaci perveneras. Si trova
VERGILI BVCOLICA, HI. 53
Pierides, vitulam lectori pascite vestro. 85
Mbnalcàs.
Pollio et ìpse facit nova carmina: pascite taurum,
spesso invece in poesia e nella prosa postdassica (in Valerio Massimo,
in Petronio, in ^neca il filosofo, in Gelso^ in Golumella ecc.; manca
invece in Velleio, in Curzio, in Tacito, in Plinio il giovane, in Sve-
tonio ecc.). Cfr. Aen., V, 542; VII, 492; Graz., Od., 1, 28, li; 111. 7,
25; 10, 13; Sat, I, 3, 129; II, 2, 29; 5, 15; Èpist, I, 14, 6 ecc. —
85. Pierides sono le Muse, cosi chiamate dalla Fieria, paese posto fra
la Tessalia e la Macedonia e ristretto fra le regioni delFOlimpo e TA-
lìacmone, i cui abitanti, Traci di origine, sono celebri nella antichissima
storia della poesia e della musica greca. — vitulam,., pascite, fate cre-
scere una vitella, perch^io la immoli per la salute di Pollione (lectori ve-
stro). Cfr. Graz., Épist., I, 3, 36: pascitur in vestrum reditum votiva
iuvenca. E perchè Pollione è detto Pieridum lectori L*interpretazione
più plausibile è che Pollione sia indicato dal poeta come chi soleva leg-
gere i versi, che le Muse gl'inspiravano, a scelta adunanza di persone.
Sappiamo di fatto che egli fu il primo ad introdurre le pubbliche reci-
tazioni. Cfr. Sen., Controì)., lW,praef.,2: primus enim omnium Roma-
norum advocatis hominibus scripta sita recitavit [Pollio]. Fu però giu-
stamente osservato che quest' idea è molto poco adatta al costume dei
pastori che né scrivono irò leggono i loro carmi. Abbiamo perciò una so-
vrapposizione di elementi affatto cittadineschi e propri di classi erudite
e Qolte ad elementi propri della vita pastorale semplice ed incolta. Ed è
qpesta una delle più spiccate caratteristiche della poesia pastorale vir-
giliana.
86. PolUo,^ facit nova carmina. Servio spiega nova per magnarmi'
randa. Per appoggiare questa spiegazione alcuni confrontano Toraziano
fidibus novis (Od., 1, 26, 10); ma a me pare che l'espressione oraziana,
ec[uivalente a fidibus a nullo Romanorum antea pulsatis, s'accorderebbe
piuttosto colFidea della novità del genere poetico che altri vorrebbe ve-
dere espresso da nova. Ma quale sarebbe u nuovo genere di poesia in-
trodotto da Pollione? Non certo la tragedia, già vecchia per i Roniani.
Anzi dove Virgilio esplicitamente ricorda gli scritti tragici di Pollione,
Ecl., Vili, 9 seg., dice solo : Uceat totum mihi ferre per orbem \ sola
Sophocleo tua carmina digna cothumo. A meno che si voglia ammet-
tere, senza provarla, l'ipotesi che Pollione abbia dato un indirizzo
nuovo alla tragedia, discostandosi da quella troppo stretta e manifesta
imitazione dei Greci che si notava in Ennio, Pacuvio ed Accio. Altri
suppose che si voglia alludere ad una nuova scuola poetica protetta
da Pollione, di cui furono principali rappresentanti Virgilio ed Orazio,
e che aveva l'intento di combattere gli adoratori ed imitatori della poesia
antica. Falso, perchè da una parte quella scuola non si accentua vera-
mente se non più tardi dell'età in cui cade ^est'Ecloga (è Tanno forse
della battaglia di Filippi), e dall' altra Pollione deve; essere invece ri-
guardato come uno dei superstiti della vecchia scuola, come dimostrò
combattendo nell'eloquenza la maniera ciceroniana (cfr. Quint.y XII, 1,
22), tanto che a nitore et iucunditate Ciceronis ita longe abest, ut vi-
TERGILI BTCOLICA, HI.
m cornu petat et pedibas qui epargat harenam.
Ili te, Follio, amat, veniat qao te quoque gaudet ;
ella fluant ìlli, ferat et rubus asper amomum.
Menalcas.
ai Bavium non odit, amet tua carmina, Mevi, 90
'Ossit saeculo prior. È preferibile dunque rinterpretasione
io. — taurum per contrappoaizione a vitulam (v, prec.). —
■so adatto a questo luogo, perchè porta una amplificazione all'idea
i da taurum, che fa meglio apiccare il suo coatrapporai a vita-
ripetuto in Aen., IX, 629. Vedi a talpropoaito la nota sopra al
— narenam. Ho seguito l'ortografia dei piìi autorevoli codici, aeì>
ì non abbia neeeun fondamento etimologico, precisamente come
leniat qw> te quoque gaudet aottint. pervenisse. Quest'augurio si
} all'eccellenza poetica, che è l'alto scopo raggiunto da PoUione.
> è dunque; «possa chi ti ama, o PolUone, conseguire quella
eccellenza che si compiace di veder da te raggiunta ». —
ssto verao contiene un altro augurio. Si augura una vita qual era
Jeli'oro- — mella fluant. Cfr. Sci., IV, 30. — rubua asper. Cfr.
Ili, 315: horrentisque rubos, per via delle sue molte spine. —
m (Cfr. Ed., IV, 25) è un frutice di cui i dotti non hanno sa-
n dichiarar la natura. Me parla tra gli altri Plinio. Cfr. H. N.,
, (28): Amami uva in usa est em indica vile labrusca, ut alii
avere, e fì^tice montuoso... nascitur et in Armeniae parte quoe
' Otene et in Media et in Ponto. Se ne traeva un unguento prO'
no. Ma qui il vocabolo designa in generale ousliinque grato aroma,
a consuetudine del poeta di designare talora un genere di c~ ~
le di a ' " '■ '
IO e '
^lla poesia di Pollione, che deve servire di modello a chi vuol
re all'eccellenza da lui conseguita, il poeta contrappone i versi di
I di Me vie, coir apprezzar i quali ai mostra d'esser deatituìtt di
Lon gusto. Furono queati due poeti detti «essimi da Servio a questo
inimici tam Boratio quam Vergilio. Parimente Filargirio: duos
■poris poetai dicii pessimos, quorum carminci ob humilitalem
sunt. Si vede però che Mevio era dal poeta ancor pili diaprez-
Bavio, ae all'ammiratore di questo augura per castigo di amar
Cfr. Oraz., M^od., 10, 1 eeg.: Male soluta navis eait alile, | fe-
enlem lievium, al qual paaao nota Porfirione: Eie esl Mevtus
■"•■""■"'■« poeta ecc. Cfr. ancora Serv., ad Ecl., VII, 21 e Georg.,
TEROIU 6TC0LICA, IH. 55
atque idem iungat vulpes et mulgeat hircos.
Dahobtas.
Qui legitìs flores et humi nascentia fraga,
frigidus, paeri, fiigite bine, latet anguis in herba.
Menalcas.
Farcite, oves, nimium procedere: non bene ripae
ereditar; ipso aries etìam nane veliera siccat. 95
I, 210. Del resto ho adottato Tortografia Mevius e non Maevius^ perchè
data dai codice Romano e Gadiano, da <][aattro almeno dei più antichi
codici di Orazio (luogo cit.) e da molte iscrizioni (cfr. G. 1. L., 1, 910;
1192; 1276 ecc. — 91. È un contrapposto al v. 89. 11 verso contiene due
espressioni proverbiali che designano un'impresa che per la sua assurdità
deve necessariamente avere un'infelice riuscita. — atqiie idem è Titaliano
€ e insieme, e nel medesimo tempo » che si adopera, come anche solamente
idem^ spesso ed elegantemente in prosa, in luogo della semplice copula
del non classico simula et simula per unire due attributi o predicati
di natura differente che si riferiscono alla stessa persona o cosa. Gfr. Gic.
Orat^f 7, 22; de Orat.^ Ili, 44, 174. ecc. — iungat., sottint. aratro o
currui, Gfr. Ecl, Vili, 27.
92. Dameta passa nell* improvvisazione ad un ordine di idee che non
ha più connessione con quello che è detto prima. Questo passare da una
idea ad un'altra, senza tener conto dei nessi, è caratteristica nei carmi
amebei. — 93. frigidus,., anguis, Gfr. Ed, Vili, 71; Teoer., IdylL,
XV, 58: tpuxpòv ócpiv.
94, 95. parcite... procedere = cavete ne procedatis ; nolite procedere;
ne jarocesseritis ; espressione poetica come il fuge quaerere di Oraz., Od.,
I» 9, 13 (cfr. Tibull., I, 4, 9: fuge,,. credere). Vedi Aen., Ili, 42: parce.,,
scelerare manus; Oraz., Od., I, 28, 23-25: ne parce.., dare; 111, 8, 26:
parce.., nimium cavere. Quest'espressione penetrò anche nella prosa con
Livio. Gfr. XXXIV, 32 in fin.: parce, sis, fidem oc iura societatis
iactare. Del verbo parco coll'inf. si trova un solo esempio nell'antico la*
tino. Gat., R. R., 1, 1: neve opera tua parcas visere. In simil guisa
adoperano i Greci il verbo (p€iSo|Liai. — non bene ripae | creditur. Senso:
« la ripa è pericolosa, non bisogna fidarsene ». Gfr. Oraz., Sai., II, 4, 20
seg.: pratensibus optima fungis \ natura est; aliis male creditur. —
wse aries etiam nunc veliera siccat, « il montone stesso, che è più pru-
dente, come capo del gregge, per manco di cautela non ha ancor ora
asciutto il suo vello ». Si noti la forza di ipse che fa spiccare meglio il
contrapposto.
VERGILI BVCOLICA, HI.
Tityre, pascentes a flumÌDe reice capellas:
ipso, nbi tempus erit, omnia in fonte lavabo.
Gogite oves, pueri; si lac praeceperìt aeatus,
nt nuper, frustra pressabimus ubera palmia.
Damoetas.
Heu ben, quam pingui macer est mihi tanrus in ervoi 100
1, 97. Cfr. Teocr., V, 145 seg.: alf^t ^MOl SapaelTE KEpouKlbc^ - o0-
OjJLie I nStaa^ Ifih XùvaOi ZuPapÌTiboi; IvboGi Kpdva;. — QuEtolo al
B Tiiure cfr. Ecl., I, 1. — pascenies. Cfr. la nota ad Ecl., IV, 45.
nce di due sillabe = reiice = 'rejice. Abbiamo qui uà fenomeno non
quente nella lingua latina, di due vocalL, primitivamente diriae da
e, dopo il dileguo di questo, ai congiunsero per sinlzeai oppure ai
ressero in una vocale lunga, come in blgae ^^ 'bijigae, cuncti ^^
meli. Né altrimenti ai spiega il fatto di huius, cuius, eius usati ta-
in poesia con valore metrico di monoaiUal)!. Vedi ancora reieit
sinizesì in Staz.. Theb., IV, 574, ed eicit in Lucr., IH, 875 e IV, 1264.
ilarmente dunqne reice dovrehb' essere trisillabo: la presenza d'uD
1 non è del resto altro che un semplice fatto ortografico e regolare.
eoìcio, deicio, proido, traicio e a tal riguardo il mio Trattato del-
. lat., pag. 32. — erii ha l'ultima sìllaba resa lunga dall'arsi che
iide colla cesura principale del verso. Cfr. la nota ad Ed., I, 38.
1. cogite^ compite ad umbram captandam. — si lac praeceperìt
ts. Abbiamo qui il verbo praecipio quasi nel suo significeto orij^-
) di ante capere, praeocaupare. Cfr. Lucr., VI, 1047, seg. : prius
ts ubi aerii \praecepit ferrique vias possedit apertas; Cea.,B. C,
H, 2: abpuotieanis suae provìnciae debitam biennii pecuniam e»e-
t et ab isdem iruequentis anni muluam praeceperat. Traduci
il calore colpirìi loro il latte ».
IO. Sebbene il codice Romano dia amo, tuttavia e per la testimo-
za di altri codici e per il senso devesi leggere erwi. Di fatto nulla
.rano vi sarebbe che ai trovasse un toro magro a lavorare in un fer-
campo; ma invece è spiccatissimo il contrasto cbe sì presenta, pen-
tì ad un toro che è magro in mezzo ad un'abbondante pastura, eoo-
che risalta anche nello etesso ordine delle parole per cui si bod
Mtate le' voci pingui e macer. — ervum e una pianta leguminosa
1 dai Greci Opo^o; che sì dava con certe precauzioni come cibo ai
. Cfr. Plin., XVIII, 15, <38) e Colum., II, 10, 31 [H, UJ; Plaut.,
t., I, J, 59. Naturalmente qui il vocabolo designa qualunque obo adatto
QÌmale di cui sì tratta. È una sineddoche non infrequente nei poeti,
VERGILI BVCOLICA, IH. 57
idem amor exitium pecori pecorisque magìstro.
Menalcas.
Hìs certo neque amor caasa est; vìi ossi bus haerent.
nescio quis teneros oculas mihi fascinai agnos.
Gfr. sopra al v. 89. Del resto cfr. Teocr., Idyll,, IV, 20: XeuTÒc imiv
Xiii ToOpoi; ó Ttù^^ixo(;. — 101. pecorisque magìstro. Gfr. Ecl.^ Il, 33,
omumque tnagistros, ove vedi la nota. Il senso e: € queiramorosa cura,
che rende magro il pastore, è pur causa di magrezza al bestiame da lui
trascurato per effetto del suo stato d^animo ».
102. His = meis^ sottint. agnis. -— causa sottint. maciei. — Si è fatta
questione sul neque di questo verso pel significato che gli si deve attri-
boire. Certo non può, restando il verso cosi come Tho dato, avere il suo or-
dinario significato. Bisognerebbe altrimenti ricorrere ad una già vecchia
congettura, che cioè si dovesse leggere: Hi certe {neque amor causa est)
nix ossibus ?iaerent; la quale congettura riposa su un abbaglio preso
da Elio Donato, che in Ter., Eun., II, 2, 38, ritiene VHis virgiliano
come una forma di nom. plur. Parimenti bisognerebbe accettare un'altra
confettura non meno improbabile che sarebbe: Agnis meis neque pa-
bulum neque amor causa est. È duopo adunque ammettere neque
»= ne.,, quidem, sebbene ciò non piaccia al Madvig e al Draeger, secondo
il quale ancora il verso non avrebbe senso. Che fl neque ed il nec in
Cicerone già abbiano talora il significato di ne... quidem è cosa che non
si può negare da chi non voglia mutare i codici per servire ai proprii
preconcetti; cfr. Draeger, Hist. Synt.^ IP, p. 72; inoltre ne abbiamo un
esempio in Oraz., Sat.^ II, 3, 262, dove io con tre dei più antichi ed au-
torevoli codici, col Ritter e col Holder leggo nec nunc che corrisponde
al Terenziano ne nunc quidem (Eun., 1, 1, 1) ed è il ^T^òè vOv dei Greci.
Di fatto il passo Oraziano nec nunc, cum ms vocat ultro^ accedam,?
corrisponde a capello al citato di Terenzio : non eam ? ne nunc quidem |
quom arcessor ultroì Del resto anche parecchi esempi di nec e neque
= ne... quidem si trovano in Livio e ne' prosatori posteriori. Adunque,
per provvedere al senso e per non alterare i codici, o bisogna ammettere
questo significato o ritenere, ciò che non credo, che Virgilio, perchè aman-
tissimus vetustatis (Quintil., I, 7, 18), abbia usato neque nel significato
della semplice negazione = non, che già è scomparso in Terenzio e non
ricompare più negli altri scrittori posteriori. — vico ossibus haerent.
Serv.: vix ossa eorum cohaerent. -^ 108. Si indica qui una delle
superstizioni più antiche, più tenaci, più universalmente diffuse e ancor
viva oggi sotto il nome di malocchio, che consiste nelFinfluenza magica
e funesta esercitata, volontariamente o inscientemente, mediante lo sguardo
colla parola (cfr. Ed., VII, 28; Gatulh, VII, 12 ecc.), da una persona
da un animale o da uno spirito sopra persone, animali o cose inani-
mate (cfr. J. Tuchmann, La Fascination in Malusine, Tom. II, p. 170
segg. ; Arditi, Il Fascino e l'amuleto contro del Fascino presso gli an-
tichi, Napoli, 1825, e il lavoro capitale del lahn, Ueber den Abergtauben
des Bosen Blichs bei den Alien, nelle pubblicazioni della R. Accademia
delle Scienze di Lipsia, class, fil. storie, voi. VII, 18K, pagg. 28-110 con
58 TBBQILI BYGOLICA, m.
Damobtas.
Die, quibus in terris — et eris mihi magnus Apollo —
tris pateat CAELI spatium non amplius ulnas. 105
5 tavole). Era ed è niente altro che una conseguenza della tendenza, che
hanno i popoli toyzì ed incolti, di attribuire ad influenze sovrannaturali
le cause di quei mali di cui non si possono scoprire le vere caconi.
Di qui la necessità di preservarsi con amuleti contro quel genere di ma-
lefizio. — nesdo quis non istà già per nescio qui^ ma per aliquis.
104, 105. Dameta, vedendo di non poter riuscire a vincere Menalca
nella gara del canto, gli propone improvvisamente un enigma a sciogliere.
