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Full text of "Le fiabe di Carlo Gozzi"

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BIBLIOTECA  DI  SCRITTORI  ITALIANI 

LE  FIABE 

DI 

CARLO  GOZZI 

A  CURA  DI 

ERNESTO  MASI 


VOLUME  PRIMO 


Vili. 


BOLOGNA 
NICOLA  ZANICHELLI 

i885 


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LE  FIABE 


DI 


CARLO  GOZZI 


BOLOGNA.:  TIPI  DI  NICOLA  ZANICHELLI  BfDCOOLZXZIY. 


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•LE  FIABE 


DI 


CARLO  GOZZI 


A  CURA  DI 


ERNESTO   MASI 


VOLUME  VRIMO 


BOLOGNA 
NICOLA  ZANICHELLI 

1884 


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•     •  •     •      ••*••• 

•  »     •     ••     •    •••  •       •     •     • 

•••••••••••      •  •••  • 


Proprietà  letteraria. 


CARLO  GOZZI 

E  LE  SUE  FIABE  TEATRALI 
PREFAZIONE 


SOMMARIO 


Ingiusto  obblio  di  Carlo  Gozzi  —  Sua  importanza  nella 
storia  letteraria  —  Il  Gozzi  ed  il  Goldoni  ~  Primi  anni  di 
Carlo  Gozzi  ~  In  fomìglia  —  Tre  anni  in  Dalmazia  —  La 
Dalmazia  nelle  Memòrie  del  Gozzi.  ~  Ritorno  e  principio 
della  sua  vita  letteraria  —  Accademia  dei  Granelleschi  —  Il 
teatro  e  la  riforma  Goldoniana  —  Il  Gozzi  a  capo  dei  Gra- 
nelleschi contro  il  Goldoni  e  l'Abate  Chiari  —  Origine  delle 
Fiabe  teatrali  del  Gozzi  —  Colloquio  con  un  Inquisitore  di 
Suto  —  La  Compagnia  Comica  di  Antonio  Sacchi  ~  Le 
dieci  Fiabe  ~  Il  Gozzi  ed  il  Baretti  —  Il  Gozzi  ed  il  Wer- 
thea  —  Il  Gozzi  ed  il  Lessing  —  Della  varia  fortuna  del 
Gozzi  —  in  Germania  —  in  Francia  —  in  Italia  —  Chi  era 
il  Sig.  Giuseppe  Poppa  —  Gli  imitatori  delle  Fiabe  —  Gli 
ultimi  critici  ~  Come  Carlo  Gozzi  si  dipinga  da  sé  stesso  — 
Il  capitolo  dei  Contrattempi  —  Demonio  in  gonnella  —  Vec- 
chi gelosi,  giovani  pazzi,  attrice  e  gran  dama  —  Come  fini- 
rono i  personaggi  del  romanzo  —  Non  si  piò  sempre  ri" 
dere!  —  Vecchiaia  —  Conclusione. 


PREFAZIONE 


AL  1761,  da  quando  cioè  Carlo  Gozzi 
fece  rappresentare  nel  S.  Samuele  di 
Venezia  T  Amore  delle  Tre  Melarancey 
le  sue  Fiabe  teatrali  non  furono  in  Italia  stampate 
che  due  volte,  e  unite  a  tutte  l'altre  sue  Opere, 
la  prima  volta  dal  Colombani  nel  1772,*  la  se- 
conda dallo  Zanardi  nel  1 801- 1802,  vivente  ancora 
r  autore.  *  Sono  quindi  diventate  quasi  una  pre- 
ziosità bibliografica,  al  pari  delle  sue  Memorie^  le 


i  Opere  del  Conte  Carlo  Gozzi.  Volumi  otto.  —  In  Ve- 
nezia 1772.  —  I  volumi  VII  ed  Vili  contenenti,  il  primo,  la 
Marfisa  Bìj^^arra  —  Poema  faceto  —  ed  il  secondo  un 
Saggio  di  Versi  faceti  e  di  prose  recano  la  falsa  data  di 
Firenze  1772- 1774. 

t  Opere  Edite  ed  Inedite  del  Conte  Carlo  Gozzi.  —  Vo- 
lumi Quattordici.  —In  Venezia  180 1- 1802.  U  volume  XV  di 
questa  ediz.,  primo  delle  Opere  non  teatrali,  è  assai  raro. 

Masl  a 


II  PREFAZIONE. 

quali  non  ebbero  che  una  sola  edizione  nel  1797;* 
tanto  fu  rapida  la  dimenticanza,  in  cui  presso  gli 
Italiani  cadde  dal  principio  del  secolo  in  poi  il 
nome  di  Carlo  Gozzi,  che  pure  era  stato  famoso 
pochi  anni  innanzi  e  oggetto  delle  più  vive  e  pas- 
sionate polemiche  letterarie.  Senza  entrare  ora  a 
dire  del  valore  intrinseco  delle  Opere  di  Carlo 
Gozzi,  e  guardando  il  fatto  unicamente  sotto 
V  aspetto  storico,  basta,  mi  sembra,  ripensare  quali 
tradizioni  letterarie  i  maggiori  scrittori  Italiani  si 
studiassero  di  riannodare  nei  primi  anni  del  secolo 
presente,  dal  Monti  e  dal  Foscolo  al  Leopardi  e 
al  Giordani,  e  fino  a  che,  in  opposizione  alla  filo- 
sofia e  allo  spirito  del  secolo  XVIII,  sorse  la  scuola 
dei  Romantici,  per  farsi  ragione  delPobblio,  che 
coprì  il  nome  del  Gozzi.  E  neppure  i  Romantici 
si  porsero  in  Italia  favorevoli  a  lui,  per  amore,  non 
foss'  altro,  della  capricciosa  e  ardita  libertà  dei  suoi 
lavori  drammatici.  Appena  qualcuno  dei  minori 
se  ne  ricordò,  e  più  per  far  eco  ai  Romantici 
stranieri,  grandi  ammiratori  di  Carlo  Gozzi,  di 
quello  che  per  riappiccare  ad  esso  le  nuove  dot- 
trine letterarie,  pretendenti  a  rinnovare  tradizioni 
nazionali  ben  più  alte  e  solenni,  che  non  la  pic- 
cola e  passeggera  gloria  del  Conte  Veneziano.  Ri- 
pubblicando ora  le  dieci  Fiabe  teatrali  del  Gozzi, 


1  Memorie  Inutili  della  Vita  di  Carlo  Gozzi,  scritte  da  lui 
medesimo  e  pubblicale  per  umiltà.  —  Volumi  tre.  —  In  Ve- 
nezia, Stamperia  Palese,  1797. 


PREFAZIONE.  Ili 

non  ho  bisogno  di  dire  che  non  credo  giusto  que- 
st'obblio  e  ciò  per  più  ragioni:  perchè  nella  storia 
del  teatro  italiano  le  Fiabe  del  Gozzi  rappresen- 
tano il  passato  che  lotta  ancora  e  si  contrappone 
alla  commedia  realistica  del  Goldoni,  perchè  sono 
la  forma  ultima  dell'  antica  nostra  Commedia  del-- 
Parte  e  dell'antica  commedia  popolare,  perchè 
nel  più  vivo  d' un  moto  filosofico,  il  quale,  armato 
di  tutte  le  superbie  della  ragione  umana,  mirava 
a  cambiare  l' intero  assetto  morale  della  vecchia 
società  Europea,  esse  formano  un  episodio  di  let- 
teratura fantastica,  che  per  alcuni  anni  acquista 
tale  popolarità  da  mettere  in  forse,  si  direbbe, 
persino  le  cagioni  e  gli  effetti  della  riforma  Gol- 
doniana. 

Quanto  a  cercare,  come  molti  hanno  fatto,  in- 
time relazioni  morali  fra  la  decadenza  della  vec- 
chia e  frolla  società  Veneziana  e  quest'arte  fia- 
besca del  Gozzi,  che  in  mezzo  a  tale  società  rida 
ad  un  tratto  nuova  vita  agli  ingenui  e  primitivi 
racconti  delle  Fate,  mi  sembra  questa  una  tesi 
critica,  che  non  conduca  a  conclusioni  molto  si- 
cure. Relazione  c'è,  e  dev'esserci,  ma  è  principal- 
mente estrinseca,  e  quale  d' ordinario  passa  fra  i 
fatti  sincroni  della  storia.  Il  desiderio  insaziabile 
di  novità,  l' instabilità  e  P  incertezza  anche  nei 
gusti  artistici,  le  contraddizioni  trascorrenti  d'una 
in  altra  adorazione  sono  tutti  segni  manifesti 
d'una  società  svigorita  e  decadente.  Che  del  resto 
l' arte  del  Gozzi^  con  le  ragioni  individuali  e  le 


IV  PREFAZIONB. 

circostanze,  che  l' inspirano,  con  le  tradizioni  tea- 
trali, che  raccoglie  e  rinnova,  coi  fini,  che  si  pro- 
pone sotto  l' involucro  e  il  prestigio  delle  magie  e 
degli  incantesimi,  non  ha  per  fermo  nulla  né  d' in- 
genuo, ne  di  primitivo.  E  violentando  quelle  re- 
*  lazioni  morali  e  raffinandole  in  guisa  da  determi- 
nare con  esse  una  legge  dello  spirito  umano,  per 
cui  una  società  prossima  a  decrepitezza  toma,  per 
un  ricorso  fatale,  all'infanzia  ed  ai  trastulli  pre- 
diletti di  questa  età,  si  riescirà  a  foggiare  qualche 
nuova  ed  elegante  teorica,  non  nego,  ma  non  per 
questo  si  potrà  sperare  di  conoscer  meglio  e  di 
giudicare  più  esattamente  questo  singolarissimo 
episodio  della  nostra  storia  letteraria.  Carlo  No- 
dier, discorrendo  in  genere  del  Fantastico  nella 
Letteratura,  afferma  che  esso  suole  apparire,  al- 
lorché «  sta  per  cessare  l'impero  di  quelle  verità 
o  reali  o  comunemente  accettate,  che  animavano 
ancora  d' un  ultimo  soffio  di  vita  i  congegni  troppo 
vecchi  d' una  civiltà.  ^  »  Può  darsi.  Ma  il  Nodier 
disegna  a  grandi  tratti  la  storia  del  fantastico  da 
Omero  al  Goethe  e  muovendosi  in  così  larghi 
spazii  nessuna  teoria  trova  inciampi.  Applicando 
invece  quella  del  Nodier  a  Carlo  Gozzi,  se  anche 
le  si  trovasse  qualche  riscontro  nelle  condizioni 
morali  della  società  Veneziana  di  quel  tempo, 
certo  é  però  che  tanto  il  poeta,  il  quale  nell'im- 


1  Charles  Nodier,  Contes  Fantastiques.  Du  Fantastique  en 
Littérature,  pag.  io. 


PREFAZIONE.  V 

minente  mina  delle  idee  e  dei  sentimenti  del  pas- 
sato presentiva  un  finimondo,  quanto  le  sue  Fiabe 
teatrali,  che  furono  l'espressione  più  ardita  e  più 
popolare  di  quella  sua  vivissima  preoccupazione,  ri- 
marrebbero un  mistero  inesplicabile,  a  meno  che 
non  si  volesse,  come  per  lo  più  ha  fatto  la  critica 
straniera,  trasfigurare  il  (jozzi  ad  arbitrio,  farne 
un  personaggio  ed  uno  scrittore  diverso  affatto  da 
quel  che  fu  in  realtà,  e  rinnovargli,  anche  dopo 
morto,  la  stravaganza,  di  cui  s' era  da  vivo  tanto 
doluto,  d'essere  bene  spesso  scambiato  con  per- 
sone, che  neppur  per  ombra  gli  somigliavano.  * 
Eguale  stravaganza,  si  direbbe,  è  toccata  anche 
alla  sua  fama  letteraria,  massime  cogli  stranieri, 
dai  quali  fu  tanto  esaltato,  quanto  fu  dai  suoi 
connazionali  troppo  ingiustamente  depresso  e  di- 
menticato. Questa  varia  fortuna  del  Gozzi  ha, 
come  vedremo,  ragioni  in  gran  parte  estrinseche  e 
non  del  tutto  imputabili  a  lui,  ma  in  pari  tempo 
dimostra  come  sia  difficile  dare  di  questo  scrittore 
un  giudizio  esatto  e  sicuro,  tant'è  vero  che  si 
ondeggia  tra  chi  lo  paragonò  ad  Aristofane  ed 
allo  Shakespeare  e  chi  non  volle  consentirgli  alcun 
valore  né  assoluto  né  relativo,  né  alcun  altro  di- 
ritto a  vivere  nella  stona  letteraria,  se  non  la  trista 
celebrità  dell'acerbissima  guerra  da  lui  combattuta 
contro  a  Carlo  Goldoni.  Al  quale  proposito  é  da 
notare  che  di   quanti   lodarono  il   Gozzi   non  ve 

*  Memorie  cit  Pane  III,  Gap.  I  pag.  187,  88. 


VI  PREFAZIONE. 

n'ha  uno,  si  può  dire,  che  non  lo  lodi  per  depri- 
•  mere  il  Goldoni,  e  che  d' altra  parte  la  critica 
italiana  fu  cosi  severa  a  Carlo  Gozzi  principal- 
mente per  amore  e,  quasi,  per  vendetta  del  Gol- 
doni. Eppure  nessun  confronto  è  possibile  fra 
questi  due  uomini  l  II  contrasto  fra  essi  non  è 
soltanto  nella  misura  dell^  ingegno  e  nell'  indole 
rispettiva.  Ma  come  l'ingegno  e  l'indole,  che  na- 
tura dà,  si  svolgono  ed  operano  in  un  modo  o  in 
un  altro  a  seconda  della  nascita,  dell'educazione, 
della  fortuna  e  delle  varie  circostanze,  fra  le  quali 
all'  uomo  è  toccato  di  vivere,  così  anche  per  tut- 
tociò  il  destino  dell'  uno  e  dell'  altro  li  colloca 
sopra  due  vie  affatto  opposte  e  predispone  le  ma- 
nifestazioni diverse  della  loro  indole  e  gli  atteg- 
giamenti diversi  del  loro  ingegno.  La  vita  effi- 
ciente d' entrambi  comprende  la  parte  veramente 
originale  e  caratteristica  del  secolo  XVIII,  il  quale 
sino  circa  alla  prima  metà  non  è  che  uno  stra- 
scico del  Seicento;  scrivono  entrambi  per  il  teatro, 
e  cessano  entrambi  di  scrivere  a  non  grande  di- 
stanza di  tempo.  Ma  a  questo  si  limita  ogni  loro 
conformità  e  somiglianza.  La  giovinezza  del  Gozzi, 
benché  si  svolga  anch'essa  in  mezzo  a  vicende 
non  comuni,  non  ha  nulla  di  quella  libertà  spen- 
sierata e  girovaga  del  Goldoni,  che  spiega  tanto 
di  quel  suo  scrivere  a  furia  e  di  quella  prodiga- 
lità disattenta  del  suo  genio.  Ha  molto  invece  di 
certa  selvatichezza  mezzo  tra  beffarda  e  collerica, 
che  poi  determina  l'indole  della  sua  satira,  e  per 


PREFAZIONE.  VII 

ripicco  al  realismo  democratico  e  borghese  ed  alla 
placida  celia  della  commedia  Goldoniana  la  bur- 
lesca e  strampalata  ironia  delle  sue  Fiabe  e  delle 
sue  imitazioni  Spagnolesche.  L'uno  e  l'altro  hanno 
scrìtto  le  Memorie  della  propria  vita.  Ma  il  Gol-, 
doni  scrive  la  storia  della  sua  vita,  affinchè  serva 
a  quella  del  suo  teatro  e  fra  la  sua  vita  ed  il  suo 
teatro  passa  un  vincolo  cosi  stretto  e  cosi  intimo, 
che  le  prefazioni  e  le  dediche  delle  sue  commedie 
gli  servono  di  documento  per  richiamarsi  a  mente 
tutte  le  sue  vicende  passate,  sicché  non  parla  quasi 
che  del  teatro,  e  tutto  il  resto  gli  si  confonde  in  una 
nebulosa  piena  d'obblio,  nella  quale  non  disceme 
più  ne  volti  ne  nomi.  Quando  si  mette  a  scrivere 
le  sue  Memorie^  non  ha  più  ne  rancori  (se  mai 
ne  ebbe  ),  ne  timori,  ne  speranze.  Sa  che,  deposta 
la  penna,  non  la  rìpiglierà  più  e  non  gli  rimarrà 
che  di  aspettare  la  morte  tranquillamente.  Quindi 
è  che  sulla  sincerità  inoffensiva  e  disinteressata 
de' suoi  ricordi  non  cade  mai  ombra  di  dubbio.  Il 
Gozzi  invece  scrive  le  sue  Memorie  (  che  qualifica 
inutili  e  pubblicate  per  umiltà^  benché  né  inutili 
le  credesse,  né  l' umiltà  fosse  mai  stata  tra  le  sue 
virtù)  scrive  le  sue  Memorie  con  un  proposito 
espressamente  ed  unicamente  apologetico,  peroc« 
che,  impedito  dall'ombrosa  autorità  del  governo 
di  rispondere  ex  abrupto  al  libello  d'  un  suo  ne- 
mico, volle,  dipingendo  tutto  sé  stesso,  risponder- 
gli indirettamente  e  mostrare  che  le  imputazioni 
dategli  erano  in  aperta  contraddizione  con  la  sua 


vili  PREFAZIONE. 

indole,  co'  suoi  costumi  e  con  tutto  il  suo  passato. 
Donde  apparisce  come  delle  sue  Memorie,  al  pari  di 
tutte  l'altre  sue  Opere,  che  sono  tutte  di  pole- 
mica o  satiriche,  bisogni  valersi  con  molta  cautela 
al  fine  di  trame  notizie  per  la  sua  vita  o  per  gli 
intendimenti  dell'  arte  sua.  E  tuttavia  se  v'  ha  * 
scrittore,  che  importi  conoscere  intimamente  per 
giudicarlo  bene,  è  appunto  il  Gozzi,  intomo  al 
quale  s' è  venuto  formando  una  specie  d'  arcano, 
e  a  mantenerlo  contribuirono  non  poco  certi  par- 
ticolari difetti  del  suo  stile,  e  la  rarità  relativa 
delle  sue  Opere,  per  cagione  delle  due  sole  edizioni 
che  ne  furono  fatte.  Ecco  quindi  una  nuova  ra- 
gione di  ripubblicare  le  Ftabe^  forse  non  ben 
note  neppure  a  tutti  quelli,  che  ne  hanno  parlato, 
e  documento  principalissimo  del  bizzarro  ingegno 
del  Gozzi.  Oltredichè,  durando  ancora  «  l'incerto 
e  timido  ecletismo  (scriveva  anni  sono  il  Car- 
ducci )  col  quale  noi  andiamo  come  a  tastone  per 
le  vie  dell'arte*  »  e  fra  le  molte  prove,  onde 
scrittori  incerti  tentano  il  gusto  d' un  pubblico  più 
incerto  di  loro,  spesseggiando  pure  quelle  di  genere 
fantastico  ed  umoristico,  pare  giusto  ed  opportuno, 
risuscitare  la  memoria  d'uno  scrittore  italiano, 
che,  raccolta  la  tradizione  dei  nostri  eroicomici  e 
romanzeschi,  cercò  ingegnosamente  ricongiungerla 
alla  tradizione   della   commedia  popolare   e  della 


i  Di  Alcune  Condizioni  della  Presente  Letteratura  nei  JBòi^- 
j^etft*  e  Discorsi, 


PREFAZIONE.  IX 

Commedia  delV  artCj  allargarla  colla  mitologia 
fiabesca  dei  novellatori  orientali,  introdurvi  molti 
e  diversi  argomenti  di  satira  contemporanea  e  di 
tuttociò  comporre  un'opera  teatrale  che,  quale 
che  sia,  rimase  sola  nella  nostra  letteratura.  ^ 

Carlo  Gozzi  nacque  in  Venezia  il  13  Dicembre 
1720,*  e  questa  data  ci  mette  già  sulle  traccie 
d'una  gherminella  molto  curiosa,  ch'egli  fa  ai 
lettori  delle  Memorie.  Occasione  a  queste  e  alla 
difesa,  che  imprese  a  fare  di  sé  medesimo,  è  un 
amore  un  po' serotino,  stato  cagione  a  lui  e  ad 
altri  d'infiniti  travagli  e  sciagure;  e  temendo,  si 
vede,  il  ridicolo,  che  s'appiccica  agli  amori  dei 
vecchi,  ricorre  al  partito  di  tacere  la  data  della 
sua  nascita  e  se  la  cava  dicendo:  «  scrivo  l'ultimo 
giorno  d'Aprile  nell'anno  1780.  L'età  mia  oltre- 
passa i  cinquant' anni  e  non  arriva  ai  sessanta. 
Non  disturbo  il  sacrestano,  perchè  mi  faccia  ve- 
dere la  fede  del  mio  battesimo perchè  non  f o  ^ 


*  n  Prof.  Arturo  Graf  nel  FanfuUa  della  Domenica  del 
4  Febbraio  i883  scriveva:  «  io  credo  che  se  ci  fosse  in  Italia  un 
editore  di  buona  volontà  che  prendesse  a  ristampare  le  FiabCy 
l'opera  sua  non  sarebbe  sprecata.  »  Quando  il  Professore 
Graf  scriveva  queste  parole,  il  mìo  ottimo  amico,  Nicola  Za- 
nichelli, di  cara  memoHa,  aveva  già  per  consiglio  delP  illu- 
stre Pro£  Carducci  deliberata  e  incominciata  la  ristampa 
delle  Fiabe. . 

*  L'estratto  battesimale  di  Carlo  Gozzi,  nato  il  i3  Di- 
cembre 1730,  battezzato  il  26  del  mese  stesso,  trovasi  nei 
registri  di  S.  Paterniano  in  Venezia.  Comunicazione  del  sig. 
Ermanno  von  Ldhner. 


Z  PREFAZIONE. 

conto  alcuno  sull'età  degli  uomini.  In  tutte  le 
età  si  muore,  ed  ho  veduti  essere  uomini  de' ra- 
gazzi, Qd  essere  degli  uomini  maturi  e  dei  vecchi 
petulanti  e  ridicoli  fanciulletti.  ^  »  Verissimo  ;  ma 
intanto,  quando,  poche  pagine  dopo,  egli  ha  da 
narrare  il  principio  della  sua  vita  militare  in  Dal- 
mazia sotto  gli  ordini  del  Patrizio  Girolamo  Que- 
rini,  mandato  colà  Provveditore  Generale,  dice 
espressamente  d'essere  partito  e  in  età  di  sédici 
in  diciasett'  anni.  *  »  Ora  dai  dispacci  del  Querini 
risulta  che  il  medesimo  s' imbarcò  per  la  Dalm^izia 
il  2  ottobre  1741.'  In  questo  tempo  al  Gozzi 
mancavano  dunque  due  mesi  a  compiere  il  ven- 
tunesimo anno,  ed  egli  si  fa  invece  più  giovine  di 
circa  tre  anni  col  fine  evidente  di  nascondere  che 
quando  dal  1771  in  poi  ebbe,  come  vedremo,  a 
trovarsi  impigliato  in  cosi  grandi  vicende  d' amorì, 
più  di  mezzo  secolo  gli  pesava  già  sulle  spalle.  * 
Debolezze l   Ma  che   danno  già   idea   dell'indole 


1  Memorie  cit.  Parte  I,  Gap.  I,  pag.  9. 

*  Memorie  cit.  Parte  I,  Gap.  IH,  pag.  34. 

s  Archivio  di  Venezia.  —  Dispacci  di  Ser  Girolamo  Que* 
rini  (Filza  171).  Nella  lettera  11  ottobre  1744  dal  porto  di 
S.  Eufemia  dice  arrivato  il  suo  successore,  Ser  Giacomo 
Boldù  (  Filza  173)  e  questi  nella  sua  lettera  13  ottobre  stesso 
comunica  ai  Senato  che  il  Generalato  gli  fii  consegnato  dal 
Querini.  Debbo  questa  comunicazione  alla  somma  corteua 
del  Gomm.  Gecchetti,  Soprintendente  degli   Archivi   Veneti. 

*  Il  prìmo  a  fare  tale  osservazione  fu  P  eruditissimo  e 
brillante  illustratore  delle  Memorie  del  Goldoni,  il  sig.  Er> 
manno  von  Lòhner.  Vedi  V  Archivio  Veneto,,  Puhblica^iùne 
Periodica,  Tom.  24  da  pag.  203  a  211. 


PREFAZIONE.  ZI 

dell'  uomo,  non  così  schietto  e  buono,  com'  egli 
volle  dipingere  se  stesso  e  parecchi  lo  credettero, 
ne  così  tristo,  come  pretese  con  grande  esagera- 
zione il  Tommaseo,  che  lo  disse  vile,  ipocrita, 
ignobile  in  ogni  cosa.  *  Gli  stranieri,  non  distin- 
guendo bene  i  yarii  ordini  della  nobiltà  Veneta, 
lo  titolano  per  lo  più  Patrizio  Veneziano,  ma  non 
era.'  Al  patriziato  Veneziano  teneva  soltanto  dal 
lato  della  madre,  una  Tiepolo.  Dal  lato  del  padre 
era  cittadino  originario  di  Venezia,  ma  di  nobiltà 
provinciale.  Allorché  fu  in  età  di  attendere  agli 
studi,  lo  scompiglio  economico  di  casa  Gozzi  (che 
fu  poi  la  tribolazione  di  tutta  la  sua  vita)  era  già 
incominciato,  cosicché  Carlo  fu  di  que' fanciulli 
infelici,  venuti  tardi  in  una  famiglia  numerosissima 
e  già  declinante  (  era  il  sesto  di  undici  fratelli  ), 
i  quali  sono  abbandonati  a  sé  stessi  o  confidati  al 
primo  capitato.  Ma  poesia  e  debiti,  letterati  ed 
usurai,  ecco  tutto  P  intemo  di  casa  Gozzi  a  quel 
tempo.  «  Un  oispedale  di  poeti  »  la  definisce 
Carlo  ^  e  vuol  dire  a  un  dipresso  un  ospedale  di 
matti.  Anche  il  taciturno  e  selvatico  fanciullo  fu 
dunque  ben  presto  invasato  dal  furore  febèo  di 
tutta  la  famiglia,  nella  quale  si  teneva  «  una  gior- 


1  Vedi  nella  Storia  Civile  nella  Letteraria  lo  studio 
tu  Pietro  Chiari,  la  letteratura  e  la  moralità  del  suo 
tempo.  (Ediz.  Loescher,  1872)  ptg.  280-291-292. 

*  Romania.  —  Stona  Documenuta  di  Venezia.  Tom.  IX, 
Gap.  I. 

3  Memorie  cit.  Parte  I,  Gap.  Il,  pag.  26. 


XU  PREFAZIONE. 

naliera  adunanza  letteraria.  »  e  in  villa  tutta  la 
numerosa  figliuolanza  s'esercitava  non  solo  a  re- 
citare «  opere  tragiche  e  comiche  apparate  a  me- 
moria »  ma  ancora  «  farse  giocose  di  piccolo  in- 
treccio alla  sprovveduta.  »  Egli  e  sua  sorella  Ma- 
rina sapevano  contraffare  assai  bene  certune  fra 
le  più  ridicole  persone  del  villaggio.  «  Inne- 
stando alle  farse,  scrive  il  Gozzi,  molte  scene 
appoggiate  a  dialoghi  ed  a  contrasti  famosi  di 
quelle  mogli  e  di  que' mariti,  spesso  ubbrìachi, 
co' panni  indosso  dei  nostri  originali  imitati,  la 
copia  d'imitazione  era  tanto  pontuale  agli  occhi 
de' nostri  villerecci  ascoltatori,  che  conoscendola, 
ridendo  bestialmente  ci  caricavano  d' applausi  pro- 
porzionati alle  loro  grossolane  nature.  A  mio  pa- 
dre ed  a  mia  madre  venne  il  capriccio  di  voler 
essere  imitati  in  una  farsa  da  me  e  dalla  mia  so- 
rella accennata.  Facemmo  gli  schizzinosi  alquanto, 
ma  bbogna  obbedire  al  padre  e  alla  madre.  Gli 
abbiamo  serviti  con  una  esattissima  imitazione  di 
vestiti,  d'  attitudini,  d' intercalari  e  di  dialoghi  in 
alcune  scene  intrecciate  di  famigliari  contrasti  tra 
lor  consueti.  La  maraviglia  loro  fu  grande  e  le 
loro  risa  furono  il  castigo  alla  nostra  obbediente 
temerità.*  »  Esemplari  educatori  davvero  quel 
padre  e  quella  madre  Gozzi!  Ma  essi  non  s'aspet- 
tavano di  certo  che  questi  semi  fruttificassero  poi 
così  bene  nell'animo  di  Carlo,  tanto  per  l'amore 

i  Ibid,  pag.  i8. 


PREFAZIONE.  XIII 

innocente  della  commedia  improvvisa^  quanto  per 
avvezzarsi  così  di  buon'  ora  a  creder  lecito,  o  ino* 
raimente  indifferente,  ogni  eccesso  di  beffa  e  di 
satira  verso  gli  altri.  Assai  meào  mantenne  in  certo 
senso  le  promesse  de' suoi  primi  saggi  letterari, 
vale  a  dire  per  regolarità  di  sintassi  poetica  e  per 
chiarezza,  se  si  ha  a  giudicare  dal  sonetto:  Alla 
vedova  d'un  cagnolino^  che  riferisce  come  com- 
posto a  nove  anni,  e  da  altro  sonetto  composto  a 
undici  anni  e  fatto  tutto  di  emistichi  amatorii 
classici,  che  gli  valse  le  lodi  e  i  lieti  pronostici 
d'Apostolo  Zeno.  D'allora  in  poi  studiò  e  scri- 
bacchiò a  dirotta,  sicché  all'  età  di  sedici  anni  (  o 
meglio  venti  )  ^  avea  già  scritto  «  oltre  a  delle 
innumerabili  prose  e  delle  innumerabili  poesie  vo- 
lanti, quattro  lunghi  poemi,  il  Berlinghieri,  il 
Don  Chisciotte,  la  Filosofia  Morale^  cioè  i  di- 
scorsi degli  Animali  parlanti  del  Firenzuola,  il 
Concila  in  dodici  canti.  ^  »  Suo  fratello  maggiore, 
il  celebre  Conte  Gaspare  Gozzi  «  per  una  geniale 
astrazione  poetica  ^  >  s' era  maritato  a  Luigia  Ber- 
galli,  povera,  di  dieci  anni  più  vecchia  di  lui,  poe- 


1  Rimando  il  lettore  ai  cinque  primi  numeri  del  Saggio 
Bibliografico  sul  Gozzi,  che  pubblico  in  fine  del  Volume 
secondo  e  che  mi  fu  favorito  dalP  egregio  sig.  Vittorio  Ma- 
lama  ni,  dal  quale  ebbi  in  questa  occasione  tanti  e  così  ami- 
chevoli aiuti,  che  compio  veramente  un  dovere,  signifìcan- 
dogli  pubblicamente  la  mia  gratitudine. 

*  Memorie^  cit.  Parte  I,  Gap.  Il,'  pag.  29. 

s  Ibid.  Gap.  Ili,  pag.  31. 


ZIV  PREFAZIONE. 

tessa  per  giunta  e  fra  gli  Arcadi  Irminda  Parte- 
nide.  Iacopo  Aiitonio  Gozzi,  il  padre,  era  stato 
colpito  di  paralisi;  Gaspare,  incurante  di  tutto, 
che  non  fosse  i  suoi  studi,  ayea  lasciato  che  la 
moglie  pigliasse  le  redini  di  tutta  la  casa,  e  la 
poesia  arcadica,  applicata  alP  amministrazione  d^  un 
patrimonio  in  disordine,  avea  dato  ben  presto  i 
frutti,  che  erano  da  aspettare.  Le  strettezze  eco- 
nomiche inasprivano  gli  animi.  Ai  debiti  s*  aggiun- 
gevano continue  baruffe  in  famiglia.  Carlo  dunque 
stabilì  d' imitare  l' esempio  d' un  altro  suo  fratello, 
e  raccomandato  dallo  zio  Tiepolo  a  Sua  Eccel- 
lenza Querini,  che  andava  Provveditore  Generale 
in  Dalmazia  ed  Albania,  s'arruolò  come  Ventu- 
riere  e  salpò  da  Malamocco  sulla  galèra  genera- 
lizia, che  dovea  portare  a  Zara,  sede  della  Reg- 
genza, il  Querini,  avendo  per  tutto  viatico  pochi 
cenci,  i  suoi  libri  ed  il  chitarrìno,  sul  quale  so- 
leva improvvisare  canzonette.  Seguiamolo  ora  nella 
sua  dimora  triennale  in  Dalmazia  (  1741 -1744), 
la  relazione  della  quale  il  Lòhner  giudica  «  un 
capolavoro  di  studio,  che  tuttora  conserva  il  suo 
valore  politico  ed  etnografico.  *  »  Poco  descrive  i 
luoghi,  perchè,  sebbene  quella  selvaggia  natura 
avesse  pur  dovuto  impressionare  di  qualche  guisa 
il  giovine  Veneziano,  il  paesaggio  vero  non  avea 
ancora  riacquistata  alcuna  importanza  letteraria 
né  nella  poesia,   né   nella  prosa   di   quel  tempo. 

1  Archivio  Veneto  cit.  Tom.  24,  pag.  J08. 


PREFAZIONE.  ZV 

Acutissime  nella  loro  strana  ironia  sono  per  com- 
penso le  sue  osservazioni  sui  caratteri  de' suoi 
compagni,  sui  costumi  e  sulle  condizioni  morali, 
economiche  e  politiche  di  quella  provincia  della 
Serenissima  ;  costumi  e  condizioni,  che  formano  il 
maggiore  contrasto  colla  splendida  capitale,  a  cui 
tutti  i  gaudenti  del  mondo  accorrevano  ancora 
come  alla  «  Sibari  dell'Europa.*  »  Cito  i  brani 
che  mi  sembrano  più  caratteristici  della  relazione 
del  Gozzi: 

«  L'arrivo  all'imbarco  de!  Provveditore  Generale  fra  lo 
strepito  degli  strumenti  e  delle  cannonate,  mi  scpsse  da  miei 
piccioli  pensieri  e  mi  sorprese. 

Questo  Cavaliere  che  io  aveva  prima  ben  dieci  volte 
Tisicato  al  di  lui  palagio  m'aveva,  sempre  accolto  scherze- 
vole, e  con  quella  affabilità,  e  quella  dolcezza  confidenziale 
eh*  è  propria  quasi  in  tutti  i  Veneti  Patrizi,  giunse  all'  im- 
barco colle  vesti,  colle  scarpe  e  col  cappello  cremesi,  con  un 
aspetto  sostenutissimo  a  me  nuovo,  e  con  una  fierezza  nel 
volto  notabile.  Appresi  dagli  altri  uffiziali,  che  alla  sua  com- 
parsa in  quelle  vesti  occorrevano  delle  mute  riverenze  pro- 
fonde e  assai  diverse  da  quelle  che  si  fon  no  in  Venezia  ad 
un  Patrizio  togato.  Salì  egli  nella  galera  Generalizia,  mostrò  di 
non  degnarsi  nemmeno  di  osservare  i  nostri  inchini  co*  no- 
stri nasi  sui  nostri  piedi.  Sbandita  affatto  l'affabilità  con  cui 
d  aveva  accolti  e  presi  per  la  mano  in  Venezia,  non  guardò 
nessuno  di  noi  nel  volto  e  fece  caricar  di  catene  il  giovine 
Capitano  della  Guardia  appellato  Combat,  che  aveva  man- 
cato di  non  so  quale   piccola   ceremonia   militare  nelPacco- 


*  Foscolo.  —  Opere  —  Viaggio  Sentimentale  dello  Sterne. 
VoL  11,  pag.  493  (in  nota). 


XVI  PREFAZIONE. 

gUerlo.  Osservai  tutti  gli  astanti  sbigottiti  e  con  gli  occhi 
spalancati  guardarsi  Pun  P  altro.  Quelle  austere  .  novità  oc- 
cuparono per  poco  il  mio  cervello.  Parvemi  ragazzescamente 
filosofando  di  comprendere  che  un  Nobile  d^  una  Repubblica 
eletto  Provveditor  Generale  d^  una  armata  e  Capo  di  due 
estese  Provincie,  nel  presentarsi  tale  dovesse  mostrarsi  in  un 
aspetto  affiitto  diverso  da  quello  d^un  Patrizio  togato,  per 
hr  tremare,  e  per  istillare  della  soggezione  a  tutti  i  subor^ 
dinati  avvezzi,  e  fatti  arditi  da  un  privato  cortese  accogli- 
mento, e  spesso  presuntuosi,  e  milantatori  di  possedere  e  di 
disporre  della  Grazia  Generalizia. 

Siccome  era  io  fortissimo  nella  massima  di  non  com- 
mettere delitti,  di  fare  il  dover  mio  senza  niente  pretendere 
dalla  fortuna,  fui  meno  atterrito  degli  altri  al  terribile  conte- 
gno e  agli  aspri  comandi  di  quel  Signore.  Diceva  tra  me: 
Egli  mi  fa  alquanto  di  paura,  ma  egli  si  degna  di  darsi  il 
peso,  il  pensiero  e  lo  studio  di  trasformare  se  medesimo  nel 
contegno  per  farmela,  ed  apprezzando  la  sua  fatica  trovava 
minore  la  mia  paura  del  suo  disturbo. 

Ritiratosi  egli  nella  sua  stanza  nel  profondo  di  quel  na- 
vilio  infernale,  spedì  il  Tenente  Colonnello  Micheli  suo  Mag- 
giore della  Provincia  a  tutti  gli  Uffiziali  e  Venturieri  imbai^ 
cati  a  chiedere  loro  chi  fossero  e  da  chi  raccomandati. 

Dopo  tante  visite  fattegli  nel  di  lui  palagio,  tanti  acco- 
glimenti, tanti  Colloqui  avuti  con  lui  in  Venezia  da  tutti  noi, 
nessuno  si  attendeva  questa  ricerca.  Mi  riconfermai  nel  ri- 
flesso ragazzo-filosofico  che  aveva  fatto. 

In  questa  maniera  egli  estingueva  interamente  in  ognuno 
le  speranze  concepite  nelle  visite  fattegli  ed  accolte  con 
Canta  umanità  prima  che  sMmbarCasse  e  prima  che  vestisse 
le  insegne  Generalizie. 

11  Maggiore  della  Provincia  Micheli  ottima  persona,  e 
assai  pingue,  venne  ad  eseguire  quel  comando  molto  afiac- 
cendato  e  sudato  in  gran  diligenza  con  un  foglio  ed  un  toc^ 
calapis. 

Ognuno  aombrava,,  borbottava  e  sbuffava  a  passare  quella 


inttegna.  Dal  caato  mio  ho  riposto  con  viso  rìdente  al  signor 
Maggiore  della  Provincia  pingue,  e  badiale,  chMo  mi  chia* 
ma  va  Carlo  Gozzi,  e  ch'era  stato  raccomandato  dal  Patrìziic»> 
Almorò  Cesare  Tiepolo.  Tacqui  il  Senatore  e  il  mio  ^  msK 
temo,  per -non  comparire  ai^ibizioao. 

Quella  dimenticanza,  certamente  finta,  nelPE.  S.  che 
tanto  increbbe  agli  altri,  a  me  parve  un  tratto  politico  ne- 
cessario per  alcune  teste  fumanti*  de*  miei  aozi  che  s^eraua 
molto  vantati  dMntrinsechezza  cù\  Cavaliere*  prima  del  di' 
lai  imbarco. 

La  galera  Generalizia,  col  seguito  d' un'altra  galera  detta 
Conserva,  e  d'alcuni  navigli  sottili  armati,  s'avviò  nel  golfo 
Adriatico  e  sopraggiunse  la  notte  assai  buia.  ^  » 

Otto  giorni  dopo  che  il  Gozzi  era  giunto  a 
Zara  fu  colpito  d^  una  malattia  mortale^  dalla  quale 
scampò  per  miracolo  ed  in  questa  occasione  si' 
strinse  della  più  cordiale  amicizia,  con  Innocenzo 
Massimo  di  Padova;  amicizia  che,  contratta  ne' mi- 
gliori anni  d' entrambi,  durò  tutta  la  loro  vita.  * 
Attese  poscia  alla  meglio  a  qualche  studio  ed  eser- 
cizio di  arte  militare,  non  trascurando  del  ttitto 
però  la  poesia,  alla  quale  anzi  fu  debitore  d'un 
insperato  trionfo,  eh'  egli  narra  al  solito  con  molta 
vena  di  satira  nelle  sue  Memorie: 


1  Memorie  cìt.  Parte  I,  Cap.  4.  pag.  39-40-41. 

*  Ibid.  Cap.  5,  pag.  48  e  49,  e  la  Dedica  del  Tom.  4,  del* 
Tediz.  Colombani.  Un  dugento  lettere  circa  del  Gozzi  pos- 
siede il  sig.  Conte  Angeli  di  Padova,  pronipote  del  Massimo, 
e  se  ne  valse  il  Malamani  per  un  profilo  del  Gozzi  nella' 
Nuova  Rivista  di  Torino,  lo  pure  potei  vedere  quelle  lettere 
per  mezzo  del  mio  egregio  amico  Cav.  Federico  Stefani,  il- 
lustre cultore  di  storiografia  Veneziana. 

BfUsi.  h 


XVni  PREFAZIONE, 

«  La  città  di  Zara  volle  dare  un  segno  di  venerazione 
al  nostro  Proweditor  Generale  Qùirini,  e  fu  edifica^  per 
un  sol  giorno  solenne  nel  prato  del  Forte  una  gran  sala  di 
tonami,  adobbata  di  bei  damaschi,  e  furono  dispensati  a 
molte  persone  de^  viglietti  d' invito  per  radunare  un'  Accade- 
mia nella  giornata  prefissa  di  prosatori  e  verseggiatorL 

Ogni  Accademico  invitato  doveva  recitare  due  compoaì- 
zioni  in  prosa  o  in  verso  a  piacere.  Ne'  viglietti  erano  notati 
il  primo  ed  il  secondo  tema  da  trattarsi.  Ecco  il  primo.  Se 
sia  più  lodevole  il  Principe,  che  serba,  difende  e  coltiva  i 
propri!  stati  nella  pace  o  sia  più  lodevole  quello,  che  cerca 
di  conquistare  de'  nuovi  stati  colP  armi  per  dilaure  il  do- 
minio suo.  1  Ecco  il  secondo.  Una  composizione  in  lode  del 
Provveditore  Generale. 

Un  vecchio  Nobile  della  città  detto  il  signor  Dottore  Gio- 
vanni Pellegrini  Avvocato  fiscale,  vestito  a  velluto  nero  con 
una  gran  parrucca  bionda  raggruppata,  letterato  molto  elo- 
quente sullo  stile  del  Padre  Casimiro  Frescot  e  del  Tesauro, 
era  il  capo  Accademico  e  dispensatore  degli  inviti. 

A  me  nqn  fu  dato  cotesto  invito.  Ciò  prova  eh*  io  ero 
un  ignoto  dilettante  di  belle  lettere  e  può  anche  provare, 
che  il  signor  Pellegrini  assennato,  e  gravissimo  mi  credette 
ragionevolmente  ragazzo  non  degno  d' essere  considerato,  trat- 
tandosi d'una  impresa  ch'egli  conduceva  colla  maggior  se- 
rietà illirica  italiana. 

Li  signori  Colombo  e  Massimo  m' eccitavano  ad  apparec- 
chiare due  composizioni  suf  temi  proposti,  e  sparsi  per  la 

1  Curioso  è  conlrontare  questo  tema  d' un' Accademia 
officiale  con  quello  che  nel  Seminario  di  Treviso  proponeva 
Lorenzo  Da  Ponte,  altro  personaggio  caratteristico  del  Secolo, 
e  che  gli  tirò  addosso  le  ire  del  Governo.  11  tema  del  Da 
Ponte  era.:  «  Se  l' uomo  procacciato  si  fosse  la  felicità  unen' 
dosi  in  sistema  sociale  o  se  piti  felice  poteva  reputarsi  in 
istato  di  semplice  natura.  »  Un  piccolo  Rousseau  in  Semi- 
nario! (Vedi:  Memorie  di  Lorenzo  Da  Ponte  di  Ceneda  — 
Nuova  Jorca  1829-30  Voi.  I.)    - 


r         PREFAZIONE.     .  XIX 

gran  giornata  prefissa,  ma  io  ricusala  di  fare  una  tale  com* 
pai^  e  per  non  avere  avuto  P  invito  e  per  umiltà. 

Tuttavia  volli  divertirmi  occultamente  e  abortire  due 
sonetti  Puno  sul  primo,  P  altro  sul  secondo  argomento,  ma 
risoluto  di  non  fare  alcun  uso  di  quelli  gli  aveva  seppelliti 
nel  fondo  d' una  scarsella.  Si  deVe  credere  ch^  io  lodassi  col 
primo  la  pace  e  che  il  secondo  fosse  un  elogio  felice,  o  in- 
felice all^  Eccellenza  Sua. 

Il  Provvedìtor  Generale  accompagnato  dagli  uffiziali,  e 
da^ma^iori  di  quella  Città  entrò  nella  sala  casotto  e  si  as- 
sise in  un  ricco  sedile,  al  quale  si  saliva  F>er  molti  gradini, 
e  uno  stormo,  non  so  da  dove  uscito  di  Letterati  andava  pò* 
sando  i  loro  terghi  eruditi  in  afcuni  seggioloni  che  formavano 
un  semicircoio. 

Aveva  veduti  fuori  dal  casotto  ìndamascato  de' servi  af- 
fiscendati,  che  apparecchiavano  de'  rinfreschi  acquatici,  e  una 
gran  sete  mi  molestava.  - 

Credei  cosa  lecita  P andar  a  chiedere  in  cortesia  una  li- 
monata a  que' servi  per  dissetarmi  ed  era  da  mai  consiglio 
ingannato.  Mi  si  rispose  che  per  un  preciso/ comando.  Patto 
della  misericordia  di  dar  da  bere  agli  assetati  era  riservato 
per  spedai  privilegio  verso  gli  accademief  sottanto. 

Questa  sgarbau  risposta  data  al  sitio  di  molti  uffiziali 
aveva  accesa  una  muta  turbolenza.  Mi  vergognai  di  ricevere 
una  negativa  tanto  increata  e  mi  determinai  jn  sul  fatto  con 
viso  franco  a  dichiararmi  Accademico  per  non  sofferire  ros- 
sore, e  per  espugnare  una  limonau  col  titolo  di  poeta  e  con 
du^  sonetti,  eh'  era  inespugnabile  col  titolo  d '  uffiziale  e  coll$ 
armi.,..  Risuonò  Paere  per  tre  lunghe  ore  di  lunghe  disser- 
tazioni ampollose,  erudite  e  ài  carmi  poco  soavi.  Qualche  gè- 
neralizio  sbadiglio  onorava  di  quando  in  quando  P  Accademia 
e  gli  Accademici....  Tuonai  anch' io  nelP  Accademia  col  mio 
sonetto  in  lode  del  nostro  Provveditore  Generale  Quirini. 
Quest'ultimo  Sonetto  ebbe  la  sorte  febea  di  piacere  assai 
air  E.  S.  «  alP  universale  per  conseguenza,  egli  mi  stabilì 
Poeta  nelle  opinioni  Zaratine.  Fece  poi  nascere  una  scena 


XX  PHSFAZIONQ^ 

comica  due  giorni  dopo.  Il  Provveditore  Generale  si  4ivep- 
ti  va  spes&o  sul  P  ore  frefche  a  correre. a  ca,vaUo  quando  quauroki 
quando  sei  miglia  fuori  della  Città,  e  upa  truppa  d'Uffiziali 
gli  facevano  codazzo  cavalcando  dietro  allo  orme  site.  Tra, 
questi  correva  anchMo. 

Cavalcando  per  tal  modo  un  giorno  venne  bramai  air 
V  E.  S.  di  sentire  nuovamente  il  mio  Sonetto  in  sua  lodei» 
ch'era  divenuto  famoso^  come  spesso  si  vedono  divenir  cir^ 
colari  in  copia  e  famose  delle  inezie  per  le  sole  circostanze 
che  le  avvalorano. 

Il  Cavaliere  mi  chiamò  altamente;  spronai  il  cavallo  pen 
appressarmegli  ed  egli  senza  punto  rallentare  il  galoppo,  mi: 
comandò  di  recitargli,  quel  sonetto.  Non  credo  che  sia  mai. 
stato  recitato  un  sonetto  in  una  maniera  simile  a  quella  eh'  lO: 
dovei  prendere,  dalla  creazione  del  mondo  a  quel  punto^ 

Galoppando  dietro  a  quel  Signore,  sparando  quasi  il. 
polmone  per  farmi  udire,  con  tutti  i  trilli,,  le  aspirazioni,  le 
cadenze,  i  semituoni,  le  mozzlcature,  e  le  dissonanze  che  può 
cagionare  lo  scuotimento  niente  accademico  d' un  ^avallo  in 
corso,  recitai  quel  sonetto,  che  parve  di  singulti,  e  ringraziai 
il  Cielo  cacciato  ch'ebbi  fuori  il  quattordicesimo  verso. i> 

E  dei  costumi  e  delle  condizioni,  eh'  egli  os- 
servò, delle  Provincie  Illiriche  in  quel  tempo,, 
scrive  così: 

«  Ho  vedute  tutte  le  Fortezze,  incolte  terre  e  molti  vii* 
laggi  di  quelle  Provincie.  In  parecchie  città  trovai  delle  per- 
sone educate,  dì  buona  fede,  cordiali  e  liberali.  Nelle  più 
lontane  dalla  Corte  del  Provveditor  Generale,  de' costumi 
.rozzi  e  barbari.  I  villici  sono  tutti  fiere  crudeli,  supersti- 
ziose, insensibili  alla  ragione.  Conservano  ne' loro  matrimoni, 
ne' loro  mortuori,  ne' loro  giuochi  gli  usi  degli  antichi  Gen- 
tili perfettamente.  Chi  legge  Omero,  e  Virgilio  trova  1*  imma* 
gine  dei  Morlacchi. 

*  Memorie  cit.  Parte  I,  Cap.  7,  pag.  58,  Sg,  60,  61,  6a. 


PREFAZIONE.  XXI 

Essi  pagano  una  truppa  di  femmine  perchè  piangano  sui 
Gadaverì  de'  morti  loro,  le  quali  femmine  si  danno  il  cambio 
'per  dar  riposo  alle  trachee  spossate  e  rese  fioche  da  certi  lu- 
gubri ululati  d'una  musica  che  mette  spavento. 

Uno  de'  loro  giuochi  è  il  levare  alto  appoggiato  alla  palma 
della  destra  mano,  un  pezzo  di  marmo  d*  un  peso  enoriùe,  e 
lo  «cagliarlo  dopo  tre  o  quattro  salti.  Colui  che  lo  scaglia  a 
dritta  linea,  e  piò  lontano,  ha  vinto  il  giuoco.  Ciò  ricorda  i 
petti  di  masso  pesantissimi,  che  scagliavano  ai  loro  nimici 
Diomede  e  Turno. 

Ne' nidi  loro  i  Moflacchi  sono  valenti  e  utili  al  Princi* 
pato  in  occasione  di  guerra  co' Turchi  confinanti,  verso  ai 
spiali  conservanp  una  cordiale  antipatia.  Ne'  Territori  littorali 
{^i  Abitanti  sono  atti  ad  essere  marinai  temerari  abbastanza 
«  .risoluti  combattitori  sulP  onde.  Verso  al  Montenegro,  sono 
ancora  più  barbari  i  popoli.  Quelle  famiglie  ì  cui  ascendenti 
e  discendenti  morirono  pacificamente  sui  loro  letti,  o  canHi, 
e  non  vantano  qualche  buon  numero  d'ammazzati  in  esse, 
éono  guardate  con  occhio  di  disprezzo  dalle  altre. 

Sulla  spiaggia  fuori  della  città  di  Budua,'  dove  un  drap- , 
pello  di  que'  nostd  simili  calano  spesso  la  state  dalle  mon- 
tagne per  godere  l'aere  che  spira  dal  mare,  vidi  fare  le  ar- 
chibugiate  e  rimanere  tre  cadaveri  sulla  sabbia. 

Uno  di'  quelli  delle  famiglie  d' una  lunga  serie  morta 
pacificamente,  rimproverato  da  un  altro  di  quella  vergogna, 
volle  troncare  il  rossore  a' suoi  posteri  e  incominciare  i  loro 
trt>fei  dal  farsi  ammazzare  ammazzando. 

Le  zuffe  e  le  archìbugiate  tra  villaggio  e  villaggio  in 
que'cootomi  sono  ft^quenti.  Quelli  d'un  villaggio  che  ucci- 
dano un  uomo  d'altro  villaggio,  non  hanno  mai  la  pace,  che 
al  prezzo  di  cento  zecchini  o  a  quello  d' una  testa  d' uh  uomo 
^1  villaggio  loro;  tarifRi  stabilita  senza,  intervento  di  Prin- 
cipe tra  quelle  genti  dalla  bestialità  considerata  equità,... 

L41  sete  della  vendetta  non  è  ivi  estinguibile  e  passa  di 
erede  in  erede  come  un  legale  fideicommesso. 

Tra  i  Morlacchi,  meno  fieri  dei  Montenegrini,  vidi  una 


XXII  PREFAZIONE. 

^femmina  di  circa  cinquanta  anni  prostrarsi  dinanzi  al  Provve- 
ditor  Generale,  trarre  da  un  carniere  un  teschio  arsiccio,  de- 
porlo a^i  lui  piedi,  piagnere  dirottamente  e  chiedere  alta- 
mente misericordia  e  giustizia. 

Erano  scorsi  trenti  anni  eh?  Ella  conservava  quel  teschio 
di  sua  Madre,  '  eh*  era  stata  uccisa.  Gli  uccisori  erano  già 
stati  puniti,  ma*  perchè  la  punizione  non  aveva  appagato  il 
genio  truce  di  quell'affettuosa  figlia,  instancabilmente,  per 
il  corso  di  trent'anni  era  comparsa  alle  piante  di  tutti  i 
Provveditori  Generali  eletti  protempore  in  quelle  Provincie, 
col  medesimo  teschio  materno,  colle  medesime  strida  e  lagrime 
caldissime  a  chieder  giustizia. 

Mi  piacque  vedere  le  femmine  dette  Montenegrine.   Esso 

vestono  di  lana  nera  in  un  modo  non  certamente  suggerito 

dalla  lussuria.  Hanno  le  chiome  divise  e  cadenti  giù  per  le 

guancie  e  per  le  spalle   impastricciate  di   butirro   per  modo 

<ch6  formano  una  specie  di  berrettone  lucido. 

Tutte  le  maggiori  fatiche  delle  campagne  e  deir  abita- 
zione sono  lor  debito.  Sono  mogli  e  vere  schiave  degli  uominL 
Si  inginocchiano  e  baciano  loro  la  mano  ogni  volta  che  gir 
'  incontrano,  e  tuttavia  mostrano  contentezza  del  loro  stato.... 

Nella  Dalmazia  ci  sono  delle  belle  femmine,  che  pendono, 
la  maggior  parte,  alla  robustezza  maschile,  e  tra  le  Morlac- 
che  de'  villaggi  que'  Pigmaleoni  che  volessero  consumare  qual- 
che staio  di  sabbia  n^l  ripulirle,  averebbero  de'  bei  simulacri 
animati.... 

I  terreni  di  quelle  Provincie  sono  in  gran  parte  montuosi, 
sassosi  e  sterili.  Vi  sono  però  delle  vaste  campagne  che  po- 
trebbero essere  fertilissime.  Non  sono  coltivati  e  lavorati  ne 
i  stejili,  né  i  fertili  e  restano  quasi  tutti  maggesi  e  infruttuosi. 

I  cibi  prediletti  e  più  delicati  de' Morlacchi  sono  gli  agli 
e  le  cipolle.  Fanno  un  indicibile  consumo  annualmente  di 
que"*  due  generi.  Potrebbero  introdurre  ne' loro  terreni  una 
ricolta  ubertosa  di  tali  due  prodotti,  ma  essi  attendono  dalla 
Romagna  gli  agli  e  le  cipolle  per  comperarli.  Rimproverati  e 
corretti  dì  questa  dannosa  inerzia,  rispondono  che  i  loro  an- 


PREFAZIONE.  XXIII' 

tenati  non  piantarono  agli  e  cipolle  t  che  non  alterano  la 
direzione  degli  avi  loro. 

Cbiesi  ragione  a  delle  persone  più  colte  di  que^Paesi 
della  generale  indolenza  poltrona  rurale  della  Dalmazia.  Mi 
si  rispose  essere  impossibile  senza  pericolo  della  vita  obbli- 
gare i  Morlacchr  a  far  più  di  quello  che  fanno,  o  a  introdurre 
la  più  piccola  novità  per  riformare  i  loro  campestri  lavori.  Dissi 
che  i  padroni  delle  terre  potevano  chiamare  degli  agricoltori 
italiani  e  finr  divenire  una  Puglia  quelle  campagne.  Vidi  ri- 
dere sgangheratamente  i  confabulatori  sul  mio  progetto  e 
chiedendo  il  perchè  di  quelle  risa,  mi  risposero  che  molti 
signori  Dalmatini  sperano  provati  a  far  venire  de' villani  in- 
dustri dair  Italia  e  che  pochi  giorni  dopo  il  loro  arrivo  furono 
trovati  uccisi  per  la  campagna,  senza  poter  rinvenire  i  col- 
pevoli della  lor  morte.  Mi  persuasi  tosto  d'essere  iftì  cattivo 
progettante  e  mi  meravigliai  che  quei  signori  rìdessero  e  non 
piangessero  a  darmi  quelle  notizie.... 

Non  ebbi  giammai  la  temerità  di  voler  penetrare  e  spe- 
cialmente di  discorrere  sulle  viste  e  sulle  ragioni  politiche,  ed 
è  forse  bene  che  quelle  Provincie  rimangano  nella  loro 
sterilità.  1  » 

Ciò  che  osservava  e  lamentava  il  futuro  poeta 
delle  Fiabe^  non  osservava  o  non  curava,  pare,  il 
governo  della  Serenissima,  e  singolare  è  nel  Gozzi,^ 
Veneziano  d' antica  stampa,  la  fina  ironia,  con  la 
quale  chiude  le  sue  osservazioni.  Ad  ogni  modo 
le  sue  osservazioni  tagliano  nel  vivo  e  quello  poi, 
che  è  anche  più  caratteristico,  se  possibile,  e  rap- 
presenta al  vivo  la  profonda  decadenza,  che  si  prò* 
pagava  dal  cervello  alle  membra,  dalla  capitale  alle 


1  Memorie  ciU  Parte  I,  Gap.  9,  pag.  68,  69,  70,  71,  72^ 
73,  74- 


XXIV  PRBFAZKWS. 

Provincie,  è  la  vita  stessa  che  il  Gozzi  condusse 
aUa  corte  del  Reggente  Querini,  è  la  nullaggine 
superba  e  sfaccendata  di  quel  Patrizio,  che  tenea 
in  Dalmazia  le  parti  di  Sovrano,  e  di  quel  co- 
dazzo di  nobili  e  di  servidorame,  che  lo  attorniava, 
dei  quali  in  tre  anni  il  Gozzi  non  ricorda,  si  può 
dire,  un  sol  giorno,  che  abbiano  impiegato  a  qual- 
che utile  studio  di  quella  permanente  barbarie,  che 
ii  circondava,  od  a  tentare  di  spargervi  qualche 
piccolo  seme  di  civiltà.  Quell'  accademia  di  poesia, 
nella  quale,  come  s' è  visto,  il  Gozzi  conquistò  con 
im  sonetto  una  limonata,  cavalcate  su  destrieri  fo- 
cosi, nelle  quali  rischiò  di  fiaccarsi  il  collo,  qual- 
che amoretto,  un  teatro  di  commedia,  in  cui  il 
Gozzi  recitava  all'improvviso  (e  ciò  è  almeno  altro 
prodromo  notevde  del  poeta  drammatico)  le  parti 
di  Servetta^  serenate  per  far  dispetto  a  mariti  ge- 
losi, burle,  travestimenti,  chiassi  notturni  per  di- 
sturbare i  sonni  degli  abitanti,  un  fascicoletto  di 
poesie  laudatone  legato  in  velluto  cremisi  e  ofiEèrto 
primBi  del  ritorno  a  S.  £.  QRerìoi,  ecco  tutta  la 
vita  del  Gozzi  in  Dalmazia.  £  come  la  sua,  cosi 
«quella  di  tutti  gli  akri  suoi  compagni,  compresa 
h  Eccellenza  del  Provveditore  Generale. 

3i  paragooìno  ora  quesiti  ricordi  colle  parole, 
che  circa  tre  anni  dopo  il  ritorno  del  Gozzi  dalla 
Dalmazia  pronunciava  Marco  Foscarini  nel  Gut- 
siglio  Maggiore  e  si  vedrà  che  il  Gozzi  fu  sto- 
rico veritiero  in  questa  parte  delle  sue  Memorie. 
«  Preghemo  Dio,  esclamava  il  Foscarini,  che  le  na- 


PKEPAZIONB.  XXV 

ziosk  forestiere  no  se  abbia  messo  a  ponderar  V  in- 
coerenza de  tali  dkezion;  medtre  osservando  la 
condotta  dei  Governi  lontani  opporse  diametral- 
mente a  quella  del  Principato  no  so  cossa  le  ri- 
prendesse di  più,  se  r  impudente  fidanza  di  chi 
regge  le  Provincie  o  la  comun  sonnolenza  de  chi 
presiede  alla  Elepubblica.  ^  »  Con  così  alta  libertà 
si  parlava  ancora  nei  Consigli  di  Venezia!  Tali 
qomini  la  Repubblica  aveva  ancora!  Ma  pusiroppo 
quella  decrepita  sonnolenza  era  invincibile.  Questo 
in  quanto  alla  storia. 

(pianto  all'  arte,  non  aaancò  chi  volle  scoprire 
in  quella  dimora  del  Gozzi  fra  un  popolo  quasi 
settaggio  e  pieno  di  leggende  superstiziose  e  d' in- 
genua poesia  i  primi  germi  del  suo  dramma  fia- 
besca Ma  è  una  sottigliezza  molto  arbitraria  ò  di 
cui  almeno  non  è  nelle  C^efe  del  Gozzi  alcun 
s^no  sicuro.  I  sonetti  in  lode  del  Querini,  qualche 
satira  a' suoi  commilitoni,  qualche  conunedia  al- 
l' improvviso,  recitata  con  allegria,  con  audacia  e 
eoo  estro  giovanile,  ecco  tutto  il  fardelletto  poe- 
tico, che  il  Gozzi  riportò  di  Dalmazia* 

>  liorpurgo  —  Marco  Foscarini  e  Venezia  nel  secolo  XVIIL 
Degli  Inquisitori  da  spedirsi  nella  Dalmazia.  Ora:(ione  detta 
nei  Maggior  Consiglio  il  giorno  ij  Dicembre  1747»  (Fi- 
renze, Le  Monnier,  f88o.)  —  Romafiki.  Storie  Docum.  di  Ve- 
nezia. Tom.  cit  Gap.  5.  Cka  una  relazione  di  tre  Inquisitori 
della  Dalmazia  nel  1772,  Giacomo  Foscarìni,  P  aolo  Bembo, 
Antonio  Zen,  i  quali  avranno  lasciato  il  tempo,  che  trovarono, 
se  gli  stessi  mali  denunziava  Francesco  Falier,  Provveditor 
Generale  nel  1786,  in  un'altra  Relazione  ciuu  dal  Romanin. 


XXVI  PREFAZIONE. 

Tornato  à  Venezia,  in  compagnia  dell'  amico 
Innocenzo  Massimo,  pareva  che  il  cuore  gli  predi- 
cesse qualche  nuovo  guaio.  L'aspetto  della  sua 
bella  casa  patema  era  al  di  fuori  sempre  quello, 
ma  batti  e  ribatti,  nessuno  apriva.  Era  come  «  pic- 
chiare ad  una  sepoltura.  ^  »  Finalmente  una  vec- 
chia serva  venne  ad  aprire ....  Ahimè  !  Che  interno 
di  casa!  che  contrasto  fra  l'antico  lusso  e  la  pre- 
sente ruinal  I  pavimenti  solcati  e  sconnessi,  le  fi- 
nestre coi  vetri  rotti,  le  tappezzerie  stracciate  e 
cascanti  a  pezzi.  La  galleria  dei  quadri  era  scom- 
parsa. I  ritratti  degli  antenati  non  aveano  ancora 
preso  il  volo,  ma  colla  guardatura  mesta  e  se- 
guace parevano  chieder  ragione  anche  al  tornato 
.  nipote  di  tutto  quello  squallore;  il  qual^  altro 
non  era  che  il  risultamento  combinato  delP  astra- 
zione filosofica  del  Conte  Gaspare  e  della  «  pin^ 
darica  amministrazione  *  »  della  pastorella  Arcade^ 
sua  moglie.  Carlo  e  l' amico  Massimo  stavano  lì, 
guardandosi  l' un  l' altro,  come  trasognati,  allorché 
il  Conte  Gaspare  capitò,  e  mezzo  tra  dolente  e 
sopra  pensieri  narrò  al  fratello  che  la  famiglia  se 
n'era  andata  nella  villa  del  Friuli,  che  tra  i  de- 
biti, le  liti  e  le  usure  sfumavano  le  reliquie  del  pa 
trimonio,  che  le  sorelle,  in  età  da  marito,  strilla- 
vano per  la  dote,  che  il  padre  era  sempre  para- 
litico e  muto,  che  la  casa  era  tutta  a  soqquadro; 


1  Memorie  cit  Parte  1,  Gap.  i5,  pag.  ii8. 
s  Memorie  cit.  Parte  I,  Gap.  ló,  pag;  128. 


PREFAZIONE.  XXVII 

poi  sviò  il  colloquio  e  si  mise  a  parlar  di  tutt'  altro 
coli'  amico,  ospite  di  Carlo.  Cominciò  allora  per 
Carlo  una  lunga  iliade  di  guai.  Volle  tentare  di 
salvar  qualche  cosa  dal  naufragio  e  si  tirò  addosso 
le  ire  degli  usurai,  le  querimonie  dei  creditori,  i 
piati  dei  forensi,  le  avversioni  di  tutte  le  donne 
di  casa,  quella  della  madre  specialmente  (sventura 
decisiva  per  l' indole  d' ogni  uomo  ),  la  quale  spin- 
geva la  sua  parzialità  per  Gaspare  fino  al  segno 
di  non  poter  tollerare,  che  altri  osasse  mettere  in 
dubbio  11  genio  finanziario  dell'  Irminda  Parte- 
nide.  Questa,  non  sapendo  più  qual' altra  poetica 
sciocchezza  commettere,  dopo  aver  tentato  di  dare 
in  pegno  agli  usurai  la  vecchia  dimora  dei  Gozzi, 
indusse  persino  il  buon  Gaspare  a  farsi  conduttore 
e  impresario,  del  teatro  S.  Angelo  e  di  una  com- 
pagnia comica.  Fu  V  ultimo  crollo  l  Carlo,  che  con 
tutto  il  suo  genio  fiabesco  badava  al  sodo,  dopo 
aver  pazientato  lungo  tempo,  provocò  la  divisione 
della  famiglia  e  che  ognuno  si  pigliasse  ciò  che 
gli  spettava.  *  La  qual  famiglia  però  dovrà  essersi 
martoriata  fra  tante  angustie  più  per  disordine, 
che  per  povertà  vera,  se  il  Conte  Gaspare  potè, 
siccome  nota  il  Tommaseo,  «  dopo  cinquant'  anni 
di  negligenza  e  di  lapidazione  lasciare  al  suo  erede 
più  che  il  necessario  alla  vita.*  »  Carlo  scioltosi 
alquanto  da  tali  brighe  (libero  del   tutto  non  ne 

1  Memorie  ciU  Parte  I,  dal  Ctp.  15  al  32. 
*  Storia  Civile  nella  Letteraria  cit.  Gaspare  Guzzi,  Vene- 
zia e  r  Italia  del  suo  tempo.  XIV,  pag.  338. 


XXVIII  PREFAZIONE. 

fti  mai)  ritornò  agli  studi  e  al  far  versi,  F  infer- 
mità gentilizia  dei  Gozzi. 

Nel  1747  s'era  formata  in  Venezia  un'Acca- 
demia detta  de'  GraneUeschi,  «  brìgatella  di  omac^ 
«cini  dabbene  (cosi  Gaspare  Gozzi  )  che  si  danno 
questo  titolo  per  umiltà.  ^  »  Che  cosa  significasse 
«questo  titolo,  non  occorre  dire.  Paolo  De  Musset, 
«crittore  Francese,  innamoratissimo  di  Carlo  Gozsd, 
io  ^iega  per  «  amatori  ^  asinaggini;  »  Alfonso 
Royer,  traduttore  francese  delle  Fiabe,  lo  dà  per 
Accademia  degli  «  Inetti;  »  ma  sono  entrambi  spie-- 
gazioni  inesatte.  *  Delineando  «  una  quasi  geografia 
poetica,  una  etnografia  stilistica  dell'  Italia  nel  se- 
colo passato  To  il  Carducci  nota  che  il  Veneto  era 
diviso  <c  tra  il  francesismo  cattedratico  di  Padova 
«  sociale  cfi  Venezia  e  il  toscanesimo  cinquecenti- 
stico ed  erudito.  '  »  Di  quest'  ultimo  erano  acce- 
sissimi sostenitori  i  Granelleschi  «  gran  difensori 
(scrive  Carlo  Gozzi  nelle  Annotazioni  preparate 
per  una  ristampa  del  sua  Poema:  la  Mar  fisa  Bi\^ 

>  Gaspa^b  Gozzi,  Opere.  (Edizione  delia  Minerva  in  Pa- 
dova, Voi.  VIL)  Principio  delP  adunanza  dei  Granelleschi, 
pag-  133.  Vedi  pure  nel  Volume  XIV  della  Nuova  Raccolta 
4i  Vp&rette  lùliane  (Trevigi,  Giulio  Trento,  1790)  una 
molto  prolissa  e  pedantesca  cicalata  di  Daniele  Farsetti,  in- 
titolata: Memorie  dell'  Accademia  Granellesca. 

^  Paul  Db  Mussbt  —  Charles  Gozzi,  Revue  dea  Deux 
Monies,  Tom.  IV,  1844»  —  Alfonsb  Roybr  —  Carlo  Gozai 
Théatre  Fiabesque,  traduit  pour  la  première  fois.  —  Paris  —  . 
M.  Levy,  1865.  Introduction. 

>  Carducci,  La  Lirica  Clas$ica  nella  seconda  metà  del 
Secolo  XVm. 


PRBPAZIONS.  XXIX 

jarra)  gran  difensori  della  lir^ua  letterale  iislùmst 
e  della  colta  poesia  di  vario  genere.  '  »  Ma  in  d»- 
modo  la  difendevano?....  E  quest'Accademia,  e  le 
sue  gesta^  al  pari  di  tutta  la  vita  di  Carlo  Gozzi,, 
danno  anch'esse  in  parte  la  fisonomia  storica  di 
Venezia  in  quel  tempo.  «  Bella  cosa  era,  dice  giu- 
stamente il  D' Ancona  nel  suo  studio,  sull'  awenr 
turìere  Casanova,  restaurare  il  gusto  nelle  lettere; 
ma  quei  Granelleschi;  col  lora  scempia  prete  S^ 
cbellarì  arcigranellone  (il  Presidente  delV  Accora 
demia)  e  la  loro  sconcia  impresa  e  le  altre  goffitg^* 
gini  loro  e  il  culto  al  Burchiello,  più  che  ad  un: 
ravvivamento  fanno  pensare  ad  un  rimbambi- 
HKnto.  *  »  Così  è  di.  fatto.  E.  non  occorre  rifarsi 
a  descrìvere  per  la  centesima  volta  Venezia  alla 
fine  del  secolo  XVIII,  e  trarne  ancora  argomenti^' 
di  accuse  o  di  difese  strampalate,  come  s'è  fatto 
a  sazietà.  11  fondo  della  vita  sociale  d^  allora  non^ 

1  Di  queste  Annota\ioni  pubblicai  qualche  brano  nel  1881.. 
Allora  erano  inedite  net  Museo  Correr  di  Venezia.  Ora,  .col 
concorso  di  V.  Malamani^  Ift  ha  pubblicate  integralmente  il 
Magrini  nella  seconda  edizione  ampliata,  del  suo  lavoro  sul 
Gozzi:  /  Tempi,  la  vita  e  gli  scritti  di  Carlo  Go:(^i  (Be- 
nevento, De  Gennaro,  i883)  lavoro,  direi,  un  po^  farraginoso 
e  non  sempre  esatto  net  fatti  e;  nei  giudizi,  ma*  che  mostnt> 
il  brioso  ingegno  e  la  molta  cultura  delP autore.  AI  quale  va 
resa  lode  d*  avere  per  primo  nel  187G  tentato,  per  consiglio 
del  suo  illustre  maestro,  Prof.  Alessandro  D^  Ancona,  un  vero 
saggio  critico  sul  Gozzi.  Dopo,  molti  altri  s^  invogliarono  di 
questo  tema  di  studio. 

»  A.  D'Ancona,  Un  Avventuriere  del  Secolo*  XVI IL  -- 
G.  Casanova  e  le  sue  Memorie.  Nuova  Antologia  i  Febbraio 
e  I  Agosto  1882. 


XXX  PREFAZIONE. 

è  peggiore  a  Venezia  che  altrove.  La  leggerezza 
spensierata  dì  costumi  e  di  sentimenti,  Pappassio-; 
narsi  di  picciolezze,  in  mancanza  o  nello  spe- 
gnersi via  via  di  alti  ideali  da  conseguire,  è  co- 
mune a  tutto  il  resto  della  società  italiana,  la 
quale  perciò  è  dipinta  nelle  commedie  del  Goldoni 
più  profondamente  e  più  largamente  di  quello  che 
vogliasi  per  solito  ammettere.  Se  non  che  a  Ve- 
nezia, la  quale  della  sua  splendida  vita  passata 
conservava  ancora  le  forme  e  le  sontuose  appa- 
renze, a  Venezia,  dove  anzi  si  potrebbe  dire  che 
era  ristretta  in  questo  tempo  tutta  la  vita  italiana, 
imbastardita,  falsata,  schiacciata  in  tutto  il  resto 
d'Italia  dalle  influenze  o  dalla  padronanza  degli 
stranieri,  a  Venezia,  dico,  i  segni  della  decadenza 
risaltano  più  vivi,  più  dolorosi,  ed  in  più  imme- 
diata relazione  di  cagioni  e  di  effetti  colla  cata- 
strofe, che  ingoiò  la  vecchia  repubblica;  catastrofe, 
che  (salvo  a  Roma  ed  in  Piemonte,  decadenti  an- 
che per  cagioni  loro  proprie)  era  già  avvenuta 
negli  altri  stati  italiani.  Tuttodò  basta  e  n'  avanza 
per  d^r  ragione  della  vergognosa  rovina  di  Ve- 
nezia; né  occorre  calunniarne  le  instituzioni  e  il 
governo;  come  fece  il  Daru,  o,  come  Filarete  Chas- 
les,  compendiarne  i  costumi  e  la   moralità   in  un 

sonetto  ed  in  una  canzonetta  di.  Giorgio  Bafib.  ^ 

) 

1  Études  sur  V  Espàgne  et  sur  les  influences  de  la  LiU 
térature  Espagnole  en  France  et  en  Italie  par  M.  Philaréte 
Chasles  (Paris,' Amyot,  1^47)  -—  D*un  Théatre  Espagnol-Ve- 
nitien  au  XVIII  Siede  et  de  Charles  Gozzi,  pag.  483,  528. 


PREFAZIONE.  XXXI 

Fra  le  picciolezze,  delle  quali  Venezia  s'appas- 
sionò di  più  nel  secolo  scorso,  furono  le  rivalità 
del  Chiarì,  del  Goldoni  e  del  Cozzi;  picciolezze, 
dico,  non  già  per  la  «  battaglia  teatrale  combat- 
tuta allora,  »  che  «  sarebbe  segno  di  cultura  e  di 
svegliatezza,  da  onorarsene  un  pòpolo,  '  »  ma  per 
le  forme,  che  assunse  tale  battaglia,  e  le  personalità, 
le  bassezze,  le  volgarità,  i  pettegolezzi,  che  vi  si 
mescolarono  e  che  pur  rìescirono  4  mettere  <c  tutta 
la  città  in  movimento.  *  »  Antesignana  della  lotta 
fu  r  Accademia  dei  Granelleschi,  alla  quale  era 
ascritto  Gaspare  Gozzi  e,  dopo  il  ritorno  dalla 
Dalmazia  e  le  vicende  domestiche,  alle  quali  ho 
accennato,  s' ascrisse  anche  Carlo,  le  cui  buone  re-  , 
lazioni  col  fratello  non  erano  mai  cessate  del 
tutto,  nonostante- che  Gaspare,  durante  i  litigi,  che 
travagliarono  e  divisero  la  famiglia,  avesse  esposto 
a  ludibrio  nel  teatro,  (di  cui  per  sua  disgrazia  era 
impresario  e  poeta)  il  fratello  Carlo,  una  dama,' 
pretesa  amante  di  questo,  e  trovatasi  a  caso  me- 
scolata nelle  baruffe  domestiche  dei  Gozzi,  e  V  av- 
vocato di  Carlo  personaggio  autorevole  e  general- 
mente stimato.^  Singolare  (nota  il  D'Ancona*^) 
questa  libertà  aristofanesca  del  teatro  sotto  un  go- 

*  D'  Ancona,  Op.  clt* 

<  Gozzi,  Memorie  cit.  Parte  I,  Gap.  34,  pag.  293. 

s  La  Contessa  Ghellini  Barbarigo-Balbi. 

4  Antohio  Testa.  Vedi  il  Capii,  38,  P.^  I,  delle  Memorie 
di  Carlo,  intitolato:  «  Non  crederei  ciò  che  contiene  il  se^ 
guente  Capitolo,  se  non  V  avessi  veduto,  » 

»  Op.  ciL 


XXXII  PRfiFAZIOlVB. 

Temo  così  ombroso  e  cosi  inframmettente,  e  brut- 
tissimo esempio  domestico,  che  ebbe  certo  grande 
azione  sull'indòte  naturalmente  satirica^  puntiglioso- 
e  battagliera  di  Carlo  Gozzi.  Neil'  Esopo  in  città^ 
libera  traduzione  di  Gaspare  d'una  commedia  Fran- 
cese, una  vecchia,  nella  quale  è  raffigurata  nien- 
te altro  che  la  madre  dei  Gozzi,  viene  a  lagnar^ 
ad  Esopo,  ministro  del  Re  Creso,  dei  mali  trattrf-^ 
menti,  che  essa  ed  il  suo  figlio  maggiore  ricevano* 
da  altri  figli  e  fratelli,  vale  a  dire  da  Carlo  -è 
Francesco: 

Vecchia  —  .  .  .  .  Morì  mio  marito 

E  nella  fratellanza  de'  miei  mascbi 

Per  un  tempo  seguì  lo  stesso  afibtto 

E  U  stessa  amidsìa.  Ensno  tutti- 

D^un  cuore,  erano  tutti  d^  una- mente, 

E  quel  che  P  un  volea,  1*  altro  volea. 

Quando,  non  posso  dirlo  senza  piangere, 

Fecesi  loro  amico  Sicofante, 

Dottor  leggista  di  questa  città, 

E  scompigliò  \^  pace.  Due  de'  maschi: 

Si  sono  uniti,  e  sono  contro  l'altro 

Ch'  è  maritato  ed  ha:  cinque  figliuoli. 
Esopo  —  E  questo  vostro  figlio  non  ritrova 

Chi  lo  difènda,  chi  gli  faccia  scudo? 
Vecchia  —  Vi  dirò:  l'umor  suo  è  sì  pacifico, 

Ch'ei  stava  pure  aspettando  che  gli  altri 

Due  fratelli  tornassero  a  pensare' 

Che  son  nati  d'un  corpo  e  sona  un  sangue 

Stesso.  Oltre  dì  che,  avendo  atteso 

In  vita  sua  a  leggere  e  a  scrìvere. 

Non  s'intende  niente  di  litigi, 

Ed  è  di  cuore  schietto  e  buona  fede; 


PREFAZIONB.  XXXItl 

Né  s'è  curato  d' opporsi  aMacciuoIi 

Deir  avversano  dottore  leggisfa.  ,  * 

Onde,  oltre  alla  sua  moglie,  alla  famiglia 

Sua  ch^  è  assai  numerosa,  ha  in  casa  me, 

Le  sue  sorelle,  e  in  tutto  è  abbandonato 

Degli  altri  due  che  stimano  vittoria 

L^ opprimere  un  fratello  e  se  ne  vantano: 

A  tale  gli  ha  accecati  la  promessa 

DelP  avvocato,  che  da  lor  non  sono 

Già  di  mal  cuore,  anzi  hanno  buone  viscere. 

PÀr&,  signor  Esopo,  io  son  ricorsa 

Alla  vostra  bontà.  Fate  per  modo, 

Che  ritorni  la  pace  in  casa  mia. 

Si  chMo  possa  vedere  tra' miei  figli 

Il  primo  amore  e  la  carità  prima. 

Esopo  —  Sapete  voi,  che  mova  P  avvocato 
A  difender  tal  causa? 

VsocHfA  —  C'è  chi  dice 

In  varie  forme.  Chi  dice  eh'  è  mosso 

A  ciò  far  da  una  donna;  e  chi,  ch'essendo 

Già  conósciuto  per  poco  veridico 

E  per  ciò  abbandonato  di  clienti,     , 

Faccia  fascio  d'ogni  erba;  e  per  mostrare 

Qui  in  Cizica  che  ancor  abbia  faccende, 

E'  ti  fa  difensore  d' ogni  cosa 

A  dritto  e  a  torto,  e  fa  pianger  le  povere 

Famiglie  sventurate  in  questa  forma.  ^ 

La  mano  di  Gaspare  in  questi  versi  si  sente, 
mi  sembra,  ne  so  davvero  come  qualcuno  abbia 
potuto  dubitarne.  *  Una  sola  scusa  ha  il  buon  Ga- 

'  Gaspare  Gozzi,  Opere,  Ediz.  cit.  voi.  VII.  Esopo  in 
Città,  Commedia^  Atto  III,  Scena  VI. 

<  Forse  fu  confusa  con  V  Esopo  in  Corte,  di  cui  si  du- 
bita se  la  traduzione  sia  sua. 

Masi.  c 


5tXXiy  PREFAZIONE. 

spare  ed  è  la  debolezza  sua,  per  cui  era  solito  la- 
sciarsi tirar  pel  naso  daljie  donne  di  sua  casa,  le 
più  indiavolate  in  tali  contese.  Da  queste,  nelle 
quali  avea  educato  Pumor  suo,  passò  Carlo  Gozzi 

,  alle  contese  letterarie.  Quella  col  Goldoni  e  col 
Chiari,  eh'  egli  si  compiacque  sempre  d' appaiare 
con  enorme  ingiustizia^  incominciò  dopo  P  im- 
pegno contratto  dal  Goldoni,  come  poeta  comico, 
con  Girolamo  Medebach  per  gli  anni  dal  1748  al 
1753.   Quali  fossero,  le   condizioni   del   teatro   in 

'  Venezia  ed  in  Italia  prima  della  riforma  del  Gol- 
doni è  stato  bene  o  male  detto  e  ripetuto  da  tanti, 
che  non  occorre  veramente  tornarlo  a  dire.  Meglio 
e  con  maggiore  autorità  d' ogni  altro  dal  Goldoni 
stesso  in  più  luoghi  delle  sue  Opere,  principalmente 
nella  Prefazione  alle  edizioni  del  suo  teatro  del 
1750  e  del  1753,  riprodotta  e  ampliata  nell'edizione 

-  Pasquali  del  1 761  :  «  Era  corrotto  a  segno  da  più 
4' un  secolo  nella  nostra  Italia  il  Comico  Teatro, 
che  si  era  reso  abbomine  vole  oggetto  di  disprezzo .... 
Non  correvano  sulle  pubbliche  scene  se  non  isconce 
Arlecchinate;  laidi  e  scandalosi  amoreggiamenti  e 
motteggi;  Favole  mal  inventate  e  peggio  condotte, 
senza  costume,  senza  ordine —  Molti  però  negli 
ultimi  tempi  si  sono  ingegnati  di  regolar  il  teatro 
e  di  ricondurvi  il  buon  gusto.  Alcuni  si  son  pro- 


*  Marco  e  Matteo  del  pian  di  San  Michele  (dov'era  il 
teatro  S.  Angelo,  per  cui  scrissero).  Così  li  <ihiama  nella  Mar^ 
fisa  Bi:;:{arra, 


PREFAZIONE.  XXXV 

vati  di  farlo,  col  produrre  in*  iscena  commedie 
dallo  Spagnuolo  o  dal  Francese  tradotte.  Ma  la 
semplice  traduzione  non  poteva  far  colpo  in  Ita- 
lia  E  perciò  i  Mercenari  Comici  nostri,....  re- 
citandole all'improvviso,  le  sfiguraron  per  modo 
che  più  non  si  conobbero  per  opere  di  que'  celebri 
Poeti,  come  sono  Lopez  De  Vega  e  il  Molière .... 
Lo  stesso  crudel  governo  hanno  fatto  delle  com- 
medie di  Plauto  e  di  Terenzio,^  né  lo  risparmia- 
rono a  tutte  le  altre  antiche  o  moderne  Commedie 
ch'eran  nate  e  che  andavan  nascendo  peli' Italia 
medesima....  I  dotti....  il  popolo....  tutti  d'ac- 
cordo esclamavano  contro  le  cattive  Commedie,  e 
la  maggior  parte  non  avea  idea  delle  buone.  Av- 
vedutisi i  Comici  di  questo  universale  scontento, 
andavano  tentoni  cercando  il  loro  profitto  nelle 
novità.  Introdussero  le  macchine,  le  trasformazioni^ 
le    magnifiche  decorazioni....   gli  Intermezzi   in 

musica le  tragedie,  e  i  drammi  composti  per 

la  musica.  Qual  incontro  non  ebbero  i  drammi 
del  celebre  Sig.  Abate  Pietro  Metastasio,  quelli 
dell'Illustre  Sig.  Apostolo  Zeno,  le  trì^edie  del 
sapientissimo  Patrizio  Veneto  Sig.  Abate  Conti, 
la  Merope  dell'eruditissimo  Sig.  Marchese  Maffei, 
l'Elettra  ed  altre  molte  o  interamente  composte 
o  eccellentemente  dal  Francese  trasportate  dal  pe- 

1  Intorno  a  queste  trasformazioni  della  commedia  classica 
in  commedia  delParte,  vedi:  CAitBRiifi,  I  Precursori  del 
Goldoni j  e  Michblb  Scherillo,  La  Commedia  dell*  arte  in 
Italia. 


;     XXXVl  PREI^AZIONE. 

rìtìssimo  Sig.  Conte  Gaisparo  Gozzi,  non  meno 
che  altre  eziandio,  cosi  di  antichi,  come  di  recenti 
valorosi  Poeti  Italiani,  Francesi  ed  Inglesi....? 
E  qual  compatimento  non  ebbe  anche  alcuna  delie 
mie  rappresentazioni....  il  Belisario,  V Enrico,  la 
Rosmunda,  il  Don  Giovanni  Tenorio,  il  Giustino, 
il  Rinaldo  da  Montalbano..,.}  Ma  codesti  applausi 
stessi,  che  riscuotevano  i  drammi  e  le  Tragedie 
rappresentate  da' Comici,  erano  appunto  la  maggior 
vergogna  della  (^ommedia,  come  la  più  convincente 
prova  dell'estrema  sua  decadenza.  ^  »   Queste  le 

'  condizioni  vere  del  teatro  in  Italia,  allorché  il  Got» 
doni  ideò  e  iniziò  la  sua  riforma.  La  tentò  per^ 
gradi  e  quasi  assaggiando  le  proprie  forze  e  gli 
umori  del  pubblico.  «  Quando  si  studia,  scrive  esso, 

*  sul  libro  della  Natura  e  del  Mondo  non  si  può .... 
divenire  maestro  tutto  ad  un  cólpo  ;  ma  egli  è  bea 
certo  che  non  vi  si  diviene  giammai,  se  non  si 
studiano  codesti  libri.  »  Compose  dunque  da  prima 
commedie  d' intrigo,  poi  di  una  sola  parte  scrìtta, 
cioè  il  carattere  principale  della  commedia,  lasciando 
il  resto  all'improvvisazione  dei  comici,  è  finalmente 
di  varii  caratteri  e  tutte  scritte.  Già  la  grande  arte 
della  commedia  improvvisa,  che  il  Goldoni  stesso, 
(al  pari  di  Carlo  Gozzi,  fattosene  poi  sostenitore) 
riconosceva  essere  quella  che  «  italiana  unicamente 
può   dirsi,  poiché  da  altre  nazioni  non  fu  trat- 


1  Goldoni,  Commedie.  Tom.  I,  Prefazione.  (Venezia,  Pa- 
squali, 1761). 


PREFAZIONE.  XXXYU 

j 

tata,'  >  )a  grand' arte  della  commedia  improvvisa 
era,  si  può  dire,  finita;  le  tradizioni  delle  famose 
Compfignie  comiche  dei  Gelosi,  degli  Uniti,  dei  Fe- 
deli  erano  illanguidite  da  un  peszo.  Anche  in  Fran* 
da,  dov'era  stata  delizia  di  popoli  e  di  re  dal  1530 
in  poi,*  la  Commedia  dell'arte,  verso  la  fine  del 
secolo  XVn,  s' era  quasi  fatta  francese  del  tutto  e 
non  conservava  più  che  «  qualche  sgocciolo  della 
sua  antica  vena,  i  suoi  vecchi  tipi,  che  le  faceano 
risparmiar  la  spesa  dei  vestiarii,  le  forme  estrin- 
seche insomma  -  e  non  altro.  '  >  Ripigliò  vita  sotto 
la  Reggenza  nei  primi  del  secolo  seguente,  ma 
era  già  altra  cosa  anche  alloj-a,  né  certo  risplen- 
deva  più  dei  grandi  nomi  degli  Scala,  degli  An-^ 
dreini,  dei  FioriUi,  dei  Martinelli,  dei  Riccoboni, 
Tale  la  ritrovò  il  Goldoni  ael  lyóz,  mentre  in 
Italia,  dove  il  maggior  rappresentante,  che  ancora 
avesse,  era  il  Truffaldino  Antonio  Sacchi,  s' era  da 
gran  tempo  irrigidità  in  forme  convenzionali  e 
scadeva  sempre  più  nella  grazia  del  pubblico, 
«  annoiato  di  veder  sempre  le  cose  istesse,  di 
sentir  sempre  le  parole  medesime,  e  di  sapere 
cosa  deve  dir  l' Arlecchino  prima  eh'  egli  apra  la 
bocca. ^  »  L'apogèo  della  gloria  del  Goldoni,  là 

>  Dedica  della  Bottega  de!  Caffè  al  Conte  Widimctn^ 
(Ediz.  Pasquali.  Tom.  I). 

•  Vedi:  A.  Baschrt,  Ijes  Comédiens  Ttaliens  a  la  Cour 
de  France. 

s  L.  MoL4]«i>,  Molière  et  la  Comédìe  Italienne.  (  Paris, 
Didier,  1864).  Chap.  XVl,  pag.  313. 

••  Goldoni,  Teatro  Comico,  Atto  I,  Scena  II. 


XXXVUI  t»REFAZIONE. 

maggior  furia  della  sua  creazione  letteraria  soao 
appunto  nel  quinquennio  còmico  dal  .1748  al  33. 
n  martedì  grasso,  io  febbraio  1750,  promette  le 
sedici  commedie  per  l'anno  venturo  e  l'ultima 
sera  del  Carnovale  seguente,  dopo  la  recita  dei 
Pettegolerai  delle  Donne,  è  portato  in  "  trionfo 
a  braccia  di  popolo  al  Ridotto.^  Con  tutto  ciò 
gli  si  contrapponeva  come  emulo  l'Abate  Pietro 
Chiari,  del  qual^  (checche  si  sia  sforzato  di  di* 
mostrare  in  contrario  il  Tonmiasèo)  ha  detto  esat-- 
tamente  Carlo  Gozzi,  allorché  lo  definiva  «  un 
cervello  acceso,  disordinato,  audace  e  pedantesco; 
una  oscurità  d' intreccio  da  astrologo  ;  de'  salti  da 
stivali  da  sette  leghe;  delle  scen^  isolate,  e  dis- 
giunte dall'azione,  suddite  d'una  loquacità  pre- 
dicantesi  filosofica  e  sentenziosa;  qualche  buona 
sorpresa  teatrale,  qualche  descrizione  bestialmente 
felice;....  uno  scrittore  il  più  gonfio  e  ampolloso 
.che  adornasse  il  nostro  sècolo.  '  »  Con  più  placida 
ironia  il  Goldoni  si  contentava  di  dire  delle  com* 
medie  del  Chiari:  «  romanzi  e  poi  romanzi!^  »  Ma 
il  Chiari,  vano  e  maligno,  non  si  ristava  dall' as- 
saUre  in  mille  modi  il  Goldoni  e,  prima  ancora 
che  osasse  scimiottare  i   temi   ed   i  titoli  stessi 


1  Vedi  lo  stupendo  studio  di  Cronologia  Goldoniana  di 
Ermanno  von  LOhner  nel  Tom.  XXIV  deìVArchmo  Vèneto. 

'  Memorie  cit.  Part.  1,  Gap.  34,  pag.  269. 

3  Lettere  di  Garlo  Goldoni  al  Conte  Gì  A.  Arconati- Vi- 
sconti, pubblicate  dai  signori  Adolfo  ed  Alessandro  Spinelli. 
(Milano,  Ci  velli,  1881). 


PREFAZIONE.  XXXit 

delle  sue  commedie,  contrapponendo  alla  Pamela 
Nubile  la  Pamela  Maritatay  9Xii\Avventuriere 
Onorato  V Avventuriere  alla  Moda^  al  Padre  per 
amore  V  Inganno  amoroso,  al  Molière  il  Molière 
marito  geloso,  al  Terem^ia  il  Plauto,  éH^  Sposa 
Persiana  la  Schiava  Chinese^  al  Filosofo  In^ 
glese  il  Filosofo  VenepanOy  alla  Sco\:[ese  la  £e//a 
Pellegrina^  ^  prima  ancora  che  osasse  tanto,  ful- 
minava il  Goldoni  di  satire  e  di  schemi  più  ò 
meno  diretti,  più  o  meno  coperti.  V'ha  chi, pre- 
tende che  il  Goldoni  provocasse  per  primo  il  Chiarì 
con  un  sonetto  ignobilissimo,  che  è  riferito  nel 
Codice  della  Raccolta  Cicogna  (nel  Museo  Correr 
di  Venezia),  intitolato:  Composi^^ioni  uscite  sui 
teatri  e  Commedie  e  Poeti  nelV  anno  1754  in  Ve^ 
ne^ia,^  monumento  curiosissimo  dell'accanimento 
e  della  scurrile  volgarità  di  codeste  lotte  letterarie. 


1  Vedi:  Achille  Neri,  Aneddoti  Goldoniani  (Ancona, 
Morelli,  i88'i)  pag.  38,  59!  Il  Neri  cita  in  proposito  un  gra- 
zioso  sonetto,  dove  ài  prende  in  burla  il  Chiari  per  questa 
sua  sciocca  gara.  E  il  Chiari  che  parla: 

Gravido  di  commedie  sempre  egli  è,  {il  Goldoni) 

E  quando  alcuna  ne  partorìri,  ' 

Sobito  quel  suo  parto  io  storpierò;     '  . 

E  quei  che  son  cresciuti  e  adulti  già, 

lo  cosi  male  li  manierò, 

Che  ti  prometto  staranno  da  Re. 

*  Cod.  1882^  Raccolta  Cicogna.  DelP  attuale  Catalogo  del 
leo  N.  3395.. 


Museo  N.  3395 


XJ.  PREFAZIOHE, 

In   quel  sonetto, ^ fra  altri  vituperi^  v'ha   c6e  le 
Commedie  del  Chiari,  prete: 

D'un  sagro  disertar  son  laide  imprese. ^ 

Ma  quel  Codice  è  pieno  di  poesie  scritte  dai  par- 
tigiani e  dai  nemici  dei  due  po^ti.  Per  me  non 
•credo  quel  sonetto  opera  del  Goldoni  e  mi  sembra 
che  concordi  piuttosto  con  altri  assalti  consimili  di 
Gasparo  e  Carlo  Gozzi  contro  il  Chiari,  il  primo 
dei  quali  scriveva: 

San  Basilio  e  Gregorio  Nazianzeno 

E  più  di  tutti  San  Pietro  è  adirato, 

Perocché  un  sacerdote  consacrato 

Fa  commedie  ogni  dì  con  Cristo  in  seno,* 

ed  il  secondo,  alludendo ^al  Goldoni  ed  al  Chiari: 

Ritornin  gli  uni  aMor  digesti,  e  scribi, 
Tornin  gli  altri  pentiti  agi'  Introibi,  * 

E  altróve,  volgendosi  ^I  Chiari  soltanto:, 

Ornai  pe'fabi  Ubri  e  per  mollezza 
E  più  pei  disertar  dal  sacro  tempio 
Piange  la  Chiesa  afflitta,  è  il  secol  guasto.^ 

1  11  sonetto  è  attribuito  al  Goldoni  e  in  calce  ha  questa 
Nota:  «  Questo  sonetto  fu  fatto  in  occasione  della  Commedia 
intitolata:  L* Avìfenturiere  alla  moda^  23  Ottobre  1749.  »- 

«  Gasparo  Gpzzi.  Opere.  Ediz.  cit.  Voi.  XVI,  pag.  378. 

5  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772-74.  Tom.  VUI.  Canto 
Ditirambico  de^  Partigiani  del  Sa/cchi  TrufBìldinov  pag.^75. 

*  Fogli  sopra  alcune  Massime  del  Genio  e  Cosfumi  del 
secolo  dell'abate  Pietro  Chiari  e  contro  a'  Poeti  Nugne:( 
de* nostri  tempi,  (Venezia,  Colombani,  1761).  lì  nome  di 
Carlo  Gozzi  è  nell^  epistola  di  dedica. 


PREPAZIONB.  XLI 

Fra  i  molti  però,  che  si  mescolavano  in  questa 
lotta,  chi  si  mostrava  indifferente  fra  il  Goldoni  ed 
il  Chiari  : 

E  t},  a  dirla  tra  nu,  seoz' altri  bizzi, 

I  xe  tutti  do  coghi  belli  e  boni. 

Che  tutti  do  fiei  dei  gran  bei  pastizzi  ;  > 

chi  esaltava  il  Chiari  sul  Goldoni: 

Chiari  ve  scrive  in  aerìo  e  più  bello  e  puirto. 
Chiarì  vien  più  brillante.... 
Bisogna  aver  pazienza,  in  tutto  ancuo  el  lo  supera 
E  col  far  insolenze,  Ponor  no  se  recupera. 
Bisogna  far  fadiga,  studiar  come  el  fa  lù, 
Che  allora  po' se  vede  quel  che^h'a  più  virtù. 
Via,  bravo  intanto,  Chiari,  portòve  sethpre  ben, 
Che  diese  matti  parla  de  rabbia  e  de  velen. 
Voghe*,  Chiari,  voghe,  che  da  do  anni  in  qua 
De  cento  barche  almanco  avanti  ghe  se  andà;* 

chi  finalmente,  ed  erano  i  migliori  in  Venezia  e 
in  tutta  Italia,  stava  pel  Goldoni.  Per  lui  parteg^ 
giava  altresì  il  Casanova,  giramondo  imbroglione, 
finché  si  yuole,  ma  vivissimo  ingegno  di  certo, 
che,  mosso  da  ragioni  non  tutte  letterarie,  avventò 
contro  il  Chiari  una  filza  di  cattivi  martelliani,  e 

1  Sonetto  anonimo  nel  Codice  cit,  della  Raccolta  Ci- 
cogna. Ma  è  di  Giorgio  Bafio,  autore  di  molti  altri  sonetti 
rìferìti  nel  Co4ice  Cicogna  ed  è  stampato  nella  Raccolta  Un^ 
persale  delle  Opere  di  Giorgio  Baffo  Veneto,  (Cosmo- 
poli, 1789). 

<  Codice  Cicogna  cit.:  Della  Commedia  intOplata  Le 
Done  de  Casa-Soa  del  celebre  Sior  Dottor  Carlo  Goldoni, 


XLU  •      PREFAZIONE. 

questi  se  ne  vendicò,  satireggiandolo  sotto  il  nome 
di  Signor  Vanesio  in  un  suo  romanzo,  la  Co- 
mica in  fortuna.  Per  tutta  risposta,  pur  riba- 
dendogli: ^  _ 

Ma.vu  guaste  el  teatro:  e  la  bella,  fatturi. 

Che  avea  fatto  Goldoni  se  perde  e  più  non  dura, 

il  Casanova  gli  promise  un  cargo  de  legiìaCy  ma 
era  già  alla  vigilia  d'esser  chiuso  nei  Piómbi  e 
non  potè  mantenergli  la  promessa.^  Si  sbracciava 
il  Chiari  a  procurarsi  fautori  dappertutto,  ed  uno 
dei  documenti  più  strani  della  sua  pazza  vanità 
sono  le  Epistole  Poetiche  a  lui  dirette  da  Alcuni 
Letterati  Modanesi  e  pubblicate  con  le  risposte 
di  lui.  *  Di  queste  Epistole  il  Goldoni,  scrivendo 
all'Arconati-Visconti  in  proposito  del  poemetto  in 
sua  difesa  del  Padre  Roberti,  diceva:  «  non  mal- 
tratta, alcun  altro,  per  onorare  l'amico  suo;  non 
seguita  lo  stile  dei  Modenesi  nelle  loro  Epistole 
Martelliane,  né  mi. mette  al  di  sopra  de' buoni 
autori,  com'  essi  fanno  il  loro  versificatore.  '  » 
E  Gaspare  Gozzi  in  una  lèttera  al  Mastraca:  «  il 
(Chiari)  è  stato  gonfiato  a  Modena  con  lettere 

^  D^ Ancona,  loc.  cit. 

«  bella  Vera  Poesia  Teatrale  —  Epistole  Poetiche  di 
alcuni  Letterati  Modaviesi  dirette  al  Sig,  Abate  Pietro 
Chiari  colle  risposte  del  medesimo,  (In  Modana,  Eredi  So- 
-liani,  1754). 

9  Lettere  di  Carlo  Goldoni  al  Conte  G.  A.  Àrconati-Vi- 
aconti,  cit.  ^ 


PREFAZIONE.     *  XLIII 

in  versi  martelliani  piene  di  lode,  ed  egli  ha  ri-v 
sposto  a  tutte,  lodandosi  quel  poco,  di  resto  che 
mancava.  Tutto  il  mondo  è  versi  martelliani.  *  » 
Fra  gli  scrittori  delle  Epistole^  uno  de'  più  invipe^ 
riti  nelle  sue  allusioni  al  Goldoni  è  l'Abate  Giam- 
battista Vicini,  Arcade  della  più  bell'acqua,  che 
inneggia  al  Chiari,  dicendo: 

Tu  vai  dei  Greci  sommi,  cu  dei  Latini  al  paro, 

E  degli  Itali  antichi,  cigno  animoso  e  raro.     - 

Tu  superi  gVIspani,  tu  superi  gP Inglesi 

Moderni  e  prischi;  ah  il  soffrano,  tu  superi  i  Francesi. 

Tu  a  gli  Europei  talenti  campo  novello  apristi, 

Nuovo  comico  mondo  tu,  Chiarì,  discopristi.... 

E  via  di  questo  gusto,  chiiamando  per  di  più  in 
un  sonetto  di  chiusa  gu/i  e  corvi  gli  enjuli  del 
Chiari  ;  senza  che  questo  gli  impedisse  poi,  tre 
anni  dopo,  di  far  la  corte  al  Goldoni,  il  quale, 
sempre  buono,  avea  scordate  le  offese.*  L'Abate 

*  Gasparh  Gozzi.  Opere.  Ediz.  cit.  Tom.  XVI,  p.  260-61.  • 

*  Vedi  nella  mia  Raccolu  di  Lettere  del  Golàoni  (Bo- 
logna, 21anichelK,  1880)  le  lettere  9  Dicembre,  34  Dicembre 
1757,  e  29  Aprile  58  del  Goldoni  al  Vicini  Gli  egregi  Edi- 
tori delle  Lettere  Goldoniane  alP  Arconati  dichiarano  d^  aver 
interrogato  intorno  alle  Epistole  Modenesi  il  chiarjno  Cav.  An- 
tonio Cappelli,  il  q\aale  drede  che  il  Goldoni  nelle  lettere  al- 
r  Arconati  alluda  ad  un  opuscolo  del  Vicini:  La  Commedia 
dell'Arte  e  la  Maschera,  Due  Epistole  in  versi  Martelliani, 
citato  dal  Tiraboschi  nella  Biblioteca  Modenese,  Forse  quest 
è  un  estratto  delle  Epistoke  Poetiche  che  io  ho  sott^  occhi,  e 
nelle  quali  sono  appunto  due  le  Epistole  def  Vicini.  Ma  non 
mi  pare  si  possa  dubitare  che  il  Goldoni  alluda  invece  al  li- 
bretto citato  da  me.  Nei  versi  del  Vicini  non  v^ha  poi,  né 


XUV  PREFAZIONE.  , 

Vicoli  è  il  Signor  Egerìo  Por  conerò  del  Barefti, 
titolo  che  gli  stava  bene  davvero  l  * 

Contro  il  Goldoni  ed  il  Chiari  scesero  in  campo 
i  Granelleschi  ;  non  tutti  però  avversi  al  Goldoni 
o  non  tutti  almeno  con  accanimento,  uguale  a 
quello  di  Carlo  Gozzi.  Suo  fratello  Gaspare,  ad 
esempio,  se  non  si  può  dire  che  s^  astenesse  del 
lutto,  certo  attestò  più  volte  e  pubblicamente  la 
sua  stima  e  la  sua  ammirazione  al  Goldoni.  Basti 
ricordare  i  giudizi  di  lui  sui  Rusteghì  e  sulla* 
'  Casa  Nova  nella  Ga^^etta  Veneta  e  la  pubblica- 
zione fatta  nella  Gazzetta  stessa  dei  famosi  versi 
del  Voltaire  in  onore  del  Goldoni.  ^  Di  questi  en- 
tusiasmi di  Gaspare  pel  Goldoni  pare  anzi  che 
Carlo  s'arrovellasse  talvolta  non  poco^  sicché,  oltre 
ai  noti  versi,  nei  quali  taccia  quasi  d^  infedeltà  il 
fratello: 

I  Granelleschi  in  gran  pensier  mettete; 
Chi  si  lamenta,  e  vi  crede  neutrale 

E  chi  sustten  che  ribellato  siete. 
Lo  scandal  ci  ponete; 

II  Dottor  tira  calci,  conie  un  mulo, 
E  la  camicia  non  gli  tocca  il  e....,' 

vi  può  essere,  allusione  a  Carlo  Gozzi,  siccóme  dubita  il  Cap- 
pelli, e  basta  riflettere  alla  data  per  convincersene.  Il  Vicini 
allude  al  Goldoni,  non  ad  altri;  non  mai  al  Gozzi  in  ogni 
caso,  che  nel  17^4  né  avea  scrino  nulla  pel  teatro,  né  sco- 
"^Mitamente  avea  ancora  assalito  il  Goldoni. 

1  Frusta  letteraria,  N.  XX^IV. 

«  Gasparo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  cit.  Volumi  VIII-IX.  Ga^-. 
jetta  Veneta  N.  5,  45,  86.  La  Gaietta  inoltre  fu  sempre 
awersissima  al  Chiari. 

»  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.   1772.  Tom.  Vili,  pàg.  196. 


i 

PttBFAZIONE.  XLT 

oltre  a  questi  versi,  dico,  v^  è  nel  Codice  Cicogna 
un  altro  sonetto  di  Cario,  che  credo  inedito,  ed  è 
di  questo  tenore: 

Fegeio  1  alza  la  cresu  e  sfida  l'orbe 
Dòpo  la  lega  sua  col  Gazzettiere, 
Più  non  8i  può  rimetterlo  a  dovere, 
£i  ci  minaccia  e  tien  le  luci  torbe. 

Sapete,  amici,  come  se  gli  torbe  * 

Quest'arroganza,  eh* or  ci  h  vedere? 
Ditegli  questi  detti  per  godere, 
,   Che  gli  fien  più  discari  delle  sorbe: 

Fegeio,  l'opre  tue  fin  or  son  state 
Fetenti  e  lorde,  pazze  e  di  castrone; 
PuoUe  veder  chi  non  l'ha  ben  guardate. 

Se  pel  futuro  ne  farai  di  buone. 

Diremo:  il  Gazzettier  l'ha  tacconate 
O  gliel'ha  fatte  ed  avremo  ragione. 

Chi  cerca  la  cagione 
D'un  stran  caso,  la  trova;  ecco  trovato 
Lo'mperchò  sozio  a  Erode  oggi  è  Pilato.' 

Carlo  invece  non  diede  mai  tregua  né  al  Chiari, 
né  al  Goldoni,  e  d'invettive  e  di  satire  contro 
questi  due,  e  principalmente  contro  il  Goldoni, 
riempi  intieri  volumi,  oltre  alle  moltissime,  che 
sono  inedite.  Sarebbe  soverchio  e  stucchevole  rie- 
saminare tutta   questa   farraggine.   Non   he   dirò 

^  Il  nome  Arcadico  del  Goldoni. 

«  Per:  intorbida. 

'  Codice  cit.  Il  sonetto  di  Carlo  è  sul  verso  del  foglio 
bianco  di  una  copia  di  una  lettera  di  Gaspare.  C'è  di  più 
questa  nota:  «  Sonetto  f^  dal  Sig,  Abate  Delnea  potrà  es» 
sere  sparso.  » 


XLVI  PREFAZIONE. 

quindi  se  non  quel  tanto  che  più  importa  al  mio 
argomento. 

'Quando  Carlo  Gozzi  nel  1772-74  pubblicava  e 
ripubblicava  molte  delle  sue  poesie  satiriche  contro 
il  Goldoni,  sentì  la  necessità  di  tralasciarne  alcima 
delle  più  scurrili,  di  correggerne  altre  e  di  scusarsi 
quasi,  di  questa  rinnovazione  d'offese  a  guerra 
finita.  Ma  la  sua  scelta  fu  maligna,  dappoiché 
escluse  tutte  o  quasi  tutte  quelle  contro  il  Chiari; 
le  sue  correzioni  furono  pressoché  insignificanti,  le 
sue  scuse  magre  e  non  sincere.  «  Il  pubblicare, 
scriv'égli,  de' Sonetti  urbanamente  satirici,  faceti, 
ragionevoli,  non  fa  che  far  noto,  che  quella  per- 
sona, contro  alla  quale  sono  scritti,  fu  un  ingegno, 
che  ha  meritato  l'occupazione  d'un  altro  inge- 
gno. '  »  Come  e  in  che  tempo  preciso  Carlo  Gozzi 
si  gettasse  nella  battaglia,  che  ferveva  a  Venezia, 
fra  Goldanisti  e  Chiaristi,  sarebbe  difficile  deter- 
minare. Questa  battaglia,  come  dissi,  avea  vera- 
mente messo  sossopra  tutta  la  città,  e  non  esagera 
Cario  Gozzi,  scrivendo: 

I  partigiani  ogni  giorno  crescevano, 

Chi  vuole  Originale  e  chi  Saccheggio;* 


1  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  Vili.  Discorso, 
notizie,  verità  e  riflessi,  i  qucdi,  per  essere  frivolewe,  non 
saranno, letti,  e  perciò  non  annoieranno  i  lettori,  pag.  258. 
Ibid.  pag.  243:  «  tronco  per  lo  meno  due  ter\i  delle  cose  da 
me  scritte  contro  il  Sig,  Goldoni.  » 

*  Altri  due  soprannomi  dati  dal  Gozzi  al  Goldoni  ed  al 
Chiari. 


PREFAZIONK.  XLVII 

Tutto  il  -paese  a  romore  mettevano, 

Sicché  la  cosa  non  è  da  motteggio. 

Nelle  caie  i  fratelli  contendevano. 

Le  mogli  colmanti  facean  peggio, 

In  ogni  loco  acerba  è  la  tenzone,  , 

Tutto  è  scompiglio,  tutto  è  dissensione.  ^ 

Fu  il  momento  più  decisivo  per  la  vita  privata  e 
letteraria  del  GozzL  Fin'  allora  non  avea  fatto  altro 
che  poesie  per  nozze,  per  monache,  per  ingressi 
di  magistrati,*  poesie  per  le  cosidette  Raccolte, 
la  gran  miseria  dei  letterati  del  secolo  XVm, 
(ogni  tempo  ha  le  sue)  ed  il  suo  nome  apparisce 
anche  nelle  famose  di  Milano  per  la  morte  del 
gatto  del  Balestrieri,  e  per  quella  di  Pippo,  cane 
vicentino;*  satire  forse,  che  sono,  delle  Raccolte; 

«  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  Vili.  La  Tar- 
tana  de gV  Influssi  per  V  anno  bisestile  lySG,  pag^  27.  Un 
anonimo  nel  Codice  Cicogna  cit.,  esce  in  proposito  in  questi 
versi,  forse  più  satirici  che  veri,  e  che  furono  riportati  anche 
da  Achille  Neri  ne' suoi  Aneddoti  Goldoniani; 

Le  Donne  per  el  più  dal  Chiarì  le  tegniva: 

Co  le  lo  difendeva,  guai  chi  le  contradiva  I 

Proprio  le  xe  portse  a  star  coi  cplarinì, 

Grami  quei  che  gbe  tocca  i  so  cari  abbatlni  1 

Bisogna  compatirle,  se  le  ha  sto  pregiudizio, 

I  ghe  cotnmoda  molto,  i  è  sempre  al  so  servizio  : 

I  altri  galàntomeni  gha  tutti  el  so  da  fìir; 

Ma  quéi,  co  i  ha  ditto  Messa,  no  i  gha  altro  da  pensar. 

t  ■  Non.  credo  si  chiudesse  verginella 
In  monistero  per  servire  a  Dio, 
Né  che  andasse  a  marito  mai  donzella, 
Senza  un  grun  pezzo  del  cervello  mio.  • 

Cuti  dal  Tommaseo,  Storia  Civile  nella  Letteraria,  p.  236. 

s  Vedi:  N.  6  e  8  della  Bibliografia  in  fine  del  Voi.  II. 


XLVill  PREFAZIONE, 

siccome,  celiando,  ^i  lagnala  Carlo  Gozzi,  se  ad 
ogni  occasione  di  Raccolta  non  era  con  gli  altri- 
poeti  invitato  a  cantare: 

O  me  infelice!  Che  vorrà  dir  questo? 

Il  Venier  fa  P  ingresso, 

Tutti  i  poeti  a  scriver  son  pregati 

Ed  io  non  veggio  un  messo 

Che  m^ abbia  almeno  un  sonettuzzo  chiesto! 

Ahi  ch^  esser  deggio  deMimenticati  I  ^ 

Combattè  da  prima  contro  il  Goldoni  ed  il  Chiari, 
insieme  coi  colleghi  Granelleschi  e  cogli  altri  av- 
.  versari  dei  due  poeti,  punzecchiandoli  di  continuo 
con  libelli  e  satire,  ma  finalmente  buttò  giù  bu£Eis^ 
e,  ponendosi  audacemente  a  capo  degli  assalitori, 
scrisse  la  Tartana  degli  Influssi  per  Vanno  bise- 
stile  1756,  specie  di  lunario  burchiellesco,  col  quale, 
fra  altre  cose,  dileggiava  nelpeggior  modo  il  Gol- 
doni e  il  Chiari.  '''  <c  O  vergogna  del  secolo  cor- 
nuto! (scrive  altrove  in  questo  proposito  il  Gozzi). 
Che  più  si  doveva  attendere  per  accendersi  d'un 

1  Vedi:  Bibliografia  al  N.  5.  Versi  riferiti  anche  nelle 
Opere.  Tom.  Vili,  pag.  219.  Ediz.  1772.  Per  V  Ingresso  di 
S.  E,  Girolamo  Venterò,  Procurator  di  S.  Marco, 

*  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772,  Tom.  Vili.  Questo  li- 
bretto fu  fiatto  stampare,  dice  il  Gozzi,  da  Daniele  Farsetti, 
fondatore  dei  Granelleschi,  nel  1757*  -^  Ji2?morie  cit.  Part.  I, 
Cap.  34,  pag.  272.  Ne  rinnovò  il  titolo  di  Tartana  degli  IH" 
flussi  da  un  vecchio  Almanacco  Veneziano  notissimo,  che  si 
pubblicava  fin  dal  secolo  XVII  sotto  il  nome  di  Schieson. 
Vedi:  Gamba.  Serie  degli  scritti  in  dialetto  Vene^.  (Venezia, 
Àlvisopoli,  1832). 


PltEFAZIONE.  XLIX 

onesto  sdegno  in  difesa  del  secolo,  degli  studi  e 
del  comune?  Io  mi  recai  nel  mio  stanzino  terreno 
e  qui  disegnai  quelP  operetta  di  pochi  fogli  appel- 
lata: La  Tartana.  Picciola  parte  d'essa  spetta  ai 
poeti  Nugnez,  ^  hi  maggior  parte  a' costumi  del 
secolo  in  generale.  Ella  è  uscita  da'  torchi  di  Pa- 
rigi. Buon  prò.  Fu  donata  e  non  venduta.  Non 
aveva  nome  del  suo  scrittore,,  ma  i  pesciolini  sa- 
peano  ch'ella  era  di  Carlo  Gozzi.  Se  ad  alcuno 
mancasse  di  saperlo,  suonisi  la  tromba,  si  raduni 
il  popolo.  Sappiasi  che  la  Tartana  è  di  Carlo  Gozzi, 
di  Carlo  Gozzi.  *  »  Anche  in  questa  Tartana  il 
bizzarro  ingegno  e  l'imior  satirico  del  Gozzi 
brillano  di  strana  luce  a  traverso  le  irregolarità 
e  disuguaglianze  del  suo  stile,  col  quale  questa 
volta  pretendeva  imitare  il  Pulci  ed  il  Bur- 
chiello, la  gran  passione  del  Gozzi  e  dei  Granel- 
leschL  Ai  quali,  ed  al  Gozzi  specialmente,  alludeva 
certo  il  jBaretti,  allorché  con  molto  senno  derideva  , 
nella  Frusta  gli  €  smisurati  panegiristi,  »  del  Bur- 
chiello e  tutti  quei  loro  riboboli  d'accatto  e  vec- 
chiumi di  frasi  ritinti  a  nuovo,  in  cui  parea  cre- 
dessero consistere  il  perfetto  scrivere. 

Della  rivalità  fra  il  Goldoni  ed  il  Chiari  scrive 
il  Gozzi  cosi: 

1  Altro  soprannome  dato  da  Carlo  Gozzi  al  Goldoni  ed^ 
al  Chiarì.  Il  Nugne\  è  un  personaggio  della  Storia  Galante 
di  Gii  Blas  di  &Mtillano,  che  di  lacchè,  beone  e  ladro  si 
improvvisa  poeta  e  scrittore  di  romanzi  e  commedie. 

*  Fogli  sopra  alcune  Massime  del  Genio  etc.  Op.  ciu 
f««-  29. 

Gozzi.  d 


PRBFAZIONS* 

Dove  fan  lor  imprese  i  ciurmttorì^ 
Vedestu  mai,  lettore,  in  sulla  piaxsa 
Due  fantaccini  &r  gli  schermidori 
In  mezzo  a  innumerabil  turba  pazza? 
Davano  assalti,  menavan  furori 
Da  fien'  paura  a  Dodon  dalla  mazza. 
Tondi,  punte,  rovesci  ed  avean  quelli, 
In  iscambio  di  spada,  in  man  randelli. 

Era  ignorante  V  udo  e  ne  sapea 

Tanto  di  scherma,  quanto  un  uom  dipinto  : 

L^  altro  avea  della  scola  alcun  precetto 
E  facea  l'impostore  al  rigoletto, 

Cosi  tenendo  il  popolo  in  puntiglio 

Traean  que'due  ciurmanti  un  buon  guadagno. 
Leggonsi  certe  nuove  Marlanne, 

Certi  Baron,  certe  Marchese  impresse. 

Certe  fraschette  buse,  come  canne, 

E  le  battezzan  poi  filosofesse. 

Che  il  mal  costume  introducono  a  spanne. 

Credo  il  dimonio  al  torchio  le  mettesse. 

Chi  dice,  egli  è  un  comporre  alla  Francese; 

Certo  è  peggbr  del  mal  di  quel  paese.  ^ 
li  costume  o  dev'essere  un  bordello, 

O  in  tutto  una  virtù  che  non  si  trova. 

D'otto  vecchie  Commedie  in  un  fardello 

Ricuci  1  fatti  e  la  commedia  è  nova.* 

Gridan  le  genti:  Il  Teatro  è  risorto. 
Novi  Moller  son  nati  al  calamaio.... 


1  Tartjlna,  pag.  a6,  18,  ag. 
«  Ibid.,  pag.  37. 


Di  un  assalta  cosi  fiero  il  Gozzi  dava  gii  per 
ragione  il  suo  amore  alle  vecchie  rommedie  del- 
PArtc: 

Io  sto  piangendo  pel  Teatro  morto 

E  stoghiozzando  al  buco  delP  acquaio,  >, 

e  a  rinnovarne  la  gloria  conchiudeva  preconiz- 
zando e  invocando  il  ritomo  del  Truffaldino  Sac- 
chi, che  da  Lisbona  donde  avea  dovuto  ripartire 
colla  sua  Compagnia  a  cagione  del  terremoto  del 
1755,*  stava  per  far  ritomo  a  Venezia: 

Deh  corra  il  Sacchi  e  venga  a  darci  aiuto 

Tutti  per  noia  abbiam  le  faccie  oscure; 

Tutte  le  persone 

Andranno  al  Sacchi  come  ad  un  convito 

E  rìderanno  e  dirangll:  ghiottone, 

Perchè  si  t*erì,  traditor,  higgito? 

Questi  dottor  ci  opprìmeano  i  cardiaci; 

Eravam  tutti  fatti  ipocondriaci 
Sappi,  che  noi  facemmo  que'firacassi 

All'opre  loro  e  quel  picchiar  di  mane, 

Perocché  sentivam  certi  papassi 

A  dir,  ch'elPeran  cose  sovrumane 

E  che  tu  eri  un  istrion  pe' chiassi 


Galoppa  e  vien  per  le  più  mozze  vie...,' 


*  È  quello  descrìtto  dal  Baretti  odia  Lettera  XDL  al 
fratelli,  2  Settembre  1760. 
'  Taitaiu,  pag,  69. 


Ul  ^  PREFAZIONE. 

Contro  il  suo  solito  il  Goldoni  non  potè  con- 
tenersi e  rispose: 

Ho  veduta  stampata  una  Tartana 

Piena  di  versi  rancidi  sciapiti, 

Versi  da  spaventare  una  befana, 
Versi  dal  saggio  imicator  conditi 

Col  sale  acuto  della  maldicenza, 

Piena  di  falsi  sentimenti  arditi; 
Ma  conceder  si  può  questa  licenza 

A  chi  in  collera  va  colla  fortuna, 

Che  per  lui  non  ha  molta  compiacenza. 
Chi  dice  mal  senza  ragione  alcuna, 

Chi  non  prova  gli  assunti  e  gli  argomenti 

Fa  come  il  can  che  abbaia  alla  luna.  ^ 

Il  Gozzi,  vedendo  cosi  raccolto  il  guanto  dal 
Goldoni,  si  eccitò  alla  lotta  sempre  più.  Dipingeva 
il  Goldoni  come  disperato  di  quell'assalto: 

Stassi  il  Dottor  sdraiato  e  strappa  e  sbrana, 
E  scaglia  il  parruccon  sul  pavimento. 
Poi  grida:  Aceto,  io  vado  in  sfinimento, 
Che  non  posso  patir  quella  Tartana.* 


1  Biblioteca  Marciana  di  Venezia.  Codice  327,  Classe  IX. 
Terzine  del  Goldoni  alP  Avvocato  Alcaini.  Le  pubblicò  già  il 
Magrini  nelP  Opera  cit.  Questa  poesia,  scritta  in  occasione 
che  S.  E.  Bastian  Venier  tornava  dal  reggimento  di  Bergamo 
è  pubblicata  nella  raccolta  fatta  dal  Goldoni  delle  sue  Poe- 
sie, Edizione  Pasquali,  Venezia,  1764,  ma  il  passo  relativo 
alla  Tartana  è  soppressa  Esempio  di  nobiltà  d^  animo,  che 
il  Gozzi  non  imitò. 

*  Carlo  Gozzi.  Opere,  Ediz.  cit.  Tom.  Vili,  pag.  181. 


PREFAZIONE.  LID 

Smascherava  la  finzione  che  la  Tartana  fosse 
scrìtta  da  un  morto  *  e  eh'  egli  non  ne  fosse  che 
roditore; 

Qual  colpa  è  mai  di^quel  barbier  di  Mida 
Che  vide  al  Re  gli  orecchi  del  giumento? 


Qual  colpa  ho  io  che  in  un  oscura  tana    ^ 
Scrìssi  soletto,  e,  morto,  nella  tomba 
Avea  gli  scritti  e  quella  mia  Tartana, 

Se  uscita  come  sasso  dalla  fromba 
Da  torchi  Parìgin,  la  Fegeiana 
Orecchia  ha  pubblicata  a  suon  di  tromba?  < 

Non  avea  più  alcuna  misura  nella  volgarità  bi- 
richinesca- dello  scherno  : 

O  putti  da  buon  tempo,  o  compagnoni. 

S'io  credea,  che  n'avessimo  un  tal  spasso, 
Dicendo  alPAsseèsor:'  Vate  da  chiasso 
E  gran  Riformator  de' miei  e... 

GlìeP  avrei  detto  prima  ott'anni  buoni. 

Amici,  eccol  di  qua  bassotto  e  grasso, 
'     Corriamgli  incontro,  attraversiamgli  il  pano, 
Diamgli  dei  pizzicotti  in  sui  pippioni* 

^  Nella  lettera  di  dedica  a  Daniele  Farsetti,  il  Gozzi 
finge  che  un  amico  suo  e  gran  nemico  del  Goldoni  e  del 
Chiarì,  vedendo  i  trìonfi  di  questi  <iue,  •  tutto  venne  meno 
dì  malinconia  e  rinserratosi  in  una  sua  cameretta,  scrìsse  di- 
sperato codesta  Tartana,  che  pòssianoo  dire  fosse  il  suo  tfr> 
stamento,  perocché,  terminata  che  l' ebbe,  e  anche  non  molto 
rìpurgata,  si  peggiorò  per  la  mattana,  che  le  dava  questa 
sua  noia,  che  co' nomi  di  Luigi  Pulci,  di  Franco  Sacchetti  e 
dd  Burchiello,  suoi  carissimi,  in  sulle  labbra,  moria  » 

*  Ined.  nel  Codice  Cit.  della  Raccolta  Cicogna. 

'  n  Goldoni,  già  impiegato  nella  cancellerìa  criminale. 


Lr?  PRBPAZIONB* 

Che  il  vederem  rivolto  iaverto  noi 
GoQ  Mcumera  e  con  caricatura 
A  gridar:  Ragazzon,  che  fate  voi? 

Poeu  io  «OQ  della  Madre-Natura. ...i 

n  Goldoni  ora  in  una  or  in  altra  occasione  rì- 
spondeya^  ma  (tanta  era  la  (liversità  dell'indole 
di  questi  due  uomini)  più  schermendosi,  die  of- 
fendendo, più  dolendosi  dell'  ingiusta  guerra,  che 
rintuzzando  l'ingiuria  coli' ingiuria.  «  Can  che 
abbaia  alla  lima  »  è  forse  la  frase  più  acerba  che 
gli  esca  contro  il  Gozzi.  Pochi  accenni  del  resto 
a  tali  baruffe,  trovansi  ne' suoi  scritti.  In  un  poe- 
metto intitolato:  La  Tavola  Rotonda*  introduce: 

Uà  Lombardo  che  afietta  esser  cruacante 
Col  risa  in  bocca  e  col  veleno  in  petto, 

U  quale  nega  al  Goldoni  ogni  facoltà  poetica  e 
dice: 

Come  si  può  soffnr  che  un  uomo  scrìva 

Senza  il  conciossiachè,  senza  il  quandunque? 
Per  mieter  palme  alP  Apollinea  riva 
Deesi  la  Crusca  adoperar  dovunque. 
Non  bastan,  no,  del  basso  vulgo  i  viva 
De^  sacri  allori  a  coronar  chiunque, 
C  poeta  chiamar  si  puote  indarno 
Chi  le  pure  non  bevve  onde  delP  Amo. 


>  Ined.  nel  Codice  cit.  della  Raccolta  Cicogna. 

i  Componimenti  diversi  di  Cario  Goldoni  <  Prato,  Gmk 
chetti  1827).  La  Tavola  Rotonda*  Poemetto  per  le  Nosze 
Coatarìni  Venier. 


FRBFÀZIOlfB.  Vf 

Ed  il  Goldoni  risponde  umilmente,  anche  troppo: 

perdono 

Volentieri  P  insulto  a  me  doTuto, 
Purtroppo  il  so  che  buon  scrìttor  non  sono 
E  che  a  i  fonti  miglior  non  ho  bevuto; 
Qual  mi  detta  il  mio  ttil  scrivo  e  ragiono 
E  talor  per  fortuna  ho  anch'io  piaciuto, 
Ma  guai  a  me  se  il  fiorentin  frullone 
A  sceverare  i  sc^rìtti  miei  si  pone. 

Anche  da  questi  versi  traspare  la  bonarietà  del 
GoldonL  Per  contrario  l'iracondo  Gozzi  varcava 
Ogni  limite  e  contro  alle  poche  risposte  del  Gol- 
doni centuplicava  le  nuove  risposte  ^  e  le  nuove 
invettive.  Fra  le  tante  contro  la  Tavola  Rotonda^ 
ne  cito  una  inedita": 

Scrisse  un  di  l'escremento  del  Molière: 

10  con  arte  dipingo  il  vìzio  espreaso,' 

Tal  che  nessun  può  dire:  io  son  quel  desso, 
E  metto  l'uomo  in  scena  a  mio  piacere. 

Ma  essendo  censurato  al  suo  mestiere 

Da  un  uom  col  ver,  per  svelenarsi  ha  messo 
In  scena  un  ignorante,  un  uom  di  ^esso. 
Un  Lombardaccio  cotto,  un  menzognere; 

Poi  disse  piano  ai  suoi  parziafli:  è  quello 

11  mip  censor;  gli  assag^ator  di  brodo 
Ballavan  tutti  ed  egli  si  fé' bello. 

Cosi  la  verità  si  cambia  in  frodo 
Né  sì  dipinge  il  vizio,  Ser  baccello, 

1  La  più  diretu  è  il  Poemetto  del  Gozzi:  I  sudori  d*Im^ 
mèo.  Vedi  al  N.  19  della  Bibliografia  in  fine  del.VoL  i* 
*  Tavola  Rotonda  dt. 


LVI  PREFAZIONE. 

Né  8i  sconta  1  peccati  o  scioglie  il  nodo. 

La  VA  per  altro  modo 
Dalla  mia  parte,  ed  a  fronte  scoperta 
Non  dico:  Ser  Lombardo,  o  Monna  Berta, 

Ma  il  Goldoni  disérta. 
Non  riformata  ha  la  commedia  nostra 
E  non  ha  vinto  Truffaldino  in  giostra. 

Con  sopportazion  vostra 
ELfa  commedie,  e  poi  le  crede  buone 
Perchè  i  e...  gli  dan  riputazione. 

Spiegato  ho  il  Gonfalone, 
Mai  non  dirò  per  tema  le  bugie. 
M' impiccheran  le  vostre  Signorie  ?i 

E  basti  di  questi  versaccì,  che  n'ho  citati  atKhe 
troppi  e   unicamente  perchè  sono  il  documento 
<ii  questa  sconcia  lite  letteraria. 
U  Goldoni  avea  detto  : 

Chi  non  prova  l'assunto  e  P argomento 
Fa  come  il  can  che  abbaia  alla  luna. 

E  il  Gozzi: 

Ma  acciò  s*  abbia  a  decidere 
S' io  dissi  il  ver,  sto  fiacendo  un  comento 
Che  proverà  V  assunto  e  l' argomento.  * 

Questo  commento  fu  una  nuova  satira  vivacissima 
e  bizzarramente  burlesca,  con  cui  pretese  rispon- 
dere al   Teatro  Comico,  commedia  del  Goldoni, 


1  Ined  nel  Codice  cit.  della  Raccolta  Cicogna.  Da  pag.  140 
a  147  Sonetti  di  Carlo  Gozzi  contro  il  Goldoni.  Cinque  tono 
inediti.  Gli  altri  pubblicati  nelle  Opere,  Ediz.  1772. 

*  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  cit.  Tom.  VIIL  ptg.  i83. 


PREFAZIONE,  LVII 

contenente,  come  si  direbbe,  il  programma  della 
sua  riforma  teatrale.  È  intitolata:  //  Teatro  Co^ 
mico  alP  osteria  del  Pellegrino  ira  le  mani  degli 
Accademici  Granelleschù  «  Ecco  giungere,  scrive 
Carlo  Gozzi,  ^  un  mostro  che  dalle  forme  fu  te- 
nuto per  una  addottrinata  maschera,  ma  dai  Gra- 
nelleschi  si  tenne  per  quello  eh'  egli  era  veramente 
ed  eccovi  la  pittura.  Il  corpo  era  d' uomo.  La  sta- 
tura bassa  e  grossa  e  goffa  oltremodo.  Le  vesti- 
menta  erano  cangianti  e  ténea  al  galone  la  spada. 
Nuova  e  strana  cosa  era  il  capo,  poiché  aveva 
quattro  facce  con  quattro  bocche,  quattro  nasi  e 
otto  occhi,  uno  di  vista  corta,  tre  cispi,  quattro 
rovesciati  e  per  tutte  le  quattro  bocche  ragionava, 
I  discorsi  venieno  da  un  cervello  solo  e  picciolino, 
come  che  la  zucca  fosse  assai  grande  a  tale  che  sì 
sarebbe  potuta  chiamare  zuccone,  e  quanto  agli 
orecchi  erano  due  soli  lunghissimi  e  pungigliantL 
Non  vi  direi  in  tre  anni  i  discorsi  che  faceva  al 
popolo,  che  se  gli  affollava  dintorno,  con  quelle 
sue  quattro  bocche.  Con  una  contraffacea  Panta-. 
Ione,  il  Dottore,  il  Brighella,  e  i^  Truffaldino  con 
poca  grazia  e  molta  disonestà.  11  popolo  facea  un 
gran  picchiar  di  mani  nel  principio  a  tale  novità, 
ma  perchè  per  costume  i  popoli  si  cambiano,  a 
poco  a  poco  cominciava  la  noia  e  il  sbavigliare  ed 
era  abbandonato.  Colui  s' accorgeva  della  sventura 
è  spalancava  un'  altra  bocca,  fingendo  il  Lelio,  la 

^  Biblioteca  Marciana  di  Venezia.  Codice  CXXVI,  Classe  X^ 


LYIU  PHfiFAZIONE. 

Rosaura,  il  Leandro,  la  Clarice,  la  Corallina,  ia 
alcune  circostanze  di  certe  famiglie  conosciute  dei 
nostri  giomL  Vestiva  queste  persone  di  caratteri 
palesi  caricandoli  oltre  la  naturalezza  e  con  una 
prosacela  fetente  faceva  dialoghi  sconnessi  non  la- 
sciando mai  le  lascivie  e  V  adulazione  verso  il  pò* 
pola  A  tal  cambiamento  le  genti  s^  aggruppavano 
di  nuovo,  r  applauso  e  il  picchio  si  rinnovellava. 
Non  andava  però  molto  che  la  freddezza,  i  sba- 
digli e  r  abbandono  era  a  campo  {sic).  Il  mostro 
apriva  ben  presto  la  terza  bocca,  fingeva  perso- 
naggi eroici,  di  paesi  lontani,  di  costumi  e  di  leg^ 
non  conosciute  dal  popolo  e  qui  con  le  novità 
faceva  nascere  curiosità  fra  la  gente,  la  quale  si 
ravviluppava  di  nuovo.  Dialogava  con  versacci  lun^ 
ghi,  rimati,  d' uno  stile  assai  goffo.  Sponeva  ri** 
pudi,  violenze,  duelli,  pianti,  e  predichette....  Gli 
applausi  erano  pronti,  com'  anche  a  poco  a  poco 
era  pronto  il  tedio  e  l' abbandono.  U  mosVo  pre- 
stamente spillava  la  dottrina  dalla  quarta  bocca, 
fingendo  la  Catterina  e  la  Maddalena,  pettegole» 
sfacciate,  in  contrasto  per  gli  amori  o  per  la  gatta. 
Titta  e  Nane,  gondolieri  maldicenti  o  in  baruAi 
alla  taverna  o  al  tragitta  II  Conte  forestiere  in- 
namorato della  lavandaia  Veneziana.  La  Dama 
strapazzata  dalla  baldracca  e  rinvilendo  gli  esteri, 
adulando  gli  ascoltatori,  innestando  equivoci  lordi, 
ragionando  or  in  versi  corti,  or  in  versi  lunghi, 
or  in  ottave,  or  in  terzine,  spiccando  qualche  can- 
zoncina, immaginando  d' essere  or  in  barca,  or  a 


PUEPAZIONB.  LlX 

cena,  or  a  giuoa>,  or  alla  finestra,  or  alla  bottega, 
per  sok  novità  e  senza  proposito,  usando  linguaggi 
corrotti  e  gergoni  di  levante,  di  ponente,  di  mez- 
zogiorno e  di  settentrione,  tanto  faceva  che  il  po- 
polo inaiava  di  nuovo  le  voci  e  accorreva.  E  cosi 
all'  apparire  della  noia  riapriva  la  prima  bocca,  la 
<{uale  riusciva  come  nuova,  poi  la  seconda,  poi  la 
terza,  poi  la  quarta  e  con  questa  dottrina....  tu* 
neva  le  persone  intronate  e  meravigliate  e  d' altro 
non  si  dbcorrea  per  la  piazza  che  di  questa  per- 
sona o  vogliamo  dire  mostro  o  chimera.  » 

Dopo  questa  specie  di  storia,  a  modo  suo,  del 
teatro  Goldoniano,  dalle  prime  prove  alle  comme- 
die di  carattere,  da  queste  alle  romanzesche  e  alle 
popolari  di  costiune  Veneziano,  i  Granelleschi, 
già  mezzo  brilli,  fanno  entrare  il  mostro  nell'oste- 
ria e  ne  segue  un  dialogo  tra  esso  ed  il  Gozzi, 
che  è  tutto  una  diatriba  violentissima  contro  le 
commedie  del  Goldoni  II  mostro  non  sa  più  che 
cosa  rispondere.  Allora,  continua  il  Gozzi,  «  riz- 
zatosi dalla  pancacda  e  sbottonandosi  dinanzi  il 
vestito  a  furore,  fece  vedere  ignuda  la  pancia  ri- 
gonfia ai  Granelleschi.  Nel  mezzo  di  quella  gran 
trippa  con  istupore  degli  Accademici  e'  era  un  al 
tra  gran  bocca  con  la  quale  con  voce  alta  così 
disse:  Campioni  e  difensori  del  vero,  scusate  in 
carità  le  strane  e  diverse  cose  fatte  e  dette  dalle 
quattro  bocche  che  sono  nel  capo  di  questo  mio 
fratello  e  bastivi  il  sapere  che  ^tutto  fii  fatto  per 
amor  mio  e  non  per  altro.  Io  mi  vi  raccomando. 


LX  PREFAZIONE. 

Qui  si  tacque,  torcendosi  in  atto  di  piangere  quella 
veridica  bocca  dell'  Epa..  Allora  gli  Accademici 
mossi  da  misericordia  spalancarcelo  l'uscio  e  quel 
mostro,  o  Teatro  Comico,  rotoloni  come  un  barile 
a  rompicollo  se  ne  andò  giù  per  le  scale  dell'  oste- 
ria... Gli  ottimi  Granelleschi  borbottando  e  la- 
gnandosi presero  i  tabarri  e  le  maschere  e  giurato 
nuovamente  il  nodo  dell'alleanza....  se  ne  anda- 
rono chi  qua  chi  là  a  spargere  parolette  in  difesa 
del  buon  gusto  e  delle  ]()urgate  scritture  e  a  sca- 
gliare dardi  alla  corruzione  del  secolo  e  a  viso 
aperto  cercando  il  martirio.  » 

'  L'eccesso  di  questa  satira  (che  pef  l'inven- 
zione però  fa  già  presentire  il  poeta  delle  Fiabe 
ed  ha  con  la  prima  di  esse  non  poca  affinità)  la 
ignobile  allusione  alla  onorata  povertà  del  Goldoni 
fanno,  per  vero  dire,  poco  onore  all'indole  del 
Gozzi.  Ma  nel  dialogo  accusa  alti'esì  il  Goldoni  di 
deprimere  deliberatamente  i  nobili  e  di  subornare 
.la  plebe  «  con  un  pubblico  mal'  esempio  contrario 
all'ordine  indispensabile  della  subordinazione,'  » 
ed  in  Venezia,  retta  da  un'  oligarchia  sovrana  di 
Patrizi,  quest'  era  una  denunzia  beli'  e  buona. 
Narra  il  Gozzi  che  codeste  brutte  sfuriate  furono 
di  ragione  pubblica  prima  ancora  d' essere  date  alle 
stampe  e  che  anzi  il  Goldoni,  spaventato,  ottenne 
da  lui,  per  intramessa  di  due  Patrizi,  il  Farsetti, 
amico  del  Gozzi,  ed  il  Widiman,  amico  del  Gol- 

1  Memorie  cit  Parte  x.  Gap.  34  pag:  281. 


PREFAZIONE.  LXI 

doni,  che  il  Teatro  Comico  non  fosse  pubblicato.  * 
Può  darsi  e,  se  il  Goldoni  cadde  in  tale  debolezza, 
il  tempo,  la  natura  del  Governo,  le  condizioni 
della  società  Veneziana  d'allora  sono  più  che  ba- 
stanti a  dame  ragione  e  sempre  più  se  n'accresce 
il  torto  dell'aristocratico  Conte  Gozzi.  Più  certo 
è  che  ne  prima,  né  poi,  quando  scrisse  le  sue  Me* 
morie,  il  Goldoni  tentò  vendicarsi  del  suo  feroce 
avversario.  Questa  nobile  moderazione  non  am- 
mansò tuttavia  le  furie  del  Gozzi,  e  la  Tartana, 
e  la  Marfisa  Bi^^arra  e  il  Ratto  delle  Fanciulle 
Castellane,  ed  i  Sonetti  e  gli  Atti  dei  Granelle- 
schi  e  tanti  altri  suoi  scritti  faceano  piovere  come 
una  grandine  di  vituperi  sul  Goldoni  e  sul  Chiari. 
Negli  Atti  dei  Granelleschi  il  Gozzi  si  rivolge 
con  speciali  componimenti  ai  Consacrati  Religiosi^ 
alle  Grandiosissime  Dame^  ai  Nobilissimi  Cavar 
lierij  alle  Gentilissime  CittadinCy  ai  Prudentissimi 
Cittadini^  agli  Onorati  Mercatanti^  a  tutti  racco- 
mandando la  sua  causa  e  quella  dei  Granelleschi; 
finalmente  alla  plebe,  e  a  questa  parla  cosi: 

Tu  spererai,  plebaglia  da  niente 
Che  io  abbia  a  parlar  teco  umilemente. 
Che  sa  dì  poesia,  di  libri  sani, 

E  di  buone  commedie  la  plebaglia? 
Coni,  loda  chi  vuoi,  picchia  le  mani 
Che  non  decidi  mai  cosa  che  vaglia. 


^  Ibid.  pag.  383. 


LXn  PRBFAZIOMS. 

