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Full text of "Le bucoliche"

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1 Univenilyfcr-thepurchaMof GreeknDd Latin 
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BUCOLICHE 



VIRGILIO 



CON INTRODDZIONE E COMMENTO 



ETTORE] STAMiPINI 



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TORINO 

ERMANNO LOESCH.ER 

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PROPRIETÀ LETTERARIA 



Torino — Vnonio Boka, Tip. di S. M. e de* RR. Princìpi. 



SALVATORE COGNETTI DE MARTUS 



Stampini, Ytrgii. Bucol. 



PREFAZIONE 



La presente edizione delle Bucoliche di Virgilio è stata da 
me condotta col metodo tenuto nell'edizione delle Georgiche; 
del quale avendo io lungamente discorso nella Prefazione di 
quell'opera, stimo inutile ripetere qui le cose già dette. Soltanto 
non credo di dover tacere che ho voluto rendere piti ricco e più 
indipendente dai lavori altrui questa edizione delle Bticoliche, 
la quale, sì per il favore accordato al mio precedente lavoro, 
sì per il mio lungo studio e il grande amore dell'opera virgiliana, 
riuscirà, spero, bene accetta agli studiosi. E spero pure che si 
riconoscerà il molto di mio che ho aggiunto alle illustrazioni 
già da altri fatte, avendo voluto estendermi assai nelle note 
d'ordine lessicale e grammaticale, particolarmente in relazione 
colla sintassi storica ; per non dire che molte citazioni ed osser- 
vazioni d'ogni genere, le quali il lettore troverà nel mio com- 
mento, non sono state attinte da me ad alcun altro lavoro con- 
simile, ma sono il frutto dei miei studi speciali. E se talora 
ho persino dato luogo nelle mie annotazioni a qualche discus- 
sione sul testo, l'ho fatto, ritenendola necessaria alla piena ed 
esatta intelligenza del concetto virgiliano. Insomma ho voluto 
fare un commento, che mostrasse bensì lo studio de' migliori 
commenti delle Bmoliche^ ma fosse ad un tempo tale da non 
apparire una semplice compilazione, per quanto diligente ed 
utile, ma un'opera che avesse un'impronta sua propria e por- 
tasse qualche non ispregevole contributo all'illustrazione del 
testo. Di guisa che, quale che sia il merito del mio lavoro, 
non credo di avere soverchia pretesa nutrendo la speranza che 
esso possa degnamente figurare fra le più accurate e, tenuto 
conto dell'enorme materiale già raccolto dai filologi che mi 
hanno preceduto, fra le più originali edizioni delle Bucoliche. 

Torino, 10 marzo 1889. 

Ettore Stampini. 



INTRODUZIONE 



Non è mio intendimento, scrivendo questa Introduzione ad 
una edizione commentata delle Bucoliche di Virgilio (1), di 
affirontare con nuova ed estesa discussione le varie ed intricate 
questioni che si riferiscono al lavoro virgiliano. Procurerò in- 
vece di mettere specialmente in rilievo ciò che di più impor- 
tante in alcuni punti dagli odierni studi mi sembra o piena- 
mente assodato o dimostrato assai probabile, senza tuttavia 
rinunziare ad emettere qua e là quelle ipotesi che le contro- 
versie de' critici rendano necessarie. 

E primieramente ci si presenta irta di difficoltà la questione 
della cronologia delle Ecloghe, questione che si connette con 
un'altra non meno complicata, quella della vita dì Virgilio, la 
quale in alcuni de'suoi più importanti momenti è dalle Ecloghe 
stesse ritratta. Certo non vi può essere dubbio ragionevole ri- 
guardo al tempo in cui il poeta si accinse a coltivare la poesia 
bucolica. Ce ne dà esplicita attestazione Tautore di un commen- 
tario alle Bucoliche ed alle Georgiche, che va sotto il nome di 
Probo (2), il quale si appoggiava in ciò all'autorità di Asconio 



(1) Quanto alla forma latina Vergilitts, vedi ciò che ne scrissi nel mio 
lavoro Le Georgiche di Virgilio commentate. Parte prima. Libri 1 e 11, 
Torino, 1884, p. xvii segg. Riguardo poi al titolo di Ecloghe^ riferisco 
Tosservazione del Forbioer (nel voi. Ili della 4" ediz. delle opere di Vir- 
gilio, p. XIX, nota 16): Quae tamen inscriptio minus opta non a Ver- 
gilio ipso profecta est^ sed posterioribus demum temporibus originem 
debet, Cfr, Weichert. de L. Yarii et Cassii Parm. vita et carmm,,, p. 21 
(Veramente avrebbe dovuto citare del W. Topera Poetarum Latt. Hostii^ 
Laevii^ ecc., p. 20 seg., n. 1). Bucolica autem haec carmina ab ipso 
auctare appellata esse, Servius testatur in prooemdo Georgicis praemisso. 

(2) M. Valerii Probi in Virgilii Bucolica et Georgich commentarius... 
Edidit Henricus Keil, Halis, 1848. Non si può certamente reputare che 



VI INTRODUZIONE 

Pediano (1): e tale notizia è pure confermata da Servio (2). 
Ora, siccome da queste testimonianze si ricava che Virgilio si 
mise a scrivere a 28 anni, è chiaro che, essendo egli nato il 
15 ottobre del 684/70, cominciò le Bucoliche negli ultimi 
mesi del 712/42. Sappiamo inoltre che il poeta impiegò un 
triennio attorno alle Bucoliche (3); dunque la composizione delle 
dieci Ecloghe cade negli anni 712 fine — 715 di B. = 42 fine — 
39 av. Cr. 

Sin qui adunque non s'incontrano difficoltà, o almeno non si 
dovrebbero incontrare. Ma queste cominciano realmente, quando 
si voglia determinare il tempo nel quale ciascuna ecloga fu 
scritta, e però il loro ordine cronologico; poiché è appena d'uopo 
di ricordare che l'ordine, in cui sono a noi pervenute, non è 
punto il. cronologico, come troviamo pure notato nel così detto 
commentario di Probo (4). Ora non tutte le ecloghe ci danno 
indizi sicuri per fissarne la data della composizione. Ne man- 
cano la 2», la 3*, la 5* e la 7*: per altro osserviamo subito 
che Virgilio stesso (V, 86 seg.) ci fa sapere di avere scritto 



questo sia il genuino commentario dell'insigne grammatico di Borito; ma 
nulla impedisce di ritenere che del magro commentario a noi pervenuto 
« guter Kern auf Probus zurùckgehen mag », sebbene « durch eine 
Menge freindartiger schlechter Zutaten fast erstickt ist ». (Teuffel- 
ScHWABE, Róm. Lit, p. 678). 

(1) P. 1, 12: Scripsit Bucolica annos naius Vili et XX, Theocritum 
seeutus. P. 7, 7: cum certum sit eum, ut Asconins Pedianus dicit, 
XXVIII annos natum Bucolica edidisse (dove edidisse si deve eviden- 
temente ritenere come equivalente a scripsisse). 

(2) Nel Proem. delle Bue, III, p. 3, 26 (ediz. Thilo): sane sciendum 
Vergilium XXVIII annorum scripsisse bucolica. Gfr. a Georg., iv, 564. 

(3) Gfr. la vita di V. attribuita a Donato, di fonte Svetoniana, nello 
Svetonio di Rbiff., p. 60, 5: bucolica triennio... perfècit ; Servio nella vita 
premessa al comm. delFEneide^ I, p. 2, 7 Th.: tunc ei proposuit Pollio 
ut Carmen bucolicum scriberet, quod eum constai triennio scripsisse et 
emendasse» 

(4) P. 6, 9 K.: Bucolica scripsit, sed non eodem ordine edidit, quo 
scripsit. Gfr. anche Servio nel Proem. cit. delle Bue, p. 3, 15 Th.: de 
eclogis multi dubitant, quae licet decem sint, incertum, tamen est, quo 
ordine scriptae sint. 



INTRODUZIONE VII 

la 2* e la 3* prima della 5^. Per vedere quindi qualche cosa 
di probabile, se non di certo, ìq quest'arruffata questione, è 
me^ierì avere presenti alcuni fatti della vita del poeta. 

È noto che, dopo la battaglia di Filippi (a. 712/42), Otta- 
viano, ritornato in Italia^ dovette soddisfare alle promesse date 
ai soldati, che lo avevano aiutato ad assassinare la repubblica, 
con larghi doni, e particolarmente, mancando di danari, con 
distribuzioni di terre (1), impigliandosi in enormi difficoltà, sì 
per le giuste querele e gli sdegni di coloro che erano barba- 
ramente spogliati di ogni bene, sì per le ingorde brame dei 
soldati che, rotta ogni disciplina, alla parte loro assegnata ag- 
giungevano di proprio impulso, e senza riguardo ai capi, usur- 
pazióni e spogliazioni d'ogni genere (2). Sentirono duramente 
il peso di tale soldatesco dispotismo gli abitanti del Cremonese 
e successivamente del Mantovano; ed il povero poeta rimase 
privo del suo fondo. Era in quel tempo governatore della Qallìa 
Cisalpina C. Àsinio Follione, il quale, dopo essersi adoperato 
con fortuna nelle guerre civili a favore di C. Giulio Cesare, era 
passato alla parte di Antonio (3), allora triumviro con Otta- 
viano e Lepido, ed era già stato designato console. Era Follione 



(1) Dione Cassio, Hist Rom., XLVIII, 6, notava, parlando di Ottaviano 
e di Antonio, che *Hv... év xfl kXtipoux(<? d|ii<poTépoi<; fj irXciaTTi rfìq 
òuvd^euiq èXTr(<; (An. 713). 

(2) Credo opportuno, a schiarimento di ciò che qui io dico e che dirò 
in appresso, di riferire i seguenti luoghi di Appiano, Bell, civ.^ ì quali 
riguardano gli avvenimenti di cui si tratta. V, 12: auvióvT€^ dvà fbiépoc 
è^ T^v *Pdi|Lir]v ot T€ véoi Kal yépovTcq, ^ al YuvatK€<; &^a tote; iraibioi^, 
è<; Tf|v dYopàv, f^ tò icpà, èGpfivouv * oùòèv jièv dbiKfiaai XéYovreq, 

'IxaXMliTai bé òvxeq dviaraoeai y^^ t€ xal tariac,^ ola bop(Xr]irTOi 

13. *0 òè Katcrap rate; iróXeaiv èHcXoYctxo Jxfiv dvdYKTiv, koX èòÓKouv 
oùb'(X»<; dpKéoeiv... dXX' ó arpaxò^ xal rotq y^ìtooiv èirépaivc oùv Oppei, 
irXéovd T€ Til»v Ò€Òo|Liévuiv aq>iai ircpiairóibievoi, xal tò fi)Li€ivov éxXeYÓ- 
)Li€voi' oòòè, èiTiiTXfi(T(TovTO<; aÙTotq Kttl òwpoujnévou TTOXXà dXXa TOO 
Ka{aapo<;, èiraOovTo* èircl xal ti1»v dpxóvTUiv, ibq òco|Liévu/v aq>(Iiv è^TÒ 

èYKpOTè^ Tf\(; dpxnq, xarccppóvouv 15. *0 òè Katoap oòk ^yvóci luèv 

dòiKOUfiévou^, d|bif|xava ò* i^v aòxib. O0t€ Ydp dpYOpiov i^v éq ti|lit*iv Tf\(; 
ffi^ bibooOai T0t<; YCWpYot? k. t. a. 

(3) App., B. C, III, 97. 



Vni INTRODUZIONE 

uomo di larga coltura letteraria, oratore valente, amante della 
poesia, critico acuto, atto insomma ad apprezzare degnamente 
chiunque sapesse nell'arte dei versi elevarsi dalla mediocrità. 
E Virgilio era appunto nel caso di destare vivo interesse in 
siffatto uomo; imperocché da una parte il suo nome da parec- 
chio t^mpo gli doveva essere favorevolmente noto per alcuni la- 
vori poetici, fra i quali era notevole un poemetto intitolato 
Culex {ly, e dall'altra, dimorando PoUione sin dalFa. 711/43 
nella Qallia Cisalpina come luogotenente di Antonio, il poeta 
doveva essergli stato presentato. E qui noto come, checché si 
voglia dire dell'amore che il poeta avrebbe concepito per quel 
servo di nome Alessandro, che ei conobbe alla mensa di Pol- 
lione, e che, dopo averlo da questo avuto in dono, cantò nel- 
l'ecloga 2^ sotto il nome di Alessi (2), il fatto solo del dono di 
cotesto schiavo a Virgilio denota come questi avesse già stretta 
amichevole relazione con Pollione, il quale anzi, riconoscendo 
forse nei versi del poeta una spiccata disposizione a sentire e 
ritrarre la vita in ciò che essa ha di più schietto e di più natu- 
rale, una tendenza a rappresentare la libera e semplice vita pa- 
storale e campagnola, lo aveva esortato a coltivare la poesia 
bucolica (3) andando sulle orme del greco Teocrito. 



(1) Il poemetto, che con questo nome è giunto sino a noi, non deve 
essere di Virgilio, ma, come si congettura, un lavoro fatto da qualche 
imitatore parecchi anni dopo la morte del poeta e sostituito al poemetto 
genuino, dallo stesso Virgilio forse distrutto. Gfr. Teuffel-Schwàbe, R. L., 
p. 465 seg. 

(2) Gfr. la Vita donatiana (p. 57, 1 R.): maxime dilexit.. Aleosàn- 
drum^ quem secunda bucolicorum ecloga Alexin appellata donatum 
sibi ab Asinio Pollione; inoltre Serv., ad Ecl.^ II, 1 e 15 e gli Scolii 
Bernesi (ediz. Hagen) nel proem. alFEcl. cit.; Apuleio, Apol., 10. Mar- 
ziale invece confonde Pollione con Mecenate (cfr. Vili, 56, 9 segg.: Risit 
Tuscus eques.,. et nostrum^ dixit^ Alexin am.es; di più V, 16, 12; VI, 
68, 6; VII, 29, 7 ; Vili, 73, 10); sed is, osserva il Ribbeck (Proleg,,^, 3), 
cum, Afaecenatem prò PoUione nomineC, vagos se magis rumores qwim 
Iiistoriae fidem sequi fassus, 

(3) Lo dice esplicitamente Virgilio neirEcl. Vili, v. 11 seg., ove scrive 
a Pollione: aecipe iussis | carmina coepta tuis. Cfr. Servio nella vita cit. 
premessa all'Eneide, 1, p. 2, 7 Th. 



INTRODUZIONE IX 

Pertanto, quando Virgilio fu travolto nella sciagura dei Cre- 
monesi e dei Mantovani, non si può dubitare che già avesse 
dato qualche saggio di poesia bucolica: si deve anzi supporre 
che già avesse scritto la seconda e la ^^era ecloga, delle quali 
la seconda canta l'amore di Coridone per Alessi (il giovane 
schiavo regalato al poeta da FoUione); e la terea^ oltre a men- 
zionare con tono d'ammirazione i nova carmina (1) che FoUione 
componeva, dimostra come al governatore della Cisalpina tornas- 
sero graditi i versi del poeta, il quale fa dire a Menalca (v. 84): 

« Pollìo amat nostrani, quamvis est rustica, musam ». 

Da ciò mi pare che si possa inferire che la term ecloga sia 
stata preceduta dalla seconda (2), nella quale il poeta chiara- 
mente provava di aver messo in pratica il consiglio datogli da 
FoUione. Di fatto Virgilio riprendendo, nell'amore di Coridone 
per Alessi, il tema svolto da Teocrito nell'idillio XXIII di 
un àvfip 'n:oXiiq)iXTpO(; che àm\yfio<;, ripar ècpdpuj (v. 1) — cosa 
che diede probabilmente occasione agli allegoristi di inventare 
un amore di Virgilio per il servo di FoUione — vi inserì anche 
parte del soggetto dell'idillio III, dove Teocrito introduce un 
capraio che cerca di guadagnarsi l'amore di Amarillide con 
promesse di doni, e parte dell'idillio XI, nel quale Folifemo si 
duole delle ripulse di Oalatea, cui cerca di piegare a più miti 
consigli col ricordarle le sue ricchezze, la sua perizia nel canto 
e via dicendo. Del resto ricordisi ciò che sopra si è detto, cioè 
che la quinta ecloga fa menzigne della seconda e della terza: 
ora, sebbene del tempo in cui fu dettata la quinta manchi un 
certissimo indizio, si può nondimeno congetturare dal contenuto, 
destituito di ogni allusione a persone e fatti aventi relazione 
colla vita del poeta, che anche la quinta è anteriore alla per- 



(1) Sul significato di questa espressione cfr. la mia nota al v. 86 del- 
l'Ecloga. 

(2) E quindi giustissima Tosservazìone del Kolster in Vergils Eklogen 
in ihrer strophischen Gliederung nachgewiesen^ Leipz., 1882, p. 31 : « Es 
ist diese Ekloge die erste, in welcher sich der Einfluss des Asinius Pollio 
auf den Vergil zu erkennen giebt. » 



X INTRODUZIONE 

dita dei beni patita nel 713 dal poeta, come per altro rispetto 
sembra confermato dal fatto che quest'ecloga è accennata nella 
nana (1), la quale, come dimostreremo fra poco, deye cadere 
nel 714, ed ha relazione strettissima coi casi occorsi al poeta 
nella distribuzione del territorio mantovano ai soldati dei trium- 
viri. Certo io non accetto Tidea di quei curiosissimi, come li 
chiama il Bibbeck (2), allegoristi, che nel Dafni dell'ecloga V 
pretendono avere il poeta voluto allegoricamente rappresentare 
0. Qiulio Cesare, tanto più che lo stesso Servio lo dà tutt'altro 
che come cosa sicura, anzi accenna a diverse altre interpreta- 
zioni allegoriche dell'ecloga (3). Penso invece che il poeta vo- 
lesse in apposita ecloga rappresentare più spiccatamente le tra- 
dizioni della vita e della poesia pastorale greca, di cui Dafni è 
appunto l'eroe leggendario, e al quale Teocrito aveva riservato 
« une place d'honneur » nelle sue composizioni (4). E vedo con 
piacere come quest'idea non sia affatto nuova, che, contro l'affer- 
mazione di molti filologi e commentatori di Virgilio, l'hanno 
sostenuta, non è molto, combattendo gli allegoristi, il Eol- 
ster (5), il Krause (6) ed il Feilchenfeld (7) con argomenti 
che, mi pare, non ammettono replica (8). Finalmente, quanto 



(1) Cfr. i vv. 19 e 20 con Ed, V, 40. 

(2) Proleg., p. 2. 

(3) Ad Ecl, V, 20 : mulH dicunt, simpliciter hoc loco defleri Daphnim,.. 
alti dicunt significavi C. lulium Caesarem... alii.., Quintilium Varum.,. 
tamen < crudeli funere » ad quemvis potest referri. Cfr. inoltre Fi- 
largir. allo stesso passo (nel Servio di Lion, li, p. 326) : alii luctum Sa- 
loniniy nonnulli Flacci fratris eius putant. Anche nella Vita donatiana 
è detto che il poeta pianse in Dafni la morte del fratello Fiacco (p. 58, 
1 R.). Cfr. anche gli Scolii Bernesi ad Ed,, V. Proem., e v. 20. 

(4) JoLES Girard, La Pastorale dans Théocrite in Ètudes sur la 
Poesie Grecque, Paris, 1884, p. 276. Cfr. Kolstbr, Op. cit., p. 78. 

(5) Op. e pag. cit. e seg. 

(6) Quibus temporibus quoque ordine VergiHus Eclogas scripserit. 
Beri. 1884, p. 43 segg. 

(7) Be Vergila Bucolicon temporibus, Lips., 1886, p. 17 seg. 

(8) Non so davvero capire come possa anche il Góthling nel sommario 
di quest'ecloga (vedi la sua edizione Teubneriana, 1886, p. xvui (affermare 
che in essa Virgilio esaltò Cesare nella ricorrenza del suo natalizio nel- 



INTRODUZIONE XI 

alla settima ecloga, nulla vieta che sia riferita airanno 713 e 
sia pure considerata come anteriore alla disgrazia toccata al 
poeta in queiranno, e debba mettersi molto probabilmente dopo 
la quinta. 

Certo se il poeta, incoraggiato da Asinio Pollione, e forse anche 
dal suo condiscepolo Cornelio Gallo (1), il quale aveva nella 
Gallia Cisalpina il mandato di esigere denaro dai municipi ri- 
sparmiati nella divisione di terre (2), recatosi a Boma, potè 
in mezzo a tanta moltitudine inascoltata di infelici supplicanti 
per la stessa cagione (3), ottenere da Ottaviano la restituzione 
de' suoi beni, egli dovette il singolarissimo favore non solo alle 
raccomandazioni, che le sempre crescenti e minacciose pretese 
de' soldati, non soddisfatti degli assegni avuti, potevano rendere 
inefficaci (4), ma particolarmente ai suoi meriti poetici, come, 
se non erro, lo dice esplicitamente il poeta stesso nella IX 
ecloga (5). E forse fin d'allora l'astuto triumviro ideava di farsi 



Tanno 712. Del resto questa pretesa apoteosi di Cesare, che si attribuisce 
a Virgilio, è assai bene spiegata dal Kolstbr, p. cit.: < Die Zeit, welche 
auf Vergils Leben folgte, konnte von Apotheosen nicht horen^ obne sofort 
an die Vergotterungen der Kaiser (bei Vergils Lebzeit natùrlicb des Julius 
Gasar) zu denken, daber ist die Frage, ob sich nicht eine solcbe auch 
hinter Daphnis' Apotheose berge, gar leicht erklàrt, und der nàchste 
Schritt lag nahe, in Daphnis* Tod eine allegorische Hinweisung auf Gàsars 
Ermordung zu suchen ». 

(1) Gomm. di Prob,, p. 6, 1 K.: Sed insintMtus per ComeUum Gal* 
lum^ condiscipulum suum, promeruit, ut agros suos reciperet. 

(2) Gfr. RiBBECK, De vita et scriptis P. Yerg, nell'ediz. min., p. xix. 
Il Kb AUSE però, Op. cit., p. 21, sostiene che Gornelio Gallo avesse tale 
ufficio soltanto sotto ramministrazione di Varo, successore di Pollione, e 
dà questa ragione, in vero poco convincente : Nam ante eclogam VI apttd 
Yergilium mentio fit eius nulla, quamquam et ipse poeta fuit posteaque 
Maranis amicus familiarissimus (cfr, ed. X). 

(3) Gfr. i passi di Appiano riportati sopra a p. VII, not. 2. 

(4) 11 RiBBEGR, Proleg,, p. 5, spiega la restituzione fatta a Virgilio col 
desiderio che aveva Ottaviano di cattivarsi togatorum quoque animos 
quantum fieri posset. E una ragione molto debole. 

(5) V. 7 segg.: Certe equidem audieram... \ omnia carminibus vestrum 
servasse Menalcan. Ed è anche giusta Tosservazione del Feilghenfbld, 
a proposito delFecloga I, Op. cit., pag. 20 : quod Caesarem sibi permi- 



XII INTRODUZIONE 

del giovane poeta mantovano un cantore devoto alla sna poli- 
tica, un glorificatore delle sue gesta e della sua casa. Chi co- 
nosca alquanto, a fondo la tetra figura di Ottaviano, chi ricordi 
il freddo calcolo che informò tutta la vita di quest'uomo, sin 
dalla sua prima comparsa nel mondo politico romano, non ne- 
gherà che, senza una grave ragione, non poteva indursi ad un 
atto che avrebbe potuto provocare gravi malcontenti n^li uo- 
mini sul cui braccio ei doveva necessariamente contare per co- 
lorire i suoi disegni. Ad ogni modo sta il fatto che Virgilio 
riebbe il suo, ed espresse tosto la sua viva riconoscenza per il 
ricevuto benefizio neirecloga prima : ma, astenendosi dalla mera 
espressione di un'egoistica compiacenza, manifestò anche deli- 
catamente, mediante la figura dì Melibeo, la sua pietà per la 
sorte degli sventurati suoi compatrioti. Per la qual cosa questa 
ecloga deve essere stata composta verso il principio dell'anno 714, 
quando Ottaviano già era entrato nel suo 23^ anno di età. 

Se non che sembra che qui ci si presenti una difficoltà per 
via della nona ecloga, nella quale il poeta dice chiaramente, 
che le armi avevano reso vano il salutare effetto de' suoi 
carmi (1), e però dimostra di essere stato spogliato de' suoi 
beni. Tanto è vero che il Krause, esaminando con molta dot- 
trina ed erudizione (2) la prima e la nona ecloga, non che 
tutte le testimonianze antiche riguardanti e le ecloghe stesse 
e la spogliazione de' beni sofferta dal poeta, credette di poter 
venire alla conclusione, cui pure venne il Nettleship (3), che 
cioè la prima ecloga sia stata composta dopo la nona, e che 
per conseguenza il poeta fu afflitto, per ciò che concerne i suoi 



sisse dicit ut securus oves pasceret et hucolicae poèsi incumberet (v. 10: 
« ludere qttae vellem calamo permisit agresti ») haud scio an ipsam 
poésin causam fuisse cur patrimonio suo parceretur ille intellegi vo- 
luerit. 

(1) V. 11 segg.4 carmina tantum, \ nostra valent, Lycida, tela inter 
Martia, quantum i Chaonias dicunt aquila veniente columbas. 

(2) Op. cit., p. 13 segg. 

(3) Ancient lives of Vergila pag. 41 seg. Gfr. Feilchbnpbld, Op. cit., 
p. 21 seg. 



INTRODUZIONE XIII 

beni, da una sola ed unica calamità. A dire il vero, le testi- 
monianze degli antichi non ci permettono di pensare ad una 
nuova divisione di terre, per le quali al poeta fosse di nuovo 
tolto ufficialmente, diremo così, quanto gli era già stato resti- 
tuito: ma, levando via tutto ciò che in esse riscontrasi di vario 
e di contradditorio ne' particolari, e mirando solo alla sostanza 
del fatto, queste ci conducono ad aver per fermo che Virgilio 
non potè a lungo fruire del privilegio ottenuto, causa la sol- 
datesca prepotenza ; anzi, stando a ciò che si legge nel commen- 
tario di Probo (1) , nella Vita attribuita a Donato (2) ed in 
Servio (3), poco mancò che non fosse ucciso. Insomma il fatto 
si può benissimo spiegare con una di quelle violenze che in 
qne' tempi erano frequentissime, e che i capi erano impotenti 
a reprimere (4). Virglio, reintegrato nel possesso de' suoi beni, 
si trovava chiuso in un cerchio di ferro: i suoi vicini non 
erano piìl i pacifici coloni di un giorno , ma soldati, barbari, 
insaziabili, prepotenti, feroci, indignati del favore concesso al 
poeta (5) : nulla di più naturale quindi che il poeta subisse la 
sorte che tocca sempre al più debole in mezzo a coloro che 
ripongono la giustizia nella forza brutale. Sulle modalità del 
fatto non oserei fare alcuna congettura: stimo per altro inne- 
gabile che la nona ecloga , nella quale, come si è veduto , si 
accenna espressamente ad una concessione fatta al poeta, ma 
resa irrita e nulla dalla empietà soldatesca, sia stata composta 



(1) P. 6, 4 K. Più sotto (n. 5) è citato Finterò passo. 

(2) P. 59, 7. R. Altri particolari sono esposti nella Prefaz. di Donato 
alle BacoL, p. 5, ed. Mùller. 

(3) Gfr. il Proemio alle Bue. I, p. 3, 5 Th. Inoltre ad Ecl IX, 1 ; 11 ; 
16 ecc. 

(4) Gfr. nuovamente i passi di Appiano citati più sopra a pagina VII, 
nota 2. 

(5) Gomm. di Prob., p. 6, 2 K: promeruit^ ut agros st40s reciperet, et 
eo facto concitauerat in se ueteranos adeo^ ut a Milieno Torone primi- 
pilari paene sit interfectus^ nisi fugisset^ ut contestatur ipse, cum ait,.. 
e qui sono citati i vv. 14-16 delFecloga IX. 

Stahpim, Vergil, BucoL U 



XIV INTRODUZIONE 

dopo la prima (1), appartenendo pur sempre al medesimo 
anno 714 e prima della pace di Brindisi. 

Scampato al pericolo colla fuga, Virgilio non ritrovava più 
nella Transpadana l'appoggio che prima lo aveva sostenuto va- 
lidamente. In luogo di Pollione, richiamato dal governo di 
quella regione, era stato mandato da Ottaviano nelF aprile del 
714 Alfeno Varo (2), il quale , quantunque fosse stato , come 
pare, condiscepolo del poeta, nella scuola dell'epicureo Sirene (3), 
e sebbene Virgilio gli avesse promesso di cantare le sue im- 
prese guerresche, qualora si fosse adoperato in favore dei Man- 
tovani e di lui stesso (4), nonostante, o che non potesse, o che, 
come è assai probabile (5), non volesse, frustrò le speranze che 
in lui aveva riposto Virgilio. Questi allora con bel garbo si 
sottrasse all'impegno preso di cantare epicamente l'uomo che 
per i suoi concittadini e per lui nulla di buono aveva fatto ^ 
collo scrivere l'ecloga sesta, nella quale si scusa di non potere 
cimentarsi nell'epica poesia, sentendosi atto soltanto a « deduc- 
tum dicere Carmen » (v. 5), e soggiungendo, col rivolgersi a 
Varo (v. 6-8): 

« nunc ego (namque super tibi erunt qui dicere laudes, 
Vare, tuas cupiant et tristia condere bella) 
agrestem tenui meditabor harundine musam ». 

Ma c'è di più: il poeta scaltramente cercò di temperare l'è- 



(1) Bene adunque il Feilchenpeld, op. cit., p. 22 : hoc igitur ex nona 
ecloga cognoscimus poétae agrum oh carminum eius laudem paulisper 
servatum^ sed gliscente militum violentia ei ereptum esse nec multum 
in hac re afuìsse quin ipse ab invadentibus occideretur. 

(2) Serv. ad Ed, VI, 6; IX, 27 ecc. 

(3) Serv. ad EcL, VI, 13. Gfr. gli Scolii Veronesi, uniti al Commentario 
di Probo neiredìz. del Keil, p. 74, 5. 

(4) EcL, IX, 27 segg.: Vare, tuum nomen superest modo Mantua 
nobis, I Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae, \ cantantes sti- 
bìime ferent ad sidera cycni. 

(5) Di fatto più tardi venne accusato da Cornelio Gallo di non avere 
ottemperato agli ordini categorici che aveva ricevuto per la divisione dei 
terreni, non lasciando ai Mantovani che pochi tratti paludosi. Cfr. Serv. 
ad Ed, IX, 10. 



INTRODUZIONE XV 

logie che indirettamente è fatto a Varo da' suoi versi, coU'in- 
trodurre nell'ecloga le lodi di Cornelio Gallo (v. 64 segpf.), il 
quale dovette nelle gravi circostanze del poeta niostrarsi molto 
ben disposto verso di lui e probabilmente caldeggiò indamo 
presso Varo la causa di Virgilio e dei Mantovani (1). Conse 
guentemente l'ecloga sesta dovette succedere, con un breve in- 
tervallo di tempo , alla nona, e però fu scritta nel 714, an- 
ch'essa prima della^pace di Brindisi. 

Besta che si dica del tempo in cui furono composte la 
quarta^ Vottava e la decima ecloga. Rispetto alla quarta, nel- 
l'Argomento da me premesso alla medesima (p. 61 di quest'edi- 
zione), ho esposto le ragioni, le quali persuadono a ritenerla 
scrìtta neiranno della pace di Brindisi, c^e è il 714 , anno in 
cui Asinio Pollione ebbe definitivamente il consolato, al quale 
da parecchio tempo era stato designato. Qui non ripeterò ciò 
che ho scritto. Aggiungerò soltanto che, siccome la pace di 
Brindisi fii conchiusa d'autunno, così l'ecloga si deve ascrivere 
alla fine del 714. Quanto poi alle numerose e cervellotiche 
ipotesi che si fecero su quest'ecloga per riguardo al miracoloso 
fanciullo cantatovi dal poeta, oltre a quelle da me citate nel- 
l'Argomento , basterà che io rimandi il lettore al proemio di 
detta ecloga, quale si ha negli Scolii Bernesi, ove si trovano 
le più disparate interpretazioni (2) , colle quali nobilmente ri- 
valeggiano alcune di moderni filologi (3). E vengo 2ÌVottava 
ecloga. Anche di questa si può agevolmente stabilire la data. 



(1) L'accusa mossa da Cornelio Gallo a Varo (vedi la nota preced.) ne 
è prova, sebbene indiretta. 

(2) Oltre al Proem. airEcloga IV. cfr. gli Scolii ai w. 2, 7, 8, 15, ecc. 

(3) Tra gli altri Th. Plùss, in Des VergiUus vierte Ecloge (nei Jahr- 
bùcber far class. Phil., v. CXV a 1877), di cui ecco qualche tratto : p. 76 
< ein kind des gottes Bacchus soli der kònig der verjùngten orde und des 
verkiàrten menschengeschlechtes werden ». P. 78 : « wenn der vater Liber 
ist, ist die mutter Libera ». — Naturalmente non è qui il luogo di discor- 
rere, anche solo di volo, delle bizzarrie medievali concementi quest'ecloga. 
Sol che vedi la classica opera del Comparstti, Virgilio nel Medio Evo^ I, 
p. 133 segg.; Oraf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del 
Medio Evo, II, p. 204 segg. ecc. 



XVI INTRODUZIONE 

Asìnio PoUione, cui è dedicata (1) , dopo il suo consolato, aveva 
capitanato una spedizione nella lUirìa , riportando una splen- 
dida vittoria sui Partini (2), dei quali trionfò il 25 di ottobre 
del 715(3). Veramente Virgilio non menziona il trionfo, ma 
solo la vittoria che di poco lo precedette (4) ; anzi i versi 6 
e 7 (5) mostrano , ad onta delle difficoltà che presentano per 
una retta interpretazione, che, mentre il poeta scriveva quest'e- 
cloga, PoUione non era per anco tornato a Boma. Onde io stimo 
che l'ecloga sia stata composta verso il principio deirautunno 
del 715. E qui aggiungo un'osservazione. 11 nome di PoUione 
non è neirecloga veramente espresso, ma non vi può essere 
dubbio che le parole di dedicazione riguardino lui : per la qual 
cosa giustamente fu òonfutato lo Schaper, perchè, accettando 
una falsa interpretazione di Servio (ad Ed., Vili, 6), contrad- 
detta tuttavia da altre indicazioni date nel suo commentario 
(ad JEfe?., Vili, 10 e 12), volle vedere neirecloga ottava glo- 
rificate le imprese di Ottaviano, trasportando conseguentemente, 
come del resto fecero anche altri, Tecloga fuori del triennio di 
cui sopra si è ampiamente parlato (6). Al contrario Y ecloga 
ottava entra nel triennio, poiché^ anche volendo, ciò che non 
è evidentemente necessario né ragionevole , stare col massimo 



(1) Cfr. i vv. 6-13. 

(2) Cfr. Dion. Gass., XLVIII, 41, ove però non è detto del trionfo, ri- 
cordato invece da Graz., Od., II, 1, 14 segg.: Polito . . . | cui laurus ae- 
ternos honores \ Dehnatico peperit triumpho. 

(3) Vili K, Novem. Cfr. GIL, voi. I, p. 461 (in Acta triumphorum 
Capitolina) e p. 478 (in Tabulae triumphorum Barberinianae). 

(4) hanc sine tempora circum \ inter mctrices hederam Ubi serpere 
laurus (v. 12 seg.). 

(5) tu mihij seu magni superas iam soma Timavi, \ sive oram llly^ 
vici legis aequoris. 

(6) Cfr. la 6« edizione curata dallo Schaper del Virgilio del Ladewig, 
Berlino, 1876, voi. 1, p. 56 eeg. Vedi poi la confutazione dello Schaper 
in Krausb, Op. cit., p. 58; in Feilchbnfkld, Op. cit., p. 40 segg. Gfr. 
anche Ribbeck, Proleg.^ p. 11. È nota la teoria dello Schaper relativa- 
mente ad una € zweite Recension » delle Bucoliche, cui sarebbero state 
aggiunte, tra il 727/27 ed il 729/25, la 4», la 6« e la 10« ecloga. 



INTRODUZIONE XVII 

rigore alle date, quando si dice che un autore impiegò tanti 
anni a scrivere un'opera, o cominciò nella tale o nella tale altra 
età, Virgilio compì il suo 28® anno di età il 15 ottobre del 
712/42, ed il trionfo di Pollione per la sua vittoria sui Par- 
tini, preceduto dalla composizione dell' ecloga ottava^ avvenne 
il 25 ottobre del 715/39, come si è già ricordato. 

Ma a quale anno allora assegneremo la decima ecloga? A 
detta di parecchi, questa ecloga, che il poeta chiama il suo 
extremum laborem (v. 1) nel campo della poesia bucolica, sa- 
rebbe stata composta parecchio tempo dopo il triennio cui ap- 
partengono tutte le altre, e precisamente nella primavera del 
717/37 (1). Ora, associandomi pienamente agii argomenti ad- 
dotti dal Bibbeck, dal Krause e dal Feilchenfeld (2) , non 
trovo nessuna ragione per negare che si debba la decima inchiu- 
dere nel triennio sopra designato, e sostengo che va riferita 
agli ultimi mesi del 715/39. Ed in vero coloro che la assegna- 
rono, come il Forbiger, il Benoist (3), ecc. al 717 , si fondano 
su una arbitraria interpretazione data ai vv. 44, segg. Si sa che 
Teologa, di cui discorriamo, riguarda l'infelice amore di Cor- 
nelio Gallo, amico del poeta, siccome s'è veduto, per una donna 
di troppo facili costumi, che qui è chiamata Licoride e fu 
cantata da Gallo stesso, insigne poeta elegiaco, anzi il primo 
che trapiantò nel suolo romano l'elegia erotica degli Alessan- 
drini (4). Era una mima conosciutissima in Boma e liberta di 
Volumnio Eutrapelo: il suo vero nome era Citeride(5). Ora 
Virgilio ci fa sapere (v. 23) che essa abbandonando Gallo, 

< perqae nives alium perque horrida castra secutast », 



(1) È ridea del Voss (cfr. VirgiVs Idndliche Gedichte von J. H. Voss, 
Einleitung airEcl. X; inoltre Kolster, Op. cit., p. 203 ecc.). 

(2) Opp. citt. RiBBECRf p. 10 seg.; Krause, p. 59-65; Feilchenfeld, 
p. 42 segg. 

(3) Vedi Tediz. del Forbiger (4») del 1872, 1, p. 164 e quella del Benoist 
del 1876^ I, p. 89, di cui cfr. pure la piccola ediz. del 1880, p. 5. 

(4) Teuppel-Schwabb, Op. cit., p. 476. 

(5) Cfr. Filargir., ad Ecl., X, 22 (nel Servio di Lion, II, p. 327) ; Servio, 
Proem. ad Ed. X. Inoltre Gic, ad Fam.y W, 26. 



XTin INTRODUZIONE 

e fa che Gallo si lamenti in questi termini (y. 44 segg.) : 

< nunc insanas amor duri me Martis in armis 

tela inter media atque adversos detinet hostes. 

tu procul a patria — nec sit mihi credere tantum — 

Alpinas, ah dura, niyes et frigora Rheni 

me sine sola videa. > 

Ora non mi pare che si debba assolutamente interpretare questo 
passo deirecloga nel senso che Licorìde seguisse in Gallia qual- 
cuno che facesse parte della spedizione condotta in Aquitania 
da Agrippa. Imperocché, come osservava giustamente il Bib- 
beck (1), poteya benissimo Gallo nel suo animo addolorato 
figurarsi i patimenti dell'amica, ancorché nulla intomo ad essa 
ei sapesse di preciso, salvo « eam perque nives alium perque 
horrida castra secutam esse » (2). Non voglio già dire con 
ciò che nel 715 non ci sia stata nessuna impresa di Agrìppa 
in Aquitania; anzi, contro la troppo assoluta affermazione di 
parecchi, come il Krause (3) , che non vi sia testimonianza al- 
cuna per mettere cotale impresa nel 715, si può osservare, 
come già osservava il Eolster (4) , che, stando ad Eutropio (5), 
sembra che si debba appunto ascrivere a quell'anno la vittoria 
di Agrippa sopra gli Aquitani. Ma, comunque sia la cosa, noi 
sappiamo che, fatta la pace di Brìndisi, per la quale fu effet- 
tuata una nuova spartizione dell'impero fra i triumviri (6) , la 
Grallia toccò ad Ottaviano, il quale poco dopo vi si recò per 
sedare alcuni tumulti (7), mentre Antonio andò a combattere 
i Farti. E così resta pure confutata l' affermazione di Servio , 



(1) Proleg., p. 10. 

(2) Gfr. anche Krause, Op. cit., p. 59 seg. 
(3), Pag. cit. 

(4) Op. cit., p. 203. 

(5) Hist. Rom. (ediz. Dietsch), VII, 4 (3) : Bellatum per Caesarem 
Augustum Octavianum et M. Antonium adversus Sextum Pompetum. 
Pax postremo convenite 5. Eo tempore M, Agrippa in Aquitania rem 
prospere gessit. Anche il Ribbegk, p. cit., è di quest'opinione. 

(6) Appian., V. 65. 
(7; Appian., V. 75. 



INTÌIODUZIONE XIX 

che Licorìde scappasse con Antonio (1); e stimo che Servio 
fosse tratto in siffatto errore dall'aver Ietto, che una volta essa 
fu la ganza dì M. Antonio, confondendo evidentemente i tempi (2). 
E questo basti intomo all'ecloga decima, che perciò io penso 
debba appartenere alla fine del 715 (3). 

Conchiudendo pertanto senz' altro (4) questa questione dalla 
cronologia delle Ecloghe, possiamo ritenere almeno come pro- 
babile, che l'ordine cronologico delle Ecloghe sia il seguente: 
2% 3» 5», 7% 1% 9», 6% 4», 8», 10» da ripartirsi nel modo 
seguente: 2» e 8» negli ultimi mesi del 712; 5* e 7* nel 713 
prima della divisione dell'agro Mantovano; 1*^ verso il principio 
del 714; 9* e 6» nel 714 prima della pace di Brindisi; 4* nel 714 
dopo la pace di Brindisi ; 8* verso il principio dell'autunno del 
715; 10» verso la fine del 715. Perchè poi il poeta abbia va- 
riato l'ordine col quale venne dettando le sue Ecloghe, non è 
dato di sapere con certezza. Soltanto pare che egli stesso (5) 
ponesse in principio della collezione quella che ora è l'ecloga 
prima, forse perchè tornava a glorificazione di Ottaviano. Besta 
così aperto il campo alle congetture (6). 



(1) Ad. Eclog.^ X, 1 ; hic. . . Gallus amavit Cytheridem meretricem^ 
libertam Volumnii, quae^ eo spreto, Antonium euntem ad Qallias est 
secuta. 

(2) Cfr. Cic, Philipp. II, 24, 58; ad Att. X, 10, 5; 16, 5. Quest'amore 
di Antonio per Giteride, o Licorìde che dir si voglia, o anche Volumnia, 
dal nome del patrono, si rìferìsce all'anno 705; ed il Ribbeck nota giu- 
stamente che nel 708 Antonio Taveva lasciata, avendo sposato Fulvia. 

(3) Naturalmente non posso qui esporre e neppure menzionare le altre 
opinioni che si sono espresse intorno all'ecloga 10*. Certo alcuni filologi 
con ipotesi strane, messe avanti per amore di novità, hanno, non chiarite, 
ma ingarbugliate le questioni : è quindi bene lasciarle da parte, come p. e. 
l'ipotesi del Flach (cfr. i Jahrbùcher cit., v. CXIX, a. 1879, p. 791-98), che 
si fonda in parte sulla pretesa non identità di Giteride con Licorìde (p. 794). 

(4) A ben diverse conclusioni pervenne il Sonntaq nei suoi Beitrdge 
zur Erkldrung Yergilscher Eclogen^ Frankfurt, 1886, p. 5-7, nota; ad 
ogni modo le sue osservazioni sulla 4* e la 10* Ecloga, di cui particolare 
mente si occupa, non mancano di valore. 

(5) Gfr. Georg., IV, 565 seg.; Ovid., Amor., I, 15, 25. 

' (6) Vedine riferìte alcune dal Feilghenfeld, Op. cit., p. 15, noi. il 



XX INTRODTJZIONK 

Un'altra questione, certo di minore importanza, ma che non 
può essere dimenticata per via degli studi e delle controversie 
che ha promosso, è quella della così detta tessitura o composi* 
zione strofica delle Ecloghe. Si sa che, dopo che alcuni filologi 
si furono adoperati a dividere, chi in un modo chi in un altro, 
in istrofe gli Idillii di Teocrito, il Ribbeck pensò di applicare 
pure a Virgilio un analogo sistema (1), e dopo il Ribbeck ven- 
nero il Qebauer (2) , il Peiper (3) , il Kolster (4) , che , quasi 
gareggiando a chi meglio riuscisse a tagliuzzare in istrofe più 
meno lunghe le povere Ecloghe, fecero bensì un grande sciupìo 
d'ingegno e di carta, ma non vennero, secondo il mio parere, 
a risultati accettabili; per non dire che dalle loro mani non 
uscì sempre, senza essere malconcio, il testo delle Ecloghe. Del 
resto nella stessa Germania non mancarono filologi, i quali 
si mostrarono risolutamente avversi a quel sistema di partitura 
strofica (5) ; anzi G. Hermann stesso, che s'era pure fra i primi 



(1) Ueher die Composition von Yergilius* Eclogen in Jahrbùch. fùr class. 
Phil. V. LXXV, a. 1857, p. 65-79. 

(2) De poetarum graecorum bucolicorum, inprimis Theocriti carmi- 
nibus in Eclogis a Vergilio expressis. Voi. I, Lips., 1861. 

(3) Der refrain bei griechischen und lateinischen dichtern in Jahr- 
bùch. ecc., V. LXXXVll, a. 1863, p. 617-623 e 762-766; v. LXXXIX, a. 1864, 
p. 449-460 ; v. XCI, a. 1865, p. 344 seg.; v, XGVli, a. 1868, p. 167 seg, 

(4) Op. cit. 

(5) Ecco il giudizio del Teupfel (Op. cit., p. 455), cui recentemente il 
GÙTHLiNG (Op. cit., p. vili), dichiarò di pienamente associarsi: « Wem 
etwa durch die Ausstattung der Gedichte mit Aap d fi', aaaa, à à à a 
U8W. das Yerstàndniss derselben und die Freude daran erhòht werden 
solite, dem sei das von Herzen gegónnt; wir kònnen es nicht von uns 
rùhmen und haben die tTberzeugung dasz die ganze Hypothese vor einer 
unbefangenen Betrachtung der Eklogen selbst nicht Stand hàlt Auch 
konnte dieselbe ohne die herkòmmliche Auswerfung einer Anzahl Verse 
die ihr hinderlich waren und ohne Annahme etlicher Lùcken an Stellen 
wo sonst Niemand etwas vermissen wùrde (wie 8, 58. 10, 47) nicht durch- 
gefùhrt werden. Was bei den Wechselgesàgen (wie 3, 60. 7, 21) selbst- 
verstàndliche Forderung war, das durfte, schoa zur Unterscheidung von 
ienen, nicht kurzweg auf die Gedichte im Ganzen ùbergetragen werden ». 
E presp di mira direttamente il Ribbeck. Anche il Klouger, nella sua 



INTRODUZIONE XXI 

occupato della questione a proposito della poesia bucolica greca (1), 
aveva avvertito i filologi del pericolo cui si andava incontro col 
volere ad ogni costo e senza notevoli riserve e distinzioni tro- 
vare una composizione strofica negli Idillii di Teocrito. Di fatto, 
d(^o di aver notato che gli Idillii di Teocrito si dividono in due 
classi — precisamente come noi dobbiamo dividere le Ecloghe 
di Virgilio — « pronti vel duo inter se canentes aut loquentes 
introducuntur, vel unius tantum cantus sermove exponitur » (2) ; 
e dopo di avere, quanto agli Idillii della seconda specie, distinto 
quelli che sono caratterizzati da un verso intercalare, da quelli 
che mancano dì tale caratteristica, pei quali ultimi avverte 
come riesca più difficile la composizione strofica; dopo di avere 
finalmente affermato come ad ogni modo, nel volerla determi- 
nare, si venga, nella migliore ipotesi, soltanto ad un grado di 
probabilità e non di certezza (3) , soggiunge queste memorande 
parole : « maior etiam dubitatio moveri poterit de iis poematis, 
in quibus nullum quod canatur Carmen profertur, sed poeta ipse 
vel narrat aliquid vel sua cogitata exponit. Verendum est enim 
ne* ìpsi nobis somnia fingamus perdamusque operam, si artifi- 
ciosas stropharum comparationes comminiscamur, de quibus ipsi 
poetae ne cogitaverint quidem. Viderique potest id eo probjabi- 
lius esse, quod saepenumero dubitari potest, sic an aliter con- 
stituendaesint strophae ». E non è a dire che gli strofisti, 
come vorrei chiamarli, non abbiano avuto presenti queste cosi 
sane avvertenze: p. e., il Gebauer così sì esprime, prima di 
proporre il suo sistema riguardo a Teocrito e Virgilio (4) : 
« Accedo jam ad quaestionem satis lubrìcam ac periculosam , 
quae, quo magis ìnterpretibus ansam dedit ad ingentem conjectu- 



recente edizione delle Bucoliche e Georgiche (Praga, 1887), ne respinse il 
sistema strofico. Cfr. Sabbadini in Riv. di Fil. ed Istr. class, v. XVI, p. 323. 

(1) De arte poesis Graecorum Bucolicae (Opusc, Vili, p. 329 segg.). 

(2) P. 330. 