Spiegami, egli dice (ed io ti terrò pel grande Apollo), in qual luogo del
mondo lo spazio del cielo non ha più di tre cubiti. Filargirio e Servio
riportano diverse spiegazioni di cruesto enigma. Notevole è fra gli altri
questo passo di Filargirio (ediz. Lion): dicit Comificius ab ipso Virgilio
audisse, quod Coelium Manttianum quendam tetigit, qui consumptis om-
nibus facultatibus, nihil sibi reliquit nisi locum trium ulnarum ad se-
pulturam, E più sotto: Asconius Pedianus ait, se audisse Virgilium
dicentem in hoc loco se Grammaticis crucem fixisse, quaesituros eos,
si quid studiosius occultaretur, Dicit autem poeta Coelium Mantuanum
(cfr. un passo analogo al primo in Servio a questi versi). Virgilio non
si sarebbe ingannato dicendo che voleva dar da studiare ai grammatici;
di fatto chi pensò alla spelonca dell'Etna per cui passò Dite colla rapita
Proserpina; chi allo scudo di Achille trium ulnarum, in quo expressa
coeli forma fuerat (Porfir. ; cfr. nel Servio di Lion un passo interpolato
ove per altro in luogo di Achille è detto Aiace) e così di seguito. Se-
condo Servio simpliciter intellegendus est cuiuslibet loci puteus, in quem
cum quis descenderit, tantum caeli conspicit spatium, quantum putei
latitudo permiserit. Invece il Lachmann (Comm. in Lucr,,ja. 328 ed il
Rìbl^eck, fondandosi suirautorità di Asconio, riguardano GAELl come un
nome proprio (da Caelius) che, scrivendosi e pronunciandosi ancora ai
tempi del poeta con un solo t, poteva confondersi con caeli (da caelum)
e quindi dar luogo all'enigma. Associandomi adunque a questa spiega-
zione, ho creduto bene di scrivere GAELl, perche la scrittura stessa
nella sua forma rappresentasse il doppio senso della parola. Quanto alFor-
tografia di caelum, Òaelius, ecc. cfr. le note ad Ed., 1, 17 e IV, 7. — • tris,.,
non amplius ulnas. Si usa spesso, dopo amplius, plus e minus, sottinten-
dere il quam, specialmente con numerali. Cfr. Cic, Brut., 17, 65: refertae
sunt orationes amplius centum quinquaginta... et verbis et rebus illu-
stribus. Tusc, 11, 16 37 : ferre plus dimidiati mensis cibaria ; Dtvin.,
I, 32, 68 : made factum iri minus XXX diebus Graeciam sanatane. Vedi
anche Georg., IV, 207; Aen., I, 683; Ces. B. G., Ili, 6, 2; Irz., Vili, 4,
3; B. C, 111, 99, 4; Sali., Iug.,bS, 3 ecc. Quanto a tris per tres cfr. il
mio Trattato delVort. lat., p. 22. — ulnas. Questo vocabolo prov. dalla
rad. ol (cfr. il greco ibXévii) propriamente significa « avambraccio », ma
talora anche il « braccio » intero. Come misura di lunghezza significa
la lunghezza data dalle braccia distese andando da un'estremità airaltra,
compresa la larghezza del petto (cfr. Plin., E, N.^ XVI, 40, (76), 202 e
comsponde quasi all' « auna » dei moderni (metri 1,20 circa); oppure,
YBRQIU ByCOLIGA, m. 5d
MSNALGAS.
Die, quibus in terrìs inscripti nomina regum
nascantur flores; et Fhyllida solus habeto.
Palaemon.
Non nostrum inter vos tantas componere lites.
et vitula tu dìgnns et hic, et quisquis amores
aut metaet dulces, aut experietur amaros. 110
secondo Svetonìo citato da Servio a qaesto passo ed Isidoro Orig.^ XI,
1, 64 (cfr. lo SvetoDio di Reiffersch., pag. ÌVl e Servio a Oeorg.y HI,
355) equivale a cubitus. Inoltre Servio ed Isidoro accennano anche una
longhezza =: uiriusque manus eootensio. Ritengo qui come più adatta la
significazione di € cubito ».
106. 107. Menalca, per non essere da meno di Dameta, gli contrap-
gme a sua volta un altro enigma, col quale vuole indicare il giacinto.
li antichi credevano di leggere nelle foglie del giacinto o le lettere Al
T. Secondo una tradizione Al sarebbe Tespressione dei lamenti di
Febo, involontario uccisore del giovane Giacinto da lui teneramente amato
e convertito nel fiore di quel nome (cfr. Ovid., Met, X, 215 se».), mentre
T indicherebbe Vinziale del nome stesso; invece, secondo un altra leg-
genda pur riportata da Ovidio (Met, XIII, 394-398) nel giacinto si sarebbe
pur trasformato il sangue di Aiace, del cui nome Al sarebbe Tiniziale.
Quindi Tespressione di Teocr., Idvll., X^ 28: Tpcn^Tà ódKivOo^. ~ inscripti
nomina. Questo grecismo che, sebbene ^là in uso nell'età preclassica, manca
in Cicerone, Cesare, Sallustio, Cornelio Nepote ed altn prosatori, ma si
trova in Livio, fu dai poeti molto usato pnma con verbi mediali e poscia
con verbi passivi. Vedi numerosi esempi in Draeger, Hist. Synt.^ I', pp.
362^0. regum qui vale forse heroum. Del resto Aiace era re e Giacinto
figlio d'un re. — 108. Non nostrum sottint. est, — 109, HO. et
mtula tu dignus et hic. Senso : « avete tutti e due egual merito; entrambi
meritate come premio la vitella >. — et quisquis eie. Questo passo assai
difficile fu pure molto tormentato dai critici. Servio spiega : et tu et hic
digni estis vitula et guicumque similis vestri est. E più sotto : 'aut
metuet dulces^: namque hic menalcas et amabat et metuebat^ ne um-
quam posset amor itle dissolvi, contra Damoetas amaritudinem amoris
expertus fuerat ex amicae Amaryllidis iracundia. Esaminando i varii
tentativi ai dare un senso soddisfacente a questo passo, trovo col Benoist
preferibile la spiegazione tradizionale di Servio. Del resto il Ribbeck, oltre
a staccare quisquis etc, da ciò che precede, muta il testo cosi: et quisquis
amores \ hau temnet dulcis, haut experietur amaros, la oual lezione è
affatto arbitraria né ha l'appoggio dei codici, che danno chiaramente, a
cominciare dal Romano, la lezione aut m^etuet. Ritengo adunque che il
senso di tutto il passo sia il seguente: «Meritate la giovenca e tu e lui
e qualunque altro sarà a voi simile nel cantare, deiramore, e le dolcezze
•5 *»
• . . - I
■ > . » • V-
r>
00 VERGILI BVCOLIGA, HI.
claudite ìam rivos, pueri: sat prata biberunt.
che teme di perdere o le amarezze che lo afSigfi^ono ». — 111. Per com-
prendere questo verso è d'uopo sapporre che Pelemone, prima di essere
chiamato arbitro della gara sorta ^a Dameta e Menalca, fosse uscito di
casa per fare aprire i canali d'irrigazione (rivos) e così dar acqua a'prati.
Durante la gara questi sarebbero stati sufficientemente irrigati (sat prata
biberunt); quindi Tordine dato da Palemone ai servi (ptteri, cfr. la nota
ad Ecl., I, 45): claudite rivos. Servio notava come possibile un signi-
ficato allegorico di questo passo : iam cantare desinite, satiati enim au-
diendo sumus. Del resto il poeta ebbe presente GatuU., LXl, 227 seg.
(ediz. Mùller): Ciattdite ostia, virgines:] Lusimus satis. Quanto a rivos,
cfr. Georg., I, 106 e 289.
»
P. VERGILI MARONIS
BVOOLIOA.
EGLOGA IV.
AROOBfBNTO.
Il poetA comincia dichiarando di voler elevare a più nobili concetti la poesia pa-
storale, perchò sia degna dell'alto grado che, come console^ riveste Aalnio PoUione.
SoggioD^e che Analmente è giunta l'età predetta dalla Sibilla Cumana, da cai deve
SToigersi una serie novella di secoli. L*età dell'oro riapparirà sulla terra, allorché
sa questa sarà nato, sotto il consolato di Asinio roUlone, un fanciullo : con
questo fanciullo ritornerà il vivere felice e Tabbondansa di o^ni bella cosa. Si ri-
vedranno di nuovo i tempi del buon re Saturno, quando con lui gli uomini vivevano
io una non mai turbata prosperità, quando con lui regnava sulla terra la giustisia,
l'agnagliansa, la libertà comune. Di siffatto avvenimento esalta il poeta, il quale
coQchiode IMnspirato suo «arme augurando che possa il fanciullo meritarsi co* vessi
suoi l'amore de* genitori.
Per ben comprendere il contenuto di quest'Ecloga, la quale fu oggetto di nume-
rose dispute, ò mestieri osservare ansi tutto come fosse opinione degli Academici e
degli Stoici^ che la vita del mondo^descrivesse un grande circolo, che chiamavasi
coi nome di magni** anntM, diviso in dieci magni m&naes di non aguale durata,
talora inferiore, talora saperiore a quella del secolo. Del resto nella loro sostanza
con tale opinione concordavano le credense degli Etruschi riguardo la vita della
loro nazione, alla quale assegnavano la durata di dieci genersBioni o saecula ; e i
libri della storia etrusca davano indicasloni sul numero dei secoli che la loro na-
zione già aveva vissuto e sulla durata di ciascun secolo in particolare. Ora i libri
Sibillini avevano accolta cotesta dottrina delle dieci età dell'anno mondano, ma nello
stesso tempo dovevano aver fuso insieme con essa la popolare leggenda delle quattro
età del mondo, dell'oro, delPargento, del rame e del ferro, alle quali rispettivamente
presiedettero Saturno, Giove, Nettuno e Plutone (cfr/ Servio a quest*Ecl. v . 10) : se
non che, dividendo l'anno del mondo in dieci secoli, fecero coincidere il decimo colla
fine dell'età ferrea, e al medesimo presiedere Apollo. Segni miracolosi dovevano
anounsiare la fine di ogni secolo. E però, allorquando apparve una cometa durante
i giuochi funebri che Ottaviano celebrava in onore di Cesare, doco dopo la morte
di lui, l'aruspice Vulcasio disse che la cometa significava la fine del nono secolo
ed il principio del. decimo (cfr. Servio ad Ecl. IX, m).
Ora Virgilio, accettando questa predizione e spingendosi colla fantasia oltre il
decimo secolo, immaginali ritorno deiretà aurea dopo la nascita d'un fanciullo sotto 11
consolato di Asinio Pollione. E si deve presumere che 11 poeta facesse questo vati-
cinio In UQ tempo che lo rendesse verosimile : perniò è assai probabile che. tenuto
conto del tempo dal poeta impiegato nello scrivere le Bucoliche, quest'Ecioga sia
stata composta neir anno della pace di Brindisi (714/40), colla quale si nutriva spe-
ranza di mettere un fine alle turbolenze ed a^li orrori delle guerre civili, il cai pe-
riodo costituiva qaindi l'età del ferro. Si aggiunga che Asinio Pollione fu assunto
al consolato appunto in auest'anno : quindi verso cotesto tempo doveva succedere
la nascita del fortunato fanciullo, con cui era per far ritorno Tetà dell'oro. Ma chi
^ questo fanciullo 1 Le opinioni sono varie; ma la più verosimile è quella che si
fonda sulla testimonianza di Asconio Pediano riferita da Servio (al v. Il di que-
st'Eclo|j^a) con queste parole: quidam Saloninum Pollionis filium accipiunt, alii
Asinium Qallum, fratrem Saloninif qui prius nalus est Pollipne consule deai-
gnato. Atconius Pedianua a Gallo audisse te refert. hanc eelogam
in honorem eius factam. E che realmente si tratti d'un figlio di Pollione, lo
conferma Macrobio la <9a( , VII, 1. E veramente da una parte sarebbe stato strano
che il poeta dedicasse a Pollione un carme in lode del figlio d'un altro padre, dal-
l'altra l'intonazione dell'Ecloga mirabilmente si accorda coi l'ipotesi che vi si celebri
Il Aglio del console Pollione. Ritengasi adunque come assai verosimile cho si tratta
3ul di Asinio Gallo, il quale, allorché il poeta prese a scrivere qaest*Bcloga, già
oveva esser nato : solo per poetica finzione ò considerato come per nascere. — Per
altre indicazioni vedi l'Introauzione.
62 TERGILI BVCOLICA, I?.
Sìcelides Musae, paulo malora canamus !
non onoinis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ultima Gumaei venit iam cartninis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. 5
1. Sìcelides Musae. II poeta invoca le Muse della poesia pastorale,
dalle quali inspirato si propone di innalzarsi a più alto soggetto (paulo
maiora canamus), che non sia quello da lui svolto nelle altre Ecloghe.
Egli vuole innalzare un canto che sia degno di Pollione e dell'alta ca-
rica che riveste (cfr. v. 3), e conseguentemente egli deve abbandonare
gli umili argomenti che gli fornisce la vita pastorale intesa nel suo vero
essere. Ma tanto si eleva il poeta al di sopra di questa, che, come fu
giustamente notato, nel suo carme non è rimasta traccia alcuna di natura
bucolica. Leggi del resto l'Argomento dell'Ecloga. — Nota che la forma
Sìcelides = Sìcilìenses sarebbe propriamente un sostantivo. Il poeta anche
altrove adopera aggettivamente analoghi sostantivi. Cfr. Aen,^ V, ^ e
Vili, 368: pelle Libystìdis ursae. Vedi ancora Ovid., Eeroid.^ Sappho
Phaonì, 51 Sìcelides... puellae e 52 Sìcelis esse volo ; Met.^ V, 412: ii^t-
celidas... nymphas^ ecc. L'espressione virgiliana corrisponde al ZixeXòv
ILiéXo^ di Bione, 'Eiri6aXàjuiio<; 'AxiXXéwc; Kal Aiiibajietac;, v. 1 e al Zik€-
XiKal ... Motom di Mosco, 111, 8, accennando alla patria della poesia bu-
colica identificata con quella di Teocrito. Cfr. la nota ad Ecl.^ II, 21. —
2. arbusta ha qui lo stesso significato che in Ecl.^ I, 39 di cui vedi la
nota. — myricae. Questa pianta gr. ^upiio), è lo stesso che il tamarisco.
Cfr. Plin., H, N,, XIU, 20, (37): myrìcen et Italia [fert]^ quam tama'
ricen vocat; vedi poi Ècl.^ VI, 10; Vili, 54; X, 13. — 3. silvae^
come arbusta e myricae nel v. prec, designa la poesia pastorale che il
poeta intende innalzare a tale altezza da essere degna di un console. Il
senso è dunque: « questo mio carme pastorale corrisponda alla dignità
del console Pollione », quanto al quale vedi Tlntroduzione. È oramai
abbandonata l'opinione che con arbusta e myricae il poeta volesse in-
dicare il genere più umile della poesia bucolica e con silvae il più
elevato. -^ 4. Ultima... aetas, 1 ultima età, ossia la decima del così
detto magnus annus del mondo, trascorsa la quale, giusta la predi*
zione delia Sibilla Gumana (Cumaeum Carmen)^ ricominciando il mondo
il suo giro, doveva tornare Tetà aurea, che era appunto la prima nella
divisione dell'anno mondano ed alla quale presiedeva Saturno. Si noti
poi che i^enìt è perfetto, col che il poeta ha voluto significare che que-
sta decima età è già venuta da qualche tempo, per cui è imminente il
ritorno della prima per effetto deirdiroKaTdaTaoK; mondana. Invece nel
V. 5 e 6, in cui si accenna al ritorno della prima età, trovi il presente
renascitur, redit. Per altri schiarimenti riguardo al contenuto di
questo verso, vedi T Argomento dell'Ecloga. — 5. magnus,.. saeclo-
rum... ordo è il m^agnus annus, di cui nel v. prec, che deve ricomin-
ciare di nuovo da principio (ab ìntegro... renasciiur = ìncipit rursus ab
ìnitìo) al termine oramai imminente della decima età, che il poeta dà
già quasi come venuto. — ab ìntegro = rursus, denuo. Si usa più
*.<^^.
VERGILI BVCOLICA, IV. 63
ìam redìt et Virgo, redeunt Saturnia regna ;
iam nova progenies caelo demìttitor alto,
tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo^
spesso de int^m (cfr. Cic, ad Att, XIII, 27, e Verr^ Act., Il, lib. II, 56,
139; e Liv., XXI, 8, 2) ed ea integro (Quintil., X, 1, 20 ; Svet, Aug^
16); ma ab ìntegro si legge anche m Cic, Yerr.^ Act. II, lib. 1, 56. 147: eo?
integro però non sembra proprio dell'aurea latinità. Notisi ancora Tallunga-
mento aella seconda sillaba in integro, come in Lucr., I, 927 e Oraz.,
Sat.^ II, 2, 113; 4, 54. — sa^clorum. Il vocabolo sasclum non è già sin-
cope dì saeculum^ ma è forma più antica di questa. Il suffisso 'Clo si è
sviluppato in 'Cuù) per via di vocale anaptitica. Gfr. tabula accanto a
taUeis^ GIL, I, 200, 46, ecc. Del resto saeculum (dalla rad> se^ donde sero^
semen, etc.) significava originariamente « generazione » ed e, come qui, in
tal senso spesso adoperato da Lucrezio. Gfr. I, 467; V, 339; II, 78; II, 1113;
V, 788, 1167, 1236 ecc. Resta quindi chiaro che Tortografia di saeculum
non è etimologica. Gfr. scaena^ gr. (yKT)vf|. — 6. Virgo è Astrea,
figlia di Zeus e di Themis, ossia ACkii, la dea della giustizia. Gfr. la mia
nota a Georg., II, 474. Vedi ancora Arat., Pliaen., 96-135. Il ritorno di
Àstrea annunzia il rinnovamento dell'età dell'oro. Lo stesso è indicato
da Saturnia regna, sul che cfr., oltre all'argomento delFEcloga, le mie
note a Georg., II, 173 e 538. Notisi poi il movimento speciale del pen-
siero determinato dalla ripetizione del verbo redire e cfr., a questo ri-
guardo, sotto il V. 24 seg., X, 19; Aen., I, 709; VII, 75; 327; 516; Vili,
91 seg.; X, 429. — 7. noìsa progenies è la gens aurea di cui parla
al V. 9, ossia una nuova generazione d'uomini assai migliore dell'attuale.