Del  resto  loda  e  biasma  chi  ti  pare 

Ch'io  non  t'apprezzo 

Quando  s' ha  a  fÌEir  a'  pugni,  a'  cocci  e  a' 
Della  plebaglia  allor  gran  conto  fassL^ 


Anche  chi  non  soffre  di  gran  tenerumi  demo- 
cratici troverà  incivile  tutto  questo  disprezzo.  Ma 
in  Carlo  Gozzi  è  significantissimo  dell'indole  sua 
e  dei  principii  che  professava,  e  fa  un  po' riscon- 
tro al  contegno  di  quei  nobili,  così  finamente  ca- 
stigato da  Gaspare  Gozzi  nella  Ga!(!(etta,  che  dai 
palchetti  del  san  Luca  sputavano  in  platea,  pren- 
dendo i  cittadini,  che  vi  sedevano,  per  altrettante 
«  iscodelle  da  sputarvi  dentro.  »  • 

Notevole  è  pure  la  Marfisa  Bi\\arra^  poema 
facetOj  che  il  Gamba  molto  inesattamente  para- 
gonò alla  Secchia  Rapita  e  al  Ricciardetto,  il 
Morelli  con  evidente  esagerazione  chiamò  «  un 
modello  perfetto,  »  *  ma  di  cui  il  Tommaseo,  ben- 
ché severissimo  al  Gozzi,  lodò  giustamente  «  i 
sali  vivaci  e  la  franca  dicitura.  ^  »  Aggiunse  però 
che  non  ha  «  né  caratteri,  né  disegno;  »  crìtica, 
che  non  mi  sembra  giusta.  Là  Mar  fisa  è .  una  sa- 
tira, non  un  poema.  I  caratteri  sono  caricature  e 
non  vi  fosse   che  quella  di  Marfisa,   modellata 

1  Cablo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  Vili.  pag.  i6a-63. 
s  Gasparb  Gozzi.  Opere.  Ediz.  ciL  Tom.  IX.  pag.  80-81. 

3  B.  Gamba.  Gallerìa  etc.  —  Morklu.  Cultura  della  poe- 
sia presso  li  Veneziani. 

4  Storia  Civile  nella  Letteraria  etc  Punto  Churx  etc. 
pag.  285. 


PRKPAZIONX.  LXni 

solle  eroine  del  Chiari,  basterebbe  a  far  prova 
della  potenza  satirica  e  della  burlesca  originalità 
dell'  ingegno  del  Go^zi.  U  quale  del  resto  col  con* 
fuso  e  barocco  disorc&ne  dei  suo  stile  e  del  suo 
finguaggio,  talvolta  cosi  strambo,  che  bisogna  in» 
tttoderlo  per  discrezione,  toglie  troppo  spesso  ogni 
garbo  e  vaghezza  e  forza  a  ciò  che  scrive.  Ma  non 
ai  può  negare  che  le  sue  satire  maggiori,  per  in- 
venzione, impostatura  e  congegno  di  composizione^ 
sono  singolarissime,  e,  se  accoppiassero  il  pregio 
d'una  forma  viva  e  schietta,  porrebbero  giusta- 
mente il  Gozzi  non  solo  al  di  sopra  dei  maggiori 
satirici  nostri,  ma  più  specialmente  accanto  ai  più 
celebri  umoristi  straniera  U  Gozzi  scrisse  i  primi 
died  Canti  della  Marfisa,  mentre  fervevano  an- 
cora le  sue  lotte  col  Goldoni  e  col  Chiari,  e  ne 
pubblicò  molti  saggi  nei  Fogli  sopra  alcune  mas- 
sime del  Genio  e  Costumi  del  Secolo,  operetta 
specialmente  dedicata  al  Chiari  ed  al  suo  apostolo, 
Abate  Placido  Bordoni.  Gli  ultimi  due  canti  scrisse 
molti  anni  dopo,  quando  cioè  stampò  il  poema,^  che 
tenne  parecchio  tempo  nascosto,  perchè  satireg^ 
giando,  oltre  al  Goldoni  ed  al  Chiari,  i  costumi  e 
le  opinioni  del  proprio  tempo,  temeva  forse  di  ca- 
pitar male.  Ripiglia  il  tema  dai  poemi  cavaliereschi 
e  «  dovrebbe  essere  superfluo  avvertire  (scrive  nelle 
Amtotaponi  pubblicate  dal  Magrini  e  dal  Malamani) 

i  Caklo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1773  colla  falsa  data  di  Ft* 
rente.  Tom.  VIL  —  Prefazione  scritta  tra  ii  dubbio,  che 
sia  necessaria,  e  il  dubbio,  che  sia  inconcludente. 


LXIV  PREFAZIONE. 

che  Carlo  Magno,  Parigi,  i  Paladini....  nonsieno 
stati  presi  dallo  scrittore  che  per  coprire  d^una 
veste  allegorica  un  picciolo  abbozzo  del  prospetto 
dei  costumi,  della  morale  dei  giorni  suoi  e  dei 
caratteri  in  generale  de'  suoi  compatrioti  riformati 
da  scrittori  perniziosi  e  dalla  scienza  del  nostro 
secolo  detto  illuminato  ' . . .  Sotto  i  due  nomi  dei 
Paladini  Marco  e  Matteo  del  Pian  di  S.  Michele 
sono  figurati  particolarmente  il  Chiari  ed  il  Gol- 
doni, maggiori  nemici  arrabbiati  dell'Accademia 
dei  Granelleschi . . .  Non  si  cela  che  sotto  il  nome 
del  Paladino  Dodone  Dalla  Mazza  è  figurato  V  au- 
tore del  poema  della  Marfisa,  il  (juale  unito  agli 
Accademici  Granelleschi  di  lui  sozi,  fii  il  martirio 
maggiore  dei  due  sopraccennati  poeti.*  »  Final- 
mente nell'  impero  di  Carlo  Magno,  che  si  sfascia 
per  impotenza,  mal  costume  e  debolezza,  il  Tom- 
maseo crede  che  il  Gozzi  abbia  prenunziata  «  la 
vicina  dissoluzione  della  repubblica.^  »  Di  ciò  non 
è  sentore  nelle  Annotazioni.  Certo  però  sono  no- 
tevoli in  un  poema  tutto  allegorico  questi  versi 
del  Canto  XII; 

Carlo  è  già  vecchio  e  presso  alPora  estrema 
E  deggio  dir  pria  che  sia  in  tutto  morto 
À  che  ridotto  fosse  e  io  qual  sistema 

1  Alle  solite  rassegne  di  guerrieri  dei  poemi  cavallereschi 
ed  eroicomici  sostituisce  una  rassegna  dMnvitati  ad  una 
festa,  con  bozzetti  caratteristici  e  mordacissimi. 

*  Avvertimento  e  Annotazioni  al  Canto  I. 

'  Storia  Civile  nella  Letteraria.  Pietro  Chusi  etc.  pag.  296. 


PREFAZIONE.  LXV 

Lo  Stato  nelP  inerzia  e  V  ozio  assorto 
E  del  popolo  il  vero  e  del  monarca. 
Dio  mio.  ti  raccomando  la  mia  barca. 

Ma  un  presagio,  che  si  risolve  in  una  satira  così 
diretta  al  governo,  è  poco  in  accordo  c^on  le  opi- 
nioni e  coi  sentimenti  del  Gozzi  e  del  resto  ogili 
querimonia  anteriore  ad  una  catastrofe,  come 
quella  che  sfolgorò  la  vecchia  Repubblica,  pi^ia 
facilmente  aspetto  di  profezia.  Nella  Prefazione 
all^  edizione  *  del  1772,  egli  dà  il  suo  poema  per 
una  satira  generica  ai  costumi  a  guisa  del  Giorno. 
del  Parini.  Trent^  anni  dopo,  quando  ogni  ragione 
di  prudenza  era  scomparsa,  lo  chiamava  ancora: 
«  picciolo,  vero,  e  significante  ritratto  de' costumi 
e  del  pensare  della  società;*  »  non  altro.  E  così 
nella  Chiacchiera,  ancora  inedita,  eh'  egli  divisava 
premettere  ad  una  ristampa  della  Marfisa^  neppur 
fa  cenno  di  questo  e  solo  difendè  le  buone  inten- 
zioni dei  Granellescbi  e  confuta  prolissamente  e 
leggermente  le  dottrine  del  Cesarotti  intorno  alla 
lingua  italiana,  ^.  ' 


1  CARLa  Gozzi.  Opere  edite  e  inedite.  Tom.  XIII.  (Ve^ 
nezia,  Zanardi  1802).  Prefazione  alla  Commedia:  iimor^  as^ 
soitigHa  il  cervello.  ,  ' 

*  Chiacchiera  di  Carlo  Go:^;^!  intomo  alla  liiigua  Ifitte* 
rale  italiana  e  alcune  ricerche  sopra  il  libro  intitolato  — 
Saggio  sopra  la  Lingua  Italiana  dell'.  Abate  M,  Cesarotti 
etc^  (Museo  Correr  di  Venezia.  Raccolta  Cicogna  N.  3552*3).  .. 
Ne  pubblicò  qualche  brano  il  Prof.  Guido  Mazzoni  hel  suo 
volumetto;  In  Biblioteca  :  «  Accàdemicus  prò  Accademia  » 
pag.  156  e  segg..  "     •      '  .  . 

Masi.  .  '        >,         .  '     e 


LXVI  PREFAZIONE. 

L'abate  Chiari  per  alcun  tempo  «  resisteva 
taciturno  alle  ferite  »  del  Gozzi.  '  Taceva,  ma  bol- 
liva ed  alla  fine  scattò  anch'  esso  contro  il  Gozzi 
ed  i  Granelleschi;*'anzi  fu  il  primo  «  che  li. sfidò 
a  comporre  commedie  in  sua  competenza.  ^  »  Questa 
volta  gli  rispose  il  Conte  Gaspare,  poco  o  assai 
mescolatosi  sempre  in  tutte  queste  baruffe; 

Ma  la  Commedia  è  specchio  naturale 
D'uman  cpstume  in  favellar  condito 
Urbanamente  con  faceto  sale.^ 
Prima  di  foré  a^Granelleschi  invito 
Fanne  tu  una  non  pazza,  né  bestiale, 
Ma  ch'abbia'  il  suo  ripien  sano,  e  P ordito; 

Allor  poi  sali  ardito 
Sul. monte  d'Elicona  e  li  d^<-fìda, 
Intanto  lascia  che  di  te  si  rida.' 

Nuova  esca  ofiFriva  ai  Granelleschi  la  pace  fatta 
fra  il  Goldoni  ed  il  Chiari,  palesatasi  in  un'  ana- 
creontica del  Chiari   al  Goldoni,  in  cui  lo  chia- 


1  Memorie  cir.  Parte  i.  Gap.  34,  pag.  289. 

*  Tradusse  dal' francese  un  libretto  sul  Genio  e  1  Co^ 
stuini  del  secolo  corrente  e  v^  innestò  osservazioni  contro  i 
suoi  nemici.  A  lui  ed  al  Bordoni,  autore  di  qn  Nuovo  se^ 
.  greto  per  farsi  immortale  un'ffoeta  sulle  Ga^^^tte^  provo- 
cato dagli  assalti  della  Gazzetta  Veneta  di  Gaspare,  rispose 
Carlo  coi  Fogli  sopra  alcune  Massime  del  Genio  etQ.  cit 

8  Memorie  cit.  P.  i.  Gap.  34,  pag,  303. 

^  E  che  altro  erano  le  commedie  del  Goldoni?  Ma  qui 
è  il  giudizioso  Gaspare,  che  parla. 

5  Atti  Granelleschi  cart.  '48.  Vedi  :  Fogli  sopra  alcune 
Massime  etc» 


PREFAZIONE.  LXVIl 

mava  «  degnissimo  comico  vate,  poeta  amico,  »  ed 
il  Goldoni  di  rimando  (non  senza,  pare  a  me, 
molta  punta  d' ironia  )  salutava'  il  Chiari  «  vate 
sublime,  vate  immortale  »  aggiungendo: 

Si,  tu  sei  i*  aquila 
Io  la  formica, 
Tu  voli  air  apice 
Senza  fatica. 
Mia  Nhisa  ai  cardini 
Salir  nòo  sa.i 

Forse  la  comunanza  delle  guerre  patite  li  paci- 
ficò; forse,  anche  questa  volta,  il  Goldoni  scordò 
bonariamente  le  offese.  Ciò  non  toglie  che  il  Gol- 
doni giudicasse  del  Chiari,  come  meritava.  Par- 
tendo per  la  Francia,  e  volendo  dare  idea  al  suo 
amico  Albergati  del  tumulto,  che  agitava  P  animo 
suo  in  ^uel  momento,  gli  scriveva;  «  Ho  una  testa 
presentemente  così  confusa,  che  la  cambierei  vo- 
lentieri anche  con  quella  del  Chiari;  almeno  sarei 
sicuro  d'averla  quieta  e  tranquilla,  poiché  im  uomo 
assai  persuaso  di  sé  medesimo,  fa  tutto  con  faci- 
lità e  intrepidezza.*  »  Poche  parole,  ma  nelle 
quali  il  vanitoso  abate  è  scolpito.  U  Goldoni  non 
sfidò  anch'esso  il  Gozzi  a  comporre  commedie  e* 


1  Goldoni,  Componimenti  cit.  Anacreontica  del  Chiari 
per  la  vestizione  religiosa  della  Sig.  Contarina  Balbi  e  Kì- 
sposta  del  Goldoni 

<  Vedi  nella  mia  Raccolta  di  Lettere  Gold,  la  23  all'  AI- 
beipiti  del  3  Aprile  1763. 


LXVln    .  PREFAZIONE.     ' 

lo  Stesso  Carlo  Gozzi  ^  dichiara  falso  l' aneddoto, 
narrato  dal  Baretti  liei  suo  libro  inglese  sui  co- 
stumi italiani,*  che  tdle  sfida  facesse  il  Goldoni  a 
Carlo  Gozzi  in  un  alterco  accaduto  fra  essi  nella 
bottega  d' un  libraio.  Il  Goldoni  si  limitò  a  rispon- 
dere alle  incessanti  satire  del  Gozzi  che  l' Achille 
degli  argomenti  in  favore  delle  sue  commedie  stava 
nella  folla,  che  attraevano,  costantemente  al  teatro. 
In  un  sonetto  contro  al  Goldoni  il  .Gozzi  scrive: 

Perdio,  Dottor,  di  qua  non  fuggi  via. 
Rispondi  e  aguzza  quanto  vuoi  i'  ingegno,    ■  *   '  *  •  '^  '- 
O  tu,  o  il  Chiari,  o  il  popol  è  in  pazicià. . .  \(  l  ;.  l.t 
Se  astratto  e  in  balordifi;  *.*•.,,• 

Rispondi:  «  è  sempre  buon  segno  il  concorso,  »    . 
Viva  il  Goldoni,  il  Chiari,  il  Sacchi  e  rorso;S 

che  è  quanto  dire:  se  il  concorso  del  popolo  è 
quello  che  decide,  tanto  fa  una  buona  commedia, 
*  quanto  i  lazzi  di  TrufiFaldino  e  V  orso,  che  balla  in 
sulla  piazza.  Di  qui  dunque  la  picca  del  Gozzi  di 
mostrare  al  Goldoni  che  qualunque  novità,  anche 
la  più  sciocca,  è  buona  per  tirar  gente  al  teatro 
e  ch'egli  avrebbe  conseguito  il  medesimo  risulta- 


1  Carlo  Gozzi,  Opere  Ediz.  ì8o2,  Tom.  XIV.  pag.  88. 
Al  Sig.  N.  N.  Poeta  Teatrale.  Framnienti,  Commentì,  Rifles- 
sioni, Opposizioni  e^c.  etc.  —  Sopra  il  Frammento  secondo. 

.2  Baretti;  The  Itali^nsl  An  Account  of  the  mannera  and 
customs  of  Italy.  (London  1768). 

3  E  stampato  con  qualche  variante  nel  Torri,  Vili  delle 
'  Opere  Ediz.  1772,  p'ag.  184.  —  Io  lo  riporto  dalle  Memorie. 
Parte  i.  Cap.  84,  pag.  305. 


PREFAZIOHK.  LXIX 

mento  con  una  fiaba  qualsiasi  di  quelle  che  le 
nonne*  e  le  serve  narrano  ai  bimbi  accanto  al  fuoco. 
Tale  è  l' origine  delle  Fiabe  di  Carlo  Gozzi,  quale 
r  ha  narrata  egli  stesso  in  molti  luoghi  delle  sue 
Opere,  nelle  Memorie^^  nel  Ragionamento  Ingenuo 
e  Stòria  sincera  delV  origine  delle  mie  dieci  Fiabe 
teatrali,  *  nella  Più  lunga  lettera  di  risposta  che 
sìa  stata  scritta^  e  nella  Chiacchiera  inedita  da 
premettere  alla  ristampa  della  Marjisa^  ed  è  im- 
portante ricordare  la  vera  origine  storica  delle 
Fiabe  del  Gozzi,  appunto  perchè  fu  trascurata  da 
tutti  coloro,  che  nel  meraviglioso  delle  Fiabe  voi-  . 
lero  vedere  non  già  un  puntiglio  casuale,  non  già 
un  coefficiente  estrinseco,  preso  d'accatto  da  un 
ingegno  potentemente  burlesco  e  teatrale,  q^uale 
si  palesò  subito  il  Gozzi,  bensì  la  conseguenza  na- 
turale e  necessaria  d'un  temperamento  artistico, 
a  cui  la  semplice  rappresentazione  poetica  del  reale 
non  basta  più  e  si  crea  da  sé  tutto  un  mondo  ma- 
gico, nel  quale  s'ingolfa  con  così  intima  correla- 
zione spirituale,  che  i  limiti  stessi  del  reale  e  del 
fantastico  gii  scompariscono  dinanzi  e  l' uno  e 
V  altro  gli  divengono  tutt'^  uno.  , 

U  Amore  delle.  Tre  Melarance  (il  cui  argo- 
mento ognuno   può  rifarsi  in  mente  coi  ricordi 


*  Parte  i.Cap.  34. 

*  Nel  Tomo  I  delle  Opere  in  tutte  e  due  le  Ediz. 

3  La  più  lunga  Lettera  di  risposta  che  sia  stata  scritta, 
inviata  da  Carlo  Go:[\i  ad  un  poeta  teatrale  italiano.  — 
Opere,  Ediz.  1802.  Tom.  XIV. 


LXX  PREFAZIONK. 

cibila  propria  fanciullézza)  fu  la  prima  fiaba  posta 
in  scena  da  Carlo  Gozzi,  la  sera  del  25  Gen- 
naio 1761.  Con  essa  la  gran  lotta,  combattuta  dal 
Gozzi  contro  il  Chiari  e  più  particolarmente  con- 
tro il  Goldoni,  era  portata  sopra  tutt'  altro  campo. 
U  pubblico  era  direttamente  chiamato  a  seder  giu- 
dice fra  i  contendenti.  La  faccenda  si  faceva  seria 
ed  è  qui  che  molto  probabilmente  va  collocato 
l'aneddoto,  dal  Gozzi  narrato  confusamente  nelle 
Memorie  ^  e  nel  Discorso  sulle  poesie  satiriche,  * 
cioè  l' improvvisa  apparizione  d' im  meàso,  che  lo 
chiamava  al  palazzo  del  Patrizio  Zuan  Dona.  Con- 
frontando le  due  narrazioni  del  Gozzi  si  vede  chiaro 
che  ciò  accadde  tra  la  fine  del  1760  ed  il  principio' 
dèi  1761.  Dunque  alla  vigilia  della  rappresentazione 
delle  Tre  Melarance.  Ma  di  questo  il  Gozzi  non 
parla.  Tace  pure  quello,  che  si  rileva  dalle  Anno^ 
taglioni  degli  Inquisitori^  cioè  che  il  Dona  era  in 
quel  momento  Inquisitore  di  Stato,  (lo  fu  dal 
I  Ottobre  1760  al  i  Ottobre  1761)  e  solo  gli 
sfugge  indicato  «  il  tremendo  Tribunale  che  allora 
egli  (il  Dona)  occupava  »  cioè  il  Tribunale  dei 
«  Tre  di  sora  »  (sopra).  Per  quanto  l'esser  chia- 
mato in  privato  e  non  alla  Bussola  di  S.  Marco 
(il  che  significava  trattarsi  dell'ammonizione  ofiì- 
ciosa  e  non  officiale)  dovesse  in  certo  modo  tran- 


1  Carlo  Go2zi,  Memorie^  Parte  i.  Gap.  34,  pag.  ^99. 
«  Opere,  Ediz.  1772.  Discorso,  Notizie,  Verità  etc.  cit. 
Tom.  VIU,  pag.  249. 


PREFAZIONE.  LXXI     , 

'  quillizzare  il  Gozzi,  pure  confessa,  in  una  delle  due 
narrazioni,  che  l' iflea  cK'  egli  aveva  «  di  quel  gran 
Signore  »  e  «  del  treipendo  Tribunale  »  lo  scosse, 
e  nell'  altra  narrazipne  che  primja  di  presentarsi  fece 
un  breve  esame  di  coscienza,  che  lo  confortò  colla 
certezza  dv  «  non  aver  delitti,  »  dei  quali  dover 
render  conto,  e  nondimeno  quando  fu  dinanzi  al 
Dona  dimostrò  «  nel  viso  qualche  interna  confu- 
sione. »  Il  Dona  era  un  vecchio  magistrato  inte- 
gerrimo e  severissimo.  *  Ciò  rende  poco  credibile 
quanto  il  Gozzi  racconta  del  loro  colloquio,  vale  ^ 
a  dire  che  si  riducesse  ad  una  conversazione  tutta 
scherzosa  e  amichevole  sulle  polemiche  col  Gol- 
doni e  col  Chiari  e  che  il  grave  Inquisitore  di  Stato 
conchiudesse,  animandolo  a  continuare  quella 
guerra,  in  difesa  del  buon  gusto  letterario,  pur- 
ché «  non  veniate  alle  pugna  »  (così  il  Gozzi 
nelle  Memorie)  ovvero,  purché  «  le  controversie 
stieno  nelle  penne  soltanto,  »  (cosi  nel  Discorso). 
Ma  il  Dona  non'  si  sarebbe   incomodato  per  tale 

1  n  Sig.  E.  von  Ldhner  ebbe  la  cortesia  di  farmi  in  pro- 
posito la  comunicazione  seguente:  «  Zuanne  Dona  è  morto 
a  Padova  il  4  Febbraio  i7i)ó  in  età  di  76  anni.  Ho  presa  io 
stesso  questa  annotazione  nel  Necrologio  di  Padova.  Nel 
MS.  Santo  Pengo,  che  trovasi  al  Museo,  è  detto  del  Dona: 
fu  mandato  dalla  Repubblica  a  questo  Reggimento  come 
per  castigo,  perchè  essendo  di  carattere  severissimo^  quanto 
integerrimo  e  giusto,  diede  motivi  di  dispiacere  ai  Patrizi, 
Fu  sepolto  senza  pompa,  perchè  era  poverissimo.  Eppure  era 
stato  Bailo  a  Costantinopoli,  il  solo  impiega  diplomatico  Ve- 
neziano, che  fruttasse  qualche  guadagno!  Fu  Inquisitore  di 
Suto  del  I  Ottobre  1760  al  i  Ottobre  1761.  » 


Lxxu  prep:aziqnk. 

cagione,  né  per  tale  cagione  avrebbe  fatto  al  Gozzi 
quel  po'  po'  di  paura  colla  sua  improvvisa  chiamata. 
Non  mi  sembra  quindi  arrischiata  la  .congettura 
che  il  Dona  volesse  piuttosto  interrogare  il  Gozzi 
sulla  rappresentazione  teatrale,  che  stava  apparec- 
chiando, e  forse  lo  rendesse  responsabile  dei  disor- 
dini, che  potessero  mai  avvenire.  Il  Gozzi  l' avrà 
persuaso  che  V  Amore  delie  tre  Melarance  non 
superava  in  violenza  di  polemica  tutte  le  sue  sa- 
tire anteriori.  Tant'è  véro  the  le  Melarance  fu- 
rono rappresentate.  *E  dunque  da  conchiudere  colle 
parole  del  D' Ancona,  il  quale,  accennando  appunto 
a  questo  aneddoto,  scrive  :  «  Su  tutto  vegliava  la 
suprema  autorità,  non  scontenta  che  alla  messetta, 
alla  donnetta  e  alla  bassetta  tradizionali,  si  aggiun- 
gessero.... là  commedietta  e  le  fiabe  e  le  guer- 
ricciuole  letterarie;  ma  attenta  che  le  cose  non 
.  andassero  troppo  oltre,  e  curiosa  di  conoscerne 
ogni  incidente.  *  » 

Mettendosi  a  scrivere  le  Fiabe,  il  Gozzi  si  pro- 
pose altresì  di  soccorrere  la  Compagnia  Comica  del 
Sacchi,  colla  quale  durò  «  per  quasi  ventìcinque 
anni*  »  (circa  dal  1756,  che  la  Compagnia  tornò  ' 
da  Lisbona,  al  1781)  nella  più  stretta  intimità. 
Egli  la  descrìve  a  lungo  e  con  molta  arguzia  nelle 
Memorie,  In  un  suo  Ditirambo  uscito  poco  prima 


*  A.  D'Ancona,  Un  Avventuriere  del  Secolo  XVUL  cit. 

*  Memorie  cit.  Parte  2.  Gap.  2,  pag.  1 1.  Ragionamento 
Ingenuo  cit.  Opere  Edìz.  1772.  Tom.  i,  pag.  65. 


PREFAZIONE.  LXXIII 

della  rappresentazione  delle  Melarance  rivelava 
già  questa. sua  gioconda  famigliarità,  proverbiando 
\  Comici  e  le  Comiche  degli  altri  teatri  di  Ve- 
nezia, ed  esaltando  il  Truffaldino  Antonio  Sac- 
chi, '  la  Smeraldina  Adriana  Sacchi  Zanoni,  il  Bfi-- 
ghella  Atanagio  Zanoni,  il  Tartaglia  Agostino 
Fiorilli,  il  Pantalone  Cesare  Darbes,  la  Beatrice 
Antonia  Sacchi, ,  e  Ignazio  Casanova  e  Gaetano 
Casali,  principali  attori  ed  attrici  della  Compagnia 
Sacchi,  i  grandi  esecutori  delle  Fiabe  del  Gozzi.* 
V  Amore  delle  tre  Melarance  riportò  di  fatto 
un  trionfo  clamorosissimo.  Ma  quanto  al  punto 
principale  della  polemica  col  Goldoni,  che  cioè 
qualunque  novità,  anche  le  ciancie  delle  nonne  e^ 
delle  serve,  basta  per  attirar  folla  al  teatro,  forse- 
cbè  è  a  questo  soltanto  che  il  Gozzi  andò  debi- 
tore del  suo.  trionfo?  V  Amore  delle   tre  Mela-- 

>  ÀI  Sacchi,  l'ultimo  forse  dei  grandi  attori  dèlia  com- 
media estemporanea,  rimangono  documento  di  gloria  impe- 
•  rìtura  le  lodi  straordinarie,  che  gli  tributarono,  il  Goldoni,  il 
Baretti,  i  due  Gozzi.  Di  lui  hanno  scritto  di  recente' Vittorio 
Malamanì  in  un  bozzetto:  La  morte  di  Truffaldino  ed  E.  von  , 
Lóhner  nelle  preziose  annotazioni  alle  Memorie  del  Goldoni. 
La  sua  Compagnia  si  sciolse  verso  il  1782.  Originario  dì  Ferrara, 
era  nato  a  Vienna  nel  1768,  Morì  nel  1788,  poverissimo  e  mentre 
viaggiava  per  mare  da  Genova  a  Marsiglia.  Nel  n.  93  della  ' 
Ga\\etta  Urbana  Veneta^  citato  dal  Mala  mani  e  dal  Ldhner, 
è  detto  che  «  il  suo  cadavere  soggiacque  al  comuo-  destino 
dei  passeggieri  marittimi  d'essere  gettato  in  mare.  »  Lo  ri- 
corda anche  il  Goethe,  che  nel  1786  vide  a  Venezia  gli  ul- 
timi superstiti  deUa  Compagnia  Sacchi. 

•  Carix)  Gozzi,  Opere,  Ediz.  1772.  Tom.  VIIL  Canto  Di- 
tirambico de*  Partigiani  del  Sacchi   Truffaldino,   pag.  1G4. 


LXXIV  PREFAZIONE. 

rance  è  la  sola  fiaba,  della  quale  abbia  scritto  poco 
più  che  r  orditura,  lo  scenario,  il  canevas,  E  questo 
pure  ci  è  rimasto  in  una  forma  insolita,  in  quella 
d^un  racconto  (e  perciò  il  Gozzi  lo  chiama  -4na- 
lisì  Riflessiva)^  in  cui,  oltre  al  sunto  della  rap- 
presentazione, trovan  luogo  le  sue  chiose  e  via 
via  le  impressioni  del  pubblico,  alP  incirca  come 
nelle  odierne  Appendici  Teatrali.  Nelle  altre  Fiabe 
le  sole  parti  a  soggetto  sono,  e  non  sempre,  quelle 
delle  Maschere,  All'ardimento,  alla  licenza,  alla 
facll  vena  degli  attori  estemporanei,  alla  gioconda 
irregolarità  della  Commedia  dell'Arte,  alle  tra- 
sformazioni, ai  meccanismi,  e  alle  decorazioni  di 
scena,  che  già  prima  di  lui  e  del  Goldoni  facevano 
la  delizia  del  pubblico  Veneziano,  a  tutti  questi 
ammennicoli  di  buon  successo,  dai  quali  neppure 
il  Goldoni  era  riescìtó  del  tutto  ed  emancipare  il 
teatro,  il  Gozzi  ridiede  vita  tutt'  ad  un  tratto,  ma 
valendosene  di  cornice  ad  una  satira  feroce  contro 
il  Goldoni  ed  il  Chiari,  oggetto  allora  fra  quel 
pubblico  di  dispareri  e  parteggiamenti  fìerissimi. 
Che  parte  ha  in  questo  primo  trionfo  del  Gozzi 
la  ingenuità  della  fiaba  popolare?  Piccola  dav- 
vero! Nella  mente  del  Gozzi  le  trivialità  di  essa 
.  sono  per  sé  medesime  una  parodia  dei  Campielli, 
delle  Massére,  delle  Baruffa  Chio:;{ote  del  Gol- 
doni, ma  il  grosso  pubblico  avrà  còlto  ben  poco 
di  tale  finezza.  Se  non  che  nel  Mago  Celio  è 
raffigurato  il  Goldoni,  nella  Fata  Morgana  il 
Chiari;  il  Principe   Tartaglia,  ossia  il  pubblico 


PREFAZIONE.  LXXV 

Veneziano,  sta  morendo  per  indigestione  di  versi 
martelliani;  Truffaldino^  ossia  la  Commedia  del- 
l'Arte,  è  il  solo  che  riesca  a  guarirlo,  facendolo 
ridere,  e  tutta  la  lotta  è  tra.il  Mago  e  la  Fata, 
V  uno  che  protegge,  l' altra  che  perseguita  il  Prin- 
cipe;* la  lotta  durata  tanto  tempo  fra  il  Goldoni 
ed  il  Chiari,  i  quali  si  strapazzano  à  vicenda  sull4 
scena,  V  uno  in  istile  avvocatesco,  l' altro  in  sopra- 
pindarico. Tutta  questa  parodi^  è  in  realtà  potente 
ed  ingegnosissima  ed  è  essa,  e  non  altro,  che  diede 
causa  vinta  al  Gozzi.  Ha  ragione  il  Tommaseo, 
che  questa  fiaba  del  Gozzi  «  è  la  più  sua  *  »  e 
cosi  pure  PUgoni,  che  gli  rimprovera  di  non  es- 
sersi sempre  attenuto  a  questo  genere,  il  più  con- 
veniente all'  ingegno  e  all'  umore  di  Carlo  Gozzi.  * 
In  sostanza  la  commedia  popolare,  con  qui  in- 
tese opporsi  al  naturalismo  del  Goldoni  e  al  ro- 
manzesco sentimentale  del  Chiari,  non  gli  si  ri« 
presentò  a  tutta  prima,  se  non  sotto  forma  di 
commedia  allegorica,  e  come  continuazione  sulla 
scena  della  polemica  combattuta  già  cogli  opuscoli, 
i  sonetti  e  le  satire.  Col  suo  primo  saggio  non 

^  C  è  in  questo  punto  una  contraddizione  curiosa.  Celio 
Mago,  ostia  il  Goldoni,  è  il  protettore  di  Trufikldino,  o2MÌa 
delfa  Commedia  dell'arte.  Più  curioso  è  che  tale  contrad- 
dizione è  avvertita  dallo  stesso  Gozzi,  il  quale  non  sa  giu- 
stificarsene con  alcuna  buona  ragione.  Vedi  a  pag.  21  del 
presente  volume. 

*  Storia  Civile  nella  Letteraria,  Pietro  Chiari  etc.  p.  289* 
3  C.  Ugoni,  Della   Letteratura   Italiana  nella  seconda 
metà  del  secolo  XVllL  Voi.  3.  Art.  a. 


LXXVI  PREFAZIONE. 


solo  il  Gozzi  sorpassò  ogni  incertezza  di  princi- 
piante, ma  tocéò  subito  alla  forma  d' arte .  teatrale 
più  riflessa  e  meno  sponts^nea.. Perchè  questo?  Fra 
le  molte  ragioni  che  se  ne  pp^àonO  addurre,  una 
poco  notata,  eh'  io  s^ppi^,:è;  T  età  del   Gozzi,  il  ■ 

I  .quale  è  forse  urtièp:  fra;  i;  poeti  drammatici  (ed 
era  innegabilmenje .  un  gratile  ingegno  tejìtrale) 
che  cominci  la*sua  cjarriera  a  più  di  quaraht'anni. 

,  Il  Metastasi©,  dopo  i  primi  tentativi  dtì  ^(iiustino 
e  degli  Orti  Esperidi^  scriv:e  a  25 .  inibirla  Bidone 
abbandonata^  a  26  l'Alfieri  (benché -fuorviato  per 
tanto  tempo  da  circostanze  straordinarie)  il  suo 
primo  abbozzo  di  tragedia,  a  22  il  Goldoni  i  suoi 
primi  Interme!(p  comici,  lo  Schiller  a  20  anni  i 
Masnadieri,  il  Goethe  a  23  il  Goet^  di  Berlichin- 
genj  il  Lessing  a  ig  II  Giovine  Scienziato,  Vit- 
torio Hugo  l' Emani  a  27  anni,  l' età  di  Bona- 
parte  alla  prima  campagna  d'Italia,  come  soleva 
dire  il  Gautier.  V  Amore  delle  Tre  Melarance  è 
più  che  altro  quindi  opera  di  critica,  dj,_jar,ica- 
tura,  di  parodia.  In  questo  senso  è  l' opera  d' un 
ingegno  maturo  e  perfettamente  esercitato  e  non 
ha  nulla  dell'  esordiente..  E  commedia  allegorica  e 
non  altro  la  ritenne  pune  Gaspare"  Gozzi,  il  cui 
giudizio  sulla  prima  Fiaba  di  Carlo  è  importan- 
tissimo metter  sott'  occhi  ai  lettori,  primieramente, 
perchè  l' un  fratello  era  molto  a  dentro. nei  se- 
greti letterari  dell'altro,  e  in  secondo  luogo,  per- 
chè egli  dà  tali  spiegazioni  autentiche,  per  così 
dire,  delle  più  riposte  intenzioni  e  allegorie  della 


PREFAZIONE,  LXXVII 

Fiaba,  che  niun' altro,  salvo  Fautore  stésso j  avrebbe 
potuto  fare  altrettanto.  <(l  La  favola  delle  trtf  me- 
larance, scrive  Gaspare  Gozzi,  commedia  a  sog- 
getto, fu  rappresentata  la  prima  volta  domenfca 
di  sera  nel  teatro  di  Sati  Samuele.  Io  avea  fatto 
proposito  di  non  parlare  di  commedie  fatte  all'  im- 
provviso e  durerei  nel  parer  mio,  se  questa  non 
fosse  di  un  genere  particolare  e  della  condizione 
di  quelle  che  anticamente  si  chiamano  allegoriche. 
L'argomento  di  essa  è  tratto  dallo  Cunto  delti 
Cuntij  capriccioso  e  raro  libro  scritto  in  lingua. 
Napoletana,  che  contiene  tutte  le  fiabe  narrate 
dalle  vecchierelle  ai  fanciulli.  La  favola  in  essa 
commedia  trattata  è  sopra  tutte  le  altre  notissima: 
chi  compose  la  commedia  non  si  sa,  ma  viene  at- 
tribuita a  diversi  autori.  Siasi  chiunque  si  voglia 
il  tessitor  di  essa,  egli  ha  avuto  V  intenzione  di 
coprire  sotto  il  velo  allegorico  certi  doppi  senti- 
menti e  significati  che  hanno  una  spiegaziohe  di- 
versa dalle  cose  che  vi  sono  espresse.  Avrei  troppo 
che  fare  se  io  volessi  sviluppare  ogni  minima  parte 
da  quel  velame  che  la  ricopre  ;  ma  solo  alcune 
poche  cose  dirò,  acciocché  queste  poche  aprano  la 
via  all'  udienza  di  poterne  esaminare  più  altre  da 
sé  medesima,  quando  sarà  assicurata  che  da  capo 
a  fondo  quelle  novelìuzze  e  bagattelle  rinchiudono 
non  picciola  dottrina.  Que'  re  di  coppe,  que'  maghi, 
quegli  scompigli,  qUelle  malinconie,  quelle  alle- 
grezze dinotano  le  vicende  del  giuoco,  e  l'incan- 
tesimo or  buono,  ora   contrario  della  fortuna  in 


LXXVin  PREFAZIONE. 

esso.  Andando  a  passo  a  pa^o  per  questo  cam- 
mino, vi  si  troveranno  molte  interpretazioni.  Io 
mi  arresterò  solo  a  spiegare  con  brevità  due  cose: 
la  prima  è  quella  dello  spirito  che  soffia  dietro 
col  mantice  a  Trufifaldino  e  a  Tartaglia,  i  quali 
vanno  alF  impresa  delle  melarance  e  fa  che  questi 
attori  nell'  intervallo  di  un  atto  corrano  millecin- 
quecento miglia.  À  prima  vista  par  cosa  da  scherzo; 
ma  vi  si  troverà  sotto  sostanza,  xjuando  si  pen- 
serà a  quel  tempo  eh' è  limitato  nelle  tragedie  e 
commedie,  e  tuttavia  si  veggono  talora  personaggi 
passare  da  un  paese  ad  un  altro  lontanissimi  in 
un  momento  senza  ragione  veruna;  onde  pare  che 
l'Autore  voglia  significare  che  in  sì  breve  tempo 
non  possono  trovarsi  da  questo  a  quel  luogo  senza 
un  mantice  infernale  che  ve  gli  abbia  dietro  soffiatL 
Il  secondo  passo  allegorico  è  il  Castello  della 
Maga  Créonta  che  tiene  custodite  le  tre  Mela- 
rance. Questa  è  l' ignoranza  grossa  dei  primi  po- 
poli, che  teneva  incarcerati-  e  rinchiusi  i  tre  generi 
di  componimenti  da  teatro,  tragedia,  commedia  di 
carattere,  e  commedia  piacevole  improvvisa.  Il  di- 
letto e  V  ingegno  sono  figurati  ne'  due  personaggi 
che  trafugano  le  tre  melarance.  Le  due  donzelle 
uscite  dalle  due  tagliate  da  Truffaldino  e  morte 
di  sete  dinanzi  a  lui,  significano  la  tragedia  e  la 
commedia  di  carattere,  le  quali  in  que'  teatri,  dove 
recita  un  buon  Truffaldino,  non  possono  avere  nu- 
trimento, né  vita.  La  terza  Rovine  uscita  dalla 
melarancia  tagliata  dal  Tartaglia  e  da  lui  tenuta 


^  PREFAZIONE.  LXXIX 

in  vita  con  l'acqua  datale  in  una  delle  scarpe  di 
ferro,  detiota  la  commedia  improvvisa,  sostenuta 
in  vita  dal  socco  de'recitanti  piacevoli,  il  qual  socco 
sa  ognuno  ch'era  la  scarpa  degli  antichi  rappre- 
sentatori  di  commedie.  Molte  altre  allegorie  si 
contengono  nel  portone  di  ferro  che  vuol  esser 
unto,  nel  cane  che  vuol  pane,  nella  corda,  nella 
fomaia,  nelle  mutazioni  della  fanciulla  in  colomba 
e  della  colomba  in  fanciulla;  ma  non  è  tempo  né 
luogo  qui  da  descrivere  ogni  cosa  minutamente. 
Solo  non  tacerò  che  i  due  peritissimi  attori,  i 
quali  rappresentarono  il  Tartaglia  e  il  Truflfaldino 
e  che  quivi  ebbero  le  parti  prindpali,.  man  tennero 
all' improvviso  una  continua  vivacità  e,  grazia  in 
tutte  le  scene,  assecondando  l'allegorico  sentimento 
eh'  è  V  anima  di  tal  qualità  di  rappresentazioni.  Chi 
tenesse,  come  fece  l'Autore  di  questa  commedia, 
bene  in  mente  il  detto  di  quell'  antico  filosofo:  ne 
quid  nimis^  che  noi  diciamo:  ogni  soverchio  rompe 
il  coperchio^  potrebbe  aggiungere  alla  scena  anche 
questo  allegorico  spettacolo  che  a  noi  manca,  e 
che  fu  sino  ad  un  certo  segno  la  delizia  del  teatro 
di  Atene  e  talora  una  delle  più  grate  rappresen- 
tazioni di  quello  di  Francia.  '  »  Così  il  Conte  Ga- 
spare, tre  giorni  dopo  la  prima. recita  delV  Amore 
delle   Tre  Melarance.   Noto   anzitutto   il    fatto, 


*  Gasparb  Gotziy  Opere,  Ediz.  cit.  Tom.  IX.  Ga^\etta 
Veneta.  N.  99  pag.  199-200-201.  Dell^edii.  del  1761  della  Ga:{' 
\etta:  N.  io3,  del  Mercoldì,  28  Gennaio  ^761. 


LXXX  PREFAZIONE. 

che  la  commedia  si  rappreseatò  senza  nome  d' au- 
tore. Di  questa  circostanza  (la  quale  non  avrà  im- 
pedito di  certo  che  tutti,  sapessero  chi  era)  ap- 
profittò il  buon  Gaspare,  il  quale  in*  queste  liti 
procedette  semgre.  guardingo,  per  dissimulare  arti-r 
ficiosamente  i  veri  punti  di  mira  della  parodia  di 
Carlo,  annebbiandoli  in  un  commento,  che  allarga 
e  sorpassa  di  molto  le  intenzioni  dell'  autor  della 
Fiaba,  Tanto  varrebbe  commentare  così  Li  Tre 
Cetra  del  Cunto  delli  Cunti  di  Giambattista  Ba- 
sile, fonte  immediata  della  Fiaba  teatrale  del 
Gozzi.  '  Il  pubblico,  che  avea  assistito  alla  rappre- 


*  II  Gozzi  però,  come  fia  sempre,  non  prende  gli  avve- 
nimenti di  una  sola  Fola,  ma  ricompone  insieme  gli  avve- 
nimenti di  parecchie.^  Li  Tre  Cetra  è  il  Trattenemiento  Nòno 
della  fornata  Quinta  del  Pentamerone  del  Cavalier  Giovati 
Battista  Basile^  ovvero  Lo  Cunto  de  li  Cunte  ~  Trattene- 
miento de  li  Peccerille  di  Gian  Alesio  Abbattutis  (Napoli 
ad  is.tanza  di  Antonio  Bulifon  Librano  air  Insegna  della  Si- 
rena, 1674.)  Di  molte  edizioni  del  Basile  nel  secolo  XVII, 
questa  è  delle  meno  accreditate  per  P  arbitraria  correzione 
del  t^to.  Ma  io  non  ne  ho  àltrei.  Su  questo  interessante  scrit- 
tore di  novelle  popolari  v6di  il  bel  Saggio  di  Vittorio  Jm-. 
briani:  //  gran  Basile,  nei  Volumi  .1  e  2.  Fascicoli  i,  2,  5i 
6,  del  Giornale  Napoletano  di  Filosofia  e  Letter...,  etc. 
Giambattista  Basile,  nato  a  Napoli  nelPultihio  scorcio  del 
Cinquecento,  scrittore  fecondissimo  di  poesie  e  navel le  popo- 
lari in  dialetto  napoletano,  era  fratello  della  celebre  Adriana 
Basile.  Fu  soldato  di  ventura  al  servizio  di  Venezia,  quindi 
fu  alla  Corte  di  Mantova  e  a  Ronia  famigliare  del  Cardinale 
Barberini.  Morì  circa  al  1634.  Scrisse  tóì  pseudonimo  -ana*» 
grammatico  di  Gian  Alesio  De  '  Abbattutis.  Importantissimo* 
il  giudizio  deUMmbriani  sul  Basile  ed  .ir  suo  Pentatnerofte: 
«  Il  Basile  ha  sapiito  conciliar  due  cose,  che  parrebbe  impos- 


PREFAZIONE.  LXXXI 

sentazione,  avrà  riso  non  poco  delle  cautele,  delle 
amplificazioni  e  dei  silenzi  eloquenti  del  Conte 
Gaspare,  il  quale  smussava  ogni  angolo  di  una 
delle  satire  più  personali  che  si  conoscano,  tra- 
mutando persino  la  liberissima  commedia  del  fra- 
tello in  una  difesa  delle  tre  solenni  unità,  dai 
più  stitici  interpreti  d' Aristotile  prescritte  .al  tea- 
tro. I  lettori  hanno  qui  sott'  occhi  le  Fiabe,  ripub- 
blicate integralmente,  e  giudicheranno.  Su  quanti 
scrittori  italiani  trattarono  finora  di  Carlo  Gozzi  ho 
almeno  questo  vantaggio,  che  posso  risparmiare  ad 
essi  ed  a  me  il  solito  sunto  subbiettivo  delle  Fiabe 
e  non  ho  altro  obbligo  che  quello  d' esporre  il  più 

sibile  il  conciliare,  sopratutto  nello  stile:  p^rsinalità  spiccata 
ed  impersonalità  popolare.  Ce  la  voce  del  popolo  nel  sua 
libro  e  c^è  il  letterato  Seicentista....  Il  Seicento  fu  il  secolo 
de^ Napoletani:  il  Seicentismo  fu  cosa  napoletana;  ne*  meri- 
dionali è  natura,  negli  altri  è  sforzo.  Quando  finalmente  ci 
faremo  a  studiar  sul  serio  queir  inclito  secolo,  riconosceremo 
che  il  maggior  numero  di  grandi  nomi  letterari,  ch^  abbia 
prodotti,  sono  di  meridionali;  meridionali  il  Marini,  lo  Sti- 
gliani,  il  Basile^  lo  Sgruttendio,  il  Rosa,  il  Muscettola,  il  Cor- 
tese, il  Campanella,  il  Gravina,  che  valevano,  se  non  altro, 
un  po'  meglio  de'  Chiabrera,  de'  Testi,  dei  Bracciolini,  de'  Le- 
mene,  de' Guidi....  Ed  i  difetti  del  secolo  furono  difetti  na- 
poletaneschi,  difetti  d' un  popolo  che  ha  più  immaginazione 
che  fantasia,  più  acume  ed  arguzia  che  sentimento  e  pas- 
sione; il  quale  rimane  con  la  testa  fredda  in  mezzo  agli  im- 
peti più  selvaggi  ed  arzigogola  e  sofistica  anche  quando  sra- 
giona. »  Queste  acute  considerazioni  fanno  ricordare  che  il 
Seicento  in  letteratura  albeggia  nel  Tasso,  napoletano  per  * 
madre  e  per  nascita,  e  fìnisce  nel  Metastasio,  che  ha  la  pa- 
ternità spirituale  del  Gravina  e  che  a  Napoli  scopre,  la  prima 
volu,  il  proprio  genio.  E  l'oracolo  dellico  di  Carlo  Gozzi  è 
il  Basile. 

Masi.  / 


LXXXII     .  PREFAZTONE. 

,che  posso  di   circpstanze  contemporanee,  che  le 
risguardano,  e  i  pochi  fatti,  che  vengono  a  galla  . 
dalle  infinite  Prefa^^ioni  di  Carlo,  gran  mare  di 
chiacchiere  per  lo  più  inconcludenti,  e  delle  quali  • 
è  sembrato  quindi  inutile  a  me  e  all'  Editore  im- 
pinzare questi  due  nostri  volumi.  Giudicheranno 
dunque  i  lettori,  non  dimenticando  che  il  Conte 
Gaspare  è  il  primo  a  ricordare  in  proposito  delle 
Fiabe   di    Carlo   la    commedia   Aristofanesca^    la 
quale  ne'  più  agitati  e  gloriosi  tempi  della  libertà 
Ateniese  segnava  a  dito  in  teatro  le  sue  vìttime. 
Ma  il  teatro  avns^  allora  altro  ufficio  civile  di  quello 
potesse  e  volesse  avere  negli  ultimi  tempi  della 
Repubblica  Veneta.  Èen  lo  sapeva  il  Conte  Ga- 
spare, che  forse  con  quell'ultima  frase  altro  non 
volle  se  non   accennare  ad  un   ricordo,   che,   co-  . 
munque,  richiamasse  un  po'megFio  di  tutto  il  suo 
commento  il  vero  spirito  della  Fiaba  di  Carlo,  e 
indirettamente  forse  ne  biasimasse  l' eccesso.  Non- 
dimeno anche  i  partigiani  del  Goldoni,  fingendo  di 
dar  poco  peso  alla  satira,  arrecavano  tutto  il  trionfo 
delle    Tre  Melarance  allo  spettacolo  scenico.    Il 
Gozzi  spostò  allora  alquanto  la  sua  tesi.  Non  volle 
più  dimostrare  che  ogni  ciancia  è  buona  per  atti- 
rar folla  al  teatro,  bensì   che   l'artificio   scenico, 
l' invenzione,  lo  stile  possono  dar  grandezza  a  qua- 
lunque argomento,  per  quanto  puerile.  *  La  se- 

1. Carlo  Gozzi,  Opere.  Ediz..i8oi,  Tom.  I.  Prefazione 
alla  tiaba:  U  Corvo^  pag.    io6. '—  Memorie  cit.  Pane  2. 
'  Gap.  IO,  pag.  5. 


PREFifelONE.  LXXXIII 

conda  tesi  era  assai  più  giusta  della  prima  ed 
accostava  un  po' più  il  Gozzi  al  fine  via  via  poi 
sempre  più. maturatosi  nella  sua  mente,  di  rialzare 
cioè  e  ringiovanire  con  arte  le  tradizioni  del  teatro^ 
alle  quali  il  mestierismo  dei  comici  ed  il  corrotto 
gusto  del  pubblico  aveano  quasi  tolto  ogni  luce 
ed  ogni  vigore;  Incominciava  subito  cosi  a  deli- 
nearsi la  contraddizione,  in  cui  Parte  poetica  del* 
Gozzi  sta  con  lo  spirito  e  coi  propositi  della  sua 
critica.  Ma  non  è  questa,  come  vedremo,  la  sola, 
né  la  maggiore  delle  contraddizioni  del  Gozzi. 

Quanto  al  Goldoni,  esso  non  potè  patire  in 
silenzio  le  vittorie  del  Gozzi.  Già  i  suoi  Comici 
erano  irritatissimi  di  essere  stati  tirati  in  ballo 
essi  pure  nel  Canto  Ditiramiịo  dei  Partigiani 
del  Sacchi  Truffaldino  ed  in  un  sonetto,  dove 
il  Gozzi,  schernendoli  d'essersi  impermaliti,  diceva: 

1  ■  . 

O  Medebacche,  o  Falchi,  o  Maddalena,  \ 

Jrcana^  e  voi  Rosaura,  e  voi,  Magnano,   j 

Venite  tosto  a  baciarmi  la  roano,  \ 

Che  a  torto  il  Ditirambo  v'avvelena.^       ' 

ìitVi! Addio  dell'ultima  sera  del  Carnovale  1761 
il  Goldoni  fece  dunque  dire  al  pubblico  dall'  At- 
trice Bresciani: 


^  Soprannome  popolare  detP  attrice  Bresciani,  che  rap- 
presentò per  prima  la  parte  d^  Jrcana  nella  Sposa  Persiana 
del  Goldoni  —  Vedi  :  Goldoni.  Memorie»  Parte  2.  Gap.  18. 

•  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  Vili,  pag.  180. 


LXXXIV  PREFAZIONE. 

~  Questa  è  per  opor  mio  la  sesta  volta, 

Che  me  presento  a  sta  benigna  Udienza,     - 

L' ultima  sera  a  ringraziar  chi  ascolta, 

E  chi  soffre  la  nostra  insufficienza. 

Ah!  se  avesse  dal  fren  la  lengua  sciolta 

Vorria  stasera  domandar  licenza 

De  poder  dir  quel  che  non  ho  mai  dito, 

Ma  ogni  sfogo  per  mi  saria  un  delito. 

Compatime,  ve  prego,  in  carità 

Se  confusa  me  vegno  a  presentar, 
Perchè  dopo  aver  tanto  sladigà 
Villanie  no  me  par  de  meritar, 
Da  mi,  da  tutti  nu  s^  ha  procura, 
El  mestier  con  modestia  esercitar, 
E  pur  zente  ghe  xe  (ne  so  dir  come) 
Che  i  Attori  strapazza  e  stampa  el  nome. 

Del  poeta  no  parlo;  el  soffre,  el  tase. 

Perchè  a  lu  no  i  ghe  fa  né  ben  né  mal; 
El  Pubblico  el  respetta,  el  se  compiase. 
Che  dei  discreti  el  numero  preval. 
Solamente  el  se  lagna,  e  ghe  despiase 
Che  se  diga  che  el  guasta  la  moral, 
E  che  penne  lo  scrìva  venerande 
Con  parole  sporchissime  e  nefande. 

Basta,  lassemo  andar  ste  cosse  odiose 
Capace  ogni  omo  onesto  dMrritar.  .  .  . 

Tanto  del  vostro  amor,  tanto  me  fido, 
Veneziani  cortesi  e  de  buon  cuor. 
Che  nelP  anno,  che  vien,  spero  e  confido 
E^ual  prosperità,  se  no  maggior. 
Avvilirne  i  voria,  ma  me'  ne  rido, 
{    "     Ghe  voi  altro  che  Fiabe  a  farse  onor, 
E  maghi,  e  strighe  e  satire  e  schiantagli, 
lét  voi  esser  Commedie  e  no  strapazzi. 


PREFAZIONE.  LXXXV 

Ve  domando  giustizia,  no  vendetta; 
A  longo  andar  ga  pijà  rason  chi  tase.  ^ 

Sotto  la  consueta  e  decorosa  moderazione  del 
Goldoni  c'è  questa  volta  un'amarezza,  un  di- 
sprezzo, che  sentesi  a  stento  trattenuto.  Ben  l' av- 
verti l'acuto  Gozzi  e  non  tacque.  Rispose  esso 
a  nome  del  pubblico: 

Ve  rìngraziemo,  Ircana.  El  complimento 
Ch^el  vostro  Dìrettor  v'ha  messo,  in  bocca 
Noi  fa.  parer  un  omo  de  talento, 
Ma  no  diremo  gnanca  ch'el  sia  un'oca. 

Circa  ai  nomi  stampai,  crederne,  Ircana,  . 
Che  se  stampa  anche  el  nome  al  Re  de  Pranza. 
Domandeghe  al  Poeta,  ch'el  ne  spiana, 
Se  el  pensa  colla  testa  o  colta  panza. 

L'ha  guasta  la  moral;  volesse  Dio 
Che  sto  pecca  sul  toni  noi  gavesse 

Savemo  che  le  Fiabe  sulla  scena 
A  un  Poeta  no  basta  a  far  onor; 
Ma  per  sie  zorni  avemo  fatto  piena 
E  nu  femo  Ponor  e  el  desonor. 

Almanco  se  le  Fiabe.no  corona 

Le  ga  de  bon  che  chi  le  fa,  le  dona.^ 

*  Carlo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  Vili.  —  Addio* 
composto  dal  Sig,  Goldoni  e  recitato  dalla  comica  Bresciani 
nel  Teatro  di  S,  Salvatore  in  Vene:{ia,  pag.  iSg,   140,  141. 

*  Ibid.  —  Risposta  data  dal  pubblico  alla  Signora  Bre- 
sciani, da  me  scritta,  pag.  141,  42,  43.  Forse  anche  a  quésta 
il  Goldoni  rispose  col  Complimento  fd ito  dire  dalla.  Bresciani 


LXXXyi  PREFAZIONE. 

Fiacca  risposta,  dove  si  ribadiscono  false  accuse  e 
quasi  brutaljiiente  si  allùde  allo  scarso  compenso, 
elle  il  Goldoni  ritraeva  da'  suoi  lavori,  ed  alla  sua 
povertà.  In  cento  luoghi  delle  sue  Opere  il  Gozzi 
"si  dà  gran  vanto  di  non  aver  mai  voluto,  ne  ri- 
cavato alcun  compenso  dalle  sue  fatiche.  Il  che 
.prova  che  anche  di  dignità  vera  di  vita,  e  di 
quanto  la  sminuisce  o  .l' accresce,  aveà  un'  idea 
molto  imperfetta  e  confusa.  Forse  è  imputabile 
più  ai  pregiudizi  della  sua  casta  in  quel  tempo,, 

.  che  à  lui.  Ad  ogni  modo  dimostra  che  à  tali  pre- 
giudizi egli  non  era  superiore,  né  si  comprende 
come  li  «conciliasse  col  rispetto  e  l'amore  al  fra- 

^  tello  Ga$pare,  vivàcchiante  di  letteratura  anch'esso, 
non  meno  del  Goldoni.  . 

.Al  riaprirsi  del  teatro  in  Ottobre  Cado  Gòzzi 
diede  la  -sua  seconda  fiaba;  //  Corvo^  drammatica- 
mente forse  una  delle  più  forti  di  tutte.  E  tolta, 

;  come  la  prima^  doi  Cunto  de  ii  Cunte  del  Basile, 
e  fa  rappfesentata  prima  a  Milano,  quindi  a  Ve- 

,  n^l  principio  della  stajgione  teatrale   del    lyóS,  e.  Io  farebbe 

,  credere  la  lèttera  di  lui  al  Vendramin,  scritta  da  Parigi  il  I3 

•  Settembre  iy63  e.  pubblicata  dal  Sig.  Dino  Mantovani  nel  suo 

importante  libro:  Carlo  Goldoni  e  il  Teatro  di  S,  Luca  a 

Vene^^ia  (Miiano,  Treves,  i884)-  La  frase  della  lettera  però, 

che  allude  M Addio  recitato  dalla  Bresciani  P ultima  sera  del 

.  Carnovale  i76<,  è  alquanto  ambigua.  Io  qui,  in  mancanza 

'  <l^altr-ì  'documenti,  debbo  stare  alle  date  e  alle  indicazioni,  che 

'  4rovo  nelle  Opere  •  del  Gozzi.  Ma  probabilmente  la  data  del 

1761  ò  dal  Gozzi  scritta  more  veneto  o  secondo  Vanno  teor 

-    trale.  (n  tal  caso  V Addio  sarebbe  stato  recitato  più  tardi.  Ma 

tuttociò  è  incerto. 


PREFAZIÓNE.    •  .       LXXXVII. 

nezia  il  24  Ottobre  1761.  «  Chi  leggerà  la  Fola 
dei  Corvo  in  quel  libro,  scrive  il  Gozzi,  e  vorrà 
confrontarla  colla  mia  rappresentazione,  vorrà  far 
cosa  assplutamente  impossibile.  *  j*  Eppure  è  in- 
vece possibile  tanto,  che  a  confrontarla  si  vede  che. 
il  Gózzi  ha  con  grandissima  abilità  drammatizzata  \ 
la  fola  àél  Basile,  ma,  se  si  toglie  la  catastrofe,  ha 
di  suo  inventalo  ben  poco.  Il  Tommaseo  su  co- 
desto attingere  del  Gozzi  da  novelle  orientali  e 
popolari  d' Italia*  e  dal  teatro  spagnuolo,  scrive: 
«  Meno  osò  di  suo  che  il  Goldoni  »  ed  ha  ragione.  ^ 
Basti  pel  Corvo  riferire  l' argomento  della  fola 
del  Bacile:  «  Gennariello .  pe  dare  gusto  à  Mil- 
luccio.  Re  de  Fratta-Ombrosa  fratiello  suio  fa 
lungo,  viaggio,  e  portatole  chello,  che  desiderava, 
per  liberarelo  dai  la.  morte,  è  cpnnanato  a  la 
morte  ;  ma  pe  mostrare  Ja  •  nnecenzia  soia,  deven- 
tanno statoa  de  preta  marmora,  pe  strano  soc- 
ciesso,  torna  a  lo  stato  de  'mprimmo,  e  gaude 
contente.  ^  »  Il  Gozzi  non  ha  variato  che  «  lo 
strano  socciesso.  »  Nel  Basile  per  ridar  vita  alla 
statua  occorre  il.  sangue  dei  figli  del  Re  ed  esso 
gli  immola.  Nella  fiaba  del  Gozzi  invece  occorre 
il  sangue  della  sposa,  ed  essa  si  uccide  per  placare 


^  Cablo  Gozzi.  Opere.  Ediz.  1772.  Tom.  I,  pag.  119. 
Prefazione  al  Corvo. 

*  Tommaseo.  Storia  Civile  nella  Lett.  cìt.  Pietro  Chiari  etc. 
pag-  279.  •     • 

3  Basile.  Op.  cit.  Lo  Cuorvo,  Trattenicmcnto  Nono  de  la 
Jornata  Quarta. 


LXXXVIII  PREFAZIONE. 

la  collera  del  padre  suo  Norando,  il  negromante, 
contro  i  due  fratelli.  In  questa  trovata  -c'  è  vera- 
mente "il  poeta  drammatico.  Ma  il  Gozzi  si  vanta 
assai  più  d' essere  riescito  a  fare  del  Negromante 
un  carattere  e  avverte:  «  Scorgerà  il  mio  lettore 
in  qual  aspetto  nobile  e  differente  da  tutti  gli 
altri  goffi  maghi  delle  consuete  commedie  delV  arte 
io  abbia  voluto  porre  i  negromanti,  ch'entrane 
nelle  mie  Fiabe.  '  »  Eccolo  dunque  a  tentare  col- 
r  ingegno'  una  quasi  impossibilità  artistica,  quella 
di  fare  ciò,  che  nelP  arte  comica  si  dice  un  carat- 
tere, in  esseri  sottoposti  alle  leggi  fatali  della 
magia.  Di  più,  eccolo  costretto  subito  nella  seconda 
Fiaba  a  restrìngere  il  più  possibile  le  parti  lasciate 
all'improvvisazione  dei  comici  ed  a  passare  dalla 
prosa  al  verso,  «  condotto  non  solo,  die' egli,  dal 
capriccio,  ma  dalla  necessità  e  dall'  arte.  In  alcune 
circostanze  di  passione  e  forti,  scrissi  le  scene  in 
versi,  sapendo,  che  l'armonia  in  un  dialogo  ben 
verseggiato  dà  della  robustezza  a' rettoria  colori 
e  nobilita  le  circostanze  ne'  serii  personaggi.  *  » 
Per  tal  guisa,  ridotta  quasi  a  nulla  l'improvvisa^ 
zione,  cercata  la  commedia  di  carattere  persino 
nella  Fiaba,  e  nei  momenti  migliori  del  dramma 
scartata  la  prosa  pel  verso  (sia  pure  non  martel- 
lano ),  il  Gozzi  è  già  ben  lontano  da' suoi  primi 
propositi,  e  costretto  egli  stesso  a  trasmutare  prò- 


*  Prefazione  cit.  al  Corvo. 

*  Prefazione  cit.  al  Corvo. 


'      PREFAZIONE.  LX}:XTX 

fondamente  le  vecchie  tradizioni  della  commedia 
popolare  e  della  commedia  dell'  arte  ;  le  tradizioni, 
che  avea  voluto  raccogliere  e  difendere  contro  il. 
Goldoni,  «  il  più  fiero  combattitore,  com'ei  lo 
chiamava,  della  commedia  nostra  improvvisa,  che 
V  Italia  abbia  avuto.  ^  »  Checché  sia  di  ciò,  il 
Corvo  è  una  delle  sue  fiabe  meglio  congegnate; 
v'  ha  scene  potenti,  lo  stile  ed  i  versi  sono  qua  e 
là  talmente  superiori  a  quelli  delle  altre  fiabe,  che 
non  sarei  lontano  dal  credere  vi  fosse  passata  sopra, 
come  in  altri  suoi  drammi,  la  mano  del  conte  Ga* 
spare.  V  è  introdotta  anche  qui,  per  amore  o  per 
forza,  la  satira  letteraria.  La  Scena  VII  dell'atto 
terzo  è,  per  confessione  del  Gozzi,  una  parodia 
del  Chiari,  che  s'ostinava  a  voler  far  parlare  le 
Maschere  in  versi.  '  Su  di  che  è  da  notare  altresì 
la  bellezza  tipica  del  carattere  del  Pantalone^  che 
il  Gozzi,  in  ciò  correggendo  la  tradizione  della 
Commedia  dell'  Arte,  serba  uniforme  in  tutte  le 
altre  sue  fiabe.  *  Nel  Pantalone  s' incarnano  il  brio, 
la  bonarietà,  la  cordialità,  ed  insieme  l'acuto  senno 


'  Ragionamento  Ingenuo,  cit. 

*  Vedi  a  pag,  97  del  presente  Volume. 

3  1^  Commedia  delP  arte  ora  ne  fa  un  tristo,  ora  un  im- 
becille, ora  un  dissoluto,  reso  più  ignobile  dalla  vecchiezza. 
Vedi:  //  Teatro  delle  Favole  rappresentative,  overo  la  Ri* 
Creatione  Comica,  Boscareccia  e  Tragica,  divisa  in  cin* 
quanta  Giornate,  compiste  da  Flaminio  Scala,  detto  Flavio, 
Comico  del  Serenissimo  Sig,  Duca  di  Mantova,  —  AlVIll.mo 
Sig,  Conte  F.  Riario,  Marchese  di  Castiglione  di  Vald' Or- 
da et  Senatore  in  Bologna»  (In  Venetia,  Pulciani,  161 1). 


XC  PREFAZIONI:;.. 

e  r  umore  burlesco  dei  Veneziatii,  ond'èche  questa 
Maschera  si  piglia  licenza  talvolta  di  deridiere  per- 
sino tutto  quel  diavoleto  4i  forze  magiche,  che 
il  Gozzi  scatena,  ed  a'C^i  sono  in  preda  i  per- 
sonaggi delle  Fiabe,  Notevole  è  pure  nel  Ne- 
gromante del .  Con^o  (come  in  altre  Fiabe  del 
Gozzi),  ch'egli  subordina  al  concetto  antico  del 
fato,  ^.  (dal  Cristianesimo  trasformato  in  Provvi- 
denza divina)  anche  la  potenza  dei  Maghi.  Non 
sempre  la  potenza  màgica  rappresenta.il  principio 
del  male,  cpme  pura  forza  demoniaca,  che  s'  op- 
pone è  contrasta  al  principio  del  bene,  e  con  esso 
divide  il  governo  delle  umane  vicende.  Più  spesso 
il  Mago  agisce  esso  pure  in  forza  d' Una  condanna 
e  per  questa  via  il  Gozzi  sottomette  in  certo 
modo  al  concetto  cristiano  dell'espiazione  della 
colpa  anche  la  capricciosa  forza  della  Magia.  Ma 
la  soluzione  di  quei  grandi  inviluppi  magici,  in- 
torno ai  quali  si  ravvolgeva  Fiaba,  non  è  sempre 
nel.  Gozzi  artisticamente  felice.  Nel  CorvOy  per 
esempio,  col  suicidio  della  sposa  la  tragedia  giunge 
al  suo  punto  massimo.  Anna  Radcliffe  ^  ne'  suoi 
spaventosi  romanzi  spiega  all'  ultimo  come  eìQFetti 
naturali  i  misteri  delle  sue  fantasmagorie  e  scema 
essa  pure  l' effetto  artistico,  che  aveva  prodotto. 
Ma  che  dire  del  Gozzi,  il  quale,  per  opera  del 
Mago  fa  risuscitare  la  morta  sposa  del  Re  Millo 


*  còrvo.  Atto  V,  Scena  5,  pag.  126.  La  Reggia  di  Millo 
é  paragonata  a  quella  di  Edipo. 


PREFAZIONE.  tei 

e.  ai  maravigliati  del  prodigio  fa  rispondere  dal 
Mago  stesso: 

Tai  ricerche  si  fìinno?  È  il  verisimile 

Al  proposito  nostro?  E  lo  trovate 

Forse  in  qualch^ppra,  in  cui  vi  par  vederlo  ?  ^ 

La  satira  letteraria  s' intrude  cosi  nel  momento 
più  inopportuno  e  guasta  e  raffredda  inutilmente 
tutta  la  poesia  del  sacrificio  di  quella  donna.  Ma 
è  appunto  P  effetto,  eh'  egli  vuole  ottenere.  All'  ul- 
timo ride  sul  naso  del  suo  pubblico  e  dice: 

Provato  abbiam,  se  falsa  illusione 
Ha  sugli  animi  fòrza ^ 

Era  dunque  una  burla  e  non  più.  Ma  essa  serve 
di  risposta  a  quelli,  che  credono  avere  il  Gozzi 
presa  dal  popolo  la  fiaba  e  recatala  sulla  scena  in 
tutta  la  sua  candida  ingenuità. 

Al  pari  di  quella  del  Corvo,  la  altre  fiabe  del 
Gozzi  sono  tolte  (lo  dice  espressamente  egli  stesso) 
dal  Cunto  de  li  Cunte^  dalla  Posilipeata  di  Mas- 
sello Repone,  ^  dalla  Biblioteca  dei  Genj,  dalle  No- 
velle Arabe,  Persiane,  Chinesi,  dal  Gabinetto  delle 
Fate,  dal  Teatro  Spagnuolo,  *  ma  con  molta  mag- 

1  Corva  Atto  V,  Scena  8,  pag.  133. 

'  Corvo,  Atto  V,  Scena  ultima,  pag.  134. 

3  Pseudonimo  di  Pompeo  Sarnelli. 

<  Opere.  Ediz.  1802,  Tom.  XIV,   pag.  24,  25.  «  'Furono 
le  mansuete   (sic)  fonti  dermici  scelti   argomenti  e  le  basi 
sopra  le  quali  presi  a  comporre  i  soenici  generi  miei,  acquali  . 
certamente  nessuno  potrà  negare  P.originalità  e  il  romoroso 
buon  effetto.  •  La  più  lunga  Lettera  di  risposta  ecc.  Cit« 


XCII  PREFAZIONE. 

giore  varietà  e  libertà  di  scelta,  eh'  egli  non  abbia 
adoperata  nel  Corvo.  Il  Magrini,  che  con  tanto 
amore  ha  studiato  questo  argomento,  ha  diligente- 
mente cercato  di  fissare  i  riscontri  fra  quelle  fonti  e 
le  diverse  Fiabe  del  Gozzi.  Si  limita  però  a  indicare 
con  qualche  citazione  bibliografica  il  risultamento 
delle  sue  ricerche  e  non  entra  in  nessun  partico- 
lare. Sarebbe  molto  diffìcile  infatti  orientarsi  in 
tanta. varietà  di  novelle,  che  il  Gozzi  ha  messo  a 
contribuzione.  U  Amore  delle  Tre  Melarance,  il 
Corvo  e  Zeim  Re  de^  Geni  sono  quelle  che  stanno 
in  più  esatta  corrispondenza,  le  prime  due  con 
due  fole  del  Basile  (ma  più  la  seconda  che  l'altra) 
e  la  terza  colla  Storia  del  Principe  Zeim  Alasnan 
e  del  Re  de^  Geni  nelle  Mille  e  una  Notti.  Per  le 
altre  si  trova  qua  e  là  qualche  riscontro  più  o 
meno  largo  e  non  più.  Pel  Re  Cervo^  ad  esempio, 
per  la  Donna  serpente,  per  la  Zobeide,  pel  Mostro 
Turchino  in  racconti  delle  Mille  e  una  Notti,  del 
Gabinetto  delle  Fate  e  dei  Mille  e  un  giorni^ 
per  V  Augellin  Belverde  nella  Bella  addormen- 
tata nel  bosco,  per  i  Pitocchi  Fortunati  nei  Mille 
e  un  giorni  ed  in  aneddoti  storici  contempo- 
ranei, ma  è  quasi  impossibile  decomporre  e  ana- 
lizzare con  sufficiente  precisione  gli  elementi  varii, 
che  il  Gozzi  s'è  appropriati  e  ha  fusi  insieme. 
La  Turandot,  una  delle  più  celebri  fiabe  del 
Gozzi,  *  ha  una  derivazione  delle  più  lontane  e  so- 

1  11  Cantò  nella  Storia  degli  Italiani,  Tom.  VI,  muta 
sesso  alla  bella  sdegnosa  e  ne  fa  un  Re  Turandot. 


PREFAZIONE.  XCIII 

lenni;  e  già  molti  altri  s'erano  prima  del  Gozzi 
valuti  di  questa  bellissima  novella,  lo  Shakespeare 
per  r  episodio  di  Pon^ia  nel  Mercante  di  Ven&{iay 
(dove  i  tre  cofani  d'oro,  d'argento  e  di  piombo, 
fra  i  quali  i  pretendenti  alla  mano  di  Porzia  hanno 
da  scegliere,  fanno  riscontra  ai  tre  enigmi  della 
Turandot),  il  Molière  per  la  Principessa  d^Elide^ 
imitata  da  un  dramma  spagnuolo  del  Moreto,  ma 
che  pel  carattere  dell'eroina  (ciò  che  non  è  della 
Porsia  dello  Shakespeare  )  combina  essa  pure  colla 
Turandot,  le  cui  fonti  risalgono  poi  per  questa 
trafila  insino  ai  Gesta  Romanorum.  ^  Ma  a  che 
cosa  approderebbe  del  resto  una  simile  ricerca  pel 
Gozzi,  il  quale  si  serve  dell'antico  contenuto  delle 
Fiabe  popolari  per  fini  letterari  e  morali  tutti  suoi 
personali  e  del  tempo  suo?  Oltredichè  delle  due 
specie  di  commento,  scientifico  e  psicologico,  che 
si  potrebbero  fare  alle  Fiabe  del  Gozzi,  il  primo, 
anche  sapendolo  fare,  sarebbe  assolutamente  un 
fuor  d' opera,  il  secondo,  dove  il  Gozzi  stesso  non 
ha  detto  le  sue  intenzioni,  diverrebbe  affatto  cer- 
vellotico ed  arbitrario.  Non  ignorava  neppure  Carlo 
Gozzi  che  le  portentose  novelle  da  esso  adoperate, 
e  che  con  molta  proprietà  chiamò  fiabey  sono  di 
origine  mitologica^  e  che  in  esse   <c  come  in  un 

1  Gesta  Romanorum^  Ediz.  Vcsterley,  Fascik.  IJ,  251, 
^PP«  55i  P^S*  ^55*  Il  Magrini  nota  che  il  Gozzi  tornò  altre 
due  volte  su  questo  tema,  ripigliandolo  esso  pure  dal  dramma 
del  Moreto,  nella  Principessa  Filosofa  e  nella  Donna  con- 
traria al  consiglio. 


XCTV  PREFAZIONE. 

ossuario  (scrive  Vittorio  Imbriani)  fur  depositati 
alla  rinfusa  gli  scheletrì  scompaginati  di  credenze 
antichissime  ed  in  cui  ravvisi  personificazioni  dei 
fenomeni  naturali  e  delle  passioni  umane,  e  la  ma- 
nifestazione fantastica  di  quel  panteismo  spontaneo, 
che  fu  forse  il  primo  pensiero  religioso  della  no- 
stra razza.  '  »  Vi  accenna  il  Gozzi  chiaramente 
nel  Mostro  Turchino: 

SoQ  V  ombre,  i  mostri,  i  cambiamenti  e  l' Idre, 
I  flagelli,  le  morti  e  le  vittorie 
.  Che  voi  vedeste  in  questo  vostro  regno 
Alte  dottrine,  allegorie,  che  un  giorno 
Molto  avean  pregio * 

Ma  una  volta  fermate  codeste  fiabe  nella  forma 
drammatica  e  nei  fini  particolari  delP  arte  poetica 
del  Gozzi  poco  gioverebbe  sapere,  per  esempio, 
che  la  principessa  addormentata  dell'  Augellin 
Belverde  significava  nell'antica  fiaba,  da  cui  in 
parte  deriva,  la  Terra  addormentata  dall' Inverilo, 
e  lo  sposo,  che  verrà  a  ridestarla,  rappresentava 
il  sole  primaverile,  e  via  dicendo.  Quanto  a  de- 
terminare tutte  le  allegorie,  che  oltre  alle  confes- 
sate apertamente  dal  Gozzi  si  potrebbero  scoprire 
nelle  sue  Fiabe,  voi  pare  che  l'esempio  dato  da 
Gaspare  nel  suo  articolo  sull' -4more  d^lle  Tre 
Melarance  dimostri  chiaro  che,  a  non  voler  fan- 
tasticare ad  arbitrio,  un  simile  commento  non  può 

1  Imbrumi,  Op.  cit. 

*  Vedi  nel  Voi.  2,  Atto  V,  Scena  VI,  pag.  304. 


PREFAZIONE.  XCV 

farlo  che  V  autore  stesso,  o  chi  scrive  quasi  sotto 
la  sua  dettatura  o  la  sua  inspirazione.  Di  certe 
frangie,  fatte  alle  sue  Fiabe  dagli  ammiratori,  il 
Gozzi  stesso  si  dichiara  inconsciente.  In  esse  «  sco- 
persero, scriv'egli,  delle  profonde  allegorie,  e  molte 
di  quelle,  eh'  io  non  m' era  ne  meno  sognate.  '  » 
E  altrove:  «  Vi  trovarono  delle  bellezze,  ch'io 
non  aveva  vedute. *  »  Per  non  uscire  d'argomento 
0  per  non  lavorare  di  fantasia,  meglio  è  dunque, 
cred'io,  attenersi  a  quanto  il  Gozzi  ha  detto  dei- 
Parte  e  dell'opera  sua,  ed  alle  circostanze  sto- 
riche, che  l'inspirarono  ed  ora  quindi  l'illustrano 
e  spiegano. 

La  terza  fiaba  del  Gozzi  fu  il  Re  Cervo,  rap- 
presentata il  5  Gennaio  1762.  E  qui  debbo  fer- 
marmi per  un  momento  alla  questione  della  cro- 
nologia delle  Fiabe.  Nella  migliore  edizione  delle 
Fiabe  (l'edizione  Colombani  del  1772)  il  Gozzi 
ha  stampata  per  terza  .la  Turando t  con  la  data 
del  22  Gennaio  1761,  e  per  quarta  i!  Re  Cervo 
con  la  data  del  5  Gennaio  1762,  e  di  più  dice 
espressamente  che  il  Re  Cervo  fu  la  quarta  Fiaba 
e  che  «  successe  alla  Turandot.  '  »  Per  buona  sorte 
nell' edizione  Zanardi  del  1801  si  corregge  da  sé, 
dice  che  il  Re  Cervo  fu  la  ter:(a  e  sopprime  (tanto 
è  vero  che  rettificava  l'errore  del  1772)  sopprime 
il:  «  successe  alla   Turandot.  »   S'aggiunga  che 

1  Prefazione  al  Corvo. 
*  Prefazione  al  Re  Cervo. 
3  Prefazione  al  Re  Qervo. 


XCVI  PREFAZIONE. 

nelle  Memorie,  dopo  aver  parlato  della  rappresen- 
tazione del  Corvo,  dice  espressamente  :  «  volli  bat- 
tere il  ferro  mentre  era  rovente  e  la  mia  terza 
fiaba  intitolata  il  Re  Cervo  ribadì  la  mia  propo- 
sizione, . . . .  '  »  vale  a  dire,  ribadì  che  anche  le 
più  assurde  meraviglie  di  magie,  e  incanti  e  tra- 
sformazioni potevano  con  arte  ed  eloquenza  ri- 
dursi ad  opere  di  verità  ed  efficacia  drammatica. 
E.  poiché  gli  avversari  continuavano  ad  attribuire 
i  trionfi  del  Gozzi  ai  meccanismi  della  scena,  al- 
lora passò  egli  alla  fiaba  spoglia  affatto  «  di  ma- 
giche meraviglie,*  »  cioè  alla  Turandot,  È  dunque 
messo  fuori  d' ogni  dubbio  che  l' ordine  cronolo- 
gico dell'edizione  del  1772  è  sbagliato,  che  il  Re 
Cervo  è  la  terza  e  la  Turandot  la  quarta  delle 
Fiabe  del  Gozzi.  Resta  ora  un  ultimo  punto 
oscuro,  la  data  assegnata  dal  Gozzi  alla  prima  rap- 
presentazione della  Turandot  e  da  lui  ripetuta  in 
tutte  due  le  edizioni,  la  data  del  22  Gennaio  1761. 
Se  questa  fosse  la  vera,  non  solo  la  Turandot 
precederebbe  il  Re  Cervo,  ma  ancora  il  Corvo  e 
V Amore  delle  Tre  Melarance,  che,  come  s'è 
visto,  fu  rappresentata  il  25  Gennaio  1761.  Ora  è 
certissimo  che  V Amore  delle  Tre  Melarance  fu 
la  prima  fiaba  del  Gozzi,  siccome  è  parimenti  certo 
che  il  Corvo  ed  il  -Re  Cervo  precedettero  la  7u- 
randot,  E  dunque  da  conchiudere  che  il  Gozzi  ha 


1  Memorie  cit.  Pan.  2,  Gap.  i,  pag.  6. 
*  Ibid.  loc.  cit. 


PREFAZIONE.  XCVII 

scritto  il  22  Gennaio  1761  mòre  veneto,  (pel  quale 
V  anno  non  cominciava  che  al  Marzo  )  e  che  quella 
data  equivale  perciò  al  22  Gennaio  .1762.^ 

Due    invenzioni  burlesche   primeggiano   vera- 
mente nel  Re  Cervo.  L' una  è  il  prologo  personi-     ' 
ficato  nel  Cigolotti,  cantastorie  famoso  di  Piazza 
S.  Marco  e  della  Riva  degli  Schiavoni,  tanto  am- 
mirato da  John  Moore,  lo  spiritoso  viaggiatore  in- 
glese, fino  dal  primo  giorno  del  suo  arrivo  in  Ve- 
nezia, *    «   Nel    1762   a   Venezia,   scrive   Filarete 
Chasles,  tutti  conoscevano  il  Sig.  Cigolotti  colla 
sua  berretta  rossa  e  intignata,  le  calze  paonazze 
e  piene  di  buchi,  il  suo  vecchio  abituccio  nero  ere- 
ditato da  un  abate  galante,  la  taccia  squallida,  la 
barba  lunga  ed  arruffata.  Tale  ¥  aspetto  ed  i  con- 
notati   del    favoleggiatore    favorito    dal    popolo  ; 
grammatico,   critico,   erudito,   poeta,    per   lo   più 
mezzo  brillo,  diligentissimo  nel  far  notare  al  po- 
polo i  bei  motti  toscani  e   le  eleganze  letterarie, 
onde  infiorava  i  suoi  racconti,  sempre  ascoltati  e 
sempre  ammirati.  Scendevate  all'albergo  di  San 
Pantaleone,  ed  ecco  il  Cigolotti  a  darvi  il  benve- 
nuto con  un  sonetto;  prendevate  moglie  e  il  Ci- 
golotti faceva  il  vostro  epitalamio;  vi  portavano 
V  olio  santo,  e  il  Cigolotti  preparava  subito  l' epi- 
cedio per  voi  e   l'cpitafio   per   gli   eredi.   Uomo 
grave  e  di  mansueti  costumi,  soggiungerò  con  do- 

*  Archivio  Veneto,  Tom.  24.  —  Ermanno  von  Lòhner, 
pag.  203-211.  Articolo  critico  sul    Goldoni  del  Sig.  Galanti. 

*  Citato  dallo  Chasles. 

Masi.  g 


xgvm    '  preVazionb. 

riore  ch^ei  fu  perseguitato  e  senza  che  la  storia  se 
'  ne   ricordi.   Il   Senato   di   Venezia   esigilo  un  bel 
.   giorno  le  cortigiane,  l'imprudente  Cigoìotti  prese 
a  difenderle,  il  popolo  a  ripetere,  i  suoi  versi  '  ed 
il  Cigoìotti  fu  bandito  come  Omero,  Camoens  e 
Dante..,,  e  mori  in  esilio.*  »  Or  bene  il  Gozzi 
.  piglia  su  questo  cencioso  eroe  della  Piazza,  e  col* 
^  legandolo  fantasticamente  all'azione  della  Fiaba, 
he  fa  il  Prologo  del  sub  R^,  Cervo.  Sfrutta  così, 
.  in  molti  altri  luoghi  delle  sue  Fiabe,  celebrità  ri- 
dicole o  ignobili  del  jtempo,  e  usanze  particolari  e 
indicazioni  di  luoghi  e  di  persone  allora  notissime 
qon  una  libertà  e  a  volte  con  una  licenza  singo- 
lare. Notevole  è  pure  che  il  popolo  nelle  Fiabe 
del  Gozzi  non  sia  mai  rappresentato  più  degna- 
mente di  così.  La  bollente  fierezza  dei  Titta  Nane 
del  Goldoni  poco  gii  andava  a  sangue.  Altra  mac* 
.   china  burlésca  del  Re  Cervo,  che  il  Gozzi  deriva 
dalle  novelle  orientali,  è  la  statua  donata  al  Re 
,.    da  lin'mago,   là  quale  ride  ogni  volta  che  una 
donna  fnentisce  dinanzi  ad  essa.  Il  Re,  volendo 
•ammogliarsi,  interroga  prima  dinanzi  alla  statua 
là  donna,  che  gli  è  proposta,  e  già  n'  ha  passate 
in  rassegna  duemila  cento  quarantotto,  senza  che 
posi  mài  la  terribile  ilarità  della  statua.  Soprav- 
viene alla  fine  Angela,  la  figlia  di  Pantalone,  ek 
statua  non   ride   più.  Angela  è  una  La  Vallière 


^  Alcunché  di  simile  trovasi  negli  osceni  versi  del  Baffo. 
<  Pmu  CuASLBs,  Op.  cit.  Etudes  sur  C  Goi[^i,  p.  543. 


PREFAZIONE.   .  -  XCIX 

pantalonesca,  che  ama  V  uomo  nel  Re,  una  dèlie 
poche  delicate  figure  di  donna,  che  il  Gozzi  abbia 
disegnate.  I  prodigi,  le  trasformazioni  del  Re  Cervo 
sono  tante  e  cosiffatte,  che  non  s'intende  alla  let- 
tura, come  siansi  potute  eseguire  con  sufficiente 
illusione  scenica.  Il  Re  si  cambia  in  Cervo,  poi  il 
suo  spirito  entra  nel  corpo  d'un  altr' uomo, tanto 
vecchio  e  deforme,  quant'  egli  era  giovine  e  leg- 
giadro e,  ciò  non  ostante,  P  amore  di  Angela  lo 
indovina  e  lo  scopre  sotto  alle  mutate  sembianze. 
E  questo  un  forte  abbozzo  drammatico,  guastato 
alquanto  dal  Gozzi,  che  lo  ricaccia  ben  tosto  nel 
circolo  magico  della  fiaba.  Tutto  il  resto  è  più 
spettacoloso,  che  fantastico  e,  per  dar  pure  un 
senso  a  tutte  quelle  metamorfosi,  si  volle  vedere 
un  apologo  politico  in  quel  Re  mutato  in  bestia 
da  un  ministro  infido  e  perverso;  ma  è  una  di 
quelle  intenzioni,  che  il  Gozzi  non  confessai^ 

Era  accusato,  come  dissi,  di  fondarsi  tutto  sui 
prestigi  delle  macchine  e  delle  fantasmagorìe. 
A  tale  accusa  volle  rispondere  colla  Turandot 
È  una  principessa  Chinese,  che  costretta  a  sce- 
gliersi uno  sposo,  non  consente  a  dar  la  sua  mano, 
se  non  a  chi  saprà  risolvere  tre  enigmi  da  lei  pro- 
posti, pena  la  vita  a  chi,  presentatosi,  non  li  ri- 
solve. Già  molti  hanno  lasciata  la  testa  a  questa 
prova,  allorché  il  dramma  incomincia.  La  scena  è 
a  Pekino  e  la  fiaba  si  svolge  a  traverso  tm  caos 

1  Memorie  cit  Parte  II,  Gap.  i,  pag.  6. 


e  PREFAZIONE. 

di  costumi,  di  cerimonie  e  di  usanze  bizzarre  e 
feroci,  contro  le  "quali  s'  arrovella  inutilmente 
r  onesta  coscienza  di  Pantalone,  primo  Ministro, 
ch^,  con  Tartaglia,  Brighella  e  Truffaldino,  -  mi- 
nistri ancor  essi,  governa  l'impero.  Il  fondo,  dpi 
dramma  è  poetico  assai^  non  v'ha  dubbio.  Non 
v'ha  prestigio  di  magia.  Ma  una  forza  misteriosa 
ed  estraumana  governa  ad  ogni  modo  tanta  stra- 
nezza di  eventi  e  di  personaggi,  e  questa  e  la  me- 
scolanza delle  vecchie  Màschere  italiane  a  perso- 
naggi tragici,  rinnovata  dal  Gozzi  (  le  quali  Ma- 
schere  hanno  veramente  l'aria  di  esigliati  in  China, 
non  riesciti  ad  acclimatarsi  )  formano  un  contrasto 
così  nuovo  e  stridente,  che  spiega  la  fortuna  gran- 
dissima di  questa  fiaba.  Di  quella  mescolanza  il 
Goethe  ha  molto  lodato  il  Gozzi  *  ed  il  suo  giu- 
dizio, quantunque,  più  che  un  giudizio,  sia  l'im- 
pressione fuggevole  d' un  viaggiatore,  che  ha  as- 
sistito una  sera  ad  urn..  commedia  delV  arte,  e  la 
sera 'dopo  ad  una  tragedia  bestiale,*  ha  senza 
dubbio  grande  importanza.  Gli  si  può  contrapporre 
l'esempio  dello  Schiller,  che,  traducendo  pel  teatro 
di  Weimar  la  Turandoi,  si  studiò  di  attenuare, 
più  che  potè,  quel  contrasto  fra  il  carattere  ste- 
reotipo delle  Maschere  e  l'ambiente  non  eroico, 
né  magico  (che  allora  la  parodia  salverebbe  tutto) 
ma  semplicemente  poetico  della  Fiaba.   È  da  no- 


*  Goethe.  Italifinìsche  Rcìse.  Brlefe,  6  Oct.  1786. 

*  Goethe.  Op.  cit.  Briefcn  4-5  Octob.  1786. 


PREFAZIONE.  CI 

tare  però  che  la  lode  del  Goethe,  si  fónda  sulla 
relazione  intima,  ch'esso  pretende  esistere  fra  la 
fiaba  tragico-burlesca  del  Gozzi  ed  il  carattere  del 
popolo  Veneziano.  Checche  sia  di  ciò,  le  Fiabe 
correvano  di  trionfo  in  trionfo,  e  tre  fatti  impor- 
tanti accadevano  dopo  la  rappresentazione  della 
Turandoti  il  passaggio  della  Compagnia  Sacchi  dal 
"  Teatro  S.  Samuele  a  quello  di  Sant'  Angelo  (  l' an- 
tico, teatro  del  Goldoni),  la  partenza  del  Goldoni 
per  la  Francia,  e  quasi  allo  stesso  tempo  il  ritiro 
del  Chiari  nella  sua  Brescia  ed  il  suq  cessare  di 
scrivere  per  il  teatro.  Non  è  già  che  il  Goldoni  si 
fosse  dato  per  vinto.  Ma  certo  i  trionfi  del  Gozzi 
affrettarono  la  sua  risoluzione  ed  in  una  sua  poesia 
lo  dice  più  aperto  che  nelle  Memorie  e  nelle 
Lettere: 

Tre  lustri  or  son  che  del  mio  scarso  ingegno 
Vo  spremendo  il  midollo,  e  quanto  lìce 
A  me  sperar,  giunsi  delPopra  al  segno. 

Ma  non  dura  fortuna  ognor  felice, 
E  temer  posso  di  colei  gli  oltraggi 
Ed  alPimo  cader  della  pendice. 

Nuove  terre  calcando  e  nuovi  saggi 
Di  costumi  prendendo,  pyò  la  mente 
Trar  miglior  frutti  da  novei  viaggi, 

E  un  di  tornando  alla  diletta  gente 

D'Italia  mia,  ch'or  di  me  forse  è  stanca, 
Esser  rancido  meno  e  men  spiacente.  ^ 


1  Goldoni.  Componimenti  cit.  Capitolo  per  le  Nozze  Bar- 
berigo  e  Lippomano. 


ai  'PREFAZIONE^ 

Alla  Turandot  seguì  il  ap  Ottobre  1762  la 
Donna  Serpente  più  spettacolosa  e  più  intricata, 
se  possibile,  del  Re  Cervo.  In  quel  laberinto  di 
malie,  d'incanti,  di  condanne  e  combinazioni  mi- 
steriose di  cronologie  cabalistiche,  sembra  quasi 
che  il  Gozzi  stesso  si  smarrisca.  Poeticissimo  è  il 
tipo  di  Cherestani,  maga  innamorata,  che  lotta  tra 
un  amor  vero  e  la  ineluttabile  fatalità  delle  leggi 
negromantiche,  alle  quali,  come  maga,  è  sottoposta. 
Fra  tanti  incantesimi  Pantalone  parla  il  linguaggio 
d'un  buon  senso  impersuaso  e  pieno  perciò  di 
forza  comica.  Ma  il  quadro  s' allarga  in  modo  che 
il  Gozzi,  non  potendolo  far  stare  dentro  la  cor- 
'  nice'  del  dramma,  si  trae  d'in^accio,  introducendo 
fra  una  scena  e  l'altra  un  venditore  di  relazioni 
pubbliche,  come  sarebbe  uno  strillone  dei  nostri 
giornali,  il  quale  riferisce  in  compendio  il  conte- 
nuto della  sua  merce  e  così  informa  il  pubblico  di 
ciò  che  è  accaduto  e  non  fu. potuto  rappresentare 
sulla  scena.  Ha  ragione  il  Gozzi  di  lagnarsi,  che 
certi  critici  troppo  austeri  biasimassero  cotesta  sua 
invenzione,  la  quale  fa  riscontro  a  quella  del  Ci- 
^lotti  nel  Re  Cervo,  e  tutte ,  e  due,  con  molte 
altre  di  simile  genere,  che  trovansi  nelle  Ftabe^ 
sono  un  vero  ringiovinimento  delle  forme  libere 
e  popolanesche  della  Commedia  dell'Arte.  «  Il 
Sacchi  Truffaldino,  scrive  il  Gozzi,  uscendo  con 
un  tabarro  corto*  e  lacero,  un  capello  tignoso  e  un 
gran  mazzo  di  relazioni  a  stampa,  gridava,  ad  imi« 
tazione  di  que'  birbanti,  accennando  in  compendio 


PREFAZIONE.  CIII 

il  contenuto  della  relazione,  dichiarando  i  'successi 
accaduti,  ed  eccitando  il  popolo  a  comprar  il  foglio 
per  un  soldo.  Tal  scena  inaspettata,  eh'  egli  faceva 
con  molta  grazia  e'  verità  e  con  una  di  quelle 
imitazioni  sempre  fortunate,  spezialmente  nel  Tea- 
tro,- cagionava  un  intero  tumulto  e  continuati 
scoppi  di  risa  nell'  uditorio,  e  si  scagliavano  da'  pal- 
chetti a  quel  personaggio  confezioni  e  danari  per 
avere  la  relazione.  Questa  fantasia,  che  sembra 
triviale,  usata  da  un  privilegio  di  franca  libertà, 
<he  sostenni  sempre  nelle  mie  Fole,  fu  apprezzata 
da'  buoni  ingegni .  ; . .  Giunto  agli  orecchi  de'  ven- 
ditori delle  relazioni  il  successo  di  questa  scena, 
si  unirono  e  posti  alla  porta  del  Teatro  con  un 
gran  fardello  de' loro  già  disutili  e  muffati  fogli, 
che  nulla  avevano  a  fare  colla  rappresentazione, 
all'uscire  dell'uditorio  si  posero  a  gridare  con 
quanta  voce  avevano  la  relazione  de'  gran  casi 
avvenuti  nella  Donna  Serpente.  Nel  buio  della 
notte  venderono  un  numero  infinito  di*  que'  fogli, 
ingannando  il  p)opolo,  e  se  n'andarono  all'osteria 
a  far  de'  brindisi  al  Sacchi.  ^  » 

Ben  altra  composizione  però  è  la  Zofc/rfe  rap- 
presentata 1'  II  Novembre  1763,  e  una  delle  due 
(l'altra  è  il  Mostro  Turchino) y  che  il  Baretti 
potè  leggere  ancora  inedite,*  il  qual  fatto,  unito 

^  Pcefazione  alla  Donna  Serpente. 

*  Ediz.  Milanese  dei  Classici  Ital.  1839.  Tom.  IV.  Lettere 
e  Scrìtti  vari  di  Giuseppe  Baretti.  Lett.  a  F.  Carcano  del  12 
Marzo  1784. 


CrV  PREFAZIONE. 

ad  altri,  che  accennerò  più  tardi,  farebbe  ritenere 
che  fra  i  due  passasse  maggiore  intimità  di  quella 
confessata  dal  Gozzi  e  spiegherebbe  11  sileazio 
della  Frusta,  vissuta  e  morta  sippvmto  durante  la 
rappresentazione  delle  Fiabe.  Nella  Zobeide  è  lotta 
tragica  veramente  tra  il  principio  del  bene  e  quello 
del  male,  tra  le  arti  magiche  e  l'innocenza  e  la 
religione.  Vigorosamente  disegnato  è  il  carattere 
di  Re  Sinadab,  in  cui  è  raffigurato  l' ipocrita.  È  un 
Negromante,  che  ha  sempre- in  bocca  Dio  e  la 
virtù.  Però  la  magia  ed  il  prodigio  turbano  ogni 
tentativo  di  svolgimento  di  caratteri,  e  così  pure 
impediscono  alla  lunga  il  terrore  e  la  pietà  tra- 
gica. Il  Gozzi  ha  voluto  fare  della  Zobeide  una 
tragedia  fantastica.  Ma  benché  nei  fenomeni  d' un 
atavismo  criminoso,  che  scende  per  due  progenie 
principesche,  siavi  in  realtà  imitazione  e  remini* 
sQtntz  di  tragedia  classica,  nondimeno  anche  il  Si- 
smondi,  gran  lodatore  del  Gozzi,  osserva  che 
*  abuso  della  fantasmagoria  esclude  la  sensibilità 
e  che  la  Zobeide,  per  quanto  tragica,  non  farà  mai 
piangere  nessuno.  ' 

Al  genere  della  Turandoti  che  il  Gozzi  defi- 
nisce «  genere  fiabesco,  spoglio  di  mirabile  ma- 
gico, *  »  appartiene  la  settima  Fiaba:  /  Pitòcchi 
Fortunati,  rappresentata  il  29  Novembre  1764. 
Trattasi  d*  un  Re,  che  si  finge  pitocco  e  gira  in- 


1  S18MOND1.  Lìttér.  du  Midi  d*  Europe.  Tom.  I,  Chip.  XIX. 
*  Prefazione  ai  Pitocchi  Fortunati. 


PREFAZIONE.  .    CV 

cognito  per  conoscere  i  bisogni  del  suo  popolo  « 
le  arti  malvagie  de'  suoi  Ministri.  V  è  la  solita 
figura  dell'Angela,  la  virtuosa  figlia  di  Pantalone 
e  amante  del  Re,  e  il  solito  fondo  di  riti  ed 
usanze  e  barbarie  orientali,  che  ai  Veneziani,  già 
conquistatori  dell'  Oriente  ed  ora  perdenti  ad  una 
ad  una  le  lóro  conquiste,  piaceva  oltre  modo, 
forse  come  un  ricordo  di  domestiche  glorie.  Però 
il  tema  della  fiaba,  quel  Re  in  incognito  e  sotto 
mentite  spoglie,  rispecchia  aneddoti  contempo- 
ranei, che  ancora  si  raccontano,  di  Pietro  il  Grande 
di  Russia,  di  Federico  II,  di  Giuseppe  II  e  di  Leo- 
poldo di  Toscana.  ^  Non  pare  che  questa  fiaba  rie- 
scisse  sulla  scena  così  bene,  come  le  altre.  Forse 
1'  argomento  non  destò  grande  interesse.  Fatto  stai 
che,  a  quanto  narra  il  Gozzi,  fu  rappresentata  sei 
sere  nell'  Autunno,  poi  sospesa,  e  rimessa  in  scena 
per  due  sole  sere  nel  Carnovale,  intramezzandovi 
un  altra  fiaba,  non  più  spoglia'  di  mirabile  ma" 
gicò.  Una  semi-confessione  del  poco  buon  successo 
dei  Pitocchi  Fortunati  si  ha  dal  Gozzi  stesso,  il 
quale  dice  eh'  essa  «  non  era  in  tutto  popolare  » 
e  di  ciò  si  consola  colle  lodi  in  versi  tributategli 
da  una  parrucca  accademica,  il  Conte  Purante 
Duranti  di  Brescia.  *  Un'  ultima  notizia  intomo  ai 
Pitocchi  Fortunati,  che  merita  ricordo,  è  quella 
che  «  ai  nomi  di  Profeta  Macone  e  di  Moschea, 


*  MAGRifa.  Op.  cit.,  pag.  218. 

*  Prefazione  ai  Pitocchi  Fortunati. 


evi  PREFAZIONE. 

non  voluti  lasciar  correre  in  Teatro  dai  prudenti 
Revisori  'Veneti,  furono  sostituiti  quelli  di  Apol- 
lino e  di  Tempio;'  »  prudenza,  che  non  giovò 
purtròppo,  dopo  Passarowitz,  a  rinfrancare  in 
Oriente  la  potenza  dei  Veneziani! 

La  Fiaba,  con  cui  il  Gozzi  soccorse  la  non 
grande  fortuna  dei  Pitocchi  Fortunati,  fu  II  Mo- 
stro Turchino,  rappresentata  PS  Dicembre  1764. 
La  moralità  di  questa  fiaba  è  l'amor  coniugale, 
poetizzato  in  Taer  e  Dardanè,  e  messo  a  terribili 
prove  da  Zelou,  Mostro  Turchino.  «  La  passione 
fantastica,  ch'ella  racchiude,  scriva  il  Gozzi,  fii 
.  guardata  come  una  verità  incontrastabile; '^»  ma 
quest*  affermazione  mi  sa  veramente  di  trop{)0  ar- 
dita. Il' Gozzi  nel  mescolare  la  realtà  dei  fatti  e 
delle  passioni  umane  ai  portenti  magici  e  ai  miti 
fiabeschi  non  raggiunge  quella  perfetta  fusione  del 
fantastico  e  del  reale,  a  cui  seppe  toccare,  per 
esempio,  lo  Shakespeare.  Il  dubbio  di  Alonzo  nella 
Tempesta  dello  Shakespeare  :  «  non  potrei  giurare 
se  ciò  non  sia  una  realtà'  »  non  mi  sembra  pos- 
sibile nelle  Fiabe  del  Gozzi.  Eppure  è  a  questo 
patto  che  il  fantastico  sul  teatro  fwiò  evitare  il 
pericolo,  a  cui  più  della  realtà  si  trova  esposto, 
di  divenire  monotono,  triviale  e  sazievole.  È  ve- 
rissimo quanto  dice  in  proposito  la  Signora  di 
Staèl  che  il  genere  fantastico  va  giudicato  come 

1  IbicL 

»  Prefezione  al  Mostro  Turchino. 

»  Alto  V,  Scena  I. 


PREFAZIONE.  ,CVI1 

ae  si  trattasse  d' un  sogno  e  che  «  se  il  buon  gusto 
vegliasse  sempre  alla  porta  eburnea  dei  sogni,  per 
costringerli  a  forme  prestabilite,  ben  di  rado  essi 
colpirebbero  la  nostra  immaginazione.  ^  »  Ma  è 
più  vero  ancora  ciò  che  poco  innanzi  avea  detto 
la  stessa  Signora  di  Staé!l  (parlando  delle  streghe 
del  Faust):  «  I  lìmiti  sono  difese.  La  vaghezza 
delle  invenzioni  soltanto  può  salvare  il  fantastico, 
nel  quale  l'imione  del  bizzarro  e  del  mediocre 
non  potrebb' essere  tollerata.*  »  Peccato,  che  non 
sempre  il  Gozzi  potè  sfuggire  e  che  appunto  al 
momento  di  far  rappresentare  il  Mostro  Turchino 
pare  che  avesse  già  messo  il  pubblico  in  qualche 
diffidenza  e  sfiduciato  un  poco  il  poeta  dell'  opera 
sua.  Nella  Pref albione  si  mostra  assalito  quasi  dal 
dubbio  d' essere  andato  tropp'  oltre  e  malcontento 
di  dover  continuare,  costretto  dallo  zelo  del  par- 
tigiani e  dalle  esigenze  dei  Comici.  Le  critiche  co- 
minciavano ad  assalirlo.  «  Bilanciai  molto,  scrìve 
il  Gozzi,  per  la  soggezione  in  cui  m' avevano  posto 
i  colti  ed  acuti  miei  giudici....  e  confesserò  che 
il  rispetto  e  il  timore,  che  io  ho  del  pubblico,  mi 
fece  costar  questa  fiaba  una  fatica  non  conveniente 
al  suo  ridicolo  titolo  di  Mostro  Torchino.'  »  La 
gestazione  fu  hmga,  faticosa,  piena  d'incertezze 
(perciò  forse  questa  fiaba  fu  comunicata  al  Ba- 

i  M.«  De  StaAu  De  PÀllemagne.  (Bruxelles,  1833).  Tom.  2, 
Chap.  XXI li,  pag.  424. 
«  Ibid^  pag.  388. 
'  Prefazione  al  Mostro  Turchino,  ' 


CVIII  PREFAZIÓNE. 

retti   manoscritta),   e   coi  pochi  accenni,   cbe  il 

Gozzi  ne  dà  nella  Prefazione,  concorda,  mi  sembra, 

quanto  scrive  in  una  sua  lettera  del   15  Ottobre 

'    176^:  «  II  Mostro  Turchino,  tra  il  volere,  il  non 

volere,  gli  imbarazzi,  V  accidia  e  la  rabbia  è  finito; 

/  ma  così  fiacco  e  scipito,  che  intendo  non  far  d' esso 

y     uso  alcuno.  Non  sono  queste  espressioni  d'afifet» 

'  tata  modestia,  ma  di  sincerità.  Sono  arrabbiatis- 
simo  colla  poesia  e  vorrei  poterla  frustare.  Ho 
preso  dell' affetto  a  questi  deserti  (scrive .  dalla 
campagna)  e  mi  sono  più  cari  i  ragli  dì  questi 
asini,  che  il  sentire  a  Venezia  :  oh  che  cuccagna  !  ^  > 
Anche  l' ardito  artista  delle  Fiabe,  anche  il  poeta, 
che  non  dubitava  di  nulla,  che  si  credeva  sosteni- 
tore della  verità,  della  tradizione,  della  cultura  e 
della  morale,  il  poeta,  che  avea  visto  fuggirsi  di- 
nanzi sgominati  gli  avversari  ed  a  suoi  piedi  il 
pubblico,  il  quale  mutava  di  adorazioni  da  un 
giorno  all'altro  con  una  celerità  spaventosa  non 
meno  ai  vinti  che  ai  vincitori,  anche  questo  guer- 
rigliero, fortunato  era  dunque  assalito  dalle  sue  ore 
di  dubbiezze  e  di  sgomento  al  pari  del  Goldoni^  e 
quasi  impaurito  della  poca  giustizia  de'suoi  stessi 
trionfi }  «  La  riputazione,  scrive  il  Gozzi,  in  cui 

'erano  entrate  le  Fiabe  incominciava  a  dispia- 
cermi; •  »   e  nella   Fiaba  del   Mostro    Turchino 

1  Archivio  Veneto.  Tocn.  IH.  Articolo  del  Sìg.  Conte  Ga- 
spare Gozzi,  pronipote  dei  due  poeti,  intit.:  Gaspare  e  Corto 
Goi{\i  e  la  loro  famiglia,  pag.  277-278. 

*  Prefiazione  al  Mostro  Turchino. 


.     PREFAZIONE.  CIX 

mette  nella  bocca  a  Zelou  (  quasi  il  poeta  antiveda 
le  troppo  rapide  vicende  della  sua  fama)  questa 
singolare  profezia  : 

Tempo  verrày  che  le  trasformazioni, 
Ch'io  son  per  cagionar,  servir  potranno 
D'  allegorici  casi,  e  i  sprezzatori 
'  Mostri  saranno,  compio  son,  cercando 
Di  trasformar  sg  stessi  in  nuovo  aspetto 
Grato  nel  mondo,  trasformando  altrui. 
Se  mai  potranno,  in  abborriti  mostri.  1- 

Lo  Stranissimo  argomento  di  questa  fiaba  è  però 
svolto  e  condotto  con  abilità  magistrale,  e  se  il 
Goz^i  osò  qualche  volta  vantarsi  inspirato  dal- 
l'esempio del  Boiardo,  dell'Ariosto  e  del  Tasso  nel 
ritornare,  che  fa,  agli  «  impossibili  e  mirabili  av- 
venimenti* »  dei  poemi  cavallereschi  ed  eroici,- 
qui  oltre  ad  atteggiare  un  eroe,  che  per  amore 
o  per  espiare  coljpe  sue  o  d'altri  deve  affrontare 
imprese  di  straordinaria  temerità  (fondo  comune 
delle  fiabe  popolari  in  genere  e  di  quelle  del  Gozzi 
in  particolare),  qui,  con  vera  efficaci^  satirica  e 
comica,  contrappone  all'ideale  cavalleresco  l'egoi- 
smo filosofico  moderno.  ^ 

Le  ultime  due  Fiabe  del  Gozzi  furono  U  Au- 
gellino  jBe/ver(/(?,  rappresentata  il  19  Gennaio  1765, 

1  Vedi  nel  Voi.  II.  Il  Mastro  Turcliim^  Atto  I,  Scena  I, 
pag.  204,  ^  • 

*  Prefazione  al  Corvo, 

3  Vedi  nel  Voi.  II,  //  Mostro  Turchino,  Atto  IV.  Se.  VI, 
pag.  278-79. 


ex  PREFAZIONE. 

e  Zeim  Re  d^  Genjy  rappresentara  il  25  Novem- 
bre 1765,  '  nelle  quali,  come  nellMmore  delle  Tre 
Melarànce,  tornò  a  mescolare  di  proposito,  e  non 
soltanto  per  incidenza,  la  fiaba,  la  parodia  e  la  sa- 
tira, non  più  di  battibecchi  letterari,  bensì  delle 
dottrine  filosofiche  e  morali  degli  Enciclo]:>edisti 
Francesi,  che  già  erano  in  voga.  Ma  V  Augellino 
Belverdè  è  il  vero  epilogo,  la  conclusione  solenne 
delle  Fiabe  Gozziané.  W.  Re  d^  Genj  non  è  che 
un'appendice,  un  soprappiù,  ed  il  Gozzi  stesso  ne 
parla  poco  e  mostrando  di  non  curarla.  Notevo- 
lissimo è  però  (quantunque  Inazione  vi  proceda 
un  poMisordinata  e  slegata). cóme  manifestazione 
delle  idee  morali  e  politiche  del  Gozzi.  Zeim,  Re 
de*  Genj,  opera  in  sostanza  tutti  i  suoi  portentTc 
sottopone  altri  alle  prove  più  dure  nell'interesse 
dei  principi  conservatori.  È  un  Bonald  o  un  De 
Màistre  sotto  le  forme  d'un  negromante  mo- 
struoso; creazione  fantastica,  che,  come  il  Mostro 
Turchino,  il  Gozzi  desume  in  parte  dai  racconti 
orientali,  in  parte  costruisce  da  sé;  che  tiene  del 
gnomo,  del  demone,  dell'  animalesco  e  dell'  umano, 
e  vagamente  ricorda  il  Ca  libano  della  Tempesta 
dello  Shakespeare.  La  fedeltà  d'una  schiava,  alle- 
vata nella  più  ingenua  fede  in  Dìo,  nella  sommes- 


^  Le  Fiabe  furono  intramezzate  da  due  drammi  che  ap- 
partengono alla  seconda  maniera  del  Gozzi,  quella  ^IP.imi- 
tazione  del  Teatro  Spagnuolo,  e  sono  intitolati:  Il  Cavaliere 
Amico  e  Dorifle,  rappresentati  entrambi  nel  1762  con  scarsa 
fortuna. 


PRBFAZYOHE.  CXÌ 

sione  più  assoluta,  e  neUa  tranquilla  creden^/che 
da  Dio  viene  ogni  potestà  dei  Grandi  e  che  anche 
gli  eccessi  della  costoro  prepotenza  Dio  li  per- 
mette per  alcun  bene  nascosto  nell'abisso  del  suo 
consiglio,  con^e  pure  la  probità  e  la  costanza  di 
un  vecchio  ministro  ricevono  all'ultimo  dal  Re 
de'  Genj  il  dovuto  compenso.  Quest'  è  la  moralità, 
che  si  svolge  a  traverso  i  portenti  nlagici  e  che 
è  racchiusa  negli  ammaestramenti  di  2^eim  alla 
schiava  : 

Ei  sempre  mi  dicea  ...*.. 
Che  sacra,  non  intesa  Provvidenza 
.  Tutto  dispone  e  che  mirabìl  opra  ' 

Era  de'  grandi  il  posto  e  grado  a  grado 
Veder  le  genti,  inaino  alla  mmuta 
Plebe,  operar  subordinate  a^  primi 
Era  cosa  celeste.  Ah  non  t?  allettino, 
Spesso  dicea,  sofistici  talenti. 
Che  maliziosamente  Hbertade  . 
Dipingono  a'  mortali,  fuor  da  questo 
Bell'ordine,  dal  cicl  posto  £pa  noi.* 

La  generale  intenzione  satirica  della  fiaba  si , 
deduce  da  questo  tema  ed  un  saggio  curioso  è  in 
una  scena  del^Atto  I,  in  cui  Sarchè,  figliagli  Pan- 
talone (^  terza  incarnazione  àtW Angela  del  Re 
Cervo  e  dei  Pitocchi  Fortunati)  tenuta  dal  padre 
nascosta  in  una  campagna,  chiede  a  lui  che  cosa 
sia  una  città  ed   egli   le   descrive  co' più   minuti 

*  Vedi  nel  Voi.  2.  Zeim  Re  dt*  Gety,  Atto  If,  Scena  IV, 
pag.  458» 


CXlL  PREFAZIONE. 

particolari  lo  stato  '  morale  d'  una  città,  guasta 
dalle  dottrine  e  dai  costumi  alla  moda.  '  Manife- 
stamente allude  a.  Venezia,  dove  le  massime  filo- 
sofiche francesi,  per  mezzo  dei  libri,  dei  viaggia- 
tori, delle  associazioni  Massoniche,  già  penetravano. 
Non  al  governo  di  certo,  che  durava  immobile, 
quantunque  esso  pure  fin  dal  1761  avesse  dovuto 
reprimere  in  Angiolo  Querini  e  ne'  compagni  suoi 
uri'>agitazione  politica,  che  s'inspirava  alle  nuove 
idee,  dappoiché  il  Querini,  riformista  e  ammiratore 
dal  Voltaire,  somigliava  assai  più  ai  Mirabeau  ed 
ai  Lafayette,  che  non  ai  patrizi  Veneti  d'  antica 
stampa.  '  Ma  il  più  fiero  assalto  del  Gozzi  alle 
-esotiche  dottrine  venute  di  moda  fu  nella  Fiaba 
à^S Augellìno  Belverde,  «  E  un'azione  scenica, 
egli  scrive,  la  più  audace  che  sia  uscita  dal  mio 
calamaio.  Io  m'era  determinato  a  tentar  con  uno^ 
sfprzo  di  fantasia  uno  strepito  grande  teatrale  po- 
polare e  a  troncare  il  corso  delle  rappresentazioni 
sceniche,  delle  quali  non  voleva  utilità  nessuna, 
ma  né  meno  quel  peso  disturbatóre,  che  incomin- 
davano  a  darmi;  massime  sembrandomi  già  di 
aver  abbastanza  ottenuto  quell'intento,  che  m'era 
proposto  per  un  purissimo,  capriccioso,  poetico 
puntiglio.,.,  Sotto  un  titolo  fanciullesco,  e.  in 
mezzo  ad  un  caricatissimo  ridicolo,  non  credo  che 

1  Nel  Voi.  Il  cit,  Zeim  Re  de*  Ì3enj,  Aito  I,  Scena  I, 
pag.  423. 

*  MoRPURGO.  Marco  Foscarini  cit.  —  Rohanin.  Storia 
Document  di  Venezia,  Tom.  cit. 


PREFAZIONE.  CXIII 

nessun  uomo  bizzarro  abbia  trattato  con  più  in- 
sidiosa facezia  morale  le  cose  serie,  eh'  io  trattai 
in  questa  fola I  punti  gravi,  moralmente  trat- 
tati in  questo  audace  teatrale  trattenimento,  ca- 
gionarono per  la  città  tante  dispute  e  d'una  spe- 
zie tanto  particolare,  che  infiniti  religiosi  regolari 
degli  ordini  più  austeri  si  trassero  le  loro  tona- 
che, e  postisi  in  maschera,  andarono  ad  ascoltare 
V  Augellino  Belverde  con  somma  attenzione.  *  » 
Per  farne  ben  spiccare  l' intendimento  satirico, 
il  Gozzi  riappicca  il  filo  di  questa  fiaba  all'  argo- 
mento delle  Tre  Melarance^  quantunque  la  pa- 
rodia e  la  satira  abbiano  cambiato  oggetto.  L' azione 
comincia  vent'anni  dopo  la  conquista  delle  Tre 
Melarance,  il  vecchio  Re  di  Coppe  è  morto,  il 
Principe  Tartaglia  è  scomparso  da  diciannove  anni, 
sua  moglie  è  stata  sepolta  viva,  i  due  loro  gemelli 
sono  stati  affogati,  la  córte  è  vuota,  il  regno  in 
balia  della  regina  madre,  una  vecchia  pazza  im- 
bertonita  d'  un  poeta  estemporaneo  e  furfante. 
Tutto  questo  terribile  destino,  che  fa  rassomigliare 
alla  stirpe  degli  Atridi  la  stirpe  fiabesca  delle  Tre 
Melarance,  è  scongiurato  dalla  magia.  I  morti  tor- 
nano, gli  sperduti  si   ritrovano,  e  non,  solo  essi, 

«  1  Prefazione  a\V  Augellino  Belverde.  II  Gozzi  stesso  narra 
del  Goldoni,  che  suscitava  questi  e  maggiori  entusiasmi.  Le 
sue  commedie  leggevansi  ne^  Collegi,  ne^  Monasteri.  Il  Gozzi 
senti  un  giorno  predicare  in  una  Chiesa  un  Abate  Salerni, 
il  quale  dichiarò  che  si  preparava  alla  predica  colla  lettura 
delle  commedie  del  Goldoni.  Gozzi,  Memorie  cit.  Parte  e . 
Cap-  34i  pag-  260,  67. 

Masi.  h 


CXIV  PREFAZIONE. 

ma  anche  antichi  personaggi  d*  altre  Fiabe  Goz- 
ziane  tornano  petrificati,  come  il  Cigolotti  del  Re 
Cervo  cambiato  in  statua  parlante,  ed  i  prodigi^ 
le  trasformazioni  fanciullesche  delle  Tre  Melarance 
si  moltiplicano  all'infinito.  E  veramente,  ripeto, 
un  vasto  epilogo  fiabesco,  è  il  delirium  tremens 
della  magia,  dove  tutto  ripiglia  anima  e  vita,  sino 
.  i  pomi,  che  cantano,  sin  l'acqua,  che  suona  e 
balla,  sino  le  statue  delle  antiche  fontane,  che 
scendono  dalle  loro  nicchie  diroccate  e  muscose  e, 
a  guisa  della  statua  espiatoria  del  Commendatore 
nel  Don  Giovanni^  camminano  cori  passo  mar- 
moreo fra-  i  mortali.  Ma  in  mezzo  a  questo  pari- 
demonio  fiabesco  la  parodia  e  la  satira  primegf- 
giano  e  forse  con  più  intima  connessione  all'ar- 
gomento, che  non  sia  nelle  Tre  Melarance,  Delle 
dottrine,  che  satireggia,  il  Gozzi  ha  un  concetto 
molto  inesatto  e  confuso.  Sferza  però  in  generale 
l' insurrezione  della  ragione  contro  la  fede  e  ri- 
congiunge tale  insurrezione  al  Machiavellismo  per- 
sonificato nel  salsicciaio  Truffaldino ,  a  cui  la  causa 
dei  vinti  inspira  il  più  alto  disprezzo  ed  è  divenuto 
razionalista,  incartando  il  salame  coi  libri  dei  filo- 
sofi. *  Manomessa  l' antica  fede,  gli  uomini,  secondo 


^  In  una  lettera  scritta  dalia  campagna  P  8  Ottobre  1763 
Carlo  Gozzi,  parlando  della  Frusta-  Letteraria  del  Baretti, 
che  usciva  allora,  scrive:  «  Io  me  la  passo  dormendo,  man- 
giando, cavalcando  qualche  puledro,  camminando,  e  gridando 
con  questi  villani,  i  quali  sono  tutti  finissimi  machiavellisti» 
Sanno  frodare,  ridersi  del  parroco  con  una  sorprendente  di- 


PRBti'AZIONB.  CXV 

il  Gozzi,  si  chiuderanno  in  un  egoismo  feroce; 
deificata  la  ragione,  vorranno  l' impossibile,  i  pomi 
che  cantino,  V  acqua  che  suoni  e  balli.  La  buona 
e  vecchia  morale  è  personificata  in  Calmon,  un 
eroe  del  Cunto  de  li  Cunte,  che  di  statua  ridi- 
venta uomo,  di  petrificato  ridiventa  attivo,  e  libera 
le  vittime  della  filosofia  dalle  miserie,  nelle  quali 
sono  piombate  senza  sapere  più  come  levarsene. 
Meglio  assai  che  nella  dubbia  profezia  della  Mar- 
fisa  Bi\\array  Carlo  Gozzi  dimostra  il. presenti- 
mento della  prossima  rovina  della  Repubblica  in 
questa  sua  avversione  ad  ogni  novità,  dalle  com- 
medie del  Goldoni,  che  irridono  i  nobili  er  atteg- 
giano civilmente  il  popolo  sulla  scena  (quel  pro- 
tagonista futuro,  rimasto  sempre  in  disparte  nella 
storia  di  Venezia),  fino  alle  dottrine  enciclopedi- 
stìche,  'che  scompaginano  le  antiche  armonie  relÌT 
giose  e  morali,  fino  alle  prosuntuose  scienze  fisi- 
che, che  spiegando  fenomeni  e  riparando  sciagure 
sembrano  volersi  sostituire  aUa  Provvidenza  nel 
governo  del  mondo.  *  Il  Gozzi  avverte  la  decadente 


sinvoltura,  interpretare  fo  spirito  delle  leggi  quanto  H  Mon- 
tesquieu. Altro  che  Frusta  Letteraria  f  »  V*ha  qui  già  tutto 
intero  il  Truftaldino  dell'  Augellino  Beherde  e  il  Go'zzi,  Ac- 
cademico Granellesco,  sentiva  bene  che  v'  era  qualche  cosa  di 
più  urgente,  che  restaurare  il  buon  gusto  letterario.  Vedi  il 
citato  articolo  del  Conte  Avv.  Gaspare  Gozlu  {Archivio  Ve-, 
neto,  Tom.  III). 

1  Notevolissima  su  questo  argomento  è  una  satira  di 
Carlo  Gozzi,  premessa  alla  sua  traduzione  delle  Satire  del 
Boileau  e  intitolata:  Astra!(ione   del   Traduttore,  Vedi  le 


CXVÌ  I^R£FA2I0NE. 

senilità  della  Repubblica  di  San  Marco,  né  può 
contentarsi  di  dire  come  il  Goethe,  coli'  indifferenza 
d' un  viaggiatore  di  passaggio:  ^  essa,  come  ogni 
altro  essere,  cede  alla  forza  del  tempo.  ^  >  Il 
Gozzi  l'avverte  e,  patriotta  ardentissimo,  si  ap- 
passiona e  si  arroxella  contro  ogni  novità,  perchè 
la  più  piccola  pietruzza,  che  si  sgretoli  dal  vec- 
chio-edificio, gli  sembra  che  debba  cagionarne  la 
rovina  totale, 

a  Troncai  il  corso  alle  Fiabe,  scrive  il  Gozzi, 

Opere  Ediz.  1773.  Tom.  VII,  pag.  53.  Se  là  piglia  sopratutto 
cogli  Abati  fìlosofìsti,  ^^i^rine  tìpiche  del  tempo.  Cito  qual- 
che verso,  per  darne  saggio: 

«  Palesa,  Creator,  se  le  lumache 
E  le  rane  e  le  seppie  e  i  polpi  ed  altre 
Tali  fatture  tue  dalle  sublimi 
Chierche  notomizzate,  e  battezzate 
Coir  epiteto  raro,  che  si  alletta 
E  si  sorprende,  di  gelatinose, 
Sien  forse  vegetabili  tra  noi 
Nuotatori  e  ambulanti,  poiché  tronchi 
E  le  corna  e  le  code,  quasi  arbusti 
Dall'  albero  recisi,  gli  veggiamo 
Ripullular  di  nuovo  e  non  morire. 
Necessario  è,  gran  Dio,  che  tu  M  palesi. 
Noi  sino  ad  ora  ignari  altra  scienza 
Non  avemmo  su  questo,  che  M  condirli 
Con  olio,  pepe,  e  cinnamomi  e  aceti 
«       Ed  il  farne  savor,  zuppe  e  insalate. 
Ed  a  tai  nostre  notomie  ignoranti 
Chiotte  avevamo  le  tue  chierche  al  studio 
Lodatrìci  ed  assidue....  • 

Paragona  le  oltracotanze  della  scienza  a  quella  dei  Titani, 
che  diedero  la  scalata  al  Cielo,  e  le  taccia  dMmmorale  im- 
postura. 

1  Goethe,  Italidnische  Reise.  Briefe,  ag  Septemb.  1786. 


1PREPAZIONB.  CXVII 

dopo  il  Re  de^Genfy^  e  non  perchè  il  fonte  loro 
fosse  inaridito  (e  forse  farò  ciò  vedere  un  giorno, 
e  quando  il  capriccio  mi  parrà  usato  a  un  util 
proposito)  ma  persuaso  da  quel  principio,  che  ogni 
genere  abbia  la  sua  certa  decadenza  naturalmente 
per  queir  aria  di  somiglianza  ^  d' imitazione  nel- 
r  indole,  difficilissima,  dopo  un  lungo  corso,  da 
poter  evitare.  Credei  migliof  cosa  il  lasciare  il 
Pubblico  desideroso,  che  nauseato  di  questo  ge- 
nere. *  »  II  15  Febbraio  1768  Giuseppe  Baretti 
chiedeva  da  Londra  al  Conte  Vincenzo  Bujovich: 
e  Quante  commedia  nuove  ha  fatto  il  Conte  Carlo 
Gozzi  dopo  la  mia  partenza  da  Venezia?  Quanto  pa- 
gherei se  potessi  avere  il  Mostro ^  Turchino!  Vorrei 
tradurlo  in  inglese  e  mi  darebbe  l'animo  di  farlo 
rappresentar  qui  con  molto  mio  emolumento.  *  » 
A  sua  volta  il  Gozzi  nel  dedicare  al  Patrizio  Gio- 
vanni Minio  un  volume  delle  sue  Opere,  e  senza 
nominare  il  Baretti,  scriveva:  «  s'io  vi  dicessi,  che 
(le  fiabe)  mi  furono  chieste  in  Inghilterra  da  per- 
sone, che  le  videro  rappresentare  nella  vostra  in- 
clita Patria  (Venezia),  per  esser  tradotte,  ed  espo- 
ste ne'  teatri  di  Londra  e  eh'  io  negai  di  darle,  vi 

t  I^efazione  al  Zehn  Re  da'  Genj.  Fece  altre  opere  tea- 
tfali,  dalle  quali  il  meraviglioso  noa  è  escluso.  Ma  vere 
Fiabe  non  più.  Una  sol  volta  accenna  d' averne  posta  un'  al- 
tra in  ossatura  coIP  intenzione  di  comporla.  Era  intitolata 
la  Pulce,  Ma,  morto  il  macchinista  della  Compagnia  Sacchi^ 
non  diede  alcun  seguito  a  quest'idea.  Vedi:  Prefa:{ione  al 
Tom.  Vili  (Ediz.  1772,  74.)  pag.  14,  i5. 

<  Barbtti,  Ediz.  Milan.  dei  Classici.  Tom.  cit.  Let.  95. 


CXVIII  PREFAZIONB. 

direi  una  verità,  m^  dimostrerei  una  di  quelle 
sciocche  albagie,  colle  quali  i  boriosi  provano  il 
merito  delle  opere  loro.*  »  Per  qual  ragione  il 
Gozzi  non  acconsenti  alla  domanda  del  Baretti,  il 
quale  era  perfetto  conoscitore  della  lingua  Inglese, 
ed  amico,  in  Londra  del  Garrick,  del  Burke  e  . 
d' altre  persone  d' alto  affare?  Dubitò  esso  del  buon 
successo?  È  probabile.  Era,  come  abbiamo  visto, 
meravigliato  egli  stesso  dei  trionfi  delle  Fiabe  e 
non  osQ  forse  avventurare  queste  povere  figlie 
d'Oriente  tra  le  brume  nebbiose  di  Londra  e  lo 
spirito  positivo  degli  Inglesi.  Quanto  a  tacere  il 
nome  del  Baretti,  che  gli  aveva  fatta  la  proposta, 
ciò  mi  conferma  nel  dubbio  già  espresso,  eh'  egli 
lo  conoscesse  un  po' più  di  quel  che  vuol  lasciare 
apparire.  Parlando  delle  lodi  dategli  dal  Baretti 

^  nel  suo  libro  inglese  sugli  Italiani,*  il  Gozzi  le 
riporta,  smisuratamente  gonfiate,  da  una  cattiva 
traduzione  francese,  se  ne  compiace  ^ssai  e  ricambia 
le  lodi,  quindi  soggiunge:  «  io  non  ebbi  giammai 

!  pratica   confidenziale   coli' Autore,  ne  lo  conobbi 

*  Qui  allude  (  non  se  ne  scorda  mai)  al  Goldoni,  il  quale, 
durante  i  battibecchi  letterari  coi  Granelleschi,  in  un  accesso 
insolito  d^  orgoglio,  s^  era  lasciato  sfuggire  questo  brutto 
verso:  «  Vanto  V  opre  tradotte  in  più  d*  un  suolo.  »  Non 
saprei  dire  quante  volte  il  Gozzi  gliel' abbia  rinfacciato!  La 
lettera  al  Patrizio  Minio  serve  di  dedica  al  Tpmo  II  del- 
l'Ediz.  delle  Opere  del  Gozzi  1772. 

*  An  Account  0/  the  AÌanners  and  Customs  0/  Italy, 
Voi.  1.  Chap.  Xll.  «  In  the  years^i764  and  lyóS  I  bave 
seen  acced  in  Venìce  ten  or  twelve  of  Gozzi  's  piays,  and 
had  even  the  p^rusal   oi  two  or  three  of  them  in  manu- 


PREFAJSIONE.  CXIX 

che. per  fama,  e  di  veduta  passeggera,  mentr' egli 
era  in  Venezia  pubblicatore  della  sua  Frusta  Let- 
teraria. Una  sola  volta  mi  trovai  accidentalmente 
nell'abitazione  di  mio  fratello  Gaspare  con  esso 
e  corsero  alcune  parole  tra  lui  e  me,  le  quali  do- 
vevano farmelo  più  nimico  che  amico.  »  Smen- 
tisce poi  alcuni  aneddoti  riferiti  dal  Baretti,  e  con- 
chiude: «  da  tutte  quelle  sue  riferte  si  dovrà 
giudicare,  eh'  egli  non  conosceva  né  me,  né .  l' in- 
dole mia,  né  la  mia  direzione,  né  il  mio  costume 
taciturno  «e  solitario  e  eh'  egli  non  aveva  nessuna 
pratica  domestica  e  confidenziale  con  me.  *  »  Cosi 
il  Gozzi  nell'Aprile  del  1801,  quando  il  Baratti 
era  già  morto  da  dodici  anni,  e  di  tanto  zelo 
non  si  vede  veramente  una  ragione,  se  non  è 
quella  di  togliersi  di  dosso  ogni  complicità  in  tutto 
il  male  che  il  Baretti  aveva  detto  e  ripetuto  del 
Goldoni.  L' intimità  del  Baretti  con  Gaspare  Gozzi 
era  ed  è  notissima.  Quanto  a  Carlo,  una  sua  let- 
tera privata  del  1763'  mostra  ch'egli  giudicava 
con  senno  i  primi  Numeri  della  Frusta^^  benché 

script;  and  no  wjrks  of  this  kind  ever  pleased  me  so  inuch  : 
so  that  when  (  saw  Mr.  Garrick  there,  l  lamenteJ  that  he 
did  not  come  in  carnival-time,  that  he  «night  bave  secn  some 
of  them  acted;  and  i  am  confident  he  would  have  admired 
the  originaliiy  of  Gozzi 's  genius,  the  inost  wonderfuK  in  my 
opinion,  next  Shakespeare,  that  ever  any  age  or  country 
produced.  » 

1  Gozzi,  Opere,  Ediz.  1802.  Tom.  XIV.  La  più  lunga  Let- 
tera  etc.  cit.  Cemento  sopra  il  Frammento  secondo,  pag.  S6-88. 

*  Archivio  Veneto,  Tom.  3,  Articolo  cit.  del  Gozzi.  Let- 
tera di  Carlo  dell' 8  Ottobre  1763. 


CXX  PREFAZIONE. 

si  dolesse,  forse  per  amore  della  sua  Marfisa^ 
delle  lodi  date  al  Mattino  del  Panni.  Il  fatto  però 
che  il  Baretti  potè  leggere  due  Fiabe  manoscritte 
e  gli  offerse  poi  di  tradurle  in  inglese,  dinota  non 
aver  forse  il  Gozzi  detta  tutta  la  verità  in  questa 
occasione.  Certo  non  fu  tra  essi  l' intrinseca  amicizia 
che  tra  Gaspare  e  il  Baretti.  Ciò  si  rileva  ahche  da 
altre  lettere  al  Bujovich,  dove,  per  esempio,  il  Conte 
Carlo  non  è  mai  compreso  in  quelle  filze  di  affet- 
tuose salutazioni  a  tutti  e  singoli  di  casa  Gozzi,  di 
cui  il  Bujovich  è  sempre  incaricato.  Però,»a  quando 
a  quando,  il  Baretti  lo  ricorda  con  amicizia  rive- 
rente e  nel  1772,  fermo  ancora  nell'  idea  di  tradurre 
le  Fiabe,  chiede  «  se  v'  è  speranza  che  H  Conte 
Carlo  dia  mai  alla  luce  le  sue  commedie/  »  nel 
77,  saputele  stampate,  mostra  il  desiderio  d' averle 
subito,  *  e  finalmente  riscrive  d' aver  ricevuto  let- 
tera dal  Conte  Carlo,  il  quale  promette  egli  stesso 
di  mandargliele.*  Non  sono  questi  i  rapporti  di 
due  persone,  conosciutesi  appena  di  veduta,  tredici 
o  quattordici  anni  prima.  Ma  le  lodi  pubblicamente 
date  dal  Baretti  a  Carlo  Gozzi,  ripetendo  in  paìri 
tempo  i  vituperi  al  Goldoni,  avevano  rieccitate  le 
collere,  degli  arhici  di  questo  ;  il  Goldoni,  che  già 
privatamente  avea  scritto  del  Baretti  )col  più  al- 


1  Baretti,  Ediz.  cit.  Tom.  cit.  Lettera   120  del    14  Fel> 
braio  1772. 

*  Baretti,  Ibid.  Lett.  123  del  24  Gennaio  1777. 
Baretti,  Ibid.  Lett.  127  del  9  maggio  1777. 


PREFAZtOllE.  CXXI 

tero  disprezzo,*  avea  stampate  queste  parole:.... 
e  In  Italia  non  ci  sono,  come  in  Inghilterra,  di  tai 
fo^listi.  Dopo  eh'  io  sono  in  Francia,  se  n'  era  in- 
trodotto uno  in  Venezia,  che  dando  il  titolo  di 
Frusta  letteraria  al  foglio  suo  periodico,  non  cri- 
ticava, ma  insultava  gli  Autori,  ed  io  ero  nel  nu-, 
mero  degli  insultati;  ma  ha  durato  poco,  ed  ha 
finito,  come  meritava  finire.*  »  Il  Gozzi  quindi* 
non  volle  scemar  pregio  alle  lodi  prodigategli  dal 
Baretti^  quasi  fossero  dirette  più  all'  avversario  del . 
Goldoni,  che  al  poeta  delle  Fiabe;  non  volle  che 
si  potesse  sospettare  aver  egli  sofiìato  nei  carboni 
roventi  della  Frusta  Letteraria^  quando  il  Gol- 
doni era  già  in  Francia  e  gli  avea  già  lasciato  li- 
bero il  campo,  e  perciò  nella  lettera  pubblicata 
nel  i8or  fece  con  tanto  zelo  verso  il  Baretti  la 
parte  dell'apostolo  Pietro  nel  pretorio  di  Pilato. 
E  si,  che  il  povero  Gozzi  non  sapeva  quale  fosse 
stato  il  giudizio  definitivo  dell'eccessivo  e  intol- 
lerante Baretti  intorno  a  lui  e  con  che  ferocità 
d'espressioni  lo  avesse  confidenzialmente  manife- 
stato al  suo  Don  Francesco  Garcano,  nell' infor- 
marlo d'aver  ricevuto  in  dono  dal  Gozzi  stesso 
le  sue  Opere!  t  Mi  aspettavo,  scrive  il  Baretti,  un 
banchetto  poetico  dei  meglio  imbanditi... .  Ma  che' 
volete?  L'animale  ha  guasti  tutti  i  suoi  drammi, 

^  Vedi  nella  mia  Raccolta  di  Lettere  Goldoniane  la  49 
air  Albergati  del  16  Aprile  1764. 

«  Goldoni,  Commedie,  Ediz.  Pasquali,  Tom.  XIII,  Pre- 
£az.  alla  Commedia  :  La,  Sco\\ese. 


CJLXìl  FREFAZIONE. 

ficcando  in  essi  que'suoi  maledetti  Pantaloni,  e 
Arlecchini,  e  Tartagli,  e»  Brighelli,  che  non  doveva 
mostrare  se  non  sulla  scena  per  dar  gusto  alla 
nostra  canaglia.  Indotto  dal  suo  matto  amore  alla 
compagnia  del  Sacchi  o,  com'  egli  sguaiatamente 
dice,  Truppa  Sacchi,  egli  ha  fraudata  l'Italia  d'una 
gloria,  che  le  poteva  aggiungere  con  poco  sconcio 
ed  ha  poi  resi  del  tutto  inutili  a  molti  italiani  e 
ad  ogni  straniero  que'  drammi  suoi,  Qual'  è  lo  stra- 
niero che  voglia  o  possa  darsi  allo  studio  del  dia- 
letto viniziano  e  rendersi  così  atto  ad  intendere .... 
che?  delle  pantalonate  scipitissime,  che  ti  fanno 
<!rascar  le  braccia?  E  non  potendo  intendere  un 
dramma  intiero,  chi  vorrà  comperarlo?  chi  leg- 
gerlo? Che  bel  trovato  per  rendere  inutilissime 
tante  sue  belle  e  bizzarre  e  poeticissime  invenzioni 
ai  tanti  amanti  della  lingua  nostra  oltmmontani  e 
oltramarini  1  Puossi  avere  il  cervello  più  stravolto, 
più  sgangherato!  Lascio  andare  quella  vergognosa 
sua  trascuratezza  nel  ripulire  la  lingua  e  lo  stile 
d'ogni  cosa  sua.  E  sì,  che  sua  Signoria  si  vor- 
rebbe pure  spacciare  per  uno  de'  più  rigidi  puristi 
su  questi  du' punti!  Il  disegno  dèlia  sua  Marisa 
è  altresì  molto  poeticamente  concepito  e  nuovo  e 
bello  quanto. si  possa  dire;  ma  il  diavolo  si  porti 
y  ottava,  che  non  ha  qualche  macchia  o  nella  lin- 
gua onel  verseggiamento.  L'.  edizione  poi  ha  la 
coda  impiombata  da  una  scomunicata  versione  delle 
satire  di  Boileau,  che  l' aluterà  di  sicuro  ad  affon- 
darsi presto  nel  fiume  dell' obblio;  tanto  più  che 


PREFAZIONE.  .CXXIII 

eUa  è  sconcia  da  certe  sue  magre  buffonerie  alia 
Burchiellesca  e  da  certi  suoi  ululatiy  com'  e'  li 
chiama,  e  da  cert'  altre  sue  pessime  prosacce,  .che 
sarebbe  propio  un  acquistare  l' indulgenza  plenaria 
chi  nel  bastonasse  ben  bene.  Un  mucchio  d' oro  e 
di  sterco  a  quel  modo  non  s'  è  visto  più  mai.  Ma 
passiamo  da  questo  scioccone  iagegnoso  ad  un 
altro  scioccone  che  non  merita  questo  epiteto.  Vo- 
glio dire  il  Conte  Verri . , . .  \»  Critica  soggettiva, 
se  mai  ve  ne  fu,  e  che  dimandava  al  Gozzi  per 
prima  cosa  d' aver  fatto  tutt'  altro,  da  quello  che 
volle  fare,  per  entrarle  in  grazia.  La  quale  pre- 
tensione, veramente  superlativa,  scema  il  valore 
anche  dei  biasimi  giusti,  che  gli  infligge.  Comun- 
que, tutto  il  discorso  del  Baretti  significa  eh' «gli 
abbandonava  il  pensiero  di  una  traduzione  inglese 
delle  Fiabe,  lavori  teatrali,  secondo  lui,  d'  un'  in- 
dole troppo  locale  da  potere  piacere  fuori  di  Ve- 
nezia. Non  cosi  la  pensavano  i  Tedeschi,  che  tra 
il  1777  e  1779  aveano  già  pubblicate  a  Berna  le 
.  Fiabe  tradotte  nella  loro  lingua.  *  La  traduzione 
uscì  anonima  ed  il  Gozzi,  pur  compiacendosi  mol- 
tissimo dell'  inaspettato  onore,  non  nomina  mai  il 
traduttore,  che  ^ra  Francesco  Augusto  Clemente 
Werthes,  sebbene  narri  d'averlo  conosciuto  di  per- 
sona a  Venezia.  '  Curioso  è  che  il  Gozzi  non  in- 

*  Baretti,  Ediz.  cit.  Tom.  cit.  Leit.  143  del  12  Marzo  1785. 

*  Teatralische  Werke  von  Carlo  Gozzi.  Aus  dem  italifl- 
nischen  Oberseiz.  Theil  1-5  (Bcrn  1777- 1779). 

3  Oper«,  Ediz  1802.  Tom.  XIV.  La  più  lunga  Lettera  etc. 
cit.  Frammento  Quinto  e  Comento  etc.  pag.  162. 


CXXIV.  PREFAZIONE.    . 

tende  per  quale  motivo  il  Werthes  abbia  lasciato 
indietro  tutte  le  sue  Prefazioni  e  massime  il  Ra- 
gionamento Ingenuo  '  e  F  Appendice  al  Ragiona- 
mento Ingenuo^  e  siasi  esaltato  poi  tanto  delle 
sue  Fiabej  mentre  in  que'-due  discorsoni  ayea 
pur  condensato  tutto  il  segreto  della  sua  arte  poe-, 
tica  e  le  ragioni  delle  polemiche  letterarie  e  mo- 
rali copibattute  c^lle  Fiabe,  «  Forse  internamente, 
scrive  il  Gòzzi,  non  era  persuaso  de'  miei  due  Ragio- 
namenti, ed  io  non  mi  offendo  delle  opinioni  con- 
trarie alla  mia.  ^  »  Preziosa  è  questa  ingenua  con- 
fessione del  Gozzi  ed  è  come  il  principio  di  quella 
specie  di  malinteso  fortunato,  che  passa  fra  lui  ed 
i  suoi  furiosi  ammiratori  stranieri,  i  quali  del- 
l'opera  sua  accettano  quella  parte  che  conviene 
ai  fini  dei  loro  speciali  dibattiti  letterari,  e  accon- 
ciano un  po'  a  loro  modo  tanto  l' uomo,  quanto 
lo  scrittore.  Il  Werthes^  in  ordine  di  tempo,  ap- 
partiene al  periodo,  in  cui  lo  spirito  tedesco,  gui- 
da:to  principalmente  dal  Lessing,  si  affranca  dal- 
l' accademismo  Francese  per  far  ritorno,  come  si 
diceva,  alla  natura  e  alla  libera  fantasia,  lo  Sturm 
und  Drang  periode^  il  quale  precede  il  lavoro  con- 
corde e  fecondo  del  Goethe  e  dello  Schiller,  e 
precede  pure  il  Romanticismo  tedesco,  propria- 
mente detto,  il  romanticismo  degli  Schlegel  e  dei 
loro  compagni.  Presso  tutti  costoro,  o  per  una  ra- 

*  Nel  Tomo  i  delle  due  Edizioni. 

