This is a digitai copy of a book that was preserved for generations on library shelves before it was carefully scanned by Google as part of a project
to make the world's books discoverable online.
It has survived long enough for the copyright to expire and the book to enter the public domain. A public domain book is one that was never subject
to copyright or whose legai copyright term has expired. Whether a book is in the public domain may vary country to country. Public domain books
are our gateways to the past, representing a wealth of history, culture and knowledge that's often difficult to discover.
Marks, notations and other marginalia present in the originai volume will appear in this file - a reminder of this book's long journey from the
publisher to a library and finally to you.
Usage guidelines
Google is proud to partner with libraries to digitize public domain materials and make them widely accessible. Public domain books belong to the
public and we are merely their custodians. Nevertheless, this work is expensive, so in order to keep providing this resource, we bave taken steps to
prevent abuse by commercial parties, including placing technical restrictions on automated querying.
We also ask that you:
+ Make non-commercial use of the file s We designed Google Book Search for use by individuals, and we request that you use these files for
personal, non-commercial purposes.
+ Refrain from automated querying Do not send automated queries of any sort to Google's system: If you are conducting research on machine
translation, optical character recognition or other areas where access to a large amount of text is helpful, please contact us. We encourage the
use of public domain materials for these purposes and may be able to help.
+ Maintain attribution The Google "watermark" you see on each file is essential for informing people about this project and helping them find
additional materials through Google Book Search. Please do not remove it.
+ Keep it legai Whatever your use, remember that you are responsible for ensuring that what you are doing is legai. Do not assume that just
because we believe a book is in the public domain for users in the United States, that the work is also in the public domain for users in other
countries. Whether a book is stili in copyright varies from country to country, and we can't offer guidance on whether any specific use of
any specific book is allowed. Please do not assume that a book's appearance in Google Book Search means it can be used in any manner
any where in the world. Copyright infringement liability can be quite severe.
About Google Book Search
Google's mission is to organize the world's Information and to make it universally accessible and useful. Google Book Search helps readers
discover the world's books while helping authors and publishers reach new audiences. You can search through the full text of this book on the web
at|http : //books . google . com/
^ • ^ V ' , - -^
BIBLIOTECA DI SCRITTORI ITALIANI
LE FIABE
DI
CARLO GOZZI
A CURA DI
ERNESTO MASI
VOLUME PRIMO
Vili.
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
i885
k
LE FIABE
DI
CARLO GOZZI
BOLOGNA.: TIPI DI NICOLA ZANICHELLI BfDCOOLZXZIY.
ZJ^^^
1L%
/rv-^^'
•LE FIABE
DI
CARLO GOZZI
A CURA DI
ERNESTO MASI
VOLUME VRIMO
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
1884
1 c^
• • • • ••*•••
• » • •• • ••• • • • •
••••••••••• • ••• •
Proprietà letteraria.
CARLO GOZZI
E LE SUE FIABE TEATRALI
PREFAZIONE
SOMMARIO
Ingiusto obblio di Carlo Gozzi — Sua importanza nella
storia letteraria — Il Gozzi ed il Goldoni ~ Primi anni di
Carlo Gozzi ~ In fomìglia — Tre anni in Dalmazia — La
Dalmazia nelle Memòrie del Gozzi. ~ Ritorno e principio
della sua vita letteraria — Accademia dei Granelleschi — Il
teatro e la riforma Goldoniana — Il Gozzi a capo dei Gra-
nelleschi contro il Goldoni e l'Abate Chiari — Origine delle
Fiabe teatrali del Gozzi — Colloquio con un Inquisitore di
Suto — La Compagnia Comica di Antonio Sacchi ~ Le
dieci Fiabe ~ Il Gozzi ed il Baretti — Il Gozzi ed il Wer-
thea — Il Gozzi ed il Lessing — Della varia fortuna del
Gozzi — in Germania — in Francia — in Italia — Chi era
il Sig. Giuseppe Poppa — Gli imitatori delle Fiabe — Gli
ultimi critici ~ Come Carlo Gozzi si dipinga da sé stesso —
Il capitolo dei Contrattempi — Demonio in gonnella — Vec-
chi gelosi, giovani pazzi, attrice e gran dama — Come fini-
rono i personaggi del romanzo — Non si piò sempre ri"
dere! — Vecchiaia — Conclusione.
PREFAZIONE
AL 1761, da quando cioè Carlo Gozzi
fece rappresentare nel S. Samuele di
Venezia T Amore delle Tre Melarancey
le sue Fiabe teatrali non furono in Italia stampate
che due volte, e unite a tutte l'altre sue Opere,
la prima volta dal Colombani nel 1772,* la se-
conda dallo Zanardi nel 1 801- 1802, vivente ancora
r autore. * Sono quindi diventate quasi una pre-
ziosità bibliografica, al pari delle sue Memorie^ le
i Opere del Conte Carlo Gozzi. Volumi otto. — In Ve-
nezia 1772. — I volumi VII ed Vili contenenti, il primo, la
Marfisa Bìj^^arra — Poema faceto — ed il secondo un
Saggio di Versi faceti e di prose recano la falsa data di
Firenze 1772- 1774.
t Opere Edite ed Inedite del Conte Carlo Gozzi. — Vo-
lumi Quattordici. —In Venezia 180 1- 1802. U volume XV di
questa ediz., primo delle Opere non teatrali, è assai raro.
Masl a
II PREFAZIONE.
quali non ebbero che una sola edizione nel 1797;*
tanto fu rapida la dimenticanza, in cui presso gli
Italiani cadde dal principio del secolo in poi il
nome di Carlo Gozzi, che pure era stato famoso
pochi anni innanzi e oggetto delle più vive e pas-
sionate polemiche letterarie. Senza entrare ora a
dire del valore intrinseco delle Opere di Carlo
Gozzi, e guardando il fatto unicamente sotto
V aspetto storico, basta, mi sembra, ripensare quali
tradizioni letterarie i maggiori scrittori Italiani si
studiassero di riannodare nei primi anni del secolo
presente, dal Monti e dal Foscolo al Leopardi e
al Giordani, e fino a che, in opposizione alla filo-
sofia e allo spirito del secolo XVIII, sorse la scuola
dei Romantici, per farsi ragione delPobblio, che
coprì il nome del Gozzi. E neppure i Romantici
si porsero in Italia favorevoli a lui, per amore, non
foss' altro, della capricciosa e ardita libertà dei suoi
lavori drammatici. Appena qualcuno dei minori
se ne ricordò, e più per far eco ai Romantici
stranieri, grandi ammiratori di Carlo Gozzi, di
quello che per riappiccare ad esso le nuove dot-
trine letterarie, pretendenti a rinnovare tradizioni
nazionali ben più alte e solenni, che non la pic-
cola e passeggera gloria del Conte Veneziano. Ri-
pubblicando ora le dieci Fiabe teatrali del Gozzi,
1 Memorie Inutili della Vita di Carlo Gozzi, scritte da lui
medesimo e pubblicale per umiltà. — Volumi tre. — In Ve-
nezia, Stamperia Palese, 1797.
PREFAZIONE. Ili
non ho bisogno di dire che non credo giusto que-
st'obblio e ciò per più ragioni: perchè nella storia
del teatro italiano le Fiabe del Gozzi rappresen-
tano il passato che lotta ancora e si contrappone
alla commedia realistica del Goldoni, perchè sono
la forma ultima dell' antica nostra Commedia del--
Parte e dell'antica commedia popolare, perchè
nel più vivo d' un moto filosofico, il quale, armato
di tutte le superbie della ragione umana, mirava
a cambiare l' intero assetto morale della vecchia
società Europea, esse formano un episodio di let-
teratura fantastica, che per alcuni anni acquista
tale popolarità da mettere in forse, si direbbe,
persino le cagioni e gli effetti della riforma Gol-
doniana.
Quanto a cercare, come molti hanno fatto, in-
time relazioni morali fra la decadenza della vec-
chia e frolla società Veneziana e quest'arte fia-
besca del Gozzi, che in mezzo a tale società rida
ad un tratto nuova vita agli ingenui e primitivi
racconti delle Fate, mi sembra questa una tesi
critica, che non conduca a conclusioni molto si-
cure. Relazione c'è, e dev'esserci, ma è principal-
mente estrinseca, e quale d' ordinario passa fra i
fatti sincroni della storia. Il desiderio insaziabile
di novità, l' instabilità e P incertezza anche nei
gusti artistici, le contraddizioni trascorrenti d'una
in altra adorazione sono tutti segni manifesti
d'una società svigorita e decadente. Che del resto
l' arte del Gozzi^ con le ragioni individuali e le
IV PREFAZIONB.
circostanze, che l' inspirano, con le tradizioni tea-
trali, che raccoglie e rinnova, coi fini, che si pro-
pone sotto l' involucro e il prestigio delle magie e
degli incantesimi, non ha per fermo nulla né d' in-
genuo, ne di primitivo. E violentando quelle re-
* lazioni morali e raffinandole in guisa da determi-
nare con esse una legge dello spirito umano, per
cui una società prossima a decrepitezza toma, per
un ricorso fatale, all'infanzia ed ai trastulli pre-
diletti di questa età, si riescirà a foggiare qualche
nuova ed elegante teorica, non nego, ma non per
questo si potrà sperare di conoscer meglio e di
giudicare più esattamente questo singolarissimo
episodio della nostra storia letteraria. Carlo No-
dier, discorrendo in genere del Fantastico nella
Letteratura, afferma che esso suole apparire, al-
lorché « sta per cessare l'impero di quelle verità
o reali o comunemente accettate, che animavano
ancora d' un ultimo soffio di vita i congegni troppo
vecchi d' una civiltà. ^ » Può darsi. Ma il Nodier
disegna a grandi tratti la storia del fantastico da
Omero al Goethe e muovendosi in così larghi
spazii nessuna teoria trova inciampi. Applicando
invece quella del Nodier a Carlo Gozzi, se anche
le si trovasse qualche riscontro nelle condizioni
morali della società Veneziana di quel tempo,
certo é però che tanto il poeta, il quale nell'im-
1 Charles Nodier, Contes Fantastiques. Du Fantastique en
Littérature, pag. io.
PREFAZIONE. V
minente mina delle idee e dei sentimenti del pas-
sato presentiva un finimondo, quanto le sue Fiabe
teatrali, che furono l'espressione più ardita e più
popolare di quella sua vivissima preoccupazione, ri-
marrebbero un mistero inesplicabile, a meno che
non si volesse, come per lo più ha fatto la critica
straniera, trasfigurare il (jozzi ad arbitrio, farne
un personaggio ed uno scrittore diverso affatto da
quel che fu in realtà, e rinnovargli, anche dopo
morto, la stravaganza, di cui s' era da vivo tanto
doluto, d'essere bene spesso scambiato con per-
sone, che neppur per ombra gli somigliavano. *
Eguale stravaganza, si direbbe, è toccata anche
alla sua fama letteraria, massime cogli stranieri,
dai quali fu tanto esaltato, quanto fu dai suoi
connazionali troppo ingiustamente depresso e di-
menticato. Questa varia fortuna del Gozzi ha,
come vedremo, ragioni in gran parte estrinseche e
non del tutto imputabili a lui, ma in pari tempo
dimostra come sia difficile dare di questo scrittore
un giudizio esatto e sicuro, tant'è vero che si
ondeggia tra chi lo paragonò ad Aristofane ed
allo Shakespeare e chi non volle consentirgli alcun
valore né assoluto né relativo, né alcun altro di-
ritto a vivere nella stona letteraria, se non la trista
celebrità dell'acerbissima guerra da lui combattuta
contro a Carlo Goldoni. Al quale proposito é da
notare che di quanti lodarono il Gozzi non ve
* Memorie cit Pane III, Gap. I pag. 187, 88.
VI PREFAZIONE.
n'ha uno, si può dire, che non lo lodi per depri-
• mere il Goldoni, e che d' altra parte la critica
italiana fu cosi severa a Carlo Gozzi principal-
mente per amore e, quasi, per vendetta del Gol-
doni. Eppure nessun confronto è possibile fra
questi due uomini l II contrasto fra essi non è
soltanto nella misura dell^ ingegno e nell' indole
rispettiva. Ma come l'ingegno e l'indole, che na-
tura dà, si svolgono ed operano in un modo o in
un altro a seconda della nascita, dell'educazione,
della fortuna e delle varie circostanze, fra le quali
all' uomo è toccato di vivere, così anche per tut-
tociò il destino dell' uno e dell' altro li colloca
sopra due vie affatto opposte e predispone le ma-
nifestazioni diverse della loro indole e gli atteg-
giamenti diversi del loro ingegno. La vita effi-
ciente d' entrambi comprende la parte veramente
originale e caratteristica del secolo XVIII, il quale
sino circa alla prima metà non è che uno stra-
scico del Seicento; scrivono entrambi per il teatro,
e cessano entrambi di scrivere a non grande di-
stanza di tempo. Ma a questo si limita ogni loro
conformità e somiglianza. La giovinezza del Gozzi,
benché si svolga anch'essa in mezzo a vicende
non comuni, non ha nulla di quella libertà spen-
sierata e girovaga del Goldoni, che spiega tanto
di quel suo scrivere a furia e di quella prodiga-
lità disattenta del suo genio. Ha molto invece di
certa selvatichezza mezzo tra beffarda e collerica,
che poi determina l'indole della sua satira, e per
PREFAZIONE. VII
ripicco al realismo democratico e borghese ed alla
placida celia della commedia Goldoniana la bur-
lesca e strampalata ironia delle sue Fiabe e delle
sue imitazioni Spagnolesche. L'uno e l'altro hanno
scrìtto le Memorie della propria vita. Ma il Gol-,
doni scrive la storia della sua vita, affinchè serva
a quella del suo teatro e fra la sua vita ed il suo
teatro passa un vincolo cosi stretto e cosi intimo,
che le prefazioni e le dediche delle sue commedie
gli servono di documento per richiamarsi a mente
tutte le sue vicende passate, sicché non parla quasi
che del teatro, e tutto il resto gli si confonde in una
nebulosa piena d'obblio, nella quale non disceme
più ne volti ne nomi. Quando si mette a scrivere
le sue Memorie^ non ha più ne rancori (se mai
ne ebbe ), ne timori, ne speranze. Sa che, deposta
la penna, non la rìpiglierà più e non gli rimarrà
che di aspettare la morte tranquillamente. Quindi
è che sulla sincerità inoffensiva e disinteressata
de' suoi ricordi non cade mai ombra di dubbio. Il
Gozzi invece scrive le sue Memorie ( che qualifica
inutili e pubblicate per umiltà^ benché né inutili
le credesse, né l' umiltà fosse mai stata tra le sue
virtù) scrive le sue Memorie con un proposito
espressamente ed unicamente apologetico, peroc«
che, impedito dall'ombrosa autorità del governo
di rispondere ex abrupto al libello d' un suo ne-
mico, volle, dipingendo tutto sé stesso, risponder-
gli indirettamente e mostrare che le imputazioni
dategli erano in aperta contraddizione con la sua
vili PREFAZIONE.
indole, co' suoi costumi e con tutto il suo passato.
Donde apparisce come delle sue Memorie, al pari di
tutte l'altre sue Opere, che sono tutte di pole-
mica o satiriche, bisogni valersi con molta cautela
al fine di trame notizie per la sua vita o per gli
intendimenti dell' arte sua. E tuttavia se v' ha *
scrittore, che importi conoscere intimamente per
giudicarlo bene, è appunto il Gozzi, intomo al
quale s' è venuto formando una specie d' arcano,
e a mantenerlo contribuirono non poco certi par-
ticolari difetti del suo stile, e la rarità relativa
delle sue Opere, per cagione delle due sole edizioni
che ne furono fatte. Ecco quindi una nuova ra-
gione di ripubblicare le Ftabe^ forse non ben
note neppure a tutti quelli, che ne hanno parlato,
e documento principalissimo del bizzarro ingegno
del Gozzi. Oltredichè, durando ancora « l'incerto
e timido ecletismo (scriveva anni sono il Car-
ducci ) col quale noi andiamo come a tastone per
le vie dell'arte* » e fra le molte prove, onde
scrittori incerti tentano il gusto d' un pubblico più
incerto di loro, spesseggiando pure quelle di genere
fantastico ed umoristico, pare giusto ed opportuno,
risuscitare la memoria d'uno scrittore italiano,
che, raccolta la tradizione dei nostri eroicomici e
romanzeschi, cercò ingegnosamente ricongiungerla
alla tradizione della commedia popolare e della
i Di Alcune Condizioni della Presente Letteratura nei JBòi^-
j^etft* e Discorsi,
PREFAZIONE. IX
Commedia delV artCj allargarla colla mitologia
fiabesca dei novellatori orientali, introdurvi molti
e diversi argomenti di satira contemporanea e di
tuttociò comporre un'opera teatrale che, quale
che sia, rimase sola nella nostra letteratura. ^
Carlo Gozzi nacque in Venezia il 13 Dicembre
1720,* e questa data ci mette già sulle traccie
d'una gherminella molto curiosa, ch'egli fa ai
lettori delle Memorie. Occasione a queste e alla
difesa, che imprese a fare di sé medesimo, è un
amore un po' serotino, stato cagione a lui e ad
altri d'infiniti travagli e sciagure; e temendo, si
vede, il ridicolo, che s'appiccica agli amori dei
vecchi, ricorre al partito di tacere la data della
sua nascita e se la cava dicendo: « scrivo l'ultimo
giorno d'Aprile nell'anno 1780. L'età mia oltre-
passa i cinquant' anni e non arriva ai sessanta.
Non disturbo il sacrestano, perchè mi faccia ve-
dere la fede del mio battesimo perchè non f o ^
* n Prof. Arturo Graf nel FanfuUa della Domenica del
4 Febbraio i883 scriveva: « io credo che se ci fosse in Italia un
editore di buona volontà che prendesse a ristampare le FiabCy
l'opera sua non sarebbe sprecata. » Quando il Professore
Graf scriveva queste parole, il mìo ottimo amico, Nicola Za-
nichelli, di cara memoHa, aveva già per consiglio delP illu-
stre Pro£ Carducci deliberata e incominciata la ristampa
delle Fiabe. .
* L'estratto battesimale di Carlo Gozzi, nato il i3 Di-
cembre 1730, battezzato il 26 del mese stesso, trovasi nei
registri di S. Paterniano in Venezia. Comunicazione del sig.
Ermanno von Ldhner.
Z PREFAZIONE.
conto alcuno sull'età degli uomini. In tutte le
età si muore, ed ho veduti essere uomini de' ra-
gazzi, Qd essere degli uomini maturi e dei vecchi
petulanti e ridicoli fanciulletti. ^ » Verissimo ; ma
intanto, quando, poche pagine dopo, egli ha da
narrare il principio della sua vita militare in Dal-
mazia sotto gli ordini del Patrizio Girolamo Que-
rini, mandato colà Provveditore Generale, dice
espressamente d'essere partito e in età di sédici
in diciasett' anni. * » Ora dai dispacci del Querini
risulta che il medesimo s' imbarcò per la Dalm^izia
il 2 ottobre 1741.' In questo tempo al Gozzi
mancavano dunque due mesi a compiere il ven-
tunesimo anno, ed egli si fa invece più giovine di
circa tre anni col fine evidente di nascondere che
quando dal 1771 in poi ebbe, come vedremo, a
trovarsi impigliato in cosi grandi vicende d' amorì,
più di mezzo secolo gli pesava già sulle spalle. *
Debolezze l Ma che danno già idea dell'indole
1 Memorie cit. Parte I, Gap. I, pag. 9.
* Memorie cit. Parte I, Gap. IH, pag. 34.
s Archivio di Venezia. — Dispacci di Ser Girolamo Que*
rini (Filza 171). Nella lettera 11 ottobre 1744 dal porto di
S. Eufemia dice arrivato il suo successore, Ser Giacomo
Boldù ( Filza 173) e questi nella sua lettera 13 ottobre stesso
comunica ai Senato che il Generalato gli fii consegnato dal
Querini. Debbo questa comunicazione alla somma corteua
del Gomm. Gecchetti, Soprintendente degli Archivi Veneti.
* Il prìmo a fare tale osservazione fu P eruditissimo e
brillante illustratore delle Memorie del Goldoni, il sig. Er>
manno von Lòhner. Vedi V Archivio Veneto,, Puhblica^iùne
Periodica, Tom. 24 da pag. 203 a 211.
PREFAZIONE. ZI
dell' uomo, non così schietto e buono, com' egli
volle dipingere se stesso e parecchi lo credettero,
ne così tristo, come pretese con grande esagera-
zione il Tommaseo, che lo disse vile, ipocrita,
ignobile in ogni cosa. * Gli stranieri, non distin-
guendo bene i yarii ordini della nobiltà Veneta,
lo titolano per lo più Patrizio Veneziano, ma non
era.' Al patriziato Veneziano teneva soltanto dal
lato della madre, una Tiepolo. Dal lato del padre
era cittadino originario di Venezia, ma di nobiltà
provinciale. Allorché fu in età di attendere agli
studi, lo scompiglio economico di casa Gozzi (che
fu poi la tribolazione di tutta la sua vita) era già
incominciato, cosicché Carlo fu di que' fanciulli
infelici, venuti tardi in una famiglia numerosissima
e già declinante ( era il sesto di undici fratelli ),
i quali sono abbandonati a sé stessi o confidati al
primo capitato. Ma poesia e debiti, letterati ed
usurai, ecco tutto P intemo di casa Gozzi a quel
tempo. « Un oispedale di poeti » la definisce
Carlo ^ e vuol dire a un dipresso un ospedale di
matti. Anche il taciturno e selvatico fanciullo fu
dunque ben presto invasato dal furore febèo di
tutta la famiglia, nella quale si teneva « una gior-
1 Vedi nella Storia Civile nella Letteraria lo studio
tu Pietro Chiari, la letteratura e la moralità del suo
tempo. (Ediz. Loescher, 1872) ptg. 280-291-292.
* Romania. — Stona Documenuta di Venezia. Tom. IX,
Gap. I.
3 Memorie cit. Parte I, Gap. Il, pag. 26.
XU PREFAZIONE.
naliera adunanza letteraria. » e in villa tutta la
numerosa figliuolanza s'esercitava non solo a re-
citare « opere tragiche e comiche apparate a me-
moria » ma ancora « farse giocose di piccolo in-
treccio alla sprovveduta. » Egli e sua sorella Ma-
rina sapevano contraffare assai bene certune fra
le più ridicole persone del villaggio. « Inne-
stando alle farse, scrive il Gozzi, molte scene
appoggiate a dialoghi ed a contrasti famosi di
quelle mogli e di que' mariti, spesso ubbrìachi,
co' panni indosso dei nostri originali imitati, la
copia d'imitazione era tanto pontuale agli occhi
de' nostri villerecci ascoltatori, che conoscendola,
ridendo bestialmente ci caricavano d' applausi pro-
porzionati alle loro grossolane nature. A mio pa-
dre ed a mia madre venne il capriccio di voler
essere imitati in una farsa da me e dalla mia so-
rella accennata. Facemmo gli schizzinosi alquanto,
ma bbogna obbedire al padre e alla madre. Gli
abbiamo serviti con una esattissima imitazione di
vestiti, d' attitudini, d' intercalari e di dialoghi in
alcune scene intrecciate di famigliari contrasti tra
lor consueti. La maraviglia loro fu grande e le
loro risa furono il castigo alla nostra obbediente
temerità.* » Esemplari educatori davvero quel
padre e quella madre Gozzi! Ma essi non s'aspet-
tavano di certo che questi semi fruttificassero poi
così bene nell'animo di Carlo, tanto per l'amore
i Ibid, pag. i8.
PREFAZIONE. XIII
innocente della commedia improvvisa^ quanto per
avvezzarsi così di buon' ora a creder lecito, o ino*
raimente indifferente, ogni eccesso di beffa e di
satira verso gli altri. Assai meào mantenne in certo
senso le promesse de' suoi primi saggi letterari,
vale a dire per regolarità di sintassi poetica e per
chiarezza, se si ha a giudicare dal sonetto: Alla
vedova d'un cagnolino^ che riferisce come com-
posto a nove anni, e da altro sonetto composto a
undici anni e fatto tutto di emistichi amatorii
classici, che gli valse le lodi e i lieti pronostici
d'Apostolo Zeno. D'allora in poi studiò e scri-
bacchiò a dirotta, sicché all' età di sedici anni ( o
meglio venti ) ^ avea già scritto « oltre a delle
innumerabili prose e delle innumerabili poesie vo-
lanti, quattro lunghi poemi, il Berlinghieri, il
Don Chisciotte, la Filosofia Morale^ cioè i di-
scorsi degli Animali parlanti del Firenzuola, il
Concila in dodici canti. ^ » Suo fratello maggiore,
il celebre Conte Gaspare Gozzi « per una geniale
astrazione poetica ^ > s' era maritato a Luigia Ber-
galli, povera, di dieci anni più vecchia di lui, poe-
1 Rimando il lettore ai cinque primi numeri del Saggio
Bibliografico sul Gozzi, che pubblico in fine del Volume
secondo e che mi fu favorito dalP egregio sig. Vittorio Ma-
lama ni, dal quale ebbi in questa occasione tanti e così ami-
chevoli aiuti, che compio veramente un dovere, signifìcan-
dogli pubblicamente la mia gratitudine.
* Memorie^ cit. Parte I, Gap. Il,' pag. 29.
s Ibid. Gap. Ili, pag. 31.
ZIV PREFAZIONE.
tessa per giunta e fra gli Arcadi Irminda Parte-
nide. Iacopo Aiitonio Gozzi, il padre, era stato
colpito di paralisi; Gaspare, incurante di tutto,
che non fosse i suoi studi, ayea lasciato che la
moglie pigliasse le redini di tutta la casa, e la
poesia arcadica, applicata alP amministrazione d^ un
patrimonio in disordine, avea dato ben presto i
frutti, che erano da aspettare. Le strettezze eco-
nomiche inasprivano gli animi. Ai debiti s* aggiun-
gevano continue baruffe in famiglia. Carlo dunque
stabilì d' imitare l' esempio d' un altro suo fratello,
e raccomandato dallo zio Tiepolo a Sua Eccel-
lenza Querini, che andava Provveditore Generale
in Dalmazia ed Albania, s'arruolò come Ventu-
riere e salpò da Malamocco sulla galèra genera-
lizia, che dovea portare a Zara, sede della Reg-
genza, il Querini, avendo per tutto viatico pochi
cenci, i suoi libri ed il chitarrìno, sul quale so-
leva improvvisare canzonette. Seguiamolo ora nella
sua dimora triennale in Dalmazia ( 1741 -1744),
la relazione della quale il Lòhner giudica « un
capolavoro di studio, che tuttora conserva il suo
valore politico ed etnografico. * » Poco descrive i
luoghi, perchè, sebbene quella selvaggia natura
avesse pur dovuto impressionare di qualche guisa
il giovine Veneziano, il paesaggio vero non avea
ancora riacquistata alcuna importanza letteraria
né nella poesia, né nella prosa di quel tempo.
1 Archivio Veneto cit. Tom. 24, pag. J08.
PREFAZIONE. ZV
Acutissime nella loro strana ironia sono per com-
penso le sue osservazioni sui caratteri de' suoi
compagni, sui costumi e sulle condizioni morali,
economiche e politiche di quella provincia della
Serenissima ; costumi e condizioni, che formano il
maggiore contrasto colla splendida capitale, a cui
tutti i gaudenti del mondo accorrevano ancora
come alla « Sibari dell'Europa.* » Cito i brani
che mi sembrano più caratteristici della relazione
del Gozzi:
« L'arrivo all'imbarco de! Provveditore Generale fra lo
strepito degli strumenti e delle cannonate, mi scpsse da miei
piccioli pensieri e mi sorprese.
Questo Cavaliere che io aveva prima ben dieci volte
Tisicato al di lui palagio m'aveva, sempre accolto scherze-
vole, e con quella affabilità, e quella dolcezza confidenziale
eh* è propria quasi in tutti i Veneti Patrizi, giunse all' im-
barco colle vesti, colle scarpe e col cappello cremesi, con un
aspetto sostenutissimo a me nuovo, e con una fierezza nel
volto notabile. Appresi dagli altri uffiziali, che alla sua com-
parsa in quelle vesti occorrevano delle mute riverenze pro-
fonde e assai diverse da quelle che si fon no in Venezia ad
un Patrizio togato. Salì egli nella galera Generalizia, mostrò di
non degnarsi nemmeno di osservare i nostri inchini co* no-
stri nasi sui nostri piedi. Sbandita affatto l'affabilità con cui
d aveva accolti e presi per la mano in Venezia, non guardò
nessuno di noi nel volto e fece caricar di catene il giovine
Capitano della Guardia appellato Combat, che aveva man-
cato di non so quale piccola ceremonia militare nelPacco-
* Foscolo. — Opere — Viaggio Sentimentale dello Sterne.
VoL 11, pag. 493 (in nota).
XVI PREFAZIONE.
gUerlo. Osservai tutti gli astanti sbigottiti e con gli occhi
spalancati guardarsi Pun P altro. Quelle austere . novità oc-
cuparono per poco il mio cervello. Parvemi ragazzescamente
filosofando di comprendere che un Nobile d^ una Repubblica
eletto Provveditor Generale d^ una armata e Capo di due
estese Provincie, nel presentarsi tale dovesse mostrarsi in un
aspetto affiitto diverso da quello d^un Patrizio togato, per
hr tremare, e per istillare della soggezione a tutti i subor^
dinati avvezzi, e fatti arditi da un privato cortese accogli-
mento, e spesso presuntuosi, e milantatori di possedere e di
disporre della Grazia Generalizia.
Siccome era io fortissimo nella massima di non com-
mettere delitti, di fare il dover mio senza niente pretendere
dalla fortuna, fui meno atterrito degli altri al terribile conte-
gno e agli aspri comandi di quel Signore. Diceva tra me:
Egli mi fa alquanto di paura, ma egli si degna di darsi il
peso, il pensiero e lo studio di trasformare se medesimo nel
contegno per farmela, ed apprezzando la sua fatica trovava
minore la mia paura del suo disturbo.
Ritiratosi egli nella sua stanza nel profondo di quel na-
vilio infernale, spedì il Tenente Colonnello Micheli suo Mag-
giore della Provincia a tutti gli Uffiziali e Venturieri imbai^
cati a chiedere loro chi fossero e da chi raccomandati.
Dopo tante visite fattegli nel di lui palagio, tanti acco-
glimenti, tanti Colloqui avuti con lui in Venezia da tutti noi,
nessuno si attendeva questa ricerca. Mi riconfermai nel ri-
flesso ragazzo-filosofico che aveva fatto.
In questa maniera egli estingueva interamente in ognuno
le speranze concepite nelle visite fattegli ed accolte con
Canta umanità prima che sMmbarCasse e prima che vestisse
le insegne Generalizie.
11 Maggiore della Provincia Micheli ottima persona, e
assai pingue, venne ad eseguire quel comando molto afiac-
cendato e sudato in gran diligenza con un foglio ed un toc^
calapis.
Ognuno aombrava,, borbottava e sbuffava a passare quella
inttegna. Dal caato mio ho riposto con viso rìdente al signor
Maggiore della Provincia pingue, e badiale, chMo mi chia*
ma va Carlo Gozzi, e ch'era stato raccomandato dal Patrìziic»>
Almorò Cesare Tiepolo. Tacqui il Senatore e il mio ^ msK
temo, per -non comparire ai^ibizioao.
Quella dimenticanza, certamente finta, nelPE. S. che
tanto increbbe agli altri, a me parve un tratto politico ne-
cessario per alcune teste fumanti* de* miei aozi che s^eraua
molto vantati dMntrinsechezza cù\ Cavaliere* prima del di'
lai imbarco.
La galera Generalizia, col seguito d' un'altra galera detta
Conserva, e d'alcuni navigli sottili armati, s'avviò nel golfo
Adriatico e sopraggiunse la notte assai buia. ^ »
Otto giorni dopo che il Gozzi era giunto a
Zara fu colpito d^ una malattia mortale^ dalla quale
scampò per miracolo ed in questa occasione si'
strinse della più cordiale amicizia, con Innocenzo
Massimo di Padova; amicizia che, contratta ne' mi-
gliori anni d' entrambi, durò tutta la loro vita. *
Attese poscia alla meglio a qualche studio ed eser-
cizio di arte militare, non trascurando del ttitto
però la poesia, alla quale anzi fu debitore d'un
insperato trionfo, eh' egli narra al solito con molta
vena di satira nelle sue Memorie:
1 Memorie cìt. Parte I, Cap. 4. pag. 39-40-41.
* Ibid. Cap. 5, pag. 48 e 49, e la Dedica del Tom. 4, del*
Tediz. Colombani. Un dugento lettere circa del Gozzi pos-
siede il sig. Conte Angeli di Padova, pronipote del Massimo,
e se ne valse il Malamani per un profilo del Gozzi nella'
Nuova Rivista di Torino, lo pure potei vedere quelle lettere
per mezzo del mio egregio amico Cav. Federico Stefani, il-
lustre cultore di storiografia Veneziana.
BfUsi. h
XVni PREFAZIONE,
« La città di Zara volle dare un segno di venerazione
al nostro Proweditor Generale Qùirini, e fu edifica^ per
un sol giorno solenne nel prato del Forte una gran sala di
tonami, adobbata di bei damaschi, e furono dispensati a
molte persone de^ viglietti d' invito per radunare un' Accade-
mia nella giornata prefissa di prosatori e verseggiatorL
Ogni Accademico invitato doveva recitare due compoaì-
zioni in prosa o in verso a piacere. Ne' viglietti erano notati
il primo ed il secondo tema da trattarsi. Ecco il primo. Se
sia più lodevole il Principe, che serba, difende e coltiva i
propri! stati nella pace o sia più lodevole quello, che cerca
di conquistare de' nuovi stati colP armi per dilaure il do-
minio suo. 1 Ecco il secondo. Una composizione in lode del
Provveditore Generale.
Un vecchio Nobile della città detto il signor Dottore Gio-
vanni Pellegrini Avvocato fiscale, vestito a velluto nero con
una gran parrucca bionda raggruppata, letterato molto elo-
quente sullo stile del Padre Casimiro Frescot e del Tesauro,
era il capo Accademico e dispensatore degli inviti.
A me nqn fu dato cotesto invito. Ciò prova eh* io ero
un ignoto dilettante di belle lettere e può anche provare,
che il signor Pellegrini assennato, e gravissimo mi credette
ragionevolmente ragazzo non degno d' essere considerato, trat-
tandosi d'una impresa ch'egli conduceva colla maggior se-
rietà illirica italiana.
Li signori Colombo e Massimo m' eccitavano ad apparec-
chiare due composizioni suf temi proposti, e sparsi per la
1 Curioso è conlrontare questo tema d' un' Accademia
officiale con quello che nel Seminario di Treviso proponeva
Lorenzo Da Ponte, altro personaggio caratteristico del Secolo,
e che gli tirò addosso le ire del Governo. 11 tema del Da
Ponte era.: « Se l' uomo procacciato si fosse la felicità unen'
dosi in sistema sociale o se piti felice poteva reputarsi in
istato di semplice natura. » Un piccolo Rousseau in Semi-
nario! (Vedi: Memorie di Lorenzo Da Ponte di Ceneda —
Nuova Jorca 1829-30 Voi. I.) -
r PREFAZIONE. . XIX
gran giornata prefissa, ma io ricusala di fare una tale com*
pai^ e per non avere avuto P invito e per umiltà.
Tuttavia volli divertirmi occultamente e abortire due
sonetti Puno sul primo, P altro sul secondo argomento, ma
risoluto di non fare alcun uso di quelli gli aveva seppelliti
nel fondo d' una scarsella. Si deVe credere ch^ io lodassi col
primo la pace e che il secondo fosse un elogio felice, o in-
felice all^ Eccellenza Sua.
Il Provvedìtor Generale accompagnato dagli uffiziali, e
da^ma^iori di quella Città entrò nella sala casotto e si as-
sise in un ricco sedile, al quale si saliva F>er molti gradini,
e uno stormo, non so da dove uscito di Letterati andava pò*
sando i loro terghi eruditi in afcuni seggioloni che formavano
un semicircoio.
Aveva veduti fuori dal casotto ìndamascato de' servi af-
fiscendati, che apparecchiavano de' rinfreschi acquatici, e una
gran sete mi molestava. -
Credei cosa lecita P andar a chiedere in cortesia una li-
monata a que' servi per dissetarmi ed era da mai consiglio
ingannato. Mi si rispose che per un preciso/ comando. Patto
della misericordia di dar da bere agli assetati era riservato
per spedai privilegio verso gli accademief sottanto.
Questa sgarbau risposta data al sitio di molti uffiziali
aveva accesa una muta turbolenza. Mi vergognai di ricevere
una negativa tanto increata e mi determinai jn sul fatto con
viso franco a dichiararmi Accademico per non sofferire ros-
sore, e per espugnare una limonau col titolo di poeta e con
du^ sonetti, eh' era inespugnabile col titolo d ' uffiziale e coll$
armi.,.. Risuonò Paere per tre lunghe ore di lunghe disser-
tazioni ampollose, erudite e ài carmi poco soavi. Qualche gè-
neralizio sbadiglio onorava di quando in quando P Accademia
e gli Accademici.... Tuonai anch' io nelP Accademia col mio
sonetto in lode del nostro Provveditore Generale Quirini.
Quest'ultimo Sonetto ebbe la sorte febea di piacere assai
air E. S. « alP universale per conseguenza, egli mi stabilì
Poeta nelle opinioni Zaratine. Fece poi nascere una scena
XX PHSFAZIONQ^
comica due giorni dopo. Il Provveditore Generale si 4ivep-
ti va spes&o sul P ore frefche a correre. a ca,vaUo quando quauroki
quando sei miglia fuori della Città, e upa truppa d'Uffiziali
gli facevano codazzo cavalcando dietro allo orme site. Tra,
questi correva anchMo.
Cavalcando per tal modo un giorno venne bramai air
V E. S. di sentire nuovamente il mio Sonetto in sua lodei»
ch'era divenuto famoso^ come spesso si vedono divenir cir^
colari in copia e famose delle inezie per le sole circostanze
che le avvalorano.
Il Cavaliere mi chiamò altamente; spronai il cavallo pen
appressarmegli ed egli senza punto rallentare il galoppo, mi:
comandò di recitargli, quel sonetto. Non credo che sia mai.
stato recitato un sonetto in una maniera simile a quella eh' lO:
dovei prendere, dalla creazione del mondo a quel punto^
Galoppando dietro a quel Signore, sparando quasi il.
polmone per farmi udire, con tutti i trilli,, le aspirazioni, le
cadenze, i semituoni, le mozzlcature, e le dissonanze che può
cagionare lo scuotimento niente accademico d' un ^avallo in
corso, recitai quel sonetto, che parve di singulti, e ringraziai
il Cielo cacciato ch'ebbi fuori il quattordicesimo verso. i>
E dei costumi e delle condizioni, eh' egli os-
servò, delle Provincie Illiriche in quel tempo,,
scrive così:
« Ho vedute tutte le Fortezze, incolte terre e molti vii*
laggi di quelle Provincie. In parecchie città trovai delle per-
sone educate, dì buona fede, cordiali e liberali. Nelle più
lontane dalla Corte del Provveditor Generale, de' costumi
.rozzi e barbari. I villici sono tutti fiere crudeli, supersti-
ziose, insensibili alla ragione. Conservano ne' loro matrimoni,
ne' loro mortuori, ne' loro giuochi gli usi degli antichi Gen-
tili perfettamente. Chi legge Omero, e Virgilio trova 1* imma*
gine dei Morlacchi.
* Memorie cit. Parte I, Cap. 7, pag. 58, Sg, 60, 61, 6a.
PREFAZIONE. XXI
Essi pagano una truppa di femmine perchè piangano sui
Gadaverì de' morti loro, le quali femmine si danno il cambio
'per dar riposo alle trachee spossate e rese fioche da certi lu-
gubri ululati d'una musica che mette spavento.
Uno de' loro giuochi è il levare alto appoggiato alla palma
della destra mano, un pezzo di marmo d* un peso enoriùe, e
lo «cagliarlo dopo tre o quattro salti. Colui che lo scaglia a
dritta linea, e piò lontano, ha vinto il giuoco. Ciò ricorda i
petti di masso pesantissimi, che scagliavano ai loro nimici
Diomede e Turno.
Ne' nidi loro i Moflacchi sono valenti e utili al Princi*
pato in occasione di guerra co' Turchi confinanti, verso ai
spiali conservanp una cordiale antipatia. Ne' Territori littorali
{^i Abitanti sono atti ad essere marinai temerari abbastanza
« .risoluti combattitori sulP onde. Verso al Montenegro, sono
ancora più barbari i popoli. Quelle famiglie ì cui ascendenti
e discendenti morirono pacificamente sui loro letti, o canHi,
e non vantano qualche buon numero d'ammazzati in esse,
éono guardate con occhio di disprezzo dalle altre.
Sulla spiaggia fuori della città di Budua,' dove un drap- ,
pello di que' nostd simili calano spesso la state dalle mon-
tagne per godere l'aere che spira dal mare, vidi fare le ar-
chibugiate e rimanere tre cadaveri sulla sabbia.
Uno di' quelli delle famiglie d' una lunga serie morta
pacificamente, rimproverato da un altro di quella vergogna,
volle troncare il rossore a' suoi posteri e incominciare i loro
trt>fei dal farsi ammazzare ammazzando.
Le zuffe e le archìbugiate tra villaggio e villaggio in
que'cootomi sono ft^quenti. Quelli d'un villaggio che ucci-
dano un uomo d'altro villaggio, non hanno mai la pace, che
al prezzo di cento zecchini o a quello d' una testa d' uh uomo
^1 villaggio loro; tarifRi stabilita senza, intervento di Prin-
cipe tra quelle genti dalla bestialità considerata equità,...
L41 sete della vendetta non è ivi estinguibile e passa di
erede in erede come un legale fideicommesso.
Tra i Morlacchi, meno fieri dei Montenegrini, vidi una
XXII PREFAZIONE.
^femmina di circa cinquanta anni prostrarsi dinanzi al Provve-
ditor Generale, trarre da un carniere un teschio arsiccio, de-
porlo a^i lui piedi, piagnere dirottamente e chiedere alta-
mente misericordia e giustizia.
Erano scorsi trenti anni eh? Ella conservava quel teschio
di sua Madre, ' eh* era stata uccisa. Gli uccisori erano già
stati puniti, ma* perchè la punizione non aveva appagato il
genio truce di quell'affettuosa figlia, instancabilmente, per
il corso di trent'anni era comparsa alle piante di tutti i
Provveditori Generali eletti protempore in quelle Provincie,
col medesimo teschio materno, colle medesime strida e lagrime
caldissime a chieder giustizia.
Mi piacque vedere le femmine dette Montenegrine. Esso
vestono di lana nera in un modo non certamente suggerito
dalla lussuria. Hanno le chiome divise e cadenti giù per le
guancie e per le spalle impastricciate di butirro per modo
<ch6 formano una specie di berrettone lucido.
Tutte le maggiori fatiche delle campagne e deir abita-
zione sono lor debito. Sono mogli e vere schiave degli uominL
Si inginocchiano e baciano loro la mano ogni volta che gir
' incontrano, e tuttavia mostrano contentezza del loro stato....
Nella Dalmazia ci sono delle belle femmine, che pendono,
la maggior parte, alla robustezza maschile, e tra le Morlac-
che de' villaggi que' Pigmaleoni che volessero consumare qual-
che staio di sabbia n^l ripulirle, averebbero de' bei simulacri
animati....
I terreni di quelle Provincie sono in gran parte montuosi,
sassosi e sterili. Vi sono però delle vaste campagne che po-
trebbero essere fertilissime. Non sono coltivati e lavorati ne
i stejili, né i fertili e restano quasi tutti maggesi e infruttuosi.
I cibi prediletti e più delicati de' Morlacchi sono gli agli
e le cipolle. Fanno un indicibile consumo annualmente di
que"* due generi. Potrebbero introdurre ne' loro terreni una
ricolta ubertosa di tali due prodotti, ma essi attendono dalla
Romagna gli agli e le cipolle per comperarli. Rimproverati e
corretti dì questa dannosa inerzia, rispondono che i loro an-
PREFAZIONE. XXIII'
tenati non piantarono agli e cipolle t che non alterano la
direzione degli avi loro.
Cbiesi ragione a delle persone più colte di que^Paesi
della generale indolenza poltrona rurale della Dalmazia. Mi
si rispose essere impossibile senza pericolo della vita obbli-
gare i Morlacchr a far più di quello che fanno, o a introdurre
la più piccola novità per riformare i loro campestri lavori. Dissi
che i padroni delle terre potevano chiamare degli agricoltori
italiani e finr divenire una Puglia quelle campagne. Vidi ri-
dere sgangheratamente i confabulatori sul mio progetto e
chiedendo il perchè di quelle risa, mi risposero che molti
signori Dalmatini sperano provati a far venire de' villani in-
dustri dair Italia e che pochi giorni dopo il loro arrivo furono
trovati uccisi per la campagna, senza poter rinvenire i col-
pevoli della lor morte. Mi persuasi tosto d'essere iftì cattivo
progettante e mi meravigliai che quei signori rìdessero e non
piangessero a darmi quelle notizie....
Non ebbi giammai la temerità di voler penetrare e spe-
cialmente di discorrere sulle viste e sulle ragioni politiche, ed
è forse bene che quelle Provincie rimangano nella loro
sterilità. 1 »
Ciò che osservava e lamentava il futuro poeta
delle Fiabe^ non osservava o non curava, pare, il
governo della Serenissima, e singolare è nel Gozzi,^
Veneziano d' antica stampa, la fina ironia, con la
quale chiude le sue osservazioni. Ad ogni modo
le sue osservazioni tagliano nel vivo e quello poi,
che è anche più caratteristico, se possibile, e rap-
presenta al vivo la profonda decadenza, che si prò*
pagava dal cervello alle membra, dalla capitale alle
1 Memorie ciU Parte I, Gap. 9, pag. 68, 69, 70, 71, 72^
73, 74-
XXIV PRBFAZKWS.
Provincie, è la vita stessa che il Gozzi condusse
aUa corte del Reggente Querini, è la nullaggine
superba e sfaccendata di quel Patrizio, che tenea
in Dalmazia le parti di Sovrano, e di quel co-
dazzo di nobili e di servidorame, che lo attorniava,
dei quali in tre anni il Gozzi non ricorda, si può
dire, un sol giorno, che abbiano impiegato a qual-
che utile studio di quella permanente barbarie, che
ii circondava, od a tentare di spargervi qualche
piccolo seme di civiltà. Quell' accademia di poesia,
nella quale, come s' è visto, il Gozzi conquistò con
im sonetto una limonata, cavalcate su destrieri fo-
cosi, nelle quali rischiò di fiaccarsi il collo, qual-
che amoretto, un teatro di commedia, in cui il
Gozzi recitava all'improvviso (e ciò è almeno altro
prodromo notevde del poeta drammatico) le parti
di Servetta^ serenate per far dispetto a mariti ge-
losi, burle, travestimenti, chiassi notturni per di-
sturbare i sonni degli abitanti, un fascicoletto di
poesie laudatone legato in velluto cremisi e ofiEèrto
primBi del ritorno a S. £. QRerìoi, ecco tutta la
vita del Gozzi in Dalmazia. £ come la sua, cosi
«quella di tutti gli akri suoi compagni, compresa
h Eccellenza del Provveditore Generale.
3i paragooìno ora quesiti ricordi colle parole,
che circa tre anni dopo il ritorno del Gozzi dalla
Dalmazia pronunciava Marco Foscarini nel Gut-
siglio Maggiore e si vedrà che il Gozzi fu sto-
rico veritiero in questa parte delle sue Memorie.
« Preghemo Dio, esclamava il Foscarini, che le na-
PKEPAZIONB. XXV
ziosk forestiere no se abbia messo a ponderar V in-
coerenza de tali dkezion; medtre osservando la
condotta dei Governi lontani opporse diametral-
mente a quella del Principato no so cossa le ri-
prendesse di più, se r impudente fidanza di chi
regge le Provincie o la comun sonnolenza de chi
presiede alla Elepubblica. ^ » Con così alta libertà
si parlava ancora nei Consigli di Venezia! Tali
qomini la Repubblica aveva ancora! Ma pusiroppo
quella decrepita sonnolenza era invincibile. Questo
in quanto alla storia.
(pianto all' arte, non aaancò chi volle scoprire
in quella dimora del Gozzi fra un popolo quasi
settaggio e pieno di leggende superstiziose e d' in-
genua poesia i primi germi del suo dramma fia-
besca Ma è una sottigliezza molto arbitraria ò di
cui almeno non è nelle C^efe del Gozzi alcun
s^no sicuro. I sonetti in lode del Querini, qualche
satira a' suoi commilitoni, qualche conunedia al-
l' improvviso, recitata con allegria, con audacia e
eoo estro giovanile, ecco tutto il fardelletto poe-
tico, che il Gozzi riportò di Dalmazia*
> liorpurgo — Marco Foscarini e Venezia nel secolo XVIIL
Degli Inquisitori da spedirsi nella Dalmazia. Ora:(ione detta
nei Maggior Consiglio il giorno ij Dicembre 1747» (Fi-
renze, Le Monnier, f88o.) — Romafiki. Storie Docum. di Ve-
nezia. Tom. cit Gap. 5. Cka una relazione di tre Inquisitori
della Dalmazia nel 1772, Giacomo Foscarìni, P aolo Bembo,
Antonio Zen, i quali avranno lasciato il tempo, che trovarono,
se gli stessi mali denunziava Francesco Falier, Provveditor
Generale nel 1786, in un'altra Relazione ciuu dal Romanin.
XXVI PREFAZIONE.