— caelo demittitur alto = dimnitus nascitur, come in greco OcóBev
YevvaTCti. Gfr. Gic, De imp, Cn. Pompei, 14, 41; Gn. Pompeium sic
aliquem.., de caelo delapsum intuentur; ad Quint. fr., I, 1, 2, 7: Graeci
quidam sic te ita viventem intuebuntur, ut quendam.., de caelo divi-
num hominem esse... delapsum putent. Rispetto all'ortografìa di caelum
cfr. la nota ad Ecl., 1, 17. Qui aggiungiamo ancora che la testimonianza
delle iscrizioni, ove leggesi anche Caelius, Caelia, Kailius, nomi eviden-
temente derivati da caelum, oltre all'esplicita affermazione di Gicerone
{Yerr., Act., II, lib. II, 52, 129) e di Plin. (E. N., II, 4, (3) ove è citata
l'autorità di Varrone), che contrappongono caelum e caelare, mostra che
coélum non è forma corretta. Gir. caesius, caerulus per *caesulus. —
demittitur sta per descendit, venit e quindi, come s'è detto, nascitur. Gfr.
Georg., II, 385: Troia gens missa « gente venuta da Troia ». — 8. na-
scenti puero: chi sia questo fanciullo s'è dichiarato nell'Argomento del-
TEcloga. Quanto al participio nascenti, ritengo col Sonntag (Beitr. zur
Erklàr. Vergil. Ecl., p. 10) che non sia per nulla uguale a nascituro,
ma corrisponda a cum. nascetur^ dum nascetur. Diana sarà benigna verso
questo fanciullo (cfr. v. 10) nel suo nascere; quindi l'idea del nascere
si concepisce dal poeta bensì come futura, ma rispetto all'idea del fa-
vore, che la dea presterà al fanciullo, come contemporanea a questa:
di qui il participio presente e l'espressione nascenti puero... fave; e
però quo = quo nascente cioè cuius ortu. — ferrea [gens], Gfr. il
V. seg. — 9. All'età del ferro succederà l'età aurea [vedi sopra].
Quanto a ^ens aurea cfr. Esiod., "Ep^., 109 seg. XpOaeov inèv irpib-
TiOTtt Y^voq laepÓTTUJV àvepibirurv | àSàvaxoi Troifiaav: Teocr., Idyll.,
XU, 16: xP^^cioi"* fivòpeq: Georg., II, 538: aureus... Saturnus. —
TERGILI BVOOLICA, IT.
casta fove Lucina: tuns isaa regnai Apollo,
teque adeo decus hoc sevi, te eonsule, inibii,
PoUio, et inoipient mi^i procedere meBses:
te duce, siqns manent scelerìs veatigia nostri,
& proprio
. , . . . i Lucan.,
x.) e della proaa poitctaBBÌca (efr.
Plin-, ff. N., XIV. 22, (29); Fior., 11, 12, 1 [IV, 1, 1]; Giuatin., XXX,
4, 9), — 10. Per Lucma devesi <jui intendere Oiana. Cfr. Oraz.,
Carm. Saee., 13 segg.: rite maturo$ apenre partus \ lenii, Ilithì/ia, tuere
maire», | sitie tu Luana probas voeari \ seu Genitali^ | diva, producea
subolem. Diana, divinitA italica, comapondente sU"Ap'rc|ii( 4à Greci,
era una divinità celeste (Diana, poscia Diami da 'dium * cielo *, come
oppitìanus da oppidum, paganus da pagus; cfr. CIL, V, 783, lavi Diano)
e propriamente dea della luna, Noctiluca (cfr. Oraz,, Od., IV, fi, 38),
aveva fra gli altri epiteti anche quello di Lucina, che ci richiama ap-
Cunto l'idea della luce (da luci, cff. temperi, ruri). Come tale, esercitava
t aua influenza sulla fecondità delle donne e favoriva i parti come obste-
Irisc e proteggeva i nuovi nati. Per questo rispetto corrispondeva al-
r'ApTefjn Xoxia o Xoxela o XuotZuivoi; o iJJKuXóxeiQ o noToffTÙKoq o aou>-
blva dei Greci. Si noti però che l'epiteto di Lucina trovasi pur riferito a
Giunone, cui ai attribuiva del pari la cura dei parti. Gir. Terenz., Andr.,
in, 1, 15 e Adelpli.. Ili, 4, 41: luna Lucina, fer opem. Catullo identifica
Diana con luno Lucina. Cfr. il carme XXXIV, i3 seg.: Tu Lucina do-
lenlibus I luno dieta puerperis, \ tu patena Trivia et notho es | dieta
lumine Luna. — tuus... Apollo. Giusta le idee mitologiche dei Greci,
accolte poi anche dai Romani, Apollo era fratello di 'ApTSfin. La loro
madre era Latona. — iam regnai. Servio: ultimum saeoulum ostendit,
quod Sibulla Solis etse tnemoravit. Vedi altri sohiarimenti nell'Argo-
mento dell'Ecloga. — 11. adeo. Il Hand, Turseli,, I, 145 fa giueta-
mente notare cne questa particella si unisco ai pronomi personali con
quasi lo stesso senso di. autem. allorché il discorso passa da una persona
ad un'altra su cui si vuol portare particolarmente l'attenzione. Onde ta-
lora si traduce per «particolarmente, sopratutto >. Ctr. Georg., I, 24;
Plaut., Rud., Ili, 4, 26 — decus hoc aevi, soggetto di inibii, sta per hoc
a&num decorum. — inibii è usato in transitivamente per inciptet, eaior-
divm habebit. Per solito questo verbo è intransitivo solo nei participiì:
p. es-, iniens aelas, ineunte anno e sim. Perciò altri credette che il verso
si dehba intendere cosi; pfter nascens decus hoc aevi inibii. U senso è:
e è dal tuo consolalo, o Pollione, che daterà questa splendida età », —
IS. magni menses alcuni intendono per illuiires, memorabiles. Val me-
glio ritenerli nel significato di suddivisioni dell'annua magnus, sul quale
vedi il V, 5 e l'Argomento dell'Ecloga. . — 13. te duce. Ponendo una
forte interpunzione alla flne del verso prec, io riferisco te duce a si
qua manent, eie. e non già ad incipient magni eie, come fanno alcuni,
essendo chiaro che il pensiero espresso nei v. prec. non è altro in so-
stanza che un'enunciazione in termini diversi del pensiero già manife.
stato nel v. 11 ove abbiamo te eonsute, mentre nel v. 13 e i4 si passa
ad un nuovo ordine di idee, la cui realizzazione ha per condizione il le
duce = le auspice.' — sceleris vestigia nostri. Sì allude alle guerre ci-
vili, di cui rimanevano ancora, dopo l'accordo di Brindisi, manifeste
TERGILI BVCOLICA, IV. 65
*
inrita perpetua solvent formìdine terras.
ille deum vitam accipiet, divisque videbìt 15
permixtos heroas, et ìpse videbitur ìUis,
pacatamque reget patriis vìrtutibus orbem.
at tìbi prima, pner, nullo munuscula cultu
traccìe neiratteggìamento minaccioso di Sesto Pompeo, che colla sua
flotta infestava in vario modo l'Italia e intercettava le vettovaglie che vi
erano dirette. Nò si può negare che non vi sia anche un'allusione
airuccisione di Cesare, dopo la quale appunto riarsero le guerre civili.
Cfr. Oraz.< Orf., I, 2, 29. 14. inrita va riferito a vestigia e vale
ad nihilùm deducta. Cfr. Tac, Ann,, XIII, ii tot inrita facinora, —
formidine ha qui, secondo alcuni, valore causativo : sarebbe la cosa stessa
che produce formidinem. Cfr. Georg*, IV, 468: caligantem nigra for-
midine lucum ; Aen., VII, 608 : religione sacrae et saevi formidine
Martis ecc. È un voler troppo sottilizzare. — 15, 16. ille^ intendi
puer. — deum vitam accipiet « vivrà della vita degli dei », come nel-
iaurea età in cui gli uommi, a detta di Esiodo, ''EpY*^ 112 seg., d)(; T€
0€ol ò' Kujov, dKnftéa eufjiòv ^xovt€<;, | vóatpiv drcp re ttóvujv xal òiZOo<;.
— divisque videbit [ permixtos heroas. Nell'età aurea gli dei amavano
ti'ovarsi fra gli uommi, particolarmente fra gli eroi o semidei (Cfr. Esiod.,
'EpY-, 159 seg. : dvòpuùv fjpd)uiv Octov T^o<;, o1 xaXéovrai | fj|uii0€oi). Vedi
a tal proposito CatulL, LXIV, 384 segg.; Ovid., Fast.^ I, 247 segg. —
videbitur è qui passivo come in Aen., I, 396, 494; II, 591,624; Terenz.,
Andr.^ Ili, 5, 10; Cic, Acad, post.^ 1, 11,41; Acad. prior., 11,25,79; Ges.
B. G., 1, 22, 3; Liv., IV, 40, 2; Ovid., Am., Ili, 11, 15, ecc. — illis è
dativo di agente, come spesso anche in prosa. Cfr. Cic, Part orat.^ 5,
15 : auditoris aures moderaniur oratori prudenti et provido ; de 0/f!,
HI, 9, 38: honesta bonis viris, non occulta quaeruntur. Tale uso è
soecialmente frequente col participio perfetto. Cifr. Ed,, I, 54. — 17. Si
allude in questo verso alla parte importante cbe ebbe Àsinio Pollione
nel metter pace tra Ottaviano ed Antonio e ristabilire nel mondo una
quiete che speravasi duratura. — patriis virtutibus, ossia virtutibus patris
PolUonis, va riferito a reget meglio che a pacatum. Qui mrtus ha il
valore di meritum e quindi implica l'idea del consolato di cui era in
quell'anno investito il padre e che il poeta augura al figlio, perchè possa
in tale alta magistratura reggere i destini del mondo. Si nota qui l'uomo
romano che vede il mondo come cosa dell'impero, del quale il consolato
era ancora la più elevata ed ambita carica. — 18. at. La forza spe-
ciale di questa particella sta in generale neiropporre che essa fa un'as-
serzione contraria ad un'altra. Talora però la sua forza avversativa ap-
pare indebolita, in quanto non afferma già il contrario, ma solo un pen-
siero che si contrappone al precedente ; altra volta poi non designa altro
che il trapasso ad un nuovo ordine di idee ed è un semplice termine di
transizione, come in questo verso, ove però si osserva che, più che un
passaggio a nuova idea, v'è ritorno all'argomento dell'età aurea, dal
Quale il poeta ne' versi immediatamente precedenti aveva fatto come una
uigressione non senza però un evidente legame coU'idea principale ; ciò
che contribuisce a diminuire ancor più la forza avversativa dell'ai. -^
prima... munuscula., i primi segni dell'età aurea coincidenti coU'infanzia
del fanciullo, e per conseguenza i primi e più semplici vantaggi o doni
ST4MP1NI, Vergil, Bucol. &
66 ' VERGILI BVCOLICA, IV.
errantis hederas passim cum baccare tellus
mixtaqae ridenti colocasia fundet acantho. 20
ipsae lacte domum referent distenta capellae
ubera, nec ma^nos metuent armenta leones.
ipsa tibi blandos fìindent cunabula flores.
di essa età. Gol crescere negli anni saranno maggiori i vantaggi e la fe-
licità. Gfp. V. 26 segg. — nullo... cultu. Gfr. Esiod., "Ept., 117 seg.:
Kapiròv ò' £<p€p€ ICciòuipoq dpoupa | aÙTOiidrii iroXXóv re kqI dcpOovov:
Georg., 1, 125 segg. ;, Ovid., Met.. I, 101 segg. — 19. errantis. Gfr.
Gic, de.Sen., 15, 52: [vitem] serpentem multiplici lapsu et erratico.
L'edera, come la vite, si espande qua e là in una lussureggiante vege-
tazione di rami e di foglie. Vedi ancora Gatull., LXI, 34 seg. : ut tenax
hedera huc et huc \ arborem inplicat errans ; Oraz., Od., I, 36, 20: la-
scivis (= libere vagantibus, Ritter) hederis. — baccare; il cod. Gudiano
ha bacchare (cfr. il gr. ^dKKapic; e pdKxapi<;). Gfr. Plin., E. N., XXI, 6,
(16): Baccar quoque radicis tantum odoratae est, a quibusdam nardum
rusticum appeUatum, unguenta ex ea radice fieri solita ; 19, (77) : in
medicinae usu aliqui ex nostris perpressam vocant. Non è ben certo a
quale delle piànte nostre corrisponda. Forse è la gantelea o la digitale
purpurea. — 20. colocasia n. plur. Esiste anche la forma femm. co-
locasia, ae. Gfr. Plin., H. JV., XXI, 15,(52): In Aegypto nobilissima est
colocasia, qitam cyamon aliqui vocant.,. seritur iam haec in Italia, —
fundet. (Questo verbo si adopera frequentemente per indicare abbondante
firoduzìone : equivale pertanto a magna copia suppeditabit. Gfr. Oeorp.,
I, 460 : fundit humo facilem victum iustissima tellus. Vedi anche Gic,
N. /)., Il, 62, 156: quae [terra] cum maxima largitate fundit: Plin.,
E. N., XVII, 22, (35), 192: quo maturius [vites] putantur aptis diebus,
eo plus materiae fundunt, ecc. — acantho, cfr. Ècl., Ili, 4a. Qui non
sembra che si tratti dell'acanto menzionato in Georg., II, 119, che non
è un'erba, ma un albero che cresceva in Egitto. Dicesi poi ridenti pel
suo aspetto giocondo alla vista. Gfr. Lucr., II, 502: caudaque pavonum
ridenti imbuta lepore ecc. Similmente Om., II., XIX, 362: yéXaaae òè
iràaa irepl x^^v. — 21. ipsae, vale sponte sua, come sotto al v. 43.
Gfr. Teocr., Idyll., XI, 12: òiLe<; ... aùxal àirnveov. Inoltre Ed., VII, 11;
Georg., I, 127; II, 10, 251; III, 316; Aen., VII, 492 ecc. — distenta =
turgentia. Gfr. Lucr., I, 258 seg.: lacteus umor \ uberibus manat di-
stentisi Ed, VII, 3; IX, 31 ; Georg., 111,396; Oraz., Epod,, li, 46; Sat.,
I, 1, 110. Pel senso dell'intera frase cfr. Oraz., Epod., XVI, 49 seg.:
illic iniussae veniunt ad m,ulctra capellae, \ refertque tenta grex amicus
ubera. — 22. m.amfii leones. Gfr. Aen., VII, 18: mxignorum... lu-
porum. Vedi del resto Ed., V, 60 seg.; Sen., Herc. Oet., 1056 segg.:
iuxtaque impavidum pecus \ sedit Marmaricus leo; \ nec damale trepi-
dant tupos. -^ 23. ipsa. Gfr. v. 21. — fundent. Gfr. v. 20. — cuna-
buia. Mi sembra che questo vocabolo qui non significhi già lectuli, in
quibus infantes iacere consueverunt, ma bensì loca, in qutbus nascuntur
(Servio). — blandos.,. flores. Già Lucrezio aveva usato il vocabolo blandus
per designare un odore attraente: II, 846 segg.: nec iaciunt ullum
proprio de corpore odorem. | sicut amaracinx olandum stactaeque lì-
quorem \ et nardi florem, nectar qui naribus halat. Gfr. anche Prop.,
V [IV], 6, 5: cùstum molle dat$ et blandi miài turis honores, —
VERGILI BVCOLICA, 17. 67
occidet 'et serpens, et fallai herba veneni
occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum. 25
at simal heroum laudes et facta parentis
iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus:
molli paulatim flavescet campus arista,
incultisque rubens pendebit sentibus uva,
et durae quercus sudabunt roscida mella. 30
24. herba veneni, erba velenosa. Si noti il genitivo determinativo, o
meglio di contenuto. Cfr. EcL, V, 68: crateras.., olivi; Aen., Ili, 67:
sanguinis... pateras; TibuU., Ili, 5, 34: lactis pocula. Del resto è questa
una costruzione comune pure alla lingua greca. — Quanto a fallax,
cfr. Georg,, II, 152 : nec miseros fallunt aconita legentes, — 25. amo-
mum. Cfr. la nota ad Ecl., HI, 89. L'epiteto poi di Assyrium vi vale
semplicemente per « orientale ». Cfr. Lucan., Vili, 292 seg. : et polus As'
syrias alter noctesque diesque | vertit. Cosi in Georg., Il, 172 con m-
mlem... Indum si designano i popoli deirOriente in generale. Si noti
poi il contrasto tra Assyrium e vulgo. Per effetto del ritorno dell'aurea
età, Tamomo, sebbene pianta orientale e perciò molto ricercata, crescerà da
per tutto. — 26. at è anche qui semplice termine di transizione. Gfr. la
nota al v. 18. — simul = simul atque, è frequente in poesia e si usa
anche in prosa. Gfr. Gic, Acad. prior.^ Il, 21,86; de Fin., Ili, 6, 21 ecc.
Vedi del resto Aen., XI, 908; Lucr., VI, 1022; Graz., Od, 111, 4, 37;
Ovid.y Fast,, I, 567. — heroum, laudes :» facta heroum laude digna.
Cfr. Om., //., IX, 524 seg.: ti&v irpóoOev... xXéa àvòptìtiv | i^pibwv. Del
resto quanto ad heroum cfr. anche la nota al v. 16. — parentis. Vera-
mente il codice Romano ha parentum, lezione che è pur data^ per opera
di seconda mano, dal Gudiano. Gredo preferibile la lezione parentis, che
è pure confermata da Nonio (331, 32) e da Servio. Mi par chiaro che
qui non si tratti d'altro che deirelogio di Poilione. Gfr. ael resto il v. 17.
