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Full text of "L'ecloga e i poemetti"

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BIBLIOTECA NAPOLETANA 



DI 



STORIA E LETTERATURA 



EDITA DA Benedetto Croce 



III. 



L'EGLOGA E I POEMETTI DEL TANSILLO. 



L' EGLOGA E I POEMETTI 



DI 



LUIGI TANSILLO 



SEOOKDO LA GENUINA LEZIONE DEI CODICI 
E DELLE PBIME STAMPE 



CON INTRODUZIONE E NOTE 



DI 



FRANCESCO FLAMINI 




NAPOLI 

MDCCCXCIII 



1^ 



{ JAN .5I<>20*^ 



( JAN .5 U2 

• ' • ■ C 



Trani, pei tipi del Gav. V. Vecchi. 



\ 

I 
I 









FRANCESCO D'OVIDIO 



» 



L EDITORE. 



£ se uon l'opra, il buon voler mi vaglia. 

Tansillo. 



INTRODUZIONE 



Alla conoscenza della vita e degli scritti di Luigi Tnnsillu 
recarono, pili anni sono, utili contribatì Scipione Volpicella 
e Francesco Fiorentino; anzi quest'ultimo, olti-e ad un testo 
corretto di buona parte ilei canzoniere tansiJlinno — dato 
in luce a Napoli nel 1882 1, — lasciò pur nna bìo^ralla dal 
poeta, pili estesa ili quella die, prima dì lui, aveva dettato 
con ogni diligenza il compianto biblìotecariQ della Naitionale 
dì Napoli, preludendo all'edizione dei CnpiioU giocosi e xa- 
tirid del nostro (Napoli, Dura, iSyu; Morano, 1887). Minor 
diffusione, certo, era desiderabile nella storia, in parte con- 
gettarale, degli amori del Tansillo, che occupa lungo trattai 
di codesta biografia; e, in vece, un ordine pìil lucido e rigo- 
roso. Vi si nota, inoltre, una certa scarsità di notizie preciee 
sui punti pili controversi : ma dì questa sarebbe ingiusto dar 
colpa al critico valoroso, il quale non tralasciò di fare inda- 
gini nel Magno Archivio, riuscite, sventuratamente, senza 
fratto. — Geco il poco che sappiamo con sicurezza della vita 
drt poeta, la cui fonte migliore restano tuttavia i Capitoti. 



^tiociono lutlors ìn?dit: 
Bella, c:he il Fiorentina 
ma dr>lide trasse più tardi, i 



ilB componimenti poetici del Tonsìllo 
odico di proprietà del eh. pomm. Cd- 
quando die fuori il volume, 
liti {Ama- 



doa 



dantMihl, Nnp., Morano, iSSj, pp, n-vn). e 
del [toKiieiisore, lì pubblicheremo io questa stessa Bi- 



X INTRODUZIONE 

Nacque il Tansillo (com^egli stesso ebbe a dichiarare, in 
versi, al Viceré di Napoli) a Venosa; nel i$ioi. Suo padre, 
nolano, mori in patria, prima che venisse alla luce il fatare 
poeta; il quale, partendosi più tardi da Venosa alla volta di 
Nola, in uno dei sonetti pubblicati negli Aneddoti tansilliani 
scriveva; 

Col volto airaustro e con le spalle a l'arto, 
cerco quel ciel, piangendo, e quel terreno, 
ove nacque e morio chi 1* altrui seno 
di me fé' grave e non godeo del parto. 

Poiché'mi tolse Morte e ria Fortuna 
ridergli fanciullin, temerlo adulto 
e conoscerne il volto e la favella, 

or la tomba vedrò, vedrò la cuna, 
e con uman desir, con divin culto, 
onorerò devoto or questa or quella. 

La madre, Laura Cappellana, gentildonna venosina di fa- 
miglia venuta dalla Francia, passò, certo molto presto, a se- 
conde nozze con un suo concittadino della casa dei Solimele; 
e forse per causa di questo matrimonio Luigi nostro, com- 
piuto appena il primo lustro, fu mandato a Napoli: di che 



* Leggiamo nel novero de' fuochi di Nola (n.<* 178, e. 53 &): « Ma- 
« gniflcus Loysius Tansillus a. 35. Ilabitavit et habitat Neapoli a 
« multis annis, ut constat nobis. — Gonstat habitare Neapoli ». E 
in margine: « In veteri n.*» 1360. Dicunt absentem in civitate Neapoli 
« ab annis XXX, et est Continuus illustrissimi et excellentissimi 
« Proregis ». Il Fiorentino riportò anche un'altra notizia: « Dicunt 
« quod est adventitius ab annis duobus, et quod venit a Sancto Se- 
« verino et ibi numeratus »; ma questa si riferi§ce non già al poeta, 
si alla persona che nella statistica ha il numero successivo. Cade 
perciò l'accusa d'inesattezza fatta a questo documento d'indole offi- 
ciale, che ha valore d'indiscutibile testimonianza. E poiché le dette 
informazioni si leggono sotto la nota: Focularia addita in compro- 
battone veteris numeì^ationis acta die xviii et xix vnensis mail i5i5, 
resta assodato che il T., essendo a quel tempo sui 35 anni, nacque 
nel 1510. 



INTRODUZIONE 

noQ v'ha ragione di dubitare, poiché a Nola nel '45 dichia- 
ravano esser egli assente g\& da trent'anni, e aver preso 
stanza Della capitale del Regno. 

A Napoli, secondo l'usanza, fa messo come paggio al ser- 
vizio dì non so quale gran BÌgnore. Pur troppo, a' Booi con- 
giunti Fortuna era stata matrigna, e il persuasore terribile 
dì mali li costringeva a far sacrifizi che al loro orgoglio 
ilovevan sapere fieramente d'amaro. Poiclié i Tansilli o Tan- 
cìlli, già nel cinquecento divisi in due rami, appartenevano 
alla nohiità nolana, il pìccolo Luigi poteva, ne' contrasti 
co' suoi coetanei, andar superho del suo stemma gentilizio. 
Che il padrone da cui venne accolto e tenuto in casa lun- 
gameate sia stato Piero Antonio Sanseverino, principe di 
Bisignano, non è impossibile; peraltro, il Fiorentino troppo 
speditamente traduce la possibilità in certezza. Comunque 
sìa di ciò, il fanciulletto, volonteroso e di svegliato ingegno, 
ricevette i principi d'nna sana educazione: poecato che non 
abbia potnto compierla e perfezionarla, perche, in sfinito, 
la noie dell'ufflcio, la necessità di guadagnarsi da vìvere lo 
costrinBero a tralasciar gli studi, con rincrescimento suo e 
di quanti avevano concepito liete speranze d'un ingegno che 
-s'annunziava pronto e vivace! 

Non perché i dolci studi abbia Inaciak), 



scriveva, non senza un po' d'amarezza, in un capitolo. G ve- 
ramente non gli mancavano, vedremo, attitudini da renderlo 
degno del nome che piic dura e più onora. 

In ogni modo, fin dalla puerizia contrasse dimestichezza 
molta coi poeti classici e italiani ; segnatamente con Orazio, 
con Ovidio, col Petrarca e coll'Arìosto. Scriveva anche in la- 
tino: non cosi bene (ha ragione il Capaccio negli Elogia), 
eoine nell'idioma patrio — altro era sollevarsi sopra i pe- 
dissequi Sacchi del Petrarca, altro assidersi degnamente nella 
pleiade de" grandi latinisti del cinquecento; — ma né anche, 
certo, tanto male quanto pretenderebbe Oiano Anieio. il cui 
■ i^gramma è stato, a parer nostro, interpretato troppo asso- 



XII 



INTRODUZIONE 



lutaoiente, seijza tener coDto ch'èun coatraccambìo della di- 
sistima del Tnnsillo verso costui iAnyaium facix parai etc). 
Miglior numinansa s'acquistò prestissimo poetando in vo!- 
gare. A diciassette anni aveva già composti i Due Pelle- 
grini; nel 1532 scrisse il Vmdemminiore. E l'argomento 
licenzioso di questo poemetto giovò non poco a farlo salire 

Per l'appunto nel '31, ai 4 di settembre, venne in Napoli 
Don Pietro di Toledo marchese di Villafranca, il nuovo vi- 
ceré. Era al suo fianco (ìarcilaso della Veffa, « poeta e ca- 

raliere (scrive Filonico nei noto manoscritto) di buono in- 

1 tendimetito >; e questi strinse col Tansiilo un'amicizia af- 
l'etlUoSB, di cui lasciarono ambedue ricordo ne' loro canzonieri: 
il primo in un sonetto, L'altro nel IX de' suoi Capitalù Per 
ispiegorla, non occorre iuimaginare, come altri ha fatto, obo 
s'incontrassero a corte. Foictié in Napoli il Tansiilo era già 
nelle grazie di molti; né gli mancava una certa autorità, 
acquistata coi meriti non comuni, tale da permettergli d'im- 
petrare dal Viceré la libertà dì Nola. E si che questi, allora 
qnando concesse tale grazia al poeta, non lo conosceva an- 
cora di persona! L'alTerma il Tansiilo stesso, in versi che ce 
ne riducono aliìi memoria altri, celebri, del Petrarca: 



Quando Vostra Eccellenza venne al Regno, 
non p«r euu beu, ma per nltrui salute, 
da Dio muuduto, uh'eru musso a. adeguo, 



io ebbi aiHiT raccomandarvi Nola, 
ed ebbe oluun vigor la mio iiacola. 



Nondimeno, può anch'essere, che fin dal 1532, in ispecie dopo 
la composizione del Vendemmiatore, che, a nostro avviso, è 
della flne di quest'anno, Don Pietro abbia ricettato sotto In 
sua egida il nobile nolano; subodorando in lui un vassallo do- 
cile e fedele, un glorificatore del suo autocratico governo. 



Nal i jt) il poeta l'u ammesso tra i Continui regnicoli. CooiV 
noto, cinquanta cavalieri napolitani, con altrettanti spagDUoli, 
furniavano la guardia d'onoro dorvic6r<>; ufficio decoroso, e 
non immune da esenzioni o l'ntacbigìe, Ji cui si gloriavano, 
come appare da' registri delle cedole di Tesoreria, gentiluo- 
mini delln più tilta nobiltà napolitana: del Carafa, dei Ca> 
raccioli, dei Guleola, del Pignatellì, dei Mormili, dei Bran- 
cacci, dei Lolfredi. N'era guidone nel 'jj Diomede Carafa, a 
forse all' ammissione del Tanslllo non Girono estranei i euqì 
buoni ufBcì; ma certo anello il Viceré, sottile conoscitore in 
pari grado, se dai retta a un suo vecchio biografo, di cavalli 
e falconi e dì uomini, doveva aver capilo, che grandi sor- 
Tigi poteva rendergli quel buon giovine, pieno il' ingegno, 
prode in armi e capace di sincera airezione. 

Don Pietro, amico di virtuosi e discreti, fautore appassio- 
nato de' suoi servitori, amava ed onorava qualsivoglia per- 
sona eccellente nell'arto sua. Gli adulatori aveva a sdegno; 
eppure era riuscito ad acquistarsi nella corte dì Carlo V ri- 
putazione d'accorto e considerato cortigiano: piacevangli le 
caccie e le giostre; ma non meno attendeva agl'ingegnosi 
ragionari, alle arguzie e (Filoiiico l'assicura) alle « poste e 
a staffette amorosa de' suoi seguaci ». Perciò il poeta e il 
saa signore dovevano intendersela a maraviglia: cb^' il Tan- 
slllo non era davvero meno di lui scaltrito negli amori, nei 
(t virtuosi esercizi I, nelle amene trovate: né io credo ch'egli 
tralasciasse, pur senza troppo avvitirsi lusingando, di ma- 
nifestare ben sovente, e cou voce cliìara ed alta, l'ammi- 
razione che, per molte ragioni, suscitava in lui il Viceré; 
principe, non ostanti tutti i suoi difetti, di gran governo; 
UDO di quegli uomini, cLe son capaci d'ispirare altrui vio- 
lenti odii o affezioni vivissima. 

Ed ecco II Tan^illo accolto, con officio onoHiico, presso un . 
signore lilierale, in una corte dove si rende onore in parL. 
grado ai meriti dell'ingegno e del braccio, dove giuochi 6 
torneamenti s'alteroauo agii apparecclii dì guerra. Gli arri- 
derà, d'ora innanzi, la oaititn pretiosa quies? — Wo; pur 
troppo egli non à cortigiano, ma soldato, e la sua armatura 
non é destinata a irrugginìro. Nel maggio del 1537, ferito al 



XIV INTROKV/.IONE 

. capo da un calcio di eavallo, per mutar aria s'era fatto tra- 

, sportard in lettica a Nola: guarito appena, dovette, come 

, fontinua, segoire il Viceré in una marcia rapirla e faticosa 

aontro i Tnrcìii, che avevano messo a ruba Ugento e Castro, 

' e poacia imbarcarsi (era la prima volta che mettea piede 

\ sopra una galera) per isterminure i corsari. 

E qui la sua odissea interminabile comincia. Poiché due 
anni dopo, quando nel dicembre del '^9 don Oarzia, flgliuolo 
del Viceré, ebbe il comando della squadra, gli piacque di 
portar seco il poeta, affinchè, combattendogli a fianco, affi- 
dasse alla cetra il ricordo delle sue vittorie. Subito, di fatto, 
a Messina, ^li fece rimaneggiare i Due Pellegrini, per una 
rappresentazione in onore della sua fidanzata, donna Antonia 
Cardona; a quel modo che, più tardi, allorquando costei gli 
preferì il Duca di Montalto, si fece intonare dal nostro tre 
canzoni d'intonazione elegiaca. Solo raramente, al povero 
poeta è concesso d'interrompere codesta vita raadagìa, attri- 
stata, oltre die dal mal di mare ch'egli soffre acerbamente, 
da parecchie traversie e, piti di tutto, dallo spettacolo delle 
sanguinose rappresaglie esercitate ogni di dagli Spagnuoli 
sulle coste da' paesi soggetti ai Turchi. Nel 1540 fa una se- 
conda visita alla sua Nola; nel '41 accompagna a Lucca e 
Spezia il Viceré, che va ad abboccarsi coli' imperatore; di- 
sgraziata gita quest'ultima, poiché, appena giuiito in Firenze, 
dove il suo signore andava con gran pompa a visitar la fi- 
gliuola, inferma d'una febbre contratta nell' attraversare la 
Maremma. Poi, riavutosi, daccapo e' imbarila ; e cosi via, piit 
volte, dal '41 at '48; sempre alternando, quando non navi- 
gava, amoretti e imprese cavalleresche a' suoi studi geniali 
(studi, per dir vero, non molti ; parecchi, invece, gli elBmeri 
amori); sempre servendo fcdolniente, per non dire amorosa- 
mente, i padroni. 

Poiché (ò meglio dirlo fin da principio) anche il Tansillo, co- 
me tanti altri, s'era pienamente accomodato alla dominazione 
forestiera. « Spagniiolo d'ailezlone >, com'eì sì professa in uno 
di quei capitoli al Viceré in cui la lode diventa bene spesso 
adulazione pretta e smaccata, in un altro, dopo aver scritto 
tre terzina in castigliano, uon si perita di soggiungere: 



INTRODUZIONE XV 

Vi giuro ch'io mi scordo, qualche volta, 
s'io non naia ia Italia od in Biscaìal 
Il virpr con Spagouoli, il gire in Toltn 

con Spngnunli m'IiaQ fallo Uom quasi nuovo, 
e m'hanon quasi la mia lingua tolta. 

Garbato artifizio, per confessare una verità incresciosa! Della 
qnale egli medesimo sente subito il bisogno di sci 



poi che il biflogno mio da lar non aggio, 
i foriu ch'in rae! pigli d» ohi'l trovo, 

(Ed, Volpitelln, iiag. aal. 

E certo, la scusa non è gran che di meglio del peccato. 

Con silTatti costì nei menti, e naturale che, q^uando nel '-17 
Napoli si levò invelenita contro Don Pietro, perchil questi 
minacciava di assoggettarla airiQquisir.ione secondo l'usanKa 
spagnuola, il Tansilln rimanesse tra i più lìdi, fatto segno, 
com'egli scrive ad un amico, all'odio popolare: 

Onde volean con lor [coatt Slioffni/ofll lutti tagliorno 

a g'ii avvoltoi mille potagi fiirne. 

[Capitoli, pag. »57). 

Peraltro, questo -spagnolismo, di cui non possiamo, attesa 
l'indole dei tempi, essergli severi oltre misura, era da lui 
compensato con un contegno onesto e dignitoso. Ne! Capi- " 
tolo XI, ad esempio, pregando il principe di Bis! guano di le- 
vargli dalla casa un nemico (allude, con questa fì'ase scher- 
zosa, a qualche congiunto vivente a suo carico, forse al fra- 
tello uterino), accompagna la domanda con una protesta. — 
Non sono avvezzo, esclama, a implorar grazia! Me ne ha 
sempre trattenuto un naturale rispetta, una vergogna, cui 
l'avversa fortuna non mi può togliere. Rìmproveravamene, 
e vero, una volta l'Aretino in una sua lettera; ma gli risposi: 

Pietro mio divino! 
E qunl uora ai può togliere un difetti 
datogli da natura e dal dostiao? 



XM 



INTRODUZIONE 



Qui ti p^r proprio di «entire l'Ariosto, quando, preferendo 
la libertà • al pM ricco cappel che in Romn sìa ■>, escla- 
mftva: 

ila ehi (o mai ti itggio o mai si ssuto. 
che il'MMr wnta maccbia di panis. 
o poca o molta, dar ai possa vanlof 
ogntu tenjn la soft, questa i la mia! 

Ed é un contrapporsi con orgoglio al paraerita di corte, 
quale appunto rappresentava ee medesimo il divin Pietro 

nelle eoe satire. Tattavi.t, ciiì non ci deve far dimenticare, 
che, ad ogni modo, il Tansillo ha scritto pili capitoli per im- 
plorare (aTori dal Viceré o dal suo Sansererino: non sempre 
per celia come quella volta che, attendendo il Toledo a far 
parentele, Io richiese d'nna moglie da tenere o lasciare a suo 
capriccio, 

K^ sempre il nostro ebbe a stimarsi contento della corte 
in cui viveva; ancorché a don Pietro Io legassero tanti debiti 
di riconoscenza. Un sentore d'amarezza, di sconforto si nota 
>iua e là noi Capitolo XIII, scritto il za agosto del '45 in Gal- 
lipoli, durante una traversata; nel quale ei si rammarica col 
suo signore, che ci-edo sdegnato, di veder male compensati ì 
suoi servizi lunghi e amorosi, i travagli patiti. Un altro, il 
XIX, contiene nn passo per tale riguardo notevole: 



se altro ben noe 
l>erclié de' raì 1 

e se lu EGgue, 



areeie [11 in«ndiLi>j. egli è felice. 

ignoi non tegae Tarma, 
: Bol quando gli dice: 



frutto àa pionle elle i 



hflii radice. 
iCaiilloll, paf. 30+)' 



Cd qui veraitiente (come crede il Volpicella, che si rìchia' 
ma a un sonettg ove incontriamo lamenti analoghi) un'allu- 
sione alla scursa mercede, che il Tansillo 1 raccolse dal suo 
t servire a Don Pietro e a Don Garziadi Toledo 1? Noi non 
diremo di no:poicl»', quando altrove egli leva alle stelle i suoi 
protettori, non è difflcile capire che, il pili dello volte, adula. 
Ma bisogna tener gran conto del fatto, che l'ingratitudine 



i 



i 



INTRODDZIONP. XMI 

i potenti era un argomento ovvio ueìla SHtira dui secolo 
XVI; che il MachiaTelli so ne doleva nel sermone a (iiovanni 
Folcili, che il Sanaovino la vitupera in una satira. E non 
basta. Lo lodi del mendico qui sono fatte giocosamente; (orse 
non senza una riminisceni'.a di ben noli versi dell'Ariosto 
(Satira 111, terz. ;s ^S-)- ila' (luals it Tansillo, cosi scrivendo, 
poteva altresì avere in mente la famosa satira al fratello Ales- 
sandro e, in generale, tutte quelle, piit ohe satire, preiEiose 
confidenze epistolari, nelle quali e con la quali il cantore 
d'Orlando effuse il suo scontento, rimpianse le svanite illu- 
slotii. Chi ci assicura die anche questa volta non si tratti 
d'un luogo comune? 

Sul finire del l'ijo il Tansillo menò donna, non piti per 
celia: Luisa Puzzo da Teano. Le nozze, festeggiate in rima 
dal buon Varchi, gradite al Toledo, che in tale occasione non 
avrà ricusato, crediamo, al poeta il promesso e invocato dono 
d'un cavallo', furono feconde di Hgliuolanza ; e Luigi god<> 
veramente le pure e soavi gioie domestiche, che di lui can- 
tava in un carme Bernardino Rota. Passò quieti i primi anni 
di matrimonio, fra gli onori e la stima de' conti ittadinl ; e 
appunto in quel torno, persuaso da Angelo di Costanza, s'in- 
dusse finalmente a divulgare alcunché per le stampe. Furono 
due opuscoli: uno in onore di Don Garzia (Sort««< rfai Signor 
Luigi Tansillo per la presa d'Africa, e 'l disegno d'urui 
collana d'or.a, che Napoli dona al Signor Don Garsia dì 
Toledo, Napoli, tisO; l'altro per intercedere, col mezzo d'uno 
dei soliti Capitoli, dal Viceré la lihoi;aEÌone di Venosa, sua 
patria, dalle molestie degli alloggiamenti militari. 
^ Ma il li febbraio i;$3 moriva Don Pietro di Toledo; grave 
Iattura pel poota. Al quale, di fatto, non fu confermato l'uf- 
ÌBio ohe aveva a corte. Bisognoso, non ostanti i servigi pre- 
"^ fetali, e col peso grave della famiglia sulle spalle, il poveretto 
dovè acconciarsi, a malincuore, ad un modesto incarico nella 
Dogana di Napoli. Trista cosa lo « stare a banchi *. a lui 
^he la mano aveva adusata alla spada! Kppure, tutto un de- 
ì gli toccò sopportare l'ineffabile molestia. 



X\IU INTRODUZIONE 

Il VbdertQÌ lograr de* migliori anni 
il piti bui flora in si vìi opra e molta 
tiemmi il cor sempre ia stimolo e in alTiinilì, 
ed ogai gusto di piacer mi lolle '■ 

Cosi scrìveva, sconsolatamente, nel marzo del 156), a quella 
Onorata Tancredi, moglie di Ventura Venturi, che il Dome- 
nicbi ricorda nel libro su La nobiltà delle donne. Si noti 
che, oltre al sostentamento risila moglie e dei figli, per qual- 
che tempo egli avea dovuto provvedere anche a quello del 
fratello uterino, Orazio Solimele; per quanto tentasse ogni 
via per isgravaraene onestamente, siccome appare e dal ca- 
pitotT> dianzi citato e da una lettera a Ferrante Gonzaga*. 
Soltanto nel 1560, troviamo finalmente codesto Orazio coll'uf- 
flcio di segretario della Marchesa del Vasto. — Questi i fa- 
stidì e le brighe: dispiaceri pìiì gravi non mancarono in 
questo mezzo a! Tansìllo; procuratigli (veiiremo) dal suo pec- 
cato poetico giovenile, ancorché da un pezzo attendesse al- 
l'ammenda, componendo le Lacrime di S. Pietro e rime spi- 
ritnali. 

Il nuovo incarico che gli fa conferito allorquando, dopo il 
'63, gli riuscì alfine di shrigersi dalte do^ne, fti causa, cre- 
diamo, della sua andata a Gaeta, dove passa gli aitimi anni 
di sua vita. V'esercitava giustizia (scrive Scipione Ammirato) 
in luogo del Re: adunque, era Capitano di giustizia. Ma, 
por Iroppo, la sua cattiva stella non gli permise di godere 
lungamente della pace domestica e d'ao ofi^lcio onorato. Non 
vecchio, nel i;68 infermava mortalmente: ridottosi, per mu- 
tare aria, a Teano (patria della moglie e stanza d'una sua 
sorella maritata), senti ben tosto, che s'appressava la fine. 
Dì fatto, ai li} di novembre fé" testamento (rogavaio Notar 
Orando da Teano); lasciando tutori de' suoi cinque figliuoli 
— Mario Antonio, Vincenza, Lauro, Maria e Caterina — 



' Pu6 eraere nou inutile 
fhtlo cercare taveno dal 
Parma, donde uppunto l'i 



l'autografo di questa, 
Ouaalalls, è oell' archivio di 
puhbliCHki prima di lui il Roncbini, 



inthoduzioni; xix 

Monsignor Scarampi, vescovo Ji Nola, e Baldassarre de Top- 
rfts, maggìonlomo del Duca d'Alcalà -vìaerò. di Napoli; ai quali 
raccomandò l' intestaKione della carica di continìto, già da 
lai tenuta, e l'ufficio die aveva occupalo nella Dogana'. W 
la morte tardò, A cinquantotto anni, il i." di dicembre, il 
povero poeta spirava: lo seppellivano modestamente nella 
Chiesa de 11' Annunziata di Teano'. 

Tala la vita di Luigi Tansiìlo: tutt'altro, davvero, che 
memorabile per avvenimenti di gran rilievo o per fortunose 
vicende. Pili de' euoi casi, merita d'esser ben conosciuta, e 
ponderata equamente, l'opera sua; e a ciO vogliamo contri- 
buire, compiendo gli studi Un qui tatti da altri, con questa 
ristampa di scrìtti tansilliani i-ìmastl disgregati, poco noti. 
e non sempre facili a trovare ed acquistare. Oìh l'avrebbe 
compiata, ottimamente, il Fiorentino, cbe, preludendo alle 
Liriche, prometteva di dar fnori in separato volume anche 
le Stan::c del suo poeta prediletto; se la morte non l'avesse 
immaturamente rapito agli studi di cui era lustro e decoro. 
Eredi, non della sua ilottrina, ma della buona idea, noi ri- 
produciamo tutti ìosieiiie, emendati e illustrati, i poemetti 
del rimatore venosino; non escluso il Vendemmiatore, del 
qnale s'è dovuto ricostruire criticamente il testo sui mano- 
scritti e sulle stampe che ne conservano la lezione genuina. 
Ma del modo dell'edizione diremo là dove ci parrA opportuno: 
qui vogliamo avvertire, solamente, che pei Capitoli si può 
ancora ricorrere con frutto all'edizione del Volpicella, ricca 
(li note eruditissime, ohe sono state d'aiuto anche a no); te- 
nendo conto altresì del capitolo Dell'Ospite, pubblicato in 
si>gDÌto dal medef^ìmo nel rendiconto dell'Accademia Ponta- 
niaii3' Quanto alle Lagrime di San Pietro, l'edizione che 
ne procurava in antjco Tommaso Costo, facilmente accessi- 
bile per le reìmpressìoni cbe ne sono state fatte (anche nel 
Parnaso dell'Anto nel li), potrà sopperire ancora per molto 



■ ViLi.ABoaA, Bitraai poetlol di alounl uomini di Ullcre Poc , I, 234. 

* Il FioBBNTiNo, a |>ag. XCItr, riporta l'epitaSa, apposto auUn sud 

tomba, e li ricordo messovi nel 1629, quando l'isiiiizionefu restaurata. 



X\ INTRODUZ^NU 

tempo, il malgrado ilello sue imperfezioni, ai bisogni dei 
pochi lettori di questo poema non meno noioso che pro- 
IJHao. Del reato, e dei Capitoli e delle Lagrime sarà discorso 
il valore est^ico nello stiiiiio, a cui ora ci accingiamo, so- 
pra tutti gli scritti del Tiinsillo, escIiiEe le poesie liriche. Di 
queste poi, nonché dell'amore o degli amori cbe le ispira- 
rono, speriamo di poter trattare, con qualche larghezza, in 
capo ad altro volume della stessa Biblioteca napolitaìia. 



Di componimenti poetici giovenili del Tansillo, anteriori 
al Vendemmiatore, accortamente sospettò l'esistenza il Fio- 
rentino; ma sino a pochi anni fa non s'aveva certa notizia'. 
Poiché l'egloga J Ime- J:'ellearini^ alla quale dobbiamo vol- 
gere per prima cosa la nostra attenzione, s'è creduta per 
lungo tempo composta dopo il lascivo poemetto, e soltanto 
in questi ultimi anni (a provato dal compianto Gaspary, in 
uno scrittarallo comparso net X volume del Giornale storico 
della lellcralura italiana, ch'essa è anteriore alla morte 
d'Enrico Orsino, conte di Nola, seguita net 1528; antecioro 
anche, probabilmente, a quest'anno fortunoso per Napoli, per 
Nola e per l'Orsino, in cui ebbe luogo la spedizione del Lau- 
trec. Quando adunale Ja spriffle,j!_TaiBÌIjp era sui sedici _p 
sui dicìa^Qtte anni. 

Si sente! Nonmaì il nostro B'èjennto co£Ì_sti:elitll,àt:Ee- 
trarca, come in questo primo lavoro. Ne arieggia la maniera, 
se ne appropria le immagiui leggiadre e le sottigliezze (piò 
questo elle quelle, com'è degli esordienti), no rub.i interi i 



1 La invola di Plr-amo e TUbe, etlribuita al Tansillo dal Pslermo 
e, sulla sua fede, do noi, che |>er la sua imperrexione la sTippone- 
varuo scritta dal poeta negli anni dall'adolesceniB, è ioTece nna cosa 
ialessa, cnme allri lia gìuatiunente oaserrato, con la ben nota, e più 
volte clata in luòe, di Bernardo Tasso, 



r 



INTROmV.lONE 

versi. Per l'ailolescente precoca vedere inca^toDate gemme 
sottratto ad uno scricno preziosissimo nel suo monile di si- 
miloro, lioveva GEsere.Qn gran gusto. R pome il Petrarca, 
saccheggia gli altri poeti cli'crano sua lettura giornaliora: 
ai] esempio, l'apparizione in ispìrìto della donna amata da 
Filanto, so ricorda in tutto, fin nelle parole', il II capìtolo 
del Trionfi) delta Morte, rivela pur anco (vedremo) 1 
zione d'un episodio del Furioso. E le riminìscenze di scuola 
abbondano in questi versi giovenili: qui senti l'eco d'una 
terzina dantesca, l£i d'un distico ovidiano, piU sotto ti tornn 
a mente la prosa dell'ai rcodi'a o ilélVAtneto. Di conseguenza, 
lo stile, ora alquanto sciatto, ora pretensioso e attillato, so- 
miglia a un panno di ijualìtA non cattiva, ma tutto alluma- 
cature. V'ha di peggio. Nel non breve componimento il poeta 
ha sempre ormeggiato molto da presso un modello. 



PSTBARCA, 

Ma'l tempo « breve. * nostra Toglia i lungfa; 

però 1'bvtìs9, e'I luo dir stringi e frenii. 

anzi che! giorno, già vioin, n'aggiunga.,.. 
vedi l'Aurora deirauralo letto 

nmenar a' mortali il giorno, e il sole 

glA TuOT deiroceàno inUno al petto. 
Questa vìbh per partirci, onde mi dole: 

9'a dir hdi altro, studin d'easer breve, 

e POI tempo flispeosa le parole. 

TlNSILLO 

Ma perche ini convien lasciar la terra, 
che di t«ro8re al cielo S tempo o 
perdona a'il mio dir si stringe e serro..- 

Questo è il coro degli angeli, clie t 
a riportarmi in ciel con ^ois e fetta: 
onde, senza indugiar, pen&Bl« bene, 
se nulla, anzi ch'io porla, n dir vi resta; 
e quanto puote il vostro dir s'aEfrene, 
thè già soD per partirmi in aria desta. 



XXII INTltODLi'ZlONli 

pre seguita una falsariga. — Ma, prima d'accompagnarci pii'i 
oltre in questu analisi, senta il lettore (eh' è d'uopo) l'argo- 
mento dell'egloga. 

Pìlauto, disperato per la morte della sua donna e (Ja due 
giorni smarrito, s'imbatte in Alcinio, uno spagnuolo, errante 
anciie luì, e disperato pel tfadimento di colei die adora. Ai 
due infelici non par vero d'aver modo di sfogare, narrandosi 
la loro sventura, l'aaimo travagliato; ma ben tosto, quasi 
per torturarsi, oltre al cuore, anche il cervello, si propongono 
un quesito di casistica amorosa : quale della loro sciagure sia 
pili atroce. Segue, naturalmente, una contesa ostinatissima, 
che Alcinio propone di troncare col suicidio ; poscia una gara, 
in cui ciascuno vorrebbe, affrontando per primo la morte, 
mostrare all'altro quanto gli eia lieve. Mentre cercano dove 
e come possano tùrsi la vita, lia luogo un intermezzo, occu- 
pato, pare, da un canto del coro; dopo il quale, i disperati 
s'accingono a porre ad elTetto il truce divisamento, e acciò 
elio la morte non aia troppo dolce, si straziano frattanto il 
cuore, rammemorando, con minuzia spietata, tutte la mira- 
colose bellezze delle loro dive. Tengon dietro i novissimi de- 
sidert ile' morituri; e già Alcinio sta per attorcere ai rami 
il laccio fatale, che dee privare entrambi della vita, quando, 
ti un tratto, suona la voce dell' i anima della morta donna 
t chiusa nell'albero » e lo arresta, e consola blandamente am- 
bedue. Vadano, dice loro, nella felice Nola; sotto il presidio 
dell'Orsino e di Maria, sua moglie, u eterni e cari possessori » 
della citta, vivranno beatamente. Ci6 detto, si parte dagli 
amanti, riconfortati. E qui, sul finire della rappresentazione, 
si doveva sentire il concento e vedere il lume del coro degli 
angeli. 

Francesco Torraca, scrivendo brevemente del Tansillo ne' 
suoi Studi di storia letteraria napoUlana, intomo a questa 
composiziono drammatica osserva: o Vi si leggono traiti af- 
fettuosi ; ma i lamenti di Filanto e d'Alcinio si prolungano 
• troppo, sanno troppo d'artifizio. Inoltre, come non sorridere, 
se, mentre cercano il luogo dove dovranno darsi Ja morte, 

vanno cantando alcun bel verso lieto? E sì sorride dell'idea 

1 loro, di morire neU'arbor stesso e nel medesmo laccio, e 



INTEODUZIUNE .WIII 

4 liei lor starsene a pie dell'albero, a discorrere cosi lunga- 
t mente, da far erodere che non sentano poi tutta quella 
« voglia d'uccidersi, die alTermano di sentire » (pagg. 317-18). 
In fondo, tutto questo è vero: soltanto, il falso e l'artillcioso 
s'hanno a ricercara non tanto ne' particolari, quanto nella 
finzione; data questa, i particolari logicamente bì spiegano. 
Falso ed artificioso, quindi in parte ridicolo, è certamente il 
porre In iscena, a lamentarsi, a narrare, a contrastare, a de- 
scrivere, per centinaia di versi, dne amanti giunti a quell'e- 
stremo di disperazione, in cai il dolore divien pel sotTrente 
una voluttà crudele, che gli fa invocare nuove foggie, sem- 
pre pili atroci, di supplizio. Ma, posta una disperazione cosi 
fatta come concetto generale dell'egloga, qual maravigha che 
i due assetati di tormenti prima d'uccidersi vegliano anuo- 
verare ad una ad una le gioie d' un tempo ? Quel lieto canto 
di liete memorie crescere il loro strazio; e, nello stesso tempo, 
l'ara fede a chi ascolta, o se d'umana orecchia il loco è 
vóto », alla terra ed al cielo, che la morte per essi è un 
gran bene, che dove altri piange essi cantano. Ora, il con- 
cetto dei Due Pellegrini è tolto di peso da una « tragico- 
« media s: La Cecarln o Dialogo di tre ciechi, dell'Epicuro 
napolitano. 

Antonio Epicuro, dopo la monografia del Pèrcopo comparsa 
del XII volume del Giornate storico, dopo la ristampa do' 
suoi drammi pastorali, onde s'è arricchita, per cura de! Pal- 
marini, la Scelta di curiosità tóHeron'e', è omai una vecchia 
conoscenza degli studiosi. Lo rivediamo nelle dotte pagine 
del suo biografo recentissimo, quale, Gun gift piiì anni, ce lo 
aveva dipinto il Settembrini; cioè com'tino di quegli abruz- 
zesi, buoni, belli e pieni di versi, che si fan voler bene da 
tutti. D'umor lieto e sollazzevole, egli passò la miglior parte 
della vita occupato a far imprese, facendo parlare con « novo 
di poesia fiorito aprile h (la frase è d'un suo scolare, Ber- 
nardino Rota), I or fera, or angue, or sasso, or pianta, of 
B flore»; e in tale arte riusci, s'è da credere all'Aramirato, 



» C(t. mv. erit. aeiia U 



■ai., nr, 139-50; V, 31, 



XXIV 



INTRODUZIONE 



eccelleQte. A questo valentuomo, a queeto piacevule ingegao, 
dobbiamo, come dicevamo, la Cecaria; edita per la prima 
volta in Venezia, eoi tipi dei fratelli da Sabbio, nel 1535. 

È veramente, ma nel senso moderno della parola, una tra- 
gicomedia, come la intitola qualche edizione a cominciar 
dalla zoppiniana del 1)30. Per tutto, un dissidio aingoiare 
tra il soggetto giocoso e la grave, quasi tragica, intona- 
zione; sempre esagerato il linguaggio erotico, sempre pe- 
regrina, o per ampollosità o per sottigliezza, la frase. Gli 
interlocutori son quattro: tre ciechi (ìl Vecchio, i! Geloso, il 
Terzo) a una guida. Perdi*? una sola guida? Perche? il Geloso 
e il Terzo non han trovato chi se la senta d'esser spettatore 
del loro continuato supplizio. Fin dal primo momento, il 
Veccliio invoca tragicamente la morte: egli vuole, «precipi- 
tando in loco oscuro e basso n, disgombrar l'aria e la terra 



Sopraggiunge il Geloso, e gli ta. un racconto delle sue scia- 
gure (s'è accecato per disperazione), molto somigliante a 
quella d'Alcinio ne' Pellegrini. Il Terzo fa conoscenza col Ge- 
loso in modo ben poco garbato: à& di cozzo coatro di lui, e 
lo butta in terra. Lamenti, scuse, riconoscimento reciproco. 
Miracolosamente riuniti, anche i tre ciechi, disperati per 
amore conte i due pellegrini, cominciano a discutere quale 
delle loro calamita sia stata pid fiera: di qui iperboli e bi- 
sticci da disgradarne talvolta, non diro il Tebaldeo, ma il 
Marini. Ammiri il lettore una di queste gioie: 

CW vide mai (né BO com" esser puole!) 

duo fiumi uscir d'un foco iu corpo umano 

e quest'altra ancora, pìiì preziosa: 

La morte Don mi vuol, n^ io vita brumo. 

e senza morie aver, perdei Ih vita, 

lo seinpre morie, che m'aneida 1>ramo. 

o ancida i] morir mio, ch'io moro ■ torto, 



ISTRODl'ZIONE .\.\V 

Appetto n questi, son rose gli artifizi clia pur non mancauo, 
dova s'agita la medesima controversia, anche nell'egloga del 
Tansillol Segue, come in questa, la trìplice descrizione delle 
bellezze muliebri che bau condotto i disgraziati al mal passo: 
tre varietà d'ona descrizione medesima — lascivetta.boccac- 
cevole, luccicante di concettini — la quale, io m'immagino, 
avrà fatto andare in solluchero il pubblico elegante che as- 
sisteva alla rappresentazione; prendesse, o no, sul serio il 
paragone minuziosissimo d'un corpo di donna ad una chiesa, 
col suo altare (il capo), il suo organo {la voce), I suoi sacer- 
doti (« casti desiri e pensier santi n) ed altri raffronti, più 
irriverenti e non meno scipiti, strascicati per ben quattordici 
ottave. Che se al centoventesimo verso della terza descri- 
zione, quando il terzo cieco c'introduca in t un tempio di 
» beltà ch'ogni altra eccede, Dal celeste architetto fabbri- 
li cato », a noi può venir fatto H gittar via il libro, noialì 
di tante bellezze d'oro e di cristallo, agli spettatori del se- 
colo XVJ, cui pareva dolce, (Va l'altre cose, anche il martirio 
(lell'iEocrono rimalmezzo, queste dovevano sembrare gusto- 
sissime trovate. Finite le descrizioni, i disperati fanno pro- 
posito d'andarsi « a por tatti e tre insieme in sepoltura ». 
Ma come, se nessuno di loro vede lume? Anche in questo 
dovrà soccorrerli la gnida; che, poveretta, non sa darsene 



snidare a morte tre ai ci'udelmenle ! 

Ma ecco, in buon punto, sopraggiungere (come ne' Due Pel- 
legrini) un consolatore benigno: il sacerdote d'Amore, il 
quale, ricorrendo a un oracolo, fa che i tre ciechi ricuperino 
la vista. 

Per l'intreccio, per l'ordino, per lo scioglimento, raflinità 
tra l'egloga tansilliana e questa produzione drammatica del- 
l'Epicuro è strettissima. Si tolgano certi particolari intro- 
dotti ad arte nella Ceearin per istudio di novità o di pere- 
grina arguzia, coma la cecità dei tre innamorati e la presenza 



\\w 



INT[(ODL/K)Nlì 



di quella guiilu che fa uaa figura cosi mescliìua; si tdmpeji 
il colorito eeceatietico, voluto; si raggentilisca osi succìnga; 
eupponiumo, insomma, fatto seriamente quello clie nella Ce- 
cai-ia tlell'Epicuro è fatto per mero oapriccio; e da questa 
verranno tbori, tali e quali, i Due Pellegrini, cioè una piccola 
ma compiuta egloga pastorale. La quale, dall'aspotto estetico, 
non rifulge davvero di pregi aingolnri; ancorclió non vi man- 
clii un certo calore u accondimento di passione, quale c'era 
da aspettarsi àa. un giovine pieno di fantasia e di sentimenlo. 
E la ragione n'ò ovvia. Uu componimento poetico d'indole 
seria, che derivi non pure l'ispirazione ma e tutto, o quasi 
tutto, il soggetto da una amena invenzione, non potrà mai 
spogliarsi interamente de' caratteri di questa. Nei Due Pel- 
legrini il giovine artista ba si ripensato, rifatto di suo 1 con- 
cetti e le forme elio in tanta copia, come apparirà anche dal 
nostro commento, mutuava dal giocondo abru;{!;ese (e ciò non 
senza eleganza, talvolta anclie apportando un die d'idillico 
ne' versi per lo pili scorravoli ed armoniosi) ; ma dal vizio 
ÌDgenito nel concepimento non La saputo guardarsi, e iii 
questo s'ba forse a cercare la causa principale della scarsa 
diffusione che la sua egloga ottenne. Scarsa; in ispecie se si 
ponga mente alla grandissima della Cecaria: la quale non 
solo ebbe l'onore di molteplici edizioni, ma, sia percInS era 
una novità, sia perché nel suo genere poteva dirsi felice- 
mente riuscita, fu imitata. Com'è noto, il Brono l'ebbe pre- 
sente nel dettare l'ultima parte lìegìì Eroici furori; inoltre, 
assai prima di lui, pochi anni dopo la prima rappresenta- 
zione della tragico ai ed ia, nel 1555, ne usciva in Parigi, fra 
le Rime toscane d'Amumo pi'r Madama Cfiarlotta d'Hìsca 
(pag. 6S), una specie di parafrasi o rifacimento, di cui di- 
ramo diBCOirendo, in altro lavoro, de) poeti cinquecentisti 
italiani alla corte di Francia. Invece, de' Due Pellegrini non 
conosciamo che un'edizione del secento, rimasta inosservata 
Uno al tempo d'Apostolo Zeno, sul cui esemplare la ristampò 
il Piacentini a Venezia. 

Vero è, peraltro, che, se non stampata, manoscritta, e, se 
non in tutto il Regno, almeno in Nola dove fu rappresentata 
la prima volta, l'egloga fu letta da molti- Fra gli altri, l'ebbe 



INTROMIZIONr; 



XXVII 



^^^F ne 

^^F Vii 



sott" occhio Garcilaso della Vega, quando, nel '33, fu a Na- 
poli col nuovo Viceré. E questo elegante poeta castigliano, 
già provetto nell'arte e famoso, non isdegnó d'attingerà per 
entro al componimento poetico giovenile ilell'amico, non solo, 
come mostreremo nel commento, piti d'una immagine, ma 
altresì il concetto dell'egloga I (la migliore delle tre da luì 
composte, anzi il suo capolavoro), scritta in Napoli, secondo 
ogni probabilità, per l'appunto qnell'anno. Nella quale eglo- 
ga, come ne' Peìlegrini de! Tansillo, gli interlocutori son 
dite (Salicio e Nemoroso), a il primo di essi lamenta l'infe- 
deltà, l'altro la morta dell'amata. Non è propriamente un 
dialogo ; ma, eccettuati i primi e gli ultimi versi, consta di 
due elegie; ciaacnna delle quali (osservd giustamente il Tick- 
nor) fetta a somiglianza di una canzone italiana. Insomma, 
proprio i monologhi d'Alcinio e di Filauto: rappiecati accon- 
ciamente, tolto via quel simulacro d'azione ch'era gift si te- 
nell'egloga tansilUana. 11 poeta spagnuolo, scòrta la po- 
vertà drammatica At'Duc Pellegrini, la col struttura, sem- 
plicissima, li discosta appena dall'egloga scrìtta ; aggiungendo, 
mezzo d'allusioni alla vita campestre, un'intonazione 
'^ù schiettamente bucolica, ha desunto da essi un componi- 
mento pastorale so! modello dei bellissimi dì Teocrito, di 
Virgilio, del Sannazaro *. 

Ho detto, che la struttura scenica dull'egloga tansillinna ó 
semplicissima. Vediamo qual posto nella storia del nostro an- 
tico teatro spetti a questa con iposizioncal la, destinata a ral- 
legrare in pili occasioni illustri brigate e a far nascere, piil 
tardi, controversie fra i dotti. 

Composti sul Unire del primo trentennio del cinquecento, 
i Due Pellegrini non poco si discostano dalle egloghe che in 
tanto nomerò comparvero per tutta Italia in quel torno o 



è hnprobùblle, del resto, clie i due poeli 

i psrti dal loro ingegno; snui, v'hanno indiri per 
credere, elle, a bus lolta, il Tansillo ricavasse dal monologa dì Sa- 
licio nell'Bgloga dell'amico qnalclia idea por ìe sue canzoni peseatorie 
bqI pianlo d'Albino spagiiitolo tradito da Galslea (acritle, pare, nel 



xwin 



NT rodi; /.IONE 



poco appresso. Le quiili, pur non uscendo dai confini deiU pa- 
titoralo, son lontane dalla semplicità primi t iva, compenet rata I 
d'elementi vari, ed ora hanno il multiforme splendore del j 
dramma mitologico, primamente instaurato fra noi dal Poli- 
ziano coWOrfeo, ora — come la Mirzia dell'Epicuro, coma-I 
YF,]-buslo e la Filena del Caccia impresse nei i;46, come, i 
misura anche pìn larga, l'Egloghe pastorali de! Calmo uscite -1 
in luce nel '>; — han le forme vive e fresche della cornine-, J 
dia. Nulla pili d'un « dialogo pastorale drammatico u, 
la dedni lo Zeno, può esser considerata. l'egloga del Tansillo,^ 
di fronte alle amplissime degli immediati precursori del Tasso. ] 
del Guarini. Poiché queste si collegano con la copiosa fio- , 
ritura di commedie del primo cinquecento ', e però hanni» 
quasi interamente perdutjt l'impronta dell'origine loro, de- 1 
dotta, com'è noto, per la materia dalle rappresentazioni o [ 
farse al logori co-morali, clie negli estremi anni del quattro-' I 
cento furono, pili che altro, occasione di sceniche magnili- ] 
cenze, per la forma, dalle egloghe innumerevoli, latine e voi- ■ 
gari, che dopo i sommi trecentisti dilagarono in Italia, tipa I 
e modello la celebratissiraa Arcadia. Laddove, all'incontro, I 
i Due Pellegrini si ricongiungono strettamente con l'eglogh» | 
incliiuse n ti' canzonieri, cosi poco conosciuti, dei primo cin>, [ 
quecento, e l'impronta originaria serhano chiara e rilevata. 
Li diresti un esempio della pili antica forma dell'egloga j 
drammatica italiana: di fatto, anche la hen nota di SerafloQ; J 
dell'Aquila e un dialogo interrotto dal sopraggiunger fugace 
della ninfa amala da uno dai due interlocutori; anche io.J 



1540, quattro anni dopo in morie di lìBrcdoao), nello quali rintov| 
nazione è la roedesimn, li) s1«sbo il nomo dell'anianli; infedele. I 
gioga spagDuolB ricorre aUrcBi il nome di Albano; inoltre, i 

reminiacenia della Meiamorfotl Oib. Xlir, vt. 798 sgg.). 

' Conferma ora quest'oBaervaiione, ch'ara già nella prima sdi 
del presente Invero, A. L. Stieebl, discorreDdo con molla dottrìna^S 
nel tMeraturblaU f. gatti, u. rom. Fhilolonia dell'a 
gllo Inrdi clic mail), il libro sul Qnarini del nostri 
torio KoBsi. 



INTRODUZIONE 



XXIX 



1 



quella ilei Uellincìoni poi conte dì Caiazzo a certi pastori 
parlano e disputano d'amore, de' quali no parla prima uno 
• ctiiamato Silvano, che, seco cosi parlando, si lamenta d'A- 
n more » (ed. Fanfaui, li, 223}. Nella pastorale del Tansillo 
non è che un Gìtnulacro d'intreccio,, e vi prevale il verso con 
la rima al mezzo, caratteristico della farsa letteraria del sa- 
colo XV i; al par del Tinsi dell'elegantfl cavaliere di Casa- 
tico, dove incontriamo la atessa povertà d'azione, tii perso- 
naggi, d'argomento, vuol esser riguardata siccome un docu- 
mento della forma dell'egloga rappresentativa cinquecentì- 
stica pili vicina all'egloga scritta; tanto pili prezioso, quanto 
pili scarso è il numero di quelli che le difflcoltà, non poche 
né lievi, di tal ricerca han concesso alla critica moderna lii 
raggranellare. Essa ò certo uà po' in ritardo; ohe tra l'egloga 
del Castiglione, rappresentata nel i;o6, e questa del Tansillo, 
composta circa il 1527, intercedono almeno vent'anni. Ma 
sembra, che a tsl grado del suo svolgimento fosse ancora nel 
tarso decennio di questo secolo la pastorale italiana; dappoi- 
ché anche VAitiaranta del Caaalio {pubblicata nel '58, ma 
jprobabil mento scritta qualche anno avanti), della quale sap- 
'^iacDO con certezza ch'era destinata alla rappresentazione, 
ha aemplicisElmo argomento, non molto dissimile dai J}ue 
Pellegrini: anche in essa un pastore ed una ninfa, contrariati 
nel loro amore, stanno per togliersi la vita, allorquando so- 
praggiunge in buon punto a salvarli Lucina, e nella casa di 
questa celebrano le nozze. Certo si ó, elio l'egloga del nostro 
è anteriore di buon tratto, non solo alle vere e compiuto fa- 
vole pastorali liel fìeccai'i e del Lollio, ma altresì all'eglo- 
g)ie suddette del Caccia e del Calmo, nonché a quelle che lo 
Stiefel crede possano costituire come più gradi intermedi fra 
YAmuranln e il Sacrificio: VAmicizia di Bastiano di Fran- 
cesco (ii4ì), la Sil-oia di Filsnio Adiacciato (1545). ^'Ecloga 



li altri mstfi sono la lena e l'oliava riiiiu, iionclie gli endewi- 
L commiati a. sstleiiari e rimati liberamente. Quest'ultimo, come 
la anche il aossi, verrà iu fluito accolto, Riduanlo mutata. 
Il dramma pastorale. 



XXX 



INTRODUZIONE 



amorosa Oi Giuseppe Oiberti (1547)'. Alle i]uali sarebbe in- 
Toea molto prossima di tempo, Se, eoma s'era creduto fino a 
qni, fosBO stata composta nel 1538 'jg; tanto prossima, c!ia 
dovremmo riguardarla come un regresso, come la negazione 
d'un ulteriore svolgimento dell'egloga drammatica. Ancho que- 
sto, adunque, conferma l'opinione del compianto Gaspary: i 
Due Pellegrini non certo perla prima volta furono rappre- 
sentati la sera del 26 dicembre 1538. Peraltro, che siano 
l'egloga recitata quella serai in Messina, non sembra si possa 
mettere menomamente ia dubbio. 

Narra l'abate Franeasco Maurolico, noi noto passo riferito 
dal BaluKio nolle Miscellanee (I, 598), ette Don r.arzl^ di To- 
ledo, prefetto dell'annata napolitana, la notte del 26 dicem- 
bre 1538 — non '39, come fti erroneamente assento, poiclit' 
i) passo vuol essere assegnato al '38, — offri ad Antonia Cnr- 
(ìona, figlia del eont« di Colisano', alle cui nozze aspirava, 
un sontuoso banchetto; e la festa data in onora della nobile 
donzella descrive testualmente cosi: « Stabant sub viridario 
s palati! geminae tpiremes(qnanim una fuit regia qua prae- 



Mu 



» « Unbegi'eiflioli ist es mir— se 
das 9. Kopitel in IV, BuohB vcn Cm 
lui, wa U- a- tiìorhar Qabòrlgen 
raoD beìde bukolisehen lobalt di 
il Rossi non bii tenuto couti 



-ite lo stiBfel — daea Rossi nicht 
«simbenì'B Commenlarì iHsncblel 
va zwei Oom/mecUe dea A. Cupp- 
■ Reda iit » (Art. olt, col. 378). 
queste produzioni dramma* 



tiulie, ciò ])uò ben essera per la ragione, addotta dal Qt^Auaii 

rio s rag., m', 383), cbe • non bsnaa per una massima parte a far 

■ più con le ftvole pastorali, di (piHl che s'abbia a fhre con asse 

■ una oommedia, una tragedia o una farsa, dove vi sia qualche per- 

■ sonaglio di tUIs per accidente introdotl» ■. Il Quadrio, ■ itopo 
• averle con attenzioo riandate > <e ha allogate tra le cùmrae- 
die e tra le farsa. 

2 Don Pietro di Cardona, morbi sedici anni innanzi, nel 1333, io 
Bicocca, « d'una saetta in la gola ■ (cod. S. B. 67 delta N'azionale 
di Napoli, e. 66 t>). Da Susanna Gonzaga ebbe tre Agli: Antonia e 
Diana, intervannle alla festa, e ArlalB morto due anni prima (Ardi, 
di Stato Nap., Oedala/flo fbuil. del prlnetp. intra, 0. 35 a), il quale, 
per volontà del defunto padre, aveTa sposala, molto ìnfeliceinentp, 
la cuginn Maria, contessa di Avellino e marcheBa della l'adula, cara 



INIRODUZIONE _\XX1 

■ fuctus vectabatur), aeqiia dìstantes ad iotervalluca tsatU 

< amplum. Super has imposttiE trabibue constructum erat 
I tabulatum totam triremium longitudine^ compreheudeos, 
<c velis ac tentoriis circumseptum ac cDopertum, iotiis autem 
( aulaeis pi-aetiosissimls troiana liistorìa iatertextis undique 
a ora&tanì, ut palatìnam aulam pelaga superstare diceres'. 
tt Ad tale tabernaculum per pontem ejusdem latitudjnis inter 

< ipsas triremiuiti puppes ascensus patebat a litore. Quia 
u etiam litu?, ad excludendam multituditiem, taliularuoi sep- 
« tis utriaqua claudebatur. Coanatuoi est a tortia noctie llora 
a usqua sd octuvap, fuaaliuiii iumìnibuB laultorLim accensis. 
« Recitata ad boram usque tertiara coiuoedia, qiiam Tan- 

> zìUhs, poeta Neapolitaims, exhibuerat. Fuit baec 

> quasi pastoralìs ecloga, amantiam coutiDens 
I» queriraonias, quoa a destinato interitu nym- 
u pbae cuiusdam pulcberrimae auctoritas in spem 
B Gonceptam restitoerat .... Omnia j'egium lusum 
I adaequarunt *. 

Queste parole dal Maurolico, riferita in parte ilal Nicodemo 
ielle Addiiiom alia Biblioteca Napalitatta dei Toppi, dat- 



ai TansillQ e celebrata do 

• nombre de Cardon» », in cui fra gli ammiratori di lai i mentovnto 
anche il nostro. Quanto ad .Milania, in fui onore ei dava la Testa, 
alla sposA non giA don Oar^ia, ma il duca di Monljillo, Antonio d'A- 
ragona. 

^ [1 poeta ntasBO, nel Discorso sopi'a la collana d'oro olit la no- 
blUas. oMà M Napoli dona all'ULmo S. J}. Oartla 600, scriva: 

■ Quella moie, o Togliamo dire guel Uaslione il signor don Garaio 
« eoi proprio ingegno trovò, e se ne lia due volle servilo a diversi 

■ usi, una in Testa ed altra in guerra; in festa, che fu delle so- 

■ Jenni ch'io vedessi giammai, nel porlo di Messina, quand'egli 

- stesse saldo su l'acqua, si ohe vi ai potesse su far ogni eser- 

• Cirio, e la guerra ora in Africa ecc. .. Un'allusione a questa fe- 
sta à BQChe, par?, nella sua III canzone peseatoriD, dove Albano (don 
Gareia) ricorda a Qalatfia (Antonia Cardana) * i giuochi celebrati per 

- suo gloria, I Che di livor le guanoe | Alle ninfe del mar tinaer 



XXXII 



INTROUliZIONE 



tero origine a eontrovareie fra gli ernilitidel secolo passato; 
1 quali si traTagliarono a detennìoare, per via di dedazioni 
congetture, l'indole e l'importanza della cotnmedia gvoH 
egloga paainrale creduta smarrita. Poiché taluno in questa 
rappreaentastfone, fatta con molta naagniflcenza e, come cre- 
devano, durata tre ore, volle senz'altro ravvisare la piil an- 
tica /'avola pastorale italiana; e tale opinione, messa in 
campo dal Montanini nella Biblioteca dell'eloquenza italiana 
a nell'Aminbx riife/io, fu sostenuta a spada tratta dal Taftiri, 
napolitano e deaìderoso di rivendicare a' napolitani la gloria 
il'aver prodotto il plil antico esempio di dramma pastorale. 
Inveco 11 Cresci mljeni, nei Commentari, schierandosi franca- 
mente fìra coloro die assegnavano in ciò il primato all'autore 
tiel Sagrificio, OBservò die l'espressione Comaedia quasi pa- 
slornlts eeloga non poteva dinotare ooea gran che dìvei-sa 
dalle altre egloghe usanti a quel tempo, anche con titolo di 
lomiMiiie, no' nostri teatri ; a e molto meno, eh' ella Itisse 
« porfottu quanto ó quella del Beucari, ancorché la sua re- 
7 cita durasse por lo spazio di tre ore; trovandosene di lun- 
t ghozza maggioro, senza che escano <lai limiti delle semplici 

• egloghe, come sono quello del Correggio, del Cazza e d'al- 
■ tri » (i, iH;). Monsignor Kontaninì tentò ribattere gli ar- 
gomenti <Iel suo contraddittore; ma seni» nulla opporvi di 
(Mtrlo- .\nti, is notevole, che, mentre tacciava il Crescimbeni 
di ( delioluxe e soilsmi », 6g.ì\ nccdltasse ad ocohi chiusi il 
titolo di Tirsi. l'Ili il custode d'Arcadia, forse fuorviato da 
un contuso riconlo dell'egloga del Castiglione, aveva dato 
a-poneamcnto u quolla del Tansillo nell'indice generale de' 
(*ni*wn-HMrr. E l'egloga del Tansillo tornata in loco ha dato 
lilBimnienlrt ragione ni Crescimbeni. Poiché il giudizioso ed 
anidltltKlHio tmi\ nvi^ndo potuto leggere, circa il 1758, i Due 
I^Uet/rli» * opoiv* rarissima, fortunatamente da lai poese- 
<> itutit i,<l |iw>«iiAMt * iiiwkt essere quella quasi egloga pa- 

• all'Itti*, ili Pili II Ma»tM|ltìi> 11» rli5t,'nian»a > ; e nella ristampa 
iltìi t%ii fS'fJtV"" fStll*! lo vl«9(w anno a Veneii* <por l'ap- 
piiulo di auir<«(ini|\lnm doli» ttatwliiana, possedato da Ini) 
unnnniià ti t\u>luuato rtirvi\M mentis In niM uulteiiu ette l'edt- 
lor« uiod«st«ui»uli> aiHHuIu ad allr« dttl oomio btograSco pre- 



INTRODUZIONE XXXEII 

limiiiuro: nellu quale l'idautità di codeat' egloga col cotnponi- 
monto scenico menzionato dall'abate Maurolico è data come 
certa e patente. 

Non tutti, peraltro, ì moderni furono d'accordo in questo 
con Apostolo Zeno. Il Volpicella, nel proemio alla sua cdi' 
zìone dei CapUoli, avendo osservato, clis uno dei due pelle- 
grini è spagmiolo e lamenta l'infedeltà della sua donna, col- 
lega ingegnosa mente l'egloga con la tre canzoni pescatoria 
i.uDSilliane, contenenti < il pianto d'Albano spagnuolo per 
Galatea che il tradisca in Messina », scritte, com'è chiaro, 
qnando • fu dalla Canlona preposto al parentado di Don Oar- 
< zia quello di Don Antonio d'Aragona > ; e però credette, 
che i Due Pellegrini, composti nella medeeima occasione, cioè 
circa il 1540, nessuna relazione avessero aal\A quasi pastoralis 
ecloga. Piti tardi, ne' suoi Studi il Torraca, proponendo (a 
pag. 23) alcune giunte alla prima edizioue dell'opera magistrale 
Bulle Origini del teatro di Alessandro D'Ancona per quel che 
riguarda gli spettacoli sacri e profani nel inezzodi della pe- 
nìsola, attribuì anch'egU al Tansillo due componimenti dram- 
matioì, riferendone gli argomenti con le testuali parole del 
Voi picei la. 

Sennonché, l'ipotesi del dottissimo bibliotecario, già persia 
stessa inaprobabde, percM in Alcinio. « nato in modesta for- 
) tuna e in umil tetto t. e nella donna, da lui amata, leg- 
u giadra e balla assai piiì che pndica d, è sopra modo difficile 
ravvisare don G arala di Toledo e donna Antonia Cardona, fu 
distrutta, coll'assegnare alla composizione dell'egloga un tem- 
po di tanto anteriore, dal Qaspary. Il quale soggiunge : Se i 
Due Pellegrini sono veramente i'egioga recitata a Messina 
B noi 1538, questa non fu la prima rappreseatazione di essa ». 
Giustissimo: che peraltro siano l'egloga ricordata dallo sto- 
riografo siciliano (come notò primamente lo Zeno, ed anche 
il Fiorentino mostrava di credere, preludendo alle Liriche), 
a noi pare Aiori d'ogni dubbio. Poiché il soggetto dell'egloga 
che riproduciamo ò al tutto identico a quello che ne dà 
succintamente il Maurolico. Sarebbe strano, che uno stesso 
poeta sopra un isteaso argomento avesse scritti due compo- 
nimenti scenici in tempi a occasioni diverse! Aggiungi, cbe 



\XXIV 



INTRODUZIONE 



alla (lesignazJoDd <le1 Maiirolìco rispondono bene e l'estensione 
e il carattere dell'egloga in lode d'Enrico Orsino. Se la rap- 
presentazione fini alla terza ora di notte, non è lecito infe- 
rirne, come fecero il Fontaniiii ed altri, che abbia dorato tre 
. ore: consta forse, esser la festa incominciata proprio all'aaat 
Allo spettacolo tenne dietro un bancbetto, cui preser parte 
non meno di cinquanta convitati e che (non è da dubitarne) 
era il vero scopo della Testa. La rappresenuizione, adunque, 
non fu cbe un passatempo in attesa de! pranzo, senz'altro 
fine cbe la lode di due personaggi ragguardevoli. È vero, 
come osserva ancbe il Gaspary, cbe De' Due Pellegrini si 
glorificano persone estranee, una delle quali morta da un 
pezzo; ma non é punto inverosimile, o cbe piacesse a chi 
dava tale spettacolo di risuscitare un componimento dram- 
matico, ormai dimenticato, del celebre t, Tanslllo da Nola » 
in lode d'una famiglia imparentata coi Cardona (fra gì' invi- 
tati c'era, si noti, anello un Orsino, il conte d'Angnillara), o, 
come inchiniamo a credere, cbe dal Tansillo fosse accomodata 
alla nuova occasione e ai nuovi intenti l'egloga composta 
nella prima giovinezza; fatto, in verità, non nnovo, del quale 
anzi, se ce ne (osse bisogno, potremmo addurre noti esempì. 



U Vendemmiatore, creduto per lungo tempo anteriore ad 
ogni altro componimento poetico del Tansillo, fu da lui scritto, 
come si legge nella sua canzone a Paolo IV, quando « il quinto 
< lustro ancor non avea chiuso »: non già. nel i)i4 (questa la 
data comunemente accolta), ma, non esitiamo ad aiTermarl6, 
nelj3i^.m entro il poeta era nel ventesimoterzo anno d'età'. 
Se, di fatto, nell'edizione veneta del [549, e l'orse anche 
nella napolitana del 'j4 — introvabile, pare; tanto che il 
Fiorentino ne mise perfluo in dubbio l'esistenza, — la dedi- 



■ BHJondo la notazione Dolano, egli avevii 35 siinl nel nui^o 
ilei '45, e il poemetto fu Dompiuto e inviato al Cara& d'otlobre. 



INTRODUZIONE XXXV 

cataria del Vendemmiatore reca la data del i." ottobre iSì45 
quella è indegna di fede, e questa usci in luce senza il con- 
Benso dell'autore, forse a sua insaputa; laddove il codice Pa- 
latino CCXL, che l'assegna al '32, per quanto non autografo 
coBie altri credeva, è autorevole per la genuina purezza della 
lezione e per e^ser stato scritto in tempi vicìniBsimi alia com- 
posizione dal poemetto. K la sua testimonianza può esser rin- 
calzata con argomenti molto validi, che qui brevemente ac- 
cenneremo. * 

È certo, che il Vendemmiatore asci in Ince a Napoli nel 
i>34, e che questa pabblicazione fu fatta invilo auctore. Di 
natura avverso, già a' é veduto, a pubblicare i suoi scritti, in 
questo caso il Tanslllo era fermissimo, per buone ragioni, nel 
proponimento di serbare inedite la stanze sugli orti delle 
donne. 



dirà più tardi, discolpandosi. E in effetto, egli aveva proibìl.o 
all'amico Jacopo Carafa, fratello d'Antonio secondo conte di 
Ruvo, a cui le dedicava e inviava, di mandarle attorno, fra 
la gente. Ora, un'infrazione di questo divieto non potè vero- 
similmente avvenire che col tempo: strano sarebbe, che il 
poeta, con tali propositi, certo, per aua stessa confessione, 
che dalla pubblicazione del poemetto non gli potea derivare 
che biasimo, ne mandasse copia, ingenuamente, a persona ca- 
pace d'abusare subito della fiducia d'un amico. Eppure, se il 
Vendemmiatore fosse stato compiuto e mandato al Carafa il 
primo ottobre 1534, codesta infrazione sarebbe avvenuta im- 
mediatamente; poiché un paio di mesi, e forse anche meno, 
dopo tale invio esso era già impresso e pubblicato. Ogni dif- 
flcoltfi scompare, se accettiamo per la dedicatoria la data 
offertaci dal manoscritto. Il licenzioso poemetto ebbe, come 
oggLsi dice, un successo di scQjnìaìo, e in ^ue anni se ne 
diffusero rapidamente le copie a penna. Una di queste, capi- 
tata alla ilne in Napoli nelle mani di un editore, lo invogliò 
a procacciarsi un facile guadagno, appagando, col pubblicarlo, 
il desiderio di molti. 



XXXV 1 



TKOUtiZIONt; 



V'ha di pili. Chi legge ricorderà, cba appunto iiafiii ultimi 
mesi del iì;^, il nostro poeta fu ammesso a corte da! nuovo 
Viceré, 6 impetrò da lai la libertà di Nola, e strinse amici- 
zia con Oarcilaso della Voga. Molto bene si spiega tutto 
questo, se supponiamo che allora avesse già composto il 
Vendemmiatore, suo primo componimento d'un valor poetico 
indiscutibile. Noi anzii diremmo, che appunto queste stanze 
leggiadre, cominciate ad andare attorno manoscritte nell'ot- 
tobre del '32, debbano aver fatto conoscere ed ammirare a 
don Pietro di Toledo l'ingegno del jfiovine venosino, indu- 
cendolo a schiudergli le porte del primo palagio di Napoli. 
Certamente, gii prima del 6 giugno ijjj, nel qual giorno 
morì l'Ariosto, il Tansilio godevfi buona nominanza anche 
fuori de! Ragno; poiché di ini cosi cantava Giano Pelusio: 

Uiles FiecidiuD Bucer, 

Tansille 

. . . cinclnE «iridi tempora jiampino, 

pangìs tuEca poema ta, 

quao tota obstupeat dulcis Hetruria: 



laluK, 



T», TBDSìlle, Buperstil^, 
rnoia base aMereis inse 



M m, 30). 



Qaali questi lusca poemala, levati a cielo dall'Ariosto, am- 
mirati da tntta « la dolca Toscana »? Nel 1531 il poeta, se 
stiamo a quel che scrivono i suoi biografi, non aveva com- 
posto che uno due sonetti di tenue pregio. Agginnganei 
pure i Dite Pellegrini, rivendicati recentemente alla prima 
giovinezza de! nostro. Nessuno di questi componimenti poteva 
eccitare, non dirò la grande ammiraiiione a cui accenna il 
Pelusio, ma né anche l'attenzione dell'Ariosto. Se invece as- 
segniamo al i;;2 il Vendemmiatore, che, come in corte pro- 
curò al posta come e favore, cosi fuori, ammirato vitupe- 
rato (questo non importa), certo fu letto assai, il fatto parrà 
naturalissimo. All'Ariosto dovette piacere la scioltezza di qua- 
ste ottave, indìzio di copiosa e facile vena; nù la loro os 



INTRODUZIONE 



X\XV 



I sta 



«ita era in verità di tal nalara, da scandalizzare chi caotù 
fji Giocondo e Fiammetta. Giano Pelusio, riferendo le lodi 
dell'Ariosto, le ba estese, con espressione generica, alle poesie 
tansilliane. 

Non ostante questa gran fama cbe il Vendemmiatore sn- 
,bito consegui, non ostanti Is nutnerose edizioni, a sebbene 
'Anche oggidì i piil leghino 11 nome del Tansilio al suo canto 
^OTenile, questo ó pochissimo noto, avendogli nociuto gra- 
ser steto messo all'indice come contrario a! buon 
gran conto si può e lieve fare dei giudizi che 
fugacemente e Incompiutamente ne sono stati dati; perciiè 
hanno tutti il difetto di considerare il poemetto soltanto nella 
in cui si legge nelle edizioni meno antiche, affatto 
diversa da quella che ha nei codici del cinquecento e nelle 
prime stampe': e nelle edizioni meno antiche esso non è in 
i&ndo che un centone di 183 ottave, sparso d'oscenif-ft d'ogni 

laniera e d'allusioni satiriche sconvenienti all'indole del 
glio, nna ricucitura di brani diversi, che nelle 
stampo del secolo scorso non son neppure d'una sola mano 
e d'un sol tempo; ricucitura quasi sempre grossolana, nella 
quale non so trovare la felicità e abilità ch'altri v*ha scorto. 
Converrà dunque, per darne equo giudizio, ricominciar da 
capo, e stabilire per prima cosa, quanta e qual parte del 
poemetto spetti veramente al Tansilio. 

Vha nna famiglia di codici e di edizioni del Vendemmia- 
tore, non molto estesa ma ragguardevole, ohe, se togli alcune 
varietà di lezione, ce ne ha conservato un testo identico, 
molto semplice. I manoscritti son tre, tutti del cinquecento: 
il Palatino citato e due Magi iabechi ani miscellanei; uno de' 
quali appartiene alla seconda metà del secolo, ma è copia, 
per quanto si può congetturare, di manoscritto pid antico, 
'altro vuol esser riguardato come un di quegli esemplari a 

inna, che ancor prima della stampa del poemetto, fra il 



il Torraca riferi come saggio d'effl- 
lono siate inlerpolate^ noi TenSein- 



XXXVIII INTRODUZIONt; 

'32 e il '34, andavano per le mani di moiti; come appara 
dai caratteri paleografici dalla forma esterna del preKioso 
faacicoletto. Quanto a!le stampe — tutte rare, e date fuori 
BUG cessi vara ente, dopo la prima di Napoli, nel 1537, '58, '^g 
'46, — è chiaro, oha son delle solite popolari, fatte (n'è 
conf^Ftna la comune ÌntÌtola>!Ìone) a proposito e piacere dei 
ricercatori di scritture pornografi eli e. Le tre prime mancano 
d'ogni nota di luogo e stampatore, la quarta fu impressa a 
Venezia per Matteo Pagan; tutte contengono un testo ana- 
logo a quello de' codici, e le traccia di parentela che v'in- 
contriamo c'inducono a congetturare, o che derivino da fonte 
comune 0, pìii probabilmente, che le ultima tre sieno ripro- 
duzioni materiali della prima. Queste stampe s'intitolano: 
Stanze di cultura sopra gli orti de le donne, stampate 
nuooamenle e istoriate,' poi, sul redo della seconda carta, 
dopo la data e una silografia: .Pianse piacevoli di messer 
Luigi Tatìsillo alto eccellente signor Giacomo Caraffa. R 
tanto nei manoscritti, quanto nelle edizioni, il Yendemmia- 
tore è di sole 79 stanze, susseguentisi nello stesso ordine. 

lìuona, in questa sua forma, la tessitura del poemetto. Un 
lucido collegamento d'idee no congiunge l'una all'altra le 
ottave, qui pura, come pili tnrdi nelle Sianse al Martirano 
e nella Clorida, tornite, svelte e d'un' impronta sola. Per la 
materia, questo canto giovenile, quale si legge ne' testi ora 
accennati, può dirsi un'appassionata glorificazione dell'amor 
sensuale, un invito alla voluttà, che il vendemmiatore, salito 
sur UQ albero, volgo alle donne che lo circondano'. Senza 
dubbio, il velo dell'equivoco v'è alcuna volta troppo sottile, 
troppo trasparente. Ma l'oscenità non trapassa mai certi 



' In séguito, il poata medefliin 



INTRODUZIONE XXXIX 

confini, non dà nel turpe, nel ributtante e nell'empio; né è 
tale, che non valgano a scusarla Tetà dell'autore, l'occasione 
in cui scriveva, la corruzione de' tempi. 

Tutto ciò vale a farci intendere la cagione dell'indulgenza 
e quasi tacita simpatia, con cui il poeta riguardò sempre il 
suo Yendemmiatore, anche quando da lungo tempo attendeva, 
per ammenda, a cantar divotamente le lagrime del e mag- 
« gior Piero », e perfino nell'epistola in forma di canzone 
all'austero pontefice Garafa^. Nella quale cosi accenna a que- 
sto povero scomunicato primogenito del suo ingegno: 

Finsi, e, pentito, poi ne piansi. indarno, 
rozzo yillan sotto festose larve; 
che di tal modo gli adombrai le membra, 
cb'altrui gioioso e non lascivo parve. 

E veramente, gioioso e non lascivo dovea sembrare ai più 
il Yendemmiatore, in un'età che non produsse, starei per 
dire, opera d'arte, ove alcunché non offenda gli orecchi de' 
timorati e dei casti, e che oscenità di ben altra natura non 
pure tollerava, ma cercava. Peraltro, né tal giudizio dei con- 
temporanei, né l'indulgenza dell'autore si spiegherebbero, ove 
si riferissero al Yendemmiatore quale, riformato da ignota 
mano, primamente comparve a Venezia, appresso Baldassarre 
Costantini, al segno di S. Giorgio, nel 1549: TI Yendemmia- 
tore,. . . .per adietro con improprio nome intitolato 
« Stanze di coltura sopra gli orti delle donne », qiuisi 
tutto di nuovo riformato e di più d'altrettante stanze quante 
erano le prime accresciuto, le quali, si come per adi e- 



Il che fin dentro l'anima mi grava, 
qualor vi penso, e parmi aver errato, 
benché l'età d'allor me ne scusava, 

(Ivt). 

Error fu giovenile 

quel che, attempato, oggi riprendo e scuso. 

(Canz. a Paolo IV, st. 4). 



XL INTKODliZIONE 

irò neli'allrui stampe e lacere e corrotte son 
state lette, cosi per inanti in questa intere e correttesi 
potranno leggere. 

Ecco, ognun Tede, un titolo ben largo (ìi promosse a laen 
severo con !e stampe anteriori! Ma elio l'edidiinB costanti- 
niaaa, ooine lia restituito al poemetto il suo nome vero, co^i 
non gli abbia punto conservato lo stato primitivo egenuino, 
parrà a tutti quando avrò mostrato che cosa sieno la qui 
vantata aggiunte, e parve a taluno anche in passato. Così 
nell'antieo Gìo)-nale de' Letterati d' Italia, voi. XI, le giunto 
introdotte non propriamente in questa edizione, ma in una 
Boa fedelissima ristampa, descritta nel IV tomo della Biblio- 
teca pinelliaìia illustrata da Jacopo Morelli (pp. 120-21), 
sou giudicate < o uno storpiamento fattovi da altra mano, 
t ovvero parte di quelle ottave, cbe, col titolo di Stanze in 
• lode Clelia menta [a le belle e cortesi donne], costituiscono 
f 4 un'operetta affatto diversa dal "Vendemmiatore » ', Modor- 



1 E d'altra mano, soggiungeremo. Poivbé il Tansìllo, Cuori del 
Venàativrnialors, nuU'altro scriaee di lubrico: ciò dichiara ripetuVa- 
meute a Paolo IV: 



Un Bol de' m 

la altro error lo sii) non mi ri 

Son gli altri suoi frale! candidi, 01 

nnli di puri e leciti imenei, 

vi carta unqpia rergSr d'indegne i 



Queste StMvie, imitate dalla tausilliana (r«staadone beu luugi uo^i 
naif ìnvent ione coma nello stile), conserTuoo la flsoDomiu del mo- 
dello, imitamenle si quale furono impresse nel 153S, sol tilolo 
swxie iti oolbira sopi^ gli orti delie danne Bolle sianie in lode OcUi 
menta; rura edizione, suUù gnola furooo condotte le successive, di- 
visa In due porti, l'una di 16 fogli e l'altra di is, con figurine io 
legno. Il venOemmiatore è iossieme fratello babbo del poemetto 
io lode delia menta, col quale, nella sua geouiua forma, ha quasi 
uguale il numero delle ottave. Questo infatti (Eecondo cbe il nome 
slesso dinota) può dirsi una lasciva gioPitlcadonB dell'orlo tii'ile, 
ipiBllo del moliobre; e nel medogilDo 1«mlio è cerio, che da alcuna 
slanie del FenOemnUators, in cui ai celebra l'erba clie meglio alli- 



INTRODUZIONE XLI 

namente, al Palermo l'edizione del 1549 parve « rìforinala o 
t peggiorata da chi vi pose le mani t, e Domenico Bianchini, 
riferendosi in genera alle stampe che, per via diretta o in- 
diretta, ne derivano, ebbe ad augurare al Yendemmiature 
« un editore amorevole e discreto, che ce !o presenti mondo 
« Ja taoti errori e deturpamenti che lo hanno svisato » <. 

Certamente, la stampa veneta del '49 ebbe moltissima dif- 
Tufiione. Non mancò, tuttavia, chi riputasse necessnrio tornare 
alle pili antiche; e un accademico della Crusca pubblicò in 
Firenze nel 1755, inaterae con le ottave del Poliziano e del 
[iembo, questa del Tansillo « ridotte alla lor vera lezione « 
cioè in numero d'ottantadue. come, se crediamo al Gamba, 
nell'edizione napoli tana del 1554. Il testo stabilito da fiuest'ac- 
cademieo non è precisamente il medesimo che presenta la 
Gummentovata famiglia di manoscritti e stampe: manca d'al- 
cune ottave, e, in quella vece, reca due notabili aggiunte, le 
quali s'incontrano anche nell'edizione del '49 e nelle succes- 
sive; sar/L forse una riprodaziona dalla napolltaua, ch'é la 
prima. Sennonché, neppur quest'altra versione del poem^etto 
può estuar riguardata come la pi>'i autentica; la quale, secondo 
noi, è da ricercar soltanto nel codice Palatino, ne' Magliabe- 
chiani, nella stampe dal '37 al '46- S'o visto, in fatto, che 



gDa U0l giardino d'Amure, ha ricavate le proprie, l'ignolo cantore 
della menta: allargando eA amplionrto, non senza saccbe)>g[3re (com'è 
da' piuglari) quelli elie in tal soletto l'avevano precediiki: 
Ne scrisse il Bembo in stil ulto e divino, 
ch'io to' rubando, e scrifise per latino. 
Alternò a siffalle lodi tterinte contro l' incontinenza claustrale, di- 
gressioni intomo alla molestia de'rilegDÌ imposti dal decoro e le 
solile esortazioni alle donne affinché a! godano la vita prima dell'a- 
spra veechiezza; in (Ine, un aneddoto su Priopo. Tutto ciò ricorda 
assai da vicino le giunte dcll'edìiione costautininna, con le quali le 
stanze sulla mentn hanno anche innegabile conformità d'espresaioni 
e di stile. Scranno opera, le una e le altre, d'una medesima persona? 
1 Sei sonetti OtcrahieUMeiii di L. Tansilia, Firenze, Tip. Cellini, 1867 
(estratto dal giorn. La CHotwttù), p. 5. 



XLII INTRODUZIONE 

la prima edizione usci in luce nolente Tautore, fors' anche a 
sua insaputa, e che, essendo il poemetto del 1532 e non del 
'34, probabilmente subì in essa alterazione la data della de- 
dicatoria: sorge naturale il sospetto, che vi sia pure pene- 
trata taluna di quelle interpolazioni (intendiamo delle meno 
oscene), che, dopo la pubblicazione delle lubriche stanze sulla 
menta, sformarono in cosi malo modo il poemetto. Anche il 
Fiorentino osserva, a pag. XXXIX, che « quando il Vendem- 
« miatore fu stampato, altri si misero ad imitarlo, emuli 
« deiroscenità, assai disuguali nella ricca fantasia e nello 
« stile ». Or poiché esso dovette rapidamente diffondersi, come 
s'è mostrato, anche prima della pubblicazione, è ovvio sup- 
porre, che di siffatte imitazioni risentisse già la stampa del 

1534. 
La prima aggiunta dell'edizione del 1753 — e quindi anche, 

forse, della napolitana, introvabile — si compone di due sole 
ottave (X e XI delTed. Costantini), e contiene una rappresen- 
tazione allegorica della Fortuna e del Pentimento, esplicazione 
di quel concetto, che da un epigramma dell'Antologia Planudea 
(IV, 275) passò ad Ausonio, il quale nel duodecimo de' suoi 
(Jn simulacrum Occasionis et Poenitentiae) l'allargò aggiun- 
gendo la parte che riguarda il pentimento, e da Ausonio al 
Machiavelli, che ne fece una parafrasi nel sermone capi- 
tolo sull'Occasione a Filippo de'Nerli^. Da questo capitolo, 
indubbiamente, le stanze pseudo-tansilliane. Quanto all'altra 
aggiunta (st. XXIV-IX), essa è manifesta reminiscenza de' ca- 
pitoli di Giovanni Mauro In disonor delV onore; i quali, oltre 
al concetto fondamentale (già inchiuso nel titolo), le hanno 
somministrati tutti gli elementi: ad esempio, una descrizione 
dell'età dell'oro, fatta con particolarità un po' grottesche, di - 
venute da lunga pezza tradizionali e frequenti cosi nella sa- 
tira come nella poesia giocosa del secolo decimosesto. 

Venendo alle interpolazioni numerosissime dell'edizione Co- 
stantini, la prima, oltre alle due ora discorse, non fa che 
intrudere nel contesto superflue volgarità di concetto (st. XIV- 



^ Gfr. ViLLARi, Nicc. Machiavelli e i suoi tempi. III, 177. 



INTRODUZIONE XLIII 

XVil) ; nella seconda, che forma entro il poemetto come una 
parentesi di cinque ottave (XXXVI-XL), si tessono lascive 
lodi della fescina, donde sarebbe derivato il nome a;?li anti- 
chi carmi fescennini; poi ne tien dietro un'altra sulla cadu- 
cità della bellezza femminile, che ricorda, più ancora d'altri 
passi di cinquecentisti, un capitolo del Lasca (XIV dell'ed. 
Verzone) ; a tutte e tre, infine, n' è accodata una di due sole 
stanze (LX-LXI), grossamente oscena ed insipida. Soltanto 
dopo quest'ultima, e precisamente coU'ottava sessantaquat- 
tresima, cominciano le aggiunte lunghe ed importanti. Ec- 
cone la ragione. 

Nella stampa veneta costantiniana la dedicatoria a Jacopo 
Carafa è assai più estesa che nel codice Palatino: v'è inse- 
rito il tratto seguente, in cui ci par di ravvisare tutti i C4i- 
ratteri d' un' interpolazione : 

« Oltre a ciò (si noti la forma aggiuntiva assai comune), 
« non è questa foggia de' miei componimenti come il greco 
« di Somma o i latini di Nola; i quali, quanto più si man- 
« dano lontano, e corrono mari, e cangiano terre, tanto più 

< nelle bocche degli uomini paiono migliori; ma sono simili 
a a quei bruschetti, che nascono ne' luoghi frethii e nei monti, 
« che ogni tanto che si trasportano, perdono quel poco che 
« avevano di buono. In ogni terra, fuori di questa nostr«n, 
t dove queste mie rime fussero portate, perderebbero la loro 
€ grazia, se pur n'hanno qualche parte; e tanto più venendo 
« elle in mano di tale, che non sapesse l'usanza di questo 
€ paese a questi tempi : che è (come sapete), che il più basso 
« ed oscuro uomo che vi sia, può dire al più alto ed illustre 
€ signore, o donna, che vede, tutte le ingiurie che vuole; 
e massimamente di cose (come qui si dice) di camera; e 

< quelli che più che gli altri si vagliono di questa libertà di 
€ dire, sono coloro che stanno colle scale sugli arbori, ven- 
€ demmiando le uve: come fa ora il nostro vendemmiatore, 
€ che vendemmia e ragiona non meno con coloro che 
« passano, che con le donne che gli stanno d'in- 
« torno raccogliendo le uve, che con gli altri cogliono sugli 
€ arbori. La quale usanza io per me credo che fusse anti- 
« chissima, per quel che si dice in una satira d'Orazio, che 
« ha tanto tempo che fu ». 



XLIV INTRODLZIONE 

La satira a cui qui gi allado è, senza dabbio, la VII 4 
libro primo: 

... Tom Praenestiaus salso umltoquc Unenti 
eipresaa arbusto regerii conritifl durua 
lindeioialur et ìutÌcIus, cni saepe vialor 



quel elle bì dice delle usanze paesane durante la vendem- 
mia ci richiama alla memoria un passo del De Nola, opttscu- 
lum dUtirtctum clarum etc. di Ambrogio Leone, edito Gn 
dal 1514 in Venezia, che giova rileggere: «... Vindemia- 

< tores ea die qua prò quoquam vindemiam (aciunt . . . ve- 
« neres vel obscaenissimesse optare exclamant, eas iactant, 
minitantur. Monentem vero, si qaìG eos castigare velit, de* 

< rident ac exerta lingua contemnunt, oreque ipso in eum 
a oppeilunt. PudornuUue; reverentia ouinis deleta est in eis; 
» loquendi summa licentìa atque arroganza in pi-omptu est, 
t Demuni non homines videntur, sed satyri ac Bacchi sacer- 
• dotes; petulantof, iniurli, lascìvìentes, luxiiriante» > (lib. IV, 
nip. 14)». 

Lo scopo dell'aggiunta è chiaro. Clii lia messa la mani per 
entro allo sorltCo del Tansillo ha voluto con essa giustificare, 
non tanto il sudiciume ond'ei l'Iia contaminato, quanto le 
allocuzioni introdottevi del vendemmiatore ai passanti. Bv'è 
riuscito, allargando quanto il poeta medesimo ha detto sull'oc- 
casione in cui compose il poema, ricongiungendo questo a 
IradizionL popolari, forse realmente persistenti, che, come 
dovevano essere molto conosciute in grazia dell'opera d'.Am- 
brogio Leone, cosi, attesi i versi oraziani, erano certamente 



1 iiug. xxxviir, I 
. A gè, liberiate decembti 



' occopPC BWe 
• di eonfiuioni, 



tire, L^he questa nolizie son da accoglier 
Ilo storico Qoliino dai Tafuri fu giudica 
ì notellelle e 



INTRODUZIONE XLV 

reputate antichigsime. Per tal modo, Ita potuto a suo talento 
infiorare il poemetto d'allocuzioni o invettive di tal genere. 
E, ad esempio, nelle ottave LXlV-LXVIH del testo costanti- 
niano ti vendemmiatore toglie a beffare un soldato ed un 
frate; giunta meritevole d'attenzione, aopra tutto per averne 
originata, due secoli dopo, una nuova, di tredici stanze, dove 
l'ipocrita sensualilA di certi ecclesiastici, perturbatori della 
santilfi dei lari, è smascherata con satira eloquentissiina. Piti 
sotto (sorvolo sulle stanze LXXIV-LXXV, inserita aol per de- 
siderio di rincarare la doso dell'oscenità), lo sboccato predi- 
catore esce all'improvviso in contumelie e sarcasmi contro 
una vecchia che passa guidando < di vaghe donne nobii cal- 
« ca » (st. LXXXI-XClX) ; non senza avere in ciO presenti le 
altre invettive d'ugual soggetto dei satirici contemporanei, 
in iapecie l'arlostescn famosa. Poi, dopo un'altra giunta, non 
meno inopportuna che lubrica, sul « bel legnetto che si cae- 
« eia sotterra »', l'ignoto rifacitore del poemetto tansilliano 
intona, per ben trentaJua ottave {CVt-XXXVlIIì, una specie ili 
sconcia e volger prìapea, indipendente da quella del Franco 
fin dal 1341 divulgata per !e stampe in Casale Monferrato, 
nonché dai notissimi modelli latini, ma in istretta relaKiono 
col capitolo del Mauro a esaltazione del nume custode degli 
orti. Naturalmente, la scena dello gesta di Priapo vien posta 
nella Campania; cosi il raceonciatore ha modo di diffondersi 
sull'usanza dell'agro campano, già accennata nell'interpola- 
zione della dedicatoria, e di richiamarsi anche alla suddetta 
satira oraziana, facendo dire dal vendemmiatore a un pas- 
sante: 

Giurato avrei cli'eri uom fatlo di stucco, 

□ tu che «otto noi si soldo passi, 

se non gridaTi: • Taci, ignobil oucco k; 

ch'è il magna compcUans voce cuculum. 



I iolrodolta, artiflciosameDte, cosi: 

Quando Io vi posi ioDunii gli Blruni'>nti 
che del Lell'orlo ndopro alla coltura. 



XLVI INTRODUZIONE 

Questa, nella stampa veneta del ^49, è T ultima interpola- 
zione di qualche conto. Brevissime le seguenti, al pari che 
insulse (ottave CXL-XLI, CXLIII-XLIV, CXLVIII-LI, CLVI-LX): 
di esse la prima celebra il fico ed altri alberi, inspirandosi 
forse a qualche capitolo burlesco. — Conchiuderemo adun- 
que, che Tedizlone costantiniana, nella quale il poemetto, con- 
trariamente all'indole del poeta e all'espresso giudizio ch'ei 
n'ha lasciato, è un guazzabuglio d'oscenità di ogni sorta, ac- 
cresciuto di pili e diversi brani affatto intrusi e d'origine non 
difllcile a rintracciare, dovett'essere cosi malamente raccon- 
ciata per mera speculazione libraria; forse da quel medesimo 
(la conformità delle espressioni e dello stile fa sospettare una 
mano sola), che aveva già coojposte, in quel torno, le stanze 
della menta. 

Riassumendo, ecco la « vera istoria » del testo del Ven- 
demmiatore. 

Finito di comporre e inviato al Carafa il primo ottobre 
1532, constava, in questa primitiva forma, di settantanove 
stanze. Due anni dopo, un editore napolitano Io faceva im- 
primere; con qualche ottava di meno e, in cambio, con un 
paio d'aggiunte. Soltanto nel '37 cominciò ad andare attorno 
stampato il testo genuino; ma non col proprio titolo, si, per 
più esatta e chiara significazione della contenenza, con quello 
di Stanze di collutta soj^ra gli oj'ti delle donne. Quasi con- 
temporaneamente, un ignoto (forse il medesimo che aveva 
curata l'edizione di Napoli), pratico di scritture oscene e do- 
tato di vena poetica non meno facile che torbida, tolse argo- 
mento da alcune ottave del poemetto ad una pubblicazione 
quasi direi complementare, che gli uni: le Stanze in lode 
della menta. Egli stesso poi, fatto dal buon successo più ar- 
dito, — ovvero qualche altro suo pari — nel '49 ne die fuori 
addirittura un rifacimento, col vero titolo, ma secondo un 
nuovo disegno suggerito dal titolo medesimo, dal passo d'Am- 
brogio Leone e dai versi oraziani; il qual disegno tradusse 
in atto, deducendo molti elementi dalle suddette Stanze della 
ìnenta, nonchó dalla materia convenzionale, giocosa sati- 
rica, del tempo. La nuova edizione ebbe fortuna, fu base alla 
volgata, e nelle sue ristampe, ricomparvero alcuna volta, 



INTRODUZIONE 



XLVtl 



unitamente al Yendcmmiatore conciato a codesto moiio, an- 
che le stanze sulla menta. Ma qua! conto in séguito si sia 
fatto d'un'operetta che, nella lezione autentica, era parsa 
« gioiosa e non lasciva >, si rileva <ial trovarla già nel cin- 
quecento insieme con la Caa:ia d'Amore attribuita (falsa- 
luonte, crediamo noi pure col Virgili) a Francesco Beroi, e 
nel secolo decimottavo — indizio peggiore assai — con 
l'infame Prìapea dei Franco. In questo secolo, il Vendein- 
ìnialore riformato ebbe, per ragioni ovvie, singolare diffu- 
sione. Invano un accademico della Crusca tentò alla meglio 
di ricondurlo alla lezione genuina: il poemetto si seguitò a 
stampare nella pretesa integrità, ed anzi, per una nuova 
interpolazione, il numero complessivo delle sue ottava sali 
da centosettantadue a centottantatré! Piacque segnatamento 
in Francia; dov'è probabile sia comparsa anche la stampa 
liei 1786, con l'indicazione di Caserta. E a Parigi, durante 
la grande rivoluzione in quel torno, usci in luce due volte, 
nei '90 e nel '98: la prima, unito alla Prìapea, la seconda 
con a fianco la traduzione di C. F. Marcier de Compiègne. E 
un'altra versione francese ne fu fatta, sempre a Parigi, nel 
1791, da .1. B. Chr. do Granville. — A quale libertà di costu- 
me e d'opinioni rispondesse, sul cader del settecento, una si 
gran foga di far conoscere e divulgare lo scomunicato poe- 
metto, tecilmente s'indovina, né ci ó dissimulato da chi ha 
speso in tal bisogna il suo tempo e le sue cure. 

Ed ora, uno sguardo ul poemetto nella sua forma genuina. 
Il Vendemmiatore, quale usci dalla penna del Tansillo gio- 
vanissimo fra il lieto strepito della vendemmia, ha pregi in- 
negabili, a cui detraggono alcun poco, ma senza oscurarli, 
la fretta, la baldanza un po' scapigliata con cui fu steso 
in carta. Son pregi, badiamo, puramente e t 'nse ' e for- 
mali: stanno nella copia dell'eloquio, nell onta lei v nel 
partito che il poeta sa cavare da certi pelent etorci, 
da certe reminiscenze. Piace e fu sorridere quan 1 1 il no 
avvinazzato, prima d'incominciar la sua lub le one pono 
in bocca gli argomenti ilei Convimo di Dante contro 1 par- 
iar lU se. medesimi; e sorridiamo, altre. , dell evemer mo 



XLvm 



INTRODUZIONE 



V^' 



arguto, con cui il Tansillo Epiega a modo suo, mali/iosa- 
mente, il mito delle Esperidi e della Earcastica allusione con 
cui mordo i vizi dei pedanti. L'intonazione è sempre la 
stessa, diversi ì colori; l'un pensiero chiama l'altro, le ottave 
si allacciano naturalmente, e giun^'iarao in fondo senza Ta- 
tìca. Ma nulla piiì. Tutto coileeto ci ia, lodar l'arte del poeta: 
iloUa »US_ Jan tasi a nessuna trìiPM a^__ 
■^^ Non fti osservato da alcuno, ma è chiaro e patente, che 
pel soggetto, per la contenenza il Vendemmiatore ù.tutt'al- 
tro che origiuale. Ridotto alia primitiva struttura, si può 
dividere in tre parti: un'esortazione alle donne affinché sì 
godano la giovinezza, una specie di lezione sul miglior modo 
di giungere, per diria coli' Ariosto, « qttel soave fin d'amor 
che pare All' ignorante vulgo un grave eccesso, e, in fine, 
le lodi delia menta. Or nessuna di queste parti è dovuta al- 
l'immaginazione del poeta. Poìchi^, quanto alla seconda, dì 
ammaestramenti immorali, adombrati dal velo piti o men 
fitto dell'equivoco, riboccano a i capitoli berneschi e i canti 
del carnasciale e corti poemetti derivati da impura sorgenti, 
i quali anche nel secolo decimosesto, come in ogni altro, tro- 
vavan posto, accanto alle divole istorie e alle vite de' santi, 
nel patrimonio poetico de' nostri volghi, sempre vario del 
pari che dovizioso: ehi non avesse ascJiifo di rinvoltarsi nel 
brago della letteratura oscena del cinquecento, troverebbe 
di che accusar di plagio il vendemmiatore tansilliano, e ne 
troverebbe gli ispiratori, i maestri, i condiscepoli. Questo noi 
non faremo; ripetendo ciò che un grande umanista, il Valla, 
ebbe a dira d'una sconcia parola: ignorari malo, qttatnme 
docente scirì. Additeremo piU tosto — ch'é buono a sap«si 
— il modello delle altre due partì, la prima e l'ultima, del 
poemetto. 

K nota r animi razione dal Tansillo pel « suo gran Sembo », 
che tanto gli sarebbe piaciuto conoscere di jiersona, come 
~ ripetutamente alTerma nelle liriche e nel ma^^'sior poema- 
Allorquando egli scriveva ìi Vetidcmmiaiore, la famosa dit- 
tatura letteraria dello scrìttor veneziano era ^da gran tempo 
stabilita su cosi saldi fondamenti, che male incogliova a ohi 
tentasse scalzarla. 11 Bembo trionfava, ammirato e incensato, 



INTRODUZIONE XLIS 

in ineszo a una turlia dì sonettìeri petrarcheggianti che Fi- 
conoscsva in luì, non iliró il corifeo, ma U sultano; né c'è 
Uà mara vigliarsi, die il buon Taasitlo, il quale amoreggiava 
beasi collo muse, ma, impedito un dn fanciulla dall'attender 
ili propoaito- agli studi, non ewto avrebbe osato vantarsene 
sacerdote, ctiinasse la fronte al maeGirao pontefioe, 

e, per bneiar quell'onorato mano, 

che toglie altrui di loinba, e fa in un'oi-B 

a la morie ed ni toinpo ingiurie eterne (son. iv), 

ardentemente desìderasao solcare, alla volta di Venezia, la 
« ricca onda > dell'Adriatico. Orbene: il Vendemmiatore, ec- 
cettUEito quel tratto die contiene la lubnca -dottrina sulla 
cultura degli orti (ottave XXXU-L), ò tutto un'imitaKÌone 
del Bem bo: le poesie latine e voigari dì questo celebrato 
scrittore il Tamillo, benché « lontano dal libri », dovette 
avere aott'occliio (se pure non ne ricordava a mente la piU 
f^ran-pSrfé) quando dettava il poemetto. 

Certamente, i consìgli alle donne, di non lanciar consu- 
mare la bellezza e di prender bel tempo innanzi cbe trapassi 
il dor degli anni o imbìancbi la. chioma, per non aversi un 
giorno a pentire invano, sono anticbi, quasi, quanto ÌI mondo, 
ovvi nella poesia pagana, graditi a poeti celebratissimi dell'an- 
ticiiità. Ognuno ricorda i versi dell' ;lrs Amaloi-ia d'Ovidio: 

Uum tkcil iugeniuiu, petite bine praecepla, puellna, 
quas pudor el leges el euu iuru ainunt. 



«io nullum vubis (empuB altibil iners. 
Duiu licet, el verna etìaui nuuc edUìs aiiQns, 

Indite, euot anni mora fluentia anuue; 
Tieo quae iiraeleriit llaruio reroDabitur iiiidn, 

aea nane praeteriit bora l'edlre potest sto. (liJ, 57-^). 

E il popolo fece suoi questi precetti; anzi, li ricantò su tutti 
i toni, ora ne' brevi periodi ritmici della baraelletta, ora 
ne' più larghi e gravi dello strambotto. Dalia poesìa de' vol- 
ghi passarono, inoltre, nella lirica eulta popolareggiante; 
dove li accolsero di gran cuore il Poliziano e il Pulci, l'Ai- 



L INTRODUZIONE 

tissimo ù Francesco Gei, e, pFìmn di ]oro, il GiustiniaD, e, 
dopo, Seralino dell'Aquila, il Notturno, Baldassarre Olimpo 
da Sassoferrato: ciò sì può vedere anche dagli esempi che 
siamo venati spicciolando, a suo luogo, appiè delle ottave 
tansilljane. Ma il Nostro non ha attinto soltanto alla tradi- 
zione. Come nei Due Pellegrini ebbe presente la diffasissima 
Cecaria, cosi nella prima parte del Venilemmialore ha se- 
guito le non raen famose Stanze del Detnba, pÌdJ¥olta im- 
grè^ (per la prima, in Venezia, col titolo Cinquanta stanze 
del B. con la musica de sopra coinposia per l'eccellente 
aulico M- i.Uaclies de l'onte), che l'autore stesso, masche- 
rato, aveva recitate al cospetto della celebre Eii^betta Gon- 
zaga e di Emilia Pia, nel bel palagio della corte d'Urbino — 
ritrovo da' pid eletti spiriti del tempo — , facendo da inter- 
prete a due ambasciatori della dea Venei'e. La qual finzione, 
poictii^ fu immaginata di carnevale, anzi mentre i signori a 
le gentildonne della corte urbinate < danzando festeggiavano 
« la sera del Carnassale 'ioj », sì ricongiunge a quelle 
personidcaxioni del carnevale stesso, che, come osservò giu- 
stamente Rodolfo Itenier, « seguitano un concetto assai gra' 
« dito all'evo medio, da cui sorsero i celebri contrasti IVa il 
« carnevale e la quaresima, e che si perpetuò dipoi nella 
« nostra letteratura semi-popolare cittadina > '. Di fatto, 
consigli die gli arabasciadori della dea di Cipro danno . 
bel sesso nel poemetto del Bembo coincidono in tutto e pi 
tutto con quelli die il moribondo Carnevale luscia, tollera- 
bile ed ossemante testamento, alla « sfrenata gioventii 
noto poemetto di Gaspare Visconti; od ambedue questi 
ponimenti, uguali (per fortuita coincidenza) in lunghezza, 
sono — appunto come ti Veiuiemmialore — una predica alle 
donne per indurle a compiacere i loro amanti, fatta in una 
stagione propizia agli amori e in cui le donne soglioa mo- 
strarsi meno restie. Dal ^rimo, cioè da quel del Bembo, de- 
rivuno le ottave tansjlllana Ano alla ventisettesima. 



I f mai 



INTRODUZIONE LI 

la contenenza della dedicatoria del Tansilln 
al Carafa. Or ecco, quasi intiera, la lettera eoa cui il liejnbo, 
un paio di giorni dopo quella festa, accompagnava al eoo 
compagno di mascherata, Ottavio Fregoso, l'invio delie sue 
Stame: < Arai voluto, illustre siguop Ottaviao mio, che le 
stanze clie furono da V. S. ordite e da me tessuto con frez- 
zoloso subbio qaesti di piacevoli, che per antica usanza si 
alla licenzia ed alle feste, affino che elle si recitas- 
:o per giuoco da mascherati dinanzi la nostra signora 
ichessa e madonna umilia nostre zie, secondo il sentì- 
jnento della finzion loro; recitate e udite una volta nella 
maniera che s'ordinò, si come venne lor fatto d'essere, elle 
< del tutto nascose si fossero e dileguate dagli occhi e dalla 
« memoria di ciascuno, in modo che altro di loro che la 
• semplice ricordanza non fosse rìinaso. Perciò che assai vi 
« dee esser chiaro, che in quella guisa e in taio stagione 
« può per avventura star bene e dilettare cosa che in ogni 
« altra sarà disdetta, e sommamente spiocerd. E queste mo- 
« desime stanze sono di qualità che, si coma ij pesce fuori 
» dell'acqua la sua vaghezza e piacevolezza non ritiene, cosi 
« elleno, fuori della occasione e del tempo loro portate, non 
« averanno onde piacere.... Ed era certo il meglio fliggire it 
« rischio della riprensione, là dove acquisto akono di loda 
fl non può aver luogo. Ma, poi cbo a voi pur piace d'ararle 
» appresso di voi,.... io a V. S. le mando ecc. o (Leti., Ili, 
II, 13). Non si dicono in fondo le stesse cose, a con forma 
-inaloga, nella missiva del Nostro? — Andiamo avanti. 

Il vendemmiatore del poemetto tansìlliano rimprovera le 
donne perché ne' loro orti lasciano « languir i fiori e morir 
« l'erbe ». — Vi pentirete!, esclama; e non c'ò di peggio (io 
ve ne accerto per prova) del pentirsi tardi e invano. È l'em- 
pia ingratitudine, che vi fa lasciare in abbandono « la terra 
« ch'a far frutto il Ciel vi diede ». Riguardate i fiori ; essi sono 
come la vostra bellezza: dilettosi ma caduchi. Che sarebbe 
di loro, 1 s'all'uno estinto Non succedesse l'altro »? E pari- 
mente, della vostra bellezza che sarà, sa ognuna di voi morra 
sterile? Sperate forse di godere dopo morte? Il paradiso, che 
tanto bramate, ò un giardino, e questo giardino l'avete in 



1.11 



INTRODUZIONE 



voi stesse. Riguanlate altraei ■ gli augelli i pesci, gli animai 
< le fiere ». Come osserv ano le sante leggi della Natura I Ri- 
guardate in flae < questi olmi e queste viti >. Il bel frutto 
elio su ne coglie non sarebbe, Ee la terra chiudesse sempre 
il grembo all'acqua che vien dal cielo, se la vite non staeso 
notte a giorno nello braccia dell'olmo. — Or sentiamo it dotto 
e galante cortigiano d'Elisabetta Gonzaga; rileggiamo qui 
tutte di si5guito, inTecB di sparpagliarle piil In 14, sciupac- 
cliiandole, appiè di pagina, alquante delle ottave non inele- 
ganti che il Bembo recitò in nome dei messaggeri di Venere: 

E per boucB di lui Id'Aiiuìre] chiaro vi dico 
non chiodels l'entrala ai piacer suoi; 
sa '1 dal vi si girò largo ed amico, 

non basta il caniiio aver lieto ed aprico, 
se non s'ara e sementa e miete poi; 
gisrdln non colto in breTS divien selva, 
e fnssi InstFo ad ogni augello e belva. 

È la vostra helleiza quasi nn orto, 
gli anni teneri vostri aprite e maggio; 
ullor vi va per gioia e per diporto 
il signop quando può, led egli à saggio: 
ma, poi che '1 sole ogni fioretto ha morto, 
o '1 ghiaccio a le campagne ha fatto oltraggio, 
noi cura, e stando in qualche Tresco loco 
passa il gran caldo, o tempra il verno al Coeù. 

Ahi. poco degno è ben d'alto Fortuna 
ehi Ila gran doni e cari, e schifa ttsnrlil 
A che Epalmar i legni, se la brnn» 
onda del porto dee poi moDcrarlit 
Questo sol olle riluce o <|ueita luna 
lucesse in vao, non si devria pcegiarli- 
Oioveneua e beltà che non s'adopre 
vai quanto gemma che s'asconda e copre. 