Tornato à Venezia, in compagnia dell' amico
Innocenzo Massimo, pareva che il cuore gli predi-
cesse qualche nuovo guaio. L'aspetto della sua
bella casa patema era al di fuori sempre quello,
ma batti e ribatti, nessuno apriva. Era come « pic-
chiare ad una sepoltura. ^ » Finalmente una vec-
chia serva venne ad aprire .... Ahimè ! Che interno
di casa! che contrasto fra l'antico lusso e la pre-
sente ruinal I pavimenti solcati e sconnessi, le fi-
nestre coi vetri rotti, le tappezzerie stracciate e
cascanti a pezzi. La galleria dei quadri era scom-
parsa. I ritratti degli antenati non aveano ancora
preso il volo, ma colla guardatura mesta e se-
guace parevano chieder ragione anche al tornato
. nipote di tutto quello squallore; il qual^ altro
non era che il risultamento combinato delP astra-
zione filosofica del Conte Gaspare e della « pin^
darica amministrazione * » della pastorella Arcade^
sua moglie. Carlo e l' amico Massimo stavano lì,
guardandosi l' un l' altro, come trasognati, allorché
il Conte Gaspare capitò, e mezzo tra dolente e
sopra pensieri narrò al fratello che la famiglia se
n'era andata nella villa del Friuli, che tra i de-
biti, le liti e le usure sfumavano le reliquie del pa
trimonio, che le sorelle, in età da marito, strilla-
vano per la dote, che il padre era sempre para-
litico e muto, che la casa era tutta a soqquadro;
1 Memorie cit Parte 1, Gap. i5, pag. ii8.
s Memorie cit. Parte I, Gap. ló, pag; 128.
PREFAZIONE. XXVII
poi sviò il colloquio e si mise a parlar di tutt' altro
coli' amico, ospite di Carlo. Cominciò allora per
Carlo una lunga iliade di guai. Volle tentare di
salvar qualche cosa dal naufragio e si tirò addosso
le ire degli usurai, le querimonie dei creditori, i
piati dei forensi, le avversioni di tutte le donne
di casa, quella della madre specialmente (sventura
decisiva per l' indole d' ogni uomo ), la quale spin-
geva la sua parzialità per Gaspare fino al segno
di non poter tollerare, che altri osasse mettere in
dubbio 11 genio finanziario dell' Irminda Parte-
nide. Questa, non sapendo più qual' altra poetica
sciocchezza commettere, dopo aver tentato di dare
in pegno agli usurai la vecchia dimora dei Gozzi,
indusse persino il buon Gaspare a farsi conduttore
e impresario, del teatro S. Angelo e di una com-
pagnia comica. Fu V ultimo crollo l Carlo, che con
tutto il suo genio fiabesco badava al sodo, dopo
aver pazientato lungo tempo, provocò la divisione
della famiglia e che ognuno si pigliasse ciò che
gli spettava. * La qual famiglia però dovrà essersi
martoriata fra tante angustie più per disordine,
che per povertà vera, se il Conte Gaspare potè,
siccome nota il Tommaseo, « dopo cinquant' anni
di negligenza e di lapidazione lasciare al suo erede
più che il necessario alla vita.* » Carlo scioltosi
alquanto da tali brighe (libero del tutto non ne
1 Memorie ciU Parte I, dal Ctp. 15 al 32.
* Storia Civile nella Letteraria cit. Gaspare Guzzi, Vene-
zia e r Italia del suo tempo. XIV, pag. 338.
XXVIII PREFAZIONE.
fti mai) ritornò agli studi e al far versi, F infer-
mità gentilizia dei Gozzi.
Nel 1747 s'era formata in Venezia un'Acca-
demia detta de' GraneUeschi, « brìgatella di omac^
«cini dabbene (cosi Gaspare Gozzi ) che si danno
questo titolo per umiltà. ^ » Che cosa significasse
«questo titolo, non occorre dire. Paolo De Musset,
«crittore Francese, innamoratissimo di Carlo Gozsd,
io ^iega per « amatori ^ asinaggini; » Alfonso
Royer, traduttore francese delle Fiabe, lo dà per
Accademia degli « Inetti; » ma sono entrambi spie--
gazioni inesatte. * Delineando « una quasi geografia
poetica, una etnografia stilistica dell' Italia nel se-
colo passato To il Carducci nota che il Veneto era
diviso <c tra il francesismo cattedratico di Padova
« sociale cfi Venezia e il toscanesimo cinquecenti-
stico ed erudito. ' » Di quest' ultimo erano acce-
sissimi sostenitori i Granelleschi « gran difensori
(scrive Carlo Gozzi nelle Annotazioni preparate
per una ristampa del sua Poema: la Mar fisa Bi\^
> Gaspa^b Gozzi, Opere. (Edizione delia Minerva in Pa-
dova, Voi. VIL) Principio delP adunanza dei Granelleschi,
pag- 133. Vedi pure nel Volume XIV della Nuova Raccolta
4i Vp&rette lùliane (Trevigi, Giulio Trento, 1790) una
molto prolissa e pedantesca cicalata di Daniele Farsetti, in-
titolata: Memorie dell' Accademia Granellesca.
^ Paul Db Mussbt — Charles Gozzi, Revue dea Deux
Monies, Tom. IV, 1844» — Alfonsb Roybr — Carlo Gozai
Théatre Fiabesque, traduit pour la première fois. — Paris — .
M. Levy, 1865. Introduction.
> Carducci, La Lirica Clas$ica nella seconda metà del
Secolo XVm.
PRBPAZIONS. XXIX
jarra) gran difensori della lir^ua letterale iislùmst
e della colta poesia di vario genere. ' » Ma in d»-
modo la difendevano?.... E quest'Accademia, e le
sue gesta^ al pari di tutta la vita di Carlo Gozzi,,
danno anch'esse in parte la fisonomia storica di
Venezia in quel tempo. « Bella cosa era, dice giu-
stamente il D' Ancona nel suo studio, sull' awenr
turìere Casanova, restaurare il gusto nelle lettere;
ma quei Granelleschi; col lora scempia prete S^
cbellarì arcigranellone (il Presidente delV Accora
demia) e la loro sconcia impresa e le altre goffitg^*
gini loro e il culto al Burchiello, più che ad un:
ravvivamento fanno pensare ad un rimbambi-
HKnto. * » Così è di. fatto. E. non occorre rifarsi
a descrìvere per la centesima volta Venezia alla
fine del secolo XVIII, e trarne ancora argomenti^'
di accuse o di difese strampalate, come s'è fatto
a sazietà. 11 fondo della vita sociale d^ allora non^
1 Di queste Annota\ioni pubblicai qualche brano nel 1881..
Allora erano inedite net Museo Correr di Venezia. Ora, .col
concorso di V. Malamani^ Ift ha pubblicate integralmente il
Magrini nella seconda edizione ampliata, del suo lavoro sul
Gozzi: / Tempi, la vita e gli scritti di Carlo Go:(^i (Be-
nevento, De Gennaro, i883) lavoro, direi, un po^ farraginoso
e non sempre esatto net fatti e; nei giudizi, ma* che mostnt>
il brioso ingegno e la molta cultura delP autore. AI quale va
resa lode d* avere per primo nel 187G tentato, per consiglio
del suo illustre maestro, Prof. Alessandro D^ Ancona, un vero
saggio critico sul Gozzi. Dopo, molti altri s^ invogliarono di
questo tema di studio.
» A. D'Ancona, Un Avventuriere del Secolo* XVI IL --
G. Casanova e le sue Memorie. Nuova Antologia i Febbraio
e I Agosto 1882.
XXX PREFAZIONE.
è peggiore a Venezia che altrove. La leggerezza
spensierata dì costumi e di sentimenti, Pappassio-;
narsi di picciolezze, in mancanza o nello spe-
gnersi via via di alti ideali da conseguire, è co-
mune a tutto il resto della società italiana, la
quale perciò è dipinta nelle commedie del Goldoni
più profondamente e più largamente di quello che
vogliasi per solito ammettere. Se non che a Ve-
nezia, la quale della sua splendida vita passata
conservava ancora le forme e le sontuose appa-
renze, a Venezia, dove anzi si potrebbe dire che
era ristretta in questo tempo tutta la vita italiana,
imbastardita, falsata, schiacciata in tutto il resto
d'Italia dalle influenze o dalla padronanza degli
stranieri, a Venezia, dico, i segni della decadenza
risaltano più vivi, più dolorosi, ed in più imme-
diata relazione di cagioni e di effetti colla cata-
strofe, che ingoiò la vecchia repubblica; catastrofe,
che (salvo a Roma ed in Piemonte, decadenti an-
che per cagioni loro proprie) era già avvenuta
negli altri stati italiani. Tuttodò basta e n' avanza
per d^r ragione della vergognosa rovina di Ve-
nezia; né occorre calunniarne le instituzioni e il
governo; come fece il Daru, o, come Filarete Chas-
les, compendiarne i costumi e la moralità in un
sonetto ed in una canzonetta di. Giorgio Bafib. ^
)
1 Études sur V Espàgne et sur les influences de la LiU
térature Espagnole en France et en Italie par M. Philaréte
Chasles (Paris,' Amyot, 1^47) -— D*un Théatre Espagnol-Ve-
nitien au XVIII Siede et de Charles Gozzi, pag. 483, 528.
PREFAZIONE. XXXI
Fra le picciolezze, delle quali Venezia s'appas-
sionò di più nel secolo scorso, furono le rivalità
del Chiarì, del Goldoni e del Cozzi; picciolezze,
dico, non già per la « battaglia teatrale combat-
tuta allora, » che « sarebbe segno di cultura e di
svegliatezza, da onorarsene un pòpolo, ' » ma per
le forme, che assunse tale battaglia, e le personalità,
le bassezze, le volgarità, i pettegolezzi, che vi si
mescolarono e che pur rìescirono 4 mettere <c tutta
la città in movimento. * » Antesignana della lotta
fu r Accademia dei Granelleschi, alla quale era
ascritto Gaspare Gozzi e, dopo il ritorno dalla
Dalmazia e le vicende domestiche, alle quali ho
accennato, s' ascrisse anche Carlo, le cui buone re- ,
lazioni col fratello non erano mai cessate del
tutto, nonostante- che Gaspare, durante i litigi, che
travagliarono e divisero la famiglia, avesse esposto
a ludibrio nel teatro, (di cui per sua disgrazia era
impresario e poeta) il fratello Carlo, una dama,'
pretesa amante di questo, e trovatasi a caso me-
scolata nelle baruffe domestiche dei Gozzi, e V av-
vocato di Carlo personaggio autorevole e general-
mente stimato.^ Singolare (nota il D'Ancona*^)
questa libertà aristofanesca del teatro sotto un go-
* D' Ancona, Op. clt*
< Gozzi, Memorie cit. Parte I, Gap. 34, pag. 293.
s La Contessa Ghellini Barbarigo-Balbi.
4 Antohio Testa. Vedi il Capii, 38, P.^ I, delle Memorie
di Carlo, intitolato: « Non crederei ciò che contiene il se^
guente Capitolo, se non V avessi veduto, »
» Op. ciL
XXXII PRfiFAZIOlVB.
Temo così ombroso e cosi inframmettente, e brut-
tissimo esempio domestico, che ebbe certo grande
azione sull'indòte naturalmente satirica^ puntiglioso-
e battagliera di Carlo Gozzi. Neil' Esopo in città^
libera traduzione di Gaspare d'una commedia Fran-
cese, una vecchia, nella quale è raffigurata nien-
te altro che la madre dei Gozzi, viene a lagnar^
ad Esopo, ministro del Re Creso, dei mali trattrf-^
menti, che essa ed il suo figlio maggiore ricevano*
da altri figli e fratelli, vale a dire da Carlo -è
Francesco:
Vecchia — . . . . Morì mio marito
E nella fratellanza de' miei mascbi
Per un tempo seguì lo stesso afibtto
E U stessa amidsìa. Ensno tutti-
D^un cuore, erano tutti d^ una- mente,
E quel che P un volea, 1* altro volea.
Quando, non posso dirlo senza piangere,
Fecesi loro amico Sicofante,
Dottor leggista di questa città,
E scompigliò \^ pace. Due de' maschi:
Si sono uniti, e sono contro l'altro
Ch' è maritato ed ha: cinque figliuoli.
Esopo — E questo vostro figlio non ritrova
Chi lo difènda, chi gli faccia scudo?
Vecchia — Vi dirò: l'umor suo è sì pacifico,
Ch'ei stava pure aspettando che gli altri
Due fratelli tornassero a pensare'
Che son nati d'un corpo e sona un sangue
Stesso. Oltre dì che, avendo atteso
In vita sua a leggere e a scrìvere.
Non s'intende niente di litigi,
Ed è di cuore schietto e buona fede;
PREFAZIONB. XXXItl
Né s'è curato d' opporsi aMacciuoIi
Deir avversano dottore leggisfa. , *
Onde, oltre alla sua moglie, alla famiglia
Sua ch^ è assai numerosa, ha in casa me,
Le sue sorelle, e in tutto è abbandonato
Degli altri due che stimano vittoria
L^ opprimere un fratello e se ne vantano:
A tale gli ha accecati la promessa
DelP avvocato, che da lor non sono
Già di mal cuore, anzi hanno buone viscere.
PÀr&, signor Esopo, io son ricorsa
Alla vostra bontà. Fate per modo,
Che ritorni la pace in casa mia.
Si chMo possa vedere tra' miei figli
Il primo amore e la carità prima.
Esopo — Sapete voi, che mova P avvocato
A difender tal causa?
VsocHfA — C'è chi dice
In varie forme. Chi dice eh' è mosso
A ciò far da una donna; e chi, ch'essendo
Già conósciuto per poco veridico
E per ciò abbandonato di clienti, ,
Faccia fascio d'ogni erba; e per mostrare
Qui in Cizica che ancor abbia faccende,
E' ti fa difensore d' ogni cosa
A dritto e a torto, e fa pianger le povere
Famiglie sventurate in questa forma. ^
La mano di Gaspare in questi versi si sente,
mi sembra, ne so davvero come qualcuno abbia
potuto dubitarne. * Una sola scusa ha il buon Ga-
' Gaspare Gozzi, Opere, Ediz. cit. voi. VII. Esopo in
Città, Commedia^ Atto III, Scena VI.
< Forse fu confusa con V Esopo in Corte, di cui si du-
bita se la traduzione sia sua.
Masi. c
5tXXiy PREFAZIONE.
spare ed è la debolezza sua, per cui era solito la-
sciarsi tirar pel naso daljie donne di sua casa, le
più indiavolate in tali contese. Da queste, nelle
quali avea educato Pumor suo, passò Carlo Gozzi
, alle contese letterarie. Quella col Goldoni e col
Chiari, eh' egli si compiacque sempre d' appaiare
con enorme ingiustizia^ incominciò dopo P im-
pegno contratto dal Goldoni, come poeta comico,
con Girolamo Medebach per gli anni dal 1748 al
1753. Quali fossero, le condizioni del teatro in
' Venezia ed in Italia prima della riforma del Gol-
doni è stato bene o male detto e ripetuto da tanti,
che non occorre veramente tornarlo a dire. Meglio
e con maggiore autorità d' ogni altro dal Goldoni
stesso in più luoghi delle sue Opere, principalmente
nella Prefazione alle edizioni del suo teatro del
1750 e del 1753, riprodotta e ampliata nell'edizione
- Pasquali del 1 761 : « Era corrotto a segno da più
4' un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro,
che si era reso abbomine vole oggetto di disprezzo ....
Non correvano sulle pubbliche scene se non isconce
Arlecchinate; laidi e scandalosi amoreggiamenti e
motteggi; Favole mal inventate e peggio condotte,
senza costume, senza ordine — Molti però negli
ultimi tempi si sono ingegnati di regolar il teatro
e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son pro-
* Marco e Matteo del pian di San Michele (dov'era il
teatro S. Angelo, per cui scrissero). Così li <ihiama nella Mar^
fisa Bi:;:{arra,
PREFAZIONE. XXXV
vati di farlo, col produrre in* iscena commedie
dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la
semplice traduzione non poteva far colpo in Ita-
lia E perciò i Mercenari Comici nostri,.... re-
citandole all'improvviso, le sfiguraron per modo
che più non si conobbero per opere di que' celebri
Poeti, come sono Lopez De Vega e il Molière ....
Lo stesso crudel governo hanno fatto delle com-
medie di Plauto e di Terenzio,^ né lo risparmia-
rono a tutte le altre antiche o moderne Commedie
ch'eran nate e che andavan nascendo peli' Italia
medesima.... I dotti.... il popolo.... tutti d'ac-
cordo esclamavano contro le cattive Commedie, e
la maggior parte non avea idea delle buone. Av-
vedutisi i Comici di questo universale scontento,
andavano tentoni cercando il loro profitto nelle
novità. Introdussero le macchine, le trasformazioni^
le magnifiche decorazioni.... gli Intermezzi in
musica le tragedie, e i drammi composti per
la musica. Qual incontro non ebbero i drammi
del celebre Sig. Abate Pietro Metastasio, quelli
dell'Illustre Sig. Apostolo Zeno, le trì^edie del
sapientissimo Patrizio Veneto Sig. Abate Conti,
la Merope dell'eruditissimo Sig. Marchese Maffei,
l'Elettra ed altre molte o interamente composte
o eccellentemente dal Francese trasportate dal pe-
1 Intorno a queste trasformazioni della commedia classica
in commedia delParte, vedi: CAitBRiifi, I Precursori del
Goldoni j e Michblb Scherillo, La Commedia dell* arte in
Italia.
; XXXVl PREI^AZIONE.
rìtìssimo Sig. Conte Gaisparo Gozzi, non meno
che altre eziandio, cosi di antichi, come di recenti
valorosi Poeti Italiani, Francesi ed Inglesi....?
E qual compatimento non ebbe anche alcuna delie
mie rappresentazioni.... il Belisario, V Enrico, la
Rosmunda, il Don Giovanni Tenorio, il Giustino,
il Rinaldo da Montalbano..,.} Ma codesti applausi
stessi, che riscuotevano i drammi e le Tragedie
rappresentate da' Comici, erano appunto la maggior
vergogna della (^ommedia, come la più convincente
prova dell'estrema sua decadenza. ^ » Queste le
' condizioni vere del teatro in Italia, allorché il Got»
doni ideò e iniziò la sua riforma. La tentò per^
gradi e quasi assaggiando le proprie forze e gli
umori del pubblico. « Quando si studia, scrive esso,
* sul libro della Natura e del Mondo non si può ....
divenire maestro tutto ad un cólpo ; ma egli è bea
certo che non vi si diviene giammai, se non si
studiano codesti libri. » Compose dunque da prima
commedie d' intrigo, poi di una sola parte scrìtta,
cioè il carattere principale della commedia, lasciando
il resto all'improvvisazione dei comici, è finalmente
di varii caratteri e tutte scritte. Già la grande arte
della commedia improvvisa, che il Goldoni stesso,
(al pari di Carlo Gozzi, fattosene poi sostenitore)
riconosceva essere quella che « italiana unicamente
può dirsi, poiché da altre nazioni non fu trat-
1 Goldoni, Commedie. Tom. I, Prefazione. (Venezia, Pa-
squali, 1761).
PREFAZIONE. XXXYU
j
tata,' > )a grand' arte della commedia improvvisa
era, si può dire, finita; le tradizioni delle famose
Compfignie comiche dei Gelosi, degli Uniti, dei Fe-
deli erano illanguidite da un peszo. Anche in Fran*
da, dov'era stata delizia di popoli e di re dal 1530
in poi,* la Commedia dell'arte, verso la fine del
secolo XVn, s' era quasi fatta francese del tutto e
non conservava più che « qualche sgocciolo della
sua antica vena, i suoi vecchi tipi, che le faceano
risparmiar la spesa dei vestiarii, le forme estrin-
seche insomma - e non altro. ' > Ripigliò vita sotto
la Reggenza nei primi del secolo seguente, ma
era già altra cosa anche alloj-a, né certo risplen-
deva più dei grandi nomi degli Scala, degli An-^
dreini, dei FioriUi, dei Martinelli, dei Riccoboni,
Tale la ritrovò il Goldoni ael lyóz, mentre in
Italia, dove il maggior rappresentante, che ancora
avesse, era il Truffaldino Antonio Sacchi, s' era da
gran tempo irrigidità in forme convenzionali e
scadeva sempre più nella grazia del pubblico,
« annoiato di veder sempre le cose istesse, di
sentir sempre le parole medesime, e di sapere
cosa deve dir l' Arlecchino prima eh' egli apra la
bocca. ^ » L'apogèo della gloria del Goldoni, là
> Dedica della Bottega de! Caffè al Conte Widimctn^
(Ediz. Pasquali. Tom. I).
• Vedi: A. Baschrt, Ijes Comédiens Ttaliens a la Cour
de France.
s L. MoL4]«i>, Molière et la Comédìe Italienne. ( Paris,
Didier, 1864). Chap. XVl, pag. 313.
•• Goldoni, Teatro Comico, Atto I, Scena II.
XXXVUI t»REFAZIONE.
maggior furia della sua creazione letteraria soao
appunto nel quinquennio còmico dal .1748 al 33.
n martedì grasso, io febbraio 1750, promette le
sedici commedie per l'anno venturo e l'ultima
sera del Carnovale seguente, dopo la recita dei
Pettegolerai delle Donne, è portato in " trionfo
a braccia di popolo al Ridotto.^ Con tutto ciò
gli si contrapponeva come emulo l'Abate Pietro
Chiari, del qual^ (checche si sia sforzato di di*
mostrare in contrario il Tonmiasèo) ha detto esat--
tamente Carlo Gozzi, allorché lo definiva « un
cervello acceso, disordinato, audace e pedantesco;
una oscurità d' intreccio da astrologo ; de' salti da
stivali da sette leghe; delle scen^ isolate, e dis-
giunte dall'azione, suddite d'una loquacità pre-
dicantesi filosofica e sentenziosa; qualche buona
sorpresa teatrale, qualche descrizione bestialmente
felice;.... uno scrittore il più gonfio e ampolloso
.che adornasse il nostro sècolo. ' » Con più placida
ironia il Goldoni si contentava di dire delle com*
medie del Chiari: « romanzi e poi romanzi!^ » Ma
il Chiari, vano e maligno, non si ristava dall' as-
saUre in mille modi il Goldoni e, prima ancora
che osasse scimiottare i temi ed i titoli stessi
1 Vedi lo stupendo studio di Cronologia Goldoniana di
Ermanno von LOhner nel Tom. XXIV deìVArchmo Vèneto.
' Memorie cit. Part. 1, Gap. 34, pag. 269.
3 Lettere di Garlo Goldoni al Conte Gì A. Arconati- Vi-
sconti, pubblicate dai signori Adolfo ed Alessandro Spinelli.
(Milano, Ci velli, 1881).
PREFAZIONE. XXXit
delle sue commedie, contrapponendo alla Pamela
Nubile la Pamela Maritatay 9Xii\Avventuriere
Onorato V Avventuriere alla Moda^ al Padre per
amore V Inganno amoroso, al Molière il Molière
marito geloso, al Terem^ia il Plauto, éH^ Sposa
Persiana la Schiava Chinese^ al Filosofo In^
glese il Filosofo VenepanOy alla Sco\:[ese la £e//a
Pellegrina^ ^ prima ancora che osasse tanto, ful-
minava il Goldoni di satire e di schemi più ò
meno diretti, più o meno coperti. V'ha chi, pre-
tende che il Goldoni provocasse per primo il Chiarì
con un sonetto ignobilissimo, che è riferito nel
Codice della Raccolta Cicogna (nel Museo Correr
di Venezia), intitolato: Composi^^ioni uscite sui
teatri e Commedie e Poeti nelV anno 1754 in Ve^
ne^ia,^ monumento curiosissimo dell'accanimento
e della scurrile volgarità di codeste lotte letterarie.
1 Vedi: Achille Neri, Aneddoti Goldoniani (Ancona,
Morelli, i88'i) pag. 38, 59! Il Neri cita in proposito un gra-
zioso sonetto, dove ài prende in burla il Chiari per questa
sua sciocca gara. E il Chiari che parla:
Gravido di commedie sempre egli è, {il Goldoni)
E quando alcuna ne partorìri, '
Sobito quel suo parto io storpierò; ' .
E quei che son cresciuti e adulti già,
lo cosi male li manierò,
Che ti prometto staranno da Re.
* Cod. 1882^ Raccolta Cicogna. DelP attuale Catalogo del
leo N. 3395..
Museo N. 3395
XJ. PREFAZIOHE,
In quel sonetto, ^ fra altri vituperi^ v'ha c6e le
Commedie del Chiari, prete:
D'un sagro disertar son laide imprese. ^
Ma quel Codice è pieno di poesie scritte dai par-
tigiani e dai nemici dei due po^ti. Per me non
•credo quel sonetto opera del Goldoni e mi sembra
che concordi piuttosto con altri assalti consimili di
Gasparo e Carlo Gozzi contro il Chiari, il primo
dei quali scriveva:
San Basilio e Gregorio Nazianzeno
E più di tutti San Pietro è adirato,
Perocché un sacerdote consacrato
Fa commedie ogni dì con Cristo in seno,*
ed il secondo, alludendo ^al Goldoni ed al Chiari:
Ritornin gli uni aMor digesti, e scribi,
Tornin gli altri pentiti agi' Introibi, *
E altróve, volgendosi ^I Chiari soltanto:,
Ornai pe'fabi Ubri e per mollezza
E più pei disertar dal sacro tempio
Piange la Chiesa afflitta, è il secol guasto.^
1 11 sonetto è attribuito al Goldoni e in calce ha questa
Nota: « Questo sonetto fu fatto in occasione della Commedia
intitolata: L* Avìfenturiere alla moda^ 23 Ottobre 1749. »-
« Gasparo Gpzzi. Opere. Ediz. cit. Voi. XVI, pag. 378.
5 Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772-74. Tom. VUI. Canto
Ditirambico de^ Partigiani del Sa/cchi TrufBìldinov pag.^75.
* Fogli sopra alcune Massime del Genio e Cosfumi del
secolo dell'abate Pietro Chiari e contro a' Poeti Nugne:(
de* nostri tempi, (Venezia, Colombani, 1761). lì nome di
Carlo Gozzi è nell^ epistola di dedica.
PREPAZIONB. XLI
Fra i molti però, che si mescolavano in questa
lotta, chi si mostrava indifferente fra il Goldoni ed
il Chiari :
E t}, a dirla tra nu, seoz' altri bizzi,
I xe tutti do coghi belli e boni.
Che tutti do fiei dei gran bei pastizzi ; >
chi esaltava il Chiari sul Goldoni:
Chiari ve scrive in aerìo e più bello e puirto.
Chiarì vien più brillante....
Bisogna aver pazienza, in tutto ancuo el lo supera
E col far insolenze, Ponor no se recupera.
Bisogna far fadiga, studiar come el fa lù,
Che allora po' se vede quel che^h'a più virtù.
Via, bravo intanto, Chiari, portòve sethpre ben,
Che diese matti parla de rabbia e de velen.
Voghe*, Chiari, voghe, che da do anni in qua
De cento barche almanco avanti ghe se andà;*
chi finalmente, ed erano i migliori in Venezia e
in tutta Italia, stava pel Goldoni. Per lui parteg^
giava altresì il Casanova, giramondo imbroglione,
finché si yuole, ma vivissimo ingegno di certo,
che, mosso da ragioni non tutte letterarie, avventò
contro il Chiari una filza di cattivi martelliani, e
1 Sonetto anonimo nel Codice cit, della Raccolta Ci-
cogna. Ma è di Giorgio Bafio, autore di molti altri sonetti
rìferìti nel Co4ice Cicogna ed è stampato nella Raccolta Un^
persale delle Opere di Giorgio Baffo Veneto, (Cosmo-
poli, 1789).
< Codice Cicogna cit.: Della Commedia intOplata Le
Done de Casa-Soa del celebre Sior Dottor Carlo Goldoni,
XLU • PREFAZIONE.
questi se ne vendicò, satireggiandolo sotto il nome
di Signor Vanesio in un suo romanzo, la Co-
mica in fortuna. Per tutta risposta, pur riba-
dendogli: ^ _
Ma.vu guaste el teatro: e la bella, fatturi.
Che avea fatto Goldoni se perde e più non dura,
il Casanova gli promise un cargo de legiìaCy ma
era già alla vigilia d'esser chiuso nei Piómbi e
non potè mantenergli la promessa.^ Si sbracciava
il Chiari a procurarsi fautori dappertutto, ed uno
dei documenti più strani della sua pazza vanità
sono le Epistole Poetiche a lui dirette da Alcuni
Letterati Modanesi e pubblicate con le risposte
di lui. * Di queste Epistole il Goldoni, scrivendo
all'Arconati-Visconti in proposito del poemetto in
sua difesa del Padre Roberti, diceva: « non mal-
tratta, alcun altro, per onorare l'amico suo; non
seguita lo stile dei Modenesi nelle loro Epistole
Martelliane, né mi. mette al di sopra de' buoni
autori, com' essi fanno il loro versificatore. ' »
E Gaspare Gozzi in una lèttera al Mastraca: « il
(Chiari) è stato gonfiato a Modena con lettere
^ D^ Ancona, loc. cit.
« bella Vera Poesia Teatrale — Epistole Poetiche di
alcuni Letterati Modaviesi dirette al Sig, Abate Pietro
Chiari colle risposte del medesimo, (In Modana, Eredi So-
-liani, 1754).
9 Lettere di Carlo Goldoni al Conte G. A. Àrconati-Vi-
aconti, cit. ^
PREFAZIONE. * XLIII
in versi martelliani piene di lode, ed egli ha ri-v
sposto a tutte, lodandosi quel poco, di resto che
mancava. Tutto il mondo è versi martelliani. * »
Fra gli scrittori delle Epistole^ uno de' più invipe^
riti nelle sue allusioni al Goldoni è l'Abate Giam-
battista Vicini, Arcade della più bell'acqua, che
inneggia al Chiari, dicendo:
Tu vai dei Greci sommi, cu dei Latini al paro,
E degli Itali antichi, cigno animoso e raro. -
Tu superi gVIspani, tu superi gP Inglesi
Moderni e prischi; ah il soffrano, tu superi i Francesi.
Tu a gli Europei talenti campo novello apristi,
Nuovo comico mondo tu, Chiarì, discopristi....
E via di questo gusto, chiiamando per di più in
un sonetto di chiusa gu/i e corvi gli enjuli del
Chiari ; senza che questo gli impedisse poi, tre
anni dopo, di far la corte al Goldoni, il quale,
sempre buono, avea scordate le offese.* L'Abate
* Gasparh Gozzi. Opere. Ediz. cit. Tom. XVI, p. 260-61. •
* Vedi nella mia Raccolu di Lettere del Golàoni (Bo-
logna, 21anichelK, 1880) le lettere 9 Dicembre, 34 Dicembre
1757, e 29 Aprile 58 del Goldoni al Vicini Gli egregi Edi-
tori delle Lettere Goldoniane alP Arconati dichiarano d^ aver
interrogato intorno alle Epistole Modenesi il chiarjno Cav. An-
tonio Cappelli, il q\aale drede che il Goldoni nelle lettere al-
r Arconati alluda ad un opuscolo del Vicini: La Commedia
dell'Arte e la Maschera, Due Epistole in versi Martelliani,
citato dal Tiraboschi nella Biblioteca Modenese, Forse quest
è un estratto delle Epistoke Poetiche che io ho sott^ occhi, e
nelle quali sono appunto due le Epistole def Vicini. Ma non
mi pare si possa dubitare che il Goldoni alluda invece al li-
bretto citato da me. Nei versi del Vicini non v^ha poi, né
XUV PREFAZIONE. ,
Vicoli è il Signor Egerìo Por conerò del Barefti,
titolo che gli stava bene davvero l *
Contro il Goldoni ed il Chiari scesero in campo
i Granelleschi ; non tutti però avversi al Goldoni
o non tutti almeno con accanimento, uguale a
quello di Carlo Gozzi. Suo fratello Gaspare, ad
esempio, se non si può dire che s^ astenesse del
lutto, certo attestò più volte e pubblicamente la
sua stima e la sua ammirazione al Goldoni. Basti
ricordare i giudizi di lui sui Rusteghì e sulla*
' Casa Nova nella Ga^^etta Veneta e la pubblica-
zione fatta nella Gazzetta stessa dei famosi versi
del Voltaire in onore del Goldoni. ^ Di questi en-
tusiasmi di Gaspare pel Goldoni pare anzi che
Carlo s'arrovellasse talvolta non poco^ sicché, oltre
ai noti versi, nei quali taccia quasi d^ infedeltà il
fratello:
I Granelleschi in gran pensier mettete;
Chi si lamenta, e vi crede neutrale
E chi sustten che ribellato siete.
Lo scandal ci ponete;
II Dottor tira calci, conie un mulo,
E la camicia non gli tocca il e....,'
vi può essere, allusione a Carlo Gozzi, siccóme dubita il Cap-
pelli, e basta riflettere alla data per convincersene. Il Vicini
allude al Goldoni, non ad altri; non mai al Gozzi in ogni
caso, che nel 17^4 né avea scrino nulla pel teatro, né sco-
"^Mitamente avea ancora assalito il Goldoni.
1 Frusta letteraria, N. XX^IV.
« Gasparo Gozzi. Opere. Ediz. cit. Volumi VIII-IX. Ga^-.
jetta Veneta N. 5, 45, 86. La Gaietta inoltre fu sempre
awersissima al Chiari.
» Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili, pàg. 196.
i
PttBFAZIONE. XLT
oltre a questi versi, dico, v^ è nel Codice Cicogna
un altro sonetto di Cario, che credo inedito, ed è
di questo tenore:
Fegeio 1 alza la cresu e sfida l'orbe
Dòpo la lega sua col Gazzettiere,
Più non 8i può rimetterlo a dovere,
£i ci minaccia e tien le luci torbe.
Sapete, amici, come se gli torbe *
Quest'arroganza, eh* or ci h vedere?
Ditegli questi detti per godere,
, Che gli fien più discari delle sorbe:
Fegeio, l'opre tue fin or son state
Fetenti e lorde, pazze e di castrone;
PuoUe veder chi non l'ha ben guardate.
Se pel futuro ne farai di buone.
Diremo: il Gazzettier l'ha tacconate
O gliel'ha fatte ed avremo ragione.
Chi cerca la cagione
D'un stran caso, la trova; ecco trovato
Lo'mperchò sozio a Erode oggi è Pilato.'
Carlo invece non diede mai tregua né al Chiari,
né al Goldoni, e d'invettive e di satire contro
questi due, e principalmente contro il Goldoni,
riempi intieri volumi, oltre alle moltissime, che
sono inedite. Sarebbe soverchio e stucchevole rie-
saminare tutta questa farraggine. Non he dirò
^ Il nome Arcadico del Goldoni.
« Per: intorbida.
' Codice cit. Il sonetto di Carlo è sul verso del foglio
bianco di una copia di una lettera di Gaspare. C'è di più
questa nota: « Sonetto f^ dal Sig, Abate Delnea potrà es»
sere sparso. »
XLVI PREFAZIONE.
quindi se non quel tanto che più importa al mio
argomento.
'Quando Carlo Gozzi nel 1772-74 pubblicava e
ripubblicava molte delle sue poesie satiriche contro
il Goldoni, sentì la necessità di tralasciarne alcima
delle più scurrili, di correggerne altre e di scusarsi
quasi, di questa rinnovazione d'offese a guerra
finita. Ma la sua scelta fu maligna, dappoiché
escluse tutte o quasi tutte quelle contro il Chiari;
le sue correzioni furono pressoché insignificanti, le
sue scuse magre e non sincere. « Il pubblicare,
scriv'égli, de' Sonetti urbanamente satirici, faceti,
ragionevoli, non fa che far noto, che quella per-
sona, contro alla quale sono scritti, fu un ingegno,
che ha meritato l'occupazione d'un altro inge-
gno. ' » Come e in che tempo preciso Carlo Gozzi
si gettasse nella battaglia, che ferveva a Venezia,
fra Goldanisti e Chiaristi, sarebbe difficile deter-
minare. Questa battaglia, come dissi, avea vera-
mente messo sossopra tutta la città, e non esagera
Cario Gozzi, scrivendo:
I partigiani ogni giorno crescevano,
Chi vuole Originale e chi Saccheggio;*
1 Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili. Discorso,
notizie, verità e riflessi, i qucdi, per essere frivolewe, non
saranno, letti, e perciò non annoieranno i lettori, pag. 258.
Ibid. pag. 243: « tronco per lo meno due ter\i delle cose da
me scritte contro il Sig, Goldoni. »
* Altri due soprannomi dati dal Gozzi al Goldoni ed al
Chiari.
PREFAZIONK. XLVII
Tutto il -paese a romore mettevano,
Sicché la cosa non è da motteggio.
Nelle caie i fratelli contendevano.
Le mogli colmanti facean peggio,
In ogni loco acerba è la tenzone, ,
Tutto è scompiglio, tutto è dissensione. ^
Fu il momento più decisivo per la vita privata e
letteraria del GozzL Fin' allora non avea fatto altro
che poesie per nozze, per monache, per ingressi
di magistrati,* poesie per le cosidette Raccolte,
la gran miseria dei letterati del secolo XVm,
(ogni tempo ha le sue) ed il suo nome apparisce
anche nelle famose di Milano per la morte del
gatto del Balestrieri, e per quella di Pippo, cane
vicentino;* satire forse, che sono, delle Raccolte;
« Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili. La Tar-
tana de gV Influssi per V anno bisestile lySG, pag^ 27. Un
anonimo nel Codice Cicogna cit., esce in proposito in questi
versi, forse più satirici che veri, e che furono riportati anche
da Achille Neri ne' suoi Aneddoti Goldoniani;
Le Donne per el più dal Chiarì le tegniva:
Co le lo difendeva, guai chi le contradiva I
Proprio le xe portse a star coi cplarinì,
Grami quei che gbe tocca i so cari abbatlni 1
Bisogna compatirle, se le ha sto pregiudizio,
I ghe cotnmoda molto, i è sempre al so servizio :
I altri galàntomeni gha tutti el so da fìir;
Ma quéi, co i ha ditto Messa, no i gha altro da pensar.
t ■ Non. credo si chiudesse verginella
In monistero per servire a Dio,
Né che andasse a marito mai donzella,
Senza un grun pezzo del cervello mio. •
Cuti dal Tommaseo, Storia Civile nella Letteraria, p. 236.
s Vedi: N. 6 e 8 della Bibliografia in fine del Voi. II.
XLVill PREFAZIONE,
siccome, celiando, ^i lagnala Carlo Gozzi, se ad
ogni occasione di Raccolta non era con gli altri-
poeti invitato a cantare:
O me infelice! Che vorrà dir questo?
Il Venier fa P ingresso,
Tutti i poeti a scriver son pregati
Ed io non veggio un messo
Che m^ abbia almeno un sonettuzzo chiesto!
Ahi ch^ esser deggio deMimenticati I ^
Combattè da prima contro il Goldoni ed il Chiari,
insieme coi colleghi Granelleschi e cogli altri av-
. versari dei due poeti, punzecchiandoli di continuo
con libelli e satire, ma finalmente buttò giù bu£Eis^
e, ponendosi audacemente a capo degli assalitori,
scrisse la Tartana degli Influssi per Vanno bise-
stile 1756, specie di lunario burchiellesco, col quale,
fra altre cose, dileggiava nelpeggior modo il Gol-
doni e il Chiari. ''' <c O vergogna del secolo cor-
nuto! (scrive altrove in questo proposito il Gozzi).
Che più si doveva attendere per accendersi d'un
1 Vedi: Bibliografia al N. 5. Versi riferiti anche nelle
Opere. Tom. Vili, pag. 219. Ediz. 1772. Per V Ingresso di
S. E, Girolamo Venterò, Procurator di S. Marco,
* Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772, Tom. Vili. Questo li-
bretto fu fiatto stampare, dice il Gozzi, da Daniele Farsetti,
fondatore dei Granelleschi, nel 1757* -^ Ji2?morie cit. Part. I,
Cap. 34, pag. 272. Ne rinnovò il titolo di Tartana degli IH"
flussi da un vecchio Almanacco Veneziano notissimo, che si
pubblicava fin dal secolo XVII sotto il nome di Schieson.
Vedi: Gamba. Serie degli scritti in dialetto Vene^. (Venezia,
Àlvisopoli, 1832).
PltEFAZIONE. XLIX
onesto sdegno in difesa del secolo, degli studi e
del comune? Io mi recai nel mio stanzino terreno
e qui disegnai quelP operetta di pochi fogli appel-
lata: La Tartana. Picciola parte d'essa spetta ai
poeti Nugnez, ^ hi maggior parte a' costumi del
secolo in generale. Ella è uscita da' torchi di Pa-
rigi. Buon prò. Fu donata e non venduta. Non
aveva nome del suo scrittore,, ma i pesciolini sa-
peano ch'ella era di Carlo Gozzi. Se ad alcuno
mancasse di saperlo, suonisi la tromba, si raduni
il popolo. Sappiasi che la Tartana è di Carlo Gozzi,
di Carlo Gozzi. * » Anche in questa Tartana il
bizzarro ingegno e l'imior satirico del Gozzi
brillano di strana luce a traverso le irregolarità
e disuguaglianze del suo stile, col quale questa
volta pretendeva imitare il Pulci ed il Bur-
chiello, la gran passione del Gozzi e dei Granel-
leschL Ai quali, ed al Gozzi specialmente, alludeva
certo il jBaretti, allorché con molto senno derideva ,
nella Frusta gli € smisurati panegiristi, » del Bur-
chiello e tutti quei loro riboboli d'accatto e vec-
chiumi di frasi ritinti a nuovo, in cui parea cre-
dessero consistere il perfetto scrivere.
Della rivalità fra il Goldoni ed il Chiari scrive
il Gozzi cosi:
1 Altro soprannome dato da Carlo Gozzi al Goldoni ed^
al Chiarì. Il Nugne\ è un personaggio della Storia Galante
di Gii Blas di &Mtillano, che di lacchè, beone e ladro si
improvvisa poeta e scrittore di romanzi e commedie.
* Fogli sopra alcune Massime del Genio etc. Op. ciu
f««- 29.
Gozzi. d
PRBFAZIONS*
Dove fan lor imprese i ciurmttorì^
Vedestu mai, lettore, in sulla piaxsa
Due fantaccini &r gli schermidori
In mezzo a innumerabil turba pazza?
Davano assalti, menavan furori
Da fien' paura a Dodon dalla mazza.
Tondi, punte, rovesci ed avean quelli,
In iscambio di spada, in man randelli.
Era ignorante V udo e ne sapea
Tanto di scherma, quanto un uom dipinto :
L^ altro avea della scola alcun precetto
E facea l'impostore al rigoletto,
Cosi tenendo il popolo in puntiglio
Traean que'due ciurmanti un buon guadagno.
Leggonsi certe nuove Marlanne,
Certi Baron, certe Marchese impresse.
Certe fraschette buse, come canne,
E le battezzan poi filosofesse.
Che il mal costume introducono a spanne.
Credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice, egli è un comporre alla Francese;
Certo è peggbr del mal di quel paese. ^
li costume o dev'essere un bordello,
O in tutto una virtù che non si trova.
D'otto vecchie Commedie in un fardello
Ricuci 1 fatti e la commedia è nova.*
Gridan le genti: Il Teatro è risorto.
Novi Moller son nati al calamaio....
1 Tartjlna, pag. a6, 18, ag.
« Ibid., pag. 37.
Di un assalta cosi fiero il Gozzi dava gii per
ragione il suo amore alle vecchie rommedie del-
PArtc:
Io sto piangendo pel Teatro morto
E stoghiozzando al buco delP acquaio, >,
e a rinnovarne la gloria conchiudeva preconiz-
zando e invocando il ritomo del Truffaldino Sac-
chi, che da Lisbona donde avea dovuto ripartire
colla sua Compagnia a cagione del terremoto del
1755,* stava per far ritomo a Venezia:
Deh corra il Sacchi e venga a darci aiuto
Tutti per noia abbiam le faccie oscure;
Tutte le persone
Andranno al Sacchi come ad un convito
E rìderanno e dirangll: ghiottone,
Perchè si t*erì, traditor, higgito?
Questi dottor ci opprìmeano i cardiaci;
Eravam tutti fatti ipocondriaci
Sappi, che noi facemmo que'firacassi
All'opre loro e quel picchiar di mane,
Perocché sentivam certi papassi
A dir, ch'elPeran cose sovrumane
E che tu eri un istrion pe' chiassi
Galoppa e vien per le più mozze vie...,'
* È quello descrìtto dal Baretti odia Lettera XDL al
fratelli, 2 Settembre 1760.
' Taitaiu, pag, 69.
Ul ^ PREFAZIONE.
Contro il suo solito il Goldoni non potè con-
tenersi e rispose:
Ho veduta stampata una Tartana
Piena di versi rancidi sciapiti,
Versi da spaventare una befana,
Versi dal saggio imicator conditi
Col sale acuto della maldicenza,
Piena di falsi sentimenti arditi;
Ma conceder si può questa licenza
A chi in collera va colla fortuna,
Che per lui non ha molta compiacenza.
Chi dice mal senza ragione alcuna,
Chi non prova gli assunti e gli argomenti
Fa come il can che abbaia alla luna. ^
Il Gozzi, vedendo cosi raccolto il guanto dal
Goldoni, si eccitò alla lotta sempre più. Dipingeva
il Goldoni come disperato di quell'assalto:
Stassi il Dottor sdraiato e strappa e sbrana,
E scaglia il parruccon sul pavimento.
Poi grida: Aceto, io vado in sfinimento,
Che non posso patir quella Tartana.*
1 Biblioteca Marciana di Venezia. Codice 327, Classe IX.
Terzine del Goldoni alP Avvocato Alcaini. Le pubblicò già il
Magrini nelP Opera cit. Questa poesia, scritta in occasione
che S. E. Bastian Venier tornava dal reggimento di Bergamo
è pubblicata nella raccolta fatta dal Goldoni delle sue Poe-
sie, Edizione Pasquali, Venezia, 1764, ma il passo relativo
alla Tartana è soppressa Esempio di nobiltà d^ animo, che
il Gozzi non imitò.
* Carlo Gozzi. Opere, Ediz. cit. Tom. Vili, pag. 181.
PREFAZIONE. LID
Smascherava la finzione che la Tartana fosse
scrìtta da un morto * e eh' egli non ne fosse che
roditore;
Qual colpa è mai di^quel barbier di Mida
Che vide al Re gli orecchi del giumento?
Qual colpa ho io che in un oscura tana ^
Scrìssi soletto, e, morto, nella tomba
Avea gli scritti e quella mia Tartana,
Se uscita come sasso dalla fromba
Da torchi Parìgin, la Fegeiana
Orecchia ha pubblicata a suon di tromba? <
Non avea più alcuna misura nella volgarità bi-
richinesca- dello scherno :
O putti da buon tempo, o compagnoni.
S'io credea, che n'avessimo un tal spasso,
Dicendo alPAsseèsor:' Vate da chiasso
E gran Riformator de' miei e...
GlìeP avrei detto prima ott'anni buoni.
Amici, eccol di qua bassotto e grasso,
' Corriamgli incontro, attraversiamgli il pano,
Diamgli dei pizzicotti in sui pippioni*
^ Nella lettera di dedica a Daniele Farsetti, il Gozzi
finge che un amico suo e gran nemico del Goldoni e del
Chiarì, vedendo i trìonfi di questi <iue, • tutto venne meno
dì malinconia e rinserratosi in una sua cameretta, scrìsse di-
sperato codesta Tartana, che pòssianoo dire fosse il suo tfr>
stamento, perocché, terminata che l' ebbe, e anche non molto
rìpurgata, si peggiorò per la mattana, che le dava questa
sua noia, che co' nomi di Luigi Pulci, di Franco Sacchetti e
dd Burchiello, suoi carissimi, in sulle labbra, moria »
* Ined. nel Codice Cit. della Raccolta Cicogna.
' n Goldoni, già impiegato nella cancellerìa criminale.
Lr? PRBPAZIONB*
Che il vederem rivolto iaverto noi
GoQ Mcumera e con caricatura
A gridar: Ragazzon, che fate voi?
Poeu io «OQ della Madre-Natura. ...i
n Goldoni ora in una or in altra occasione rì-
spondeya^ ma (tanta era la (liversità dell'indole
di questi due uomini) più schermendosi, die of-
fendendo, più dolendosi dell' ingiusta guerra, che
rintuzzando l'ingiuria coli' ingiuria. « Can che
abbaia alla lima » è forse la frase più acerba che
gli esca contro il Gozzi. Pochi accenni del resto
a tali baruffe, trovansi ne' suoi scritti. In un poe-
metto intitolato: La Tavola Rotonda* introduce:
Uà Lombardo che afietta esser cruacante
Col risa in bocca e col veleno in petto,
U quale nega al Goldoni ogni facoltà poetica e
dice:
Come si può soffnr che un uomo scrìva
Senza il conciossiachè, senza il quandunque?
Per mieter palme alP Apollinea riva
Deesi la Crusca adoperar dovunque.
Non bastan, no, del basso vulgo i viva
De^ sacri allori a coronar chiunque,
C poeta chiamar si puote indarno
Chi le pure non bevve onde delP Amo.
> Ined. nel Codice cit. della Raccolta Cicogna.
i Componimenti diversi di Cario Goldoni < Prato, Gmk
chetti 1827). La Tavola Rotonda* Poemetto per le Nosze
Coatarìni Venier.
FRBFÀZIOlfB. Vf
Ed il Goldoni risponde umilmente, anche troppo:
perdono
Volentieri P insulto a me doTuto,
Purtroppo il so che buon scrìttor non sono
E che a i fonti miglior non ho bevuto;
Qual mi detta il mio ttil scrivo e ragiono
E talor per fortuna ho anch'io piaciuto,
Ma guai a me se il fiorentin frullone
A sceverare i sc^rìtti miei si pone.
Anche da questi versi traspare la bonarietà del
GoldonL Per contrario l'iracondo Gozzi varcava
Ogni limite e contro alle poche risposte del Gol-
doni centuplicava le nuove risposte ^ e le nuove
invettive. Fra le tante contro la Tavola Rotonda^
ne cito una inedita":
Scrisse un di l'escremento del Molière:
10 con arte dipingo il vìzio espreaso,'
Tal che nessun può dire: io son quel desso,
E metto l'uomo in scena a mio piacere.
Ma essendo censurato al suo mestiere
Da un uom col ver, per svelenarsi ha messo
In scena un ignorante, un uom di ^esso.
Un Lombardaccio cotto, un menzognere;
Poi disse piano ai suoi parziafli: è quello
11 mip censor; gli assag^ator di brodo
Ballavan tutti ed egli si fé' bello.