«  Nel  Tomo  IV  delle  Ediz.  1772  e  V  dell' Ed;z.  1801. 

3  Frammento  Quinto  e  comento  cìu  pag.  16?. 


PREFAZIONE.  CXXV 

gione  o  per  un'  altra,  trovò  grazia  il  nostro  Gozzi, 
e  massime  colla  scuola  Romantica  tedesca,  alle  cui 
simpatie  non  solo  lo  raccomandavano,  come  a 
guerriglieri  dello  Sturm  und  Drang  perìode^  la 
libertà  della  sua  poetica  teatrale,  ribelle  (si  può 
giurare)  ad  ogni  canone  di  precettistica  classica, 
ma  altresì  la  tendenza  (  in  quésto  caso  la  parola  è 
storica)  la  tendenza  filosofica,  politica  e  morale 
delle  sue  Fiabe,  e  quel  suo  rinfrescare  vecchie  fa- 
vole e  superstizioni  popolari  e  medievali.  Stando 
ai  principii,  dai  quali  moveva  la  scuola  Romantica 
tedesca  ed  ai  Bni,  ai  quali  deliberatamente  inten- 
deva,  non  si  può  negare  che  una  certa  affinità  fra 
essa  ed  il  Gozzi  non  esista.  Se  non  che,  anche 
quando  le  Fiabe  si  sollevano  dalla  guerricciuola 
dei  Granelleschi  contro  il  Goldoni  e  mirano  più 
in  alto,  r  intento  satirico  primeggia  sempre  nella 
mente  del  Gozzi,  ed  il  miracoloso,  il  mitico,  il 
soprannaturale,  il  fantastico,  per  cui  lo  pregiano 
tanto  i  Romantici  tedeschi,  sono  nell'opera  sua 
coefficienti  estrinseci  e  secondari,  eh'  egli  raccoglie 
qua  e  là  <ia  fonti  note  e  da  lui  stesso  schietta- 
mente indicate,  ma  ai  quali  non  dà  egli  stesìso 
alcuna  principale  importanza.  Debole  dunque  è  il 
filo,  per  cui  il  Gozzi  s'attiene  ai  Romantici  tede- 
schi e  ben  s' intende  come,  per  avvincerselo  di  più 
forti  nodi,  essi  abbiano  dovuto  trasformarlo  alcun 
poco  a  posta  loro.  Letterariamente  egli  può  e  deve 
essere  annoverato  fra  i  precursori  del  Romanticismo 
italiano,  per  lo  meno  allo  stesso  titolo  che  (direbbe 


CXXVI  PREFAZIONE. 

il  Carducci)  «  il  pasticcio  ossianico-macpherso- 
niano,  »  mqsso  di  moda  in  Italia  dalla  traduzione 
del  Cesarotti  e  determinante  insieme  col  sentimen- 
talismo dello  Young  e  del  Rousseau  le  prime  into- 
nazioni preromantiche  del  Foscolo  e  del  Monti.  Se 
non  che  i  Romantici  tedeschi,  cercando  nel  passato 
un  rinnovamento  artistico,  s' imbatterono  nel  feu- 
dalismo,  ed  i  Romantici  italiani  nella  libertà  dei  Co- 
muni e  nel  Guelfismo,  perocché  il  Romanticismo 
è  reazionario  in  Gernpiania,  legittimista  in  Francia, 
scettico  in  Inghilterra  e  cattolico-liberale  in  Italia. 
Ora  fare  di  Carlo  Gozzi  un  neoguelfo  ed  un  li-^ 
berale  del  Conciliatore  e  della  scuola  Manzoniana 
e  quasi  più  straordinario,  che  farne  un  feudale  od 
un  filisteo  tedesco  ;  ne  venne  quindi  in  mente  ad 
alcuno,  salvo  a  Piero  Maroncelli,  che,  spiegando 
la  genesi  di  quel  suo  benedetto  cormentalismOy 
pretende  che  il  Gozzi  abbia  volato  «  con  1'  ala  di 
Shakespeare,  di  Calderon  e  di  Schiller,  »  rimpro- 
vera agli  Italiani  d' averlo  dimenticato,  come  l'An- 
dreini,  autore  dell'  Adamo,  e  destina  a  Carlo  Gozzi 
un  seggio  in  ^Campidoglio  fra  i  patres  della  fu- 
tura Italia  una,  libera  e  indipendente.  *  Ma  queste 
sono  confusioni,  non  storia,  né  critica;  e  là  poli- 
tica e  il  patriottismo  le  scusano  appena.  Qualche 
segno  della  fortuna  del  Gozzi  in  Germania  é  già 
nel  Lessing,  il  quale,  benché  nella  Drammaturgia 


'  Maromcblli,    Addizioni   alle   A/iV    Prigioni  dì    Sikio 
Pellico.  Dell' ediz.  Le  Monnier  pag.  217  ed  in  nota. 


PREFAZIONE.  CXXVII 

Amburghese  non  parli  di  Carlo  Gozzi  e  solo  ac- 
cenni al  Goldoni  ed  alla  fecondità  e  spontaneità 
del  suo  genio  comico,  ^  in  una  lettera  però  del  28 
Aprile  1776  a  suo  fratello,  che  progettava  una 
raccolta  di  opere  teatrali  italiane,  consiglia  di  non 
trascurare  quelle  di  Carlo  Gozzi,  che  stavano  per 
essere  ripubblicate  in  tedesco  a  Berna,  e  senza 
delle  quali  la  raccolta  si  dovrebbe  dire  imperfetta, 
tanta  importanza  avevano  agli  occhi  suoi  le  opere 
teatrali  del  Gozzi.  Notevolissimo  è  che  dello  scri- 
vere il  Gozzi  ed  il  Cerlone  alcune  delle  parti  dei 
loro  lavori  in  dialetto  veneziano  e  napoletano,  il 
grande  crìtico  dà  per  ragione  il  discredito,  in  cui 
era  caduto  il  brutto  italiano  infranciosate,  che 
adoperavano  nelle  loro  commedie  l'Albergati  ed 
altri  contemporanei,  né  mostra  di  meravigliarsi 
punto  d' un  tale  rimedio.  *  L' anno  innanzi  il  Les- 
sing  era  stato  in  Italia  per  accompagnarvi  un  Prin- 
cipino tedesco  caduto  in  disgrazia  e^  mandato  per' 
correzione  a  svagarsi  nella  terra  dove  fioriscono 
gli  aranci^  e  a  Venezia  avrà  forse  vista  rappre- 
sentare qualche  opera  del  Gozzi  o  l'avrà  letta 
nell'edizione,  che  appunto  allora  era  uscita.  Nel 
Tomo  rV  Carlo  Gozzi,  la  cui  polemica  avea  ora 


*i  Dramaturgie  de  Hambourg.  Trad.  de  Suckau  (Paris 
Didier,  1H73)  pag.  436.  La  Dramaturgia  finisce  al  17O8  ed 
il  Gozzi  non  fu,  si  può  dire,  conosciuto  in  Germania,  che  dopo 
r  edizione  del   1772. 

*  I.  E.  Lessing-Gesammelte  Werke.  VI  Band.  (Leipzig  1841) 
Briefe  an  Karl  Lessi ng.  . 


CXXVUr  PREFAZIONE. 

cambiato  oggetto,  e,  non  più  coi  Chiari  e  col  Gol- 
doni, ma  se  la  pigliava  colle  intenzioni  rivolur 
zionarie  dei  drammi  lagrimosi,  fa  un  paralello 
molto  imbrogliato  fra  i  teatri  di  Vienna  e  quelli 
di  Venezia,  fra  il  Sonnenfels  e  l' Heufeld  *  ed  il 
Chiari  e  il  Goldoni,  e  rimprovera  ai  due  tedeschi 
di  avere  fra  altre  piéces  larmqyantes  dato  luogo 
a  «  quella  Rosa  Samson  a  (sic)  che  anche  a  Ve- 
nezia era  stata  rappresentata  nel  1773,  ed  «  è  cosa, 
scrive  il  Gozzi,  d'  un  genio  Tedesco.  *  »  È  chiaro 
che  qui  si  tratta  della  Sara  Sampson  del  Les- 
sing,  un  dramma  lagrimoso,  la  cui  influenza,  mercè 
il  tipo  della  peccatrice  redenta  dall'  amore,  è  stata 
letterariamente  più  viva  e  più  lunga  di  quella 
degli  altri  suoi  drammi.  Chi  sa  pure  se  il  Lessing 
ed  il  Gozzi  non  si  conobbero?  Fatto  è  che  l'uno 
fa  ricordo  dell'  altro  ed  il  Lessing  con  intenzione 
più  benevola  di  quella  del  Gozzi  Ma  i  primi  a 
levare  a  cielo  il  Gozzi  in  Germania  furono  gli 
Schlegel,  caporioni  del  Romanticismo  Tedesco.' 
Fino  dal  1797  Federico  Schlegel  poneva  già  il 
Gozzi  ed   il  Guarino,  come  scrittori  drammatici. 


*  A  torto,  perchè  l' Heufeld  era  sostenitore  della  Com- 
tnedia  dell'  Arte.  Vedi  un  articolo  del  sig.  M.  Landau,  Die 
Komódie  iin  Dietiste  der  Reaction,  (Beilage  zur  Allgemeiae 
Zeitung.  N.  316,  12  Nov.  1881.) 

•  Ediz.  1772-74  Tom.  IV.  Appendice  al  Ragionamento  in- 
genuo del  Tomo  primo.  Pag.  24.  ^ 

3  Una  più  breve  rassegna  dei  critici  del  Gozzi  feci  già 
nel  Fanfulla  della  Domenica,  del  4  Dicembre  188 1. 


PREFAZIONE.  CXXIX 

accanto  allo  Shakespeare*  e  già  Ludovico  Tieck 
aveva  presa  dal  Gozzi  l' inspirazione  della  sua 
Fiaba:  Blaubart.  «  Senza  volere  imitare  il  Gozzi, 
scrive  il  Tieck  nella  Prefazione,  il  piacere  provato 
nel  leggere  le  sue  FiabCy  m' invogliò  di  comporne 
una  in  altra  maniera  e  secondo  il  gusto  tedesco.  '  » 
Questa  prima  racconciatura  o  trasfigurazione  del 
Gozzi,  che  di  circa  sei  anni  precedette  quella  dello 
Schiller  con  la  Turandot,  fu  acremente  censurata 
dall'  Haym.  Nel  Tieck,  che  tratta  alla  Shakespeare 
la  Fiaba,  e  le  presta  le  intonazioni,  il  colorito,  la 
passione  del  dramma  storico,  e  nello  Schiller,  che 
senza  spogliarla  del  tutto  del  suo  carattere  mera- 
viglioso dà  sentimenti  e  sembianze  nobilmente  poe- 
tiche ai  suoi  personaggi,  l'Haym  ravvisa  un  cri- 
terio artistico  sbagliato,  perchè  ogni  fiaba  è  essen- 
zialmente un  po' parodia  della  forma  drammatica 
vera  e  quindi  anche  quel  tanto  di  burattinesco,  che 
hanno  le  Maschere  del  Gozzi,  e  quel  che  d'ab- 
bozzato e  di  grossolano,  che  ha  la  sua  fiaba,  s' ac- 
cordano meglio  coli'  indole  di  essa,  che  non  le 
forme  drammatiche  del  Tieck  e  le  schiettamente 
poetiche  dello  Schiller.  Fra  i  tre  chi  è  più  nel 
giusto  è  Carlo  Gozzi,  che   unisce  il  burlesco  al 


'  Lyceum  der  Schónen  Kùnste,  1797.  Cf.:  Kobersiein, 
Grundnisi  der  Geschichte  der  deutschen  National  Littera- 
tur,  fìaod  Ul  4  AuBage,  P.  3347. 

«  L.  Tieck,  Schriaen.  (Berlin  1828)  Vorbericht  I  Band, 
ptg.  VII,  in  relazione  alla  sua  fiaba  Blaubart^  che  è  del  1796. 

Masi.  i 


CXXX  PREFAZIONE. 

fantastico.  \  Uguale  censura  vien  mossa  allo  Schil- 
ler in  alcune  osservazioni  sulla  Turandot  premesse 
all'edizione  di  Stuttgart  del  1867.  Dopo  avere 
terminata  la  Pulcella  <P  Orléans^  lo  Schiller  mise 
mano  nell'autunno  del  1801  alla  Turandot,  non 
secondo  l' originale  del  Gozzi,  bensì  sulla  versione 
del  Werthes,  per  levarne  una  commedia,  che  fii 
rappresentata  a  Weimar  il  30  Gennaio    1802,  na- 

.  talizio  della  Duchessa.  Allo  Schiller  mancavano  i 
grandi  attori  italiani,  sui  quali  poteva  contare  il 
Gozzi,  gli  mancava  quella  vena  di  umorismo,  di 
cui  era  ricco  il  Gozzi,  e  appena  avea  tentato  qual- 
che saggio  di  tal  genere  nel  Campo  di  Wallen- 
stein.  Smorzò  quindi  tutto  il  burlesco  della  Fiaba 

,  e  insistette  di  soverchio  sulla  nota  patetica  senza 
mutar  poi  nulla  alla  sostanza  del  dramma;  *  Co- 
munque, lo  Schiller  stesso  rivela  in  due  lettere  al 
Kòrner,  del  2  e  16  Novembre  1801,  quali  furono 
i  suoi  propositi*  nel  mettersi  a  questo  lavoro.  La 
riduzione  della  Turandot  fu  per  esso  un  riposo 
ed  un'  occasione  felice  di  procurare  con  poca  fa- 
tica una  gran  novità  al  teatro  di  Weimar.  I  suoi 
versi  e  pochi  abili  ritocchi   avrebbero   rialzato  di 

I  R.  HaVm,  Die  romantische  Schuie.  Ein  Beitrag  zur  Ge« 
schicbte  des  deutcben  Geistes.  (  Berlin-Gaertner  1870)  Erst 
Bucl^  Die  Màrchen  und  Komódiendichtung,  pag.  91-93. 

«  Schillcrs  Werke  (Stuttgart  1867)  VU  B.  pag.  X,  XI.  Il 
Prof.  Guerzooi  nel  suo  Teatro  ItaU  nel  Secolo  XVIIl  af- 
ferma che  Io  Schiller  tradusse  giovinissimo  la  Turandot. Ma' 
lo  Schiller  era  nato  nel  1759.  Avea  dunque  42  anni  ed  era 
Teramente  nella  piena  maturità  del  suo  genio. 


PREFAZIONE.  CXXXI 

tono  il  fondo  poetico  della  Fiaba  del  Gozzi  e  tolta 
ai  personaggi  quella  rigidità  automatica  da  mano- 
nette,  che  non  poteva  piacere  ad  un  pubblico, 
com'  era  quello  del  teatro  di  Weimar.  Ma  neppure 
il  KOrner  si  capacitò  di  quest'  idea  dello  Schiller 
e  gli  scriveva  il  15  Febbraio  1802  che  confrontando 
la  sua  riduzione  con  la  Fiaba  del  Gozzi  preferiva 
anch'esso  il  Gozzi,  quasi  per  le  stesse  ragioni, 
che  adduce  V  Haym.  *  Fra  questi  contrasti  e  queste 
racconciature  il  vero  Gozzi  s'  andava  via  via  tra- 
sfigurando. La  parte  burlesca  delle  sue  fiabe  e^a 
presa  sul  serio,  la  parte  seria  (o  che  tale  almeno 
era  stata  nella  mente  del  Gozzi)  si  considerava 
un  difetto  da  emendare  od  una  concessione  da  lui 


1  Schiller  's  Briefwechsel  mit  Kòrncr,  Zweìt:  Theil: 
1793-1803  (Leipzig  1878),  Briefen  9  Nov.  1801,  i6Nov.  1801; 
Kórner,  15  Febb.  1Q02.  Al  Gozzi  (checché  si  possa  pensare 
della  riduzione,  che  lo  Schiller  fece  della  Turandot)  toccò  certo 
colla  traduzione  dello  Schiller  un  grande  e  invidiabile  onore. 
Ma  gliene  toccò  forse  uno  maggiore  ancora,  che  si  rileva 
dalla  corrispondenza  dello  Schiller  col  Goethe.  Vedi:  Brief- 
wechsel ^wischen  Schiller  und  Goethe^  in  dem  lahren  i  jg^ 
bis  i8o5,  Zweìter  Band.  (Stuttgart  1870)  Briefen  832,  834, 
835,  837,  838,  85 1,  934.  Da  queste  lettere  si  rileva  che  il 
Goethe  si  occupava  della  rappresentazione  della  Turandot, 
che  dal  Gennaio  del  1802  essa  fu  rappresentata  a  Weimar 
molte  volte  in  quelPanno,  nel  seguente  e  nelPanno  1804. 
,1  due  maggiori  ingegni  poetici  della  Germania  si  occupavano 
amorosamente  di  quest^  opera  del  nostro  Gozzi,  -curavano  ogni 
particolarità  della  recita  e,  quasi  per  esercizio  di  fantasia,  si 
divertivano  a  variare  gli  enigmi,  che  Turandot  deve  proporre 
al  Principe  Kalaf.  Dico  che  si  occupavano  di  un^  opera  del 
nostro  Gozzi,  perchè,  toltone  lo  stile  poetico,  che  variò  molto, 
lo  Schiller  veramente  tradusse  la  Turandot. 


CXXXII  '   PREFAZIONE.   ' 

fatta  al  mal  gusto  italiano.  Però  P  opinione  dei 
poeti  e  critici  tedeschi  si  determinava  sempre  più 
in  favore  4^1  Gozzi.  ^  Prima  ancora  che  il  sommo 

'  ^  Intorno  alle  molteplici  traduzioni  e  riduzioni  dei  lavori 
teatrali  del  Gozzi  in  Germania  V  illustre  Bibliotecario  di  Wei- 
mar, Sig.  Dott.  Reinhóld  KOhler  (alla  cui  squisita  cortesia  m'è 
caro  professarmi  pubblicamente  gratissimo  di  molte  altre  ia- 
dicazioni  e  notizie  intorno  al  Gozzi)  mi  comunicava  nel  1881 
I  dati  seguenti: 

•^  Theatrauschb  Werks,  (Ediz.  di  Berna  già  citata). 

—  Wie  man  sich  die  Sache  denkt!  oder  Die  {wei  schla- 
flosen  Ndchte.  Ein  Schauspiel  in  fQnf  Àkten  von  Karl  Gozzi. 

FOr'das  deutsche  Theater  bearbeitet  von  F.  G.  Dyk.  (Leip- 
zig 1780). 

—  Das  dPFSMTLicH  Gbheimnisz.  Eìtt  Lustspìel  in  drei 
Akten  nach  Go\\i  von  F.  W.  Gótter  (l-eipzig  1781). 

-^  Die  GlaMichen  Bettler^  ein  tragisch-comisch  Mflr- 
chen  in  drey  Aufzugen  nach 'Carlo  Gozzi.  Aus  tausend  und 
einem  Tag  fQrs  deutches  Theater  bearbeitet  von  K.  F.  Zim- 
dar,  deutschen  Schauspieler  (Frankfurt  a  Main  1784). 

—  Turandot,  Prinzessin  von  China.  Ein  tragicomisches 
Wirchen  nach  Gozzi  von  Schiller  (TQbfngen  1802). 

—  Der  Rabe.  Dramatisches  Mftrchen  aus  dem  italienischen 
des  Karl  Gozzi  von  G.  A.  Wagner  (Leipzig  1804). 

^^  Mftrchen  nach  Gozzi  von  Cari  Shreckfuss.  (Berlin  1805). 

—  Die  glQcklichen  Bettler.  Morgenl&ndisches  Mfirchea  in 
drei  Acten  frei  nach  Carlo  Gozzi  fùr  die  BQhne  bearbeitet 
von  Paul  Heyse  (Berlin  i867). 

—  Riduzioni. 

—  Die  zwei  feindselingen  Brader.  Tragisches  Lustspiel. 
(Leipzig  1782):. 

—  F.  E.  Rambach.  Die  drei  Ràthseln.  Tragikomddie  nach 
Gozzi.  (Leipzig  1799). 

—  G.  N.  Bàrmann.  Die  glQck lichen  Bettler  (Leipzig  18 rg). 

—  K.  Blum.  Das  gekannt  Geheimniss.  (Berlin  1841). 

—  Italiftnisches  Theater,  Qbersetzt  von  Wolf  Crafen  Ban- 
dissin  (Leipzig  1877).  Vi  sono  tradotti  il  Corvo  ed  il  Re 
Cervo  del  Gozzi. 


PREFAZIONE.  .  CXXXIII 

pontefice  dei  Romantici  tedeschi,  Agostino  Gu- 
glielmo Schlegel,  pigliasse  nel  1808  sotto  le  sue 
grandi  ali  la  gloria  di  Carlo  Gozzi,  uno  storico 
letterario  insigne,  Federico  Bouterwek,  nel  1802, 
pronunciava  sul  Gozzi  un  giudizio,  per  molti  lati 
giusto  e  definitivo.  Con  acuto  intuito  il  Bouter- 
wek  congiunge  quella  eh'  egli  '  chiama  la  rivolu- 
zione teatrale  del  Gozzi  alla  commedia  popolare 
del  Ruzzante»  Questi  avea  tentato  nel  secolo  XVI 
di  nobilitare  la  commedia  dell'  arte  ed  il  Gozzi 
ripiglia  tale  tentativo  in  onta  al  Goldoni,  e  quasi 
per  burla,  poi  lo  continua  per  genio  e,  si  direbbe,, 
inconsapevolmente.  A  voler  conservare  la  comme- 
dia dell'  arte  bisogna  non  toglierle  il  suo  carattere 
di  spettacolo  irregolare  e  bizzarro  e  nel  tempo 
stesso  nobilitarla  con  lo  spirito  e  l' ingegno.  È  ap- 
punto ciò  che  il  Gozzi  ha  fatto  ed  applicare  a 
lui,  per  criticarlo,  la  precettistica  della  commedia  e 
della  tragedia  regolare  varrebbe  quanto  giudicare. 
r  Orlando  Furioso  alla  stregua  dell'  Iliade.  La 
mescolanza  d' estemporarieo,  di  serio  e  di  burlesco, 
che  il  Gozzi  conserva  della  commedia  dell'arte  e 
maneggia  con  buon  gusto  ed  abilità,  è  il  suo 
maggior  titolo  di  gloria.  Non  e'  è  pantomima  buf- 
fonesca eh'  egli  non  sappia  concepire  poeticamefite, 
e  se  non  si  può,  come  qualcuno  ha  preteso,  pa- 
ragonarlo allo  Shakespeare,  le  sue  Fiabe^  sotto  certi 
aspetti,  sono  superiori  a  tutte  1'  altre  commedie,  e 


OXXXIV  PREFAZIONE. 

tragedie  italiane  del  tempo.  ^  Più  giusto  a  que- 
st'  ultimo  riguardo  e  più  largo  era  stato  il  giudizio 
del  Goethe,  che  anch'esso  avea  veduto  come  la 
forza  della  Commedia  delV  arte  consistesse  nella 
riproduzione  istantanea  di  tipi  e  scene  popolari, 
in  questa  specie  d'identità  fra  piazza  e  teatro,  e 
come  la  mescolanza  di  patetico  e  di  burlesco  delle 
Fiabe  del  Gozzi  fosse  in  relazione  al  carattere- 
Veneziano  e  perciò  avea  conchiuso  che  l'unione 
delle  Maschere  con  le  figure  tragiche,  rinnovata 
dal  Gozzi,  era  il  vero  spettacolo  che  conveniva 
agli  Italiani  Ma  questa  sua  ammirazione  (in  cui 
entra  per  molto  la  curiosità  soddisfatta  del  tou- 
riste,  che  si  diverte)  non  gli  avea  impedito  di 
giudicare  una  commedia  di  costume  Veneziano  del 
Goldoni  un'  opera  d' arte  perfetta.  «  Posso  dire  fi- 
nalmente, scrive  il  Goethe,  d' aver  vista  una  com- 
media l*  »  Ed  ora  ascoltiamo  l'oracolo  dei  È.o- 
-  mantici  nella  traduzione  del  nostro  Gherardini,  il 
quale,  sentendo  un  cosi  gran  personaggio  lodare 

1  F.  BouTERWBK.  Geschichte  der  Poesie  und  Beredsamkeit 
KQnste  und  Vissenschaften,  Zweiter  B.  Carlo  Go^^^i  p.  484- 
491.  (Gottìngen,  F.  Rower,  1802). 

t  QoBTHB,  Italiftnische  Reise,  Briefen  4  Oct  1786,  6  Oct» 
1786,  IO  Octób.  1786.  In  una  lettera  del  5  Ottobre  1786  da 
Venezia  il  Goethe  scrive:  «  Esco  ora  dalla  tragedia  e  rido 
rincora.  Bisogna  chMo  vi  racconti  subito  questa  buffonata. 
L.^  autore  ha  cucinato  insieme  tutti  i  matadors  tragici  e  gli 
•attori  hanno  recitato  bene.  Il  più  delle  situazioni  era  noto, 
jilcune  nuove  e  felicissime.  Due  padri  che  si  odiano  e  da 
queste  famiglie  divise  figli  e  figlie,  che  si  amano  ed  una  cop- 
pia maritata  in  segreto.  Gli  orrori  e  le  crudeltà  si  succedono. . 


PREFAZIONE.  CXXXV 

uno  scrittore,  pel  quale  egli  non  avea  alcuna  sim- 
patia, e  deprimer  altri,  eh'  egli  avea  in  buon  con- 
cetto, consigliava  agli  Italiani  di  consolarsi  vedendo 
<  onorato  di  lodi  e  d' ospizio  ancora  quello  che 
per  poco  da  noi  si  rifiuta.  *  »  Strano  modo  di 
commentare  lo  Schlegel,  che  in  mezzo  ai  domma- 
tismi  ed  alle  esagerazioni  della  scuola  dice,  anche 
a  proposito  del  Gozzi,  cose  ^  assai  belle  e  giuste. 
«  Questo  autore,  scrive  lo  Schlege},  diede  la  forma 
dramatica  a  veri  racconti  di  Fate  e  vi  fece  cam- 
minar di  fronte  una  parte  seria  e  poetica  con  una 
parte  grottesca,  ove  tutte  le  Maschere  avevano  il 
loro  pieno  sviluppo;  simili  commedie  sono  d'un 
effetto  il  più  grande  che  mai.  Sono  esse  ordite 
con  estremo  ardimento,  l'invenzione  è  piuttosto 
originale  che  romantica;  e  tuttavia  sono  in  Italia 
le  sole  composizioni  dramatiche  ove  regnino  i  sen- 
timenti dell'  onore  e  dell'amore.  L' esecuzione  poco 
elucubrata  di  queste  commedie  dà  loro  l'aspetto 
d'  un  abbozzo  tirato  giù  come  la  penna  getta  ;  ma 

Fiaalmente  Punica  via  d^ assicurare  la  felicità  dei  due  gio- 
vani è  che  i  due  padri  s^ ammazzino  fra  di  loro,  su  di  che 
il  aipario  cala  fra  gli  applausi.  •  Il  pubblico  vuol  riveder  tutti 
gli  attori  e  grida:  fuori  i  morti,  bravi  i  n^orti  E  i  morti  si 
mostrano  anch^essi.  —  Ludovico  Geiger  nelle  Note  alP //a* 
lidnische  Reise  del  Goethe  (Berlin  1879)  suppone  che  la 
Tragedia,  di  cui  parla  il  Goethe,  sia:  La  Punizione  nel  Prc 
cipv{io  del  Gozzi,  e  poiché  le  indicazioni  non  combinano  per- 
fettamente, dice  che  il  Goethe  forse  non  intese  bene  del 
tutto.  Io  ho  tentato,  ma  inutilmente,  di  accertare  il  fatto. 

1  Corso  di  Letteratura  Dramatica  di  A.  G.  Schlegel.  — 
Traduz.  It.  con  Note  di  G.  Gherardini.  (Milano  1844). 


GXXXVI  PREFAZIONE. 

un  tale  abbozzo  è  pieno  d^  immaginazione,  i  tratti  ' 
rie  sono  fermi  e  robusti,  tutti  i  colori  vivi  e  spie* 
catì,.  e  li  oggetti,  che  esso  rappresenta,  colpi- 
scono per  modo  la  fantasia,  che  il  popolo  vi  piglia 
grandissimo  diletto....  Nelle  prime  opere  del  Gozzi 
il  maraviglioso  della  stregoneria  faceva  un  sor- 
prendente contrasto  col  maraviglioso  della  natura 
umana,  cioè  a  dire  con  la  bizzarra  follia  deMiffe- 
renti  caratteri,  sì  fortemente  ritratta  dalle  Ma-- 
schere....  Questa  capricciosa  imitazione  della  vita, 
o  ne  mostrasse  il  lato  ridicolo,  o  vero  il  lato 
serio,  oltrepassava  la  realtà  in  tutti  i  versi....  Le 
sue  Maschere  burlesche  rappresentavano  quella 
parte  prosaica  dell'  umana  natura  che  mette  in  ri- 
dicolo la  parte  poetica,  ed  erano  la  pèrsonificazionf 
dell'  ironia.  '  »  £lertamente  questo  giudizio  amplifica 


*  Corso  di  Leit.  cit.  Lezione  IX.  Su  questo  'argomento 
deìÌQ, Maschere  nella  Commedia  un  ricordo  prezioso  è  nel- 
V  Epistolario  di  Gino  Capponi,  Voi.' III.  A  Giovanni  Morelli,* 
ora  celebre  critico  d'arte,  e  che  dopo  il  i848,  fra  altri  studi» 
vagheggiava,  si  vede,  di  comporre  «  commedie  politiche  e  ari- 
stofaniche  »  il  Capponi  scrive:  «  Le  maschere  sono  cosa  ri- 
spettabilf»:  tutta  P antica  commedia  erano  maschere,  ed  erano 
poi  caratteri  belli  e  fatti;  il  vecchio,  il  servo  etc,  e  qualche 
volta  peggio.  Perchè  siamo  usciti  da  cotesto  modo^  s'  è  fottoi 
invece  di  commedie,  o  melodrammi  o  dissertazioni.  Sareb- 
b*egli  poi  tanto  difficile  creare  il  Brighella  liberale,  e  P  Ar- 
lecchino diplomatico,  e  Pantalone  il  povero  popolo  ec  ec? 
Insomma  vj  pensi.  Nelle  società  tranquille  si  fa  la  commedia 
di  carattere,  perchè  ciascuna  personalità  ha  luogo  di  hni 
prominente:  nelle  agitate  da  certe  idee  comuni,  jn  quelle 
cioè  che  danno  campo  alla  commedia  politica,  gli  esemplari 
sono  più  ristretti;  e. si  potrebbe  dire  e  dimostrare,  che  Ari- 


PREFAZIONE.  CXXXVII 

e  trascende  T intenzione  dell'arte,  che  era  possi- 
bile colla  qualità  e  misura  d' ingegno  e  coli'  edu- 
cazione letteraria  di  Carlo  Gozzi,  ma  contiene 
pure  gran  parte  di  vero  in  ciò,  se  non  altro,  che 
concorda  coi  giudizi  del  Goethe  e  del  Bouterweck. 
Linee  più  sfumate  e  più  vaghe,  apprezzamenti  più 
soggettivi  e  metafisici  trovansi  in  altri  umoristici 
e  Romantici  tedeschi  a  proposito  del  Gozzi.  Alle 
estrìnseche  bellezze  della  Turandot  attribuiva  im- 
portanza grandissima  il  fantastico  Hofifmann,  del 
quale  alcuni  fanno  un  imitatore  del  Gozzi.  *  L'HofF- 
mann,  in  un  suo  Dialogo  intitolato  :  Tribolazioni 
éPun  Direttore  di  Teatro^  loda  sopratutto  il  biz- 
zarro contrasto  che  passa  fra  1^  poetica  Turandot 
e  la  bonomia  comicamente  volgare  del  padre  di 
lei.  Se  la  Turandot  è  rappresentata  da  una  bella 
attrice,  quel  suo  sollevare  improvvisamente  n  velo, 
che  la  copre  agli  occhi,  del  principe  Kalaf,  deve 
produrre  un  effetto  irresistibile  e  costringere  gli 
spettatori  ad  esclamare  estatici,  come  il  Kalaf,  ful- 
minato da  quello  sguardo  divinamente  superbo: 
«  Oh  bellezza!  oh  splendori  »  Parimente  la  gra- 
vità comica,  la  figurina  Chinese  d'Altoum,  padre 
di  Turandot,  esilara  opportunamente  e  bilancia  il 


stofone  ha  quelle  maschere  che  intendo  io,  e  non  i  veri  ca- 
ratterì  a  uso  Menandrb,  o  Molière  o  Goldoni.  »  Fatta  ragione 
della  diversità  dei  tempi  e  dei  fini  della  satira  comica  di  Carlo 
Gozzi,  il  concetto  proposto  dal  Capponi  al  Morelli  combina 
in  parte  con  ciò  che  il  Gozzi  tentò  in  alcune  sue  Fiabe, 
^  Vedi  lo  Chasles  è  il  De  Musset  Opere  cit. 


CXXXVm  PREFAZIONE. 

patetico  della  Fiaba.  A  ciò  non  ha  badato  lo  Schiller, 
che  per  colmo  d'  errore  ha  ridotto  le  Maschere  a 
figure  scolorite  ed  insulse.  Ed  in  altre  Fiabe  del 
Gózzi,  nelle  Tre  Melarance^  nel  Corvo,  nel  jRe 
Cervo  che  grandezza,  che  profondità,  che  vita! 
Non  e  ben  chiaro  però  se  fra  tutti  questi  entu- 
siasmi lo  strano  umore  dell' Hoffmann  non  na- 
sconda anche  qualche  intenzione  beffarda,  poiché 
nel  suo  Dialogo  il  più  acceso  partigiano  del  Gozzi 
è  direttore  d' un  teatro  di  marionette.  ^  Di  tale  du- 
plicità non  può  essere  sospettato  Francesco  Horn, 
il  Romantico  cristianeggiatore  dello  Shakespeare, 
cosi  crudelmente  sbertato  da  Arrigo  Heine  nel- 
V  Atta  Troll.  Figurò  nelle  conversazioni  dei  Tè 
Estetici  di  Berlino  ai  tempi  della  restaurazione  e 
scrisse  in  forma  di  lettere  un  libretto  su  Carlo 
Gozzi.  Comincia  dall'  esaminare  le  Tre  Melarance. 
In  questa  fiaba,  secondo  P  Horn,  la  satira  del  Gozzi 
è  obbiettiva,  mira  più  in  alto  che  al  Goldoni,  avver- 
sario non  degno  di  lui,  ed  anche  tolta  la  satira  al 
Goldoai,  le  Tre  Melarance  rimarrebbero  pur  sem- 
pre una  grande  creazione  poetica.  Guai  a  chi  tocca 
(  e  valga  V  esenipio .  dello  Schiller  )  a  quel  quid 
medium  del  Gozzi  tra  il'  fantastico  e  il  comico,  a 
cui  nulla  mancherebbe,  s' egli  sapesse  trattare  con 
ugual  forza  il  patetico.  Nelle  Melarance  il  genio 

\ 

^  Seltsame  Leiden  eines  Theater  Director.  Aus  mOodlt- 
cher  Tradition  mitgethetU  von  Verfasser  der  FantasiestQcke 
in  Callots  Manier.  (Berlin  1819  io  der  Maurerschen  Buphhaod- 
lung). 


PREFAZIONE.  CXXXIX 

del  Gozzi  si  mostra  sull'  orizzonte,  nel  Corvo  è . 
già  allo  ![enith  della  grand'  arte  Romantica,  nella 
Turandot  tramonta,  ma  non  tanto  per  colpa  sua 
quanto  per  quella  degli  avversari,  ai  quali  egli 
ebbe  la  debolezza  di  sacrificare  il  soprannatu- 
rale, il  meraviglioso  magico  delle  prime  sue 
Fiabe.  Nel  Gozzi,  nonostante  i  suoi  mancamenti, 
r  Horn  vede  adempiuto  l' ideale  della  poesia  Ro-* 
mantica^  il  quale  è  libertà  assoluta,  è  l'eroismo 
che,  sciolto  da  ogni  vincolo  di  fatalità  o  di 
circostanze  esteriori,  rispecchia  tranquillamente 
r  umanità.  Il  Romantico  è  l' equazione  del  dilet- 
tevole e  del  sublime  che,  scompagnati,  smezzano 
l'impressione,  da  cui  deve  esser  tocca  tanto  la 
sensualità,  quanto. la  spiritualità  dell'uomo.  Così 
la  luna  splendente  nel  cielo  sereno  è  bella,  ma 
intorbidata  da  qualche  nuvola,  che  le  passi  dinanzi,. 
è  romantica;  così  un  gruppo  di  maestose  rovine 
per  sé  solo  è  sublime,  lùa  posto  in  mezzo  ad  un 
paesaggio  ridente  è  romantico.  Il  medesimo  dicasi 
del  genio  poetico  del  Gozzi.  Neil' Horn,  come  si 
vede,  la  trasfigurazione  romantica  dì  Carlo  Gozzi 
è  compiuta.  ^  E  dinanzi  a  tal  sorta  di  miraggi  este- 
tici non  sembra  più  esagerato  né  il  giudizio,  più 
etnografico  ?he  letterario,  del  Goethe  (che  taluno 
pretende  abbia  imitato  il  Gozzi  nel  suo    Trionfo 

I  F.  HoBN.  Ueber  Carlo  Gozzi  ^s  dramatische  poesie,  in- 
«onderheit  Qber  dessen  Turandot  und  die  Schillersche  Bear- 
beicung  dieses  Schauspiels.  Briefen.  (Peoig.  1803  bey  F.  Die- 
nemaon  und  Comp.) 


CXL  PREFAZIONE. 

della  Sensibilità  *  )  né  la  sentenza  di  Agostino  Gu- 
glielino  Schlegel,  la  quale  niassimamente  si  rife« 
risce  alle  affinità  del  Gozzi  coli'  eroismo,  le  fan- 
tasmagorie e  le  avventure  della  commedia  di  cappa 
e  spada  nel  Teatro  Spagnuolo.  E  la  fortuna  del 
Gozzi  segue  le  vicende  e  il  cammino  storico  del 
Romanticismo,  sicché  i  giudizi  del  Goethe  e  dello 
Schlegel*  trapassano  di  Germania  in  Francia  con 
la  Signora  di  Staél,  che  scrive:  «  il  Gozzi,  emulo 
del  Goldoni,'  é  ben  più  originale  di  questo  ne'  suoi 
componimerìti,  i  quali  poco  hanao  da  fare  con 
le  commedie  regolari.  Volle  lasciarsi  andare  fran- 
camente al  genio  italiano  e  drammatizzare  i  rac- 
conti delle  Fate;  mescolare  le  bufiFonate  e  le  ar- 
lecchinate al  meraviglioso  dei  poemi;  non  imi- 
tare in  nulla  la  natura,  ma  scrivere  a  grado  delle 

*  W.  Freiherr  von  Biedermann,  Goethes  Forschungen. 
(Frankfopt  .am  Mein  1879.) 

*  Il  Gherardini  nelle  Note  allo  Schegel  riporta  dal  gior- 
nale Milanese:  la  Biblioteca  Italiana  (Fascicolo  di  Dicem- 
bre 1816  Tom.  IV  pag.  515  )  la  notizia  che  neiP  Università 
di  Halle,  in  Germania,  i  Professori  Waschmuth  e  Beck  spie- 
gavano alternativamente  d^Ua  cattedra  la  Divina  Commedia 

,e  le  Fiabe  dei  Gozzi.  Su  questo  importante  proposito  P  illu- 
stre Dott.  R.  Kóhlèr  mi  scriveva:  «  Da  Halle  ho  saputo  che 
Guglielmo  Waschmuth,  il  noto  storiografo,  morto  a  Lipsia 
nel  1866,  lesse  nel  Semestre  invernale  del  18 16,  ad  Halle, 
dov^  era  professore  Universitario  di  Lingua  Italiana  ed  In- 
glese, sulle  Fiabe  del  Gozzi.  Dal  resoconto  officiale  non  ri- 
sulta che  abbia  letto  anche  su  Dante.  11  Peck,  anch^esso  in 
quel  tempo  Professore  ad  Halle,  lesse  sulla  Secchia  Rapita 
del  Tassoni,  sul  Bugiardo  e  i  Due  Gemelli  del  Goldoni,  e. 
sulle  Satire  delP  Ariosto.  • 


PREFAZIONE.  •       CXLI 

più  pazjce  fantasie,  delle  chimere  della  fiaba  e  tra- 
scinare per  ogni  guisa  lo  spirito  degli  uditori  al 
di  là  dei  confini  dei  reale  e  del  vero.  Piacque  im- 
mensamente al  suo  tempo  ed  è  forse  l'autor  co- 
mico, il  cui  genere  meglio*  convenga  alPimmagi- 
zione  italiana.  '  »  Da  quest'  opinione  si  scosta,  il 
Sismondi,  a  cui  le  opere  teiatrali  del  Gozzi  non 
sembrano  veramente  conformi  al  gusto  italiano. 
Le  ritiene  piuttosto  una  .reazione  contro  i  pre- 
cetti classici;  ma  piglia  talmente  sul  serio  gli  in- 
cantesimi delle  Fiabe  da  assicurare  che  gli  Italiani 
non  se  ne  gloriano,  perchè,  essendo  superstiziosi, 
non  voglion  apparir  tali.  *  Giudizi  leggeri  e  me- 
schini, che  dinotano  altresì  una  mediocre  cogni- 
zione dell'argomento.  Migliori  e  certamente  più 
graziosi  e  dilettevoli  intorno  al  Gozzi  sono  i  ri- 
cami e  le  amplificazioni  romantiche  di  Filarete 
Chasles  e  di  Paolo  De  Musset.  «  Vedete  voi  qMel- 
r  uomo  alto,  pallido,  bruno,  dallo  sguardo  fisso  e 
penetrante,  dal  passo  lento,  che  nel  1780  porta  la 
maestosa  parrucca  del  1735,  i  ciondoli  d'oro  d'un 
vecchio  Senatore,  e  i  rovesci  dell'  abito  all'  antica  ? 
Egli  abita  un  palazzo,  che  casca  a  pezzi,  in  una 
repubblica,  che  fa  altrettanto;  e  non  esce  di  casa 


>  Mad.  De  StaSl,  Corinne  ou  l' lulie.  Livre  Septìeme 
Chap,  IL  pag.  140,  (Cdit.  Garnier.) 

s  SiSHOMDi,  De  la  Littérature  du  midi  de  V  Europe* 
Tom.  I.  Chap.  XIX*  Soggiunge  che  Fiaba  è  parola  impropria 
e  poco  usata  in  Italia,  del  che  giustamente  lo  deride  il  Tom- 
maseo. 


CkLII  PREFAZIONE. 

che  per  andare  a  far  visita  ai  suoi  attori  ed  alle 
sue  attrici  Egli  s'  affaccia  tra  le  quinte  del  palco 
scenico  e  tutta  quella  brava  gente  è  a' suoi  piedi; 
l'Arlecchino  gli  si  prosterna,  la  prima  donna  gli 
fa  riverenza,  il  direttore  gli  fa  recare  un  sorbetto; 
persino  ogni  rivalità,  ogni  gelosia  femminile  tace 
o  scompare  dinanzi  a  lui.  Ammirate  questa  grande 
figura  severa  e  malinconica  e  la  venerazione  che 
essa  inspira  a  tutta  ^  famiglia  dei  Tartaglia  e 
-dei  Pantaloni!  Perchè  tanto  rispetto?  »  Carlo 
Goz?i  (continua  lo  Chasles,  e  lo  compendio  in 
breve)  è  uno  di  que'genj  che  spuntano  ad  ora 
fissa  per  incarnare  in  sé  stessi  tutto  un  momento 
storico.  Il  Gozzi  è  P  ultimo  discepolo  della  Spa- 
gna eroica,  l'ultimo  possessore  della  vena  ironica 
e  fantasiosa  dei  poemi  cavallereschi;  egli  rappre- 
senta da  solo  la  decadenza,  la  servitù  civile  e  la 
potenza  passata  di  Venezia,  la  cui  storia  comincia 
come  una  leggenda,  continua  come  un  racconto  di 
Anna  Radcliffe  e  termina  come  un  romanzo  del- 
l'Aretino.  Posto  sul  limitare  d'un  rinnovamento 
sociale  protetto  dai  filosofi,  il  Gozzi  combatte  le 
ultime  battaglie  in  favore  del  Medio  Evo,  che 
stava  per  essere  distrutto.  ^  Insomma  un  Goetz  di 
Berlichingen  letterario  o  poco  meno!  A  critici  im- 
maginosi non  c'è,  come  sogliono  dire  gli  Inglesi, 
autore  più  suggestive  del  Gozzi,  cioè  che  oflBra 
loro  maggior  copia,  varietà  e  possibilità  di  com- 

1  Chasles,  Étudessur  l' Espagne,  cit.  D' un  Thèatre  Espa- 
gnol-Vehitien  etc.  etc.  cit. 


PREFAZIONE.  CXLHI 

menti,  di  illustrazioni  e  dì  amplificazioni  fantasti- 
che e  bizzarre.  Paolo  De  Musset,  fra  molte  osser-? 
vazioni  ingegnose  e  fine,  è  uno  di  quelli  che  più 
vi  lavorano  intorna  di  fantasia.  Ha  un'  idea  fissa, 
che  nel. Gozzi  sia  del  Molière  e  dell'Aristofane, 
fusi  insieme.  A  sentire  il  De  Musset,  Carlo  Gozzi 
non  avrebbe  dimandato  di  meglio  che  metter  alla 
gogna  sul  palco  scenico  del  San  Samuele  i*  Dogi, 
i  Dieci,  gli  Inquisitori,  tutti  quei  mercantacci  su- 
perbi del  Libro  cP  Oro;  non  lo  trattenne  che  la 
paura  d'essere  strangolato  a  sessanta  piedi  sotto 
terra  o  dato  in  pascolo  alle  zanzare  dei  Piombi 
del  Palazzo  Ducale.  II  che  prova  che  il  De  Musset 
s'è  formata  un'idea  molto  inesatta  del  Gozzi,  il 
quale  era  uomo  invece,  che  avrebbe  veduto  stran- 
golare volentieri  e  dare  in  pascolo  alle  zanzare 
dei  Piombi  chiunque  avesse  messa  in  forse  la  in- 
fallibilità politica  dei  Dogi,  dei  Dieci,  degli  Inqui- 
sitori e  dei  Patrizi  del  Libro  d^  OrOj  e  ciò  non 
per  mal'  animo,  ma  perchè  il  Gozzi  adorava  la 
sua  vecchia  Repubblica,  come  i  secoli  l'aveano  fatta, 
ed  avea  in  orrore  tutti  i  novatori  politici  e  filo- 
sofici d'ogni  tinta.  U  De  Musset  riscontra  poi  af- 
finità moltissime  fra  i  personaggi  dei  Racconti 
Fantastici  dell'  Hofifinann  e  quelli  delle  Fiabe, 
delle  poesie,  dei  drammi  e  delle  Memorie  del  Gozzi; 
poi  fa  del  Gozzi  stesso  un  Hoffmann  Veneziano, 
che,  a  furia  di  far  la  parte  della  Provvidenza  e 
del  fato  con  le  creature  della  sua  fantasia,  s' im- 
merge fino  alla  gola  nel  mondo  dei  sogni,  ed  ogni 


CXLIV  PREFAZIONE, 

realtà  gli  si  trasfigura,  ogni  cosa  gli  s'illumina 
d' una  luce  magic^i,  vede  la  coda  del  diavolo  passar 
tra  le  falde  d'ogni  vestito,  e  se  qualcuno  di  lon- 
tano lo  chiaipa  per  isbaglio  con  un  nome  diverso 
dal  suo,  tosto  si  crede  in  balia  delle  potenze  m- 
fern^li.  Tutto  questo  il  De  Musset  arguisce  con 
troppa  libertà  dal  famoso  Capitolo  delle  Memorie 
Inutili,  dove  il  Gozzi  narra  delle  Stravagante  e 
Contrattempi,  ai  quali  la  sua  stella  lo  volle  sog- 
getto»^ «  Trasportate  in  Germania,  scrive  il  De 
Musset,  la  scena  dei  Contrattempi:  e^non  avete 
voi  lo  scolare  Anselmo,  che  non  può  mai  salutare 
un  gran  personaggio  senza  rovesciare  una  sedia; 
.1  piccolo  Zaccaria  colle  sue  trasformazioni;  e  il 
Consigliere  Tussmann,  che  vede  una  testa  di  volpe 
sulle  spalle  del  suo  vicino  l'orologiaio,  e  tutte 
quelle  altre  figure,  che  si  fantasmati:{^ano  nella 
luce  fumosa  delle  taverne  di  Berlino  e  di  Norim- 
berga? Negare  l'originalità  dell' Hoffm^n  non  si 
può;  ma  sino  a  qual  punto  s'è  esso  appropriata 
quella  del  Gqzzì?  In  che  misura  il  poeta  Vene- 
ziano r  ha  egli  aiutato  ad  esaltarsi,  a  mettersi  come 
fuori  di  sé  medesimo,  per  vedersi  agire,  pensare  e 
muovere  come  le  Maschere  della  commedia  del- 
l'arte?  Quanto  ha  preso  dal  Gozzi  il  Nodier,  che 
ne  ha  rifatte  le  peregrinazioni  in  Dalmazia?  Fino 
a  che  segno  giunge  l' affinità  della  Fée  aux  Miet- 
tesy  di  Trilby  e  di  tanti  altri  lavori  del  Nodier 

*  Parte  3.  Gap,  i.     ' 


PREFAZIONE.  CXLV 

con  le  commedie  Fiabesche  .e  il  Capitolo  dei  Con- 
trattempi? Turandot  e  Y  Amore  delle  Tre  Mela-- 
rance  hanno  prodotto  le  Tribola^^ioni  d^  un  Di- 
rettore di  Teatro  e  gli  articoli  sulle  Marionette, 
Neofobo  è  nipote  di  Burchiello  e  "le  sue  diatribe 
sono  venute  a  Parigi  sulla  Tartana  degli  Infltissiy 
spìnta  da  un  venticello  felice,  molto  tempo  dopo 
l'anno  bisestile  1736..,.  Leggete  le  Fiabe  senza 
timore  d'annoiarvi  !  Esse  sono  scritte  per  un  popolo 
ben  più  insofferente  ed  incontentabile  di  noi!... 
Carlo  Gozzi  sapea  nascondere  i  suoi  fini  morali  e 
letterari  sotto  le  apparenze  del  diletto  e  della  ricrea- 
zione; dietro  la  vecchia  nutrice,  che  narra  accanto  . 
al  fuoco  le  fole  ai  bambini,  s' intravvede  il  filosofo,* 
Quel  suo  insieme  di  forza  satirica,  di  buon  senso 
critico,  di  meraviglioso  orientale,  di  fantastico  e 
di  pantalonata  italiana  ha  qualche  cosa  di  strano 
e  di  sorprendente,  quanto  l' esistenza  stessa  di  Ve- 
nezia.  Questo   genio   complesso  non  potea  uscire 

che  dalla  magica  città  delle  lagune *  »   Dopo 

lo  Chasles  ed  il  Musset,  poca  o  nessuna  impor- 
tanza ha  Maurizi^  Sand,  la  cui  opera  è  più  arti- 
stica che  letteraria  e  non  fa,  a  proposito  del  Gozzi, 
che  ripetere  cose  dette  da  altri.  Soltanto  è  note- 
vole che  ricongiunge  anch'  esso  il  Gozzi  al  Ruz- 
zante e  che'  è  meno  ingiusto  di  altri  col  Goldoni. 
Del  resto  il  Sand  fa  del  Gozzi  un  ente  quasi  del 


1  P.  Db  Musset,  Charles  Gozzi  cit.   —  Revue   de   deux 
Mondes,  cit.  Tom.  IV,  1844. 

Masi.  j 


ClXLVI  PREFAZIONE. 

tutto  immaginario,  un  personaggio  di  fiaba,  che  non 
si  sa. né  quando  nacque,  né  quando  morì  e  che 
si  dilegua  in  mezzo  al  turbine  della  Rivoluzione,  in- 
sieme con  Pantalone,  Brighella,  Arlecchino,  deità 
finite  d'un  tempo  già  morto. ^  Più  che  critico, 
paesista  e  profilista  di  fantasia  é  pure  l'inglese 
Vernon  Lee,  ma  di  gran  lunga  miglior  giudice  e 
più  acuto  dei  precedenti.  Anch'essa  si  diverte  a 
variare  il  tema  dell'  Hoffmann,  dello  Chasles  e  del 
De  Musset  sul  Gozzi,  e  a  descrivere  questo  poeta 
come  un  medium  spiritico,  strumento  e  vittima 
delle  forze  occulte,  che  stanno  a  mezz'  aria  tra  il 
cielo  e  la  terra,  ma  vede  chiaro  altresì  quali  ele- 
menti dell'antica  commedia  popolare  e  dell'arte 
Carlo  Gozzi  raccoglie  e  tenta  ringiovanire,  vede 
chiaro  qual'è  nella  storia  del  nostro  teatro  la 
posizione  rispettiva  della  commedia  del  Goldoni  e 
della  Fiaba  del  Gozzi,  e  nell'  arte  poetica  di  que- 
st' ultimo  si  contenta  di  ammirare  un  forte  ab- 
bozzo drammatico  ed  umoristico,  che  il  lettore  o 
l' ascoltatore,  ricco  di  fantasia,  può  deliziosamente 
integrare  a  sua  posta,  come  l'integravano  al  loro 
tempo  la  mimica  e  l' improvvisazione  della  Com- 
pagnia Sacchi.  Chi  vuol  trovare  tutto  in  un  libro, 
non  legga  il  Gozzi.  Chi  sa  deliziarsi  invece  in 
questo  sforzo  interiore  del  compiere,  fantasticando, 
gli  informi  abbozzi  del  Gozzi,  questi  non  può  tro- 


1  M.^Sano,  Masques  et  Bouffons   (Comédie  Italienne) 
Tom.  II.  fParis,  Levy,  i86o). 


PREFAZIONE.  CXLVIl 

vare  libro,  che  gli  convenga  meglio.  Ecco  perchè 
la  Staèl,  lo  Schiller,  l' Hoffìnann  ammirano  il  Gozzi 
ed  il  grosso  pubblico  lo  lascia  andare  in  obblio. 
Ma  a  Carlo  Gozzi  non  mancò  se  non  l'arte  di 
estrinsecare  tutto  sé  stesso  nell'opera  sua.  Restò 
a  mezzo  tra  il  reale  e  il  fantastico,  tra  la  vita  ed 
il  sogno.  Vagheggiò  orizzonti  sterminati,  ma  non 
ne  colse  che  frammenti,  all'  opposto  del  Goldoni, 
che  guardava  ad  un  mondo  ristretto,  ma  con  un 
occhiata  lo  squadrava  tutto.  La  Vernon  Lee  mette 
anzi  il  Goldoni  in  più  diretto  rapporto  del  Gozzi 
con  la  tradizione  democratica  della  Commedia  del- 
l'arte  e  a  questo  rapporto  dà  colpa  della  volga- 
rità, della  mediocrità  prosaica,  che  la  infastidisce 
nella  commedia  Goldoniana.  ^ 

Esaminando  le  concordanze  dell'  antica  favola 
Tedesca  della  Turandot  con  le  ricomposizioni  fat- 
tene dallo  Schiller  e  dal  Gozzi,  un  erudito  te- 
desco di  molto  nome,  Federico  Enrico  Hagen,  pi- 
glia anch'esso  a  celebrare  la  vittoria  del  Gozzi 
sul  naturalismo  volgare  della  commedia  Goldo- 
niana. *  E  siamo  già  ben  lontani  cronologica- 
mente dagli   entusiasmi  Romantici!    Ma  la  sim- 

1  Vbrnon  Lbb,  Studies  of  the  Eighteenth  Centurj  in 
luly.  (London,  Satchell,  1880).  La  Vernon  Lee  ha  ripreso 
molto  graziosamente  questo  tema  in  una  introduzione  di  ma' 
mera  Hoffmaniesca  ad  una  sua  fiaba,  intitolata  :  The  Prince 
<^  the  hUndred  Soups. 

2  F.  H.  von  der  Hagbn,  Gesammubenten  hundert  altdeut- 
ache  Erzfthlungen.  (  Stuttgard  und  Tubingen  1830)  Bd.  3, 
pag.66. 


CXLVIII  PREFAZIONE. 

patia  dei   Tedeschi  pel    Gozzi    perdura    ostinata 
anche  fuori  delle  preoccupazioni  di  quella  Scuola.  ^ 

^  Narravami,  non  ha  guarì,  T  illustre  Marco  Minghetti 
che,  viaggiando  nel  1843  in  Germania  ed  ih  Olanda,  ebbe 
per  caso  ad  accompagnarsi  per  alcun  tempo  col  Generale 
Radowitz,  noto  scrittore  e  statista,  il  quale,  discorrendo  con 
lui  di  studi  italiani  e  tedeschi,  gli  assicurava  che,  nelle  se- 
rate di  Federigo  Guglielmo  IV  (l'antecessore  dell* attuale 
Imperatore  di  Germania ),  presenti  l'Humboldt,  il  Savigny  ed 
altri  uomini  insignì,  si  solevano  leggere  con  grandissimo  di- 
letto le  Fiabe  del  Gozzi. 

Fra  gli  ultimi  Tedeschi,  che  fanno  onorevole  menzione 
del  Gozzi,  figurano  altri  due  grandi  nomi,  il  maestro  e 
poeta,  Riccardo  Wagner,  ed  il  filosofo  pessimista,  Arturo 
Schopenhauer.  Il  primo  nella  Autobiographische  Ski:(:(e  ed 
in  Bine  Mittheilung  art  meine  Freunde^  185  it  P^i  volumi 
I  e  4  de'  Gesalmmelte  Schriften  und  Dichtungen,  (  Leipzig, 
1872)  4'ce,  fra  l'altre  cose,  che  volendo  comporre  un  me- 
lodramma sul  gusto  romantico  del  Weber  e  del  Marschner, 
prese  ad  imitare  la  Donna  Serpente  dì  Carlo  Gozzi  e,  intito- 
landola le  Fate,  non  mutò  che  lo  scioglimento  della  Fiaba, 
E  questa  un'opera  giovanile  del  Wagner,  il  quale  so  d'al- 
tronde eh'  era  e  si  mantenne  sempre  fervido  ammiratore  del 
Gozzi.  Quanto  allo  Schopenhauer,  il  mìo  amico.  Prof*  Gia- 
como Barzellotti,  dotto  espositore  delle  dottrine  del  filosofo 
tedesco,  mi  fa  notare  ch'esso  ne  parla  nel  Gap.  8  dei  Comr 
pimenti  al  Libro  I  della  sua  opera  maggiore:  Die  Welt  als 
Wille  und  Vorstellung,  dove  trattando  della  teoria  del  ri" 
dicolo,  afferma  che  questo  nasce  da  un  disaccordo  repentino 
tra  una  realtà  qualsiasi  ed  il  concetto,  sotto  cui  tale  realtà 
è  richiamata.  E  cita  in  proposito  la  scena  3*  dell'atto  40  della 
Zobeide^  in  cui  Trufialdino  e  Brighella,  dopo  essersi  basto- 
nati di  santa  ragione,  si  pacificano  ed  applicano  a  sé  il  noto 
verso  dell'Ariosto:  O  gran  bontà  de*  Cavalieri  antiqui,  eoa 
quel  che  segue.  Nel  Gap.  32  dei  Compimenti  al  3®  libro  della 
Opera  suddetta,  trattando  della  pa:{:(ia^  lo  Schopenhauer  la 
fa  consìstere  in  una  malattia  della  memoria.  Non  poter  ri- 
prodursi in  mente  con  precisione  un  fatto  od  un  sentimento 


PREFAZIONE.  CXLIX 

Nel  1859  lo  Schnakenburg  ha  trattato  nuova- 
mente del  Gozzi  e  del  suo  teatro,  e  benché  ac- 
cusi d' esagerazione  la  critica  Romantica  e  di- 
mostri, al  pari  del  Tommaseo,  che  Carlo  Gozzi 
somigliava  tanto  poco  ad  Aristofane,  quanto  Ve- 
nezia ad  Atene,  pure  confessa  che  il  Gozzi  con 
arte  potente  adescò  la  plebe  con  la  volgarità  delle 
sue  forme,  la  gente  colta  con  le  sapienti  allegorie 
delle  sue  favole,  e  perciò  prese  posto  nella  fa- 
miglia secondaria  dei  fantastici  e  degli  umoristi, 
in  quella  dei  Rabelais,  degli  Aretino  e  degli  Sterne, 
dove  gli  spiriti  magni  d'Aristofane  e  dello  Sha- 
kespeare passano  a  volo  talvolta  o  si  soffermano 
appena.  '  Non  si  ribellò  veramente  a  questo  quasi 
generale  consenso  che  l'arruffato  storico  del  Tea- 
tro, 11  Klein,  il  quale  assalisce  il  Gozzi  in  nome 
di  quel  liberalismo  politico  borghese  che,  fino  a. 
pochi  anni  sono,  si  riteneva  arbitro  delle  magni- 
Jiche  sorti  e  progressive  del  genere  umano,  ed 
era  intollerantissimo  anche  in  arte.  Nulla  il  Klein 
concede  al  Gozzi,  ne  come  uomo,  né  come  poeta^ 
sicché  confonde  in  un  odio  solo  gli  Schlegel  feu- 

passato  è  un  fenomeno  già  prossimo  alla  pazzia.  Ed  anche- 
qui  dia  la  scena  2*  dell'  atto  i«  del  Mostro  Turchino,  in 
cui  Smeraldina  e  Truffaldino,  i  quali  per  una  bevanda  in- 
cantata smarriscono  issofatto  ogni  memoria  del  loro  amore,, 
sono  dal  Gozzi  rappresentati  per  pazzi. 

*  Archiv  fQr  der  Neueren  Spracben  und  Litterature.  — 
Herausgegebcn  von  L.  Hcrric.  U<ber  Carlo  Go^:(i  und  sein 
Theater  von  J.  F.  Schnakenburg.  —  1859,  XIV  Jahrganj^ 
26  Bd. 


CL  PREFAZIONE. 

daii,  il  Conte  Gozzi^  e  Napoleone  III,  l' ultimo  dei 
Cesari,  e  si  scaglia  contro  lo  Schack^  il  quale  ebbe 
il  coraggio  di  chiamar  il  Gozzi  il  più  grande 
poeta  drammatico  (jler  gròsste  dramatische  Di- 
chier)  ^  dell'  Italia.  Il  Gozzi  è  un  volgare  im- 
piastricciatore  di  colori.  Nessuno  loda  più  questo 
aristocratico  retrivo,  salvo  qualche  sperduto  fan- 
taccino della  vecchia  falange  macedonica  degli 
Schlegel.  '  Con  maggior  diligenza  di  tutti  questi 
critici  impressionisti^  se  mi  è  permesso  di  chia- 
marli cosi,  ha  studiato  il  suo  tema  Alfonso  Royór, 
elegante  traduttore  Francese  di  cinque  Fiabe  del 
Gozzi,  e  con  più  sicura  equità  ha  giudicato  il 
poeta.  «  Giudicarlo,  die' esso,  non  è  facile....  AI 
lettore  straniero  massimamente  occorre  un  certo 
sforzo  di  buon  volere  per  gustare  quelle  quattro 
Maschere^  introdotte  dal  poeta  fra  le  più  dispa- 
rate azioni  drammatiche  e  che  vi  appariscono  in- 
nanzi in  ógni  tempo  e  luogo  con  la  loro  indivi- 
dualità convenzionale  ed  il  loro  grazioso  linguag- 
gio, bene  spesso  triviale.  Quel  miscuglio  di  poesia 
fantastica  e  di  racconti  di  vecchie  nonne,  che  ri- 
corda a  un  tempo  stesso  l' Ariosto  e  i  cantastorie 
di  piazza,  affetta  inoltre  una  certa  andatura  Spa- 
gnolesca, che  salta  agli  occhi  a  prima  vista.  E  qua 

1  ScHACK,  Geschichte  der  Dram.  Literatur  UDd  Kunst  in 
Spanien.  —  3  Bd. 

2  J.  L.  Klbin,  Geschichte  des  Dramas.  —  Das  itah'enische 
Drama.  —  Dritter  Bd.  —  Ersie  Abtheilùng.  —  650-778. 
(Leipzig.  Weigel.  1868). 


PREFAZIONE.  GLI 

c  là  c\è  un  ardore  di  personalità  violenta,  che 
scotta.  U  fondo  delle  commedie  fiabesche  trascende 
sempre  il  mondo  reale.  Ma  e'  è  tale  delizia  d' im- 
pressioni piacevoli  in  cotesto  mondo  dei  sogni, 
che  si  perdona  volentieri  alla  frivolezza  dei  mezzi 
per  compiacersi  de' risultamenti  ottenuti....  In 
grazia  di  questi  si  perdonerà  pure  al  Gozzi,^  io 
spero,  d'aver  scritto  dei  drammi,  nei  quali  nes- 
suna madre  corre  dietro  a  un  figlio  smarrito,  nes- 
sun diseredato  corre  dietro  al  misterioso  portafo- 
gli, che  gli  deve  rendere  nome  e  fortuna  dopo 
cinque  atti  di  ginnastica  drammatica;  e  parimenti 
lo  si  scuserà  s' ei  non  sale  in  cattedra  tutti  i  mo- 
menti per  far  la  predica,  se  non  maltratta  il  pub- 
blico, che  paga,  se  non  dà  in  pascolo  agli  odii 
democratici  l'uomo  in  abito  nero,  come  il  sim- 
bolo di  tutte  le  iniquità  commesse  o  da  commet- 
tere. Questi  metodi  teatrali  non  erano  ancora  in 
voga  al  tempo  di  Carlo  Gozzi.  *  » 

Mi  sono  allargato  alquanto  a  dar  notizia  della 
fortuna  di  Carlo  Gozzi  presso  gli  stranieri.  In 
Italia  e  fino  a  questi  ultimi  tempi  la  critica  o  Io 
lasciò  nell'obblio,  in  cui  era  caduto,  o  gli  fu  ol- 
tremodo severa^,  a  cominciare  dai  contemporanei, 
dal  Cesarotti,  dal  Taruffi,  dal  Vannetti,  dal  Gen- 
nari, dal  Napoli  Signorelli,  storico  dei  teatri.  Del 
Baretti  ebbi  già  ragione  di  parlare  e  di  riferire  le 

^  ÀLPHorcsB  RoYiK,  ThéatTC  Fiabesque.  —  Introduction, 
pag.  42,  43,  44. 


CLII  PREFAZIONE. 

sue  varie  opinioni  sul  Gozzi.  Nella  corrispondenza 
epistolare  del  Cesarotti  col  Taruffi  senti  tutto  il 
razionalismo  pedantesco  e  pretensioso  di  due  abati 
filosofi  del  secolo  XVIII.  «  Credereste  voi,  scrive 
in  francese  il  Cesarotti  al  Taruffi,  che  esista  un 
paese  al  mondo,  dove  gli  Orfanelli  della  Chìna^ 
i  Tancredi,  le  Semiramicfi  non  gmngono  senza 
sbadigli  alla  quarta  rappresentazione?....  Dove? 
presso  gli  Uroni  o  i  Topinambù?  No.  A  Vene- 
zia. Per  compenso  abbiamo  Fiabe  e  Fole,  che  si 
rappresentano  le  trenta  volte  di  seguito  in  mezzo 
ai  più  cocenti  entusiasmi.  Crederete  forse  che  si 
tratti  degli  Oracoli  di  Saintfoix,  delle  novelle  di 
Marmontel,  racconciate  dal  Favart....  Pover'uomoI 
Come  siete  a  mille  miglia  dalla  squisitezza  del 
nostro  gusto  1...  Sono  le  Tre  Melarance,  ì  Re 
Corvi  (sic),  i  Re  Cervi,  ì  Mostri  Turchini  e 
altri  di  questa  risma.  E  le  più  gravi  persone  assi- 
curano che  sono  opere  moralissime  e  dilettevolis- 
sime, contenenti  allegorie  profondissime  e  tutti  i 
misteri  dell'umana  saggezza  1  »  Ed  il  Taruffi  gli 
rispondeva,  pure  in  francese,  da  Varsavia,  che 
avea  vista  rappresentare  a  Bologna  una  delle  su- 
blimi corbellerie  del  Gozzi,  il  Corvo.  Gli  eleganti, 
che  erano  stati  a  Venezia,  la  lodavano.  Ma  egli, 
l'abate  filosofo,  era  scappato  via  inorridito  per 
timore  di  smarrire  il  senso  comune.  *  Il  Vannetti 


*  Tutti  così  questi  abati  fìlosofì  del  secolo  scorso!  Anche 
V  Àrteaga  giudica  da  questo  punto  di  vista  del   ragionevole 


PREFAZIONE.  CLIII 

(che  Carlo  Gozzi  lodò  nella  sua  Chiacchiera  ine- 
dita) chiama  Fautore  delle  Fiabe  «  corruttore 
del  nostro  teatro  italiano....  Se  le  sue  favole  ri- 
scossero V  approvazione  degli  ignoranti  gondolieri, 
caddero  ben  presto  nel  disprezzo  dei  colti  uo- 
mini. »  E  nel  1782  (Panno  in  cui  scrive)  annun- 
zia già  morti  e  sepolti  gli  effimeri  trionfi  del 
Gozzi.  '  L' eruditissimo  Gennari  (  che  pure  era  dei 
Graiielleschi  )  scriveva  al  Patrizio  Battagia,  pro- 
prio nel  maggior  fervore  della  rappresentazione 
delle  Fiabe:  «  Camminando  di  questo  passo  toma 
a  cadere  il  teatro  comico  in  quegli  stessi  o  somi- 
glianti difetti,  dei  quali  negli  ultimi  tempi  s'  è 
procurato  di  liberarlo  colla  sostituzione  delle  com- 
medie di  carattere  alle  vecchie  filastroccole  dei 
commedianti  secentisti.  Quanto  a  me  avrei  cercato 
di  correggere  e  di  emendare  gli  errori  del  Gol- 
doni e  del  Chiari,  anziché  gettarmi  all'estremo 
opposto  e  introdurre  una  foggia  di  rappresenta- 
zioni inverosimili  e  romanzesche.  *  »  Ed  il  Napoli 
Signorelli,  discorrendo  delle  Fiabe  nella  sua  Sto- 
ria: «  notabile  è  Parte,  scrive,  adoperatavi  dal- 


li meraviglioso  del  Dramina.  { Rivoluj^ioni  del  Teatro^  Tom.  I, 
Gap.  VI).  —  Per  le  lettere  del  Cesarotti  e  del  Taruffi  vedi: 
Epistolario  del  <:esarottiy  Tom.  1.  Delle  Opere  (  Ediz.  Ca- 
purrp)  Tom.  35, 

*  Vannetti,   V  Educazione   Letteraria  del  Bel   Sesso 
raccomandata  e  promossa.  (Milano.  Pirotta  1835)  pag.  5. 

*  Lettere  Famigliari  (  Venezia,  Alvisopoli   1829  ).  Leu. 
al  Patrìzio  F.  B.  del  3  Febbraio  1763. 


CLIV  PREFAZIONE. 

Pindustre  Autore,  imperciocché  le  perturbazioni 
tragiche,  le  piacevolezze  comiche,  le  favole  anili, 
le  metamorfosi  a  vista,  un  fondo  di  eloquenza 
poetica  e  di  riflessioni  filosofiche  concorsero  a  for- 
mar que'  mostri  lusinghevoli^  che  seducevano  il 
..popolo  Veneziano  ed  ebbero  un  imitatore  nel 
Sig.  Giuseppe  Poppa.  *  »  Sulla  fede  del  Napoli 
Signorelli,  il  Klein,  il  Magrini  *  ed  altri  citarono 
codesto  Poppa,  come  l'imitatore  del  Gozzi,  ma 
tutti  soggiungono  d'  aver  cercato  inutilmente  no* 
tizie  di  lui.  Chi  era  dunque  questo  misterioso  per- 
sonaggio ?  Un  suo  dramma,  che  si  legge  nel  Tea^ 
tro  Moderno  Applaudito  (nota  raccolta  di  opere 
teatrali  )  *  non  lo  chiarisce  di  certo  imitatore  delle 
Fiabe  dì  Carlo  Gozzi,  bensì,  se  mai,  imitatore  della 
seconda  maniera  del  Gozzi,  cioè  de'  suoi  drammi 
Spagnoleschi.  Ad  imitatori  delle  Fiabe  il  Gozzi 
allude  con  disprezzo,  ma  non  ne  nomina  alcuno.  ^ 
Quanto  al  Poppa,  esiste  una  sua  curiosa  autobio- 
grafia, *  non  priva  d'interesse  anche  per  la  vita 
del  Gozzi.  Il  Poppa  era  nato   nel  '  1760.  Era   un 


1  Pietro  Napoli-Signorblli  NapoIitaDO,  Storia  dei  Tea^ 
tri  antichi  e  moderni.  Tom.  VI,  pag.  238,  39.  (Napoli  1790, 
presso  Vincenzo  Orsino). 

»  Klbin,  Op.  cit.  loc.  cit.  —  Magrini,  Op.  cit.  pag.  223. 

8  T.  M.  A.  Tom.  3^ 

<  Memorie  cit  Part.  2*,  Gap.  4,  pag.  32. 

s  Memorie  storiche  della  Vita  di  Giuseppe  Maria  Foppa^ 
protocollista  di  Consiglio  di  questo  L  R,  Tribunale  Cr/mi- 
nale  scritte  da  lui  medesimo.  (  Venezia,  Molinari,  1840  )•  Co- 
municazione dal  Sjg.  Viuorio  Malamaiìl. 


PkEFAZIONK      '  CLV 

jjovero  impiegatuccio  e  a  -  tempo  avanzato  poeta, 
pittore,  suonatore  e  romanziere.  Le  sue  opere  sal- 
gono ad  un  numero  sterminato,  ma  pare  che  aspi- 
rasse piuttosto  ad  imitare  il  Goldoni,  e  più  che  a 
poeta  fiabesco^  la  pretendesse  a  melodrammatico. 
Di  fatto  fornì  al  Rossini  il  libretto  d'una  sua 
opera:  V Inganno  Felice.  Cominciò  a  scrivere 
per  il  teatro  nel  1782.  «  In  quel  frattempo  (tra- 
scrìvo la  parole  del  Poppa)  la  rinomata  compa- 
gnia Sacchi,  che  agiva  nel  teatro  in  S.  Salvatore 
(  chiamato  volgarmente  di  S.  Luca  )  si  disciolse.  ^ 
II  Conte  Carlo  Gozzi,  che  diede  ricchezza  in  tempi 
antecedenti  a  quel  Capo  Comico  da  lui  protetto, 
vedendolo  ridotto  a  mal  partito,  s'indusse  a  per- 
suadere l'insigne  attore  Petronio  Cenerini  (sic) 
con  qualche  altro  valente  soggetto  a  non  abban- 
donare il  Sacchi  nel  passaggio  che  fece  dal  teatro 
in  S.  Luca  all'  altro  in  S.  Angelo.  Fu  a  quel- 
l' epoca,  ch'io  conobbi  il  Gozzi,  presso  il  quale 
ebbi  speciale  favore,  essendosi  egli  a  me  affezio- 
nato, perchè  mi  era  già   anche  prima  dichiarato 


1  II  Gozzi  riferisce  a  luDgo  e  con  parole  malinconiche 
•questo  fatto,  importantissimo  nella  sua  vita.  Vedi  Memo' 
rie  etc.  Parte  3*.  Gap.  3.  —  Il  De  Musset  parafrasa  molto 
arbitrariamente  le  parole  del  Gozzi  a  questo  proposito,  anzi 
se  le  inventa  addirittura,  per  for  credere  ad  aperti  rimpianti 
del  Gozzi  sui  suoi  spassi  galanti  colle  attrici  11  De  Musset 
oon  ha  pensato  che,  così  fiacendo,  alterava  il  senso  delle  Afe^ 
morie,  dove  il  Gozzi  cerca  nascondere,  più  che  può,  le  sue 
debolezze.  In  questo  caso  non  ci  riesce  del  tutto.  Ma  le  pa- 
role ciute  dal  De  Musset  non  esistono  nelle  Memorie. 


CLVI  PREFAZIONE. 

SUO  settario;  e  come  settarip  del  Gozzi  si  èTatta 
menzione  onorevole  della  mia  persona  dal  Signor*' 
Napoli-Signorelli  nella  sua  Storia  dei  Teatri.  Ho 
detto  ch'ebbi  dal  Gozzi  speciale  favore,  perchè 
uomo  tutto  a  se  solo,  ciò  provandolo  ch'egli  nella 
celebre  Accademia  dei  Granelleschi  in  Venezia,  e 
di  cui  fece  gran  parte  (sic),  era  nominato  il  So- 
litario, Sembrando  al  Gozzi,  ch'io  potessi  esser 
utile  a  quella  Compagnia,  mi  eccitò  a  darle  qual- 
che mia  composizione.  Lo  compiacqui  e  trattai  il 
fatto  di  Ginevra  di  Scopa^  riferito  dall'Ariosto 
nel  suo  poema  Orlando  Furioso.  *  »  Settario  dun- 
que, non  precisamente  imitatore,  ed  in  egaal  modo 
il  Poppa  era  anche  amico  del  commediografo  Al- 
bergati, che  dice  letterariamente  avversissimo  al 
Gozzi.  Ma  il  Poppa  seppe  barcamenarsi  tra  i  due^l  * 
L' Albergati  di  fatto  criticò  acerbamente  le  Fiabe  * 
del  Gozzi.*  E  bene  sapere  però,  che  l'Albergati, 
vanissimo  e  corteggiatore  d'ogni  gloria  grande  o 
piccina  che  spuntasse,  avea  prima  e  molto  più  del 
Poppa  imitato  il  Gozzi  con  una  Piaba,  che  inti- 
tolò il  Sofà,  e  che  anzi  dedicò,  stampandola,  al 
Gozzi  stesso  con  amplissime  lodi.  La  Piaba  del- 
l'Albergati  (il  cui  ingegno  fece  pur  buona  prova 
nella  commedia)  non  ha  alcun  valore.  Porse  al- 


*  Poppa,  Memorie  cìt.  pag.  37,  38. 

A  Ibid.  pag.  39,  40. 

2  Nella  Prefaz.  «Ila  Commedia  —  Il  Sofà  —  Albergati. 
Nuovo  Teatro  (Venezia,  Pasquali  1774).  Voi.  I  e  nelle  Let- 
tere Piacevoli  eie.  (  Venezia,  Storti  1792  ). 


PREFAZIONE.  CLVII 

lude  ad  essa  il  Gozzi,  allorché,  parlando  degli 
imitatori  delle  Fiabe,  scrive  :  «  essi  affidarono  alle 
immense  decorazioni,  alle  trasforifiazioni  e  alle 
agghiacciate  buffonerie.  Non  intesero  né  il  senso 
allegorico,  né  la  urbana  satira  del  costume,  né  la 
forza  delPlippar^chio,  né  la  condotta,  né  il  vigore 
intrinseco  del  genere  de  me  trattato.  '  »  Ma,  a 
proposito  del  voltafaccia  dell'Albergati,  il  Gozzi 
non  si  contentò  di  anonime  allusioni,  e  poiché  alla 
dedica  del  Sofà  egli  avea  corrisposto  gentilmente, 
dedicando  all'Albergati  il  tomo  quinto  della  sua 
edizione  del  1772,  ristampò  nel  1802  la  dedica 
Albergatiana  e  finamente  derise  la  mutabilità  dei 
gusti  del  Commediografo  Bolognese,  che  dall'am- 
mirazióne per  le  Fiabe  era  trascorso  ora  all'  am- 
mirazione pei  drammi  lagrimosi.  *  Meritevole  di 
speciale  ricordanza  é  il  fatto  che  il  Goldoni,  stando 
a  Parigi  e  giungendogli  colà  l' eco  dei  trionfi  delle 
Fiabey  volesse  comporne  una  egli  stesso  quasi  a 
rinnovare  col  Gozzi  l'antica  rivalità  anche  sul 
campo,  ch'egli  stesso  s'era  scelto  per  far  contra- 
sto alla  Commedia  Goldoniana.  La  pretesa  Fiaba 
del  Goldoni  é  intitolata:  //  Genio  Buono  e  il 
Genio  Cattivo  e  fu  rappresentata  a  Venezia  nel 
1768.^  Che  il  Goldoni,   nel   mandare  a  Venezia 


*  Memorie  cit.  Parte  2*,  Gap.  4,.  pag.  32,  33, 

*  Vedi  :^ome«to  ed  Frammento  primo  nella  Più  lunga 
lettera  etc.,%à  cit.  Ediz.  180  r,  1802,  Tom.  XIV. 

3  Vedila  nel  Tomo  XII  d?lle  Commedie  Buffe  in  prosa 
del  Sig,  Carlo  Goldoni,  (  Venezia,  Zatta  1793). 


CLVIII  PREFAZIONE. 

questa  sua  commedia,  in  cui  ha  introdotto  un 
po' di  spettacoloso  e  di  meraviglioso,  abbia  voluto 
approfittare  del  nuovo  gusto  del  pubblico  Vene- 
ziano per  le  Fìabe^  non  mi  sembra  dubbio.  Ma  che 
il  Goldoni  le  abbia  imitate,  è  questa  una  voce, 
che  s'è  andata  ripetendo,  ma  che  il  Gozzi  stesso 
ribatte  con  molta  ragione  *  e  che,  leggendo  la  com- 
media del  Goldoni,  si  vede  chiaro  non  avere  al- 
cun fondamento.  *  U  Goldoni  fu  costretto,  nei 
primi  tempi  della  sua  dimora  in  Francia,  a  ritor- 
nare alle  tradizioni  della  Commedia  dell'arte  e  a 
modellarsi,  più  che  potè,  sul  gusto  dell'  Opera 
Comica  Francese.  Il  gran  modello  di  questo  nuovo 
tentativo  del  Goldoni  è  il  VèntagliOy  vera  mera- 
viglia d' arte  comica.  Allo  stesso  genere  appartiene 
il  Genio  Buono  e  il  Genio  Cattivo^  non  ostante  le 
trasformazioni  e  le  macchine,  la  quale  commedia, 
benché  inferiore  di  gran  lunga  al  Ventaglio^  ha 
però  parti  vigorosissime  e  che  indicano  un  vero 
ringiovinimento,  che  il  viaggio  in  Francia  avea 
conferito, al  genio  del  Goldoni.  Le  mie  afferma- 
zioni si  fondano  sull'  esame  della  Commedia  e  su 
quanto  scrive  il  Goldoni  all'Albergati  il  1 8  aprile 

*  Memorie  cit  Parte  a*,  Gap.  4,  pag.  34,  35,  36. 

*  Mi  conferma  in  questo  la  lettera  del  Goldoni  allo  Sciu- 
gliaga  pubblicata  dal  Sig.  Dino  Mantovani  nelP  Opera  citato. 
«  Avrei  piacere,  scrive  il  Goldoni,  di  far  vedere  in  Venezia, 
come  si  fianno  le  commedie  di  trasformazione,  senza  le  Fiabe, 
senza  i  Diavoli  e  senza  le  piazzate.  »  (  2^0^21  ).  Vuol  dunque 
correggere,  non  imitare  il  Gozzi,  e  correggerlo,  io  credo,  se- 
condo il  gusto  francese. 


PREFAZIONE.  ,  CLIX 

1763,  dandogli  notizia  del  Ventaglio  e  di  Un'altra 
commedia  che  progettava  fin  d' allora  e  che  vo- 
leva intitolare:  //  Carnevale  di  Venezia.  «  Vi 
saranno,  scrive  il  Goldoni,  molti  Francesi  e  molti 
Italiani  ;  non  rbparmierò  la  critica  né  agli  uni,  ne 
agli  altri.  Farò  dei  confronti  di  costumi,  di  usi, 
di  divertimenti,  di  musica  e  dei  teatri.  Ecco  la 
mia  idea . . . .  ^  »  E  parmi  appunto  V  idea,  che  ha 
incarnata  nel  Genio  Buono  e  nel  Genio  Cattivo  ; 
commedia,  che  quale  specchio  storico  di  costumi, 
specialmente  Parigini  del  secolo  scorso,  e  quale 
documento  di  un  nuovo  svolgimento  dell'ingegno 
del  Goldoni,  '  ha,  secondo  me,  una  capitale  im- 
portanza. Ma  ritorniamo  ai  critici  italiani  di  Carlo 
Gozzi.     • 

Quanto  gli  fu  avversa  la  critica  letteraria  con- 
temporanea, altrettanto  gli  fu  ostile  quella  che  la 
segue  da  presso.  Il  Gherardini,  annotatore  dello 
Schlegel,  esiglia  le  Fiabe  fra  i  melodrammi  e  le 
pantomime,  «  ove  oggidì  si  vuole  sopratutto  che 
sieao  colpiti  i  sensi^  ove  il  cuore  non  si  lagna  se 
resta  alquanto  in  riposo  ed. ove  la  ragione  ^meno 
gelosa  de' suoi  diritti.^  »  Tutte  parole,  che  indi- 
cano però  quanto   poco  av^va   appreso  dalle  Le* 


'  Vedi  nella  mia  Raccolta  di  Lettere  Goldoniane  la  Let- 
tera 37. 

*  E  non  era  1*  ultimo,  perchè  il  Burbero  Benefico  e 
V  Avaro  Fastoso  ripigliano  ed  ampliano  la  commedia  di 
carattere. 

'  Nota  43  alla  Drammaturgia  dello  Schlegel 


CLXII  PREFAZIONE. 

tato  del  Gozzi  in  questi  ultimi  tempi,  nei  quali, 
col  rinnovarsi  degli  studi  critici  di  storia  letteraria, 
anche  Carlo  Gozzi  è  uscito  dalla  penombra  oscura' 
dell'  obblio,  ov'  era  rimasto  tanti  anni,  non  sembra 
opportuno  discorrere  qui  partitamehte.  Basti  ac- 
cennare che  appunto  da  questo  ritorno  dell'atten- 
zione degli  studiosi  su  Carlo  Gozzi,  dai  nuovi .  e 
recenti  saggi  su  questo  poeta,  i  quali  hanno  messo 
in  chiaro . quant' era  l'importanza  storica  e  lette- 
raria di  lui,  nacque  il  pensiero,  che  fosse  bene 
ripubblicare  le  sue  Fiabe^  e  la  speranza,  che 
il  pubblico  italiano  dovesse  fare  buoa  viso  a  que- 
sta ristampa.  Mi  sembra  debito  però  un'eccezione 
pel  Magrini,  il  cui  libro  non  è  senza  mende,  ma 
è  pur  sempre  il  .  più  ampio  •  studio,  che  finora 
si  sia  fatto  su  Carlo  Gozzi  ;  e,  non  potendo  rias- 
sumere le  molte,  forse  troppe,  cose  che  dice, 
ne  citerò  le  conclusioni,  con  le  quali  io  pure  in 
molta  parte  mi  accordo.  «  Le  Fiabe  di  questo  in- 
gegnoso umorista  del  XVIII  secolo,  scrive  il  Ma- 
grini, sono  commedie  allegoriche,  favolose,  str^ne^ 
in  cui  spesso  più  che  le  passioni  giuocano  la  vo- 
lontà possente  ed  il  genio  benefico  o  malefico  di 
esseri  soprannaturali,  che  ricordano  il  Deus  ex 
machina  ed  il  fato  degli  antichi;  sono  racconti 
drammatizzati  di  fate,  incantesimi  e  trasforma- 
zioni, in  cui  il  genere  comico  va  unito  in  bel 
modo  all'  eroico,  la  prosa  al  verso  ;  e  si  trovano 
in  esse  satire  pungenti,  attici  epigrammi  e  parodie 
efficaci,  dacché  il  fantastico  è  commisto  al  reale 


PREFAZIONE.  CLXUI. 

ed  alla  parte  scritta  sono  innestate  le  scene  im- 
provvise delle  maschere  paesane,  che,  con  motti 
arguti  e  pronti,  e  con  frequenti  allusioni,  perso- 
nali allietano  il  pubblico....  Le  Fiabe  adunque, 
che  stanno  per  noi  tra  la  Commedia  dell'Arte  e 
le  moderne  FéerieSj  sono  un  vanto  della  lettera-, 
tura  italiana,  piacciono,  e,  non  e'  è  critica  che 
tenga,  invogliano  alla  lettura  per  la  loro  originale 
festività.  *  » 

Durante  i  trionfi,  delle  Fiabe,  la  consuetudine 
di  Carlo  Gozzi  con  la  Compagnia  comica  di  An- 
tonio Sacchi,  che  le  aveva  rappresentate,  era  di- 
venuta quotidiana.  Attori  ed  attrici  dovevano  a 
lui,  al  disinteresse,  con  cui  prestava  V  opera  sua, 
il  favore  del  pubblico  e  l'agiatezza.  Gli  attori  lo 
retribuivano  di  gratitudine,  di  ossequio,  di  rive- 
renza. Colle  attrici  era  amico,  confidente,  consi- 
gliere, maestro,  compare,  protettore  e,  non  ostante 
tutte  le  sue  proteste  e  le  sue  pedanterie  morali- 
stiche, era  anche  amante.  E  perchè  no  ?  Erano 
tlonne  «  impastate  d'amore*  »  (lo  dice  esso)  e 
allorché  il  Gozzi  incominciò  a  mettersi  in  tali  in- 
trinsichezze,  avea  circa  trentacinque  anni.  '  Stando 
anche  solo  alla  storia  dei  tre  amori,  che  narra  in 
tre  de'  più  graziosi  Capitoli  delle  sue  Memorie,  ^ 

1  Magrini,  Op.  eie  Gap.  IX,  pag.  333-245. 
*  Memorie  cit.  Parte  2%  Gap.  3,  pag,  20. 
8  Memorie,  Parte  2*,  Gap,  3.  Pittura  della  Compagnia' 
comica  del  Sacchi  da  me  soccorsa. 
<  Parte  2*,  Gapitoli  48,  49,  5o. 


GLXIV  PREFAZIOMB. 

vedesi  del  resto  ch'egli  non  era  poi  quell'inespu- 
gnabile Catone,  che  vuole  apparire.  Ma,  poiché 
Carlo  Gozzi  volle  descrivere  il  proprio  esterno  ed 
interno  nella  sua  autobiografia,  è  pregio  dell'  opera 
riferire  le  sue  parole  : 

t  La  mia  statura  è  grande,  e  m^  avvedo  di  questa  graa- 
dezza  dal  molto  panno  che  occorre  ne^  miei  tabarri,  e  da^  pa- 
recchi colpi  chMo  dò  colla  testa  nelP  entrare  in  qualche 
stanza  che  abbia  P  uscio  non  molto  alta  Ho  la  fortuna  di 
non  essere  né  scrignuto,  né  zoppo,. né  cieco,  né  guercio.... 
Questo  è  quanto  credo  di  sapere,  e  di  poter  dire  della  mia 
macchina,  avendo  lasciata  sino  dalla  mia  giovinezza  la  brìgt 
alle  ^femmine  di  dirmi  bello  per  lusingarmi  e  di  dirmi  brutto 
per  farmi  rabbia,  senza  che  vìncessero  mai  né  Puna  cosa,  né 
1^  altra.  Escluso  sempre  il  sudicio  da  me  abborrito,  s*  ebbi  in 
dosso  qualche  vestito  di  taglio  moderno,  fu  per  opera  del 
sartore,  e  non  mai  della  mia  ordinazione....  U  acconciatura 
de^miei  capelli  dalPanno  iy3b  alPanno  1780  in  cui  scrìvo  ti 
sempre  della  forma  medesima....  Non  ho  mai  cambiato  mo» 
dello  di  fibbie  alle  scarpe  sino  a  tanto  che  spezzate  le  prime 
fibbie,  dovei  cambiarle  per  necessità,  e  se  nel  cambio  ci  fii 
qualche  differenza  di  modello,  dal  quadro  alP  ovale,  lo  fa 
per  consiglio  delP  orefice,  che  mi  fece  prendere  le  più  leg- 
gere, perché  si  rompessero  più  presto....  I  poco  parlatori,  e 
assai  pensatori,  come  sono  io,  occupati  nei  molti  loro  pen- 
sieri, prendono  il  vizio  di  incrocicchiare  le  ciglia  per  matu- 
rarli, il  che  dà  loro  un  aria  brusca,  severa,  e  presso  che- 
truce.  Bench^  io  abbia  P  animo  sempre  allegro. ...  gli  infiniti 
pensieri,  ch^  empierono  sempre  la  mia  testa  in  burrasca,  o 
per  imbrogli  della  mia  fi^miglia,  o  per  riflettere  alle  ragioni 
delle  mie  liti  nel  Foro,  o  per  riparare  a  qualche  disordine,  o 
^per  architettare  una  mia  composizione  poetica,  o  qualche 
prosa,  mi  fecero  cadere  nel  vizio  del  corrugare  la  fronte, 
dejP  aggrottare  e  incrocicchiare  le  ciglia  per  modo,  ch^  unito 


PREFAZIONE.    ^  CLXV 

questo  Tizio  al  mio'  passo  lento,  alla  mia  taciturnitày  e  al 
mio  cercare  passeggi  solitari,  mi  fece  giudicare  da  tutti  quelli 
che  non  m'ebbero  in  pratica  un'uomo  serio,  burbero,  im- 
praticabile e  fors'anco  cattivo.  Molti  che  m*  hanno  colto  oc-^ 
capato  in  qualcheduno  de' miei  molti  pensieri  colle  ciglia 
brusche  incrocicchiate  e  lo  sguardo  oscuro,  guardandomi 
sott'  occhio,  avranno  creduto  eh'  io  pensassi  ad  uccidere 
qualche  nemico,  quando  pensava  a  comporre  V  Auge!  bei- 
verde.^  » 

«  Non  fui  avaro,  perch'ebbi  sempre  a  schifo  il  peccato 
dell'  avarizia,  e  non  fui  prodigo  forse  soltanto  perchè  non 
fui  ricco....  Averci  potuto  trarre  qualche  utilità  pecuniaria 
dal  diluvio  de' scritti  miei,  ma  gli  ho  donati  ognorsf  a' Co- 
mici, a' librai. ...  I  miei  scrìtti  sempre  satirici*..,  non  prez- 
zolati, avevano  il  vantaggio,  d'un  certo  decoro.  Prezzolati, 
sarebbero....  decaduti...,  neHe  opinioni  e  sulle  lingue  de'  miei 
contrari,  in  una  insoffribile  mercenaria  maldicenza,  che  mi 
avrebbe  forse  fatto  odioso  universalmente.  Oltre  a  ciò  non 
v'è  peggiore  avvilimento  in  Italia....  di  quello  di  scrivere 
prezzolato  per  i  nostri  Librai  e  lo  scrivere  prezzolato  per  i 
Teatri  dc''nosui  'liioerabili  comici....  Sempre  costante  nel 
mio  naturale  risibile  (  sic  ),  non  potè  rattristarsi  il  mio  in- 
terno, nemmeno  nello  scorgere  rovesciata  la  mia  sparsa  mo- 
rale, ch'io  credeva  sana,  dalla  sottigliezza  degli  insidiosi  e 
industri  sofismi  del  secolo....  Gli  amici  miei  di  stretta  ami* 
cizia  furono  pochi  ed  io  fui  come  il  Berni 

Degli  amici  amator  miracoloso. 

Il  mio  interno  s'è  acceso  in  qualche  raro  momento  d^ irasci- 
bile per  dici  torti  ricevuti....  ma  pochi  istanti  bastarono  alla 
mia  riflessione  a  calmare  il  mio  interno....  Ho  un  istinto  ri- 
tibìle  tanto  in  sui  spiriti  deboli  che  credono  tutto,^  quanto. 
sui  spiriti  forti,  che  ostentano  di   non  creder  nulla,  ma  ho 

*  Memorie  cit..  Parte  a,  Gap.  46. 


GLXVI  PREFAZIONE. 

giudicati  spìriti  più  deboli  i  secondi  dei  primi....  Con  tutte 
le  mie  risa,  scorsi  però  nelP  uomo  con  sicurezza  un'  immensa 
snblimità  e  tanto  superiore  ali'  essenza  dei  bruti  che  non  mi 
sono  mai  degnato  d'avvilirmi  a  considerarmi  né  letame,  né 
fango,  né  un  cane,  né  un  porco,  come  si  degnano  di  consi- 
derarsi i  spinti  forti.^..  Le  odierne  novità  di  rovesci,  che  ci 
dipingono  gli  Epicuri  onest' uomini;  i  Seneca  impostori;  ve- 
nerabili filosofi  i  Volteri,  i  Russò,  gli  Elvezi,  i  Mirabò...,  non 
seducono  il  mio  interno.  Guardo  i  funesti  effetti  cagionati 
sui  popoli  dalle  dottrine  dell'ateismo....  Finalmente  l'in- 
terno mio  tenne  sempre  viva  la  sacra  immagine  dell'augusta 
nostra  Religione,  né  mi  curai  d'essere  considerato  da' Filosofi 
d*  oggidì  addormentato  nel  da  lor  detto  pre^it/tft^io.i  • 

Ma  il  ritratto  morale  di  Carlo  Gozzi  non  sa- 
rebbe compiuto,  senza  dare  qualche  idea  del  fa- 
^moso  Capitolo  delle  sue  Memorie^  intitolato  dei 
Contrattempi^  il  quale  servì  alla  critica  Romantica 
per  rappresentarsi  il  Gozzi  come  un  Doctor  Fausta 
preda  e  ludibrio  di  quelle  potenze  magiche,  che 
la  sua  fantasia  di  poeta  aveva  evocate.  Vedranno 
invece  i  lettori,  che  il  Capitolo  dei  Contrattempi 
non  è  altro  che  un  bozzetto  leggiadrissimo  del 
bizzarro  umore  del  Gozzi  e  di  una  sua  preoccu- 
pazione, che  confina  coi  terrori  della  jettatura  na- 
poletana. 

«  S'io  volessi  narrare  (scrive  il  Gozzi)  tutte  le  strava- 
ganze e  tutti  i  contrattempi,  a' quali  la  mia  stella  mi  volle 
soggetto,  averei  lunga  iacenda.  Furono  frequentissimi  e  quasi 
giornalieri.*  Le   stravaganze    eh'  io    soffersi    mansuetamente 

i  Memorie  cit ,  Parte  a/  Gap.  47. 


,.  PREFAZIONE.  CLXVII 

co^  successivi  miei  servi  prò  tempore  potrebbero  darmi  ar- 
gomento di  formare  un  volume»  Narrerò  la  sola  stravaganza 
molesta,  pericolosa  e  ridicola  insieme,  chMo  fui  preso  [con 
somma  frequenza  da  infinite  persone  in  iscambio  di  chi  Ìo 
non  era  con  un  insistenza  ostinata,  e  ciò  che  ha  di  vago 
questa  stravaganza  è  chMo  non  somigliava  punto  agli  uomini 
per  i  quali  era  preso.  Un  giorno  m'incontrai  in  un  vecchio 
artefice  a  San  Favolo,  che  vedendomi'  mi  corse  incontro. in- 
chinato e  baciandomi  un  gherone  del  vestito  piangendo,  mi 
ringraziò  ch'io  avessi  colla  mia  protezione  liberato  il  di  lui 
figlio  dalle  carceri.  Sostenni  ch'egli  non  mi  conosceva  e  che 
mi  prendeva  per  un  altro.  Egli  sostenne  vivamente,  franca- 
mente di  conoscermi  e  che  io  era  il  suo  caritatevole  padrone 
Paruta....  Chiesi  a  chi  conosceva  quel  Patrizio  Paruta,  se 
mi  assomigliasse.  Mi  si  disse  che  non  aveva  con  me  la  me- 
noma somiglianza.  Non  v'è  chi  non  conosca  o  non  abbia 
conosciuto  Michele  dair Àgata,  noto  Impresario  dell'Opera, 
né  chi  non  sappia  ch'egli  era  un  palmo  più  basso  di  me 
due  palmi  più  grosso  e  differentissimo  da  me  ne'  vestiti  e 
nella  fisonomia.  Ho  dovuto  soffrire  per  un  lungo  corso 
d' anni  e  sino  eh'  egli  visse  la  seccaggine  d' esser  fermato  per. 
la  via  per  Michele  quasi  ogni  giorno  da  Canterini,  da  Cante- 
rine, da  Ballerini,  da  Ballerine,  da  Maestri  di  Cappella,  da 
Sartori,  da  Pittori,  da  dispensieri  di  lettere,  e  di  ascoltar 
lunghe  doglianze,  lunghi  ringraziamenti...  e  co' dispensieri 
di  lettere  ii  dover  rifiutare  lettere  e  fardelli  diretti  a  Mi- 
chele dall'  Àgata,  gridando,  protestando  e  giurando  eh'  io 
non  era  Michele,  le  quali  persone  tutte  partendo  a  stento  si 
volgevano  a  me  tratto  tratto  guardandomi  fiso  smemorati  e 
dimostrando  di  credere  ch'io  fossi  un  Michele  che  non  vo- 
lesse esser  Michele. 

Giunto  a  Padova  una  state,  seppi  essere  a  letto  da  un 
parto  la  signora  Maria  Canziani  valente  e  saggia  Danzatrice, 
mia  ottima  amica.  Volli  farle  una  visita  e  chiedendo  a  una 
donna  nel  di  lei  alloggio  se  potessi  entrare  nella  sua  stanza, 
ella  entrò  ad  annunziarmi  con  queste  parole:  Signora^  è  qui 


CLXVIII  •   PREFAZIONE. 

fuori  il  Signor  Michele  dalP  Agata  che  brama  di  riverirla. 
Nel  mio  entrare  ho  avuto  timore  che  la  povera  Canzianì 
•coppi  dal  ridere  sul  franco  sbaglio  di  quella  femmina. 

Uscito  da  quella  visita  m' incontrai  sul  ponte  S.  Lorenzo 
nel  celebre  Professore  d'Astronomia  Toaldo.  Egli  conosceva 
me  perfettamente,  comMo  conosceva  perfettamente  lui.  Lo 
salutai,  ed  egli  guardandomi^  si  trasse  il  cappello  con  gra- 
vità, e  dicendomi:  Addio,  Michele,  e  passando  oltre  pe^ fatti 
suoi.  La  eterna  insistenza  di  questo  sbaglio  m*  aveva  quasi 
ridotto  a  credere  d*  essere  Michele.  Se  quel  Michele  avesse 
avuti  de^  nemici  brutali,  vendicativi,  avjrei  avuto  occasione  di 
non  ridere  d'esser  preso  per  Michele. 

Una  sera,  che  faceva  gran  caldo,  splendeva  una  luna 
bellissima,  a  tal  che  la  notte  pareva  giorno. 'Passeggiava  cer- 
cando fresco  e  discorrendo  col  Patrizio  Francesco  Gritti 
nella  piazza  S.  Marco. 

<  Ho  udita  una  voce  gridare  dietro  di  me  dicendo:  Che 
fiìi  tu  qui  a  quest'ora?  Che  non  vai  a  dormire,  petzo 
d'asino?  Il  dir  ciò  e  il  darmi  due  calzanti  pugni  nella  schiena 
fu  tutt'una  cosa.  Mi  volsi  per  fare  una  mia  vendetta,  e 
scorsi  il  Patrizio  Cavalier  Andrea  Gradenigo,  il  quale  guar- 
dandomi prima  attentamente,  mi  disse  poscia:  Scusi,  avrei 
giurato,  ch'ella  fosse  Daniele  Zanchi.  Ci  fu  qualche  ceri- 
monia sulle  pugna  e  sul  titolo  d'asino  che  aveva  ricevuti 
per  esser  stato  creduto  un  Daniele,  con  cui  il  Cavaliere  do- 
veva avere  una  con6denza  da  potergli  dire  asino  e  di  darle 
(  sic  )  de*  cazzotti  per  usargli  una  finezza  domestica. 

Né  meno  stravagante  fu  il  caso  che  m' avvenne  sulla  mia 
considerata  somiglianza»  Essend'  io  con  Carlo  Andrich  mio 
buon  amico  discorrendo  sulla  piazza -S.  Marco  un  ^orno  se- 
renissimo, vidi  un  greco  co'  baffi,  vestito  alla  lunga  con  una 
berretta  rossa  in  capo,  il  quale  aveva  seco  un  ragazzo  ve- 
stito alla  sua  stessa  maniera.  Quel  greco  vedendomi,  corse 
allegro  verso  me,  e  dopo  avermi  abbracciato  e  baciato  con 
gran  trasporto,  si  volse  al  ragazzo  dicendogli:  via,  ragazzo 
baciate  la  mano  qui  al  vostro  zio  Costantino.  Il   ragazzo  mi 


PREFAZIONE.  .   CLXIX 

prese  la  niiano  badandola.  Carlo  Andrich  guardava  me,  io 
guardava  P Andrich;  eravamo  due  simulacri.-  Finalmente 
chiesi  al  greco  per  chi  mi  prendesse.  .Oh  bella!  (diss'egli) 
non  siete  voi  il  mio*  caro  amico  Costantino  Zucalà?  U  An- 
drich si  stringeva  le  coste  per  non  crepare  dal  ridere,  ed  io 
ebbi  fatica  sette  minuti  a  persuadere  il  greco,  ch^  io  non  era 
il  signor  Costantino  Zucalà.  Fatta  ricerca  sulla  mia  somi- 
glianza col  Signor  Zucalà  a  chi  lo  conosceva,  fui  assicurato 
che  quel  Signore,  onorato  mercante,  era  un  uomo  di  bassa 
statura,  pingue  e  che  non  aveva  grano  di  somiglianza 
con  me.  ^  » 

Passando  ora  a  rivelare  la  «  Centesima  parte  » 
dei  Contrattempiy  dai  quali  fu  sempre  afflitto,  il 
Gozzi  narra  con  tono  di  malinconica  desolazione 
che  se  lo  coglieva  la  pioggia  per  istrada,  aspettava 
ore  ed  ore,  sotto  un  portico,  nella  speranza  che 
cess2^.sse.  Non  e'  era  caso  l  Si  risolveva  allora  ad 
affrontarla  e  giungeva  in  casa  bagnato  come  un 
pulcino.  Appena  toccava  la  soglia  dell'  uscio,  ec- 
coti il  sereno  e  un  sole  di  paradiso.  Se  vol^a  star 
solo  per  Reggere  o  scrivere,  eccoti  un  seccatore  ad 
interromperlo.  Se  si  metteva  a  radersi  la  barba, 
ecco  persone  d' alto  affare,  che  lo  ricercavano  con 
premura,  e  la  barba  rimaneva  mezza  fatta  e  mezza 
da  fare.  Se,  sorpreso  per  via  da  una  piccola  ne- 
cessità naturale,  cercava  un  viottolo  Solitario,. ecco 
due  signore,  che  capitavano  proprio  da  quel  lato. 
Ne  cercava  un'altro,  ed  eccoti  altre  due  signore, 
che  uscivano  da  una  porta  vicina. 

I  Memorie  cit.,  Parte  3,  Gap.  i. 


CI,XX  PREFAZI9NK. 

Tornando  dal  Friuli  in  una  freddissima  sera 
di  novembre,  s' incamminava  verso  casa  sua  e  vide 
per  la  contrada  un  gran  via  vai  di  gente,  poi 
(  oh  meraviglia  !  )  le  finestre  della  sua  casa  spalan- 
cate e  piene  di  lumi. . . . 

«  Aperto  P uscio  (contìnua  il  Gozzi)  mi  si  afikcciàrono 
due  militi  urbani,  i  quali  presentandomi  due  spuntoni  al 
petto  gridarono  con  viso  fiero:  per  di  qui  non  si  passa. 

-  Come  I  (  diss^  io  ancor  più  sbalordito  e  mansuetamente  ) 
perchè  non  possM'p  passare? 

Non  Signore  (  risposero  quei  terribili  )  per  quest*  uscio 
non  sventra.  Ella  vada  a  porsi  in  maschera  ed  entri  per  quel 
•portone  che  vede  qui  a  mano  diritta  ch^è  del  palagio  Braga- 
dino.  Mascherato,  la  lascieranno  per  di  là  entrare  alle  feste. 

Ma  se  fossi  il  padrone  di  questa  casa  e  giunto  stanco  da 
un  viaggio,  agghiacciato,  e  assonnato,  non  potrei  entrare  nella 
lAia  casa  per  pormi  nel  mio  letto  ?  (  diss^  io  con  tutta  flemma  ). 

Ah  il  padrone!  (risposero  que' feroci).  Ella  si  fermi 
ed  avrà  qualche  risposta.  Detto  ciò  mi  chiusero  impetuosa- 
mente la  porta  in  faccia....  S^apri  finalmente  di  nuovo 
r  uscio,  e  mi  si  presentò  un  Mastro'  di  rasa  tutto  trinato 
d^oro,  il  quale  con  molti  inchini,  mi  fece  P  invito  d^  entrare. 
V'entrai  e  salendo  la  scala  chiesi  a  quella  riverente  persona, 
che  fbsse  /'  incantesimo  che  io  vedeva  nel  mio  albergo.  E  lei 
non  sa  nulla?  ( rispose  quelP  uomo ).  11  mio  padrone  Patrìzio 
Gasparo  Bragadino,  prevedendo  che  il  di  lui  fratello  sarebbe 
eletto  Patriarca,  trovandosi  ristretto  di  fabbricato  per  fore  le 
consuete  feste  pQbbliche,  desiderò  di  unire  con  un  ponticello 
di,  passaggio  dalle  finestre  questa  casa  alla  sua  per  aver  mag- 
gior agio.  Tanto  fu  eseguito  coiì  la  di  lei  permissione.  Qui  si 
fianno  parte  delle  feste  -e  si  getta  dalle  finestre  al  popolo 
pane  e  danari.  Lei  non  abbia  però  tflcun  dubbio  che  la  stanza 
dove  ella  dorme  non  sia  stata  preservata  e  chiusa  con  dili- 
genza. Venga  meco,  venga  meco,  e  vedrà. 


PREFAZIONE.  CLXXI 

Rimasi  ancor  più  attonito  sentendomi  dire  d'un^  per- 
missione che  .nessuno  m' aveva  chiesta  e  cU*  io  non  aveva 
data.  Non  volli  però  far  parole  con  un  Mastro  di  casa  sopra 
ciò,  e  giunto  nella  sala  restai  abbagliato  dalle  gran  cere  che 
ardevano,  e  stordito  da^  servi  e  dalle  maschere,  che  fiacevano 
un  gran  girare  e  un  gran  bisbigliare. 

11  rumore  che  si  faceva  nella  cucina  m^  attrasse  a  quella 
parte,  e  Yìdi  un  grandissimo  fuoco,  a  cui  bollivano  paiuoH, 
pignatte,  tegami  e  girava  un  lungo  schidione  di  pqlli  d' India, 
di  pezzi  di  vitella  e  d^  altro. 

11  Mastro  di  casa  cerimonioso  voleva  pure  che  io  ve-. 
dessi  la  mia  stanza  preservata,  chiusa  con  gran  diligenza,  e 
ch'entrassi  in  quella. 

Mi  dica  di  grazia,  mio  Signore  (  diss'  io  )  sino  a  quaF  ora 
dura  questo  tumulto? 

Ma  veramente  (rispose  il  Mastro  di  casa)  per  tre  notti 
consecutive  egli  dura  fino  a  giorno. 

Ho  ben  piacere  (diss'io)  d'aver  avuta  cosa  al  mondo 
■ch'abbia  potuto  accomodare  alla  famiglia  Bragadino.  Ciò 
m' ha  cagionato  un  onore.  Riverisca  le  Eccellenze  Loro.  Vado 
in.  traccia  tosto  di  trovarmi  un  alloggio  per  i  tre  giorni  e 
le  tre  notti  consecutive,  avendo  somma  necessità  di  riposo 
e  di  calma. 

Oibò  (rispose  il  Mastro  di  casa)  ella  deve  riposare  nella 
sua  casa  e  nella  sua  stanza  serbata  con  tutta  l'attenzione. 

No,  no  certamente  (diss'io).  La  ringrazio  della  cortese 
sua  diligenza.  Come  mai  vorrebb'Ella  ch'io  dormissi  con 
•questo  fracasso P  11  mio  sonno  è  sottile....  E  passai  ad  abi- 
tare pazientemente  per  i  tre  giorni  e  le  tre  notti  consecutive 
in  una  locanda.  '  » 

In  realtà  questo  racconto  ha  un  non  so  che  di 
Jiaba  e  rassomiglia   ad   una   di   quelle  avventure 

I  Memorie  cit.,  Parte  3,  Ibld. 


CLXXII  PREFAZIONE. 

degli  eroi  del  Cunto  de  li  CuntCj  sempre  sorpresi 
tra  via  da  questi  scherzi  del  destilo.  A  chi  è  mai 
accaduto  nulla  di  simile,  chiede  il  De  Musset? 
E  la  Vernon  Lee  ci  ride  su,  per  conchiudeme  che 
evidentemente  la  vecchia  casa  dei  Gozzi  era  abi- 
tata da  tutti  gli  spiriti  folletti  delle  Lagune,  e  che 
eran'  essi  che  governavano  a  posta  loro  V  ingegno 
e  tutta  la  vita  di  Carlo  Gozzi. 

Come  furono  lieti  gli  anni  passati  dal  Gozzi^ 
scrivendo  le  FiabCy  e  in  compagnia  delle  vezzose 
donne,  *  delle  Maschere  e  degli  attori  della  Com- 
pagnia Sacchi!  Erano  gli  ultimi  sorrìsi  della  sua 
giovinezza,  ed  anche  riscrivendone  da  vecchio,  non 
può  mai  staccarsi  da  quei  ricordi  e  li  descrive,  e 
li  torna  a  descrivere,  e  ripubblica  i  brindisi  can- 
tati negli  allegri  simposi!  coi  comici  in  casa  del 
Sacchi'  e  si   richiama   a  mente  ogni  nome,  ogni 

1  damante  del  Gozzi  era  allora,  dicesi,  una  nipote  del 
Sacchi,  valente  attrice^  conosciuta  neWArte  col  nome  di 
Ckiaretta. 

*  Nel  Canto  Ditirambico^  più  volte  citato,  è  descritu  la 
polenta  mangiata  in  casa  del  Sacchi  e  tutti  gli  attori  e  le 
attrici,  che  stanno  attorno,  al  tagliere  fumante  inneggiando  a 
quel  ghiotto  piatto,  che  era  una  delle  bravure  del  gran 
Truffnldino.  Forse  del  Canto  Ditirambico  del  Gozzi  a'  è  ri- 
cordato il  Coppola  f  Pompiere)  nella  sua  Cans^one  della  Po^ 
lenta  scritta  per  la  società  dei  Polentoni  di  Parigi. 

In  certe  Memorie  manoscritte  del  Consigliere  Giovanni 
Rossi,  che  trovansi  nella  Bibliot.  Marciana  di  Venezia  (  Ital. 
Classe  VII.  Cod.  1396.  —  Voi,  n,  da  carte  21  a  31)  si 
parla  a  lungo,  e  senza  novità,  delle  lotte  fra  il  Chiarì,  il 
Goldoni  ed  il  Gozzi  e  si  ricordano  le  meraviglie  dalla  Com- 
pagnia del  Sacchi.  Il   Rossi  soggiunge  di    essere  arrivato  a 


PREFAZIONE.  CLXXIII 

persona,  ogni  più  piccolo  accidente  di  quel  tempo 
felice  con  un  mesto  rimpianto,  eh*  egli  cerca  inu- 
tilmente, di  nascondere  sotto  la  burlesca  e  pedan- 
tesca gravità  delle  sue  solite  frasi.  Durò  così  fino 
al  177I9  nei  qual  anno,  ad  intercessione  sua,  Teo- 
dora Ricci.  Bartoli  entrò  nella  Compagnia  Sacchi 
in  qualità  di  prima  attrice.  ^  Da  principio  la  Ricci 
non  piacque  al  pubblico;  ma  il  Gozzi  la  presela 
proteggere,  scrisse  e  riscrisse  commedie  e  drammi 
per  lei,  ed  essa,  che  avea  ingegno,  avea  bella  ed 
elegante  persona  e  bellissima  voce,  finalmente, 
trionfò.  U  periodo  delle  Fiabe^  il  quale  non  com- 
prende se  non  cinque  anni  della  vita  artistica 
di  Carlo  Gozzi,  dal  1761  al  1765,  era  chiuso  da 
un  pezzo.  Alle  Fiabe  avea  egli  surrogate  le  imi- 
tazioni del  teatro  Spagnuolo,  con  le  quali  si  pro- 


tempo  a  conoscere  e  a  trattare  il  Conte  Go\^i  e  ne  parla 
con  ammirazione.  La  commedia  delle  Maschere  non  ebbe 
mai  maggiori  trionfi  che  col  Gozzi  e  col  Sacchi.  Dopo  il 
1782,  scioltasi  la  Compagnia  Sacchi,  continuò,  e  \t.  favole 
Gomitane  si  ripeterono  più  volte  coW  Arlecchino  Pellandi, 
col  Fiorini  già  decrepito,  col  Brighella  Martelli,  col  Panu- 
lone  Valsecchi,  ma  non  erano  più  le  medesime.  L^età  del- 
V  oro  del  teatro  Veneziano,  dice  il  Rossi,  fu  quella  delle 
lotte  del  Goldoni,  del  Gozzi  e  del  Chiari.  Poeti  e  comici  ga- 
reggiavano. Sempre  novità,  e  la  gente  accorreva  in  folla. 
Fuori  del  teatro  gran  discussioni.  E  uno  dei  maggiori  Areo- 
paghi dei  parteggianti  era  il  caffè  di  Ménegai^o  posto  nella 
Merceria  verso  il  Ponte  de*  Baretteri,  alla  metà  circa,  a 
mano  destra,  corrispondente  all'  interno  col  campiello  della 
Chiesa  di  S,  Giuliano. 

^  Nella  Quaresima  delPanno  1771.  A^morie  cit  Part  2* 
Gap.  8,  pag.  60. 


CLXttV  PREFAZIONE. 

poneva  di  sostenere  ancora  le  Maschere^  njesco- 
landole  bfzzarramente  alP  intreccio  romanzesco  e 
sentimentale  dei  drammi  di  cappa  e  spada,  e  si 
proponeva  altresì  di  opporsi  alla  moda  francese 
dei  drammi  lagrimosi  o  tragedie  borghesi^  che 
già  era  penetrata  in  Italia,  (se  pure,  come  io 
credo,  non  vi  fu  dal- Goldoni  precorsa)  ed  era  già 
divenuta  il  bersaglio  principale  delle  nuove  pole- 
miche letterarie  del  Gozzi.  '  Altri  affetti  s' aggiim- 
gevano  però  a  questi  vecchi  ardori  di  battaglia,  e 
la  Ricci  fu  veramente  T  inspiratrice  di  molti  dei 
lavori  teatrali  di  quella,  che  può  chiamarsi  la  se- 
conda maniera  del  Gozzi.  Dopo  cinque  anni  circa 
d' assiduità,  d' assistenza  e  d' una  protezione  cosif- 
fatta, sperava  esso  d'avere  acquistati  titoli  impe- 
rituri alla  gratitudine,  all'  amore,  dirò  meglio,  di 
questa  donna,  e  lo  dico  appunto  perchè  egli  spende 
un  intero  volume  a  provare  che  non  si  trattava 
d' amore.  Povero  Gozzi  !  Questa  volta  il  folletto 
infernale  era  capitato  davvero  a  tribolarlo  ed  egli 
avea  fatto  i  calcoli  senza  mettere  in  conto  i  cin- 
qiiant'anni  suonati,  che  già  pesavano  sulle  sue 
spalle,  r  indole  vana,  leggera  e  corrotta,  e  il  tem- 
peramento isterico  della  Ricci,  della  quale  è  cu-' 


1  Fra  i  lavori  fotti  per  la  Ricci,  v'è  una  traduzione,  del 
Fajel  del  D^  Àrnaud,  dramma  lagrimoso.  Di  questa  con- 
traddizione il  Gozzi  si  giustifica  in  una  lunghissima  prefia- 
zione.*  Vedi:  n  'Fajel  —  tragedia  del  Sig,  D*  Arnaudj  tra- 
dotta, in  versi  sciolti  dal  Co.  Carlo  Go:[^L  (  In  Venezia  1772, 
per  il  Colombani  ). 


PREFAZIONE.  CLXXV 

rìoso  leggere  a  riscontro  delle  Memorie  del  Gozzi 
la  biografia  scrittale  dal  martire  marito,  Francesco 
Bartoli,  il  Plutarco  dei  nostri  Comici;  biografia, 
che  è  un  vero  capolavoro  di  dissimulazione  e  di 
diplomazia  coniugale.  '  Un  uom  di  moda,  Pier 
Antonio  Gratarol,  Segretario  del  Senato,  si  mise 
a  corteggiare  la  Ricci,  ed  essa  sperò  scnz'  altro  di 
poter  tenere  a  bada  il  Conte  Gozzi  ed  il  Segre- 
tario Gratarol.  Il  Gozzi  fiutò  la  trama  e  da  gen- 
tiluomo si  ritrasse,  ma  rodendosi  in  cuore.  Da 
questi  umili  e  molto  comuni  principii  si  svolse  un 
romanzo  dolorosissimo  e  che  amareggiò  e  oscurò, 
si  può  dire,  la  restante  vita  di  Carlo.*  Nel  1775, 
prima  cioè  della  sua  rottura  con  Teodora  Ricci, 
esso  avea  scritto  un  dramma,  tolto  da:  Zelos  cun 
Zelos  se  curat  di  Tirso  de  Molina  (pseudonimo 
di  Gabriele  Tellez),  che  intitolò:  Le  Droghe 
(T  Amore,  Ne  lesse  qualche  brano  alla  Rieri  e  ad 
altri  comici  della  Compagnia  Sacchi;  ma  poi,  non 
sentendosene  soddisfatto,  lo  mise  da  parte.  Verso 
la  fine  dall'anno  seguente,  quando  s'era  già  se- 
parato da  Teodora  Ricci  per  causa  del  Gratarol, 
il  Gozzi  afferma   che   dovette   cedere  alle  istanze 


^  Francesco  Bartoli,  Notizie  Istoriche  dei  Comici  Ita- 
liani che  fiorirono  intorno  al  MDL  fino  ai  giorni  presenti. 
(Padova,  Conzaiti  1781  ).  All'art.  T,  Ricci. 

*  A  risparmio  di  citazioni,  due  sono  le  fonti  principali 
di  questo  racconto,  le  Memorie  del  Gozzi,  e  la  Narrazione 
Apologetica  di  Pier  Antonio  Gratarol.  —  Terza  Ediz.  (  Ve» 
nezia  1797  Anno  1®  della  Libertà). 


CLXXTI  PREFAZIONE. 

del  Capocomico  Sacchi  e  dare  il  dramma.  Fatto  è 
che,  assistendo  ad  una  nuova  lettura,  che,  secondo 
l' usanza,  se  ne  faceva  ai  comici  radunati,  la  Ricci 
cominciò  a  dar  segni  di  meraviglia  e  di  sdegno, 
cpme  se  le  si  rivelasse  tutfad  un  tratto  qualche 
gran  novità,  e  la  novità  era  una  palese  allusiome 
a' suoi  dissapori  col  Gozzi  e  il  tipo  di  un  Don 
AdonCy  tutto  massime  filosofiche  e  motti  e  sman- 
cerie e  caricature  di  moda,  in  cui  le  parve  rap- 
presentato il  GrataroL  Da  questa  prima  favilla 
nacque  V  incendio.  La  Ricci  avverti  il  Gratarol,  il 
quale  colla  balordaggine  d'un  cervello  fumoso, 
cieco  d' ira  e  senza  verificar  nulla  di  nulla,  ricorse 
ai  magistrati,  e  il  dramma,  che  già  era  stato  li- 
cenziato per  la  scena,  fil  ridomandato,  contro  ogni 
consuetudine,  per  una  seconda  revisione.  Il  capo- 
comico Sacchi,  avidissimo  e  certamente  con  mali- 
gnità (  poiché  era  anch'  esso  innamorato  della 
Ricci)  rispose  ai  magistrati  che  non  poteva  darlo, 
-pe)rchè  avea  prestato  il  manoscritto  alla  Procura- 
tessa  Caterina  Dolfin  Tron,  moglie  a  quell'An- 
drea Tron,  tanto  potente  allora  in  Venezia,  che 
lo  chiamavano  per  antonomasia  il  Padrone.  Or  ecco 
come  l' intreccio  del  curioso  romanzo  s'  avviluppò. 
Anche  questa  Dama  (non  si  sa  bene  se  per  mal- 
talento o  per  gelosia)  odiava  il  Gratarol.  Da  un 
lato  adunque  la  Ricci,  che  volea  vendicarsi  del 
Gozzi,  e  la  gran  Dama,  che  volea  vendicarsi  del 
Gratarol.  Dall'  altro  il  Capocomico,  che,  innamo- 
rato deluso,  contava  almeno  ricattarsi  della  scon- 


PREFAZIONE.  CLXXVII 

fitta  amorosa  coi  profitti  sicuri  d'  una  difiTama- 
zione  teatrale,'  ed  il  Gratarol,  che  propalava  ai 
quattro  venti  la  sua  disgrazia  prima  ancora  che , 
gli  fosse  toccata.  Per  ultimo,  e  nel  fondo  del  qua- 
dro, il  gran  pubblico  Veneziano^  che  già  era  a 
parte  del  segreto  e  già  pregustava  1'  acre  delizia 
d'  uno  scandalo  che  comprendeva  le  aule  de'  ma- 
gistrati, il  salotto  d'  una  gran  Dama  e  le  quinte 
del  palco  scenico.  A  farla  breve,!  per  quanto  il 
Gozzi  ostentasse  un  gran  zelo,  a  fine  d' impedire 
la  rappresentazione  del  Dramma,  la  -segreta  in- 
fluenza della  Dama,  i  raggiri  del  Capocomico,  la 
perfidia  della  Ricci  e  la  scioccaggine  del  Gratàrol 
furono  più  forti  di  lui  e  la  sera  del  io  Gen- 
naio 1776  (stile  Veneto)  1777  (stile  comune*)  la 
folla  pigliava  d' assalto  il  teatro  per  veder  messo 
alla  berlina  dal  celebre  autore  delle  Fiabe  un  Se- 
gretario del  Senato  di  Venezia.  '  Fino  la  derelitta 

*  Memorie,  òit.  Parte  2.  Gap.  32,  pag.  287. 

*  «  La  Cancelleria  Ducale,  scrive  il  Morpurgo,  si  disse 
con  espressione  altreiianto  efficace,  quanto  veritiera,  il  cuore 
dello  Stato,  Ufìicii  vitalizi  erano  soltanto  'quelli  del  Doge  e 
dei  nove  Procuratori  di  S.  Marco;  tutti  gli  altri,  essendo  ili 
brevissima  durata  e  spesso  colpiti  di  contumacia,  si  doveva 
trovar  modo  di  custodire  le  tradizioni  e  le  buone  consuetu- 
dini amministrative  dello  Stato.  La  Cancelleria  ducale,  supe- 
riore di  dignità  alle  burocrazie  dei  nostri  tempi. ;.►  dovette  : 
rispondere  a  questo  bisogno.  In  essa  si  compilavano  tutti  gli 
atti  per  le  cause  «  in  Serenissima  Signoria  e  in  pien  Col- 
legio. »  Era  formata  da  tre  classi  di  Segretarii:  tenevano 
il  primo  posto  i  quattro  del  Consiglio  dei  X;  poi  i  cin* 
quanta  del  Senato,  da  cui  erano  scelti  gli  ambasciatQri  di  se» 
condo  grado  col  nome   di  Residenti;  finalmente  i   Notar i 

Masi.  .    / 


CLXXVIII  PREFAZIONE. 

moglie  del  peccaminoso  Gratarol  fii  incontrata  dal 
Gozzi  sulle  scale  del  Teatro  e  la  senti  a  dire,  ri- 
dendo: «  ho  voluto  venir  a  vedere  mio  marito 
sulla  scena,  *  »  Il  Gratarol  stesso  sfidava  da  un 
palchetto  la  tempesta.  Essendo  poi  il  dramma  un 
assai  pallida  cosa  e  le  allusioni  e  la  parodia  tanto 
fiacca,  che  un  pubblico  meno  prevenuto  avrebbe 
potuto  non  addarsene  neppure,  così,  ad  ogni  buon 
fine,  la  Dama  ed  il  Capocomico  provvidero  che 
l'attore  Vitalba,  il  quale  faceva  la  parte  di  Don 
Adone  ed  avea  qualche  ra3somiglianza  col  Gratarol, 
imitasse  il  vestiario,^  l'andatura,  gli  attucci,  la  pet- 
tinatura di  lui,  sicché  il  pubblico  a  prima  vista  lo 
riconoscesse.*  La  indovinarono.  Lo  scandalo  fu 
immenso  ;  ad  ogni  apparire  di  Don  Adone  gli  urli, 
le  risate,  gli  applausi  parevano  sobbissare  il  teatro, 
ed  il  giorno  dopo  il  povero  Pier  Antonio  Grata- 
rol, che  àvea  durato  impavido  tutta  la  sera  a  quello 
strazio,  era  divenuto  il  ludibrio  di  tutta  Venezia. 
Tentò  ogni  via  di  schermirsi  e  di  vendicarsi  e  non 
gliene  riesci  nessuna.  Alla  fine,  disperato,  fuggii 
A  Stokolma  pubblicò  una  Narrazione  Apologe- 
tica,  nella  quale  infamava  il  Gozzi,  la  Tron,  la 

in  numero  illimitato.  »  Op.  cit.  pag.  no,  ni.  Il  Gratarol, 
quando  gli  accadde  tutta  codesta  vicenda,  stava  per  essere 
nominato  Residente  a  Napoli,. 

^  Memorie  cit.  Parte  2,  Gap.  32,  pag.  289. 

«  Il  Cantù  nella  Storia  degli  Italiani^  Tomo  VI,  dà  il 
nome  detrattore,  che  rappresentò  il  Don  Adone^  alla  gran 
Dama  e  la,  chiama  Caterina  Vitalba.  Cosi  la  Dama  diventa 
pedina,  come  la  Turandot  era  divenuta  maschio. 


PREFAZIONE.  ,  CLXXIX 

*' 

nobiltà  e  il  governo  di  Venezia.  Fu  condannato  a 
morte  in  contumacia,  con  sentenza  del  Consiglio 
dei  Dieci  del  22  Dicembre  1777,*  pel  semplice  ti- 
tolo d' essere  uscito  di  Stato  senza  la  licenza  ne- 
cessaria ad  un  ufficiale  della  Segreteria  del  Senato, 
gli  furono  confiscati  i  bèni,  sua  moglie  e  la  sua 
famiglia  furono  ridotte  all'  indigenza  ed  egli,  dopo 
essere  andato  errando  a  Brunswick,  a  Stokolma, 
in  Inghilterra,  a^i  Stati  Uniti,  al  Brasile,  partì  da 
qui  con  alcuni  avventurieri  e  chiuse  miseramente 
i  suoi  giorni  al  Madagascar  nell'Ottobre  del  178$.* 
Questo  singolare  avvenimento  è  profondamente 
caratteristico  del  tempo,  della  città  e  dei  mali, 
ond'  era  sordamente  minata  la  forte  e  antica  com- 
pagine di  quella  società  e  di  quel  governo,  che 
per  durata,  gloria,  sapienza  e  vigore  d'institu- 
zioni  e  alto  sentimento  di  patria  meritò  d'essere 
paragonato  a  Roma  nei  tejnpi  antichi,  e  nei  mo- 
derni all'Inghilterra.  Tutto  s'è  ora  rimpiccolito, 
uomini  e  fatti,  e  nel  governo  penetrano  influenze 
illécite^  ed  una  dubbia  moralità  inspira  le  decisioni 
dei  magistrati  e  un  a/rbìtrio  violento,  che  non  im- 
pedisce le  colpe  grandi,  castiga  le  piccole  con  un 
eccesso  di  rigore,  da  cui  traspare  la  sua  intima 
debolezza.  Quanto  alla  parte  del  Gozzi  in  ciò,  che 

^  E  riferita  nella  Parte  2  delia  Narra!(ione  Apologetica 
pag.  LXXin.  Ediz.  cit. 

*  Memorie  Ultime  di  P.  A,  Gratarol  coi  documenti 
della  di  lui  morte  e  dell' ingiustv(ia  del  Fisco*  Veneto  etc, 
(Venezia,  Zatu,  1797.) 


CLXXX  PREFAZIONE. 

ho  narrato,  e  alle  accuse,  che  gli  furono  date,  e 
alle  difese,  ctf  egli  ha  scritte  di  sé  medesimo,  la 
convinzione,  eh'  io  mi  sono  formata,  confrontando 
diligentemente  la  Narratone  Apologetica:  del  GraL- 
taro!  con  le  Metnorie^  *  con  la  Lettera  Confuta- 
toria^ e  col  Dramma:  Le  Droghe  d'Amore^  del 
Gozzi,  è  la  seguente.  L'  allusióne  satirica  al  Gra- 
tarol  esiste  nel  Dramma  e  fu  deliberatamente  vo- 
luta dal  Gozzi.  Se  però  essa  fosse  rimasta  nelle 
proporzioni,  eh'  ei  le  aveva  date,  pochi  certamente 
l' avrebbero  avvertita  e  poco  danno  avrebbe  potuto 
fare  al  Gratarol.  La  costui  imprudenza,  il  malvo- 
lere delle  due  donne  e  la  bassa  cupidigia  del  Ca- 
pocomico gonfiarono  invece  al  di  là  d'  ogni  pre- 
visione possibile  l' entità  della  satira.  Ma  questo 
fatto  èra  già  visibilissimo  prima  della  rappresen- 
tazione, ed  il  Gozzi,  che  avrebbe  potuto,  volendo, 
impedirla,  non  agi  a  t|l  fine  con  sufficiente  riso- 
lutezza e  lealtà,  mentre  il  Governo  dal  canto  suo 
autorizzò  e  protesse  lo  scandalo.  Da  ultimo  il  Gra- 
tarol, testa  debole,  la  smarrì  del  tutto  in  tale  fran- 
gente e  fu  in  massiipa  parte  autore  della  propria 
rovina.  Queste  conclusioni,  che  a  me  sembrano 
esatte,  gettano,  non  v'  ha  dubbio,  una  brutta  om- 

*  Memorie  cit,  Parte  2,  Capitoli  20,  21,  22,  23,  24»  25, 
26,  27,  28,  29,  3o,  31,  3-2,  33,  34,  35,  36,  37,  38,  39,  40,  41, 
42,  43,  44. 

*  Gozzi,  Lettera  Confutatoria  da  me  scritta  Vanno 
ijSo  e  indiri:(^ata  a  Pietro  Antonio  Gratarol  a  Stokolnu 
In  principio  del  Voi.  3  delle  Memorie  cit. 

'^  Stampato  in  fine  del  Volume  3  delle  Memorie  cit. 


PREFAZIONE.  CLXXXl 

bra  su  Carlo  Gozzi  e  sii  Caterina  Dolfin  Tron, 
della  quale  il  Gozzi  stesso,  nel  dedicarle  la  Afar- 
fisa  Bi^arra^  aveva  lodato  l'ingegno,  T animo 
franco  e  la  lingua  sincera,  non  meno  che  il  por- 
tamento leggiadro,  i  gigli  e  le  rose  del  colorito  e 
l'oro  dei  capelli,*  e  che  nella  storia  letteraria  ita- 
liana è  conosciuta  principalmente  come  la  protet- 
trice di  Gaspsu-e  Gozzi,  a  cui  soleva  dare  fami- 
gliarmente  iJ  dolce  nome  di  padre,^  Caterina  fu 
certamente  una  delle  più  illustri  donne  del  patri- 
ziato Veneto  negli  ultimi  tempi  della  Repubblica. 
Fu  ambiziosa,  potente,  invidiata.  Perciò  ebbe  de- 
trattori fìerissimi  in  vita,  e  dopo  morte  furono 
molto  diversi  i  giudizi  sul  conto  suo.  Di  recente 
le  si  mostrò  avverso  V  Urbani  De  Gheltof  ;  ^  apo- 
logista forse  troppo  indulgente  il  Castelnovo,  il 
quale  però  aggiunse  nuovi  documenti  ai  già  noti 
del  vivo  ingegno  di  lei.  ^  Pare  indubitato  che  lo 


1  Cablo  Gozzi,*  Opere,  Ediz.  del  1772  Tom.  VII.  Dedica 
della  Marpisa  Bizzarra  a  S,  E.  la  Signora  Caterina  Dot- 
fino,  Cavaliera  e  Procuratessa  Tron.  pag.  6. 

*  Vedi  nelle  Memorie  di  Carlo  il  Capii.  44.  della  Pane  2, 
dove  narra  il  caso  pietoso  del  fratello  Gaspare,  che  a  'Pa«- 
dova  preso  da  febipre  s' era  gettato  nel  Brenta.  Riferisce  in  . 
proposito  un  suo  colloquio  colla  Tron.  Vedi  anche  nelle 
Lettere  Familiari  dì  Gaspare  (Opere,  Ediz.  cit.  VoJ.  16)  le 
mplte  sue  lettere  alla  Tron  e  quella  in  particolare  del  io- 
Novembre  1777. 

3  In  alcune  appendici  del  giornate  Veneziano:   //  Rin^ 
novampìto. 

^  Enrico  Castelnovo,    Una   Dama    Veneziana  del  Se-^ 
còlo  XVIII.  Nuova  Antologia.  Second.  Ser.  Voi.  33^ 


CLXXXII  PREFAZIOKK. 

scandalo  delle  Droghe  (T' Amore  e  del  Gratarol  e 
la-  parte,  che  ebbe  Caterina  in  tutto  questo  malau- 
gurato avvenimento,  troncassero  il  volo  alle  am- 
bizioni di  Andrea  Tron,  il  quale  aspirava  al  Do- 
gato. '  Ciò  non  tolse  a  Caterina  di  primeggiare 
in  Venezia  e  a  questo  fine  veramente  furono  di- 
retti gli  sforzi  di  tutta  la  sua  vita  e  le  arti  fem- 
minee, con  le  quali  passò  dal  talamo  del  Tiepolo 
a  quello  di  Andrea  Tron,  *  di  cui  fu  amante  primia 
che  moglie,  e  che  pure  non  seppe  sciogliersi  dalle 
sue  catene.  Galante  essa  era  di  certo  e  la  galan- 
teria fu  il  segreto  della  sua  potenza.  Basta  leg- 
gere le  sue  lettere  al  Tron  durante  i  dibattimenti 
delle  Leggi  contro  gli  Ebrei  e  della  Correzione 
del  1775  per  vedére,  che  filtri  d^ amore  e  d'adu- 
lazione sapea  manipolare  quella  donna.  ^  In  pari 
tempo  la  suu  vendetta  contro  il  Gratarol  rivela 
una  violenza  di  passioni,  che  basta  a  dar  ragione, 
non  foss' altro,  delle  maldicenze  molte,  che  cor- 
sero a  suo  carico.  V  ha  chi  pretende  che  in  quel-  ' 
l'occasiona  ella  si  valesse  dell'antico  ascendente, 
esercitato  sul  cuore  del  Conte  Carlo  Gozzi,  e  seb- 
bene non  s' abbia  ancora  documento  sicuro  di  ciò, 

^  Un  epigramma  del  tempo: 

Thronus  Eques,  sapiens,  nupc  Procarator, 
At  ilio  si  diadema  negat  Patria,  sponsa  dabit. 

^  Era  nata  nel  lySó,  s^era  maritata  al  Tiepolo  nel  1755. 
Fu  annullato  il  matrimonio  e  sposò  AAdrea  Tron  nel  1773. 

^  Stupenda  fra  le  lettere  pubblicate  dal  Castelnovo  la 
lettera  di  Caterina  Tron,  5  Sett.  1772. 


PREFAZIONE.  CLXXXIII 

certo  è  Che  il  Gozzi  non  dice  nelle  Memorie  tutta 
la  verità  sulle  sue  relazioni  con  .Caterina  prima 
del  Ì776.  Furono  più  intime  e  più  frequenti  di 
quant'  egli  voglia  lasciar  credere  e  queste  dissi- 
mulazioni, del  Gozzi  hanno  sempre  qualche  riposta 
cagione.  Anch'esso  interveniva  ai  Lunedì  di  Ca- 
terina e  forse  rappresentava  fra  quella  comitiva 
fìlosofìstica  (un  bel  giorno  dispersa  dai  sospetti 
del  Governo)  la  parte,  come  oggi  si  direbbe,  del- 
l' estredia  destra.  '  Quanto  a  Caterina,  essa  avea 
mente  aperta  alle  novità  correnti  e  animo  libero 
da  pregixidizi.  Non  mi  sembra  fondata  però  l' ipo- 
tesi del  Castelnovo  che  il  bellissimo  sonetto  della 
Tron,  da  lui  pubblicato,  sia  scritto  dopo  il  1789 
e  contenga  quasi  una  profezia  della  rovina,  che. 
soprastava  a  Venezia  per  opera  della  Rivoluzione 
Francese  : 

Si,  cascarà  /a  mole  de  Piera^o, 
Perchè  xe  un^oca  deventà  el  leon, 
Perchè  nel  fogo  se  descola  el  giazzo; 

Ma  mi  fia  d^un  Dolfin,  muger  de  un  Tron, 
Bato  grinta,  per  Dio,  mi  no  me  mazzo 
E  se  caseo,  no  casco  in  zenocchion. 

i  Vedi  le  Appendici  dell'  Urbani  de  GhelioF.  Sulla  chiu- 
sura del  Casino  di  S.  Giuliano  presso  S.  Marco  V  Urbani  ri- 
ferisce una  canzone  delP  Abate  Barbaro,  che  è  una  rivace 
pittura  dei  Luni  di  Caterina.  DelP  Abate  Barbaro,  maldicente 
emerito,  esiste  pure  un  opuscolo,  stampato  durante  il  perìodo 
democratico  e  intitolato:  U  Abate  Barbaro  che  tira  a  peni- 
teìv^a  un'  Ex  Patri:(ia^  che  è  una  satira  amara  contro  la 
Tron.  N'ebbi  notizia  dal  Malamani. 


CLXXXIV  PRÈFAZ^NK. 

Richiamando,  come  fa,  il  ricordo  di  Pier  Grade- 
nigo  e  dell'ordinamento  dato  da  lui  all'aristocra- 
zia Veneziana,  è  chiaro»  mi  sembra,  ch^  essa  si 
riferisce  alle  agitazioni  interne  della  Repubblica, 
forse  a  ijuelle  della  Correpone  del  1775,  ed  il  suo 
sonetto  esprime  i  sentimenti  della  parte  aristocra- 
tica più 'illuminata,  siccome  q.uello,  assai  noto,  di 
Lorenzo  da  Ponte  in  difesa  di  Giorgio  Pisani,  «  il 
Caio  Gracco  di  Venezia  in  quei  tempi.  *  »  espri- 
meva le  passioni  e  gli  astii  -  dei  Barnabotti  e  dei 
lóro  aderenti.  Se  si  potesse  determinare  che  l'al- 
lusione della  prima  quartina  al 

....  filosofo  profondo, 
Che  unir  sogna  ai  so  corni  anca  el  Ducal,* 

si  riferisce  al  Renier,  che  fu  Doge  nel  1779,  e 
alle  cronache  scandalose  del  secondo  matrimonio 
di  'lui  colla  Dalmaz,  plebea,^  si  stabilirebbe  la 
data  approssimativa  del  sonetto.  In  ogni  modo, 
(se  già  quella  frase:  muger  de  un  Tron  non  in- 
dica che  il  Tron  era  anche  vivo,  e  morì  nel  1785) 
non  è  ammissibile  in  una  Patrizia  Veneta,  morta 
nel  1793,  una  sì  miracolosa  chiaroveggenza  d'un 

'  *  Da  Ponte,  Memorie  cit.  Pane  1.  —  Romanin,  Storia 
Docum.  cit.  Tom.  .Vili  Gap,  6^  e  7.  —  Molmenti,  Storia  di 
Vene:[ia  nella   Vit^  Privata  etc.  Parte  3. 

*  Ri tor(?c  contro  a^suoi  nemici  P  epigramma  latino  sopra 
citato,  fetio  contro  di  lei. 

3  Dicesi  anche  ballerina  da  corda.  Ma  non  è  provato. 
Vedi:  MoLJiENTr,  L^  Dogaressa  di  Vene:{ia,  Gap.  XVII. 


^    PREFAZIONte.  CLXXXV 

intrigo  politico,  che  fa  parte  delle  ultime  vicende 
storiche  della  Rivoluzione  Francese.  La  Tron  non 
resta  mena  per  questo  una  delle  figure  più  note- 
voli e  più  caratteristiche  del  suo  tempo,  ma  lo  è 
appunto  perché;  nella  superiorità  del  suo  spirito 
e  del  suo  ingegno,  partecipava  non  poco  anche 
ai  vizi,  alle  corruttele,  e  ai  bassi  istinti  di  prepo- 
tenza e  d' intrigo,,  nei  quali  s'andava  spegnendo 
la  vecchia  grandezza  della  sua  casta. 