Qual ròra un nom, se l'una e l'altra luce 
1 tempo aprisse, 



e te 



a Va 



e ■! pie, che ■ 
mai d'orma r 






lilla 



INTRODUZIONE 
la! & proprio colei che, bella e ■ 
neghittosa tra rol elede e bì per 
tvon vi tuandA qua giù l'eterna cu 



Se 



i Sié ni piacovolB figura 

b^ io tormento altrui la possedeste I 

tata fosse sd ogni priego dura 



Il mondo tulio in quanto a ai distrugga 

ohi le paci amorose adombra e Tu^e (XXX-IV). 

Come nrrian posto al nostro nascìmenlo 
necessità d'amor Natura e Dio, 
se ^uel soave suo dolce coaceato, 
che pjac« si, fosse malragio e rio? 
Se per girar il sole, ir vago il vento, 
in su la fiamma, al cbio correre il rio, 
non ai pecca do lor; né voi peccaU 
quando '! piacer per cui si casce amale. 

Mirate, quando Febo a noi ritorna 
a fe le piaggie verdi e colorite, 
se dove avvolger possa le sue corna 
8 se fermar non lia cìbbcupo vile, 
esaa giace, e '1 giardin non se n'adorna, 
ni '1 frutto sua aé l'ombre son gradite; 
ma, quanOo ad olmo od oppio alta s'appoggia, 
cresce feconda e per sole e per pioggia, 

Pasce la pecorella i verdi campi, 
e sente il suo monlou cozzar vicino; 
ondeggia, e par ch'In roexio l'acque avvampi* 
eoa la sua amata il veloce delfino ; 
per tutto ove '1 Icrren d'omltra si slampi 
aoBteo due rondinelle un faggio, un jiino: 



I TAKBitLO (at. XXVI): 

. . Tal ha colei che 'l lelo 
mor nnn sente ne ì'eth suo 
ennB frutto il fior degli onn 
Cnnta la fiamma che nell'onda il eoo 
nella Ctortila (crx, a), forse non aer 
ai del BMUtro. 



LIV INTRODUZIONE 

e voi pur più co in disusala taropre 
YÌTer Boling-be e siMunpaganlo somprel (XXXIX-XLR. 
ood'io vi do sano e fedel consiglio: 
non vi torca dal ver Talsa vngluszaa; 
se non si coglie, eome ruaa ti giglio, 
cade da h^ la vostra Rima bellezEu; 
ven poi, lanuta il cria, severa il ciglio, 
lo raticosa e debile veccbìezEB, 
e vi dimostra per acerba prova, 
ohe '1 pentirai da mwo nulla giova (Xr,lx|, 

t)ui uon è chi non veda ia grande » certamante non casaala 
affinità, ch'é tra questi consigli e quelli mossi dal Tansillo 
in bocca al suo vandammiatQre. Nelle stanze del Bembo si 
nota, senza dubbio, qualche cosa di raen plebeo, qualche 
cosa che, pur tra II sensualismo procaca di certe allusioni 
ed esortazioni, gi fa ricordare che le ha scrìtte l'autxjre stesso 
degli Asolani; di fatto, a differenza dal villano che il Tan- 
sillo mette in ìscena, gli oratori mandati da Citerea alle 
nobili dame della corte d'Urbino non eccitano (tià soltanto 
al godimento dei sensi, ma altresì all'amore in quanto è soave 
legame che insieme avvince due anime, nule, secondo il con- 
cetto platonico, per confondersi in una. Ma ciò non toglie, 
dia e la Unzioue, e i concetti, ed anche, almeno in gran parto, 
l'ordine de' concetti stessi e la forma poetica In cui si estrin- 
secano, non siano (ripetiamolo) manifestamente derivati, nello 
ottave del Nostro che precedono la ventisettesima, dal poe- 
metto del grande veneziano. 

Similmente, aoche all'ultima parta del Vendemmiatore ha 
servito di modello una poesia del Uembo: il carme in diEtici 
Priapus. Contiene, codesta parte, le lodi della menta. Anno- 
verate pili erbe e piante, il Taosillo, sempre in persona del 
soo rustia uomo, prende a lodare e descrivere quella Boia, 
in ogni tempo ■ intera e verde i, che qualsiasi giovine donna 
t de' porrà al suo bell'orto a. Essa ha maravigliose praprietA: 
rincora le paurose di' notturne fantasima o di sogni, ralleg'ra 
le malinconiche, rinforza loro Io stomaco se i'han < freddo 
e stanco >, rende feconde le sterili, asciuga il pianto alle 
lacrimose, da colora alle pallide, trae di cordoglio quelle il 



W 




INTRODUZIONE 



LV 



cui marito ó assente o morto. I latini la cbiamano in un 
corto modo * che vuol dir menta piccola tra noi ». Per l'ap- 
punto tutte queste medesime cose ci dice il earmo del Bembo; 
e il Tansillo ora lo riassume, ora lo parafrasa, ora addirit^ 
tura lo traduce. Ecco quel solo tratto del suo modello, che 
i ci vieta di riferire: 



Nain quae loiiginquas sponEO tu li tante per uadas 

oorpitur indigQD «ola relicla Bilii, 
et maoet io vìiluo perUbeecitiiue cubili, 

fibra so multiiiu graminis buiua alit. 
Molle jecur tacita quas ileperit iota uagitta 

pliirimam in epolo pemlna aentit ojtem. 
Cui facieq pallet, caulem si prandet opimuni, 

prandeuti gralus eerpit in ora rubor. 
Kt qilse turgidulos flendo comimpit ocellos, 

ut temere in laolirynias hoc genus ire Tides, 
rore insperaa levi, siimma qui prosìlil berba, 

laetitias animo luminibuaiiue Tacit. 
Et guam nigra malia terreni Insomnia Tìsif, 

admorao placiilus germi ne somnus babet. 
Oudum babllis tum si qua viro est, materque vooofì 

eipetìt ìgnoTos conqueriturque dies, 
olim ne sleritem postrema redai^aC aetna, 

auxilium rndix tempore sumtn vanii. 
Denique, si qua suo muliep male culla marito est, 

hano vornt, alque uesìs non mia dumna faciL» 
Nomine si cupios cognoBuere, menta pusilla est. 

Hldeal Sic illam Ilouut diserta Tocat. 



Occorre dimostrare, che il Tansillo ha seguiti passo passo 
questi versi nel descrivere gii effetti ora accennati dell'uso 
della menta? 

lìiìnrhindnndni nnl Ysndemmial ore si d esidera l'oi-iginaUtà, 
j glla finzi one e. dell'argo mento. — Sarebbe errore, aggiun- 
giamo, cercare nel concetto die lo informa un signiScato 
profondo. 

V'hanno nel lascivo poemetto due ottave divenute famose, 
di cui taluno, come io Stigliani, rimase scand a lizKalo, tal al- 
tro, come Giordano Bruno, perché gii sembrò di scorgervi 



LVI INTRODUZIONE 

60091 Fipoetl, esaltò il pregio s l'importanza ullró i 
È utile rileggerle tutt'e due: 

I.aflaate l'ombre, ed abbracciate il *ero, 

non cannule i! presente pel futuro; 

anch'io d'andare in ciel già non dispero, 

ma, per viver più lieto e più eecnro, 

godo il presente, e del futuro spero, 

DOSI doppia dolceiza mi procoro; 

ch'avrigo non sarla d'uom saggio e acallro 

perdere un b?a per oepettarne un altro. 
AnKÌ, chi perde l'un mentre i nel mondo 

non sperì dopo morte l'altro bene, 

perchd si sdegna il Ciel dare il secondo 

a chi '1 primiero don caro non (iene: 

oosf, credendo alzarvi, gite al fondo, 

ed ai piacer togliendovi, alle pene 

vi condannate, e con inganno elarno, 

bramando il ciol, vi stole ne l'itiferno (XIX-XX). 

Lasciando Btare l'intoDaziuns petrarohescR del principio (chi 
non ricorda il verso che chiuda la IV stanza della canzone 
l'vo pensando?), qni ai glorlflca la voluttà, non pure san- 
tificata, ma ingiunta dal Cielo, f^i accorda 11 godimento con 
la speranza, si tenta insomma ili conciliai col sentimento 
religioso l'ideale epicureo. Perciò l'uno La rinunziato at buo 
crudo materialismo, l'altro ai terrori o l tramo niiani ; e della 
religione è rimasta la parte più poetica: quel raggio di spe- 
ranza, che dirada le tenehrs onde agli occhi dei mortali ò 
ravvolta la seconda vita. In verità, vorremmo anche noi che 
lutto ciù foESe (come altri ha creduto), se non il meditato 
tìdiflcio d'un pensatore, il sogno d'un artista: non è invece 
che l'espressione poetici^ ilei moilo ili sentire pili comune tra 
gli italiani, in ìspecie IVa ì dotti, dell'età del noetro splen- 
dido RinaBcjmenlS). A quel tempo potevano coesistere, con 
qualche scambievole concessione, nell'animo di molti siffatta 
specie d'epicureismo e il sentimento religioso. Speriamo, si 
pensava, in una vita migliore, anzi cerchiamo d'assicurarcela 
— non è poi cosi difllcilel la chiave del paradiso l'ha il Santo 
Padre, che vive allegramente aiK'he lui — ; ma intanto go 



INTRODUZIONE LVII 

diamoci questa, ch'è un lampo. DI cotall idee si risente, com'è 
uaturale, l'opera letteraria de' principali scrittori del Rina- 
scimento stesso, e tanto dell'etA in cui cominciò a poetare il 
Tansillo, quanto delle generazioni anteriori. Tutti conoscono 
l'epicureismo gaudente delle canzoni a ballo, de' rispetti, dei 
canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico, e, al tempo 
stesso, il Ti^issìmo sentimento religioso deile sue laudi, della 
SUB rappresentazione di S. GioTanni e Paolo. Vero è, che s'è 
pensato, per ispiegare tal dissidio, ad arti di gorerno volte 
a deprimere gli spiriti; ma le lettera del Poliziano, le quali 
aprono come uno spiraglio nella vita intima di casa Medici, 
e del Magnifico in particolare, fanno fede della guìi sincerìta: 
la brigata medicea (Jj Via Larga o di Careggi volentieri co- 
ronava la lettura di qualcbe pagina del santo vescovo d'Ip- 
pona intonando sulla viola frottole ricantanti l'oraziano carpe 
dietn. Ed anche il Valla, tenuta da molti in conto d'epicureo 
e di eterodosso, per quello che, giovanissimo, rasionò nel dia- 
logo De voluptate el wro Òono, ben ha mostrato in séguito, 
come il desiderio di rivendicar la fama del filosofo di Samo 
derivasse in lui dall'opinione che gli insegnamenti d'Epicuro 
non fossero inoonciliahili con la religione cattolica. Tornando 
ai tempi del Tansillo, cioè alla seconda età del nostro Rina- 
scimento, che diremo noi dei Bembo? Onorato d'alti uffici ec- 
clesiastici e, in fine, della porpora, mentre negli Asotanì in- 
segna esser vero Amore soltanto quello che s'addirizza al di- 
vino, mentre scrive un canzoniere ispirato dal pili schietto 
platonismo, concede in pari t^napo che sì diano alla luce e 
pili volte si ristampino, ritoccate all'uopo da lui stesso, le 
Stanne di cui or ora s'è parlato; tanto licenziose, che ad 
esse ne fiirono espressamente contrappaslc altre in lode della 
Pudiàzia da Giovan lìattista Lupini I E non basta: in un 
carme latino egli trascorre — vedemmo — aperto e franco 
nell'oscenità. 

Adunque, il Tansillo coglie e ritrae nelle ottave su riferite 
un aspetto della coscienza comune: lo ritrae da poeta, da 
artista, non senza una velata intenzione di scherzo, che di- 
vien chiara ove si ricongiungano, com'è duopo, codeste stanze 
alle due precedenti. Quando, nella seccndu metà del secolo. 



I.V1II iNTROnUZlONE 

tra la Bchìavilu ilei pensiero le tendenze epicuree della rina- 
scenza, represse a forza, eromperanno ribellandosi, i! concetto 
puramente poetico delle stanze del Nostro acquisterà un al- 
tiHsimo slgnillcato agli occbi dell' anteaignano della nuova 
scuola flloaofloa: Giordano Bruno, erede in tanta parte delle 
tradizioni del Rinascimento e soprattutto di quel!' insieme 
d'idee ch'ebbe corso nella seconda età di questo, le troverfe, 
maravigliando, espresse nel poema del suo conterraneo pre- 
diletto. Ma tale valore, tutto subiettivo, noi non conserve- 
roiuo alle ottave tansilliane; a quel modo che non vorremo 
per ciA separarle dalla letteratura licenziosa del primo cin- 
quecento. Scritte nel tempo in cui la poesia del Hemt e del 
Mauro era nel massimo flore, inentFe non solo sì tolleravano 
ma piacevano lo sudicierie dall'Aretino e del Franco, e da 
uomini cume il Bembo veniva il tristo esempio dì componi- 
menti poetici destinati, come ctie sia, a rinlooolar le lasci- 
vie, la Slanse di cultura sopra gli orli delie donne non 
liauno importanza storica se non in quanto, per esser opera 
d'onesto e timorato galantuomo, ci porgono un indizio, da 
I Aggluni^ere agli altri ìnliiiiti, del decadimento o, se pili piace, 
t ideila trasformazione ch'ebbe a subirò tra noi, prima dei ri- 
gori della reaeione cattolica, il concetto della moralìtfi. 



i\ 



Dopo il Vendemmiatore, il Tunsillu nuH'altro compose, se 
si tolgano alquante rime, prima del 1540; anno per lui fe- 
condo dì eventi fortunosi, cbe gli ridestarono l'estro e gli 
porsero argomento di variate poesie. 

Partitosi di Nola a' ventisei di maggio, nell'autunuo ancora 
navigava: avea sofferto, in questi mesi, e verseggiato anche, 
non poco. Lungo le oosta della Dalmazia, dinanzi alle ossa 
insepolte degli Spagnuoli periti valorosamente a Gastelnuovo, 
gli erano sgorgati dal cuore tre sonetti che sono senza dub- 
bio tra le sue cose migliori; gli atti di crudeltà a cui toc- 
oavagli assistere ogni giorno gli avevano ispirata un'elegia, 



INTRODUZIONE 



1.IX 



com'è, in parte, il capitolo a Geronimo Albertino; s'era sfo- 
gato (ielle pene amorose nel sonetto, pur bellissimo, « Qual 
seno adombnlr mai candide vele »; e Analmente, da Brindisi 
aveva narrate, doleniìosi, le sue avventure al barone Ji Fon- 
tanaroBa, mentre, al tempo stesso o in quel torno, piacevol- 
mente ne schermava con Ferrante Gonzaga nei capitoli in 
iode della galera. 

A quest'anno, e precÌEamente all'autunno di quest'anno — 
poiché quando egli scriveva Cerere era già vecchia e im- 
pallidità —, assegniamo, senza tema d'andare errati, la com- 
posizione delle Stame a Bernardino Martirano, dettate dal 
Tansillo in congiunture e condizioni d'animo uguali a quelle 
in cui gli uscirono dalla penna 11 sonetto ora mentovato e il 
capitolo al Fontaoai-osa. 

Sono, in tutto, sessantuna, essendo affatto estranee le quat- 
tro che il Fiorentino, forse perché le trovava ad esse con- 
giunte nell'edizione Piacentini, credette indirizzate al mede- 
simo: e cominciano, s'intenda, con le lodi del Martirano; un 
valentuomo da farne gran conto, il quale, se anche non s'era 
inoltrato quanto vorrebbe il Tatìiri nella perfetta conoscenza 
della filosofia, della volgar poesia e di ogni altra maniera 
d'erudizione cosi saera come profana, non mancava certo dì 
dottrina, e godea fama (lasciamo etare se con ragione o a 
torto) d'eccellente poeta. Il buon segrclario, grande amico 
del Nostro ', è rappresentato in queste Starize, come anche 
nel capitolo all'Albertino, in seno all'amenlssima villa di Poz- 
zuoli, tutto inteso alle geniali occupazioni consuete, d'artista 
e di mecenate. Poscia, alla vita serena dell'amico il Tansillo 
contrappone la propria: gli racconta scherzosamente i disagi 
dell'irrequieta navigazione, rallegrata di giorno dallo spetta- 
colo delle ciurme ignuJe, fetide, ululanti, di notte dalle ca- 
rezze d'animaluccL « quai senza e quai con ala », e sempre, 
o quasi sempre, dal mal di mare; per ultimo, descrive le tem- 
"Tiesta da cui la sua nave fu assalita: n Ire fortune in venti- 



LX 



INTRODUZIONE 



.setta di », secondo che appare dal capitolo al Fontana! 
Ma di tutti questi mali egli trova dolce conforto nella 
gnia del suo signore, tanto prode a tanto buono- Come esulta 
nel vederlo u in poca etil cosi onorato « ! ijiiazito deve glo- 
riarsi (il luì il suo nobile genitore! Ed an«he gli incomodi 
della tormentosa navigazione cerca l'ottimo don Garzia d'al- 
leviare al poeta: il quale si gode fra t'altre cose un camerino, 
dove passa lunghe ore in piacevoli ragionari col suo Tiberio de 
Gennaro'. Una sola cosa, per la quale non c'è rimedio, lo ad- 
dolora e lo fa struggere in pianto: la lontananza della sua 
donna. Quante volte, approdando, cerca un luogo recondito 
per raccogliersi nel dolce pensiero di lei) Quante ^-olte, as- 
siso « sovra l'estremo spron ch'esce di proda », torna alle 
B lasciate Muse n, e canta! — Ed ecco un'ottava del canto 
che a questo punto intuona il poeta: 



Tu, dalla lerra ul lontana W, ■ 
ili guanto av'alla o 'I mar 
non gnariJi s'io mi inora 
né del mio l>ea ti vai né i 
ed io, di seno in seri, di r 
per l'ondo or di T)nlniaEÌa 
ne vado errando, e, o ben 
sol di te penso, e d'altro i 









I 



Manifestamente, è lo stesso concetto (petrarchesco, in fondo), 
elio ispirava al poeta il sonetto già ricordato, « Qual sano 
ecc. i>, composto appunto nel 1540, veleggiando l'Adriatico. 

Le Stnnse al llartu-ano, nell'omogenea e levigata mor- 
bidezza della forma, nel congegnamento, nella tempera, fe- 
, degli elementi dello stile e del metro, rivelano a 

3 grado di maturità fosse giunto, otto anni appena dopo 



< Clii abbia famigliare Vtitoi-la delle coss di ^Vopalt di Greooiuo 
Rosso ricorderà senza dubbio quel gentiluomo del seggio di Porto 
cbe, ri>9teggiandosi il 38 luglio 1535 la pre^a della Goleilo, cavalcava 
con gran pompa al llanca del Viceré k come sìndieo della citti di 
Napoli *. I>a queste Stame ai rilava che il Tanilllo n'era grande 



INTRODUZIONE LXI 

il SUO giovanile sporimento più ftimoso, l'ingegno dal Tan- 
jillo, Glovenlìe Bperimento davvero, il Vendemmiatore, ap- 
petto alla Clorida, di cui or ora diremo, e a questa StmuMeì 
Nella quali c'è senza dubbio minor foga e un'onda meno co- 
lorila e risonante, ma per compenso tanto maggior proprietà, 
ed eleganza di lingua, tanto più squisito gusto d'arte, tanto 
più diligente cura dell'accessorio. Gli epiteti, le comparazioni, 
i contrapposti, le perifrasi, tutti insomma i molteplici spe- 
dienti retorici già in qualche modo consacrati dall'esempio del 
massimo dei lirici nostri, il Tansillo usa nelle Stame dì cui 
parliamo, come pure nei poemetti posteriori, con buon giu- 
dìzio; traendo partito acconciamente dalie reminiscenze sto- 
riche e mitologiche, nonché dalle letture di clasaìci antichi 
e dall'osservazione dei fenomeni natur&li. Cosi nella pittura 
cli'egli fa delle fortune corso navigando, trovi le tinte della 
tavolozza ariostesca e quelle della vìrgdiann ed ovidiana, 
confuse in un tutto armonioso, non isgradevole all'occhio; 
nell'ottava SVIlI, Anteo e le Neroidi eon tratti in campo con 
molta naturalezza e molto garbo; felicissime, parimente, te 
perifrasi con cui il poeta allude ul Regno di Napoli o accenna 
ai servigi militari prestati per maro dal Martirano'; molto 
ben designato, per ultimo, l'orlo della costiera no' versi 



Ma il pregio migliore del breve poemetto sta in quella 
varietà dì soggetti e di movenze, che il Taasìilo, in grazia 
soprattutto della forma epistolare, vi ha saputo mantenere 
dal principio sino alla Une. Cominciate col tono d' un' epistola 
oraziana, le Stanze ai Mhrtiraìio si risolvono in un canto 
schiettamente lirico; vi trovi per entro descrizioni vivaci, 
tratti satirici, volate o scatti del sentimento. Piace il fare 



O Marlii'an, cui non pur Febo lanae, 
rjnaQilo vi far la man di calli impresse 
dalle epade non men cbe dalle penne. 
~ s'intende — qui sano i capi delle anlenne de' navigli. 



I.XII INTRODUZIONE 

nnieno, soheT/.rySo, cosparso alcuna volta <ii sottile ironia; e 
piacciono la decente puntazza saputa usare e mantenere tra 
il realismo di eerto allusioni, il ricorrer frequente di remi- 
niscenze, cosi blHSsiciie come bibliche, destramente innestate 
nel discorso, il collegamento piano, senza annacquature di 
trapassi arti^ciali^ dei pensieri e della strofe. Sono qualità 
non comuni nelle opere d'arto del cinquecento; le quali tut- 
tavia non ci debbono far chiudere gli occhi, con indulgenza 
Bovarcliia, sui difetti onde ni5 pur queste Sfame vanno im- 
muni. Non sempre infatti il Tansillo nell'espression poetica 
delle sue pene amorose obbedì in esse agli impulsi del cuore. 
Quel benedetto orpello del Petrarca dA fulguri e bagliori che 
ai nostri cinquecentisti abbarbagliavano si gli occhi, da im- 
pedir loro di distinguere bene l'arte dal l'arti Azio. E artifl- 
s;io, vero e proprio, contiene disgraziatamente l'apostrofa de! 
TansiUo alla sua donna nelle ultime stanze del poemetto, per 
quanto non vi manchi qua e là un cotal fervore ovidianodi 
passione. Comincia, per esempio, con un bel garbuglio di sot- 
tigliezze petrarchesche, e poco appresso sciorina le solite ser- 
que di cose impossibili, gradite in ogni tempo alla turba pe- 
trarcheggi ante. 



In queste Stanze il Tansillo aveva interrotto !e lodi di don 
Pietro intonando l'oraziano « non erat hic locDs... d: 



OTS DB YD 


forse lodarlo 




odo 


tra' ferri 


Ira' tomor d' 


□d 


inquiale f 


Altro ozi 


ed BltPB atlen 




fl allendo, 



per tor, b io poaso, il suo grnn nome u Letol 

Una promassa, come si vede. Ei la mantenne sette anni ap- 
prewo, dettando, riposatamente e con pieno agio, le Stame 
al Viceré, suo capolavoro, meritamente lodate da persone 
Intendenti e di buon gusto come il Settembrini, il Fiorentino, 
il Pornacìarì, il Gaspary. Cosi queste ottave, che per consue- 
tudine i tipografi stamparono unite alle altre di cui fino a 
qui s'è discorso, possou congiungersi ad esse anche, da un 
certo aspetto, per l'argomento. 



INTBODUZIONH 



LXHI 



La Cloridg (cobi s'intitolano nel manoscritto originale di 
dedica le Slanse al Viceré) è un poemetto lirioo-descrittivo 
d' una certa ampiezza, nel quale sì Unga che la oiniK di cui 
ò soggiorno la villa di don Garzia supplichi il padre di que- 
sto a TÌBitarIa, allettandolo col descrivergli la bellezza della 
Elia dimora. L'intento dell'autore non appare dalla dedica- 
toria, scritta di Napoli il 20 febbraio 1547; ma ohi legga con 
un po' d'attenzione il poemetto s'accorgerà (acilmonte, ch'esso 
Q al tempo stesso un omaggio del poeta al suo EÌgnore e un 
omaggio alla natura maravigliosamente splendida, quale sor- 
ride agli occhi d'un artista nell'incaotevoie golfo napolitano; 
che perciò in questa stanze duplice è il genere di poesia, se- 
condo che vi si celebrano il principe e la sua famiglia, vi 
si dipingono le magnificenze del luogo: lirico od epico nel 
primo caso, descrittivo nel secondo. 

Al genere lìrico ed epico appartengono interamente le pri- 
me quarantatre o le ultime setta stanze; poiché il poemetto 
comincip con una certa maestà e seguita per 43 ottave con 
intonazione quando epica, quando elegiaca. In questo tratto, 
coi lamenti della ninfa per l'assenza del suo signore s'intrec- 
ciano destramente le lodi del giovine guerriero e del vec- 
chio prìncipe (stanze 4-13); sì cantano le gentildonne che, se 
il Viceré vorrà, ne renderanno soave il soggiorno (st. 18-28); 
si ricorda una festa, che accrebbe it naturale incanto di quel 
luoghi. Cose assai somiglianti a queste leggiamo altresì nella 
chiusa, in cui Clorida rinnova al Viceré, pid caldamente, 
l'invito. 

AU'altro genere, invece, di poes.Ì.a appsctengono in gran 
part$ le stanze che si possono riguardare siccome il nucleo del 
poemetto ; tiell^ quali son d&scrille le helleziia di coi natura 
ed arte a gara hanno colmata la villa di don Garzìa: un 
padiglione ombroso (st. 4|'4S!, una fonte cinta di magnifici 
marmi e di statue disposte con artificio squisito (st. 50-63), 
sciami di canori uccelli (st. 96-9S), lo spettacolo che si gode 
a sera uscendo dalla porta che da sul mare (st. 10S-36J, le 
pitture (Il cui si stanno adornando certe logge (st. 140-62). 
È un tratto essenzialmente, non perù interamente, descritti- 
vo; non interamente, perché la ninfa narra di aver udito 



LXIV INTllODUZIONE 

celebrare dal Tangillo, seduto a sera presso la magniflca fon- 
te, il regno del Viceré e lesue vittorie su! Turchi (st. 64-S8), 
ed annovera le imprese marittime di don GarKia, che si vati 
dipingendo sopra nnmuro nel giardino (st. is^-éi); al che si 
dere aggiungere la narraiione del mito di Fetonte, inserita 
con eguale artifizio nel poemetto (st. 144-50). 

Il Tansillo, dedicando queste stanze al Viceré Toledo, scri- 
veva: t Vostra Ecce! lonzi a... supplico le consenta [a Clorida] 
« il parlar lungo e il vagare a sua voglia, ne' quali troTerà 
un canestro di vari frutti o, per dir meglio, un piatto d'in- 
<' salata di molta erbe'.... Tuttavia, se le descrizioni de'Iuo- 
« ghi e gli altri suoi ragionamenti paressero troppo lunghi 
Il a diversi, perdonolesi questo peccalo, come a donna ed in- 
namorata e dìsiderosa di prolungare, con ogni modo che 
a ella possa, il piacere c'ba di veder Vostra Kcceltenza ) 
L'autore s'era dunque accorto (vedi anche quanto ei fa dire 
alla sua ninfe nell'ottava 49) di un difetto — la proliHiita — 
che la Clorida ha veramente in quaklie parte, come nella 
descrizione della fonte, fors'anehe in quella della coltiTazìone 
del giardino (st. 91-94), e certamente nel catalogo un po' 
vuoto e pretensioso delle ninfe e degli dei marini (st. ijo^), 
nel quale l'estro del poeta si fiacca e rallenta lo sgorgar della 
sua vena. Ma al tempo stesso non gli eru sfuggito quello che 
agli occhi nostri n'è la qualità pili pregevole; TOgliam dire 
la variet.'L del soggetto, dell'intonazione e dei colorì. 

Tal pregio, che or ora notavamo anche nelle Stame al 
Martirano, qui Ita radice nell'indole stessa del componimento; 
cioè appunto nella duplicità d'intenti e di caratteri sopra 
osservata, per la quale a descrizioni, meglio diremo a ipo- 
tiposi, vivacissime di scene guerresche, in cui ben si sente il 
poeta soldato, tien dietro un idillio, anzi una serie di qua- 
dretti d'idìllica freschezza. Cosi, allorché il sole volge al tra- 



' Non par 5111 di Mnlire il Boccalini! . ,\al giorno imsdeaimo, il 
« Bonvissimo Tanaillo, lestito da ortolnuo, preeautó ad Apollo «a 
• oafcto di broccoli napolitani ecc. » (Sapp. SI Pam., "Vsa., i6ai, 
P- "4). 



INTRODUZIOMi LXV 

monto, e la marina è tutta na aureo sfolgorio, e la riviera 
verdeggia sotto ì! cielo azzurrino, vedi l'ombra d'una per- 
gola disegnai-si sul terren chiaro, e luccicare al sole ì marmi 
d'una fonte, e un padiglione, tutto fresco ed'ombroso, invi- 
tarti al rezzo, al Bonno. Nò meno affascinante é lo spettacolo 
di sera, quando sotto ÌI cielo stellato percorrono il mare le 
barchette col lume a poppa, tracciando un solco di luce. La 
brezza, pregna dei profumi salini, porta di lontano lo schia- 
mazzo, i tonfi, le risa di chi si tuffa o nuota nelfe acijue tran- 
quille. Sul lido, i niochi de' pescatori. Illuminati a sprazzi 
dalla Ilamma, li Tediamo lanciarsi in una ridda dalle movenze 
bizzarre, o sedere in cerchio, mentre 



W 



un dorme, un sofiìu, un mdvo a riso, un t 
obi gì duol, cbi B'alie^m, e chi si vanta. 
Gtii ragioaD di sarte e ohi di reti, 
ohi di QIh, ohi d'ami e chi di nasse; 
un UHrra casi avversi, un altro iiati, 
ch'ira o pace di mar tulor recasse.... 



E intanto la spiaggia snona all'intorno di canzoni, e gl'in- 
namorati, dov'è più bujo, si pispigliano dolci parole. 

Questa descrizione, nelle a^ill e tornite ottave del Tan- 
sillo, coir onda del suo verso e le tinta accese a luì proprie, 
fa viva impressione. La riviera ch'ò tomba di Virgilio a lo 
culla del Tasso, la marina di Potizuoll a Ui Buia, leggemlu 
questi versi, lampeggiano agli occhi della fantasia come in 
un barbaglio di sole, divinamente belle. Ed a raggentilire il 
quadro concorrono le immagini più ridenti della mitologia; 
perù ohe agli occhi del conterraneo d'Orazio, lìeil'artista in- 
namorato delle forma classiche, quel mare pieno d' incanto, 
nel chiarore del plenilunio, si popola d'un mondo di creature 
poetiche, di ninfe che sul piano tremulo e inargentato sci- 
volano voluttuosamente: 

Eletto una di lor per guida a duce, 
vengonu a mano a man danzando in frotta; 
90t<o i candidi pi^ l'onda riluce, 
e si riilleijro che da lor sia rolla: 



INTRODUZIONE 

inauzi iiiì'ii 



e conduce 
UiiuailoceB, d'DcquvUu' l'onde dolla, 
ciascuna blBnea U vulto, i capei bionda, 
Testile lutle det color delt'ondaw. 
L'umidii falda ani ginocchio s'alza 
ciascuna, e '1 nodo ha in sulla spalla manca; 
uuda il pelto e le mamme, e '1 bel pie «calia, 
mostra la corntt più che latte bianca. 
Il luar lascivo ad or ad or ei sballa, 
e bacia ora il bei ventre or la bell'auca; 
e mentre, al cader giii, bulle d* amore, 
la scbiunui e '1 pi^ coateadon del candore. 



Come appare da questi vorgì, che per qaalcbe rispetto ci ri- 
cliiamano alla memoria certe splendide descrizioni tassesche, 
l'ottava del Tanaillo, loatana dalla un po' monotona eempli- 
oit& di quella da' trecentisti, ha si, coiuo nel Rinascimeoto 
(nella Giostra, ad esempio, e neli'Ami'?'^), una freschezza ed 
unii pieghevolezza che la adattano bene alla rappresenta- 
zione idillica della natura; ma ha pure tutta la dignità pro- 
pria dell'ottava del gran secolo, vigorosamente matui^. Nella 
Clorida essa sta di mezzo S^i\ la narrativa dell'Ariosto, sciolta 
e briosa, e l'eroica del Tasso, alquanto risonante, alquanto 
artificiata, a volte tenuta su da un cotal enssiego alla spa- 
{^nuola. 

Per l'invenzione, la Clorida non è gran cosa. Al par di 
quasi tntte le poesie del Tansillo, e come gran parte dì quante 
se ne scrissero nel cinquecento — un secolo che suU'origi- 
nalitA necessaria agli scrittori la pensava ben diversamente 
da noi — , ha avuto i suoi modelli: tra questi, VAretuaa di 
Bernardino Martirano, favola mitologica in ottava rima ispi- 
rata dalle Metamorfosi, colla quale s'apro la Seconda parie 
delle slame di dioersi, ove per la prima volta fu impressa 
anche la Clorida. Che giù ila piti tempo il Nostro conoscesse 
questo poemetto dell'amico, ci assicura la terza delle ottava 
ohe gli aveva indirizzate, come poc'anzi s'è detto, sette anai 
prima; che lo ubbia avuto in mente, prova l'afflnitft dei duo 
soggetti. 



INTRODUZIONE LXVII 

t^M'Arclusa, la ninfa di qitesto nome, abbamJonata dal suo 
Narciso, die salpa alla volta dell'Africa per eonibattervi gli 
infedeli, se ne accora tanto, che, dal gran piangere, molasi 
in fonte. Leucopetra, altra ninfa, le erige un monumento, ma 
Tien trasformata, dal canto suo, in una pietra di color bianco, 
per la durezza dimostrata vei-so olii l'amava. Intanto Nar- 
ciso, avuto dalla Sibilla un responso cbe predicagli l'esito 
delia gueiTa, torna addietro, apprende la trista sorte della 
ninfa, e pei^ disperazione sì cangia in flore. Tre metamoFfosi, 
dunque; della quali doe fedeli al mito a cui si riferiscono, 
la terza comunissima nell' antichità. Eccone, in breve, lo scopo. 

Leucopetra (Tolgarmente l'ietrabianca) era la splendida 
villa in cui il Martìrano dedicò agli studi geniali la miglior 
parte della vita,e accolse nel i;;3 Carlo V, reduce dall'im- 
presa d'Africa; villa che ottenne le lodi di Scipione Ammi- 
rato, di Gio. Antonio Summonte, di Giuseppe Mormile, del 
Tansillo medesimo. Al suo signore, vago d'illustrarla d'un. 
nome classica e d'una origine mitologica — come avea fatto, 
per la famosa di Poggia a Calano, Lorenzo il Magnifico, la 
cui favola d'Ambra non è senza somiglianza con questa di 
Leucopetra — , parve ingegnoso f.rovato il tesservi sa un poe- 
metto, desumendone il titolo e la principal fliuione da una 
fonte di mirabile artìflcio, ch'era in quella villa, e che, da 
una statua di ninfa, veniva detta Aretusa. Scrisse, pertanto, 
queste ottave, e della fonte v'inserì una descrizione partico- 
lareggiata, coli'lntento dì celebrare, oltre all'origine della 
villa, il suo pili Euntuoso ornamenta. Né era questo il solo 
Une de! buon segretario. Poiclié egli immagina, che Narciso, 
giunto nel suo viaggio alle sedi della sibilla cumana, non ve 
la trovi, 6 debba andare a ricercarla nell'isola d'Ischia, ove 
ella dimora e « il titol tien di Francaviila ». Ischia appar- 
tiene, nel tempo in cui si suppone avvenga questo fatto, alla 
famìglia d'Avalos; n'è governatrico donna Costanza, od è co- 
stei la profetessa. Perciò sulla porta del palazM in cui egli 
entra per ottenere il responso desiderato vedo rafllgurate le 
gesta del defunto marchese di Pescara — il che dà luogo a 
un'epica rassegna di battaglie, dì assedi, d'espugnazioni — , 
a \a. casta e pudica Sibilla racconta in forma profetica l'I m- 



UXVIH INTRODUZIONE 

pcesa africana cosi gloriosa per le arrai di Carlo V. Ecco il 
vero, nodo della favola, ecco il vero e preoipiio scopo Ùeì 
posta: narrai'o a slortffcare l' impresa d'Africa, tornando iJalla 
quale l'onnipotente mpnarea fu suo ospite io l'ielrabianca. 
Appunto in quel torno dovett'esser composto questo poemetto, 
la cui flnnione mitologica sì fonda tutta sulla guerra africana, 
per !a quale Aretusa è lasciata in abbandono e muore, e 
muore a sua volta Narciso, trovatala estinta. 

Dopo siffatte oeservazioni, una stretta parentela della Già- 
rida coU'Areitisa parrà innegabile. In ambedue ì poemetti, 
l'omaggio del poeta al suo signore viene introdotto RrtìRxU)- 
Bawwnte in una finzione mitologica con coi si celebra nn 
Inogo daliKloso, stato altra volta sog'g'iorno di quel sigaore 
medesimo. Questa è la somiglianza fon da montai e ; a cui nulla 
toglie la diversa natura della finzione, lirica nella Clorida 
(lamenti e voti d'una ninlH), epica néìV Aret^isa. SomiglianKO 
poi di rainor conto non saranno sfuggite a chi ci abbia seguiti 
nel sommario esame del due componimenti: an?.ì avrà notato. 
che. d'entrambi è protagonista la ninfa d'una villa; ohe in 
ontFatnbi ò descrìtta molto similmente una fonte adorna di 
statue; che ricoirendo a un medesimo spedienteson rappre- 
sentate noll'uno le gesta di don Garzi», nell'altro i trionH del 
Pescara. 

Questo quanto all'invenzione. Quanto all'arte, nian con- 
JWinto può istituirsi; ntì in diversa relazione sta la Clorida 
ooU'Arelusa, da quella in cai sta l'opera d'arto perfetta ool- 
l'igfloto o dimenticato libercolo onde ha cavata in parte la 
materia. ìialVArelusa sono i germi, anzi quasi tatti gli ele- 
menti, del gra7/ioKo poemetto tansilliano; ma quanto disgre- 
gati e informi ! Lasciando stare Tanacronismo, per cui vedia- 
mo il bel Narciso della mitologia andare alla guerra contro 
i Turchi, nelle ottave dei MaFtirano. sciatte, ricamato di 
versi petrarchesciil, intessute di parafrasi ovidìons e virgi- 
liane, non c'è un'Immagine men che Ibtsa e puerile. Gran 
trista figura fa sempre, anche ne'momenti pìU patetici, quella 
povera ninfa Aratusa; pallida copia di Didone. Al suo Nar- 
ciso eJki, per distoglierlo dal partire, descrive gofftmente 
Poiifómo, die u gli tTomini ammacca a guisa di ranocchi i, 



INTRODUZIOME I..X1.\ 

1 gli altri moBtri dell'oceano; iniii sviene, e < la lingua fredda 
e riman fra i denti »; poi,.., poi sentita: 

De la beiti, die par non ebbe, spoglia 

il corpo, e reetati sol la pelle e l'ossa, 

e, pregando In morie che l'accoglia, 

con ie roani e coi pie ai ft la ibsan; 

perdiilft avendo oRni ana forma umana, 

ivi, piangendo, diyenlù fontana. 

Eccovi infine — dutcis in fiinào — una gioia eia arricchirne 
g^ scrigni dfil Tebaldeo e del Marini: 

Se desiavi il vaato mar solcare, 
cogli occhi CaTrel dato l'oceano, 
e col palio Vesevo, Etna, Vulcano. 

E VAretìisa ebbe ammiratori ! 

Invece, il TansìUo nel suo poemetto sa infondere per entro 
alla materia imitata un vigor nuovo di vita. Materia imitata, 
(juasi sempre: poiché, né por considerando sol quelle settan- 
tjiquattfo slanze puramente descrittive (escludiamo le quìn- 
dici in cui si descriva ia fonia), elio sono al tutto indipen- 
denti dallo ottave dei Martirano. la Clorida, frutto spontaneo 
d'un suolo e d'una temperie cpeciali, non può dirsi senza ispi- 
ratori;, e questi si hanno a cercare sotto il cielo ili Napoli, 
nella scuola di latinisti a cui appartennero, pei' non die di 
molli altri, il Poatano, li Sanna7.aro, il Poderico, l'Altilio, 
Gilmo Anisio, e di cui il Tnnsillo, pur verseggiando in vol- 
gare, continua, da un certo aspetto, la tradiziona gloriosa. 
Del Sannazaro egli era in particolar modo studioso: lo imitò 
piti volte nelle Liriche, s'attenne a lui qua e là, come di- 
remo, nelle Lagrime tU S. Piiitro. R appunto dal Sannazaro 
san derivate nella Cloridn certe tinte, eerte comuni remini- 
scenze classiche, certe immagini, che nell' insieme ricliiamano 
alla memoria gli esametri del De partii Tirginis, dei Sa- 
lice-t, delle egloghe pescatorie, quelli e non altro. Cosi, anche 
l'Altilio ha naW Epitalamio un'enumerazione di ninfe, ma che 
s'accosti in esse alla ottave taasilliane né pure un rìgn:lad- 
Anw» pw contro, nel maggior poema fr nei caiml ora meih 



LXX INTRODUZIONE 

tovati iI'AkÌo Sincero chi ben consideri troverà i fratti earat- 
taristicidi quella descrizione delia marina napolitnna e delle 
Kue divinitjX lianzanti — leggiadre perKoniflcaKioni di luoghi, 
quHsl tutte —, eh'è la parta piò ragguardevole della Ciò- 
iHda. Iteniiniscenze, bÌ badi, non vere imitazioni. Nel poe- 
metto di t'ui parliamo il Tansillo imita in i stretto senso una 
volta sola: imita e il swo caro Ovidio » nell'episodio rii Fe- 
trOnte, introdotto aptiflziosamente e riassunto con efficace 
bre vitti. 

Ron belle ottave, in concliiusione, queste della Clorid(i.;ae- 
gnataraente le doscrittive o pittoresche, cui ravviva un sen- 
timento cdhC quiot^} e insieme cosi profondo della natara. Di 
tnhina davvero possiam dire quel cheilpoela stesso di certe 
JofTRn storiato: 

I (l'ir vermigli a bianchi e persi e gialli, 



la '1 sol sormonti.,,. 

TI Tansillo é acuto osservatore; e non solo dei fenomeni na- 
turali, ma puranco delle pratiche e consuetudini campagnuoif. 
Veggasi con che verità e vivacità — due pregi essenziali 
dello stil descrittivo —'egli rappresenta in queste ottave le 
successive operazioni del giardiniere intento a scegliere e 
coglier le (tutta, il gorgheggiar vario e vicendevole di certi 
necelli, 1 satti d'un capri ol etto, che, scherzando con le ombre 
disegnate dalle pergole, « s'elle movon le assalta, e, se stan 
« salde, I Pon fra le sbarre il capo ». Tante e tante di quelle 
coEuccie, sopramodo difficili a dirsi in rima senza cadere nel 
pedestre e senza generar tedio, il Tanfii Ilo novera o descrìve, 
MHipro garlwito, piacevole, ricco pur qui, non meno che nelle 
fllansc ni Mtirtirnno, di perifrasi Ingegnose. E se ne com- 
piace; a non c'tn da fiirne le maraviglie, poÌchi5 molte volte 
Hon proprio lo difllcoltd piccina e continuate la pietra di 
paraiirt>ne, non diro dell'Ingegno, ma del gusto; tormento 
e duperazlone del medloorì. Del verso, nell'insieme, è da dir 
hano non inen che delle immagini e de' concetti; qua e là per 
altro Ti Bl deildsra una compagine piti salda, li Tansillo è 



INTHODUl'lONE 



LYXl 



tornato sopra a questo poemetto offerto il V ere lutto in- 
tiero, nel 1547 e ome v h agg unto allora qu ttro ottave 
sui lavori idriui e ntrapres d don arz a per ali ctare 
d'acqua corrent l suo g ird no con e ne ha espunte due al- 
tre, contenent alluB o nopportune cdb 1 a mutato iltroei 
o rabberciato alcuni pocUi vei^i, per ragioai massi ma mente 
d'eufonia. Ne restano, ciò non ostante, di un po' sciatti o flosci ; 
e alla leggiera ineguaglianza di stile che, dal più al meno, 
è agevola rilevare in ogni poesia dello scrittore venosi no, ci 
pare s'accompagni nel non breve poemetto una certa inegua- 
glianza anche della versificazione, unita ad una troppo aU' 
dace libertà sintattica e lessicale, procedente, il piiS delle 
volte, dalle necessità della rima. 

Peccati veniali, mende leggiero, cbe poco nulla detrag- 
gono al godimento estetico di chi, leggendo lo stanze al vi- 
ceré Toledo, ammira l'uaa dopo l'altra le piil variate pit- 
ture. Alla Clorida spetterà p«r sempre un bel posto fra i poe- 
metti mitologici di varia indole e natura onde il cinquecento 
é pieno. Dal quali, e per la fluida snellezza dell'ottava e per 
tutti i leiiocini dello stil deBcrittivo, nessuno paò starlo a 
fronte, se non forse la Ninfa Tiberina, li poemetto tansil- 
liano non raggiunge, a dir vero, la corretta .eleganza di 
questa; ma possiede in maggior grado altri pregi, 1 pregi 
cbe ei potrebbero chiamar nativi. Per bene intendere qnal 
difTarenza v'interceda, basta por mente al fatto, cbe ispira- 
tori della ninfa del Tevere furono il Poliziano e il Magmlico, 
della ninfa del hiarno, principalmente, il Sannazaro. 



Molto pili della Clorida ottenne dillusione e nominanza il 
maggior poenaa del Tansillo — le Lagrhne di S. Pietro — ; 
tanto pili poderoso per mola, quanto men ricco di vere bel- 
lezze artisticbe. 

Già prima dell'agosto del 1539 n'erano conosciuti pili brani, 
e vivamente se ne desiderava da molti la pubbli caaione. Ecco, 




LXXII IN'mODUZIONIì 

in fatto, quel cliu acrive il poeta stwso, nella calebre canzone 
eecDsataria a Paolo IV: 

I^ lagrime, i suspiri e le querele, 
«he da gli ocelli e dal petto uscii' Ji rialro, 
menlre il Signor dal Ciel sotlerrn giacque, 
oonlecnpla [U poema] si deioto e epìega in metro, 
ch'o dotte orecchie e pie spesso udir iiinuque; 
e molti oggi, del coro più fedele, 
hramono ch'escii, e lof grava die 'I «-Iti. 

Quando poi nel 158;, illciosmtte anni dopo la moi-te del Taii- 
sillo, ne fu primamente curata un'edizione, furono unanimi 
le loJi di quanti ebbero a Bcriverne, unanime il ramiuarico, 
che un'opera tanto bella non fosse stata condotta dall'au- 
tore a quella perfezione ch'om deeiderahile dal eoo inge- 
gno. Cosi l'Ammirato, negli Opuscoli, ai lamentava, cbe le 
« piaghe e margini di essa fossero d'altra mano slate sal- 
« date, cbe da quella del proprio maestro y (II, 256), e in 
una lettera scritta da Firenze il 2; febbraio 1585 diceva 
all'Attendolo : « Io ho da rendere iu&iiite grazie a V. S. della 
* Lagrime di A'. l'iolro, le quali non bo potuto contenermi 
« di leggere in 30 ore, ancor clie abbi avuto a ilirmi l'ufB- 
■ zìo, e (Ure altro cow opportune della Vita. Mi ban cavato 
4 le lagrime dagli occbi in tanta nbtiondanut, ciie è una 
« maraviglili ». Né è Immeriterole di fede il Capaccio là 
dove, negli niustrium m'ivrum clof/ia, racconta che Tor- 
quato Tasso, accolto da lui a mensa in casa eua, lodò a tal 
i il sacro poema del Tansillo, < ut nemiaem in Italia 
« multos ab Iiinc annos puriores foetus eiiidjsse alQrmant » 
(p. 301); poiché queste lodi l'autore della Gerusalemme Con- 
quistala avrebbe espresse nel 1594, un anno solo dopo la 
oomposizions de' suoi due pianti spirituali. K il poema ebbe 
altreei gran diffusione. Ne son pr<iva le molte risfjimpe cbe 
in brave spazio di temfio tentier dietro all'edizione del 1585, 
le traduzioni che ne furono fatta in iapngiinolo ed in frao- 
3 — notevole soprattutto la spagnuola lìi tìiovan Sedeno 
d'Arevalo, poeta e cavaliere intendentissinio delle cose Bo- 
re, che tradosae mila ma lin^wi Anche la Uefusaiemme 



INTHODUZIONH 



LXXIU 



Liberala^ — , Vimitazii>ne che giovanissimi) ne f»ce il Mal- 
herlie, indirizzandola nel 1587 a Rnrioo IV». 

La storia del testo delle Lagrime è molto meno lunga ed 
intralciata di quella dal teato del Vendemmiatore. Narra 
Scipione Ammirato nel passo riferito dianzi, che, recatosi 
pochi- mesi prima della morte del Tanaillo in Gaeta, dove 
questi dimoraya. e da lui albergato, lo persuase a distender 
tutto intiero i! poema, « di cui egli avea gran parte nella 
» memoria in oartocci, che Apoliine non gli avrebbe rtn- 
« venuti », Mancato ai vivi l'autore, l'opera rimase imper- 
fetta, cioè Benza av^er ricevala l'ultima mano; non peraltro 
» nel semplice bozzo 0, corno dice, in capo all'edizione di 
Vino Equen^e, un Muzio Santoro da Nola. Nei devoti che, 
leggendola manospritta, l'avevan giudicata, cosi per la ma- 
teria teologica come per la fonna poetica, lodavo! issi ma, 
soi^e il desiderio di possedei-la racconciata in maniera t da- 
« gna degli occhi di Santa Chiesa » ; al che sì accinsa, prima 
monsignor Capilupi, poscia, avut^ da lui per disperata l'im- 
praga, Giovan Battista Attendolo da Capua; e questi, ridotto 
n nuova forma il poema, e pobhlicatolo nel 15S5, consegui 
Il plauso dì molti e dalla 1 illustre a Ddolìssìma città di 
■ Nola 11 una lettera di ringraziamento. Ma chi legga il te- 
sto ila lui stabilito e la lettera cli'è in fondo al volume, putì 
veder co'proprt occhi, che razza di licenze sì sia preso il 
letterato capuano. In questa edizione il poema comparve 
scorciato — ar li itpjo proprio... lagrinieKQle! — in tretticl, non 
piti caliti, ma pianti; interpolato, per giuiila, lacero, adat~ 
tato s tutti i capricci d'nna revisione della Caria di Roma, 
ch'espunse o racconcio quanto le paresse sapere par lonta- 
namente di profano- Verini come questi: 



la snnclaziorij del Meiisgio al MAi.trunbE (l'arigi, 1753, 
ciU'lusQ giadiiio d'OiiAiiD T*WH*anEi.i.t nel lìaoguasu° 
l spirituali. 



INTRODUZIONE 



san rabberciati, pudicamente, e 



E B questo luogo particolare è venuto cosi corretto da Ro- 
ma », dichiara l'Attendolo steeso ne' margini del mano- 
scritto servito per la pubblicazione, oggi Palatino 337. 

Com'è naturale, ti6 (luesta edizione, né le successive ri- 
stampa che ne furon fatte, p ossoli rendere utile servigio agli 
studiosi. Un testo pili prossimo all'autentico usci fortunata- 
mente in luca ne! 1&06, per Barezzo Barezzi, famoso libraio 
lii Venezia, dovuto alle cure di Tommaso Costo. Seguendo i 
criteri esposti in un discorso aggiunto in line al poema, que- 
sti s'industriò di riparare ai guasti dell'Attendolo coU'atte- 
nersi nella stampa a queir ìstesso apografo delle Lagrime, 
uhe si conserva ora nella Biblioteca Nazionale di Napotì, e 
cbe, ratfrotitutù col testo di cui parliamo, ci dà modo dì ri- 
levare le modillcazìoni introdotto dal novella editore. Sono, 
per lo pili, trasposi 1! ioni d'ottave, mutamenti di costrutto, 
miglioramenti eufonici di versi o viziosi cascanti; tutte 
cosa, che 11 valentuomo napolitano ba fatte con buon giu- 
dizio, con amore e, se non sempre almeno spesso, felice- 
mente. Niente di gostanziale è mutato; poìclié il titolo di 
canti dato alla divisioni del poema sembra essere il vere 
autentico, e quella diecina di sta uz a che 11 Costo ha espunto 
pec ragioni agevoli a indovinare o da lui medesimo notate 
ne' margini del manoscritto ', nulla invero avrebbe aggiunto, 
se pura non avrebbe detratto alcunchó, al pregio dell'opera. 
Possediamo, dunque, un'edizione delle Laijrime di .V. Pietro, 
SD non integra, sulQcieutemeiite corretta e vicina al testo 



<- Alla stanza SD, per esampto, ilei t 
■ Nella Bibia ed in Qiiueppa Ebreo 
« pacò nueata eUuza si dee lavBre » 



.0 IV è spliuula (jiieats nota: 



INTRODUZIONE 



LXXV 



fienuino; soltanto, non piace veder in essa surrogati gli ar- 
gomenti premessi dal poeta a ciascun canto, con altri d'altra 
mano; per quanto sian questi dovati a nna scrittrice 'valo- 
rosa e feconda di poemi, liriche e trattati: Lucrezia Mari- 
nella, nata in Venezia di famiglia modenese, e vissuta tra 
la fine del sedicesimo e il comi nei amento del diciassettesimo 



11 poema ascetico del Tansillo fu naturai conseguenza del 
SDo licenzioso canto giovenile. Fin da quando il Vendemmia' 
tore, impresso contro la volontà de! poeta, cominciò a dif- 
fondersi per tutta Italia e a levar rumore, it liuon Luigi, 
onest'uomo per indole e per principi, dovette accorarsene 
fieramente, temere ch'esso potesse in qualche modo derogare 
all'osservanza ed all'onore n del viver casto e de' costumi 
a gravi » e pensare all'ammemìa. Di fatto, nel 1555 il poema 
stille lagrime del primo degli apostoli era senza dubbio gì& 
incominciato da qualche tempo; poicbi'? nella qunrta stanza 
del canto IV è ricordato il Bembo come dimorante in Pa- 
liova, donde, com'è noto, parti appunto in quell'anno, fatto 
cardinale e chiamato a Roma. Da ciò, peraltro,' non si rileva 
ciie il poema fosse nel 1539 già al quarto canto; essendo 
stato rimaneggiato dall'autore dopo la pubblicazione, avve- 
nuta nel gennaio del 1559, iìbU' Index E.vpurgatorius com- 
prendente anche le poesie del Tansillo. Prima di questa oc- 
casione il poeta procedeva lentamente. — niurerel, egli scri- 
ve al pontefice Paolo IV nella famosa canzone, che il tuo 
pensiero si volse a nae per riscaldare il gelo, « cli'irmi fea 
• pig'ro all'opra ». — Nulla stimolandolo fortemente a com- 
piere il poema, egli doveva fare di questo l'opera tranquilla 
e assidua di tutti i giorni, donde ripromette vasi l'ammira- 
zione dei posteri, dimentichi per essa del giovenile trascorso. 
Ma quando l'anatema di Paolo IV, che s'atteggiava a cu- 
stode del buon costume e della religione, mise in pericolo 
la sua fhma, dovette entrargli addosso una gran furia di ti- 
rare innanzi l'opera e insieme viva smania di vederla com- 
piuta, divulgata, celebrata e di mandarla pel mondo a dimo- 
strare ch'egli era un galantuomo, un buon cristiano, ilegno 
d'esser ribenedetto dal Santo Padre. Dovette pertanto con- 



LXXVI INTRODUZIONE 

ilurre subito il poema a buon punto. SennoncW, nel 1564, 
p<ì'bttonÌ u (Sci del Seripanilo e per la mitezza del Gucceasore 
(li Paolo IV, le poesie del Taosilio non ricomp.irvero nel 
nuovo InUice stampato ila Piiolo Manuzio; e allora il poeta, 
abbandonata l'idea dì pubblicare senza indugio i suoi 15 
canti, dovette con tutto agio intendere a ripulirli; aicnne 
parti rifacendo, altre lasciando intatte — di qui, forse, rin*- 
f;LtagtianE% cbe presentano ne' concetti e nello stile — , tutto 
iusomma compiendo e correggendo il poema negli ultimi 
anni di sua vita, 

Il soggetto delle milleclufentosettantasette stanze, di cui 
fi eorapongono nell'edizione Barezzi le Lagrime di 8. Pie- 
Ini, si può riassumere in poche parole. 

Dopo il noto fallo (narrato nel canto I, prologo), S. Pie- 
tro si lamenta e Tersa lagrime a torrenti, prima in una valle 
recondita, poscia nell'olivete e nel pulazzo ov'ebbe luogo l'ul- 
tima cena (canti li e HI). Impedito da una forna fatale di 
itRCOstarsi al maestro ch'egli ba tradito, entra nel tempio di 
Salomone, ove sono ortìinataraenta scolpite le vecchie Istorio 
bibliche e le profezie sul trionfo della Chiesa (canti IV V); 
indi n'esce fuori, per tema d'esser scòrto, e va errando, na- 
scosto agli altrui sguardi, per aspri luoghi (e. VI). Adiiormoti- 
tatosi in un antro, terrillclie visioni gli tnrbano il sonno 
(e. VII); si desta, medita sulla nascita, sulle opere sulla 
morte liei suo Dace (e. VIIO, e, uscito della spelonca, é gui- 
dato da un veltro a ved^r la salma oscena del traditore di 
Cristo; ristora, da ultimo, il corpo affaticato, e per la se- 
conda volta prende sonno (canti IX e X). Al suo svegliarsi, 
ba un colloqirio col profeta Isain, che lo mena sulla vetta 
d'un colle, gli addita i tormenti a cui verranno assoggettati 
i fedeli in Cristo (canti XI e XII), e poi sparisce. L'aurora 
Eorgo splendida, pronunziando un giorno in cui 1 giusti (s 
questo si narra nel canto XllI) saran tratti finalmente dai 
regni infernali nella patria celeste. Cristo risorge, e Giovanni 
racconta a Pietro lo strazio che ne fu fatto (canti XIV e XV). 
Il poema finisce co II' apparizione d'una beata donna, di «li 
sì promettono in altro canto degne lodi. 

Ognun veda, che in tutto ciò v'è appena un simnlacra d'a- 



INTHOUUZIONIÌ 



LXXVU 



y.iono. 11 proU^oQÌEta contempla, ascolta, medita, compiange, 
e nulU pili; grave diretto, invero, de' quiivlici pianti o la- 
i/rime onile l'opera del TansUlo si compiine, i Quali avrebber 
potuto tfiTrire materia d'un vero poema soltanto se queU'im- 
pulso, cbe dagli occhi del santo peccatore gpreuevali in tanta 
copia, lo avesse anche indotto a compiere qualche cosa di 
grande. Tal quale i, il poema tansìlliano può e dov'e^^er ri- 
guardato unicamente come una specie di filolea m rin;a. 

E di fatto, che con le torma appariscenti dell'epopea reli- 
giosa cet'cusee il Tansillo dissimulare un libro da devoti, terri 
per certo chi pensi, come ad un artista uon pìii aovellÌDO, 
qual era il nostro allorqua odo pose mano a quest'opera, non 
potere sfuggire la sterilitA. del soggetto prescelto; sul quale 
era agevole tessere un canto, ma non già Kt lunga tela d'un 
poema, che doveva di necessità riuscire (e son tali le La- 
griìne ài S. Pieli-o) au'ìnorifanica, noiosa serie di piagnistei. 
Manì/eetamente, ei non intese di fare opera d'arte vera e 
propria: pianger coli' altrui pianto il peccato della sua gio- 
ventiS, mostrarsi pio a contrito, gradire ai ricercatori di 
scritture ascetiche, questi e non altri gl'intenti del poeta. 
Per raggiungerli, due vie dovettero esserglìsi schiuse innanzi 
Ha da principio: o mettere insieme Un canzoniere spirituale 
o comporre un poema nel pieno ed alto significato della pa- 
rola- Ma n^ per l'uua né per l'altra egli si mise Un di quei 
zibaldoni divotì, ond'ha si fastidiosa copia la lirica del cinque- 
cento, era cosa troppo volgare e, insieme, troppo repugnante 
all'indole ed alle qualità del suo ingegno; d'altra parte, per 
celebrare epicamente qualche importante fatto religioso — 
ad esempio, la fondazione della Chiesa Romana o le gloriose 
traversie dei primi cristiani — , molte cose occorrevano, che 
il TaoEilto non aveva, e ben sentiva, io m'immagino, di non 
avere. Larga e non superflciale cognizione della teologia e 
della storia richiedevasi, prima di tutto, in chi volesse ten- 
tare audacemente un campo nuovo e ferace, lasciando (com'era 
d'uopo) da Imnda l'argomento, ormai tanto sfruttato da poeti 
grandi e piccini, d'arte e di popolo, della vita, della pas- 
sione e della morte del Redentore. Quesla cognizione mau- 
caya al Tansillo, dedito fin da' primi anni a stndì piti ga- 



LXXVIll INTROIJIIZIONE 

niali; e la vita agitata e randagia gli toglieva ogni spe- 
ranza di potersela mai procurare. Occorreva, in pari tempo, 
una mente robusta, atta alla creazione d'un mondo epico 
.nuovo, clie a' saoi fantastai sapesse dar corpo e vita, farli 
muovere, operare e contrastare. Infine, era necessario un 
linguaggio poetico diverso da quei frasario mitologico inade- 
guato al soggetto e vuoto di contenenza, che già tanto sto- 
nava ne' classici esametri del De Pariu Yirgitiìs e al tutto 
insopportabile sarebbe apparso certamente nell'ottava rima 
d'un poema religioso in volgare. Vero è, che alla mancanza 
di taluna di queste doti avrebbe potuto, almeno in parte, 
supplire un vivo e fervente sentimento religioso; ma nep- 
pur questo possedeva in alto grado il Tansillo, credente si, 
e in buona fede, ma soprattitto poeta, artista; e artista na- 
politano, cli'è quanto dire innamorato del bel cielo, del he! 
mare, delle belle donne. Deliberato, pertanto, di far pubblica 
ammenda del trascorso giovenile con un'opera vasta e im- 
portante, non volendo comporre n^ un vero poema né i 
canzoniere, fece qualche cosa che teneva dell'uno e dell'al- 
tro: un pianto spirituale- 

I pianti spiriluali, di cui tanti esempi si sono avati in i 
Italia fin da' primordi della nostra letteratura, sono per Io 
pili brevi poemetti, adatti a contenere variate digreseioni, 
ne' quali, con prevalenza ora dell'elemento lirico ora dell'S' 
pico, si celebra il pianto della Madonna, di qualche penitento, 
di qualche santo o santa. Che potea trovar dì meglio il Tan- 
sillo, desideroso di piangere il suo fallo e insieme di farnd ' 
ammenda con tuie opera, che lo rendesse noto e celebrato! , 
Dando a uno di codesti componimenti proporzioni e aspetto 
di poema, lo divise in parti che intitolò canti, ma cha vera- 
mente son pianti o tagrime, come le chiamarono l' Attendo]» 
e il Costo. Cosi potflf in ciascuna lamentare il suo fallo, i 
avrebbe fatto ne' singoli componimenti d'un canzoniere, e al-l 
tempo stesso comporre un poema, senza alTrontar troppi/fl 
gravi difficoltà di concepimento e d'esecuzione. Accortissima/I 
inoltre, la scelta del protagonista; poichi^, eleggendo 
rappresentante dalla sua contrizione il primo apostolo d(^'l 
Cristo, potè, senza trattare deliberatameTlts del Redentore 



INTRODUZIONE LXXIX 

i ruba quanti ne avevaa cantate le impresa e la 
morte; in ispecie il suo preiìilatto SannaKaro. E di fatto, il 
canto Vili è quasi per intero una libera versione del De l'artu 
Vii-ginis; fiitta con accortezza, cambiando discorsi diretti in 
indiretti, narrando fatti cLe nel poema d'Azio Sìncero son 
rappresentati, e cosi vìa >. Notabili imitazioni della stossa 
opera occorrono pure nel canto Xill, e singolarmente ne! XV «; 
la quali or sono un cooipendio, ora una parafrasi, ora una 
traduzione vera e propria, e in ogni caso dimostrano con 
quanto amore il Tansillo avesse ietta a meditata la maggior 
creazione saanazariana. Ecco alcune ottave, in cui lo scrittore 
venosino traduca dal napolitano quasi a parola: 

Pud la gìnocuhia in Iflrra molla il bus 
B '1 volto a '1 patio a pie del auo Signore, 
ponlo il rozzo asinallo, ed apibiilue 

Fortunali animai, oui d'nllo fue 

Cantn gritzia conaessa e Unlo onorai 

fortunali a reriuiiente degni 

d'asBer Iosbubo trn' Mlsali aegoil 
Non rnvolu di Crels, né bugi» 

fla mai dì Qreci, abe vni m.icclii e infìmii: 

l'un di rubare ai padre e portar viu 

per alto mar donna in su '1 tergu cli'umi^ 

rnllro, OTB a Bacco fan l'alta follia, 

i roxtl giuoclli e i sacrilici infami, 

d'aver sudalo sollo nn veoeliio osceno, 

d'atto sonno a di vin ^rava ripieno. 
Ma a voi «oli il gran. Padre diede in sorte 

al natal del gran Ugtio esser preaenti, 

udir dfii cielo disserrar le porta 

al stton di dolci angelici uonceati, 



1 Si confrontino r̫pollJviiinenle le ottava 5-1S, 47-9, 51-4, 58^, 
71-80, 857 coi segnanti luoglii del Jtó Partit Virginio: ti, 380-408, 
III, 135-96, ni, lJo-39| I, 13670, I, 162-70, I, s79-304i U, ^-97- 

« Cfi-. le stanze 29-34 del e XIII coi versi 38&400 del I libro del 
St Parta, la slanra 53-3, 55-8 e Tj^o del e. SV coi luoghi Eannaro- 
riani corrispondenti 1, 144-54, 35S-6S, 37*8i. 



LXXX INTRODUZIONE 

vedere in terra la celeste oorte 
e i suoi ministri agli alti offici intenti, 
veder relerno Dio ch'uom mortai nasce, 
ed adorarlo or nudo or chiuso in fasce. 
Mentre cinta sarà d'ondosi umori 
la terra madre, ove '1 gran lembo lavi, 
mentre *1 Giel girerà co' suoi splendori, 
e produrrà stagioni or dolci or gravi, 
mentre di Pier sul Tebro i successori 
terran del Regno di lassù le chiavi, 
sempre la fé, la gloria e gli onor vostri 
s'udrau ne' cori e negli altari nostri (Vili, 13-6). 

Il Sannazaro, più elegante e succinto, aveva detto: 

Prolinus, agnoscens Dominum, procumbit humi bos 

cernuus; et mora nulla, simul procumbit asellus, 

submittens caput, et trepidanti poplit« adorat. 

Fortunati ambo; non vos aut fabula Gretae 

p(jlluet, antiqui roferens mendacia furti, 

sidoniam mare per medium vexisse puellam, 

aut sua dum madidus celebrai portenta Githaeron, 

infames inter thyasos vinosaque sacra, 

arguet obsequio senis inaudasse profani. 

Solis quippe Deum vobis et pignora Gaeli 

nosse datum, solis cunabula tanta tueri. 

Ergo, dum refugo stabi t circuiiidata fluctu 

terra parens, dum praecipiti vertigine caelum 

volvelur, romana pius dum tempia Sacerdos 

rito colet, vestri semper referentnr honores, 

sempor vestra fldes nostris celebrabitur aris (II, 381-96). 

A queste imitazioni sicure e manifeste del De Partu Vir- 
ginis, altre si potrebbero per avventura aggiungere d'altri 
poemi, i quali non è impossibile che abbia avuti sott'occhio 
il nostro allorquando descriveva il pianto di S. Pietro: ad 
esempio, della Passione di Bernardo Pulci. Sennonché, in più 
casi certe rispondenze di pensiero e di locuzione possono es- 
ser meramente fortuite, od anche derivare dalla fonte co- 
mune, copiosissima e perenne, onde in ogni tempo attinsero 
i poeti spirituali: la Bibbia. 



INTRODUZIONE I.XXXI 

Sono adunque questa Lacrime del TaoBillo una monotona 
e poco poetica rappresantazione del Tario stato d'animo di 
un penitente in diversi luoghi e in momenti diversi; una 
specie di via Crucis — ad ogni stazione della quale suonan 
(luerìmonie e sospiri —, in tutto simile a quella clie suol 
percorrere, andundo a Roma, una r pia divota e semplicetta i 
femmina. 



ae' aaarì templi, erta nell'ariu o slea:i, 
per quelle antiche erbose alle ruiae, 
cli'ello non baci, riverisca e 'nclùne (lU, 36). 

Questo rivoletto di pianto, che, ripullulando a ogni tl'atto, 
scende gii! pe' quìndici canti de! poema, cioè, Aior di meta- 
fora, l'idea di far tutto servire all'espressione del penti- 
loonto, sciupa tra mano all'autore ogni concetto nuovo ge- 
niale. Naturalmente, nell'opera del T ansi Ilo, artista provetto 
e valoroso, qualche bel tratto, che in quel paludoso deserto 
fosse come un'oasi, non poteva mancare; e non manca: ma 
è cosa troppo fljgace, troppo tenue, perché si possa dire che, 
atihattendovisi, il lettore, giunto con gran fatica a huon porto, 
dimentichi per essa « la noia e il ma! della passata via ». 
Belle veramente, nel canto terzo, le ottava V-lX,*dov'è scor- 
revole il verso e la rappresentazione vivace; anzi, nel dolora 
quivi espresso de! santo vegliardo, v'ha puranco una favil- 
luzza di sentimetito: peccato, che la estingua — ohimè, su- 
bito!— r «amara pioggia delle tredici stanze successive! 
Cosi pure, nel canto VI noti una certa dignitft e compostezza, 
un po' di calore, qualche nobile immagine; vi trovi descritti 
fenomeni naturali, invocato il maggior ministro della crea- 
zione; può in esse la pietà cristiana contempcrarsi coll'ar- 
dente gloriflcazione della natura: ma in que' sottili confronti, 
a cui il poeta ha consacrate ben sette ottave, fra gli elTotti 
del sole e gli effetti di Cristo, troppo è palese lo sforzo vano 
ch'egli tu per supplir cogli artifizi dell'ingegno alla flacchezza 
del sentimento. Nessuna parte de! poema, sfortunatamente, è 
imaiune da questo difetto; gli esempi pitì notevoli se ne 
hanno nella stanza 52.' del 1 canto e nella 15.' del XIV. Ecco 
la prima: 



LXXXII INTRODUZIONE 

Ma gli archi cùo dhI petto gli atianUiro 
la saetta più acute e più mortali, 
fur gli occhi del Signor quando il nuraro; 
gli ocelli fur gii archi e i guardi fur gli strsll, 
che, del cor non conlenti, aea paasaro 
nn deatra all'alma, e >i Ter piaghe tali, 
che bisoguft, mentre ch'ai visse poi, 
ungerle col li cor dagli oechi suoi. 

Ed ecco, nell'altra, uà troacameato curiosissimo, da far il 
pitio con quello famoso dell'Arioato che anche fuori d'Italia, 
come ba mostrato il compianto Koehier, ebbe tanta fortuna: 



Osserveremo, per ultimo — né sarà certo una lode — , ciie 
il meglio del poema tansìlliano sono le similitudini. Ricavate 
per io pili lia soffgetti profani, segnatamente dall' usaervaK ione 
de' fenomeni naturali, a volte ravvivano alcun poco l'esan- 
gue poema, e fanno proprio la stessa impressione, che in 
mezzo ul cielo grigio d'inverno suoi fare un tratto azzurro o 
un caldo raggio di sole, la stessa che ban prodotto sti noi, 
dopo la lettura di questi pianti spirituali, i vivaci a arguti 
Capitoli di cui dobbiamo ora occuparci. 



Cbiunque tolga a studiare, senza iiiee preconcette, la balla 
serie di componimenti giocosi lasciataci dal Tansillo, yi no- 
terà subito nn carattere ch'essi hanno in alto grado: la fu- 
sione ottimamente riuscita della satira, deirepistoia oraziana 
B delia poesia bnriasen. Certamente, ve n'ha pili d'uno, che, 
e per la sua varietà e per la natura del soggetto, offre tien 
rilerati i caratteri dell'epistola poetica; ve n'ha pid d'uno 
altresì in lode di cose insulse o nocive o però d'indole par- 
ticolarmente burlesca; infine ne troviamo due o tre molto 
somiglianti alle satire dei cinquecento; ma i caratteri pecu- 



INTRODUZIONE 



LXXXUI 



Ilari delTepistola eia rorma stessa epistolare son comuni in- 
di Btintam ente a tutti i capitali tansilliani, e, se si eccettuano 
eerti capricci in cui non c'è niente di satirico, sul tinger la 
barba e il capo, in lode della primiei-a e del malcontento, 
contro Vaglio, nouchó alcune palinodie cbe son vani giuoclii 
d'ingegno (per esempio, a esaltazione dell'aglio), in tutti co- 
desti capitoli s'annodano, e spesso addirittura si confondono, 
il sarcasmo e la burla. 

A questa unione, veramente ed eEsenzialmente artistica, 
potè giungere ìl Nostro, percli<S un anteriore ravvicinamento, 
operatosi per gradi e a poco a poco, gli avea spianala in 
qualche modo la via. Tra la satira o l'epistola già. prima di 
Ini c'era grande aflìnità, quella medesima che si nota in 
Orazio: né senza mutua relazione avevano vigoreggiato, ne' 
primi decenni del secolo decimosesto, la satira e la poesia 
giocosa; che anzi tra queste forme c'erano stati reciproci 
scambi, da attribuirai non tanto a deliberato proposito degli 
scrittori, quanto all'originaria aRinltft di codesti generi e 
alla loro ìntima natura. Commisti e confusi negli intelletti 
medievali, 11 gnomico e il faceto perdurarono uniti anche In 
quell'antica nostra poesia famigliare (didattica, giocosa, sa- 
tirica), che dagli umoristi del dugento mette al Burchiello e 
agli immediati precursori del Berni. A questa fonte attìnsero 
del pari la poesia burlesca e la satira. Che se al Borni di 
tali rimatori saranno stati pitS specialmeate lamigliari il 
Pucci, Matteo Franco, il Burchiello, 11 Pistoia; colla poesia 
morale del trecento e del quattrocento, rappresentata, meglio 
che dai sonetti, dalla forma del sermone ternario, si colle- 
gano senza dubbio il Vinciguerra e il Bentivoglio; anzi, uno 
spirito ascetico, pitì che morale, governale satire del patri- 
zio veneto; !e prime che da noi si scrivessero nell'idioma 
patrio. Vero è, che alla satira italiana del gran secolo, clas- 
sicamente ideata e condotta, han dato impulso vitale gli 
studi del Rinascimento, vero 6, che Orazio fu il celebrato 
esemplare ch'essa tenne, pili costantemente d'ogni altro, 
EOtt'occhio; ma non si può negare, al tempo stesso, che non 
abbia ricavata molta della materia da quel sopra detto pa- 
trimoDio poetico comune, dì eul s'appropriò una parte anche 




LKXXtV 



INTIlOlillZIONE 



Ut Elia minor soralla, In poesia giocoss. Alla qual nataral'; 
analogia andando congintita l' identità, della forma metrica, 
la placevolezEa di qualche satirico (ad esempio, de! Nelli), 
la vena mordace d'alquanti fra i burlesclii, non mancarono 
nel Berni a ne'swoi confratelli tratti satìrici, come non man- 
carono garbate facezie nelle satire del cinquecento. Piti oltre 
ha proceduto il Tanslllo. Entrato Urdi nell'arringo e diverso 
da' predecessori per l'indole dell'ingegno, dell'animo a della 
poesia, egli Iia il merito d'aver saputo contemperare meglio 
il'ogni altro il burlesco col satirico, facendo pili largo oso 
della varietft e famigliarità, or festosa ora arguta, dell'epi- 
stola oraziana. 

Nei capitoli d'indole pili particolarmente faceta rivela il 
Nostro una maniera tutta sua propria, un po' aulica e mei})- 
tatamsnte dignitosa. Si so, che i caratteri essonziali di quel 
bizzarro ganere di poesia, por cui il Berni sali in varia mn, 
universale nominanza, sono l'equivoco osceno, la oelebrasione 
di cose vili o nocive e la parodia. Ma gift il Berni stesso, e 
pili i suoi imitatori, non in tutti i loro capitoli avevano ac- 
colti ì primi due; ond'é ben naturale, che ancor meno se ne 
giovasse il Tansillo, il quale attingeva alla poesia giocosa 
riell'etA sua con peculiari intenti e concetti. Rinunziò, per- 
tanto, all'equivoco: che se qualche passo del capitolo in lode 
del giunca del malcontento, qualche terzina del capitolo a 
messer Simone Porzio racchiude o può racchiudere ambiguità 
licenziose, trattasi, in ogni caso, d'inezie. Similment*, non 
lodò mai cose turpi; anzi si protestava nauseato • do'ca- 
1 prìcci e deile vene >, com'egli chiamai capitoli beritescbi, 
tanto (lifTusi t per Roma e tra'preti »: 

Vorrei cba i buon' sctiUori o i buon' poeti 
dicesson bau del bene o mal del male, 
corno apporliene agli uomini discreti. 

Chi celobrik il peetel, cbi l'orinalt?, 
6Ì a suggello spendano gì' in ohi ostri, 
che a l'onor poco, a l'uHlo men vaio! (p. 58). 

In quella vece It Tansillo esaltò le galere, coloro cbe si tin- 
gono la barba e ii «ftpo, tu primiera, il makontesto, l'ogJM, 



il corriere, la gelosia, certi biuckieri a certo vino ctie inviavR 
in clono al Viceré; capricci, anco quatti; ma decenti e tono- 
cui, e proprio ■ a voler suo *, perché diTernssimi dai tanti, 
feeleggiatj ne' sdoì t«iapi, ( e' hanno si del lawiro e si' del 
t rio (p. ;o6). S'aggiunga, che nella celebrazione di queeti 
Toriati o^gettj egli è fletupre, per forma o per cMicetlo, ca* 
sligato; ride, aclier^a (poich^^ veraeggiava « àa gioco »), ma 
non bntfonescameote; con ìstile fAiniKliare, e, per deliberato 
proponi meato, oi-aziaoo: 

Son TJ caglia di «lil pargal:^ e- Uno. 
consentite cb'io geriva Io questa foggia! 
R questo un stil di vet^ì. ch'è vicioo 
al parlar cbe si th tra noi coinuDe, 
che itaila il nostro Oraaio Teooeino (ji, jafl. 

Cosi scriveva al Duca di Sasea. 

Per ciò il fìarni e il Tansillo ci appaiono tanto diversi tra 
loro, ogni volta che li ravvicini T identità del Eo^getlo. Sen- 
tila, par esempio, come il Nostro lia pa(:g«itilita, introdu- 
cendola in Bn lepido quadretto, l'iaimagioe stravecclria e 
OJosuata del ronzino spedato: 

hi corpo grande e di stnncheiw rotto, 
il mio oorsier feria col pie ogni suebo, 
Tea spessi Lnciiini e ha i>ÌDcevoI Irottol 

il Benii, dopo il Pistoia e Matteo Franco, aveva detto, iiwu- 
I»«rabil mente grottesco: 

Dal più profondo e lenebniao uejilro, 
dova Dante lia nlloggiali 1 Bruti e i Cnasi, 
(a, Florimonte mio, nascere i sassi 
[a vostra inula per «rtarri dentro. 

^»*it[ieiite, amtiedoe qnesti poeti hanno un capitolo in lode 
***"»» nano. Quanto diversil Dtraeti che il TansìUo intendesse 
"^''ire < al signor Saiteeverino, nano favoritissimo del ppin- 
* ^'ì-^ rii Bisignano », nna coeuccia tutta gentile e lielicata 
'ìohm qnel caro omino; laddove, chi non ricoriia le scurrilità 
5^«\iee dei capitolo del Berni al Cardinale de Medici, nel 



LXXXVI 



INTRODUZIONE 



quale it Berreliaj da Norcia ò conciato in cosi malo modo? 
Neppur por quel tristanzuolo dì Gradasso il Tansillo non a- 
vrebbe certo scritta una terzina come la Bconcissima del 
poeta di Lamporecchio che comincia k La cera verde sua 
brusca ed acerba >! P. Jo e tesso si dica de' capitoli sulla pri- 
miera- Infatti, nel suo il Berni non si dilunga dal proposito, 
va per le spiccie, ride liberamente e di gusto. Tutt'altra cosa, 
invece, è il capitolo del Tansillo, recitato una notte quasi 
all'improvviso, da un gentiluomo mascherato, al cospetto del 
Viceré di Napoli e di illustri dame. I! cortigiano di don Pie- 
tro di Toledo immagina bensì che la pj-imiera, fatta persona, 
vada dinanzi al suo signore tutta rossa in viso par corruccio 
del torto ch'ei le ha fatto escludendola dal suo palagio; ma 
lin dalla prima terzina le fa chieder venia dal parlare arro- 
ganta e contrario alla « creanza a, né di questa arroganza 
son poi traccìe in tutto il resto del capitolo, pieno anzi 
d' un'aristocratica compostezza, in cui alle lodi che la pri- 
miera fa di se medesima se ne intrecciano acconciamente 
molte del Viceré e delle gentildonne presenti. Nessuna somi- 
glianza, pertanto, nessuna affinità, tra i due capitoli ; sa pur 
non si voglia ammettere, tiitt'al pii), die l'idea di porre in 
hocea alla primiera le sue proprie lodi possa esser stata 
suggerita al Tansillo dal verso del Berni « dica le lode ette 
H dunque ella stessa ». 

Anche, giova osservare, che ne' tratti piti particolarmente 
horleschi dei ternari del Nostro non manca una certa origi- 
nalità e indipendenza. Soltanto il capitolo in vituperio dell'a- 
glio ha avuto un modello : l'epodo ben noto d'Orazio ; il quale 
paragona l'aglio alla camicia di Nesso e ai doni di Medea, 
al modo ìstesso clie, da buon cattolico, il Tansillo cella sua 
lìbera parafrasi l'assomiglia at peccato mortale. Nei rima- 
nenti tratti di tal genere, ii rimatore venosi no procedo colla 
sole sue forzo e con la sua fantasia; nuovo ed ameno anche 
in quegli innocui sforzi d'ingegno, consistenti nel ricavar 
materia di lode per un oggetto da quanto esso ha di peggio, 
ch'aran tanto di moda nel cinquecento. Il lettore ricorderà, 
senza dubbio, i fieri lamenti che il 'ransìllo ha fatto della 
vita marinaresca nelle Stanne al Martirano e nei capitoli 



INTRODUZIONE 



LXXXVII 



nlI'Albertino e al Fontanarosa. Al tempo stesso, l'aDiio me- 
(ÌBsimo, per un bizzarro capriccio, la levava a cielo in duo 
(ie'snoi migliori componimenti giocosi; ricordando forse il 
fuggevole accenno ai mali lielle galee fatto dal prineipa de" 
burleschi, ma certo inilipendentement« dai capitoli del Bron- 
zino, analoghi per soggetto, quanto inferiori in ms comica 
e varietà. Ancor più originali son quelli a esaltazione della 
gelosia, contro la quale il poeta aveva cosi gravi ragioni di 
cruccio, siccome appare dai sonettLin cni la vitupera rap- 
presentandola come una furia. Queste lodi son fatte lepida- 
mente, non senza qualche sarcastica trafittura, e, al solito, 
in forma epistolare. 

Invece, ne' tratti satirici il Tansilio aderisce o s'accorda 
quasi sempre all'Ariosto, al Nelli, al Bentìvoglio. Il capitolo 
a QeroQìmo Albertino, disgraziatamente acefalo per difetto 
del codice che ce l'ha conservato, è forse il piiì atQne, io 
serietà ed importanza, alle satire classicamente ideate e con- 
dotte del sedicesimo secolo. Piace la sua intonazione malin- 
conica e queir insorger franco del poeta, senza declamazioni 
etiche o religiose, contro un pregiudizio da' tempi: 






Che i! turco 


nasca turco e '1 nto 


A gìoaU Ci 


lisa, questa, ond'altr 




iQcruiIelir nel sangu 


Non àvB '1 turco e '1 moro, come 


l'anima ra 


lionUI Nj)n * comp 


tomo noi 


Uri, (wr Ifi man di 



Come si vede, questo capitolo riguarda una delle maggiori 
(brze che governa van nel cinquecento la società italiana. Non 
Jl papato; del quale tacque il TansiUo, a differenza dal Demi, 
dall'Ariosto, dai Beutivogllo, dal Caporali; ma gli stranieri 
invasori: ciò erano, in Napoli, gli spagnuoli- E né anche a 
lui il dominio che lasciò pid trista impronta nella nostra ci- 
Tìllà ispirò sarcasmi degni di Giovenale o dantesche ìnvet- 
live. Pur troppo, tutta la satira italiana del secolo decimo- 
sesto fa mite cogli stranieri; son ben poca cosa le notissime 
allusioni dell'Ariosto, l'accusa di periidia che agli spagnuoli 
fece l'Alamanni, il bisticcio r Spagna spugna de la nostra 



LXXXVIII INTRODUZIONE 

« etate » trovato argutamente dal Nelli. Vero è, che Anto- 
nio Vinciguerra, punto da carità del natio loco, salutava con 
affetto vivissimo la sua Venezia, e che con pari affetto si 
vo]g;evano air Italia T Alamanni stesso e Lodovico Paterno; 
ma più che il sentimento dei mali presenti, li incitava, forse, 
la fantasia tutta accesa dai fatti gloriosissimi della regina 
dei mari e dalle memorie romane di fresco rievocate. Morto 

10 sdegno, sopravviveva la pietà; per ciò il cuore de' nostri 
satirici cinquecentisti fik tocco dalle stragi che insanguina- 
vano senza posa le terre ed i mari, e l'orrore di tali eceidi 
ispirò al Bentivoglio la seconda delle sue satire, al Nostro il 
capitolo di cui parliamo. 

Par certo, che il Tansillo in questo abbia imitato il gen- 
tiluomo ferrarese. Scritto nel 1540, il capitolo è di ben dieci 
anni posteriore alla satira, impressa più tardi ma ^enza dub- 
bio non rimasta ignota in quel frattempo. Or ecco alquante 
rispondenze di pensiero e di frase tra i due componimM[ìtì, 
che diffìcilmente potrebbero esser dovute al caso. 

Qui vivo in mille guai, disagi e pene, 

scrive dal campo il Bentivoglio. E il Tansillo, navigando, 
lamenta 

il viver pien d'affanni e di disagi, 
che qui si passa .... 

Ambedue hanno soavi cose da rimpiangere. Il Tansillo: 

.... col pensier gustiamo 

il pan di Civitale e il vin di Nola. 

11 Bentivoglio: 

Invéce dell'Albano e del divino 
* Trebbian che ber costi solea, gusto uno 

vieppiù che aceto dispiacevol vino; 
un duro pane muffldo, e più bruno 

che il mantel vostro, amaramente rodo... 

E a che atroci crudeltà tocca loro assistere ogni giorno! 
Sentiteli: 



INTRODUZIONE LXXXIX 

Convien eh* io miri, ovunque scenda o poggi, 
malgrado mio, fierezze acerbe e nuove 
per questi vostri già si ameni poggi... 

Se vecchie préndon o stroppiate o brutte, 
vi so dir che le concian col bastone 
SI che non hanno mai le luci asciutte! 

E veggo altri crudeli alti infiniti; 
che d'onor privan le capti ve donne, 
presenti i padri e i miseri mariti. 

Cosi il cavalìer ferrarese; nò diversamente il venosìno: 

Non è mai di che a veder qualche nova 
faccia di crudeltà non m'apparecchie, 
ancor che di galera il piò non mova. 

Che vi dirò de T infelici vecchie, 
cui, quanto son più deboli ed inferme, 
più troncan mani e pie, naso ed orecchie?... 

Veder le pene e la calamitate 
dèi miseri cattivi, a cui si toglie 
roba e vita ed onore e liberiate! 

Inoltre, la terzina tansilliana: 

Che colpa ha T infelice villanello, 
eh' è preso mentre va senza timore 
dietro al camelo o dietro Tasinello? 

^^^^^l'da un fatto narrato per esteso dal Bentivofiflio; ed am- 

eouei poeti — Luigi nostro ne' versi 1 18-144 del capitolo, 

^. -^^^^agniflco Messer Ercole ne' versi 55-72 della sua satira — 

* "osamente descrivono lo strazio d'un innocente fatto dalle 

^^xiate soldatesche, e dicono d'averlo visto co' propri ocelli, 

^^^^giungono che fu nefandezza inaudita. 

Qviest'affinità tra il Bentivoglio e il Tansillo non deve far 

^x^aviglia. Somigliantissimi fra loro, entrambi ci rappresen- 

^^o perfettamente il tipo dell'onesto gentiluomo italiano 

^^^tiecentista: affabili, liberali, religiosi senza bacchettoneria, 

^^tori per ciò dei libri galanti, del buon vino, e d'una vita 

sposata e gioconda, quale appunto il primo di essi ci ha de- 

^J^itta nella quinta delle sue satire, forse con qualche remi- 

^^scenza oraziana, ma sinceramente. Si sa che cos'era a quel 

^^''^po il mestiere delle armi : 

XII 



XC INTRODUZIONE 

Or nel mestier deirarmi sol si sente 

tradire e conculcar chi manco puote, 

rubare e bestemmiar per ogni gente; 
e le matrone e le vergin devote 

corrotte e svergognate se ne vanno, 

quinci e quindi battendosi le gote. 
Metton oggi ogni cosa a saccomanno 

i soldati moderni, né paura 

degli uomin o di Dio ritrar gli fanno. 

E SU queste prodezze, seguita a dire il buon speziale*, i ca- 
pitani, sempre corti a quattrini, chiudono un occhio, anzi 
tutti e due. Poteva tale mestiere andar a genio al Denti vo- 
f^lio? No; ed egli lo confessa senza ambagi airAcciaiuoli, 
proprio nella satira di cui s'è parlato fino a qui; la quale, 
scritta tra lo scoppiar delle archibugiate e le traversie del 
campo, ò tutta un caldo anelito alla pace, dapprima velato, 
poi, via via, piti manifesto, erompente sulPultimo in voto 
aperto e fermo. Tanto il Bentivoglio quanto il Tansillo pren- 
devano parte alle guerre del loro tempo non per vocazione, 
non por ispirito marziale, ma soltanto perché nel cinquecento 
ai nobili desiderosi d'acquistare onori era giuocoforza indos- 
sare o l'abito talare o le armi. Per ciò il continuato spetta- 
colo della barbarie venuta (roltralpo o d'oltremare li afllig- 
geva profondamente; per ciò il Tansillo, pur si di voto a Spa- 
gna, non seppe contenere un lamento contro le piraterie spa- 
gnolesche, ed osò rinnovarlo al Viceré stesso ^ e dal Viceré, 
in quel capitolo scritto nel 155 1, che, fatto conoscere prima- 
mente dal llemondini, dal Villarosa dal Volpicella, fu poi 



1 Son versi del IìASca (ediz. Verzone, pp. 496-97). 

2 Credo che, se venissero fra noi, 

lornerian barri, ladri ed assassini 
il Mignozza, il Hrancazzo e '1 Minadoi. 
Tutu gli affetti umani ed i divini 
si partono da un uom, com' entra in barca, 
p mani e piedi se jrli fanno uncini. 

(Gnp. xni, terzine 61-62). 



NTRODUZIOSE 



xcr 



per intero rislampato dal Fiorentino, imploro la libòruìone 
dellu sua città natale dagli alloggiamenti oniFerati state tra- 
vagliate flerumente le citti vicine a Napoli fin Jalle guerre 
combattute da Consalvo. 

niK piti della vita polìtica, offrì materia ulla satira del 
cinquecento la sociale: Antonio Vinciguerra, ad esempio, in- 
veì contro la plebe, Girolamo Muzio lamentò il tristo stato 
dei servi, dal canto suo il Nostro allase al fUmo e alla bur- 
banza (Iella nobiltà di Napoli — » la sola [osserva it Burck- 
« liardt) che nel cinquecento restasse orgogliosamente u 
« sé ■> — , derisi, com'ò noto, anello da Scipione Ammirato 
nella seconda parte delle Fitmi-j^ie nobili napoUtatie. Ver 
tal riguardo, cioè quanto alla vita sociale, il tema prediletto 
della satira cinquecentistica (vecchio t«ma davvero!) fa la 
condizione della donna e in ispecial modo della moglie. II 
Tansìllo volle svolgerlo, egli pure, con molla larghezza. 

Gift altri ebbe a rilevare egregiamente l'antitesi (Va la 
sensualità dei novellieri e dei comici e ta platonica idealità 
de' lirici petrarcheggiai! ti del cinquecento. Quest'antitesi non 
accado invero molto spesso, né anche in quel secolo (per 
quanto qualche caso por se no dia), di trovarla in una stessa 
persona, in un poeta, e in un poeta lirico dell'animo e della 
tempra di Luigi Tausilio. Eppure, mentre in un bel volume 
di rime, piti specialmente nel mii'lior bonetto del volume, 
questi, con uno scatto di poetico platonismo, si leva Eopra 
lo ali impennategli alla fanta!:ia dell'amore, sa in alloj verso 
il cielo; a quattr'occhi poi e in conddenKa arriva perfino a 
dimandarti : 

Qaeit'alma è obi la ledif k chi In tocohit 

noQ ha, rosse aé pallili*, le gole, 

aé il pie, n^ il cupo, lu: le man, oé gVt iicclii. 
Come uà aom dunque innamorar si puole 

di cosa cosi fallai — Ei mi risanile: 

amo de l'alma l'iDiiaibil dola. — 
Se ami il bel de l'alma die s'asconde. 

die bitogno vi fanuo gnince rosse, 

denti bisDcbi, occhi negri, chiome hiondcl ([jp. 154-55). 



XCII 



introduzioni; 



Scherzava egli soltanto, il poeta, scrivenJo a questo morìo ? 
Ovvero voleva farsi paladino d'una sensualità turpe e vol- 
gare? W runa cosa né l'altra: coli' insorgere a nome Jel 
buon senso contro il p1rLtonisD:io indulso di molti contempo- 
ranei, il Tansillo seguiva, al solito, un avviamento già preso 
su tal soggetto dalla satira del tempo. Tutti sanno, quanto 
si era sbizzarrita prò e contro le femmine, tra il morale e 
il giocoso, la poesia popolare o semi popolare dell'evo medio; 
quanto era anduto a genio questo soggetto agli umoristi del 
ilugento, ai dicitori famigliari e borghesi del secolo XiV. Nel 
decimosesto, di preferenza se ne compiacevano (e si capisce) 
i burleschi; ma non sapevano astenersene né pure gli scrit- 
tori di satire regolari e claniche, eredi in parte dell'elemento 
gnomico e perà tendenti nella trattazione ad un flue piti che 
altro insegnativo. A ciò particolarmente li incitava l'esempio 
di Giovenale; un poeta che, già nell'età media lodatlasimo, an- 
tonomaslicamente chiaoiato e^/itcu^, né forse estraneo all'im- 
mensa diilusiona dallo spirito misogino, era poi stato de' pri- 
mi, fra gli antichi, a cui si volgessero le cure degli umanisti. 
Dalla sesta delle sue satira — la più ampia e forse la piti 
conosciuta — deriva, direttamente o indirettamente, il m&- 
gtio di quanto poetarono codesti scrittori sulle donne; come, 
per citar qualche esempio, la satira V del Vinciguerra e la 
IV dell'Alamanni. Anche indirettamente, abbiamo detto. In- 
fatti, non minore efllcHcitt per tal riguardo ha esercitato 
un'altra satira d'argomento identico: quella che l'Ariosto in- 
vìo ad Annibale Maleguzzi quando costui era sul punto di 
prender moglie; servilmente imitata da Lodovico Paterno 
nella quarta della sue. E questa satira del cantor d'Orlando 
è si una garbata lezìona di morale pratica, suggerita al poeta 
(tall'esperienza e dai buoni libri (fra gli altri dalla Famiglia 
dell'Alberti) né meno adatta al suo elle al nostro ed a qual- 
siasi altro tempo, ma è pur anco, in fondo, una libera e giu- 
diKiosa imitazione della famosissima di Giovenale, con cui ha 
siffatte attinenze, come può ognuno di leggieri persuadersi 
ìnstituendo fra esse un paragone, che davvero non basta a 
spiegarcele l'analogia del soggetto. 
Anche il Tansillo, pertanto, concedendo larga parte na' 



I 



INTRODUZIONE XCIII 

Capitoli a tale argomento, s'attenne all'esemplare latino e, 
più ancora, alla felice imitazione italiana. Cosi, in un ter- 
nario al Viceré, intitolato Come vorrebbe la moglie, egli enu- 
mera scherzosamente le buone qualità da ricercarsi in colei 
e' ha da esser la compagna di tutta la vita, seguendo passo 
passo, toltone ogni intento didattico, la prima parte della 
satira dell'Ariosto. Questi scrive: 

Fra bruttezza e beltà trovi una strada 
dov'è gran turba: né bella né brutta; 
che non t'ha da spiacer, se non t'aggrada. 

E il Tansillo: 

Prima vorrei, che assai del bello avesse, 
ed ella si pensasse d'esser brutta, 
e brutta agli altri e bella a me paresse. 

Dove il consiglio giudizioso si risolve in un giuoco di parole. 
Parimente, ad ambedue è comune il desiderio che la moglie 
sia buona massaia. Ma F Ariosto consiglia al Maleguzzi di 
non mostrarsi diffidente vietandole d'andare a conviti, a pub- 
bliche danze, a a chiese Dove ridur la nobiltà si suole » ; 
laddove, per contro, il Tansillo pretenderebbe addirittura, 

che conviti o perdoni e feste e uuz/e 
avesse a schivo, assai più ch'io non a;.;;^io 
le femmine che in ^'ola haiiji<j le buzze. 

La celia diventa manifesta, allorquando troviamo fra le con- 
dizioni poste dal cortigiano di don Pietro alle sue nozze niente 
di meno che il divorzio! Senza questo particolare, qualche 
incertezza sulla natura dei passi ora riferiti potrebbe tuttavia 
rimanere; poiché nel capitolo taii.<iUiano la domanda d'una 
moglie è fatta, sino ad un certo segno, .sul >erio; tanto, elio 
il Viceré non mancò d'esaudirla di li a poco, con vera conten- 
tezza del suo protetto. Chi può distin;_'uere, in certi casi, (\\nt\ 
eh' è morale e satirico da quello che ó puramente hutìamo in 
questi ternari dove l'uno e l'altro sono co&i' bene confusi i? 



XCIV INTRODUZIÓNE 

Lo stesso soggetto, qui svolto con giocosa arguzia in iin 
componimehto che pur non può chiamarsi sostanzialmente 
giocoso, è trattato con tutta serietà nel primo dei capitoli 
che non si debba amar donna accorta, uno de' più faceti. 
Ed anche in quest'altra esposizione, or proprio fatta sul se- 
rio, delle qualità che si richiedono in una buona moglie, il 
Tansillo s'accosta ai precetti dell'Ariosto: al pari di lui, in 
fatto, non aspira a trovare un miracolo di bellezza, al pari 
di lui non vuole donna straniera o di troppo alto sangue o, 
peggio ancora, sapiente: 

Non vo', che sappia Plinio e Columella, 
le favole e l'istoria mi racconte, 
e mi venda la lucciola per stella (p. 135). 

Già prima dell'Ariosto e del Tansillo, Giovenale àvea scritto: 

Non habeat matrona tibi quae iuncta recumbit 
dicendi genus, aut curvum sermone rotato 
torqueat euthymema, nec historias sciat omnes. 

(VI, 448-50). 

• 

Questa allusione alle donne sapienti letterate — una vera 
e propria casta noi cinquecento — ci richiama ai tratti sa- 
tirici che il Tansillo ha consacrato a certe determinate classi 
di persone, come i medici, gli avvocati, i giudici e notari, i 
poeti. Seguiva anche in ciò, come sempre, una tendenza della 
satira cinquecentistica; una tendenza che si ricongiunge a 
vecchie tradizioni e consuetudini, nonché a dicerie curiose, 
ritmiche prosaiche, de' secoli anteriori, ma che nel decimo- 
sesto dovett' essere soprattutto determinata da fatti ben noti 
e universalmente lamentati. Tradizionale era, senza dubbio, 
quel cattivo concetto dell'arte medica, satiricamente espresso 
anche dal giureconsulto Gerolamo do' Domini, a cui il Tan- 
sillo accenna scrivendo: 

La vita e' ha del libero e del franco, 

diceva altri, è dei medico, che ammazza, 

né pur pena non n'ha, ma n'ha premio anco (p. 301). 



INTRODUZIONE XCV 

Peraltro, quando leggiamo quel che han detto dei seguaci 
d'Ippocrate l'Ariosto, il Nelli, il Bentivoglio, e vediamo il 
Tansillo vituperare, contro il consueto, con indignazione vio- 
lenta la loro ignoranza, siamo di necessità indotti a ricer- 
carne la cagion prossima hello scadimento che la medicina 
durante il cinquecento ebbe a patire fra noi ; segnatamente 
nel regno di Napoli, dove, in quella vece, lo studio delle 
leggi aveva acquistato un incremento eccessivo. Similmente, 
a idee comuni e popolari si collegano il lamento dell'Anguil- 
lara sopra i fastidì degli avvocati, le arguzie di Pietro Nelli 
sui loro peccadigli, certe facezie del Nostro, come là dove 
dice che le leggi sono « le cose al mondo vie peggiori » 
(P- 377)« Ma neirAriosto troviamo a coppia col medico che 
avvelena un Cusatro che spaccia sentenze false; nel Benti- 
voglio quel bel tipo di Morando Medico dà il braccio ad un 
Antonio Cicalone, azzeccagarbugli; il Tansillo, dove si la- 
menta de' medici attacca altresì, con pari e inusata acerbità, 
i giudici crudeli. Come non pensare, adunque, a una real 
condizione non buona anche della giurisprudenza, come della 
medicina, nel secolo XVI? K lo stesso do])biarao dire dei poeti. 
Contro la molesta turba dei versaioli nati in ira alle muse, 
e inuzzoliti o ringalluzziti dalle mutue loro incensate, il Fi- 
renzuola e il Nelli insorsero col pili acre dileggio; a quel 
modo che stoccate non sine ictu dirizzarono al petrarchismo 
attillato e "presuntuosetto tutti i satirici cinquecentisti: da 
Pietro Aretino, il quale scherniva « la lindezza Dell'andar 
« petrarchevole a sollazzo. Che a ricamar fiori e viole è av- 
a vezza », al Tansillo nostro, che francamente attribuiva la 
tanto lamentata sfortuna de' confratelli in Parnaso alla loro 
frivolezza : 

si doglion poi, che scarse ed inumane 
siano le genti e i principi tiranni, 
quando ai poeti non si dà del pane! ^ 



A Certamente la condizione dei poeti del cinquecento non era 
gran che diversa da quella, descrittaci con sf foschi colori da Gio- 



XCVI INTRODUZIONK 

K obblif^alo a riparar miei danni 
il Portinaio del Ciel, Carlo, o Francesco, 
perch<^ io canti i mio' amori e i miei malanni? 

(pp. 159^). 

Men feconda fu la vena satirica del rimatore venosino in 
quanto concerno la religione e la morale; può dirsi, che, o 
per paura o per ritegno, egli abbia appena sfiorato un sog- 
getto che all'Ariosto ispirava versi irosi e sarcststici, e al 
Nelli, il quale osò spinger lo sguardo nel segreto dei chiostri, 
le ben noto arguzie sui preti e sulle fraterie. Nondimeno, 
anch'egli non risparmiava dileggi ai corrotti ministri dèlia 
Chiesa. 

s' il) vo' i)orsona elio a mal far mi j^uido, 
si trovano più timiclio e più cliierche, 
i'hv non vido corazzo o«l olmi Alcido: 

scrive, nel nono do' suoi capitoli, a IMario Galeota. E altrove, 
argutamente : 

Tu II riposi a Catanzaro, Kocoo, 

corno, slanco sul di' monaco in (rolla, 

clic incoi'onò la noiio. un (lualclio sciocco. 
Vol>i <lir Como stanca navicella 

che al)lna ^-"illiila r^ncoi'a noi i>oi'l<>, 

tlopo ])a'^?ata in mare asjn'a j)r()colla. 
Ma il irran»l<' .inior cin» a quosli la»li'i io porto 

<lii- Pii ('*'if!i'M cli'i" ji')M vol(»a L'ià diro (p. 295). 

I*er ultimo, non vogliamo tralasciar di rilevare in questi 
capitoli alquanti accenni ad usante del tempo. Il Barckhardt, 
notando la dilVusionc cli'ebbe in Italia durante il cinquecento 
l'uso delle carrozze, divenuto coniimo di là dall'Alpi soltanto 
nel secolo successivo, riferiva im passo del Bandelle e un al- 
tro della satira ariostesca al Maleguzzi. K utile aggiungere, 



viMiali', d<'i i»octi dciretà <li Doniizi.'ino, I■:sa•.'f»l•cr;^, nella sua II satira, 
il Sans.Mvino: ma ^i ricordi il capitolo d»'! TV)Icc sulla Poesia e quel 
di'» dic^ dell' inirra ti tudin'^ dei principi ]'\rios1n. 



INTRODUZIONE Xrvll 

per ciò che rìgiianla Nnpoli, il capitolo ilei Tanslllo cotilro 
le carrette e ì cocchi, dal quale si ricava, ella gii^ nel sedi- 
i;esimo secolo Napoli era la cJltA allegra e rumorosa d'oggidì, 
o che aopra tutto alle donne (il che consuona con quanto 
sappiamo in tal proposito anche ilall'ArioEto) piacevano le 
carrozze, e ne solleticavano l'orpoglìo. D'un'altra usanza pure 
fa iQeu;iione II Nostro, cui non è forse satirico di quel secolo 
che non abbia vrtupenita: l'usanza del belletto e dei profu- 
ml^ della quale sì parlava nei convegni geniali, sì rideva 
sulle GCQRc, si movoa biasimo nei trattati; irrefi-eaubile ma- 
nia, che aveva perflno dato luogo a un'arte vera e propria 
di dipingere il volto, lo cui teoriche erano assommate in 
curiosi libretti. Non valevano co ntr' essa, com'è noto, nò pre- 
ghi, né percosse, ni minaccio di seri danni: le signoro spen- 
devano ad ungersi un tempo lunghissimo, colt'aiuto di donno 
iuearicaie di questo e d'altro; ai davano il Uscio ancbo lo 
pili illustri gentildunne, le spose pii) oneete, le madri piti ve- 
reconde; non escluite le Veneziane, che andavano velate, non 
oscluae perUnu, qualche volta, le catupugnuule i, l'ori'i uuii 
lieve tar maraviglia, che anche il TanMillo ripronilcsoo in 
pili luo<rhì acarbaueata io, trÌKla consuetudine. Da lui solo 
suppiamr), ch'era cosa tutta no.'tra e spognuola, che la Francia 
e r&lemagna n'erano, almeno in gran part«, immani (p. i j6), 
Concbiudendo, una spacie d'ecletismo è il prevalente carat- 
tere di queste poesie del Tansìllo; tutt'allro che satiriche in 
Tondo, non ostanti certe mordaci allui^iuni. I^li vi sfloni. cmi 
un frizzo, ana facezia, una stoccala, luoltissiiui «og^otli: 
tua di proposito ne ha trattali due eoli, e per vllolto di epc- 
ciali circostanze. Le crudeltà spagiiole«cbe avvenivano, ni 
paó dire, giomalmenle cotto i saoi occhi; ù ben naturali.', 
pertanto, che abbiano strappato anche a luì, coma glft al 
Bentìvoglio, un grido di dolore. La donna ura areouiauln 
prediletto cordella satira come della poevia b«nie»ca; ondo 
riascìva fai-de, nel discorrerne, coutemperarc (<:io clic appunto 



XCVIII 



INTltUDUZIONE 



egli fece) l'elemento satirico col giocoso. MaDco ne' capitoli 
tansilliani il fiele della satira; vi manca della poesia berne- 
sca l'equivoco osceno: in quella vece, meritano lode per la 
castigatezza, per l'equo contemperamento di etili diversi. Luigi 
Tansillo non era un satirico come il Nelli e come l'Ariosto, 
per quanto si sforzasse d'accostarsi alla maniera poetica di 
quest'ultimo. A tutt'altro adatto, convion dirlo, che a met- 
tersi a ritroso de' tempi a a chiudersi accigliato in se stesso, 
egli anzi aveva gran bisogno di iocìi, d'onori, di carezze, iti 
donil Questi capricci, scritti quasi a penna corrente, trasce- 
gliendo il tìore della satira contemporanea, detìiicendo dai 
capitoli alla maniera del Berni e del Mauro una festivìtfi, 
una dovizia di leciti scherzi gustosissime, ei li mandava, in 
confidenza, a principi o a patenti amici, per raccontar loro 
i suoi casi e malanni, per intrattenerli piacevolmente un'ora, 
tjua e là, una certa disuguaglianza di stile in essi ci avverte, 
oha non sempre soccorrevano il poeta culla stessa benigna 
prontezza l'estro e la fantasia; ma sempre, a ne iie quando ce- 
lebra l'aglio la galera, il Tansillo ò contegnoso e gentile. 
Alle volte, par proprio di scorger rijiessa ne' suo ij versi la 
vita un po' frivola, m;t tutta sussiego e lustro esteriore, della 
corte del viocrc Don Pietro <li Toledo. 