— 27. quae sit = qualis o quanta sit. — virtus, intendi heroum
et parentis. — 28. Si é molto disputalo sul senso da darsi a molli
riferito ad arista. Alcuni spiegano che si debba intendere la spica quando
è tenera e molle prima ed anche mentre che comincia a biondeggiare ;
altri interpreta m,olli per fiexibili; altri invece per levi, acutis acubus
non obsita. Gredo preferibile quest'ultima interpretazione. Tra le mera-
viglie dell'età aurea rinnovellata vi sarà pur quella che le spiche non
avranno più bisogno di essere protette dall' avidità degli uccelli per mezzo
di aguzze barbe, ma saranìio liscie e delicate al tatto. Anche la posizione
dell'aggettivo molli in principio della frase, per attirare su di esso mag-
giormente l'attenzione, conferisce a render più probabile la data interpre-
tazione. Gfr. del jesto Gic, de Sen. 15, 51 : elicit herbescentem ... viridi-
tatem^ quae... fundit frugem, spici ordine structam, et centra avium,
minorum morsus munitur vallo aristarum. — flavescere è uno dei
molti incoativi formati da Virgilio. Gfr. Georg., Ili, 504 crudescere; III,
HI umescere; III, 366 indurescere; 11, 250 tentescere ecc. 29. in-
cultis... sentibus cfr. Graz., Ep., I, 2, 45 : incultae... silvae. — rubens...
uva... Gfr. Georg., II, 95: [vites'] purpureae; Graz., Epod.y II, 20: cer-
tantem... uvam purpurae, — 80. durae quercus come in Eoi., VI, 28
rigidas... quercus. Gfr. Ecl., Vili» 52 seg.; Aen.^ Vili, 315 ecc. — su-
68 VERGILI BVCOLICA,' IV.
pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudisi,
quae temptare Thetim ratibus, quae cingere murìs
oppida, quae iubeant telluri ìnfindere sulcos.
alter erìt tum Tiphys, et altera quae vehat Argo
delectos heroas; erunt etiam altera bella, 35
dabunt. Per solito sudare nel signif. di umorem emittere^ stillare si
unisce coU'ablativo. Gfr. Georg», I, 117; II, 118 (ove però si nota un'i-
pallage); Lucrez., VI, 943 ecc. Hai pure l'accusativo m EcL, VIII, 53:
pinguia corticibus sudent electra myricae ; Marzial., XIII, 101 : Hoc
tibi Campani sudavit bacca Venafri \ unguentum ecc. — rosdda tnella
propr. mella rore confecta opp. eco rore collecta. Di fatto credevano gli
antichi che il miele fosse una rugiada. Quindi Georg., IV, 1 : aèrii tnellis
caelestia dona. E più esplicitamente Plin., E. JV., XI, 12, (12): venit
hoc [mei'] ex aere et maxime sideritm exortu... itaque tum prima aU'
rora folta arborum melle rosdda inveniuntur. Sen.,£/7.,84,4: quibusdam
...placet non faciendi mellis scientiam esse illis [apibus^y sed colUgendi,
— Rispetto poi airidea del miele che stilla daHe piante neiraurea età
cfr. Georg. ^\ 131: mellaque decussit floribus; Tibull., 1, 3, 45: ipsae
mella dabant quercus; Ovid., Me^., 1, 112: flavaque de viridi stillabant
ilice mella. — 31. priscae vestigia fraudis. Gfr, v. 13 sceleris ve-
stigia nostri. Qui fraus sta per noxa, culpa e designa le colpevoli ten-
denze dell'epoca a cui deve succedere Tetà dell'oro. — 32. temptare.
Gfr. Ecl., I, 49. Traduci per « affrontare ». Gfr. Tac, Germ.^ 34: Ocea^
num... temptqvimus. Del resto Georg., II, 503: sollicitant aUi rem,is
freta cacca. E chiaro che Thetim sta qui per mxire. Gfr. Marzial., X,
30, 11. Similmente trovi Neptunus per mare o aqua in genere in Gewg.-^
IV, 29; Luci*. Il, 472; Ovid., Am., il, 16, 27 ecc. Quanto al fatto che
nella età dell'oro fosse ignota la navigazione cfr. Georg., I, 134 segg. ;
Tibull., I, 3, 37 segg.; Ovid., Met.^ I, 94 seg. — 83. 11 congiuntivo
iubeant mostra che il relativo quae del v. prec. ha valore finale, equi-
vale cioè ad ut ea. Quindi vestigia... quae... iubeant == eiusmodi ve-
stigia... ut ea... iubeant. — telluri infindere sulcos = proscindere
aratro = arare. Parimente Aen., V, 142: infindunt... sulcos (se. mari)
per navigare. Inoltre è notevole la mancanza del soggetto dell'infinito
dipendente da iubeo, costruzione tuttavia assai frequente in Virgilio.
Gfr. Ed, VI, 85 seff.; Aen., I, 648; II, 3; III, 146, 472; V, 385, 773 (ove
trovi ad un tempo la costruz. coU'inf. pass.); Vili, 646 seg. Del resto
si trova anche in prosa. Gfr. Ces., B, Gir., V, 33, 3 (ediz. Holder) ; B. C,
1, 61, 5; Gic, Cat., IH, 8, 20; Sali., lug., 46, 4 (altri legge Tinf. pass.) ecc. La
ragione di tale soppressione è in generale l'indeterminatezza della per-
sona delle persone a cui il comando si riferisce. Lo stesso si riscontra
nell'uso del verbo veto. — 34. Tiphys, il pilota 4ella nave Argo,
che, secondo la nota tradizione greca, sarebbe stata la prima a solcare
le acque del mare. Gfr., quanto al congiuntivo vehat, la nota al v. pre-
cedente. — 36. delectos heroas. Si accenna agli eroi che accompa-
gnarono Giasone alla famosa conquista del vello d'oro. Il loro numero
è vario secondo gli autori che scrissero di tale spedizione. Geito egli è
che sono 28 quelli che sono da tutti gli antichi scrittori concordemente
indicati come membri della spedizione. Gfr. del resto Enn., Medea exuh
V. 255 segg. (ed. MùUer) : Argo, quia Argivi in ea delecti viri \ vedi pe-
VERGILI BVCOLICA, IV. 69
atqne iterum ad Troiam magnus mittetur AchìUes.
bine, ubi iam firmata virum te fecerit aetas,
cedet et ipse mari vector, nec naatica pinus
mutabit merces : *omnis feret omnia tellus.
non rastros patietur humus, non vinea falcem; 40
robustus quoque iam tauris iuga solvet arator;
nec varios discet mentiri lana colores,
ipse sed in pratis aries iam suave rubenti
murice, iam croceo mutabit veliera luto;
tebantpellem inauratam arietis I Colchis, imperio regis PeUae^ per do-
lum, Gfr. anche Teocr., IdylL, XIII, 16 segg. — 37. firmata... aetas. Si
adopera non di rado firmus e firmare trattandosi delle forze del corpo.
Gfr. Georg,, III, 209: vires. firmai; Gic, ad Fam., XI, 27, 1: nondum
saiis firmo corpore ; Tusc, II, 15, 36 : corpora iuvenum firmari labore
voluerunt Sopratatto cfr. questo verso con Si). It., Ili, 84: inde, ubi
flore novo puaescet firmior aetas. — 88, 89. cedet... mari = re-
Unquet mare* È il nostro « rinunziare al mare ». — et ipse... vector. Si
noti che et ipse corrisponde al nostro « persino », non già che il pro-
nome qui valga sponte come sopra al v. 21. — vector. Servio: tam is
qui vehitur, quam qui vehit, dicitur, id est et nauta et mercator. Qui
può valere tanto pel navigante di professione, quanto pel mercante. —
nec nautica piniÀS mutabit merces. Vedi lo stesso pensiero nei passi ci-
tati in fine della nota al v. 32. Per mnw5 = nam5 cfr. Àen., X, 206;
CatuU., LXIV, 1; Graz., Od., I, 14, 11; Epod., XVI, 57; TibulL, I, 3,
37; Ovid., Met., II, 185 ecc. Il senso del resto è « cesserà il commercio
marittimo ». Anche Graz., Sai., I, 4, 29 ha la stessa frase : hic mutat
merces « fa commercio ». ^ omnis feret omnia tellus, Gfr. Lucr., I,
166 (di alberi) /ferre omnes omnia possent; Georg., II, 109. II senso
è: « ogni terreno (nota Tuso proprio di omnis) darà qualsiasi prodotto ».
- 40, 41. Gfr. GatuU. LXIV, 39, 41, 40 (ed. Baehrens): Non humilis
curvis purgatur vinea rastris, | Non falx attenuat frondatorum arboris
umbram, | Non glaebam prono convellit vomere taurus: Ovid., Met, I,
101 seg. : ipsa quoqtce immunis rastroque intacta nec ullis \ saucia vo-
meribus per se dabat omnia tellus. — rastros, strumento agricolo sul
quale veai la mia nota a Georg., I, 94. Virgilio usa al singolare il neut.
rastrum e al plur. solo rastri, orum m. Gfr. Georg., I, 164. Del resto
anche in altri scrittori è più rara la forma rastra. Gfr. Varr., L. L., V,
136 (Spengel*) : Rastri quibus dentatis penitus eradunt terram atque
eruunt, a quo rutu rastri dicti. — falcem. Gatone R. jR., 11, 4, la
chiama vineatica, e Golumella IV, 25, 1, vinitoria. — robustus... arator.
Gfr. Lucr., V, 930 nec robustus erat curvi moderator aratri; VI, 1251 :
et robttstus item curvi moderator aratri, — tauris è dativo. Gfr, Prop.,
II, 9, 39 : hanc mihi solvite vitam, = vitam, m,ihi eripite, mentre sol-
vite me vita ^=: liberate me vita. Lo stesso dicasi di TibulL, II, 1, 7:
vite vincla iugis, — 42. discet mentiri lana color es. Servio : cum
enim tinguitur, mentitur alienum colorem. Gfr. Plin., H, N., XXXV,
6, (29): viride quod Appianum vocatur et chrysocollam mentitur, —
43. ipse, Gfr. v. 21. — suave rubenti, Gfr. la nota ad Ecl., Ili, 63. —
44. murice; Servio: coclea.., unde tinguitur purpura. Perciò il suo si-
l1*-j:
70 VERGILI BVCOLICÀ, IV.
sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos. 45
4c talia saecla » suis dixerunt « currite » fusis
concordes stabilì fatorum numine Parcae.
lificato di pttrpura, color purpureus. Cfr. oer quest'ultimo Aen.^ IV,
12: Tyrioqice ardebat murice laena; IX, ol4: vobis pietà croco et
fulgenti murice vestis. Vedi del resto Plin., H. N., IX, ó3, (52), e 36,
(60). — croceo... luto. Il lutum o luteum è una specie di erba palustre
di color giallo -oro; quindi Tepiteto croceo da crocus, zafferano: è il mo-
derno € guado ». Il senso adunque di questo e del v. prec. è: « il mon-
tone che si pasce nelle praterie muterà fa bianchezza dei suo vello ora nel
più fulgido color di porpora ora in un bel giallo d*oro ». Quanto alla
costruzione del verbo mutare colFabl., cfr. Tac, Ann., II, 6: Rhenus...
id quoque vocabulum m.utat Mosa flumine. È poi chiaro che veliera sta
per cotorem vellerum. Gfr. Tibull., 1, 8, 43 seg.: coma tum mutatur, ut
annos \ dissimulet viridi corticc tincta nucis. — 46. sandyx, Plin.,
H. N., XXXV, 6, (23) citando questo verso osserva: anim>adverto Ver-
gilium existimasse herbam id esse ilio versu (segue la citazione). Se-
condo il poeta adun(j[ue sarebbe un'erba di qualità tintorie. Per tale la
ritenne anche Servio: herba, de qua sandicinus tinguitur color.
D'altra parte con tal nome si designa una specie di color vermiglio o
scarlatto artifìziale. — vestiet = tinget. — pascentis non può, secondo
alcuni, venire da pasco, che è verbo transitivo, ma bensì da pascer,
salvo che si voglia ammettere un'ellissi del pronome personale, ciò che
non par necessario. Per altro Servio ad Aen., 1, 194 e II, 215, non ammette
differenza di significato tra pasco e pascer (sebbene di ciò si possa molto
dubitare; che p. es. l'espressione saltibus in vacuis pascunt in Georg. ,
III, 143 può avere piuttosto per soggetto magistri, pastores e sim., che non
pecudes, armenta e sim.). Vedi del resto pel medesimo participio Ed.,
III, 96; V, 12, Georg, III, 467; Aen., VI, 199. — 46. Bisogna co-
struire cosi: talia saecla currite, fusis suis \_Parcae'] dixerunt. È no-
tevole Fuso del verbo currere coll'accusativo talia saecla ; cfr. Aen., Ili,
191 : currim,us aequor (V, 235 : aequora curro) ; V, 862 : currit iter,,,
aequore; Gic, de Off'., Ili, 10, 42: Qui stadium.,, currit. È tuttavia
costruzione affatto eccezionale in prosa e può reputarsi un grecismo. Del
resto {)uoi tradurre currite per votvite (Servio). Il poeta poi ha certamente
avuto in mente il passo di Catullo LXIV, 326 seg.: Sed vos, quae fata
sequuniur, \ currite ducentes subteomina, currite, fusi. — saecla ha
qui il significato di « età ». Vedi del resto la nota al v. 5. — 47. sta-
bili fatorum numine è ablativo di causa e va riferito a concordes. Le
Parche sono concordi per l'immutabile decreto dei fati. Gfr. Cir., 125:
concordes stabili firmarunt numine Parcae, Quindi stabili = immutabiii.
Quanto a numine, si noti che il vocabolo (dalla rad. neu d'onde nu-o
per 'neu-o gr. v€ù-uj; cfr. lupiter per *Dieupiter, 'Dioupiter) propria-
mente significa « cenno^ scotimento del capo ». Di qui l'idea di « volontà,
comando, potenza » e simili, nei quali significati è spessissimo adoperato
dai poeti. Gfr. Aen,, ì, 133 ; li, 777 ; VI, 266; 368 ecc. Qui il noeta per-
tanto considera i fati come aventi una volontà loro, cui è subordinata
l'azione delle Parche. Del resto fatum è detto da Servio (ad Aen,, X, 628)
Jovis vox; ma propriamente significa « ciò che è stato dichiarato » e
però « predizione ». Quindi Gic, Cat., Ili, 4, 9: fatis Sibyllinis ; Div,,
t, 44, 100 : ex fatis, quae Veientes scripta haberent ecc. Di qui il signi-
VERGILI BYCOLICÀ, IV. 71
adgredere o magnos — aderii iam tempus — honores,
cara deum suboles, magnum lovìs incrementum !
aspìce conveio nutantem pondero mundum, 50
terrasqae tractusque marìs caelumque profundum;
aspìce venturo laetantur ut omnia saeclo!
ficato di « destino > al cui concetto viene naturalmente ad associarsi l'idea
di stabilità e di immutabilità. — Parcae. È dubbia Tetimologia di questo
vocabolo. Alcuni fra gli antichi lo derivano da parcere^ fra cui Servio
(ed. Lion) che così spiega : dictae Parcae Kax* àvTiqp^aaiv, quia nulli par-
Qunt. Alcuni moderni, pur ritenendo quest*etimolo^a, spiegano : « quelle
che risparmiano o devono risparmiare la vita ». Yarrone invece, secondo
Geli., N, A., Ili, 16, 10, derivava Parcae da partus, ciò che è pure am-
messo da qualche moderno che spiega Parcae = < dee del nascimento ».
Ad altri pare più probabile accostare Parcae al gr. irópKO^ (da nXcK-?),
« rete », per cui Parcae significherebbe « auelle che intrecciano », intendi
« il filo del destino ». Gfr. Om., Odyss., vìi, 197 KXi&Oec;, < le filatrici »
= Motpai, le divinità greche con cui furono identificate le Parche dei
Romani, dalla rad. kXujO-, filare : inoltre KXujOUi era il nome speciale di
una delle tre Motpai (le altre due erano Adxeoic; ed "Arpoiroq), al t€
PpoTotoi I Y€ivo|biévoiai òiÒoOaiv ^€iv dYaOóv t€ kokóv t€ (Esiod., Theog.^
218 seg.). Nella credenza degli antichi non solo presiedevano al nasci-
mento, ma anche alla morte, e quindi non solo ci appaiono come divinità
del destino, strettamente parlando, ma eziandio come divinità della vita
umana, determinata dai punti estremi della nascita e della morte, che
esse, come ci sono talora rappresentate dai monumenti, andavano filando
(off. fusis del V. prec), sebbene questa fosse propriamente la funzione
speciale di Glotho. — 48. adgredere... honores^ intendi ubi iam fir^
mata virum te fecerit aetas (v. 37). È chiaro che il poeta affretta nella
sua immaginazione ravvicinarsi del tempo {aderii iam tempus) in cui
il fortunato fanciullo, cresciuto negli anni, potrà applicarsi {aggredì) alle
cariche più elevate {magnos honores). Il futuro aderit è abbastanza spie-
gato dalla frase citata uhi... fecerit ecc. — 49. deum^ plurale pel
sing. dei. In simil guisa in Aen., VI, 322, la Sibilla dice ad Enea, figlio di
Venere : Anchisa generate^ deum certissima proles. — suboles è forma
ortografica più corretta di soboles. È parola composta. Gfr. sub'oles {sub-
olescere) con proles =pro^les (rad. a/, crescere). — lovis incrementum.
Mettendo in relazione quest'espressione col v. 7, significa: nova proles,
qua Jovis filiorum numerus augetur. Corrisponde del resto al greco
6p^|Li|Lia Aloe;, òiOTp€(pr)^> Notisi poi la solennità speciale data al verso
dalla chiusa con parola quadrisillaba per cui il verso diventa spondaico.