(3) P. 338: Si haec aliquid prohabilitatis habent^ quod fateor eiusmodi 
esse ut, si quis veris similia esse concedati vera autem esse negete non possit 
aUquo invictoargumento re/ufart(equiseguonole parole maior etiam eoe), 

(-1) Op. cit., p. 78. 



xxii nmiODUziONB 

rarum audaciam, eo aorius devìtanda declìnardaque videtur: 
eam dico questìonem, num verisimile sit, Theocrìtum et Yer- 
gilium carmina stia in strophas divisisse ». Ma, persuaso che 
si debbano riconoscere delle strofe nei due autori, ad onta delle 
sue dichiarazioni di somma cautela (1) , cadde di fatto nell'ar- 
bitrario e in contraddizione colle sue stesse premesse. E questa 
<;ontraddizione fu giustamente rimproverata al Peiper dal 
Haag (2), il quale invece, in ordine al sistema di divisione 
strofica nelle Ecloghe , mette innanzi idee giudiziose, che si pos- 
sono in massima accettare; e ciò dico perchè non voglio io 
certamente, col censurare il Bibbeck ed i suoi seguaci, negare 
che vi sia, in parte , in alcune ecloghe una tessitura strofina , 
cosa del resto che non negava neppure il Teuffel (3). 

Il Dr. Haag, prepdendo le mosse da una distinzione analoga 
a quella che abbiamo veduto proposta da G. Hermann , stabi- 
lisce due classi di Ecloghe (pag. 4) : « Altera continentur car- 
mina, in quibus ratione dramatica duo inter se canentes vel 
loquentes introducuntur, altera, in quibus unius cantus sermove 
pronuntiatur >. Inoltre: « Prior carminum classis, quae ambe- 
baea vel alterna vocantur , in partes duas dividi potest: alte- 
rius partis carmina ita composita sunt, ut qui prior cantat, 
duos vel quattuor versus pronuntiet, eum autem ita alter exci- 
piat, ut totidem versibus altercando alterum sive elegantia sua- 
vitateque dicendi sive gravitate sententiarum superare conten- 
dat (Ecl. Ili et VII); alterius partis carminibus continentur 
magnae cantilenae vel ex versibus numero paribus compactae, 
quae continenter canuntur (7, 20-44, 56-80) vel in pares ver- 
suum numero strophas redàctae, quae versu intercalari inter se 



(1) P. cit. Diligenter vero irta cavere studui, quae nisi vitaveris re- 
igiosissime, haec tota doetrina vana et futtlis erit, ne aut ejicerem 

versiis ad sensum necessarios aut adderem non necessarios aut conjun- 
gerem quae sunt sejungenda, quae connectenda sunt separarem. 

(2) De ratione strophica . carminum bucolicorum Vergila, Beri. 1875, 
p. 3 : nonne mirandum est, Peiperum idem, quod in alios animadvertat^ 
ipsum peccasse? 

(3) Vedi il passo più sopra citato (p. XX, noia 5). 



INTRODUZIONE XXHl 

discernuntur (Vili), ant colloquia ex versibus numero ìmpa- 
ribus composita (I e IX). Altera vero classis carminum buco- 
licorum, in quibus unius cantus sermove exponitur, ex eclogis II, 
lY, VI, X eonstat » (p. 4 seg.). Data una tale divisione delle 
Ecloghe, la quale stimo doversi totalmente accettare, il Haag 
ammette potere esistere una distribuzione strofica nella prima 
classe soltanto, ma non in tutte le ecloghe che ad essa appar- 
tengono, e nemmeno in qualche ecloga intera, ma solamente 
nella parte che abbraccia canti alterni ovvero cantilene estese. 
Ne segue che una distribuzione strofica si può accettare in una 
parte (la cantata) delle ecloghe III, VII ed Vili; ma neire- 
cloga V tutto quello, che di certo si può osservare, è che il poeta 
ha voluto stabilire una esatta proporzione fra le due cantilene, 
quella di Mopso (w. 20-44) e quella di Menalca (vv. 56 80), 
facendole entrambe di 25 versi. Non esistono strofe dove non 
c'è canto, ma soltanto colloquio: onde nessuna partizione stro- 
fica si ha da fare nell'ecloga I e nessuna nella IX ( « nisi 
forte », dice il Haag a proposito dì questa (p. 16), « illas can- 
tilenas Theocriteas Vergilianasqu^ excipis » (1)); e a più forte 
ragione manca l'organismo strofico nelle ecloghe II, IV, VI, X. 
E conchiude il Haag con queste parole, alle quali volentieri 
sottoscrìvo: « Gomparationes strophicae carminum bucolicorum 
Vergilianorum in exiguam partem compellendae sunt. In stro- 
phas dividendi mea quidem opinione sunt tantum cantus alterni 
et cantilenae, quas memoravimus » (p. 23). 

Per altro, se appare subito una serie dì strofe di due versi 
nell'ecloga III dal v. 60 al 107; di quattro versi nell'ecloga VII 
dal V. 21 al 68, una difficoltà ci si presenta nell'VIII, dove il 
verso intercalare (refrain)^ sì nella cantata di Damone, come in 
quella dì Alfesibeo (vv. 17-61 e 64-109), distingue evidente- 
mente le singole strofe. Poiché da una parte stando al testo 
com'è, io trovo successivamente strofe di 5, 4, 6, 5, 6, 4, 5, 6, 

m 

4 versi (e le strofe sono nove)\ mentre dall'altra si hanno strofe 
che sì succedono dì 5, 4, 4, 3, 5, 6, 4, 6, 4, 5 versi (e le strofe 



(1) Di fatto ai vv. 23-25 rispondono i vv. 27-29; ai vv. 3943 i vv. 46^. 



XXIV INTRODUZIONE 

sono dieci). È manifesto quindi che, come è, il testo virgiliano non 
si presta ad ana rispondenza strofica di una cantai^ all'altra: 
ma bisogna vedere se non ci sia ragione di toccare il testo. 
E qui confesso che, sebbene io sia in generale molto ripugnante 
a toglier versi e indicare lacune nei testi, pure non posso nel 
caso presente non riconoscere che il testo dell'ecloga Vili deve 
essere leggermente modificato. E primieramente trovo inserito 
infelicemente e afEatto fuori di luogo tra il v. 75 ed il 77 l'in- 
tercalare « ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Da- 
phnim », il quale distribuisce in due strofe separate versi evi- 
dentemente collegati pel senso : ora, toglieìido quell'intercalare 
intruso, si ottiene una strofa omogenea di 6 versi (1), corri- 
spondente alla 3^ strofa, che è pure di 6 versi» del canto di 
Damone. Inoltre mi par chiaro, che dopo il v. 58 vi sia una 
lacuna di un verso : il senso è incompleto e dovrebbe necessa- 
riamente attendersi uno sviluppo più ampio (2). Ora, se si am- 
mette che è caduto un verso dal testo, noi abbiamo una strofa 
di 5 versi, anzi che di 4, rùltima del canto di Damone, rispon- 
dente ad una stro& del pari di 5 versi, che è pure l'ultima del 
canto di Alfesibeo. In quella vece ridicolo ed ozioso è il verso 
50^ (3): sopprimendolo, abbiamo una strofa di 4 versi, la terzul- 
tima del canto di Damone» che corrisponde in guisa chiastica 
alla penultima del canto di Alfesibeo, che è parimente di 4 versi; 



(1) € terna tibi haec primum triplici diversa colore 
Ucia circumdo, terque hanc altaria circum 
effigiem duco; numero deus impare gaudet. 

necte tribus nodis terno s^ Amarylli, colores ; 
nectey Amarylli, modo, et ^Veneris' die ^'vincula necto*. 
ducite ab urbe domum^ mea carmina, ducite Baphnim. » 

(2) Gfr. il Bbnoist nella sua nota a questo verso. Del resto quasi tutti 
i ocMnmentatori moderni riconoscono questa lacuna. 

(3) Basta a convincersene, la semplice lettura dei vv. 48-50. 

crudelis! tu quoque, mater^ 
erudelis mater, magis at puer improbus ille, 
improbìÀS ille puer ; crudelis tu quoque, mater. 

kw^ il GÒTHUMe nella sua citata ediz. ritiene come interpolato quest*ul- 
làmo verso. 



INTRODUZIONE XXV 

laddove la terzultima di queste, che è di 6 versi, risponde alla 
penultima di quello, che diventa, calcolando di un verso la la- 
cuna^ similmente di 6 versi^ nel modo seguente: 

4 6 5 

X 
6 4 5 

e però le due cantate vengono a corrispondersi perfettamente 
secondo questo schema : 

546564465 

X 
546564645. 

Ecco le uniche concessioni che posso fare agli strofisti, e sono 
ben poche! 

Ora sarebbe il caso di discorrere dell'arte di Virgilio e delle 
relazioni che corrono tra le sue Ecloghe e gli Idilli di Teocrito : 
ma l'argomento è troppo vasto, perchè io possa qui anche solo 
toccarne le linee generali. Nel mio commento ho procurato di 
far risaltare i principali passi, in cui è palese l'imitazione di 
Teocrito: questo credo che possa essere bastante perchè lo stu- 
dioso intelligente si faccia un' idea chiara del come Virgilio 
siasi assimilato largamente il contenuto dei carmi teocritei. 
Soltanto mi sia lecito esprimere qui una mia idea. Negli studi 
letterari è invalsa la consuetudine di istituire de' confronti, 
specialmente fra poeti di diversa età, cui o vocazione o delibe- 
rato proposito spinse sulla stessa via nella regione dell'arte. 
Tanto più poi si è tentati di addivenire a paragoni, quando è 
accertato che un poeta cercò di conformare l'arte sua alle opere 
lasciate da altro poeta, scegliendolo quale maestro e modello, 
siccome è appunto il caso di Virgilio, che prese ad imitare 
Teocrito. Ora io dico, che nel campo della poesia latina, certi 
confronti non conducono sempre a risultati seri, quando si abbia 
di mira la relazione che corre tra i poeti romani ed i greci. 
Tutti sanno che i Romani tolsero da' Greci non pure gli schemi 
de' vari generi poetici, eccezion fatta della satira, che è tutta 
romana , ma idee , sentimenti , imagini , miti , comparazioni, 
fatti dì ogni genere. I poeti romani, tolti i satirici, non s'in- 



XXYI INTRODUZIONE 

Balzarono mai, salvo in parte Gatallo e Lucrezio, a qaella po- 
tente originalità, che è spiccatissima caratteristica della poesia 
greca. Dacché Roma entrò nell'orbita dell'ellenismo, dacché 
l'ammirazione per gli stupendi monumenti dell'arte greca di- 
venne venerazione ed adorazione, dacché Roma si prefisse di ri- 
valeggiare colla Grecia, non battendo una via propria nell'arte, 
ma seguendo quella stessa nella quale i Greci avevano impresse 
orme indelebili, la vera originalità diveniva impossibile: l'imi- 
tazione, anche solo nell'aspetto formale dell'arte, produceva i 
suoi effetti sul pensiero, trasportandolo necessariamente nella 
cerchia dell'ellenismo. Persino la così detta epica storica, quan- 
* tunque pigliasse i fatti dal mondo romano, nello sceglierli, nel- 
l'ordinarli, nel vivificarli, per presentarli alla fantasia del let- 
tore non già come fossili dissepolti della storia, ma come 
creazioni viventi, non tradisce manifestamente lo studio del- 
l'epopea e in generale dell'epica greca? E non fu certo piccolo 
merito de'poeti romani, se, messisi in una via pericolosa, riu- 
scirono, nonostante la palese imitazione dei modelli greci, a 
imprimere nelle loro opere un'impronta profonda di romanità. 
Ciò vuol dire, che seppero non di rado assai bene assimilarsi 
l'arte greca : vuol dire, che seppero, in un lungo lavoro di pre- 
parazione, sceverare nelle opere de' Greci gli elementi adatti 
alla vita ed alla civiltà romana, da quelli che tali non ere- 
devan che fossero. La poesia greca era adunque diventata pei 
Bomani publica matenes (l), che legittimamente poteva dive- 
nire privati iuris, date certe cautele e riserve, dalle quali però 
a quella indipendenza, in che consiste Toriginalità, come la 
concepiamo noi moderni, la distanza è ben grande. Di guisa 
che, quando Terenzio nel prologo degli Adelphoe si appellava 
al giudizio degli spettatori se, introducendo nella sua commedia, 
che era tolta da Monandro, un luogo dei ZuvairoOvrjaKovTcg 
di Difilo, egli commettesse un furto o non piuttosto si appro- 
priasse cosa che era stata negletta da Plauto (2), si faceva te- 



(1) Oim., Art. /'., V. l.U. 

(2) Gfr. i vv. 6-14. 



INTRODUZIONE XXVII 

stìmone dì ciò che in fatto d'arte sentivano i Romani del suo 
tempo> che per rammirazione e Timitazione degli exemplaria 
graeca stanno molto al di sotto dei poeti dell'età augustea. 

Non faccia adunque meraviglia che Virgilio abbia così am- 
piamente imitato e, direi quasi, copiato Teocrito: egli voleva 
diventare il Teocrito latino, senza scostarsi guari dal modello 
che aveva davanti; l'imitazione diveniva necessaria: il suo se- 
colo stesso, co' suoi pregiudizi letterari, gliel' imponeva. L'imi- 
tazione tornava certo a scapito della fedele rappresentazione 
della realtà: ma, badiamo, a molti particolari dell'arte, sui 
quali noi moderni non possiamo e non vogliamo transigere, 
non ci si badava punto da'Bomani: e però, come, a voler ci- 
tare un esempio, Plauto non si faceva pùnto scrupolo di far 
parlare attori palliati di Campidoglio, di Yelabro, di dittatori, 
di pretori, di edili, di questori e via dicendo; di trasportare in- 
somma in città greche costumi e fatti prettamente romani, anzi di 
mescolare questi coi greci ; così, per converso, in Virgilio, vicino 
alle rive del Mincio, raccolti in uno i loro greggi, si disputano 
il premio del canto Coridone e Tirsi, Arcddes ambo (1). 

Belativamente alle notizie sui principali e più antichi codici 
contenenti le Bucoliche di Virgilio, mentre io rimando il let- 
tore alla mia edizione delle Georgiche (2) e, per più ampie 
indicazioni, ai Prolegomena del Eibbeck (3), qui stimo oppor- 
tuno di notare che, dei sette codici scritti in carattere capitale, 
che più meno monchi e malconci sono a noi pervenuti, quattro 
soli contengono parte delle Bucoliche, e sono il Palatino (P), 
il Komano (E), il Veronese (V) ed il Mediceo (M), ma in guisa 
tale, che non è mai . possibile per alcuno degli 829 versi, i 
quali compongono le Bucoliche, avere la lezione di tutti e 
quattro: più spesso non si può avere che la lezione dì due 



(1) Ech, VII, 4. 

(2) Nota I, pp. xi-xiii. 

(3) Gap. XIII, p. 265 segg. Consulta anche il 5^ fascicolo della Palèo- 
graphie des Classiques Latins di Emile Ghatblain, Parigi 1887. 



XXVIII 




INTRODUZIONE 




codici: di 92 versi non 


si ha che la lezione di un solo co- 


dice (R), come 


lo dimostra il seguente 


prospetto dato dal 


Ribbeck (l): 








Ecl. 


I 


1 m 26 


PR 


» 


III 


27 52 


PBV 


» 




53 70 


PR 


» 




71 — mi 51 


R 


» 


mi 


52 V85 


PR 


» 


V 


86 VI 21 


PRV 


» 


VI 


22 47 


PR 


» 




48 86 


MPR 


» 


VII 


1 11 


MP 


» 




12 37 


MPV 


» 




38 Vili 18 


MP 


» 


VIII 


19 44 


MPV 


» 




45 X9 


MP 


» 


X 
54. 


10 fine. 


MPR. 


(1) Op. cit., p. 4 



P. VERGILI MAEONIS 



BV^OOLIO^ 



EGLOGA I. 



ARGOMENTO. 

Finge il poeta ohe il pastore Melibeo, cacciato dal possesso de* suoi campi per 
effetto delia distribusione del territorio Mantovano fra i veterani dei triumviri, 
mentre prende tristamente la via dòiresilio, spingendosi innanzi un gregge di capre, 
incontri Titiro, il quale nella generale sventura se ne sta sicuro e tranquillo al- 
Tombra di un faggio. Titiro spiega a Melibeo per qual cagione egli abbia potuto 
fruire di cosi eccezionale fortuna e gli narra che andato a Roma, quando già era 
entrato nella vecchiaia (v. S9) per ottenere la libertà dal suo padrone, non avendo 
prima, per soddisfare a* capricci di Qalatea, potuto mettere insieme il necessario 
peculio (v. 31 segg.), fu appagato nelle sue brame. Cosi, essendo state restituite da 
Ottaviano al suo padrone le terre, che gli erano state tolte, egli rimaneva come 
9ili€u$ al suo servizio traendo vita beata. Àirincontro Melibeo, paragonando mesta- 
mente la felicità del vecchio Titiro, che si rimane in patria, colla sventura propria, 
accenna alla vita errabonda che gii ò riserbata, e dà un addio ai luoghi ov*era 
stato felice. Titiro, poiché s'è fatta sera, lo invita a cenare e passare la notte in 
casa sua. 



STAMPO», Vergil. BucoL 



VERGILI BVCOLICA, I. 



Meliboevs, Tittrvs. 



Meliboevs. 

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagì 
^ìlvestrem tenui musam tueditaris avena: 

L Tityre. L'etimologia di questo vocabolo è dubbia. Nel lessico di 
Esichio si legge t ( t u p o <; . adrupo^ . KdXajiio^ . f\ 6pvt(;: al.qual luogo 
M. Schmidt riporta in nota il passo di Eustazio, p. 1157, 38 : Tirupoi 
AwpiKCJ^ oi adrupoi. Con questa spiegazione s'accorda Eliano, Var. 
Hist.y HI, 40: oi auTXop^uTal AiovOaou Zdrupoi flaav ot ùu* èviuiv 
TlTUpoi òvouaZó^cvoi. Gfr. Strab., X, 7, che mette i Titiri fra i Satiri 
ed i Sileni. E Servio: Laconum lingua Tityrus dicitur arie.s maior 
qui gregem anteire consuevit: sicut etiam in comoediis invenitur; e 
gli Scotìi Bernesi : Tityrus Siculorum lingua hircus dicitur, vel Ti- 
tyrus lingua Laconica villosus aries appellatur. Se e vera la spiega- 
zione -di Servio : aries maior^ può forse ammettersi la derivazione del 
vocabolo dalla rad. tu « crescere, essere grande, aver forza », con raddop- 
piamento : Ti-TU-po^ ; cfr. Tt-xov, Zf-ouqpo-^. Par certo ad ogni mooo 
che abbia un significato attinente alla vita pastorale e sia quindi un 
nome adatto a pastori. Gfr. Teocr., Idyll.y III. — patulae^ da pateo^ che 
distende largamente i suoi rami e perciò produce molta ombra. Gic, de 
Orat,^ I, 7, 28 e Ovid., Met.^ VII, 622: patulis,.. ramis; Ovid., Afei., I, 
106 : patula,.. arbore. Vedi del resto Teocr., IdylLy XII, 8: aKi€piP)v ò' ùirò 
q)TiYÓv. — recubans = securus accumbens, — tegmine. Cfr. Lucr., II, 
663 e Gic, Nat. Deor., II, 44, 112 (Aratea): sub tegmine caeli. — 
fagi. Si è osservato che non crescono faggi nei dintorni di Mantova. Se 
ciò era a' tempi del poeta, questi poteva però averne fatto crescere nel 
suo podere, quasi per cospicuo ornamento. Gerto egli ne fa più volte 
menzione. Gn*. Ect.^ Il, 3; IX, 9. — 2. silvestrem.,. musam = car^ 
men silvestre^ pastoricium. Gfr. Ecl.y VI, 8: agrestem tenui medi' 
tabor harundine musam. Vedi anche III, 84. Lucr., IV, 587 : fistula 
silvestrem ne cesset fundere musam^ ove troviamo appunto mìtsam nel 
significato di carm^en, e V, 1396: agrestis,.. tum m>usa vigebat; Oraz., 
Sat.y II, 6, 17: m.usaque pedestri. — Il verbo, meritori vale qui « eser- 
citare ». Il Bréal ed ilBailly nel loro Diction. Étymol, lat. alla voce me- 
diar, p. 185, accettano la derivazione di quel verbo dal greco juicXc- 
Tflv, come già stabilivano gli antichi, tra cui Servio, notando che, come 
le parole incXérn, ineXérriiua erano divenute termini tecnici nelle scuole, 
nel teatro e nell'arte militare, dovettero passare in tale qualità a Roma 
e che appunto meditari e m^ditatio designano ogni specie di esercizi, 
come appare da Plaut., Pers.^ IV, 2, 4 seg.; Terenz., Adelph., V, 6, 8; 
Gic, Brut., 88, 302; Plin., Paneg., 13, 1; Geli., N. A., XX, 5, 2; Plin., 
H. N., XVII, 19, (30), 137; XI, 25, (30), 87 ecc. Gonfronta sovratutto per 
questo passo Plin., H. N., X, 29, (43): meditantur [aliae intendi lusci- 
niae].,. versusque quos imitentur accipiunt, -— tenui,,, avena. L'aggettivo 
non esprime già il genere umile della poesia bucolica, come pensava 
Servio, ma è un epiteto d'ornamento equivalente al nostro « sottile », 



VERGILI BVCOLICA, I. 3 

nos patriàe fines et dulcia linqnìmus arva; 

nos patrìam fiigimiis: tu, Tityre, lentus in umbra 

formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5 

TiTYRVS. 

Meliboee, deus nobìs baec otia fecit. 

tratto dalla natura stessa del cannello o stelo delPavena selvatica 
(armena), che serviva di strumento per comporre le rustiche melodie di 
cui si valevano i pastori come di preludi ed intermezzi alle loro can- 
zoni. Questo rustico flauto o sampogna è anche da Virgilio chiamato al 
V. 10: calamus; EcL, II, 37; III, 22: fistula; III, 27: stipula; V, 85: 
cicuta (cfr. II, 36}; VI, 8: harundo. Talvolta però lo strumento era più 
complicato coirunione di diverse canne disumali; pel che vedi sotto Ècl,,, II, 
36 seg. — 8. Vedi questo stesso concetto in Georg., II, 511 seg.: exsilio- 
qtce domos et dulcia Umina mutant \ atque alio patriam quaerunt sub 
sole iacentem. — 4. fugimus, nel senso del greco q)€uT€iv. Cfr. Plat., 
Apol., 5, 21 : 6|LiOùv tCD nX^iOei... HuvèpuTC Tf|v (puyfiv raOrriv : Oraz., 
Od,, I, 7, 21 seg. : Teucer Salamina patrenìque \ cum fugeret, e 11, 
16, 19 seg. : patriae quis exsul \ se quoque fugit ì — lentus = securus, 
otiosus, tranquillo, senza travagli che lo spingano ad un'azione agitata. 
Cfr. analogo significato in Aen., XII, 237; lenti consedimus arvis e 
Sulpicia in TibulL, IV, 11, 6; Ovid., Trist, II, 514. Questo signifi- 
cato di lentus non è primitivo: esso è originato da lentus = fleanbilis 
cosi spesso usato dal nostro poeta (vedi le citazioni nella nota ad Ècl., 
Ili, 38). Cfr. il diverso signincato di laxus in laooos... arcus {Aen,, XI, 
874^ e laxum... caput (Pers. IH, 58). Lo stesso dicasi di remissum = 
« allentato » (cfr. Oraz., Od., Ili, 27, 67 seg. : remisso \ ...arcu) e < lan- 
guido » (cfr. Oraz., Epist., I, 18, 89 seg. : oderunt... \ sedatum celeres, 
agilem navumque remissx). Nota del resto la forza di lentus con- 
trapposto a fugimus. — 5. Senso : fai risonare Teco dei boschi del 
nome della tua Amarillide. Cfr. sotto al v. 30. — formosam propria- 
mente accennerebbe alla forma esterna, vale a dire alla proporzione 
della forma per rispetto airocchio che la contemi>la; esprime Fidea di 
bellezza, ma senza quello splendore e quell'attrattiva che si designano 
rispettivamente con speciosus e venustus ; qui però esprime, come spesso, 
bellezza senz'altro. — doces si unisce qui coU'acc. e l'inf. come spesso 
anche nella prosa classica. — Amaryltida, forma d'acc. alla greca. 

6. Meliboee, nome di pastore, dal greco jiiéXciv e PoOq, e significa 
colui che ha cura dei buoi. — deus. Qui si allude a Cesare Ottaviano. 
Veramente Ottaviano non fu posto pubblicamente fra gli dei, se non 
molto più tardi del tempo in cui cade quest'Ecloga, quando gli si decre- 
tarono e dedicarono are e templi nella Gallia, nelle Spagne, in Grecia, 
nell'Asia ecc.; anzi ufficialmente dal senato romano fu solo riconosciuto 
un dio dopo la sua morte (14 d. Cr.), giusta la testimonianza di Tacito, 
Ann.^ I, 11, sebbene anche in Roma, come altrove, avesse, vivo an- 
cora, onori divini. Pur non fa d'uopo pensare che i due versi seguenti 
siano stati introdotti dal poeta in una seconda redazione : il solo sentimento 
di gratitudine, come anche quello dell'ammirazione, può giustificare un 
tale appellativo. Cfr. Gic, post. red. ad Quir., V, 11: P. Lentulus 



TERGILI BTCOUCi, I. 

iqne erit ille mihì semper deus, ìllius aram 
»e tener nostris ab ovlUbas ìmbnet aguns. 
meas errare boves, ut cernis, et ipsum 
ire qnae vellem calamo permisit agresti. 10 

Melibobts. 

equidem iDvideo, miror magis: undique totìs 
]e adeo tnrbatur agrìs. en ìpse capellas 

iren», deui, salus noslrae vitae ; ad Atl., IV, 16, 3 : deus ille 
alo. Ed Orazio, Sai., U, 6, 52 : deos quonìam propius con- 
udendo a Mecenate ed Agnppa e, secondo alcuni, tra cui fra 
i lo Psendo-Acrone, anche Ottaviano. Vedi del resto Ih nota 

— 7. illius, colla penultima breve, Cfr. Georg., I, 49; Aen., 
670 ecc. — 8. nostrU ab ovilibus dipende da agnus. 

elio ohe il genitivo, volendosi mettere in rilievo il punto di 
Iella vittima che muove al sacrifizio. Cfr. TibulU li, 1, 57 
: datus a pieno, metnorabile munus, ovili \ duxpecoris curias 
hireus opes. Cfr. anche sotto al v. 53; Oeorg., Ili, 2; Aera., 
nre BÌ designa pure un punto di partenza, sebbene in diverso 
nostris. Titiro parla come se foss'egli il padrone. Cosi pure 
i: deus nobis haec olia fedi (v. 6). il che è tanto più na- 
quanto il suo padrone è a Roma, ed egli ne ha in cura il 

qualità dì vilicus. — imbuet, sottint. sanguine suo. Cfr. 
iigr., 1, 5: piunòv b'alnàEei K^paò; TpdToq outo^ fi t">^^- — 
entre l'offerta sacrificale dei più poveri era un porcellino 
icchi oflrivano un vitello, la gente ai mezzana condizione of- 
ignello. Cfr. TiboU., 1, 1, 21 seg.: tunc vitula innumeros 
caeaa iuvencos: \ nune ogna ewiguist hoslia parva soli. Del 
icrifizio è fatto ad Ottaviano come ad un Lar f^miliaris. Cfr. 
, 43. — 9. errare = libere pascere. Cfr. Ed.. 11, 21. — 

per me ipsum. — 10. ludere, come il n«co iraiEéiv, 

id animi causa scribere, cantare eco. Cfr. Ecl.rS\, 1; Georg., 
atull., 50, 5. — calamo, vedi sopra la nota al v. 2 in fine. 
Ntm equidem invideo. Cfr. Teocr., Idyll,, 1, 62; koO toi tI 

— magis è qui nel senso di polius. Cfr. Cic., de Orai., I, 42, 
iClam arlem iuris civilis kabebitis, magis magnam atque 
uam difjicilem et obscuram, dove magis può prendersi nel 

di poliits. Più evidente però è questo significato di magis in 
invili, 30: id... non esl lurpe, magis miserumsl; Staz., Aohill.. 
ide magis; Svet,, Octav,, 31: semlilem mensem e suo cogno- 
unqiavit, magis g_uam septembrem. Cfr. anche Lucr., li, 

— lotis agris. Virgilio coll'usare toiis vuol far spiccare l'idea 
'era luogo nella campagna il quale non fosse sottosopra ; con 
ivrebbe lasciato capire che lo sconvolgimento non s'era ancora 
per tutto. Puoi tradurre per « ogni punto della campagna ». 
ndeo, espressione impiegata in servizio di epifonema : collec-e 
una relazione di conseguenza la prop. cui appartiene colla 
Nàgelshach, Lai. Stil.'', p. 608 nota che tale eapression« è. 



VERGILI B7C0LICA, I. 5 

protinus aeger ago : hanc etìam yìx, Tityre, duco, 
hic ìnter densas corylos modo namque gemellos, 
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit. 15 

saepe malum hoc nobis, si mens non lae?a fùisset, 



in epifonema, postclas^ca e ne cita un esempio di Seneca, Nat. Quaest^t 
\, 3, 4. Ma anche disgiungendo, come alcuni fanno, t4sqt4e da adeo^ e 
dando ad usque il significato di « senza interruzione, continuamente » 
adeo, non potrebbe riguardarsi come prettamente classico, sebbene spesso 
usato da Livio. Cicerone adonera usque eo, ed il passo de Offi, 1, 11, 36, 
dove si trova cuieo, è interpolato. Ad ogni modo air espressione latina 
corrisponde l'italiana « tanto è vero che ». — turbatur. Veramente il 
codice Palatino ed il Romano danno con parecchi altri la lezione tur- 
bamur; noi però abbiamo mantenuto la lezione turbatur sostenuta 
da Servio e testimoniata in termini espliciti da Quintil., I, 4, 28. La 
ragione data da Servio per- preferire questa lezione è che $i,.„. tur- 
ba mur legeris^ vxdetur ad paucos re fèrri. Cfr. del resto Aen.^ I, 
272: hic iam ter centum totos regnabitur annos, dove Servio annota: 
impersonaUbus usus est^ quia de multis dicit. Quanto poi al significato, 
il verbo turbare è ^ui usato assolutamente ed equivale a turbas ciere^ 
mettere lo scompiglio. Cfr. Aen., VI, 857: magno turbante tumultu; 
Ter., Eun.^ IV, 3, 7: nescio quid profecto absente nobis turbatumst 
domi ecc. — 13. protinus^ meglio che protenus^ che è lezione data dal 
codice .Palatino, da Servio, dagli Scolii Bernesi ecc., ma forma ar- 
caica. È insussistente la distinzione di protenus con e, quale avverbio di 
luogo, come in questo verso, da protinus con t, quale avverbio di tempo. 
Del resto protinus ha qui lo stesso significato di porro (gr. irpóaui) 
« innanzi, oltre ». Cfr. Aen.^ X, ^^: protinus hastafugit; Cic, Dtv., I, 
24, 49: ut pergeret protinus. — aeger esprime qui, più che il malessere 
del corpo, Tamizione delFanimo. In significato analogo si trova pure in 
Georg., I, 237 ; Aen., II, 268; Lucr., VI, 1 (cfr. Om., Od., XI, 19: heìXoìai 
ppoTotaiv). — ago... duco. Il primo verbo si contrappone al secondo, come 
le capre sane, che basta spingere avanti, a quelFuna che sofierente deve 
essere faticosamente tratta dal pastore stesso. — 14. namque, in mezzo 
alla proposizione come in Ecl., Ili, 33; Aen., VI, 72; X, 614. — corylos, 
nocciuoli. Cfr. Ecl., V, 3; Georg., Il, 65; 299. — 15. spem gregis. 
Come i bambini che nascono si dicono speranza de* genitori, cosi spe- 
ranza del gregge gli agnelli, i vitelli, i capretti ecc. Cfr. Georg,, III, 
473; IV, 162. — silice in nuda, sul nudo terreno sassoso. Questa circo- 
stanza e Taltra espressa da reliquit conferiscono ad accrescere la pietà. 
Si osservi poi che silice è qui di genere femminile per poetica licenza, 
come nota Quintil., I, 6, 2. — conixa. 11 verbo coniti nel significato di 
eniti, partorire, si trova qui per la prima volta. Virgilio doveva, secondo 
Servio, evitare lo iato che avrebbe prodotto enixa. Se non che in realtà 
la preposizione stabilisce una differenza fra i due verbi. L*uno (eniti) 
accenna allo sforzo della bestia partoriente: Taltro al parto compiuto. E 
poi da notarsi che non è corretta la lezione connixa ammessa da alcuni. 
Cfr. il mio Trattato della ortografia latina, p. 29. — 16. malum hoc, 
quest*esilio, questa fuga dalla patria. — laeva=stulta. Cfr. Oraz., Art. 
poet., 301 : o ego laevtts. Nel significato opposto trovasi pure usato, come 
in italiano, dexter^ dextre^ dextere. L'emisticnio si mens non laeva fuisset 



6 TERGILI BYCOLICA, 1. 

de caelo tactas memini praedicere quercus. 
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre, nobis. 

TiTYRVS. 

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi 

stultus ego buie nostrae similem, quo saepe solemus 20 

pastores ovìum teneros depellere fetus. 



ricorre in Aen., Il, 54. Traduci per « accecata ». — 17. De caelo tangi^ 
frase solenne equivalente a fulmine tangi, Gfr. Gic, Bivin.^ II, 21, 47: aera 
legum de caeto tacta. Secondo le superstiziose credenze degli antichi, un 
fulmine che colpiva un albero fruttifero annunziava sventura; la sterilità, 
se un ulivo; l'esilio, se una quercia. — Riguardo a caelo, scrìtto con 
ae, notisi che i codici virgiliani danno costantemente e per caelum e 
per i suoi derivati il dittongo ae. L*ortografia caelum riposa sulla falsa 
derivazione dal greco KOtXo<;, mentre invece caelum o deriva da 'cavi- 
lum, *ca'i'lum, *cailum che mutò poi l'arcaico ai in ae (rad. ku, kau^ 
cav), 0, come fu recentemente esposto (cfr. Fròhde in Bezz, Beitr.j X, 
p. 298), da 'caes'lum (cfr. il gotico haiSy fiaccola). — memini è col pres. 
mf., trattandosi di azione, passata, della quale la persona che si ram- 
menta è stata testimone. E questa una costruzione assai frequente in 
latino sin dai tempi anteclassici. Gfr. Plaut., Pseud., IV, 6, 27; Epid,^ 
V, 1, 33; Cist,^ II, 3, 10 ecc. Anzi la costruzione di memtm col perf. 
infinito è afflitto estranea al latino antico e ci si present^t solo nel latino 
classico dove per regola ci aspetteremmo un presente delFinfinito. Gfr. 
Gic, prò Sex. Rose. Am.^ 42, 122 ecc. Vedi del resto altri esempi di 
inf. pres. in Ecl., VII, 69; IX, 52; Aen., I, 619. Trovi il perf. in Georg., 
IV, i25127: memini me... Corvcium vidisse senem. — praedicere = 
portendere. Gfr. Senec, Nat. Quaest, II, 32, 4. — 18. In alcune edi- 
zioni tra questo verso ed il precedente si legge quest'altro: saepe si- 
nistra cava praediooit ab ilice cornix^ che manca nella maggior parte 
dei manoscritti e non è menzionato né nel commentario di Servio né 
negli Scolii Bernesi. Lo si deve probabilmente ad un copista, che lo 
interi)olò riportandolo con qualche modificazione dairecloga* IX, v. 15, 
ove si legge: ante sinistra cava monuisset ab ilice comix. — sed 
tamen esprime un contrapposto più forte che non il semplice sed o 
tam^n. Gfr. Georg.^ I, 79. — iste = iste tuusy quem vocas deum, È 
strano che siasi ^ui voluto trovare un certo tono mezzo befflsirdo d'in- 
credulità ! — qui sit e non quis sit^ perche Melibeo non vuol pk sapere 
il nome, ma la natura del dio protettore di Titiro. Quindi i più 
autorevoli manoscritti danno la lezione qui e non quis. Traduci : « che 
dio è cotesto ». — da, dimmi. Nello stesso senso il verbo dare si trova 
in Gic, Acad. post,, I, 3, 10: sed da mihi nunc, satisne probas, ove 
però altri legge : sed eam mihi non sane probas. Del resto vedi Terenz., 
Meaut, prol., 10: paucis dabo. Parimente Virgilio impiega accipere 
per audire in Aen., I, 676; II, 65; 308; X, 675 ecc. 

20. huic nostrae, cioè Mantova. — saepe solemus, è un pleonasmo 
non infrequente. Gfr. Aen., II, 456; Ovid., Met., I, 639; Vili, 19; XIII, 
417 ecc. — 21. depellere. I dintorni di Andes erano in posizione 



J 



VERGILI BVCOLICA, I. 7 

sic canibus catulos similes, sie matribus haedos 
noram, sic parvis componere magna solebam. 
vemm haec tantum alias inter caput extulit urbes, 
quantum lenta solent inter viburna cupressi. 25 

Meliboevs. 
Et quae tanta fuit Bomam tibi causa videndi? 

TiTYRYS. 

Libertas, quae sera tamen respexit inertem, 



elevata rispetto a Mantova, per giungere alla quale città bisognava 
quindi discendere. Qui dunque il verbo depellere e preso nel suo senso 
proprio di deorsum pellere. Notisi poi Tefficacia deli espressione, poiché 
i giovani agnelli non vogliono staccarsi dal gregge in cui son nati. In 
altro senso trovi in Ed., Ili, 82 lo stesso verbo. — 22-25. Mediante 
una comparazione assai rispondente all'indole ed alle cognizioni di un 
pastore, Titiro dà ragione di quel termine stultus con cui si chiama al 
v. 20. — sic... sic. In luogo di quest'anafora di sic, in prosa si userebbe 
ut... sic. — parvis componere magna solebam. Analoga espressione si 
riscontra anche in Georg., IV, 176 ; Ovid., Met., V, 416 seg. Il verbo 
componere equivale a conferre, comparare. Cfr. anche Gic, de opt. 
gen. orai., 6, 17: ut cum maocimis tninim,a conferam; Erodot., II, l(T: 
0&^ T€ cTvai OjLiiKpà raOra |Li€TdXoiai aujnpaXetv. — lenta = fiemibilia. 
Per quello che riguarda Tagg. lentits in questo, che è appunto il signi- 
ficato originario della parola, da cui è poi nato quello di « indolente, 
pigro, ozioso )> (cfr. sopra al v. 4), vedi la nota ad EcL, III, 38. — 
'Muma. Scoi. Bem. : humilia arbusto, semper virentia, vineis com- 
mudata. Appartiene probabilmente alla stessa radice vi, « intrecciare, le- 
gare », donde derivano le parole vi-e-o, vi-men, vi-ii-s, vi-tex ecc. Ital.: 
« lentaggine >. 

26. Et. È largamente adoperata si nella poesia come nella prosa 
latina la congiunzione et in principio di interrogazioni nelle quali si 
vuole esprimere la curiosità e la meraviglia, od in generale una viva 
commozione delPanimo. Cfr. Aen., I, 48 seg.: et quisquam numen lu- 
nonis adorai Xpraetereaì Cfr. ancora Georg., Il, 4o3; Aen., IV, 215 
segg. (ove il Kibbeck sopprime Tinterrogazione); VI, 806; Gic, Tusc, 
1,^, 92; III, 16, 35; Ovid., Met., XIII, 338 ecc. Si adopera anche nel- 
rinterrogazione allorquando si continua il discorso passando ad altro 
argomento. Vedi Hand, Tursellinus, II, p. 492 seg., ove puoi trovare 
altri esempi. 

27. Per comprendere questo ed i versi seguenti bisogna notare che 
presso i Romani i servi, cui era affidata dal padrone Famministrazione 
di un podere od anche semplicemente Tincarico di custodire il gregge, 
potevano, formandosi un peculio, comprare dal padrone la libertà, segui- 
tando a rimanere nelle loro funzioni come servitori a soldo. Ora Titiro, 
perduto d'amore per Galatea (v. 30 segg.), per soddisfarne i capricci 



8 VERGILI BVCOIilCA, I. 

candidior postquam tondenti barba cadebat; 
respexit tamen et longo post tempore venit, 
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. 30 



non aveva potato da giovane mettere insieme la somma necessaria per 
redimersi. Diventato vecchio e lasciato Tamore di Galatea per quello di 
Amarillide (v. 30), potè finalmente co' suoi risparmi ottenere la libertà. 
Si spiega con ciò perchè la Libertà sera... respeocit inertem. — Libertas 
avi si deve prendere, a cagione di respeant e venit (v. 29), nel senso 
aella stessa dea Libertà che aveva culto e tempio in Roma. È chiaro 
che ad essa dovevano indirizzare gli schiavi i loro voti. — Il verbo 
respicere si adopera spesso nel significato di « guardar di buon occhio, 
aver cura, favorire, aiutare », particolarmente riferito a divinità. Gfr. 
Plaut., Bacch., IV, 3, 24; Ter., Phorm., V, 3, 34; Andr., IV, 1, 18; 
Graz., Od.^ I, 2, 36. Quest'uso vale anche nella prosa. Gfr. Gic, ad Att,, 
VII, 1, 2 : nisi idem deus... respexerit rem publicaiH. Vedi del resto 
anche Aen., I, 603; IV, 225; 236; V, 689. — sera. L'aggettivo per l'av- 
verbio sero. Gfr. Oraz., Od,, I, 2, 45: serus in caelum redeas ecc. — 
inertem qui vale parum curantem, trascurato, per non essersi dato 
pensiero di risparmiare la somma necessaria per la propria libertà. — 
Perchè poi Titiro per la sua libertà andasse a Roma, vedi la nota al 
V. 38. — 28. candidior. Per comprendere il valore di questo com- 
parativo, bisogna collegarlo con cadebat^ imperfetto che esprime una 
azione che si ripeteva senza limiti di tempo. Trattandosi dunque di 
azione continua, giustamente è accompagnata dal comparativo^ che de- 
signa come col trascorrer del tempo la barba divenisse più bianca. 
Tradurrai quindi con « sempre più bianca ». Paragona del resto 
l'ìtitero verso con Gioven., 1, 25: quo fondente gravis iuveni mihi barba 
sonabat. — 80. postquam, vale « mentre che, dacché »: si con- 
giunge col presente (habet), trattandosi di un'azione che dura ancora 
rispetto a cni parla. Non si tratta dunque di un presente storico, ma di 
un presente proprio. Tale costruzione, non infrequente nei comici (cfr. 
Plaut., Bacch.^ Ili, 6, 2: postquam inanis sum; Curcul., II, 3, 46; 
TrMC, II, 3, 24 ecc.; Ter., Adelph., V, 1, 3 ecc.), divenne poscia rara, 
ma se ne hanno esempi anche nella prosa classica. Gfr. RJiet. ad 
Herenn., IV, 18, 25; Gic, in Verr., act. II, lib. V, 39, 103 ove hai 
posteaquam, che si congiunge pure col pres. proprio in Philip.^ XII, 1, 
o; de Fin., V, 1, 2 ecc. Se ne hanno pure esempi in Livio, Seneca, 
Tacito, Plinio il Giovane. Vedi anche Georg., Ili, 432. — - Amaryllis, 
nome che s'incontra anche in Teocr., Idyll., Ili e IV, come pure quello 




Laide], facendo parlare Aristippo cui si rinfacciava l'amore per 
E ben a ragione il poeta non ha fatto dire a Titiro postquam ego 
Amaryllidem habeo, perchè il pastore attribuisce alla benefica influenza 
di Amarillide l'aver potuto redimersi in libertà. È falso poi quanto sup- 

Sone Servio e con lui parecchi editori, che qui sieno allegoricamente 
esignate con Galatea la città di Mantova, e Roma con Amarillide. Per 
provare quest'asserto, che si trova già confutato negli Scolii Bern., bi- 
sognerebbe dimostrare che Virgilio avesse chiuso il cuore ad ogni af- 
fetto per la patria; mentre è credibile che con questa scena campestre 
egli mirasse anche a svegliare sentimenti di pietà verso gl'infelici suoi 



VERGILI BVCOLICA, I. • 9 

namqne, fatebor enim, dum me Galatea tenebat, 

nec spes libertatìs erat nec cura peculi. 

quamvis multa meìs exìret victima saeptis, 

pinguìs et ingratae premeretur caseus urbi, 

non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat. 35 

Meliboevs. 

Mirabar quid maestà deos, Amarylli, vocares; 
cui pendere sua patereris in arbore poma: 



compatrioti. — 32. peculi. Si diceva peculium in istretto senso 
quella parte del bestiame e in più largo senso quel danaro che il padre 
o il padrone lasciava godere a piacimento dal figlio o dal servo. Gfr. 
Varr., R. R., I, 2, 17; I, 17, 5; Cic, Farad., V, 2, 39; Gioven., III, 
189 ecc. Qui si deve intendere il danaro che Titiro doveva risparmiare 
per comperare la sua libertà. Quanto al genitivo in i in luogo di u vedi 
la nota al v. 68. — 83. quamvis^ per quanto. — multa.., victima. 
Nota Taggettivo multus usato al sin^., come spesso in poesia. Gfr. Aen., 
I, 334: multa... cadet hostia; XI, 788; multa premimus vestigia pr una. 
Vedi anche Ed., VII, 60, dove è usato al sing. plurimus^ ecc. — victima, 
secondo antichi grammatici^ dicesi comunemente dei vitelli, delle gio- 
venche e dei buoi destinati al sacrifizio (cfr. Qeorg.j II, 146 seg.: ma- 
mma taurus I victima); hostia si dice dei montoni o agnelli, ossia di 
animali minori. Altra difierenza è data da Ovid., Fast, , I, 335 seg. Vedi 
anche Fest., p. 371 (ed. Moller). — 34. ingratae. E comica questa 
espressione di sdegno per parte di Titiro, che si lamenta di non aver 
potuto trovare nella città colla vendita de* suoi prodotti sufficiente com- 
penso, e taccia cosi d'ingratitudine la città che non riconosceva giusta- 
mente i suoi meriti! — et Questa particella è qui posposta alla prima 
parola della proposizione, come spesso. Gfì*. sotto al v. 68; Ed., IV, 54; 
Georg., 1, 304; 402; Aen., Ili, 430; 668; IV, 512; 515; Vili, 517 ecc. — 
premeretur, parola propria per Tidea che si vuol qui esprimere. Gfr. 
sotto V. 81; Georg., Ili, 401; Plin., H. N., XI, 42, (97); specialmente 
Golum.^ VII, 8, 4: rustici... cum paulo solidior caseus factus est, pon- 
dera superponunt, quibus eooprimatur serum... uhi duratus est, vehe- 
mentius premitur, ut conspissetur. — 35. Senso: della vendita 
ch*io faceva non riportava a casa che pochi danari: il resto, cioè la 
maggior parte del guadagno, lo consumavo a comprar cose da soddisfare 
ai capricci di Galatea. Gfr. questo verso con Priapea, 84, 13 ediz. 
L. MùUer, e Moretum, 82. 

86. 11 senso è: ora intendo ciò che prima mi faceva meraviglia (mt- 
rabar), perchè cioè tu, o Amarillide, mesta invocavi gli dei. Titiro era 
assente, avendo dovuto recarsi a Roma per ottenere la libertà. Gfr. sotto 
la nota al v. 38. Quindi il verbo mirari ha qui un significato affine a 
quello di ignorare, come spesso sì in prosa come in poesia. Gfr. Gic, 
Orat, 3, 11; de Nat. Deor., I, 34, 95 ecc.; Plaut., Amph., Prol., 86; 
Aul, Prol, 1; Ter., Eun., II, 2, 59; Adelph., IV, 5. 8. — 87. cui, 
per chi, a cagion di chi. — sua.,, in arbore va riferito a poma. Ama- 



10 • VERGILI BVCOLICA, I. 

Tityrus hinc aberai ipsae te, Tityre, pinus, 
ìpsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant 

TlTTRVS. 

Quid facerem? neque servitio me exire licebat, 40 

nec tam praesentes alibi GOgnosce):6 divos. 
hic illum vidi ìuvenem, Meliboee, quotannis 
bis senos cui nostra dies altarìa fiimant. 



rillide, addolorata per Tassenza di Titiro, si dimenticava di raccogliere i 
frutti, lasciandoli appesi agli alberi cui appartenevano (sua), Gfr. Ecl.^ 
VII, 54. Quanto a poma cfr. sotto al v. 80. — 38, 39. Titiro non 
poteva, restando in patria, conseguire la bramata libertà. A Roma ai 
trovava il padron suo, cioè il poeta, che vi si era recato con racco- 
mandazioni di PoUione per riavere il fatto suo. Inoltre lo stimolava la 
brama di conoscere il potente protettore del poeta, Ottaviano. Gfr. sotto 
vv. 40, 41. — aberat colla sillaba finale lunga, trovandosi in arsi ed in 
cesura ad un tempo. Cfr. Ecl, 111, 97; IV, 51; VI, 53; IX, 66; Georg., 
I, 31; 371; II, 5; 211 ; III. 76; 189; 332; IV, 137; 453; Aen., I, 308; 478; 

III, 464; 702; IV, 64; V, 521; VII, 398; Vili, 98; IX, 610; X, 720; XI, 
69; 111; 469; XII, 68; 772. Molti di questi esempi mostrano Tinfluenza 
anche della sola arsi. Del resto questo fatto si nota molto spesso negli 
antichi poeti romani, anche quando la sillaba non è in arsi. Ed in vero 
la sillaba -af era originariamente lunga, e come tale si riscontra ancora 
normalmente nella prosodia Plautina. Lo stesso dicasi di -et ed -tt, che 
più tardi si abbreviarono del pari. — ipsae ecc. Due spiegazioni si sono 
proposte cioè: 1^ le piante stesse, le fonti stesse rijìetevano il nome di 
Titiro cui chiamava la desolata Amarillide ; 2^ le piante, le fonti deplo- 
ravano insieme con Amarillide l'assenza di Titiro. Ora, considerando 
che queste parole sono del pastore Melibeo, il quale prima ignorava la 
causa del dolore di Amarillide (v. 36), io penso che il passo si debba 
spiegare, interpretando e completando le parole di Melineo, nel modo 
seguente : « comprendo ora, poiché eri assente tu, oggetto del suo amore, 
come Amarillide dovesse, animando, nel suo cordoglio, i luoghi da te 
prima freouentati, ritenerli partecipi del suo lutto e bramosi del tuo 
ritorno ». Tradurrei adunque : « nel suo pensiero anche i pini, o Titiro, 
anche le fonti, anche questi arbusti ti cniamavano ». — arbusta vale 
qui non già, come spesso, per luoghi ove sorgono piante destinate a 
sostegno deUe viti (cfr. Plin., E. N„ XVII, 2, (2), 19; 23, (35), 199 ecc.), 
anche solo le piante stesse (cfr. Gat., R, i2., 7, 1 e Lucrez., I, 187; 
351 ecc.), ma significa « cespugli », quali crescono nei luoghi destinati 
a pascolo e nei noschi in genere. Del resto arhustum viene da arhos 
{'arboS't(Hn\ come da salioo salictum. 