Teodora  Ricci,  l' altra  eroina  del  triste  romanzo 
del  Gratarol,  nel  1777  ^^  ^'  ^^^^  ^  Parigi  nella 
Compagnia  dei  Commedianti  Italiani  e  vi  rimase 
circa  tre  anni.  Nelle  N6ti:^ie  Istoriche  dei  Comici 
il  prudente  marito  parla  di  lei  fino  al  suo  ritorno 
da  Parigi,  tace  delle  sue  clamorose  avventure,  e 
nasconde  i  suoi  risentimenti  sotto  un*  ammonizione 
agrodolce,  con  la  quale  chiude  V  articolo  della  mo~. 
glie.  Francesco  Bartoli  era  un  buono  e  onest'  uomo, 
che  non  avrebbe  meritato  una  simile  donna  per 
móglie.  Appassionato  compilatore  di  curiosità  sto- 
riche dell?  arte  sua  e  delle  belle  arti,  avea  scritto 
in  gioventù  anche  commedie  e  tragedie  ed  era 
stato  attore  valente  anche  all'  improvviso.  Fra  U 
canagliume  istrionico  della  Compagnia  Sacchi  si 
trovò,  dice  egli  stesso: 

O  mal  visto,  o  mal  noto,  o  mal  gradito.  >     ' 


i  Vedi  nelle  Notizie  Istpriche  cit.  la  sua  autobiografia 
tino  al  1781. 


CLXXXVI  PREFAZIONE. 

Dopo  gli  scandali  del  1777  si  separò  dalla  moglie 
ed  è  notevole,  in  uomo  di  così  retta  coscienza, 
che  dei  tre  figli  della  Ricci  non  ritenne  con  sé 
che  il  primogenito.  Neil' 82  si  ritirò  dall'arte  e 
visse  a  Rovigo,  scrivendo  anche  libri  ascetici  e  tutto 
dato  alla  devozione.  'La  Ricci  invece,  tornata  che 
fu  da  Parigi,  entrò  nella  Compagnia  del  S,  Gio- 
vanni Grrisostomo  a  Venezia.  Rivide  allora  il  Gozzi, 
e  osò  rivolgersi  a  lui  con  una  lettera  garbata, 
dóve,  toccando  delicatamente  la  corda  sensibile 
del  passato,  lo  pregava  di  donare  alla  sua  Com- 
pagnia un  dramma,  da  lui  già  scritto  per  la  Com- 
pagnia deh  Sacchi  e  mai  rappresentato,  intitolato: 
Cimene  Pardo.  S'era  ella  avveduta  che  qualche 
brace  covava  ancora  sotto  le  ceneri?  Le  donne  hanno 
in  ciò  un  intuito,  che  di  rado  dà  in  fallo.  Fatto  è 
che,  se  l' amante  non  si  fece  più  vivo,  '  il  poeta 
la  compiacque  e  le  donò  il  dramma.  L'artista  lo 
rimeritò,  procurandogli  l' ultimo  forse  dei  suoi 
trionfi  teatrali!  *  Nel  1793  anche  la  Ricci  lasciò  il 
teatro.  Il  pietoso  marito  la  riaccolse  ed  e^sa,  l' iste- 
rica, tribolò  gli  ultimi  suoi  anni  fino -al  1806,  che 
il  Bartoli  morì.  Teodora  finì  pazza,  circa  nel  1824^ 
nello' spedale  di  S.  Ser villo  presso  Venezia.  '  A  Fran- 

^  Aveva  a  questiona  66  anni. 
.  «  Memorie  cit.  Parte  3.  Gap.  3,  pag.  2o5  e  ategg.  Opere. 
Ediz.  idoi-i8o3  Tom.  IX.  Prefazione  al  Dramma  Tragico: 
Cimene  Pardo,  Tomo  XI,  Prefazione  al  Dramma  Favoloso- 
Allegorico:  La  Figlia  del P  Aria  ossia  V  Innalzamento  di 
Semiramide, 

8  Vedi  in  Tipaldo:  ItaL  Ittustri  del  Secolo  XVIILT.  IX. 


puekazione.  clxxxvii 

Cesco  Bartoli  spetta  quindi  di  pien  diritto  un  bet 
posto  in  quel  famoso  Teatro  Celeste  ài  Giovan 
Battista  Andreini,  nel  quale  si  rappresenta  come 
la  divina  bontà  habbia  chiamato  al  grado  di  bea- , 
titudine  di  santità  comici  penitenti  e  martiri  ' .,. . 
Nessuno  lo  ha  più  meritato  di  lui  1  ^ 

Dopo  gli  avvenimenti  narrati,  anche  la  vitandi 
Carlo  Gozzi  si  abbuiò.  Scioltasi  la  Compagnia  Co- 
mica del  Sacchi,  egli  cessò  poco  dopo  di  scrivere 
per  il  teatro.  Avea  ancora  sul  telaio  molte  altre 


i  Con  un  poetico  esordio  a  scenici  Professori  di  far 
V  arte  virtuosamente  per  lasciare  in  terra  non  solo  nome 
famoso^  ma  per  non  chiudersi  viziosamente  la  via,  che  ne 
conduce  al  Paradiso.  Compiesi  così  il  lungo  titolo  del  libro 
dell'  Andreini,  intorno  al  quale  è  da  vedere  lo  studio  del 
Magni  n:  Teatro  Celeste,  Le  Comédiens  en  Paradis,  Revue 
des  Deux  Mondes.  Tom.  IV  A.  1847  P^g*  ^^43-857.  Cf.  pure 
il  Moland,  Molière  et  la  Comédie  Italienne^  Gap.  Vili,  ed  il 
Eascbet,  Les  Comédiens  Italiens  à  la  Cour  de  France^ 
Chap.  VII.  Questo  bisogno  di  riabilitare  Parte  in  cospetto 
alle  accuse,  che  specialmente  la  Chiesa  le  lanciava,  fu  spesso 
sentito  dai  nostri  vecchi  Comici  e  Maschere  della  Comme- 
dia estemporanea.  Nel  senso  del  libretto  delP  Andreini  è 
scrìtta:  La  Supplica  di  Niccolò  Barbieri^  detto  Beltramo^ 
Vedi:  Moland  Op.  cit.  Chap.  IX,  M.  Scherillo,  La  Commedia 
"dell'  Arte  in  Italia^  Magni n,  Op.  cit. 

*  L'Attore  Vitalba»  che  nel  Dramma  :  Le  Droghe  d'Amore, 
avea  ùnta  la  parte  di  Don  Adone,  segui,  dopo  il  Carnovale 
1776-77,  la  Compagnia  Sacchi  a  Milanb,  dove  fu  ripetuto  quel 
Dramma.  Una  sera,  mentre  si  recava  al  teatro,  gli  fu  da 
ignota  mano  lanciata  sulla  faccia  una  bottiglia  d'inchiostro, 
che  per  poco  non  lo  deformò.  Si  sospettò  di  un  mandatario 
del  Graurol.  Così  insinua  il  Gozzi  nelle  Memorie.  Parte  2. 
Cap.  45,  pag.  43 1-2 2.' Il  Gratarol  nella  Narraj^ione  Apologe^ 
tica^  pag.  i3o  31,  narra  il  fatto  e  respinge  da  sé  questa  taccia. 


CLXXXVIII  PREFAZIONE. 

opere,  ma,  disgustato,  diede  un  caldo  a  tutto  e 
non  n^  volle  saper  più  altro.  '  Pareva  eh'  ei  s' ac- 
corgesse per  la  prima  volta,  e  come  allo  svegliarsi 
da  tutto  il  suo  sogno  fiabesco,  che  la  vita  ha  pure 
un  lato  serio  e  tristo  per  tutti  e  che  «  non  si  può 
sempre  ridere, ^.y>  Era  più  solo  del  solito  e  forse 
un  po' abbandonato  ;  la  morte  gli  rapiva  ad  uno 
ad  uno  fratelli,  sorelle,  amici;  la  sua  salute  co- 
minciava ad  alterarsi.  Tuttociò  lo  facea  immalin- 
conire e  (  strano  a  dirsi  del  Gozzi,  derisore  impla- 
cabile dei  sentimentali  e  dei  piagnolosi,)  i  suoi 
«  riflessi  filosofici  s^  accostavano  alquanto  a  quelli  di 
Young,'  »  lo  scrittore  sentimentale,  più  degno  forse 
delle  sue  derisioni  1  Comunque,  nei  versi,  che  in 
questo  tempo  il  Gozzi  andava  ahcora  componendo^  ' 
si  mescolano  all'antica  sua  vena  burlerà  insoliti 
accenti  dolorosi,  che  ben  dimostrano  lo  stato  del- 
l' animo  suo.  ^  A  poco  a  poco  il  poeta  si  spense  in 
lui  quasi  del  tutto,  e  gli^ottentrò  una  vecchiaia  ipo- 


^  Memorie  cit.  Parte  3,  Gap.  3o,  pag.  208.  Oltre  alle  Dicci 
Fiabe,  il  Gozzi  ha  composto  altre  ventitré  opere  teatrali,  senza 
contare  le  traduzioni,  ìn  un  periodo  di  circa  vent^anni. 

*  Memòrie  cit.  Pane  3,  Gap.  4.  Ibid. 

s  Metkorie  cit.  Ibid.  pag.  211. 

^  Vedi  il  sonetto  a  pag.  212  delle  Memorie  Parte  3.  Gap,  4. 
e  al  N.  93  del  Saggio  Bibliograf,  in  fine  del  Voi.  2,  le  Ot- 
tave in  Morte  di  Daniele  Farsetti.  Dopo  il  1777  la  sua  di- 
sposizione pessimista  scatta  ad  ogni  proposito.  La  satira  è 
più  impersonale,  ma  più  amara.  In  un  sonetto,  cheé  inedito 
io  credo,  e  che  mi  fu  favorito  dalP  egregio  Sig.  Gonte  Ti-, 
berio  Róbeni  di  Bassano,  il  Gozzi  ad  una  ballerina  che  dan- 
zava a  Mestre  $ul  Teatro  Balbi  nel  1779,  scrìve: 


PREFAZIONE.  CL^XXIX 

condriaca,  travagliata  di  mali  mezzo  immaginari  e 
mezzo  reali  e  tutta  occupata  di  affiirucci  e  di  fac- 
cenduole,  la  quale  fa  un  contrasto  più  strano  di 
quello,  che  tocca  a  tutti,  con  la  sua  giovinezza  e, 
non  dirò,  con  la  sua  virilità,  perchè  mi  sembra  che 
questa  manchi  nella  vita  del  Gozzi.  L' amore  di 
Teodora  protrae  la  sua  giovinezza,  e  quando  que- 
sf  ultima  illusione  gli  sfugge,  egli  piomba,  senza 
trapasso  e  senza  gradazioni,  nelle  ombre  nialinconi- 
che  della  vecchiaia.  Dalle  poche  lettere,  che  di  lui  si 
conoscono,  relative  a  questo  tempo,  massime  dalle 
inedite  dirette  al  suo  amico  Innocenzo  Massimo 
ed  al  figliuolo,  le  quali  vanno  dal  1785  al  1788,31 
rileva  eh'  egli  ora  s' occupava  di  negoziare  in  mer- 
letti e  tele,  in  caffè,  cinnamomo  e  cacao,  in  Ma- 
laga e  Cipro,  talvolta  in  carrozze,  tal'  altra  per- 
sino in  capponaie,  non  sdegnando  neppure  di  of- 
frire la  sua  mediazione  a  chi  voleva  far  aggiustare 
cocci  rotti.  '   Una  sua  lettera  inedita  del  6   Feb- 


Brami  che  al  tuo  valor  plauso  trabocchi? 
Troppo  modesta  danzi  e  troppo  schiva, 
Attributo  modestia  oggi  è  da  sciocchi. 

Saetta  il.  spettatore  danza  lasciva, 

Nop  tener  neghittosi  i  tuoi  begli  occhi 

E  udrai  tnonar  gP  immensi  applausi  e  i  viva. 

La  ballerina  avrà  trovate  probabilmente  molto  inutili  codeste 
raccomandazioni  del  rigido  poeta. 

1  Vedi  gli  Estratti  di  lettere  a  Innocenzo  Massimo  pub- 
blicati da  Vittorio  Malamani  nel  suo  stadio:  /  Go:{{i  nella 
Nuova  RivUta  di  Torino  N.  LVIU-IX-X. 


CXC  -PREFAZIONE. 

b^aio  1785,  more  veneto,  1786,  stile  comune,  favo- 
ritami dal  Sig.  Conte  {Tiberio  Roberti,'  conferma 
appunto  ciò  che  ho>  testé  detto  di  lui.  E  senz^ 
indirizzo  : 

«  Amico  amatissimo,  delle  monete  non  vi  date 
pena.  Alcuni  brutti  zecchini  Veneti,  papalini,  gi- 
liati  e  pezzette  d'oro  furono  prese  dal  Megere 
senza  bilancia.  Un  quarto  di  lisbonina,  e  mezza 
doppia  del  Papa  sono  scarsissimi,  ma  per  un  ac- 
cidente fortunato  non  vi  sarà  nessun  divario.  Ri- 
guardo al  fornimento,  per  quante  ricerche  faccia, 
non  trovo  niente  di  Fiandra.  Vengo  assicurato  che 
di  Fiandra  qui  non  viene  più  nulla  e  che  l' impo- 
stura sola  mantiene  il  *  titolo  di  Fiandra.  Mi  si  dice 
che  vengono  qui  dei  bellissimi  fornimenti  di  Sle- 
sia. Mi  fu  data  la  traccia  di  far  ricerca  alli  Si- 
gnori Heinzelman,  mercanti  di  tutta  probità,  da  me 
conosciuti.  Oggi  mi  porto  da  quei  Signori.  È  certo 
che  se  trovo  ivi  il  fornimento,  si  avrà  di  prima 
mano  e  ad  assai  miglior  prezzo  che  nella  Merce- 
ria, la  quale  si  provvede  da  lui  (sic)  per  corbel- 
lare i  poveri  compratori. 

Il  Minio,  rigattiere,  mi  disse  che  se  toccherà  a 
lui  certi  mobili  d' una  famiglia,  che  sono  in  ven^- 
dita,  avrà  da  servirmi,  ma  questa  è  cosa  lunga  e 
non  a  proposito.  Se  mi  riesce  di  trovare  codesto 
fornimento  ditemi  Se  devo  spedirvelo  tosto  o  te- 
nerlo alla  vostra  venuta.  Quando  averete  condotta 
la,  sposa  in  casa,  averete  fatto  il  più:  tutto  il'resto 


PREFAZIONE.  CXCI 


vi  servirà  di  passatempo.  Dio  voglia  che  i  tempi 
buoni  resistano  per  vostro  minor  tracollo.  '  La 
Cimene  si  è  replicata  anche  iersera  *  per'  la  recita 
diciasette  con  somma  fortuna.  Non  so  se  tjuesta 
sera  si  replichi  ancora,  perchè  non  sono  ancora 
uscito  di  casa.  Ho  la  testa  frastornatissima  da 
mille  imbrogli.  Riverite  tutti.  Addio.  Vostro  fed. 
S.**  e  Amico,  Carlo  Gozzi.  » 

In  questa  lettli-a  il  poeta  delle  Fiabe  non  si 
riconosce  più.  Pare  scritta  da  uno  dei  Rusteghi 
del  Goldoni  e  tanto  più  singolare  riesce  quell' ac- 
cenno alla  recita  della  Cintene^  il  dramma  eh'  egli 
avea  donato  alla  Ricci.  È  come  un  ultimo  baleno, 
che  striscia  sul  buio!  Era  sempre  impicciato  nella 
tregenda  economica  di  Casa  Gozzi,  e  contuttociò 
non  pare  ch'egli  fosse  assolutamente  povero.  Ma 
si  lagna  sempre  e,  se  non  degli  affari,  si  lagna 
della  sua  salute.  Al  Massimo  descrive  e  ridescrive 
infermità,  tossi,  raffreddori,  reumatismi,  flussioni. 
«  Le  nostre  lettere,  gli  dice  in  un  lucido  inter- 
vallo, si  potrebbero  intitolare:  ga^^iette  ipocon- 
drìache!^ »  Eppure  dalla  poesia  e  dal  teatro  non 
si  dbtolse  mai  del  tutto,  se  anche  nel  1799  e  1800 


1  Ma  tracollo  era  pur  sempre!  In  generale  egli  fu  av- 
verso al  matrimonio. 

<  È  ciò  che  mi  fa  ritenere  scritta  more  veneto  la  data 
6  Febbraio  1785  di  questa  lettera.  La  Cimene  Pardo  fu  rap- 
presentata nel  1786. 

3  Vedi  Malamani,  Op,  cit. 


CXCII  PREFAZIONE. 

faceva  rappresentare  suoi  drammi  *  e  se  fino  ai 
1805,  penultimo  di  -sua  vita,  si,,occupò  dell'edi- 
zióne delle  sue  Opere,  rompendo  le  uhime  lancie 
Jn  difesa  delle  sue  Fiabe^  de' suoi  Drammi  alla.' 
Spagnuola  e,  quel  che  è  più,  in  difesa  d^le  sue 
vecchie  idee  morali  e  politiche.  Ciò  basta  a  farci 
conoscere  con  che  animo  egli  avrà  assistito  agli 
avvenimenti  del  1797  e  alla  caduta  della  Repub- 
blica. Nelle  Memorie  non  è  libero  di  scrivere  su 
questo  argomento.  Venezia  era  '^i  balia  degli  ul- 
tra-democr$itici  e  si  sa  bene  che  libertà  lasciano 
costoro  a  tutti  quelli  che  fion  pensano  a  loro 
modo.  Il  Gozzi  adunque  dice  poche  parole,  sugli 
effetti  della  Rivoluzione  Francese  nella  sua  patria: 
«  Venezia  non*  restò  .  illesa  dall'  essere  colta  nel 
cerchio  di  quella  tremenda  ondulazione....  Un 
dolce  sogno  della  fisicamente  impossibile  Demo- 
crazia organizzata  e  durevole,  fece  urlare,  ridere, 
ballare  e  piangere.  ^  »  E  in  cospetto  di  questo 
baccanale,  odioso  al  suo  cuore  di  vecchio  gentil- 
uomo Veneziano,  si  vanta  d'  aver  predetto,  circa 
quarantanni  prima,  le  ruine  morali,  che  avreb- 
bero cagionato  le  dottrine  filosofiche  francesi,  ve- 
nute allora  di  moda.  Poi  ripiglia:  «  Al  dolce  so- 
gno della  fisicamente   impossibile   democrazia  noi 


*  Annibale  Duca  d'^  Atene,  La  Donna  Contraria  al  Con^ 

sigliOy  .e  //  Montanaro  Don  Giovanni  Pasquale,  dove  nella 

Scena  IV  dell'  Att  3,  introduce  per  l' ultima  volta  la  polemica 

letteraria  fra  me^zo  alle  vicende  romanzesche  del   Dramma. 

•  *  Memorie  cit.  Parte  3,  Gap.  ultima,  pag.  340. 


PREFAZIONE.  GXCIII 

vedemmo  sviluppare....  '  »  E  lascia  in  tronco,  e 
su  questa  reticenza  le  sue  Memorie  si  chiudono. 
Dirlo  per  questo  un  oscurantista,  un  retrogrado, 
come  molti  vollero,  è  non  intenderlo  affatto.  La 
sua  avversione  a  quelle  novità  è  la  forma  del  suo 
patriottismo  e  quanto  a  Venezia  non  si  potrà  certo 
dire  ch'egli  si  fosse  ingannato. 

Più  invecchiava  e  più  le  brighe  lo  stringevano. 
Sempre  nuove  liti  forensi,  sempre  parenti  impo- 
veriti che  si  rivolgevano  a  lui.  Il  poeta  delle  Fiabe 
era  un  uomo  d' affari  e  godeva  la  fiducia  di  molti, 
che  gli  confidavano  i  proprii  interessi.  Non  dico 
della  famiglia  Gozzi,  di  cui  fu  indubitabilmente  la 
testa  più  solida  e  meglio  organizzata.  Con  Ga- 
spare, cogli  altri  fratelli,  con  le  mogli  di  questi, 
coi  nipoti  fu  buono  e  tollerante'.  Brontolava,  ma 
poi  non  cessò  mai  di  prendersene  cura,  sicché  mo- 
ralmente la  vecchiaia  di  Carlo  Gozzi  vai  meglio 
della  sua  gioventù,  entro  a  quell'  orizzonte  ristretto 
e  meschino,  in  cui  la  sua  vita  era  andata  a  finire. 
Due  delle  sue  lettere,  e  ancora  inedite,  lo  diranno 
meglio  d' altre  parole.  La  prima  è  ad  un  suo  fra- 
tello, in  data  22  Febbraio  1803: 

«  Carissimo  Fratello,  ho  ricevuti  i  tre  capponi, 
ma,  vi  dico  il  vero,  mi  sono  rincresciuti  i  soldi 
spesi  in  posta,  perchè  sono  tre  scheletri  verdi,  e 
fo  assai  male  P  ultimo  giorno  del  Carnovale.  Ps^- 

i  Ibid.  pag.  341.^ 

Ma8L  m 


CXCIV  PREFAZIONE. 

zienza.  Per  il  vostro  conto,  il  residuo  del  mio  fru- 
mento è  stara  sedici,  quarte  tre.  Sento  eh'  egli  è 
giunto  di  prezzo  a  lire  79.  Dalle  cose  che  vedo 
qui  credo  che  voglia  crescere  più  ancora.  Atten- 
derò sino  verso  l' Aprile  a  venderlo,  perchè  la  mia 
sussistenza  in  quest'anno  dipende  dal  mio  poco 
frumento,  non  poteùdo  qui  riscuotere  affitti,  e 
sono  in  atti  forensi.  Non  parliam9  di  organizza- 
zione. U  organo  è  conquassato  e  si  dice  che  si  la- 
vori in  una  enorme  redecima,  (sic)  Sarà  quello  che 
Dio  vorrà.  Se  alla  vostra  venuta  troverete  modo 
di  organizzare  la  vostra  famiglia,  gli  imbarazzi 
co' nipoti  fuori,  e  con  Checco,  che  m'é  addosso 
ogni  momento,  vi  stimerò  un  grand'  uomo.  Addio. 
Vostro  AflF.mo  Fratello  Carlo  Gozzi,  '  » 

La  seconda  lettera,  che  è  del  22  Ottobre  1805, 
è  diretta  ad  una  sua  nipote,  la  Contessa  Ernesta 
Gozzi,  a  Pordenone: 

«  Riveritissima  Sig.  Nipote,  ebbi  carissimi  gli 
augelletti  e  la  ringrazio  molto.  Giunsero  in  parte 
sani  e  in  parte  guasti,  ma  U  giudicai  tutti  sani, 
essendomi  inviati  dall'animo  suo  sano  e. cortese. 
Si  persuada  che  de' pensieri  molesti  che  ho  e  dei 
pesi  insoffribili,  che  porto  sforzatamente,  mi  sono 
ridotto  a  condannare  soltanto  la  stella  maligna^ 

^  L'autografo  è  nella  Biblioteca  Civica  di  Bassano.  Col- 
lezione Gamba.  E  ne  debbo  copia  al  Bibliot.  Sig.  Dott.  Oscar 
Chilesotti. 


PkEFAZiOME.  CXCV 

sotto  a  cui  nacqui.  Se  l'età  mia  fosse  alquanto 
più  fresca,  non  mi  lagnerei  nemmeno  di  questa 
stella.  Fui  a  visitare  giorni  sono  la  mia  Tiranna,  (?) 
la  quale  mi  disse  che  un  suo  fratello,  passando 
per  Pordenone,  fu  a  visitar  lei  e  di  averla  tro-, 
vata  pingue  e  ih  ottimo  stato,  di  che  ebbi  conso- 
lazione. Il  mio  raffreddore  segue,  ma  è  per  me  il 
più  picciolo  de'  miei  pensieri,  e  non  fo  alcun  di- 
sordine per  accrescerlo.  Avvicinandosi  il  giorno, 
in  cui  si  dispensano  le  fave  ai  fanciulli,  mi  prendo- 
la  libertà  d'inviargliene  alquante,  ond'elia  possa 
fare  l'uffizio  di  madre  in  questo  proposito.  A  tal 
tenue  spedizione  mi  persuade  il  credere  che  a  Por- 
denone vi  siano  de'ca;ttivi  fabbricatori  di  un  tal 
genere.  Sono  riconoscente  alle  sue  cordiali  espres- 
sioni e  la  prego  a  credere  ch'io  mi  dichiaro  cor- 
dialmente. Suo  Aff.mo  Zio  Carlo  Gozzi.  ^  » 

E  questo  è  il  vero  Gozzi,  non  quello  che  la  stella 
maligna  dei  Contrattempiy  riapparente  in  questa 
lettera,  trasmuta  per  certa  critica  fantastica  in  un 
negromante,  dileguatosi  insieme  con  le  Maschere 
della  Commedia  dell'Arte  nel  gran  turbine  della 
Rivoluzione  Francese.  Allorché  tutto  in  questo 
andò  travolto,  il  Gozzi  anzi  si  ritirò  più  che  mai 
in  sé  medesimo,  più  che  mai  si  tenne  saldo  alle  sue 
veiichie  idee,  e  le  ultime  parole,  che  scrive,  concor- 


*  LUutografo  è  ne!  Museo  Correr  di  Venezia*  Ne  ebbi 
copia  dal  Malamani. 


CXCVI     •  PREFAZIONE* 

dano  perfettamente  colle  prime.  Di  tale  contiguità 
e  di  tale  fermezza  è  giusto  dargli  lode  e  mi  sembra 
che  riscattino  molte  delle  sue  antiche  cattiverie  e 
debolezze,  e  rialzino  non  poco  il  valor  morale  della 
sua  vita,  come  uomo  e  come  scrittore,  poiché  ap- 
punto i  grandi  rivolgimenti  politici  e  sociali  sono 
la  pietra  del  paragone  per  saggiare  i  caratteri  e 
vedere  chi  ha  vacillato  e  chi  no  in  tali  frangenti. 
Carlo  Gozzi  morì  il  4  Aprile  1806,  in  età  di 
86  anni.  '  Il  suo  testamento,  scritto  di  suo  pugno 
il  13  Febbraio  1804,  liell' abitazione  di  lui  «posta 
nel  Campo  della  contrada  di  S.  Michele  Arcan- 
gelo »  (S:  Angelo)  si  chiude  con  le  parole  se- 
guenti: «  Ricordo  a' miei  Nipoti  figli  de' miei  fra- 
telli e  figli  loro  il  timore  di  Dio,  P  osservanza  alla 
loro  Religione  e  Precetti  della  santa  Chiesa,  l' ob- 
bedienza al  loro  Principe,  i  sentimenti  di  probità, 
di  carità,  di  sincerità,  di  gratitudine,  la  modera- 
zione nel  misurare  ed  economizzare  le  loro  ren- 
dite, certo  essendo  io  che  tali  ricordi  esatamente 
(sic)  eseguiti  saranno  loro  più  utili  di  qualunque 


i  i  Ne  dà  notizia  certa  il  Meschini,  Della  Letteratura  Vene- 
\iana.del  Secolo  XVIII.  Tom.  II,  pag.  134,  (Venezia,  Palese 
[806)  còlle  parole:  «  in  grande  età  morì  ai  quattro  dello  scorso 
Aprile  1806,  »  la  data  stessa  deiPediz.  dell^  opera.  Nel  Diario 
di  Emanuele  Cicogna  al  Museo  Correr  (così  mi  comunica 
il  Malamani)  è  ricordato  che  Carlo  Gozzi  fu  sepolto  nel- 
P  Arca  appiè  delP  altare  della  Madonna  nella  Chiesa  dt  S.  Cas- 
siano.  Quest*  arca  fu  comperata  nel  1 757  per  la  famiglia  Gozzi 
da  Antonio,  padre  di  Gasparo  e  di  Carlo.  Sull'Arca  stava 
P  iscrizione:  Sepulcrum  de  Go:({i.  Oggi  non  esiste  più. 


PREFAZIONE.  -  CXCVII 

successione  ed  eredità,  vedendosi  per  esperienza 
che  per  tutti  gli  uomini  che  trascurano  questi 
sopra  accennati  principii,  e  si  abbandonano  alle 
passioni  e  ai  capricci,  nessuna  facoltà  è  sufficiente  ; 
si  riducono  a  martirizzare  la  loro  mente  ne'  rag- 
giri, cadono  nelle  azioni  inoneste,  perdono  ogni 
traccia  di  ripara  a'  loro  disordini,  s' involgono 
d'  abisso  in  abisso,  si  rendono  indegni  della  grazia 
e  dei  soccorsi  di  Dio,  e  si  acquistano  Tabborri- 
mento  di  tutti  gli  uomini....  I  commissari  che 
sono  da  me  ordinati,  nominati  e  pregati  all'ese- 
cuzione delle  mie  testamentarie  disposizioni  qui 
sopra  espresse  è  comandate,  sono  mio  fratello  Al- 
morò  e  il  di  lui  figlio  Gasparo,  tanto  uniti  che 
separati,  persone  da  me  conosciute  pontuali,  ono- 
rate e  impuntabili,  raccomandando  al  detto  niio 
Nipote  Gasparo  figlio  di  mio  fratello  Almorò  di 
conservare  l'affetto  alla  sua  ben  educata,  morige- 
rata, buona  moglie  e  di  aver  somma  cura  alla 
educazione  de' suoi  figli,  tenendoli  diffesi  (sic) 
dalle  false  massime  della  sofistica  perniziosa  scienza 
del  secolo,  che  ha  rovesciata  tutta  la  umanità  in 
una  nebbia  di  confusione,  e  in  un  laberinto  di 
infelicità  e  di  miserie.  *  »  Così  Carlo  Gozzi  s' ac- 
comiatava dal  suo  tempo. 


^  Archivio  di  Stato  di  Venezia.  Sezione  Notarile.  Negli 
atti  del  Notaio  Raffaelle  Todeschini  (Busta  i).  Il  testamento 
fu  aperto  il  4  Aprile  1806  (il  che  conferma  la  data  della 
morte)  ad  istanza  del  Nob.  Sig.  Francesco  Cozzi  q.  Gasparo, 
di  lui  nipote,  e  v^è  inserito  un    Memoriale  di  Carlo  del  28 


CXQVIII  PREFAZIONE. 

Ed  ora,  per  conchiudere  anche  neil  giudicare  il 
poeta,  non  c'è,  mi  sembra,  che  da  collocarsi  in 
un  punto  mediò  tra  gli  entusiasmi  dei  Romantici 
stranieri  e  certi  dispregi  troppo  dogmatici  e  tra- 
dizionali della  critica  letteraria  Italiana.  I  Roman- 
tici hanno  separato  il  Gozzi  dagli  antecedenti,  che 
na  nella  nostra  storia  letteraria;  lo  hanno  para- 
gonato, come  poeta  drammatico,  ad  Aristofane  ed 
allò  Shakespeare  e  come  umorista  al  Richter,  allo 
Swift,  allo  Sterne;  hanno  alterato  la  sua  indole  e 
le  circostanze  più  comuni  della  sua  vita;  hanno 
fatto  di  lui  un  personaggio  leggendario,  della  Ve- 
nezia del  suo  tempo  una  città  di  rimbambiti,  che 
volentieri  tornava  ai  trastulli  dell'  infanzia,  é  delle 
Fiabe  una  creazione  istantanea,  sbucata  di  sotterra 
ad  ora  fissa,  affinchè  quella  città  avesse  la  lette- 
ratura, che  meritava.  Tuttociò  non  è  conforme 
alla  realtà.  L'Italia  aveva  avuta  una  Commedia 
dell'  arte  ed  una  Commedia  popolare  scritta.  *  Ne- 
gli Scenari  della  Commedia  delV  Arte^  in  quelli 
di  Flaminio  Scala,  per  esempio,  si  trovano  già  le 
fantasmagorie  delle  Fiabe  Gozziane,  e  le  Maschere 
mescolate  a'  personaggi  eroici,  e  la  scena  in  China, 
nel  Marocco,  in  Persia,  irt  Egitto.'  Gli  esemplari 

Die.  1784,  diretto  ai  fratelli  e  Nipoti.  Debbo  anche  questo 
iiii«ressaniissimo  documento  alla  cortesia  del  Cotnm.  B.  Cec- 
chetti,  Soprintendente  degli  Archivi  Veneti. 

^  Vedi  P importante  Introdu:(ione  del  Prof.  Adolfo  Bar- 
toli  agli  Scenari  inediti  della  Commedia  dell'  Arte,  (Firenze, 
Sansoni,  1880.) 

«  Molano,  Op.  cit.  Chap.  IV. 


PREFAZIONE.  CXCIX 

Spagnuoli  avevano  già  servito  a  molti,  e  princi- 
palmente, sul  gusto  del  Gozzi,  a  Gio.  Battista  An* 
dreini.  Il  Calmo  ed  il  Ruzzante  avevano  già  ten- 
tato inalzare  gli  umili  intenti  della  G>mmedia 
popolare  e  rusticale.  *  Carlo  Gozzi  dice  finalmente 
egli  stesso  che  queste,  e  non  altre,  sono  le  tradi- 
zioni teatrali,  che  volle  raccogliere  e  conservare. 
Non  parliamo  delle  contraddizioni,  entro  alle  quali 
il  Gozzi  si  dibattè  nell' attuare  il  suo  disegno.  So- 
stenere le  Maschere^  parodiare  gli  avversari,  rifare 
il  fantastico  del  Pulci  e  delP  Ariosto,  toscaneggiare 
come  il  Burchiello,  ed  essere  popolare  a  Venezia, 
ricostruire  il  vecchio  e  comparir  nuovo  sono  tutti 
(  dice  ottimamente  il  De  Sanctis  )  «  fini  transitorii, 
i  quali  poterono  interessare  i  contemporanei,  dargli 
vinta  la  causa  nella  polemica  e  nel  teatro,  e  che 
oggi  sono  la  parte  morta  del  suo  lavoro —  Ciò 
che  Testa  di  lui  è  il  concetto  della  commedia  po- 
polana in  opposizione  alla  Commedia  borghese.... 
Le  Maschere  rimangono  nella  sua  composizione 
come  elementi  d'obbligo  e  convenzionali....  Il 
contenuto  è  il  mondo  poetico,  com'  è  concepito  dal 
popolo  avido  del  maraviglioso  e  del  misterióso, 
impressionabile,  facile  al  riso  e  al  pianto.  Questo 
mondo  dell'  immaginazione  è  la  base  naturale  della 
poesia  popolana  —  La  vecchia  letteratura  se  n'  era 
impadronita;  ma  per  demolirlo,  per  gittarvi  dentro 

^  M.  Sand,  Masqties  et  Bouffons  cit.  Tolom^i,  Delle  Vi-^ 
cende  del  Vertìacolo  Padovano  nelP Opera:  Dante  e  Po^ 
dova,  (Padova,  Prospcrini,  1865.) 


ce  ^  PRBFA2I0NK. 

il  sorriso  incredulo  della  colta  borghesia.  Rifare 
questo  mondo ....  draainnatizzare  la  fiaba  o  la 
fola,  cercare  ivi  il  sangue  giovine  e  nuovo  della 
commedia  a  soggetto,  questo  osò  Gozzi  in  pre- 
senza di  una  borghesia  scettica  e  nel  secolo  de'  lumi, 
nel  secolo  degli  spiriti  forti  e  de'  belli  spiriti. 
E  riuscì  a  interessarvi  il  pubblico,  perchè  quel 
mondo  ha  un  valore  assoluto  e  risponde  a  certe 
corde  che  maneggiate  da  abile  mano  d'  artista 
suonano  sempre  nell'animo:  ciascuno  ha  entro  di 
sé  più  o  meno  del  fanciullo .  e  del  popolo.  '  E  poi- 

^  Non  posso  a  meno  di  cit&re,  quasi  a  commento  di  que- 
sti bei  pensieri  del  nostro  De  Sanctis,  i  versi  del  La  Fontaine  : 

•  Si  Peau  d' Ane  m*  etait  conte 
J'y  preodrois  un  plaisir  extrème, 
Le  monde  est  vieux,  dit-on:  je  le  crois;  cepcndant 
11  le  faut  amuser  encore  cornine  un  enfant.  • 

(Fables,  Livre  Vili,  Fobie  4:  Le  Pouvoir  des  FablesJ 
E  questi  altri  del  Voltaire  nei  Contés  en  Vers: 

•  0  V  beureux  temps  que  celui  de  ces  fables, 
Des  bona  démons,  dea  esprit*  familiera, 
Dea  farfadets,  aux  mortels  aecourables! 
On  ecoutait  tous  ces  faits  admirables 
Dans  soli  chàteau,  près  d'  un  large  foyer. 
Le  pére  et  L'onde,  et  la  mere  et  la  fille, 
Et  les  voislos,  et  toute  la  famille, 
Ouvraient  V  orellle  a  monsieur  1'  aumonler, 
Qui  leur  faisait  dea  contea  de  aorcier. 
On  a  banni  lea  démons  et  Ica  fées: 
.  S0U8  la  raison  les  gràces  étouffées 
Livrent  noscoeurs  à  T  insipidite; 
Le  raisonner  tristement  s'acpredite: 
Où  court,  helaal  ùpréa  la  vérité; 
Ahi  croyez-moi,  V  errcur  a  son  ménte.  • 

(Nel  Racconto  intitolato:  Ce  qui  pìait  aux  Dames,) 


PREFAZIONE.  CCI 

che  il  pubblico  s'interessava  ancora  alla  comme- 
dia del  Goldoni,  se  ne  doveva  conchiudere,  se  le 
conclusióni  ragionevoli  fossero  possibili  in  mezzo 
alla  disputa,  che  tutti  e  due  i  generi  erano  con- 
formi al  vero,  V  uno  rappresentando  la  società  bor- 
ghese nella  sua  mezza  coltura  e  V  altro  il  popolo 
nelle  sue  credulità  e  ne'  suoi  stupori.  '  »  Se  non 
che  questa  larghezza  di  pensiero  non  era  propria 
della  critica  letteraria  italiana  contemporanea  del 
Gozzi,  o  immediatamente  a  lui  succeduta,  e  fino 
al  Foscolo.  Essa  non  dava  alcuna  importanza  alle 
tradizioni  raccolte  da  Carlo  Gozzi;  avea  in  orrore 
il  fantastico  ed  il  meraviglioso;  nulla  potea  farle 
vincere  il  fastidio  di  quella  certa  sua  goffaggine 
di  lingua  e  di  stile,  nella  quale  cascò  troppo  spesso. 
Ciò  non  toglie  che  in  Carlo  Gozzi  non  sia  giusto 
riconoscere  un  ingegno  vivissimo,  una  grande  abi- 
lità teatrale,  una  vena  straricca  d'ironia,  di  stra- 
vaganza e  di  satira,  una  libertà  ed  un'  audacia  di 
forme,  meritevole  anche  oggi  di  ammirazione  e 
di  studio.  Che  se  negli  abbozzi  frettolosi  delle  sue 
Fiabe  non  si  riscontra,  come  nello  Shakespeare, 
una  compiuta  fusione  del  fantastico  col  vero,  del 
soprannaturale  col  reale,  egli  è  che  a  lui  difettò 
alquanto  l'arte  di  unire  i  materiali,  che  non  in- 
ventava del  tutto,  bensì  raccoglieva  qua  e  là  ;  egli 
è  che  nelle  sue  Fiabe  prevale  non  già  il  fantastico, 
bensì  il  meraviglioso,  lo  spettacoloso  anzi,  che  dal 

1  Db  Sanctis,  Storia  della  Len.  Ital.  Voi.  II. 


CCII 


PREFAZIONB. 


fantastico  è  moralmente  ed  esteticamente  diverso. 
Di  più,  dove  la  sua  satira  è  parodia,  neppur  essa 
poteva  aver  lunga  vita,  perchè  la  parodia  si  dis- 
solve col  tempo,  che  l' ha  vista  nascere,  e  si  giova 
dell'attualità,  fin' anco  nelle  parole.  Ciò  non  ostante 
Carlo  Gozzi,  più  forse  di  tutti  gli  scrittori  suqi 
contemporanei,  sentì  ventarsi  sul  viso  l'aura  dei 
tempi  nuovi,  che  si  approssimavano,  e  nell' ese- 
crarli palesò  il  presentimento  storico  della  cata- 
strofe, che  stava  per  accadere. 

Ernesto  Masi. 


LE  FIABE  DI  CARLO  GOZZI 


ANALISI  RIFLESSIVA 

DELLA  FIABA 

L  'AMORE  DELLE  TRE  MELARANCE 

RAPPRESENTAZIONE  DIVISA  IN  TRE  ATTI 


Io  me  nUfidrà  coìh  barchettn  mii, 

Quanto  !' acqua  comporta  i3n  picelo I  Icftto; 

E  ciò,  chMo  pensa  colla  fantasìa, 

Dì  piacere  ad  ognuno  à  il  mio  disegno; 

Convien,  che  varie  cose  al  mondo  sia, 

Como  son  vani  voUi^  e  vario  ingegno; 

E  piace  air  uno  il  bianco^  air  altro  il  peno, 

O  diverse  materie  in  prosa,  e  in  verso. 

Ben  so^  che  spesso,  come  già  Mor^nte^ 
Lasciato  ho  forse  troppo  andar  la  ma^za^ 
Ma,  dove  sia  poi  giudice  bastante. 
Materia  cU  da  camera,  e  da  plaxza: 
Ed  awien^  che  chi  usa  con  gigante 
Convicn,  che  se  ne  appicchi  qualche  sprazia^ 
SicchHo  ho  fatto  con  altro  battaglio 
A  mosca  cieca,  o  talvolta  a  sonaglio. 

PuLa,  Mo«<^4HTB|  Conto  Mf, 


PROLOGO 

UN  RAGAZZO  NUNZIO  ALL*  UDITORIO 


vostri  servi tor  Comici  veccbì 

Sono  confusi  e  pieni  di  vergogna, 
1  E  sun  qui  dentro,  ed  han  b^ssl  gli  orecchi 
E  i  VÌA)  mesti  più,  che  non  bisogna, 
Perch^  anno  udito  moki  a  dir  r  siam  secchi  ; 
Costor  pasco  FI  V  Udienza  di  menzogna 
Con  le  Commedie^  che  puzzan  di  muda: 
Questo  è  uno  a^rbo,  una  burls,  una  CruSa. 

Io  vi  giuro  per  tutti  gli  Elcmcmì 
Che  per  riacquistare  il  vostro  amore. 
Si  Idscìerebbon  cavar  gli  occhi  e  r  denti, 
E  m^han  spedito  a  dir  velo  di  core; 
Ma  state  chete,  care  bcjone  genti. 
Per  un  momento  lasciate  il  furore. 
Tanto  Mìo  dica  di^e  parole;  e  poi 
Fate  di  me  ciò,  che  volete  toJp 

Più  non  sappiamo  omaif  come  sì  possi 
Q  Pubblico  appagare  in  sulle  acene. 
Un  anno  par^  che  lode  abbia  riscossa 
Ciò,  che  neir  altro  poi  non  va  più  bane. 


yy 


PROLOGO. 

La  ruota  del  buon  gusto  è  cosa  mossa 
I)a  una  cert^aura,  che  intesa  non  viene; 
Solo  sappiam,  che,  dov^  è  maggior  folla, 
Si  bere  meglio,  e  il  ventre  si  satolla. 

Oggi  per  tanti  intrecci,  e  tante  cose, 
E  pc^  tanti  caratteri  e  successi. 
Devono  le  Commedie  esser  succose, 
E  d'accidenti  inaspettati,  e  spessi. 
Che  noi  slam  con  le  menti  paurose, 
E  ci  guardiam  Tun  l'altro,  e  stiam  perplessi: 
Ma,  perch*è  pur  necessità  il  mangiare. 
Vi  torniam  colle  vecchie  a  tormentare. 

Non  so,  Uditor,  chi  la  cagione  sia, 
Che  l'appagarvi  a  noi  renda  impossibile* 
A  noi,  che  pur  con  tanta  cortesia 
Fummo  trattati  un  di,  sembra  incredibile.     . 
Che  sia  di  ciò  cagion  la  Poesia? 
Basta,  nel  mondo  tutto  è  corruttibile, 
E  d'ogni  cosa  abbiamo  pazienza; 
Ma  l'odio  vostro  è  troppa  penitenza. 

Tutto  vogliamo  hr  dal  canto  nostro; 
Anche  Poeti  diventar  possiamo. 
Per  acquistar  di  nuovo  l'amor  vostro; 
E  già  Poeti  divenuti  siamo. 
Baratterem  le  brache  in  tanto  inchiostro. 
Per  tanta  carta  il  mantel  dar  vogliamo, 
E  se  talento  non*  abbiamo  in  dono, 
Basta,  che  piaccia  a  voi,  perchè  sia  buona 

Vogliamo  in  scena  por  Commedie  nuove, 
Cose  grandi,  e  non  mai  rappresentate. 
Non  mi  chiedete  quando,  come,  o  dove 
Abbiam  le  cose  nuove  ritrovate; 
Che  dopo  un  seren  lungo,  quando  piove, 
Novella  pioggia  quella  pur  chiamate; 
Ma  bench'  ella  vi  sembri  pioggia  nuova. 
Fu  sempre  piova  l' acqua,  e  l' acqua  piova» 


PROLOGO*  '  5 

Non  Iran  t\itie  le  cose  all'  infinito. 
Quello,  ch'i  capo  un  dì^  ritorna  co4a. 
Quftkhe  antico  ritratto  avri  un  vestito, 
Ch^oggì  vedmm  ritornalo  alta  moda. 
L"  amor,  T  opinione,  e  T  appetito 
Fan  che  per  bello  e  buon  lutto  si  goda, 
E  noi  possiam  giurar,  ebe  poco,  o  aasai 
Queste  Commedie  non  vedcsic  mai. 

rkgU  argomenti  abbiamo  per  le  mani,  ^ 

Da  fer  i  vecchi  diventar  bambini, 
I  pazteoci  Genitori  umani 
Condurran  certo  i  loro  fantolini. 
Non  verranno  i  talenti  sovrumani^ 
E  pa^tienza  avrem,  che  già  i  qu aurini 
T^on  odoriam  per  sentir,  se  han  fragranza, 
O  sappian  di  dotirinn,  o  d' ìgnoranit* 

D'inaspettati  casi  vederete 
in  questa  sera  un^  abbondanza  grande, 
Maraviglie,  che  udite  aver  potete. 

Ma  non  vedute  dalle  nostre  bande. 

E  bestie,  e  porte,  ed  uccelli  udirete 

Parlare  in  versi,  e  meritar  ghirlande, 

E  forse  i  versi  saran  Martellianii 

Acciò  battiate  voJeniicr  le  manL 
l  vostri  servi  stan  per  uscir  fuorc» 
•  E  vorrei  dirvi  prima  T argomento; 

Ma  mi  vergogno,  e  tremo^,  ed  ho  timore 

Con  urla  e  tischì  mi  cacciale  drcnlo. 

Delle  rre  Melarance  egli  è  V  amore. 

Che  iarà  m|ii?  Tho  detto,  e  non  mi  pento. 

Fate  conto,  mie  vile,  mìe  colonne. 

D'essere  al  foco  colle  vostre  Nonne. 

È  troppo  chiara  U  satu-etta  di  questo  Prologo 
contro  a'  Poeti,  che  opprimevaag  la  Truppa  Co- 


PROLOGO. 


l 


mica  all'  improvviso  del  Sacchi,  eh'  io  scelsi  a  so* 
stenere,  e  troppo  chiara  è  la  proposizione  di  in- 
trodur  sulla  scena  la  serie  delle  mie  Favole  d'aiv 
gomento  puerile,  per  dispensarmi  dal  far  de'  riflessi 
partitamente  sui  vari  sensi  sparsi  nel  Prologo  m^ 
desimo. 

Nella  scelta,  di  questo  primo  argomento,  eh' è 
tratto  dalla  più  vile  tra  le  fole,  che  si  narrano 
a'  ragazzi,  e  neUa  bassezza  de'  dialoghi,  e  della  con- 
dotta, e  de'  caratteri,  palesemente  con  artifizio  av^ 
viliti,  pretesi  porre  scherzevolmente  in  ridicolo  // 
Campiello,  Le  Massere,  Le  Baruffe  CMo^^fOtU^ 
e  molte  altre  plebee,  e  trivialissime  opere  del 
Signor  Goldoni. 


ATTO  PRIMO 


ILVIO,  Re  di  Coppe,  Monarca  d' un  Re- 
Igno  immaginario,  i  di  cui  vestiti  imita- 
vano appunto  quelli  dei  Re  delle  carte  da  giuoco, 
lagnavasi  con  Pantalone  della  disgrazia  dell'  unico 
suo  figliuolo  Tfiu-taglia,  Principe  ereditario,  caduto  ^ 
da  dieci  anni  n  una  malattia  incurabile.  ì  medici 
F  avevano  giudicata  un'  insuperabile  effetto  ipocon- 
driaco, e  l' avevano  già  abbandonato.  Piangeva 
forte.  Pantalone,  facendo  una  satira  ai  Medici, 
suggeriva  secreti  mirabili  di  alcuni  Ciarlatani,  che 
esistevano  in  quel  tempo.  Il  Re  protestava,  che  tutto 
inutilmente  si  era  provato.  Pantalone  fantasticando- 
sull'  origine  della  malattia  chiedeva  al  Re  in  secretò, . 
per  non  essere  udito  dalle  guardie,  che  circonda- 
vano il  Monarca,  se  la  Maestà  sua  avesse  acqui- 
stato nella  sua  giovinezza  qualche  male,  che  co- 
municato al  sfuigue  del  Principe  ereditario  lo  ri- 
ducesse a  quella  miseria,  e  se  il  mercurio  potesse. 


8  l'  amore 

giovare.  Il  Re  con  tutta  la  serietà  protestava  d'es- 
sere stato  sempre  tutto  Regina.  Pantalone  aggiun- 
geva, che  forse  il  Principe  occultava  per  rossore 
qualche  infermità  contagiosa  guadagnata.  Il  Re 
serio  lo  assicurava  con  maestà,  che  per  i  suoi  par 
temi  esami  doveva  assicurarsi,  eh'  ella  non  era  così: 
Che  r  infermità  del  figliuolo  non  era,  che  un  mor- 
tale effetto  ipocondriaco;  Che  i  Medici  avevano  pro- 
nosticato, che,  s' egli  non  ridesse,  sarebbe  in  breve 
sotterra:  Che  il  solo  ridere  poteva  esser  in  lui  un 
segno  evidente  di  guarigione.  Cosa  impossibile.  Ag- 
giungeva, che  il  vedersi  già  decrepito,  coli' unico 
figliuolo  moribondo,  e  con  la  Nipote  Principessa 
Clarice,  necessaria  erede  del  suo  Regno,  giovane 
bizzarra4  strana,  crudele,  lo  affliggeva.  Compian- 
geva i  sudditi,  piangeva  dirottamente,  dimenticando 
tutta  la  maestà.  Pantalone  lo  consolava;  rifletteva,' 
*che  s'era  dipendente  la  guarigione  del  Principe 
Tartaglia  dal  suo  ridere,  non  si  doveva  tener  la 
Corte  in  mestizia.  Si  bandissero  feste,  giuochi,  ma- 
schere, e  spettacoli.  Si  Jasciasse  libertà  a  TrufEd- 
dino,  persona  benemerita  nel  far  ridere,  e  ricetta 
Vera  contro  gli  effetti  ipocondriaci,  di  trattare  col 
Principe.  Aveva  scoperto  nel  Principe  qualche  in- 
clinazione alla  confidenza  di  Truffaldino.  Avrebbe 
potuto  succedere,  che  il  Principe  ridesse,  e  guarisse. 
Il  Re  si  persuadeva,  disponeva  di  dar  gli  ordini  op- 
portuni. Usciva. 

Leandro,  Cavallo  di  Coppe,   primo    Minbtro. 
innesto  personaggio  era  pur  vestito,  com'  è  la  figura 


DELLE   TRE   MELARANCE.    .  9 

sua  nelle  carte  da  giuoco.  Pantalone  accennava  a 
parte  il  suo  sospetto  di  tradimento  sopra  Leandro, 
n  Re  ordinava  a  Leandro  feste,  giuochi,  e  bacca-^ 
nali.  Diceva,  che  qualunque  persona  giungesse  a 
far  ridere  il  Principe,  avrebbe  un  gran  premio. 
Leandro  dissuadeva  il  Re  da  tale  risoluzione,  giù-  - 
dicando  tutto  di  maggior  danno  all'  infermo.  Pan- 
talone insisteva  nel  suo  consiglio.  Il  Re  riconfer- 
mava gli  ordini,  e  partiva.  Pantalone  esultava. 
Diceva  a  parte  di  scoprire  in  Leandro  del  desi- 
derio per  la  morte  del  Principe.  Seguiva  il  Re. 
Leandro  rimaneva  ottuso;  esprimeva  di  vedere  al- 
cune opposizioni  alla  sua  brama,  ma  che  non  co- 
nosceva l'origine.  Usciva. 

La  Principessa  Qarice,  Nipote  del  Re.  Non  s*  è 
mai  veduta  sulla  scena  una  Principessa  di  ca- 
rattere strano,  bizzarro,  e  risoluto  come  Clarice, 
(llingrazio  il  Sig.  Chiari,  che  m' ha  dati  vari  spec- 
chi nelle  sue  Opere  per  far  una  parodia  caricata 
ài  caratteri^  Costei  in  accordo  con  Leandro  di  spo- 
:sarlp}  ed  elevarlo  al  Trono,  se  restava  erede  del 
Regno  colla  morte  di  Tartaglia,  suo  cugino,  sgri- 
dava Leandro  per  la  flemma,  che  doveva  avere  at 
tendendo,  che  morisse  il  cugino  per  una  malattia 
cosi  lenta,  com'  è  quella  dell'  ipocondrìa.  Leandro  si 
giustificava  colla  cautela,  dicendo,  che  la  Fata  Mor- 
gana, sua  protettrice,  gli  aveva  dati  alcuni  brevi . 
in  versi  martelliani  da  far  prendere  in  parecchie 
panatelle  a  Tartaglia,  che  dovevano  farlo  morire 
lentamente  per  gli  effetti  ipocondrìaci.  Ciò  si  diceva 


U' 


IO  L'AMORE 

per  censurare  le  Opere  del  Sig.  Chiari,  e  del  Sìg. 
Goldoni,  che  stancavano  scritte  in  versi  martelliani 
colla  monotonia  della  rima.  La  Fata  Morgana  era 
nimica  del  Re  di  Coppe  per  aver  perduti  molti 
de' suoi  tesori  sul  ritratto  di  quel  Re.  Era  amica 
del  Cavallo  di  Coppe  per  aver  fatto  qualche  ricu- 
pera'sulla  sua  figura.  Abitava  in  un  lago,  vicino 
alla  Città.  Smeraldina  mora,  eh'  era  la  servetta  in 
questa  scenica  parodia  caricata,  era  il  mezzo  tra 
Leandro,  e  Morgana.  Clarice  andava  in  furore  sen- 
tendo il  mcklo  tardo,  che  s'usava  nella  morte  di 
Tartaglia.  Leandro  aggiungeva  dubbi  sull'  inutilità 
de' brevi  in  versi  martelliani.  Vedeva  introdotto 
in  Corte,  spedito,  non  sapeva  da  chi,  un  certo  Truf- 
faldino, persona  faceta;  se  Tartaglia  rideva,  gua- 
riva dal  male.  Clarice  smaniava;  aveva  veduto  quel 
TrufGddino,  non  era  possibile  il  trattenere  le  risa 
al  solo  vederlo.  Che  i  brevi  in  versi  martelliani  di 
caratteri  grossi  sarebbero  inutili.  Da  tali  discorsi 
rileverà  il  lettore  la  difesa  delle  Commedie  im^ 
prowbe  colle  maschere  contro  gli  effetti  ipocon- 
driaci, in  confronto  delle  scritte  in  versi  da' Poeti 
d' allora  malinconiche.  Leandro  aveva  spedito  Bri- 
ghella, suo  messo,  a  Smeraldina  mora  per  saper 
ciò,  che  volesse  inferire  l'arcano  della  comparsa 
di  quel  Truffaldino,  e  a  chieder  soccorsi  Usciva. 
Brighella,  riferiva  con  secretezza,  che  Truffal- 
dino era  spedito  alla  Corte  da  certo  Celio  Mago, 
nimico  di  Morgana,  e  amante  del  Re  di  Coppe, 
per  ragioni  simili  alle  accennate  di  sopra.  Che  Truf- 


DELLE  TRE   MELARANCE.        *  II 

faldino  era  ima  ricetta  contro  gli  effetti  ipocon- 
drìaci cagionati  dai  brevi  in  versi  martellìani,  giunto 
alla  Corte  per  preservare  il  Re,  il  figliuolo,  e  tutti 
que' popoli  dal  morbo  contagioso  degli  accennati 
brevi. 

Si  noti,  che  nella  nimicizia  della  Fata  Morgana, 
e  di  Celio  Mago  erano  figurate  arditamente  e  al- 
legoricamente le  battaglie  Teatrali,  che  correvano 
allora  tra  i  Signori  due  Poeti,  Goldoni  e  Chiarì,  e 
che  nelle  due  persone  pure  della  Fata  e  del  Mago, 
erano  figurati  in  caricatura  i  due  Poeti  medesimi. 
La  Fata  Morgana  era  in  carìcatura  il  Chiarì  ;  Celio  v 
in  caricatura  il  Signor  Goldoni. 

La  notizia  recata  da  Brighella  dell'  arcano  sul 
Truffaldino,  metteva  della  gran  confusione  in  Cla- 
rice, e  in  Leandro.  Si  consigliavano  vari  modi  di 
morte  occulta,  per  far  perir  Truffaldino.  Clarice 
suggeriva  arsenico,  o  archibugiate.  Leandro  brevi 
in  versi  martelliani  nella  panatella,  o  vero  oppio. 
Clarice,  che  martelliani,  e  oppio  erano  due  cose  \ 
simili  ;  che  Truffaldino  gli  sembrava  d' uno  stomaco 
assai  forte,  per  digerire  tali  ingredienti.  Brighella 
aggiungeva,  che  Morgana,  sapendo  gli  spettacoli 
ordinati  per  divertire  il  Principe  e  per  farlo  ridere, 
aveva  promesso  di  comparire,  e  di  opporre  alle  sue 
rìsa  salubri  una  maledizione,  che  l'avrebbe  man- 
dato alla  morte.  Qarìce  entrava  per  dar  luogo  al- 
l'apparecchio  degli  spettacoli  ordinati.  Leandro,  e 
Brighella  entravano  per  ordinarli. 

Aprivasi  la  scena  alla  camera  del  Principe  ipo- 


12  L'AMORE 

condrìaco.  Questo  faceto  Principe  Tartaglia  era  in 
un  vestiario  il  più  comico  da  malato.  Sedeva  so- 
pra una  gran  sedia  da  poltrire.  Aveva  a  canto 
un  tavolino,  a  cui  s' appoggiava,  carico  di  ampolle, 
ài  unguenti,  di  tazze  da  sputare,  e  d'altri  arredi 
convenienti  al  suo  stato.  Si  lagnava  con  voce  de- 
bile del  suo  infelice  caso.  Nai;rava  le  medicature 
sofferte  inutilmente.  Dichiarava  gli  strani,  effetti 
della  sua  malattia  incurabile,  e  siccom'egli  aveva 
il  solo  argomento  della  scena,  questo  valente  per- 
sonaggio non  poteva  vestirlo  con  maggior  fertilità. 
Il  suo  discorso  buffonesco  e  naturale  cagionava  un 
continuo  scoppio  di  risa  universali  nell'Uditorio. 
Usciva  quindi  il  facetissimo  Truffaldino  per  far 
ridere  l' infermo.  La  scena  all'  improvviso,  che  fa- 
cefvano  questi  due  eccellenti  comici  sull'  argomento, 
non  poteva  riuscire,  che  allegrissima.  Il  Principe 
guardava  di  buon  occhio  Truffaldino;  ma  per 
quante  prove  facesse  non  poteva  ridere.  Voleva 
discorrere  del  suo  male,  voleva  opinione  da  Truf- 
faldino. Truffaldino  faceva  dissertazioni  fìsiche,  sa- 
tiriche, e  imbrogliate,  le  più  graziose,  che  s' udis- 
sero. Truffaldino  fiutava  il  fiato  al  Principe,  sen- 
tiva odore  di  ripienezza  di  versi  martelliani  indi- 
gesti. Il  Principe  tossiva,  voleva  sputare.  Truffaldino 
porgeva  la  tazza  ;  raccolto  lo  sputo,  lo  esaminava  ; 
trovava  delle  rime  fracide  e  puzzolenti.  Tal  scena 
durava  un  terzo  d' ora  con  le  risa  continuate  degli 
ascoltatori.  Udivansi  degli  strumenti,  che  davano 
segno  degli  spettacoli  allegri,  i  quali  si  facevano 


DELLE   TRE   MELAÌUNCE.  I3 

nel  gran  cortile  della  Reggia,  TrufEaldino  voleva 
condur  il  Principe  sopra  un  verone  a  vederli.  Il 
Principe  protestava,  che  ciò  età  impossibile.  Face- 
vano un  contrasto  ridicolo.  Truffaldino  collerico 
gettava  per  una  finestra  ampolle,  tazze,  e  tutto  ciò, 
che  serviva  alla  malattia  di  Tartaglia,  che  strillava, 
e  piangeva,  come  un  rimbambito.  Finalmente  Truf-' 
faldino  portava  a  forza  sulle  spalle  a  goder  gli 
spettacoli  quel  Principe,  che  urlava,  come  se  gli 
si  staccassero  le  viscere. 

Aprivasi  la  scena  al  gran  cortile  della  Reggia. 
Leandro  accennava  di  aver  eseguiti  gli  ordini  per 
gli  spettacoli;  che  il  popolo  mesto,  bramoso  di  ri- 
dere, si  era  tutto  mascherato  ;  che  sarebbe  venuto 
in  quel  cortile  alle  feste  ;  eh'  egli  aveva  avuta  la 
precauzione  di  far  mascherare  molte  persone  in 
modo  lugubre  per  accrescere  la  malinconia  nel 
Principe  spettatore;  ch'era  tempo  di  far  aprire 
il  cortile  per  dar  adito  al  popolo  di  entrare. 
Usciva.  • 

Morgana,  trasformata  ia  yecchiarella  con  cari- 
catura. Leandro  si  maravigliava,  che  a  porte  chiuse 
foss' entrato  quell' .oggetto.  Morgana  si  palesava^  e 
diceva  essei*  ivi  giunta  in  quella  figura  per  istèr- 
minare  il  Principe,  come  vedrà;  che  dovesse  inc6*' 
minciar  le  feste.  Leandro  la  ringraziava,  la  chia-  ' 
mava  Regina  dell'ipocondria.  Morgana  si  ritirava. 
Si  spalancavano,  le  porte  del  cortile. 

Comparivano  sopra  un  verone  di  facciata  il  Re, 
il  Principe  ipocondriaco,  impellicciato,  Clarice,  Pan- 

\ 


«4 

^talone,  le  Guardie,  indi  Leandro.  Gli  spettacoli,  e 
le  feste  non  erano,  che  quei  medesimi,  che  si  nar- 
rano a'  ragazzi  raccontando  loro  la  fola  delle  tre 
melarance.  Entrava  il  popolo.  Si  faceva  una  giostra 
a  cavallo;  caposquadra  Truffaldino,  che  ordinava 
de'  faceti  movimenti  a'  Cavalieri  giostranti.  Ad  ogni 
movimento  si  volgeva  al  verone,  chiedendo  alla 
Maestà  sua,  se  il  Principe  rideva.  Il  Principe  pian- 
geva, lagnandosi,  che  l' aria  lo  molestava,  che  il 
romore  gP  intronava  la  testa:  pregava  la  Maestà 
paterna  a  farlo  porre  a  letto  ben  caldo. 

A  due  fontane,  l' una,  che  zampillava  olio,  l'al- 
tra vino,  concorreva  il  popolo  a  provedersi  :  si  fa- 
cevano de' contrasti  trivialissimi,  e  plebei.  Nulla 
faceva  ridere  il  Principe. 

Usciva  Morgana  da  vecchierella  con  un  vaso 
per  provvedersi  dell'  olio  alla  fontana.  Truffaldino 
faceva  vari  insulti  a  quella  vecchiarella;  ella  cadeva 
a  gambe  alzate.  Tutte  queste  trivialità,  che  rap- 
presentavano la  favola  triviale,  divertivano  l'Udi- 
torio colla  loro  novità,  quanto  le  MassèrCy  i  Camr 
pielli,  le  Baruffe  Chio{![ottej  e  tutte  l'opere  tri- 
viali del  Sig.  Goldoni. 

Allo  scorcio  del  cadere  della  vecchiarella  il  Prin- 
cipe dava  in  uno  scoppio  di  risa  sonore,  e  lunghe. 
Guariva  da  tutti  i  suoi  mali  ad  un  tratto.  Truf- 
faldino vinceva  il  premio,  e  al  ridere  di  quel  far 
ceto  Principe  l' Uditorio  sollevato  dall'  oppressione, 
cagionata  in  lui  dalle  infermità  di  quell'infelice, 
rìdeva  sgangheratamente* 


DELLE   TRE  ME|.ARANCE.  ^5 

Tutta  la  Corte  era  allegra  del  caso.  Leandro,  e 
Clarice  erano  mesti. 

Morgana,  levandosi  da  terra  rabbiosa,  rimpro- 
verava enfatica  il  Principe  e  gli  scagliava  la  se- 
guente terribile  maledizione  ammaliata  chiaresca. 

Aprì  r orecchio,  o  btrbtro;  passi  la  voce  al  core; 

Né  muro,  o  monte  fermino  il  suon  del  mio  furore. 
Come  spezzante  fùlmine  si  ficca  nel  terreno, 

Corì  questi  miei  detti  ti  si  ficchino  in  seno. 
Come  burchio  al  remurchio  tirato  è  dal  cordone, 

Te  conduca  pel  naso  quesu  mia  imprecazione. 
Imprecazione  orrìbile!  solo  in  udirla  morì. 

Come  nel  mar  quadrupede,  pesce  in  sui  prati  e  i  fiorì. 
L'atro  Plutone  io  supplico,  e  Pindaro  volante, 

Delle  tre  Melarance  che  tu  divenga  amante. 
Minacce,  prieghi  e  lagrìme  sian  vane  larve,  e  ciance. 

Coni  ali*  orrendo  acquisto  delle  tre  Melarance. 

Morgana  spariva.  Il  Principe  entrava  in  un  ro- 
busto entusiasmo  per  V  amore  delle  tre  Melarance. 
Veniva  condotto  via  con  grandissima  confusione 
della  Corte. 

Quali  inezie  1  Qual  mortificazione  per  i  due 
Poeti  1  U  primo  atto  della  Favola  terminava  a  que- 
sto passo  con  una  universal  picchiata  di  mani 


ATTO  SECONDO 


N  una  stanza  del  Principe,  Pantalone 
I  disperato  e  fuori  di  sé  narrava  Io  stato 
furioso  del  Principe  per  V  imprecazione  avuta.  Non 
era  possibile  il  placarlo.  Voleva  dal  padre  un  paio 
di  scarpe  di  ferro  per  poter  tanto  camminare  per 
il  mondo,  che  ritrovasse  le  fatali  Melarance,  ca- 
gione del  suo  amore.  Pantalone  aveva  ordine  di 
chiedere  al  Re  codeste  scarpe,  sotto  pena  della 
disgrazia  del  Principe.  Il  caso  era  gravissimo.  L' ar- 
gomento era  opportuno  per  un  Teatro.  Satireg- 
giava scherzando  sugli  argomenti,  che  correvano 
allora.  Entrava  per  correre  al  Re.  Uscivano. 

Il  Principe  invasato,  e  Truffaldino.  11  Principe 
era  impaziente  per  la  tardanza  delle  scarpe  di  ferro. 
Truffaldino  faceva  delle  ridicole  richieste.  Tarta- 
glia dichiarava  di  voler  andare  all'acquisto  delle 
tre  Melarance,  le  quali,  per  quanto  gli  narrava  sua 
Nonna,  erano  lunge  duemila  miglia,  in  potere  di 

Qozn,  3 


i8  l'amore 

Creonta,  gigantessa  Maga.  Chiedeva  le  sue  arma- 
ture, ordinava  a  Truffaldino  di  armarsi,  che  lo  volea 
per  suo  scudiere.  Seguiva  una  scena  buffonesca  tra 
questi  due  personaggi  sempre  facetissimi.  Si  ar- 
mavano con  le  corazza,  e  gii  elmi,  e  gran  spade 
lunghe  con  somma  caricatura. 

Uscivano  il  Re,  Pantalone,  le  guardie.  Una 
guardia  aveva  sopra  un  bacile  un  paio  di  scarpe 
di  ferro. 

Questa  scena  si  faceva  tra  i  quattro  perspnaggi 
con  una  gravità  sul  caso,  che  la  faceva  doppiamente 
ridicola.  Con  una  tragica,  e  drammatica  maestà  il 
Padre  cercava  di  dissuadere  il  figliuolo  dalla  peri- 
gliosa impresa.  Pregava,  minacciava,  cadeva  nel  pa- 
tetico. Il  Principe  invasato  insisteva.  Sarebbe  preci- 
pitato di  nuovo  neir  ipocondria,  se  non  era  lasciato 
andare.  Si  riduceva  a  brutali  minacele  contro  al 
Padre.  U  Re  stupiva  addolorato.  Rifletteva,  che  il 
poco  rispetto  del  figliuolo  nasceva  dall'  esempio 
delle  nuove  commedie.  S' era  veduto  in  una  Com- 
media del  Sig.  Chiari  un  figliuolo  sguainar  la  spada 
per  ammazzar  il  proprio  Padre.  Di  esempi  consi- 
mili abbondavano  le  Commedie  d' allora,  censurate 
da  questa  inetta  favola. 

Il  Principe  non  si  chetava.  Truffaldino  gli  cal- 
zava le  scarpe  di  ferro.  Terminava  la  scena  con 
un  quartetto  in  versi  drammatici  di  piagnistei,  di 
addii,  di  sospiri.  Il  Principe,  e  Truffaldino  parti- 
vano. Il  Re  cadeva  sopra  uua  sedia  in  deliquio. 
Pantalone  chiamava  aceto  in  soccorso. 


DELLE   TRE^  MELARANCE.  I9 

Accorrevano  Clarice,  Leandro,  e  Brighella;  rim- 
proveravano Pantalone  del  romore,  che  faceva.  Pan- 
talone, che  si  trattava  d' un  Re  in  deliquio,  d'  un 
Principe  andato  a  perire  all'  acquisto  scabroso  delle 
Melarance.  Brighella  rispondeva,  che  que'casi  erano 
freddure,  come  Commedie  nuove,  che  mettevano 
rivoluzione  senza  proposito.  Il  Re  rinvenuto  faceva 
una  tragica  esagerazione.  Piangeva,  come  morto,  il 
figliuolo.  Dava  ordini,  che  tutta  la  Corte  si  vestisse 
a  lutto,  partiva  per  chiudersi  nel  suo  gabinetto,  e 
per  terminare  i  suoi  giorni  sotto  il  peso  dell'afflizio- 
ne. Pantalone,  protestando  di  unire  i  suoi  co'  pianti 
del  Re,  di  mescolare  in  un  solo  fazzoletto  le  reci- 
proche lagrime,  di  dare  a' nuovi  Poeti  un  argo- 
mento d' interminabili  episodi  in  versi  martelliani, 
seguiva  il  Monarca. 

Qarice,  Leandro,  e  Brighella  allegri  lodavano 
Morgana.  La  bizzarra  Clarice  voleva  patti  di  co- 
mando nel  Regno,  prima  d'elevar  al  trono  Lean- 
dro. In  tempo  di  guerra  voleva  esser  alla  testa 
delle  armate.  Anche  vinta,  co'  suoi  vezzi  avrebbe 
fatto  innamorare  il'  Capitano  nimico.  Innamorato, 
e  fidato  da  lei  con  lusinghe  ;  al  suo  avvicinarsi  gli 
avrebbe  piantato  un  coltello  nella  pancia.  Questa 
era  una  censura  scherzevole  all'Attila  del  signor 
Qhiaii.  Clarice  voleva  la  facoltà  di  dispensar  le 
cariche  della  Corte  al  caso.  Brighella  chiedeva  per 
i  suoi  meriti  di  aver  la  carica  di  sopraintendente 
ai  Regi  spettacoli.  Seguiva  un  contrasto  in  terzo 
sulla  scelta  dei  divertimenti   Teatrali.  Clarice  vo- 


•  20  L'  AMORE 

leva  Rappresentazioni  tr^igiche,  con  dei  personaggi, 
rhe  si  gettassero  dalle  finestre,  dalle  tórri,  senza 
rompersi  il  collo,  e  simili  accidenti  mirabili:  West 
Opere  del  sig.  Chiari.  Leandro  voleva  Commedie 
di  caratteri:  Idest  Opere  del  sig.  Goldoni.  Bri- 
gabella  proponeva  la  Commedia  improvvisa  colle 
/maschere,  opportuna  a  divertire  un  popolo  con 
innocenza.  Clarice  e  Leandro  collerici,  ^he  non 
volevano  goffe  buffonate,  fracidumi  indecenti  in  un 
secolo  illuminato  ;  e  partivano.  Brighella  faceva  un 
patetico  discorso,  commiserando  la  Truppa  Comica 
del  Sacchi  senza  nominarla,  ma  facile  da  inten- 
dersi. Compiangeva  una  Truppa  onorata,  e  bene- 
merita, oppressa,  e  ridotta  a  perder  l'amore  di 
quel  Pubblico  da  lei  adorato  e  di  cui  era  stata  il 
divertimento  per  tanto  tempo.  Entrava  con  ap- 
plauso di  quel  Pubblico,  che  aveva  ottimamente 
inteso  il  vero  senso  del  suo  discorso.. 

Si  apriva  la  scena  a  un  diserto.  Si  vedeva  Celio 
mago,  protettore  del  Principe  Tartaglia,  fare  dei 
circoli.  Obbligava  il  Diavolo  Farfarello  a  compa- 
rire. Usciva  Farfarello,  e  parlava  in  versi  martel- 
liani  con  voce  terribile  per  questo  modo; 

Olà,  chi  qua  mi  chiama  dal  centro  orrido,  ed  atro? 

Sei  tu  Mago  da  vero,  o  Mago  da  Teatro? 
Se  da  Teatro  sei,  non  è  mestieri  il  dirti, 

Che  sono  un'anticaglia  Diavoli,  Maghi,  e  Spirti. 

I  due  Poeti  s' erano  espressi,  che  volevano  soppri- 
mere nelle  Commedie  le  Maschere,  i  Maghi,  e  i 


DELLE  TRE   M1E;LARANCE.  21 

Diavoli.  Celio  rispóndeva  in  prosa,  eh'  era  Mago  . 
da  vero.  Farfarello  soggiungeva: 

Or  ben  sia  chi  tu  voglia;  se  da  Teatro  sei, 
In  versi  marteiliani  almen  parUr  mi  dei. 

Celio  minacciava  il  Diavolo,  voleva  parlare  in  prosa 
a  suo  senno.  Chiedeva  se  quel  Truffaldino,  da  lui 
spedito  con  arte  alla  Corte  del  Re  di  Coppe,  avesse 
fatto  alcun'  effetto  ;  se  Tartaglia  fosse  stato  obbli- 
gato a  ridere,  e  fosse  guarito  dagli  effetti  ipocon- 
driaci. U  Diavolo  rispondeva: 

Rise,  guari;  ma  dopo  Morgana,  tua  nimica, 

Con  un'imprecazione  rovesciò  la  fatica. 
Furioso,  anelante,  infiammato  le  guance 

Va  in  cerca  per  amore  delle  tre  Melarance; 
Con  Trufiàldìn  sen  viene.  Morgana  un  Diavol  tetro 

Ha  mandato  con  quelli,  perchè  soffii  lor  dietro. 
Già  mille  miglia  han  fatto,  e  presto  qui  saranno 

Nel  Castel  di  Creonta,  a  morir  con  affanno. 

Il  Diavolo  spariva.  Celio  esclamava  contro  la  ni- 
mica Morgana.  Spiegava  il  gran  periglio  di  Tar- 
taglia, e  di  Truffaldino  inviati  al  castello  di  Creonta, 
poco  lunge  da  quel  luogo,  e  in  cui  si  custodivano 
le  tre  fatali  Melarance.  Si  ritirava  per  apparecchiar 
le  cose  necessarie  a  salvar  due  persone  meritevoli, 
e  utilissime  alla  società. 

Celio  Mago,  che  rappresentava  in  questa  inezia 
il  Sig.  Goldoni,  non  doveva  proteggere  Tartaglia, 
e  Truffaldino.  Ecco  un  errore  ben  degno  di  cen- 
sura, se  meritasse  censura  una  diavoleria,  come  fu 
questo  scenico  abbozzo.  I  Sìgg.  Chiari  e  Goldoni 


22  l'XMORE 

erano  nimìci  in  quel  tempo  nell'  arte  loro  poetica. 
Volli,  che  Morgana,  e  Celio  mi  servissero  a  por  in 
vista  in  modo  caricato  il  genio  avverso  di  quei  due 
talenti,  né  mi  curai  di  raddoppiare  personaggi,  per 
salvarmi  dà.  una  critica  in  uno  smoderato  capriccio. 

Uscivano  Tartaglia,  e  Truffaldino  armati,  come 
s'è  detto,  e  uscivano  con  un  corso  velocissimo. 
Avevano  un  Diavolo  con  un  mantice,  che,  soffiando 
lor  dietro,  li  taceva  precipitosamente  correre.  Il 
Diavolo  cessava  di  soffiare,  e  spariva.  I  due  viag- 
giatori cadevano  a  terra  per  l' impeto,  con  cui  cor- 
revano, alla  sospensione  del  vento. 

Ho  infinito  obbligo  al  Sig.  Chiari  dell'effetto 
efficacissimo,  che  faceva  questa  diabolica  parodìa. 

Nelle  sue  Rappresentazioni,  tratte  dall'  Eneide, 
egli  faceva  fare  a'  suoi  Trojani  nel  giro  d'  una  sce- 
nica azione  de'  viaggi  grandissimi,  senza  il  mio 
Diavolo  col  mantice. 

Questo  Scrittore  che  pedantescamente  insultava 
tutti  gli  altri  nelle  irregolarità,  donava  a  sé  stesso 
de'  privilegi  particolari.  Io  vidi  nel  suo  Ezelino,  ti- 
ranno di  Padova,  in  una  scena  soggiogato  Ezelino 
e  spedito  un  Capitano  all'  impresa  di  Trevigi,  sog- 
getta all'armi  del  tiranno.  Nell'Atto  medesimo  della 
stessa  Rappresentazione,  nella  scena  susseguente, 
ritornava  il  Capitano  trionfante.  Aveva  fatte  più 
di  trenta  miglia,  aveva  preso  Trevigi,  fatti  morire 
gli  oppressori;  e  in  una  fiorita  narrazion,  che  fa- 
ceva, giustificava  l' azione  impossibile  colla  gagliar- 
dia  d'un  suo  bravissimo  cavallo. 


DELLE  TRE    MELARANCE.  I3 

Tartaglia,  e  Truffaldino  dovevano  fare  duemila 
miglia  per  giungere  al  castello  di  Creonta.  Il  mio 
Diavolo  col  mantice  giustifica  il  viaggio  meglia 
del  cavallo  del  Sig.  Abate  Chiari. 

Questi  due  personaggi  sempre  facetissimi  si  le- 
vavano da  terra  sbalorditi  del  caso,  e  meravigliati 
del  vento  avuto  dietro.  Facevano  una  descrizione 
spropositata  geografica  di  paesi,  monti,  fiumi,  e  mari 
passati.  Tartaglia  sul  vento  cessato  traeva  la  con- 
seguenza, che  le  tre  Melarance  erano  vicine.  Truf- 
faldino era  affannato,  avea  fame,  chiedeva  al  Prin- 
cipe, se  avesse  portato  seco  provvigione  di  danaro,  o 
cambiali.  Tartaglia  sprezzava  tutte  queste  basse,  e 
mutili  richieste;  vedeva  un  castello  sopra  un  nionte 
e  poco  lontano.  Lo  cr'edeva  il  castello  di  Creonta, 
custode  delle  Melarance;  si  avviava;  Truffaldino 

10  seguiva  sperando  di  trovar  cibo. 

Celio  Mago  usciva,  spaventava  i  due  personaggi, 
procurava  invano  di  dissuader  il  Principe  dall'  im- 
presa pericolosa.  Descriveva  i  perigli  insuperabili; 
erano  quei,  che  si  narrano  a'T^ambini  con  questa 
fola;  ma  Celio  li  descriveva  con  gli  occhi  spalan- 
cati, con  voce  terribile,  e  come  se  fossero  stati 
gran  cose.  I  perigli  consistevano  in  un  portone  di 
ferro,  coperto  di  ruggine  per  il  tempo,  in  un  cane 
affamato,  in  una  corda  d'un  pozzo,  mezza  fra- 
cida  per  1'  umido,  in  una  fornaia,  che  per  non 
avere  scopa,  spazzava  il  forno  colle  proprie  poppe;' 

11  Principe  nulla  intimorito  di  quei  terribili  oggetti 
voleva  andar  nel  castello.  Celio  vedendolo  risoluto 

/ 


.24  L^  AMORE 

consegnava  sugna  magica  da  ugnere  il  catenaccio 
al  portone  ;  del  pane  da  gettare  al  cane  affamato  ; 
un  mazzo  di  spazzole  da  consegnare  alla  Fomaia, 
che  spazzava  il  forno  colle  poppe.  Ricordava,  che 
^tendessero  la  corda  al  sole,  e  la  traessero  dal- 
l' umido.  Soggiungeva,  che,  se  per  una  sorte  felice 
arrivassero  a  rapire  le  tre  custodite  Melarance,  fug- 
gissero tosto  dal  castello,  e  si  ricordassero  di  non 
aprir  nessuna  di  quelle  Melarance,  se  non  fossero 
vicini  a  qualche  fonte.  Prometteva,  che,  se  fuggis- 
sero illesi  dal  pericolo  col  ratto  eseguito,  avrebbe 
spedito  il  solito  diavolo  col  mantice,  che,  soffiando 
loro  dietro,  gli  spingesse  in  pochi  momenti  al  loro 
paese.  Li  raccomandava  al  Cielo,  e  partiva.  Tar- 
taglia, e  Truffaldino  colle  cose  consegnate  s'av- 
viavano al  castello. 

Qui  si  calava  una  tenda,  che  rappresentava  la 
Reggia  del  Re  di  Coppe.  Qual  irregolarità!  Qual 
censura  mal  impiegata!  Seguivano  due  picciole 
scene.  Una  tra  Smeraldina  "Mora,  e  Brighella,  al- 
legri per  la  perdita  di  Tartaglia;  l'altra  con  la 
Fata  Morgana,  che  arrabbiata  ordinava  a  Brighella 
di  avvertir  Clarice,  e  Leandro,  che  Celio  aiutava 
^  Tartaglia  all'impresa.  Ciò  le  aveva  detto  Draghi- 
nazzo.  Demonio,  Comandava  a  Smeraldina  di  se- 
guirla sino  al  suo  lago,  dove  sarebbero  capitati 
Tartaglia,  e  Truffaldino,  se  uscivano  salvi  dalle 
mani  di  Creonta,  e  dove  avrebbe  ordita  un'  altra 
insidia.  Si  separavano  confusi. 

Aprivasi  la  scena  al  cortile  del  castello  di  Creonta. 


DELLE  TRE   MELARANCE.  2^ 

Ebbi  occasione  di  conoscere,  alP  aprìtura  di  que- 
sta scena  con  degli  oggetti  affatto  ridicoli,  la  gran 
forza,  che  ha  il  mirabile  sull'  umanità. 

Un  portone  fatto  a  cancello  di  ferro  nel  fondo, 
un  cane  affamato,  che  ululava,  e  passeggiava,  un 
pozzo  con  un  viluppo  di  corda  appresso,  una  for- 
naia,  che  spazzava  il  forno  con  due  lunghissime 
poppe,  tenevano  tutto  il  Teatro  in  un  silenzio,  e 
in  un'  attenzione  nulla  minor  di  quella,  eh'  ebbero 
le  migliori  scene  dell'  Opere  de'  nostri  due  Poeti. 

Vedevansi  fuor  del  cancello  il  Principe  Tar- 
taglia, e  Truffaldino  affaticarsi  a  ungere  il  cate- 
naccio del  cancello  medesimo  colla  sugna  magica, 
e  vede  vasi  il  cancello  spalancarsi.  Gran  maraviglia  ! 
Entravano.  Il  cane,  latrando,  gli  assaliva.  Gli  get- 
tavano il  pane  ;  si  chetava.  Gran  portento  l  Mentre 
Truffaldino,  pieno  di  spaventi,  stendeva  le  corde 
al  sole,  e  donava  le  spazzole  alla  Fomaia,  il  Prin- 
cipe entrava  nel  castello,  indi  usciva  allegro  con 
tre  grandissime  Melarance  rapite. 

I  gravi  accidenti  non  terminavano  così.  Si 
oscurava  il  sole,  si  sentiva  il  tremuoto,  s'  udivano 
gran  tuoni.  Il  Principe  consegnava  le  Melarance  a 
Truffaldino,  che  tremava  forte  ;  s' apparecchiavano 
alla  fuga.  Usciva  dal  castello  una  voce  orrenda; 
che  puntualissima  col  testo  della  Favola  fanciul- 
lesca gridava  per  questo  modo  ed  era  della  stessa 
Creonta: 

O  Fomaia,  Fornaia,  non  patire  il  mio  scorno. 
Piglia  color  po' piedi,  e  gettali  nel  forno. 


26  l'  amore 

La  Fornàia,  esatta  custode  del  testo  della  Fa- 
vola rispondeva; 

Io  no;  che  son  tanti  anni,  e  tanti  mesi,  e  tanti, 

Che  le  mie  bianche  poppe  logorp  in  doglia,  e  piami. 

Tu,  crudele,  una  scopa  giammai  non  mi  donasti, 

Questi  un  mazzo  ne  diedero:  vadano  in  pace;  e  basti. 

Creonta  gridava  col  testo: 

O  corda,  o  corda,  impiccali. 

E  la  corda  col  testq  rispondeva  : 

Barbara,  ti  ricorda 
Tanti  anni,  e  tanti  mesi;  che  abbandonata,  e  lorda 
Mi  lasciasti  nell'umido  in  un  crudele  oblio. 

Questi  al  sol  mi  distesero  :  vadano  in  pace  :  addio. 

Creonta  sempre  costante  al  testo  urlava: 
Cane,  guardia  fedele,  sbrana  que^  sciagurati. 

Il  cane  diligente  custode  del  testo  rispondeva: 

Come  poss'  io,  Creonta,  sbranar  gli  sventurati  ? 
Tanti  anni  e  tanti  mesi  ti  servii  senza  pane. 
Questi  mi  satollarono:  le  tue  grida  son  vane. 

Creonta  col  testo  gridava: 

Ferreo  Porton,  ti  chiudi;  stritola  i  ladri  infami. 

Il  Portone  col  testo  rispondeva: 

Crudel  Creonta,  indarno  il  mio  soccorso  chiami 
Tanti  anni,  e  tanti  mesi  ruggine,  ed  in  cordoglio 

Tu  mi  lasciasti:  m'unsero;  ingrato  esser  non  voglio. 


DELl-E  TRE   MELARANCE.  ^7 

Era  un  bel  vedere  Tartaglia,  e  TruflFaldino,  ma- 
ravigliati dell'  abbondanza  dei  Poeti.  Stupivano  di 
udir  ragionare  in  versi  martelliani  sino  le  Fornaie, 
le  Corde,  i  Cani,  i  Portoni.  Ringraziavano  quegli 
oggetti  della  loro  pietà. 

L' uditorio  era  contentissimo  di  quella  mirabile 
novità  puerile,  ed  io  confesso,  che  rideva  di  me 
medesimo,  sentendo  l'animo  a  forza  umiliato  a 
godere  di  quelle  immagini  fanciullesche,  che  mi 
rimettevano  nel  tempo  della  mia  infanzia. 

Usciva  la  Gigantessa  Creonta  altissima,  e  in 
andrianè.  Tartaglia,  e  Truffaldino  all'  orribile  com- 
parsa fuggivano. 

Creonta  con  un  disperato  gestire  diceva  questi 
disperati  versi  martelliani,  non  lasciando  d' invocar 
Pindaro,  di  cui  il  Sig.  Chiari  si  vantava  confra- 
tello: 

Ahi  ministri  infedeli,  Corda,  Cane,  Portone, 

Scellerata  Fornaia,  traditrici  persone! 
O  Melarance  dolci!  Ahi  chi  mi  v^ha  rapite? 

Melarance  mie  care,  anime  mie,  mie  vite. 
Oimè  crepo  di  rabbia.  Tutto  mi  sento  in  seno 

11  Caos,  gli  Elementi,  il  Sol,  l'Arcobaleno. 
Più  non  deggio  sussistere.  O  Giove  fulminante, 

Tuona  dal  Ciel,  mMnfrangi  dalla  zucca  alle  piante. 
Chi  mi  dà  aiuto,  Diavoli,  chi  dal  mondo  m'invola? 

Ecco  un  amico  fulmine,  che  m'arde  e  mi  consola. 

Nessuna  parodìa  caricata  potrà' spiegar  i  senti- 
menti, e  lo  stile  del  Sig.  Chiari  meglio  di  quest'  ul- 
timo verso. 


28 


L   AMORE 


y 


Cadeva  un  fulmine,  che  inceneriva  la  gigantessa. 

A  questo  passo  terminava  l'Atto  secóndo,  fa- 
vorito di  maggior  applauso  del  primo  dal  Pubblico. 

La  mia  audacia  cominciava  a  non  esser  più  col- 
pevole. 


ATTO  TERZO 


I  apriva  la  scena  al  luogo,  dov'  era  il 
Iago  di  abitazione  della  Fata  Morgana.  Si 
vedeva  un  albero  grande;  sotto  a  quello  un  sasso 
grande,  in  forma  di  sedile.  Erano  pure  sparsi  per 
quella  campagna  vari  macigni. 

Smeraldina,  il  di  cui  linguaggio  era  di  Turca 
Italianizzata,  stava  sulla  riva  del  lago  per  atten- 
dere gli  ordini  della  Fata.  S'  impazientava,  chia- 
mava. 

Usciva  la  Fata  dal  lago.  Narrava  d' essere  stata 
all'  Inferno,  e  di  aver  saputo,  che  Tartaglia,  e  Truf- 
faldino, aiutati  da  Celio,  venivano,  spinti  dal  man- 
tice d'un  Diavolo,  vittoriosi  delle  tre  Melarance. 
Smeraldina  rimproverava  la  sua  ignoranza  nella 
magìa;  era  arrabbiata.  Morgana,  che  non  si  stan- 
casse. Per  un  accidente  ordinato  da  lei.  Truffaldino 
sarebbe  arrivato  in  quel  luogo  disgiunto  dal  Prin- 
cipe. Una  fame  e  una  sete  magica  lo  molestereb- 


30  l'  amore 

bero.  Avendo  seco  le  tre  Melarance,  succederebbero 
grandi  accidenti.  Consegnava  due  spilloni  indiavo- 
lati a  Smeraldina  mora.  Diceva,  che  sotto  all'  albero 
avrebbe  veduta  una  bella  ragazza  sedere  sopr'al 
sasso.  Questa  sarebbe  la  sposa  scelta  da  Tartaglia. 
Procurasse  con  arte  di  ficcare  uno  degli  spilloni 
nel  capo  a  quella  ragazza.  Sarebbe  diventata  una 
colomba.  Sedesse  sul  sasso  in  iscambio  di  quella 
ragazza.  Tartaglia  avrebbe  sposata  lei;  diverrebbe 
Regina.  La  notte  dormendo  col  marito  piantasse 
nel  capo  a  quello  1'  altro  spillone  ;  sarebbe  diven- 
tato un  animale;  e  così  restava  libero  il  Trono  a 
Leandro  e  Clarice.  La  Mora  trovava  delle  difficoltà 
in  questa  impresa,  spezialmente  quella  d' esser  co- 
nosciuta in  Corte.  L' arte  magica  di  Morgana  spia- 
nava tutte  le  impossibilità,  come  si  deve  credere. 
Conduceva  via  la  Mora  per  meglio  istruirla,  e  per- 
chè vedeva  giungere  Truffaldino  spinto  dal  vento 
infernale. 

Usciva  Truffaldino  correndo  col  Diavolo,   che 

10  soffiava,  e  colle  tre  Melarance  in  una  bisaccia. 

11  Diavolo  spariva.  Truffaldino  narrava  esser  caduto 
il  Principe  poco  discosto  per  V  impeto  del  correre  : 
che  lo  avrebbe  aspettato.  Sedeva.  Una  fame  e  una 
sete  prodigiosa  T  assalivano.  Destinava  di  mangiarsi 
una  delle  tre  Melarance.  Aveva  de'  rimorsi,  faceva 
una  scena  tragica.  Finalmente  molestato,  e  acce- 
cato dalla  prodigiosa  fame,  risolveva  di  fare  il  gran 
sacrifizio.  Rifletteva  di  poter  rimettere  il  danno 
con  due  soldi.  Tagliava  una  Melarancia.  Qual  mi- 


DELLE  TRE  MELARANCE.  3I 

racolol  Usciva  da  quella  una  giovinetta  vestita  di 
bianco,  la  quale,  fedel  seguace  del  testo  della  Fa- 
vola, diceva  tosto; 

Dammi  da  bere,  ahi  lassa  !  Presto  moro,  idol  mio, 
Moro  di  sete,  ahi  misera  !  Presto,  crudele.  Oh  Dio  1 

Cadeva  in  terra  presa  da  un  languor.  mortale. 
Truffaldino  non  si  ricordava  gli  ordini  di  Celio, 
di  non  dover  aprire  le  Melarance,  che  appresso 
una  fonte.  Balordo  per  istinto,  e  per  il  caso  mi- 
rabile disperato  non  vedeva  il  lago  vicino  ;  gli  ve- 
niva in  mente  solo  il  ripiego  di  tagliar  un'altra 
delle  Melarance,  e  di  soccorrere  la  moribonda  per 
la  sete  col  succo  di  quella.  Faceva  tosto  1'  anima- 
lesca azione  di  tagliare  un'altra  Melarancia,  ed 
ecco  un'  altra  bella  ragazza  col  suo  testo  in  bocca 
per  tal  modo: 

Oimé,  muoio  di  sete.  Deh  dammi  ber^  tiranno. 
Crepo  di  sete,  oh  Dio!  ch'io  svengo  per  l'affanno. 

Cadeva,  come  1'  altra.  Truffaldino  esprimeva 
le  smanie  sue  grandissime.  Era  fuori  di  sé,  dispe- 
rato. Una  delle  fanciulle  seguiva  con  voce  flebile: 

Crudel  destin  !  Di  sete  morrò  j  muoio,  son  morta. 

Spirava.  L'altra  aggiungeva: 

Moro,  barbare  stelle:  ohimè,  chi  mi  conforta! 

Spirava.  Truffaldino  piangeva,  parlava  loro  con 


32  l'amore 

tenerezza.  Stabiliva  di  tagliar  la  terza  Melarancia 
per  aiutarle.  Era  per  tagliarla,  quando  usciva.  Tar- 
taglia furioso,  elle  lo  minacciava.  Truffaldino  spa- 
ventato fuggiva  abbandonando  la  Melarancia. 

Gli  stupori,  i  riflessi,  che  faceva  questo  grot- 
tesco Principe  sui  gusci  delle  due  Melarance  ta- 
gliate, e  sopra  a'  due  cadaveri  delle  giovinette,  non 
sono  dicibili. 

Le  maschere  facete  della  Commedia  all'  im- 
provviso in  una  circostanza  simile  a  questa  fanno 
■  delle  scene  di  spropositi  tanto  graziosi,  di  scorci, 
€  di  lazzi  tanto  piacevoli,  che  né  sono  esprimibili 
•-=^all'  inchiostro,  né  superabili  da'  Poeti. 

Dopo  un  lungo,  e  ridicolo  soliloquio.  Tartaglia 
vedeva  passar  due  villani,  ordinava  l'onorata  se- 
poltura di  quelle  due  giovinette.  I  villani  le  por- 
tavano via. 

Il  Principe  si  volgeva  alla  terza  Melarancia. 
Ella  era  con  «uà  sorpresa  portentosamente  cre- 
sciuta, quanto  una  grandissima  zucca. 

Vedeva  il  lago  vicino,  dunque  per  i  ricordi  di 
?  Celio,  il  luogo  era  opportuno  per  aprirla  ;  1'  apriva 
col  suo  spadone,  ed  usciva  da  quella  una  grande, 
e  bella  fanciulla,  vestita  di  teletta  bianca,  la  quale 
adempiendo  al  testo  del  grave  argomento  escla- 
mava: 

Chi  mi  trae  dal  mio  centro  !  Oh  Dio  !  muoio  di  sete. 
Presto  datemi  bere,  o  invan  mi  piangerete. 

(cadeva  in  terrà.) 


DELLE   TRE   MELARANCE.  3} 

n  Principe  intendeva  la  ragione  dell'ordine  di 
Celio.  Era  imbrogliato  per  non  aver  nulla  da  rac- 
coglier dell'  acqua.  Il  caso  non  ammetteva  riguardi 
di  politezza.  Si  traeva  una  delle  scarpe  di  ferro, 
correva  al  lago,  la  empieva  d'acqua,  e  chiedendo 
perdono  dell'  improprietà  del  bicchiere,  dava  ristoro 
alla  giovinetta,  che  robusta  si  rizzava  ringrazian- 
dolo del  soccorso. 

Ella  narrava  d'esser  figliuola  di  Concul,  Re 
degli  Antipodi,  e  d'essere  stata  condannata  con 
due  sorelle  dalla  crudel  Creonta,  per  incantesimo, 
nel  guscio  d'una  Melarancia,  per  ragioni  tanto 
verisimili,  quant'  era  verisimile  il  caso.  Seguiva  una 
scena  facetamente  amorosa.  Il  Principe  giurava  di 
sposarla.  La  città  era  vicina.  La  Principessa  non 
avea  decenti  vestiti.  Il  Principe  l' obbligava  ad 
aspettarlo  assisa  sopr'al  sasso  all'ombra  dell'al- 
bero. Sarebbe  venuto  con  ricco  vestiario,  e  cori 
tutta  la  Corte  a  levarla.  Ciò  concluso,  si  stacca- 
vano con  de' sospiri. 

Smeraldina  Mora,  attonita  per  quanto  aveva 
veduto,  usciva.  Vedeva  1'  ombra  della  bella  giovine 
nell'  acqua  del  Lago.  Non  era  pericolo,  eh'  ella  non 
eseguisse  diligentemente  quanto  si  narra  nella  Fa- 
vola di  cotesta  Mora.  Non  parlava  più  Turco  ita- 
lianizzato. Morgana  le  aveva  fatto  entrar  nella 
lingua  un  Diavolo  toscano.  Sfidava  tutti  i  Poeti 
nel  ragionare  correttamente.  Scopriva  la  giovine 
Principessa,  il  di  cui  nome  era  Ninetta.  La  lusin- 
gava, si  esibiva  ad  acconciarle  il  capo,  se  le  avvi- 
Gozzi.  3 


34  l' AMORE 

dilava,  la  tradiva.  Le  piantava  nel  capo  imo  dei 
due  spilloni  portentosi.  Ninetta  diventava  una  co- 
lomba, volava  per  Paere.  Smeraldina  sedeva  nel 
suo  posto  attendendo  la  Corte  ;  si  preparava  a  trar» 
dire  Tartaglia  coli' altro  spillone,  quella  notte. 

A  t|atto  il  mirabile  misto  col  ridicolo,  e  le 
puerilità  di  queste  scene,  gli  uditori  informati  sino 
dai  loro  primi  anni  dalle  balie,  e  dalle  nonne  loro 
degli  accidenti  di  questa  fola,  erano  immersi  pro- 
fondamente nella  materia,  e  impegnati  stretta- 
mente cogli  animi  nell'  ardita  novità  di  vederli 
esattamente  rappresentati  sopra  un  teatro. 

Al  suono  d' una  marcia  giungeva  il  Re  di 
Coppe,  il  Principe,  Leandro,  Oarice,  Pantalone, 
Brighella,  e  tutta  la  Corte,  per  levare  solenne- 
mente la  Principessa  sposa.  La  nuova  figura  della 
Mora  trovata,  e  non  conosciuta  per  le  stregherie 
di  Morgana,  faceva  arrabbiare  il  Principe.  La  Mora 
giurava,  esser  lei  la  Principessa  ivi  lasciata.  Il 
Principe  non  mancava  di  far  ridere  colle  sue  di- 
sperazioni. Leandro,  Clarice,  e  Brighella  erano  al- 
legri. Vedevano,  da  dove  veniva  V  arcano.  Il  Re 
di  Coppe  entrava  in  gravità  ;  obbligava  il  figliuolo 
a  mantenere  la  principesca  parola,  e  a  sposare  la 
Mora.  Minacciava.  Il  Principe  con  buflFoneschi 
scorci  acconsentiva,  tutto  mestizia.  Si  suonavano 
gli  strumenti.  Il  drappello  passava  alla  Corte  per 
celebrare  le  nozze. 

Truffaldino  non  era  venuto  colla  Corte.  Aveva 
ottenuto  il  perdono  dal  Principe  dei  suoi  errori. 


DELLE  TRE   MELARANCE.  35 

Aveva  avuta  la  carica  di  cuoco  regio.  Era  rimasto 
nella  cucina  per  apparecchiare  il  banchetto  nuziale. 

La  scena,  che  seguiva  dopo  la  partenza  della 
Corte,  è  la  più  ardita  di  questa  scherzevole  .par^ 
rodlg;,  I  due  partiti  delli  Sigg.  Chiari  e  Goldoni, 
ch'erano  nel  Teatro,  e  che  s'avvidero  del  tratto 
mordace,  fecero  ogni  prova  per  porre  in  un  tu-  * 
multo  di  sdegno  V  uditorio,  ma  tutti  gli  sforzi  fu- 
rono vani.  Ho  detto,  che,  nella  persona  di  Celio 
mago,  io  aveva  figurato  il  Sig.  Goldoni,  in  quella 
di  Morgana  il  Sig.  Chiari.  Il  primo  aveva  fatto  un 
tempo  V  avvocato  nel  foro  Veneto.  La  sua  maniera 
di  scrivere  sentiva  dello  stile  delle  scritture,  che 
si  accostumano  dagli  avvocati  in  quel  rispettabile 
foro.  Il  Sig.  Chiari  si  vantava  d' uno  stile  pinda-  ^ 
rico  e  sublime;  ma,  sia  detto  con  sopportazione, 
non  ci  fu  nessun  gonfio  e  irragionévole  scrittore 
seicentista,  che  superasse  i  suoi  smoderati  tra- 
scorsi. 

Celio  e  Morgana  avversi,  e  furiosi  incontran- 
dosi formavano  la  scena,  ch'io  trascriverò  intera- 
mente col  dialogo  medesimo,  e  come  seguì. 

Si  rifletta,  che,  se  le  parodìe  non  danno  nella 
caricatura,  non  hanno  giammai  l' intento,  che  si 
desidera,  e  s'usi  indulgenza  ad  un  capriccio,  che 
nacque  da  un  animo  puramente  allegro,  e  scher- 
zevole, ma  amicissimo  nell'  essenziale  de'  Sigg. 
Chiari  e  Goldoni. 

Celio  (uscendo  impetuoso,  a  Morgana)  Scel- 
leratissima maga,  ho  già  saputo  ogni  tuo  inganno; 


36  l'amore 

ma  Plutone  m'assisterà.  Strega  infame,  strega 
.  maledetta. 

Morgana.  Che  parlare  è  il  tuo,  mago  ciarla- 
tano? Non  mi  pungere;  perch'io  ti  darò  una 
rabbuffata  in  versi  martelliani,  che  ti  farò  morire 
sbavigliando. 

Celio.  A  me,  strega  temeraria?  Ti  renderò 
pane  per  focaccia.  Ti  sfido  in  versi  martellianL 
A  te  : 

Sarà  seinpre  tenuto  un  vano  tentativo, 

Subdolo,  insussistente,  d^  ogni  giustizia  privo. 

Le  tali  quali  incaute,  maligne,  rovinose 

Stregherie  di  Morgana  colP altre  annesse  cose; 

E  sarà  ad  evidenza  ogni  mal  operato 
Tagliato,  carcerato,  cassato,  evacuato. 

Morgana.  Oh  cattivi!  A  n^e,  mago  dappoco. 

Prima  i  bei  raggi  d'oro  di  Febo  risplendente 

Diverran  piombo  vile,  e  il  Levante  Ponente; 
Prima  V  opaca  luna  le  argentee  corna  belle, 

E  r  eterico  impero  cambierà  colle  stelle. 
I  mormoranti  fiumi  col  lor  natio  cristallo 

Poggeran  nelle  nuvole  sul  Pegaseo  cavallo; 
Ma  sprezzar  non  potrai,  vii  servo  di  Plutone, 

Del  mio  spalmato  legno  le  vele,  ed  il  timone. 

Celio.  Oh  Fata,  gonfia,  come  una  vescica  l 
aspettami. 

Seguirà  assoluzione  in  capo  di  converso, 
Come  fia  dichiarato  nel  primo  capoverso 


DELLE   TRE   MELARANCE.  37 

Ninetta  Principessa  in  colomba  cambiata 

Sia,  per  quanto  in  me  consta,  presto  ripristinata; 

Ed  in  secondo  capo,  capo  di  conseguenza, 

Clarice  e  il  tuo  Leandro  cadranno  in  indigenza^ 

E  Smeraldina  Mora,  indebita  figura. 

Per  il  ben  giusto  effetto  a  tergo  avrà  1^  arsura. 

Morgana.  Oh  goffo,  goffo  verseggiatore!  Ascoi 
tamì;  voglio  atterrirti. 

Con  le  volanti  penne  Icaro  insuperbito 

Poggia  al  Ciel,  scende  ai  flutti  garrulo,  incauto,-  ardita 
Sopra  Pelio  Ossa  posero,  Olimpo  sopra  ad  Ossa 

Temerari  gli  Enceladi  per  dare  al  Ciel  la  scossa. 
Precipitano  gPIcari  nel  salso  umor  spumante, 

E  gli  Enceladi  in  cenere  manda  il  folgor  tonante. 
Salga  Clarice  al  Trono  per  tuo  dolor  protervo, 

Si  tramuti  Tartaglia,  qual  Atteone,  in  cervo. 

Celio  a  parte.  (Costei  mi  vuol  sopraffare  con 
poetiche  superchjeri^.  Se  crede  di  cacciarmi  nel 
sacco,  s'inganna). 

Nulla  lascierò  correre  senza  risposta,  e  presto 
Applico  a  tue  mendacie  un  valido  protesto. 

Morgana. 

Dei  Monarchi  di  Coppe  fia  libero  il  paese. 

(  partiva  ). 

Celio  (le  gridava  dietro). 

Ed  io  ti  riprotesto,  salvia,  e  nelle  spese. 

(  entrava  ). 


38  l'  amorb 

Aprivasi  la  scena  alla  cucina  regia.  Non  si  vide 
mai  una  regia  cucina  più  miserabile  di  questa. 

Il  resto  della  Rappresentazione  non  era,  che 
il  resto  della  fola  minutamente  rappresentata, 
in  cui  erano  già  interessatissimi  gli  animi  degli 
spettatori. 

La  parodìa  non  girava,  che  sulle  bassezze,  e 
trivialità  d' alcune  opere,  e  sull*  avvilimento  di  al- 
\cuni  caratteri  dei  due  Poeti. 

Un'  eccessiva  mendicità,  improprietà  e  bassezza 
^  formavano  la  parodìa. 

Si  vedeva  Truffaldino  affaccendato  a  infilzare 
un  arrosto.  Narrava  disperato,  che,  non  essen- 
dovi in  quella  cucina  girarrosto,  girando  egli  lo 
spiedo,  era  comparsa  una  colomba  sopra  un  fine- 
strino; ch'era  corso  tra  lui  e  la  colomba  questo 
dialogo.  Le  parole  sono  del  testo.  La  colomba 
gli  aveva  detto:  Bon  rfì,  cogq  de  cusina.  Egli  le 
avea  risposto:  Bon  dì,  bianca  colombina.  La  co- 
lomba aveva  soggiunto:  Prego  el  Cielo,  che  ti 
te  possi  indormen^ar:  che  el  rosto  se  possa  bru-^ 
sar:  perchè  la  Mora,  brutto  muso,  no  ghe  ne 
possa  magnar.  Un  prodigioso  sonno  lo  aveva  as- 
salito; s'era  addormentato;  l'arrosto  si  era  ince- 
nerito. Questo  accidente  era  nato  due  volte.  Due 
arrosti  si  erano  abbruciati.  Frettoloso  metteva  il 
terzo  arrosto  al  fuoco.  Si  vedeva  comparire  la  co- 
lomba, il  dialogo  si  replicava.  Il  sonno  portentoso 
assaliva  Truffaldino.  Questo  grazioso  personaggio 
faceva  tutti  gli  sforzi   per   non   dormire;   i  suoi 


DELLE'  TRE   MELARANCE.  39 

lazzi  erano  facetissimi.  S' addormentava.  Le  fiamme 
incenerivano  il  terzo  arrosto. 

Si  chieda  all'uditorio,  il  perchè  questa  scena 
piacesse  estremamente. 

Giimgeva  Pantalone  gridando.  Destava  Truf- 
fieddino.  Diceva  che  il  Re  era  in  collera,  perchè  si 
erano  mangiati  la  minestra,  P  alesso,  e  il  fegato, 
e  l'arrosto  non  compariva.  Viva  il  coraggio  d'un 
Poeta.  Questo  era  im  sorpassar  nella  bassezza  le  ^ 
baruffe  per  le  zucche  baruche  delle  Chiozzotte  del  V 
Sig.  Goldoni  Truffaldino  narrava  il  caso  della  co- 
lomba. Pantalone  non  credeva  tal  maraviglia.  Com- 
pariva la  colomba,  replicava  le  parole  portentose. 
Truffaldino  era  per  cadere  dal  sonno.  Questi  due 
personaggi  davano  la  caccia  alla  colomba,  che  svo- 
lazzava per  la  cucina. 

Tal  caccia  interessava  molto  l' uditorio.  Si 
prendeva  la  colomba,  si  metteva  sopra  una  tavola, 
si  accarezzava.  Si  le  sentiva  un  picciolo  gruppetto 
nel  capo;  era  lo  spillone  magico.  Truffaldino  lo 
strappava.  Ecco  la  colomba  trasformata  nella  Prin- 
cipessa Ninetta. 

Gli  stupori  erano  grandissimi.  Compariva  la 
Maestà  del  Re  di  Coppe,  il  quale  con  monarche- 
sca  gravità,  e  collo  scettro  alla  mano  minacciava 
TrùfEaddino  per  la  tardanza  dell'  arrosto,  e  per  la 
vergogna,  che  sofferì  va  un  suo  pari  coi  convitati. 
Gran  superiorità  d' un  autore!  Giugneva  il  Principe 
Tartaglia,  riconosceva  la  sua  Ninetta.  Era  folle 
per  l'allegrezza.   Ninetta  con   brevità   narrava  i 


40  L   AMORE 

suoi  casi;  il  Re  rimaneva  attonito.  Vedeva  com- 
parire la  Mora  e  il  resto  della  Corte  in  traccia, 
della  Maestà  sua  nella  cucina.  Il  Re  con  sussiego 
sommo  ordinava  a' due  Principi  di  ritirarsi  nella 
spazzacucina.  Destinava  il  focolare  per  suo  trono, 
siedeva  sul  focolare  con  sostegno  reale.  Giugneva 
la  Mora,  e  la  Corte  tutta.  Il  Re,  fedel  custode 
della  favola,  metteva  il  caso  nei  termini,  chiedeva 
qual  castigo  meritassero  i  delinquenti  a  quel  caso. 
Ognuno  sbalordito  diceva  il  suo  parere.  Il  Re  nelle 
furie  condannava  Smeraldina  Mora  alle  fiamme. 
Compariva  Celio.  Dichiarava  le  colpe  occulte  di 
Clarice,  Leandro  e  Brighella.  Erano  condannati 
in  una  relegazione  crudele.  Si  chiamavano  i  due 
Principi  sposi  dalla  spazzacucina.  Tutto  era  al- 
legrezza. 

Celio  esortava  Truffaldino  a  tener  lunge  i  versi 
y  martelliani  diabolici  dalle  regie  pignatte,  e  far  ri-r 
dere  i  suoi  Sovrani.  Non  lasciava  di  terminare  la 
favola  col  consueto  finale,  che  sa  a  memoria  ogni 
ragazzo;  di  nozze,  di  rape  in  composta,  di  sorci 
pelati  e  di  gatti  scorticati,  ecc.  e  siccome  i  Sigg, 
Gazzettieri  di  quel  tempo  facevano  elogi  stermi- 
nati sui  loro  fogli  ad  ogni  opera  nuova,  che  ve- 
niva rappresentata  del  Sig.  Goldoni,  non  si  om- 
metteva  una  calda  raccomandazione  all'uditorio, 
perch'  egli  volesse  farsi  intercessore  coi  Sigg.  Gaz- 
zettieri in  vantaggio  della  buona  fama  di  questa 
fanfaluca  misteriosa. 
^     Non  fu  mia  colpa.  Il  cortese  pubblico  volle  re- 


DELLE  TRE   MELARANCE. 


41 


plicata  molte  sere  alla  fila  questa  parodia  fanta-; 
stica.  Il  concorso  fii  gi-ande.  La  truppa  del  Sacchi 
cominciò  a  respirare  dall'oppressione.  Si  trove- 
ranno in  seguito  le  conseguenze  grandi  derivate 
da  si  frìvolo  principio,  nella  parodìa  del  quale  chi 
conosce  l' Italia,  e  non  sarà  entusiasta  geniale  della 
delicatezza  francese,  non  formerà  giudizio  col  con- 
fronto delle  parodìe  di  quella  nazione. 


/ 


IL  CORVO 

HABA  TEATRALE  TRAGICOMICA 
IN  CINQUE  ATTI 


PERSONAGGI 


MILLO,  Re  di  Frattombrosa. 

JENNÀRO,  Principe  suo  fratello. 

LEANDRO      J  ^..  .     . 
}  Ministri. 
TARTAGLIA  ) 

ARMILLA,  Principessa  di  Damasco. 

SMERALDINA,  sua  Damigella. 

NORANDO,  Negromante. 

TRUFFALDINO  ì  ^      .       .  ^  ,  „ 

>  Cacciatori  del  Re. 
BRIGHELLA       ) 

PANTALONE,  Ammiraglio  Zuechino, 

DUE  COLOMBE,  che  parlano. 

MARINARI  e  ciurma  di  galeotti. 

SOLDATL 

SERVL 


L^  azione  è  nella  Città  immaginaria  di  Frattombrosa, 
e  ne^suoi  porti  vicini. 


ATTO  PRIMO 

Spiaggia  con  alberi,  mare  in  burrasca  da  lontano, 
nembo,  tuoni  e  saette. 


SCENA  PRIMA. 

Pantalone,  affaccendato  sulla  corsìa  d'una  galera  in 
procella,  suonerà  un  :(uffoletto,  griderà  colla  ciurma,  darà 
degli  ordini  con  delle  grida,  che  saranno  con/use  dallo  stre^ 
pilo  del  nembo.  La  burrasca  anderà  cessando,  la  galera 
s'awierà  verso  la  spiaggia. 

Pant.  {bastonando  i  galeotti  con  una  corda  e 
gridando) 

lA  quel  timon.  Cazze  quella  scotta,  ca- 
I  gadonaL  A  ti,  marmitton. 
Ciurma.  Terra,  terra. 
Pant.  Terra,  terra,  si  sbasii;  se  non  fusse  mi  su 
sta  galera  1   (fischia)  Allestì  all'ancora,  am- 
mazzaL 
Ciurma.   Sier  sì»   {La  galera  s^ avvicinerà  alla 

spiaggia^  si  metterà  la  scala  a  terra). 
Pant.  A  ringraziar  el  Cielo,  cani,  {fischierà  tre 


46  IL  CORVO. 

volte;  ad  ogni  fischiata  la  Ciurma  rispon- 
derà con  un  urlo.  Si  farà  vedere  il  Principe 
Jennaro  vestito  da  mercante  orientale,  uscirà 
sulla  spiaggia  con  Pantalone). 

SCENA  SECONDA. 
Jbnnaro  e  Pantalonb. 

Jen.  Pantalone,  io  mi  credei  perduto  a  eoa  or- 
ribile burrasca. 

Pant.  Come!  Sala  da  che  paese  sia  mi? 

Jen.  Si,  dalla  Giudeca  di  Venezia;  me  P avrete 
detto  mille  volte. 

Pant.  Mo  dassenazzo,  che,  dove  ghe  xe  Zuechinì^ 
.  no  pericola  bastimenti.  Ho  impara  a  mie  spese. 
Do  pieleghi  e  un  trabaccolo  ho  rotto  da  Mala- 
mocco  a  Zara  per  imparar  el  mestier.  Ancuo  me 
tremava  un  poco  le  tavemelle,  noi  nego;  no 
miga  per  mi,  né  -per  el  pericolo,  che  za  nù,  non 
fursi,  semo  usi  a  ste  marendine;  ma  per  ella.  Oh 
Dio,  Pho  vista  a  nascer;  l'ho  avuda  su  stì 
bracci,  tanto  longo.  La  bon' anima  de  mia  muger 
Pandora  r  ha  latta,  r  ho  arlevada  facendola  bal- 
lar su  sti  zenocchi;  me  par  ancora  de  darghe  de 
quei  basetti,  quando  che  ella  me  spenzeva  el 
muso  in  là  colle  so  manine,  disendome:  mo  la- 
sciatemi, che  mi  ruspitate  con  quella  barba.  In 
somma,  che  cade?  me  par  die  la  sia  mio  fio, 
e  temeva  più  per  ella,  che  per  mi.  E  pò  ^o  el 
pan  d'Armiragio  dalla  so  famegìa,  ho   abuo 


ATTO  PRIMO.  47 

mille  beneficenze,  che  xe  trent'anni,  sin  sotto 
la  felice  memoria  del  Re  so  Pare,  e  pò  son  im 
cuor  della  Zuecca,  e  tanto  basta.  ,       ^ 

Jkn.  e  vero;  ho  infinite  caparre  del  vostro  buon 
animo,  e  della  vostra  bravura  nella  navigazione^ 
e  in  fatti  Paver  oggi  ridotta  in  porto,  e  in 
salvo  questa  galera  da  sì  tremenda  burrasca 
basta  per  immortalare  un  Ammiraglio.  Quanto 
siamo  lontani  dal  Regno  nostro  di  Frattom- 
brosa?  Che  farà  questo  tempo,  Pantalone? 

Pant.  Questo  se  chiama  porto  Sportela.  Dalla  città 
de  Frattombrosa  semo  lontani  diese  mia.  El 
tempo  va  bonazzando;  el  vento  se  va  zirando 
da  ponente.  Da  qua  do  o  tre  ore,  nu  gavemo 
seren,  e  in  tun' oretta  e  mezza  al  più  semo  a 
Frattombrosa  a  consolar  el  povero  Re  Millo,  so 
fradello,  al  qual  le  recchie  deve  businar  ogni 
momento,  perchè  ella  non  fa  altro  die  nomi- 
narlo. El  dièesser  appassiona  morto  de  no  aver 
de  ella  né  niova,  ne  imbassada;  che  sia  bene- 
detto ai  fradelli,  che  se  voi  ben.  Possio  dir  an- 
cora, che  la  xe  fradello  d'un  Re? 

Jbn.  Sì,  ora  lo  potete  dire  {guardando  verso  la 
galera,  da  cui  si  vedranno  uscire  Armilla  e 
Smeraldina,  piangenti,  assistite  dai  servi).  Ma 
ecco  la  mia  rapita  Principessa,  ch'esce  dalla  ga- 
lera oppressa  dalla  mestizia.  Partite,  e  fate  di- 
rizzare due  padiglioni  su  questa  spiaggia,  onde 
si  possa  prendere  un  poco  di  riposo,  e  rinfran- 
carsi dalla  passata  burrasca.  Spedite  tosto  un 


48  IL  CORVO. 

messo  per  terra  al  Re  Millo,  mio  fratello,  a 
dargli  la  notizia  del  nostro  arrivo. 
Pant.  No  perdo  un'onza  de  tempo.  Oh  che  gusto  I 
Oh  che  allegrezza  l  Oh  che  nozze,  che  avemo 
da  far  a  Frattombrosal  I  me  dirà  che  son  matto 
a  sentir  allegrezza  de  nozze  in  età  de  settan- 
tacinqu'anni;  ma  co  sento  a  dir  nozze,  me  par 
anca  de  sentir  quella  solita  ragazzada  de  rave 
in  composta,  de  sorzi  pelai,  de  gatti  scortegai, 
e  devento  im  putello.  (Passando  dinanzi  alla 
Principessa  che  verrà  piangendo  ).  Eh  cocola, 
cocola,  co  ti  saverà,  chi  semo,  no  ghe  sarà  tante 
lagreme  no.  (  Entra  e  fa  poscia  piantare  un 
padiglione). 

SCENA  TERZA. 

Jbnnaro^  Armilla,  Principessa  vestita  all'  orientale,  av- 
vertendo,  che  dovrà  aver  le  ciglia  e  le  chiome,  fatte  ad 
arte  nerissime.  Smeraldina  all'  orientale.  Le  donne  verranno 
condotte  dai  servii  e  piangendo,  I  servi  si  ritireranno, 

Jbn.  Armilla,  voi  piangete,  e  il  vostro  pianto 
M'è  rimprovero  acerbo.  Eppure,  Armilla, 
Tanta  cagion  di  pianto  non  avete, 
Quanta  credete  aver. 

Arm.  Crudel  pirato.  (piange) 

'Smer.  Iniquo,  traditor.  (piange) 

Jen.  e  ver;  crudele, 

Iniquo,  traditor.  Ma,  Principessa, 
Io  vi  dirò... 

Smer.  Che  le  dirai,  ladrone? 

Jen.  Io  le  dirò... 


ATTO   PRIMO.  49 

SuER.  Boiacche  le  dirai? 

Che  ridur  puòssi  una  real  donzella 
In  sul  tuo  legno  con  preghiere  ed  arte, 
Per  mostrarle  merletti,  e  drappi,  e  gioie, 
E  nastri  e  gale  non  più  viste  al  mondo, 
Ond'ella  possa  comperar,  e  scegliere 
Ciò,  che  le  piace  più,  così  incitando 
La  femminil  vana  fralezza,  e  poi 
Mentre  sta  intenta  l' innocente  in  mille 
Merci  divèrse,  le  dirai,  che  puossi 
Salpar  il  ferro,  dar  le  vele  a' venti, 
Ridursi  in  alto  mare,  e  a  questo  modo 
Dal  sen  paterno  distaccar  le  figlie? 
Rapir  le  Principesse  ?  Ladro,  infame, 
Ben  degno  d'un  capestro,  e  d'una  forca. 
D'una  scure  sul  collo... 

Jen.  Olà,  miei  servi. 

Levatemi  di  qua  questa  insolente. 
Garrula  femminetta  (  vengono  dei  servi  ). . 

Arm.  Oh  Dio!  Tiranno, 

Solo  con  me  vuoi  rimaner?  T'intendo. 
Prima  morrò...  v 

Jen.  No,  Principessa  illustre. 

Sol  di  scolparmi  intendo,  e  male  io  soffro 
D' un'  arrabbiata  femmina  parole 
Ingiuriose  troppo,  e  che  interfotto 
Il  mio  discorso  sia,  che  non  mi  toglie 
La  colpa  no,  ma  raddolcir  la  puote, 
E  in  parte  a  voi  calmar  l'angoscia.  Vada. 

(  ai  servi,  che  la  conducono  via  a  fon^a  ). 
Gozzi.  4 


50  IL   CORVO.        »  ^ 

Smbr.  Iniquo,  scellerato.  Ciel,  puniscilo. 

(  a  parte  )  Ah  che  del  ratto  i  crudi  vaticini 
Che  chiusi  ho  in  sen,  s'avveranno  alfine. 

^  (  entra  condotta  dai  servi  ). 

SCENA  QUARTA. 
'  .        Armilla  e  Jennaro. 

Arm.  Barbaro,  che  dirai?  Starami  discosto, 
Corsale  ardito,  e,  s' altra  arma  non  temi, 
Rispetta  in  me. la  figlia  di  Norando, 
Principe  di  Damasco.  Al  suo  potere 
Pensando  trema,  e  una  vendetta  attendi 
La  più  feroce. 

JpN.  Avvenga  pure.  Intanto 

Io  dirò  a  voi,  che  vii  corsal  non  sono, 
Ma  fratello  di  Re.  Di  Frattombrosa 
È  Millo  Re;  di  Millo  io  son  fratello; 
Principe  son.  Jennaro  è  il  nome  mio. 

Arm.  Tu  di  Millo  fratel?  Di  Re  fratello 
Di  mercante  in  arnese,  con  inganno 
Riduci  in  sul  tuo  legno  le  donzelle. 
Principesse  innocenti,  e  le  rapisci  1 

Jen.  Sì,  Armilla.  QuelP  affetto,  che  mi  strigne 
A  Millo,  fratel  mio;  l'aver  inteso 
L' inaccessibil  cor  di  vostro  padre. 
Barbaro  per  costume,  il  caso  avverso, 
L' imperscrutabil  caso  a  forza  volle,     . 
Ch'  io  vi  rapissi. 

Arm.  e  qual  imperscrutabile 


ATTO  PRIMO.  51 

Caso  un  fratel  d'un  Re  sforza  a  lordarsi 
D'azioni  indegne? 
Jen.  Eccovi  il  caso,  Armilla. 

L'amato- Millo,. mio  fratel,  che  adoro, 
Primogenito  e  Re,  sin  da  prim'anni 
Nelle  cacce  allettossi.  Altro  non  mai 
Cercò  diletto.  Nella  caccia  sempre 
Fu  indefesso,  ed  intento  a  tal,  che,  fuori 
Da'  destrier,  da'  falconi,  ed  archi,  e  cani. 
Poco  uscia  co' discorsi.  Or  son  tre  anni, 
(Terribile  momento)  che  cacciando 
Leprette  e  quaglie,  in  una  selva  giunse. 
Sopra  una  quercia  un  nero  Corvo  mira. 
Dà  mano  all'arco,  l'arma  di  saetta, 
Scocca  e  il  trafigge.  Sotto  a  quella  pianta 
Di  bianchissimo  marmo  un  bel  sepolcro 
Stava  innalzato,  e  sopra  quella  candida 
Lastra,  ch'era  coperchio  al  monumento, 
II  nero  Corvo  cadde,  e  starnazzando 
Sparse  vermiglio  sangue,  e  uscì  di  vita. 
Tutto  il  bosco  tremò;  sentissi  un  tuono 
Spaventevole,  orrendo  e  d'una  grotta, 
Quindi  vicina,  uscir  vedemmo  un  Orco, 
A  cui  sacro  era  il  Corvo.  (  Oh  Dio,  che  vista  1  ) 
Era  gigante;  gli  occhi  avea  di  foco. 
La  fronte  oscura,  e  fuor  dall'ampia  bocca 
Di  porco  gli  uscien  denti,  e  schifa  bava 
Verde  e  sanguigna.  O  Millo,  o  Millo,  disse, 
Ti  maledico;  e  con  tremenda  voce 
Intuonò  questi  carmi.  Ancor  gli  sento. 


5»  IL  coRva 

Se  non  ritrovi  femmina^  che^  sia, 

Come  quel  marmo  bianca, 

Vermiglia  come  il  sangue  del  mio  Corvo, 

Di  ciglia  e  chiome  ad  eguaglianza  nere 

Del  mio  Corvo  alle  penne,  io  prego  Pluto, 

Di  smania  e  d' inquietudine  tu  mora, 

Gdsì  detto  disparve,  e  il  mio  fratello, 

(Mirabil  caso!)  in  quell'augello  fiso,  ' 

In  quel  sangue,  in  quel  marmo,  affàsdniato; 

Inquieto,  rabbioso,-  da  quel  loco 

Più  partir  non  volea.  Di  là  con  forza 

Alla  Reggia  il  ridussi.  Da  quel  punto 

Non  argomenti,  non  riflessi,  o,  prieghi, 

O  mille  arti  bastar.  Sospiri  e  lagrime, 

Mestizia  insuperabile,  il  fratello, 

U  caro  fratel  mio  consuma  e  uccide  ; 

E  folle  per  la  Reggia  ogni  momento 

Va  reiterando;  Chi  di  voi  nù  reca 

Donna  di  chiome  e  ciglia  nere,  come 

Le  penne  del  fatai  Corvo,  e  vermiglia, 

Come  il  suo  sangue,  e  bianca  al  paragone 

Della  pietra,  su  cui  l'augel  morio? 

Arm.  (a parte)  Mirabil  veramente  è  il  ca^o,  e  nuovo! 

Jen.  Afflitto  io  mando  ambasciatori  e  spie 
Per  tutte  le  città,  di  simil  donna 
In  traccia,  e  indamo;  che  la  candidezza 
Di  quella  pietra,  e  del  sangue  il  vermìglio 
Di  quel  Corvo,  ed  il  nero  delle  piume 
Non  si  rinvenne  in  donna  mai.  Frattanto 
Il  mio  caro  fratel  vedea  perire. 


ATTO  PRIMO.  53 

Io  disperato  allora  armo  un  naviglio, 
Ed  in  persona  immenso  mar  solcando 
Dall'Indo  al  Mauro  ima  tal  donna  cerco. 
Vidi  mille  città,  rare  bellezze 
Di  donzelle  infinite;  e  là 'nell'Adria 
Vaghe  beltà  mirai  candide,  bionde, 
Pallidette,  gentili  e  maestose; 
Ma  la  nerezza,  ed  il  vermiglio,  e  il  bianco 
Della  pietra,  e  del  Corvo  invan  cercai 
Per  il  corso  d' un  anno.  Or  son  tre  giorni, 
Che  in  Damasco  pervenni.  Ad  ima  spiaggia 
Un  picciol  vecchiarel  lacero  e  lordò 
Indovinò  l'angoscia  mia.  Di  voi 
Mi  die  la  traccia,  e  m'insegnò  l'inganno. 
Con  cui  potea  rapirvi.  Il  genitore 
Di  lei  (mi  disse)  fuggi.  Alla  finestra 
Vi  mirai,  scorsi  in  voi  le  qualitadi 
Sì  desiate,  ed  in  mentite  spoglie 
.^V'allettai  colle  merci,  a  tradimento  ì 

V'addussi  sul  naviglio,  e  traditore 
Divenni  poi  rapendovi  e  fuggendo. 

Arm.  e  perchè  ne' due  giocni  di  viaggio 
Ciò  mi  celaste? 

Jen.  Il  mio  rimorso,  i  pianti 

Vostri^  e  l' abborrimentò,  che  mostraste . 
Verso  me,  mi  fer  timido,  e  fur  causa, 
Ch'  io  non  mi  v'  appressai,  stimando  meglio 
Lasciarvi  sola,  ed  aspettar  il  tempo 
Con  più  quiete  a  palesarvi  il  vero 
Della  mia  azion,  che  tuttavia  m'affligge. 


54  .IL  coRva 

Ma  se  l'estremo  amor  d'un  mio  fratello, 

Se  la  necessità,  se  il  caso  atroce 

M!han  ridotto  a  tal  passo,  e  se  nel  petto, 

Come  negli  occhi  vostri,  e  nel  sembiante 

Dolcemente  apparisce,  avete  il  core, 

Perdono  Armilk,  deh  perdoni...  (s'inginocchia). 

Arm.  Jfennaro, 

Sorgete.  Dappoiché  di  Re  consorte 
Esser  dovrò,  del  rigido  mio  padre. 
Confesso  a  voi,  che  mal  la  schiavitude. 
In  cui  barbaramente  mi  tenea, 
Sofiferiva.  Perdono  all'  error  vostro, 
E  lodo  in  voi,  che  d'un  fratello  amante, 
Raro  esempio  a' di  nostri,  a  sì  gran  segno 
Siate,  o  Jennaro. 

Jen.  {aliandosi)      O  umana,  o  saggia,  o  illustre, 
O  generosa  Principessa. 

Arm.  Ma, 

Che  vai,  Jennaro,  il  mio  perdon?  Compiango 
In  voi,  misero,  in  voi  tra  i  piCf  infelici 
La  miseria  maggior. 

Jen.  Qual  iafortunio 

La  mia  felicità  scemar  potrebbe? 
Salvo  un  fratel,  che  più  di  me  stesso  amo: 
Da  voi  dell'. error  mio  perdono  ottenni: 
Chi^può  turbar?... 

Arm.  Norando,  il  padre  mio, 

Implacabile,  fier,.  di  regia  stirpe, 
Insuperabil  negromante,  a  tale, 
Che  ferma  il  sol,  rovescia  i  raoriti  alpestri, 


ATTO  I^RIMO.  55 

Cambia  gli  uomini  in  piante,  e  ciò  che  brama, 

Tutto  avvien,  quando  voglia,  il  ratto  Vostro 

Non  sofirirà.  Del  torto  alta  vendetta 

Attendete,  o  Jennaro.  Io  vi  compiango, 

Sventurato  garzone,  e  me  compiango, 

Che  contro  al  rigoroso  suo  divieto 

Di  non  uscir  giammai  dalle  mie  stanze. 

Incauta,  semplicetta  e  curiosa  .. 

Mi  lasciai  trar  da  voi.  Millo  compiango, 

E  quanti  son  del  ratto  mio  cagione.  ' 

Forse  quella  burrasca  oggi  trascorsa 

Opra  fu  di  mio  padfe.  Oh  Dio!  qual  scempio 

Attendo  in  breve,  ed  inaudito  scempio  1 

Jen.  Ciò,  che  il  Ciel  vuol,  succeda.  Il  mio  contento 
Il  mio  giubilo  è  tal,  che  concepire 
Di  mestizia  l' idea  per  or  non  posso. 
Armilla,  quello  è  un  padiglion. 
(  mostra  un  padiglione  di  dentro  )  la  quello 
Le  membra  stanche  dal  naufragio  andate 
^     A  ristorare;  in  questo  io  fo  lo  stesso. 

{mostra  l^ altro  padiglione  sulla  scena). 
Dopo  poche  ore  di  riposo  il  tempo 
Si  calmerà.  Breve  viaggio  a  Millo, 
Mio  fratel,  condurracci. 

Arm.  ,  Io  vado,  io  vado; 

.Ma  lagrime,  sospiri,  e  angosce  estreme 
In  breve,  e  non  riposo,  e  gioia  avremo  (en/ra). 


56    ,  IL  CORVO. 

SCENA  QUINTA. 
Pantalone  e   Jenna ro 

Pant.  e  viva!  Le  fortune  corre  drio,  come  le  ce- 
riése.  Altezza,  fio  mio,  ve  vogio  dar  una  niova  ; 
no  digo,  che  la  sia  granda,  ma  savendo  quanto 
sviscera  che  se  per  el  vostro  fradelletto,  tanto 
deiettante  de  cavalli,  e  de  cazza,  no  la  xe  mo 
gnanca  piccola  lù. 

Jen.  Che  c'è,  il  mio  caro  Pantalone? 

Pant.  Mo  ghe  xe,  che  intanto  che  ella  parlava 
colla  Prencipessa,  me  son  retir^,  come  gera  el 
mio  dover,  e  spasizava  pjer  sta  piazza.  Xe  com- 
parso un  cazzador  a  cavallo.  Oh  che  cavallo! 
Son  Zuecchin  veramente,  e  doverla  intender- 
mene de  battelli;  ma  ho  visto  anca  dei  cavalli 
a  sto  mondo.  Ob  che  cavallo  da  retrazzerl 
Tigrà,  ben  quarta,  petto  largo,  tanto  de  groppa, 
^  testa  piccola,  occhi  grandi,  uria  recchietta  cusì, 
el  galeggiava,  ^el  saltava,  el  ballava  in  tuna 
maniera,  che,  se  el  fusse  sta  una  cavalla,  dirla 
che  la  fusse  la  più-  brava  ballarina  del  nostro 

.  secolo,  che  avesse  fatto  una  tmsmigrazion  pi- 
tagorica, co'dixe  i  matti. 

Jen.  Questa  è  una  rarità,  e  bisogna  acquistarla  per 

mio  fratello.  , 

:  Pant.  Adasio,  sentì  de  più  e  stupì."  Sto  cazzacior 
aveva  un  falcon  in  pugno  bellissimo;'  e  l'an- 
dava gàleggiando  su  sto  superbo  cavallo.  Bi- 


ATTO  PRIMO.  57 

'  s  * 

sogna  che  sta  spiaza  sia  abondante  de  salvadego. 
Xe  salta  su  sie  pernise,  tre  o  quattro  cotorni, 
non  so  quante  galina^e,  e  dei  francolini.  El 
cazzador  ha  mola  el  falcon.  Quel,  che  ho  vistò, 
par  impossibile.  Sto  falcon,  de  volo  vede,  de 
volo,  co  una  zatta  l'ha  chiappa  una  pernise; 
coir  altra  zatta  un  cotorno;  col  becco  una  ga- 
linazza;  e  colla  eoa...  vu  no  mei  credere,  Al- 
tezza, mo  colla  eoa,  varenta  el  ben,  che  ve 
vogio,  colla  eoa  l'ha  copà  un  francolin. 

Jen.  (  ridendo  )  S' usa  alla  Giudecca  di  narrare  -di 
queste  fole,  Pantalone? 

Pant.  El  Cielo  me  castiga,  se  ghe  conto  pan- 
chiane.  Gj  una  pernise  in  tuna  zàtta,  co  un  co- 
tomo  in  tei'  altra,  co  una  gallnazza  in  tei  becco, 
quel  maledetto  ha  coppa,  sbasio^  un  francolin 
colla  eoa. 

Jen.  Ma  conviene  acquistare  questo  eavallo,  e  que^ 
sto  falcone  certamente.  Unite  queste  due  rarità 
alla  Principessa,  io  fo  mio  fratello  1'  uomo  più 
felice -che  viva.' 

Pant.  No  oceor  altro,  son  in  possesso,  adesso  le 
xe  mie. 

Jen.  Quanto  vi  costarono? 

Pant.  Quel  che  volesto;  gnente;  tre  bezzi;  sie 
milioni  de  zecchini.  No  ho  mai  da  esser  pa- 
ron  mi,  dopo  tante^  beneficenze,  che  ho  rece- 
vesto,  de  mostrar  una  picciola  gratitudine?  Le 
xe  vostre  ;  vqgìo  che  le  ricevè  ;  no  vogio  che  me 
le  paghe;  come  ve  comandava  da  piccolo,  vo- 


.58  JL  CORVO.  , 

gio  poder  vcomandarve  anca' da  grande  qualche 
volta.  Via,  andè  un  poco  a  repossar,  che   d 
tempo   se   va   facendo    bon   per   sto  resto  de 
viazo.  Oe,  digo,  la  Principessa,  xe   za   in  ho- 
nazza  ah? 
Jen.  Sì,  e  calmata.  Ma  certamente  di   questo  vo- 
stro acquisto  dovete  essere  risarcito.  Basta,  ci 
penserò  io. 
Pant.  Mo  via,   sier  pissotto,  andè  a  dormir,  no 
me  mortifichè.  {ti  parie)  Ho  speso  dusento  zec- 
chini, e  se  avesse  anca  speso  un  occhio,  averia 
gusto,  prima  perchè  sto  putto  xe  le  mie  vi- 
scere, e  pò  per  far  veder,  che  anca  alla  Zuecca 
ghe   xe   dei   Ceseri,   dei   Pompei,   e    dei    Go- 
fredi  (  entra  y 
'  Jen.  {da  se)  Veramente  buon  vecchio,  ottimo  core, 
'  Carattere  invidiabile.  Io  dovrei 
Esser  felice;  eppure  quanto  disse 
A  me  quel  prodigioso  vecchiarello,' 
.  Che  Armilla  m' additò,  della  possanza 
Di  Norando,  suo  padre,  e  quanto  anch' ella 
Mi  disse  poi,  nel  core  mi  conturba. 
.  Cerchiam  qualche  riposo  ;  io  n'  ho  bisogno. 
{va,  e  si  corca  sotto  un  padiglione  in  vista^. 
il  qual  padiglione  sarà  da  una  parte  sotto 
un  albero): 


ATTO  PRIMO.  59 

SCENA  SESTA.       ' 

Due  Colombe^  che,  fatto  un  giro  volando,  si  porranno 
sull  albero  sopra  al  padiglione  ;  e  Jbnnaro  corcato. 

Col.  I.  Infelice  Jennaro,  Principe  sfortunato! 
Col.  2.  Perchè,  cara  compagna?  chi  lo  fa  sventurato? 
Jen.  {da  se  scuotendosi)  Cornei  Dove  son  io?  qual 

mai  portento  , 
È  questo?  Due  colombe  che  favellano? 
Che  favellan  di  me?  S'ascolti  e  taccia. 
Col.  I.  Quel  falcon,  che  ha  in  potere,  appena  a  suo 

f         fratello 
Consegnerà,  il  Calcone  caverà  gli  occhi  a  quoUq; 
Se  non  glielo  consegna,  o  gli  palesa  il  fatto, 

O  con  nessun  fa  cenno  con  parola,  o  con  atto; 
Il  decreto  è  infallibile;  se  in  nulla  mancherà. 

Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 
Jen.  (spaventato  da  se)  Ahi  barbara  sentenza!  e 

fia  ciò  vero? 
Col.  1.  Infelice  Jennaro,  Principe  sfortunato! 
Col.  2.  E  per  maggior  disgrazia  ei  sarà  sventurato? 
Col.  I.  Del  cavai,  che  ha  in  potere,  appena  suo 

fratello 

Salirà  sopr'al  dorso,  sarà  morto  da  quello. 

Se  non  glielo  consegna,  o  gli  palesa  il  fatto, 

O  con  nessun  fa  cenno  con  parola,  o  con  atto; 
Il  decreto  è  infallibile;  se  in  nulla  mancherà, 

Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 
Jen.  (da  sé  più  spaventato)  Sogno,  o  son  desto? 

O  inumano  decreto! 


6o  i  IL  CORVO. 

Col,  I.  Oh  infelice  Jennaro!  Principe  sfortunato j 
Col.  2.  e   a  più  gravi  sciagure,  misero,  è  con- 
dannato? 
Col.  I  Armilia,  che  ha  in  potere,  se   sposa  suo 

fratello, 
La  notte  un  mostro  orrendo  trangugierassi  quello. 
Se  non  gli  reca  Armilia,  o  gli  palesa  il  fatto, 

O  con  nessun  fa  cenno  con  parola,  o  con  atto; 
Il  decreto  è  Infallibile;  se  in  nulla  mancherà, 

Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 
Jen.  (  agitato  )  Verso  la  mia  persona  saran  .Corvi 
Sin  le  Colombe?  Oh  un  arcobugio  avessi, 
Malnati  augelli!  Dentro  al  mio  naviglio 
Ritroverò...  (si  leva  furioso,  le  colombe  fug'-- 

gono ) ■ 
Ma  se  ne  vanno... 

SCENA  SETTIMA. 

NoRAMDO  e  Jennaro.  Al  fuggire  delle  colombe  apparirà 
dal  mare  sopra  un  mostro  marino  Morando,  vecchio  vene- 
r abile  e  fero}  in  vista,  con  vesti  ricche  all'  Orientale; 
smonterà  sulla  spiaggia,  si  farà  incontrò  con  maestà  a 
Jennaro. 

NoR.  Ferma, 

Scellerato,  imprudente,  ardito,  iniquo 
Rapitor  di  donzelle.  Io  son  Norando. 
Quelle  colombe  fur  messaggi  miei, 
Veridici,  infallibili.  Va  pure. 
Quel  falcon,  quel  destrier,  .per  opra  mia 
Qui  giunti  in  tuo  poter;  la  bella  Armilia, 


ATTO  PRIMO.  6l 

Armilla,  dolce  mia  figliuola,  reca 

A  Millo,  tuo  fratel.  Del  torto  indegno, 

Che  a  me  facesti,  pagherai  la  pena, 

E  pagheralla  il  fratel  tuo.  Norando,  ^ 

Principe  di  Damasco,  non  è  vile . 

Da  sofferir  gli  oltraggi.  Se  la  fiera 

Burrasca  non  bastò  per  farti  chiaro 

Del  mio  poter,  s'avvereranno  i  detti 

Delle  colombe... 

Jen.  (supplichevole)  Ma,  Norando,  ascolta... 

NoR.  No,  non  t'ascolto  più.  Dalla  mia  forza, 
Che  credi  tu,  che  Armilla,  ora  tua  preda. 
Non  si  potesse  tor?  Vendetta  io  voglio, 
Bramo  vendetta  sol,  strage,  rovina 
Contro  la  stirpe  tua,  contro  ad  Armilla, 
Disubbidiente  a  me.  Norando  offeso 
Vendicato  sarà.  Conduci  Armilla, 
Quel  destrier,  quel  falconej  a  tuo  fratello 
Tutto  consegna,  o  pietra  rimarrai. 
Se  con  un  cenno  solo  farai  noto 
Ad  altri,  fuor  di  te,  quel  gran  periglio. 
Che  sovrasta  al  fratello,  un  freddo  sasso 
Rimarrai  tosto.  Ti  rimani,  iniquo^, 
Nell'abisso  crudel  de' tuoi  spaventi. 
De' tuoi  castighi.  A  rapir  donne  impara  {sale 
di  nuovo  sul  mostro  marino,  e  velocemente 
sparisce). 