Cosi la verità si cambia in frodo
Né sì dipinge il vizio, Ser baccello,
1 La più diretu è il Poemetto del Gozzi: I sudori d*Im^
mèo. Vedi al N. 19 della Bibliografia in fine del.VoL i*
* Tavola Rotonda dt.
LVI PREFAZIONE.
Né 8i sconta 1 peccati o scioglie il nodo.
La VA per altro modo
Dalla mia parte, ed a fronte scoperta
Non dico: Ser Lombardo, o Monna Berta,
Ma il Goldoni disérta.
Non riformata ha la commedia nostra
E non ha vinto Truffaldino in giostra.
Con sopportazion vostra
ELfa commedie, e poi le crede buone
Perchè i e... gli dan riputazione.
Spiegato ho il Gonfalone,
Mai non dirò per tema le bugie.
M' impiccheran le vostre Signorie ?i
E basti di questi versaccì, che n'ho citati atKhe
troppi e unicamente perchè sono il documento
<ii questa sconcia lite letteraria.
U Goldoni avea detto :
Chi non prova l'assunto e P argomento
Fa come il can che abbaia alla luna.
E il Gozzi:
Ma acciò s* abbia a decidere
S' io dissi il ver, sto fiacendo un comento
Che proverà V assunto e l' argomento. *
Questo commento fu una nuova satira vivacissima
e bizzarramente burlesca, con cui pretese rispon-
dere al Teatro Comico, commedia del Goldoni,
1 Ined nel Codice cit. della Raccolta Cicogna. Da pag. 140
a 147 Sonetti di Carlo Gozzi contro il Goldoni. Cinque tono
inediti. Gli altri pubblicati nelle Opere, Ediz. 1772.
* Carlo Gozzi. Opere. Ediz. cit. Tom. VIIL ptg. i83.
PREFAZIONE, LVII
contenente, come si direbbe, il programma della
sua riforma teatrale. È intitolata: // Teatro Co^
mico alP osteria del Pellegrino ira le mani degli
Accademici Granelleschù « Ecco giungere, scrive
Carlo Gozzi, ^ un mostro che dalle forme fu te-
nuto per una addottrinata maschera, ma dai Gra-
nelleschi si tenne per quello eh' egli era veramente
ed eccovi la pittura. Il corpo era d' uomo. La sta-
tura bassa e grossa e goffa oltremodo. Le vesti-
menta erano cangianti e ténea al galone la spada.
Nuova e strana cosa era il capo, poiché aveva
quattro facce con quattro bocche, quattro nasi e
otto occhi, uno di vista corta, tre cispi, quattro
rovesciati e per tutte le quattro bocche ragionava,
I discorsi venieno da un cervello solo e picciolino,
come che la zucca fosse assai grande a tale che sì
sarebbe potuta chiamare zuccone, e quanto agli
orecchi erano due soli lunghissimi e pungigliantL
Non vi direi in tre anni i discorsi che faceva al
popolo, che se gli affollava dintorno, con quelle
sue quattro bocche. Con una contraffacea Panta-.
Ione, il Dottore, il Brighella, e i^ Truffaldino con
poca grazia e molta disonestà. 11 popolo facea un
gran picchiar di mani nel principio a tale novità,
ma perchè per costume i popoli si cambiano, a
poco a poco cominciava la noia e il sbavigliare ed
era abbandonato. Colui s' accorgeva della sventura
è spalancava un' altra bocca, fingendo il Lelio, la
^ Biblioteca Marciana di Venezia. Codice CXXVI, Classe X^
LYIU PHfiFAZIONE.
Rosaura, il Leandro, la Clarice, la Corallina, ia
alcune circostanze di certe famiglie conosciute dei
nostri giomL Vestiva queste persone di caratteri
palesi caricandoli oltre la naturalezza e con una
prosacela fetente faceva dialoghi sconnessi non la-
sciando mai le lascivie e V adulazione verso il pò*
pola A tal cambiamento le genti s^ aggruppavano
di nuovo, r applauso e il picchio si rinnovellava.
Non andava però molto che la freddezza, i sba-
digli e r abbandono era a campo {sic). Il mostro
apriva ben presto la terza bocca, fingeva perso-
naggi eroici, di paesi lontani, di costumi e di leg^
non conosciute dal popolo e qui con le novità
faceva nascere curiosità fra la gente, la quale si
ravviluppava di nuovo. Dialogava con versacci lun^
ghi, rimati, d' uno stile assai goffo. Sponeva ri**
pudi, violenze, duelli, pianti, e predichette.... Gli
applausi erano pronti, com' anche a poco a poco
era pronto il tedio e l' abbandono. U mosVo pre-
stamente spillava la dottrina dalla quarta bocca,
fingendo la Catterina e la Maddalena, pettegole»
sfacciate, in contrasto per gli amori o per la gatta.
Titta e Nane, gondolieri maldicenti o in baruAi
alla taverna o al tragitta II Conte forestiere in-
namorato della lavandaia Veneziana. La Dama
strapazzata dalla baldracca e rinvilendo gli esteri,
adulando gli ascoltatori, innestando equivoci lordi,
ragionando or in versi corti, or in versi lunghi,
or in ottave, or in terzine, spiccando qualche can-
zoncina, immaginando d' essere or in barca, or a
PUEPAZIONB. LlX
cena, or a giuoa>, or alla finestra, or alla bottega,
per sok novità e senza proposito, usando linguaggi
corrotti e gergoni di levante, di ponente, di mez-
zogiorno e di settentrione, tanto faceva che il po-
polo inaiava di nuovo le voci e accorreva. E cosi
all' apparire della noia riapriva la prima bocca, la
<{uale riusciva come nuova, poi la seconda, poi la
terza, poi la quarta e con questa dottrina.... tu*
neva le persone intronate e meravigliate e d' altro
non si dbcorrea per la piazza che di questa per-
sona o vogliamo dire mostro o chimera. »
Dopo questa specie di storia, a modo suo, del
teatro Goldoniano, dalle prime prove alle comme-
die di carattere, da queste alle romanzesche e alle
popolari di costiune Veneziano, i Granelleschi,
già mezzo brilli, fanno entrare il mostro nell'oste-
ria e ne segue un dialogo tra esso ed il Gozzi,
che è tutto una diatriba violentissima contro le
commedie del Goldoni II mostro non sa più che
cosa rispondere. Allora, continua il Gozzi, « riz-
zatosi dalla pancacda e sbottonandosi dinanzi il
vestito a furore, fece vedere ignuda la pancia ri-
gonfia ai Granelleschi. Nel mezzo di quella gran
trippa con istupore degli Accademici e' era un al
tra gran bocca con la quale con voce alta così
disse: Campioni e difensori del vero, scusate in
carità le strane e diverse cose fatte e dette dalle
quattro bocche che sono nel capo di questo mio
fratello e bastivi il sapere che ^tutto fii fatto per
amor mio e non per altro. Io mi vi raccomando.
LX PREFAZIONE.
Qui si tacque, torcendosi in atto di piangere quella
veridica bocca dell' Epa.. Allora gli Accademici
mossi da misericordia spalancarcelo l'uscio e quel
mostro, o Teatro Comico, rotoloni come un barile
a rompicollo se ne andò giù per le scale dell' oste-
ria... Gli ottimi Granelleschi borbottando e la-
gnandosi presero i tabarri e le maschere e giurato
nuovamente il nodo dell'alleanza.... se ne anda-
rono chi qua chi là a spargere parolette in difesa
del buon gusto e delle ]()urgate scritture e a sca-
gliare dardi alla corruzione del secolo e a viso
aperto cercando il martirio. »
' L'eccesso di questa satira (che pef l'inven-
zione però fa già presentire il poeta delle Fiabe
ed ha con la prima di esse non poca affinità) la
ignobile allusione alla onorata povertà del Goldoni
fanno, per vero dire, poco onore all'indole del
Gozzi. Ma nel dialogo accusa alti'esì il Goldoni di
deprimere deliberatamente i nobili e di subornare
.la plebe « con un pubblico mal' esempio contrario
all'ordine indispensabile della subordinazione,' »
ed in Venezia, retta da un' oligarchia sovrana di
Patrizi, quest' era una denunzia beli' e buona.
Narra il Gozzi che codeste brutte sfuriate furono
di ragione pubblica prima ancora d' essere date alle
stampe e che anzi il Goldoni, spaventato, ottenne
da lui, per intramessa di due Patrizi, il Farsetti,
amico del Gozzi, ed il Widiman, amico del Gol-
1 Memorie cit Parte x. Gap. 34 pag: 281.
PREFAZIONE. LXI
doni, che il Teatro Comico non fosse pubblicato. *
Può darsi e, se il Goldoni cadde in tale debolezza,
il tempo, la natura del Governo, le condizioni
della società Veneziana d'allora sono più che ba-
stanti a dame ragione e sempre più se n'accresce
il torto dell'aristocratico Conte Gozzi. Più certo
è che ne prima, né poi, quando scrisse le sue Me*
morie, il Goldoni tentò vendicarsi del suo feroce
avversario. Questa nobile moderazione non am-
mansò tuttavia le furie del Gozzi, e la Tartana,
e la Marfisa Bi^^arra e il Ratto delle Fanciulle
Castellane, ed i Sonetti e gli Atti dei Granelle-
schi e tanti altri suoi scritti faceano piovere come
una grandine di vituperi sul Goldoni e sul Chiari.
Negli Atti dei Granelleschi il Gozzi si rivolge
con speciali componimenti ai Consacrati Religiosi^
alle Grandiosissime Dame^ ai Nobilissimi Cavar
lierij alle Gentilissime CittadinCy ai Prudentissimi
Cittadini^ agli Onorati Mercatanti^ a tutti racco-
mandando la sua causa e quella dei Granelleschi;
finalmente alla plebe, e a questa parla cosi:
Tu spererai, plebaglia da niente
Che io abbia a parlar teco umilemente.
Che sa dì poesia, di libri sani,
E di buone commedie la plebaglia?
Coni, loda chi vuoi, picchia le mani
Che non decidi mai cosa che vaglia.
^ Ibid. pag. 383.
LXn PRBFAZIOMS.
Del resto loda e biasma chi ti pare
Ch'io non t'apprezzo
Quando s' ha a fÌEir a' pugni, a' cocci e a'
Della plebaglia allor gran conto fassL^
Anche chi non soffre di gran tenerumi demo-
cratici troverà incivile tutto questo disprezzo. Ma
in Carlo Gozzi è significantissimo dell'indole sua
e dei principii che professava, e fa un po' riscon-
tro al contegno di quei nobili, così finamente ca-
stigato da Gaspare Gozzi nella Ga!(!(etta, che dai
palchetti del san Luca sputavano in platea, pren-
dendo i cittadini, che vi sedevano, per altrettante
« iscodelle da sputarvi dentro. » •
Notevole è pure la Marfisa Bi\\arra^ poema
facetOj che il Gamba molto inesattamente para-
gonò alla Secchia Rapita e al Ricciardetto, il
Morelli con evidente esagerazione chiamò « un
modello perfetto, » * ma di cui il Tommaseo, ben-
ché severissimo al Gozzi, lodò giustamente « i
sali vivaci e la franca dicitura. ^ » Aggiunse però
che non ha « né caratteri, né disegno; » crìtica,
che non mi sembra giusta. Là Mar fisa è . una sa-
tira, non un poema. I caratteri sono caricature e
non vi fosse che quella di Marfisa, modellata
1 Cablo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili. pag. i6a-63.
s Gasparb Gozzi. Opere. Ediz. ciL Tom. IX. pag. 80-81.
3 B. Gamba. Gallerìa etc. — Morklu. Cultura della poe-
sia presso li Veneziani.
4 Storia Civile nella Letteraria etc Punto Churx etc.
pag. 285.
PRKPAZIONX. LXni
solle eroine del Chiari, basterebbe a far prova
della potenza satirica e della burlesca originalità
dell' ingegno del Go^zi. U quale del resto col con*
fuso e barocco disorc&ne dei suo stile e del suo
finguaggio, talvolta cosi strambo, che bisogna in»
tttoderlo per discrezione, toglie troppo spesso ogni
garbo e vaghezza e forza a ciò che scrive. Ma non
ai può negare che le sue satire maggiori, per in-
venzione, impostatura e congegno di composizione^
sono singolarissime, e, se accoppiassero il pregio
d'una forma viva e schietta, porrebbero giusta-
mente il Gozzi non solo al di sopra dei maggiori
satirici nostri, ma più specialmente accanto ai più
celebri umoristi straniera U Gozzi scrisse i primi
died Canti della Marfisa, mentre fervevano an-
cora le sue lotte col Goldoni e col Chiari, e ne
pubblicò molti saggi nei Fogli sopra alcune mas-
sime del Genio e Costumi del Secolo, operetta
specialmente dedicata al Chiari ed al suo apostolo,
Abate Placido Bordoni. Gli ultimi due canti scrisse
molti anni dopo, quando cioè stampò il poema,^ che
tenne parecchio tempo nascosto, perchè satireg^
giando, oltre al Goldoni ed al Chiari, i costumi e
le opinioni del proprio tempo, temeva forse di ca-
pitar male. Ripiglia il tema dai poemi cavaliereschi
e « dovrebbe essere superfluo avvertire (scrive nelle
Amtotaponi pubblicate dal Magrini e dal Malamani)
i Caklo Gozzi. Opere. Ediz. 1773 colla falsa data di Ft*
rente. Tom. VIL — Prefazione scritta tra ii dubbio, che
sia necessaria, e il dubbio, che sia inconcludente.
LXIV PREFAZIONE.
che Carlo Magno, Parigi, i Paladini.... nonsieno
stati presi dallo scrittore che per coprire d^una
veste allegorica un picciolo abbozzo del prospetto
dei costumi, della morale dei giorni suoi e dei
caratteri in generale de' suoi compatrioti riformati
da scrittori perniziosi e dalla scienza del nostro
secolo detto illuminato ' . . . Sotto i due nomi dei
Paladini Marco e Matteo del Pian di S. Michele
sono figurati particolarmente il Chiari ed il Gol-
doni, maggiori nemici arrabbiati dell'Accademia
dei Granelleschi . . . Non si cela che sotto il nome
del Paladino Dodone Dalla Mazza è figurato V au-
tore del poema della Marfisa, il (juale unito agli
Accademici Granelleschi di lui sozi, fii il martirio
maggiore dei due sopraccennati poeti.* » Final-
mente nell' impero di Carlo Magno, che si sfascia
per impotenza, mal costume e debolezza, il Tom-
maseo crede che il Gozzi abbia prenunziata « la
vicina dissoluzione della repubblica.^ » Di ciò non
è sentore nelle Annotazioni. Certo però sono no-
tevoli in un poema tutto allegorico questi versi
del Canto XII;
Carlo è già vecchio e presso alPora estrema
E deggio dir pria che sia in tutto morto
À che ridotto fosse e io qual sistema
1 Alle solite rassegne di guerrieri dei poemi cavallereschi
ed eroicomici sostituisce una rassegna dMnvitati ad una
festa, con bozzetti caratteristici e mordacissimi.
* Avvertimento e Annotazioni al Canto I.
' Storia Civile nella Letteraria. Pietro Chusi etc. pag. 296.
PREFAZIONE. LXV
Lo Stato nelP inerzia e V ozio assorto
E del popolo il vero e del monarca.
Dio mio. ti raccomando la mia barca.
Ma un presagio, che si risolve in una satira così
diretta al governo, è poco in accordo c^on le opi-
nioni e coi sentimenti del Gozzi e del resto ogili
querimonia anteriore ad una catastrofe, come
quella che sfolgorò la vecchia Repubblica, pi^ia
facilmente aspetto di profezia. Nella Prefazione
all^ edizione * del 1772, egli dà il suo poema per
una satira generica ai costumi a guisa del Giorno.
del Parini. Trent^ anni dopo, quando ogni ragione
di prudenza era scomparsa, lo chiamava ancora:
« picciolo, vero, e significante ritratto de' costumi
e del pensare della società;* » non altro. E così
nella Chiacchiera, ancora inedita, eh' egli divisava
premettere ad una ristampa della Marfisa^ neppur
fa cenno di questo e solo difendè le buone inten-
zioni dei Granellescbi e confuta prolissamente e
leggermente le dottrine del Cesarotti intorno alla
lingua italiana, ^. '
1 CARLa Gozzi. Opere edite e inedite. Tom. XIII. (Ve^
nezia, Zanardi 1802). Prefazione alla Commedia: iimor^ as^
soitigHa il cervello. , '
* Chiacchiera di Carlo Go:^;^! intomo alla liiigua Ifitte*
rale italiana e alcune ricerche sopra il libro intitolato —
Saggio sopra la Lingua Italiana dell'. Abate M, Cesarotti
etc^ (Museo Correr di Venezia. Raccolta Cicogna N. 3552*3). ..
Ne pubblicò qualche brano il Prof. Guido Mazzoni hel suo
volumetto; In Biblioteca : « Accàdemicus prò Accademia »
pag. 156 e segg.. " • ' . .
Masi. . ' >, . ' e
LXVI PREFAZIONE.
L'abate Chiari per alcun tempo « resisteva
taciturno alle ferite » del Gozzi. ' Taceva, ma bol-
liva ed alla fine scattò anch' esso contro il Gozzi
ed i Granelleschi;*'anzi fu il primo « che li. sfidò
a comporre commedie in sua competenza. ^ » Questa
volta gli rispose il Conte Gaspare, poco o assai
mescolatosi sempre in tutte queste baruffe;
Ma la Commedia è specchio naturale
D'uman cpstume in favellar condito
Urbanamente con faceto sale.^
Prima di foré a^Granelleschi invito
Fanne tu una non pazza, né bestiale,
Ma ch'abbia' il suo ripien sano, e P ordito;
Allor poi sali ardito
Sul. monte d'Elicona e li d^<-fìda,
Intanto lascia che di te si rida.'
Nuova esca ofiFriva ai Granelleschi la pace fatta
fra il Goldoni ed il Chiari, palesatasi in un' ana-
creontica del Chiari al Goldoni, in cui lo chia-
1 Memorie cir. Parte i. Gap. 34, pag. 289.
* Tradusse dal' francese un libretto sul Genio e 1 Co^
stuini del secolo corrente e v^ innestò osservazioni contro i
suoi nemici. A lui ed al Bordoni, autore di qn Nuovo se^
. greto per farsi immortale un'ffoeta sulle Ga^^^tte^ provo-
cato dagli assalti della Gazzetta Veneta di Gaspare, rispose
Carlo coi Fogli sopra alcune Massime del Genio etQ. cit
8 Memorie cit. P. i. Gap. 34, pag, 303.
^ E che altro erano le commedie del Goldoni? Ma qui
è il giudizioso Gaspare, che parla.
5 Atti Granelleschi cart. '48. Vedi : Fogli sopra alcune
Massime etc»
PREFAZIONE. LXVIl
mava « degnissimo comico vate, poeta amico, » ed
il Goldoni di rimando (non senza, pare a me,
molta punta d' ironia ) salutava' il Chiari « vate
sublime, vate immortale » aggiungendo:
Si, tu sei i* aquila
Io la formica,
Tu voli air apice
Senza fatica.
Mia Nhisa ai cardini
Salir nòo sa.i
Forse la comunanza delle guerre patite li paci-
ficò; forse, anche questa volta, il Goldoni scordò
bonariamente le offese. Ciò non toglie che il Gol-
doni giudicasse del Chiari, come meritava. Par-
tendo per la Francia, e volendo dare idea al suo
amico Albergati del tumulto, che agitava P animo
suo in ^uel momento, gli scriveva; « Ho una testa
presentemente così confusa, che la cambierei vo-
lentieri anche con quella del Chiari; almeno sarei
sicuro d'averla quieta e tranquilla, poiché im uomo
assai persuaso di sé medesimo, fa tutto con faci-
lità e intrepidezza.* » Poche parole, ma nelle
quali il vanitoso abate è scolpito. U Goldoni non
sfidò anch'esso il Gozzi a comporre commedie e*
1 Goldoni, Componimenti cit. Anacreontica del Chiari
per la vestizione religiosa della Sig. Contarina Balbi e Kì-
sposta del Goldoni
< Vedi nella mia Raccolta di Lettere Gold, la 23 all' AI-
beipiti del 3 Aprile 1763.
LXVln . PREFAZIONE. '
lo Stesso Carlo Gozzi ^ dichiara falso l' aneddoto,
narrato dal Baretti liei suo libro inglese sui co-
stumi italiani,* che tdle sfida facesse il Goldoni a
Carlo Gozzi in un alterco accaduto fra essi nella
bottega d' un libraio. Il Goldoni si limitò a rispon-
dere alle incessanti satire del Gozzi che l' Achille
degli argomenti in favore delle sue commedie stava
nella folla, che attraevano, costantemente al teatro.
In un sonetto contro al Goldoni il .Gozzi scrive:
Perdio, Dottor, di qua non fuggi via.
Rispondi e aguzza quanto vuoi i' ingegno, ■ * ' * • '^ '-
O tu, o il Chiari, o il popol è in pazicià. . . \( l ;. l.t
Se astratto e in balordifi; *.*•.,,•
Rispondi: « è sempre buon segno il concorso, » .
Viva il Goldoni, il Chiari, il Sacchi e rorso;S
che è quanto dire: se il concorso del popolo è
quello che decide, tanto fa una buona commedia,
* quanto i lazzi di TrufiFaldino e V orso, che balla in
sulla piazza. Di qui dunque la picca del Gozzi di
mostrare al Goldoni che qualunque novità, anche
la più sciocca, è buona per tirar gente al teatro
e ch'egli avrebbe conseguito il medesimo risulta-
1 Carlo Gozzi, Opere Ediz. ì8o2, Tom. XIV. pag. 88.
Al Sig. N. N. Poeta Teatrale. Framnienti, Commentì, Rifles-
sioni, Opposizioni e^c. etc. — Sopra il Frammento secondo.
.2 Baretti; The Itali^nsl An Account of the mannera and
customs of Italy. (London 1768).
3 E stampato con qualche variante nel Torri, Vili delle
' Opere Ediz. 1772, p'ag. 184. — Io lo riporto dalle Memorie.
Parte i. Cap. 84, pag. 305.
PREFAZIOHK. LXIX
mento con una fiaba qualsiasi di quelle che le
nonne* e le serve narrano ai bimbi accanto al fuoco.
Tale è l' origine delle Fiabe di Carlo Gozzi, quale
r ha narrata egli stesso in molti luoghi delle sue
Opere, nelle Memorie^^ nel Ragionamento Ingenuo
e Stòria sincera delV origine delle mie dieci Fiabe
teatrali, * nella Più lunga lettera di risposta che
sìa stata scritta^ e nella Chiacchiera inedita da
premettere alla ristampa della Marjisa^ ed è im-
portante ricordare la vera origine storica delle
Fiabe del Gozzi, appunto perchè fu trascurata da
tutti coloro, che nel meraviglioso delle Fiabe voi- .
lero vedere non già un puntiglio casuale, non già
un coefficiente estrinseco, preso d'accatto da un
ingegno potentemente burlesco e teatrale, q^uale
si palesò subito il Gozzi, bensì la conseguenza na-
turale e necessaria d'un temperamento artistico,
a cui la semplice rappresentazione poetica del reale
non basta più e si crea da sé tutto un mondo ma-
gico, nel quale s'ingolfa con così intima correla-
zione spirituale, che i limiti stessi del reale e del
fantastico gii scompariscono dinanzi e l' uno e
V altro gli divengono tutt'^ uno. ,
U Amore delle. Tre Melarance (il cui argo-
mento ognuno può rifarsi in mente coi ricordi
* Parte i.Cap. 34.
* Nel Tomo I delle Opere in tutte e due le Ediz.
3 La più lunga Lettera di risposta che sia stata scritta,
inviata da Carlo Go:[\i ad un poeta teatrale italiano. —
Opere, Ediz. 1802. Tom. XIV.
LXX PREFAZIONK.
cibila propria fanciullézza) fu la prima fiaba posta
in scena da Carlo Gozzi, la sera del 25 Gen-
naio 1761. Con essa la gran lotta, combattuta dal
Gozzi contro il Chiari e più particolarmente con-
tro il Goldoni, era portata sopra tutt' altro campo.
U pubblico era direttamente chiamato a seder giu-
dice fra i contendenti. La faccenda si faceva seria
ed è qui che molto probabilmente va collocato
l'aneddoto, dal Gozzi narrato confusamente nelle
Memorie ^ e nel Discorso sulle poesie satiriche, *
cioè l' improvvisa apparizione d' im meàso, che lo
chiamava al palazzo del Patrizio Zuan Dona. Con-
frontando le due narrazioni del Gozzi si vede chiaro
che ciò accadde tra la fine del 1760 ed il principio'
dèi 1761. Dunque alla vigilia della rappresentazione
delle Tre Melarance. Ma di questo il Gozzi non
parla. Tace pure quello, che si rileva dalle Anno^
taglioni degli Inquisitori^ cioè che il Dona era in
quel momento Inquisitore di Stato, (lo fu dal
I Ottobre 1760 al i Ottobre 1761) e solo gli
sfugge indicato « il tremendo Tribunale che allora
egli (il Dona) occupava » cioè il Tribunale dei
« Tre di sora » (sopra). Per quanto l'esser chia-
mato in privato e non alla Bussola di S. Marco
(il che significava trattarsi dell'ammonizione ofiì-
ciosa e non officiale) dovesse in certo modo tran-
1 Carlo Go2zi, Memorie^ Parte i. Gap. 34, pag. ^99.
« Opere, Ediz. 1772. Discorso, Notizie, Verità etc. cit.
Tom. VIU, pag. 249.
PREFAZIONE. LXXI ,
' quillizzare il Gozzi, pure confessa, in una delle due
narrazioni, che l' iflea cK' egli aveva « di quel gran
Signore » e « del treipendo Tribunale » lo scosse,
e nell' altra narrazipne che primja di presentarsi fece
un breve esame di coscienza, che lo confortò colla
certezza dv « non aver delitti, » dei quali dover
render conto, e nondimeno quando fu dinanzi al
Dona dimostrò « nel viso qualche interna confu-
sione. » Il Dona era un vecchio magistrato inte-
gerrimo e severissimo. * Ciò rende poco credibile
quanto il Gozzi racconta del loro colloquio, vale ^
a dire che si riducesse ad una conversazione tutta
scherzosa e amichevole sulle polemiche col Gol-
doni e col Chiari e che il grave Inquisitore di Stato
conchiudesse, animandolo a continuare quella
guerra, in difesa del buon gusto letterario, pur-
ché « non veniate alle pugna » (così il Gozzi
nelle Memorie) ovvero, purché « le controversie
stieno nelle penne soltanto, » (cosi nel Discorso).
Ma il Dona non' si sarebbe incomodato per tale
1 n Sig. E. von Ldhner ebbe la cortesia di farmi in pro-
posito la comunicazione seguente: « Zuanne Dona è morto
a Padova il 4 Febbraio i7i)ó in età di 76 anni. Ho presa io
stesso questa annotazione nel Necrologio di Padova. Nel
MS. Santo Pengo, che trovasi al Museo, è detto del Dona:
fu mandato dalla Repubblica a questo Reggimento come
per castigo, perchè essendo di carattere severissimo^ quanto
integerrimo e giusto, diede motivi di dispiacere ai Patrizi,
Fu sepolto senza pompa, perchè era poverissimo. Eppure era
stato Bailo a Costantinopoli, il solo impiega diplomatico Ve-
neziano, che fruttasse qualche guadagno! Fu Inquisitore di
Suto del I Ottobre 1760 al i Ottobre 1761. »
Lxxu prep:aziqnk.
cagione, né per tale cagione avrebbe fatto al Gozzi
quel po' po' di paura colla sua improvvisa chiamata.
Non mi sembra quindi arrischiata la .congettura
che il Dona volesse piuttosto interrogare il Gozzi
sulla rappresentazione teatrale, che stava apparec-
chiando, e forse lo rendesse responsabile dei disor-
dini, che potessero mai avvenire. Il Gozzi l' avrà
persuaso che V Amore delie tre Melarance non
superava in violenza di polemica tutte le sue sa-
tire anteriori. Tant'è véro the le Melarance fu-
rono rappresentate. *E dunque da conchiudere colle
parole del D' Ancona, il quale, accennando appunto
a questo aneddoto, scrive : « Su tutto vegliava la
suprema autorità, non scontenta che alla messetta,
alla donnetta e alla bassetta tradizionali, si aggiun-
gessero.... là commedietta e le fiabe e le guer-
ricciuole letterarie; ma attenta che le cose non
. andassero troppo oltre, e curiosa di conoscerne
ogni incidente. * »
Mettendosi a scrivere le Fiabe, il Gozzi si pro-
pose altresì di soccorrere la Compagnia Comica del
Sacchi, colla quale durò « per quasi ventìcinque
anni* » (circa dal 1756, che la Compagnia tornò '
da Lisbona, al 1781) nella più stretta intimità.
Egli la descrìve a lungo e con molta arguzia nelle
Memorie, In un suo Ditirambo uscito poco prima
* A. D'Ancona, Un Avventuriere del Secolo XVUL cit.
* Memorie cit. Parte 2. Gap. 2, pag. 1 1. Ragionamento
Ingenuo cit. Opere Edìz. 1772. Tom. i, pag. 65.
PREFAZIONE. LXXIII
della rappresentazione delle Melarance rivelava
già questa. sua gioconda famigliarità, proverbiando
\ Comici e le Comiche degli altri teatri di Ve-
nezia, ed esaltando il Truffaldino Antonio Sac-
chi, ' la Smeraldina Adriana Sacchi Zanoni, il Bfi--
ghella Atanagio Zanoni, il Tartaglia Agostino
Fiorilli, il Pantalone Cesare Darbes, la Beatrice
Antonia Sacchi, , e Ignazio Casanova e Gaetano
Casali, principali attori ed attrici della Compagnia
Sacchi, i grandi esecutori delle Fiabe del Gozzi.*
V Amore delle tre Melarance riportò di fatto
un trionfo clamorosissimo. Ma quanto al punto
principale della polemica col Goldoni, che cioè
qualunque novità, anche le ciancie delle nonne e^
delle serve, basta per attirar folla al teatro, forse-
cbè è a questo soltanto che il Gozzi andò debi-
tore del suo. trionfo? V Amore delle tre Mela--
> ÀI Sacchi, l'ultimo forse dei grandi attori dèlia com-
media estemporanea, rimangono documento di gloria impe-
• rìtura le lodi straordinarie, che gli tributarono, il Goldoni, il
Baretti, i due Gozzi. Di lui hanno scritto di recente' Vittorio
Malamanì in un bozzetto: La morte di Truffaldino ed E. von ,
Lóhner nelle preziose annotazioni alle Memorie del Goldoni.
La sua Compagnia si sciolse verso il 1782. Originario dì Ferrara,
era nato a Vienna nel 1768, Morì nel 1788, poverissimo e mentre
viaggiava per mare da Genova a Marsiglia. Nel n. 93 della '
Ga\\etta Urbana Veneta^ citato dal Mala mani e dal Ldhner,
è detto che « il suo cadavere soggiacque al comuo- destino
dei passeggieri marittimi d'essere gettato in mare. » Lo ri-
corda anche il Goethe, che nel 1786 vide a Venezia gli ul-
timi superstiti deUa Compagnia Sacchi.
• Carix) Gozzi, Opere, Ediz. 1772. Tom. VIIL Canto Di-
tirambico de* Partigiani del Sacchi Truffaldino, pag. 1G4.
LXXIV PREFAZIONE.
rance è la sola fiaba, della quale abbia scritto poco
più che r orditura, lo scenario, il canevas, E questo
pure ci è rimasto in una forma insolita, in quella
d^un racconto (e perciò il Gozzi lo chiama -4na-
lisì Riflessiva)^ in cui, oltre al sunto della rap-
presentazione, trovan luogo le sue chiose e via
via le impressioni del pubblico, alP incirca come
nelle odierne Appendici Teatrali. Nelle altre Fiabe
le sole parti a soggetto sono, e non sempre, quelle
delle Maschere, All'ardimento, alla licenza, alla
facll vena degli attori estemporanei, alla gioconda
irregolarità della Commedia dell'Arte, alle tra-
sformazioni, ai meccanismi, e alle decorazioni di
scena, che già prima di lui e del Goldoni facevano
la delizia del pubblico Veneziano, a tutti questi
ammennicoli di buon successo, dai quali neppure
il Goldoni era riescìtó del tutto ed emancipare il
teatro, il Gozzi ridiede vita tutt' ad un tratto, ma
valendosene di cornice ad una satira feroce contro
il Goldoni ed il Chiari, oggetto allora fra quel
pubblico di dispareri e parteggiamenti fìerissimi.
Che parte ha in questo primo trionfo del Gozzi
la ingenuità della fiaba popolare? Piccola dav-
vero! Nella mente del Gozzi le trivialità di essa
. sono per sé medesime una parodia dei Campielli,
delle Massére, delle Baruffa Chio:;{ote del Gol-
doni, ma il grosso pubblico avrà còlto ben poco
di tale finezza. Se non che nel Mago Celio è
raffigurato il Goldoni, nella Fata Morgana il
Chiari; il Principe Tartaglia, ossia il pubblico
PREFAZIONE. LXXV
Veneziano, sta morendo per indigestione di versi
martelliani; Truffaldino^ ossia la Commedia del-
l'Arte, è il solo che riesca a guarirlo, facendolo
ridere, e tutta la lotta è tra.il Mago e la Fata,
V uno che protegge, l' altra che perseguita il Prin-
cipe;* la lotta durata tanto tempo fra il Goldoni
ed il Chiari, i quali si strapazzano à vicenda sull4
scena, V uno in istile avvocatesco, l' altro in sopra-
pindarico. Tutta questa parodi^ è in realtà potente
ed ingegnosissima ed è essa, e non altro, che diede
causa vinta al Gozzi. Ha ragione il Tommaseo,
che questa fiaba del Gozzi « è la più sua * » e
cosi pure PUgoni, che gli rimprovera di non es-
sersi sempre attenuto a questo genere, il più con-
veniente all' ingegno e all' umore di Carlo Gozzi. *
In sostanza la commedia popolare, con qui in-
tese opporsi al naturalismo del Goldoni e al ro-
manzesco sentimentale del Chiari, non gli si ri«
presentò a tutta prima, se non sotto forma di
commedia allegorica, e come continuazione sulla
scena della polemica combattuta già cogli opuscoli,
i sonetti e le satire. Col suo primo saggio non
^ C è in questo punto una contraddizione curiosa. Celio
Mago, ostia il Goldoni, è il protettore di Trufikldino, o2MÌa
delfa Commedia dell'arte. Più curioso è che tale contrad-
dizione è avvertita dallo stesso Gozzi, il quale non sa giu-
stificarsene con alcuna buona ragione. Vedi a pag. 21 del
presente volume.
* Storia Civile nella Letteraria, Pietro Chiari etc. p. 289*
3 C. Ugoni, Della Letteratura Italiana nella seconda
metà del secolo XVllL Voi. 3. Art. a.
LXXVI PREFAZIONE.
solo il Gozzi sorpassò ogni incertezza di princi-
piante, ma tocéò subito alla forma d' arte . teatrale
più riflessa e meno sponts^nea.. Perchè questo? Fra
le molte ragioni che se ne pp^àonO addurre, una
poco notata, eh' io s^ppi^,:è; T età del Gozzi, il ■
I .quale è forse urtièp: fra; i; poeti drammatici (ed
era innegabilmenje . un gratile ingegno tejìtrale)
che cominci la*sua cjarriera a più di quaraht'anni.
, Il Metastasi©, dopo i primi tentativi dtì ^(iiustino
e degli Orti Esperidi^ scriv:e a 25 . inibirla Bidone
abbandonata^ a 26 l'Alfieri (benché -fuorviato per
tanto tempo da circostanze straordinarie) il suo
primo abbozzo di tragedia, a 22 il Goldoni i suoi
primi Interme!(p comici, lo Schiller a 20 anni i
Masnadieri, il Goethe a 23 il Goet^ di Berlichin-
genj il Lessing a ig II Giovine Scienziato, Vit-
torio Hugo l' Emani a 27 anni, l' età di Bona-
parte alla prima campagna d'Italia, come soleva
dire il Gautier. V Amore delle Tre Melarance è
più che altro quindi opera di critica, dj,_jar,ica-
tura, di parodia. In questo senso è l' opera d' un
ingegno maturo e perfettamente esercitato e non
ha nulla dell' esordiente.. E commedia allegorica e
non altro la ritenne pune Gaspare" Gozzi, il cui
giudizio sulla prima Fiaba di Carlo è importan-
tissimo metter sott' occhi ai lettori, primieramente,
perchè l' un fratello era molto a dentro. nei se-
greti letterari dell'altro, e in secondo luogo, per-
chè egli dà tali spiegazioni autentiche, per così
dire, delle più riposte intenzioni e allegorie della
PREFAZIONE, LXXVII
Fiaba, che niun' altro, salvo Fautore stésso j avrebbe
potuto fare altrettanto. <(l La favola delle trtf me-
larance, scrive Gaspare Gozzi, commedia a sog-
getto, fu rappresentata la prima volta domenfca
di sera nel teatro di Sati Samuele. Io avea fatto
proposito di non parlare di commedie fatte all' im-
provviso e durerei nel parer mio, se questa non
fosse di un genere particolare e della condizione
di quelle che anticamente si chiamano allegoriche.
L'argomento di essa è tratto dallo Cunto delti
Cuntij capriccioso e raro libro scritto in lingua.
Napoletana, che contiene tutte le fiabe narrate
dalle vecchierelle ai fanciulli. La favola in essa
commedia trattata è sopra tutte le altre notissima:
chi compose la commedia non si sa, ma viene at-
tribuita a diversi autori. Siasi chiunque si voglia
il tessitor di essa, egli ha avuto V intenzione di
coprire sotto il velo allegorico certi doppi senti-
menti e significati che hanno una spiegaziohe di-
versa dalle cose che vi sono espresse. Avrei troppo
che fare se io volessi sviluppare ogni minima parte
da quel velame che la ricopre ; ma solo alcune
poche cose dirò, acciocché queste poche aprano la
via all' udienza di poterne esaminare più altre da
sé medesima, quando sarà assicurata che da capo
a fondo quelle novelìuzze e bagattelle rinchiudono
non picciola dottrina. Que' re di coppe, que' maghi,
quegli scompigli, qUelle malinconie, quelle alle-
grezze dinotano le vicende del giuoco, e l'incan-
tesimo or buono, ora contrario della fortuna in
LXXVin PREFAZIONE.
esso. Andando a passo a pa^o per questo cam-
mino, vi si troveranno molte interpretazioni. Io
mi arresterò solo a spiegare con brevità due cose:
la prima è quella dello spirito che soffia dietro
col mantice a Trufifaldino e a Tartaglia, i quali
vanno alF impresa delle melarance e fa che questi
attori nell' intervallo di un atto corrano millecin-
quecento miglia. À prima vista par cosa da scherzo;
ma vi si troverà sotto sostanza, xjuando si pen-
serà a quel tempo eh' è limitato nelle tragedie e
commedie, e tuttavia si veggono talora personaggi
passare da un paese ad un altro lontanissimi in
un momento senza ragione veruna; onde pare che
l'Autore voglia significare che in sì breve tempo
non possono trovarsi da questo a quel luogo senza
un mantice infernale che ve gli abbia dietro soffiatL
Il secondo passo allegorico è il Castello della
Maga Créonta che tiene custodite le tre Mela-
rance. Questa è l' ignoranza grossa dei primi po-
poli, che teneva incarcerati- e rinchiusi i tre generi
di componimenti da teatro, tragedia, commedia di
carattere, e commedia piacevole improvvisa. Il di-
letto e V ingegno sono figurati ne' due personaggi
che trafugano le tre melarance. Le due donzelle
uscite dalle due tagliate da Truffaldino e morte
di sete dinanzi a lui, significano la tragedia e la
commedia di carattere, le quali in que' teatri, dove
recita un buon Truffaldino, non possono avere nu-
trimento, né vita. La terza Rovine uscita dalla
melarancia tagliata dal Tartaglia e da lui tenuta
^ PREFAZIONE. LXXIX
in vita con l'acqua datale in una delle scarpe di
ferro, detiota la commedia improvvisa, sostenuta
in vita dal socco de'recitanti piacevoli, il qual socco
sa ognuno ch'era la scarpa degli antichi rappre-
sentatori di commedie. Molte altre allegorie si
contengono nel portone di ferro che vuol esser
unto, nel cane che vuol pane, nella corda, nella
fomaia, nelle mutazioni della fanciulla in colomba
e della colomba in fanciulla; ma non è tempo né
luogo qui da descrivere ogni cosa minutamente.
Solo non tacerò che i due peritissimi attori, i
quali rappresentarono il Tartaglia e il Truflfaldino
e che quivi ebbero le parti prindpali,. man tennero
all' improvviso una continua vivacità e, grazia in
tutte le scene, assecondando l'allegorico sentimento
eh' è V anima di tal qualità di rappresentazioni. Chi
tenesse, come fece l'Autore di questa commedia,
bene in mente il detto di quell' antico filosofo: ne
quid nimis^ che noi diciamo: ogni soverchio rompe
il coperchio^ potrebbe aggiungere alla scena anche
questo allegorico spettacolo che a noi manca, e
che fu sino ad un certo segno la delizia del teatro
di Atene e talora una delle più grate rappresen-
tazioni di quello di Francia. ' » Così il Conte Ga-
spare, tre giorni dopo la prima. recita delV Amore
delle Tre Melarance. Noto anzitutto il fatto,
* Gasparb Gotziy Opere, Ediz. cit. Tom. IX. Ga^\etta
Veneta. N. 99 pag. 199-200-201. Dell^edii. del 1761 della Ga:{'
\etta: N. io3, del Mercoldì, 28 Gennaio ^761.
LXXX PREFAZIONE.
che la commedia si rappreseatò senza nome d' au-
tore. Di questa circostanza (la quale non avrà im-
pedito di certo che tutti, sapessero chi era) ap-
profittò il buon Gaspare, il quale in* queste liti
procedette semgre. guardingo, per dissimulare arti-r
ficiosamente i veri punti di mira della parodia di
Carlo, annebbiandoli in un commento, che allarga
e sorpassa di molto le intenzioni dell' autor della
Fiaba, Tanto varrebbe commentare così Li Tre
Cetra del Cunto delli Cunti di Giambattista Ba-
sile, fonte immediata della Fiaba teatrale del
Gozzi. ' Il pubblico, che avea assistito alla rappre-
* II Gozzi però, come fia sempre, non prende gli avve-
nimenti di una sola Fola, ma ricompone insieme gli avve-
nimenti di parecchie.^ Li Tre Cetra è il Trattenemiento Nòno
della fornata Quinta del Pentamerone del Cavalier Giovati
Battista Basile^ ovvero Lo Cunto de li Cunte ~ Trattene-
miento de li Peccerille di Gian Alesio Abbattutis (Napoli
ad is.tanza di Antonio Bulifon Librano air Insegna della Si-
rena, 1674.) Di molte edizioni del Basile nel secolo XVII,
questa è delle meno accreditate per P arbitraria correzione
del t^to. Ma io non ne ho àltrei. Su questo interessante scrit-
tore di novelle popolari v6di il bel Saggio di Vittorio Jm-.
briani: // gran Basile, nei Volumi .1 e 2. Fascicoli i, 2, 5i
6, del Giornale Napoletano di Filosofia e Letter..., etc.
Giambattista Basile, nato a Napoli nelPultihio scorcio del
Cinquecento, scrittore fecondissimo di poesie e navel le popo-
lari in dialetto napoletano, era fratello della celebre Adriana
Basile. Fu soldato di ventura al servizio di Venezia, quindi
fu alla Corte di Mantova e a Ronia famigliare del Cardinale
Barberini. Morì circa al 1634. Scrisse tóì pseudonimo -ana*»
grammatico di Gian Alesio De ' Abbattutis. Importantissimo*
il giudizio deUMmbriani sul Basile ed .ir suo Pentatnerofte:
« Il Basile ha sapiito conciliar due cose, che parrebbe impos-
PREFAZIONE. LXXXI
sentazione, avrà riso non poco delle cautele, delle
amplificazioni e dei silenzi eloquenti del Conte
Gaspare, il quale smussava ogni angolo di una
delle satire più personali che si conoscano, tra-
mutando persino la liberissima commedia del fra-
tello in una difesa delle tre solenni unità, dai
più stitici interpreti d' Aristotile prescritte .al tea-
tro. I lettori hanno qui sott' occhi le Fiabe, ripub-
blicate integralmente, e giudicheranno. Su quanti
scrittori italiani trattarono finora di Carlo Gozzi ho
almeno questo vantaggio, che posso risparmiare ad
essi ed a me il solito sunto subbiettivo delle Fiabe
e non ho altro obbligo che quello d' esporre il più
sibile il conciliare, sopratutto nello stile: p^rsinalità spiccata
ed impersonalità popolare. Ce la voce del popolo nel sua
libro e c^è il letterato Seicentista.... Il Seicento fu il secolo
de^ Napoletani: il Seicentismo fu cosa napoletana; ne* meri-
dionali è natura, negli altri è sforzo. Quando finalmente ci
faremo a studiar sul serio queir inclito secolo, riconosceremo
che il maggior numero di grandi nomi letterari, ch^ abbia
prodotti, sono di meridionali; meridionali il Marini, lo Sti-
gliani, il Basile^ lo Sgruttendio, il Rosa, il Muscettola, il Cor-
tese, il Campanella, il Gravina, che valevano, se non altro,
un po' meglio de' Chiabrera, de' Testi, dei Bracciolini, de' Le-
mene, de' Guidi.... Ed i difetti del secolo furono difetti na-
poletaneschi, difetti d' un popolo che ha più immaginazione
che fantasia, più acume ed arguzia che sentimento e pas-
sione; il quale rimane con la testa fredda in mezzo agli im-
peti più selvaggi ed arzigogola e sofistica anche quando sra-
giona. » Queste acute considerazioni fanno ricordare che il
Seicento in letteratura albeggia nel Tasso, napoletano per *
madre e per nascita, e fìnisce nel Metastasio, che ha la pa-
ternità spirituale del Gravina e che a Napoli scopre, la prima
volu, il proprio genio. E l'oracolo dellico di Carlo Gozzi è
il Basile.
Masi. /
LXXXII . PREFAZTONE.
,che posso di circpstanze contemporanee, che le
risguardano, e i pochi fatti, che vengono a galla .
dalle infinite Prefa^^ioni di Carlo, gran mare di
chiacchiere per lo più inconcludenti, e delle quali •
è sembrato quindi inutile a me e all' Editore im-
pinzare questi due nostri volumi. Giudicheranno
dunque i lettori, non dimenticando che il Conte
Gaspare è il primo a ricordare in proposito delle
Fiabe di Carlo la commedia Aristofanesca^ la
quale ne' più agitati e gloriosi tempi della libertà
Ateniese segnava a dito in teatro le sue vìttime.
Ma il teatro avns^ allora altro ufficio civile di quello
potesse e volesse avere negli ultimi tempi della
Repubblica Veneta. Èen lo sapeva il Conte Ga-
spare, che forse con quell'ultima frase altro non
volle se non accennare ad un ricordo, che, co- .
munque, richiamasse un po'megFio di tutto il suo
commento il vero spirito della Fiaba di Carlo, e
indirettamente forse ne biasimasse l' eccesso. Non-
dimeno anche i partigiani del Goldoni, fingendo di
dar poco peso alla satira, arrecavano tutto il trionfo
delle Tre Melarance allo spettacolo scenico. Il
Gozzi spostò allora alquanto la sua tesi. Non volle
più dimostrare che ogni ciancia è buona per atti-
rar folla al teatro, bensì che l'artificio scenico,
l' invenzione, lo stile possono dar grandezza a qua-
lunque argomento, per quanto puerile. * La se-
1. Carlo Gozzi, Opere. Ediz..i8oi, Tom. I. Prefazione
alla tiaba: U Corvo^ pag. io6. '— Memorie cit. Pane 2.
' Gap. IO, pag. 5.
PREFifelONE. LXXXIII
conda tesi era assai più giusta della prima ed
accostava un po' più il Gozzi al fine via via poi
sempre più. maturatosi nella sua mente, di rialzare
cioè e ringiovanire con arte le tradizioni del teatro^
alle quali il mestierismo dei comici ed il corrotto
gusto del pubblico aveano quasi tolto ogni luce
ed ogni vigore; Incominciava subito cosi a deli-
nearsi la contraddizione, in cui Parte poetica del*
Gozzi sta con lo spirito e coi propositi della sua
critica. Ma non è questa, come vedremo, la sola,
né la maggiore delle contraddizioni del Gozzi.
Quanto al Goldoni, esso non potè patire in
silenzio le vittorie del Gozzi. Già i suoi Comici
erano irritatissimi di essere stati tirati in ballo
essi pure nel Canto Ditiramiịo dei Partigiani
del Sacchi Truffaldino ed in un sonetto, dove
il Gozzi, schernendoli d'essersi impermaliti, diceva:
1 ■ .
O Medebacche, o Falchi, o Maddalena, \
Jrcana^ e voi Rosaura, e voi, Magnano, j
Venite tosto a baciarmi la roano, \
Che a torto il Ditirambo v'avvelena.^ '
ìitVi! Addio dell'ultima sera del Carnovale 1761
il Goldoni fece dunque dire al pubblico dall' At-
trice Bresciani:
^ Soprannome popolare detP attrice Bresciani, che rap-
presentò per prima la parte d^ Jrcana nella Sposa Persiana
del Goldoni — Vedi : Goldoni. Memorie» Parte 2. Gap. 18.
• Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili, pag. 180.
LXXXIV PREFAZIONE.
~ Questa è per opor mio la sesta volta,
Che me presento a sta benigna Udienza, -
L' ultima sera a ringraziar chi ascolta,
E chi soffre la nostra insufficienza.
Ah! se avesse dal fren la lengua sciolta
Vorria stasera domandar licenza
De poder dir quel che non ho mai dito,
Ma ogni sfogo per mi saria un delito.
Compatime, ve prego, in carità
Se confusa me vegno a presentar,
Perchè dopo aver tanto sladigà
Villanie no me par de meritar,
Da mi, da tutti nu s^ ha procura,
El mestier con modestia esercitar,
E pur zente ghe xe (ne so dir come)
Che i Attori strapazza e stampa el nome.