Ai Capitoli si ricongiungono intimamente due altro molto 
note e vulgate operette in terza rima del Tansillo: i! Podere 
e la Balia. 

Composta senza dubbio dopo il ijjz (ma In quale anno 
precisamente, non sappiamo), la Balia, ossia — come s'in- 
titolava nel manoscritto servito al suo primo editore — 
Esorlazione alle nobili donne a volersi allattar elle stesse 
i lor fiyli, fu dal poeta mandata, insieme col Podere, a 
Mons. Antonio Scarampi vescovo di Nola, con una garbata 
lettera che merita d'esser qui per iutiero riferita, poiché:', 
senza esser punto una dedicatoria, nondimeno rendo ottima- 
mente ragione dogli intenti a cnratteri dì questi poemetti: 



INTRODUZIONE 



XCIX 



bisogno: il Podere e la Balia. Non Ila bisagao deiruno, perché, 
mercé di Bio e del sua merito, ha tante delle possesEioci, che oinai 
^uaai le don più raslidìo che comodo. Sé men dell'altra ha mestieri, 
perché, essendo V. S. in questa nostre parli il vero esemplare del 
buon prelato in ogni virtù e sopra tutte nella caslitA, non hn figli, 
come altri forse, da porre a petto di balia. Tuttavia, perche V. 8. i 
quel gentiluomo che sempre attese più a giovar ad altri che n se 
stesio, e di bellissime lettere e d'acutissimo giudicìo ornato, e, bìc- 
«ome sa, et prodetie vùliMt et deleotara poeCae, potrassi da ijaestL 
miei doni togliersi per sé il diletto, sa ve n'avrà, ed il giovameato 
dar ad altri. Si lorrà il diletto per sé, con vedere s'io ho saputo in 
^egto mio poderelto conoscer il buon terreno, fahhricur la villa, 

Darà il giovamento ad altri, con mandar queala mia natia, da poi 
che l'avrA veduta ed esaminala, ad alcun degli amici che han mo- 
glie e figli e seco collocarla, i.i do a V. S. per ubbidirle, parchi* pia 
volte me l'ha comandato, ed a questi giorni » Jano nonsegratj, ne' 
qaali tra' padroni e servitori ed amici si dan vicendevolmente de' 
presenti e, come dicono in Roma, le wtonow, qui le offii-te, in Pu- 
glin le strenc (benché aia del Ialino) ed io Spagna l'aghifialdo, V. S. 
m'ha mandato de' Trutti della sua rìcchistiima diocesi; uve e mela, 
che paiano or ora spiccate da su le viti e da EU gli arboti, e cap- 
poni e copete; ed io Is do di quelli del mio povero giardino o pili 
tosto ortieello: rime basse e versi giocosi. Qualche di forse le 
presenlerù di qua' che eonverranno ni mio obliligo ed al suo merito. 
Fra tanto, V. S , a chi bacio !s mono, gradisca la mia volontà, ai 
come io riveriseo la sua bontade. — ri Napoli, il primo giorno di 
gennaio del MnLXVI >. 

AUnifestamente, ìt Tanaillo faceva ugual conto dì questi tino 
parti doi suo ingegno (o, com'egli dice, fratti del suo giar- 
liino), uniti a coppia, non pura nella kttera allo Scarampi, 
ma anche nel manoscritto edito dal Ranna e nel codice To- 
rinese di cui ci varremo per ristamparli. Un solo e comples- 
sivo giudìzio n'è stato dato altresì, fino aiì oggi, da quanti 
banno avuto occasione dì parlarne; dal Roscoe, ad esempin, 
il quale, nel discorso premesso alla sua libera traduzione in- 



' La Balla, ed, Bania, pp. 



e INTRODUZIONE 

^lese della Balia, ebbe a giudicarli la pili pregevole delle 
produzioni poetiche tansilliane as loell in respect of the 
sub; ed as of the maymer of execution. E lo stesso farem 
noi. In efifetto, tra essi ò cosi stretta parentela — d'indole, 
di forma metrica, d'immagini, di stilo — , che il trattarne 
separatamente genererebbe inopportune tautologie. 

Prima di tutto, ambedue sono una libera e giudiziosa imi- 
tazione. Del Podere, Tha detto il poeta medesimo, e non sol- 
tanto nella missiva a Monsignore. Ei lo riguardava siccome 
uno stillato de* migliori precetti, 

c'han posto in carte 
Cato e Virgilio e Plinio e Golumella, 
e gli altri che insegnar si nobil arte. 

Columella ò il più saccheggiato; gli « altri » sono Varrono 
e Palladio. Similmente, la Balia non è che l'esplicazione d'un 
concetto espresso da Aulo Gelilo nelle Veglie ateniesi, ripe- 
tuto da Macrobio ne' Saturnali, toccato di volo anche da 
Tacito 1, ripreso e altramente svolto da Sperone Speroni nel 
Discorso del lattare i figliuoli dalle madri. Fra il poemetto 
del Tansillo e il dialogo del letterato padovano non è rela- 
zione alcuna; grandissima, invece, tra il medesimo e il lungo 
passo di Gelilo, i concetti del quale, contro l'usanza di dare i 
figliuoli a balia, ripete il Nostro più largamente, ma quasi 
nello stesso ordine. Anche il colloquio Puey^pera di Erasmo 
da Rotterdam, dove, con più filosoflca gravità ma con argo- 
menti non dissimili, si esortano le donne a voler essere ma- 
dri e nutrici insieme della lor prole, può — e sembra anche 
talvolta — esser stato in mente o sott' occhio al Tansillo, 
mentre scriveva in versi le stesse cose. Sott'occhio egli ebbe 
fuor di ogni dubbio, in più luoghi del poemetto, gli opuscoli 
morali di Plutarco De educatione puerorum, De aynore prò- 
lis e qualche passo d'Orazio e di Columella. 

Tutte queste imitazioni son fatte — occorre appena ag- 
giungere — con discrezione e buon giudizio. Cosi, nella Balia 



* Dial. de orat., 28. 



INTRODUZIONE CI 

il Tonsille non si strascica servilmentó snila irncco ili iJellio. 
ma svolge e dicliiara, non s«n»i rag guani* voli aggiante, ciò 
che lo scrittore latino accennò di fuga. Vengasi coma ha 
saputo trarre acconciamente partito sia dsU'argomento, toc- 
cato appena da Plutarco o da Kraamo, che anco le bestie 
nntrono amorosamente i loro nati, sia da nn' usanza delle 
gentildonne, non iscomparsa m^ anche og'gi. cui la musa cor- 
tigianesca aveva blandita sngli inizi del cinquecento, cui 
sibnierft, dagent'anni dopo, acerbamente la franca « ardita 
muEa di Giuseppe Parini : 

Di Spagna, dal l'eni, dall' Indie nove 
rtetr vi Tote or cagnin roeso or bianco, 
e d'ogni eslreiua lido in che si Iroir; 

non pur gli nprite 11 sen. gli dato il lembo, 
ma in petto, a flato a Baio, il cbiudele anco. 
B i Hgti vostri, elio a4 sol oé nembo 
dovria scostnr da voi, pnr elle vi grave 
Wner ne'tetti; lo non vo'dir nel iwetnbo? 



Verei, per pili riguardi, notabili. L'impwtanza della Saliet 
— ffl finffvlar and intere^ng production, secondo il Ro- 
scoB — sta appunto nella oopia di oupìom notizie, ohe ne paó 
■lesnmere chi sia vago di studi comparativi snile condizioni 
sociali d'età diverse, e nell'eccellenza degli argomenti addotti 
dal poeta contro la consuetudine alla quale muove gnerca*. 
Cosi avess'egli potuto, in questa guerra santn e benefica, ri- 
portare qualche ben che minima vittorial Assai meglio che 



< & il giudizio del LiailuLtiii'e iiigleae: « To tho^e wbo feei tlie 

■ laudable curiosity, and acknowledge Uie uliiily ufcompoiing Ihe 

■ mannere of differenl egea, il ^vill alTord many striking indi- 
" «Blions of the stale of society al tlie period in which 
" it vai n-ritten -. PiCi sotto; • It would be dimcult even in the 

• present dny to adduce argumeuls better cfllonlatefl Ihnn 
1 ttosa of the BUtJior, to correct the abuae which it was his 

• puTpose to reform • iRoscoh, TM Hurt^. pp, 96-7), 



cu INTRODUZIONE 

con conto piagnistei devotissimi, com'è il suo maggior poema, 
avrebbe per tal mo(io fatto ammenda del peccato^iovenile. 
n carattere precipuo dei poemetti didascalici de! Nostro è 
quoll'intima parentela co" suoi componimenti giocosi e sati- 
rici, a cui poc'anzi accennavamo. Non solo, in fatto, si com- 
pongono di veri e propri capitoli, ma contengono la stessa 
festevole fumi ^'Ilarità, la stessa scioltezza di stile, la stessa 
miscbianza (l'elementi vari- La Balia ò una coaversazione 
conQdenziale eoa le < donne ben nate, ì cui bei colli preme | 
« Quel santiBsimo giogo d'Imeneo | Onde buon frutto spera 
« ogni Oman seme »; conversazione piena d'espressioni effi- 
caci e insieme d'immagini graziose, nella quale il poeta ef- 
fonde caniìido e schietto l'animo suo, e, poiché sa per prova, 
di quali noie, di che alTanni e disagi sia cagione il dare a 
balia i figlinoli o accoglier le nutrici in casa, ciò che ha 
sofferto espone per altrui ammonimento, riuscendo alle me- 
desime concliiusioni a cui perverrà due secoli pili tardi, 
neìV Emile, Gian Giacomo Rousseau. Similmente il Podere. 
partito in tre capitali, il primo de' quali insegna come s'ha 
a fare la scelta del luogo, il secondo in che modo si pud 
« conoscere il buon terreno », il terzo come è d'uopo < fab- 
« bricare la villa >, è anch'esso una piacevole conversazione 
del poeta con Giambattista Venere, maggiordomo della fa- 
miglia (l'Avalos Piccolomini, in cui quegli, prendendo occa- 
sione dalla compra d'un podere che l'amico ha divisata, espone 
in tal proposito, con tono familiarissimo, norme e precetti 
suggeritigli dall'esperienza giornaliera e dalla pratica dì cose 
rustiche; precetti positivi a tal segno, che, là dove consiglia 
a chi acquisti un podere d'approfittar della misera condizione 
in cui putì trovarsi chi vende, non son neppure consentanei 
ai (lettami della pili rigida morale. L'esposizione di questi 
precetti non è punto oggettiva; vi eenti anzi sempre cosi 
l'indole del poeta come la qualità de* tempi e del luogo in 
cui viveva: nella qual cosa, pili ancora che nello stil sem- 
plice e nel verso scorrevole, sta il pregio del poemetto. Poi- 
che ai precetti di Virgilio e degli agronomi latini si alter- 
nano in esso notizie curiose, in ispecie d'usanze cittadine e 
contadinesche, acconcie osservazioni sopra la natura de' ter- 



INTROUUZIONE 



Citi 



reni della Campania, encomi U' illustri personaggi, viventi o 
ila poco estinti, per esempio, della celebre marchesana del 
Vasto; v'ha inoltre un bel lamento dei guasti fatti dai ga- 
ieoti sullo coste prossime a Napoli, in cui il poeta insorga 
contro l'inerzia e la noncuranza del governo vìceregale uon 
un vigore che starebbe bene anche in una satira. Del resto, 
quella Telice tempera d'elementi vari, che notammo noi Ca- 
pitoU, s'osserva pur in questi poemetti. > Versi giocosi », 
ebbe a cliìamarli, scrivendo allo Scarampi, il Tansitlo stesso; 
e lepide son veramente le favolette esopiane che gli ó pia- 
ciuto d'innestarvi. Essi hanno, altresì, la scioltezza dell'epi- 
stola (iu ispecie nei principi de' capitoli, come, ad es., in quello 
del secondo della Balia, tanto modesto e gentile) e, qua e 
lù. — come per l'appunto andiam notando — , il sarcasmo 
oraziano o giovenalesco: nella Italia sì sferzano le nutrici 
stolide venali, nell'ultiaio capitolo del Podere si fa una 
pittura piena di tocchi urbanamente satirici della società na- 
politana. È chiaro. Lungi dal proporsi d'usar la severità un 
po' arida, ch'ò nei poemi — poemi veri, con proposizione, 
invocazione e meccanismi poetici — dell'Alamanni, del Baldi, 
d'Erasmo da Valvasone e di piti altri, il Tunsilio ne' compo- 
nimenti didascalici intese ad ammaestrare conversando alla 
buona, come aveva fatto, insuperabile, Lodovico Ariosto nella 
satira sulla scelta della moglie- 
Ancora un'osservazione. Dei cinque capitoli onde si com- 
pongono questi poemetti, l'ultimo del Podora é, fuor di dub- 
bio, il migliore. Essenzialmente subiettivo, contiene fra le 
altre cose un idillio domestico, lodato con ragione dal Car- 
ducci, dove non sai se più si debba ammirare il proceder 
piano e soave o la verace spontaneitfi dello lodi che il poeta 
intesse della vita rustica, diversissime dalle solite, retoriche 
e astratte quanto ognun sa, de' cinquecentisti. Ciò die il poeta 
dice vien dal cuore; e la vita della campagna egli si raffigura 
qual'è davvero, senza arcadiche smancerie, si pili tosto con 
ijualcke solenne ricordo d'un epodo oraziana famoso: 



Ben, sarà u 

Meli ■»> 



lì, |>ria cbe i;jù cada il fusu 
luiei, cbe a pie d'una montugna 
i cólti ed arbori rinchiuso, 



CIV INTRODUZIONE 

e con la mia dolcissima compagna, 
qual Adamo al buon tempo in paradiso, 
mi goda l'umil tetto e la campagna, 

or seco a l'ombra, or sovra il prato assiso, 
or a diporto in questa e in quella parte, 
temprando ogni mia cura col suo viso?,.. 

Ma non anticipiamo quel che il lettore troverà nel séguito 
del volume. Due passi di vecchi scrittori nostrani, Tuno dello 
stesso secolo, l'altro del precedente, si posson comparare a 
questo per la verità non meno che pel vigore del sentimento : 
la descrizione de' piaceri villerecci lasciataci da quel gran 
valentuomo dell'Alberti e la pittura de' luoghi ameni del na- 
tio nido che l'Ariosto ha fatto nella satira a Sismondo Ma- 
leguzzi. Ricordate? 

Il tuo Maurizìan sèmpre vagheggio, 

la bella stanza, il Rodano vicino, 

da le naiadi amato, ombroso seggio; 
il lucido vivaio, onde il giardino 

si cinge intorno, il fresco rio che corre, 

rigando l'erbe, ove poi fa il molino. 
Non mi si pón de la memoria tórre 

le vigne e i solchi del fecondo Jaco, 

la valle e il colle e la ben posta torre. 
Cercando or questo ed or quel loco opaco, 

quivi in più d'una lingua e in più d'un stile 

rivi traea sin dal gorgoneo laco. 

Notevole, infine, l'inaspettata chiusa del Podere. Nella 
quale il Tansillo, entrato con acconcio artifizio a discorrere 
d'una passione amorosa dell'amico a cui scrive: « Seguite, 
gli dice, fratel mio, 

seguite pure Amor quanto vi piace; 

che sembra un'alma dove Amor non stanze 

casa di notte senza foco o face: 
e un di vi mostrerò certe mie Stanze, 

là dove io provo appien, che un cor gentile 

più deve amar com' più in età s'avanze... 



INTRODUZIONE CV 

Quando cosi cantava, U poeta era sui cinqaant'aDRÌ, aveva 
preso moglie, messa ^u casa, messi anche al momlo du'A- 
gliuoli: eppure, artista impenitente, pincevagli finire glori- 
fican*io l'amore questa clie ia, se non l'altima, una delle ul- 
time suo opere poetiche di qualche mole; 

fdiché parlaodo, ch'uom aoli se n'uvvede, 
dove alla villa io mi credeu d'andarne, 
Sila selva d'Amor porlonne il piede, 

qui già laot'anni avvazio di portarne; 
qui va' che ai Sniaca il cammiu nostro, 
che in miglior parie uom non potria laaoisrne. 

Siamo nell'agosto de! i}6o, e il Tansillo ìn questo tempo la- 
vorava con ardore attorno al divoto poema. Con quale ani- 
mo e quali intenti, sappiamo. 



Esaminate in breve tutte le poesie d'argomento vario di 
Luigi Tansillo, conchiuderemmo senz'altro, se a render meno 
imperfetto il quadro die siamo venuti delineando dell'opero- 
sità poetica di questo verseggiatore, uno sguardo alla sua 
vita di letterato ed artista non ci paresse, pili che oppor- 
tuno, necessario. Né per ciò dovremo a luogo intrattenere 
nncora chi legge. Poiché l'arte, che pure gli procurò, se non 
vera gloria, onorata, e durevol nominanza, fu per lui un sen- 
tiero tutto fiorito; e degli studi letterari, non isperiuentò 
né l'indagine faticosa, né le acri contese, ni^ le guerrJcciuole 
di conventicola; e alla poesia — consolatrice amorevole, non 
mai tiranna indi visibilmente congiunta al suo fianco — chiese 
quando un conforto o un sollazzo, quando un favore o un 
dono principesco, ma nulla piU. Fu cagione di questo la man- 
canza di vera e soda coltura, che qua e là vien fatto anche 
a noi di notare leggendo attentamente i suoi scritti, e che 
non isfliggi né a lui stesso né all'Ammirato, t Avendomi td- 
• dio — leggiamo in una lettera del poeta al Varchi — dato 



evi 



INTRODUZIONE 



> qtuilftM poco (l'iniieKnD, il quale operando, io avrei potato 
■ uoriuiatiirEni qualche cosa di gloria, e pur uoa t'Lo fatto >. 
K rAmmiratodicaTalocaro alla casa di Toledo < pili per la 

• dMitrOEKa dell'ingegno, «on la quale tirandosi imianzi s'ac- 

• quistò grado e riputazione, cLe per molta cognisioni di 
( lotterò B (Opusc, II, 2i6j. Di studi non era digiuno; ma — 
ripetiamolo — non ne conobbe mai altro cbe il lato pid ge- 
niale: la lettura de' classici, del Petrarca, degli scrittori pre- 
diletti del suo paese, e il vei-seggiare liberamente imitando, 
con ovldìana fìiciUtA. Ciò detrasse, certo, alcun pregio alla soa 
poesia; ina In cambio le conferì una vivace spontaneità, che 
dovea plai'ere — e piacque — in un tempo, in cui presso i 
dottiwiinl cultori delle muse trionfava la pili grave e rigida 

• Inamidata CDmposteKxa. Piacque ad nomini intendenti e 
celebrati puoti; e al Tansillo, quando esordi, toccarono (se è 
da credere a (liuno Polusio) le lodi dell'Ariosto, toccò dopo 
morta l'ammirazione, non cosi cieca come vorrebbe lo Stt- 
Kllani, dal Towo. 

ìiA Holtnnto ffll encomi, ma altresì l'amicizia, spesso inti- 
Hin, uttaniiB II Nostro di personaggi coltissimi : di Garcillasso 
itotta Vetra «pagnuolo, dai Martirano, dell'Epicuro, del Rota 
I itol (ìmlHiv/a napolitani, di Scipione Ammirato, del Gelli, 
t| tinnì. I.a qiial erma non pud parere strana; cbi pensi alla 
inl(<H(Kn a iKintA dell'animo suo, sempre sereno, gioviale, a' 
I iHitl Kiiitl rtiDilaitl e semplici, al lìktto medesimo cb'ei vìsse 
Imitami dfttfll Pitodl d'enidlalone e di critica, fecondi di perico- 
li ofiiitrcivfiraie. K di ohe natura si fossero queste amicizie, 
A air^ultt ilaiuinern dal «metti, non men che dalle lettere 
\ adlU Blenni anni itoiio, del TanslUo al Varchi. Donde appare, 
itlH legava riinc nll'ultro questi scrittori nn'atTezione sincera, 
m'antl'ia dlm*>lli^hem allinentata dalla recìproca stima-, che 
MnNMtr HoiiiHlnMii non «mnvaro all'amico de' « frutti del suo 

• utnnio ijliu'dliKi » — sonetti «i elegie—, e che, dal canto 
JtUu, Il Taiiiillii pmcaculnva al Varchi, per la storia famosa, 
la notula dit,liii deiildomte fUgli aTvenimenti contemporanei 
del regno ili Napoli, 

Nel iHBj il oomplnnto prof. Fiorentino pubblicava tn pid 
RitrI, In ooasslono di nou», ti Mftuente sonetto del Nostro; 



INTRODUZtONE CVII 

Spirili illDilFi, che le labbra aveta 
umili mai Mmpre del dirtn liquore, 
che accresce vita all'uom, qusnd'ei si muore, 
porcile detti dal manda Umidi siete; 

poiché Irarmi ds voi l'ordente sete, 
onde il petto m'ardea rtesio d'onore, 
m'i dalo, e gir nei fonti a tutte l'ore, 
che mai non fan veder rivo di I,e(t^; 

diB, o trista il largo o lieta il crin mi volga, 
spreco quant'«lla tórre e dar mi pnola 
Ben prego Amar, che la mia lingua sciolga 
si, cbe l'indegoiti de le mio noto 
l'onor, che voi mi date, non mi tolga. 

« Questo Gon etto, annotava l'adltore, é la sola testimonìaDz^L 
> die l'imanga, d'essere appartenato anche Luigi Tanfiillo al- 
M l'accademia dagli Umidi ». Ma un altro, non meno espli- 
cito, potemmo aggiunger noi cinque anni dopo, dal codice 
miscellaneo della Riecartliana <il Firenae segnato 280} : 

Alla oncrafUìima AeeaOenila Fierenllna. 
Schiera gentil, d'onor non d'altro serva, 

namma ch'ardo i più nobili intelletti, 

con eterna pietì, viva si serva, 
acciò che, apenlo il corpo, i! nome ferva; 

o saoerdoli, al grande ufllsio eletti, 

che cOQsBgraste e lingua e moni e petti 

a Mercurio ed a Febo ed a Minerva: 
poi che col voi del favor vostro io m'alio 

a tanto ooor, qual voce avrò che mostri, 

che nel bel coro indegno <□ non mi dedat 
M'era pur Iroppo onor, se, chino e acalzo 

e fuor del tempio, ai sacrifizi vostri 

arder incenso mi si dava o teda. 

Qui, com'è chiaro, il poeta ringrazia gli accademici fioren- 
tini della sua ammissione fra loro; ce ne insegnano la data 
esatta — 18 maggio 1544 — gli Amiali dell'Accademia de- 
gli Umidi, poi Fiorentina, manoscritti in Marucel liana. Or 



CVIIl 



INTRODllZrONlì 



non è ohi non veila riinportan?:a della notizia oha rioavaRi 
ila questi dito sonetti. Certo a siffatta ammissione avrao con- 
tribuito i buoni uffici del Varchi, persona molto autorevole 
e al Nostro affezionatissima; ma, ciò non ostante, rimane 
pur sempre notabile il fatto, che Luigi Tansillo, napolitano, 
abWa avuto l'onore d'esaer accolto in Firenze nella t gran- 
de (, nella " socra », in quella che Cosimo I eliiamava « la 
« sua carissima e felicissima Accademia x. 

Eli ora è tempo di calar le vele e raccoglier le sarte. 
Dopo quanto abbiamo osservato Ano a qui. Uopo quel cho 
hanno scritto delle Liriche del Tansillo il Fiorentino od il 
Tobler ', nessuno vorrà negare a questo poeta un bel posto 
in quella schiera non ispre^evole di rimatori meridionali del 
cinquecento, a cui appartennero, per non dir che dei famosi, 
bernardino Rota, Galeazzo di Tarsia e Angelo di Costanzo. 
Quivi egli & per avventura il più fedele rappresentante delia 
tradiaione regionale; poiché non tanto dal comune esemplare 
(iella lirica di quel secolo attinse l'ispirazione, quanto dai 
poeti del mezzodì d'Italia: fra gli antichi da Ovidio, fra i 
moderni dal Sannazaro. Come gift sappiamo, il principe degli 
erotici latini gli era oltremodo caro: a lui, meglio che &iì 
ogni altro, amava assomigliarsi per la facile vena, su lui 
avea formata la maniera poetica. Una forte tendenza all'imi- 
tazione era senza dubbio ingenita e connaturata nell' indolo 
del Tansillo, aborrente dalla fatica, non punto schiva del 
facile plauso. L'abbiam veduto. La sua Egloga è ricalcata 



* Qni il giudizio BuloMTole de! ciiUeo tsdesco: « Es unlerliegE 
« keinoio Zweifel, dass Tansillo untar deo ilalieniselieQ Lyrikern dea 
« i6jhs. einoherTorragendoBrsclieimingist . . . Seine Nachahmung 

• (olgt dem Vorganger docli nicbt auf dia Abwege; er scliiagt mon- 

■ che Tono ao, die wir bei Petrarca nio Ternelimen, er empflndet 
« lebhaft, und eein an den gulen Mustern, auBser Patr. namantlich 

• BQ den romiachen Blegikern gebildeter GeEchmack gibtsicb nieht 

■ aber zufrieden, als bis volle Geeotlosseubeit der Gomposìtion, 

■ Einheit dea Tonee, Seinheit der Form erreiohl stai; ioa sainen 
•1 Sanetten zHhlen manche tu den beslen, die es ìlberhaupt gibt. > 
{Deiaselii LUteraturieltìmff' »- ^, col. 13S3-S5}. 



INTRODUzrONK 



CIX 



in gran parto sulla Cecaria, il Vendemmiatore sulle Stame 
e sai Priapux del Bembo; nella Clorida s'imitano l'Areiusa 
del Martirano, lo Metamorfosi d'Ovidio e le peaeatorie d'A- 
zio Sincero, nelle Lagrime il lìe partu Tiroinis; la Balia 
parafrasa nn capìtolo delle Nolii Attiche e arieggia a Plu- 
tarco e ad Erasmo; il Podere, maturo frutto dell'ingegno 
tansilljano, riassume precetti georgici di Virgilio e degli 
agronomi latini, per confessione dei poeta stesso; il quale 
poi, ne' Capitoli, o raggentilisce il Borni e i berneschi, o 
trasceglìe il fiore dalla satira oraziana, giovenalesca e cin- 
quecentistica. Ben poca novità, dunque, di contenenza in tutte 
queste poesie; ed ecco il maggior peccato eli' esse hanno agli 
occhi nostri. Anche, ci par di notarvi una non sempre intera 
e compiuta padronanza della lìngua, una cotale in uguaglianza 
stilistica, di coi non ripeteremo qui le ragioni, ovvie e pa- 
tenti. Secondo il Gaspary, il Tansillo « domina la forma con 
* perfezione ». E lode eccessiva; per quanto non man- 
chino ne' suoi versi tratti squisitamente eleganti e fini. Più 
tosto, vuol esser encomiato il buon giudizio con cui sa gio- 
varsi di quanto, all'uopo, viene attingendo da varie parti. 
Le sue copie han sempre anima e vita; lo sue imitazioni son 
di quelle che il Cinquecento sapeva far cosi bene, nelle quali 
la materia è accattata, l'espressione originale. Ed un'altra 
qualità ancora del suo ingegno poetico lo rendo caro a noi 
moderni pid di molti suoi pari che l'avanzano di gran lunga 
in tante e tante cose: il sentimento sereno e profondo della 
natura. Giovine, egli inneggiò alla volaltà — allora il san- 
gue correvagli ardente por lo vene, e la baldanza giovenila 
lo traeva, quasi inconscio, all'ideale epicureo — ; piil tardi, 
scrisse la Clorida, dove, nella pienezza della vita, levò a 
cielo le bellezze del golfo napolitano; in fine, fu suo supremo 
desiderio chiuder la vita in una villetta fra il Sebeto e il 



Per tutto questo, il Tansillo, poeta di sentimento in un se- 
colo in cui dai pili si verseggiava o per consuetudine o per 
ispasso per esercizio letterario, autore di stanze rivaleg- 
gianti da qualche aspetto con le ariostesche da cui in fondo 
derivano, di sonetti e capitoli molto belli, di canzoni che il 



ex 



INTRODUZIONE 



Tasso pregiava, è tutt'aJtro che meritevole d'esser lasciato 
in an canto. Ma, come tra la noncuranza e l'iperbole enco- 
miastica c'è sempre, pur nella critica, una via di mezzo flioi* 

della quale neqtiit consistere rectum, cosi un gran poeta, nel 
veni alto significato della parola, propriamente non fu, né 
anche come lirico. 1 grandi poeti, lia ragione il Torraca, « non 
u aspettano tre secoli perché il mondo s'Inchini riverente in- 
■ nanzi a loro », e poi, per levarsi ad altezze sublimi man- 
cavano al leggiadrissimo venosino, come generalmente ai 
versidcatori del mezzodì, le ali del concepimento vigoroso e 
originale. Dal Roscoe, buon conoscitore ed estimatore del cin- 
quecento italiano il suo merito fu definito giudizioEument^: 
« Contemporaneo dell'Ariosto, del Bembo, del Casa e dei due 
« TaBsi, il Tansillo non restò per avventura inferiore a qua! - 
« sivoglia scrittore del suo tempo nella semplicità della dì- 
< zione, nell'eleganza del gusto, in una scrupolosa fedeltà (n 
« gtrict adherence) alla natura e al vero > '. 



Pisa, maggio 1893. 



Francbsco Flamini. 



' THe XurM', p >i. 



ILLUSTRAZIONI 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE 



LETTERE INEDITE 

ATTRIBUITE AL TaNSILI.O 

dal cor!. 11. n lyj rtelifl Diblioteco di Mimlpellier ' 



A la illustrissima Signora... 



1 DlEuidatomì 



Clie 



e ixn p 



di meno, renandomi 

bisogna, a dia 

IssBDta lei per 

ua&asEinato, come e'ubb, o che pui 

bia errala la casa, e eì eia posto o(. 



disnwaQturoto per da vero, che anco 
ila lei ai rli' passali acm i mai oumparaa. 

è la più dolce pratica del mondo, non 
ni sarebbe stalo sogira modo caro Onda 
i(t giuilicioso in [[uesta parie, non abbia 

me, vero clie per la strada sìa stalo 
AnalmeDlo i venuto qua, biili- 



1 v'è s 



1 ragione esserne 



< C(r. MAZ^i'iiNTi, Mss, ai f rancia, III, 72. La copia di queste let- 
tere ru fatta fare a spese dalla Società Bloriea Napoletana, cbe hn 
Totnlo libsralmeDte metterla a nostra disposizione. Il ms. le attri- 
boiace tutte al Nostro, né v'bn ragione di negargli fède; ami, che 
alcune aian veramente del T., sappiamo aucbe d'altronde. Sulle prime 
quattro, tuttavia, per quel che osserveremo annoiandole, ci par pru- 
dente lasciar suasìstere qualche dubbio. 



ILLUSTRAZIONI 



), tanto di quest'aere, che ) 
questo paese '. 
dunque, per grazia c)i Dio, stai 
tra S. Lorenzo habbia voluto [ 
ngPfliLo lei con ogni dovuto mi 
i fermi, il qua) se ben con stU 



cijiar de gli 

sempre beni?, con tutto che 
mnrier il oontmrio a V. S. : 
o del ftiTor ch'ella s'è fifor- 
) non ho ricevuto, (guanto 









piacesse pur a la mia sorte, che, poi che per it mio poco valore 
non san atto a recar bene alcuna a T. S., essendo io appena di nome 
un piccolo et ombrato bene, fiisBi huono almeno a luglier da lei una 
parte di quella offese, che la nimica fortuna, con tanto gran torto 
e con tanta indegnità di se aleasa, non resta di ordirle centra a tutte 
l'hore; a la qual Analmente V. S. ha da esser grandemente obligata, 
poi che per questi mezzi tanto più chiara apparisce a tutti noi la 
virtù e la gloria di lei. De la qual s'io in particolare mi vedessi di 
poter essere oosf buon relatore, come ne son conoscitore, non mi 
rimarrei Soradenlr'u quel bìIbmìo in ch'io mi rimango; ma vorrai 
e con la viva voce e con la penna farne quella testimoniania al 
mondo, cb'io sento in me medesimo. Pui', poi che è peso non da le 
mie braccio, ancb'io per questa volta mi varrù del motto di V, S. 
opa non Aninmm. E con questo Une le bacio humilmente le mani, 
a ne lu sua bona grafia quanto più posso sa raccomando. 
Da Napoli, il di ni di Giugno M.D.I^XIII. 



A la medesima. 



più volle son ito pensando tra me 
posso in V. S. haver generato tanto ( 
reua a mala creanza, che non solo le 



, pel' non dir alte- 
a degnata darmi tal 
jn sol verso respon- 



' t)i qui, e dulie tre lettere seguenti, appare che vJii scrive aveva 
soggiornato a lungo in Boma, e n'era partilo da poco. Pub essere, 
in fhtto, cbe il Tansillo abbia passato in qiieski cittì, forse al ser- 
visio degli Orsini conti di Pitigliano e Nola, gran parla dal decennio 
di sua vile 1553-63, del quale nulla sappiamo. Soltanto, è Eiogolara 
che un napolitano s'esprima a quelh) modo. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE 



CXV 



dere n lanla lettere Bcrilteie da me sin a quest'hoi-a. Io veramente, 
che le son quel medeainio servitore, cha sempre le sono Sisto, sento 
di ciò meraviglia pur troppo ^BQde; ma molto pili sema comparn- 
lioae è il dispiacer che me ne viene: perché, temendo io di non es- 
ser caduto de la sua ianlo desiderata grazia, non me ne posso dar 
pace; ìiea che da questo timore in buona piirte m'asaianra la can- 
didezza e bellezza dell'animo di tei, congiunta a la since rissi ma e 
devotissima Eervilli mia. 

Voglio dunque persuadermi, che tulio questo torlo mi sì likccia, 
non da v. s,, che non puù mai farmi altro cbe p'azie e favori in- 
finiti, ma da la mia perversa e maligna fortuna, la quul per togliermi 
in quest'esìlio <- anco la consolazione che mi patrebbon portare le 
dolcissime lettere di v. S., porge a lei ad ogn'bora l^int'altre oceu- 
pauoni e co9i gravi, ch'io non posso più partecipar di tanto bene. 
Prego per tanto la T. S , che, per assicurar il dubbio in ch'io ini 
vivo, mi faccia grazia, Don dico di scrivermi ptenamenle e diffusa- 
niente, com'io vorrei, ma con quattro righe almeno formi fedo, cha 
ne la sua nobilissima memoria io ritengo per anco quel medesimo 
luogo, che la si degnò di concedermi una volta. Vegga hora V. S., 
con quanta poca spesa può alimentar un suo devotissimo servitore: 
(acciaio dunque; poi ch'ali' incontra ell'è sicura, ch'io non ho desi- 
derio maggiore, cha servirlo sempre, si come sempre con l'animo 
l'osservo e l'ammiro parimente. La Illostrissinia Signora Oiiilia* m'ha 
più volte dimandato de la S. V., et io, per uun confessare d'essere 
in si poca stima appresso di V. S. e quasi cbe dimenticato in tutto, 
ho mostrato d'haverna bene spesso lellere, e per mantenimento del- 
l'honor mio ho detto a questa gentilissima Signora un mondo di 
bugie, al meglio che bo saputo; le quali però vun tutte a conto del- 
l'anima di V. S., poi che con questo suo procedere la mi dà occa- 
sione non solo di far questo, ma mollo peggio ancora. A V. S. in 
tanto bacio le mani, desideroso che in questa mia lontananza, tanto 
sia grande verso di me la cortese lioutà di lei, quanto al bisogno 
mio si conviene ed a la conUdenea ch'io ne tengo in&uila. Da Na- 
poli, il di che costi s'afferra Agosto, M.D.L,Xi:i. 



1 Straock, qui pure, che un napolitano ^'esprima cosi'. 

* l'orse Giulia Qonzaga, che mori tra aoni appresso; celebrata, 
siccome una delle più belle donne del suo tempo, dall'Ariosto, da 
Bernardo Tasso e da pili nitri. A lei il Tansillo indirizza il sonetto II 
dell'ed, Fio reatino. 



ILLUSTRAZIONI 



A la mfdesinia- 



i, o pur iier d 



I, ch'il 



mima risposta già mai, non so se 
per grazia ài lei, o pur iier disgrazia mia. Como si sia, lo voglio 
far anca quesfulUma prova, per veder se con tre sentenze conformi, 
io posso tirarmi addosso una reiiidlcata, per la i^ale mi s'imponga 
di poi un silenzio per tutto 11 tempo di mia vita. Y. S. non ai me- 
ravigli, ss cosi a la prima io entro seco su i termini di ragione; 
per che pretendendo, e sia detto con buona pace di tei, cbe la mi 
fhccin gran toi'Lo, son forzato a ricorrer a' ijuai mezzi che mi pos- 
sono aiutare. Io so che V. E., per un'apparente scusa di ipiRsto suo 
lacere, mi potrebbe dire, che per li continuo travaglio de le sue liti, 
eU'bahbia ni di' passati Tatto in nn certo modo offesa, noo pur al 
allo cortesissimo cognone, ma anco a quella humonlsslma gentil- 
iPEia, che è proprio e veramente saa, et ohe, essendo cosf, è ben 
dover ch'anch'io m'abbia ima buona pnlienzia. Hor io son coBlenlo 
d'havcrln, massima poi che non posso far altro; ma pia per obbedir 
a V. S., che per che io mi conosca tenuto a doverlo tare in modo 
sIcuod: e dove tì trovò mai, dicami un poco In S, V., che chi ha 
liti tenga si poco «onlo dei Dottori, Sa a tanto almeno cbe la sua 
eausa sta perdente? se dunque V. S. non ha degnato di rispondermi 
eom'a suo domestico servitore, parendole di poterne pigliar per que- 
sta cagione ogni sicurtà, lo doveva far almeno come con Dottore 
utrhiìtae per buon rispetto. Porse ch'io non son fauomo da camera 
e ita piazza' Forse ch'io non son buono di festa e di Invarot Ma 
Bla con Dici Presto ai vedrì quel ette saprì far un aniniu d'un av- 
Tocnto provocato '. Io spero d'esser fra pochi giorni b Roma, dov'io 
son resolutif d'accostarmi ai collitigantì di V. 8., e portarmi di modo 
che, se da lei tin uni non s'è tenuto quel conto di me che per amo- 
revolezza si doveva, s'habbìn da tener ut meno da bora in poi per 
interesse e per timore. Che si, die si, che par questa via io riba- 
verò l'honor mio; che si, i?be la B, v., tardi pentita di sua feritale. 



t La lettera è tutta in isti 
cezia parrebbe star bene s 
Tansillo dottore utrlutguei 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXVIT 

mi (krà pregar ch'io non voglia far e aoa voglia dire; ma io bau 
l'assicuro, hora per all'hora, cbe lutto sari finalmente vano, per ulie 
quand'io mi metki sul duro e su l'oatìnaW i fluito il dire. Bea lo 
m chi ba cognizione de la mia QatiUB e dell'asaer mio. pur quaarlo 
V. 8. desiderasse l'iparar a lutto questo disordiae prima che dive- 
nisse maggiore, anco vi sarebbe un modo, et è questo solo il veder 
al meglio che la può di reconciiiarsi meco, riconoscendo la sua in- 
smendando guanto prima l'offesa che, contra la 
za, CQQlra l'urbanità e contra la sua parola, dou s'è vergo- 
gnala ai di pQSBBli di Tarmi; per che, procedendo meco con questa 
ingenuità, la si puù ben prometter di trovar in me ogoi ragionevol 
disposizione; che a la fine, come soleva dir la mia ìialla, la min non 
i se Qoa buona pasta, di mo<Ia che non solo [e sarà rimessa ogni 
passala cal{ke, ma né anco restarà in me ombra di memoria ch'ella 
m'habbìa offeso giJ; mai. Conosca dunque V. S. il buon partilo che 
se le offerisce ai presente; l'importanza consiste nel saperlo pigliar 
in tempo: cosi l'eaorlo a fare, ricordandole che i gran prudensa 
seguir il consiglio di chi puù lar quanto gli. torna bene, lo spero 
pur che queste mie parole non snran, come quell'altre, gettala al 
vento, et che in V. S. faraa quell'effetto ch'io desidero, non meno 
per il ben suo, che per il coulanto mio; e oon questa eperansa le 
baalo le mani, ricordandole che da otto giorni in qua io son loty 
nato in Napoli; dove, ae in qualche cosa potrà servir a V. S., sarà 
il maggior contento ch'io n'habbia- Cosi ia prego a comaodsriui 
prima che la buona intelligenza si rompa per affatto tra di noi. l)u 
Niipali, il di XXV d'agosto, M.D.LXtlI. 



A la ìtisdesima. 



I lutto che, bavenil' 
1 lettera in risposta 
to modo pretender i 



di (r 



ivuto tioalmenle da V, S. 
: lunghisaime mie, potessi 
' recuperato 1 



i forse pili tosto s 
ciatola, che tomeranamente tornar 
di meno, per mostrar ■ V. S. che a 
asaer di suo debito, iqipresso di me 
sua cortesie, cadendo in me, non ca 
mi son resolulo conUnuar di scrivi 
temperamento, ch'io fu^a quanto più per me «i potrà deaeri* mole- 



queto e con le mani a 
itenlar Cariddi e Scilla, non 
quanta ella iatessa conosoe 
piglia per favore, e che le 
LO in terreno in lutlo sterile, 
tonto però d 



CXVIII ILLUSTRAZIONI 

Blo grava, p«r uon far in ciò ooalrario effelLo a quel ch'io tei 
core ; protestandomi ancora, che, per qual si voglia mìa diligi 
(piesla pratica de to ecrivere, non voglio in modo sic 
V. S., né anco per legge di conveniente rìspetlo, a rispondermi, ee 
non guand'a lei lami più che commodo; parendomi assai, ai come 
veramente è, ch'ella per sua bontiì ai degni di legger tal bora quanl'io 
le scrivo. Né si meravigli V. S^ m cosi in un ponto le par di cono- 
scer in me tanto di mutazione; poi che pur hieri pareva ch'io bra- 
vassi seco, per dir cosi, et bora me le rendo cosi humile: però che 
ella ha da sapere, che tutto quel risentimento, ch'io feci all'hora, 
non fu per inleresse mio particolare, ma solo per il puro lelo ch'io 
havevo deirhonordi V. S,; dubitando, che, esaend'ella meco in tonta 
contumacia, la potesse acquiKtarei agevolmente, appresso di chi eì 
russe, nome di negligente o di superba; che appresso di me, che la 
conosco.dotata dì tante rare et eicellenti qualiti, non potrà mai per 
qual si voglia accidente vendicarai, non pur questo tìtolo, ma né 
anco il sospetto di parer tale. Concludo dunque, ch'io le scriverò 
tal'hora, e se a Dio piacerà mai ch'io torni a riveder V. S., spero 
mostrarle, che, anco in mezzo a tante perregrinazioni, non ho però 
la tutto passato infVuttuosamente l'hore. Già non ho potuto, come 
disegnavo, metter insieme quelle saUre de le quali a V, S., per sod- 
diefar principalmente a tei, liavevo data intensione, per che par 
nuove occasioni quelle con alcuni altri scritti mìei ai ritrovano in 
Roma; ma non per questo manca l'usata vena, ancor eh' in parte la 
aia ftlla molto debila: cosi liavessi io il modo da potermene preva- 
lere; il che Earabbe la mente più quieta e più serena di quel che 
non è al preaentel Ma quel ch'importa più, è ch'io non spero d'ha- 
Tarla già mai, un a tanto ch'io non riveggo Is dolciaslma aria dei 
sette colli. Prego V. S. in questo mezzo, che le piaccia conservarmi 
ne la sua bona grazia, che sarà, le promette, potentissimo antidote 
a tutta questa mia maliaconìa, e di più, che mi comandi ove mi co- 
nosce atto a poterla servire. Non lassarò di dirle, che più volte ho 
ragionate di V. S. con rilluatrisBima Signora D. G. ', et ho trovato, 
che ella (per conoscer molto bene il merito di V, S.) a'è affezzionsla 
tanto, che io, che per parer d'aver occhi at intelletto v.olevo pur 
mostrarle, in che grado si havease da tener la S. V., e quanta itimn 
per me se ne facesse, ho avuto molte poco campo di poterlo fare, 
perché da quella giudiziasìsaima signora sono state prevenuto di 
modo che m'è parso superfluo il parlar più oltre; et invero è molto 



' Donna Giulia. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE 



CXIX 

S.) hàbbia 



più pru[iurEioDato, clie un sogetlo nobiUtBiiDO {quaì è 
lu la Etimo □iunzB d'un altro simile a lui, che Don di me, ricco di de- 
siderio e poverisaimo di Ynlore. Bacìo a V. S. le maoi, pregandole 
ogni desiderata feliciti. Da Napoli, il di xv di 7.bre, M.D.lxiii. 



A la illuslrùsima Signora Violante Orsina Savella ^. 

OaU'sniareTOl eervitu, eh' io ho avuta sempre con V. S. e con tutta 
l'niustrisgima Caea sua, bI puù molto beu coualderare, quale e quanto 
>la stato il dispiacer ch'io bo sentito al di passati per la morte del- 
l' bonoratiBsimo Signore suo consorte e mio BmoreTotiasimo compare 
e patrone!, prometto a V, S., che i]ueeto cnso ha potuto tanto in 
me, ch'io non rirolgo il pensiero in luogo alcuno, dov'io non v*gga 
sempre il cordoglio di lei e dei signori suol Agli, e flnalnient« il 
graie danno che ne rieeTe, non pur il particolare de la sna Casa, 
ma l'iiniTersale de la aun città ancora. Veramente si pu6 hen dire, 
che Dio benedetto habbis visitata v. S. gi& gran tempo fa con la 
mano alquanto grave; ma perché la sua divina bontà procede sem- 
pre con quei mezii 6he son più atti a la nostra salute, a noi motte 
i>o1te occulti e da lui solo interamente conosciuti, doviamo ringraziar 
del tutto la sua divina maestà e pigliar sempre quaot'ei ne manda, 
non come da giudice gevero, ma come da padre nostro amorerolis- 
simo; ricordandaci, che questi son quei veri mezxi,che ne fan chia- 
ramente comprendere la fallacia di questo misero mondo, e che f1- 
oalmente ci uniscono al nostro Creatore e Redentore; là onde 
molte volte avviene, che quel che pur troppo ne par aspro e inlol- 
lerabile mentre che non ci conformiamo con la volontà tua, confor- 
mati di poi, divien dolcissimo e soavissimo. Ma perché vo io rimo- 
strando a y. S. questi psrlioolari. se per viva prova le son sempre 



1 Violante, figliuola d'Ottavio e Tot 
vescovo di Frejns (v, la latt. 'J), marit 
Troilo Savelli, signor di Falombara, su 
voL XI, Savelli, Jav. VII. 

' Non dunque «intorno al 1567». 1 
Fam, aeleìrri del Littn, ma nel '63, se: 
savelU. 



lìa orsini, e sorella di Leone, 
ila nel 1536 a Tulio Ostilio di 
quale v. Litta, Fata, oelebri. 



CXX rLLCSTRAZIONI 

alali hnlo aaaitftbt fftm dabilo tettfae, e questo n'acquata ia 
bnoiu parte l'aaiiDO, elle t. & hsi«rt aoatemtlt qii«sli p e mwa» con 
(luallB fortuna e con qvella |»Huìm, dw «o u t i t a a a I> oabillà del 
sangue oudVlla i nata el a U iiiuOmìdu dl'atta ba Atta sempre 
d'obedientùsiiiia et hamitiJMina aerva di Citrìalo, Se«ta per tanto, 
che la ìì consoli net SigtMre, e Mnddando ne la sua onipoleDljEaims 
proteuiODE, conservi ae ateasa pii che aia possibile, si per adempir 
ia questo il loler dlTÌno, come per il ^ran tnaogno che d'Iu tutta 
la caca ana: a U quale aparo cbe ttoalmente non manearwmo da 
Dio giaiie e fasori inliiutì. In tanto, se per me si pad Car cosa a 
'. Sfl aia pur eerta, ebe non penloBirA nm a ftliat o 
a lo Eard «oel Totenheri, i^e piò non aainci de- 
I, Degnisi dunqiw di comandarmi e di te- 
nermi par qaal awi aOHiioDalissiBo serrilorc che le goa* tlalo e 
sari MmpTB. Cosi a t. S. et ai signDrì snoi %U bacio le nani, e 
mi nuocmando con tutto l'animo: prcfaodo il Signore Dio, ebe a 
tntti porga pia Alici «eeesioni ebe queste non toao. Da Napoli, il 
Oj XXT Aprik*, U.IU.XOI. 



A la medesima- 

Ho presa grandisaims eoniolazioae, vadaudo per la lettera di V, S. 
ebe, per gTa^ì« di Dio, ella si comporta con infinita prudeoia il 
Iraragtìo in ebe l'han posta i pagasti avrenimenti: il cbe, ai coma 
i Terameole dnno di Dio henedetlo e non frutto de la poche e de- 
boli Torze nostra, cosi' se n'Iinn da render graiie eonlinue a la sua 
ditìna maaslA. io, quanto a mr, ho Mauto eempre per ferma, che il 
velare e la prudenza di v. u. laraa sì ebe la sua casa non s'accor- 
geik d'haver Talta perdita alcuna, pur ebe piaccia al Signore di do- 
nare a y. 8. tanta sanili, quanta da lutti noi 1'^ desiderata, e quanta 
basti corrispondere a la cura e al peso che bora le sta sopra le 
spalle; ma s'bs da sperare che cosi sìa per essere in ogni modo, 
poi ab« la bonlì dirina non ne grava mai più di quel ebe noi slessi 
ci poliam portare, essendo epli padre dolcissimo et anioreioiissimo. 
Hor io vorrei poter trovarmi in luogo, dove pur mi si eoncedeese 
far qualche cosa per servizio di V. S.; il che poi che mi si niega, 
Ala certa almeno, che gui dove sono senio con l'intrinseco dell' anì- 
nin Innto i suoi dispiaceri, quanto che se fiissi 



Torno per 



BIOGRAFICHE E BIBLlOCRAt'ICHE 

tanto a pregarle q.uell'is tessa consolsuone ci 
, e baciando le mani, me ìe ofIJaro e n 
Napoli, il di XV di Maggio .UJ),LXIII '. 



A Monsigttor Leone Orsino, Vescovo di Fregius ». 

Io che so mollo bene, di qnnn t'ornamento e di quanta coolentezra 
nisEe a tutta la casa di V. 8., et a lei in particolare, l' bonaratiisima 
Sig-nors sua Madre^, mentre ch'ella era in vita; bora cb'n Dio be- 
nedetto é piaciuto di richiamarla a sé. con dispiacer universale di 
tntla questa città, non pur di quegli nhe l'eran congiunti per san- 
gue, sin ili qua veggo il dolore e l'aRlitiione che ne sente V. S., e 
ben conviene a la perdita d'una oosa si rara; perdita no, clié per 
la IwQtì del Signore Iddio e per la vlla cbe quella signora ha pas- 
sala inein all'ultimo giorno, ai deve fermamente credere, che, uscendo 



Seguono nel mt. le due lettere ad Onorata Tancredi, edite pri- 
nelle Memorie di ù-e celebri prlnclsesie della /itmlglut 
Ooncaga (pp. 113 sgg.) de! P. Ihenko AffÙ, cui le comunicava (« dalla 
« sua preziosa Biblioteca >•) Francesco Daniele, poi ristampate dal 
FioBENTCNO nelle noie alle Poesie tir, ilei T,, pp. 393-98. Non ci 
paiono così importanti da doverle dar Tuori qui per la terza volta. 
^ ■ Tenuto a battesimo da Leone X, queslo orsini, di dodici anni 
ninisUaiione della chieBa di Fr^us in Fran- 
I commenda la preposilura della chiesa di 
Diventi il padrone ne! 1562 di 
iguorie della casa, inipuguuDdu le con- 
le fratelli Arrigo e Francesco, allo ^uali 
rissa ferito gravemente 
pierlodovico Gapintcchi. 



(nel i5»4), ottenne l'a 
da, e nel 153' ebbe 
Pomposa, diocesi di 
tutti i beni e <li tult 
Bscbe emanate contr 
erano alati condannati per 
Paolo Kmilio orsini, loro pai 



■ Kssi salvarono la testa colla fiiga e la sostanta colt'appoggio del 

■ fratello, che vanta i vincoli Adecouunisaarì, sebbene per giungere 
• al desideralo Une dovesse sottoporsi ad un sagrifliio peeuniarig. 
» Era Leone uomo dì molta dottrina, e ad esso, non che a Cola 

■ Bruno «ciliauo e a Daniello BnrbBro,BÌ attribuisce la fondazione, 
al 1S40, del l'Accade ni io degli inQommati dì Padova " (Litta, 
»r(, voi, IV, Orsini, lav. 9). 

' Porzia di Gentile Orsini de" Conti di Pilipliano e Nola. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE 



A la medesima. 



Io non Bo, per che cagione, ae v. s. è penCita del favor che mi 
fece ni di passati (maDdandomi 1 fazzoletti), hor di nuovo ai metta 
a farmi quest'altro do la cassetta; che, s'io suno econoscente de la 
pirima grazia (come mi par che la me ne voglia dar nota), a che 
gettar via queste seconde fatighe) Ma s'Io non sono (come vera- 
mente non sono, a non sarò già mai), a cbe pentirai de Io cortesie 
passalet Io per me non so intender questa cifra, che V. S. in un 
tempo medesimo mi dica oltrageio e mi facoia cortesia. Come si sia, 
non mi si torrà, ch'io non eenta commodo e conaalazione infloita 
di lAnt' amorevoli diinostrazioni, che mi fa V. S. da presso a da lon- 
tano; che in vero Boa tali, cbe, s'io non havessi da trattar eoa il 
bell'animo suo, io me n'arrossirci e perderei la speranza di poter 
già mai mostrarmele gralo in qualche parte almeno ; ma sia pur 
certa V. S., cbe quanto più è la debilezza de le forze mie nel far 
seco queel'e netto, tanto più cresce in me il desiderio di sodisfar 
all'obligo infinito cb'io ne tengo. Hor, per ch'io son suo servitore, 
ISEsarò peosar a lei, com'a patrona, quel laolo cbe convienga a 
buon servitore verso d'un suo suppremo signore, e provedervi di 
poi con l'autorità e col giudizio che porta seco. La cassetta manda- 
tami da V. &. mi ha fatto accorger de la mia, che a parole io man- 
dai tanti giorni sono; la quale io vero sia per anco aspettando 
buona occasione di barche, e spero in ogoì modo, che prima cbe 
passi l'anno sessontatrò, cominciarà a inviarsi a colesta volta, e per 
tutto il aessontaquattro vi sarà senza manco. In tanto questa m'4 
Blolo carissima; ne la quale vedendo tanta munizione per la qua- 
dragesima, mi sono immaginato, che v. s, habbia poca voglia d'im- 
pacciarsi seco per quest'anno; e col mandar a me qaesta previsione, 
m'habhia voluto dar anco il carico di cosi fatta astinenza; ma io 
pigliarù in tanto questo favore, e del resto m'andarò consigliando 
a la giornata con la mìa poca saniti. Bacio le mani di V. S. per 
mille volte, e la prego s comandarmi qualche cosa, Bcci6 cbe la 
servitù mia verso di lei non se ne passi cosi inutile e cosi infrut- 
tuosa; che pur mi par impossibile, che per lei o almeno per gli 
amici suoi io non sia atto a far qualche servigio. Comandimi dun- 
que, ch^ Io puù fare; e mi conservi ne la sua bona grazia, cbj lo 
deve a la divota servitù mia. Da Napoli, il d( XX di Febraro, M.D.LXin 



il Sig. Dom.co Venterà' 




^ 



3 il Signor Antonio CHraSa* in cotest» eiltì, iocoo qttestu 
e ho voluto far fede a v. S^ che, sa bene per lettere io non 
Eon eoo lei piQ offlzioso clie taato, non però manco di ritenerne 
tempre qnell'hon orata et uniorevol memoria, che conviene al valor 
suo infinito ci a la molla aRezzione, cb'elìa per bont& sub m'hu di- 
mostrata in ogni afiìire; e sia pili certa V. s., che prima sarà p09- 
siliiie ch'io, per ì continni travagli in ch'io mi vivo, mi dimenlictii 
di ne medesimo che di lei, a la <[ur1 per tanti degni rispelti son 
aS^uìonato tanto. Hor qual al presente sin la vita mia (se pur V. S. 
lo desideri) sapere), ne potrA intendere a pieno dal medesimo S.- An- 
l«nio, ben clie io la conforto a non lo fare, se già in me solo non 
a dì vedEr, quanto la perrerKa fortuna possa operar già mai, 
poscia ch'io son divenuto .... ocello a tutta le miseria bnmaiie. 
Ilor io prego V. S,, che, per la sua naturai Hmorevolezia, per il ne- 
rito di questo nobilissimo giovene et a 

voglia conoEcerfl e tener per suo cordialissimo amico; percbri lo 

(roveri modestissimo, tanto che ben sari meritevole di questo e 

d'ogni altro bonoralisHroo livore; e, ae ben egli ba per euo flne 

e per qualche tempo in Padova, per seguir più comodamente 

Dinciatì Rtudi, pur e con lo acriver bene epesEO, e con !a per- 

» tal bora (quando gl'oceorrerì venirsene n Veneiiu), polrS par- 



' È il celebre letterato e verseggiature veneziano, di cui ha discorso 

diffusamenlo Piehìnt. Serassi in fronte alle Blmt dt Don. Tentere, 

Bergamo, Laneellotti, 1750. Ricco e d'alto sangue, era costui nel 1563 

uno de' più cospicui mecenati degli aludi che avesse Venezia. L'anno 

unti Torquato Tasso, che studiava leggi in Padova, era andato a 

trovarlo, si per oonoinerlo da presso e si anclie per fhrgli ssami- 

e il Rinaldo. Il Venier avea dovnto ritrarsi, giovine aueora, dai 

I pubblici olHcì, per una strana e ostinala infermitA di gotle, che lo 

% coalringeva u starsene in camera, anzi quasi sempre a letto. Viveva 

«ol per gli sludi. 

e il secondogenito di Oon Alfonso, Duca di N'oeera. Cfr. Bt*- 
, Hiit. genealogica iella fam. Carafa, Napoli, Biililbn, 
1691, II, 340. 




BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAPICflE rXXV 

tjcipsr dell' bonorali sei ma conversazion dì V. s^ non sanza mia gran- 
dissima invìdia; e con que«t4 Une adunca così in VidiOBO,- bacio ca- 
rananle le nteai di V. S. Do Sapoli, i! di' XV d'ofitolj»*, M.O.tXnr. 



All' illustriashno Siff. Don FYancescho Carrafa^. 



Se n 



o spero, cEie la 



ignilìone che V. S 
1, potri da hura 



i poi portarmi 



per negligente a per poco a 
l'einenda di tuli' i danni 
lungo sileoiio, io non patirei che la portasse così poco rispetto a 
se medeetraii, accusandosi coeÌ scope riamente per colpevole e per 
traacnrata: perù cb'esseud'ella tutta mia, con può cader lìifttto in 
lei, che non sìa psrimenla mio. Pur, poi cii'io spero di ijuesto male 
Irarò tanto di bene, mi contento (com'hu detto), olia V. S. si ricono- 
sca et per l'avvenire mi dia pili chiari segni dell'amor ch'ella dice 
di portarmi; e ben le deve fare, poi che da me è amato e sliinato 
tanto. Cosi [non volendo che V. 8. par questa volta Diccia meco più 
groBKa asurs) fo fine a lo scriverà, offereodomele e raccomandando- 
mele di buon core. D» Napoli, il df Vini d'agosto, M.D.LXIII. 



A la Signora C .V, /.. 



Mando a V. S. le due commedie ch'io le promessi l'sllro giorno; 
le quali, se bene non son fin qui stale recitate, furoQ però Tatte da 
me gii dieci anni sono, parchi! bora, per grazia de la mia matrigna 
fortuna, nell'infelice perragrinanione in ch'io mi trovo ho sempre 
pili comodila di soggetti tragici che comici'. Ma né anco voglio in 



' Secondogenito di quel Diomede Carafa ch'ara guidone di 
a lampo dall'ammiasiona del Tansillo fra quasti. Don Francesco, < ca- 
■ veliere ornalo di molle scienze e bontà singolare i-, esercili l'of- 
llcio di grande ammirante del Regno, e di lui ci ha conservate due 
iseridoni ialine l'ALDitiAtii, Op. cit., II, 273-73. 

^ Questo periodo degno di nota fu già fatto conoscere da Bknb- 
DBTTo CKocE, nei Teaori di Napoli, Napoli, Pìarro, 1891, p. 7?l. Che 



CXXM 



ILLUSTRAZIONI 



tutto dolermene; poi che àa la corl«se bontà di V. ti. quesf^ cioncie 
mie aon aggradite tanto, le quali nan per altro meritan foree cosi 
segnalato raiora da lei, se non per che elle escano di mano a un 
suo aBbinonatissimo servitore: hor cosi potessero ben corrispondere 
al purgaCiasimo ^udizio di quetlal Pur, com'elle ai sieuo, a me ba- 
sta mostrar a V. 5. il buon animo ch'io tengo d'ohedirla sempre, 
si come sempre da me è osservata e reverita parimeole. E con que- 
Eia occasiono le bacio mille volte le mani. Da Napoli, il di' primo 
d'ottobre, MJ3.LXIII. 



All'illustrissimo Signor Giulio Acgwavìva*. 



tera di V. S. è stata sopra modo e: 
ch« mi sia nuova ogni auo amorevolezza; ma perché p 
Teder che V, S. me ne faccia cosi viva e dolce 
le resto con oblìgo perpetuo. Io, Signor mio, per natura non sono 
il più curioso huomo del mondo; però non sì meravigli, se de le 
cose deirìEtesKo mondo io sin qui non l'ho dato conto alcuno, pa- 
rendomi in vero una pur troppo strana profession quella di coloro, 
che per attendere ai (Siti d'altri, si dimenticano dei suoi medesimi. 
Oitra che non è mercanzia, a giudizio mio, più corrutibile di questa 
de le novelle: poi ohe non aolo una minima alterazion del vero può 
toglier tutto '1 credito a chi le racconta, ma anco un momento di 
tempo (quantunque hreviEsimo) fa che sì tenghino come muflè e 
rancie, più non vaglino in modo alcuno; ond'io le soglio assimigliar 
all'acquavite, la qual chiuBB io vaso non serve a cosa che sia, e 
tratta di quello in un subbito svapora, e si risolve in aere. Pur, poi 
che V. S, mastra desiderar che anco in questa io (bccia la parte 
mia, le mando alcune nuove che vanno in volta; ma, gionte coslii, 
temo cbe Earaoo non solo vecchie, ma decrepite ancora; il che quando 
pur avvenga, servino a! meno a lei per una confermazione di qnanfel- 
1a per prima n'haveva forse inteso et per testimonianze dell'autorità 



il T.'abbia scritto commedie, non risulta d'ultronde: il Tnlto, |ier 
altro, nullil lia di stiano. 

' Probabilmente quell'istesHo etie Pio V creò cardinale nel 1570. 
Della famiglia Acquaviva, DobiliBEima, parlano diffusamente quasi 
tutti i genealogisti napolitani. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXXVII 

di V. S, sopra di ma; poi che, per obeUir a lei, corro a riacliio di 
parer seco più antico di quel ch'io non sodo. Coaf le bacio le inani, 
e la prego a conEervarDii la sua bonn grazia, la qual io desidero e 
stimo infinitamente. Da Napoli, il di SVU di giugno, M.D.LXIII, 



Aie illustrissimo Signor Don Cesare Carrafa.^ 

IO mi 8on Hnalniente mesBO a scrivere al Signor Duca ' (come v. s. 
polr& vedere), assicuralo da quanl'etla ultìmainente ne la sua lettera 
mi dice: bora, te parerà forse improprio queeto Ecrìver mio, la colpa 
wrà tutta di V. S,, poslqìia/in. In verbo tuo laxavi rete. Facciami 
dunque favor la S. V. di far Tede a quel nobilissimo Signore, quont' io 
per natura sia anintor de le persone di valore; per cbe, assicuralo 
che sarà di questo, verri anco ad haver piena cerlezxa de la sìnce- 
Fissima serritu mia. V. 8. è molto beo tenuta a far quest'offlzio per 
me; se non per altro, almeno per ch'ella è stata lo conginguzione 
di queste due pareti. Desidero partmenle, che in mio nome baci le 
mani all'ìlluslr. Signor Conte di Soriano, o Aprendo megli per servi- 
tore Bffeiiionatisaimo; poi che il sol naseeat* de la virtù sua (oltre 
tanti altri rispetti) merito ch'ognuno lo serva e lo tenga in precio '. 
no data al Sig.'dan Francasco nostro* la satira ili V. S. ef oom'ella 
me la lascio ^ : per che insomma conosco, che bisognarebbe euer con 



< Primogenito di Diomede, quindi fratello del suddello Francesco 
Carrai. Cfr- Aldimahi, Op. oit, II, 370, e vedi anche le noie alla let- 
tera seguente. 

* n Duca di Nocera; vedi la lettera seguente. 

' Qui allude il T. a Don Ferronle primogenito del Duco di Nocers, 
il quale diventò in seguilo « signore di molta stima ne' suoi tempi -, 
tenne splendida corte, coltivò non sema frutto gli sludi, e • tu grande 
• amico de' virtuosi, a' quali non cessò mai in qualunque occasione 
■ di gralineare e sovvenire ne' loro bisogni • (Ai.diua.ìii, Qp. off., U, 
'Vi- 

' Il fralello di Don Cesare; vedi la lettera precedente. 

^ Non è quesUi il solo doeumento che ci rìmenga deirultivitì let- 
teraria di Don Cesare Carafa, La raccolta Klma et ìierii in lotte d^lla 
(II.»ia SE eoo.ma S.ra D.na Blovanna Castnota Carr. ttvekesua d 1 



CXXVIII 



ILLUSTRAZIONI 



V. S- per intender più IsrgsiueDte la sua intentioue in alcuni par- 
(icolari; onde la prego a pentonHnni, essendo certa ch'io vorrei (ìir 
ogni cosa possibile per lei, poi che tanto ne son tenuto. Potrebbe 
easer olie il roedasiino Sigaor Don Francesco mandasse a V. s. al- 
cune mia cosette; et io uè mandarei dell'altre, che pur son aste 
qui; ma non ho ehi scriva a mio modo, et il scriver io medesimo 
le cose mia m'è tanto difficile, eha ijuasì si può dire impossibile. 
Olii per Napoli si cominciano a veder alcune compositioni (atte in 
questi) repentina morte de la nostra Signora Dncbessa di Hondra- 
gone *, il qual successo ha posto veramente in pianto et in horrore 
ognun che l'ha conosciuta. Dio l'habbia ricevuta ne la sua grorìo, 
ei come g'ha da stimare per ogni rispetto, A Y. S. iatunto m'offero 
e raccomando sema flne. Da Napoli, il di' XV di Marzo, M.D.I.Xm. 



All' Uliislrissimo Signor Dttca di Nocera.' 

Superni' IO quiil sia ii merito et il aome di V. s,, non 1 
l'altezza del grailu in clie si trova (essendo questa comuni 
molti altri), quanto per le care parli dell'animo, che son | 
veromeale sue, et osservandola lu per tal cagione con tut 
polare, bo desiderato pìi'i tempo fu, che questa osservanza 



.Vocerà et marchesa di Civita S. Angelo ecc. (Vico Equense, Cacchi, 
1S&5) contiene, a p. 41, due souatti di questo gautiluomo, e nella ta- 
vole degli aaU>ri Gio. Oiacomo de' Rosai scriva: •< Don Ceiace Gar 
• rafa di Diomede 6 molto versato nelle corti d' Europa e nei maneggi 



a lingua toscana e 






• gnuola >. 

' ^polita Ounzaga, flgiia di Don Ferruule, e moglie, in seconde 
nozze, n D. Antonio Cerrafa, Duca dìMonilragone. Krs luaiwalu ai 
vivi pochi di prima, la notte dal 7 Mano, dì soli tS anni (vedi le 
lettere del T. aironorata Tancredi). L'anno appresso UBoivono in luco, 
pei tipi di Gio. Maria acolto, le Rlrtie di diocrsl eeoeuenlUtlml au- 
lorl In morte di questa ganlildonna, 

I Don Alfonso, lerxo duca di Nocero, terzo conte di Soriano e mar- 
abete di eaal'Angelo jier parte della moglie, Donna Giovanna Ca- 
HtrioU.Bttdtfetla..Cfr. Ai.ih«»bi, Qp.eit., li, 138-J9. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXXIX 

sieme con la mia devota servitù, fusse conosciuta da V. S. et accet- 
tata parimente. Hora che il mio signor Don Cesare Garrafa mi fa 
fede, che non pur mi posso prometter largamente che cosi sia, ma 
che anco in nome di lei cosi cortesemente m'offerisce ogni favore 
in tutte l'occorrenze mie*; io resto, non pur con il complimento di 
quanto desideravo per prima, ma con obligo infinito a la molta 
bontà di V. S., dal quale non solo non cercare di sciogliermi già 
mai (conoscendo d'haver pur troppo avventurosamente impiegato 
questo talento), ma con ogni sforzo m'ingegnerò di farlo indissolu- 
bile; il che m'avverrà senza dubbio veruno, quando V. S. continuarà 
di mantenermi quella buona grazia di che hora m'è tanto liberale. 
Ella dunque da hora in poi mi tenga pur liberamente nel numero 
dei suoi più intrinsechi servitori, e 'se ben forse ultimo per grado 
di fortuna, non però per amore et per fede inferiore a qualunque 
altro che sia E contentandomi per un principio d'haver fatta rive- 
renza con questa mia a V. S. Illustrissima, le bacio le mani, e con 
tutto il mio potere a la sua buona grazia mi raccomando. Da Napoli, 
1 di XV di Marzo, M.D.LXIII. 



1 Vedi la lettera precedente. 

XVII 



II. 
NOTIZIA BIBLIOGRAFICA 

DELLE POESIE TANSILLIANE S 

L 

I DUE PELLEGRINI. 

Stampe. 

1. I Bue I Pellegrini \ di Luigi \ Tansillo. In Napoli, | per 
Lazaro Scoriggio, M.DC.XXXI. 

È la prima ediz. di quest' Egloga [8.", pp. 48, segn, A2 - F2]. Prece- • 
dono: a) La dedicatoria, tutta secentistica, del Capriccioso Errante 
al sig. Frane. Benvenuti bergamasco; di Napoli, 14 luglio 1631. 
b) Due anagrammi, un distico e un tetrastico Hieronymi Genuini 
I. C. NeapoUtani sul Tansillo, e un anagramma e un distico sul Ben- 
venuti, e) DelV Accademia degli Erranti il Capriccioso al signor L. T. 
Sonetto (Gom.: « Il sol ch'in guisa di pittor sovrano »). d) A* Letloru 
L'argomento. In fine, l'ottava che riferiamo a p. 46 n. 

2. / Bue I Pellegrini | del signor \ Luigi Tansillo^ Nelle 
Opere \ di \ Luigi \ Tansillo, In Venezia, | appresso Frane. 
Piacentini, | MDCCXXXVIII (pp. 59 sgg. della 2.* numeraz.). 

Questa ediz. è condotta sull'esemplare della napolitana posseduto 
da Apostolo Zeno: contiene anche il son. del Capriccioso e l'argo- 
mento Per la raccolta d'opere tansilliane del Piacentini, v. appresso 
nella bibliografìa delle Lagrime, n.° 20. 



* Escludiamo le Liriche, di cui più acconciamente registreremo i 
mss. e le edizioni in fronte ad altro volume di questa Biblioteca. 



CXXXII ILLUSTRAZIONI 

3. / dv^e I Pellegrini | di Luigi Tansillo. Nelle Poesie \ di 
I Luigi Tansillo, Londra [Livorno, Gio. Tommaso Masi e C.*], 

1782 (i6.«, pp. 237 sgg.). 

Questa ediz. deriva dalla precedente, e contiene il medesimo argo- 
mento, abbreviato in fine. 

4. / due Pellegrini | egloga \ di Luigi Tansillo. Nelle Poe- 
sie pastorali e rusticali raccolte ed illustr. da Giulio Fer- 
RARio, Milano, Classici, 1808 (8.", pj). 17$ sgg.). 



II. 
IL VENDEMMIATORE. 

A. Manoscritti. 

1. God. MDCGXII della R. Biblioteca Angelica di Roma, cartaceo, 
miscellaneo, del sec. XVII, di carte 21 numerate e mm. 0,190 X 0,120. 
Contiene il Vendemmiatore, senza la Dedicatoria. Comincia con l'ot- 
tava 24/ : « Prima che *mbianchi il crin, la carne arrughe » ; finisce 
con Tottava 149.^: « Hor chi potria la lingua a fren tenere ». Le 
stanze superstiti sono 126; in tutto sarebbero 171, come nell'ed. Co- 
stantini. Il ms. fu comprato dal Comm. Ettore Novelli, bibliotecario 
deir Angelica, con gli altri tutti del principe Massimo. 

2. Cod. 45. C. 12 della Biblioteca Gorsiniana di Roma, cartaceo, 
miscellaneo, del sec. xvm, tutto d' una mano sola. A e. 225' comin- 
ciano le Stanze di coltura sopra gli orti delle donne di M.^ Luigi 
Tansillo, in numero di 171, senza la Dedicatoria. Il ms appartiene 
al fondo Rossi. 

3. Cod. ital. ci. IX, n. 418 della R. Biblioteca Marciana di Venezia, 
cartaceo, del sec. XVII, di carte 43 numerate e mm. 0,168 x o?ii5. 
Contiene il Vedenvmiatore, di 171 ottave, senza la Dedicatoria. 

4. [M] Cod. Magliabechiano-Strozziano ci. VII, n. 1034 della R. Bi- 
blioteca Nazionale Centrale di Firenze, cartaceo, miscellaneo, di vari 
tempi e formati. Da e. 30' a e. 37* contiene il Vendemmiatore col ti- 
tolo Vhorto di Luigi Tonsello (sic). Questo fascicoletto oblungo, di 




BIOGRAFiCHK E BlBLIOiiRAl'ICHE CXXXIII 

min. 0.193 X "t""! ch'aro un tempo isolata e fa ripirgiKi due volte 
nel senso della lunghewa forse per renderlo tascabile, presenta i 
l'oratteri d'una ragguardevole a&tìcbitA, e lo giudichiainii dì ben poco 
posteriore alla coni posizione del puen 

j. [U>] Cod. Magliabechiano^lrouiano ci. VII, □. 1030 della R, Bi- 
blioteca Nazionale centrale di Firenze, coriaceo, miscBllai 
tempi e formati. Da e «35' a e. 348' contiene il VtniletMntatore col 
titolo Stame gotoie di l-ulgi Tanauio Dette horto ou^ro U rcndem.' 
mtatm; Questo fascicolo è di mm. o.iiS >< 0,150, contiene 3 o' 
per ogni facciala, e si dimostra scritto nel cinquecento a 

6. Cod. xni. C 54 dnlla R. Biblioteca Naiionate di Napoli, carta- 
ceo, del sec. XVII, di cnrte 51 non uumerQte (di cui la pritua bianca) 
e mm. 0,193 X 0,130. Da e. a' a e 36' contiene II VeniU 
.'is^nor iMiggì ToMiMt, di 171 ottave, senza Dedicstorii, confo rnie al 
teelo coBtantinlBDo. seguono le Stante in loda aeUa Menta alM M 
et corteti Donne [co. 36'-si'). in numero di 8:. I.n Iwione é scorret- 
ta, soprattutto nel VenOemmiMore. 

7. (P.| Cod. Palatino CCXL della H. Biblioleen Naijonale Cantrale 

di Firenze, cartaceo, della metà del sec. XVI, dì mm. 0.185 X o,'^? 
e carte 37 numerate modernamente. Una r 

non originale, comincia nella prima carfci col n." sh ^ prosegue n 
solarmente sino all'ultima eoi. n." Sj. Ma -dopo la i,' (ant. 3: 
certamente una carta scritta, ed un'altra ugualmente ! 
dopo la 7.' (ant. 57."); quella che ora è 4.' andrebbe n 
alla 3.', e dovrebbe esser tarmata alla coslola per quello che ora è 
il margine eateruo. Una carta manca dopo la i<3.', una dopo lo aS,' 
ed altra in fine. La prima carta reca soltanto aiilulo del libro !do«£ie 
rlet Ug. Luiggi TanslUoi, e le carte i 

steriore. Salvo questo tutto il codice è d'una stessa mano, ed 11 Pa- 
lermo lo afferma autograro del Tansillo [Cfr. Indail e Catat. ivi Hi- 
nUlero OelV litnes. putbt : ooHil. muuinl Oella R. MH. Soiion. Centr. 
di Firemt, I, 346). L'autografia è da escludere assolutamente: in 
primo luogo, per la grande diversità di scrittura cbe s 
fra it ms. e le lettere autografe del Tansillo pubblicale du Vi» 
rini; poi, percbé il codice non contiene, come si credeva, sole p 
del Tansillo. Infatti la Faeola di Piramo e Ttsbg, con cui finisce, è 
di Bernardo Taeao (ot*. Giom. S(. della Lea, It., Xil, 451-53)- 

8. Cod. Gapponiano CtV della 



CXXXIV ILLUSTRAZIONI 

cune carie li sono IraEposte, e ne manca una 

micUore del TanslUo, i 

□ìauo, ma, per la dotta i 

Sfarne della Menta, anepigrafe e frammentarie (sole 56 otWve) K 



tì. Stampe. 

1, [ri Vendemmiatore di Luigi Tansillo]*. 

È la prima edli, del poemetto [3." gr„ ff. S]. Centieoe 3 
la dedicatoria a Iacopo Carafa. Cti. aiom. de' lelUrati d'Balia, Ve- 
Delia, XI, 131 ; Gauba, Serie dei tesli di lingua, p, 4S3; Bhunbt, Ma- 
nuel, V, 65J e Grabsse, Trèsor, VI, 35; Paleemo, Mts. palat., I, 437. 

1. Stanze di cultu | ra sopra gli ìiorti de | te doìine, slam- I 
paté I mmeamente et \ hisioriale | M.U.XXXVII. {s. I. e t]. 1 

Contiene 79 oltave. È in i6.°, di ff. 16 non numerati (segn. AiJ-Dij), [ 
sul t 3 si legge: Stanie piacevoli | df Messere Luigi \ Tansillo | alla. I 
eeeeiunte | signor Olaeoma j Caraffa. A giudizio del Bbunrt iHan^ J 
* V, Sto), le ailografie che adornano quest'ediz. ■ suìl comn 
« ioil oomme gravure, Bont d'une eiéontion remarquable 

3. Stanze di cuUu \ ra sopra gli hortì de \ le donn 
paté I nuovamente el \ historiale \ MDXXXVtlI [a. 1. e t> ' 

Edii. identica alla preced., ma peggiore uè' tipi e nelle silografle. 

4. Stame di cultura | jppra gli horti \ de le donne, slam- 1 
pale nuova | mente | per Francesco MarcoUni da Forti. \ 
Nel MDXXXVlll. — Stame in lo \ de de la menta | a i» ^ 
belle et cortesi donne | MDXXXYJII. 

(88) 



' Un altro codice del Yendemm. è inilicalo nel ci 
dita dalla liljreriB Morbio: uno ne poasiede pure la Nniionale dt I 
Madrid (cfr. B. J. Qallardo, E7\sayo de una Blbì. Espanola, ace^ J 
Madrid, 1866, II, 157), 

^ Fra parentesi quadro poniamo i titoli delle poolie edixi 
silliane che non abbiamo potuto avere aoll'occbio. 

^ Nella Bibl. Nazionale di Parigi abbiamo 6covalo 



RIOlìRAflCIlE E HIHLroCRAKICHE CXXXV 

S- Stanze di cultu | ra sopra gli horti de \ le donne, stam- 
pale 1 nuovamente et \ hisloriale \ MDXXXIX [e. I, e t.]. 
Bdii. identica a quella dal 1537. Sod lotte alampa popolari. 

6. Stame di \ cultura sopra gli horti \ delle donne stampa 
\ te nuovamente et hislorÌate\M.D.XLVI.\a fine (fol. 16'): 

Stampato in Yenetia, per Matteo Pagan in Frez \ sarta in 
le case nuove, il guai tien \ per insegna la fede- 

Anche questa è una riprodniione dell'edii. del '37, di cui conaarra, 
aggiungendone de' nuovi, gli nrrori lipograneì. Consta di IT. 16 <s«gn. 
Aij-Dy), nel solito sesto, e contiene ailogralle, deriranti dalle ataiope 
anleriori, oonché da edizioni del Decameron. 

7. Stame di cultura | sopra gli horti \ de le donne, slam | 
pale nuova | mente. — Slame \ in lode della | Menta | Stam- 
pate nuova I mente co/i di \ ligentia et | historiale. | Veneliis 
MDXLIII. 

Fedele ripnduiiooe dalladii. Marcolini (11." 4), 

8. /( Vendemmiatore \ del signor Luigi \ Tansillo. \ Per 
adibirò con improprio nomx intitolato, | stame di coltura 
SBpra \ gli horti delle donne, | Quasi tutto di nuovo rifor- 
mato, e di più ffallreltanle stante, \ qttanle erano le pri- 
me, accresciuto; \ le quali si come per \ adietro nell'altrui 
slampe et lacere et corrotte | san state lette, \ cosi per inami 
n( I queste (sic) et | intere, e carrette si potranno leggere. 
In Vinegia, | appresso Baldassarre Costactini, | al segno di 
S. Giorgio. I M.D.XLIX. 

Consta di 171 ottave, ed S preceduto dalla dedicatoria Allo eoeei- 
lente I Signor JoaopO \ Carrafarcoa data dal 1 Ottobre 1534; in luKo, 
Ja OaMe non numerala, in S." l'aegn, A-H), 



d'una ediz. delle stanc/t M lode delta Menta, s. n. n,, mn forse 
anteriore a quella del '3S, nel quale a pie della Dedicatoria mano 
del cinquecento lia soggiunto'. Voitra più di ae slesso ileìiot.'no 
strv. LualAN RICCI.. F. il poemelto li è egpli aita niente attribuito a 
LiTCìAN RICCIO ROMANO, da'cul libri l'esemplare steeao proviene. 
Ecco, probabilmente, ri plag-iarlo e ral^tzonatore delle ottave tan- 
sininne. 



CXXXVl 



ILLUSTRAZIONI 



g. Il Vertdemwàatare \ del signor \ Litigi Tansillo. Nella 
Parte prima delle stame di diversi illustri poeti novainente 
raccolte da Lodoaico Dolce, Vinegia, appresso GabP. Giolito, 
I5S}. (ISA pp. 27-s egg->- 

10. Il Vendemmiatore \ del Sig. Luigi Tattsillo \ per adie- 
tro con improprio nome { ìnlitolato, stanze di coltura \ so- 
pra gli horti delle dorme. \ Di nuovo riformato e | di piit 
d'altrettante | stame accresciuto e remsto. In Parma, ap- 
presso Seth Viotti, nel 1567. 

Consta di 171 Dtlave, seniA la DedieaEaria, sd occupa uc. 26, lo i6.° 

11. Stame \ amorose | sopra gli horli \ delle donne et in 
lode I delia menta. | La caccia d'amore del Berma. | Qua- 
rantadui slame in materia d'amo | re nuovamente ritro- 
vate, et con di \ ligentia corrette, et di vaghe \ istorie ador- 
nate et 1 date in luce. In Venetia, | 1574- 

e acaupa le prime 16 carte 
vare ilall'BdEii. dal '43, 

11, Il Vendemmiatore \ del sig. Luigi \ Tansillo | Per adie- 
ira con improprio nome intitola \ lo. Stanze di coltura, so- 
pra gli harli \ delle donne | Di nuovo ri/ormalo, et di più 

d' allretante \ stanne accresciuto, et revisto [S. u. n.; ma 
. dei flec. XVII]. 

É annesso ad una raccolta, dello aleaao seato (ifi.* plcc), di capì' 
Ioli burleschi, intitolata Capiiou bwietoM d,' incerto, la maggior parte 
dei quali apetta a Girolamo Magagnati. Consta di 171 ottave, sema 
la Dedicatoria, e occupa le pp. 147-94 del volumetto. 

I}, /i I Vendemiatore | del sig. Luigi | Transilla (sic) | 
Per adietro con improprio nome intitola | to. Stame di col- 
tura, sopra gli horti | delle donne | Di nuovo rifbrmalo, et 
di più. d' allretante \ stanze, et accresdula [S- u. n. ; ma del 
sec, XVU]. 

Consta di 172 allave, eenzA la Dedicatoria, ed occupa pp, 46, in 16.°, 
compresa l'ultima bianca C^egn. A i — B 6). £(]iz. multo scorretta. 

14- Il I Vendemiatore \ del sig. Luigi \ Tansillo. | Per a- 
dietro con improprio noìne ititi \ tolato, Stame di coltura. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXXXVII 

sopra gli \ horti delle Dorme. \ Di nuovo riformato, et di 
più d*altrettan \ te stanze accresciute, et remsto [S. o. n. ; 
ma del sec. XVII ex. o del XVIII]. 

Consta di 171 ottave, senza la Dedicatoria, ed occupa carte 23 nu- 
merate, in 16.0 

15. // 1 Vendemmiatore \ del sig. Luigi j Tansillo \ Per ad- 
dietro con itnproprio nome intitola \ to: Stanze di coltura, 
sopra gli orti | delle donne \ Di nuovo riformato, e di più 
d'altrettante \ stanze arricchito, ed accresciuto [S. u. n.; ma 
del sec. XVIII in.l 

Consta di 171 ottave, senza la Dedicatoria, ed occupa pp. 45 nu- 
merate, in 16." 

16. Il I Vendemiatore | del Sig. \ Luigi Tansillo. | Per 
addietro con improprio nome intitolato \ Stanze di coltura, 
sopra gli orti | delle Donne, \ Di mu)vo riformato, e di più 
d* altrettante stanze accresciuto, e revisto [S. u. n.; ma del 
sec. XVIII]. 

Consta di 171 ottave, senza la Dedicatoria, ed occupa pp. 62 nu- 
merate, in 16." 

17. Stanze \ di messer | Agnolo Poliziano \ di messer | 
Pietro Bembo \ e di messer Luigi Tansillo, \ Riviste, e cor- 
rette sopra vari an \ tichi testi a penna, ed alla loro \ vera 
lezione ridotte da un \ Accademico della Crusca, In Fio- 
renza I MDCCLIII (16.^ pp. 92). 

Da p. 69 sino alla fine, il Vendemmiatore, di 82 ottave, senza la 
Dedicatoria. 

18. Il I Vendemmiatore \ del signor \ Luigi Tansillo, \ 
per V addietro con improprio nome intitolato: \ Stanze di 
coltura I sopra \ gli orti delle donne. \ Di nuovo riveduto, e 
di più stanze accresciuto. Caserta | M.D.CCLXXXVI | Con 
licenza de' superiori. 

Consta di 183 ottave, senza la Dedicatoria. Questa graziosa edizione 
in 16.0 (segn. A-F), di pp. 96, dove primamente compare la lunga in- 
terpolazione settecentistica, ha tutta l'aria d'esser uscita, non già 
nel Regno di Napoli, ma oltralpe. 

xvm 



CXXXVIIl U.LUSJKAZIONI 

19. Il Vendemmiatore \ poemetto in ottava rima, | di Luigi 
TansiUo \ e la Priapea \ sonetti ìussuriosi-satirici di Nic- 
colò Franco. A Pe-king ] regnante Kien-long | nel XVID 
secolo. 

Consta di 171 ottave, Henna la Dedicatoria. QuesCediz 
usci in luce s Parigi, nel 1790, per cura, «embro, di quel raedcBii 
Mercier de Compiègne, ab. di Saint LSger, ohe ristampa e Iradusie 
il poemetto tnnsilliano otto anni dopo; In precede un' 
proemiale del libralo Molini. I.B Friapea del Franco < 
Bull'edìz. originale, pubbl. da Glo AnU Quidone ne) 1541 probabil- 
mente in Caaal 



c- 
isie ^^^ 



ìo. Il I Vendemmiatore \ di Luigi Tansillo \ ovvero | Sii 
ze I sopì-a gli orti delle donne \ edizione completa. Lei&, 
1796 I presso G. Vnn der Bet. 



(pp. 67-711. 1 



'.. di Lucca, il 



ZI. Il Vendemmiatore \ di \ Luigi TansiUo | cùlV aggiunta 
di vari sonetti \ di Niccolò Franco \ e delle tre novelle \ 
la Pastorella, la Cleopatra, la notte goduta \ del Cav. 
rino. Pe-kiQK | regnaate Kien-long | nel XIX secolo. 



abil- 'I 

intu I 



22. Il I Vendemmiatore | di | Luigi Tanaillo \ A cui si 
aggiungono le stanze d' incerto autore | in lode della Tnenta 
e la Caccia d'Amore di \ Francesco Semi. Capolago | Tip. 



a la Dedicalorii 



1 In line, il Brunet registra del TtnAemmiatore un'ediz. 
del Valvassore, a. a. ma del 1550 circa, e un'antica ediz. 
cui il poamo si comporrebbe ili ììf, (!l) ottave. 



A 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXXXIX 

C. Traduzioni. 

1. [Le Vendangeur, par I. B. Chr. Grainville, Paris, 1792]. 
Cfr. Brunet, Man., V, 653. 

2. Le I Jardin d'amour, \ ou [le Vendangeur, poeme \ 
traduit Uttéralement \ de V italien de L, Tansillo | par C. F. 
Mergier. Paris, | chez les marchands de nouveautés | an VI 
(1798). Col testo a fronte (i6.*, pp. VIII-126). 

Consta di 183 ottave. La traduzione, in prosa, è preceduta da no- 
tizie biogr. e bibliografiche e accompagnata da alcune poche note. 

in. 

STANZE A BERNARDINO MARTIRANO. 

Stampe. 

1. (Stanze del signor Tansillo) AU'eccellentiss. \ signor 
Bernardino \ Martirano \ . Nella Seconda parte delle Stanze 
di diversi auttori novamente mandata in lu>ce alla nobi- 
liss. Signora Camilla Imperiale, Venezia, presso 1 Gioliti, 
is8i (16.**, pp. 133 sgg.). 

È la raccolta messa insieme da à.ntonio Terminio nel 1563. 

2. (Stanze del Tansillo) AlVeccellentiss. signor \ Bernar- 
dino Martirano. Nelle Opere \ di \ Luigi \ Tansillo. In Vene- 
zia, I appresso Frane. Piacentini, | MDCCXXXVIII (pp. $ i sgg. 
della 2.» numeraz.). 

Derivano dall'edizione precedente. Per la raccolta d'opere tansil- 
liane del Piacentini, v. appresso nella bibliografia delle Lagri'^^ne* 
n.o 20. 

3. (Stanze del Tansillo) Air eccellentissimo Signore \ Ber* 
nardino Martirano. Nelle Poesie \ di \ Luigi Tansillo, Lon- 
dra [Livorno, Gio. Tommaso Masi e C.*], 1782 (16.®, pp. 209 

sgg.}. 

Derivano dall'ediz. Piacentini. 



CXL ILLUSTRAZIONI 



IV. 

CLORIDA 

Stanze al Viceré Toledo. 

A. Manoscritti. 

Cod. XII. 9 della Biblioteca della Congregazione dell'Oratorio (Ge- 
rolomini) di Napoli, cartaceo, di carte 30 non numerate e mm. 
0,208 X 0,160, legato in seta e velluto verde, e scritto con buon 
ordine ed elegante carattere, a imitazione delle stampe del tempo. 
Contiene la Clorida di luigi | Tansillo, di 170 ottave, tre per ogni 
faccia, preceduta dalla dedicatoria col titolo Allo illustrissimo et 
ec I cellentissimo signore \ il signore Don Pie \ tro di Toleto \ Viceré | 
di I Napo \ l \ i. La. data di questa, Napoli a' a!x di Febr. del xl vii, 
è, a partir dal a?a7, di mano diversa e posteriore, d'inchiostro di- 
verso e in carattere corsivo; probabilmente, autografa. Può affer- 
marsi quasi con certezza, che il presente codice dev'essere l'esem- 
plare, o uno degli esemplari, di dedica del poemetto. Ne contiene 
una lezione differente dalla volgata e senza dubbio più antica. 

6. Stampe. 

1. (Stanze) Del signor \ Tansillo \ gentilhuomo di Sua 
Maestà, I A V illiLstr, et eccelh \ S. D. Pietro di Toledo y \ Vi- 
ceré di Napoli. Nella Seconda \ parte \ delle Stanze \ di di- 
versi I auttori ecc. In Vinegia, appresso | i Gioliti, MDLXXXI 
(I6.^ pp. 83 sgg). 

Sono 173 ottave. 

2. Stanze \ del signor \ Luigi Tansillo \ all' illustriss. ed 
eccelleniiss. signor D. \ Pietro di Toledo Viceré di Napoli. 
Nelle Opere \ di | Luigi \ Tansillo. In Venezia, | appresso 
Frane. Piacentini, | MDCCXXXVIII (pp. 33 sgg. della 2.* nu- 
meraz.). 

Derivano dall' ediz. precedente. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXLI 

3. Stanze | di Luigi Tansillo \ AlV illustri^s. ed Eocell. si- 
gnore I D. Pietro di Toledo Viceré di Napoli. Nelle Poesie \ 
di I Luigi TansillOy Londra [Livorno, Masi] 1782 (i6.*, pp. 151 
sgg.)- 

Derivano dall'ediz. Piacentini. 



V. 

LE LAGRIME DI S. PIETRO. 
A. Manoscritti. . 

1. God. XIII. G. 84 della R. Biblioteca Nazionale di Napoli, cartaceo, 
dei sec. XVII, di carte 196 numerate e mm. 0,272 X 0,203. I^ PO** 
ma vi è diviso in 15 pianti^ a ciascuno dei quali l'autore premette 
l'argomento e l'indicazione della figura che deve illustrarlo. È tutto 
postillato e corrótto di mano di Tommaso Costo, e fu creduto erro* 
neamente « l'autografo dell'illustre ingegno nolano ». N'è invece 
una copia; importante, ad ogni modo. 

2. Cod. Palatino GGGXXXVII della R. Biblioteca Nazionale Centrale 
di Firenze, cartaceo, del sec. XVI, di carte 202 numerate e mm. 
0,272 X 0,204. Il testo del poema è in esso interamente conforme 
all'ediz. di Vico Equense (v. appresso). 

B. Stampe ^ 

I. [Lagrime di S. Pietro del Reverendiss. Cardinale de' 
Pucci. Dopo II Secondo Libro dell' Eneide di Virgilio. Dove 
si contiene la distruttione delV antichissimo Imperio d'Asia, 
tradotto in ottava rima da G[iovan] M[ario] V[erdizzotti] 
ecc. In Venezia, appresso Francesco Rampazzetto, 1560]. 



^ Sulle diverse recensioni del poema e sulle numerose ristampe 
che ne furon fatte, vedi anche Vitt. Imbriani, Nata/nar li, lett. sul 
tato del Candelaio di Giordano Bruno, nel Propugnatore, ant se- 
rie voi. IX [1876], pp. 349 sgg. 



CXLU ILLUSTRAZIONI 

11 Verdizzatti, travate maDoscritte col Dome del Cardinale de' Pucci | 
42 uUave delle Lagrime di s, Pietro, le pubblicò, consenanda l'er- 
rala stlribuxiane, dietro al suo volgarizzamento virgiliaoo (c^. BU 
questo PiiTONi, Sibl. degli auCort ani. urea e latini volt/arlaatl, 
Veu^ 1767, IV, 198^). 

2. Lagrime | di S- Pietro \ del S. Luigi Tansillo. Nel J 

ma volume della Scelta di stanze di diversi autori toscatii,4 
raccolte e nuovamente poste in luce da M. Agostitw Ferren^ 

tilU, Venetia, a istanza de' Ginnti di Firenze, 1571. (i6.V| 
PP- i'"4 sgg.>. 

Sono le 42 oltave gin edite dal Verdizzotti, restituite al 
tore: appartengono a vari canti del poema, ma Epeoialmente si priiaal 
(sIL 41 e aegg.). Esse ricomparvero ancbe nelle successire ristampa^ 
di (tuesla salta del Fereatilli (Venezia, presso gU eredi di Marchio^ 
Sesaa, 1579, e presso gli eredi di Pietro Deucbiuo, 1584), e la tro- 
viamo pur no' salmi penuenxtall di aiveni eecelUntl autori ùon at- 
Bone rime splrltuail iH dioeril, raccolti dal P, Frano. Turelii da Tri- 
TÌgi, carmelitano, e pubbl. dal Giolito nel 1571 (e. 192), nella JVuooa 
scalea di rime di diversi Itegli ingegni dal Zabato, impressa a Qeno- 
T8, preesQ Cristoforo Bellone, nel 1573 (e. 59) e nella fwm» partt 
della scelta di rime di diverti autori dello stesso, OeooTa, 1582, e. 56; 
sempre col nome del Tansillo. Gfr. Glvrn. de* leti. d'Italia, XI, 142-43. 

}. Le Lagrime \'di San Pietro \ del Signor Luigi [ Tan- 
sillo da Nola I mandate in luce da Giovan | Battista Atten- 
dalo da Capua [ Alla Ill.ma Sig.ra D. Maddalena | de Hossi 
Carrafa, Marchesana di Laino. | Om licenza et Primleg- 
gio. [n Vico EquenBe, dell'IlluBtriss- Sig. Ferrante | Carrafa, 
Marchese di San Lucido. | Appresso Gio. Battista L'appello-j 
et Giuseppe Caccliij | M-D.LXXXV. 

Contiene il poema, spartilo in 13 pianti a preceduto da t 
tere, due sonetti e un epigramma latino. La prima lettera è dì ' 
MoDs, Spinola, vescovo di Nolo, all'Attendo lo (Nola, 1582), lasecoDdp 
• della illustre et Udelissima cittA di Nola • al medesimo (Nola, 
1582), la ter^B di Muzio Santoro nolano alla Marchesana di Laino 
(Nola, 1585). Dei soOBlti, uno é di Lorenzo Belo, vescovo di Capaccio, 
e l'altro di Paolo Regio, vescovo di Vico Equense. L'epigramma i 
Aquino. Alle Lagrime teogon dietro due sonetti di Mu- 
I, uno di Pr. Cocco e uno di D, Giuseppe Lombardo; 



mOCRAFtCHB E BIBLIOGRAFICHB CXLIII 

ioollTF, 5 epigmnnii latiJii di direni e oiu leu. dello stajnpalore 
(NoU, 1581). L'edile, iitS.', ODMtB di 16 pp. non nunu, -(- «66 nniu.' 



4. Le Lagrime | di S. Pietro | del Sig. Luigi ] Tanaillù 
\ di nitooo ristampate \ con nuowi gionta delle lagrime 
della Madda \ lena del Signor Erattno TalvassotK, \el al- 
tre rime iptrituali, ) del molto R. D. Angela Grillo, non 
pia veda \ te et ora novamente date in luce. Id Genova, | 
Appreso Girolamo Bartvli, MDLXXXVIl. | Cod licenza de' 
Sapcriori. 

Conljeae il poema del T., spartito in 13 ptanit e preceduto da 
una lettera di Giulio GanstaTÌui s Oio. Costa (Genova, 15 luglio 
>337l, da UD son. di Paolo Regio, nno d'Angelo Grillo, uno di O. Oua- 
filavioi ed UDO di Cristoforo Zabatn. A p. t66 (dopo pocbi verai in- 
lllolstì DitUogo tptriluali <lei signor Torq. Tom): Le Lagnine di 
S. starla Maddalena del tig. Ebasmo 11EU.I StOK. Dt VaLtasONk. Ih 
Une, con dìiersi cantieri e su earte non nninerate, un capuoto ai 
Croel/Uto nel vena-di Santo Oei R. P. Don ANOELO GniLLO. L'ediz,, 
ili 16 ", consta di pp. 16 non duql, -f- 179 Dum., -\- 16 non numerate. 

i. Le lagrime \ di S. Pietro | del Sig. Luigi \ Tansillo, | 
W nuovo ristampate \ con nuova gionta delle Lagrime della 
"Mad I dalena del Sig. Erasmo Valvassone, \ et altre rime 
spirituali, I del mollo R. D. Angelo Grillo^ non più vedu \ te, 
et ora novamente date in luce. In Carmagnola | Appresso 
Maro'AQt,oQÌo Bellone. MDLXXXVUl [ Con licenza de' Supe- 
riori. 

CDQliene il poema del T., spartito in tj piami e preceduto dn nua 
lettera di Gio. tUminico Roncngliolo al sig. Ant. noceatagliats, dai 
quattro «onetti già iaipressi nella ed. genovese e dn altri tre di Gio. 
frane. Bosselto. A e. 166'. dopo il Dlal. apirtt. del Tasso, le Lagri- 
me della Madgattna, L'ediz,, in iG.", consta di cariti 8 non num., 
-t- 178 num., + 7 non numerale ooiiiprendenU il cap. al Croaifluo. 

6. Le I Lagrime | di S. Pietro | del signor Luigi | Tansillo; 
I con le Lagrime della | Maddalena del signor Erasmo \ 

da Valvasione, \ Di nuovo ristampate, et agiuntovi l'Eccel- 
lenze della I Gloriosa (bIc) Vergine Maria del S. Horatio \ 
Guarguante da Soncino. In Venetia, appresso Giacomo Vin- 
centi [1589]. 



cxuv 



K.M'KTrjAzrOM 
.1 poema del T., apartito in 13 planlt (ff. 1-165') e 
ceduln da una letlera del VtnceDti ni Guargnanle (ix Maggio 1589), 
dai sonetti del Regio e ilsl Grillo a da un soa. del Quargnanle sulla 
Passione, A carta 166' {dopo i versi intitolati Dialnao spirUvate del 
SCff. TorS. TOSSO): Le Lagrime dt S. Maria Maddalena ecc. dì E. da 
VAtvASOMK-, a e. 179'; L'eocelleme della Gloriosa Tergine eoe del 
: il Cap, ai Crtttl/lsao del Orillo. L'edizione, 



a di CI 



-, + >90. 



7. Le I Lacrime | rfi San Pietro | del signor Luigi Tan- 
nino I genlilfiuomo napolitano. | Di nuovo corretto | et ri- 
stampato. I In Milano | per Leonardo Pontio stampati 
gio camerale, | M.D.LSXXVIIII. 

Contiene soltanto le 42 ottave, dì cui v, al n." 1. l/ediz., 
cunala di ii carte non nula., di cui l'ultimo bianca. 

8. Le I Lagrime \ di S. Pietro | del S. Luigi Tmisitlo, 
tnandate in luce da Gio. \ Battista Attendalo da Capoa \ con 
yli argoménti di Giulio Cesare Capaccio, | e figure ad ogni 
Pianto- 1 Aggiuntovi le lagrime | della Maddalena de! S. E- 
rasmo da Vnlvasotte \ Con licenza e privilegio. In Napoli, | 
appresso Gio. Battista Cappelli M.D.XCI. 

CoutiODe il poema del T., aparlito in 13 pianti e preceduto da 
due souulti (l'uno di Moii«. Vescovo di Vico e l'altro di Giulio Ce- 
sare Cuomo) e dall'epigramma di Gerolamo Aquino. Seguono le Lo- 
yrime di sania Maria Maddalena del Vai.vasone e il sonetto dì 
SlQKio Santoro. L'odiz,, iii-i6.", consta di pp. 4 non num, + 304, 

i}. Le I Lagrime | di San Pietro | del Signm- Luigi \ Tan- 
sillo; [ Con le Lagrime della Maddalena del \ Signor Era- 
smo da Valoasone, \ Di nuovo ristampate, { Et aggiuntovi 
l'Eccellenze della Gloriosa Vergine Maria, | del Signor Ho- 
ratio Guarguante da Soncino. In Vanotia, | Appresso Simon 
Cornetti | et fratelli, 1592. 

Contiene il poema del T., epartito in 13 pianti e preceduto dalla 
letL di Giafomo Vincenti al Guarguante (Ven., I3 maggio 1589), dai 
sonetti del It?gio e del Grillo e dal son, del Guargunnle sulla Pas- 
Biooe. A cario 166' (dopo il solilo Dial. aptrit. dei Tasso): le Lagrime 
Oella Maddalena di E. da Valvasone: a e. 179': '-« SxeUense di 
Marta Vergine del Goabocante: b e, 186'; il cap. al Crocifisso del 
Gbillo. L'edii., in 16.", constn di carie 4 non num,, -t- 190, 



k 



RIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXLV 

I. Ze Lagrime \ di San Pietro ] del Signor Luigi | Tan- 
siilo I Con le Lagrime della Maddalena del | Signor Era- 
smo da Valvasone, \ Di nuovo ristampate, \ Et aggiuntovi 
l'Eccellenze della Gloriosa Vergine | Maria del Signor Ora- 
1 Guar I guante da Soncino. In Venetia, MDXCV. 
SoDtlene il poema del T^ epartìlo in 13 pianti e preceduto dalla 
ra del Vincenti al Guargnantp ^1589), nonché dai soliU 
RSiietti dal Begin, Grillo e Guorguanle. Dopo il Dial. spiril. de] Tasso, 
le Lwrrime di S. Marta Maftaalsna dì E. da Valvasone; indi le 
ÉBcelMMie della verg. del Guakoi'ante e il eap. del Grillo. L'edii., 
in 16,", consta (eome la precedente, da cui deriva) di carte 4 non 
,+ i9a 

. Le Lagrime | di San Pietro | del Signor Luigi | Tan- 
I con le Lagrime della Maddalena \ del Signor Erasmo 
Bk Yaloaaone, | di nuovo ristampate, \ et aggiuntovi l'Ec- 
e della Gloriosa Vergine ] Maria, del Signor Boratio 
JtGttarguante da Soncino. Tn Veneti», MDXCVIl! | Presso 
Tito. Battista Bonfadino. 

Contiene il poema del T., Bparlilo in 13 jilanM e preceduto dalla 
lett. del vincenti e dai tre soliti sonetti. A e. 166' (dopo il Dlal. "pt- 
fi(,) le lagrime della Maddalena; a e. 179' le Eeaeiunte; a e. 186' 
il Coi)' del Crooiflsso: L'ediz., in 16.', consta dì carte 4 non imtn., 

lì. Le lagrime \ dì S. Pietro | del Signor Luigi | Tan- 
sillo I con le Lagrime delta Maddalena del \ Signor Erasmo 
da Valvasone \ di nuovo ristampate, \ et aggiuntovi VEc- 
eellense della Gloriosa Vergine | Maria, del Signor Soraiio 
I Guarguante da Soncino. In Venetia, appresso Agostino 
Spinella I MDXCIX. 
Ediz, al tutto idealicB alla precedente. 

ij. Le Lagrime | di S. Pietro \ del Signor Luigi Tansillo, 
I e( I quelle della Maddalena \ del Signor Erasmo Valva- 
sone; I di nuovo ristampate, ) et aggiuntovi l'Eceellenze 
della I Gloriosa Vergine Maria, \ del Signor Horatio Guar- 
guante I da Soncino. \ Con licenza rte' Superiori. In Venetia, 
MDCIII. I Appresso Nicolò Tebaldini. 



CXLVI ILLUSTRAZIONI 

Contiene il poema del T^ Bpartìlo in ij pianti e preceduto daUs 
solita lett. e dai «otiti sonetti. Dopa il J)lal. spira, del Ta»BO, le La- 
grime della Maddalena (e. 165"); indi le Betmiienze (e. 178') e il Cap. 
del Croot/lsso (e, 185'). Veiiz^ in i5.", consta ia tutto di 190 carte 



14. Le I Lagrime | di S. Pietro | del Signor Luigi Tansilto, 
I et \ quelle della Maddalena | del Signor Erasmo da Val- 

lìasmte; | di nuovo ristampate, | et aggiuntovi l' Eccellenze 
della 1 Gloriosa Vergine Maria, | del Signor Soratio Gìtar- 
gitante da Soncino. | Cbn licenza de" Superiori- In Venotia, 
MDCV. 1 Presso jrli heredi (ii "DomeDÌco Farri. 