Jen.  (spaventato  ed  attonito)  Misero  me!  che  fo? 

Conduci  Afmilla, 
Quel  destrier,  quel  falcone;  a  tuo  fratello 


62  IL  CORVO. 

Tutto  consegna,  o  pietra  rimarrai! 
Se  con  un  cenno  solo  farai  noto 
Ad  altri,  fuor  di  te,  quel  gran  periglio, 
Che  sovrasta  al  fratello,  un  freddo  sasso 
Rimarrai  tosto!  E  s'io  tutto  consegno. 
Gli  occhi  trarrà  il  falcone  al  fratel  mio, 
O  morto  fia  dal  rio  destriere,  o  morto 
Da  un  mostro  fier,  se  sposo  con  Armilla 
Si  corcherà!  Falcon,  destriere,  Armilla, 
Orridi  oggetti  di  spavento!  Q  caro. 
Amato  mio  fratel,  qual  gioia  è  questa. 
Ch'io  reco  a  te,  dopo  sì  lunghe  pene 
E  sì  lunghe  fatiche,  e  pianti  amari!  {piange). 

SCENA  OTTAVA. 

Pantalone  e  Jennaro,  indi  due  servi,  V  uno  de*  quali  avrà 
in  pugno  un  grande  e  vago  falcone,  V  altro  condurrà  a 
mano  un  leggiadro  cavallo,  uniforme  al  ritratto  fatto  da 
Pantalone  nella  scena  quinta,  bardato  e  fornito  riccamente, 

Pant.  Coss'è!  no  la  dorme? 

Jen.  {scuotendosi)  No,  Pantalone. 

Pant.  La  varda  mo  ste  do  zogiette.  Oè  putti, 
vegnl  via  con  quel  falcon  e  quel  cavallo,  fe- 
gheli  goder  {usciranno  i  servi  col  falcone  e 
col  cavallo  passando  dinanzi  a  Jennaro;  il 
cavallo  galleggerà  con  destre:{:{a  ).  O  belli  !  o 
bravo,  se  no  fusse  vecchio,  vorria  farghe  veder 
mi  a  far  quattro  capriole  su  quel  cavallo. 

Jen,  Ah  caro  amico...  {piange). 

Pant.  {sorpreso)  Cossa  vedio!  la  pianze? 


ATTO  PRnCÒ.  63 

Jen,  Quegli  oggQttL.(a parte  spa^enìato)  Ah  troppo 
Dissi,  ed  in  freddo  sasso  già  mi  sembra 
Ogni  momento  di  cambiarmi... 

Pant.  Sì,  questi  xe  i  oggetti  portentosi,  che  go 
dito.  No  xeli  una  bellezza?  e,  za  che  vedo  el 
tempo  fatto  bon,  vago  a  imbarcarli.  Son  sta 
insin  adesso  a  far  compagnia  alla  Principessa; 
gnanca  ella  no  poi  dormir,  la  xe  smaniosa,  af- 
flitta. Cari  putti,  chi  fifa  de  qua,  chi  fifa  de 
là  ;  me  tolè  el  cuor.  Me  par  che  sia  tempo  de 
allegrezza,  e  no  de  malinconie.  (Jennaro  prò- 
romperà  in  pianto)  Tolè:  el  pianzel  Mo  cossa 
gaveu  ? 

Jen.  (a  parte  smanioso)  Oh  Diol 

Parlar  non  posso.  (  a  Pant.  )  Un  sogno,  amico, 

un  sogno... 
Un  terribile  sogno...  Una  fantasma... 
Dov'è  la  Principessa? 

Pant.  Ah,  no  ghe  altro,  che  sogni?  E  via,  vergo- 
gne ve.  Sogni,  fa;tasme...  Vescighe,  vescighe: 
allegri.  La  Principessa  vien  adesso,  e  mi  vado 
a  allestir  tutto  per  sto  resto  de  viazo.  (  a^  servi  ) 
Andemo.  Va  pi  \n  ti  con  quel  puliero,  che  noi 
se  fazza  mal.  {alla  ciurma)  Su  porchi,  su 
marmitoni,  a  salpar,  a  issar  le  vele,  ai  remi 
{fischia^  entra  n?lla  galera  coi  servi  e  coi 
due  animali), 

Jen.  {da  sé  agitato)  Oh  me  infelice  1 

Che  far  degg'io?  {pensa)  Si  lasci  quel  falcone, 
E  quel  destriere  in  questa  spiaggia.  Armilla   ^ 


64  IL  CORVO. 

Si  riconduca  al  padre,  (ri/lette)  Ahnoj  ch'io  deggio 
Tutto  ài  fratello  consegnar,  o  in  marmo 
Cangiar  deggio  le  membr^.  Ma  il  fratello 
Dovrà  morir?  Del  caro  sangue  mio 
Carnefice  sarò?  Crudel  sentenza! 
•  Che  far  degg'io?  (spav.  )  Ma  troppo  il  truce  arcano  ■ 
Co' miei  gesti  paleso.  Ah  Ciel,  soccorri 
Col  tuo  consiglio  il  mio  barbaro  caso  (piange), 
(scuotendosi)  Sì,  il  Ciel  m'assisterà.  Raggio  di  luce 
Par  che  la  mente  mia  rischiari.  Fa 
Core,  o  Jennaro.   , 

SCENA  NONA. 
Armilla,  Smeraldina,  Jennaro,  Pantalone  dalla  galera. 

Jen.  (coraggioso)  Armilla,  tutto  è  pronto. 
Andiamo  Principessa  (la  prende  per  la  mano). 

Arm.  •  Io  son  con  voi. 

Smer.  Principe,  perdonate  alle  parole 
Ingiuriose  troppo.  Io  vi  credea. 
Non  fratello  di  Re,  ma  reo  corsale. 

Jen.  Sì,  ti  perdono,  (a  parte)  Ciel,  m'assisti.  An- 
diamo. 

Pant.  (dalla  galera)  Via,  a  saludar  i  Prencipi, 
squartai,  (fischia  tre  volte;  la  ciurma  ad  ogni 
fischio  risponde  con  un  urlo  universale.  Im- 
barcati i  Principi^  si  danno  le  vele  à^  venti,  i 
remi  all'acque,  e  colla  galera  tutti  entrano). 


L, 


ATTO  SECONDO 

Stanza  nella  Reggia  di  Frattombrosa. 

SCENA  PRIMA. 

Millo,  sdraiato  sopra  ad  origlieri  nel  fondo  della  scena 
addormentato;  e  Truffaldino  da  cacciatore. 


TrUFF. 


SCE  adagio  per  non  destar  il 
Re.  Parlerà  basso,  darà  qualche 
cenno  del  misero  stato,  in  cui 
sì  trova  il  Re,  dopo  aver  ucciso  il  maledetto 
Corvo.  Non  bisogna  impacciarsi  con  Corvi.  Sa- 
tira allusiva.  Descrive  la  grassezza,  e  il  buon 
stato  del  I^e  prima,  la  magrezza  e  il  pessimo 
stato  dopo  il  corvicidio.  E  divenuto  pazzo  dopo 
la  maladizione  del  brutto  Orco.  Replica  le  pa- 
role, che  suol  dir  Millo,  quando  è  preso  dalla 
sua  smania. 

O  G>rvo,  o  G>rvo!  Chi  di  voi  mi  reca 
Donna  Ai  chiome,  e  ciglia  nere,  come 

GozzL  3 


66  IL  CORVO. 

Le  penne  del  fintai  Corvo,  e  vermiglia, 
Come  il  suo  sangue,  e  bianca  a  paragone 
Della  pietra,  su  cui  V  augel  morio  ? 

,  Ha  udite  tante  volte  queste  parole,  che,  quan- 
tunque abbia  duro  ^1  cervello,  le  ha  apprese  a 
memoria.  Ha  compassione  del  Re.  Per  la  bontà 
sua  egli  è  capocaccia  della  G)rte.  II  Re  ha  del 
lucido  intervallo,  ma  quando  comincia  a  dire . . . 
o  Corvo,  o  Corvo  ec.  convien  fuggire,  perch'  è 
pericoloso.  Ha  ordine  di  destarlo  alle  nove  ore, 
perchè  vuol  andarsi  a  sollevare  a  caccia,  sua  prin- 
cipale inclinazióne.  Non  sa,  se  le  nove  ore  siano 
suonate.  Non  vorrebbe  errare,  e  farlo  cadere  ne' 
suoi  furori.  In  questo  s' ode  un  orologio  suonare 
distintamente  }e  ore.  Trufifaldino  si  rallegra  di 
sentir  le  ore,  perchè  potrà  noverarle.  Nel  tempo 
della  sua  contentezza  l' orologio  ha  già  battuto 
tre  ore.  Truffaldino  scioccamente  comincia  a 
noverarle  dopo  le  tre  suonate;  le  novera  per  sei. 
Corregge  sé  stesso  della  stolidaggine  d' esser  ve- 
nuto così  per  tempo,  e  tre  ore  prima  delle  nove. 
Pieno  di  timori  adagio  è  per  ritirarsi. 


SCENA  SECONDA.    , 
Brighblla  e  gli  antedetti. 

Brio.  Esce  frettoloso  con  del  romorp.  Truff.  Io  mi- 
naccia con  cenni,  perchè  non  desti  la  Maestà  del 


ATTO   SECONDO.  6? 

Re-  Brig.  che  sono  suonate  le  nove  ore;  è  ve- 
"    nuto  per  destar  il  Re.  Truff.  con  voce  bassa, 
che  sono  sei.  Brig.  con  voce  bassa,  che  sono 
nove.  Truff.  alquanto  più  forte,  che  non  sono 
nove.  Non  vuol  preminènze,^  egli  è  capocaccia, 
sa   ciò,    che    fa.   Si   riscaldano,  si  minacciano. 
Truff.  sempre  sostenendo,  che  le  ore  siano  sei, 
e  mostrando  grandissimi  riguardi,  perchè  il  Re 
non  sia  destato,  alza  le  sue  grida  smisurata- 
mente. Il  Re  si  desta. 
MiL.  Chi  è  là?   Chi  fa  romòr?  Qual  insolenza? 
(furente  per  la  scena) 
Oh  Corvo!  Oh  Corvo.      . 
Truff.  Spaventato  dalle  parole  pericolose,  gridando 
fugge  da  una  parte.  Brig.  per  la  stessa  ragione 
fugge  dall'  altra;  Millo  furente  segue  il  suo  va- 
neggiamento. 

Chi  di  voi  mi  reca 
Donna  di  chiome,  e  ciglia  nere,  come 
Le  penne  del  fatai  corvo,  e  vermiglia 
Come  il  suo  ssmgue,  e  bianca  a  paragone 
Della  pietra,  su  cui  l'augel  morio?  (si  scuote) 
Ma  dove  sono!  In  me  stesso  ritorno. 
Oh  amaro  punto,  in  che  scoccai  quel  strale! 
Oh  afifanno  insofiferibile,  che  toglie 
A  me  la  vita,  i  sudditi  conturba. 
La  Reggia  empie  di  pianto,  e  dal  mio  fianco 
Disgiunto  ha  il  caro  mio  fratel  Jennaro, 
Di  cui,  sa  il  Ciel  che  avvenne:  e  per  me,  forse. 
Solcando  il  mar,  la  vita  avrà  perduta! 


68  IL  CORVO, 

SCENA  TERZA. 
Tartaglia  e  Millo. 

Tart.  (uscendo  frettoloso)    O  Maestà,  Maestà... 

una  gran  nuova 

MiL.  Qual  nuova?  Altre  sciagure?  Di,  Ministro. 

Tart.  Aspettate...  attendete...  è  grande  tanto, 
ch'ella  m'affoga...  Un  flesso  ha  portata  la 
nuova...  che  vostro  fratello...   (prorompe  in 
un  pianto  caricato) 

MiL.  Ahi!  voi  piangete?  Mio  fratello  è  morto. 
Oh  amato,  oh  caro  mio  fra  tei!  Chi  mai? 

Tart.  No,  no,  no;  piango  d'allegrezza.  È  qui  vi- 
cino con  la  galera  ;  giugnerà  fra  poco.  Ha  seco 
una  donzella  Principessa,  rapita  a  Norando, 
Principe  di  Damasco,  che  ha  le  chiome,  e  le 
ciglia  nere,  le  gifance,  e  le  carni  vermiglie,  e 
bianche  in  tutto,  e  per  tutto,  come  le  male- 
dette penne,  come  il  maledetto  sangue,  come 
la  maledetta  pietra  del  maledetto  Corvo,  del 
maledettissimo  Orco. 

MiL.  Caro  Tartaglia,  ed  è  possibil  questo! 

Tart.  La  nuova  è  certissima.  Un  messo  spedito 
dal  Principe  per  terra,  l' ha  recata.  Dice  che  il 
Principe  è  con  la  galera  a  porto  Sportella,  colà 
salvato  da  una  precipitevollssima  burrasca  per 
la  bravura  dell!  Ammiraglio  Pantalone,  e  dice, 
eh'  io  avvisi  Vostra  Maestà,  che  rischiarato  il 
tempo  verrà  alla  volta  di  Frattombrosa.  Il 
tempo  è  bellissimo  ;  dev'  esser  vicino  alla  Città. 


ATTO   SECONDO.  69 

MiL  O  Cielo!  o  sorte!  o  fratel  mio  diletto, 
Quanti  obblighi  t'aVrò!  Tartaglia,  tosto 
S' apparecchi  la  Corte.  Al  porto  corra 
Gente  a  veder,  se  la  galera  giugne; 
Indi  lieti  andiam  tutti  ad  incontrarla,  (entra) 
Tart.  Uh,  quanto  furare  I  Andiamo  a  vedere  que- 
sta rara  bellezza,  questo  sole,   che   ha   tenuta 
questa   Città   in   mestizia   tre  anni,  e  perchè? 
perchè  somiglia  ad  un  Corvo,  (entra) 

SCENA  QUARTA. 

Veduta  del  porto  della  città  con  una  torre 
fornita  dì  cannonL 

Truffaldino,  Brighella  ed  una  Sentinella  sulla  torre. 

Truff.  e  Brio.  Accennano  d'esser  venuti  al  porto 
per  ordine  della  Corte  a  vedere  se  giunge  una 
galera.  Truff.  averà  un  lungo  cannocchiale,  con 
cui  in  caricatura  guarderà  all'  opposto  del  mare, 
cioè  r  Uditorio.  Scherzerà  sopra  gli  oggetti,  che 
vede,  spezialmente  ne' palchetti,  con  modera- 
zione ad  arbitrio;  concluderà  di  non  veder  ga- 
lere. Brig.  lo  correggerà  suU'  errore,  prenderà 
il  cannocchiale,  guarderà  verso  il  mare,  scoprirà 
una  galera  in  lontano.  Truff.  prenderà  il  can- 
nocchiale; guarderà;  dirà,  che  quella  è  una  fo- 
lica.  Brig.  eh'  è  una  galera.  Truff.  eh'  è  im'  oca. 
Brig.  eh' è  ima  galera.^  Truff.  sempre  guar- 
dando, eh' è  un'asino,  indi  un'elefante  ecc.  a, 


ya  IL   CORVO. 

misura,  che  la  galera  s'avvicinerà,  Truffa  ve- 
drà l'oggetto  maggiore,  e  nominerà  dei  spro- 
positati oggetti.  La  sentinella  batterà  una  carni- 
paria,  griderà  dalla  torre  :  Una  galera.  Truff.  ri- 
man  persuaso,  e  fatta  una  scenetta  buffonesca 
popolare,  adattata  alla*  piccolezza  dell'argo- 
mento, da' due  personaggi,  correrà  con  Brighella 
alla  Corte  per  recar  l' avviso,  che  la  galera 
giugne  in  porto. 


SCENA  QUINTA. 

Udirannosi  sette  tiri  di  cannone  dalla  galera  non  an" 
Cora  in  vista,  che  saluterà  la  Forte^^a  ;  si  risponderà  dalla 
torre  con  tre  tiri  e  si  replicheranno  tre  tiri  dalla  galera 
conservando  le  formalità  marittime  militari,  Sentirassi  il 
s^uffoletto,  e  la  voce  di  Pantalone^  che  grida  colla  ciurma 
Apparirà  la  galera  fornita  di  bandiere,  e  fiammole^  con 
suono  di  vari  strumenti  militari.  Dalla  torre  si  suonerà  il 
tamburo.  Si  porrà  la  scala  a  terra  alle  grida  di  Pantalone,., 
Usciranno 


Jbnnaro,  Armilla  e  Smeraldina. 

Jen.  (mesto,  e  con  qualche  agitatone) 

Eccoci,  Armilla,  a  Frattombrosa.  È  questa 
La  Città,  dove,  a  Re  consorte,  in  trono 
Salirete  fra  poco. 

Smer.  ^È  bella,  è  allegra 

Questa  città. 


ATTO  SECONDO.  .  71 

Arm.  Bella;  e  felice  asilo 

Prometton  questo  mar  placido,  e  i  colli 
Aprici,  che  il  circondano^  quest'  aura, 
Che  si  respira;  le  promesse,  e  il  dolce  » 
Temperamento,  e  nobil  -di  Jennaro:  (vp'so  Jérm.) 
(ironica)  Ma  di  Jennaro  quell'  affanno  interno, 
Ch'egli  si  sforza  a  ricoprir,  palese 
Fatto  dagl'inquieti  movimenti. 
Da  furtivi  cospiri,  il  cor  mi  passa. 
Ed-  altro  mi  promette,  che  felice 
Asilo,  e  trono,  e  nozze,  e  lieta  vita. 

Jbn.   (scuotendosi)    Forse   l'azion  ch'io   feci   di 

rapirvi,. 
Non  ben  nell'  alma  vostra  perdonata... 
L'esser  voi  fuor  del  patrio  tetto,  e  in  mezzo 
A  nuova  gente  sconosciuta,  in  petto. 
Vostro  mal  grado,  ed  a  ragion  vi  desta 
Mille  sospetti,  e  di  veder  vi  sembra... 
E  vi  sembra  d' udir .,,  (a parte  affannoso)  Cruda 

condanna 
Che  il   palesar  mi  togli!..  Ah  che  tormento  1 
(guarda  dentro^  poi  con  velocità,  ed  agita- 
zione) 
Eccovi,  Armilla,  il  caro  mio  fratello. 
Lo  sposo  vostro,  che  s' avanza..  Deh 
Rasserenate  il  ciglio.  D'  amarezza 
Non  s'empia  Millo,  che  tant'amo.  Troppo 
Fu  sin  or  flagellato,  afflitto,  e  oppresso,   (cor- 
rendo verso  Millo) 
Millo,  v'abbraccio,  e  bacio. 


72  IL  CORVO. 

SCENA  SESTA. 
Millo,  Leandro,  Tartaglia,  guardie,  e  detti, 

MiL.  O  caro,  o  amato 

Jennaro,  fratel  mio,  chi  vi  conduce 
Ancor  tra  queste  braccia!    (si  abbracciano  e 
baciano  con  notabile  trasporto  e  tenere:{^a) 

Lean.  (a  Tart)  Bell'esempio  di  due  fratelli! 

Tart.  O  fratel  mio  Pancrazio,  traditore  dove  sei? 
che  dopo  avermi  in  casa,  e  fuor  di  casa  rubata 
tutto  a  forza  di  farmi  lite  m' hai  fatto  vendere 
sino  alle  brachesse! 

MiL.  (osservando  Armilla  con  allegre^^^d,  ed  am^ 
mirapone)  È  questa?... 

Jen.  Sì,  la  Principessa  è  questa 

Armilla  di  Damasco,  a  voi  la  reco. 

MiL.  O  bellezza  splendente  !  (da  se)  Ecco  le  guance 
Ecco  le  chiome,  e  ciglia  prodigiose, 
Con  sì  ardente  implacabile  martire, 
E  sì  funesto  desiate,  alfine 
Al  mio  fianco  averò.  Sento  di  gioia 
Colmarmi  il  séno,  e  il  barbaro  tormento 
Dal  mio  cor  si  dilegua,  (aito)  Novamente 
V'abbraccio  fratel  mio.  (abbraccia  Jenn,) 

Smer.  (basso  ad  Arm.)  Vi  piace  il  Re? 

Arm.  (basso)  Mi  piace. 

MiL.  Voi,  Tartaglia,  andate  tosto 

Al  reale  palagio  a  far,  che  sia 

'       Addobbato,  ecjl  in  punto,  e  voi,  Leandro, 


ATTO  SBCOHDO.  7} 

Al  tempio  andate.  I  sacerdoti  tengano 
Parata  FAra,  ed  alle  nozze  pronta. 

Tart.  (da  se)  Uh,  uh;  che  fretta!  è  guarito,  è 

guarito. 
(alto)  Corro  ad  obbedire  vostra  Maestà  (entra) 

Lean.  Al  tempio  io  volo,  (in  atto  dì  partire) 

Jen.  (agitato)  No,  fermate,  Leandro... ^ (a  Millo) 
Appena  giunta?... 
Così  tosto  fratello?... 

MiL.  (sorpreso  alquanto)  E  che  s'oppone? 

(ad  Arm.)  Voi,  Principessa,  il  mio  stato  infelice 
Cambiaste  nel  più  allegro.  Il  caso  mio 
Già  il  fratel  v*  avrà  detto.  Or  mi  risanano 
Quelle  chiome,  quel  ciglio,  e  il  bianco  viso, 
Quella  vostra  presenza;  e  sol  mi  duole, 
Ch'io  fui  cagion,  che  fuor  del  patrio  tetto, 
(Per  rimedio  al  mio  mal,  che  iniqua  stella 
Scagliò  sopra  di  me)  voi  tratta  foste, 
E  forse  vi  dolete.  Supplichevole 
Io  vi  chiedo  perdono,  ed  una  destra 
V  oflfro  d' un  Re.  V  oflfro  uno  sposo  forse 
Abbonito  da  voi,  ma  che  nel  seno 
Arde  di  brama,  ch'uno  sposo  abbiate 
In  me,  conforme  al  genio  vostro,  e  se 
Tal  lo  trovate,  in  questo  punto  accese    - 
Fieno  le  tede,  e  mia  sposa  sarete. 
Fortunato  momento  avidamente 
Desiato  da  me!  Dal  vostro  labbro 
La  mia  vita,  o  la  morte  omai  dipende: 
Violenze  io  non  uso,  e  j5P  morire. 


74  II*  CORVO. 

Smek,  (basso  ad  Arm.)  È  bel;  vi  piace;  è  tenero; 

è  gentile; 

E  Re;  v'adora;  a  che  tardate? 
Arm.  Millo, 

Vostra  son,  noi  ricuso,  e  pronta  sono 

Per  l'aitar,  per  le  nozze. 
MiL.  O  generosa, 

Umana  Principessa!  Voi,  Leandro, 

Servitela  alla  Reggia,  ond'ella  possa 

Alquanto  riposar.  Frattanto  al  Tempio 

Vadan  gli  ordini  miei. 
3mer.  (basso  ad  Arm,)  Via,  state  allora. 

Andiamo;  allegra. 
Arm.  (basso)  Ah,  Smeraldina  mia, 

Questo  Cor  non  lo  vuol.  (servita  Armilla 

da  Leandro^  dopo  urC  inchino,  ed  un^  occhiata 
notabile  a  Jennaro  che  sarà  immerso  in  una 
profonda  malincomay  parte) 
Smer.  (a  parte)  La  compatisco. 

Se  sapesse  i  pronostici!...  Qui  vedo 

Un  certo  che...  Ma  forse  saran  fiabe. 

Le  nozze  non  turbiam.  (entra) 

SCENA  SETTIMA. 
Millo,  Jinnaro  indi  Pantalone  e  servi 

lUxL.  (a  Jén.)  Perchè  tardanze 

»Alla  mia  contentezza,  al  mio  conforto 
Volevate,  o  Jennaro? 


ATTO  SECONDO.  75 

Jenn.  (mesto  e  confuso)  Io  mi  credea 

Dopo  un  lungo  viaggio...  Or  basta...  Or  bene... 
(a  parte  agitato)  Oh  Dio!  crudo  Norando! 
e  tacer  deggio  !  (vedendo  uscir  dalla  galera 
Pantalone^  e  i  servi  col  cavallo,  e  il  fai" 
cone,  segue  da  se  affannoso) 
Ecco  il  falcone,  ecco  il  destrier  venire; 
Eccomi  al  duro  passo.  O  Giove  sommo, 
Soccorri  a  me,  al  fratello,  e  fa  ch'io  possa 
All'orrenda  sentenza  oppor  l'ingegnoi 
MiL.  (da  sé,  che  V  averà  osservato)  Il  fratello  che 
ha?   più  noi  conosco,    (s^  avan:(ano  i  servi 
col  falcone,  e  col  cavallo  che  verrà  saltel^ 
landò.  A  cenni  di  Pantalone  si  fermano  da 
una  parte.  Pantalone  s^^van:[a  con  umiltà. 
Pant.   Xe   permesso   a   un   povero   vecchio,   inu- 
tile ai  so  paroni,  de  basarghe  la  man?   (bacia 
la  mano  a  Millo) 
MiL.  Disutil  voi  ?  De'  Cortigiani  suoi 
Il  più  utile  in  voi  Millo  contempla. 
Il  valor  vostro  al  procelloso  mare 
So  che  tolse  un  fratel,  che  tolse  Armilla, 
La  vita  del  Re  vostro. 
Pant.  E1  Cielo,  che  ghe  voi  ben  a  ella,  ha  assi- 
stio  la  mia  poca  abilità.  La  ringrazia  el  Cielo 
in  primo  logo,  e  pò  el   coraggio,   l'amor,   el 
cuor,   la   rara   fortezza    fraterna   del   Principe 
Jennarb,  verso   el   qual,   me  sia   permesso   el 
dirlo  con  tutte   le   viscere,   e   senza   riguardi, 
^  no  la  pagherà  mai  le  so  obbligazion. 


76  IL   CORVO. 

MiL.  Si,  il  confesjso.  (osservando  il  falcone, 

e  il  destriere) 
Ma  si  doni  all'estrema  debolezza 
Del  mio  genio  alla  caccia.  Quel  destriere. 
Quel  falcon  sono  i  due  più  rari  oggetti, 
Che  alla  mia  inclinazion  servisser  mai. 
Di  chi  sono?  (Jennaro  si  mostrerà   inquieto) 
Pant.  De  chi  ?  De  quel  so  fradelletto,  che  no  spa- 
ragna mai  attenzion  per  indovinar  quali  og- 
getti «possa  esser  più  grati  a  un'altro  so  fra- 
delletto. 
MiL.  Vi  son  grato  all'estremo. 

Cari  son  quegli  oggetti  al  fratel  vostro. 
Jen.  (da  sé  agitato)  Del  barbaro  decreto  ecco  il 

principio. 
Coraggio.  Si,  fratel,  questo  è  un  falcone, 
(prende  il  falcone) 
Ch'è  raro  mostro  di  bravura,  ed  io 
Nelle  man  vostre  lo  consegno. 

(va  incontro  a  Millo  col  falcone) 
MiL.  (con  atto  di  contentej:^a  appressandosi  per 

riceverlo) 
È  vago. 
Quant'  obbligo  ! . . . 
Jen.  (smanioso  a  parte)  Si  salvino  le  luci 

Al  fratel  mio,  (consegna  a  Millo  il  falcone, 
e  neir  atto  medesimo  sfodera  un  coltello, 
che  avrà  nella  cintura,  recide  il  capo  al 
falcone,  lo  getta  in  terra  con  impeto,  e  ri^ 
mane  ottuso). 


ATTO  SfiGONbO.  77 

MiL.  (sorpreso)  Qual  stravaganza  è  questa! 

Pant.  (attonito)  Cossa  diavolo  aveu  fatto  1  Un  fal- 

con  de  quella  sorte,  che  copava  i  francolini  colla 

eoa?  Oh  poveretto  mil  Son  storne,  non  intendo 

gnente. 

^MxL.  (con  sussiego)  Era  vostro,  '  fratel.  Se  v'  era 

caro, 
Potevate  tenerlo.  Vi  sovvenga, 
Fratel  vi  son,  ma  vi  son  Re. 
Jen.  (confuso)  Scusate... 

Un  ratto...  un  entusiasmo...  (a  parte  dispe- 
rato) Acerbo  arcano! 
E  svelar  non   ti   posso!    (con  amorevolena) 

Quel  corsiere, 
D'ogni  altro  più  gentil,  vi  risarcisca 
Dell'ucciso  falcon.  Su  quel  salendo, 
E  ritrovando  in  quello  una  destrezza, 
Ch'unqua  non  fu  in  destrier,  vi  scorderete 
Della  perdita  fatta,  e  eh'  ora  il  mio 
Cieco  entusiasmo  cagionò. 
MiL.  (da  sé)  Vaneggio; 

E  non  so  indovinar ...  Si,  quel  destriere 
Accetto,  e  salirò.  Sino  alla  Reggia 
Proverò  il  suo  valor.  Nel  cocchio  mio 
Voi  salirete  insiem  coli' Ammiraglio. 
(I  servi  avvicinano  il  cavallo;  Millo  prende 
le  redini  per  salirvi) 
Jen.  (da  sé  con  furore)  Date  forza  voi.  Numi,  al 

braccio  mio. 
Sicché  un  fratel  possa  salvar  da  morte. 


78  IL  CORVO. 

Pant.  La  aspetta,  Maestà,  che  me  vogio  dar  Ponor 
.  de  tegnirghe  la  staffa,  (prende  la  staffa;  Millo 
porrà  il  piede  nelV  altra  staffa^  e  nelV  atto, 
cW  egli  è  per  salire  a  cavallo,  Jennaro  sfodera 
rando  velocemente  la  spada,  con  un  colpo  ta- 
glierà le  gambe  dinan:{i  al  cavallo,  il  quale 
cadendo  addosso  a  Pantalone  lo  getterà  in 
terra)  Oi,  oimè,  aiuto.  Cos'è  ste  cosse  1  Ah 
che  un  strolego  me  l'ha  dito:  impazzevene 
colle  vostre  barche,  e  ste  lontan  dai  cavalli. 
(Viene  sbaraif^fato  di  sotto  al  cavallo  dai  servii 
e  condotto  via  zoppicante).  Guardie,  zente,  per 
carità  abbiè  occhio,  che  no  i  se  offenda  tra  fra- 
delli.  (entra) 
MiL.  (con  fieres^^a)  Fratel,  v'  intendo  :  il  procurar 

ritardo 
Alle  mie  nozze,  e  l' inaudita,  e  strana 
Forma  d' insolentarmi  co'  dispetti 
Chiaro  palesa  un  cieco,  inopportuno, 
E  folle  amor,  che  per  Armilla  avete, 
E  ch'odio  verso  me  v'accende  il  seno. 
Vamo,  fratel;  de' benefizi  vostri 
Non  v'abusate.  Non  sorpassi  innanzi 
L'eccesso  vostro;  o.  Re,  saprò  punirvi. 
(aparte)  Quale  sospetto!.,  gelosia  m' agghiaccia, 
Mi  strugge  il  core.  È  troppo  bella  Armilla; 
Jennaro  m'è  fratel;  ma  amor  non  guarda 
A  congiunti,  ad  affronti,  ad  odj,  a  risse . . . 
Ah,  che  mi  sento  il  foco  entro  alle  vene. 
(parte  dispettoso  colle  guardie) 


ATTO   SECON0O. 


79 


&N.  Fratello...  Millo...  O  Dio!  sdegnoso  ei  parte. 
E  dirgli  non  potrò:  troncando  il  capo 
A  quel  falcon,  le  gambe  a  quel  destriere, 
Le  care  luci  ti  serbai;  la  vita 
T'ho  difesa,  o  fratello?  E,  se  l'arcano 
Paleserò  per  iscusarmi,  in  pietra 
Cambierassi  Jennaro!  Ah  pazienza 
Di  quanto  fii  sin' ora.  Come  mai, 
Se  sieguono  le  nozze  con  Armilla, 
Potrò  salvar  dal  minacciato  mostro 
Questa  notte  il  fratel?  Tutto  il  mio  spirto 
Certo  porrò  per  far  che  sia  deluso 
Di  Norando  il  poter.  Tentisi  ogni  opra; 
Si  mora  alfin,  pur  che  il  fratel  sia  salvo. 


ATTO  TERZO 

Sala  Regia. 


SCENA  PRIMA. 
Millo  ed  Armilla. 


MiL.  I^^^K^RMILLA,  del  cor  mio  parte  più  cara, 
|(con  calore)  Armilla  del  mio  cor 
strazio  e  rovina, 
Io  più  non  posso... 

Arm.  Che  vi  turba  e  affligge? 

MiL.  Jennaro,  mio  fratel,  v'è  amante.  A  voi, 
Crudele,  tutto  è  noto,  e  mi  celate 
Ciò,  che  il  sapere  a  morte  mi  condanna, 
E  il  non  sapere  in  più  terribil  forma 
Cadavere  mi  rende. 

Arm.  Qual  follia, 

Millo,  v'assale? 

MiL.  Ingrata  1  io  non  son  folle. 

I  dispetti  a  voi  noti,  e  i  modi,  usati 
Verso  me  dal  fratel,  parlan  svelato. 

Gozzi.  6 


82  IL   CÒRVO. 

Or  per  la  Reggia  i  miei  fidi  ministri 
Mesto  e  pensóso  Than  veduto  andarsi, 
E  come  fuor  di  se.  Sospiri  e  lagrime, 
Affannosi  sospiri,  e  pianto  amaro 
Versar  dagli  occhi,  indi  celarsi  invano. 
Deh  mi  togliete  un  sì  barbaro  peso 
Da  questo  sen;  tutto  narrate,  e  datemi 

.   A  un  colpo  sol  la  morte. 
Arm.  Io  non  vi  niego, 

Millo,  le  stravaganze  usate,  e  questo 
Sospirar,  lagrimar,  che  mi  narrate, 
Sospettosa  mi  rende.  Del  cor  mio 
Render  posso  ragion.  Millo,  io  v'adoro, 
.  E,  se  v'  inganno,  un  fulmine  dal  Cielo 
Gaggia  su  questo  capo.  Per  le  nozze 

'    Pronta  son.  Più  verace  e  chiaro  pegno 
Dell'amor  mio  non  saprei  dare  ad  uomo. 
Strano  vi  parrà  forse  un  così  forte. 
Ed  improvviso  affetto,  una  sì  salda 
Simpatia,  ch'ho  per  voi,  che  romanzesca 
Sembra  ed  inverisimile.  Di  questa 
In  gran  parte  è  cagione  il  fratel  vostro 
Che  nel  breve  viaggio,  che  facemmo 
In  questo  di,  co' più  sqavi  modi, 
Co' più  vivi  colori,  e  con  favella 
Seducente,  di  voi  sempre  parlommi; 
E  la  bella  presenza,  e  i  dolci  modi, 
E  il  cor  sincero,  e  l'indole  costante 

.    Mi  dipinse  anelando,  e  a  tal,  che  prima, 
Ch'io  vi  vedessi,  era  di  voi  ferita, 


ATTO  TERZO. 


^3 


Allacciata  per  voi.  Se  sì  bell'arte 
Generosa  ed  industre  in  fevor  vostro 
Usata  da  Jennaro,  lo  condanna,     '' 
Questo  è  quanto  di  lui  narrar  vi  posso. 

MiL.  Ma  perchè  mai  con  stravaganti  modi, 
E  disprezzi,  ed  insulti  molestarmi? 
E  perchè  sospirar?  perchè  lagnarsi 
DeUe  nozze  ordinate?  Armilla,  certo 
Qualche  affetto  improvviso,  violento 
Preso  ha  Jennaro,  or  che  privar  si  vede 
Di  si  bel  sol,  né  a  voi,  né  al  fratel  osa 
Palesarlo  e  fremisce.  Eccolo  appunto.     . 
Cor  mio,  deh  per  l'amor,  che  dimostrate, 
E  ch'io  non  merto,  per  quel  sacro  nodo. 
Ch'oggi  prometto,  e  che  sciorrà  sol  morte, 
Pria  di  passare  al  Tempio,  procurate, 
Ch'ei  vi  palesi  il  ver;  siate  contenta. 
Ch'io  qui  celato  ascolti.  Non  v'offenda 
Un  geloso  furor,  che  mi  divora. 
Un'inquieta  brama,  che  in  me  regna 
Di  possedervi,  e  possedervi  in  pace  (si  cela 

in  dietro) 

Arm.  Appagatevi  pur;  nulla  m'offendo. 

SCENA  SECONDA. 
Jennaro,  Armilla  e  Millo  celato, 

Jen.   (ottuso,    non   scorgendo   Armilla,   da   sé).' 
Sin  or  provvidi,  o  parmi  aver  provvisto 
Per  torre  a  morte  il  mio  fratel.  Le  nozze 


84  .IL  CORVO, 

I  ministri  apparecchiano,  ne  trovo 

Norma  a  salvar  dalla  vorace  fera, 

Da  Norando  crudele  minacciata, 

Le  carni  sue.  O  umano  ingegno  frale  I 

O  tremor,  che  le  viscere  mi  scuoti! 

O  barbara  cagion  de'  miei  tormenti, 

Palesar  non  ti  posso!  (vede  Armilla;  si  spor 

venta)  Oh  Dio!  qui  Armilla! 
Che  m'abbia  udito?  Già  ribrezzo  e  spasmo 
Mi  stringe  il  core,  e  di  cambiarmi  in  pietra 
Mi  sembra  ogni  momento. 

Arm.  {appressandosegli)  Sono  queste, 

Jennaro,  le  allegrezze,  e  quella  gioia, 
E  quelle  nozze  tanto  desiate? 
Con  sospir,  con  singulti,  con  affanni. 
Con  strani  modi,  con  dispetti  enormi 
S'accendono  dissidi?  S'accompagnano 
Con  tai  feste  le  nozze?  Quelle  nozze 
Da  voi  volute,  e  per  si  lungo  tempo, 
E. sì  lunghe  fatiche,  da  voi  stesso 
Procurate  al  fratello?  Sì  felice 
Principio  hanno  i  miei  giorni  in  questa  Reggia? 
Ditemi  il  ver,  Jennaro  ;  avete  forse 
Qualche  timor  sì  fòrte  di  Norando, 
Mio  genitor,  della  sua  gran  possanza 
Che  fuor  da' sentimenti  oprar  vi  faccia? 
Confessatemi  il  vero. 

Jen.  (  da  se  agitato  )        Oh  Dio4  m' ha  inteso 
A  favellar,  {alto  con  franchei^a  sformata)  Ah 
qual  pensiero  mai 


ATTO   TEJ^ZO.  85 

Inopportuno,  Armillà,  e  vano  e  frale 

Vi  prende?   Di  che  mai  temere?  In  questa 

Reggia  Siam  salvi. 

Arm.  Adunque,  qual  cagione 

Vi  fa  si  strano,  impaziente,  e  torbido 
Disturbator  della  mia  pace,  e  della 
Pace  del  fratel  vostro,  e  delle  nozze?    . 
Confessatemi  il  ver.  {con  dolce:{^a)  Forèe?... 

Deh  dite... 
Confessatemi  il  ver.  Forse  v'han  preso 
Queste,  quali  si  sieno,  mie  fattezze,  ' 
Di  stravagante  ed  improvviso  amore. 
Che  vi  metta  in  tumulto?  Ah  no,  Jennaro; 
So,  ch'io  mal  penso. i.  è  vero?  A  Millo  vostro. 
Che  tanto  amate,  un  sì  gran  torto  mai 
Non  fareste,  o  Jennaro. . .  è  vero ?. . .  A  Millo, 
Ch'è  le  viscere  vostre,  e  sì  vi  preme. 
Non  torreste  la  vita...  è  ver?...  Piangete! 
Oh  Dio,  che  vedo  mai?  Piangete^ 

Jen.  ^     Armilla, 

Non  è  ver  ciò  che  dite.  Amo  il  fratello, 
Più  che  le  carni  mie.  So,  che  in  voi  stessa 
Amar  dovrei  del  fratel  mio  la  sposa...  {a parte 

con  affanno) 
Troppo  dico...  che  penai...  che  barbarie! 
{ad  Arm.)  Altro  non  posso  dir,  ne  deggio  dirvi, 
Ne  vi  so  dire....   {s^ inginocchia)  E  solo  col 

più  forte 
Sentimento  dell'alma,  per  l'affetto, 
Che  avete  pel  fratel,  per  quel  dolore. 


86  IL   CORVO. 

Che  mi  trafigge,  se  pietà  in  voi  regna, 
Sospendete  le  nozze;  a  mio  fratello 
In  preda  non  vi  date...  {prende per  una  mano 
piangendo  Arm.) 
^  MiL.  {facendosi  innanzi  furioso  )  Ah  traditore, 
Non  più  fratel  ;  t' intendo.  ArmiUa,  al  Tempio. 
È  già  parata  PArau  Io  saprò  infine 
Bagli  attentati,  e  insulti  d' un  rivale. 
Più  reo,  perch'è  fratel,  difender  voi, 
Difender  me.  Degli  ordini  opportuni 
Darò.  Cadrà,  se  con  maggiori  eccessi 
Si  avanzerà.  Trema,  fratello.  Andiamo, 
'  Che  la  notte  s' appressa,  e  impaziente 
Mal  soffro  ogni  tardanza.  Andiamo,  Armilla. 

Arm.  (a  parte)  O  nozze  di  miseria  e  non  di  gioia! 

{entra  con  Millo) 

Jen.  (furetìte)  0  sentenza  !  o  decreto  intollerabile  ! 
O  makdelto  Corvo!  maladetto 
Il  punto  sia,  che  dallo  strai  trafitto 
Di  mio  fratel  cadesti.  Eccomi  oggetto 
D'  abborrimento  e  d'  odio  al  fratel  mio,    - 
Ad  Armilla,  alla  Corte,  al  popol  tutto,  . 
E  d' innocenza  oggetto.  Ah,  l' innocenza 
Che  mi  vai,  se  non  posso  palesarla?  {piange) 


ATTO  TERZO.  87 


SCENA  TERZA. 


Spalancasi  un  p€:{\o  della   tappe:{\eria, 
e  comparisce  con  prodigio  Norando, 

NORANDO  e  Jennaro. 


NoR.  Si,  palesala  pure.  Un  duro  marmo 
Diverrai-  tosto. 

Jen.  (spaventato)  Tu,  Norando I  Come 
^    In  questo  loco?... 

NoR.  Non  mi  chieder  questo. 

Io  tutto  posso.  Tu  il  falcone,  e  tu 
Quei  destriere  uccidesti,  maggior  ira 
Nel  mio  petto  accendendo.  Se  tardasti 
La  mia  vendetta,  segua  la  vendetta, 
E  questa  notte  divorato  sia 
Da  un  dragone  il  tuo  Millo.  Va,  pale^ 
L'arcano  pur;  in  freddo  sasso  tosto 
Cambierassi  il  tuo  corpo.  U  mondo  pera, 
Ma  l'affronto  a  Norando  inesorabile 
Che  tu  facesti,  vendicato  fia.  (in  atto  di  pari.) 

Jen.  (in  atto  supplichevole)  Norafìdo...  deh  No- 
rando... Signor  mio... 

NoR.  No,  non  t'ascolto.  A  rapir  donne  impara. 
{rientra  nella  tappe:{ieria^  che  si  ristabilisce) 

Jen.  {disperato)  O  nimico  implacabile,  infernale 
Persecutor,  che  più  dell'ombra  mia 
Mi  sei  sempre  d'intorno,  e  di  spavento, 
E  di  furore,  e  di  dolore  il  seno 
M'  empi,  e  la  mente  e  di  ceraste  e  serpi  ! 


88  IL   CORVO. 


SCENA  QUARTA. 

-  Esce  Pantalone  con  una  benda  bianca  alla  testa,  ro- 
perta  dalla  sua  berretta.,  e  con  altra  benda  e  un  braccio 
al  collo. 

Pantalone  e  Jennaro. 


Jen.  {con  passione)  Ah,  buon  vecchia  e  fedele; 

oggimai  solo 
Io  cferto  son,  che  m'ami.  Come  mai 
Voi  qui?  se  mi  fu  detto,  che  impossente. 
Per  la  percossa  del  destriero,  in  mano 
De'  chirurghi  eravs^te  ?  Io  fui  la  causa 
Anche  del  vostro  male.  Umil  vi  chiedo 
Perdono,  amico. 

Pant.  a  mi  perdonànzal  a  un  vostro  servitor?  a 
un  che  ve  adora?  che  v'ha  brazzolà?  a  un 
cuor  della  Zuecca?  xe  vero,  gera  in  man  del 
cerusico,  el  m'ha  drezzà  sta  man,  che  gera 
stransia,  el  m'  ha  messo  una  chiarada  qua  sulla 

-  testa,  che  gera  un  poco  rotta,  come  vede  (si 
scopre  e  mostra  la  benda)  el  m'ha  onto  tutto 
el  corpo,  che  gera  pien  de  lividure;  no  me 
podeva  mover;  no  podeva  arfiar;  ma  le  pa- 
role ...  le  parole,  caro  fio,  ha  buo  più  forza  de 
quanti  cerotti  ghe  xe  a  sto  mondo.  Ogni  mo- 
mento sentir  a  dir:  In  Corte'  ghe  dessension 
tra  fradelli.  El  Re  xe  in  collera.  El  Prencipe 
l'ha  offeso  in  cento  maniere.  I  ha  cria  tra  de 


ATTO  TERZO.  89 

elli.  El  Re  ha  manazzà  el  Prencipe  della  vita. 
No  poi  far  che  nassa  qualche  tragedia.  Tutta 
la  città  mormora.  Questi  xe  quei  medicamenti 
pezo  del  mal  si,  ma  che  m^ha  scazza  d^l  letto^ 
che  m'ha  fatto  desmentegar  -el  dolor,  che  ha 
dà  tanta  forza  a  sto  povero  vecchio  infermo, 
inutile,  ma  che  xe  tutto  cuor,  de  vegnirvè  a 
veder,  de  vegnir  a  intender  dalla  vostra  bocca 
la  causa  de  sti  desordeni,  de  consegiarve  con 
sincerità  vera,  con  vero  amor,  e  de  perder  sto 
misero  avanzo  de  vita  ih  vostro  servizio,  se 
altro  noi  poderà  far. 

Jen.  (a  parte  commosso)  Povero  vecchio,  tutto 

mi  commove. 
{alto)  Deh  non  piangete.  Pantalone.  È  vero 
Tutto  ciò  che  fu  detto,  ma  cagione 
Tutto  è  di  pianto  a  me,  non  già  ad  altrui. 

Pant.  Caro  fio,  caro  el  mio  cuor.  Ah  scuse,  se  ve 
parlo,  come  se  ve  fusse  pare,  e  no  come  sud- 
dito, come  servo;  diseme  tutto  a  mi.  Da  cossa 
nasce  ste  vostre  stravaganze  improvvise?  sti 
torti?  ste  insolenze  che  fé  a  vostro  fradello?  a- 
vostro  fradello,  che  gera  pur  l'unico  vostro 
amor.  Se  ave  qual  cosa  de  sconto  in  tei  cuor, 
se  ve  xe  sta  fatto  qualche  affronto,  palesemelo. 
Se  gaverè  rason,  mi  cusì  vecchio,  che  me  vede, 
sarò  el  primo  a  suggerirve  el  resarcimento,  ma 
una  vendetta  nobile  e  da  par  vostro.  Quel- 
r  ammazzarghe  un  falcon  in  tele  man,  quel 
tagiarghe  le  gambe  a  un  cavallo,  mentre  el  sta 


90  IL  coitvo.   ^ 

:  per  montarghe  in  sella^  perdoneme,  alla  Zuecca 
sé  ghé  dirla  bassezze,  vendette  da  scortegaori^ 
e  no  mai  da  un  Prencipe,  come  se  vù.  Se 
gnente  ho  mai  merita,  se  amè  el  vostro  onor, 
se  no  ave  piaser  della  morte  d' un  povero  vec- 
chio che  ve  voi  ben,  espettoreve  con  mi,  feme 
degno...  feme  degno  della  vostra  confidenza; 
no  fé,  che  mora  aspettator  de  quelle  desgrazie, 
che  se  va  descorrendo,  e  che  solo  a  pensarle 
me  sento  a  passar  el  cuor  da  cento  stilettae. 

(piange) 

Jen.  Ah,  caro  amico,  vecchio  benemerito, 
Esempio  raro  d'ogni  servo,  onore 
Di  quell'  alma  Città,  che  vi  produsse, 
A  che  cercate  di  troncar  le  angosce 
Col  raddoppiarle,  la  ragion  cercando 
D'onde  la  ragion  nasce,  che  v'affligge? 
(a  parte)  Ah  troppo  dissi;  il  sangue  mi  s'ag- 
ghiaccia. 

Pant.  Via  sì,  caro;  lassemo  i  parlari  da  oracoli, 
paleseme  tutto  ;  tronchemo  ste  dissension  ;  deme 
quella  man;  andemo  al  Tempio  insieme,  e  là 
in  mezzo  a  tutto  el  popolo  aspettator  delle 
nozze,  mostreve  allegro,  abbrazzè  vostro  fra- 
delio,  el  vostro  sangue,  deghe  un  basazzo  e 
femo  morsegar  tante  lengue  cagadonae,  invi- 
diose della  concordia,  e  deUa  pase. 

Jen,  (con  agitazione)  È  dunque  al  Tempio  mio 

fratello,  e  seguono 
Le  nozze,  è  ver? 


ATTO   TERZO.  9I 

Pant.  (  con  sorpresa  )  Sior  ! . . .  piase  ! . .  T  che  cossa 
sentio,  ve  despiase  forsi  ste  noz^e?  averessi 
qualche  amor  per  la...  eh  via!...  chi  sa?  perchè 
no?  sé  zovene...  delle  volte  no  se  poi  defen- 
derse...  Perchè  no  dirmelo  quando  gerimo  in 
galera?  Averla  volta  el  spiron  all'opposto,  e 
saressimo -andai .. .  che  sogio  mi?  se  no  altro 
alla  Zueccg. 

Jen.  (da  se)  Ogni  parola  mi  spaventa,  e  panni 
D'aver  Norando  in  faccia,  di  vederlo, 
D'un  freddo  sasso  rimaner.  Si  pensi 
A  salvar  il  fratello.  Ogni  discorso 
Si  fugga  di  cimento,  (alto)  Pantalone, 
So  che  nella  mia  dura  circostanza 
Tutti  mi  son  nimici,  e  che  voi  solo 
M'amate  ancora.  Io  giuro  al  Cielo,  e  a  voi. 
Ch'amo  il  fratello  mio  più  che  me  stesso. 
Che  in  Armilla  amo  una  cognata  solo. 
Che  non  potei  non  far  quant'oggi  ho  fatto. 
Di  più  non  dico.  L'onor  mio,  la  fama 
All'  amor  vostro,  e  l' innocenza  mia 
Raccomando,  e  vi  lascio,  (a  parte)  Un  mezzo 

il  Cielo 
Par  che  m' ispiri.  O  salverò  il  fratello, 
O  per  suo  amor  perderà  anch'io  la  vita,  (m 

atto  di  partire). 

Pant.  No,  no,  vogio  seguitarve,  vogio  star  con  vu; 
fermeve,  sentì;  diseme... 

Jen.  {con  sussiego)  Io  vel  comando.   Rimanete. 

Addio,  (entra) 


92  IL   CORVO.  ^ 

Pànt.  (stringendosi  nelle  spalle)  Resterò,  Son  ser- 
vitor.  Devo  obbedir.  Ma  cossa  mai  xe  sti  arcani  ! 

Io,  giuro  al  Cielo,  e  a  voi 
Ch'  amo  el  fradello  mio  piii  de  mi  istesso. 
Che  in  Armilla  amo  solo  mia  cugnada. 
Che  no  podei  no  far  quello,  che  ho  fattoi 

Indovinela  ti,  grillo.  Mi  non  intendo  gnente. 
Qualche  diavolo,  ghe  xe,  ma  scometto  tutto  el 
sangue,  che  ho  in  tele  vene,  che  el  dise  la  ve- 
rità. Mi  lo  conosso  sto  putto.  L'  ho  arlevà  niL 
L' è  sta  sempre  l' istessa  sincerità  insin  da  pi- 
cbenin;  noi  xe  mai  sta  capace  de  dir  una  bu- 
sia.  Se  el  rompeva  una  tazza,  se  el  toleva  un 
pomo,  se  el  fava  pissin,  no  V  è  mai  sta  capace 
de  scusarse  con  quella  fandonia,  che  ghe  inse- 
gnava la  bonanema  de  mia  muger,  che  gera 
la  so  nena.  Xe  sta  el  gatto,  la  massera,  el  totò  ; 
missier  made;  el  diseva  subito:  son  stato  io, 
ve  domando  perdonanza,  noi  farò  più;  e  cusì 
dal  primo  dì,  che  Tha  scomenzà  a  parlar,  sin 
ancuo,  che  el  ga  vint'  anni,  noi  xe  mai  sta  ca- 
pace di  dir  una  falsità.  So  mi,  che  passion,  che 
ga  costà  el  rapir  la  Principessa  con  finzion  ; 
ma  se  trattava  della  vita  de  so  fradello,  biso- 
gnava farlo. -O  Giove,  suggerime  vu,  come 
possa  defender  un'innocenza,  che  non  posso 
mostrar,  ma  che  xe  innocenza  segura.  Pove- 
retto! a  mi  el  s'ha  raccomanda,  a  mi  solo.  L'è 
abbandona  da  tutti,  caro  el  mio  ben. 


Atro  TERZO.  93 

SCENA  QUINTA. 
Leandro  e  Pantalonb.  ^ 

Lean.  (uscendo  affaccendato)  Dite,  Ammiraglio; 

il  Principe  Jennaro 

Vedeste  voi?  - 

Pant.  {sorpreso)  Perchè  me  domandeu  stacossa? 
Lean.  Perchè  mi  furon  date 

Commissioni  dal  Re. 
Pant.  {a  parte)  O  poveretto  mi!  (^//o)Che  com- 

mission  gaveu,  caro  sior  Leandro? 
Lean.  (collerico)  L^  avete  voi 

Veduto,  o  no? 
Pant.  L'ho  visto;  ma  diseme  per  carità  i  ordeni 

che  gavè. 
Lean.  Ma  dov'è  andato,  ch'io 

Noi  posso  ritrovar? 
Pant.  Co  saverò  le  commission,  ve  lo  insegnerò. 
Lean.  Non  son  tenuto 

Gli  ordini  d'un  Monarca  a  palesarvi. 

Lo  saprò  ritrovar  senza  di  voi.  (entra  fret- 
toloso ) 
Pant.  Ah  canil  ah  cani!  Certo  i  ga  qualche  or- 

dene  resoluto  e  crudel.   I  me  lo  perseguita,  i 

me  lo  voi  tor  su. 


94  IL   CORVO, 

SCENA  SESTA. 
Tartaglia  e  Pantalone. 

Tart.  {uscendo  affaccendato)  Ammiraglio,  avete 
veduto  Leandro? 

Pant.  Sì,  l'ho  visto;  cossa  volevi?  (ironico)  Se 
allegri,  che  par  che  andè  a  nozze.  Avere  da 
darghe  qualche  bona  nova. 

Tart.  Dov'è  andato?  ditelo  presto.  Ho  degli  or- 
dini del  Re. 

Pant.  Ah  caro  Tartaglia,  se  me  se  amigo,  se  me 
volè  ben,  diseme  i  ordini  che  gavè. 

Tart.  Io  non  ho  difficoltà,  ve  li  dico  subito.  Lean- 
dro aveva  l' ordine  di  dare  l' arresto  al  Principe 
\  nelle  sue  stanze.  A  me  ha  cresciuta  la  dose  ;  è 
inquieto,  non  è  contento  di  questo  ;  ma  vuole, 
che  immediatamente  sia  condotto  nell'  Isola  del 
pianto  e  colà  confinato. 

Pant.  In  tell'Isola  del  pianto!  el  Re  contro  un 
fradello  tanto  benemerito?  contro  el  so  san- 
gue? ste  crudeltà?  Povero  innocente! 

Tart.  Innocente?  Se  gli  ha  scannato  un  falcone 
nelle  mani,^  ammazzato  un  cavallo  sotto;  ma 
voi  dovreste  ricordarvelo  ;  avete  per  quel  caso 
un  braccio  al  collo  e  la  testa  rotta. 

Pant.  No  importa  gnente*  Nissun  sa  la  rason  de 
ste  cosse;  mi  la  so,  np  la  so,  ma  .so  che  l'è 
innocente. 


ATTO  TERZO.  95 

Tart.  Ma  se  dopo  tutte  queste  insolenze  il  Re 
Pha  ritrovato  ginocchioni  innanzi  alia  Princi- 
pessa che  le  baciava  la  mano,  che  l' accarez- 
zava, e  le  diceva  piangendo  :  Uh,  ben  mio,  uh, 
vita  mia,  non  sposate  mio  fratello,  se  non  mi 
volete  morto?  È  innocenza  questa? 

Pànt.  (a  parte)  Mo  cordoni!  questa  certo  xe 
granda.  (alto)  Cosa  importa?  Cossa  saveu  vu 
i  arcani? 

Tart.  Arcani!  Qui  non  c'è  bisogno  d'interpreta- 
zioni. Il  Re  è  entrato  in  maggiori  sospetti, 
massime  non  avendolo  veduto  nell'accompa- 
gnamento al  Tempio,  e  fa  benissimo  a  levarsi 
dinanzi  un  fratello,  che  può  macchinare  mag- 
giori bestialità,  e  anche  scannarlo  per  gelosia 
nel  letto  colla  sposa.  Tutta  la  Corte  è  scanda- 
lezzata  e  irritata  contro  al  Prmcipe,  e  il  po- 
polo è  in  tumulto.  A  questi  papaveri  si  deve 
troncar  il  capo.  Ma  voi  avete  la  testa  rotta,  e 
il  cervello  vi  deve  traballare,  e  fate  certi  di- 
scorsi, che  mi  sembrate  un  matto. 

Pant.  e  vu  me  pare  un  ministro  traditor,  un  omo 
d' un  cuor  negro,  uno  de  quei  (  co'  dise  el  pro- 
verbio) dai  al  can  che  el  xe  rabbioso;  un  che 
no  cerca  altro,  che  dar  drio  alla  passion  d' un 
Re  per  coltivar  la  propria  fortuna  ;  che,  in  vece 
de  buttar  acqua,  zonze  del  fogo,  e  che  scor- 
dandose  che  nasse  el  scandalo,  la  rovina  tra 
sangue,  tra  do  fradelli,  che  tanto  se  amava,  ha 
piaser,  per  darse  merito,  de  quelle  novità,  che 


96  IL  tX)RVO. 

doveria  far  pianzer,  spezzar  el  cuor,  come  le 
me  fa  a  mi,  povero  vecchio,  che  no  gaverò  più 
pase,  e  che  forsi  lasserò  stassera  la  vita  sotto' 
al  peso  de  sta  passion.  (piange) 

Tart.  Con  tutte  le  insolenze  che  m'avete  dette, 
caro  Ammiraglio,  voi  mi  promovete  anche  il 
pianto,  perchè  conosco  V  ainore,  che  avete  al 
Principe  Jennaro;  ma  la  colpa  non  è  mia,  è 
sua;  e  gli  ordini  di  sua  Maestà  conviene  ese- 
guirli. 

Pant.  Sì,  xe.  vero,  se  deve  obbedir  el  so  Re,  Mi 
solo  in  sta  Corte,  benché  povero  Zuechin,  ave- 
ria  proccurà  de  calmar  l'animo  del  mio  Re,  e 
quando  l' avesse  insistio  contro  so  fradello,  ave- 
ria  buo  cuor  de  renonziar  la  carica,  de  perder 
el  stato,  de  farme  metter  anca  i  ferri  ai  pie, 
piuttosto  de  esser  nunzio  a  un  putto  de  quella 
sòrte  de  tanta  desgrazia,  de  tanta  mortificazion. 

Tart.  Ma  a  Napoli,  caro  Pantalone,  non  c'è  l'edu- 
cazione della  vostra  Giudecca,  e  s' usa  ad  ese- 
guire gli  ordini  d'un  Re  con  prontezza,  senza 
tanti  eroismi 

Pant.  Eseguili  pur;  ma  mi,  che  son  dalla  Zueca, 
vedeu  sior,  son  ancora  a  tempo  de  insegnarve, 
come  se  fa  a  lassar  i  comodi  e  le  fortune,  per 
andar  a  fenir  i  zorni  in  esilio,  e  al  fianco  sem- 
pre de  un  povero  sfortuna,  abbandona  da  tutti> 
ma  che  sarà  sempre  le  viscere  mie. 


.      ,  ATTO  TERZO.  97 

SCENA  SETTIMA.  . 

Truffaldino,  Tartaoma  e  Pantalone. 

Truff.  Uscirà  furioso,  chiederà  se  abbiano  sa- 
puto il  gran  caso  successo.  Pant  Chiederà 
se  il  Principe  si  sia  riconciliato  col  fratello. 
Tart  Chiederà,  se  Jennaro  abbia  fatta  qualche 
maggior  bestialità.  Truff.  Sì  pianterà  in  un'at- 
titudine d' un  tragico  recitante,  e  comincierà  in 
tuono  grave:  Mentre  il  popolo.  Troncherà  il 
racconto,  chiederà  in  grazia  di  non  esser  ia-, 
terrotto,  perchè  un  poeta  gli  ha  data  in  iscrìtto 
la  narrazione  in  versi,  acciò  possa  farsi  del- 
l'onore,  e  che  spera  di  averla  a  memoria. 
Pant  Che  si  sbrighi,  che  egli  si  aspetta  qual- 
che maggior  disgrazia.  Tart  Che  s'aspetta 
qualche  altra  pazzia  di  Jennaro.  Truff.  Si 
rimette  in  una  caricata  serietà,  e  con  en- 
fasi tragica  recita  la  seguente  narrazione,  ge- 
stendo accademicamente  con  una  goffaggine, 
proporzionata  al  suo  carattere,  e  con  somma 
affettazione: 


Mentre  il  popolo  attento  ed  afollato. 
Nel  magnifico  Tempio  aspettatore 
Era  di  no^^e,  e  il  Sacerdote  avea 
Parata  V  Ara  ;  Millo,  il  Re,  per  mano 
Teneva  Armilla,  la  sua  dolce  Armilla^ 
E  al  suon  degli  oricalchi^  e  armoniosi 
Bossi^  e  sonori  timpani  in  concerto. 

Gozzi. 


98  .        .  li;  coRva 

E  di  musiche  voci,  il  desiato 
Nodo  seguì.  Ma  che?  V aere  del  Tempio 
S' empiè  di  gufi,  e  d*  altri  augei  notturni. 
Di  mesti  auguri  apportatori,  e  quinci, 
E  quindi  svola:[i[ando,  d*  ululati, 
E  di  querule  voci  echeggia  il  Tempio, 
E  cento  cani^  e  cento,  eh*  eran  sparsi 
Per  V  ampia  mole  urlar  di  voci  orrende. 
Dalle  ricche  pareti  un  terso  specchio 
Cade,  e  in  minute  scheggie  si  converte,     v 
Ed  un  vaso  di  sai,  che  sulV  altare 
Stava  riposto,  si  versò,  si  sparse- 
Indi  un  allocco  in  sul  capo  al  Monarca 
Vola,  e  si  ferma,  e  una  civetta  enorme 
Sul  capo  alla  Regina  sì  riposa^ 
JE  coli'  adunco  artiglio  le  spama\:{a 
-    Le  chiome  nere,  ed  il  tuppè  sublime, 

(Si  rasciuga  il  sudore) 


Pont  Impaziente  gli  chiede  come  sieno  alfine  ter- 
minate le  faccende.  Truff,  Dice  di  essere  stancQ 
di  parlare  in  versi,  che  teme  di  annoiarli,  non 
essendo  cosa  propria  al  suo  personaggio  il  ra- 
gionare in  versi  ;.  che  terminerà  in  prosa.  U  Re 
ed  il  popolo  erano  in  commozione  per  gli  au- 
gùri funesti.  Leandrp  era  giunto  al  Re  -a  rife- 
rire, che  Jennaro  non  si  trovava  in  nessun 
luogo.  Il  Re  era  entrato  in  un  grandissimo  so- 
spetto, e  timore  d'una  ribellione  del. fratello. 
Aveva  dato  ordine  di  porre  i  soldati  sull'armi, 
e  che  tutte  le  persone  di  Corte  stessero  in 
guardia  quella  notte,  che  si  era  ritirato  colla 

-  sposa  nelle  stanze  nuziali,  ec.  Pant  Disperato 
di  '  sentire  che   non   si  trova  Jennaro,  dubita, 


ATTO  TERZO. 


99 


eh'  egli  sia  andato  ad  annegarsi^  e  commiseran- 
dolo  con  delle  grida  entra  da  una  parte.  Tart  Sen- 
tendo gli  ordini  della  guardia  in  quella  notte,  per 
provvedersi  di  tabacco  gagliardo,  che  lo  tenga  ri- 
svegliato, entra  da  un'  altra  parte.  Truff.  Per  an- 
dare a  porre  in  ordine  i  suoi  cani  da  caccia,  e  per 
auzzarli  a  Jennaro  quella  notte,  se  fa  il  matto, 
entra. 


ATTO  QUARTO 

Anticamera  regia,  con  una  porta  grande  nel  prospetto.  K  la 
notte  oscura.  Vedesi  sollevare  una  lastra  del  pavimento, 
e  uscire  Jennaro  con  una  fiaccola  accesa  in  una  mano,  e 
con  una  scimitarra  ignuda  nelP  altra. 


SCENA  PRIMA. 
Jennaro^  con  voce  bassa  e  agitata. 


EN  poteano  gli  sterpi,  i  bronchi,  i  sassi 
Di  questo  sotterraneo,  per  il  tempo 
Dimenticato,  il  passo  mio  far  tardo, 
Non  mai  fermarlo.  Dell'  amato  e  caro, 
Benché  nimico,  mio  fratello,  troppo 
A  cor  mi  sta  la  vita.  Altr'  uscio  certo. 
Onde  il  dragon  possa  alla  regia  stanza 
Del  fratel  mio  passar,  non  v'è  che  questo. 
Qui  la  mia  vita  lascierò!  La  morte 
Farà  palese  P  innocenza  mia. 
S'io  favellando  il  ver  narrar  non  posso. 
(  vedrassi  lampeggiare  da  una  parte  di  dentro  ) 
Ma  quai  vampe,  e  qual  foco,  e  qual  fetore 


102  IL  CORVO. 

L'aere  ammorba,  e  il  respirar  m'opprime? 

Questo  è  l'alito  certo  di  quel  mostro 

Infemal  minacciato,  òhe  s'appressa. 

(attonito)  Eccolo  entrar  da  questa  loggia.  Oh  vista 

Spaventevole  ed  atra!  Giusto  Cielo, 

Che  tutto  scorgi  e  degli  oppressi  hai  cura, 

Dà  forza  a  quésta  spada,  a  questo  braccio, 

^questo  cor,  che  a*  tuoi  voleri  è  servo,  {pianta 

la  fiaccola  ) 
(  uscirà  un  grande  e  spaventoso  dragone,  che  vo- 

fniterà  qualche  fiamma.  Jennaro  lo  assalirà  ) 
Alla  tua  ingorda  canna,  orrido  verme. 
Vittima  sarò  prima.   - 
(  seguirà  combattimento  con  vari  giri  violenti  per 

la  scena,  I  colpi  di  Jennaro  saranno  inutili. 
'     n  mostro  sbanderà   avvicinando  alla  porta 

dirimpetto.  Jennaro  anderà  rinculando  verso 

quella  per  difenderla  ) 

O  me  infelice  ! 
D'adamante  o  di  porfido  ha  le  scaglie 
Questo  crudo  animai  (darà  altri  colpi)  Fratello, 

oh  Dio! 
Mal  ti  difendo. 
{f7  mostro  spingerà  Jennaro  da  una  parte,  s'av- 

vicinerà  alla  porta  ) 

Questo  a  voi  consacro 
Ultimo  colpo  disperato,  o  Numi. 
(als[erà   la   spada  a  due  mani,  darà  un  colpo 

grandissimo  ferendo   il  mostro^  e  tagliando 

a  un  tratto  la  porta,  che  si  spalancherà.  Il 


ATTO  QUARTO.  IO3 

mostro  sparirà.  Jennaro  rimarrà  attonito  colla 
spada  nelle  mani). 


SCENA  SECONDA. 

Esce  Millo  me\\o  spoglio^  con  un  lume  nella  sinistra 
mano,  una  spada  ignuda  neW  altra,  vede  Jennaro  nella 
positura  accennata.  Sorpreso^  fa  qualche  passo  indietro. 


Millo  e  Jennaro. 

MiL.  Ah  traditori  tu  quii  di  notte!  solo! 

Col  ferro  in  pugno?  violento,  folle, 

Spezzi  le  porte,  e  vieni,  empio,  la  vita 

Per  torre  al  fratel  tuo? 
Jen.  (confuso^  guardando  intomo  da  se)  Lasso! 

sparito 

E  il  mostro;  più  difendermi  non  posso. 
MiL.  Ecco  la  vita;  ecco  quel  sangue,  indegno, 

Che  brami  di  versar.  Per  questa  spada 

n  colpo  vibra.  Forse  la  tua  morte...  (si  mette 

in  guardia) 
Jbn.  Fratello...  sappi...  in  questo  loco  io  venni . . 

Io  son  per  tua...  {a  parte  disperato)  Ma  fa- 
vellar non  posso. 

Barbare  stelle! 
MiL.  Olà,  miei  servi  entrate. 

Olà,  servi,  ove  siete? 


I04  IL  CORVO. 

SCENA  TERZA. 
Leandro,  Tartaglia,  soldati  e  detti, 

Tart.  Eccoci  pronti,  Maestà,   {vedendo  Jen.)  Oh 
diavolo!  eh' è  quello,  ch'io  vedo! 

Lean.  (sorpreso)  Come!  oh  Cielo! 

MiL.  Servi  mal  cauti,  negligenti  servi. 
Così  del  vostro  Principe  la  vita 
Voi  custodite?  I  miei  sospetti  forse 
V'uscir  di  mente?  In  questa  estrema  stanza 
Lasciate  penetrare  i  traditori 
Contro  agli  ordini  miei.  (  verso  Jen,  crollando 

il  capo)  Que' traditori, 
Ch'osan  col  ferro  ignudo,  con  un  colpo 
Spezzar  l' ultima  porta,  e  in  braccio  al  sonno 
Trucidar  un  fratello?  Ah  scellerato... 
Disarmatelo  tosto. 

Tart.  Io  non  intendo,  come... 

Lean.  Mio  Re,  noi  siam  confusi  e  non  sappiamo, 
Come  entrato  qui  sia... 

Jen.  Sono  innocenti. 

Io  per  un  sotterranea  omai  pel  tempo 
Dimenticato,  e  dalla  passione. 
Che  mi  trafigge  il  seno,  fatto  industre. 
Qui  giunsi,  e  per  tuo  amor  giunsi,  fratello; 
Col  brando  ignudo  son,  ma  per  tuo  amore; 
Spezzai  la  porta,  e  per  tuo  amor  ciò  feci. 

MiL.  Empio,  qual  scusa?  qual  amore,  indino?. 


ATTO  QUARTO.  IO5 

Jen.  Non  chieder  più.  Fu  amor  che  mi  condusse. 
MiL.  Ben  io  so  che  fu  amor.  Ma  che  più  bado? 
D' un*  alma  delinquente,  dall'  eccesso 
Confusa,  detti  stolidi  son  questi. 
Disarmatelo  tosto.  In  prigion  dura 
Vada,  e  il  Regio  Consiglio  ^i  raduni: 
Deciso  sia  della  sua  vita,  (entra  con  impeto) 

Jen.  Ingrato! 

{getta  la  spada)  Eccovi  il  ferro,  ecco  la  vita 

mia. 
Mi  tolga  morte  omai  da  tante  angosce; 
Ch'  io  più  non  posso.  Avverrà  forse  un  giorno. 
Che  il  fratel  mio  mi  pianga,  e  in  sul  sepolcro 
Con  sospiri  e  singulti,  invan  mi  chiami 
Col   nome  d'innocente,   (a  parte)  Or  sarai 

lieto, 
Crudel  Norando.  Il  sacrifizio  basti 
Di  questo  sangue  almeno.  Altra  sciagura 
Non  succeda  al  fratello,  e  con  Armilla 
Viva  lieto  i  suoi  dì. 

Lean.  Principe!  Ah  come 

Vi  riduceste  a  tal  misfatto? 

Tart.  Ah  come  mai,  Jennaro  mio?... 

Jen.  (con  impero)  Basti. 

Rimproveri  da  voi  non  soffro.  Siete 
Ministri?  D'un  Re  il  cenno  obbedir  dessi. 
(  entra  con  ^ere{s[a  ) 

Lean.  Ebben,  l'eseguiremo. 

Tart.  Oh  senza  dubbio,  {entra  colie  guardie  die^ 

tro  Jennaro) 


106  IL   CORVO. 


SCENA  QUARTA. 


ARMn.L4  e  àiiERALDiNA  iti  abìto  da  camera  e  in  canfu' 
sione.  La  prima  esce  dalla  porta  dirimpetto,  V  altra  da  una 
scena:  s'incontrano. 


Smer.  Quai  tumulti,  quai  strepiti  son  questi, 
Mia  Principessa,  e  come  in  ogni  loco 
Di  questa  Reggia  splender  veggio  accese 
Fiaccole  e  torce,  e  fatta  giorno  ormai 
L'oscura  notte,  e  in  folla  andar  soldati, 
Tornar  ministri  e  sussurrar  per  tutto 
Ordini,  conmiession,  voci  confuse? 
Che  fu?  che  avvenne? 

Arm.  Deh  lasciami  in  pace. 

Jennaro  qui  nascosto  a  forza  aperse 
L'uscio  alla  stanza,  e  con  la  spada  ignuda 
Trucidar  volle  Millo,  sposo  mio, 
A  me  da  presso,  Millo,  suo  fratello. 
In  carcere  fu  posto,  e  strage  e  sangue 
M'aspetto  in  vece  di  quiete  e  gioia. 

Smer.  Che  mi  narrate  1  Ov'è  lo  sposo  vòstro? 

Arm.  Furente  il  vidi,  sospirò,  guardommi. 
Pianse  d'amare  lagrime,  ed  entrando. 
In  un,  suo  gabinetto  si  rinchiuse. 
Ne  al  mio  pregare  aperse,  e  solo  il  suono 
Di  singulti,  e  di  pianti  udir  potei. 

Smer.  Armilla,  Principessa,  figlia  mia, 
Fuggiam  di  qui.  Fuggiam  nelle  caverne 
D' un' alpestre  montagna.  È  questo  il  punto, 


Atro  QUARTO.  107 

In  cui  scorgo  avverar  ciò,  che  sin  ora 

10  celata  vi  tenni. 

Arm.  e  che  tenesti 

Celato?  Dillo,  e  più  m'opprimi  il  core. 

Smer.  Io  vel  dirò.  Quando  nasceste,  il  padre 
Vostro,  Norando,  volle  i  Sapienti 
Consultar  sopra  voi.  N'  ebbe  in  risposta, 
Che  per  P  uccision  d'  un  certo  augello 
Di  nere  penne  consacrato  all'Orco, 
Voi  rapita  sareste,  e  che  dal  ratto 
Nascerebbon  miserie,  e  strazi,  e  morte. 
Ch'ei  stesso,  da  crudel  barbara  stella 
A  forza  mosso,  diverria  inumano,  ^ 

Cieco  ministro  delle  più  tiranne 
Occasion  d' angosce.  Eccovi,  Armilla, 
La  cagione,  per  cui  dal  padre  foste 
Austeramente  custodita  e  chiusa. 
Ma  che!  cede  al  destino  ed  alle  stelle 
L'umano  ingegno,  ed  avverato  è  alfìne 

11  vaticinio.  Deh  fuggiamo,  Armilla, 
Pria  che  s'avveri  in  tutto.  Non  vogliate 
Rimaner  spettatrice  d'inaudite 

Stragi,  e  di  sangue  sparso,  e  d'altri  orrendi 
Inaspettati  casi. 
Arm.  Io  fuggir?  Come 

Potrei  staccarmi  dall'amato  sposo? 
Non  fuggirò.  Forse  la  mia  presenza 
Qualche  riparo  potrà  opporre.  Alfine 
Morte  tronca  ogni  angoscia:  io  non  la  temo. 


I08  IL   CORVO. 

Smer.  Oh  cieca  figliai   Oh  sventurata  figlia!    (/a 

segue  ). 

SCENA  QUINTA. 
77  teatro  si  cambia  e  rappresenta  una  prigióne, 

Jennàro  incatenato. 

Solo  a  voi,  marmi  orrendi,  oscure  stanze, 
Impenetrabil  ferri,  a  voi  catene, 
L'infelice  Jennaro  potrà  dire. 
Che  per  serbar  le  luci  a  suo  fratello, 
Per  serbargli  la  vita,  a  morte  è  giunto? 
Né  il  ver,  né  la  cagion  dell'oprar  mio 
Ad  uomo  potrò  dire,  o  in  freddo  sasso 
Dovrò  cangiarmi?  Qual  stato  più  misero 
Fu  mai  del  mio  ?  Morrò.  Ma  tu;  Norando, 
Crudel  Norando,  che  invisibil  certo 
Mi  sei  d' intorno,  e  la  miseria  mia 
Vedi,  deh  dimmi  almen,  se  finiranno 
Insiem  colla  mia  vita  le  sciagure 
Dell'  amato  fratel,  con  me  tiranno, 
Ma  tiranno  a  ragion  per  tuo  volere. 

SCENA  SESTA. 

Norando   esce  prodigiosamente  dalle  pareti,  e  se  gli 
presenta  colla  consueta  Jiere^^ia  spaventandolo, 

Norando  e  Jrnnaro. 

NoRi  Mori,  ladron  dì  donne,  e  coli'  infamia 
Mori  di  traditor.  Se  il  vuoi,  palesa 


ATTO  QUARTO.  IO9 

La  tua  innocenza.  Statua  diverrai. 
Ne  per  morir,  ne  per  cangiarti  in  marmo, 
Saper  dèi  tu  ciò,  che  di  tuo  fratello 
Esser  deve,  e  d'Armilla...  di  mia  figlia, 
Del  caro  sangue  mio...  Ma  cosi  vuole 
Il  destin;  cosi  voglio,  (in  atto  di  partire) 

Jen.  (supplichevole)  Ah  crudo,  ascolta... 

NoR.  No,  non  t'ascolto.  A  rapir  donile  impara. 

{entra  prodigiosamente  per  le  pareti  che  si  ri" 
stabiliscono)  ' 

Jen.  (disperato)  Tu  ciel,  tu  del,  tu  ciel,  che  tutto 

intendi, 
Che  giusto  sei,  soccorrimi.  A  te  solo 
Posso  chieder  pietà.  Pietà  ti  chiedo,  (piange) 

SCENA  SETTIMA. 
Pantalone  e  Jbnnaro. 

Pant.  (frettoloso  e  affannato)  Jennaro,  fio  mio, 
viscere  mie,  no  ve  domando  la  causa  dei  vo- 
stri misfatti,  no  ve  tormento,  no  ve  rimpro- 
vero ;  no  ghe  tempo  da  perder.  El  Parlamento 
regio  xe  raduna  ;  de  altro  no  se  tratta,  che  della 
forma  de  farve  morir;  ma  la  niorte  xe  scgura. 
Oh  Diol  sta  parola  de  morte  sora  de  vu  me 
fa  morir  d'angossa.  Con  quanto  aveva  a  sto 
mondo  ho  corrotto  le  guardie,  ho  prepara  ima 
feluca  a  dodese  remi;  ringrazio  el  Cielo.  No 
perdemo  tempo  ;  andemo  via  subito.  Sarà  quello 
che  vorrà  la  fortuna.  Co  ho  salva  la  vostra 


no  IL  CORVO. 

vita,  son-  ricco.  No  perdemo  tempo,  caro  ei  mio 
fio;  seguitème. 

Jkm.  Io  partir?  Vi  ringrazio,  o  solo  amico 
Nella  miseria  mia.  Partir  non  deggio. 
Una  fuga  improvvisa,  inaspettata 
Reo  mi  farebbe,  ed  innocente  io  sono. 
Innocente  morrò. 

Pant.  Ah  no  xe  tempo,  care  le  mie  viscere,  de 
parlar  più  de  innocenza.  La  xe  stada  una  paz- 
zia... La  xe  stada  quello  che  volè,  ma... 

Jen.  (impetuoso)        Reo  mi  credete  1 

Pant.  Sarè  innocente,  via,  quello  che  ve  plase;  ma 
^  cossa  giova?  Adesso  una  fuga  sola  poi  dar 
tempo  al  tempo,  poi  dar  campo  al  maneggio, 
poi  dar  qualche  color  de  innocenza  un  di  ai 
successi;  poi  ancora  metterve  in  grazia  de  vo- 
stro fradello.  Una  condanna  de  traditor,  de 
sassin  del  proprio  sangue,  de  ribello,  una  morte 
segura,  anèma  mia,  una  inorte  de  ignominia, 
in  mezzo  un  pubblico,  su  un  palco,  per  man 
del  carnefice;  questa  xe  quella,  che  immedia- 
tamente ve  qualifica  reo  in  te  la  mente  dei 
omeni,  che  no  ammette  reme4io,  e  che  lassa 
una  memoria  infame  della  vostra  persona.  Ah, 
caro  ben,  mi  ve  son  pare  in  sto  ponto  ;  no  tai^ 
demo  un  momento;  deme  sta  man  a  mi...  feve 
coràggio. 

Jbn.  Ah  dite  il  vero  troppo,  amico  vecchio. 
La  morte  reo  mi  stabilisce,  e  infame 
Himango  nelle  menti;  ma  la  fiiga 


ATTO  QUARTO.  Ili 

Anche  reo  mi  condanna,  (pensa)  Ne  morire, 
Ne  fuggir  deggio.  (pensa)  Un  sol  rimedio  resta... 

Pant.  Via,  presto   dixè;   che   remedio   ghe,  fuora 
delia  fuga,  che  ve  esibisso? 

Jen.  Sì,  caro  amico,  un  sol  rimedio  resta 
Per  non  fuggir,  per  non  morir  infame, 
Per  far  palese  l'innocenza  mia. 
Rimedio  per  me  peggio  della  morte. 
Che  le  più  interne  viscere  m' agghiaccia 
Spio  in  pensarlo,  (a  parte)  Alfine,  oh  Diol  si  ceda 
All'empio  mio  destin.  Di  me  non  resti 
Un'infame  memoria  tra  le  genti. 

Pant.  Che  arcani?  che  remedi?  eh,  caro  fio,  nò  ve 
perde  in  zavariamenti,  o  se  ghe  xe  sto  reme- 
dio, uselo  subito,  perchè  la  morte  ve  xe  sora 
la  testa,  e  me  par  de  sentir... 

Jen.  (risoluto)  Non  più,  liberal  vecchio.  Ècco  il 

rimedio. 
Ite  a  Millo,  fratel;  ditegli,  ch'io 
Pria  di  morir,  di  favellargli  bramo. 
Che,  se  tra  l'opre  mie,  nella  sua  mente 
Richiamandole  tutte,  gratitudine 
Merita  alcuna,  non  mi  nieghi  grazia 
Di  potergli  parlar  prima  ch'io  mora. 
Più  non  potrete  dirmi  allor,  ch'io  fugga; 
Più  infame  non  morrò.  Paghi  sarete 
Di  vedermi  innocente. 
Pant.  (con  trasporto  ed  allegre^^a)  Diseu  da  seno? 
Jen.  Il  vero  io  dico. 

Ite  al  fratello.  Venga.  Ei  sarà  pago. 


112  IL  CORVO. 

Pant.  O  caro  fio,  me  fé'  respirar.  Ve  dago  un  baso, 
(lo  bacia)  e  pò  corro  da  vostro  fradello.  Pre- 
^erò,  pianzerò,  me  butterò  in  zenocchion.  Oh 
che  allegrezza  che  ho  da  aver!  Ve  dago  un 
altro  baso  e  pò  svolo,  (lo  bacia  con  impeto  ed 

entra) 

Jen.  Misero  vecchio!  Quante  amare  lagrime 
Verserai  da  quegli  occhi,  e  quante  angosce 
Proverà  il  fratel  mio,  la  Corte,  il  Regno  I 
Ma  nessun  più  di  me  sarà  infelice. 

SCENA  OTTAVA. 
Tartaglia  con  un  foglio^  guardie  e  J^inaso. 

Tart.  U  cielo  sa,  Altezza,  con  quanto  dolore,  con 
quanto  crepacuore  io  vengo  a  lei.  Mi  tremala 
voce...  non  so  come  incominciar  a  parlare... 
ma  sono  ministro... 

Jen.  Via  sì.  Tartaglia,  il  so.  Fu  già  deciso 
Della  mia  morte;  e  ver? 

Tart.  Per  servirla.  Ho  qui  una  carta;  non  so,  se 
averò  fiato  di  leggerla:  lei  m'intenderà  per 
discrezione,  {legge piangendo  interrottamente) 

Il  Regio  Parlamento,  esaminate 
Le  a:{ioni  di  Jennaro,  e  spezialmente 
La  furtiva,  notturna,  a  mano  armata; 
E  ritrovando  V  attentato  enorme. 
Chiaro,  evidente,  contro  la  persona 
Del  Re,  fratello  suo;  di  morte  degno  ■ 
Giudicato  ha  Jennaro.  Gli  sia  tronco 
H  capo  in  faccia  al  pubblico,  e  si  mora. 


ATTO  QUARTO.  II3 

Jen.  Millo  ha  fìrmata  la  sentenza  mia? 

TTart.  Per  servirla.  Guardi  qui:  Millo,  Re  di  Frat- 
tombrosa: 

Jen.  Inumano  fratell 

TTart.  {sempre  piangendo)  Mi  perdoni  per  carità. 
A  voi,  guardie,  lo  consegno.  Fra  un'  ora,  fate 
che  sia  eseguita  la  sentenza.  Io  me  ne  vado, 
perchè  sento,  che  non  posso  più  resistere.  Fe- 
lice giorno  a  Vostra  Altezza. 

Jen.  Sarà  pur  vero. 

Che  a  si  barbaro  passo  io  sia  ridotto! 

SCENA  NONA. 
Millo,  Jbnnaro  e  guardie. 

MiL.  A'prieghi  vostri,  a  quei  dell'Ammiraglio 
Ratto  qui  venni;  ma  più  venni  mosso 
Da' giuramenti  del  buon  vecchio,  ch'io 
Saprei  dal  labbro  vostro,  che  innocente 
Siete,  o  Jennaro.  Io  so,  che  saran  questi 
Mendicati  ritardi  a  un  duro  passo. 
Che  v' affanna,  di  morte.  Io  vi  compiango; 
Io  vi  bramo  innocente;  ma  innocente 
Non  so  sperarvi.  Manifesti  troppo, 
E  senza  scusa  gli  attentati  sono. 
Basta.  Crudel  non  son.  Qui  venni  e  ascolto. 
{alle  guardie)  Olà,  quelle  catene  gli  levate. 
Qui  da  seder,   {vengono   levate  le  catene  a' 
Jennaro,  e  vengono  posti  due  origlieri  al-* 
GozzL  8 


114  ^^   CORVO. 

P  orientale  da  sedere,  vicini  al  posto  oppor^ 
tuno  alla  trasformazione,  che  deve  seguire, 
Millo  siede,  fa  cenno  al  fratello,  che  sieda. 
Siede) 

Jen.  {con  voce  di  commozione)   Crudel   non   vi 

credea. 
Cieco  fossMo,  per  non  aver  veduti 
!  caratteri  vostri,  e  il  vostro  nome, 

'     Che  a  morte  mi  condanna,  {piange) 

MiL.  {commosso  e  sostenuto)  Il  Parlamento... 
Le  colpe  vostre...  gli  ordini...  le  leggi... 
Le  ragioni  di  stato...  {scuotendosi)  Or  qui  non 

venni 
Per  rimproveri  a  voi.  Cerco  innocenza. 
Crudel  non  sono. 

Jen.  {a  parte  agitato)  Ahi  duro  punto!...  ahi 

misero!... 
Quanta  necessitade,  e  qual  ribrezzo 
Mi  sprona,   e  mi   trattieni   {con  dolcezza  a 

Millo)  Deh,  fratel  mio, 
Richiamate  al  pensier  sin  quando  fummo 
Pargoletti  innocenti,  e  quell'affetto 
Che  sempre  ci  stringea,  sì  eh' un  momento 
L'un  senza  l'altro  mal  soffria  di  starsi. 
Ne' fanciulleschi  giuochi  vi  ricorda 
La  tenerezza  e  l'armonia.  Non  mai 
Picciol  disgusto,  o  puerile  invidia 
Fu  tra  di  noi.  Sovvengavi,  eh'  ognora 
Tutti  i  piccioli  doni,  e  tutti  i  beni. 
Che  avevamo,  divisi  tra  dì  noi 


ATTO  QUARTO.  e'  1 15' 

Con  scherzi  e  baci  furo,  e  che  giammai 
Godergli  potè  l' un  senza  dell'  altro.  (  Millo  cont- 

mosso  piangerà) 
Vi  ricorda  fratel,  che  agli  aji,  ai  servi, 
Ed  ammaestri  io  sempre  m'accusava 
De' puerili  errori  vostri,  e  voi 
V'accusaste  de' miei.  Ch'unqua  di  febbre 
L'un  di  noi  fu  assalito,  che  mestizia 
L'altro  non  assalisse,  e  non  piangesse; 
E  le  man  tenerelle  dell'  infermo 
Stringendo  tra  le  sue,  non  si  staccava 
Mai  dal  suo  letto,  rasciugando  all'altro 
Ora  il  sudor  dal  viso,  ora  scacciando 
Molesti  estivi  insetti,  ora  porgendo 
Con  prieghi  affettuosi  i  succhi  amari 
Di  medie' arte,  con  la  propria  bocca 
Assaggiandoli  prima,  e  cuor  facendo 
Al  fratel  suo  di  berlL  Or  che  mai  vado 
Rammemorando  affettuosi  modi? 
Io  vi  priego,  fratel,  che  da' prim' anni. 
Sino  all'adulta  età  nostra,  un  sol  tratto 
Mi  ricordiate,  che  d'amor  non  fosse, 
Del  più  tenero  amore.  E  alfin  sovvengavi 
Dal  dì,  che  il  fatai  Corvo  trafiggeste. 
Gli  spasmi,  le  fatiche,  i  rischi  miei; 
Che  per  voi  rapitor  fui  di  donzelle. 
Ratto  fatai!  ma  che  vi  die  la  vita. 
E  reo  mi  giudicaste  d'attentati 
Contro  di  voi?  Di  morte  reo,  crudele, 
Mi  condannaste? 


'll6  IL.  CORVO. 

MiL.  (rasciugandosi  gli  occhi  e  scuotendosi)  L'opre 

ultime  vostre 
Vi  condannano  a.  morte.  Io  qui  non  venni 
Per  ascoltar  rettorici  colori 
Di  favellar  industre,  e  venni  solo 
A  cercar  innocenza.  O  mi  scoprite 
•  Innocenza,  o  men  vado. 
Jen.  (a  parie  con  profondo  sospiro)  Ahi  crude  stelle! 
'M'abbandona,  ribrezzo,  e  fa,  ch'io  possa 
Armarmi  di  costanza  al  duro  passo. 
(piangendo)  Ah,  fratello,  io  ti  giuro,  che  in- 
nocente 
E  il  tuo  Jennaro,  che  innocente  danni 
A  morte  tuo  fratel.  Deh  non  m'astringere 
A  palesarti  l'innocenza  mia.  (piange  dirotta- 
mente) 
MiL.  D' un  condannato  il  sospirar  e  il  piangere 
Non  dimostra  innocenza,   (si   leva)   Io  t'ab- 
bandono 
A' tuoi  rimorsi,  alia  miseria  tua.  (in  atto  di 

partire) 
Jen.  (levandosi  disperato)  Barbaro,  ferma,  e  poi 

che  sì  ti  cale 
Di  trovarmi  innocente,  m'averai. 
Apparecchiati  a  piangermi  innocente. 
Ed  a  piangermi  invano,  (a  parte  con  dispera- 
tone) Ecco  Norando, 
,La  tua  vendetta;  io  mi  t'arrendo  alfine. 
MiL.  (con  modo   sardonico)   Udiam  quest'inno- 
cenza, que$ti  oracoli 


ATTO  QUARTO.  .     **7' 

Jen.  (  con  somma  forte:(:[a  )  Rapita  ho  ArmiUa  per 

tuo  amore,  ed  ebbi 
Quel  falcon,  quel  destriere,  e  grato  dono 
Sperai  di  farti.  Quel  falcon  uccisi, 
Uccisi  quel  destrier;  pregata  ho  ArmiUa 
A  non  sposarti,  ed  ecco  la  ragione 
Di  tutto  ciò.  Mentre  eh'  io  solo  stava 
Procurando  riposo,  due  colombe^ 
Prodigiose  colombe  parlatrici. 
Sopra  me  si  fermaro,  e  messaggiere 
Fur  di  strane  minacce.  Indi  Norando, 
Padre  d' ArmiUa,  apparve,  e  furioso 
Delle  colombe  ha  confermati  i  detti. 
(a  parte  affannoso)  Ah  Cielo  I  io  son  pur  giunto 

alia  crudele 
Metamorfosi  orrenda,  (a  Millo)  Eccoti  i  detti 
Delle  colombe  e  di  Norando  alfine: 

Infelice  Jennaro,  Principe  sventurato! 
Quel  falcon  ch'ha  in  potere,  appena  a  suo  frateUo 

G>nsegnerà,  il  falcone  caverà  gli  occhi  a  quello; 
Se  non  glielo  consegna,  o  gli  palesa  il  fatto, 

O  con  nessun  fa  cenno  con  parola  o  con  atto; 
Il  decreto  è  infallibile;  se  in  nuUa  mancherà, 

Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 

Io  dovei  consegnartelo  ed  ucciderlo 
Per  serbarti  le  luci,  e  in  un  tacere 
Per  serbar  la  mia  vita,  (a  parte  con  grido  dì 
dolore)  Oh  Diol  mi  sento 


Il8  IL  CORVO. 

Cambiar   in   marmo,    (udirassi  un   tremuoto. 
Jennaro  si  cambierà  in  marmo  candido  dai 
piedi  sino  al  ginocchio) 
MiL.  {spaventato  dal  tremuoto,  non  osservando  il 
fratello)  Qua!  tremuoto  è  questo  1  (in  atto  di 
fuggire) 
Jen.  Non  fuggire,  inumano.  I  detti  seguo 
Delle  colombe,  ascoltali;  son  questi: 

Del  cavai,  ch'ha  in  potere,  appena  suo  fratello 
Salirà  sopra  il  dorso,  sarà  morto  da  quello. 

Se  non  glielo  consegna,  o  gli  palesa  il  fatto, 
O  con  nessun  fa  cenno  con  parola,  o  con  atto  ; 

n  decreto  è  infallibile;  se  in  nulla  mancherà 
Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 

Io  dovei  consegnartelo  ed  ucciderlo 
Per  serbarti  la  vita,  e  in  un  tacere 
Per  serbarti  la  mia.  (a  parte  con  grido)  Si 

compie,  oh  Dio! 
L'inumano   decreto,  (odesi  di  nuovo   il  tre- 
muoto. Jennaro  si  cambia  in  marmo  can- 
dido il  corpo  e  le  braccia,  rimanendo  in  no- 
bile attitudine) 
MiL.   {osservando   il  cambiamento,   inorridito   e 
commosso)  Oimè  misero! 
Che  veggio  mai!  Deh  fermati,  fratello; 
Innocente  fratel,  deh  chiudi  il  labbro. 
Non  dir  più  oltre. 
Jen.  Ah  barbaro,  m'ascolta. 

Non  è  più  tempo  omai.  Soffri  tu  ancora 


ATTO   QUARTO.  '  1 19 

Rimorso  e  angoscia  della  mia  innocenza, 
Giacché  il.  volesti.  A'  detti  ultimi  sono. 

MiL.  Ah  no,  non  dirli,  fratel  mio. 

Ien.  {con  isdegno  e  risoluto)         Son  questi. 
{segue  con  voce  debile) 

Armilla,  ch'ha  in  potere,  se  sposa  suo  fratello. 
La  notte  un  mostro  orrendo  trangugierassi  quello. 

Se  non  gli  reca  Armilla,  o  gli  palesa  il  fatto, 
O  con  nessun  fa  cenno  con  parola,  o  con  atto; 

n  decreto  è  infallibile;  se  in  nulla  mancherà, 
Una  statua  di  marmo  Jennaro  diverrà. 

Combattei  col  dragone  questa  notte. 
Che  la  porta  spezzai.  Fu  quello  il  colpo, 
Che  ti  serbò  la  vita,  e  eh' è  cagione 
Per  serbarti  la  mia,  ch'ora...  la  perdo. 
Salvati  da  Norando...  io  più  non  posso,  {segue 
tremuoto,  e  Jennaro  cambia  il  capo  e  la  fac- 
cia in  marmo) 
MiL.  {con  disperazione)  Fulmina,  Ciel,  percuotimi. 

Innocente 
Fratel,  chi  mi  t'ha  tolto?  Oh  DioI  Soldati, 
Servi,  Ministri,  era  innocente  il  mio 
Caro  fratello.  Io  fui,  che  l' ho  tradito  ; , 
Io  son  di  morte  reo.  Deh  mi  recate 
Nella  Reggia  l' amaro  simulacro.  ^ 

A' suoi  piedi  morrò  distrutto  in  lagrime. 


ATTO  QUINTO 

Il  Teatro  rappresenta  una  picciola  Sala. 


SCENA  prima- 
Truffaldino  e  fìRIGHBLUU 


UESTI  due  personaggi  avranno  tutti  due 
un  fardello  sotto  al  braccio  deMoro  mo- 
bili. Avranno  risolto  di  abbandonar  quella 
Corte,  resa  troppo  infelice.  Faranno  de' riflessi 
proporzionati  al  loro  carattere  sulle  circostanze 
di  quella.  Brighella  è  avaro.  Trova  troncate  le 
vie  di  utilizzare  per  la  mestizia  introdotta; 
dunque  V  uomo  di  abilità  deve  abbandonarla. 
Trufifaldino  è  un  parasito.  Trova  la  cucina  ino- 
perosa, tronche  le  vie  de' stravizzi;  dunque 
Puomo  di  abilità  deve  abbandonarla.  Eglino 
sono  due  personaggi  fatti  per  far  ridere.  Li( 
Corte  è  ridotta  seria  e  malinconica  sino  nella 
servetta;  eglino  non  ci  staimo  più  a  propo- 
sito.  Brighella  ;   che   ivi  stanno  come  fioretti 


122  ,      IL  CORVO. 

in  mare,  pesci  in  prato,  ec.  TrufiFaldino:  anzi 
come  formaggio  in  una  libreria.  Brighella:  anzi 
com' acqua  in  tavola  d'un  Tedesco,  ec  Truf- 
faldino: anzi  come  Gamici  in  un  Teatro  poco 
frequentato,  ec.  Dopo  un  dialogo,  che  satirica- 
mente dimostri  due  servi  cattivi,  che  non  sen- 
tono gratitudine  de' benefizi  ricevuti,  ma  ab- 
bandonano i  loro  padroni  caduti  in  miseria, 
-giudicando,  che  così  deva  fare  l' uomo  di  spi- 
rito, per  cercar  miglior  fortuna  altrove,  entrano. 


\/ 


SCENA  SECONDA. 

Il  Teatro  si  cambia  e  rappresepta  una  gran  sala  fornita 
d^una  lugubre  tappezzeria.  Sì  vedrà  nel  mezzo  Jennaro  in 
istatua  sopra  un  picciolo  piedestallo,  e  nelP  attitudine,  in  cui 
sarà  rimasto  nella  prigione.  La  statua  avrà  due  sedili  uno 
per  parte. 

Pantalone  e  Jennaro  statua. 


Pant.  {gridando  dì  dentro)  Dove  xele  le  mie  vi- 
scere? dove  xele  le  mie  carne,  el  mio  sangue 
innocente?  Guardie,  lasseme  andar  per  carità. 
{esce)  Dov'  elio?...  {guarda  la  statua;  rimane 
alquanto  sospeso  pel  dolore;  indi  segue  pian- 
gendo grado  a  grado  a  misura  dei  sentii 
menti  del  suo  discorso)  Fio  mio,  simulacro 
della  innocenza,  esempio  d'ogni  virtù.  Ah  che 
me  sona  ancora  in  te  le  recchie  quelle  vostre 
ultime  parole: 


ATTO   QUINTO.  I23 

Ite  al  fratello.  Non  mi  nieghi  gra:{ia 
Di  potergli  parlar  prima,  eh'  io  mora. 
Più  non  potrete  dirmi  allor,  eh*  io  fugga: 
Più  infame  non  morrò.  Paghi  sarete 
Di  vedermi  innocente. 

Caro  el  mio  ben,  e  mi  son  sta  ministro  della 
vostra  desgrazia;  ma  ministro  innocente  anca  mi, 
e  credendo  de  far  ben,  ho  buo  parte  nella  vostra 
miseria.  Ma  chi  averia  credesto,  caro  el  mio  cuor, 
che  sotto  quelle  parole  ghe  fosse  sconta  una  de- 
sgrazia de  sta  natura?  Ve  domando  perdon  no- 
nostante, (s^  inginocchia  e  bacia  i  piedi  alla  sta- 
tua, sempre  piangendo  )  Ste  lagreme,  che  sparzo 
sora  le  vostre  piante,  parla  per  il  mio  cuor.  Vor- 
ria  poderve  mostrar  le  viscere,  e  che  podessi  ve- 
der, quanto  volentiera  baratteria  la  mia  vita  col 
vostro  stato.  Ah  che  poco  ve  doneria,  e  forsi  ve 
£aria  più  infelice  de  quel  che  se,  perchè  una  vita 
più  addolorada  de  quella  de  sto  povero  vecchio^ 
•no  se  trova  a  sto  mondo,  (si  leva  a  stento,  e 
guardando  fissa  la  statua)  Quella  bocca,  che 
gera  la  mia  consolazion,  più  no  me  parla...  No 
son  più  degno  de  esser  conforta,  né  rimprovera 
da  quella  ose,  che  me  levava  tutti  i  pesi  del  cuor... 
No  go  più  forza  de  resister  avanti  la  vostra  pre- 
senza cambiada,  non  go  cuor  de  vardarla...  Me 
vien  l'orbariola...  me  sento  a  cascar...  farò  forza 
a  mi  istesso,  e  in  te  la  più  scura  stanza  de  sto 
palazzo  anderò  a  pianzer  solo,  e  a  aspettar  quella 
morte  che  me  sento  vicina. 

{entra  piangendo  dirottamente) 


12'4  IL   CORVO. 


SCENA  TERZA. 


Udirasst  'l  suono  d' una  marcia  flebile.  Usciranno  édle 
guardie  con  segni  di  tutto,  indi  Millo  vestito  a  luttOy  tm> 
merso  in  una  profonda  mestizia. 

MiL.  Soldati,  amici,  popoli,  lasciatemi: 
Qui  bramo  di  morir,  piangendo  sempre. 
Non  mi  si  rechi  mai  cibo,  o  conforto.  (  le  guar- 
die partono  ) 
Qui  vo' morir.  Da  quest'afflitta  salma 
Tra  sospir  caldi,  e  lagrime  sanguigne 
Esca  lo  spirto  mio.  (siede  al  fianco  della  sta- 
tua, e  abbraccia  le  ginocchia  di   quella) 
Dolce  fratello; 
*    Innocente  fratel,  chi  mi  t'ha  tolto? 
Io  fui  quel  traditore,  io  fui  quell' empio,  ^ 
Che  la  vita  ti  tolse.  Cara  vita, 
Vita  della  mia  vita!  Almen  potessi 
Farti  capir,  che  i  miei  crudi  sospetti, 
Ch'ebbi  sopra  di  te,  fiiron  cagione 
Ch'io  firmai  la  tua  morte,  e  sol  lo  feci 
Per  intender  il  ver  di  tanti  arcani 
Dalla  tua  bocca;  ma  che  non  sarei  ' 
Condisceso  alla  barbara  sentenza 
Di  vederti  morir.  Lo  giuro  al  Cielo, 
Poiché  t'è  tolto  l'ascoltarmi,  e  forse 
Se  m' ascoltassi,  non  lo  crederesti. 
Lo  ^uro  al  Cielo,  e  al  Ciel  lo  giuro  invano; 
Che  perdon  non  avrò.  Perdon,  fratello: 
Io  ti  chiedo  perdono.  Altro  in  vendetta 


ATTO  QUINTO.  '  I25 

Per  r  amaro  tuo  caso  non  potresti 
Voler,  che  la  mia  morte.  A  te  dinanzi 
La  mia  morte  averai.  Qui  la  mia  morte 
Seguirà  a' piedi  tuoi;  {piangendo  amaramente) 

e  allor  ch'estinto 
Cadrò  qui  in  terra,  sotto  a' piedi  tuoi 
Fia  il  mio  sepolcro,  e  tu  vittorioso 
Simulacro  sarai  sopr'  al  mio  capo. 
S'incideran  sul  mio  fatai  coperchio 
I  tuoi  merti,  i  miei  torti  e  di  Norando 
L'enorme  crudeltà...  {spe^:[asi  una  parete  e 
comparisce  Norando) 

SCENA  QUARTA. 
Norando  e   Millo. 

NoR.  Crudo  è  il  destino;    ^ 

Io  di  quel  son  ministro. 

MiL.  (spaventato  rilavandosi)  E  chi  sei  tu? 

NoR.  Norando  di  Damasco,  e  nunzio  sono 
Di  miseria  maggior.  Ben  sta  Jennaro 
Cambiato  in  marmo,  e  ben  stanno  i  singulti, 
Le  angoscie  entro  al  tuo  sen.  Scritta  ne'  fati 
Fu  d'un  Corvo  la  morte,  indi  fu  scritta 
La  maladizion,  che  ti  fu  data: 
Scritto  è  il  ratto  d'Armilla,  e  scritto  è  ancora, 
Ch'esser  debba  crudele  alla  tua  stirpe, 
A  me  stesso  crudel  per  mia  vendetta. 

MiL.  (inginocchiandosi)  Ah  Norando...  ah  Signor, 

che  tutto  puoi. 


126  IL   CORVO. 

Togliti  questa  vita,  e  nel  primiero 
Stato  toma  il  f ratei. 

NoR.  {con  Jiere^^a)        Sorgi.  Non  dessi 
Voler  ciò,  che  non  puossi.  Di  Jennaro 
Scioglier  non  può  le  membra  di  quel  marmo 
Fuor,  eh'  un  rimedio  sol.  (a parte  con  ismania) 

Barbare  stelle  1 
A  che  mi  condannate  !   (  trae  un  pugnale  e  lo 
pianta  a^ piedi  della  statua)  Ecco  il  rimedia 
Con  quel  pugnale  trucidata  Armilla 
Resti  sopra  la  statua.  Il  sangue  solo 
D' Armilla  trucidata,  il  simulacro 
Spruzzando,  al  suo  primier  stato  Jennaro 
Potrà  ridur.  S' hai  cor  di  porre  in  opra 
Un  tal  rimedio,  ponlo.  Altro  rimedio 
Non  posso  darti.  Sofifri.   {con  un  sospiro)  Io 
soffro  ancora.  (  entra  per  dov*  è  giunto  con 
prodigio) 

MiL.  Fermati...  ascolta...  e  la  tua  figlia,  barbaro  !... 
La  cara  sposa  mia!  Che  intesi  mail 

SCENA  QUINTA. 
Armilla  e  Millo. 

MiL.  Fuggi,  Armilla,  deh  fuggi.  Tu  sei  giunta 
In  quel  d'Edipo,  ed  in  peggior  albergo 
Tra  gli  strazi  d' inferno. 

Arm.  Sposo  mio, 

Da  te  non  vo'  fuggir.  Qui  venni,  e  intendo 


ATTO  QUINTO.  I27 

Di  recarti  consiglio.  Non  sprezzarlo, 
Millo,  benché  di  donna. 

MiL.  X  E  qual  consiglio? 

Arm.  Sopra  un  naviglio  a  una  medesma  sorte 
Andiamo,  o  sposo,  ed  in  Damasco  andiamo. 
Ginocchion  chiederemo  al  padre  mio 
Perdon,  pietà.  Le  lagrime  d'Armilla 
Saran  sì  calde,  che  a  Norando  certo 
Ammolliranno  il  core.  A  pietà  mosso 
Ricambierà  le  membra  di  quel  misero 
Nello  stato  primier.  Perdoneracci; 
Sposi  ci  soffrirà;  vivremo  in  pace. 

MiL.  Non  mi  parlar  di  pace,  amata  sposa. 
Con  sì  dolce  linguaggio  il  cor  mi  spezzi 
In  più  barbara  forma.  Cara  Armilla, 
Non  c'è  più  pace.  A  me  restar  non  deve 
Che  disperazione,  che  furore, 
Che  pianto  e  morte.  Sappi,  che  Norando 
Or  ora  apparve  in  questo  loco,  e  seco 
Favellai,  né  ascoltommi.  Inesorabile 
Contro  al  fratello,  a  me,  contro  a  te  stessa. •• 
Oh  Diol  che  disse  mail 

Arm.  Norando  qui? 

Come?...  Ah  perché  non  fui...  Dimmi  :  rimedio 
Non  chiedesti  al  fratel? 

MiL.  {sospirando)  Lo  chiesi,  Armilla... 

Non  bramar  di  saperlo. 

Arm.  Deh  lo  narra; 

Io  vo' saperlo.  Che  ti  disse  il  padre? 

MiL.  Non  bramar  di  saperlo. 


128  IL  CORVO. 

Arm.  {pigliandolo  per  mano)  Dir  mei  devi. 

MiL.  A  che  mi  sforzi,  mia  sposa  diletta! 
Qie  brami  di- saper!  Fratello  mio, 
Perduto  fratel  mio  per  sempre!  {piange)  Sposa, 
Non  m'obbligar... 

Arm.  Deh,  parla;  io  vo' saperlo. 

MiL.  E  inutile  il  saperlo.  È  già  impossibile 
Porlo  air  esecuzion. 

Arm.  Dillo;  io  lo  voglio. 

MiL.  {staccandosi)  Inorridisci,  Armilla.  Il  tuo  No- 

rando 
A' miei  prieghi  rispose:  Ecco  il  rimedio. 
Con  quel  pugnale  {mostra  il  pugnale  c^ piedi 

della  statua)  trucidata  Armilla 
Resti  sopra  la  statua.  Il  sangue  solo 
D' Armilla  trucidarla,  il  simulacro 
Spruzzando,  al  suo  primier  stato  Jennaro 
Potrà  ridur.  S'hai  cor  di  porre  in  opra 
Un  tal  rimedio,  ponlo.  Altro  conforto 
Non  posso  darti.  Soffri.  Io  sofiro  ancora. 
Così  detto  disparve,  e  zolfo,  e  foco 
Lasciommi  entro  alle  vene.  Or  vedi  Armilla, 
S' è  il  rimedio  possibile.  S' io  devo 
Furente,  disperato,  lacerarmi, 
Passarmi  '1  seno,  {con  atto  di  disperazione  )  Ah 

che  la  morte  sola 
Può  levarmi  d'angoscia,  (entra /un'omo.  Arm, 

resta  attonita) 

Arm.  {con  atto  di  orrore)  Dove  sono! 
Che  intesi  mai!  Qual  gelo  mi  trascorre 


ATTO  QUINTO.  I29 

Per  le  midolle,  e  qual  freddo  sudore 
Mi  circonda  la  fronte!  Tra  le  donne 
Chi  si  trova  di  me  più  miserabile? 
Per  viver  prigioniera  al  mondo  nata, 
O  per  esser  cagion  di  tanti  mali, 
Ch'  odio,  ed  abbominevol  creatura 
Mi  rendano  alle  genti.  Ah,  ben  t'intendo, 
Déstin;  so  quel  che  brami,  e  ciò  che  brama 
Per  vendetta  mio  padre.  Ahi  padre  iniquo  1 
La  mia  morte  tu  brami!  Or  l'averai.  {con  atto 
di  dispera!(ione  corre,  prende  il  pugnale,  e  si 
mette  a  fianco  della  statua  ) 
Jennaro,  alma  innocente,  è  ben  ragione, 
Che  il  mio  sangue  ti  lavi,  e  ti  disciolga 
Da  quel  marmo  crudel,  che  t'imprigiona. 
Io  finalmente  picciol  sacrifizio 
Fo  di  me  stessa,  s' esco  con  la  morte 
Da  un  abisso  di  lagrime  e  sciagure. 
Né  a  minor  prezzo  ridonar  si  puote 
Al  fratello  un  fratel  di  sì  gran  merto, 
Qual  tu  sei,  raro  al  mondo,  {con  for^a)  Io  ti 

consacro 
Me  stessa,  e  il  sangue  mio.  {abbraccia  la  statua, 
si  ferisce:  il  sangue  sprus[!i;a  nella  statua,  la 
quale  perde  il  bianco,  e  rimane  la  persona, 
come  prima.  Jennaro  bal:^a  giù,  dal  piedestallo, 
NelV  atto  del  ferirsi  d^  Armilla  uscirà  Smeral- 
dina con  uno  strido  femminile  ) 


Gozzi. 


130  IL  CORVO. 

SCENA  SESTA. 
Smeraldina,  Armilla  e  Jbnnaro. 

Smer.  Ahi! 

JÈN«  Chi  mi  scioglie 

Dalla  dura  prigioni 
Arm.  Oh  Dio!  son  morta,  {cade  sopra  un  sedile) 
Smer.  Ah,  Principessa...  ah,  figlia,  chi  t'indusse 

Ad  uccider  te  stessa!  {si  fa  al  fianco  d' Ar- 
milla ) 
Jen.  Come!  Armilla 

Piagata  il  sen!  Chi  v^ha  ferita?  Oh  Numi! 

Donna,  mi  di,  chi  fu,  che  l'ha  ferita? 

Io  la  vendicherò... 
Smer.  {piangendo)        Da  se  infelice. 

Io  la  vidi  ferirsi. 
Arm.  {languendo)      Non  cercare, 

Jennaro,  la  ragion  della  mia  morte. 

n  padre  mio  mi  volle  estinta,  e  volle, 

Ch'altro  rimedio  al  viver  tuo  non  fosse 

Fuor  che  il  mio  sangue...  Il  mio  sangue  t'ho 

dato... 

Vivi  felice...  al  tuo  fratel  vicino. 

Gratitudine  sol  nella  memoria 

Serba  per  me,  se  il  merto. 
Jen.  Oh  generosa! 

No,  non  morrai,  che  forse  la  ferita 

Non  è  mortai  Medica  mano  forse...  {in  atto 

di  partire) 


ATTO  QUINTO.  I3I 

Arm.  Fermatf.  Ornai  non  ti  bisogna...  figlio... 

Cercar  riparo...  (spirante)  Io  sento  in  sulle 

labbra 

L*alma,  che  fugge...  A  Millo...  al  caro  sposo... 

Dì  addio...  per  me...  se  vedici  padre...  digli... 

Digli...  ch'io  P appagai...  che  si  ricordi... 

Digli,  che...  oh  Dio!.  .  dirai...  che...  oh  Dio... 
già  spiro,  (muore) 
Smer.  Ahi,  ahi,  oimè. 
Jen.  (furente)  Passata  è  la  meschina. 

Oh  giorno!  oh  Cielo!  oh  me  infelice!  oh  Millo! 

Oh  Norando  crudel! 

SCENA  SETTIMA. 
Millo  e  detti. 

MiL.  Quai  pianti,  e  strida!  (vedendo  Jennaro)  Oh 

fratel  mio,  Jennaro! 
Chi  mi  ti  dona  al  sen?  (  corre  ad  abbracciarlo) 
Jen.  (procurando  di  nascondergli  Arm.)  Fuggi, 

fratello; 
Volgi  la  faccia  altrove.  Il  sguardo  tuo. 
Lasso!  deh  non  fissare  in  questa  parte. 
MnL.  (scoprendo  il  cadavere)  Che!  Armilla!  la  mia 
sposa!  esangue!  immersa 
Nel  proprio  sangue!...  Ah  misero,  qual  folgore 
Mi  rischiara  la  mente?  Io  fui,  fratello, 
Dell'infelice  l'uccisor.  Qui  sola 
La  lasciai:  disperato,  forsennato. 
Cieco  non  vidi,  che  la  generosa 


132  IL  CORVO.  t 

Donna  potea  dà  se...  Ma  che  più  attendo? 

{raccoglie  il  pugnale) 
Questo  pugnai,  che  il  bianco  seno  aperse 
Vendichi  la  sua  morte,  (vuol  ferirsi  ;  Jermaro 

lo  trattiene) 
Jen.  Non  fia  mal 

Fratel,  torna  in  te  stesso. 
Mil!  {facendo  for\a  )  Deh  mi  lascia 

Terminar  i  miei  giorni. 

SCENA  OTTAVA. 

Il  Teatro  si  cambia  a  vista;  spariscono  tutti  gli  oggetti 
lugubri,  e  rappresenta  una  vasta  sala  risplendente,  nel  fondo 
della  quale  apparisce  Norando,  che  s^  avanza. 

NoRANDo  e  detti, 

NoR.  Olà,  fermate. 

A  bastanza  fin  or  puniti  siete; 
A  bastanza  piagneste.  Un  Corvo  ucciso 
Doveva  un  ritto  cagionare;  il  ratto 
Esser  dovea  funesto  a  un  grado  estremo 
Per  voi,  per  me.  Già  vidiT  Corvo  estinto 
Resuscitato  per  la  morte  acerba 
Della  mia  figlia,  e  Porrid'Orco  allegro. 
Or  solamente  in  libertà  rimango 
Di  non  esser  più  crudo.  E  già  compiuto 
Il  .grand'  arcano,  né  ragion  si  chieda. 
Una  picciol  favilla  arse  ha  cittadi. 
Ed  ha  frale  principio  ogni  sciagura. 

MiL.  Tiranno,  chi  mi  rende  la  mia  sposa? 


ATTO  QUINTO.  I33 

Jen.  Come  finiscon  le  sciagure,  dimmi, 
Con  la  morte  di  quella  altera  donna, 
Figlia  tua,  sol  conforto  a  questa  Reggia? 

Smer.  Mal  finisco  le  angosce  colla  morte 

Di  lei,  per  cui  morremo  in  doglia  e  in  piantL 

NoR.  Dopo  tante  vicende  a  im  Corvo  estinto, 
Dopo  tanti  prodigi  di  Norando, 
Tai  ricerche  si  fanno!  È  il  verisimile 
Al  proposito  nostro?  E  lo  trovate 
Forse  in  qualch'opra,  in  cui  vi  par  vederlo? 

{prende  Armilla  per  una  mano  ) 
SoTgij  figliuola,  Armilla;  al  mio  potere 
Nulla  s'oppone.  Or  posso  esser  umano. 
Sorgi,  mia  figlia,  e  il  tuo  risorgimento 
Consoli  questi  afflitti,  e  in  im  consoli 
Me,  eh' è  tempo  oggimai. 

Arm.  (sorgendo)  Chi  è,  che  mi  scuote 

Dal  cupo  sonno!  Ah,  padre  mìo,  tu  fosti. 
Che  due  volte  la  vita  m'hai  donata. 

MiL.  (  con  trasporto  )  Sposa  ! 

Arm.  Sposo  ! 

Jen.  Cognata  !  Oh  maraviglia! 

(s^ abbracciano  reciprocamente) 

Smer.  {furiosa  di  giubilo  )  Oh  stupor  grande  !  oh 
che  mai  vidi!  oh  cara! 
(  bacia  Arm.  )  Io  son  fuori  di  me,  scusate,  {corre 

per  la  scena)  Gente, 
Ministri,  guardie,  accorrete,  accorrete. 
Venite  a  veder  cose  oltre  natura. 
Accorrete. 


134  •  IL   CORVO. 

SCENA  UTLIMA. 

Leandro,  Tartaglia,  Pantalone^  Truffaldino  e  Brighella 
co*  loro  fardelli  e  detti, 

Lean.  {correndo)  Che  fu?  {guarda  Jen.)   Che 

veggo  mai! 
Tart.  {correndo^  suo  atto  di  stupore)  La  statua!... 

Jennaro  ! 
Pant.  {correndo;  sua  sorpresa)  Cossavedio!  Vì- 
scere mie...  Ah  lasse,  che  ve  struccola,  che  ve 
magna.  {accarej:(a  con  trasporto  Jen.) 
Truff.  e  Brigh.  {correndo,  loro  sorpresa  e  pert- 

timento  ) 
NoR.  Or  ben.  Vedete,  pazzi,  questa  Corte 
Tutta  cambiata,  e  in  festa. 'Non  si  parte. 
^  Provato  abbiam,  se  falsa  illusione 
^  Ha  sugli  animi  forza  e  se  perdono 
Può  meritar  da  un  Pubblico.  Il  vedremo. 
Le  risa  or  s'incominciano,  e  si  perde 
Tutta  la  gravità,  lugubre  e  tragica,  {si  fàin^ 
nan^i  e  chiude  la  Rappresenta:{ione  con  le 
seguenti  parole^  colle  quali  sogliono  le  vec* 
chierelle  chiudere  le  Fole  a^  fanciulli,  che 
le  ascoltano) 
Si  rinnovellino  le  nozze  con  rape  in  composta, 
sorci  pelati,  gatti  scorticati,  e,  se  d'altro  non 
siamo  degni,   almeno   i  fanciulletti  colle  loro 
picciole  mani  faccian  qualche  segno  di  aggra- 
dimento. 


IL  RE  CERVO 

FIABA  TEATRALE  TRAGICOMICA 
IN  TRE  ATTI 


PERSONAGGI 


CIGOLOTTI,  storico  di  piazza,  persona  imitata,  prologo  ddJa 
Rappresentazione. 

DERAMO,  Re  di  Serendippo,  amante  4i 

ANGELA,  figliuola  di 

PANTALONE,  secondo  ministro  di  Deramo. 

TARTAGLIA^  primo  ministro,  ed  intimo  Segretario  di  De- 
ramo, amante  di  Angela. 

CLARICE,  figliuola  di  Tartaglia,  amante  di 

LEANDRO,  Cftvalier  di  corte,  e  figliuolo  di  Pantalone. 

BRIGHELLA,  credenziere  del  Re. 

SMERALDINA,  sua  sorella. 

TRUFFALDINO,  uccellatore,  amante  di  Smeraldina. 

DURANDARTE,  Mago, 

GUARDIE. 

CACCIATORI. 

VILLANL 


La  scena  è  in  Serendippo,  e  nelle  sue  vicine  campa- 
gne. Tutti  ì  personaggi,  salvo  il  Cigolotti,  sono  vestiti  al- 
P  Orientale. 


ATTO  PRIMO 

Il  Teatro  rappresenta  una  piccola  piazza. 


SCENA  PRIMA. 
CiGOLOTTi,  prologo. 

Questo  personaggio  imitatore  ne*  vestiti^  nel  ragionare^ 
e  nei  gesti  d*  un  uomo  solito  a  narrare  delle  favole,  e  dei 
romam^i  al  popolo  nella  gran  pia\:{a  di  Vene:{ia,  si  trarrà 
la  berretta t  s*  inchinerà  all'  uditorio,  e  ripostasi  la  sua  ber- 
retta,  farà  il  seguente  discorso. 


eco  eh'  io  vengo,  miei  riveriti  padroni, 
a  raccontarvi  delle  gran  cose.  Già  sonò 
in  questo  punto  cinque  anni,  che  giunse 
in  questa  Città  di  Serendippo  un  gran  Mago 
astronomico,  il  quale  possedeva  la  magia  bianca, 
la  negra,  la  rossa,  la  verde,  e  credo  anche  la 
turchina;  si  chiamava  il  gran  Durandarte,  ed 
io  sono  stato  suo  fedel  servo.  Appena  il  Re 
Deramo  di  questa  Città  seppe,  ch'era  giunto 
all'osteria  della  Scimmia  il  mio  padrone,  chiamò 


138  IL  RE  GERVa 

a  sé  un  suo  fedel  ministro,  e  disse:  Tartaglia; 
(che  tale  è  il  nome  dell'eroico  ministro)  andate, 
disse,  mio  fido,  all'  osteria  della  Scimmia,  e  condu- 
cetemi Durandarte,  il  Mago.  Ubbidì  il  fedele  Tar- 
taglia, e  condusse  Durandarte  a  Sua  Maestà.  Lungo 
sarebbe  il  dire  il  ricco  trattamento  che  si  fece  al 
mio  padrone,  e  basta  il  sapere,  che  alla  sua  par- 
tenza lasciò  due  gran  segni  di  affetto  a  Sua  Mae- 
stà in  ricognizione.  Questi  consistono  in  due  gran 
secreti  magici,  in  due  portenti,  in  due  maraviglie 
di  questa  natura...  Ma  io  non  ve  li  posso  dire, 
perchè  vi  leverei  la  curiosità  e  il  piacere,  che  il 
Cielo  voglia  che  abbiate  nel  vederli.  Vi  dirò  solo, 
ch'io  ebbi  l'onore  di  servire  il  Negromante  Du- 
randarte per  quarant' anni,  e  che  giammai  nulla 
potei  imparare  dalla  sua  gran  virtù.  Egli  sola- 
mente un  giorno  mi  disse:  Cigolotti,  guai  a  te, 
se  discorri  con  nessuno  de' due  secreti,  ch'io  la- 
sciai al  Re  di  Serendippo,  prima  dell'anno  1762. 
Vivi  sempre  con  una  sottana  di  panno  nero  lacera, 
con  una  berretta  di  lana  in  testa,  colle  scarpe 
rotte,  e  facendoti  una  volta  ogni  due  mesi  la 
barba,  campa  la  vita  raccontando  fiabe  sulla  gran 
piazza  di  Venezia.  Del  1762  poi,  a' dì  5  di  Gen- 
naio, da  questi  due  secreti  nasceranno  gran  mera- 
viglie, e  tu  mi  porterai  nella  vicina  selva  di  Ron- 
cislappe  in  forma  di  Pappagallo;  colà  mi  lascierai; 
che  col  mio  mezzo  doverà  essere  punito  un  tra- 
dimento cagionato  dal  più  terribile  di  quei  due 
secreti,  ch'io  lasciai  al  Re  di  Serendippo.  Quando 


I 


ATTO    PRIMO.  139 

ebbe  così  detto,  esclamò:  Ahi,  amato  Cigolotti, 
si  compie  la  mia  condanna.  Demogorgone,  Dio 
delle  Fate,  vuole,  che  per  il  corso  di  cinque  anni 
io  viva  Pappagallo.  Ricordati  l'anno  1762  a' di 
5  di  Gennaio,  di  lasciarmi  in  libertà  nella  selva 
di  Roncislappe,  dove  rimanendo  preda  d'un  uc- 
cellatore, opererò  gran  portenti,  ed  averà  fine 
la  mia  condanna;  e  tu  verso  le  ore  sei  della 
notte  averai  un  guadagno  di  venti  soldi  per  la 
tua  fedel  servitù,  e  fatica.  Così  detto,  lasciò  le 
umane  spoglie,  e  con  mio  gran  stupore  diventò 
un  bellissimo  Pappagallo. 
Attenti  dunque,  o  riveriti  Signori,  ai  grandi  acci- 
denti di  questo  giorno;  ch'io  me  ne  vado  a 
mettere  nella  selva  di  Roncislappe  Durandarte, 
il  mago  Pappagallo,  e  poi  riscuotendo  i  tanto 
bramati  venti  soldi  anderò  a  farvi  un  brindisi 
all'  osteria  della  Scimmia  all'  onore  di  chi  tanto 
merita  con  pace,  sanità  e  allegrezza,  (si  trae 
la  berrettay  fa  il  suo  inchino,  ed  entra  ) 

SCENA  SECONDA. 
Cambiasi  il  Teatro,  e  rappresenta  una  Sala. 

Tartaglia  e  Clarice. 

Tart.  Figlia  mia,  già  vedi,  quanto  bella  fortuna 
abbiamo  avuta  in  questo  Regno  di  Serendippo. 
Tu  sei  divenuta  Dama,  ed  io  sono  primo  mi- 


140  IL   RE   CERVO.  . 

lustro,  temuto  da  tutti,  e  amato  dal  Re  De- 
ramo. Questo  è  il  punto,  aarice  cara,  di  fare 
un  gran  salto,  e,  se  m' ubbidisci,  sarai,  in  que- 
sto giorno  coronata  Regina. 

Clar.  Io  Regina!  come? 

Tart.  Si,  Regina,  Regina.  Sai  bene,  che  il  Re 
Deramo,  dopo  avere  interrogate  duemila  set- 
tecento e  quarantotto  donzelle,  Principesse  e 
Dame  nel  suo  gabinetto  secreto,  io  non  so  per 
qual  diavolo,  le  ha  ricusate  tutte,  e  che  son 
quattr'  anni,  eh'  egli  ha  fissato  di  non  più  am- 
mogliarsi. 

Clar.  Lo  so  ;  né  crederei,  che  volesse  me  per  con- 
sorte dopo  tante  gran  signore  rinunziate. 

,Tart.  {con  fiere:{ia)  Signora  frasca,  quando  parlo, 
so  quello  ch'io  dico.  Lasciami  finire.  Io  l'ho 
ridotto  ieri  a  forza  d' arte,  dicendogli,  che  il 
Regno  non  ha  successore,  che  i  popoli  sono 
malcontenti,  e  ammutinati,  ec.  ;  e  P  ho  persuaso 
a  prendere  una  moglie.  Ma  egli  ha  quella  mar 
ledetta  fissazione  di  voler  prima  interrogare  la 
fanciulla  nel  suo  gabinetto  secreto.  E  perchè 
non  ci  sono  più  Principesse  da  esaminare,  si  è 
risolto  di  bandire,  che  ogni  qualità  di  donzella 
si  possa  produrre,  e  di  qualunque  condizione, 
,  per  essere  in  quel  suo  maledetto  gabinetto  da 
lui  interrogata,  con  impegno  di  prendere  quella, 
che  ritrova  a  suo  modo.  Si  sono  date  in  nota 
dugento  fanciulle;  furono  estratti  i  nomi  da 
un'urna  a  sorte  per  l'ordine  della  produzione. 


.    '       ATTO   PRIMO.  141 

Il  tijo  nome  è  uscito  primo,  e  conviene  pro- 
dursi alla  sua  interrogazione.  Egli  mi  vuole 
tutto  il  suo  bene  ;  tu  sei  mia  figliuola  ;  non  sei 
Porco;  se  ti  porterai  bene  nell'esame,  sono 
certo,  che  oggi  tu  sei  Regina,  e  ch'io  son 
l'uomo  il  più  risplendente  di  questo  mondo. 
(basso)  Dimmi,  figlia;  non  avresti  già  qual- 
che tacchereUa  secreta,  eh'  egli  potesse  sco- 
prire, eh? 

Clar.  Ah,  caro  padre,  dispensatemi,  scioglietemi 
da  questo  cimento,  vi  supplico. 

Tart.  Che!  come!  pettegola.  Produciti  tosto,  e 
portati  bene  nell'esame;  altrimenti...  tu  m'in- 
tendi... tu  mi  conosci.. i  Moccina...  perchè  ri- 
cusi d'obbedirmi?  (basso)  Hai,  hai  qualche 
tacchereUa  secreta,  eh? 

Clar.  Io  non  ho  nulla;  ma  ho  soggezione;  non 
mi  porterò  bene  nell'  esame  ;  è  impossibile  ;  sarò 
ricusata. 

Tart.  Che  soggezione!  che  ricusata!  Non  può  esr 
sere.  Avrà  de' riguardi  per  me.  Orsù,  andiamo, 
eh' è  tempo.  Egli  ti  attende  nel  suo  gabinetto. 
(  /^  figlia  P^  ^n  braccio  ) 

Clar.  (sfondandosi  per  non  andare)  No  certo, 
padre;  no  certo. 

Tart.  Io  ti  strapperò  le  orecchie;  ti  taglierò  il 
naso.  Vieni,  dico,  e  portati  bene  nell'esame; 
altrimenti...  (le  fa  violenta) 

Clar.  Caro  padre,  io  non  potrò  portarmi  bene;  e 
infine  vi  confesso,  eh'  io  sono  innamorata  morta 


142  IL   RE   CERVO 

per  Leandro.  Io  non  averò  forza  di  celare  h 
mia  passione  dinanzi  al  Re. 

Tart.  (furioso  rinculando)  Di  Leandro,  figliuolo, 
di  Pantalone,  secondo  ministro!  semplice  Ca- 
valiere di  Corte!  Preferiresti  il  figliuolo  d'un 
Pantalone  a  un  Monarca!  Tu  sei,  mia  figlia? 
Oh  vile,  indegna  figlia  di  Tartaglia  tremendo! 
Sentimi.  Se  innanzi  al  Re  palesi  questo  tuo 
vilissimo  amore...  Se  non  lo  fai  scegliere  in 
tuo  favore...  Sentimi...  Andiamo  tosto:  non 
mi  far  dire  di  più.  (la  piglia  per  un  braccio) 

Clar.  Dispensatemi  per  pietà.  Io  non  farò  mai 
torto  ad  Angela,  mia  amica,  mettendomi  in 
sua  competenza.  So  ch'ella  ama  perdutamente 
il  Re. 

Tart.  (  rinculando  di  nuovo  )  Angela,  figliuola  di 
Pantalone,  ama  il  Re.  (a  parte)  Angela,  le  vi- 
scere mie!  quella  gioia,  ch'io  aveva  destinato 
di  voler  oggi  per  amore  o  per  forza  in  mia 
consorte!  Ama  il  Re!  (alto)  Qarice,  ascolta  e 
trema.  Se  immediatamente  non  ti  presenti  al 
Re;  se  non  ti  porti  bene  nell'esame;  se  palesi 
l'amore  di  Leandro;  se  non  lo  fai  scegliere 
la  tua  persona,  e  se  di  queste  mie  parole  fiai 
col  Re  nessun  cenno;  un  veleno  è  pronto;  la 
morte  per  te  è  preparata;  cadrai  vittima  del 
mio  furore. 

Clar.  (spaventata)  V ubbidirò.  Sarete  pago  di 
vedermi  ricusata,  svergognata. 

Tart.  (impetuoso  pigliandola)  Non  si  tardi  più. 


ATTO   PRIMO.  '4J 

Pensa  alla  tua  vita,  al  mio  comando,  frasca^ 
pettegola,  moccina.  (entrano) 

SCENA  TERZA. 
Pantalone  ed  Angela. 

Pant.  No  se  sa  gtiente,  cara  fia  mia,  no  se  sa 
gnente.  Domile  settecento  e  quaranta  otto  tra  . 
Prencipesse  e  Dame  xe  stae  ricusae  certo  dal 
nostro  Re.  El  le  conduse  in  tei  so  gabir 
netto  secreto,  el  ghe  fa  tre  o  quattro  interro- 
gazion,  e  pò  el  le  manda  in  pase  con  civiltà. 
Sia  che  no  ghe  piasa  la  ose,  sia  che  no  ghe 
piasa  el  spirito,  sia  che  V  abbia  una  mente  cusl 
acuta,  che  scoverza  qualche  bisinella  dei  in- 
terni, che  no  ghe  comoda,  sia  che  V  abbia  quat- 
che  spirito,  che  ghe  scoverza  qualche  petolon... 
no  se  sa  gnente.  Stravagante  noi  xe  certo, 
perchè  xe  tanto  tempo,  che  el  servo,  e  l'ho 
esperimentà  un  Prencipe  savio,  benigno,  e  con 
tutte  le  qualità,  che  poi  aver  un  Monarca,  ma 
in  sta  cossa  qualche  diavolo  gh'è  certo. 

Ano.  Caro  padre,  perchè  mai  non  vi  siete  difeso 
dal  farmi  esporre  a  tanta  vergogna  ?  S' egli  mi 
ricusa,  come  succederà,  io  muoio  certo  dalla 
passione. 

Pant.  Oh  el  te  recusa  seguro;  ma,  care  viscere, 
me  son  butta  in  zenocchion,  Fho  prega,  l'ho 
sconzurà,  perchè  el  te  despensasse  da  sta  com- 
parsa. Gho  dito,   che  xe  ben  vero,  che  seme 


144  IL   RÈ    CERVO. 

nati  civilmente  a  Venezia,  che  semo  onesti;  ma 
che.semo  povera  zente,  e  innalzai  senza  merito 
dalla  so  generosità;  che  no  semo  degni  de  con- 
correr a  tanto  onor.  Gnente.  Sastu  cossa,  che 
el  m'ha  resposto? 

Non  sarebbe  giustizia,  poich*  è  aperto 
Per  mio  volere  ad  ogni  donna  V  adito. 
Che  vostra  figlia  avesse  privilegio 
Di  non  esser  coli*  altre  al  gran  cimento. 

Prega,  reprega,  fiabe;  l'andava  in  collera;  ci 
t'ha  fatto  imbossolar  anca  ti,  e  ti  xe  vegnua 
fuora  per  terza.  Cossa  vustu  mo,  che  te  Tazza? 
Bisogna  andar.  Credistu,  che  li  goda  mi  i  pet- 
tegolezzi e  le  dicerie  dei  bei  spiriti?  Me  schioppa 
el  cuor,  Anzola,  me  schioppa  el  cuor. 

Ang.  Il  conoscermi  indegna  di  tanta  altezza  mi  fa 
del  ribrezzo  ad  espormi.  S'egli  però  co' suoi 
esami  cerca  sincerità,  fedeltà;  se  cerca  amore... 

Pant.  Piase!  Ti  xe  innamorada,  frascona? 

Ang.  Sì,  lo  confesso  a  voi,  che  mi  siete  padre 
amoroso.  Caro  padre,  sono  stata  così  audace 
d' innamorarmi  perdutamente  del  mio  Re.  Sarò 
rifiutata,  mio  padre,  e  morirò;  e  non  già  per 
il  rifiuto  d'  un  Monarca  ;  che  una  povera  figlia 
non  deve  sentire  questa  ambizione;  ma  il  ve- 
dermi disprezzata,  rifiutata  da  chi  è  il  cor  mio, 
la  mia  vita,  sarà  la  cagion  della  mia  morte. 

Pant.  Oh  poveretto  mi,  cossa  sentiol 

Ang.  Ah  che  più  di  tutto  nella  mia  circostanza 


ATTO  PRIMO.  145 

temo  la  contrarietà  di  Tartaglia,  il  quale  oltre 
all'  ambizione,  che  ha  sul  concorrere  della 
figliuola  propria,  mi  guarda  sempre  con  un  oc- 
chio amoroso,  e  sospira;  e  questa  mattina  mi 
persuadeva  a  fingermi  ammalata,  acciò  non  mi 
esponessi  nel  gabinetto. 

Pant.  Pulito!  Un  altro  amoretto  de  quel  lato?  El 
Cielo  te  la  manda  bona,  fìa  mia.  No  so  cossa 
dir.  Ma  qua  se  fa  tardi,  e  bisogna  andar,  che 
ti  xe  in  nota  per  terza. 

Ano.  Amore,  a  te  mi  raccomando,  {entrano) 

SCENA  QUARTA. 

Brighella  e  Smeiialdina.  Tutti  due  all'  Orientale.  Sme^ 
r aldina  avrà  un  gran  ventaglio,  de'  gran  fiori  e  pennacchi 
in  caricatura. 

Brio.  Mo  tien  alta  quella  testa;  no  tegnir  quei 
brazzi  così  goffi,  in  malora.  Xe  un'  ora,  che  te 
fazzo  scuola,  e  ti  xe  pezo  che  mai.  Ti  me  par 
quella  che  cria  :  rose  pelae,  zizole  col  confetto. 

Smer.  0)me  fratello!  Non  ti  pare,  ch'io  sia  acco- 
modata in  modo  da  far  innamorare  un  ani- 
male, non  che  un  Re? 

Brio.  Che  maniera  de  parlar!  Se  ti  disi  un  de  sti 
.  sentimenti  davanti  a  so  Maestà,  da  galantomo 
che  ti  fa  innamorar  una  delle  so  sleppe.  Mi 
t'averia  volesto  conzada  piuttosto  alla  Vene- 
ziana, con  un  Ipel  tegnon,  e  con  un  mantiglion 
negligente. 
Goizi.  10 


146  IL   RE   CERVO. 

Smer.  Oh  che  matto!  Io  ci  scometto,  che,  se  vado 
a  Venezia  in  questa  forma,  fo  innamorare  tutti 
i  Veneziani  di  buon  gusto,  e  che  i  Berrettini 
rubano  dieci  mode  da  questi  miei  abbigliamenti, 
,e  vuotano  in  .tre  giórni  le  borse  a  tutte  k 
donne  Veneziane. 

Brio.  Mo  sicuro.  La  novità  piase,  e  per  questo  se 
ti  fussi  comparsa  avanti  al  Re  de  Serendippo 
alla  Veneziana,  ti  £aressi  qualche  colpo  colk 
novità.  Lta  facenda  no  xe.  da  tor  de  sora  via. 
Sastu,  che  se  ti  innamori  so  Maestà;  ti  diventi 
Regina  ancuo,  e  che  mi,  per  esser  tp  fradello, 
de  credenzier  devento  almanco  Generale  in 
capite? 

Smer.  Oh  se  altro  non  occorre,  che  farlo  innamo- 
rare, lascia  fare  a  me.  Sono  tre  giorni,  ch'io 
leggo  il  canto  di  Armida  del  Tasso,  e  la  parte 
di  Corisca  nel  Pastor  fido.  Ho  imparati  i  più 
ber  sospiri,  i  più  bei  svenimenti  del  mondo. 
Puoi  cantare  allegramente  quei  versi  del- 
l' Ariosto  : 

Che  per  amor  venne  in  furore^  e  matto 
LP  uom,  che  sì  saggio  era  stimato  prima, 

Brig.  Basta;  prego  el  Cielo,  che  la  sia  cussi;  ma 
quel  to  muso...  quella  to  fegura...  basta... 
andemo,  buttemose  in  mar.  (m  atto  dipartire) 


ATTQ   PRIMO.  147 

SCENA  QUINTA. 

Truffaldino  e  detti 

Truffaldino  sarà  all'  Orientale,  vestito  di  verde  da  uo- 
cellatore,  con  parecchi  fischietti  legati  al  petto,  e  spropor- 
:(ionati  in  modo  buffonesco. 

Truff.  Incontrando  Smeraldina  e  Brighella,  farà 
una  gran  risata  sugli  abbigliamenti  caricati  xli 
Smeraldina;  chiederà,  dove  vada.  Brig,  Ad 
esporsi  nel  Gabinetto  regio  alla  concorrenza  di 
sposa  del  Re.  Truff.  Raddoppiando  le  risa,  de- 
ride Smeraldina.  Smeraldina  lo  minaccia  con 
gravità.  Truff.  Chiede  se  parli  in  sul  sodo. 
Smer.  Da  verissimo.  Brig.  Che  non  si  deve  ab- 
bassare a  badar  a  quel  miserabile;  dà  il  braccio 
a  Smeraldina;  grandeggiando,  vogliono  partire. 
Truff.  S'oppone  con  violenza;  indi  con  se^ 
rietà  protesta  di  voler  impedire  a  Smeraldina, 
che  gli  ha  data  parola  di  matrimonio,  di  con- 
correre allo  sposalizio  del  Re.  Smer.  Che  gli 
ordini  reali  spezzano  tutte  le  parole.  Truff.  Che 
dirà  alla  Maestà  sua  di  non  fargli  quel  torto. 
Brig.  Ride,  adduce,  che  la  sorella  sua,  che 
aspira  ad  un  Trono,  non  deve  sposare  un  rài- 
serabile  uccellatore.  Contrastano  sul  grado  loro, 
e  sulla  loro  nascita.  Truff.  Piange.  Smer.  S'in- 
tenerisce, lo  conforta  tragicamente;  promette 
beneficenze,  quando  sarà  Regina,  e  parte  con 
Brighella.  Truff.  Resta  disperato. 


148  IL   RE   CBRVa 


SCENA  SESTA- 
Leandro  e  Truffaldino. 