40. Quid facerem? che dovev'io fare? Gfr. Ed., VII, 14; Georg., 

IV, 504; Terenz., AdeVph., II, 2, 6. Anche spesso si trova il pres. cong. 
Gfr. Aen., IX, 399; Ovid., Mei., I, 617; II, 187; III, 204. — 41. prae- 
sentes... divos =propitio8, fliventes deos. Pel senso cfr. v. 6. Quanto al 
significato di praesens, cfr. Georg., I, 10; Aen., IX, 404; Gic, Tusc.,l, 
iZ, 28. — 4d, 43. hiCt cioè Eomoé, — iuvenem. Ottaviano aveva 



VERGILI BVCOLICA, I. 11 

hìc mihi responsum primus dedit ille petenti: 
«pascite, ut ante, boves, pueri; submittìte tauros ». 45 

Meliboeys. 

Fortunate senei! ergo tua rura manebunt. 

et tìbi magna satis, quamvìs lapis omnia nudus 

allora 23 anni. Anche in Georg.^ I, 500, Virgilio lo chiama iuvenem; 

Sei che vedi la mia Bota al passo citato. — qtiqtannis bis senos,.. dies^ 
odici ffìornì alFanno, vale a dire un ffiorno ogni mese. È adoperato il 
numerale distributivo, perchè Fazione designata dal poeta si ripete ogni 
anno. Gfì*. Geùr^.^ I, 2^; per duodena regit mundiis sol aureus astra. 
Questo passo poi dimostra che Ottaviano è da Titiro considerato come 
un Lar famiìiaris, il genio protettore della casa. Catone, B, i2., 143 
(144), 2 ci fa sapere come si dovesse far sacrifizi al Lare familiare il 
giorno delle Galende, delle None e degli Idi. Pure erano principalmente 
le Galende d^ogni mese, e soprattutto quelle di maggio, designate col 
nome di Laralia, il giorno destinato alle offerte in omaggio al Lare della 
famiglia. — cui va riferito a iuvenem « in onore del quale ». Gfì*. 
Georg., I, 14. — Anche questi due versi, pel loro contenuto, da alcuni 
son riguardati come inseriti in un^ seconda recensione fatta dal poeta. Vedi 
le ra^oni in contrario esposte sopra nella nota al v. 6. — 44. primus. 
Ottaviano fu la prima persona che desse alle domande di Titiro rassicu- 
ranti risposte riguardo al suo avvenire, che poteva essere seriamente com- 
promesso, quando al padron suo non fossero stati restituiti i beni. Titiro 
non parla nemmeno aella ottenuta libertà: in quelFimmenso scompiglio 
dell'agro mantovano la causa della conservazione del proprio stato dive- 
niva necessariamente più importante di ogni altra. — responsum dedit. 
Alcuno ha notato che questa irase si adopera particolarmente trattandosi di 
oracoli ed è conveniente a questo luogo in cui Ottaviano è considerato come 
un dio. È un voler sottilizzar troppo. Gfr. Oraz., Epod.^ VII, 14 : responsum 
date. — 45. pueri. Gosl si chiamavano anche i servi, quale che 
fosse la loro età. Gfr. il ^reco irat( da *iTaF-i(; che appartiene probabil- 
mente alla medesima radice pu. In fine di certi composti ptcer si con- 
trasse in por, come in Gaipor, Marcipor, Publipor, che erano in ge- 
nerale appunto nomi di schiavi. — submittite tauros. Alcuni spiegano: 
tauros stibmiitite iugo ad arandum. Gontro questa spiegazione sta il 
fatto che il verbo submittere usato assolutamente non na mai nel nostro 
poeta quel significato: è anzi il vocabolo proprio ossia un'espressione 
tecnica per designare Tallevamento degli animali destinati a conservare la 
razza. Gir. Georg. ^ 111, 73: in spem... submittere gentis; 159; quos... pecori 
malint submittere habendo ; Yarr., R. R., 11, 3, 4 : mares solént submitti ad 
admissuras; nello stesso capo, 8: In nutricatu haedi^ trim^stres cum 
suntfactit tum submittuntur. Vedi anche Colum., Ili, 10, 17; VI, 24, 
4; VII, 9, 4, 5 ecc. Gerto era più esatto scrivere vitulos; se non che 
tauros chiarisce meglio lo scopo del submittere e, quasi a guisa pro- 
lepcica, indica già 1 adempimento dello scopo. Dunque la frase equivale 
a tauros alite qui gregem propagent. 

46. tua non è qui attributivo ma predicativo. Gfr. £b^. III, 23 : IX, 
4. Traduci: i campi resteranno a te. — 47. et, Gfr. Hand, TurseU 



12 VERGILI BVCOLICA, L, 

limosoque palus obducat pascua ìuniso. 
. non insueta gravìs temptabunt pabula fetas, 
nec mala vicini pecoris contagia laedent. 
fortunate senex! hic inter flumina nota 
et fontis sacros frigus captabis opacum. 
bine tibi, quae semper, vicino ab limite saepes 



50 



>• 




Unus^ li, p. 488 : Ubi aliqua notio, sive aliquod verbum, cum gr aviari 
voculatione pronuntiandum est, et in sententia principatum optinet, 
praemittitur ei et, quasi anacrusis. Quod quum non cognovissent, 
grammatici docuerunt et esse et sane. — tibi, per te. — lapis..., 
nudus, terreno nudo, senza coltura, senz'erba. Cfr. Liv., XXI^ 37, 4 : 
ntida,.. cacumina [rupia]. — 48. palus. Le acque del Mincio , nelle 
vicinanze del quale era il podere del poeta, formavano, straripando, delle 
paludi ove cresceva il giunco, detto perciò limoso. — obducat = 
tegat, — 49. gravis... fetas. Siccome fetus (partic. d'un inusato 
*/feo *feor dalla rad. dhe, lat. /fe, donde fe-mina, fe-cundt^s, filius 
per ^fe-lius) vale propriamente gravidus, cosi Tagg. gravis devesi qui 
prendfere ^nel significato di sofferente. Cfr. Georg., 111,95; Oraz., Epod., 
II, 57. Notisi però che /feto* può anche significare « fresche di parto », 
come in Aen., Vili, 6o0; per cui potrebbe rimaner dubbio come si 
debba tradurre quell'espressione. Se non che, essendo queste parole di 
Melibeo, avuto riguardo a quanto egli stesso dice nei versi 14 e 15, 
può ritenersii che qui fetas debbasi prendere appunto nel secondo signi- 
cato, come sinonimo di enixas. — temptabunt. Questo verbo si ado- 
pera spesso ad indicare Fazione di qualsiasi cosa che turbi l'organismo 
ed alteri le funzioni della vita, p. es. di malattìe, come in questo passo 
(cfr. Georg., Ili, 441; Gic, Tusc, IV, 14, 31); degli effetti del vino 
(cfr. Georg., Il, 94) ecc. Traduci con « turbare, nuocere » e simili. 
Quanto all'ortogr. di fetas vedi il mio Trattato delVort. lat., § 5, nota, 
p. 8. L'ortografia poi di temptabunt è basata sulla testimonianza dei 
codici più antichi, sebbene il p non abbia forse alcun valore etimolo- 
gico. — 61. flumina. L'uso di questo plurale ha dato luogo a di- 
verse interpretazioni. Servio e gli Scolii Bernesi spiegano: Padum et 
Mincium. Alcuni moderni intendono il vocabolo nel senso di « ru- 
scelli » « canali » intersecanti la campagna mantovana. Altri suppose 
che, siccome talvolta Virgilio usa flumina per flumen (cfr. Aen., VII, 
138; XI, 659; XII, 331), cosi qui si deve intendere solamente il Mincio 
ed i luoghi vicini; che quindi inter flumina equivale ad inter arbores 
ad Mincium positas. Io credo che qui il vocabolo si debba prendere in 
largo. senso ed indichi ogni specie di corsi d'acqua. — nota per con- 
trapposizione ai luoghi ignoti ove l'esule Melibeo deve condurre il 
suo gregge. C£^. sotto vv. 64-66. — 52. fontis sacros, perchè gli an- 
tichi, nel loro materialismo religioso, divinizzando ogni manifestazione 
della natura inanimata, mettevano da per tutto una divinità, nei boschi, 
nelle valli, nei fiumi, nelle fonti ecc. f Greci chiamavano col nome di 
Natb€(; NaiLdòe(; le Ninfe dei fiumi e delle fonti. Cfr. Teocr. IdylL, 
VII, 36, seg: tò b' èTY^0€v icpòv ^h\up \ Nuimqpav èE dvTpoio k. t. a. 
— frigus opacum = frigus nemoris umbrosi. Cfr. Ed. , II , 8. 
68-55. A rischiarare questo passo si sono travagliati, spesso inutil- 
mente, parecchi commentatori; né si può pensare a corruzione del 



VERGILI BYCOLIOA» I. 13 

Hyblaeis apibus florem depasta salicti 

saepe levi somnum suadebit inire susurro. 55 

bine alta sub rape canet frondator ad auras: 



testo, perchè riposa qiiesto non solo suirautorìtà de' più antichi codici, 
ma anche sulla testimonianza di Prisciano (K. Ili, 300-P. 1176 seg.). 
Per comprendere il senso alcuni notano: 1^ che qitae semper saepes è 
una prop. relat. ellittica, il cui verbo è sttasit (cu*, suadebit al v. 55); 
2^ che vicino ab limite è apposizione di hinCy come sotto al v. 56 hinc 
ha per apposizione alta sub rupe (cfr. del resto Ecl., Ili, 12; Aen., 1, 
235; II, 18 seg.; Ili, 6l6 seg.; Vi, 305; VII, 209). Quanto poi a quae 
semper saepes, si fa considerare ancora che per attrazione saepes è 
entrato nella prop. relat., mentre deve essere soggetto di suadebit. 
Inoltre semper deve significare: « sempre sino ad ora )> ; cfr. Ecl.^ VI, 5. 
Altri però alla proposizione relativa non danno per verbo stiasit, ma 
depasta coirellissi delFausiliare est, che non è rara in Virgilio (cfr. 
^/., 11,23; VIII, 24; Georg., IV, 89; Ae«., V, 192; IX, 675). Preferisco 
la prima interpretazione, come quella che fa meglio spiccare la nessuna 
interruzione, malgrado gH avvenimenti di que' giorni, della vita tran- 
quilla di Titiro, che potrà quindi spesso, come sino allora faceva, ad- 
dormentarsi al lieve susurro delle api cercanti il succo de' fiori alla 
siepe vicina. Questo senso è dato appunto dalla contrapposizione di quae 
$emper [sttasit^ e di saepe... suadebit. — limite. L'idea che si enuncia 
con questa parola è spiegata dalla vicina voce saepes^ poiché le siepi ser- 
vivano di delimitazione dei campi e in generale de' poderi, come aggiorni 
nostri. Cfr. Qeorp.^ I, 126: partiri limite campum. — Hyblaeis apibus. 
I poeti sogliono indicare certi generi di cose col nome di una delle 
specie più notabili che loro appartengono. Ora in Sicilia si raccoglieva 
del miele eccellente nelle vicinanze di una città chiamata Hybla, nome 
che propriamente competeva a tre città della Sicilia. Secondo Servio si 
trattereobe di Hybla minor, chiamata più tardi Megara. Negli Scolii 
Bernesi si menziona un monte Hybla pure in Sicilia ed anche, come 
in Servio, il nome è riferito ad un luogo dell'Attica. Ma è certo che qui si 
tratta della SicUia. Cfr. Plin., H. N., XI, 13, (13); Marzial., XI, 42, 3: 
mella iubes Hyblaea e IX, 27, 4; V, 39, 3 ecc. Del resto Hyblaeis apibus 
è dativo di agente dip. da depasta. L'agente è espresso col dativo, 
come non di rado in greco, particolarmente col perfetto passivo, perchè 
si considera come interessato neirazione. Cfr. Ecl., IV, 16 e la nota. — 
saepes... florem depasta = saepes cuius flores depascuntur. — florem 
è pertanto un accusativo di relazione al modo greco, che dà maggiore 
determinatezza all'idea del participio depasta, sul quale osserviamo che 
fa l'ufficio, come non di rado in latino, del participio presente di cui la 
lingua latina difetta. Cfr. Georg., 1, 206: vectis = qui vehuntur; Aeri», 
VI, 335 vectos. — salicti dipende da florem e non da saepes. Anche in 
Georg., 11, 434 il salice è indicato come fonte di nutrimento alle api. 
— suadebit inire. Cfr. Georg., IV, 264; suadebo incedere. E una co- 
struzione che manca in Cesare. Sallustio e Livio, ma non in Cicerone 
(cfr. de Orat, I, 59, 251 ; de Fin., II, 29, 95) e nella prosa postclassica. — 
levi susurro, intendi delle api e non già dei rami scossi dal vento. Cfr. del 
resto Teocr., Idyll., 1, 1: *Abù ti tò ipiGOpioina. — 56. hinc alta 
sub rupe. Cfr. riguardo l'apposizione all'avverbio la nota al v. 53. — 
frondator, lo sfronda^ore che taglia e rimonda gli alberi, o il potatore 



14 VERCflLI BVCOLICA, I. 

nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes 
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo. 

TlTTRUS. 

Ante leyes ergo pascentur in aethere cervi, 

et freta destituent nudos in litore pisces; 60 

ante, pererratis amborum finibus, exsul 

aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim, 

che sfronda la vite dal soverchio rigoglio delle foglie. Gfr. Georg., II, 
365; 400 seg.; 407; 410; Ed, li, 70; IX, 60 seg. — canet ad auras. Si 
è osservato che ve divario tra ad auras e in auras. Ad auras ferri, 
surgere ecc. dicesi di cose che, pur elevandosi, toccano ancor la terra 
non se ne allontanan di troppo: invece in auras dicesi di cose che 
s'innalzan di molto e penetrano, per così dire, nelFaria stessa e vi si 
confondono. La prima locuzione trovasi anche in Georg., 1, 408; Aen., 
II, 699; 759; IV, 445; V, 861; VI, 554 ecc.; la seconda in Georg., Ili, 
109; Aen., IV, 176; V, 257 ecc. — 57. nec tamen interea è da pa- 
ragonarsi con nec minus interea, formola di transizione che ricorre 
spesso in Virgilio. Gfr. Aen., I, 633; VI, 212; VII, 572. — tua cura, 
oggetto delle tue cure. Gfr. Ecl., X, 22. Vedi pure Ecl., Ili, 66: metÀs 
ianis, Amyntas. — palumbes, plur. della 3* declin. ed originariamente 
dfella 5<^. Accanto a cotesta forma si trova palumba della 1% come ac- 
canto ad avarities si ha avaritia. Del resto il vocabolo appartiene pro- 
priamente al dialetto osco. La forma latina corrispondente è columba. 
-^ 58. ffemere, vocabolo proprio per significare la voce delle tortore e 
dei colombi. Gfr. Plin., E. iV., X, 35, (52): cantus omnibus [palumbi- 
bus] similis atqice idem trino conficitur versu praeterque in clausula 
gemitu. 

59. aethere; altri legge aequore contro la testimonianza dei codici, 
di Servio e di Probo. Ne è da dirsi che con aequore spicchi meglio la 
impossibilità del fatto che si accenna nel verso; che ai cervi, cui è 
conteso il volo, è dato il nuotare. Però aequore servirebbe meglio all'anti- 
tesi col verso seguente. Molto probabilmente Virgilio aveva in mente 
il passo di Lucrezio, I, 166 segg.: e mare primum homines, e terra 
posset horiri | sqttamigerum genus et volucres ; erumpere caelo | ar- 
mento atque aliae pecudes. — 60. freta destituent nudos... pisces 
secondo alcuni è un*ipallage per: nudi pisces destituent freta. A me 
piace invece vedere in questo verso una poetica animazione delle acque, 
che depongono ed abbandonano sul lido i pesci a vivere non più coperti 
da esse {nudos, che è quindi aggettivo proleptico). Gfr. Aen., VII, 676 
seg.: dat euntibus ingens | silva locum et magno cedunt virgulta fra- 
gore. — freta. Il nome fretum viene dalla rad. bhre (cfr. (ppé-ap) si- 
gnificante < bollire, fluttuare », e dicesi propriamente di luogo del 
mare dove le onde sono più agitate, specialmente di stretti e bassifondi. 
Gfr. Georg., l, 327 ; fervetque fretis spirantibus aequor. — 61, 68. per- 
erratis amborum finibus. Servio spiega: errore confusis. Non mi. pare 
che questa spiegazione esprima esattamente il concetto del poeta, il 
quale vuole indicare il percorrere errabondo che farebbero il Parto ed 



VERGILI BVCOLICA, L 15 

quam nostro illìus labatur pectore vultus. 

MSUBOEYS. 

At nos bine alii sitientis ìbìmus Afros, 

pars Scythìam et rapidum cretae yenìemus Oaxen 65 



il Germano le regioni (fnibus) dell'Arari e del Tì^ri, per fermar la 
sede, il Parto presso rÀrari, il Germano presso il Tigri, lungi entrambi 
dalla propria patria {exsuV). — amhorum^ dei due fiumi, TArari ed il 
Tigri. È da notarsi che TArari (Arar o Araris)^ ora Saona , non era 
fiume della Germania ma della Galiia. Se non che non si possono e 
non si debbono prendere in istretto senso le indicazioni geografiche dei 
poeti, che non si danno spesso cura della precisione severamente scien- 
tifica. D'altra parte gli Svevi, guidati da Ariovisto, avevano nel tempo 
di Cesare invaso il paese dei Sequani situati tra il lara, il Reno e 
TArari, il quale e per questo e per la sua vicinanza alla Germania po- 
teva essere anche scambiato per un fiume di quella regione. — ^ ea:sul 
si dice anche di chi spontaneamente muta domicilio aM)andonando la 
patria. — Parthus. I Partì erano un popolo bellicosissimo dell'Asia si- 
tuato primitivamente al sud-est del Caspio tra ITrcania, la Carmania e 
la Media (ad un dipresso il Khorassan attuale), ma elevatosi poscia a 
grande potenza, in modo da estendersi dairEu&'ate airindo e dall'Oceano 
Indiano sin oltre al Parapomiso (Indo-Koh). 

64. Questo verso ed i seguenti contengono una poetica iperbole spie- 
gata sufficientemente dal vivo dolore di Melibeo costretto ad abbando- 
nare la sua patria. — alii si contrappone a pars del verso seg. Cfr. 
Georg., II, 10, 14; aliae... pars ; IV, 158, 159; Aen., 1, 212, 213 ecc. — 
sitientis... AfroSy pel grande calore e per la frequente» mancanza di 
acqua. Cfr. Plin., E. N., X, 73, (94) e XXXI, 7, (39), 78: Africae si- 
tientia. — ibimtts Afrós. In poesia coi verbi di moto si ommette talora 
la preposizione davanti a nomi di regioni e di popoli e a nomi appel- 
latici m genere. Cfr. Aen., 1, 2; 52; 11,742; 781; lll,fi01; IV, 124 ecc.; 
I, 201; 307; 365; II, 752; III, 440 ecc. 11 che si verifica anche qualche 
volta nella prosa, specialmente nella postclassica : ma molto più raro si 
in prosa come in poesia è Tace, coi nomi di popolo. Questo passo vir- 
giliano è il primo esempio di tale accusativo che s'incontri nella latinità 
(cfr. Dràger, I«, 395). Cfr. Curz., IX, 8, 11; Tac, Ann., XII, 51. — 
65. Scythiam, nome applicato a contrade diverse a differenti epoche. 
Mentre Erodoto comprende sotto tate denominazione a un dipresso le 
regioni tra i Carpazi ed il Tanai (Don) al sud-est dell'Europa, molto 
più tardi all'epoca dell'impero romano s'intendeva per Scizia tutto il 
nord dell'Asia dal Rha ^Vvolga), che la divideva dalla Sarmazia asia- 
tica, sino alla Serica ali est, e al sud si estendeva sino all'India. — 
rapidum cretae... Oaxen. Così spiega Servio: hoc est lutulentum: quod 
romit cretam. tretam terram albam dixit. Nam Oaxis fluvius est 
Mesopotamiae: qui velocitate sua rapiens albam terram, turbulentus 
effidtur. Servio però accenna indirettamente ad un'altra interpretazione 
cne farebbe di Óretae un nome proprio, interpretazione rigettata già 
dagli Scolii Bernesi: Oaxes fluvius est Mesopotamiae, non Cretae. 
Negli stessi Scolii si legge: Aliter: Oaaen, fluvius Scythiae, creteum 



16 VERGHI BYCOLICA, I. 

et penitus tato divisos orbe Britannos. 
en umquam patrìos longo post tempore fines, 
pauperìs et tuguri congestum caespite culmen 
post aliquot, mea regna videns, mirabor arìstas? 

colorem habens, et in Creta non est, sed cretei coloris est aqua: Certo 
è quasi un assurdo che Virgilio accennasse ad un fiume rieirisola di 
Greta per bocca d'un pastore che emigra col suo gregge. È molto più 
verosimile che un pastore erri per terra, che non per mare. Inoltre un 
fiume di Greta poteva ^essergli meno noto, che non un grande fiume, 
particolarmente se di confine. Pel che io credo che si debba prendere 
Oaoees come un fiume della Scizia e tutt'uno GÓÌTOofus (ora Amou). 
Gfr. Gurzio, VII, 10, 13: ad flumen Oxum perventum est. hic, quia 
limum vehit, turbidus semper, insalubris est potui; né è improbabile 
che la lezione originaria, di cui non v'è traccia nei manoscritti, fosse 
ad Oxum. Devesi adunque spiegare rapidum cretae per cui rapit ere- 
tam, quindi lutulentum, turbidum, come già Servio e gii Scolii Ber- 
nesi. — Oaxen è la lezione de' migliori manoscritti. Devesi leggere ad 
Oxumì — 66. La Britannia a tempi di Virgilio era ancora, mal- 
grado le spedizioni di Gesare, che non ebbero conseguenze per la con- 
quista di quella regione, pressoché sconosciuta, e riguardata quasi fuori 
de' confini del mondo abitato. Gfr. Tac, Agric, 10 e 30. Gatullo, XI, 
11 seg. e Graz., Od,, I, 35, 29 seg. dicono ultimos... Britannos, — 
67. en umquam. Gfr. Hand., TurselUnus, II, p. 371: Peculiaris for- 
mula interrogationis est' en umquam-^ in qua eooponenda Gronovius 
egregie versatus est. Nam ad Liv. 30, 21, 8 eos reprehendit, qui prò 
simplici interrogatione acceperant, et formula est, inquit, TTaervTiio^ 
vehementer optantium, per interrogationem, aut etiam indignantium, 
Addere debebat, non tantum iram et indignationem,, sed quem>cumque 
vehementiorem animi affectum, praesertim desiderium et dolorem 
hoc modo exprimi. Gfr. Plaut., Trin., II, 4, 188 seg.: pater, ] en 
umquam aspiciam te? Vedi anche Ed,, Vili, 7 seg.: en erit um- 
quam I ille dies, mihi cum liceai tua dicere factaì — 68. tuguri. 
ÀI genitivo singolare dei temi in io Yi del tema e Yi finale si contrae- 
vano dapprima regolarmente in un solo. Fu soltanto molto avanti nel- 
l'età augustea che cominciò ad entrare nell'uso ii, Virgilio eccezio- 
nalmente ne ofire un esempio in fluvii, Aen. Ili, 702, essendo spurio 
il V. 151 del lib. IX ove si legge il genitivo Palladii. Gosi Orazio, 
Manilio e Persio adoperano solo genitivi terminanti in i. Vedi del resto 
le acute osservazioni del Lachmann nel suo Gomment. di Lucrez., 
pp. 325-^9. — congestum caespite cuhnen = congesto caespite exsiru- 
ctum. Gfr. Aen., VI, 177 seg. : aramque sepulcro \ congerere arboribus ; 
Georg., Il, 156: tot congesta manu praeruptis oppida saxis, dove con- 
gesta vale pure exstructa. — caespes si scrive con ae meglio che con 
e. Significa, secondo Servio: terra cum propria herba evulsa, Gfr. del 
resto il fortuitum caespitem di Orazio, Od., II. 15, 17 cosi da lui chia- 
mato, perchè si trova aovunque e senza spesa e fatica e può perciò ser- 
vire a' poveri per costruire i tetti a' loro tuguri. Girca Vet posposto cfr. 
la nota al v. 34. — 69. post è avverbio e risponde a longo post 

tempore del v. 67 come in Georg., II, 259 e 261 multo ante,,, ante. — 
m.ea regna equivale qui ad agros msos i. e. ubi dominatus sum, 
come spiega Servio. Gir. Georg., Ili, 476 seg.: desertaque regna \ pa- 




VERGILI BVCOLICA, L ^ 17 

impius haec tam eulta novalia miles habebìt, 70 

barbarus bus segetes: en quo discordia civis 
produxit miseros: bis nos consevimus agros ! 
insere nunc, Meliboee, piros; pone ordine vites. 

storum. — àUquot,., aristas^ qualche traccia di spiche, e quindi di col- 
tivazione. — mirabor. Notisi la proprietà dell espressione, perchè il 
ritrovare, in tanto disordine dell* agro mantovano, abbandonato nelle 
mani di soldati affatto inesperti di agricoltura e repugnanti alla vita 
agricola, ancora qualche traccia di coltivazione, doveva essere notato non 
senza meraviglia da Melibeo, se mai gli fosse stato un giorno concesso di 
rivedere i cari suoi luoghi. — 70. impius.,. miles. Empio è chia- 
mato il soldato non solo perchè partecipa alle lotte civili (cfr. Georg., 
I, 51 1 : Mars impius ; Aen., VI, 612 seg. ; Xll, 31 : arma impia), ed 
entra contro ogni diritto nel possesso dei beni altrui, ma anche perchè 
la violenza, che gli è propria, contrasta singolarmente coir amor della 
quiete e col rispetto alla giustizia proprio degli agricoltori. Cfr. Georg.^ 
il, 473 seg. Altri invece crede che Fepiteto impius abbia la sua ra- 
gione nello squallore che il soldato lascerà venire nel campo altra volta 
fertilissimo. — novalia aui vale semplicemente « campi ». Quanto al 
suo proprio significato, veai la mia nota a Georg., I, 71. Del resto sia 
dopo habebit, sia dopo a segetes del v. seg. ho soppresso l'interroga- 
zione conservata ancora da alcuni editori. Mi pare che, più che un- 
movimento di sdegno cui accennerebbe Tinterrogazione, qui si denoti 
Tamarissima rassegnazione di Melibeo, che scoppia in più amara ironia 
nei versi seguenti. — 71. barbarti. Tra i veterani, cui era stato 

distribuito il territorio mantovano, si trovavano non pochi Galli e Ger- 
mani che avevano militato sotto Cesare. — segetes. Siccome questa 
scena fra i due pastori avviene verso l'autunno (cfr. sotto la nota al v. 81), 
così qualche commentatore pensò che qui si tratti di una seminagione 
autunnale successiva alla messe. Io preferisco dare a questo vocabolo il 
suo proprio significato di « campo da seminare », come in Varr., R. i2., 

I, 69, 1 ecc. Vedi anche la mia nota a Georg., 1, 1 e 47. —- 73. prò- 
duxit è la lezione dei due codici Palatino e Romano: in altri codici 
meno antichi si legge perduant, lezione ugualmente corretta che non 
varia sostanzialmente il senso. — his nos è la lezione dei due codici 
predetti: la comune lezione è en quis, data pure da codici, ma meno 
antichi ed autorevoli, dove quis varrebbe quibus = in quorum com- 
modum. Del resto anche his è dativo di commodo. — 73. insere 
nunc ecc. Amarissima ironia, che scoppia dal cuore di Melibeo vedendo 
Tesito miserando di tutte le sue cure e di tutte le sue fatiche. Inserere 
significa qui « innestare ». Cfr. Varr., R. R., I, 40, 5: si in pirum 
siìvaticam inseveris pirum quamvis bonam; e la mia nota a óeorg., 

II, 69 per la doppia costruzione di questo verbo. — pone ordine vites 
(cfr. Graz., Od., III, 1, 9 seg.: ordinet \ arbusta sulcis). Si accenna a 
quella disposizione delle viti che era chiamata quincunx, giusta la se- 
guente figura 



♦ ♦ * * 

al cui riguardo vedi la mia nota a Georg., II, 277, 278. Quanto ad or- 

Stampimi, Vergil. Bueol. 2 



18 VERGILI BVCOLICA, I. 

ite meae, felix quondam pecus, ite capellae. 

non ego vos posthac viridi proiectus in antro 75 

dumosa pendere procul de rupe videbo; 

carmina nulla canam; non, me pascente, capellae, 

florentem cytisum et salices carpetis amaras. 

TiTYRVS. 

Hic tamen banc mecum poteras requiescere noctem 
fonde super viridi: sunt nobis mitia poma, 80 

castaneae moUes et pressi copia lactis. 

dine Giusto ordine^ insta ratione, cfr. Georg. , 1, 425; IV, 4; 376; 
537 ecc. — 74. Cfr. qaesto ed i seguenti versi sino al 78 con Teocr., 
Idyll,^ I, 115 segg.: (ti XOkoi, d» Odic^, (h àv tlipea q>u)XdÒ6^ dpKTOi, j 
XaipeO'* ó Pu)KÓXo<; C^jniv èTib Aà(pvi<; oùk ?t* àv* dXav k. t. a. — 
felix quondam è la lezione del codice Romano : quondam felix è la dispo- 
sizione di Servio e del codice Palatino. Colla prima disposizione Tanda- 
mento è più patetico e più naturale. Il pensiero di Melibeo ricorre ai 
jsuoi tempi felici, che erano pur tali per la sua greggia: ma questa 
felicità gli si presenta tosto come inesorabilmente passata; onde l'aggiunta 
del quondam. — 75. viridi.,, antro. Cfr. Ed., V, 6 seg.: aspice ut 

antrum \ silvestris raris sparsit labrusca racemis^ e IX, 41 seg.: can- 
dida populus antro \ imminet. — 76. dumosa,., rupe. Cfr. George., 
Ili, 3i5: am^ntis ardua dttmos. Quanto al senso vedi Golum., VII, 6, 
1 : [caprinum pecus] dum^ta potius^ quam campestrem situm desi- 
derati Ovid., ex Pont., l, 8, 51 : pendentis... rupe capellas. Traduci con 
una frase del Poliziano : « pender da un*erta | le capre ». — 78. cy- 
tisum (gr. KÓTiaoO, specie di frutice bianao, che fornisce gradito pa- 
scolo ai greggi. Cfr. Ed., II, 64; Georg., II, 431 ove troverai altre ci- 
tazioni nella mia nota. — salices. Cfr. Ed., 111,83: [dulce] lenta saliw 
feto pecori e Georg., II, 434 segg. : salices... pecori frondem... sufficiunt, 
79. Titiro invita Melibeo a pernottare con lui. Cfr. Teocr., Idyll., XI, 
44 segg. — • poteras, tu potresti, cfr. Oraz., Sat., II, 1, 16,. Similmente 
Ovid., Met., I, 679: hoc poteras mecum considere saxo, È usato l'im- 
perfetto e non il presente perchè Melibeo si è già incamminato per 
proseguire il triste suo viaggio. — hanc noctem, acc. di durata che 
significa: per tutta questa notte, laddove la lezione hoc nocte seguita 
da alcuni non può avere tal significato. Cfr. TibulL, III, 6, 53 segg.: 
qtM.m vellem tecum longas requiescere noctes \ et tecum longos pervi- 
gilare dies, — 80. mitia poma, L*agg. mitis riferito a frutti signi- 
fica: «maturo» e perciò «dolce». Cfr. Oraz., Epod., II, 17: mitibus 
pomis; Georg., I, 344: miti... Bacche; 448: tnitis... uvas, — poma di- 
cesi di qualunque frutto edule, particolarmente se tenero. Cfr. Ed., IX, 
50; Georg., I, 274; li, 59; 150; 516; Aen., VII, 111 e sopra al v. 37. — 
81. molles si riferisce qui al sapore e significa « gustose :». Cfr. Georg., 
I, 341: moltissima vina; Oraz., Od,, l, 7, 19: molli,,, mero; Ovid., 
Met., XIII, 816: mollia fraf/a. Altri interpreta: «spogliate del loro 
guscio spinoso e perciò godibili ». Del resto Taccennare che fa Titiro 



YKRQILI BYGOLICA, I. 19 

et iam summa procul villarum calmina famant, 
maioresque cadunt altis de montibas umbrae. 

alle castagne, di cui vuol far copia a Melibeo, indica che il dialogo 
avvenne verso Tautunno. Nò è necessario ammettere, come fanno i commen- 
tatori in genere, che si tratti di autunno avanzato, il che implicherebbe 
una cotale contraddizione con quanto è detto di Titiro sedente alFombra 
di un faggio, mentre vicino erra il gregge a pascolare. Nel settentrione 
d'Italia si hanno castagne verso la metà ai settembre, e ciò normal- 
mente. — pressi.., lactis ^ lactis in caseum coacH, Vedi sopra la nota 
al V. 34. — 82. Si accenna alla preparazione della cena nelle case 
di campagna, la quale si faceva verso sera e senza dubbio più tardi 
che in città, dove si cenava generalmente verso la nona ora (ore 3 pom. 
circa). — 88. maioresoue cadunt ecc. Servio: Cum sol caditi ma- 

iores sunt umbrae, Gfr. Ect.^ II, 67 : et sol crescentes decedens duplicat 
utnìfras. 



P. VERGILI MARONIS 



BVCOLIC^ 



EGLOGA IL 



ARGOMENTO. 

Goridone, ricco e libero pastore (v. 20 segg.), invaghitosi di Alesai, servo di lolla, 
esprime il vivo dolore che prova per essere posto in non cale dalFoggetto del suo 
amore, e cerca di piegarlo a più miti consigli col ricordargli le sue ricchesse, la 
sua perizia nel canto (v. 23), la sua bellessa (v. 25), e gli promette che, quando 
voglia dimorar seco, glMnsegneràrarte del canto (v.31 segg.), facendogli dono di una 
eccellente sampogna (v. 3d), di due caprioli (v. 40), di fiori e di frutti (v. 45 segg.). 
Passa quindi a far Telogio della vita rustica amata anche dagli dèi (v. 60 segg.); 
ma in fine, rinsavito, condanna la sua demenza che gli fa trascurare i propri in- 
teressi, e si consola colla speranza di trovare chi sappia corrispondere al suo amore. 

Si crede generalmente che, sotto la persona di Goridone, Virgilio abbia voluto figu- 
rare so stesso, e che in Alessi abbia allegoricamente rappresentato un servo, di nome 
Alessandro, che gli era stato regalato da Asinio Poli ione e che egli teneramente 
amava. Sul che vedi Tlntroduzione. 




VERGHI.! BYCOLICA, II. 21 



Alexis. 

Formosum pastor Gorydon ardebat Alexìm, 
delicias domini, riec quid speraret habebat. 
tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos 
adsidne yeniebai ibi haec incondita solus 



1. Quanto al significato proprio dell'aggettivo formosus, vedi sopra 1, 
5. — Corydon, Anche questo nome ricorre negli idillii di Teocrito. Gfr. 
IdyU,^ IV. — ardebai. Questo verbo si unisce con un accusativo come 
altri esprimenti affezione dell* animo. Gfr. Oraz., Od,, W, 9, 13 seg.: 
comptos arsii adulteri | crines. In simil guisa e nello stesso significato 
di « amare ardentemente » i comici usavano pereo^ depereo ed anche 
demorior. Del resto anche nella prosa classica certi verbi, come indi- 
gnor^ horreo^ doleOy maereo^ lugeo, stomackor ecc., esprimenti affetto, 
costruisconsi coU'accusativo. Virgilio congiun&^e anche colVinfinito il verbo 
ardeo, nel significato di cupere. Gfr. Aen., I, 515, al qual passo Servio, 
citando appunto il primo verso di quest'ecloga, dice : ardeo autem et ac' 
cusativum regit et ablativum, --- Alexim. Altri legge, sulFautorità del 
codice Romano e di altri Alexin. E preferibile la prima lezione, che è del 
codice Palatino. Del resto nessuna ragione metrica poteva avere il poeta 

g9r preferire alla forma latina la greca. — 2. delicias domini, Gfr. 
ic, ad Att,^ XVI^ 6, 4: Piliae salutem dicòs et Atticae^ deliciis atque 
qmoribus meis; GatulL, III, 4 ipasser, deliciae meae puelkie, ^ domini, 
È ^esti lolla. Gfr. sotto v. 57. Cforidone è un pastore libero, come appare 
dai versi 19 segg.: quindi lolla è solo padrone di Alessi. — nec quia spe- 
raret habebat. Si e giustamente osservato che questa frase significa non 
già € non aveva che sperare », che corrisponderebbe a nec quod 
speraret habebat, ma invece « non sapeva su che fondare le sue spe- 
ranze », vale a dire « non sapeva a quali mezzi appigliarsi per farle 
riuscire >, come appare dal seguente tantum = tantummoao, sola- 
mente. — 3. Il solo mezzo impiegato da Goridone per far capire il 
suo amore ad Alessi è indicato in questo e nei versi seg^. Perciò il 
tantum di cui nella nota prec. — inter è qui usato, come m Aen,^ V, 
618; X, 710; XII, 437, con un verbo di moto (veniebat, v. seg.). E si 
noti che fu Virgilio il primo che impiegò inter ad esprimere un movi- 
mento, mentre nel latino antico e nel classico esprime sempre una rela- 
zione di quiete. Quest'uso virgiliano penetrò poi nella prosa a cominciare 
da Livio, del quale cfr. Ili, 26, 4; V, 46, 1 ; XX V, 15, 4 ; ecc. Qui 
però si può spiegare in modo proleptico: veniebat ad fagos, ut inter 
eas esset. — umbrosa cacumina non è già accusativo di relazione da 
unirsi a densas per umbrosis cacuminibus, ma apposizione a fagos. 
Lo dimostra la cesura che cade appunto dopo densas e che nella 
prima ipotesi perderebbe tutta la sua forza. L' apposizione ha qui il 
valore duna proposizione relativa: girne habebant umbrosa cacumina, 
Gfr. un passo parallelo sotto in ^cZ., IX, 9. — fagos. Gfr. sopra 1, 1. — 
4. incondita. Si spiega generalmente questo vocabolo i>er « rozzo », 
€ disadorno», «senz^arte» e sim. lo vi. scorgo invece piuttosto Tidea 



22 TERGILI BYGOUGA, n. 

montibus et silyis stadio iactabat inani: 5 

crudelis Alexi, nihil mea carmina curas? 
nil nostri misererò? mori me denique coges. 
nunc etiam pecudes umbras et frigora captant, 
nunc virides etiam occultant spineta lacertos, 
Thestylìs et rapido fessis messoribus aestu 10 

dell* improvvisazione. Livio difatto lo adopera con frequenza a (jualifi- 
care i carmi trionfali, che si improvvisavano dai soldati (Troi^inaaiv 
aÙTOOxc^^oi^ in Dionis., Aniiq., II, 34). Gfr. lib. IV, 20, 2, carmina in- 
condita; lY, 53, 11, inconditi versus; V, 49, 7, iocos militar es, quos incon- 
ditos iaciunt;\lU 10, 13, inter.,, incondita qimedam militariter ioculantes; 
e inoltre Ylly38, 3; X, 30, 9. Naturalmente all'idea deirimprovvisazione si 
associa anche quella di mancanza d'arte, d'ornamento. Stimerei quindi 
di tradurre questo vocabolo per « rozzamente improvvisato ». — 
5. studio,,, inani, con vano trasporto, quindi inutilmente. — iactabat 
vale qui emittebat, effundebat, Gfr. sotto Ed,, V, 62; Aen,, I, 102; II, 
588. Per tutto il passo cfr. Teocr., Idyll., XI, 17 seg.: KaOcS^óiuicvo^ ò' 
itti Ttérpat; | óipiiXdc;, è<; uóvtov ópdùv deióe TOiaOxa. — 
6. crudelis Alexi. Gfr. Teocr., Idyll.^ XXUl, 19: dTpi€ ira! Kal OTUfvé. 

— nihil mea carmina curas ? Gfr. Teocr., Idyll., Ili, 33 : tò 6é |ii€u Xóyov 
oùbéva iroifl. — 7. nil nostri misererei Gfr. Teocr., Idyll., VII, 119: 
ó bOajLiopo^ oÒK èX€€! jLACU. — denique non ha qui il suo valore ordi- 
nario di richiamare tutti i termini d'un' enumerazione; ma indica ciò 
che si fa o si farà in ultimo luogo. Puoi tradurre : « alla fine ». Gfr. 
Aen., II, 70; 295 ; Plaut., Trmww., IV, 2, 93; Terenz., Heaut,, III, 3, 8 ecc. 

— coges. Meno efficace è la lezione cogis del cod. Palatino; del resto cfr. 
Teocr., IdylL, III, 9: àirdTHaoeaC jli€ iioifìociq. — S. umbras et fri- 
gora, figura d'endiadi (?v 6ià òuotv) per umbras frigidas, Gfr. Oeora., 
l, 173; 11, 192; 111, 56 ecc. Del resto anche in prosa e nell'interesse della 
chiarezza si coordinavano talora con et, que, atque due sostantivi, di 
cui l'uno doveva essere subordinato all'altro come suo complemento. 

Gfr. Gic, Tusc, IH, 16, 35: medicina quam. adfert longinquitas 

et dies. Talvolta l'endiadi si usava per supplire a difetto di aggettivo 
per evitare l'incontro di più genitivi dipendenti l'uno dall'altro. Gfr. 
Gic., de OraL, 111, 13, 48: subtilior cognitio ac ratio litterarum = « co- 
gnizione metodica della letteratura»; ibid., Ili, 44, 173: delectationis 
atque aurium causa. Devesi tuttavia osservare che si possono in questo 
verso anche considerare i due sostantivi come indipendenti : si può cer- 
care l'ombra ed il fresco. Quanto a frigora cfr. anche Ed., i, 52. — 
captant = studiose quaerunt, exquirunt. Gfr. Georg., Ili, 331 : aestibus 

at mediis umbrosam exquirere vallem. — 9. virides lacertos. 