Del poeta no parlo; el soffre, el tase.
Perchè a lu no i ghe fa né ben né mal;
El Pubblico el respetta, el se compiase.
Che dei discreti el numero preval.
Solamente el se lagna, e ghe despiase
Che se diga che el guasta la moral,
E che penne lo scrìva venerande
Con parole sporchissime e nefande.
Basta, lassemo andar ste cosse odiose
Capace ogni omo onesto dMrritar. . . .
Tanto del vostro amor, tanto me fido,
Veneziani cortesi e de buon cuor.
Che nelP anno, che vien, spero e confido
E^ual prosperità, se no maggior.
Avvilirne i voria, ma me' ne rido,
{ " Ghe voi altro che Fiabe a farse onor,
E maghi, e strighe e satire e schiantagli,
lét voi esser Commedie e no strapazzi.
PREFAZIONE. LXXXV
Ve domando giustizia, no vendetta;
A longo andar ga pijà rason chi tase. ^
Sotto la consueta e decorosa moderazione del
Goldoni c'è questa volta un'amarezza, un di-
sprezzo, che sentesi a stento trattenuto. Ben l' av-
verti l'acuto Gozzi e non tacque. Rispose esso
a nome del pubblico:
Ve rìngraziemo, Ircana. El complimento
Ch^el vostro Dìrettor v'ha messo, in bocca
Noi fa. parer un omo de talento,
Ma no diremo gnanca ch'el sia un'oca.
Circa ai nomi stampai, crederne, Ircana, .
Che se stampa anche el nome al Re de Pranza.
Domandeghe al Poeta, ch'el ne spiana,
Se el pensa colla testa o colta panza.
L'ha guasta la moral; volesse Dio
Che sto pecca sul toni noi gavesse
Savemo che le Fiabe sulla scena
A un Poeta no basta a far onor;
Ma per sie zorni avemo fatto piena
E nu femo Ponor e el desonor.
Almanco se le Fiabe.no corona
Le ga de bon che chi le fa, le dona.^
* Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. Vili. — Addio*
composto dal Sig, Goldoni e recitato dalla comica Bresciani
nel Teatro di S, Salvatore in Vene:{ia, pag. iSg, 140, 141.
* Ibid. — Risposta data dal pubblico alla Signora Bre-
sciani, da me scritta, pag. 141, 42, 43. Forse anche a quésta
il Goldoni rispose col Complimento fd ito dire dalla. Bresciani
LXXXyi PREFAZIONE.
Fiacca risposta, dove si ribadiscono false accuse e
quasi brutaljiiente si allùde allo scarso compenso,
elle il Goldoni ritraeva da' suoi lavori, ed alla sua
povertà. In cento luoghi delle sue Opere il Gozzi
"si dà gran vanto di non aver mai voluto, ne ri-
cavato alcun compenso dalle sue fatiche. Il che
.prova che anche di dignità vera di vita, e di
quanto la sminuisce o .l' accresce, aveà un' idea
molto imperfetta e confusa. Forse è imputabile
più ai pregiudizi della sua casta in quel tempo,,
. che à lui. Ad ogni modo dimostra che à tali pre-
giudizi egli non era superiore, né si comprende
come li «conciliasse col rispetto e l'amore al fra-
^ tello Ga$pare, vivàcchiante di letteratura anch'esso,
non meno del Goldoni. .
.Al riaprirsi del teatro in Ottobre Cado Gòzzi
diede la -sua seconda fiaba; // Corvo^ drammatica-
mente forse una delle più forti di tutte. E tolta,
; come la prima^ doi Cunto de ii Cunte del Basile,
e fa rappfesentata prima a Milano, quindi a Ve-
, n^l principio della stajgione teatrale del lyóS, e. Io farebbe
, credere la lèttera di lui al Vendramin, scritta da Parigi il I3
• Settembre iy63 e. pubblicata dal Sig. Dino Mantovani nel suo
importante libro: Carlo Goldoni e il Teatro di S, Luca a
Vene^^ia (Miiano, Treves, i884)- La frase della lettera però,
che allude M Addio recitato dalla Bresciani P ultima sera del
. Carnovale i76<, è alquanto ambigua. Io qui, in mancanza
' <l^altr-ì 'documenti, debbo stare alle date e alle indicazioni, che
' 4rovo nelle Opere • del Gozzi. Ma probabilmente la data del
1761 ò dal Gozzi scritta more veneto o secondo Vanno teor
- trale. (n tal caso V Addio sarebbe stato recitato più tardi. Ma
tuttociò è incerto.
PREFAZIÓNE. • . LXXXVII.
nezia il 24 Ottobre 1761. « Chi leggerà la Fola
dei Corvo in quel libro, scrive il Gozzi, e vorrà
confrontarla colla mia rappresentazione, vorrà far
cosa assplutamente impossibile. * j* Eppure è in-
vece possibile tanto, che a confrontarla si vede che.
il Gózzi ha con grandissima abilità drammatizzata \
la fola àél Basile, ma, se si toglie la catastrofe, ha
di suo inventalo ben poco. Il Tommaseo su co-
desto attingere del Gozzi da novelle orientali e
popolari d' Italia* e dal teatro spagnuolo, scrive:
« Meno osò di suo che il Goldoni » ed ha ragione. ^
Basti pel Corvo riferire l' argomento della fola
del Bacile: « Gennariello . pe dare gusto à Mil-
luccio. Re de Fratta-Ombrosa fratiello suio fa
lungo, viaggio, e portatole chello, che desiderava,
per liberarelo dai la. morte, è cpnnanato a la
morte ; ma pe mostrare Ja • nnecenzia soia, deven-
tanno statoa de preta marmora, pe strano soc-
ciesso, torna a lo stato de 'mprimmo, e gaude
contente. ^ » Il Gozzi non ha variato che « lo
strano socciesso. » Nel Basile per ridar vita alla
statua occorre il. sangue dei figli del Re ed esso
gli immola. Nella fiaba del Gozzi invece occorre
il sangue della sposa, ed essa si uccide per placare
^ Cablo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. I, pag. 119.
Prefazione al Corvo.
* Tommaseo. Storia Civile nella Lett. cìt. Pietro Chiari etc.
pag- 279. • •
3 Basile. Op. cit. Lo Cuorvo, Trattenicmcnto Nono de la
Jornata Quarta.
LXXXVIII PREFAZIONE.
la collera del padre suo Norando, il negromante,
contro i due fratelli. In questa trovata -c' è vera-
mente "il poeta drammatico. Ma il Gozzi si vanta
assai più d' essere riescito a fare del Negromante
un carattere e avverte: « Scorgerà il mio lettore
in qual aspetto nobile e differente da tutti gli
altri goffi maghi delle consuete commedie delV arte
io abbia voluto porre i negromanti, ch'entrane
nelle mie Fiabe. ' » Eccolo dunque a tentare col-
r ingegno' una quasi impossibilità artistica, quella
di fare ciò, che nelP arte comica si dice un carat-
tere, in esseri sottoposti alle leggi fatali della
magia. Di più, eccolo costretto subito nella seconda
Fiaba a restrìngere il più possibile le parti lasciate
all'improvvisazione dei comici ed a passare dalla
prosa al verso, « condotto non solo, die' egli, dal
capriccio, ma dalla necessità e dall' arte. In alcune
circostanze di passione e forti, scrissi le scene in
versi, sapendo, che l'armonia in un dialogo ben
verseggiato dà della robustezza a' rettoria colori
e nobilita le circostanze ne' serii personaggi. * »
Per tal guisa, ridotta quasi a nulla l'improvvisa^
zione, cercata la commedia di carattere persino
nella Fiaba, e nei momenti migliori del dramma
scartata la prosa pel verso (sia pure non martel-
lano ), il Gozzi è già ben lontano da' suoi primi
propositi, e costretto egli stesso a trasmutare prò-
* Prefazione cit. al Corvo.
* Prefazione cit. al Corvo.
' PREFAZIONE. LX}:XTX
fondamente le vecchie tradizioni della commedia
popolare e della commedia dell' arte ; le tradizioni,
che avea voluto raccogliere e difendere contro il.
Goldoni, « il più fiero combattitore, com'ei lo
chiamava, della commedia nostra improvvisa, che
V Italia abbia avuto. ^ » Checché sia di ciò, il
Corvo è una delle sue fiabe meglio congegnate;
v' ha scene potenti, lo stile ed i versi sono qua e
là talmente superiori a quelli delle altre fiabe, che
non sarei lontano dal credere vi fosse passata sopra,
come in altri suoi drammi, la mano del conte Ga*
spare. V è introdotta anche qui, per amore o per
forza, la satira letteraria. La Scena VII dell'atto
terzo è, per confessione del Gozzi, una parodia
del Chiari, che s'ostinava a voler far parlare le
Maschere in versi. ' Su di che è da notare altresì
la bellezza tipica del carattere del Pantalone^ che
il Gozzi, in ciò correggendo la tradizione della
Commedia dell' Arte, serba uniforme in tutte le
altre sue fiabe. * Nel Pantalone s' incarnano il brio,
la bonarietà, la cordialità, ed insieme l'acuto senno
' Ragionamento Ingenuo, cit.
* Vedi a pag, 97 del presente Volume.
3 1^ Commedia delP arte ora ne fa un tristo, ora un im-
becille, ora un dissoluto, reso più ignobile dalla vecchiezza.
Vedi: // Teatro delle Favole rappresentative, overo la Ri*
Creatione Comica, Boscareccia e Tragica, divisa in cin*
quanta Giornate, compiste da Flaminio Scala, detto Flavio,
Comico del Serenissimo Sig, Duca di Mantova, — AlVIll.mo
Sig, Conte F. Riario, Marchese di Castiglione di Vald' Or-
da et Senatore in Bologna» (In Venetia, Pulciani, 161 1).
XC PREFAZIONI:;..
e r umore burlesco dei Veneziatii, ond'èche questa
Maschera si piglia licenza talvolta di deridiere per-
sino tutto quel diavoleto 4i forze magiche, che
il Gozzi scatena, ed a'C^i sono in preda i per-
sonaggi delle Fiabe, Notevole è pure nel Ne-
gromante del . Con^o (come in altre Fiabe del
Gozzi), ch'egli subordina al concetto antico del
fato, ^. (dal Cristianesimo trasformato in Provvi-
denza divina) anche la potenza dei Maghi. Non
sempre la potenza màgica rappresenta.il principio
del male, cpme pura forza demoniaca, che s' op-
pone è contrasta al principio del bene, e con esso
divide il governo delle umane vicende. Più spesso
il Mago agisce esso pure in forza d' Una condanna
e per questa via il Gozzi sottomette in certo
modo al concetto cristiano dell'espiazione della
colpa anche la capricciosa forza della Magia. Ma
la soluzione di quei grandi inviluppi magici, in-
torno ai quali si ravvolgeva Fiaba, non è sempre
nel. Gozzi artisticamente felice. Nel CorvOy per
esempio, col suicidio della sposa la tragedia giunge
al suo punto massimo. Anna Radcliffe ^ ne' suoi
spaventosi romanzi spiega all' ultimo come eìQFetti
naturali i misteri delle sue fantasmagorie e scema
essa pure l' effetto artistico, che aveva prodotto.
Ma che dire del Gozzi, il quale, per opera del
Mago fa risuscitare la morta sposa del Re Millo
* còrvo. Atto V, Scena 5, pag. 126. La Reggia di Millo
é paragonata a quella di Edipo.
PREFAZIONE. tei
e. ai maravigliati del prodigio fa rispondere dal
Mago stesso:
Tai ricerche si fìinno? È il verisimile
Al proposito nostro? E lo trovate
Forse in qualch^ppra, in cui vi par vederlo ? ^
La satira letteraria s' intrude cosi nel momento
più inopportuno e guasta e raffredda inutilmente
tutta la poesia del sacrificio di quella donna. Ma
è appunto P effetto, eh' egli vuole ottenere. All' ul-
timo ride sul naso del suo pubblico e dice:
Provato abbiam, se falsa illusione
Ha sugli animi fòrza ^
Era dunque una burla e non più. Ma essa serve
di risposta a quelli, che credono avere il Gozzi
presa dal popolo la fiaba e recatala sulla scena in
tutta la sua candida ingenuità.
Al pari di quella del Corvo, la altre fiabe del
Gozzi sono tolte (lo dice espressamente egli stesso)
dal Cunto de li Cunte^ dalla Posilipeata di Mas-
sello Repone, ^ dalla Biblioteca dei Genj, dalle No-
velle Arabe, Persiane, Chinesi, dal Gabinetto delle
Fate, dal Teatro Spagnuolo, * ma con molta mag-
1 Corva Atto V, Scena 8, pag. 133.
' Corvo, Atto V, Scena ultima, pag. 134.
3 Pseudonimo di Pompeo Sarnelli.
< Opere. Ediz. 1802, Tom. XIV, pag. 24, 25. « 'Furono
le mansuete (sic) fonti dermici scelti argomenti e le basi
sopra le quali presi a comporre i soenici generi miei, acquali .
certamente nessuno potrà negare P.originalità e il romoroso
buon effetto. • La più lunga Lettera di risposta ecc. Cit«
XCII PREFAZIONE.
giore varietà e libertà di scelta, eh' egli non abbia
adoperata nel Corvo. Il Magrini, che con tanto
amore ha studiato questo argomento, ha diligente-
mente cercato di fissare i riscontri fra quelle fonti e
le diverse Fiabe del Gozzi. Si limita però a indicare
con qualche citazione bibliografica il risultamento
delle sue ricerche e non entra in nessun partico-
lare. Sarebbe molto diffìcile infatti orientarsi in
tanta. varietà di novelle, che il Gozzi ha messo a
contribuzione. U Amore delle Tre Melarance, il
Corvo e Zeim Re de^ Geni sono quelle che stanno
in più esatta corrispondenza, le prime due con
due fole del Basile (ma più la seconda che l'altra)
e la terza colla Storia del Principe Zeim Alasnan
e del Re de^ Geni nelle Mille e una Notti. Per le
altre si trova qua e là qualche riscontro più o
meno largo e non più. Pel Re Cervo^ ad esempio,
per la Donna serpente, per la Zobeide, pel Mostro
Turchino in racconti delle Mille e una Notti, del
Gabinetto delle Fate e dei Mille e un giorni^
per V Augellin Belverde nella Bella addormen-
tata nel bosco, per i Pitocchi Fortunati nei Mille
e un giorni ed in aneddoti storici contempo-
ranei, ma è quasi impossibile decomporre e ana-
lizzare con sufficiente precisione gli elementi varii,
che il Gozzi s'è appropriati e ha fusi insieme.
La Turandot, una delle più celebri fiabe del
Gozzi, * ha una derivazione delle più lontane e so-
1 11 Cantò nella Storia degli Italiani, Tom. VI, muta
sesso alla bella sdegnosa e ne fa un Re Turandot.
PREFAZIONE. XCIII
lenni; e già molti altri s'erano prima del Gozzi
valuti di questa bellissima novella, lo Shakespeare
per r episodio di Pon^ia nel Mercante di Ven&{iay
(dove i tre cofani d'oro, d'argento e di piombo,
fra i quali i pretendenti alla mano di Porzia hanno
da scegliere, fanno riscontra ai tre enigmi della
Turandot), il Molière per la Principessa d^Elide^
imitata da un dramma spagnuolo del Moreto, ma
che pel carattere dell'eroina (ciò che non è della
Porsia dello Shakespeare ) combina essa pure colla
Turandot, le cui fonti risalgono poi per questa
trafila insino ai Gesta Romanorum. ^ Ma a che
cosa approderebbe del resto una simile ricerca pel
Gozzi, il quale si serve dell'antico contenuto delle
Fiabe popolari per fini letterari e morali tutti suoi
personali e del tempo suo? Oltredichè delle due
specie di commento, scientifico e psicologico, che
si potrebbero fare alle Fiabe del Gozzi, il primo,
anche sapendolo fare, sarebbe assolutamente un
fuor d' opera, il secondo, dove il Gozzi stesso non
ha detto le sue intenzioni, diverrebbe affatto cer-
vellotico ed arbitrario. Non ignorava neppure Carlo
Gozzi che le portentose novelle da esso adoperate,
e che con molta proprietà chiamò fiabey sono di
origine mitologica^ e che in esse <c come in un
1 Gesta Romanorum^ Ediz. Vcsterley, Fascik. IJ, 251,
^PP« 55i P^S* ^55* Il Magrini nota che il Gozzi tornò altre
due volte su questo tema, ripigliandolo esso pure dal dramma
del Moreto, nella Principessa Filosofa e nella Donna con-
traria al consiglio.
XCTV PREFAZIONE.
ossuario (scrive Vittorio Imbriani) fur depositati
alla rinfusa gli scheletrì scompaginati di credenze
antichissime ed in cui ravvisi personificazioni dei
fenomeni naturali e delle passioni umane, e la ma-
nifestazione fantastica di quel panteismo spontaneo,
che fu forse il primo pensiero religioso della no-
stra razza. ' » Vi accenna il Gozzi chiaramente
nel Mostro Turchino:
SoQ V ombre, i mostri, i cambiamenti e l' Idre,
I flagelli, le morti e le vittorie
. Che voi vedeste in questo vostro regno
Alte dottrine, allegorie, che un giorno
Molto avean pregio *
Ma una volta fermate codeste fiabe nella forma
drammatica e nei fini particolari delP arte poetica
del Gozzi poco gioverebbe sapere, per esempio,
che la principessa addormentata dell' Augellin
Belverde significava nell'antica fiaba, da cui in
parte deriva, la Terra addormentata dall' Inverilo,
e lo sposo, che verrà a ridestarla, rappresentava
il sole primaverile, e via dicendo. Quanto a de-
terminare tutte le allegorie, che oltre alle confes-
sate apertamente dal Gozzi si potrebbero scoprire
nelle sue Fiabe, voi pare che l'esempio dato da
Gaspare nel suo articolo sull' -4more d^lle Tre
Melarance dimostri chiaro che, a non voler fan-
tasticare ad arbitrio, un simile commento non può
1 Imbrumi, Op. cit.
* Vedi nel Voi. 2, Atto V, Scena VI, pag. 304.
PREFAZIONE. XCV
farlo che V autore stesso, o chi scrive quasi sotto
la sua dettatura o la sua inspirazione. Di certe
frangie, fatte alle sue Fiabe dagli ammiratori, il
Gozzi stesso si dichiara inconsciente. In esse « sco-
persero, scriv'egli, delle profonde allegorie, e molte
di quelle, eh' io non m' era ne meno sognate. ' »
E altrove: « Vi trovarono delle bellezze, ch'io
non aveva vedute. * » Per non uscire d'argomento
0 per non lavorare di fantasia, meglio è dunque,
cred'io, attenersi a quanto il Gozzi ha detto dei-
Parte e dell'opera sua, ed alle circostanze sto-
riche, che l'inspirarono ed ora quindi l'illustrano
e spiegano.
La terza fiaba del Gozzi fu il Re Cervo, rap-
presentata il 5 Gennaio 1762. E qui debbo fer-
marmi per un momento alla questione della cro-
nologia delle Fiabe. Nella migliore edizione delle
Fiabe (l'edizione Colombani del 1772) il Gozzi
ha stampata per terza .la Turando t con la data
del 22 Gennaio 1761, e per quarta i! Re Cervo
con la data del 5 Gennaio 1762, e di più dice
espressamente che il Re Cervo fu la quarta Fiaba
e che « successe alla Turandot. ' » Per buona sorte
nell' edizione Zanardi del 1801 si corregge da sé,
dice che il Re Cervo fu la ter:(a e sopprime (tanto
è vero che rettificava l'errore del 1772) sopprime
il: « successe alla Turandot. » S'aggiunga che
1 Prefazione al Corvo.
* Prefazione al Re Cervo.
3 Prefazione al Re Qervo.
XCVI PREFAZIONE.
nelle Memorie, dopo aver parlato della rappresen-
tazione del Corvo, dice espressamente : « volli bat-
tere il ferro mentre era rovente e la mia terza
fiaba intitolata il Re Cervo ribadì la mia propo-
sizione, . . . . ' » vale a dire, ribadì che anche le
più assurde meraviglie di magie, e incanti e tra-
sformazioni potevano con arte ed eloquenza ri-
dursi ad opere di verità ed efficacia drammatica.
E. poiché gli avversari continuavano ad attribuire
i trionfi del Gozzi ai meccanismi della scena, al-
lora passò egli alla fiaba spoglia affatto « di ma-
giche meraviglie,* » cioè alla Turandot, È dunque
messo fuori d' ogni dubbio che l' ordine cronolo-
gico dell'edizione del 1772 è sbagliato, che il Re
Cervo è la terza e la Turandot la quarta delle
Fiabe del Gozzi. Resta ora un ultimo punto
oscuro, la data assegnata dal Gozzi alla prima rap-
presentazione della Turandot e da lui ripetuta in
tutte due le edizioni, la data del 22 Gennaio 1761.
Se questa fosse la vera, non solo la Turandot
precederebbe il Re Cervo, ma ancora il Corvo e
V Amore delle Tre Melarance, che, come s'è
visto, fu rappresentata il 25 Gennaio 1761. Ora è
certissimo che V Amore delle Tre Melarance fu
la prima fiaba del Gozzi, siccome è parimenti certo
che il Corvo ed il -Re Cervo precedettero la 7u-
randot, E dunque da conchiudere che il Gozzi ha
1 Memorie cit. Pan. 2, Gap. i, pag. 6.
* Ibid. loc. cit.
PREFAZIONE. XCVII
scritto il 22 Gennaio 1761 mòre veneto, (pel quale
V anno non cominciava che al Marzo ) e che quella
data equivale perciò al 22 Gennaio .1762.^
Due invenzioni burlesche primeggiano vera-
mente nel Re Cervo. L' una è il prologo personi- '
ficato nel Cigolotti, cantastorie famoso di Piazza
S. Marco e della Riva degli Schiavoni, tanto am-
mirato da John Moore, lo spiritoso viaggiatore in-
glese, fino dal primo giorno del suo arrivo in Ve-
nezia, * « Nel 1762 a Venezia, scrive Filarete
Chasles, tutti conoscevano il Sig. Cigolotti colla
sua berretta rossa e intignata, le calze paonazze
e piene di buchi, il suo vecchio abituccio nero ere-
ditato da un abate galante, la taccia squallida, la
barba lunga ed arruffata. Tale ¥ aspetto ed i con-
notati del favoleggiatore favorito dal popolo ;
grammatico, critico, erudito, poeta, per lo più
mezzo brillo, diligentissimo nel far notare al po-
polo i bei motti toscani e le eleganze letterarie,
onde infiorava i suoi racconti, sempre ascoltati e
sempre ammirati. Scendevate all'albergo di San
Pantaleone, ed ecco il Cigolotti a darvi il benve-
nuto con un sonetto; prendevate moglie e il Ci-
golotti faceva il vostro epitalamio; vi portavano
V olio santo, e il Cigolotti preparava subito l' epi-
cedio per voi e l'cpitafio per gli eredi. Uomo
grave e di mansueti costumi, soggiungerò con do-
* Archivio Veneto, Tom. 24. — Ermanno von Lòhner,
pag. 203-211. Articolo critico sul Goldoni del Sig. Galanti.
* Citato dallo Chasles.
Masi. g
xgvm ' preVazionb.
riore ch^ei fu perseguitato e senza che la storia se
' ne ricordi. Il Senato di Venezia esigilo un bel
. giorno le cortigiane, l'imprudente Cigoìotti prese
a difenderle, il popolo a ripetere, i suoi versi ' ed
il Cigoìotti fu bandito come Omero, Camoens e
Dante..,, e mori in esilio.* » Or bene il Gozzi
. piglia su questo cencioso eroe della Piazza, e col*
^ legandolo fantasticamente all'azione della Fiaba,
he fa il Prologo del sub R^, Cervo. Sfrutta così,
. in molti altri luoghi delle sue Fiabe, celebrità ri-
dicole o ignobili del jtempo, e usanze particolari e
indicazioni di luoghi e di persone allora notissime
qon una libertà e a volte con una licenza singo-
lare. Notevole è pure che il popolo nelle Fiabe
del Gozzi non sia mai rappresentato più degna-
mente di così. La bollente fierezza dei Titta Nane
del Goldoni poco gii andava a sangue. Altra mac*
. china burlésca del Re Cervo, che il Gozzi deriva
dalle novelle orientali, è la statua donata al Re
,. da lin'mago, là quale ride ogni volta che una
donna fnentisce dinanzi ad essa. Il Re, volendo
•ammogliarsi, interroga prima dinanzi alla statua
là donna, che gli è proposta, e già n' ha passate
in rassegna duemila cento quarantotto, senza che
posi mài la terribile ilarità della statua. Soprav-
viene alla fine Angela, la figlia di Pantalone, ek
statua non ride più. Angela è una La Vallière
^ Alcunché di simile trovasi negli osceni versi del Baffo.
< Pmu CuASLBs, Op. cit. Etudes sur C Goi[^i, p. 543.
PREFAZIONE. . - XCIX
pantalonesca, che ama V uomo nel Re, una dèlie
poche delicate figure di donna, che il Gozzi abbia
disegnate. I prodigi, le trasformazioni del Re Cervo
sono tante e cosiffatte, che non s'intende alla let-
tura, come siansi potute eseguire con sufficiente
illusione scenica. Il Re si cambia in Cervo, poi il
suo spirito entra nel corpo d'un altr' uomo, tanto
vecchio e deforme, quant' egli era giovine e leg-
giadro e, ciò non ostante, P amore di Angela lo
indovina e lo scopre sotto alle mutate sembianze.
E questo un forte abbozzo drammatico, guastato
alquanto dal Gozzi, che lo ricaccia ben tosto nel
circolo magico della fiaba. Tutto il resto è più
spettacoloso, che fantastico e, per dar pure un
senso a tutte quelle metamorfosi, si volle vedere
un apologo politico in quel Re mutato in bestia
da un ministro infido e perverso; ma è una di
quelle intenzioni, che il Gozzi non confessai^
Era accusato, come dissi, di fondarsi tutto sui
prestigi delle macchine e delle fantasmagorìe.
A tale accusa volle rispondere colla Turandot
È una principessa Chinese, che costretta a sce-
gliersi uno sposo, non consente a dar la sua mano,
se non a chi saprà risolvere tre enigmi da lei pro-
posti, pena la vita a chi, presentatosi, non li ri-
solve. Già molti hanno lasciata la testa a questa
prova, allorché il dramma incomincia. La scena è
a Pekino e la fiaba si svolge a traverso tm caos
1 Memorie cit Parte II, Gap. i, pag. 6.
e PREFAZIONE.
di costumi, di cerimonie e di usanze bizzarre e
feroci, contro le "quali s' arrovella inutilmente
r onesta coscienza di Pantalone, primo Ministro,
ch^, con Tartaglia, Brighella e Truffaldino, - mi-
nistri ancor essi, governa l'impero. Il fondo, dpi
dramma è poetico assai^ non v'ha dubbio. Non
v'ha prestigio di magia. Ma una forza misteriosa
ed estraumana governa ad ogni modo tanta stra-
nezza di eventi e di personaggi, e questa e la me-
scolanza delle vecchie Màschere italiane a perso-
naggi tragici, rinnovata dal Gozzi ( le quali Ma-
schere hanno veramente l'aria di esigliati in China,
non riesciti ad acclimatarsi ) formano un contrasto
così nuovo e stridente, che spiega la fortuna gran-
dissima di questa fiaba. Di quella mescolanza il
Goethe ha molto lodato il Gozzi * ed il suo giu-
dizio, quantunque, più che un giudizio, sia l'im-
pressione fuggevole d' un viaggiatore, che ha as-
sistito una sera ad urn.. commedia delV arte, e la
sera 'dopo ad una tragedia bestiale,* ha senza
dubbio grande importanza. Gli si può contrapporre
l'esempio dello Schiller, che, traducendo pel teatro
di Weimar la Turandoi, si studiò di attenuare,
più che potè, quel contrasto fra il carattere ste-
reotipo delle Maschere e l'ambiente non eroico,
né magico (che allora la parodia salverebbe tutto)
ma semplicemente poetico della Fiaba. È da no-
* Goethe. Italifinìsche Rcìse. Brlefe, 6 Oct. 1786.
* Goethe. Op. cit. Briefcn 4-5 Octob. 1786.
PREFAZIONE. CI
tare però che la lode del Goethe, si fónda sulla
relazione intima, ch'esso pretende esistere fra la
fiaba tragico-burlesca del Gozzi ed il carattere del
popolo Veneziano. Checche sia di ciò, le Fiabe
correvano di trionfo in trionfo, e tre fatti impor-
tanti accadevano dopo la rappresentazione della
Turandoti il passaggio della Compagnia Sacchi dal
" Teatro S. Samuele a quello di Sant' Angelo ( l' an-
tico, teatro del Goldoni), la partenza del Goldoni
per la Francia, e quasi allo stesso tempo il ritiro
del Chiari nella sua Brescia ed il suq cessare di
scrivere per il teatro. Non è già che il Goldoni si
fosse dato per vinto. Ma certo i trionfi del Gozzi
affrettarono la sua risoluzione ed in una sua poesia
lo dice più aperto che nelle Memorie e nelle
Lettere:
Tre lustri or son che del mio scarso ingegno
Vo spremendo il midollo, e quanto lìce
A me sperar, giunsi delPopra al segno.
Ma non dura fortuna ognor felice,
E temer posso di colei gli oltraggi
Ed alPimo cader della pendice.
Nuove terre calcando e nuovi saggi
Di costumi prendendo, pyò la mente
Trar miglior frutti da novei viaggi,
E un di tornando alla diletta gente
D'Italia mia, ch'or di me forse è stanca,
Esser rancido meno e men spiacente. ^
1 Goldoni. Componimenti cit. Capitolo per le Nozze Bar-
berigo e Lippomano.
ai 'PREFAZIONE^
Alla Turandot seguì il ap Ottobre 1762 la
Donna Serpente più spettacolosa e più intricata,
se possibile, del Re Cervo. In quel laberinto di
malie, d'incanti, di condanne e combinazioni mi-
steriose di cronologie cabalistiche, sembra quasi
che il Gozzi stesso si smarrisca. Poeticissimo è il
tipo di Cherestani, maga innamorata, che lotta tra
un amor vero e la ineluttabile fatalità delle leggi
negromantiche, alle quali, come maga, è sottoposta.
Fra tanti incantesimi Pantalone parla il linguaggio
d'un buon senso impersuaso e pieno perciò di
forza comica. Ma il quadro s' allarga in modo che
il Gozzi, non potendolo far stare dentro la cor-
' nice' del dramma, si trae d'in^accio, introducendo
fra una scena e l'altra un venditore di relazioni
pubbliche, come sarebbe uno strillone dei nostri
giornali, il quale riferisce in compendio il conte-
nuto della sua merce e così informa il pubblico di
ciò che è accaduto e non fu. potuto rappresentare
sulla scena. Ha ragione il Gozzi di lagnarsi, che
certi critici troppo austeri biasimassero cotesta sua
invenzione, la quale fa riscontro a quella del Ci-
^lotti nel Re Cervo, e tutte , e due, con molte
altre di simile genere, che trovansi nelle Ftabe^
sono un vero ringiovinimento delle forme libere
e popolanesche della Commedia dell'Arte. « Il
Sacchi Truffaldino, scrive il Gozzi, uscendo con
un tabarro corto* e lacero, un capello tignoso e un
gran mazzo di relazioni a stampa, gridava, ad imi«
tazione di que' birbanti, accennando in compendio
PREFAZIONE. CIII
il contenuto della relazione, dichiarando i 'successi
accaduti, ed eccitando il popolo a comprar il foglio
per un soldo. Tal scena inaspettata, eh' egli faceva
con molta grazia e' verità e con una di quelle
imitazioni sempre fortunate, spezialmente nel Tea-
tro,- cagionava un intero tumulto e continuati
scoppi di risa nell' uditorio, e si scagliavano da' pal-
chetti a quel personaggio confezioni e danari per
avere la relazione. Questa fantasia, che sembra
triviale, usata da un privilegio di franca libertà,
<he sostenni sempre nelle mie Fole, fu apprezzata
da' buoni ingegni . ; . . Giunto agli orecchi de' ven-
ditori delle relazioni il successo di questa scena,
si unirono e posti alla porta del Teatro con un
gran fardello de' loro già disutili e muffati fogli,
che nulla avevano a fare colla rappresentazione,
all'uscire dell'uditorio si posero a gridare con
quanta voce avevano la relazione de' gran casi
avvenuti nella Donna Serpente. Nel buio della
notte venderono un numero infinito di* que' fogli,
ingannando il p)opolo, e se n'andarono all'osteria
a far de' brindisi al Sacchi. ^ »
Ben altra composizione però è la Zofc/rfe rap-
presentata 1' II Novembre 1763, e una delle due
(l'altra è il Mostro Turchino) y che il Baretti
potè leggere ancora inedite,* il qual fatto, unito
^ Pcefazione alla Donna Serpente.
* Ediz. Milanese dei Classici Ital. 1839. Tom. IV. Lettere
e Scrìtti vari di Giuseppe Baretti. Lett. a F. Carcano del 12
Marzo 1784.
CrV PREFAZIONE.
ad altri, che accennerò più tardi, farebbe ritenere
che fra i due passasse maggiore intimità di quella
confessata dal Gozzi e spiegherebbe 11 sileazio
della Frusta, vissuta e morta sippvmto durante la
rappresentazione delle Fiabe. Nella Zobeide è lotta
tragica veramente tra il principio del bene e quello
del male, tra le arti magiche e l'innocenza e la
religione. Vigorosamente disegnato è il carattere
di Re Sinadab, in cui è raffigurato l' ipocrita. È un
Negromante, che ha sempre- in bocca Dio e la
virtù. Però la magia ed il prodigio turbano ogni
tentativo di svolgimento di caratteri, e così pure
impediscono alla lunga il terrore e la pietà tra-
gica. Il Gozzi ha voluto fare della Zobeide una
tragedia fantastica. Ma benché nei fenomeni d' un
atavismo criminoso, che scende per due progenie
principesche, siavi in realtà imitazione e remini*
sQtntz di tragedia classica, nondimeno anche il Si-
smondi, gran lodatore del Gozzi, osserva che
* abuso della fantasmagoria esclude la sensibilità
e che la Zobeide, per quanto tragica, non farà mai
piangere nessuno. '
Al genere della Turandoti che il Gozzi defi-
nisce « genere fiabesco, spoglio di mirabile ma-
gico, * » appartiene la settima Fiaba: / Pitòcchi
Fortunati, rappresentata il 29 Novembre 1764.
Trattasi d* un Re, che si finge pitocco e gira in-
1 S18MOND1. Lìttér. du Midi d* Europe. Tom. I, Chip. XIX.
* Prefazione ai Pitocchi Fortunati.
PREFAZIONE. . CV
cognito per conoscere i bisogni del suo popolo «
le arti malvagie de' suoi Ministri. V è la solita
figura dell'Angela, la virtuosa figlia di Pantalone
e amante del Re, e il solito fondo di riti ed
usanze e barbarie orientali, che ai Veneziani, già
conquistatori dell' Oriente ed ora perdenti ad una
ad una le lóro conquiste, piaceva oltre modo,
forse come un ricordo di domestiche glorie. Però
il tema della fiaba, quel Re in incognito e sotto
mentite spoglie, rispecchia aneddoti contempo-
ranei, che ancora si raccontano, di Pietro il Grande
di Russia, di Federico II, di Giuseppe II e di Leo-
poldo di Toscana. ^ Non pare che questa fiaba rie-
scisse sulla scena così bene, come le altre. Forse
1' argomento non destò grande interesse. Fatto stai
che, a quanto narra il Gozzi, fu rappresentata sei
sere nell' Autunno, poi sospesa, e rimessa in scena
per due sole sere nel Carnovale, intramezzandovi
un altra fiaba, non più spoglia' di mirabile ma"
gicò. Una semi-confessione del poco buon successo
dei Pitocchi Fortunati si ha dal Gozzi stesso, il
quale dice eh' essa « non era in tutto popolare »
e di ciò si consola colle lodi in versi tributategli
da una parrucca accademica, il Conte Purante
Duranti di Brescia. * Un' ultima notizia intomo ai
Pitocchi Fortunati, che merita ricordo, è quella
che « ai nomi di Profeta Macone e di Moschea,
* MAGRifa. Op. cit., pag. 218.
* Prefazione ai Pitocchi Fortunati.
evi PREFAZIONE.
non voluti lasciar correre in Teatro dai prudenti
Revisori 'Veneti, furono sostituiti quelli di Apol-
lino e di Tempio;' » prudenza, che non giovò
purtròppo, dopo Passarowitz, a rinfrancare in
Oriente la potenza dei Veneziani!
La Fiaba, con cui il Gozzi soccorse la non
grande fortuna dei Pitocchi Fortunati, fu II Mo-
stro Turchino, rappresentata PS Dicembre 1764.
La moralità di questa fiaba è l'amor coniugale,
poetizzato in Taer e Dardanè, e messo a terribili
prove da Zelou, Mostro Turchino. « La passione
fantastica, ch'ella racchiude, scriva il Gozzi, fii
. guardata come una verità incontrastabile; '^» ma
quest* affermazione mi sa veramente di trop{)0 ar-
dita. Il' Gozzi nel mescolare la realtà dei fatti e
delle passioni umane ai portenti magici e ai miti
fiabeschi non raggiunge quella perfetta fusione del
fantastico e del reale, a cui seppe toccare, per
esempio, lo Shakespeare. Il dubbio di Alonzo nella
Tempesta dello Shakespeare : « non potrei giurare
se ciò non sia una realtà' » non mi sembra pos-
sibile nelle Fiabe del Gozzi. Eppure è a questo
patto che il fantastico sul teatro fwiò evitare il
pericolo, a cui più della realtà si trova esposto,
di divenire monotono, triviale e sazievole. È ve-
rissimo quanto dice in proposito la Signora di
Staèl che il genere fantastico va giudicato come
1 IbicL
» Prefezione al Mostro Turchino.
» Alto V, Scena I.
PREFAZIONE. ,CVI1
ae si trattasse d' un sogno e che « se il buon gusto
vegliasse sempre alla porta eburnea dei sogni, per
costringerli a forme prestabilite, ben di rado essi
colpirebbero la nostra immaginazione. ^ » Ma è
più vero ancora ciò che poco innanzi avea detto
la stessa Signora di Staé!l (parlando delle streghe
del Faust): « I lìmiti sono difese. La vaghezza
delle invenzioni soltanto può salvare il fantastico,
nel quale l'imione del bizzarro e del mediocre
non potrebb' essere tollerata.* » Peccato, che non
sempre il Gozzi potè sfuggire e che appunto al
momento di far rappresentare il Mostro Turchino
pare che avesse già messo il pubblico in qualche
diffidenza e sfiduciato un poco il poeta dell' opera
sua. Nella Pref albione si mostra assalito quasi dal
dubbio d' essere andato tropp' oltre e malcontento
di dover continuare, costretto dallo zelo del par-
tigiani e dalle esigenze dei Comici. Le critiche co-
minciavano ad assalirlo. « Bilanciai molto, scrìve
il Gozzi, per la soggezione in cui m' avevano posto
i colti ed acuti miei giudici.... e confesserò che
il rispetto e il timore, che io ho del pubblico, mi
fece costar questa fiaba una fatica non conveniente
al suo ridicolo titolo di Mostro Torchino.' » La
gestazione fu hmga, faticosa, piena d'incertezze
(perciò forse questa fiaba fu comunicata al Ba-
i M.« De StaAu De PÀllemagne. (Bruxelles, 1833). Tom. 2,
Chap. XXI li, pag. 424.
« Ibid^ pag. 388.
' Prefazione al Mostro Turchino, '
CVIII PREFAZIÓNE.
retti manoscritta), e coi pochi accenni, cbe il
Gozzi ne dà nella Prefazione, concorda, mi sembra,
quanto scrive in una sua lettera del 15 Ottobre
' 176^: « II Mostro Turchino, tra il volere, il non
volere, gli imbarazzi, V accidia e la rabbia è finito;
/ ma così fiacco e scipito, che intendo non far d' esso
y uso alcuno. Non sono queste espressioni d'afifet»
' tata modestia, ma di sincerità. Sono arrabbiatis-
simo colla poesia e vorrei poterla frustare. Ho
preso dell' affetto a questi deserti (scrive . dalla
campagna) e mi sono più cari i ragli dì questi
asini, che il sentire a Venezia : oh che cuccagna ! ^ >
Anche l' ardito artista delle Fiabe, anche il poeta,
che non dubitava di nulla, che si credeva sosteni-
tore della verità, della tradizione, della cultura e
della morale, il poeta, che avea visto fuggirsi di-
nanzi sgominati gli avversari ed a suoi piedi il
pubblico, il quale mutava di adorazioni da un
giorno all'altro con una celerità spaventosa non
meno ai vinti che ai vincitori, anche questo guer-
rigliero, fortunato era dunque assalito dalle sue ore
di dubbiezze e di sgomento al pari del Goldoni^ e
quasi impaurito della poca giustizia de'suoi stessi
trionfi } « La riputazione, scrive il Gozzi, in cui
'erano entrate le Fiabe incominciava a dispia-
cermi; • » e nella Fiaba del Mostro Turchino
1 Archivio Veneto. Tocn. IH. Articolo del Sìg. Conte Ga-
spare Gozzi, pronipote dei due poeti, intit.: Gaspare e Corto
Goi{\i e la loro famiglia, pag. 277-278.
* Prefiazione al Mostro Turchino.
. PREFAZIONE. CIX
mette nella bocca a Zelou ( quasi il poeta antiveda
le troppo rapide vicende della sua fama) questa
singolare profezia :
Tempo verrày che le trasformazioni,
Ch'io son per cagionar, servir potranno
D' allegorici casi, e i sprezzatori
' Mostri saranno, compio son, cercando
Di trasformar sg stessi in nuovo aspetto
Grato nel mondo, trasformando altrui.
Se mai potranno, in abborriti mostri. 1-
Lo Stranissimo argomento di questa fiaba è però
svolto e condotto con abilità magistrale, e se il
Goz^i osò qualche volta vantarsi inspirato dal-
l'esempio del Boiardo, dell'Ariosto e del Tasso nel
ritornare, che fa, agli « impossibili e mirabili av-
venimenti* » dei poemi cavallereschi ed eroici,-
qui oltre ad atteggiare un eroe, che per amore
o per espiare coljpe sue o d'altri deve affrontare
imprese di straordinaria temerità (fondo comune
delle fiabe popolari in genere e di quelle del Gozzi
in particolare), qui, con vera efficaci^ satirica e
comica, contrappone all'ideale cavalleresco l'egoi-
smo filosofico moderno. ^
Le ultime due Fiabe del Gozzi furono U Au-
gellino jBe/ver(/(?, rappresentata il 19 Gennaio 1765,
1 Vedi nel Voi. II. Il Mastro Turcliim^ Atto I, Scena I,
pag. 204, ^ •
* Prefazione al Corvo,
3 Vedi nel Voi. II, // Mostro Turchino, Atto IV. Se. VI,
pag. 278-79.
ex PREFAZIONE.
e Zeim Re d^ Genjy rappresentara il 25 Novem-
bre 1765, ' nelle quali, come nellMmore delle Tre
Melarànce, tornò a mescolare di proposito, e non
soltanto per incidenza, la fiaba, la parodia e la sa-
tira, non più di battibecchi letterari, bensì delle
dottrine filosofiche e morali degli Enciclo]:>edisti
Francesi, che già erano in voga. Ma V Augellino
Belverdè è il vero epilogo, la conclusione solenne
delle Fiabe Gozziané. W. Re d^ Genj non è che
un'appendice, un soprappiù, ed il Gozzi stesso ne
parla poco e mostrando di non curarla. Notevo-
lissimo è però (quantunque Inazione vi proceda
un poMisordinata e slegata). cóme manifestazione
delle idee morali e politiche del Gozzi. Zeim, Re
de* Genj, opera in sostanza tutti i suoi portentTc
sottopone altri alle prove più dure nell'interesse
dei principi conservatori. È un Bonald o un De
Màistre sotto le forme d'un negromante mo-
struoso; creazione fantastica, che, come il Mostro
Turchino, il Gozzi desume in parte dai racconti
orientali, in parte costruisce da sé; che tiene del
gnomo, del demone, dell' animalesco e dell' umano,
e vagamente ricorda il Ca libano della Tempesta
dello Shakespeare. La fedeltà d'una schiava, alle-
vata nella più ingenua fede in Dìo, nella sommes-
^ Le Fiabe furono intramezzate da due drammi che ap-
partengono alla seconda maniera del Gozzi, quella ^IP.imi-
tazione del Teatro Spagnuolo, e sono intitolati: Il Cavaliere
Amico e Dorifle, rappresentati entrambi nel 1762 con scarsa
fortuna.
PRBFAZYOHE. CXÌ
sione più assoluta, e neUa tranquilla creden^/che
da Dio viene ogni potestà dei Grandi e che anche
gli eccessi della costoro prepotenza Dio li per-
mette per alcun bene nascosto nell'abisso del suo
consiglio, con^e pure la probità e la costanza di
un vecchio ministro ricevono all'ultimo dal Re
de' Genj il dovuto compenso. Quest' è la moralità,
che si svolge a traverso i portenti nlagici e che
è racchiusa negli ammaestramenti di 2^eim alla
schiava :
Ei sempre mi dicea ...*..
Che sacra, non intesa Provvidenza
. Tutto dispone e che mirabìl opra '
Era de' grandi il posto e grado a grado
Veder le genti, inaino alla mmuta
Plebe, operar subordinate a^ primi
Era cosa celeste. Ah non t? allettino,
Spesso dicea, sofistici talenti.
Che maliziosamente Hbertade .
Dipingono a' mortali, fuor da questo
Bell'ordine, dal cicl posto £pa noi.*
La generale intenzione satirica della fiaba si ,
deduce da questo tema ed un saggio curioso è in
una scena del^Atto I, in cui Sarchè, figliagli Pan-
talone (^ terza incarnazione àtW Angela del Re
Cervo e dei Pitocchi Fortunati) tenuta dal padre
nascosta in una campagna, chiede a lui che cosa
sia una città ed egli le descrive co' più minuti
* Vedi nel Voi. 2. Zeim Re dt* Gety, Atto If, Scena IV,
pag. 458»
CXlL PREFAZIONE.
particolari lo stato ' morale d' una città, guasta
dalle dottrine e dai costumi alla moda. ' Manife-
stamente allude a. Venezia, dove le massime filo-
sofiche francesi, per mezzo dei libri, dei viaggia-
tori, delle associazioni Massoniche, già penetravano.
Non al governo di certo, che durava immobile,
quantunque esso pure fin dal 1761 avesse dovuto
reprimere in Angiolo Querini e ne' compagni suoi
uri'>agitazione politica, che s'inspirava alle nuove
idee, dappoiché il Querini, riformista e ammiratore
dal Voltaire, somigliava assai più ai Mirabeau ed
ai Lafayette, che non ai patrizi Veneti d' antica
stampa. ' Ma il più fiero assalto del Gozzi alle
-esotiche dottrine venute di moda fu nella Fiaba
à^S Augellìno Belverde, « E un'azione scenica,
egli scrive, la più audace che sia uscita dal mio
calamaio. Io m'era determinato a tentar con uno^
sfprzo di fantasia uno strepito grande teatrale po-
polare e a troncare il corso delle rappresentazioni
sceniche, delle quali non voleva utilità nessuna,
ma né meno quel peso disturbatóre, che incomin-
davano a darmi; massime sembrandomi già di
aver abbastanza ottenuto quell'intento, che m'era
proposto per un purissimo, capriccioso, poetico
puntiglio.,., Sotto un titolo fanciullesco, e. in
mezzo ad un caricatissimo ridicolo, non credo che
1 Nel Voi. Il cit, Zeim Re de* Ì3enj, Aito I, Scena I,
pag. 423.
* MoRPURGO. Marco Foscarini cit. — Rohanin. Storia
Document di Venezia, Tom. cit.
PREFAZIONE. CXIII
nessun uomo bizzarro abbia trattato con più in-
sidiosa facezia morale le cose serie, eh' io trattai
in questa fola I punti gravi, moralmente trat-
tati in questo audace teatrale trattenimento, ca-
gionarono per la città tante dispute e d'una spe-
zie tanto particolare, che infiniti religiosi regolari
degli ordini più austeri si trassero le loro tona-
che, e postisi in maschera, andarono ad ascoltare
V Augellino Belverde con somma attenzione. * »
Per farne ben spiccare l' intendimento satirico,
il Gozzi riappicca il filo di questa fiaba all' argo-
mento delle Tre Melarance^ quantunque la pa-
rodia e la satira abbiano cambiato oggetto. L' azione
comincia vent'anni dopo la conquista delle Tre
Melarance, il vecchio Re di Coppe è morto, il
Principe Tartaglia è scomparso da diciannove anni,
sua moglie è stata sepolta viva, i due loro gemelli
sono stati affogati, la córte è vuota, il regno in
balia della regina madre, una vecchia pazza im-
bertonita d' un poeta estemporaneo e furfante.
Tutto questo terribile destino, che fa rassomigliare
alla stirpe degli Atridi la stirpe fiabesca delle Tre
Melarance, è scongiurato dalla magia. I morti tor-
nano, gli sperduti si ritrovano, e non, solo essi,
« 1 Prefazione a\V Augellino Belverde. II Gozzi stesso narra
del Goldoni, che suscitava questi e maggiori entusiasmi. Le
sue commedie leggevansi ne^ Collegi, ne^ Monasteri. Il Gozzi
senti un giorno predicare in una Chiesa un Abate Salerni,
il quale dichiarò che si preparava alla predica colla lettura
delle commedie del Goldoni. Gozzi, Memorie cit. Parte e .
Cap- 34i pag- 260, 67.