Lean^  Da  una  parte  esclama  dolente  sul  dubbio, 
che  Clai^ice,  sua  amante,  sia  per  le  sue  gran 
bellezze  scelta  dal  Re,  e  di  rimaner  delusa 
Truff,  Dall'altra  parte  afflittissimo  fa  una  ca- 
ricata descrizione  sulle  bellezze  di  Smeraldina; 
la  dipinge  orrida;  dubita,  che  la  scelta  dèi  Re 
cada  sopra  lei;  si  dispera.  Lean,  Si  lagna  sulla 
poca  costanza  di  Clarice;  giudica  però,  che 
V  ambizione  di  Tartaglia  l' abbia  indotta,  e  sfor- 
zata ad  esporsi  nel  Gabinetto  regio.  Truff.  Fa 
parodia  ridicola  dall'  altra  parte,  riguardo  a 
Smeraldina;  giudica,  ch'ella  sia  stata  sforzata 
dal  mezzano  Brighella,  suo  fratello.  Piangono 
tutti  due;  si  scoprono;  si  chiedono  la  cagione 
del  pianto  reciproco.  Lean.  Sostiene,  che  Cla- 
rice sarà  la  scelta.  Truff.  Sostiene,  che  la 
scelta  sarà  Smeraldina.  Si  riscaldano  sulla  loro 
opinione,  e  sul  loro  buon  gusto;  si  dimenti- 
'  cano  il  periglio,  e  la  passione.  Lean.  Spera  ri- 
flettendo alle  duemila  settecento  quaranta  otto 
donzelle,  esposte  invano  col  Re,  che  Clarice 
non  sia  la  mosca  bianca;  e  parte.  Truff.  Che 
se  il  Re  rinunzia  Smeraldina,  noiji  averà  più 
stomaco  atto  a  ricevere  un  rifiuto  certamente. 

{entra) 


ATTO  PRIMO.  149 


SCENA  SETTIMA. 

Si  cambia  la  scena,  che  rappresenterà  il  Gabinetto  regio 
di  Deramo,  con  porta  di  facciata.  Ai  lati  della  porta  vi  Sa- 
ranno due  nicchie,  e  in  queste  due  mezzi  busti  di  statue.  11 
mezzo  busto  sulla  sinistra  sarà  un  uomo  vivo  congegnato 
sino  alla  cintura,  e  bianco  in  modo,  che  l'uditorio  lo  creda 
uno  stucco,  simile  a  quello  della  destra.  L'uomo,  che  pre^ 
senterà  questo  stucco,  sia  comico,  ed  abbia  abilità  di  asse- 
condare le  scene,  che  seguono,  come  si  vedrà  nouto.  Questa 
statua  si  suppone  esser  uno  de'  due  gran  segreti  magici,  do- 
nati da  Durandarte,  Negromante,  al  Re  Deramp,  accennati 
<lal  Cigolotti,  prologo.  Nel  mezzo  al  gabinetto  vi  saranno  del 
cuscini  all'Orientale  da  sedere. 


Dbramo  solo. 

Eccomi  per  consiglio  del  prudente 

Mio  Ministro  Tartaglia,  al  duro  punto 

Di   sceglier  sposa,    (volgendosi   alV  uomo  di 

stucco)  A  te  mi  raccomando. 
Di  Durandarte,  ipago,  egregio  dono, 
Che  rìdendo  sin^ora  alle  menzogne 
Delle  donne  bugiarde,  m'  hai  difeso 
Dal  nodo  indissolubile  di  sposo 
Scoprendo  il  loro  interno  mal  sincero. 
Segreto  arcano  a  me  sol  noto,  e  caro. 
Deh  non  m'abbandonar.  Dammi  pur  segno, 
n  ver  scoprendo  colle  risa  tue, 
A  quante  oggi  presentansi  bugiarde; 
Ch'amerò  meglio  non  lasciar  alcuno 
Successore  al  mio  Regno,  ch'esser  preda 


Ì50  IL  RE   CERVO., 

Di  menzognera  donnei,  che  tradisca 

L* amore  e  l'onor  mio,  che  sin,  ch'io  viva, 

O  ch'ella  esista,  ell^  un  marito  abborra. 

Io  sospettoso  d' una  moglie  sia. 

Ecco  la  figlia  di  Tartaglia  giugne. 

Veggiam,  com'ella  sia  sincera.  Panni 

Impossibil  trovar  donna,  che  dica 

La  verità  dopo  si  lutigo  esempio,  (siede) 

SCENA  OTTAVA. 

Clarice  e  Dbramo,  Guardie  che  accompagnano  Clarice. 
Clarice  entra  per  la  porta  di  me^^o.  Le  guardie,  che  la 
precedono,  nel  darle  luogo  al  passaggio  occupano  alla  vista 
dell*  uditorio  le  due  statue.  Il  Re  fa  cenno  alle  guardie  di 
uscire.  Escono^  e  chiudon  la  porta. 

Der.  Siedete  pur,  Clarice.  La  presenza 
Del  vostro  Re  non  dia  punto  timore 
All'alma  vostra,  e  in  libere  parole 
Rispondete  alle  mie.  Son  grandi  i  merti 
Di  vostro  padre  in  guerra,  e  in  pace,  e  voi 
Non  dovete  avvilirvi. 
.  Clar.  {con  mestizia)        Signor  mio. 
Mio  Re,  di  tal  bontade  vi  ringrazio, 
E  sol,  perchè  deggio  ubbidirvi,  io  siedo,  (siede) 

Der.  Sposa  scegliere  io  deggio,  e  ben  sareste 
Degna  di  me.  La  figlia  di  Tartaglia^ 
Che  m'è  sì  caro,  perchè  mai  dovrebbe 
Non  meritar  le  nozze  mie?  Ma  prima 
Voglio  saper  da  voi,  se  veramente 
Tai  nozze  avreste  care. 


ATTO  PRIMO.  151 

Clar.  e  chi  potrebbe 

Non  ^ver  care  nozze  tanto  illustri, 
Re  generoso,  esempio  di  pietade, 
Esempio  di  virtù? 

Der.  («*  volgerà  non  veduto  da   Clarice;  gtiar- 
derà  soft'  occhio  la  statua  di  stucco,  la  quale 
non  darà  alcun  segno) 
Son  generali  troppo  i  vostri  detti. 
Voglio  saper  di  voi.  Lo  so,  che  grate 
Sarieno  le  mie  nozze  a  innumerabili 
Donne  viventi,  eppur  con.  tutto  questo 
Forse  tra  quella  innumerabil  torma 
Esser,  Clarice,  non  vorreste.  È  questo 
Ciò,  che  vi  chiedo,  e  che  saper  intendo. 

Clar.    (  a  parte  )    (  Ciclo  I    come    m*  astringe  1  ) 

E  come  mai 
Tra  tante  credereste,  Signor  mio. 
Ch'io  fòssi  sciocca,  e  di  si  gran  fortuna 
Non  avessi  piacer? 

Der.  {si  volge,  come  sopra  alla  statua,  la  quale 
non  si  muove)  Voi  favellate, 
Qarice,  ambiguo  troppo.  Io  son,  che  ^rego. 
Di  voi  sapere  io  voglio.  Le  mie  nozze 
Avreste  care,  o  no?  Di  voi  ragiono. 

Clar.  (a  parte)  Padre  crudele,   ah  tu  mi   vuoi 

bugiarda  1 
Si,  le  avrei  care,  amato  Re. 

Der.  {si  volge,  come  sopra^  alla  statua,  che  fa  im 
viso  ridente,  e  poi  si  ricompone)  Oarice, 
Clarice,  io  so,  ch'entro  all'interno  vostro 


152  IL  RE  CERVO. 

Temete  forse  in  dir:  mi  son  discare, 
D'usar  disprezzo  al  vostro  Re.  Può  darsi. 
Ch'altro  temiate  ancor:  sinceramente 
Non  favellate.  Avreste  forse  il  core 
D'altro  amante  occupato? 

Clar.  (a  parte)  (Ahi  crudel  padre! 

Per  te  son  menzognera,  e  per  serbare 
Questa  vita  infelice).  No,  mio  Re: 
Amo  sol  voi...  So  ben,  ch'io  non  son  degna 
Della  destra  d'un  Re;  ma,  se  la  fossi, 
La  vostra  bramo  solo,  ed  altro  amante 
Non  ebbi  mai. 

Der.  (giiarda  la  statua,  che  accresce  il  gesto  di 
rider Cy  poi  si  ricompone)  Or  ben  Qarice, 
Ite;  che  tutto  intesi.  Io  non  lusingo, 
Io  non  dispero  alcuna.  Or  udiam  l' altre. 
Risolverò  a  suo  tempo. 

Clar.  {si  leva;  fa  un  inchino.  A  parte)  Oh  voglia 

il  Gelo! 
Ch'  ei  mi  ricusi,  e  che  a  Leandro  io  resti,  (en- 
trano le  guardie,  occupano  le  statue.  Clar 
entra,  le  guardie  la  seguono) 

SCENA  NONA. 
Dbramo  solo. 

Ben  strano  mi  parea  d' aver  trovata 
Donna  sincera,  {volto  alla  statua)  Ò  portentoso 

ordigno, 


ATTO  PRIMO.  153 

Grazie  ti  rendo.  Mi  tremava  il  core, 
Non  vedendoti  ridere,  che  investi 
Perduta  tua  virtù. 


SCENA  DECIMA. 


Smkraldina,  guardie  e  Diramo.  Le  guardie  fanno,  come 
sopra,  indi  escono  e  chiudono.  Smeraldina  con  inchini,  e 
gesti  ridicoli  e  caricati  si  avan:;a. 


Der.  Chi  siete  voi? 

Siedete  pur.  (a  jparte)  Costei  mi  sembra  certo 

Sorella  al  Credenzier. 
Smer.  {sedendo)  Son  io,  Signore, 

Di  Brighella  la  suora.  Alto  lignaggio 

Abbiamo  in  Lombardia;  ma  le  sventure 

Ci  abbassano  di  stato,  e  quinci...  e  quindi... 

Ma  povertà  don  guasta  gentilezza. 
Dbr.  {si  volge  alla  statiuty  che  riderà)  Intesi.  Or! 
dite,  mia  dama  Lombarda, 

M'amate  voi? 
Smer.  (sospirando  forte)   Ah...!  ah...!   tiranno^ 

e  quale 

Dimanda  è  questa!  Io  son  per  voi  conquisa. 

(sospira) 
Dbr.  (guarda  la  statua  che  ride  maggiormente) 

Deh  mi  dite  di  più.  S' io  vi  scegliessi 

Per  mia  sposa,  e  morissi  pria  di  voi, 

Vedovella  lasciandovi,  avereste 

Dolor  di  ciò? 


154  IL  RE   CERVO. 

Smer.  (con  gesti  di  dolore  caricati)  Crudel!  che 

mai  diceste? 
Se  non  siete  empia  tigre  in  volto  umano, 
Tai  discorsi  non  fate.  Ahi  eh'  io  mi  sento 
Solo    in    pensarvi   dal   dolor   svenire,    (sviene 

fintamente) 
Der.  (guarda,  come  sopra;  la  statua  ride  mag^ 
giormente)  Oh  me  meschino!  Quiconvien 

chiamare 
Servi,  che  portin  via  questa  LrOmbarda.  (Sme^ 

r aldina  ciò  sentendo  ritorna  tosto  in  se  ) 
Signora,  il  vostro  affetto  è  troppo  grande. 
Siete  in  istato  vedovile,  o  siete 
Donzella  da  marito? 
Smer.  Oh  come  inai, 

Quando  vedova  fossi,  a  tal  Monarca 
Di  primizie  sol  degno,  avrei  coraggio 
D' esibirmi  in  isposa  !  Io  son  pulcella.  (  con  con^ 
tegno  affettato^  e  facendosi  fresco  col  ven» 
taglio  ) 
Der.  (guarda  la  statua,   che   riderà  smisurator- 
mente  con  visacci  strani,  e  colla  bocca  spa^ 
'    lancata  ) 

Basta  cosi,  Dama  Lombarda;  andate. 
V'accerto,  che  sin' ora  a  quante  donne 
Si  presentaro  a  me  prima  di  voi, 
\   Maggior  piacer  non  ebbi.  Andate,  andate; 

Risolverò;  partite. 
Smer.  (levandosi  allegra)  Ah,  mio  Signore, 
Aveva  qui  nel  gozzo  un  mar  d'affetti, 


ATTO   PRIMO.  155 

Di  sentimenti  i  più  dolci,  i  più  teneri; 

Tutto  non  posso  dir,  ma  gli  risparmip 

Al  dolce  punto  maritale:  Allora 

Conoscerete,  quanto  v'amo.  Addio. 

{a  parte)   U   colpo   e    fatto;   è   cotto;    io   son 

Regina. 
(fa  degV  inchini  affettati  con  dei  sospiri,  voi-- 
gendosi  di  quando  in  quando.  Entrano  le  guar-- 
die,  per  riceverla,  occupano  le  due  statue; 
vien  cambiato  l'uomo  statua  occultamente  con 
uno  stucco  verosimilissimo  Smeraldina  parte,  le 
guardie  la  seguono) 

SCENA  UNDECLMA. 
Dbramo  solo. 

{verso  lo  stucco)  Ah,  caro  ordigno,  che   piacere 

è  questo, 
Che  mi  dai  col  tuo  riso!  Oh  maritati, 
Oh  padri,  ed  oh  serventi,  qual  ventura 
Sarebbe  a  voi  Pavere  simile  ordigno 
Tutti  ne' vostri  alberghi,  e  le  sorelle, 
E  le  mogli,  e  le  amate  interrogando, 
Saper  de' loro  interni!...  Ah  no,  che  questa 
Sarebbe  la  maggior  disavventura. 
Ch'uomo  potesse  aver.  Quanto  sarebbe 
Meglio,  che  in  vece  di  scoprir  le  donne, 
Tu  scoprissi  degli  uomini  l' interno, 
Per  potersi  guardar  da'  falsi  amici, 


156  IL   RE   CERVO. 

Da'  servi  indegni,  e  da'  ministri  infidi! 
(gtiarda  verso  la  porta)  Angela  si   presenta. 

Io  giuro  al'  Cielo, 
Che  ad  iscoprir  costei  bugiarda,  e  fìnta 
M' increscerà.  Desidero  trovarla...* 
Ma  folle  desiderio  1  II  lungo  esempio 
Lusinga  non  mi  lascia...  Eppur...  vorrei... 
Ah  ch'io  vaneggio...  Ordigno,  il  ver  palesa. 

SCENA  DODICESIMA. 
Angela  e  Deslamo. 

Ano.  (con  nobile  franche:[:[a)  Qui  son,  uno  Re, 
per  un  decreto  vostro; 

Se  sia  giusto,  noi  so. 
Der.  {a  parte)  Che  bell'ardire! 

Siedete  pure;  ingiusto  io  mai  non  sono. 
Ang.  (siede)  Siete  Re.  Chi  può  aver  coraggio  mai 

Di  bilanciarvi  in  faccia,  e  farvi  chiara 

L'ingiustizia  talor  de'  vostri  editti? 
Der.  Angela  non  mi  sembra  di  coraggio 

SI  scarsa,  a  quel  ch'io  sento,  che  timore 

Abbia  a  rimproverare  il  suo  Sovrano. 

Pur,  se  a  bastanza  non  ne  avesse,  io  voglio 

Ch'  eli'  abbia  intera  libertade  in  dono. 

Franca  ragioni.  Offesa  io  non  ricevo. 
Ang.  (a  parte)  (Ah  mi  lusinga,  e  mi  tradisce  il 

barbaro... 

Povero  cor!)  E  qual  giustizia  ha.  Sire, 


ATTO  PRIMO.  157 

L' obbligar  le  infelici,  meschinelle, 

Povere  figlie  a  forza  a  esporsi  in  questa 

Stanza  secreta,  ed  alla-  concorrenza, 

D'esser  spose  d'un  Re,  nate  in  umile 

Stato,  e  sì  disugual,  perchè  la  mente 

Debile  si  lusinghi,  e  ricusata 

Poi  sen  vada  piangendo,  di  vergogna 

Carca,  e  dolor  di  non  piacervi,  {con  sospiro} 

e  forse 
Ricusata  a  ragion  per  poco  merto? 
Qual  giustizia  sarà,  se,  mio  malgrado, 
Son  qui  condotta,  e  se  del  genitore 
Povero  mio  fur  le  preghiere  vane 
Per  fuggir  tal  rossor  ;  s' ei  per  pietade 
Vi  chiese  a  dispensarlo  dall'  espormi 
Alla  vostra  grandezza,  al  vostro  acume, 
O...  (sia  permesso)  ad  un  capriccio  vostro,  • 
Per  cui  tante  donzelle  sfortunate 
Furono  offese  ornai?  Mio  Re,  Deramo, 
Ricordivi  del  Gel,  eh' è  giusto,  e  attende 
Tempo  a  punir  pe' danni  altrui.  Ragiono, 
Non  per  me,  che  al  rifiuto  sono  esposta, 
E  soffrirò  il  rifiuto,  ma  per  tante 
Misere  donne,  che  son  fuori,  e  attendono 
Meste  l'ingiuria  loro.  Dispensatele. 
L'ultima  Angela  sia,  che  soffra  a  forza 
D'un  rifiuto  il  dolor.  Mio  Re,  perdono; 
Libertà  mi  donaste,  e  libertade 
Usai  nel  favellar. 
Dir.  (a  parte)      .    Qual  arte  è  questa 


158  IL  RE   CERVO. 

Che  attonito  mi  rende!  (guarda  lo  stuccOy  che 

non  fa  motto  )  E  pur  non  ride 
n  simulacro.  E  fia  mai  ver,  che  questa 
Abbia  sincero  il  gor?  Lo  voglia  il  Cielo: 
Non  mi  lusingo  ancora.  Io  vi  perdono, 
Angela,  e  lodo.  Ahi  se  sapeste  il  vero, 
Non  direste  cosi.  Ne' tempi  andati 
Cercai  donna  sincera,  che  m'amasse, 
Che  mi  dovesse  amar  sino  alla  morte; 
Pur  non  la  ritrovai.  Necessitade 
Di  dar  eredi  al  Regno  oggi  mi  sforza 
A  tentar  di  trovarla,  e  temo  vana 

..  La  mia  ricerca. 

Ano.  e  chi  v'accerta.  Sire, 

Che  di  tante  donzelle  a  voi  qui  entrate 
Alcuna  tal  non  fosse? 

Deh.  Chi  m' accerta  ? . . . 

Non  ve  lo  posso  dir;  ma  certo  io  sono. 
M'amate,  Angela,  voi?  {con  tenere:(:(a) 

Ano.  (sospirando)        Volesse  il  Cieio, 

Ch'io  non  v'amassi,  che  di  mortai  doglia 
Non  mi  saria  il  rifiuto,  già  imminente, 
E  eh'  attendo.  Signor,  con  quella  pace, 

;-    Che  non  auguro  a  voi. 

Deh.  (guarda  lo  stucco,  che  non  si  move.  A  parte) 

Né  la  deride 
Ancora  il  simulacro  1...  O  quanta  gioia 
Mi  trabocca  nel  core!...  Ah  eh' è  impossibile!... 
Angela,  dite  il  vero?  (con  trasporto)  E  m'ame- 
reste 


ATTO   PRIMO.  1.59 

Sino  a  quel  dì,  in  cui  forse  io  sarò  primo... 
Sì,  sarò  primo  a  chiuder  queste  luci? 

Ang.  Signor,  credo  di  si,  se  dall'affetto, 
ChMo  sento  al  core,  misurar  si  puote 
Qò,  eh'  esser  dee.  Ma  come  mat  mescete 
n  dolce  coli'  amaro  di  lugubri 
Ricerche,  p  Re?  Lusinghe...  amor...  angosce... 
Povero  cor!  (piange) 

Der.  (guarda  lo  stucco^  che  non  fa  motto)  Sta 

fermo  il  simulacro! 
Questa  Veneta  donna,  dopo  tante, 
Sarà  sincera!  (guarda  come  sopra)  Oh  Dio! 

forse  l'amore 
M'abbarbaglia  la  vista,  e  il  ver  non  scopro. 

(guarda  ec.) 
(con  agitazione)  Se  non  m'amate...  s'altri 

amanti  avete... 
Se  alcun  secreto  è  in  voi,  deh  palesatolo, 
Angela,  per  pietà,  prima,  ch'io  passi 
A  scegliervi  in  isposa.  Io  più  non  posso, 
Angela,  e  v'amo  sì,  che,  se  scoprissi 
Dopo  un  inganno  in  voi,  morrei  d' affanno. 

Ano.  (  levandosi,  e  precipitando  a'  suoi  piedi  ) 
Deh  datemi  il  rifiuto...  quel  rifiuto. 
Ch'esser  dee  la  mia  morte.  Omai,  Deramo, 
Cessate  di  più  offendermi;  frenate 
Le  tiranne  lusinghe.  Qual  onore 
Traete  voi  da. sì  barbare  forme. 
Nel  lacerar  il  cor  d' un' infelice 
Fanciulla  meschinetta,  ed  innocente. 


i6o 


IL   RB  CERVO. 


Che  indegna  si  conosce,  e  che  abbastanza 
Ha  sofferto  sin' or?  Ahi,  più  non  posso... 
Più  non  posso,  Deramo...  mi  si  spezza 
n  cor...  Deramo,  per  pietà  lasciatemi... 
Più  non  mi  lusingate,  (piange  dirottamente) 

Deh.  (  commosso  guarda  come  sopra  lo  stucco,  che 
non  fa  motto.  Si  leva)  Oh  cara  donna... 

,    Donna  rara  a  miei  dì,  più  non  piangete  ;  (  la 

solleva  ) 
Levatevi.  Sì  bello,  e  caro  spirto 
Ben  sarei  scellerato  rifiutando. 
Olà,  ministri,  guardie,  entrate,  entrate. 
Il  popol  si  rallegri.  Ho  ritrovata 
Donna,  che  m' ama,  e  m' amerà'  per  sempre, 
Diletta  a  questo  cor.  (entrano  le  guardie) 

Ano.  Ah  no...  Deramo, 

Non  mi  fate  morir.  Soffro  il  rifiuto, 
Ma  almeno  in  faccia  al  popolo  non  sia: 
Troppo  è  l'atto  tiranno.  Io  già  confesso, 
Non  son  degna  di  voi. 

Deh.  Degna  sareste 

Di  Monarca  maggior.  Veneta  donna, 
Esempio  d'amor  vero,  che  smentisce 
Le  indegne  lìngue,  che  pel  mondo  vanno 
Predicando  incostanza,  ed  amor  finto, 
E  volubilità  nel  sesso  molle, 
Che  adorna  l'Adria  tua.  Ministri,  entrate; 
Scelta  ho  sposa  alla  fine.  Angela  ho  scelta» 


-ATTO   PRIMO.  l6l 

SCENA  TREDICESIMA. 
Tartagua,  Pantalonb  e  detti. 

Pant.  (con  trasporto)  Mia  fia,  Maestae? 

Der.  Sì,  vostra  figlia,  fortunato  padre, 
E  fortunato  più  d'aver  prodotta 
Sì  beli'  anima  al  mondo,  che  per  essere 
Suocero  d' un  Monarca. 

Tart.  (irato  a  parte)  Oh  maledetto  punto!  Io  mi 
sento  morire.  Angela  perdo;  perde  il  trono 
mia  figlia. 

Pant.  Ah,  Maestae,  no  bastava,  che  avesse  da  ella 
tante  beneficenze  senza  meriti,  che  la  voi  in- 
nalzar a  tanto  grado' una  povera  fiola?... 

Der.  La  virtude  v^ 

Innalzo  al  posto  suo.  Necessitade 
Di  successore  al  Regno  a  sceglier  sposa 
Mi  sforza,  ed  una  sposa  la  più  degna 
D'Angela  non  trovai 

Tart.  (con  affettata  allegre^ja)  E  viva,  e  viva... 
Maestà,  mi  rallegro;  non  potevate  far  miglior 
scelta.  Angela,  mi  consolo...  Pantalone,  non 
posso  esprimere  la  mia  gioia...  (a  parte) 
Mi  sento  rodere...  o  morte...  o  inferno...  o 
vendetta. 

Pant.  Cara  fià,  no  te  desmenteg^  mai  la  to  na- 
scita; no  te  insuperbir.  Varda  ogni  momento 
el  Cielo,  dal  qual  vien  le  fortune,  ma  vien 
anca  le  desgrazie  improvvise.  Basta;  el  nostro 

G02ZI.  1 1 


l62  IL  .RR  CERVO. 

Re  me  farà  una  grazia  de  lassarme  do  ore  a 
quattr'occhi  con  ti,  tanto,   che   te  possa   dar 

'  qualche  recordo,  farte  un' ammonizion  da  boD 
vecchio,  da  bon  pare;  ma  me  par  ancora  im- 
possibile... 

Deh.  Comel  Non  m'offendete.  Ecco  la  destra. 
Angela  è  sposa  mia,  s'ella  il  consente. 

Ang.  Mio  Re,  questa  è  la  destra,  e  quella  destra, 
Che  vi  dona  lo   spirto,  e  fede  etema,  {s^  im- 
palmano) 

Tart.  (a  parte)  (Greppo  per  la  rabbia...)  Ma 
come  mai,  dilettissimo  Monarca,  perdeste  tanto 
tempo  a  consolarci,  e  dopo  dueiùila  settecento 
e  quaranttotto  donzelle,  questa  Veneziana?... 

Der.  Ora  ve  lo  dirò.  Sono  cinque  anni, 
Ch'ebbi  dal  mago  Durandarte  in  dono 
Due  gran  secreti,  uno  de' quali  è  quello;  (mo- 

stra  lo  sttécco) 
L'altro  in  petto  lo  serbo.  Ha  quel  virtude. 
Che  al  dir  menzogne  dalle  donne  ride, 
'' Scoprendo  il  loro  interno.  Insino  ad  ora 
Angela  sola  d' animo  sincero 
Mi  comparve  dinanzi;  Angela  ho  scelta. 

Ano.  {farà  un  atto  di  ammira^fione) 

Pant.  Ve!  mo  la  xe  ben  grandal 

Tart.  {iracondo)  E  rise  quella  statua  di  Qarìce! 
Dunque  mia  figlia  è  una  bugiarda.  Con  per^ 
missione;  vado  a  scannarla. 

Der.  Fermatevi.  Qarice  è  innamorata 
D'altra  persona,  n  seppi.  Ella  non  era 


ATTO  PRIMO.  163 

Più  sposa  di  me  degna.  Angela  mia, 

Illibata  fanciulla,  io  v^amo  tanto, 

Si  di  voi  sono  pago,  e  persuaso. 

Che  non  soffro  tener  più  a  me  dappresso 

Sì  forte  tentazion  di  sospettare 

Dell'amor  vostro,  e  della  vostra  fede 

In  avvenire,  ed  alla  virtù  vostra. 

Al  vostro  amor  sacrifico  per  sempre 

La  credenza,  ed  il  core;   (sguaina   la  scimi" 

tarra)  e  chiaro  segno 
Sia  lo  spezzar  quest'infernale  ordigno. 
Per  non  cercar  in  voi  macchia,  o  viltade. 
(sjpe^^a  lo  stucco) 
Impari  ognun  da  me,  come  si  tronchi 
Sospetto  e  gelosia,  cagion  d'offesa 
Alle  mogli  fedeli,  e  cagion  forse 
Del  mal,  che  non  sarebbe,  o  torto  alfine. 
Giubili  la  città,  (a  Tari.)  Fido  ministro, 
Or  sarete  contento.  Via,  scuotetevi 
Dalla  malinconia  per  vostra  figlia. 
Andiamo  a  divertirci.  Oggi  ordinate 
Una  festevol  caccia.  Angela,  al  Tempio. 
Amg.  Io  vi  seguo,  mio  Re,  grata  e  confusa,  (entrano) 
Pant.  Da  galantomo  che   el   me   par  un  sogno. 
Vado  a  dar  parte  con  quattro  righe  a  mio  fra- 
delio  Boldo   a  Venezia   delie   mie  esaltazion. 
Si  ben  che  sta  novità   anderà   su   madama  la 
gazzetta  (*),  nonostante  vogio  scriver  una  ma- 

(*)  ÀUudesi  alla  gazzetta,  che  scriveva  in  quel  tempoT  il 
Sìg.  Abb.  Chiari,  appellandola  madama  la  gazzetta. 


1^4 


IL   RE   CERVO. 


dama  lettera,  e  metterla  a  madama  la  posta. 
(entra) 
Tart.  Mia  figlia  rifiutata  1...  Angela  mia! An- 
gela mia  perduta!  Ah  ch'io  sento  la  rabbia, 
r invidia,  l'ambizione,  l'amore,   la   gelosia,    il 

v^  canchero  qui  nel  ventricolo,  che  mi  rodono,  mi 
divorano!  Un  uomo  della  mia  qualità!...  È  imr 
possibile,  ch'io  possa  tenere  occulta  la  rivolu- 
zione, che  ho  nel  corpo.  Bisognerà  sforzarsi. 
È  questo,  il  punto  di  condurmi  alla  caccia  per 
divertirmi?  Maledico  mia  figlia.  Pantalone,  il 
Re,  e  quello  stucco  infernale.  Starò  in  atten- 
zione, e  in  tanta  attenzione,  che  troverò  il  mo- 
mento di  fare  una  delle  più  strepitose  vendette, 

^  che  sieno  state  rappresentate  in  un  Teatro. 
I  miei  posteri  sentendola  raccontare,  caderanno 
inorriditi  col  taffanario  per  terra. 


ATTO  SECONDO 

Sala  regia. 


SCENA  PRIMA. 
Tartaglia  e  Clarice. 


Tart.  5?9^  1^1  NDEGNA^  assassina.  Per  tua  ca- 
I  gione  io  ho  perduto  ogni  mio 
bene,  e  tu  non  sei  Regina.  Hai 
palesati  gii  amoretti,  che  avevi  per  Leandro, 
precipitando  te,  e  me  ad  un  tratto.  Malanno  ti 
colga...  il  canchero...  il  vermocane. 

Clar.  No,  caro  padre;  nulla  ho  palesato,  vi  giuro; 
fu  lo  stucco,  che  ha  scoperto  il  mio  cuore. 

Tart.  Stucco  o  non  stucco,  cuore  o  non  cuore, 
chi  t'ha  data  licenza,  che  t'innamori  di  Lean- 
dro? Se  tu  non  eri  innamorata,  non  averestì 
fatto  ridere  lo  stucco,  pettegola. 

Clar.  La  bellezza,  gli  occhi  di  Leandro,  le  sue 
belle  parole  non  m' hanno  dato  tempo  di  chie- 


l66  IL  RB  CERYO. 

der  licenza  d'innamorarmi,  e  mi  sono  inna- 
morata senz' avvedermene. 

Tart.  Oh  si,  bada  alle  occhiate  di  tutti  gli  uo- 
mini, e  alle  belle  parole;  t'innamorerai  spesso 
senza  permissione,  bricconcella. 

Clàr.  Deh  non  mi  strapazzate,  padre,  e  giacché 
Deramo  ha  scelta  consorte,  consolatemi 

Tart.  Consolatemi!  Di  che,  temeraria! 

Clar.  Di  lasciare,  ch'io  sposi  Leandro.  È  final- 
mente Cavaliere  di  Corte,  è  fratello  della  Re- 
-  ^a,  avanzerà  di  grado. 

Tart.  (furioso)  Sentimi...  (a  parte)  La  bile  mi 
tradisce.  Se  voglio  vendicarmi,  convien  fingere. 
(  con  dolce:^:(a  affettata  )  Sentimi,  figliuola  mia 
cara;  non  badare  a  quanto  t' ho  detto.  La  col- 
lera mi  fa  parlare.  Dammi  tempo;  lascia  che 
passi  questa  gran  rabbia;  compatisdmL  Ti 
consolerò;  ma  non  aver  fretta,  {a parte)  Piut- 
tosto voglio  impiccarti. 

Clar.  Sì,  padre  mio,  sì,  mi  consolerete. 

Tant.  Si,  si;  ma  ritirati  nel  tuo  appartamento.  P^ 
ora  non  mi  parlar  più. 

Clar.  V'ubbidisco;  ma  lasciate,  ch'io  vi  bad  la 
mano. 

Tart.  Si,  si,  baciami...  bacia  ciò  che  vuoi;  si;  va 
via,  lasciami  un  poco  sfumare  la  rabbia,  {la 
spinge  dentro  )  Prima  voglio  spaccarti,  come 
una  tinca,  come  un'  anguilla.  Ora  il  Re  sarà  in 
conversazione  con  Angela.  Ah,  ch'io  mi  sento 
crepare...  darei  la  testa  in  una  muraglia.  Che 


ATTO  SJSOONBO.  167 

gelosia!...  che  odici...  Voglio  andarlo  a  di- 
sturbare con  qualche  pretesta  Dirò,  che  k  cac- 
cia è  in  punto,  (intatto  di  partire) 

SCENA  SECONDA. 
LEANDBp  e  Tartagua. 

Lbah.  Signor  Tartaglia. 

Tart.  Che  c'è?  Vado  a  caccia,  {a pcarte)  Un'altra 
seccatura 

Lban.  Giacche  ho  avuta  la  fortuna,  che  il  Re 
scelga  mia  sorella  per  moglie,  e  che  Clarice, 
vostra  figliuola,  è  rimasta  esclusa,  se  non  mi 
credete  indegno,  la  desidero  per  mia  sposa 

Tart.  Giacché  ho  avuta  la  fortuna,  che  il  Re 
scelga  mia  sorella,  e  che  vostra  figliuola  è  ri- 
masta esclusal  Che  maniera  petulante  è  questa? 
{a  parte)  Se  tu  hai  due  fortune,  io  ho  due 
disgrazie,  che  mi  divorano  il  f>olmone,  cane. 
Basta  io  non  ricuso  la  vostra  parentela  (a  parte) 
Vorrei  vederti  fulminato  con  tuo  padre.  Ma  da- 
.  temi  tre  o  quattro  giorni  di  tempo,  perchè  ho 
degli  affari  di  Stato,  che  m'occupano,  {a parte) 
Farò  vedere,  quali  sono  gli  aCEm  di  Stato,  se 
il  diavolo  mi  spalleggia 

Lban.  Ah  caro  Signor  Tartaglia,  giacché  il  giorno 
è  d'allegrezza...  {odorisi  comi  di  cacciatori^ 
e  cani  latrare) 

Tart.  Oh  questo  è  il  segno,  che  la  caccia  é  in 


l68     ,^  IL   RE  CERTO. 

punto.  Sua  Maestà  dev'  essere  a  cavallo.  Appa- 
recchiatevi anche  voi  a  seguirlo;  andate. 

Lean.  Dite  bene.  Vado  subito.  La  caccia  dove 
^  si  fa? 

Tart.  Qui  fuori  delle  porte,  nel  vicino  bosco  di 
Roncislappe.  (a  parte)  Dove  forse  la  preda  mia 
sarà  molto  grossa,  {entra) 

Lean.  Tartaglia  è  ottuso.  Risponde  con  malagrazia; 
ma  è  padre  di  Clarice,  «d  è  favorito  dal  Re; 
convien  trattarlo  con  prudenza,  {entra) 

SCENA  TERZA. 
TftUPFALDiMO  e  Smeraldina. 

Truff.  Uscirà  fuggendo  da  Smeraldina,  che  gli 
corre  dietro;  vorrebbe  accomodarsi  con  lui, 
giacché  il  Re  l'ha  ricusata.  Truff.  Uabborri- 
sce.  La  rimprovera  d' essersi  esposta  contro  al 
suo  volere.  Non  vuol  per  moglie  un  rifiuto, 
massime  dopo  che  uno  stucco  ha  scoperto  i 
suoi  difetti.  Averà  scoperti  amori,  errori  se- 
creti, magagne  occulte,  denti  posticci,  cau- 
teri ec.  Smer.  Che  solo  per  esser  amante  di 
lui,  lo  stucco  rha  derisa.  Che  Brighella  fii 
cagione,  eh'  ella  s' è  esposta.  Sue  languidezze, 
suoi  sospiri.  Truff.  È  forte;  la  ricusa.  Dopo 
una  scena  di  artifizio,  e  di  contrasti  ad  arbi- 
trio de' due  abili  personaggi,  Truff.  Vuol  par- 
tire per  andare  all'uccellagione.  Smer.  VucA 


ATTO  SECONDO.  Ì6g 

seguirlo.  Truff.  La  impedisce.  Rabbaruffati,  e 
collerici  entrano. 


SCENA  QUARTA. 

Apresi  la  scena  nella  selva  di  Roncislappe.  La  veduta  è 
vasta.  La  decorazione  è  d^  una  veduta  boschereccia,  e  mon- 
tuosa, con  una  caduta  d' acqua,  che  forma  un  fiume.  Si  V6> 
dono  vari  macigni  atti  a  servir  di  sedili. 

Esce  CiGOLOTTi  con  un  pappagallo  in  pugno. 

CiG.  È  questa,  o  Durandarte,  mio  Signore,  la  fo- 
resta di  Roncislappe. 

Papp.  Si,  Cigolotti,  scioglimi. 

CiG.  Addio,  Durandarte.  Andate  ad  operare  i  vo- 
stri gran  portenti  all'onore  di  chi  tanto  me- 
rita, a  alle  sei  della  notte  v'  aspetto  nel  vostro 
pristino  stato  d' uomo  all'  osteria  della  scimmia,, 
dove  faremo  un  brindisi  alla  nobiltà  riverita 
con  pace,  sanità  e  allegrezza,  (mette  in  libertà 
il  Pappagallo,  che  vola  per  la  selva.  Cigo- 
lotti entra) 

SCENA  QUINTA. 
Dbbamo  e  Tartaglia. 

Deramo  uscirà  con  un  archibugio  in  ispalla.  Tartaglia 
con  un  archibugio  nelle  mani» 

Der.  {guardando  il  bosco)  Questo,  Tartaglia,  è 
il  gran. bel  loco,  {volge  la  schiena  a   Tarta- 


ITO  IL  &B  CBItta 

gita,  il  quale  inarcherà  V  archibugio  per  spa- 
rargli nella  schiena.  Deramo  si  volgerà; 
Tari,  si  ricomponerà  con  preste^^^a.  Questo 
lafjo  sarà  replicato  molte  volte^  né  Deramo 
dovrà  avvedersi  mai  delP  empio  desiderio  del 
Ministro) 

Tart.  {ricomponendosi)  È  vero  Maesti;  il  loogo 
è  bello,  {a  parte)  Non  mi  dà  mai  tempo. 

Dbr.  In  vero; 

Qui  doverebbe  certo  alcuna  fera 
Passare,  {volge  la  schiena:  Tart  inarca  Par- 
chibugio:  Der.  volge  la  faccia)  E  cagionarci 

dello  spasso. 

Tart.  (  che  con  preste:[:[a  si  sarà  ricomposto  )  Oh 
certamente,  (a  parte)  Ah  mi  trema  la  mana 
.  Se  mi  riesce...  siamo  qui  soli...  lo  getto  in 
quel  fiume. 

Dbr.  In  questo  loco  istesso  mi  sovviene 

Di  aver  uccbo  un  cervo,  (come  sopra  con  pro- 
por  :[ione,  e  tempo) 

Tart.  Certo,  certo;  è  vero,  me  lo  ricordo,  (a  parte) 
Ho  de' soldati  pronti.  Prendo  subito  il  pos- 
sesso di  Angela,  e  della  Qttà;  ma  il  core  mi 
trema. 

Dbr.  Siam  qui  soli. 

Dove  mai  sono  gli  altri  cacciatori?  {come  sopra) 

Tart.  {con  rabbia)  Oh  son  lontani,  (a  parte) 
Maledetto  un  momento  di  più. 

DcR.  {osservandolo)  Caro  Tartaglia,  mi  sembrate 
Melanconico,  ottuso.  Amico,  avete 


ATTO  SECONDO.  I7I 

Nulla,  che  il  cor  v'attristi?  {siede  sopra  un 

sasso)  Io  non  ho  core 
Di  vedervi  cosi.  Voi  foste  sempre 
n  mio  sollievo,  e  intendo,  che,  se  nulla 
Vi  reca  dispiacer,  mei  palesiate. 
Tutto  farò  per  voL  Via  qui  siedete: 
DisccM-rìamo  da  amicL  Certamente 
Io  non  soffro  il  vedervi  cosi  mesto. 

Tart.  (a  parte)  Ora  ho  finito.  Attenderò  altro 
pimto.  Mai  non  fui  poltrone,  quant'  oggi  Mae- 
stà, io  non  ho  nulla. 

Dbr.  No  certamente.  Io  scopro  che  nel  seno 
Qualche  molestia  avete.  Conservate 
Forse  spiacere  de' passati  casi? 
Sfogatevi,  siedete,  ricordatevi. 
Che  un  amico  vi  son,  che  v'amo  assai. 

Tart.  (siedendo,  a  parte)  Mescolerò  la  bugia  colla 
verità,  perchè  non  sospetti.  Signore,  io  non 
potrei  tacervi  finalmente  ch'io  sono  appassio- 
nato, e  mortificato  fuor  di  modo. 

Dbr.  Di  che,  fido  ministro?  dichiaratemi 
I  vostri  dispiacer,  vendicherovvi, 
O  giustificherò,  quanto  v'  offende. 

Tart.  Sono  trent'anni,  ch'io  vi  servo  con  tanta 
fedeltà,  e  ben  sapete,  quanti  buoni  consigli 
v'ho  dati  in  guerra,  ed  in  pace.  Quante  volte 
mi  sono  esposto  nelle  battaglie  sanguinose,  che 
si  doverono  incontrare  per  gli  affronti  fatti  da 
voi  nel  rifiutare  tante  Principesse!  Non  ho  ri- 
sparmiato il  sangue,  e  la  vita.   Sono  rimasto 


172  IL  RE  CERVO. 

sempre  vittorioso;  ma  le  ferite,  che  ho  sopra 
il  mio  corpo,  dicono  a  qual  costo  io  abbia  di- 
feso la  gloria,  e  V  onor  vostro.  Veramente  fui 
rimunerato  oltre  ai  miei  meriti;  ma  avess'io 
almeno  acquistata  la  morte,  che  oggi  non  ave- 
rei  avuta  la  mortificazione  d'essere  ofFeso  nel- 
l'affetto da  voi,  che  amo  quanto  le  viscere 
mie.  {piange  fintamente) 

Der.  In  che  v'ofiFesi  mai?  Tartaglia,  ditelo. 
Caro  ministro,  in  che?  ditelo  tosto. 

Tart.  In  che!...  scusate  per  carità.  Io  mi  dolgo 
solo  per  l' affetto,  che  ho  per  voi,  e  piango, 
come  un  ragazzo,  eh'  è  in  contrasto  per  gelosia 
d'amore  con  l'amante,  {piange) 

Der.  Deh  spiegatevi  meglio;  io  non  v'intenda 

Tart.  Sono  cinque  anni,  che  possedete  de' secreti 
del  mago  Durandarte;  a  me,  che  ho  tanti  me- 
riti, non  li  palesate,  e  in  ciò  avete  ragione  ;  ma 
almeno  mi  aveste  usata  la  clemenza  di  distin- 
guermi dagli  altri,  e  di  non  far  esporre  la  mia 
propria  figliuola  alle  risa  di  quel  vostro  stucco 
incantato  per  mia  vergogna.  Non  cerco  onori, 
non  cerco  grandezze,  ma  cerco  amore.  Il  cuore, 
che  avete  avuto  per  me,  le  risa  di  quel  vostro 
maledetto  stucco  mi  stanno  sempre  dinanzi  agli 
occhi,  e  l' aver  scoperto,  che  non  mi  credete 
degno  della  vostra  confidenza  interamente,  e 
che  non  mi  volete  quel  bene,  ch'io  sperava, 
nella  mia  delicatezza  sarà  cagione  ch'io  mi 
distruggerò  in  lagrime,  {piange) 


ATTO   SECONDO.  I73 

Dbr.  Mancai,  Tartaglia;  è  vero.  È  ver,  poteva 
In  voi  più  confidar  pel  lungo  esempio 
Della  fedeltà  vostra,  o  almen  scansarvi 
Dal  far  espor  Qarice  al  gran  cimento. 
Risarcirvi  desidero  del  torto, 
E  per  farvi  veder,  ch'io  v'amo  sopra 
Qualunque  amico,  e  quanto  me  medesimo, 
Io  voglio  farvi  a  parte  del  maggiore 
Secreto,  e  più  tremendo,  che  quel  Mago 
M'abbia  lasciato,  pria  che  da  me  parta. 
Exrco  un  verso  infernale,  (si  trae  dal  seno  una 
picciola  carta)  Udite,  amico, 
,  La  portentosa  facoltà  di  questo. 
A  qualunque  animale,  od  uomo  morto 
Recitandolo  sopra,  voi  morrete, 
E  per  magica  forza  il  vostro  spirto 
Passerà  nel  cadavere  di  quello, 
E  in  quello  entrato  lo  farete  vivo. 
Lasciando  il  vostro  corpo  in  terra  morto... 
Tart.  Come!  come!  Recitando,  verbigrazia,  que- 
sto verso  sopra   un  asino  morto,   entrerò  io 
nell'asino  morto,  e  lo  resusciterò,  e  lasciando 
per  terra  il  mio  corpo  morto,  averò   V  avan- 
taggio  di  restare  un  asino.  Eh  povero  Tarta- 
glia 1  Vostra  Maestà  è  padrona  di  scherzare,  e 
di  caricarmi  di  maggiori  mortificazioni;  è  pa- 
drona anche  della  mia  vita. 
Der.  M'offendete,  Tartaglia.  Io  non  aveva 
Terminato  di  dirvi  la  virtude 
Di  quel  magico  verso.  Ora  sappiate. 


174  M*  WS  CERVO. 

Che  l'animale,  in  cui  sarete,  posto 

Sopra  il  vostro  cadavere,  e  dicendo 

Lo  stesso  verso,  tornerà  vivente 

n  corpo  vostro,  e  P animale  estinto,  (si  lewa) 

Questo  è  il  canne  fatai,  con  cui  passando 

Talora  entro  ad  un  cane,  ad  un  uccello, 

E  in  qualunque  animale,  o  altr'uomo  estmtOi 

Non  conosciuto  ribellion  scopersi, 

Litiganti  bugiardi,  e  false  genti, 

Misfatti  enormi,  e  portentosamente 

Puniti  ho  i  rei,  tenendo  questo  regno 

Netto  dai  malfattori.  Ora  fo  parte 

Col  mio  Tartara  di  sì  raro  carme,  {dà  a  TarL 

il  verso) 
E  vicendevolmente  tuttidue 
Potremo  usarlo.  L'apprendete  a  mente, 
E  più  non  dite,  ch'io  non  v'ami,  o  amica 

(P  abbraccia) 

Tart.  (a  parte)  Ah,  s'è  vero  questo,  forse  misi 
apre  la  via  di  vendicarmi,  e  di  ricuperare  Angeh 
mia.  Mio  Re,  scusate  il  torto,  che  v'ho  fatto, 
che  nacque  solo  dalla  gelosia  dell' inestinguiUle 
affetto,  che  ho  per  voi.  Questo  è  im  gran  se- 
creto, un  gran  segno  della  vostra  generosa 
confidenza.  Lasciate,  ch'io...  {vuole  inginoa) 

Dbr.  Sorgete,  o  caro.  Io  so,  che  vostra  figlia 
Ama  Leandro,  ed  a  Leandro  dono 
Le  Castella  dell'Isola.  Consorte 
Gli  sia  Qarice.  A  questo  modo  voglio 
Risarcire  il  rifiuto  di  lei  fatto. 


ATTO  SBGONBa  I75 

Tàmt.  (a  parte)  Eh  la  mia  cara  Angela  mi  sta 
sul  cuore.  O  mio  generoso  Re,  quando  mai 
potrò  compensare  i  tanti  benefìzi?... 

Dbr.  Basti  Apprendete  il  grand' arcano  a  mente. 
E  partiamo  di  qua,  che  miglior  loco 
Vo' cercar,  non  vedendo  alcuna  fera,  (entra) 

Ta«t.  {apre  la  carta,  e  segue  il  Re,  leggendo 
il  seguente  verso  del  Merlino  Cocai,  tartara 
gliando  ) 

Cra  era  trìf  traf  not  sgnieflet  canatauta  riogna. 

O  maledetto  verso:  è  molto  diffìcile  per  me, 
ma  forse  mi  sarà  utile,  {entra) 

SCENA  SESTA. 

Udiransi  di  dentro  voci  di  cacciatori^  di  PAifTALonBi  di 
Brighella  e  di  Leandro,  e  suono  di  corni.  Uscirà  un  orso 
inseguito  dai  sopradetti^  armati  di  archibugi  Brighella 
dopo  aver  scaricata  un'  archibugiata  verso  V  orso,  che 

Brio.  Un  buso  in  acqua.  A  ella,  Sior  Pantalon. 

Pant.  Ah,  faloppa,  cavete;  a  mi.  {scarica  verso 
VorsOy  il  quale  fuggendo  entra) 

Brig.  Bravo.  El  va  sempre  più  in  là,  sior  Pan- 
talon. 

Pant.  El  fogon  gera  umido,  sier  aseno.  A  ti  fio, 
che  el  ze  ancora  a  tiro;  a  ti. 

Lean.  {correndo  verso  la  parte,  dov'è  entrato 
r orso)  A  me,  a  me.  {spara) 


176  IL  RE   CBRVa 

Pant.  a  me  a  me.  Bravo  el  porchette.  El  va,  che 

el  diavolo  se  lo  porta. 
Lean.  e  ferito,  è  ferito. 
Pant.  Eh  xe  ferìo  i  totani  I  A  vu,  pampalughL 

{due  cacciatori  sparano) 
Brio.  Oh  aseni!  i  ha  ammazza  un  can. 
Pant.  Al  monte  al  monte,   all'erta,  andemogfae 

drio.  Va  de  là  ti.  Brighella.  Toghe  la  volta  ti, 

Leandro.  Corre,  squartai,  (entrano  tutti  cor^ 

rendo  per  diverse  parti  ) 

SCENA  SETTIMA. 
Dbbamo  e  Tartaglia. 

Der.  Le  gran  archibugiate!  udiste?  Qui 
Non  vedo  più  nessun. 

Tart.  Ho  creduto  di  ritrovar  morto  un  Rinoce- 
ronte. Vedo  li  cacciatori  andare  lontani,  e  cor- 
rere dietro  alla  montagna. 

Der.  {guardando  in  lontano)  Tartaglia,  io  vedo 
Venir  due  cervi  a  questa  volta.  Presto. 
Nascondetevi,  presto,  {si  nasconde) 

Tart.  Per  bacco  sono  belli  {si  nasconde  da  ta^al" 
.  tra  parte.  Escono  due  cervi  in  corso,  De^ 
ramo  esce  da  una  parte  spara  P  archibugio, 
uccide  uno  dei  cervi  Tartaglia  esce  dalP  al-- 
tra  parte,  spara  V  archibugio,  uccide  P  altro 
cervo) 

Tart.  Bravo,  Maestà. 


ATTO   SECONDO.  '.    I77 

Der.  Tuttidue 

Fummo  valenti.  Alla  mia  cara  $posa 
Fo  de' cervi  un  presente. 

Tàrt.  (a  parte)  Ah  il  gran  sublime  pensiero!... 
Se  mi  riuscisse,  mi  vendicherei  dell'ingiuria... 
io  diventdrei...  Tu  non  goderesti  più  Angela 
mia.  Tentiamo.  Mio  Re,  quelli  sonò  due  cervi 
morti. 

Der.  Non  v'ha  dubbio. 

Non  si  muovono  più. 

Tart.  Ora  non  potressimo  noi,  giacche  siamo  soli, 
e  che  tutti  li  cacciatori  sono  lontani,  fare  quella 
bella  esperienza  di  quel  verso,  e  passando  noi 
in  questi  due  cervi,  divertirci  andando  sopra 
quel  colle  a  godere  le  belle  vedute.  Per  un 
momento  solo,  per  un  momento.  Le  dico  il 
vero,  mi  sembra  impossibile  questa  maraviglia; 
ho  una  brama  di  vederla,  che  crepo. 

Der.  Sì,  dite  il  vero. 

Possiamo  farlo.  Vederete,  ch'io 
Non  vi  dissi  menzogna.  Andate,  andate 
Sopra  un  de' cervi,  dite  il  fatai  verso, 
Vederete  FefiFetto. 

Tart.  (ritroso  e  ridente)  Eh  eh,  ah  ah...  Maestà 
ho  un  poco  di  paura,  e  di  ribrezzo...  eh  eh, 
ah  ah. . .  lei  si  vuol  prendere  un  poco  di  spasso.  « . 
ho  timore,  ah  ah  ah...  *  ; 

Der.  Orsù,  v'intendo 

Voi  diffidate.  In  ver  sembra  impossibile, 
Che  sia  ver  ciò,  eh'  io  dissi.  Io  sarò  il  primo. 

Gozzi.  12 


178  IL   RE   CERVO. 

D  vero  scoprirete.  Sopra  l' altro 

Cervo  farete  ciò,  ch'io  fo,  e  seguitemL  {De- 

ramo  si  farà  sopra  un  dé^  cervia  e  dirà  il 

verso  ) 

Cra,  cra^  tri,  traf,  not,  sgnieflet,  canataua  rìogna. 

{anderà  cadendo  grado  gradoy   mentre  va 
dicendo  il  verso,   terminato  il  quale  coderà 
morto;  il  cervo  risusciterà;  si  volterà  colla 
testa  a  Tartaglia,  indi  entrerà  veloce) 
Tart.  Oh  maravigliai  Sono  fuori  di  me.  Corag- 
.    gio,  Tartaglia.  Ecco  il  punto,  eh'  io  sono  ven- 
dica,to  e  felice.  Eàtro   nel  corpo  del  Re;  e, 
creduto  Deramo,  vado  in  possesso  del  Regno  e 
più  d'Angela  mia,  che  adoro.  Ma  quando  sarò 
in  questo  corpo,  chi  sa,   se   conserverò   il   di- 
fetto di  tartagliare?  Non  vorrei  essere  cono- 
sciuto. Ma,  quando  sono  Re,  di  che   temere  ? 
Non  perdiamo   più   tempo,   {onderà   verso   il 
corpo  del  Re^  e  mentre  vorrà  dire  il  verso, 
udirassi  strepito  di  corni,  e  di  cacciatori, 
che  usciranno  inseguendo  un  orso.    Torta-- 
glia  spaventato  si  ritirerà,  I  cacciatori  en- 
treranno inseguendo  V  orso.  Uscirà  un  uomo 
nella  forma  di  Tartaglia  a  tale,  che  s*  os^ 
somigli  a  segno  d' ingannare,  si  farà  sopra 
il  corpo  del  Re.    Tartaglia  dirà   in  poca 
distan3[a  il  verso  era  era,  ec.  quel  suo  simile 
accompagnerà  le  parole  col  gesto,  coderà 


ATTO  SECONDO.  '79  ' 

morto,  risusciterà  il  Re.  Nuovamente  di  ritomo 
usciranno  i  cacciatori j  inseguendo  l'orso.  Il  Re 
si  ritirerà.  Partito  l'orso  e  i  cacciatori,  uscirà 
nuovamente  Tartaglia  in  forma  di  Deramo, 
Avvertasi,  che  sin  dal  principio  Deramo  dovrà 
avere  una  maschera,  per  poter  con  altra  simil 
maschera  accomodar  al  possibile  la  somi- 
glian:{a  di  questi  due  personaggi). 

SCENA  OTTAVA. 
Tartaglia  solo. 

Resti  Deramo  nella  sua  miseria,  {tartaglierà)  Oh 
maledetta  imperfezione  di  lingua,  e  ancora  mi 
perseguiti?  Basta,  ora  sono  Re,  e  del  regno,  e 
di  Angela  in  pos^sso.  Di  che  temer?  Chi  più 
di  me  è  felice?  Ben  saprò  liberarmi  di  tutte  le 
persone  a  me  sospette,  e  da  me  odiate.  E  tu, 
mio  corpo,  (  verso  il  corpo  del  Tartaglia 
morto)  rimarrai  corpo  inutile,  perchè  il  Re,  ora 
cervo,  di  te  non  possa  valersi,  cagionandomi 
qualche  disordine  in  corte.  (  taglia  con  la  sci-- 
mitarra  la  testa,  e  spinge  il  busto  in  un  ce- 
spuglio)  Dietro  questa  macchia  rimanti,  infe- 
lice corpo  mio,  che  non  ho  più  bisogno  d' in- 
vidiare la  sorte  tua.  {guarda  dentro)  Ecco  i 
ministri,  e  i  cacciatori  del  Re.  Qui  ci  vuol 
gravità.  Per  prima  cosa  converrà  perseguitare, 
e  uccider  il  cervo,  che   alloggia   lo  spirito  di 


l8o  IL   RE   CERVO. 

Deramo.  Questo  mi  deve  stare  fOramamente  a 
cuore,  perchè  potrebbe  farmi  qualche  brutta 
burla.  Ho  veduta  troppo  la  virtù  di  quel  era 
era  trif  traf.  Morto  che  sia  quel  cervo,  io  non 
temo  più  nulla. 


SCENA  NONA. 

Pantalone,  Leandro,  Brighella^  Cacciatori  e  Tartaglia 
finto  Deramo,  Tutti  all'  uscire  faranno  de*  profondi  inchini 
al  Re,  che  starà  con  affettata  sostenute:{!(a* 


Xart.  Presto,   Ministri,   presto.    Comparvero   qui 
due  cervi  ;  uno  ne  uccisi,  come  vedete.  L' altro 
è  andato  per  quella  parte.  Mi  preme,  che  sia 
ucciso.  Chi  l'ammazzerà,  avrà  da  me  qualun- 
que grazia  saprà  chiedere.  Seguitemi,  {entra) 
Pant.  Anemo,  putti,  presto.  Servì  so  Maestà,  (entra) 
Lkan.  La  cura  sarà  mia.  Se  uccido  questo  cervo, 
»    chiedo  in  grazia  Clarice,  (entra) 
Brig.  Alon,  alon,  alon.  La  finirà  pò,  come  quella 
dell'orso,  che  nessun  gha   podesto  pizzegar  le 
.     natiche,  (entra) 

(s^  udirà  di  dentro  romore  di  comi,  spari 
di  arcobugiy  e  voci,  che  grideranno  :  Eccolo, 
eccolo.  Uscirà  il  cervo  spaventato  correndo) 
Pant.  A  mi.  (spara,  e  fallisce) 
Lean.  a  me.  (spara,  e  fallisce) 
Brig.  A  mi.  (spara,  e  fallisce) 
Tart.  (furioso)  Ah,  cacciatori  asini... 


ATTO^  SECONDO.  l8x 

SCEMA  DECIMA. 
Un  Vecchio  villano  e  detti. 


Questo  Vecchio  villano,  che  dovrà  esser  decrepito,  cen- 
cioso, ed  orrido,  sarà  il  personaggio,  che  rappresenta  la 
parte  di  Deramo,  ma  un  altro  parlerà  per  lui,  ed  egli  non 
farà,  che  i  gesti  proporzionati  alle  parole;  avrà  un  ba- 
stone, sopra  cui  si  appoggierà  uscendo  dal  fondo  del 
Teatro. 


Tart.  {al  vecchio)  Dimmi,  vecchio;  hai  tu  veduto 
da  qual  parte  ha  girato  quel  cervo,  che  passò 
per  di  qua? 

Vec.  Io  non  lo  vidi. 

Tart.  Oh  noi  vedesti?  (furiosissimo)  .Maledetti 
tutti.  Inutil  vecchio,  paga  tu  la  pena,  e  finisci 
di  servir  d'imbroglio  a  questo  mondo,  (spara 
una  pistola,  e  uccide  il  vecchio  ) 

Vec.  Oimè,  son  morto. 

Lean.  (a  parte)  Qual  nuova  tirannia! 

Brig.  (a  parte)  Mi  debotto  me  la  fazzo  a  gambe. 

Pant.  Cossa  vedio!  Che  el  sia  imbriagol  Maestà, 
xela  storno?  Se  sentela  qualche  mal?  cossa 
fala? 

Tart.  (minaccievole)  Olà,  non  mi  seccate,  o  sa- 
prò levarmi  dinanzi  tutti  gl'inutili.  Oggi  non 
è  più  tempo,  ma  dimani  state  pronti.  Sia  cir- 
condato questo  bosco,  voglio  morto  quel  cervo. 
Pubblicherete,  che  chiunque  mi  recherà  un 
cervo,    che    abbia    una    macchia    bianca   sulla 


l82        •  IL    RE   CERVO. 

fronte,  com'  ho  veduto,  che  aveva  Quello,  averà 
diecimila  zecchini.  Ma  dov'è  Tartaglia?  {tar-- 
taglierà  ) 

Pant.  (a  parte)  Mi  son  sbasio!  l'è  diventa  un 
can.  No  lo  conosso  più.  L'ha  cambia  inlin  la 
ose,  e  el  se  intartagia,  che  el  fa  stomego. 

Tart.  Dov'è  Tartaglia,  dico?  che  dicevate  di  Tar- 
taglia? (tartaglierà) 

Pant.  (pauroso)  Eh  gnente,  gnente.  Tartagia  gera 
con  V.  M. 

Tart.  È  vero;  ma  è  un  gran  tempo,  che  V  ho 
perduto  di  vista. 

Lean.  La  città  è  vicina;  se  non  è  andato  alla 
città,  è  già  pratico  della  strada. 

Tart.  Sì,  sì,  ma  so,  eh'  egli  è  un  ministro  odiato, 

>  perchè  io  l'amo,  e  non  vorrei,  che  gli  fosse 
nato  qualche  accidente  scabroso,  (tartaglierà 
notabilmente  )  * 

Pant.  {a  parte)  Tolè!  Che  schienze  de  tartagiael 

Tart.  (a  parte)  Questa  imperfezione  mi  perse- 
guita... Non  vorrei...  ma  di  che  temere?  Cac- 
ciatori, prendete  in  spalla  quel  cervo  morto. 
Voglio  fare  un  presente  alla  mia  cara  Angela, 
che  non  vedo  l' ora  d' abbracciare.  Dimani 
ognuno  sia  in  punto,  (entra) 

Pant.  Andemo  pur.  Son  stracco,  che  me  dol  i  ga- 

retoli,  ma  son  tanto  spaventa  dalle  novità,  che 

ho   visto,   che   se   non    fusse   per   abbandonar 

mia  fìa,  da  ministro  regio   d'onor   che   vorrìa 

.  correr  verso  Venezia,  come  un  lacchè,  (entra) 


ATTO   SECONDO.  183 

Lean.  (a  Brig.)  Ma,  s'io  ammmazzaVa  il  cervo, 
Brighella,  ora  potrei  chiedere  Qarice  in  con- 
sorte, {entra) 

Brig.  Sto  signor  gha  in  testa  i  amoretti,  e  a  mi 
me  par  de  aver  in  tela  testa  quella  nespola, 
che  gha  tocca  a  quel  povero  decrepito  con 
tutto  quel  sugo. 

SCENA  UNDECIMA. 
Dbbamo  Cervo, 

Jl  cervo  uscirà,  si  porrà  vicino  al  vecchio  morto,  il  quale 
parlerà  per  il  Cervo  per  conservare  l' illusione. 

Der.  {cervo)  O  Giove,  ti  ringrazio,  che  m'hai 

salvo 
Dal  periglio  crudel.  Ma,  oimè  infelice! 
O  cieli  misero  me!  qual  rimango  io! 
Kù  ch'uomo,  saper  volli,  e  il  troppo  ardire 
Castiga  il  ciel,  che  in  bruto  or  mi  condanna. 
Da'cacciator  perseguitato,  e  cani, 
Con  periglio  di  morte  ogni  momento. 
L'erba  mi  sarà  cibo,  e  il  terren  aspro 
Sarà  letto  al  mio  corpo,  a  venti,  a  pioggie 
Esposto,  e  alle  tempeste.  Ah  qual  dolore 
Mi  trafigge  più,  ch'altro!  Angela  mia. 
Ingannata  dal  reo  crudo  ministro. 
Con  la  real  presenza  in  preda  resta 
Del  traditor,  credendolo  suo  sposo. 


184  II*   RE  CERVO.    .         / 

Oh  insofferibil  doglia!  io  più  non  posso  {vedendo 

il  cadavere  del  vecchio) 
Ma  che  vedo!  Un  estinto  vecchiarello! 
Colle  magiche  note  in  questo  io  passo. 
Mi  s'aprirà  più  facile  la  via 
Di  poter  favellare  alla  consorte,  (si  fa  sopra  il 

corpo  del  vecchio;  recita  il  solito  versOj  il  cervo 

còde  morto;  il  vecchio  risuscita) 

SCENA  DODICESIMA. 
.   Dbramo  resuscitato  nel  vecchio  con  bastone* 

Il  ciel  non  m'abbandona,  e  sono  ancora 

In  corpo  uman;  potrò  cercar  vendetta.  (Specchiasi 

tiel  fiume) 
Ma  qual  figura  d'orridezza  miro 
Specchiandomi  in  quest'acque!  Io  son  Deramo! 
Dov'è  il  mio  corpo?  oh  Dio!  Deramo  io  sono? 
In  qual  stato  son  io!  crudo  ministro, 
Traditor,  empio.  È  questa  ricompensa 
A  tanti  benefizi,  ch'io  ti  feci, 
Traendoti  dal  fango?  Ah,  cieco  io  fui, 
Che  non  dovea  fidarmi,  e  maledico 
Il  punto,  in  cui  ti  volli  fare  a  parte 
Del  geloso  secreto.  Ah,  che  tant'anni 
Di.sperienza  di  fedel  servigio 
Ingannarmi  dovean;  ma  un  punto  solo 
Fece  veder  di  quanta  scelleraggine, 
J)i  quanta  iniquità  fosti  capace. 


ATTO   SECONDO.  185 

Angela  mia  perduta!  Angela  mia!...  (smanioso) 
Oh  Dio!  parmi  vederti  fra  le  braccia, 
Ingannata,  dell'  empio,  (in  atto  dipartire )  Af- 
fretto il  passo... 
M'introduco  alla  corte...  Alla  consorte...  (si 

ferma  ) 
Ma  che?  come  farò,  perch'ella  creda, 
Ch'io  sono  il  suo  Deramo,  se  l'infame 
Ministro  nel  mio  corpo  or  l'è  consorte? 
E  se  potessi  ancor  farle  palese. 
Ch'io  sono  il  suo  Deramo^  e  che  quell'  empio?... 
Come  amerà  questo  deforme,  e  inetto 
Corpo  in  confronto  al  mio?  Ella  è  pur  donna 
E  più  bel  corpo  con  iniquo  spirto. 
Che  gentil  spirto  in  orridezza  chiuso        ^ 
Vorrà,  seguendo  il  femminil  costume. 
Stanche  membra,  coraggio.  Angela  forse       ^ 
Non  è,  com' altre  son.  Tutte  le  forze 
Raccolgo,  ed  alla  Reggia  m'introduco. 
Morte  non  manca,  e  il  ciel  non  abbandona. 

(entra) 

SCENA  TREDICESIMA. 
Truffaldino  solo. 

Elsce  con  una  rete  in  collo,  e  vari  attrecci  atti- 
nenti all'  uccellatura.  Esamina  il  luogo,  lo  trova 
opportuno  a  tendere  insidie  a' volatili.  Vede  il 
cervo  itiorto,  l'esamina,  scopre,  ch'egli  ha  la 


l86  IL  «E  CERVO.  V. 

macchia  bianca  sulla  fronte,  si  ricorda  la  taglia 
posta  dal  Re,  fa  de' trasporti  di  gioia  sopra  il 
buon  principio  dell'uccellatura.  Tende  la  sua 
rete,  discorrendo  indispettito  del  torto  fattogli 
,da  Smeraldina.  Rammemora  i  regali,  che  le  ha 
fatti,  di  uccelli.  Protesta  di  non  voler  più  guar- 
darla. Parla  con  voce  bassa  per  non  sturbare 
l'uccellagione.  Tesa  la  rete,  si  ritira  da  ima 
parte.  Suona  vari  zuffoletti  da  uccellatore  per 
richiamo  di  uccelli,  ne  suona  di  caricati,  e  pro- 
porzionati al  suo  carattere.  Scopre  il  pappagallo, 
eh' è  il  Mago  Durandarte,  ivi  lasciato  da  Cigo- 
lotti.  Mostra  avidità  di  prenderlo  nella  rete. 
Fischia  con  caricatura,  s' affanna.  Il  pappagallo 
entra  volontario  nella  rete.  Truff.  corre  alle- 
gro, lo  prende,  lo  mette  in  una  gabbia  grande. 
Ritoma  all'uccellatura.  Non  prende  più  nulla. 
Il  pappagallo  gli  parla  con  voce  imitata  di 
pappagallo. 

SCENA  QUATTORDICESIMA. 
^  Durandarte  pappagallo  e  TRUFFALoma 

DuR.  Truffaldino. 

Truff.  Farà  degli  stupori,  e  degli  atti  di  spaventa 
Non  sa  chi  parli.  Guarda  intorno,  trova  il  corpo 
e  la  testa  di  Tartaglia;  si  spaventa  maggior- 
mente. Teme,  che  quel  cadavere  l' abbia  chia- 
mato. Vuol .  raccogliere  le  reti,  le  prede,  e 
fuggire. 


ATTO  SECONDO.  187 

DuR.  Truffaldino,  non  aver  paura. 

Truef.  S'avvede,  che  la  voce  non  viene  dalla 
parte  del  cadavere.  Sospetta,  che  sia  il  pappa- 
gallo. Si. prova  a  parlargli,  cominciando  colle 
solite  parole:  Pappagallo  real  ec. 

DuR.  Portami  in  corte  alla  Regina. 

Truff.  In  Corte?  alla  Regina? 

DuR.  Si  si,  sarai  ricco,  ricco,  ricco. 

Truff.  Sue  maraviglie.  Suoi  imbrogli,  timori,  al- 
legrezze; non  può  raccoglier  tutto,  il  cervo,  la 
'  gabbia,  la  rete.  Chiama  due  villani,  ordina  loro 
di  levare  quel  cervo  in  ispalla,  e  di  seguitarlo; 
eh' è  in  caso  di  donar  loro  sei  possessioni.  Af- 
faccendato raccoglie  tutto.  Accenna  di  portar 
nella  città  anche  la  nuova  del  cadavere  ritro- 
vato di  Tartaglia,  {entra) 

SCENA  QUINDICESIMA. 
Sala  regia. 

Tartaoua  R€  ed  Angela. 

Tartaglia  uscirà  dietro  ad  Angela,  che  lo/uggirà.  Egli 
terrà  de*  modi  goffi  e  villani,  e  tar taglierà  tratto  tratto 
con  del  dispetto  da  sé. 

Ano.  {uscendo  mesta)  Deh  lasciatemi  in  pace. 

Tart.  Come  diavolo. 

Caro  cor  mio,  vi  siete  voi  cambiata? 
Dov'è  quell'allegrezza?  È  un'ora  buona^ 
Che  vi  son  dietro  colle  mie  carezze. 


l88  IL   RE  CERVO. 

Mi  parete  una  matta.  Io  non  fui  buono 

Ancora  di  pigliarvi  per  la  mano,  (mentre par- 
lerà con  tal  goffaggine,  Angela  lo  guar- 
derà  fiso  con  d^  gesti  di  stupore,  massime 
a  qualche  tartagliata) 

(  a  parte)  Mi  guarda  fiso!  che  si  fosse  accorta? 

Eh  non  può  darsi.  Via,  cara,  chetatevi 

Dov'è  quel  grand' amore?... 
Ang.  (agitata)  Oh  Dio!  Deramo, 

Non  vi  sdegnate,  se  ragiono  franca. 

Più  non  posso  soffiir... 
Tart.  Sì  ragionate 

Liberamente  col  nome  del  diavolo. 
Ano.  (ributtandosi)  Mio  Re,  sarà  illusione  sfor- 
tunata 

Quella,  che  mi  travaglia.  Io  più  non  trovo 

U  mio  Deramo  in  voi 
Tart.  Come!  che  dite! 

Perchè?  (a  parte)  Questo  è  un  imbroglio  ma- 
ledetto. 
Ano.  Noi    so.   (guardandolo)    Pur   siete    quello 

stesso.  E  quella 

La  bella  faccia,  e  quelle  son  le  belle 

Membra,  che  amor  m'hanno  ispirato.  Pure 

I  gesti  non  son  quelli,  i  sentimenti 

Dello  spirito  vostro,  il  favellare. 

L'elevatezza  del  pensar  sublime, 

Le  delicate  immagini  non  sono 

O  non  mi  sembran  più  quelle,  che  il  core 

M'han  rubato  dal  sen,  che  m'han  sforzata 


ATTO  SECONDO.         '  189 

A  palesarvi  Tamor  mio,  ch'han  mosso 
n  desiderio  in  me  d'avervi  sposo. 
Perdon,  mio  Re;  perdono;  le  bellezze 
Del  vostro  corpo  la  cagion  non  furo    - 
Etel  vero  aflFetto  mio.  Furo  le  nobili 
Forme  del  pensar  vostro,  e  le  ingegnose 
Immagin  dello  spirto,  e  i  gravi  modi, 
Che  uscien  dall'  alma  vostra,  che  m' han  presa. 
Quelli  ch'io  più  non  trovo,  o  che  mi  sembra 
Più  non  trovar  in  voi,  per  mia  «ventura. 

(piange) 
Tart.  {a  parte)  Ma  possibile  fia,  che  in  questo 

corpo 

10  non  possa  ingegnarmi  a  parer  quello? 
Eh  non  piangete,  Angela  bella  mia. 

Ano.  lo  vi  confesserò  con  quella  stessa 
Bella  sincerità,  che  sì  vi  piacque, 
Che,  se  m'aveste  voi  prima  la  spezie 
Fatta,  che  mi  fate  ora,  io  v'avrei  detto:  (con 

orgoglio  ) 
Signor,  non  v'amo,  e  sposo  non  vi  voglio. 

Tart.  Oh  via,  queste  poi  sono  fissazioni. 
Questa  è  una  malattia  d'effetto  isterico. 

11  mal  sta  nel  cervello.  Caro  bene, 
Si  chiameran  dei  medici,  e  faremo, 
Che  vi  sia  tratto  sangue. 

Ano.  (collerica)  Si,  può  darsi. 

Ch'abbia  la  mente  inferma.  Ah,  certo  i  modi 
Vostri  non  son  quelli  di  prima.  Deh 
Lasciatemi  partir,  lasciate,  ch'io 


190  IL  RR  CERVO. 

Nelle  mie  stanze  mi  ritiri  a  piangere 
Con  libertà.  Nel  pianto  io  vo' distruggermL 

(  entra  ) 
Tart.  Sì,  cara  gioia  mia.  Già  sono  certo, 
Che  il  mal  vi  passerà,  che  m'amerete. 

SCENA  SEDICESIMA. 
Tartaoua  solo. 

Ah  ci  vuol  flenima.  Io  sento  nell'interno 
Un  amor  tutto  furia.  Userò  zucchero, 
Moine,  e  preghi,  e  poi  la  forza,  e  peri 
Farò  vendetta.  Arsenico  non  manca. 
Ora  mi  convien  far  qualche  fierezza 
Per  metterla  in  terrore  da  una  parte; 
Dall'altra  accarezzarla,  e,  s'è  possibile. 
Ridurla  a  sollevar  la  fiamma  mia. 
Son  Re,  resterò  Re.  Saprò  distruggere 
Tutto  ciò,  che  m' annoia,  e  non  m' alletta. 
Più  di  cento  persone  andranno  in  carcere; 
Sangue,  e  strage  farò,  se  ella  resiste. 

SCENA  DIECISETTESIMA. 
Claricb  e  detto, 

Clar.  Ah,  mio  buon  Re,  giustizia  per  pietade. 
(piange  dirottamente) 

Tart.  Che  fu,  Clarice? 

Clar.  Mio  padre  meschino 

Fu  nel  vicino  bosco  ritrovato. 
Tronco  il  capo  dal  busto,  (jpiaftge) 


ATTO  SECONDO.  I9I 

Tart.  (a  parte)  Poverina! 

Mi  fa  compassion.  Come!  che  dite? 
Oh  me  infelice!  Gli  assassini  iniqui, 
Che  il  mio  fido  ministro  m' hanno  tolto, 
Chi  fiiro?  me  li  dite.  Ah  ben  lo  dissi, 
Quando  non  si  vedea  più  sulla  caccia... 
Egli  era  odiato...  I  traditori  tosto 
Mi  palesate. 

Clar.  Ignoti  sono,  e  solo 

So,  ch'una  figlia  io  son  la  più  dolente, 
La  più  angosciosa,  che  nel  mondo  viva,  (piange 

dirottamente) 

Tart.  {commosso  farà  de?  la^i  occulti  di  tene- 
re\\aj  vorrà  abbracciarla,  poi  si  tratterrà) 
(a  parte)  Sento,  che  mi  commove.  Oh  se  potessi 
Palesarle  l'arcano!  Non  mi  fido. 
Chetatevi  Clarice;  in  me  averete 
Un  altro  padre;  il  giuro.  Vi  prometto, 
Che  per  la  morte  del  mio  fido  amico 
Strage,  e  sangue  farò.  Saprò  ben  io 
L'assassino  scoprir.  Voi  ritiratevi. 

Clar.  Io  v'  ubbidisco.  A  voi  mi  raccomando,  (pian- 

gendo  entra) 

SCENA  DICIOTTESIMA. 
Pantalone,  Leandro  e  Tartaglia. 

Lean.  (frettoloso)  Deramo,  Re,  con  mio  dolore 

deggio 
Un'infausta  novella  a  voi  far  nota. 


192  IL   RE   CERVO. 

Pant.  {frettoloso)  O  Maestà...  Maestà...  El  povero 

Tartagia. 

Tart.  (con  fiere^:{a)  So  tutto.  Miserabile  Ministro!^ 
Mio  più  fedele  amico!...   {finge  di  piangere) 

Chi  portata 
Ha  la  funesta  nuova  del  misfatto? 

Pant.  Uoselador  de  corte,  Truffaldin,  Maestà.  El 
dixe,  che  el  1'  ha'  trova  in  tei  bosco  vicin  de 
Roncislappe  in  tun  baro  de  spini,  tagià  la  testa. 

Tart.  Olà,  guardie,  {entrano  delle  guardie)  Sìa 

tosto  il  caro  corpo 
Del  mio  Ministro  incenerito,  e  poste 
Sien  le  ceneri  sue  dentro  d' un'  urna. 
Quest'urna  posta  sia  nelle  mie  stanze; 
Le  voglio  presso  a  me.  Voglio  memoria 
Conservar  sempremai  d'un  uom  si  degno. 
Sia  imprigionato  Truffaldino,  e  tutti 
Sieno  posti  prigion  color,  che  furo 
Oggi  meco  alla  caccia.  Disarmate 
Leandro  tosto,  e  Pantalone,  e  posti 
Sien  d'  una  torre  in  fondo.  S' incominci 
Da  questi  due  la  mia  perquisizione. 

Lean.  Io  disarmato  I 

Pant.  Mi,  Maestà! 

Tart.  {alle  guardie)  M'ubbidite.  Io  so, 
Quanto  nel  cor  de' Cortigiani  puote 
L'invidia,  e  il  tradimento.  Voi,  Leandro, 
So,  che  la  figlia  sua  amavate,  e  so. 
Che  quello  sfortunato  renitenza 
Aveva  di  concedercela  sposa. 


ATTO   SECONDO. 


193 


Vecchio,  a  voi  forse  rincresceva  troppo, 

Ch'egli  mi  fosse  c^o.  Ite  alla  torre; 

Se  sarete  innocenti,  saprò  assolvervi. 

{a  parte)  Quel  cervo  mi   sta  a  cor;  ma  al 

nuovo  giorno 
Tutto  farò  per  dargli  morte.  Intanto 
Ete'più  forti  mi  sono  assicurato. 
Angela  tema.  Il  regno  più  non  perdo. 
Lean.  O  me  infelice^  Ogni  speranza  è  persa,  {erir 

tra  tra  le  guardie)      ^ 
Pant.  Questa  è  la  prima  entrada,  che  scodo  a  esser 
mlssier  de  so  Maestà;  ma  el  Cielo  defendetà  la 
.  mia  innocenza,  {entra  tra  le  guardie) 


Gozzi, 


i3 


ATTO  TERZO 

Stanza  regia.  Vedeai  nel  fondo  una  gabbia  grande  con  entro 
un  Pappagallo.  Tal  gabbia  sarà  posta  sopra  una  tavt>la,  o 
altro,  che  serva  a,  focilitare  la  trasformazione^  che  seguirà. 


SCENA  PRIMA. 
Deramo  vecchio  entrando  afaticato  e  tiinoroso. 


ASSO!  non  posso  più.  Le  membra  stanche 
Io  reggo  a  stento.  In  questa  reggia,  dove 
Monarca  fui,  devo  fuggir  ognimo; 

Temer  ogni  ministro,  ogni  vii  servo; 

Introdurmi  di  ftirto.  Oh  quale  assalto 

Ebbi  da' cani  miei!  M'ha  salvo  il  Cielo. 

L'intime  stanze  queste  son.  Vorrei 

Veder  Angela  mia,  vederla  sola 

Per  poterle  narrar...  Ma  nascondiamo, 

Che  alcun  non  mi  scoprisse.  Angela  forse 

Capiterà;  potrò  parlarle.  Oh  misero! 

Chi  sa,  se  al  mio  parlar  presterà  fede? 

Chi  condannarla  può,  se  non  la  presta?  (si .na^ 

sconde) 


196  IL   RE    CERVO. 

SCENA  SECONDA. 
-      Angela  e  Derauo  vecchio. 

Ang.  (da  5e>Come!  Tartaglia  è  morto!  Il  padre  mio, 
Il  fra  tei  mio  prigioni  Quai  stravaganze? 
Quai  cambiamenti,  e  tirannie  saranno 
Queste  del  sposo?  Ah,  più  mi  riconfermo, 
Ch'  ei  differente  sia  da  quello,  eh'  era. 
Der.  {uscendo  in  dietro)  Ecco  la  sposa  mia;  {guarda 
dentro)  Ma,  oh  rio  destino! 
Un  servo  arriva,  e  m'impedisce  ogn'opra.  {si 

nasconde) 

SCENA  TERZA. 
Angela  e  Truffaldino. 

Truff.  Esce,   si  presenta  con  una   goffa   umilia- 
zione. Dice  di   esser  venuto,   perch'ella  possa 
rassegnarle  i  suoi  rispetti,  perchè  egli  si  degna 
.  di  regalarle,  piosso  dalla  generosità  verso  i  suoi 
demeriti,  una  cosa  assai  rara  ec. 

Ano.  Eh  caro  Truffaldino,  ho  ben  in  mente 
Altro,  che  i  tuoi  presenti,  e  le  tue  sciocche 
Goffaggini  ridicole.  Deh  parti. 
Quai  regali  vuoi  farmi?  Va,  mi  lascia. 

Tritff.  Che  vuol  donarle  un  pappagallo,  il  più 
virtuoso,  il  più  dotto,  che  sia  uscito  dal  Semi- 
nario. Ch'egli  l'aveva  ^à  portato  in  quella 
stanza,  e  che  attendeva  1'  occasione  di  poterlo 
rassegnare  al  suo  ossequioso  demerito  ec. 


ATTO   TERZO^  ,      ^197 

Ang.  Vanne,  servo  importuno,  e  teco  porta 
I  pappagalli  tuoi;  non  mi  dar  noia. 

Truff.  Ma  che  S.  M.  deve  sapere,  che  quello  è 
un  pappagallo  più  eloquente  di  tutte  le  fen> 
mine  del  mondo.  Si  volge  al  pappagallo  per 
farlo  pgy-lare.  Lo  chiama  con  quei  modi,  che 
s'adoperano  co' pappagalli  ;  si  volge  alla  Re- 
gina, pregandola  ad  ascoltare.  Si  volge  al  pap- 
pagallo di  nuovo;  lo  stimola;  quello  non  ri- 
sponde mai.  Truff,  s'infuria  con  minacce  al 
pappagallo,  e  con  preghi  alla  Regina,  che  ascolti. 
Fa  molti  la^zi  spropositati. 

Ang.  Parti,  ti  dico  ;  più  non  molestarmi, 
O  dal  veron  ti  fo  gettare  in  piazza. 

Truff.  Al  pappagallo,  maledicendolo,  se  quelle 
sieno  le  ricchezze  da  lui  promesse  nel  presen- 
tarlo alla  Regina. 

SCENA  QUARTA. 
Una   GUARDIA  e  detti, 

Guar.^  Signora,  con  licenza. 

Ang.  Che  vuoi  qui? 

Truff.  Alla  Regina,  che  non  si  riscaldi.  Esser 
quella  una  persona  naturalmente  spedita  dal  Re 
a  pagargli  diecimila  zecchini  di  taglia,  perch'  egli 
ha  valorosamente  Ucciso  il  cervo  dalla  macchia 
bianca  in  fronte,  per  ordine  di  S.  M.  Si  volge 
alla  guardia,  chiedendo  i  danari. 


198  IL   RE   CERVO.        ■ 

GuAR.  n  Re  comanda;  che  costui  conduca 
,  Nel  fondo  d' una  torre.  Egli  è  sospetto,  . 
Signora,  sulla  morte  di  Tartaglia. 
U  ar^ir  mio  non  v'  ofEenda.  Andiam,  birbante. 
(  ^o  piglia  per  un  braccio  ) 
Truff.  Se  quella  sia  la  taglia  guadagn^ita  ec. 
Ang-  G)mel  Nelle  mie  stanze!...  È  questo  il  loco?... 
GuAR.  Ubbidisco  al  mio  Re.  Vieni,  buffone. 

Tempo  non  è  di  tue  sciocchezze.  Andiamo.  (  lo 

strascina) 
Truff.  Sue  collere  còl  pappagallo,  col  Re,  colla  Re- 
gina, col  Cervo,  entra  colla  guardia  piangendo. 

SCENA  QUINTA. 
Angela  sola. 

Crescon  le  tirannie.  Misera  me! 

Già  attendo  sopra  al  capo  mio  sciagure, 

Che  averan  fine  colla  morte  mia. 

Ah,  caro  padre,  ah,  caro  mio  fratello, 

Qual  colpa  avete  voi,  che  sia  Tartaglia 

Nel  bosco  ucciso,  e  qual,  eh'  io  più  non  possa 

Amar  lo  sposo,  come  prima  amava?  {piange) 

SCEI^A  SESTA. 
Deràmo  vecchio  ed  Angela. 

Der.  (di  dentro)  Non  pianger,  no,  cara  mia  vita. 

Dolce 
Consorte  mia,  non  lagrimar. 


ATTO  TERZO.  .  ^99 

Ai4G.  (sorpresa  e  spaventata)  Che  sento l 

Questa  è,  del  Re  la  voce. 
Der.  {di  dentro)  Ella  è  pur  troppo 

Del  tuo  sposo  la  voce,  alma  innocente. 
Ang.  (più  sorpresa)  Qie!...  il  pappagallo  forse?... 

come  mai? 
Der.  (uscendo,  e  al^^ando  una  mano  tremante  verso 

Angela)  Non  sbigottirti,  e  non  m'avere  a  schifo,, 

Viscere  mie,  ti  prego,  (s^ avanza  lentamente) 
Ang.  (confusa  e  agitata)  Ah,  vecchio,  dimmi. 

Chi  t' introdusse I  Chi  sei  tu?  Che  dici? 

Parti  dalle  mie  stanze,  traditore. 

(a  parte)  Certo  di  furto  egli,  s'è  qui  nascosto 

Per  udire  i  miei  detti,  ^  riportarli 

A  Deramo  sdegnato,  che  m'ha  in  ira. 

Fuggi  vecchio  maligno,  o  i  servi  mi^i...    (in 
atto  di  chiamare) 
Der.  Fermati  per  pietade;  Angela,  ascolta. 

(  a  parte  )  Ahi,  m' abborrisce,  ed  ha  ragion  ;  né 

puote 

Il  suo  Deramo  in  me  conoscer  mai. 

Angela,  dimmi;  in  quest'orrida  scorza 

Tutto  abborrisci,  e  in  me  non  trovi  nulla?... 

Nulla,  che  non  t' incresca?... 
Ang.  *  Quai  parole 

Di  vecchio  stolto l  che  di  tu?  che  chiedi? 
Der.  Stolto,  pur  troppo  è  ver.  Dimmi,  idol  mio? 

Nel  Re  non  trovi  alcuna  differenza 

Da  quel,  eh'  era  stamane  ? 
Ang.  (sorpresa)  Oh  Dio!  che  sento! 


200  IL   RE   CERVO. 

Quai  parole  son  queste?  miserabile, 

Chi  qua  ti  manda  a  chiedermi  di  questo? 

Der*  Miserabile,  è  ver.  Ti  sovverrebbe, 
Che  il  tuo  Deramo  allo  spezzar  che  fece 
Il  feiixiulacro  magico  stairjape, 

'     Che  alle  donnesche  falsità  ridea, 
Per  non  avere  occasion  d' offendere 
La  cara  Angela  sua,  ch'ei  così  disse: 
Ebbi,  cinqu'  anni  or  son,  da  uh  mago  in  dono 
Due  gran  segreti,  uno  de' quali  è  quello, 
'  L'altro  in  petto  lo  serbo? 

Ano.  (sorpresa  maggiormente)  È  ver;  lo  disse; 
Ma  come  sai  tu  tanto?  Oh  me  infelice! 
Quali  copfusi  dubbi  mi  travagliano! 
Mi  s'aggirano  in  mente! 

Der.  (a  parte)  El^la  sospetta; 

Opportuno  sospetto.  Ti  sovviene. 
Angela,  che  stamane  il  tuo  Deramo... 
(battendosi  il  petto)  Il  tuo  Deramo,  nell'estreme 

stanze 
Teco  scherzò  d'un  picciol  segno,  e' hai 
Sopra  il  petto  nascosto,  e  ti  dicea, 
Ch'ei  ti  scema  bellezza?   (Angela  ascoltando 
dimostra    somma  sorpresa.   Deramo  pian-- 
gendo  segue)  ' 

Ah  ben  maggiori, 
E  da  ver,  d'orridezza  ha  mille  segni    - 

^  Ora  lo  sposo  tuo,  da  mortai  pena 
Trafitto,  che  la  sposa  noi  conosca. 
Privo  di  giovinezza,  e  servi,  e  regno,  (piange) 


ATTO   TERZO.  .  20I 

Ang.  (agitata  avvicinandoseglì)  Vecchio...   che 
dici?...  Oimè,  che  intesi  mai. 
Ritoma  a  dirmi...  dimmi... 

Der.  {raccogliendo  le  fon(e)  Angela  sappi... 
Oh  ciel,  dammi  tu  forza,  ond' apparisca 
Verità  sul  mio  labbro.  Angela,  sappi, 
Ch'io  sono  il  tuo  Deramó,  in  questo  corpo    ■ 
Deforme  chiuso.  Il  corpo  mio.  Consorte, 
Chiude  lo  spirto  di  Tartaglia  infido 
Per  magico  potere.  Io  di  lui  troppo 
Mi  fidai,  cara  sposa;  e  della  mia 
Debolezza  fatai  dovremo  piangere 
La  sciagura  per  sempre. 

Ang.  Ah,  come,  vecchio, 

Può  darsi  metamorfosi  sì  strana! 

Der.  Se  m' abborrisci,  anima  mia,  e  noti  credi, 
Se  più  non  m'ami,  levami  la  vita; 
Tanta  miseria  almen  non  sofferire 
Che  la  miseria  mia  di  tanto  accresca,  (piange} 

Ang.  Ah,  che  questa  è  la  voce  certamente, 
E  questi  sono  i  sentimenti  alteri 
Certo  del  spirto  invitto  di  Deramo. 
Deramo,  è  ver;  voi  siete  il  mio  Deramo.  (  la 
piglia  per  una  mano) 

Der.  M'ami  tu  dunque  ancora,  anima  mia. 
Né  ti  spaventa  quest'orrido  corpo? 
Anima  grande,  anima  rara  al  mondo.  (  le  bacia 
una  mano  piangendo  ) 

Ang.  Ma  come  mai  voi  sì  deforme  in  vista, 
Tartaglia  Re,  Tartaglia  estinto,  e  poi 


202  IL   RE   CERVO. 

Or  si  abbrucia  il  cadavere  di  lui! 

Quai  stravaganze!  Io  nulla  intendo,  e  solo 

Spasmi,  ed  angosce  son  quelle,  che  intendo. 

Ah,  ben  m'avvidi,  che  il  diletto  spirto 

Del  sposo  mio  nel  corpo  suo  non  era.  {piange) 

Der.   Non  pianger,  per  pietà,  che  maggiormente 
Angela,  accresci  la  miseria  mia. 
Dimmi,  se  il  traditor  nella  mia  formia 
Di  te,  cara...  Ah  noi  dir,  taci  per  sempre* 
La  mia  sventura,  e,  se  per  sorte  io  deggio 
Rimaner  testimonio  de' miei  torti. 
Tu  vivi,  anima  mia,  tu  vivi  pure, 
Se  hai  cor;  ma  più  non  viva  il  tuo  Deramo. 
Di  questa  salma  scioglimi...  m'uccidi  (conrfi- 

spercu^ione) 

Ang.  Non  sospettar,  Deramo;  il  tuo  bel  corpo 
Senza  lo  spirto  tuo,  caro,  ho  sprezzato, 
Vilipeso,  abborrito.  In  smania,  in  ira 
E  il  traditor  ministro,  e  in  tirannie 
Sfoga  la  rabbia  sua.  Già  son  prigioni 
GÌ'  infelici  mio  padre,  e  mio  fratello. 
Tutti  minaccia...  Ah,  ch'io  men  corro  tosto 
A  palesar  l' inganno,  a  sollevare 
Il  popol  tutto.  Forse  trucidato 
Morrà  l'indegno...  (m  atto  di  partire) 

Der.  Fermati,  mia  vita. 

Tutti  farai  perir.  Come  potrai 
Fede  in  ciò  ritrovare?  Altra  speranza 
Non  mi  rimane,  che  nella  tua  calma, 
Ma  sento  venir  gente.  È  questo  loco 


ATTO  TERZO.  ,  2O3 

Periglioso  per  noi.  Nel  gabinetto, 
Se  4ion  isdegni,  andiamo.  Ivi  udirai... 
Ivi  ammaestrerotti,  e  l'amor  solo 
D'Angela  mia  può  vendicarmi;  a  quello 
Mi  raccomando. 
Ang,  Ah,  se  un  costante  affetto 

Può  giovarti,  idol  mio,  non  passa  molto, 
Che  Siam  felici,  e  la  vendetta  è  fatta,  (entrano) 

SCENA  SETTIMA. 
Camera  corta. 

Smeraldina  e  Brighella. 

Brio,  (fuggendo  da  Smeraldina,  che  lo  segue) 
Ma  ti  m' ha  mo  secca,  che  son  agro.  Figu- 
rarse!  me  xe  sta  dito,  che  una  guardia  me 
cerca  per  metterme  preson;  go  altro  in  testa, 
che  le  to  seccadine.  Mi  debotto  te  dago  do 
peadine  in  tei  cesto,  e  te  ficco  fora  de  casa. 
Astu  el  diavolo  adosso? 

Smer.  Sì,  sì,  traditore,  la  tua  ambizione  fu  causa 
della  mia  rovina.  Mi  volesti  esporre  nel  gabi- 
netto del  Re;  fui  rifiutata;  e  per  questo  Truf- 
faldino non  mi  vuol  più.  Il  mio  decoro  è  scre- 
ditato. Ho  perdute  tutte  le  occasioni;  e  però 
pensa  a  ritrovarmi  un  marito,  altrimenti  ave- 
rai  satanasso  in  casa;  ti  sarò  sempre  a' fianchi, 
ti  farò  infelice,  ti  farò  impiccare  per  la  di- 
sperazione. 


204  l^   RB   CERVO. 

Brig.  Ma  se  gerimo  d'accordo...  Ma  se  ti  avevi 
più  vogia  ti  de  mi  de  produrte  al  Re...  Ma 
gran  femene!  gran  femene!  Mi  ti  voi  che  te 
trova  marido?  Va  in  malora;  mettite  all'in- 
canto. Trovetelo  ti,  se  ti  xe  bona. 

Smer.  Dal  canto  mio,  signor  asino,  ho  fatto  il  pos- 
sibile; non  voglio  più  diventar  matta.  Ho  pro- 
vato a  stringere  la  mano  a  tutti  gli  staffieri,  a 
far  l'occhiolino  a  tutti  i  guatteri  di  cucina,  a 
sospirare  innanzi  a  tutti  i  facchini  di  Corte,  a 
tutti  i  mozzi  di  stalla;  ma  nessuno  mi  vuol 
guardare;  mostrano  di  aver  nausea  di  me,  mi 
fanno  gli  sberleffi,  e  ridono;  e  questo  mi  suc- 
cede appunto  per  essere  screditata,  pregiudicata 
dal  rifiuto  del  Re,  nato  per  tua  causa. 

Brig.  Oh  vustu,  che  te  diga  mi,  perchè  tutti  te  fa 
i  sberleffi,  e  cossa  che  te  pregiudica? 

Smer.  Perchè?  che  cosa?  Perchè?  che  cosa?  assas- 
sino della  mia  riputazione,  e  del  mio  stato! 

Brig.  (riscaldato)  Te  pregiudica  quaranta,  e  più 
anni,  che  ti  ga  sul  preterito.  Te  pregiudica^ 
che  ti  xe  più  brutta  de  Chiara  matta,  e  te  pre- 
giudica... (No  posso  più  taser)  che  ti  vuol  pas- 
sar per  donzella,  e  oramai  se  sa  anca  in  sto 
paese,  che  a  forza  dei  to  maledetti  desideri  de 
aver  marido,  ti  ha  servì  in  Lombardia  in  più 
de  sie  casade  per  nena.  No  me  seccar  più,  pezzo 
de  matta,  (entra  furioso) 

Smer.  Ah,  canaglia,  briccone,  traditore!  (gli  corre 
dietro) 


ATTO   TERZO.  20$ 

SCENA  OTTAVA. 

Camera  prima  col  pappagallo,  e  preparata  alle  trasformazioni 
che  seguiranno. 

Angela,  Deramo  vecchio  e  Durandartb  in  pappagallo, 

Ang.  Sì,  mio  ben,  non  temete;  io  farò  tutto 

Ciò,  che  voi  m'insegnaste,  e,  se  pur  vana 

Fosse  l'opera  mia,  non  dubitate; 

Morrà  Tartaglia,  e  voi  ritornerete 

Nello  stato  primiero. 
Der.  Ah,  sposa,  è  questo 

L' unico  modo  di  recar  soccorso 

Al  tuo  caro  consorte.  Violenza 

Perigliosa  sarebbe.  Ma  la  voce 

Sento  del  traditore.  Oh  robustezza!... 

Mie  .prime  forze,  dove  siete  mai? 

Perchè  m'abbandonaste,  e  perchè  sento 

Tanto  furor  nell'alma,  e  tal  fiacchezza 

Disugual  nelle  membra,  ch'io  non  possa 

Vendicarmi,  sfogarmi?  Io  mi  nascondo. 
.    Pensa  a  ricuperare  il  tuo  Deramo, 

Qual  era  prima.  Angela,  t'accomando... 

{le  prende  una  mano)  Usa  arte,  quanto  puoi; 

ma  ti  scongiuro. 

Deh  non  l'accarezzar;  fa,  che  l'iniquo 

Non  s'avvicini  a  te.  Fa  quanto  puoi... 

Ah.,  non  badarmi...  passion  m'accieca... 

Furor  di  gelosia,  non  mi  tradire,  {si  ritira) 


206  IL   RE  CERVO. 

Ano.  Ite,  ch'ei  s'avvicina.  Testimonio 
Dell'oprar  mio  sarete;  ite,  celatevi. 

SCENA  NONA. 

Tartaglia  Re,  Guardie  Jn  dietro,  Angbla 
e  DuRANDARTB  iVi  pappagallo. 

Tart.  (da  se)  Il  cervo  è  morto,  e  lo  conobbi  al 

segno; 
Ma  TrufFaldin  s'imbroglia,  e  non  l'uccise 
Pieno  son  di  sospetti,  non  vorrei... 
Ma  che  temer?  Son  Re,  tremi  ciascuno. 

Ang.  (da  se)  Mio  cor,  resisti.  A  fingere  ti  sforza, 
E  a  soflferir  del  traditor  la  vista. 

Tart.  ( da^  se)  Solo  il  cor  di  costei  mi  manca,  e  poi 
Sono  felice.  Ah  sento,  che  l'amore 
Mi  fa  rabbioso.  Or  fo  1'  ultima  prova  : 
Angeletta,  cor  mio5  ^^  ^^y  vi  siete 
Ancor  risolta  a  non  lasciar,  eh'  io  crepi 
Per  amor  vostro?  Vi  sentite  ancora 
Passar  la  fissa2Ìon,  gli  effetti  isterici, 
Che  m'han  privato  dell' affetto  vostro? 
(a  parte)  Più  gentilmente  noti  si  può  trattarla. 

Ang.  Signore,  io.facea  yoti,  e  umili  prieghi 
Al  Ciel,  che  mi  togliesse  un'illusione, 
Che  infelice  mi  rende,  e  già  dal  core, 
E  dalla  mente  disgombrare  in  parte 
Mi  sentiva  il  crudele  abborrimento. 
Poi  da  me  stessa  con  riflessi  saggi 

^    Diceva:  Egli  è,  pur  quel,  che  sì  mi  piacque! 


ATTO   TERZO.  20J 

Da  qual  follia  mi  lascio  prender  mai, 
Che  mi  tolga  la  pace  insin  eh'  io  viva  ? 
Vinci  te  stessa,  Angela  incauta,  e  seguì 
Ad  amar  chi  t' adora.  È  l' infernale 
Mostro,  che  ti  persegue,  e  cambia  in  aspra 
Vita  la  coniugai  felicitade. 
Così,  Deramo,  da  me  stessa  andava 
Soccorrendo  il  mio  core,  e  risvegliando 
La  tenerezza  in  me. 

Tart.  (pigliandola per  una  mano)  Cara!  bravissima! 
-  Così  mi  piace.  Via. 

Ang.  (a  parte)  Empio!...  fellone! 

Ma  qual  intoppo  a  me  non  fu  il  sentire. 
Che  il  caro  padre  mio,  barbaramente, 
E  mio  fratel,  son  posti  in  prigion  dura 
Per  vostra  commessióne,  e  eh'  altri  cento 
In  carceri  son  posti?  Ah,  dissi  questi 
Tiranni  modi  di  Deramo  mio 
Non  sono  già.  Rinnovellato  ho  il  pianto. 
Misera,  ricadendo...  (in  atto  di  piangere) 

Tart.  Non  piangete, 

Mio  sol,  mia  luna  (a  parte)  Buon  fu  il  mio 

cerotto 
Per  ammollire  i  calli  del  suo  cuore. 
Io  gli  misi  in  prigione,  Angela  mia. 
Per  appagar  il  popolo,  che  freme. 
Del  mio  fedel  Tartaglia  appassionalo; 
Ma  dopo  alcuni  esami,  assicuratevi, 
'  Salyo  fia  vostro  padre,  ed  il  fratello,  • 
Quand'anche  sieno  a  parte  del  misfatto. 


208  IL  RE   CERVO. 

Akg.  (a  parte)  Ah,  traditori 

Tart.  e  se  per  sorte  al  scioglierli 

Tosto  il  cor  vostro  al  mio  core  s'arrende, 

Liberi   saran   tosto,   {ad  una   guardia)    Olà; 

Leandro, 

E  Pantalone  in  libertà  sian  posti  {una  gnar- 

dia  parte) 
Ang.  Caro  Deramo^  si  questi  son  modi, 

Che  destan  nel  cor  mio  la  tenerezza, 

Scaccian  l' abborrimento.  Più  bei  tratti 

Non  son  di  questi,  che  sanar  mi  possano. 

Già  ad  amarvi  incomincio. 
Tart.  {con  trasporto  grande)  Oh  sangue  mio. 

Seguite  a  chieder  grazie;  via  pensate; 

Ruminate  tra  voi;  tutto  chiedete; 

Tutto  farò  per  voi. 
Ang.  {fingendo  tenere^a)  Caro  il  mio  sposo. 

Poco  m'avanza  a  superar.  Leandro 

Ama  Clarice,  il  fratel  mio,  deh  fate 

Che  consolato  ei  sia. 
Tart.  {in  maggior  trasporto)  Uh  uh  uh  uhi 

Le  Castella  d' Isola,  e  Clarice 

Dono  a  Leandro.  Andiamo,  Angela  mia.   {pi- 
gliandola per  un  braccio) 
Ang.  {con  somma  tenere^s^a)  Caro  Deramo,  no; 

sappi,  alcun  picciolo 

Ribrezzo  mi  molesta  ancora.  Io  penso 

A  chieder  grazie  per  aver  cagioni 

Di  doverti  adorar,  né  più  saprei 

Qual  favor  chieder  deggia. 


ATTO   TERZO.  2(fg 

Tart.  Via,  colomba. 

Più  non  mi  tormentate.  Su,  chiedete, 
Chiedete  tutto  in  ima  volta...  e  andiamo. 

Ang.  {basso  a  Tart.)  Mandate  via,  Signor,  questi 

soldati. 

Tart.  {alle  guardie)  Ite,  ed  a' cenni  miei  ritor- 
nerete. (  le  guardie  partono  ) 

Ano.  {mostrando  soggepone)  Voi  mi  diceste  pur 

per  darmi  un  segno 
Di  vero  amor,  di  vera  fé  stamane. 
Che  possedete  un  magico  secreto 
Da  passar  collo  spirto  in  un  cadavere. 
Restando  morto,  e  ravvivando  quello; 
E  ch'indi  ritornar  nel  vostro  corpo 
Potete  poi  con  magiche  parole. 
Fatemi  ancor  di  sì  possente  arcano 
Veder  la  esperienza. 

Tart.  (  a  parte  con  sorpresa  )  Oimè  l  Deramo 
Confidato  ha  il  segreto  alla  consorte! 

Ang.  Parmi,  che  abbiate  qualche  renitenza 
Ad  appagarmi  in  ciò.  Forse  dì  fede 
Temete  ch'io  mancar  vi  possa? 

Tart.  ^  No. 

{a  parte)  Ah  questo  è  troppo...  i  miei  sospetti 

crescono, 
Mostriam  franchezza.  Anche  di  questo  voglio 
Appagarvi,  cor  mio;  ma  è  ben  dovere 
Dopo  tanti  attestati  del  mio  affetto. 
Ch'anche  voi  m'appaghiate  in  qualche  cosa. 
Vi  son  consorte  alfin. 

Gozzi.  14 


2  IO  IL   RE  CERVO. 

Ahg.  Ah,  mio  Deramo, 

Io  v'asskuro,  dopo  questa  grazia 

Quanto  capace  sono,  vederete, 

D' amor  per  il  mio  sposo. 
.  Tart.  {a  parte)  Oh  certamente 

Questo  è  troppo  periglio,  ed  i  sospetti 

Crescono  fuor  di  modo.  Io  non  l'appago. 

S' usi  la  forza  alfìn  ;  di  che  temere  ? 

Angela,  un  cervo  morto  sta  qui  fuori, 

Qui  lo  farò  recar;  la  sperienza 

Ben  vi  farò  veder,  ma  intanto  andiamo. 
Ano.  Appagatemi  prima,  e  vostra  sono. 
Tart.  (la  piglia  con  violerv^a)  Eh  sono  stanco; 

troppo  ingrata  siete, 

A  forza  finalmente... 
Ang.  {da  se  agitata)        Ah  vana  è  l'opra. 

Misera  mei  Deramo,  io  vi  scongiuro... 
Tart.  (strascinandola)  Non  ci  sono  scongiuri;  via, 

venite. 
Ang.  (difendendosi)  Oh  Cieli...  Deramo...!  sof- 
frii..^ Oh  Diol...  Deramo... 

SCENA  DECIMA. 
Deramo  e  detti 

Der.  (di  dentro)  Fermati,  traditore;  iniquo,  fermati 
Tart.  (da  se  agitato)  Qual   voce   è  questa!   io 

sono  rovinato. 
(si  stacca  da  Ang,  sbigottito)  Questa  è  del  Re 
la  voce.  Ah  traditora! 


ATTO  .TERZO.  ,  211 

,  »       ■ 

Tu  per  tormi  la  vita  gli  assassini 
Hai  qui  nascosti?  Io  scoprirò  gli  agguati. 
Trema  per  chi  è  nascosto,  e  per  te  trema. 
(entra  dalla  patzte,  dov* è  DeramOy  traendo 
la  spada) 
Ano.  Misera  me!...  misera  me!...  sori  morta. 

{Angela  cade  in  deliquio.    Tartaglia  esce 
colla  spada  ignuda,  e  strascinando  Deramo 
per  un  braccio) 
Tart.  (furioso)  Dimmi,  chi  sei,  vecchio  insensato? 

Dimmi, 
Come  sei  qui?  Ragiona,  o  questa  spada 
Ti  ficco  nella  gola. 
Der.  Empio,  rispettami. 

Son  Derimo,  il  tuo  Re.  De' benefizi 
Ricordati,  fellon.  Se  ti  rincresco. 
Svenami  pur;  rimetto  al  Ciel  l'inganno. 
Tart.  (  confuso  da  se)  Ah  questo  vecchio  ben  co- 
nosco; è  quello, 
'Che  alla  caccia  oggi  uccisi.  Incauto  io  fui 
Quel  corpo  ivi  a  lasciar.  Pur  troppo  è  vero; 
Orba  l' uomo  il  suo  errof .  Ma  sono  a  tempo. 
Mori,  vecchio  bugiardo,  e  nell'abisso... 
(al:[a   la   spada  per   trucidarlo.   Odesi  un 
tremuoto  improvviso.  Deramo  e   Tartaglia 
spaventati  si  separano,   e  vannosi  a  porre 
a^  lor  posti  per  la  trasformazione,  che  dee 
seguire.  Angela  al  romore  torna  in  sé.  Du^ 
r andar  te  in  pappagallo  scioglie  la  voce) 
DuR.  Provvido  Cielo,  i  tuoi  prodigi  seguita. 


212  IL,  RE   CERVO.  •  .        . 

Difendi  l' innocenza,  insin  ch'io  spoglio 

Queste  penne  d'augel;  che  questo  è  il  punto. 
(segue  la  tras/ormaiione  del  pappagallo  in  uomo) 
Der.  (  attonito  )  E  quai  j^rodigi  !  Oh  come  il  Cielo 

a  tempo 

Anche  de' più  infelici  si  ricordai 
Tart.  (sbalordito)  Che  risolvp?  che  fo?  Fuggo? 

sto  fermo? 

Non  ho  più  mente;  mi  confondo  e  tremo. 
DuR.  (facendosi  innaw[i  con  una  verga  nella  mano) 

(a  Der.)  Innocente  Deramo,  non  temere. 

(a  Tart,)  Ministro  traditor,  tutto  paventa. 

Angela  amante,  virtuosa  donna, 

Non  temer  nulla.  Della  tua  vendetta 

Ti  voglio  spettatrice. 
Der.  (con  voce  piangente)  Angela  amata, 

Un  prodigio  mi  serba;  ma  mi  serba 

Un  oggetto  abborribile  al  tuo  sguardo. 
Ano.  Lo  spirto  tuo  fa  bella  la  jtua  spoglia; 

Non  t'affigger  di  ciò. 
Tart.  Ma  chi  mi  toglie. 

Forza  di  vendicarmi!  Olà,  ministri, 

Servi,  soldati;  il  vostro  Re  è  tradito. 
DuR.  Sordo  è  ognuno  per  te,  che  il  Ciel  favore 

Sol  dona  agl'innocenti;  or  t'avvedrai. 

L'empio  è  punito  aljor,  che  men  s'aspetta. 

Servi  d' esempio,  traditor  ministro, 

A  tutti  i  pari  tuoi,  che  con  usurpi 

Préndon  dei  Re  la  forma,  e  i  lor  Monarchi 

A' sudditi,  e  a' vassalli  mostruosi 


ATTO   TERZO.  ,         ^21^ 

Rendon,  come  Deramo,  disponendo 

Della  possanza,  dell' onor,  del  regno. 

Sappi,  fellon,  che  gentil  alma  è  quella, 

Che  r  uom  distingue;  e  se  a  Deramo  invitto 

È  necessario  d' appagar  la  vista 

De' mortai  colle  spoglie,  e  con  bellezza,  {con 

voce  alta) 
Cambinsi  i  corpi.  Tutta  la  miseria 
Del  Re  sopra  te  caschi,  e  peggio  ancora. 
L'usurpata  fortuna  al  buon  Deramo 
Restituisce  il  CieL  (a  Tart)  Fremi*  {a  Der.) 

T' allegra. 
{batte  la  verga.  Deramo  si  cambia  sino  al 
ginocchio  con  abiti  reali.  Tartaglia  si  cam^ 
bia  sino  al  ginocchio   colle  gambe  sca^e 
tutte  piagate  ) 
Ang.  Che  veggo  mai! 

Der.  {a  Dar.).     Amico...  oh  qual  fortuna! 
Tart.  O  Dio!  fermati...  basta...  oh  qual  miseria  1 
DuR.  Seguiti  il  tuo  destino,  anima  indegna. 
Angela  esulti,  il  buon  Deramo,  e  H  Regno. 
(  batte  con  la  verga.  Deramo  cambia  il  corpo 
con  ricco  vestimento.  Tartaglia   cambia   il 
corpo  con  una  camicia  lacera^  per  i  buchi 
della  quale  si  veggono  le  carni  ignude  di 
Tartaglia  )  , 

Ano.  {esultante)  O  del,  segui  il  tuo  aruto. 
Der.  Oh  sorte!...  Oh  amico !«. 

Tart.  Inorridisco...  ferma 

Dur.  Soffri,  iniquo. 


214  '  IL   RE   CERVO. 

•     Voi  v'allegrate,  che  il  destin  si  compie. 

{batte  la  verga.  Deramo  cambia  il  capo  con 

turbante  gioiellato.  Tartaglia  cambia  il  capo 

in   orrido   mostro  cornuto.    Trovasi   avere 

sotto  le  braccia  due  grucce  da  storpiato) 

Ang.  Deramo  mio...  Deramo... 

Der.  Angela  mia.,.' (s^ abbracciano) 

Tart.  (furioso  e  disperato)  Oh  dove  mi  nascondo?... 

Oh  dove  corro?... 
Oh  maladetto  amore...  maladetta 
Ambizione...  maladetto  il  punto, 
Che   traditor  divenni...   In  un  diserto...    {in 

atto  di  fuggire) 
DuR.  Fermati,  scellerato;  di  vergogna 
Qui  dei  morir.  Divenga  questa  stanza 
Pubblica  piazza.  Il  popolo  s'affolli. 
Spettacol  reso  seL  Fremi.  Ti  rodi. 
{baite  la  verga.   Si  cambia   la   stanca  in 
pia![s[a   con   quella    magnifcèw[a   e   lonta- 
nan^a,   che  dipende  dal l*  arbitrio,  e  dalla 
grande\\a  del  teatro). 

V 

SCENA  ULTIMA. 
Tutti  gli  attori,  guardie  e  popolo. 

Tart.  {correndo  per  la  scena  furente)  Chi  per 
pietà  m' uccide  ?  Chi  m' uccide  ? 
Amici,  io  son  Tartaglia  in  questo  mostro 
Dal  Ciel  cambiato.  Un  scellerato  io  sono. 

(  Tutti  fanno  degli  atti  di  stupore  ). 


ATTO   tERZO.^  215 

Clar.  {piangendo)  Oh  Dio!  che  vedo!  oh  Dio,  che 

,  sento!...  misera!  . 
Padre  mio...  padre  mio... 

Tart.  Non  pianger,  figlia  ; 

Pianto  non  merto;  scordati  del  padre, 
Dell'iniquo  tuo  padre.  Ognun  si  scordi 
D'un  mostro  abbominevole.  Già  sento, 
Che  vergogna,  e  rimòrso  al  cor  m'aduna 
Tanto  dolor,  che  dell'odiata  luce, 
E  di  vita  mi  priva.  È  il  Re  Deramo 
Vendicato  abbastanza.  X' infelice 
Mia  figlia,  o  Re,  quell'innocente  almeno 
Non  patisca  per  me.  Sposi  Leandro, 
Sia  protetta  da  voi,  poich' altro  padre 
Non  le  resta,  che  voi.  L'ambizione... 
■   L'amor...  la  gelosia...  m'han  fatto  iniquo. 
Mostro  divenni...  ed  il  dolor  m'uccide... 
M' uccide  il  duol...  {tremando)  La  rabbia... 

Ecco  la  morte... 

'     Ecco  il  demonio  orrendo...  oimè,  son  morto. 

{cade  morto) 

Pa^t.  No  so,  se  sia  più  granda  la  paura,  la  alle- 
grezza, o  la  curiosità  de  saver  sto  arcano. 

Lean.  Io  son  di  pietra.  Non  comprendo  nulla. 

Clar.  {piangerà;  tutti  gli  altri  faranno  gesti  di 
spavento  e  di  stupore) 

Der.  Amici,  ben  vi  scuso,  se  vi  prende 

Gran  maraviglia.  Io  miglior  tenipo  atìtendó 
A  tutto  dichiararvi.  Voi,  Clarice, 
Calmate  il  core,  e  di  Leandro  sposa 


21 6  IL   RE   CERVO. 

Sarete  un  dì..  Voi,  Negromante  illustre^ 
Ch'io  ben  conosco,  della  mia  persona 
Disponete,  e  del  Regno, 
DuR.  Durandarte 

Non  ha  mestier  di  Regni,  e  sol  vi  dice. 
Ch'oggi  i  segreti  ma^ci  hanno  fine; 
Ch'io  più  mago  non  son.  Resti  i'incarca 
Alla  Fisica  industre  di  far  guerra 
Sugli  organi,  e  le  voci,  che  passando 
Di  corpo  in  corpo  le  medesme  sono. 
Tolga  questo  mio  fine  a' dotti  spirti 
Cagion  di  disputar.  Si  rinnovellino 
Colle  solite  rape,  e  i  consueti 
Sorci  le  nozze;  e  voi,  pietosi  spirti, 
Se  il  convertirsi  nostro,  sino  in  bestie, 
Per  divertirvi,  qualche  scusa  merta, 
Consolateci  almen  con  qualche  segno 
Di  quella  umanità,  che  sì  v'  onora. 


TURANDO! 

FUBA  CHINESE  TEATRALE  TRAGICOMICA 
IN  CINQUE  ATTI 


PERSONAGGI 


TURANDOT,  Principessa  Chinese,  figliuola  di 

ALTOUM,  Imperatore  della  China. 

àDELMA,  Principessa  Tartara,  schiava  fiavonu  di  Turandot. 

ZELIMA,  altra  schiava  di  Turandot* 

SCHIRINA,  madre  di  Zelima,  moglie  di 

BARACH,  sotto  nome  di  Assan,  fu  Aio  di 

CALAF,  Principe  dei  Tartari  Nogaesi,  figliuolo  di  - 

TIMUR,  Re  d'Astracan. 

ISMAELE,  fu  Aio  del  Principe  di  Samarcanda. 

PANTALONE,  Segretario  d'Altoura. 

TARTAGLIA,  gran  Cancelliere. 

BRIGHELLA,  Maestro  de'  Paggi. 

TRUFFALDINO,  Capo  degli  Eunuchi  del  Serraglio  di  Tu 

randotc 
OTTO  DOTTORI  Chinesì  del  Divano. 
MOLTE  SCHIAVE  serventi  nel  Serraglio. 
MOLTI  EUNUCHI 
UN  CARNEFICE. 
SOLDATI. 


La  scena  è  in  Pechino,  e  nei  sobborghi.  Il  vestiario  di 
tutti  i  Personaggi  è  Chinese,  salvo  quello  di  Adelma,  di  Ca- 
laf  e  di  Timur,  eh'  è  alla  Tarura. 


ATTO  PRIMO 

Veduta  d^  una  porta  della  Città  dì  Pechino,  sopra  la  quale  ci 
Steno  molte  aste  di  ferro  piantate;  sopra  queste  si  vedranno 
alcuni  teschi  fitti,  rasi,  col  ciuffo  alia  Turca. 


SCENA  PRIMA. 
Calaf  uscendo  da  una  parte,  indi  Barach. 


Cal.  KS^^^fc^  NCHE   in   Pechin    qualch'  animo 

cortese 
Pur  dovea  ritrovar. 
Bar.  (uscendo  dalla  città)  Oimè!  che  vedo! 

Il  Principe  Calafl  come!  ed  è  vivo? 
Cal.  (sorpreso)  Barach. 
Bar.  $ignor... 

Cal.  Tu  qui! 

Bar.  Voi  quii  voi  vivo! 

Cal.  Taci;  non  palesarmi  per  pietade. 

Dimmi,  come  sei  qui? 
Bar.  Dopo  la  rotta 

Dell'esercito  vostro  sfortunato 

Sotto  Astracan,  veggendo  i  Nogaesi 


220  TURANDOT.     ' 

Fuggir  sconfitti,  e'I  barbaro  Sultano 
Di  Carizmo  feroce,  usurpatore 
Del  regno  vostro,  già  vittorioso 
Scorrer  per  tutto,  in  Astracan  ferito 
Mi  ritrassi  dolente.  Quivi  intesi, 
Che'l  Re  Timur,  genitor  vostro,  e  voi 
Morti  eravate  nel  conflitto.  Io  piansi. 
Corro  alla  Reggia  per  salvar  Elmaze, 
Vostra  madre  infelice;  e  iitvan  la  cerco. 
Già'l  Soldan  di  Carizmo  furioso. 
Senza  trovar  chi  s*  opponesse,  entrava 
In  Astracan  coi  suoi.  Io  disperato 
Fuggii  dalla  Città.  Peregrinando 
Più  mesi  andai.  Qui  in  Pechin  giunsi,  e   quivi 
Sotto  nome  di  Assan,  in  Persia  nato, 
A  una  vedova  donna  m'abbattei 
D'oppression  colma,  sfortunata;  ed  io 
Coi  miei  consigli,  e  con  alcune  gemme, 
Che  avea,  vendendo  in  suo  favor,  lo  stato 
Dell'infelice  raddrizzai.  Mi  piacque; 
Ella  ebbe  gratitudine;  mia  sposa 
Divenne  alfin,  e  la  mia  sposa  istessa 
Persian  mi  crede  ancora,  Assan  mi  chiama^ 
E  non  Barach.  Qui  vivo  coi  suoi  beni. 
Povero  a  quel,  che  fui,  ma  fortunato 
In  questo  punto  son,  dappoiché  in  vita 
Il  Principe  Calaf,  quasi  mio  figlio 
Da  me  allevato,  io  miro,  e  morto  il  piansi. 
Ma  come  vivo,  e  come  qui  in  Pechino? 
Cal.  Barach,  non  nominarmi.  Il  di  funesto, 


ATTO   PRIMO.  221 

Dopo  il  conflitto,  in  Astracan  col  Padre 
Cprsi  alia  Reggia,  e  delle  miglior  gemme    , 
Fatto  fardello,  con  Timur,  e  Elmaze, 
Miei  genitor,  di  panni  villerecci 
Travestiti,  fuggimmo  prontamente. 
Per  i  deserti,  e  per  1'  alpestri  roccie 
P>r  andavamo  celati.  Oh  Dio!  Barach^ 
Quante  miserie,  e  quanti  patimenti! 
Sotto '1  monte  Caucaseo  i  malandrini 
Ci  spogliaron  di  tutto;  e  i  nostri  pianti 
Sol  dono  della  vita  hanno  ottenuto. 
Con  la  fame,  la  sete,  ogni  disagio 
Era  compagno  nostro.  Il  vecchio  padre 
Or  sugli  omeri  miei  per  alcun  tempo. 
Or  la  tenera  Madre  via  portando, 
Seguivamo  il  viaggio.  Cento  volte 
Trattenni  il  genitor,  che  disperato 
Uccidersi  volea.  Ben  altrettante 
Cercai  la  madre  ritornar  in  vita, 
Per  languidezza,  e  per  dolor  svenuta. 
Alla  Città  d' Jaich  giugnemmo  un  giorno. 
Quivi,  piangendo,  io  stesso,  in  sulle  porte 
Delle  Moschee,  chiedea  pien  di  vergogna. 
Nelle  botteghe,  e  per  le  vie  cercando 
Tozzi  di  pane,  e  picciole  monete. 
Miseramente  i  genitor  sostenni. 
Odi  sventura.  Il  barbaro  Sultano 
Di  Carizmo  crudel,  non  ancor  pago 
Della  fama,  che  morti  ci  faceva, 
Non  ritrovando  i  nostri  corpi  estinti, 


222  TURANDQT. 

Ricche  taglie  promise  a  chi  recasse 

I  capi  nostri.  Lettere  ai  Monarchi 
Con  lumi,  e  contrassegni  ebbe  spedite, 
Con  le  quali  chiedea  di  noi  le  teste. 

Tu  sai,  quanto  è'  quel  fier  da  ognun  temuto. 
Se  un  caduto  Monarca  è  più  infelice 
Per  i  sospetti,  di  qualunque  uom  vile, 
E  quanto  vai  politica  di  stato. 
Un  provvido  accidente  mi  fé  noto, 
Che  '1  Re  d' Jaich  per  tutta  la  Cittade 
Cercar  facea  di  noi  secretamele. 
Ai  genitori  miei  corsi  veloce; 
Gli  animai  per  la  fuga.  Il  padre  mio 
Pianse,  e  la  madre  pianse,  e  in  braccia  a  morte 
Voleano  darsi.  Amico,  oh  qual  fatica 
L'  anime  disperate  è  a  porre  in  calma. 
Del  Ciel  gli  arcani,  ed  i  decreti  suoi 
Ricordando,  e  pregando!  Alfin  fuggimmo, 
E  nuove  angosce,  e  nuove  inedie,  e  nuovi 
Patimenti  soffrendo... 
Bar.  (piangendo)  Deh,  Signore, 

Non  dite  più;  sento,  che'l  cor  mi  scoppia. 
Timur,  il  mio  Monarca  a  tal  ridotto 
,  Con  la  sposa,  e  col  figlio!  Una  famiglia 
Real,  la  più  clemente  e  prode,  e  saggia, 
In  tal  mendicità!  Deh  dite:  Vive 

II  mio  Re,  la  sua  sposa? 

Cal.  Sì,  Barach, 

Vivono  tuttidue.  Lascia,  ch'io  narri 
A  qual  tribolazion  soggetto  è  Puomo, 


ATTO  PRIMO.  223 

Benché  nato  in  grandezza.  Un'alma  forte 

Tutto  de'soflferir.  De' ricordarsi, 

Che,  a  petto  a' Numi,  ogni  Monarca  è  nulla, 

E  che  costanza,  e  obbedienza  solo  ^  . 

Ai  decreti  del  Ciel  fa  Puom  di  pregio. 

De'Carazani  al  Re  fummo,  ed  in  Corte 

Nei  più  bassi  servigi  m'adattai 

Per  sostenere  i  genitori.  Adelma, 

Del  Re  Cheicobad  de'Carazani, 

Avea  di  me  qualche  pietade,  e  panni 

Poter  assicurar,  ch'ella  sentisse 

Più,  che  pietà  per  me.  Co'  sguardi  suoi 

Parea,  che  penetrasse,  ch'io  non  era 

Nato^  quale  apparta.  Ma  non  so,  quale 

Puntiglio  il  padre  suo  mosse  a  far  guerra 

Ad  Altoum,  Gran  Can  qui  di  Pechino. 

Stolti  furo  i  racconti,  che  dal  volgo 

Venieno  fatti  per  tal  guerra,  e  solo 

So,  che  fu  ver,  che'l  Re  Cheicobad 

Fu. vinto,  e  desolato,  e  che  fu  estinta 

Tutta  la  stirpe  sua,  che  Adelma  stessa 

Morì  in  un  fiume.  Cosi  fama  sparse. 

Anche  da'Carazani  via  fuggimmo 

Per  fuggir  strage,  ed  il  furor  di  guerra. 

Dopo  lungo  patir  giugnemmo  a  Berlas 

Laceri,  e  scalzi.  Ma  che  più  dir  deggio? 

Non  istupir.  La  madre,  e  '1  padre  mio 

Alimentai  quattr'anni  al  prezzo  vile 

Di  portar  sopr'agli  omeri  le  casse. 

Le  sacca,  ed  altri  insofferìbil  pesi. 


224  TURANDOT. 

Bar.  Non  più.  Signor,  non  più...  Poiché  vi  miro 
In  arnese  reale,  ogni  miseria 
Lasciam  da  parte,  e  finalmente  dite, 
Come  fortuna  un  dì  vi  fu  cortese. 

Cal.  Cortese!  Attendi.  Uno  spander  perduto 
Fu  da  Alinguer,  Imperator  di  Berlas, 
Che  molto  caro  avea.  Fu  preda  mia, 
Ad  Alinguer  lo  presentai.  Mi  chiese. 
Chi  fossi;  io  tenni  l'esser  mio  celato. 
Dissi,  eh'  ero  un  meschin,  che  i  genitori 
Sostenea,  via  portando  a  prezzo  i  pesL 
L' Imperator  nell'  ospitai  fé  porre 
La  madre,  e'I  padre  mio.  Die  commesacmc, 
Che  ben  serviti,  e  mantenuti  in  vita 
Fossero  in  quell'asilo  di  meschini 
(piangendo)  Barach,  ivi  è'I  tuo  Re...  la  tua 

Regina... 
Sono  i  miei  genitor  sempre  in  spavento 
D' esser  scoperti,  e  di  lasciar  il  capo. 

Ba^.  {piangendo)  Oh  Diol  che  sento  mail 

Cal.  L'  Imperatore. 

A  me  die  questa  borsa,   {trae  dal  seno  una 

borsa)  un  bel  destriere, 
E  questa  ricca  veste.  Disperato 
At)braccio  i  genitor.  Lor  dico:  Io  vado 
A  ricercar  fortuna.  O  questa  vita 
Infelice  vo' perdere,  o  gran  cose 
V'attendete  da  me;  che'l  cor  non  soffi*e 
In  sì  miserò  stato  di  vedervi. 
Trattenermi  volean,  volean  seguirmi; 


ATTO  PRIMO.  2^ 

E'I  Ciel  non  voglia,  che  di  là  partiti 
Sieno  per  caldo  amor  dietro  al  lor  figlio. 
Lungi  dal  mio  Tiranno  di  Carizmo, 
Qui  in  Pechin  giunsi,  e  del  gran  Can  intendo 
Sotto  mentito  nome  esser  soldato. 
,  Se  m' innalzo,  Barach,  se  la  fortuna 
Mi  favorisce,  ancor  fare  vendetta. 
Per  non  so  qual  funzione  è  la  cittade    , 
Piena  di  forestier,  ne  da  alloggiarvi 
Potei  trovar.  Qui  una  pietosa  donna 
Di  quell'albergo  m'accettò,  ripose 
Il  mio  destrier... 

Bar.  Signor,  quella  è  mia  moglie. 

Cal.  Tua  moglie  l  Va,  che  fortunato  sei 
Possedendo  una  donna  si  gentile. 
(in  atto  di  partire)  Barach,  ritornerò.  Dentro 

a  Pechino    ] 
Questa  solennità  bramo  vedere. 
Che  tante  genti  aduna.  Ad  Altoum, 
Gran  Can,  poi  mi  presento,  e  grazia  chiedo 
Di  militar  per  lui.   (va  verso  la  porta  della 

Città)       * 

Bar.  Calaf,  fermatevi. 

Non  vi  prenda  disio  d' esser  presente 
A  un  atroce  spettacolo.  Voi  siete 
In  un  teatro  abbominevol  giunto 
Di  crudeltà  inaudite. 

Cal.  Chel  Mi  narra. 

Bar.  Noto  non  v'  è,  che  Turandot,  là  figlia 
Unica  d'  Altoum  Imperatore, 
Gozzi.  i5 


226  TURANDOT. 

Bella,  quanto  crudel,  qui  nella  Chiaa 
È  cagion  di  barbarie,  e  lutti,  e  lagrime? 

Gal.  Io 'ben  tra  Caraz^ni  alcune  fole 
Udia  narrar.  Diceasi  anzi,  che'l  figlio 
Del  Re  Cheicobad  in  strana  forma 
.  Perito  era  in  Pechino,  e'  che  la  guerra 
Con  Altoum  per  questo  si  facea; 
Ma  U  volgo  ignaro  inventa,  e  negli  arcani 
Volendo  entrar  de' gabinetti,  narra 
Facete  cose,  e  chi  ha  buon  senno,  ride. 
Di  pur,  Barach. 

Bar.  D' Altoum  Can  la  figlia, 

Turandot,  in  bellezza  inimitabile 
Da  pennello  il  più  industre,  di  profonda 
Perspicacia  di  mente,  di  cui  vanno 
Molti  ritratti  per  le  Corti  in  giro, 
È  d'animo  si  truce,  ed  è  si  avversa 
Al  sesso  mascòlin,  che  invan  fu  chiesta 
Da  gran  Monarchi  in  sposa. 

Cal.  Ecco  l'antica 

Fiaba,  che  udii  tra  Carazani,  e  risL 
Di  pur,  Baruch. 

Bar.  Fiabe  non  sono.  Il  Padre 

Volle  più  volte  maritarla,  eh'  ella 
Erede  è  dell'Impero,  e  volle  darle 
Sposo  di  real  stirpe,  atto  al  governo. 
Ricusò  quell'indomita  superba; 
E'I  padre  suo,  ch'estremamente  l'ama, 
Non  ebbe  cor  di  maritarla  a  forza. 
Spesso  avea  guerre  per  cagion  di  lei, 


ATTO  Pallio.  227 

E,  quantunqu'è  possente,  e  superasse 
Tutti  gli  assalitori,  egli  è  pur  vecchio,  ' 
E  un  giórno  con  parole  risolute, 
E  con  riflessi  alfin  disse  alla  figlia: 
O  pensa  a  prender  sposo,  o  suggerisci, 
Com'io  possa  troncar  le  guerre  al  Regno, 
Ch'  io  son  già  vecchio,  e  troppi  Re  ho  affrontati 
Te  promettendo,  e  poi  per  amor  tuo 
Mancando  alla  promessa  ingiustamente. 
Vedi,  che  giusta  è  la  richiesta  mia,  y 

Che  d'amor  non  ti  manco.  O  ti  marita,'. 
O  di  troncar  le  guerre  un  mezzo  addita, 
E  vivi  poi,  come  t'aggrada,  e  mori. 
Si  scosse  la  superba,  ed  ogni  Sforzo 
Fé' per  disobbligarsi.  Assai  preghiere 
Porse  al  tenero  padre  ;  ma  fur  vane. 
S'infermò  quella  vipera  di  rabbia. 
Fu  per  morir.  Al  padre  adolorato. 
Ma  forte  in  ciò,  questa  dimanda  fece. 
Della  terribil  donna  udite  in  grazia 
Diabolica  richiesta. 
Gal.  Odo  la  fola,  ( 

Che  udita  ho  ancora,  e  che  rider  mi  fece. 
Odi,  s'io  la  so  bene.  Ella  un  editto 
Volle  dal  padre,  che  qualunque  Principe 
Per  sua  consorte  chiederla  potesse. 
Ma  con  tal  patto  :  eh'  ella  nel  Divano 
Solennemente  in  mezzo  de' Dottori 
Esporrebbe  tre  enigmi  al  concorrente; 
Che,  s'egli  li  sciogliesse,  era  contenta 


228  TURANDOT. 

D' Saverio  sposo,  e  del  suo  Impero  erede; 
Ma  che,  se  i  suoi  tre  enigmi  non  sciogliesse, 
Altoum  Can,  per  sacro  giuramento 
A'  Numi  suoi,  troncar  farebbe  il  capo 
Al  Prence  incauto,  e  mal  capace  a  sciorre 
Gli  enigmi  della  figlia.  Dì,  Barach, 
Non  è  questa  la  fola?  Or  dì  tu'l  resto. 
Ch'io  m'annoio  nel  dirla. 

Bar.  Fola!  Fola! 

Oh  lo  volesse  il  Cielo.  Si  riscosse 
L'Imperatore  a  ciò,  ma  quella  tigre 
Con  alterigia,  ed  or  con  vezzi,  ed  ora 
Moribonda  apparendo,  vacillare 
Fé'  la  mente  al  buon  vecchio,  e  alla  fin  trasse 
Al  padre  troppo  tenero  la  legge. 
Ell'addilcea:  Nessuno  avrà  coraggio 
D' esporsi  al  gran  periglio;  io  vivrò  in  pace. 
Se  alcuno  s'esporrà,  non  avrà  taccia 
Il  padre  mio,  s'  eseguir  fa  un  editto 
Pubblicato,  e  giurato.  Questa  legge 
^Fu  giurata,  e  andò  intorno,  ed  io  vorrei 
Fole  narrarvi,  e  poter  dir,  che  sogni 
Sono  gli  effetti  della  cruda  legge. 

Cal.  Credo,  poiché  tu  '1  narri,  quest'  editto; 
Ma  certamente  nessun  Prence  stolto 
Si  sarà  cimentato. 

Bar.  Che!  Mirate. 

{mostra  i  teschi  infil:{ati  sulla  mura) 
Que'capi  tutti  son  di  giovanetti 
Principi,  esposti  per  discior  gli  oscuri   - 


ATTO   PRIMO.  229 

Enigmi  della  cruda,  e  esposti  invano 
Vi  lasciaron  la  vita. 

Gal.  (sorpreso)  Oh  atroce  vistai 

Come  può  darsi  tal  sciocchezza  in  uomo 
D'espor  la  testa  per  aver  consorte 
SI  barbara  fanciulla?- 

Bar.  '  Ma,  non  dite 

Questo,  Calaf.  Chiunque  il  suo  ritratto. 
Che  gira  intorno,  vede,  una  tal  forza 
Sente  nel  cor,  che  per  P  originale 
Cieco  alla  morte  corre. 

Gal.  Un  qualche  folle. 

Bar.  No,  no,  qualunque  saggio.  Oggi  U  concorso 
In  Pechino  è,  perchè  si  tronca  il  capo 
Di  Samarcanda  al  Principe,  il  più  bello. 
Il  più  saggio,  e  gentile  giovinetto, 
Che  la  c;ittà  vedesse.  Altoum  piange 
Della  giurata  legge,  e  l'inumana 
Si  pavoneggia,   e  gode,   (si  mette  in  ascolto, 
Odesi  un  suono  lugubre  (T  un  tamburo  scor- 
dato) Udite!  udite l 
Questo  suono  lugubre  è  '1  mesto  segno, 
CheU  colpo  segue.  Io  di  Pechino  uscita 
Sono  per  non  vederlo. 

Cal.  Tu  mi  narri 

Strane  cose,  Barach.  Ed  è  possibile. 
Che  da  natura  uscita  una  tal  donna 
Sia,  com'è  Turandotte?  Sì  incapace 
D'innamorarsi,  e  di  pietà  si  ignuda? 

Bar.  Ha  mia  consorte  una  sua  figlia,  serva 


2^30  ,  TDRANDOT. 

Della  crudele  nei  Serraglio,  e  narra  , 
Di  quando  in  quando  a  mia  consorte  cose. 
Che  sembrano  menzogne.  Turaridot 
È  una  tigre,  Signor;  ma  la  superbia, 
L'ambizione  è  in  lei  più,  ch'altro  viila 

Gal.  Vadano  tra  i  dimohi  questi  mostri, 
Abbominevol  mostri  di  natura. 
Che  umanità  non  han.  S'io  fossi '1  padre, 
Morrebbe  tra  le  fiamme. 

Bar.  (guarda  verso  la  Città)  Ecco  Ismaele, 
L'Aio  infelice  del  già  morto  Prence, 
Amico  mio,  che  vien  piangendo. 

SCENA  SECONDA. 
Ismaele  e  detti 

IsM.  (esce  piangendo  dalla  Città)  Amico, 
Morto  è'I  Principe  mio.  Colpo  fatale! 
Deh  perchè  sul  mio  capo  non  cadesti?  {piange 

dirottamente) 

Bar.  Ma  perchè  mai  lasciarlo  esporre,  amico. 
Nel  Divano  al  cimento? 

IsM.  E  aggiungi  ancora 

All'angoscia  rimproveri?  Barach, 
.  Non  mancai  di  dover.  Se  tempo  aveva. 
Il  suo  padre  avvertia.  Tempo  non  ebbi, 
Ragion  non  valse,  e  l'Aio  alfine  è  servo, 
Ne  al  Principe  comanda,  {piange) 

Bar.  Datti  pace. 

Filosofia  t'assista. 


ATTO   PRIMO..  231 

IsM.  Pace!  pace! 

Amor  mi  tenne,  e  sino  all'  ultim'  ora 
Presso  mi  volle.  I  detti  suoi  mi  sono 
Fitti  nell'alma,  e  tante  acute  spine 
Saranno  a  questo  seno  eternamente. 
Non  pianger,  mi  dicea,  volontier  muoio, 
Che  la  crudele  posseder  non  posso.  / 
Scusami  al  Re,  mio  padre,  che  partito 
Son  dalla  Corte  sua  senza  un  addio. 
Dì,  che  '1  timor,  eh'  ei  s'  opponesse  allora 
Al  mio  desir,  mi  fé'  disubbidiente. 
Questo  ritratto  mostragli,  {trae  dal  seno  un 

ritratto)  Veggendo 
Tanta  bellezza  dell'  altera  donna. 
Mi  scuserà,  piangerà  teco  il  mio 
Caso  crudel.  Ciò  detto,  cento  baci 
•   Impresse  in  questa  maledetta  effigie. 
Poscia  il  suo  collo  espose,  e  vidi  a  un  tratto 
(Orribil  vista,  che  natura  oppresse!) 
Sangue  spruzzar,  busto  cadere,  in  mano 
Del  ministro  crudele  il  caro  capo 
Del  mio  Signor.  Fuggii,  d'orror,  di  doglia 
Desolato,  acciecato.  {getta  in  terra,  e  calpesta 

il  ritratto)  O  maladetto, 
Diabolico  ritratto,  qui  rimanti 
Calpestato  nel  fango.  Almen  potessi 
Calpestar  teco  Turandotte  iniqua. 
Ch'io  ti  rechi  al  mio  Re?  No,  Samarcanda 
Più  non  mi  rivedrà.  Piangendo  sempre 
In  un  diserto  lascierò  la  vita,  {parte  furioso) 


232  TURANDOT. 

SCENA  TERZA. 
Barach   e  Calap. 

Bar.  Signor,  udiste? 

Gal.  Sì,  tutto  commosso 

Sono  per  quanto  udii.  Ma  come  mai 
Aver  può  tanta  forza  non  intesa 
Questo  ritratto?  {va per  raccogliere  il  ritratto^ 
Barach  lo  trattiene) 

Bar.  Oh  Diol  Signor,  che  fate? 

Gal.  (sorrid.)  Quel  ritratto  raccolgo.  Io  vo' vedere 
Queste   sì   formidabili  bellezze.   (ìuoI  racco- 
gliere il  ritratto:  Barach  lo  trattiene  con 
for^a) 

Bar.  Meglio  saria  per  voi  fissar  lo  sguardo 
Nella  faccia  tremenda  di  Medusa^ 
Non  vel  permetterò. 

Gal.  Sei  pazzo!  Eh  via  {lo  ri- 

spinge,  raccoglie  il  ritratto) 
Se  tu  sei  folle,  io  tal  non  son.  Bellezza 
Di  donna  non  fu  mai,  che  un  sol  momento 
Fermasse  gl'occhi  miei,  non  che  nel  core 
Potesse  penetrar.  Di  donna  viva 
Parlo,  Barach:  vedi  se  pochi  segni 
Da  pittor  coloriti  hanno  a  far  colpo, 
E'I  colpo,  che  tu  narri,  in  questo  seno. 
Baie   son   queste,   {sospirando)    l   casi    mici, 

Baraci^ 


ATTO  PRlirO.  233 

Chiaman  altro,  che  amorì,  (è  in  atto  di  guar- 
'        dare  il  ritratto.  Barach  impetuoso  gli  mette 

sopra  una  mano,  gì' impedisce  il  vederlo) 
Bar.  Per  pietade, 

Chiudete  gli  occhi... 

Cal.  {respingendolo)       Eh  via,  stolto,  m'offendi» 

{guarda  il  ritratto,   riman   sorpreso,   indi 

grado  grado  con   las[^i  sostenuti  s'incanta 

in  esso) 

Bar.  {addolorato)  Misero  jne!   qual  infortunio  è 

questo  ! 
Gal.  (  attonito  )  Barach,  che  miro  !  in  questa  dolce 

effigie,/ 
In  questi  occhi  benigni,  in  questo  petto 
L'alpestre  cor  tiranno,  che  narrasti. 
Albergar  non  può  mai. 
Bar.  Lasso!  che  sento? 