Cfr. Georg., I, 221; Aen., II, 68; Vili, 167. Questo verso è ripetuto in
Oir., 393. — 50. Senso: « vedi scuotersi per la gioia la massa im-
mensa del mondo alFappressarsi dell'aurea età ». — conveoco.,. pan'
dere = convewa mole = convexo caelo. Gfr. Lucr., V, 96 : ruet moles
et machina mundi; Ovid., Met., I, 258 : mundi moles operosa laboret,
^ 51. Il que di terrasque è qui reso lungo dall'arsi, vedi a questo
proposito la mia nota a Georg., I, 153. Gfr. anche Ovid., Met., I, 193;
V, 484, ecc. — tractus maris = mare longe tractum i, e. latum, am^-
plum. Cfr. Aen., Ili, 138: corrupto caeli tractu; Graz., Od., IV, 2, 26
seg.: in altos | nubium tractus. — caelum. Riguardo all'ortografia cfr.
sopra la nota al v. 7. — profundum = altum, — 6S. Non ho scritto
i
72 YBSEGILI BVCOLICA, IV.
mìhi tìim longae maneat pars idtima vìtae,
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
non me carminibus vincet nec TUracius Orpheus, 55
nec Linus, buie mater quamvis atque buie pater adsit,
Unetentur, lezione del codice Palatino e del Gudiano. II Romano ha lae-
tantur. La prima lezione sarebbe però più conforme alla sintassi deU^età
classica. Il porre dopo espressioni analoghe ad aspice, come viden^ vi-
detin, em, m guisa paratattica le proposizioni interrogative indirette col
verbo airindicativo e veramente proprio dei comici dell'età preclassica.
Gfr. Plaut., Most, V, 2, 50; Trin., II, 4, 135; Ter., Eun. 11,2, 6 seg. ecc. Ad
ogni modo non si può negare la predilezione del poeta per quest'ultima
costruzione. Gfr. Ed., V, 6 seg.; Georg. <, I, 57 seg. (ove per altro il cod.
Mediceo ha mittat) ; VI, 779 seg. ; Vili, 190 segg. Talora sopprime Vut.
Gfr. Ecl.^ I, 66 : aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci. Hai in-
vece il congiuntivo in Georg,, III, 250; Aen., VIII, 385. Quanto a saeclo
cfr. la nota al v. 5. — 53. Il poeta esprime qui con analogo movi-
mento un pensiero opposto a quello di Esiodo, *EpT-> 174 seg.: jni^KéT*
^ireiT* C&<p€iXov èydj TrejATrTotoi fiCTelvai | àvòpdoiv, àXX* f^ irpóae€ eavtìv
f\ ^iT€iTa T€véa9ai. — tum è la lezione di tutti i principali codici, tra
cui il Palatino, il Romano ed il Gudiano. Altri legge tam, colla quale
lezione bisognerebbe ammettere una forte ellissi : tam longae ut ea tem-
pora videre possim. — È vero che in luogo di longae il cod. Palatino
dà longe. Ma fu osservato che quest'avverbio non può avere valore
temporale. Gfr. Hand., Tursell., Ili, 547. Quanto poi all'espressione lon-
gae.,. pars ultima vitae, cfr. Ovid., Met, VI, 675 seg.: longaeque extrema
senectae \ tempora. — 64. spiritus è voce spesso usata per indicare
l'estro poetico. Gfr. Ora^. Od., IV, 6, 29; Prop., IV [III], 16 [17 J, 40, ecc.—
et. È posposto a spiritus, Gfr. la nota ad Ed.. 1, 34. — sat erit coU'inf. è un
grecismo frequente nei poeti latini. Sull'uso dell'infinitivo in dipendenza
da aggettivi, in luogo del gerundio con ad, o il dativo del gerundio o Vut
o il qui col cong. cfr. Draeger, Hist. Synt, IP, p. 371 segp. Vedi anche
la nota ad Ed., V, 1. — dicere. Gfr. la nota ad Ed., III, 55. — 55-57. Os-
servisi l'impiego di non... nec. nec e cfr. la nota ad Ed., V, 25 seg.
*- vincet, meglio che vincat, che era la prima lezione del cod. Palatino.
— huic. huic in luogo di huic... illi oppure alteri... alteri. La stessa
licenza trovi in Georg., IV, 84 s^.; Aen., VII, 473 seg.; 506 seg.; Vili,
357 ; IX, 572 ; X, 9 se^. ; Xll, 510 seg. — adsit. Questo verbo è spesso
usato per accennare l'aiuto che presta la divinità colla sua presenza. È
particolarmente usato dai poeti nelle invocazioni. Gfr. Georg. , I, 18;
Aen., I, 734; III, 116; 395; IV, 578, ecc. — Quanto al qtuimiDis, si noti
che questa particella esprime, come di regola, una ipotesi soggettiva,
senza che vi sia unita Fidea della sua corrispondenza alla realtà. Puoi
tradurla per 4 anche se, ancorché ». Del resto Orfeo e Lino furono due
dei principali e più antichi poeti delia Grecia, le cui figure ondeggiano
tra il mito e la storia. Orfeo era nativo della Tracia e figlio di Apollo
(altri lo fa nato da Eagro) e della Musa Galliope; Lino era fratello di
Orfeo, ma nativo della Beozia. Sono entrambi personificazioni del canto
di cui rappresentano in vario modo la sublime potenza. -^ Orphei è
spondeo. Gfr. il greco 'OpqpcT. Vedi anche Georg., IV, 545; 553. — Cai-
Uopea dal greco KaXXioiccia, nome anche usato da Ovid., Fast.^ V, 80 ;
VEROILI BVGOLICA, IV. 73*
Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
Pan etìam Arcadia naecum si iudiee certet,
Pan etiam Arcadia dicat se indice victum.
incipe, parve puer, risu cognoscere matrem: 60
matri longa decem tnlerunt fastidia naenses.
incipe, parve puer: cui non risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est.
Prop., I, 2, 28, per Calliope (KaXXioirri). ^ 68, 59. Pan. Gfr. la nota
ad ml,^ II, 32. Essendo Pane divinità nazionale degli Arcadi, il giudizio
di qu^ti, che proclamano la vittoria del poeta in gara con quel dio, as-
sume importanza e solennità maggiore. — Si noti poi Fuso del presente
in entrambe le proposizioni del periodo ipotetico si certet... dicati volen-
dosi esprimere una posssibilità. — 60. La spiegazione più accettabile
di questo verso è stata data da Servio (cfr. gli Scolii Bem.): sicut
maiores se sermone cognoscunt, ita infantes parentes risu se indicant
agnoscere. ergo hoc aicit: incipe parentibus arridere ut et ipsi
tibi arrideant. Il senso è adunque : « comincia a mostrare alla madre,
sorrìdendole, che la conosci » e non già, come fu da parecchi proposto:
€ comincia a conoscere tua madre al suo sorriso ». Quest*ultima spiega-
zione toglierebbe ogni legame tra questo e il verso seg., mentre colla
Srìma SI mette innanzi il dolce compenso morale che trae la madre,
opo tanto soffirire, dal sorriso della sua tenera creatura che dimostra di
conoscerla. — 61. deceni ... menses è sogg. di iulerunt. Noi avremmo
detto nove mesi. Ma in latino (come osserva lo Spengel a Ter., Adelph.,
691: menses abierunt decem) si comprendeva nel conto anche il numero
sino al quale si contava. Cfr. del resto le nostre espressioni : « otto
giorni, quindici giorni ». — tulerunt. Si noti la brevità della
penultima sillaba. Luciano Mùller, De re met, p. 365, osserva che nella
poesia scenica e nella poesia popolare era ancìpite la misura di -erunt.
Tale ci appare in Lucrezio ed in Virgilio. Gfr. Lucr., V, 193; 875, ecc.;
Georg,, II, 129; III, 283; Aen , II, 774; III, 48; 681; X, 334. Vedi anche
Oraz., Epist, I, 4, 7; Sat, 1, 10, 45. — 63, 63. Il primo verso ha
dato molto a pensare agli interpreti, per via di un passo di Quintiliano
(IX, 3, 8) che ne riporta la seconda parte in modo affatto diverso dalla
lezione dei codici virgiliani. La Igiene di Quintiliano è qui non risere
parentes (il Bonnell a parentes ha sostituito parenti), che egli intende
per ex illis, qui non risere per ispiegare il singolare hunc del v. seg.
il senso sarebbe in tal caso ^ « chi è fra quelli, i quali non han sorriso
alla madre (o ai genitori, se si legge parentes. Gfr. Plaut., Capt., Ili, 1, 21:
Neque me rident per arrident mihi), non è reputato degno ecc. ». Gerto
il senso corrisponderebbe esattamente alla spiegazione che abbiamo dato
del V. 60 ; ma e la durezza e contorsione della frase, e raccordo dei co-
dici su una lezione afEatto diversa, ci dissuadono dall* accogliere la le-
zione di Quintiliano^ non sempre esatto nelle sue citazioni. Preferisco
leggere con Servio e coi codici: cui non risere parentes, ritenendo r^
sere per arHsere. Gfr. Avien., Doscr. 1121 e sopra al v. 60: risu. Senso:
< colui che non fece sorridere gli autori de' suoi giorni ». Il sorriso del
bambino che riconosce i geniton provoca a sua volta il sorriso loro. Gfr.
la spiegazione di Servio citata sopra al v. 60. — nec deus hunc ecc.
74 TEEGUJ BTCOLICA, IT."
Virgilio vuol dire che chi non seppe far sorrìdere gli autori de' suoi
giorni non è mai stato ammesso alla tnen«a d^li dei, né al letto d'una
dea, con allusione alla legenda di Efesto (il Volcanus dei Romani), se-
coDdo Servio e gli Scolii Bernesi. Essendo deforme e mal vieto dalla
madre Era (Giunone), fu precipitato da Zeus (Giove) giù dal cielo uel-
risola di Lemno, e Atena (Minerva) non lo volle avere per isposo. Ma
a me pare ohe miesta spiegazione non regga. Anzi tutto, se Efesto fu
precipitato dall'Olimpo, vi fu poi riammesso, e d'altra parte è noto che
nell'Iliade Charis è detta sua moglie (XVIII, 332 seg. : Xdpi^ Xiirapo-
Kp^Sejivoq, I KoXfi, T^v tintine nepiicXuTi^ 'Ampi-fui'ieiO, come m Ewodo
Aglaia (Theog., 945 seg: 'Arl^aTlv &' "HqjoiOTO; lÌTaKXuTÒ^ d^Ipl'rv^«^ |
óitXoTdtnv XaplTunr fiaXepfiv noifiaaT* Skoitw) e nell'Odissea Afrodite
(Vili, 266 segg.). lo eredo invece ' "
condizioni necessarie perchè un uon
assunto in cielo, di essere ammesto ali
una dea (cfr. Georg., 1, 31 e la mia 1
sarii alti meriti (cfr, ciò che dice C
Ercole, dì Augusto, di Bacco e di '.
tele scopo, se J'uomo non ha amato et
dai genitori. È un tratto che rivela
una delle caratteristiche dell' immorl
risere e dignata (est) come perfetti
sito la mia nota a Georg., I, 49.
P. VERGILI MARONIS
BUCOLICA.
EGLOGA V.
ARGOMENTO.
Due pastori, Menalca e Mopso, s'invitano reciprocamente a dimostrare la propria
valentia nel canto. Si recano in un antro ombroso (vv. 1-19). Mopso canta pateti-
camente la morte del pastore Dafni, spento nel flore della sua gioventù (v. 20-44).
Menalca, dopo di aver rivolto a Mopso parole di encomio, cui risponde Mopso
(vv. 45-55), canta alta sua volta Tapoteosi di Dafni (vv. 50-80). I due pastori si la-
sciano dopo essersi reciprocamente regalati (vv. 81-90).
In quest'Ecloga si ha una specie di carìnen amoebaeum : se non che i due pa-
stori non si alternano nel canto esponendo via via, come in brevi strofette, pen-
sieri e sentimenti sempre differenli (cfr. Ecl. Ili); ma invece cantano Tuno dopo
Taltro per esteso sul medesimo soggetto, Mopso in un aspetto, Menalca in un altro.
È evidente ohe il poeta ha avuto sott'ocohio particolarmente Tldillio 1 di Teocrito
(cfr. anche Idill., VII, 73 segg.) : ma che abbia voluto, sotto il velo d'un*allegoria,
deplorare la morte immatura di 0. Qiulio Cesare e celebrarne Tapoteosi, non si può
provare con validi argomenti ; come non si può determinare con precisione il tempo
nel quale quest'Ecloga fu scritta. — Vedi del resto Tlntroduzione.
76 VERGILI BVCOLICA, v!
EGLOGA V.
Menalcas. Mopsvs.
Menalo As.
Car non, Mopse, boni quoniam convenimas ambo,
tu calamos inflare levis, ego dicere versus,
hic corylis mixtas inter consedimus ulmos?
Mopsvs.
Tu maior; tibi me est aequum parere, Menalca,
sive sub incertas Zephyris motantibus umbras, 5
sive antro potius succedimus. aspice, ut antrum
1, 2. boni va congiunto coli' inf. inflare. Questa oostrozione di un ag-
gettivo con un infinito (della quale si è detto anche ad Ech^ IV, 54),
ristretta a pochissimi casi nel i>eriodo anteclassico, diventa assai frequente,
sotto r influsso greco, in Virgilio ed in Orazio, e si allarga al punto da
penetrare anche nella prosa dell*età posteriore. Esempi di sifiatti aggettivi
sono dociUs (Oraz., Ep., I, 2, 64), indocilis (Oraz., 0(2., 1, 1, 18), nescius
{Georg., II, 467; IV, 470; Aen., X, 502; X;i, 527; Oraz., Od., I, 6, 6; IV,
6, 18; Sat, li, 3, HO), peritus (Ecl., X, 32), prudens (Oraz., Epod., XVII,
47), ecc. Quanto a bonus, cfr. Val. FI., I, 438: tu medios gladio bonus ire
per hostes; Sii. It., XIV, 453 seg.: bonus ille per artem \ crudo luctari
pelago. Cfr. del resto Teocr., Idyll., Vili, 4 : à^cpiu oupfaèev òcòaiifiévui,
d^<pui d€(Ò€tv ; ed Ecl., VII, 5 : et cantare pares et respondere parati.
— calamos... levis, la sam^ogna formata ai sottili canne. Vedi le note
ad Ech, II, 36; I, 2. Alcuni riferiscono levis a versus, ciò che già Servio
disapprovava. — dicere sta qui per canere. Cfr. la nota ad Ecl., Ili, 55.
— à. corylis, dat. dip. da mixtas. Cfr. del resto Ecl., I, 14. L^ordine
delle parole è inter ulmos mixtas corylis. Ho poi ritenuto la lezione
consedimus coi migliori manoscritti. Altri legge considimus.
4. maior, sottint. natu. Cfr. Oraz., Od., 1 V, 14, 14 ; A. P., 366 ; Ces.^
B. C, III, 108, 3; Svet., Auff., 17, ecc. — 6, 6. Si noti la costruzione di
succedimus colla preposiziohe ripetuta (sub incertas,.. umbras) e poscia
col dativo (antro). Altrove hai pur sempre il dativo in Virgilio. Gfr.
Georg., Ili, 418; 464; Aen., I, 627; II, 478; VII, 214; 501; VIII, 123, ecc.
Fu notato che Virgilio coi verbi composti non suole generalmente ripe-
tere la prej^sizione, salvo con certi composti di ab, ad, ex, m, di coi alcuni
sono da lui anche congiunti col dativo. — incertas... umbras, immagine
bellissima per designare il tremolio dell'ombra corrispondente al fluttuare
delle foglie scosse dal vento. Gfr. Galpurn., Ecl., V, 101: tremulas non
eoBCUtit Africus umbras; Rutil. Namaz., I, 284: pineaque extremis
VERGILI BVCOLICA, V. 77
sìlvestris rarìs sparsìt labmsca racemìs.
Menalcas.
Montibus in nostrìs solus tibi certet Amyntas.
MOPSYS.
Quid, si idem certet Phoebuin superare canendo?
Menalcas.
Incipe, Mopse, prìor, si quos aut.Pbyllidis ignes 10
fluciuat umbra fretis, — motantibus: è questa la lezione dei mi-
gliori manoscritti corrotta in mutantibus, come si le^ge in qualche co-
dice ed edizione. Motare è frequentativo di movere ed è qui usato tran-
sitivamente, sottintendendosi l'oggetto eas (umbras). — aspice ut. Gfr. la
nota ad Ecl.^ IV, &. — 7. labrusca, gr. àYpid^ircXo?, è la vite selva-
tica. Gfr. Plin., B. N,, XIV, 16,(18); XXIll, 1,(14). — raris sparsit ...
racemis. Hai qui il verbo spargere nel senso e colla costruzione di ob'
ducere^ circumvestire. Gfr. sotto al v. 40; Ecl., II, 41; IX, 19 seg.; Aen.^
iV, 584; VII, 191. L'espressione adunque corrisponde a sparsis obduxit
racemis.
8. Hbi certet. Come il greco )Lid)C€a6ai, si adoperano dai poeti i verbi
cenare, luctari e pugnare col dativo della persona o della cosa. Tale
grecismo s'incontra la prima volta in Catullo, LXIl, 64: noli pugnare
duoìms. Altri esempi di certare trovi in Ecl., Vili, 55; Georq.^ U, 99;
138; Graz., Od., II, 6, 15 seg.; Epod., XI, 18; Sai,, II, 5, 19 ecc. La lezione
certet è data dal codice Palatino, dal Gudiano, da Servio, ecc. 11 codice
Romano ed altri danno certat. Credono alcuni che a questa lezione siasi
sostituita Taltra per via del certet del verso seg.; ma a me pare più con-
veniente il congiuntivo. Menalca vuole esprimere un ^ suo giudizio come
semplice opinione; di qui il cong. potenziale certet. È in ogni modo più
(ielicato certet.^ che certat. — Amyntas, nome che, secondo Servio, sa-
rebbe allegorico per indicare Cornifìcio. Questo nome del resto ricorre
anche in Ed., II, 35 e 39.