Masi. h
CXIV PREFAZIONE.
ma anche antichi personaggi d* altre Fiabe Goz-
ziane tornano petrificati, come il Cigolotti del Re
Cervo cambiato in statua parlante, ed i prodigi^
le trasformazioni fanciullesche delle Tre Melarance
si moltiplicano all'infinito. E veramente, ripeto,
un vasto epilogo fiabesco, è il delirium tremens
della magia, dove tutto ripiglia anima e vita, sino
. i pomi, che cantano, sin l'acqua, che suona e
balla, sino le statue delle antiche fontane, che
scendono dalle loro nicchie diroccate e muscose e,
a guisa della statua espiatoria del Commendatore
nel Don Giovanni^ camminano cori passo mar-
moreo fra- i mortali. Ma in mezzo a questo pari-
demonio fiabesco la parodia e la satira primegf-
giano e forse con più intima connessione all'ar-
gomento, che non sia nelle Tre Melarance, Delle
dottrine, che satireggia, il Gozzi ha un concetto
molto inesatto e confuso. Sferza però in generale
l' insurrezione della ragione contro la fede e ri-
congiunge tale insurrezione al Machiavellismo per-
sonificato nel salsicciaio Truffaldino , a cui la causa
dei vinti inspira il più alto disprezzo ed è divenuto
razionalista, incartando il salame coi libri dei filo-
sofi. * Manomessa l' antica fede, gli uomini, secondo
^ In una lettera scritta dalia campagna P 8 Ottobre 1763
Carlo Gozzi, parlando della Frusta- Letteraria del Baretti,
che usciva allora, scrive: « Io me la passo dormendo, man-
giando, cavalcando qualche puledro, camminando, e gridando
con questi villani, i quali sono tutti finissimi machiavellisti»
Sanno frodare, ridersi del parroco con una sorprendente di-
PRBti'AZIONB. CXV
il Gozzi, si chiuderanno in un egoismo feroce;
deificata la ragione, vorranno l' impossibile, i pomi
che cantino, V acqua che suoni e balli. La buona
e vecchia morale è personificata in Calmon, un
eroe del Cunto de li Cunte, che di statua ridi-
venta uomo, di petrificato ridiventa attivo, e libera
le vittime della filosofia dalle miserie, nelle quali
sono piombate senza sapere più come levarsene.
Meglio assai che nella dubbia profezia della Mar-
fisa Bi\\array Carlo Gozzi dimostra il. presenti-
mento della prossima rovina della Repubblica in
questa sua avversione ad ogni novità, dalle com-
medie del Goldoni, che irridono i nobili er atteg-
giano civilmente il popolo sulla scena (quel pro-
tagonista futuro, rimasto sempre in disparte nella
storia di Venezia), fino alle dottrine enciclopedi-
stìche, 'che scompaginano le antiche armonie relÌT
giose e morali, fino alle prosuntuose scienze fisi-
che, che spiegando fenomeni e riparando sciagure
sembrano volersi sostituire aUa Provvidenza nel
governo del mondo. * Il Gozzi avverte la decadente
sinvoltura, interpretare fo spirito delle leggi quanto H Mon-
tesquieu. Altro che Frusta Letteraria f » V*ha qui già tutto
intero il Truftaldino dell' Augellino Beherde e il Go'zzi, Ac-
cademico Granellesco, sentiva bene che v' era qualche cosa di
più urgente, che restaurare il buon gusto letterario. Vedi il
citato articolo del Conte Avv. Gaspare Gozlu {Archivio Ve-,
neto, Tom. III).
1 Notevolissima su questo argomento è una satira di
Carlo Gozzi, premessa alla sua traduzione delle Satire del
Boileau e intitolata: Astra!(ione del Traduttore, Vedi le
CXVÌ I^R£FA2I0NE.
senilità della Repubblica di San Marco, né può
contentarsi di dire come il Goethe, coli' indifferenza
d' un viaggiatore di passaggio: ^ essa, come ogni
altro essere, cede alla forza del tempo. ^ > Il
Gozzi l'avverte e, patriotta ardentissimo, si ap-
passiona e si arroxella contro ogni novità, perchè
la più piccola pietruzza, che si sgretoli dal vec-
chio-edificio, gli sembra che debba cagionarne la
rovina totale,
a Troncai il corso alle Fiabe, scrive il Gozzi,
Opere Ediz. 1773. Tom. VII, pag. 53. Se là piglia sopratutto
cogli Abati fìlosofìsti, ^^i^rine tìpiche del tempo. Cito qual-
che verso, per darne saggio:
« Palesa, Creator, se le lumache
E le rane e le seppie e i polpi ed altre
Tali fatture tue dalle sublimi
Chierche notomizzate, e battezzate
Coir epiteto raro, che si alletta
E si sorprende, di gelatinose,
Sien forse vegetabili tra noi
Nuotatori e ambulanti, poiché tronchi
E le corna e le code, quasi arbusti
Dall' albero recisi, gli veggiamo
Ripullular di nuovo e non morire.
Necessario è, gran Dio, che tu M palesi.
Noi sino ad ora ignari altra scienza
Non avemmo su questo, che M condirli
Con olio, pepe, e cinnamomi e aceti
« Ed il farne savor, zuppe e insalate.
Ed a tai nostre notomie ignoranti
Chiotte avevamo le tue chierche al studio
Lodatrìci ed assidue.... •
Paragona le oltracotanze della scienza a quella dei Titani,
che diedero la scalata al Cielo, e le taccia dMmmorale im-
postura.
1 Goethe, Italidnische Reise. Briefe, ag Septemb. 1786.
1PREPAZIONB. CXVII
dopo il Re de^Genfy^ e non perchè il fonte loro
fosse inaridito (e forse farò ciò vedere un giorno,
e quando il capriccio mi parrà usato a un util
proposito) ma persuaso da quel principio, che ogni
genere abbia la sua certa decadenza naturalmente
per queir aria di somiglianza ^ d' imitazione nel-
r indole, difficilissima, dopo un lungo corso, da
poter evitare. Credei migliof cosa il lasciare il
Pubblico desideroso, che nauseato di questo ge-
nere. * » II 15 Febbraio 1768 Giuseppe Baretti
chiedeva da Londra al Conte Vincenzo Bujovich:
e Quante commedia nuove ha fatto il Conte Carlo
Gozzi dopo la mia partenza da Venezia? Quanto pa-
gherei se potessi avere il Mostro ^ Turchino! Vorrei
tradurlo in inglese e mi darebbe l'animo di farlo
rappresentar qui con molto mio emolumento. * »
A sua volta il Gozzi nel dedicare al Patrizio Gio-
vanni Minio un volume delle sue Opere, e senza
nominare il Baretti, scriveva: « s'io vi dicessi, che
(le fiabe) mi furono chieste in Inghilterra da per-
sone, che le videro rappresentare nella vostra in-
clita Patria (Venezia), per esser tradotte, ed espo-
ste ne' teatri di Londra e eh' io negai di darle, vi
t I^efazione al Zehn Re da' Genj. Fece altre opere tea-
tfali, dalle quali il meraviglioso noa è escluso. Ma vere
Fiabe non più. Una sol volta accenna d' averne posta un' al-
tra in ossatura coIP intenzione di comporla. Era intitolata
la Pulce, Ma, morto il macchinista della Compagnia Sacchi^
non diede alcun seguito a quest'idea. Vedi: Prefa:{ione al
Tom. Vili (Ediz. 1772, 74.) pag. 14, i5.
< Barbtti, Ediz. Milan. dei Classici. Tom. cit. Let. 95.
CXVIII PREFAZIONB.
direi una verità, m^ dimostrerei una di quelle
sciocche albagie, colle quali i boriosi provano il
merito delle opere loro.* » Per qual ragione il
Gozzi non acconsenti alla domanda del Baretti, il
quale era perfetto conoscitore della lingua Inglese,
ed amico, in Londra del Garrick, del Burke e .
d' altre persone d' alto affare? Dubitò esso del buon
successo? È probabile. Era, come abbiamo visto,
meravigliato egli stesso dei trionfi delle Fiabe e
non osQ forse avventurare queste povere figlie
d'Oriente tra le brume nebbiose di Londra e lo
spirito positivo degli Inglesi. Quanto a tacere il
nome del Baretti, che gli aveva fatta la proposta,
ciò mi conferma nel dubbio già espresso, eh' egli
lo conoscesse un po' più di quel che vuol lasciare
apparire. Parlando delle lodi dategli dal Baretti
^ nel suo libro inglese sugli Italiani,* il Gozzi le
riporta, smisuratamente gonfiate, da una cattiva
traduzione francese, se ne compiace ^ssai e ricambia
le lodi, quindi soggiunge: « io non ebbi giammai
! pratica confidenziale coli' Autore, ne lo conobbi
* Qui allude ( non se ne scorda mai) al Goldoni, il quale,
durante i battibecchi letterari coi Granelleschi, in un accesso
insolito d^ orgoglio, s^ era lasciato sfuggire questo brutto
verso: « Vanto V opre tradotte in più d* un suolo. » Non
saprei dire quante volte il Gozzi gliel' abbia rinfacciato! La
lettera al Patrizio Minio serve di dedica al Tpmo II del-
l'Ediz. delle Opere del Gozzi 1772.
* An Account 0/ the AÌanners and Customs 0/ Italy,
Voi. 1. Chap. Xll. « In the years^i764 and lyóS I bave
seen acced in Venìce ten or twelve of Gozzi 's piays, and
had even the p^rusal oi two or three of them in manu-
PREFAJSIONE. CXIX
che. per fama, e di veduta passeggera, mentr' egli
era in Venezia pubblicatore della sua Frusta Let-
teraria. Una sola volta mi trovai accidentalmente
nell'abitazione di mio fratello Gaspare con esso
e corsero alcune parole tra lui e me, le quali do-
vevano farmelo più nimico che amico. » Smen-
tisce poi alcuni aneddoti riferiti dal Baretti, e con-
chiude: « da tutte quelle sue riferte si dovrà
giudicare, eh' egli non conosceva né me, né . l' in-
dole mia, né la mia direzione, né il mio costume
taciturno «e solitario e eh' egli non aveva nessuna
pratica domestica e confidenziale con me. * » Cosi
il Gozzi nell'Aprile del 1801, quando il Baratti
era già morto da dodici anni, e di tanto zelo
non si vede veramente una ragione, se non è
quella di togliersi di dosso ogni complicità in tutto
il male che il Baretti aveva detto e ripetuto del
Goldoni. L' intimità del Baretti con Gaspare Gozzi
era ed è notissima. Quanto a Carlo, una sua let-
tera privata del 1763' mostra ch'egli giudicava
con senno i primi Numeri della Frusta^^ benché
script; and no wjrks of this kind ever pleased me so inuch :
so that when ( saw Mr. Garrick there, l lamenteJ that he
did not come in carnival-time, that he «night bave secn some
of them acted; and i am confident he would have admired
the originaliiy of Gozzi 's genius, the inost wonderfuK in my
opinion, next Shakespeare, that ever any age or country
produced. »
1 Gozzi, Opere, Ediz. 1802. Tom. XIV. La più lunga Let-
tera etc. cit. Cemento sopra il Frammento secondo, pag. S6-88.
* Archivio Veneto, Tom. 3, Articolo cit. del Gozzi. Let-
tera di Carlo dell' 8 Ottobre 1763.
CXX PREFAZIONE.
si dolesse, forse per amore della sua Marfisa^
delle lodi date al Mattino del Panni. Il fatto però
che il Baretti potè leggere due Fiabe manoscritte
e gli offerse poi di tradurle in inglese, dinota non
aver forse il Gozzi detta tutta la verità in questa
occasione. Certo non fu tra essi l' intrinseca amicizia
che tra Gaspare e il Baretti. Ciò si rileva ahche da
altre lettere al Bujovich, dove, per esempio, il Conte
Carlo non è mai compreso in quelle filze di affet-
tuose salutazioni a tutti e singoli di casa Gozzi, di
cui il Bujovich è sempre incaricato. Però,»a quando
a quando, il Baretti lo ricorda con amicizia rive-
rente e nel 1772, fermo ancora nell' idea di tradurre
le Fiabe, chiede « se v' è speranza che H Conte
Carlo dia mai alla luce le sue commedie/ » nel
77, saputele stampate, mostra il desiderio d' averle
subito, * e finalmente riscrive d' aver ricevuto let-
tera dal Conte Carlo, il quale promette egli stesso
di mandargliele.* Non sono questi i rapporti di
due persone, conosciutesi appena di veduta, tredici
o quattordici anni prima. Ma le lodi pubblicamente
date dal Baretti a Carlo Gozzi, ripetendo in paìri
tempo i vituperi al Goldoni, avevano rieccitate le
collere, degli arhici di questo ; il Goldoni, che già
privatamente avea scritto del Baretti )col più al-
1 Baretti, Ediz. cit. Tom. cit. Lettera 120 del 14 Fel>
braio 1772.
* Baretti, Ibid. Lett. 123 del 24 Gennaio 1777.
Baretti, Ibid. Lett. 127 del 9 maggio 1777.
PREFAZtOllE. CXXI
tero disprezzo,* avea stampate queste parole:....
e In Italia non ci sono, come in Inghilterra, di tai
fo^listi. Dopo eh' io sono in Francia, se n' era in-
trodotto uno in Venezia, che dando il titolo di
Frusta letteraria al foglio suo periodico, non cri-
ticava, ma insultava gli Autori, ed io ero nel nu-,
mero degli insultati; ma ha durato poco, ed ha
finito, come meritava finire.* » Il Gozzi quindi*
non volle scemar pregio alle lodi prodigategli dal
Baretti^ quasi fossero dirette più all' avversario del .
Goldoni, che al poeta delle Fiabe; non volle che
si potesse sospettare aver egli sofiìato nei carboni
roventi della Frusta Letteraria^ quando il Gol-
doni era già in Francia e gli avea già lasciato li-
bero il campo, e perciò nella lettera pubblicata
nel i8or fece con tanto zelo verso il Baretti la
parte dell'apostolo Pietro nel pretorio di Pilato.
E si, che il povero Gozzi non sapeva quale fosse
stato il giudizio definitivo dell'eccessivo e intol-
lerante Baretti intorno a lui e con che ferocità
d'espressioni lo avesse confidenzialmente manife-
stato al suo Don Francesco Garcano, nell' infor-
marlo d'aver ricevuto in dono dal Gozzi stesso
le sue Opere! t Mi aspettavo, scrive il Baretti, un
banchetto poetico dei meglio imbanditi... . Ma che'
volete? L'animale ha guasti tutti i suoi drammi,
^ Vedi nella mia Raccolta di Lettere Goldoniane la 49
air Albergati del 16 Aprile 1764.
« Goldoni, Commedie, Ediz. Pasquali, Tom. XIII, Pre-
£az. alla Commedia : La, Sco\\ese.
CJLXìl FREFAZIONE.
ficcando in essi que'suoi maledetti Pantaloni, e
Arlecchini, e Tartagli, e» Brighelli, che non doveva
mostrare se non sulla scena per dar gusto alla
nostra canaglia. Indotto dal suo matto amore alla
compagnia del Sacchi o, com' egli sguaiatamente
dice, Truppa Sacchi, egli ha fraudata l'Italia d'una
gloria, che le poteva aggiungere con poco sconcio
ed ha poi resi del tutto inutili a molti italiani e
ad ogni straniero que' drammi suoi, Qual' è lo stra-
niero che voglia o possa darsi allo studio del dia-
letto viniziano e rendersi così atto ad intendere ....
che? delle pantalonate scipitissime, che ti fanno
<!rascar le braccia? E non potendo intendere un
dramma intiero, chi vorrà comperarlo? chi leg-
gerlo? Che bel trovato per rendere inutilissime
tante sue belle e bizzarre e poeticissime invenzioni
ai tanti amanti della lingua nostra oltmmontani e
oltramarini 1 Puossi avere il cervello più stravolto,
più sgangherato! Lascio andare quella vergognosa
sua trascuratezza nel ripulire la lingua e lo stile
d'ogni cosa sua. E sì, che sua Signoria si vor-
rebbe pure spacciare per uno de' più rigidi puristi
su questi du' punti! Il disegno dèlia sua Marisa
è altresì molto poeticamente concepito e nuovo e
bello quanto. si possa dire; ma il diavolo si porti
y ottava, che non ha qualche macchia o nella lin-
gua onel verseggiamento. L'. edizione poi ha la
coda impiombata da una scomunicata versione delle
satire di Boileau, che l' aluterà di sicuro ad affon-
darsi presto nel fiume dell' obblio; tanto più che
PREFAZIONE. .CXXIII
eUa è sconcia da certe sue magre buffonerie alia
Burchiellesca e da certi suoi ululatiy com' e' li
chiama, e da cert' altre sue pessime prosacce, .che
sarebbe propio un acquistare l' indulgenza plenaria
chi nel bastonasse ben bene. Un mucchio d' oro e
di sterco a quel modo non s' è visto più mai. Ma
passiamo da questo scioccone iagegnoso ad un
altro scioccone che non merita questo epiteto. Vo-
glio dire il Conte Verri . , . . \» Critica soggettiva,
se mai ve ne fu, e che dimandava al Gozzi per
prima cosa d' aver fatto tutt' altro, da quello che
volle fare, per entrarle in grazia. La quale pre-
tensione, veramente superlativa, scema il valore
anche dei biasimi giusti, che gli infligge. Comun-
que, tutto il discorso del Baretti significa eh' «gli
abbandonava il pensiero di una traduzione inglese
delle Fiabe, lavori teatrali, secondo lui, d' un' in-
dole troppo locale da potere piacere fuori di Ve-
nezia. Non cosi la pensavano i Tedeschi, che tra
il 1777 e 1779 aveano già pubblicate a Berna le
. Fiabe tradotte nella loro lingua. * La traduzione
uscì anonima ed il Gozzi, pur compiacendosi mol-
tissimo dell' inaspettato onore, non nomina mai il
traduttore, che ^ra Francesco Augusto Clemente
Werthes, sebbene narri d'averlo conosciuto di per-
sona a Venezia. ' Curioso è che il Gozzi non in-
* Baretti, Ediz. cit. Tom. cit. Leit. 143 del 12 Marzo 1785.
* Teatralische Werke von Carlo Gozzi. Aus dem italifl-
nischen Oberseiz. Theil 1-5 (Bcrn 1777- 1779).
3 Oper«, Ediz 1802. Tom. XIV. La più lunga Lettera etc.
cit. Frammento Quinto e Comento etc. pag. 162.
CXXIV. PREFAZIONE. .
tende per quale motivo il Werthes abbia lasciato
indietro tutte le sue Prefazioni e massime il Ra-
gionamento Ingenuo ' e F Appendice al Ragiona-
mento Ingenuo^ e siasi esaltato poi tanto delle
sue Fiabej mentre in que'-due discorsoni ayea
pur condensato tutto il segreto della sua arte poe-,
tica e le ragioni delle polemiche letterarie e mo-
rali copibattute c^lle Fiabe, « Forse internamente,
scrive il Gòzzi, non era persuaso de' miei due Ragio-
namenti, ed io non mi offendo delle opinioni con-
trarie alla mia. ^ » Preziosa è questa ingenua con-
fessione del Gozzi ed è come il principio di quella
specie di malinteso fortunato, che passa fra lui ed
i suoi furiosi ammiratori stranieri, i quali del-
l'opera sua accettano quella parte che conviene
ai fini dei loro speciali dibattiti letterari, e accon-
ciano un po' a loro modo tanto l' uomo, quanto
lo scrittore. Il Werthes^ in ordine di tempo, ap-
partiene al periodo, in cui lo spirito tedesco, gui-
da:to principalmente dal Lessing, si affranca dal-
l' accademismo Francese per far ritorno, come si
diceva, alla natura e alla libera fantasia, lo Sturm
und Drang periode^ il quale precede il lavoro con-
corde e fecondo del Goethe e dello Schiller, e
precede pure il Romanticismo tedesco, propria-
mente detto, il romanticismo degli Schlegel e dei
loro compagni. Presso tutti costoro, o per una ra-
* Nel Tomo i delle due Edizioni.
« Nel Tomo IV delle Ediz. 1772 e V dell' Ed;z. 1801.
3 Frammento Quinto e comento cìu pag. 16?.
PREFAZIONE. CXXV
gione o per un' altra, trovò grazia il nostro Gozzi,
e massime colla scuola Romantica tedesca, alle cui
simpatie non solo lo raccomandavano, come a
guerriglieri dello Sturm und Drang perìode^ la
libertà della sua poetica teatrale, ribelle (si può
giurare) ad ogni canone di precettistica classica,
ma altresì la tendenza ( in quésto caso la parola è
storica) la tendenza filosofica, politica e morale
delle sue Fiabe, e quel suo rinfrescare vecchie fa-
vole e superstizioni popolari e medievali. Stando
ai principii, dai quali moveva la scuola Romantica
tedesca ed ai Bni, ai quali deliberatamente inten-
deva, non si può negare che una certa affinità fra
essa ed il Gozzi non esista. Se non che, anche
quando le Fiabe si sollevano dalla guerricciuola
dei Granelleschi contro il Goldoni e mirano più
in alto, r intento satirico primeggia sempre nella
mente del Gozzi, ed il miracoloso, il mitico, il
soprannaturale, il fantastico, per cui lo pregiano
tanto i Romantici tedeschi, sono nell'opera sua
coefficienti estrinseci e secondari, eh' egli raccoglie
qua e là <ia fonti note e da lui stesso schietta-
mente indicate, ma ai quali non dà egli stesìso
alcuna principale importanza. Debole dunque è il
filo, per cui il Gozzi s'attiene ai Romantici tede-
schi e ben s' intende come, per avvincerselo di più
forti nodi, essi abbiano dovuto trasformarlo alcun
poco a posta loro. Letterariamente egli può e deve
essere annoverato fra i precursori del Romanticismo
italiano, per lo meno allo stesso titolo che (direbbe
CXXVI PREFAZIONE.
il Carducci) « il pasticcio ossianico-macpherso-
niano, » mqsso di moda in Italia dalla traduzione
del Cesarotti e determinante insieme col sentimen-
talismo dello Young e del Rousseau le prime into-
nazioni preromantiche del Foscolo e del Monti. Se
non che i Romantici tedeschi, cercando nel passato
un rinnovamento artistico, s' imbatterono nel feu-
dalismo, ed i Romantici italiani nella libertà dei Co-
muni e nel Guelfismo, perocché il Romanticismo
è reazionario in Gernpiania, legittimista in Francia,
scettico in Inghilterra e cattolico-liberale in Italia.
Ora fare di Carlo Gozzi un neoguelfo ed un li-^
berale del Conciliatore e della scuola Manzoniana
e quasi più straordinario, che farne un feudale od
un filisteo tedesco ; ne venne quindi in mente ad
alcuno, salvo a Piero Maroncelli, che, spiegando
la genesi di quel suo benedetto cormentalismOy
pretende che il Gozzi abbia volato « con 1' ala di
Shakespeare, di Calderon e di Schiller, » rimpro-
vera agli Italiani d' averlo dimenticato, come l'An-
dreini, autore dell' Adamo, e destina a Carlo Gozzi
un seggio in ^Campidoglio fra i patres della fu-
tura Italia una, libera e indipendente. * Ma queste
sono confusioni, non storia, né critica; e là poli-
tica e il patriottismo le scusano appena. Qualche
segno della fortuna del Gozzi in Germania é già
nel Lessing, il quale, benché nella Drammaturgia
' Maromcblli, Addizioni alle A/iV Prigioni dì Sikio
Pellico. Dell' ediz. Le Monnier pag. 217 ed in nota.
PREFAZIONE. CXXVII
Amburghese non parli di Carlo Gozzi e solo ac-
cenni al Goldoni ed alla fecondità e spontaneità
del suo genio comico, ^ in una lettera però del 28
Aprile 1776 a suo fratello, che progettava una
raccolta di opere teatrali italiane, consiglia di non
trascurare quelle di Carlo Gozzi, che stavano per
essere ripubblicate in tedesco a Berna, e senza
delle quali la raccolta si dovrebbe dire imperfetta,
tanta importanza avevano agli occhi suoi le opere
teatrali del Gozzi. Notevolissimo è che dello scri-
vere il Gozzi ed il Cerlone alcune delle parti dei
loro lavori in dialetto veneziano e napoletano, il
grande crìtico dà per ragione il discredito, in cui
era caduto il brutto italiano infranciosate, che
adoperavano nelle loro commedie l'Albergati ed
altri contemporanei, né mostra di meravigliarsi
punto d' un tale rimedio. * L' anno innanzi il Les-
sing era stato in Italia per accompagnarvi un Prin-
cipino tedesco caduto in disgrazia e^ mandato per'
correzione a svagarsi nella terra dove fioriscono
gli aranci^ e a Venezia avrà forse vista rappre-
sentare qualche opera del Gozzi o l'avrà letta
nell'edizione, che appunto allora era uscita. Nel
Tomo rV Carlo Gozzi, la cui polemica avea ora
*i Dramaturgie de Hambourg. Trad. de Suckau (Paris
Didier, 1H73) pag. 436. La Dramaturgia finisce al 17O8 ed
il Gozzi non fu, si può dire, conosciuto in Germania, che dopo
r edizione del 1772.
* I. E. Lessing-Gesammelte Werke. VI Band. (Leipzig 1841)
Briefe an Karl Lessi ng. .
CXXVUr PREFAZIONE.
cambiato oggetto, e, non più coi Chiari e col Gol-
doni, ma se la pigliava colle intenzioni rivolur
zionarie dei drammi lagrimosi, fa un paralello
molto imbrogliato fra i teatri di Vienna e quelli
di Venezia, fra il Sonnenfels e l' Heufeld * ed il
Chiari e il Goldoni, e rimprovera ai due tedeschi
di avere fra altre piéces larmqyantes dato luogo
a « quella Rosa Samson a (sic) che anche a Ve-
nezia era stata rappresentata nel 1773, ed « è cosa,
scrive il Gozzi, d' un genio Tedesco. * » È chiaro
che qui si tratta della Sara Sampson del Les-
sing, un dramma lagrimoso, la cui influenza, mercè
il tipo della peccatrice redenta dall' amore, è stata
letterariamente più viva e più lunga di quella
degli altri suoi drammi. Chi sa pure se il Lessing
ed il Gozzi non si conobbero? Fatto è che l'uno
fa ricordo dell' altro ed il Lessing con intenzione
più benevola di quella del Gozzi Ma i primi a
levare a cielo il Gozzi in Germania furono gli
Schlegel, caporioni del Romanticismo Tedesco.'
Fino dal 1797 Federico Schlegel poneva già il
Gozzi ed il Guarino, come scrittori drammatici.
* A torto, perchè l' Heufeld era sostenitore della Com-
tnedia dell' Arte. Vedi un articolo del sig. M. Landau, Die
Komódie iin Dietiste der Reaction, (Beilage zur Allgemeiae
Zeitung. N. 316, 12 Nov. 1881.)
• Ediz. 1772-74 Tom. IV. Appendice al Ragionamento in-
genuo del Tomo primo. Pag. 24. ^
3 Una più breve rassegna dei critici del Gozzi feci già
nel Fanfulla della Domenica, del 4 Dicembre 188 1.
PREFAZIONE. CXXIX
accanto allo Shakespeare* e già Ludovico Tieck
aveva presa dal Gozzi l' inspirazione della sua
Fiaba: Blaubart. « Senza volere imitare il Gozzi,
scrive il Tieck nella Prefazione, il piacere provato
nel leggere le sue FiabCy m' invogliò di comporne
una in altra maniera e secondo il gusto tedesco. ' »
Questa prima racconciatura o trasfigurazione del
Gozzi, che di circa sei anni precedette quella dello
Schiller con la Turandot, fu acremente censurata
dall' Haym. Nel Tieck, che tratta alla Shakespeare
la Fiaba, e le presta le intonazioni, il colorito, la
passione del dramma storico, e nello Schiller, che
senza spogliarla del tutto del suo carattere mera-
viglioso dà sentimenti e sembianze nobilmente poe-
tiche ai suoi personaggi, l'Haym ravvisa un cri-
terio artistico sbagliato, perchè ogni fiaba è essen-
zialmente un po' parodia della forma drammatica
vera e quindi anche quel tanto di burattinesco, che
hanno le Maschere del Gozzi, e quel che d'ab-
bozzato e di grossolano, che ha la sua fiaba, s' ac-
cordano meglio coli' indole di essa, che non le
forme drammatiche del Tieck e le schiettamente
poetiche dello Schiller. Fra i tre chi è più nel
giusto è Carlo Gozzi, che unisce il burlesco al
' Lyceum der Schónen Kùnste, 1797. Cf.: Kobersiein,
Grundnisi der Geschichte der deutschen National Littera-
tur, fìaod Ul 4 AuBage, P. 3347.
« L. Tieck, Schriaen. (Berlin 1828) Vorbericht I Band,
ptg. VII, in relazione alla sua fiaba Blaubart^ che è del 1796.
Masi. i
CXXX PREFAZIONE.
fantastico. \ Uguale censura vien mossa allo Schil-
ler in alcune osservazioni sulla Turandot premesse
all'edizione di Stuttgart del 1867. Dopo avere
terminata la Pulcella <P Orléans^ lo Schiller mise
mano nell'autunno del 1801 alla Turandot, non
secondo l' originale del Gozzi, bensì sulla versione
del Werthes, per levarne una commedia, che fii
rappresentata a Weimar il 30 Gennaio 1802, na-
. talizio della Duchessa. Allo Schiller mancavano i
grandi attori italiani, sui quali poteva contare il
Gozzi, gli mancava quella vena di umorismo, di
cui era ricco il Gozzi, e appena avea tentato qual-
che saggio di tal genere nel Campo di Wallen-
stein. Smorzò quindi tutto il burlesco della Fiaba
, e insistette di soverchio sulla nota patetica senza
mutar poi nulla alla sostanza del dramma; * Co-
munque, lo Schiller stesso rivela in due lettere al
Kòrner, del 2 e 16 Novembre 1801, quali furono
i suoi propositi* nel mettersi a questo lavoro. La
riduzione della Turandot fu per esso un riposo
ed un' occasione felice di procurare con poca fa-
tica una gran novità al teatro di Weimar. I suoi
versi e pochi abili ritocchi avrebbero rialzato di
I R. HaVm, Die romantische Schuie. Ein Beitrag zur Ge«
schicbte des deutcben Geistes. ( Berlin-Gaertner 1870) Erst
Bucl^ Die Màrchen und Komódiendichtung, pag. 91-93.
« Schillcrs Werke (Stuttgart 1867) VU B. pag. X, XI. Il
Prof. Guerzooi nel suo Teatro ItaU nel Secolo XVIIl af-
ferma che Io Schiller tradusse giovinissimo la Turandot. Ma'
lo Schiller era nato nel 1759. Avea dunque 42 anni ed era
Teramente nella piena maturità del suo genio.
PREFAZIONE. CXXXI
tono il fondo poetico della Fiaba del Gozzi e tolta
ai personaggi quella rigidità automatica da mano-
nette, che non poteva piacere ad un pubblico,
com' era quello del teatro di Weimar. Ma neppure
il KOrner si capacitò di quest' idea dello Schiller
e gli scriveva il 15 Febbraio 1802 che confrontando
la sua riduzione con la Fiaba del Gozzi preferiva
anch'esso il Gozzi, quasi per le stesse ragioni,
che adduce V Haym. * Fra questi contrasti e queste
racconciature il vero Gozzi s' andava via via tra-
sfigurando. La parte burlesca delle sue fiabe e^a
presa sul serio, la parte seria (o che tale almeno
era stata nella mente del Gozzi) si considerava
un difetto da emendare od una concessione da lui
1 Schiller 's Briefwechsel mit Kòrncr, Zweìt: Theil:
1793-1803 (Leipzig 1878), Briefen 9 Nov. 1801, i6Nov. 1801;
Kórner, 15 Febb. 1Q02. Al Gozzi (checché si possa pensare
della riduzione, che lo Schiller fece della Turandot) toccò certo
colla traduzione dello Schiller un grande e invidiabile onore.
Ma gliene toccò forse uno maggiore ancora, che si rileva
dalla corrispondenza dello Schiller col Goethe. Vedi: Brief-
wechsel ^wischen Schiller und Goethe^ in dem lahren i jg^
bis i8o5, Zweìter Band. (Stuttgart 1870) Briefen 832, 834,
835, 837, 838, 85 1, 934. Da queste lettere si rileva che il
Goethe si occupava della rappresentazione della Turandot,
che dal Gennaio del 1802 essa fu rappresentata a Weimar
molte volte in quelPanno, nel seguente e nelPanno 1804.
,1 due maggiori ingegni poetici della Germania si occupavano
amorosamente di quest^ opera del nostro Gozzi, -curavano ogni
particolarità della recita e, quasi per esercizio di fantasia, si
divertivano a variare gli enigmi, che Turandot deve proporre
al Principe Kalaf. Dico che si occupavano di un^ opera del
nostro Gozzi, perchè, toltone lo stile poetico, che variò molto,
lo Schiller veramente tradusse la Turandot.
CXXXII ' PREFAZIONE. '
fatta al mal gusto italiano. Però P opinione dei
poeti e critici tedeschi si determinava sempre più
in favore 4^1 Gozzi. ^ Prima ancora che il sommo
' ^ Intorno alle molteplici traduzioni e riduzioni dei lavori
teatrali del Gozzi in Germania V illustre Bibliotecario di Wei-
mar, Sig. Dott. Reinhóld KOhler (alla cui squisita cortesia m'è
caro professarmi pubblicamente gratissimo di molte altre ia-
dicazioni e notizie intorno al Gozzi) mi comunicava nel 1881
I dati seguenti:
•^ Theatrauschb Werks, (Ediz. di Berna già citata).
— Wie man sich die Sache denkt! oder Die {wei schla-
flosen Ndchte. Ein Schauspiel in fQnf Àkten von Karl Gozzi.
FOr'das deutsche Theater bearbeitet von F. G. Dyk. (Leip-
zig 1780).
— Das dPFSMTLicH Gbheimnisz. Eìtt Lustspìel in drei
Akten nach Go\\i von F. W. Gótter (l-eipzig 1781).
-^ Die GlaMichen Bettler^ ein tragisch-comisch Mflr-
chen in drey Aufzugen nach 'Carlo Gozzi. Aus tausend und
einem Tag fQrs deutches Theater bearbeitet von K. F. Zim-
dar, deutschen Schauspieler (Frankfurt a Main 1784).
— Turandot, Prinzessin von China. Ein tragicomisches
Wirchen nach Gozzi von Schiller (TQbfngen 1802).
— Der Rabe. Dramatisches Mftrchen aus dem italienischen
des Karl Gozzi von G. A. Wagner (Leipzig 1804).
^^ Mftrchen nach Gozzi von Cari Shreckfuss. (Berlin 1805).
— Die glQcklichen Bettler. Morgenl&ndisches Mfirchea in
drei Acten frei nach Carlo Gozzi fùr die BQhne bearbeitet
von Paul Heyse (Berlin i867).
— Riduzioni.
— Die zwei feindselingen Brader. Tragisches Lustspiel.
(Leipzig 1782):.
— F. E. Rambach. Die drei Ràthseln. Tragikomddie nach
Gozzi. (Leipzig 1799).
— G. N. Bàrmann. Die glQck lichen Bettler (Leipzig 18 rg).
— K. Blum. Das gekannt Geheimniss. (Berlin 1841).
— Italiftnisches Theater, Qbersetzt von Wolf Crafen Ban-
dissin (Leipzig 1877). Vi sono tradotti il Corvo ed il Re
Cervo del Gozzi.
PREFAZIONE. . CXXXIII
pontefice dei Romantici tedeschi, Agostino Gu-
glielmo Schlegel, pigliasse nel 1808 sotto le sue
grandi ali la gloria di Carlo Gozzi, uno storico
letterario insigne, Federico Bouterwek, nel 1802,
pronunciava sul Gozzi un giudizio, per molti lati
giusto e definitivo. Con acuto intuito il Bouter-
wek congiunge quella eh' egli ' chiama la rivolu-
zione teatrale del Gozzi alla commedia popolare
del Ruzzante» Questi avea tentato nel secolo XVI
di nobilitare la commedia dell' arte ed il Gozzi
ripiglia tale tentativo in onta al Goldoni, e quasi
per burla, poi lo continua per genio e, si direbbe,,
inconsapevolmente. A voler conservare la comme-
dia dell' arte bisogna non toglierle il suo carattere
di spettacolo irregolare e bizzarro e nel tempo
stesso nobilitarla con lo spirito e l' ingegno. È ap-
punto ciò che il Gozzi ha fatto ed applicare a
lui, per criticarlo, la precettistica della commedia e
della tragedia regolare varrebbe quanto giudicare.
r Orlando Furioso alla stregua dell' Iliade. La
mescolanza d' estemporarieo, di serio e di burlesco,
che il Gozzi conserva della commedia dell'arte e
maneggia con buon gusto ed abilità, è il suo
maggior titolo di gloria. Non e' è pantomima buf-
fonesca eh' egli non sappia concepire poeticamefite,
e se non si può, come qualcuno ha preteso, pa-
ragonarlo allo Shakespeare, le sue Fiabe^ sotto certi
aspetti, sono superiori a tutte 1' altre commedie, e
OXXXIV PREFAZIONE.
tragedie italiane del tempo. ^ Più giusto a que-
st' ultimo riguardo e più largo era stato il giudizio
del Goethe, che anch'esso avea veduto come la
forza della Commedia delV arte consistesse nella
riproduzione istantanea di tipi e scene popolari,
in questa specie d'identità fra piazza e teatro, e
come la mescolanza di patetico e di burlesco delle
Fiabe del Gozzi fosse in relazione al carattere-
Veneziano e perciò avea conchiuso che l'unione
delle Maschere con le figure tragiche, rinnovata
dal Gozzi, era il vero spettacolo che conveniva
agli Italiani Ma questa sua ammirazione (in cui
entra per molto la curiosità soddisfatta del tou-
riste, che si diverte) non gli avea impedito di
giudicare una commedia di costume Veneziano del
Goldoni un' opera d' arte perfetta. « Posso dire fi-
nalmente, scrive il Goethe, d' aver vista una com-
media l* » Ed ora ascoltiamo l'oracolo dei È.o-
- mantici nella traduzione del nostro Gherardini, il
quale, sentendo un cosi gran personaggio lodare
1 F. BouTERWBK. Geschichte der Poesie und Beredsamkeit
KQnste und Vissenschaften, Zweiter B. Carlo Go^^^i p. 484-
491. (Gottìngen, F. Rower, 1802).
t QoBTHB, Italiftnische Reise, Briefen 4 Oct 1786, 6 Oct»
1786, IO Octób. 1786. In una lettera del 5 Ottobre 1786 da
Venezia il Goethe scrive: « Esco ora dalla tragedia e rido
rincora. Bisogna chMo vi racconti subito questa buffonata.
L.^ autore ha cucinato insieme tutti i matadors tragici e gli
•attori hanno recitato bene. Il più delle situazioni era noto,
jilcune nuove e felicissime. Due padri che si odiano e da
queste famiglie divise figli e figlie, che si amano ed una cop-
pia maritata in segreto. Gli orrori e le crudeltà si succedono. .
PREFAZIONE. CXXXV
uno scrittore, pel quale egli non avea alcuna sim-
patia, e deprimer altri, eh' egli avea in buon con-
cetto, consigliava agli Italiani di consolarsi vedendo
< onorato di lodi e d' ospizio ancora quello che
per poco da noi si rifiuta. * » Strano modo di
commentare lo Schlegel, che in mezzo ai domma-
tismi ed alle esagerazioni della scuola dice, anche
a proposito del Gozzi, cose ^ assai belle e giuste.
« Questo autore, scrive lo Schlege}, diede la forma
dramatica a veri racconti di Fate e vi fece cam-
minar di fronte una parte seria e poetica con una
parte grottesca, ove tutte le Maschere avevano il
loro pieno sviluppo; simili commedie sono d'un
effetto il più grande che mai. Sono esse ordite
con estremo ardimento, l'invenzione è piuttosto
originale che romantica; e tuttavia sono in Italia
le sole composizioni dramatiche ove regnino i sen-
timenti dell' onore e dell'amore. L' esecuzione poco
elucubrata di queste commedie dà loro l'aspetto
d' un abbozzo tirato giù come la penna getta ; ma
Fiaalmente Punica via d^ assicurare la felicità dei due gio-
vani è che i due padri s^ ammazzino fra di loro, su di che
il aipario cala fra gli applausi. • Il pubblico vuol riveder tutti
gli attori e grida: fuori i morti, bravi i n^orti E i morti si
mostrano anch^essi. — Ludovico Geiger nelle Note alP //a*
lidnische Reise del Goethe (Berlin 1879) suppone che la
Tragedia, di cui parla il Goethe, sia: La Punizione nel Prc
cipv{io del Gozzi, e poiché le indicazioni non combinano per-
fettamente, dice che il Goethe forse non intese bene del
tutto. Io ho tentato, ma inutilmente, di accertare il fatto.
1 Corso di Letteratura Dramatica di A. G. Schlegel. —
Traduz. It. con Note di G. Gherardini. (Milano 1844).
GXXXVI PREFAZIONE.
un tale abbozzo è pieno d^ immaginazione, i tratti '
rie sono fermi e robusti, tutti i colori vivi e spie*
catì,. e li oggetti, che esso rappresenta, colpi-
scono per modo la fantasia, che il popolo vi piglia
grandissimo diletto.... Nelle prime opere del Gozzi
il maraviglioso della stregoneria faceva un sor-
prendente contrasto col maraviglioso della natura
umana, cioè a dire con la bizzarra follia deMiffe-
renti caratteri, sì fortemente ritratta dalle Ma--
schere.... Questa capricciosa imitazione della vita,
o ne mostrasse il lato ridicolo, o vero il lato
serio, oltrepassava la realtà in tutti i versi.... Le
sue Maschere burlesche rappresentavano quella
parte prosaica dell' umana natura che mette in ri-
dicolo la parte poetica, ed erano la pèrsonificazionf
dell' ironia. ' » £lertamente questo giudizio amplifica
* Corso di Leit. cit. Lezione IX. Su questo 'argomento
deìÌQ, Maschere nella Commedia un ricordo prezioso è nel-
V Epistolario di Gino Capponi, Voi.' III. A Giovanni Morelli,*
ora celebre critico d'arte, e che dopo il i848, fra altri studi»
vagheggiava, si vede, di comporre « commedie politiche e ari-
stofaniche » il Capponi scrive: « Le maschere sono cosa ri-
spettabilf»: tutta P antica commedia erano maschere, ed erano
poi caratteri belli e fatti; il vecchio, il servo etc, e qualche
volta peggio. Perchè siamo usciti da cotesto modo^ s' è fottoi
invece di commedie, o melodrammi o dissertazioni. Sareb-
b*egli poi tanto difficile creare il Brighella liberale, e P Ar-
lecchino diplomatico, e Pantalone il povero popolo ec ec?
Insomma vj pensi. Nelle società tranquille si fa la commedia
di carattere, perchè ciascuna personalità ha luogo di hni
prominente: nelle agitate da certe idee comuni, jn quelle
cioè che danno campo alla commedia politica, gli esemplari
sono più ristretti; e. si potrebbe dire e dimostrare, che Ari-
PREFAZIONE. CXXXVII
e trascende T intenzione dell'arte, che era possi-
bile colla qualità e misura d' ingegno e coli' edu-
cazione letteraria di Carlo Gozzi, ma contiene
pure gran parte di vero in ciò, se non altro, che
concorda coi giudizi del Goethe e del Bouterweck.
Linee più sfumate e più vaghe, apprezzamenti più
soggettivi e metafisici trovansi in altri umoristici
e Romantici tedeschi a proposito del Gozzi. Alle
estrìnseche bellezze della Turandot attribuiva im-
portanza grandissima il fantastico Hofifmann, del
quale alcuni fanno un imitatore del Gozzi. * L'HofF-
mann, in un suo Dialogo intitolato : Tribolazioni
éPun Direttore di Teatro^ loda sopratutto il biz-
zarro contrasto che passa fra 1^ poetica Turandot
e la bonomia comicamente volgare del padre di
lei. Se la Turandot è rappresentata da una bella
attrice, quel suo sollevare improvvisamente n velo,
che la copre agli occhi, del principe Kalaf, deve
produrre un effetto irresistibile e costringere gli
spettatori ad esclamare estatici, come il Kalaf, ful-
minato da quello sguardo divinamente superbo:
« Oh bellezza! oh splendori » Parimente la gra-
vità comica, la figurina Chinese d'Altoum, padre
di Turandot, esilara opportunamente e bilancia il
stofone ha quelle maschere che intendo io, e non i veri ca-
ratterì a uso Menandrb, o Molière o Goldoni. » Fatta ragione
della diversità dei tempi e dei fini della satira comica di Carlo
Gozzi, il concetto proposto dal Capponi al Morelli combina
in parte con ciò che il Gozzi tentò in alcune sue Fiabe,
^ Vedi lo Chasles è il De Musset Opere cit.
CXXXVm PREFAZIONE.
patetico della Fiaba. A ciò non ha badato lo Schiller,
che per colmo d' errore ha ridotto le Maschere a
figure scolorite ed insulse. Ed in altre Fiabe del
Gózzi, nelle Tre Melarance^ nel Corvo, nel jRe
Cervo che grandezza, che profondità, che vita!
Non e ben chiaro però se fra tutti questi entu-
siasmi lo strano umore dell' Hoffmann non na-
sconda anche qualche intenzione beffarda, poiché
nel suo Dialogo il più acceso partigiano del Gozzi
è direttore d' un teatro di marionette. ^ Di tale du-
plicità non può essere sospettato Francesco Horn,
il Romantico cristianeggiatore dello Shakespeare,
cosi crudelmente sbertato da Arrigo Heine nel-
V Atta Troll. Figurò nelle conversazioni dei Tè
Estetici di Berlino ai tempi della restaurazione e
scrisse in forma di lettere un libretto su Carlo
Gozzi. Comincia dall' esaminare le Tre Melarance.
In questa fiaba, secondo P Horn, la satira del Gozzi
è obbiettiva, mira più in alto che al Goldoni, avver-
sario non degno di lui, ed anche tolta la satira al
Goldoai, le Tre Melarance rimarrebbero pur sem-
pre una grande creazione poetica. Guai a chi tocca
( e valga V esenipio . dello Schiller ) a quel quid
medium del Gozzi tra il' fantastico e il comico, a
cui nulla mancherebbe, s' egli sapesse trattare con
ugual forza il patetico. Nelle Melarance il genio
\
^ Seltsame Leiden eines Theater Director. Aus mOodlt-
cher Tradition mitgethetU von Verfasser der FantasiestQcke
in Callots Manier. (Berlin 1819 io der Maurerschen Buphhaod-
lung).
PREFAZIONE. CXXXIX
del Gozzi si mostra sull' orizzonte, nel Corvo è .
già allo ![enith della grand' arte Romantica, nella
Turandot tramonta, ma non tanto per colpa sua
quanto per quella degli avversari, ai quali egli
ebbe la debolezza di sacrificare il soprannatu-
rale, il meraviglioso magico delle prime sue
Fiabe. Nel Gozzi, nonostante i suoi mancamenti,
r Horn vede adempiuto l' ideale della poesia Ro-*
mantica^ il quale è libertà assoluta, è l'eroismo
che, sciolto da ogni vincolo di fatalità o di
circostanze esteriori, rispecchia tranquillamente
r umanità. Il Romantico è l' equazione del dilet-
tevole e del sublime che, scompagnati, smezzano
l'impressione, da cui deve esser tocca tanto la
sensualità, quanto. la spiritualità dell'uomo. Così
la luna splendente nel cielo sereno è bella, ma
intorbidata da qualche nuvola, che le passi dinanzi,.
è romantica; così un gruppo di maestose rovine
per sé solo è sublime, lùa posto in mezzo ad un
paesaggio ridente è romantico. Il medesimo dicasi
del genio poetico del Gozzi. Neil' Horn, come si
vede, la trasfigurazione romantica dì Carlo Gozzi
è compiuta. ^ E dinanzi a tal sorta di miraggi este-
tici non sembra più esagerato né il giudizio, più
etnografico ?he letterario, del Goethe (che taluno
pretende abbia imitato il Gozzi nel suo Trionfo
I F. HoBN. Ueber Carlo Gozzi ^s dramatische poesie, in-
«onderheit Qber dessen Turandot und die Schillersche Bear-
beicung dieses Schauspiels. Briefen. (Peoig. 1803 bey F. Die-
nemaon und Comp.)
CXL PREFAZIONE.
della Sensibilità * ) né la sentenza di Agostino Gu-
glielino Schlegel, la quale niassimamente si rife«
risce alle affinità del Gozzi coli' eroismo, le fan-
tasmagorie e le avventure della commedia di cappa
e spada nel Teatro Spagnuolo. E la fortuna del
Gozzi segue le vicende e il cammino storico del
Romanticismo, sicché i giudizi del Goethe e dello
Schlegel* trapassano di Germania in Francia con
la Signora di Staél, che scrive: « il Gozzi, emulo
del Goldoni,' é ben più originale di questo ne' suoi
componimerìti, i quali poco hanao da fare con
le commedie regolari. Volle lasciarsi andare fran-
camente al genio italiano e drammatizzare i rac-
conti delle Fate; mescolare le bufiFonate e le ar-
lecchinate al meraviglioso dei poemi; non imi-
tare in nulla la natura, ma scrivere a grado delle
* W. Freiherr von Biedermann, Goethes Forschungen.
(Frankfopt .am Mein 1879.)
* Il Gherardini nelle Note allo Schegel riporta dal gior-
nale Milanese: la Biblioteca Italiana (Fascicolo di Dicem-
bre 1816 Tom. IV pag. 515 ) la notizia che neiP Università
di Halle, in Germania, i Professori Waschmuth e Beck spie-
gavano alternativamente d^Ua cattedra la Divina Commedia
,e le Fiabe dei Gozzi. Su questo importante proposito P illu-
stre Dott. R. Kóhlèr mi scriveva: « Da Halle ho saputo che
Guglielmo Waschmuth, il noto storiografo, morto a Lipsia
nel 1866, lesse nel Semestre invernale del 18 16, ad Halle,
dov^ era professore Universitario di Lingua Italiana ed In-
glese, sulle Fiabe del Gozzi. Dal resoconto officiale non ri-
sulta che abbia letto anche su Dante. 11 Peck, anch^esso in
quel tempo Professore ad Halle, lesse sulla Secchia Rapita
del Tassoni, sul Bugiardo e i Due Gemelli del Goldoni, e.
sulle Satire delP Ariosto. •
PREFAZIONE. • CXLI
più pazjce fantasie, delle chimere della fiaba e tra-
scinare per ogni guisa lo spirito degli uditori al
di là dei confini dei reale e del vero. Piacque im-
mensamente al suo tempo ed è forse l'autor co-
mico, il cui genere meglio* convenga alPimmagi-
zione italiana. ' » Da quest' opinione si scosta, il
Sismondi, a cui le opere teiatrali del Gozzi non
sembrano veramente conformi al gusto italiano.