Anche Oraz., Od., I, 23, 6 seg. ha virides..,, lacertae. Ma Virgilio ha 
qui usato il maschile lacertus, come in Georg., IV, 13. Gfr. poi questo 
verso con Teocr., IdylL, VII, 22: àviKa òf| Kal oaOpo? è(p' aliiiaoiatoi 
KaOeO&ci. — 10. Thestylis è la serva che prepara la vivanda ordi- 
naria dei contadini, soldati e marinai romani, vale a dire il moretum 
composto di aglio, cacio, aceto, olio ecc. Vedine la minuta descrizione 
nel poemetto Moretum attribuito a Virgilio ; Golum., XII, 57. Anche in 
Teocr., IdyU,, li, è introdotta un'ancella del medesimo nome. — ror 
pido aestu. Gfr. Georg,, l, .92 e la mia nota. E abl. dipendente da 



TERGILI BYCOLIGA, n. 23 

alia serpyllumque heibas contundit olentìs. 

at mecum raucis, tua dum yestìgia lustro. 

sole sub ardenti resonant arbusta cicadis. 

nonne fuit satin s, tristis Amaryllidis iras 

atque superba pati fastidia? nonne Menalcan, 15 

quamvis ille niger, quamyis tu candidus esses? 

formose puer, nimium ne crede colori. 

alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur. 

fessis. — messoribus è dat. dì commodo. — 11. aUa meglio che 

aUia. Gfr. Lachmann, Comm. in Lucr., ad I, 313, p. 32 seg.: Regula 
est post longam vocalem e duabus 1 alteram suhtrahi^ si sequatur i 
Uttera, nisi ea casuaUs sii. — serpyllum, gr. épTTuXXov, it. sermolino. 
Gfr. Georg,, IV, 31. Plin. H. iV., XX, 22, (^): Serpyllum a serpendo 

putant dictum. — herbas olentìs devesi interpretare non già per 

erbe di grato o ingrato odore, ma semplicemente per « erbe ooorose y> 
che entrano nella confezione del moretum, — contundit, Gfr. Golum., 

XII, 57: in mortarium coniicito et pistilUs conterito. — 12 e 

13. at è particella che serve ad opporre un asserzione ad un'altra ovvero 
fatti distinti, come è qui il caso, o pensieri contrari. — lustrare signi- 
fica « mirare attorno attentamente », Quindi « osservare diligentemente » 
e perciò qui « ricercare e seguire ». Ci. Aen., XI, 763. Vedi anche Aen,, 
li, 564; Vili, 153. — mecum va congiunto con raucis cicadis ed equi- 
vale a mea voce o meo cantu. Quindi il senso è: le piante (arbusta) 
risaonano del mio canto e del rauco suono delle cicale. Gfr. Georg,, II, 
328: avia tum resonant avibus virgulta canoris. — sole sub ardenti, 
Gfr. Gatull., LXIV, 354. Questa espressione determina meglio il senso 
generale dei due versi, ne* quali si vuol dire che in quelle ore meri- 
diane, in cui tutti gli altri esseri riposano, egli solo è inquieto ed unisce 
i suoi amorosi lamenti al canto delle cicale. Non devesi tacere che 
altri, dividendo in due vocaboli distinti, mediante interpunzione, il mecum, 
spiegherebbe: arbusta resonant me (cioè meam. vocem) cum raucis ci" 
cadis. Gfr. Georg., Ili, 338: litoraque alcyonem resonant, acalanthida 
dumi. Non è necessario ricorrere a questa dichiarazione. — 14. nonne 

fuit satius ì non sarebbe stato meglio? Si noti Tuso del perfetto fuit, 

perchè la cosa, cui si accenna, non è più possibile nel tempo in cui Go- 
ridone esprime i suoi lamenti. A questo passo, oltre ad Ed., IH, 81 e 

V, 10, pensò Ovidio scrivendo di Virgilio in Trist., Il, 537 seg.: Phyl- 
lidis htc idem, teneraeque Amaryllidis ignes \ bucolicis iuvenis luserat 
ante modis. — 15. pati accenna propriamente ad un sopportare con 
rassegnazione e pazienza; ferre invece al sopportare con forza. — 

nonne Menalcan, sottìnt. pati. — 16. gtcamvis quamvis. Riguardo 

alla ripetizione di una stessa voce in principio del secondo membro del 
verso, cfr. sotto v. 20; Ecl,m,6; 61; 62; V, 38; IX, 16 ecc. — niger, 
dal color bruno, arsiccio. Gfr. Ecl., X, 38: fuscus Amyntas. — 
17. nimium ne crede colori, non confidar troppo nella bellezza che ti 
vien dalla candidezza del tuo corpo. — crede = confide. Si noti poi 
Tubo poetico del ne colla seconda persona delFimperativo. Gfr. Aen,, 

VI, 95; 544; Terenz., Arfe/pA., V,3, 16; Andr., V, 2, 27; Ovid., Fast,, IV, 931 ; 
Met., IH, 116 ecc. — 18. Il senso è: il color fosco è non di rado 




sv 



F 
N 



24 . VERGILI BVCOLICA, li. 

despectus tibi sum, nec qui sim quaeris, Alexi, 

quam dìyes pecoris, nivei quam lactis abundans: 20 

mille meae Sìculis errant in montibus agnae; 

lac mihi non aestate novum, non frigore defit; 

canto quae solìtus, siquando armenta vocabat, 

Amphion Dìrcaeus in actaeo Aracyntho. 



preferito al candido. — cadunt, cadono negletti, perchè nessuno li rac- 
coglie. Quanto al ligustrum cfr. Plin., E. N,, Xll, 24, (51); XXIV, 10, 
(45). — vaccinia. Gir. Plin., H. JV., XVI, 18 (31). Sono fiori o piuttosto 
frutti che noi chiamiamo col nome di « vacini p e che a torto Servio 
confonde colle viole ( Vaccinia vero sunt violae, errore che trovasi anche 
negli Scolii Bernesi). Di fatto il poeta, Ecl.^ X, 39, ne fa una chiara 
distinzione dicendo : et nigrae violae sunt et vaccinia nigra. Alcuni li 
confondono coli* ùdKivOoq de' Greci, tratti dal confronto del passo testé 
citato di Plinio con un altro dello stesso (XXI, 26, (97)). — nigra = 
fusca^ violacea. Cfr. del resto questo verso con Teocr., IdylL, XXIII, 
80 seg. : XeuKÒv tò Kptvov éari, luiapaivfcTai, àviKa iriTrTer | à he. xvhv 
XeuKÓ, Kal TàK€Tai, àvina TTaxO^, e X, 28 seg.: Ktìi tó tov )iéXav ?vtì, 
Kai à TpOTiTà ódKivOoq • 1 àXX' i^tiac; èv toK OT€(pdvoi<; rà irpaxa Xé- 
Yovxai. — 19. Cfr. Teocr., Idyll., Ili, 7: fj f>à fjie jiiiaelt; ; — qui 
sim. In qualche manoscritto leggesi malamente quis sim. Cfr. sopra la 
nota al v. 18 deir£c/. I. Coridone vuol dire che Alessi ignora quale 
uomo egli sia, come risulta anche dai versi segg., e non già chi egli 
sia, cioè qual nome abhia. — 30. Per questo ed i seguenti versi, 
sino al 24, cfr. Teocr., Idyll.^ XI, 34 segg.: dXX' u)Òtó<;, TOioOToq èihv, 
Potò xiXioi Póokiju, | k^k toOtujv tò KpdTiOTov d|ui€XYÓ|uevo(; Y<i^ci 
irivui • I Tupòq ò* oò X€ÌiT€i |Li' gOt* èv eépei, oOt' èv ònidpij, | où x^^H^" 
voq dKpqj • rapaol ò* ùircpaxOèec; alci. — dives pecoris. Suole Virgilio 
unire dives più spesso col genitivo che coirablativo. Cfr. Georg.^ II, 
468; Aen., I, 14; II, 22: IX, 26; per Tabi. cfr. Aen., IV, 37 seg. Vedi 
del resto Tibull., II, 5, 35: gregis diti.... magistro. e Om., Iliad,^ V, 
554: d(pv€iòq pióToio. — nivei. Servio e con lui gli Scolii Bernesi ed 
alcuni moderni riferiscono questo aggettivo a pecoris. Ma fu a ragione 
osservato che niveus è epiteto solenne del latte: cfr. Tibull., Ili, 2, 20; 
5, 34; Ovid., Met., XIII, 829; Fast, IV, 151 ; 780. Servio difende la sua spie- 
gazione con dire che candidae oves in ingenti sunt pretio e cita a so- 
stegno Georg. f III, 386 è 391. — 31. mille vneae agnae. Alcuni 

interpretano male per mille ex meis agnis; significa invece: mille 
agnae, quae meae sunt. — Siculis... in montibus. La Sicilia è qui in- 
dicata come il luogo ove si svolge la scena, ciò che è pienamente giu- 
stificato dall'essere stata la Sicilia patria della poesia pastorale greca. 
Del resto qui si sente quanto mai l'imitazione di Teocrito, siracusano, 
vero creatore di quella poesia. — 32. frigore = hieme. Gfr. Ecl.y 

V, 70; X, 65; Georg., I, 300. — non... defit = adest* Gfr. Ovid., Met., 
XIII, 829: Lac mihi semper adest niveum. — 33. solitus, sottint. 

erat. — si quando, ogni qual volta. — vocabat, intendi: radunava gli 
armenti per ricondurli a casa. — 34. Amphion, figlio di Zeus e di 
Antiope e sposo di Niobe. Unito al fratello Zeto marciò contro Tebe, 
ove regnava Lieo, marito della madre loro Antiope, cui aveva ripu- 



VERGILI BVCOLICA, H. 25 

nec sum adeo informìs: nuper me in lìtore yìdi, 25 

cum placidum ventis staret mare: non ego Daphnim, 
indice te, metuam, si nnmqnam fallit imago. 
tantum libeat mecum tibi sordida rura 
atqne humilis habitare casas> et figere cervos, 



diata e posta in prigione per isposare in seconde nozze Dirce, la quale 
aveva sottoposto la povera prigioniera a duri strapazzi, finché questa 
era riuscita a fuggire. Lieo e Dirce furono uccisi: guest' ultima dopo 
essere stata trascinata da un toro sino a morire, lu gettata in una 
fontana che da indi in poi ebbe il nome di Dirce. Per questo Amfione 
è dal poeta chiamato ' Dircaeus^ termine che d'altra parte equivale a 
Thébamts^ Boeotius, perchè la fontana Dirce si trovava presso Tebe. 
Gfr. Ovid., Met, li, 239; Plin., E. JV., IV, 7, (12). — Aracyntho. Opinano 
alcuni che fosse un monte posto al confine della Beozia e dell'Attica, 
perciò sarebbe detto Actaeus da 'Akt/), antico nome dell'Attica. Altri 
Io pongono in Acamania, come Plin., H. N,^ IV, 2, (3); ma realmente 
apparteneva all'Etolia. Virgilio avrebbe quindi commesso un errore, ma 
volontario, secondo un'opinione menzionata da Servio, ut ostendatur 
rustici impernia. Ma se, come fu supposto, questo verso e per la ce- 
sura trocaica, quasi insolita ai Latini, e per io iato tra il quarto ed il 
quinto piede, deve essere la versione d'un verso greco, che suonava 
'A|H(pìuiv AipKato^ èv àKxaiuj 'ApaKOvBip, non è improbabile che Virgilio 
usasse actaet4s = dKTatoq = litoralis, come in Aen,^ V, 613 adopera 
il vocabolo acia = àKTi?i, già trasportato in latino da Gic, in Yerr.^ 
Ac/.II,1. V, 25, 63; 31, 82; Gorn. Nep., Ages., 8, 2. Del resto cfr. questo passo 
con Properz., IV [HI], 14 [15], 41 seg. : canebat \ paeana Amphion rupe, 
Aracynthe, tua. — 25. adeo = nimis, admodum. Per questo 

significato cfr. Hand, Tursellinus, I, pag. 149. Vedi del resto Teocr., 
Idyll.y VI, 34, Kttl Y<^p ®iv oòò' cTòoi; ?xu> KttKÓv, O&c; |ii€ Xé^ovri. — 
nuper me in litore vidi = stans nuper in litore im,aginem meam, in 
undis vidi. Gfr. Teocr., IdylL, VI, 35: i^ Y^p irpàv è(; ttóvtov è^é^Xeirov 
{?{<; òè YaXdva). — 26. placidum ventis. Alcuni spiegano: placidum 
a ventis. Prejferisco vedere in ventis un ablativo causuale. Di fatti si 
attribuiva ai venti non solo la potenza di sollevare i flutti, ma anche 
quella di appianarli. Gfr. Aen., Ili, 69 seg.: placataque venti \ dant 
maria, e y, 763: placidi staverunt aequora venti, e Oraz., Od., I, 3, 
15 seg. — staret. Questo verbo equivale non di rado a non moveri, 
consistere. Gfr. Ovid., Met., VII, 200 seg. : concussaque sisto, | stantia 
concutio cantu freta. — Daphnim, pastore siciliano, figlio di Mercurio 
e di una ninfa. Fu istruito dal dio rane nell'arte di suonare il flauto e 
fu riguardato come inventore della poesia bucolica. Era anche celebre 
per la sua bellezza. Per questi motivi è riguardato come il tipo de' pa- 
stori siciliani. — 27 .iudice te, metuam. Senso: non temo u giudizio 
tuo, se anche tu mi ponga a confronto con Dafni. — fallit, molto meglio 
che fallat, lezione del cod. Romano, perchè qui la cosa non è espressa 
in forma di dubbio e quindi deve trovarsi l'indicativo. Perciò il si ha 
un valore causale. Nota la modestia dell'espressione dovuta appunto al 
si. ^ 28 e 29. tantum = solum. — libeat e non libèret, perchè 
Goridone spera ancora nell'efiettuazione del suo desiderio. — L'epiteto 
sordida come Vhumilis del v. seg. contiene un'idea che Goridone non 



h- 



26 VERGILI BVCOLICA, IL 

haedorumque gregem viridi compellere hibisco! 30 

mecam una in sii vis imitabere Pana canendo. 
Pan prìmum calamos cera coniungere plures . 
instituit, Pan corat ovis oviumqae magistros. 
nec te paeniteat calamo trivisse labellum: 



esprìme come sua, ma attrìbuisce ad Alessi. Qaindi i due epiteti equi- 
vsugono a quae sordida eosistimas, qt4ae tibi humiles videntur. — fir 
gere cervos, sottint. iaculo, telo. Il semplice figere si trova anche in 
Georg, y I, 308; Aen., V, 516; VI, 802. Va notato che Servio ricorda 
come alcuni interpretavano cervos per furcas, qtme. figuntur ad casae 
sustentationem : quae dictae sunt cervi, ad similitudinem comuum 
cervorum. Non è necessario ricorrere a tale spiegazione, sia perchè qui 
si tratta di capanne già costrutte e non da costruirsi, sia perchè la caccia 
era una delle occupazioni della campagna, sul che cfr. ÈcL, III, 12; 75; 
Geora., I, 307 segg.; Ili, 404 segg.; Teocr., Idyll., V, 106 seg. — 
30, hibisco è dativo equivalente allacc. con ad. Quest'uso del dativo è 
assai frequente ne' poeti. Cfr. la mia nota a Georg., \, 322. Del resto 
Vhibiscuin, ìt. malvavischio, è un'erba simile alla pastinaca, ma meno 
sottile, damnatum in cibis, sed medicinae utile, eome dice Plin., JJ. N., 
XIX, 5, (27). Cfr. anche Plin., op. cit., XXVI, 4, (10). Essendo un'erba 
legnosa, si adoperava anche a tessere fiscelle. Cfr. Ed,, X, 71: gracili 
fiscellam tewit hibisco. — 31. in silvis, nei boschi, ove i pastori 
conducono spesso i loro greggi. A torto pensano che quest'espressione 
sia messa come un contrapposto all'idea dei prati in cui cresce Vhibi' 
scum che può crescere benissimo nei boschi. — Pana, acc. di Pan. Cfr. 
il V. seg. Quanto all'espressione, cfr. Ed., V, 73. — 32 e 33. Questi 
due versi, quos non interpretatur Servius, interpolatione additos esse 
conicio. Così il Ribbeck, il quale rimanda ad Ed., Vili, 24 e Tibull., 
Il, 5, 32, ove trovi espresse idee identiche. Che non vi sia interpola- 
zione, oltre all'autorità de' codici antichi, lo dimostra il fatto che uori- 
done, per rendere accettabile ad A lessi l'offerta di rimanere con lui 
nella semplicità della vita pastorale, poteva opportunamente ricordargli 
la tutela che le accorda il dio Pane e la speciale cura che ne prende. 
Del resto Pan, figlio di Hermes o Mercurio e della ninfa Penelope e 
dio de' pastori presso i Greci, era primitivamente un dio d'Arcadia la quale 
fu sempre il centro del suo culto. Trae il suo nome dalla rad. pd, cui 
secondo alcuni (cfr. la nota ad Ed., Y, 35) si rattacca anche il nome 
di Pales, la divinità femminile della pastorizia presso i Latini, donde 
*Trd-o-|uai, pa-soo, pa-s-tor = *pa-sC'tor, Lo si rappresentava er- 
rante per le montagne e le valli d'Arcadia or cantando or accompa- 
gnando le danze delle Ninfe. Inventò il flauto pastorale ossia la oOpitH, 
sulla quale vedi sotto il verso 36 e IH, 25. Gir. anche Ed., Vili, 24. 
Quanto alla corrispondenza di Pane al Fauno dei Romani cfr. la mia 
nota a Georg., I, 11. — calamos cera coniungere, cfr. sotto al v. 36. 
— oviumqvie magistros = pastores. Cfr. Ed., Ili, 101, e Ovid., Fast,, 
IV, 747 ove trovi anche una ripetizione elegante e significativa analoga 
ad ovis oviumque. Vedi anche Georg., II, 529; III, 445, e Tibull., II, o, 
35. — 34. nec te paeniteat. Questo verbo è qui adoperato nella sua 
propria e più antica significazione di « non essere contento ». Quindi 
traduci: « e non ti dispiaccia ». Cfr. Gic. in A. Geli., N. A., XVII, 1, 



VERGILI BVCOLICA, H. 27 

haec eadem ut sciret, quid non faciebat Amyntas? 35 

est mihi disparibos septem compacta cìcutìs 

fistula, Damoetas dono mihi quam dedit olim 

et dixit morìens : « te nane habet ista secundnm ». 

dixit Damoetas; invidit stultus Amyntas. 



4: id numqttam tam acerbe feret M. CaeUtts^ ut eum pcteniteatj non 
deformem esse natum^ ove Geli. § 9 nota Tuso antico del vocabolo, di- 
verso dal comune e la sua derivazione ab eo, quod est * paene \ deri- 
vazione accettata dal Bréal e che giustifica la forma ortografica con 
ae, d'altra parte chiaramente attestata dalla Tavola di Lione dell'im- 
peratore Claudio ove si legge due volte (cfr. il mio Tratt. delVortogr. 
tot., p. 61) in pàenitendI e paenitet. Quanto al significato predetto di 
onesto verbo cfr. anche Plaut., IWn., Il, 2, 39; Terenz., Heaut,^ 1, 1 20; 
Èun.^ V, 6, 12; Phorm.^ I, 3, 20; Aggiungi Cic, de Sen.^ 6, 19; Acad. 
prior.^ Il, 22, 69 ecc. — trivisse. Si nota qui un caso del così detto infinitivo 
aoristico del perfetto così frequente nell antica latinità e nello stile delle 
leggi e dei decreti (cfr. Senat, cons. de Bacch.: neiquis.,. habuise velet ecc.), 
specialmente in dipendenza dei verbi volo^ nolo^ possum^ oportet e sim. 
Mancano esempi in Cicerone, Cesare, Sallustio, Tacito, Val. Massimo, 
Plinio il giovane e Svetonio, ma abbondano in Livio. Dipendendo da 
espressioni come sufficit^ satis est, satis habes, abunde est, contentus 
sum ecc. ha vero valore di perf. logico. Non si dimentichi però che i 
poeti ne fanno spesso uso, in luogo oel presente, per canon del metro. 
Cfr. Aen,, VI, 78 set.: Lucr., Ili, 69 ecc. Del resto luso del verbo 
terere accenna qui ali azione del flauto che si muove, nel sonare, sulle 
labbra sofiregandole. Cfr. Lucr., IV, 586; V, 1405. — 35. quid non 
faciebat, che cosa non fece? che cosa lasciò d'intentato? L'uso dell'im- 
perfetto non dipende qui dalla ragione che si tratta d'un fatto recente; 
si vuole invece designare un'azione abituale o spesso ripetuta nel pas- 
sato, caso questo in cui regolarmente si adopera Timpf. deirindic. in 
latino. — Amyntas è un altro pastore emulo di Coridone. — 36 e 
87. disparibus, sottint. magnitudine. V'è qui una descrizione della 
sampogna formata a più canne (cicutis). Cfr. TibulL, II, V, 31 seg.: 
Fistula cui semper aecresdt harundinis ordo: \ nam calamus cera 
iungitur usque minor. Ve ne era di sette canne (cfr. Ovid., Met,, II, 
682: dispar septenis fistula cannis), di nove (cfr. Teocr., Idyll, VIII, 

18: aùpiTT* ^X^ èvv€d<puivov) ecc. Quanto a cicutis, così spiega Servio 

qnesto vocabolo: Cicuta autem est [^patium] quod est inter cannarum 
nodos, Cfr. Ècl., V, 85; Lucr., V, 1^1. Vedi ancora sopra la nota ad 
Ecl.^ I, 2. — Damoetas, altro pastore, amico o maestro di Coridone 
neirarte di suonare la sampogna. — 38. moriens deve riferirsi anche 
a dedit del v. preced. — te nutnc habet ista secundum, vuol dire che 
la sampogna donata a Coridone avrà in lui il possessore più degno dopo 

Dameta. Cfr. Ed., V, 48 seg.: aequiparas magistrum | tu nunc 

eris alter ab ilio: Oraz., Sat, II, 3, 193: Aiaas, heros ab Achille se- 
cundus. — 89. Il Ribbeck crede ouesto verso interpolato, ma a 

torto. La ripetizione contenuta in dixit Damoetas da una parte dà mag- 
giore importanza alle parole pronunziate da lui, e dall'altra serve a 
dar maggior risalto al fatto che ne fu conseguenza: invidit sttdtus 



• i 



28 VERGILI BVCOLIOA, II, 

praeterea duo, nec tuta mihì valle reperti, 40 

capreolì, sparsis etiam nunc pellibus albo; 

bina die siccant ovis ubera; quos tibi servo. 

iam pridem a me illos abducere Thestylis orat; 

et faciet, quoniam sordent tibi munera nostra. 

huc ades, o formose puer: tibi lilla plenis 45 

ecce ferunt Nymphae calathis; tibi candida Nais, 



Amyntas, — 40. Imitazione di Teocr., IdylL^ XI, 40 seg.; Ili, 34 

seg. — nec tuta miài valle reperti^ parole che accrescono Timportanza 
deirofferta che Goridone vaol fare, per la difficoltà ed il pericolo incon- 
trato neirìmpadronirsene. — 41. sparsis... pellihus albo. Qui albo = 
maculis albis. Gfr. Qeorg.y III^ 56: maculis insignis et albo ove trovasi 
la nota figura di endiadi. Quanto ad etiam nunc, ecco la spiegazione di 
Servio: Accessu,.. temporis mutant colorem : et eorum maculaeessegratiae 
minoris incipiunt. Sogliono poi i commentatori citare a questo passo Se- 
neca, Nat. Quaest., Ili, 25; se non che ivi Seneca discorre solo del cam- 
biamento di colore che subiscono le pecore per efietto di certi fiumi, quae 
pota inficiunt greges. Il codice Romano dà in luogo di albo la lezione 
ambo preferita da alcuni, i quali pongono il punto dopo pellibus. — - 
42. die = cotidie. Gfr. EcL, III, 34; Aen., XI, 397; Plin., E. N., XV, 
6, (6), 22; Quintil., X, 3, 8; ma per lo più in questo senso si premetteva 
la prep. in. Gfr. Plin., E. N., XVIIl, 7, (17} ecc., e inoltre Ecl., HI, 
5. — bina. La presenza di questo numero distributivo dimostra che la 
frase intera devesi così interpretare : « ciascuno de' caprioli succhia ogni 
giorno le due mammelle di una pecora ». Altri invece ricorrendo ad 
un'ipallape, per la anale Tidea del distributivo, anziché riferirsi a co* 
preoli, SI collegherenbe con die, spiega meno verosimilmente: « suc- 
chiano due volte al giorno le mammelle della medesima pecora >. — 

siccant 2= exsugunt. Gfr. Oraz. Epod.^ 2, 46. -— 43. abducere 

orat =: orat ut sibi Uceat abducere. Gfr. Aen., VI, 313: stabant orantes 
primi trasmittere cursum. Il verbo oro è per analogia costruito come 
volo^ cupio e simili, riferendosi allo stesso soggetto l'azione espressa 
dall'infinito cui si unisce. Del resto orare colPinfin. si trova già in 
Plauto, Mil. glor., V, 1, 12 ed è amato da Tacito; cfr. Ann., VI, 8 [Vi, 2]; 
XI, 32; XII, 9; XIII, 13. — Thestylis. Gfr. sopra v. 10. — 44. et. 
Nota la forza speciale di qeesta particella esprimente qui minaccia, 
come altra volta sdegno (Aen., I, 48), esortazione {Aen., VI, 806), inter- 
rogazione ecc. Vedi su ciò Hand, Tursellinus^ II, p. 488, 4^ seg. — sor- 
dmt tibi, da te son tenuti a vile. Gfr. Oraz., Epist, I, 11, 4; Gatull., LXI, 
132. — 45. huc, ades, formola nota equivalente ad huc veni. Gfr. 

Ecl., VII, 9; IX, 39 e 43; Tibull., I, 7, 49 ecc. Essendo inchiusa in ades 
l'idea del movimento, il poeta adopera hitc e non hic. Vedi la mia nota 
a Georg., II, 243 seg. — 46. rer piegare maggiormente Tanimo di 
Alessi, Goridone gli rappresenta l'abbondanza di fiori che potrà trovare 
presso di lui per tesserne corone, servendosi a tal uopo dell'immagine poe- 
tica delle Ninfe che gli porteran fiori a pieni canestri intrecciandoli in 
corone colle proprie mani. Gfr. Teocr., Idyll. XI, 56 seg. Quanto ad 
ecce posto in mezzo alla proposizione per dar maggior vita ed evidenza 
alla cosa, cfr. la nota ad Ècl.^ III, 50. — calathis dal gr. xdXaOoq, pa- 



TERGILI BVCOLICA, U. 29 

pallentis yiolas et summa papavera carpens, 
narcìssum et florem iungìt bene olentìs anethi; 
tum casìa atque alììs intexens suavìbus herbis 
moUìa luteola pìngit vaccìnia caltha. 50 

ipse ego cana legam tenera lanugine' mala, 
castaneasque nuces, mea quas Amaryllis amabat; 

nierino fatto di vimini, rotondo ed allargantesi man mano verso la 
bocca, come i canestri da lavoro per donna si degli antichi come dei 
moderni. — Nymphae,. Nais. Il primo è termine generico, il secondo 
è specifico e designa una ninfa d'acqua dolce, come fonti, laghi, ecc. 
Quindi, senza ammettere che, con questo ricordare una Naiade, voglia 
Goridone indicare un corso d'acqua che irriga il suo giardino, è chiara 
l'allusione alle acque sulle cui sponde crescono fiori campestri. -^ cath 
dida. Quest'epiteto, come il greco Xaiutirpói;, designa spesso, come qui, 
l'idea d'insigne bellezza. Gfr. Aen., V, 571; Vili, 138; Graz., Od., I, 18, 
11; Epod., 3, 9; Catull., XIII, 4 ecc. Gfr. anche Teocr., Idyll, XI, 19; 
(b XevKà faXdTCìa. La citazione che qui si suol fare di EcL, VII, 38 è 
inesatta: candidior cycnis = più bianca d'un cigno. — 47. pallentis 
violas non son già le viole di color purpereo, ma quelle che i Greci 
chiamavano XeuKÓ'io, viole bianche, più esattamente dun giallo pallido. 
L'epiteto paMentis ha qui appunto tale significato, come in Ovid., Met, 
XI, HO: aaxutn quoque palluit auro, e XI, 145: arva riaent auro 
madidis pallentia glaebis. Vedi un altro significato in Ed., Ili, 39; V^ 
16; VI, él. Del resto Plin., H, iV., XXI, 6, (14): YioUs honos proxumus, 
earumque phtra genera purpureae, luteae, albae. — papavera, fiori, 

campestri di color rosso. — 48. florem bene olentis anethi. 

Gfr. Golum., X, 120: et bene odorati fiores sparguntur anethi. Questo 
fiore, gr. fivriBov (cfr. Teocr., Idyll., VII, 63, e Mosc., Jdyll., Ili, 107), 
sembra appartenere ad una pianta ortense simile al finocchio. — 
49, 50. U reggimento di intexens è lo stesso di quello di pingit, cioè 
vaccinia. L'espressione è poetica per casiam atque herbas vacdniis 
intenxens. Gfr. Ed., V, 31: et foliis lentas intexere mollibus hastas; 
Aen,, VII, 488: mollibus intexens omabat comua sertis. — casia, ti- 
melea. Gfr. la mia nota a Georg., Il, 213. •— pingit = variat, distin' 
guit. Si vuol significare che la Naiade intreccia il vacinio (cfr. sopra al 
V. 18) col fiorrancio (caltha) in modo da far spiccare le varie grada- 
zioni di colori. Gfr. Plin., H. N., XXI, 2, {ó): variari coeptum est 
mioftura versicolori florum, quae invicem odores coloresque accenderei, 
parlando delle corone che si davano in premio ne' sacri certami. -^ 
mollia è un epiteto contrapposto a luteola: accenna quindi non già a 
morbidezza (Servio: Mollia autem, tactus plumei scilicet; cfr. Scoi. 
Bem.), ma a color dolce e delicato. — luteola, giallognolo, dorato, con- 
corda con caltha^ abl. sing. Trovasi anche calthum, t, Gfr. Golum., X, 
97 : flaventia lumina calthae; 307: flammeola... caltha. -^ 61. cana... 
tenera lanugine mala sono le mele cotogne coperte d'una leggera la- 
nuffgine. Gfr. Plin., XV, 11, (10): mala quae vocamus cotonea et Oraeci 
cySonea e Creta insula advecta. — 6S. castaneasque nuces. Ma- 

crobio, Sat, III, 18, 7 (ed. Eyssen.) citando questo passo, nota : Nìax 

castanea, de qua YergiUus , vocatur et Heradeotica. È la nostra 

castagna. Gfr. Ed., 1, 81; Ovid., Art. am.^ II, 267 seg.: Adferat aui 



30 VERGILI BVCOLICA, n. 

addam cerea pruna: honos erit huic quoque pomo; 

et vos, lauri, carpam, et te, proxuma myrte, 

sic positae quoniam suavis mìscetis odores. 55 

rustìcus es, Gorydon: nec munera curat Alexis, 

nec, si muneribus cortes, concedat lollas. 

heu, heu ! quid volui misero mihi ? florìbus Austrum 

perditus et liquidis immisi fontibus apros. 



uvas, aut quas Amaryllis amabat. , \ at nunc castaneas non amani illa 
nuo&s, ^^ 53. cerea pruna. Servio: aut cerei colori: aut mollia. 

Preferisco la prima interpretazione. Gfr. Ovid., Met^ XIII, 817 seg.: 
prunaqtte^ non solum nigro liventia suco, | verum etiam generosa no- 
vasque imitantia ceras. Le prune di questo colore erano riguardate 
come di maggior pregio. — honos erit huic quoque pomo ; Sergio ag- 
giunge: si a te dilectum fuerit; sicut castaneae in honore fuerunt 
amatae AmaryllidL — Nota lo iato che è tra pruna ed honos^ in luogo 
del quale in qualche manoscritto di poca importanza trovasi et o nam. 
Questo iato si spiega, del resto assai raro, coli osservare che, quantunque 
cada in tesi, trovasi tuttavia in una dieresi dopo una forte interpunzione 
corrispondente ad una pausa molto spiccata del senso. Gfr. Ecl.^ III, 79; 
et longum « formose^, vale^ vale >^ inquit^ € lolla », Aen., \, 405: 
et vera incessu patuit dea - il le ubimatrem. — 54, 55. Il senso 
è: e te, o lauro, io coglierò e te, o mirto, che gli cresci vicino; voi mi 
fornirete i vostri rami, poiché uniti insieme spandete cosi soave odore. 
Pertanto il v. 55 dà la spiegazione del proxuma del v. prec. Gfr. Oraz., 
Od., Ili, 4, 18 seg.: utpremerer sacra \ lauroque collataque myrto. — 
56. Gfr. Teocr., Idylh, XX, 2 seg.: "E^if' du k\k€io \ Pu)kóXo<; fliv 
èèéXeic ^c xOoai, rdXtxv ; id., id., 32 : dXX', òri pwKÓXoc; èmui, trapé- 
òpa)ii€. — 57. si certes... concedat. Notisi Tuso del presente del con- 
giuntivo nei due membri del periodo ipotetico, perchè si vuol esprimere 
un fatto possibile. Il codice Romano na ceftet^ lezione meno efficace, 
perchè qui Goridone parla a sé stesso, come ^à nel verso precedente. 
Il senso poi del verso è : quand'anche tu volessi gareggiare con doni, tu 
non potresti aver la preferenza su lolla. L'usare Findicativo, come alcuni 
fanno, certas... conceaet^ afferma come reale ciò che devesi ritenere solo 
come supposto. — concedati propr. « si ritirerebbe >, quindi « si di- 
chiarereobe vinto ». È più efficace del semplice cedat. — lollas è il 

I)adrone di Alessi. — 58, 59. Qui Goridone rimprovera a se stesso 

a sua stoltezza accusandosi di fare, col suo folle amore, non altrimenti 
di colui che scatenasse Tinfocato scirocco sui fiori dal suo giardino e 
turbasse il suo limpido fonte collo spingervi dentro sozzi cinghiali. È 
un rimpianto della pace perduta di fronte al grave turbamento della 
vita presente. Vedi più sotto al v. 70. — Austrum^ è il scii*occo degli 
Italiani. 1 Greci lo chiamavano vóto^ e perciò era anche detto Notus 
dai Romani grecizzanti. In certe stagioni è un vento secco e soffocante, 
pernicioso agli animali ed ai vegetali. — perditus, sottint. amore, delirante 
d*amore. Gfr. Plaut., Cist,, I, 2, 13: amore haec perdita est. Trovi il sem- 
plice perditus in Prop., I, 13, 7. Gfr. anche Ecl.^ Vili, 88. — liquidis vale 
liquentibus e perciò limpidis. Gfr. Aen., IX, 679 : liquentia /lumina e 



VERGILI BVCOIICA, H. 31 

quem fdgis, a, demens ? habitarunt di quoque silvas 60 

Dardanìusque Paris. Fallas, quas condìdit arces, 

ìpsa colat: nobis placeant ante omnia silvae. 

torva leaena lupum sequitur, lupus ipse capellam, 

florentem cytìsum sequitur lasciva capella, 

te Oorydon, o Alexi: trahit sua quemque voluptas. 65 

aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci, 

Gerog.^ II, 187: liquuntur rupibus amnes. — 60. quem fugis = 

cur me fugis. Cfr. Ae»., V, 742; VI, 466. Anche in greco q>€iiY€iv si 
dice di cni ripudia Famore d'un altro. Cfr. Teocr. Idyll,, VI, 17; XI, 
24; 30; 75; Mosc, Idyll.y III, 60. — a si riferisce airintero concetto e 
non al solo demens. — 61. Dardanius Paris. Pai ide, secondo figlio 
di Priamo e di Ecuba, fu esposto dal padre sul monte Ida, ove fu rac- 
colto ed educato da un pastore. Diventato grande, si distinse assai nel 
difendere coraggiosamente le greggi ed i pastori : dal che ebbe anche il 
nome di Alessandro o difensore d'uomini. -^ Pallas, divinità greca, che 
si identificò colla Minerva dei Latini (cfr. la mia nota a Qeorg., 1, 18), 
fondatrice e protettrice di città, detta perciò troXioOxoq, iroXidi;, dKpa{a, 
àKpia, TTuXdiTK ecc., è qui contrapposta alle divinità protettrici ed abi- 
tatrici dei campi e dei boschi. Inoltre arces^ richiamando Tidea di luogo 
chiuso e cinto di mura, egregiamente si contrappone alla libera ed 
aperta campagna prediletta da Coridone. ^ 63. ipsa colat = in- 

colat. S'è aggiunto ipsa per far meglio spiccare il contrapposto nobis 
placeant ecc., con cui cfr. Georg. ^ 11, 485: rura mihi et rigui placeant 
in vallibus amnes. — ante omnia, cfr. Georg., II, 475. — 63- 

65. Cfr. questo passo con Teocr., Idylh, X, 30 seg.: h alS tòv kùtioov, 
ó Xt3K0<; TÒV atxci bidiKa, | à Yépavo(; TdùpoTpov • èy^ ^' ^irl tIv |Li€|Lidvii- 
^at. — ipse fa risaltare il movimento del pensiero nello stesso verso e con- 
trappone pure alla sua volta l'azione del lupo a quello della leonessa. 
— cytisum. Cfr. sopra Ecl., I, 78. — sequitur nel v. 64 equivale ad 
appetii — lasciva capella, Cfr. Ovid., Met., XIII, 791: tenero lasdvior 
haedo. In questo luogo* lasciva non significa voluptuosa et desidiosa, 
come spiega Servio, ma procax, petulans. Cfr. sotto Ecl.^ Ili, 64. — 
a Aleooi; havvi iato tra i due vocaboli; di più l'interiezione o ha ab- 
breviato la sua quantità, cosa insolita in Virgilio. In o ubi campi in 
Georg., II, 486 ve pure lo iato, ma l'interiezione ha mantenuto la sua 
quantità. La presenza del nome proprio e derivato dal greco Alexi 
spiegherebbe siffatta licenza. — trahit sua quemque voluptas. Il verbo 
trahere si dice delle cose che ci attirano e trattengono. Cfr. Cic, prò 
Arch.y 11^ 26: trahimur omnes studio laudis et optimus quisque m^a- 
xrme gloria ducitur. Forse il poeta aveva presente il passo di Lucr., 
11, 2^: progredimur quo ducit quemque voluntas (altri legge vo- 
luptas). — 66. aspice sta pel vocabolo più usato ecce. Coridone ri- 
volge a sé stesso il discorso. — aratra iugo referunt suspensa. Vi 
sono due spiegazioni di questo passo. Altri facendo dipendere iugo (per 
ex iugo) da suspensa^ trova un senso analogo a quello di Oraz., Bpod., 
II, 63 seg.: videre fessos vomerem inversum boves \ collo trahentes 
languido, come già Servio e Porfirione al citato passo d'Orazio; imjje- 
rocchè gli antichi ordinariamente usavano aratri senza ruote e perciò, 



32 VERGILI BYCOLICA, n. 

et sol crescentes decedens duplicai umbras. 
me tarnen urit amor : quìs enim modus adsit amorì ? 
a, OorydoD, Corydon, quae te dementia cepit ! 
semiputata tibì frondosa yitis in ulmo est. 70 

quin tu aliquid saltem potìus, quorum indiget usus, 
viminibus mollique paras detexere iunco? 



tanto andando quanto tornando dai campi, sospendevano il vomere al 
giogo de' buoi. Altri invece, confrontando il passo d'Ovidio, Fast^ V, 
497 : tempus erat^ quo versa itigo referuntur aratro,^ spiegano : iuvenci 
iugo referunt aratra suspensa = aratra ita suolata^ ut humum non 
tangant, notando che il verbo suspendere dicesi talora di quelle cose che 
toccano appena la terra, e quindi significa anche « tener sollevato da 
terra » (cfr. Golum., XII, 18, 6; Plin., ff. JV., XXXIV, 8, (19), [14] ecc.; 
né dimenticare Georg., I, 68). Ma in quest'ultima ipotesi che senso si 
darà al vocabolo iugo tanto nel passo di Virgilio quanto in quello di 
Ovidio? Preferisco quindi la prima interpretazione come più naturale e 
che lascia anche al vocabolo suspensa il significato testé enunciato: 
aratra iugo suspensa significa « aratri attaccati al giogo in modo che 
non tocchino terra ». — referunt, sottint.: domum. — 67. decedens 
= occidens. Cfr. Georg., 1, 222; 450 ecc. — crescentes... duplicata um- 
bras. Le ombre al tramonto del sole sono più lunghe. Cfr. Ed., I, 83. 
Del resto qui duplicai vale auget, come spiega Servio citando un passo 
di Sallust. (lib. VI, Histor,): Et Marius victus duplicaverat helltmi. — 
68. adsit, congiuntivo potenziale, Il senso é : « qual tregua mai conosce 
l'amore? » -^ 69. Cfr. Teocr., Idyll. XI, 72: Oi KùkXwmi, KùkXujmj, 
ir^ TÒ^ q)péva^ èKTreirÓTaoai; — 70. semiputata (fiir. €Ìp.). Servio 

spiega : plus est, quam si imputata diceret. Tolerabilius enim est, 
non incipere aliquid, quam incoepta deserere. Però i moderni inter- 
preti spiegano : « potata una sol volta », considerando che le viti si po- 
tavano due volte all'anno ; cfr. Plin., H. N., XXVllI, 26, (62) e (65); 
Golum., IV, 27, 5 ecc.; Georg., II, 410. Preferisco la spiegazione di Servio 
come più consentanea e alla forma del vocabolo ed al pensiero che si 
vuole esprimere in questi versi. — vitis in ulmo. Gir. Georg., I, 2: 
ulm>isque adiungere vites e II, 367. — 71. quin deve unirsi a potius. 
Quest'espressione é spesso usata in latino per richiamare, nelle esorta- 
zioni, ad un ordine diverso di pensieri. Gfr. Aen,, V, 99. — aliquid 
saltem, almeno qualche cosa, per piccola che sia. Gfr. Ed., Ili, 73. — 
quorum, indiget usus, intendi eorum (partitivo dip. da aliquid) quO' 
rum ecc. È un'ellissi non infrequente in poesia. Gfr, Georg., I, 104: 
quid dicam qui = de eo qui; Aen., XI, 81: manus, quos mitteret ecc. 
= manus eorum, quos; e 172: tropaea ferunt, quos dai ecc. = tra- 
paea eorum, guos ecc. — usus è qui nel senso del greco XP^^^^ cioè 
l'uso necessario, il bisogno. Gfr. Georg., I, 133; Aen., Vili, 441 ecc.; 
donde la frase usus est che ha quasi il senso opus est. Puoi tradurre 
ususjaer « i bisogni della vita campestre ». Raffronta tutto questo passo 
con Teocr., Idyll., XI, 73 seg. — 73. molli è qui preso nel signifi- 
cato di « flessibile ». Gfr. Ed., V, 31 e la mia nota a Georg,, II, 389. 
— detexere. Servio spiega: m.ultum. texere, finire, perfijcere. Nam 
modo de non minuentis est, sed augentis. Gfr. Tibull., Il, 3, 15 : tum 



YERGai BVCOUCA, II. 33 

invenies alìum, si te hic fastidii, Alexim. 

fiscella levi detecoast vimine iunci. Quanto poi a parare coll*infìné cfr. 
Aen,, IV, 118 e 390 seg.; Ces., B. C, 1, 83, 4; Sallust., Itspurt., 13, 2. — 
73. aUum.,. Aleosim^ un altro giovanetto che non ti disprezzi, somi- 
gliante ad Alessi. Spesso alius ha questo valore di e simile, somigliante » . 
Cfr. A^n., VI, 89: aliiis Latio iampartus Achilles ; Tac, ITisf., IV, 73: 
ne quis alius Ariovistus regno GatUarum poteretur ecc. Lo stesso si- 
gnincato ha talvolta alter ma unitamente alVidea di < secondo ». Cfr. 
Cic, in Verr», Act. II, lib. V, 33, 87; ad Fam., V, 8, 4 ecc. — si te hic 
fastidit. Nota Tuso delFindic. con 5t, perchè si tratta di cosa reale e nota 
a chi parla. Ha perciò la cong. quasi il valore di « poiché, dacché ». 
Cfr. sopra il V. 27. — Del resto paragona questo verso con Teocr., XI, 
76: €Ópf|(T€t<; faXàTcìav t(Tw<; Kai koXMov* dXXav. 



Stampimi, Verffil. Bucol, 8 



P. VEHaiLI MARONIS 



BV^COLIOA. 



EGLOGA III. 



ARGOMENTO. 

Finge il poeta, imitando Teocrito (Idyll.y IV e V), che si trovino insieme due pa» 
stori, Dameta e Menalca. Il primo sta pascolando il gregge di Egone, il secondo 
quello di suo padre e di sua matrigna. I due pastori sono rivali in amore : quindi 
s'accende facilmente fra loro una lotta di frizzi pungenti, finché si stabilisce una 
gara poetica, di cui è fatto giudice Palemone venuto in buon punto. Dameta e Me- 
nalca danno così principio ad un canto a versi alterni {carmen amoebaeum)^ di tal 
fatta cioè, che colui, il quale comincia a cantare, esprime in pochi versi un con- 
cetto, cui deve rispondere l'avversario con altrettanti, cercando di vincerlo in grasia 
e poetico acume, o col proseguire in queirordine di idee o coiropporre pensieri af- 
fatto differenti, e così di seguito, senza che sia necessaria una coerenza qualsiasi 
nella serie delle idee che si vengono successivamente esponendo dagli avversari 
(Per altro genere di carme amebeo, cfr. VEcloga V). — Palemone giudica i conten- 
denti uguali' in merito. 

VEcloga ha in qualche punto parole di elogio per Pollione e contiene parecchie pun- 
ture contro Bavio e Mevio, poeti contemporanei di Virgilio. 



VERGILI BVCOUCA, m. 85 



Menalcas. Damoetas. Palaemon. 



Menalcas. 
Die mihi, Damoeta, cuium pecusP an MelìboeiP 

Damoetas. 
Non, veram Aegonis; nnper mihi tradidit Aegon. 

Menalcas. 

Infelix semper ovìs pecus! ipse Neaeram * 
dum fovet ac ne me sibi praeferat illa Teretur, 



1. cuium, neutr. dell'agg. cuius^ a, um (antic. quoiuSy a, um\ dal cui 
maschile generalizzato e quasi fossilizzato vorrebliero alcuni , derivato il 
genit. invariabile cuius (ant. ^tiotu5): equivale a € di chi? ». E freauente- 
mente usato dai comici; Virgilio lo adopera solo qui ed EcL V, 87 ove 
lipete queste stesse parole. Gfr. Plaut., Ittid.^ Ili, 4,40; Terenz., Andr.^ 
lY, 4, ^4, ecc. — an MeUbo^ì Nota Fuso dell'an affatto regolare, essendo 
aggiunta alla domanda cuium pecus una risposta in forma di presun- 
zione. Gfr. Gic, de Senect.^ 6, 15: A rebus gerendis senectus abstrahit. 
Quibus f an iis, quae iuventute geruntur et viribus ì ; Terenz., Hec.<t III, 
2, 11 : Quid aisf an venit Pamphilus f; Eun.^ V, 6, 16: Hem quid dixisti^ 
pessumaì an mentita' sì ecc. — Gfr. del resto questo verso con Teocr., 
IdyU,, lY, 1: Eiiré uot, (b Kopóòwv, t(vo<; ai ^ócq; ^ J^a <t>iXU)vba; 

a. Gfr. Teocr., layll,,, IV, 2: oOk, àXX' AtYuivoq • Póokeiv he ^oi aÒTÒK^ 
èòuiKCv. Questo ed il precedente verso furono messi in burla, stando 
alla vita di Virgilio attribuita a Donato, da un tale (Numitorius quù 
dam secondo Hagen; innominatus quidam secondo Reifferscheid) che 
rescripsit antibueolùsa, colla seguente parodia : die mihiy Damoeta, 
cuium pecuSt anne latinumì | non: verum Aegonis nostri sic rure lo* 
quuniur. — Dameta non era già servo di Egone, ma un contadino li- 
bero, forse al servizio di Melibeo (cfr. il v. preced.), cui, non si sa per 
quali fatti, Egone ha in sua assenza (cfr. v. 3 e 4) temporaneamente 
affidata la custodia del suo greff^e. Gfr. più sotto al v. 16. 

8. Nota che ovis è accusat. di esclamazione ed è forma appoggiata 
all'autorità di Servio e dei migliori codici in luogo di oves. Quanto alla 

collocazione delle parole infetioo ovis pecus, cfr. Georg,, IV, 168: 

ignavum fucos pecus a praesepibus arcent. — ipse, intendi Egone, 
padrone del gregge. — Neaeram, comune amica d'E^one e di Menalca. 
Gfr. V. seg. — 4. fovet =amplectitur, così Servio, gli Scolii Ber- 
nesi ed alcuni moderni commentatori. Ma confrontando Aen., IV, 686: 



36 VERGILI BTCOLICA, HI. 

hic alienus ovìs custos bis mulget in bora; 5 

et sucus pecori et lac subducitur agnìs. 

Damoetas. 

Parcius ista virìs tamen obicienda memento, 
novimus et qui te, transversa tuentibus hircis, 
et quo — sed faciles nymphae risere — sacello. 

semianimemque sinu germanam amplexa fovebat; Vili, 387 seg.: ni- 

veis divatacertis | cunctantem amplexu molli fovet, mi par più 

preciso spiegare fovet per subblanditur = accarezza. Gfr. anche Aen., 
% 718. — 6. Atc, per opposizione ad ipse (cioè Aegon^ v. 3), designa 
Dameta, chiamato alienus cusios, perchè è un estraneo, an mercenario 
che non ha alcun interesse speciale d'occuparsi del benessere del gregge 
a lui affidato, e non pensa che al proprio comodo, smungendo fre- 
quentemente le pecore (bis in hora). Gir. del resto Teocr., Idyll.^ IV, 

3. — 6. siicus^ forma più corretta di succtis e data dai migliori 

codici. — pecori et. Si osservi lo iato analogo a quello da me notato in 
Georg. ^ I, 4. Vedi anche Georg. ^ III, 155; Aen., Ul, 74; X, 156. 

7. Siccome Dameta, ne' due versi .seguenti, rimprovera acerbamente 
Menalca rinfacciandogli certe azioni schifose, che in certa guisa lo fanno 
escludere dal novero degli uomini, cosi, parlando di sé stesso, usa il 
vocabolo viris =s mihi viroy cioè mihi qui sum in numero virorum. — 
obicienda. Cosi devesi scrivere, e non con due i. Cfr. il mio Trattato 
dell' Ort. lat., p. 32. Il senso poi è: « Pensa però che bisognerebbe es- 
sere un po' più riservati (parcius) nel far tali rimproveri a chi è uomo, 
come me, e non un cinedo, come sei tu ». — 8-9. novimus et 

qui te, manca per pudibonda reticenza il verbo di cui qui è soggetto e 
te oggetto, cioè, come spiega Servio, corruperint, ovvero corruperit o 
altro simile verbo. ^ transversa tuentibus hircis. Vi sono due spiega- 
zioni principali di questo passo. Chi vi scorgerebbe una riprovazione 
dell'atto osceno espressa dal torvo sguardo dei capri; chi invece un 
senso di lasciva gelosia che li obbligava a volgere altrove lo sguardo. 
Golia prima interpretazione si avrebbe il senso: € persino i capri ti 
guardavan di traverso »; parrebbe quindi che fosse quella che più si 
attagliasse all'intenzione di Dameta. Se non che non si capirebbe come 
ne dovesser ridere le Ninfe, che per di più vedevano profanato un loro 
sacrario (vedi più sotto). La seconda invece, che noi seguiamo^ corri- 
sponde a Teocr., Idyll., V, 41 seg., e toglie la mostruosa opposizione 
cne il poeta porrebbe tra il senso morale dei bruti e l'indulgenza col- 
pevole delle Ninfe, (guanto poi all'aggett. neutr. sing. o plur. usato in 
luogo d'un avverbio in compagnia d un verbo o d'un partic, cfr. sotto 
V. 63; Ecl,, IV, 43; Georg., Ili, 149; 239; 500; IV, 122; Aen., VI, 
288 ; 467; VII, 399 seg.; 510; Vili, 248; IX, 125; 794; XI, 854; XII, 338 
seg. ; 398. L'espressione poi transversa tueri, usata per designare odio, 
ricorre in Val. Flacc, Argon., II, 154 seg. : quam [paelicem] iam mi- 
seros transversa tuentem, \ letalesque dapes, infectaque pocula cerno. 
— faciles, indulgenti verso tanta profanazione dfel loro sacrario (sacello)^ 
che doveva essere qualche antro. Di fatto Virgilio in Aen., I, 168, dice 
d'un antro che è Nympharum, domus; e Lucrez., V, 945 seg. dice: 
silvestria tempia tenebant \ Nympharum, per < antri silvestri ». 



VERGILI BVCOLICA, III. 37 



Menalcas. 

Tum, credo, cum me arbustum videre Miconis 10 

atque mala vitis incidere falce novellas. 

Damoetas. 

Aut hic ad veteres fagos cum Daphnidis arcum 
fregìsti et calamos: quae tu, perverse Menalca, 
et, cum vidistì puero donata, dolebas. 



10, il. Menalca^ per rimbeccare Dameta, finge d'assentire, e sogffiange 
persino il tempo, in cui sarebbe avvenuto il fatto rimproveratogli, ag- 
giungendone ancora un altro, di cui, fingendo ironicamente di dar carico 
a sé, accusa invece Tavversario. — arbustum, qui = arboretum, cioè 
luogo piantato d'alberi, specialmente olmi, ai quali s'attaccavano le viti 
(cfr. Écl,^ II, 70). Qui dunque corrisponde quasi a vinea, designando le 
viti già alte aggrappate agli olmi, per opposizione alle vitis novellas == 
recens piantatasi che, essendo ancor basse, non potevano attaccarsi agli 
alberi. Cfr. Georg,^ II, 362-366. — mala... falce. Ordinariamente l'ag- 
gettivo mala è interpretato come equivalente a nociva, perniciosa. Ki- 
tengo col Benotst che vi sia qui un'ipallage: la malvagità nropria di 
chi usa a danno altrui la falce è attribuita alla falce stessa. Gfr. Tibull. 
(Ligdam.), III, 5, 20: et modo nata mala veliere poma manu. 

12. Dameta finge di non intendere le ironiche parole di Menalca e 
continua perciò il discorso di costui, ma accusando in modo palese (dice 
di fatto fregisti (v. 13), vidisti, dolebas (v. 14) ecc.) il suo avversario. 
Devesi quindi collegare aut con tum,... cum, del verso 10 ed intendere: 
aut tum, cfÀtn^ cioè aut tum [factum est quod narras], cum ecc. Tra- 
duci in italiano : « di' piuttosto quando ». — hic aa veteres fagos. 
È questo un altro esempio di un'apposizione posta ad un avverbio, sul 
che cfr. Ecl,y I, 53 e la mia nota. — Quanto a faaos vedi la nota ad 
Ecl^ I, 1. — 13. calamos = sagittas. Cfr. Oraz., Od„ I, 15, 17 : 

Tiastas et calami spicula Gnosii; Ovid., Met, Vili, 30: inposito calamo 
patulos sinuaverat arcus. — quae. Spesso l'aggettivo ed il pronome 
che si riferiscono a più sostantivi, anche di genere identico, come qui 
(arcum e calamos\ ma designanti cose inanimate, si pongono al neutro 
plurale. Cfr. Cic, N. D., Ili, 24, 61 : quam [fortunam] nemo ab in- 
constantia et temeritate seiunget : quae digna certe non sunt deo ; 
Sallust., Cat.<i 20, 2: Ni virtus fidesque vostra spedata mihi forent; 
Liv., XXXVII, 32 : ira et avaritia imperio potentiora erant ecc. — tu 
rinforza l'accusa che Dameta fa direttamente e non per via d'ironia. 
Cfr. la nota precedente. — perverse = malevole, inique. Cfr. Aen.^ 
VU, 584: perverso numine^ che Servio spiega per irato numine. — 
Quanto al nome Menalcas, s'incontra ancne in Teocr., Idyll., Vili e 
IX. — 14. puero, intendi Dafni. — donata, sottint. : a me. — 

16. aliqua, forma del caso ìstrumentale equivalente, quanto al senso, 
ad aUqtta via^ aUquo rAodo. È noto che propria del caso istromentale 



S8 VERGILI BVCOLICA, III. 

et, si non aliqua nocuisses, mortuus esses. 15 

Menalo AS. 

Quid domini faciant, audent cnm talia faresP 
non ego te vidi Damonis, pessime, capram 
excipere insidiis, multum latrante Lycisca? 



sing. in latino è Tuscita in à (suffisso indog. H). Gfr. ctroà, suprà^ extra, 
infra ecc. — mortuus esses, sottint. invidia. Gfr. Ed,, VII, 26 : invidia 
rumpantur ut ilia Codro. 