9. L'interpretazione migliore di onesto verso mi par la seguente: « c*è
lorse da stupire che Aminta contènda a me la palma del canto, se è
tanto presuntuoso da volerla disputare persino a Febo? ». Meno oppor-
tuna mi pare quest'altra: « vi è tanta presunzione in lui a disputarmi il
primato nel canto, quanta sarebbe a disputarlo a Febo stesso »; giacché
Mopso, che accusa Àminta di presunzione, incorrerebbe anche alla sua
volta in simile accusa, paragonandosi addirittura a Febo. Si noti che,
sebbene Aminta sia indicato come un presuntuoso, tuttavia Mopso non
afferma ^à la realtà della sua gara con Febo, ma solamente la mera pos-
sibilità di essa; perciò il cong. certet. Questo verbo poi si costruisce qui
coli 'infinito. Tale costruzione è frequentissima nei poeti di tutte le età e
nei prosatori postclassici. Cfr. Enn., Ann., 1, 96 (Mùller) : currus ... per-
vincere certant; XVII, 490: fluctus estollere certant; Lucr., V, 393;
1121 seg.; VI, 509; 1245 seg. Altri esempi in Georg., II, 99 seg.; Aen., II,
^; IV, 443; V, 194; VI, 178; IX, 519 seg.; 533; 557 seg.; X, 130.
10, U. Gfr. Teocr., IdyU., 1, 19 segg. Questo passo insieme con Ecl.^ II,
78 VERGILI BVCOLICA, V,
aat Alconis habes laades aut iurgia Codri.
ìncipe; pascentis servabit Tityrus haedos.
MOPSYS.
Immo haec, in vìridi nuper quae cortice fagi
carmina descripsi et modulans' alterna notavi,
experiar. tu deinde iubeto ut certet Amyntas. 15
14 e III, 81 è ricordato da Ovid., Trista II, 537 seR.: Phyllidis hic idem
teneraeque Amaryllidis ignes \ bucoUcis iuvenis luserat ante modis. —
ignes = amores, Gfr. la nota ad Ecl.^ Ili, 66. Quanto a si quos.,. habes
cfr. la nota ad Ecl., Ili, 52, ma osserva che qui non havvi intonazione |
di disprezzo, come nel luogo citato. 11 senso è poi: € incomincia tu a can-
tare, o Mopso, sia che oggetto del tuo canto siano ^li amori (di Fillide)
le lodi (di Alcone) o le gare (di Codro ». — Pht/tlidis, nome di donna
già messo innanzi in EcL, III, 76, e che ritorna in Ed., VII, 59. È il
nome d'una pastorella immaginaria, né vi è qui alcuna allusione alla
favola di Fillide amante di Demofoonte pel cui amore si uccise e fu con-
vertita in mandorlo. — Alconis, secondo alcuni, come ò più probabile,
è pure nome d'un pastore immaginario; secondo altri, sarebbe un artista
statuario e cesellatore greco del quale è menzione in Culex^ 67 ; Ovìd.,
Met., XIII, 683; Plin., È. N., XXXI V, 14, (40), «ce. — iurgia Codri. Pare
ai più che iurgia qui altro non significhi che le gare nel canto di cui hai
un esempio in Ecl., Ili; ma è molto incerto se il nome Codrus, che ritorna
in Ed., VII, 22 e 26, sia di personaggio reale o finto. V'ò chi crede che
non sia altri che quel larbita di cui Orazio, Ep., I, 19, 15 seg. : rupit
larbitam Timagenis aemula lingua, 1 dum studet urbanus tenditque
disertus haberi, e che da Porfirione è cniamato anche col nome di Ck)raus
e detto Maurus regione (ad Oraz., 1. e). In tal caso Ck>drus sarebbe
stato corrotto in Cordus. Ma tale supposizione, per la quale Codro sa-
rebbe da ritenersi come un uomo troppo volgare e non potrebbe più
identificai'si col poeta lodato in Ed., VII, 22 seg., come v'è ragione di
credere, deve ceaere il campo ad un'altra più credibile, cioè che o Codro
sia un nome finto, oppure quel poeta menzionato nelle sue elegie da
Valgio, come attesta Servio ad Ed., VII, 22 (ediz. Thilo)^ non potendo
essere né il Codro ricordato da Marzial., II, 57, 4; III, 15, 1 e V, 26, 1, né
il Cordo di Gioven., I, 2; né il Codro del medesimo. III, 203; 207. —
12. pascentis, Cfr. la nota ad Ed., IV, 45. — Tityrus qui é un servo o
un amico di Mopso. Gfr. del resto Teocr., Idyll., Ili, 1 seg.: rat bé jlioi
oiIT£< I póOKOvrai kot* 6po<;, xal ó T{Tupo(; aùrà^ éXaOvei. Quanto a
servabit = custodiet, cfr. Ed., HI, 75.
18-16. Immo è qui nel suo vero e proprio senso di particella avversa-
tiva. Mopso rettìfica il detto di Menalca e dichiara di cantare tutt'altra
cosa, volendo provarsi (experiar) a recitare a guisa di canto continuo
quello che aveva inciso parte per parte sulla corteccia di un faggio,
adattando di mano in mano a ciascuna la sua misura musicale. E qui
si osserva che carmina significa le diverse parti onde risulta l'intero
canto, chiamato carmen al v. 45, come è pur chiamato al v. 81 (carmine)
il canto di Menalca, le cui parti separate sono eziandio dette carmina
al V. 55. — modulans alterna notavi ecc. Ciò significa che^ di mano
VERGILI BYCOLICA, y. 79
Menalcas.
Lenta salii quantum pallenti cedit olivae,
puniceis humilis quantum saliunca rosetis,
iudìcio nostro tantum tibi cedit Amyntas.
Mopsvs.
Sed tu desine plura, puer; successimiìs antro. —
in mano che Mopso incideva sul fa^io le varie parti del suo canto, ne
componeva la musica col suono del flauto, alternando così le note musi-
cali colla voce. Quindi alterna è qui in altro significato che in EcL^ III,
59. — tu deinde iubeto ut certet Amyntas. è detto ironicamente. Nota
la costruzione del verbo iubeo coìVut, che non è tanto insolita nella la-
tinità, quanto comunemente si crede. Anzi tutto in Livio si trova pa-
recchie volte iubeo col semplice congiuntivo (cfr. XXIV, 10, 4; XXX,
19, 2; XXXII, 16, 9); inoltre è ffiusta Tosservazione di parecchi (cfr.
Krebs, Antibarbarus^ 5* ediz., p. 637; nella 6^ ediz. lo Schmalz la sop-
prime), che iubeo con ut contiene un*espressione di comando più forte ed
energica che non colFacc. e Tinfinito. Gir. Cic, Act. II in Verr,^ lib. IV,
12,28: Hic tibi in mentem non venit iubere^ut haec quoque referretf ecc;
Liv., XXVIII, 36, 1 seg.: Magoni.,, nuntiatum ab darlhagine est, iubere
senatum, ut classem... in Itàtiam traiceret ecc. Cfr. pure Svet., Tib., 22;
Curz., V, 13, 19 e Vili, 5, 38. Perciò si adoperava iubeo ut volendosi
indicare qualche deliberazione pubblica. Cfr. Gic, in Pis.^ 29, 72; Act. II
in Verr., lib. II, 67, 161; de domo sua, 17, 44, e la rogazione di Q. Muoio
in GeU., N. A., V, 19, 9. Per altri esempi in poesia cfr. Graz., Sat, I, 4,
121 seg.: iubebat j ut facerem quid; Lucan., IX, 896: iussit ut immunes
mixti serpentibus essent. Devesi tuttavia notare che il Palatino, il Gu-
diano ed altri codici virgiliani ommettono.Tt^f. Data questa lezione, puoi
confrontare Plaut., Most., 111,3,^: iute in urbem veniat; inoltre Liv.:
XXIV, 10, 4 ; Tac, Ann., XIII, 15 (ove trovi anche il dativo dipendente
da iubeo come in op. cit., XIII, 40), ecc. — deinde è bisillabo per sini-
zesi, come sempre in Virgilio.
16. Lenta. Gir. Ed, I, 25; III, 38. — pallenti ... olivae, Gfr. Ed, III,
39; Ovid., Met., VI, 81: edere cum bacis fetum canentis olivae. —
17. saliunca. Vedine la descrizione in Plin., È, N., XXI, 7 (20). E altri-
menti chiamata nardo celtico o valeriana celtica.
19. Io ritengo contro il Ribbeck, il Ladewig ed il Benoist, appoggiati
ai codici Palatino, Romano e Gudiano, che questo verso debba mettersi
in bocca a Mopso e non a Menalca. Vien naturale in bocca di Mopso,
che per affettata modestia vuol troncare sulle labbra di Menalca le lodi
che m di lui, e preferisce far parlare i fatti venendo senza indugio al suo
canto: inoltre, come fu Mopso che mostrò Tantro a Menalca, cosi è più
naturale che, giuntivi, sia egli che dica: successimus antro. Del resto,
siccome finora ha parlato Menalca, come potrebbe egli dire a Mopso
che non parli più oltre? — Quanto a successimus col dat., cfr. sopra la
nota ai w. 5 e 6. In desine plura (cfr. Ed, IX, 66) non è necessario
sottintendere dicere» Si trova anche desino colFacc. Gfr. Ecl., Vili, 61:
iam desine, tibia, versus; Gic, ad Fam., VII, 1, 4: Ubenter mehercule
'>^
/
80 VERGILI BVCOLICA, V.
Exstinctum Nympbae crudeli funere Daphnìm 20
flebant — vos coryli testes et flumina Nymphis — ,
cum complexa sui corpus miserabile nati
atque deos atque astra vocat crudelia mater.
non uUi pastos illis egere diebus
frigida, Daphni, boves ad flumina ; nulla neque amnem 25
libant quadrupes, nec graminis attigit herbam
artem desinerem (il Wesenberg però sopprime artem); Sii., XII, 725:
Titania desine bella, — 20. crudeli funere = acerba morte. Di fatto
Dafni mpri nel fiore dell'età. Similmente Aen., IV, 308: moritura,., cru-
deli funere Dido. Gfr. Aen.^ VI, 429: funere mersit acerbo, parlando di
bambini morti. — 21. Nymphis è elativo. Senso: « voi, boschi di noc-
cioli, voi, ruscelli, foste testimoni del dolore delle Ninfe >. — 23. L'uso
di atque.,. atque per et,., et è raro e proprio della poesia. Gfr. Band,
Tursell., I, 6lO seg. Vedi un esempio analogo in Catull., LXVIII, 1^:
haec atque illa dies atque alia atque alia. Ma tanto nelV esempio vir-
giliano quanto nel catufìiano non vi è forse una ragione speciale di a^
monia, voluta dal sentimento che si vuole esprimere, per sostituire àìVet
V atque e dare cosi al verso un andamento più lento ed enfatico? Gfr.
anche Tibull., II, 5, 73 seg.: atque tubas atque arma ferunt strepitantia
caelo I audita; Sii., I, 93 seg. : hic, crine effuso, atque Eennaeae nu-
mina Divae, \ atque Acheronta vocat Stygia cum, veste sacerdos. —
astra vocat crudelia. È noto che gli antichi attribuivano agli astri una
grande influenza sui destini degli uomini. È chiaro ouindi che vocat non
istà qui per invocat ma per dicit. Gfr. Georg., IV, 356: te crudelem no-
mine dictt. Lo stesso significato ha vocor in Terenz., Adelph., V,7,12 seg.:
AESGH. Placet, I pater lepidissume. dem. Euge, iam lepidus vocor.
Quanto poi alla forma sintattica flebant (v. 21) ,„cum„. vocat, cfr. Aen,,
I, 507 segg.: iura dabat.., cum... videt; inoltre Aen,, II, 679 seg.; Ili,
344 segg.; IV, 6 segg. ecc. — mater. Vuoisi che per la madre di Dafni, o^
bata del figlio, s'intenda allegoricamente Venere, la gran madre della eente
Giulia, CUI gettava in lutto l'uccisione di Giulio Gesare. Gfr. Ecl., IX, 47.
— 24. non ulli = nulli pastores. In prosa direbbesi nemo pastor ed
anche nullus pastor. — pastos... egere. La disposizione delle parole segue
l'ordine delle azioni. I pastori non menarono più in quei giorni al pa-
scolo i loro greggi e poscia ad abbeverarsi. Gfr. Mosc, Idyll., Ili, 23 seg.:
dipca h* èOTÌv fi(pujva, xal al pó€^, at ttotI xaOpoi^ | irXaobóiuievai, Todovxi,
Kttl oÙK èeéXovTi véjuieaeai, per la morte di Bione. — 25, 26. fri-
gida... flumina. Gfr. Ed., X, 42: gelidi fontes, — nulla ... nec ...nec
corrisponde alla costruzione greca oòbeti; ... oOt€ ... oOt€. Gfr. Ecl., IV,
55 seg.; Georg., II, 83 seg.; Aen., IX, 418 seg.; XI, 801 seg. — libami.
11 verbo libare equivale ad ore leviier attingere. In questo senso si trova
anche in prosa coiraggiunta di gustu, Gfr. Tac, Ann., XIII, 16 : libata
gustu potto traditur Britannico, — yuadrupes è qui di genere femmi-
nile. Essendo propriamente un aggettivo può impiegarsi in tutti e tre i
f eneri secondo il sostantivo che si sottintende. Qui puoi sottintendere
estia. Altri esempi di femminile hai in Gat., R. R., 102 (103): Si bovem,
aut aliam quamvis quadrupedem serpens momorderit, e in Gic, N, D.,
II, 44, 114 (ove traduce Arato) : quadrupes ... vasta ienetur. Quanto al
VERGILI BVCOLICA, Y. 81
Daphni, tuam Foenos etiam ingemuisse leones
interitum montesque feri silvaeque loquuntur.
Daphnìs et Armenias curru subiungere tigrìs
instituit, Daphnìs thiasos inducere Bacchi 30
et foliis lentas intexere mollibus hastas.
vitis ut arboribus decori est> ut vitibus uvae,
neutro cfr. Plin., H, N., Vili, 25, (37); XI, 36, (42); Colum., XI, 2, 14
e 33. — graminis.., herbam, i recenti e teneri germogli dell' erba, o
anche semplicemente l'erba. Gfr. Georg., I, 134: frumenti.,, herbam;
ancora Ovid., Met., X, 87 e Liv., I, 24, 5. Gfr. inoltre questo passo con
Svet., Ckies., Si : Proximis diebtis equorum greges... comperii pertinacis-
sime pabulo abstinere, parlando dei prodigi prenunzianti la morte di
Cesare. — 27. Poenos è qui un epiteto ornans ed equivale ad Afros.
Gfr. sotto Armenias... Hgris, e vedi anche la mia nota a Georg., 1, 120.
Non si vuol già indicare che TAfrica pianse la morte di Dafni, che è
evidente T imitazione di Teocr., Idylt.^ I, 71 seg.: Tfìvov jiiàv e<X)€C,
Tfìvov X.ÙK01 UipùaavTO, | rnvov xd)^ òpufioto Xéwv àvéKXauac Oavóvra.
— ingemuisse. Di rado questo verbo si costruisce coU'accusativo dell'og-
getto (cfì*. Aen., IV, 692, ove però la lezione è dubbia quanto al caso;
Staz., Teb^ IX, 2; Sen., Eerc, Oet., 1785; Val. Mass., V, 10, 2 ove altri
trova il dat.): per solito si unisce al dat. o all'abi. — 28. loquuntur = fó-
stantur. Gfr. C5c., de Dom. sua, 32, 86 : ut annales populi Romani... lo^
cuntur. Del resto feri equivale al nostro « selvaggi ». ^ 29. et ha qui il
valore di etiam. Il poeta vuol dire che Dafni, oltre agli altri meriti verso
Tagricoltura, che risultano per indiretto dagli effetti prodotti dalla sua
morte (efir. v. 34 segg.), ebbe anche quello di promuovere la coltiva-
zione della vite che, come è noto, si connetteva nell'antichità col culto
di Bacco. Gfr. lo stupendo episodio delle feste di Bacco in Georg., lì,
380 segg. — curru e dativo. Il dativo in ù dei temi in Wj che in origine
non era altro che l'istrumentale, era la forma ordinaria dei tempi clas-
sici; all'epoca dell'impero prevalse la forma in ut. — Armenias... sub-
iungere iigris, allusione al carro tirato da ti^ri sul quale Bacco trionfò
al suo ritorno dall'India dopo di averne soggiogato gli abitanti ed eretti
i suoi altari. Quanto ad Armenias, si può riguardare o come un epi-
teto ornans o come termine specifico adoperato in luogo del generico.