Le ritiene piuttosto una .reazione contro i pre-
cetti classici; ma piglia talmente sul serio gli in-
cantesimi delle Fiabe da assicurare che gli Italiani
non se ne gloriano, perchè, essendo superstiziosi,
non voglion apparir tali. * Giudizi leggeri e me-
schini, che dinotano altresì una mediocre cogni-
zione dell'argomento. Migliori e certamente più
graziosi e dilettevoli intorno al Gozzi sono i ri-
cami e le amplificazioni romantiche di Filarete
Chasles e di Paolo De Musset. « Vedete voi qMel-
r uomo alto, pallido, bruno, dallo sguardo fisso e
penetrante, dal passo lento, che nel 1780 porta la
maestosa parrucca del 1735, i ciondoli d'oro d'un
vecchio Senatore, e i rovesci dell' abito all' antica ?
Egli abita un palazzo, che casca a pezzi, in una
repubblica, che fa altrettanto; e non esce di casa
> Mad. De StaSl, Corinne ou l' lulie. Livre Septìeme
Chap, IL pag. 140, (Cdit. Garnier.)
s SiSHOMDi, De la Littérature du midi de V Europe*
Tom. I. Chap. XIX* Soggiunge che Fiaba è parola impropria
e poco usata in Italia, del che giustamente lo deride il Tom-
maseo.
CkLII PREFAZIONE.
che per andare a far visita ai suoi attori ed alle
sue attrici Egli s' affaccia tra le quinte del palco
scenico e tutta quella brava gente è a' suoi piedi;
l'Arlecchino gli si prosterna, la prima donna gli
fa riverenza, il direttore gli fa recare un sorbetto;
persino ogni rivalità, ogni gelosia femminile tace
o scompare dinanzi a lui. Ammirate questa grande
figura severa e malinconica e la venerazione che
essa inspira a tutta ^ famiglia dei Tartaglia e
-dei Pantaloni! Perchè tanto rispetto? » Carlo
Goz?i (continua lo Chasles, e lo compendio in
breve) è uno di que'genj che spuntano ad ora
fissa per incarnare in sé stessi tutto un momento
storico. Il Gozzi è P ultimo discepolo della Spa-
gna eroica, l'ultimo possessore della vena ironica
e fantasiosa dei poemi cavallereschi; egli rappre-
senta da solo la decadenza, la servitù civile e la
potenza passata di Venezia, la cui storia comincia
come una leggenda, continua come un racconto di
Anna Radcliffe e termina come un romanzo del-
l'Aretino. Posto sul limitare d'un rinnovamento
sociale protetto dai filosofi, il Gozzi combatte le
ultime battaglie in favore del Medio Evo, che
stava per essere distrutto. ^ Insomma un Goetz di
Berlichingen letterario o poco meno! A critici im-
maginosi non c'è, come sogliono dire gli Inglesi,
autore più suggestive del Gozzi, cioè che oflBra
loro maggior copia, varietà e possibilità di com-
1 Chasles, Étudessur l' Espagne, cit. D' un Thèatre Espa-
gnol-Vehitien etc. etc. cit.
PREFAZIONE. CXLHI
menti, di illustrazioni e dì amplificazioni fantasti-
che e bizzarre. Paolo De Musset, fra molte osser-?
vazioni ingegnose e fine, è uno di quelli che più
vi lavorano intorna di fantasia. Ha un' idea fissa,
che nel. Gozzi sia del Molière e dell'Aristofane,
fusi insieme. A sentire il De Musset, Carlo Gozzi
non avrebbe dimandato di meglio che metter alla
gogna sul palco scenico del San Samuele i* Dogi,
i Dieci, gli Inquisitori, tutti quei mercantacci su-
perbi del Libro cP Oro; non lo trattenne che la
paura d'essere strangolato a sessanta piedi sotto
terra o dato in pascolo alle zanzare dei Piombi
del Palazzo Ducale. II che prova che il De Musset
s'è formata un'idea molto inesatta del Gozzi, il
quale era uomo invece, che avrebbe veduto stran-
golare volentieri e dare in pascolo alle zanzare
dei Piombi chiunque avesse messa in forse la in-
fallibilità politica dei Dogi, dei Dieci, degli Inqui-
sitori e dei Patrizi del Libro d^ OrOj e ciò non
per mal' animo, ma perchè il Gozzi adorava la
sua vecchia Repubblica, come i secoli l'aveano fatta,
ed avea in orrore tutti i novatori politici e filo-
sofici d'ogni tinta. U De Musset riscontra poi af-
finità moltissime fra i personaggi dei Racconti
Fantastici dell' Hofifinann e quelli delle Fiabe,
delle poesie, dei drammi e delle Memorie del Gozzi;
poi fa del Gozzi stesso un Hoffmann Veneziano,
che, a furia di far la parte della Provvidenza e
del fato con le creature della sua fantasia, s' im-
merge fino alla gola nel mondo dei sogni, ed ogni
CXLIV PREFAZIONE,
realtà gli si trasfigura, ogni cosa gli s'illumina
d' una luce magic^i, vede la coda del diavolo passar
tra le falde d'ogni vestito, e se qualcuno di lon-
tano lo chiaipa per isbaglio con un nome diverso
dal suo, tosto si crede in balia delle potenze m-
fern^li. Tutto questo il De Musset arguisce con
troppa libertà dal famoso Capitolo delle Memorie
Inutili, dove il Gozzi narra delle Stravagante e
Contrattempi, ai quali la sua stella lo volle sog-
getto»^ « Trasportate in Germania, scrive il De
Musset, la scena dei Contrattempi: e^non avete
voi lo scolare Anselmo, che non può mai salutare
un gran personaggio senza rovesciare una sedia;
.1 piccolo Zaccaria colle sue trasformazioni; e il
Consigliere Tussmann, che vede una testa di volpe
sulle spalle del suo vicino l'orologiaio, e tutte
quelle altre figure, che si fantasmati:{^ano nella
luce fumosa delle taverne di Berlino e di Norim-
berga? Negare l'originalità dell' Hoffm^n non si
può; ma sino a qual punto s'è esso appropriata
quella del Gqzzì? In che misura il poeta Vene-
ziano r ha egli aiutato ad esaltarsi, a mettersi come
fuori di sé medesimo, per vedersi agire, pensare e
muovere come le Maschere della commedia del-
l'arte? Quanto ha preso dal Gozzi il Nodier, che
ne ha rifatte le peregrinazioni in Dalmazia? Fino
a che segno giunge l' affinità della Fée aux Miet-
tesy di Trilby e di tanti altri lavori del Nodier
* Parte 3. Gap, i. '
PREFAZIONE. CXLV
con le commedie Fiabesche .e il Capitolo dei Con-
trattempi? Turandot e Y Amore delle Tre Mela--
rance hanno prodotto le Tribola^^ioni d^ un Di-
rettore di Teatro e gli articoli sulle Marionette,
Neofobo è nipote di Burchiello e "le sue diatribe
sono venute a Parigi sulla Tartana degli Infltissiy
spìnta da un venticello felice, molto tempo dopo
l'anno bisestile 1736..,. Leggete le Fiabe senza
timore d'annoiarvi ! Esse sono scritte per un popolo
ben più insofferente ed incontentabile di noi!...
Carlo Gozzi sapea nascondere i suoi fini morali e
letterari sotto le apparenze del diletto e della ricrea-
zione; dietro la vecchia nutrice, che narra accanto .
al fuoco le fole ai bambini, s' intravvede il filosofo,*
Quel suo insieme di forza satirica, di buon senso
critico, di meraviglioso orientale, di fantastico e
di pantalonata italiana ha qualche cosa di strano
e di sorprendente, quanto l' esistenza stessa di Ve-
nezia. Questo genio complesso non potea uscire
che dalla magica città delle lagune * » Dopo
lo Chasles ed il Musset, poca o nessuna impor-
tanza ha Maurizi^ Sand, la cui opera è più arti-
stica che letteraria e non fa, a proposito del Gozzi,
che ripetere cose dette da altri. Soltanto è note-
vole che ricongiunge anch' esso il Gozzi al Ruz-
zante e che' è meno ingiusto di altri col Goldoni.
Del resto il Sand fa del Gozzi un ente quasi del
1 P. Db Musset, Charles Gozzi cit. — Revue de deux
Mondes, cit. Tom. IV, 1844.
Masi. j
ClXLVI PREFAZIONE.
tutto immaginario, un personaggio di fiaba, che non
si sa. né quando nacque, né quando morì e che
si dilegua in mezzo al turbine della Rivoluzione, in-
sieme con Pantalone, Brighella, Arlecchino, deità
finite d'un tempo già morto. ^ Più che critico,
paesista e profilista di fantasia é pure l'inglese
Vernon Lee, ma di gran lunga miglior giudice e
più acuto dei precedenti. Anch'essa si diverte a
variare il tema dell' Hoffmann, dello Chasles e del
De Musset sul Gozzi, e a descrivere questo poeta
come un medium spiritico, strumento e vittima
delle forze occulte, che stanno a mezz' aria tra il
cielo e la terra, ma vede chiaro altresì quali ele-
menti dell'antica commedia popolare e dell'arte
Carlo Gozzi raccoglie e tenta ringiovanire, vede
chiaro qual'è nella storia del nostro teatro la
posizione rispettiva della commedia del Goldoni e
della Fiaba del Gozzi, e nell' arte poetica di que-
st' ultimo si contenta di ammirare un forte ab-
bozzo drammatico ed umoristico, che il lettore o
l' ascoltatore, ricco di fantasia, può deliziosamente
integrare a sua posta, come l'integravano al loro
tempo la mimica e l' improvvisazione della Com-
pagnia Sacchi. Chi vuol trovare tutto in un libro,
non legga il Gozzi. Chi sa deliziarsi invece in
questo sforzo interiore del compiere, fantasticando,
gli informi abbozzi del Gozzi, questi non può tro-
1 M.^Sano, Masques et Bouffons (Comédie Italienne)
Tom. II. fParis, Levy, i86o).
PREFAZIONE. CXLVIl
vare libro, che gli convenga meglio. Ecco perchè
la Staèl, lo Schiller, l' Hoffìnann ammirano il Gozzi
ed il grosso pubblico lo lascia andare in obblio.
Ma a Carlo Gozzi non mancò se non l'arte di
estrinsecare tutto sé stesso nell'opera sua. Restò
a mezzo tra il reale e il fantastico, tra la vita ed
il sogno. Vagheggiò orizzonti sterminati, ma non
ne colse che frammenti, all' opposto del Goldoni,
che guardava ad un mondo ristretto, ma con un
occhiata lo squadrava tutto. La Vernon Lee mette
anzi il Goldoni in più diretto rapporto del Gozzi
con la tradizione democratica della Commedia del-
l'arte e a questo rapporto dà colpa della volga-
rità, della mediocrità prosaica, che la infastidisce
nella commedia Goldoniana. ^
Esaminando le concordanze dell' antica favola
Tedesca della Turandot con le ricomposizioni fat-
tene dallo Schiller e dal Gozzi, un erudito te-
desco di molto nome, Federico Enrico Hagen, pi-
glia anch'esso a celebrare la vittoria del Gozzi
sul naturalismo volgare della commedia Goldo-
niana. * E siamo già ben lontani cronologica-
mente dagli entusiasmi Romantici! Ma la sim-
1 Vbrnon Lbb, Studies of the Eighteenth Centurj in
luly. (London, Satchell, 1880). La Vernon Lee ha ripreso
molto graziosamente questo tema in una introduzione di ma'
mera Hoffmaniesca ad una sua fiaba, intitolata : The Prince
<^ the hUndred Soups.
2 F. H. von der Hagbn, Gesammubenten hundert altdeut-
ache Erzfthlungen. ( Stuttgard und Tubingen 1830) Bd. 3,
pag.66.
CXLVIII PREFAZIONE.
patia dei Tedeschi pel Gozzi perdura ostinata
anche fuori delle preoccupazioni di quella Scuola. ^
^ Narravami, non ha guarì, T illustre Marco Minghetti
che, viaggiando nel 1843 in Germania ed ih Olanda, ebbe
per caso ad accompagnarsi per alcun tempo col Generale
Radowitz, noto scrittore e statista, il quale, discorrendo con
lui di studi italiani e tedeschi, gli assicurava che, nelle se-
rate di Federigo Guglielmo IV (l'antecessore dell* attuale
Imperatore di Germania ), presenti l'Humboldt, il Savigny ed
altri uomini insignì, si solevano leggere con grandissimo di-
letto le Fiabe del Gozzi.
Fra gli ultimi Tedeschi, che fanno onorevole menzione
del Gozzi, figurano altri due grandi nomi, il maestro e
poeta, Riccardo Wagner, ed il filosofo pessimista, Arturo
Schopenhauer. Il primo nella Autobiographische Ski:(:(e ed
in Bine Mittheilung art meine Freunde^ 185 it P^i volumi
I e 4 de' Gesalmmelte Schriften und Dichtungen, ( Leipzig,
1872) 4'ce, fra l'altre cose, che volendo comporre un me-
lodramma sul gusto romantico del Weber e del Marschner,
prese ad imitare la Donna Serpente dì Carlo Gozzi e, intito-
landola le Fate, non mutò che lo scioglimento della Fiaba,
E questa un'opera giovanile del Wagner, il quale so d'al-
tronde eh' era e si mantenne sempre fervido ammiratore del
Gozzi. Quanto allo Schopenhauer, il mìo amico. Prof* Gia-
como Barzellotti, dotto espositore delle dottrine del filosofo
tedesco, mi fa notare ch'esso ne parla nel Gap. 8 dei Comr
pimenti al Libro I della sua opera maggiore: Die Welt als
Wille und Vorstellung, dove trattando della teoria del ri"
dicolo, afferma che questo nasce da un disaccordo repentino
tra una realtà qualsiasi ed il concetto, sotto cui tale realtà
è richiamata. E cita in proposito la scena 3* dell'atto 40 della
Zobeide^ in cui Trufialdino e Brighella, dopo essersi basto-
nati di santa ragione, si pacificano ed applicano a sé il noto
verso dell'Ariosto: O gran bontà de* Cavalieri antiqui, eoa
quel che segue. Nel Gap. 32 dei Compimenti al 3® libro della
Opera suddetta, trattando della pa:{:(ia^ lo Schopenhauer la
fa consìstere in una malattia della memoria. Non poter ri-
prodursi in mente con precisione un fatto od un sentimento
PREFAZIONE. CXLIX
Nel 1859 lo Schnakenburg ha trattato nuova-
mente del Gozzi e del suo teatro, e benché ac-
cusi d' esagerazione la critica Romantica e di-
mostri, al pari del Tommaseo, che Carlo Gozzi
somigliava tanto poco ad Aristofane, quanto Ve-
nezia ad Atene, pure confessa che il Gozzi con
arte potente adescò la plebe con la volgarità delle
sue forme, la gente colta con le sapienti allegorie
delle sue favole, e perciò prese posto nella fa-
miglia secondaria dei fantastici e degli umoristi,
in quella dei Rabelais, degli Aretino e degli Sterne,
dove gli spiriti magni d'Aristofane e dello Sha-
kespeare passano a volo talvolta o si soffermano
appena. ' Non si ribellò veramente a questo quasi
generale consenso che l'arruffato storico del Tea-
tro, 11 Klein, il quale assalisce il Gozzi in nome
di quel liberalismo politico borghese che, fino a.
pochi anni sono, si riteneva arbitro delle magni-
Jiche sorti e progressive del genere umano, ed
era intollerantissimo anche in arte. Nulla il Klein
concede al Gozzi, ne come uomo, né come poeta^
sicché confonde in un odio solo gli Schlegel feu-
passato è un fenomeno già prossimo alla pazzia. Ed anche-
qui dia la scena 2* dell' atto i« del Mostro Turchino, in
cui Smeraldina e Truffaldino, i quali per una bevanda in-
cantata smarriscono issofatto ogni memoria del loro amore,,
sono dal Gozzi rappresentati per pazzi.
* Archiv fQr der Neueren Spracben und Litterature. —
Herausgegebcn von L. Hcrric. U<ber Carlo Go^:(i und sein
Theater von J. F. Schnakenburg. — 1859, XIV Jahrganj^
26 Bd.
CL PREFAZIONE.
daii, il Conte Gozzi^ e Napoleone III, l' ultimo dei
Cesari, e si scaglia contro lo Schack^ il quale ebbe
il coraggio di chiamar il Gozzi il più grande
poeta drammatico (jler gròsste dramatische Di-
chier) ^ dell' Italia. Il Gozzi è un volgare im-
piastricciatore di colori. Nessuno loda più questo
aristocratico retrivo, salvo qualche sperduto fan-
taccino della vecchia falange macedonica degli
Schlegel. ' Con maggior diligenza di tutti questi
critici impressionisti^ se mi è permesso di chia-
marli cosi, ha studiato il suo tema Alfonso Royór,
elegante traduttore Francese di cinque Fiabe del
Gozzi, e con più sicura equità ha giudicato il
poeta. « Giudicarlo, die' esso, non è facile.... AI
lettore straniero massimamente occorre un certo
sforzo di buon volere per gustare quelle quattro
Maschere^ introdotte dal poeta fra le più dispa-
rate azioni drammatiche e che vi appariscono in-
nanzi in ógni tempo e luogo con la loro indivi-
dualità convenzionale ed il loro grazioso linguag-
gio, bene spesso triviale. Quel miscuglio di poesia
fantastica e di racconti di vecchie nonne, che ri-
corda a un tempo stesso l' Ariosto e i cantastorie
di piazza, affetta inoltre una certa andatura Spa-
gnolesca, che salta agli occhi a prima vista. E qua
1 ScHACK, Geschichte der Dram. Literatur UDd Kunst in
Spanien. — 3 Bd.
2 J. L. Klbin, Geschichte des Dramas. — Das itah'enische
Drama. — Dritter Bd. — Ersie Abtheilùng. — 650-778.
(Leipzig. Weigel. 1868).
PREFAZIONE. GLI
c là c\è un ardore di personalità violenta, che
scotta. U fondo delle commedie fiabesche trascende
sempre il mondo reale. Ma e' è tale delizia d' im-
pressioni piacevoli in cotesto mondo dei sogni,
che si perdona volentieri alla frivolezza dei mezzi
per compiacersi de' risultamenti ottenuti.... In
grazia di questi si perdonerà pure al Gozzi,^ io
spero, d'aver scritto dei drammi, nei quali nes-
suna madre corre dietro a un figlio smarrito, nes-
sun diseredato corre dietro al misterioso portafo-
gli, che gli deve rendere nome e fortuna dopo
cinque atti di ginnastica drammatica; e parimenti
lo si scuserà s' ei non sale in cattedra tutti i mo-
menti per far la predica, se non maltratta il pub-
blico, che paga, se non dà in pascolo agli odii
democratici l'uomo in abito nero, come il sim-
bolo di tutte le iniquità commesse o da commet-
tere. Questi metodi teatrali non erano ancora in
voga al tempo di Carlo Gozzi. * »
Mi sono allargato alquanto a dar notizia della
fortuna di Carlo Gozzi presso gli stranieri. In
Italia e fino a questi ultimi tempi la critica o Io
lasciò nell'obblio, in cui era caduto, o gli fu ol-
tremodo severa^, a cominciare dai contemporanei,
dal Cesarotti, dal Taruffi, dal Vannetti, dal Gen-
nari, dal Napoli Signorelli, storico dei teatri. Del
Baretti ebbi già ragione di parlare e di riferire le
^ ÀLPHorcsB RoYiK, ThéatTC Fiabesque. — Introduction,
pag. 42, 43, 44.
CLII PREFAZIONE.
sue varie opinioni sul Gozzi. Nella corrispondenza
epistolare del Cesarotti col Taruffi senti tutto il
razionalismo pedantesco e pretensioso di due abati
filosofi del secolo XVIII. « Credereste voi, scrive
in francese il Cesarotti al Taruffi, che esista un
paese al mondo, dove gli Orfanelli della Chìna^
i Tancredi, le Semiramicfi non gmngono senza
sbadigli alla quarta rappresentazione?.... Dove?
presso gli Uroni o i Topinambù? No. A Vene-
zia. Per compenso abbiamo Fiabe e Fole, che si
rappresentano le trenta volte di seguito in mezzo
ai più cocenti entusiasmi. Crederete forse che si
tratti degli Oracoli di Saintfoix, delle novelle di
Marmontel, racconciate dal Favart.... Pover'uomoI
Come siete a mille miglia dalla squisitezza del
nostro gusto 1... Sono le Tre Melarance, ì Re
Corvi (sic), i Re Cervi, ì Mostri Turchini e
altri di questa risma. E le più gravi persone assi-
curano che sono opere moralissime e dilettevolis-
sime, contenenti allegorie profondissime e tutti i
misteri dell'umana saggezza 1 » Ed il Taruffi gli
rispondeva, pure in francese, da Varsavia, che
avea vista rappresentare a Bologna una delle su-
blimi corbellerie del Gozzi, il Corvo. Gli eleganti,
che erano stati a Venezia, la lodavano. Ma egli,
l'abate filosofo, era scappato via inorridito per
timore di smarrire il senso comune. * Il Vannetti
* Tutti così questi abati fìlosofì del secolo scorso! Anche
V Àrteaga giudica da questo punto di vista del ragionevole
PREFAZIONE. CLIII
(che Carlo Gozzi lodò nella sua Chiacchiera ine-
dita) chiama Fautore delle Fiabe « corruttore
del nostro teatro italiano.... Se le sue favole ri-
scossero V approvazione degli ignoranti gondolieri,
caddero ben presto nel disprezzo dei colti uo-
mini. » E nel 1782 (Panno in cui scrive) annun-
zia già morti e sepolti gli effimeri trionfi del
Gozzi. ' L' eruditissimo Gennari ( che pure era dei
Graiielleschi ) scriveva al Patrizio Battagia, pro-
prio nel maggior fervore della rappresentazione
delle Fiabe: « Camminando di questo passo toma
a cadere il teatro comico in quegli stessi o somi-
glianti difetti, dei quali negli ultimi tempi s' è
procurato di liberarlo colla sostituzione delle com-
medie di carattere alle vecchie filastroccole dei
commedianti secentisti. Quanto a me avrei cercato
di correggere e di emendare gli errori del Gol-
doni e del Chiari, anziché gettarmi all'estremo
opposto e introdurre una foggia di rappresenta-
zioni inverosimili e romanzesche. * » Ed il Napoli
Signorelli, discorrendo delle Fiabe nella sua Sto-
ria: « notabile è Parte, scrive, adoperatavi dal-
li meraviglioso del Dramina. { Rivoluj^ioni del Teatro^ Tom. I,
Gap. VI). — Per le lettere del Cesarotti e del Taruffi vedi:
Epistolario del <:esarottiy Tom. 1. Delle Opere ( Ediz. Ca-
purrp) Tom. 35,
* Vannetti, V Educazione Letteraria del Bel Sesso
raccomandata e promossa. (Milano. Pirotta 1835) pag. 5.
* Lettere Famigliari ( Venezia, Alvisopoli 1829 ). Leu.
al Patrìzio F. B. del 3 Febbraio 1763.
CLIV PREFAZIONE.
Pindustre Autore, imperciocché le perturbazioni
tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili,
le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza
poetica e di riflessioni filosofiche concorsero a for-
mar que' mostri lusinghevoli^ che seducevano il
..popolo Veneziano ed ebbero un imitatore nel
Sig. Giuseppe Poppa. * » Sulla fede del Napoli
Signorelli, il Klein, il Magrini * ed altri citarono
codesto Poppa, come l'imitatore del Gozzi, ma
tutti soggiungono d' aver cercato inutilmente no*
tizie di lui. Chi era dunque questo misterioso per-
sonaggio ? Un suo dramma, che si legge nel Tea^
tro Moderno Applaudito (nota raccolta di opere
teatrali ) * non lo chiarisce di certo imitatore delle
Fiabe dì Carlo Gozzi, bensì, se mai, imitatore della
seconda maniera del Gozzi, cioè de' suoi drammi
Spagnoleschi. Ad imitatori delle Fiabe il Gozzi
allude con disprezzo, ma non ne nomina alcuno. ^
Quanto al Poppa, esiste una sua curiosa autobio-
grafia, * non priva d'interesse anche per la vita
del Gozzi. Il Poppa era nato nel ' 1760. Era un
1 Pietro Napoli-Signorblli NapoIitaDO, Storia dei Tea^
tri antichi e moderni. Tom. VI, pag. 238, 39. (Napoli 1790,
presso Vincenzo Orsino).
» Klbin, Op. cit. loc. cit. — Magrini, Op. cit. pag. 223.
8 T. M. A. Tom. 3^
< Memorie cit Part. 2*, Gap. 4, pag. 32.
s Memorie storiche della Vita di Giuseppe Maria Foppa^
protocollista di Consiglio di questo L R, Tribunale Cr/mi-
nale scritte da lui medesimo. ( Venezia, Molinari, 1840 )• Co-
municazione dal Sjg. Viuorio Malamaiìl.
PkEFAZIONK ' CLV
jjovero impiegatuccio e a - tempo avanzato poeta,
pittore, suonatore e romanziere. Le sue opere sal-
gono ad un numero sterminato, ma pare che aspi-
rasse piuttosto ad imitare il Goldoni, e più che a
poeta fiabesco^ la pretendesse a melodrammatico.
Di fatto fornì al Rossini il libretto d'una sua
opera: V Inganno Felice. Cominciò a scrivere
per il teatro nel 1782. « In quel frattempo (tra-
scrìvo la parole del Poppa) la rinomata compa-
gnia Sacchi, che agiva nel teatro in S. Salvatore
( chiamato volgarmente di S. Luca ) si disciolse. ^
II Conte Carlo Gozzi, che diede ricchezza in tempi
antecedenti a quel Capo Comico da lui protetto,
vedendolo ridotto a mal partito, s'indusse a per-
suadere l'insigne attore Petronio Cenerini (sic)
con qualche altro valente soggetto a non abban-
donare il Sacchi nel passaggio che fece dal teatro
in S. Luca all' altro in S. Angelo. Fu a quel-
l' epoca, ch'io conobbi il Gozzi, presso il quale
ebbi speciale favore, essendosi egli a me affezio-
nato, perchè mi era già anche prima dichiarato
1 II Gozzi riferisce a luDgo e con parole malinconiche
•questo fatto, importantissimo nella sua vita. Vedi Memo'
rie etc. Parte 3*. Gap. 3. — Il De Musset parafrasa molto
arbitrariamente le parole del Gozzi a questo proposito, anzi
se le inventa addirittura, per for credere ad aperti rimpianti
del Gozzi sui suoi spassi galanti colle attrici 11 De Musset
oon ha pensato che, così fiacendo, alterava il senso delle Afe^
morie, dove il Gozzi cerca nascondere, più che può, le sue
debolezze. In questo caso non ci riesce del tutto. Ma le pa-
role ciute dal De Musset non esistono nelle Memorie.
CLVI PREFAZIONE.
SUO settario; e come settarip del Gozzi si èTatta
menzione onorevole della mia persona dal Signor*'
Napoli-Signorelli nella sua Storia dei Teatri. Ho
detto ch'ebbi dal Gozzi speciale favore, perchè
uomo tutto a se solo, ciò provandolo ch'egli nella
celebre Accademia dei Granelleschi in Venezia, e
di cui fece gran parte (sic), era nominato il So-
litario, Sembrando al Gozzi, ch'io potessi esser
utile a quella Compagnia, mi eccitò a darle qual-
che mia composizione. Lo compiacqui e trattai il
fatto di Ginevra di Scopa^ riferito dall'Ariosto
nel suo poema Orlando Furioso. * » Settario dun-
que, non precisamente imitatore, ed in egaal modo
il Poppa era anche amico del commediografo Al-
bergati, che dice letterariamente avversissimo al
Gozzi. Ma il Poppa seppe barcamenarsi tra i due^l *
L' Albergati di fatto criticò acerbamente le Fiabe *
del Gozzi.* E bene sapere però, che l'Albergati,
vanissimo e corteggiatore d'ogni gloria grande o
piccina che spuntasse, avea prima e molto più del
Poppa imitato il Gozzi con una Piaba, che inti-
tolò il Sofà, e che anzi dedicò, stampandola, al
Gozzi stesso con amplissime lodi. La Piaba del-
l'Albergati (il cui ingegno fece pur buona prova
nella commedia) non ha alcun valore. Porse al-
* Poppa, Memorie cìt. pag. 37, 38.
A Ibid. pag. 39, 40.
2 Nella Prefaz. «Ila Commedia — Il Sofà — Albergati.
Nuovo Teatro (Venezia, Pasquali 1774). Voi. I e nelle Let-
tere Piacevoli eie. ( Venezia, Storti 1792 ).
PREFAZIONE. CLVII
lude ad essa il Gozzi, allorché, parlando degli
imitatori delle Fiabe, scrive : « essi affidarono alle
immense decorazioni, alle trasforifiazioni e alle
agghiacciate buffonerie. Non intesero né il senso
allegorico, né la urbana satira del costume, né la
forza delPlippar^chio, né la condotta, né il vigore
intrinseco del genere de me trattato. ' » Ma, a
proposito del voltafaccia dell'Albergati, il Gozzi
non si contentò di anonime allusioni, e poiché alla
dedica del Sofà egli avea corrisposto gentilmente,
dedicando all'Albergati il tomo quinto della sua
edizione del 1772, ristampò nel 1802 la dedica
Albergatiana e finamente derise la mutabilità dei
gusti del Commediografo Bolognese, che dall'am-
mirazióne per le Fiabe era trascorso ora all' am-
mirazione pei drammi lagrimosi. * Meritevole di
speciale ricordanza é il fatto che il Goldoni, stando
a Parigi e giungendogli colà l' eco dei trionfi delle
Fiabey volesse comporne una egli stesso quasi a
rinnovare col Gozzi l'antica rivalità anche sul
campo, ch'egli stesso s'era scelto per far contra-
sto alla Commedia Goldoniana. La pretesa Fiaba
del Goldoni é intitolata: // Genio Buono e il
Genio Cattivo e fu rappresentata a Venezia nel
1768.^ Che il Goldoni, nel mandare a Venezia
* Memorie cit. Parte 2*, Gap. 4,. pag. 32, 33,
* Vedi :^ome«to ed Frammento primo nella Più lunga
lettera etc.,%à cit. Ediz. 180 r, 1802, Tom. XIV.
3 Vedila nel Tomo XII d?lle Commedie Buffe in prosa
del Sig, Carlo Goldoni, ( Venezia, Zatta 1793).
CLVIII PREFAZIONE.
questa sua commedia, in cui ha introdotto un
po' di spettacoloso e di meraviglioso, abbia voluto
approfittare del nuovo gusto del pubblico Vene-
ziano per le Fìabe^ non mi sembra dubbio. Ma che
il Goldoni le abbia imitate, è questa una voce,
che s'è andata ripetendo, ma che il Gozzi stesso
ribatte con molta ragione * e che, leggendo la com-
media del Goldoni, si vede chiaro non avere al-
cun fondamento. * U Goldoni fu costretto, nei
primi tempi della sua dimora in Francia, a ritor-
nare alle tradizioni della Commedia dell'arte e a
modellarsi, più che potè, sul gusto dell' Opera
Comica Francese. Il gran modello di questo nuovo
tentativo del Goldoni è il VèntagliOy vera mera-
viglia d' arte comica. Allo stesso genere appartiene
il Genio Buono e il Genio Cattivo^ non ostante le
trasformazioni e le macchine, la quale commedia,
benché inferiore di gran lunga al Ventaglio^ ha
però parti vigorosissime e che indicano un vero
ringiovinimento, che il viaggio in Francia avea
conferito, al genio del Goldoni. Le mie afferma-
zioni si fondano sull' esame della Commedia e su
quanto scrive il Goldoni all'Albergati il 1 8 aprile
* Memorie cit Parte a*, Gap. 4, pag. 34, 35, 36.
* Mi conferma in questo la lettera del Goldoni allo Sciu-
gliaga pubblicata dal Sig. Dino Mantovani nelP Opera citato.
« Avrei piacere, scrive il Goldoni, di far vedere in Venezia,
come si fianno le commedie di trasformazione, senza le Fiabe,
senza i Diavoli e senza le piazzate. » ( 2^0^21 ). Vuol dunque
correggere, non imitare il Gozzi, e correggerlo, io credo, se-
condo il gusto francese.
PREFAZIONE. , CLIX
1763, dandogli notizia del Ventaglio e di Un'altra
commedia che progettava fin d' allora e che vo-
leva intitolare: // Carnevale di Venezia. « Vi
saranno, scrive il Goldoni, molti Francesi e molti
Italiani ; non rbparmierò la critica né agli uni, ne
agli altri. Farò dei confronti di costumi, di usi,
di divertimenti, di musica e dei teatri. Ecco la
mia idea . . . . ^ » E parmi appunto V idea, che ha
incarnata nel Genio Buono e nel Genio Cattivo ;
commedia, che quale specchio storico di costumi,
specialmente Parigini del secolo scorso, e quale
documento di un nuovo svolgimento dell'ingegno
del Goldoni, ' ha, secondo me, una capitale im-
portanza. Ma ritorniamo ai critici italiani di Carlo
Gozzi. •
Quanto gli fu avversa la critica letteraria con-
temporanea, altrettanto gli fu ostile quella che la
segue da presso. Il Gherardini, annotatore dello
Schlegel, esiglia le Fiabe fra i melodrammi e le
pantomime, « ove oggidì si vuole sopratutto che
sieao colpiti i sensi^ ove il cuore non si lagna se
resta alquanto in riposo ed. ove la ragione ^meno
gelosa de' suoi diritti.^ » Tutte parole, che indi-
cano però quanto poco av^va appreso dalle Le*
' Vedi nella mia Raccolta di Lettere Goldoniane la Let-
tera 37.
* E non era 1* ultimo, perchè il Burbero Benefico e
V Avaro Fastoso ripigliano ed ampliano la commedia di
carattere.
' Nota 43 alla Drammaturgia dello Schlegel
CLXII PREFAZIONE.
tato del Gozzi in questi ultimi tempi, nei quali,
col rinnovarsi degli studi critici di storia letteraria,
anche Carlo Gozzi è uscito dalla penombra oscura'
dell' obblio, ov' era rimasto tanti anni, non sembra
opportuno discorrere qui partitamehte. Basti ac-
cennare che appunto da questo ritorno dell'atten-
zione degli studiosi su Carlo Gozzi, dai nuovi . e
recenti saggi su questo poeta, i quali hanno messo
in chiaro . quant' era l'importanza storica e lette-
raria di lui, nacque il pensiero, che fosse bene
ripubblicare le sue Fiabe^ e la speranza, che
il pubblico italiano dovesse fare buoa viso a que-
sta ristampa. Mi sembra debito però un'eccezione
pel Magrini, il cui libro non è senza mende, ma
è pur sempre il . più ampio • studio, che finora
si sia fatto su Carlo Gozzi ; e, non potendo rias-
sumere le molte, forse troppe, cose che dice,
ne citerò le conclusioni, con le quali io pure in
molta parte mi accordo. « Le Fiabe di questo in-
gegnoso umorista del XVIII secolo, scrive il Ma-
grini, sono commedie allegoriche, favolose, str^ne^
in cui spesso più che le passioni giuocano la vo-
lontà possente ed il genio benefico o malefico di
esseri soprannaturali, che ricordano il Deus ex
machina ed il fato degli antichi; sono racconti
drammatizzati di fate, incantesimi e trasforma-
zioni, in cui il genere comico va unito in bel
modo all' eroico, la prosa al verso ; e si trovano
in esse satire pungenti, attici epigrammi e parodie
efficaci, dacché il fantastico è commisto al reale
PREFAZIONE. CLXUI.
ed alla parte scritta sono innestate le scene im-
provvise delle maschere paesane, che, con motti
arguti e pronti, e con frequenti allusioni, perso-
nali allietano il pubblico.... Le Fiabe adunque,
che stanno per noi tra la Commedia dell'Arte e
le moderne FéerieSj sono un vanto della lettera-,
tura italiana, piacciono, e, non e' è critica che
tenga, invogliano alla lettura per la loro originale
festività. * »
Durante i trionfi, delle Fiabe, la consuetudine
di Carlo Gozzi con la Compagnia comica di An-
tonio Sacchi, che le aveva rappresentate, era di-
venuta quotidiana. Attori ed attrici dovevano a
lui, al disinteresse, con cui prestava V opera sua,
il favore del pubblico e l'agiatezza. Gli attori lo
retribuivano di gratitudine, di ossequio, di rive-
renza. Colle attrici era amico, confidente, consi-
gliere, maestro, compare, protettore e, non ostante
tutte le sue proteste e le sue pedanterie morali-
stiche, era anche amante. E perchè no ? Erano
tlonne « impastate d'amore* » (lo dice esso) e
allorché il Gozzi incominciò a mettersi in tali in-
trinsichezze, avea circa trentacinque anni. ' Stando
anche solo alla storia dei tre amori, che narra in
tre de' più graziosi Capitoli delle sue Memorie, ^
1 Magrini, Op. eie Gap. IX, pag. 333-245.
* Memorie cit. Parte 2% Gap. 3, pag, 20.
8 Memorie, Parte 2*, Gap, 3. Pittura della Compagnia'
comica del Sacchi da me soccorsa.
< Parte 2*, Gapitoli 48, 49, 5o.
GLXIV PREFAZIOMB.
vedesi del resto ch'egli non era poi quell'inespu-
gnabile Catone, che vuole apparire. Ma, poiché
Carlo Gozzi volle descrivere il proprio esterno ed
interno nella sua autobiografia, è pregio dell' opera
riferire le sue parole :
t La mia statura è grande, e m^ avvedo di questa graa-
dezza dal molto panno che occorre ne^ miei tabarri, e da^ pa-
recchi colpi chMo dò colla testa nelP entrare in qualche
stanza che abbia P uscio non molto alta Ho la fortuna di
non essere né scrignuto, né zoppo,. né cieco, né guercio....
Questo è quanto credo di sapere, e di poter dire della mia
macchina, avendo lasciata sino dalla mia giovinezza la brìgt
alle ^femmine di dirmi bello per lusingarmi e di dirmi brutto
per farmi rabbia, senza che vìncessero mai né Puna cosa, né
1^ altra. Escluso sempre il sudicio da me abborrito, s* ebbi in
dosso qualche vestito di taglio moderno, fu per opera del
sartore, e non mai della mia ordinazione.... U acconciatura
de^miei capelli dalPanno iy3b alPanno 1780 in cui scrìvo ti
sempre della forma medesima.... Non ho mai cambiato mo»
dello di fibbie alle scarpe sino a tanto che spezzate le prime
fibbie, dovei cambiarle per necessità, e se nel cambio ci fii
qualche differenza di modello, dal quadro alP ovale, lo fa
per consiglio delP orefice, che mi fece prendere le più leg-
gere, perché si rompessero più presto.... I poco parlatori, e
assai pensatori, come sono io, occupati nei molti loro pen-
sieri, prendono il vizio di incrocicchiare le ciglia per matu-
rarli, il che dà loro un aria brusca, severa, e presso che-
truce. Bench^ io abbia P animo sempre allegro. ... gli infiniti
pensieri, ch^ empierono sempre la mia testa in burrasca, o
per imbrogli della mia fi^miglia, o per riflettere alle ragioni
delle mie liti nel Foro, o per riparare a qualche disordine, o
^per architettare una mia composizione poetica, o qualche
prosa, mi fecero cadere nel vizio del corrugare la fronte,
dejP aggrottare e incrocicchiare le ciglia per modo, ch^ unito
PREFAZIONE. ^ CLXV
questo Tizio al mio' passo lento, alla mia taciturnitày e al
mio cercare passeggi solitari, mi fece giudicare da tutti quelli
che non m'ebbero in pratica un'uomo serio, burbero, im-
praticabile e fors'anco cattivo. Molti che m* hanno colto oc-^
capato in qualcheduno de' miei molti pensieri colle ciglia
brusche incrocicchiate e lo sguardo oscuro, guardandomi
sott' occhio, avranno creduto eh' io pensassi ad uccidere
qualche nemico, quando pensava a comporre V Auge! bei-
verde.^ »
« Non fui avaro, perch'ebbi sempre a schifo il peccato
dell' avarizia, e non fui prodigo forse soltanto perchè non
fui ricco.... Averci potuto trarre qualche utilità pecuniaria
dal diluvio de' scritti miei, ma gli ho donati ognorsf a' Co-
mici, a' librai. ... I miei scrìtti sempre satirici*.., non prez-
zolati, avevano il vantaggio, d'un certo decoro. Prezzolati,
sarebbero.... decaduti..., neHe opinioni e sulle lingue de' miei
contrari, in una insoffribile mercenaria maldicenza, che mi
avrebbe forse fatto odioso universalmente. Oltre a ciò non
v'è peggiore avvilimento in Italia.... di quello di scrivere
prezzolato per i nostri Librai e lo scrivere prezzolato per i
Teatri dc''nosui 'liioerabili comici.... Sempre costante nel
mio naturale risibile ( sic ), non potè rattristarsi il mio in-
terno, nemmeno nello scorgere rovesciata la mia sparsa mo-
rale, ch'io credeva sana, dalla sottigliezza degli insidiosi e
industri sofismi del secolo.... Gli amici miei di stretta ami*
cizia furono pochi ed io fui come il Berni
Degli amici amator miracoloso.
Il mio interno s'è acceso in qualche raro momento d^ irasci-
bile per dici torti ricevuti.... ma pochi istanti bastarono alla
mia riflessione a calmare il mio interno.... Ho un istinto ri-
tibìle tanto in sui spiriti deboli che credono tutto,^ quanto.
sui spiriti forti, che ostentano di non creder nulla, ma ho
* Memorie cit.. Parte a, Gap. 46.
GLXVI PREFAZIONE.
giudicati spìriti più deboli i secondi dei primi.... Con tutte
le mie risa, scorsi però nelP uomo con sicurezza un' immensa
snblimità e tanto superiore ali' essenza dei bruti che non mi
sono mai degnato d'avvilirmi a considerarmi né letame, né
fango, né un cane, né un porco, come si degnano di consi-
derarsi i spinti forti.^.. Le odierne novità di rovesci, che ci
dipingono gli Epicuri onest' uomini; i Seneca impostori; ve-
nerabili filosofi i Volteri, i Russò, gli Elvezi, i Mirabò..., non
seducono il mio interno. Guardo i funesti effetti cagionati
sui popoli dalle dottrine dell'ateismo.... Finalmente l'in-
terno mio tenne sempre viva la sacra immagine dell'augusta
nostra Religione, né mi curai d'essere considerato da' Filosofi
d* oggidì addormentato nel da lor detto pre^it/tft^io.i •
Ma il ritratto morale di Carlo Gozzi non sa-
rebbe compiuto, senza dare qualche idea del fa-
^moso Capitolo delle sue Memorie^ intitolato dei
Contrattempi^ il quale servì alla critica Romantica
per rappresentarsi il Gozzi come un Doctor Fausta
preda e ludibrio di quelle potenze magiche, che
la sua fantasia di poeta aveva evocate. Vedranno
invece i lettori, che il Capitolo dei Contrattempi
non è altro che un bozzetto leggiadrissimo del
bizzarro umore del Gozzi e di una sua preoccu-
pazione, che confina coi terrori della jettatura na-
poletana.
« S'io volessi narrare (scrive il Gozzi) tutte le strava-
ganze e tutti i contrattempi, a' quali la mia stella mi volle
soggetto, averei lunga iacenda. Furono frequentissimi e quasi
giornalieri.* Le stravaganze eh' io soffersi mansuetamente
i Memorie cit , Parte a/ Gap. 47.
,. PREFAZIONE. CLXVII
co^ successivi miei servi prò tempore potrebbero darmi ar-
gomento di formare un volume» Narrerò la sola stravaganza
molesta, pericolosa e ridicola insieme, chMo fui preso [con
somma frequenza da infinite persone in iscambio di chi Ìo
non era con un insistenza ostinata, e ciò che ha di vago
questa stravaganza è chMo non somigliava punto agli uomini
per i quali era preso. Un giorno m'incontrai in un vecchio
artefice a San Favolo, che vedendomi' mi corse incontro. in-
chinato e baciandomi un gherone del vestito piangendo, mi
ringraziò ch'io avessi colla mia protezione liberato il di lui
figlio dalle carceri. Sostenni ch'egli non mi conosceva e che
mi prendeva per un altro. Egli sostenne vivamente, franca-
mente di conoscermi e che io era il suo caritatevole padrone
Paruta.... Chiesi a chi conosceva quel Patrizio Paruta, se
mi assomigliasse. Mi si disse che non aveva con me la me-
noma somiglianza. Non v'è chi non conosca o non abbia
conosciuto Michele dair Àgata, noto Impresario dell'Opera,
né chi non sappia ch'egli era un palmo più basso di me
due palmi più grosso e differentissimo da me ne' vestiti e
nella fisonomia. Ho dovuto soffrire per un lungo corso
d' anni e sino eh' egli visse la seccaggine d' esser fermato per.
la via per Michele quasi ogni giorno da Canterini, da Cante-
rine, da Ballerini, da Ballerine, da Maestri di Cappella, da
Sartori, da Pittori, da dispensieri di lettere, e di ascoltar
lunghe doglianze, lunghi ringraziamenti... e co' dispensieri
di lettere ii dover rifiutare lettere e fardelli diretti a Mi-
chele dall' Àgata, gridando, protestando e giurando eh' io
non era Michele, le quali persone tutte partendo a stento si
volgevano a me tratto tratto guardandomi fiso smemorati e
dimostrando di credere ch'io fossi un Michele che non vo-
lesse esser Michele.
Giunto a Padova una state, seppi essere a letto da un
parto la signora Maria Canziani valente e saggia Danzatrice,
mia ottima amica. Volli farle una visita e chiedendo a una
donna nel di lei alloggio se potessi entrare nella sua stanza,
ella entrò ad annunziarmi con queste parole: Signora^ è qui
CLXVIII • PREFAZIONE.
fuori il Signor Michele dalP Agata che brama di riverirla.
Nel mio entrare ho avuto timore che la povera Canzianì
•coppi dal ridere sul franco sbaglio di quella femmina.
Uscito da quella visita m' incontrai sul ponte S. Lorenzo
nel celebre Professore d'Astronomia Toaldo. Egli conosceva
me perfettamente, comMo conosceva perfettamente lui. Lo
salutai, ed egli guardandomi^ si trasse il cappello con gra-
vità, e dicendomi: Addio, Michele, e passando oltre pe^ fatti
suoi. La eterna insistenza di questo sbaglio m* aveva quasi
ridotto a credere d* essere Michele. Se quel Michele avesse
avuti de^ nemici brutali, vendicativi, avjrei avuto occasione di
non ridere d'esser preso per Michele.
Una sera, che faceva gran caldo, splendeva una luna
bellissima, a tal che la notte pareva giorno. 'Passeggiava cer-
cando fresco e discorrendo col Patrizio Francesco Gritti
nella piazza S. Marco.
< Ho udita una voce gridare dietro di me dicendo: Che
fiìi tu qui a quest'ora? Che non vai a dormire, petzo
d'asino? Il dir ciò e il darmi due calzanti pugni nella schiena
fu tutt'una cosa. Mi volsi per fare una mia vendetta, e
scorsi il Patrizio Cavalier Andrea Gradenigo, il quale guar-
dandomi prima attentamente, mi disse poscia: Scusi, avrei
giurato, ch'ella fosse Daniele Zanchi. Ci fu qualche ceri-
monia sulle pugna e sul titolo d'asino che aveva ricevuti
per esser stato creduto un Daniele, con cui il Cavaliere do-
veva avere una con6denza da potergli dire asino e di darle
( sic ) de* cazzotti per usargli una finezza domestica.
Né meno stravagante fu il caso che m' avvenne sulla mia
considerata somiglianza» Essend' io con Carlo Andrich mio
buon amico discorrendo sulla piazza -S. Marco un ^orno se-
renissimo, vidi un greco co' baffi, vestito alla lunga con una
berretta rossa in capo, il quale aveva seco un ragazzo ve-
stito alla sua stessa maniera. Quel greco vedendomi, corse
allegro verso me, e dopo avermi abbracciato e baciato con
gran trasporto, si volse al ragazzo dicendogli: via, ragazzo
baciate la mano qui al vostro zio Costantino. Il ragazzo mi
PREFAZIONE. . CLXIX
prese la niiano badandola. Carlo Andrich guardava me, io
guardava P Andrich; eravamo due simulacri.- Finalmente
chiesi al greco per chi mi prendesse. .Oh bella! (diss'egli)
non siete voi il mio* caro amico Costantino Zucalà? U An-
drich si stringeva le coste per non crepare dal ridere, ed io
ebbi fatica sette minuti a persuadere il greco, ch^ io non era
il signor Costantino Zucalà. Fatta ricerca sulla mia somi-
glianza col Signor Zucalà a chi lo conosceva, fui assicurato
che quel Signore, onorato mercante, era un uomo di bassa
statura, pingue e che non aveva grano di somiglianza
con me. ^ »
Passando ora a rivelare la « Centesima parte »
dei Contrattempiy dai quali fu sempre afflitto, il
Gozzi narra con tono di malinconica desolazione
che se lo coglieva la pioggia per istrada, aspettava
ore ed ore, sotto un portico, nella speranza che
cess2^.sse. Non e' era caso l Si risolveva allora ad
affrontarla e giungeva in casa bagnato come un
pulcino. Appena toccava la soglia dell' uscio, ec-
coti il sereno e un sole di paradiso. Se vol^a star
solo per Reggere o scrivere, eccoti un seccatore ad
interromperlo. Se si metteva a radersi la barba,
ecco persone d' alto affare, che lo ricercavano con
premura, e la barba rimaneva mezza fatta e mezza
da fare. Se, sorpreso per via da una piccola ne-
cessità naturale, cercava un viottolo Solitario,. ecco
due signore, che capitavano proprio da quel lato.
Ne cercava un'altro, ed eccoti altre due signore,
che uscivano da una porta vicina.
I Memorie cit., Parte 3, Gap. i.