16. Il senso più probabile di questo verso è: < che possono adunque 
fare i proprietarii, quando sono così arditi i ladri ? » Vuol dire il poeta 
che coloro, i quali possiedono qualche cosa (domini), mal la possono 
difendere dai ladri {fures), quando quésti hanno tale audacia (quale 
descrive poi nei versi segg.). Qualche interprete, basandosi sulle parole 
di Servio a questo passo : nam prò servo furem posuit, suppose che il 
vocabolo domini fosse qui usato come contrapposto a fures =z servi, e 
che in luogo di faciant si dovesse leggere facient come leggesi in 

Gualche codice ; ne verrebbe quindi il senso : < che cosa faranno i pa- 
roni, quando son cosi audaci i servi ? » per dire poi : < che cosa non 
oserà far contro di me Egone, padrone di Dameta, e mio rivale nel- 
l'amor di Neera, quando giunge a tale audacia il suo schiavo? » Ma 
contro questa interpretazione sta il fatto: 1° che i migliori codici danno 
faciant; 2^ che il vocabolo fur equivale bensì talora a servus, ma nel 
linguaggio comico, per beffa ed insulto, come in Plaut., Aulul., II, 4, 
46: Tun', trium litterarum hom>o, \ me vituperasi fur, etiam fur fur- 
cifer^ ed anche in Oraz., Ep., I, 6, 46: ^ dominum fallunt et prosum 
furibus (dove però si può anche pensare di ladri che non sieno servi); 
3* che Dameta non appare punto in questa ecloga come un servo, 
perchè Menalca, uomo libero, gli avrebbe certo gettato in faccia la sua 
servii condizione, perchè dalPecloga appare che Dameta possiede oggetti 
di un certo valore (cfr. v. 44 segg.) e del bestiame (cfr. v. 29 seg.) e 
che deve essere perciò tenuto come un pastore libero ma, per mercede, 
provvisoriamente al servizio di Egone. iNon vi è dunque opposizione tra 
dominus e servus, ma tra dominus e fur, e perciò devesi anche re- 
spingere rinterpretazione da altri proposta : « dacché tu, o ladro auda- 
cissimo, rubi le cose dei vicini, molto meno ti asterrai da quelle del 
padrone che hai sottomano ». — 17. non è qui usato come equiva- 
lente di nonne, ma ha maggior forza. Si sa che nonne si usa nelle in- 
terrogazioni dalle quali si aspetta una risposta, che deve essere affer- 
mativa; ma anche m prosa in luogo di nonne si adopera non, quando 
le proposizioni interrogative sono moltiplicate come in Cic, prò Sex. 
Rose. Am., 35, dove dopo l'interrogazione: Nonne vohis haec, quae 
ai*distis, cernere oculis videmini, iudices? ne seguono sei altre col non. 
— pessime, cfr. Teocr., Idyll., V, 75: KàKiarc. — 18. excipere in- 
sidiis = dolo capere, come spiega Servio, che cita anche Aen., ili, 332: 
excipit incautum. — m,ultum latrante Lycisca, ad onta dei latrati di 
Licisca. Di questo nome di cane dice Servio: lycisci sunt, ut etiam 
Plinùti didt, canes nati ex lupis et canibus^ oum inter se fòrte mù 



VERGILI BVCOLICA, IH. 39 

et cum clamarem < quo none so prorìpit ìUe ? 

Tityre, coge pecus ! » tu podt carecta latebas. 20 

Damoetas. 

An mihi cantando victus non redderet ìlio, 
qnem mea carmìnibus meruisset fistula caprum ? 
si nescìs, meus ille caper fuit; et mihi Damon 
ipse fatebatur; sed reddere posse negabat. 



sceantur. Veramente Plin., H. iVl, VITI, 40, (61), 148, parla di tali cani, 
ma non ne dice il nome. Questo ricorre in Ovid., Met^ III, 220. — 
19. cutn clamarem^ traduci : < io aveva un bel gridare ». 11 cum ha qui 
pressoché valore concessivo. -- ille, quel là, cioè quel ladro. Il pro- 
nome ille si adopera spesso riferito a cosa lontana da chi parla, sia 
che si tratti di luogo, sia che si riguardi il tempo. Cfr. Acn., VI, 760; 
767; 808; 836; 838 ecc. — 20. Tityre, è il mercenario o lo schiavo 
di Damone: quanto a questo nome cfr. Ed., I, 1. — coge pecus, = in 
unum redige, col che si avvertiva la presenza d*un ladro. — post. E noto 
che questa particella, oltre a designare tempo, indica anche luogo, 
come qui. Cfr. Ces., È. G., VII, 88, 3 : post tergum ; id., id., II, 9, 3 : 
post nostra castra ecc. — carecta, luoghi piantati di carici (careos, tcis)^ 
cariceti. Cfr. salictum (salia, icis). Ed., I, 54. 

21. an può considerarsi qui come equivalente di num. Quindi il Hand, 
Tursellinus, I, p. 357: Charisius non errat p. 203 an prò num ac- 
cipiens, negatione cum verbo tam arcte coniuncta, ut non redderet 
esset recusaret. Altri tuttavia crede non essere necessaria qiiesta 
spiegazione, essendovi un'ellissi. Ora, appunto perchè vi è un'ellissi, 
reputo che an stia per num; devesi di fatto intendere : [noH me furti 
incusare]; num [permitti poterai ut'] victus non redderet. Servio 
spiega an per ergo. E negli Scolii Bernesi : An, prò ' num * ; rectius 
prò ' ergo \ Traduci : « doveva egli dunque, dopo essere stato vinto 
nel canto, frustrarmi del capro ecc. ?» — ille posto in fine del verso fa 
una spiccata antitesi col mihi e mette anche in maggior rilievo lo 
sdegno di Dameta. — 22. Per intendere questo verso devesi notare 
che negli intervalli delle ariette che si cantavano dai pastori, ossia tra 
una strofa e un'altra si eseguivano certe specie d'intermezzi colla sam- 
pogna o col flauto. Di fatto m Ed.. Vili, 21 leggiamo : Incipe Maenalìos 
mecum, mea tibia, versus, volendosi appunto significare cotali intermezzi. 
Vedi del resto Ecl., I, 2; V, 14. Dunque carminibus, come nel passo 
citato versus, equivale a modis. ~~ 23. 5i nescis, come il nostro « se 
non lo sai », per dire : ut hoc scias, ne hoc ignores. Cfr. Ovid., Epist,, 
XIX [XXl, 150, ed. Merkel : si nescis, dominum res habet ista suum ; 
ex Pont, ili, 3, 28 : quae sunt, si nescis, invidiosa tibi, — 24. red- 
dere posse negabat, sottint. se. Tale omissione del pronome personale 
nella proposizione infinitiva non è solo propria della poesìa. Cicerone 
ne ha parecchi esempi: numerosi sono in Livio ed in Tacito. Gfr. Gic, 
Ora;t., 12, 38; Liv. I, 23, 5 ecc. Del resto reddere qui vale, come sopra 
al V. 21, semplicemente dare. 



40 VlIfeGILI BVCOLICA, HI. 

Menalcas. 

Cantando tu illum? aut umquam tibi fìstula cera 25 

ìuncta faitP non tu in triviis^ indocte, solebas 
strìdenti miserum stipula disperdere Carmen? 

Damoetas. 

Vis ergo inter nos, quid possit uterque, vicissim 
experiamur? ego hanc vitulam — ne forte recuses, 



25. Cantando tu illum ? sottìnt. vicisse te ais. — aut serve talvolta, 
come qui, ad aggiungere o piuttosto sostituire una interrogazione ad 
un'altra. Cfr. Ter. Adelph.^ Ili, 3, 42 seg.: Sinerem illum ì aut non sex 
totis mensibus \ prius olfecissem, cruam ille quicquam coeperet ? — 
cera, cfr. EcL, li, 32; 36. — 26. iuncta. Alcuni codici, tra cui il 
Romano ed il Gudiano, danno invece la lezione vincta, che è pur 
quella degli Scolii Bernesi. — non, cfr. v. 17. — in triviis. Servio: 
consuetuao enim fuerat ut per trivia et quadrivia ulularent et flebile 
^uiddam in honore Dianae cancreni rustici ad reddendam Cereris 
tmitationem, quae raptam Proserpinam in triviis clamore requirebat. 
Ora Dameta si sarebbe spesso provato in simili canti, ma senza riuscirvi 
perchè novizio (indoctus) nellarte del canto. Altri, senza ricorrere ad 
alcuna idea di solennità religiosa, intenderebbe qui accennate le volgari 
e triviali canzoni strimpellate da gente plebea ed ignorante. Cfr. Gioven., 
VII, 55: communi feriat carmen triviale moneta, — 27. stridenti 
= stridula, Cfr. Gatull., LXIV, 264: horribili stridebat tibia cantu; 
Lucan., I, 432 : stridentes acuere tubae, — stipula equivale qui a canna, 
cakzmus, harundo, avena, Cfr. Plin. H. N., XXXVlI, 10, (67): Syrin- 
gitis stipulae internodio similis perpetua fistula cavatur. Vedi del 
resto la nota ad Ed,, I, 2. Si tratta di uno strumento ad una sola 
canna per contrapposizione alla fistula (v. 25) che ne aveva parecchie. 
— miserum.., carmen, non già triste, flebile, come spiega Servio, ma 
nel significato di « canto strapazzato, orribilmente eseguito ». — disper- 
dere. Questo vocabolo, d'altra parte assai raro, e usato da Virgilio in 
^[uesto solo passo, significa sempre: « rovinare, mandare a male > e 
sim. Cfr. Plaut., Trin,, 11,2,53: aliquantum animi causa in deUctis 
di^erdidit, 

28. erfio è non di rado adoperato nelle proposizioni interrogative ed 
ha maggior forza che il ne, il nuyn ecc., quando non si trovi anche 
congiunto con tali particelle. Cfr. Cic, Acad, prior.. Il, 23, 74 : Num ergo 
is excaecat nos aut orbat sensibus ecc.?; Plaut., Trin., IV, 2, 146; Ergo 
ipsusne *5 ? — vicissim, intendi in un carme amebeo. Vedi sopra Targo- 
inento. — 29. vitulam, qui sta per iuvencam,, giacché propriamente 
significherebbe la femmina del genere bovino non ancor giunta ad un 
anno d'età. Lo stesso dicasi di vitulus, che talvolta (come in Georg., 
IV, 299 : titm vitulus bim^ curvans iam cornua fronte) sta per iuven- 



VERGILI BVCOLICA, IIL 41 

bis venit ad mulctram, binos alit ubere fetus — 30 

depono: tu die, mecum quo pignora cortes. 

Menalgas. 

De grege non ausim quicquam deponere tecum : 
est mihi namque domi pater, est iniusta noverca; 
bisque die numerant ambo pecus, alter et haedos. 
verum, id quod multo tute ipso fatebere maius 35 

— insanire libet quoniam tibi — , pocula ponam 



CU5. Gfr. Varr.^ R, R,, lì, 5, 6: in tubulo genere aetatis gradus dù 
cuntur qttattuor: prima vitulorum^ secunda iuvencorum, tertia boum 
novellorum, quarta vetulorum. — 30. Sono indicati i pregi della 

giovenca, perchè Menalca non abbia alcun pretesto per declinare la 
scommessa. — mulctra e mulctrum è propriamente il secchio da mun- 
gere. Gfr. Graz., Epod., XYl, 49: illic iniussae veniunt ad mulctra 
capeUae, per dire che vanno a farsi mungere. — Siccome }e giovenche 
gignunt raro geminos (Plin., H, N., Vili, 45, (70) ), e, malgrado i ge- 
melli, la giovenca di Dameta ha tanto latte da esser manta due volte 
al giorno, viene ad avere un notevole valore per la scommessa. Gfr. del 
resto Teocr., IdylL^ I, 25 seg. — 31. d&pono, come sotto al v. 36 

ponOy si adopera trattandosi di scommesse, come il KaTariBriiLii dei Greci. 
Gfr. Om., Od., XIX, 572: xaraeiPiau) «cBXov; Teocr., IdylL, Vili, 11: 
Xpiìaheiq KOTaGrtvai dcBXov (id., id., vv. 13 seg., è adoperato il semplice 
TiOniLii). — quo pignore, sottint. oocito. 

32-34. Gfr. Teocr,, Idyll, Vili, 15 seg. : où Oriadi -rroKa à|bivóv, èirel 
XaXeiTÓ^ e* ó irari^p jieu | x' à |iiAt»ip • Tà bè i^aXa iroGéairepa .irdvx' 
dpiOjbicOvTi. -^ ausim^ forma arcaica equivalente ad ausus sim, È pro- 
priamente una forma di ottativo per *aud'sim. Gfr. fa^cim, axim per 
'fao-sim, *ag-$im. — teoum: intendi non già in certamine tecum,, ma uti 
tu pignus ponens. Gfr. Plaut., Cos., ProL, v. 75: id ni fit, mecum pi- 
gnus, si quis volt, dato. Traduci dunque: « non oserei scommettere 
teco alcun capo di bestiame >. Vedi del resto Georg., 1, 41; 11, 8; Aen., 
I, 675. — bisque die, cfr. la nota ad Ed., II, 42. Si noti poi che il 
que ha qui un valore esplicativo in quanto aggiunge alla proposizione 
precedente un concetto cne la spiega, ed equivale perciò ad et propterea, 
et ita, et sic. — numerant ...pecus, Gfr. Ovid., Met., XIII, 824: pauperis 
est numerare pecus. — ambo è contrapposto ad alter. Quello accenna 
ad un*idea di comunanza, ad un insieme m cui le due unità sono fra loro 
dipendenti; perciò il poeta non ha usato uterque, che rappresenta una 
dualità in CUI le due unità sono fra loro indipendenti. Tradurrei: « tutt'e 
due insième »; alter invece significa: < Tun de' due >, quindi il padre o 
la matrigna secondo le circostanze. — 35. id va riferito grammati- 

calmente a pocula ponam in maniera parentetica. Gfr. Gic, de Leg., I, 
19, 52 : Pecuniam.ne igitur an honores... an, idquod turpissimum dictu 
est, voluptatemf; id., de Off., II, 23, 83: At ille Qraecus, id quod fuit sor 
pientis et praestantis vin, om,nibus consulendum jputavit. — 36. in- 
sanirei col paragonarti meco. — pocula ponam. ufr. sopra al v. 31. — 



42 YBRaiLI BVGOLICA, IH. 

fàgina, caelatum divini opus Alcimedontis : 

lenta quibus torno facili superaddita vitis 

diffasos hedera vestit pallente corymbos. 

in medio duo signa, Conon et... quis fiiit alter, 40 



37. fagina ; l'epiteto accenna ad una materia conveniente alla povertà 
dei pastori. Similmente Ovid., Met.^ Vili, 669 seg., fa porre smla po- 
vera mensa da Baucide fahricata... fogo \ pocula, — divini. Qaest*agget- 
tivo è spesso adoperato, anche in prosa, per eccimius, excellens: risponde 
auindi spesso al nostro « straordinario >. Gfr. Gic, de Orat.^ I, 10, 40: 
Èquidem et Ser. Galbam memoria teneo divinum hominem in dicendo. 

— Alcimedontis; forse trattasi di un nome fìnto; ma siccome troviamo 
che in Teocr., IdylL, Y, 104 seg., il pastore Gomata vanta il possesso di 
un cratere lavorato da Prassitele (èvrl bé moi ... èvrl òè KpiiTTip, | ?pTov 
TTpaStTéXeu<;)» potrebbe anch'essere che Alcimedonte sia veramente stato 
un artefice, di cui si trovi solo menzione in Virgilio. — 88. lenta... 
vitis == flecoibilis. Gfr. Eoi, 1, 25; 111, 83; V, 16; 31; IX, 42; X, 40; 
Georg., Il, 12; IV, 34; 558, etc. Del resto non si tratta jui d'un sem- 
plice epiteto ornans; l'idea espressa ha relazione con l'abilità eia grazia 
aell'artefice nel rilevare la vite sulle tazze. — quibus, sui loro fianchi. 

— torno, parola tratta dal greco TÓpvo^, dalla rad. ter (fregare, volgere, 
forare). Glfr. l'omer. T€(p€i (*T€p-j€i), répCTpov, e il lat. teres, terebra. 
Significa « tornio », istrumento con cui si arrotonda e si pulisce il legno, 
l'avorio ecc. Ma generalmente si ritiene che non si prenda qui in tal 
significato; sì in quello di scalprum e sim. Bisogna allora intendere 
che l'artefice^ dopo di avere arrotondate al tornio le due tazze, abbia 
aggiunto sui loro fianchi degli ornamenti in rilievo per mezzo dello scai^ 
peuo (opus anagly^ticum). Non manca però chi sostenga che anche 
presso ài antichi si sa{)es8e lavorare in rilievo per mezzo del tornio. 

— facui esprime la perizia del lavoratore trasportata figuratamente al 
tornio. Gfr. TibuU., I, 1, 7 seg.: ipse seram... \ ...facili grandia poma 
manu; Prop., Il, 1, 10: mtramwr, faciles ut premat arte mant^s. — 

39. Gostruisci vestit corymbos diffusos hedera pallente. Il senso è: « la 
vite intrecciandosi coll'edera semnra quasi ricoprire {vestit) colle larghe 
sue foglie i grappoli {corymbos) che pendon qua e là dall'edera (hetJkra 
diffusos). Preferisco 1 ortografia hedera (yh si trova nel codice Romano 
ed è stato aggiunto nelle Schede Veronesi), conforme anche alla etimo- 
logia (rad. ghed, cfr. prehend-ere per ^prae-hend-ere, praeda per 
♦prae-Aee^a). Filargirio per contro: legitur et aedera, ab aerando 
arboribus, et sine aspiratione dici debet; falso, perchè haerere per *Aa«- 
sere si rapporta ad una rad. ghais diversa da quella cui appartiene il 
vocabolo di cui si tratta. — pallente. Quest'epiteto mi par tutt'altro che 
un semplice ornamento. Esso si adopera talora per indicare un verde che 

inclina al cupo (cfr. Ed», V, 16: pallenti olivae; VI, 54: pallentis 

herbas) e qui esprime appunto il. contrasto tra il verde cupo dell'edera 
e quello vivo della vite, lo congetturo che questo lavoro in rilievo 
dovesse essere dipinto al naturale, per dargli maggior risalto. — 

40. in medio. La duplice ghirlanda, di vite e di edera, abbracciando la 
tazza lascia libero uno spazio, una specie di scudo ove Tartista ha posto 
due figure (duo signa). — Conon, distinto matematico ed astronomo, 
nativo di Samo, vissuto ai tempi dei due Tolomei, Filadelfo .ed Evergete, 



YBRGILI BVOOLIOA, m. 43 

descrìpsit radio totum qui gentibus otbem, 
tempora quae messor, quae caryns arator haberetP 
necdum illis labra admovi, sed condita servo. 



Damoetas. 

Et nobis idem Alcimedon duo pocula fecit, 

et molli circum est ansas amplexus acantho, 45 

Orpheaque in medio posuit silvasque sequentes; 



(283-222 ay. Gr^. Fu contemporaneo dì Arato e di Arohimede ed amico 
di Callimaco. I suoi scritti andarono perduti. Vedine la menzione nel 
carme Catulliano sulla chioma di Berenice (LXVI, 7 segg.). — et quis 
futi alter. È verosimile che qui sia indicato Eudosso di Gnido, celebre 
astronomo e matematico vissuto verso il 366 av. Cr., dei quale si dice 
che insegnasse pel primo ai Oreci il movimento dei pianeti, iscrisse molte 
opere, che non ci rimangono. Del resto invece di Eudosso si fanno altri 
nomi, p^ ispiegare questo passo. Servio dice : stgnifioat autem aut 
Aratum aut Ptoìomaeum aut Eudoxum^ riguardando erroneamente 
Tolomeo come anteriore a Virgilio. — 41. raàiù è una verghetta 

aguzza colla quale i matematici e gli astronomi segnavano figure nella 
sabbia. Gfr. Cic, Tusc>^ V, 23, 64: numilem homunculum a pulvere et 
radio exdtabo,» Archimedem. — 42. Si accennano opere d* indole 

meteorotogica in relazione colla mietitura e coir aratura. Ed Eudosso 
scrisse appunto TTcpl 6€<£»v Kai KÓa^ou koX Tdiv )yi€T€UjpoXoTOU)iévu)v. Si 
osservi poi la mutata costruzione, per cui bisogna supplire : et definivit, 
Cfr. Aen., 11, 2-5, e particolarmente V, 648 seg. : ardentisque notate 
oculos, qui spiritus tm, | quis voltus 90cisque sonus vel gressus eunti. 
Anche Tibull., II, 4, 17 seg. : nec refero solisque vias et qtMlis.,, | versis 
luna recurrit eouis. — curvus arator^ perchò sta col corpo curvato 
sul lavoro. Gfr. Plin., H, N.^ XVIII, 19, (49): Arator nisi incurvos praeva* 
ricatur, — 48. Servio : hypallage est - pocula enim lahris adhi' 

bemus ''f ut [Aen^ 111, 61]: dare classibus austros. Del resto cfr. 
Teocr., IdyU., I, 59 seg. : oòbé xi ita irorl x^^0(; è|uiòv Oiycv, AXX' lx\ 
Kdxat I ftxpovTov. 

45. molli non siniifica semplicemente « flessibile » come lenta al 
T. 38 (cfr. Georg., IV, 123: fsooi... vimen acanthi, e 137 mollis... hya- 
cinthi). Confrontando Quintil., XII, 10, 7, ove parlando di statue dice: 
duriora.., Calion atque Hegesias, iatn minus rifida Calamis, mol^ 
li ora... Myron fecit, ed Oraz., che in A. P., 33, m cosa analoga dice: 
mollis imitabitur aere capillos, credo che bisogni tradurre per morbido^ 
termine di statuaria con cui si designa cosa fatta con fine artifizio in 
modo da parer molle e flessibile. Vedi del resto sopra al v. 38 cit. -^ 
circum, avverbio. -^ acantho, erba silvestre, in ital. comunemente detta 
brancorsina. — .46. Cfr. riguardo ad Orfeo, che colla forza alletta- 

trice del canto si trascina dietro gli alberi, Oraz., Od., I, 12, 7 segg. 
Solla favola di Orfeo in genere ofr. Qeorg^ IV, 453-527, e Ovid., Mei., 



/ 



44 yBBGILI BYCOLIGA, IH. 

necdum ìUìs labra admovi, sed condita servo : 
si ad yitulam spectas, nihil est quod pocula laudes. 

Menalcas. 

Numquam hodie effugies ; veniam quocumque Yocaris. 
audiat haec tantum... vel qui venit, ecce, Palaemon. 50 
efficiam, posthac ne quemquam voce lacessas. 

Damoetas. 
Quin age, siquid habes; in me mora non erit uUa, 

X, 1 segg. — 47. È ripetuto il v. 43, come avviene non di rado nei 
carmi amebei. Gfr. sotto v. 104 e 106. Del resto Virgilio spesso ripete 
interi versi con o senza alcuna mutazione. Nel primo caso, cfr. la mia 
nota a Georg, ^ li, 472; pel secondo fa i seguenti riscontri: EcL^ 111, 87 
con Aen.y Ix, 629; Georg. ^ I, 304 con Aen., IV, 418; Georg,^ II, 43 con 
Aen., VI, 625; Georg, ^ II, 292 con Aen.^ IV, 445; Georg», 111, 233 segg. con 
Aew., XII, 105 seg.; Georg.,, IV, 167 seg. con Aen., I, 434 seg.; Georg., 
IV, 171475 con A w.. Vili, 449453; Georg., IV, 338 con Aen., V, 826; 
Georg., IV, 475-477 con Aen., VI, 306-308, ecc. — 48. Alcuni leg- 
gono spectes senza Tappoggio dei migliori manoscritti. — La frase ad 
aliquid spedare vale mtentis oculis aliquid intueri e quindi anche ali- 
quid sibi adsequendum proponere. Cfr. Varr., R. i?., Ili, 6, 1: [pavones] 
pauciores esse debent mares quam, feminae, si ad fructum spectes; si 
ad delectationemy contra. Dameta vuol dire che Menalca non ha nessuna 
ragione di magnificare le sue tazze, in paragone della giovenca, se vuole 
addivenire alla scommessa. Gol che vuol dire che non i>uò accettare il 
deposito di quelle, in luoffo d'un capo di bestiame, come il suo. 

49. Menafca suppone cne Dameta alleghi dei pretesti per sottrarsi alla 
gara, e delibera quindi di sottoporvisi a qualunque condizione, certo di 
vincere. — numquam hodie effugies. Macrob., Sai,,, VI, 1, 38, confronta 
questo passo con Nevio, Equ, Troi.: « numquam> hodie effugies, quin 
mea manu moriare, imitato anche da Properz., II, 8^, 25 (ediz. L. Muiler): 
Sed non effugies: m^ecum moriaris oportet. ^ numqtuim qui vale nullo 
modo, nullo poeto, come in Aen., II, 670 : numquam omnes hodie tno- 
riemur inulti, — veniam quocumque vocaris vale : < acconsento a tutto, 
accetto qualsiasi condizione ». Si noti poi il futuro esatto vocaris che 
indica un'azione che rispetto al veniam si concepisce come passata. — 
50. Mentre Menaloa vuole indicare il nome di qualche pastore che debba 
funger da giudice della scommessa, s'interrompe, essendosi presentato 
Palemone, che egli sceglie a tale ufficio. — ecce. Questa particella di- 
mostrativa, posta nel mezzo della proposizione^ dà maggior forza al con- 
cetto che si vuole esprimere, e serve talora, come in Ecl., II, 46, a pre- 
sentar come viva la cosa air immaginazione del lettore o delF uditore. 
Quindi sta tra due virgole. Puoi tradurla con « vedilo ». Gfr. del resto 
Teocr., Idyll.^ Vili, 25 seg.; V, 61 se^. — 61. voce lacessere vale ; 
sfidare nel canto. Intendi dunque : « ti farò passar io la voglia di sfidare 
gli altri in fatto di canto ». 

62. Quin agCi si quid habes. Gfr. Teocr., Idyll., V, 78 : da Xér*, cT ti 



VBRGILI BVCOLICA, IH. 45 

nee quemquam fdgio; tantum, vicine Palaemon, 
sensibus baec imis — res est non parva — reponas. 

Palaemon. 

Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba. 55 

et nunc omnis ager, mine omnis parturit arbos, 
nunc frondent sìlvae^ nunc formosìssimus annua, 
incipe, Damoeta ; tu deinde sequere, Menalca. 
altemis dicetìs: amant alterna Camenae. 



Xétei^. Si noti poi la particella quin^ la quale dà forza maggiore ad age 
col rompere bruscamente ogni rapporto fra il pensiero che precede e 
quello cne se^ue. Riguardo a si quid habes, non y*è bisogno di supporre 
che quid equivalga a quod o quidquid, pervia dell'indicati vo; equivale 
a si quid habes^ quod oanas o anche si quid habes canere (cfr. Gic, 
N. D., Ili, 39, 93. Haec fere dicere habui e il greco ^x*** clwelv). L'in- 
dicativo è posto appunto perchè Dameta^ non senza un certo disprezzo, 
fa mostra di credere alla valentia vantata dallavversario. •— in me mora 
non erit^ cfr. Ter., Awdr., II, 5, 9; Ovid., Met.^ XI, 160 seg. Si dice anche 
per me ecc. Cfr. Ter., Awdr., Ili, 4, 14; Sen., Thyest, 1022. — 63. Con 
nec quemquam fugio Dameta risponde ai Numquam hodie effugies 
(v. 49) di Menalca. — vicine Palaemon; Servio: benivolum reddit epo vi- 
cinitatis Gommemoratione. Cfr. Ter., Heaut., li li 4 seg. vicinitas^ \ quod 
ego in propinqua parte amidtiae puto, — 54. La frase imis sen- 

sibus reponere significa « prestare profonda attenzione ». — res est non 
parva: allude alla giovenca, che bisogna supporre sia da Dameta, nel 
pronunziare tali parole, additata a Palemone, per fargli intendere che si 
tratta d'una scommessa rilevante. Non si capirebbe di fatto, non essendo 
stato Palemone presente al discorso tenuto prima dai due pastori, come 
potesse poi dire al v. 109: et vitula tu dignus et hic. 

55. Dicite sa canite. Cfr. Oraz., Od., l, 21, 1: Dianam tenerae dicite 
virgines; inoltre Ecl, IV, 54; V, 2; 51; VI, 5; Vili, 5; X, 6; Georg., 
Ili, 6; Aen., VI, 644 ecc. — in molli.., herba. Cfr. Teocr., IdylL, VI, 
45: èv |LiaXaK^...Tro((;i; -E'ci.,VII,45: somno mollior herba. — Ò^. par- 
turit, Cfr. la mia nota a Georg., II, 330. — 57. nunc formosissimi^ an- 
nus, siamo ora nella stagione più bella. Gfr^er questo significato di annus 
Aen., VI, 311, frigidus annus, e Oraz., Épod., II, 29, unnus hibernits. 
Quanto all'aggettivo formosus riferito a stagione, cfr. Ovid., Fast., IV, 
129 : et formosa Venus formoso tempore digna est, — 58. Cfr. Teocr., 
IdylL, IX, 1 seg. — 59. altemis dicetis. Cfr. Teocr., Idyll., Vili, 

61: raOra... òi' djLioipaiwv... fieiaav, ed ^b^., VII, 18: altemis .,. con- 
tendere versibus. Quanto a dicetis vedi sopra al v. 55. — am^nt alterna 
Camenae. Cfr. Om., //., I, 604: Mouoduiv e', at éleiòov d|a€ipó)yi€vai òttÌ 
KaX^, e 0(£m., XXI V, 60: MoOaat ò'èvvéa iràcKii, d|Li€tpó|Li€vai òni KaXQ. 
Cfr. anche Ecl., VII, 19. Per i carmi amebei in genere, vedi l'Argomento. 
— Camenas, Questo vocabolo sta per ^Casmenae, *Qirmenae. È pa- 
rola della stessa famiglia di Carmen (*casmen; cfr. il sanscr. gdsman). 



46 TBRani bycolica, m. 

Damoetas. 

■ 

Ab love principìum, Muse: lovis omnia piena; 60 

ille colit terras; illi mea carmina curae. 

Menalo AS. 
Et me Phoebns amat : Phoebo sua semper apnd me 



Cfr. Varr., L. X., VII, 26 (2» ediz. Spengel) : Casmenarum primum vo- 
cabuhdm ita natum ac scriptum est; aUbi Carmenae ab eadem origine 
sunt decUnatae; più specialmente Feste, p. 67: antiqui dicebani cosmit- 
fere prò committére et Casmenae prò Camenae. Sono ninfe appartenenti 
airantichissima mitologia italica. Erano originariamente divinità delle 
fonti. Anche posteriormente, q^uando furono trasformate, da una parte, in 
divinità profetiche, dall'altra, in dee del canto e della poesia, si conservò 
memoria della primitiva loro figurazione. Gfr. Servio, ad ÈcL, VII, 21: 
secundum Varronem ipsae sunt nymphae quae et musae: [nam et in 
aqtta consistere dicuntur, quae de fontibus manai, sicut eansiimaverunt 
qui camenis fontem consecrarunt ; nam eis non vino, sed aqua et lode 
sacrificari solet\. Del resto Tidentificazione delle Camenae colle Musae 
dei Greci data dalle origini della poesia in Roma. Livio Andronico di 
fatto traduceva cosi il primo verso deirOdissea: Yirum mihi, Cannena^ 
insece versutum (cfr. Geli., N. A., XVllI, 9, 5); e Nevio, nel suo fa- 
moso epigramma, scriveva :,/2^6n^ divae Camenae Naemum poetam 
(cfr. Geli., N. A., I, 24, 2). È falsa la grafia Camoenae. 

60. Ab love principium, Servio ad Aen., IX, 621, spiega questa frase 
con dire: omne initium et incrementum lovi debetur. Ma per la funzione 
di Musae nel verso nostro egli si mostra incerto tra il gen. sing. e il vo- 
cativo plur. A me pare indubitabile che si tratti d'un vocativo. Gfi^. 
Teocv.^ Idyll,, XVII, 1: 'Ek Aiòq dpxibjjicaea, Kai è^ Aia X^y€T€ Motaai; 
Ovid., Met.^ X, 148 seg. : Ab love Musa parens. -^ cedunt lovis 
omnia regno — | carmina nostra move. Notisi per altro VAb love Mu- 
sarum primordta, con cui Cicerone cominciava la sua versione dei 
(t>aivó|Li6va di Arato (cfr. de Leg., II, 3, 7) da cui è realmente tratto il 
pensiero di questo e del seg. verso: 'Ek Aiò( dpx(I»|ui€aea, t6v oòò^ttot* 
Avbp€q èi2)|Li€v I dppriTOv* n^araì òé Aiò<; irfiaat juiév àyutat, | it&oai b' 
dveptdiTUJv dYopal' |ui€OTf| bè edXaaaa, | kuì Xiiuéveq (vv.1-4^.— 61. colit 
non ha qui il significato di frequentare, habitare, che si ha in Ecl., il, 
62, ma bdnsì quello di curare (Servio spiega analogamente per amat). 
Gfr. Georg,. I, 26: terrarumqi4e veUs curam. Di fatto Giove, nella sua 
gualità di dio della pioggia, era anche il dio della fecondazione (dónde 
i suoi epiteti di ahnus, frugifer, di Ruminus e di Pecunia)*, per il che 
doveva avere sotto la sua protezione tutti coloro, come contadini e pa* 
stori, che vivevano dei prodotti della terra, e quindi anche aver cura delle 
loro canzoni {illi mea carmina curae, sottint. sunt). 

62. Et me Phoebus ama^ Si noti che VEt non ha e non può avere 
il significato di « anche ». È chiara Topposizione che instituisce Me- 
nalca fra lui, affermandosi favorito di Apollo, e Dameta che vanta la 



TERGILI JBVCOLICA, HI. 47 

munera sunt, lauri et suave rubens hyacinthus. 

Damobtàs. 

Malo me Gfalatea petit, lasciva puella, 

et fugit ad salices, et se cupit ante vìderi. 65 

Menalcas. 
At mihi sese offert ultro meas ignis Amyntas, 

protezione di Giove. Al tempo di Virgilio, Apollo, divinità esclusivamente 
greca, aveva assunto una grande importanza nel culto ufficiale romano, 
non solamente per V indirizzo ellenizzante delFetà^ ma anche e partico-. 
larmente perchè Ottaviano aveva per questo dio una predilezione perso- 
nale. Egli, riuBendo neir Apollo Palatino tutte le attribuzioni degli Apollo, 
che erano stati prima oggetto di culto, ed instituendo nuove feste in suo 
onore, ne fece una divimtà pressoché di ugual grado a Giove. Si ag- 
giunga che Apollo era essenzialmente un dio sapiente, il dio degli ora- 
coli e della musica e perciò era il più indicato fra gli dèi per proteg- 
gere i cultori della poesia e della musica pastorale. Anche Teocrito, 
nell'Idillio V, v. 80 seg. fa dire a Gomata: xaì Mi&aai ine (piXeOvmroXù 
TrXéov fj TÒv doibòv | Adcpviv; cui risponde Lacone, v. 82: xai T^p ?4* 
'QiróXXiuv qpiXéei iiéfa. — stta^ a lui grati o dovuti. Gfr. per questo si- 
gnificato di SU14S, Georg. t II, 393: ergo rite suum Baccho dicemus ho^ 
norem. In analogo significato = gratus et aptus è in Georg., IV, 22: 
vere suo. Gfr. Servio a quest'ultimo passo. — 63. Il lauro ed il gia- 
cinto sono grati ad Apollo, perchè in qxiello fu tramutata Dafne, da lui 
teneramente amata (cfr. Ovid., Met, I, 452-567) ed in questo un do- 
vane, pur chiamato Giacinto, che Apollo parimenti amava (cfr. Ovid., 
Met, A, 162-219). — suave rubens ritorna in Ed., IV, 43 (suave rur- 
benti). Qui suave sta per suaviter^ come in Graz., Sat, l, 4, 76: suave 
hcus voci resonat conclusus. Vedi ancora GatuU., LI, 5, e Graz., Oc?., 
I, 22, 23: dulce ridentem. Altri esempi di neutro sing. pet un avverbio: 
Oraz., Od., II, 12, 14 seg.; 19, 6 seg.; Ili, 27, 67; Sat., I, 8, 41; II, 4, 18; 
Sii. Ital., I, 398 ecc. Cfr. inoltre la nota sopra al v. 8. È poi notevole 
in questo verso lo iato tra lauri ed et. Gfr. perciò la nota al v. 6. 

64. malo da malum, pomo. Si sa che il pomo era sacro a Venere. 
Quindi malo j^etere, m.atum, mittere, mala dissecta una comedere sono 
frasi che designano dichiarazione d'amore. Traduci: « mi getta un 
pomo ». Gfr. Teocr., Idull., V, 88 : pdXX€i xal ^dXoiai tòv aliróXov à 
KXeapiara. — lasciva, cfr. Écl., II, 64. — 65. et se cupit ante videri, 
intendi: antequam salicibus occultetur. 

66. meus ignis, come diciam noi « la mia fiamma » per « Toggetlo 
della mia fiamma o del mio amore ». Altrove il poeta usa ignis (Ed., 
V, 10; Georo., Ili, 244; 258; Aen., 1, 660, 688; IV, 2; VII, 355) e fiamma 
(Aen^ l, 673 ecc.) per l'amore stesso. Del resto troviamo in un signi- 
ficato analogo a quello che ha i^nis in questo verso cura e furor. 
Gfr. Ed., X, 22: tua cura Lycons {ofv. Ed., 1, 57: raucae^ tua cura, 
palumbes), e 37 seg. : sive esset Amyntas \ seu quicumque furor. — 



VEROIU BYCOLICA, DI. 

notìoF ut ism sit canìbna non Delia nostrit 
Damobtas. 

Parta meae Veneri sunt munera: namque 
ipse loeuni, aeriae quo eongeesere palumbe 

Menalcas. 
Quod potai, puero silvestri ex arbore lecta 



67. ut, consecutivo ^^ ita ut. — H b 

venirmi spesso a trovare, è ormai oonoL _ 

Delia. Quanto a questo nome eoa! scrive Servio: Delia 
priorem vohtnt, alti Dianam, quae est a Deh et e 
per quQS venamur, quasi d^a venationis. La primi 
avrebbe fondamento sull'uso, spesso indicato dai poeti, 
che vanno a trovare l'oggetto del loro amore. Cfr, i 
Nerine Galalea... { si qua tui Corvdonis habet le cure 
II, 5, 35 eeg.: illa joepe gregis aiti plaeitura magis\ 
festatt vecia puella die; Ovid., Amor., I, 5, 9: ecce G 
nica velata recineta. La seconda invece sarebbe fondai 
Diana (Delia dall' isola di Delo ove sarebbe nata Art 
dai Latini colla loro Diana, dea della luna, divinità fem 
dente a lanus =^*I>ianus secondo il Preller) erano sacT 
che al principio dell'ecloga {w. 3 e 4) Menalca dichia; 
Preferisco la prima intorpretaìione. Menalca, prima di ^ 

68. meae Veneri ; noi diremmo : < alla mia bella 
caso è Qalatea (v. 64). Cfr. Lucr., IV, 1177: nec Ven 
fìiUit. — parta... sunt munera, son preparati i doni, i 
con Teocr., Idi/ll., V, 90 aeg. — 69, ipse, di mia 

dei segni nell'altiero. Cfr. per questo significato. di (psi 
XII, 90. Qualche volta Virgilio usa ipse manu. Cfr. 
IV, 389; Aen., II, 320 seg.; 645; III, 372; V, 24t; 49 
XI, 74. — aeriae... palumbes. L'epiteto è qui assai sigi 
equivalendo ad in alio nidi/icantes, indica la difficolta 
qpcresce pregio al dono. Cfr. un pensiero analogo in 
resto cfr. Lucr., I, 12 e V, ^2: aeriae ~- volueres; 
aeriae ... grues ; Ovid., Etc Pont., Ili, 3, 19; aeriae. 
Quanto alla forma palumbes cfr. Ed., I, 57. — con^* 
lutamenle per nidum congessere. L'oggetto sottinteso s 
mento rilevare dal contesto, come quando si usa ducere, 
traicere, trammitiere (sotlint. eaercitum), conscendere 
fiectere {iter), suslinere (hosies), ad contion^rt advocar 
ferre (rem), ecc. Cfr. Draeger, Hist. Synt., I», p. 400 se 

70. Menalca prende vantaggio su Dameta dicendo che 
im presente al siovane da lui amato, mentre Dameta n 
fatto alla sua Galatea. — quod poiui mostra la pena a 
per procurarsi gli aurea mala (cfr. verso seg.). Del resto 



VERGILI BVCOLIOA, III. 49 

aurea mala decem misi; cras altera mittam. 

Damoetas. 

quotiens et quae nobis Galatea locuta est! 
partem aliquam, venti, divum referatis ad aures! 

Mbnalcas. 

Quid prodest, quod me ipse animo non spernis, Amynta, 
si, dam tu sectaris apros, ego retia servo? 75 



quantum potui. Gfr. Ovid., H&roid., VIII, 5, quodpotui, renui, ne non 
invita tenerer; id., Remed. amor., 167: quod potuit,,ne nil ilHc ageretur, 
amamt ecc. — piiero. Aminta (cfr, v. 66). — 71. Si è fatto que- 
stione se Fepiteto aurea riferito a mala designi qui una speciale qualità 
di mele, come cotogne (cfr. Ecl., II, 51) o granate (mala punica)^ o 
arance o anche cedri. Ma bisogna anzi tutto aver presente li silvestri 
ex arbore lecta del v. prec, che esclude i frutti di giardino, ed il quod 
potui che indica la difficoltà delP acquisto per Taltezza della pianta. . 
Sembra quindi potersi concludere che aurea eqiiivale a pulcherrima. 
Teocrito, Idyll., Ili, 10 (evidentemente qui imitato da Virgilio) ha: 



^v(Ò€ Toi òéxa jidXa qp^pui, senza epiteto qualificativo di ^dXa; e Properz., 
imitando a sua volta Virgilio, III, 32 [d4], 69 ediz. L. MùUer: utque 

i decem possint corrumpere mala puellas. Si tratta adunque di mele co- 
muni. — misi=s donavi, Gfr. Terenz.^ Phorm.^ 1, 1, ÌQipuer causa erit 

' mittundb. — altera vale qui € altrettante »; sta cioè per totidem altera 
usato da Oraz., Epist., I, 6, 34. 

f 72. quotiens. Gfr. il mio Trattato dell'Ortogr. lat., pag. 23 seg. Del 
resto i codici migliori di Virgilio danno costantemente quotiens e totiens. 
Gfr. Georg. ^ I, 471 ecc. — 73 Assai bene spiega Servio : tto, mg^wt^, 
mecum duìce locuta est Oalatea^ ut deorum auditu eius diana sint 
verba, È inaccettabile Tinterpretazione, secondo cui Dameta si lamente- 
rebbe qui dell'infedeltà di Galatea, delle cui dolci promesse d'amore vor- 

I rebbe che partem aliquam (cioè exiguam, quamvts eanguam; cfr. EcL, 
n, 71) portassero i venti agli dei perchè punissero la spergiura; giacché 
da tutto il contesto non, si può deaurre a carico di Galatea che un pò* di 
civetteria (cfr. v. 65). È preferibile a questa l'ipotesi che i venti por- 
tino alle orecchie degli dei le parole di Galatea, perchè essi, testimoni 
delle sue promesse, la mantengano fedele all'amante. 

74, 75. Menalca si duole perchè Aminta, sebbene corrisponda al suo 
amore, tuttavia non rimane con lui quanto vorrebbe. — ipse fa spiccar 
meglio il contrasto fra l'amore corrisposto di Menalca, espresso da Tne... 
animo non spernis, e le frequenti assenze dell'oggetto amato indicate 
da tutto il V. 75. — animo non spernis^ litote per amore prosequeris. 
— ego retia servo. Solevano gli antichi circondare di una grande rete 
un largo tratto di terreno nei boschi, prima di stanare il selvaggiume, 
per impedirgli di salvarsi nell'aperto, formando cosi una specie di recinto 

Stìwmpim, VergiL Bucol, 4 



50 vergili bvcolica, ih. 

Damoetas. 

Phyllida mitte mihi: meus est natalis, lolla; 
cum faciam vitula prò frugibus, ipso venito. 

Menalcas. 

Phyllida amo ante alias: nana me discedere flevit, 
et longum « formose, vale, vale », inquit, « lolla». 



chiuso, entro il quale i cani lo potessero cacciare e si potesse più facil- 
mente prendere. Occorreva pertanto che, durante Tinseguimento, qual- 
cuno rimanesse a guardia della rete perchè nessun animale la rompesse. 
Ciò è qui indicato dal verbo servo = observo^ custodia^ sul qual signi- 
ficato cfr. Ed., V, 12; Georg., I, 335; Aen., V, 25. Del resto era una 
Srova d'amore al giovane cacciatore il guardarne o portarne le reti, 
ifr. TibulL, I, 4, 49 seg.: nec, velit insidiis alias si claudere vai- 
les, I dum placeas, umeri retta ferre negent; IV, 3, 11 seg. : ut tecum 
Uceat... vagarti | ipsa ego per montes retta torta feram ; Ovid., Ars am., 
II, 189: saepe tulit lusso fallacia retia collo. 

76. Da meta prende a canzonare il suo rivale lolla (intorno al quale 
vedi sotto la nota al v. 79), invitandolo a mandargli la sua Fillide, vo- 
lendo con lei festeggiare il suo di natalizio (natalis, sottint. dies). Quanto 
al nome della pastorella cfr. Ecl., V, 10 e VII, 59. — 77. Si accen- 
nano le feste dette AmharvaUa (cir. Georg., I, 339 segg. ove vedi le 
mie note). Qui è da notarsi in particolar modo il s^^uente passo di Feste in 
Macrob. Sat, III, 5, 7 (cfr. Paul. Diac. Excerpta in Fest. ediz. 0. MùUer, p. 5) 
Ambarvalis hostia est, quae rei divinae causa circum arva ducitur db 
his qui prò frugibus faciunt. \\ verbo facere in poesia e talora 
anche in prosa è adoperato assolutamente, come il greco ^pòeiv o ^é2l€iv 
ed il latino operari (cfr. la nota a Georg., I, 339), xar' ègoxnv per sacra 
facere. Cfr. Plaut., Stich.,l,3,9d: quot agnis fecerat?; Gic, ad Att.,l, 
13, 3: cum apud CJaesarem prò populo fieret (in Gic, ad Brut.^ I, 15, 
8, invece di facere leggesi in parecchi codici sacri ficium facere); TibalL, 
IV, 6, 14: ter tibi fit libo, ter, dea casta, mero; CoXxxva., II, 21 (22), 4: 
nec oves tendere, nisi si catulo feceris. Conseguentemente vitula deve 
considerarsi come ablativo di strumento (cfr. agnis, libo, mero, catulo, 
nei passi testé citati). 

78, 79. Si è molto disputato sul senso da darsi a questi due versi. 
Sì sono fatte parecchie ipotesi. 1^ ipotesi: Menalca prende le parti di 
lolla e per difenderlo e rispondere a Dameta, si trasforma, per così dire, 
in lolla e parla come se fosse personalmente attaccato. Tal modo di di- 
fesa è, a vero dire, molto strano, né d'altra parte abbastanza si capisce 
il perché della difesa che Menalca fa di lolla, non essendo sufficiente a 
spiegarlo la legge dei carmi amebei. 2" ipotesi: Menalca vuol contrastare 
a Dameta Tamore di Fillide e beffarsi di lolla più che non abbia fatto 
Dameta. Dice adunque d'essere innamorato di Fillide e di esseme corri- 
sposto, tanto che essa pianse al suo partire e diede a lolla un ironico 
saluto. Anche qui non si capisce che nesso possa esservi tra il dolore 



vergili bucolica, ih. 51 

Damoetas. 
Triste lupus stabulis, maturis frugibus ìmbres, 80 



le Fillide dimostra al partir di Menalca e il beffardo salato che rivolge 
loUa (naturalmente in questa ipotesi l'ironia riposerebbe tutta su for- 



che 
a 

mo5«). Questo piangere uiia persona e beffarsi ad un tempo di un'altra 
mi par molto inverosimile. 3" ipotesi : 11 vocativo lolla non appartiene 
a CIÒ che dice Fillide, ma deve esser messo in bocca a Menalca. Quindi 
si dovrebbe intender così : « Più d'ogni altra io amo Fillide, perchè essa 
pianse alla mia partenza dicendomi : ' addio, mio bel pastore, addìo *. Lo 
intendi, o lolla? ». A me pare che in questo modo non s'interpreta, ma 
8Ì stiracchia il concetto che il poeta ha voluto esprimere. 4^ ipotesi. E 
quella di Servio, di cui cito le parole : hic postar aut habuit duo nomina, 
nam supra eum Menalcam aixit: aut certe lollam eum quasi pasto- 
rem optimum appellavit a quodam pastore nobilissimo^ sicut virum> 
fortem plerumque Achillem, adulterum, Par in vocamus. A me 
pare che questa sia ripotesi più semplice e ^iù naturale: l'addio ripe- 
tuto che dà la mesta Fillide al suo amante si accorderebbe assai bene 
col pianto che ella versa. Con auesta ipotesi inoltre si accordano pa- 
recchie delle interpretazioni date ai longum,. Lo si è considerato da alcuni 
come aggettivo riferito a vale sostantivamente usato {longum, vale = 
vale miserabili voce aique in longum ducta pronuntiatum) : altri fanno di 
longum un aggettivo neutro usato a guisa di avverbio e da riferirsi ad 
inquit nel significato di diu (altri di Jonge, altri di magna voce): altri 
vedono un longum vale = iiaxpà x^^^P^^v « addio per molto tempo », la 
quale spiegazione però sarebbe solo accettabile nel caso che si volesse 
vedere in questi versi un contenuto ironico. Io credo che il meglio sia 
ritenere longum come equivalente a magna voce. Gfr. Oraz., Ar. Poet., 
459 seg.: « Succurrite » longum clamet € Io cives »; Omer., II., Ili, 81 : 
Maxpòv dOoev fivaE àvòpoiv ATainéjivujv. — L'ultima sillaba del secondo 
vale è breve e non si elide davanti ad inquit. Quest'abbreviamento è un 
effetto normale della così detta legge delle parole giambiche. Si è osser- 
vato che in una parola di più d'una sillaba la voce si appoggia di pre- 
ferenza sulla sillaba iniziale; quindi, quando cotesta iniziale più intensa 
era uxia breve, e la sillaba più debole, che la se^iva, era una lunga, 
come avviene in parole giambiche, p. e. vale, volò ecc. o comincianti 
con un gruppo giambico, volùptatum, si verificava nel latino una ten- 
denza a ristabilre l'equilibrio coir abbreviamento della lunga; quindi 
vate, volo ecc. (Questa legge però ha la sua maggiore applicazione nella 
poesia comica, in Plauto ea in Terenzio. Gfr. Ed., VI, 44: « Hf^lìì, 
Eyla"» omne sonarci; Ovid., Met, III, bOi: dictoque vale ^ vale! i> 
inquit et Echo. Quanto allo iato cfr. Ecl.^ II, 53. 