Contiene il poema del T., spartito in 13 piami e preceduto dalla 
Rolita lett. e dai Holiti sonetti. A e 165', dopo il Dial. tpirit., le Lagr. 
della MaddateTia; a e. 17S' VEoceUenie; a e. 185* il Cap. del Oro- 
ci/leso, L'ediz., in ló,'*, consta di carte 4 non num., -\- 190. 

15. Le Lagrime \ di San Pietro \ del sig. Luigi Tangillo \ 
cavate dal suo proprio originale \ Poema sacro et heroieo | 
In cui si narrano i Lamenti, i Dolori, i Digiuni et le Asli- 
nenxe di Pietro, | il g^ale ci è Figura di un vero e divoto 
Penitente. \ Con gli Argomenti et Allegorie della Signora 
Lueretia Marinella \ et con un Discorso nel fine del Sig. 
Tommaso Costo, nel gitale si mostra | quanto questo Poema 
stia meglio di quello, che infino ad ora s'è veduto \ stam- 
palo, et esservi di più presso a quallrocenCo bellissiine 
litanie- | Con licenza de' superiori et privilegio. In Vinegia, 
Appresso Barezzo Barezzì. M.DC.VI. | libraro alla Madonna. 

Contiene il poema del T., spartito in 15 canti e preceduto da 
una lettera de! Bareizi a mona. Massimiliaoo Bisncbl, cameriere ao- 
(ireto di Paolo V, da un breve avviso in cui il Bareizi Etesso di- 
scorre da! rilrovamenlo seguilo in Napoli del vero e autentico ms. 
dell'opera, da un'AJW^Di-ioi 'univeriale di lutto il poema della Mari- 
nello, e da una vignetta figurante il Santo. Al poema lìen dietro la 
cani, del T. a Paolo IV. poi: — Dlseorso | del Stonar | Tommaso 
Coito 1 Per lo quale 9f atnw \ stra questo Poema delle Laurtme \ dt 
S. Pittro (tei TaneiUo \ non solo essere oome dalVaulore fv lasciato 
loriuo, ma senta comparatlone | mfeUore di quei ohe /inora s'i ve- 
dato aatnpato, | Con ttoenlla de' superiori, et Prt-ciiegi. In venetis, 
MDCVl I Appresso Bnreii-o Barezli | al seguo dello Madonna. — In 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE 



le. Le Lagnine | di San Pietro \ del Signor Luigi \ Tan- 
siilo l Con le Lagrime della Maddalena \ del Signor Erasmo 
da Valoasone, | di nuovo ristampate, \ Et aggiuniem ^Ec- 
cellerne della Gloriosa Vergine | Maria, del Signor Horatio 
I Gtmrguante da Soncino. In Vonetia, M.DC.XI. | Appresso 
Oiorf^io Bizzardo. 
EdJE. al tulio identica ai numeri m a ii. 

17. Le I Lagrime \ di San Pietro \ del Signor Luigi | Tan- 
siilo I con le Lagrime della Maddalena del Signor \ Era- 
smo da Valsasene. \ Di nuooo ristampate, et aggiuntovi 
VEtxellenze \ della Gloriosa Vergine Maria, del Signor \ 
Boratio Guarguanle da Soncino. In Vonetia, appreeso Lu- 
cio Spinoda, i6ij. 

Edh, al tutto identica ai atuoeri 11 e il. 

18. Le I Lagrime \ di San Pietro \ del Signor Luigi | Tan- 
nilo. I Aggìunteoi l'Eccellenze della Gloriosa Vergine \ Ma- 
ria, del Signor Boratio Guarguante \ da Soncino. \ In que- 
sta ultima impressione ricorrette, et da varie \ inende ri- 
dotte al suo pristino candore. In Venetia, MDCXVIII, | ap- 
presso Ludo Spinetta. 



19. Le Lagrime | di | San Pietro \ del Sig. Luigi Tansillo, 
I con gli argomenti | del sig. Giulio Cesare Capaccio, | Ag- 

giuntooi le Lagrime della Maddalena [ del sig. Erasmo 
Valjiasone. \ Con un Capitolo al O-ocifisso del Rev. P. I). 
Angelo Grillo. [ Consecrale al glorioso nvme dell' Illustriss. 
et Eccellenliss. \ mio Sig. e Padrone sempre Calendiss. il 
Sig. I B, Fabrizio | signore della Casa Carafa, | Duca d'An- 
dria e del Castello del \ Monte, Co. di Ruvo, utile Sig. di Co- 
rato... etc. in Napoli, 1697. [ Nella Novissiiua Stampa di Dom. 



ìllcstraziom 



I Antonio l'amiio, ai Cantone di S. | Cliiara, incontro-^ 
Gieeti Nuovg. | Con licenza de' superiori. [ A spese del ma^ 



20. Le Lacrime ( di San Pietro | di | Luigi TansiUo \p 
ma sacro | co» gli argomenti, ed allegorie | di Lucresia Ma- 
rinella I ed un discorso | di Tommaso Costo. ) Giuntavi in 
questa Edizione la Raccolta delle sue \ Rime notabilmente 
accresciuta. In Venezia | Appresso Francesco Piacentini. | 
MDCCXXSVIII. l Con licenza de' Superiori, e Prìvileffio. 

È l'edii. dalle Opere | di | Luigi Tatisitlo (coai l'occhiello 
lilolo) già più volte citato, dovuto probabilmente alla care o ai sub- 
sidi d'ApoBEolo Zeno. Il poema in essa à spartito in 15 cauti, e pre- 
ceduto dall'avviso del Bnrezxi ristampato tal quale, da alcune accu- 
rate KoUsle intorno alle rime, e aila persona ai L. T. (astratta dal 
voi. XI del Qlom. d^ letleratl d'Italia) e dall' All^orict unlc. della 
Marinella. Seguono la cani, del T. a Paolo iv, il manorso del Costo, 
Rime sptrituaU dello etesso Coeto e alcuni sonetti adespoti All'im- 
magine del Crooiflssn, Poi; Sonsttl e Canioni del sia. l^uigi Tan- 
siilo, e, a p. 33, Stame del sig. L. T„ e, a p. 59, 7 Sue Pelligrint. 
Dopo il FINE, alclme rime del T. edite nel (733 in Firenze da Ani. 
Muzio e la Tavola. L'edlE., in 4.", consta di pp. XX1V-t6o, XXXII-83. 



2j. Le Lagrime \ di San Pietro, di Cristo | di M. 
gine \di\ S. Maria Maddalena | e quelle | del penitente \ 
un capitolo al Crocifisso e il lamento [ di Maria Vergii 
1 Versi I di Luigi TansìUo, \ di T. Tasso, Erasmo da 
vasone \ ed Angelo Grillo. Milano, | per Gio. Silvestri, \ : 

È il voi. CCCLXXVI della Sibliotàca Scelta siliiesb-i. Al poema del 
Tt spartito in 13 pianti (pp, 1-235), tengon dietro le Lagrime di 
Cristo e le Lagritne della Vergine del Tasso; poi, da p. 249, il so- 
lito Dlal, spirlt., le Lagrime delta Maddaletia, no son. del i>a Val- 
VASONB, il Gap, at Orodflsso, un Lamento dt Maria Vergine ptr la 
Fassume del Gbillo, due sonetti e le Lagrime del Penitente pur del 
medesimo, l.'ediz., in 16.', consta di pp. S non num., 4- 3&0. 



II-83| I 

Val- ^ 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CXLIX 

22. Lagrime di San Pietro \ cCi \ Luigi Tamilto- Nel Par- 
naso Italiano in 8.° gr. dell' Antonel li, voi. IX (Poemetti di- 
versi), Venezia, 1847 (coli. 59^ sgg.); voli. CLXVI-VII dell'e- 
diz. in 64." 

Il poema, spartito in 15 canti, è preceduta da bIcudì Cenni sulla 
vita df L. T., e contiene gli argomenti e le allegorie di Lucrezia 
Marinella. 



TRADUZIONI. 



A. Francesi. 



1. [Lcs lannes de Saincl Pierre imilées du Tmuilte, • 
roy. Parip, 1587]. 



i. Les larmes | de Sainct Pierre | imilées dw \ Tamille 
I au roy. A Paris, | cliez Liicas Breyel, Libraire au | Palais A 
la gallerie ou l'on va | A la ObaDcellQrie. | M.D.XCVI. | Suy- 
vant la coppie imprimóe en l'an 1587 | et corrigée par luy 
mesme. 

Ristampa in iG.', pnre molto rara, dell'ediz. precedeate. Vanno 
ionanai all'iniitaiione nn sonetto di I. Chreetien, un epigramma di 
Saincl Siit e alcuna atanccs di La Hoque. Segnono le aolite 41 ot- 
tave della Lagnine di Uhm Pietra (segn. a — Aiiij). 

Questa imitazione tanailliana del Malieeubb é slata ristampata an- 
che in Bouen, presso Rapii du Petil-Val, nel 1599, e più altre volte, 
in raocDlle o fra le opera del celebre poeta fraueese. 

3. Les I larmes de | Sainct Pierre, \ et autres vers \ Chre- 
stiens sur I la Passion | par Rob. Estiene, A Paris, | chez 
Mamert Patisson Imprimeur du Roy. | 1 59). | Avec privilege. 

Raro opuac, in 16.', contenente una parafrasi lansilliana di Ro- 
HEBTO EsTiENNE, in 70 BlrofB eMBticJie, elle fu alompata anonima, 
nel [606, pei tipi del Estienne medesimo, con dedica ■ A Monsieor 
* Phelypefliis, Seigneur d'Herljour, conseiller dti aoy -. 



CL ILLUSTRAZIONI 



È, Spagnuole. 



a. Manoscritti. 

1. dod. 1107 della Bibl. Trivulzìana di Milano, cartaceo, del sec, XVI. 
Contiene Las lagriraas de Sem Fedro \ de Luis Tansilo, traduztdas 
de lenffua Toscana | en Castellana, por Juan Sedsno cartellano de j 
la ciudadela de Alexandria | y el llanto de Santa Maria Madalena 
de Erasmo \ Valvason \ con un capitalo al Crudfixo el viernes santo 
del I A. O. Don Angelo Orilo, traduzidas por el mismo \ Al serenis- 
simo Senor Don Vicengio Gonzaga Duque de Mantua y Monfer- 
rar. Segue lo stemma dei Gonzaga. 

2. [Cod. M. 230 della Blbl. Nazionale di Madrid. Contiene 
El llanto de San Fedro traduuddo en redondillas castella- 
naspor Luis Galvez de Montalvo]. Cfr. Gallardo, loc. cit. 

b. Stampe. 

1. [Lagrimas de San Fedro tradticidas en espanol por 
Juan Sederò. Napoles, 16 13]. 

2. [El llanto de S, Fedro trad, por L. Galvez de Mon- 
talvo, Toledo, 1584, in 8.0]. Cfr. Gr aesse, Trésor, VI, 26. 

3. Lagrimas \ de San Fedro \ compicestas en italiano \ por 
Luys Tansillo. | Traducidas en espanol | por el Maestro 
Fray Damian | Alvarez de la orden de Fre | dicadores de la 
Frovincia | de Espana. En Napoles, | por Juan Domingo Ron- 
callolo, 161 3. I Con licentia de Ics Snperiores. 

Contiene il poema del T , spartito in 13 llantos e preceduto da una 
lettera dell'Alvarez a Don Fedro Fernandez de Castro, « lugartenente 
« y capitan general en el Reyno de Napoles ». Tengon dietro, 
a p. 313, le Lagrima>s de S. Maria Mad. del Senor Erasmo, tradotte 
dal medesimo; poi, altre scritture sacre in versi. L'ediz.,in 16.", 
cousta di carte 4 non num., -H pp. 379; in fine altre 3 pagg. non 
numerate. 



BIOGRAFICHE E BIBLIOC.RAFICIIE 



CAPITOLI. 



A. Manoscritti. 

1, Cofl. D. sm. 35 ^Blla Bibl. NaziaDala di Napoli, cartaceo, del geo. 
XVI, in-S,', di carte 170. ■ Mancano in sul {irìnaìpio tre carie, le 

• prime duo delle quali doTBvaoo avere nel margine a] piede le se- 

■ goature A ed Ait del primo fascicolo. Mancano allreai la carta 

• iplarla del raECicolo S e le due carte che dolevano avere nel mai' 

■ gioe al piede le Begnnlure C e KK dei loro fascicoli. Le carie che 
« seguono sono prive delle segnature de' fascicoli. Le piime otto 

• carte del testo portano i numeri 4, 5, 6. 7, 9. io, 11, «; le prime 

■ tre delle ulSme nove i numeri i, 3, 3; quella cbe segue non lia 

• numero; Is ultime cinque portano i numeri 4, 5, Gì 7, 8. Ila il 

• teato molle carte malconce e raceonce ■ (Volpicella, Ca/pp. OX 
L. T., pp. V-VI). Sulle carte de' fascicoli registrati con lett. maiu- 
scole in ordine alfabetico, sino a tutta la prima Ihccia della carta 
KK, seguono l'uno all'altro i capitoli cbe nell'edix. Volpicella bauno 
i Qumeri XX, 111, li, Xltl, VII, XI, XIV, XV, XVIII, XVI, XII, IV, V, 
VI, XVn, XXI, XXn, Vni, IX, X, XIV, I, Dalla seconda faccia della 
carta sego. KKH Quo alla prima dell'altra seguente, occorrono al- 
quanti sonetti (tìla E»u>vA[a (vedi [Tom. DiakobintI, Sei aonetll bt/r- 
oMelKsoM I ai I Luigi TaniUlo \ Lettera al sia. GiuUo Pleoini, eatr. 
da £a oioventu. giorn. di Fironie, quaderno del nov. 1887). seguono 
17 canzoni, fra cui una aestioa, e in ultimo i copitoU XSIV e XXIII 
dell'ediz. Volpicella. È il ms. che, secondo il Meola, l'aw. D. Gio. 
Miglio salvù in oasa del principe di Laureniano, mexzo distrutto da 
nu prete ignorante. 

1. Cod. n. Xtir. 15 della Bihl. Nazionale di Napoli, cartaceo, del sec, 
XVin ex., di caria 94 scritte e num., in 4.-, tutto dì mano delren^ 
dito Gian Vincenzo Meota, nato io Napoli nel 1744, mortOTi nel 1S14. 
È QDa copia, anepigrafa, del nis. precedente, e ne riproduce i 24 ca- 



3. Cod. ital. ci. IX, n. 174 della Bibl, Mareiaaa di Veneiio, carta- 
ceo, del see, XVII, di carte 4)5 num. e mm. 0,315 X o,ai5. Contiene, 
frammisti a rime di diversi, ì capitoli del T. editi da Bnrt. e Frane. 



ILLUSTRAZIONI 



. Capitolo per la liberazione di Venosa. Napoli, rssB 

pnsc. in 16.". di la carie. La Biblioteca I 

99(uccio l'imica esemplare Hnora aonoBciuto. t 
liatamante mutilo del frontaspiiio. vedine la deacrizions i: 
dice agli Sludi di lelteratwa, sloria ed arie di S. Tolpicku.a, i 
poli, cìassìoi ital., 1876. 

2. In lode del tingere i capelli \ capitolo inedito di Luigi 
Tanfitto \ pubblicato \ Jtelle nozze de" germani fralelli \ Mitr- 
canlonio e Benedetto de' conti Baglioni-Oddi | patrist dgUa 
città di Perugia \ con le dm sorelle | Lavinia ed Agneu 

Vermiglioli \ patrizie della medesima città. Napoli, 1810, | 
Dalla stamperia de' fratelli Fernandez. 

Opusc. in 8.", di pp. 34 aum., pubblicato iIbI Mauchbse di Vri^ 
LaboSa, con dedicatoria al patrizio perugino prof. <ì. B. Varuiiglioii. 
Al capitolo (VII doll'ed. Volpicella) («ngcii dietro annotazioni ed una 
estesa E accurata notizia biograllca del poeta, 

3. Capitoli I di I Luigi Tansillo | ora per la priìna volta 
pubblicati I nelle nozze | di | 6Ìo. Nachich di Zara \ con \ 
Marina Meneghini di Padova. Venezia | dalla Tipografia di 
Alvisopoii 1 1832. 



a 16,", 



!d una bianca in Arie, pnbbl. di 
i capp. II, XJ, XXTV dell' ed. Vol- 
e preceduti da una uatiziola let- 



4. Capitoli 1 di 1 Luigi Tansillo | ora per la prima oolta 
pubblicati I nelle nozze del Zollo-Tiepolo. Venezia | dalla Ti- 
pograRa di Alvisopoii j iS}^. 



Opusc. in 16.', di pp. 31 nuu 
pure da BABTOLOiuiEa Gauba. 
piceli a, ricavati dal e od. Marc. 



I bianda in fine, pubbl. esàb 
i oapp. I, xn dell'ed. Vol- 
! peeeduli da una notizìola simile 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CLIII 

5. Capitoli I di I Luigi Tansillo \ editi ed inediti. Venezia | 
dalla Tipografia di Alvisopoli | 1834. 

Grazioso opusc, in 16.'», di pp. 108 e 4 non num. in line, pnbbl. da 
Francesco Gamba. Contiene i capp. II, XI, XXIV (v. il n.» 3), I, XII 
(V. il n.o 4), IV, V, xni dell*ed. Volpicella, ricavati dal cod. Marc, e 
preceduti da una notiziola simiie a quella del n." 3. Ne furon ti- 
rati 254 esemplari, di cui 12 in carta velina greve e 2 in carta co- 
lorata di Francia. 

6. Capitoli I giocosi e satirici \ di \ Luigi Tansillo \ editi 
ed inediti \ con note di \ Scipione Volpicella. Napoli, Dura, 
1870 (8.% pp. XU-392). 

Contiene i 24 capitoli del cod. D. XIIL 25 della Nazionale di Na- 
poli, con dotte annotazioni del Volpicella, preceduti da un avverti- 
mento editoriale, da una descrizione dei codd. napolitani e da una 
Vita di L. T. Mutato il frontespizio e la coperta, il voi. è ricom- 
parso nel 1887. 

7. Capitolo per la liberazione di Venosa. Nelle Poesie Li- 
riche I edite ed inedite \ di Luigi Tansillo, Napoli, Morano, 
1882, pp. VU-XXIV. 

Dairopusc. antico registrato sopra al n." i; del quale riproduce 
anche la missiva Alli motto magnifici Signori gli Sindici e gli eletti 
della atlà di Venosa (Napoli, 30 settembre 1551). 

8. Capitolo dell'Ospite di Luigi Tansillo, Nel Rendiconto 
delle tornate dell'Accademia Pontaniana^ XX [1872] 15-26. 

9. Tre lettere ed im capitolo \ di Luigi TansiUo. Boiogoa, 
Zanichelli, 1886. 

Da p. 47 a p. 78 d'un opusc. in 4.0, di p. 85 num., intitolato Nozze 
Zaniohelli'Mariotti e pubbl. dai proff. Severino Fbrrari, Vittorio 
Fiorini e Vittorio Rugarli. Il capitolo (pp 61-70) è corredato 
dall'editore, prof. Fiorini, di note diligenti. 



XX 



CLIV ILLUSTRAZIONI 



VII. 

IL PODERE. 
A. Manoscritti. 

God. N. VII. 4 della R. Biblioteca Nazionale di Torino, cartaceo, 
del sec. XVI, di carte 64 numerate, oltre a due bianche e al fron- 
tespizio. In questo leggiamo: Capriccio di Luigi Tansillo \ intitolalo 
il Podere \ partito in tre capitoli | Al gentiliss. et accortlss, \ signor 
Giovai Balista \ Venere. Tien dietro la dedicatoria al Venere, tratta 
di questo codice dal Fiorentino (Liriche di L, T., p. LXXIV-V n.), 
ancorché già fosse a stampa nell'ed. del 1769. A e. 43% la Balia (v. ap- 
presso). 

B. Stampe. 

I. Il Podere | di | Luigi Tansillo \ pubblicato per la pri- 
ma volta. In I Torino | nella Reale Stamperia [1769]. 

Nitida edizioncella, di pp. 68 in 16. * (oltre ad un foglio di stampa 
non numerato in principio), contenente il Podere con la Dedicatoria 
a G. B. Venere. Va innanzi al frontespizio una vignetta allusiva 
all'argomento del poemetto. Il quale è preceduto, a sua volta, da 
una lettera di Bonaventura Porro, compositore nella Reale Stampe- 
ria, al conte di Montelupo Carlo Frane. Rangoni Malherba, cittadino 
d'Alba, e da una Prefazione^ in cui si discorre del merito del T., 
degli odierni studi sull'agricoltura comparati agli antichi e dei pia- 
ceri dello stare in villa. In essa leggiamo: « [La Balia e il Podere, 
« che l'autore lasciò inedite,! furono con ottimo accorgimento rico- 
« piat« dal signor don Gio. Ant. Ranza, regio professore di umane 
« lettere in Vercelli, prima che il codice antico dov'eran descritte 
« passasse in forestiere contrade^. Ila egli nel MDCGLXVII fatto 



^ Scrive, di fatto» il Rauza, a p. Vili della sua ediz. della Balia: 
« Erano questi \i dì(e. r,a%w. della /i.l, insieme a tre altri inscritti 
« TI Podere, posti, col Vendemmiatore le Stanze in lode della 
« Menta, in un codice del secolo XVI, che passò, non è gran tempo, 



eiOGRAFIClIE E BIBLIOGRAFICHE CLV 

K Stampare i due capiloll sapra la balla con molte erudite annota- 
■ zìoqI: e gid avea anche illuaLralo i Ire altri sopra il podere, per 
i Ira poco alla luce >. Variale poi le cose, quantunque il e 



• gnor Rinza depoDeaas il pensiero ili 

• perù ceduto i capitoli del podere a u 

• cbd dusse opera che venisaaro pubblio 
aere in questa prima edizione alquante 
die ereditò l'impresa del Ranza, non ni 
e la diligenza. 
Incubi in cui espi 



incomptutamenle e a casaccio. Egli, il 
lacuna ragguarderole, di quattro terzine, cli'< 
da lui curata. H ai i 



landar fuori sue note, ba 

libraio di Torino, accioc- 

i •, Accompagnano U Po- 

Lite illuatrative; ma colui 

!redltù punto l'erudliione 

!se, se si escluiJono pochissimi 

sempre giusti e opportuni, Ej 

passi che credeva dal TbubìIIo imitali. 



2 della stampa 



a il s 



2. Il Podere \ di | Luigi TansiUo \puiblicalo la pi-ima 
wilCn. In I Veneeia, MDCCLXX | appresso | Antonio Zatta. 

Imitazione fedelissima dell'ediz. torinese. Ne riproduce, oltre al se- 
sto e ai caratteri, anche la prefazione e le note; non avverte, a p. m, 
ia lacuna; contiene la Dedicataria a G. B. Venere. Consta di pp. 78. 

3. It Podere \ di Luigi TansiUo. Nelle Poesie \ di \ Luigi 
TansiUo, Londra [Livorno, MaslJ, 1782 (16.", pp, 285 sgg.}- 

L'editore, a p, 29^, ba notato con più Ale di pnntolini la lacuna 
cbe trovava nella stampa origiuale torinese. 

.(. Il Podere I di | Luigi TansiUo | pubblicalo la seconda 
volta. A p. 207 delia Raccolta | di | poemi georgici. | Tomo 1. 
t In Lucca MDCCLXXXV. | Presso Francesco Bonsignori. 

Contiene ancbe la Dedicatoria e alcuoe noterai la. La lacuna, a p. 318, 
non è avvertila. 

s- n Podere \ di \ Luigi TansiUo. Nel Parnaso italiano 
dei Rubbi, t. XXIII (contenente i Didascalici del sec. XYI), 
Venezia, Ant. Zatta, 1786 (pp. 18) sgg.). 

U Rubbi non a'è accorto della lacuna, ch'è a p, 192. 



• in Torestiere contrade, e dal quale 
■ fatta quest'edizione ecc. ■. 
* crr. l'ediz. ora cit, della Balia, 1 



CLVI ILLUSTRAZIONI 

6. Il Podere \ di Luigi Tamillo, Parma, Bodoni, s. a [ma 
1797]- 

Di questa bella edizione, di ff. 30 in 8.^ gr., furono tirati, nota il 
Brunet, « un exemplaìre sur vélin et deux sur soie ». 

7. Il Podere | di Luigi Tansillo. Nelle Poesie pastorali | 
e I rusticali \ raccolte ed illustrate \ con note \ dal doti. Giu- 
lio Ferrario, Milano, Soc. tip. de' Classici ital., 1808 (pp. 213 

Anche in questa ediz., a p. 219, è notata la lacuna. 

8. Il Podere \ di \ Luigi Tansillo, \ Nuova edizione, Reg- 
gio, presso Anania Coen, | 18 io. 

Contiene anche la Dedicatoria e noterelle insignificanti. A p. 9 si 
avverte: « Qui mancano sei versi ». È in 4.** gr., di pp. 52: se ne ti- 
rarono soli 144 esemplari, su diverse qualità di carta. 

In questa e in tutte le altre edizioni del poemetto manca, natural- 
mente, il V. 117 del cap. Ili, espunto già nella prima come offensivo 
al decoro. 



Vili. 

LA BALIA. 
A. Manoscritti. 

Cod. N. VII. 4 della R. Biblioteca Nazionale di Torino, descritto 
sopra. A carte 43'": Capriccio di Luigi Tansillo \ dello La Balia \ 
nel quale si essortan \ le donne nobili che elle | stesse si debban allat- 
tar I lor figliuoli I partito in dtw cap. 

B. Stampe. 

I. La Balia \ poemetto di | Luigi Tansillo | pubblicato ora 
per la prima volta \ con annotazioni \ da \ Gio. Antonio 
Ranza I Regio Professore di Umane Lettere ] in Vercelli. 
Vercelli | Presso il Panialis | MDCCLXVII (8.° gr., pp. VIII-74). 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CLTII 

È la prima ediziaoe del poemetto. *Qia. Aal. Rima, curioso Upo 
di poUticante e di scrìUore poligrafa (vedasi a. Bobcuti, JI caiaOino 
R-, ricerche doaumentale ; eatr. dolln ilisaellanea di storia, italiana, 
Torino. Bocca, 1890), lo liri ricavato da! codice mantavoto sopra 
nelle noi* alla p. CUV, adattaiidona l'ortografia « all'uso corrente •, 
e illustrandolo con mollo amore, non senxa una qualche larghezza 
di note dlchjaralive e di raffronti. DÌEgraziataiuente, il codice era 
lacunoso; per ciò lacunosa ci & jrerveDuta la Balia in tutte la edi- 
zionL L'amanuense cinquecentista ba eepanto due allusioni, delle 
quali Tana poteva gembrat lasciva, l'altra irriverente (vv. 2*7-38 dal 
cap. I e 336 del cap, li). Quest'edizione contiene anclie la lettera 
del T. al vescovo di Nola da noi riferito nell'introduzione, e Olunie 
erudite alle note di ciascun capitolo. 

1. La Balia | poemetto di \ Luigi Tamillo per le foMStis- 
■litne nasse | dell' eccelle» :^e loro | Marina Dond \ e | Gio. 
Piero GrimaMi. In Venenta, | dalla Stamparla Palese | 
M.DCC.XCVI. 

Il poemetto è preceduto dalla lett. del T. al Vescovo di Nola, che 
tpii reca l'improprio titolo di DedUia delPauKre. L'editore. Fr. D. U. 
r,, per certe sue magra annotazioni ai serve di quelle del Sanisi, 
benché ingratamente lo cbiami pedante aSoetellatore d'erudiiiooi, a 
a p. 40 dì come un Madrlgaic ineilito del T. tredici versi de) Dot 
Pellegrini'. Quegt'opu«c. eì compone di pp. 4> numerale, oltre a ao 

3. {La Balia di Luigi Tansitlo, Venezia, i8oa]. 

4. La Balia | di \ Luigi Tansilio. fisa | tip. Nistri | 1871. 
Guru quest'edizione, per le nozze di Diomede Bonamici con Giulia 

Soria (4 febbraio 1S71) il prof. Carlo Minati. L'illustre oetstrioo ri- 
produce la lettera del T., ma non la note del Rama, e premetto 
alcuni senni biografici e bibliogr olici sul poeta: il suo opusc. si 
compone di pp, 43 numerate, oltre a una bianca, in 8." 

C. Traduaioiil. 

. [The Nurse, a poefn, translated from the italian of 
Migi Tansilio by William Robcoe, London, 1798]. 
2. The ] Nurse, | a poem. | Translated from the italian 
of I Luigi Tntisiilo | by William Roscob | The second edi- 



CLVIII ILLUSTRAZIONI 

tion. Liverpool | Printed by I. M' Creery, | For Cadell and Da- 
vies, London | 1800 (i6.°, pp. 31 + 89 + 34). 

Contiene una prefazione, un sonetto in inglese, note e, in fljM, 
un Inscription in versi inglesi. Ha il testo a fronte. 

3. The Nurse, \ apoem, Translated front the italian of\ 
Luigi Tansillo \ by William Roscoe. | Third edition. Da- 
blin: I printed for B. Dornin, | 1800 (in 8.®). 

4. The Nurse ecc. (come il n. 2). The third edition. Liver- 
pool ) Printed by I. M' Creery | for Cadell and Davies, Strand, 
London | 1^04 (in 8.** gr.) ^. 



DELLA PRESENTE EDIZIONE. 



Descritte minutamente tutte le altre edizioni, che si soa 
fatte fino a qui, dell* egloga, dei poemetti e dei capitoli del 
Tansillo (già abbiamo accennato, per qual ragione fiiron la- 
sciate da parte, cosi neir introduzione come nella bibliogra- 
fia, le liriche), due parole vogliamo soggiungere intorno a 
questa nostra. 

Essa comprende gli scritti tansilliani che non avevano an- 
cora avuto r onore d'esser argomento degli studi e oggetto 
delle cure dei critici moderni. Abbiamo cercato di renderla 
compiuta per ogni riguardo; corredandola d' un* introduzione 
biografica e letteraria e d'un commento continuato: e nel- 
l'introduzione intendemmo segnatamente ad offrire un'im- 



* Se E VOLA DI Sainte Makthe, uella tanto celebrata Paidotrophia, 
esorta le madri ad allattarsi i figliuoli (ed. parigina del 1584, pp. 
3-5), forse ricordando, oltre a Gellio, anche il Tansillo. — Vogliamo 
ricordare, per ultimo, che col nome del T. furono impresse alcune 
commedie dell' Aretino: Il Cavalleì^zzo (Vicenza, Giorgio Greco, 
1601; ib., Gio. Pietro Gioannini, 1608; ib., stesso tip., 1610), Il Finto 
(ib., Greco, 1601, e Gioannini, 1610), Il Sofista (ib , Gioannini, 1610). 



BIOGRAFICHE E BIBLIOGRAFICHE CLIX 

magine dell'arte del poeta col sottoporne ad accurata disa- 
mina estetica tutte le opere (sempre eccettuate le liriche), nel 
commento recammo le prove delle nostre asserzioni e de' 
giudizi nostri, riferendo tutti i passi d'altri autori eh' è certo 
probabile siano stati in mente al Tansìllo quando poetava. 
Ma nel determinare le fonti o i modelli d'uno scrittore, e 
in ispecie d'un poeta, è facilissimo eccedere e dare come imi- 
tazioni riscontri fortuiti o luoghi comuni: tale eccesso evi- 
tammo studiosissimamente, a quel modo che nel chiarire le 
allusioni a cose e persone schivammo ogni inutile sfoggio d'e^ 
rudizione, e d'illustrazioni grammaticali e lessicali fummo 
parchi. 

La ristampa dei Due Pellegrini è condotta sulla pili an- 
tica edizione, emendandone gli errori col riscontro delle suc- 
cessivo congetturalmente. Del Vendemmiatore ci siamo in- 
dustriati di ricostruire il testo secondo i canoni più moderni 
e pili razionali della critica. Pervenuti a stabilire, quali co- 
dici e quali stampe accolgano il testo veramente genuino, de- 
terminate le relazioni che intercedono fra codeste stampe (si 
riducono ad una sola) e messo in sodo il valore che ha cia- 
scuno dei codici (sono tre: un Palatino, P., e due Magliabe- 
chiani, M e 3/') per mezzo d' uno spoglio di tutte le varietà 
di lezione, non esclusi gli errori grossolani, c'industriam- 
mo poscia, guidati dalla pratica contratta collo stile, colla 
lingua ed anche con la grafia (molto oscillante e incerta ne- 
gli autografi) del poeta, di fissare criticamente la lezione più 
verosimilmente autentica, prestando alle diverse testimo- 
nianze de' manoscritti e delle edizioni fede proporzionata alla 
maggiore o minore autorità loro resultante da dati intrin- 
seci ed estrinseci. 

Anche per le Stanze al Martirano, come per l'egloga, ab- 
biamo seguito (non ciecamente, s'intende) la più antica edi- 
zione. Invece la Clorida è offerta qui per la prima volta 
agli studiosi quale la lesse nel 1 547 Don Pietro di Toledo a cui 
è dedicata, cioè secondo la lezione del prezioso codice de' 
Gerolomini. Non abbiamo, peraltro, mancato di riportare 
tutte le varianti di qualche conto (e le aggiunte) dell'edi- 
zione del 1581, per quanto uscita in luce tredici anni dopo 



CLX ILLUSTRAZIONI 

la morte delF autore; e ciò perché sembra che il poeta stesso, 
tornato sopra ali* opera sua, l'abbia qua e là lleyemeate ri* 
toccata ed accresci ata. 

Per ultimo, anche i due leggiadri poemetti didascalici del 
Tannilo si presentano ora primamente in veste ben dirersa 
da quella, lacera qua e là e rattoppata, con cui furon mandati 
attorno un secolo fa. Ben diversa; grazie alle cure di noi 
che li abbiamo esemplati attentamente sul codice torinese, 
e, più ancora, per la liberalità di chi ha iniziato con eie* 
^ganza tipografica cosi squisita questa nuova Biblioteca na^ 
politana di storia e letteratura. - 



I DUE PELLEGRINI 



EGLOGA 



\" ;' 



•*. 



I DUE PELLEGRINI 



EGLOGA 



FiLAUTO ed Alcinio. 



FU. Già si raddoppia il di ch'io vo smarrito, 
mercé del pie, che mi conduce in via 
3 dove vestigio uman trovo scolpito. 

Sapessi almen dove mi vada o sial 
Ecco un che va solingo e fuor di strada: 
6 forse, di me pietoso, il Ciel rinvia. 

Pria che l'ombrosa notte qui m'invada, 
vo' dimandar s'albergo è di vicino, 
9 dove le stanche membra a gittar vada. 

Chiunque sei, del loco o peregrino, 
tu che il pie movi si pensoso e vago, 
12 quel che cerchi t'apporti il tuo destino. 



1-3 In questo cominciamento, d' intonazioDe più specialmentd dan- 
tesca, ci par di scorgere anche un ricordo del celebre sonetto del 
Petrarca (I, 22): « Solo e pensoso i più deserti campi | Vo misu- 
« rando a passi tardi e lenti | E gli occhi porto, per fuggir, intenti | 
« Dove vestigio uman l'arena stampi ». 

10 t)ANTs, Inf.^ I, 66: « Qual che tu sii, od ombra, od uomo certo ». 

11 Vago Ialinamente, in senso di errante. Di fatto, come il T. ha 
detto al V. 5, Alcinio va.» fuor di strada. 



4 I DUE PELLEGRINI 

Ale. Apportimi che vuol; ch'io sol m'appago 
col pianger mio, né mi potrà far lieto 
15 quanto in mill'anni volge l'aureo Tago. 

FU, Lasso, onde sei si mesto et inquieto? 

Uom più miser di me non vide il sole; 
18 pur con l'altrui parlar spesso m'acqueto. 

Ale. Deh, per dio, non voler con tue parole 

al mio soverchio duol porgere aumento! 
21 Basti ch'il soffro, e non sia men che sole. 

FiL Se tu sentissi del dolor ch'io sento 

la millesima parte^ or pensa il tutto, 
24 forse terresti in giuoco il tuo tormento. 

vita degna di perpetuo lutto! 
Veder tronca la speme e '1 desir morto, 
27 non dico in sul fiorir, ma in sul far frutto! 

decreto del Ciel obliquo e torto! 
Veder ne l'onde sparto il mio bel legno, 
30 poco lontan dal desiato porto! 

Ale. Poiché la terra e '1 Ciel m'han preso a sdegno, 
trovassi un speco, un precipizio, un scoglio, 
33 che di me non lasciasse ombra né segno! 

Deh, s'hai pietà, del male ond'io mi doglio, 
aprimi il petto e '1 cor, trammi d'impaccio; 
36 non darmi col parlar maggior cordoglio! 



15 Ovidio, MeU^ II, 251: « Quodque suo Tagus amne vehit fluit igni- 
« bus aurum »; Am,^ T, XV, 34: « .... auriferi ripa beata Tagi ». Si 
sa, che il Tago era celebre nell'antichità per le sue arene aurifere: 
qui, del resto, tale accenno giunge a proposito, poiché Alcinio d 
spagnuolo. 

29-30 Vecchia metafora, gradita al Petrarca, che ne trasse argo- 
mento d'un' intera sestina (I, 4). « Al desiato porto » si legge pure 
in una sua celebre canzone (IV, 3). 

32-3 EPICURO, Cecaria: « Troverò fors'un fiume, un speco, un 
« sasso I Pietoso a trarmi fuor di tanta guerra, | Precipitando in 
« luogo oscuro e basso » (in Scelta di curiosità leti,, disp. GCSXXV, 
P. 36). 

35 Cosi l'ed. Masi; e bene, al parer nostro. Nella prima: ,.,UpeUo^ 



EGLOGA 5 

Ahi lasso! ovunque vado, ovunque giaccio 
vien chi mi tronca il pianto e accresce il duolo : 
39 non basta, che da me mi struggo e sfaccio! 

Deh, lassami languir e pianger solo; 
poi ch'ai mio mal non trovo altro riposo, 
42 onde da gl'occhi altrui sempre m'involo! 

Fìl. sovr'ogni altro mesto e lagrimoso, 

il non saper del tuo furor mi sciolga, 
45 poi che l'occorso mio ti fu noioso. 

Ma perché a gl'occhi tuoi ratto mi tolga, 
qual è il sentier eh' a la città ne porta? 
48 Dimmel, s'in gioia il tuo gran duol si volga! 

Ale. lì sentier ch'entra a la tartarea porta 
insegnar ti potrebbon gl'occhi miei; 
$1 ch'ogni altra conoscenza in loro è morta. 

Peregrino son io, come tu sei, 
ch'abborrendo città di patrie genti, 
54 trapasso di mia vita i giorni rei. 

FU. Poi ch'ambo peregrini, ambo dolenti, 
spiega per cortesia l'alto furore, 
57 e l'un discopra a l'altro 1 suoi tormenti: 

che se quel che soffr'io non è maggiore, 
è forse eguale; e sai, ch'ai miser giova 
60 paragonar l'altrui col suo dolore. 

Ale. Par che la lingua tua tal grazia piova, 
che, nutrito d'amaro già molt'anni, 
63 oggi mi fai sentir dolcezza nova. 

E ben che l'alma de gli antichi danni 
più col tacer che col parlar s'appaghe, 
66 udrai r istoria de' miei lunghi affanni. 



e H cor trammi dUmpaocto. — Epicuro, Cec.^ loc. cit.: « trammi 
« tu dal cor di sangue un rio! | Deh, non temer, comincia il petto 
« a 'prire », 

47 La città a cui allude Filanto è Nola, come appare dalla chiusa 
dell'Egloga. Nei dintorni di questa, adunque, immagina il Tansillo 
che si svolga l'azione. 



I DLiE PELLEGRINI 

Già santo aprir lo miil mldnta piaglie: 
dell, s'udir brami il mal che si mi noce, 
prega le luci mie, di pianger vaglie, 

che diano il passo a la dolente voce. 

Ne l'inclita, felice , 
(se lodarla a' suoi lice), alma campagna, 
qual natre, indora e bagna il mio grand'Ebro, 
(luel cbe non di ginebro o salci adorno 
ilal mio sacro soggiorno scende al mare, 
ma di fangose, ebiare, eterne palme, 
fra tante bennata aline Aleinio nato, 
come volse il mio fato o mia fortuna, 
non tra superbe mura o vane pompe 
(quel che spesso interrompe il viver nostro), 
non di porpora, d'ostro o d'or coverto, 
ma com'uom ch'era certo, eh' un di toglie 
quanto quaggiù s'accoglie e si raduna, 
in modesta fortuna et umil tetto, 
sìcur, senza sospetto, mi vivea: 
pili lungi non vedea, né ad altro intento, 
ch'ai proprio nutrimento. vita lieta, 
mentre non spiacque al mio crude] pianeta 1 

Come dal Ciel si diede, 
entrai col manco piede in ([uella porta, 
onde non giova scorta per uscire, 



Ba-s L'edii. del 1631, seguits in oió dalla posteriori, legge; ch'indi 
toglU. Ma in più luoghi è scorrell^, e il noetra emendameato ECmbra 
indiapeD&obile. Il T. qui senza dubbio rioordava due vere! del Pb- 

TBAncA (Tr. d. Dtv., 62-3): « Un'ora sgombra | Quel che 'n 

• molfanni appena si raguna », 

8g-93 Epicuro, Cco., ed. cil., p. 57: ■ Disposto dunque a antrara | 

■ per la dolente porta, | Presi '1 desir per scoria; [ Amor mi fu Ca- 
li ronle, ] Ma con Tarcommi per l'usalo Qume ■. Pbtb., II, e. 7, w. ^ 
li: ■ -..Uadonna il manco piede | Giovenetlo pos'io nel costui re- 

■ gag: | oud'allro cli'ìra e sdegno j Koo ebbi mai ecc. 1, Coi maneo 
pleUe, in senso di non CrUU aagurto, è del Ialino. 



ma, chiusa dal desire e da la spene, 
lieti nel duo) ne tiene; e ilontia amai 
leggiadra e bella assai piii che pudica. 
Deh, perché fai ch'io dica, o fler cordoglio, 
cose che dir non voglio in suo dìsnore? 
Quantunque intorno al core o neve e smalto 
in sul primiero ase 
come sovente fassi da e 
come ella e mia fortuna volse, in breve 
e smalto ruppi, e neve dileguai. 
Lasso, che dir mi fai? dirollo o taccio? 
Rivolto in fiamma il ghiaccio, e spente l'ire 
ch'ai mio grato languire fean contesa, 
de la mia dolce improsa ebbi l'amata, 
a chiunque ama grata e cara palma. 
Ecco il dolor, ch'a l'alma apre la via, 
ecco la morte mia; in questo stato 
ricordarmi la gioia e '1 ben passato! 
Lieti, festosi giorni, 
d'ogni vaghezza adorni ; notti mìe, 
vie pili chiare cli'il die, spesso biasmate 
per esser troppo grate e troppo corte; 
avventurosa sorte, stelle amiche, 
riposate fatiche, grata noia, 
soavissima gioia e dolce pena 
d'ambrosia e nettar piena; o solo obblio 
d'ogai tormento mio, care bellezze; 



gyS Due versi che arie^iuno questi ilei Pbtb., I, e. X, vv, 27-31: 
' Dolci rime leggiadre, | che nel primiero assalto 1 D'Amore 
■ itsaL. I Chi verrà mai che squadre | Questo mio cor di smallo 



107-9 DANTB, Inf,, V, 131-3: • . . . . NasBU 
■ cardani del tempo felice | Ne la miseria 

115 Ricorda sopra tutt^i il pelrarytieseo 
affanno b (rr. d'Am., HI, 145). 

116 Anche * dolce pena • ricorre più voi 
s. .Sa). 



r dolore | Che ri- 
ripoao e riposalo 



UVE 



l'EI.l.EURlNI 



soavi dolcezze, quali e quante 
n'ebba mai lieto amante, o aom che ria; 
poi che la donna mìa da me vi tolse, 
ditemi, chi v'accolse? dove sete? 
In Flegetonte o in Lete? Abi, mondo cieco, 
qaal ben durò mai teco? Oi' odi, e nota, 
come l'instabil rota ov'era affisso 
volsemi al cieco abisso, ov'or mi tiene. 
Mentre j^odea il mio bene, e lieto io stava, 
la fé che mi mostrava quost'iniqaa 
vincoa qualunque antica mai si scrisse. 
Quante volto mi disse: Ah mar di gioia, 
quanto veggio m'é noia o quanto ascolto 
ove non è il tuo volto! lo ciò credea: 
miser, non m'accorgea, ch'il falso petto 
copriva altro concetto, altro desio, 
dando a nuovo amador quel che fu mio. 
Pensando a che vo' dirti, 
si aommergon gli spirti, e trema il core, 
e per troppo dolore io mi confondo. 
Deh, se senz'occhi al mondo io fosse nato, 
quanto più fortunato mi vivea, 
poi che veder dovea quel e' ho veduto! 



177-9 Epicuro, Cec, ed. uit.. p. 43: t lo scousolato amava ] Donna 

* che mi mostrava nel sembiaule | Non aver nitro amaat», e per lei 

* giuro, I ch'io vivea ei securo, si contento j Del mio dolce tormea- 

• to, in al bel stato, [ Che mai avrei pensato, ciie ni^ sorte, j Nd ade- 

■ gno, tempo o morte mai bastasse | A far ch'elln mutasse in altro 

• amora | Quel suo fallace core ». 

i.ìo Epicuro, Cec-, ed. cìL, p. S7: ■ o mar di gioie j .... Bido 

■ la terra, il mar, fugge ogni noia | 'Nanai '1 tuo lume e 'nnaiiKt 'l 
•e tuo bel viso eoo. ». 

132-5 GAMCiLAsso DB LA VsaA, egì. I: • Ay quanto me enganavn 
o I Ay ^unn tlilTeranle era j Y quan de otra manera | I.o que en tu 
- falso pecbo se escondia > {Obras, Salaiuanca, 15S1, e. 40»). 
L'imitatore, come s'è mostrato nell'Introduzione, dovett'easere Qar- 

CllBSSO. 



Ma bì largo tribato avrò da loro, 



che, 1 



a principio Wro a tanto affanno, 
piangendo d'anno in anno in maggior vena, 
avran ila far la pena col peccato. 
Se '] Cidi cangi il tuo stato, basti questo; 
non mi far diro il reato, non per dio! 
Perchó (le l'esser mio pietà s'avesse, 
vorrei ch'ognon sapesse il mio cordoglio, 
ma quel per cui mi doglio fosse occolto. 
Anni il contrario, stolto, par che preghi, 
quantunque ad altri il negbi, e tragghi appresso. 
Negarono a me stesso, a chi piti tocca? 
Benché chioda la bocca, e taccia il vero, 
tacerallo il pensiero? A che piti '1 celo? 
Cosi il sapesse il cielo, il mar, la terra, 
quanto fra l'un si serra e l'altni polo, 
e no '1 sapesse io solo, di ciò tristo! 
Cosi l'avesser visto uomini e dei, 
e fosse stato occulto a gl'occhi miei. 
Ahi, madre mal accorta! 
Poi che il veder m'apporta un si gran pondo, 
perché senz'occhi al mondo non mi iJesti? 
Un di ritrovo questi,.. pena atroce! 
già mi tronca ia voce il troppo duolo ! 



No ay coraeon que baste, 1 A»;n(iue 
li amsda yedra | De mi arrancada, 
' en olro muro aaida, { Y mi parrà en otro olmo entrelsiida, { 

• Que no se esle oon Uanlo desìiaiiendo | Hasta acabar la TÌds. | 
« Salid sin dUBlo lagrimaB corriandir . {ed, cit, e, 41 a). Pcobabil- 
menla qui lo Spagnuolo imitava il nostro, e a aua Tolta questi ri- 
peteva nn motivo poiiolare. Sehaf™o bbll'Auhila, Opera ecc., Ve- 
nezia, 154S, e. 155; • 11 boa campo cbe arai con sudar tanto | Un 

• altro a pieno l'ha ricolto io erba, | La vite oh'io posi all'nrbor 

• santo I Va altro ha vendemmiato l'uva acerba ». Cfr. D'Ancona, 
La poesia popaU iiaL, Livorno, 1S78, p. 161 sgg,; S. Febuari, Blbt. 
(il lettefaL popol. ital^ Firenze, 1SÌ7, I, 296. 

165 Ovidio, JUcC, XUI, 5J^o: > Vocem,,. devorat ipie dolor ■, 



^^H^ 


I J'ELLEGRINt ^^^^1 




L;i vite da nie solo amuta e colta ^^^H 




vidi in altp'olmo avvolta, e'n gioia e in pace; 1 


^^1 i68 


l'edera mia seguace dal mio scinta | 




e ia altro muro avvinta i vagbi rami, J 




cli'erano miei legami; e i torti passi ^^^M 


^^1 i7[ 


viJer f]uesti occhi, lassi, e non fìi sonno! ^^^^| 




Da indi in qoa non vonno altro che piatito, ^^^H 




Il duol mi viuse tanto in qnel momento, ^^^H 


^^H >7J 


che, de la vita spento g fuor de' sensi. 




non fai quel che convensi a tant' ingiuria. 




L'alma, per troppa furia albata e mossa, 


^^B 17? 


mandò per dentro l'ossa un tardo orrore. 




ch'i! naturai calore a »(' raccolto, 




quasi di vita Ecìollo caddi a terra. 


^^H 


Lasso, in qaal si sia guerra a cai si pento ^^— 




si perdona sovente ogni altr'ofTesa; ^^^H 




ma chi l'iniqua impresa avien che segua ^^^H 


^H >S3 


come può dimandar pace né tregua? ^^^H 




N<^ già contenta ancora ^^H 




d'aver spent'in un'ora ogni mia gioia, ^^^H 


^^1 i86 


per farmi maggior noia andù pili avante, ^^^| 




et al novello amante, a cui l'ingrata ^^^È 




di s6 parte avea data, dii?de il tutto. ^^^M 


^H '^9 


Crudele, è questo il frutto? E la mercede ^^^| 




de la mìa cara fedo questa è dunque? ^^^^| 




misero chiunque in donna spira! ^^^^| 


^H '9^ 


legge iniqua e dira, desìr tortol ^^^^H 




Senza che fuase morto il ver signore, ^^^^| 




far nuovo possessore e spogliar lui ! 


^^^^B395 


Qual rimane colui, ch'in mezzo ai campi, 




dopo a'coruschi lampi e '1 tuonar spesso. 


^^1 >73 


Dante, Purg,, v, 136: quando il ilolor mi vinse ». 


^^H 175 


Lo stampe ftr. 


^^V 


Intendi; jin torpore. 


^^B 191 


Inleniiìi Mfu, ptilptla. È maniero ardite, nuova ai lessici. 


^^H 195^ OVIDIO, Tr. I, ni, H-a: • Non aliUr stupui, (jusm qai, Jovig | 


^H 


bus iotns, 1 Vivlt et est vilse ceseius ipae sune >. ■ 



EGLOGA 
cader si veggia appresso ov'ei si trova 
la saette di Giove; tal rimasi 
dopo gl'acerbi casi io sconsolato, 
de la terra gettato al duro grembo, 
e avvolto d'un nembo oscuro e denso. 
Mentre gli spirti, il senso ivano errando, 
quella parta cercando ch'è pili interna, 
per far mia voce eterna di querele, 
la donna mia crudele e *1 mio rivale, 
l'onor posto in non cale, fuggir via. 
Dove ella gìssa via, dov'ella fosse, 
non so, da l'or cha mosse l'empio passo. 
In cotal guisa, lasso, fui deluso, 
da l'empia donna esclusa e d'ogni pace; 
ma, quel che più mi sfaca, o fatto strano! 
cavai me con mia mano e posi altrui 
nel gioco dova io fui; giusto dolore, 
la cui memoria il core ancor mi struggo. 
Lasso, ella l'aima fUgge da le membra, 
ogn'or elle si rimembra di quel giorno! 
Né trovo altro soggiorno cli'il mio pianto, 
che mi consola alquanto, e sempr'ò meco, 
clic per gran lacrimar son quasi cieco. 
Fit. Cosi cieco son io, 

poi cbo l'almo sol mio qui non riluce. 



211 falò, corregge l'ed. Masi; senza necesaiLò, i:i pari?, 

215 Giogo, coi'rcggs la stessa; ma, com'd chiaro, iiii{iro|)rlaiaenU 
(cfr, i TV. 330, 33S, 5^4-27). 

atj-9 Anche nella Oeccu'ia clell'I^picuRO (ei). ciL, pp. 45-6) il Gelo- 
so, rilienssnilD al tradimento ilella sua donna, csclains: « Giorno in- 
• fausto ed amaro, e pien dì noia, | Ch'ogaì min festa a gioia, ogni 
« mio canto | Ratio voltasti iu pianto ed in qusrelel ». Egli, par non 
vedai'o <c la cagioQ d'ogni iva morte >, s'è accecato. — Imitando, il 
T. finge Aleinio lìiaii cteo'i e, ad ogni modo, scontento di non es- 
ser nato tims'occhi (vt. 161-3). 

aao-i SAnhAjArO, Arcadia,, ed. ScheriUa, ji, J68: • .... quella | Che 
■r. cieco mi lasciò aenxa il suo lume >. 



^^H^ 


1 


1 DUE PELLEGRINI 


^ 


^^M 




ma ili sue nove luce ba il cielo adorno, 
tacendo il breve giorno eterea notte; 
COBI fur svelte e rotte !e radici 




^^H 




de' miei deslr felici, l'alte cime 

del mio sperar sublime andar sotterra ; 

cosi dal cielo in terra fu il mio salto. 








Ben ch'il cader fuss'alto, peggio fla; 
che la mina mia non vede il fondo. 
La bell'alma da! mondo dipartita, 
vago di cangiar vita tanto amara, 
la patria a tutti cara abbandonai, 
né da quel giorno mai ver lei son volto. 




^^H 




Di neri panni avvolto e di duol pieno, 
albergando al sereno, al verde, al chiaro, 
ad ogn'altro più caro ch'a me stesso. 




^^M m 




sconosciuto, dimesso, afflitto e vile, 
seguendo il duro stile cli'alior presi, 
cerco gl'altrui paesi disperato; 




^^H 240 




uè vo deliberato in parte alcuna, 

ma la cieca Fortuna e '1 pie mi mena. 

Kcco qual ó la pena e '1 dolor mio! 




^^V 34} 




Or vedi tu, per dio, se giustamente 
sovr'ogni altro dolente io mi querelo. 
Dico, cbe sotto il cielo ad uom non lice 




^H n6 




nomarsi più infelice: è più beato 
ognun di me, nessun più sventurato! 






Aie 


Per queUa bella e dispietata donna, 




^^L 349 




ch'andar mi fa si lagrimoso a mesto, 

peregrin mio, ti giuro, 

ch'ora che tue fortune ho ben notate, 




^^B 




quant'avea di me duol, di te ho piotate. 

De l'altrui mal quel solo 

ha compassion, che sa che cosa è duolo. 






Sua, 


«oKa, corregga l'ed. Masi. La atamita del 1631 lia '«cf 




^^^H 335 n verdt, il Ehtaro, le stampe, eccetto l'ed. FerraPif, 




^^H 336 


a nota al v. 320. 






■ 


^^ 


ì 



EGLOGA 

2)5 Ma, tra la tua pietade e '1 mio dolore, 

mi scalda il petto un raggio di furore, 
udendo dirti, ch'il tuo stato ó tale, 

sjS ch'avanza ogn'altro male. 

lo dico, che non é, né fu, né fla 
morte pili fiera de la vita mia. 

261 FU. Deh, per pietà, no '1 dire! 

Ogni gran duolo in sino al giorno estremo 
può divenir per la speranza scemo: 

264 la cagion de! tuo mal, menlro che vive, 

perché mutar può strato, 
ti dà sperar, non che di te ti prive. 

267 Ma io, dolente, cieco, sconsolato. 

con qual speranza scemerò il martire? 
S'oscurato è 'I mio sol, morto il mio bene, 

270 chi mi pnO dar piti lume o trar di pene? 

Ale. Anzi la speme è quella 

ch'ai mio lungo martir da nutrimento. 

273 Perché non ha rimedio il tuo dolore, 

mancando ei da se stesso a tutte l'ore, 
non può lunga station languirsi al vento. 

276 Ma io son diventato un nuovo Tizio, 

che non I10 Rne al mio perpetuo esizio; 
mai l'un di due da me non si divide, 

279 e la speranza mi ritorna in vita; 

cosi la pena mia si fa infinita. 
FU. Acciò che d'ambidue 

281 qual sia maggior si mostri, 

paragoniamo insieme i dolor nostri. 



267.8 Epiccho, Cee^ ed. cit^ pp. 42-3: * Aimè, che 1 duv>I che l'ul. 

• ma ogaor mi preme | Non ai puù disfogar; cbé gli è Gt grava, | 

• Cti'à fuor d'ogni conforto, d'ogni spemel >. 

376.80 Ovidio, lipp. ex P,, I, II, 39-42; • Vivimua ut senati nun- 

• qaam careamus amaro: | Et gravior longa fit mea poena mora. | 

• Sic inaonsumtum Titji aemponiue renascanB 1 Non perit, ul posait 
< saepe perire, Jecur ». Gtr. anche Ousbo, Od., XI, 576-81 ; Loorssio, 
He r. n., HI, ^i-gi; ViaaiLio, En., VI, 595-600. 



^^r 


1 


1 \>VE PELLEGRINI ^^^^| 

Ambe le danne fer da noi pipita: ^^^^ 


^H 28i 




la tua si fé' d'altrui, 1 

la mia lasciò la vita; 

tanfo dunque il tuo mal del mio man forto. 


^^m 




quant'è meu duo! l'invidia cbe la morto. 




Mr 


Un è '1 giusto dolore, 
un è 'l pensier eh' a lagrimar t'invita: 


^^^È iqi 




pensar che la tua donna è fuor di vita. 
I miei Bon mille e mille e mille ognora: 
il ricordar quant'ho per lei sofferto. 


^^H 




il guiderdon tanto contrario al merlo, 
e, quel ch'il mio dolor fa sempre nuovo, 
l'ingorda gelosia, ch'ognor m'interna: 


^^H 397 
^^H 




ridurmi a mente il giorno 

che, me lasciando, in man d'altrui si diede, 

mirar la rotta fede e l'altrui frode, 

pensar sovente « ahi lassol e chi sa, s'oru... 

se quel per cui m'affliggo altri ai gode? p 

Quanti pensier, quanti concetti movo, 


^^H 




tanti martir, tanti tormenti provo. 




FU. 


Amor, quand'egli alberga in cor gentile, 
quand'ha quel ben che s'ama, qual s'intende? 


^^H 




Per aie l'intendo io tale: 

amar tuo bene e disamar tuo male, 

e eh' un medesmo duolo ambedue offende. 






Or se quell'idei mìo, se quel tesoro 
veggio morir, non vuoi che mi sconforte? 
Quanto è maggior d'ogn'altro mal la morte, 
tanto convien che sia 
maggior d'oga'aitro duol la pena mia. 


^^B 3'i 


Ale 


So non ti apiace il dire, 

il nome tuo mi sarà caro udire; 


^^^^B 300-1 Ariosto, Oi'i. fitr^ I, 44: < Ali fortuna ccudel, fortuna ingru- J 




1 TriOD&Q gli altri, e ne mor'io d'inopia! >; parole di Sacri- 1 


^^^1 


geloso d'Angelica. SsBAriKO, loo. cit.: • Co» passando lamia 1 


^^^^ i vila rode | Cli^ un nitro iadegno li misi itenti gode >. M 



lìGLOGA 

cha sappia almen, partito che sarai, 
de l'essor tuo, come del mio tu sai. 

FU. Sa la memoria, che 'I dolor m'ha tolto, 

non m'ha quest'altro aocor posto in oblio 
Kilauto al tempo lieto mi nomava, 
ailoF ch'il mondo e me mcdesmo amava: 
or cha dolente e sconsolato vivo, 
e son del mondo e di me stosso privo, 
qua! aia non ti so dir, ch'ai non mi lice; 
ma vedo ban, che misero o infelica 
ben ragionevol lia ch'ognun mi nome, 
poi. che qual è la vita tal é il nome. 

Ale. Fil^mto mio, vói dunque, 
ch'io languisca contento 
di quel che a lui dà gioia, a me tormente 
No 'I posso far. Quanto è 'I mio di 
ogni volta ch'io penso, 
ch'io vivo vita dolorosa et egra, 
o di quel che m'attristo altri s'allegrai 

FU. Rtm ch'il gioir sia tolto, 
pur de l'amato volto 
t'é rimasa ]a dolce e cara vista. 
Ma io, che, privo del maggior mio bene, 
di quanto il ricco mondo in sé ritiene 
cosa non veggio mai, 
che mi conforti ad altro ch'a trar guai, 
e d'accrescermi duol cagion non sia.... 
pensa, qua! essei- può la pena mia! 

Ale. Alii misero, e che dici? 

Anzi, il vederla a me l'olente fore 



320-1 Filaulo, gr. ^dauTo;, signillea appunto oìnatorc di a. 

335 Ch'a, l'ed. del 1631. 

330 Di gioia, la slessa. 

339-41 Petb., I, c. 3, tv. 95.6; ■ Tal ch'io non penso 'trlii' e 

343 SE aannuaenni, l'ed. dei 1631. 
345 Fora, le slompe. 



^^r 


1 


1 DUE PELLEGRINI ^^^H 
un inasprir le piaghe a tutte l'ore! ^^^^H 
E qua! pena è maggior, qual duot piti rifv^^^^H 


^H 34R 




ch'in mano altrui veder quel che fu miof^^^^H 


^^^B 


FU. 


Et io, qua! fldo amante, ^^^^H 
d'ogni grave martir lieto vivrei, ^^^ 
G'il mio bel eoi splendesse a gli occhi miei; 
chó già molt'anni eon, die, di lui privo, 
per maggior duol, non già per viver, vivo. 


^^F 


Me. 


Non è dolor si grande, 

cta'a poco a poco il tempo via no'l mande: 
pili antico essendo il tuo del mio dolore, 


^^H 357 




convien ohe sia minore. 




FU. 


Anzi, il contrario par cagìon ch'io dical 
Parche la piaga è antica, 


^B j6o 




non è rimedio che sanar mi possa; ^^^ 
ch'il male è penetrato in sino a l'ossa. ^^^^H 




Ale 


Appaga il tuo cordoglio ^^^^H 


^H 36$ 




sol in pensar, che, se da te si sciolse ^^^^| 
tua donna, Dio, non uom, te la ritolse. 




FU. 


Et io per ciò mi doglio! 


^H }66 




Ch'aliar il mal pili pesa, 

quanJo t'offende chi non teme offesa. 




Ale 


Per cortesia, Filanto, 


^H 




noa m'esser nel contender più molesto: 
perch<3 a forza d'essempio di ragione 
il mio dolor non cede; 


^^B 




ch'altro che quel che sente il cor non crede. 
Qual rabbia, qual furore e qual disdegno 
puote agguagliarsi a questo: 


^^M m 




veder in man d'altrui quel guiderdone, 
di coi le mie fatiche mi feitn degno? 




FU 


Perch'il parlar t'annoia, ^^^ 


^1 




rispondi a questo, e fin tal lite corta: j^^^^| 


^^H 


w 


caglon. le Klampe. V 


^^B 


Ovi 


DIO, ««■., XV, 276: • .... aescandit vulnus ad ossa mento •, 1 


^^^H 378 Ricorda il iielrarcheEco • e Un '1 uombatler corto >. M 



EGLOGA 17 

vorresti che tua donna fusse morta 
allor che nel tuo amor vivea costante, 

581 per non vederla in man d'un altro amante? 

Se dirai no, tu affermi eh* il dolore 
che vien da morte sia del tuo maggiore; 

384 se dirai si, quel ch'a lei noce brami, 

e, bramando il suo mal, dunque non Tami. 
Ale, Avea più gran desio 

387 di pianger sol, che di contender teco! 

Poi che Fortuna qui volse guidarte, 
vaga ch'oggi il mio duol forse s'estingua^ 

390 lasciando del parlar l'alta contesa, 

cosa ch'ai mio doler si disconviene, 
delibero con l'opra dimostrarte, 

393 ch'il mio dolor avanza le tue pene. 

Non so, s'a tanta impresa 
la mano avrà l'ardir ch'ebbe la lingua: 

396 io vo' dinanzi a te darmi la morte; 

perché conosca, che mia dura sorte 
m'addusse a tal, che, forsennato e cieco, 

399 desiando al mio mal porgere aita, 

stimai miglior la morte che la vita. 
FU. Né vincerai con questo; 

402 che per finir un duol lungo e mortale 

la morte è lieve male; 
anzi, chi vive in doglia 

405 la morte è '1 maggior ben ch'attender soglia. 

Ond'io, per non mostrarmi da te vinto, 
se fui secondo al detto et al pensiero, 

40S sarò al morir primiero. 

Cosi dal miser corpo, a forza spinto, 
questo spirto infelice uscendo prima, 

411 al tuo fia scorta nel tartareo clima. 



379 Vorreste, l'ed. del 163 1. 

411 Tartareo clima , per inferno, è maniera che i lessici regi- 
strano appunto con quest'esempio del Tansillo. 



l8 I DUE PELLEGRINI 

Ale. Op quelito non fla mai! 

Rigido ferro, va, sprigiona Palma, 
414 fa' che di tante morti io porti palma. 

Alma, va via, non ti doler; tu sai, 

ch'un viver come il nostro, pien d'affanni, 
417 non sperava altra fin dopo molt'anni. 

FU. Deb, ferma, per piotate! 

E, se ti mosser mai lacrime e prieghi, 
420 fa' ch'oggi al pianger mio più non si nieghi. 

Poi che nostra ventura 

vagando n'ha congiunti in questo bosco, 
423 già destinato a nostra sepoltura, 

disposti ambo al morire, 

fammi la vita mia prima finire. 
426 Non ch'io contenda, e voglia nel dolore 

mostrarmi vincitore; 

anzi mi dò per vinto, e me'l conosco; 
429 ma bramo andar per la medesma via 

a ritrovar la morta donna mia. 
Ale. Perché morendo io prima, 
432 avendo in ciò sbramato il fior desio, 

mi dilettava; acciò ch'ai morir mio 

non abbia né diletto, né contento, 
435 adempì il tuo voler, che te'l consento; 

e visto il modo onde tu pria morrai, 

potrò morir più fieramente assai. 
438 FU. Deh, per mio amor, mentre cerchiamo il loco 

al morir nostro comodo e secreto; 

come coloro a cui il morir duol poco, 



413 Ovidio, Rem. A., 19: « Gur aliquis rigido fodit sua viscera 
« ferro ». liigicltts ensUi è anche di Virgilio. 

421 Avventura, l'ed. Masi. 

432 In ciò bramato j le slampe. 

438 Cercamo, Ted. del 163 1. 

440 A coloro, la stessa. 

438-45 Epicuro, Cec, ed. cit., p. 69: « Dunque che resta, | Se non 
« morir a l'uom eh' è fuor di speme? | Ma pria con voce lacrimosa 



EGLOGA 19 

441 andiam cantando alcun bel verso lieto: 

e se d'umana orecchia U loco è voto, 
alla terra et al cielo almen fìa noto, 

/|44 quanto è contraria a gli altri nostra sorte; 

che ciascun piange, e noi cantiamo, in morte. 
Ale. Forse, vista la gioia 

447 che n'apporta il morir, la morte ria, 

vaga del nostro mal, fuggirà via. 
Ma come può fuggire? 

4>o II viver può vietar, ma no'l morire. 

Comincia, orsù: ch'io, presto nel seguire, 
non mi trarrò dal dire; 

453 se ben dissona il suon, che gloria e fama 

non vuol dal canto chi la morte brama, 
né a' sensi nostri, di morir ingordi, 

456 convien canto ch'accordi. (*) 



« e mesta | Facciam come li cigni in la lor morte | L'esequie a no- 
« stra vita atra e funesta ». L'imitazione è patente; soltanto, il T. 
sostituisce all'elegia un canto lieto. 

446-50 Sottigliezza di ben cattivo gusto! Non punto migliore que- 
sta, all'istesso proposito escogitata dall' Epicuro {Cec,, ed. cit., p. 73) : 
« Morte aspettata, vieni; | Ma fa' che venga si secreta e lenta, | Che 
« '1 tristo core il tuo venir non senta: | Perché tanta gran gioia | 
« N'avria del tuo venire | Che non potria morire | ecc. ». 

454 Che la morte, le stampe; ma la correzione ci pare ovvia e 
necessaria. 

(*) Qui tutte le stampe inseriscono la seguente Aggiunta del G.\^ 
PRiGCioso (l'editore del 1631): 

Amor, se sei di ghiaccio, 

come puoi tu bruggiar senza del foco? 

Amor, se non hai laccio, 

stringer come potrai tu a poco a poco? 

Noi crediate, amadori; 

che son lacci i suoi crini e l'ali ardori. 
Amor, se sei tu affanno, 

come lusinghi il core e nutri il seno? 

Amor, se sei tiranno, 

come hai tu l'occhio di dolcézza pieno? 



20 I DUE PELLEGRINI 

FiU A che pili lungo indugio? 

Or qui si ponga fine al viver nostro. 
4S9 Ferro, di pianger mio solo rifugio, 

apri de Talma il tenebroso cbiostro; 

eccoti il petto ignudo, 
462 ecco la via del core. Oimè dolente! 

II core, ho detto? Ahi lingua sciocca e ria, 

or non sai, eh* ivi stassi la mia diva? 
465 Perché, s'al mondo è morta, in esso è viva. 

ditta, mano omicida, il ferro crudo! 

sol degli occhi e de la vita mia, 
468 perchó so veramente, 

che qui con la sua man ti pose Amore, 

per non offender te, perdono al core. 
471 Ale. Ron tenne lungo tempo 

la fìera donna mia nel mio cor regno; 

ma insieme col diletto 
474 sen gi'o fuor del mio petto, 

e sol ne la memoria si riserba: 

che sMo credessi certo, 
477 ch'ella vi fusse, or come avrebbe ardire 

hi mano di ferire? 



siate avvertiti, amanti; 

che nel miei ave il ilei, ne i guardi i pianti. 
Amor, se morte sei, 

dimmi, come da te può uscir la vita? 

Se doni aflanni rei, 

come ti puoi chiamar gioia gradita? 

Si si, ch'ancide il core; 

ma la morte è vi lai, gioia il dolore. 
Amor, se sei tu foco, 

come pace puoi dare e pene estreme? 

or dimmi, se sei gioco, 

come in un punto e vinci e perdi insieme? 

Si SI, giocate, o ardenti; 

ch'il perdere è piacer, foco i contenti. 

467 E sol, l'ed. del 163 1. 



Or poi che fu ei altiera e si superba, 
cl)6 cosi lido albergo prese a sdegno; 
aprendo lui, farà l'anima uscire: 
perché conosci aperto, 
cli'ella fu del mio cor gì dolce salma, 
elle, partendo da lei, si parte l'alma. 

FU. Or ecco il mio riposo: 

quest'alta quercia della morte mia 
ministra e testimonio io vo'cbo aia, 
Non ti silegnar, o albero ili Giove, 
di dare al corpo mio grato sostegno, 
bencbé sia miser peregrino indegno; 
non ti sdegnar, mentre la carne [angue, 
soffrir le macchie del ciio sparso sangue. 
Forse, Colui che '! tutto tempra e move, 
mosso a pietà del caso lagrimoso, 
chi sa, s'ancor potrta, 
cangiato il volto e l'invecchiate chiome, 
dar a mia morte e a te perpetuo nome? 

Ale, Et io, ben che disposto 

era a trar l'alma fuor del career cieco 

col duro ferro e col mio propio braccio, 

cr son contento di morir qui teco 

ne l'arbor stesso e nel medesmo laccio: 

perché, mirando i corpi morti nostri, 

chiaramente si mostri, 

che ne fu data in sorte 

egual doglia, egual vita et egual morto. 



4S3 Atbei-e, la stessa. 

488^7 OVIDIO, SleL, IV, 158*1: • Al tu, qune raniis orbor inisB 
■ bile corpus | Nunc tegls unius, mot es lectura duorum, | Signa U 
1 cacdix, puUosquB et lucUbus aplos | Semper hubo Totus, gemini i 



e urna, dirà 
luti ! I Felici 



^^r 


1 


1 due: ^^^^^^^H 


^^1 ;°7 


Fi7. 


Alcinio, Cirio moia, ^^^^^^^^H 
ss non ti spiiìcs o duole, ^^^^^^^^| 
io vo' ridurmi a mente ^^^^H 






le divine bellezze, cli'avea s^co ^^^^H 
la balla donna per cui vivo cieco: ^^^^| 
non già con le parole, ^^^^| 
parchi^ troppo il morir prolungherei, ^^^H 
ma col pensier, tacendo, dolcemente; ^^^H 
non ch'io Eperi scemar i dolor miei, ^^^H 


^H 




ma acciò, pensando i^nanto più fu in lei ^^^H 
la beltade, il valor, la leggiadrìa, ^^^| 
tanto Bi faccia piii la doglia mia. ^^^H 


^H S<9 


Ale. 


Anzi io, se t'accompagno ^^^H 
al duolo e al morir fiero, ^^^H 
accompagnar ti voglio anco al pensiero. ^^^| 






Non per riposo, ma per dar più loco ^^^H 
a l'instabil pensier, posiamci al rezzo; ^^^| 
et io fra questo mezzo ^^^^| 
TO' Fìcordarmi tiuanta festa e gioco, ^^^| 
quanta gioia e dolcezza ebbi già mai, ^^^H 
dal primo di che la mia donna amai; ^^^H 


^H ;2S 




acciò che, rimembrando il ben passato, ^^^^| 
cresca l'angoscia del presente stato. ^^^^| 




FU. 


Deb, taci, hngnal Ahi lassol ^^^| 


^H 53' 




tntt'altro con silenzio ho trapassato; ^^^^| 
ma giunto a quei che cieco m'hau lascia to^^^^J 
a voi, dico, occhi, dova Amor fea nido, ^^^^| 


^H 5!4 




io non posso alTrenar la voce e '1 grido. ^^^^M 
lumi, stelle, o sol de gli ocelli miei, ^^^| 
or, s'oggì vi mirassi anzi il morire, ^^^^| 


^H 537 




con quanta gioia l'alma nscir farei! ^^^^| 
Luce del mio pensier, ben posso dire: ^^^^H 
da che pose a voi Morte eterno velo, ^^^^H 


^H ;4u 




per me rimase senza sole il cielo. ^^^H 




^^1 • co 


nsum 


i; { e: iniBnt'era mio vita ailor giotoia, j M'insegni la prs- 1 


^^^L • Beale aspra a noiosa >. J 



EGLOGA : 

Ale. Lasso, ch'io pnr passava 

sen7^ querela e-senai pianto il tutto; 

ma, ricordando il primo giorno e l'oi-a. 

che la speranza mia proilusse il frutto, 

tacer non posso, nó'l parlar mi giova. 

fausto giorno, che spai'gesti fuopa 

ì tesori d'amor gran tempo ascosti, 

qua) lapillo si candido si trova, 

che segnar ti potesse tal qual fosti ? 

n fauato gtorno, ond'io beato fui! 

(lime infelice, e quanto fu diverso 

da te quel ài perverso, 

che io vidi ogni mio bene in man d'Liltruil 

Due giorni posso dir che fer mia guerra r 

l'un m'alitò in ciel, l'altro mi spinse a teiTii. 

FU. I.usBo, chi puf) tacere? 

Orsù, corainoia a dir, saziati, lingua, 
pria che la voce con la vita estingua; 
vaghi pensier, pinguta con parole 
l'alta beltA del mio oscurato sole. 

Ale. Et io tacor vorrei? 

Comincia, lingua mia, prima ch'io moia, 
a raccontar ogni passata gioia; 
però sii accorta, ch'il parlar sia tale, 
che, raccontando il ben, non scemi il male. 

fi'/. O vaghe chiome, o lacci ilei cor mio! 

Non eran quei leggiadri e hei capelli, 
per dir il ver, di color d'ambra o d'oro, 
come convien cii'in bella donna sia; 



S4S PbtR., ti, C. 4, vv. i-a: " Tuoer non posso, e temo non ado- 
" pre I Contrario entello la mia lluj^ia al core ». 

548-9 11 T. Si ricMama alla nolisEima UGiinxa degli anlìdii di se- 
gnala albo lapillo i giorni fausti. 
559 Ptaingtte, l'ed. del 1631. 

569 Chi non sa, clie il tipo tradizionale della lu^lleiza muliebre 
u pei tapelH il uolor biondo! 11 vecchio coshune della donne, 
e esposte al Eole per dare alla capiglìatnra eodesla tinta, 



24 I DUE PELLEGRINI 

570 ma d'un mezzo, fra'l biondo e*l nero, tinti. 

Nò ti sia meraviglia, s'eran belli: 

che, come l'armonia 
573 col variar di voci ha più dolcezza, 

cosi'l candido volto e'I vago crine, 

dal bel color distinti, 
576 Tun dava all'altro via maggior bellezza. 

Ale, terso, puro, crespo e lucid'oro, 

quanta gioia provai, 
579 quante volte beato anco chiamai 

il giorno ch'il mio cor fra te s'involse! 

E tu, cor mio, ch'il ver non mi giuravi, 
$82 quando fra quei bei nodi lieto entrasti, 

ch(S t'era un career tal si lieto e caro, 

ch'il goder libertà pareati amaro; 
585 poi ch'altri ivi legando, te disciolse 

l'iniqua donna, misero, che fai? 

Perché non mandi àgli occhi tanto umore, 
388 che piangan la mia morte e'I tuo dolore? 

FU, Onesta e chiara fronte 

fra tempie di cristalli e di diamanti, 
591 scudo di castità, specchio d'amanti, 

dove sovente ho letto 

quant'ho d'amor pensato e quanto ho detto; 



era divenuto nel cinquecento una vera arie, l'arte b tondeggiante, di 
cui ci son rimaste innumerevoli ricette (cfr. R. Renier, Il tipo este- 
tico della donna nel medio evo, Ancona, Morelli, 1885, pp. 133-35). 
« De'capegli delle donne, scrive il Firenzuola {Opere, Pisa, Gapurro, 
1816, ir, 232), il proprio e vero colore è esser biondi ». Anche T Epi- 
curo, probabilmente imi In lo qui dal T., suppone nei capelli dell'a- 
mala d'uno dei tre ciechi im colore diverso dall'aureo: « ..... non or 
« lino, I :Ma un non so che divino li 'ncolora, | Gom'al venir l'aurora, 
« in mille modi » {Cec, ed. cit., p. 47). 
589-93 Epicuro (Ccc, ed. cit., p. 47): « La sua vaga Tronferà | 

« Pura, serena, altiera, un specchio raro \ Ov'io scritto leggea 

« ogni concetto | Gh'aveì??e chiuso in petto | ....Specchio del naio gioir 
« do' miei tonuf^nti ». 



tranquille ciglia, anzi iavittissimi ardii 
ne l'onde stigìe tìnti, 
de' cui strai di mìe piaghe in copia spinti 
porto ancor l'alma, el cor, gli spirti carchi; 
ben si può dir da chi più voi uon mira: 
Amor la eorda e l'arco indarno tira. 
Ale. Sincera e lieta fronte, 

oblique ciglia... oimè, di die ragiono? 

In dir di lor aovviemtni il tempo e'[ loco, 

che prima apersi il mio coverto foco. 

Io vidi al primo suono 

de le tremanti e rotte mìe parole 

quella serena fronte perturbata, 

strìngersi in pieghe il bel ciglio raccolto, 

come orgoglioso adegno pinger suole; 

poi, sabito cangiato, 

dipinto di pietà vidi il bel volto: 

onde mi fé' soavemente insieme 

agghiiicciar di paura, arilor di speme. 






(PP-47 



ì> u anquille ciglia | Era la mei-a- 
re I Ad ugtt invitlo core nrdito e 
d m e, d o doleiila | Con. l'invaghita manie 
d a tr scorsi presso al varco. | Amor fe'i 
ni Per far di mo più scempio e piti 

eon giro che mostrava I Nel petto m'av- 
eo ance al, dardi, foly^r, Samme a fuoeo ■ 
P n gendo gli occhi | Delle superbo ci- 
■ glia al vivo nero | Tinte in l'onde d'Oblio eco.» (p. 59)- Il T., 
con pjfOprieUi maggiore, alle acquo di Lete Uà eoatituìto, imitando, 
quelle di Slige, celebri per la loro tinta Tosca, boccàccio, Antelo, ed. 
Moutier, XV, p. 30: ■ Alla 'lUnle |(^gate] ciglia sottilissime in Torma 

• d'arco, non molto di lunga, di colore stlgio sottostare disoer- 
r ne ». — Auobe I'Abiosto, Ori, Fur., VII, la, aasicura clie sotto i 

• duo negri sotliUasiml archi ■ d'Alcina « p»r ch'Amor scherai h 
voli, I E ch'indi tutta la faretra scarchi •. 

602 convummi, le stampe. Ma cerio si traila d'im error di let- 
tura, (scile a spiegarsi, del pnmo edilore, ripetuto papagalleacamenlB 

603 Al/erse, le alampe, 4 



26 I DUE PELLEGRINI 

FU. Occhi soavi.... ahi lasso, e che diss'io? 

Occhi? non occhi; e che? non so che dire. 
615 Ancor che da la terra io prenda ardire 

poggiar al ciel, che fo? S'io dico « stelle », 

mento; non fur già mai, né fian si beile; 
618 s'io v'uguagliassi al sol, nulla direi, 

perché già l'ho vist'io con gli occhi miei 

porsi di nubi un velo. 
621 Che dunque dir potrei? 

Perdonate voi stessi il fallir mio, 

se non ritrovo il come; 
624 che la troppa beltà v'ha tolto il nome. 

Ale, Occhi miei, che gran tempo 

de l'altezza d'amor portaste il vanto, 
627 mentre benigna apparve in ciel mia stella; 

qual dolcezza era quella, 

quando, al mirar de' lumi onde sempre ardo, 
630 si feano incontro l'uno e l'altro sguardo, 

e, come in vetro appar quel dentro fuori, 

cosi negli occhi traluceano i cori! 
633 Occhia che gli occhi miei lasciaste in pianto; 

se voi fusto cagion del viver mio, 

or come senza voi viver poss'io? 
636 FIL Chiare, vermiglie guancie, 

ove sovente ho visto in spazio breve 

lucere il foco e biancheggiar la neve! 
639 Amor, la vita mia durerà poco, 

come già vedi e sai; 

ma se cent'anni ella fermasse il piede, 
642 per altra donna mai 

non bastaresti a riscaldarmi il core. 

Com'esser può, -eh' un arda senza foco ? 



631-2 Petr., I, s. 64: « Poi che vostro vedere in me risplende, | 
« Come raggio di sol traluce in vetro »; I, s. 97: « De l'alma che 
« traluce come un vetro » ; I, e. 7, vv. 5-6 : « Dentro là dove sol con 
« Amor seggio | Quasi visibilmente il cor traluce ». 



Coma può desiar un che non arde? 
Poi ch'il vermiglio e candido coloro 
nel volto del mio sol piii non riluce, 
tu non hai flemma, et io non Lo più luce. 

Aie. Care et amate guancia, 

mentre fiamma a desire 

eguale in noi s'accese^ 

quante fiate, ahi lasso 1 

mentre che Amor di voi mi fu cortese, 

tutto il ben che gli amanti oggi trastulla, 

posto con quel oh'ehbi io, sarebbe nulla! 

Or che di voi soa casso, 

tutto il martir, eh' è nell'eterno loco, 

al paragon del mio sarebbe poco. 

Flt. Bocca, elle mille volte, 

con l'armonia de' dolci e lieti accenti, 

fermaste in terra l'acque, in aria i venti; 

rubini e perle, onde spirar solete 

quell'odorifera aura del bel flato, 

che refrigerio ali'ardor mio porgete, 

e quel soave rìso, 

che mi mostrava aporto il paradiso, 

e mi facea beato; 

oimè, che nova fiamma il cor mi tocca! 



l'ed. del 1631. 

656 Pbtr^ t, a. 26: < Amor dolla sua luce tgnudu e casso •. 

657-8 Ricorda Dante, In/"., I, 114-7. 

659-6+ GABQiLASBo, egl. !: • .... VOI divinn, ( Con cuyo san y aoenloa 
« I A loE ajradoa vientos j Pudieraa amonaar » (ed. cit,, e, 45 a), — 
EproPRO, Cec^ ed. cit, v- 48; • Aimè, la dolce hoccal | .....Ond'aBoe 
■ fuora { Ogni soave odora ■; CAst:gliohe, Il Tirsi, ed. Toiraca, (in 
Teatro itat, ecc.), p. 416: < Ls bocca sparge odor di gelsomino >. 
Per altri cosi falti accenni all'alito profumato di bella doona oei 
Carm. ìnirana e nella poesia popolare e popolareggiante, vedi Rb- 
siEB, Op. Bit, pp. 136-3S, 

665-6 imma^ise comune nai nastri anUclii poeti. Fetr, II, s. ai: 
« -,. l'angelico riso j Cbe solea fare in terra un paradiso >. pulci, 



UE PELLEGRINI 



Oscura a gli occhi mie), gradita bocca; 
poi ch'il parlar di te tanto mi noce, 
percbé non esce Aior l'aima e la voce? 



672 Ale. Bocca soave.... ahi lasso! 



Ove r 



3 GiA e 



l cominciamo s 
de l'amorose gioia al dolce mare- 
Cor mio, allor di festa, or di diiol carco; 
alma, che noi toccar de' liei coralli 
già foste per UECìr, già ToBte al varco;, 
misere labbra mie, 

E'avvien cbe per dolor la lingua falle; 
obi poria dir, quanto fa il nostro bene, 
quanta dolcezza corse per le vene, 
qiMl sempre caro e fortunato die, 
ch'il primo bacio si soavemente!?.,. 
Oimè, oimè dolente! 
Ove 8011 io, compagno di mia sorte? 
Dammi la man, soccorri 1 lo vado a morte. 
FU. misera sventural 

Dunque mestier mi lia 

pianger due morti nella morte miftl 

Peneava ir prima; or mi convien seguirti. 

Lasso, tu se' pur morto! 

Il volto ò tinto, gli occbi non han luce. 



Mora^ XVI, 12; « ....uon im riso | ....Che ei vedeva a per Io il 
< radiso >. POLtillNO, atoatra, ed. Carducci, p. jn: • .... ud sC <ì 
' e voga liso | .— Che ben. parve s'apnesa un paradiso •. Ariosto. 
en. rttr., vn, 13: • ... qnal lOBva riso | CLi'opra a bob posi 
■ terra il paradiso >. Forse quesfultioio passg, del poeta suo pi 
letto, ricordava di preferenza il Tansilto. 

£69 Oaewa, e agU ocaht «nidi, l'ed. Masi: lua i C'jrrezioae 1 
trari» ed impropria, 

676 DI net, l'ed, del 1631. 

6Sa « Quel Kampre acerbo e<r onorato giorno >, comincia un 
tissimo sonetto del PetrargA <I, 106). 

692 Tinto vale qui cangialo di colore a eaglone il' ira (cfr. i 1 
698 9, 703-A)- 



f 



EGLOGA 

6l)3 Vaghi, dispersi, inamopsti spirti, 

per quella donna ch'a fuggir v'induce 
(posto da parte il ricevuto torto), 
696 se punto del nao nome ti rimembra, 

ternate, prego, a le lassate membra! 
Ale. Ali fiero, disleale, 
É^)9 cagion d'ogni mia male! 

FU. Dell, car compagno mio, 
quat gran dolor si ratto 

702 t'avea di senso tratto! 
Et or qiial nuova furia 

ti spinge n l'armi ingiuria? 
70; Ale. Non m'adiro con teco, 

ben ch'abbi prolungato il mio gran scempio, 
ma ili quel traditor malvagio et empio, 

703 che del mio bel tesor mi pose in bando. 
Mentre le gioie mìe giva narrando, 

già presso a dir quanto piacer mi porse 
711 il primo bacio de la donna mia, 

nella mente mi cor^e 
^fil modo, il loco e l'ora, 
714 che toglier vidi altrui, con mio gran duolo, 

il ben di cui ci'edea vantarmi solo. 

Deh, e' in memoria eterna al mondo sia 
717 la morte tua, non più non pili dimorai 

Che tanto mi^o più, quanto pili vivo. 
FU. Poiché ta vita e l'indugiar t'annoia, 
720 andiamo, Alcinio mio; 

chfi di morir non men di te desio. 

Alme, divine e singular beUatze, 



) albergo il poso i 



693 Vaghi qui pure in senso di erranti. 

70S Pbtb^ If, e. 5, V. ,19: • Che (li si rii 
< bando •. 

714 Col mtó, l'ad. del 163:. segufta dulie altre. 

719-21 Epicobo, Cec., ed, oit., p. 78: • Il mal seaxa riftigìo ( Non 
« dee cercar più indugio, j .... Andiaiu or danijne preslo: | CW non 
« serù '1 inofir punto molesto ■. 




^^^r 


1 DUE ['ELLEGKINI ^^^^^H 


^^H 


se di yoì non ragiono, ^^^^H 




coma pensai quando al principio fUi, ^^^H 


^^^1 


vi chiegglo umil perdono. ^^^^^| 


^^H 726 


Non crediate, ch'io taccia ^^^^H 




perché il parlar di voi forse mi spiacela; -^^^W 


^^^H 


ma per dar Une al pianger di costui 1 


^^H 7^9 


e per non far piil lungo il mio tormento: m 




perdio SI nove, tante e tal dolcezze, fl 


^^^H 


in dir di voi, correr nell'alma io sento; H 


^^H 7^2 


che si potrebbe fui* si' ardita e forte, H 




die poi non avria forna in me la morte. H 


^^^H 


Ale. Ecco 11 mortlfer laccio, ■ 


^^^f 


ad ambo i colli comodo e opportuno: H 




il troncaremo, e prenda il suo ciascuno. ^È 


^^^H 


FU. Meglio ò lasciarne ambo annodati insieme; ^^^^| 


^^H 73S 


perche, le parti estreme ^^^^H 


^^^H 


dal doppio peso in giù tirate e scorte, ^^^^H 


^^^^H 


l'un Sa ministro a l'altro di saa morte. ^^^H 


^^V 741 


Ale. Ecco la palma e'I lauro, 




oli'in segno di trionfo oggi mi dàuno 


^^^1 


il mio onor, la mia fede a l'altru' inganno. 


^^H 


Crudel, a'in darvi il core 




fui sol, se v'amai sol, e se fui solo 


^^^H 


a le piaghe, a l'ardore. 


^^H 747 


al pianto, a le fatiche et a la feda; 




deb, perché non fui solo a la mercede? 


^^^H 


s'al perder solo fui, perchi^ al guadagno 


^^H 


mi giungeste compagno? 


^^^H 


E se compagno, ingrata, 


^^^H 


mi desti al prò, perché me'l togli al danno? 


^^H 7;; 


Quanto si scemerebbe del mio duolo, 




quanto la morte mi saria più grata, 


^^^^1 


se chi si vive de! bel cibo mio 


^^1 7;6 


morisse qual moro io! 


^^^^H 


Kil. Daolmi, die non sei, laccio, 


^^^1 


di ferro d'altro, tal che lunghi tempi ,^^^^^| 


^^H 


qui ne serbassi agii infelici esempi. ,^^^^^^1 




Ma fa', vivo .Signor che '1 tutto vedi, ^^^^^H 



EGLOGA 3 1 

s*a pietà mosso, vuoi 
762 dar ad alcun di noi 

la ricompensa de la morte sua, 

tal grazia ne concedi: 
765 «, quella catena tua, 

che vivi ne tenea legati e presi, 

fa* che ne tenga morti qui sospesi. 
'jS^^/Alc, Cara nemica mia, 

benché per voi si fieramente moia, 

non mi duole il morire, 
771 poiché peggio che morte è'I mio martire. 

Ducimi, che, morend'io, 

morran meco quegli occhi che v'han visto, 
774 e che spera van di vedervi ancora; 

morrà la lingua che parlò di voi, 

e l'orecchie che spesso v'ascoltare; 
777 e, quel che più m'attrista, 

morrà quel cor ch'un tempo vi fu caro. 

Ma, benché tanto duol troppo m'annoi, 
780 sperando che vi piaccia il morir mio, 

lieto alla morte volo, 

e col vostro gioir tempro il mio duolo. 
jS^y^Fil. Vaghi, ardenti sospiri, 

che verso il ciel ognor spiegate l'ale, 

per giunger forse ove il mio sol risplende, 



764 s'avverta la dura ellissi del relativo dipendente da fa\ richie- 
sta dal senso. 

768 Maniera, pur questa, ovvia nel Petrarca. 

768-74 Epicuro, Cec., ed. cit., p. 72: « Grudel, benché oggi io mo- 
« ra, I Non mi può Morte far l'alma si trista, | Che più non sia '1 gioir 
« d'avervi vista. | Dogliomi sul morire, | ^h'io vorrei sempre avesse 
« I Dolor ecc. ». E a p. 71: « Tant'è mio fier tormento, | Che quello 
« del morire '1 prendo in gioco ». 

782 Petr., II, 19: « Onde col tuo gioir tempro '1 mio duolo ». — 
Gfr. il V. 980. 

783-93 Petr., I, s. 102: « Ite, caldi sospiri, al freddo core, | Rom- 
« pete il ghiaccio che pietà contende; | E se priego mortai al 



^^F 


I DUB PELLEGRINI ^| 


^^H 7S6 


tornate g\ù; ahé là non G'apron porte ^^^^B 




a cosa ch'è mortale. ^^^^| 




Se pur volar v'aggrada, ^^^^^| 


^^H 7SC, 


prendete un'altra strada: ^^^^| 




ite al regno di Morte; -^^ 




e, se priago mortai da lei b' intende, 


^^H 79' 


fate che venga il più che può veloce; 




clitì quanto indugia pili, tanto più noce. 


^^H JfAlc 


l.*n Boi pensier, morendo, 


^^^M 795 


mi fa parer la morte assai man forte: 




pensar ch'io giunsi ove ogni amante spera. 




E s'il niìo bel gioir in pianto è volto. 


^^B 79» 


se mi ritrovo in stato si dolente, 




col tien passato tempro il mal presente; 




se mia donna altiera 


^^^B !foi 


può far che l'amor mìo non le sìa grato, 




non può far che non sìa quel ch'è già stato; 




e s'ogni ben m'ha tolto, 


^^m H04 


m'è pur quest'una gloria alraea rimasta, 




ch'io posso dire « Io Ali »: or tanto basta. 


^^H ^ 


Amor, quantunque io moia. 


^^B - 807 


d'una cosa, morendo, ho lieto il core: 




non aver colto il (tutto del mio amore. 




Perché quella fallace e lieve gioia 


^^H Sio 


sarla qual ombra nebbia dileguata, ^^^M 




ma la bell'alma ancor earia macchiata: ^^^^È 




e forse io sentirei maggior dolore; - ^^^^| 


^^1 813 


cbó a quel pongon le tenebre più noia, ^^^H 




che dalia luce viene; ■ 




e a quel più noce il mal, c'iia tocco il bone. 1 


^^^H 


Poi che da qua sei lungi, 1 




donna crudel, la terra, l'aria e 'l sole M 




odano in «ce tua queste parole, 1 


^^H 


u te n de, j Morte a mero^ £ia Qoe al mio dolore >; II, e. 6, 1 


^^^H « 14-7 


Ed ella [Laura moria al 1'.] : Le Iriat'onde | Del lllanlo-, H 


^^^^H • Con 


uta de'soBpir per tanto spailo 1 Paesano al cieto e tup-^j 


^^^H « bau U 


nia pace ,. - Al v. 791 l'ad. del 1631 legge da M. ■ 



F 


EGLOGA ^^^^^H 


1 819 


pria che l'alma infelice scioglia e svele, ^^^^^H 


■ 


dando silenzio a tante mie querele. ^^^^^H 


1 


Io ti perdono tutti ì dolor mìei, ^^^^^H 


1 832 


tutte l'olTeee e i danni, ^^^^^H 


1 


la rotta fé, gl'inganni; ^^^^H 




né sol perdono a te, cui men dovrei, ^^^^^H 


825 


ma a ciascun' altro onde più offeso sono. ^^^^^H 




Ad un Bo! non perdono: ^^^^^H 




ti me niedesmo; come a quel crudele, ^^^^^H 


828 


die, per amare altrui, son stato espresso ^^^^^H 




traditor di me stesso. ^^^^H 


FU. 


Et io, lida mia stella, ^^^H 


851 


come colui ch'offeso non mi veggio, ^^^^H 




non ti pertlono, ma perdon ti chi^gio; ^^^^^H 






8}4 


ch9 la bell'alma tua vidi partita, ^^^^^H 




dovea partir la mìa da questa vita. ^^^^^H 




Con la ginocchia chine, e con la mente, ^^^^^H 


857 


perdonami, ti prego, alma mìa dea, ^^^^^H 




66 non son morto allgr quando dovea. ^^^^H 


. ..'- Ale 


Amor, se mai per caso, ^^^^^| 


840 


mentre l'alma d'altrui dovea dolersi, ^^^^^| 




irato contro te le labbra apersi, ^^^^^| 




come noni che del suo mal si duole e pere, ^^^^H 


843 


chieggio perdon d'ogni passata offesa. ^^^^^H 




Deposto ch'avrà l'alma il mortai velo, ^^^^^H 




io non ti prego che la mandi in cielo; ^^^^^H 


846 


ma fa' che, discaociata, ^^^^^H 




per le parti del mondo vada errando, ^^^^^H 




fln tanto che, vagando, ^^^^^H 


849 


un dt ritrovi la sua donna ingrata, ^^^^H 




a fkccìa fede a lei del morir mio; ^^^^H 




e quel ben che vivando ho perdut'io, ^^^^^H 


S21.3 Anche il Geloso, nella Cfcar-M dell'EPicUBO (ed. cit, p. 73), ^^^^| 


sul pvinlo 


di darsi la morte esclama: « Crudel, quanto mi Ceste vi ^^^^^| 


perdono 1 


^^j 



^^^F 


1 DUE PELLEGRINI ^^^^^1 


^^B 8s2 


cangiando miglior sorte, ^^^^| 




goda l'anima mia dopo la morte. 


^^^1 ^ / 


iraor, Bfl mentre io tìssì, liench*^ poco. 


^^M ^ii 


per duolo, per sciocchezza o per furore. 




t'offese mai la man, la lingua e '1 core. 




benché di ciò, signor, non mi rammento; 


^^^H ^"i^ 


perdon ti chieggio, e del mio error mi pento. 




lo non depongo lii terrena salma, 




se non per seguitar la donna mia. 


^^^H e6t 


Concedimi, signor, clie sciolta l'alma 




poBsa andare a trovarla, ov'ella sia. 




Ma se l'anima bella io parte regna. 


^^H 


ove la mia di gir non fosse degna; 




mandala al sacro avventuroso loco. 




ove sepolto giace il suo bel viso, ^_ 


^^1 867 ^^^ 


et ivi abbia l'inferno o il paradiso. ^^^^| 


^^^^H j-Alc. Cari, pietosi ^^^^^| 




a veder la mia morte forse intenti, ^^B 


^^^H ^70 


mentre al morir vi par ch'io m'apparecchia. 




portate, prego, a le benigne orecchie 




de le donne quest'ultime parale. 


^^1 


Quantunque donna sia 




la cagion sola de la morte mia, 




di voi non fla già mai ch'io mi lamenti; 


^^^1 ^7^ 


cbó, s'una fu crudele. 




qual ragion vuol che d'altre io mi querele! 




Quel che da me si volse ancor si vuole: 


^^^1 B79 


di voi son stato in vita, come mostro; 




dopo la morte mia pur sar6 vostro; 


^^^H B53 Doppo 


, qui e altroiB, l'ed. del 1631, — Preferiamo la forma 


^^^^H no 


TI offrendoci eoloata prima slanipa sufflcienli garsniie 


^^^H 


per riguardo al!" orlograda. 


^^^H 865 


!, s. 185; - saero avvecturoso e dolce loco .. 


^^^^H 86S72 YiHQiLia, £cf^ III, 73; • Purtem allquam, vaati, divÙRi reti»- ^| 


^^^H • ad a 


urea .. Polizuno, Orfio. ed, Corduoei, p. 138; « Portate, ^M 


^^^H > venti, quMlL dalai versi | Dsiilru all'orecchie dullu uiiils mia •. H 



■ 


^ • w^^^^^^^^^^^l 


H 




EGLOGA 35 


^^^^1 


^^F 


p e asaa d'oggi, che per lionna io moro, 


^^^H 


P Tbz 


dolor alcun del mio dolor non senio: 
raJtoa esce lieta, e '1 corpo muor contento. 
Poi ch'ogni impedimento è di lontano, 


^H 


•sas 


va', fiero laccio, so ì fanebri rami; 
poiché piace a! dolor liero et ìoaano, 
che quel che d'altrui s'odia, da noi s'ami. 

L'anima della niorta donna, chiusa nell'albero: 


■ 


888 


Ferma l'ingiusto ardir, spietata mano! 
Che non consente il Ciel quel che tu bramì. 
Tornati indietro; non macchiar, per dio, 


^M 


i 89T 


del non colpevol eangue l'arbop mìo. 
Me. Ancor dunque entro agii alberi si serra 
chi cerca prolungar gli affanni nostri? 


^M 


894 


FU. Ahi sorte dialeal, fiera e proterva, 

in quante guise il tuo furor ne mostri! 
L'An. Non più raiser, non più; ch'il Ciel preserva 


^M 


897 


a più tranquilla vita gli anni vostri; 
e se mi date oreccliie, cose udrete 
troppo maraviglìosa e troppo liete. 


^M 


goo 


Ale. Allor saremo noi lieti giocondi, 

quando sarem varcati a l'altra riva. 
FU. Deh, s'è pur ver, che dentro rami e frondi 


^M 


90 j 


un'alma deità si chiuda viva; 
spirto umano boscareceia diva; 


■ 


BS4.7 afr. Ovidio, «£(., X[V, ;i6-38; dove lil, prima d'attorcew it 


lacci 


3 al sommo cibila porta, invoca nelle parole estreme la sua cru- 


^^^^1 


dele 
- ri 


Aoaasarete, e sì pratesta lieto di morire (■ Vincis onim, mo- 


^^H 


S" 


Petr,. f, e. 85: • ,.. Io porlo alcuna volt» | Invidia a quei ohe 
su rnllra riva, (cioè ai mortiì. 


^^H 




^^^^^H 


■ ce 


: 1 spifto uuano boschereccia dea ■; parole che 


^^^^^H 


Ruggiero volge ad Astolfo convertito in mirto. È chiaro, cbe il T. 


^^^^^H 


i aver 




^^^^^H 


si p 


ò dire di quello dell' En^iife. 


^^•^^^B 



I Dl'B PELLEGRINI 

se pur non sei, qtial ombra dell'inferno, 
Tenuta qui per farmi duolo eterno: 
se nò ferro, né folgora, né vento 
mai l'arbor tuo non tronchi, sfrondi e Erami; 
s'a! favor tuo concorra ogni elemento, 
e sue bell'ombre ognun l^equenti et ami; 
poi che sol Morte mi può far contento, 
lagciamì qui morir fra questi rami: 
ch'Ingiuria, non pietà, mi par clic sia 
vetar la morte a chi morir desia. 

2,' An. Ombra infórnal non son, m^ dea de' boschi, 

ma son colei, cb'nn tempo, sai ben quanto.... 
OimÈ, dunque esacr può, che si t'affoselii 
la nebbia del dolor, l'acqua del pianto, 
ch'a la voce et al dir non riconoechi 
quella che viva e morta amasti tanto? 
Non conoEcon l'orecchie la favella 
ei grata al core? 

FU. Dunque tu se'qneila? 

LnSEO, che s'apre il cor! Dunque tu sei 
la bella donna mìa, l'alma mìa diva? 
Deh, s'egli è ver, fa' degni gli occhi mi«i, 
che, qual tu sei, ti veggia, o morta o viva. 

L'An. No no, pascer l'orecchie ben potrei, 
ma non la man, non la virili visiva. 



9£>3-ii AKT03TO, loo, cil. : • ^fn non realnr, però, cbe non. rispon- 
' da [ Chi lu li sia, eh' in corpo orrido ed irto | Con eoce e raiio- 

(at 30). 

912-S Epicuro, Cee., ed. cit., p. 82; « Deh, la tun gran pieli non ci 
■ divida I Dal propoato eammin; deh, più non yoglia | Par tropp» 
• Gompassion farai omicidal •; parole d'un de' ciechi, che vanno a 
morie, al Sacerdote d'Amore, il quale, sopragginnto, cerca tratlenorli. 

919 Epicuko, Ceo., ed, clL, p. Sa: • _, la traccia [ Del pianto e Spesso 
fumo dei sospiri ». 

939 Potrai, le stampe. Ma ta rima impone la lezioiie da noi as- 
colta, con la quale 11 senso cort« ugualmente, 



Efil.OCA 

FU. Dormo o vegghio? Se Jormo, piaccia a Dio, 
che faccia sempiterno il aonno mio! 
Se la pregliiera mia non é saperba, 
narrami alroeii, poi ch'il mirar non lice, 
se dal mondo ti sciolse morte acerba; 
chi t'affrena qui dentro, alma felice; 
qual mio (leatin gai chiusa oggi ti serba 
u ritardar la vita mia infelice: 
eh" un tanto mostro et un miracol tale 
esser non può senza voler fatale. 

//jIr. L'invì'olabil fede, il casto amore, 

l'alta bontà, le lagrime, il martire, 
amici troppo cari del tuo core, 
poscia che nacque in lui l'alto desire, 
ebber nel terzo ciel tanto vì^re, 
che mi trasser qnì giù, per impedire 
la tna spietata e volontaria morte; 
non già forza de' fati o ver di sorte. 
Di cerchio in cerchio il sol, lustrando i 
già riscaldò sei volte ì segni g 
dal di che, svelta dal mortai mio volo, 
io lasciai lagriraosi gli occhi tuoi.... 

FU. Pardon, s'io tronco il dir. Deli, par quel zelo, 
che a venir qui t'accese, di', se puoi, 
qual fu la morte tua non nota mai. 

L'An, Io vissi poco percht' troppo amai. 
Altro non ti dirò ; ma che si sia, 
basta che pure entrai del Ciel le porte; 



931 veggio, l'ail. ilei i6ji. 

940 Lttata usala anche dal Tetharca (IV, e. 3, v. 18], e comunìa- 
sinis preBBO gli antipW (-Non «ine rieo •; ■ Oùx «vEuSe 3eo5 • 
ecc.). Ve n'ha un'allra simile al ». 1007. 

943 Come Lauri, anohe l'amata di Filauto soggiorna ■ Tre. lor cbe 

949 Ariosto, ori, fw,, m, 1; • ... o Febo, che '1 gran mondo Itt- 



I cielo. 



951 PETH,. II, I 



' Cosi rlisciolto dsl mortai mio v 



38 I DUE PELLEGRINI 

e quella mente si malvagia e ria, 
960 che fu cagion della non giusta morte, 

vinta restò da Tìnnocenzia mia 

al giusto tribunal de Talta Corte. 
963 FU, Qual celeste corrier, qual nume santo 

portò nel elei novelle del mio pianto? 
Z/'Aw. Poiché del mio morir l'ora fu giunta, 
966 SI come piacque alla pietà superna, 

nell'empireo cìel fu l'alma assunta, 

ove nel suo Fattor lieta s'interna, 
969 e, d'ogni peso uman scarca e disgiunta, 

si gode quella sede sempiterna, 

in cui ragion non han né possa alcuna 
972 tempo, morte, dolor.... 

FU. E che mi giova questa morta vita, 

se teco ogni mio ben sepolto giace? 
975 UAn, Se cosa oprasti mai da me gradita, 

amami qui, mentre ch'ai Ciel si piace; 

non invidiar mia gioia alta infinita: 
978 e, se pur senza me viver ti spiace, 

pensando al lieto stato ove son io, 

tempra la noia tua col gioir mio. 
981 E mentre parlar meco in terra puoi, 

il desir di saper sazia et adempì; 

dimanda pur, s'il ver intender vuoi, 
984 e di passati e di futuri tempi. 

FU, Poiché mia morte turba i piacer tuoi, 

donna, vivrò, benché fra danni e scempi. 
987 VAn. Rimembrando ch'io son quella ch'io voglio, 

col mio volere appaga il tuo cordoglio. 