CI,XX PREFAZI9NK.
Tornando dal Friuli in una freddissima sera
di novembre, s' incamminava verso casa sua e vide
per la contrada un gran via vai di gente, poi
( oh meraviglia ! ) le finestre della sua casa spalan-
cate e piene di lumi. . . .
« Aperto P uscio (contìnua il Gozzi) mi si afikcciàrono
due militi urbani, i quali presentandomi due spuntoni al
petto gridarono con viso fiero: per di qui non si passa.
- Come I ( diss^ io ancor più sbalordito e mansuetamente )
perchè non possM'p passare?
Non Signore ( risposero quei terribili ) per quest* uscio
non sventra. Ella vada a porsi in maschera ed entri per quel
•portone che vede qui a mano diritta ch^è del palagio Braga-
dino. Mascherato, la lascieranno per di là entrare alle feste.
Ma se fossi il padrone di questa casa e giunto stanco da
un viaggio, agghiacciato, e assonnato, non potrei entrare nella
lAia casa per pormi nel mio letto ? ( diss^ io con tutta flemma ).
Ah il padrone! (risposero que' feroci). Ella si fermi
ed avrà qualche risposta. Detto ciò mi chiusero impetuosa-
mente la porta in faccia.... S^apri finalmente di nuovo
r uscio, e mi si presentò un Mastro' di rasa tutto trinato
d^oro, il quale con molti inchini, mi fece P invito d^ entrare.
V'entrai e salendo la scala chiesi a quella riverente persona,
che fbsse /' incantesimo che io vedeva nel mio albergo. E lei
non sa nulla? ( rispose quelP uomo ). 11 mio padrone Patrìzio
Gasparo Bragadino, prevedendo che il di lui fratello sarebbe
eletto Patriarca, trovandosi ristretto di fabbricato per fore le
consuete feste pQbbliche, desiderò di unire con un ponticello
di, passaggio dalle finestre questa casa alla sua per aver mag-
gior agio. Tanto fu eseguito coiì la di lei permissione. Qui si
fianno parte delle feste -e si getta dalle finestre al popolo
pane e danari. Lei non abbia però tflcun dubbio che la stanza
dove ella dorme non sia stata preservata e chiusa con dili-
genza. Venga meco, venga meco, e vedrà.
PREFAZIONE. CLXXI
Rimasi ancor più attonito sentendomi dire d'un^ per-
missione che .nessuno m' aveva chiesta e cU* io non aveva
data. Non volli però far parole con un Mastro di casa sopra
ciò, e giunto nella sala restai abbagliato dalle gran cere che
ardevano, e stordito da^ servi e dalle maschere, che fiacevano
un gran girare e un gran bisbigliare.
11 rumore che si faceva nella cucina m^ attrasse a quella
parte, e Yìdi un grandissimo fuoco, a cui bollivano paiuoH,
pignatte, tegami e girava un lungo schidione di pqlli d' India,
di pezzi di vitella e d^ altro.
11 Mastro di casa cerimonioso voleva pure che io ve-.
dessi la mia stanza preservata, chiusa con gran diligenza, e
ch'entrassi in quella.
Mi dica di grazia, mio Signore ( diss' io ) sino a quaF ora
dura questo tumulto?
Ma veramente (rispose il Mastro di casa) per tre notti
consecutive egli dura fino a giorno.
Ho ben piacere (diss'io) d'aver avuta cosa al mondo
■ch'abbia potuto accomodare alla famiglia Bragadino. Ciò
m' ha cagionato un onore. Riverisca le Eccellenze Loro. Vado
in. traccia tosto di trovarmi un alloggio per i tre giorni e
le tre notti consecutive, avendo somma necessità di riposo
e di calma.
Oibò (rispose il Mastro di casa) ella deve riposare nella
sua casa e nella sua stanza serbata con tutta l'attenzione.
No, no certamente (diss'io). La ringrazio della cortese
sua diligenza. Come mai vorrebb'Ella ch'io dormissi con
•questo fracasso P 11 mio sonno è sottile.... E passai ad abi-
tare pazientemente per i tre giorni e le tre notti consecutive
in una locanda. ' »
In realtà questo racconto ha un non so che di
Jiaba e rassomiglia ad una di quelle avventure
I Memorie cit., Parte 3, Ibld.
CLXXII PREFAZIONE.
degli eroi del Cunto de li CuntCj sempre sorpresi
tra via da questi scherzi del destilo. A chi è mai
accaduto nulla di simile, chiede il De Musset?
E la Vernon Lee ci ride su, per conchiudeme che
evidentemente la vecchia casa dei Gozzi era abi-
tata da tutti gli spiriti folletti delle Lagune, e che
eran' essi che governavano a posta loro V ingegno
e tutta la vita di Carlo Gozzi.
Come furono lieti gli anni passati dal Gozzi^
scrivendo le FiabCy e in compagnia delle vezzose
donne, * delle Maschere e degli attori della Com-
pagnia Sacchi! Erano gli ultimi sorrìsi della sua
giovinezza, ed anche riscrivendone da vecchio, non
può mai staccarsi da quei ricordi e li descrive, e
li torna a descrivere, e ripubblica i brindisi can-
tati negli allegri simposi! coi comici in casa del
Sacchi' e si richiama a mente ogni nome, ogni
1 damante del Gozzi era allora, dicesi, una nipote del
Sacchi, valente attrice^ conosciuta neWArte col nome di
Ckiaretta.
* Nel Canto Ditirambico^ più volte citato, è descritu la
polenta mangiata in casa del Sacchi e tutti gli attori e le
attrici, che stanno attorno, al tagliere fumante inneggiando a
quel ghiotto piatto, che era una delle bravure del gran
Truffnldino. Forse del Canto Ditirambico del Gozzi a' è ri-
cordato il Coppola f Pompiere) nella sua Cans^one della Po^
lenta scritta per la società dei Polentoni di Parigi.
In certe Memorie manoscritte del Consigliere Giovanni
Rossi, che trovansi nella Bibliot. Marciana di Venezia ( Ital.
Classe VII. Cod. 1396. — Voi, n, da carte 21 a 31) si
parla a lungo, e senza novità, delle lotte fra il Chiarì, il
Goldoni ed il Gozzi e si ricordano le meraviglie dalla Com-
pagnia del Sacchi. Il Rossi soggiunge di essere arrivato a
PREFAZIONE. CLXXIII
persona, ogni più piccolo accidente di quel tempo
felice con un mesto rimpianto, eh* egli cerca inu-
tilmente, di nascondere sotto la burlesca e pedan-
tesca gravità delle sue solite frasi. Durò così fino
al 177I9 nei qual anno, ad intercessione sua, Teo-
dora Ricci. Bartoli entrò nella Compagnia Sacchi
in qualità di prima attrice. ^ Da principio la Ricci
non piacque al pubblico; ma il Gozzi la presela
proteggere, scrisse e riscrisse commedie e drammi
per lei, ed essa, che avea ingegno, avea bella ed
elegante persona e bellissima voce, finalmente,
trionfò. U periodo delle Fiabe^ il quale non com-
prende se non cinque anni della vita artistica
di Carlo Gozzi, dal 1761 al 1765, era chiuso da
un pezzo. Alle Fiabe avea egli surrogate le imi-
tazioni del teatro Spagnuolo, con le quali si pro-
tempo a conoscere e a trattare il Conte Go\^i e ne parla
con ammirazione. La commedia delle Maschere non ebbe
mai maggiori trionfi che col Gozzi e col Sacchi. Dopo il
1782, scioltasi la Compagnia Sacchi, continuò, e \t. favole
Gomitane si ripeterono più volte coW Arlecchino Pellandi,
col Fiorini già decrepito, col Brighella Martelli, col Panu-
lone Valsecchi, ma non erano più le medesime. L^età del-
V oro del teatro Veneziano, dice il Rossi, fu quella delle
lotte del Goldoni, del Gozzi e del Chiari. Poeti e comici ga-
reggiavano. Sempre novità, e la gente accorreva in folla.
Fuori del teatro gran discussioni. E uno dei maggiori Areo-
paghi dei parteggianti era il caffè di Ménegai^o posto nella
Merceria verso il Ponte de* Baretteri, alla metà circa, a
mano destra, corrispondente all' interno col campiello della
Chiesa di S, Giuliano.
^ Nella Quaresima delPanno 1771. A^morie cit Part 2*
Gap. 8, pag. 60.
CLXttV PREFAZIONE.
poneva di sostenere ancora le Maschere^ njesco-
landole bfzzarramente alP intreccio romanzesco e
sentimentale dei drammi di cappa e spada, e si
proponeva altresì di opporsi alla moda francese
dei drammi lagrimosi o tragedie borghesi^ che
già era penetrata in Italia, (se pure, come io
credo, non vi fu dal- Goldoni precorsa) ed era già
divenuta il bersaglio principale delle nuove pole-
miche letterarie del Gozzi. ' Altri affetti s' aggiim-
gevano però a questi vecchi ardori di battaglia, e
la Ricci fu veramente T inspiratrice di molti dei
lavori teatrali di quella, che può chiamarsi la se-
conda maniera del Gozzi. Dopo cinque anni circa
d' assiduità, d' assistenza e d' una protezione cosif-
fatta, sperava esso d'avere acquistati titoli impe-
rituri alla gratitudine, all' amore, dirò meglio, di
questa donna, e lo dico appunto perchè egli spende
un intero volume a provare che non si trattava
d' amore. Povero Gozzi ! Questa volta il folletto
infernale era capitato davvero a tribolarlo ed egli
avea fatto i calcoli senza mettere in conto i cin-
qiiant'anni suonati, che già pesavano sulle sue
spalle, r indole vana, leggera e corrotta, e il tem-
peramento isterico della Ricci, della quale è cu-'
1 Fra i lavori fotti per la Ricci, v'è una traduzione, del
Fajel del D^ Àrnaud, dramma lagrimoso. Di questa con-
traddizione il Gozzi si giustifica in una lunghissima prefia-
zione.* Vedi: n 'Fajel — tragedia del Sig, D* Arnaudj tra-
dotta, in versi sciolti dal Co. Carlo Go:[^L ( In Venezia 1772,
per il Colombani ).
PREFAZIONE. CLXXV
rìoso leggere a riscontro delle Memorie del Gozzi
la biografia scrittale dal martire marito, Francesco
Bartoli, il Plutarco dei nostri Comici; biografia,
che è un vero capolavoro di dissimulazione e di
diplomazia coniugale. ' Un uom di moda, Pier
Antonio Gratarol, Segretario del Senato, si mise
a corteggiare la Ricci, ed essa sperò scnz' altro di
poter tenere a bada il Conte Gozzi ed il Segre-
tario Gratarol. Il Gozzi fiutò la trama e da gen-
tiluomo si ritrasse, ma rodendosi in cuore. Da
questi umili e molto comuni principii si svolse un
romanzo dolorosissimo e che amareggiò e oscurò,
si può dire, la restante vita di Carlo.* Nel 1775,
prima cioè della sua rottura con Teodora Ricci,
esso avea scritto un dramma, tolto da: Zelos cun
Zelos se curat di Tirso de Molina (pseudonimo
di Gabriele Tellez), che intitolò: Le Droghe
(T Amore, Ne lesse qualche brano alla Rieri e ad
altri comici della Compagnia Sacchi; ma poi, non
sentendosene soddisfatto, lo mise da parte. Verso
la fine dall'anno seguente, quando s'era già se-
parato da Teodora Ricci per causa del Gratarol,
il Gozzi afferma che dovette cedere alle istanze
^ Francesco Bartoli, Notizie Istoriche dei Comici Ita-
liani che fiorirono intorno al MDL fino ai giorni presenti.
(Padova, Conzaiti 1781 ). All'art. T, Ricci.
* A risparmio di citazioni, due sono le fonti principali
di questo racconto, le Memorie del Gozzi, e la Narrazione
Apologetica di Pier Antonio Gratarol. — Terza Ediz. ( Ve»
nezia 1797 Anno 1® della Libertà).
CLXXTI PREFAZIONE.
del Capocomico Sacchi e dare il dramma. Fatto è
che, assistendo ad una nuova lettura, che, secondo
l' usanza, se ne faceva ai comici radunati, la Ricci
cominciò a dar segni di meraviglia e di sdegno,
cpme se le si rivelasse tutfad un tratto qualche
gran novità, e la novità era una palese allusiome
a' suoi dissapori col Gozzi e il tipo di un Don
AdonCy tutto massime filosofiche e motti e sman-
cerie e caricature di moda, in cui le parve rap-
presentato il GrataroL Da questa prima favilla
nacque V incendio. La Ricci avverti il Gratarol, il
quale colla balordaggine d'un cervello fumoso,
cieco d' ira e senza verificar nulla di nulla, ricorse
ai magistrati, e il dramma, che già era stato li-
cenziato per la scena, fil ridomandato, contro ogni
consuetudine, per una seconda revisione. Il capo-
comico Sacchi, avidissimo e certamente con mali-
gnità ( poiché era anch' esso innamorato della
Ricci) rispose ai magistrati che non poteva darlo,
-pe)rchè avea prestato il manoscritto alla Procura-
tessa Caterina Dolfin Tron, moglie a quell'An-
drea Tron, tanto potente allora in Venezia, che
lo chiamavano per antonomasia il Padrone. Or ecco
come l' intreccio del curioso romanzo s' avviluppò.
Anche questa Dama (non si sa bene se per mal-
talento o per gelosia) odiava il Gratarol. Da un
lato adunque la Ricci, che volea vendicarsi del
Gozzi, e la gran Dama, che volea vendicarsi del
Gratarol. Dall' altro il Capocomico, che, innamo-
rato deluso, contava almeno ricattarsi della scon-
PREFAZIONE. CLXXVII
fitta amorosa coi profitti sicuri d' una difiTama-
zione teatrale,' ed il Gratarol, che propalava ai
quattro venti la sua disgrazia prima ancora che ,
gli fosse toccata. Per ultimo, e nel fondo del qua-
dro, il gran pubblico Veneziano^ che già era a
parte del segreto e già pregustava 1' acre delizia
d' uno scandalo che comprendeva le aule de' ma-
gistrati, il salotto d' una gran Dama e le quinte
del palco scenico. A farla breve,! per quanto il
Gozzi ostentasse un gran zelo, a fine d' impedire
la rappresentazione del Dramma, la -segreta in-
fluenza della Dama, i raggiri del Capocomico, la
perfidia della Ricci e la scioccaggine del Gratàrol
furono più forti di lui e la sera del io Gen-
naio 1776 (stile Veneto) 1777 (stile comune*) la
folla pigliava d' assalto il teatro per veder messo
alla berlina dal celebre autore delle Fiabe un Se-
gretario del Senato di Venezia. ' Fino la derelitta
* Memorie, òit. Parte 2. Gap. 32, pag. 287.
* « La Cancelleria Ducale, scrive il Morpurgo, si disse
con espressione altreiianto efficace, quanto veritiera, il cuore
dello Stato, Ufìicii vitalizi erano soltanto 'quelli del Doge e
dei nove Procuratori di S. Marco; tutti gli altri, essendo ili
brevissima durata e spesso colpiti di contumacia, si doveva
trovar modo di custodire le tradizioni e le buone consuetu-
dini amministrative dello Stato. La Cancelleria ducale, supe-
riore di dignità alle burocrazie dei nostri tempi. ;.► dovette :
rispondere a questo bisogno. In essa si compilavano tutti gli
atti per le cause « in Serenissima Signoria e in pien Col-
legio. » Era formata da tre classi di Segretarii: tenevano
il primo posto i quattro del Consiglio dei X; poi i cin*
quanta del Senato, da cui erano scelti gli ambasciatQri di se»
condo grado col nome di Residenti; finalmente i Notar i
Masi. . /
CLXXVIII PREFAZIONE.
moglie del peccaminoso Gratarol fii incontrata dal
Gozzi sulle scale del Teatro e la senti a dire, ri-
dendo: « ho voluto venir a vedere mio marito
sulla scena, * » Il Gratarol stesso sfidava da un
palchetto la tempesta. Essendo poi il dramma un
assai pallida cosa e le allusioni e la parodia tanto
fiacca, che un pubblico meno prevenuto avrebbe
potuto non addarsene neppure, così, ad ogni buon
fine, la Dama ed il Capocomico provvidero che
l'attore Vitalba, il quale faceva la parte di Don
Adone ed avea qualche ra3somiglianza col Gratarol,
imitasse il vestiario,^ l'andatura, gli attucci, la pet-
tinatura di lui, sicché il pubblico a prima vista lo
riconoscesse.* La indovinarono. Lo scandalo fu
immenso ; ad ogni apparire di Don Adone gli urli,
le risate, gli applausi parevano sobbissare il teatro,
ed il giorno dopo il povero Pier Antonio Grata-
rol, che àvea durato impavido tutta la sera a quello
strazio, era divenuto il ludibrio di tutta Venezia.
Tentò ogni via di schermirsi e di vendicarsi e non
gliene riesci nessuna. Alla fine, disperato, fuggii
A Stokolma pubblicò una Narrazione Apologe-
tica, nella quale infamava il Gozzi, la Tron, la
in numero illimitato. » Op. cit. pag. no, ni. Il Gratarol,
quando gli accadde tutta codesta vicenda, stava per essere
nominato Residente a Napoli,.
^ Memorie cit. Parte 2, Gap. 32, pag. 289.
« Il Cantù nella Storia degli Italiani^ Tomo VI, dà il
nome detrattore, che rappresentò il Don Adone^ alla gran
Dama e la, chiama Caterina Vitalba. Cosi la Dama diventa
pedina, come la Turandot era divenuta maschio.
PREFAZIONE. , CLXXIX
*'
nobiltà e il governo di Venezia. Fu condannato a
morte in contumacia, con sentenza del Consiglio
dei Dieci del 22 Dicembre 1777,* pel semplice ti-
tolo d' essere uscito di Stato senza la licenza ne-
cessaria ad un ufficiale della Segreteria del Senato,
gli furono confiscati i bèni, sua moglie e la sua
famiglia furono ridotte all' indigenza ed egli, dopo
essere andato errando a Brunswick, a Stokolma,
in Inghilterra, a^i Stati Uniti, al Brasile, partì da
qui con alcuni avventurieri e chiuse miseramente
i suoi giorni al Madagascar nell'Ottobre del 178$.*
Questo singolare avvenimento è profondamente
caratteristico del tempo, della città e dei mali,
ond' era sordamente minata la forte e antica com-
pagine di quella società e di quel governo, che
per durata, gloria, sapienza e vigore d'institu-
zioni e alto sentimento di patria meritò d'essere
paragonato a Roma nei tejnpi antichi, e nei mo-
derni all'Inghilterra. Tutto s'è ora rimpiccolito,
uomini e fatti, e nel governo penetrano influenze
illécite^ ed una dubbia moralità inspira le decisioni
dei magistrati e un a/rbìtrio violento, che non im-
pedisce le colpe grandi, castiga le piccole con un
eccesso di rigore, da cui traspare la sua intima
debolezza. Quanto alla parte del Gozzi in ciò, che
^ E riferita nella Parte 2 delia Narra!(ione Apologetica
pag. LXXin. Ediz. cit.
* Memorie Ultime di P. A, Gratarol coi documenti
della di lui morte e dell' ingiustv(ia del Fisco* Veneto etc,
(Venezia, Zatu, 1797.)
CLXXX PREFAZIONE.
ho narrato, e alle accuse, che gli furono date, e
alle difese, ctf egli ha scritte di sé medesimo, la
convinzione, eh' io mi sono formata, confrontando
diligentemente la Narratone Apologetica: del GraL-
taro! con le Metnorie^ * con la Lettera Confuta-
toria^ e col Dramma: Le Droghe d'Amore^ del
Gozzi, è la seguente. L' allusióne satirica al Gra-
tarol esiste nel Dramma e fu deliberatamente vo-
luta dal Gozzi. Se però essa fosse rimasta nelle
proporzioni, eh' ei le aveva date, pochi certamente
l' avrebbero avvertita e poco danno avrebbe potuto
fare al Gratarol. La costui imprudenza, il malvo-
lere delle due donne e la bassa cupidigia del Ca-
pocomico gonfiarono invece al di là d' ogni pre-
visione possibile l' entità della satira. Ma questo
fatto èra già visibilissimo prima della rappresen-
tazione, ed il Gozzi, che avrebbe potuto, volendo,
impedirla, non agi a t|l fine con sufficiente riso-
lutezza e lealtà, mentre il Governo dal canto suo
autorizzò e protesse lo scandalo. Da ultimo il Gra-
tarol, testa debole, la smarrì del tutto in tale fran-
gente e fu in massiipa parte autore della propria
rovina. Queste conclusioni, che a me sembrano
esatte, gettano, non v' ha dubbio, una brutta om-
* Memorie cit, Parte 2, Capitoli 20, 21, 22, 23, 24» 25,
26, 27, 28, 29, 3o, 31, 3-2, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41,
42, 43, 44.
* Gozzi, Lettera Confutatoria da me scritta Vanno
ijSo e indiri:(^ata a Pietro Antonio Gratarol a Stokolnu
In principio del Voi. 3 delle Memorie cit.
'^ Stampato in fine del Volume 3 delle Memorie cit.
PREFAZIONE. CLXXXl
bra su Carlo Gozzi e sii Caterina Dolfin Tron,
della quale il Gozzi stesso, nel dedicarle la Afar-
fisa Bi^arra^ aveva lodato l'ingegno, T animo
franco e la lingua sincera, non meno che il por-
tamento leggiadro, i gigli e le rose del colorito e
l'oro dei capelli,* e che nella storia letteraria ita-
liana è conosciuta principalmente come la protet-
trice di Gaspsu-e Gozzi, a cui soleva dare fami-
gliarmente iJ dolce nome di padre,^ Caterina fu
certamente una delle più illustri donne del patri-
ziato Veneto negli ultimi tempi della Repubblica.
Fu ambiziosa, potente, invidiata. Perciò ebbe de-
trattori fìerissimi in vita, e dopo morte furono
molto diversi i giudizi sul conto suo. Di recente
le si mostrò avverso V Urbani De Gheltof ; ^ apo-
logista forse troppo indulgente il Castelnovo, il
quale però aggiunse nuovi documenti ai già noti
del vivo ingegno di lei. ^ Pare indubitato che lo
1 Cablo Gozzi,* Opere, Ediz. del 1772 Tom. VII. Dedica
della Marpisa Bizzarra a S, E. la Signora Caterina Dot-
fino, Cavaliera e Procuratessa Tron. pag. 6.
* Vedi nelle Memorie di Carlo il Capii. 44. della Pane 2,
dove narra il caso pietoso del fratello Gaspare, che a 'Pa«-
dova preso da febipre s' era gettato nel Brenta. Riferisce in .
proposito un suo colloquio colla Tron. Vedi anche nelle
Lettere Familiari dì Gaspare (Opere, Ediz. cit. VoJ. 16) le
mplte sue lettere alla Tron e quella in particolare del io-
Novembre 1777.
3 In alcune appendici del giornate Veneziano: // Rin^
novampìto.
^ Enrico Castelnovo, Una Dama Veneziana del Se-^
còlo XVIII. Nuova Antologia. Second. Ser. Voi. 33^
CLXXXII PREFAZIOKK.
scandalo delle Droghe (T' Amore e del Gratarol e
la- parte, che ebbe Caterina in tutto questo malau-
gurato avvenimento, troncassero il volo alle am-
bizioni di Andrea Tron, il quale aspirava al Do-
gato. ' Ciò non tolse a Caterina di primeggiare
in Venezia e a questo fine veramente furono di-
retti gli sforzi di tutta la sua vita e le arti fem-
minee, con le quali passò dal talamo del Tiepolo
a quello di Andrea Tron, * di cui fu amante primia
che moglie, e che pure non seppe sciogliersi dalle
sue catene. Galante essa era di certo e la galan-
teria fu il segreto della sua potenza. Basta leg-
gere le sue lettere al Tron durante i dibattimenti
delle Leggi contro gli Ebrei e della Correzione
del 1775 per vedére, che filtri d^ amore e d'adu-
lazione sapea manipolare quella donna. ^ In pari
tempo la suu vendetta contro il Gratarol rivela
una violenza di passioni, che basta a dar ragione,
non foss' altro, delle maldicenze molte, che cor-
sero a suo carico. V ha chi pretende che in quel- '
l'occasiona ella si valesse dell'antico ascendente,
esercitato sul cuore del Conte Carlo Gozzi, e seb-
bene non s' abbia ancora documento sicuro di ciò,
^ Un epigramma del tempo:
Thronus Eques, sapiens, nupc Procarator,
At ilio si diadema negat Patria, sponsa dabit.
^ Era nata nel lySó, s^era maritata al Tiepolo nel 1755.
Fu annullato il matrimonio e sposò AAdrea Tron nel 1773.
^ Stupenda fra le lettere pubblicate dal Castelnovo la
lettera di Caterina Tron, 5 Sett. 1772.
PREFAZIONE. CLXXXIII
certo è Che il Gozzi non dice nelle Memorie tutta
la verità sulle sue relazioni con .Caterina prima
del Ì776. Furono più intime e più frequenti di
quant' egli voglia lasciar credere e queste dissi-
mulazioni, del Gozzi hanno sempre qualche riposta
cagione. Anch'esso interveniva ai Lunedì di Ca-
terina e forse rappresentava fra quella comitiva
fìlosofìstica (un bel giorno dispersa dai sospetti
del Governo) la parte, come oggi si direbbe, del-
l' estredia destra. ' Quanto a Caterina, essa avea
mente aperta alle novità correnti e animo libero
da pregixidizi. Non mi sembra fondata però l' ipo-
tesi del Castelnovo che il bellissimo sonetto della
Tron, da lui pubblicato, sia scritto dopo il 1789
e contenga quasi una profezia della rovina, che.
soprastava a Venezia per opera della Rivoluzione
Francese :
Si, cascarà /a mole de Piera^o,
Perchè xe un^oca deventà el leon,
Perchè nel fogo se descola el giazzo;
Ma mi fia d^un Dolfin, muger de un Tron,
Bato grinta, per Dio, mi no me mazzo
E se caseo, no casco in zenocchion.
i Vedi le Appendici dell' Urbani de GhelioF. Sulla chiu-
sura del Casino di S. Giuliano presso S. Marco V Urbani ri-
ferisce una canzone delP Abate Barbaro, che è una rivace
pittura dei Luni di Caterina. DelP Abate Barbaro, maldicente
emerito, esiste pure un opuscolo, stampato durante il perìodo
democratico e intitolato: U Abate Barbaro che tira a peni-
teìv^a un' Ex Patri:(ia^ che è una satira amara contro la
Tron. N'ebbi notizia dal Malamani.
CLXXXIV PRÈFAZ^NK.
Richiamando, come fa, il ricordo di Pier Grade-
nigo e dell'ordinamento dato da lui all'aristocra-
zia Veneziana, è chiaro» mi sembra, ch^ essa si
riferisce alle agitazioni interne della Repubblica,
forse a ijuelle della Correpone del 1775, ed il suo
sonetto esprime i sentimenti della parte aristocra-
tica più 'illuminata, siccome q.uello, assai noto, di
Lorenzo da Ponte in difesa di Giorgio Pisani, « il
Caio Gracco di Venezia in quei tempi. * » espri-
meva le passioni e gli astii - dei Barnabotti e dei
lóro aderenti. Se si potesse determinare che l'al-
lusione della prima quartina al
.... filosofo profondo,
Che unir sogna ai so corni anca el Ducal,*
si riferisce al Renier, che fu Doge nel 1779, e
alle cronache scandalose del secondo matrimonio
di 'lui colla Dalmaz, plebea,^ si stabilirebbe la
data approssimativa del sonetto. In ogni modo,
(se già quella frase: muger de un Tron non in-
dica che il Tron era anche vivo, e morì nel 1785)
non è ammissibile in una Patrizia Veneta, morta
nel 1793, una sì miracolosa chiaroveggenza d'un
' * Da Ponte, Memorie cit. Pane 1. — Romanin, Storia
Docum. cit. Tom. .Vili Gap, 6^ e 7. — Molmenti, Storia di
Vene:[ia nella Vit^ Privata etc. Parte 3.
* Ri tor(?c contro a^suoi nemici P epigramma latino sopra
citato, fetio contro di lei.
3 Dicesi anche ballerina da corda. Ma non è provato.
Vedi: MoLJiENTr, L^ Dogaressa di Vene:{ia, Gap. XVII.
^ PREFAZIONte. CLXXXV
intrigo politico, che fa parte delle ultime vicende
storiche della Rivoluzione Francese. La Tron non
resta mena per questo una delle figure più note-
voli e più caratteristiche del suo tempo, ma lo è
appunto perché; nella superiorità del suo spirito
e del suo ingegno, partecipava non poco anche
ai vizi, alle corruttele, e ai bassi istinti di prepo-
tenza e d' intrigo,, nei quali s'andava spegnendo
la vecchia grandezza della sua casta.
Teodora Ricci, l' altra eroina del triste romanzo
del Gratarol, nel 1777 ^^ ^' ^^^^ ^ Parigi nella
Compagnia dei Commedianti Italiani e vi rimase
circa tre anni. Nelle N6ti:^ie Istoriche dei Comici
il prudente marito parla di lei fino al suo ritorno
da Parigi, tace delle sue clamorose avventure, e
nasconde i suoi risentimenti sotto un* ammonizione
agrodolce, con la quale chiude V articolo della mo~.
glie. Francesco Bartoli era un buono e onest' uomo,
che non avrebbe meritato una simile donna per
móglie. Appassionato compilatore di curiosità sto-
riche dell? arte sua e delle belle arti, avea scritto
in gioventù anche commedie e tragedie ed era
stato attore valente anche all' improvviso. Fra U
canagliume istrionico della Compagnia Sacchi si
trovò, dice egli stesso:
O mal visto, o mal noto, o mal gradito. > '
i Vedi nelle Notizie Istpriche cit. la sua autobiografia
tino al 1781.
CLXXXVI PREFAZIONE.
Dopo gli scandali del 1777 si separò dalla moglie
ed è notevole, in uomo di così retta coscienza,
che dei tre figli della Ricci non ritenne con sé
che il primogenito. Neil' 82 si ritirò dall'arte e
visse a Rovigo, scrivendo anche libri ascetici e tutto
dato alla devozione. 'La Ricci invece, tornata che
fu da Parigi, entrò nella Compagnia del S, Gio-
vanni Grrisostomo a Venezia. Rivide allora il Gozzi,
e osò rivolgersi a lui con una lettera garbata,
dóve, toccando delicatamente la corda sensibile
del passato, lo pregava di donare alla sua Com-
pagnia un dramma, da lui già scritto per la Com-
pagnia deh Sacchi e mai rappresentato, intitolato:
Cimene Pardo. S'era ella avveduta che qualche
brace covava ancora sotto le ceneri? Le donne hanno
in ciò un intuito, che di rado dà in fallo. Fatto è
che, se l' amante non si fece più vivo, ' il poeta
la compiacque e le donò il dramma. L'artista lo
rimeritò, procurandogli l' ultimo forse dei suoi
trionfi teatrali! * Nel 1793 anche la Ricci lasciò il
teatro. Il pietoso marito la riaccolse ed e^sa, l' iste-
rica, tribolò gli ultimi suoi anni fino -al 1806, che
il Bartoli morì. Teodora finì pazza, circa nel 1824^
nello' spedale di S. Ser villo presso Venezia. ' A Fran-
^ Aveva a questiona 66 anni.
. « Memorie cit. Parte 3. Gap. 3, pag. 2o5 e ategg. Opere.
Ediz. idoi-i8o3 Tom. IX. Prefazione al Dramma Tragico:
Cimene Pardo, Tomo XI, Prefazione al Dramma Favoloso-
Allegorico: La Figlia del P Aria ossia V Innalzamento di
Semiramide,
8 Vedi in Tipaldo: ItaL Ittustri del Secolo XVIILT. IX.
puekazione. clxxxvii
Cesco Bartoli spetta quindi di pien diritto un bet
posto in quel famoso Teatro Celeste ài Giovan
Battista Andreini, nel quale si rappresenta come
la divina bontà habbia chiamato al grado di bea- ,
titudine di santità comici penitenti e martiri ' .,. .
Nessuno lo ha più meritato di lui 1 ^
Dopo gli avvenimenti narrati, anche la vitandi
Carlo Gozzi si abbuiò. Scioltasi la Compagnia Co-
mica del Sacchi, egli cessò poco dopo di scrivere
per il teatro. Avea ancora sul telaio molte altre
i Con un poetico esordio a scenici Professori di far
V arte virtuosamente per lasciare in terra non solo nome
famoso^ ma per non chiudersi viziosamente la via, che ne
conduce al Paradiso. Compiesi così il lungo titolo del libro
dell' Andreini, intorno al quale è da vedere lo studio del
Magni n: Teatro Celeste, Le Comédiens en Paradis, Revue
des Deux Mondes. Tom. IV A. 1847 P^g* ^^43-857. Cf. pure
il Moland, Molière et la Comédie Italienne^ Gap. Vili, ed il
Eascbet, Les Comédiens Italiens à la Cour de France^
Chap. VII. Questo bisogno di riabilitare Parte in cospetto
alle accuse, che specialmente la Chiesa le lanciava, fu spesso
sentito dai nostri vecchi Comici e Maschere della Comme-
dia estemporanea. Nel senso del libretto delP Andreini è
scrìtta: La Supplica di Niccolò Barbieri^ detto Beltramo^
Vedi: Moland Op. cit. Chap. IX, M. Scherillo, La Commedia
"dell' Arte in Italia^ Magni n, Op. cit.
* L'Attore Vitalba» che nel Dramma : Le Droghe d'Amore,
avea ùnta la parte di Don Adone, segui, dopo il Carnovale
1776-77, la Compagnia Sacchi a Milanb, dove fu ripetuto quel
Dramma. Una sera, mentre si recava al teatro, gli fu da
ignota mano lanciata sulla faccia una bottiglia d'inchiostro,
che per poco non lo deformò. Si sospettò di un mandatario
del Graurol. Così insinua il Gozzi nelle Memorie. Parte 2.
Cap. 45, pag. 43 1-2 2.' Il Gratarol nella Narraj^ione Apologe^
tica^ pag. i3o 31, narra il fatto e respinge da sé questa taccia.
CLXXXVIII PREFAZIONE.
opere, ma, disgustato, diede un caldo a tutto e
non n^ volle saper più altro. ' Pareva eh' ei s' ac-
corgesse per la prima volta, e come allo svegliarsi
da tutto il suo sogno fiabesco, che la vita ha pure
un lato serio e tristo per tutti e che « non si può
sempre ridere, ^.y> Era più solo del solito e forse
un po' abbandonato ; la morte gli rapiva ad uno
ad uno fratelli, sorelle, amici; la sua salute co-
minciava ad alterarsi. Tuttociò lo facea immalin-
conire e ( strano a dirsi del Gozzi, derisore impla-
cabile dei sentimentali e dei piagnolosi,) i suoi
« riflessi filosofici s^ accostavano alquanto a quelli di
Young,' » lo scrittore sentimentale, più degno forse
delle sue derisioni 1 Comunque, nei versi, che in
questo tempo il Gozzi andava ahcora componendo^ '
si mescolano all'antica sua vena burlerà insoliti
accenti dolorosi, che ben dimostrano lo stato del-
l' animo suo. ^ A poco a poco il poeta si spense in
lui quasi del tutto, e gli^ottentrò una vecchiaia ipo-
^ Memorie cit. Parte 3, Gap. 3o, pag. 208. Oltre alle Dicci
Fiabe, il Gozzi ha composto altre ventitré opere teatrali, senza
contare le traduzioni, ìn un periodo di circa vent^anni.
* Memòrie cit. Pane 3, Gap. 4. Ibid.
s Metkorie cit. Ibid. pag. 211.
^ Vedi il sonetto a pag. 212 delle Memorie Parte 3. Gap, 4.
e al N. 93 del Saggio Bibliograf, in fine del Voi. 2, le Ot-
tave in Morte di Daniele Farsetti. Dopo il 1777 la sua di-
sposizione pessimista scatta ad ogni proposito. La satira è
più impersonale, ma più amara. In un sonetto, cheé inedito
io credo, e che mi fu favorito dalP egregio Sig. Gonte Ti-,
berio Róbeni di Bassano, il Gozzi ad una ballerina che dan-
zava a Mestre $ul Teatro Balbi nel 1779, scrìve:
PREFAZIONE. CL^XXIX
condriaca, travagliata di mali mezzo immaginari e
mezzo reali e tutta occupata di affiirucci e di fac-
cenduole, la quale fa un contrasto più strano di
quello, che tocca a tutti, con la sua giovinezza e,
non dirò, con la sua virilità, perchè mi sembra che
questa manchi nella vita del Gozzi. L' amore di
Teodora protrae la sua giovinezza, e quando que-
sf ultima illusione gli sfugge, egli piomba, senza
trapasso e senza gradazioni, nelle ombre nialinconi-
che della vecchiaia. Dalle poche lettere, che di lui si
conoscono, relative a questo tempo, massime dalle
inedite dirette al suo amico Innocenzo Massimo
ed al figliuolo, le quali vanno dal 1785 al 1788,31
rileva eh' egli ora s' occupava di negoziare in mer-
letti e tele, in caffè, cinnamomo e cacao, in Ma-
laga e Cipro, talvolta in carrozze, tal' altra per-
sino in capponaie, non sdegnando neppure di of-
frire la sua mediazione a chi voleva far aggiustare
cocci rotti. ' Una sua lettera inedita del 6 Feb-
Brami che al tuo valor plauso trabocchi?
Troppo modesta danzi e troppo schiva,
Attributo modestia oggi è da sciocchi.
Saetta il. spettatore danza lasciva,
Nop tener neghittosi i tuoi begli occhi
E udrai tnonar gP immensi applausi e i viva.
La ballerina avrà trovate probabilmente molto inutili codeste
raccomandazioni del rigido poeta.
1 Vedi gli Estratti di lettere a Innocenzo Massimo pub-
blicati da Vittorio Malamani nel suo stadio: / Go:{{i nella
Nuova RivUta di Torino N. LVIU-IX-X.
CXC -PREFAZIONE.
b^aio 1785, more veneto, 1786, stile comune, favo-
ritami dal Sig. Conte {Tiberio Roberti,' conferma
appunto ciò che ho> testé detto di lui. E senz^
indirizzo :
« Amico amatissimo, delle monete non vi date
pena. Alcuni brutti zecchini Veneti, papalini, gi-
liati e pezzette d'oro furono prese dal Megere
senza bilancia. Un quarto di lisbonina, e mezza
doppia del Papa sono scarsissimi, ma per un ac-
cidente fortunato non vi sarà nessun divario. Ri-
guardo al fornimento, per quante ricerche faccia,
non trovo niente di Fiandra. Vengo assicurato che
di Fiandra qui non viene più nulla e che l' impo-
stura sola mantiene il * titolo di Fiandra. Mi si dice
che vengono qui dei bellissimi fornimenti di Sle-
sia. Mi fu data la traccia di far ricerca alli Si-
gnori Heinzelman, mercanti di tutta probità, da me
conosciuti. Oggi mi porto da quei Signori. È certo
che se trovo ivi il fornimento, si avrà di prima
mano e ad assai miglior prezzo che nella Merce-
ria, la quale si provvede da lui (sic) per corbel-
lare i poveri compratori.
Il Minio, rigattiere, mi disse che se toccherà a
lui certi mobili d' una famiglia, che sono in ven^-
dita, avrà da servirmi, ma questa è cosa lunga e
non a proposito. Se mi riesce di trovare codesto
fornimento ditemi Se devo spedirvelo tosto o te-
nerlo alla vostra venuta. Quando averete condotta
la, sposa in casa, averete fatto il più: tutto il'resto
PREFAZIONE. CXCI
vi servirà di passatempo. Dio voglia che i tempi
buoni resistano per vostro minor tracollo. ' La
Cimene si è replicata anche iersera * per' la recita
diciasette con somma fortuna. Non so se tjuesta
sera si replichi ancora, perchè non sono ancora
uscito di casa. Ho la testa frastornatissima da
mille imbrogli. Riverite tutti. Addio. Vostro fed.
S.** e Amico, Carlo Gozzi. »
In questa lettli-a il poeta delle Fiabe non si
riconosce più. Pare scritta da uno dei Rusteghi
del Goldoni e tanto più singolare riesce quell' ac-
cenno alla recita della Cintene^ il dramma eh' egli
avea donato alla Ricci. È come un ultimo baleno,
che striscia sul buio! Era sempre impicciato nella
tregenda economica di Casa Gozzi, e contuttociò
non pare ch'egli fosse assolutamente povero. Ma
si lagna sempre e, se non degli affari, si lagna
della sua salute. Al Massimo descrive e ridescrive
infermità, tossi, raffreddori, reumatismi, flussioni.
« Le nostre lettere, gli dice in un lucido inter-
vallo, si potrebbero intitolare: ga^^iette ipocon-
drìache!^ » Eppure dalla poesia e dal teatro non
si dbtolse mai del tutto, se anche nel 1799 e 1800
1 Ma tracollo era pur sempre! In generale egli fu av-
verso al matrimonio.
< È ciò che mi fa ritenere scritta more veneto la data
6 Febbraio 1785 di questa lettera. La Cimene Pardo fu rap-
presentata nel 1786.
3 Vedi Malamani, Op, cit.
CXCII PREFAZIONE.
faceva rappresentare suoi drammi * e se fino ai
1805, penultimo di -sua vita, si,,occupò dell'edi-
zióne delle sue Opere, rompendo le uhime lancie
Jn difesa delle sue Fiabe^ de' suoi Drammi alla.'
Spagnuola e, quel che è più, in difesa d^le sue
vecchie idee morali e politiche. Ciò basta a farci
conoscere con che animo egli avrà assistito agli
avvenimenti del 1797 e alla caduta della Repub-
blica. Nelle Memorie non è libero di scrivere su
questo argomento. Venezia era '^i balia degli ul-
tra-democr$itici e si sa bene che libertà lasciano
costoro a tutti quelli che fion pensano a loro
modo. Il Gozzi adunque dice poche parole, sugli
effetti della Rivoluzione Francese nella sua patria:
« Venezia non* restò . illesa dall' essere colta nel
cerchio di quella tremenda ondulazione.... Un
dolce sogno della fisicamente impossibile Demo-
crazia organizzata e durevole, fece urlare, ridere,
ballare e piangere. ^ » E in cospetto di questo
baccanale, odioso al suo cuore di vecchio gentil-
uomo Veneziano, si vanta d' aver predetto, circa
quarantanni prima, le ruine morali, che avreb-
bero cagionato le dottrine filosofiche francesi, ve-
nute allora di moda. Poi ripiglia: « Al dolce so-
gno della fisicamente impossibile democrazia noi
* Annibale Duca d'^ Atene, La Donna Contraria al Con^
sigliOy .e // Montanaro Don Giovanni Pasquale, dove nella
Scena IV dell' Att 3, introduce per l' ultima volta la polemica
letteraria fra me^zo alle vicende romanzesche del Dramma.
• * Memorie cit. Parte 3, Gap. ultima, pag. 340.
PREFAZIONE. GXCIII
vedemmo sviluppare.... ' » E lascia in tronco, e
su questa reticenza le sue Memorie si chiudono.
Dirlo per questo un oscurantista, un retrogrado,
come molti vollero, è non intenderlo affatto. La
sua avversione a quelle novità è la forma del suo
patriottismo e quanto a Venezia non si potrà certo
dire ch'egli si fosse ingannato.
Più invecchiava e più le brighe lo stringevano.
Sempre nuove liti forensi, sempre parenti impo-
veriti che si rivolgevano a lui. Il poeta delle Fiabe
era un uomo d' affari e godeva la fiducia di molti,
che gli confidavano i proprii interessi. Non dico
della famiglia Gozzi, di cui fu indubitabilmente la
testa più solida e meglio organizzata. Con Ga-
spare, cogli altri fratelli, con le mogli di questi,
coi nipoti fu buono e tollerante'. Brontolava, ma
poi non cessò mai di prendersene cura, sicché mo-
ralmente la vecchiaia di Carlo Gozzi vai meglio
della sua gioventù, entro a quell' orizzonte ristretto
e meschino, in cui la sua vita era andata a finire.
Due delle sue lettere, e ancora inedite, lo diranno
meglio d' altre parole. La prima è ad un suo fra-
tello, in data 22 Febbraio 1803:
« Carissimo Fratello, ho ricevuti i tre capponi,
ma, vi dico il vero, mi sono rincresciuti i soldi
spesi in posta, perchè sono tre scheletri verdi, e
fo assai male P ultimo giorno del Carnovale. Ps^-
i Ibid. pag. 341.^
Ma8L m
CXCIV PREFAZIONE.
zienza. Per il vostro conto, il residuo del mio fru-
mento è stara sedici, quarte tre. Sento eh' egli è
giunto di prezzo a lire 79. Dalle cose che vedo
qui credo che voglia crescere più ancora. Atten-
derò sino verso l' Aprile a venderlo, perchè la mia
sussistenza in quest'anno dipende dal mio poco
frumento, non poteùdo qui riscuotere affitti, e
sono in atti forensi. Non parliam9 di organizza-
zione. U organo è conquassato e si dice che si la-
vori in una enorme redecima, (sic) Sarà quello che
Dio vorrà. Se alla vostra venuta troverete modo
di organizzare la vostra famiglia, gli imbarazzi
co' nipoti fuori, e con Checco, che m'é addosso
ogni momento, vi stimerò un grand' uomo. Addio.
Vostro AflF.mo Fratello Carlo Gozzi, ' »
La seconda lettera, che è del 22 Ottobre 1805,
è diretta ad una sua nipote, la Contessa Ernesta
Gozzi, a Pordenone:
« Riveritissima Sig. Nipote, ebbi carissimi gli
augelletti e la ringrazio molto. Giunsero in parte
sani e in parte guasti, ma U giudicai tutti sani,
essendomi inviati dall'animo suo sano e. cortese.
Si persuada che de' pensieri molesti che ho e dei
pesi insoffribili, che porto sforzatamente, mi sono
ridotto a condannare soltanto la stella maligna^
^ L'autografo è nella Biblioteca Civica di Bassano. Col-
lezione Gamba. E ne debbo copia al Bibliot. Sig. Dott. Oscar
Chilesotti.
PkEFAZiOME. CXCV
sotto a cui nacqui. Se l'età mia fosse alquanto
più fresca, non mi lagnerei nemmeno di questa
stella. Fui a visitare giorni sono la mia Tiranna, (?)
la quale mi disse che un suo fratello, passando
per Pordenone, fu a visitar lei e di averla tro-,
vata pingue e ih ottimo stato, di che ebbi conso-
lazione. Il mio raffreddore segue, ma è per me il
più picciolo de' miei pensieri, e non fo alcun di-
sordine per accrescerlo. Avvicinandosi il giorno,
in cui si dispensano le fave ai fanciulli, mi prendo-
la libertà d'inviargliene alquante, ond'elia possa
fare l'uffizio di madre in questo proposito. A tal
tenue spedizione mi persuade il credere che a Por-
denone vi siano de'ca;ttivi fabbricatori di un tal
genere. Sono riconoscente alle sue cordiali espres-
sioni e la prego a credere ch'io mi dichiaro cor-
dialmente. Suo Aff.mo Zio Carlo Gozzi. ^ »
E questo è il vero Gozzi, non quello che la stella
maligna dei Contrattempiy riapparente in questa
lettera, trasmuta per certa critica fantastica in un
negromante, dileguatosi insieme con le Maschere
della Commedia dell'Arte nel gran turbine della
Rivoluzione Francese. Allorché tutto in questo
andò travolto, il Gozzi anzi si ritirò più che mai
in sé medesimo, più che mai si tenne saldo alle sue
veiichie idee, e le ultime parole, che scrive, concor-
* LUutografo è ne! Museo Correr di Venezia* Ne ebbi
copia dal Malamani.
CXCVI • PREFAZIONE*
dano perfettamente colle prime. Di tale contiguità
e di tale fermezza è giusto dargli lode e mi sembra
che riscattino molte delle sue antiche cattiverie e
debolezze, e rialzino non poco il valor morale della
sua vita, come uomo e come scrittore, poiché ap-
punto i grandi rivolgimenti politici e sociali sono
la pietra del paragone per saggiare i caratteri e
vedere chi ha vacillato e chi no in tali frangenti.
Carlo Gozzi morì il 4 Aprile 1806, in età di
86 anni. ' Il suo testamento, scritto di suo pugno
il 13 Febbraio 1804, liell' abitazione di lui «posta
nel Campo della contrada di S. Michele Arcan-
gelo » (S: Angelo) si chiude con le parole se-
guenti: « Ricordo a' miei Nipoti figli de' miei fra-
telli e figli loro il timore di Dio, P osservanza alla
loro Religione e Precetti della santa Chiesa, l' ob-
bedienza al loro Principe, i sentimenti di probità,
di carità, di sincerità, di gratitudine, la modera-
zione nel misurare ed economizzare le loro ren-
dite, certo essendo io che tali ricordi esatamente
(sic) eseguiti saranno loro più utili di qualunque
i i Ne dà notizia certa il Meschini, Della Letteratura Vene-
\iana.del Secolo XVIII. Tom. II, pag. 134, (Venezia, Palese
[806) còlle parole: « in grande età morì ai quattro dello scorso
Aprile 1806, » la data stessa deiPediz. dell^ opera. Nel Diario
di Emanuele Cicogna al Museo Correr (così mi comunica
il Malamani) è ricordato che Carlo Gozzi fu sepolto nel-
P Arca appiè delP altare della Madonna nella Chiesa dt S. Cas-
siano. Quest* arca fu comperata nel 1 757 per la famiglia Gozzi
da Antonio, padre di Gasparo e di Carlo. Sull'Arca stava
P iscrizione: Sepulcrum de Go:({i. Oggi non esiste più.