80. triste lupus. Cfr. Om., II., II, 204: oùk àTa6òv iroXuKOipavdi. 
Similmente Aen., IV, 569 seg.: varium, et mutabile semper \ femina; 
Ovid., Am,., I, 9, 4: turpe ^senex m,iles, turpe senilis amor. Vedi sotto 
alv. 82: Dulcesatis umor.È un costrutto impropriamente chiamato gre- 
cismo. Il neutro si spiega naturalmente per esser riferito ad un'idea 
astratta, né qui lupus e sotto umor altro sono che termini astratti. Si 
noti poi triste =i noxium. Cfr. Oraz., Od., Il, 13, 11: triste lignum. — 



-^- -^ 



52 VERGILI BUCOLICA, IIL 

arborìbus venti, nobìs Amaryllidis ìrae. 

Menalcas. 

Dulce satis umor, depulsis arbutus haedìs, 
lenta salìx feto pecorì, mihì solus Amyntas. 

Damoetas. 
PoUio amat nostrani, quamvis est rustica, musam: 



maturis frugibus imbres. Gfr. Georg.^ I, 313 segg.; Plin., E. iV., XVIII, 
17, (44), 152: maturescentia frumenta imbre laeduntur et hordeum 
magis. Del resto cfr. questo e il v. seg. con Teocr., IdylL^ Vili, 57-59: 
òévbpcai |Lièv xciM^v cpoPepòv kokóv, i^haox 6* aùxMÓ^, | òpviaiv ò* 
dairXaYS, àYpOTépoi<; òè Xiva • | dvbpl Òè irapeevixél^ àiraXfilq iróBo^. — 
81. arboribus venti, specialmente l'austro, gr. vóxog; cfr. Ed., II, 58 
seg.; oppure Teuro; cfr. Georg., I, 453. — Amaryllidis trae. Gfr. la 
nota ad EcL, II, 14. 

83. dulce satis umor. Gfr. la nota al v. 80. Scrivo umor senza Vh (rad. 
ug: umor da *u^-mor; cfr. il greco ùy-pó?). La forma senz*^ è data dai mi- 
gliori codici. Similmente scrivi umere, umiduSy uvidus, udus ecc. Pel 
senso della frase cfr. Georg., I, 100 e 157. — depulsis... haedis, spop- 
pati, divezzati. Qui il verbo depellere è usato assolutamente in taf si- 
gnificato: diversamente EcL, VII, 15: depulsos a lacte... agnos; Georg., 
Ili, 187: depulsus ab ubere matris. Orazio, Od., IV, 4, 14 seg.: fonde 
insieme oneste due frasi : matris ab ubere \ iam, lacte depulsum. leonem. 
Vedi ancne Varr., R. R., II, 2, 17: cum depulsi sunt agni a matribus. 
— arbutus, pianta grata alle capre. Gfr. Georg., Ili, 300 seg.; Oraz., 
Od., I, 17, 5 segg. — 83. Quanto ai salici che offron cibo gradito 
alle capre, cfr. Ed., I, 77 seg. Per l'agg. lentus = flexibilis cfr. sopra 
la nota al v. 38, e specialmente ad Ed., I, 25. — solus. Gfr. Teocr., 
Idyll., IV, 38 seg.: iiióvac; oéOcv oùbè Oavoiaac; I Xaoeùimecre'. 

84. Pollio. Vedi intorno a questo personagjgio l'Introduzione. Secondo la 
regola data da Lachmann, Comm. in Lucr., p. 32 seg., che è post longam 
e auabus 1 alterarne subtrahi, si sequatur i littera, nisi ea casualis sii, 
dovremmo scrivere Polio. IS» di fatto Servio al v. 86 avverte: sane alti 
legunt Polio, ut prima producatur, alii Pollio. La prima forma 
ha pure la sanzione di molti codici ed è preferita dai Greci (cfr. Lach- 
mann p. 33) : ma io ho voluto attenermi all'autorità dei codici Romano 
e Gudiano ed all'uso pur attestato da Servio. — quamvis est. Propria- 
mente aspetteremmo quamquam. Il quamvis col? indicativo, in quanto 
esprime una concessione riconoscendo in pari tempo la realtà del pen- 
siero espresso, non è quasi mai usato nella prosa classica: manca asso- 
lutamente in Gicerone (il passo dell'oraz. prò G. Rab, Post. 2, 4 quamvis 
patrem suum numquam viderat è mal sicuro. Di fatto il Klotz ha so- 
stituito senz'altro il qtmmquam. Gfr. Gor. Nep., Milt., 2, 3: quamvis 
carebat nomine; Att., 20, 1: Quam^vis ... numquam... litteras misit; e 
Liv., II, 40, 7 : quam,vis infesto animo et minaci perveneras. Si trova 



VERGILI BVCOLICA, HI. 53 

Pierides, vitulam lectori pascite vestro. 85 

Mbnalcàs. 
Pollio et ìpse facit nova carmina: pascite taurum, 



spesso invece in poesia e nella prosa postdassica (in Valerio Massimo, 
in Petronio, in ^neca il filosofo, in Gelso^ in Golumella ecc.; manca 
invece in Velleio, in Curzio, in Tacito, in Plinio il giovane, in Sve- 
tonio ecc.). Cfr. Aen., V, 542; VII, 492; Graz., Od., 1, 28, li; 111. 7, 
25; 10, 13; Sat, I, 3, 129; II, 2, 29; 5, 15; Èpist, I, 14, 6 ecc. — 
85. Pierides sono le Muse, cosi chiamate dalla Fieria, paese posto fra 
la Tessalia e la Macedonia e ristretto fra le regioni delFOlimpo e TA- 
lìacmone, i cui abitanti, Traci di origine, sono celebri nella antichissima 
storia della poesia e della musica greca. — vitulam,., pascite, fate cre- 
scere una vitella, perch^io la immoli per la salute di Pollione (lectori ve- 
stro). Cfr. Graz., Épist., I, 3, 36: pascitur in vestrum reditum votiva 
iuvenca. E perchè Pollione è detto Pieridum lectori L*interpretazione 
più plausibile è che Pollione sia indicato dal poeta come chi soleva leg- 
gere i versi, che le Muse gl'inspiravano, a scelta adunanza di persone. 
Sappiamo di fatto che egli fu il primo ad introdurre le pubbliche reci- 
tazioni. Cfr. Sen., Controì)., lW,praef.,2: primus enim omnium Roma- 
norum advocatis hominibus scripta sita recitavit [Pollio]. Fu però giu- 
stamente osservato che quest' idea è molto poco adatta al costume dei 
pastori che né scrivono irò leggono i loro carmi. Abbiamo perciò una so- 
vrapposizione di elementi affatto cittadineschi e propri di classi erudite 
e Qolte ad elementi propri della vita pastorale semplice ed incolta. Ed è 
qpesta una delle più spiccate caratteristiche della poesia pastorale vir- 
giliana. 

86. PolUo,^ facit nova carmina. Servio spiega nova per magnarmi' 
randa. Per appoggiare questa spiegazione alcuni confrontano Toraziano 
fidibus novis (Od., 1, 26, 10); ma a me pare che l'espressione oraziana, 
ec[uivalente a fidibus a nullo Romanorum antea pulsatis, s'accorderebbe 
piuttosto colFidea della novità del genere poetico che altri vorrebbe ve- 
dere espresso da nova. Ma quale sarebbe u nuovo genere di poesia in- 
trodotto da Pollione? Non certo la tragedia, già vecchia per i Roniani. 
Anzi dove Virgilio esplicitamente ricorda gli scritti tragici di Pollione, 
Ecl., Vili, 9 seg., dice solo : Uceat totum mihi ferre per orbem \ sola 
Sophocleo tua carmina digna cothumo. A meno che si voglia ammet- 
tere, senza provarla, l'ipotesi che Pollione abbia dato un indirizzo 
nuovo alla tragedia, discostandosi da quella troppo stretta e manifesta 
imitazione dei Greci che si notava in Ennio, Pacuvio ed Accio. Altri 
suppose che si voglia alludere ad una nuova scuola poetica protetta 
da Pollione, di cui furono principali rappresentanti Virgilio ed Orazio, 
e che aveva l'intento di combattere gli adoratori ed imitatori della poesia 
antica. Falso, perchè da una parte quella scuola non si accentua vera- 
mente se non più tardi dell'età in cui cade ^est'Ecloga (è Tanno forse 
della battaglia di Filippi), e dall' altra Pollione deve; essere invece ri- 
guardato come uno dei superstiti della vecchia scuola, come dimostrò 
combattendo nell'eloquenza la maniera ciceroniana (cfr. Quint.y XII, 1, 
22), tanto che a nitore et iucunditate Ciceronis ita longe abest, ut vi- 



TERGILI BTCOLICA, HI. 

m cornu petat et pedibas qui epargat harenam. 



Ili te, Follio, amat, veniat qao te quoque gaudet ; 
ella fluant ìlli, ferat et rubus asper amomum. 



Menalcas. 
ai Bavium non odit, amet tua carmina, Mevi, 90 



'Ossit saeculo prior. È preferibile dunque rinterpretasione 
io. — taurum per contrappoaizione a vitulam (v, prec.). — 
■so adatto a questo luogo, perchè porta una amplificazione all'idea 
i da taurum, che fa meglio apiccare il suo coatrapporai a vita- 
ripetuto in Aen., IX, 629. Vedi a talpropoaito la nota sopra al 
— narenam. Ho seguito l'ortografia dei piìi autorevoli codici, aeì> 
ì non abbia neeeun fondamento etimologico, precisamente come 

leniat qw> te quoque gaudet aottint. pervenisse. Quest'augurio si 
} all'eccellenza poetica, che è l'alto scopo raggiunto da PoUione. 
> è dunque; «possa chi ti ama, o PolUone, conseguire quella 

eccellenza che si compiace di veder da te raggiunta ». — 
ssto verao contiene un altro augurio. Si augura una vita qual era 
Jeli'oro- — mella fluant. Cfr. Sci., IV, 30. — rubua asper. Cfr. 

Ili, 315: horrentisque rubos, per via delle sue molte spine. — 
m (Cfr. Ed., IV, 25) è un frutice di cui i dotti non hanno sa- 
n dichiarar la natura. Me parla tra gli altri Plinio. Cfr. H. N., 
, (28): Amami uva in usa est em indica vile labrusca, ut alii 
avere, e fì^tice montuoso... nascitur et in Armeniae parte quoe 
' Otene et in Media et in Ponto. Se ne traeva un unguento prO' 
no. Ma qui il vocabolo designa in generale ousliinque grato aroma, 
a consuetudine del poeta di designare talora un genere di c~ ~ 

le di a ' " '■ ' 

IO e ' 



^lla poesia di Pollione, che deve servire di modello a chi vuol 
re all'eccellenza da lui conseguita, il poeta contrappone i versi di 
I di Me vie, coir apprezzar i quali ai mostra d'esser deatituìtt di 
Lon gusto. Furono queati due poeti detti «essimi da Servio a questo 
inimici tam Boratio quam Vergilio. Parimente Filargirio: duos 
■poris poetai dicii pessimos, quorum carminci ob humilitalem 
sunt. Si vede però che Mevio era dal poeta ancor pili diaprez- 
Bavio, ae all'ammiratore di questo augura per castigo di amar 
Cfr. Oraz., M^od., 10, 1 eeg.: Male soluta navis eait alile, | fe- 
enlem lievium, al qual paaao nota Porfirione: Eie esl Mevtus 
■"•■""■"'■« poeta ecc. Cfr. ancora Serv., ad Ecl., VII, 21 e Georg., 



TEROIU 6TC0LICA, IH. 55 

atque idem iungat vulpes et mulgeat hircos. 

Dahobtas. 

Qui legitìs flores et humi nascentia fraga, 

frigidus, paeri, fiigite bine, latet anguis in herba. 

Menalcas. 

Farcite, oves, nimium procedere: non bene ripae 
ereditar; ipso aries etìam nane veliera siccat. 95 



I, 210. Del resto ho adottato Tortografia Mevius e non Maevius^ perchè 
data dai codice Romano e Gadiano, da <][aattro almeno dei più antichi 
codici di Orazio (luogo cit.) e da molte iscrizioni (cfr. G. 1. L., 1, 910; 
1192; 1276 ecc. — 91. È un contrapposto al v. 89. 11 verso contiene due 
espressioni proverbiali che designano un'impresa che per la sua assurdità 
deve necessariamente avere un'infelice riuscita. — atqiie idem è Titaliano 
€ e insieme, e nel medesimo tempo » che si adopera, come anche solamente 
idem^ spesso ed elegantemente in prosa, in luogo della semplice copula 
del non classico simula et simula per unire due attributi o predicati 
di natura differente che si riferiscono alla stessa persona o cosa. Gfr. Gic. 
Orat^f 7, 22; de Orat.^ Ili, 44, 174. ecc. — iungat., sottint. aratro o 
currui, Gfr. Ecl, Vili, 27. 

92. Dameta passa nell* improvvisazione ad un ordine di idee che non 
ha più connessione con quello che è detto prima. Questo passare da una 
idea ad un'altra, senza tener conto dei nessi, è caratteristica nei carmi 
amebei. — 93. frigidus,., anguis, Gfr. Ed, Vili, 71; Teoer., IdylL, 
XV, 58: tpuxpòv ócpiv. 

94, 95. parcite... procedere = cavete ne procedatis ; nolite procedere; 
ne jarocesseritis ; espressione poetica come il fuge quaerere di Oraz., Od., 
I» 9, 13 (cfr. Tibull., I, 4, 9: fuge,,. credere). Vedi Aen., Ili, 42: parce.,, 
scelerare manus; Oraz., Od., I, 28, 23-25: ne parce.., dare; 111, 8, 26: 
parce.., nimium cavere. Quest'espressione penetrò anche nella prosa con 
Livio. Gfr. XXXIV, 32 in fin.: parce, sis, fidem oc iura societatis 
iactare. Del verbo parco coll'inf. si trova un solo esempio nell'antico la* 
tino. Gat., R. R., 1, 1: neve opera tua parcas visere. In simil guisa 
adoperano i Greci il verbo (p€iSo|Liai. — non bene ripae | creditur. Senso: 
« la ripa è pericolosa, non bisogna fidarsene ». Gfr. Oraz., Sai., II, 4, 20 
seg.: pratensibus optima fungis \ natura est; aliis male creditur. — 
wse aries etiam nunc veliera siccat, « il montone stesso, che è più pru- 
dente, come capo del gregge, per manco di cautela non ha ancor ora 
asciutto il suo vello ». Si noti la forza di ipse che fa spiccare meglio il 
contrapposto. 



VERGILI BVCOLICA, HI. 



Tityre, pascentes a flumÌDe reice capellas: 
ipso, nbi tempus erit, omnia in fonte lavabo. 



Gogite oves, pueri; si lac praeceperìt aeatus, 
nt nuper, frustra pressabimus ubera palmia. 

Damoetas. 

Heu ben, quam pingui macer est mihi tanrus in ervoi 100 



1, 97. Cfr. Teocr., V, 145 seg.: alf^t ^MOl SapaelTE KEpouKlbc^ - o0- 
OjJLie I nStaa^ Ifih XùvaOi ZuPapÌTiboi; IvboGi Kpdva;. — QuEtolo al 
B Tiiure cfr. Ecl., I, 1. — pascenies. Cfr. la nota ad Ecl., IV, 45. 
nce di due sillabe = reiice = 'rejice. Abbiamo qui uà fenomeno non 
quente nella lingua latina, di due vocalL, primitivamente diriae da 
e, dopo il dileguo di questo, ai congiunsero per sinlzeai oppure ai 
ressero in una vocale lunga, come in blgae ^^ 'bijigae, cuncti ^^ 
meli. Né altrimenti ai spiega il fatto di huius, cuius, eius usati ta- 
in poesia con valore metrico di monoaiUal)!. Vedi ancora reieit 
sinizesì in Staz.. Theb., IV, 574, ed eicit in Lucr., IH, 875 e IV, 1264. 
ilarmente dunqne reice dovrehb' essere trisillabo: la presenza d'uD 
1 non è del resto altro che un semplice fatto ortografico e regolare. 
eoìcio, deicio, proido, traicio e a tal riguardo il mio Trattato del- 
. lat., pag. 32. — erii ha l'ultima sìllaba resa lunga dall'arsi che 
iide colla cesura principale del verso. Cfr. la nota ad Ed., I, 38. 
1. cogite^ compite ad umbram captandam. — si lac praeceperìt 
ts. Abbiamo qui il verbo praecipio quasi nel suo significeto orij^- 
) di ante capere, praeocaupare. Cfr. Lucr., VI, 1047, seg. : prius 
ts ubi aerii \praecepit ferrique vias possedit apertas; Cea.,B. C, 
H, 2: abpuotieanis suae provìnciae debitam biennii pecuniam e»e- 
t et ab isdem iruequentis anni muluam praeceperat. Traduci 
il calore colpirìi loro il latte ». 

IO. Sebbene il codice Romano dia amo, tuttavia e per la testimo- 
za di altri codici e per il senso devesi leggere erwi. Di fatto nulla 
.rano vi sarebbe che ai trovasse un toro magro a lavorare in un fer- 
campo; ma invece è spiccatissimo il contrasto cbe sì presenta, pen- 
tì ad un toro che è magro in mezzo ad un'abbondante pastura, eoo- 

che risalta anche nello etesso ordine delle parole per cui si bod 
Mtate le' voci pingui e macer. — ervum e una pianta leguminosa 

1 dai Greci Opo^o; che sì dava con certe precauzioni come cibo ai 
. Cfr. Plin., XVIII, 15, <38) e Colum., II, 10, 31 [H, UJ; Plaut., 
t., I, J, 59. Naturalmente qui il vocabolo designa qualunque obo adatto 
QÌmale di cui sì tratta. È una sineddoche non infrequente nei poeti, 



VERGILI BVCOLICA, IH. 57 

idem amor exitium pecori pecorisque magìstro. 

Menalcas. 

Hìs certo neque amor caasa est; vìi ossi bus haerent. 
nescio quis teneros oculas mihi fascinai agnos. 



Gfr. sopra al v. 89. Del resto cfr. Teocr., Idyll,, IV, 20: XeuTÒc imiv 
Xiii ToOpoi; ó Ttù^^ixo(;. — 101. pecorisque magìstro. Gfr. Ecl.^ Il, 33, 
omumque tnagistros, ove vedi la nota. Il senso e: € queiramorosa cura, 
che rende magro il pastore, è pur causa di magrezza al bestiame da lui 
trascurato per effetto del suo stato d^animo ». 

102. His = meis^ sottint. agnis. -— causa sottint. maciei. — Si è fatta 
questione sul neque di questo verso pel significato che gli si deve attri- 
boire. Certo non può, restando il verso cosi come Tho dato, avere il suo or- 
dinario significato. Bisognerebbe altrimenti ricorrere ad una già vecchia 
congettura, che cioè si dovesse leggere: Hi certe {neque amor causa est) 
nix ossibus ?iaerent; la quale congettura riposa su un abbaglio preso 
da Elio Donato, che in Ter., Eun., II, 2, 38, ritiene VHis virgiliano 
come una forma di nom. plur. Parimenti bisognerebbe accettare un'altra 
confettura non meno improbabile che sarebbe: Agnis meis neque pa- 
bulum neque amor causa est. È duopo adunque ammettere neque 
»= ne.,, quidem, sebbene ciò non piaccia al Madvig e al Draeger, secondo 
il quale ancora il verso non avrebbe senso. Che fl neque ed il nec in 
Cicerone già abbiano talora il significato di ne... quidem è cosa che non 
si può negare da chi non voglia mutare i codici per servire ai proprii 
preconcetti; cfr. Draeger, Hist. Synt.^ IP, p. 72; inoltre ne abbiamo un 
esempio in Oraz., Sat.^ II, 3, 262, dove io con tre dei più antichi ed au- 
torevoli codici, col Ritter e col Holder leggo nec nunc che corrisponde 
al Terenziano ne nunc quidem (Eun., 1, 1, 1) ed è il ^T^òè vOv dei Greci. 
Di fatto il passo Oraziano nec nunc, cum ms vocat ultro^ accedam,? 
corrisponde a capello al citato di Terenzio : non eam ? ne nunc quidem | 
quom arcessor ultroì Del resto anche parecchi esempi di nec e neque 
= ne... quidem si trovano in Livio e ne' prosatori posteriori. Adunque, 
per provvedere al senso e per non alterare i codici, o bisogna ammettere 
questo significato o ritenere, ciò che non credo, che Virgilio, perchè aman- 
tissimus vetustatis (Quintil., I, 7, 18), abbia usato neque nel significato 
della semplice negazione = non, che già è scomparso in Terenzio e non 
ricompare più negli altri scrittori posteriori. — vico ossibus haerent. 
Serv.: vix ossa eorum cohaerent. -^ 108. Si indica qui una delle 

superstizioni più antiche, più tenaci, più universalmente diffuse e ancor 
viva oggi sotto il nome di malocchio, che consiste nelFinfluenza magica 
e funesta esercitata, volontariamente o inscientemente, mediante lo sguardo 
colla parola (cfr. Ed., VII, 28; Gatulh, VII, 12 ecc.), da una persona 
da un animale o da uno spirito sopra persone, animali o cose inani- 
mate (cfr. J. Tuchmann, La Fascination in Malusine, Tom. II, p. 170 
segg. ; Arditi, Il Fascino e l'amuleto contro del Fascino presso gli an- 
tichi, Napoli, 1825, e il lavoro capitale del lahn, Ueber den Abergtauben 
des Bosen Blichs bei den Alien, nelle pubblicazioni della R. Accademia 
delle Scienze di Lipsia, class, fil. storie, voi. VII, 18K, pagg. 28-110 con 



58 TBBQILI BYGOLICA, m. 



Damobtas. 



Die, quibus in terris — et eris mihi magnus Apollo — 
tris pateat CAELI spatium non amplius ulnas. 105 



5 tavole). Era ed è niente altro che una conseguenza della tendenza, che 
hanno i popoli toyzì ed incolti, di attribuire ad influenze sovrannaturali 
le cause di quei mali di cui non si possono scoprire le vere caconi. 
Di qui la necessità di preservarsi con amuleti contro quel genere di ma- 
lefizio. — nesdo quis non istà già per nescio qui^ ma per aliquis. 

104, 105. Dameta, vedendo di non poter riuscire a vincere Menalca 
nella gara del canto, gli propone improvvisamente un enigma a sciogliere. 
Spiegami, egli dice (ed io ti terrò pel grande Apollo), in qual luogo del 
mondo lo spazio del cielo non ha più di tre cubiti. Filargirio e Servio 
riportano diverse spiegazioni di cruesto enigma. Notevole è fra gli altri 
questo passo di Filargirio (ediz. Lion): dicit Comificius ab ipso Virgilio 
audisse, quod Coelium Manttianum quendam tetigit, qui consumptis om- 
nibus facultatibus, nihil sibi reliquit nisi locum trium ulnarum ad se- 
pulturam, E più sotto: Asconius Pedianus ait, se audisse Virgilium 
dicentem in hoc loco se Grammaticis crucem fixisse, quaesituros eos, 
si quid studiosius occultaretur, Dicit autem poeta Coelium Mantuanum 
(cfr. un passo analogo al primo in Servio a questi versi). Virgilio non 
si sarebbe ingannato dicendo che voleva dar da studiare ai grammatici; 
di fatto chi pensò alla spelonca dell'Etna per cui passò Dite colla rapita 
Proserpina; chi allo scudo di Achille trium ulnarum, in quo expressa 
coeli forma fuerat (Porfir. ; cfr. nel Servio di Lion un passo interpolato 
ove per altro in luogo di Achille è detto Aiace) e così di seguito. Se- 
condo Servio simpliciter intellegendus est cuiuslibet loci puteus, in quem 
cum quis descenderit, tantum caeli conspicit spatium, quantum putei 
latitudo permiserit. Invece il Lachmann (Comm. in Lucr,,ja. 328 ed il 
Rìbl^eck, fondandosi suirautorità di Asconio, riguardano GAELl come un 
nome proprio (da Caelius) che, scrivendosi e pronunciandosi ancora ai 
tempi del poeta con un solo t, poteva confondersi con caeli (da caelum) 
e quindi dar luogo all'enigma. Associandomi adunque a questa spiega- 
zione, ho creduto bene di scrivere GAELl, perche la scrittura stessa 
nella sua forma rappresentasse il doppio senso della parola. Quanto alFor- 
tografia di caelum, Òaelius, ecc. cfr. le note ad Ed., 1, 17 e IV, 7. — • tris,., 
non amplius ulnas. Si usa spesso, dopo amplius, plus e minus, sottinten- 
dere il quam, specialmente con numerali. Cfr. Cic, Brut., 17, 65: refertae 
sunt orationes amplius centum quinquaginta... et verbis et rebus illu- 
stribus. Tusc, 11, 16 37 : ferre plus dimidiati mensis cibaria ; Dtvin., 
I, 32, 68 : made factum iri minus XXX diebus Graeciam sanatane. Vedi 
anche Georg., IV, 207; Aen., I, 683; Ces. B. G., Ili, 6, 2; Irz., Vili, 4, 
3; B. C, 111, 99, 4; Sali., Iug.,bS, 3 ecc. Quanto a tris per tres cfr. il 
mio Trattato delVort. lat., p. 22. — ulnas. Questo vocabolo prov. dalla 
rad. ol (cfr. il greco ibXévii) propriamente significa « avambraccio », ma 
talora anche il « braccio » intero. Come misura di lunghezza significa 
la lunghezza data dalle braccia distese andando da un'estremità airaltra, 
compresa la larghezza del petto (cfr. Plin., E, N.^ XVI, 40, (76), 202 e 
comsponde quasi all' « auna » dei moderni (metri 1,20 circa); oppure, 



YBRQIU ByCOLIGA, m. 5d 

MSNALGAS. 

Die, quibus in terrìs inscripti nomina regum 
nascantur flores; et Fhyllida solus habeto. 

Palaemon. 

Non nostrum inter vos tantas componere lites. 
et vitula tu dìgnns et hic, et quisquis amores 
aut metaet dulces, aut experietur amaros. 110 



secondo Svetonìo citato da Servio a qaesto passo ed Isidoro Orig.^ XI, 
1, 64 (cfr. lo SvetoDio di Reiffersch., pag. ÌVl e Servio a Oeorg.y HI, 
355) equivale a cubitus. Inoltre Servio ed Isidoro accennano anche una 
longhezza =: uiriusque manus eootensio. Ritengo qui come più adatta la 
significazione di € cubito ». 
106. 107. Menalca, per non essere da meno di Dameta, gli contrap- 

gme a sua volta un altro enigma, col quale vuole indicare il giacinto. 
li antichi credevano di leggere nelle foglie del giacinto o le lettere Al 
T. Secondo una tradizione Al sarebbe Tespressione dei lamenti di 
Febo, involontario uccisore del giovane Giacinto da lui teneramente amato 
e convertito nel fiore di quel nome (cfr. Ovid., Met, X, 215 se».), mentre 
T indicherebbe Vinziale del nome stesso; invece, secondo un altra leg- 
genda pur riportata da Ovidio (Met, XIII, 394-398) nel giacinto si sarebbe 
pur trasformato il sangue di Aiace, del cui nome Al sarebbe Tiniziale. 
Quindi Tespressione di Teocr., Idvll., X^ 28: Tpcn^Tà ódKivOo^. ~ inscripti 
nomina. Questo grecismo che, sebbene ^là in uso nell'età preclassica, manca 
in Cicerone, Cesare, Sallustio, Cornelio Nepote ed altn prosatori, ma si 
trova in Livio, fu dai poeti molto usato pnma con verbi mediali e poscia 
con verbi passivi. Vedi numerosi esempi in Draeger, Hist. Synt.^ I', pp. 
362^0. regum qui vale forse heroum. Del resto Aiace era re e Giacinto 
figlio d'un re. — 108. Non nostrum sottint. est, — 109, HO. et 
mtula tu dignus et hic. Senso : « avete tutti e due egual merito; entrambi 
meritate come premio la vitella >. — et quisquis eie. Questo passo assai 
difficile fu pure molto tormentato dai critici. Servio spiega : et tu et hic 
digni estis vitula et guicumque similis vestri est. E più sotto : 'aut 
metuet dulces^: namque hic menalcas et amabat et metuebat^ ne um- 
quam posset amor itle dissolvi, contra Damoetas amaritudinem amoris 
expertus fuerat ex amicae Amaryllidis iracundia. Esaminando i varii 
tentativi ai dare un senso soddisfacente a questo passo, trovo col Benoist 
preferibile la spiegazione tradizionale di Servio. Del resto il Ribbeck, oltre 
a staccare quisquis etc, da ciò che precede, muta il testo cosi: et quisquis 
amores \ hau temnet dulcis, haut experietur amaros, la oual lezione è 
affatto arbitraria né ha l'appoggio dei codici, che danno chiaramente, a 
cominciare dal Romano, la lezione aut m^etuet. Ritengo adunque che il 
senso di tutto il passo sia il seguente: «Meritate la giovenca e tu e lui 
e qualunque altro sarà a voi simile nel cantare, deiramore, e le dolcezze 



•5 *» 



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■ > . » • V- 



r> 



00 VERGILI BVCOLIGA, HI. 

claudite ìam rivos, pueri: sat prata biberunt. 

che teme di perdere o le amarezze che lo afSigfi^ono ». — 111. Per com- 
prendere questo verso è d'uopo sapporre che Pelemone, prima di essere 
chiamato arbitro della gara sorta ^a Dameta e Menalca, fosse uscito di 
casa per fare aprire i canali d'irrigazione (rivos) e così dar acqua a'prati. 
Durante la gara questi sarebbero stati sufficientemente irrigati (sat prata 
biberunt); quindi Tordine dato da Palemone ai servi (ptteri, cfr. la nota 
ad Ecl., I, 45): claudite rivos. Servio notava come possibile un signi- 
ficato allegorico di questo passo : iam cantare desinite, satiati enim au- 
diendo sumus. Del resto il poeta ebbe presente GatuU., LXl, 227 seg. 
(ediz. Mùller): Ciattdite ostia, virgines:] Lusimus satis. Quanto a rivos, 
cfr. Georg., I, 106 e 289. 



» 



P. VERGILI MARONIS 

BVOOLIOA. 

EGLOGA IV. 



AROOBfBNTO. 

Il poetA comincia dichiarando di voler elevare a più nobili concetti la poesia pa- 
storale, perchò sia degna dell'alto grado che, come console^ riveste Aalnio PoUione. 
SoggioD^e che Analmente è giunta l'età predetta dalla Sibilla Cumana, da cai deve 
SToigersi una serie novella di secoli. L*età dell'oro riapparirà sulla terra, allorché 
sa questa sarà nato, sotto il consolato di Asinio roUlone, un fanciullo : con 
questo fanciullo ritornerà il vivere felice e Tabbondansa di o^ni bella cosa. Si ri- 
vedranno di nuovo i tempi del buon re Saturno, quando con lui gli uomini vivevano 
io una non mai turbata prosperità, quando con lui regnava sulla terra la giustisia, 
l'agnagliansa, la libertà comune. Di siffatto avvenimento esalta il poeta, il quale 
coQchiode IMnspirato suo «arme augurando che possa il fanciullo meritarsi co* vessi 
suoi l'amore de* genitori. 

Per ben comprendere il contenuto di quest'Ecloga, la quale fu oggetto di nume- 
rose dispute, ò mestieri osservare ansi tutto come fosse opinione degli Academici e 
degli Stoici^ che la vita del mondo^descrivesse un grande circolo, che chiamavasi 
coi nome di magni** anntM, diviso in dieci magni m&naes di non aguale durata, 
talora inferiore, talora saperiore a quella del secolo. Del resto nella loro sostanza 
con tale opinione concordavano le credense degli Etruschi riguardo la vita della 
loro nazione, alla quale assegnavano la durata di dieci genersBioni o saecula ; e i 
libri della storia etrusca davano indicasloni sul numero dei secoli che la loro na- 
zione già aveva vissuto e sulla durata di ciascun secolo in particolare. Ora i libri 
Sibillini avevano accolta cotesta dottrina delle dieci età dell'anno mondano, ma nello 
stesso tempo dovevano aver fuso insieme con essa la popolare leggenda delle quattro 
età del mondo, dell'oro, delPargento, del rame e del ferro, alle quali rispettivamente 
presiedettero Saturno, Giove, Nettuno e Plutone (cfr/ Servio a quest*Ecl. v . 10) : se 
non che, dividendo l'anno del mondo in dieci secoli, fecero coincidere il decimo colla 
fine dell'età ferrea, e al medesimo presiedere Apollo. Segni miracolosi dovevano 
anounsiare la fine di ogni secolo. E però, allorquando apparve una cometa durante 
i giuochi funebri che Ottaviano celebrava in onore di Cesare, doco dopo la morte 
di lui, l'aruspice Vulcasio disse che la cometa significava la fine del nono secolo 
ed il principio del. decimo (cfr. Servio ad Ecl. IX, m). 

Ora Virgilio, accettando questa predizione e spingendosi colla fantasia oltre il 
decimo secolo, immaginali ritorno deiretà aurea dopo la nascita d'un fanciullo sotto 11 
consolato di Asinio Pollione. E si deve presumere che 11 poeta facesse questo vati- 
cinio In UQ tempo che lo rendesse verosimile : perniò è assai probabile che. tenuto 
conto del tempo dal poeta impiegato nello scrivere le Bucoliche, quest'Ecioga sia 
stata composta neir anno della pace di Brindisi (714/40), colla quale si nutriva spe- 
ranza di mettere un fine alle turbolenze ed a^li orrori delle guerre civili, il cai pe- 
riodo costituiva qaindi l'età del ferro. Si aggiunga che Asinio Pollione fu assunto 
al consolato appunto in auest'anno : quindi verso cotesto tempo doveva succedere 
la nascita del fortunato fanciullo, con cui era per far ritorno Tetà dell'oro. Ma chi 
^ questo fanciullo 1 Le opinioni sono varie; ma la più verosimile è quella che si 
fonda sulla testimonianza di Asconio Pediano riferita da Servio (al v. Il di que- 
st'Eclo|j^a) con queste parole: quidam Saloninum Pollionis filium accipiunt, alii 
Asinium Qallum, fratrem Saloninif qui prius nalus est Pollipne consule deai- 
gnato. Atconius Pedianua a Gallo audisse te refert. hanc eelogam 
in honorem eius factam. E che realmente si tratti d'un figlio di Pollione, lo 
conferma Macrobio la <9a( , VII, 1. E veramente da una parte sarebbe stato strano 
che il poeta dedicasse a Pollione un carme in lode del figlio d'un altro padre, dal- 
l'altra l'intonazione dell'Ecloga mirabilmente si accorda coi l'ipotesi che vi si celebri 
Il Aglio del console Pollione. Ritengasi adunque come assai verosimile cho si tratta 

3ul di Asinio Gallo, il quale, allorché il poeta prese a scrivere qaest*Bcloga, già 
oveva esser nato : solo per poetica finzione ò considerato come per nascere. — Per 
altre indicazioni vedi l'Introauzione. 



62 TERGILI BVCOLICA, I?. 



Sìcelides Musae, paulo malora canamus ! 
non onoinis arbusta iuvant humilesque myricae; 
si canimus silvas, silvae sint consule dignae. 
Ultima Gumaei venit iam cartninis aetas; 
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. 5 

1. Sìcelides Musae. II poeta invoca le Muse della poesia pastorale, 
dalle quali inspirato si propone di innalzarsi a più alto soggetto (paulo 
maiora canamus), che non sia quello da lui svolto nelle altre Ecloghe. 
Egli vuole innalzare un canto che sia degno di Pollione e dell'alta ca- 
rica che riveste (cfr. v. 3), e conseguentemente egli deve abbandonare 
gli umili argomenti che gli fornisce la vita pastorale intesa nel suo vero 
essere. Ma tanto si eleva il poeta al di sopra di questa, che, come fu 
giustamente notato, nel suo carme non è rimasta traccia alcuna di natura 
bucolica. Leggi del resto l'Argomento dell'Ecloga. — Nota che la forma 
Sìcelides = Sìcilìenses sarebbe propriamente un sostantivo. Il poeta anche 
altrove adopera aggettivamente analoghi sostantivi. Cfr. Aen,^ V, ^ e 
Vili, 368: pelle Libystìdis ursae. Vedi ancora Ovid., Eeroid.^ Sappho 
Phaonì, 51 Sìcelides... puellae e 52 Sìcelis esse volo ; Met.^ V, 412: ii^t- 
celidas... nymphas^ ecc. L'espressione virgiliana corrisponde al ZixeXòv 
ILiéXo^ di Bione, 'Eiri6aXàjuiio<; 'AxiXXéwc; Kal Aiiibajietac;, v. 1 e al Zik€- 
XiKal ... Motom di Mosco, 111, 8, accennando alla patria della poesia bu- 
colica identificata con quella di Teocrito. Cfr. la nota ad Ecl.^ II, 21. — 
2. arbusta ha qui lo stesso significato che in Ecl.^ I, 39 di cui vedi la 
nota. — myricae. Questa pianta gr. ^upiio), è lo stesso che il tamarisco. 
Cfr. Plin., H, N,, XIU, 20, (37): myrìcen et Italia [fert]^ quam tama' 
ricen vocat; vedi poi Ècl.^ VI, 10; Vili, 54; X, 13. — 3. silvae^ 

come arbusta e myricae nel v. prec, designa la poesia pastorale che il 
poeta intende innalzare a tale altezza da essere degna di un console. Il 
senso è dunque: « questo mio carme pastorale corrisponda alla dignità 
del console Pollione », quanto al quale vedi Tlntroduzione. È oramai 
abbandonata l'opinione che con arbusta e myricae il poeta volesse in- 
dicare il genere più umile della poesia bucolica e con silvae il più 
elevato. -^ 4. Ultima... aetas, 1 ultima età, ossia la decima del così 
detto magnus annus del mondo, trascorsa la quale, giusta la predi* 
zione delia Sibilla Gumana (Cumaeum Carmen)^ ricominciando il mondo 
il suo giro, doveva tornare Tetà aurea, che era appunto la prima nella 
divisione dell'anno mondano ed alla quale presiedeva Saturno. Si noti 
poi che i^enìt è perfetto, col che il poeta ha voluto significare che que- 
sta decima età è già venuta da qualche tempo, per cui è imminente il 
ritorno della prima per effetto deirdiroKaTdaTaoK; mondana. Invece nel 
V. 5 e 6, in cui si accenna al ritorno della prima età, trovi il presente 
renascitur, redit. Per altri schiarimenti riguardo al contenuto di 
questo verso, vedi T Argomento dell'Ecloga. — 5. magnus,.. saeclo- 

rum... ordo è il m^agnus annus, di cui nel v. prec, che deve ricomin- 
ciare di nuovo da principio (ab ìntegro... renasciiur = ìncipit rursus ab 
ìnitìo) al termine oramai imminente della decima età, che il poeta dà 
già quasi come venuto. — ab ìntegro = rursus, denuo. Si usa più 



*.<^^. 



VERGILI BVCOLICA, IV. 63 

ìam redìt et Virgo, redeunt Saturnia regna ; 
iam nova progenies caelo demìttitor alto, 
tu modo nascenti puero, quo ferrea primum 
desinet ac toto surget gens aurea mundo^ 

spesso de int^m (cfr. Cic, ad Att, XIII, 27, e Verr^ Act., Il, lib. II, 56, 
139; e Liv., XXI, 8, 2) ed ea integro (Quintil., X, 1, 20 ; Svet, Aug^ 
16); ma ab ìntegro si legge anche m Cic, Yerr.^ Act. II, lib. 1, 56. 147: eo? 
integro però non sembra proprio dell'aurea latinità. Notisi ancora Tallunga- 
mento aella seconda sillaba in integro, come in Lucr., I, 927 e Oraz., 
Sat.^ II, 2, 113; 4, 54. — sa^clorum. Il vocabolo sasclum non è già sin- 
cope dì saeculum^ ma è forma più antica di questa. Il suffisso 'Clo si è 
sviluppato in 'Cuù) per via di vocale anaptitica. Gfr. tabula accanto a 
taUeis^ GIL, I, 200, 46, ecc. Del resto saeculum (dalla rad> se^ donde sero^ 
semen, etc.) significava originariamente « generazione » ed e, come qui, in 
tal senso spesso adoperato da Lucrezio. Gfr. I, 467; V, 339; II, 78; II, 1113; 
V, 788, 1167, 1236 ecc. Resta quindi chiaro che Tortografia di saeculum 
non è etimologica. Gfr. scaena^ gr. (yKT)vf|. — 6. Virgo è Astrea, 

figlia di Zeus e di Themis, ossia ACkii, la dea della giustizia. Gfr. la mia 
nota a Georg., II, 474. Vedi ancora Arat., Pliaen., 96-135. Il ritorno di 
Àstrea annunzia il rinnovamento dell'età dell'oro. Lo stesso è indicato 
da Saturnia regna, sul che cfr., oltre all'argomento delFEcloga, le mie 
note a Georg., II, 173 e 538. Notisi poi il movimento speciale del pen- 
siero determinato dalla ripetizione del verbo redire e cfr., a questo ri- 
guardo, sotto il V. 24 seg., X, 19; Aen., I, 709; VII, 75; 327; 516; Vili, 
91 seg.; X, 429. — 7. noìsa progenies è la gens aurea di cui parla 
al V. 9, ossia una nuova generazione d'uomini assai migliore dell'attuale. 
— caelo demittitur alto = dimnitus nascitur, come in greco OcóBev 
YevvaTCti. Gfr. Gic, De imp, Cn. Pompei, 14, 41; Gn. Pompeium sic 
aliquem.., de caelo delapsum intuentur; ad Quint. fr., I, 1, 2, 7: Graeci 
quidam sic te ita viventem intuebuntur, ut quendam.., de caelo divi- 
num hominem esse... delapsum putent. Rispetto all'ortografìa di caelum 
cfr. la nota ad Ecl., 1, 17. Qui aggiungiamo ancora che la testimonianza 
delle iscrizioni, ove leggesi anche Caelius, Caelia, Kailius, nomi eviden- 
temente derivati da caelum, oltre all'esplicita affermazione di Gicerone 
{Yerr., Act., II, lib. II, 52, 129) e di Plin. (E. N., II, 4, (3) ove è citata 
l'autorità di Varrone), che contrappongono caelum e caelare, mostra che 
coélum non è forma corretta. Gir. caesius, caerulus per *caesulus. — 
demittitur sta per descendit, venit e quindi, come s'è detto, nascitur. Gfr. 
Georg., II, 385: Troia gens missa « gente venuta da Troia ». — 8. na- 
scenti puero: chi sia questo fanciullo s'è dichiarato nell'Argomento del- 
TEcloga. Quanto al participio nascenti, ritengo col Sonntag (Beitr. zur 
Erklàr. Vergil. Ecl., p. 10) che non sia per nulla uguale a nascituro, 
ma corrisponda a cum. nascetur^ dum nascetur. Diana sarà benigna verso 
questo fanciullo (cfr. v. 10) nel suo nascere; quindi l'idea del nascere 
si concepisce dal poeta bensì come futura, ma rispetto all'idea del fa- 
vore, che la dea presterà al fanciullo, come contemporanea a questa: 
di qui il participio presente e l'espressione nascenti puero... fave; e 
però quo = quo nascente cioè cuius ortu. — ferrea [gens], Gfr. il 
V. seg. — 9. All'età del ferro succederà l'età aurea [vedi sopra]. 