Signor,  più  bella  è  Turandot,  né  mai 
Giunse  pittore  a  colorir  le  intere 
Bellezze  di  colei.  Non  celo  il  vero. 
Ma  non  potrìa  degli  uomini  eloquenti 
La  più  faconda  lingua  dispiegarvi 
L'ambizion,  la  boria,  i  sentimenti 
Crudi,  e  perversi  del  suo  core  iniquo. 
Deh  scagliate,  Signor,  da  voi  lontana 
La  velenosa  effigie;  fìù  non  beva 
La  mortifera  peste  il  guardo  vostro 
Delle  crude  bellezze,  io  vi  scongiuro. 
Cal.  {che  sarà  sempre  stato  contemplando  il  ri" 

tratto) 


234  TDRANDOT. 

Invano  tenti  spaventarmi.  Care 
Rosate. guance,  amabili  pupille, 
Ridenti  labbra!  oh  fortunato  in  terra 
Chi  di  sì  bel  complesso  l' armonia 
Animata,  e  parlante  possedesse!    (sospeso   al- 
quanto, poi  risoluto) 
Barach,  non  palesarmi.  È  questo  il  punto 
Di  tentar  la  fortuna.  O  la  più  bella 
Donna,  che  viva,  e  in  un  possente  Impero, 
Disciogliendo  gli  enigmi,  a  un  tratto  acquisto, 
O  una  misera  vita,  divenuta 
Insofiferibil  peso,  a  un  tratto  lascio,  (guarda  il 

ritratto  ) 
Dolce  speranza  mia,  già  m'apparecchio 
Vittima  nuova  a  dispiegar  gli  enigmi. 
Abbi  di  me  pietà.  Dimmi,  Barach; 
Là  nel  Divano  almen,  pria  di  morire, 
Vedranno  gli  occhi  miei  l' immagin  viva 
Di  si  rara  bellezza?  (udir assi  un  suono  lugu- 
bre di   tamburo  scordato  dentro   le   mura 
della  Città,  e  più  vicino  della  prima  volta. 
Cala/  si  porrà  in  attenpone.    Vedrassi  in- 
nalzarsi per  di  dentro  sulle  mura  un  orrido 
carnefice  Chinese  con  le  braccia  ignude,  e 
sanguinose,  che  pianterà  il  capo  del  Prin- 
cipe di  Samarcanda,  indi  si  ritirerà) 
Bar.  Deh  mirate 

Prima,  e  v'inorridite.  È  quello  il  teschio 
Del  Principe  infelice  ancor  fimiante. 
Di  sangue  intriso,  e  quel,  ch'ivi  lo  fisse 


ATTO  PRIMO.  235 

È'I  carnefice*  vostro.  Vi  trattenga 

Sicurezza  di  morte.  È  già  impossibile 

Discior  gli  enigmi  della  crudel  donna. 

Il  caro  capo  vostro  orrido  in  vista 

Di  spettacolo  agli  altri  invano  arditi 

Presso  a  quello  diman  sarà  confitto,  (piange) 

Cal.  (verso  al  teschio)  Sventurato  garzon,  qual 

forza  estrema 
Vuol,  Mìo  ti  sia  compagno?  Odi,  Barach; 
Morto  già  mi  piangesti,  a  che  più  piangere? 
Vado  ad  espormi.  Tu  non  palesare 
U  nome  mio  a  nessun.  Fors'è  il  Ciel  sazio 
Di  mie  sventure,  e  vuol  farmi  felice. 
Perch'io  sollevi  i  genitor  meschini. 
S'io  disciolgo  gli  enigmi,  a  tanto  amore 
Ti  sarò  grato.  Addio,   (vuol  partire,  Barach 

lo  trattiene) 

Bar.  No  certamente... 

Per  pietà. . .  caro  figlio. . .  oh  Dio. . .  l  Consorte, 
Vieni...  m'assisti...  questa  a  me  diletta 
Persona  espor  si  vuole  a  scior  gli  enigmi 
Di  Turandot  crudele. 

SCENA  QUARTA. 
ScRiRiNA  e  detti. 

ScH.  Oimè!  che  sento! 

Non  siete  voi  l'ospite  mio?  Chi  guida 
Questo  affabile  oggetto  in  braccio  a  morte? 


236  TDRANDOT. 

Gal.  Pietosa  donna,  al  mio  destin  mi  tragge 
Questa  bella  presenza,  (mostra  il  ritratto} 

ScH.  Ah,  chi  gli  ha  data 

L'immagin  infernali  (piange) 

Bar.  (piangendo)         Puro  accidente. 

Gal.  (liberandosi)  Assan,  donna  gentile,  il  mia 

destriere 
Rimanga  a  voi  con  questa  borsa  in  dono,  (trae 

la  borsa  dal  seno,  e  la  dà  a  Schirina) 
Altro  non  ho  nella  miseria  mia 
Da  spiegarvi  il  mio  cor.  Se  non  v' incresce, 
Qualche  parte  del  dono  in  mio  soccorso 
Spendete  in  sacrifizi  a' Dei  celesti, 
A' poverelli  dispensate.  Ognuno 
Preghi  per  questo  sventurato.   Addio,   (entra 

nella  Città) 

Bar.  Signor...  Signor... 

SoH.  Figlio. . .  fermate. . .  figlio. . . 

Ah  vane  son  le  voci.  Dimmi,  Assan, 
Chi  è  quel  generoso  sfortunato. 
Che  alla  morte  sen  corre? 

Bar.  Non  ti  prenda 

Tal  curiositade.  È  tal  d'ingegno, 
Ch'  io  non  dispero  in  tutto.  Andiam,  Consorte. 
A' poverelli  tutto,  e  ai  Sacerdoti 
Vada  quell'oro,  onde  si  chieda  al  Cielo 
Grazia  per  lui...  Ah  morto  il  piangeremo!  (en- 
tra  in  casa  disperato) 
y  ScH.  Non  sol  quest'oro,  ma  di  quanto  mai 
Spogliar  mi  posso,  tutto  in  pietose  opre 


ATTO   PRIMO. 

Dato  fia  pel  meschin.  Certo  esser  deve 
Qualche  grand' alma  alle  maniere  nobili, 
All'aspetto  sublime.  Egli  è  sì  caro 
Al  mio  sposo  fedel?  Tutto  si  faccia. 
Ben  trecento  pollastri,  ed  altrettanti 
Pesci  di  fiume  al  gran  Berginguzino 
Saranno  offerti,  e  ai  Geni  sacrifizio 
Di  legumi  abbondanti,  e  riso  in  coppia 
Certo  fatto  sarà.  Confuzio  voglia 
De'Bonces  alle  preci  condiscendere. 


237 


ATTO  SECONDO       - 

Gran  Sala  del  Divano  con  due  portoni  Tuno  in  faccia  alVal- 
tro.  Supponesi,  che  Puno  apra  il  passaggio  al  Serraglio 
della  Principessa  Turandot,  e  che  P  altro  apra  il  passag- 
gio agli  appartamenti  delP  Imperatore,  suo  padre. 


SCENA  PRIMA. 
Truffaldino,  Brighella,  Eunuchi,  tutti  alla  Chinese. 


Truff. 


OMANDA  ai  suoi  Eunuchi,  che 
spazzino  la  Sala.  Fa  erigere  due 
troni  alla  Chinese  l'uno  dall'una, 
r  altro  dall'  altra  parte  del  Teatro.  Fa  porre 
otto  sedili  per  gli  otto  Dottori  del  Divano;  è 
allegro,  e  canta.  Brig,  Sopraggiunge,  chiede  la 
ragione  dell'  apparecchio.  Truff,  Che  devesi 
radunare  in  fretta  il  Divano  coi  Dottori,  l' Im- 
peratore, e  la  sua  cara  Principessa.  Per  grazia 
del  Cielo  le  faccende  vanno  felicemente.  È  com- 
parso un  altro  Principe  a  farsi  tagliar  Is^  testa. 
Brig.  Esseme  perito  uno  tre  ore  prima.  Rim- 
provera Truffaldino,  che   sia   allegro  per  un 


240  TURANDOT. 

macello  cosi  barbaro.  Truff.  Nessuno  chiama  Prin- 
cipi a  farsi  mozzare  il  capo;  se  sono  pazzi  volon- 
tari, il  danno  sia  di  loro  ec.  Che  la  sua  adorabik 
Principessa,  ogni  volta,  che  confonde  un  Principe 
co' suoi  enigmi,  e  lo  manda  al  suo  destino,  per 
l'allegrezza  d'esser  vittoriosa  lo  regala,  ec  Brig, 
Abborisce  sentimenti  tali  nel  patriota.  Detesta  la 
crudeltà  della  Principessa.  Dovrebbe  maritarsi  e 
troncar  quella  miseria  ec  Truff.  Che  a  non  vo- 
lersi maritare  ha  ragione  ec.  Sono  seccature  in- 
discrete ec.  Brig.  Che  parla  da  Eunuco  inutile  ec 
Tutti  gli  eunuchi  odiano  i  matrimoni  ec.  Truff, 
Collerico,  che  odia  i  matrimoni,  temendo,  che  pro- 
ducano dei  Brighelli.  Brig.  Irritato;  eh' è  un  ga- 
lantuomo ec.  Che  le  sue  massime  sono  pemiziose, 
che,  se  sua  madre  non  si  fosse  maritata  non  sa- 
rebbe nato.  Truff.  Che  mente  per  la  gola.  Sua 
madre  non  fu  mai  maritata,  ed  egli  è  nato  felice- 
mente. Brig,  Si  vede,  eh'  egli  è  un  partorito  con- 
tro le  buone  regole.  Truff.  Ch'  egU  è  capo  degH 
Eunuchi;  non  venga  ad  impedir  gli  affari  suoi,  e 
vada,  giacch'è  maestro  dei  Pag^,  a  fare  il  suo 
dovere;  ma  ch'egli  sa,  che  insegna  delle  belle 
cose  ai  Paggi  a  proposito  dei  matrimoni  ec.  Men- 
tre il  contrasto  dura  tra  questi  due  personaggi, 
gli  Eunuchi  avranno  assettata  la  sala.  Odesi  una 
marcia  di  strumenti.  È  l' Imperatore,  che  giugne 
nel  Divano  colla  Corte,  e  coi  Dottori  Brighella 
parte  per  rispetto;  Truffaldino  coi  suoi  Eunuchi 
per  andar  a  levare  la  sua  cara  Principessa. 


ATTO  SECONDO.     -,  24! 

SCENA  SECONDA. 

Al  suono  cPuna  marcia  escono  le  guardie  alla  Chinese; 
indi  gli  otto  Dottori,  poscia  Pantalone,  Tartagua^  e  dopa 
Altoum  Can,  Tutti  sono  alla  Chinese.  Altoum  è  un  vec^ 
chiane  venerando,  riccamente  vestito  ancK^ egli  alla  Chinese,, 
Al  suo  comparire  tutti  si  gettano  colla  fronte  per  terra. 
Altoum  sale,  e,  siede  sul  trono,  posto  alla  parte  da  dove  è 
uscito.  Pantalone  e  Tartaglia  si  mettono  uno  per  parte 
del  trono.  I  Dottori  siedono  sopr*  ai  loro  sedili.  Termina 
la  marcia. 

Alt.  e  sino  a  quando,  miei  fedeli,  deggio 
Sofiferir  tali  angoscie?  Appena...  appena 
Le  dovute  funebri  opre  hanno  fine 
D'  un  infelice  Principe  sull'  ossa, 
E  sull'ossa  di  lui  mi  struggo  in  lagrime; 
Nuovo  oggetto  s'espòn^  nuove  angosce 
Destando  in  questo  sen.  Barbara  figlia, 
Nata  per  mio  tormento!  Che  mi  vale 
Il  punto  maledir,  che  sull'editto 
Al  tremendo  Confuzio  il  giuramento 
Feci  solennemente  di  eseguirlo? 
Spergiuro  esser  non  posso.  Non  si  spoglia 
Di  crudeltà  mia  figlia.  Mai  non  mancano 
Stolti  amanti  ostinati,  e  non  ritrovo 
Mai  chi  doni  consiglio  in  tanta  doglia. 

Pant.  Cara  Maestà,  no  saveria  che  consegio  dar- 
ghe.  In  tei  nostri  paesi  no  se  zura  de  sta  sorte 
de  legge.  No  se  fa  de  sta  qualità  de  edittL  No 
ghe  esempio,  che  i  Prencipi  se  innamora  de  un 
retiattin,  a  segno  de  perder  la  testa  per  l'ori- 

Gozzi.  16 


24a  f  URANDOT. 

gìnal,  e  no  na^e  putte,  che  odia  i  otneni,  come 
la  Prencipessa  Turandot,  so  fia.  Oibò,   no  glie 
xe  idea  da  nu  de  sta  sorte  de  creature,  gnanca 
per  sogno;  Prima  che  le  mie  desgrazie  me  fa- 
cesse abbandonar  el  mio  paese,  e  che    la    mia 
fortuna  me  innalzasse  senza  marito  all'  onor  de 
•secretario  de  vostra  Maestà,  no  aveva  altra  co- 
gnizión  della  China,^  se  no   che   la    fusse   una 
polvere  bonissima  per  la  freve   terzana,  e  son 
sempre,  cóme  un  omo  incocalio  de  aver  trova 
qua  de  sta  sorte  de  costumi,   de   sta  sorte  de 
zuramenti,  e  de  sta  sorte  de  putti,  e  de  putte. 
Se  contasse  sta  istoria  a  Venezia,  i  me  dirla  : 
Via,  sier  bomba,  sier   slappa,   sier   pancfaiana, 
andè  a  contar  ste  fiabe  ai  puttelli;  i  me  rìderìa 
in  tei  muso,  e  i  me  volteria  tanto  de  bero. 

Alt.  Tartaglia,  foste  a  visitar  il  nuovo 
.   Temerario  infelice? 

Tart.  Maestà  si;  è  qui  nelle  solite  stanze  del  pa- 
lagio, che  s'assegnano  a' Principi  forestieri.  Sono 
rinìasto  stupefatto  della  sua  bella  presenza,  della 
sua  dolce  fìsonomia,  della  sua  maniera  nobile 
di  favellare.  In  vita  mia  non  ho  veduta  la  più 
degna  persona.  Ne  sono  innamorato,  e  mi  sento 
strappare  il  cuore,  che  venga  ad  esporsi  al  ma- 
cello, come  un  becco,  un  Principe  così  bello, 
così  buono,  così  giovane...  (piange) 

Alt.  Oh  indidbil  miseria  1  Già  eseguiti 
Saranno  i  sacrifizi,  onde  dal  Cielo 
Sia  soccorso  il  meschin  di  tanto  lume 


ATTO   SECONDO^  243 

Da  penetrare,  da  discior  gli  oscuri 

Enigmi  della  barbara  mia  figlia? 

Ah  invan  Io  spero! 
Pant.  La  poi  star  certa,  Maestà,  che  non  s' ha  manca 

de  sacrifizi.  Cento  manzi   xe  stai   sacrificai  al 

Cielo,  cento  cavalli  al  Sol,  e  cento  porchi  alla 

Luna,  (a  parte)  Mi  pò  no  so  cossa  se  possa 

sperar  da  sta  generosa  beccarla  imperiai. 
Tart.  (a  parte)  Sarebbe  stato  meglio  sacrificare    . 

quella  porchetta  della  Principessa.  Ogni  disgra- 
zia sarebbe  finita. 
Alt.  Or  ben,  qui  si  conduca  il  nuovo  Prence. 
(parte  una  guardia) 

Si  procuri  distorlo  dal  cimento; 

E  voi,  saggi  Dottori  del  Divano, 

Ministri  fidi  m'  assistete,  dove 

Il  dolor  mi  troncasse  là  favella. 
Pant.  Gavemo  tante  esperienze,  che  basta,  Maestà. 

Se  sfiataremo  de  bando,  e  pò  l'anderà   a  farse 

sgargatar,  come  im  dindio. 
Tart.  Senti,  Pantalone.  Ho  conosciuto  in  lui  della 

virtù,  e  dell'acume;  non  sono  senza  speranza. 
Pant.  Che!  che  el  spiega  le  indovinelle  de  quella 

cagna?  oh  fallada  la  xe! 

SCENA  TERZA. 
Calaf  accompagnato  da  una  guardia,  e  detti, 

Cal,  {s'inginocchierà  con  una  marto -alla  fronte) 
Alt.  Sorgi,  incauto  garzon.  (  Calaf  s^  al^a^  e  fatto 


244  TURANDOT. 

un  inchino,  si  pianta  con  nobiltà  nel  me^^o 
al  Divano  tra  i  due  troni  verso  alV  Udito- 
rio. Altoum  segue  a  parte  dopo  aver  con- 
templato Jissamerite  Calaf)  Che  bella  idea! 
Quanta  compassion  mi  desta  in  seno! 
Dimmi,  infelice,  donde  sei?  Dì  quale 
Principe  sei  figliuolo? 
Gal.  {sorpreso,  alquanto,  indi^con  inchino  nobile) 

Signor,  per  grazia 
11  mio  nome  stia  occulto. 
Alt.  e  come  ardisci, 

3enza  dirmi  la  nascita,  d'  esporti 
A  pretender  le  nozze  di  mia  figlia? 
Gal.   {con  grande^^a)   Principe   son.    Se'l   Ciel 

vorrà,  eh'  io  mora, 
Prima  del  fatai  punto  fia  palese 
11  mio  nome,  la  nascita,  lo  stato. 
Perchè  si  sappia  allor,  che  all'alto  nodo. 
Senza  sangue  reale  in  queste  vene, 
D'  aspirar  non  avrei  temeritade. 
(  cqn  inchino  )  Grazia  è,  per  or,  che  '1  nome  mio 

stia  occulto. 
Alt.  {a parte)  Che  nobiltà  di  favellare!  Oh  quanta 
Compassion  mi  desta!  {alto)  Ma,  se  sciogli 
Gli  oscurissimi  enigmi,  e  di  non  degna 
Nascita  sei,  come  potrò  la  legge?... 
Gal.  {interrompendolo  arditamente)  Per  i  Principi 
sol  scritta  è  la  legge. 
Signor.. .  oh T Ciel  lo  voglia...  allor,  s' io  sono 
D' ignobil  stirpe,  il  capo  mio  la  pena 


ATTO   SECONDO.  245 

Paghi  sotto»  Una  scure,  ed  insepolte 

Sien  queste  membra  pascolo  alle  fere, 

A' cani,  alle  cornaccbié.  Ho  già  in  Pechino 

Chi  mi  conosce,  e  l'esser  mio  può  dirvL 

{con  inchino)  Grazia  è  per  or,  che'l  nome  mio 

stia  occulto. 
Alla  vostra  clemenza  in  grazia  il  chiedo. 

Alt.  Abbi  tal  grazia  in  dono.  Io  non  potrei 
A  quella  voce,  alle  tue  belle  forme. 
Nulla  negar.  Cosi  disposto  fossi 
Grazia  tu  a  fare  ad  un  Imperatore, 
Che  dall'  alto  suo  seggio  a  te  la  chiede. 
Desisti,  deh  desisti  dal  cimento, 
A  cui  t'esponi.  Tanta  simpatia 
Di  te  mi  prende,  che  del  mio  potere 
A  te  tutto  esibisco.  Sii  compagno 
Di  me  nel  Regno,  ed  al  serrar  quest^  occhi 
Ogni  possibil  mia  beneficenza 
Da  quest'animo  attendi.  Non  volere, 
Ch'  io  sia  tiranno  a  forza.  Io  son  l' obbrobrio, 
Per  l' incautela  mia,  di  tutti  i  sudditi. 
-   Anima  audace,  se  pietà  può  nulla 
Sopra  di  te,  non  obbligarmi  a  piangere 
Sul  cadavere  tuo.  Non  far,  che  accresca 
L' odio  a  mia  figlia,  l' odio  a  me  medesmo 
D'aver  prodotta  una  perversa  figlia. 
Orgogliosa,  crudel,  vana,  ostinata, 
Cagion  d'ogni  mia  angoscia,  e  della  morte. 

(piange) 

Gal.  Sire,  datevi  pace.  Al  Cielo  è  nota 


246  TURANDOT. 

La  pietàde,  eh'  io  sento.  D'  un  tal  padre, 
Qual  siete  voi,  da  educazion  non  ebbe 
D'esser  tiranna  esempio  vostra  figlia. 
Non  ricerchiam  di  più.  Colpa  è  in  toi  solo. 
Se  colpa  dir  si  può,  tenero  affetto 
Verso  un'  unica  figlia,  e  d' aver  data 
Al  mondo  una  bellezza  si  possente, 
Che  trae  1'  uom  di  se  stesso.  Io  vi  ringrazio 
De' generosi  sentimenti  vostri. 
Mal  vi  sarei  compagno.  O'I  Ciel  felice 
Mi  vuol,  di  Turandot  a  me  diletta 
Donandomi '1  possesso,  o  vuol,  che  questa 
Mìsera  vita,  insofieribil  peso 
Senza  di  Turandot,  abbia  il  suo  fine. 
Morte  pretendo,  o  Turandotte  in  sposa. 
Pant.  Ma,  cara  Altezza,  cara  vita  mia,  avere  za 
visto   sofa   la   porta   della   Città   tutte  quelle 
crepe  de  morto  impirae,  no  vo  digo  de  più. 
No  so  che  gusto,  che   abbiè  a  vegnirve  a  far 
scannar,  come  un  cavroil,  con  sicurezza,  per 
farne  pianzer,  come  desperai  tutti  quanti.  Sap- 
piè,  che  la  Principessa  ve  farà  un  impianto  de 
tre  indovhielle,  che  no  le  spiegheria  el  ;strolego 
Cingarello.  Nu,  che  semo  dà  tanto  tempo  de- 
putai con  sti  Eccellentissimi  Dottori  del  Divan 
t  a  dar  sentenza  de   chi   spiega^  ben,  e  de  chi 
spiega  mal,  per  far  eseguir   là  legge,   pratici, 
consumai  sui  libri,  stentemo  all'  improvviso  a 
arrivar  all'acutezza  dei  enigmi  de  sta  Princi- 
pessa  crudel,   perchè   no   i   xe   minga:  panza 


ATTO   SECONDO.  247 

de  ferro,  buelle  de  bombaso,  e  va  descorrendo; 
i  xe  novi  de  trinca  e  maledetti;  e,  se  no' la.  li. 
consegnasse  proposti,  sjpiegai,  e  sigillai  in  tante 
cartoline  a  sti  Eccellentissimi  Dottori,  forsi 
gnanca  elli  saverià,  dove  i  avesse  la  testa.  Ande 
in  pase,  caro  fio.  Se' là,  che  pare  un  fior}  me 
fé'  pecca.  Varenta  al  ben,  che  ve  vogio,  che  se 
ve  ostine,  fazzo  più  conto  d'  un  ravanello  del 
gobbo  ortolan,  che  della  vostra  testa.      ^ 

Cal.  Vecchio,  invan  t'  affatichi,  invan  ragioni. 
Morte  pretendo,  o  Turandotte  in  sposa. 

Tart.  Turandotte...  Turandotte,  Ma  che  diavolo 
di  ostinazione,  caro  figlio  mio.  Intendi  bene. 
Qui  non  si  giuoca  a  indovinare  colla  scommessa 
.d'un  caffè  col  pandolo,  o  di  mezza  cioccolata 
colla  vaniglia.  Capisci,  capisci  una  volta;  qui 
ci  va  la  testa.  Io  non  uso  altri  argomenti  per' 
persuaderti  a  desistere.  Questo  è  grande.  La 
testa,  la  testa  ci  va;  la  testa.  Sua  Maestà  ti 
prega,  ha  fatto  sacrificare  cento  cavalli  al  Sole, 
cento  buoi  al  Cielo,  cento  porci  alla  Luna, 
cento  vacche  alle  Stelle  in  tuo  favore,  e  tu, 
ingrato,  vuoi  resistere  per  dargli  questo  ram- 
marico. Se  non  vi  fossero  altre  femmine  al 
mondo,  che  la  Principessa  Turandotte,  la  tua 
risoluzione  sarebbe  ancora  una  gran  bestialità. 
Scusa,  caro  Principe  mio.  In  coscienza  è  l'amore, 
che  mi  fa  parlare  con  libertà.  Hai  tu  ben  ca- 
pito, che  cosa  sia  il  perdere  la  testa?  mi  par 
impossibile. 


248  TURANDOT. 

Gal.  Troppo  dicesti.  E  vana  ogni  fatica. 
Morte  pretendo,  o  Turandotte  in  sposa. 

Alt.  Crudel,  ti  sazia;  abbi  la  morte,  ed  abbi 
La  mia  disperazion.  (alle  guardie)  La  Prin- 
cipessa 
Entri  ài  cimento  nel  Divan;  s'appaghi 
D' una  vittima  nuova.  (  parte  una  guardia  ) 

Gal.  {da  se  con  fervore)  Etemi  Numi, 
M'ispirate  talento.  Non  m'opprima 
La  vista  di  costei.  Io  vi  confesso, 
Ghe  vacilla  la  mente,  e  che  tremore 
Ho  nel  sen,  dentro  al  core,  e  sulle  labbra. 
(air assemblea)   Sacro  Divan,  saggi  Dottori, 

giudici 
Nelle  risposte  mie  della  mia  vita. 
Scusate  tanto  ardir;  clemenza  abbiate 
Per  un  cieco  d' amor,  che  non  conosce 
.    Dove  sia,  quanto  vaglia,  e  s'  abbandona 
Tratto  da  occulta  forza  al  suo  destino. 

SCENA  QUARTA. 

Udrassi  il  >suono  d*  una  marcia,  intrecciato  con  tambu' 
relli.  Uscirà  Truffaldino  con  la  scimitarra  alla  spalla,  i 
suoi  Eunuchi  lo  seguiranno.  Dietro  a  questi  usciran  varie 
Schiave  di  ^cconfpajpiamento  con  tamburelli  suonando.  Dopo 
usciranno  due  schiave  velate,  una  vestita  riccamente  e  mae- 
stosamente alla  Tartara,  che  sarà  Adelma^  l*  altra  passa- 
bilmente  alla  Chinese,  che  sarà  Zelima,  Questa  avrà  un 
picciolo  bacile  con  fogli  suggellati.  Truffaldino  e  gli  £k- 
nuchi  nel  passar  difilati  si  getteranno  colla  faccia  a  terra 
innamfi  ad  Altoum,  poi  sorgeranno.  Le  schiave  s*  inginoc- 
chieranno colla  mano  alla  fronte.   Uscirà  '  Turandole  ve- 


ATTO   SECONDO.  249 

lata,  vestita  riccamente  alla  Chinese,  con  aria  grave,  e 
baldan:(Osa,  I  Dottori^  e  i  Ministri,  si  getteranno  colla  fac^ 
eia  a  terra,  Altoum  si  leverà  in  piedi.  Turafidotte  si  porrà 
una  mano  alla  fronte,  e  farà  un'inchino  grave  al  padre, 
indi  salirà  il  suo  trono,  e  siederà.  Zelima  si  porrà  al  suo 
fianco  sulla  sinistra^  Adelma  alla  destra,  Calaf,  che  si  sarà 
inginocchiato  alla  comparsa  di  Turandoti  si  rijyjyeri,  e  ri' 
marra  incantato  in  essa.  Tutti  torneranno  a'  lor  posti  Truf* 
/aldino,  eseguite  alcune  cerimonie  facete  a  suo  modo^  pren- 
derà il  bacile  di  Zelima  coi  fogli  suggellati:  li  dispenserà 
ai  Dottori^  e  si  ritirerà  dopo  altre  cerimonie  e  riverente 
Chinesi.  Durante  tutte  queste  solennità  mute,  si  sarà  suo* 
nata  la  marcia.  Al  partire  di  Truffaldino  rimarrà  la  gran 
Sala  del  Vivano  in  silem^io. 


SCENA  QUINTA. 

Altoum,  Turandot,  Calaf,  Zelima,  Adelma,  Pantalonb, 
Tartaglia,  Dottori  e  guardie, 

TcR.  (alteramente)  Chi  è,  che  si  lusinga  audace- 
mente 
Di  penetrar  gli  acuti  enigmi  ancora 
Dopo  sì  lunga  e^rienza;  e  brama 
Miseramente  di  lasciar  la  vita? 
Ahi.  Figlia,  egli  è   quello;    {addita    Calaf y  che 
sarà  attonito  nel  me^!(o  del  Divano  in  piedi) 
E  ben  degno  sarebbe, 
Che  tuo  sposo  il  scegliessi,  e  che  finissi 
D'esporlo  al  gran  cimento,  lacerando 
Di  chi  ti  die  la  vita  il  core  afflitto. 
Tur.  (dopo  aver  mirato  alquanto  Cai.  basso  a  ZeL} 
Zelima,  oh  <Iielo  !  alcun  oggetto,  credi, 
Nel  Divan  non  s'espose,  che  destasse 


2^0  TURANDOT. 

Q)mpassione  in  questo  sen.  Costui 
Mi  fa  pietà. 

Zel.  (basso)        Di  tre  facili  enigmi 
Lo  caricate,  e  terminate  omai 
D'esser  crudel. 

Tur.  (con  sussiego,   basso)   Che   dici!    La  mit 

gloria! 
Temeraria,  tant'osi? 

Adel.  (che  avrà  osservato  Cai.  attentamente,  da  se) 
Oh  Cieli  che  miro! 
Non  è  costui  quel,  ch'alia  Corte  mia 
De  Carazai^i  un  di  vii  servo  io  Mdi, 
Quando  vivea  Cheicobad,  mio  padre? 
Principe  è  dunque!  Ah  ben  mei  disse   il  core, 
Quel  cor,  eh' è  suo. 

Tur.  Principe,  desistete 

Dall'impresa  fatale.  Al  Cielo  è  noto, 
Che  quelle  voci,  che  crudel  mi  fanno, 
Son  menzognere.  Abborrimento  estremo 
Ch'ho  al  sesso  vostro,  fa,  ch'io  mi  difenda, 
Com'  io  so,  com'  io  posso,  a  viver  lunge 
Da  un  sesso,  che  abborrisco.  Perchè  mai 
Di  quella  libertà,  di  che  disporre 
Dovria  poter  ognun,  dispor  non  posso? 
Chi  vi  conduce  a  far,  eh'  io  sia  crudele 
Contro  mia  volontà?  Se  vaglion  prieghi, 

10  m'umilio  a  pregarvi.  Desistete, 
Principe,  dal  cimento.  Non  tentate 

11  mio  talento  mai.  Superba  sono 

Di  questo  solo.  Il  Ciel  mi  die  in  favore 


ATTO  SECONDO.  25 1 

Acutezza  e  talento.  Io  cadrei  morta, 
Se  nel  Divan  con  pubblica  vergogna 
Fossi  vinta  d'acume.  Ite,  scioglietemi 
Dal  proporvi  gli  enigmi;  ancora  è  tempo; 
O  piangerete  invan  la  morte  vostra. 

Cal.  Sì  bella  voce,  e  si  bella  presenza. 
Sì  raro  spirto,  e  insuperabil  mente 
In  una  donna!  Ah  qual'error  è  mai 
Neil'  uom,  che  mette  la  sua  vita  a  rischio 
.    Per  possederla?  E  di  sì  raro  acume 
Turandotte  si  vanta?  E  non  iscopre, 
Che  quanto  i  merti  suoi  sono  maggiori. 
Che  quant'  avversa  è  più  d' esser  d' uom  moglie, 
Arder  l'uomo  più  deve?  Mille  vite, 
Turandotte  crudele,  in  questa  salma 
Fossero  pur.  Io  core  avrei  d'esporle 
Mille  volte  a  un  patibolo  per  voi. 

Zel.  (bassa  a    Tur.)  Ah  facili   gli   enigmi  per 

pietade. 
Egli  è  degno  di  voi. 

Adel.  (a  parte)  Quanta  dolcezza! 

Oh  potess' esser  mio!  Perchè  non  seppi. 
Ch'era  Prence  costui,  prima  che  schiava 
Mi  volesse  fortuna,  e  in  basso  stato! 
Oh  quanto  amor  m'accende  or  che  m'è  noto. 
Ch'egli  è  d'alto  lignaggio!  Ah  che  non  manca 
Mai  coraggio  ad  amor,  (basso  a  Tur.  )  La  glo- 
ria vostra 
Vi  stia  a  cor,  Turandot. 

Tur.  (perplessa  da  se)       E  questo  solo 


252  TURANDOT.    . 

Ha  forza  di  destar  compassione 
.  In   questo  sen?   (risoluta)  No,    superarmi   k) 

deggio. 
(a  Cala/  con  impeto)  Temerario,  al   cimento 

t' apparecchia. 
Alt.  Principe,  insisti  ancor? 
Gal.  Signor,  già'l  dissL 

Morte  pretendo,  o  Turandotte  in  sposa. 
Alt.  Il  decreto  fatai  dunque  si  legga 

Pubblicamente;  egli  l'ascolti  e  tremL  (Panta- 
lone caverà  dal  seno  il  libro  della  leggty 
lo  baderà,  se  lo  porrà  sul  petto,  poi  alla 
fronte, , indi  lo  presenterà  a  TartaffliOy  il 
quale  gettandosi  prima  colla  fronte  a  terrOy 
lo  riceverà,  poscia  leggerà  ad  alta  voce) 

Ogni  Principe  possa  Turandotte 

Pretender  per  consorte;  ma  disdotga 
Prima  tre  enigmi  della  Principessa 
Tra  i  Dottor  nel  Divano.  Se  gli  spiega 
L'abbia  per  moglie.  Se  non  è  capace^ 
Sia  condannato  in  mano  del  carnefice. 
Che  gli  tronchi  la  testa,  sicché  muoia. 
Al  tremendo  Copfuzio  Altoum  Can 
D'eseguire  il  decreto  afferma  e  giura. 

(  Terminata  la  lettura,  Tartaglia  baderà 
il  libro,  se  lo  porrà  sul  petto,^  e  sulla  fronte, 
e  lo  riconsegnerà  a  Pantalone,  il  quale  ri- 
cernitolo  colla  fronte  per  terra,  si  ri:{^erà, 


•ATTO   SECONDO.  '253 

e  lo  presenterà  ad  Altoum,  il  quale,  levata 
una  mano,  gliela  porrà  sopra  ) 
Alt.  (con  sospiro)  O   legge l   O  mio  tormento! 

D' eseguirti 
Al  tremendo  Confuzio  affermo  e  giuro. 

(Pantalone  si  porrà   di  nuovo  il   libro, in 
seno.  Il  Divano  sarà  in  un  gran  silen^fio. 
Turandotte  si  leverà  in  piedi  ) . 
Tur.  (  in  tuono  accademico  ) 

Dimmi,  stranieri  chi  è  la  creatura 

D' ogni  città,  d' ogni  castello,  e  terra. 

Per  ogni  loco,  ed  è  sempre  sicura, 

Tra  gli  sconfitti,  e  tra  i  vincenti  in  guerra  ?  . 

Notissima  ad  ogn'uomo  è  sua  figura, 

Ch'ella  è  amica  di  tutti  in  sulla  terra. 

Chi  eguagliarla  volesse  è  in  gran  follia. 

Tu  r  hai  presente,  e  non  saprai  chi  sia.  (siede) 

Cal.  (dopo   aver  guardato   il   Cielo   in  atto  di 
pensare,  fatto  un  inchino  colla  mano  alla 
fronte  verso  Turandot) 
Felice  me,  se  di  più  oscuri  enigmi 
Il  peso  non  mi  deste!  Principessa, 
Chi  non  saprà,  che  quella  creatura 
D'ogni  città,  d'ogni  castello,  e  terra. 
Che  sta  con  tutti,  ed  è  sicura  sempre 
Tra  gli  sconfitti,  e  tra  i  vittoriosi. 
Palese  al  mondo,  che  non  soffre  eguali, 
E  ch'ho  presente  (il  sofferite)  è  il  Sole? 


256  V  TtJRANDOT. 

Gal.  Signor,  non  v'affannate. 

Morte  pretendo,  o  Turandotte  in  sposa. 
Tur.  (sdegnosissima)  Sposa  tua  fia  la  morte.  Or 

lo  vedraL 
(si  leva  in  piedi,  e  segue  in  tuono  accadem.) 

Dimmi,  qual  sìa  quella  terribil  fera 
Quadrupede,  ed  alata,  che  pietosa 
Ama  chi  l'ama,  e  co'nimici  è  altera, 

Che  tremar  fece  il  mondo,  e  che  orgogliosa 
Vive,  e  trionfa  ancor.  Le  robuste  anche 
Sopra  Pistabil  mar  ferme  riposa; 

Indi,  col  petto,  e  le  feroci  branche 

Preme  immenso  terren.  D'esser  felice 
Ombra,  in  terra  ed  in  mar,  mai  non  son  stanche 

L'ali  di  questa  nuova  altra  fenice. 

{recitato  V enigma^  Turandotte  furiosa  si 
lacera  dal  viso  il  velo  per  sorprender  Cai.) 
Guardami 'n  volto,  e  non  tremar.  Se  puoi, 
Spiega,  chi  sia  la  fera,  o  a  morte  coni. 
Cal.  (sbalordito)  Oh  bellezza!  Oh  splendor!  (r^ 

sta  sospeso  colle  mani  agV  occhi  ) 
Alt.  (agitato)  Oimè,  si  perde! 

Figlio,  non  sbigottirti;  in  te  ritoma. 
Zel.  (a^ parte  affannosa)  Io  mi  sento  mancar. 
Adkl.  (  a  parte  )  Stranier,  sei  mie. 

Mi  sarà  guida  amor  per.  involarti. 
Pant.  (smanioso)  Anemo,  anemo,  fio.  Oh  se  po- 
desse  aiutarlo!  me  trema  le  tavernelle,  che  el 
se  perda. 


ATTO  SECONDO.  «57 

Tart.  Se  non  fosse  per  il  decoro  del  posto,  onderei 

a  prendere  il  vaso  dell'  aceto  in  cucina. 
Tur.  Misero,  morto  seL  Della  tua  sorte 

Te  medesmo  condanna. 
Go.  (rientrando  in  sé  stesso)  Turandotte, 
Fu  la  bellezza  vostra,  che  mi  colse 
Improvviso,  e  confuse.  Io  non  son  vinto,  (vol- 
gendosi alV  uditorio) 
Tu,  quadrupede  Fera,  e  in  uno  alata, 
Terror  dell'  universo,  che  trionfi, 
E  vivi  in  terra,  e  in  mare,  ombra  facendo 
Colle  immense  ali  tue  grata,  e  (elice 
All'elemento  instabile,  e  aUa  terra, 
Agl'illustri  tuoi  figli,  e  cari  sudditi. 
Nuova  fenice,. è  ver,  Fera  beata, 
Sei  dell'Adria  il  Leon  feroce,  e  giusta 
Pànt.  (con  trasporto)   Oh  siestu   benedetto.   No 
me  posso  più  tegnir.  (corre  ad  abbracciarlo) 
Tart.  (ad  Alt.  )  Maestà  consolatevi. 

(t  dottori  aprono  il  tenfo  foglio  sigillato, 
indi  in  coro) 
È  dell'Adria  il  Leone:  è  vero,  è  vera 
(odonsi  degli  evviva  allegri  del  popolOy  e 
uno  strepito  grande  di  strumenti.  Turandot 
cade   in   isfinimento   sul   trono.  Zelima  e 
Adelma  l^ assistono) 
Zel.  Datevi  pace.  Principessa.  Ha  vinto. 
Adel.  (  a  parte  )  Ahi  perduto  amor  mio . . .  No,  hon 

sei  persa 
(Altoum  allegro  discende  dal  tronOf  assi- 
GozzL  t6 


258  '  TURANDOT. 

stito  da  Pantalone  e  da  Tartaglia,  I  Dai- 
tori  si  ritirano  in  fila  nel  fondo  del  teatro) 

Alt.  Finisci,  figlia,  d' essermi  tiranna 
Colle  tue  stravaganze.  Amato  Prence, 
Vieni  al  mio  sen.  {abbraccia  Calaf.  Turandot 
rinvenuta  precipita  furente  dal  trono  ) 

Tur.  {invasata)  Fermatevi  Non  speri 

Q)stui  d'esser  mio  sposo.  Io  nuovamente 
Pretendo  di  propor  tre  nuovi  enigmi 
Al  nuovo  giorno.  Troppo  breve  tempo 

.    Mi  fu  dato  al  cimento.  Io  non  potei 
Quanto  dovea  riflettere.  Fermate... 

Alt.  {interrompendola)  Indiscreta,  crudeli  Non  e 

più  tempo; 
Più  facil  non  m'avrai.  La  dura  legge 
È  già  eseguita,  ed  a  Ministri  miei 
La  sentenza  rimetto. 

Pant.  La  perdoni  No  gh'  è  bisogno  de  altre  in- 
dovinelle,  né  de  tagiar  altre  teste,  come  se 
le  fusse  zucche  baruche.  Sto  putto  ha  indo- 
vina. La  legge  xe  esequida,  e  avemo  da  magnar 
sti  confetti,  {a  Tart)  Cossa  diseu  vu,  Can- 
cellier? 

Tart.  Eseguitissima.  Non  v*  è  bisogno  d' interpre- 
tazioni. Che  dicono  gli  Eccellentissimi  Signori 
Dottori? 

(  Tutti  i  Dottori)  È  consumata,  è  consumata,  è 

sciolta. 

Alt.  Dunque  al  Tempio  si  vada.  Quest'ignoto 
Riconoscer  si  faccia,  e  i  Sacerdoti... 


ATTO  SECONDO.  259 

Tur.  (disperata)  Ah,  padre   mio,  deh  per  pietà 

sospendasi... 

Alt.  (sdegnoso)  Non  si  sospenda;  io  risoluto  sono. 

Tur.  (precipitando  ginocchioni)  Padre,  per  quanto 
amor,  per  quanto  cara 
Ve  questa  vita,  al  nuovo  di  concedasi 
Nuovo  cimento  ancora.  Io  non  potrei 
Soflferir  tal  vergogna.  Io  morrò,  prima 
D'assoggettarmi  a  quest'uomo  superbo, 
Pria  d'esser  moglie.  Ahi  questo  nome  solo 
D'esser  consorte  ad  uom,  solo  il  pensiero 
D'esser  soggetta  ad  uom,  lassa,  m'uccide,  (piange) 

Alt.  (collerico)  Ostinata,  fanatica,  brutale; 
Più  non  t'ascolto.  Olà,  ministri,  andate. 

Gal.  Sorgi,  di  questo  cor  bella  tiranna. 
Signor,  deh  per  pietade  sospendete 
Gli  ordini  vostri.  Io  non  sarò  felice, 
S' ella  m' abborre,  ed  odia.  L' amor  mio 
Non  potria  soflferir  d'esser  cagione 
Del  suo  tormento.  Che  mi  vai  l'affetto, 
Se  d'odio  solo  la  mia  fiamma  è  degna? 
Barbara  tigre,  s'io  non  ammollisco 
Queir  anima  crudel,  sta  Jieta,  e  godi  ; 
Io  non  sarò  tuo  sposo.  Ah,  se  vedessi 
Questo  cor  lacerato,  io  certo  sono. 
Che  n'avresti  pietà.  Della  mia  morte 
Ingorda  sei?  Signor,  le  si  conceda 
Nuovo  ciinento;  io  questa  vita  ho  a  sdegno. 

Alt.  No;  risoluto  son.  Vadasi  al  Tempio; 
Non  si  conceda  altro  cimento...  incauto... 


a60  '^  TinUNDOT. 

TéTR.  (tmpe/|«05a)  Vadasi  al  Tempio  pur;  ma  so- 
pra FAra 
Spirerà  vostra  figlia. 

Cix.  Spirerà! 

Mio  Signor...  Principessa,  d'una  grazia 
Ambi  fatemi  degno.  Al  nuovo  giorno 
Qui  nel  Divano  io  proporrò  un  enigma 
All'  indomito  spirto,  e  questo  fia: 
Di  chi  figlio  è  quel  Principe,  e  qual  nome 
Porta  lo  stesso  Principe,  ridotto 
A  mendicar  il  pane,  a  portar  pesi 
A  prezzo  vii,  per  sostener  la  vita; 
Che  giunto  al  colmo  di  felicitade 
È  sventurato  ancor  più,  che  mai  fosse? 
Diman  qui  nel  Divano,  alma  crudele. 
Del  padre  il  nome,  eU  nome  del  dolente 
Indovinate.  Se  non  v'è  possibile, 
Traete  fuor  d'angoscia  un  infelice; 
Non  mi  negate  quell'amata  destra;  « 
S'ammollisca  quel  cor.  Se  indovinate, 
Sazia  della  mia  morte,  e  del  mio  sangue 
Sia  quell' alma  feroce,  insuperabile. 

Tur.  Straniero,  il  patto  accetto,  e  mi  contenta 

Zel.  {a parte)  Nuovo  periglio  ancor. 

Adel.  (a  parte)  Nuova  speranza. 

Alt.  Contento  non  son  io.  Nulla  concedo. 
S'eseguisca  la  legge. 

Gal.  (inginocchiandosi)  Alto  Signore, 
S'io  nulla  merto,  se  pietà  in  voi  regna, 
Appagate  la  figlia,  e  me  appagate. 


ATTO  SECONDO.  201 

Deh  non  manchi  da  me,  eh'  ella  sia  sazia, 
Quello  spirto  si  sfoghi  S'  ella  ha  acume, 
Quanto  ho  proposto  nel  Divan  dispieghi. 
Tur.  (a  parte)  Io  m'affogo  di  sdegno.  Ei  mi  di- 
leggia. 
Alt.  Imprudente,  che  chiedi!  Tu  non  sai, 

Quanto  ingegno  è  in  costei...  Ben:  vi  concedo 
Questo  cimento  nuovo.  Sciolta  sia 
D'esser  tua  sposa,  s'ella  i  nomi  espone. 
Ma  non  concedo  già  nuove  tragedie. 
Salvo  te  n'anderai,  s'ella  indovina. 
Più  non  pianga  Altoum  le  altrui  miserie. 
(basso  a  Cala/)  SeguimL..  incauto,  che   fa- 
cesti maii 
{Ripigliasi  un  suono  di  marcia.  Altoum  con 
le  guardie,  i  Dottori,  Pantalone  e   Tartan- 
glia  con  gravità  entrerà  per  il  portone,  dal 
quale  è  uscito.  Turandotte,  Adelma,  Zelima, 
Truffaldino,  Eunuchi  e  schiave  con  tambu-- 
relli  entreranno  per  V  altro  portone.  ) 


ATTO  TERZO 

Camera  del  Serraglio. 


SCENA  PRIMA. 
Adblma  e  una  Schiava  Tartara  sua  confidente. 


Adbl. 


(con  fiere:{s[a) 
I  proibisco  il  favellarmi  ancora^ 
Già  capace  non  son  de' tuoi  con- 
sigli: 
Altro  mi  parla  al  cor.  Possente  amore, 
Che  dell'  ignoto  Principe  m' abbrucia. 
Odio,  che  a  questa  empia  superba  io  porto, 
Dolor  di  schiavitù.  Troppo  ho  sofferto. 
Scorsi  cinqu'anni  or  son  che  dentro  al  seno 
Chiudo  il  velen,  rassegnazion  dimostro,. 
E  amor  per  questa  ambiziosa  donna. 
Della  miseria  mia  prima  cagione. 
In  queste  vene  real  sangue  scorre, 
Tu'l  sai,  né  Turandot  m'è  superiore. 
In  vergognosi  lacci  schiava  umile 


264  TUIUNDOT. 

E  sino  a  quando  una  mia  pari  deve, 
Corne  ancella,  servir?  Gli  sforzi  estremi 
Per  simular  m'hanno  già  resa  inferma; 
Di  giorno  in  giorno  io  mi  distruggo,  come 
Neve  al  sol,  cera  al  foco.  Dì,  conosci 
In  me  più  Adelma?  Io  risoluta  sono 
Oggi  d' usar  quant*  arte  posso.  Io  voglio. 
Per  la  strada  d'amor,  di  schiavitude, 

^     O  di  vita  fuggir. 

ScH.  No,  mia  Signora... 

No,  non  è  tempo  ancor... 

Adbl.  {con  impeto)  Va,  non  tentarmi. 

Ch'io  soffra  più.  D'un  solo  accento,  un  solo 
Non  molestarmi  ancora.   Io  tei  comando,  (la 
schiava,  fatto  un  inchir^  con  una  mano  alla 
fronte,  timorosa  partirà  ) 
Ecco  la  mia  nimica,  accesa  l'alma 
Di  rabbia,  di  vergogna,  forsennata, 
Fuor  di  sé  stessa.  È  questo  il  vero  punto 
Di  tentar  tutto,  o  di  morir.  S'ascolti,  {si  na- 
sconde) 

SCENA  SECONDA. 
TuRAifDOT,  Zblima,  Ìndi  Adblxa. 

Tur.  Zelìma,  più  non  posso.  Sol  pensando 
Alla  vergogna  mia,  sento,  che  un  foco 
L'alma  mi  strugge. 

Zel.  Come  mai,  Signora, 

Un  si  amabile  oggetto,  un  sì  beli'  uonao. 


ATTO  TERZO.      ,  l6$ 

SI  generoso,  tanto  innamorato 

Può  destarvi  nel  seno  odio,  e  puntiglio? 

Tur.  Non  tormentarmi. . .  sappL . .  ah  mi  vergogno 
A  palesarlo...  ei  mi  destò  nel  petto 
Commozioni  a  me  ignote...  un  caldo...  un  gelo..» 
No,  non  è  ver.  Zelima,  io  Podio  a  morte. 
Ei  della  mia  vergogna  nel  Divano 
Fu  la  cagion.  Per  tutto  il  Regno,  e  fuori 
Si  saprà,  ch'io  fui  vinta,  e  riderassi 
Dell'ignoranza  mia.  Dimmi,  se'l  sai. 
Soccorrimi,  Zelima.  U  padre  mio 
Diman  vuol,  che  nell'alba  si  raduni 
L' assemblea  de'  Dottori,  e,  s' io  mal  sciolgo 
L' oscurissimo  enigma,  eh' è  proposto. 
Vuol,  che  seguan  le  nozze  in  quel  momento» 
IX  chi  figlio  è  quel  Principe,  e  qual  nome 
Porta  lo  stesso  Principe,  ridotto 
A  mendicar  il  pane,  a  portar  pesi 
A  pre!(^o  vii  per  sostener  la  vita; 
Che  giunto  al  colmo  di  felicitade 
È  sventurato  ancor  più  che  mai  fosse? 
Lo  scorgo  ben,  che  questo  sconosciuto 
È'I  Principe  proposto;  ma  chi  puote, 
Del  padre  il  nome  indovinar,  e'I  suo? 
S'è  sconosciuto?  Se  l'Imperatore 
Grazia  gli  die  di  star  occulto  insino 
Alla  fin  del  cimento?  Io  l'accettai 
Per  non  ceder  la  destra.  Ah  eh'  è  ìmposdbile 
Ch'io  l' indovini  Di,  che  far  potrei? 

Zbl.  Quivi  in  Pechin  v'  è  ben,  chi  l' arte  magica 


266  ^TURANDOT. 

Perfettamente  sa.  Ve,  chi  la  cabala 
Sa  trar  divinamente;  ad  un  di  questi 
Voi  ricorrer  potreste. 

Tur.  Io  non  son  folle, 

Come  tu  sei,  Zelima.  Per  il  volgo 
Sono  questi  impostori,  e  l'ignoranza 
È  fruttifero  campo  a  tali  astuti 
Altro  non  suggerisci? 

Zbl.  Io  vi  ricordo 

Le  parole,  i  sospiri,  il  duolo  intenso 
Di  quell'Eroe.  Come  prostrato  a' piedi 
Del  padre  vostro  con  sì  bella  grazia 
Per  voi  chiese  favor. 

Tur.  Non  dir  più  oltre. 

Sappi,  che  questo  core...  Ah  non  è  vero... 
Io  r  odio  a  morte.  Io  so,  che  tutti  perfidi 
Gli  uomini  son,  che  non  han  cor  sincero, 
Ne  capace  d'amor.  Fingono  amore 
Per  ingannar  fanciulle,  e  appena  giunti 
A  possederle,  non  più  sol  non  le  amano, 
Ma'l  sacro  nodo  maritai  sprezzando 
Passan  di  donna  in  donna,  ne  vergogna 
Gli  prende  a  dar  il  core  alle  più  vili 
Femminette  del  volgo,  alle  più  lorde 
Schiave,  alle  meretrìci.  No,  Zelima, 
Non  parlar  di  colui.  Se  diman  vince. 
Più  che  morte  l'abborro.  Figurandomi 
Moglie  soggetta  ad  uom,  immaginando, 
Ch'  ei  m' abbia  vinta,  sento,  che  1  furore 
Mi  trae  fuor  di  me  stessa. 


ATTO  TERZO.  267 

Zbl.  Eh,  mia  Signora, 

E  Tetà  vostra  fresca,  che  alterigia 
Vi  desta  in  cor.  Verrà  l'età  infelice, 
Che  i  concorrenti  mancheranno,  e  allora 
Vi  pentirete  invan.  Che  mai  perdete? 
Qual  fanatica  gloria,  e  quaP  onore? 

Adbl.  (che  a  poco  a  poco  si  sarà  fatta  innam^i 
ascoltando,  interrompendola  con  gravità) 
Chi  bassamente  è  nata  non  ha  idee 
Da  quelle  di  Zelima  differenti. 
Scusa,  Zelima.  D'una  Principessa, 
Che  in  un  Divan  con  pubblico  rossore. 
Dopo  un  corso  di  gloria,  e  di  trofei, 
Da  un  ignoto  sia  vinta,  mal  conosci 
La  necessaria  doglia,  e  la  vergogna. 
Io  con  questi  occhi  vidi  1'  esultanza 
Di  cento  maschi,  e  un  beffeggiar  maligno 
Sugli  enigmi  proposti,  quasi  fossero 
Sciocchi  enigmi  volgari,  e  n'ebbi  sdegno, 
Perch'  io  l' amo  da  ver.  Che  mi  dirai 
Della  sua  circostanza?  Ella  è  ridotta 
Contro  l' istinto  suo,  contro  sua  voglia, 
Sforzatamente  a  divenir  consorte. 

Tur.  (impetuosa)  Non  m'accender  di  più. 

Zel.  Ma  qual  sventura 

È  divenir  consorte? 

Adel.  Eh  taci,  taci. 

,  Obbligo  non  hai  tu  d' intender,  come 
Un  magnanimo  cor  de' risentirsi. 
Non  sono  adulatrice.  E  ti  par  poco, 


268  TURANDOT. 

Ch'ella  impegnata  siasi  con  franchezza 
D'indovinar  que'nomi;  e  tP apparire 
Dimani  nel  Divano  in  faccia  al  volgo?  . 
Che  rimarrà,  se  in  pubblico  apparita 
Scioccamente  risponde,  o  là  confessa. 
Che  fii  stolto  il  suo  assunto!  Ah  che  mi  sembra 
Mille  scherzi  di  beffe,  e  aperte  risa 
Del  popolo  sentir,  quasi  ella  fosse 
Un'infelice  comica,  che  caggia 
In  error  sulla  scena. 

Tur.  {furiosa)  Sappi,  Adelma, 

Se  i  nomi  non  iscopro,  in  mezzo  al  Tempio, 
(Già  risoluta  sono)  in  questo  seno 
M'immergerò  un  pugnai 

Adel.  No,  Principessa. 

Per  scienza,  od  inganno  si  de'sciorre 
Quell'enigma  proposto. 

Zbl.  Ben;  se  tanto 

Adelma  l'ama  e  più  di  me  capisce, 
Più  di  me  la  soccorra. 

Tur.  Cara  Adelma, 

Soccorrimi.  Del  padre  il  nome,  e'I  suo 
Come  deggio  saper,  se  noi  conosco. 
Né  so,  d'onde  sia  giunto? 

Adel.  Ei  nel  Divano 

Sb  che  disse  aver  gente  qui  in  Pechino, 
Che  lo  conosce.  Sì  de' por  sossopra 
La  città  tutta,  ed  oro  e  gemme  spendere. 
Tutto  si  de'  poter. 

Tur.  D'oro,  e  di  gemme 


ATTO  TERZO.  oSg 

Disponi  a  voglia  tua.  Pur  ch'io  lo  sappia^ 
Non  si  curi  un  tesoro. 

Zeu  e  dove  spenderlo? 

Di  chi  cercar?  Con  qual  cautela,  e  come, 
Quand'  anche  si  sapesse,  un  tradimento 
Tener  occulto,  e  far  che  non  si  sappia, 
Che  p^r  inganno,  e  non  per  sua  virtude 
EU' ha  carpiti  i  nomi? 

Adel.  Sarà  forse 

Zelima  traditrice  a  discoprirlo? 

Zel,  (con  ira)  Ah  troppo  offesa  son.  Mia  Prin- 
cipessa, 
Risparmiate  il  tesora  Io  mi  credea 
Di  placar  l'alma  vostra,  e  persuadervi 
Sperava  a  dar  la  destra  ad  un  ben  degno 
Tenero  amante,  che  a  pietà  mi  mosse. 
Trionfi  in  me  parzialità,  ch'io  deggio 
A  chi  deggio  ubbidir.  Fu  qui  Schirina 
La  madre  mia.  Fu  a  visitarmi  allegra 
Per  gli  enigmi  disciolti,  e  non  sapendo 
Del  novello  cimento  di  dimani 
Mi  palesò,  che'l  Prence  forestiere 
Alloggiò  nel  suo  albergo,  indi  che  Assan, 
Mio  patrigno  il  conosce,  e  che  l'adora. 
Chiesi  del  nome  suo,  ma  protestommi, 
Ch' Assan  non  glielo  disse,  e  ch'anzi  nega 
Di  volerglielo  dire.  Ella  promise 
Di  far  quanto  potrà.  Dell'amor  mio 
La  mia  Regina  or  dubiti,  se'l  merto.  (entra 

dispettosa) 


270  TURANDOT. 

Tur.  Vicn,  Zelima,  al  mio  scn,  perchè  tcn  vai?... 

Adei^  Turandone,  Zelima  v'ha  scoperta 

Qualche  util  traccia,  ma  è  imbecil  di  mente. 
Stoltezza  è  lo  sperar,  che  volontario, 
Non  usando  V  ingegno,  il  suo  patrigno 
Palesi  i  nomi  or  che  saprà '1  cimento. 
Non  si  perda  più  tempo.  In  più  celata 
Parte  un  consiglio  mio  vo' ,  eh'  eseguiate, 
Se  credete  al  mio  amor. 

Tur.  Sì,  amica,  andiamo 

Pur  che'l  stranier  non  vinca,  io  farò  tntto. 

(entra) 

Adel.  Amor,  tu  mi  soccorri,  e  tu  seconda 
I  miei  desiri,  onde  di  schiavitude 
Possa  uscir  lieta.  M' apra  la  superbia 
Di  questa  mia  nimica  e  strada,  e  campo,  (entra) 

SCENA  TERZA. 
Sala   della   Reggia. 

Calaf  e  Barach. 

Gal.  Ma  se  '1  mio  nome,  e  quello  di  mio  padre 
Noti  in  Pechino  solamente  sono 
Alla  tua  fedeltà.  Se'l  Regno  nostro 
Da  questa  regione  è  si  lontano. 
Ed  è  perduto  ben  ott'anni  or  sono. 
Occulti  Siam  vissuti,  e  fama  è  scorsa, 
Che  la  morte  ci  colse.  Eh  che  si  perde 


ATTO  TERZO.  27 1 

Di  chi  cade  in  miseria  la  memoria 
Facilmente,  Barach. 
Bar.  No,  fu  imprudenza; 

Scusatemi,  Signor.  Gli  sventurati 
Anche  degl'impossibili  temere 
Devono  sempre.  Le  muraglie,  i  tronchi, 
Le  inanimate  cose  acquistan  voce 
Contro  gli  sfortunati,  e  tutto  han  contro. 

10  non  mi  so  dar  pace.  Avete  in  sorte 
Vinta  una  donna  si  famosa,  e  bella, 
Vinto  un  si  vasto  regno  al  grave  rischio 
Di  quella  vita,  e  poi  tutto  ad  un  tratto. 
Per  fralezza  di  cor,  tutto  è  perduto. 

Gal.  Non  misurar  Barach  coli' interesse 

11  mio  tenero  amor.  Di  Turandot, 
Sola  mia  vita,  non  vedesti,  amico 
L'ira,  il  furor,  né  la  disperazione 
Contro  a  me  nel  Divan. 

Bar.  Doveva  un  figlio, 

Più  che  al  furor  di  Turandot,  già  vinta, 
Pensar  alla  miseria,  in  cui  lasciati 
Ha  i  genitor  meschini  un  giorno  a  Berlas. 

Gal.  Non  mi  rimproverar.  Volli  appagarla. 

Tento  ammollir  quel  cor.  L' azion,  eh'  io  feci, 
Forse  non  le  dispiacque.  Una  scintilla 
Forse  di  gratitudine  ora  sente. 

Bar.  Chi!  Turandottel  Ah,  mal  vi  lusingate. 

Gal.  Perderla  già  non  posso.  Dì,  Barach, 
Tu  non  mi  palesasti,  è  ver?  Avresti 
Alla  tua  sposa  detto,  chi  io  mi  sia? 


a7^  turandot: 

Bar.  No,  Signor,  non  gliel  dissL  A^  cenni  vostri 
Sa  Barach  obbedir.  Pur  non  so  quale 
Presentimento  mi  spaventa,  e  tremo. 


SCENA  QUARTA. 
Pantalons,  Tartagua  Brighella,  soldati,  e  $opraddetd. 

Pant.  (tiscendo  affaccendato)  Oh  velo  qua,  velo 
qua  per  diana. 

Tart.  (a  Cala/)  Altezza,  chi  è  costui? 

Pant.  Mo  dove  se  ficheto?  con  chi  parlela? 

Bar.  (a  parte)  Misero  me,  che  fìal 

Gal.  Questo  è  a  me  ignota 

Qui  lo  trovai  per  accidente.  A  lui 
Chiedea  della  città,  de'  riti,  d' altro. 

Tart.  Perdonatemi,  voi  siete  un  ragazzo  col  cer- 
vello sopra  al  turbante,  e  avete  un  animo 
troppo  cortese.  Me  ne  sono  accorto  nel  Di- 
vano. Perchè  diavolo  avete  fatta  quella  ba- 
lordaggine? 

Pant.  Oh  basta,  quel  che  xe  fatto,  xe  fatta  Al- 
tezza, ella  no  sa  in  quanti  pie  de  acqua  che 
la  sia,  e  se  no  averemo  i  occhi  nù  sulla  so 
condotta,  ella  se  lasserà  far  zo,  come  un  par- 
pagnacco.  (a  Bar.)  Sier  mustacchi  caro,  que- 
sto no  xe  logo  per  vu.  Ella,  Altezza,  la  se  coo- 
tenta  de  ritirarse  in  tei  so  appartamento,  Bri- 
ghella, za  xe  dà  r  ordene,  che  se  metta  sul- 
l'arme  domile  soldai  de  guardia,  e  vu  custodire 


ATTO   TERZO.  .  273 

coi  vostri  paggi  $ia  domattina  :le'  porte -della 
so  abitazion,  perchè  no  ghe  entceì;  riissua.  To- 
*  lelo  in  mezzo  alle  arme,  e  fellol  ^strt>  debita 
Questo  xe  ordene  deU'  Imperatoj^jsala.?  El  s'ha 
innamora  de  ella,  no  gh'  è  caso,  el  trema,  che 
nassa  qualche  accidente.  Se  no  la  deventa  so 
zenero  domattina^  mi  credo,  che  quel  povero, 
vecchio  mora  certo  dalla  passion.  Ma  la  me 
scusa,  la  xe  stada  ima  gran  puttellada  quella 
d'ancuot  (basso  a  Cai.)  Per  carità  no  ghe 
sbrìssasse  mai  de  bocca  el  so  nome  ;  se  però  là 
ghelo  disesse  a  sto  vecchietto  onorato  pian 
pianin,  el  lo  receverìa   per   una  gran  finezza* 

*      Ghe  fala  sto  regalo? 

Cal.  Vecchio,  mal  ubbidite  al  Signor  vostro. 

Pant.  Ah  bravo  1  O,  a  vù,  sier  Brighella. 

Brig.  La  finissa  pur  ella  le  chiaccole,  che  mi  farò 
i  fatti. 

Tart.  Signor  Brighella,  guardate  bene,  che  ci  va 
la  testa. 

Brig.  Conosso  el  merito  della  mia  testa,^e  no  go 
bisogno  de  recordi. 

Tart.  (basso  a  Cai.)  Sono  curioso,  che  crepo,  dì 
sapere  il  vostro  nome.  Uh,  se  mi  faceste  la 
grazia  di  dirmelo,  lo  saprei  tenere  rinchiuso 
nelle  budella  io. 

Cal.  Invan  mi  tenti;  al  nuovo  di'l  saprai. 

Tart.  Bravissimo,  cospetto  di  bacco. 

Pant.  Altezza,  ghe  son  servitor.  (a  Barach)  E  vu, 
sier  mustacchi  caro,  fare  megio  a  andar  a  fu- 

Gozzi.  18 


274  TURANixyr. 

mar  una  pipa  in'  piazza,  che  a  ^tar  qua  in  sto 
•  palazzo.  Ve  consegio  a  andar  per  i  fatti  vostri, 
che  fare  megio.  (entra) 
Tart.  Oh  meglio  assai.  NT  hai  un  certo  ceffo  da 

birbante,  che  non  mi  piace  nulla,  (entra) 
Brio.  La  me  permetta,  che   obbedissa   a  chi   poi 
comandar.  La  fazza  grazia  de   restar  servida 
subito  in  tei  so  appartamento. 
Gal.  Sì,  teco  sono,  (a  Bar,)  Amico,  a  rivederd. 

Ci  rivedremo  in  miglior  punto.  Addio. 
Bar.  Signore,  ri  son  schiavo. 
Brio.  Allon,  allon,  finimo  le  ceremonie.  (ordina 
ai  soldati  di  prender  nel-  me^jo  alP  armi 
Calafy  ed  entrano) 

SCENA  QUINTA. 

Barach  indi  TiMUR.  Timur  sarà  un  pecchia  tremante 
con  un  vestito  che  dinoti  un'estrema  miseria. 

Bar.  (verso  Calafy  che  parte  nel  mej![o  alP  armi) 
Il  Ciel  t'assista. 
Principe  incauta  Dal  mio  canto  certo 
Custodirò  la  lingua. 
TiM.  (  vedendo  partire  il  Jiglitiolo  nel  me:{^o  al- 
V armiy  agitato  da  sé) 

Oimè!  mio  figlio! 
In  mezzo  all'armi!  Ah  cheU  Soldan  tiranno 
Di  Carizmo,  crudele  usurpatore 
Del  Regno  mio,  sino  in  Pediin  Tha  giunto! 


ATTO  TERZO.  275 

Io  seco  morirò,  {disperato^  e  in  atto  di  se^ 
guirlo)  Calaf,  Calaf... 
Bar.  (sorpreso  sguainando  la  scimitarra,  e  pi- 
gliandolo per  un  braccio  ) 

Vecchio  ti  ferma,  taci,  o  ch'io  ti  uccido. 

Chi, sei  tu!  donde  vieni?  come  sai 

Di  quei  giovane  il  nome? 
TiM.  {guardandolo)  Oh  Diol...  Barach...! 

Tu  qui  in  Pechin!  Tu  ribellato  ancora! 

Col  ferro  in  pugno  contro  al  tuo  Monarca 

In  miseria  ridotto,  e  contro  al  figlio? 
Bar.  {con  somma  sorpresa)  Tu  sei  Timur! 
TiM.  Sì,  traditor...  ferisd... 

Tronca  pur  i  miei  giorni.  Io  son  già  stanco 

Di  viver  più;  né  sopravviver  voglio. 

Se  i  più  fidi  ministri  ingrati  or  miro 

Per  interesse  vii;  se'l  figlio  mio 

Sacrificato  al  barbaro  furore 

Del  Sultan  di  Carizmo  io  veggio  alfine,  {piange) 
Bar.  Signor...  misero  me!...  questo  è  '1  mio  Prence! 

Sì,  pur  troppo '1  rawiso.  .{s^  inginnocchia)  Ah 

mio  Sovrano, 

Io  vi  chiedo  perdono...  Il  furor  mio 

Fu  per  amor  di  voi...  Per  quanto  caro 

V'è'l  vostro  figlio,  mai  di  bocca  v'esca 

Nè'l  nome  di  Timur,  né  quel  del  figlio. 

Io  qui  mi  chiamo  Assan,  non  più  Barach.  {sor- 
gendo, e  guardando  intorno  e  agitato) 

Ahi,  che  forse  fu  inteso.  Dite...  dite... 

Elmaze,  vostra  sposa,  é  qui  in  Pechino? 


276  TURANDOT. 

Tm.  {sempre  piangendo)  Non  mi  rammemorar  la 

cara  sposa. 
•Barach,  in  meschinello  asilo  in  Berlas 
Tra  le  passate  angosce,  e  le  presenti. 
Cedendo  al  rio  destin,  col  nome  in  bocca 
Dell'amato  suo  figlio,  ed  appoggiando 
A  questo  affitto  sen  la  cara  fronte, 
Tra  queste  braccia  sfortunate  e  stanche, 
Me  confortando,  spirò  V  alma,  e  giacque. 

Bar.  {piangendo)  Misera  Principessa! 

Tnc.  Io  disperato 

In  traccia  dell'  amato  figlio  mio, 
E  in  traccia  della  morte  in  Pechin  giunsi, 
E  appeha  giunto  il  misero  mio  figlio 
Veggo  tra  V  armi  al  suo  destin  condotto. 

Bar.  Partiam,  Signor.  Del  figlio  non  v'incresca. 
Diman  fors'è  felice;  in  un  felice 
Diverrete  anche  voi,  pur  che  non  v'esca 
Dalle  labbra  il  suo  nome,  e'I  nome  vostro. 
Io  qui  Barach  non  son,  ma  Assah  mi  chiama 

TiM.  Qual  arcano  mi  4ì  ? . . . 

Bar.  Farò  palese 

Lungi  da  queste  mura  ogni  secreto. 
Partiam  tosto.  Signor,  {guarda  intomo  con  50- 

spetto)  Ma  che  mai  vedo! 
Schirina  dal  Serraglio!  Ohimè!  meschino! 
D'onde  vieni?  a  che  andasti? 


ATTO  TERZO.    ,  277 

SCENA  SE$TA. 
S  e  R I R I  N  A   e  detti, 

ScH.  L' allegrezza, 

Che  l'ignoto  gentile  ospite  nostro 
Vittorioso  sia;  curiositade 
Di  saper,  come  quella  tigre  ircana    - 
S'assoggettasse  a  divenir  consorte, 
Nel  Serraglio  mi  spinse,  e  con  Zelima, 
Figlia  mia,  m'allegrai. 

Bar.  {sdegnoso)  Femmina  incauta... 

Tu  non  sai  tutto,  e  garrula  ghiandaia 
Ten  corresti  al  serraglio.  Io  ti  cercai 
Per  proibirti  ciò,  che  tu  facesti. 
Ma  stolta  debolezza  femminile 
Più  sollecita  è  sempre  d' ogni  saggio 
Pensier  dell' uom,  che  rare  volte  è  a  tempo. 
Quai  discorsi  tenesti?  Udirti  parmi 
Nella  folle  allegrezza  a  dir:  L' ignoto,  . 
Zelima,  ospite  è  nostro,  e  mio  consorte 
Lo  conosce,  e  l'adora.  Ciò  dicesti? 

ScH.  {mortificata)  Che!  sana  mal,  se  ciò  le  avessi 

detto? 

Bar.  No,  confessalo  pur:  di,  gliel  dicesti?, 

ScH.  Gliel  dissi:  ella  volea  dopo,  che'l  dome 
Le  palesassi;  e  a  dirti '1  ver,  promisi... 

Bar.  {impetuoso)  Misero  mei  perduto  sono...  Ahi 

stolta!... 
Fuggiam  di  qua. 


278  TURANDOT. 

Tnf.  Deh  di;  che  arcano  è  questo? 

Bar.  (agitato)  Fuggiam  da  queste   soglie^   e  di 

Pechino 

Fuggiamo  tosto,  (guarda  ^en^o) Ohimè!  noa 

è  più  tempo... 
X   Gli  Eunuchi  della*  cruda  Turandot... 

(a  Sch.)  Ingrata...  ingrata,  folle...  Io  più  non 

deggio 

Fuggir.  Tu  fuggi,  e  questo  miserabile 

Salva  teco,  e  nascondi. 
TiM.  Ma  mi  narra... 

Bar.  (basso  a  Tim.)  Chiudete  il  labbro.  Il  nome 

vostro  mai 

Dalla  bocca  non  v'  esca.  Tu,  mia  sposa, 

(con  fretta)  Se  de'  tuoi  benefizi,  eh'  io  sia  grato.^ 

Se  del  mal,  che  facesti,  alcun  rimedio 

Desideri  di  oppor,  non  nel  tuo  albergo, 

Ma  in  altro  asilo  celati,  e  quel  vecchio 
.    Teco  celato  tjen,  sin  che  passata 

Sia  la  metà  del  nuovo  giorno. 
Sch.  Sposo... 

TiM.  Con  noi  vieni.  Perchè?... 
Bar.  Non  replicate. 

Di  me  si  cerca,  io  fui  scoperto.  Andate. 

Io  devo  rimaner.  Tu   non  tardare,   (guarda 

dentro) 

Ite  a  celarvi  tosto...  m'ubbidite. 
TiM.  Ma  perchè  mai  non  puoi?... 
Bar.  (inquieto)  Oh  Dio!  che  penai  (guarda  dentro) 
Sch.  Dimmi,  in  che  feci  errori 


ATTO  TÈRZO.  *    279 

t  ■ 

Bar,  Oimè,  infelice!... 

,    {respingendoli)  Ite...  tticete  il  nome  vostro. 
(guarda  dentro)  Ah  invano 
Getto  il  tempo,  e  i  consigli .. .  Ingrata  sposa  I . . . 
Misero  vecchio  1...  sfortunato  vecchio!... 
Tutti  fuggiamo  adunque...  Ah  tardi  è  ornai. 
(tutti  in  atto  di  fuggire) 

SCENA  SETITIMA. 

Truffaldino,  Eunuchi  armati  e  detti.  Truffaldino  il 
fermerà  presentando  loro  l'arme  al  petto;  farà  chiudere 
tutti  i  passL 

Bar.  So,  che  d'Assan  si  cerca,  io  teco  sono. 

Truff.  Che  non  faccia  romore  ;  eh'  egli  è  venuto 
per  fargli  una  grazia  grande. 

Bar.  Sì,  nel  Serraglio  vuoi  condurmi.  Andiamo.  . 

Truff.  Esagera  sulla  gran  fortuna  di  Assan.  Che, 
se  una  mosca  entra  nel  serraglio,  si  esamina, 
s'è  maschio  o  femmina,  e  s'è  maschio,  s'im- 
pala, ecc.:  chiede,  chi  sia  quel  vecchio. 

Bar.  Quegli   è   un   meschin,   ch'io   non  conosco. 

Andiamo. 

Truff.  Che  ha  fatto  conto  di  voler  fare  la  for- 
tuna anche  di  quel  vecchio  meschino.  Chi  sia 
quella  donna. 

Bar.  So,  che  la  tua  Signora  di  me  cerca. 
Lascia  quel  miserabile.  La  donna 
Io  qon  vidi  giammai,  né  so,  chi  sia. 

Truff.  Collerico  rimprovera  Barach  della  bugia 


28o 


TURANDOT.  * 


detta;  Ch'  egli  la  conosce  per  sua  moglie,  e  per 
madre  di  Zelima:  che  l'ha  veduta  |d  scrraglia 
Ordina  con  maestà  a' suoi  Eunuchi  di  coprire 
quelle  tre  persone,  e  xrhe  col  favore  del  buio 
*  della  notte  le  conducano  nel  serraglio- 

TiM.  Dimmi,  che  fià  di  me? 

ScH.  Io  nulla,  intenda 

Bar.  Vecchio,  che  fia  di  te?  Di  me  che  fia? 
Io  tutto  soffrirò:  tu  soffri  ancora. 
Non  scordarti  i  miei  detti.  Or  sarai  paga, 
Femmina  stolta. 

ScH.  Io  son  fuor  di  meN  stessa. 

Truff.  Minacciante  li  fa  tutti  coprire,  ed^  entrana 


ATTO  QUARTO 

NOTTE 

Àtrio  con  colonne.  Una  tavola  con  un  grandissimo 
bacile,  colmo  di  monete  d^ora 


SCENA  PRIMA. 

TtntANDOT,  Barach,  TiMUR,  ScHiRiNA,  Zelima,  Eunuchi.  Gli 
Eunuchi  legheranno  a  due  colonne  separati  Barach  e'Ti^ 
mur,  I  quali  saranno  in  camicia  sino  alla  cintura.  Zelima, 
e  ^  Schirina  saranno  da  una  parte  piangendo,  Turandot 
daW  altra  in  atto  di  fiere^^a. 


Tur.   IÌKtI  IS?fl  EMPO  è  ancor  di  salvarvi.  Io  rin- 

novello 
I  prieghi  miei.  Quel  monte  d' ora 
è  vostro. 
Ma  se  del  padre,  e  dell'  ignoto  il  nome 
V  ostinate  a  occultarmi,  flagellati 
Dalle  robuste  braccia  de'  miei  servi 
Senza  compassion  cadrete  morti. 
Olà  ministri,  pronti  a'  cenni   miei.   (  Gli  Eur^ 
nuchi,  fatto  un  profondo  inchinOy  s^  armano 
di  bastoni) 


282  TUIUNDOT. 

Bar.  Paga  sarai  Schirina.  Or  t'è  palese 

L' effetto  del  tuo  errore,  (conforma)  Turandot, 

Saziatevi  pure.  Io  non  intendo 

Di  sospender  tormenti.  Risoluto 

Anzi  son  di  morir.  Crudi  ministri, 

Percuotetemi,  via.  Del  Prence  ignoto 

Conosco  il  padre,  d'ambidue  so  i  nomi; 

Ma  strazio,  angoscia  vo' soffrire,  e  morte; 

E  non  mai  palesarli.  Quei  tesori 

Meno  del  fango  apprezzo.  Tu,  consorte, 

Non  t'afiBigger  per  me.  Quelle  tue  lagrime, 

Se  in  un  barbaro  cor  penetrar  ponno. 

Per  quell'afflitto  vecchio  impiega  solo. 

Resti '1  misero  salvo,  (piangendo)  Egli  ha  sol 

colpa 
D'esser  amico  mio. 

ScH.  (supplichevole)      Deh  per  pietade... 

TiM.  Nessun  s' affligga,  alcun  non  prenda  cura 
D'un,  che  a  uscir  di  miseria  ha  esperienza 
Che  sol  morte  può  trarlo.  Amico,  io  voglio 
Te  salvare,  io  morir.  Sappi,  tiranna... 

Bar.  (impetuoso)  No,  per  pietà.  Non  v'esca  dalle 

labbra 
Il  nome  dell'ignoto:  egli  è  perduto. 

Tur.  (sorpresa)  Vecchio,  tu  dunque  il  sai? 

TiM.  Se'l  so?  cnidelel 

(volto  a  Bar.)  Dimmi,  amico,  l'arcana  Per- 
chè mai 
Non  poss'io  palesar? 

Bar.  Perch'è  la  morte 


ATTO  QUARTO.  283 

Certa  dell'infelice.  Perchè  siamo 
Tutti  perduti 

Tur.  Vecchio,  non  temere. 

Costui  vuol  spaventarti.  Olà,  ministri, 
Si  percuota  l'audace,  {gli  Eunuchi  s^ appareo- 
chiano  a  percuoterlo) 

ScH.  OimèI  che  pena!... 

Marito  mio...  marito  mio...  Fermate... 

Tue  Dove  soni...  che  mai  soflFro!...  Principessa, 
Giura  sopra  1  tuo  capo,  che  la  vita 
Di  lui  fìa  salva  e  che  fia  salva  quella 
Del  Prence  sconosciuto.  Sulla  mia 
Cada  pure  ogni  strazio.  Non  mi  curo 
Punto  di  sua  salvezza.  Io  ti  prometto 
Tutto  di  palesarti. 

Tur.  Al  gran  Confuzio 

Solenne  giuro  io  fo  su  questa  fronte. 
Che  salva  dell'ignoto  fia  la  vita. 
Salve  fieno  le  vostre,  {si  mette  la  mano  alla 

fronte) 

Bar.  {audacemente)        Ah  menzognera! 
Vecchio  ti  ferma;  il  giuramento  ha  sotto 
Velen  nascosto.  Turandot,  giurate, 
Che,  sapendo  i  due  nomi  desiati. 
Sposo  vostro  è  l'ignoto,  com'è  giusto. 
Ben  lo  sapete  ingrata;  o  ch'ei  non  more. 
Ricusato,  d'angoscia,  o  non  s'uccide. 
Giurate  ancor,  che  queste  nostre  vite, 
Tosto  che  palesati  hanno  i  due  nomi. 
Non  sol  da  crudel  morte  andranno  esenti, 


286  TURANDOT.       - 

Dalle  sue  stanze  per  venir  a  voi. 

A  me  Schirina,  e  a  me  tutto  quel!'  oro. 

G>rrotte  son  le  guardie,  che  alle  stanze 

Dell'  ignoto  han  custodia.  È  mia  V  impresa. 

Puossi  entrar  alle  stanze,  ove  soggiorna, 

Favellar  seco,  e,  se  de' miei  consigli 

Ognuno  farà  buon  uso,  consolata 

Fia  Turandohe,  sciolta,  e  gloriosa. 

Schirina,  se  ti  preme  U  tuo  consorte, 

Zelima,  se  t'è  cara  la  tua  madre, 

A  modo  mio  farete.  Chi  avrà  sorte 

Di  vincer  quant'  io  penso,  ricco  fia. 

Non  si  perda  più  tempo.  Io  spero  in  breve 

Di  rallegrarvi. 

Tur.  Amica,  a  te. m'affido. 

Seco  vada  il  tesoro.  Teco  vengano 
E  Schirina,  e  Zelima.  Io  tutto  spero 
In  Adelma,  in  Zelima,  ed  in  Schirina. 

Adbl.  Schirina,  e  voi  Zelima,  mi  seguite. 

Meco  sia  quel  tesoro,  (a  parte)  Ah  forse  io  posso 
Or  rilevar  i  nomi,  e  far,  che  resti 
Vinto  l'ignoto;  e,  rinunziato,  forse 
Resterà  mio.  Forse  averò  tant'arte 
Di  sedurlo  a  fuggir,  di  meco  trarlo 
Fuori   da   questo   Regno.    (Adelma,    Zelima, 
Schirina  e  un  Eunuco  col  tesoro  entrano) 

Bar.  Moglie,  figlia. 

Non  mi  tradite.  A  quest'alme  infernali 
Non  siate  ubbidienti.  Oimè,  Signore, 
Chi  sa,  che  avverrà  mail 


ATTO  QUARTO.  287 

Tur.  Miei  fidi  tosto 

Ne' sotterranei  del  serraglio  occulti 
Costor  sien  chiusi. 

TiM.  Turandot,  adopra 

Quanto  vuoi  contro  a  me,  maU  figlio  mio 
Sia  salvo  per  pietà. 

Bar.  Pietà  in  costei! 

Tradito  è'I  figlio;  e  noi  perpetua  notte 
Chiusi  terrà,  che'l  tradimento  celi. 
Trema  del  Ciel,  crudele,  della  tua 
Alma  ingrata,  selvaggia,  abbominevole. 
Tieni  per  fermo,  il  Ciel  ti  de' punire.  (  Timur 
e  Barach  vjngono  condotti  via  dagli  Eu- 
nuchi ) 

SCENA  TERZA. 

TUHANDOT. 

Che  farà  Adelma?  Oh,  se  mai  giungo  al  fine 
Di  quest'impresa,  chi  averà  più  fama 
Di  Turandotte?  Chi  sarà  lo  stolto, 
vChe  più  s'arrischi  a  vincer  la  sua  mente? 
Quanto  godrò  nel  rinfacciargli  i  nomi 
Nel  Divan  fra  i  Dottori,  e  di  scacciarlo 
Svergognato,  e  deluso  1   (sospesa)  E  pur  mi 

sembra 
Che  n'avrei  dispiacer...  Farmi  già  afflitto 
Di  vederlo,  e  piangente,  e,  non  so  come. 
Mi  tormenta  il  pensarlo...  Ah,  Turandotte... 


:i88  TtJRANDOT. 

Animo  vii,  che  pe^sil  che  ragioni  1 
Ebb'  egli  dispiacer  là  nel  Divano 
A  scior  gli  enigmi,  e  a  far,  che  tu  arrossissi 
Cielo,  soccorri  Adelma,  e  fa,  ch'io  possa 
Svergognarlo,  scacciarlo,  e  rimanere 
Nella  mia  libertà;  che  sprezzar  possa,^ 
Sciolta  da  un  nodo  vile,  un  sesso  iniquo. 
Che  sommesse  ci  vuol,  frali,  ed  inette. 

SCENA  QUARTA. 
Altoux,  Pantalone,  Tartagua,  guardie  e  Turamdot. 

Alt.  (da  se  pensoso)  Il  Sultan,  di  Carizmo  usur- 
patore, 
Così  dovea  finir.  Dovea  Calaf, 
Figlio  a  Timur,  qui  giugnere,  e  per  strane 
Vicende  esser  felice.  Oh  giusto  Cielo, 
Chi  di  tua  providenza  i  gravi  arcani 
Può  penetrar?  Chi  jpuò  non  rispettarli? 

Pant.  (basso  a  Tari.)  Cossa  diavolo  ga  Flmpe- 
rator,  che  el  va  barbottando? 

TARt.  (basso)  Egli  ha  avuto  un  messo  secreto: 
qualche  diavolo  e*  è. 

Alt.  Figlia,  il  giorno  s'appressa,  e  tu  vaneggi 
Pel  serraglio  svegliata,  che  vorresti 
U  impossibil  saper.  Io,  noi  cercando. 
So  quanto  brami,  e  tu,  che  in  traccia  vai, 
Vanamente  lo  cerchi  (trae  un  foglio)  In  que- 
sto fòglio 


;  ATTO  QUARTO.  289 

Scritti  sono  i  due  nomi,  e  gli  evidenti 
Segni  delle  persone.  Un  messo  or  ora 
^        Secretamente  da  region  lontane 

A  me  sen  venne;  favellommij  e  dopo    ^     ^ 
Da  me  chiuso,  e  in  gelosa  guardia  posto, 
Sino  che  passi  il  nuovo  giorno,  in  questo  * 
Foglio  mi  diede  i  nomi,  ed  altre  molte 
Liete  e  gravi  notizie.  E  Re  l'ignoto. 
È  figliuolo  di  Re.  Non  è  possibile 
Che  tu  sappi,  chi  sieno;  è  troppo,  o  figlia, 
Rimoto  il  nome  lor.  Però  qui  venni, 
Perchè  mi  fai  pietà.  Là  nel  Divano, 
In  mezzo  al  popol  tutto,  qual  piacere 
Hai  la  seconda  volta  volontaria 
.A  farti  dileggiar?  Ululi  e  fischi 
Della  vii  plebe  avrai,  troppo  giuliva 
Ch'una  superba,  odiata,  ed  abborrìta 
Per  la  sua  crudeltà,  punita  sia. 
Mal  si  tenta  frenar  l'impeto  intero 
w       D' un  popol  furioso,  (fa  cenno  con  sussiego  a 
Pantalone^  a  Tartaglia  e  alle  guardie^  che 
partono.  Tutti  con  preste^^a,  fatto  il  solito 
inchino  colla  fronte  a  terra,  partono.  Al- 
toum  segue) 

Io  posso,  o  figlia. 
Riparare  al  tuo  onor. 
Tur.  {alquanto  confusa)  Che  onor!  quai  detti! 
Padre,  grazie  vi  rendo.  Io  non  mi  curo 
D'aiuti,  o  di  ripari.  Da  me  stessa 
Ripararmi  saprò  là  nel  Divano. 
Gozzi.  19 


290  TORANDOT. 

Alt.  Ah  no.  Credimi,  figli^  è  già  impossibile 
Quanto  speri  saper.  Veggo  in  quegli  occhi. 
Nella  faccia  confusa,  che  folleggi, 
Che  disperata  sei.  Io  son  tuo  padre; 
T'amo,  e  tu!  sai;  siam  soli  Dimmi,  fi^ia. 
Se  tu  sai  queMue  nomi. 

Tur.  Nel  Divano 

Si  saprà,  s'io  gli  so. 

Alt.  No,  Turandot. 

Tu  non  gli  puoi  saper.  Vedi,  s' io  t' amo. 

Se  li  sai,  mei  palesa.  Io  ti  dimando 

Questo  per  grazia.  A  quel  meschin  fo  intendere, 

Ch*  egli  è  scoperto,  e  fuor  da'  stati  miei 

Libero  il  lascio  uscire.  Spargo  fama, 

Che  tu  l'hai  vinto,  e  che  fu  tua  pietade, 

Che  a  un  pubblico  rossor  non  s'esponesse. 

Fuggi  così  l'odiosità  de' sudditi, 

Che  abborron  tua  fierezza,  e  me  consoli. 

Ad  un  tenero  padre,  che  si  poco 

Chiede  a  un'unica  figlia,  il  negherai? 

Tur.  So  i  nomi...  Non  li  so...  S'eì  nel  Divano 
Della  vergogna  mia  non  s'è  curato. 
Giustizia  è,  ch'egli  soffra  infra  i  Dottori, 
Quanto  soffersi  anch'  io.  Se  saprò  i  nomi. 
Nel  Divan  fien  palesi. 

Alt.  (con  atto  a  parte  d^  impa:[ten:^a,  ìndi  sfor- 
!(andosi  alla  dolce:{3[a')  Ei  fé'  arrossirti 
Per  amor,  ch'ha  per  te,  per  la  sua  vita. 
Ira,  furor,  puntiglio,  Turandot, 
Lascia  per  poco.  Io  vo',  che  tu  conosca. 


ATTO  QUARTO.  29I 

Quanto  t'ama  tuo  padre.  Questo  capo 
Scommetto,  o  figlia,  che  non  sai  que'  nomi. 
Io  gli  so;  scritti  sono  in  questo  foglio, 
E  te  li  voglio  dir.  Vo',  che  s'aduni 
n  Divan,  fatto  il  giorno,  che  apparisca 
In  pubblico  l'ignoto,  e  ch'egli  soffra 
Che  tu  lo  vinca;  che  vergogna  egli  abbia; 
Che  provi  angoscia,  pianga,  si  disperi, 
Sia  per  morirsi  per  aver  perduta 
Te,  che  sei  la  sua  vita.  Sol  ti  chiedo, 
Dopo'l  tormento  suo,  che  tu  gli  porga 
Quella  destra  in  consorte.  Giura,  figlia. 
Che  ciò  farai.  Siamo  qui  soli.  Io  tosto 
Ti  paleso  i  due  nomi.  Tra  noi  due 
Rimarrà  questo  arcano.  Gloriosa 
Appaghi  il  tuo  puntiglio.  Amore  acquisti 
De' sudditi  sdegnati.  Hai  per  consorte 
L'  uom  più  degno,  che  viva,  e  dopo  tante 
Passion  date  al  padre,  nella  sua 
Vecchiezza  estrema  il  padre  tuo  consoli. 
Tur.  (  turbata  e  titubante  a  parte  ) 

Ah  quant'arte  usa  il  padre!...  che  far  deggio? 
Dovrò  affidarmi  a  Adelma,  e  sol  sperando 
Attender  il  cimento?  O  deggio  al  padre 
Chieder  i  nomi,  e  all'abborrito  nodo 
Giurar  d'  esser  consorte  ? . . .  Turandotte, 
T'assoggetta  alla  fin...  minor  vergogna 
È  accomandarsi  al  padre , . .  Ma  F  amica 
Troppo  franca  promise...  E  se  rileva?... 
Ed  io  vilmente  al  padre  il  giuramento?... 


292  TtmAKDOT. 

Alt.  Che  pensi,  o  figlia?  a  che  vaneggi,  ondeggi 
Combattuta,  e  confusa?  e  vuoi,  ch'io  creda 
In  tanta  agitazion,  che  sei  sicura 
Di  spiegar  queli'  enigma?  Eh  cedi  al  padre! 

Tur.  {sempre  a  parte  titubante)   No:  s'attenda 

r  amica.  Il  genitore 
Qual  zelo  prende  !  Questo  è  chiaro  segno^ 
Ch'è  possibil,  ch'io  sappia  quanto  ei  teme. 
Ama  l' ignoto,  e  dall'  ignoto  istesso 
Ebbe  i  nomi  in  secreto,  e  con  l' audace 
È  in  accordo,  e  mi  tenta. 

Alt.  Or  via,  risolvi, 

Calma  quel  spirto  indomito,  finisci 
Di  tormentar  te  stessa. 

Tur.  (scuotendosi)  Ho  già  risolto. 

Al  nuovo  dì  là  nel  Divan  s'  aduni 
L'assemblea  de' Dottori. 

Alt.  Adunque  vuoi 

Rimaner  svergognata^  e  condiscendere 
Più  alla  forza,  che  al  padre? 

Tur.  Risoluta 

Vo',  che  segua  il  cimento. 

Alt.  (  iracondo  )  Ah  stolta...  ah  sciocca— 

Più  ignorante,  che  l' altre.  Io  son  sicuro, 
.  Che  ti  fai  svergognar  pubblicamefite, 
Che  possibil  non  è,  che  tu  indovini 
Sappi;  il  Divan  fia  pronto,  ed  il  Divano, 
Per  tua  rabbia  maggior,  vinta  che  sia. 
Tempio,  ed  Ara  sarà.  Là  fieno  pronti 
I  Sacerdoti,  e  in  mezzo  al  popol  tutto. 


ATTO   QUARTO.  293 

Tra  le  risa,  e'I  dileggio,  a  tuo  dispetto, 
Ivi,  in  quel  punto  vo',  che  segua  il  nodo. 
Ben  mi  ricorderò,  che  sin  poche  ore 
D'agitazion  al  cor  del  padre  tuo 
Ricusasti  di  tor.  Folle,  rimanti,  (entra  collerico) 
Tur.  Adelma,  amica  mia,  che  tanto  m'  ami. 
Meco  è'I  padre  sdegnato...  abbandonata 
In  te  solo  confido...  dal  tuo  amore 
Solo  attendo  soccorso  al  mio  cimento,  (entree) 

SCENA  QUINTA. 

Cambiasi  'I  Teatro  in  una  camera  magnifica  con  varie  porte. 
Nel  mezzo  avrà  un  sofk  air  orientale^  per  servir  al  riposo 
di  Calaf.  È  la  notte  oscura. 

Brighi^lla  con  una  torcia  e  Calap. 

Brig.  Altezza,  xe  nove  ore  sonade.  L'apparta- 
mento \3L'io  ha  passeggia  tresento  e  sedese 
volte  in  ponto.  A  dirghe  el  vero,  son  stracco; 
se  la  volesse  un  poco  reposar,  qua  la  xe 
sicuro. 

Gal.  (  ottuso  )  Si,  ti  scuso,  ministro.  L'  agitato 
Spirto  mi  fa  inquieto.  Va,  e  mi  lascia. 

Brig.  Cara  Altezza,  la  supplico  d'  una  grazia.  Se 
mai  capitasse  qualche  fantasma,  la  se  regola 
con  prudenza. 

Gal.  Quali  fantasme?  qui  fantasme?  come? 

Brig.  Oh  Cielo  I  Nu  gavemo  commission,  pena  la 
vita,  de  no  lassar  entrar  nissun  in  sto  appar- 


294  TDRANDOT. 

tamento,  dove  la  xe;  ma...  poveri  ministri!... 
rimperator  xe  l' Imperator,  la  Prencipessa  xe, 
se  poi  dir,  l'Imperatrice,  e  la  sa,  che  cuor  che 
la  ga...  Poveri  ministri!...  xe  difficile  a  pas- 
sar tra  una  giozza,  e  l'altra...  se  la  savesse... 
gavemo  la  nostra  vita  tra  el  lancuzene  e  el 
martello...  no  se  vorria  desgustar  nissun...  se 
la  me  intende...  Ma,  poveri  diavoli,  se  vorria 
anca  avanzar  qualcossa  per  l'età  decrepita... 
ma,  poveri  squartai,  semo  a  una  cattiva  con- 
dizìon. 

Gal.  (sorpreso)  Servo,  mi  dì.  Dùnque  la  vita  mia 
In  queste  stanze  non  sarà  sicura? 

Bbig.  No  digo  questo  ;  ma  la  sa  la  curiosità,  che 
ghe  xe  de  saver,  chi  ella  sia.  Poi  vegnir ...  per 
esempio...  per  el  buso  della  chiave  qualche 
folletto,  qualche  fada  con  delle  tentazion... 
basta,  che  la  staga  in  filo,  e  che  la  se  regola. 
Me  spieghio?...  Poveri  ministri!...  poveri 
squartai! 

'Cal.  Va,  non  temer;  t'intendo;  avrò  cautela. 

Brio.  Oh  bravo.  No  la  me  palesa  per  carità.  Me 
raccomando  alla  so  protezion.  (a  parte)  Se  poi 
dar,  che  un  borson  de  zecchini  se  possa  ricu- 
sar. Per  mi  ho  fatto  ogni  sforzo,  ma  no  ho 
podesto.  Le  xe  catarigole;  chi  le  sente,  e  chi 
no  le  sente,  (entra) 

<ÌAL.  Costui  m'^ha  posti  de' sospetti  in  capo. 

Chi  mai  giugner  può  qui?...  Saprò  difendermi, 
Ciunga  l' inferno  ancor.  Troppo  mi  preme 


ATTO  QUARTO.  /  295 

Posseder  Turandot.  Ancor  per  poco 
Penar  dovrò,  che  non  è  lungi  il  giorno. 
Possibil,  che  quel  cor  sempre  sia  avverso? 
Cerchianl,  se  pur  si  può,  qualche  riposo,  {è p^ 

coricarsi  ) 

SCENA  SESTA. 
ScHntmA,  travestita  da  soldato  Chinese  e  Calaf. 

ScH.  Figlio...  {si  guarda  intorno)  Signor...  {si 
guarda  intorno)  mi  trema  il  cor  nel  seno. 

Gal.  Chi  sei?  che  vuoi?  che  cerchi? 

ScH.  Io  son  Schiriiia, 

Moglie  d'Assan,  dell'infelice  Assan. 
Qui  con  questa  divisa  militare. 
Simile  a  quella  delle  guardie  vostre 
Tra  i  soldati  m'addussi;  il  punto  colsi, 
E  venni  in  questa  stanza.  Assai  sventure 
Deggio  narrarvi,  ma  timor...  sospetto... 
E  più  pianto,  e  dolor  mi  toglie  forza... 

Gal.  Schirina,  che  vuoi  dirmi? 

ScH.  Il  miserabile 

Mio  maritò  è  celato.  A  Turandot 
Fu  detto,  ch'egli  vi  conobbe  altrove, 
E  perchè  le  palesi  il  vostro  nome,, 
Secretamente  nel  Serraglio  il  vuole. 
Della  vita  è  in  periglio.  A  mille  strazi. 
S'è  scoperto,  è  soggetto,  e,  se  ciò  nasce, 
Pria  vuol  morir,  che  palesar,  chi  siete. 

Gal.  Ah  caro  servo!...  Ah  Turandot  crudele l 


296  TtfRANbOT. 

ScH.  Si  più  deggio  narrarvi.  Il  Padre  vostro 
E  in  casa  mia,  vedovo  sconsolato 
Di  vostra  madre... 

Gal.  (addolorato)         Oimè,  che  narri!  Oh  Dio! 

ScH.  Di  più  dirovvi.  Ei  sa,  ch^Assan  si  cerca; 
Che  voi  siete  fra  Tarmi.  Ha  mille  dubbi. 
Mille  spaventi  e  piange.  Ei  disperato 
Vuol  esporsi  alla  Corte,  e  palesarsi, 
E  «  col  mio  figlio  »  ei  grida,  «  io  vo'  morire  »! 

,     M'affaticai,  narrando  i  casi  vostri,     , 
Per  trattenerlo:  egli  inventate  fole 
Tutte  le  crede.  Il  tenni,  e  sol  lo  tenni 
Con  la  promessa  di  recargli  un  foglio 
Da  voi  firmato,  e  scritto  dalla  mano 
Del  proprio  figlio,  che'l  consoli,  e  dica, 
Ch'egli  è  salvo,  e  non  tema.  A  tanti  rischi 
Mi  sono  esposta  per  aver  un  foglio. 
Per  acchetar  quell'angoscioso  vecchio. 

Cal.  Il  Padre  mio  in  Pechini  La  madre  morta! 
Tu  m'inganni,  Schirina. 

ScH.  Se  v'inganno, 

M'arda  Berginguzin. 

Gal.  Misera  madre! 

Padre  mio  sventurato!  (piange) 

ScH.  Ah,  non  tardate. 

Maggior  sventure  nasceran,  se'l  foglio 
Non  vergate  sollecito.  Se  mancano 
Fogli,  ed  inchiostro,  e  penna,  io  diligente 
Tutto  provvidi.  (  trae  '/  bisognevole  per  iscri^ 
vere)  Quell'afflitto  vecchio 


ATTO  QUARTO.  297 

Poche  note  firmate  abbia,  che'l  figlio 

E  in  sicurezza,  e  clie  sarà  felice; 

O  alla  Corte  sen  corre,  e  ogn'opra  guasta. 
Gal.  Sì,  mi  reca  que'  fogli ...  (in  atto  di  scrivere; 

poi  sospendendo) 

Ma   che   fo?  {pensa  alquanto,  indi  getta  il 

foglio) 

Schirina,  al  padre  corri,  e  gli  dirai 
'     Per  parte  mia,  che  ad  Altoum  sen  vada; 

Chieda  udienza  secreta,  e  gli  palesi 

Quanto  brama,  e  ricerchi  quanto  brama 

Per  calma  del  suo  core.  Io  mi  contento. 
ScH.  (confusa)  Ma  non  volete?...*  un  foglio  vo* 

stro  basta... 
Gal.  No,  Schirina,  non  scrivo.  Il  nome  mio 

Diman  saprassi  solo.  Assai  stupisco. 

Che  la  moglie  d'Assan  tenti  tradirmi. 
ScH.  (più  confusa)  Tradirvi...!  che  mai  dite?  Ah 
non  si  guastino  (a  parte) 

U altre  trame  di  Adelma.   (alto)   E   bene;  al 

padre 

DlfQ  quanto  diceste.  Io  non  credeva. 

Dopo  tanta  fatica,  e  tanto  rischio. 

La  taccia  meritar  di  traditrice. 

(a  parte)   Adelma   è   desta,  ma   costui   non 

dorme,  (entra) 
Gal.  Ben  mi  disse  il  ministro,  che  fantasme 

Sarebbero  apparite*  Ma  Schirina 

Con  sacro  giuramento  ha  confermato, 

Che  mio  padre  è  in  Pechin,  la  madre  estinta. 


298  TURANDOT. 

Purtroppo  sarà  ver;  che  le  sventiire 

Piovon  sopra  di  me ...  (  guarda  utf  altra  porta 

della  stan^^a)  Nuovo  fantasma! 
Vediam,  che  venga  a  far. 

SCENA  SETTIMA. 
Zelima  e  Calaf. 

Zel.  Prence,  io  son  schiava 

Di  Turandot,  in  questo  loco  giunta 
Per  quelle  vie,  che  ad  una  Principessa 
Possibili  son  sempre,  e  apportatrice 
Son  di  felice  annunzio. 

Cal.  Oh'l  Ciel  volesse. 

Schiava,  non  mi  lusingo;  è  troppo  barbaro 
Della'  tua  Principessa  il  cor  sdegnato. 

-Zel.  e  ver;  noi  so  negar.  Ma  pur.  Signore, 
Voi  siete  il  primo.  Impre§sion  d' affetti 
Le  destaste  nel  sen.  Parrà  impossibile, 
E  certa  son  che  le  parole  mie 
Terrete  per  menzogne.  Ella  persiste 
Nel  dir,  che  v'odia,  eppur  mi  sono  accorta, 
Ch'ella  è  amante  di  voi.  S'apra  il  terreno 
E  m'ingoi,  se  non  v'ama. 

Cal.  e  ben;  ti  credo. 

E  felice  l'annunzio;  altro  vuoi  dirmi? 

-Zel.  Io  deggio  dirvi,  ch'ella  è  disperata 
Sol  per  ambizion;  ch'ella  confessa. 
Che  impossibile  assunto  nel  Divano 
Si  prese  al  nuovo  giorno,  e  che  mortale 


ATTO  QUARTO.    "  299 

Rossor  la  prende  a  comparir  dimani, 
Dopo  tante,  benché  crude,  vittorie, 
A  farsi  dileggiar  dal  popol  tutto. 
S'apra  F  abisso,  e  questa  schiava  inghiotta, 
Se  menzogna  vi  dissi. 

Cal.  Non  chiamarti. 

Donna,  si  gran  sventure.  Io  già  ti  credo. 
Or  via,  di  a  Turandotte,  eh'  io  ben  posso 
Sospender  il  cimento.  Miglior  fama 
Ella  s'acquisterà,  che  co' cimenti, 
A  cambiar  il  suo  core,  a  far  palese. 
Che  di  pietà  è  capace,  che  risolta 
È  di  darmi  la  cara  amata  destra 
Per  consolar  un  disperato  amante. 
Un  padre,  un  Regno.  Il  tuo  felice  annunzio, 
Serva,  saria  mai  questo? 

Zel.  No,  Signore; 

Non  pensiamo  così.  La  debolezza 
Scusar  si  deve  in  noi.  La  Principessa 
Una  grazia  vi  chiede.  Ella  sol  salva 
Vuol  la  sua  vanagloria,  e  nel  Divano 
Que'nomi  poter  dire;  indi  pietosa 
Discender  dal  suo  trono,  e  la  sua  destra 
Con  atto  generoso  unire  a  voi. 
Qui  siamo  soli;  a  voi  poco  ciò  costa. 
Guadagnate  quel  cor.  Sì  bella  sposa 
Tenera  abbiate,  e  non  sdegnata,  e  a  forza. 

Cal.  (con  sorriso)  Al  terminar  quest'ultimo  di- 
scorso. 
Schiava,  ommesse  hai  le  solite  parole. 


300  .         TURANDOT. 

Zel.  Quai  parole,  Signor? 

Gal.  S'  apra  1'  abisso, 

E  questa  schiava  nei  suo  centro  inghìotta^ 
Se  menzogna  vi  dissi. 

Zel.  Dubitate, 

Ch'io  non  vi  dica  il  ver? 

Gal.  Dubito  in  parte, 

E  sì  forte  è'I  mio  dubbio,  ch'io  ricuso 
D'appagarti  di  ciò.  Va  a  Turandotte, 
Dille,  che  m' ami,  e  eh'  io  le  niego  i  nomi 
Per  eccesso  d' amor,  non  per  oflFesa. 

Zel.  {con  audacia)  Imprudente,  non  sai  quanto 

costarti 
Può  questa  ostinazion. 

Gal.  Costi  la  vita. 

Zel.  {fieramente)  E  ben;  pago,  sarai   {a  parte) 
Vana  fu  l'opra,  {entra  dispettosa) 

Gal.  Ite,  inutili  larve.  Ah,  le  parole 
Di  Schirìna  m' affliggono.  Vorrei, 
Che  l'infelice  madre...  il  padre  mio... 
Alma,  resisti.  Ancor  poche  ore  mancano 
A  saper  tutto,  a  uscir  d' angoscia,  e  spasma 
Riposiam,  se  si  può.  {siede  sul  sofà)  La  tra- 
vagliata 
Mente  brama  riposo,  e  par,  che  venga 
Sonno  a  recar  conforto  a  queste  membra. 

{s^  addormenta) 


ATTO  QUARTO.  3OI 

SCENA  OTTAVA. 
Truffaldino  e  Calaf  che  dorme, 

Truff.  Entra  adagio,  e  dice  con  voce  bassa,  che 
può  buscare  due  borse  d' oro,  se  giugne  a  rile 
vare  i  due  nomi  dall'  ignoto,  ^il  quale  opportu- 
namente dorme.  Ch'  egli  ha  comperata  con  un 
soldo  dal  N.  N.,  ciarlatano  in  Piazza,  la  mira- 
bil  radice  della  mandragora,  che  posta  sotto  il 
capo  di  chi  dorme  fa  parlare  in  sogno  il  dor- 
miente, e  lo  fa  confessare  ciò,  che  si  vuole. 
Narra  degli  stupendi  casi  avvenuti  sul  propo- 
sito, cagionati  dalla  virtù  di  quella  radice,  nar- 
rati da  N.  N.  ciarlatano,  ecc.  S' accosta  a  Ca- 
'  laf  adagio,  gli  mette  la  radice  sotto  al  capo, 
si  tira  indietro,  sta  in  ascolto,  fa  de' lazzi  ri- 
dicoli. Cai.  Non  parla,  fa  alcuni  movimenti 
colle  gambe,  e  colle  braccia.  Truff.  S' imagina, 
che  que' movimenti  sieno  parlanti  per  virtù 
della  mandragora.  S'idea,  ch'ogni  movimento 
sia  una  lettera  dell'alfabeto.  Da' movimenti  di 
Calaf  interpreta  lettere,  e  forma,  e  combina  un 
nome  strano  e  ridicolo  a  suo  senno;  indi  al- 
legro sperando  d' aver  ottenuto  quanto  voleva^ 
entra. 


302  .      TURANDOT. 


SCENA  NONA. 


Adelma,  velata  la  faccia,  con  un  torchietto^ 
e  CALAtr  che  dorme. 


Adbl.  {da  se)  Tutte  le  trame  mie  non  saran  vane. 
Se  ìnvan  tentossi  aver  i  nomi,  invano 
Forse  non  tenterò  di  meco  trarlo 
Fuori  da  queste  mura,  e  farlo  mio. 
Sospirato  momento!  Amor,  che  forza 
.  Sin'  or  mi  desti,  e  ingegno  ;  e  tu,  fortuna, 
Che  modo  mi  donasti,  onde  potei 
Tanti  ostacoli  vincere,  soccorri 
Quest'amante  affannata,  e  fa,  ch'io  possa 
Giugnere  al  fin  de'  miei  disegni  audaci. 
Fammi  contenta,  amor.  Fortuna,*  spezza 
Queste  di  schiavitù   vili   catene,   {guarda  col 

lume  Cala/) 
Dorme  l'amato  ben.  Ti  rassicura, 
Cor  mio;  non  palpitar.  Care  pupille, 
Quanta  pena  ho  a  sturbarvi  1  Ah,  non  si  perda 
Un  momento  a' disegni,  {ripone  il  lume^  poi 
con  voce  alta)  Ignoto,  destatL 

Cal.  {destandosi,  e  levandosi  spaventato) 
Chi  mi  risveglia?  chi  sei  tu?  che  chiedi. 
Nuova  larva  insidiosa?  avrò  mai  pace? 

Adel.  Qual  furori  Di  che  temi?  In  me  ravvisa 
Una  donna  infelice,  che  non  viene 
Per  saper  il  tuo  nome,  e,  se  pur  brami 
Di  saper,  chi  io  mi  sia,  siedi,  e  m' ascolta. 


ATTO  QUARTO.  3O} 

Cal.  Donna,  a  che  in  queste  stanze?  Invan,  t'av- 
verto, 

Tradirmi  tenti. 
Adel.  (con  dolce^^a)  Io  per  tradirti!  ingrato! 

Deh  mi  narra,  stranieri  Fu  qui  Schirina 

A  tentarti  d' un  foglio? 
Gal.  Fu  a  tentarmi. 

Adel.  (precipitosa)  Non  l'appagasti  già? 
Gal.  Non  V  appagai  ; 

Che  sì  stolto  non  fui. 
Adel.  Ringrazia  il  Cielo. 

Fu  qui  una  schiava  con  raggiri  industri 

Per  saper,  chi  tu  sia? 
Gal.  Si,  fu;  ma  andossi 

Senza  saperlo,  come  tu  anderai. 
Adel.  Mal  sospetti,  Signor,  mal  mi  conosci. 

Siedi,  m'ascolta,  e  poi  di  traditrice, 

Se  lo  puoi,  mi  condanna.  (  siede  sul  sofà  ) 
Cal.  (sedendole  appresso)     Or  ben,  mi  narra; 

Dunmì,  che  vuoi  da  me? 
Adel.  Prima,  che  guardi 

Voglio  queste  mie  spoglie,  e  che  palesi, 

Chi  ti  credi,  ch'io  sia. 
Cal.  (  esaminandola  )         Donna,  s' io  guardo 

A' gesti,  al  portamento,  all'aere  altero. 

Maestà  tutto  ispira.  Alle  tue  spoglie 

Schiava  umil  mi  rassembri,  e  già  ti  vidi 

Nel  Divan,  s'io  non  erro,  e  ti  compiango. 
Adel.  Ben  ti  compiansi  anch'io,  cinqu'anni  or  sono. 

Vedendoti  servire  in  basso  stato, 


304  TDRANDOT. 

E  più  quand'  oggi  nel  Divan  ti  scorsL 
Mei  disse  un  giorno  il  cor,  che  tu  non  eri 
Nato  a  vili  servigi.  So,  eh'  io  feci 
Quanto  potei  per  te,  quando  il  mio  stato 
Soccorso  potea  dar.  So,  che  i  miei  sguardi. 
Per  quanto  puote  una  real  donzella, 
Ti  parlavano  al  cor.  {si  svela)  Dì,  questo  volto. 
Mira,  vedesti  mai? 

Gal.  (sorpreso)         Che  miro!  Adelma, 
De'Carazani  Principessa!  Adelipa, 
Creduta  estinta! 

Adel.  Di  Cheicobad, 

De'  Carazani  Re,  tra  lacci  indegni 
Di  schiavitù  miri  la  figlia  Adelma, 
Per  regnar  nata,  ed  a  servir  ridotta, 
Miserabile  ancella,  oppressa,  afflitta,  {piange) 

Cal.  Morta  ti  pianse  ognun.  Qual  mai  ti  veggio! 
Del  gran  Cheicobad  figlia!  Regina! 
In  catene!  vii  serva!  ' 

Adel.  Sì,  in  catene. 

Non  istupir,  non  isdegnar,  ch'io  narri 
Delle  miserie  mie  l'aspra  cagione. 
Ebbi  un  fratel,  che  fu  cieco  d'amore, 
Come  sei  tu,  di  Turandotte  altera. 
S'espose  nel  Divan.  (piangendo)  Fra  i  molti 

teschi 
Fitti  sopra  alla  porta,  avrai  veduto, 
Spettacolo  crudele!  il  capo  amato 
Del  caro  mio  fratel,  ch'io  piango  àncora,  (piange 

dirottamente) 


'  ,         ^      A.TTO  QUARTO;  '  3O5 

Cal.  Misera!  Udii  narrare  il  caso  altrove, 
Lo  credei  fola,  or  così  dir  non  posso. 

Adel.  Cheicobad,  mio  padre,  uom  coraggioso, 
Sdegnato  del  fin  barbaro  del  figlio. 
Radunò. le  sue  forze,  ed  ebbe  core, 
Per' vendicar  il  figlio,  d'assalire 
Gli  stati  d' Altoum.  La  sorte  iniqua 
Gli  fu  contraria,  e  fu  sconfitto,  e  morto. 
Un  Visir  d' Altoum  senza  pietade 
Volle  estirpar  della  famiglia  nostra. 
Per  gelosia  di  stato,  ogni  rampollo. 
Tre  miei  fratelli  trucidati  furo. 
La  madre  mia,  colle  sorelle  mie 
Meco  scagliate  in  un  rapido  fiume 
A  terminar  i  giorni.  In  sulla  riva 
n  pietoso  Altoum  giunse,  e  sdegnato 
Contro  al  Visir,  fé' ripescar  nell'acque 
Nostre  misere  vite.  Era  mia  madre 
Colle  sorelle  morta.  Io,  più  infelice. 
Semiviva  fui  tratta,  e  in  diligenza 
Alla  vita  riscossa,  indi  in  trionfo 
Schiava  alla  cruda  Turandotte  in  dono    - 
Mi  diede  il  padre  suo.  Principe  ignoto. 
Se  d' uman  sentimento  non  sei  privo 
Compiangi  i  casi  miei.  Pensa  a  qual  costo, 
Con  qual  core  a  servir  schiava  m'indussi 
Delle  miserie  mie  la  cagion  prima, 
L' abborribile  oggetto  de' miei  mali, 
In  Turandotte.  {piange) 

Cal.  (commosso)    Sì,  pietà  in  me  destano, 

GOXZI.  20 


306  TURANDOT. 

Principessa,  i  tuoi  casi;  ma  la  prima 
Cagion  de' mali  il  fratel  tuo  fii  certo, 
Indi'l  padre  imprudente.  E  che  mai  puote^ 
Adelma,  Principessa,  in  tuo  favore 
Un  sfortunato  oprar?  S'io  giungo  al  colmo 
De' miei  desir,  spera  da  un  core  umano 
Libertade,  e  soccorso.  Or  il  racconto 
Delle  sciagure  tue  non  fa,  che  accrescere 
Mestizia  alla  mestizia,  che  m'opprime. 

Ajdel.  a  te  mi  palesai,  scoprendo  il  volto. 
Noto  t' è  '1  mio  lignaggio,  e  note  or  sono 
Le  mie  sventure  a  te.  Vorrei,  che  l'essere 
Nata  figlia  di  Re  trovasse  fede 
A  quanto,  mossa  da  compassione, 
Giacché  mossa  da'  amor  dù*  non  ti  deggio, 
Mi  convien  palesarti.  Oh  voglia  il  Cielo, 
Quantunque  io  sia  chi  son,  eh' un  core  amante^ 
Per  Turandotte  prevenuto,  e  cieco, 
I   Mi  presti  fede,  ed  i  veraci  detti 
Contro  di  Turandotte  non  disprezzi 

Cal.  Dimmi,  Adelma,  alla  fin  che  vuoi  narrarmi? 

Adel.  Narrarti  io  vo' . . .  Ma  tu  dirai,  eh'  io  sono 
Qui  giunta  per  tradirti,  e  mi  porrai 
Coli' altre  anime  vili  a  servir  nate,  (piange) 

Cal.  Non  mi  tener,  Adelma,  in  maggior  strazia 
Dplle  viscere  mie,  di,  che  vuoi  dirmi? 

Adel.  (a  parte)  Ciel,  fa,  ch'ei  creda  alla  menzo- 
gna mia. 
(a  Cai.  conforma)  Signor,  la  cruda  Turan- 
dotte irata, 


ATTO  QUANTO.  307 

La  scellerata  Turandotte  iniqua, 
Di  trucidarti  alla  nuov'alba.ha  dati 
Gli  opportuni  comandi.  Sono  queste 
Delle  viscere  tue  le  amanti  imprese. 

Gal.  (sorpreso,  levandosi  furiosamente)  Di  tru- 
cidarmi! 

Adbl.  {levandosi  con  sommo  vigore)  Trucidarti,  sì. 
All'uscir  tuo  diman  da  queste  stanze, 
Venti,  e  più  ferri  acuti  in  quella  vita 
S'immergeranno,  e  tu  cadrai  svenato. 

Gal.  (smanioso)  Avvertirò  le  guardie,  (in  atto  di 

partire) 

Adel.  (trattenendolo)  No:  che  fai? 

Se  tu  speri,  Signor,  di  dar  avviso 
Alle  guardie,  e  salvarti...  Oh  te  meschino  1 
Non  sai,  dove  tu  sia...  quanto  s'estenda 
Della  cruda  il  poter...  dove  sìen  giunti 
I  maneggi,  le  trame,  i  tradimenti. 

Gal.  (in  disperato  cieco  trasporto)  Oh  misero  Ca- 
laf...  Timur...  mio  padre... 
Ecco   il   soccorso,  ch'io  ti  reco  alfine,  (resta 
fuori  di  sé  addolorato  colle  mani  alla  fronte) 

Adel.  (sorpresa  a  parte)  Calaf,  figlio  a  Timur I 

Oh  fortunata     ' 
Menzogna  miai  Tu  a  doppio  favorisci 
Forse  quest'infelice.  Amor,  m'assisti. 
Colorisci  i  miei  detti,  e,  s'ei  non  cede, 
Ho  quanto  basta  ad  annullar  la  brama 
D'esser  di  Turandot. 

Gal.  (segue  disperato)  Or  che  ti  resta, 


308^  TURANDOT. 

Scellerata  fortuna,  porre  in  opra    * 
Dopo  tante  miserie  co' tuoi  colpi 
Contr'un  oppresso,  un  disperato,  un  Principe 
Tutto  amor,  tutto  fede,  ed  innocenza? 
E  fia  di  tanto,  sì,  di  tanto  fia 
Capace  Turandottel...  Ah,  non  può  dsu^i 
Un  cor  sì  traditore  in  si  bel  volto,  (con  isdegno) 
Principessa,  m'inganni. 
ÀDEL.  Io  non  m'offendo 

Del  torto,  che  mi  fai.  Già  ben  previdi 
Che  dubitar  dovevi.  Sappi,  ignoto. 
Che  per  l'enigma  tuo  là  nel  Serraglio 
Furente  è  Turandot.  Ella  già  scorge 
Impossibil  l'impresa  del  disciorlo. 
{caricata)  Forsennata  passeggia,  e,  come  cagna, 
Latra,  si  scuote,  si  difforma,  e  grida. 
Verde  ha  la  faccia,  di  color  sanguigno 
Ha  gli  occhi  enfiati,  loschi,  e'I  ciglio  oscuro. 
Orrida  ti  parrebbe,  e  non  più  quella. 
Che  nel  Divan  t'apparve.  Io  m'ingegnai 
Di  colorir  le  tue  soavi  forme. 
Per  placare  i  trasporti,  e  tutto  feci, 
Perch'ella  in  suo  consorte  ti  prendesse. 
Ogni  sforzo  fu  vano.  Alcune  insidie 
Ella  ordì;  tu  le  sai.  S'eran  fallaci, 
A  certi  suoi  fedeli  Eunuchi  diede 
Ordine  d' ammazzatrti  a  tradimento. 
Son  più  vasti  i  comandi.  Infemal  alma 
Peggior  non  nacque,  e  tu  compensi  morte, 
Ch'  hai  sopra  il  capo,  alla  crudel  d' amore 


ATTO  QUARTO.  3O9 

Se  tu  non  credi,  il  torto,  che  mi  fai, 
Men.mi  dorrà,  che'l  mal,  che  a  te  sovrasta. 

(piange) 

Gal.  Dunque  in  mezzo  a'  soldati  d'  un  Monarca, 
Posti  per  mia  salvezza,  io  son  tradito! 
'  Ah,  ben  mei  disse  quel  ministro  infame. 
Che  interesse  e  timor  spezza  ogni  fede. 
Vita,  più  non  ti  curo.  Invan  si  tenta 
Fuggir  da  cruda  stella,  che  persegue. 
Barbara  Turandot,  in  questa  forma 
Paghi  un  amante  fuor  di  se  medesmo. 
Che  s'abbassa,  si  sforza,  e  l'impossibile 
Vince  in  se  stesso  ad  appagar  tue  brame?  (^ìi- 

rioso,) 
Vita,  più  non  ti  curo.  Invan  si  tenta 
Fuggir  da  cruda  stella,  che  persegue. 

Adel.  Ignoto,  di  fuggir  tua  cruda  stella 
T'apre  Adelma  una  via.  Sappi,  un  tesoro 
Giusta  compassion  m' indusse  a  spendere 
Per  corromper  le  guardie.  Io  cerco  trarre 
Te  dalla  morte,  e  me  dalle  catene. 
Là  nel  mio  Regno  in  sotterraneo  loco 
Altro  immenso  tesoro  sta  nascosto. 
Congiunta  son  di  sangue,  e  d'amistate 
Ad  Alinole,  Imperator  di  Berlas. 
Qui  tra  le  guardie  un  numero  è  già  pronta 
Per  scorta  mia.  Destrier  parati  sono. 
Fuggiam  da  queste  sozze  orride  mura 
Io  odio  ai  Dei.  Forze  avrò  in  campo,  ed  armi. 
Unite  a  quelle  d'Alinguer,  di  Berlas, 


3IO    "^  TXJRANDOT. 

Da  riscattare  il  Regno  mio.  Fia  tuo. 
Tua  questa  destra  fia,  se  gratitudine 
Per  me  ti  prende,  e,  se  ti  spiace  il  nodo^ 
Fra  Tartari  non  mancan  Principesse, 
Che  avanzano  in  bellezza  questa  fiera, 
Affettuose  in  cor,  degne  del  tuo; 
Suddita  io  resterò.  Pur  che  tu  sia 
Salvo  da  morte,  e  chMo  d'indegno  laccio 
Bisca  di  schiavitù,  saprò  in  me  vincere 
Quell'amor,  che  mi  strugge,  e  che  rossore 
Mi  prende  a  palesarti.  Ah,  la  tua  vita 
Ti  stia  a  cor  solamente,  ed  abborrisd, 
Quanto  vuoi,  questa  destra.  E  presso  il  giorno.. 
Io  mi  sento  morir...  stranier  fuggiamo. 

Cal.  Adelma  generosa  1  Oh  qual  dolore 
Provo  per  non  poter  condurti  a  Berlas, 
Trarti  di  schiavitù.  Che  mai  direbbe 
Altoum  della  fuga?  Egli  a  ragione 
Mi  dirla  traditor;  che  per  rapirti 
Le  sacre  leggi  d' ospitalitade 
Non  curai  di  tradir. 

Adel.  Anzi  la  figlia 

D' Altoum  le  tradisce. 

Oll.  Io  non  ho'l  core, 

Che  più  sia  mio.  Godrò  morendo,  Adehna, 
Per  commession  d' una  crudel  che  adoro. 
Tu  puoi  fuggire.  Io  risoluto  sono 
Di  morir  per  colei.  Che  vai  la  vita? 
.Senza  di  Turandotte  io  più,  che  morto, 
Ali  considero  al  mondo:  ella  s' appaghi 


ATTO  QUARTO.  3II 

jÀj>el.  Dì  tu  da  ver!  sì  cieco  sei  d'amore? 

Oal.  Sol  d'amore,  e  di  morte  io  son  capace. 

ADEL.,Ah,  ben  sapea,  stranier,  che  la  tiraona 
Di  bellezza  m'avanza,  e  sperai  solo, 
Che'l  mio  cor  differente  gratitudine 
Potesse  ritrovar.  Io  non  mi  curo 
De' disprezzi,  che  soffro,  e  sol  mi  preme 
L'adorabil  tua  vita.  Deh 'fuggiamo; 
Salva  quella  tua  vita,  io  ti  scongiuro. 
Cal.  Adelma,  io  vo' morir;  son  risoluto. 
Adel.  Ingrato!  resta  pur,;  per  tua  cagione 
Io  pur  non  fuggirò,  rimarrò  schiava. 
Ma  per  momenti  ancor.  Se  '1  Ciel  m' è  contro, 
Vedrem  chi  di  noi  due  la  propria  vita 
Sa  sprezzar  maggiormente  a'  casi  avversL 
(  a  parte  )  Perseveranza  amor  premia  sovente. 
Calaf  di  Timur  figlio?  (alto)  Ignoto,  addio. 

{entra) 
Gal.  Notte  più  cruda  chi  passò  giammai? 
G)mbattuto  lo  spirto  da  un  ardente 
Amor,  che  mi  distrugge.  Sfortunato, 
Dall'amata  abborrito,  circuito 
Da  tante  insidie,  ed  intronato  il  capo 
Da  funeste  novelle  di  mia  madre. 
Del  genitor,  del  servo,  e,  quando  io  spero 
D'esser  in  porto,  in  mezzo  a  chi  mi  salvi, 
Al  colmo  d'ogni  gioia,  trucidato 
Mi  vuol  chi  è  la  mia  vita,  e  chi  tant'amo.     ^ 
Turandotte  spietata!  Ah,  ben  mi  disse  : 

La  tua  schiava  crudele,  a  cui  npn  volli 


312  TURàNDOT. 

Palesar  il  mio  nome,  e  quel  del  padre, 
'  Che  la  mia  ostinazion  costar  dovrebbe 
A  caro  prezzo.  Or  ben,  già  spunta  il  sole,  (si 

rischiara  ) 
Tempo  è,  che'l  sangue  mio  satolli  aliine 
La  serpe,  che  n'  è  ingorda.  Usciam  d' angoscia. 

SCENA  DECIMA. 
Brighella,  guardie  e  Calaf. 

Brig.  Altézza,  questa  xe  l'ora  del  gran  cimento. 
Gal.  (agitato)  Ministro,  sei   tu   quellp?...   Via^ 

s' adempiano 
Gli  ordini,  e'  hai.  Crudel,  finisci  pure 
Di  troncar  i  riiiei  giorni;  io  non  li  curo. 
Brig.  (attonito)  Che  ordeni!  Mi  no  go  altro  or- 
dene,  che  de  farla  incamminar  verso  el  Divan, 
perchè   Tlmperator  s'ha  za  pettenà  la  barba 
per  far  l'istesso. 
Càl.  (  con  entusiasmo  )  Vadasi  nel  Divan.  Già  nel 

Divano 
So  che  non  giui^erò.  Vedi,  se  intrepido 
Io  so  andar  a  morir,  (getta  la  spada)  Non 

vo'  difesa. 
Sappia  almen  la  crudel,  che  ignudo  esposi 
Volontario  il  mio  seno  alle  sue  brame,  (entra 

furioso) 
Brig.  (sbalordito  )  Cossj^  diavolo  diselo!  Gran  m»- 


ATTO  QUARTO. 


313. 


ledette  femeneì  No. le  l'ha  lassa  dormir,  e  le  ga 
fatto  zirar  la  barilla.  Olà,  presente  l'.arme,  com- 
pagnelo,  steghe  attenti,  {entra.  Odesi  un  suono 
di  tamburi,  e  cP altri  strumenti) 


ATTO  QUINTO 


Il  Teatro  rappresenta  il  Divano,' come  nel  Patto  secondo.  Nel 
fondo  vi  sarà  un  altare  con  una  Deità  Chincse,  e  due  Sa- 
cerdoti ;  ma  tutto  dietro  una  gran  cortina.  All'  aprirsi  della 
scena  Altoum  sarà  sul  suo  trono:  i  Dottori  saranno  al 
lor  posto;  Pantalone  e  Tartaglia  affianchi  d'Àltoum.  Le 
guardie  disposte,  come  nelPatto  secondo. 


SCENA  PRIMA. 

Altoum,  Pantalone,  Tartaglia,  Dottori,  guardie,  indi 
Calaf.  Cala/  uscirà  agitato  guardandosi  intorno  sospet" 
toso.  Giunto  nel  me^^o  della  scena  farà  un  inchino  ad  Al' 
toum,  indi  da  sé. 


OME!  Tutta  la  via  felicemente 
Scorsi,  e  rimmagin  della  morte  avendo 
Sempre  dinanzi,  aliìn  nessun  m' offese! 
O  Adelma  m' ha  ingannato,  o  Turandotte 
Seppe  que'nomi,  l'ordine  sospese 
Della  mia  morte,  ed  io  perdo  il  mio  bene. 
Meglio  era  morte,  s'avverar  si  deve 
Il  mio  dubbio  crudel.  {resta  pensoso) 
Alt.  Figlio,  tu  sei. 


3l6  TURANDOT. 

Ben  ti  scorgo,  agitato.  Io  vo' vederti 
Dare  in  volto;  più  non  dei  temere. 
Oggi  hanno  fin  le  tue  sventure.  Io  tengo 
'  Secreti  in  sen  di  giubilo,  e  di  pace. 
Mia  figlia  è  tua  consorte.  Tre  ambasciate 
Ebbi  sin' or  da  lei.  Calde  preghiere 
Spedì  reiterate,  ond*  io  volessi 
Dispensarla  da  esporsi  nel  Divano, 
E  dalle  nozze  ancor.  Vedi,  se  devi 
Rassicurarti,  e  intrepido,  aspettarla. 

Pant.  Certo,  Altezza.  Mi  in  persona  son  sta  do 
volte  a  recever  i  comandi  della  Principessa  alle 
porte  del  Serraglio.  Me  son  vesti  in  pressa,  e 
soft  corso.  Gera  un  agerin  freddo,  che  me  trema 
ancora  la  barba.  Ma  gnente.  Confesso,  che  ho 
abuo  un  gran  spasso  a  vederla  desperada,  e 
pensando  alla  allegrezza,  che  avemo  da  aver. 

Tart.  Io  ci  sono  stato  a  tredici  ore.  Cominciava 
appunto,  a  spuntar  V  alba.  M' ha  tenuto  mez- 
z'ora  a  pregarmi.  Tra'l  freddo  e  la  rabbia, 
crédo  di  averle  detto  delle  bestialità,  {a parte} 
U  averei  sculacciata. 

Alt.  Vedi,  come  ritarda?  Ho  già  spedite 
Commession  risolute;  e  vo',  che  venga 
A  forza  nel  Divan.  S'  ella  ricusa. 
Dissi,  che  a  forza  ella  sia  qui  condotta. 
Forte  ragione  ho  di  mostrarle  sdegno. 
Eccola,  e  mesta  a  comparir  la  veggio. 
Soffra  il  rossor,  ch'io  volli  torle  invano. 
Figlio,  t'allegra  pur. 


ATTO  QUINTO.  3^7 

Gal.  Signor,  scusate. 

Grazie  vi  rendo.  Io  combattuto  sono 
Da  sospetti  crudeli,  e  combattuto 
Sono  d' esser  cagion,  eh'  ella  patisca 
Violenza  e  rossor.  Vorrei  piuttosto... 
Ah,  eh'  io  noi  posso  dir.  Se  non  è  mia, 
Come  viver  potrei!  Col  tempo  io  voglio 
Co' più  teneri  affetti  far,  che  scordi 
Certo  l' abborrimento.  Questo  core 
Tutto  fia  della  sposa.  Io  vorrò  sempre 
Ciò,  ch'ella  bramerà.  Grazie,  e  favori 
Chi  cercherà  da  me,  non  andrà  in  traccia 
Di  adulator,  di  paraslti  iniqui, 
Dell'altrui  dònna,  che  mi  possa;  e  solo 
Dalla  consorte  mia  richieste  attendo 
Per  favorire  altrui.  Fedel,  costante 
Sempre  sarò  nell'amor  suo.  Giammai 
Sospetti  le  darò.  Forse  non  molto 
Andrà,  che  adorerammi,  e  pentimento 
Dell' avversion,  che  m'ebbe,  in  breve  io  spero. 

Alt.  Olà,  ministri  miei,  più  non  si  tardi. 

Questo  Divan  sia  Tempio,  ond'ella  entrando 
Scopra,  ch'io  so  voler  quanto  le  dissi. 
Si  permetta  l'ingresso  al  popol  tutto. 
Tempo  è,  che  paghi  quest'  ingrata  iìglia 
Con  qualche  dispiacer  le  tante  angosce. 
Che  suo  padre  ha  sofferte.  Ognun  s'allegri. 
Le  nozze  seguiran.  L'Ara  sia  pronta. 
{Apresi   la  cortina  nel  fondo^  e  scopresi 
V Altare  co^ Sacerdoti  Chinesi) 


3l8  TUItANDOT. 

Pant.  CanccUier,  la  vien,  la  vien.  Me   par  che  la 

pianza. 
Tart.  L'accompagnamento   è  malinconico  certa 

Questo  è  un  noviziato,  che  mi  pare  un  mor* 

torio. 

SCENA  SECONDA. 

TORANDOT,      AdBLMA,      ZeLIMA,     TRUFFALDINO,      EutlUCki, 

Schiave  e  sopraddetti.  Ad  un  suono  di  marcia  lugubre  esce 
Turandotte^  preceduta  dal  solito  accompagnamento.  T»^ 
il  suo  seguito  avrà  un  segno  di  lutto.  S' eseguiranno  tutti 
t  cerimoniali^  come  nclV  atto  secondo,  Turandotte  salita  m 
trono  farà  un  atto  di  sorpresa  nel  veder  V  Altare  e  i  Sa- 
cerdoti.  Ognun  sarà  al  solito  posto,  come  nelVatto  secondo» 
Calaf  sarà  in  piedi  nel  me\\o. 

Tur.  Questi  segni  lugubri,  ignoto,  e  questa 
Mestizia,  che  apparisce  ne' miei  servi. 
So  che'l  cor  ti  rallegra.  Io  miro  l'Ara 
Parata  alle  mie  nozze,  e  mi  contristo.         * 
Quant'arte  usar  potei,  sappi  ch'ho  usata 
Per  vendicarmi  del  rossor,  che  ieri 
Mi  facesti  provar;  ma  alfin  conviemmi 
Cedere  al  mio  destin. 

Gal.  Mia  Principessa, 

Vorrei  poter  farvi  veder  l'interno. 
Come  la  gioia  amareggiata  viene 
Dal  vostro  dispiacer.  Deh,  non  v' incresca 
Di  far  felice  un,  che  v'adora,  e  sia 
Con  reciproco  amor  sì  dolce  nodo. 


.     ATTO  QUINTO.  319^' 

Io  vi  chiedo  perdon,  se  chieder  dessi 
Perdon  d' amar  chi  s' ama. 

Alt.  Ella  non  merta, 

Figlio,  sommesse  espression.  È  tempo, 
Ch'ella  s'umilj  alfin.  S'innalzi  il  suono 
.   Degli  allegri  strumenti,  e'i  nodo  segua. 

Tur.  No,  non  è  tempp  ancor.  Maggior  vendetta 
Non  posso  aver,  che  far  con  apparenza 
L'animo  tuo  sicuro,  in  calma,  e  allegro, 
Per  poi  scagliarti  inaspettatamente 
Da  letizia  ad  angoscia,  {si  leva  in  piedi)  Ognun 

m' ascolti. 
Calaf  figlio  a  Timur,  dal  Divan  esci. 
Questi  i  due  nomi  a  me  commessi  sono. 
Cerca  altra  sposa,  e  Turandot  impara 
Quanto  sa  penetrar,  misero,  e  trema. 

Gal.  {attonito  e  addolorato)  Oh  me  infelice!... 

oh  Dio! 

Alt.  {sorpreso)  Dei,  che  mai  sento! 

Pant.  Sangue  de  donna   Checa,   che   la  ne  l'ha 
fatta  in  barba,  Cancellier! 

Tart.   Oh   Berginguzinp!    questa   cosa    mi   pa$sa 
l' anima. 

Gal.  {disperato)  Tutto  ho  perduto.  Chi  mi  dona 

aita? 
Ah,  nessun  può  aiutarmi.  Io  di  me  stesso 
Fui  l' omicida,  e  perdo  l' amor  mio 
Per  troppo  amor.  Io  potea  pur  errore 
Far  negli  enigmi  ieri;  or  questo  capo 
Tronco  sarebbe,  e  1'  alma  mia  spirata 


320  TURANDOT. 

Non  sentina  più  doglia  in  queste  membra, 
Peggior  di  morte.  E  tu,  Altoum  pietoso. 
Perchè  non  lasciar  correre  la  legge, 
Ch'anche  morir  dovessi,  se  scoperti 
Fosser  dalla  tua  figlia  quei  due  nomi, 
Ch'or  più  allegra  saria?  (piange) 

Alt.  Calaf,  l'a&nno 

Vecchiezza  opprime...  L'impensato  caso 
Trapassa  questo  sen. 

Tur.  (basso  a  Zelima)  Zelima,  il  misero 
Mi  fa  pietà.  Difender  più  non  posso 
n  mio  cor  da  costui 

Zblw  (  basso  )  Deh  ceda  alfine. 

Sento  il  popol,  che  freme. 

Adel.  (da  sé)  È  questo  il  punto 

O  di  vita,  o  di  morte. 

Càl.  (vaneggiante)  Un  sogno  parmi... 

Mente,  non  vacillar,  (furioso)  Tiranna,  dimmi; 
A  non  veder  morir  chi  sì  t'adora 
T*  incresce  forse?  Io  vo',  che  tu  trionfi 
Anche  sulla  mia  vita,  (furente  Ravvicina  al 

trono  di  Turandot)  Ecco  dinanzi 
Ai  piedi  tuoi  vittima  sfortunata 
Quel  Calaf,  che  conosci,  e  eh'  abborrisd, 
E  eh' abborrisce  il  Ciel,  la  terra,  il  fato. 
Che  disperato,  fuor  di  se  medesmo 
Spira  sugli  occhi  tuoi,  (trae  un  pugnale;  è 
per  ferirsi;  Turandot  precipita  dal  trono, 
e  lo  trattiene) 

Tur.  (con  tenere^^a)        Calaf,  che  fai? 


ATTO  QUINTO.  321^ 

jLrr.  Che  vedol 

=^1ai*.  (  sorpreso  )  Tu  impedisci,  Turandotte, 
Quella  morte,  che  bramì!  Tu  capace 
Sei  d' un  atto  pietosol  Ah,  tu  vuoi,  barbara, 
Ch'  io  viva  senza  te,  che  in  mille  angosce. 
Ed  in  mille  tormenti  io  resti  in  vita. 
Di  tanto  almen  non  .esser  cruda;  lascia, 
Ch'  esca  da  tal  miseria,  e,  se  capace 
Sei  di  qualche  pietà,  so,  che  in  Pechino 
È  Timur,  padre  mio,  privo  di  regno. 
Perseguitato,  lacero,  mendico. 
Invan  cercai  di  sollevar  quel  misero. 
Abbi  di  lui  compassione,  e  lascia. 
Ch'io  m'involi  dal  mondo,   {vuol  uccidersi; 
Turandot  lo  trattiene) 
Tur.  No,  Calaf. 

Viver  devi  per  me.  Tu  vinta  m'hai 
Sappi...  Zelima,  a'prigionier  te'n  corri. 
Consola  il  vecchio  afflitto,  ed  il  fedele 
Ministro  suo;  la  madre  tua  consola. 

Zkl.  e  come  volontier!  (entra) 

Adel.  (con  entusiasmo  da  se)  Tempo  è  di  morte; 
Più  speranza  non  c'è. 

Tur.  Sappi,  ch'io  vinsi 

Per  un  trasporto  sol.  Tu  palesasti 
Ad  Adelma,  mia  schiava,  in  non  so  quale 
Trasporto  tuo  stanotte,  i  due  proposti 
Nomi,  e  gli  seppi.  U  mondo  tutto  sappia, 
Ch'io  capace  non  son  d' un' ingiustizia, 
E  sappi  ancor,  che  le  tue  vaghe  forme, 

GozzL  ai 


322  tURANDOT. 

L'aspetto  tuo  gentile  ebbero  alfine 
Forza  di  penetrare  in  questo  seno, 
D' ammollir  questo  cor.  Vivi  e  ti  vanta. 
Turandotte  è  tua  sposa, 

Adel.  {da  se  con  dolore)  Oh  estrema  doglia! 

Cal.  (  gettando  in  terra  il  pugnale)  Tu  mia!  te- 
sciami  in  vita,  estrema  gioia. 

Alt.  {discend.  dal  trono)  Figlia...  mia  cara  figlia. 

io  ti  perdono 
Tutto  il  duol,  che  mi  desti.  In  questo  punto 
Compensi  al  padre  tuo  tutte  PofiFese, 

Pant.  Nozze,  nozze.  Sion  Dottori,  le  daga  Ioga 

Tart.  Si  ritirino  nella  parte  diretana  del  Divano. 
(i  Dottori  si  ritirano  indietro) 

Adel.  (furente  si  fa  innani[i  )  Sì,  vivi  pur,  cru- 
dele, e  lieto  vivi 
Colla  nimica  mia.  Tu,  Principessa, 
Sappi,  ch'io  t'odio,  e  che  gli  arcani  miei 
Furono  sol  per  divenir  consorte 
Di  costui,  eh'  adorai,  cinqu'  anni  Or  senio, 
Sin  nella  Corte  mia*  Tentai  stanotte. 
Fingendo  favorir  le  tue  premure. 
Di  fuggir  seco,  e  ti  dipinsi  iniqua; 
Tutto  fu  vano.  Dalle  labbra  sue 
Uscir  per  accidente  que'due  nomi. 
.  Palesandoli  a  te  sperai  per  questo, 
Che  tu'l  scacciassi,  e  di  poter  ancora 
Meco  a  fuggir  sedurlo,  e  farlo  mio. 
Troppo  t'ama  costui  per  mio  tormento. 
Tutto  fu  vano,  ogni  speranza  è  persa. 


*    ATTO  QUINTO.  323 

'     Una  sol  via  mi  resta,  e  usar  la  deggio. 
Dì  regio  sangue  io  nacqui^  e  mi  vergogno 
ly esser  vissuta  in  vii  lorda  catena  v 

Di  schiavitù  sin' ora.  In  te  abborrisco 
Un  oggetto  crudel.  Tu  mi  togliesti 
Padre,  fratelli,  madre,  suore,  regno, 
E  l'amante  alla  fin.  Esca  da  tante 
Sciagure  Adelma.  Togli  anche;  il  residuo 
Della  mia  stirpe,  ed  il  mio  sangue  lavi 
Viltà  fin'  or  sofferta.  (  raccoglie  il  pugnale  di 

Cala/,  indi  Meramente)  È  questo  il  ferro, 
Che  risparmiasti  al  sen  del  sposo  tuo, 
Perch'  io  mi  trucidassi.  Il  popol  miri, 
Se  dalla  schiavitù  so  liberarmi,  (in  atto  di fe^ 
rirsi.  Calaf  la  trattiene) 

Gal.  Fermati,  Adelma. 

Adel.  Lasciami,  tiranno...  {con  voce  piangente) 
Lasciami   ingrato...    io  vo' morir. '( 5i  sfonda 
d^ uccidersi.  Calaf  le  leva  il  pugnale) 

Gal.  Non  fia. 

Io  da  te  riconosco  ogni  mio  bene. 
Util  fu  il  tradimento.  Ei  disperato 
Mi  rese  si,  che'l  cor  potei  commovere 
Di  chi  m'odiava,  e  ch'or  mi  fa  felice. 
Scusa  un  amor,  che  vincer  non  potrei. 
Non  mi  chiamar  ingrato.  Ai  Numi  io  giuro, 
Che,  s' altra  donna  amar  potessi,  tua 
Questa  destra  saria. 