963-4 Petr., JI, c. 6., V. 13-4: « .... Or donde | Sai tu il mio stato » 
(parole del P. a Laura apparsagli in visione). 

967-8 Petb., II, s. 55: « Or se' svegliata fra gli spirti eletti, | Ove 
« nel suo Fattor l'alma s'interna ». 

972 Cosi l'ed. del 1631, e quindi anche le successive. Forse, falò e 
forti Ola. 

980 Gfr. la nota al v. 782. 



EGLOGA 

FU. Ma dimmi, priego, alma cortese e pia; 
990 del tristo viver mio quanti flan gli anni? 

Ale. l'oìcM tua donna il tuo morir desvia, 
lascia por Hdb a' miei gravoai affanni : 
993 ch'io non attendo, che la donna mia 

mi venga a liberar, ma mi condanni; 
aé epero, elio, per lagrime o per prieghi, 
996 il mio duro destili già mai el pieghi. 

L'Alt. Beh, cangia meta, Aleinio, al desir Aero; 

eh' uom non sì dee sfidar mai di sua sorte. 

999 Ale. lo vo'morir; poiché, morendo, spera 

trovar la vita ascosa entro la morte. 

L'An. misero, qual doglia o qual pensiero 

1002 t'ha si de la ragion chiuse le porte? 

Che sarà tal morir, altro eh' un volo 

di pianto in pianto, e d'un in altro duolo ? 

looj Ale. il maggior duo!, che mi darà l'inferno, 

serft minor di quel ch'ai mondo io port«. 
L'A}i. Non senza grazia del Motor eterno 
11x18 t'ha il pie, senza pensarvi, oggi qui scorto: 

olle, s'egli è ver quanto nel Cie! discerno, 
da la tua vita lunga, il pianger corto; 
iDii onde, acquef.aniIo il duol che ti molesta, 

ascolta, s'al mio dir fede si presta. 
Ale. degnamente cara al sommo sole, 
1014 perché al tuo dir non debbo prestar fede? 



989-90 Pbtr., IV. a, X., U, 137-S; • Però saper vorrei, Madonna, 
X s'io I Son per lardi seguirvi, o se per tempo >. 

997 E 'I detlr, le stampe. 

999-1000 EPicUHO, Cec., ed, cit,, p. 70: « Andiam lieti ni morire, | 
• Poi che 'n la noslra morte ascosa giace | Insieme e vita e llber- 

- tade e pace >. 

loot L'ed. del 1631 pone queste parole in lincea a Filanto; ma le 
suocessive eorre^ono, e giustamente. 
1003-4 Petk., I, s. 33: - Ma perclid io temo, cHa sarebbe un varco 

- I Di pianto in pianto e d'una in altea guerra •. 

1007 PRT»., I, e. 7, V. 17 ; • onde 'l Motor eterno delle stalle ecc. ». 
vedi la nota al v. 940. 



^^r 


1 DUE PELLEGRINI ^^^^^^^^H 




Tal timer state vere le parol», ^^P^^^^^| 




che l'iniqua mia donna al vento diede. 


^^H i0'7 


qual son le tue! Clio forse tal si dole. 




che n'andria lieto; e tal gioir si vede, 




ch'avrebbe duol: si che incomincia a dire; 


^^^H ID20 


ch'io già comincio ad arder di desire. 




L'An. Vincer quantunque possa il tuo furore 




con pii'i possenti e valide ragioni. 


^^H 


e sconsigliar l'inaiiiorato core 




con mille e mille a te care cagioni , 




io non vo' dir so non : Deli, per mio amore. 


^^^^H 


cangia la voglia, a & viver ti disponi; 




et aprend'io del Ciel gl'alti secreti, 




prometto far tuoi di festosi e lieti. 


^^^^H ìoig 


Aie. Alma gentil, benché ta parte interna, 




vie pili che 'I volto, a te sia manifesta; 




cagioit non era a vincermi, ch'Io scema, 


^^H «333 


più possente e piti valida di questa; 




perché, mirando quella fede eterna, 




quel vivo apdor, quella mercede onesta. 


^^^H 


ch'ai tuo lido amator mostri et apporto. 




non ti posso negar vita né morte. 




Onde disposto io son a quel ti piace, 


^^^H 1038 


al vivere, al morir lieto ubidirti: 




ma s'esser può, eh' in terra trovin pace, _^^^H 




tregua almeno, i combattenti spirti ; ^^^H 


^^^H 


mentre nel career tuo l'anima giace, ^^^H 




<teh, fa'ch'oggi per grazia possa, udirti: ^^^H 




mostrami il modo, insegnami il sentiero, ^B 


^^^H 


ond'ìo possa cangiar vita e pensiero. H 




Z'An. Alcinio, il del non vói ctie tu ti lagni: H 




queta gl'alti sospir, serena il volto; H 


^^H 


che pria ch'il sol tre volte il carro bagni, ■ 




sarai d'ogni martip libero e sciolto; 1 




e quel pensier, per cui t'affliggi e piagni, ■ 


^^^^1 'OSO 


in te morendo, in Lete Da sepolto r ■ 


^^^^^^^^^ 1039-40 Pbth., I, 37: ■ ... ChT trovi in uiù paoB né tregua ^J^^^^B 



EGLOGA 4 1 


j 


non per volger del cielo o di pianeta. 




ai Todrà mai tua vita altro cbe lieta. 


^^^H 


105) Ale. Dunque lia finito il corso l'empia stella? 


^^^H 


Saro dunque gioioao anzi ch'io moia? 


^^^^H 


E qaat lieta ventura esser può quella, 


^^^^1 


1056 che m'apporti cagion di nova gioia? 


^^^^1 


Dimmel, ti priego, alma tieata e bella; 


^^^^^1 


se il mio dimandar Torse t'annoia, 


^^^^1 


I0S9 per dio, non m'incolpar di poca fede; 


^^^^1 


che a gran speranza uom misero non crede. 


^^^^H 


/-■yl». Quinci i pie mossi, non, quai prima, in vano. 


^^^^^H 


1062 non luDgo Bpazio ealcheran la terra. 


^^^^H 


elle giungerai nel fortunato piano, • 


^^^^H 


che tante grazie al buo bel seno eerra, 


^^^^H 


106; quante mai vide il Ciel, con larga mano: 


^^^^1 


qui troverai l'eccelsa, antica terra. 


^^^^1 


là (love il vincitor prima Aniballe 


^^^^1 


1068 ai petti de' Roman diede le Epalle. 


^^^^1 


Quest'È la terra al Ciel tanto gradita, 


^^^^1 


ch'il nome di felice all'altre lolle; 


^^^^H 


1071 questa è la terra ch'a ben far t'invita. 


^^^H 
^^^" 


1 e per altri e per sé tanto s'estolle. 




No' LA, potrai chiamar altro che vita; 




1074 di tante grazie i! Ciel ornar la volle: 




qui si riserba a l'alte tue mine 




la lunga requie e '1 non sperato fine. 




1051-1 Pbth, I, e. 4, vv. 26.S: • Ch'i' pur non ebbi anoov, non 


« dirò lieta, | Ma Hpoflnls nn'ora, | Hi per ìolgor di ciel aé di 




1057 • Alma beata e bella >, comincia il canto di Bratto aowa 




la tevuliura {Sannazabo, Arcadia, ed. oit., p. 88). E U Pbtr., IV, 0. r. 












loe&S Mola, dove Annibale fu vlaki la prima volta da'KomaDi satlo 








1070 Peth., I, B. 185: • „.. Ch'a tulto 1 mondo ftuna lolle ». 




1073 Non ponendo mente al nome leareto. i precedenti editori han 




^^Wi^to in non la il no la della jiriniH stampa. 




B^^^ 


^ 



42 1 DUE PELLEGRINI 

1077 Due chiari, illustri a gloriosi spirti 

lian per elerni e cari poEsmeorì; 

1080 le troppo eccelse lodi e gli alti onori, 

il sole, che Ben vieti, senza esperiirti 
trarrla dal mar la nova luce fuori: 

loB} che clilarameiite in questi sol traspare 

quanto natura e l'arte e '1 ciel può fare. 
Qui lieto il viver tuo trapasserai, 

TuS6 sotto il presidio lor sempre beato; 

non cosa baster.1. noiarti mai, 
kì ferma (la la rota del tuo stato; 
.10S9 et a quella crudel tolto sarai, 

che t'ha si lungamente tormentato: 
onde mi par, che ringraziar ben puoi, 

1092 che a tanto ben rieerhan gli anni tuoi. 

Ale. Convien che vero, a più che vero, chiami 
tutto ciò ohe da voi sento narrarmi; 

109; ma ch'io viva nel mondo, e ch'io non ami 

la donna mia, questo impossibii parmi, 
ancorché si m'oftenda e mi disami. 

1098 L'An. Alcinio, non temer, perché quell'armi, 
da cui sciolto sarai, son si possenti, 
che pon for^.ar le stelle e gli elementi. 

noi La bella donna, ch'oggi il mondo onora, 

quella a cui pare il Ciel non vide mai, 
con l'eterno valor eli' in lei dimora, 

iio.| in te spuntando ile' beg l'occhi i rai, 

d'ogni antico martir ti trarrà fìiora 
il primo giorno sol che la vedrai. 



1083-^ Peth,, I, a. 14.1; • AUor insieme in meo d'un palmo (OioS 
nel viso ai Laura) appura | Visibilmente, iiuanto in questa ¥l|a | 
Arte, ingegna n natura e '1 ciel può fare >, 

1095-7 ABIO9T0, Ori, fur., T, 44: < Ah, pili tosto Oggi maoeliiiiQ i 
• (li mìei, I Cli'io vira più, s'amar non debbo lei! >. Cosi Saoripvit* i 
d'Angelica; se ben creda oli'etla sì sia dnta ad altri. 

1104 PETH., I, E. S: • In me movendo de' begl'o celli l rai >. 



EGLOr.A 43 

1107 Non dabitar, àk fedo a mìe p&role: 

eli' impassi bil Don è qael ch'il Ciel vuole. 
Ale. Come da questo, alma gentil? Deli, cerne 
Ilio di tanto alto sperar mi leghi e vinci? 

Ma se pur fla, deh, fa' ch'io sappia il nome 
d'ambedue lor, pria che mi parta quinci; 
1113 perché sovente, con seoverte chiome, 

chinato in terra, ad onorar cominci. 
L'An. L'UD, perché da Calisto e dal Ciel scende, 
II 16 da l'antica sembianza il nome prende; 

l'altra, da Quella ch'ai suo casto velo 
Quel che non cape il mondo avvolge e serra; 
1119 B si come ella adorna e illustra il cielo, 

cosi costei fa balla ognor la terra. 

mi ifamìieihia, l'ed. del 1631. 

1115-6 E da Gtt leende, corregge arbitrariamente il Volp:cellA, 
Capitati di L. T.', p. 35. Come già il Qaspahv (Qtorn. si. d. lelL il., 
IX, 462), COBI ora aoclie noi crediamo superlliia discutere l'inlerpre- 
tazioDe ch'egli dà di queeti versi iDdubbìsmeDle il poeta alluda a 
Enrico di Oeutile Oraiui, conta di Nola, cbe mcrf nell'agosto del 
151S, qualche giorno prima clie uscissero dal Kegoo i Francesi ve- 
nutivi col Lautrec. Nola in codesto anno fu perduta per gli orsini, 
che la tenevana fln dal 1193; percbé Enrico, avutane licenia dal Vì- 
aeré, aveva capitolalo cogli invosori, e il principe d'Orange, riuscito 
vincitore, incrudelì contro i baroni che a'eran valsi del permesso 
ottenuto. Cfr. LiTTA, Fam. mi^ Orsini, tav. XVU. — pel mito, tanto 
vulgato, di Callisto, v. Ovidio, MH., n, 409-5"?- 

1117-8 Parole dalla Qbiesa: • Quem cùbIì capere non poterant tuo 
• gremio coutulisti ». Casto velo è immagine petrarctiesca. — 8i al- 
lude alla moglie d'Knrico Orsini: Marta di Bernardino Sansaverino, 
conte di Tricarico e principe di BJsìgnano (fratello a Pier Antonio 
lodalo dal T. nel cap. XI], e di Dianora Piccolomini, Costei nel 1559 
introdusse i Gesuiti in Nola, fondandovi un collegio; di oiie è lo- 
data nell'epitaflo. Dove s'accenna pura alla protezione ch'ella con- 
cesse agli studi. Fra le LeUet-e di oUutu tiatofoie dorme, Venezia, 
Giolito de Ferrari, 1549, va n'ha una sua, e più altre ai leggono 
nel eod. della Nazionale di Napoli intitolato Epislolae 111. niullti'utn 
a Geronimo Seripando. Mori nel 15Ó5, in Nola. Cfr, LiTTA, loo. ciL; 
TOLriQBLLA, Op, oiu, p. 33. 



I DUE PELLEGRINI 
A pena la vedrai, ch'In casto zelo 
Ha volto il foco, e in pace ogni tua guerra; 
e equarcioraasi il velo antico e nero, 
che agli occhi tuoi tenea celato il vero. 

Come it serpente l'invecchiata spoglia 
gitta, e la nova scopre al grato aprile ; 
cosi tu cangerai l'antica voglia, 
prendendo de la vita un nuovo stile. 
Né già mai damma, n^ pensier, n<^ doglia 
vivran dealro il tuo cor di cosa vile; 
ch'ogn'ombra di viltà, che scorga altrove, 
col sol degli occhi suoi scaccia e rimove. 

E come il sol, mentre la terra mira, 
e liete erbette e vaghi fior produce; 
cosi costei, dovunque ardendo gira 
de' suoi begl'occhi la feconda luce, 
alti pensier, leggiadre voglie inspira, 
et al sentier del eiel n'alza e conduce; 
e là onde nasce il sol, ove s'annide, 
altro lume non è, eh' inflanime o gnide. 

Ma perché mi convien lasciar la terra, 
che di tornar al ciel è tempo ornai, 
perdona s'il mio dir si stringe e serra, 
e per oonclasion questo terrai; 



:i25.6 VtBoiLio, En., IT, 471-4: • Qualis ulti in lucem coluber mala 
< )^ainiiia pasEus, | Frigida sub terra tnmiduni quem bruma lege- 
« bai, I Nunc poBilis hotub eiuviig, nitidusque iuventii, { 
« Lubrica convolvil atc. •- Abiosto, Or'l. riir., XVII, 11: - Como Ur 
• seito di teoetira sorpente, | poi c'ha lasciato agni squalor vb- 
« tasto, I Del nuovo scaglio altero, a che si sente | Kingtove- 



< oilo e 






, segnatamenle presso i. rimatori dello 
9. • Gentil mia donna, i' veggio ] Nel mo- 



1135-8 PHTB., I, e. 7, w. 

• ver de' voatr'oocM qd dolce lume ] Che mi mostra Invia ch'ai 

• ciel conduce | ....Quest'è la visla cli'a ben far m'induce, | E che 

• mi scorge al glorioso flne; | Questa sola dal vulgo m'allontana ■. 
Ctr. anche Amosio, Uri. fur., X, 457. 



EGLOfiA l 

quante famose e belle gir aotterra, 
quanta ne son nel mondo e (lan già mai, 
ben si potrai) tener liete e gioconde, 
se seranno a costei ter^e o seconde. 

FU. qual aura soave viemmi al volto! 

Che prezioso odor é quel che io sento! 

li ciel, cho liianzi era di nnbe avvolto, 

come è fatto sereno in un momento! 

E quitl alta armonia per l'aria ascolto! 

grazioso, o angelico concento t 

Che fiamma ò quella, che corusca lampi? 

Par ch'il ciel rida, e che la terra avvampi. 

L'An. Questo è il coro degli angeli, che viena 
a riportarmi in elei con gioia e festa; 
onde, senza indugiar, pensate bene, 
se nulla, anzi ch'io parta, a dir vi resta. 
E quanto puote il vostro dir s'affreno, 
che giù son per partirmi in aria desta; 
e se quel che chiedete non si nieghe, 
l'albero in vece mia s'inchini e pieghe. 
Pertì che di parlar più non mi lice, 
restate in pace; e tu. Filanto mio, 
drizza alla patria il pie; vanne felice, 
e vìvi senza me quanto vuol Dio. 

FU. E chi si ratto, oìmc, mi t'Interdice? 

Deh, per quei santo arder, quel voler pio, 
che u consolar ti spinse il mio gran pianto, 
senza darmi risposta ascolta alquanto. 
Alma, di cui vuol Dio ch'il elei s'adorni, 
e resti il mondo oscuro e tenebroso; 
quantunque senza te saran miei giorni 
e tutto il viver mio mesto e noioso; 



1149-56 Epicuho, Geo., ed. cit., p. 90: • O clis splendor il 
rai 1 Senio ferirmi gli occhi! •; p. 91: • Io senio qui d'intorno { 
5pirarmi al vollo un'aura | D'un odor che rislaura, [ Non saprai 
come dirti, | Tutti i miei sessi e gli affannati spirli >. 
1 Conaolarrl, l'ed. del 1631. 



46 I DUE PELLEGRINI 

benché la patria, ove convien ch'io tornì, 
per me vota sarà di tal riposo; 
1179 per ubidirTf andiamne, e, se daol sento, 

vostra memoria avrò per nutrimento (*}. 



(*) Le stampe qui soggiungono la seguente ottara, che sarà, come 
l'intermezzo, fattura del Capriccioso : 

Al Sepolcro, 

Marmo non già, ma l'universo mondo 
resti sepolcro a queste membra belle; 
copragli il ciel, quant'egli gira a tondo, 
e sian le torce sue tutte le- stelle ; 
e, in vece di memoria, orribil pondo 
resti l'eternità che ne favelle; 
e acciò vi sia più eterna sepoltura, 
pianganvi gli elementi e la natura. 



IL VENDEMMIATORE 



POEMETTO 



Allo ecelenie 



Segnor iacobo carraffa. (•> 



Trovandomi qicesti giorni in villa e fra vendemiatori, 
quasi costretto di dare al tempo e al luoco il debito loro, 
tanto più che la etate non mi scusava, né di intender in 
altro che meglio fosse, lontano da' libri e dal silenzio, mi 
si concedeva; mi sono iocatoi?) con queste rime, le quali ora 
vi mando, non perché debba con si povero dono onorarvi, 
ma perché giurai loro di non mandarle dentro a cittadi, 
e voi ora già sete in loco simile o poco più nobile di qitello 
donde elle si parlotto, e forse non più essente di quel eh' io 
mi sia dalla legge di questa staggiane: benché né fuori né 
dentro delle cita potrei mandarle a persona, che poi elle 
non mi j^ecassero biasmo, per quello che in esse si ragiona, 
salvo che a voi. Il qtmle non meno sete fra vaghi gioveni 



(i) Di Iacopo Carafa, signore di Sant'Eremo, Valenzano ecc., nato 
nel 1482 da quel Fabrizio, che nella seconda metà del secolo deci- 
moquinto ebbe uffici ragguardevoli a corte e nel Regno, I'Ammirato 
ci dà alcune notizie onde meglio appare la ragione di questa dedica 
del Tansillo. « Sopra modo, scrive il celebre storico delle Famiglie 
« nobili napoletane (P. Il, p. 151), si dilettò [facopo] della musica; non 
« solo cantando, come dicono i musici, la parte sua, ma essendo leg- 
« giadrissimo componitore di vilanelle. Nel motteggiare, in cbe la 
* natura gli fu molto favorevole, ebbe più del piacevole che del mor- 
« dace ». Il CARiTEO lo ricorda onorevolmente in un sonetto {Le 
rime, ed. Pèrcopo, P. II, p. 220; cfr. la nota deircditore). 

(2) Il ms. locato. 



50 IL VENDEMMIATORE 

e fra belle donne dolce e faceto (^), che siate per là quali" 
tate de' tempi tra gravissimi omini e tra nobili cavalieri 
saggio e valoroso, e, qitel che più mi agrada, sete per vo- 
stra umanitade tion meno come amico (^ da noi affettato, 
che come signore onoy^ato, 

Leggeretele dunque senza gli occhiali del rtggido Catone, 
mentre il consenteno, anzi comandano, questi di che sono 
consacrati a Bacco, Libero ancora chiamato non senza ca- 
gione, poiché ne fa lecito di laccare con la lingua libbC' 
ramente e di impazzire. Passati che elli saranno, io non 
vi dico che le date al foco, che fora troppa crudeltate la 
mia, procurar la morte alle cose da m,e stesso generate, 
ancora che vilissime e bastarde queste siano; mOj perché 
l'esilio è minor male che la morte, vi prego che insieme 
con le scale, con gli cesti, con gli urei, con gli altri strila 
'inenti che ad questo s'adoperano, facciate che elle se tm* 
scondano ty^a gli arbusti, ove ora vi si mxmdano con (W- 
dine espresso che 7ion ne escano di fuora già inai, finché 
insieme con gli altri sbanditi non sono richiamali dalla 
medesima staggione; la quale Idio farà che, tornando, vi 
ritrovi in migliore stato di quello in che ora^ partendo^ vi 
lascia. Il pì'imo giorno del mese di ottobre, nell'anno del 
Signore MDXXXIL 

Luigi Tansillo. 



(i) Vedi il passo dell'AMMiRATo su riferito, in fine. 
(2) Il ms. unico. 



IL VENDEMMIATORE 



POEMETTO 



I. 



Giovane donne e belle, che sovente 
date ai versi d'amor benigne orecchio; 
perché voi siate alle mie voci intente, 
et io ne gli occhi vostri ognor mi specchie, 
né di cosa ch'io veggia mi sgomente, 
le vostre e mie guerriere orride vecchie 
cacciate, prego, fuor del vostro stuolo, 
e con voi et Amor mi resti solo. 



I, 3. M «ila. 6. M* et veohie. 8. M' et con voi Amor si resti et io solo ; 
Sttk e Amore et io con voi rimanga solo. — P. manca delle prime 
tre ottave. 

I. SACCHETTI, BcUlaglia delle belle donne di Firenze colle vecchie, 
ir, 7: « O care donne, alquanto rimirate | Che vale il mondo senza 
« nostro lume, | E poi a queste vecchie immaginate | Quanto son 
« fuor d*ogni alto e bel costume; | Però vi priego, che sien 
«e discacciate | Dal nostro prato e dal nostro villume » 
ecc. Ivi, ir, 5: « Le vecchie son crudeli e invidiose | Le vecchie son 
« nimiche d'ogni bene, | Verso gli amanti sempre dispettose, | E sem- 
« pre apparecchiate a veder pene )» ecc. (parla, si badi, una donna). 
— Non sappiamo, se il T. conoscesse questo poemetto di Franco : in 
ogni modo, è notabile la somiglianza. 



5 5 IL VENDEMMIATORE 



IL 

Gran maraviglia avrete, com'io sia 
fatto di rustico uom culto poeta, 
senza ber di quell'acqua, che solia 
far l'uom repente diventar profeta. 
Bacco et Amor volgon la lingua mia, 
e fan d'altro liquor la mente lieta: 
e perché *1 mio cantar sia più sublime, 
l'un mi spira il furor, Taltro le rime. 

IH. 

Voi troverrete nel mio dir senz'arte 
tanto diletto ognor, tanto profitto, 
che pili non ne pon dar tutte le carte 
che ornando scrisser mai Grecia et Egitto 
togliendo del mio dir la minor parte, 
terrete della vita il cammin dritto, 
e voi stesse cangiando, in un momento 
cangerete in piacer vostro tormento. 



II, I. M' avete. 4. M' far uom; M doventar, 7. M parlar; M' acciò 
che el mio, e inverle l'ordine degli iiUimi due versi. 

III, I. Stt. trovarete. 24. stt. un utile diletto non nuU scritto; | 
Volgansi pure le latine carte, \ Con quante ne vergar Grecia et E- 
(jitto. 3. M puon. 6. Stt. torrete. 8. Slt. canglarete. 

II, 3-4. Petr., IV, R. 18: « s'io fossi stato fermo alla spelunca | lA 
« dove Apollo diventò profeta» ecc. « Ma perché '1 mio terreo 
« più non s'ingiunca | Dell'umor di quel sasso » ecc. Anche il 
T. allude all'acqua del fonte castalio. — 5-8. Notevole questa dichia- 
razione posta in bocca ni vendemmiatore. Questi adunque si finge 
che improvvisi le licenziose ottave spirato da furor bacchico, ralle- 
grata la mente dal liquor di Lieo liberatore degli affanni. 

Ili, I. Accogliamo, ogni volta che la suffraghino più mss., questa 
foruia di futuro, perché occorre negli autografl del Tansillo. Gfr. 
FjORiNi, Tre leti, ed un cap. di L. T., p. 53. 



f>OEMETtO 55 



IV. 

Che troppo (e con ragion, sMo ben discerno) 
s'adira il Ciel con voi, donne superbe, 
che negli orti ond* ei diede a voi '1 governo 
languir lasciate i fiori e morir l'erbe! 
Non vi dovreste lamentar del verno, 
quando voi stesse a voi siete si acerbe; 
non si doglia d'altrui, né si lamenti 
chi dà cagione eì stesso a' suoi tormenti. 

V. 

Tutte le donne che son grate al Cielo, 
e non hanno qual voi rigidi ì cuori, 
vivon contente; e poi che neve e gelo 
copron la terra in vece d'erbe e fiori, 
ancor che col piacer cangino il pelo, 
nuovo pensier non han che l'addolori: 
non ha l'agrlcultor di che si doglia, 
pur ch'ai debito tempo il frutto coglia. 

VI. 

Ma chi, del proprio ben nimica altiera, 
ne mena i giorni sterilmente tutti. 



IV, I. M' Stt. troppo con ragion, 3. SU. ne torto onde diede; M' 
guberno. 5. M. dovresti, 6. M a va' stesse voi. 7. Stt. si dolga, 8. M' ai 
suoi lamenti; M sui; Stt. cagione ai suoi propì. 

V, 2. Stt han cerne voi; P riggidi; M e cuori, 3. M Stt. o gielo. 
4, M' cuopron..., erba. 

Vr, I. Stt. propio; M' P Stl. nemica altera. 5. Stt. giunto; M' ai 
suoi cari; M sui. 6. Stt. qtial penitenza. 7. Stt. debìHn; M M' debbon, 
8. Stt. che trista, dice. 

V. Del concetto qui svolto e della sua popolarità assai dicemmo 
nell'Introduzione. Si tenga presente, sopra tutto, Ovidio, Art. amat. 
ITI, 59-8o. 

VI, I sgg. [GASP. Visconti], Transito del Carnevale, in Scelta di 



54 IL VENDEMMIATOLE 

e passa autunno, e passa primavera 
senza coglier già mai né fior né frutti; 
giunta a' suoi chiari di l'ultima sera, 
quai penitenzie, qua! sospir, quai lutti 
pensate cii* assalir debban costei, 
trista dicendo: oimé, quanto perdei! 

vn. 

Credete a ehi n^ha fatto esperimento, 
che fra tutti i martir, donne mie care, 
nessun ve n' è maggior che '1 pentimento, 
poi che '1 passato non si può disfare: 
e ben che ogni penti r porti tormento, 
quel che piij Aera plaga ne suol fare, 
ove rimedio alcun sperar non lece, 
è quando un potea molto e nulla fece. 

Vili. 

Potrei narrarvi mille e mille esempì, 
per farvi accorte pìii degli error vostri, 
e, senza ire a cercar gli antiqui tempi, 
molti ne potrei dir ne' giorni nostri. 



VII, 2. M e wiartir,,., mia, 3. Stt. del pentimento, 6. M* quello che 
fiera. 7. M' remedio. 8. P poteo; M' potea fare e poi noi fece, 

Vlir, 2. M delli, 3-5. M antichi; patria. 7. M' P auto. S, M* chi pò ; 
P. Stt. che m\ 

curios. lett.^ disp. GLXXXr, p. 151 : « Deh, non perdete e vostri dolci 
« tempi, I Che penitenzia a drieto vi rimane. | El semplice, s'avien 
« che poi s'attempi, | Per rabbia poi ne mangia ambe le mane, | Gon- 
«' siderando esser stato sommerso | In ignoranza, et abbi il tempo 
perso ». Cosi il Carnevale alle donne. — 5. Cfr. Dantb, Pwrflr., r, 58; 
Petr., I, sest. VII, V. 7. 

VII, 1-3. Ariosto^ OrU far.., XXIII, 112: « Credete a chi n*ha 
« fatto esperimento, | Che questo è '1 duol che tutti gli altri 
« passa ». 

vili, 8. È il noto verso del Petr., I, e 9, st. 2. 



POEMETTO 5 5 

Lasso! io ben so, qnai dolorosi scempi, 
ben che il contrario ne la fronte mostri, 
abbia avato et avrò del pentir miol 
Intendami chi può, eh' i* mMntendMo. 

IX. 

Porta dunque il pentir troppo gran pena 
a chi del suo fallir tardi si pente; 
ma quella via, ch'a tanto error vi mena, 
e fa la vita vostra al fin dolente, 
è Tempia ingratitudine, che piena 
v'ha del suo foco la superba mente: 
questo é quel foco, le cui fiamme ingrate 
seccano i fiumi in ciel della pietate. 

X. 

E qual ingratitudine si vede, 
donne, che tra voi non sia maggiore? 
La terra, che a far frutto il Ciel vi diede 
con la pioggia del nostro dolce umore, 
per vostra colpa secca, arida siede, 
e nel suo seno ogn'erba, ogni fior more. 
Oh quanto spiace al donator gentile, 
quando vede i suoi don tener a vile! 

XI. 

11 candido ligustro, il bel iacinto, 
e tanti vaghi fior cari tra noi 



IX, I. M M' troppa. 3. M tanti ; Stl. tónf . 

X, 3. P fniuu 4. p Stk. dolce nostro» 5. M' P Stt. colpa vostra» 8. Sfct. 
veder che nobil don si tenga a vile. 

Xf, 2. M fior che son tra noi; M' cari fior vaghi tra noi; Stt. fior 
chiari tra noi» 3-4. M se Vuno estinto \ Non saccendessi (sic); Stt. se 
Vuno estinto | Non succedesse a V altro» 8. M. del suo fructo il s» 



IL VENDEMMIATORE 

come aprile ornerian, G'a l'uno estinto 
non succedoEsa l'aUro? Cosi, poi 
cho '1 boi ch'avete tìa ila gli anaì TJatu, 
il mondo, che s'adorna oggi iji voi, 
chi l'ornerà, a' ognuna ateril more 
senza l^r del suo Tolto il successore? 



XU. 

>Jon vi maravigliate, che parlando 
di voi, donne leggiadre e valoroso, 
vada vostre bellezze somigliando 
ad erte e flor, vie pid eh' ad altre coso: 
qaai fior vostre bellezze vau mancando, 
e Bon qnai Sor siiave e dilettose; 
da l'erbe e da' bei llor nascono i frutti, 
e da voi, donne mie, noi slam produtti. 



l'aure, 6. 1' SII, *■ 



XU, 1-6, OASF. ViscONTr, Trans, det Carnevale, loc. i 

• sta giovinezza é proprio come] La colorita roe'é a 

• Che spsrgn al vento le (VoudDle cliiome, j Parendo sti 



• lezEB altiera, | E n 



a bel> 



i balta 



[!C. E p 



imo I lo qusnlo spa- 
Ferò, fanciulla mia, 

umane >. Sun Af ino 
e. iig b: « In bravo 
ìlan poi le spìoe; | 
PO LI ut ANO, Riipeut, 

tuo'hBltà caggia ». 



1 pigliale eHcmpi j Da rose e llorì e It; 
lJELL'AQmi.A, CBicra ecc., Firenze, Giunti 

• GÌ Ta oscura ogni vTola, [.Cascnn le ros 
« Crisi la (US belU, t<1i'al mondo ^ sola 
Oli. Carducci, p. 195; « Farmi che coma 
Frinia di tulli questi, ovioio, nel lib. II Ari. amai., vv, 113-16, avea 
dello: • Forma bonum fragile est, qnanlumque aocedit ad annos | 

• Pìt minor, el spatio carpilur iput suo. j Nee violao semperve hya- 
« olnthina lilia floroiil, j Et rigel amisEa spina retiola rosa». — An- 
che qui (giova rip«tert<J abbiamo scelti, (Va i moltissimi, alcuni di 
quei passi che o più s'accoslano ai versi del Tansìilo, o piò focil- 
manle potarono sasergU nella wemoria. 



POEMETTO 57 



XIII. 



Erbe son dunque e fior vostre bellezze, 
e primavera gli anni che menate; 
voi siete gli orti, che le lor vaghezze 
ne* dolci grembi vostri riserbate, 
acciò ch'ogn'uom vi brami, ogn'uom vi apprezze; 
e perché ne Tautunno e nella state 
suo convenevol frutto ogni fior porti, 
noi seme gli ortolan, voi sete gli orti. 

XIV. 

Questi son que' begli orti, e questi fóro, 
che raccontano i vecchi, ombrando il vero, 
che gli arbor carchi avean di poma d'oro, 
e che le donne, che n*avean l'impero, 
acciò ch'uom non cogliessi i frutti loro, 
vi tenean chiuso un drago orrido e fero, 
che qualunque d'entrarvi s'arrischiava, 
o '1 ponea ratto in fuga, o '1 divorava: 



Xni, 3. P Stt. sete; M' siate; SU. d(J le lor. 5. P Slt. brami e; M' vi 
prese. 6. M' e nelVesiate. 8. M' Slt. siamo; M siete, 

XIV, 3. M pomi; Stt. pome. 5. P Slt. cogliesse. 7. M' e queUiinque; 
M' Stt. arischioA^a. 8. M' P o ponea; Stt. o in fuga il ponea ratio. 

XIV. Si richiama il T., in questa a nella seguente ottava, al famoso 
mito delle Esperidi, penultima delle fatiche d'Ercole, che ha offerto 
SI largo campo alla fantasia de' poeti e degli artisti (Pauly, Real 
EncycU, lU, 1168 sgg.; Dcnhmàler del Baumeistkr, I, 685 sgg.). — 
2. Ombrando qui vale « adon>brando ». E non c'è che dire; ecco 
un'interpretazione della favola nuova di zecca! — 3. Esiodo, Teog,^ 
215-16: « 'Ecizzoi^xg 3'\olI^ [mXy, Trép-zìv /AutoO 'Oxsavoio | 
« XpjGsa •KcCk'x. [AéXo'jfTt ^épovrà ts SévSpa xap7:óv ». — 6-8. 
Sentasi quel che dice del drago custode dei pomi Apollodoro (II, 
5, II, 2): « 'E(p'jXaa<7C Ss a'jTà Spàxwv à3"àvaT0;, Tu<p(3vo; 
« x.ai 'E5(^tòvY)^, 3ts(pa>.à? s/ow éxarov èypviTO Ss <pojval; 
« TTavToCat; 5cal -TrotxtXat^ ». E cfr. Virgilio, jfw., iv, 483-86. 

8 



58 IL VENDEMMIATORE 



XV. 

e che per forza poi vi venne a entrare 
un uom di valor pieno e di fortezza 
(Ercole, credo, si facea nomare), 
che U drago uccise, e tolse ogni ricchezza. 
Le poma d'or son le belleze care, 
donne, che avete, il drago é la fierezza, 
che dentro a' vostri cuor chiusa dimora, 
et ogni bel piacer caccia o divora. 

XVL 

Prima che '1 tempo, vie più d'Ercol forte, 
uccida i pensier vostri, e la beltade 
ne porti via per farne dono a Morte, 
cogliete i frutti de la verde etade; 
aprite ai bei desir le chiuse porte, 
cacciandone di fuor la crudeltade, . 
che le vostre bellezze in guardia tiene, 
e non vi fa gioir di tanto bene! 



Xy, I. M perche! per forza; M' Stt. intrare, 2. M M' P forteza. 3. P 
Stt, òhe si fea; M' che si fa, 4. Stt. accise; M' riccheza, 5. M Stt. po- 
rne; Stt. bellezze, 6. M fiereza. 7. M' drenio ai. 

XVr, I. M' P cìie Ercol; Stt. d'Ercole più forte. 2. M' v'occida, 5. Stt. 
i bei desir, le, 

XVI. GASP. Visconti, Trans, del Carnevale (cito da\VA7Xh. st. lomb,^ 
XlIIi 551): « Ciascuna il suo amator, donne, contenti | Fin ch'aveti 
« i crin d'oro e i dolci sguardi, | Acciò di voi alcuna non se penti, 
« I E non vaglia il pentir per esser tardi, | E non sofriate che Ta- 
te mato stenti » ecc. Che stretta analogia tra questi e i versi tansil- 
liani! Eppure, a un'imitazione diretta non è da pensare, vedemmo. 
Anche Taltissimo, Strami), e sonetti, ed. Renier, p. 16: « La lunga 
« età con lento ir guasta e 'ftibruna | Ostinate bellezze e membra a- 
« cQrbe; | Però comparti e verdi anni e' bei tempi, | Sazia chi t'ama, 
« e le tue voglie adempi ». E il Poliziano, ed. Carducci, p. 243: « Deh, 



I^OEMETtO 59 



XVII. 

Se mentre il corpo è vivo non godete, 
sperate di goder quando gl'é morto? 
Quel paradiso, che bramar solete, 
che pensate che sia, altro che un orto? 
E se qnest'orto in grembo vel tenete, 
perché non vi pigliate indi diporto? 
A che loco cercar da voi diviso, 
se in Voi stesse trovate il paradiso? 

XVIII. 

Se non togliete il ben che vi è da presso, 
come torcete quel che sta lontano? 
Spregiar il vostro mi par fallo espresso, 
e bramar quel che sta ne Taltrai mano! 
Voi sete quel che abbandonò se stesso, 
la sua sembianza desiando invano; 
voi sete il veltro che nel rio trabocca, 
mentre Tombra desia di quel che ha in bocca. 



XVir, 2. p Stt. quand'egli è. 4. M se non un orto. 5. Slt vi tenete, 
6. M' il bel diporto; P in lui diporto. 7. M' P luogo ; M' P Stt. da noi. 
XVIir, 2. Stt. v'è lontano. 3. P Stt. spreggiar, 6. M' disiando. 

« non insuperbir per tuo' belleza, | Donna; ch'un breve tempo te la 
« fura. I .... Mentre che il fiore è^ nella sua vaghezza, | Coglilo; che 
« belleza poco dura » ecc. Già Leon. Giustinian avea detto (Stra/m- 
botti, ed. D'Ancona, n. 7): « Non perder, donna, el dolce tempo c*hai, 
« I Deh, non lassar diletto per dureza: | Tempo perduto non s'acqui- 
« sta mai, | Né anche in donna non riman belleza » ecc. Tanto ba- 
sta; ma si ricordi quello che osservammo nell'Introduzione. 

XVII, 4. I^a lezione altro che, da noi preferita, trova riscontrò nel 
V. 1003 dei Due Pellegrini. 

XVIII, 2-3. « Amittit , merito proprium qui alienura appetit ». Cosi 
Ffimio, sai principio della famosa favola, a cui qui appresso si ri- 
chiama il Tansillo. 



6o IL VENDEMMIATORE 



XIX. 

Lassate Tombre, et abracciate il vero, 
non cangiate il presente pel futuro: 
anch*io d'andare in eiel già non dispero, 
ma per viver più lieto e più securo, 
godo il presente, e del futuro spero, 
cosi doppia dolcezza mi procuro; 
ch'avviso non saria d*uom saggio e scaltro 
perdere un ben per aspettarne un altro. 

XX. 

Anzi, chi perde Tun mentre é nel mondo 
non speri dopo morte l'altro bene, 
perché si sdegna il Ciel dare il secondo 
a chi '1 primiero don caro non tiene; 
COSI, credendo alzarvi, gite al fondo, 
et ai piacer togliendovi, alle pene 
vi condennate, e con inganno eterno, 
bramando il ciel, vi state ne T inferno. 

XXI. 

Voi sete al mondo e a Dio, chi ben misura, 
e non il tempo, le nimiche vere; 



XIX, I. M' P lasciate; M' Stt. ombra; P Stt. ablfracciate. 2. P Stt. 
col futuro. 3. Stt. ch^ancìi' io.., al ciel ; P nel ciel ; M non mi dispero, 
4. M sicuro. 6. M proccuro. 7. P cfie aviso; Stt. ch^a guisa non saria. 

XX, 3. Stt. disdegna..^ dargli 'l s, 4. M' primero. 5, Stt. andate al 
fondo. 6, M' e ai; Stt. et i piacer. 7. Stt. condannate, 

XXTy.i. M siete; M* che ben. 2. P Stt. nemiche; M' Vimtriche (errore 
di lettura, invece di inimiche), 3. Stt. rende al mondo. 4. M' furate 
non può. 6. P auoelli; M' li uccielli. 7. M né queste. 8. M' etteme; 
M le lor leggie; Stt. servon le lor. 

XIX. Vedi quello che nell'Introduzione si è detto di quést*ottava e 
della seguente. 



POEMETTO 6 1 

il tempo torna al mondo ciò che fura, 
quel che furate voi non può riavere: 
quanto amar più che voi deve Natura 
gli augelli i pesci, gli animai le fere; 
né questi pur, ma piii che voi le piante, 
che eterne servan le sue leggi sante! 

XXII. 

Co* fidi amanti lor volan gioconde 
le semplici colombe, in ciò ben sagge; 
segue raccesa femina per Tonde 
il maschio pesce, e al suo piacer la tragge; 
mugge la vacca, e al suo torel risponde, 
che lei cercando va per boschi e piagge; 
Tempia leonza al suo leon si piega; 
e voi più dure sete a chi più prega! 

XXIII. 

€iò che d'intorno a noi, donne, miriamo 
par che Tesempio del suo amor n'additi. 
A che le selve, il cielo e '1 mar cerchiamo? 
Risguardate questi olmi e queste viti, 
che noi degli onor lor lieti spogliamo, 
come, tacendo, ognun par che ne inviti 
a quella vera gioia, a quel diporto, 
dov'io co' le mie voci oggi vi esorto! 



XXII, 2. M M' sernplicie. 3. M* femmina. 4. M a suo; M' P Stt. lo 
iragge, 5. M la vacha e il suo, 7. M' Stt leonessa. 8. P priega, 

XXIII, I. M M' Stt a uoi, 2. P Stt. essemplo. 4. P Stt. riguardate; 
M gttardate. 2, 4, 6. M' addite, vite, invite. 8. P Stt. essorto, 

XXII, 3-4. Gostruispi: il maschio pesce segue l'accesa femmina; che 
tali sono pur nei regni marini le usanze d'amore. E lo sapevano già 
gli antichi. — 5. Ovidio, Art. am>.^ I, 279: « Mollibus in pratis ad- 
« mugit femina tauro ». 

XXIII, 4-5. Intendi: noi vendemmiatori. Onor dei prati o degli al- 
beri gli antichi (imitati dai nostri poeti) chiamavano i fiori e i frutti. 



é2 IL VENDEMMIATORE 



XXIV. 

S'a Tacqua, che dal ciel per grazia viene, 
la terra il grembo suo sempre chiudesse, 
quest'olmo, che nelFaria oggi mi tiene, 
converria che seccando giù cadesse; 
e se ramata vite, ch*ei sostiene, 
nelle sue braccia notte e di non stesse, 
questo bel fratto o nulla o tal seria, 
che di corlo ogni man si sdegneria. 

XXV. 

Cosi, se i dolci grembi non spiegate 
all'acqua che d'Amor piove e discende, 
cader vedrete a terra la beltate, 
che superbe nel ciel v'alza e suspende; 
o s'alle braccia altrui non v'appoggiate, 
frutto nessun da voi gentil s'attende: 
sien di nostre acque i vostri grembi colmi, 
siate le viti voi, noi siatao gli olmi. 



XXIV, 1. M se Vaqua. 3. M die nel mondo; Stt. ci tiene, 5. M che 
sostiene, 7. Stt, faria. 8. Stt. di torlo.,., disdegnaria, — Manca in P 
questa ottava. 

XXV, 2. M alVciqua che dal ciel; M aqua,,,. descende. 4. Stt. so- 
spende. 6. M' Stt. frutto gentil da voi nessun. 7. Stt. nostre a>cque vo- 
stri. 8. M siete le vite; M' vite. — Manca in P questa ottava. 

Virgilio, Georg.^ Il, 494: « ... silvis aquilo decussit honorem » ; Ora- 
zio, Oef., T, XVir, 16: « . . ruris honores »; Silio Italico, Pun,^ ITI, 
487: « ... aestatis honores»; Stazio, Teb ^ X, 7: « ... veris honore so- 
« luto ». 

XXIV, 3. Giova ricordare, che queste ottave si fingono rivolte da 
un vendemmiatore, arrampicato sopra un olmo, alle donne che lo 
circondano; in mezzo al tripudio degli altri suoi pari, sospesi in a- 
ria come lui. Cfr. la st. LXXV, vv. 58. — 7. Il bel frutto è un grap- 
polo che il vendemmiatore, staccatolo dalla vite, mostra dall'alto 
alle donne. 



POEMETTO 63 



XXVI. 

« 

Questi arbor carchi, elio sMnchinan tutti, 
quasi la terra ringraziando e *1 cielo, 
che gli han col tempo a tanto onor condutti, 
se, offesi in sul fiorir da nebbia o gelo, 
appresso ai fior non produceano i frutti, 
che preggio avrian? Tal ha colei che *1 zelo 
d'AoQior non sente ne Tetà. sua verde, 
e senza frutto il fior degli anni perde. 

XXVIl. 

Non siate, donne, ingrate e neghittose, 
dove cortese e presto il Ciel v'è stato! 
Se siete del ben vostro desiose, 
fuggite l'uno e l'altro empio peccato! 
Già le campagne omai son tutte erbose; 
trovi ciascuna al suo giardin beato 
chi notte e di s'ingegni e s'affatighi, 
il terreno lavori, e l'erbe irrighi. 



XXVI, I. Stt. aWer ch'or; M' ch'or si chia/mon. 2. M' qucusi in 

la terra ringraziando il. cielo, 5, M producono; Stt prodtiria^o. 
6. M M' Stt. che peggio; Stt. che zelo; M' in tal maniera il zelo, 8. 
M M' i fior. Manca in P questa ottava. 

XXVlr, 3. M' sete; Stt, e del ben vostro essendo d,; M disiose, 8. 

M che il terreno erba; Stt% che H terren gli. 7-8. M* affatice..,.. ir- 

rige. Manca in P. quest'ottava. 

XX VJ, 3. Gfr, la nota alia st. XXIII. — 6-8. Petr., I, s. 130: « A- 
« mor, che 'ncende '1 cor d'ardente zelo ». Panfilo Sasso, Strafn- 
bottif in Bibl. di leu. pop. ii,^ I, 283: « Però provedi, mentre el fiore 
« è verde, | Che questa gioventù presto si perde ». 

XXVII, 1-2. Serafino dell'aquila, loc. cit. (parlando alla sua 
donna): « T'ha data qualche grazia la Natura | Che la triunfl e che 
« la stimi cara », 



^.. -,-... Jìa, 



64 IL VENDEMMIATORE 

XXVIII. 

Et io, come un di quei che di quest'arte 
da che nacqui fui vago, e sono ognora, 
e conae usar si debba, a parte a parte, 
a qual guisa, a qual loco et a qual ora, 
per prova so, non per voltar di carte, 
e che per vostro amor contento fora 
andar, s'uopo vi fusse, al regno stigio; 
a voi m'oflfero sempre a tal servigio. 

XXIX. 

E benché all'uom che pregio et onor brama 
di se stesso parlar molto sconvegna, 
perché la lingua, ove 'I cor teme et ama, 
non è nel suo parlar di fede degna; 
Tesser precone all'uom della sua fama 
pur qualche volta par che si convegna, 
quando vien a parlar per un di dui : 
per fuggir biasmo, o per giovar altrui. 



XXVIII, 2. M M' naqui. 3. M' debe; vStt. debbia, 7. Stt. fosse, 

XXIX, I. M a chi pregio; P a lui che; Stt. a quel che pregio d^o- 
nor brama. 2. M' P sconvenga. 3. M' ove che teme. 4. M del suo. 5. 
P ad uom. 7. M de dui, 

XXVIir, 5. Ariosto, Ori fur., XIX, 21: « E senza molto rivoltar 
di carte ecc. ». 

XXIX. Ecco garbatamente riassunte, per bocca dell'allegro ven- 
demmiatore, due intere pagine del Convivio di Dante (Tratt I, cap. 
2): « Non si concede per li Retorici, alcuno di se medesimo senza 
« necessaria cagione parlare »... « Perocché non è uomo che sia 
« di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria carità ne ingan- 
« na ». Tuttavia, « per necessarie cagioni lo parlare di sé è conce- 
« duto ». Tra queste, due sono più palesi: « Tuna è quando senza 
« ragionare di sé, grande infamia e pericolo non si può cessare » 
(es.n: Boezio nel De consolatione); « l'altra è quando per ragionare 
« di sé, grandissima utilità ne segue altrui per via di dottrina » 
(es.": S. Agostino nelle Confessioni), 



POEMETTO 65 

XXX, 

Per giovar dunque a voi, la cui salute 
vie più che '1 proprio ben, donne, desio, 
io stesso canterò la mia virtute, 
senza che tema bìasmo il canto mio; 
e forse, poi che 'ntese e conosciute 
le forze avrete e le prodezze, ondMo. 
mi do più ch'altri vanto ai tempi nostri, 
terrete a grazia avermi agl'orti vostri. 

XXXI. 

Ma se, per mia fortuna iniqua e fera, 
a tanto onor voi non mi degnerete, 
pur di quest'arte la dottrina vera 
nelle parole mie coglier potrete; 
e fla 'l vostro piacer più c!ie non era, 
quando i begli orti a cultivar darete, 
sapendo che bisogna ai buon cultori, 
per far vostri terren vie più migliori. 

XXXII. 

lo dico, che convien primieramente 
a chi questMnclit' arte oprar desia. 



XXX, 2. p Stt via pili; SU. bramo e desio, 3. M* Stt. conterò, 4. Stt. 
chUo tema blasmo aU 5. P forsi, 6. M prodeze. 

XXXI, I. M' Stt fiera. 2. P Stt. degnarete. 4. M mia, 6. M' quando 
che gli orti; Stt. i belli; P Stt. coUivar. 7. M' P bisogni; P Stt. col- 
tori. 8. P Stt. via più; Stt. megliori. 

XXXrr, I. stt. prtmeramente. 3. P Stt. a:bbondevolmente. 4. M* 
deiU; M degC instrumenti ; Stt str omenti. 5. P foXigar. 6. M buon 
terren; M.^ faria. 7. M vomeri.,, sicuri; Stt vomeri e pali a far si- 
curL S. M* sien; P stioin; Slt sian. 

XXXII, Qui principia la lubrica dottrina del vendemmiatore; alla 
qiiale, per ragioni già esposte (e facili, del resto, a capire) ci aste- 
niamo dal fare ogni e qualsiasi commento. Non occorre dire, che 
i riscontri, chi ne volesse, abbonderebbero! 



66 IL VENDEMMIATORE 

che d'ogni tempo et abondevolmente 
degli strumenti suoi prò visto sia; 
che 'n altra guisa il faticar sovente 
poco, profitto al bel terren daria; 
zappa, vomere e pai sodi e securi, 
che quanto più s*adopran piii stien duri. 



XXXIII. 

Chiunque brama con quest'arme oprarsi 
convien che i membri abbia robusti e sani; 
che per spesso chinar, per spesso alzarsi 
stanco dal bel lavor non s'allontani; 
e, perché possa ovunque vuol girarsi, 
il corpo abbia leggier, destre le mani; 
colme medolle abbia di caldo umore, 
acciò che sudar possa a tutte Tore. 



XXXIV. 

Di queste e d'altre cose s'io n'abbondo, 
non credete a mia lingua, ma a vostr'occhi; 
e se '1 veder non basta, i' vi rispondo, 
che m'offro a far che '1 ver con man si tocchi. 
E cose tro verrete rare al mondo; 
non facciate l'error, che fan gli sciocchi, 
in rimaner contente del pensiero! 
L'esperienza è il paragon del vero. 



XXXIII, I. P oprarse; 2. P che membri; M' che membra,., robu- 
ste e seme. 3. M* chinarse e spesso alzarse, 4. SU. lavor bel; M' al- 
lontame. 5. Stt. voi; M' P girarse. 6. P legier; M' m^ine, 7. P medolla; 
M' le madolV abbia e caldo. 8. p a ciò. 

XXXIV, I. M iSe d'este e d'altre cose V non a^ondo; Stt. et altre... 
abondo. 2. M crediate.,, ochij. 4, M cfie m^offero cheH ver con m,an 
si lochi; M' a far veder chcH ver si tocchi. 5. P troverete; Stt. tro- 
varete. 6, M gl'error; M' P fanno i. S. Stt. ch'esperienza; M* Stt. è 
lìaragon. 



POUUÉrfÓ è'J 



XXXV. 

Fortunato il terren e' ha '1 mio governo! 
Che più che '1 di v'intendo ancor la notte; 
né per molto zappar, la state e '1 verno, 
l'invitte forze mie son sceme o rotte. 
Quei che tormenton l'alme ne l'inferno 
non dan con tal poter qual io le botte; 
tal, che non pure il ferro a dentro caccio, 
ma vi caccio anco l'asta infino al braccio. 

XXXVl. 

Ck>n tanta agevolezza il palo adopro, 
che un sol sospir di bocca non esalo. 
Pria, con la falce in man, la terra scopro, 
indi nel grembo suo lieto mi calo, 
e col mio corpo tutta la ricuopro, 
piantando nel bel sen tutto il buon palo; 
cava, né mai dal suo cavar si tolle, 
fin che col mio sudor fo il fosso molle. 

XXXVII. 

E se di sete avvien ch'io m'arda e strugga, 
per soverchio sudor che dal corpo esca, 
non vi crediate ch'ai fiascon rifugga, 
o m'attuffi nell'acqua pura e Adesca! 

' Un sol ciriegio^ che premendo io sugga, 
o un pomo all'opra ratto mi rinfresca; 



XXXV, 2. M attendo più la; Stt. più del.,, vi afTatigo, 3. P Vestale. 
5. P Stt. tormenta/n, 6. M coni' io, 7. M dentro io; M' adrenio; Stt. 
dentro, 8. M' P ma Vasta a^cor vi mando fin (o in fino); Stt. wia 
Va^ta vi m£Uo anco. 

XXXVI, 3. M' scuopro. 5. P Stt. ricopro, 8. M M' col mio cavar. 

XXXVII, I. Stt. E s*avien che di sete; M* P cTie m\' M o strugga, 
3. P credete; M fiasco; Stt. ch'ai buon vin. 5. P cireggio; Stt una 
ciriegia che premendo sugga, 6. Stt. a Vopra tutto, 8, Stt. e H m,iglior 
de le membra. 



é8 IL veNdembIiatoré 

addolcisce la sete, e non rammorza, 
e i miglior membri tatti mi rinforza. 



XXX\Tn. 

Rigido, acuto, grosso, duro e tondo 
è, donne, il pai chU' pianto nella terra, 
e di tanta lunghezza e di tal x>ondo, 
quanto par si richieda a simil guerra: 
finché la punta sua non preme il fondo 
mai non s'arresta di passar sotterra; 
e mentre in su e 'n giù cade e risorge, 
quanto più fiere, più dolcezza porge. 

XXXIX. 

Tanto talvolta nel cavar m'accendo, 
che trasformarmi in pai tutto vorrei; 
e tal piacer ne la fatica prendo, 
ch'altro riposo mai non chiederei: 
né, vinto dal sudor, stanco mi rendo 
per aver fatto cinque cave o sei; 
anzi, s'avlen clie buon terren ritrovo, 
a sette passo, e non mi resto a nove. 

XL. 

Ma se m'incontro a terren duro et aspro, 
non mi vergogno d'adoprar I-aratro; 
se fusse vie più duro che '1 diaspro, 
tutto, qual fragil vetro, il rompo e squatro; 



XXXVIir, I. P rlygldo, 3. M* tanta dolciezza, 4. M richiegga; P 
(jual pare si ricìiieda, 5. Slt. non tocca, 6. M s'arretra. 7. M* P in 
giù e in su. 

XXXIX, I, Stt. talora. 4. M' chiederrci. 6. P fatte, 7. M* io trove. 
H. StU le sette,,, in'art^esto. 

XL, I. M' Stt. in terrai. 2. M' vergogno adoperar. 3. P Stti via 
più ; rI duro assai più che. 4. P fraggll. 5. Stt. vien più molle, 6. M* P 
soglian, 8. P stt. via j)iù; M' P abrada. 



. '>" 



POEMETTO ^9 

e qaanto più il fo molle, più m' inaspro, 
e ben che soglion dir, che U terren atro 
sia più fecondo dove il seme cada, 
il bianco a me vie più che '1 negro aggrada. 

XLL 

Con un vomere tal la terra sveno, 
che ugual nel grembo Cerere non folce; 
tal che, contenta quando il tien nel seno, 
noi Yorria mai lasciar, tanto gli è dolce. 
Piaga rigidamente il bel terreno, 
e con la stessa piaga il placa e molce; 
quanto più il solco fa profondo e largo, 
tanto più dolce il seme entro vi spargo. 

XLll. 

l buoi che danno al vomere vigore 
stan notte e. giorno sotto il giogo a prova; 
né, per soverchio sparger di sudore, 
ne la lor pelle piaga unqua si trova: 
anzi» il trar dell'aratro a tutte Tore 
timto invaghisce lor, tanto lor giova, 
che vorrian tutti entrar col vomer dentro, 
e passar della terra inflno al centro. 

XLIII. 

De' giorni più miglior, de le stagioni 
ch'arar si debba e seminar la terra, 



XLT, 2. Stt. che egual nel grembo corre e non si folce, 5. P riggl- 
V damente. 6. Stt. Vistessa. 7. Stt. fo. 

XLII, I. M' P il vigore. 2^ 4. M pruova^ truova. 4. P Stt. piega. 
6. M' gli giova. 

XLIir, I, 3, 6. M stagione, opinione, cagione, 2. P sementar. 4. P 
Stt giunge; M' si dilegua. 5. P ca>gioni. 7. M fiotti, 

XLT, 2. Cfr. la nota alla L delle Stanze al Mariirano. Qui, peral- 
tro, Cerere sta in luogo di " terra ,,, e non di " messi „. 



IL VENDIiMMIATORE 

varie son più che' fior l'oppinioni; 
chi giagm al ver, chi si dilunga ot erra. 
io, che cercar non vo' tante ragioni, 
dico, che d'ogni tempo eie" far guerra 
l'uom con quel Joco onde tor frutto brama; 
e perù quel terren campo si chiama. 

XLIV. 
Ogn'opra, ogni futica, evo a'aceenile 
J'agricoitor iìe nulla al suo disegno, 
sema quell'acqua, che la (erra rende 
et umida e feconda, e dà sostegno 
a l'erbe che son nate, e le distende. 
Onde a parlar di lei lieto ne vegno, 
e to' ctie 'I mollo ver, donne, ai mostri, 
come irrigar si debbin gli orti vostri. 

XLV. 

Pili che mei dolce, e pili che latte pura, 
è l'acqua che spargemo agl'orti noi; 
e percht^ il buoD terren presto e' indura, 
cavar si debbo prima, e bagnar poi; 
e acciò che l'acqua corra con misura, 
mando per canal dritto i rivi suoi; 
e tanto pili prolilto al terren lassa, 
quanto pili a dentro penetrando passa. 

XLVI. 

Dalla lingua de' vecchi empia e profana 
non si lasci ingannar donna gentile; 



X[,IV, 1. P raliga, i. M agì-tcuUore; M' P fia, 4. SII. cJiV uniida. 

5. Stt U dilfende. 6. SU. ond'Jo. 8. M' delìbon; P debban. 

X[.V I. M' 3tL ohe'l mei; Stt, ehe'l lalU. 3. M' sia; P sM; SU. 
/la. 3. M' P Stt. spesio. 6. Slt. manda; M' p mandi. 7. Stt. e tanto 
vHU ptà. S. M' vili Uranio; Stt più dentro. 

XLVI, I. M veOtl. 2. P si /italo. 3. P SIL bagnano. 5. SIL e itiVna. 

6. a a l'uom; P OOibole; M' debile. 



POEMETTO 71 

che si bagnino grorti a settimana, 
dicono, e non d'agosto, ma d'aprile: 
fallace è lor sentenzia, iniqua e vana, 
conveniente ad uom debole e vile; 
spargasi l'acqua agl'orti entro e d'Intorno 
al men tre volte, fra la notte e il giorno. 

XLVll. 

Chi non fa questo iniquamente pecca, 
e puossi dir ministro del suo danno; 
che l'erba verde al miglior tempo secca, 
né frutto alcun promette al fin dell'anno. 
Mirate, come sugge, e come lecca 
quell'umore il terren, quando altri il danno! 
Di qua veder si può con chiara prova, 
che l'uom che pid lo bagna più gli giova. 

XLVUl. 

L*ore dell'irrigar ben che alcun volle 
che la sera e '1 mattin sian le migliori, 
che più per temjK) o tardi l'acqua bolle, 
et arde l'erbe coi scaldati umori ; 
io vo'che '1 mio giardin stia sempre molle, 
senza dar tante leggi a' mìei sudori : 
giova a tutte ore, acciò che l'erba cresca, 
far che la terra sia bagnata e fresca. 

XLIX. 

Deh, se quell'acqua, di che lieto ognora 
bagno la terra ov'io vo'far semenza, 



XLVII, 2. P possi. 3. M' a meglio, 7. P vider. S.F che a V; MP 
li giovai. 

XLVm, I. M* Vora. 2. P matin; M da sera e mattin; SU. oH 
maUinsia^o m^igliori. 4. M' et arde assai con gli; M Stt con scal- 
dati, 5. Stt. sia sempre. 6. M' tanti indugia (sic). 7. M' P a tutto ora. 
8. P Stt. stia. 

XLIX, I. Stt. quest'acqua, 3-4. Stt. donne mie care^ provaste talO' 



72 IL VENDEMMIATORE 

provaste, care donne, una sol' ora, 
forse vi dolerla di starne senza! 
Voi del mio dir tutte ridete; ano' ora 
ne brameresti far l'esperienza? 
Oh, se la fate, un'acqua proverete, 
che quanto più si bee, più doppia ^ete ! 

L. 

Oltre la zappa, il pai, l'aratro e Tacque, 
e le stagion d'oprarli, e '1 modo, e l'ora, 
de' quali il men si disse e*'l più si tacque, 
s' i' vi vo' dir tutte quell'arti ancora 
ch'usar si ponno, e da qual d'esse nacque 
più dolcezza al terreno e a chi '1 lavora, 
e parlar d'ogni pianta oggi a bastanza, 
vie più de l'opra che del tempo avanza. 

LI. 

Ma perché rade volte uman desio 
di molto suo sperar buon frutto prende, 
senza soccorso d'alcun nume pio, 
che '1 ben ch'egli desia dona o contende, 
onde ciascun fa maggior preghi al dio 
e' ha più poter no l'opra ov'egli 'ntende; 
indi nacquero i tèmpi e i sacerdòti, 
l'offrir de gli olocausti e 'l dar de' voti. 



ra, I So che vi dolerla, 5. M voi tutte del ; Stt. e voi che del mio dir 
ridete. 6. P Slt. bramareste, 7. M' proverrete; P Stt. protarete, 8. Stt. 
"''n bee cresce la. 
L, I. M Stt. oltra. 2. P oprargli; M' oprarle; Stt. oprarsi, 3. M 
sse il, 5. M puonno. 6. P dolcezze. 8. P Stt. via più; Sti del giorno. 



disse 
LT, 
premio 
di qui 



L, 8. Petr., Tr. d\\., II, 72: « E più dell'oppa che del giorno a-, 
.nza ». 



vanza ». 



POEMETTO 73 



LII. 



Perclié nel campo suo buon frutto mieta, 
l'avido agricultop, dubio del vero, 
Cerere onora; Apollo il buon poeta 
prega perché dipinga il suo pensiero; 
chiama con voce or tempestosa or queta 
Nettunno il marinar, Marte il guerriero, 
Cupido Tamator, Febo il non sano, 
e '1 nero fabro adora il suo Vulcano. 

LUI. 

Cosi molti altri e molti adora il mondo 
numi benigni e presti ai desir nostri: 
a chi pili porge et a chi men, secondo 
ciascun pili largo altrui par che si mostri. 
Acciò che, donne mie, frutto giocondo 
il soave lavor de' terren vostri, 
dopo tanti sudori, a noi riporti, 
bisogna ch'onoriate il dio de gli orti. 

LIV. 

Alla madre d'Amor, Venere bella, 
la tutela de gli orti il mondo diede, 
e non senza cagion, si come quella 
onde il principio d'ogni ben procede: 
ma poi che questa dea già, nuova stella, 
se ne portò nel ciel sua ricca sede; 
perché non fusse in ciò dai ladri offesa, 
lasciò de gli orti al figlio la difesa. 



LII, I. M' del campo. '2. P Stt agricoltor difd^fe. 6. Stt. Nettuno. 
8. M il negro; M' negro; Stt. il vero (sic). 

LUI, I. P onora. 3-6. M' inverte l'ordine della 2* e 3» coppia di 
versi, non senza errori grossolani. 8. P onorate; M' el dio delti, 

LIV, 2. M delli. 5. P tStt. nova. 6. M richa, 7-8 M' dai santi (!); 
lassò delli. 

IO 



74 IL VENDEMMIATORE 



LV. 

Non già ad Amor, come credete voi, 
ancor che senza lai cosa nessuna 
né nascer può, né viver qui tra noi; 
ma a quel, che dalle fasce e da la cuna 
ella amò più che tutti i figli suoi: 
il qual, senza cercar maggior fortuna, 
nato si giace ove nascendo giacque, 
vago sol di morir là dov'ei nacque. 

LVl. 

Ella il produsse, e Bacco generoUo, 
onde spesso da lui toglie 4 vigore; 
Priapo il nominò chi pria ctiiamollo, 
ben che *n più voci il mondo ancor l'onore 
non arco in mano, né faretra al collo 
porta, come il crudel germano Amore; 
con una falce in man finger si suole, 
ma Tarme con che nacque adopra sole. 



LV, I, Sii,' già d\ 2. Stt. nlssuna. 3. M più tra noi. 6. M miglior. 
8. M di dormir; Stt. dove nacqite. 

LVI, 2. M prende. 4. M' P voce; M' a/ncora il mondo onore, 7. P 
Stt. pinger. 8. M' Stt. adoprar vole. 

LV, 3, Preferiamo la lezione qui tra noi, che ha riscontro anche 
nel Petrarca (II, e. 6, st. 3: « Ch'altamente vivesti qui tra noi »; 
e altrove). 

LVI. La leggenda che fa Priapo figlio di Afrodite e Dioniso deriva 
da Lampsaco: v'hanno anche tradizioni diverse (cfr. Pauly, RecU, 
EncycL, VI, 44 sg.; Dpnkm. del Baumeister, III, 1406-8). Virgilio, 
Georg, f IV, 109-11: «'Invitent croceis halantes floribus horti; | Et 
« custos furum atque avium cum falce saligna | Hellespontiaci sep- 
« vet tutela Priapi ». Ovidio, Fast, I, 415: « At ruber, hortorum de- 
« cus et tutela, Priapus ecc. ». E tutti in questo proposito ricordano 
la nota satira d' Orazio (I, 8). 



f>OEMETtd 75 



LVII. 

Non Plora, né Pomona, ma Priapo 
bisogna che da voi dunque s'onori! 
Cingete il sacro e venerabii capo 
di liete e dolci erbette e di bei fiori: 
non di ruta, o d'assenzio o di senape, 
ma di quell'erbe, c'ban miglior sapori, 
et ai vostri giardin nascon d'intorno, 
fate ghirlande a lui di giorno in giorno. 

LVIII. 

Se cosi pie, religiose e sante 
a questo dolce dio vi mostrerete, 
oh che bell'erbe, oh che leggiadre piante 
ne' ben colti terren surger vedrete, 
che nascer già non vi poteano innante! 
Cosi, cangiando stil, donne, farete, 
acciò ch'uom mai di voi non si lamenti, 
gli orti fecondi e gli ortolan contenti. 

LIX. 

Potrammi qualche pura verginella, 
che senza prova ad ascoltar ne vegna, 
qual pianta domandar, qual erba è quella, 
ch'a gli orti vostri meglio si convegna, 
o seminar si possa, che sia bella 
e vie maggior virtù seco ritegna: 
dirovvi, di qual pianta e di qual erbe 
vo' che '1 vostro terren s'adorni e 'nerbo. 



LVII. 2. Stt da noi. 4. M' dolce. 5. M' sinapo. 6. Stt. meglior. 7. Stt. 
e ch'cU, 8. M' grillande. 

LVIir, I. M' P rellig'iose, 2. M mostrerrete; P Stt. w^stvarete, 4. M M' 
ne'' bel culti ; M' giardin, 5. M' potrien; M inante. 

LIX, I. Stt. virginella, 2. M* mi vegna, 3. P dimandar, 6. P Stt, e 
via; Stt. ne legna, 7. M P piante; SU. o di. 8. M addomi. 



q6 IL VENDEMMIATORE 



LX. 

L*amàraco, che odora, il buon serpillo, 
che con picciole braccia stringer suole 
la madre che benigna partorillo, 
Taspra borrago e lo crespe scarole, 
la calda eruca e '1 freddo petrosillo, 
che ciascuna di voi tanto ama e cole, 
e le molte altre, ch'usa il viver nostro, 
non ponno aver radice al terren vostro. 

LXI. 

Eretti gigli e flessiiosi acanti, 
vermiglie i*ose e pallide viole. 



I,X, I. Stt. cl^ikdwo e*l. 2. ÌS* piccole, 4. ìAhorrace; P Stt. Vctspre 
horragi; M' P scaruole, 5 Stt. ruta il; P il freddo. 7. SU. e di molte; 
M' il voler nostro, 8. M puonno, 

I.XI, I. P flestiosi. 2. M P rose, pallide; ìd.^ palide. 3. M' P narciso, 
4. M M' P Stt. ne generò (ma la correzione, chi ben rifletta, è neces- 
saria). 5. M' vari fior. 6. Stt. pigne, 7. P luogo; M' P faccia; Stt 
faccLan chiaro. 

LX, I. Virgilio, /sn., L 693-94: « amaracus adspirans ». — 

1-3. Boccaccio, Anicto, ed. Moutier, p. 86: « Quivi ancora abbonda 
« il serpillo, occupante la terra con sottilissime braccia », 
Di fatto, il serpillo è pianta strisciante al suolo per mezzo di nu- 
merose, sottili e contorte ramificazioni: la madre, s'intende, è la 
terra. Cfr. anche Teofrasto, iFist, planU^ VI, 7, 4; De oausts planL, 
ir, 18, 2. — 4. Bocc, Atneto, ed, cit, p. 91: « Ripieno.*, d'aspre bor- 
« raggini ». La lacluca scariola^ a cui qui allude sènza dubbio il 
T., ha le foglie laciniate, come dicono i naturalista — 5-6. Plinio, 
Ilist. nat.^ XIX, 44: p]ruca frigoriim conte mptrix ». Petrosillo 
vale *' prezzemolo „; e questa forma è uno de' tanti riflessi italiani 
di petroselinon. « Frigido petrosillo », anche il Boca, nel luogo 
cit. deWAmeto, che il T. imitava; e forse quest'epiteto si riferisce 
all'uso che ne facevano in medicina. 

LXI, I. Virgilio, Ed. X, 25: « grandia lilia »; PT.INIO, fflst. fuU.^ 
XXI, 11: « Nec ulli floruni excelsitas maior Iquam liliisj ». Viroi- 



POEMETTO 77 

6 narcisso^ e iacinto, e croco, e quanti 
fior generò mai ne la terra il sole 
quando di vari odor, di color tanti 
lieta nel volto ella si pinge et ole; 
ben che ogni loco faccin vago e bello, 
non giovano al giardin di chMo favello. 

LXII. 

Un'erba sola è quella che depporre 
ogni giovane donna al suo bell'orto; 
i frutti che da lei si soglion córre 
avanzan tutti gli altri di conforto; 
ma il sugo, che premendola ne scorre, 
potria quasi dar vita a un corpo morto; 
sanar vid'io sovente con quest'erba 
donne ch'eron già presso a morte acerba. 

LXlir. 

L'erba che nasce nell'Egitto, e porta 
oblio <rogni tristezza nello foglie; 



LXir, 3. Stt. e i fruUU 7. M viddUo, 8. P Stt. eran. 
LXIII, 2. M' tristeza. 5. M che sciuya; Stt. che svgge, 

LIO, Georg., IV, 519: « ».. aiit flexi... vimen acanthi ». Tjsocrito, Id. 
I, 55: « navTa S 'àjA-pl Xé7:a; tzz^iizÌiztoltoli Oypò; xxav- 

w"0^, che Viro., Ecl. IH, 45, traduce: « et molli circurn est ansas 
« amplexus acantho ». Molle acanto, anche 1' Ariosto, Ot'l. fur,, 
XLTII, 169; e cfr. Poliziano, Stanze, I, 119. — 2, Virgilio, Ecl. II, 
47: « Pallentes violas », e l'epiteto in poesia è divenuto comune. 

LXn, 5-8. Pbtr., IV, s. 8: « .. .. un suco d'erba, | Che purghe ogni 
pensier che '1 cor afflìge, | Dolce alla Une e nel principio acerba ». 
Ormai s'è visto, quanto il T. avesse familiari i versi del cantore di 
I^ura; ricordava egli anche questi? 

LXIII, 1-2. Plinio, Hlsl. nat., XXV, 5: « Ilerbas certe Aegyptias a 
« regia uxore tradilas suae Ilelenae plurimas narrat [Homerus; cfr. 
OefiM., IV, 220-21, 227 sgg.l, ac nobile illud nepenthes, oblivio- 
« nem fristitiae veniamque affercns ecc. ». Identicamente Teofrasto, 



78 



IL vendemmiatore: 

quella che spezza il ferro, apre ogni porta^ 
e dai laghi e dai fiumi Tacque toglie; 
quella ch'asciuga il sangue e'I riconforta, 
e qualunque erba oggi fra noi si coglie, 
si colse già mai nel tempo antico, 
non si pareggia alTerba di eh* io dico. 

LXIV. 

Voi non la troverrete, donne, in tasca 
d'erbaiuol, per esperto che si mostri; 
non crediate, che generi, o che nasca 
in altra parte, che negli orti vostri, 
da noi si mangi, o d'animai si pasca, 
come si fa de Terbe ai lidi nostri; 
anzi eirè tal, che non può donna alcuna 
tenerne a un tempo al suo giardin più ch'una. 

LXV. 

Quando la notte cresce e '1 giorno manca, 
et ogni pianta le sue foglie perde, 



LXIV, I. P trovavetc; Slt. troverete. 2. M erbatol; P ch'ei si. 3. P 
credete.... genlri; Stt. genere. 6. P Stt. de V altre. 7. Stt. ansi è talché 
non puote. 8. Stt più d^una. 

LXV, I. M' cresce, il. 2. M M' sua, 4. Stt. stassl; P Stt. integra, 6. 
A[ si rilorn'in. 7. M' Vadugia; Stt e H calor, 8. M il fior; M' odo- 
pia; Stt. e appresso il scine. 

Hist. piant. IX, 15, 35: « .... TÒ vTiTTSvS-è; è/-etvo.... 3cal Sijokov 
« cicTS WiSyjV TTOtstv xal àxàS-stav twv xaxcov ». sul nepen- 
tfies, BAiLLON, Hist. des plantes, IX, 23. — 3-4. Plinio, Hist. nal^ 
XXVI, 9: « Aethiopìdfì herba aiiines ac stagna siccari coniectu, lactu 
« clausa omnia aperiri »; ivi, XXIV, 102: « Aclhiopida in Meroe 
« nasci: ob id et meroida appellari, folio laclucae » ecc. Cfr. anche 
la nota dell'ed. Lemaire (voi. VII, P, I, p. 461). — 5. Plinio annovera 
molte erbe con proprietà emostatiche. Sarà quella di cui parla nel 
§ 69 del lib. XXVII? 

LXV, 7-8. Pktr., I, s. 36: « Qual ombra è si crudel, che *1 seme a- 
« dujjfge ». Aduggie qui vale "aduggia,,; e in tal senso Padopra an- 
che il Bembo {Rime, ed. Classici, p. 62). 



POEMETTO 79 

quando 8*apre il terreo, quando s'imbianca, 
sempre quest'erba si sta intera e verde; 
o, se divien talor languida e manca, 
si ristorai in un punto e si rinverde; 
quant' ombra più Tadugge e calor preme, 
tanto più spiega i fiori, e addoppia il seme. 

LXVI. 

Donzella, che solinga abbia paura 
di notturno fantasma o sogno, o d'ombra, 
o di streghe, o di magica fattura; 
quando l'oscura notte il ciel più adombra, 
tenga quest'erba in seno, e stia sicura: 
a chi tanta tristezza il petto ingombra, 
che la trae quasi di se stessa fuore, 
mangi quest'erba che rallegra il core. 

LXVII. 

E se stomaco avesse freddo e stanco, 
lo scalda, e Io rinforza al digerire; 
a chi rinchiuso umor noiasse il fianco, 
il sugo*di quest'erba ne '1 fa uscire; 
feconde fa le sterili, empie il manco, 
e fa le brutte subito abbellire: 
ma quel che più mi sembra cosa nuova, 
che tanto a fredde quant' a calde giova. 

LXVill. 

Chi gli occhi avesse molli e '1 viso smorto, 
questa rasciuga il pianto, e T incolora; 



LXVr, 2. M' notturna; M' P Stt. et ombra. 5. P secura. 6. M tri- 
eza. 7. M' fore. 8. Stt. cuore. 

LXVir, 2. M' e lo rinfresca. 4. Stt. nel fare il sugo di quesf erba 
soire, 7-8. Stt. e 'n ciascuna sua dritta e dura prova \ A fredde e 
Ude con par gioco giova. 

LXVIir, I. M M' avessi; ^ìi. molle. 2. M' gle li rasciuga e la; Stt. 

rincolora. 5. M Stt. vi trasporto. -7. M' cìCin lui si serba; P Stt. in 
li riserba. 8. P sarria; Stt. saria. 



8o IL VENDEMMIATORE 

chi piaDgessMl marito, absento o morto, 
questa lo trae (I*ogni cordoglio fora. 
A che via nel parlar più mi trasporto, 
per dir quanta virtude ìa Lei dimora? 
Il mondo tutto, e ciò che in sé riserba, 
spento in breve seria senza quest'erba. 

LXIX. 

M*accorgo nel mirar, ch'ognuna brama 
saper quest'erba, che cotanto io lodo: 
di rollo, per saziar Tardente brama 
e dalle dubbie menti sciorvi il nodo. 
Quella non mi sovien come si chiama 
dagli ortolan di Roma, a un certo modo 
che vuol dir menta piccola tra noi, 
è l'erba, donne mie, degna di voi. 

LXX. 

Dimandate a color, che nelle scole 
tormentano i fanciul con penne e carte, 
e sanno il sugo trar delle parole, 
si come voi dell'erbe, a parte a parte: 
quest'erba, che cosi nomar si suole, 
ò cosa buona o rea nella nostr'arte? 



LXIX, 2. M' saver. 4. M' duMe; Stt. e de le.., sciorre. 7. Stt. pie 
dola. 8. M M' mia. 

liXX, I. M doma/ndaten a Quei; M' d. costar; Stt. d. color; M M' 
scuole, 2. M penna; Stt. con verghe. 3. P dalle. 4. P siccome... da V ; 
M' Quei da C; Stt. qual coi de Vcrba cheH stio mal comiìarte, 5. P 
cossi.., sole. 6. M M' e rea; Stt. s'è cosa, 7. I* est; Stt. esser d, 8. P 
mostrarò; Stt. io 'mostrarvi la bra/mo se volete. 

LXIX, 5-8. Non fa d'uopo, invero, di molta dimestichezza con « gli 
« ortolani di Roma », per indovinare qual voce latina il T. qui tra- 
duca. 

LXX, 1-6. Allude ai famigerati pedanti, che troviamo accusali an- 
che del pili nefando de' vizi. Cfr. Graf, Attraverso il Cinquecento, 
l>p. 205 w, 213; CANELLo, St. d. lett. iU nel sec. XVI, pp. 20-22. Cele- 
bri, in questo proposito, i versi della VII satira deirARiosTO. 



POEMETTO 8 1 

Essi '1 diranno ; ma, per farvi liete, 
i* ve la mostrerrò, se voi volete. 

LXXI. 

Ogn'alma trista col mirar rallegra, 
et ogni infermo corpo al gusto sana ; 
s' alcuna tra voi, donne, vi fuss*egra, 
subito con quest*erba ella fia sana: 
lo stipe ha rosso, la radice ba negra; 
non la spregiate come cosa vana ! 
Se non avesse in sé molta vaghezza, 
attendete il valor, non la bellezza. 

LXXII. 

Il disio non s*appaga col parlare, 
per qaant' i* scorgo : orsù, sciogliasi il laccio 
di quella tasca ove si suol serbare! 
Mentre, per trarla fuor, l'apro e dislaccio, 
se vi volete più maravigliare, 
una di voi dentro vi metta il braccio; 
che, da lei tocca, in un momento cresce, 
e latte e mei della sua cima n*esce. 

LXXIII. 

Donne gentil, voi rivolgete il viso, 
chiaro mostrando, cheU mio dir vi spiace. 



LXXI, I. Stt. nel m. s'allegra. 2. M a ogni; Stt. il gusto. 3. P ne 
tusse; Stt. ne fosse; M' filasi. 5. M' P e la. 6. M sprezate; P spreg- 
aiate, 7. M' avessi, 8. M al valor; M' attendesi al.,., helleza; Stt. cre- 
sce il valore u*ma/nca la bellezza, 

LXXn, I. P desio, 2. Stt. quanto scorgo. 6. M' mitta. 7. M' che chi 
Usi; M toeha, 8. Stt mele da la sua cima esce; P da la. 

LXXIII, 3. P vuo\ 4. M Stt. perché m>irar ; M or vi dispiace, 5. M 
ouopre e il viso. 6. M* P indrieto, 7. Stt. più schive, 

LXXI, 5. Stipe per stipite, " fusto „ ; neologismo formato in base 
al nominativo della voce latina. 

T.yxin, 5. XnuUle ricordare, <}ui, il disiato riso di Dante. 

u 



IL VENDEMMIATORE 

S'i' to' mostrar vi il vostro paradiso, 

perclié 'i mirar qual prima or non vi piace? 

Clii eoa le fronde il volto copre e '1 risi 

ctii si fa indietro, e chi ridendo tace: 

or DOD Eiate si schive e vergognose, 

che il tìa s'attende ne l'umane cose. 



LXXIV. 
Deh, quanto errai nel cominciar del canto, 
giovane a chi '1 mìo dir vo'sot che piaccia! 
Quando le vecchie vi levai da canto, 
deh, perché non vi tolsi ancor di faccia 
questa, che, avvolta di s 
vi batte ne le guancio, ( 
e, per far onta a voi, gioia alle vecchie, 
a me chiude la bocca, a voi l'orecchio! 

LXXV. 
Vattene via. Vergogna, vatteu via, 
ch'altro color che'I tuo vo'che ne copra' 
Seguite il suon dell'alta voce mia, 
voi che di Bacco esercitata l'opra: 
cacciam da noi questa malvagia e ria, 
che i vostri e i mìe'tesoF non vuol ch'io i 
Vattene via, Vergogna aspra e severa, 
cagion ch'ogni piacer nel mondo péra! 



LXXIV, 3. P StL gtovant a CM 


■ M' co' vite lOl; P ma'. 3- M M' cc- 


ehle; 1> di aanlo. 4. Stt. anco. S- 


M SU. atolta, 7- M' oHe per far; 


Stl. e per famn onta et agraaii 


le i!eB0Me. 78. M M' cecAle, ons- 


ohU. 8. M bava. 




I.XXV, 3. P vuo\- M' ci ouoi> 


a. 3. M' aite. 4. M' set/tUtale) Stt 


CJseroJWW. s- M' aaaeiàn. 6, M' 11 


ia; Stl. voi; M' P 6tt. uft-S teopra 


(0 simopraì. 




LXXV, 1-2. Ci richiama nirovi 


disno - atei proeul inde pudor » 


(Ani^ m, 14, 18). — 3.6. Il vecidr^u 




a" suoi ODttfratelli, che, come lui. 


• pendono nell'aria », 



POEMETTO 83 

LXXVI. 

Vergofiiar ta, Vergogna, ti dovresti 
d'apparir qui tra noi nel tempo quando 
le parole e i pensier gravi et onesti 
8on da noi rilegati e posti in bando. 
Dovevi udir, so non sei sorda, questi, 
che ti van con lor grida discacciando; 
né puoi scusar, cheM grido non s'intende, 
ch'ognun per farsi udir nell'aria pende. 

Lxxvn. 

I tanti tuoi timor, tanti rispetti 
ai giorni sacri, e non a questi, serba: 
or con lascive voci, or con bei detti 
ognun le suo fatiche disacerba. 
Trova dunque, Vergogna, altri ricetti, 
mentre, per addolcir la pena acerba, 
coiman de le lor grazie il nostro sacco, 
non Giove Palla, ma Venere e Bacco. 

LXXVIII. 

Poi che andar non sen vuol questa importuna, 
che partir si dovria, partendo il giorno. 



LXXVI, I. Stt. vergognarti. 4. Stt sono.., slegcUi. 6. M' P sua (o 
lor) strida; Stt. co* i lor gridi. 7. P né poi. 8. Stt. odir. 

LXXVII, I. P et tanti tuoi; M tui; M' Stt. respettU 2. M sacri, 
non. 3. Sti che con lascive voci e; M voci coi. 4. M a ognun. 6. 
M' adoloir. 7. M in vostro. 8. M' P e Palla; M' ma Cerere, 

LXXVm, I. Stt. voi. 2. P devria. 3. Stt. eh* u* splende la. 4. M* P 
sole; Stt e far. 5. Stt. oltra di ciò credo. 6. Stt. a>bì?ia voglia al suo 
aXbergo, 7. Stt. che di star. 8. P Vopre; M* adequasse; Stt. agguor 
gUasse, 

LXXVI-VII. Sufficiente commento a queste ottave ha fatto il T. me- 
desimo nella dedicatoria. E ricordisi ciò che abbiamo osservato, in 
tal proposito, nell'Introduzione. 

LXXVm, 4. Preferiamo la lezione né far, sia perdié è data da 
tutti e tre i mss., sia perché corrisponde all'uso più frequente del 
Tansillo. Cfr. I due Pellegrini, w. 183, 1036. 



84 IL VENDEMMIATORE 

sì come quella, eh' a splendor di luna 
raro suole apparir né far soggiorno ; 
e perché credo, oltra di ciò, che ognuna 
di voi voglia al suo albergo far ritorno, 
salvo chi restar meco desiasse, 
per veder se al mio dir l'opra aguagliasse: 



LXXIX. 

itene in pace; e quei piacer, che l'ora 
n'ha tolti e la vergogna oggi dai petti, 
io prego Amor, dove ogni ben dimora, 
che gli riponga tutti ai vostri letti. 
Tosto ch'aprirà il ciel la bella Aurora, 
qualunque trae dolcezza de' miei detti 
di sfacciata prontezza il petto s'armi, 
e torni un'altra volta ad ascoltarmi. 



STANZE 



A BERNARDINO MARTIRANO 



STANZE 

A BKRNAUDINO MAUTIIIANO 



I Mentre piii sazio do gli onor elio ulticiro, 
clig ingegno e man vi procacciare insienio, 
voi col piò vi furate e eoi pensiero 
al gran peso real, che si vi preme; 
e 'I secondo morir sovra il primiero 
temendo, clie si poco oggi si teme, 
vi Ikte con alte opre e con bei atiiili 
centra il tempo omicida eterni scudi: 



I. Bernardino Martirano, al quale suno Indirizzala queste ottave e 
dua sonetti del T., era figlio di aiovan Batista, gentiluomo ài Co> 
senza. Dopo aver militalo con valore, Carlo V lo inoliò all'alio gmdo 
di ano consigliere e segretario do] Regno dì Napoli (« tp-an peso 
real, ài cui ^i inirla il noBtro); a in tale officio, accompagnando egli 
ramare delle lettere alla cognizione delle dÌECipline gìurìdit!lie, ebbe 
agio di procurarsi l'amicìzia dì uomini (^onie il Bembo e 1) Varcbi, 
il Boto e Scipione Capace, il Nìfo e Oiaao Aniaio; al tempo iatesso 
cba l'onoravano della loro nduciu il viceré i^ Moya, il caaestabile 
di Borbone, il viceré prinojpe di Oranges. Cfr, KfiNiERi Riccio, cenno 
alar, dalla Àecadomie fiorile M Napoli (noll'Aroft. si. per le prov, na- 
jiot., V, 143), e, in particolar modo, la Eccouda parla dalle Bloor. 
tUgli AcaoAemiei Airomtni detti poi ntitantrmi, nell' Italia SeaK di 
Napoli; VOLMCELtA, Capp. di L. T.\ (i- g^I. — 5- Q'" manifestameli la 
^1 stconctù morir tJie poco aggi si tevta é Tebliu dal nonte, il perder 
vita di Dante nel XVll dei PanutUo. 



II. 

da giovenil v&nhoxia persuaso, 

che cerchi oddf <1i man pii'i cbo d' iogegnu, 

io fuggo ila le Donno (ii Parnaso, 

Gou cui vissi talor, quantunque imlegao: 

e, dato in preda a la fortuna, al caso, 

che iu ogni parte, e più no l'onde, han regno, 

di giorno in giorno al mai' la vita credo, 

dietro a l' insegne del mio buon Toledo. 



Voi nel sen de la bella Leucopotra, 
a l'umil cura d'ogn' intorno cìiiusa, 
lieto cantale con la nobil cetra, 
con voi canta l'una e l'altra Musa, 
com'ella amando si trasforma in pietra, 
e in fior Narciso, e in lagrime Aretusa; 
temprando, là dove la fonte nacque, 
e le corde e le voci al suon de l'acque. 



ir. Vedasi rpianto oaservaiomo nel l'In traduzione circa il tempo e 
l'ocoHaione ia cui furono scritte qnestfl ottave. — 7-8. abiosto. Ori. 

tur., XV, 39: - ...„ Veggio la feda | Tania d'AJfonso | Ch'in oosi 

■ acerba età..-. | L'imperator l'eBercito gli creda ». Questo luogo 
il T. ebbe forse praBenta anche più oltre. Del buon Ibleito amino 
a parlare in seguito. 

Ili, 1-3. Ze«opt»lra, osala PieLrabianca, era la suntuosa, villa ilei 
Martirano sul lido di Napoli, nella via che mena a Portici; dategli 
roccoglieva una speda di accadelaia, quando vi si reoavtt per risto- 
rarsi dalle cure dei govorno, e • i più distinti letlerali di quel lampo, 
• suoi amici, oon lui n'intrattenevano in eruditi ragionamenti, reei- 
<e landò elefanti composizioni lutine e volgari > (Minieei aiccig, 
Biourafie ecc^ parla !l). Daesla villa ollenne le lodi di Soii". Aiuu- 
HATO (Il Rota, onero delle impresi:. Fireuie, Giunti, 1598, p. 92), di 
0. A. SuMMONTE {Velt' hisl. delta (Muù e regno <U ìlapoll, )V, 93), del 



A BERNARDINO MARTIRANO 89 

IV. 

Ora cantate Ismenia et or Ismene, 
e fate altrui veder, come ambi al vento 
si dan, fuggendo le paterne arene, 
di Croton Funa, e T altro di Tarento; 
come mille perigli e mille pene 
passando, al fin, dopo lungo tormento, 
giungon, già salvi ai lor lidi ridutti, 
del disperato amor securi frutti. 

V. 

Or le conche marine, che già furo 
case di pesci, in riva al mar scegliete, 
e senza ferro senza penna il muro 
scolpite d*alte imagini e plngete. 



MoRMiLE {Descriz, della città di Napoli e suo distretto, cap. IV) e di 
più. altri. — 3-6. Allude il T. al poemetto Aretusa del Martir^no ; nel 
quale appunto, come dicemmo nell'Introduzione, si narrano queste 
tre metamorfosi. — 7-8, Nella villa era « un Fonte lavorato di con- 
« chiglie marine », con dentro coricata « una bellissima Aretusa di 
« marmo, ignuda » (Mormile, loc. cit.). Il Mar tirano nelle suddette 
stanze immagina che la ninfa Leucopetra (ciò è la sua villa), veduta 
Aretusa trasformarsi in fonte, ne faccia scaturir di sotterra Tacqua 
* a canto a la marina, ove Ninfeo | De la mirabil opra Grate (nome 
« poetico di lui stesso, il Martirano) feo ». Quanto questo soggiorno 
fosse gradito al « buon Segretario », il T. ha mostrato anche me- 
glio altrove (Capitoli, ed. Volpicella, pp. 43-4). 

IV. Nei noti poemetti del Martirano non si parla dei personaggi e 
dei fatti accennati in quest'ottava. Ond'è da credere, che gli abbiano 
offertq materia di qualche altro componimento oggi sconosciuto 
(cftr. Fiorentino, Telesio, I, 69). — 7-8. Giungon .... securi frutti, cioè 
« conseguono di godere senza sospetta il loro amore. » 

V. * Tra le altre cose degne vi è [nella villa] una grotta di ma- 
« raviglioso artificio, tutta di conchiglie marine con gran 
« maestria composte; il cui pavimento è di vari e belli marmi 

iz 



STANZE 

per liar al secol nostro et al futuro 
stupor; e a! liol lavor mentra intendete, 
forse voi stesso vi morti vigliate 
lie l'alta meraviglia ch'altroi (late. 

VI. 

Op spaziato per l'arsiccia folda 
del gran Vesevo, e la sentite soltó 
i piò del vecchio ardor quaEl aneor calda; 
e, mirando il terren tanti anni cotto 
et or lìorito, il Toco, onde vi scalda 
Amor, prendete speme, che condotto 
vedrassi anch'egli al termin suo talora; 
poi ch'ebbe fin si alto incendio ancora, 



• TeriDìoolati, con Uiiita ubbouilauza d'ucqua vivn, che perciA é chiu- 

• muto lo sguaztaloìo • {Moauim, loc. cit.). « Niiuplineimi ibi orat, 

• ad dileelationis honia Doniparalurn, io i^iio ex amniuia conchn- 

ecc. (CAPACCIO) !feapoJ. hisl., l!b. II, cap. 7). Meglio del Cnpaocio, lo 
alasso MABTIBANO, nen'Arvntaa, ci descrive per HIo e per segno qna- 
Bte • imagines >. K le sue parole valgono a beoe sptegura i due ul- 
timi versi di quest'ottava del TanEillo; mostra ndoci^i egli stesso iti 
avvi«a, ebe al Ninfeo di PietriibiaiKiB cedano ■ le bette maraviglia | 

■ Di che tanto si vanta il eecol prisco >, porcile • lo bell'opra Ritta 

■ & sol di conchiglia | Dì color bianco, nero, giallo e luisco ». A qoe- 
eIo Ile aonehis ftils^ntibita antz-wm (coma dice l'iscrLtione in diattcì, 
cbe leggevHHi sopra la rontano) il T. alludeva nella Eeconda delle site 
canEoDi peseutorie: < Nel più bell'antro elle la terra copra, | Che fra 
. le maraviglie (Del mondo non è forse la minore, | Ove 
< si vede la mirabil opra | Di pietre e di conchiglia | Tdrre et al fbrro 

■ et al pennet l'onore > ecc. B giova notare, che lenivi, accanto alta 
fontana, soleva il Nostro traltenersi lunghe ore; com'ei fa aap«ra, in 
un capitolo, a Mario aaleotu: > .... i pili de' miei sollnxzi | È Etaruì 

■ sempre ove Arelusa piange » (ed. Volpicollii, p. 157), e come ap- 
pare anche dalla seguente quartina di un suo aonotlit (ed. Fioren- 
tino, p. 35): « Vorrei l'aspro rigor, che i membri impietro, | Soher- 

■ mir sotto il Ninfeo, ch'opra d'incanto { Sombrn. pi(i che di niui, 

■ sonando intanto | Che Dorìda or s'avanza et or s'arretra •. 



A BERNAREÌINO MARTIRANO 9I 

VII. 

Or lungo il mar vagate, ove più sodo 
sentier fa Tonda, che l'arena indura, 
cercando col pensier qualche bel modo 
d'alzar gli amici, e gli altri che natura 
o virtude con voi di degno nodo 
strinse; e, benché ogni noia et ogni cura 
quando ivi entrate sian da voi bandite, 
questiona vien con voi dovunque gite. 

Vili. 

Mentre in questi pensier voi e *n quest'opre 
spendete l'ore^ che ne van serene; 
io, dal elei dilungandomi che copre 
la terra che s'adorna del mio bene, 
ne vo verso quest'altro, onde si scopre 
Falba che'l giorno adduce; il qual non viene 
incontro a noi mai si lucente puro, 
che a me non sembri turbido et oscuro. 

IX. 

Vo, dissi, anzi son tratto; né camino, 
ch'io faccia, scorgo per l'ondose strate: 
gissene io pur, e l'aspro alto Apennino 
avesse de' miei pie l'orme segnate! 
Venti, acque, corde, ferro, legno, lino, 
genti vili e nemiche e disperate 
ne portano, e ne reggono, ne tranne; 
e là 'v'io bramo men, piti tosteranno. 



VII, 4. Alzare^ intendi a grado più onorato. 

vni, 5^. Il T. navigava in questo tempo verso Oriente, « per Tonde 
« op di Dalmazia et or d' Epiro » (st. XLVI), inseguendo fuste e bat- 
tendo torri dei Turchi. Gfr. il suo cap. al Barone Fontanarosa, scritto 
neiristesso anno di queste ottave (ed. cit, pp. 20-1). 

IX, 6. I galeotti. Gfr. la stanza successiva. 



92 STANZE 

X. 

Lo muse onde qui s*odoii canti e suoni 
son quei che Taltrui forze o i propri falli 
piangon; che nudi, i miseri, e prigioni, 
sembran coltor de le tartaree valli. 
Le cetre lor son remi, le canzoni 
urli e sospir, le fistole metalli; 
con cui dolce concento par che mischi 
il vento e Tonda e le catene e i fischi. 

XI. 

Né men soave è quel vapor che esala 
da le valli dell'ale de la nuda 
turba, qualor s'alza co' remi e cala, 
e '1 legno a sé tirando, anela e suda. 
Sonvi animai, quai senza e quai con ala, 
che sdegnan che qui dentro occhio si chiuda; 
onde sen van la notte, a torma a torma, 
desti a la guardia, perché alcun non dorma. 

XII. 

Questo, et ogni altro che sentir si possa 
in alto, egli è dolcissimo, a rispetto 



xr. Berni, Gap. VI: « So che cosa è galea, che cosa è mare; | So 
« che i pidocchi, le cimici e il puzzo | Mi hanno la curatella a sghan- 
« gherare ». Il Tansillo stesso, nei due capitoli in lode della galera, 
si propose di celebrar le glorie de' regni e alberghi delle cimici, 
delle pulci, dei pidocchi, dei topi. Nel secondo egli scrive : « Le più 
« brave, più ingorde e più superbe | Fere, i più crudi e rìgidi ani- 
« mali I Son quelle quattro spezie, eh' io chiamai | Al principio de 
« l'opra in mio soccorso » (ed. cit., p. 79). — 2-3. Locuzione catul- 
liana {Carni., LXIX, 5-6: « tibi fertur | Valle sub alarum trux 

« habitare caper »). 

XII. Questo male tormentò implacabilmente il T. nelle sue marit- 
time peregrinazioni. Un lustro più tardi, alludendo a don Garzia di 



A BERNARDINO MARTIRANO 93 

di qael ch'io sento quando il mar s'ingrossa 
SI che non ha riposo entro il suo letto; 
e la flemma e la collera, già mossa, 
move fortuna al fondo del mio petto; 
onde di cibo e d'ogni umor la vota, 
sparge di nebbia il capo, e attorno il ruota. 

Xlll. 

Colui che non si pente d'aver posto 
su Tonda il pie, quando cosi l'affanna, 
in pnblico può far, non che in nascosto, 
ogni delitto eh' a morir condanna. 
Gh'a negar nel tormento ei sia disposto, 
non men che Pietro nel palagio d'Anna: 
né li devria del mar nuocer la rabbia, 
quaqdo di ferro il petto egli par ch'abbia. 

XIV. 

Ma che dirò quando si cruccian l'onde, 
e vanno al cielo, e ealansi a l'inferno? 
e giorno a gli occhi e terra e ciel s'asconde, 
né si vede altro, ch'acqua e notte e verno? 
Agli arbori le vele, et a le sponde 
i remi, et al nocchier cado il governo; 
e i venti, ognor con impeto più grande, 
batton la prua, la poppa le duo bande. 



Toledo, egli dirà: « Uom che ha veduto andarmi tormentando | Per 
« tanti mar sei anni dietro a lui, | Flemma e collera e sangue ri- 
« 'Versando » {Capp^ ed. cifc., p. 221). Forse con più garbata novità 
trarrà partito dalla descrizione del mal di mare il Redi nei noti 
versi del Ditirambo. 

XIII. Orazio, Od., I, iii, 9-12: « Illi robur et aes triplex | Circa 
« pectus erat, qui fragilem truci | Commisit pelago ratem | Primus » 
ecc. Per l'intonazione, cfr. anche Epod., IH, 1-3. 

XIV, 1-2. Ovidio, Trist. I, ir, 19-22: « Me miserum, quanti montes 
« volvuntur aquarum! | lam iam tacturos sidera summa putes. | Quan- 



94 èTANM 

XV. 

E Fonda, che dal vento non sopporta 
esser vinta, orgogliosa il legno fiede; 
e batte tanto, finché si fa porta, 
e saltar dentro e insignorir si vede. 
Et io non dico de la turba smorta, 
che uscir del mondo ad or ad or si crede! 
Ma, perché spesso avien che in lor m'affisi, 
vedo de' marinai pallidi i visi. 

XVI. 

Quando l'alma da' membri si rimuove, 
pena maggior non credo che si senta; 
anzi avverrà che men talor si prove, 
che, come è men pensata, men tormenta. 
E se non che nel mar, vie più che altrove, 
il passato periglio non sgomenta; 
chi si vede una volta a tal partito 
il pie mai più non trarrla fuor del lite. 



« tae diducto subsidunt aequore vallesi | lana iam tacturas Tartara ni- 
« gra putes! » — 3-8. Virgilio, En.^ I, 88-9: « Eripiunt subito nubes 
« coelumque diemque | Teucrorum ex oculis, ponto nox incubat a- 

« tra »; I, 102-5: « stridens aquilone procella | Velum adversa 

« ferit, fluctusque ad sidera tollit. | Franguntur remi, tum prora a- 
« vertit, et undis | Dat latus, insequitur cumulo praeruptus aguae 
« mons », 

XV, 1-4. Virgilio, En., I, 114-5; 122-3: « ingens a vertice pon- 

« tus I In puppim ferit.... »; « Vicit liiems; laxis laterum compagi- 
« bus, omnes | Accipiunt inimicura imbrem, rimisque fatiscunt ». — 
È probabilissimo, che il T. ricordasse versi cosi famosi d*un poeta 
a lui caro. Nel capitolo al Barone di Fontanarosa, scritto, come s'è 
mostrato nell'Introduzione, appunto nell'anno slesso (1540) in cui 
dovettero esser composte queste ottave, leggiamo: « Ho corso tre 
« fortune in ventisette | Di, forse ognuna più di quella grande, | Che 
« neìV Eneida sua Virgilio mette » (ed. cit., p. 21). Tengansi, del re" 



A BERNARDINO MARTIRANO 95 

XVII. 

Ma come donna, che si dole e pavé 
a l'affanno dei parto et al periglio, 
e parie acerbo ciò che fu soave, 
e se n'oblia ratto che in terra ha il figlio; 
cosi chi passa in mar fortuna grave 
fa di pili non v'entrar voto e consiglio, 
finché si vede a lui tratto di bocca; 
né pili vi pensa, come il lido tocca. 

XVIII. 

S'io ne scampassi un giorno, il mar Tirreno 
e l'Adrian, l'Ionio e l'Egeo 
non m'avrian più; che vaghi del terreno 
Bono i mìei pie vie più che quei d'Anteo, 
e raro invecchia chi si spesso in seno 
si corca de le tìglio di Nereo: 
ove, perché talor più mi confonda, 
quel men ne serve di che più s'abonda. 

XIX. 

Vivo sa l'acqua, e temo ognor del foco, 
e son di ber, qual Tantalo, bramoso; 



sto, a riscontro le descrizioni ariostesche di procelle {Ori. Fur„ 
Xvm, 143 sgg.; XLI, 8 sgg.), non indipendenti né anch'esse da quella 
del poeta latino. 

XVJI, 1-4. S. Giov., XVI, 21: « Mulier cum parit, tristitiam habet, 
« quia venit bora eius: cum autem pepererit puerum, iam non me- 
« minit pressurae propter gaudium^ quia natus est homo in mun- 
« dnm ». 

xvm, 4. Chi non ricorda il mito del gigante Anteo? Il contatto 
della terra, di cui era figlio, rinnovavagli le forze; ond' Ercole do- 
vette, per ucciderlo, tenerlo sollevato in aria. Ovvio, adunque, il si- 
gnificato di questo verso. 

XIX, 2. Gfr. Capitoli, ed. cit, p. 290. 



96 STANZE 

costeggio il mondo, e mai non cangio loco; 
sto sempre in ozio, e non ho mai riposo. 
E mille altri accidenti infln, se '1 gioco 
(benché il più delle volte sia dannoso) 
qui non si ritrovasse e la speranza, 
de l'inferno farian vera sembianza. 



XX. 

S'altri che voi le mie rime leggesse, 
o Martiran, cui non pur Febo tenne, 
quando vi fur le man di calli impresse 
da le spade non men che da le penne, 
e vi vedeste sovra il capo spesse 
volte le vele pendere e l'antenne; 
io direi mille mali in brevi carmi, 
ch'io provo in mar, su i legni e sotto l'armi. 

XXI. 

Con tutto ciò, non ave il mar si intenso 
e grave mal, che agguagli il ben ch'io gusto 
quando a colui che in mar mi trasse io penso, 
e '1 trovo in poca età di onor si onusto, 
che ardisco dir, ch'ai suo valor immenso 
l'Ocean tutto ha da parer angusto, 
non solo il mar di Spagna e '1 mar d'Ausonia; 
come al grande Alessandro Macedonia. 



XX, 1-6. E veramente, il Martirano non attese soltanto agli studi. 
né dalla sola poesia ebbe fama. Giovine, avea militato con valore, 
anche per mare. — 7-8. Nel cap. del T. al Fontanarosa, in proposito 
del medesimo viaggio, si legge: « Se voi volete che a contar mi 
« metta, | Quanti passammo incomodi e disagi, | Opra maggior farò 
« che la PandetU » (ed. cit., p. 20). 

XXI. Allude al giovine Don Garzia di Toledo, figliuolo del viceré 
don Pietro e di donna Maria Osorio Pimentel, sulla cui galea il T. 
già da un anno navigava. — 4. Vedi la nota alla st, II. 



A BERNARDINO MARTIRANO 97 

XXII. 

Il coDTttnar sao dolce, a cai applaude 
ogni alma generosa dassi allatto, 
l'alta sua cortesia vota di fraudo, 
il Toder lui in ogni minimo atto 
sempre effetti produr degni di laudo, 
e tante e tante sue virtii, mMian fatto 
e fanno ognor si di seguirlo vago, 
che d*ogni mal col veder lai m'appago. 

XXIII. 

S'io lo guardo nel mar, quando ha tempesta, 
d'Eolo mi sembra figlio di Nettunno; 
se in terra spada ha in mano o lancia in rosta, 
parmi di Marte e di Bellona alunno: 
s'ei gode in ozio, or quella forma or questa 
di Tirtù prende, et è con lor Vertunno, 
ogni abito adattando, ogni aziono 
al loco, al tempo, a l'opre, a le persone. 

XXIV. 

Mentre a mataro onor gioTone sale, 
l'ingegno il guida e nop l'isperimento; 
onde prima al sao nome crehber Tale, 
che i fiori a lai nascessero sul mento; 



XXm, 5^. Ripete qui il T. iu tre nv^i divemi lo •Uam^f e^me^iUt. 
Quanto a Yertoniio, si rieordi il « eonveniens aironi» ikUt fli(urìu.„ 
« I Deus » di Ovidio (Forf., VI, é^tf^io*^ « ire|f|r»»i U %i. XCV óétUit 
CtariOm. 