Gfr. sopra al v. 27. — 30. Segue allusione al culto di Bacco. -—
thiasos^ dal greco Oiaaoq (che propriamente significa una riunione di per-
sone che con sacrifizi, danze e processioni rende onore ad una divi-
nità), si adopera spesso ad indicare specialmente le danze e processioni
bacchiche. — inducere non ìstà già per ducere (cfr. ducere choros) ma,
come il greco etadYctv, significa <c introdurre, mettere in uso » e sim. —
Bacchi. Tale è la lezione dei migliori codici. La lezione Bacche, accolta
da parecchi, modificherebbe notevolmente il senso. Il noeta direbbe in
tal caso^ non già che Dafni introdusse nella sua patria le danze bacchiche,
^à esistenti, ma che le istituì egli pel primo in onore di Bacco {Baccho,
dat.), il che non può stare. — 31. È descritto il tirso, gr. 6i3pao^, por-
tato da Bacco e dal suo corteo e consistente in un bastone attorcigliato
di pampini e di edera e terminante superiormente in un pinocchio. —
Untas^ cfì*. sopra al v. 16. — mollibus, cfr. Ecl,, II, 72 e vedi anche
Stampimi, Vergil. Bucol. 6
-L . >■.
i^
82 TERGILI BTCOLICA, V.
ut gregìbus tauri, segetes ut pinguìbus arvìs,
tu decus omne tuis. postquam te fata tulerunt,
ìpsa Pales agros atque ipse reliquit Apollo. 35
grandia saepe quibus mandavìmus hordea sulcis,
infelii lolium et sterìles nascuntur avenae;
Aen»<t VII, 390: molUs,,. thyrsos. Notisi inoltre la costrazione intesDere ali
quid aUqua re e cfr. la mia nota a Georg, ^ li, ^1. — 32, 33. Gfr
Tepcr., Idyll., Vili, 79 seg.: t^ bpui Tal 3dXavoi KÓafuoq, t^ ^oXiòi
ju&Xa ' I T^ Poi b* à MÓaxot;, TCp puiKÓXip al 3óe^ aùrai Chiaro è che ar
boribus qui sta per ulmis. Cfr. ^c^„ II, 70; III, 10; Georg. ^ 1,2; II, 89
367 e le mie note ivi. — 34. tulerunt = abstulerunt, Cfr. Om., II.
Il, 302: fxdpTupoi, oO^ jui^ Kf)p6q ì^av Oavdroio cpépouoai: Ecl.^ IX, 51
Omnia feri aetas, animum quoque. — 35. Pales era presso i Ro-
mani ad un tempo un dio ea una dea, sebbene la festa popolare detta
Palilia o Parilia, che si celebrava il 21 aprile, fosse solo m onore della
divinità femminile. Era la dea dei pastori. Cfr. Serv., a Georg., Ili, 1;
Fest., p. 222 M.). Di fatto, secondo alcuni, il suo nome si connette con
pasco j pa-stor = *pa-sC'tor: ma secondo altri e più verosimilmente con
un tema *pali (cfr. il scr. pàlds) che significa « custode, guardiano » e
sim. Le più antiche tradizioni italiche sono piene di allusioni ad una vita
pastorale e nomade : quindi la divinità protettrice di quelle genti fu con-
cepita come la dea dei pastori. — Apollo. Mentre Pales fu una divinità
prettamente italica, il culto di Apollo fu essenzialmente greco. Egli era
riguardato, fra molte altre attribuzioni, anche come protettore del be-
stiame, attribuzione derivata parte dall'essere egli dio della bella stagione,
in quanto che questa produce le piante necessarie alla nutrizione degli
uomini e degli animali, parte dalla sua funzione di dio della salute e
dell'infermità. Così Apollo fu anche una divinità dei pastori e come tale
aveva molte denominazioni, come èmiari^ioq, ÒTrdujv iixn^wv, |LiaXÓ€K, Ttoi-
)bivio<;, vójLAioi;, dpvoKÓiUTiq, PaXdSiot;, Tpàyioq. — 36. In questo e nei
versi segg. sono indicate le tristi conseguenze dell'abbandonar che fecero
i campi Pale ed Apollo, in seguito alla morte di Dafni. Intendi del resto
còsi: in iis sulcis, quibus grandia hordea mandavimus. — hordea.
Quanto a questo plurale cfr. la mia nota a Qeorg.^ I, 210. Aggiungi che
secondo Servio (a Georg., 1. e): sane reprehensus VergiUus dicitur a
Bavio et Maevio hoc versu hordea qui dixit super est ut tri"
ti e a dicat, il quale verso però è attribuito da Cledonio a Cornificio
Gallo. Cfr. Ribbeck, Proleg., p. 96 seg. ^ grandia. Cfr. Georg., 1, 195:
grandior... fetus; Aen., IV, 405 seg. : grandia... frumenta, — 37. Questo
verso è rìpetuto.in Georg., I, 154 ove però in luogo di nascuntur si ha
la lezione dominantur che, contro l'autorità dei codici migliori, è data
da qualche manoscritto anche per questo luogo. Quanto all'uso che Vir-
gilio ha di ripetere interi versi con o senza mutazione, cfr. le mie note
ad Ed., Ili, 47 e Georg., II, 472. — infelix = infecundum, che non
serve punto al nutrimento. Altrove, Georg., II, 314 si trova infelix...
oleaster. Similmente talora felix = fecundus. Cfr. Georg., II, 81 ; Aen.,
VI, 230; inoltre Paol. Diac. in Fest., p. 92 M.: Fé He e s arbores Cato
dixit, quae fructum ferunt, infelices, quae non ferunt. Anzi è questo
il significato originario del vocabolo che, come fecundus, fetus, femina^
filius (per felius) ecc., si rapporta alla rad. dhè, che significa « porre,
J
-^
VERGILI bvcou<:;a, V. 83
prò molli viola, prò purpurea narcisso
carduus et spinis surgit paliurus acutis.
spargite humum foliis, inducite fontibus umbras, 40
pastores — mandat fieri sibi talia Daphnis —
et tumulum facite, et tumulo super addite Carmen:
« Daphnis ego in silvis, bine usque ad sidera notus,
formosi pecoris custos, formosior ipse».
fare, produrre » e simili. Gfr. del resto Ovid., Fast.^ I, 691 seg.: et careant
hliis oculos vUiantihus agri, \ nec slerilis culto surgat avena solo. —
38. molli viola, « quae coloris teneritale sensum molliter afficit ». Del
resto non di rado si usa mollis per gratus^ iucundus e sim., in relazione
coi nof^tri sensi. Quindi Georg. ,\ 312: mollior aestas; I, 341: mollis'
sima vina; Aen. Vili, 388: amplexu molli, Gfr. anche Ed,, I, 81 e la
nota. — purpureo. Gfr. Plin., H,. N., XXI, 19, (75): Narcissi duo genera in
usum medici recipiunty purpureo flore et alterum herhaceum; ma altrove,
XXI, 5, (12): narcissumvocant. huius alterum genus flore candido, calyce
purpureo. II verso è spondaico. — 89. Ctt. Georg. 1, 151 seg.: se^
gnisque horreret in arvis \ carduus. — paliurus, gr. iraXioupo^, specie
di frutice spinoso. Gfr. Plin., H. N., XVI, 30, (53); XXIV, 13, (71). -
40. spargite humum foliis ecc. Il poeta indica le onoranze funebri che
si debbono a Dafni dai nastori, spargendo di foglie la terra ove deve sor-
gere la sua tomba (v. 42) vicino ad una fonte e piantandovi pure alberi
ombrosi. Similmente Oraz., Od., Ili, 18, 14, dice che in onore di Fauno
spargit agrestis... silva frondis. Quanto alFuso antichissimo di piantare
alberi presso le tombe, cfr. Om., //., VI, 419 seg.: i^b* èiri af\\x ^x^ev
Tiepl bè iTTcXéa^ ècpuTcuaav | vOfxcpai òpeOTid&cq. Per la costruzione del
verbo spargo cfr. sopra la nota al v. 7; per quella di inducite col dat.
e Tace, cfr. Georg., I, 316: messorem induceret arvis; Oraz., Sat., I,
5, 9 seg.: nox inducere terris | umbras... parabat; Fìm„B.N., XXXV,
10, 36, (102): huic picturae quater colorem induxit ecc. Altrove Vir-
gilio usa un'altra costruzione. Gfr. Ed., IX, 19 seg.: quis humum flo-
rentibus herbis \ spargerei, aut viridi fontes induceret umbra? Quanto
poi ad umbra nel senso di « pianta ombrosa », cfr. anche Georg., 1, 157 ;
11, 297 ecc. — 41. m^andat fieri sibi si spiega generalmente per mandai
sibi facienda, non avvertendo che non è classica la costruzione di man-
dare colfacc. del gerundivo. La costruzione regolare invece è con ut o
ne col congiunt. senza ut. Gfr. Schmalz in Krebs, Antib. alla voce
mandare. — 42. carmen, un epitafìo in versi. (ìlfr. Aen., Ili, 287;
Ovid., Met., II, 326; XIV, 442 ecc. — 43, 44. Gfr. Teocr., Idyll., I,
120 seg.: AdtpvK; èydiv Òòe xfìvo^, ó rat; póa(; O&òe vo^eùujv, | Adtpvi^
ó Tvb(; TaOpujq kqI trópTia^ dù&e troTiaòuiv. — in silvis, cfr. EcL, II, 41.
— hinc usque ad sidera notus. Gfr. Aen., I, 378 seg.: sum pius Aeneas.,.
{faina super aethera notus, ed altresì Teocr., Idyll., VII, 93: èoeXd, xd
^ou Kttl Zavòt; ènl Opóvov dToiTC q)djLia. — formosior ipse. In questa
espressione si vede generalmente un'allusione a Giulio Gesare per la sua
Wtà che si reputava un dono di Venere, da cui pretendeva discendere.
È però certo cne « Gesare importava molto di parer beilo, al qual ri-
guardo cfr. Svet., Caes., 45. Si noti ancora che per gli antichi la bel-
lezza fisica costituiva un pregio sì grande, da farlo rilevare anche nelle
Stampini, Vergil Bueol. 6*
L
84 TERGILI BVCOLICA, V.
Menalo As.
Tale tuum Carmen nobis, divine poeta, 45
quale sopor fessis in gramine, quale per aestum
dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.
nec calamis solum aequiperas, sed voce magistrum.
fortunate puer, tu nunc eris alter ab ilio.
nos tamen haec quocumque modo tibi nostra vicissim 50
dicemus, Daphnimque tuum tollemus ad astra ;
Daphnin ad astra feremus : amavit nos quoque Daphnis.
iscrizioni. Gfr. Tiscr. di L. Cornelio Scipione Barbato, quoius forma vir-
lutei parisuma fuit in GIL., I, 30.
45, 46. Tale... quale = tam gratum est... quam. — tuum Carmen
nobis. Ho mantenuto l'ordine delle parole, quale ci è dato dai codici Pa-
latino, Bomano, Gndiano ed altri. — Carmen. Gfr. la nota al v. 14. — quale
sopor. Gfr. la nota ad Ed., Ili, 80 ed inoltre Gic, de Off'., I, 4, 11 : Uom-
mune.., est coniunctionis adpetitus ecc. — 47. aquae... rivo, espressione
pleonastica frequente ne' poeti., Gfr. Ecl., Vili, 87; Lucr., Il, 30; Graz., Od.,
Ili, 16, 29 ecc. ^ restinauere. E notevole questo passaggio dal sostantivo
(sopor, cfr. v. prec.) all'infinito adoperato sostantivamente come soggetto.
Gfr. Georg., Ili, 179 seg.; Aen., Vii, 421 seg.; XI, 180 seg. ecc. Per
soggetto quanto come oggetto. Gfr. Dràger, Hist. Synt., l\ p. 331 seg.
^ 48. calamis. Gfr. Ed,, II, 32. — mag^istrum, intendi Dafni e non
già un altro pastore qualunque da cui Mopso avrebbe imparato Parte del
canto, come pretendono alcuni per sostenere che nella persona di Dafni
è allegoricamente rappresentato Gesare, colla quale supposizione non po-
trebbero più conciliarsi le parole del v. seg. tu nunc eris alter ab itlo,
perchè sarebbe enorme paragonare a Gesare un umile pastore. — 49. alter
ab ilio. Gfr. Hand^, Tursett., I, 43 : Yeteres scriptores ordinem, quo quis
alterum excipit aut sequitur, et ipsam consequutionem hac praeposi-
tione [a] eospresserunt. Seguono molti esempi fra cui Gic, Acad. post.,
], 12, 4o: quartus ab Arcesila /*m7;0raz., ^at, II, 3, 193: Aiax heros ab
Achille secundus; Liv., VII, ì, 10: secundum a Romulo condìtorem.
La prep. a equivale quindi a post. Gfr. del resto Teocr., Idyll., I, 3:
jLi6Tà "ndva TÒ òcOrepov dOXov àrtoxafji. Il Ribbeck ha ritenuto spurio
senza ragione questo verso. — 50. nostra^ intendi carmina. — vi'
cissim, cfr. Ect., Ili, 28. — 51. dicemus, cfr. sopra al v. 2. — tuunii
cioè tuo Carmine aelebratum o magistrum tuum, come è più verosi-
mile. — tollemus ad astra =3 laudibus extollemus. Gfr. sopra al v. 43
usque ad sidera notus; Ed., IX, 27-29: tuum nomen,.. sublime ferent
aa sidera cycni.
52. Leggo Daphnin e non Daphnim, seguendo una lezione adottata
VERGILI BVCOLICA, V. 85
MOPSTS.
An quicquam nobis tali sit munere maìus?
et puer ipse fuit cantari dignus, et ista
ìam pridem Stìmichon laudavit carmina nobis. 55
Menalcas.
Candidus insuelum miratur limen Olympi
sub pedibusqtie videt nubes et sidera Daphnis.
ergo alacris silvas et celerà rura voluptas
Panaque pastoresque tenet Dryadasque puellas.
da parecchi, sebbene non confórme alla massima virgiliana di usare co-
stantemente Tace, in im, non ritenendo io che il poeta abbia voluto sacri-
ficare alla sua massima le ragioni del metro. Colla lezione da noi seguita
si evita un bruttissimo iato. Gfr. EcL^ II, 1 e la mia nota. — amavit
nos quoque Daphnis. In quest' espressione gli allegoristi pretendono ve-
dere un'allusione ai benefizi fatti da Giulio Cesare alla Gallia Cisalpina!
— 64. puer. Cosi è chiamato Dafni perchè rapito dalla morte in gio-
vanissima età: puer è anche detto Menalca al v. 19, come Mopso al
V. 49. — cantari dignus. Presso i poeti si trova non di rado l'aggettivo
dignus usato personalmente coir infinito, specialmente passivo. Cfr.
sotto al v. 89; Gatull., LXYIII, 131: concedere digna; Graz., Ep.^ I, 10,
48: diana sequi; Od.^ Ili, 21, 6: moveri digna; inoltre Sat., I, 4, 3;
25; 10, 72; A. P., 183; 283. Se ne trovano pure esempi in Tibullo,
Ovidio ed altri poeti posteriori, non che in prosatori postclassici come
Valerio Massimo, Seneca, Quintiliano, Plinio il Giovane ecc. È costru-
zione modellata su quella deirdEio^ greco. — 66. Siimichon, nome
di pastore. Qualche codice ed edizione dà la lezione Stimicon.
66. Qui comincia la celebrazione dell'apoteosi di Dafni. — Candidus
è epiteto dato spesso dai poeti a divinità od a uomini innalzati ad onori
divini e significa « splendente d'insigne bellezza » e sim. Cfr. la nota ad
Ed., II, 46. — 68. ergo esprìme qui la causa efficiente. Cfr. Hand,
Tursell., 11,443: < Nam ergo jooniVwr, ubi ipsa intelligitur caussa: ob
hanc causam, vel uhi sensus est : inde factum est, ut, qua ex re, qua de
caussa ». Potresti tradurre per « quindi è che ». — alacris voluptas, è
l'allegrezza che si manifesta esteriormente e non si può contenere. Si
noti che alacer è sinonimo di vehemens: entrambi significano l'idea di
vivacità molto grande, di movimento, di passione; ma il secondo agget-
tivo vi aggiunge anche l'idea di ostilità. Traduci per € vivace ». — ce-
tera rura, perchè rus è termine generico ed abbraccia e le selve e i
pascoli. — 69. Pana. Gfr. la nota ad Ed, II, 32. — Dryadas. Fu
notato che in c[uesto come in altri nomi simili Virgilio adopera costan-
temente la desinenza greca as nel caso accus. plurale. Cfr. Ed., VI, 62:
Phaetkontiadas ; Geora., I, 138: Pleiadas, Byadas ecc. Vedi del resto
la nota a Georg., I, 11. In Ed., X, 62 il poeta per indicare le stesse
L.^ -'
86 VERGILI BVCOLICA, V.
nec lupus insidias pecori, nec retia cervis 60
ulla dolum meditantur; amat bonus otia Daphnis.
ìpsi laetitia voces ad sidera iactant
intonsi montes ; ìpsae ìam carmina rupes ,
ipsa sonant arbusta: «deus, deus ille, Menalca! ».
sis bonus felixque tuìs! en quattuor aras: 65
ecce duas tibì, Daphni, duas altaria Phoebo.
ninfe usa il termine Hamadryades. — 60. Similmente Teocrito in
Idyll.f XXIV, 85 seg., alludendo al tempo in cui Ercole sarà assunto
in cielo, dice : « ^arai h^ toOt' fijLiap, ÓTrtivlKa veppòv èv eòv^ | Kopxa-
póbuiv alveaOm Ibdjv XOko^ oòk èOcXi^oei. Gfr. del resto Georg., Ili,
537 seg. — 61. meditantur ha qui un significato analogo a quello
di cui s'è discorso ad Ed., I, 2, valendo per parante struunt e sim. —
bonus. Gfr. sotto la nota al v. 65. — otia. Gfr. Ed., I, 6. — 62. ipsi
vale qui etiam, adeo e sim., cioè il nostro « persino ». — 63, 64. in-
tonsi = silvosi, incaedui (Servio). Similmente Aen., IX, 681 seg.: con-
surgunt geminae ^uercus intonsaque caelo | attollunt capita, — carmina
rupes... sonant, cioè edunt, canunt. Gfr. Oraz., Epod., IX, 5: sonante
miostum iibiis Carmen ìyra; TibuU., 1, 3, 60: dulce sonant tenui gut-
ture Carmen aves; Properz., Ili, 29 [II, 31], 16: Pythius in longa car-
mina veste sonat. — arbusta. Gfr. la nota ad Ed., I, 39. — deus, deus
ille, Menalca. Il vocativo Menalca fa parte della esclamazione entusiastica
delle rupi e delle piante, che manifestano la loro gioia al poeta, il quale
ne ripete le parole. Si vede quindi che il movimento del pensiero e ben
diverso dal lucreziano (V, 8) deus ille fuit, deus, inclyte Memmi. —
65. bonus ha qui, come sopra al v. 61, il significato di benignus.