Quanto a ^ens aurea cfr. Esiod., "Ep^., 109 seg. XpOaeov inèv irpib- 
TiOTtt Y^voq laepÓTTUJV àvepibirurv | àSàvaxoi Troifiaav: Teocr., Idyll., 
XU, 16: xP^^cioi"* fivòpeq: Georg., II, 538: aureus... Saturnus. — 



TERGILI BVOOLICA, IT. 

casta fove Lucina: tuns isaa regnai Apollo, 
teque adeo decus hoc sevi, te eonsule, inibii, 
PoUio, et inoipient mi^i procedere meBses: 
te duce, siqns manent scelerìs veatigia nostri, 

& proprio 
. , . . . i Lucan., 

x.) e della proaa poitctaBBÌca (efr. 
Plin-, ff. N., XIV. 22, (29); Fior., 11, 12, 1 [IV, 1, 1]; Giuatin., XXX, 
4, 9), — 10. Per Lucma devesi <jui intendere Oiana. Cfr. Oraz., 

Carm. Saee., 13 segg.: rite maturo$ apenre partus \ lenii, Ilithì/ia, tuere 
maire», | sitie tu Luana probas voeari \ seu Genitali^ | diva, producea 
subolem. Diana, divinitA italica, comapondente sU"Ap'rc|ii( 4à Greci, 
era una divinità celeste (Diana, poscia Diami da 'dium * cielo *, come 
oppitìanus da oppidum, paganus da pagus; cfr. CIL, V, 783, lavi Diano) 
e propriamente dea della luna, Noctiluca (cfr. Oraz,, Od., IV, fi, 38), 
aveva fra gli altri epiteti anche quello di Lucina, che ci richiama ap- 

Cunto l'idea della luce (da luci, cff. temperi, ruri). Come tale, esercitava 
t aua influenza sulla fecondità delle donne e favoriva i parti come obste- 
Irisc e proteggeva i nuovi nati. Per questo rispetto corrispondeva al- 
r'ApTefjn Xoxia o Xoxela o XuotZuivoi; o iJJKuXóxeiQ o noToffTÙKoq o aou>- 
blva dei Greci. Si noti però che l'epiteto di Lucina trovasi pur riferito a 
Giunone, cui ai attribuiva del pari la cura dei parti. Gir. Terenz., Andr., 
in, 1, 15 e Adelpli.. Ili, 4, 41: luna Lucina, fer opem. Catullo identifica 
Diana con luno Lucina. Cfr. il carme XXXIV, i3 seg.: Tu Lucina do- 
lenlibus I luno dieta puerperis, \ tu patena Trivia et notho es | dieta 
lumine Luna. — tuus... Apollo. Giusta le idee mitologiche dei Greci, 
accolte poi anche dai Romani, Apollo era fratello di 'ApTSfin. La loro 
madre era Latona. — iam regnai. Servio: ultimum saeoulum ostendit, 
quod Sibulla Solis etse tnemoravit. Vedi altri sohiarimenti nell'Argo- 
mento dell'Ecloga. — 11. adeo. Il Hand, Turseli,, I, 145 fa giueta- 
mente notare cne questa particella si unisco ai pronomi personali con 
quasi lo stesso senso di. autem. allorché il discorso passa da una persona 
ad un'altra su cui si vuol portare particolarmente l'attenzione. Onde ta- 
lora si traduce per «particolarmente, sopratutto >. Ctr. Georg., I, 24; 
Plaut., Rud., Ili, 4, 26 — decus hoc aevi, soggetto di inibii, sta per hoc 
a&num decorum. — inibii è usato in transitivamente per inciptet, eaior- 
divm habebit. Per solito questo verbo è intransitivo solo nei participiì: 
p. es-, iniens aelas, ineunte anno e sim. Perciò altri credette che il verso 
si dehba intendere cosi; pfter nascens decus hoc aevi inibii. U senso è: 
e è dal tuo consolalo, o Pollione, che daterà questa splendida età », — 
IS. magni menses alcuni intendono per illuiires, memorabiles. Val me- 
glio ritenerli nel significato di suddivisioni dell'annua magnus, sul quale 
vedi il V, 5 e l'Argomento dell'Ecloga. . — 13. te duce. Ponendo una 
forte interpunzione alla flne del verso prec, io riferisco te duce a si 
qua manent, eie. e non già ad incipient magni eie, come fanno alcuni, 
essendo chiaro che il pensiero espresso nei v. prec. non è altro in so- 
stanza che un'enunciazione in termini diversi del pensiero già manife. 
stato nel v. 11 ove abbiamo te eonsute, mentre nel v. 13 e i4 si passa 
ad un nuovo ordine di idee, la cui realizzazione ha per condizione il le 
duce = le auspice.' — sceleris vestigia nostri. Sì allude alle guerre ci- 
vili, di cui rimanevano ancora, dopo l'accordo di Brindisi, manifeste 



TERGILI BVCOLICA, IV. 65 

* 

inrita perpetua solvent formìdine terras. 

ille deum vitam accipiet, divisque videbìt 15 

permixtos heroas, et ìpse videbitur ìUis, 

pacatamque reget patriis vìrtutibus orbem. 

at tìbi prima, pner, nullo munuscula cultu 



traccìe neiratteggìamento minaccioso di Sesto Pompeo, che colla sua 
flotta infestava in vario modo l'Italia e intercettava le vettovaglie che vi 
erano dirette. Nò si può negare che non vi sia anche un'allusione 
airuccisione di Cesare, dopo la quale appunto riarsero le guerre civili. 
Cfr. Oraz.< Orf., I, 2, 29. 14. inrita va riferito a vestigia e vale 

ad nihilùm deducta. Cfr. Tac, Ann,, XIII, ii tot inrita facinora, — 
formidine ha qui, secondo alcuni, valore causativo : sarebbe la cosa stessa 
che produce formidinem. Cfr. Georg*, IV, 468: caligantem nigra for- 
midine lucum ; Aen., VII, 608 : religione sacrae et saevi formidine 
Martis ecc. È un voler troppo sottilizzare. — 15, 16. ille^ intendi 
puer. — deum vitam accipiet « vivrà della vita degli dei », come nel- 
iaurea età in cui gli uommi, a detta di Esiodo, ''EpY*^ 112 seg., d)(; T€ 
0€ol ò' Kujov, dKnftéa eufjiòv ^xovt€<;, | vóatpiv drcp re ttóvujv xal òiZOo<;. 
— divisque videbit [ permixtos heroas. Nell'età aurea gli dei amavano 
ti'ovarsi fra gli uommi, particolarmente fra gli eroi o semidei (Cfr. Esiod., 
'EpY-, 159 seg. : dvòpuùv fjpd)uiv Octov T^o<;, o1 xaXéovrai | fj|uii0€oi). Vedi 
a tal proposito CatulL, LXIV, 384 segg.; Ovid., Fast.^ I, 247 segg. — 
videbitur è qui passivo come in Aen., I, 396, 494; II, 591,624; Terenz., 
Andr.^ Ili, 5, 10; Cic, Acad, post.^ 1, 11,41; Acad. prior., 11,25,79; Ges. 
B. G., 1, 22, 3; Liv., IV, 40, 2; Ovid., Am., Ili, 11, 15, ecc. — illis è 
dativo di agente, come spesso anche in prosa. Cfr. Cic, Part orat.^ 5, 
15 : auditoris aures moderaniur oratori prudenti et provido ; de 0/f!, 

HI, 9, 38: honesta bonis viris, non occulta quaeruntur. Tale uso è 

soecialmente frequente col participio perfetto. Cifr. Ed,, I, 54. — 17. Si 
allude in questo verso alla parte importante cbe ebbe Àsinio Pollione 
nel metter pace tra Ottaviano ed Antonio e ristabilire nel mondo una 
quiete che speravasi duratura. — patriis virtutibus, ossia virtutibus patris 
PolUonis, va riferito a reget meglio che a pacatum. Qui mrtus ha il 
valore di meritum e quindi implica l'idea del consolato di cui era in 
quell'anno investito il padre e che il poeta augura al figlio, perchè possa 
in tale alta magistratura reggere i destini del mondo. Si nota qui l'uomo 
romano che vede il mondo come cosa dell'impero, del quale il consolato 
era ancora la più elevata ed ambita carica. — 18. at. La forza spe- 
ciale di questa particella sta in generale neiropporre che essa fa un'as- 
serzione contraria ad un'altra. Talora però la sua forza avversativa ap- 
pare indebolita, in quanto non afferma già il contrario, ma solo un pen- 
siero che si contrappone al precedente ; altra volta poi non designa altro 
che il trapasso ad un nuovo ordine di idee ed è un semplice termine di 
transizione, come in questo verso, ove però si osserva che, più che un 
passaggio a nuova idea, v'è ritorno all'argomento dell'età aurea, dal 
Quale il poeta ne' versi immediatamente precedenti aveva fatto come una 
uigressione non senza però un evidente legame coU'idea principale ; ciò 
che contribuisce a diminuire ancor più la forza avversativa dell'ai. -^ 
prima... munuscula., i primi segni dell'età aurea coincidenti coU'infanzia 
del fanciullo, e per conseguenza i primi e più semplici vantaggi o doni 

ST4MP1NI, Vergil, Bucol. & 



66 ' VERGILI BVCOLICA, IV. 

errantis hederas passim cum baccare tellus 

mixtaqae ridenti colocasia fundet acantho. 20 

ipsae lacte domum referent distenta capellae 

ubera, nec ma^nos metuent armenta leones. 

ipsa tibi blandos fìindent cunabula flores. 



di essa età. Gol crescere negli anni saranno maggiori i vantaggi e la fe- 
licità. Gfp. V. 26 segg. — nullo... cultu. Gfr. Esiod., "Ept., 117 seg.: 
Kapiròv ò' £<p€p€ ICciòuipoq dpoupa | aÙTOiidrii iroXXóv re kqI dcpOovov: 
Georg., 1, 125 segg. ;, Ovid., Met.. I, 101 segg. — 19. errantis. Gfr. 
Gic, de.Sen., 15, 52: [vitem] serpentem multiplici lapsu et erratico. 
L'edera, come la vite, si espande qua e là in una lussureggiante vege- 
tazione di rami e di foglie. Vedi ancora Gatull., LXI, 34 seg. : ut tenax 
hedera huc et huc \ arborem inplicat errans ; Oraz., Od., I, 36, 20: la- 
scivis (= libere vagantibus, Ritter) hederis. — baccare; il cod. Gudiano 
ha bacchare (cfr. il gr. ^dKKapic; e pdKxapi<;). Gfr. Plin., E. N., XXI, 6, 
(16): Baccar quoque radicis tantum odoratae est, a quibusdam nardum 
rusticum appeUatum, unguenta ex ea radice fieri solita ; 19, (77) : in 
medicinae usu aliqui ex nostris perpressam vocant. Non è ben certo a 
quale delle piànte nostre corrisponda. Forse è la gantelea o la digitale 
purpurea. — 20. colocasia n. plur. Esiste anche la forma femm. co- 
locasia, ae. Gfr. Plin., H. JV., XXI, 15,(52): In Aegypto nobilissima est 
colocasia, qitam cyamon aliqui vocant.,. seritur iam haec in Italia, — 
fundet. (Questo verbo si adopera frequentemente per indicare abbondante 

firoduzìone : equivale pertanto a magna copia suppeditabit. Gfr. Oeorp., 
I, 460 : fundit humo facilem victum iustissima tellus. Vedi anche Gic, 
N. /)., Il, 62, 156: quae [terra] cum maxima largitate fundit: Plin., 
E. N., XVII, 22, (35), 192: quo maturius [vites] putantur aptis diebus, 
eo plus materiae fundunt, ecc. — acantho, cfr. Ècl., Ili, 4a. Qui non 
sembra che si tratti dell'acanto menzionato in Georg., II, 119, che non 
è un'erba, ma un albero che cresceva in Egitto. Dicesi poi ridenti pel 
suo aspetto giocondo alla vista. Gfr. Lucr., II, 502: caudaque pavonum 
ridenti imbuta lepore ecc. Similmente Om., II., XIX, 362: yéXaaae òè 
iràaa irepl x^^v. — 21. ipsae, vale sponte sua, come sotto al v. 43. 
Gfr. Teocr., Idyll., XI, 12: òiLe<; ... aùxal àirnveov. Inoltre Ed., VII, 11; 
Georg., I, 127; II, 10, 251; III, 316; Aen., VII, 492 ecc. — distenta = 
turgentia. Gfr. Lucr., I, 258 seg.: lacteus umor \ uberibus manat di- 
stentisi Ed, VII, 3; IX, 31 ; Georg., 111,396; Oraz., Epod,, li, 46; Sat., 
I, 1, 110. Pel senso dell'intera frase cfr. Oraz., Epod., XVI, 49 seg.: 
illic iniussae veniunt ad m,ulctra capellae, \ refertque tenta grex amicus 
ubera. — 22. m.amfii leones. Gfr. Aen., VII, 18: mxignorum... lu- 

porum. Vedi del resto Ed., V, 60 seg.; Sen., Herc. Oet., 1056 segg.: 
iuxtaque impavidum pecus \ sedit Marmaricus leo; \ nec damale trepi- 
dant tupos. -^ 23. ipsa. Gfr. v. 21. — fundent. Gfr. v. 20. — cuna- 
buia. Mi sembra che questo vocabolo qui non significhi già lectuli, in 
quibus infantes iacere consueverunt, ma bensì loca, in qutbus nascuntur 
(Servio). — blandos.,. flores. Già Lucrezio aveva usato il vocabolo blandus 
per designare un odore attraente: II, 846 segg.: nec iaciunt ullum 
proprio de corpore odorem. | sicut amaracinx olandum stactaeque lì- 
quorem \ et nardi florem, nectar qui naribus halat. Gfr. anche Prop., 
V [IV], 6, 5: cùstum molle dat$ et blandi miài turis honores, — 



VERGILI BVCOLICA, 17. 67 

occidet 'et serpens, et fallai herba veneni 

occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum. 25 

at simal heroum laudes et facta parentis 

iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus: 

molli paulatim flavescet campus arista, 

incultisque rubens pendebit sentibus uva, 

et durae quercus sudabunt roscida mella. 30 



24. herba veneni, erba velenosa. Si noti il genitivo determinativo, o 
meglio di contenuto. Cfr. EcL, V, 68: crateras.., olivi; Aen., Ili, 67: 
sanguinis... pateras; TibuU., Ili, 5, 34: lactis pocula. Del resto è questa 
una costruzione comune pure alla lingua greca. — Quanto a fallax, 
cfr. Georg,, II, 152 : nec miseros fallunt aconita legentes, — 25. amo- 
mum. Cfr. la nota ad Ecl., HI, 89. L'epiteto poi di Assyrium vi vale 
semplicemente per « orientale ». Cfr. Lucan., Vili, 292 seg. : et polus As' 
syrias alter noctesque diesque | vertit. Cosi in Georg., Il, 172 con m- 
mlem... Indum si designano i popoli deirOriente in generale. Si noti 
poi il contrasto tra Assyrium e vulgo. Per effetto del ritorno dell'aurea 
età, Tamomo, sebbene pianta orientale e perciò molto ricercata, crescerà da 
per tutto. — 26. at è anche qui semplice termine di transizione. Gfr. la 
nota al v. 18. — simul = simul atque, è frequente in poesia e si usa 
anche in prosa. Gfr. Gic, Acad. prior.^ Il, 21,86; de Fin., Ili, 6, 21 ecc. 
Vedi del resto Aen., XI, 908; Lucr., VI, 1022; Graz., Od, 111, 4, 37; 
Ovid.y Fast,, I, 567. — heroum, laudes :» facta heroum laude digna. 
Cfr. Om., //., IX, 524 seg.: ti&v irpóoOev... xXéa àvòptìtiv | i^pibwv. Del 
resto quanto ad heroum cfr. anche la nota al v. 16. — parentis. Vera- 
mente il codice Romano ha parentum, lezione che è pur data^ per opera 
di seconda mano, dal Gudiano. Gredo preferibile la lezione parentis, che 
è pure confermata da Nonio (331, 32) e da Servio. Mi par chiaro che 
qui non si tratti d'altro che deirelogio di Poilione. Gfr. ael resto il v. 17. 
— 27. quae sit = qualis o quanta sit. — virtus, intendi heroum 
et parentis. — 28. Si é molto disputalo sul senso da darsi a molli 
riferito ad arista. Alcuni spiegano che si debba intendere la spica quando 
è tenera e molle prima ed anche mentre che comincia a biondeggiare ; 
altri interpreta m,olli per fiexibili; altri invece per levi, acutis acubus 
non obsita. Gredo preferibile quest'ultima interpretazione. Tra le mera- 
viglie dell'età aurea rinnovellata vi sarà pur quella che le spiche non 
avranno più bisogno di essere protette dall' avidità degli uccelli per mezzo 
di aguzze barbe, ma saranìio liscie e delicate al tatto. Anche la posizione 
dell'aggettivo molli in principio della frase, per attirare su di esso mag- 
giormente l'attenzione, conferisce a render più probabile la data interpre- 
tazione. Gfr. del jesto Gic, de Sen. 15, 51 : elicit herbescentem ... viridi- 
tatem^ quae... fundit frugem, spici ordine structam, et centra avium, 
minorum morsus munitur vallo aristarum. — flavescere è uno dei 
molti incoativi formati da Virgilio. Gfr. Georg., Ili, 504 crudescere; III, 
HI umescere; III, 366 indurescere; 11, 250 tentescere ecc. 29. in- 

cultis... sentibus cfr. Graz., Ep., I, 2, 45 : incultae... silvae. — rubens... 
uva... Gfr. Georg., II, 95: [vites'] purpureae; Graz., Epod.y II, 20: cer- 
tantem... uvam purpurae, — 80. durae quercus come in Eoi., VI, 28 
rigidas... quercus. Gfr. Ecl., Vili» 52 seg.; Aen.^ Vili, 315 ecc. — su- 



68 VERGILI BVCOLICA,' IV. 

pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudisi, 
quae temptare Thetim ratibus, quae cingere murìs 
oppida, quae iubeant telluri ìnfindere sulcos. 
alter erìt tum Tiphys, et altera quae vehat Argo 
delectos heroas; erunt etiam altera bella, 35 

dabunt. Per solito sudare nel signif. di umorem emittere^ stillare si 
unisce coU'ablativo. Gfr. Georg», I, 117; II, 118 (ove però si nota un'i- 
pallage); Lucrez., VI, 943 ecc. Hai pure l'accusativo m EcL, VIII, 53: 
pinguia corticibus sudent electra myricae ; Marzial., XIII, 101 : Hoc 
tibi Campani sudavit bacca Venafri \ unguentum ecc. — rosdda tnella 
propr. mella rore confecta opp. eco rore collecta. Di fatto credevano gli 
antichi che il miele fosse una rugiada. Quindi Georg., IV, 1 : aèrii tnellis 
caelestia dona. E più esplicitamente Plin., E. JV., XI, 12, (12): venit 
hoc [mei'] ex aere et maxime sideritm exortu... itaque tum prima aU' 
rora folta arborum melle rosdda inveniuntur. Sen.,£/7.,84,4: quibusdam 
...placet non faciendi mellis scientiam esse illis [apibus^y sed colUgendi, 
— Rispetto poi airidea del miele che stilla daHe piante neiraurea età 
cfr. Georg. ^\ 131: mellaque decussit floribus; Tibull., 1, 3, 45: ipsae 
mella dabant quercus; Ovid., Me^., 1, 112: flavaque de viridi stillabant 
ilice mella. — 31. priscae vestigia fraudis. Gfr, v. 13 sceleris ve- 

stigia nostri. Qui fraus sta per noxa, culpa e designa le colpevoli ten- 
denze dell'epoca a cui deve succedere Tetà dell'oro. — 32. temptare. 
Gfr. Ecl., I, 49. Traduci per « affrontare ». Gfr. Tac, Germ.^ 34: Ocea^ 
num... temptqvimus. Del resto Georg., II, 503: sollicitant aUi rem,is 
freta cacca. E chiaro che Thetim sta qui per mxire. Gfr. Marzial., X, 
30, 11. Similmente trovi Neptunus per mare o aqua in genere in Gewg.-^ 

IV, 29; Luci*. Il, 472; Ovid., Am., il, 16, 27 ecc. Quanto al fatto che 
nella età dell'oro fosse ignota la navigazione cfr. Georg., I, 134 segg. ; 
Tibull., I, 3, 37 segg.; Ovid., Met.^ I, 94 seg. — 83. 11 congiuntivo 
iubeant mostra che il relativo quae del v. prec. ha valore finale, equi- 
vale cioè ad ut ea. Quindi vestigia... quae... iubeant == eiusmodi ve- 
stigia... ut ea... iubeant. — telluri infindere sulcos = proscindere 
aratro = arare. Parimente Aen., V, 142: infindunt... sulcos (se. mari) 
per navigare. Inoltre è notevole la mancanza del soggetto dell'infinito 
dipendente da iubeo, costruzione tuttavia assai frequente in Virgilio. 
Gfr. Ed, VI, 85 seff.; Aen., I, 648; II, 3; III, 146, 472; V, 385, 773 (ove 
trovi ad un tempo la costruz. coU'inf. pass.); Vili, 646 seg. Del resto 
si trova anche in prosa. Gfr. Ces., B, Gir., V, 33, 3 (ediz. Holder) ; B. C, 
1, 61, 5; Gic, Cat., IH, 8, 20; Sali., lug., 46, 4 (altri legge Tinf. pass.) ecc. La 
ragione di tale soppressione è in generale l'indeterminatezza della per- 
sona delle persone a cui il comando si riferisce. Lo stesso si riscontra 
nell'uso del verbo veto. — 34. Tiphys, il pilota 4ella nave Argo, 
che, secondo la nota tradizione greca, sarebbe stata la prima a solcare 
le acque del mare. Gfr., quanto al congiuntivo vehat, la nota al v. pre- 
cedente. — 36. delectos heroas. Si accenna agli eroi che accompa- 
gnarono Giasone alla famosa conquista del vello d'oro. Il loro numero 
è vario secondo gli autori che scrissero di tale spedizione. Geito egli è 
che sono 28 quelli che sono da tutti gli antichi scrittori concordemente 
indicati come membri della spedizione. Gfr. del resto Enn., Medea exuh 

V. 255 segg. (ed. MùUer) : Argo, quia Argivi in ea delecti viri \ vedi pe- 



VERGILI BVCOLICA, IV. 69 

atqne iterum ad Troiam magnus mittetur AchìUes. 

bine, ubi iam firmata virum te fecerit aetas, 

cedet et ipse mari vector, nec naatica pinus 

mutabit merces : *omnis feret omnia tellus. 

non rastros patietur humus, non vinea falcem; 40 

robustus quoque iam tauris iuga solvet arator; 

nec varios discet mentiri lana colores, 

ipse sed in pratis aries iam suave rubenti 

murice, iam croceo mutabit veliera luto; 

tebantpellem inauratam arietis I Colchis, imperio regis PeUae^ per do- 
lum, Gfr. anche Teocr., IdylL, XIII, 16 segg. — 37. firmata... aetas. Si 
adopera non di rado firmus e firmare trattandosi delle forze del corpo. 
Gfr. Georg,, III, 209: vires. firmai; Gic, ad Fam., XI, 27, 1: nondum 
saiis firmo corpore ; Tusc, II, 15, 36 : corpora iuvenum firmari labore 
voluerunt Sopratatto cfr. questo verso con Si). It., Ili, 84: inde, ubi 
flore novo puaescet firmior aetas. — 88, 89. cedet... mari = re- 

Unquet mare* È il nostro « rinunziare al mare ». — et ipse... vector. Si 
noti che et ipse corrisponde al nostro « persino », non già che il pro- 
nome qui valga sponte come sopra al v. 21. — vector. Servio: tam is 
qui vehitur, quam qui vehit, dicitur, id est et nauta et mercator. Qui 
può valere tanto pel navigante di professione, quanto pel mercante. — 
nec nautica piniÀS mutabit merces. Vedi lo stesso pensiero nei passi ci- 
tati in fine della nota al v. 32. Per mnw5 = nam5 cfr. Àen., X, 206; 
CatuU., LXIV, 1; Graz., Od., I, 14, 11; Epod., XVI, 57; TibulL, I, 3, 
37; Ovid., Met., II, 185 ecc. Il senso del resto è « cesserà il commercio 
marittimo ». Anche Graz., Sai., I, 4, 29 ha la stessa frase : hic mutat 
merces « fa commercio ». ^ omnis feret omnia tellus, Gfr. Lucr., I, 
166 (di alberi) /ferre omnes omnia possent; Georg., II, 109. II senso 
è: « ogni terreno (nota Tuso proprio di omnis) darà qualsiasi prodotto ». 
- 40, 41. Gfr. GatuU. LXIV, 39, 41, 40 (ed. Baehrens): Non humilis 
curvis purgatur vinea rastris, | Non falx attenuat frondatorum arboris 
umbram, | Non glaebam prono convellit vomere taurus: Ovid., Met, I, 
101 seg. : ipsa quoqtce immunis rastroque intacta nec ullis \ saucia vo- 
meribus per se dabat omnia tellus. — rastros, strumento agricolo sul 
quale veai la mia nota a Georg., I, 94. Virgilio usa al singolare il neut. 
rastrum e al plur. solo rastri, orum m. Gfr. Georg., I, 164. Del resto 
anche in altri scrittori è più rara la forma rastra. Gfr. Varr., L. L., V, 
136 (Spengel*) : Rastri quibus dentatis penitus eradunt terram atque 
eruunt, a quo rutu rastri dicti. — falcem. Gatone R. jR., 11, 4, la 
chiama vineatica, e Golumella IV, 25, 1, vinitoria. — robustus... arator. 
Gfr. Lucr., V, 930 nec robustus erat curvi moderator aratri; VI, 1251 : 
et robttstus item curvi moderator aratri, — tauris è dativo. Gfr, Prop., 
II, 9, 39 : hanc mihi solvite vitam, = vitam, m,ihi eripite, mentre sol- 
vite me vita ^=: liberate me vita. Lo stesso dicasi di TibulL, II, 1, 7: 
vite vincla iugis, — 42. discet mentiri lana color es. Servio : cum 
enim tinguitur, mentitur alienum colorem. Gfr. Plin., H, N., XXXV, 
6, (29): viride quod Appianum vocatur et chrysocollam mentitur, — 

43. ipse, Gfr. v. 21. — suave rubenti, Gfr. la nota ad Ecl., Ili, 63. — 

44. murice; Servio: coclea.., unde tinguitur purpura. Perciò il suo si- 



l1*-j: 




70 VERGILI BVCOLICÀ, IV. 

sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos. 45 

4c talia saecla » suis dixerunt « currite » fusis 
concordes stabilì fatorum numine Parcae. 



lificato di pttrpura, color purpureus. Cfr. oer quest'ultimo Aen.^ IV, 
12: Tyrioqice ardebat murice laena; IX, ol4: vobis pietà croco et 
fulgenti murice vestis. Vedi del resto Plin., H. N., IX, ó3, (52), e 36, 
(60). — croceo... luto. Il lutum o luteum è una specie di erba palustre 
di color giallo -oro; quindi Tepiteto croceo da crocus, zafferano: è il mo- 
derno € guado ». Il senso adunque di questo e del v. prec. è: « il mon- 
tone che si pasce nelle praterie muterà fa bianchezza dei suo vello ora nel 
più fulgido color di porpora ora in un bel giallo d*oro ». Quanto alla 
costruzione del verbo mutare colFabl., cfr. Tac, Ann., II, 6: Rhenus... 
id quoque vocabulum m.utat Mosa flumine. È poi chiaro che veliera sta 
per cotorem vellerum. Gfr. Tibull., 1, 8, 43 seg.: coma tum mutatur, ut 
annos \ dissimulet viridi corticc tincta nucis. — 46. sandyx, Plin., 
H. N., XXXV, 6, (23) citando questo verso osserva: anim>adverto Ver- 
gilium existimasse herbam id esse ilio versu (segue la citazione). Se- 
condo il poeta adun(j[ue sarebbe un'erba di qualità tintorie. Per tale la 
ritenne anche Servio: herba, de qua sandicinus tinguitur color. 
D'altra parte con tal nome si designa una specie di color vermiglio o 
scarlatto artifìziale. — vestiet = tinget. — pascentis non può, secondo 
alcuni, venire da pasco, che è verbo transitivo, ma bensì da pascer, 
salvo che si voglia ammettere un'ellissi del pronome personale, ciò che 
non par necessario. Per altro Servio ad Aen., 1, 194 e II, 215, non ammette 
differenza di significato tra pasco e pascer (sebbene di ciò si possa molto 
dubitare; che p. es. l'espressione saltibus in vacuis pascunt in Georg. , 
III, 143 può avere piuttosto per soggetto magistri, pastores e sim., che non 
pecudes, armenta e sim.). Vedi del resto pel medesimo participio Ed., 
III, 96; V, 12, Georg, III, 467; Aen., VI, 199. — 46. Bisogna co- 

struire cosi: talia saecla currite, fusis suis \_Parcae'] dixerunt. È no- 
tevole Fuso del verbo currere coll'accusativo talia saecla ; cfr. Aen., Ili, 
191 : currim,us aequor (V, 235 : aequora curro) ; V, 862 : currit iter,,, 
aequore; Gic, de Off'., Ili, 10, 42: Qui stadium.,, currit. È tuttavia 
costruzione affatto eccezionale in prosa e può reputarsi un grecismo. Del 
resto {)uoi tradurre currite per votvite (Servio). Il poeta poi ha certamente 
avuto in mente il passo di Catullo LXIV, 326 seg.: Sed vos, quae fata 
sequuniur, \ currite ducentes subteomina, currite, fusi. — saecla ha 
qui il significato di « età ». Vedi del resto la nota al v. 5. — 47. sta- 
bili fatorum numine è ablativo di causa e va riferito a concordes. Le 
Parche sono concordi per l'immutabile decreto dei fati. Gfr. Cir., 125: 
concordes stabili firmarunt numine Parcae, Quindi stabili = immutabiii. 
Quanto a numine, si noti che il vocabolo (dalla rad. neu d'onde nu-o 
per 'neu-o gr. v€ù-uj; cfr. lupiter per *Dieupiter, 'Dioupiter) propria- 
mente significa « cenno^ scotimento del capo ». Di qui l'idea di « volontà, 
comando, potenza » e simili, nei quali significati è spessissimo adoperato 
dai poeti. Gfr. Aen,, ì, 133 ; li, 777 ; VI, 266; 368 ecc. Qui il noeta per- 
tanto considera i fati come aventi una volontà loro, cui è subordinata 
l'azione delle Parche. Del resto fatum è detto da Servio (ad Aen,, X, 628) 
Jovis vox; ma propriamente significa « ciò che è stato dichiarato » e 
però « predizione ». Quindi Gic, Cat., Ili, 4, 9: fatis Sibyllinis ; Div,, 
t, 44, 100 : ex fatis, quae Veientes scripta haberent ecc. Di qui il signi- 



VERGILI BYCOLICÀ, IV. 71 

adgredere o magnos — aderii iam tempus — honores, 
cara deum suboles, magnum lovìs incrementum ! 
aspìce conveio nutantem pondero mundum, 50 

terrasqae tractusque marìs caelumque profundum; 
aspìce venturo laetantur ut omnia saeclo! 

ficato di « destino > al cui concetto viene naturalmente ad associarsi l'idea 
di stabilità e di immutabilità. — Parcae. È dubbia Tetimologia di questo 
vocabolo. Alcuni fra gli antichi lo derivano da parcere^ fra cui Servio 
(ed. Lion) che così spiega : dictae Parcae Kax* àvTiqp^aaiv, quia nulli par- 
Qunt. Alcuni moderni, pur ritenendo quest*etimolo^a, spiegano : « quelle 
che risparmiano o devono risparmiare la vita ». Yarrone invece, secondo 
Geli., N, A., Ili, 16, 10, derivava Parcae da partus, ciò che è pure am- 
messo da qualche moderno che spiega Parcae = < dee del nascimento ». 
Ad altri pare più probabile accostare Parcae al gr. irópKO^ (da nXcK-?), 
« rete », per cui Parcae significherebbe « auelle che intrecciano », intendi 
« il filo del destino ». Gfr. Om., Odyss., vìi, 197 KXi&Oec;, < le filatrici » 
= Motpai, le divinità greche con cui furono identificate le Parche dei 
Romani, dalla rad. kXujO-, filare : inoltre KXujOUi era il nome speciale di 
una delle tre Motpai (le altre due erano Adxeoic; ed "Arpoiroq), al t€ 
PpoTotoi I Y€ivo|biévoiai òiÒoOaiv ^€iv dYaOóv t€ kokóv t€ (Esiod., Theog.^ 
218 seg.). Nella credenza degli antichi non solo presiedevano al nasci- 
mento, ma anche alla morte, e quindi non solo ci appaiono come divinità 
del destino, strettamente parlando, ma eziandio come divinità della vita 
umana, determinata dai punti estremi della nascita e della morte, che 
esse, come ci sono talora rappresentate dai monumenti, andavano filando 
(off. fusis del V. prec), sebbene questa fosse propriamente la funzione 
speciale di Glotho. — 48. adgredere... honores^ intendi ubi iam fir^ 
mata virum te fecerit aetas (v. 37). È chiaro che il poeta affretta nella 
sua immaginazione ravvicinarsi del tempo {aderii iam tempus) in cui 
il fortunato fanciullo, cresciuto negli anni, potrà applicarsi {aggredì) alle 
cariche più elevate {magnos honores). Il futuro aderit è abbastanza spie- 
gato dalla frase citata uhi... fecerit ecc. — 49. deum^ plurale pel 
sing. dei. In simil guisa in Aen., VI, 322, la Sibilla dice ad Enea, figlio di 
Venere : Anchisa generate^ deum certissima proles. — suboles è forma 
ortografica più corretta di soboles. È parola composta. Gfr. sub'oles {sub- 
olescere) con proles =pro^les (rad. a/, crescere). — lovis incrementum. 
Mettendo in relazione quest'espressione col v. 7, significa: nova proles, 
qua Jovis filiorum numerus augetur. Corrisponde del resto al greco 
6p^|Li|Lia Aloe;, òiOTp€(pr)^> Notisi poi la solennità speciale data al verso 
dalla chiusa con parola quadrisillaba per cui il verso diventa spondaico. 
Cfr. Georg., I, 221; Aen., II, 68; Vili, 167. Questo verso è ripetuto in 
Oir., 393. — 50. Senso: « vedi scuotersi per la gioia la massa im- 
mensa del mondo alFappressarsi dell'aurea età ». — conveoco.,. pan' 
dere = convewa mole = convexo caelo. Gfr. Lucr., V, 96 : ruet moles 
et machina mundi; Ovid., Met., I, 258 : mundi moles operosa laboret, 
^ 51. Il que di terrasque è qui reso lungo dall'arsi, vedi a questo 
proposito la mia nota a Georg., I, 153. Gfr. anche Ovid., Met., I, 193; 
V, 484, ecc. — tractus maris = mare longe tractum i, e. latum, am^- 
plum. Cfr. Aen., Ili, 138: corrupto caeli tractu; Graz., Od., IV, 2, 26 
seg.: in altos | nubium tractus. — caelum. Riguardo all'ortografia cfr. 
sopra la nota al v. 7. — profundum = altum, — 6S. Non ho scritto 






i 



72 YBSEGILI BVCOLICA, IV. 

mìhi tìim longae maneat pars idtima vìtae, 
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta: 
non me carminibus vincet nec TUracius Orpheus, 55 
nec Linus, buie mater quamvis atque buie pater adsit, 



Unetentur, lezione del codice Palatino e del Gudiano. II Romano ha lae- 
tantur. La prima lezione sarebbe però più conforme alla sintassi deU^età 
classica. Il porre dopo espressioni analoghe ad aspice, come viden^ vi- 
detin, em, m guisa paratattica le proposizioni interrogative indirette col 
verbo airindicativo e veramente proprio dei comici dell'età preclassica. 
Gfr. Plaut., Most, V, 2, 50; Trin., II, 4, 135; Ter., Eun. 11,2, 6 seg. ecc. Ad 
ogni modo non si può negare la predilezione del poeta per quest'ultima 
costruzione. Gfr. Ed., V, 6 seg.; Georg. <, I, 57 seg. (ove per altro il cod. 
Mediceo ha mittat) ; VI, 779 seg. ; Vili, 190 segg. Talora sopprime Vut. 
Gfr. Ecl.^ I, 66 : aspice, aratra iugo referunt suspensa iuvenci. Hai in- 
vece il congiuntivo in Georg,, III, 250; Aen., VIII, 385. Quanto a saeclo 
cfr. la nota al v. 5. — 53. Il poeta esprime qui con analogo movi- 
mento un pensiero opposto a quello di Esiodo, *EpT-> 174 seg.: jni^KéT* 
^ireiT* C&<p€iXov èydj TrejATrTotoi fiCTelvai | àvòpdoiv, àXX* f^ irpóae€ eavtìv 
f\ ^iT€iTa T€véa9ai. — tum è la lezione di tutti i principali codici, tra 
cui il Palatino, il Romano ed il Gudiano. Altri legge tam, colla quale 
lezione bisognerebbe ammettere una forte ellissi : tam longae ut ea tem- 
pora videre possim. — È vero che in luogo di longae il cod. Palatino 
dà longe. Ma fu osservato che quest'avverbio non può avere valore 
temporale. Gfr. Hand., Tursell., Ili, 547. Quanto poi all'espressione lon- 
gae.,. pars ultima vitae, cfr. Ovid., Met, VI, 675 seg.: longaeque extrema 
senectae \ tempora. — 64. spiritus è voce spesso usata per indicare 
l'estro poetico. Gfr. Ora^. Od., IV, 6, 29; Prop., IV [III], 16 [17 J, 40, ecc.— 
et. È posposto a spiritus, Gfr. la nota ad Ed.. 1, 34. — sat erit coU'inf. è un 
grecismo frequente nei poeti latini. Sull'uso dell'infinitivo in dipendenza 
da aggettivi, in luogo del gerundio con ad, o il dativo del gerundio o Vut 
o il qui col cong. cfr. Draeger, Hist. Synt, IP, p. 371 segp. Vedi anche 
la nota ad Ed., V, 1. — dicere. Gfr. la nota ad Ed., III, 55. — 55-57. Os- 
servisi l'impiego di non... nec. nec e cfr. la nota ad Ed., V, 25 seg. 
*- vincet, meglio che vincat, che era la prima lezione del cod. Palatino. 
— huic. huic in luogo di huic... illi oppure alteri... alteri. La stessa 
licenza trovi in Georg., IV, 84 s^.; Aen., VII, 473 seg.; 506 seg.; Vili, 
357 ; IX, 572 ; X, 9 se^. ; Xll, 510 seg. — adsit. Questo verbo è spesso 
usato per accennare l'aiuto che presta la divinità colla sua presenza. È 
particolarmente usato dai poeti nelle invocazioni. Gfr. Georg. , I, 18; 
Aen., I, 734; III, 116; 395; IV, 578, ecc. — Quanto al qtuimiDis, si noti 
che questa particella esprime, come di regola, una ipotesi soggettiva, 
senza che vi sia unita Fidea della sua corrispondenza alla realtà. Puoi 
tradurla per 4 anche se, ancorché ». Del resto Orfeo e Lino furono due 
dei principali e più antichi poeti delia Grecia, le cui figure ondeggiano 
tra il mito e la storia. Orfeo era nativo della Tracia e figlio di Apollo 
(altri lo fa nato da Eagro) e della Musa Galliope; Lino era fratello di 
Orfeo, ma nativo della Beozia. Sono entrambi personificazioni del canto 
di cui rappresentano in vario modo la sublime potenza. -^ Orphei è 
spondeo. Gfr. il greco 'OpqpcT. Vedi anche Georg., IV, 545; 553. — Cai- 
Uopea dal greco KaXXioiccia, nome anche usato da Ovid., Fast.^ V, 80 ; 



VEROILI BVGOLICA, IV. 73* 

Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo. 

Pan etìam Arcadia naecum si iudiee certet, 

Pan etiam Arcadia dicat se indice victum. 

incipe, parve puer, risu cognoscere matrem: 60 

matri longa decem tnlerunt fastidia naenses. 

incipe, parve puer: cui non risere parentes, 

nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est. 

Prop., I, 2, 28, per Calliope (KaXXioirri). ^ 68, 59. Pan. Gfr. la nota 
ad ml,^ II, 32. Essendo Pane divinità nazionale degli Arcadi, il giudizio 
di qu^ti, che proclamano la vittoria del poeta in gara con quel dio, as- 
sume importanza e solennità maggiore. — Si noti poi Fuso del presente 
in entrambe le proposizioni del periodo ipotetico si certet... dicati volen- 
dosi esprimere una posssibilità. — 60. La spiegazione più accettabile 

di questo verso è stata data da Servio (cfr. gli Scolii Bem.): sicut 

maiores se sermone cognoscunt, ita infantes parentes risu se indicant 

agnoscere. ergo hoc aicit: incipe parentibus arridere ut et ipsi 

tibi arrideant. Il senso è adunque : « comincia a mostrare alla madre, 
sorrìdendole, che la conosci » e non già, come fu da parecchi proposto: 
€ comincia a conoscere tua madre al suo sorriso ». Quest*ultima spiega- 
zione toglierebbe ogni legame tra questo e il verso seg., mentre colla 
Srìma SI mette innanzi il dolce compenso morale che trae la madre, 
opo tanto soffirire, dal sorriso della sua tenera creatura che dimostra di 
conoscerla. — 61. deceni ... menses è sogg. di iulerunt. Noi avremmo 
detto nove mesi. Ma in latino (come osserva lo Spengel a Ter., Adelph., 
691: menses abierunt decem) si comprendeva nel conto anche il numero 
sino al quale si contava. Cfr. del resto le nostre espressioni : « otto 
giorni, quindici giorni ». — tulerunt. Si noti la brevità della 
penultima sillaba. Luciano Mùller, De re met, p. 365, osserva che nella 
poesia scenica e nella poesia popolare era ancìpite la misura di -erunt. 
Tale ci appare in Lucrezio ed in Virgilio. Gfr. Lucr., V, 193; 875, ecc.; 
Georg,, II, 129; III, 283; Aen , II, 774; III, 48; 681; X, 334. Vedi anche 
Oraz., Epist, I, 4, 7; Sat, 1, 10, 45. — 63, 63. Il primo verso ha 

dato molto a pensare agli interpreti, per via di un passo di Quintiliano 
(IX, 3, 8) che ne riporta la seconda parte in modo affatto diverso dalla 
lezione dei codici virgiliani. La Igiene di Quintiliano è qui non risere 
parentes (il Bonnell a parentes ha sostituito parenti), che egli intende 
per ex illis, qui non risere per ispiegare il singolare hunc del v. seg. 
il senso sarebbe in tal caso ^ « chi è fra quelli, i quali non han sorriso 
alla madre (o ai genitori, se si legge parentes. Gfr. Plaut., Capt., Ili, 1, 21: 
Neque me rident per arrident mihi), non è reputato degno ecc. ». Gerto 
il senso corrisponderebbe esattamente alla spiegazione che abbiamo dato 
del V. 60 ; ma e la durezza e contorsione della frase, e raccordo dei co- 
dici su una lezione afEatto diversa, ci dissuadono dall* accogliere la le- 
zione di Quintiliano^ non sempre esatto nelle sue citazioni. Preferisco 
leggere con Servio e coi codici: cui non risere parentes, ritenendo r^ 
sere per arHsere. Gfr. Avien., Doscr. 1121 e sopra al v. 60: risu. Senso: 
< colui che non fece sorridere gli autori de' suoi giorni ». Il sorriso del 
bambino che riconosce i geniton provoca a sua volta il sorriso loro. Gfr. 
la spiegazione di Servio citata sopra al v. 60. — nec deus hunc ecc. 



74 TEEGUJ BTCOLICA, IT." 

Virgilio vuol dire che chi non seppe far sorrìdere gli autori de' suoi 
giorni non è mai stato ammesso alla tnen«a d^li dei, né al letto d'una 
dea, con allusione alla legenda di Efesto (il Volcanus dei Romani), se- 
coDdo Servio e gli Scolii Bernesi. Essendo deforme e mal vieto dalla 
madre Era (Giunone), fu precipitato da Zeus (Giove) giù dal cielo uel- 
risola di Lemno, e Atena (Minerva) non lo volle avere per isposo. Ma 
a me pare ohe miesta spiegazione non regga. Anzi tutto, se Efesto fu 
precipitato dall'Olimpo, vi fu poi riammesso, e d'altra parte è noto che 
nell'Iliade Charis è detta sua moglie (XVIII, 332 seg. : Xdpi^ Xiirapo- 
Kp^Sejivoq, I KoXfi, T^v tintine nepiicXuTi^ 'Ampi-fui'ieiO, come m Ewodo 
Aglaia (Theog., 945 seg: 'Arl^aTlv &' "HqjoiOTO; lÌTaKXuTÒ^ d^Ipl'rv^«^ | 
óitXoTdtnv XaplTunr fiaXepfiv noifiaaT* Skoitw) e nell'Odissea Afrodite 

(Vili, 266 segg.). lo eredo invece ' " 

condizioni necessarie perchè un uon 
assunto in cielo, di essere ammesto ali 
una dea (cfr. Georg., 1, 31 e la mia 1 
sarii alti meriti (cfr, ciò che dice C 
Ercole, dì Augusto, di Bacco e di '. 
tele scopo, se J'uomo non ha amato et 
dai genitori. È un tratto che rivela 
una delle caratteristiche dell' immorl 
risere e dignata (est) come perfetti 
sito la mia nota a Georg., I, 49. 



P. VERGILI MARONIS 



BUCOLICA. 



EGLOGA V. 



ARGOMENTO. 

Due pastori, Menalca e Mopso, s'invitano reciprocamente a dimostrare la propria 
valentia nel canto. Si recano in un antro ombroso (vv. 1-19). Mopso canta pateti- 
camente la morte del pastore Dafni, spento nel flore della sua gioventù (v. 20-44). 
Menalca, dopo di aver rivolto a Mopso parole di encomio, cui risponde Mopso 
(vv. 45-55), canta alta sua volta Tapoteosi di Dafni (vv. 50-80). I due pastori si la- 
sciano dopo essersi reciprocamente regalati (vv. 81-90). 

In quest'Ecloga si ha una specie di carìnen amoebaeum : se non che i due pa- 
stori non si alternano nel canto esponendo via via, come in brevi strofette, pen- 
sieri e sentimenti sempre differenli (cfr. Ecl. Ili); ma invece cantano Tuno dopo 
Taltro per esteso sul medesimo soggetto, Mopso in un aspetto, Menalca in un altro. 
È evidente ohe il poeta ha avuto sott'ocohio particolarmente Tldillio 1 di Teocrito 
(cfr. anche Idill., VII, 73 segg.) : ma che abbia voluto, sotto il velo d'un*allegoria, 
deplorare la morte immatura di 0. Qiulio Cesare e celebrarne Tapoteosi, non si può 
provare con validi argomenti ; come non si può determinare con precisione il tempo 
nel quale quest'Ecloga fu scritta. — Vedi del resto Tlntroduzione. 



76 VERGILI BVCOLICA, v! 



EGLOGA V. 



Menalcas. Mopsvs. 



Menalo As. 



Car non, Mopse, boni quoniam convenimas ambo, 
tu calamos inflare levis, ego dicere versus, 
hic corylis mixtas inter consedimus ulmos? 

Mopsvs. 

Tu maior; tibi me est aequum parere, Menalca, 

sive sub incertas Zephyris motantibus umbras, 5 

sive antro potius succedimus. aspice, ut antrum 

1, 2. boni va congiunto coli' inf. inflare. Questa oostrozione di un ag- 
gettivo con un infinito (della quale si è detto anche ad Ech^ IV, 54), 
ristretta a pochissimi casi nel i>eriodo anteclassico, diventa assai frequente, 
sotto r influsso greco, in Virgilio ed in Orazio, e si allarga al punto da 
penetrare anche nella prosa dell*età posteriore. Esempi di sifiatti aggettivi 
sono dociUs (Oraz., Ep., I, 2, 64), indocilis (Oraz., 0(2., 1, 1, 18), nescius 
{Georg., II, 467; IV, 470; Aen., X, 502; X;i, 527; Oraz., Od., I, 6, 6; IV, 
6, 18; Sat, li, 3, HO), peritus (Ecl., X, 32), prudens (Oraz., Epod., XVII, 
47), ecc. Quanto a bonus, cfr. Val. FI., I, 438: tu medios gladio bonus ire 
per hostes; Sii. It., XIV, 453 seg.: bonus ille per artem \ crudo luctari 
pelago. Cfr. del resto Teocr., Idyll., Vili, 4 : à^cpiu oupfaèev òcòaiifiévui, 
d^<pui d€(Ò€tv ; ed Ecl., VII, 5 : et cantare pares et respondere parati. 

— calamos... levis, la sam^ogna formata ai sottili canne. Vedi le note 
ad Ech, II, 36; I, 2. Alcuni riferiscono levis a versus, ciò che già Servio 
disapprovava. — dicere sta qui per canere. Cfr. la nota ad Ecl., Ili, 55. 

— à. corylis, dat. dip. da mixtas. Cfr. del resto Ecl., I, 14. L^ordine 
delle parole è inter ulmos mixtas corylis. Ho poi ritenuto la lezione 
consedimus coi migliori manoscritti. Altri legge considimus. 

4. maior, sottint. natu. Cfr. Oraz., Od., 1 V, 14, 14 ; A. P., 366 ; Ces.^ 
B. C, III, 108, 3; Svet., Auff., 17, ecc. — 6, 6. Si noti la costruzione di 
succedimus colla preposiziohe ripetuta (sub incertas,.. umbras) e poscia 
col dativo (antro). Altrove hai pur sempre il dativo in Virgilio. Gfr. 
Georg., Ili, 418; 464; Aen., I, 627; II, 478; VII, 214; 501; VIII, 123, ecc. 
Fu notato che Virgilio coi verbi composti non suole generalmente ripe- 
tere la prej^sizione, salvo con certi composti di ab, ad, ex, m, di coi alcuni 
sono da lui anche congiunti col dativo. — incertas... umbras, immagine 
bellissima per designare il tremolio dell'ombra corrispondente al fluttuare 
delle foglie scosse dal vento. Gfr. Galpurn., Ecl., V, 101: tremulas non 
eoBCUtit Africus umbras; Rutil. Namaz., I, 284: pineaque extremis 



VERGILI BVCOLICA, V. 77 

sìlvestris rarìs sparsìt labmsca racemìs. 

Menalcas. 
Montibus in nostrìs solus tibi certet Amyntas. 

MOPSYS. 

Quid, si idem certet Phoebuin superare canendo? 

Menalcas. 
Incipe, Mopse, prìor, si quos aut.Pbyllidis ignes 10 

fluciuat umbra fretis, — motantibus: è questa la lezione dei mi- 
gliori manoscritti corrotta in mutantibus, come si le^ge in qualche co- 
dice ed edizione. Motare è frequentativo di movere ed è qui usato tran- 
sitivamente, sottintendendosi l'oggetto eas (umbras). — aspice ut. Gfr. la 
nota ad Ecl.^ IV, &. — 7. labrusca, gr. àYpid^ircXo?, è la vite selva- 
tica. Gfr. Plin., B. N,, XIV, 16,(18); XXIll, 1,(14). — raris sparsit ... 
racemis. Hai qui il verbo spargere nel senso e colla costruzione di ob' 
ducere^ circumvestire. Gfr. sotto al v. 40; Ecl., II, 41; IX, 19 seg.; Aen.^ 
iV, 584; VII, 191. L'espressione adunque corrisponde a sparsis obduxit 
racemis. 

8. Hbi certet. Come il greco )Lid)C€a6ai, si adoperano dai poeti i verbi 
cenare, luctari e pugnare col dativo della persona o della cosa. Tale 
grecismo s'incontra la prima volta in Catullo, LXIl, 64: noli pugnare 
duoìms. Altri esempi di certare trovi in Ecl., Vili, 55; Georq.^ U, 99; 
138; Graz., Od., II, 6, 15 seg.; Epod., XI, 18; Sai,, II, 5, 19 ecc. La lezione 
certet è data dal codice Palatino, dal Gudiano, da Servio, ecc. 11 codice 
Romano ed altri danno certat. Credono alcuni che a questa lezione siasi 
sostituita Taltra per via del certet del verso seg.; ma a me pare più con- 
veniente il congiuntivo. Menalca vuole esprimere un ^ suo giudizio come 
semplice opinione; di qui il cong. potenziale certet. È in ogni modo più 
(ielicato certet.^ che certat. — Amyntas, nome che, secondo Servio, sa- 
rebbe allegorico per indicare Cornifìcio. Questo nome del resto ricorre 
anche in Ed., II, 35 e 39. 

9. L'interpretazione migliore di onesto verso mi par la seguente: « c*è 
lorse da stupire che Aminta contènda a me la palma del canto, se è 
tanto presuntuoso da volerla disputare persino a Febo? ». Meno oppor- 
tuna mi pare quest'altra: « vi è tanta presunzione in lui a disputarmi il 
primato nel canto, quanta sarebbe a disputarlo a Febo stesso »; giacché 
Mopso, che accusa Àminta di presunzione, incorrerebbe anche alla sua 
volta in simile accusa, paragonandosi addirittura a Febo. Si noti che, 
sebbene Aminta sia indicato come un presuntuoso, tuttavia Mopso non 
afferma ^à la realtà della sua gara con Febo, ma solamente la mera pos- 
sibilità di essa; perciò il cong. certet. Questo verbo poi si costruisce qui 
coli 'infinito. Tale costruzione è frequentissima nei poeti di tutte le età e 
nei prosatori postclassici. Cfr. Enn., Ann., 1, 96 (Mùller) : currus ... per- 
vincere certant; XVII, 490: fluctus estollere certant; Lucr., V, 393; 
1121 seg.; VI, 509; 1245 seg. Altri esempi in Georg., II, 99 seg.; Aen., II, 
^; IV, 443; V, 194; VI, 178; IX, 519 seg.; 533; 557 seg.; X, 130. 

10, U. Gfr. Teocr., IdyU., 1, 19 segg. Questo passo insieme con Ecl.^ II, 






78 VERGILI BVCOLICA, V, 

aat Alconis habes laades aut iurgia Codri. 
ìncipe; pascentis servabit Tityrus haedos. 

MOPSYS. 

Immo haec, in vìridi nuper quae cortice fagi 
carmina descripsi et modulans' alterna notavi, 
experiar. tu deinde iubeto ut certet Amyntas. 15 

14 e III, 81 è ricordato da Ovid., Trista II, 537 seR.: Phyllidis hic idem 
teneraeque Amaryllidis ignes \ bucoUcis iuvenis luserat ante modis. — 
ignes = amores, Gfr. la nota ad Ecl.^ Ili, 66. Quanto a si quos.,. habes 
cfr. la nota ad Ecl., Ili, 52, ma osserva che qui non havvi intonazione | 
di disprezzo, come nel luogo citato. 11 senso è poi: € incomincia tu a can- 
tare, o Mopso, sia che oggetto del tuo canto siano ^li amori (di Fillide) 
le lodi (di Alcone) o le gare (di Codro ». — Pht/tlidis, nome di donna 
già messo innanzi in EcL, III, 76, e che ritorna in Ed., VII, 59. È il 
nome d'una pastorella immaginaria, né vi è qui alcuna allusione alla 
favola di Fillide amante di Demofoonte pel cui amore si uccise e fu con- 
vertita in mandorlo. — Alconis, secondo alcuni, come ò più probabile, 
è pure nome d'un pastore immaginario; secondo altri, sarebbe un artista 
statuario e cesellatore greco del quale è menzione in Culex^ 67 ; Ovìd., 
Met., XIII, 683; Plin., È. N., XXXI V, 14, (40), «ce. — iurgia Codri. Pare 
ai più che iurgia qui altro non significhi che le gare nel canto di cui hai 
un esempio in Ecl., Ili; ma è molto incerto se il nome Codrus, che ritorna 
in Ed., VII, 22 e 26, sia di personaggio reale o finto. V'ò chi crede che 
non sia altri che quel larbita di cui Orazio, Ep., I, 19, 15 seg. : rupit 
larbitam Timagenis aemula lingua, 1 dum studet urbanus tenditque 
disertus haberi, e che da Porfirione è cniamato anche col nome di Ck)raus 
e detto Maurus regione (ad Oraz., 1. e). In tal caso Ck>drus sarebbe 
stato corrotto in Cordus. Ma tale supposizione, per la quale Codro sa- 
rebbe da ritenersi come un uomo troppo volgare e non potrebbe più 
identificai'si col poeta lodato in Ed., VII, 22 seg., come v'è ragione di 
credere, deve ceaere il campo ad un'altra più credibile, cioè che o Codro 
sia un nome finto, oppure quel poeta menzionato nelle sue elegie da 
Valgio, come attesta Servio ad Ed., VII, 22 (ediz. Thilo)^ non potendo 
essere né il Codro ricordato da Marzial., II, 57, 4; III, 15, 1 e V, 26, 1, né 
il Cordo di Gioven., I, 2; né il Codro del medesimo. III, 203; 207. — 
12. pascentis, Cfr. la nota ad Ed., IV, 45. — Tityrus qui é un servo o 
un amico di Mopso. Gfr. del resto Teocr., Idyll., Ili, 1 seg.: rat bé jlioi 
oiIT£< I póOKOvrai kot* 6po<;, xal ó T{Tupo(; aùrà^ éXaOvei. Quanto a 
servabit = custodiet, cfr. Ed., HI, 75. 