Adel.  (prorompendo  in  pianto)  No;  mi  son  resa 
Dì  quella  destra  indegna. 


3^4  TURANDOT. 

Tuiu  Adelina,  e  quale 

Furor  ti  prese! 

Adel.  a  te  palesi  sono 

Le  mie  sciagure.  Or  sappi,  che  mi  togli 
Anche  un  amanite,  in  cui  sperava  solo. 
Per  lui  son  traditrice,  ed  ei  mi  toglie 
.   Modo  di  vendicarti.  Almen  mi  lascia 
Nella  mia  libertà.  Lascia,  ch'io  fugga 
Raminga  di  Pechin.  Non  usar  meco 
L'ultima  crudeltà,  ch'io  miri  in  braccio 
Calaf  di  Turandot.  Io  ti  ricordo, 
Ch'  un  cor  geloso,  un'  alma  disperata 
Tutto  può,  tutto  tenta;  e  mal  sicura 
Ognor  sei,  dov'  è  Adelma.  (piange  ) 

Alt.  (  a  parte  )  Io  ti  compiango, 

Misera  Principessa. 

Càl.  Adelma,  lascia 

Di  tanto  lagrimar.  Vedi,  che  in  grado 
Son  or  di  compensare  in  qualche  parte 
Quant'ho  per  tua  cagion.  Sposa,  Altoum, 
Se  nulla  posso  in  voi,  quest'infelice 
Principessa  abbia  libertade  in  dono. 

Tur.  Padre,  anch'io  ve  lo  chiedo.  Io  mi  conosco 
Oggetto  agli  occhi  suoi  troppo  crudele     ^ 
Da  poter  sofFerir.  L'amor,  l'intera 
Confidanza,  che  in  lei  posi,  fu  vana. 
L'odio  chiuso  tenéa.  Mai  non  potrebbe 
Turandotte  ad  Adelma  esser  amica 
Più,  che  Signora;  ella  noi  crederla. 
Lìbera  vada,  e  se  maggior  favori 


ATTO  QUINTO.  3^5 

Puote  Ottener^  padre,  a  Calaf  mio  sposo. 
Ed  alla  figlia  vostra  li  donate. 

Alt.  In  sì  festevol  giorno  non  misuro 
Le  grazie  mie.  Le  mie  felicitadi 
Vo'  anch'  io  da  lei  La  libertà  non  basti. 
Abbia  Adelma  il  suo  Regno,  e  scelga  sposo, 
Che  seco  regni  di  prudenza  ornato, 
E  non  di  cieca,  e  mal  fondata  audacia. 

Adbl.  Signor...  troppo  confusa  da' rimorsi .. . 
Oppressa  dall'amor...  de' benefizi 
n  peso  non  conosco.  Il  tempo  forse 
Rischiarerà  la  mente...  Or  sol  di  pianto 
Capace  son,  né  raffrenar  lo  posso. 

Gal.  Padre,  in  Pechin  tu  sei?  Dove  poss'io 
Ritrovarti,  abbracciarti,  e  d'allegrezza 
Colmarti '1  sen? 

Tur.  Presso  di  ine  è  tuo  padre; 

A  quest'ora  gioisce.  In  faccia  al  mondo 
Non  obbligarmi  a  palesar  le  mie 

'     Stravaganti  opre;  che  di  me  medesma 
Meco  arrossisco.  Già  tutto  saprai. 

Alt.  Timur  presso  di  te!  Calaf  t'allegra. 
Quest^  Impero  è  già  tuo.  Timur  gioisca. 
Libero  e '1  Regno  suo.  Sappi,  che'l  crudo 
Sultano  di  Carizmo,  mal  sofferto 
Per  le  sue  tirannie,  da' tuoi  vassalli 
Fu  trucidato.  Un  tuo  fido  Ministro 
Tien  per  te'l  scettro,  ed  a' Monarchi  invia 
Secretamente  lumi  e  contrassegni 
Di  te,  del  padre  tuo,  chiamando  al  trono 


jaÓ  ,  .TURANDOT.  .  , 

Unno,  o  l'altro,  se  viveu  In  questo  foglio 
Leggi,  che  tronche  son  le  sue  sventure.    (  ffH 

dà  un  foglio  ) 

Gal.  (  osservato  il  foglio  )  O  Dei  celesti,  puote 

esser  mai  questo! 
Turaadotte...  Signor...  Ma  a  che  mi  volgo 
A' mortali  in  trasporto?  I  miei  trasporti 
Sieno  a  voi,  Numi;  a  voi  le  mani  innalzo. 
Voi  benedico,  e  a  voi  chiedo  sventure 
Maggiori  ancor  delle  sofferte,  a  voi, 
A  voi,  che  contr'ogni  pensiero  umano 
Tutto  cambiate,  umil  perdono  io  chiedo 
De'  miei  lamenti,  e,  se  talor  la  doglia 
Questa  vita  mortai  disperar  fece 
D' una  provvida  mano  onnipossente, 
A  voi  chiedo  perdono,  e  l'error  piango. 
(  Tutti  gli  astanti  saran  commossi^  e  piath^ 
geranno ) 

Tur.  Nessun  funesti  più  le  nozze  mie. 

(  in  atto  riflessivo)  Calaf  per  amor  mio  la  vita 

arrischia. 
Un  Ministro  fedel  morte  non  cun^ 
Per  far  felice  il  suo  Signor.  Un  altro 
Ministro,  ch'esser  puote  Re,  riserva 
Pel  suo  Monarca  il  trono.  Un  vecchio  oppresso 
•  Vidi'  pel  figlio  apparecchiarsi  a  morte; 
Ed  una  donna,  che  qui  meco  tenni 
Amica  più,  che  serva,  mi  tradisce. 
Ciel,  d'un  abborrimento  si  ostinato. 
Che  al  sesso  mascolino  ebbi  sin' ora 


ATTO  QUINTO. 


327 


Delle  mie  crudeltà,  perdon  ti  chiedo. 

(  si  fa  innanzi  )  Sappia  questo  gentil  popol  dei 

'       maschi, 
Ch'io  gli  amo  tutti.  Al  pentimento  mio 
Deh  qualche  segno  di  perdon  si  faccia. 


LA  DONNA  SERPENTE 

FIABA   TEATRALE   TRAGICOMICA 
IN  TRE  ATTI 


PERSONAGGI 


FARRUSCAD,  Re  di  Teflis. 

CHERESTANÌ,  Fata,  Regina  di  Eldorado,  sua  sposa. 

CANZADE,  sorella  di  Farruscad,  guerriera,  amante  di 

TOGRUL,  Visir,  ministro  fedele. 

BADUR,  altro  ministro  traditore; 

REZIA  ì  &nciulli,  figliuoli  genoelli  di  Farrtiscad  e  di 

BmREDINO  i       CheresunJ. 

SMERALDINA,  damigella  di  Canzade,  guerriera. 

PANTALONE,  Aio  di  Farruscad. 

TRUFFALDINO,  cacciatore  di  Farruscad. 

TARTAGLIA,  basso  ministro.  ' 

BRIGHELLA,  servitore  di  Togrul,  Visir. 

FARZANA  ]  „ 

ZEMINA      r^^^- 

UN  GIGANTE. 

SOLDATI  e  DAMIGELLE,  che  non  parlano. 

Diverse  voci  di  persone,  che  non  si  vedono. 


^  La  scena  è  parte  m  un  ignoto  deserto,  parte  nella  Qttà 
di  Teflis,  e  nelle  sue  vicinanze. 


ATTO  PRIMO 


Bosco  corto 


SCENA  PRIMA. 
Farzana  e  Zemina,  Fate. 


Zem.  l!tìlK§^  {con  mestica) 

ARZANA,  dì,  e  non  piangi? 
Farz.  e  di  che  piangere» 

«Cara  Zemina? 
Zem.  Ah  ti  scordasti,  amica, 

Quando  Cberestanì,  l'amabil  Fata, 
.  Figlia  di  Abdelazin,  Re  di  Eldorado, 
Uomo  a  morte  soggetto,  e  della  vaga 
Fata  Zebdon,  Cherestani,  diletta 
Nostra  compagna,  a  Farruscad  amante, 
Uomo  mortai,  volle  esser  sposa,  e  volle, 
D^  immortai,  come  noi,  chieder  natura 
Mortai,  come  il  suo  sposo?  e  che'l  Re  nostro, 
Demogorgon,  collerico  le  disse. 
Che  desistesse,  ma  che... 
Farz.  Si,  Zemina, 


33*   *  LA  "DONNA  SERPENTE. 

So,  che  giurò  Demogorgon,  che,  s'ella 
Passa  il  canicolar  secondo  giorno, 
Sin  che  tramonta  il  sol,  del  corrente  anno^ 
Senz' esser,  maladetta  dal  suo  sposo, 
Che  mortai  diverrà,  come  il  marito, 
Poich'ella  così  vuole. 

Zbm.  Oh  Dio!  dimani 

AUo  spuntar  del  sole  il  dì  comincia 
Fatai  per  noi.  Perdiam  Cherestani 
Di  cinque  lustri  appena  in  sul  bel  fiore. 
La  più  amabile  Fata,  la  più  cara, 
,   La  più  bella  fra  noi.  Perdiam,  Farzana, 
Il  più  bel  fregio  del  congresso  nostro. 
Quanto  è  amabil,  tu'l  saL 

Farz.  Non  ti  ricorda^ 

Quante  Demogorgone  opre  in  dimani 
Vuol  che  Cherestani  crude  e  inaudite 
In  apparenza  a  Farruscad  suo  faccia? 
Che  condannata  l'ha  a  tener  occulto 
L' esser  suo  per  ott'  anni,  e  '1  fatai  giórno^ 
E  a  non  scoprir  dell'opre  sue  gli  arcani? 
Credimi  pure:  no,  diman  non  passa, 
Che  sarà  maladetta  dal  suo  sposo. 
Che  rimarrà  nostra  compagna. 

Zem.  Ma 

Tu  sai,  che  Farruscad  deve  giurare 
Di  non  mai  maladirla,  e  poi  spergiuro 
Dee  maladirla,  e  allor  Fata  rimane. 

Farz.  E  bene,  ei  giurerà;  sarà  spergiuro, 
E  la  maladirà;  nostra  ella  fia. 


ATTO   PRIMO.  333 

Zem.  Non  giurerà. 

Farz.  Si  giurerà. 

Zem.  Se  giura, 

Manterrà '1  giuramento. 

Farz.  No,  Zemina, 

Ei  la  maledirà.  Fia  nostra. 

Zem.  Cruda  I 

Né  ti  sowien  dell'orrida  condanna, 
Alla  cjual  per  due  secoli  è  ristretta? 
Che  cambierà  la  sua  bella  presenza 
In  schifo,  abbominevole  serpente. 
Se  lo  sposo  in  diman  la  maledice? 
Farz.  Ben  lo  so,  ma  che  importa?  Della  folle 
Richiesta  sua  pagar  dee  qualche  pena. 
I  dugent'anni  passeranno,  e  intanto 
Morrassi  il  temerario  sposo  suo, 
E,  passati  due  secoli,  averemo 
Cherestanì  compagna  nostra  ancora. 
Zem.  PuoUa  lo  sposo  suo  dalla  condanna 
Sciogliere  ancor,  come  t'è  noto,  e  allora 
Fatta  è  mortale,  e  noi  Pabbiam  perduta. 
Farz.  Sogni  son  questi:  ei  lascierà  la  vita. 
A  me  commessa  è  l' opra.  A  me  la  guardia 
Della  nostra  compagna  condannata 
È  commessa,  e  commessa  è  a  me  in  dimani 
La  morte  del  suo  sposo,  onde^l  periglio. 
Ch'ella  mortai  divenga,  in  lui  finisca. 
Zem.  Ma  di  Geonca  il  Negromante,  amico 

Di  Farruscad,  non  temi? 
Farz.  No,  non  temo. 


334  L^   DOKNÀ   SERPENTE, 

Andiam;  che  non  è  onesto  il  recar  tedio 
Al  mondo  aspettator  d' opre  inaudite, 
E  soprattutto,  con  gli  arcani  nostri 
Convien  non  recar  noia  a  chi  ci  ascolta. 
Poiché  d'essi'l  miglior  saria  perduto. 
Zem.  Oh  Ciel,  pria  d'annoiar  chi  èT  nostro  bene. 
Con  Farruscad  Cherestanì  perisca,  (entrano) 

SCENA  SECONDA. 

Cambiasi  la  scena,  che  rappresenterà  un  orrido  deserto  eoo 
varie  rupi  nel  fondo,  e  vari  sassi  sparsi,  atti  a  servir  di 
sedili 

Truffaldino  e  Brighèlla. 

Questi  due  personaggi  escono  insieme  abbraccian- 
dosi. Brig,  Ha  trovato  in  quel  punto  Truffal- 
dino; è  desideroso  di  sapere,  come  Truffaldino 
sia  in  quel  deserto,  e  nuove  del  Principe  Far- 
ruscad. Truff,  Si  pianta,  com'uno,  che  narra 
una  Fola  ad  un  fanciullo,  usando  spesso  la  for- 
mula: e  ciist,  sior  mio  henedetto^  ec.  Narra, 
che  nel  tal  anno  (accenna  un  millesimo,  che 
venga  a  formare  il  termine  in  quel  punto 
degli  otf  anni,  accennati  dalle  due  Fate)  alli 
dodici  del  mese  di  Aprile,  come  Brighella 
sa,  uscirono  dalla  Città  di  Teflis  il  Principe 
Farruscad,  Pantalone,  suo  Aio,  egli,  e  molti 
cacciatori  per  andar  a  caccia.  Che  giunti  in  un 
bosco,  lontano  dalla  Città,  trovarono  una  cerva 


ATTO  PRIMO.  335 

bianca  come  k  neve,  tutta  fornita  di  cordelle 
d' oro,  di  fiori,  di  gioie  al  collo,  anella  alle  zampe, 
diamanti  sul  tuppè,  ,ec.  La  più  bella  cosa...  la 
più  bella  cosa,  che  si  possa  vedere  con  due  oc^ 
chi^  ec.  Che'l  Principe  Farruscad  s'innamorò  di 
quella  perdutamente,  e  la  seguì.  Pantalone  correva 
dietro  al  Principe,  egli  dietro  a  Pantalone  e  corri^ 
e  corrij  e  cammina^  e  cammina,  ec.  Che  la  cerva 
giunse  sulla  riva  d' un  fiume  ;  che  '1  Principe  le 
era  appresso,  e  tutti  erano  lì  lì  lì  per  pigliarla 
per  la  coda,  quando  la  cerva  spiccò  un  salto,  si 
scagliò  nel  fiume,  e  non  si  vide  più.  Brig.  Che 
si  sarà  annegata.  Truff.  No,  che  non  interrompa 
una  narrativa  di  somma  importanza.  E  così,  sior 
mio  benedetto,  ec.  il  Principe  smanioso,  innamo- 
rato della  cerva,  e  disperato,  fece  pescare  tutto 'l 
giorno  per  trovarla  viva  o  morta.  E  pesca,  e  pe^ 
sca,  e  pesca,  ec.  e  invano.  Quando ...  Oh  mara- 
viglia I  Si  sentì  una  voce  dolcissima  uscir  dal  fiume, 
chiamare,  e  dire:  Farruscad,  seguimi.  Che'l  Prin- 
cipe invasato  non  si  potè  più  trattenere,  ma  col 
capo  in  giù  si  gettò  nel  fiume.  Pantalone  dispe- 
rato  con  la  barba  in  mano  si  gettò  dietro  al  pa- 
drone :  egli  voleva  gettarsi  dietro  a  Pantalone,  ma 
che'l  timore  di  bagnarsi  lo  trattenne.  Che  guar- 
dando nel  fiume  vide  poi  nel  fondo  una  mensa 
imbandita  di  vivande,  e  che  la  fedeltà  al  suo  pa- 
drone l'indusse  a  gettarsi  nel  precipizio.  Oh  ma- 
ravigliai trovò  nel  fondo  non  più  Isf  mensa,  ma 
la  cerva  cambiata  in  una  Principessa  con  un  se- 


338  LA   DONNA  SERPENTE 

nuova  del  figliuolo,  era  morto.  Che  Morgone, 
brutto  Re  Moro,  gigante,  pretendeva  per  moglie 
Can^ade,  Principessa,  sorella  di  Farruscad,  e  la 
corona,  e  che  aveva  assalito  il  regno,  e  assediata 
la  città  di  Teflis.  Che  Togrul,  Visir,  amante  di 
Canzade,  era  andato  alla  grotta  di  Geonca  Negro- 
mante, per  aver .  notizia  del  Principe  Farruscad  in 
tal  calamità.  Che  Geonca  gli  aveva  detto,  che  si 
portasse  sul  monte  Olimpo,  dove  troverebbe  un 
baco,  e  che,  discendendo  per  quel  buco,  trove- 
rebbe il  Principe.  Che  aveva  dati  a  Togrul  dei 
secreti,  tra  gli  altri,  perchè  '1  viaggio  di  quel  buco 
era  lungo,  e  non  troverebbe  cibo,  ne  bevanda,  gli 
aveva  dato  un  cerotto,,  che  posto  sulla  bocca  delio 
stomaco,  teneva  sazi,  e  senza  sete  gli  uomini  per 
due  mesi.  Che  Togrul,  Tartaglia  ed  egli  con 
quel  cerotto  sulla  bocca  dello  stomaco,  giunti  sul- 
r  Olimpo,  trovato  il  buco,  discesero  con  de'  torchi 
accesi;  che  avevano  fatti  quaranta  milioni,  sette- 
mila, dugento  e'  quattro  scaglioni,  e  ch'erano 
giunti  in  quel  deserto.  Truff.  Stupisce.  Chiede^ 
dove  sieno  Togrul  e  Tartaglia.  Brig,  Che  gli 
aveva  lasciati  sotto  un  albero  a  riposare  poco  di- 
scosti. Chiede,  dove  sieno  il  Principe  e  Pantalone. 
Truff,  Che  sono  raminghi  pel  deserto,  perchè  T 
Principe  smanioso  cerca  sempre  la  Principessa; 
che  tuttavia  verso  la  sera  si  riducono  in  quel  re- 
cinto per  cenare  e  riposare.  Brig.  Qual  cosa  si 
mangi,  e  come  si  dorma  in  quel  deserto,  dove  non 
vede,  che  pietre  e  bronchi.  Truff,  Che  si  dorme 


«  ATTO   PRIMO.  339 

sotto  alcuni  padiglioni  appariti  dopo  lo  sparire 
del  bellissimo  palagio,  e  si  mangia  benissimo, 
cibi,  che  appariscono  in  apparecchio  ad  una  sola 
dimanda,  né  si  vede  da  chi.  Brig.  Stupisce; 
sente,  che  '1  cerotto,  che  ha  sullo  stomaco,,  perde 
-  la  facoltà.  I  due  mesi  della  sua  virtù  spirano. 
Egli  è  languido,  non  resiste  più.  Truff.  Che 
lo  segua,  e  non  dubiti,  ec.  Brig,  Che  bisogna 
anche  soccorrer  Togrul,  e  Tartaglia.  Truff,  Che 
sarà  fatto,  che  lo  segua,  che  gli  narrerà  .del- 
l'altre*  maraviglie.  E  custj  sior  mio  benedetto,  ec, 
(  in  atto  di  seguitar  de^  racconti  entrano  ) 

r 

SCENA  TERZA. 
Farruscad  e  Pantalonb. 

Far.  {uscendo  inquieto)  Vani  sono  i  miei  passi. 

Dunque,  amico. 
Più  non  degg'io  veder  Cherestanì, 
La  dolce  sposa  mia? 

Pant.  Mi  no  go  più  testa;  el  cervello  me  boge. 
Cara  Altezza,  a  tor  suso,  ste  solane  tutto  el 
dì,  chiaparemo  una  rescaldazion  de  rene,  un 
mal  maligno,  le  petecchie.  Qua  no  gavemo 
miedeghi,  ne  spezieri,  ne  ceruseghi.  Moriremo, 
come  le  bestie.  Caro  fio,  caro  fio,  desmente- 
^heve  sta  sorte  de  amori. 

Far.  Come  poss'io  dimenticarmi,  amico. 
Tanto  amor,  tanta  tenerezza,  tante 


«340  LA   DONNA   SERPENTE, 

Beneficrenze  e  spasmi?  Ah,  caro  servo. 
Tutto  ho  perduto;  io  non  avrò  più  pace. 

Pant.  Mo  tenerezze,  amori,  spasemi,  sospiri  de 
chi?  de  chi? 

Far.  D'un' alma  grande,  generosa,  altera, 
Della  più  bella  Principessa,  e  cara, 
Che  '1  sol  vedesse,  da  che  '1  mondo  Irraggia. 

Pant.  D'  una  striga  maledetta,  che  tol  la  fegura, 
che  la  voi,  co  ghe  piase;  che  deve  aver  quat- 
tro, o  cinquecent'  anni  sulle  taverneile.  Oh 
anello  incanta  de  Angelica,  dove  xestu?  Ti, 
che  ti  ha  scoverto  ai  occhi  de  Ruggiero,  che 
le  bellezze  de  Alcina  gera  tante  deformità,  ti 
averessi  pur  guario  anca  sto  povero  putto, 
scoverzendoghe  la  Redodese  in  sta  siora  Che- 
restanì. 

Far.  (in  trasporto  da  una  parte)  Belle  chiome, 
ove  siete?  io  v'ho  perdute. 

Pant.  (  dal P  altra  parte  dopo  averlo  udito)  Zucca 
pelada  maledetta,  con  quattro  cavelli  canai 
sulla  coppa,  e  forsi  con  della  tegna,  scoverzite 
per  carità. 

Far.  (  come  sopra  )  Occhi,  stelle  brillanti  ;  ahi  dove 

^ete? 

Pant.  (  come  sopra  )  Occhi  infossai,  come  quelli 
del  cavallo  del  Gonella,  pieni  de  sgargagì,  co- 
pai,  lasseve  veder.    , 

Far.  Bocca,  rubini  ardenti,  bianche  perle, 
Più  non  vi  rivedrò!  chi  mi  v'ha  tolto? 

Pant.    Zenzìve    paonazze,   con    quattro    schienze 


ATTd  PRIMO.  /  341 

marze;  lavri  scaffai,  bocca  de  seppa  col  negro, 
•    in  to  tanta  malora  lassete  veder. 

Far-  Guance  di  rose,  e  gigli,  ahi  chi  v'  invola  1 

Pant.  Ganasse  de  baccalà,  barambagole  rapàe,  saltè 
fiiorà,  come  se,  e  guarì  sto  putto  da  sta  de- 
sgrazia,  da  sta  fissazion. 

Far.  Ah  delizioso  sen  della  mia  sposa, 
Latte  rappreso,  ove  ti  sei  nascosto! 

Pant.  O  borse  de  camozza  sporca,  braghesse  de 
soatto  de  luganegher,  paleseve,  come  ve  vedo 
mi  coi  occhi  della  mente,  e  fé  dar  una  gomi- 
tàdina  a  sto  povero  striga,  {a  Farruscad)  Al-' 
tezza,  care  viscere,  no  la  se  recorda  Jia  brutta 
burla  fatta  dalla  striga  Dilnovaz  al  Re  de 
Tebet? 

Far.  Qual  burla  mai?  che  mai  vorrete  dirmi? 

Pant.  Schienzel  La  striga  Dilnovaz,  che  aveva 
tresento  anni,  per  virtù  de  una  vera  incantada, 
che  la  aveva  in  tei  deo  menuello,  s'  ha  cambia 
in  tela  fegura  della  Regina,  muger  del  Re  de 
Tebet,  che  gera  una  zogietta  de  vint'  anni,  e 
la  ha  buo  tanta  forza  de  scazzar  dal  letto  real 
la  vera  muger,  come  una  impostore,  e  de  restar 
ella  Regina.  Alle  quante  la  vustu?  Siccome  sta 
striga  gera  una  squartada  de  prima  riga,  el  Re 
r  ha  trovada  un  zorno  in  un  certo  atto',  che 
no  ga  piasso,  con  un...  che  sogio  mi?...  da* 
casa  del  diavolo.  Noi  s' ha  podesto  tegnir,  e  el 
ga  lassa  andar  una  sablada.  La  sorte  ha  fatto, 
che  el  ga  tagià  el  deo  menuello,  dove   la  ga- 


342  LA    DONNA   SERPENTE. 

Veva  el  servizio  incanta,  causa  della  orbarìola; 
mo  sì,  da  bon  servitor,  che  ei  se  l'ha  vista  a 
restar  una  carampia  senza  un  dente  in  bocca, 
con  tanti  de  peli  sulla  barba,  e  tante  grespe« 
che  la  pareva  un  cento  pezzi  de  manzo.  Questi 
xe  fatti  de  verità,  Altezza,  no  le  xe  miga  fiabe 
da  contar  ai  puttelli.  El  povero  Re  ha  buo  pò 
de  grazia  de  cercar  so  muger  che  poveretta 
la  andava  cercando  la  lemosina  con  quelle  pa- 
.    role  famose: 


Io  son  moglie  di  Re,  pur  non  son  quella. 
Son  Principessa,  e  pur  non  son  chi  sono. 


V  A  vu  canella.  Ghe  scometteria  mi,  che  Chere- 
stanì  xe  un'  altra  striga,  come  Dilnovaz,  Qh 
chi  avesse  podesto  trovarghe  la  veretta  incan- 
tada,  so  ben  mi. 

Far.  Eh,  non  mi  dite  più.  Come  può  darsi, 
Che  vecchia  sia  Cherestanì,  mia  sposa, 
S'ella  mi  fu  feconda  di  due  figli? 
Figli  perduti,  anime  mie,  mio  sangue  1  (piange) 

Pant.  Certo  che  quelli  m'ha  porta  via  el  cuor 
anca  a  mi.  I  giera  i  più  cari  cocoli,  el  mio 
solo  devertimento.  Quel  pultello,  quel  Bedre- 
din,  aveva  una  vivacità,  una  prontezza  de  spi- 
rilo, oè  da  farghene  un  capital  grande.  Quella 
puttella  pò,  quella  Rezia,  cara  culla,  la  gera 
la  gfan  cara  cossa:  me  par  de  vedermeli  sem- 
pre intorno  a  zogatolar,  e  de  sentirne  a  chia- 


ATTO   PRIMO.  343 

mar  nono.  No  bisognarla,  che  ghe  pensasse, 
perchè  me  sento  a  spezzar  le  viscere  ;  {piange  ) 
ma,  Altezza,  qua  bisogna  darse  pase  e  corag- 
gio. Finalmente,  fioi. d'una  striga  certo.  Biso- 
gna, che  la  gabbia  el  cuor  con  tanto  de  pelo 
a  destaccàr  con  quella  furia  dal  sen  paterno 
l'unica  consolazion,  el  proprio  sangue. 

Far.  Ah,  Pantalone!  io  fui  di  me  medesmo 
Il  traditor.  Disubbidii  la  moglie. 
Avea  proibizion  di  non  cercare 
Mai,  chi  ella  fosse,  insino  a  un  certo  punto 
Determinato.  Di  saperlo  prima 
Tentai  del  tempo.  Fui  disubbidiente 
La  curiosità  mia  maledico. 

Pant.  Vardè  che  misfatti!  No  s'ha  da  saver  più 
gnanca,  chi  sia  la  propria  muger?  Sta  proibi- 
zion, a  dirghela,  m'ha  fatto  sempre. spezie,  come 
m' ha  fatto  sempre  stomego  sto  matrimonio. 
Figurarse,  tor  per  muger  una  cerva!  Xèla  se- 
guro,  che  un  di,  o  l'altro  no  la  lo  fazza  de- 
ventar un  cervo  anca  ella?  Da  galantomo  me 
trema  sempre  el  cuor  de  vederghe  a  spontar  i 
corni.  Vorla,  che  diga?  Ringraziemo  el  Ciel 
de  esserse  sbrigai  de  sta  striga.  Mettemose  in 
viazo.  Qualche  buso  ghe  sarà  da  andar  fuora 
de  sto  inferno.  Andemo  a  trovar  el  povero 
vecchio  Atalmuc,  so  pare.  Chi  sa,  quanti  pianti 
che  l'ha  fatto  per  ella!  Chi  sa,  se  el  xe  più 
vivo!  povero  infelice!  Chi  sa,  se  ghe  xe  più 
Regno!  La  sa,  quanto  nemigo  ghe  gera   quel 


344  J-^   DONNA  SERPENTE. 

barbaro  moro,  el  Re  Morgon,  pretendente  la 
Prencipessa  Canzade,  so  sorella.  La  restarà  un 
Re  senza  regno,  un  pitocco,  un  pezzente  in 
vita  sua,  mario  d' una  striga,  d' un  diavolo,  del- 
l' orco,  d'  una  saetta,  che  la  possa  scoar  via. 

Far.  Tacete,  Pantalone.  Io  morrò,  prima 
D'abbandonar'  queste  contrade,  il  giuro. 
Sognai  già  di  veder  l'amata  sposa; 
Parmi  d'averla  innanzi.  Umil  perdono 
Chiedo  al  padre,  se  vive,  e,  s'egli  è  morto, 
Perdon  gli  chiedo  ancor.  Ramingo  sempre 
Andrò  per  questi  boschi  ognor  chiamando 
Cherestanì,  mia  sposa.  Rezia  amata, 
Bedredin,  caro  figlio,  e  figli,   e   ^posa.    (entra 
con  un  atto  di  disper asciane) 

Pant.  Oh  povero  Pantalon  !  Mo  la  vada,  dove  che 
la  voi,  che  per  adesso  mi  no  go  più  fià  de 
seguitarla. 

SCENA  QUARTA. 
ToGRUL,  Tartaglia  e  Pamtalohe. 

Tart.  (uscendo  dal  fondo^   vedendo   Pantalone^ 
con  trasporto  di  aiiegre^^a) 

Signor  Togrul,  Togrul,  Signor  Visir. 
ToGR.  (uscendo)  Che  c'è  Tartaglia? 
Tart.  Pantalone,  Pantalone,  non  lo  vedete? 
ToGR.  E  sarà  ciò  possibile! 

O  Cielo  !  ti  ringrazio ...  Ti  ringrazio. 

Tartaglia,  abbiam  trovato  Farruscad. 


] 


ATTO   PRIMO.  345 

Pant.  (vedendoli  in  lontano)        Togrul... 

Tarta...  m' ingosso . . .  ogio  forsi  le  vertigini? 

Tart.  (correndo)  O  caro  Pantalone  mio. 

ToGR.  (abbracciandolo)  Oh  caro  amico,  quanto  mi 
soUieva  il  ritrovarti! 

Pant.  La  scusa...  Tartagia,  scuse...  Spn  ingroppa 
el  cuor...  Oimè...  (in  atto  di  deliquio,  Tar-- 
taglia  lo  sostiene) 

Tart.  Signor  Togrul,  il  vecchio  crepa,  e  ancora 
non  ci  ha  detto,  dove  sia  il  Principe.  Panta- 
lone, narraci,  dov'  è  '1  Principe  Farruscad,  e  poi 
mori  in  pace. 

ToGR.  Amico,  Pantalone. 

Pant.  (  rinvenendo  )  Sior  Visir,  come  mai  capita 
in  sto  deserto? 

ToGR.  La  storia  è  lunga.  Prima,  deh,  mi  dite, 
Dove  sia  Farruscad,  il  mio  Sovrano, 
Che  più  tempo  non  è  di  perder  tempo. 

Pant.  El  xe  qua  vivo,  e  san  ;  ma  pef'so,  ma  impe- 
tolà  insin  ai  occhi  in  tuna  desgrazia  grande. 
Cosse  grande,  ma  grande  ;  ghe  dirò  tutto.  Come 
mai  mo  ella  xela  arriva  in  sto  logo  fora  del 
mondo? 

ToGR.  Qui  venni  coli' aiuto  di  Geonca, 
n  Negromante  amico,  con  Tartaglia, 
E  Brighella,  mio  servo.  Assai  segreti 
Mi  die  Geonca  per  cavar  da  questo 
LuogQ  ignoto  il  mio  Re.  Dove  s'attrova? 

Pant.  Eh  i  sarà  secreti  per  i  calli,  ma  no  per  ca- 
var el  Prencipe  da  sta  miseria.  Aseo!  ghe  voi 


34^  I^   DONNA   SERPENTE. 

altro.  Sé  la  crede,  che  sia  da  cavar  un  ravano, 
la  se  inganna. 

Tart.  Mo  dì,  dov'è,  dov'è,  vecchio  flemmatico, 
non  ci  seccare. 

ToGR.  Ogni  momento  perso.  Pantalone, 
E  della  più  crudele  conseguenza. 

Pant.  Naturalmente  el  sarà  poco  lontan:  el  fa 
qualche  ziro,  e  pò  el  toma  a  mea;  ma  pre- 
ghiere, né  lagreme  no  lo  cava  de  qua  certo. 
Co  la  dise  pò,  che  la  ga  sti  gran  secreti,  xe 
megio,  che  se  scondemo,  che  noi  ne  veda.  Bi- 
sognerà consegiar,  pensar,  stabilir.  Qua  no  ghe 
posso  dir  tutto;  i  arcani  xe  grandi.  Ale  biso- 
gno de  restoro? 

Tart.  Ma  veramente  sì,  perchè  '1  cerotto  perde  la 
sua  virtù,  e  mi  sento  languido,  languido. 

Pant.  Che  cerotto? 

Togr.  Eh   nulla.   Andiamo,   Pantalone,   andiamo. 

(entra) 

Pant.  La  se  rctira  drio  quell'  arzere,  che  son  con 
ella.  Dixè,  Tartagia;  no  alo  dito  che  ghe  xe 
anca  Brighella  qua?  dove  xello? 

Tart.  Sì  <:erto;  sarà  qui  d'intorno. 

Pant.  Mo  i  totani!  Se  el  Prencipe  lo  vede,  la.  for- 
tagia  xe  fatta.  Che  secreti  ga  el  Visir,  caro 
fradello? 

Tart.  Oh  son  belli  ve;  senti  (gli  parla  al- 
V  orecchio  ) 

Pant.  Minchionazzi  l  Sior  si  che  se  poi  sperar. 
Fe'una  cossa.  Scondeve  in  qualche  logo   qua 


ATTO   PRIMO.  347 

intorno.  Se  vede  el  Prencipe,  no  ve  lasse  ve- 
der. Se  vede  Brighella,  per  carità,  se  mai  podè, 
feghe  de  moto,  che  noi  se  lassa  veder,  e  che 
noi  diga  gnente,  e  pò  vegriì  drio  a  quell'  ar- 
zere.  Oh  el  cielo  vogia,  che  el  Prencipe  no 
l'abbia  visto,  e  che  podemo  cavarlo  da  sta  mi- 
seria. (  entra  ) 
*Tart.  Ei,  ei,  Pantalone;  e  mangiare?  Oh  bella! 
mi  lasciano  qui  col  cerotto  sullo  stomaco.  Que- 
sto aveva  la  virtù  di  tener  sazi  due  mesi.  Sono 
passati  cinquantanove  giorni,  e  cinque  ore;  per 
poche  ore  potrò  ancora  resistere,  ma  poi  ca- 
scherò morto.  Bella  virtù  è  però  quella  di 
questo  cerotto!  A  quante  povere  genti  sarebbe 
necessario!  I  Padri  giugnerebbero  col  cerotto 
in  scarsella,  troverebbero  le  loro  famiglie  af- 
famate a  piangere,  e  taffete,  un  pezzo  di  ce- 
rotto sullo  stomaco  a  tutti;  rimedierebbero  a 
quella  miseria,  in  cui  sono  abbandonati.  A  quanti 
Comici,  a  quanti  Poeti  sarebbe  una  manna!  Oh 
seU  Masgomieri  avesse  questo  cerotto,  farebbe 
certo  più  fortuna,  che  col  suo  balsamo  greco, 
e  col  suo  taccomacco  del  Cavalier  Burri  per 
le  sciatiche,  e  per  l' inappetenza,  e  l' indige- 
stione. Qui  bisogna  nascondersi  per  non  essere 
scoperto  ;  ma  io  mi  sento  venire  una  fame  xhe 
divorerei  un  bue.  {si  nasconde) 


348  LA   DONNA  SERPkNTE. 

SCENA  QUINTA. 
Farruscad,  Tartaglia  nascosto,  e  una  voce  di  donna* 

Far.  (uscendo  smanioso)  Ah  invan  la  cerco,  in- 
vano ansante  corro 
Pel  deserto  dolent^e,  che  la  troppo 
Sdegnata  mia  Cherestanì  crudele 
Sorda  è  al  dolor,  che  mi  distrugge  il  core. 
Io  fili  disubbidiente;  ma  ti  chiedo 
Umil  perdon.  Cherestanì,  mia  sposa... 
Cherestanì...  per  un  momento  solo 
Lasciati  riveder.  Lascia,  che  un  bacio 
Agli  amati  miei  figli  ancora  imprima. 
Toglimi  poi  la  vita,  io  mi  contento. 

Tart.  (da  sé  indietro)  Quello  è  il  Principe  Far- 
ruscad:..  è  lui  senza  dubbio.  Uh  che  alle- 
grezza!... Io  non  mi  posso  ^trattenere...  Vo- 
glio abbracciarlo,  (fa  qualche  passo  con  tra- 
sporto,  poi  si  ferma)  Ma,  Tartaglia,  che  fid? 
Crepa  per  V  amore,  ma  non  alterare  gli  ordini, 
che  ti  furono  dati,  (si  nasconde  di  nuovo.  Qui 
apparirà  una  picciola  mensa  imbandita  di  vi-- 
vande) 

Far.  (osservando   la   mensa)  No,  che  cibo   non 
prendo.  Io  vo'  morire 
D' media,  e  di  dolor.  Qual  tirannìa 
È  questa,  di  voler,  che  in  vita  io  resti, 
Perch'io  mora  d'  angoscia  ogni  momento, 
E  non  morendo  mille  morti  io  sofira? 


ATTO   PRIMO.  349 

Tart  (in  dietro)  Quella  mensa  non  c'era.  Chi 
r  ha  portata?  mi  sento,  morire  di  fkme.  Se  po- 
tessi di  nascosto  prendere  qualche  cibo,  {si 
va  avvicinando  con  timore  alla  mensa  di  na^ 
scosto) 

(  Una  voce  di  dentro)  Farruscad,  cibo  prendi,  e 

ti  nodrisci. 

Tart.  (spaventato)  Che  voce  è  questa  !  Dove  dia- 
volo m'hanno  lasciato?  (corre  a  nascondersi 
dalV  altra  parte  ) 

Far.  Voce,  tu  non  sei  già  della  consorte. 
Voce  crudele,  ho  di  morir  risolto, 
Se  i  figli  miei,  se  la  mia  sposa  amata 
Più  non  deggìo  veder. 

,VocE.  .  No,  non  morrai. 

Disubbidiente,  impara,  quanto  costi 
Il  trasgredir  della  tua  sposa  i  cenni. 

Tart.  (  di  nuovo  s' avvicina  di  nascosto  alla  mensa 
per  prendere  qualche  cibo.  La  mensa  sparisce. 
Tartaglia  spaventato  fugge  a  nascondersi 
dall' altra  parte) 

Far.  (alla  voce)  Dimmi,  che  far  degg'io  per  porre 

in  calma 
Cherestanì,  che  offesi  ?  Io  farò  tutto,  (fa  pausa 
per  udire  la  voce^  che   non  risponde;  egli 
segue) 
Tu  non  rispondi  1  Dimmi  almeno, .  dimmi. 
Se  mai  non  vedrò  più  la  dolce  sposa, 
Se  abbraccierò  i  miei  figli,  il  sangue  mio?  (fa 
pausa,  e  come  sopra) 


350  LA   DONNA   SERPENTE. 

Ah  più  non  mi  risponde!  indegno  sono. 
Abbandonato,  disperato,  solo 
Qui  senz' alcun  compagno,  ognun  mi  lascia^ 
Ed  i  ministri  miei  tra  i  cibi,  e  '1  vino 
Allegri  goderan.  Sol  Farruscad 
Inquieto,  rabbioso,  in  mille  angosce 
Si  flagella,  si  strugge...  Ah,  ingiusto  sono 
A  condannar  chi  passion  non  sente. 
Io  solo  vo' perir,  cibi  non  voglio. 
Sien  questi  sassi  letto  alle  mie  membra 
Ornai  stanche,  languenti,  e  presso  a  morte. 
(siede  sopra  un  sasso,  e  appoggia  il  viso 
ad  una  mano  in  atto  di  dormire,   e  s^  ad- 
dor  menta) 
Tart.  (  esce  in  dietro  )  Mi  gira  il  capo,  come  una 
ruota  di  fochi  artifiziali.   Ho   vedute,   e  udite 
le  gran  cose  !  Mi  sembra,  che  '1  Principe  dorma. 

SCENA  SESTA. 
TRUFFALDiifo  e  Brighbjlla  con  vari  cibi,  e  Tartaglia. 

Truff.  Si  fa  sentir  di  dentro  con  voce  alta,  chie- 
dendo a  Brighella,  dove  sieno  Togrul,  e  Tar- 
taglia. Tart.  Disperato  fa  cenni  a  quella  parte, 
che  si  deva  tacere,  e  passar  per  il  fondo  del 
Teatro  in  dietro.  E^scono  Truflfaldino  e  Bri- 
ghella. Brig.  Mostra  a  Truffaldino  Tartaglia. 
Truff.  Allegro  alza  la  voce.  Tart  Si  dispera. 
Mostra  il   Principe,   che   dorme.   Si   guardano 


ATTO  PRIMO.  351 

r  un  r  altro  incantati,  e  dopo  breve  scena  di 
lazzi  muti,  di  monosillabi,  e  di  stupori,  ridi- 
cola, entrano  tutti  tre  per  mangiare. 

SCENA  SKTTIMA. 

Pantalone  e  Farruscad.  Pantalone  uscirà  sen^a  la  sO' 
lita  sua  maschera,  ma  ingombrato  il  viso  da  gran  basette, 
e  gran  barba  bianca.  Sotto  questa  avrà  nascosta  la  con- 
sueta sua  barba.  Abbia  una  gran  mitra  sacerdotale.  Sotto  a 
questa  sia  nascosta  la  sua  maschera  di  Pantalone^  a  tale 
che  possa  cadérgli  sul  viso  allo  sparir  della  mitra.  Abbia 
una  veste  sacerdotale;  sotto  a  questa  la  sua  sottana,  e  le 
brache  da  Pantalone,  Sia  accomodato  in  modo,  che  possa 
trasformarsi  dalla  figura  di  sacerdote  in  quella  di  Panta- 
talone.  Si  avverte,  che  *l  Pantalone  accomodato  da  sacer- 
dote non  dovrà  avere  nessun  segno,  per  cui  gli  spettatori 
possano  riconoscerlo.  Dovrà  egli  accompagnar  con  gesti 
proporzionati  ciò^  che  un  altro  di  dentro  dirà  per  lui,  sino 
al  punto  della  trasformazione^  e'I  gesto  dovrà  esser  grave, 
e  decente  ad  un  vecchio  sacerdote, 

Pant.  (  uscendo  in  dietro  accompagnando  col  ge- 
sto la  voce^  che  parlerà  per  lui  ) 
Farruscad,  ti  risveglia. 

Far.  (levandosi)  Oimè!  quaL  voce 

È  questa  mai? 

Pant.  È  di  Checsaia  voce. 

Del  sacerdote  solitario,  a  cui 
Dona  il  Cielo  alti  lumi,  e  grazia  somma 
Di  veder  tutto,  di  s'occorrer  quelli. 
Che  ubbidiscon  al  Ciel,  non  all'  inferno. 

Far.  Checsaia,  al  Ciel  diletto!  Io  ben  conosco, 
Che  sei  Checsaia  in  questa  parte  giunto 


35^  '  •        ^A    DONNA   SERPENTE. 

Per  mio  soccorso.  Dimmi,  sacerdote, 
Che  tutto  vedi.  Per  pietà  m'insegna^ 
Dove  sieno  i  miei  figli,  ove  s'asconda 
Cherestanì,  la  mia  compagna. 
Pant.  Taci, 

Empio,  non  nominar  chi  è  in  odio  al  Cielo, 
D' un' abborribii  sozza  maga  il  nome: 

10  vengo  a  liberarti;  sì,  qui  vengo 
A  trarti  dalle  man  d'una  novella 

Circe  barbara,  iniqua.  Ah  quanto!...  ah  quanto 
Dovrai  patir,  stolto  garzon,  che  cieco 
A  lei  ti  desti  in  preda,  a  ripurgare 
La  colpa  tua  d'esserti  a  lei  congiunto! 

Far.  Come!  Checsaia...  Che  mai  narri!...  No, 
Non  è  possibil  quanto  narri... 

Pant.  Taci, 

Belva,  e  non  uomo.  Sappi,  che  imminente 
È  la  sciagura  tua.  Tutte  le  fiere, 
E  gli  alberi,  che  vedi,  e  i  duri  sassi, 
Che  miri  in  questa  erema  valle,  furo 
Uomini,  come  tu.  L' ingorda  maga, 
Lasciva,  infame,  poiché  amanti  gli  ebbe, 
Che  saziate  ha  l' avide  sue  brame, 
L'un  dopo  l'altro  in  fiera,  in  pianta,  in  sasso 
Gli  ha  trasformati,  e  gemono  rinchiusL 

Far.  (spaventato)  Oh  Dio!  che  sento  mai! 

Pant.  (conte  sopra)  Ti  scuoti,  folle. 

11  tuo  destino  in  poco  d'ora  è  questo. 
La  forma  d'uomo  in  spaventevol  drago 
Sarà  cambiata,  e  fuor  dagli  occhi  fiamme, 


ATTO  PRIMO.  353 

E  dall'  orrida  bocca  schifa  bava 
Velenosa  spargendo,  e  strascinando 
Squamoso  ventre,  sucido  e  deforme, 
Andrai  per  il  deserto,  inaridendo, 
Ovunque  passerai,  l'erbe  e'I  terreno. 
Con  urla  orrende,  e  a  te  stesso  spavento 
Invan  ti  lagnerai  di  tua  sventura. 

Far.  (più  spaventato)  Misero!  che  far  deggio? 

Pant.  (  come  sopra  )  Seguitarmi 

Dei  senz' alcun  ritardo. 

Far.  Oimè!  Checsaia, 

Deggio  lasciare  i  figli  miei  perduti? 
No,  non  ho  cor. 

Pant.  (come  sopra)  Vergognati.  Mi  segui. 
Perdi  ornai  la  memoria  di  tai  figli, 
Figli  di  sozzo  amor,  figli  d' abisso. 
Dammi  la  destra  tua. 

Far.  Si,  sacro  lume, 

Ti  seguirò;  ma  quì'l  mio  cor  rimane... 
Mi  raccomando  a  te.  (porge  la  mano  al  Sa* 
cerdofe^  il  quale  si  trasforma  rimanendo 
nella  figura  di  Pantalone,  che  sew^awe" 
dersi  di  essersi  trasformato  segue  con  la 
propria  sua  voce) 

Pant.  Cosi  mi  piaci. 

Ubbidiente,  Farruscad,  ti  mostra. 
Saggi  riflessi,  e  salutar  bevanda. 
Che  di  Cherestani  scordar  ti  faccia 
E  de' tuoi  figli,  abbominevol  frutti, 
Non  mancheranno  a  me. 

GOZZL  ,  23 


354  ^^  DONNA  SERPENTE. 

Far.  (dopo  gesti  di  sorpresa  sulla  trasforma 

^ione) 
G>nie!    Che    vedo!    (s^  allontana    alquanto- 

da  sé) 
Chi  Checsaia  mi  parve  è  Pantalone? 

Pant.  (segue^  come  sopra)  Che!  stolto,  ti  pentisti? 

Far.  Temerario, 

Col  tuo  Signor  tanto  osi?  Di  qua  parti, 
Levamiti  dinanzi,  audace,  indegno. 

PkìiT.X guardandosi  intomo)  Oimè!  Oimè!  Ah, 
che  rho  dito,  che  co  i  bei  secreti  no  Io  de- 
spettolevimo  più  da  sta  striga  scarabazza.  {en- 
tra fuggendo) 

Far.  (  in  trasporto  )  Cherestanì,  tu  m' ami  ancora. 

e  vuoi. 
Ch'io  qui  t'attenda...  Ma  che  vidi  mai! 
Qual  meraviglia! 

SCENA  OTTAVA. 


TooRUL  e  Farruscad.  Togrul  uscirà  trasformato  in  un 
vecchio  Re,  vestito  riccamente,  e  in  figura  di  Atalmuc, 
padre  di  Farruscad.  Una  voce  di  dentro  parlerà  per  7b- 
grul;  egli  V accompagnerà  congesti  sino  al  punto  della 
tras/ormas^hne,  che  dovrà  seguire.  Si  segua  V  ordine  della 
scena  precedente,  Togrul  uscirà  dalla  parte  opposta  a 
quella,  dov*  è  entrato  Pantalone. 


ToGR.  È  maraviglia,  si. 

Questa  esecranda  maga  ha  tanta^  forza 
Da  render  vano  ogni  pietoso  uffizio. 


ATTO   PRIMO.  355 

E  sin  di  far  cambiare  i  Sacerdoti 
In  ministri  sospetti.  Io  tutto  vidL 

(Farruscad  vedendo   la  figura  del  Padre 
rimarrà  estatico,  ed  immobile.    Togrul  si 
avarv(aj  e  segue) 
A  me  nulla  è  nascosto.  Sappi,  figlio, 
Che  colui,  che  a  te  parve  Pantalone, 
Checsaia  è,  il  Sacerdote.  Non  t'abbagli 
Il  cambiamento  suo,  la  fuga  sua. 
Ch'opra  della  tua  maga  è  quanto  apparve. 

Far.  (confuso)  Padre...  Mio  genitor...  come  voi 

qui... 
Come  in  questo  deserto!...  Ah,  caro  padre... 
(  corre  per  abbracciar  h  ) 

ToGR.  Scostati.  Io  fui  tuo  padre,  or  di  tuo  padre 
Sono  lo  spirto,  ed  impalpabii  ombra. 
(  con  voce  piangente  )  Tale  m' ha  reso  il  duol 

d'aver  perduto 
Miseramente  un  figlio.  Ott'anni  piansi, 
Ed  alle  angosce  mie  cessero  alfine 
Le  stanche  membra,  or  muto  in  breve  fossa 
Cener  freddo  ridotte.  È  tua  l'impresa. 

Far.  Ah,  caro  genitore.  Io  dunque  fui 

Morte  del  padre  mio!  Cielo,  che  sento!  (piange) 
Qual  vi  rivedo  qui!  Fu  la  più  bella 
Donna,  ch'unqua  mortale  occhio  vedesse,   » 
Che  qui  mi  tenne.  Ella  è  consorte  mia. 
Due  figli  ebbi  di  lei.  Padre,  tre  giorni 
Son,  che  disparve,  e... 

ToGR.  Non  mi  dir  più  oltre. 


356  LA   DONNA   SERPENTE. 

Abborrirti  dovrei.  Cherestanì, 
Lorda  maga,  ti  tenne.  In  cerva  apparve, 
E  tu  folle...  arrossisco  a  dire  il  resto 
Di  quanto  è  a  me  palese...  inorridisco. 
Se  del  tuo  genitor  dramma,  scintilla 
Di  rispetto,,  e  d' amor  più  senti  al  core, 
Segui  almen  T  ombra  sua,  dirigi  i  passi 
Dietro  alla  traccia  mia;  staccati,  figlio, 
Da  questo  asilo  d'ogni  scelleraggine. 
Di  bruttura,  e  di  vizio. 

Far.  Padre  mio... 

Quanto  sento  dolor  d' aver  perduto 
Un  padre,  come  voi!  Se  v'adorai, 
Se  rispettar  so  l'ombra  vostra,  è  questo 
Il  segno,  ch'io  vi  dò.  Dove  a  voi  piace, 
.Pien  di  rimorsi,  di  dolor,  confuso, 
Seguirò '1  padre  mio.  Cherestanì, 
Rimanti.  Oh  Dio!  qual  forza  a  Famiscad 
È  necessaria,  il  sai. 

ToGR.  Figlio»  ti  lodo. 

Io  ti  precederà;  segui  i  miei  passi,  {è  per  in- 
viarsi, nasce  la  trasforntas[ione  di  Atalmuc 
in  Togrul) 

Far.  {attonito)  Togrul,  Visir!  in  questo  loco!  in 

forma 
Del  padre  mio! 

Togr.   {con   la  propria  voce,  altero)   Principe, 

troppa  forza 
Ha  questa  maga,  e  indarno  opre  fedeli 
Uso,  e  sento  dolore  estremo  invano. 


ATTO   PRIMO.  357 

Far.  Qual  stravaganza,  e  qual  temeritade  ! 

ToGR.  {con  ffrande^^a)  Sieno  le  stravaganze  di 

chi  sono. 
QuJ  con  l'aiuto  di  Geonca  venni, 
L'amico  Negromante,  e  sperai  trarvi 
Dalla  miseria  vostra.  Ah,  ben  mi  disse. 
Che  inyan  m'  affannerei.  Ma,  se  fur  vane 
Le  virtù  di  Geonca,  alfin  vi  mova 
La  verità,  eh'  io  son  per  dirvi.  Morto 
È  l'infelice  padre  vostro.  Il  regno 
Dal  Re  moro,  Morgone,  inesorabile, 
E  assalito,  distrutto.  Le  campagne. 
Gli  alberghi,  i  Tempi  sacri  saccheggiati 
Sono,  e  scorre  per  tutto  il  ferro,  e'I  foco. 
Stupri,  pianti,  rovine,  e  sangue  sparso. 
Che  de' sudditi  vostri  allaga  il  piano. 
Sono  i  trofei  d'un  Principe  accecato. 
Che  in  lunga  inerzia,  in  scellerate  trame 
D'una  vii  maga,  in  odio  a' Numi  eterni. 
Vive  sepolto,  sozzo,  e  al  Cielo  a  schifo. 

Far.  Più  non  dirmi,  Togrul;  basta;  ti  ferma. 

ToGR.  (ardito)  Di  chi  degg'io  temer?  D' un,  che 

s'è  reso 
Inutile  a  se  stesso?  Che  abbandona 

I  sudditi  vilmente?  i  suoi  più  cari 
Sotto  a  barbare  stragi?  Ah,  Farruscad, 
Teflis,  la  capital  città  del  regno 
Fors'ora  è  presa,  e  a  ferro,  e  a  foco  posta« 
Canzade,  valorosa  Principessa, 

II  sangue  vostro,  la  sorella  vostra, 


358.  LA  DONNX  SERPENTE. 

U  unico  affetto  mio,  fors'ora  è  preda 
Del  barbaro  Morgon,  colma  d'angoscia, 
Svergognata  vilmente.  Io  solo...  io  solo 
Posso  far  cor  di  seguitar  gli  avvisi 
Di  Geonca  fedel,  che  mi  promise, 
Che  all'apparir  di  Farruscad  nel  regno. 
Per  non  intese  vie  salvo  fiaU  regno. 
Io  solo...  io  solo  abbandonar  l'amante 
Alla  testa  di  pochi  sbigottiti, 
In  periglio  evidente,  io  sol  potea. 
Per  salvare  il  mio  Re,  serbargli  il  regno. 
Ma  qual  regno!  qual  Rei  L'un  forse  d'altri, 
L' altro  suddito  inetto,  anzi  in  catene 
Di  abbominevol  femmina  sonmiesso, 
Che  di  padre  defunto,  di  sorella, 
Di  trucidati  sudditi,  di  regno 
Più  non  si  cura,  e  del  suo  mal  si  pasce. 
Farruscad,  io  la  via  so  di  qui  trarvL 
Se  le  miserie  altrui,  se'l  vostro  stato 
Non  vi  move,  e  giustizia,  i  Numi  irati 
Temete  un  giorno,  e,  se  non  puossi  alfine 
Nulla  ottener  da  voi,  perdono  almeno 
Un  ministro  fedel,  da  zelo  mosso. 
Che  troppo  ardì  nel  favellarvi,  ottenga,  (^m- 

ginoccMa  ) 
Far.  Togrul,  non  mi  dir  più.  Parti,  ritirati 
Colà  ne' padiglioni,  e  ti  riposa. 
Già  la  notte  è  avanzata.  Io  vo'star  solo 
Qualche  momento  ancor.  Lascia,  ch'io  pensi 
Sulla  sventura  mia.  Io  ti  prometto 


ATTO   PRIMO.  "359 

-  Alla  nuov'  alba  d' esser  teco,  e,  do\'e 

Vorrai,  ti  seguirò. 
XoGR.  Deh  non  perdiamo, 

Signor,  più  tempo. 
Far.  Lasciami.  Riposa. 

Giuro,  che  fra  poche  ore  io  sarò  teco. 
ToGR.  V'ubbidisco,  Signor,  {entra) 

SCENA  NONA. 
Farruscad  solo. 

Oh  qual  tormento!... 
Oh  qual  mente  agitata!  Dovrò  dunque 
Allontanarmi,  perdere  i  mi«i1ìgli. 
La  mia  consorte!  Ah  qual  consorte,  e  quali 
Figli  abbandono  alfin?  Meglio  è,  ch'io  fugga 
Senza  rifletter  più.  M'inorridiscono 
Mille  sospetti,  mille  angosce,  mille 
Passioni  d'amor.  Qui  fosti,  o  cara 
Cherestani,  qui  t' ho  disubbidita,  , 
Qui  sparisti  co'  figli,  e  coli'  albergo 
Di  delizie,  di  gioia.  Ah  quai  delizie? 
Quai  gioie  mai?  Diaboliche  illusioni. 
Padre,  regno,  miei  sudditi  perduti, 
Dolce  sorella  mia,  Canzade  amata. 
Voi  si  soccorra,  e  s'abbandoni  questo 
Duro  asilo  infernale,  aspro,  ed   atroce,   (è  in 

atto  di  partire) 
Ma  qual  fiacchezza,  e  qual  sonno  improvviso 


360  LA   DONNA  SERPENTE. 

M' aissale,  e  mi  trattieni  Non  so  partire... 
Non  so  fermarmi...  e  vorrei  pur...  né  posso... 

(siede  sopra  un  sasso) 
L'inaspettato...  prodigioso  sonno... 
Qualcosa  vuol  da  me.  (s'addormenta) 

SCENA  DECIMA. 

Farruscad,  Cherestanì,  seguito  di  damigelle.  Mentre 
Farruscad  dorme,  s'' andrà  il  deserto  trasformando  in  un 
giardino.  Il  prospetto,  che  sarà  di  macigni^  si  cambierà 
in  un  magnifico  palagio  risplendente.  Tutto  ciò  succederà 
al  suono  d'una  sinfonia  soave,  che  terminerà  sonora  e 
strepitosa.  Allo  strepito  Farruscad  si  risveglierà  attonito. 

Far.  (mirando  intorno)  Come!  ove  sono! 

Qual  dolce  suono!...  (vede  il  palagio;  si  ri^{a 

con  impeto)  Ah  che  l'albergo  è  questo 
Dell'amata  mia  sposa.  Oh  dolce  sogno!... 
Se  pur  sei  sogno,  non    finir  giammai  (corre 
verso  il  palagio^  dal  quale  uscirà    Ckere^ 
stani  vestita  riccamente,  e  con  tutta  la  mae- 
stà. SarÀ  seguita  da  damigelle.  Farruscad 
con  tutto  il  trasporto  segue) 
Cherestanì . . .  Cherestanì . . . 
Cher.  (con  nobile  mestizia)      Crudele! 
Tu  volevi  partir;  dimenticarti 
Della  tua  sposa. 
Far.  Ah,  sappi...  i  miei  ministri... 

Cher.  Sì,  giunti  son  per  torti  all'amor  mio 
Con  arti  portentose,  e  fatte  vane 
Dal  mio  poter. 


ATTO  PRIMO.  361  * 

Far.  Ma  sappi...  il  padre  mio... 

Cher.  Sì,  morto  è  per  dolor  d' aver  perduto 
Farruscad,  il  suo  figlio. 

Far.  Il  regno  mio... 

Cher.  Scorre  di  sangue,  a  foco,  e  ferro  posto. 
Tua  sorella  è  in  periglio.  Ah,  Farruscad, 
Tu  m'amasti,  io  ti  amai;  so,  quanto  io  t'amo, 
So  quanto  grande  è'I  mio  dolor,  ch'io  sono 
Cagion  di  tante  stragi.  Ma  le  stelle, 
Il  destin  mio  crudel  cosi  comanda. 
Sforzata  sono  a  comparir  tiranna 
Per  eccesso  d'amor.  Son  condannata 
A  farmi  sospettar  maga,  deforme. 
Sotto  a  finte  bellezze,  e  tutto  è  amore, 
E'I  più  fervido  amor,  che  a  te  mi  stringe. 

ijnange) 

Far.  Non  pianger,  per  pietà.  Se  tanto  m' anù. 
Perchè  m'abbandonasti? 

Cher.  Perchè  fosti 

Disubbidiente,  e  vuoi  saper,  chi  io  sia. 

Far.  Da  tanto  amor  non  posso  ottener  grazia 
Di  saper,  chi  tu  sia?  di  chi  figliuola? 
D'ond'esci?  di  qual  clima?  Dillo. 

Cher.  Barbaro! 

Non  te  lo  posso  dir.  Quanto  m' affligge 
La  tua  curiosità  1  Cieco  abbastanza 
Non  è'I  tuo  amor  per  me.  So,  che  sospetti; 
Che  ti  lasci  destar  sospetti  ognora 
In  discapito  mio,  per  non  sapere. 
Chi  io  mi  sia,  d' onde  venga,  e  di  chi  nata. 


362  LA  DONNA  SERPENTE. 

Di  tanto  è  offeso  Pamor  mio.  Crudele! 

La  curiosità,  tiranna  tua, 

Pur  troppo  al  nuovo  dì  sarà  appagata, 

Che  la  sentenza  mia,  da  me  voluta 

Per  eccesso  d'amor  per  Farruscad, 

Si  compie  al  nuovo  dL  So,  che  non  hai 

Tanta  costanza  in  cor  da  sofferire 

Quanto  nascer  vedrai  nel  vicin  giorno; 

E  perirà  Cherestanì,  tua  sposa. 

Sorgerai  nuovo  sol  sanguigno  in  vista. 

L'aere  fia  tetro,  tremerà '1  terreno. 

Questo  non  fia  per  Farruscad  più  asilo. 

Egli  saprà,  chi  sono;  indi  pentito 

Piangerà  la  miseria  della  sposa 

Inutilmente,  e  solo  mio  fìa'l  danno,  (piange) 

Far.  No,  amato  ben,  non  piangere...  Ah,  ministrì, 
Vedeste  almen  tanta  bellezza  afflitta. 
Per  scusar  V  amor  mio.  Cherestanì, 
Qual  destin....  qual  decreto....  o  stella.... 

dimmi... 
M'ha  condannato...  te  condanna...  Oh  misero! 
Dimmi  più  oltre  per  pietà. 

Cher.  Non  posso 

Più  oltre  ragionar.  Per  troppo  amore 
Sono  a  te  di  tormento,  a  me  d'angoscia. 
Farruscad,  io  ti  prego,  al  nuovo  giorno. 
Giorno  per  me  terribile,  con  pace 
Sofiri  quanto  vedrai.  Non  aver  brama 
Di  saper  la  ragion  di  quanto  vedi; 
Non  la  chieder  giammai.  Credi,  ogni  cosa 


ATTO  PRIMO.  363 

Nascerà  con  ragion.  Ma  sopratutto, 

Per  quanto  nascer  vedi,  mai  non  esca 

Dalla  tua  boc(;a  verso  la  tua  sposa 

La  maladizion.  Ahi  so,  ch'io  chiedo 

L'impossibile  a  te.  (piange) 
Far.  (agitato)  Di  quanti  arcani, 

E  di  quanti  spaventi  mi  riempi! 

Non  ho  più  lume...  un  disperato  io  sono. 
Ch£r.  (pigliandolo  per  una  mano  con  isviscera- 

te^^a)  Deh  dimmi,  al  nuovo  giorno  soffrirai 

Quanto  nascer  dovrà? 
Far.  Soffrirò  tutto 

A  costo  della  vita. 
OiKR.  Ah  no,  m'inganni; 

So,  che  noi  soffrirai.  Deh  dimmi...  dimmi... 

A  quanto  nascerà,  t'indurrai,  crudo, 

A  maladirmi? 
Far.  In  questo  seno  un  ferro 

Prima  mi  pianterò. 
Cher.  (con  impéto)  Giuralo...  (con  agita:{ione) 

Ah  no, 

Noi  giurar,  Farruscad;  sarai  spergiuro; 

E'I  giuramento  tuo  per  me  è  fatale. 
Far.  A' più  sacri  del  Ciel  Numi  lo  giuro. 
Gher.  (staccandosi  agitatissima)  Barbaro!...  Oh 
Dio!...  Fatale  giuramento. 

Io  pur  trarti  dovea  da  quelle  labbra... 

Compiuta  è  la  sentenza,  il  rio  destino. 

Farruscad,  l'esser  mio  tutto  dipende 

Dalla  costanza  tua,  dal  tuo  coraggio: 


364  Lk  DONNA  SERPENTE. 

Io  già  perduta  son  ;  che  V  amor  tuo 
Non  giugne  a  vendicarmi.  (  ripigliandolo  per 
la  mano)  Amato  sposo, 

10  ti  deggio  lasciar. 

Fae.  No...  perchè  ingrata?... 

Deh  non  abbandonarmi  I  fìgli  miei, 

Dimmi,  ove  sono? 
Cher.  Al  vicin  giorno  i  figli 

Vedrai,  non  dubitare.  Oh  fossi  cieco 

Per  non  vederli  1 
Far.  Qeco!  Come!...  Oh  Dio! 

SCENA  UNDECIMA. 
Farzana,  seguito  di  damigelle,  Farruscad,  Cherbstaiiì. 

Farz.  Cherestanì... 

Cher.  Si,  morto  è'I  padre  mio; 

Di  qua  principio  hanno  le  mie  sventure. 
Misero  padre!...  (piange) 

Farz.  Ornai  del  vostro  nome 

Suona  ogni  lido.  U  popolo  affollato 
Chiama  Cherestanì,  Cherestanì. 
Voi  sua  Regina  vuole.  U  regno,  il  trono 
Per  voi  sta  pronto.  I  sudditi  in  affanno 
Chiedon  Cherestanì;  più  non  tardate. 

Cher.  Farruscad,  io  ti  lascio.  In  parte  udisti. 
Chi  mi  sia,  ma  non  tutto.  È  ignoto  al  mondo 
U  regno  mio;  ma  di  più  doppi  avanza 

11  regno  tuo  di  Teflis.  Va,  riposa, 


ATTO   PRIMO. 


365 


Se'I  puoi,  sino  al  novello  giorno,  e  poi 
Abbi  costanza,  e  cor.  Ah  non  avanzano 
Le  angoscie  tue  della  tua  sposa  i  mali,  (entra 
nel  palagio  con  le  damigelle  e  Pantana  ) 
Far.  (seguendola)  Io  vengo...  io  vengo ...  morir 

teco  io  voglio... 
Non  mi  fuggir.  (  mentre  è  per  entrare  nel  pa- 
lagio odonsi  tuoni j  fulmini,  è  terremoto. 
Sparisce  il  palagio^  e  ^l  giardino,  rimane 
il  primo  deserto  in  somma  oscurità.  Farru- 
scad  disperato  colle  mani  spinte  innanzi 
segue  ) 

Misero  me!  che  penai 
Qual  doglia  è  questa  !  Oimè,  ministri,  oh  Dio 
Cherestan!  è  Regina,  è  d'uom  mortale 
Nata.  Deh  udite  maraviglie,  udite,  (entra) 


ATTO  SECONDO 

Il  Teatro  rappresenta  il  solito  deserto. 


SCENA  PRIMA. 
BftiGUBLLA  e  Truffaldino. 


Xruff. 


ICEVA  a  Brighella  d' aver  udita 
una  gran  confusione  quella  notte 
tra  la  vigilia,  e'I  sonno;  chie- 
deva, s'egli  aveva  udito  nulla.  Brig.  Che'l 
cibo  e  i  vini  perfetti  l'avevano  fatto  dormire 
profondamente;  benediceva  il  punto  del  suo 
arrivo  in  quel  luogo,  dove  si  trovava  tanta 
abbondanza.  Rifletteva,  che,  se  anche  i  cibi 
erano  infernali,  il  loro  sapore  era  delicato  a 
segno,  che  non  si  curava.  Truff,  Aggiungeva, 
che  in  quel  deserto  si  stava  assai  meglio,  che 
nelle  città.  Faceva  ima  satira  sui  disturbi,  e 
sui  costumi  delle  città,  massime  sulla  corte,  e 
s[)ezialmente  sulla  penosa  vita  de' servi.  Brig. 
Accresceva  sopra  questo  proposito.  Truff.  Ad- 
duceva  il  gran  disturbo  de' servi  nelle  comme- 


368  LA    DONNA   SERPENTE. 

die,  che  piacevano  a^padroni,  e  a' servi  na 
A  lui  piaceva  T  Arlecchino,  a' padroni  no.  Lo 
faceva  ridere  ;  i  padroni  dicevano,  che  il  rìdere 
delle  buffonate  di  quel  personaggio  era  una 
scioccheria.  Se  dovesse  ficcarsi  degli  aghi  nelle 
natiche  per  non  ridere  a  ciò,  che  lo  faceva  ri- 
dere. Brig.  Che  certo  quello  era  un  gran  di- 
sturbo. Che  quando  le  maschere  dicevano  nella 
commedia  delle  cose,  che  lo  facevano  rìdere, 
conveniva  per  la  vergogna,  eh'  egli  ridesse  sotto 
al  tabarro.  Truff,  Ch'egli  aveva  vedute  mol- 
tissime Dame,  e  moltissimi  Cavalierì  rìdere 
senza  vergognarsi;  che  tuttavia  è  contento 
d'esser  partito  da  un  mondo,  che  sosteneva 
un'incomoda  serietà  in  apparenza,  e  in  so- 
stanza era  assai  ridicolo.  Quella  solitudine  gli 
piaceva,  ec.  Proponevano  di  fare  una  cola- 
zione, perchè  l'aere  era  perfetto,  e  gli  aveva 
fatti  digerire.  Contrastavano  sulla  qualità  dei 
cibi,  che  si  dovevano  chiedere  al  diavolo.  Brig. 
Voleva  una  merenda  polita  con  salse,  ecc 
Truff,  Voleva  una  merenda  da  veneto  corti- 
giano, ecc.  Entravano  alquanto  discordi  sopra 
questo  punto.     > 

SCENA  SECONDA. 
Pantalomb  e  Tartaglia. 

Questi  due  personaggi  uscivano  spaventati  per  il 
tremuoto  udito  quella  notte.  Tart  Aveva  udito 


ATTO  SECONbi/.  369 

piovere;  aveva  posta  unainano  fuori  delpacfi- 
glione,  e  dalle  goccie  si  era  avveduto,  che 
la  pioggia  era  d'inchiostro;  mostrava  i  segni. 
Pani.  Faceva  delle  osservazioni,  confermava^  un 
tal' accidente;  si  spaventava.  Tart  Aveva  udito 
tutta  la  notte  civette  ululare.  PanL  Aveva  uditi 
cani  ad  urlare.  Tart  Ch'era  da  consolarsi, 
perchè  Togrul,  Visir,  lo  aveva  accertato,  che 
al  levar  del  sole  il  Principe  era  disposto  a  par- 
tire da  quel  diabolico  paese.  Pant  Guardava 
l'oriente;  vedeva  sorgere  il  sole  come  sangui- 
noso; si  spaventava.  Tart  Accresceva  gli  spa- 
venti scorgendo  alberi  secchi,  montagne  cam- 
biate di  luogo,  ruscelli  scorrere  d' acque  pavo- 
nazze,  ed  altri  segni  di  spaventevoli  auguri. 
Volevano  fuggire,  non  volevano  abbandonar  il 
Principe. 

SCENA  TERZA. 
Fakruscad,  Togrul  e  detti. 

ToGR.  Nulla,  Signor,  di  quanto  mi  narraste 
La  risoluzion  vostra  infiacchir  deve. 
Anzi  accrescer  de'  fretta  alla  partenza. 

Far.  Togrul,  turbato  son  sì  crudelmente,  * 
Che  vigore  non  ho.  Soggetto  sono 
A  imminenti  sventure;  io  vo' soffrirle. 
Sorgerà  '/  nuovo  sol  sanguigno  in  vista. 
Sì  mi  diss'ella,  ed  ecco  il  sol  sanguigno. 

Gozìa.  24 


yjO  t  LA   DONNA   SERPENTE.* 

U  aere  fia  tetro,  tremerà  ^l  terreno. 
Tremò '1  terreno,  e  l'aere  è  oscuro,  e  tetra 
Questo  non  fia  per  Farruscad  più  asilo: 
So,  che  non  mancherà;  dovrò  seguirtL 
Ma  sopratutto...  orribili  parole, 
Strazio  al  mio  corei  Odile  ancora:  udite: 
Tu  saprai,  cW  io  mi  sono,  e  poi  pentito 
Piangerai  la  miseria  della  sposa 
Inutilmente,  e  solo'  mio  fia  'l  danno. 

ToGR.  Arti  d'inferno,  crudeltadi,  inganni 
Da  fuggir  tosto.  Di  partir  giuraste, 
■  Vi  risovvenga.  Questa  incantatrice 
Il  Re  moro,  Morgone  favorisce. 
Per  le  più  strane  vie  cerca  la  strage 
Del  vostro  regno,  e  vostra.  Vi  scuotete. 

Pant.  {a  T-art.)  Mi  son  contamina  a  veder  sto 
povero  putto  redotto  una  spezie  de  stolido. 
Assistilo  vu;  che  mi  son  tanto  fiosso,  che  no 
so  bon  da  altro,  che  da  pianzer. 

Tart.  {a  Pant.)  Siamo  qui  tre.  Truffaldino  e 
Brighella  doverebbero  essere  qui  d' intorno.  In 
cinque  potressimo  legarlo,  e  portarlo  via: 

Fati,  {da  se)  Farruscad,  io  ti  prego  al  nuovo 

giorno 
Soffri  quanto  vedrai  I  Non  aver  brama 
.  Di  saper  la  ragion  di  quanto  vedi. 
Non  la  chieder  giammai!  Credi;  ogni  cosa 
Nascerà  con  ragion.  Al  nuovo  giorno 
I  figli  rivedrai,  ma  oh  fossi  cieco 

^     Per  non  vederli!  {con  entusiasmo  agli  astanti) 


ATTO 'SECONDO.  37I 

,     Amici...  Amici...  Oh  Dio! 
Chi  mi  sa  dir  ciò,  che  dovrò  soffrire? 

SCENA  QUARTA. 

(  Dopo  un  lampo  ed  un  tuono  strepitoso  ) 

Bbdrbdino,  Rbzia  fanciulli  e  detti, 

Pant.  (^allegro)  Soffrir!  Soffrir!  cossa?  Veli  qua 
le  mie  raise,  i  mii  cocoli.  {corre  ad  abbrac- 
ciarli) Cocoli,  cocoli,  cocoli,  no  me  scamperè 
mìga  più,  vede,  scagazzeri. 

Far.  Figli  miei,  cari  figli!  Ah  ben  mi  disse 

La  madre  vostra,   eh'  io  vi  rivedrei.    (  Bedre- 
dino  e  Rei^ia  baciano  le  mani  a  Farruscad) 

ToGR.  (a    Tari.)  Che  avvenenti  fanciulli!   Quai 

portenti  ! 
Son  fuor  di  me. 

Tart.  Io  sono  di  stucco  !  Come  diavolo  sono  giunti 
qui  questi  belli  piscia  a  letto? 

Far.  Rezia,  mia  figlia,  dì,  dov'è  la  madre? 

Rez.  Padre,  la  genitrice...  Bedredino, 
Sai  tu,  dov'ella  fosse?' 

Bedr.  Eli' era,  padre. 

In  un  palagio  luminoso,  e  grande. 
Coronata  Regina,  in  mezzo  al  suono 
Di  ben  mille  strumenti,  e  tante  grida 
Di  voci  allegre,  che  m'  aveano  fatto  '  ' 

Tanto  di  testa.  Ma  non  saprei  dirvi, 
Qual  città  fosse  quella* 


37^  LA  DONNA  SEKPKSTK, 

Rbz.  Eravam,  padre, 

Io  e  Bedredino  in  una  bella  stanza 
Con  cento  servi.,.  Oh  se  veduto  aveste! 

Far.  Come  giugneste  qui? 

Bedr.  Rezia,  lo  sai? 

Rbz.  Lo  so,  come/1  sai  tu.  Credo,  che  un  vento 
Sia  quel,  che  ci  ha  portati  in  un  balena 

Pant.  (a  Togr.  e  a  Tart)  Sentiu,  che  negozi  1 
Un  vento,  un  vento. 

Far.  Che  vi  disse  la  madre?  Che  diceva 
Pria  del  vostro  partir? 

Rez.  La  madre  venne 

A  ritrovarci  nella  stanza  nostra. 
Ci  guardò  fisi,  e  sospirò.  S' assise 
Sopranna  sedia;  e  poi  si  mise  a  piangere 
Dirottamente.  Noi  corremmo  a  lei, 
Le  prendemmo  le  man,  gliele  baciammo. 
Ella  accrebbe  il  suo  pianto.  Un  braccio  al  collo 
Pose  di  Bedredin,  T  altro  sul  mio. 
Colla  bocca  or  al  viso  del  fratello, 
Ora  sul  mio  s'abbandonava.  Oh  Dio, 
Quanto  piangeva  mail  Tutti  eravamo 
Di  lagrime  bagnati.  Io  fui  la  prima, 
E  piansi  anch'io  con  lei,  poi  Bedredino 
Pianse  anch' ei,  non  è  ver?  Piangemmo  tutti 
Senza  saper  perchè. 

Far.  Cieli  che  avverrà! 

Quai  parole  vi  disse? 

Bedr.  Spaventose. 

Ite  al  padre,  ci  disse,  ah  miserabili!... 


.     ATTO  SECONDO*  373 

Io  mi  sento  morir.  Figli  infelici, 
-Oh  non  v'avessi  partoriti l  Oh  quanto 

SofBrir  dovrete!  Oh  quanto  vostra  madre 

Crudel  sarà  con  voil  Con  sé  medesma 

Quanto  cruda  sarà!  Mi  precedete; 

Ite  allo  sposo,  al  padre  vostro;  ch'io 

Fra  poco  giugnerò.  Ditegli,  quanto 

Piansi  sopra  dì  voi.  Ciò  detto,  ignota 

Forza  in  aere  ci  spinse,  e  qui  giugnemmo 

Ripieni  di  spavento,  (piange) 
Rez.  Ah,  Bedredino; 

Tu  piangi,  e  sei  càgioii,  che  pianga  anch'io: 

Non  mi  posso  tener.  Deh,  caro  padre, 

Salvaci  per  pietà  della  miseria. 

Che  ci  sta  sopra,  (piange) 
ToGR.  Farruscad,  Signore, 

A  che  tardar?  Che  attendere?  Si  salvino 

Le  vostre  carni,  e  usdam  da  quest' aveino. 
Far.  Qui  attender  vo'la  mia  disgrazia  fermo. 

La  sposa  mia  disubbidir  non  vogHo. 
Pant.  (risoluto)  Tartagia,  deghe  man  a  quel  put- 

tello;  mi   custodirò  sta  nonola.   Si,  minchio- 

nazzi,  semio  indormenzai  qua?  (va  per  pigliar 

Re^ia) 
Tart.  Pantalone,  si  rompa  il  collo  chi  si  pente. 

(  va  per  pigliar  Bedredino.  Odesi  tr^muotOi  e 
"    dopo  alcun  prodigio  apparisce  Cherestanty  cQ" 

ronata  Regina  con  seguito  di  damigelle^  e  di 

guardie.  Tutti  si  spaventano) 


374  ^^  DONNA   SERPENTE, 

SCENA  QUINTA. 
Chbrestanì,  segtiito  e  detti 

Pant.  Vela  qua,  vela  qua  per  diana,  sta  striga; 

no  semo  più  a  tempo,  (si  ritira  al  suo  posto) 
Tart.  Rompiti 'l  collo,  che   sei  pentito  prima  di 

me.  (si  ritira  al  suo  posto) 
Cher.  Fermatevi.  Non  puossi  a'  grand'  arcani 

Della  nascita  lor  tor  queMue  figli. 
ToGR.  (da  se)  Quanta  bellezza!  Quanta  maestade! 

Io  scuso  il  mio  Signor. 
Cher.  Miei  cari  figli, 

'     Care  viscere  mie. 
Rez.  (pigliandola  per  una  mano  supplichevole  ) 

Che  mai  t' affanna,  a  che  piangi,  a  che  piangi? 
Cher<  (piangendo  sempre)  Anime  mie...  ciòcche 
non  voglio...  voglio... 

Deggio  voler...  ciò,  che  voler  non  posso... 

Piango  per  voi...  per  me...  pel  padre  vostra 
(gli  abbraccia^  e  bacia  piangendo) 
Far.  Non  mi  tener,  Cherestani,  più  oppressa 

Quai  lagrime  son  queste?  A  che  soggetti 

Vanno  i  miei  figli?  A  un  colpo  sol  mi  leva 

Almen  la  vita;  più  non  tormentarmi 
Tart.  (basso)  Che  arcani  sono  questi,  Pantalone? 
Pant.  Arcani,  che,  se  no  schioppo  ancuo,  no  moro 

mai  più. 
Cher.  Farruscad,  ti  sovvenga  il  giuramento 


ATTO   SECONDO.^  375 

Tu  cominci  a  mancar.'  Non  chieder  mai 
Ragion  di  quanto  vedi.  Taci  sempre. 
Deh  non  mi  maledir.  Se  in  questo  giorno  , 
Avrai  costanza,  avrai  coraggio,  credi,    . 
Sarai  contento  appien.  Per  amor  tuo  ^     , 

Nasce  ciò,  che  vedrai.  Di  più  non  posso 
Dirti.  Ammutisci.  Guarda.  Sofifri  tutto. 
Credi,  ch'io  sia  tiranna  a  me  medesma 
Più,  che  non  sono  a  te.  Di  qua. comincia 
n  crudo  punto,  {smaniosa  e  piangente)  Oimè 
dolente!  Ahi  figli! 
(Apparirà  nel  fondo  al   teatro  una  vora^ 
gine,  da  cui  uscirà  una  grandissima  fiamma 
di  fuòco,   Cherestam   volta  a' suoi  soldati 
seguirà  con  impero) 
Soldati,  entro  all'ardente  orrida  fiamma 
Que' figli  miei  senza  pietà  scagliate,  (si  copre 
la  faccia  per  non  mirar  lo  spettacolo) 
Rez.  Aiuto,  padre. 

Bebr.  Padre,  padre...  Oh  Dio.  (i  due 

fanciulli  fuggono  dentro,  due  soldati  gVin-" 
seguono) 
ToGR.  Qual  crudeltà!  non  si  permetta  questo. 
(trae  la  spada;  rimane  incantato) 
Pant.  Per  amor  tuo  nasce  ciò,  che  vedrai!  Fer- 
meve,  fermeve,  fermeve,   cagadonai.  (sfodera 
V arma;  rimane  incantato) 
Tart.  Lascia  fare  a  me,  Pantalone,  (rimane,  come 
gli  altri.  Escono  i  due  soldati,  i  quali  avranno 
due  bambocci,  simili  ai  due  ragajp,.  gli  scor- 


37^  Là  dònna  serpente. 

glieranno  nella  voragine  di  fuoco.    Udrann 

^  le  strida  de^  raga^^i  di  dentro.   Si  chiuderà 

la  voragine) 
Pant.   Oh   squartada,  squartadal   Oh  che   mare! 

Povere  le  mie  raise!  (piange) 
Tartv  Oh  saette,  saette,  arrostite  anche  la  madre 

st^egona,  frìjfgetela,  friggetela. 
ToGR.  Son  fuor  di  me.  Deh  per  pietà  fuggiama 
Far.  {a  Cher.)  Crudel... 
Chbr.  .  Taci,  non  più,  deh  ti  ricorda 

Del  giuramento  tuo.  Perdono  io  chiedo 

Delle  mie  tirannie.  Già  s'avvicina 

Al  punto  più  crudel  la  tua  consorte. 
'    Farruscad,  di  qui  parti.  In  queste  piagge 

Più  albergo  non  avrai  Vanne  al  tuo  regna 

Sappi,  eh'  egli  è  neir  ultima  sciagura. 
'    La  tua  presenza  è  necessaria  in  quello. 

Verso  quel  poggio  co'sieguaci  tuoi 

Veloce  il  passo  movi.  Ignota  forza 

Vi  leverà,  né  paventar  di  nulla. 

Gravi  sventure  troverai;  ma  sappi. 

Che  le  sventure  mie  saran  più  gravi. 

Ci  rivedremo  ancor,  ma  forse^..  barbaro, 

Per  tua  cagion  vedrai  l'ultima  volta 

In  aspetto  a  te  grato  la  tua  sposa. 

Mi  mancherai  d'  amor,  di  fé,  spergiuro; 

Per  viltà  estrema  tua  sarò  a  me  stessa 

Per  il  corso  de' secoli,  e  a' viventi 

Miserabile  oggetto,  orrido,  e  schifo,  (co»  prò- 
digiosi  lampij  e>  tuoni  sparisce  Cherestam, 


ATTO  SECONDO.  377 

e^l  suo  seguito.  Rimangono  gli  altri  spaven^ 

tati,  ed  attoniti) 
Pant.  Ghe  ne  vorla  de  più?  Se   fermela  a  aspet- 
tar, che  i  ghe  brusa  el  cesto  anca  a  olla? 
Tart.  Se  non  mi  tagliano  le  gambe,   io  non  mi 

fermo  più  certo. 
ToGR.  Scuotetevi,  o  Signore;  a  che  tardate? 
Far.  (scuotendosi)  Oh  infemal  piaggiai  Oh  figli 

miei  perduti! 

Dolor,  che  non  m'uccidi?  Amici,  al  poggio. 

Me  maladico,  non  la  sposa  mia. 

Fuggiam  di  qua:  soccorso:  al  poggio,  al  poggio.  . 
(entra  con  Togrul,  che  lo  segue) 
Tart.  Al  poggio.   Corri,  Pantalone,  che   ecco  la 

strega,  (entra) 
Pant.  Mo  no  la  me  toccherà  miga  le   tavemelle, 

vede  (entra) 


SCENA  SESTA. 
Tkuffaldino  e  Brighella. 

Elscono  inorrìditL  Hanno  chiesti  de' soliti  cibi,  e 
sono  loro  comparsi  rospi,  scorpioni^  serpenti  ec. 
Riflettono,  che  '1  paese  si  è  cambiato.  Non  ve- 
dono i  compagni.  Gli  scoprono  in  lontana  Con 
grida  gli  seguono. 


37^  LA.  DONNA   SERPENTE. 

SCENA  SETTIMA. 
Il  Teatro  cambia,  e  vedesi  una  Sala  delia  Reggia  ia  Teflis. 

Smeraldina  e  Canzadb  sono  armate,  e  vestite  da  Ama:^iom. 

Smer.  {colla  scimitarra  alla  mano)  Mi  trema  il 
cor.  Panni  di  aver  ancora 
QueMiavoIi  alle  spalle.  Io  credo  certo 
D'averne  uccisi  almeno  cinquecento; 
Ma  sono  un  mare.  Oh  Dio,  la  mia  pa4rona 
Non  vedo  comparir.  Canzade  mia, 
Principessa  adorata.  Ah  voi  voleste 
A  troppo  esporvi.  Sempre  fiera,  sempre 
Por  la  vita  a  periglio.  Figurarsi, 
Con  mille  soli  assalir  tutto  il  campo 
Di  centomila,  e  più  soldati  Mori, 
Che  non  hanno  pietà  1  Chi  sa,  qual  strage 
Della  misera,  han  fatto  !  Se  Morgone 
L'ha  fatta  prigioniera,  addio  Canzade. 
Un  gigantaccio  egli  è,  che  con  la  testa 
Spezzerebbe  un  pilastro.  Figurarsi, 
Se  Canzade  sta  fresca  1 

SCENA  OTTAVA. 
Canzadb  e  Smeraldina. 

Canz.  (  colla  scimitarra  ignuda)  Ah,  Smeraldina! 
Siamo  perdute. 


ATTO  SECONDO.  ^  379 

Sher.  Oh  cara  figlia  mia... 

Ciel  vi  ringrazio...!  Come  vi  salvaste? 
Che  vi  successe  al  campo?  Ove  scorreste? 

Canz.  Rabbia,  furor,  disperazion  mi  spinse. 

Tanto  il  destrier  spronai,  che  giunsi  al  centro 
Delle  truppe  nimiche,  con  la  spada 
Facendomi  la  via,  spingendo  a  terra 
Cavalli,  e  cavalier  morti,  e  feriti. 
Qui  cieca  d^ra  con  la  voce  altera 
Del  barbaro  Morgon  chiamava  il  nome, 
Sol  per  morire,  o  per  troncar  dal  busto 
L'orrida  testa,  d'ogni  mal  cagione. 
Vidi'l  gigante,  e  disdegnosamente 
Or  a  fianchi,  or  a  fronte,  di  fendenti. 
Di  punte,  di  rovesci,  e  mandiritti 
Caricai  quel  feroce.  Ei  colpi  vani 
Della  ferrata  mazza  disperato 
Menava  all'aria.  Il  mio  destrier  veloce 
Saltar  facendo,  a  vuoto  egli  feria. 
Già  di  più  piaghe  sanguinoso,  irato 
Ruggìa,  come  leon.  Quando  un  torrente 
De' suoi  sopra  mi  furo,  e  tante  spade, 
E  tanti  dardi  ebbi  d' intorno,  e  in  capo, 
Che  morta  mi  credei.  Morgone  amante, 
Benché  irato,  e  ferito,  minacciava 
Chiunque  mi  feria,  che  prigioniera, 
E  in  vita  mi  voleva.  Allor  ben  vidi. 
Che  follemente  era  trascorsa,  e  invano. 
Spinsi 'I  destriero,  e  insuperabil  cerchio 
Di  soldati  spezzai.  Gli  spron  battendo. 


380  LA  DONNA  SERPENTE. 

E  col  ferro  fischiando,  al  ponte  giunsL 
Innumerabil  torma  di  nìmici 
Confusamente  sopra '1  ponte  arriva, 
E  cadérmi  '1  destrier  tagliato  V  anche 
Mi  sento  in  dietro.  Disperata  il  brando 
Contro  al  ponte  rivolgo,  e  con  più  colpi. 
Dal  grave  pondo  di  destrieri,  e  Mori 
Aiutati,  le  tr^vi  crepitando. 
Cavalli,  Cavalieri,  e  travi,  ed  asse 
•    Furon  nel  fiume,  ed  io  ghermii  ben  forte 
Del  ponte  una  catena,  indi  soccorsa 
Da' miei  soldati  a  salvamento  giunsi. 

Smer.  Voi  mi  fate  tremare.  Io  più  sollecita 
^  Volli  salvar  la  vita,  e,  come  morta. 
Vi  piangeva  qui  sola.  Il  Cicl  ringrazio 
Di  vedervi  ancor  viva. 

Cànz.  Ah  ancor  per  poco 

Viva  mi  vederai.  Morgon  sdegnato 
Sta  preparando  il  campo,  e  vuol  che  in  oggi. 
Presa  sia  la  città.  Non  v'  è  speranza 
Di  difendersi  più.  L'amante  mio, 
Togrul,  più  non  si  vede.  Mio  fratello 
Già  perduto  sarà..  Preda  fra  poco 
Di  quel  barbaro  Moro,  orrido,  atroce. 
Sarà  Canzade,  e  prima  d' esser  sua 
Con  un  pugnai  trapasserommi  il.  sena 

Smer.  (guardando  dentro)  Signora...  Ah,  che  mai 
vedo!  Ecco  il  fratello. 
Ecco  il  Visir  Togrul.  E  viva,  e  viva. 


ATTO  SBGONDO.    '  38 1 

SCENA  NONA. 
Farauscad,  Togrul  e  dette. 

Canz.  Farruscad,  Visir,  qual  man  celeste 
V  ha  qui  condotti?  Ah  tardi  siete  giunti. 

{piange) 

ToGR.  Vi  rallegrate,  Principessa. 

Far.  Suora, 

Non  accrescete  al  mio  dolor  col  pianto 
Crudi  rimorsi.  Ah,  queste  soglie...  Tutto 
Mi  risveglia  alla  mente  il  padre  mio. 
Per  mia  colpa  già  estinto,  e  mi  rimprovera. 
Io  mi  sento  morir,  {piange) 

Smer.  Signor,  Togrul  : 

Ch'è  di  Tartaglia?  Di  Brighella?  Il  vecchio 
Pantalon,  Truffaldino,  sono  morti? 

ToGR.  No,  vivi  sono,  e  son  nell'altre  stanze, 
Che  narrano  a' ministri  i  nuovi  casi 
De'  lor  viaggi. 

Smer.  Oh  vo'  sentirli  anch'  io. 

Truffaldin  vivo!  Uh  che  allegrezza  è  questa l 

{entra) 

SCENA  DECIMA. 
Farruscad,  Canzadb  e  Tooruu 

ToGR.  Farruscad,  Principessa,  in  pianti  vani 
Non  vi  perdete.  Al  minor  mal  si  pensi 


382  LA  DONNA  SERPENTE. 

Far.  Dimmi,  sorella  mia,  Canzade  amata, 
Dimmi,  in  qual  stato  è  la  città;  mi  narra. 

Canz.  Perduta  è  la  città.  Già  s'apparecchia 
L'ultimo  assalto  da  Morgon  feroce. 
Più  difesa  non  v'è.  Morti  i  soldati 
Son  quasi  tuttL  Per  l'assedio  crudo 
D'inedia,  e  fame  mezzi  i  cittadini 
Languendo  estinti  son.  Mancati  i  cibi, 
I  destrier  fiiron  cibo,  indi  ogni  cane 
Ogni  animai  domestico  fu  cibo. 
Che  più?  m'inorridisco.  Uomini  morti 
Cibo  furo  a'  viventi,  e  padri  a'  figli, 
E  figli  a'  padri,  pi  alle  mogli  furo 
Delle  ingorde,  e  per  fame  empie  mascelle, 
Abbominevol  pasto,  orrido,  e  fiero. 
Pianti,  ulutati,  e  maladizioni 
Pe' desolati  alberghi,  e  per  le  vie 
S' odon  reiterar  sopr*  al  tuo  capo. 
Conta  la  vita  tua,  la  vita  mia, 
De' pochi  tuoi  fedeli,  che  respirano 
Per  poco  ancora,  e  poi  tutto  è  perduto. 

ToGR.  Farruscad,  che  vi  dissi? 

Far.  Ah,  taci,  taci; 

Non  caricarmi  di  maggiore  angoscia; 
Sento  eh'  io  mi  distruggo.  Miei  fedeli 
Sudditi,  padre  mio,  non  dimandate 
Altra  vendetta  al  Ciel,  ch'io  son  punito  {piange) 

Canz.  Fratel,  non  soffro  di  vederti  in  tutto, 
Disperato,  ed  afiUtto.  Una  speranza 
Sola  ci  resta  ancor.  Badur,  Ministro, 


ATTO  SECONDO.        '  383 

Mi  promise  soccorso  alla  cittade. 

Per  incognite  vie  lungi  è  più  miglia 

Ito  per  provveder  di  vettovaglia 

AU*  oppressa  città.  Forse  ristoro 

Recherà  a' cittadini.  Ancor  potremo 

Colla  tua  forza,  e  con  Togrul  amico 

Respinger  questi  Mori.  Può  star  poco  s 

Badur  a  ritornar.  Oh  voglia  il  Cielo, 

Che  salvo  arrivi,  e  vettovaglia  porti; 

ToGR.  Io  non  dispero  ancor.  So,  che  Geonca, 
Il  Negromante,  certo  mi  promise, 
Che  all'arrivar  di  Farruscad  nel  regno. 
Per  non  intese  vie  salvo  fia'l  regno. 
La  non  intesa  via  forse  fia  questa. 

Far.  (guardando  dentro)   Non  è  questi  Badur? 

Ben  lo  ravviso. 
Badur...  Badur...  dì,  rechi  morte,  o  vita? 

SCENA  UNDECIMA. 

Badur,  due  soldati  e  detti.  I  due  soldati  avranno  sopra 
due  bacili  parecchie  bottiglie  di  liquori, 

Bad.  {con  sorpresa)  Voi  qui.  Signori 

Far.  Si  ;  non  mi  chieder  questo. 

Narrami  pur,  se  rechi  alcun  ristoro, 

O  se  uccider  mi  deggio.  Dimmi...  dimmi... 
Bad.  Nuove  di  morte,  e  d' inauditi  casi 

Solo  posso  recar. 
Canz.  Oimè,  che  fial 

Dì;  vettovaglia  non  recasti  in  Teflis? 


384  LA   DONNA  SERPENTE. 

Bad.  Io  la  recava  già;  ma,  oh  Ciel,  che  vidi! 
A  me  impossibil  par  ciò,  che  m'avvenne. 

ToGR.  Narralo,  a  che  tardar? 

f*AR.  Via  dì;  finisci 

Di  troncar  questa  vita. 

Bad.  a  salvamento, 

Di  carnami,  di  biade,  e  vini,  copia 
Di  carriaggi  io  conduceva  in  Teflis. 
Di  Cur,  il  fiume,  lungo  alla  riviera 
Chetamente  venia,  quando  assalito 
Da  immensa  schiera  di  soldati  io  fui. 
Non  eran  di  Morgon,  ma  gente  indomita, 
Da  me  non  conosciuta,  in  ricche  vesti 
D' oro,  e  gemme  splendenti,  ed  alla  testa 
Una  Regina  avea,  che  di  bellezza 
Avanzava  ogni  donna.  Ella  gridando 
A' suoi:  su,  miei  soldati,  si  distrugga 
Tutta  la  vettovaglia,  e  chi  s' oppone. 
Perchè  non  sia  distrutta.  In  un  momento 
Fummo  assaliti,  e  i  pochi  miei  poterono 
Poca  difesa  far.  Quella  crudele 
Nel  fiume  Cur  fece  scagliar  carnami, 
Biade,  vin,  pane,  e  tutto  ciò,  che  aveva 
Con  tanta  pena  quasi  in  porto  tratto. 
Dopo  innanzi  mi  venne,  e  fiera  in  vista 
Mi  disse:  A  Farruscad,  eh'  è  mio  consorte^ 
Porta  la  nuova,  e  di,  che  l'opra  è  mia; 
Indi  è  co'suoij  come  balen,  sparita. 
Meco  avea  cento,  e  novant'otto  furo 
Trucidati  a  furor.  Con  questi  due 


ATTO  SECONDO.  385 

Potei  salvarmi  appena,  e  della  tanta 

Vettovaglia,  Signor,  potei  salvare 

Quel  solo  avanzo  di  liquor,  {mostra,  le  botti- 

glie)  che  puote 
Darvi  alquanto  vigor;  perduto  èV  resto. 

ToGR.  Barbara  incantatricel  Ogni  speranza. 
Di  vita,  e  regno. ella  v'ha  tolto.  Ah,'l  dissi, 
Che  quella  maga  infame  il  Re  Morgone 
Favoria  con  gP  incanti,  e  che  gli  arcani 
Avrieno  fin  col  torvi  il  padre,  il  regno, 
I  sudditi,  ogni  asilo,  e  alfìn  la  vita.  ^ 

Canz.  Qual  sposai...  Qual  barbariel  Ah,  che  ma 

sento  1 
Morti  siamo,  frateL 

Far.  {disperato)  Tacete  tutti. 

Più  non  mi  tormentate.  Or  apro  gli  òcchi, 

E  tardi  gli  apro;  che  non  v'è  più  scampo. 

Qui  m'inviò  quella  spietata,  e  volle, 

Ch'  io  nell'  ultima  strage  immerso,  afflitto, 

Con  gli  occhi  propri  la  miseria  mia 

Mirassi,  e  sotto  al  peso  disperato  >  V) 

Spirassi  V  alma  dalla  rabbia  oppresso. 

Cieco  son  dal  furor.  Perduto  ho'l  padre...  1' 

Perduti  ho  i  figli...  e  in  qual' atroce  forma!  ^ 

Perdo  il  regno,  la  vita,  e  per  mia  colpa 

Periscon  gì'  innocenti  Oh  Cielo . . .  come  ! . . . 

Come  comporti  tante  scelleraggini? 

E  soffri,  e  taci,  e  mai  non  maledirmi? 

Che  mi  resta  a  soffrir,  femmina  iniqua? 

Sia  maledetto  il  pimto,  in  cui  ti  vidi, 

Gozzi.  «5 


386  LA  DONNA  SERPENTE. 

Ti  maledico,  infemal  maga  ii^ame. 
Ti  maledico  sì...  Ma  inutil  sfogo 
È  questo  al  mio  dolor  di  maledirti 


t  SCBNA  DODICESIMA. 
(dopo  alcuni  lampi,  e  tuoni,  ed  un  tremuoio) 
ChbrbstanI  e  detti, 

Cher.  {uscendo  furiosa)  Empio...  Oh  Dio!  che 
facesti  1 ...  Io  son  perduta,  {piange  ) 

Canz.  Che  vidil 

ToGR.  {a  Can^.)  Questa  è  quella  maga  iniqua. 
Sposa  ai  fratel,  cagion  delle  miserie. 

Bad.  Signor,  questa  è  colei,  che  m'ha  assalito. 

Far.  {con  impeto)  Rendimi  il  padre  mio,  rendimi 

il  regno, 
.  Rendimi  i  figli,  scellerata  maga; 
Risarcisci  de' sudditi  le  stragi« 
Gli  arcani  tuoi,  crudel,  tutto  m'han  tolto, 
E  mi  torranno  in  breve  anche  la  vita. 

Cher.  Spergiuro...!  ingrato,..!  affetto  mio  tradito 
Un  punto  sol  mancava  a  sofferire, 
.  Poi  tutto  era  compiuto,  eri  felice. 
Sappi,  crudele...  Oh  Dio!  dammi  tu  forza. 
Ch'io  lo  faccia  pentir...  Dammi  un  momento 
Di  tempo  ancor,  sicch'  io  dichiarar  possa 
Quanto  tacqui  sin  or,  la  mia  innocenza, 
B, memorando  amor,  né  mi  sia  tolto 


ATTO  SECONDO.  387 

Modo  di  favellare;  e  al  mio  destino 
,  Poi,"  maledendo  me  medesma,  io  cedo,  (piange) 

Far*  Soliti  arcani;  iniqua,  che  dirai? 

Cher.  Sappi,  spergiuro,  d^  uom  mortale  io  nacqui, 
E  di  Fata  immortal.  Per  esser  sempre 
Immortai  nacqui,  e  Fata.  Di  Eldorado 
E  il  regno  mio  felice,  ignoto  al  mondo. 
Mal  soffieria  l'esser  di  Fata;  ed  aspra 
M'era  la  legge,  che  noi  Fate  cambia 
Spesso,  e  per  alcun  tempo,  in  animale. 
Per  non  morir  giammai,  soggette  sempre. 
A  sventure  crudeli  infra  i  mortali, 
E  al  terminar  de' secoli  a  infinite. 
M'innamorai  di  te...  fatai  momento! 
Sposo  mio  t'accettai.  Crebbe  in  me  brama 
D'  esser  mortale,  come  tu,  di  correre 
La  stessa  sorte  tua,  d'esserti  unita, 
E  di  teco  morir,  per  poi  seguirti 
Dopo  la  morte  ancor.  Chiesi  tal  grazia, 
(Che  lo  poteva)  al  Re,  Monarca  nostro. 
Irato,  bestemmiando,  mi  concesse 
Quanto  chiedei,  ma  sotto  aspro  decreto. 
Va,  mi  diss'egli,  tu  mortai  sarai, 
Se  per  ott'anni,  e  un  dì^  lo  sposo  tuo 
.  Non  ti  maledirà.  Ma  ti  condanno 
A  usar  l'ultimo  giorno  in  apparenza 
Opre  atroci  così,  che  Farruscad 
Posto  al  cimento  sia  di  maledirti. 
Se  maledetta  sei  d'orride  squame 
Ti  copri  tosto,  e'I  tuo  corpo  divenga 


.    388  ^^  DONNA  SBRPBNTB. 

Mostruoso  serpente.  In  quella  spoglia 

Rinchiusa  per  due  secoli  starai... 
*   Barbaro...  iniquo...  mi  maledicesti! 

Sento  vicino  il  cambiamento  mio. 

t^iù  non  ci  rivedremo!  {jpiange) 
Fjou  In  apparenza? 

Perduto  ho'l  regno.  Io  son  vicino  a  morte. 

Ogni  soccorso  tu  m^hai  tolto.  Cruda  1 

Apparenze  son  queste? 
Cher.  Non  temere 

Del  regno  tuo,  della  tua  vita.  Io  tutto 

Con  ragion  feci,  e  pur  tei  dissi,  e  invano. 

(verso  Badur)  È  questi  im  traditor.  Le  vrt- 

tovaglie 

Erano  avvelenate.  Egli  è  in  accordo 

Col  tuo  nimico  assediator.  Distrussi 

Le  vettovaglie.  La  ragione  or  saL 
Bab.  {sbigottito  a  parte)  Ahi,   son  perduto,  (a 
Cher.)  Incantatrìce  iniqua... 

{a  Far.)  Signor,  no,  non  è  ver... 
Cher.  Traditor,  tacL 

Bevi  di  quelli  avanzi,  scellerato, 

Che  qui  recasti.  Verità  si  scopra. 
Bab.  {disperato)  Signor...  vero  è  pur  troppo...  Io 

son  scoperto... 

Da  quel  velen...  da  ignominiosa  morte 

Tormi  saprò  colla  mia   stessa   mana    {trae 
un  pugnale;  si  ferisce^  e  cade  entro,  alle 
quinte) 
Canz.  Quai  cose  vedol  Deh,  Togrul,  mi  narra... 


ATTO  SECONDO.  389 

ToGiL  Io  son  fuori  di  me.  Veggiam,  che  nasce. 

Far.  (  smanioso  )  Ah  non  vorrei . . .  Togrul . . .  Can- 

zade...  io  tremo... 
IMmmi,  Cherestani;  degli  arsi  figli 
Fu  apparenza,  o  fu  ver? 

Chek.  Doveano  i  fij^li 

Dalla  nascita  lor  V  ardenti  fiamme, 
Che  tu  vedesti,  ripurgar,  per  farli 
Interamente  tuoi,  perchè  corressero 
Teco  la  stessa  sorte,  (guarda  dentro\Ecco  i 

tuoi  figli. 
Fatti  mortali,  e  tuoL  Perfido,  io  sola 
Miseramente  abbandonar  ti  deggio. 
Cambiar  l'aspetto  in  orrido  serpente, 
Perder  i  figli,  e  più  non  esser  tua.   (piange 

dirottamente) 

SCENA  TREDICESIMA. 
Bbasdimo,  Rizia  condotti  da  due  soldati  e  detti, 

FaIl  (in  trasporto)  Figli.»,  miei  figli...  Ah,  non 

s'avveri  il  resto... 
Cherestani...  mia  sposa...  oh  qual  miseria 
Saria  questa  per  mei 
Cakz.  Visir! 

Tooiu  Canzade! 

Chek.  (agitatissima)  Ecco,  mi  sento...  Oh  Ciel..» 

barbaro!  io  sento...  > 
Freddo  gelo  per  1!  ossa..^  Oh  Dio...  mi  cambio... 


390  LA  DONNA  SERPENTE* 

Oh  qual  ribrezzo  1...  qual' orrori...  qual  pena.^1 
Farruscad,  io  ti  kscio.  Tu  potresti 
Oggi  ancor  liberarmL  Ah,  non  lo  spero... 
Troppa  forza  ti  vuol...  No,  non  esporre 
Per  me  quella  tua  vita.  Ella  è  a  me  cara 
Anche  lungi  da  me.  Pochi  prodigi 
Oggi  ancor  posso  far.  Questi  disposti 
Fieno  per  te,  per  il  tuo  regna  Accetta 
Dell'amor  mio  gli  ultimi  pegnL  Oh  Dio... 
Visir...  Canzade...  figli...  nascondetevi... 
Deh,  la  miseria  della  madre  vostra 
Non  mirate...  (uggite.  Io  mi  vergogno, 
Che  voi  la  rimiriate,  (a  Far.)  Tu,  crudele, 
Mirala  sol,  tu  sol  la  tua  consorte 
Volesti  serpe..,  eccola  serpe,  e  godi  (si  tror 
sforma  in  un  orrido  e  lungo  serpente  dal 
collo  in  giù,  cadendo  prostesa  a  terra) 

Bedr.  Madre  mia...  Madre  mia... 

Rez.  Dov'  è  mia  madre! 

Far.  Fermati...  Oh  Dio!...  perdon...  deh,  sposa 
mia...  (corre  per  abbracciarla) 

Cher.  Più  tua  non  son.  Fuggi  da  me,  spergiurù. 
(si  sprofonda  sotto  al  Teatro) 

Canz.  Fratel... 

ToGR.  Signor... 

Bedr.  Mio  padre  .^.. 

Rez.  Caro  padre... 

Far.  (disperato)  Scostatevi  da  me.  Non  sia 

suno. 
Che  s'avvicini  a  un  disperato.  Terra, 


ATTO  SECONPO. 


391 


Che  r  amata  ^lia  sposa  in  sen  nascondi^ 
Ricevi  Farruscad  spergiuro  ed  empio,  (entra 

furioso) 
Canz.  (pigliando  i  fanciulli  per  mano) 

Visir,  nipoti  miei,  seguiamo  il  padre,  (entrano) 


ATTO  TERZO 

11   Teatro   non   cambia. 

SCENA  PRIMA. 

Famuscad  e  Pantalonb.  Farruscad  uscirà,  come  fugr 
gendo  da  tutti  quelli,  che  vogliono  consolarlo, 

^^^^  m^^^^  ^  ^  ^^  traditori,  della  mia 
Insofferibil  doglia,  de' miei  falli 
Causa    maggior,   che    co'  sospetti 
vostri 
,  Mi  suscitaste,  m'accendeste  il  core, 
E  cader  mi  faceste  negli  eccessi, 
Onde  rovina  di  si  amabil  sposa 
Sono,  e  di  me  medesmo.  Ite,  toglietevi 
Dalla  mia  vista,  orridi  mostri  infami; 
Venga  la  morte,  io  bramo  morte  solo. 
Pant.  Maestà,  el  Cielo  sa,  quanto  rimorso,  quanta 
strazzamento  de  cuor,  che  provo.  Si,  la  ga  ra- 
son,  la  ga  rason.  Ma  cosa  vorla  far?  finalmente 
ghe  resta  i  so  fioli.  El  Re  Morgon  ha  scomenzà 
un  fiero  assalto  alla  città.  La  deve  procurar  in 


394  i^  donka  Serpente. 

coscienza  de  preservar  el  so  Stato  alle  so  crea- 
ture. EI  Visir  Togrul,  so  sorella,  poveretti,  se 
va  preparando  alla  defesa,  ma  afflitti,  ma  desa- 
nemai  per  no  veder  la  so  presenza.  La  fazza 
cuor,  la  se  fazza  veder  sulle  mure.  La  vederà, 
quanto  coraggio  se  accenderà  in  petto  ai  so 
boni  servitori  alla  so  comparsa.  Uno  valerà  per 

^  cento,  e  daremo  la  cazza  a  sti  cagadonai  de 
Mori.  Da  galantuomo  che  ghe  demo  una  bat- 
tagia  aUe  barocole,  che  i  se  dà  alla  fuga  spa- 

.  ventai,  come  im  chiappo  de  cocalette. 

SCENA  SECONDA. 
Tartagua  e  detti. 

Tart.  {allegro)  Maestà,  maestà,  una  gran  cosa, 
un  gran  prodigio.  In  un  momento,  non  si  sa 
come,  tutte  le  botteghe,  tutte  le  osterie,  tutte 
le  beccherie  della  Città  si  sono  empiute  di  car- 
nami, di  pane,  di  vino,  d*  olio,  di  'minestre,  di 
butirro,  di  formaggio,  di  frutta,  e  sino  di  allo- 
dole e  di  beccafichi. 

Pant.  Parleu  sul  sodo,  Tartagia? 

Tart.  Certo,  che  verrò  a  contare  delle  tue  fanfar 
luche  a  sua  Maestà. 

Far.  Nuovo  dolor,'  nuovi  rimorsi  all'  alma. 
Ecco  l'effetto  degli  estremi  detti 
Della  miseria  sua.  Pochi  prodigi 
Oggi  ancor  posso  far.  QdesH  disposti 


ATTO   TERZO.  395 

Fieno  per  te,  per  il  tuo  regno.  Accetta 
Dell'amor  mio  gli  ultimi  pegni.  Oh  Dio! 
Rimembranza  crudel...!  Fuggite...  andate. 
Più  non  posso  vedere  alcun  oggetto, 
E  più  d' ogn'  altro  ho  me  medesmo  in  ira. 

Tart.  (  basso  a  Pani.  )  Pantalone,  la  lontananza 
ogni  gran  piaga  salda.  Si  calmerà.  Non  abban- 
doniamo la  Principessa  e  Togrul,  che  s' appa- 
recchiano alla  difesa  della  Città. 

Pant.  In  fatti,  la  xe  una  viltà  a  star  qua  a  grat- 
tarse  la  panza  in  tempo,  che  tutti  xe  sulle 
arme.  No  la  xe  azion  da  bon  Venezian.  Ghe 
manderemo  qua  dei  servitori,  che  ghe  tegna 
drio,  perchè  no  vorria  qualche  sproposito,  e 
andemo  a  tagiar  cinquanta  teste  de  sti  sfon- 
dradoni  de  Mod.  Semo  pochetti,  ah,  Tartagia? 

Tart.  Oh  dieci  contro  diecimila;  ma  non  importa; 
mi  sento  uno  spirito  superiore.  È  meglio  mo- 
rire ammazzato  in  una  battaglia,^  che  dalla 
fame,  (entrano) 

.  SCENA  TERZA. 
Farruscad  €  Farzana  Fata  in  dietro. 

Far.  (da  se)  Ella  mi  disse  pure:  Tu  potresti 
Oggi  ancor  liberarmi.  Ah,  non  lo  spero; 
Troppa  forila  ti  vuol.  No,  non  esporre 
Per  me  quella  tua  vita.  Ella  é  a  me  cara 
Anche  lungi  da  me.  Detti  soavi. 


39^  LA   DONNA  SERPENT1£. 

Che  mi  stracciano  il  cor.  Cherestani, 
Cherestanì,  come  poss'io  salvarti? 
Non  curar  questa  vita.  E  assai  più  dolce 
Morte,  che  questa  vita.  Ah,  se  tu  puoi, 
Se  del  tutto  non  m'odj,  dammi  segno, 
Com'espor  questa  vita  in  tuo  soccorso 
Possa,  o  morir;  pietà  di  me  ti  mova. 

(piange) 

Farz.  (da  se)  Si  conduca  alla  morte,  onde  pe- 
riglio 
Non  vi  sia  più,  che  un  tempo  alcun  soccorso 
Abbia  per  liberarla,  e  torla  a  noi. 
Or  che  tutte  le  genti  alla  battaglia 
Stanno  occupate,  ed  è  qui  solo,  venga 
Invisibile  meco  a  certa  morte. 
(si  fa  innanzi)  Tu  liberar  la  sposa?  Non  hai 

core; 

-     Sei  troppo  vile. 

Far.  Ombra  diletta...  spirito... 

Ah,  ti  conosco  ben,  che  ancor  ti  vidi 
Compagna  alla  mia  sposa.  Ah,  dov^è  mai? 
Dimmi,  che  deggMo  far  per  liberarla? 

Farz.  Tu  liberarla,  uomo  incostante,  donna 
Molle,  più  ch'uom?  Tanta  bellezza,!  tanti 
Benefizi  perduti  per  viltade!... 
Tu  hai  cor  per  liberarla?  Altro  ci  vuole, 
Che  '1  tuo  braccio,  e  1  tuo  cor  per  liberarla. 

Far.  Non  m'offender  di  più;  ponmi  al  cimento. 
Volentìer  corro  a  morte;  a  che  tardare? 

Farz.  Dammi  la  destra  tua. 


ATTO  TRRZO.  397 

Far.  La  mano  è  questa.. 

Dove  vuoi,  mi  conduci,  io  teco  sono,  {porge 
la  destra  a  Far^ana^  e  con  un  prodigioso 
lampeggiar  nell'aere  sprofondano  tutti  due) 


SCENA  QUARTA. 

Pantalomb  e  Tartagua.  Questi  due  personaggi  escano 
frettolosi 


Pant.  Maestà...  Maestà;  un  gran  prodigio...  alle- 
gri... Ma  dove  xelo? 

Tart.  Doverebb'  esser  qui.  U  abbiamo  lasciato,  che 
non  è  molto,  in  ìjuesta  stanza. 

Pant.  Ah,  che  l'ho  dito  mi,  che  no  se  doveva 
lassarlo  solo.  Adesso  che  xe  el  tempo  dell'al- 
legrezza, ste  a  veder,  Tartagia,  che  ghe  xe 
qualche  gran  desgrazia.  El  gera  fora  de  lu,  in- 
vasa per  so  muger  serpente;  l' ha  fatto  qualche 
bestialità  de  suicidio,  sicuro.    ^ 

Tart.  Che  bestialità?  Ho  anch'io  una  moglie  ser- 
pente, e  la  soffro. 

Pant.  Oh  giusto,  questo  xe  tempo  da  barzelette. 

Tart.  Andiamo  a  cercar  di  lui.  Pantalone.  Questo 
palagio  è  lungo  un  miglio.  Si  sarà  cacciato  in 
queste  stanze  verso  scirocco,  (entra) 

Pant.  Andemo  pur  verso  scirocco;  ma  mi  ho  paura, 
che  el  sia  andà  colla  testa  in  zo  da  una  fene- 
stra  in  ponente,  {entra) 


398  LA   DONNA  SERPENTE. 


SCENA  QUINTA. 

Truffaldino  con  un  tabarro  eorto  e  lacero,  un  cappello 
tignoso,  e  un  mtf jf^fo  di  rela:(ioni  a  stampa  nelle  maitf,  indi 
.  Brighella. 


Truff.  {imitando  i  venditori  delle  relaponi^  verrà 
gridando  il  seguente  compendio  spropositato) 
Nuova,  distinta  e  autentica  relazion,  che  ve 
descrive,  e  ve  dechiara  del  gran  sanguinoso 
combattimento  seguito  a  dì,  ec.  del  mese  di,  ec 
sotto  l' alma  città  di  Teflis.  Sentir,  come  el 
tremendo  gigante  Morgone  diede  V  assalto  con 
due  milioni  di  Mori  alla  città  di  Teflis.  Sentir, 
come  bravamente,  e  valorosamente  la  città,  e 
fortezza  con  quattrocento  soldati  soli  se  difese, 
e  la  gran  strage,  che  si  fece  di  quei  barbari 
cani.  Sentir,  come  se  trovava  in  spaventoso 
pericolo  la  città,  e  fortezza  medesima.  Sentir, 
come  inaspettatamente,  e  prodigiosamente  con 
permissione  del  Cielo  se  innalzette  il  fiume, 
chiamato  Cur,  ec.  ha  inondato  tutto  il  campo 
di  quei  barbari  cani.  Sentir  la  tremenda  strage, 
e  come  li  ha  negati  tutti,  col  numero  delle 
persone,  che  sono  restate  morte.  Chi  avesse 
'  caro  di  legger  la  autentica,  e  distinta  relazion, 
si  spende  la  vii  moneta  di  un  soldo.  Nuova,  e 
distinta  relazion,  ec.  Brig.  L'interrompe,  e 
chiede,  che  vada  gridando  per  la  Reggia. 
Truffa.  La  relazione  della  battaglia  e  del  prò- 


ATTO  TERZO.  399 

digio,  ec.  Brìg,  Come  si  possa  scrivere  e  stam- 
pare un  fatto  successo,  che  non  è  un'ora. 
Truff,  Che  gli  scrittori,  e  gli  stampatori, 
quando  si  tratta  di  guadagnare,  sono  saette. 
Brig.  Che  in  quella  città  venderà  poche  re- 
lazioni alle  genti  già  tutte  informate  del  suc- 
cesso. Lo  consiglia  ad  andare  a  Venezia  ad  in- 
tronar con  le  grida  il  capo  a  c1;lì  passa,  che 
venderà  molte  relazioni.  Truff,  Che  per  ven- 
derle a  Venezia  converrebbe  aggiungere  alla 
relazione  trenta  volte  il  doppio  di  successi. 
Brig.  Ch'  è  matto.  Chiede  dove  sia  il  Principe. 

SCENA  SESTA. 
Tartagua,  Pantalone  e  dettL 

Tart.  e  Pant.  Escono  disperati.  Chiedon,  se  ab- 
biano veduto  il  Principe.  Brig.  Che  non  sa 
nulla.  Truff;  Rinnova  le  sue  grida  sulla  rela- 
zione. Fanno  tutti  una  scena  di  confusione,  e 
di  strepiti. 

SCENA  SETTIMA. 
Canzadb,  Togrul,  Smeraldina  e  detti. 

Canz.  Dov'è'l  fratello  mio? 
Taht.  Principessa  cara,  una  gran   disgrazia.   Era 
in  questa  stanza.  Noi  siamo  venuti  alla  batta- . 


400  LA  DONNA  SERPENTE. 

glia;  e  non  e'  è  più.  U  abbiamo  cercato  in  sci- 
rocco, e  non  si  ritrova. 

Pant.  Ma  la  xe  cusì.  El  gera  desperà,  e  i  desperai 
fa  delle  brutte  burle. 

Canz.  Che  mi  narrate! 

Oh  me  infelice  1 

ToGR.  Che  mai  sento  l  (  tutti  appariscano  disperati) 

Smer.  Oh  Dio! 

SCENA  OTTAVA. 
Voce  di  Geonca  e  detti. 

Voce.  Miseri!  a  che  tardate?  Deh  s'ascolti 
La  voce  di  Geonca,  e  F  ubbidite. 
Togrid,  Canzade,  servi,  è  Farruscad 
Presso  al  monte  vicin.  Nimica  Fata 
Ivi  P  ha  tratto  per  condurlo  a  morte. 
Recate  i  figli  suoi,  deh  procurate 
D'intenerirlo,  ond' abbandoni  il  fiero 
Cimento,  in  cui  si  trova,  di  se  fuori. 
Accorrete,  accorrete  in  suo  soccorso. 
Ah,  tardo  forse  il  vostro  aiuto  fia. 
La  voce  mia  prima  di  voi  soccorra. 
Per  quanto  puote,  il  Principe  in  periglia 

Canz.  Visir,  udisti? 

ToGR.  S'eiseguisca  tosto 

Quanto  l'amica  voce  ci  comanda,  (entra  con 

Cameade) 

Smer.  Corro  a  prendere  i  figli,  e  vengo  anch'io. 

{entra) 


ATTO  TERZO.      .         4OI 

Pant.  Per  carità  aiutemo  sto  povero  mal  manda. 
Putti,  Tartagia,  vegnime  drio.  {entra) 

Takt.  Spero,  che  mi  verrai  dietro  tu;  ch'io  non 
ho  le  tue  magagne  occulte,  vecchio  catar- 
roso, (entra) 

Brio.  Sospension  de  allegrezze.  Andemo  a  vedef, 
come  finisce  sta  catastrofe  spaventosa,  (entra) 

Truff.  Chi  va  lontan  dalla  sua  patria,  vede 
Cose,  da  quel,  che  si  credea,  lontane. 
Nuova,  autentica,  e   distinta  relazion,  che  ve 
descrive,  e  ve  dichiara  ec.  (entra  gridando  la 
relas^ione) 

SCENA  NONA. 

Apresi  M  Teatro  con  un  luogo  campestre.  Vedesi  nel  fondo 
sotto  una  montagna  un  sepolcro,  da  una  parte  una  co- 
lonna, alla  quale  sarà  attaccato  un  tìmpano,  od  altro  si- 
mile strumento,  che  battuto  rimbombi;  appresso  a  quello 
sarà  attaccata  una  mazza. 

Farruscad  e  Farzana. 

Farruscad  sarà  in  abito  leggiero^  con  uno  scudOy  ed 
una  spada^  apparecchiato  a  combattere. 

Farz.  è  questo  il  loco.  Or  vederemo,  quanto 

Isella  tua  lingua  i  detti  ai  sentimenti 

Somiglino  del  core. 
Far.  a  che  molesti 

Un  disperato  ancora?  Mille  vite 

Aver  vorrei,  sacrificarle  tutte 

Gozzi.  26 


4M  Là  donna  srxpbntb 

Ptr  la  consente  osa.  Ma  cbe  £itf  <l^gk> 
In  questo  campo?  Un  sol  sqxdcro  io  minx 
De^  k>  co'  morti  avor  battaj^?  Ab  diouai,  ~ 
Come  possa  morir;  più  non  tenermi, 
Farzana,  in  un  inferno. 
Faus.  («  parte)  Non  s'indugi 

AUa  sua  distruzion.  Se  tanta  brama 
Hai  di  nK>rtr,  con  qudla  mazza  picchia 
Sopra  quell'istrumenta  Al  suo  rindiondK) 
Consolato  sarai.  Quella  tua  vita 
Conta  per  poco;  ma,  se  vincitore, 
Liberata  sarà,  mortale,  e  tua.  (entra) 
Far.  Picchiar  sol  deggio  lo  strumento!  Or  via. 
Che  più  attendo?  Si  picchi,  e  morte  giunga. 
(picchia  con  la  ma^^a  lo  strumento,  il  rim- 
bombo  del  quale  viene  accompagnato  da  un 
rimbombo  di  sonori  ùioni,  e  da  uno  splen- 
dore di  lampi.  La  scena  s^  oscura.  Farru* 
scad  segue) 
Tremi  '1  terren,  s'  oscuri  il  sol,  dal  Cielo 
Caggiano  in  copia  i  fulmini;  non  temo. 

SCBNA  DECIMA. 

Esce  un  toro  furioso,  che  getta  fuoco  dalla  bocca,  daiU 
coma,  e  dalla  coda,  e  che  assale  Farrusead. 

Farruscad,  indi  la  voce  di  Geonea^ 

Fak.  Fiero  animai,  se  sbigottirmi  q>eri, 
Di  gran  lunga  f  inganni. 


ATTO  TERZO.  4O3 

(si  rischiara  la  scena,  segue  un  lungo 
combattimento.  Il  toro  carica  di  fiamme 
Farruscad) 

Ah,  impenetrabile 
È  la  fera  crudel. 
Voce.  Non  sbigottirti, 

Farruscad,  e  fa  core.  All'animale 
Tenta  staccare  il  destro  corno,  o  invano 
Col  ferro  lo  combatti. 
Far.  Amica  voce, 

Io  ti  ringrazio,  e  ad  ubbidir  m'accingo 
L'avviso  tuo. 
{lotta  coir  animale:  gli  stacca   il   destro 
corno;  il  toro  con  muggiti  sprofonda,   e 
sparisce) 

Che  a  vincere  or  mi  resta? 
Pietosa  voce,  dì,  chi  sei?  Deh  dimmi. 
Per  liberar  la  dolce  mia  consorte 
Che  più  far  deggio? 
Voce.  Io  son  Geonca.  Poco 

Vincesti  ancor.  Datti  coraggio.  Sappi, 
Che,  se  perdi  coraggio,  a  inevitabile 
Morte  soggetto  sei.  Fa  cor,  resisti. 
Difendi  la  tua  vita. 

SCENA  UNDECIMA. 
Farzana  e  Farruscad. 

Farz.  (uscendo)  Che  m'avviene! 

Chi  soccorre  costui? 


404  LÀ  DONNA  SERPENTE. 

Fuu  Farzana,  or  dimmi, 

Che  resta  a  far,  perch'  io  riveder  possa 
Nel  suo  stato  primier  Cherestaoi, 
Possederla,  abbracciarla? 

Farz.  Lascia,  lascia 

Di  sperar  dà  Nolla  facesti  ancora. 
Batti  di  nuovo  lo  strumento,  e  vinci 
L'oggetto,  che  uscirà.  Poco  avrai  fatto     ' 
Ancor,  se'l  vinci.  Giovine  meschino. 
Non  avrai  cor  di  terminar  l'impresa,  (entra) 

Far.  Se  occorre  animo  sol,  mal  si  sospetta, 
Che'l  cor  mi  manchi.  Esca  l'inferno  tutta 
{corre  e  picchia  di  nuovo.  S* oscura  la  scenOj 
odesi  tremuoto) 
Terreno,  trema  pur.  Cid,  tuona  pure; 
Di  qua  non  fuggirò,  (si  rischiara  la  scena) 

SCENA  DODICESIMA. 


Un  Gigante  mostruoso  con  la  spada  in  mano^ 
Farruscad  e  la  voce  di  Geonca. 


GiG.  Non  fuggirai, 

No,  che  la  testa  lascierai  sul  campo. 
Presso  alla  testa  tua  rimarrà '1  corpo. 
Pasto  delle  cornacchie,  e  delle   fere,    (si  pre^ 
para  a  combattere) 

Far.  Avverrà  forse  a  te  ciò,  che  minacci, 
E  in  te  averanno  i  corvi  maggior  cibo, 
Uomo  crudo  e  deforme.  Ciel,  m'assisti. 


ATTO  TERZO.  40$ 

(segue  combattimento;  dopo  vari  colpi  Far* 
ruscad  taglia   un   braccio  al  gigante,    il 
qual  braccio  caderà  in  terra  colla  spada. 
Farruscad  segue) 
Combatti  ora,  se  puoi.  La  vita  salva, 
Ch'  altro  da  te  non  voglio. 

(il  gig<^nte  si  chinay   raccoglie  il  braccio^ 
lo  rimette  al  suo  luogo,  e  s^  apparecchia  di 
nuovo  a  combattere) 
GiG.  Altro  non  vuoi? 

Ben  io  voglio  da  te  nuova  battaglia. 

(assalta  Farruscad  fieramente) 
Far.  Qual  nuovo  casol  Ah,  non  si  perda  il  core. 
(segue  un  combattimento.  Dopo  vari  colpi 
taglia  una  gamba  al  Gigante) 
GiG.  Oh  me  infelice I  Tu  vincesti...  Io  muoio. 
Far.  Precipita,  crudel;  svenato  muori,  (il  gigante 

raccoglie,  e  si  rimette  la  gamba) 
GiG.  Misero  pazzarellol  Muori I  Muori! 

Fanciullesche  lusinghe  1  Tu  morrai,  (s^appa^ 
recchia  ad  un  nuovo  assalto  ) 
Far.  Qual  strana  impresa  è  questa!  Deh,  Geonca,. 
Come  resister  posso?  Ahi,  non  risponde. 
Lena,  non  mi  mancar,  ch'io  son  perduto. 
(segue  nuovo,  e  fiero  combattimento.  Far^ 
ruscad  taglia  la  testa  al  gigante) 
Or  qui  finisci,  infemal  mostro  orrendo; 
Va  nelP  abisso,  d' onde  uscito  sei. 
(  il  gigante  brancoloni  raccoglie  la  testa,  e 
se  la  rimette) 


406  LA   DONNA  SERPENTE. 

GiG.  (ridendo)  Ah  ah  ah  ah,   folle,  d  sei  pur 

giunto. 
Far.  Misero!  che  farò?  Geonca...  amico, 

Lena  mi  manca,  e  alfìn  vinto  rimango,  {s'ap- 
parecchiano ad  un  nuovo  assalto) 
Voce.  Se  puoi,  spiccagli  '1  capo.  li  manco  orecchio 

Tronca  da  quello,  e  libero  sarai. 
Gio.  {assalendo  Farruscad)  Morì,  incauto,  eh' è 

tempo. 
Far.  Forze  mie, 

Aderite  alla  voce  di  Geonca, 
Resistete  a  costui. 

{getta  lo  scudo,  e  combatte  disperatamente 
colla  spada  a  due  mani.   Tronca  di  nuovo 
il  capo  al  gigante^  e  lo  raccoglie.  Mentre 
Farruscad  cerca  di  tagliare  il  manco  orec- 
chio alla  testa,  il  gigante  brancoloni  la  va 
cercando.  Tagliata  r  orecchia,  il  corpo  del 
gigante  cade,  e  sprofonda  sotterra  ) 
Far.  {gettando  la  testa  dentro)  Rimettila  or,  se 
puoi,  ritoma  in  vita. 
Quant' obbligo,  o  Geonca!  Io  qui  dovea 
Certo  perir,  se  tu  m'abbandonavi 

(  Tutte  le  scene  di  mirabile,  e  d^  illusione 
di  questo  popolare  atto  terjo  furono  eccel-- 
lentemente  eseguite  dalla  truppa  comica  del 
Sacchi  ) 


ATTO  TERZO.  407 

SCENA  TREDICESIMA. 
Farzana,  Farruscad  e  voce  di  Geonca, 

Faslz.  (da  sé)   Ancora  vive!   Ed   il   Gigante   è 

vinto! 
Chi  lo  soccorre  mai?  Ah,  certamente 
Qui  celato  è  Geonca.  Ben  mi  disse 
Zemina,  eh'  io  '1  temessi.  Mia  diletta 
Cherestani,  noi  ti  perdiam  per  sempre, 
Farruscad  ti  discioglie,  e  ti  fa  sua. 
Tentisi  allontanarlo. 

Far.  Or  via,  Farzana, 

Dov'è  Cherestani?  che  far  più  deggio? 

Farz.  Valoroso  campion,  quanta  pietade 
Sento  per  te!  Deh,  Farruscad,  tralascia 
Di  seguir  quest'  impresa.  È  quasi  un  nulla 
Ciò,  che  sin'  or  facesti.  Al  mio  sincero 
Favellar  credi.  Di  qua  parti,  e  salvati. 

Far.  Come!  partir  di  qua!  L'impegno  mio 
È  di  lasciar  la  vita,  o  di  condanna 
Liberar  la  mia  sposa.  Tu  mantieni 
La  tua  promessa.  O  morte  fa,  eh'  io  m' abbia, 
O  la  consorte  mia  libera  resti. 
Che  manca  al  mio  dover? 

Farz.  Manca  un'  impresa. 

Troppo  grande  per  te.  Parti;  ciò  basti. 
Non  voler  cimentarti  maggiormente. 


408  LA   DONNA   SERPENTE. 

Far.  Farzana,  le  parole  al  vento  spargi. 
Finir  voglio  l'impresa,  o  qui  morire. 

Farz.  Temerario,  su  dunque.  Or  non  occorre 
Più  Parme  usar;  ma  vederem,  se  vinci 
Ciò,  che  ancor  vincer  dei.  Su  quel  sepolcro 

(  accenna  il  sepolcro  nel  fondo  al  Teatro  ) 
Metti  ima  man.  Giura  pel  tuo  Profeta, 
Che  in  bocca  baderai  qualunque  oggetto 
All^  aprir  del  sepolcro  entro  vedrai 

Far.  (corre,  e  con  nobile  Jrancheiffa  mettendo 
la  mano  sul  sepolcro) 
Ecco  la  mano.  A  Macometto  io  giuro, 
Che  con  le  labbra  mie  baderò  in  bocca, 
Qualunque  oggetto  che'l  sepolcro  chiuda. 

Farz.  Folle!  Prendi  la  mazza,  e  lo  strumento 
Nuovamente  percuoti. 

Far.  Altro  non  vuoi? 

Ecco  eh'  io  lo  percuoto. 
(picchia  con  la  ma^^a;  s'oscura  la  scena 

-'         e  come  sopra,  S' apre  il  coperchio  del  se^ 
polcro.  Si  rischiara  la  scena  ) 

Farz.  T'  avvicina 

A  quel  sepolcro,  e  colle  labbra  imprimi 
All'oggetto,  che  vedi,  un  bacio  in  bocca. 

Far.  Degg'io  temer  per  liberar  la  sposa 
A  por  le  labbra  in  sulle  labbra  fredde 
D'un  cadavere  schifo?  Altro  d  vuole 
A  sbigottire  un  disperato  amante. 
Debile  impresa  è  questa.  Or  lo  vednd. 
(  corre  al  sepolcro,  avvicina  il  viso  per  dare 


ATTO  TERZOr  4O9 

i7  bacio  promesso.  Esce  dal  sepolcro  fino 
al  petto  un  serpente  con  un  orrida   testa; 
apre  la  bocca  facendo  vedere  denti  lunghis 
simi;  avvicinasi  al  viso  di  Farruscad^  il 
quale  spaventato  salterà  in  dietro,  e  met» 
tendo  la  mano  sulla  ^ada) 
Qimèt...  misero  met...  qtial  tradimento!. .. 
(vuol  ferire  il  serpente;  il  serpente  si  ,n- 
tira  nel  sepolcro) 
Faxz.  Eocqrio,  che  fai?  Sin' ora  con  la  spada 
Vincer  dovevi,  e  lo  facesti;  ed  ora 
Che  co' baci  esser  deve  la  battaglia. 
Ti  manca  il  cor?  Non  tei  diss'io,  che'I  fine 
Era  più  malagevole?  Eseguisci 
n  giuramento  tuo,  se  ti  dà '1  core. 
(  a  parte  )  Timor,  lo  prendi  sì,  che  '1  cor  gli 

manchi 
FàJk.  SI,  mi  da'l  cor.  Ribrezzo,  m'abbandona. 

(corre   nuovamente   al    sepolcro    risoluto; 
s'avvicina  col  viso;  esce  il  serpente;  se  gli 
appressa  coir  orrida  bocca  aprendola.  Far-- 
ruscad  rincula.   Il  serpente  si    nasconde. 
Farruscad  sforma  se  stesso  per  baciare  il 
serpente^    il   quale  sempre    maggiormente 
battendo  i  denti  con  fiere^s^a  lo  farà  rin 
culare  ) 
Oh  Dio!  qual  freddo  gelo  mi  trattiene! 
Qual  diabolica  impresa!  Ah,  non  è  serpe 
Fatta  la  mia  Consorte?  Non  può  forse 
Esser  Cherestanl  quel  mostro  orrendo 


410  LJL  DONNA  SERPENTE. 

Vile,  che  ti  trattìen?  (s'avvia,  e  si  ferma)  Ma 

forse  ancora 
Questa  Fata  m'inganna,  e  vuol,  ch'esponga 
All'orride  mascelle  il  capo  mio, 
Che  schiacciato  rimanga,  e  dopo  tante 
Battaglie  vinte,  senza  far  difesa, 
Miseramente  in  braccio  a  morte  io  corra. 
Qual  nuova  forma  di  battaglia  è  questa!  (resta 

in  pensiero) 
Farz.  (a  parte)  Timor,  segui  ad  opprimerlo,  sic- 

ch'egli 
Di  qua  sen  fugga,  e  questa  impresa  lascL 
Far.  (  risoluto  )  Eh,  si  mora  alla  fin.  Forse  un  tal 

bado. 
Ch'io  si  abbonisco,  scioglier  dee  l'incanto. 
(s'avvicina   al  sepolcro;   il  serpente  con 
maggior  fiere^^a  s*  avventa   al  suo  viso. 
Farruscad  retrocede,   il    serpente    si    na- 
sconde ) 
Oh  fortuna  crudel,  tu  non  potevi 
Espormi  ad  un  più  barbaro  cimento. 
Oh  voce  di  Geonca,  a  che  non  suoni? 
Che  non  m'aiuti  in  tanta  estremitade? 
Ah,  questa  spada  alfin,  che  tutto  vinse. 
Spezzi  ancor  quel  sepolcro,  e'I  serpe  uccida. 
(in  atto  di  colpire  il  sepolcro) 
Voce.  Fermati,  incauto,  o  piangerai  per  sempre. 
Farzana,  omai  sperar  non  ti  bisogna 
D'aver  Cherestani.  Va  al  tuo  congresso; 
Di,  che  mortale  è  a  Farruscad  rimasta. 


ATTO    TERZO.  4I t 

Figlio,  non  t'avvilir;  bacia  il  serpente. 

Egli  è  la  sposa  tua,  baciala  in  bocca. 

Non  temere  i  suoi  morsi,  è  tal  l'incanto. 

Ricordati  di  me;  l'opra  è  compiuta. 
Farz.  (disperata)  Ahi  crudel  fatol  Ahi  maladetta 

voce! 

Compagne  mie,  Cherestanì  è  perduta. 
(fugge  piangendo,  e  odonsi   molti   ululati 
di  donne) 
Far.  Chiudansi  gli  occhi.  Vincasi '1  ribrezzo. 

Dolce  Cherestanì,  più  non  pavento. 

Invan,  mia  cara,  impaurirmi  tenti. 
(s' avvicina  impetuoso  al  sepolcro.  Esce  il 
serpente,  come  sopra.  Dopo  alquanti  gesti 
di  ribre{{0,  e  di  risoluzione,  Farruscad 
bacia  il  serpente.  S^  oscura  la  scena,  se^ 
guono  i  soliti  lampi,  e  tuoni  con  tre^ 
muoto.  Cambiasi  '/  sepolcro  in  magnifico 
carro  trionfale,  sopra  cui  vedesi  Chere^ 
stanty  riccamente^  come  Regina,  vestita.  Si 
rischiara  ) 


SCENA  QUATTORDICESIMA. 
Chbrbstan!  e  Farruscad. 

Ghbr.  (abbracciando  Far.)  Farruscad,  sposo  mio, 

quanta  allegrezza! 
Quanto  ti  deggio  mai! 


412  LA  DONNA   SERPENTE. 

Far.  Cara,  or  sei  mia; 

Più  non  ti  perderò.  Pagai  la  pena. 
Ti  so  dir,  de' miei  falli 

SCENA  ULTIMA. 

CaHZADB)  RiZIA,  BBDRBDOfO,  TOGRUL,  PaNTALOÌCB»  TaBTACUA, 

Brighella,  Truffaldino,  Smeraldina  e  detti. 

Canz.  *  Eccoci  tutti. 

Fratello,  in  tua  difesa.  Ma  che  vedol 

Far.  Questa  è  la  sposa  mia.  Sorella,  abbraccia 
La  tua  cognata.  Figli  miei...  miei  fi^... 
Quanta  allegrezza  ho  al  cori  Tutti  contenti 
Oggi  voglio  che  siate. 
(  tutti  con  atto  di  stupore  vanno  abbraccian- 
dosi j  ec) 

ToGR.  Mio  Signore, 

Deh  mi  narrate... 

Far.  Non  è  tempo  adesso; 

Tutto  narrerò  poi.  Cherestani, 
Più  non  ho  mente.  L' allegrezza  toglie 
In  me  discernimento.  Tu  dbponi, 
Onde  ognun  sia  contento,  e  allegro  viva. 

Cher.  Sì,  disporrò.  Tu  meco  co' miei  figli 
Nel  vasto  Regno  d'Eldorado,  occulto 
Al  mondo  tutto,  e  mio,  regnar  potrai 
Togrul,  sposo  a  Canzade,  in  Teflìs  regni, 
Con  noi  Tartaglia,  e  Pantalon  verranno. 
Di  Truffaldino  Smeraldina  sia. 


ATTO  TERZO.    -  4I3 

Brighella  abbia  altra  sposa,  e  ricchi  doni 
Ma  chi  m'additerà,  come  si  possa 
Dispor  r  alme  cortesi  a  tanta  noia 
Delle  Favole  nostre  fanciullesche, 
A  compatirci  ed  a  dispor  le  mani 
A  qualche  segno  dì  perdon,  di  festa? 


INDICE  DEL  VOLUME  PRIMO 


Carlo  Gozzi  b  le  sue  habb  teatrali.  —  Prefazione.  Pag.       I 

Fiabe  —  L' Amore  delle  Tre  Melarance »          i 

Il  Corvo »       43 

Il  Re  Cerro »      i33 

Turandot »      217 

I^  Donna  Serpente »      329 


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^BIBLIOTECA  DI  SCRITTORI  ITALIANI 


1 .  La  Poesia  Barbara  nei  secoli  XV  e  XVI  a  cura 

di  Giosuè  Carducci.  —  Un  volume L.  5  — 

2.  Le  Odi  delV  abate  Giuseppe  Parini  riscontrate 

su  m^ioscritti  e  stampe  con  prefazione  e  note 

di  Filippo  Salveraguo.  —  Un  volume »     5  — 

3.  Prose  edite  e  inedite  di  Melchior  Cesarotti  a 

cura  dì  Guido  Mazzoni  —  Un  volume »    5  — 

4.  Poesie  e  lettere  di  Giovanni  Pindemonte  rac- 

colte e  illustrate  da  Giuseppe  Biadego    ....  »     5  — 

5.  Commedie  di  Jacopo  Angelo  Nelli  pnhbììcsiit  a 

cura  di  Alcibiade  Moretti.  —  Volume  primo.  »     5  — 

6.  Lettere  disperse  e  inedite  di  Pietro  Metastasio 

a  cura  di  Giosuè  Carducci.  —  Volume  primo.  »     5  — 

7.  //  viaggio  settentrionale  di  Francesco  Negri  a 

cura  di  Carlo  Gargiolli »     5  — 

8-9.  Le  fiabe  di  Carlo   Go^p  a  cura  di  Ernesto 

Masi.  —  Due  volumi  . »  io  — 


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