XXIV, 4. Fiori in t/nuff di lanu^iiM;, p^fUmóff ài neumtusm, VOÌU0 h 
amili, s'incontra ne' poeti dnt^rìorì »I 7«: mm^ ék*u» titUff^'Uff it^tmjffH 
coll'agginnta di pntni. Cfr. SiuotuUf. Kn^^ Vfff« f^^o, V(f, 16^; POf.f- 

reade la metafora aVfauuit^^ KÙ^rz»U, e Ut Uh^uc ¥tnif Immuta 

»; 



STANZE 

e di valor si perigliose stilila 
ascender giovinetto ebbe ardimeDtu, 
che ad età de la sua troppo maggioro 
il desiarlo sol sai-ebba onore. 

XXV. 

Non meno a gloria si terni il gran Pietro 
aver di si bel frutto adorno il mondo, 
c!ie aversi speso il fior degli anrti dietro 
al suo gran re, senza mai gir secondo 
ad altri; e, del lìvor maligno a tetro 
(Ielle corti mal^'rado, paro e mondo 
aversi sempre conservato il nome, 
elio si moccltia talor, né si sa come: 

XXVI. 

B avergli il suo signor tìdalo in mano 
la cara sua bellissima sirena 
e, dal sen do la balla del Troiano 
a quel di Scilla, ciò che la tirrena 



XXV, I-I. Don Pietro di Toleilo (n. 1484, m. 1553), viceré di Napoli 
e padre di don Garzia. — 3-4. Prima di vaoire in Napoli, s'ara futta 
onoi'e • Dal cou((uislo del ragne di Navarra a nelle faiioni buccbess 
' dopo lu morie del He Catlolioo • (Volpicblla, oa^p. di L. r., 
p. 100). — 5-8. Anche aUrave il T. aoceana • all'odio e vsneno > delle 
oorti t,L'app,, ed, cit., p. 3491: luogo comnne, come notammo; da cui 
egli trae qui accon ci u manie pni'titu, par nire uu complimento al luo 
aignore. Del reslo, Filonico anicu», che don piulro alla corte dt I 
cario V era loiiuhi in gran ripulaiione « d'acoorto a ouusidMalo | 
cortigiano ». Avri snpulo destruggi arsi. 

XXVI, [-5. I confluì del Ragno di Napoli qui nono poeticomeota, J 
Dia eratlainenta, designuli. Comuniasime le psfi(V«Bi con cui il T. e 
gnilicB Napoli a Uaelu. Ohi non ricordu VAsTuia nutrliei — 5*, Al- I 
lode all'uasallo dato dai 'riirclii u Otranto ntil 1537, di ani egli ati 
il poeta, Borìvava ull'wuico Cola Uaria Rimco: • Da l'altro io tio 
• parlo, quando viene | Il Turco a depredare Ugenlu s Gukro, | Obo. M 



A BERNARDINO MARTIRANO 99 

acqaa e Tadriana cinge; e aver lontano 
spinto d'Italia, ove premea l'arena, 
ii possente Ottoman con tanto stuolo, 
con la virili del suo gran nome solo: 



XXVII. 

E nella terra a le sue man commessa 
aver tratta dal elei la bella Astrea, 
destando la ragion, dal torto oppressa 
tant'anniy de la tomba in che giacea; 



« sotto Tarme ancor m^ardon le sehiene » iCétpp^ ed. cit., p. 300). 
Presa Castro, il Barbarossa seguitara a devastare la Terra d'O- 
tranto: ma il sopraggiungere del Viceré lo indusse a riprendere il 
mare senza aspettarlo; cosi che Don Pietro entrò in Taranto come 
liberatore, « con tutto il baronaggio, consiglio, continui ed altri 
« cavalieri assoldati » (Filonico). Il Tansillo, che era del numero, 
uni la sua al coro delle voci osannanti al principe riuscito vinci- 
tore in nomine UMUwm, « Quel cane ingordo », scrive nel son. XIX 
dell'ediz. Fiorentino, fuggi « a pena udito il gridp » {Audito nomine^ 
cantava Niccolò Tbrminio nel Trophaewm Toletanttm), E conchiu- 
de : « Quanti mai capi illustri onor di lauro | Ebbér dal Tebro, vin- 
« sero e fugare | Gli avversari con Tarme, e voi col nome ». Né 
divèrsamente s'esprime nella Clorida. 

XXVII, 1-4. Filonico àlicarnasseo, Vita del viceré don Pietro 
di Toledo (cod. X. B. 67 della Nazion, di Napoli), ce. 241-2: « Era 
« {don P.] severo molto e stirato nelle cose della giustizia, e mala- 
« gevolmente udiva, che fusser da' suoi ministri men che dovuta- 
« mente simili cose trattate ».... « E fu, per dir molto in poche pa- 
« role, assolutamente colui, che la giustizia ridusse in venerazione 
« e rispetto ». — 58. Si sa, che il Viceré Toledo s'adoprò moltis- 
simo per la sanità e bellezza di Napoli: fece addirizzare e appia- 
nare le strade, inalzò fontane pubbliche di marmo, die amUpo ai 
cittadini d'adornare le loro case e palazzi. Cfr. Miccio, Vita di 
Don P, di Toledo, nell'ArcTi. stor. ital,^ IX C1846), 21. Geronimo Boroia, 
il noto poeta, di lui cantava: « Ride, Parthenope, facta venusiior! | 
« Per duros silices saxaque lubrica | Posthac haud metuas uUa pe- 
« ricula. I En argilla vias nunc tibi coctilifl | Stravit perfaciles, hoc 
« tibi commoda ». 



STANZE 
e nel son di Partennpe aver mossa 
forza e bolUi mag'giop che non avea, 
perché sul mar bì sieila a sulla terra, 
pili bella in pace e più sicura in guerra. ' 

XSVJII. 
Dove na vo? forse lodarlo intendo, 
tra' ferri e tra" romor d'onde inquiete? 
Altro ozio et altra attenzione attendo 
per top, s'io posso, il suo gran nome a Lete 
Ma potea noi lodar, di lui scrivendo 
io, che suo vivo, a voi, cho suo vivete; 
se pili grata armonia, che le sue lodo, 
non si tempra da me, né da voi s'ode? 

XXIS. 

Ma dirne Da da ma né da aliri puossi, 
elle cosa d'onor degna non si note. 
Dico adunque, tornando ond'io mi mossi, 
eh' io segno il mio signor, navighi o nuote, 
contento; e vi verrei, se non vi fossi: 
6 tanto pili, che, so nel mar si puote 
commodo alcuno aver, destimi o glacciii, 
tutto, la sua mercé, mi si procaccia. 

XXX. 

lo mi godo, fra gli altri, un camerino, 
ove col mio Tiberio di Gennaro 



XXVIII, 2-4. Manlra scrivou questi versi, il T, manifrstmnoirtB 
ghcggiava l'ideu Ji oelcbrare il suo signore, non appena uà aveiM 
agio, oon qualche coea di notabile a duraturo. E l'idea aLtu4 sette 
anni appresso, dettando il poemetto clie lien dietro al preaenW. 

XXIX, 3. Capliollf ed. cit, p. 375: < Dico, tornando là onde mosiì 
< ti piede ». È l'orazlaDO Ittuo unde abH reato. 

XXX. Di questo Tiberio de Jeanaro, • dal quale pruvengouo i Si' 
« tpiori di Mariano e Mariauello e i Ducili di Belforte n, coil flOrive 



A nEtlNAIlDINO MARTIRANn 

n'ascondemo talop fin dal mattino. 

O pitriiamo J'amor, cibo a noi caro; 

di Meilici sno, die fu divino, 

narra qnalcbe atto a' tempi nostri raro ; 

e m'innamora si di lui talvolta, 

che inviilio il Ciel, clie sf bell'alma ha toltn. 

XXXI. 

Qui, da gli urti de^li nomini remoto, 
chiudo la notte e'I Ai talor le ciglia; 



il T>E Lellis, nel voi. IV Jalls nota sua opera me. (Naz. ili Napoli, 
cod. X. A. 4, e 93): • Cominciaremo a Iratlara de' (IgUuoli di aie- 
r sue e (li Marcni'ia di Scrignaro da Tiberio; il quale altese ne' pri- 
- mi anni della sna gioTenlù allo studio delia leggi eanoniclie ci- 
« vili, e na riceTelle la laurea dottorale, et ayaria certamsnle fallo 
K ottima riuscita neiresercìzio di tal proressìoDe con ascender a' 
' più supremi posti di magistroti, per l'emiaeDza del eoo ingegno 
•1 B non ordinaria dottrina; ma non voile, fatto provetto, eaarcilar- 

■ ai, per essere mollo aggiato de' beai di fortuna, possedendo ft'a 

■ gli altri beni le terra dì Marzauo e Marzanello in Terra di Lavora. 

■ Onde fu uno de' cavalieri più stimati cbe fussero al suo tempo, 

• per l'eccolBO del suo valore e sapere. Fu casato con Aurelia d'Af- 

• Ritto, unica figliuola di Giovanni, fratello di Micliele primo Conte 

• di Trivento e general Tesoriera del Regno di Napoli; con la qual 

• moglie procreò un unico flgtiuolo, chiamato dio. Girolamo ■. Gli 
nitri Etarici delta uobilti napolilana, non eecluso lo ateaso Fsligb 
Di Obnnaiio, nell' mm, d. fam. Qennara a Janara (Napoli, 1623, 
p. 70), tacciono addirittura di Tiberio, come il Uazzblla, se ne 
spicciano brevissimamente; per ciò nulla bo potuto sapere, non 
ostanti gli aiuti del dotto amico prof.aA.. Miola, circa la sua rela- 
zinoe con un personaggio di casa Medici, a cui qui allude il Tan- 
sillo. SolUnlu mi par lecito congetturare, cbe si traili del Card, tp- 
poliU), morto cinque anni avaoti e Doto per la splendida muoiO- 

XXXL Lo slesso pensiero esprime il T. nel primo capitolo in 
lode della galera: • Ha dell'umano e del divino questo: | lersera 

• mi corcai a ta Maometta, | E stamane a Cartagine mi desto) • 
(ed, cit., p. 63]. 



102 STANZE 

e rarissime volte quasi noto, 

che'l sonno si deponga ove si piglia: 

che quando levo gli occhi e mi riscuoto, 

mi trovo aver trascorso molte miglia, 

com'uom che per incanto se ne vada; 

e questo è quel che più nel mar m'aggrada. 



XXXU. 

Se non fusse il desio del caro lume, 
che spesso turba il sonno agli occhi miei, 
e fa che desiando io mi consume; 
forse più riposato io me n'andrei 
su i legni in mar, che in terra su le piume 
non mi giacqui talor; nò invidia arci, 
tra i perigli de Tonde e tra i disagi, 
a le delizie, a gli ozi dei palagi. 

XXXIII. 

Questo di qui di e notte mi rappelia, 
e, vie più eh' Euro o Noto od altro fiato, 
nel sen de' miei pensier move procella; 
non Si forte però, che del mio stato 
mi x>enta, né mi doglia unqua di quella 
ardita voglia che m' ha qua menato : 
né men di lui lungo di qui mi chiama 
l'altro disio, che riveder voi brama. 



XXXTT, 6-8. Il T. parla qui per esperienza fatta. Quasi contempo- 
raneamente scriveva al Fonlanarosa: « Permette Dio, che le delizie 
« e gli agi I Io sconti sovra i legni e sovra l'acque, | Che ho avuto 
* ne le corti e ne' palagi » (Capp., p. 20). 

XXXIII. Del concetto di quest'ottava e della precedente, trovo un 
co tal riscontro in un celohrc sonetto del Petrarca (l, 78). Eccone 
la chiusa: « Sol due persone choggio; e vorrei l'una | Col cor ver' 
« me pacificato e umile, | L'altro col pie, si come mai fu saldo ». 



A BERNARDINO MARTIRANO IO3 

XXXIV. 

Ma chi sarft colui, che, gli occhi suoi 
a COSI bello oggetto avendo avvezzi, 
come 8on quei de la mia donna, poi 
ne stia lontano, e il cor non si gli spezzi? 
E chi sarà, che, d'amor giunto a voi, 
non vi brami da lunge, e non v'apprezzi? 
Nessun, che io creda; ondMo, d'ambodue senza, 
d'amor languisco e di benivolenza. 

XXXV. 

Pur mi consolo: cIk^, s'io guardo al duro 
cor, ove mal d'entrar degno non fui; 
vadane pur da lungo, io vo sicuro, 
che quel che non fu mìo non Ha d'altrui. 
S'io guardo al vostro; nò di Tempo curo, 
né di Fortuna, volgano ambidui 
pur quanto ponno le volubil roto: 
che nò questa né quel punto vi scuote. 

XXXVI. 

Con voi, quantunque tanto mar ne parla, 
quando lo spero men, più presso io sono, 
de l'inchiostro mercede e de la carta, 
per cui v'ascolto spesso, e vi ragiono: 
con lei, qualor avien eh' io ne diparta, 
perch'olla non mi degna a tanto dono, 
rimedio alcun non ho che possa aitarme, 
se non pianger, pensare e lamentarme. 



XXXV, 5-6. Nel sonetto ora cit. del Petrarca: « . . . . Questo sol 
« m'aita {cioè il pensiero di leiupi migliori), Nò del vulgo mi cai, né 
« di Fortuna ». DAntf, inf.^ XV, 9596: « .... {^iri Fortuna la sua rota 
« I Come le piace... *. 



104 STANZE 

XXXVII. 

Le lagrime e '1 pensier son quegli amici, 
che non mi lascian mai, dovunque io vado; 
quando piovon più gli occhi infelici, 
allor nelle mie pene più m'aggrado. 
Del cordoglio eh' io porto sfogatrici 
quelle sono talor; questi, mal grado 
del mar, che da me stesso mi disgiunge, 
mi leva a volo, e a me mi ricongiunge. 

XXXVIII. 

Caro pensier, che ciò che altrui contende 
scarsa Fortuna, liberal dispensi, 
e si del vero in te talor risplende, 
che appaghi non pur Tanima, ma i sensi; 
se la mia penna, che lodarti intende, 
potesse il pregio dar che a te conviensi, 
i$i alto le tue lodi a porre andrebbe, 
che a pena il volo tuo gir vi potrebbe. 

XXXIX. 

Questo pensier, o scenda il sole o monte, 
mai da l'anima mia non si scompagna; 
ma quando avien che su l'arena lo smonte, 
allor più che mai dolce m'accompagna: 
eh' or a la falda d' un sassoso monte 
(che tanti e tanti questo mar ne bagna), 
or alla cima di qualche isoletta, 
dal mar saltando, io me ne corro in fretta. 



XXXVir, 7. Intendi: dalla « miglior parte di me », dalla mia donna. 

XXXVIII. Con identica movenza il T. si volge al caro pensier, de- 
canlandono la virtù, nel son. GXIII e nelle Layrime di S, Pietro (Vili, 
57)- Nelle Lagrime ripete anche, (juasi senza mutar parola, il con- 
cetto degli ultimi <iuattro versL 



A BERNARDINO MARTIRANO IO5 

XL. 

E d'una pietra soggio, e «ruii virgulto 
fattovi tetto, con la lingua muta 
stemmi, dagli altri, il più che posso, occulto. 
Qui, pili che altrove, il buon pensier m'aiuta 
centra il dolor, che in ogni luogo insulto 
mi muove; e, per difendermi, ei si muta 
in mille forme, e mille cose Unge: 
or legge, or scrivo, or parla, or sculpo, or pingc. 

XLI. 

Legge le noto or che altrui man non segna, 
e scrive quelle ch'occhio altrui non scorge; 
fa voci eh' altru' crecchia udir non degna, 
e ritrae la beltà eli* al Ciel mi scorge. 
Ma qui la man convien che si ritegna: 
che oggetto degno il mondo non le porgo, 
ove il volto divin pinga et intagli; 
né stil trova, nò ferro, che l'agguagli. 

XLII. 

E in questo ancor Fortuna m' ò nemica, 
come ne gli alti'i ben, ch'ella mi turba: 
che, quando più m' è del pensier amica 
l'opra, e più godo solo, ecco la turba 
de' marinari, d'altri, che l'aprica' 
terra cercando, il mio piacer perturba; 
e bisogna, cedendo al nuovo assalto, 
o gir con loro, rimontar in allo. 



XLI, 8. Pktr., J, s. 203: « il parlar, che nullo stile 

« agguaglia ». 

XLU, 1-2. Pktr., I, s. 201: « Ma mia l'ortuna a me sempr'ò ne- 
« mica »; IV, e. 3, st. 4: « Ma l'avversaria mia, che '1 ben per- 
« turba ». 



I06 STANZE 



XLIII. 



Talor la lìngua, che*l dolor m'annoda, 
tornando alle lasciate Muse, io sciolgo; 
e, bramoso di starmi ove men s*oda 
la voce, e men possa noiarmi il volgo, 
sovra l'estremo spron ch'esce di proda 
m'assido, e con la cetra, che in man tolgo, 
dando le spalle là onde nasce il sole, 
sfogo il disio che m'arde, in tal parole: 

XLIV. 

bella e più che '1 di lucida aurora, 
del cui bel volto ornandosi Occidente, 
qui sembra nero quanto il sol colora, 
e natal della notte l'Oriente; 
dal ciel, che lieto al tuo apparir s' indora, 
alle tenebre mie, prego, pon mente 
coi divini occhi, e con l'orecchie pie 
accogli il suon de le querele mie! 

XLV. 

Né perché tanta terra e tanto mare 
si pongan tra noi due, ti potran tórre. 



XLIU, 1-6. Sì ricordi quanto il T. ha detto, scherzosamente, nella 
st. X. Altrove, pur lodando per partito preso la galera, egli scriye: 
« Solo in galea sta male un eh' è poeta; ] Ghé non ha loco oye egli 
« scriva o pensi, | E non gli manca mai dove egli occupi | Gli 
* occhi, gli orecchi e tutti gli altri sensi » (ed. cit., p. 79). Per que- 
sto il T. ha dovuto lasciar le Muse, e, per tornare ad esse, ripararsi 
sull'estrema prua dalle noie del volgo, cioè della turba de' marinari. 
— 7-8. Il poeta volge le spalle all'oriente, verso cui la nave si di- 
rige, perché la sua donna è in occidente. 

XLIV. Il concetto qui svolto ò il solito, petrarchesco, che non 
è luce là dove non splende il viso caro al poeta; ma questi vi ar- 
zigogola su alquanto sottilmente (vedi l'Introduzione). 



A BERNARDINO MARTIRANO IO7 

ch'adir possi da lungo e riguardare 
chi, desiando te, la vita aborre: 
che impedimento uman non può frenare 
virtù celeste, che per tutto corre. 
Ma r udir e 'I veder, lasso ! che giova, 
se non ha il mondo cosa che ti mova? 



XLVI. 

Tu, dalla terra allontanata, e schiva 
di quanto av* ella e *1 mar che a lei fa giro, 
non guardi s' io mi mora s* io mi viva, 
né del mio ben ti cai, nò del martire : 
et io, di seno in sen, di riva in riva, 
per Tonde or di Dalmazia et or di Epiro, 
ne vado errando, e, o ben m' incontri o male, 
sol di te penso, e d!altro non mi cale. 



XLVU. 

Tu, che in testa hai tutto quel ben raccolto 
che in terra vede Amor, quando egli vaga, 
lieta ti godi ognor nel proprio volto, 
del ciel, non d'altro, e di te stessa vaga: 
et io, che tutto amando in te. son volto, 
te sola bramo, et altro non m'appaga; 
te sola bramo, e quanto men da presso 
ti son^ pili ne vo lungo da me stesso! 



XLVI, 1-4, " Tutta intesa alle sublimi celesti cose, non ti curi di 
me. „ Questo vuol dire il poeta; ma sul conto della donna amata 
s'esprime alquanto diversamente in un sonetto dettato nello stesso 
tempo e durante la medesima navigazione (n. LXXVIII dell' ed. Fio- 
rentino); nel quale si lamenta, che quella « Aera » crudele « non 
creda » al suo dolore, pur mentre le rive dell'Adriatico echeggiano 
delle sue querele. 



I08 STANiJE 



XLVm. 

Potrà Natura, se mai cangia il zelo 
onde le coso cria, natre et informa, 
far che sia freddo il foco e caldo il gelo^ 
e Tacqua si, ch'ella si stampi d'orma, 
e la terra stellata, erboso il cielo, 
et abbia il mondo tutto nuova forma; 
ma a far eh' uom viva da se stesso lunge, 
né il suo poter né il mio pensier v'aggiunge. 



XLIX. 

Già l'auriga del di, che assai men bella 
scorta segue di te, quando il df mena, 
ha cinque volte della sua sorella 
scema la faccia, et altre tante piena, 
dopo che '1 ciel, perché né sol né stella 
restasse a lui, né parte che serena 
fusse, dal tuo bel volto mi divise; 
né per si lungo tempo il duol m'uccise. 



XLVIII, Svolge quest'ottava un motivo comunissimo in ogni tempo 
nella nostra poesia, latina e volgare, d'arte e di popolo. Cfr. la mia 
Lirica tose, del Rin(tscimento, Torino, 1891, pp. 464-67. Fra i molti 
passi di scrittori latini, che il T. qui potrebbe aver avuti in mente, 
s'accosta a' suoi versi più d'ogni altro il seguente d' Ovidio {TrisL, 
I, Vllt, 3 sgg.) : « Terra feret stellas, caelum findetur aratro, j Unda 
« dabit flammas, et dabit ignis aquas: ) Omnia naturae praepostera le- 
« gibus ibunt, | Parsque suum mundi nulla tenebit iter.... | Ilaec ego 
« vaticinor, quia sum deceptus ab ilio » e te. 

XLIX. Intendi : « Da cinque mesi io son lungi da te ». La scorta, che 
il sole seguo al suo sorgere, è « la lucente stella Diana » a cui tante 
volte i vecchi rimatori assomigliarono la beltà delle loro donne. 



A BERNARDINO MARTIRANO IO9 



L. 

La giovenetta Cerere vestita 
era a verde, e la terra a color mille, 
allor eh* io feci Tempia dipartita, 
e trassi a riva Tore mie tranquille: 
or Cerere, già vecchia e impallidita, 
per le selve va nada e per le ville; 
la terra, scosso il manto onde fioria, 
veete il color de la speranza mia. 

LI. 

Et io da te, ne' cui begli occhi m* era 
d'ogni tempo il terren fiorito e verde, 
vo pur lontan; né so, se a primavera 
Tarbor de la speranza mia rinverde: 
che, s'una volta il di l'anima spera 
vederti, mille la speranza perde; 
ma in tutto ella già mal non le si toglie, 
acciò ch'io viva lungamente in doglie. 

LII. 

Luce do gli occhi miei, mentre eh' io vidi, 
vita de' spirti miei, mentre eh' io vissi, 



L, 1-4. Cerere, metonimicamente, vale grano j cercali (Ovidio, Aw-., 
I, 15, 12: « Bum cadet incurva falco resecta ceres »). Flava Ceres, 
di solito, nei classici: ma qui il T. allude alle messi in erba, « pur 
« mo' nate », e però di color verde. T)i fatto, egli s'era partito da 
Nola, per imbarcarsi, a' ventisei di maggio {Capp.^ pag. 17). Empia 
dipartita, cioè crudele per chi la dee fare, è del Petrarca (I, e. Iir, 
V. 5); e petrarchesco pure tutto il verso seguente, che significa: 
finii d'esser tranquillo, — 5-8. « Ora, dico il poeta, il grano è già 
« stato battuto e raccolto da un pezzo, e la terra, spoglia di erbe 
« e fiori, è ingiallita » (cfr. la st. seg., vv. 3-4). 



no STANZE 

oimè, per quanto spazio mi dividi 

da gli occhi tuoi, che si nelFalma ho fissi! 

Quanti seni di mare e quanti lidi 

mi fan, morendo, del tuo lume eclissi! 

E qual novo desio da te mi parte, 

perché segua Nettuno e segua Marte! 

LUI. 

Se a ricchezza aspirava; e qual tesoro 
maggior volea, girando il mondo intorno, 
che del bel viso tuo le gemme e Toro, 
che possedean questi occhi il più del giorno? 
E se d'onor, che dopo il Cielo adoro, 
bramoso er'io; senza cangiar soggiorno, 
avea ben il camin da gir lodato, 
oprando cose onde a te fossi grato! 

LIV. 

E se veder bramava fatti egregi, 
per celebrar, cantando, l'altrui glorie; 
senza seguir de' princìpi e dei regi 
le dubiose battaglie e le vittorie, 
avea tante tue lode e tanti pregi, 
di che poteva ordir mille alte istorie, 
che norma eterna si sarebbon fatte 
a chi, per tórre il Ciel, qua giù combatto. 

LV. 

E se mi fa solcar Tonde marine 
vaghezza di veder cose diverse; 
senza cercar contrade peregrine, 
tentando notte e di fortune avverse, 
potea ne le bellezza tue divine 
veder ciò che di novo può vederse, 
che meraviglia porga a gli occhi nostri: 
e qui spender dovea gli anni e gT inchiostri. 



A BRRNARDINO MAKTIKANO III 

LVI. 

Si contonto io vivea dì mia fortuna, 
mentre arsi de' bei lumi ai di)Ici rai, 
che di quanto si sta sotto la Itina 
mai nulla da me Inn^'^i invidiai. 
K se disio, non clic speranza alcuna, 
che gisse oltra il veder, non cl)})i mai - 
il puro sguardo de* l)c;;li occhi scinti 
valea tutto il ;;ioir de ^^li altri amanti. 

LVIl. 

Or sovra il cerchio della luna r|n;isi 
temo non trovar cosji dio in* acqtu't i : 
81 tempestosi e mosti son rini.'isi 
i giorni miei, cireran tranquilli u lii'ti: 
no di tanti perieli, ohe ne* vasi 
serba Fortuna do Tinstahil Teli 
e ne' regni di Marte, io tomo punto, 
da te, mio ben, vedendomi dis^^iunto. 

LVIII. 

La tema di morir prima cito i ciechi 
occhi ricovrin la perduta luce 
uccide ogni altra tema, che m\irrGchi 
il ferro e'I foco e Tonda che m'adduco. 



LVI, 3, Sotto la lunaf a sifmiflcnro vri ììinrtffo, «'• niani<>ra rispoii- 
denie alle Tecchie iden nRlrr>noiiiic]i<>, «> qui si ('ontrappono alTallra, 
sovra il oer&iio della li/na^ dolla siic(*o55>iva staii/a. Cfr. Danti:, /m/"., 
VII, 64; Pbth., I, 8. 174 « sosL 7; II, c. 7, si. 7 ocv. — 7. Rirurila il 
dantesco « ardea negli ocelli san li » <U noairico (/v/r., HI, 24). 

LVH, I. Intendi nel cielo, Pktr., 1, sost. 7: « Né lassù aopra '1 
cerchio della luna | Vido mai tanb'! stollo alcuna iicilln ». 

LVIII, 5-6. Pbth., I, e. II, st. 2: « S'oj.'li ò pur inlfi doslino, 1 .... 
*c Gh^Amor questi occhi l;ij,'rimaii<lo chiiula •. K il T., corno apparo 
'dairottava seguentp, ricordava senza dubbio «luesto ])asso. 



112 STANZE 

Ma, 8* egli ò mio destin, che qui si sechi 
il filo, Amor, che 'I viver mio produce; 
fa' che, deposta la terrena salma, 
quel che non veggon gli occhi vegga Palma! 

LIX. 

Chi sarà mai, che pid contento spire, 
so al dubbio passo va con questa speme? 
Ella già sta su Tale per Aiggire 
dal career grave, ove rinchiusa geme. 
de' primi anni miei primo desire, 
che l'ultimo sarai do Tore estreme; 
o bellezza del ciel, in terra sola, 
prendi l'anima mia, che a te sen vola! 

LX. 

So può sperar mercé d'animo santo 
un voler puro, un disiar onesto; 
merco sper' io da te, dopo che '1 manto 
avrò spogliato, che mal grado io vesto. 
Cosi cantando, sfogo il duolo; e intanto 
ecco la tromba, ecco il fischietto: questo 
col picciol suon, quella col grande strido 
segno ne fan di abbandonar il lido. 

LXl. 

Al gran Toledo, che sostien di Carlo 
il gran pondo, com' Ercole di Atlante, 



LIX, 1-2. Pktr., loc. cit.: « La morie Ila lueii cruda | Se questa 
«( speme porto | A quel du]}bioso passo ». 

LX, 3-4. Anche il T., dunque, amantiuni tìiore, vive a suo mal 
grado. Cercar riscontri di questo luogo comune sarebbe quel ch'era 
una volta il portar nottole ad Atene e vasi a Satno. 

LXL Troppo esigua parte del «< gran pondo » di Carlo V soste- 
neva il marchese di Yillafranca, perche gli si potesse adattare alle 



A BERNARDINO MARTIRANO II3 

piacciavi (quando a voi parrà di farlo) 
in vece mia baciar la man, die a tante 
genti dà legge, e dir, che d'adorarlo, 
qual ibi, son fermo; e mentre che '1 Levante 
e Tonda e *i vento a lui mi nasconde, io 
adoro il volto suo nel signor mio. 



spalle, insieme con la volta del cielo, anche la pelle leonina dell'eroe 
di Tirinto. Quasi diresti, a sentire il Tansillo, il potentissimo so- 
vrano esser lui, don Pietro; il quale « a tante genti dà legge », e 
dal poeta e « adorato ». Ma, d'altra parte, che splendore di meta- 
fora, degna d'un grande di Spagnai Cortigiano, il Tansillo non igno- 
rava l'arte del gradire. 

9 



CLORIDA 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 



Allo illustrissimo et eccellentissimo Signore 



IL Signore Don PIETRO DI TOLETO 



Viceré di Napoli. 



Arei voluto, illustrissimo et eccellentissimo Signor mio, 
che questa mia ninfa si fusse stata tra i confini de gli ar- 
bori suoi, nascosa dalle genti. Vole ella ad ogni modo uscir 
fuori; vaga foiose di farsi vedere, come è costume naturai 
di belle donne: io, che sono tenero di core, non ho saputo 
contradirle. Ecco che ella esce fuori. Or, si come io le con- 
sento Vuscir libero e l'andar a sua posta, Yostì^a Eccellen-' 
zia, che è, oltre a Valtre sue mirabili qualità, la cortesia 
del mondo {e massimamente con le donne, con cui più si 
deve), supplico le consenta il parlar lungo e il vagare a 
sua voglia: ne* quali troverà un canestro di varii frutti, 
0, per dir meglio, un piatto d'insalata di molte erbe, si- 
mili a quelle del mio Martirano (1); il che non credo si 
disconvenga, sendo ella ninfa di giardino. Tuttavia, se le 
descrizioni de* luoghi e gli altri suoi ragionamenti pares- 



(1) Nel XV de' suoi giocosi capitoli il T., circa il medesimo tempo, 
scriveva al signor B. Martirano: « Quando voi componete di man 
« propria | Quelle insalate d'erbe scelta e rare, | De le quai Lèuco- 
« petra ha tanta copia, | Per darle al Viceré che l'ha si care, 
« I Mai non vi paion buone ecc. » (ed. Volpicella, p. 244). 



Il8 CLORIDA 

sevo troppo lunghi e diversi^ perdonelesi questo peccato, 
come a donna, et innamorata, e disiderosa di prolungare, 
con ogni modo che ella possa, il piacer e' ha di veder Vo- 
stra Eccellenzia. La cui illustrissima et eccellentissima 
persona Iddio levi a quel grado di felicità, che desidero 
io, suo eterno seì*vo. 

Di Napoli, cb*^ asoo di Fébr, del xì tTii'i 



L.. Ti^ttLLOi 



GLORIDA^'^ 



STANZE AL VIGERE DI NAPOLI 



I. 



Signor, sotto il cui saggio, alto governo 
sovra ogni altro si gloria il mio Sebeto; 
lungo onor del Tago, o pregio eterno 
del chiaro sangue d'Alba e di Toleto; 
qual fierissima stella in tristo verno 
ha volto il tempo mio, ch'erg si lieto? 
Qual altrui crudeltà, qual error mio 
vuoi ch'io pianga, da voi n^essa in oblio? 



II. 



Benché del vostro amor porti il core arso, 
temo che donna vi parrò straniera; 
poi che '1 pie vostro, che di voi m*è scarso, 
fa che '1 sembiante mìo non sia qual era.' 



(*) Questo titolo, dato dal ms. ori^nale, manca nelle stampe. 

I, 4. Don Pietro di Toledo, a cui si volge qui il T. in persona della 
ninfa Glorida, era figlio di don Federico duca d'Alva, e nacque ad 
Alva di Tormes nella Gastiglia. 



120 CLORIDA 

L'abito mio, di più bei fiori sparso, 

di quanti ne tessè mai Primavera, 

e i fior e' ho in testa e 'n man vi faceian prova, 

ch'io non sia donna agli occhi vostri nuova. 



III. 



Clorida ninfa io son, che nel giardino 
del vostro illustre figlio ho il mio bel regno: 
che a voi col cor, più che col pie, m'inchino, 
e del mio stato a lamentar mi vegno. 
Ben pensai lodar sempre il buon destino, 
quando al gran figlio e di tal padre degno, 
ch'io fossi vostra e sua, desir gli venne; 
ma, lassa me! tutto il contrario avenne. 



III. Cliloris (acc. Cìilorida) nell'egl. Ili del Sannazaro è nome di 
una ninfa amata dal pastore Cromi, « Sive tibi Chloris, seu Gala- 
« tea placet », scriveva a Sincero Gio. Pietro Valbriano {JOiCóbi 
Sannazarii poemata, ed. comin. del 175 1, p. 182). E ne canta anche 
il Fontano. Il T. qui fa di lei la deità gentile dei giardini che don Gar- 
zia di Toledo aveva a Ghiaia, presso il luogq ov'è oggi la Piazza 
del Vasto; de' quali cosi si legge nelle Notizie del bello, delVantico 
e del curioso della città di Napoli, raccolte da Carlo Celano, Na- 
poli, 1860, V, 562: « I vichi che tramezzano queste case [del quart. 
« di Ghiaia], che tirano verso la montagna sono ricchi di belle abi- 
« tazioni, e van quasi tutti a terminare a qualche chiesa: il primo 
« va al palazzo fondato da D. Pietro di Toledo, che era un'abita- 
« zione alla reale con bellissimi ed ampii giardini. E qui 
« prima fondato avea Alfonso n d'Aragona il suo per delizie », 
G. B. Chiarini annota {Ivi, p. 568): « D. Pietro di Toledo, viceré di 
« Napoli, edificò quivi un suntuoso palazzo con begli e spaziosi 
« giardini per suo uso. Fu poscia abitato da D. Garzia di Toledo, 
« di lui figlio, di cui per lungo tempo ha serbato il nome. Verso la 
« fine del secolo decimosettimo venne comperato dalla R. Corte per 
« istabilirvi le stalle per la cavalleria *. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 121 



IV. 



Ei dol mio dolce grembo uscito fora, 
ove sedea di e notte, e si contento, 
Tamaro sen del mar corre a tutte ore, 
tristo, eh' a dirlo scolorar mi sento; 
e sospirando il mio lontano amore, 
sen va là dove il portan l'acqua e '1 vento: 
né spera i dolci usati miei soggiorni, 
se '1 sol non scema d'ore i lunghi giorni. 



V. 



Benché della sua lunga lontananza 
con l'onor ch'ei s'acquista io mi conforto; 
poi ch'ogni di fa cose tai, ch'avanza 
lo splendor del suo nome il duol ch'io porto: 
pur, sondo egli '1 mio ben, la mia speranza, 
il mìo vero sostegno e '1 mio conforto; 
non posso far, ch'io non mi doglia e pianga, 
che tanto tempo senza lui rimanga. 



VI. 



E voi. Signor, so vr' alta sede assiso, 
date or leggi di pace et or di guerra; 
or l'un godete, or l'altro paradiso, 
di tanti onde per voi s'orna la terra; 



IV, I. Le stampe e lido fuori, — 3. Le stt. instabil sen corre di 
Dori, — 5. Le stt. i miei lontani a/mori, — 7. Le stt. i cari tesati, 

V, Cfr. le ottave XXI-XXIV del poemetto al Martirano. 

VI, 3-4. Allude ai più e diversi luoghi di delizie, che il Viceré pos- 
sedeva. — 5. Le stampe maestà. — 8. Gir. la nota alla XXVII delle 
Stanze a B, Martirano. 

16 



122 CLORIDA 

' or coi! la maiestà del real viso 
date al buon gioia, e tema a colui ch'erra; 
cavalcando per l'inclita cittade, 
intento a fair maggior Boa gran beliade. 



VII. 



Or parlate al gran Cesare, or T udite 
col mezzo de gr inchiostri e de la carta; 
or provedete, eh' a cotante vite 
quel che Cerer Ipr dà ben si cotn parta; 
or a mille altrui dir gli orecchi aprite, 
tuttavia sul pensier, che non si parta 
mai tristo alcun da voi, fra tanti e tanti, 
con la lingua, con gli occhi e coi sembianti. 

Vili. 

Mentre, vaghi d'onor eh' a me vi tolle, 
voi vel cercate in terra, et ei nell'onde; 
io, che mi vedo cosi sola, mollo 
fo del mio pianto ogni erba et ogni fronde. 
Io piango, e chiamo; e dal vicino colle 
Eco sola pietosa mi risponde; 
et per dir che '1 mio duol la fa dolere, 
mi rende le mie noie quasi intere. 



VII, I. Nelle stanze ora cit, XXXVf, 3-4: « De l'inchiostro mer- 
* cede e de la carta, | Per cui v'ascolto spesso e vi ragiono ». Il 
gran Cesare è Carlo V. — 3-4. Intendi: « Sorvegliate la ripartizione 
« dell'annona ». Le stampe che Cerere dà, — 5. Delle frequenti u- 
dienze, concesse dal Viceré a questo e a quello, parla il Nostro an- 
che ne' Capitoli (ed. cit., p. 224). — 6. Le stt. col pensier. 

Vili, I. Le stampe voi tolle. — 7-8. Meglio, forse, le stt.: E per mo- 
strar^ mio duol quanto in lei puote, \ Mi rende quasi intere le mie 
note. 



VJCERK TOLEDO 



IX. 



lo piango, et Eco al pianto seguir suolmi, 
e ciò ciré nel mio san piagne con noi. 
Mirato II fico, onde i canestri ho eotnii 
e' Ila ciascun lagrimoBi gli occhi suoi: 
e perché di qual mal cke tanto duolmi 
Bete, e del pianto lor, la cagion voi; 
come voi sete tutto gentilcMa, 
Eon le lagrime lor tutte dolcezza. 

X. 

I fiori del mio sen, le piante e l'erbe, 
l'afia, la terra o'I mar che m'é da presso, 
la poma, cbo desian pendere acerbe 
finchr; di veder voi lor fla concesso; 
se le pregliiere ior non sen superbe, 
vi pragan tutte. Amore et io con esso, 
clic un di', Signor, vengiiiate a consolarme, 
pria che de gli odof mìei veda spogliarmc. 

XI. 

Pria che '1 rìgido verno spogli 11 mondo 
de gli Mior suoi, do' miei e di natura; 
ne la Tronta seren, nel cor giocondo, 
venite ad aggiornar mia notte oscura: 



li, 1. La Blampe al pianto m'aceompoi/na. — 3-4. I* Ett. ohe anni 
-,JHlf po'- die piagna \ Si rugiailusl tnosli-a. — 5. 1.e slL del dolor tìie 
'l sen mi boatta, 

S, 8. Cfr. In nota' olla it. XXIII e 

XI. 4. Agoiornar vale qui rendei' ci 
diaiere. Vedi pù ovoali, dove coetui entra io f 
lardi, aioè priioaticci.o Heroliai. — S. Ije sU, e 



Vandemmlatoi-i!. T.e a lampe 



I, illum 



CLORIDA 

fo ve no prego, e priefravan Giaraondo, 
il (Ilio veccliiarol, e' ha ili me cura; 
cito rriifto o flor non lia, presti tii5 tarili, 
die a voi non gli consagri, e non gli gnanli, 

XII. 

Non abbiate timor, che sian gelose 
l'annate o bolle ninfe di Pozzaolo; 
benché elle aian si calile o si aniorose, 
e raro gelosia lasci Amor solo. 
Ben sanno, c!te le basse e l'alte cose 
SOR del padre non men che del figliuolo : 
non men vostra, Signor, die sua mi chiamo; 
convien che sìa del ceppo dii è ilei ramo. 

XUI. 

Ben pensai, che al passar vostro l'altrieri 
(a con questo pensier la porte apersi) 
gisaen di veder voi qnesti occhi alteri; 
diedi acqua ai fonti, ornai le strade, aspersi. 



XIL Allude il T. al • Euperbo palagio con una grandÌBsima starza 

• a con un beliisaimo giardino », che il Vioerè Toledo aveva fatto 
ediflcare setle anni avanti a Poztuolì, mercé il boltino delle vittol^ 
riportale in Africa da Don Garzis, ut pvuolanos ob recentem agri 
can/iaeratlonetn palanuis ad priatlnas tedes rtsocarel (parole dell'i- 
scrizione posta sulla porla del giardino). V'erano fonlane di marmo 
con acque di nira aaluhrilà [di'. Mazìiella, suo et anacIMà detta 
città di Poztuolo, Napoli, 1396, pp. 33-23; Capaccio, La ■cera an' 
ttOtilà di Poritiolo, Roma, 1653, pp. 143-46; Nficcia, Vita dt Don p, 
di ToJtda, In Arch. star. Ual, B, i.', voi. IX, p. 37). E non a [orto 
il T. chiama qui amale le ninre di Poixuoli : (va esse* il Viceré, 
■ per causa della saluta, quasi tulio l'inverno e gran parte della 

• priraavern solca far dimora ■ (Castaldo, /i(., in Baoc. del plil ri- 
nomati toriltorl del Regno, vr, 66). — 3. lA stampe ed ainor-ote. 

Xllf, 4, Le stampe t aipertl. — d. A la ninfa del mi-co, cioè al- 
l'ampio e daliiiose giardino presso il palaizo ediflcnlo dal ^iceri 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I25 

Ma ingannati fur meco i mìei pensieri; 
onde, scornata, a pianger mi conversi: 
che, senza farmi voi d'amore un atto, 
a la ninfa del Parco andaste ratto. 



XIV. 

Ricordisi la vostra alta prudenza, 
volgendo gli occhi al tempo ch'ave a tergo, 
ch'anzi ch'io avessi questo amante, senza 
cui di pianto talor tutta m'aspergo, 
voi di me aveste interna conoscenza, 
e m' onoraste, et io vi diedi albergo 
ne' miei regni, e di voi gloria mi prosi, 
non ore e di, ma settimane e mesi. 



XV. 



Or, se U merito mio non si dà vanto, 
che mova il real pie, perch' io vi chiami ; 
le belle leggi de l'ospizio santo, 
de l'amicizia 1 nobili legami, 
e la vostra alta cortesia, che quanto 
vi teme il mondo, tanto fa che v'ami; 
vi movan si, che io vegga la mia speme 
fiorir con l'erbe che '1 pie vostro preme. 



Toledo nel 1540 (nel '33 secondo il Capaccio, Forasi., p. 853), che 
« chiamato veniva il Palco regio ». Gfr. Gelano, Notizie del bello, 
delV antico e del curioso di Napoli, ed. del 1725, p. 107. 

XIV, 2. Le stampe ch*avea a tergo, — 3. Vamante^ s'intende, è 
don Garzia. 

XV, I. Le stampe non potrà tanto. — 7. Le stt, vi destin si, chUo 
veggia. 



X\l. 

Oh, se '1 mondo Tedrà eh' a voi boij cara, 
quanto a lui sarò cara di qui avante! 
La pioggia, il sol, la terra e l'aria a gara 
moveranno al favor de le mie piante. 
Labulla, eh' ò si fresca e dolco e chiara, 
per vio dal suo he! pie non tocche innante 
correr vaiìrassi, e trarre il vaso pieno, 
e rigar dolcemonlo il mio liei seno. 



XVII. 

F: questa calda terra, e questa arena, 

che contozza d'altr' acqua mai non ebbe, 
se non del poKZo ondo In fonie è piena, 
o del cielo, o del mar qualar pi» crebbe; 
vedutasi onorar d'eterna vena 
d'ogni stagion, dirà quanto a voi debho; 
et or con deetra mano, or con sinistra, 
di fiori eterni vi sarà ministra HV 



n, I. I.e stampa «la coj-a. — j-4. Heminisci 

asB e l'alba rugiadosa, ] L'acffuii, la lerro al suo favor s'inchi- 
■). Le stt. In favor, — 5, p. SuiniONTB, in fine Oell'edii. d«i 
carmi del Poalano (Napoli, per Sigialo. Mayr, 1505): « Labulla rivua 
« esl qui per cuolcutos Neapolirn ingredilnr, a labro, ut Pontano 
uit, dictua, sive, u[ ali! volunt, a bulliendo >. CArAccio, fi Fo- 
*o, p. 1007: ■ K se altra lode non avesse [fi Sibelol, quMis tu- 
■ rebbe gloriosa, cb'esfendo un ramo di Labulla cbe scatnrisM d.il 
ite di BoRiiuo, rende Napoli coti copiosa d'un'acqua della f uale 
un popolo beve la pii'i pregginla, delicata, suave ecc. • tt Se- 
belo e LdUuIIq cauta le^iad rum ente il Coniano. 

(i) Emo le ottave ehe, aouie oseervonuuo DeU']ntre4<fzioDe, il T. 
ba intereulate a questo puulo nel poemetlo, rimaneggiandola: 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 



XVlll. 

E perché, senza belle, oneste e saggio 
donne, raro ban diletto animi accorti; 
e fonti senza umor, senza fior piaggio 
soQ senza voi de gli uomini i diporti; 



messa in vi»g^o 
I, per senlier lorli, 
non le faccia oltruggio, 
'1 pie par cba la porti. 






i begli < 
u'appai'i 



a del liei yollo suo gi4 mi fo specchio. 

E '1 mio Signor, che più par che desia 
che la ninra gentil niooo dimori, 
ohe veder fiorir gemme l'erbe niie 
e gli arbori sndar felici odori; 
vago d'agevolar l'aspre sue tie, 
pi. spende opra e pensier, gitla tesori, 
e servi e moslr! a sobiarn poti sotterro, 
a Torar pietre a munti, a cavar (erra, 

olire che u questa riva darA tl'egio, 
onde Uh la più Italia ohe '1 mar bagni; 
spero ch'elerna lode, elerno prygio 
dal mondo no i-iporti e ne guadagni: 
cbe iiuHl che a città grande a splendor re( 
n mille semidei (limosi e ma^i 
parva impossibll, tnnt! tempi e tanti, 
or d'aver (htto il mio Oarzia si vanti 

Con (jneale orecchio intesi io dir suvecle, 
lodttnflo l'altre qnnlili sue belle; 
* Se gtiesta piaggia ornasse acqua eorront 
non avria t«rra egual sotto le stelle. >■ 
F.<xa cbe l'ii^; gliL il mormoi-ar si sente 
quasi flell'acquo fdgjilive e snelle. 
Actìò ch'elle al venir pongan più. fhetla, 
venite voi dove i! mio cor v'aspetta. 
1, S- I^ sbtmpc MMa>». 



CLORIDA 

squaiira che a par ilei sol rlsplenila o rat'g'e 
con voi ne venga, e meco ai diporti, 
e con l'ostro de' volti e con l'avorio 
faccian vergogna ni flor! ond' io mi glorio, 

XIX. 

Pria uliQ si scosti il vugo sol da iiui, 
e declinando a l'austro s'appropinquo, 
venite a rallegrar voi et altrui, 
non una volta no, ma quattro e cinque! 
W cliB vengan desio donne con vui, 
che si ohiaroin di parti piiì longinque: 
basti che vi sian quelle, e pili non curo, 
eh' a Pozzuolo con voi gran tempo furo. 

XX. 

Venga la illustre tlglia, e la vicina . 
schiera di donne eh' a lei (un corona; 
e la mia rara donna Caterina, 
saggia, bella, gentil, cortese e buona: 
le due Violanti, la Sanseverina 
e la sorella sna dolce Carlona, 



XIX, 7-8. Le rIX. ohe con voi presso ISatn Calùr (uro. l'iti volte 
Pllouico ci paria di • feste, giuochi ed alli'i soIliizzeToli dipurli ■ 
del Viceré Toledo, a cui prendevano porte belle e nobili dame. È 
naturale, che avessero lungo principalmente nella guntuosa villa di 

POBIUOli. 

XX, I. Anna, eonlesaa d'Aitamira, avvero Giovanna, contBfisa d'Aran- 
do. Le altre figlie del Viceré Toledo orano già marilale. — 3-4. Pro- 
babUmenle, Donna Caterina Sanse verino, dì cui a lungo canta C B. 
PINO, nel Triompho di Carlo v, Napoli, per Gio. SuJtibacb, 1536, 
— 5-6, Violante Sanaeverino, figlia d'Alfonso duca di Soiuma e mo- 
glie n Giulio Orsini di Monte Rotondo, e Violante iJioz Garloii, tlglis 
dì quell'Antonio conte d'Alife, obe, come dotto e letlerolu, ebt>e 
loda dal Bonfadio e da Paolo Manuzio, Krano, propriaoienley cugine, 



STANZE AL VICERK Tl.lUÌDO 

c'tma (Ji beltà e d'ingegno dopptii palma, 
e par ctia, come un nome, abbiano un'alma. 

XX[. 

Due Spinelle, die '1 mondo par eli' onori, 
vengano ad onorar le mie brigate; 
spine che d'ogni tempo baa frutti e fiori, 
l3or di bellezza, a frutti d'onestate. 
Vengavi la Monforte, cb'a gli onori 
de gli avi Ila l'alte sue virili uguagliate; 
o la sua llglia alteramente umana, 
cb'ii ne! nomo e nel cor vera Diana. 



XXII. 

L'amor del suo Signor lieta vi scorga 
la noliil Pimmentella e saggia e Ada, 
cui, non cbe '1 mio giardin, ma tutta assorga 
la piaggia, inchini il monte, e l'onda rida; 



XXU 1-4. Mabio ut LEO, Amor iirtgionlero, in Starna di diversi 
atittaii, l'arte a', Venezia, presso i Gioliti, 15H9, p. 431; ■ E quindi 
« volgerà la viala a ipielln | l'arte che la mia mnn t'accenna e mo- 
- stru: I Cbe li vedrà Gieronima Spinella, | Ch'arn.i di sua virtd 
' la putria nostra; | li: la «orella aua detta Isabella, | Clio di sua 
• )p-au bella la 'lupi'cla e 'nostra 1 Si, che innanzi a l'iuvidia anco 
" direi, I Qbe bello è sul iinanlo aasoinii^lia a lei >. ~ 5-$. Celebra 
In famigtia dei Manrorlu: più. ancora pei noti versi della Commtdla 
(Mf., XU, ii8-ao), che perla sua parenleia coi re d'InghilleirB e per 
esser slalA onoratissima fi'a quante, con Curio d'Aogtù, si lrap))tlle- 
rono in Napoli dalla Francia. Ida di questa Diaca non trovo men- 
zione nei g^nealogisli della famiglio, né anche Della Disiierlat. tsto- 
l'ico-oritlva della fam^ ilOfir<yrte dei conti di Campobamo, comparsa 
in Napoli nel 1778. E senia trtMo il prof. Miola l'ha ceroata per ma 
ne' repertori mea. (non escluso il Db Lullib) della Nazionale nupo- 



XXII. Poiché donna Moria Osorio l'imentel, moglie del Viceré, 
uurl nel 15311 {Miccio, VUa di Don P. di Toledo, in Antfi. s(or. Ual-, 
i. t*, voi. UE, pi 43), qui aon può trattarsi olle di sua aaora, donna 



poi che nott è cUi maeg'O'' ^oti porga 
al CIqI per voi, né a voi pili desta UKsida, 
e pili rìsguardi a quella vita a pensi, 
a cui di tanto vite il filo nttiensi. 

XXIII. 

K in gran donna ancor vi vuo' d'Alili, 
che'n on di fé' pili volte a Morta scorno; 
e se '1 venirvi ella avverrà elio Gcliifl, 
spaventata dal caso di qnel giorno; 
un novo Autoiuedonto, un novo Till 
offro darlo et al gire et al ritorno, 
che prenda il fren del carro, o '1 tiiuon regga, 
in terra u 'u nijtr ch'ella d'andar s'elegga. 

XXIV. 

Dell, perché tra lo cara mie Spinelle 
la mia cara Bisballe io non chiamai? 



Yaes PJRienlel, Hglia di Don BerQui'dlno Marchasu Ji Tiivnrn, mari- 
tata al primog^nilo ilei Toledo, Tion Veàerico; la ■ carn Pimealella • 
del cnp. VI. — 6. AssiOa, ciod assista; Inliniaiaa con frequenle. — 
7. Lb BèBinpe e pili rtouardL 

XXIIC, I. Cornelia picoalomiDl, moglie de! suddetto Aiilanìo Dìae 
Oarlon, tana conta d'Alife; una colta dama, di etU reslono due let- 
tere nella racRolla giolitina del 1549 (IMt. di molle vMoroie tUm- 
n«, co. a8 II, 74 ai. Anche di lei lesse le lodi Q. B. Piko, Dal Triom- 
pha di Carlo V, e. 41 a, e jl Sannazaro iPcemMa, ed. colnln, del 
i75i^. S3) ÌDdlola una sua elegia Ad Luctnam, partwrientt Cor- 
nelia Piacolominea, AntoMi Garliynu Attifaraiin domini conitioe. — 
2>8. SI allude a qualche coso spiaeeiole occorso in Doenhio o in 
bapoa alla Contessa d'AIire: come ognun sa, Aulomedonle em l'au- 
riffa d'Aohllle, Tifl il pilota degli Argonauti, Quanto fosee comune 
glft In quel tempo a Napoli, e in ispeaie tra la gentlIdDone, l'ano 
dei cocchi, appare dal capìtolo in cui il T. lo deride e vitupera gio- 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

Se col corpo e col cor sempre è con olle, 
porcile; col nome altrove la lasciai? 
Venga Blsballe, a cui tra le donzelle 
Diana forai egual non vìiSe mal; 
6 con le sue compagne a seguir preste 
sentir mi faccian l'armonia celeste. 

XXV. 

Fra tante belle e generose dame, 
di cui la lista in mano oggi vi ho messa, 
io desio, ch'oltra'l numero, si chiame 
la gran socera mia, la mia Contessa, 
che, tenera del Aglio, par che m'ame 
SI, che bramar più non potrei io stessa, 
e no' bisogni miei, fra tante sola, 
mi celebra, o mi onora, e mi eonsola. 

SKVl. 
La beila schiera ancor non vada esclusa, 
eh' un medesimo albergo con voi chiude: 



vegs, il niiOTo Viceré, don Pietro (ofr. Filonxco, Vita del Toledo, usi 
cil. oodioe napDL, & 337). Ebbe dua figliuole: iBabellD,. ohe andò sposa 
a Don Oiovanni dellì Monti, e Candida, che prose 11 velo; il T. al- 
lude probabil menta 11 Ha prima. 

XXY. Quest'ottavi!^ dove il T. parla della Contessa di Kolti, MnriA 
Ssnseverlno, vednvn sia dal 153H d'Iinrico Orsino (ufr. la nula ai 
vv. 1117-8 dei lnie Petlegrinl), non compare nelle edizioni. Probabil- 
menlE, il poeta EtRssn dovetU sopprimerla, p?r essere aplaaiuta al 
Viceré ^allusione ai rapporti dì lei con non Garzia. Vero é, che 
(juesli EoUva oliiamsrlB madre; ma, come bone osserva il FioKBHriNO 
[Liriche (Sei T., |>. 303], intercedeva fbrsR tra loro nn ]>iu stretto le- 
game. Il sonetto GI-IV, ìndiriiiato alla Conleasn, eomincia: < Madre 

• Telice, la cui noliil alma, [ Non già il bel corpo, fa' l' inclito parlo, j 

• Nulo a por giogo al Maui'o, al Turco, al Parto, I Gt ni pnpol feclel 

• lor gravo salma. -, 



CLORiriA 
la Valle, al vizio d'ogni intorno chiosa, 
Is due flglie si scaltra in età rude, 
e la gran Norn, eh' è tra Muso Mesa, 
tra GraKie Grazia e tra Virtii Virtude; 
e le seguaci lor tutta vi ciiero, 
(legna d'aver sovra aitre donne impero. 

XXVII. 

Scenda da! monte, onde spiar le mie 
liellezze sòie e vagheggiar sovente, 
l'altro huon Pietro, e faccia ìl maggior die 
parervi corto col suo dir piacente: 
il huon Pietro, ch'ha seco due Sofie, 
Tnoa nel core e l'altra ne la mente. 
.Meni quella del cor, qnalor qui bassi, 
e l'altra chiusa nel suo monte laeei. 



HicHr (/^ noblllà Oelle donne, Ven^ Giolito, 1551, e J44 6): « .... Hon 

• meno noLìliasima che bellu e d^gna d'immortnl gloria per le in- 

• fluite virtù dell'onimo sud, [D. Dianopaì è lina nuovn Baffo de'no- 

■ atri giorni, come hanno fatto Tede le doiciasime rime toscana pro- 
« dotte dalla sud le^iadra vena >. K LOD. PATEnNO (in Stame Si 
diversi, ti, 333) : ■ Ecco Leonora poi SAnsev«Tina, | Oh chi veiT^ che 

■ ijue'begli occhi a pieno | Possa lodare, ove suoi slraliaOina | Amor, 

• per impiagarne a mille il xeno? >. Ne cantarono anche Giulio Ce- 
«are Caracciolo e Lauro. Terrscinn. Rimaste vedova, due anni svanti, 
di Don Ferrante Mendo/a d'Alnrcon, primogenito del marchese 
della Valla Sieiliana,'g;naedo fìi Ecrittn la Clortùa, ella vigeva 
in seno alla fìimigiLa del snoeero; alla ([naie per l'appunto si rifa* 
rlsce il T. ne' versi 3-4 di questa ottava, manennlfl nelle stampe. Della 
soppressione fu causa, io credo, l'esser ella uscita in seguito (per 
vclontì di Don Ferrante aanseverino, principe 6i Salerno) dalla casa 
del marchese della Valle, • ove Don Oar(;ia, ohe l'amnva, oveva oge- 

• vele entrata ». Cfr. voi.PicEt.i,*, note ai Capp. del T,, p, 103. 
XXVII. Qui s'accenna a Don Pietro di Toledo, coniniendators di 

S. Giacomo; ■> nomo savio, prudente e forte >, ì,'i da credere al 
Miccio, nella Tlta del VKxrè Toledo cit., p. ^'i. A lui il viceré af- 
lldA la guardia del cast^tllo di S. Ermo <ii monte ontie spiar eoo.). 
saa moglie ehinmavasi SoUs Nngorim, ed è ]b Soda dei core onda 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I33 

XXVIH. 

Vorrei fra belle donne a voi già note 
donzella unqua da voi non conosciuta, 
per farvi udir più non udite note, 
e bellezza veder più non veduta; 
ma 'l Ciel non vuol che 'l carro suo qui rote. 
Oh, se nel cuor passasse la veduta, 
ben la vi mostrerei, qua! ella è fatta, 
ne l'altrui petto al naturai ritratta! 

XXIX. 

Vengan le donne illustri eh* io v'ho detto 
e quantunque da voi, Signor, sen vonno: 
tanti piacer quel giorno io vi prometto, 
quanti da cor gentil bramar si ponno. 
Vi sovvien de la notte ch'ai mio tetto 
gioiste SI, che vi fu noia il sonno; 
quando del mio Garzia l'animo egregio 
fé' le feste maggior d'ogni cor regio? 

XXX. 

Premeva il Sol le spalle al gran Centauro, 
l'acqua e la terra risplendea di ghiaccio. 



qui parla il T.: l'altra Sofia, s'intende, è allegorica. — 7. Le stampe, 
meglio, né lidi bassi. Bussare non si trova usato intransitivamente 
in tal senso. Forse la lezione delle stampe ci rappresenta un emen- 
damento del poeta stesso. 

XXVIII, È lecito congetturare, che questa donzella « ne Taltnii 
« petto al naturai ritratta » sia la amata da Don Garzia padrone 
della villa; cioè, probabilmente, Vittoria Colonna juniore, la quale 
vivevasene ritirata con la madre nel Castel dell' Ovo. Cfr. la st. LIX. 
— 5. Intendi: non le è concesso di venire qui in cocchio. 

XXIX, 6. Le stampe vi fu a noia, 

XXX, I. Le stampe jpremea Febo, — 4. Le stt. accolsi lieta. 



134 CLORIDA 

quando, ornando i miei tetti e d'ostro e d'auro, 
voi e tanti altri lieta accolsi in braccio. 
Or' lia pili giorni che smontò dal Tauro, 
et io, bramando voi, di duol mi sfaccio; 
se non che spesso, nel maggior mio duolo, 
col membrar di quel giorno io mi consolo. 

XXXI. 

Creder la meraviglia non potreste, 
ch'ebber quel fausto di le ninfe nostre; 
quando nel regno mio vider le feste 
de' cavalieri e delle donne vostre; 
lo splendor de le gemme e de le veste, 
il ton'or de' tornei e de le giostro; 
che a Marte, che vi fu sotto altrui larve, 
per ìmagin di guerra troppo parve. 

XXXII. 

L'armonia delle voci e de le cetre, 
a cui lieta applaudea la matre d'Ebe, 
avrian bastato a cìnger d'alte pietre 
nova città forse maggior di Tebe. 
Quel di tutte voti\r le lor faretre 
Cupido e de'fratei l'alata plebe. 
Chi da' colpi d'Amor quel di fé' scampo, 
d'ogni altro tempo entri securo al campo. 

XXXIII. 

Perché d'un di si lieto io mi ricordo, 
quando un'ora tranquilla mi si niega? 



XXXT, 3. Le stampe e il ms. rider; ma erroneamente, — 7. rnlen- 
(lerei: sotto le larve di don Garzia. 

XXXir, 2. La matre d^Ebe, cioè Giunone. Le stampe madre, — 
3-4. Le stt. arian. Richiamasi il T. al notissimo mito della lira d'An- 
fione. — 6. Intendi: Cupido e gli amorini. Plebe vale qui stormo. 

XXXIII, 3. Le stampe fors'è. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I35 

Forsi è il cor vostro del mio pianto ingordo, 
poi eh' a preghiera mia nulla si piega? 
Deh, non siate, Signor, sì duro e sordo 
a parole di donna che vi priega; 
cui, senza voi, quanto ode o vede attrista, 
né in don da voi chiede altro che la vista! 



XXXIV. 

01 me, vedo le genti di lontane 
parti venir, dal gran desir accese, 
a veder le bellezze alte e sovrane 
del mio giardin, che n'han le glorie intese; 
et alfìn, come cose sovrumane 
sento ammirarle, e far tra lor contese, 
chi ponga in adornarlo maggior cura, 
l'aria la terra, l'arte la natura; 

XXXV. 

e voi dal bel giardin sete si lunge, 
che il vago odor che giorno e notte esala 
fln ne le vostre cammere vi giunge, 
pur che '1 vento gli presti un poco d'ala, 
e desio di vederlo non vi punge, 
or che le chiome a terra ogni arbor cala, 
che di bei frutti indora, ingemma e 'nostra, 
e sua beltà pili ch'altro tempo mostrai 

XXXVI. 

Deh, fate eh' io vi veggia in quo' bei liti, 
pria che per troppo duol m'inselvi e'mboschi! 



XXXV, 1-3. Intendi: * Siete a tal distanza, che può giungervi » ecc. 
■ 3. Le stampe camet^e. 

XXXVI, 3. Le stampe rustici. 



136 CLORIDA 

Non disdegnate i miei rustichi inviti, 
che i Dìi vengon talor ne gli antri foschi: 
e, s'io non ho da farvi alti conviti, 
quei cibi che dan Tacqua e Taere e 1 boschi, 
ciò che fecondo il mio terren dispensa, 
ardir mi dà di chiamar Giove a mensa. 



XXXVII. 

Né gli orti de l'Esperidi, né quelli 
d'Alcinoo, né qualunque più lodati, 
ebber piante miglior, frutti più belli, 
né più dólci già mai, né più odorati. 
Oltra la bontà lor, par che rappelli 
le mani a come ogni arbor che si guati; 
par ch'ogni ramo, ogni erba et ogni fronda 
al suo signor di cortesia risponda. 

XXXVIII. 

E s'io, che del bisogno non m'accorgo, 
destrezza eguale al buon voler non aggio, 
si ch'onori a bastanza in picciol borgo 
signor si grande e gli altri di paraggio; 



XXXVII, 6. Le stampe a corre, 

XXXVIII, 5-8. Don Lope de Mardones (m, 1569) era il maggiordomo 
del Viceré Toledo. Il T. ne parla anche in un capitolo al medesimo 
Viceré (ed. cit., p. 378), levando a cielo certo moscatello: « AXììuon 
« Mardones ne portavo un fiasco; | Et a l'entrar di Terra di Lavoro 
« I Cadde e versossi, onde ancor me nUrasco. | Era proprio un li- 
« quor da dar ristoro | A lui, che solo tanto peso porta, | Che strac- 
« cheria quanti uomini mai fóro. | .... Non ho paura che men buon 
« si faccia | Perché sia tocco e mosso da ciascuno; | Buon vi si 
« mette, e vie miglior sen caccia. | Cosi Mardones, il qual loda o- 
« gnuno: | Provatelo con oro o con faccende, | In terra, in mare, in 
« cielo, egli è sempre uno ». 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I37 

il vostro buon Mardon, di cui non scorgo 
nel mondo uom piiì cortese né più saggio, 
farà, mercé de l'aita sua bontade, 
eh' a tutti io soddisfaccia, a tutti aggrado. 



xxxix. 

Né perché di mia man poti et innesti, 
e pianti, e zappi, e mi riposi rado, 
ila che di darvi tutti gli agi io resti 
e le delizie, che vi siano a grado. 
Han le cammere strati e letti e vesti 
d'intorno ai muri di leggier zendado; 
e 'nvece di profumi, hanno i fior miei, 
che d'odor vincon gli Arabi e i Sabei. 

XL. 

E s'uscirete fuor, prometto darvi 
terren verde, aer puro e mar tranquillo; 
e se state se gite, accompagnarvi 
d'ombre e d'aure e d'umor, che fresco stillo: 
prometto in cento luoghi arbor mostrarvi, 
ne le cui scorze il vostro e mio Tansillo 
ha '1 nome vostro e di sua donna impressi, 
e cresceran le lettre, crescendo essi. 

XLI. 

E benché a voi, fuor d'umano uso, spiacque 
sempre il concento de le proprie lodi, 



XXXIX, 1-2. rodere, UT, 106: « E di mia mano imiesti e pianti e 
« svella ». — 3-4. Le delizie e gli agi a cui allude anche nei Ca^ir 
ioli, p. 20j e nelle Stanze a B. Martirano, XXXIL — 5. Le stampe 
ca7iiere. 

XL, 6-7. Reminiscenza classica e ariostesca. 

18 



CLORIDA 
pili rli ben oprar saggio vi piacqtio, 
tiie d'udir ch'altri le Tostre opre Iodi; 
vi mostrerò fra l'erbe e l'ombre e l'acquo 
cento altri luoghi, ch'egli in cento modi, 
or con le vive voci or con gli 'nchiostri, 
insegna a risonar gli alti onor vostri. 

XLU. 
Potria fra i?li altri or or mostrar veno uno, 
ove, desto l'altrier tanto per tempo, 
che '1 lialcon de l'Aurorn era ancor bruno, 
si godea II fresco e l'ora di quel tempo; 
e credendo esser visto da nessuno, 
cantò di voi e dal suo amor gran tempo. 
Ancor vi sonan, credo, i freschi accenti, 
t>'al BQO partir non gli rubaro i venti. 

XLIII. 
Io clie, fra cedri, aranci e mirti ascosa, 
quanto eì si dica o faccia, ascolto e miro; 
uitenilo il canto suo, lieta e pietosa 
mi fer le vostre loda e '1 suo martiro. 



XLII, 2, Le stampa t'aUr'iert te sì per tempo). — 3. Ci richiaoui I 
al dantesco: • La ecacubina di Titone antico | Gii s'imbìaDcara 
« balco d'oriente »; accogHendo in questo passo la letìona tmloo ' 
e la inlarprelaiione più connina. Ancbe il Besivikni {Atnore, poe- 
roello, si, I): • Oii lialn al novp del In bella Aurora j Dal balcon 

• d'oriente ai mosIraTU •; a il Tasso IGer. Kb,, IX, 74): < L'Aurora 

- intanto il bel purpureo velo I Gin dlmoalcava dal eovran bat J 

• cone>. Ambedue sulle [raccie del massimo poatn. — 4. Ricorda il ( 
dantesco • l'ora del lampo e la dolce stRglone r. — 5. Notisi la i 
villosa ellissi della neg^ativo. — 7. Fresati, cioè recenti. 

XLin. I. 11 ras. arattfft. — 1-4, Anacolulou non bello, — i 
«lampe laudi. — j. Lu slt. ed amorosa, — S Le sLl. dal OOt 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I39 

Voce sciogliea si dolce e sì amorosa, 
ch'ogni nota, ogni accento, ogni sospiro 
par che fera d'amor Taria che tocca, 
e gli escan più del cor, che de la bocca. 



XLIV. 

Sapete il padiglion eh* è su la strada, 
tra la porta del mare e del palagio? 
(se pur non vuol, che qual io sia vi vada 
già fuor di mente, il mio destin malragio^ 
poi che la mia beltà più non v'agrada, 
e U cercar me tì sembra aspro disagio)^ 
il padiglion ohe copre Talta fonte, 
le cui bellezze credo vi sian conte ?^ 

XLV. 

Poi che di me, Signor, vi sovien nulla, 
e '1 ricordo e l'amor s'è via fuggito; 
del loco, ov'ei cantando si trastulla, 
io vi ramenterò la forma e '1 sito. 
Dico, che '1 padiglion eh' è d'Amor culla, 
e dove dir di voi si spesso ho udito, 
sta su due strade, e per due porte mira, 
e da settanta braccia intorno aggira. 

XLVI. 

Sta su due strade, che, da lui partite, 
apron l'entrata a lui per quattro bande; 
ha di mirto le mura, e si fiorite, 
che in fin al ciel fan che l'odor se n'ande. 



XLIV, 8. Le stampe a^edo, vi fian. 

XLV, 8. Le stampe intorno gira, 

XLVI, 4. Le stampe fan che Vodor ne mande. 



140 CLORIDA 

Di mirto è il muro, e 'I sommo siio di vite, 
elle par che !o 'ncorone e lo 'n ghirlande; 
ove, in vece di gemme e di fior vari, 
splenilon mille uve di color contrari. 

XLVII. 

Tonda e scoverta è l'ampia cima, a falla 
pili vaga u gli occhi il non avef coverchio ; 
per che formar di cielo una gran palla 
vede chi è dentro e guarda fuor del cerchio. 
Sembra quella, che'l voccliio La su la spali», 
cui non parve il gi'an peso mai soverciiìo, 
^e non quel di', che l'uccisor di Cacco 
l'aitfr a voltar del lato ond'era stracco. 

XLVII !. 

Adombra il bel terrea con sì bell'arte, 
cli'ad ogni ora del giorno può goderei; 
e quando vena il sole, a quando parte, 
e quando d'alto par che fiamma versi, 
sempre vi riman franca qualche parte, 
ove secar dal caldo uom putì sedersi; 
sempre tanto di terra al sol si fura, 
ch'a dicce dar potr.'i stanza secura. 

XLIX. 
Signor, benché il ben pnbiico s'offenda, 
tardando il tempo a voi col mio dir lungo; 



SLvn, s-8. Forea qui pel t 
presentazione Ritta ne da Fii.os'i 
tlna del IS17, e. 1.) b). 

Xl.VIII, 4. Ci rictiiama a mente questo verso ì be\ 
LUI: ' Ed è il rapido sol sul icezzogiorno, | E ve 
campagne bionde •. — S. Le stampe dlenL. 

XLIX, 1-3, OhAKio, Hpìi., It, I, 3-4; • in public. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

piaccia al vostro valor, cb'oggi mi stemln 
a mia voglia nel dir, poi cha vi ginngo: 
nò per donna importuna mi riprenda, 
se in dir de' luoghi, e d'altro, assai m'allungo; 
ch'io '1 fo, cercando nel mio mal rifbgio, 
per dar al veder voi pili luogo indugio. 



L. 
La bella fante, che nel mezzo slede, 
ili bianchissimi marmi è tutta integra; 
raa perch<^ splenda più, dove olla ha '1 piedo 
van tre cercbi, o'I priniicr di pietra negra. 
Un non so elio di vago in lai ai vede, 
che senz'acqua talor gli occhi rallegra; 
ma, d'acqua adorna, ch'è in mia man di darl!i, 
heltà non so, che possa somigliarla. 

LI. 
Avvegna che 'n sul lido mai non scese, 
né montò d'Echia naìaile Io scoglio, 
onde ha taloi- de l'arido il paese ; 
d'altrui scarsezza io non però mi doglio. 
Una ninfa ho sotterra, si cortese, 
che quanta acqua desio dal san la toglie : 
pur ch'altrui man sua cortesia aoecorra, 
fa che di e notte la viva acqua corra (i). * • 



SEplicoh) dal poeta nella dedica tarili. 

L, H. Le slurrjpe aiaomiglfarla. 

LT, t. Le stampe aevenga, — 3. Ad I 
pra il rlatanione, era un'altra villa, a 
fontane, del fratello di Qarzia, don Lu 
II, cap, 3; n Forasuero, p. 465). 

(1) più tardi, richiumandosi alla ult, 
Eo^giuaec: 



Inle a p. 117, il T. 



LII. 

Tre cerohi, cii'ent.ruin l'iin no l'altro, base 
fanno a la fonte, e scala a chi vuol bere; 
(lei più pìcciol si forma il maggior vase, 
o7e il pianto de gli altri va a cadere. 
L'acqua non men ila le lontane caBe 
che iJaI mirto vicin si fa vedere; 
gira nel mezzo un anelletto, e dentro 
un picciol tondo, cbe disegna il centro. 

LUI. 

Ha '1 picciol marmo uu troncon d'arbor sopra, 
che non ha ramo, onde faccia ombra, o frasca: 
quindi vien l'acqua; e, pria che faop si scopra, 
s'erge secreta, indi palese casca. 
Tre donne, e non han vel ch'altro lor eopra 
che '1 ventre, e par come ciascuna nasca 
dal tronco, in pie dentro a la fonte stanno, 
e (li lor man tre rivi d'acqua fanno. 

LIV. 
Stan le tre donne l'una a l'altra avversa, 
le spaile al tronco, et al gìardin la /Uccia; 



BenolirS, [irinifl che '1 sol ili fiori e d'erba 
spogli e riysEte le campagne e i monti, 
HpM'o, coma già dUai, andar superila 
di veder na' miei ragni e rivi e Tonti; 
cbe, a In stagìoQ matura et a l'acerba, 
e quando il sol più saglia e ^ando amo 
senz'altrui arie e senza al trai e 
alibiao nel mio bel lido aterno e 
. I MI, 



STANZE , 



VICERR TOLEDO 



un corno d "ab borni a n za, ch'umor versa, 
tien ciascuna su l'amer con daa braccia; 
sol una intende al vai, che si riuversa 
con una man, con altra il corna abraccia. 
Fa piede il tronco ad nn gran toso o bello, 
ch'ai capi de le donne erge un cappello. 

LV. 

Dal crine al piò sono egualmente belle 
le donne che sul capo han l'alia conca: 
non so, so sìun le Grazie, o se s'mn quella 
che '1 PastoF vide ignuda u la spelonca. 
Che fusser cFodereì te tre sorelle 
ila cui si torce il dio e stenda o tronca 
de la Vito mortali ; ma noi credo, 
poi che nulla dì lor fiera ne vedo. 



LVI. 



Alta il fondo è la conca, e l'orlo bassa: 
in mezzo una colonna pareoletta 
sopra un marmo a tre canti, che non passa 
d'altezza un palmo, star si vede eretta ; 
che lieva l'acqua in alto, e poi la lussa 
cader, si cli'eoipie il vaso, e Aior si getta; 
e par, mentre ella piove su le donno, 
die per lavarsi gittàr via le gonne. ■ 



I 

^^^^^^IilV, 5. Le ttainpe irl vela eJie rtiiau-sa. 

^^^^^ -I.V, 9. L* «lampo l'altra conca. — 3-4. Kra, Afrodi 
Pastora, antonomaitòcamento, é Paride (cfr. ORAZra, 
viHn.. Un., VII, ^y, 8tamo, XiSUtU.. I, M), il uui gin 
monte Ida. SI spelonon non paPlunu i roìlogi-ol!; for 
deva, ricordando i versi dell' M/^, XtV, 97-105. 

Il.Vl, j. Le stampe nel meijo. — 8. l/ed. Piacentini ha gittan rto, 
l'ed. Masi i/Klfn via, lexione grnmiDotiaalinente pi 
la »L mi, vv, 3-6. 






efr. 



LVll. 
Donna ch'a l'ale ot a! vestir somiglia 
vago an^^ioteth), chs &àl del sia mos: 
a la colonna d'una man s'appiglia, 
umlo lo versa tuttit l'acqua addosso; 
a con altra di piilma un ramo piglia, 
Clii la giovane sia, giurar non posso 
la Fama, o la Vittoria, o la Fortuna 
ch'esser potrebbe do le tre ciascnna. 

LVIil. 



Tuttavia orede alcun, clia '1 simulacro 
de la Vittoria sia la balla donna, 
ch'ivi dui buon Pompeo fu posto, sacro 
ai nome di Vittoria Colonna; 
che d'ogni affetto uman si fé' lavacro, 
vinse il mondo armata d'umil gonna; 



LTUt, 34. li (?^rdiniile Pompeo Colonna, nuiainalo du Carlo 
cere di Napoli allorclié il principe il'Oranges nel 1530 fu ucciso 
EOtto la mura di Pirenie, mori in lala offloia il 33 (giugno 1531 
(cfr. LlTTi, Pam. celebri. Colonna, lov. VI). A lui iiertanto, anle- 
eeaaore di don Pietro di Toledo, era epp3r(«nula la villa; nella rjuate, 
luorf, eoa sospetto di veleno (cfr, OREoonra Hosso, M. delle 
di Napoli nouo t'imperio di Càirtt V, in Eaaa. de' più rinomati 
tormori da Regno, "Vili, 43-4J ; Summontb, iv, 84). Ij fonte qui de^ 
Bcritla, cornee lecito inferire dalle ottava lix e LXl, v, 8, doTsH'es- 
sere fabbricata per ordine suo. — 4-S, Quando il T. (Iettava questi 
versi, la celebra poetessa era ancora in vita (mori lo ateaeo mese 
in eoi la Clorida fu presentata al Viceré), a s'era ridotla nel coQ- 
vento ch'aYHa soello per sua ultima dimora terrestre. Donde usci 
soltanto airca la metà di gennaio, per asaer ti'aaportata nel vicino 
pBlaBzo della famiglia Cesarini. Mahio ni Leo, Amor prigioniera, ' 
nelle Stanze ciL, p. 413: < Vedi colei, ohe sotto oscuro manto | 
■ mostra si chiara luce; or questa è quella | Vittoria Colonna, alla 
•1 '1 consorte { Tolse di man de la eeoonda moria >. Dedica alle sue 
lodi un'ottava artcbe il Mabtibaks, nell'AcettMa {^anze ciL, p. 36), 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

da le cui santa man liquor ilerira, 

che ra ch'aom dopo morta ìmmoFtal viva. 



LfX. 

olibd Io scultor mente divina, 
si che le cose innanzi tempo vide, 
e dìEsegnù quest'altra, che bambina, 
ù non nata é, quando egli il marmo incide; 
di cui Megari mia, eh' a la marina 
spesse fiate il di meco s'asside, 
mi ragiona sovente, e mi suol dire 

[ cose da fare ogni alto cor stnpire- 

LX. 

Sul cereliio onda 'I maggior vaso ei forma 
siedon tra dU di mare, opera egregia: 



:, 3. Quest'aura, oioè quest'altra Vittoria Colonna. Alhiiie alla 
[ .più gioviae Vittoria, nipote delta poeteana s llglia d'Ascanio Culoooa, 
, ohe andò sposa più tspcii, circa l'uprila del 1553, a don Garzia, Era 
^ancli'ella d'assai dottrina, e il Caro elibe a mentovarla onorevol- 
- 5-8. Megari è la ninra di Caelel dell'Ovo, detto anolie Isola 
B Megari e castro Luciillano. capaccio, Il Forantlero, 
' p. 1003: ^ Magali fu datto [li C. detl'Ooo] o perab^ fossa &brÌcato 

• incontro ad EMplea, come asarono i greci, parche vi abitò la 

• moglie d'Ercole oh'avea qiwstg nome, o perché vi (Usse ediScats. 
' la cita di Megara; e dì ciù credete quel che vi piace ■, Alla numo 

I irragioneTOle dì tali ipotesi s'accosta Ubnedetto ri Falco, nella 

. DescruUorK da' luoghi antUlul iH Napoli eoe., Nupoli, Cappelli, 15S9, 

«. 13 a: • Nel qual luogo \a C. àeli'ovol da gli aaticbi greci fu 

• edlBcata la cittì di Megaro, la quale, come scrive Plinio, seilan Ira 
■ Posilipo e Napoli ■. Vittoria Colonna juniore abitava io questo Cu- 
stello; dove da più lAOipo tfera ridotta sua madre, la tanto celebrata 
Siovanna d'Aragona, vivendo separata dal marito, tielts quul Cio- 

kna it T. nel UE de' guui capitoli (scritto, come pare, circa il 1540) 
itava; • or la divinità cbe l'Ovo cliiude, | D'altro valor che non 
li quel di Leda » (ad. VolpìceUa, p, 45), 
Ji., 24. OVIDIO, Ma., xrir , 913-15: • ...... admiraturqu* colorem 



Ul.OlUDA 

muzm lian di pasce e mazza (i'iimn la forma, 
ciascun con torta coda il cerchio fregia. 
Glauco è tra lor, ohe 'n pesce si trasformi!, 
d'uom ch'era, e 'n Dio che "1 mar tanto ama < 
mercé d'un'erba, che si pon traudenti: [pregi 
op vedete, se l'erbe son [ 



LXl. 

Siedonsi quei tre dii le spalle volti 
a le doane che stanco intorno al trunco ; 
e, per mirar bramosi i lor bei volti, 
piegansi indietro, e 'narcan come giunco. 
Ciascuno, acciò ch'egli a ragion si volti, 
^ut collo una urna tien col braccio adunco; 
lì l'altro adiirizKEt, acciò che uà scudo tegna, 
dove dei mìo Pompeo splende la 'nisegna. 

LXll. 

Ne le tra urne, c'han quei Irci sui colli, 
entran l'acque che versati le tre dive 
dalle tie corna; e par che mai satolli 
non sìan d'accor quelle acque chiare e vive. 



• [M Otaueo\ I Coesuriemqun horoenn tnbieulaciae terga (ogenteiu, | 
•. Dltimaque eicipiat quod tortili^ inguina piscia >. — 5-S. Idi, 943-49 
[parole di Glauco a Scilla): • Quue tamen bus, inquaui, rires babet 

■ barbai manuiiue | Pabuln deoerpsi, decerplsque dente laomordi. | 

■ Vix bene combiberaul jf^nlus guUura snccoa, j Cum subito tre- 

• i>jdare inlus prsocordìa aensi, ] AÌlerìuB<iiie rapi n.iturae pectus 
< amore. | Nec potili restare loco; repelendaque nunquam | Terra, 
« lale, diii, corpueque EUh oequore maraf, | Di maris eiceptuoi so- 

• ciò dignemliu- lionore eie. >. su alnucu, il ricco art. del Badustask, 
in muli/' a Reni Eaeytì., UI, 884.-S6. 

liXl, 6. Adunco qui, per similitudine, signiDca ripiegato; come nei 
noli etampi, registrali dai lassici, del Coro e del MN»elietlÌ. — >i. vedi 
la doUl Ma st. LViu. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

Sposso adivien, ch'alcun di loc s'immolli, 
qualor l'acqua che scherza l'urna schive; 
et or sul pettx), or sui capei si lascia, 
i quai ciascan (l'nna ghirlaniia fascia. 



LXIll. 

È sparso il ricco mai-mop il'altro mille, 
sottili minutissime, sculture, 
che forati malagevoli imprimine 
in molle cera, non elio in pietre dure. 
Mostrò Giovan ria Nola, che scolpille, 
granilo arto no lo piocole fi<ruFe; 
Giovan da Nola, al cui scarpello invidia 
avrian, viveniìo, Prassitele e Fidia. 



. Ma ci * 






I.xrr, 8. Birianda (e ingtrlandare) ha di solilo il ma 
pareo di non doverci scostare daìia più corretta grafìa. 

IJCIir. Nel Bon. XII, indirizzato a Don Pietro, 11 T, mot 
Nola speri ■ ool valor dì (re figli • Iraraandario glorioso 
più remotì. È det bel numero (insilale col poeta stesso e con Gero- 
nimo Alliertioo) Giovan da Nola, Cile -guai cera tratta il marmo, 

• e dalli I Di sua man forma », e l'adorna e intiglin • con stupor 

• de l'arte ». Questo Giovanni, di cognome Miriliano, che il Nostro 
esalla anche in un altro sonetto, il XXIt, è l'autore ds' bei monu- 
menti d'Ascanio Jacopo e Sigismoado Sansevcrino, che ogni colto 
napolitano ricorderà d'avere ammirati nella cliisaa dei SS. Severino 
e Sossio {cfr. N. F. Fabaolia, in Areh. stai", pei- le propinale nap., 
V, 63760), e di più altre sculture, in ispecie di genere funerario. 
D'una sua Medea, non pervenuta Hho a noi, canta le lodi Giano 
Aniflio; ma il piii celebrato dei monumenti dovuti o attribuiti al 
suo scalpello è il sepolcro di non Pietro, in meno al coro della 
cliiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, Tutto inalzare dal Viceré stesso, 
che l'aveva in gran oonto, ^laiche anno prima della sua morte, gbe- 
aoRio Rtaso (M., in Eaeoolla cit., VJii, 47) lo chiama « il più fa- 
«i moso scoltore del nostro tempo »; giudini sull'opera artistica del 
Miriliano, con riproduzioni fototipiche, si hanno ora in Faizzoni, 

irle Hai, del Slnasolmenlo, Milano, Dumolard, iS9[, pp. S3-88, — 
:. Le stampe marmors di mille. 



148 CLORIDA 

LXIV. 

Tra i marmi assiso il mio Tansillo e i mirti, 
sa i seggi ove seduti eran la sera 
di belle donne e di leggiadri spirti, 
che vi furo a diporto, una gran schiera, 
lunga ora verso il ciel tenne gli occhi irti, 
quasi accusando la sua stella fiera; 
indi, con tuon conformo a duro strazio, 
cantò le pene sue per lungo spazio. 

LXV. 

Cantò SI dolcemente le sue pene, 
eh' un aspide a sentir desto si fora: 
e mentre gli arbor miei, l'onde e l'arene 
prega, che vedan come amando mora; 
le fronde, che di lagrime eran piene, 
per la rugiada che cadeva allora, 
cominciando a schiararsi l'aer cieco, 
parea che di pietà piangesser seco. 

LXVI. 

Ridir l'ardenti note ond'ei rileva 
il grave duol, mentre cantando geme, 
non vi saprei, Signor; ben mi pareva 
di veder nel suo mal due cose estreme. 
Parea che fusse il foco, ond'egli ardeva, 
di disdegno e d'amor composto insieme; 



LXIV, 5. Irti, cioè eretti o intenti (erti), I lessici non registrano 
esempi di questa parola in tal significato; qui la rima ha dovuto 
indurre il T. ad usarla. 

LXV, 4. Le stampe ei mora. 

LXVI, 1-2. Rileva qui, come nei noti esempi del Boccaccio, signi- 
fica allevia, sfoga, ristora. Cfr. la st. CXLI, v. 8. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I49 

e che, via più che d'altro, ei si lagnasse, 
che '1 disdegno l'amor non agguagliasse. 



LXVII. 

Poi che cantato e pianto egli ebbe molto, 
diede line al suo canto lagrimoso; 
e di miglior concento innanzi al volto 
del novo sol divenne desioso. 
Tacquesi un poco; indi, pili spirto accolto, 
riprese un tuon ben alto e ben giojoso; 
e cose allor cantò, signor mio caro, 
che impresse al cor per sempre mi restaro. 

LXVIII. 

Se, come impresse il cor dentro le guarda, 
fosse atta fuor la lingua a divolgarle; 
etade il mondo non avria si tarda, 
la qual non fusse presta ad onorarle. 
Ma, ben che di ridirle io brami et arda, 
non ho parole poi con che spiegarle : 
l'istoria ho ben, ma non le note fisse 
ne la mente e nel cor di quanto disse. 

LXIX. 

Cantò, come quell'inclita reina, 
da le cui man l'alta bilancia pende, 
gran tempo andò del mondo peregrina, 
che di lei non si vede, né s'intende; 



LXVII, 3-4. Naturale effetto, questo, dello spuntar dell'astilo bene- 
fico. 

LXIX. Questa lode, d'aver rimessa in onore la giustizia, già altra 

volta vedemmo data dal T. al Viceré; cfr. la nota alla XXVII delle 

Stanze a B. Afartirano. « 11 Toledo, scrive Antonino Castaldo (M., 



150 CLORIDA 

e per voi tornò in regno, oAde or le 'ncfaina 
il mondoy et ella il dritto a ciascun rende; 
et è del vostro amor fatta si ingorda, 
ch'ornai del suo Trsgan quasi si scorda. 

LXX. 

Cantò, come non è chi vi paregge 
col senno, con la lingua e con la mano; 
che, o si tratti di stato o si festegge, 
e principe esser sappia e cortigiano; 
che, al servar maiestadè et al dar legge, 
e da re splenda, et usi da cristiano; 
ch'abbia del dolce, a tempo, e del severo, 
e ch'esser sappia duce e cavaliere. 

LXXI. 

Un modo usò nel dir, ch'io gli anni addietro 
non udi' mai, ch'udir pur ne solea. 
Oltra il nomar Toledo e '1 nomar Pietro, 
che all'orecchie dolcissimo si fea, 
sempre, giungendo al fin d'un certo metro, 
ei tornava ad un verso, che chiudea 
(facendo il canto tutta via pid vago): 
« il mio Sebeto ha impoverito il Tago ». 



« in Raccolta cit., VI, 43^ tutto intento al governo della città e del 
« Regno, con somma vigilanza attendeva a tórre gli abusi delle cose, 
« a castigare i colpevoli e gli uomini pravi e licenziosi, ad ergere 
« la giustizia, già per molti anni cadutae tenuta in poco 
« conto, e ad imprimere negli animi di tutti il terrore di quella >. 
Queste parole ripete, quasi alla lettera, il Summonte {Tst, d, città e. 
Regno di Napoli, IV, 170), che parla anche di medaglie fatte coniare 
dal viceré Toledo con la sua effigie e il motto Erectorl Ittstitiae 
{Ivi, p. 212). 

LXX, 5, Le stampe maestade. 

LXXr, 8. Mio Sebeto trovi anche nella st. I, nel son. GXXXVUr, 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 15! 



LXXIL 

« Il mio Sebeto ha impoverito il Tago », 
ad or ad or, cantando, ripigliava; 
SI dolce, ch'io non pur d'udir m'appago 
sempre un medesmo dir, che talor grava, 
ma, fatto il cor d'udirlo già presago, 
con maggior voglia sempre l'aspettava; 
e sempre, al nominar del mio bel fiume, 
l'alba lieta ridea eoa maggior lume^ 

LXXIII. 

Mentre il mio gran Toledo udia cantarse, 
la pena del cantor parea men grave; 
mostrava ogni arbor mio di rallegrarse, 
invitato dal dir lieto e soav«; 
le fronde, che di lagrime eran sparse, 
per la rugiada che cadea, poco ave, 
parean, tocche dal sol che usciaper tutto, 

• ch'avesser d'allegrezza il pianto asciutto. 

LXXIV. 

Cantava le mirabili ed eterne 
moli da voi sovra la terra erette; 
e dicea, che son tai,^cbe invidia averne 
potria forse ciascuna de le sette. 



V. 9, e passim. Intendi: Napoli ha impoverito Toledo, togliendogli 
Don Pietro. 

liXXir, 3. Le stampe di udir non pur. 

LXXIII, 6, Poco ave, cioè poco ha, poc'anzi. 

LXXIV. Di queste benemerenze del Viceré già si è toccato nel 
commeuto alle Stanze a B. Martira/no, In brevissimo tempo egli 
cinse tutta Napoli di mura, con baluardi e torrioni, fé' levare molti 



GLORI [) A 
Dicaa, che 'n voi quel graa valor sì scei'no, 
senza 'I qua) tanto tempo ìl mondo stette, 
e la magnìBcenza degli antiqui, 
dopo tanto regnar di fati iniqui. 

LXXV. 

Dice» ch'é proprio ot è a voi piti lieve 
il regger degli eserciti e de' regni, 
ch'ai sole il far del E'orno or lungo or bre" 
col variar da' suoi dodeci segni j 
a che da voi la uorma tor sì deve, 
che l'uno e l'altro reggimento insegni; 
né cercar deve il mondo antichi esempi: 
hasti, che i vostri gesti e voi contempi. 

LXXVI. 

Sentia nomar tra vostro eccelse lodo 
il mio dolce Garzìa più d'una volta. 
Pensate voi, Signor, se se ne gode 
l'orecchia o l'alma mia, qualor l'ascolta! 



Eopporlicbi che la tanevRuo buìu, Dice rìCìire rii nuovo il Caslello di 
B. Ermo, rendendolo ÌDetipugniibile, come pure i caBlelli (li Baia, di 
Capua e di^ll'Aquila, adiQcù it Palazzo di Qinstizia, ristorò i bagni 
di Poiiuoli, o via dioendo (ufr. Miccio, Vita at D. P. Ai Toledo, 
pp. 37-40 ; Gheo. Rosso, IsU, in RaedoUa oìt, Vin, 77). — 1. l.e Etaoipe 
contava. ~- 4. Delle letU, cioà (s'iolende) delle eelle Diaravighe 

LXXV, 1. Le stampe E ch'è più proprio a voi, e vie pia lieve. — 
8. La Bit. aie toWfi. 

IJCXVI, 5-6, Analoga uiovenKa na' Due lYUei/r-lnl, vv. 318-ig: ■ 8a 
e la memoria, che '1 dolor m'iin tolto, | Non vi tia (tueat'allro bocof 
■ posto In oblio », Le alampB ambi vot. — jS. Nelle scanse a B. Mar- 
tirano, XXV: • Non meno a eloria eì terrà il gran Pietro | Aver di 
« KÌ boi frullo [don Canio! adorno il monilf, | Che aversi speio il 
• Sor degli anni dietro j AI suo graii Te ece. * 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 153 

Se '1 desio d'ambo voi, che '1 cor mi rode, 
non m'ha del tatto la memoria tolta; 
fra le più chiare laudi e più leggiadre 
ponea che siate di tal figlio padre. 



LXXVII. 

Nomò sovente l'Asia, e mostrò come 
la potenza maggior che '1 mondo tema 
sparir si vide innanzi al vostro nome, 
qual nebbia innanzi al vento che la prema; 
e concludea, che all'onorate chiome 
non pur si deve il lauro, ma il diadema: 
fugge Ottomano una fiata, e due 
fuggon dinanzi a voi le vele sue. 



LXXVIII. 

Fugge il crudel, dicea; né perché calche 
le spalle del superbo Acrocerauno, 
può si poco temer, che noa cavalche, 
sospirando da lungo il terron Dauno, 
a gran giornate, e fugga a volo : tal che 
non han quei monti satiro né fauno, 
che in riguardandol non sì meravigli, 
che un tanto re tanto timor si pigli. 



LXXVII. Per questa e per la successiva ottava, ch'entrambe si ri- 
feriscono all'impresa d'Otranto del 1537, vedi la nota alla XXVI delle 
Stanze a B. Martirano. 

liXXVlil, 1-2. Intendi: e quantunque abbia cercato riparo fra 
l'Epiro e l'Illiria, sui monti Cerauni (rà Kspa'JVta 3pYl, oggi m. 
Ghimara). Propriamente, Acrocerauno sarebbe il capo Linguetta, 
estremità occidentale di questi monti. — 4, Il terren Dauno, cioè, 
in senso lato, la Puglia. 



30 



LXXIX. 

Chiamava in tesiimon da le tre fughe, 
onde vi deve Italia tre trionfi, 
Gargano, cho per voi convian ch'asciuglie 
gli occhi del pianto, e 'l cor d'angoscia Bgonl 
che quando, vinto, par ch'altri il soggiugho, 
fate d'altrui che vincltor trionfi, 
e, d'ogni gloria sua dando a voi grazia, 
vagheggi lieto or Paglia et or Dalmazia. 

LXXX. 

Chiamò Barharo, Averno, Buja a Cuma, 
e l'acque di Pozznolo, o le campagne 
che biancheggiar del mar vider la schiuma, 
che sotto il nave hosco geme e piugne; 



LXXIX, 1. AUikIb ai tre assalti cliili dui Turchi ulle l(;rro iiel Re- 
gno uul 1537, 1559 e 1514 che tutti Bnirono coli la l'itlr^ila degli 
invaBori, at prinio apparire del vicorà con le sue Haldal«Echa. — 
3. Le Glaiiipe Ire oorone, — 3-6. Le stt, Gargan, tAx quando vW 
oh'aHn il aoggtughe, \ E tutto In fùrsa, altrui tinto aibtianttone; \ 
Fate ohe attor vtUorioso fughe \ Il feto slruot che ad Adria timor pone. 

LXXX, I. Le stniii[ie Oaia e Cuma. — 2-4. Doa Pieti'i) il 25 luglio 
1544 corse a razzuoli coatro 1 Turchi, che, euiduli dal corsorii sa- 
leoo, battevano con le artiglierie questa cittì. Sulta numerosa Uotta 
aisalitrice (fi novo basco, di cui qui parla il T.), ecco quanto ci 
sapere il contemporunao Oeroi.amo dr Spbmib, nella s\\a piccola 
Cronlaa, che si cona^va nella MaKlonnie di Nnpoii (cfr. Volpioblla, 
Ooitp. dot T., pp. a:4*i5): ■ Lo Innedf seguente, elle fu In vigilia da 
' S. Joan, arrivb l'armala de Surbarossa h lu, castvllu de Guma. e 

• tra lo .trioglio do requie, ch'orano centocinquanta vaEcelli di rime 

• e quattro nave groEsisaime per portare muuicione: quale arusta 
' veneva da Frunia, perché era stata in s^rviziu do Rr de Kraiua, 

• et che nce ero atnlB un unno >. V^gga^i aiicljs Uiooio, Vita di 
lion P. lU Toledo, p- 50. Nel cup. XII del Noslro leggiamo: ■ Sa 



STANZE AL VICERÉ TOLEUO 
Vulcan, che qael di' chiuso non Tuma, 
0, s'un tempo alzò su nove montagne, 
or per gran tema par che s'appareechie 
a girsene sottepra con le vecchie. 



LXXXl. 

Ciiininù la vostra Ninfa, che, deserta 
nn tempo, or tanto fate che s' appre^ze, 
a cui porto (e noi niego) invidia aperta, 
ch'ahbia da voi, Signor, tante carezze: 
che, assalita quel di', ei tenne certa 
veder per terra andar le eoe beltezEc; 
l'opre ili tanti anni e le fatiche 
voder guaste in un di'^da man neraiclie. 



LXXXII. 

P. sto per dir, dicea, che le cadute 
antiquissime mura erbose e rotte, 
e l'ossa che tanti anni s'iia tenute 
nel sen la terra, e 'n pnlver !'ha ridotte, 
far segno di temen?^ Air vedute 
ali'assatto crude! di quella notte; 



■ qunndo il Viceré corse a PoìeuoIo | Coalrn '1 mostro che h 

■ mar Ionia poasanie, |S fel fuggir, coiaB altre volte, s volo e 

— 6, Allude Hi MonlenitOTo, smepso nell'eroziona vulcsnioa del 
Hulla quale, oltre al Castaldo (Baoe. ait, VE, 64.1 al StisMONTE 
131-32) e al Miocio (Vila del Toledo, p. 33), puoi vsders la i« 
Ili Frano, del Nero pulilil. nell'Arcft. slor. Ual.. S. f, voi. IX, ] 
e, specialmenle, l'incendio di Pnzruolo ài M. A. helli Kìluon 
scell. XV. e. 16 dell'AleesaoiIrioa di Roma). 

LXXXl. Vedi la uola all'ottava XII. 

LXXXH, 1-4. Ke) eon. XLIII, descriT^Ddo gli Elessi luoghi: • 
' cipìtosi sassi, alti dirupi, | Ossa insepolte, erbose mu 

- ratte, [ D'uomini albergo, et ora a tal coDdolt« | aho temt 
< fra eoi serpenti e lupi ecc. >, E veggasi anche il soa. LXIX 



u 



1$6 CLORIDA 

e, ben che '1 tempo rabbia tratto a fine, 
ebber p^ura di maggior mine. 



LXXXIII. 

r non credo, ch'istoria mai dipinse, 
in muro o 'n legno, alcun pittor felice, 
ove non pur agguagliò ben, ma vinse 
la natura con Tarte imitatrice^ 
com'ei quel giorno, il ver cantando, finse: 
e fammi veder quasi quel che dice, 
SI ben racconta il tutto; e si rimembra, 
ch'esser sul fatto, udendo il dir, mi sembra. 

LXXXIV. 

Par che l'orecchie il gran rumor mi tocchi 
de' timpani e '1 clanger de l'alte tube; 
aver le mezzelune innanzi agli occhi 
e l'orror de' tor vanti e delle giube; 
veder che splenda il ferro, udir che schiocchi 
il foco, e 'n terra e 'n mar faccia al sol nube; 
guardar le tende in terra, in mar le vele, 
e 'ntender le minaccio e le querele. 

LXXXV. 

Pareami veder voi, ne la stagione 
che '1 sol pili coce e par che '1 mondo avvampi, 
due volte, armato, ardendo su l'arcione, 
correr di Puglia gli assetati campi: 
un'altra pur, che 'n ciel rugge il Leone, 
perché nel terren nostro non s'accampi 



LXXXIV, 5. Le stampe che scocchi, 

LXXXV, 3. Le stampe in suWarcione, — 4. Le slt. assettati. Ricorda 
il stticulosa Apulia dell'epodo oraziano. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I57 

il fero Scita, che scendea dal golfo, 
correr armato tra le fiamme e '1 zolfo. 



LXXXVI. 

La nobiltà pareami veder tutta, 
ch'è tra due mari da Cajeta a Scilla, 
ad un sol cenno vostro in un ridutta, 
e non a suon di tromba né di squilla: 
eh* a squadra a squadra alteramente istruita, 
d'intorno a voi col ferro arde e sfavilla; 
e desia di provar ne la battaglia, 
in nobil man quanto una spada vaglia. 

LXXXVII. 

Vedea nascer gli eserciti, che d'alto 
partorian sovra '1 lido le triremi; 
vedea ne' nostri muri il fero assalto, 
onde ancor par che quella gente tremi; 
vedeagli poi tornar nel mar d'un salto, 
gittar le lancio e dar le mani a' remi ; 
e udiva quasi a Zefiro dar voti, 
perché la classe con pili fretta nuoti. 



I.XXXVr. Spesso e volentieri don Pietro metteva a cimento il va- 
lore, la devozione della nobiltà napolitana. Ad esempio, il Miccio, 
nella cit. Vita di Don P, di Toledo, p. 45, narra che, quando nel 
'39, dopo la strage del presidio spagnuolo di Gastelnuovo, il Viceré, 
dubitando che Barbarossa non trascorresse a danneggiare le terre 
marittime del Regno, andò a munirle e presidiarle, ma, giunto a 
Melfi, dovette retrocedere perché sua moglie era in pericolo di vita, 
egli « sparti li carichi di tutte le riviere a li Baroni ». — 2. Iden- 
ticamente vedemmo designati i confini del Regno nella XXVI delle 
Stanze a B. Martirano: « Dal seno della balia del Troiano | A quel 
« di Scilla, ciò che la tirrena | Acqua e Tadriana cinge ». 

LXXXVII, 8. Classe, latinismo non frequente. Dante, Par^ XXVII, 
147: « Si che la classe correrà diretta ». 



158 CLORIDA 



LXXXVIII. 

Qaando fremer maggior fean quei nemici 
la tempesta del foco e degli strali, 
vedeagli col favor de* vostri auspici 
fuggir veloci, come avesser ali. 
Vengan dunque, dicea, con arme ultrici 
gli eserciti e Tarmate orientali; 
che, si copra la terra o '1 mar s'ingombra, 
ei sembra il sole, e gii avvei'sari Tombrel 

LXXXIX. 

Queste da lui quel di, senza io far motto, 
et altre cose udii di maggior senso; 
per suo piacer, non per altrui, condotto 
ivi a cantar <iel valor vostro immenso. 
Né si tosto il suo canto avria interrotto, 
se non che, quando era nel dir più accenso, 
un strider d'ascio gli ferio l'orecchio; 
volsesi, e nel giardin vide il mio vecchio. 



XC. 

Vide '1 buon vecchio mio, che sen veniva, 
tardo quel giorno oltra l'usanza suto; 
e ne' miei regni riscotendo giva 
dagli arbor ricchi il solito tributo. 
Destossi, ratto che '1 buon vecchio arriva, 
e, risposto cortese al suo saluto, 
d'andarsen dietro a lui gli prese voglia, 
guardando come e'sceglia i frutti e coglia. 



LXXXIX, 8. Gismondo, il giardiniere. Gfr. la si. Xr. 
XC, 5. Le stampe tosto che. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 159 



XCL 

Vederlo a pie deirarbor, come '1 corre 
ratto con gli occhi, e sa che v'è di buono; 
stender la man leggiadramente, e córre 
le poma ch'ai suo fin giunte allor sono; 
e, colte, ne le cèste ad ordin porre, 
tra frondi e fior, per farne a mille dono, 
cosa è, ch'io spesso per diporto osservo, 
e forse un de' piacer che a voi riservo: 

XCII. 

veder sovente, ove con man non giunga, 
che '1 tronco s'alza '1 ramo non si corca, 
come adopra una canna dritta e lunga, 
che, fessa al sommo, fa canestro e forca; 
come '1 frutto che scarso si dilunga 
tiri con arte, e come '1 tronchi e torca; 
e come, colto e 'n quel treppiè rinchiuso, 
destro il sostegna in aria e portil gìuso: 

xeni. 

notar, con che pietà raccoglie il fico 
che, rotto il corpo e torto il collo, langue; 
come '1 ramo che sia frale et antico 
sforza con debii man, che sembra esangue; 
come cader fa sul terreno aprico 
le pruna, quali a gocciole di sangue 
sparse 'n sul verde, e quai più ch'eban negre, 
e quai simili ad or ch'occhio rallegro : 



XCII, 3-4. È l'arnese che i giardinieri toscani, con garbata argu- 
zia, chiamano scrocca o ladra, — 5. Scarso, cioè avaro di sé. 
xeni, 6. Il ms. ha propriamente le prugna. 



l6o GLORIO A 

XCIV. 

guardar, quand'egli a guisa d^una freccia 
rimonda un picciol ramo, e da poi'l piega, 
et usa per legame la corteccia, 
onde i medesmi stecchi accoppia e lega; 
come contesse i fior, le fronde intreccia, 
e qualche vaga invenzì'on ne spiega: 
or urna antica et or moderna coppa, 
or vele e remi e sarte e prora e poppa. 

XCV. 

Pili di due volte si cangiò Vertunno 
in uccellino, in picciol cane e 'n gatto, 
al tempo de la state e dell'autunno, 
vago di contemplar ciò ch'egli ha fatto: 
che, sondo egli il suo dio, questi il suo alunno, 
conoscendol, s'avria da lui ritratto. 
Flora e Pomona cento volte a soma 
gli recar, l'una i fior, l'altra le poma. 

XCVI. 

Ho mille altri piacer, mille diletti; 
fra gli altri un novo, onde l'altri er m'accorsi. 
Io vi farò sentir, fra gli augelletti 
che a mezzo 'i di vengon sui rami a porsi, 
a vicenda cantar duo pargoletti, 
e gir si pari nel cantar, che forsi 
Mercurio e Febo non sarian bastanti 
a giudicar, de' duo qual miglior canti. 



XGIV, I. Le stampe com'egli. 

XCV, 1-4. Vedi quel che osservammo, di Vertunno e delle sue me- 
tamorfosi, dichiarando la XXIII delle Stanze a B, Martirano, — 3. 
Le stampe delVestate, 






STANZE AL VICERÉ TOLEDO l6l 



XCVIL 

Farò vedervi un passer solitario, 
elle gode dentro una dorata gabbia, 
dolce nel canto, et oltra ciò si vario, 
che mille uccelli in petto par ch'egli abbia; 
e un mesto tortorel di stil contrario, 
che d'esser preso e sol piagne et arrabbia; 
e, senza mai cangiar sue triste tempre, 
altro non sa, se non lagnarsi sempre. 