Gfr. Aen., XII, 646 seg.: vos o mihi manes \ este boni; inoltre Orazio,
IV, 2, 38; 5, 1 ecc. — felix sta qui attivamente per qui facit felices,
quindi propitius, come in Aen., I, 330: sis felix, nostrumque leves quae-
cumque laborem. — en si unisce qui coli' accusativo^ come spesso in
Plauto e Terenzio. Gicerone ne ha pure un esempio in Phil., V, 6, 15,
se già non si debba leggere hem col Klotz. Gfr. del resto Dràger, Hist
Synt., V, p. 398 seg. Virgilio usa il nom. in Aen., I, 461; IV, 997; V,
639; 672; ma può anche vedersi un accusativo in Aen., Vili; 612. No-
tiamo inoltre come nel v. seg. ad en si sostituisce ecce, esempio rarissimo,
che fa riscontro ad un frammento della Frivolaria attribuita a Plauto
{Plauti Fabb. deperditarum Fragmenta coli. F. Winter, p. 37; cfr. Varr..
L. L., VII, 58, ediz. Spengel*): Ubi rorarii estis? En sunt. Ubi sunt ac-
censi ì Ecce (dove però il Winter sopprime en e legge adsunt). Vedi
anche , Hand, Tursell., II, p. 367. — 66. ecce duas \aras\ tibi..., duas al
taria. È questa la lezione dei migliori manoscritti. Ecco la spiegazione
di Servio: feci,., aras quattuor: tibi, o Daphni, do duas, et duas aras
Apollini, quae sint altaria. novimus enim, aras et diis esse superis
et inferis consecratas, altaria vero esse supernorum tantum, deorum...
quae nunc dat Apollini, quasi deo: Dapnnidi vero aras ponit: nani
ticet eum dixerit deum, tamen mortalem, fuisse manifestum est. Vera-
mente il poeta adoperò la prima volta ara in senso generico (en quat-
tuor aras v. prec), poi in senso specifico colPapposizione di altaria. Ad
ogni modo ara si dice, secondo Servio, ma non sempre, dellaltàre desti-
VERGILI BVCOLICA, V. 87
pocula bina novo spumantia lacte quotannis
craterasque duo stataam tibi pinguis olivi,
et multo in primis hilarans convivia Baccho,
ante focum, si frìgus erit, si messis, in umbra, 70
nato ad un eroe, mentre altare ò quello che è destinato ad una divinità
superna. Tuttavìa Virgilio in Ecl.j l, ora dice ara (v. 7) ora aliarla (v. 43)
laltare sul quale Titìro sacrifica ad Ottaviano, coll^ando il primo vo-
cabolo coli idea di sacrificio sanguinoso, ed il secondo con Tidea del
fuoco sacrificale. È falso q^aindi ciò che affermò taluno, che ara non
si concini con offerte sanguinose, come lo prova anche Lucr., IV, 1228
seg. : multo sanguine maesti \ consperguni aras adolentque aitarla
donis; Tac, Ann.^ XIV, 30: cruore captivo adolere aras. , fas habebant,
Gfr. anche Aen., II, 202 : taurum... mactabat ad aras^ ove aras riguarda
Nettuno, divinità primaria. Del resto altare era propriamente la parte
superiore (mensa) dell'ara che significa Taltare in genere, come eleva-
zione, sulla quale parte superiore si bruciavano te offerte sacrificali.
Gfr. Servio a questo luogo: alti aitarla eminentia ararum. ^^Phoebo.
Anche qui s^è voluto trovare una conferma deiropinione che Virgilio in
Dafni abbia cantato Cesare, data la coincidenza delle ferie pel natale
di Oiulio Cesare (12 luglio) coi ludi Apollinares che duravano dal 6 al
13 di luglio. Invece auesto raccostamento di Dafni e di Apollo si può
benissimo spiegare col fatto, che Apollo fu anche una divinità dei pa-
stori (cfr. la nota sopra al v. 35); che in seguito alla morte di Dafni
è Apollo fra gli dei quello il q[uale con Pale abbandona la terra (v. cit.);
che Apollo è dio del canto ed il più indicato fra gli dei per proteggere
i cultori della poesia e della musica pastorale (cfr. EcL^ III, 62 seg.: Et
me Phoebus amai: Phoebo sua semper apud me \ munera sunt^ e la
mia nota). — 67. pocula bina, intendi due su ciascun* ara, mentre
con craterasque duo (v. seg.) il poeta designa un cratere per ciascuna
delle due are consacrate a Dafni. -^ novo.., lacte, latte fresco. Cfr. Ecl.y
II, 22. Vedi inoltre Teocr., Idyll., V, 53 seg.: ataaib bk Kpr)Tr\pa }iéfav
XeuKOto Y<&^<XKT0(; | xat^ Nù)iq)aK' oraatl» bè koI àbéo(; dXXov èXaiiu (cfr.
anche i vv. 58 seg.). — 68. crateras acc. plur. alla greca. Cfr. la
nota sopra al v. W. Propriamente il crater era un vaso in cui si mesco-
lavano insieme (KCpdvvujuii) vino ed acqua, dal quale il coppiere (plncerna^
pociUator) prendeva di ^uel liquido così mescolato mediante una tazza
(cyathus) con cui riempiva i bicchieri (pocula^ callces ecc.) passandoli
a ciascun convitato a tavola. Ma talvolta serviva di recipiente per altri
liquidi, come qui, per l'olio (cfr. Aen., VI, 225). — Quanto a duo^ ho se-
guito col Ribbeck la lezione dei codici Romano e Palatino seguita da
Servio {duo vetuste dixit, ut ambo: VI, 18: nam saepe seneoo..,
ambo luserat: nam hodie hoc signi ficatu duos et ambos dicimus)
e da altri. ~~ olivi t=2olei olivis egressi. Cfr. Lucr., II, 392; Oraz.,
Sat„ II, 4, 50 eoe. In questo senso è vocabolo poetico. Riguardo al ge-
nitivo determinativo cfr. la nota ad Ecl.y IV, 24. — 69. multo...
Baccho, Cfr. Georg.y II, 190 seg.: multoque fluentes \ sufficlet Baccho
vitis. Del resto, come Ceres per frumento (cfr. Qeorg»y I, 297; Aen,, I,
in ecc.), cosi frequentemente i poeti usano Bacchus per vino. Cfr.
Qeorg,, I, 344; IV, 279 ecc.; Oraz., Od.y III, 16, 34 ecc. Si noti poi
che tutto questo passo sino al v. 73 è un'imitazione di Teocr., Idyll.y
VII, 63-72. — 70. si equivale qui a cum^ che leggesi più sotto
88 VERGILI BVCOLICA, V.
vìna novum fundam calathis Ariusia nectar.
cantabunt mihi Damoetas et Lyctius Aegon;
saltantis Satyros ìmitabitur Alphesiboeus.
haec tibi semper erant, et cum sollemnia vota
reddemus Nymphìs, et cum lustrabimus agros. 75
(v. 74 seg. dove si determinano appunto le due feste, corrìspondepti a
stagione diversa (frigus =s hiemps ; messis == aestas\ nelle quali Me-
nalca farà ogni anno libazioni lietamente solenni a Dafni con vino squi-
sitissimo (v. 71). Altri spiega si... si per sive,.. sive. Gfr. Plaut., (hpt.,
I, 2, 5: si foriSf si intus volent. Quanto a frigus^ cfr. EcL, II, 22. Il
tempo designato da messis è spiegato da Georg., I, 313 seg.: vel cum
ruit imbriferum ver^ 1 spicea iam campis cum messis innorruit ecc.
Anche Plinio, B. N,, XXII, 13, (15). 36; XXIV, 14, (74) usa messis, ri^
spettivamente al plur. ed al sing., per indicare stagione. — 71. vina
...Ariusia, vino, di Ariusia, regione sulla costa settentrionale dell'isola di
Ghio, da cui si traeva il più squisito dei vini della Grecia. Ed è per af)-
posizione chiamato novum nectar si per indicarne la impareggiabile squi-
sitezza, come per designare che da poco tempo era conosciuto e gustato
dai Romani alle loro mense. — calathis. Propriamente il calathus era
un paniere di vimini di cui vedi la descrizione ad Eci,, II, 46 nota; ma
collo stesso nome si indicava talvolta anche una tazza per liquidi, molto
probabilmente cosi chiamata per la sua rassomiglianza nella forma al
canestro suddetto. Gfr. Georg., 111,402 (per latte); Marzial. (ediz. Fried-
lànder). Vili, 6, 16; IX, 59, 15; specialmente XIV, 107 (per vino). -
72. mihiy sottint. sacra facienti, cioè mentre farò le solenni libazioni a
Dafni. — Damoetas, Aegon, nomi di pastori. Il primo ricorre anche in
Ecl., II, 37, 39 ed J^c^, III: il secondo in Ed., Ili, 2. — Lyctius, di Lyctus,
importante città di Greta. Anche Idomeneo è detto Lyctius in Aen.,ll\,
401. Gfr. Ovid.j Met., VII, 490: classis... Lydia = Cretensis. — 73. sal-
tantis Satyros imitabiiur ^^ saltabit Satyrorum more. Gfr. Georg., I,
350, ove è prescritto che l'agricoltore nelle feste di Gerere det motus
incompositos et earmina dicat. Queste danze satiriche e questi canti
erano pure e specialmente parte del culto bacchico (cfr. sotto al v. 79),
col quale sono inseparabilmente legati i Satyri, che rappresentavano le
potenze vitali della natura in tutta la loro pienezza e compaiono spesso
in antichi monumenti come compagni di Bionysos o Bacco. Apparten-
gono alla mitologia greca. Del resto ha importanza la nota di Servio a
questo passo: sane ut in religione saltaretur, haec ratio est, quod nuUam
maiores nostri partem corporis esse voluerunt, quae non sentirei relì-
gionem: nam cantus ad animum, saltatio ad mobilitatem jpertinet cor-
poris. — Alphesiboeus, altro nome di pastore, che ricorre in Ed., Vili,
1 ; 5 ; 62. — 74, 76. haec tibi, semper erunt, intendi « tali sono gli
onori che sempre ti renderemo ». — cum sollemnia vota reddemus
Nymphis. Si accenna probabilmente alle feste che si celebravano dopo
la vendemmia (cfr. le mie note a Geor^., Il, 380 segg.) alla fine delFautunno
in onore di Liber pater (il Bacco italico), nella qual circostanza è verosi-
mile che si tributassero onori anche alle Ninfe, come quelle che figurano
eziandio nel culto di Bacco. Gfr. Oraz., Od., I, 1, 31: Nympharumque
leves cum Satyris chori; 11,19, 1-4: Bacchum in remotis carmina rU'
pibus I vidi docentem, credite posteri, \ Nymphasque discenles etaures]
VERGILI BVCOLICA, V. 89
dnm iuga montis aper, flavios dum piscis amabit,
dumque thymo pascentur apes, dum rore cicadae,
semper honos nomenque tuum laudesque manebunt.
ut Bacche Cereri que, tibi sic vota quotannis
agricolae facìent; damnabis tu quoque votis. 80
Mópsvs.
Quae tibi, quae tali reddam prò Carmine dona ?
nam neque me tantum venientis sibilus Austri
nec percussa iuvant fluctu tam litora, nec quae
saiosas inter decurrunt flumina valles.
capripedum Satyrorum acutas, ecc. Certo non v^era una festa speciale
consacrata alle ninfe. Quanto a vota reddere per solvere^ persolvere,
exsohere, cfr. Gic, de Leg.^ II, 8, 22: Caute vota reddunto. — cum
lustrahimus agros. Si allude alla festa detta Ambarvalia^ nella quale sì
facevano processioni espiatorie pei campi, in primavera avanzata, invo-
cando per le messi la protezione delle divinità campestri, e specialmente
di Cerere. Cfr. Georg. ^ I, 338 seffg. Vedi anche la stupenda descrizione
che fa Tibullo II, 1. Resta quindi spiegato il verbo lustrare^ che qui
significa, come spesso anche in, prosa, circuire^ peragrare e sim. —
77. thymò. Cfr. Georg.., IV, 112. È pianta gratissima alle api. — rore»
Credevano gli antichi che le cicale si nutrissero di rugiada. Cfr. Esiod.,
'Aonì^ 'HpqkX., 395: $ [TéTTiyi] T€ iróoi^ Kal Ppiùaic; Qr\\\3c, èépari : Teocr.,
Idyll..^ IV, 16: ^V) TTpOÙKa^ aiTi2€Tai, tDoircp ó TérriS; — 78 Questo
verso è ripetuto, in Aen., 1, 609. Riguardo a queste ripetizioni di interi
versi cfr. la mia nota ad Ècl.., III, 47. Per i versi che Virgilio ripete con
qualche mutazione, cfr. la nota a Georg.., II, 472. — 79. ut Baccho
Cererique. Gfr. la nota sopra ai vv. 74, 75. — 80. damnabis tu quo-
que votiSy letteralmente « tu costringerai gli agricoltori a compiere i loro
voti », vale a dire <c tu ne esaudirai i voti come un loro dio ». Del resto
damnari vóti o votis è formola solenne. Cfr. Corn. Nep., Timol.^ 5, 3:
dixit nunc demum se voti esse damnatum; inoltre leggi voti in Liv.,
V. 25. 4; VII, 28,4; X, 37, 16. In Liv., XXVII, 45, 8 si legge votorum.
Altrove Virgilio, Aen.., V, 237, usa, collo stesso significato di damnatus
voti^ respre8si(>ne voti reus.
81. reddam^ congiunt. dubitativo. Cfr. Graz., Od.; I, 2, 25 seg.:
qtiem vocet divum populus ruentis\ imperi rebus? Altri esempi tro-
verai in Dràger, Hist. Synt.s I*, p. 30/. — 82. venientis... Austri =
flare incipientis, Cfr. Aen., X,99: venturos... ventos; Ovid., Met.^ VII, 837
ed Art, am.. Ili, 698: aura, veni. Nel medesimo significato trovi Aen., Ili,
481: surgentis... Austros e Graz., Od., Ili, 27, 22: orientis Austri. —
sibilus. In sfmil guisa Lucrez., V, 1380: zephyri... sibila. — 83, 84. Cfr.
Teocr., Idyll., I, 7 seg.: dòiov, ili iroijadv, tò t€òv laéXoq, ^ tò Kaxa-
X^<; I Tfjv* dirò Tfi^ TféTpac; KaxaXetpcTai ùii/óeev óbwp.
VERGILI BVCOLICA, V.
Mbnalcas.
Hac te DOS frE^Ii donabimus ante cicuta.
haec nos < Fornaosum Coiydon ardebat Aleiim »,
haec eadem docuit « cuiuin pecua?» an Meliboei?».
Mopsvs.
Àt tu sume pedum, quod, me cum saepe rogaret,
non tulit Antigenes — et erat tuDC dignua amari —
formosum paribus nodis atque aere, Menalca.
86. ante è qui avverbio. Intendi ante qttam mi/ti reddas dona. Cfr. v. 81.
— cicuta ^ fistula. Cfr. la ilola ad Ed., II, 36 seg. — 88, 87. haec
nos... haec eadem docuit ecc. Letteralmente: < questa sampogna m'iosegnò
osala m'inspirò quei canti che cominciano rispettivamente con Formif-
sum ecc. e con Cuium pecus? >. In altri termini; cai buodo di questa
sampogna ho modulalo ecc. >. Si allude alle Ecloghe li e HI,
88. at. Cfr. Hand,, Tiirselt., I, p. 420; < in rebus opponendis... significai
ex altera parte, e contraria parte, guod Oraeci dicunt hi. Itaproprie com-
ponitur cum perionarum nominibus et cum pronominibus personalibus
at ille, at tu, at ego ». — pedum. Cfr. Fast., p. 249 M.: Pedum est qui-
dem baeulum ineuraum, guo paslores utunlur ad comprehendendai
oees, aul capras, a pedibus. La stessa spiegazione danno Servio e eli
Scolii Veronesi (p. 72, ediz. Keil.) e Bernesi. Cotale vincaslro è Bnche
da' poeti e dagli artisti attrihuito a divinità pastorali, come Pane, i
Fauni, i Satiri eco. — cum ha qui valore concessivo. - 89. tulit ^
obtinuil, eonsecutus est e sim. Cfr. Plaut., Mere., II, 3, 106: ùuod posces,
feres; Ter., Bun., V. 8, 27: id optatum feres ; Graz., Sol,, II, 1, fi aee.:
multa laborum | praemia lalurus, ecc. — et. Cfr. Hand, Tunell., Il,
p. 496: li coniunguntur eliam ea per et, quorum alter um, eliamsi con-
trarium sit, tamen una cum altero coniunclum reperilur. Quae ratio
ita eieplicari potest, quasi et ponatur prò et tamen, et conlra, vel in-
versa oratìone, quamquam, etsi >. — dignus amcri. Vedi la nota eopra
al V. 54. — Antigenes. nome di paatore. — 90. formosum, di bella
forma. — paribus nodis, intendi : pari et aequati tumore nodorum (Servio).
~ aere. Il vincastro era munito di qualche guarnimento di hronzo che
Io rendeva più ealdo ed elefante ad un tempo. Cfr. Teocr,, Idgll., XVII,
31, ove dice della mazza di Ercole: ffibdpeiov okùtciìov, Kexop^T^^*'
GI^ok;.
/'■
ij.