18-16. Immo è qui nel suo vero e proprio senso di particella avversa- 
tiva. Mopso rettìfica il detto di Menalca e dichiara di cantare tutt'altra 
cosa, volendo provarsi (experiar) a recitare a guisa di canto continuo 
quello che aveva inciso parte per parte sulla corteccia di un faggio, 
adattando di mano in mano a ciascuna la sua misura musicale. E qui 
si osserva che carmina significa le diverse parti onde risulta l'intero 
canto, chiamato carmen al v. 45, come è pur chiamato al v. 81 (carmine) 
il canto di Menalca, le cui parti separate sono eziandio dette carmina 
al V. 55. — modulans alterna notavi ecc. Ciò significa che^ di mano 



VERGILI BYCOLICA, y. 79 

Menalcas. 

Lenta salii quantum pallenti cedit olivae, 
puniceis humilis quantum saliunca rosetis, 
iudìcio nostro tantum tibi cedit Amyntas. 

Mopsvs. 
Sed tu desine plura, puer; successimiìs antro. — 

in mano che Mopso incideva sul fa^io le varie parti del suo canto, ne 
componeva la musica col suono del flauto, alternando così le note musi- 
cali colla voce. Quindi alterna è qui in altro significato che in EcL^ III, 
59. — tu deinde iubeto ut certet Amyntas. è detto ironicamente. Nota 
la costruzione del verbo iubeo coìVut, che non è tanto insolita nella la- 
tinità, quanto comunemente si crede. Anzi tutto in Livio si trova pa- 
recchie volte iubeo col semplice congiuntivo (cfr. XXIV, 10, 4; XXX, 
19, 2; XXXII, 16, 9); inoltre è ffiusta Tosservazione di parecchi (cfr. 
Krebs, Antibarbarus^ 5* ediz., p. 637; nella 6^ ediz. lo Schmalz la sop- 
prime), che iubeo con ut contiene un*espressione di comando più forte ed 
energica che non colFacc. e Tinfinito. Gir. Cic, Act. II in Verr,^ lib. IV, 
12,28: Hic tibi in mentem non venit iubere^ut haec quoque referretf ecc; 
Liv., XXVIII, 36, 1 seg.: Magoni.,, nuntiatum ab darlhagine est, iubere 
senatum, ut classem... in Itàtiam traiceret ecc. Cfr. pure Svet., Tib., 22; 
Curz., V, 13, 19 e Vili, 5, 38. Perciò si adoperava iubeo ut volendosi 
indicare qualche deliberazione pubblica. Cfr. Gic, in Pis.^ 29, 72; Act. II 
in Verr., lib. II, 67, 161; de domo sua, 17, 44, e la rogazione di Q. Muoio 
in GeU., N. A., V, 19, 9. Per altri esempi in poesia cfr. Graz., Sat, I, 4, 
121 seg.: iubebat j ut facerem quid; Lucan., IX, 896: iussit ut immunes 
mixti serpentibus essent. Devesi tuttavia notare che il Palatino, il Gu- 
diano ed altri codici virgiliani ommettono.Tt^f. Data questa lezione, puoi 
confrontare Plaut., Most., 111,3,^: iute in urbem veniat; inoltre Liv.: 
XXIV, 10, 4 ; Tac, Ann., XIII, 15 (ove trovi anche il dativo dipendente 
da iubeo come in op. cit., XIII, 40), ecc. — deinde è bisillabo per sini- 
zesi, come sempre in Virgilio. 

16. Lenta. Gir. Ed, I, 25; III, 38. — pallenti ... olivae, Gfr. Ed, III, 
39; Ovid., Met., VI, 81: edere cum bacis fetum canentis olivae. — 
17. saliunca. Vedine la descrizione in Plin., È, N., XXI, 7 (20). E altri- 
menti chiamata nardo celtico o valeriana celtica. 

19. Io ritengo contro il Ribbeck, il Ladewig ed il Benoist, appoggiati 
ai codici Palatino, Romano e Gudiano, che questo verso debba mettersi 
in bocca a Mopso e non a Menalca. Vien naturale in bocca di Mopso, 
che per affettata modestia vuol troncare sulle labbra di Menalca le lodi 
che m di lui, e preferisce far parlare i fatti venendo senza indugio al suo 
canto: inoltre, come fu Mopso che mostrò Tantro a Menalca, cosi è più 
naturale che, giuntivi, sia egli che dica: successimus antro. Del resto, 
siccome finora ha parlato Menalca, come potrebbe egli dire a Mopso 
che non parli più oltre? — Quanto a successimus col dat., cfr. sopra la 
nota ai w. 5 e 6. In desine plura (cfr. Ed, IX, 66) non è necessario 
sottintendere dicere» Si trova anche desino colFacc. Gfr. Ecl., Vili, 61: 
iam desine, tibia, versus; Gic, ad Fam., VII, 1, 4: Ubenter mehercule 



'>^ 



/ 



80 VERGILI BVCOLICA, V. 

Exstinctum Nympbae crudeli funere Daphnìm 20 

flebant — vos coryli testes et flumina Nymphis — , 

cum complexa sui corpus miserabile nati 

atque deos atque astra vocat crudelia mater. 

non uUi pastos illis egere diebus 

frigida, Daphni, boves ad flumina ; nulla neque amnem 25 

libant quadrupes, nec graminis attigit herbam 



artem desinerem (il Wesenberg però sopprime artem); Sii., XII, 725: 
Titania desine bella, — 20. crudeli funere = acerba morte. Di fatto 
Dafni mpri nel fiore dell'età. Similmente Aen., IV, 308: moritura,., cru- 
deli funere Dido. Gfr. Aen.^ VI, 429: funere mersit acerbo, parlando di 
bambini morti. — 21. Nymphis è elativo. Senso: « voi, boschi di noc- 
cioli, voi, ruscelli, foste testimoni del dolore delle Ninfe >. — 23. L'uso 
di atque.,. atque per et,., et è raro e proprio della poesia. Gfr. Band, 
Tursell., I, 6lO seg. Vedi un esempio analogo in Catull., LXVIII, 1^: 
haec atque illa dies atque alia atque alia. Ma tanto nelV esempio vir- 
giliano quanto nel catufìiano non vi è forse una ragione speciale di a^ 
monia, voluta dal sentimento che si vuole esprimere, per sostituire àìVet 
V atque e dare cosi al verso un andamento più lento ed enfatico? Gfr. 
anche Tibull., II, 5, 73 seg.: atque tubas atque arma ferunt strepitantia 
caelo I audita; Sii., I, 93 seg. : hic, crine effuso, atque Eennaeae nu- 
mina Divae, \ atque Acheronta vocat Stygia cum, veste sacerdos. — 
astra vocat crudelia. È noto che gli antichi attribuivano agli astri una 
grande influenza sui destini degli uomini. È chiaro ouindi che vocat non 
istà qui per invocat ma per dicit. Gfr. Georg., IV, 356: te crudelem no- 
mine dictt. Lo stesso significato ha vocor in Terenz., Adelph., V,7,12 seg.: 
AESGH. Placet, I pater lepidissume. dem. Euge, iam lepidus vocor. 
Quanto poi alla forma sintattica flebant (v. 21) ,„cum„. vocat, cfr. Aen,, 

I, 507 segg.: iura dabat.., cum... videt; inoltre Aen,, II, 679 seg.; Ili, 
344 segg.; IV, 6 segg. ecc. — mater. Vuoisi che per la madre di Dafni, o^ 
bata del figlio, s'intenda allegoricamente Venere, la gran madre della eente 
Giulia, CUI gettava in lutto l'uccisione di Giulio Gesare. Gfr. Ecl., IX, 47. 
— 24. non ulli = nulli pastores. In prosa direbbesi nemo pastor ed 
anche nullus pastor. — pastos... egere. La disposizione delle parole segue 
l'ordine delle azioni. I pastori non menarono più in quei giorni al pa- 
scolo i loro greggi e poscia ad abbeverarsi. Gfr. Mosc, Idyll., Ili, 23 seg.: 
dipca h* èOTÌv fi(pujva, xal al pó€^, at ttotI xaOpoi^ | irXaobóiuievai, Todovxi, 
Kttl oÙK èeéXovTi véjuieaeai, per la morte di Bione. — 25, 26. fri- 
gida... flumina. Gfr. Ed., X, 42: gelidi fontes, — nulla ... nec ...nec 
corrisponde alla costruzione greca oòbeti; ... oOt€ ... oOt€. Gfr. Ecl., IV, 
55 seg.; Georg., II, 83 seg.; Aen., IX, 418 seg.; XI, 801 seg. — libami. 
11 verbo libare equivale ad ore leviier attingere. In questo senso si trova 
anche in prosa coiraggiunta di gustu, Gfr. Tac, Ann., XIII, 16 : libata 
gustu potto traditur Britannico, — yuadrupes è qui di genere femmi- 
nile. Essendo propriamente un aggettivo può impiegarsi in tutti e tre i 

f eneri secondo il sostantivo che si sottintende. Qui puoi sottintendere 
estia. Altri esempi di femminile hai in Gat., R. R., 102 (103): Si bovem, 
aut aliam quamvis quadrupedem serpens momorderit, e in Gic, N, D., 

II, 44, 114 (ove traduce Arato) : quadrupes ... vasta ienetur. Quanto al 



VERGILI BVCOLICA, Y. 81 

Daphni, tuam Foenos etiam ingemuisse leones 
interitum montesque feri silvaeque loquuntur. 
Daphnìs et Armenias curru subiungere tigrìs 
instituit, Daphnìs thiasos inducere Bacchi 30 

et foliis lentas intexere mollibus hastas. 
vitis ut arboribus decori est> ut vitibus uvae, 



neutro cfr. Plin., H, N., Vili, 25, (37); XI, 36, (42); Colum., XI, 2, 14 
e 33. — graminis.., herbam, i recenti e teneri germogli dell' erba, o 
anche semplicemente l'erba. Gfr. Georg., I, 134: frumenti.,, herbam; 
ancora Ovid., Met., X, 87 e Liv., I, 24, 5. Gfr. inoltre questo passo con 
Svet., Ckies., Si : Proximis diebtis equorum greges... comperii pertinacis- 
sime pabulo abstinere, parlando dei prodigi prenunzianti la morte di 
Cesare. — 27. Poenos è qui un epiteto ornans ed equivale ad Afros. 
Gfr. sotto Armenias... Hgris, e vedi anche la mia nota a Georg., 1, 120. 
Non si vuol già indicare che TAfrica pianse la morte di Dafni, che è 
evidente T imitazione di Teocr., Idylt.^ I, 71 seg.: Tfìvov jiiàv e<X)€C, 
Tfìvov X.ÙK01 UipùaavTO, | rnvov xd)^ òpufioto Xéwv àvéKXauac Oavóvra. 
— ingemuisse. Di rado questo verbo si costruisce coU'accusativo dell'og- 
getto (cfì*. Aen., IV, 692, ove però la lezione è dubbia quanto al caso; 
Staz., Teb^ IX, 2; Sen., Eerc, Oet., 1785; Val. Mass., V, 10, 2 ove altri 
trova il dat.): per solito si unisce al dat. o all'abi. — 28. loquuntur = fó- 
stantur. Gfr. C5c., de Dom. sua, 32, 86 : ut annales populi Romani... lo^ 
cuntur. Del resto feri equivale al nostro « selvaggi ». ^ 29. et ha qui il 
valore di etiam. Il poeta vuol dire che Dafni, oltre agli altri meriti verso 
Tagricoltura, che risultano per indiretto dagli effetti prodotti dalla sua 
morte (efir. v. 34 segg.), ebbe anche quello di promuovere la coltiva- 
zione della vite che, come è noto, si connetteva nell'antichità col culto 
di Bacco. Gfr. lo stupendo episodio delle feste di Bacco in Georg., lì, 
380 segg. — curru e dativo. Il dativo in ù dei temi in Wj che in origine 
non era altro che l'istrumentale, era la forma ordinaria dei tempi clas- 
sici; all'epoca dell'impero prevalse la forma in ut. — Armenias... sub- 
iungere iigris, allusione al carro tirato da ti^ri sul quale Bacco trionfò 
al suo ritorno dall'India dopo di averne soggiogato gli abitanti ed eretti 
i suoi altari. Quanto ad Armenias, si può riguardare o come un epi- 
teto ornans o come termine specifico adoperato in luogo del generico. 
Gfr. sopra al v. 27. — 30. Segue allusione al culto di Bacco. -— 

thiasos^ dal greco Oiaaoq (che propriamente significa una riunione di per- 
sone che con sacrifizi, danze e processioni rende onore ad una divi- 
nità), si adopera spesso ad indicare specialmente le danze e processioni 
bacchiche. — inducere non ìstà già per ducere (cfr. ducere choros) ma, 
come il greco etadYctv, significa <c introdurre, mettere in uso » e sim. — 
Bacchi. Tale è la lezione dei migliori codici. La lezione Bacche, accolta 
da parecchi, modificherebbe notevolmente il senso. Il noeta direbbe in 
tal caso^ non già che Dafni introdusse nella sua patria le danze bacchiche, 
^à esistenti, ma che le istituì egli pel primo in onore di Bacco {Baccho, 
dat.), il che non può stare. — 31. È descritto il tirso, gr. 6i3pao^, por- 
tato da Bacco e dal suo corteo e consistente in un bastone attorcigliato 
di pampini e di edera e terminante superiormente in un pinocchio. — 
Untas^ cfì*. sopra al v. 16. — mollibus, cfr. Ecl,, II, 72 e vedi anche 

Stampimi, Vergil. Bucol. 6 



-L . >■. 



i^ 



82 TERGILI BTCOLICA, V. 

ut gregìbus tauri, segetes ut pinguìbus arvìs, 

tu decus omne tuis. postquam te fata tulerunt, 

ìpsa Pales agros atque ipse reliquit Apollo. 35 

grandia saepe quibus mandavìmus hordea sulcis, 

infelii lolium et sterìles nascuntur avenae; 



Aen»<t VII, 390: molUs,,. thyrsos. Notisi inoltre la costrazione intesDere ali 
quid aUqua re e cfr. la mia nota a Georg, ^ li, ^1. — 32, 33. Gfr 
Tepcr., Idyll., Vili, 79 seg.: t^ bpui Tal 3dXavoi KÓafuoq, t^ ^oXiòi 
ju&Xa ' I T^ Poi b* à MÓaxot;, TCp puiKÓXip al 3óe^ aùrai Chiaro è che ar 
boribus qui sta per ulmis. Cfr. ^c^„ II, 70; III, 10; Georg. ^ 1,2; II, 89 
367 e le mie note ivi. — 34. tulerunt = abstulerunt, Cfr. Om., II. 
Il, 302: fxdpTupoi, oO^ jui^ Kf)p6q ì^av Oavdroio cpépouoai: Ecl.^ IX, 51 
Omnia feri aetas, animum quoque. — 35. Pales era presso i Ro- 
mani ad un tempo un dio ea una dea, sebbene la festa popolare detta 
Palilia o Parilia, che si celebrava il 21 aprile, fosse solo m onore della 
divinità femminile. Era la dea dei pastori. Cfr. Serv., a Georg., Ili, 1; 
Fest., p. 222 M.). Di fatto, secondo alcuni, il suo nome si connette con 
pasco j pa-stor = *pa-sC'tor: ma secondo altri e più verosimilmente con 
un tema *pali (cfr. il scr. pàlds) che significa « custode, guardiano » e 
sim. Le più antiche tradizioni italiche sono piene di allusioni ad una vita 
pastorale e nomade : quindi la divinità protettrice di quelle genti fu con- 
cepita come la dea dei pastori. — Apollo. Mentre Pales fu una divinità 
prettamente italica, il culto di Apollo fu essenzialmente greco. Egli era 
riguardato, fra molte altre attribuzioni, anche come protettore del be- 
stiame, attribuzione derivata parte dall'essere egli dio della bella stagione, 
in quanto che questa produce le piante necessarie alla nutrizione degli 
uomini e degli animali, parte dalla sua funzione di dio della salute e 
dell'infermità. Così Apollo fu anche una divinità dei pastori e come tale 
aveva molte denominazioni, come èmiari^ioq, ÒTrdujv iixn^wv, |LiaXÓ€K, Ttoi- 
)bivio<;, vójLAioi;, dpvoKÓiUTiq, PaXdSiot;, Tpàyioq. — 36. In questo e nei 
versi segg. sono indicate le tristi conseguenze dell'abbandonar che fecero 
i campi Pale ed Apollo, in seguito alla morte di Dafni. Intendi del resto 
còsi: in iis sulcis, quibus grandia hordea mandavimus. — hordea. 
Quanto a questo plurale cfr. la mia nota a Qeorg.^ I, 210. Aggiungi che 
secondo Servio (a Georg., 1. e): sane reprehensus VergiUus dicitur a 
Bavio et Maevio hoc versu hordea qui dixit super est ut tri" 
ti e a dicat, il quale verso però è attribuito da Cledonio a Cornificio 
Gallo. Cfr. Ribbeck, Proleg., p. 96 seg. ^ grandia. Cfr. Georg., 1, 195: 
grandior... fetus; Aen., IV, 405 seg. : grandia... frumenta, — 37. Questo 
verso è rìpetuto.in Georg., I, 154 ove però in luogo di nascuntur si ha 
la lezione dominantur che, contro l'autorità dei codici migliori, è data 
da qualche manoscritto anche per questo luogo. Quanto all'uso che Vir- 
gilio ha di ripetere interi versi con o senza mutazione, cfr. le mie note 
ad Ed., Ili, 47 e Georg., II, 472. — infelix = infecundum, che non 
serve punto al nutrimento. Altrove, Georg., II, 314 si trova infelix... 
oleaster. Similmente talora felix = fecundus. Cfr. Georg., II, 81 ; Aen., 
VI, 230; inoltre Paol. Diac. in Fest., p. 92 M.: Fé He e s arbores Cato 
dixit, quae fructum ferunt, infelices, quae non ferunt. Anzi è questo 
il significato originario del vocabolo che, come fecundus, fetus, femina^ 
filius (per felius) ecc., si rapporta alla rad. dhè, che significa « porre, 



J 



-^ 



VERGILI bvcou<:;a, V. 83 

prò molli viola, prò purpurea narcisso 

carduus et spinis surgit paliurus acutis. 

spargite humum foliis, inducite fontibus umbras, 40 

pastores — mandat fieri sibi talia Daphnis — 

et tumulum facite, et tumulo super addite Carmen: 

« Daphnis ego in silvis, bine usque ad sidera notus, 

formosi pecoris custos, formosior ipse». 



fare, produrre » e simili. Gfr. del resto Ovid., Fast.^ I, 691 seg.: et careant 
hliis oculos vUiantihus agri, \ nec slerilis culto surgat avena solo. — 
38. molli viola, « quae coloris teneritale sensum molliter afficit ». Del 
resto non di rado si usa mollis per gratus^ iucundus e sim., in relazione 
coi nof^tri sensi. Quindi Georg. ,\ 312: mollior aestas; I, 341: mollis' 
sima vina; Aen. Vili, 388: amplexu molli, Gfr. anche Ed,, I, 81 e la 
nota. — purpureo. Gfr. Plin., H,. N., XXI, 19, (75): Narcissi duo genera in 
usum medici recipiunty purpureo flore et alterum herhaceum; ma altrove, 
XXI, 5, (12): narcissumvocant. huius alterum genus flore candido, calyce 
purpureo. II verso è spondaico. — 89. Ctt. Georg. 1, 151 seg.: se^ 
gnisque horreret in arvis \ carduus. — paliurus, gr. iraXioupo^, specie 
di frutice spinoso. Gfr. Plin., H. N., XVI, 30, (53); XXIV, 13, (71). - 
40. spargite humum foliis ecc. Il poeta indica le onoranze funebri che 
si debbono a Dafni dai nastori, spargendo di foglie la terra ove deve sor- 
gere la sua tomba (v. 42) vicino ad una fonte e piantandovi pure alberi 
ombrosi. Similmente Oraz., Od., Ili, 18, 14, dice che in onore di Fauno 
spargit agrestis... silva frondis. Quanto alFuso antichissimo di piantare 
alberi presso le tombe, cfr. Om., //., VI, 419 seg.: i^b* èiri af\\x ^x^ev 
Tiepl bè iTTcXéa^ ècpuTcuaav | vOfxcpai òpeOTid&cq. Per la costruzione del 
verbo spargo cfr. sopra la nota al v. 7; per quella di inducite col dat. 
e Tace, cfr. Georg., I, 316: messorem induceret arvis; Oraz., Sat., I, 
5, 9 seg.: nox inducere terris | umbras... parabat; Fìm„B.N., XXXV, 

10, 36, (102): huic picturae quater colorem induxit ecc. Altrove Vir- 
gilio usa un'altra costruzione. Gfr. Ed., IX, 19 seg.: quis humum flo- 
rentibus herbis \ spargerei, aut viridi fontes induceret umbra? Quanto 
poi ad umbra nel senso di « pianta ombrosa », cfr. anche Georg., 1, 157 ; 

11, 297 ecc. — 41. m^andat fieri sibi si spiega generalmente per mandai 
sibi facienda, non avvertendo che non è classica la costruzione di man- 
dare colfacc. del gerundivo. La costruzione regolare invece è con ut o 
ne col congiunt. senza ut. Gfr. Schmalz in Krebs, Antib. alla voce 
mandare. — 42. carmen, un epitafìo in versi. (ìlfr. Aen., Ili, 287; 
Ovid., Met., II, 326; XIV, 442 ecc. — 43, 44. Gfr. Teocr., Idyll., I, 
120 seg.: AdtpvK; èydiv Òòe xfìvo^, ó rat; póa(; O&òe vo^eùujv, | Adtpvi^ 
ó Tvb(; TaOpujq kqI trópTia^ dù&e troTiaòuiv. — in silvis, cfr. EcL, II, 41. 
— hinc usque ad sidera notus. Gfr. Aen., I, 378 seg.: sum pius Aeneas.,. 
{faina super aethera notus, ed altresì Teocr., Idyll., VII, 93: èoeXd, xd 
^ou Kttl Zavòt; ènl Opóvov dToiTC q)djLia. — formosior ipse. In questa 
espressione si vede generalmente un'allusione a Giulio Gesare per la sua 
Wtà che si reputava un dono di Venere, da cui pretendeva discendere. 
È però certo cne « Gesare importava molto di parer beilo, al qual ri- 
guardo cfr. Svet., Caes., 45. Si noti ancora che per gli antichi la bel- 
lezza fisica costituiva un pregio sì grande, da farlo rilevare anche nelle 

Stampini, Vergil Bueol. 6* 



L 



84 TERGILI BVCOLICA, V. 



Menalo As. 



Tale tuum Carmen nobis, divine poeta, 45 

quale sopor fessis in gramine, quale per aestum 

dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo. 

nec calamis solum aequiperas, sed voce magistrum. 

fortunate puer, tu nunc eris alter ab ilio. 

nos tamen haec quocumque modo tibi nostra vicissim 50 

dicemus, Daphnimque tuum tollemus ad astra ; 

Daphnin ad astra feremus : amavit nos quoque Daphnis. 



iscrizioni. Gfr. Tiscr. di L. Cornelio Scipione Barbato, quoius forma vir- 
lutei parisuma fuit in GIL., I, 30. 

45, 46. Tale... quale = tam gratum est... quam. — tuum Carmen 
nobis. Ho mantenuto l'ordine delle parole, quale ci è dato dai codici Pa- 
latino, Bomano, Gndiano ed altri. — Carmen. Gfr. la nota al v. 14. — quale 
sopor. Gfr. la nota ad Ed., Ili, 80 ed inoltre Gic, de Off'., I, 4, 11 : Uom- 
mune.., est coniunctionis adpetitus ecc. — 47. aquae... rivo, espressione 
pleonastica frequente ne' poeti., Gfr. Ecl., Vili, 87; Lucr., Il, 30; Graz., Od., 
Ili, 16, 29 ecc. ^ restinauere. E notevole questo passaggio dal sostantivo 
(sopor, cfr. v. prec.) all'infinito adoperato sostantivamente come soggetto. 
Gfr. Georg., Ili, 179 seg.; Aen., Vii, 421 seg.; XI, 180 seg. ecc. Per 





soggetto quanto come oggetto. Gfr. Dràger, Hist. Synt., l\ p. 331 seg. 
^ 48. calamis. Gfr. Ed,, II, 32. — mag^istrum, intendi Dafni e non 



già un altro pastore qualunque da cui Mopso avrebbe imparato Parte del 
canto, come pretendono alcuni per sostenere che nella persona di Dafni 
è allegoricamente rappresentato Gesare, colla quale supposizione non po- 
trebbero più conciliarsi le parole del v. seg. tu nunc eris alter ab itlo, 
perchè sarebbe enorme paragonare a Gesare un umile pastore. — 49. alter 
ab ilio. Gfr. Hand^, Tursett., I, 43 : Yeteres scriptores ordinem, quo quis 
alterum excipit aut sequitur, et ipsam consequutionem hac praeposi- 
tione [a] eospresserunt. Seguono molti esempi fra cui Gic, Acad. post., 
], 12, 4o: quartus ab Arcesila /*m7;0raz., ^at, II, 3, 193: Aiax heros ab 
Achille secundus; Liv., VII, ì, 10: secundum a Romulo condìtorem. 
La prep. a equivale quindi a post. Gfr. del resto Teocr., Idyll., I, 3: 
jLi6Tà "ndva TÒ òcOrepov dOXov àrtoxafji. Il Ribbeck ha ritenuto spurio 
senza ragione questo verso. — 50. nostra^ intendi carmina. — vi' 
cissim, cfr. Ect., Ili, 28. — 51. dicemus, cfr. sopra al v. 2. — tuunii 
cioè tuo Carmine aelebratum o magistrum tuum, come è più verosi- 
mile. — tollemus ad astra =3 laudibus extollemus. Gfr. sopra al v. 43 
usque ad sidera notus; Ed., IX, 27-29: tuum nomen,.. sublime ferent 
aa sidera cycni. 
52. Leggo Daphnin e non Daphnim, seguendo una lezione adottata 



VERGILI BVCOLICA, V. 85 

MOPSTS. 

An quicquam nobis tali sit munere maìus? 

et puer ipse fuit cantari dignus, et ista 

ìam pridem Stìmichon laudavit carmina nobis. 55 

Menalcas. 

Candidus insuelum miratur limen Olympi 
sub pedibusqtie videt nubes et sidera Daphnis. 
ergo alacris silvas et celerà rura voluptas 
Panaque pastoresque tenet Dryadasque puellas. 



da parecchi, sebbene non confórme alla massima virgiliana di usare co- 
stantemente Tace, in im, non ritenendo io che il poeta abbia voluto sacri- 
ficare alla sua massima le ragioni del metro. Colla lezione da noi seguita 
si evita un bruttissimo iato. Gfr. EcL^ II, 1 e la mia nota. — amavit 
nos quoque Daphnis. In quest' espressione gli allegoristi pretendono ve- 
dere un'allusione ai benefizi fatti da Giulio Cesare alla Gallia Cisalpina! 
— 64. puer. Cosi è chiamato Dafni perchè rapito dalla morte in gio- 
vanissima età: puer è anche detto Menalca al v. 19, come Mopso al 
V. 49. — cantari dignus. Presso i poeti si trova non di rado l'aggettivo 
dignus usato personalmente coir infinito, specialmente passivo. Cfr. 
sotto al v. 89; Gatull., LXYIII, 131: concedere digna; Graz., Ep.^ I, 10, 
48: diana sequi; Od.^ Ili, 21, 6: moveri digna; inoltre Sat., I, 4, 3; 
25; 10, 72; A. P., 183; 283. Se ne trovano pure esempi in Tibullo, 
Ovidio ed altri poeti posteriori, non che in prosatori postclassici come 
Valerio Massimo, Seneca, Quintiliano, Plinio il Giovane ecc. È costru- 
zione modellata su quella deirdEio^ greco. — 66. Siimichon, nome 
di pastore. Qualche codice ed edizione dà la lezione Stimicon. 

66. Qui comincia la celebrazione dell'apoteosi di Dafni. — Candidus 
è epiteto dato spesso dai poeti a divinità od a uomini innalzati ad onori 
divini e significa « splendente d'insigne bellezza » e sim. Cfr. la nota ad 
Ed., II, 46. — 68. ergo esprìme qui la causa efficiente. Cfr. Hand, 
Tursell., 11,443: < Nam ergo jooniVwr, ubi ipsa intelligitur caussa: ob 
hanc causam, vel uhi sensus est : inde factum est, ut, qua ex re, qua de 
caussa ». Potresti tradurre per « quindi è che ». — alacris voluptas, è 
l'allegrezza che si manifesta esteriormente e non si può contenere. Si 
noti che alacer è sinonimo di vehemens: entrambi significano l'idea di 
vivacità molto grande, di movimento, di passione; ma il secondo agget- 
tivo vi aggiunge anche l'idea di ostilità. Traduci per € vivace ». — ce- 
tera rura, perchè rus è termine generico ed abbraccia e le selve e i 
pascoli. — 69. Pana. Gfr. la nota ad Ed, II, 32. — Dryadas. Fu 

notato che in c[uesto come in altri nomi simili Virgilio adopera costan- 
temente la desinenza greca as nel caso accus. plurale. Cfr. Ed., VI, 62: 
Phaetkontiadas ; Geora., I, 138: Pleiadas, Byadas ecc. Vedi del resto 
la nota a Georg., I, 11. In Ed., X, 62 il poeta per indicare le stesse 



L.^ -' 



86 VERGILI BVCOLICA, V. 

nec lupus insidias pecori, nec retia cervis 60 

ulla dolum meditantur; amat bonus otia Daphnis. 

ìpsi laetitia voces ad sidera iactant 

intonsi montes ; ìpsae ìam carmina rupes , 

ipsa sonant arbusta: «deus, deus ille, Menalca! ». 

sis bonus felixque tuìs! en quattuor aras: 65 

ecce duas tibì, Daphni, duas altaria Phoebo. 



ninfe usa il termine Hamadryades. — 60. Similmente Teocrito in 

Idyll.f XXIV, 85 seg., alludendo al tempo in cui Ercole sarà assunto 
in cielo, dice : « ^arai h^ toOt' fijLiap, ÓTrtivlKa veppòv èv eòv^ | Kopxa- 
póbuiv alveaOm Ibdjv XOko^ oòk èOcXi^oei. Gfr. del resto Georg., Ili, 
537 seg. — 61. meditantur ha qui un significato analogo a quello 

di cui s'è discorso ad Ed., I, 2, valendo per parante struunt e sim. — 
bonus. Gfr. sotto la nota al v. 65. — otia. Gfr. Ed., I, 6. — 62. ipsi 
vale qui etiam, adeo e sim., cioè il nostro « persino ». — 63, 64. in- 
tonsi = silvosi, incaedui (Servio). Similmente Aen., IX, 681 seg.: con- 
surgunt geminae ^uercus intonsaque caelo | attollunt capita, — carmina 
rupes... sonant, cioè edunt, canunt. Gfr. Oraz., Epod., IX, 5: sonante 
miostum iibiis Carmen ìyra; TibuU., 1, 3, 60: dulce sonant tenui gut- 
ture Carmen aves; Properz., Ili, 29 [II, 31], 16: Pythius in longa car- 
mina veste sonat. — arbusta. Gfr. la nota ad Ed., I, 39. — deus, deus 
ille, Menalca. Il vocativo Menalca fa parte della esclamazione entusiastica 
delle rupi e delle piante, che manifestano la loro gioia al poeta, il quale 
ne ripete le parole. Si vede quindi che il movimento del pensiero e ben 
diverso dal lucreziano (V, 8) deus ille fuit, deus, inclyte Memmi. — 
65. bonus ha qui, come sopra al v. 61, il significato di benignus. 
Gfr. Aen., XII, 646 seg.: vos o mihi manes \ este boni; inoltre Orazio, 
IV, 2, 38; 5, 1 ecc. — felix sta qui attivamente per qui facit felices, 
quindi propitius, come in Aen., I, 330: sis felix, nostrumque leves quae- 
cumque laborem. — en si unisce qui coli' accusativo^ come spesso in 
Plauto e Terenzio. Gicerone ne ha pure un esempio in Phil., V, 6, 15, 
se già non si debba leggere hem col Klotz. Gfr. del resto Dràger, Hist 
Synt., V, p. 398 seg. Virgilio usa il nom. in Aen., I, 461; IV, 997; V, 
639; 672; ma può anche vedersi un accusativo in Aen., Vili; 612. No- 
tiamo inoltre come nel v. seg. ad en si sostituisce ecce, esempio rarissimo, 
che fa riscontro ad un frammento della Frivolaria attribuita a Plauto 
{Plauti Fabb. deperditarum Fragmenta coli. F. Winter, p. 37; cfr. Varr.. 
L. L., VII, 58, ediz. Spengel*): Ubi rorarii estis? En sunt. Ubi sunt ac- 
censi ì Ecce (dove però il Winter sopprime en e legge adsunt). Vedi 
anche , Hand, Tursell., II, p. 367. — 66. ecce duas \aras\ tibi..., duas al 
taria. È questa la lezione dei migliori manoscritti. Ecco la spiegazione 
di Servio: feci,., aras quattuor: tibi, o Daphni, do duas, et duas aras 
Apollini, quae sint altaria. novimus enim, aras et diis esse superis 
et inferis consecratas, altaria vero esse supernorum tantum, deorum... 
quae nunc dat Apollini, quasi deo: Dapnnidi vero aras ponit: nani 
ticet eum dixerit deum, tamen mortalem, fuisse manifestum est. Vera- 
mente il poeta adoperò la prima volta ara in senso generico (en quat- 
tuor aras v. prec), poi in senso specifico colPapposizione di altaria. Ad 
ogni modo ara si dice, secondo Servio, ma non sempre, dellaltàre desti- 



VERGILI BVCOLICA, V. 87 

pocula bina novo spumantia lacte quotannis 

craterasque duo stataam tibi pinguis olivi, 

et multo in primis hilarans convivia Baccho, 

ante focum, si frìgus erit, si messis, in umbra, 70 

nato ad un eroe, mentre altare ò quello che è destinato ad una divinità 
superna. Tuttavìa Virgilio in Ecl.j l, ora dice ara (v. 7) ora aliarla (v. 43) 
laltare sul quale Titìro sacrifica ad Ottaviano, coll^ando il primo vo- 
cabolo coli idea di sacrificio sanguinoso, ed il secondo con Tidea del 
fuoco sacrificale. È falso q^aindi ciò che affermò taluno, che ara non 
si concini con offerte sanguinose, come lo prova anche Lucr., IV, 1228 
seg. : multo sanguine maesti \ consperguni aras adolentque aitarla 
donis; Tac, Ann.^ XIV, 30: cruore captivo adolere aras. , fas habebant, 
Gfr. anche Aen., II, 202 : taurum... mactabat ad aras^ ove aras riguarda 
Nettuno, divinità primaria. Del resto altare era propriamente la parte 
superiore (mensa) dell'ara che significa Taltare in genere, come eleva- 
zione, sulla quale parte superiore si bruciavano te offerte sacrificali. 
Gfr. Servio a questo luogo: alti aitarla eminentia ararum. ^^Phoebo. 
Anche qui s^è voluto trovare una conferma deiropinione che Virgilio in 
Dafni abbia cantato Cesare, data la coincidenza delle ferie pel natale 
di Oiulio Cesare (12 luglio) coi ludi Apollinares che duravano dal 6 al 
13 di luglio. Invece auesto raccostamento di Dafni e di Apollo si può 
benissimo spiegare col fatto, che Apollo fu anche una divinità dei pa- 
stori (cfr. la nota sopra al v. 35); che in seguito alla morte di Dafni 
è Apollo fra gli dei quello il q[uale con Pale abbandona la terra (v. cit.); 
che Apollo è dio del canto ed il più indicato fra gli dei per proteggere 
i cultori della poesia e della musica pastorale (cfr. EcL^ III, 62 seg.: Et 
me Phoebus amai: Phoebo sua semper apud me \ munera sunt^ e la 
mia nota). — 67. pocula bina, intendi due su ciascun* ara, mentre 

con craterasque duo (v. seg.) il poeta designa un cratere per ciascuna 
delle due are consacrate a Dafni. -^ novo.., lacte, latte fresco. Cfr. Ecl.y 
II, 22. Vedi inoltre Teocr., Idyll., V, 53 seg.: ataaib bk Kpr)Tr\pa }iéfav 
XeuKOto Y<&^<XKT0(; | xat^ Nù)iq)aK' oraatl» bè koI àbéo(; dXXov èXaiiu (cfr. 
anche i vv. 58 seg.). — 68. crateras acc. plur. alla greca. Cfr. la 
nota sopra al v. W. Propriamente il crater era un vaso in cui si mesco- 
lavano insieme (KCpdvvujuii) vino ed acqua, dal quale il coppiere (plncerna^ 
pociUator) prendeva di ^uel liquido così mescolato mediante una tazza 
(cyathus) con cui riempiva i bicchieri (pocula^ callces ecc.) passandoli 
a ciascun convitato a tavola. Ma talvolta serviva di recipiente per altri 
liquidi, come qui, per l'olio (cfr. Aen., VI, 225). — Quanto a duo^ ho se- 
guito col Ribbeck la lezione dei codici Romano e Palatino seguita da 
Servio {duo vetuste dixit, ut ambo: VI, 18: nam saepe seneoo.., 
ambo luserat: nam hodie hoc signi ficatu duos et ambos dicimus) 
e da altri. ~~ olivi t=2olei olivis egressi. Cfr. Lucr., II, 392; Oraz., 
Sat„ II, 4, 50 eoe. In questo senso è vocabolo poetico. Riguardo al ge- 
nitivo determinativo cfr. la nota ad Ecl.y IV, 24. — 69. multo... 
Baccho, Cfr. Georg.y II, 190 seg.: multoque fluentes \ sufficlet Baccho 
vitis. Del resto, come Ceres per frumento (cfr. Qeorg»y I, 297; Aen,, I, 
in ecc.), cosi frequentemente i poeti usano Bacchus per vino. Cfr. 
Qeorg,, I, 344; IV, 279 ecc.; Oraz., Od.y III, 16, 34 ecc. Si noti poi 
che tutto questo passo sino al v. 73 è un'imitazione di Teocr., Idyll.y 
VII, 63-72. — 70. si equivale qui a cum^ che leggesi più sotto 



88 VERGILI BVCOLICA, V. 

vìna novum fundam calathis Ariusia nectar. 
cantabunt mihi Damoetas et Lyctius Aegon; 
saltantis Satyros ìmitabitur Alphesiboeus. 
haec tibi semper erant, et cum sollemnia vota 
reddemus Nymphìs, et cum lustrabimus agros. 75 



(v. 74 seg. dove si determinano appunto le due feste, corrìspondepti a 
stagione diversa (frigus =s hiemps ; messis == aestas\ nelle quali Me- 
nalca farà ogni anno libazioni lietamente solenni a Dafni con vino squi- 
sitissimo (v. 71). Altri spiega si... si per sive,.. sive. Gfr. Plaut., (hpt., 
I, 2, 5: si foriSf si intus volent. Quanto a frigus^ cfr. EcL, II, 22. Il 
tempo designato da messis è spiegato da Georg., I, 313 seg.: vel cum 
ruit imbriferum ver^ 1 spicea iam campis cum messis innorruit ecc. 
Anche Plinio, B. N,, XXII, 13, (15). 36; XXIV, 14, (74) usa messis, ri^ 
spettivamente al plur. ed al sing., per indicare stagione. — 71. vina 
...Ariusia, vino, di Ariusia, regione sulla costa settentrionale dell'isola di 
Ghio, da cui si traeva il più squisito dei vini della Grecia. Ed è per af)- 
posizione chiamato novum nectar si per indicarne la impareggiabile squi- 
sitezza, come per designare che da poco tempo era conosciuto e gustato 
dai Romani alle loro mense. — calathis. Propriamente il calathus era 
un paniere di vimini di cui vedi la descrizione ad Eci,, II, 46 nota; ma 
collo stesso nome si indicava talvolta anche una tazza per liquidi, molto 
probabilmente cosi chiamata per la sua rassomiglianza nella forma al 
canestro suddetto. Gfr. Georg., 111,402 (per latte); Marzial. (ediz. Fried- 
lànder). Vili, 6, 16; IX, 59, 15; specialmente XIV, 107 (per vino). - 
72. mihiy sottint. sacra facienti, cioè mentre farò le solenni libazioni a 
Dafni. — Damoetas, Aegon, nomi di pastori. Il primo ricorre anche in 
Ecl., II, 37, 39 ed J^c^, III: il secondo in Ed., Ili, 2. — Lyctius, di Lyctus, 
importante città di Greta. Anche Idomeneo è detto Lyctius in Aen.,ll\, 
401. Gfr. Ovid.j Met., VII, 490: classis... Lydia = Cretensis. — 73. sal- 
tantis Satyros imitabiiur ^^ saltabit Satyrorum more. Gfr. Georg., I, 
350, ove è prescritto che l'agricoltore nelle feste di Gerere det motus 
incompositos et earmina dicat. Queste danze satiriche e questi canti 
erano pure e specialmente parte del culto bacchico (cfr. sotto al v. 79), 
col quale sono inseparabilmente legati i Satyri, che rappresentavano le 
potenze vitali della natura in tutta la loro pienezza e compaiono spesso 
in antichi monumenti come compagni di Bionysos o Bacco. Apparten- 
gono alla mitologia greca. Del resto ha importanza la nota di Servio a 
questo passo: sane ut in religione saltaretur, haec ratio est, quod nuUam 
maiores nostri partem corporis esse voluerunt, quae non sentirei relì- 
gionem: nam cantus ad animum, saltatio ad mobilitatem jpertinet cor- 
poris. — Alphesiboeus, altro nome di pastore, che ricorre in Ed., Vili, 
1 ; 5 ; 62. — 74, 76. haec tibi, semper erunt, intendi « tali sono gli 
onori che sempre ti renderemo ». — cum sollemnia vota reddemus 
Nymphis. Si accenna probabilmente alle feste che si celebravano dopo 
la vendemmia (cfr. le mie note a Geor^., Il, 380 segg.) alla fine delFautunno 
in onore di Liber pater (il Bacco italico), nella qual circostanza è verosi- 
mile che si tributassero onori anche alle Ninfe, come quelle che figurano 
eziandio nel culto di Bacco. Gfr. Oraz., Od., I, 1, 31: Nympharumque 
leves cum Satyris chori; 11,19, 1-4: Bacchum in remotis carmina rU' 
pibus I vidi docentem, credite posteri, \ Nymphasque discenles etaures] 



VERGILI BVCOLICA, V. 89 

dnm iuga montis aper, flavios dum piscis amabit, 
dumque thymo pascentur apes, dum rore cicadae, 
semper honos nomenque tuum laudesque manebunt. 
ut Bacche Cereri que, tibi sic vota quotannis 
agricolae facìent; damnabis tu quoque votis. 80 

Mópsvs. 

Quae tibi, quae tali reddam prò Carmine dona ? 
nam neque me tantum venientis sibilus Austri 
nec percussa iuvant fluctu tam litora, nec quae 
saiosas inter decurrunt flumina valles. 



capripedum Satyrorum acutas, ecc. Certo non v^era una festa speciale 
consacrata alle ninfe. Quanto a vota reddere per solvere^ persolvere, 
exsohere, cfr. Gic, de Leg.^ II, 8, 22: Caute vota reddunto. — cum 
lustrahimus agros. Si allude alla festa detta Ambarvalia^ nella quale sì 
facevano processioni espiatorie pei campi, in primavera avanzata, invo- 
cando per le messi la protezione delle divinità campestri, e specialmente 
di Cerere. Cfr. Georg. ^ I, 338 seffg. Vedi anche la stupenda descrizione 
che fa Tibullo II, 1. Resta quindi spiegato il verbo lustrare^ che qui 
significa, come spesso anche in, prosa, circuire^ peragrare e sim. — 
77. thymò. Cfr. Georg.., IV, 112. È pianta gratissima alle api. — rore» 
Credevano gli antichi che le cicale si nutrissero di rugiada. Cfr. Esiod., 
'Aonì^ 'HpqkX., 395: $ [TéTTiyi] T€ iróoi^ Kal Ppiùaic; Qr\\\3c, èépari : Teocr., 
Idyll..^ IV, 16: ^V) TTpOÙKa^ aiTi2€Tai, tDoircp ó TérriS; — 78 Questo 
verso è ripetuto, in Aen., 1, 609. Riguardo a queste ripetizioni di interi 
versi cfr. la mia nota ad Ècl.., III, 47. Per i versi che Virgilio ripete con 
qualche mutazione, cfr. la nota a Georg.., II, 472. — 79. ut Baccho 
Cererique. Gfr. la nota sopra ai vv. 74, 75. — 80. damnabis tu quo- 
que votiSy letteralmente « tu costringerai gli agricoltori a compiere i loro 
voti », vale a dire <c tu ne esaudirai i voti come un loro dio ». Del resto 
damnari vóti o votis è formola solenne. Cfr. Corn. Nep., Timol.^ 5, 3: 
dixit nunc demum se voti esse damnatum; inoltre leggi voti in Liv., 
V. 25. 4; VII, 28,4; X, 37, 16. In Liv., XXVII, 45, 8 si legge votorum. 
Altrove Virgilio, Aen.., V, 237, usa, collo stesso significato di damnatus 
voti^ respre8si(>ne voti reus. 

81. reddam^ congiunt. dubitativo. Cfr. Graz., Od.; I, 2, 25 seg.: 
qtiem vocet divum populus ruentis\ imperi rebus? Altri esempi tro- 
verai in Dràger, Hist. Synt.s I*, p. 30/. — 82. venientis... Austri = 
flare incipientis, Cfr. Aen., X,99: venturos... ventos; Ovid., Met.^ VII, 837 
ed Art, am.. Ili, 698: aura, veni. Nel medesimo significato trovi Aen., Ili, 
481: surgentis... Austros e Graz., Od., Ili, 27, 22: orientis Austri. — 
sibilus. In sfmil guisa Lucrez., V, 1380: zephyri... sibila. — 83, 84. Cfr. 
Teocr., Idyll., I, 7 seg.: dòiov, ili iroijadv, tò t€òv laéXoq, ^ tò Kaxa- 
X^<; I Tfjv* dirò Tfi^ TféTpac; KaxaXetpcTai ùii/óeev óbwp. 



VERGILI BVCOLICA, V. 



Mbnalcas. 



Hac te DOS frE^Ii donabimus ante cicuta. 

haec nos < Fornaosum Coiydon ardebat Aleiim », 

haec eadem docuit « cuiuin pecua?» an Meliboei?». 

Mopsvs. 

Àt tu sume pedum, quod, me cum saepe rogaret, 
non tulit Antigenes — et erat tuDC dignua amari — 
formosum paribus nodis atque aere, Menalca. 



86. ante è qui avverbio. Intendi ante qttam mi/ti reddas dona. Cfr. v. 81. 
— cicuta ^ fistula. Cfr. la ilola ad Ed., II, 36 seg. — 88, 87. haec 
nos... haec eadem docuit ecc. Letteralmente: < questa sampogna m'iosegnò 
osala m'inspirò quei canti che cominciano rispettivamente con Formif- 
sum ecc. e con Cuium pecus? >. In altri termini; cai buodo di questa 
sampogna ho modulalo ecc. >. Si allude alle Ecloghe li e HI, 

88. at. Cfr. Hand,, Tiirselt., I, p. 420; < in rebus opponendis... significai 
ex altera parte, e contraria parte, guod Oraeci dicunt hi. Itaproprie com- 
ponitur cum perionarum nominibus et cum pronominibus personalibus 
at ille, at tu, at ego ». — pedum. Cfr. Fast., p. 249 M.: Pedum est qui- 
dem baeulum ineuraum, guo paslores utunlur ad comprehendendai 
oees, aul capras, a pedibus. La stessa spiegazione danno Servio e eli 
Scolii Veronesi (p. 72, ediz. Keil.) e Bernesi. Cotale vincaslro è Bnche 
da' poeti e dagli artisti attrihuito a divinità pastorali, come Pane, i 
Fauni, i Satiri eco. — cum ha qui valore concessivo. - 89. tulit ^ 
obtinuil, eonsecutus est e sim. Cfr. Plaut., Mere., II, 3, 106: ùuod posces, 
feres; Ter., Bun., V. 8, 27: id optatum feres ; Graz., Sol,, II, 1, fi aee.: 
multa laborum | praemia lalurus, ecc. — et. Cfr. Hand, Tunell., Il, 
p. 496: li coniunguntur eliam ea per et, quorum alter um, eliamsi con- 
trarium sit, tamen una cum altero coniunclum reperilur. Quae ratio 
ita eieplicari potest, quasi et ponatur prò et tamen, et conlra, vel in- 
versa oratìone, quamquam, etsi >. — dignus amcri. Vedi la nota eopra 
al V. 54. — Antigenes. nome di paatore. — 90. formosum, di bella 

forma. — paribus nodis, intendi : pari et aequati tumore nodorum (Servio). 
~ aere. Il vincastro era munito di qualche guarnimento di hronzo che 
Io rendeva più ealdo ed elefante ad un tempo. Cfr. Teocr,, Idgll., XVII, 
31, ove dice della mazza di Ercole: ffibdpeiov okùtciìov, Kexop^T^^*' 
GI^ok;. 



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