XCVIIl. 

E si lagna talor si amaramente, 
e tanto più quando altri insieme ir veda, 
che le cornici, ad ascoltarlo intente, 
s'oblian di far la desiata preda. 
Quasi a lo 'ncontro un rosignuol si sente, 
che par che gli risponda, e che gli chieda 
la cagion del suo pianto; alfin con gridi 
par che Tun l'altro a lamentar si sfidi. 

XCIX. 

Guardando dal balcone o da la loggia 
sull'ampie strade onde 'i giardin s'inquadra, 
cader vedrem, quando il sol cala o poggia, 
sul terren chiaro l'ombra oscura et adra; 
e, presa da le pergole la foggia, 
formar pittura in terra si leggiadra, 
eh' a ritrarne una che più vaga lustre 
avria fatica ogni pittore illustre. 



XGVll, 2. Le stampe il qual si gode entro dorata. — 5. Di stil con- 
trario, cioè che canta, all'opposto del passero, malinconicamente. 



21 



l62 CLORIDA 



C. 



Vedrete un cavriol, quasi dal ventre 
de la madre gittate alle mie falde, 
che salta e scherza con quelle ombre, e mentre 
elle movon, le assalta, e, se stan salde, 
pon tra le sbarre il capo, e vuol ch'egli entre; 
poi che '1 caler del di' par che lo sealde, 
corre, e si corca sovra l'erba verde, 
né se ne parte sin che '1 sol non perde. 

CI. 

Fugge com'uom dal caldo e dalla polve, 
et al fresco et al rio si posa e guazza; 
con un do' negri il più del di s'involve, 
mangia seco al catin, beve a la tazza; 
e, se '1 chiama lontan, ratto si voi ve, 
e viene, e stassi umil sotto la mazza; 
lo 'ntende, e tutto quel col negro face, 
che fa col cieco il cagnolin. sagace. 

CU. 

Evvi un cervo; et ancor che sia silvestre, 
che non ha guari che fu preso al monte, 
io spesso il chiamo, e pongogli un cavestro, 
et ei si piega acciò che su gli monte; 
ond'io '1 cavalco, et ei mi porta, e destro 
talvolta ne l'andar volge la fronte, 
e mi bascia or nel piede et or nel lembo, 
e quand'io smonto, ei mi si getta in grembo. 



e, 5. he stampe il corpo. 
Cr, 4. Le stampe bee nella tazza, 

GII. Nelle stampe i vv. 34 han cambiato posto, erroneamente, coi 
vv, 5-6. — 7. Le stt. bacia. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO léj 



CIIL 

Evvi una cagna bigia, che conosce 
Tuom da rispetto e '1 vii: ratto a le ganabe 
si scaglia sopra Tuno, e dagli angosce, 
mordegli or piede, or braccio, or uno, or ambe; 
piegando umìl la coda tra le cosce, 
viene a Taltro, e l'odora, e bascia, e lambc; 
e quando a caccia augello o fiera ho naorta, 
la preda e '1 dardo in bocca ella mi porta. 

CIV. 

Quando Febo i cavalli al giogo accoppia, 
e saetta de' monti l'alte cime; 
e quando l'ombre in terra accorcia e stroppia, 
correndo il ciel per campo più sublime; 
e quando oltra misura le radoppia, 
.SI che '1 mondo di lor tutto s'opprime; 
arem diporto, e l'ore ch'avrà in mozzo, 
al palazzo, al giardino, all'aura, al rezzo. 

CV. 

Da poi ch'escon le stelle, e l'aria è fresca, 
apriremo la porta onde al mar s'esce; 
gente infinita troverem, che pesca, 
e move guerra al travagliato pesce: 



Gin, 6. Le stt. baci(U 

GIV, 1-6. Garbate perifrasi, per dinotare le ore del mattino, del noie- 
ri ggio e del pomeriggio innoltrato. 

CV-CIX. Fa ottimo riscontro e queste Notti napoUtane del T. la 
Descrizione della gentilissima costa di Posilipo, e dei diversi piaceri 
che si pigliano nella costa di Posilipo, dovuta a G. B. Del Tufo, il 
noto « illustratore di Napoli del secolo XVI », a cui ha dedicata 
un'erudita memoria il Volpicella, negli Atti della R. Accademia 
di archeologia, lettere e belle arti, X [i88i], 37 sgg. Eccone un tratto : 



i64 CLORIDA 

ciii con le reti il prende, e c)ii con i'eaca, 
olii in secco, mentre l'onda or scema or cresca; 
chi col tridente in man lento il mar varca, 
o porta il lume in poppa dalla barca. 

evi. 

Vetlesi op questi op quel che 'n mar si lancia, 
gitta 'I pie in dietro, e 'I braccio innanzi spinge: 
un preme con la schiena, un con la pancia 
l'onda, un suH'acqnn vii caiiaver finge; 
questi aesalta quegli altri, o scherza, e ciancia; 
chi schermisce da lunga, e chi si stringe 
da presso a lutta; e ehi move altra zuffa, 
e chi sott'acqua per fuggir s'attufFn. 

CVit. 
Vada alcun la sua donna alla finestra, 
come 'I Boo amor la giovano di Sesto; 



■ Oh ci» ennlento eterno I oh cliB gran gioisl | Oh rlio gioioso gu- 

• sto! oh ohe grsa apasso j D'un cor ferjlo e lassol j Ed oh che spae- 
- EoaisBJmo piDcere, | Che pur ohe Dllnr si moia, | L'estade è di ve- 
li dere | Verso la sera, al tardi, [ Mille celefli aguardi j Spleoder in 

■ barcn, o pur sovra d'un scoglio; j Dando pena e cordoglio, | Ad 

• ogni volger de' begli oocbi altieri, | a prencipi, a sEgoorì e a ca- 

• valicri! j Et allrì lamentar, cantando ognora, j Sin che 11 giorno 

• a'imhninn, j Di Madonnn, d'Amore a dì Fortuna; | Poi gli altri, 

• uscendo fiiora [ A più bell'agio in lor felluca a posta, j Girar tutta 

• la costa 1 Sino alla torre a noi detta Gaiola: j Non ntiEi barca sola j 
> Con bandiere e tnndal giosti e spiegati, | Uà cento inslem, di bei 

• eolor fregiati, | O sonando o cantando j Dolcemente, pino pian gir 
.- remigando. | Altri veder nuotare | Presso il lido det mare, | Come 

■ dellln guiiuindo, j Et ultri ìonanKi alla dolce aura frescn, | Che quel 
< conlorno infreaca, | Su le chiare e tranquille onde scorrendo, 1 Van 

• per tutto godendo; j Sfogando nluin scontenta | Cosi talvolta quel 

■ ohe la tormenta •. 

CVlf, 3. Ero, sacerdotessa d'Afrodite in Sesta. Psth., Tr. iTAnt., 
Il, lo-it: • Vedi Pirnmo e Tlsbc insieme all'ombra, | Leandro In 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 165 

e, per mostrar persona agile, e destra, 
s'alza sull'acque, e par che nuoti desto: 
or nuota sovra un lato, e canta, et estra 
Tonde ave il capo, e tutto in acqua il resto; 
col modo del notar sembra Leandro, 
col canto augel per l'onde di Meandro. 



CVllI. 

Altri, ne' loro amor più fortunati, 
i cui diletti invidia altrui non morde, 
siedon nel lido allato ai visi amati, 
tra' quai non ò '1 voler forse discorde. 
Altri, intorno a sampogna ragunati, 
cetra ch'ha di rame le sue corde, 
danzano al lume de la luna scalzi, 
e fan millo bei giri e mille sbalzi. 

CIX. 

Alcun, mentre costor menan lor balli, 
accorda all'altrui suon l'alta sua voce, 
e, con quella nuda arte ch'Amor dalli, 
canta la fiamma che ne l'onda il coce. 
Or canta la sua fede, or gli altrui falli, 
or cerca farsi pia donna feroce; 
e sfoga il cor, col rozzo incolto verso, 
forse pili ch'altri col polito e terso. 



« mare ed Ero alla finestra »; e quest'ultimo verso è riprodotto 
tal quale neWAretusa del Martirano (Stanze di diversi ecc., P. 2.", 
p. 27), che il T. dettando la Clorida aveva in mente o sottocchio. 
Sul mito d'Ero, Viro., Georg., Ili, 258 sgg.; Ovidio, Her„ XVIII e 
XIX; Stazio, Tel),, VI, 542. — 8. Celebri, ognun sa, i cigni del Meandro. 

CVIII, 5. Le stampe raunati. 

CIX, 4. S'osservi l'antitesi, ricercala. — 6. Feroce, nel significato 
latino della parola. 



l66 . CLORIDA 



ex. 



1 delfini talor, curvi e scrignuti, 
senz'aver tema di contrari casi, 
vengono, al suon de'rustichi liuti, 
saltando a schiera sopra '1 lido quasi. 
Si presso a terra son talor venuti, 
ch'entro Tarena poi si son rimasi; 
ma il pescator, sebben toccando il lito 
more, il rimette al mar donde era uscito. 

CXI. 

E non senza cagion gli usa in quel punto 
il grato pescator pietoso officio; 



ex, 1-4. OVIDIO, Met., Ili, 683-86 (parlando di delfìni): « Undiqiie 
« dant saltus, multaque adspergine rorant, | Emerguntque Iterum, 
« redeuntque sub aequora rursus, | Inque chori ludunt spe- 
« ciem ». Sannazaro, Egl. I, vv. 6-7: « Quum iam nec curvus resi- 
« liret ab aequore delphin, | Nec solitos de more choros induceret 
« undis ». Plinio, Hlst. naU, IX, 8: « Delphinus, non homini tantum 
« amicum animai, verum et musicae arti, mulcetur symphoniae cantu, 
« et praecipue hydrauli sono. Hominem non expavescit ut alienum; 
« obviam navigiis venit, alludit exsultans etc. ». Le stampe I delfini 
talor coi curvi dorsi,.,, \ Vengono al suon rfe' rozzi legni a porsi, — 
5-6. Le stt. gli ho visCio trascorsi. Plinio, loc. cit.: * Ante haec si- 
« milia de puero in Jasso urbe memorantur, cuius amore spectatus 
« longo tempore, dum abeuntem in littus avide sequi tur, in arenam 
« invectus exspiravit ». Avanti, Plinio ha parlato d'un altro delfino, 
addomesticato pure, in modo maraviglioso, da un ragazzo, che se ne 
serviva come di cavalcatura. 

CXI, 8. Vivace qui vale durevole, come in più luoghi di scrittori 
antichi. 

GXr-xn. Plinio, loc. cit.: « In eadem urbe .Tasso Ilegesidemus 
« scribit, et alium pueruni, llermiam nomine, simililer maria pe- 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 167 

perché è '1 delfino airuom d'amor si giunto, 
che gli si deve ogni alto beneficio: 
né pur ad uom che spiri, m'a defunto, 
delfin vidMo d'amor dar raro indicio. 
E pur, raro tra gli uomini vedrassi 
vivace amor, ch'oltra il sepolcro passi! 



cxir. 

In questa piaggia, un di che '1 mar più frange, 
vidi un delfin, che tanta fretta mise 
per trar, che '1 pesce noi divori e mango, 
col tergo a terra un uom cui l'onda uccise 
ch'ei ne mori sul secco; e, mentre piange 
il suo morir, nel morto gli. occhi affiso: 
com'è strano il fin nostro! par che gride; 
te l'onda mia, me la tua terra ancide. 



CXIII. 

Chi può tutte narrar le feste e i giochi, 
che la sera nel lido fan costoro? 
Non in uno né in duo, ma in cento lochi 
vedrem le torme, udrem le grida loro. 
Quante volte di verno accendon fochi, 
e tutta notte intorno vi fan coro! 
Un dorme, un sofiSa, un move a riso, un canta; 
chi si duol, chi s'allegra, e chi si vanta. 



« requitantem, quum repentinae procellae fluctibus exanimatus esset, 
« relatum; delphinumque causam leti fatentem non reversum in 
« maria, atque in sicco exspirasse. Hoc Idem et Naupacti accidisse 
« Theophrastus tradii;. Nec modus exemplorum. Eadem Amphilochi 
« et Tarentini de pueris delplUnisque narrant ». E tutti ricordano 
la favola d'Arione. 



X68 GLORIO A 

CXIV. 

Chi ragiona di sarte e chi di reti, 
chi di tila, chi d*ami e chi di nasse; 
un narra casi avversi, un altro lieti, 
ch'ira o pace di mar talor recasse. 
Quel vecchion conta, come la gran Teti 
un tempo con Peleo si maritasse; 
quest'altro, che talor corse lontano, 
mostra il pescar che fan ne l'Oceano. 

CXV. 

Quel loda la beltà di Leucopetra; 
questi la forza d'Ischia, ch'un tempo arse. 
Un uom che, per virtù d'erba o di pietra, 
invisibil tra lor potesse starse, 
o sotto '1 manto della densa e tetra 
notte sapesse agli occhi altrui celarse, 
come fo io quando gli veggio et odo; 
avria ben di diletto un gentil modo. 

CXVl. 

Quando più l'ombra il mondo a negro smalta, 
e le fiere si dormono e gli augegli, 
vedrem (se '1 sonno allor, che gli occhi assalta, 



CXIV, 7. Le stampe quest'altri. 

CXV, 2. Allude all'origine vulcanica d'Ischia; l'Inarirae virgiliana, 
duro giaciglio « Jovis imperiis imposta Typliaeo ». Gfr. anclie Ca- 
paccio, Il ForasiierOt p. 934. -- 3. Nel son. XXXIV dell'ed. Fioren- 
tino : « Non spero che virtù d'erbe o di pietre | .... Mi sani *. È nota 
la comune credenza del medio evo nell'efllcacia occulta d'alcune erbe, 
pietre e parole. 

ex VI, 2. Le stampe augelli. — 8. Le \ì{\,. soelscr nel niar de' vecchi 
e de' novi Indi, 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

darà luogo a) piaoer, si cbe Ti svegli) 
EcLìera di ninre, dia per l'oads salta, 
sparso sui bianchì colli i bei capegli, 
di gemma avvinti, ch'elle, or qninci or qnindi, 
notan<la scelsor nel gran mai' do gl'Indi. 



ex VII. 
Eletta una di lor per gnldu e duce, 
vengono a mano a man danzando in (roti 
sotto ì candidi pie Tonda riluce, 
e si rallegra che da lor sia rottu. 
Viensene innanzi all'altre, e le conduca 
Cimodocea, d'acquetar l'onde dotta: 
ciascuna bianca il volto, ì capei bionda, 
vestito tutte del color dell'onda. 



cxvm. 

li meraviglia è ben, che la lor vesta 
d'ora in ora con Tonda il color varia; 
qual aull'erhe a sui fior per la foresta 
quello animai che sì nudrìsce d'aria: 
bianca alla calma, negra alla tempesta, 
cerulea a la bonaccia, in foggia varia 
veston, secondo le colora il flutto, 
le dee del mare or allegrezza, or lutto. 

CXIX. 
L'umida falda sul ginocchio s'alza 
ciascuna, e'I nodo ha su ia spalla manca; 



CXVIII, 2. Le sUrape ad or ad or. — 3-4, Il oauialeouli 
l'LiMo, BisL nai.. Vili, 41, 2: ■ Solufi anìmalinm nec cibo 
« alitur, neo alio quam a^ris sUmeuto >. 

CXIS, 1-4. Il SANNAiAao, nella descciiloiie di ninfa die 
remo: « Nudaa hunwroB, nudi» diBcincla veste papillia », 



CLOllIDA 
nuda il petto e le mamme, e'I bel pie scalza, 
moetra la carne pid die latte bianca. 
Il mar lascivo ad or ad or eì sbalza, 
e bacia or il bel ventre or la bell'anca; 
e meatre al cader giii bolle d'amore, 
la Bcliinma e 'I pie rautendon del candore. 

cxx. 

Tra le ninfe che '1 mar ai lieto folco, 
vien Clio, Botto 'I cui pie l'onda ai gloria, 
e Cidippe onorata e Ligia dolce; 
e spesso insieme van Dritno e Licurìu. 
Vien Climene, che a l'altre talor molco 
gli orecchi e "1 cor con (|ualche vaga istoria; 
e Fire grande, e l'anopea si scaltra, 
e Filodoce lieta sovra ogni altra. 

CXXI. 

Vien Galatea, che '1 crin mai di ghirlanda 

pili non s'ornò, da che '1 suo amor perilóo. 
- S'alcan, com'io le sappia, mi domanda; 

lungo uso l'esser ler noto mi feo. 

Vengon, chi d'una, ai 6n, chi d'ultra bandu, 

le pili famose flglie ili Nereo 



CXX. Sanhazabo, Ecl. iV, 56-58: • Vua liane, Panope, voa, 

• Ciindidn Drynm j cyniolhoflqne, Riioequ-;, Phernsnque, Dìnaiae- 

• twjue, I AMipite, si vesliis Buciam Inilrate chorais ». Una desori- 
xione di ninfe, dello slesso genere di questn del T,, è nel De parta 
Virg(nU, IH, 334-97. — z. Le stampe, erroiieamenle, tlm Cita, 

CIUCI, VX. n atto amare, ciò* il bell'Aci, Dglio di Fauno e Sime- 
tide. GntDtaa medesitua, nelle Metamorfoti (.tni, 750 sgg.), ne rac- 
conta fra le lacrime la pietoBS fine. — 4. Non ei ilimenUohl, che 
queste parole son poale in boMn a una ninfii. — 7-8, Intendi: nelle 
ncqne del nostro seno, le più belle che auttuino sul lido. I^e stt. In 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I71 

nel nostro sen, qualor vi si festeggia, 
come al più bel che su l'arene ondeggia. 

CXXII. 

Saltan con le Nereidi, che son uso 
di girar tutto '1 mar, quanto egli è largo, 
le Crateridi nostre, che stan chiuse 
tra i monti ch'ai bel sen fan ricco margo: 
e l'uno e l'altre insieme van confuse 
SI, che distinguer lor non potrebbe Argo; 
Manca, et Amalfa, e l'altre molte 
fan con Tonde ondeggiar le treccie sciolte. 

CXXIII. 

Vedrem, dal mar più spazioso et imo, 
venir per l'acqua ardendo i dei marini, 
cinto chi d'alga il crin grave di limo, 
chi di lentischi, e chi di rosmarini: 
e, sforzando ciascun di giunger primo, 
con lieti salti e con cortesi inchini, 
nell'ampio sen de le cerulee linfe, 
verranno ad assaltar l'amate ninfe. 

CXXIV. 

Vorrà Nereo, vestito a color glauco, 
e Proteo, ch'una effigie mai non serba; 
e verrà Palemone, e verrà Glauco, 



CXXII, 5. Le stampe stan confuse. ~ 7. Marioorò il nome d'una 
ninfa, alla quale era sacro un bosco presso il Liri (Viro., En.^ VII, 
47-48). — 8. Onde ondeggiar, bisticcio dei soliti, voluto. 

GXXiri, I. Intendi: dall'alto mare (non già dal fondo del mare). 
— 2. Le stampe sulVa>cqii^ ardendo alzar, 

CXXIV, 3*4. Di Glauco già toccammo: Palemone (cosi si chiamò, 



CLORIDA 
rm di |Am «eroasto « r»ltro d'erta: 
e *«rA Tfilm, efce tpemi 
cader fa l'onda, qasndo è 
c^ dnadito ogai vanta dt 
n trarrt dkUro al sood la rasa fante. 

CXSV. 

Si sgromentan le niaTe a prima ginnta: 
chi Tii^e, e'I dio c'faa dietro d'acqoa a^Mi^ge, I 
chi va tra ì sa%i, e chi gira la punta 
del monte, e chi sott'acqua si eooiffiei^; 
ma qnal ne' sassi e qnal nel monte è gianta, 
e qaal dal fondo vergognosa s'erge: 
convien por che eiascQiia vinta caschi, 
e si preodon per man Temine e maschi. 




Mista, la doppia scbiera salta e raota, 
stende le braccia, a teaea in cerchio il ballo. 



come diviniti del mare, Uelicerte figlìu d'tno^ onorato speeinlmente 
a Corinto, si rappresealaTs come dd faDciiUIn portato da delfini. 
Anche qiii il T. forse aveva io mente un passo di Filostbato (imao-, 
n, XV e XVI). 
CXXV. SANMAZAno, Saiuei, *. 44 e egg.: ■ nlae nil centra [alU 

• parole tUgU dei]; celeri sed nuda parabanl | Crura fiigae. tutoaque 

• agllabant menle recpptus, j Si qua forte tiarn per gasa irrumpere, 

• et altis I HvDBisse jugia deus aut Bua fata dedissent >. Ma gU dei 
dalla Kive e dei monti le rincuorano con blande parole. • Rie dictìa 

• pemuUl aniini, seeursque tristem | Corda metuiu ejjciutt, gres- 

• Kuqiie per uda citalo | Praia, dcis tsiidem cupidis ripaeque propin- 

• <iuanl. I Tuo mauibua stmul implicUis per gramina fesUis | Gier- 

■ cent (iLoreaa ale. ■ — 8. 1« «lampe liimmin<:. 

cxxvr, 1-7 8. SanmaìAbo, M, 61-64: ■ Kserounl clioraas, alios- 

■ quo alioifuo raflaxns | Inter m laetae rspelnnl; nunc corporo 



STANZE AL VICP.RI^. TOI-KnO 

Il pesce intanto, ch'ivi gotto nuoto, 
nahztt sul cliiaro e liquido cristallo. 
Danza una ninra in mezzo della rota, 
c'hn ne la destra un ramo di corallo: 
com'uom che giochi d'arme, il move e 
e spesso il vago corpo in aria libra. 



CXXVII. 



Poi 



ha ballato a questa guisa un pezzo, 

cerchio, e prende un di quei dil; 
ma, pria che '1 prenda, inganna, e con bel vezzc 
or qua or là fa vista che s'invii. 
Ron gode colui ch'ama, e tiene in prezzo 
il gir preso da man che più desil: 
tien l'altro ad onta, e'I cor par gli sia svelto, 
il veder ch'altri a tanto onor aia scelto. 



cxxvin. 

La vaga ninfa or move presta or lenta, 
or salta, or gira, or sdrucciola, or s'affrena; 
al fln gì' inchina, e'I ramo gli appresenta, 
e con gli altri a la rota s'Incatena: 
quel rimati dentro, e balla, e molte tenta, 
finché prende una e seco a danzar mena. 
Il ballo in somma ò tal, che a ciascun lece 
far con altrui ciò ch'altri con lui fece. 



CXXIX. 
Mentre nel molle pian dell'onde quete 
mar l'umido dee, 



- librant j In aaltua, nunc molle latus. mine oandi'ia jaotanl | 
• Braohia, et altarna qualiunt vestigia pianta •■ — f. Pete^ l, b. 183: 
' „,. e'I mofiuorar de' liquidi cristalli t. 

CXXIX, I. Le itampe guitte. — 6. Sempre unite. Pontano, Brid., I, 
XIV, 3: ■ Nflidofl et «oclae varia sub cesie Napeae ■. 



n.DRIDA 

dal monte scenderan l'Oreadi liete, 

e tesserai! sul lido aite coree; 

vi verran, se 'i passo lor rtarete, 

ie Naiadi a gran fretta e ts Napee; 

e l'Amadriadi a mille uscir vedremo, 

dal nostro o dal tarren che intorno avemo. 

cxxx. 

Non men che quei dal mar, verran lascivi 
da terra ì Fauni, ì Satiri e i Silvani; 
o, contendendo a qua! pili tosto arrivi, 
de io lor jiinle prenderan le mani, 
lìen che ciascuna al primo incontro sellivi, 
non men di quelle avranno i petti umani; 
s'accorderanno, e, l'un con l'altro misti, 
balli faran da voi non più mai visti. 



CXXXI. 
Van di fronzuti rami ombrosi it capo, 
e de' lor pie s'ode nel mar lo scoppio: 
e VB, perche si sappia chi sia, il capo 
di verde selva inghirlandato a doppio. 
Con la sna falce in man verrfi Pnapo, 
alte man ladre minacciando stroppio ; 
cui par che 'I mondo reverenza porti, 
come a colui ch'ha la deitii degli orti. 



cxxx. Nnove reminìioenze del 
proprismeDto i ■ capripedes Snt;ri 
• (iviie:Ì8 Silvania •, gli asgalilori 
dopprimn, si lascian poi vincere, 



lit. posso dei Salicf-s. Quivi nati 

delle oiarei le quali, relultanti 
) • manibus sinml implicilìs • 



, Il ms. andan eli etnto rami, — 3. Il ni>. onda aeai 
Il vti-ile tetra, cioè, per BinedJoche, il! verdi frondi. - 
. la noia all'oliava l-VI del Vendem'ntatort, e sì rioorr 
Bviumijae muxiau rorraido • d'OsAiio (Sat., I. Vin, 3H 



STANZE AL VICERK TOLEDO 



csxxri. 

Ni^ lascerai! Iq mìe -compagne tutte 
(d me, Signor, compagne et a voi serve) 
di vanir qui, dal gran desio condutte 
ch'han d'onorarva insieme e di vederve. 
Megari ed Ecliia, il piS non ben rase i ut te 
del mar oh'allo lor falde ondeggia o fervo, 
Antignana, e canto altra eli' io non nomo, 
chi trarrù ramo in man, chi fior, chi pomo. 

CSXXlll. 

Mergellina, più Ijinnca che colomba, 
lieta verrii, ctia si bel di si goda; 
a, se da l'uom ne l'urna e ne la tomba 



GXXXII, I. Le mie oompagne, cioè le allro ninfe che, al par di 
Clorida, Bono personifloaiioni di luoghi dello rivierB napolilana. — 
g-6. Megari ed KcliCa (v. le note alla si. LI e I.IX) eran luoghi aiti- 
li. 3aN. DI Falco, DesoriU. de' luoghi ani. ai Nap., e. 13 a: < 11 suo 
palazzo [di lAumUo] era il capo d'Ecliia, che metto ia mare, cbe 
poi per l'aatiqniU del tempo fu diviso dal coatinenle, ùtlosi for- 
teleeza, la iiuate, esaendo olla Bimililudiae dell'ovo, chìamavaai Ca- 
stel dall'OTO ». — 7-8. Di Falco, Op.cU., 0. 14 b: * Pili oltra la 
montRgaa é della dal Ponlano Antoniana, da noi Antigaana ecc. >. 
Pontnno, di tiitto, cantù d'Antignana; che, per dirla con Febiiantb 
CAnAFA, marchese di S. Lucido (Stante dt diverse cit., n, 60), « suo 
1 caro pegno | Fu, mentre et celebrò con glndio et arte | Di questa 

• patria luoghi alti e famosi >, Bellissimi i versi in cui la invila a 
dar fiori al cenere di Virgilio (Di Itortli Uesperiium, li, 13.14): 
■ .... Toque, o mlhl culla Patulci, | Prima adsis, primosque mlhi, 

• dea, collige flores. | Impleat et socioa tecum AnEiaiana quasilios >. 
Si SB, che ad Antignano egli aveva una villa. 

CXXXnC, l'S. ■ Villa Qympharum domua et propinquae | Doridos >, 
chiamava il Sahmazabo (Eptgr., I, li, 1-3) la sua di Mergellina, dono 
dell'ultimo degli Aragonesi. M. A. Flaminio (Carm., ed. comin, del 
'743, P' 70)- ■ Pansilypi collas et candida MerglllÌDa ». E il San- 
nazaro stesso (p, 153}: -< Hlo ubi verna imitatit turras, | Tot siinul 



iy6 CLORIDA 

cosa alcuna riman che veggìa et uda, 
litio verran seco, al cui cantar rimbomba 
la terra e l'onda, et a cui dan piU loda, 
che a nessun dio che sia d'acqua o silvestre, 
lo marltimo ninfe e te terrestre. 



CXXXiV. 
L'uno ù il paatoF liì Mincio, ch'amò taatu 
)a bella ninfa quanto amar si pot^aa, 
d comandò, che dopo mort£ accanto 
a lei chiudessen le sue nobili ossa: 
l'altro G il mio pescator, non men col canto 
prossimo al gran pastor che con la fossa; 
ch'amò faeguendo in questo ancor l'esemplo) 
la stessa ninfa, e le alzò altari o tempio. 



Benché ombre slan del peso nman già scarclie, 
non par orror non han, che altrui spavente; 



• piani* aiveisqua lectis, | Bupe MergilliBs aedens, [tropi nquuia 

• I 6|)natel in seqvor >. — 3. Le sl^mpa se pHi- d'uotK, — 3. l.a elt, 
ìtiar^titme. . 

OX.XX.IV, 1-4. Onesto nniora di Virgilio per la niora celebrala da 
Alio Sincero (Leggiadri) Qnzioae cui dà prete&lo il luogo della sua 
sepoltura) serve oi T. per istabilire un altro vincolo d'affinità Ira 
qwel arando o il poela napolitano. — 5*. È noto l'apilailo aannsia- 
riaoo composto dal Bembo; • Da sacro cineri flores. iloc illa Maroni | 
« Sinoertw Musa proiiams ut Intnulo ». D'amlicduo i sepolcri pai^ 
laoo a Imgo gli illustratori delle antichità di Pozzuoli; cfr. anche 
ti. CROCE, /.a fontba di Jacolio Sannaiaro g la chiesa ili & Maria 
ilei Tarlo, Trsni, v. Vecchi, iSga, in ispecie le pp. 7, 16.37. Del San- 
nazaro il T. Bcrivorà, più lardi, nelle Lagrima di S. Pietro tX[V, 3) : 

• D«l qoal idei De parta V.\ canlù qui preaao alla marina | Con <i 

• fé Lied, e gloriose Hotel llnobil pasaalor di UergelliaB, | 
' Temprando il suouo a. le superne rote -, 

CXXXV, 6.3. vratt, Doaxt iioitlico di Bernardino MarliruDo. Quanto 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 177 

ma in terra 3 'n mare alla lor vista par cbe 
l'orba s'ingemmi, e l'onda s'inargente. 
Vorran le figlie di Veaevo, carche 
eli bei nistìchi don; verran contente 
Aretiisa e Leueòpotra, e '1 bnon Grate, 
(la cui sono ella sovra gli occhi amate. 

CXXXVL 
E Pausìlipo, ancor che d'aodar nieghi 
ove dalla sua Nisida si secate, 
non nien che gli altri allor, mosso a' miei prlegLi, 
avrà le voglie a venir qui disposte: 
- e forse fia, ch'ali' umor suo si pieghi 
la dura ninfa, e pili ver lui B'acooste; 
ch'esser non può, ch'ai rai d'un si bel giorno 
d'amor non arda ciò eh'è qui d'intorno, 

CXXXVll. 
Oltra '1 piacer che vostro fla, venendo 
ove con tanto ardor voi sete atteso, 
et oltra '1 mio, che de! vedervi io prendo, 
che raro agual per altra via n'ho preso; 
non picei ol prò dal venir vostro attendo, 
se dalle stelle non mi fia conteso; 
chi5 un'ora, che '1 pie vostro io non agogni, 
provederft a mille alti miai bisogni. 

CXXXVlIi. 
Pili di col /erro e coi maestri han tregua 
l'opre, che far nel mio glardin si denno; 



alle ninfe Araluaa e Leuoopetm (pcrflonillCBlioni d'unn fonte e 
villa), TBdi i^uel ebe se n'à detto Della, aota alln m (Ielle S 
indirizzate al celebre seerelario di Carlo V. 

GXXXVI. Cft. SiNNiz*BO, EcL IV, TT. 46-58. 

CXXXVn, 3. Le staiDpe reiiervi prendo. 



lyS (.■LOlìlLlA 

elle senza voi lavor non vuo'si segna, 
se Patlade ti fusse o'I dio di Lenno: 
perché null'arte il mio disegno adegua, 
n6 dar pad condimento l'altrui senno, 
ch'aggradi al gusto altpoi, qiialor fla mostru, 
se'l sai non »'eiitra del ^iudicio rostro. 

CXXXIX. 

Ogni cedro, o^ni arancio il ci-ine ha sparto, 
acciò che al legno amica man l'avvolga; 
una grotta, onde rai'o il di mi parto 
Anche non vedo il sol clie'l carro volga, 
due logge, l'una all'anatro e l'altra all'arto, 
dove d'ogni etagione iiam si raccolga, 
e cento altre opre par che piangan mesto, 
perché ciascuna così tronca reste. 

CXL. 
E non san le due logge ignudo e scltiette, 
ma di mille color sparso e distinte; 
e, perché il soggiornarvi pili dilette, 
v'aran di molte favole dipinte: 
qnai son già eul pennello, e quai perfette; 
Bon altre antiche, altre dì novo Unte. 
Nella loggia, ch'ai fresco sì destina, 
plnto è l'amor di Borea e la rapina. 

CXLi. 

Il freddo Borea d'amor caldo e d'ini 
si vede, quando Orizìa bella assale 



CXt, 4- Le slninpo v'airran. — 7. Ch'ai lyreoo si deillna, cioè rollo 
• all'arto • (v. più sopra). 

CXLI. VeggBBi Ovidio, Met. VI. 677 Bgg., Her., XVIir. 37-49. — 
3-4. nel., I0C. cit: • M., parldamqua laetn, calìgine teclus, | Orltbyiin 
■ omans fulvìs ainplectitur alia •. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO I79 

e prende, e via la porta, et or la mira 
in mezzo al volo, or le fa vel con Tale. 
Direte già che fende l'aria, e spira, 
tanto l'accorta man nel finger vale; 
già par che mandi fuor fiato di neve, 
e quei ch'ha intorno del caler rileve. 



CXLII. 

Vedesi Giove acceso di Calisto, . 
ninfa d'Arcadia, or stella a tramontana, 
come dal ciel, di sue bellezze avvisto, 
scende, e la 'nganna in forma di Diana; 
e come, di lei fatto il dolce acquisto, 
ella ne perde la sembianza umana, 
e, trasformata in orsa, per le selve, 
di sé scordata, teme l'altre belve. 

CXLIIL 

1 fior vermigli e bianchi e persi e gialli, 
l'orrore e '1 verde de' selvosi monti, 
l'erbe de' campi e l'ombre de le valli 
già vi dan fresco, ancor che '1 sol sormonti. 
L'acque, che sembian lucidi cristalli, 
e mostran far tra l'erbe rivi e fonti, 
vi fanno un fresco immaginar e un'aura, 
ch'ogni noia di caldo vi ristaura. 



CXLir. Altro episodio ovidiano, fedelmente riassunto; cfr. Met., II, 
409-95. — 7-8. Ivi, 493-94: « Saepe feris latuit visis, oblita quid 
« e s s e t, I Ursaque conspectos in montibus horruit ursos ». Le stam- 
pe: E, trasformata in formidabil belva, \ Col volto a terra pasce, 
e vive in selva, 

GXLIII, 2. Orrore, cioè oscurità, o, meglio, -peoombra. Peth., I, 
s. 124: « ... un solitario orrore | D'ombrosa selva ». ~ 5. Ijq stampe 
sembran. 



CXLIV. 

Ne la loggia che mira ni tepido austro 
dipinto lian di Fetonte il duro caso. 
Si vede Febo uscir dell'aiiroo claustro, 
e 'd man portar d'unguento un picciol vaso; 
pria ciie "1 figlio ascenda il suo bel plaustro, 
ungergli e fronte e bocca et occhi e naso: 
tanta ne' bei colori arte 8Ì trova, 
che par che'l carro splenda, e clie si mova. 



CXLV. 
Primavera, di fior cinta le tempio, 
State, ignuda e di spiche avvolta il crine, 
Autunno, di vin lordo onde i vasi empie. 
Verno, la barba e '1 crin sparso di brine, 
l'Ore, che san quaggiù sì ladre et empie, 
che fan di quanto ha '1 mondo alte rapine, 
il Giorno, e gli altri tempi, al re del lume 
stan quai ministri intorno, e tutti lian piume. 



Scorgonsi al mesto padre d'amor se; 
e note d'alto duol nel volto 



CXUV, 3, Ovidio, Mei., II, i-2.: • Regia Solis era( BUblimibus alla 
« columnia j Clara mieanfa auro. • — 3*. Ivi, ia-3: » Tum pater 

■ ora Bill ^cro medicamine nati | ConCigìl -, 

CXLV. Ovidio, 7t'l, 34-30: • !□ Bolio Phoebua, claris lucente sme- 
li ragdiB. I A dexira laeva^ue Dies et Mensis et Aimus, | Saeculaqao 

■ et poBitae spatiìa aequaUbiiB Home, | verone novum stabat, dnctuni 

■ llorente eorona, | Slabit nuda Ae^tae, et spicea Berta gerebat, t Sta- 
• bat et AutuDinite, calcatia Bordidus uvis, { Bt glacialia tlieiiia, mdob 
■1 blrauta caplUos >. 

CXl.VI. Ovidio, lai, ii4-3S: . Impoeuitque eomae radioB, praesa- 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 
par ch'ai figlio animoso il carro assegni, 
e gli abbia in man le redine già messe; 
e che '1 camin gli additi, e che gì' insegni, 
ch'usi pili fren che sprone, e né dimesse 
l'ardenti rote, né troppo alte guide. 
Già. parte il carro, e quasi rota e stride. 



CXLVII. 

(jià sen va il novo auriga senza intoppo, 
e mostra in faccia or gaudio or meraviglia; 
par ch'abbia a vii l'a 
e in picciol muro sembra correr miglia. 
Eccol, da terra allontanato troppo, 
che, sbigottito, non può stringer briglia; 
gli sfrenati destrieri, or bassi or alti, 
corron focosi il cielo a maggior salti. 



L 




■ gaipie luotuB I Pectore solliiiilo repetena a 

• ìiìc saltem iDonitis parere paternis, f Farce, puer. slimulia, et for- 
a tiuE ulere loria. | .„ Sectua In oliliquum est lato curvamine llmes, | 

■ ZoDarumque Irlum contentila fine, polumque | ElTtigilo auatrolem, 
■< iimclamque aqullonibus Arcton. | H.ic Gt iter, manìresta r 
E Btigia cernea. | Utque ferant sequos et coelum et terra calorea, | 

■ Nec preme, oec gummum molirs per aethera e 
CXLVII, a). Ivi, iso-sa; « occupat ille levem iuvanili corpore cur- 

• rum, I Statqiie super, maniliusque dalas oontingere habenas | Gaii- 
« det ». — 5, Le stampe eatnmln .... l' Instimi- 

CXt.vn, 5-8. Ovidio, Ivi. 165-70: ■ 

• Succuliturque alte, similiaque f 

• nec qua commiasaB fleolat habenas, | Nec scit qua sit ìUr, oec si 

• sciat, imperet illis ■, IKI, 201-7: « Eispatiantur equi, nulioque 

■ inliìlieote, per auraa 1 Tgnotae tegionia ennt, quoque impctus egìt, | 
- Hac Bine lega ruimt, altoque sub aetliere fixie | Incuraant stellis, 
>c rapiuQtque per avia curmm, | Et modo sannia petunt, modo per 

■ decliva viasque | Praeclpiles apatìo terrae propiore reruntur ». 



j82 CLORIDA 



CXLVIIL 



Al gtovene nel corso or si fa, incontra 
Leone, or Serpe; or Can mostra avventarsi 
a ciascun passo Finfelice scontra 
le fiere e l naostrl per lo ciel già sparsi. 
Rocol ciral torto Scorpi'on s'incontra, 
e *i ft'an di man del tutto lascia andarsi : 
varsan fiamme l destrieri in ciascun loco, 
e M mondo tutto par elio vada a foco. 

CXLlX. 

Arde la damma Terbe, i fiumi secca, 
e strugge ogni materia onde sMmpingua; 
arde la terra, et ondeggiando lecca 
fin sopra*! ciel con la vorace lingua. 
La Terra, arsa i capei, le labra secca, 
or par Nettunno, che '1 gran foco estingua, 
pregare, or Giove, che dal ciel risguarde 
Io 'ndegno ardor che la divora et arde. 



CXLVIir, 1-2. Ovidio, Ivi, 79-81: « .... Per insidias iter est formas- 
« qua ferarum; ( .... Per tamen adversi gra'lieris cornua Tauri, l 
« Haemoniosque arcus, violentique ora Leonis etc. ». lei, 173-75: 
« Quaeque polo posita est glaciali proxima Serpens | Incaluit, sum- 
« sitque novas fervoribus iras ». — $-6. Ivi, 193-200: Sparsa quoque 
« in vario passim miracula coelo, [ Vastarumque videt trepidus si- 
« mulacra ferarum. | Est locus, in geminos ubi brachia concavat 
« arcus I Scorpios..., | Ilunc puer ut nigri raadidum sudore veneni | 
« Vulnera curvata minitantem cuspide vidit, | Mentis inops, gelida 
« forraidine lora remisit ». — 7-8. Ivi, 227-28: « Tunc vero Phaethon 
« cunctis e partibus orbem J Adspicit accensum etc. ». 

GXLIX, 1-4. Ovidio, ivi, 209-13: « .... Ambusta nubila fumant, | Cor- 
« ripilur flammis ut quaeque altissima tellus, | Fissaque agit rimas, 
«e et succis aret ademptis: | Fabula canescunt, cum frondibus uritur 
« arbos, | Materiam suo praebet seges arida damno ». Ivi, 241-42: 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 



CL. 

Vedasi il re del ciel, che d'alto g-uiita 
lo'ncendio ch'alia stelle timor pone, 
alzar la destra di saette armata, 
a fulminar il mia aro garzone. 
Nal cielo de la loggia è disegnata 
l'istoria; e Giovo in mezzo par che tone: 
dipinto é giii nel moro, in ver' le porte, 
l'arder del mondo e del fanciul Ift morte. 

GLI. 
Ne la mura d'intorno, ove i colori 
sparsi par ch'abbiati cento aprili e muggi, 
son dipinti del Sol tutti gli amori, 
che GOQ pili qnasi che non spunta ei ragg;!. 
Quai chiusi in arbor, qtid cangiali in fiori, 
piangon per fiumi e luoghi aspri e selvaggi: 
i'onor dal ciel si vede, il chiaro Apollo, 
guidar per terra i buoi con verga in collo. 



• Nec aorlita loco distanles HuiiLLna ripas | Tuta maacnt Bla. »; e se- 
gue ua'enmooraziono di flmni diBsoceati dal terribile ineendiu. — 
5. Nel ms. originariomente leg^vasì or nnestfa II fraU. la oorre- 
aione è d'altro cirnttere. — s^. tM, 271-300: • Alma tamen Tellua, 

ut erat circumdata punto, | sustulil oninifòroi oollo tenus onda 
« vultus, I .. ,. siocaijue ita voce loDuta est: | »... Vìx e^uidem fauces 

• haec ipsa in verba rasolvo | (Presserat ora mpor) tofrtos en ad- 

« spice criùes [ In chaoa antiquum conAiDdimur ; eripe Aiiidiuìb, | 

" Si quid artliiic superasi, et rerum consule sumiiiae •. Queste pa- 
« Tol6, si noti, Bon rivalte a Giove. 

CI., 1-4. OVIDIO, Ivi, 304-ia: • At pal^r omnipotena { eummain 

■1 petit ardu-us arcem | lotonat, et dexlnt llbralum fnlinaQ ali 

« aure | Hliil in anrlgam ate. >. MOLzA, mnfii tlb., st, XUI: • Bcoo 
I' Giove che in ciel, tea mille lampi, | Db rolgornnda il segno, e lo 

1 percuote ». — 3. Le stampe di .laelta. 

CI.I, S. [1 ms. e le stampe piange; lua non dà eeriRo. — 7-8. Gfr. la 
Et. CLXVII, V. 6. 



i84 



CUI. 

Vedasi, come par amor si Turi 
spesso a sua forma, e sotlo altrui si celi; 
come or doppi '1 suo lume et or l'oscuri, 
o cangi lieto con le eslve i cieli. 
Il veder foco e sol per tutti 1 muri 
par ohe vi scaldi, ancor che '1 mondo geli: 
quasi vi scalila alla stagion pili fredda, 
come l'altra alla culda vi raiTredda. 

CLUI. 

Vedrete ove s'intesse un lalterinto 
di ginebro, i cui trouclii edera avvince; 
e'I muro intorno, ove sarà dipinto 
(quest'opra Ilo gran desio die sì comince) 
ugni battaglia cbe'I re nostro ba vinto, 
Bla terra o sia mar dove si vince, 
e '1 mìo Oarzia, dietro al suo augello invitto, 
or fu seguace or capo nel conflitto. 

CUV. 

H beucbi^ '1 buon Signor contenda e pugne 
d'impedir la bella opra quanto puote, 
e vorria, in luogo di moderne pugne, 
por cosa dal suo tempo piti rimote, 
parendo a lui ch'a TonestA ripugne, 
cli'iiom ne' suoi tetti le sue glorie note; 



0[.U, 3. te Blumpe oc doppi 1 suol raggi ed or uu oscuri. — 8. , 
tra, aioi ìa 1n(cgi.-i A'maii ilescrittn, rlio guurila n se Ile n (rione. 

CLUI, 4. m stampo t'inconiinet. — 7. nj«fo al ruo auocUo, 
iiillllnndo lolUi l'in90|^s dell'tqnlli ìmperùls. 

OMV, I. inlendi: don Mnia, dal quale proseatemeiile è la riHa, 
— ». l.e sUimp* * di «u<J(. 



li 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 

io farò si, ch'ai mio voler s'acquete, 
de'auoi chiari onor s'orai il parete. 



CLV. 

Non pur le cosa che di Ini riporta 
per" suoi dritti aentier la vaga fSma; 
ma mi sono ingegnata per via torta 
ili saperne assai pili, con maggior brama: 
elio non fti mai tra' Greci spia si accorta, 
quanto è 11 cor de la donna, quando all'ama: 
e chi ò si sciocca,, che d'intender lasco 
l'esser del suo signor sin dalle fasce! 

CLVI. 

Comincerà dal tempo che, fanciullo, 
dal suo soverchio ardir preso consiglio, 
notturno e piano (e de' suoi seco nullo), 
fa' l'onorata fuga e "1 chiaro esiglio; 
a l'età nata agli o?;.} et al trastullo 
pose audace agli affanni et al periglio; 
e, cavalcando ognor par terran dubbio, 
corse dai patrio Ibero al gran Danubbio. 



CLV, a. Vaga, cioè che va errando, abiosto, Ori, rur-, XXII, 9j: 
« Il nobii alto e di Eplendor non tacque { La vaga taiaa, e divul- 
" goilo in brave », 

CLVI-vii, • L'anno is3a, scrive OmtuDiiio Hdeso (rat., in saueoua 
clt. Vili, 43), ssrrà sempre famoai) per li grandi iipparnti di guerra, 
1 con li quali passò il Gran Turco Sollninno ad Ungaria, o l'im- 
1 peratore Carlo V l' appare ocliii alla difesa ». Nell'agoslo Andrea 
Boria accorse in Lovaiite con una podaroas armatii, dinanzi alla 
(lUBle la Turchasca ai ritìrò, e prese la forlewa di corone. Il 3 ot- 
tobre Don Pietro di Toledo, giunto da poclii giorni in NupoU col 
grado di Viceré, acaompagnava la proaesBione che si fÌMe iu reiidi- 
uiento di grazie per la ritirata del Turco dall' Ungheria. A questa 
vittoriosa ImpreBS era accorso, Tolontario, sàcoado che ci asaioura 



CLVII. 

Dal patrio Ibero al gran Danubio corsa 
(81 il'onor vago nel travaglio esulta), 
per gir dove il suo re giva ad opporse 
al Turco, clie Ungheria superbo insulta. 
Da quel di fin ai! or, quanto gli occorse 
d'onor ne l'etfi verde e ne l'adulta, 
io to' obe net bel muro si dipìnga, 
e'n poco spazio tutto si ristringa. 

CLVlil. 

Vedpassi, come '1 mar, vincendo, aolclii 
or delle fredde genti or de le aduste; 
e come spesso dietro si rimolchi 
OF galee di nemici, or navi, or fusto; 
e d'altro pregio, che di quel di Colchi, 
riedan la sue dal mar dell'Asia onuste: 
vodrem di là i nimioi prigion fatti, 
9 di qua ì nostri di catena tratti. 

CLIX. 

Parrà, che '1 Turco e '1 Moro e ri;;tiopo 
piangan lo stato lor, misero e duro; 



qui il T., nncUe D. Oarsia. Il quale, i>oco stanla (Del luglio del '33), 
s'imbarcava «alla galee del Dorla, pronte b salpar in aoccor») del 
presidio di Corone aesodiato dni Turchi (Rosso, Op. ali., p, 5i);tro- 
Tandoai, da quel momcmto in poi, • a servizio del suo rein qasat 
■ tutte le imprese k. Cf^. il Dtseorao ai L. Tatitltlo sopra ta ooUdna 
iVùfo oAb la nobUti». eiUà ai Nitpolt dava alViil.mo S. D. Gocrfa 
par la vMOfla leAfrtoa, in Poes. Ur. dei T., ed. Fiorentino, p, 180. 

CLVin, 3- Rlmoiehl sia iu luogo dì rimorchi. È latinismo (remul- 
care, remuim b-afiereì ignoto ni lessici. — 5, quel ili ColoM, cioè 
il vello sureo. 

CIJX, I. L« itampe '( Tufo» il Storo. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 187 

e che i Cristiani vadan lieti, dopo 
Dio lui lodando, onde riscossi furo. 
E ben sarà d'arte mirabil uopo 
alla man che colora il nobil muro, 
per ritrar tanti fatti e si diversi, 
che 'n mar da lui tra sì pochi anni fersi. 

CLX. 

Vedrassi il Moro, che da' merli conta 
ì legni sorti in tempestosa piaggia; 
et ei, ch'ardito nell'arena smonta, 
acciò '1 nemico muro a terra caggia: 
e, perché '1 mar di fargli oltraggio et onta, 
o l'astuto African tempo non aggia; 
parrà, che, con terror di tutta Libia, 
assalti, e batta, e prenda la Calibia. 

CLXI. 

Vedrassi quando giii del mar scavalca, 
di proprie glorie ricco e d'altrui spoglie; 
del popol che l'attende la gran calca 
umil gì' inchina, e lieto sei raccoglie: 
et ei col nobil pie che '1 terren calca, 
e vanne al tempio, come d'acqua il toglie; 
indi viene a la vostra alta presenzia, 
cui deve la seconda reverenzia. 



CLX, 1-4. Allude alle note imprese d'Africa, donde Garzia ritrasse 
COSI ingente bottino. Gfr. la nota alla st. XII. — 4. Le stampe perché 
'l nemico. — 7-8, Calibia era una fortezza situata alla punta del capo 
Bon, tra Tunisi e Hamamet. Nel capitolo XXIII, intitolato esso pure 
a don Pietro: « Calibia noman l'una [terra]^ che a dir viene | Capo 
« di Libia, e l'altra Africa è detta ». Alla presa e distruzione della 
Calibia, effettuata da don Garzia, il poeta allude anche nel son. CXXXI 
dell'ed. Fiorentino. 

CLXI, 1-2. Vedi la nota a' primi versi dell' ottava precedente. — 
7-8. Le stampe presenza, reverenda. 



ì 



CLXIl. 

Parrà dove d'onop fé' sol guada(?no, 
e dove l'ebbe con altrui oommune; 
vedrassi il Doria, si ihmoso e magno, 
e ne le buone e ne le rie fortune 
porselo allato, a guisa di compagno; 
e, eenza mezzo oprar che l'importuno, 
Il giovanetto valoroso e scaltro 
or d'UD peso onorato, et or d'un altro, 

CLXlll. 

Non vorrei, che '1 parlar tant'oltra andassi, 
Signor, ciie '1 mio gioir fusse a voi noia. 
Quanto, insomma, s'udrà, quanto vedrassi, 
concluilo, die sarà diporto e gioia. 
S'io mento, i regni miei sian troncbi e sassi, 
e nel mio grembo ogni erba, ogni fior moia; 
e, quel ette d'ogni mal Torà assai peggio, 
non veda io mai qnel ch'oggi brami 



CLXIV. 

Deh venite, Signor, venite tosto 
a chi vìa più che '1 sol v'ama ed attende: 
e se v'insidia il mal che s'è nascosto 
fra il pie grave, e '1 venir qui vi contende; 
sul mio terren l'avrete a pena posto, 
che ne da tolto il mal ciie tanti offende: 
che l'erbe dal piò stesso avran virtute, 
onde agli altri et a voi porgan salute. 



iUCLVi-vn. 



CUCn, 3. Le stampa oomtmt. — 3-5. Gfr. la 1 

CLXia, 1. Le staiDpa cìi'i' al pariai: — 6. Nel 
st. X: • B nel suo seno ogni erbjj, ogni fior mora •. 

CLXIV, 3-4, I,B golia, che già lormeoUiva ia quel l«mpo ì! Vioerè. 
Cfr. rollava successivo. — 6. Ixs elBiope fio wenlo. 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 189 

CLXV. 

Ecco Pomona qui, che vi consagra 
un nuovo autunno, e Flora un novo maggio. 
Deh, venite al terren che per voi flagra, 
e spera fiorir gemme al vostro raggio! 
Cosi la rea, nodosa, empia podagra, 
che r altrieri ebbe ardir di farvi oltraggio, 
al vostro alto valor vinta si renda, 
si che '1 pie eh' io desio non mi contenda. 

CLXVI. 

Cosi non neccia mai freddo né caldo 
alla beltà del vostro Campigliene; 
né i poggi eh' a lui fan cerchio si saldo 
sentano incontro d'austro d'aquilone; 
e tornin gemme i fior, l'erbe smeraldo, 
acciò ch'aggian di voi degne corone: 
e sia, giovando a l'erbe, ovunque cada, 
oro la pioggia, argento la rugiada! 

CLXVII. 

Ondeggi sempre al ricco armento innanzi 
fresca erba, e corran rivi, et aura vele; 
né in parte ove si vada, ove si stanzi, 
fera entri, morbo, od altro ond'uom si dole. 



GI.XVI. Il T. stesso in un capitolo al Viceré (ed. cit, p. 99): « Se 
« d'erbe verdi e d'acque fresche e chiare | Abbondi sempre il vostro 
« Campiglione, ] Deh, non mi fate, Signor mio, scacciare! » (parole 
poste in bocca alla primiera personificata). Chiamavasi Campiglione 
il luogo di delizie presso Pozzuoli, dove don Pietro avea fatto edi- 
ficare un palazzo. Gfr. la nota alla st, XII. — 6. Le stampe che ab- 
Man, — 7. Le stt. e ovunque, 

GLXVir, 1-2, Le stampe ondeggiti „„ fresche erbe. 



190 CLORIDA 

In numero e in beltà sia tal, ch'avanzi 
quei del re Admeto, ch'ebbe in guardia il Sole: 
'1 giorno breve aghiacci, o '1 lungo infiamme, 
pendan piene di nettar le sue mamme. 

CLXVIII. 

E non vi nasca vacca che non sia 
d'alta bellezza adorna, a par di quella 
che fe'Giunon languir di gelosia, 
si che pose cent'occhi in guardia d'ella; 
né toro che non abbia leggiadria, 
a par di qtfel ch'amò Pasife bella; 
paia (tai siano e le fattezze e '1 pelo) 
della razza del Toro ch'è nel cielo. 

CLXIX. 

E '1 buon bifolco, che, al governo eletto 
dell'armento gentil, d'Arno si move, 
e la compagna dell'erboso letto, 
che cerca col suo sposo selve nove, 
qui si vivano in pace et in diletto, 
né sentan mai desio di gire altrove. 
Il dio Pan, d'ogni tempo, e la dea Pale 
l'armento e lor difendan d'ogni male. 

CLXX. 

S'io avessi, Signor, più acconcio stile, 
mentre cerco rimedio al mio cordoglio; 



I 



CliXVIir, 1-4. Si richiama al mito d*Io, cangiata in vacca dall' in- 
gelosita Giunone, e da lei data a custodire ad Argo Panoptes. 
CLXIX, I. Le slampe e Vuom (sic!) bifolco. 
CLXX, 6. I^ stampe che voglio, — 8. Petr., ir, s. 85: Soccorri 



STANZE AL VICERÉ TOLEDO 19I 

io non ho tanti fiori a mezzo aprile, 
quando più bella al mondo apparir soglio, 
quante direi parole, onde il gentile 
vostro animo piegassi a quel ch'io voglio: 
pur, s'io fallai nel dir, rustica e scempia, 
la bontà vostra il mio difetto adempia. 



« [o Dio] all'alma disviata e frale, | E '1 suo difetto di tua gra- 
« zia adempì ». Non infrequente, l'uso del verbo adempiere in 
questo significato. 



IL PODERE 



POEMETTO 



25 



Al gentilissimo et accortissimo 



Signor GIOVAN BATTISTA VENEREO 



Eccovi, signor Giovan Battista mio, il tanto da voi de* 
siderato Podere: il quale io volentieri avrei voluto poter 
negare et a voi et a ciascun altro che'l chieda; vergognane 
domij che un podere rustico e vile comparisse fra tanti 
cólti e nobilissimi giardini, de' quali oggi è Napoli si etdor- 
na, mercé de' felicissimi ingegni ch'ella produce. Non vi 
meravigliate, ch'io m'abbia tanto inditgiato a darlovi, si 
spesso da voi essendomi richiesto; perciò che, qtmnto più 
ho veduto, voi arder di desiderio d'averlo, tanto più io mi 
son venuto raffreddando di darlo; timido, che cosa fatta 
quasi da scherzo non mi recasse biasmo da dovero, dove 
fosse da voi avuto in troppa stima. Qual egli si sia, egli 
è vostro, et a voi si dona. Ho stimato dar qualche grazia 
al dono, con appresentarlo a buon tempo e convenevole, 
ancorché tardi: il che è ora, che si attendon le prime piog- 
gie d'agosto, perché possiate et arar et ingrassare e pre- 
parar la terra a ricever le semenze per gli frutti dell'anno 
che verrà. Se non ho a voi o agli altri sodisfatto a pieno, 
iscusimi il Podere istesso col suo nome, e dica che nessuno 
è obligato a poter oltra il podere. 

Vivete sano e felice, e in città et in villa, ove che siate. 

Dalla regina delle spiagge, a' xv di agosto del MDLX, 

Di V. S. 

Servitor 

L. Tansillo. 



(*) Era costui il maggiordomo della famiglia Piccolomini-D'Àyalos. 



IL PODERE " 



POEMETTO 



Capitolo I. 

Io non so, se da scherzo o da deverò 
voi diceste l'altrier su quella torre, 
3 che per testa vi va novo penserò; 

e che '1 gìardin, che desiaste tórre 
qui in riva al mar, pili non v'agrada, accorto 
6 de l'errore e del danno ove s'incorre; 

ma in cambio, di giardin (nel che v'esorto), 
voi voreste incontrar villa o podere, 
9 che a prò vi fosse insieme et a diporto. 

Voi pensate da saggio, al mio parere: 
ch'egli è follia, che apporta penitenza, 
12 il comprar ne'terren solo il piacere. 

Io so, eh' a voi non manca previdenza, 
in questo e 'n altro, da far scelta buona, 
15 e per ingegno e per esperienza: 

che sete uom raro, e da gradir persona 
non pur che '1 cerchio cinga il icapo suo, 
18 ma che porti il camauro o la corona. 



(*) Nel ms. torinese: Capriccio di L, T. intitolato il Podere, par- 
tito in tre capitoli. 

16-8. Cioè, « da esser caro non pure al padron vostro, eh' è duca, 
« ma ben anco a papi e re ». G. B. Venere serviva il Buca d'Amalfi, 



IL PODERE 

Ma perche si suol dir: « Ne! caso tuo 
proprio prendi avvocato »; e auolBi dire, 
che veggon più quattro occhi che non duo; 

e parml d'ora in ora vedervi ire 
col venditore e col notaio al fianco; 
io vi vuo' col consiglio prevenire. 

Né vi debbo in questo atto venir manco; 
se ben l'usaniui il consigliar toi vieta 
uom che noi chieda, oltre e' ha il pelo bianco. 

Se comparir da amico e con moneta 
non posso, il che voi forse avreste a scorao, 
verrò con penna in mano e da poeta- 

E vi voglio insegnar tutto in un giorno 

quel poco, che in molti anni m'ha insegnato 
il leggere e l'udire e 'I gir attorno. 

Perché in ogni atto, che non sia sforzato, 
l'elezi'on ben fatta é quel che importa: 
lasciamo andar quando da su vien dato. 

Se va l'elezion sen/A la scorta 
de! buon conoscimento, ella andrft male: 
è un gir al buio là 've 'I piò ne porta. 

Ch'esser piiote il podere in parte e tale, 
cb'lo noi torrei se mi si desse in dono, 
non pur a molto men di quel che vale. 

Ond'io vi mostrerò quante e quoi sono 
(pria elle '1 danaio fuor dì banco v'esca) 
le partt che richiede un poder buono. 



Air<iii30 Piccalumini, ammiigUalo Un dal 1517 aCostan» d'Iiiigo A'a.- 
valaB marchcM del Vasto; sul quale Alfou^ vedi Litta, JiVim. 0«t0- 
brt, voi. V, Piccolomini, tav. a.' E cfr. la uoto ni vv. 362-76 di 
questo alessD capitolo. 

27. Biaoco • ami il di' .. Cfr. il v. 353. 

40-1. VimKoNE, De re rtul.., ed. aldina del 1514, e ag a: i Quid po- 
li toro lacere, si istiiisiuodi (j. e. In locls palu^tritus) mihi l^dui 
■ haeredilale obrenevit! — Vaoilas quol assibna posais, ant, si oe- 
• ^ueas, relinquaa >, 

45. Parti, cioè qualilì, prerogative. 



POEMETTO 

E perché '1 prezzo oltre il (iover non cresca, 
i'vi darò duo documenti radi, 
cbe mai di compra fatta non v'ìncresca. 

E vi dirò degli uomiaì e de' gradi, 
col cui mozzo e da cui l'aver fia leve 
cosa che men vi costi e più v'agradi. 

De la memoria mai non vi sì leve, 
che né poder nò altro cbs bì cole 
comprar cupidamente un qua sì deve. 

Membratdvi queste altre due parole, 
quando al vedere e '1 patteggiar voi sete: 
che ciò che mal si compra sempre dole. 

Se '1 pie da l'orme mie non torcerete, 
fla '1 comin buono, e non vi farà mai 
acqua torbida ber eoverchia sete. 

Voi mi potreste dir: < Se tu non bai 
né poder, ch'io mi sappia, né giardino, 
come trattarne et insegnar saprai? > 

Stimate, ch'io sia un pover fiorentino 
che regga ^cola d'abbaco, e del mio 
non aggia da contar soldo o quattrino. 

Quel che pria s'ba da fare ò il pregar Dio, 
v' indrizzi al meglio; come in tutti affari 
top dee principio ogni uom prudente e pio: 

indi, parlate a' public! sensari, 
a'pid ricebi e più noti contadini, 
a' dottori, a' mercanti et a'notari. 



53-4. Catone, De re riist.. ed, ald. del 1514, e. i 0: . Praedium 1 


..m 


- comparare oogilnbiB, aie in 


. animo hflbelo, uti ne cupide ei 




60. Metaforicamente, si »a. 


■1 Eccessivo desiderio d'aeqaiatars 


non 


. .i farà , 


iccpiistar male : 






66. Nel : 


ms. quadrino; ma 


pò trebb' essere erroru di trascrizio; 


ae. 


67-9, A : 




- inopportuna la citazione esiodea 


che 










70. Il m: 


3. propriamente ha 


leBiOrf, 





IL PODERE 

o'ban gli amici e 1 clientoli e i vicini. 
Sapran, s'uom vender voglia e quanto chieda, 
e quai sian le contrade e quali i fini. 

Quando saprete, ove il poder si sieda, 
itelo a riveder non una o due 
volte, ma dieee, e con voi altri il veda. 

Sappiate di cui sìa e di cui fue; 
guardatel tutto intorno, entro e di fora, 
e ne le pili riposte parti sue. 

Giova il vederlo piA e pili talora; 
che, s'è buono il terren, s'è vago il aito, 
quanto il vedete piti, pili v'innamora. 

Come uorn ch'egli abbia a procacciar marito 
a figlia l)ella a Boia e d'alta dote, 
con la lingua e col pie siate scaltrito. 

Sia pre^o a la città, quanto si potè, 
il poder che cercate; e larghi e piani 
siano i sentier, che andar vi possao rote. 

Comprar poderi, e che ne sian lontani, 
è far dono a tre stati di persone: 
a B6fvitori, a achiavi et a villani. 

Però quel moro saggio, il buon Magone, 
dicea: « Chi il podar compra, immantinente 
venda ne la città la sua magione »; 



TfrSit. Catons, loc. clt. : « .... Ne opera tua parcsB viwra [ti poOtr» 
■ da aoiulilareì, et ne satis habaas semul ciccumìre. Quotlea ibis, 

< Utiies magis placeliit quod bonum. erit >. Identicamaate Chesobn- 
xio; traducendo quasi ad -cerbitm, E cfr. COLUttELLA. -Oc re ritti., 
ed. old, del 1514, e. 74 a. 

S8.99. COLtluELLA, 0. 71 b: ■ Quae Ipraeseniia domlnt], ciìai fri». 
« ijueos operibus ialervenerit, ut in oieroitu cum obost ìraperator, 
e cuDcta ceesant officia. Maximeque reor hoc BtgmUcaiitein poenum j 

< Magouem suonun acciptorum primordium lalibus auepìcatum Bea- 
li leatiis: ■ Qui agrum parabit domum vendati ne malit urbanum 
• quam rueticuta laram colere. Cui uiagis cordi fuerit urbanum do- 

< miciliuni, rustico praedio non eril opus eie. '. li>l, e. 73 a: ■ Cen- 
•I aeo igltur in propinquo agrum mereari, quo et frequeoter domi- 



POEMETTO ; 

per mostrar che 'I signor, non pur sovente 
(il elle non potrà far, s'è Uioga strada), 
ma a qualanqtia orrt esser vi dee presente. 

S'è presso al mar, si ali'uom per mar vi vada, 
e del carro si vaglia e de le barche, 
qual pili gl'i è in destro; tinito più m'agrada. 

Ma sìa che bisogni ir, poi ch'uoai si sbarche, 
iluo tratti (t'arco; e sia ch'entrin la porte 
e treggie e carré, non che bestie cerche; 

rjuanta utilUt pensata voi cli'apporle 
poiier ch'abbia si comodi 1 viaggi, 
oltra il piacere, a cui gliel dà la sorte? 

S'è lontan da città, sia tra villaggi; 
ohe chi vuol voi per boscbi non vi cerchi, 
nù il gaardian tema di ladri oltraggi ; 

e possa ancor più agevolmente aver chi 
poti, e vendemmi, e zappi, et ari, e l'aloe, 
né lungi e caro altrui fatiche merchi; 

e se la zappa o '1 vomere o la falce 
sì rìntuzzan, eia presso chi gli acconcio, 
e s'abbian ferro e legni e pietre e oaioe 

ihi far nove opre e da sareir le sconcie; 
e, se si paga il f«r de' tetti o palchi 
altrove a dramme, <]ul non monti ad oncie; 

e Usici e chirurgi e mariscalchi 
uom possa aver, quando il bisogno acoaclu, 
ini lunga via per lor vada o cavalchi; 



> nus venist, et rrequantiu: 
• Sub hoc enim metu cut 
toi>26. CiTnME. loc, cit. 
< validum prope «iel, aut 
■< via bona CBlsbrlsque >. 

a subiunj^ebat ICatol. 



AiniiliB vilUcus eH 
• Oliera rioruni cO|i 



mtiuua danuntiet. 






... et oppidum 
ambulali t, aut 
73 b: ' Po^l liaea duo prin- 
et aquam et Ticinuiu. Uultura 



■< conferFe agria iter aammadom, primuui, qund est maiimutn, ip«am 

n praesentiam domini, i[ul libentius commeiiUirus «il, si vautionnn 

1 viaa Qoa reform-idet, dainde ad vabenda al exportanda ulfHUil^. 

< quae res fnigibus oondilì» auga( praetìiiio, e( minuit i^QiBquB 



IL PODERE 

L'hfl '1 villan vostro rada volte e rada^ « 
per uom che gli aia d'uopo, o robba 0(i opra, 
lasci la villa, et usi a la cittade. 

Pigra palude, che di nebbia il coppa, 

non abbia intorno, o verde umor che stagna, 
e nociva aora ognor gli afflati BOpra. 

Sieda a le felde o '1 pie de la montagna, 
che si possa goder vista piiS bella 
e l'acqua accor che le pendici bagna; 

ma non che tema, a tempo di procella, 
torrente ch'ogni cosa affatto strugga, 
porti le biade via, gli arbori evella. 

liti penda si, che l'acqua se ne fugga 
che d'aria vien, né ve ne mora goccia; 
ma che la terra il pili n'assorba o sugga: 

né gli stia su qualche scoscesa roccia, 
che, per tempesta che la smova o crolli, 
col rotar gii! de' sassi talor neccia. 



■ rerum invoclanim, quia miooris upportenlur eo quo facili nisa 
« perveniatur: neo noonihil esse elioni parvo velli, sì conductis 
« iumentis iler facias, quod magis eipetlit quam tuerì propria: servoa 
> quoque, qui EBCUluri palretafamilisa ginl, non ae^a iter pedibua 

• iugredi ■. 

137*9. Vahrone:, c. 39 a: • Adverteniiiim etiom, si qua erunt loca 

• palustria, et proptsr easdem caua.ie [salalìrUcaii] et quod.... in ììm 

• creECnnl animalìa minuta, quae efHeiunt difficiles morbos ». 

Palladio, De re ruau, ed. ald. del 1514, e, 740 a (parlando De offri 
eltiaione i>el stai): < palue tamen omui modo vitanda est... propt«r 

■ pealilentiam, vai anomalia iniouca quae g:enerat >. 

130-3, Catone, Iog. cit.: » f4ì poteria, anL radice moolU siet, in me- 

• rìiliem spaolet, loca salubri •. VAanciNE, loc. cit; « Danda opera, 

• ul potiBsimuni sub radicibuB niontis aylvestcis villani ponas ». 
i33'5' OOLUMELLA, e. 75 a: • Haae igilur eat niedii collis optiuia 

« poBitio; Ideo tamen ipso poululum intumeBconto, no, cum a top- 

• tioe torrena imliriliiis eonceptus eRIliierit, fuTiilanienta convellHl >. 
Cff. auebe Vabromb, 0. ig B. 

136J, Pallìuio, c, 3j8 6; • Situa vero l^rrarum. neque plaaua 

• atst^el, noque praeruplus ut defluat ., 



POEMETTO 



203 



E, s'egli è in pian, sien campì asciutti o molli; 

che ancor sul piano esser può Ijuono e Ijello, 

mp e aver si posson monti e colli. 

Attend te heglì abbia o questo o quello: 

I t e tutto ad una banda inclini, 

p tutto egual, non a livello; 

1 t t e pian, ne' fossi e ne' pendini 

ta ia quel limo e quella borra, 

che uligine suol dirsi da'Latini- 

S'umor non ha, né '1 potè aver, che corra, 
abbial che giaccia; ma sian vene eterne, 
non SI profonde che '1 villan l'abborra. 

Non m'appagan pescìne né cisterne, 
or calde or secche; ma vo' fonie o pozjto, 
freddo di etate e caldo quando verna. 

Oh! se la Parca non avesse mozzo 
il filo de la vita del gran Pietro, 
ch'ebbe si in odio il viver rade e sozzo; 

chiare onde e fredde pid che ghiaccio e vetro 
avrian forse e Pausilipo e sant'Ermo, 
non pur la quercia e '1 salce e i campi a dietro, 

ameno e colto ogni aspro colle et ormo 
fora qui intorno, et acque avrian gli ag'ruiui, 
per far dal caldo e dal gelarne schermo. 

E chi non sa, che le fontane e i flnmi 
son l'alme de le terre e i fregi veri, 
come del ciel le stelle i maggior lumi? 

E s'avesse sortito il buon LettierL 
un secolo del nostro men cattivo, 
quando in opre poneansi i bei pensieri; 



I5I-6- Coi 


.UMELL4, 


0. 75 0: . Sii 


auEem vel 


intra 7 


illBm 


vel . 


" trinBBCufl 


indiictus 


fons porennis 


... Si 1 


leerit 


Aliena i 


inda. 


puleu 


• quaaratur 


in vicii 


10, qUBB non : 


ili ha 


uslus 


ppofiind 


i, no 


Q ani 


' snporia ai 


il salai X 














.58. Don 


Pie Irò à 


ì Toledo, mori 




1553, 


di cui 1 




lodi 


fatto il T. I 


le'poeioeni precedenti. 












165. Geux' 


me, cioè 


gelo; foce ienola ai 


i lessici. 







^^^r 204 


IL ^^^^^^^^^1 


^^^H 


avrlLt la vostra casa oggi euo rivo, ^^^^^^^^^^H 


^^^H 


et ei, €ome a quei (empi era in oostama,"^^^^^^^B 


^^^1 >74 


fòca in pietra e 'n metilli sempre vivo. ^H 


^^^H 


Poi cli'egH ebbe d'Ingegno tatif.o lume, ^M 


^^^V 


elle scoperse le vie meravigliose, H 


^^^V 


dm da Senno a Napoli fea il ftume; W 


^^^H 


le vìe mille anni e mille, e più, nascosa H 


^^^H 


sotterra, in mezzo '1 sasso, dentro i monti, ^^^^^B 


^^B 


che pur aono a pensar mìrabfl cose. ^^^^^H 


^^^H 


Cba fora il veder Napoli coi fonti, ^^^^H 


^^^H 


coEi nel sommo suo come nel bassol ^^^^^| 


^^K is; 


Altro sapia, eli'iiver marchesi e conti ! "^^^H 




Non, perche sia il térren fatila e grasso, ^M 


^^^H 


raria abbia int'etta, che i coltor Amaste,- H 


^^^1 


né sia magro sabbione sterii easse, ^M 


^^^H 


perché l'aria abbia pura: clié son queste ^^M 


^^^^H 


due rie sorelle, e ne dee far panra ^M 


^HF "*? 


cosi la Gteriltà come la peste. 'H 


^^^B 


Non è- si scarsa povera Natura» H 


^^^^r 


che ambedue jrrazie un loco «ver non possa; H 


^^H <9i 


ch'ella ha di noi, pld che noi stassi, cura. ,^M 


^^^B 


Fale pur nel cercarle vostra possa; ^^^^^^È 


^^^H 


oh quanti e quanti se ne ve^frono oggi, ^^^^^^M 


^^H 


che comprando il poiler compran la fbssa! ^^^^^^| 


^^H 


. OMV»ta, loo. eiL • Benum oaelom bsbsst IpraedLum), na ,^| 




^^^H 73 






^^^^1 ■ rum sj allerum deesaet, aa nihìlo rninua quia vellet incoiare, ,^| 


^^^^V • 




^^^^B ■ in oultum tlorilis soli, n&e tarsm pestUenli uuamvis renutistimo ^H 




^^^^H • urea r 


alio ponendu, ili! non moilo porcaplioncm fruduum, aed et ^H 


^^^^H * vitam oolooorum cgg? ilubisin, *el potiuB tnortem nuaestu iMTtJo-' ^| 


^^^^1 > r«m 


E! più sot» (e. 74 II)'- " M. AttiliuE KeguluB diiissa memo- ^H 


^^^H ■ 


fundum, siculi ne roecundiwinii quidem soli, cum «it ìnw- ^H 


^^^L^^^ - 


ila nec effoeli, «i vel ialutiarrtmus alt, psraadum *. ^H 



Però desio che s 






il sito ove le mura fondo et erga, 

ma che par strada agevule si -poggi: 
benché spesso il mal acre d'un alberga 

EÌ toglie col mutar d'uscì e fenestra 

e far, ch'ove egli ha il petto, volga il tergo; 
chi^, ancor che non vi sìa vapor terrestre 

che l'aria ammorhi, son talora t venti, 

che fan l« casa or pruspera or sinestre. 
Non sempre appare ai visi ile le genti, 

sa *1 cielo è buono o reo; eliti epeseo, usate, 

vivon sane ne' luoghi pestilenti. 
NA titol ili salubre unqua lì data, 

so non è btion per le stagioni tutte, 

a, via più che di verno, anco cìi state. 
Pessimo è quel lerren, benché assai frutte, 

col qaal bisogna cba sì metta a ^ioco 

la vita del padrone, e seco tutte. 
Dissi de l'acqua; dico ancor del |oco. 

Abbia il poder comodità dì legna ; 

che ambedue fan bisogno in ogni loco. 
Abbiala SI, che arda a la villa, e vagita 

a la città col carro il rustico uoiuo, 

a 'I carbon sempre accaso vi sostegnu. 
Voi d'altrui sete e vostro majordomo; 

sapete, se le tegne oggi son care 

piti che'l guaiaco d'India e 



196-Z04. TAHltoKE, c. 39 a: • VKanduiD, ne in eas parles Epeot«< 
1 villa, ex (piibuB lentus gravior ntHare solet, nere in canvalli oavu, 

■ el ut potiuE in sublimi loco aedlBces, qui qaod perflalur, ai nuod 
• e»t, quod adversarium ìnferaEur, facilius diBcutltar >. Colu>(si,i.a. 
;d. CÌL| e. 75 o; «... Caveaduui eL'it, ut a lei-go potiua Quam praa 

■ se fluniBQ habeali et ut aedillcii frou? nvarsa sit ah iofeslis eiua 
> regioais TentÌB el amicisalmìs advec^a eti:, ». 

230. Cioè, dell'ai trai podere e del Tostto. 

313. 11 legno del auaiaeo, grand'alliero natìvo del Massico a d'ai- 



^^^F 20é 


IL * ^^^^^^^^H 


^^^P 


e sa qui Beu£a bragia si può stare "^f^^^^^^l 


^^^H 


quando ci soffia il vento di rovaio, " 


^^^m 225 


oltra i bisogni in che si sole oprare. 


^^^H 


Venga, la prima sera di gennaio, 


^^^H 


coi ceppi e lauri suoi Io stuot selvaggio 


^^H 22B 


a chiedervi cantando alcun danaio; 


^^^1 


e coi tlori, la prima alba di maggio. 


^^^H 


a suon d'alta sampogna, e porli in collo, 


^^H a;: 


per piantarlo in su l'uscio, integro un faggio. 


^^^H 


E con le legne or v'arrechi ova or pollo, 


^^^H 


or questi doni or quei, conformi al tempo, 


^^^B ^'^ 


meni alto il suo carro basso Apollo. 


^^^H 


Susine e fichi et uve al caldo tempo. 


^^^H 


nespìle e sorba al freddo e pera e poma. 


^^^B 337 


frutta da fargli onor piti lungo tempo. 


^^^^H 


E stridano, op sul carro or su la soma, 


^^^H 


leprotto, cftvrìol, porchetti et agni. 


^^^1 240 


quando il Verno ha più bianca e barba e cliioma. 


^^^H 


Renelle non entri al libro de' guadagni, 


^^^H 


è dolce ad uom qual voi, largo e gentile. 


^^^B 243 


dare, e dire a' signori et a' compagni : 


^^^^H 


« Qaesto è del mio podere del mio ovile »; 


^^^1 


ch'egli stesso a mensa een ricordi. 


^^H 


e "1 suo gli agradi, e tenga ogni altro a vile. 


^^^H 


La state beccafichi, il verno tordi, 


^^^V 


che viseo reto ne' vostri arbor prenda, 


^^H . 149 


da far di loro i pili svogliaci ingordi. 


^^^^K 


Importa assai, benché nessun v'intenda, 


^^^H 


per comprar con meo costo e men periglio. 


^^^B 


saper chi sia 'l padrone, e perché venda. 


^^^^H tre contrade del Ndoto Cotitineola, ha proprielA mediuìnalL n aln- | 


^^^^H namot 


no, come ognuu sa, & In cauuello. ■ 


^^^^H 236-34. 11 pietà allude a usanza contadinesche ben noU, diffnw ■ 


^^^H per Inlla lUIia. | 


^^^H 3JS- 


. Il ms. suottine; ma questa voce non si tiova icgistrala ne* ■ 


^^^^H 


Le slampe nttpott e sorbe. 1 


^^^^L 




^ 


^ . J 



POEMETTO 



207 



E TI vo' dare un saggia, alto consiglio, 
che mai scrittore nntico altrui noi diede: 
2^^ cercate dì comprar sempre da Aglio, 

Aglio che fila di morto padre erede; 
se aver bramate un venditor corleae, 
2)8 die si teglia assai men di quel cbe cbiede. 

Scbivate di comprar d'uom che v'intese 
e 'n farlo abbia oro e diligenza posta; 
261 chi? allor yal troppo ogni aspro e vii paese. 

Però Nisida bella assai men costa 
al vostro e mio signore; a cui Fortuna 
264 devria far d'oro i sassi de la costa, 

donar tutto a lui, raccolto in una, 
quanto tesoro, in queste parti e 'n quelle, 
167 per le molte arche altrui sparge e ragunu. 

So che le donne valorose e belle 
e le persone dotte e virtuose 
270 non sì dorrian si spesso de le stelle; 

e Nisida, s'or'è de le vezzose 
che cinga il mar da Gadi a Negroponte, 
273 saria de le pili riccho e piti famose: 

la qual, se In quei primi anni ebbe occhi e fronte 
dolci come or, non paia strano a vui, 
275 che ardesse del suo amore il vìcin monte. 

Ma s'a comprar s'avesse da colui 
che prima la spoglio d'incolte vesti, 
279 per tre cotanti non saria d'altrui: 

Boglion dir quei sagaci uomini agresti, 
che amor di figlio e d'arbore è sembiante, 
ìHi qualora uom di sna mano il pianti o innesti. 

Se vi vien qualche giovene davante, 
cui siano a pena ì primi peli ntchinsi, 
2^1 che faccia il cavalier, faccia l'amante; 



3G2-73. Alfonso picpolouiini avee comprata a abbellita Nitida, 
vi dimorava. Oltre ol Litta, etp, Parhino, Ifapoll oiUà n 
ecc., H, 167- 

374-6. Inutile ricordare qui il niilo di Poaìlipo e Nisida. 



IL PODERE 

non è bisogno allor, che da voi s'usi 
cotanta providenzìa; ma potreste 
comprar, come si dice, ad occhi chiosi. 

R tanto pili, se si fan gioBtre o feste, 
e '1 giovanetto, a Il-egi, a pompe avezzo, 
TBo! cavalli e ataffieri et arme e veste. 

Comprale allor; se vi vendesse un pezzo 
i(i quei monti d'AjeroIa o di Sitala: 
elle, s'è aspro il terreno, è dolce il pKzzo. 

Bsnctié la compra non fa buona o mala, 
in quanto al mio parer, s'uom se n'appaga, 
il meglio o'I pili cbe'l costo saglie o cala: 

pur che si pigli cosa buona e vaga, 
ancor che sian talor cari i partiti, 
con quel 8Ì compra che di pili bì paga. 

Trovo uno errore, e d'uomini influiti, 
che non s'emenderian del creder loro, 
sa fosser come eretici puniti: 

che si debban comprar, voglion costoro, 
possesslon deserte e d'uom mendico 
e pigro, acciò s'avauzin col lavoro; 

e di qui nacque Qtiel proverbio antico, 
eh' è tra noi: « Magion fatta e terra sfatta > 
et io tutto il contrario oggi Vi dico. 

Il buon Censore et altri che ne tratta 
coDChiadon, che cercar terra hen colta 
non men si debba, che magion ben (ktta; 



193. Su questi monti scheriosamonte protetUva il T. di voler preti- 
dare Stanis per eviliire la carrelle e ì aoccLi. Vedasi In cliiuni del 
3i[I da' suoi CapUoIi; dove Jl Yolpiai?Ila nniiulu; « Agerola, Scala a 

• Rovello sona pìccole terre edillosle sopra I menti Uclla casta d'A- 

• malB nel golfo di EBlerno >, . 

310-11. Catovk, loe, cit; - De domino bona colono bonoque aadi- 

• Doator» ntelJns emetur ». Pallamo, o. 140 D: ■ In eligendo agro 
« <rel amendo oonsiderara debcbii, ne boDum niilurDli& roeuonditaUa 
- polonlluiii deiiravuTeril inertin, el in degenerea aurciilos ubar soli 

• reracis etpanderilj usod qiumvia emeudai'i potsil inulioita uielio- 






i'OKMETTO : 

e elle faccenda pìii dannosa e Etottu 
non si può fare, e dove uom piti s'inganni, 
che possBssion comprar caduta e incolta. 

Non ó meglio (lasciamo ir gli altri danni) 
goder dal primo giorno il ben già fatto, 
ohe quel elle s'ha da fare attender gli anni ? 

Da terra ben nudrita se n'ha ratto 
l'usura in mano, e l'utiltà vie» certa; 
l'altra è dubbia e dannosa al primo trotto. 

Chi vuol pigliar possessì'on deserta, 
pij;lila ch'ei non abbia ancor la got:i 
de la prima lanugine copei'la; 

ma chi con quattro croci il di si nota 
de! suo natale, o se ne stia digiuno, 
o la cerchi ben lieta e su la rota. 

Piti vi vo' dir. Sappiate, ad uno ad uno, 
qiiai lYuttt v'ha, da chi gli ha colti o vi^ti; 
nii vi caglia il parer troppo importano. 

Perché, se tutti son cattivi o misti, 
biaognan doppie epese, affanni doppi 
a porvi i buoni et a sbandirne i tristi: 

ch'or uohil ramo a tronco vii s'accoppi, 
or questo arbor si taglie, or quel si sterpe, 
e si accasin di novo or gli olmi or gli oppi ; 

chi? verter vite che per arbor serpe 
non pon gli ocelli EolTtir de' buon padroni, 
s'ella non è di generosa sterpe. 



« rum, tamen haruiu rerum tane culpa in 
« spe corrigendi aerua avantus ». 

320. L'vsMra,, CLoé 11 (I-ulto. 

3157, Intaodi: Chi ha XXXX .inni o m 
SQSsiona bea lieta a ben coltivala. Auota, n 
è ['avvicendamento di colture che rislorin 

339. Sterpe, cioè radice; Idtioisino d'uso 
.'^ignifleato. probabilmeole i 




a, che 



> squallida atarpe >. 



D cooipri, o compri pos- 
!l linguaggio dell'ugrarìa, 
< il terreno a fruttato. 
Don frequente io questo 
1 petrarcbesco (li, a. 50): 
Mostrando al sol tn sua 



^^^^n 210 


IL PODERE 




Ma. ella le viti a gli arbori sian btioni, 




se con misura et arte non fur posti, 


^^H u^ 


ancor che sian ben editi e 'n lor stagioni, 




l'ende poco i! poiìer, benché assBÌ costi; 




che runa pianta a l'allra sì fa guerra, 


^^H 


se pili che non devria s'appressi scosti 




l'una a l'altra. Qualor ne l'ordin s'erra, 




l'aria a l'aura e la luna e '1 sol si taglie, 


^^B H» 


né forza a tutt« ej^ual può dar la terra: 




il che nóce di lor Qa u. le foj^lie, 




oltre die non dan mal quanto han promesso, 


^^H 


e quel puco men buoji, di' ludi si coglie. 




ETiu che '1 poder sia nostro, non solo esso ■ 




noi dovemo a mirare e squadrar bene, 


^^H 


ma ancor le terre elie gli stan da pressu; 




perché, se quelle splendon, ne dan epene. 




anssì certezza, che sia buono il clima. 


^^^1 m 


Sappìuei ancor l'uom, che vicin si tiene; 




e quui siano i vicini inquirer, prima 




che gli alberghi ì poderi abliiatn noi tolti, 


^^M }io 


è di momento assai pid ch'uom non stima. 




E vi potrei contar popoli molti, ^^ 




che, per fuggir vicini ladri, infidi, ^^^^H 


^H ì^ì 


si son da più contrade insieme accolti, ^^^^^H 


R 34(^5 


. VntoiLio, awrti., Il, 377-g, 3847: < IndtilBe ordiiiibus. Non ^| 


■ . SMiuB omnU in ungueni | Arboi'ilma posili» seclo via limite qua- ^| 


1 ' dret. 




1 < modo 




1 . àabit 


omnibus aennaà | Terra, negus ia yaeuum polarunt se extan- ^M 


i ■■ dare 


■ 


352-60. Catone, loe. cit: « Vicini quo paiito nitennt, id aniowdver- ^| 


• tilo: 


n bona regione bena niler& oportebit ». ^H 


361-6 


GoLUMEiJ.A, e.73 b: * ideo quidam Ifiitoos un Irtelo vtolno], ^H 


«m m 


liti praotulerint Barare penalibus, el proptór iiiiurias riciiio- ^H 


• rum 


aedeB sues prorugerìiiti nisì alitar «si«ttmaiuu» diveraum or- ^H 


• beili 


genie» uni^erBiia petiiase, roliclu patrio sulo, Athueos dico, ^H 


> el tliberos, ALbuiius rjuiFi[ii« uec iimiiii» Siciilus, et, ut pdmoidia ^^M 



POEMETTO ^11 

e da le patrie lor, dai dolci nidi 
in volontario esilio si son messi, 
366 nòve terre cercando e novi lidi. 

Nel principio del mondo fup concessi 
agli animai da Dio quei privilegi 
369 e quei doni, che chiesero egli stessi. 

Come novi vassalli a novi regi, 
gran popolo di loro ivi convenne, 
372 quali ai comodi intenti e quali ai fregi. 

Tra gli altri la testuggine vi venne, 
e chiese il poter sempre, vada seggia, 
375 trar seco la sua casa, e '1 dono ottenne. 

Dimandata da Dio, perché li cheggia 
mercé che a lei pili grave ognor si faccia, 
378 non è, diss'ella, ch'io 'l^mio mal non veggia; 

ma vo'piii tosto addosso e su le braccia 
tor SI gran peso tutti gli anni miei, 
381 che non poter schifar, quando mi piaccia, 

un mal vicin. Che dunque dir potrei 
de' tempi nostri, se da quei d'Adamo 
384 già s'ebbe tema de' vicini rei? 

Ma, acciò che quel poder che noi cerchiamo, 
inanzi che si trovi, non ne stanchi, 
387 riposiamoci un poco, e poi torniamo; 

ch'avrem pili forza al pie, piU lena ai fianchi. 



« nostra contingam, Pelasgos, Aborigines, Arcadas, quam quia mal os 
« vicinos ferre non potuerant ». 

367-84. Qui il T. rimaneggia garbatamente a suo modo la Tavoletta 
esopiana X£>.&)V7i x.al ZsO; (ed. Halm, Lipsia. Teubner, n." CLIV). 

385-8. Gfr. la chiusa del capitolo seguente. 



N 



IL rODKRE 



Se per cercar talor picciola lepre 
uom va pili miglia al Treddo, à l'acqua, al vento, 
e g'uata, e scuote ogni solchetto e vepre; 

per trovar il miglior d'un elemento, 
non vi gravi il seguirmi per via lunga, 
e un di smìar per riposar poi cento. 

nencbÉ vi paia sproa che poco giunga 
il doversi gpiar, come eian fatti 
quei che limite a siepe a noi congianga, 

e hen che esaminar degli altrui fatti 
impaccio sia clfB ratio utile apporti, 
s'uom di servigio o matrimon non tratti; 

nessun potria pensar quel che gli importi 
l'aver, se prima non ne viene a prova, 
buoni vicini o rei, debili o forti. 

Il reo vicin mi noce, il buon mi giova, 
col povero ho speranza d'allargarme, 
e '1 ricco fa cb'uom passo non si mova. 

Se 'I poder compro per talor quetarme; 

s'ho mal vicino, a capo, a! letto, al fianco 

la notte e '1 di convienmi tener Tarme. 



II, 4. Tt mtBlior iTun euntento. 



I terra, U 1 



iItAS. Ebiobo, Od. et dtes, ven., 1537. «. 45 a: • livida xacxò; 
« velTtìv ocoovt" àyaSò; ^j-érf' fivEiap. | 'EjAfiopé Tot Tt[i,5l5 
« Sor' é|A[iQ(3E yet-rovo; éa$-\tiù. | OjS' otv ^oOi àretiXotT*, 

• ei [ivi yEtTWìi icxxò; ti-n ». Colemella, ioc. cit: . [Ualom 
> libi faeit fartunam] qui neqnora Ticinum suìb numinia psrat, eniD 
« Eprimi9CimBbulis(si modo liberis parentibuaest ortuDdustsodiase 
■ poluerit [iTiS' àv ^oC; àTvóion', Et [i-'À yii-rwi xaxà; eh;: 

• quoil noa solum da luve dicitur, sed eUam ile omnìbni parttbi» 

• rei nostrae familiarìB ». K più sotto, dopo a' 



POEMETTO 2 

Sin fsrtìl qnanto uom vuol; B*a destro o manco 

quiticlia Autolìco stammi o qualche Cacco, 

non vale il mio poder la metà manco. 
Ruba a Pomona, a Cerere et a Bacco, 

noa teme di miDaccie né d'accusa, 

pur ch'empia in terra altrui la corba o il sacc 
Non giova villa d'ogni intorno chiusa, 

nù diligenza d'uomini e di cani, 

contra a le insidie che 'I vicìn voetro usa. 
Gallina che da l'uscio s'allontani 

pili non vi PÌetle; e chiami pur, e pianga 

la villaneUa, e battasi le mani. 
Aratro o giogo o rastro o marra o vanga, 

qaal sia di ferramenti o di legnami, 

non fidate che fora si rimanga. 
Or B veli e viti or pali, ov tronca rami 

or arbore, per foco o per altri usi ; 

u6 lascia intatti i prati, né gli strami: 
fura i legumi ancor ne' gusci chiusi; 

lìù de' frutti primier né de'sezzai 

sostien che '1 padi-on doni o per sé gli usi. 
Nel suo terren non mette pie già mai, 

che danno non incontri; e guardia e cura 

n'abbia a sua posta e d'ogni tempo assai. 
Chi, per sua colpa o per sua rea ventura, 

s'accosta a' rei vicini o sì raffronta, 

sempre ha l'oste a le siepi et a le mura. 



grazioni di popoli cnuBale da' coltivi tiriiii (cfr. la nott ai vr. 361-li 
del oap. precedente), eoggiunge: ■• Ao no tantum de puhlicis calami- 

• lalibnii loqaar: priratos quoque memoria tradidlt et in regionibiis 
' Qraeciae et ia liao ipsa Hesperìa deleslabilea ruisse vìcìdob, niei 

• Aulolieua lUe cuiquBm potuit lolerabilis esse conterminua, au[ 

■ Aventioi nioutis incola Palatinis ullum gaudium flnilimia «Tlis 

■ Gacus attulit Malo enim praeterilorum qiiam praesentiiim memi- 
1 qìbsb, ne TÌcinum meuin nominem, nui nec arboreto prolixiorem 

• giare uoetrae regionis, nec iiiriolatum semiuBrìuni, nec pedameiili 

• quicquam aiineium vioeae, nec eliam pacudes nsgligentius pasci 



^^^^r 214 PODBaL! 


^^^H U'an signor greco e saggio si racconta. 


^^^H che, facendo ana sua possessloce 


^^^^B ;t por Gotto l'asta al prezzo die piti monta. 


^^^^1 comandò, che griiiasse anco il precone, 


^^^^1 di'ella avea bnon vìcin; quasi ciò Gtìmi 


^^^^^ 5; non men cbe le .tltre qnalita sne buone. 


^^^^H S'ho reo visin, qaai mura si sublimi 


^^^^B faran che sin nel letto non m'assalteì 


^^^^V ;7 Qtial \esaa feiTo è cbe non apra limi? 


^^^1 Abbia il poder le eiepi e folte et aite, 


^^^^B gli argini i fossi, gli steccati i muri; 


^^^B 60 SI elle bestia non v'entri, itom non vi salte. 


^^^H 1 termini piiì saldi e pili securi 


^^^H de le posseBSion son gli arbor stesGì ; 


^^^^B 6) cbé non ho tema, ch'uoni gli sniova furi. 


^^^^1 Però chi tÌ pnn pini e chi cipressi. 


^^^^1 che sono arbori rari et immortali. 


^^^^1 66 ni^ giadice bisogna ove san essi. ^^^ 


^^^1 L'uve e le son le principali ^^^^| 


^^^^1 ne' poder che deano aversi, ^^^^^| 


^^^^1 69 come il bere e il mangiar hnn animali: ^^^^^| 


^^^H benché abbia intorno a ciò parer diversi ; 


^^^H chi vuol che sian le pratA e le difese, 


^^^H ■jì chi le vigne, e chi gli orti d'acqoa aspersi. 


^^^^^1 • plnit. Iure igitur, quEintum mea fert opinio, M. Porciits [Calo] ta- 


^^^^H < lem pestem vilare censuit, et in primìa futurum agricolam ppae- 


^^^^^H < mnnuìt, ne sua apoate ad eam perreniret •. 


^^^^P SSi6. Vahaonb, c. 30 ai/: • Nunc de septis, qune tutandi fiiadi 


^^^^f^ • causa, aut parti* flant, dicGm. Kunim tiitelarum genera quatiior..,. 




•^ nis; ~. seeuada sepes est ei agresti ligoo [tUccaOi; tertium 


> mìlilaTe aepimealum est, fossa el terrena aee«'i — lusttun &- 




■ Sina septìe Qoea iiraedii «alLooibiu notU erborum totioreB fl«llli, 


• uà familioe rìxentur oum vìeiaia. ac liiuitea ex litibDS iumoun 


• quaerauL Secunt ttlii ciruuiu pìuo&, .... aJii cupresios et& ^, 



POEMETTO 



2IS 



lo, c)ie tratto di questi dal paese 
tra Liri e Sartio e ie mantngaa e l'onde, 
lascio la altrui ilisp(tt« e la conteBe; 

i quni son ricchi d'arbori a di fronde, - 
pili che di piante e d'erbe, quasi tutti. 
Le primo parti al vino, e le seconde 

do ai grano. D'ogni spezie poi di frutti 
aggìan, ch'aver si possa, e pili e meno, 
come pili da quel clima soo produtti- 

Non produce ogni cosa ogni terreno: 
convieii che sua natura ogni terra abbia, 
e jmvi a l'esser suo se l'empia il seno. 

Che, s'uom Toiesse non iontan da Stabbia 
arar e sementar e meter grano, 
ch'è tutto or gbiara, or pietra arsiccia, or sabbia, 

t) in quel d'Arorsa a Oapova e Giuliana 
piantar granata, amandole et olive, 
ch'é si fecondo, fora un pansier vano. 

La Vito è quella che più rende e vive 
su questa nostre terrò a Bacco sacre, 
Bìan campi o monti o poggi o volli o rive; 

se non se alquante paludose o macre, 
poco abili et a l'uve et a le biade, 
che fune e l'altre fan deboli e maore. 



82>9o. Hicorda, e psr la floslftnia e por l' inlonailone, i vv. 5063 
del [ delle Qeoi-gicJta. Qui, sct-ive U paslor iti Minato, meglio atlec- 
t^hiBcoDo le l>isd£, cùlk le viti, altrove ì frutti, a spontanee vigoreg- 
l^iano l'erbe. • Caaliaoo haa leges sel«rna^ua Toedera cerlis | loipo- 
• Buit natora lucia ». E di luoghi ae addita parecchi, — AnoliB Vah- 
BONE, e. 17 ab. ■ Non eadem omnia in eudem agro recto poseunt; 
- nam, ut alius est ad vileni appoeitua. hIìus ad frumentum, eie de 
« cne^eria alius ad alinm rem. Itoque Cretae «te. > (seguono esempi 
di luoghi). 

86. Meier, cioè mìttere. Erroneamente le stampe fnttler. 

SS. Terre vicine l'oaa slI'allrB, tra Napoli e il Volturno. 

89. L'ed. Mesi mandorla; ma il T. avrà ovulo in mente l'ami/u- 
dala di Plinio. 1 lessici registrano soìlaaio mandorlo e ainaitdurla. 



^^^^1 IL podere: ^^^^I 


^^^^H Voreste voi saper, de le coatrade ^^B 


^^^^B cli'lja qui d'jatorno qual miglior mi pain. 


^^^^H 99 e 'atender la cagion perché m'agrade? 


^^^^H Ove adombra Vesevo, e là ver' Baia, 


^^^^H oh i dolci colli, ob le campagne erbose, 


^^^^H loz e per le tine fertili e per l'aia! 


^^^H Le comparazìoD sono odloEe, 


^^^H e con quei maggiormente, c'ban del grosso, 


^^^H loi che amati troppo le lor proprie cose. 


^^^H S'io carco l'altrui grazia il pid che po.sso, 


^^^H non tuo', con far del luoghi <lifferenzia. 


^^^^H Ì0& l'ira recarmi de' pa<3roni addosso. 


^^^^H Una cosa dirò, che coscienzia 


^^^^H mi sforza a non tacerla; e con perdono 


^^^^H 111 di lor cui tacca e spiace la sentenzia. 


^^^H Perdoni il Sangro, il Manso, il IVIacedono, 


^^^H e gii altri tutti, o sian gentili o rudi. 


^^^H 114 se in quel oh'iu dico offesi da me sono. 


^^^H Ogni uom tre luoghi dì fuggir si studi. 


^^^H che son dannosi a disagiati et egri : 


^^^H 1:7 l'Acerra e Fuoragrotta e le Paludi. 


^^^^H Per quella polve e quegli orror si negri. 


^^^^H s'Io avessi ver'Cuma il mio podere, 


^^^H 120 io starei a non irvi gli anni integri. 


^^^H Oltre ai danni ch'egli ban da le galere, ^^H 


^^^H a suon "^^^^1 


^^^H a sradicar le selve vanno a schiere; ^^^^H 


^^^^H svellon gli arbusti, non che t'orno '1 cerra^^^^^^l 


^^^^H Sto talor nel balcon, sento le torme: 4^^^^^H 


^^^^H 126 per non vedergli, mi lo indietro, o'I se^^^^^^^H 


^^^^H È pur gran fatto! E Napoli si dorme, ^^^^^^H 


^^^^H né si vede uom desiar, che cerclii mezzo ^^^^^^| 


^^^^1 12^ da moderar enorme. ^^^^^^| 


^ 100-3. Similmente Vinoit.io {vedi, più avanti, la noia ai vv. ji^^I^H 


^r K Varbonb, c 36 t) .' «HI; ... in Vusiivio, quad leviora IlacaJ ideò Ba>^H 


V • lubFiora >. ■ 


■ 1(3. PosMEgorl di Urre ne'Iuashj che taenziooa appresso, ^È 


^^^^Ti^l 



POEMETTO 217 

Ho corso quasi tutto il tnnr di idszsso, 

tutte l'isole bo visto e tutti i lidi, 

ch'egli ha dai lati, a che gli stanno in mez;io; 
a in parte mai dar Ancora non vidi, 

evo la turba vìi, dì forca degna, 

nel gir a' danni altrui tanto obi e lidi; 
EQtouti LQ Sicilia, in Corsica, in Sardegna, 

in Liguria, in Provenza a 'n Catalogna, 

e coglia i frutti altrui, tronchi le legna. 
Non vuo', ch'uom corra al ferro, venga a pugna; 

ma preghin chi '1 puO far quei che dan voti, 

che aSrani arpie o'han eì rapaci l'ugna. 
Che peggio potrian far Svizzeri e tìoti 

ne' campi de' nemici e de' ribegji, 

che qui ftin oggi i nostri galeoti! 
Non spero, ohe in ciò Napoli ai svegli ; 

poich<; in cosa maggior l'aggrava il sonno. 

La man l'avess'io avolte entro i capegli^ 
Torniamo al campo. I ricchi, qualor vonno, 

e con la vigilanza a con la horza, 

ogni aspro scoglio fertile far ponno. 
Onde tastar bisogna oltre la scorza 

il terren oli'a veder voi sete addotto; 

che sia buon per natura e non per forza: 
e quando anco sìa tal, che per far frutto 

non richieda molto oro, opra e fatica; 

e questa parte grava a par del tutto. 
Quella nobil romana gente antica, 

tanto lodata in prosa e 'n vei-so e 'n rima, 

che fa de l'arte rustica si amica, 



147. È, come ognun sa, U verso olle chiuiio la prima stanza (lolla 
canzone pelrurobeaca Spirto ganttl. 

149. sorta, secondo la proQUDcia de' Napolitani, per bor«a. Ancbe 
nei Capitan (ed, Volpieeila, p. 373): • Quando più «ante alleggerir 



^^^^ 2lS 


IL PODERE 


^^H 


questo era quel ohe iiivestigavan prima, 


^^^1 


se terra elli comprar volean talora; 


^^H 


e questo da' pili scaltri oggi si stima. 


^^^H 


Né cerco gift, né vuo' ohe sia tale ora, 


^^^H 


qual fu la terra ne l'età de l'oro 


^^H 


(0 Tortunalo cbi nasceva alloral 


^^^^H 


che senza seme altrui, senza lavoro. 


^^^H 


per ne stessa abbondante e fertd era. 


^^Hj 168 


e dava a quei nioi-tjili il viver loro); 


^^^H 


sia qual degli Elbii la riviera, 


^^^H 


ove ogni anno il terren frutta tre volte, 


^^H <7' 


e v'han perpetuo autunno e primaverii. 


^^^^M 


Basti che eia, ch'ella si fenda e volte 


^^^H 


senza sudor soverchio d'uman viso, 


^^^H 174 


né le spese sormonti n le ncolte. 


^^^H 


Uà che gli uomini, in cielo e 'n paradiso. 


^^^H 


l'un furò il foco e l'altro colse il pomo, 


^^H 177 


volgendo in pianto il proprio e l'altrui riso; 




fé' Dio compagni eterni al miser uomo 


^^^H 


i morbi, il mal, le cure e le fatiche; 


^^H 


e l'u il furto punito e l'ardir domo. 


^^^H 


Onde, abbia quanto vuol le stelle amiche; 


^^^H 


bisogna ch'uom patisca in tutte etadi. 


^^H 


con Budor si pasca e si notriche. 


^^^1 


Esiodo, <)p. ci aia, vau., 1537, e. 21 a; • Xpj^eov iasv 


^^^^m ' Totttiv &71V xapTcòv B'&^eps Q^^'^'^po; éépoupa { A0to[/à-t71, ^| 


^^H 


V TS «RI a'^Sornv .. vihqilio, Georg.. I, 115-8: . Ante ^M 


^^^^ . Jovcm 


nulli subi);ebant urva coloni | ... ipsuque lelIuB | Omnia li- ^H 


W . berius 


nullo posoentp, forabut ». Otibio, MeL, 1, 101-2; « Ipsa qao- ^| 


■ . que in 


imunia nutroqne inlacta neo ullis | Saaoia vomerìbuL p« ^H 


m 1 Ee Jatat omnia telluB ., ^| 


^^^^ 16971 


Ricorda Umbro, oata., IV, 566 sgg. Siviera vale qui caiu- 


^^^H poinia, contrado. 


^^V 174-80 


Cfr. Escouo, op. et dlss, vv. 47 sgg., 90 sgg. 



POEMETTO 219 

Ma vi son poi la differenze e i gradi: 

cui più, cui men ne tocca; e tuttavia 

Bon color die n'han poco e poclii e radi. 
■Vuol Dio, die stato sotto il ciel non sia, 

ove uom s'acqueti, e men chi Ila miglior sorte; 

né senza affanno abbia uom quei che desia. 
Un saggio contadiu, venendo a morte, 

acciò che i figli ìd coltivar la terra 

s'esercitaESer dopo lui pili forte: 
n Figli, lor disse, io moro; et ho sotterra 

e ne la vigna il pili de' beni ascoso; 

né mi sovvien del cespo ove si serra »- 
Morto li padre, i fratei, senza riposo, 

a zappare, a vangar tutto il di vanno, 

ciascuno del tesoro desioso. 
La vigna s'avanzò dai prìmero anno, 

i giovanetti inteser «in diletto 

ilei provido vecchion l'util inganno. 
Aveva un uom ramano un poderetto, 

dal qual traea pili frutto, che dai grandi 

non traean quei da canto di rimpetto. 
Né basta a l'altrui invidia, ehe»dimandi; 

t Ond'è, che tanto renda il poder tuo, 

ch'è tal, che un manto il copre ohe vi spandi ? » 
Ma, accusando!, piti d'uno e più di duo 

dicean, che con incanti e con malie 

le biade altrui tirava al terren suo. 



190-301. È la nolisaimn ftvoletla asopiiuia rthìovi: v.tX llalSe^ 
iSJTOÙ (ed. Ilalm, Lipsia, Taubner, n." XCVIU). 
103-31. Plinio, HM. ìtal., XVIII, 8: « G. Furius Gresiniis, e itervi- 

• tul« litieratus, quiini !□ purvo admodum uj^llo Inrgiores multo 
" IVuetus pprciperét, quam ex ampliasi mis liciaitae, in invidia ma- 
■ gDft Brat, oeu fruges alienas pelliceret venellciiB. Quatnobrem, a 

• Sp, Alljino curnli die dicls, metneiia dainnntioneiu quum in aur- 
« fragio tribuB oporlerel vn, inatrumenlum omne in foro nltnlit, el 
« adduiit EuniliaiD Talidam, stque, ut ait Pìeo, l>ene eurattin ao ve- 



Il, PODERE 

Venne a gìudicLo il desLiaato ilie, 

elle si dovea por fina a le tenzoni, 

e seoppìr l'altrui vero e le bugie. 
Il buon uom, per dìTen^er sue ragioni, • 

al tribunal dai giudici pFudonlì 

non menò né dottori né patroni: 
recò tutti i suoi rustici eUiimenti, 

e tutti i ferri ond'ìl terren s'irapìag», 

ben l'atti e per lungo uso 'rilucenti; 
suoi grassi buoi, sua gente d'oprar vaga. 

< Questi, disse (gi.^ posti in lor presenza), 

Bon gli incantesmi miei, l'urte mia maga: 
le vigilie, il sudor, la diligenza 

trar qui non posso, come fo di questi; 

bencbi^ ile l'ana io mai non va<[a senza n. 
Subito, senza ilar luogo a pruteetì 

et a calunnie, o porvi indugio sopra, 

(iichiararon lui buono e quei scelesti: 
e la sentenza fu, che pili può l'opra 

nel terreo, che '1 dispendio cbe ivi fossi, 

B tanto vai poder, quanto uom v'adopra. 
D'oprar dunque in Eul campo uom mai non lassi, 

cb<5 il frutto è il ver tesor sotterra posto; 

non però tanto, cbe 'I dover trapassi. 
Terren fecondo per molt'opra e coatto 

sembra uom cìie ben guailagni e apenda largo, 

che al ùa più ila speso cbe non lia riposto. 
Qui bisogiian, direte, gli oceìii d'Argo, 

perché del tutto a tempo io mi ravegga; 

non già quando aro, o pianto, o il seme spargo. 



'' alìLam, rerramentn egregie facta, graves liganes. voiaeres pood»- 
" roaoB, bovas saturoa, Postea diiìt: « VoneSciii laen, Quiriles, iuta 
■■ 8un(; nec possum vobis osteadsro, aul in ftirum urlducera, luon~ 

• bi'aliones meaB, vigìliueque et sudores. Oiuniutu Epntentiis abMlu- 

• ttlB ilnL;[ue eel. Profeobo opera non impania cultum eonslDl •. 



POEMETTO 



221 



Or' io v'ìneagnerO, come si vegga 
la buona terra e come si conosca, 
e qua! per grano e qual p«r vin s'elegga. 

La miglior terra, che sia negra o fosca 
vogliono, o bigia: s 'n questo aTÌeti che s'erre: 
che ancor ne le lagune ella s'infosca- 

Conoscer solo ne' color le terre 
è proprio un giudicar gli uomioi al volto: 
non sempre al volto appar quel che '1 cor serro. 

yuel che importa è saper, s'è raro o folto 
il terren, grasso o magro, dolce o amaro, 
grave o leggier, pria che da noi sia tolto. 

Per farvi dnnque a certi indicii chiaro, 
qaal'ei bì sia, e quando è da sperarne 
che ubbidisca al villan, quantunque avaro; 

dirò qual prova voi potrete farne, 
e s'egli è pingue o secco, raro o spesso, 
salso soave, alta certezza trarne. 



341-3. ViBOiLlo, Omrg., Il, 236: • Nunc, ixuo quamquo 
« modo pOEsis cognoscere, rticam ». 
3445a. COLDHBLL*, c. Si 6-8» a: • Plurimos anliiiuoruin qui de 

■ rUHticia rebus gcrìpserunl memoria repeto, quasi ounfessa nec dii- 

• bia slgna pinguis ne tWimentoroni fertilìs agri prodidiBse, dulce- 

• dinem soli propriam herbarnm et arbomm proventiim nigrunt 

■ colorem vel clnerenin. De caeterìs ambìgo, de colore salis 

• ndmirepi non possum, cum alios, turn Gornelram Colaimi, ..„ eie 

■ et wnteQtia et visu deerrasse, ut oenlis eins tot palndei 

• oarapi salinarimi non oBcurrepent, qiiibuB fere contribniintuf prae- 

" dieti ooloTes Non ergo color tamquam certes auctor, testi» sai 

u bonltaliB arvorum ... Itaqiie eansìderandum erìt, ut solum qooi 
" exoolere destìnainus pìngue Bit: per ae tornea id parum esl^ eì 

■ duloedine earet >. 

253-70. VikOt loc, cit,: • Raro sit in aopta moreai si densa re^ii 
B ras, I Ante locum eapiea oeulia, alteipie iuliebis | In solido pttleimi 

• damitti, omnemquB reiioneB | Rorsue humnni, et pedibua aummaa 
« ae^oabis erenn!i: j 81 deerunt, rarum, pccorìque et vUìbna alioia | 
I Ai)titH ubor eri!, Sin in sua posse negabuul | ira loca, et ewobìbus 



IL PODERE 

Cavisi un pozzo, e dei terreno stessa ' 
OQde pria ai Totù poi si riempia, 
co ì pie da su bene adegnato e presso. 

Se'I terren manca, e che qual fu non v'empia 
d'esile e sciolto darà segno aperto 
a l'occhio ben accorto che '1 contempla: 

ma so, 'I fosso ripieno e ricoperto, 
fora n'avanza, che non possa accorlo, 
che denso e fertil sia, credete certo; 

e se 'I pozzo s'adegna a par de l' orlo, 
tié fuor cresce il terreo, aé dentro scenia, 
in grado di roezzan pofjote porlo. 

Bagnata gleba iiom con man tratti e prema: 
se invesca, e tra le dita ella s'attacca, 
di terra magra non abbiate tema; 

o s'avventata a terra non si fiacca, 
ma tutta insieme affissa ivi si resta, 
da vomer grave non satì mai stracca, 

l'er prova dei sapor, vii sacco o cesta 
s'empia di terra^ e là dove pili avversa 
ella vi pare et al fruttar men presta, 



• superabit terra repletis, | Spissus agsr, glebas cunotactis crase» 

■ qne terga | Exai.ecta et vniidis lerram prOsciii4e iuvetioia », Colo- 
MBLLA, loo. cit.; ■ Sed el sì velia scrobibus egeslam humum recon- 

• dere et reeaicore, cum aliquo quasi armento obiindaverit, csrtuia 
n erit esse eam pinguam, eum defoerit eiileio, oum ac^uaverit me- 

■ diocrem », Cl^. anclia Palladio, o, 238 b. 

371-6 Viro., loo. cil. (tv. 348-50): * Ploguis ilem quae *it lellus 

• boo denique paclo | Disiuiaua: haud iiiiquam manibus iactala fa- 

■ tiBcit, I Sed picis in morem ad digitoB ientaseit biilieiido ». Com- 
Mblla, loo, cit : « PerexiguB oonspergitur equa gleba luanuque «11^ 
- bigitur, ac, si glutinoBa sai. et ^uosia levisBÌmo loclu presaa ia- 

■ baereacit, et pids in morem ad aigitos lenuscit haì^endo, ut oit 
" VìrgiliuB ». Cfr, anche Palladio, loc ciU 

377-88, vibot loo. cit. (rv. 238-,t6)r • Sol» auWm lellus el qua» 

• pcphibeliir amara, t Frugibus infelii, on neo mìinflupecil arando, | 

■ N«c Baccbo geiius aut poraia sua noiuina eervat: | Tale dabìt ^9- 



POHMETTO 2 

a d'acqoa dolce ben <itt su cospersa, 
premasi il cesto o il Bacco, onile trapela . 
l'umor che t/ira a larghe goccie rersu : 

indi, purgato da stamigna o tela, 
in un vaso, qual vin, fatene il saggio, 
e il Bapor da la terra eì vi rivela. 

S'egli ha del dolce, può comprarla uom saggio, 
s'è amaro o salso, al buo signor potrete 
dir: « Frate, a Dio; che sete piti non aggio: 

cbé estinta m'ha questo lìquor la sete 
del poder vostro, cbe m'avea si acceso, 
qual fontana d'Ardenna o rio di Lete ». 

S'ella è grave o leggiera, al proprio peso 
conoscer potè aom che non sia cultore, 
che n'abbia alquanto in su la palma preso. 

Lieta terra si scopre anco a l'oclore, 
qualor si rompa, e il vento gli presti ala; 
ma che l'odor sia suo, non d'erba o flore, 

simJl a quel ch'ella ha, quaado il eoi cala 
là 've l'arco del ciel pon le sue corna, 
o che dopo gran secca molle esala, 



• cimQn: tu spisso viuiins iiualoe { Colaque prnelorum fumoais de- 
1 ripe tectla; | Quc ager ille oialus dulcesqus a ioatibìia uodae | Ad 
■ plenum calcenhir: agua eluctahìtur omnis | Scilicpt, et grandes 
- iiHiat per vìmina gullaa; | At sapor indicium (ioiet uianifastus, et 

• ora I TristLa tentaatiiim sensu lorquebit amaro ». Columbll*, loe. 
ciL: « Sapor» rfuo^ue aie dignoficemus, ai ss ea parte agri, quue 
'' maxime disphcebit, eSossae glebae el in dotili lase madefactoe 
' dulcì aqoB permlsceantur, ac more feculenti vini, diligeo- 

• ter colatae gusta eiplorentur. Nam qualem traditum ab eia re- 
« tulerit humor saporem, lalem e»se diceoius eius soli •■ Cfr. anclie 
Palladio, loc. eit. 

391. Ricorda ogauno, che delle favolose • due fontane » d'Ardanua, 
cantale dall' Ariosto [Ori. fw., i, 78), ■ d'amoroso disio l'una empie 

293-4. vina., loc, oit. (vv, 334-5): « Quao gravia est, ipso taoilam 

• se poudere prodil, | Qoaeqae levU ». 



^^^r 324 


IL PODERE 




quando cessa la pioggia, e il seren torna. 




Cobi sóle odorar nel novo golco 


^^^M 


terra molti anni il'ìilti bosclii adorna, 




poi che gli svelga et arse il buon bifolco. 




e 'n Jei fece col Tomero le piaghe. 


^^H 


che fe'Jasone ia sul terren di Colcoi 




e dove augelli e serpi e fiere vaghe 




avean lor case, or nuiio campo s'ara. 


^^^B 309 


perchi? il padron d'altro che d'ombre appaghe. 




Daran le terre et uve e biade a gara, 




sa ben partite elle saraa ti-a i dui. 


^^^^H 


la spessa a Cerere, a Lieo la rara. 




Ma tante prove i'iir sul campo altrui 




come sì può, ohe non sen rida, sdegni 


^^^V 


il suo Signore chi vi sta per lui? 




Vorreste dunque, ch'io vi dessi segni. 




che a torli l'occhio sol fosse bastante. 


^^H ]i8 


senza tanti strunamenti e tanti ingeguil 




Mirate l'erbe e l'arbori e lo piante, 




che per so stesse in quel terreo son nate, 


^^H )2i 


die altrui man le semini le piante^ 




ch'elle vi potran (lì^ la ventate, i^^ 




e, meglio assai die astrologo profeta, '^^^^H 


^^H 3^4 


promettervi abbondanza steriliate. ^^^^^^H 




Se l'erbe liete son, la terra è lieta; ^^^^H 




steril la terra, se sia arsiccia l'erba ^^^^^^| 


^^^1 


e scemo ciù cbe indi coglia mieta. ^^^^^| 




E se l'arbore è grossa, ampia e superba, ^^^^^| 




s' ba picciolo il tronco, i rami angusti, - ^^^^H 






^^^P ■ ^^^^H 




^m* . uiar 


Q Ihual, Hltern Bnofiho; | Densa magie Cereri, rarissimo quM- H 


W « iu* 


Lyaao». ■ 


^^^ 3t9-"4. Vamonb. c iS ft.' « .... Oune »il idonea terra Bd ooleodum ^| 


^^^L • ao I 


non, DiophaneE hiUiyniiis seribit sigua siimi posse aul ex ipra ^M 


^^^H • aut 


ei iU quaa natcnntur ai «a ». ^H 


^^^^V 335-7- Palladio, loc. uit. : • Quae protiilerit (gleba] neo Beabn hÌbI, ^| 




relorri<lB nec succi naluralm egentio feral >, ^H 



POEMETTO 

E quanto pili vao verso il eie) gli arbusti, 
pili vien gid l'uva amabile e benigna, 
e pili sinceri e generosi i mustl. 

[I calamo, il trifoglio e la gramigna, 
il giunco, il bulbo, il ruvo torren grasso 
mostrano, e pili da campo cbe Ha. vigna. 

Ove l'edera negra, il pecoio e '1 tasso 
appare, noa curate di tentarla ; 
cli'è terra n'elida, steril più che sasso. 

Terra simile a legno cbe sì tarla, 
noa pur che non vogliate io vi consiglio, 
ma cbe'l pie non ai degni di calcarla. 

Terren c'ha polve d'or, terren vermiglio, 
e gbiara e sabbia e creta e tufo e selce, 
non bisogna a scliifacgli altrui consiglio. 

Il mirto, il rosmarìn, l'ogliastro e l'elee 
mostran terra amicissima a l'ulivo; 
l'ebulo al pane; al buon liquor la felce. 



331-3. Ivi: ■ Vìiiois quoiiue utilem per liaec signa cogaoBces: ... si 

• virgulta qnne protulìt levia, nitiila, procera, fbecuada sunL ■. 
334-6. CoLDHBLLA, loc. ciL: • Milita sunl, quae dulcem tei'ram el 

• fmiaentÌE habilem signiflcenl, at iuncus, ut calamus, ni grainen, 

• ut trirolium, ebulum, rubi, pruni KilTsatrea et alia complura ». Pal- 
ladio, Idc. cit. : <• Quod frumentis dandis utile sìguum eat ebulum, 

• iuDcnrn, calamuiu, gramen, trifolium non macnim, rubos pingue», 

• prun* fiilvestria x. Le itampe U rusco (I); fmintendelido il ma., 

343-5, Palladio, loc. cit.: ■ Ne alba et nuda sit gleba, ne maoer 

• »abiilo sine adniistione terreni, ne creta sola, ne nrense s^uallan- 
« tes, ne ieiuna gUreu. ne aurosi piilreria Inpiiìosn mscìes, .... ne 

346*. vmoiLio, Geqrs., ft, 1S1-3, 188-91; ■ Palladia gaudent Silva 

• vivscis olìTBe: indicìo est tractu surgena oteasler endem | Fluri- 
' miiB, et Etroti haccis silTestrìbua agri, t — Ouique ^aantput] editua 
' austro I et Siicela curvia iovissm pascit sratris, { Ilio tibi praeva- 
« lidas oliiu umltonuB fluenfìB | Sufficiat aioolio vitis ole ». Per l'e- 
bulo, vedi lo noia al vv. 334-6. 



IL POllERE 

Ogni terren, quantuoque aspro e cattivo, 
è ad uso iiman, pur che ne! suo si fermi, 
e non si sforzi agli altri ond'egli è schivo. 

Cile pili ohe nudi scogli, arsicci et ermi? 
E capparo e bambagia vi si crea, 
questa a le donne, e quel caro agli inferuii. 

Uora ch'abbia vista la Pantalarea, 
Gom'io talor, gli ò forza che concluda, 
che terra non ba il mondo che sìa rea. 

Pietra cinta di mar, negra, arsa e nuda, 
dove non credo che mai piovi o Bocchi, 
e pur fa frutto, e quei secco osso suda! 

La miglior terra, che col pie si tocchi, 
non pur s'apra col ferro adunco e grave, 
qual sia dirò con note esposta agli occhi. 

Quella che esala sotti! nebbia e lieve, 
onde in sul gremlx) suo l'aria ne fama, 
e bee l'umore, e '1 caccia, qualor deve, 

ni la stata vion secca, ntì la bruma 
umida troppo, e di sua verde erbetta 
sempre si veste, come augel dì piuma, 

né di rugine salsa il ferro infetta; 
questa le viti liete agli olmi intesse, 
questa è fertil d'olive, questa alletta 



349-51. Cm.iiuiiLi,A, ed. cu , p. 74 b.' • ... in Bumma tamen flt eom- 

• pendiosum, quad duUus a^r aioe profecta colitur, simul Rtten- 
« landò possessor elHctt, ut in id foriuetiii' qaod maxime proSEtafe 

• poBsit >. E poco avanti Columella Ila ripetuto, in questo proposito, 
il Tirgiliano; « Ventoa et variura coeli prnediscore morem | Cura 
■ %H... I Et quid quneque forai regio e[ quid ijuaeque recuiiet ■, 

353-60, L'isola (li Pantelleria •) Pai)lsJeria (l'ani. Cosi/ra, dorè tOr 
toao relegata Giulia figlia d'Augusto e Ottavia figlia di MeasallU} 
non ha cbe 150 chilom. quadr. di superflcie, d'un suolo TulonnSeo; 
eppure produce viti, trutta, capperi e cotone. 

364-S4. TniRiLio, atóni., ir, 217-25; • Oune tenuera ethaiat adni- 
« Inra fiimogqne volucris, | VA biblt humorem, et, qtium volt, ex et 

• ipsa remiltit, j Quaeque su) viridi aemper se gramine veslìl, | Noe 



POEMETTO 227 

greggi et armenti et a lor fresche e spesse 
erbe ministra, e questa ai buon cultori 
375 egual al gran desio reca la messe. 

Tal solcan terra il più degli aratori 
sotto questo ciel nostro sì felice, 
378 ove son l'erbe eterne, eterni i fiori, 

ove Cerere e Bacco e Tinventrice 
de r ulive contendon di ricchezza, 
381 e dove è il paradiso, se dir lice; 

delizie di natura et allegrezza, 
di cui mai sempre il mondo in dubbio è stato, 
384 qual sia pili, la boutade la bellezza. 

Or entriamo a la villa a prender fiato; 
che lo star fora e volger pietre e zolle 
387 v'ha forsi oltre misura afifatigato, 

e già vi vedo ormai di sudor molle. 



« scabie et salsa laedit robigine ferrum, | Illa tibi laetis intexet vi- 
« tibus ulmos, I Illa ferax oleo est, illam experiere colendo | Et faci- 
« lem pecori et patientem vomeris unci. | Talem dives arat Gapua, et 
« vicina Vesevo I Ora iugo, et vacuis Glanius non aequus Acerris ». 
385-8. Questa, e la chiusa del capitolo precedente, ricordan gli ul- 
« timi due versi del II delle Georgixshe: « Sed nos immensum spa- 
« tiis confecimus aequor, i Et iam tempus equum fumantia solvere 
« colla ». 



II. PODERE 



Basti ch'abbiam finor corso le terre: 
benché a cercar gran parte sia rimasa, 
tempo è cii'uotn ilentro si raccoglia e serre; 

e, veduto il terren, veggiam fa casa, 
la dove si ristora ogni fatica, 
e 6Ì ripongon frutti, ordigni e vasa. 

Del sito poco avanza eli' io vi dica: 
ne dissi su, quando parlai de l'aria 
ond'uom continuamente si notrìca. 

Sieda la villa in molte parti varia; 
imiti l'edificio il corpo umano, 
che, qaal negli usi, tal ne' membri varia. 
. Sieda alta alquanto, et abbia inanKi il piano; 
e, per piti maiestade e per ptiì pregio, 
gli arbusti e i cólti tengasi per mano. 

S'avrà dinanzi a l'uscio camìn regio, 
o via elle iutorno intorno la ingliirlanile, 
Ha come a donna bella un giunger fregio. 

E benché vo?!ia autor famoso e grande, 
ohe da publica strada ella si scosti, 
io lìesio che la cinga a tutte bande; 



13. Palladio, ed, cit, n. 140 h; • Jpgius aulem praatoi'ii sltiis sU 

• tooo aliquateiius ereotiore >. 

15. Cioè abbin Ticini. Arbitrari ameule l'eil. Masi corregge qui len- 

ifr-iS. atr. la nota ai tv. ioo->S del enp. L Le stampe glilrlait^; 
ma questo Terlio aoa si trova usato ctie Delta eola forma ilei ptni- 
cipio. Accogiiscno la lezione offertaci dal ms. 

i(^(. Questo auurr fumoio t i/ranOe i Columella; 11 quale «Mtce 
le. 75 fi): •■ Nec paludem quiilem ticinam esse 0))orlet aedifleiia, aec 

• iUQctam militarcm viam: quod ills c«laribua HAiium vira* 
■ emctat etc.; haec nnlem praetereiinlium vistorum populaUonilnia 
< et asBiiluis diverteutium hospitiis infeatut rem fainìliarem *. 



POEMETTO 

ancor che, tanto o qaaulo, piU vi costj 
l'aver talor de' forastieri in villa: 
tengan gli avari i beni lor riposti! 

E mi para ana TÌta assai tranquilla, 
ch'uom non possa di passo a lite trarvi, 
o di terra, o di siepe che partilla. 

R se volato a villa ricovrarvi, 
vi bisognan degli a^i e de'diporti; 
cli'a le donne non sìa duro Io starvi. 

Voi non sete de' padri e de* consorti 
alle Temine loro aspri e selvaggi, 
ma de' gentili e nati ne la corti: 

sete com'esser den gli uomini saggi, 
da cui s'acquista onor, util s'accresce, 
e nò a strani nò a suoi si fanno oltraggi. 

Non imitate alcun cai non lucresce, 
pur ch'ei sì goda, ch'altri pianga e crepi: 
lascia in prjgion le donne, e di casa esce. 

Non son le donne bestie da presepi! 
Bisogna che piacer lor si procuri, 
ch'altro vedan talor, ch'arbori e siepi. 

Ultra che fa.a pili onesti e pili securl 
gli alberghi vie di passo inanzi o a canto, 
fanno anco i giorni men noiosi e duri. 

S'appresso avrft qualche magion di santo, 
ove ir possiate, almen le feste, a messa, 
vi dico ch'ella vai quasi altretanto. 



96, IH poiso, cioè per cagiona di diritta dì pisEo. 

38-30. CoLUMKLLA, e. 74 6; « lucuadìus uliquB viro, 
• Erona camitobitur; cuius ni sesiia ita animus eal de 
< mobrem Bmoenilabi Riigua ilcnierenila erìt, quo pati») 



34. O, T&HiilONT-TozzsTTi, nella sua bella Anlologja dglla ptxila 
Uaitana, annota a questo verEo: • {Siete,] antica loce imperat. pei' 
■ siale: l'usarono anche il Sacclietti e il Pulci ■. Non niì pare: qui 
sUU è ami, regolarmente, un indioaitivo, e sì contiappone al *oii 
sute della terzina che precede. 



IL PODERE 

E B'è tal, eh' a' BUOI d 
e vi si dà battesmo e tal or cresma, 
e QQ tesoro, Doa ricchezza espressa; 

che potrete abitarvi e di quaresma 
e d'ogni tempo, e voi e la famiglia, 
me' che ee fosse la città medesma. 

In villa al gran dispendio si pon brìglia: 
il pid de l'ore in opra si dispensa, 
e pochissima noia vi 9i piglia. 

Poco mal vi si fu, men vi si pensa; 
e se ha ne le città pii'i 
hanno anco di perigli copia ì 

Cercan gii uomini d'oggi il passar tempi; 
et io, che son d'opinion diversa, 
vorrei cosa che fosse arresta tempi. 

L'ambizione al viver santo avversa, 
che '1 più de' nostri di fa men sereni, 
in villa raro alberga nd conversa. 

Oh troppo fortunati, se i lor beni 
conoscesser, color che si stan fora, 
tra cólti poggi e valli e campi ameni! 

Cui dà benigna terra, d'ora in ora, 
quel elle altrui fa bisogno, agevolmente, 
né suon di tromba i volti ivi scolora: 

e se non han gli ìncliini de la gente, 
uè men han chi li turba e chi gli sooote 
dal riposo del corpo e de la mente. 

Oh felice colui che intender potè 
le cagion de le cose di natura, 
che al pili di qiie'cha vivon sono ignote. 



66. Oormo'sa, cioè eogglorns. 

67-87, ViKoiLio, Georg., II, 45S-67: • O forCuuatQS nimium, sussi 

■ bona Dorint, | Agricolas, quibus ipsa, proont discordìbUB RRniB | 
• PuDdit humo racilem victum luBtiBsimn tellus! j Si rdd ingentem 

■ foribus domus alla «nperbis | Mane «alulantutn Ioli; vomit eedi- 

■ bua undam | „.. At seoura qnies et noacia fallerà vila eia. ». IW, 
*v- 49*3: ■ Felli, qui iiotuit rerum cognoecero oausas, | Atqna in»- 



POEMETTO 23 1 

6 sotto '1 pie 8i mette ogni paura 
de' fati e de la morte, eh' è si trista, 
&i né di volgo li cai, né d'altro ha cura! 

Ma pili felice chi, del mondo vista 
la parte sua, non vi s'appoggia sovra, 
84 aitato dal saper ch'indi s'acquista; 

ma in villa eh' è sua tutta si ricovra, 
e degli anni e dei di e' ha spesi indarno 
87 a se stesso et a Dio parte ricovra. 

Cosi potess' io, tra Sebeto e Sarno, 
menar ornai la vita che m' avanza 
90 con le ninfe del Tevere e de l'Arno, 

da le quai fei si lunga lontananza; 
e, de' signor sgannato di qua giuso, 
93 fondar nel Re del Cielo ogni speranza! 

Deh, sarà mai, pria che giù cada il fuso 
degli anni miei, che a' pie d' una montagna 
96 mi stia, tra cólti et arbori rinchiuso; 

e con la mia dolcissima compagna, 
qual Adamo al buon tempo in paradiso, 
99 mi goda l'umil tetto e la campagna, 

or seco a l'ombra, or sovra il prato assiso, 
or a diporto in questa e'n quella parte, 
102 temprando ogni mia cura col suo viso? 

E ponga in opra quel e' han posto in carte 
Cato e Virgilio e Plinio e Columella, 
105 e gli altri che insegnar si nobil arte; 

e di mia mano innesti, e pianti, e svella 
la spessa de' rampolli inutil prole, 
108 che fan la madre lor venir men bella; 



« tus omnis et inexorabile fatum | Subiecit pedibus strepitumque 
« Acherontis avari ! Fortunatus et ille, deos qui novit agrestes! etc. ». 

85. Orazio, epodo II: « Bea tus ille, qui ... | Paterna rura bobus 
« exercet suis ». 

102. Petr., Tr, d. MorLCy II, 90: « Ma temprai la tua fiamma col 
« mio viso » (parole di Laura al poeta). 

106-8. Orazio, nell'epodo cit.: « Inutilesve falce ramos amputans | 
« Feliciores inserit ». 



IL PODERE 

e con le care figlia, e, se'l Ctel vole, 
spero coi ijgli, a tavola m'assida, 
la state ai luoghi treEchì, il verao al sole; 

e di mìa man tira lor parta s divida 
l'uve e le poma; e, s'io mi desti o cerche, 
con loro io mi trastulli, e eoherzi, e rida? 

Boccile mi paian di balene e d'orche 
le porte de' palagi, e le colonne 
e le loggia rea! talami e forche; 

e 'l Vasto e quattro o cinque illustri donne 
ad inchinar talor sol mi riserbe, 
cui servo in chiare et in oscure gonne? 

I pavimenti miei sian fiori et erbe, 

rami i tetti, e negre elei i marmi bianchi, 
e botti l'arche ove il tesoro io serbe; 

né curi ire a palazzo o star a' banchi, 
e dimandar che faccian Turchi o Galli, 
se arman di uovo, o s'ambiduo son stanchi? 

Non sia obligato a suono di metalli 
giorno e notte seguir picclol zendado, 
forbir arme e notrir servi e cavalli; 

e, qaal si sìa, contento del mio grado, 
non cerchi di chi scende o di chi poggia, 
che altri m'abbia in odio o li sia a gnidofJ 

e quando i di son freddi o versau pioggia, 
con la penna io, la femine con l'ago, 
passiam quelle ore in cameretta o in loggia? 



109-14. Idillico qundretlo, forse non senio un ricordo del virgl- 
linno: • Inleren diilcsa pendant circuoi oscula nati j Casta pndici- 
« tiom servai domiis .... » (loe. eil„ w. 523-4I, nonché de' noli versi 
dell'epodo d' Orazio: • Quodsi pudica niulier io parteiQ iuvet | Do- 

• mam atqne dulcps lìberos, | ... Et borna dulcì rìaa promeos dolio | 
< Dopes inemptas adpavet, ] Non me lucrina iuverìot concliylitt etc. *. 

117. Talami, cioè palchi ad uso di patibolo, Cfr. D'Ancona, OM- 
B(n(*, 1, igi n. 

lai-a. RerainisceQM, paFini, oraiiaila: ■ Li bet lacere modo sllh nn- 

• tiqua ilice, 1 Modo in lenacl eramine i> (ep. cit,). 

118. ZtnSado, cioè drappo o insegna. 



POEMETTO 23 

Sa mai vi giungo, e" mi parrà, già pago, 
cli'ubbia negli arbor miei maggior tesoro, 
che non avean quei che guariiava il iìra,i;o\ 

Non aresea altro bene, altro rietoro, 
che Bcostar l'uom da la città corrotta, 
comprar si de' la villa a peso d'oro. 

Mi meraviglio (a tal redo ridotta 
ia Tara turba che qui dentro alber;;»), 
come il terren non s'apra, e non ne inghìolta, 

o come il mar tanto alto un di non s'erga, 
che avanzi questi monti, e 'n noi s'attuffe, 
e 'n un punto ne affoghi e ne sommerga. 

La poca fé, le rubberie, le truffe, 
la proprie utilità, l'altrui gravezze, 
le tante uccision, le tante zuffe; 

la pompe, le lascivie, le mollezze 
non men ne le berette cbe ne' veli, 
le bestemmie, il mal diro e le alterezze, 

e l'altre scaleragini crudeli, 
il cui lezKO Ih ea credo che saglia, 
non so come Eioffrir possano i cieli. 

Ma, quando d'altrui vizi! a voi non caglia, 
per l'uggir molte cosa via men gravi, 
stimo la villa ogni alto pregio vaglia: 

I' urtar ile' giovanetti e cavai bravi, 
l'accompagnar signori, il seguir cocchio, 
il far noi stessi in mille guise schiavi, 

il visitar sovente, il gip con occhio, 
com'uotn ch'abbia nemici e questi e quelli, 
or salutar col capo or col ginocchio, 

il veder tanti e tanti (lottoreìli, 
c'han si contrari al titolo gli aspetti, 
che farian noia a statua il vedelii. 



138. Cioè gli alberi carichi de' famosi potfii del 
155. ■ eira Dio ne venga il lezzo >, termina 1 
dal patrapoa. 
160. Bravi, cioè indomiti. 



IL PODERE 

Vedo ir con toga mille garzonettl 
degni ancora di bulla e dì pretesta; 
a maestri degli altri vengoD detti ! 

Legge farebbe il re bella et onesta, 
se'l termine negli anni statuisGe 
al tor di grado et al cangiar di vesta: 

senza cagion dal Tosco non sì disse, 
per mostrar che'! saver venga co! tempo: 
" Nestor, che tanto seppe, e tanto vìsae ". 

Uom che, qual voi, sappia partirsi il tempo, 
dico e' ha in villa ognor mille sollaMi. 
Ma fabrlchiamla omai, ch'egli è ben tempo. 

!o non to', che le ville EÌan palazzi 
che ingofflbrin molto, e chi vi vien che veda 
terren dove man s'ari che si spazzi. 

Quanto in grandezza pìd la c-asa ecceda, 
pìit vi dfi costo, e pili men vostra faese; 
ch'or -questi or quegli avien che la vi chieda. 

Salvo so tor palagio v'agradasse, 
perché talvolta, e veramente il penso, 
l'alta donna del Vasto ivi albergasse. 

S'egli è ci6, che sia regia io do il consenso; 
che '1 mal ch'un solo ìncomod ov'adduca 
col ben di mille glorie ricompenso: 

ch'avervi e lei e 1 suoi e '1 voBtro Duca, 



aeiliOcee, ne villa funduiii quaeral. 



177. PBTti„ Ti: 4. Fornii, 
181-3. Catonk, c. I 0; • 

• neve ninduB TÌIIam >. 
184-6. Vabbohe, c. 39 a: * Maiora tecta e\, aediflcnnius pluria et 

> tnantur auiuptu niniorB r. coliimblliV, c. 74 b: * CiffuBiors enim 

* coDEepta non solum pluria aediUcamiis, sed Ptiam impensia mBÌci- 

i8g. Maria d'Aragona, vedora di Alfonso d'Avalun, Marchese del 
Vasto; Bulla ijuola cfr. Volpickll», Oojjjj. del T,, pp. 278-9; Fioren- 
tino, prefa*. nllo JAiHche dui T.. pp, XLIV e sgg. 

193. Il Dmc« è, senza dubbio, Alfonso piccolomini, a' rui serrili 
troTava«I il Venere, e clie aveva in moglie la cognata della Marcbesa 
del Vasto. 



POEMETTO : 

elle 'I terren vostro a par dei ciel rilnca. 

Qiial da il piacer, sinora già '1 contempio, 
veder correre il mondo, o caldo o gelo, 
a casa vostra, come a Baerò tempio. 

E s' Ischia un tempo a Samo, a Greti, a Delo 
fece invidia et a. Cipro et a Citerà, 
la vostra villa or fera invidia ai Cielo. 

Oltre il diporto che da voi si spera, 
ella fera con gii occhi, a mezzo 1! verno, 
nel poder vostro autunno e primavera. 

Né sìa tanto il terren, ch'ai suo governo 
non agginngan le forze dì chi '1 prende, 
onde il vicin ne rida, e l'abbia a scherno: 

poca terra e ben cólta, assai piU rende, 
che molta e mal trattata; onde itom devria 
tor men di quei che '1 braccio suo si stende. 

Benché alcun voglia, che la villa, o sia 



199.301. si sa, che la Marchesa del Vasto passò lunglii onnì nel 
castello d'IacMs, sotto lo vi^le cualodia di Coataaza d'Avalus, prin- 
cipessa di Franoavilla. Perciò Bernardino Martirano, aeìl' Ai'etìtta, 
proclamava Ischia ■ .... più chiara, più famosa e adgrna | Di quante 
« isole il mar circonda a lata » (Storne di diversi, U, 31]. 

303-4- Maria d'Aragona si conservò avvenente fino agli ultimi anni 
di sua viia. Nel 1565, più che sessantenne, pareva al sigTlor di Brnn- 
tCme • ancore su9bì hsUe qn'elle eust bien folt commettre un péché 
■ morto], ou da fait au da volonlé ni 

305-10. CoLTTMELLA, c. 74 a: <c .... Praeolara nostri pootae [Viro,, 
« Qeorg., n. 413-3] sententia: « Laudato ingentìa rara, | Giigunm co- 

• Ilio >. Quoil vir eruditiBBimns (ut mea Cert opinio) tradilum retus 

• praeceplum nnmeris mgnavlt, trippe acutissimani gentem Poenos 
•I diiisGH convenit: ìmheci Ilio rem agrum (piam agricolam esse de- 
' bere; quoniam cum sit collii ctandum cum eo, si fUndua praeva* 

• leat, allidi domìnum. Nec duhiuni, C[ujn mìnus reddat laius ager 

• non recte cullus, iiuam angustus eiimte etc. •. 

311-3. S^ il precetto catoniano: «= in meridiani spectel n, ripetuto 
anche da vabhone (o. 37 a). Ma Palladio (c. 340 6) la pensa come 
il T.: ■ In ft-igìdia provineiiE orienti aut meridiano lateri ager esse 



2J6 



IL PODERE 

in calda parte o in fredita, o in ertao in piai 
il volto SEposta al rueeiodi si etia; 

do' luoghi caldi, io vo'clie a tramootana 
guardi, e ne' tvetldi a l'austro, e ne' temprati 
là ond'esce il marzo, dicon, la Diana. 

Sia grande pur, si che vi stiano agiati 
il villico, il signor e gli animali, 
gli ordigni cliiusi e i l'ruttl conservati: 

elio se fan danno ì tetti ampi e reali, 
qualor la villa di strettazui pecchi, 
porta ancor degli incomodi e de' mali; 

che avien, che '1 fi-utto o inlracìdisca o secchi, 
s'è mal riposto, o che l'un l'altro s'urti, 
che verme sei roda, o ucel ael becchi; 

e rado glungon dal di lungo ai curtì 
le faticlie degli uomini e de' buoi, 
e spesso incontran la rapine e i furti. 

E, se non ha l'albergo i membri suoi, 
comprate pur, se '1 loco non è angusto, 
si che possiate fabrieapci voi, 

e fìtrvi de le stanze a vostro gusto, 
or una or altra agli uȓ accomodata, 
quftl di decembre buona e qoal d'aglisto. 

L'aver villa ben concia e ben ornata, 
ove per poca agevol via si monte, 
fa che sia dal signor pili fre(iuentata ; 



para potiiia seplamlrionU op- 



< debel oppusìlua; .... in calidis v 

■ tenia est *. 

sij-lS. CoLOUELLA, 0. 74 ().' • Miuora cum sunt [consepta], quaoi 

• postulali fundus, dilabitur fruatue; nani al liumiUae rea eL siecae 
K <iuas terra progeaerat facile viUaalur, si aul nua auut, aul pro' 

• pter anguslias iDcammoda sunt, tecta quibus inferaatur •- 
32g-ìi, COLUMELLA, c. 76 Q.' <• ModuB membrorumque numerus ap- 

■ tetnr universo conaepto etc. ». P4m.Dig, e =41 o- Form» tamen 

■ debet esse eiuBiuodi, ul ad habitaCioaeiu breviler coUaolus et ae- 

■ staU et hyewi pcaebeat maiieionea •. 

nSrS. Cb.ìl gi& citata poasQ di Coi.nMiiu,A, ove moalTA ■ (Dultnv 



POEMETTO 23 

che ogni giorno ri Tods, ognor vi smonte: 
e del patron le giova e giorno e notte, 
via pili che la collottola la fronte. 

Sianvi sue volte, ove s'arrlnghin botte, 
e pili del vino che 'I poder produce; 
e pili m'a^raderiaii, se fossen (.'rotte. 

11 vento, l'uman pie, l'aria e la luce 
enfrin per borea; e'I meit che può le gtiarde, 
non che scaldi, i! pianeta che'l di luce. 

SUnza non vi s'appressi ove foco anie, 
o che sporcizie accoglie o fuor le scaccia; 
e se vi sia, l'emenda non si tarde. 

La corte epaziosa; ma non giaccia 
SI, ch'entro e fuor s'allaghi al tempo pluvio, 
fango eterno aria mortai vi faccia. 

Sia larga assai, né curi di Vitruvio; 
acciò che dentro pili animali accolga, 
che non ne salvò l'arca del diluvio. 

Qui si veda il pavon, che in giro sciolga 
sue vaghe gemme, e spregi ogni oltfo augello, 
a, guardandosi il pie, talor si dolga; 



• conferro agrìB iler Eommodum; priraum, quod est maiimum, ìp- 

■ Barn praesentiaQL domini, qui libeotiun comineQtnms sìt eie. >. 
139-40, Vahbone, c, 335 a: « Praesenliii domini proveclus est agri ■. 
341-9, CoLlTMELLA, c. 76 b .* • OranBrU „„ modlcis fpnestellis aquilo- 

K nibua inspirentur; nam en coeli positio maiinie frigida el minime 

■ humida est ..„ Eadem ratio sbI vinariae eallns; quae aum- 

• mola prooul ease debet a balceJBj fumo, iterquilinio, reliiiniaiiue 
. immundiciia lebMini odorem apìrantibua sto. •■ Palladio, c. 343 6; 
' Caellam vinariam septeatriooi dehamus hab^re oppoaitam, frìgi- 
K dam vel obscuras proiimam, longe a balneìa. slabulis, rumo, sler- 

■ quilinììs, ciBl«rQÌE, aquis et caeteris odoris borrendi ■. 

341, S'arrtìtahino, oiod al Bchierlno a mo'di soldati nell'airiiigo. 

153-5 sgg. Che sia spaziosa la corlie, ammonisce anche TAitnoNit 
(e. 39 0), il qu.ile ami nei poderi grandi ne vuol due; « boves anim, 
« Bi arro aestaie reduoti, hic bibnul, bic parfunduotur, nae minua, 

• a pabulo dmn redierunl, anseres, suas, porci *. Palladio, 0. 343 ,■ 
a Cora ad meridiem pateat, .... propter ea c[uae insunt animaGa etc. >. 



IL PODERE 

e'I pavon d'India, peregrin novello, 
angel, se ben non ha si nobii coda, 
non men buon, morto, cbe quel, vìvo, bello. 

Ivi di di e di notte il rumor s'oda 
de le torme de l'anntre e de l'oche, 
guardia fedel contro a notturna froda; 

e stridoli polcini e chioccie roche, 
e galline straniere e. del paese 
(molte di queste, ma di quella poc&e) 

v'abbian lot> piazza, ove di mese in mese 
sul Tìvacciaio, sul polvere e su l'aia 
si trovln da beccar senza altrui spese: 

e'I bue che steso muggia, e') can che abbaia 
le Dotti, e'I gallo ch'ai 'villan dà legge, 
una armonia dolcissima vi paia; 

e serrar vi si possa armento e gregge 
ad un bisogno, s'Aquilon protervo 
fa ohe di neve il monte e '1 pian bianchegge. 

Qui cavriuol domestico, li cervo 
cui sonante monile il collo attorca, 
or coi (hnciulli scherzi et or co! servo; 

e si veda la grassa e stanca porca 
con pili figli attaccati a le sue poppe, 
ch'or sul letame or sul terren si corca; 

e'I fico e'I pero che Austro o Borea roppe, _^ 
da rozza man cavati in varie foggìe, 
sìau di questi animai l'urne e le coppe. 

Abbia il cortile sue capanna e loggte, 
die i maggior lagni, scale, aratri e caiTt 
riparino dal caldo s da le pioggle; 



^5. Le stampe slrtdiiu puleinL 

373. Da legge, cioè norma, reggia, ool a 

2S6-8. VaBBONB, c. 29 ft; « Faciunduni e 

• InstrumeQto omnl, quibus caelum pluvi 

• satis mngnn sinl lecla >, 



:aDta malliilmo. 
I, plauBlTJK uc caelert) 1 
1, in aorte vt 



POEMETIO 

e l'aia dentro, acciò clie 'i grano e 't farro 
si scoiati da le paglie, e fuor non trove 
(ia involar il villan ladro bizarro; 

et ampi tini e laghi a tetto, dove 
l'uva si prema, e, se gran sol l'aggiunge, 
noQ arroghi, o marcisca qualor piove. 

Il granaio da l'aia non sia lunge, 
né lial tia lunge la cantina voglio: 
buono architetto sempre li congiunge. 

Siavi foco da farsi e servarsi oglio, 
da quei diverso che del via già dico: 
sia, s'esser può, sotto alcun tufo o scoglio, 

esposto, acciò che sia caldo et aprico 
senza accendervi foco, al metzo giorno; 
perché '1 fumo è de l'olio gran nemico. 

Ampia sia la cecina et ampio il forno; 
che pascan molti, e, le sere aspre e gravi, 
il rozzo stuol seder vi possa attorno; 

a volta, non a tetto, ancor che gravi; 
che non teman dì pioggia che li bagno, 
né di favilla che s'attacchi a' travi. 



289.91. pAi.t*.Dio, e. 248 a: ' Area longe n villn ssso non debet, et 
1 prapter eiporlanili facilitalem et ut fmiia minor timeatur, damini 
« vel procuratorìs vloìnitste auspecta >. Lo stesso coneìglìa Cotu- 
natLi* (e. 77 o). Altri precetti, riguardo all'aia ■ ubi triturus bìb fru- 
ii mentiim ■. dà Vakhonb. — BUarro 5ui BignificB <le»lro, iagegnoBo. 

=98-303. Palladio, c. 343 b: « Olearis cella meridianis sit obiecla 
« partibns et cantra frigua omnito, ut illi per specularla delwot lu- 
« men admitti .... Purus color olei eellom aine fumi nidore Topora- 
• bit, quo aaepe infectum colora oorrumpitur et sapore ». Non diver- 



fl Coi.u 



a). 



304-9. CciLniJBi.t.A, e. 76 a.- ■ In rustica parte magna et alta cu- 

* lina iK>netur, ut et contlgnatlo caraat incendi! periculo, et in ea 
■ eomiQDiie familiarea omoi tempora anni morsri ipieant ». V*iaso- 
NE, e. 29 B,* • Famili» ubi vargetur providendum, si fesei opero Tel 

• frigore aul calore, ubi commodisaime posEÌnt sese quieti recìpere ■, 
— Le stampe nidna. 



IL PODEUE 

Goda la villa i monti e l6 campagne, 
e parimente il mare e la riviera, 
se ben non ode quando freme e piagne. 

Sia fabricata e sieda in tal maniera, 
ch'abbia di verno il sol, di state l'oiobre 
il pili del di, se non da mane a sera. 

Muro non tema incontro, che l'adombre; 
e siavi giardin publico e secreto, 
ove uom talor sue Rravi cure sgombre, 

e, benché angusti, vigna, orto, oliveto 
e prato; a vi desio qualche aelvetta, 
che faccia il loco via pid fresco e Dato. 

Se selva avrà, che ferro ivi si metta 
non ho timor, che pie le tronchi o chioma; 
tanto il veder di selva a voi diletta. 

Cile fatel' Oimè, sin di qaa veggo, come 
vi siete tutto scolorato in volto 
in udir solo do la selva ìl nome! 

Vedo il pallor ohe ìp riso s'è rivolto, 
e vi R firn vermiglie ambo le guancìe, 
come nom ch'in fallo a l'improviso à colto. 

Soffrite ch'io con voi mi rìda e ciancie. 
Farmi d'udir, che voi tra' denti dite: 
« Le mie piacesse a Dio che fosser ciance! >. 

Et io vi dico: Fratel mio, segciite, 
seguite Amor, che, se ben v'arde e sface, 
men noia è 11 far l'amor che l'aver lite; 

seguite pur Amor, quanto vi piace, 
che sembra un'almo, dove Amor non stanne, 
casa di notte senza foco o face! 



310-a. Dopo 3Ter d«lto, ohe per la villo ' est medii collii opliina 
■ poiitio », » oocennoto aironqu» jou salubre, Columeij.a (0. 75 B) 
Bfiggiunge; • Eademque fvUla\ seoiper maro recW coospieil, cum 
• piilintitr PC fluatu rcapor^lnr, niuuiiiBin ei ripa, sei [viiilluin Bun- 
« mot* a liloro ■. 

327. Cioè dellu selva d'Amore. Cfr. il 1. 360. 



POEMETTO 241 

E un di vi mostrerò certe mie Stanze, 
là dov' io provo a pien, eh' un cor gentile 
342 più deve amar, com'più in età s'avanze. 

Agli ippocriti falsi, al vulgo vile 
' lasciate questi scrupoli di fama, 
345 e voi seguite il vostro antico stile: 

vergognisi d*Amor chi vilmente ama, 
et arde e langue di lascivo amore; 
348 non chi sol gloria a la sua donna brama. 

Oltre eh* a sempre amar v'inclina il core, 
tutte le leggi voglion ch'esser deggia 
351 tale il buon cortigian, qoàl'è il signore; 

e s'anzi il di la barba vi biancheggia, 
basti che '1 corpo ha le sue usate tempre, 
354 e morbida è la guancia, e vi rosseggia. 

Ardete, e'I vostro arder mai non si tempre; 
ché'l nome suo, che Venere a voi diede, 
357 di ragion vi condanna ad amar sempre. 

Poi che, parlando, ch'uom non se n'avvede, 
dove a la villa io mi credea d'andarne, 
360 a la selva d'Amor portonne il piede, 

qui già tanti anni avezzo di portarne; 
qui vo'che si finisca il camin nostro, 
363 che in miglior parte uom non potria lasciarne. 

Qual il poder si compri, io v' ho già mostro 
a consiglio d'antichi e di moderni, 
366 perché sia buono e degno d'esser vostro. 

Se gli affanni domestici gli esterni 
non m' impediscon, forse, un di' di questi, 
369 dirò come si tratti e si governi. 



345. Petr, I, sest. i: «Muti una volta quel suo antico stile ». 

348. In questo verso compendiasi la teorica amorosa, ispirata al 
più schietto platonismo, del Tansillo, e non del Tansillo soltanto. 

360. Ricorda ognuno la myrtea Silva degli amanti virgiliana (£>i., 
VI, 442 sgg.), il « bel bosco » cantato dal Petrarca (I, sest. 6), ecc. 

31 



\ 



242 IL PODERE 

Intanto io pregherò, ch'ella vi presti 
il suo favor Fortuna nel comprarlo, 
372 si che da desiar nulla vi resti: 

né pur vengan sovente ad onorarlo 
Flora e Pomona e Cerere e Leneo, 
375 ma non possan mai punto abbandonarlo; 

e quanto scrisse il Mantova n, TAscreo, 
il Greco e'I Moro e chi'n sul Tebro nacque, 
378 di buon vi venga, e fuggane di reo; 

e piaccia sempre a voi più che non piacque, 
et al produrre et al servar de' frutti 
381 propizie egli abbia le stagioni e Tacque, 

l'aure e le stelle* e gli elementi tutti. 



374. I^neo, cognome di Bacco. 

377. Intendi, per sineddoche, gli scriptores de re rustica greci, 
cartaginesi (come Magone e gli altri ricordati da Columella, I, i) 
e romani. 



LA BALIA 



POEMEITO 



LA BALIA 



POEMETTO 



Capitolo Primq. 

Donne ben nate, i cui bei colli preme 
quel santissimo giogo d'Imeneo, 
3 onde buon frutto spera ogni uman seme ; 

se già mai voce io desiai d'Orfeo, 
come uom che in cor di fera pietà brami, 
6 mentre prigion di donna Amor mi feo; 

oggi, bench'io sia fuor di quei legami, 
pili che mai desiarla mi bisogna, 
9 ch'esser, donne, non pu6 ch'io pur non ami. 

Amo, ma d*uno amor che non agogna 
cosa di reo, né m'arde di desio 
12 che porti pentimento qó vergogna. 

D'Orfeo vorrei che fusse ora» il dir mio, 
non perché l'alma oppressa sì rileve, 
15 ma per darvi a veder quel cU'io desio. 

Pur, se'l vero ha la forza ch'aver deve 
negli animi gentili come'l vostro, 
18 darlo a creder a voi mi sarà lieve. 

Né per desio d'onor verso l'inchiostro; 
ma per un zelo santo e naturale, 
21 che mi move a pietà de l'error nostro. 



1012» Vedi più sopra i vv. 337-48 deirultimo capitolo del Podere. 



^^^H 


LA BALIA 


^^H 


E so, che l'emendar d'un si gran male. 


^^^B 


donne, è in mano a voi, qualor vogliate, 


^^^H 


80 d'adoprar virtd punto vi cale. 


^^^H 


Vero è, che questo error fu in ogni etate; 


^^^H 


ma in nessuna già mai quanto ora in questa: 


^^^H 


onde maggior ne nasce la pietate. 


^^^H 


Qoa! furia de l'inferno a l'uom piii infesu 


^^^^L 


addusse al mondo e tanto crescer fece 


^^^^fe 


usanza cosi fera e disonesta: 


^^^^H 


che porti donna nove mesi di eco 


^^^^F 


in ventre il parto, e, poi che a luce è tratto, 


^^^V 


lo schifi, et altra prendalo in sua vece» 


^^^H 


Quando io penso a si crudo, orribile atto, 


^^^H 


e ella da' pili miglior più s'abliia in uso, 


^^m 


ne son per divenir rabbioso matto! 




Che, menti'a ella nel corpo tenea chiuso 


^^^H 


un non so che, che non vedea s'egli era 


^^^1 }9 


umor corrotto vento ivi rinchiuso. 




mola Informe, 0, come dicon, fera 


^^^H 


die talor sembri pipistrello od angue, 


^^^H 


e toccando il terren, !a donna pera. 


^^^H 


ella il nudfisce del suo proprio sangue. 


^^^H 


e '1 guarda d'ogni mal, d'ogni perlgLo, 


^^^^■. 


grave il ventre tanti di' ne langue. 


^^^^B 


e, poi e' ha ne le braccia il caro figlio. 


^^^H 


ella neghi notrirlo del suo latte, 


^^H 


e talor quasi mandilo in esiglio; 


^^^H 


che, quando noi vedea, gli abbia ella fatte 


^^^H 


tanta accoglienze, et or cha'l vede e sente, 


^^^1 


lo spregi e sdegni, e si vilmente il tratte; 


^^H >&33- 


QKLLto, Ifoct. AU., xn, t (diBsertat. di Vavorino aioBofo): 


^^H . Quod 


est enini hoc... peperiese ac slatini nb seee abiecÌEaef >. — 


^^^^V Mi valgo per Oellio dell'ed. lionese del 1533. ^| 


^^^H 37-57. 


ivi: ■ ... aluiBse io utero sanguine «uo nescio quid iplod ^M 


^^^^H • non viderat; non alere nuuc suo IsGte qiiod vldeat iani TÌvantam, ^M 


^^^^H > laiu hominem, iam malris officia imploranlem? ». — 40. Mota è ^| 


^^^^H 


ctiirurgico, e vale, oppunto, mnEsa di carne, or molte or piti ^H 



POEMETTO 34 

clio'l veda ne la cuna uom già vivente, 
e col bel pianto e con la voce umana 
quasi gridar laeraé l'oda sovente, 

e'I cibo usato suo, la sua fontana 
non pur gli neghi, ma di casa il cacci; 
è cosa troppo fiera et inumana! 

Cli'al proprio figlio il petto altrui procacci, 
e'I SUD lì chiuda, e mandilo in disparte, 
pai* che in pensarvi il sangue mi s' agghiacci ! 

Come per rnenzo il cor non se le parte, 
quando in man d'una che'l suo sangue venda 
pon madre il figlio, e di suo grembo il parte? 

Forse credete, che Natura appenda 
duo poma al vostro petto, come al mento 
EU0I porre un neo, ch'ivi qual gemma splenda, 

e elle non le vi dia per nudrimento 
de' pargoletti tìgli e per aita, 
ma per beltà del corpo et ornamento? 

Onda ciascuna, a pena in salvo uscita, 
quel candido liquor scaccia et arretra 



(e non senza perigli 
mentre di bianco umo 
B si spande nei memhr 



la vita), 
marcia tetra, 
o giù sen cala. 



o dentro i Viisi suoi gela et impetra. 



o meno dura, che si genera in luogo del telo noll'alvo materno. — 
537. ERASMO, cotloq. fam. {Puerpera), in Opera omnia, I, 768: « aq 

■ non eipaaitioniE genus est^ infìintulum tenerum, odhuc a inatre m- 

■ banlem, malrem spirautem, matris opem 
« lem, quae movere dicitur et fsras, (radere 

• BÌl pecuniae pautillum, ijuani lolus infaas 1 
64-78. GELI.,, 1. e. ; « Aq tu quoque puloa 

« rum uliero, quasi quosdam naevulos venustioi 
« Undorum, sed ornandi pecloris causa dediss 

■ TObìa Bcilicet nliest, pleraegue istae prodigìoi 
•I illum aanctisBimum corporia, generis human! educalorem, arefo- 

• cere et (■itiaguen:, cum periculo quoque aversi corrupUnue laotis, 
« latiornnt, lanquam pulchritudinìs BÌbi ìnsjgula deTenualet ■• — 
T, 66. lAì Etl. a«D( porsi. 



faeminìs mamma- 
, non lìberorum a* 
Sic enim, quod a 
foDtem 



248 



Sbandita il latte coma cosa mala, 
cbe la vostra beltà denigra e guaste; 
onde pili d'una l'aniina n'esala. 

Siate, donne, quantunque e eante e caste, 
tra voi non ne trovo una oggi si forte, 
elio incontro uso ei reo pugne e contrasto. 

Lasso, la mia carissima consorte 
sei mesi inferma io piansi sovra un anno, 
e sette volte quasi giunta a morte I 

Ma del suo mal fti mia la colpa o'I danno; 
chi^, centra il sno voler, deliberai, 
che facesse ella i^uel che l'altre fanno. 

S'argento et oro e lagrime versai, 
elle ogni gran vena saria spenta e secca, 
pensar sei pu6 chi'l prova o'I provò mui! 

Oh quanto, donne, gravemente pecca 
colei che con liquori erba o polve 
quelle fonti santissime dissecca, 



Ss 90. La malalLia di sua moglie, Luisa Tueeo, a cui qui allade il 
poeta, segMt net 1552. Poiché a' 33 del nia^o di quest'anno, egli 
cosi BQrìveva ad ud amleo (probabitmeate, al Varchi) : • ^ra pur 

■ tempo, ch'io dovessi avere uua delle vostre lettere, da me si ek- 

• ramente ricevuta e di siderale. E certo ch'ella m'ba confortato; a- 

• vendomì Gopro^iunto a tempo ch'io stavo con dispiacere, oltre il 

• danno et il travaglio: e uiA a! causava dslta iurermitì delta 
« mìa carÌBEima et amatissiioa couBorte, la qua], da poi 

• parturlta una Hgliola, per dirlo all'usaoza di ipleato nostro reame, 

• a xj di marzo, è stata seibpre male; benché ora, mercé di nostro 

■ Signore, sta ella migliore * [FiobIni, Tre tenere e un cap. ai !.. T^ 
p, 5S), Quanto codesta malattia lo addolorasse, appare anche da ud 
sonetto in cui, scrivendo al Rota ioconsolablle per la perdita della 
moglie Od celebre Porzia CBpece) morta di parlo in fMsca etA, ne 
Ih questo rlrorilo: ■ Vaga la (fera Parca del mio pianlo, t Mosse Var' 

■ donna ch'Amor dierami in torte, \ Per flir le II!» da' bei giorni cor- 

• te I E '1 Uodo Gcior che strinse imeneo santo; ] Ond'io ani caro 
« Sen piansi cUtnnlo, | Che fei viva plein nel cor di Votta * 
(ed. Fiorentino, p. 31), 



l'OEMETTO 2. 

dissecca ijLtelle Tonti, ù indietro volve, 
che Dio diede a l'età de f Innocenza, 
mentrcì che ne le fasce ella s'involvel 

Per me non credo, ch'abbia differenza 
da l'un peccato a l'altro, die gravi oncia, 
ma Gian quasi di pari penitenza, 

donna che, pregnii, di sua man si sconcia, 
perciié 'I ventre già molle non arrughr, 
onde nuda talor ne paia sconcia; 

I) altra, che del petto 1 rivi asciughi, 
per servar tonde o sodo le sue poppe, 
o quel dono di Dio dal mondo fughi, 

Quella d'uom cominciatu il (Ilo roppe, 

e, qual ombra che'l seme in erba adugge, 
l'opra in man di Natura ella interroppe: 

questa, Il cui parto il sangue suo non sugge, 
offende nom giù perfetto, uom giunto a luce, 
e l'opra fìitta, in quanto a sé, distrugge. 

A tor quel vitto al Aglio, empia! s'induce, 
ch'è suo da che nel cor l'anima gli entro, 
e ch'agli, uscendo ilior, seco s'adduce. 

Forse quel sangue, già vermiglio mentre 
giù si giacea, non è quel medesmo oggi 
deatro le poppe, ch'era pria nel ventre; 



97'ii4. Olll., Ioc. cit.: ■ Qnod quidem fnciunt eadem vacordiD, (itia 

• [[Uibusdam commenti ti ìs fraudibus nilantur, ut foelus quoque ipsi 
« in ooppore suo concepii aboriantur, ne aeqiior illud veotrìs irru- 
■ getnr, ac de gravitale oiieris et labore partus fatiscit. Quod cum 

• si( putilica detestatione communique odia dignum, in ìpsis humi- 
« neoi prlmordiia, dura Ungitur, dum animatui, inter ìpsaa artìflciB 



- Nalurae i 



• del, etto '1 s«j 

lig-SO. GELI.., 

• bult, non id( 
E cfr. il luogo 



I interfecluni irì, quantutum llinc atwst, ìam geni' 
u proprii atijue consuati aliiuo cogniti Bauguinia ali- 
i! ». — 107. PKTB, I, s. 36; < Qnal ombra é 81 oru- 
le adugga ». Cfr, Vendemmiatore, Bt- LSV, vy. 7-8, 
loc. cil.: ' Ad qui a spirilu multo et calore eial- 
D Eanguis est nuiic in uberilius, qui ia ul«ro filiti *. 
messo a risnontro de' vv. 139-33. 



lo qual, per dar a l'uom, poi eli' indi sloggi, 
senza schifo l'usato suo sostegno, 
vuol Dio, che color muti, e su sen poggi? 

Volete voi veder, se'J suo disegno 
nel far del mondo fu, che tra' mortali 
ogni madre allattasse il caro pegno? 

che a tante e tante guise d'animali, 
fln a. que' tanti mostri d'Etiopia, 
diede lor poppe, e non a tutti eguali. 

Ne die a voi due, non giù par maggior copia, 
ma che, accadendo far proli gemelle, 
ciaficuaa avesse la sua fonte propia: 

a cagno, a capre, a scrofe, a tutte quelle 
che son via più feconde, ne dii^ molte, 
che a par de' Agli avesser te mammella. 

Può esser, care donne, cli'a le volte 
il core un verme non vi morda e roda, 
quando a pensar di voi sete rivolte? 

Dell, £0 bramate in terra e pi'emio e loda, 
non siate, donne, ei crudeli et empie, 
facendo al mondo, ai vostri et a Dio froda; 

anni ognuna di voi, prego, conterapie, 
con quanta arte Natura in voi governo, 
quando del bel liquor lo mamme v'empie. 



Wt-9. PLUTAHCO, De cducat piter^ cap. 5: « AnJ-OÌ Sé XKÌ f, 
« oùfltf, 5t; Si,'. Tà; |jlT(t£p«;, a. ysyEvvn/.aciv, «•jtÒl; tit- 
. d&jeiv, ili ystp toQto TctvTÌ ^tliC}) TExrivTt T'hv ék toQ ya- 
. >ax-ro; Tpo^iiv É^op-fiyJicEv. Soipèv Sk jSpa xal ti Tcpóvoiat 
• SiTTeij; èv^StiXE tsI; yuvat;t TO-l? [i«';toÙ;, Ivoe xaì ci 

■ SCSuf^K TÉxoiev, SiTT«; ^^otev tÌ; t'TÌ; Tpo^^; ir/iyi; ». 
138. Cioà derraudandoli ilei vantaggiu i;be aa varrebbe loro, se voi 

Blesae allattaste la prole. 

'J9-S3. fi«i.t-., loe. eli,: « Nanna hae qooiiue in w aulsrtin Naln- 
« riie evideoK bsL, nm-il [ina lentia 11 in Bane'iU ille opifex in p«nelrali- 

■ hus suis orane OTrjiua lioiuitiis lluxit, nilvenlnnle iom portua tein- 

■ pore, ia BUperuas le jiarlee jirorert, «l ai) Tuvenilu vìtn^ nliiiie lu- 



POEMETTO 251 

Che, poi che ne le parti via più interne 
formò quel sangue, e fece di se stesso 
144 tutto il corpo de Tuom, qual fuor si scerne, 

e che '1 tempo del parto ne vien presso, 
ei ne* luoghi di sopra se ne saglia, 
147 e*l cibo usato appresti a l'uscir d'esso, , 

e, qual buon capitan, di vettovaglia 
proveda a le sue genti d'ora in ora, 
150 che non teman di fame, che Tassaglia; 

e per diverse vie, tutti in un'ora, 
quasi di pari passo carni nando, 
153 il parto e'I nudrimento vengan fora. 

Or chi sarà colei che, contemplando 
in ciò l'affetto ardente di Natura, 
156 da sé non metta l'amor proprio in bando, 

e che non si disponga a soffrir dura 
et aspra vita, per notrir suo parto 
159 con ogni tenerezza et ogni cura? 

lo non vo' dir, che '1 popol moro e '1 parto 
han le mogli di voi via più amorose, 
162 et ogni gente esposta a l'austro o a l'arto; 

ma, per farvi vermiglie ambe le rose 
de' bei volti, dirovvi, donne mie, 
165 che son le fiere pid di voi pietose. 

Vi basta dunque il cor, sondo si pie, 
d'usar coi figli vostri la fierezza 
168 che non usan coi lor fiere più rie? 

Venga qual sia più a carne umana avezza 
e lupa e tigre ircana e leoparda: 
171 che ognuna i figli nutre et accarezza. 



« cis rudimenta praesto est, et recens natis notum et familiarem 
« Tictum offert ». Copia quasi a parola Questo passo Magrobio, ne' 
Saturnali (V, 11). 

160-2. cioè le popolazioni dell'occidente e dell'oriente estremo, del 
mezzodì e del settentrione. 

169-71. Erasmo, Coli, fam,^ loc. cit: « In terra nullum animantis 



Ni! 



fìsm ù SI brava e si iva^liarda, 
come a tempo ch'ella lia suoi flglioalin 



e che gelosa se gli allatta e gaar<l!i; 

e lupa, ch'avrà liieci lupicìni, 
o tutti in seno se gli tiene stretti, 
fin elio ciascun per sé furi e camini. 

Latte non han gli aogelli ne'lor petti; 
ma i vostri, o donne, lien devria far molli 
il yoiiar loro e i Agli pargoletti, 

come sempre li tengano satolli. 
Io so, ch'avete ne' poderi vostri 
de' colombi e de l'anatre e de' polli: 

vedete i figli lor cibar coi rostri, 
coprir con l'ale a ragunar col grido, 
e in quanti modi l'amor lor si mostri. 

Che fanno i cigni, da che son nel nido 
i nudi figli, sin che veston piume, 
si che volar possan di Ifi dal lido? 



« But pluntae genus nascitur, <iiimt eadem terra succo suo non qlot; 
• nec est utliua aoimaDlis geous, quod non alat suos taslas. UliiJae 
■ leones et viperae educant paflus «uos, et liomioas suos foelua a- 



«HJic. 



ntl * 



ad la 



|.. Bella e, direi, piltoreecn illustrazione di questa ti 
similitudine, ijul cit. dal Ranza, dell'AmotlTO (Ori. Fur^ XIX, 7}: « Co. 
K me orsa, che l'alpestre cacciBlore | Nella petrosa tana assalit'abbia, 
■ I Sta aopra i figli con incerto core, | B tteaie in suono di piatì e di 
« rabbia: |, Ira la invita s. naturai furore | A spiegar l'unghie, a in- 

• sanguinar le labbia, j Amor la intenerisce e la ritira | A rìguar- 

• dare i figli in mezzo all'ira >. Né meno si conHl al vaso nostro la 
deecriiione omerica del leone, « ('^ ^i TE vr.TTi' àyovrt (ruvavTfi- 
« oùivTai Èv ù>.)j [ "AvSpE; £;raxT-rtpE; 1. (h., xvn, 134-6). 

iBa^. TLUTAHco, ve amore prolls, cap. 2: « Ti; Ss iil.E*TOpÌ- 
« Sk; Èv TOi; S^t'/.iiai xkì?' :ft|xép5sv i-^rìy-ev, 8v -rpdjrov tì 
« VeottÌk 7TEpvé-ou5i, Tot; [ìÈv èvSOvKs y^etlScm tÌc titÉ- 
•L puyas, tì Se s~ip«ivov75t twv vwTtov, x.cA npoffÉfrcovTot 
. TrxvTay_'j3Ev «vocas;^(5jAsvai, [isrà -coCi ityn^i %i j^atl 



[■OEMli-rTO 2 

1.0 madre si rÌì guarda, menfre il luma 
ella )ia del di, la notte il paiire a nuoto 
m l'ale li diporta per Io flume. 

So che por fama quello augel v'è noto 
(sa ben non fé' mai per quest'aria il volo), 
che apra il tao potto ni tigli si devoto. 

Fiere et augei nutron di tigli un stuolo; 
e voi, donne gentil, donne sovrane, 
vi disdegnate di uudrirna un solo! 

Non pur le propria carni, uia le strane 
allevan bruti. È amicizia quella, 
sdegno et odio, oli'ó tra'l gatto e'I cane? 

E vist'ho, in casa d'una mia sorella, 
cagna morir, mentre ì suoi fl;zli allatta, 
che viver non potean senza tuainmella, 

nel suo loco entrar pietosa gatte, 
e niidrirgli e crear fin a l'ef^de 
per SB stessa a cibarsi e viver atta. 

Nutre bestia 1 nemici per pietade, 
e noi mandiamo i nostri Agli altrove: 
oh vituperio de l'umamtadel 

Di Spagna, dal Perd, da l' Indie nove 
recar vi fate or cagnin rosso or bianco, 
e d'ogni estremo lido in che si trove, 

e non vi s'allontana mai dal fianco, 
non pur gli aprite il ssn, gli date il lembo, 
ma in petto a fiato a fiato il ohiudete anco; 

e i figli vostri, che né sol né nembo 
(ievria scostar da voi, par che vi grave 
tener ne' letti, io non Yo'dir nel grembo! 



193-5. NotiGeiina la leggenda del pellienno, di significato simbolido 
misticij. NoTTUBMO NiiPOLiTANo, te Opere arttHotaae, Van, Proep. 
Danza, 1544: » Il pelioan, por d;ir ai Agli vila, | Si rodo il petto, e 
■ ooFi giunge a loorto ». 

aoa. Gerolatua, lORritiilii in Teiino ad un Gregorio Silvestro Gai'ac- 
QJplo. 



1-A BALIA 

Senza che lii sua mano asterga e lavo, 
notrìr può n^Iio gentildonna accorta; 
onde poi maggior debbito se n'àve. 

Di nulla Aglio a madre obligo porta, 
come quando ella stessa sei notrica; 
S6 ben giacque per lui piti volte morta. 

Il generarlo vien senza fatica 
e non senza piacer, ben che'l contrario 
da qualche una di voi talor si dica; 

il girne grave ó atto necessario, 
la tema, il rischio, il partorir, ia doglia: , 
solo il tenerlo a petto è volontario. 

Ma che donna non possa, o che non voglia 
notrir suo parto; almen pid destro modo 
B'usasse in cercar femina cbe'i teglia! 

Ove che sia, per quanto io veggo et odo, 
quel che più ne le balie sì domanda 
è il latte fresco e 'i petto colmo e sodo, 

e si prende uguuimente e d'ogni banda 
ove EÌ ti'ovì, e spesso a prender viensi 
per un vii servitor, che a ciò si manda. 

E s'ella ó putta o rea, s'ha scemi sensi, 
o s'altro ella ha di mal, quanilo si pigha 
nessuno é che vi miri o che vi pensi: 

s'è bianca o bruna, o pallida o vermiglia, 
e 'n complession (che ben si mastra al viso) 
è contraria a la madre, o le somiglia. 



l punto di morire^ 



335. Intendi; acche sa più volta é «tata i 

a*9-3i. Forse il Tansillo ricordavo la graziosa &voletta dell'agnello 
invocanla aoi bel.iti non la madre ma lit nutrica (Fbdro, III, 15); la 
filale finisce: m Cuìue polestiB nulla in ^gnendo fuil | Cur h 
• potior, <juae iaoentìB miserata geL, | Dulcemqoe tpoale praeslat be- 
■1 nevolenliamt | — Facit parentes bonitaB, noanecesailaB*. Vedine 
lu libera traduzione del Ronza (La balia del T., pp. 3, 

^5S-i^- Obll., loe. cil: * PleruiDque sine discrimJDe, qnaeculnque 
■ [nulrU'l id temporis laclaits est, adliiberi Eolel *; e più gopra ha 



POEMETTO 255 

EU ò questa uao accorto, util aviso, 
d'importanza quapto altro ch'io no scorga, 
prima ctio'l figlio eia da voi diviso. 

l'iircliL' qual pianta il fanciullin ne sorga, 
olia importa, alcun dirà, chi sia la itonna 
che in grembo il cresca, o'I patto sno ii porfc'/t? 

Siano avi del fanciallo Orso e Colonna, 
e sia la balia sua di San Nastaso: 
piiF che'l nudrisca e Eazìi, ella ó madonna. 

Ctii dirfi ciò né tnen dovria far caso, 
quando il corpo sì generi e si forme, 
di che sangue si faccia et in che vaso. 

Qual ragion vuole (oh cosa troppo enorme!), 
che, se del Eangue vostro entro sì pasce, 
poi fora abbia alimento ai distorme; 

e che la nobiltà che seco nasce 
e'I chiaro seme e i bai principi onrati 
si corrompan col latte ne le fasce, 

o'I petto altrui quasi gli ammorbi e'mpesti? 
Qual'è il viljan si rozo e si ignorante, 
che in nobil tronco unqua vii ramo innesti? 

l'atircm dunque noi, che'l nostro infante, 
di sangue gentilissimo formato 
dentro a vìscere illustri e caste e sante, 



detto, che non si supI badare ni ilnnoi nha orreci ni neoonlo la 
bilia, « si iraprobìi, si infomiia, si impudico, si temulonta est ». 

350-58. /'''■" * Sod niliil intereal (hoc eniqi dioituc), ilum alatur et 
« vivBt, cuius id iBcte Hot, Cor igiluT iste ijui tioc dioil, si in eapea- 
* aendig Natur.ie sensilius tam ohaurduil, non id irooqua nihil inte- 
« resse pulat, cuin» in corpore cuiusijue ex sanpiiaa coocretus ho- 



et e 



il) ». 



35965. Ivi: < Quae igitiir ratio est, nobililateni [alani nati modo 
« homioia coi'pnsiine et auimum benigne inganitis prìijlordiis ìnd- 
• live degeneriqiie alitnento laclis alieni oorrumpere? ». 

268-73. lei: « Patiemuroe igitur, inranteai huno nostruai pemieioBO 
<c contagio inlici, et «pirìtum ducere ia snimuia alque in eorpuB 
■ suiun ei corpore et animo deterrimo I ». 



LA UALIA 

debba riuoTer spirto' e'ntroiiur Anto 
d'un corpo vii, d'ou animo cattivo, 
ne i'aaimo e noi corpo suo bon nulo? 

Maglio saria farlo di vita privo, 
che in tal guisa il notrir; poi elio si eliujii 
peggio assai del morir l'esser raal vivo! 

Tanto imprime in un vaso quel che prima 
vi si poi), ella '1 suo odore ìndi levarsi 
non può tatti piiJ, con acqua né con lima. 

In questo [spagna ancor devria lodarsi, 
ove ogni nobil donna a merc6 tiene 
dQ'dgll d'una illustre balia farsi: 

anzi in (jalizia han ciò cotanta a bene, 
che senza alcun rossor donna gentile 
nati d'altra a b6 pari a notrir viene, 

L^ nobiltà, l'altezza signorile, 
che tanto da' Buoi ceppi oggi traligna, 
perclic' credete che sia bassa e__vile! 

Di che talor la plebe, empia a maligna, 
a voi suo! recar colpo, e dice, a erede, 
che al teiTen vostro indegna pianta alligna. 

Questo degenerar, che ognor si vede, 
sendo voi caste, donne mie, vi dico 
che d'altro che dal latte non procede: 
l'altrui latte oscurar fa il pregio antico 
degli avi illustri e adulterar la razze, 
e s'infetta talor sangue pudico. 
Vedem di saggie madri figlie pazze, 
e d'onorati padri infami figli, 
tutto di, per le case e per le piazze. 



*77^. ORAUO, f^M^ I, n, 6970; « Quo somel est irabiila recena 

■ serrabit oilorem | Teatn diu ». 

jga-306. lol: « la herde ipsum est qiiod saepenaniiTo rairantur. 

■ (inoadam pudiconim wulientm liberos iiarentum Buonini neque 

• oorporibvs nequo animis aimìlea «risterp Qiioniain in moribna 

K iDoleaeendia, ningnaro ftve portam fngeninin altrlcis et oùtui» Ine- 



POEMETTO 257 

Dal latte o^ni animai convien che pigli 
. gran qualità, che inclina, se non sforza, 
303 che*l fanciullo a la balia al fin somigli. 

Non pnp in quanto al corpo et a la scorza, 
ma su l'animo stesso e sui costumi, 
306 il latte a par del seme ha quasi forza. 

Cosf quel vero sol gli occhi vi allumi 
a seguir Torme mie, qua! io mi sono, 
309 e vi toglia dinanzi l'ombre e i fumi: 

fumi di fasto et ombre d'onor sono 
e d'amor proprio, quei che v'han tenuto 
312 tanti anni, e tengon, fuor del camin buono. 

Basti, donne, il mal fatto e'I ben perduto; 
e perdonate, prego, s'io vi pungo 
315 con un ago troppo aspro e troppo acuto. 

Ho detto assai, né pur al mezzo giungo; 
ma acciò che, donne mie, non vi dia angoscia 
318 più io che non le balie, col dir lungo, 

riposiamoci un poco, e torniam poscia. 



• tis tenet; qua iam a principio imbuta paterni seminis concretione, 
« ex matris etiam corpore et animo recentem indolem configurat ». 
Le stesse cose, quasi con le stesse parole, ripete Macrobio (loc cit.). 
— 303. Il ras» EH. 



33 



258 LA BALIA 



Capitolo Secondo. 

» 

Se avrò nel mio parlar tanta virtute, 
che alcuna di voi, donne, sì converta, 
3 e'I fero stil da oggi inanzi mute; 

il terrò più che se mi fosse aperta 
e spianata la strada di quel monte, 
6 ch'io trovai sempre cosi chiusa et erta, 

e pili che se cingesse la mia fronte 
quel ramo, in guiderdon de le mie rime, 
9 che sóle ornar chi bee nel sacro fonte. 

Cerchi altri nel cantar le lodi prime; 
ch'io, pur che dal mio dir tal ben proceda, 
12 gloria non è che pili gradisca e stime. 

Ma, quando tanto onor non si conceda 
a la mia bassa musa, assai mi basta, 
15 che del mio buon voler segno si veda. 

E s'altrui colpa al mio desir contrasta, 
tempo verrà, che fia tra donne in pregio 
18 non meno l'esser pia che'l viver casta: 

né vsangue illustre avrà, né titol regio, 
che d'obligo si santo vada escluso, 
21 e voglia sovra l'altre privilegio. 

Cosi la Parca tanto stame al fuso, 
donne, de' vostri di' fili ed attorca, 
24 che siato vive a tempo del buon uso. 

Se, mentre in culla un fanciullìn si corca, 
tanto s'attende, se si fascia o scopre, 
27 che gamba o mano o pie non si gli torca; 



4-9. Vedi quanto osservammo su queste terzine nell'Introduzione. 

25-36. Plt't., T)c cducat. puer.^ cap. 5: « "fiCTwoO rà [i.éXT( ToCJ 
« TwaaTo; £'j5'j; à^ò yzvfTSw; 7:>vàTT£'.v tcov tIjcvwv àvay- 
« x.3cTov STTiv, Iva zvjjtx òpS-à y,x\ òiGT^y/^Ti cpjr.Ta'/ tov 



POTìMEITL) : 

o se, da poi cIiQ fascia pili noi coppe, 
sì butte EU lo msn, qualor le lieve, 
perché la destra e non la manca adopre; 

se tanta cura s'Iia, quando aom s'allevi?, 
in evitar del corpicciuel gli stroppi; 
quanto ìogegnar la madre, e pili, sì deve, 

che l'alma tenerella non si stroppi 
d'un vizio, d'altro reo, die seco porti 
il seno di colei che sagga e poppi! 

Vi parrit de le cose a creder forti 
quel cii'io vi dissi, o donne; et è pur certo, 
che '1 latte al par del s^oe quasi importi. 

E '1 potrete provar, chiaro et aperto, 
se ) vostri contemplate e gli altri frutti, 
come l'ìatende ogni uom saggio et esperto. 

Vedrete cinque o sei fratelli, e tutti 
ili costumi e dì vita assai diversi, 
come se da pili madri sian produtti. 

Noi fan pianeti, prosperi et aversi ; 
ma il lait«, l'alimento lor primiero, 
che può far buoni gli animi e perversi. 

Or "ie '1 desio d'un nespilo o d'un pero 

d altro eh ihl a ionna allor ch'è pregna, 
e troppo s profun li in quel pensiero, 

può tanto e) e n quel membro il frutto segna 
ìel la ull n eh a se medesma tocca 
1 nadre a tempo che 'I desio pid regna; 



- -pOCTlXe! .. — 35. I.G slU a'alti-o nto. 

37-9. ùau,., loc cit.: •! Quaniobrem non frustra creditum est, li- 
■ cuti TBleat ad Qiigeuijiia animi alque cui'paria Himìlitudines vii et 
• natura seminia, non secus ad eandeni rem lactis quociue inganìa 
. et proprietatei valere >. Idanticomenle H.icRonio (lof. cil,), oo- 

46. Allude il poela alle crederne astroloBiclie Ionio diffuse a suo 
tempo. — I.e stampe oil. 



LA BALIA 
quanto pili ile' poter qua! die per bocci 

sua pri>pria gli entra, e '1 mitre un anno < 

UUte di rea, dì perfida o di scigcca? 
E se in uom fermo e su le forze sue 

[a qualità de' cibi molto potè, 

elio può in un che l'altrier prodotto fue? 
Usi uom aolingo a pallido le gote 

quel pomo insano, e' ha il color ([iial negre 

vedrete ee 'I cervello si gli srotei 
Et al contrario, ancor die grave et egro, 

dategli ot oro e gemma trite a bere; 

eiravrà la mente queta e '1 volto allegro. 



58-60. s*DOl.Eto, De liberti j-scte Ifotltiiendls (Opera, Veronn, 1738, 
'"i 75t- ' l^t nlBci aninium otiam nostrum, non oorpuB soluni, eia 
> cibiE cernimUE, i^nae nobls quotidie sumunlur; aie lue ei eo coi^ 
« pore hauelum, quoti temperato regitur animo, niiimi ipsas lllat 
k ^lalitnles in inraalEs nattirun non miniinuiii dererC >, 

61-3. Allude il poeta al fruLlo dal Solanum insaniim L. (S. Melonr 
Betta L.}. È il melo» (naanum, couianamente detto melamana, che 
DioscoamE (Di meS. mai., Parigi, 1549, IV, 74) clinma crp'J/^vov 
^KV tx,i)V, parlando anclie dpi suo Trullo nerastro, per la suu pro- 
prietà di (niafiiOTa fiuxre, t. Plinio, lllst. «ol, XXI, loS- 

64-6. Sa ognuno, ^ank) u sia Kcrilto, in tulio i) medio evo< Eulle 
occulta Tirtfi delle gemme: gli autori olle ne disserturono ella alla 
l'infiien il Dolce, nel JVaUoftì tbIU gemme oht! pi-oiXvee Ut natura, 
lib. 1, cap 4. Si altribuivaiio loro aoahe proprietà lUedicinali; nel 
qual propuBilo scrive Masbodo I.Enc?ilridion di lapld. pi'et^ Parigi, 
153I1 P- '^1- ■ Occultas enim lapidum cognoscere vires | Quorum 
« uansa lalens elTeclus dat maniresloa | Egregìum quiddam vulumus 

• rarumqne videri: 1 Scilicet hluc solere roedlKorum curo iuvatur, | 
« Auiilio lapidum njorbos BipeUera docSn ». Bacone, uell'HUl. vUae 
et marlis (opera, ed. del 1663, Ili, 8B9). accenna alla uredania cita 
dall'ora a dalle ii;Bmnia bì possano ricavare oiedicamaBtl atti ■ ad 

■ raoreandoa spii'itus *, ponendola fta. lo su pereti iti ani che non gli 
par vero possano attecehire in menti sane. lì a p. 137, in lai propo- 
silo soggiunge : * Alque de usu limatiirae auri, aut auri fblìali, 

• aut pulverìE inargaritaruni, gemniamni et «orali! et aimilinw iutàìa 

■ nibil credioius, niai quatenus proesenli opera tloni Eatìs&citìirt; 



l'OEME'l ro 

Non par ai può negli uomini vedere 
quel ctie possa ne' parti una imlegua escu; 
tuM ne le bestie stesse e ne le tiare. 

Provi pastor, come Ui aen loro osca, 
elle la capra e !u pecora col petto 
l'ima i Q^li ite l'altra allevi e cresca: 

o vedrà riuscir contrario elTetto 
al naturale; perciu^ il pulo u Taglia 
verrà fuor duro, e uorbiilo al capretto. 

E i cugniuoli, o 8Ìan oostri u di Brìttagna, 
perdio 'I valor dei padri in lor gì Bervi, 
non UeiO tutte assat^glar di strana cagna. 

!■; i lupi esser man ladri e men protervi 
col canin latta, et alterar di pelo 
vedrà, a'a prova un cacoiator l'usaervi. 

Cangia negli arbor fratti e fronda e Etelo 
il trarsi in altra terra la lor sete, 
svelti lia quella ove pria vidar ciela 

Arbor felice verdeggiar vodreto 
nel seno il'uaa valle opaca e molle, 
e far l'aria odorata a l'ambre liete; 



> certe, cuia AruLes el Orneci et moderai 
• IM Iribuerint, non omnino nihil videatur e 



■ Diines esperti obserrarunt. Itaqa 

■ opiniDiulius, plans arbitrimnr, 



Ììb rebOB tmtas rìrtu- 
.S8 in ìbIìe, lune tot Ilo- 
ptiBotasticiB eiroa Illa 
Eubslantiae sanguinis 



< aliquid insiniiari possit per luìniniB, in quod epiritus el calor pa- 
li nitn aut ailiil agore possint, amnioo iil.... ad vitain proloagaodam 
« Tore efflcaciBsimuni ». Accenna a questa opinione ilei calebre (ilo- 
sofo anclie il Hunia; ma imperfetlnmeulP e belntendendola. 

6775 GRI.L., loc. oit.: « Neque in liomiuihus id llaclii propi-teta- 
I rei valerci solum, seil in peoudibus quoque animadveraum. Nnm 

• ai ovium lacte boedi, aut oaprarnm agni ilersotur, «oiietot forme, 

• in bis lanam durìorem, in ilUa capillum gigni tenerlnrem ». 
76-8. CoLCuELLii, Bertrvit., ei].Dit.,e. 169 a; • Nei; vnqupiu 

• eoa [eatvioi], quorum generoHam voluiniis ìndolem conservare, pa- 

■ tiemur alieuae nuti'ìcia uberlbus educori ». — I<e stl. Krenagna, 
89-90. QsLL,, loc. ciL: < ID arboribus etiam H rmgiliiiB mnior plO' 

■ rum^ue via et poteataseat, ad earum indolem ve) detractandaTU voi 



1.A UALJA 

p, trapiantata m qualche pog'^io o colle, 
11 midnmento de la nova terra 
ogni vaghezza, ogni splendor le tolle 

Oltra che in alimi Janno da vui s'erra, 
mentra altre son de' vostri parti altnci , 
voi stesse a voi vi procacciate guerra. 

Non dite: tempi tristi et infelici! 
quando sete iJui Agli voi neglette, 
o essi son de' padri poco amici: 

perché 'I Rettor del Ciel volo e permette, 
che, s'or vi li togliete voi dinanzi, 
poi, grandi, essi ne f'acciau le vendette. 

Ben previde Natura mollo inaiiKi 
questo error vostro; e, perdio non s'annulli 
il mondo, ch'ella vuol ch'ognor s'avanzi, 

fé' cosi ghiotti, amabili i fanciulli, 
gli fé' pili dolci in quelle età pili acerbe, 
e gli adornò di tanti bei trastulli; 

che, spregiati da voi, madri superbe, 
sia chi gli abbracci, e 'ntanto c!ie gli alleva, 
con diletto gli afTanni disacerbe. 

Tener la balia dunque non v'agreva, 
donne, iucarco che Atlante stancherebbe, 
e 'I bambin si, ch'ognor gran noia leva? 

Quando per quello amor che ai Agii debba 
schifar donna le' balie non volesse, 
fuggirle per suo comodo dovrebbe! 

Bonciié ponga in non cale ogni interesse, 
chi è che soffrir possa un anno o dui 
i cordogli e le noie che danno esse! 



• augendam, siiuaTaio atque lerrsrum quae alunl, quam ipsius quod 
- iocituc BBiDÌnis. Ac Eaepe videsE arbarem laetam et nitentem, in 
■ locuni aliuia Irnnsposilnui, delorioris tfirrae succo deperisse ». Co- 
pia, ni solilo, quijslo passo e il precedente MAcnoaio (loc ciL>. — 
SS. 11 ma. tratplantata. 

gi-g. Vedi il luogo dL aeliia messo, più avanti, a riacontro do'vT. 
137-44 di questo aapilolo. 



POEMETTO 

Se ilatd il vostro Sgiio in casa altrai. 
mostrate un disaoor, tutto in un tempo, 
e con Dio e con gli uomini e con lui: 

n<^ vedete s'egli ha suo dritto a tempo, 
e del bene e del mai snpeto rado, 
et egli è mal trattato il piti del tempo. 

V. so non é, mef credo e persiiado: 
e come amar la balia il potrai molto, 
se vedo oh'a la madre ò poco a grado? 

K 'i fanciullo ad amar tutto Ila volto 
colai che bùci, e pOppe. o madre cliiame: 
tanto gli è il vostro, comò ogni altro volto. 

Rompete quel dolcÌBsimo lei^atDe, 
che la madre coi figlio lì'amor lega, 
onde pili lui, che gli occhi e se stessa, ame: 

so pur noi rompete, chi mi nega, 

clie 'I nodo non s'allenti, e che men prema, 
mentre altra ni vostro olUcio si delegai 

Quel penwer, quel fervor, quell'ansia estrema, 
ctie intorno ai dgii, o madri, v'ardo e pungo, 
se EOit lontani, intepidisce e scema: 

chi non sa, clie ogni oggetto che sia lungo 
di vista altrui, se 'I tempo non è coi^, 
da! cor, come dagli occhi, si (ìisjfionge? 

l'oco ó maggior l'oblio d'un figliuol morto, 
di quei d'un vivo o mesto in im villaggio 
a prò de'contudini et a diporto. 



127-9. fiELL-, loe. oit.: « ri'siua ijiloriue infsntia nffecUo animi. nTno- 
' ria, consiietudjuia in eo. sola linde alitar occupatur; et proind?, ut 

■ in aipositis uau venit, matvis qune genuit neqoe senaiim ullum 

■ DEttne desidprium capii ». 

I3»44. Ha: < Et praeter baec quia i!ln<l ettara negligere nspc^rnit- 

■ rique poseit, quod quas partila silos deiserunt nblegnntqus n a^sc* 
e et alila nutrieniloa dediint, vineuluia illuni coagulumque ouiml ut- 
• que amoris, quo pannles onu QliiB Natura eonsociat, inlt^TBcin- 
. dunl, nnl ceri* quidam dilHunl delerunlque. NAra ubi infanti! a- 



^^F 264 


^^^^1 




Vien sozzo, e poco generoso e »iggÌo: V^H 




qnari^ il villan che '1 tiene e la casoccia. 


^^^1 <47 


tal sarft '1 petto suo, tal il coraggio. 




Vi vien la balia a casa, ogni festnecia. 




coi tìgli et altri; e, se non lian lor mensa 


^^H no 


carezze e lusinghe, ella si crueeia; 




e ae rieile a man vota, tiensì oSensa; 




né vi vien mai, nò Aglio mai vi mostra, 


^^K '^' 


che ili borsa non scemi e di dispersa. 




Sa tenete la balia in cai^a vostpa, 




piti si paté in qaei mesi, che in cento anni ; 


^^B 136 


se tanto può durar la vita nostra. 




Oli, a' io volessi raccontarvi i danni. 




che n'apporta il tener d'una nutrice. 


^^H 15'; 


e i dispetti e 'gli incomoiii e gli affanni : 




sarebbe, donne mie, coma si dice, 




nn golfo entrar che non ha fondo riva, 


^^H 


e vi vopebho ingegno pili felice! 




Et oltre ch'io ve ne ragioni e scrìva 




per tOF di collo a voi ooteslo giogo. 


^^1 <65 


che di riposo e di piacer vi priva; 




follo anco volentter, pereh? mi sfogo^ 




mentre ne parlo altrui. Tira e la rabbia, 


^^H i63 


ohe arder mi fan pili ohe fornace rogo. 




L'esser ingrat-a ò '1 minor mal ch'ella abbia, 




qaesta schiera elle '1 mondo oggi conturba: 


^^H 171 


ciò che lor l^si, è nn gHtar peme in sabbia. 




Pili disagia, e danneggia, a logra, e turba 




ne' tetti altrui l'albergo d'una balia, 


^^^1 


che non fan di soldati una gran turba; 




soldati non di Spagna, ma d'Italia, 


^^^^1 ■ Itm-Butn dati (aoU «x oi^iitis amelitm eM. vigw ili? jnalfirnae Ila- 1 




^^^^1 * 




^^^^1 •• (tati Oli Duti^oem sliam Hlii, tua» mort? nmUi;! oblivi» vat. •. ■ 


^^^^^^^ i«- te BtBinpe ^1 



26S 



e dio siati di qnei Bruzli, o ilei paese 

che pHma salutò la nave ÌJaHa. 
[o bo tanta imparato a le mìa spese, 

che predicar potrei cento quaresme 

dell'esser lor si strano e ci scortese, 
e empirne, non che I fogli, ma lo resmo; 

ma, percht' il pli! di voi creilo che n'aggia, 

rei potrete pensar per voi medeeme. 
Non è persona cosi destra e saggia. 

che con la balia sua, tra fosco a cbiero, 

schermir si sappia, cbo tutor non uaggia, 
Se mostrate, il fanciullo esservi caro 

e gradir lai, l'orgoglio pili s' inOamniu, 

e l'ingordigia sua non ha riparo: 
se tìngete il contrario, la sua mamma 

trova il bambin asetntta o d'ira calda; 

venen, non latte, è qael die sugge e milnima. 
Quale é troppo sfacciata e qual ribalda 

(cosa che importa ad onorate case), 

qiial ritrosa, qua! ruvida, qual balda. 
Uisogna cli'uom piti spia, guati et annasa 

In sceglier balia, e ^autl e Dìo c'invochi, 

che in tor donna non fa, con cui s'accase. 
Cile guardi onil'ella viene, e di quai lochi; 

e ben si può tener aventuposo 

chi a balia incontri, ch'aggia de' suoi pochi. 
Albergar tutto il giorno or frate or sposo, 

or altrui die per frate ella v'aildìti, 

non è noia che turba ogni ripose? 



176-7. Sema dubbio, il T. vuol denotare con questa perift'aBl la 
Gampanin. cli'é la pai-te dell'Italia continentale ove primnnieDls Eneu 
BbBFCò. Ricordava, io credo, il virgiliano: ■ Noa aumiis idneae sacro 
> de vertice piniiB | None pelagì nymphae, clossis tua » (ffn,, X, 230- 
31), ed In erroneunenM conFuso l'aggettivo Idallo, suggeritogli dalla 
fimo, eoa l'agg. td«o. 

190. Meunmare i voc« Tuori d'u«o, ciie il lessico Touimaseo e 
Bel lini registra per l'appunto con questo solo esemplo dui Tansillo. 



LA HALIA 

L' intrattenarsli e 'l far lor de' conciti 
e l'altro saria poco; ma bisogna, 
cbe noi guardiani lo mogli da'maFiti: 

non g% che in casa altrui faocian vergogna; 
ma ch"elia non s'impregni, onde corrotto 
sian la due fanti, o arida la Epogna. 

E perctié tutte son voraci e ghiotto", 
star vi convien con gli ocelli aperti sempre; 
cM, se no '1 di, v'inganneran la notte. 

Non par che '1 sangue, o donne, vi si stemprc, 
quando il vostro fanciullo infermo piange, 
o la balia bisogna che si tempre? 

Chi temprerà villana, si che mango 
quel ch'a lui giovi, e schifi quel cha neccia, 
e per duo giorni cibo e vita cange? 

Chi impetrerà da lei, che una sol goccia 
ber voglia d'un liquore o d'un sciropo! 
E s'una volta il bee, cento il rimproccia. 

Quando di lor bontà s'ha maggior uopo, 
allor son pili malvagie e sconoscenti, 
e l'ntil solo han per versaglio e scopo. 

Quanti vedete ne le fasce spenti 
fenoiulli che sarian forse invecchiati, 
se non bevean quei latti si nocenti ! 

Chi potrà tutte dir le infermitati, 

che '1 latte improprio nei fanciulli arreca, 
onde poi grandi e vecchi son voBsatil 

Un assorda, un ammuta, ud altro accisca, 
un altro se ne va sempre carpone, 
fin che la Parca il filo rompe o seca. 



3i6. Cioà che il contenga, ai regoli nell'uso degli alimenU. 

335. Alla veniUiU dalle balie allude nncha Plutarco, nel p 
che già vBdeuimo dnl T. imitato: « Al tÌtSow xaì «1 Tpoipot tÌjv 
. •; Euvoixv Ù7copo>.i|A(x£i(v xxl TiapÉ^ypaTiTov e;(_ou(iiv, S.-vt 
• j;liit5où ^iXo-JSxi •. E Himilmente i:iiAsuo. J.o slsnip* 1: ~ 
qui ìtersagUo; ver8»BlÌo (laL bsrb, ■oenaeuiumi) non occorre noi I 



POEMETTO 267 

Quanti sono i porigìi, ove uom si pone, 

e, quel oli'è peggio, ov'egli spesso incorre. 

quando non sì conoscan le persone! 
Quanti, credendo di venire a tórre 

quel ben che i figli nutre sostien vivi, 

danno in quel mal che Francia e'I mondo corre! 
R '1 povero innocente, pria che arrivi 

a l'età del peccar, quei morti prova, 

che Dio dà per flaggello ie' lascivi. 
Cosa dirò, elio parrà strana e nova; 

e siate certe, o donno, che ad alcune 

madri aveouto esser talor si trova: 
che i figli vi si cangian ne [e cune 

(vi parrà la comedia d'Ariosto I). 

Perchi5? direte. l'ep cangiar fortune. 
Cile tal, che da la madre esser esposto 

doveva a la pietà di chi '1 pigliasse, 

divion signor, ne raltmì loco posto, 
et ella che 'l cangio tacita stasse, 

e tra si5 gode il ben ch'ai Aglio ha dato, 

e a tempo, se le par, conoscer fasse; 
e colui, quando il sappia, s'egli è grato, 

pargli aver a la madre obligo doppio: 

pria, che '1 fece uomo, e poi, che '1 pose in stato. 
Sempre vi trema il cor di qualche stroppio, 

LQentre le balie la braccio i f^mciulli hanno, 

o vi par d'ora in ora udii" lo scoppio. 



340. Kessuno ignora, guanto Ih ver^^osa malatUa tosse già diC- 
fusa a tempo del Tanaillo anobe in Italia, e a quanti compcnimeati, 
cosi in verso come io prosa, abbia oUbrto materia. Cfr. I.VZlO-'Rt:- 
NtEB, Ooturitiuio alta storia det malfi'anaeie n^ ooftitnit e nella M- 
teroL Ual. del sto. STJ, in aiorn. tlor. d. leu. tt., v, 40S sgg.; Vitt. 
BOSSI, Append. T alle Leti. li'A. Calmo, Torino, Lùeschet, i8SU. 

143. I Supposttl, cioè i BOGtituili. Leggasi nel prologo di questi: 
« Glie li fanoiulU aieno staiti per l'uddletro suppositi, so che non pur 
•< nelle ciimiuedle, ma letto avete nelle ietorie ancora; e forse è 



^^r 26S 


^^^H 




Si Tdn peggior le balie d'anno in anno; ^^^^| 




nove leggi ogni di sono introdutte, I 


^H 


e tutte in util loro e 'n altrui <lanno. , 




Vonno i gran soldi, von le vesti tutte 




dei figli vostri; e, s'una lor si veta, 


^H 


attendete veder le poppe ascÌHtta- 




riiiwgna ch'uora io tratti da poeta, 




se ben vena oi non ba; cliO tutte vanno 


^^H 270 


quella canzon, per lor, non per noi, lieta. 




Per estirpar da noi quantunque ponno, 




ceroan di quelle voci anco esser paglie, , 


^^H 


die su la cuna cantano «; Vien, sonno »t 




Sempre dei nostri danni elle son vaghe: 




se le déste le cene di Lucullo, 


^H ^7(^ 


non sperate che halìa se n'appaghe. 




Sia pur vezzoso e vago il bel fanciullo: 




cM piti vi dà In balia angoscio e duoli. 


^^H 


ch'ei non vi potrà dar gioia e trastullo. 




Rara è la balia, che non furi involi: 




vi è forza sempre stiir sopra di voi, 


^^H 


nò mai forzier lasciar aperti e soli. 




Non pur i tempi d'oggi insognan noi, 




ma degli antichi molti esempi averne, 


^H 'S; 


ch'ogni madre s'allatti i figli suoi. 




Finger balia di Romolo e di R«mo 




la lupa, donne, ohe pensate sia, 


^^^ 2SS 


se interpretar la favola vorremo? 




Un mostrar, che ciascuna altra, che dia, ^^^ 




fuor che la madre, latte al fancluilino, ^^^H 


^^H 


è lupa ingorda e fera lailra e ria. .^^^^M 


^^1 971- 


. « Per islrappHce da noi quanto piti possono, vogliono Oiser 1 


^^H ■ soddisbtte in contanti ancbe delle ninne nanne >. Non comune | 


^^^H 


sìgniflcato aal verbo estirpare. ^ 


^^H 


PincevH Bl Noali'o interpretare argutamentó a raoio suo ta 1 


^^H 







POENrETTO 

E s'egli è istoria, fu voler divino, 
che Del fondar di Roma mostrar volse 
la grànUeyjA de' fati e del destino. 

Chi nudri, chi lavò, chi in fasce accolse 
li Re del ciel, la maestA divina, 
quando uom qui nacqae, e carne umana t^ise 

se non la madre sua, l'alta Reina, 
quella die fti nel mondo, et 6, sol' una, 
a cui la terra assorge e '1 cielo inchinai 

Ella sei tenne in gremho et ella in cuna, 
ella a cittfi portollo et ella a tempio, 
né parte mai v'ebbe altra donna alcuna. 

Or non devria bastar questo uno esempio, 
a'avele dei devoto e del fedele, 
a ritrarvi d'error si crudo et empio? 

Oh quante son le colpe e le querele 
(parmi quasi d'adirne le parole), 
che vi 8i dan d'un atto si crudele! 

Natura inanzi a Dio di toì si dole, 
da poi che, naercé vostra, ìd van s'affanna, 
per darvi da notrir la cara prole. 

Ogni animai ch'è in terra vi condanna; 
la Pietà, che dal cielo il tutto mira, 
di la, per no '1 veder, gli occhi s'appanna; 

la Carità materna ne sospira, 
e la cristiana, di ben far ingorda, 
quanto arder snol d'amor, tanto arde d'ira; 

la Nobiltà, de l'altrui macchie lorda, 
vìa piri ch'altra che sìa, par che si lagne, 
chó col sangue contrario mal s'accorda; 

Valor e Cortesia seco ne piagne, 



3gg. 11 ms. sola una. 

310. Le BtaTnpe tnnanil a voi <U eoi. x HedumaC... ip^a is 
scriba EBAsao, nel colloquio Putypera, gii titalo, dove svolg 
desimi coiioetli. Non oserei, peraltro, altermare che il T. in 
liu^ l'avBBsa in mente, eoiue moslra ili credere il Ranza. 



26^ 



e la Creanza et ogni altra virtarle, 
che de la Nobiltà fliroa compagne; 

i vostri figli, con quel pianto roile, 
quando fere maggior l'oreccliie vostre, 
chiaman voi, madri, dispietate e crude: 

insomma, il vostro error par ch'ognun mostre, 
contra voi gridi "1 ctel, la terra e '1 mare, 
il petto, il sangue, le viscere vosti'e. 

Disponetevi omai, donne mie care, 
ai santo officio, ad opra co^i buona, 
miglior di quante ne potreste fare! 

E "n dirvi donne, intendo ogni persona 
del nobil sesso, et una non ne salvo, 
sia quantunque di cercbìo o di corona. 

Portate tutte ì vostri parti (salvo 
quelle c'iianno il petto arido, o son egre) 
cosi or nel grembo, come pria ne l'alvo. 

NotritevegU voi, ognor pili allegre: 
percbi^ parte maggior non v'abbia il padre, 
siate de' Bgli vostri madri integre. 

Non ò pazzia, gioveni mie leggiadre, 
ctie nobil donna, potendo esser tutto, 
meza si faccia del suo Aglio madr»? 

Che foggia é questa, cosi scema e brutta, 
di meze miidrl e di partito pondo, 
dal gran nemico su la terra Indutta? 

Cosi Ai sempre, mi direte, il mondo; 



334. Le stampe mno. 
336. Cfr, il oap. I, vv. 17.8, del txidere. 
337-9, Ansile PLtiTARco, nel pas£o cil. del De educai, pu- 
esonero dui doveri delJ'allattamMilo le donne inftrmicoie o 

• ÉTépWV TÉXVUV ffXE^So'JTKl fhsaiV ». 
34>. OBtx^ iDc. cit.: • Oro tó, ìniiuiL, muUer; siue eam k 

• iFgram esse tnnlrem lllii sui >. 

ìiM. oiiu.., Ine ciL: * Quod est enlm hoc contro nsturacn impop* 
« recium alqne ilimidlAtom malris gentu? >. 



POEMETTO 271 

quel che le nostre madri a noi già denno, 
351 or noi rendemo ai figli. Io vi rispondo: 

facendo voi quel ch'altre pria non fenno, 
senza che Chiesa il dica, re il comandi, 
354 maggior sarà la bontà vostra e '1 senno. 

E quanto più sarete illustri e grandi, 
primiere a poner man, che a' nostri tempi 
357 pensi er si santo in opera si mandi, 

pili sarete cagion coi vostri esempì, 
che d'imitarvi ognuna si diletti, 
360 come ella in voi tanta virtù contempi. 

Or se vedessi (o giorni benedetti!) 
le Colonne, T Orsine, le Gonzaghe 
363 e l'altre tai coi cari figli ai petti; 

non spereresti, Italia, le tue piaghe 
veder sane, e tornar l'antica gloria 
366 e quelle genti tue d'onor si vaghe? 

Vedessi la seconda tua Vittoria 
(d'età seconda, ma di fama prima), 
369 onde il mio buon Toledo oggi si gloria, 

e più per lei se stesso or pregia e stima, 
che per quante vittorie Adria e Tirreno, 
372 Africa et Asia e '1 mondo gli dier prima; 

vedessi lei nel casto, inclito seno 
stringer dolce bambino, e trarne foro 
375 nettar celeste, non liquor terreno! 



353. A dir vero, la Chiesa anzi lo impone, per bocca de* suoi Pa- 
dri e Dottori, 

2m. vittoria Colonna iuniore, figlia di Ascanio duca di Tagliacoz- 
zo e di Giovanna d'Aragona. Vedi la nota all'ottava LIX della ClO" 
rida. 

369-72. Garzia di Toledo (cui anche nel XII de' suoi Capitoli il 
poeta chiama « il mio buon don Garzia ») fin dal marzo del '52 s'era 
unito in matrimonio con Donna Vittoria. De' suoi passati trionfi, ter- 
restri e marittimi, non accade qui di riparlare: parimente, sarebbe 
superfiuo ridurre a mente al lettore, che il T. in questi versi, come 
non di rado, adula. 



272 LA BALIA 

Non ti parria veder Febo od Amore 
poppar sua madre, e *ì bel bambin non latte 
378 ivi ber, ma virtU, senno e valore? 

Donne illustri, e da Dio per norma Mte 
de l^altre donne; la cai luce splende 
381 sovra quanto il sol fere e l'onda batte; 

poi che il riposo e Ponor nostro pende 
dai figli (quai si siano) di voi altre; 
384 se d'allattargli voi vi si contende, 

almen in cercar balie slate scaltre. 



Fine. 



376. Le stampe ed Amore» 

384-5. plut., loc. cit.: « MàXt(7Ta (xèv ovlv, auTa; wstpaTSov 
« Ta Tsxva Tpécpstv Tài; [XTiTépa;- et S'àp'àSuvaTft)^ sj^otev.... 

« SVI [xà>.t<jTa GTOuSaCai; SoxtjAaaTéov ècTi ». Ripete qui, del 
resto, il T. rammonlmento che ha già dato ne' vv. 232-4 del capitolo 1, 



INDICE. 



INTBODUZIONE Pag. IX 

Illustrazioni biografiche e bibliografiche .... » cxi 

I. Lettere inedite attribuite al Tansillo » cxiii 

II. Notizia bibliografica delle poesie tansilliaue . . » cxxxi 

L'Egloga e i poemetti di l. Tansillo. 

/ Due Fellegrinit Egloga » i 

Il Vendetìimiatore, Poemetto » 47 

Stanze a Bernardino Martirano > 85 

Clorida, Stanze al Viceré Toledo » 115 

Il Podere» Poemetto » 193 

La Balia, Poemetto » 243 



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