PREFAZIONE. - CXCVII
successione ed eredità, vedendosi per esperienza
che per tutti gli uomini che trascurano questi
sopra accennati principii, e si abbandonano alle
passioni e ai capricci, nessuna facoltà è sufficiente ;
si riducono a martirizzare la loro mente ne' rag-
giri, cadono nelle azioni inoneste, perdono ogni
traccia di ripara a' loro disordini, s' involgono
d' abisso in abisso, si rendono indegni della grazia
e dei soccorsi di Dio, e si acquistano Tabborri-
mento di tutti gli uomini.... I commissari che
sono da me ordinati, nominati e pregati all'ese-
cuzione delle mie testamentarie disposizioni qui
sopra espresse è comandate, sono mio fratello Al-
morò e il di lui figlio Gasparo, tanto uniti che
separati, persone da me conosciute pontuali, ono-
rate e impuntabili, raccomandando al detto niio
Nipote Gasparo figlio di mio fratello Almorò di
conservare l'affetto alla sua ben educata, morige-
rata, buona moglie e di aver somma cura alla
educazione de' suoi figli, tenendoli diffesi (sic)
dalle false massime della sofistica perniziosa scienza
del secolo, che ha rovesciata tutta la umanità in
una nebbia di confusione, e in un laberinto di
infelicità e di miserie. * » Così Carlo Gozzi s' ac-
comiatava dal suo tempo.
^ Archivio di Stato di Venezia. Sezione Notarile. Negli
atti del Notaio Raffaelle Todeschini (Busta i). Il testamento
fu aperto il 4 Aprile 1806 (il che conferma la data della
morte) ad istanza del Nob. Sig. Francesco Cozzi q. Gasparo,
di lui nipote, e v^è inserito un Memoriale di Carlo del 28
CXQVIII PREFAZIONE.
Ed ora, per conchiudere anche neil giudicare il
poeta, non c'è, mi sembra, che da collocarsi in
un punto mediò tra gli entusiasmi dei Romantici
stranieri e certi dispregi troppo dogmatici e tra-
dizionali della critica letteraria Italiana. I Roman-
tici hanno separato il Gozzi dagli antecedenti, che
na nella nostra storia letteraria; lo hanno para-
gonato, come poeta drammatico, ad Aristofane ed
allò Shakespeare e come umorista al Richter, allo
Swift, allo Sterne; hanno alterato la sua indole e
le circostanze più comuni della sua vita; hanno
fatto di lui un personaggio leggendario, della Ve-
nezia del suo tempo una città di rimbambiti, che
volentieri tornava ai trastulli dell' infanzia, é delle
Fiabe una creazione istantanea, sbucata di sotterra
ad ora fissa, affinchè quella città avesse la lette-
ratura, che meritava. Tuttociò non è conforme
alla realtà. L'Italia aveva avuta una Commedia
dell' arte ed una Commedia popolare scritta. * Ne-
gli Scenari della Commedia delV Arte^ in quelli
di Flaminio Scala, per esempio, si trovano già le
fantasmagorie delle Fiabe Gozziane, e le Maschere
mescolate a' personaggi eroici, e la scena in China,
nel Marocco, in Persia, irt Egitto.' Gli esemplari
Die. 1784, diretto ai fratelli e Nipoti. Debbo anche questo
iiii«ressaniissimo documento alla cortesia del Cotnm. B. Cec-
chetti, Soprintendente degli Archivi Veneti.
^ Vedi P importante Introdu:(ione del Prof. Adolfo Bar-
toli agli Scenari inediti della Commedia dell' Arte, (Firenze,
Sansoni, 1880.)
« Molano, Op. cit. Chap. IV.
PREFAZIONE. CXCIX
Spagnuoli avevano già servito a molti, e princi-
palmente, sul gusto del Gozzi, a Gio. Battista An*
dreini. Il Calmo ed il Ruzzante avevano già ten-
tato inalzare gli umili intenti della G>mmedia
popolare e rusticale. * Carlo Gozzi dice finalmente
egli stesso che queste, e non altre, sono le tradi-
zioni teatrali, che volle raccogliere e conservare.
Non parliamo delle contraddizioni, entro alle quali
il Gozzi si dibattè nell' attuare il suo disegno. So-
stenere le Maschere^ parodiare gli avversari, rifare
il fantastico del Pulci e delP Ariosto, toscaneggiare
come il Burchiello, ed essere popolare a Venezia,
ricostruire il vecchio e comparir nuovo sono tutti
( dice ottimamente il De Sanctis ) « fini transitorii,
i quali poterono interessare i contemporanei, dargli
vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che
oggi sono la parte morta del suo lavoro — Ciò
che Testa di lui è il concetto della commedia po-
polana in opposizione alla Commedia borghese....
Le Maschere rimangono nella sua composizione
come elementi d'obbligo e convenzionali.... Il
contenuto è il mondo poetico, com' è concepito dal
popolo avido del maraviglioso e del misterióso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. Questo
mondo dell' immaginazione è la base naturale della
poesia popolana — La vecchia letteratura se n' era
impadronita; ma per demolirlo, per gittarvi dentro
^ M. Sand, Masqties et Bouffons cit. Tolom^i, Delle Vi-^
cende del Vertìacolo Padovano nelP Opera: Dante e Po^
dova, (Padova, Prospcrini, 1865.)
ce ^ PRBFA2I0NK.
il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare
questo mondo .... draainnatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della
commedia a soggetto, questo osò Gozzi in pre-
senza di una borghesia scettica e nel secolo de' lumi,
nel secolo degli spiriti forti e de' belli spiriti.
E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel
mondo ha un valore assoluto e risponde a certe
corde che maneggiate da abile mano d' artista
suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di
sé più o meno del fanciullo . e del popolo. ' E poi-
^ Non posso a meno di cit&re, quasi a commento di que-
sti bei pensieri del nostro De Sanctis, i versi del La Fontaine :
• Si Peau d' Ane m* etait conte
J'y preodrois un plaisir extrème,
Le monde est vieux, dit-on: je le crois; cepcndant
11 le faut amuser encore cornine un enfant. •
(Fables, Livre Vili, Fobie 4: Le Pouvoir des FablesJ
E questi altri del Voltaire nei Contés en Vers:
• 0 V beureux temps que celui de ces fables,
Des bona démons, dea esprit* familiera,
Dea farfadets, aux mortels aecourables!
On ecoutait tous ces faits admirables
Dans soli chàteau, près d' un large foyer.
Le pére et L'onde, et la mere et la fille,
Et les voislos, et toute la famille,
Ouvraient V orellle a monsieur 1' aumonler,
Qui leur faisait dea contea de aorcier.
On a banni lea démons et Ica fées:
. S0U8 la raison les gràces étouffées
Livrent noscoeurs à T insipidite;
Le raisonner tristement s'acpredite:
Où court, helaal ùpréa la vérité;
Ahi croyez-moi, V errcur a son ménte. •
(Nel Racconto intitolato: Ce qui pìait aux Dames,)
PREFAZIONE. CCI
che il pubblico s'interessava ancora alla comme-
dia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le
conclusióni ragionevoli fossero possibili in mezzo
alla disputa, che tutti e due i generi erano con-
formi al vero, V uno rappresentando la società bor-
ghese nella sua mezza coltura e V altro il popolo
nelle sue credulità e ne' suoi stupori. ' » Se non
che questa larghezza di pensiero non era propria
della critica letteraria italiana contemporanea del
Gozzi, o immediatamente a lui succeduta, e fino
al Foscolo. Essa non dava alcuna importanza alle
tradizioni raccolte da Carlo Gozzi; avea in orrore
il fantastico ed il meraviglioso; nulla potea farle
vincere il fastidio di quella certa sua goffaggine
di lingua e di stile, nella quale cascò troppo spesso.
Ciò non toglie che in Carlo Gozzi non sia giusto
riconoscere un ingegno vivissimo, una grande abi-
lità teatrale, una vena straricca d'ironia, di stra-
vaganza e di satira, una libertà ed un' audacia di
forme, meritevole anche oggi di ammirazione e
di studio. Che se negli abbozzi frettolosi delle sue
Fiabe non si riscontra, come nello Shakespeare,
una compiuta fusione del fantastico col vero, del
soprannaturale col reale, egli è che a lui difettò
alquanto l'arte di unire i materiali, che non in-
ventava del tutto, bensì raccoglieva qua e là ; egli
è che nelle sue Fiabe prevale non già il fantastico,
bensì il meraviglioso, lo spettacoloso anzi, che dal
1 Db Sanctis, Storia della Len. Ital. Voi. II.
CCII
PREFAZIONB.
fantastico è moralmente ed esteticamente diverso.
Di più, dove la sua satira è parodia, neppur essa
poteva aver lunga vita, perchè la parodia si dis-
solve col tempo, che l' ha vista nascere, e si giova
dell'attualità, fin' anco nelle parole. Ciò non ostante
Carlo Gozzi, più forse di tutti gli scrittori suqi
contemporanei, sentì ventarsi sul viso l'aura dei
tempi nuovi, che si approssimavano, e nell' ese-
crarli palesò il presentimento storico della cata-
strofe, che stava per accadere.
Ernesto Masi.
LE FIABE DI CARLO GOZZI
ANALISI RIFLESSIVA
DELLA FIABA
L 'AMORE DELLE TRE MELARANCE
RAPPRESENTAZIONE DIVISA IN TRE ATTI
Io me nUfidrà coìh barchettn mii,
Quanto !' acqua comporta i3n picelo I Icftto;
E ciò, chMo pensa colla fantasìa,
Dì piacere ad ognuno à il mio disegno;
Convien, che varie cose al mondo sia,
Como son vani voUi^ e vario ingegno;
E piace air uno il bianco^ air altro il peno,
O diverse materie in prosa, e in verso.
Ben so^ che spesso, come già Mor^nte^
Lasciato ho forse troppo andar la ma^za^
Ma, dove sia poi giudice bastante.
Materia cU da camera, e da plaxza:
Ed awien^ che chi usa con gigante
Convicn, che se ne appicchi qualche sprazia^
SicchHo ho fatto con altro battaglio
A mosca cieca, o talvolta a sonaglio.
PuLa, Mo«<^4HTB| Conto Mf,
PROLOGO
UN RAGAZZO NUNZIO ALL* UDITORIO
vostri servi tor Comici veccbì
Sono confusi e pieni di vergogna,
1 E sun qui dentro, ed han b^ssl gli orecchi
E i VÌA) mesti più, che non bisogna,
Perch^ anno udito moki a dir r siam secchi ;
Costor pasco FI V Udienza di menzogna
Con le Commedie^ che puzzan di muda:
Questo è uno a^rbo, una burls, una CruSa.
Io vi giuro per tutti gli Elcmcmì
Che per riacquistare il vostro amore.
Si Idscìerebbon cavar gli occhi e r denti,
E m^han spedito a dir velo di core;
Ma state chete, care bcjone genti.
Per un momento lasciate il furore.
Tanto Mìo dica di^e parole; e poi
Fate di me ciò, che volete toJp
Più non sappiamo omaif come sì possi
Q Pubblico appagare in sulle acene.
Un anno par^ che lode abbia riscossa
Ciò, che neir altro poi non va più bane.
yy
PROLOGO.
La ruota del buon gusto è cosa mossa
I)a una cert^aura, che intesa non viene;
Solo sappiam, che, dov^ è maggior folla,
Si bere meglio, e il ventre si satolla.
Oggi per tanti intrecci, e tante cose,
E pc^ tanti caratteri e successi.
Devono le Commedie esser succose,
E d'accidenti inaspettati, e spessi.
Che noi slam con le menti paurose,
E ci guardiam Tun l'altro, e stiam perplessi:
Ma, perch*è pur necessità il mangiare.
Vi torniam colle vecchie a tormentare.
Non so, Uditor, chi la cagione sia,
Che l'appagarvi a noi renda impossibile*
A noi, che pur con tanta cortesia
Fummo trattati un di, sembra incredibile. .
Che sia di ciò cagion la Poesia?
Basta, nel mondo tutto è corruttibile,
E d'ogni cosa abbiamo pazienza;
Ma l'odio vostro è troppa penitenza.
Tutto vogliamo hr dal canto nostro;
Anche Poeti diventar possiamo.
Per acquistar di nuovo l'amor vostro;
E già Poeti divenuti siamo.
Baratterem le brache in tanto inchiostro.
Per tanta carta il mantel dar vogliamo,
E se talento non* abbiamo in dono,
Basta, che piaccia a voi, perchè sia buona
Vogliamo in scena por Commedie nuove,
Cose grandi, e non mai rappresentate.
Non mi chiedete quando, come, o dove
Abbiam le cose nuove ritrovate;
Che dopo un seren lungo, quando piove,
Novella pioggia quella pur chiamate;
Ma bench' ella vi sembri pioggia nuova.
Fu sempre piova l' acqua, e l' acqua piova»
PROLOGO* ' 5
Non Iran t\itie le cose all' infinito.
Quello, ch'i capo un dì^ ritorna co4a.
Quftkhe antico ritratto avri un vestito,
Ch^oggì vedmm ritornalo alta moda.
L" amor, T opinione, e T appetito
Fan che per bello e buon lutto si goda,
E noi possiam giurar, ebe poco, o aasai
Queste Commedie non vedcsic mai.
rkgU argomenti abbiamo per le mani, ^
Da fer i vecchi diventar bambini,
I pazteoci Genitori umani
Condurran certo i loro fantolini.
Non verranno i talenti sovrumani^
E pa^tienza avrem, che già i qu aurini
T^on odoriam per sentir, se han fragranza,
O sappian di dotirinn, o d' ìgnoranit*
D'inaspettati casi vederete
in questa sera un^ abbondanza grande,
Maraviglie, che udite aver potete.
Ma non vedute dalle nostre bande.
E bestie, e porte, ed uccelli udirete
Parlare in versi, e meritar ghirlande,
E forse i versi saran Martellianii
Acciò battiate voJeniicr le manL
l vostri servi stan per uscir fuorc»
• E vorrei dirvi prima T argomento;
Ma mi vergogno, e tremo^, ed ho timore
Con urla e tischì mi cacciale drcnlo.
Delle rre Melarance egli è V amore.
Che iarà m|ii? Tho detto, e non mi pento.
Fate conto, mie vile, mìe colonne.
D'essere al foco colle vostre Nonne.
È troppo chiara U satu-etta di questo Prologo
contro a' Poeti, che opprimevaag la Truppa Co-
PROLOGO.
l
mica all' improvviso del Sacchi, eh' io scelsi a so*
stenere, e troppo chiara è la proposizione di in-
trodur sulla scena la serie delle mie Favole d'aiv
gomento puerile, per dispensarmi dal far de' riflessi
partitamente sui vari sensi sparsi nel Prologo m^
desimo.
Nella scelta, di questo primo argomento, eh' è
tratto dalla più vile tra le fole, che si narrano
a' ragazzi, e neUa bassezza de' dialoghi, e della con-
dotta, e de' caratteri, palesemente con artifizio av^
viliti, pretesi porre scherzevolmente in ridicolo //
Campiello, Le Massere, Le Baruffe CMo^^fOtU^
e molte altre plebee, e trivialissime opere del
Signor Goldoni.
ATTO PRIMO
ILVIO, Re di Coppe, Monarca d' un Re-
Igno immaginario, i di cui vestiti imita-
vano appunto quelli dei Re delle carte da giuoco,
lagnavasi con Pantalone della disgrazia dell' unico
suo figliuolo Tfiu-taglia, Principe ereditario, caduto ^
da dieci anni n una malattia incurabile. ì medici
F avevano giudicata un' insuperabile effetto ipocon-
driaco, e l' avevano già abbandonato. Piangeva
forte. Pantalone, facendo una satira ai Medici,
suggeriva secreti mirabili di alcuni Ciarlatani, che
esistevano in quel tempo. Il Re protestava, che tutto
inutilmente si era provato. Pantalone fantasticando-
sull' origine della malattia chiedeva al Re in secretò, .
per non essere udito dalle guardie, che circonda-
vano il Monarca, se la Maestà sua avesse acqui-
stato nella sua giovinezza qualche male, che co-
municato al sfuigue del Principe ereditario lo ri-
ducesse a quella miseria, e se il mercurio potesse.
8 l' amore
giovare. Il Re con tutta la serietà protestava d'es-
sere stato sempre tutto Regina. Pantalone aggiun-
geva, che forse il Principe occultava per rossore
qualche infermità contagiosa guadagnata. Il Re
serio lo assicurava con maestà, che per i suoi par
temi esami doveva assicurarsi, eh' ella non era così:
Che r infermità del figliuolo non era, che un mor-
tale effetto ipocondriaco; Che i Medici avevano pro-
nosticato, che, s' egli non ridesse, sarebbe in breve
sotterra: Che il solo ridere poteva esser in lui un
segno evidente di guarigione. Cosa impossibile. Ag-
giungeva, che il vedersi già decrepito, coli' unico
figliuolo moribondo, e con la Nipote Principessa
Clarice, necessaria erede del suo Regno, giovane
bizzarra4 strana, crudele, lo affliggeva. Compian-
geva i sudditi, piangeva dirottamente, dimenticando
tutta la maestà. Pantalone lo consolava; rifletteva,'
*che s'era dipendente la guarigione del Principe
Tartaglia dal suo ridere, non si doveva tener la
Corte in mestizia. Si bandissero feste, giuochi, ma-
schere, e spettacoli. Si Jasciasse libertà a TrufEd-
dino, persona benemerita nel far ridere, e ricetta
Vera contro gli effetti ipocondriaci, di trattare col
Principe. Aveva scoperto nel Principe qualche in-
clinazione alla confidenza di Truffaldino. Avrebbe
potuto succedere, che il Principe ridesse, e guarisse.
Il Re si persuadeva, disponeva di dar gli ordini op-
portuni. Usciva.
Leandro, Cavallo di Coppe, primo Minbtro.
innesto personaggio era pur vestito, com' è la figura
DELLE TRE MELARANCE. . 9
sua nelle carte da giuoco. Pantalone accennava a
parte il suo sospetto di tradimento sopra Leandro,
n Re ordinava a Leandro feste, giuochi, e bacca-^
nali. Diceva, che qualunque persona giungesse a
far ridere il Principe, avrebbe un gran premio.
Leandro dissuadeva il Re da tale risoluzione, giù- -
dicando tutto di maggior danno all' infermo. Pan-
talone insisteva nel suo consiglio. Il Re riconfer-
mava gli ordini, e partiva. Pantalone esultava.
Diceva a parte di scoprire in Leandro del desi-
derio per la morte del Principe. Seguiva il Re.
Leandro rimaneva ottuso; esprimeva di vedere al-
cune opposizioni alla sua brama, ma che non co-
nosceva l'origine. Usciva.
La Principessa Qarice, Nipote del Re. Non s* è
mai veduta sulla scena una Principessa di ca-
rattere strano, bizzarro, e risoluto come Clarice,
(llingrazio il Sig. Chiari, che m' ha dati vari spec-
chi nelle sue Opere per far una parodia caricata
ài caratteri^ Costei in accordo con Leandro di spo-
:sarlp} ed elevarlo al Trono, se restava erede del
Regno colla morte di Tartaglia, suo cugino, sgri-
dava Leandro per la flemma, che doveva avere at
tendendo, che morisse il cugino per una malattia
cosi lenta, com' è quella dell' ipocondrìa. Leandro si
giustificava colla cautela, dicendo, che la Fata Mor-
gana, sua protettrice, gli aveva dati alcuni brevi .
in versi martelliani da far prendere in parecchie
panatelle a Tartaglia, che dovevano farlo morire
lentamente per gli effetti ipocondrìaci. Ciò si diceva
U'
IO L'AMORE
per censurare le Opere del Sig. Chiari, e del Sìg.
Goldoni, che stancavano scritte in versi martelliani
colla monotonia della rima. La Fata Morgana era
nimica del Re di Coppe per aver perduti molti
de' suoi tesori sul ritratto di quel Re. Era amica
del Cavallo di Coppe per aver fatto qualche ricu-
pera'sulla sua figura. Abitava in un lago, vicino
alla Città. Smeraldina mora, eh' era la servetta in
questa scenica parodia caricata, era il mezzo tra
Leandro, e Morgana. Clarice andava in furore sen-
tendo il mcklo tardo, che s'usava nella morte di
Tartaglia. Leandro aggiungeva dubbi sull' inutilità
de' brevi in versi martelliani. Vedeva introdotto
in Corte, spedito, non sapeva da chi, un certo Truf-
faldino, persona faceta; se Tartaglia rideva, gua-
riva dal male. Clarice smaniava; aveva veduto quel
TrufGddino, non era possibile il trattenere le risa
al solo vederlo. Che i brevi in versi martelliani di
caratteri grossi sarebbero inutili. Da tali discorsi
rileverà il lettore la difesa delle Commedie im^
prowbe colle maschere contro gli effetti ipocon-
driaci, in confronto delle scritte in versi da' Poeti
d' allora malinconiche. Leandro aveva spedito Bri-
ghella, suo messo, a Smeraldina mora per saper
ciò, che volesse inferire l'arcano della comparsa
di quel Truffaldino, e a chieder soccorsi Usciva.
Brighella, riferiva con secretezza, che Truffal-
dino era spedito alla Corte da certo Celio Mago,
nimico di Morgana, e amante del Re di Coppe,
per ragioni simili alle accennate di sopra. Che Truf-
DELLE TRE MELARANCE. * II
faldino era ima ricetta contro gli effetti ipocon-
drìaci cagionati dai brevi in versi martellìani, giunto
alla Corte per preservare il Re, il figliuolo, e tutti
que' popoli dal morbo contagioso degli accennati
brevi.
Si noti, che nella nimicizia della Fata Morgana,
e di Celio Mago erano figurate arditamente e al-
legoricamente le battaglie Teatrali, che correvano
allora tra i Signori due Poeti, Goldoni e Chiarì, e
che nelle due persone pure della Fata e del Mago,
erano figurati in caricatura i due Poeti medesimi.
La Fata Morgana era in carìcatura il Chiarì ; Celio v
in caricatura il Signor Goldoni.
La notizia recata da Brighella dell' arcano sul
Truffaldino, metteva della gran confusione in Cla-
rice, e in Leandro. Si consigliavano vari modi di
morte occulta, per far perir Truffaldino. Clarice
suggeriva arsenico, o archibugiate. Leandro brevi
in versi martelliani nella panatella, o vero oppio.
Clarice, che martelliani, e oppio erano due cose \
simili ; che Truffaldino gli sembrava d' uno stomaco
assai forte, per digerire tali ingredienti. Brighella
aggiungeva, che Morgana, sapendo gli spettacoli
ordinati per divertire il Principe e per farlo ridere,
aveva promesso di comparire, e di opporre alle sue
rìsa salubri una maledizione, che l'avrebbe man-
dato alla morte. Qarìce entrava per dar luogo al-
l'apparecchio degli spettacoli ordinati. Leandro, e
Brighella entravano per ordinarli.
Aprivasi la scena alla camera del Principe ipo-
12 L'AMORE
condrìaco. Questo faceto Principe Tartaglia era in
un vestiario il più comico da malato. Sedeva so-
pra una gran sedia da poltrire. Aveva a canto
un tavolino, a cui s' appoggiava, carico di ampolle,
ài unguenti, di tazze da sputare, e d'altri arredi
convenienti al suo stato. Si lagnava con voce de-
bile del suo infelice caso. Nai;rava le medicature
sofferte inutilmente. Dichiarava gli strani, effetti
della sua malattia incurabile, e siccom'egli aveva
il solo argomento della scena, questo valente per-
sonaggio non poteva vestirlo con maggior fertilità.
Il suo discorso buffonesco e naturale cagionava un
continuo scoppio di risa universali nell'Uditorio.
Usciva quindi il facetissimo Truffaldino per far
ridere l' infermo. La scena all' improvviso, che fa-
cefvano questi due eccellenti comici sull' argomento,
non poteva riuscire, che allegrissima. Il Principe
guardava di buon occhio Truffaldino; ma per
quante prove facesse non poteva ridere. Voleva
discorrere del suo male, voleva opinione da Truf-
faldino. Truffaldino faceva dissertazioni fìsiche, sa-
tiriche, e imbrogliate, le più graziose, che s' udis-
sero. Truffaldino fiutava il fiato al Principe, sen-
tiva odore di ripienezza di versi martelliani indi-
gesti. Il Principe tossiva, voleva sputare. Truffaldino
porgeva la tazza ; raccolto lo sputo, lo esaminava ;
trovava delle rime fracide e puzzolenti. Tal scena
durava un terzo d' ora con le risa continuate degli
ascoltatori. Udivansi degli strumenti, che davano
segno degli spettacoli allegri, i quali si facevano
DELLE TRE MELAÌUNCE. I3
nel gran cortile della Reggia, TrufEaldino voleva
condur il Principe sopra un verone a vederli. Il
Principe protestava, che ciò età impossibile. Face-
vano un contrasto ridicolo. Truffaldino collerico
gettava per una finestra ampolle, tazze, e tutto ciò,
che serviva alla malattia di Tartaglia, che strillava,
e piangeva, come un rimbambito. Finalmente Truf-'
faldino portava a forza sulle spalle a goder gli
spettacoli quel Principe, che urlava, come se gli
si staccassero le viscere.
Aprivasi la scena al gran cortile della Reggia.
Leandro accennava di aver eseguiti gli ordini per
gli spettacoli; che il popolo mesto, bramoso di ri-
dere, si era tutto mascherato ; che sarebbe venuto
in quel cortile alle feste ; eh' egli aveva avuta la
precauzione di far mascherare molte persone in
modo lugubre per accrescere la malinconia nel
Principe spettatore; ch'era tempo di far aprire
il cortile per dar adito al popolo di entrare.
Usciva. •
Morgana, trasformata ia yecchiarella con cari-
catura. Leandro si maravigliava, che a porte chiuse
foss' entrato quell' .oggetto. Morgana si palesava^ e
diceva essei* ivi giunta in quella figura per istèr-
minare il Principe, come vedrà; che dovesse inc6*'
minciar le feste. Leandro la ringraziava, la chia- '
mava Regina dell'ipocondria. Morgana si ritirava.
Si spalancavano, le porte del cortile.
Comparivano sopra un verone di facciata il Re,
il Principe ipocondriaco, impellicciato, Clarice, Pan-
\
«4
^talone, le Guardie, indi Leandro. Gli spettacoli, e
le feste non erano, che quei medesimi, che si nar-
rano a' ragazzi raccontando loro la fola delle tre
melarance. Entrava il popolo. Si faceva una giostra
a cavallo; caposquadra Truffaldino, che ordinava
de' faceti movimenti a' Cavalieri giostranti. Ad ogni
movimento si volgeva al verone, chiedendo alla
Maestà sua, se il Principe rideva. Il Principe pian-
geva, lagnandosi, che l' aria lo molestava, che il
romore gP intronava la testa: pregava la Maestà
paterna a farlo porre a letto ben caldo.
A due fontane, l' una, che zampillava olio, l'al-
tra vino, concorreva il popolo a provedersi : si fa-
cevano de' contrasti trivialissimi, e plebei. Nulla
faceva ridere il Principe.
Usciva Morgana da vecchierella con un vaso
per provvedersi dell' olio alla fontana. Truffaldino
faceva vari insulti a quella vecchiarella; ella cadeva
a gambe alzate. Tutte queste trivialità, che rap-
presentavano la favola triviale, divertivano l'Udi-
torio colla loro novità, quanto le MassèrCy i Camr
pielli, le Baruffe Chio{![ottej e tutte l'opere tri-
viali del Sig. Goldoni.
Allo scorcio del cadere della vecchiarella il Prin-
cipe dava in uno scoppio di risa sonore, e lunghe.
Guariva da tutti i suoi mali ad un tratto. Truf-
faldino vinceva il premio, e al ridere di quel far
ceto Principe l' Uditorio sollevato dall' oppressione,
cagionata in lui dalle infermità di quell'infelice,
rìdeva sgangheratamente*
DELLE TRE ME|.ARANCE. ^5
Tutta la Corte era allegra del caso. Leandro, e
Clarice erano mesti.
Morgana, levandosi da terra rabbiosa, rimpro-
verava enfatica il Principe e gli scagliava la se-
guente terribile maledizione ammaliata chiaresca.
Aprì r orecchio, o btrbtro; passi la voce al core;
Né muro, o monte fermino il suon del mio furore.
Come spezzante fùlmine si ficca nel terreno,
Corì questi miei detti ti si ficchino in seno.
Come burchio al remurchio tirato è dal cordone,
Te conduca pel naso quesu mia imprecazione.
Imprecazione orrìbile! solo in udirla morì.
Come nel mar quadrupede, pesce in sui prati e i fiorì.
L'atro Plutone io supplico, e Pindaro volante,
Delle tre Melarance che tu divenga amante.
Minacce, prieghi e lagrìme sian vane larve, e ciance.
Coni ali* orrendo acquisto delle tre Melarance.
Morgana spariva. Il Principe entrava in un ro-
busto entusiasmo per V amore delle tre Melarance.
Veniva condotto via con grandissima confusione
della Corte.
Quali inezie 1 Qual mortificazione per i due
Poeti 1 U primo atto della Favola terminava a que-
sto passo con una universal picchiata di mani
ATTO SECONDO
N una stanza del Principe, Pantalone
I disperato e fuori di sé narrava Io stato
furioso del Principe per V imprecazione avuta. Non
era possibile il placarlo. Voleva dal padre un paio
di scarpe di ferro per poter tanto camminare per
il mondo, che ritrovasse le fatali Melarance, ca-
gione del suo amore. Pantalone aveva ordine di
chiedere al Re codeste scarpe, sotto pena della
disgrazia del Principe. Il caso era gravissimo. L' ar-
gomento era opportuno per un Teatro. Satireg-
giava scherzando sugli argomenti, che correvano
allora. Entrava per correre al Re. Uscivano.
Il Principe invasato, e Truffaldino. 11 Principe
era impaziente per la tardanza delle scarpe di ferro.
Truffaldino faceva delle ridicole richieste. Tarta-
glia dichiarava di voler andare all'acquisto delle
tre Melarance, le quali, per quanto gli narrava sua
Nonna, erano lunge duemila miglia, in potere di
Qozn, 3
i8 l'amore
Creonta, gigantessa Maga. Chiedeva le sue arma-
ture, ordinava a Truffaldino di armarsi, che lo volea
per suo scudiere. Seguiva una scena buffonesca tra
questi due personaggi sempre facetissimi. Si ar-
mavano con le corazza, e gii elmi, e gran spade
lunghe con somma caricatura.
Uscivano il Re, Pantalone, le guardie. Una
guardia aveva sopra un bacile un paio di scarpe
di ferro.
Questa scena si faceva tra i quattro perspnaggi
con una gravità sul caso, che la faceva doppiamente
ridicola. Con una tragica, e drammatica maestà il
Padre cercava di dissuadere il figliuolo dalla peri-
gliosa impresa. Pregava, minacciava, cadeva nel pa-
tetico. Il Principe invasato insisteva. Sarebbe preci-
pitato di nuovo neir ipocondria, se non era lasciato
andare. Si riduceva a brutali minacele contro al
Padre. U Re stupiva addolorato. Rifletteva, che il
poco rispetto del figliuolo nasceva dall' esempio
delle nuove commedie. S' era veduto in una Com-
media del Sig. Chiari un figliuolo sguainar la spada
per ammazzar il proprio Padre. Di esempi consi-
mili abbondavano le Commedie d' allora, censurate
da questa inetta favola.
Il Principe non si chetava. Truffaldino gli cal-
zava le scarpe di ferro. Terminava la scena con
un quartetto in versi drammatici di piagnistei, di
addii, di sospiri. Il Principe, e Truffaldino parti-
vano. Il Re cadeva sopra uua sedia in deliquio.
Pantalone chiamava aceto in soccorso.
DELLE TRE^ MELARANCE. I9
Accorrevano Clarice, Leandro, e Brighella; rim-
proveravano Pantalone del romore, che faceva. Pan-
talone, che si trattava d' un Re in deliquio, d' un
Principe andato a perire all' acquisto scabroso delle
Melarance. Brighella rispondeva, che que'casi erano
freddure, come Commedie nuove, che mettevano
rivoluzione senza proposito. Il Re rinvenuto faceva
una tragica esagerazione. Piangeva, come morto, il
figliuolo. Dava ordini, che tutta la Corte si vestisse
a lutto, partiva per chiudersi nel suo gabinetto, e
per terminare i suoi giorni sotto il peso dell'afflizio-
ne. Pantalone, protestando di unire i suoi co' pianti
del Re, di mescolare in un solo fazzoletto le reci-
proche lagrime, di dare a' nuovi Poeti un argo-
mento d' interminabili episodi in versi martelliani,
seguiva il Monarca.
Qarice, Leandro, e Brighella allegri lodavano
Morgana. La bizzarra Clarice voleva patti di co-
mando nel Regno, prima d'elevar al trono Lean-
dro. In tempo di guerra voleva esser alla testa
delle armate. Anche vinta, co' suoi vezzi avrebbe
fatto innamorare il' Capitano nimico. Innamorato,
e fidato da lei con lusinghe ; al suo avvicinarsi gli
avrebbe piantato un coltello nella pancia. Questa
era una censura scherzevole all'Attila del signor
Qhiaii. Clarice voleva la facoltà di dispensar le
cariche della Corte al caso. Brighella chiedeva per
i suoi meriti di aver la carica di sopraintendente
ai Regi spettacoli. Seguiva un contrasto in terzo
sulla scelta dei divertimenti Teatrali. Clarice vo-
• 20 L' AMORE
leva Rappresentazioni tr^igiche, con dei personaggi,
rhe si gettassero dalle finestre, dalle tórri, senza
rompersi il collo, e simili accidenti mirabili: West
Opere del sig. Chiari. Leandro voleva Commedie
di caratteri: Idest Opere del sig. Goldoni. Bri-
gabella proponeva la Commedia improvvisa colle
/maschere, opportuna a divertire un popolo con
innocenza. Clarice e Leandro collerici, ^he non
volevano goffe buffonate, fracidumi indecenti in un
secolo illuminato ; e partivano. Brighella faceva un
patetico discorso, commiserando la Truppa Comica
del Sacchi senza nominarla, ma facile da inten-
dersi. Compiangeva una Truppa onorata, e bene-
merita, oppressa, e ridotta a perder l'amore di
quel Pubblico da lei adorato e di cui era stata il
divertimento per tanto tempo. Entrava con ap-
plauso di quel Pubblico, che aveva ottimamente
inteso il vero senso del suo discorso..
Si apriva la scena a un diserto. Si vedeva Celio
mago, protettore del Principe Tartaglia, fare dei
circoli. Obbligava il Diavolo Farfarello a compa-
rire. Usciva Farfarello, e parlava in versi martel-
liani con voce terribile per questo modo;
Olà, chi qua mi chiama dal centro orrido, ed atro?
Sei tu Mago da vero, o Mago da Teatro?
Se da Teatro sei, non è mestieri il dirti,
Che sono un'anticaglia Diavoli, Maghi, e Spirti.
I due Poeti s' erano espressi, che volevano soppri-
mere nelle Commedie le Maschere, i Maghi, e i
DELLE TRE M1E;LARANCE. 21
Diavoli. Celio rispóndeva in prosa, eh' era Mago .
da vero. Farfarello soggiungeva:
Or ben sia chi tu voglia; se da Teatro sei,
In versi marteiliani almen parUr mi dei.
Celio minacciava il Diavolo, voleva parlare in prosa
a suo senno. Chiedeva se quel Truffaldino, da lui
spedito con arte alla Corte del Re di Coppe, avesse
fatto alcun' effetto ; se Tartaglia fosse stato obbli-
gato a ridere, e fosse guarito dagli effetti ipocon-
driaci. U Diavolo rispondeva:
Rise, guari; ma dopo Morgana, tua nimica,
Con un'imprecazione rovesciò la fatica.
Furioso, anelante, infiammato le guance
Va in cerca per amore delle tre Melarance;
Con Trufiàldìn sen viene. Morgana un Diavol tetro
Ha mandato con quelli, perchè soffii lor dietro.
Già mille miglia han fatto, e presto qui saranno
Nel Castel di Creonta, a morir con affanno.
Il Diavolo spariva. Celio esclamava contro la ni-
mica Morgana. Spiegava il gran periglio di Tar-
taglia, e di Truffaldino inviati al castello di Creonta,
poco lunge da quel luogo, e in cui si custodivano
le tre fatali Melarance. Si ritirava per apparecchiar
le cose necessarie a salvar due persone meritevoli,
e utilissime alla società.
Celio Mago, che rappresentava in questa inezia
il Sig. Goldoni, non doveva proteggere Tartaglia,
e Truffaldino. Ecco un errore ben degno di cen-
sura, se meritasse censura una diavoleria, come fu
questo scenico abbozzo. I Sìgg. Chiari e Goldoni
22 l'XMORE
erano nimìci in quel tempo nell' arte loro poetica.
Volli, che Morgana, e Celio mi servissero a por in
vista in modo caricato il genio avverso di quei due
talenti, né mi curai di raddoppiare personaggi, per
salvarmi dà. una critica in uno smoderato capriccio.
Uscivano Tartaglia, e Truffaldino armati, come
s'è detto, e uscivano con un corso velocissimo.
Avevano un Diavolo con un mantice, che, soffiando
lor dietro, li taceva precipitosamente correre. Il
Diavolo cessava di soffiare, e spariva. I due viag-
giatori cadevano a terra per l' impeto, con cui cor-
revano, alla sospensione del vento.
Ho infinito obbligo al Sig. Chiari dell'effetto
efficacissimo, che faceva questa diabolica parodìa.
Nelle sue Rappresentazioni, tratte dall' Eneide,
egli faceva fare a' suoi Trojani nel giro d' una sce-
nica azione de' viaggi grandissimi, senza il mio
Diavolo col mantice.
Questo Scrittore che pedantescamente insultava
tutti gli altri nelle irregolarità, donava a sé stesso
de' privilegi particolari. Io vidi nel suo Ezelino, ti-
ranno di Padova, in una scena soggiogato Ezelino
e spedito un Capitano all' impresa di Trevigi, sog-
getta all'armi del tiranno. Nell'Atto medesimo della
stessa Rappresentazione, nella scena susseguente,
ritornava il Capitano trionfante. Aveva fatte più
di trenta miglia, aveva preso Trevigi, fatti morire
gli oppressori; e in una fiorita narrazion, che fa-
ceva, giustificava l' azione impossibile colla gagliar-
dia d'un suo bravissimo cavallo.
DELLE TRE MELARANCE. I3
Tartaglia, e Truffaldino dovevano fare duemila
miglia per giungere al castello di Creonta. Il mio
Diavolo col mantice giustifica il viaggio meglia
del cavallo del Sig. Abate Chiari.
Questi due personaggi sempre facetissimi si le-
vavano da terra sbalorditi del caso, e meravigliati
del vento avuto dietro. Facevano una descrizione
spropositata geografica di paesi, monti, fiumi, e mari
passati. Tartaglia sul vento cessato traeva la con-
seguenza, che le tre Melarance erano vicine. Truf-
faldino era affannato, avea fame, chiedeva al Prin-
cipe, se avesse portato seco provvigione di danaro, o
cambiali. Tartaglia sprezzava tutte queste basse, e
mutili richieste; vedeva un castello sopra un nionte
e poco lontano. Lo cr'edeva il castello di Creonta,
custode delle Melarance; si avviava; Truffaldino
10 seguiva sperando di trovar cibo.
Celio Mago usciva, spaventava i due personaggi,
procurava invano di dissuader il Principe dall' im-
presa pericolosa. Descriveva i perigli insuperabili;
erano quei, che si narrano a'T^ambini con questa
fola; ma Celio li descriveva con gli occhi spalan-
cati, con voce terribile, e come se fossero stati
gran cose. I perigli consistevano in un portone di
ferro, coperto di ruggine per il tempo, in un cane
affamato, in una corda d'un pozzo, mezza fra-
cida per 1' umido, in una fornaia, che per non
avere scopa, spazzava il forno colle proprie poppe;'
11 Principe nulla intimorito di quei terribili oggetti
voleva andar nel castello. Celio vedendolo risoluto
/
.24 L^ AMORE
consegnava sugna magica da ugnere il catenaccio
al portone ; del pane da gettare al cane affamato ;
un mazzo di spazzole da consegnare alla Fomaia,
che spazzava il forno colle poppe. Ricordava, che
^tendessero la corda al sole, e la traessero dal-
l' umido. Soggiungeva, che, se per una sorte felice
arrivassero a rapire le tre custodite Melarance, fug-
gissero tosto dal castello, e si ricordassero di non
aprir nessuna di quelle Melarance, se non fossero
vicini a qualche fonte. Prometteva, che, se fuggis-
sero illesi dal pericolo col ratto eseguito, avrebbe
spedito il solito diavolo col mantice, che, soffiando
loro dietro, gli spingesse in pochi momenti al loro
paese. Li raccomandava al Cielo, e partiva. Tar-
taglia, e Truffaldino colle cose consegnate s'av-
viavano al castello.
Qui si calava una tenda, che rappresentava la
Reggia del Re di Coppe. Qual irregolarità! Qual
censura mal impiegata! Seguivano due picciole
scene. Una tra Smeraldina "Mora, e Brighella, al-
legri per la perdita di Tartaglia; l'altra con la
Fata Morgana, che arrabbiata ordinava a Brighella
di avvertir Clarice, e Leandro, che Celio aiutava
^ Tartaglia all'impresa. Ciò le aveva detto Draghi-
nazzo. Demonio, Comandava a Smeraldina di se-
guirla sino al suo lago, dove sarebbero capitati
Tartaglia, e Truffaldino, se uscivano salvi dalle
mani di Creonta, e dove avrebbe ordita un' altra
insidia. Si separavano confusi.
Aprivasi la scena al cortile del castello di Creonta.
DELLE TRE MELARANCE. 2^
Ebbi occasione di conoscere, alP aprìtura di que-
sta scena con degli oggetti affatto ridicoli, la gran
forza, che ha il mirabile sull' umanità.
Un portone fatto a cancello di ferro nel fondo,
un cane affamato, che ululava, e passeggiava, un
pozzo con un viluppo di corda appresso, una for-
naia, che spazzava il forno con due lunghissime
poppe, tenevano tutto il Teatro in un silenzio, e
in un' attenzione nulla minor di quella, eh' ebbero
le migliori scene dell' Opere de' nostri due Poeti.
Vedevansi fuor del cancello il Principe Tar-
taglia, e Truffaldino affaticarsi a ungere il cate-
naccio del cancello medesimo colla sugna magica,
e vede vasi il cancello spalancarsi. Gran maraviglia !
Entravano. Il cane, latrando, gli assaliva. Gli get-
tavano il pane ; si chetava. Gran portento l Mentre
Truffaldino, pieno di spaventi, stendeva le corde
al sole, e donava le spazzole alla Fomaia, il Prin-
cipe entrava nel castello, indi usciva allegro con
tre grandissime Melarance rapite.
I gravi accidenti non terminavano così. Si
oscurava il sole, si sentiva il tremuoto, s' udivano
gran tuoni. Il Principe consegnava le Melarance a
Truffaldino, che tremava forte ; s' apparecchiavano
alla fuga. Usciva dal castello una voce orrenda;
che puntualissima col testo della Favola fanciul-
lesca gridava per questo modo ed era della stessa
Creonta:
O Fomaia, Fornaia, non patire il mio scorno.
Piglia color po' piedi, e gettali nel forno.
26 l' amore
La Fornàia, esatta custode del testo della Fa-
vola rispondeva;
Io no; che son tanti anni, e tanti mesi, e tanti,
Che le mie bianche poppe logorp in doglia, e piami.
Tu, crudele, una scopa giammai non mi donasti,
Questi un mazzo ne diedero: vadano in pace; e basti.
Creonta gridava col testo:
O corda, o corda, impiccali.
E la corda col testq rispondeva :
Barbara, ti ricorda
Tanti anni, e tanti mesi; che abbandonata, e lorda
Mi lasciasti nell'umido in un crudele oblio.
Questi al sol mi distesero : vadano in pace : addio.
Creonta sempre costante al testo urlava:
Cane, guardia fedele, sbrana que^ sciagurati.
Il cane diligente custode del testo rispondeva:
Come poss' io, Creonta, sbranar gli sventurati ?
Tanti anni e tanti mesi ti servii senza pane.
Questi mi satollarono: le tue grida son vane.
Creonta col testo gridava:
Ferreo Porton, ti chiudi; stritola i ladri infami.
Il Portone col testo rispondeva:
Crudel Creonta, indarno il mio soccorso chiami
Tanti anni, e tanti mesi ruggine, ed in cordoglio
Tu mi lasciasti: m'unsero; ingrato esser non voglio.
DELl-E TRE MELARANCE. ^7
Era un bel vedere Tartaglia, e TruflFaldino, ma-
ravigliati dell' abbondanza dei Poeti. Stupivano di
udir ragionare in versi martelliani sino le Fornaie,
le Corde, i Cani, i Portoni. Ringraziavano quegli
oggetti della loro pietà.
L' uditorio era contentissimo di quella mirabile
novità puerile, ed io confesso, che rideva di me
medesimo, sentendo l'animo a forza umiliato a
godere di quelle immagini fanciullesche, che mi
rimettevano nel tempo della mia infanzia.
Usciva la Gigantessa Creonta altissima, e in
andrianè. Tartaglia, e Truffaldino all' orribile com-
parsa fuggivano.
Creonta con un disperato gestire diceva questi
disperati versi martelliani, non lasciando d' invocar
Pindaro, di cui il Sig. Chiari si vantava confra-
tello:
Ahi ministri infedeli, Corda, Cane, Portone,
Scellerata Fornaia, traditrici persone!
O Melarance dolci! Ahi chi mi v^ha rapite?
Melarance mie care, anime mie, mie vite.
Oimè crepo di rabbia. Tutto mi sento in seno
11 Caos, gli Elementi, il Sol, l'Arcobaleno.
Più non deggio sussistere. O Giove fulminante,
Tuona dal Ciel, mMnfrangi dalla zucca alle piante.
Chi mi dà aiuto, Diavoli, chi dal mondo m'invola?
Ecco un amico fulmine, che m'arde e mi consola.
Nessuna parodìa caricata potrà' spiegar i senti-
menti, e lo stile del Sig. Chiari meglio di quest' ul-
timo verso.
28
L AMORE
y
Cadeva un fulmine, che inceneriva la gigantessa.
A questo passo terminava l'Atto secóndo, fa-
vorito di maggior applauso del primo dal Pubblico.
La mia audacia cominciava a non esser più col-
pevole.
ATTO TERZO
I apriva la scena al luogo, dov' era il
Iago di abitazione della Fata Morgana. Si
vedeva un albero grande; sotto a quello un sasso
grande, in forma di sedile. Erano pure sparsi per
quella campagna vari macigni.
Smeraldina, il di cui linguaggio era di Turca
Italianizzata, stava sulla riva del lago per atten-
dere gli ordini della Fata. S' impazientava, chia-
mava.
Usciva la Fata dal lago. Narrava d' essere stata
all' Inferno, e di aver saputo, che Tartaglia, e Truf-
faldino, aiutati da Celio, venivano, spinti dal man-
tice d'un Diavolo, vittoriosi delle tre Melarance.
Smeraldina rimproverava la sua ignoranza nella
magìa; era arrabbiata. Morgana, che non si stan-
casse. Per un accidente ordinato da lei. Truffaldino
sarebbe arrivato in quel luogo disgiunto dal Prin-
cipe. Una fame e una sete magica lo molestereb-
30 l' amore
bero. Avendo seco le tre Melarance, succederebbero
grandi accidenti. Consegnava due spilloni indiavo-
lati a Smeraldina mora. Diceva, che sotto all' albero
avrebbe veduta una bella ragazza sedere sopr'al
sasso. Questa sarebbe la sposa scelta da Tartaglia.
Procurasse con arte di ficcare uno degli spilloni
nel capo a quella ragazza. Sarebbe diventata una
colomba. Sedesse sul sasso in iscambio di quella
ragazza. Tartaglia avrebbe sposata lei; diverrebbe
Regina. La notte dormendo col marito piantasse
nel capo a quello 1' altro spillone ; sarebbe diven-
tato un animale; e così restava libero il Trono a
Leandro e Clarice. La Mora trovava delle difficoltà
in questa impresa, spezialmente quella d' esser co-
nosciuta in Corte. L' arte magica di Morgana spia-
nava tutte le impossibilità, come si deve credere.
Conduceva via la Mora per meglio istruirla, e per-
chè vedeva giungere Truffaldino spinto dal vento
infernale.
Usciva Truffaldino correndo col Diavolo, che
10 soffiava, e colle tre Melarance in una bisaccia.
11 Diavolo spariva. Truffaldino narrava esser caduto
il Principe poco discosto per V impeto del correre :
che lo avrebbe aspettato. Sedeva. Una fame e una
sete prodigiosa T assalivano. Destinava di mangiarsi
una delle tre Melarance. Aveva de' rimorsi, faceva
una scena tragica. Finalmente molestato, e acce-
cato dalla prodigiosa fame, risolveva di fare il gran
sacrifizio. Rifletteva di poter rimettere il danno
con due soldi. Tagliava una Melarancia. Qual mi-
DELLE TRE MELARANCE. 3I
racolol Usciva da quella una giovinetta vestita di
bianco, la quale, fedel seguace del testo della Fa-
vola, diceva tosto;
Dammi da bere, ahi lassa ! Presto moro, idol mio,
Moro di sete, ahi misera ! Presto, crudele. Oh Dio 1
Cadeva in terra presa da un languor. mortale.
Truffaldino non si ricordava gli ordini di Celio,
di non dover aprire le Melarance, che appresso
una fonte. Balordo per istinto, e per il caso mi-
rabile disperato non vedeva il lago vicino ; gli ve-
niva in mente solo il ripiego di tagliar un'altra
delle Melarance, e di soccorrere la moribonda per
la sete col succo di quella. Faceva tosto 1' anima-
lesca azione di tagliare un'altra Melarancia, ed
ecco un' altra bella ragazza col suo testo in bocca
per tal modo:
Oimé, muoio di sete. Deh dammi ber^ tiranno.
Crepo di sete, oh Dio! ch'io svengo per l'affanno.
Cadeva, come 1' altra. Truffaldino esprimeva
le smanie sue grandissime. Era fuori di sé, dispe-
rato. Una delle fanciulle seguiva con voce flebile:
Crudel destin ! Di sete morrò j muoio, son morta.
Spirava. L'altra aggiungeva:
Moro, barbare stelle: ohimè, chi mi conforta!
Spirava. Truffaldino piangeva, parlava loro con
32 l'amore
tenerezza. Stabiliva di tagliar la terza Melarancia
per aiutarle. Era per tagliarla, quando usciva. Tar-
taglia furioso, elle lo minacciava. Truffaldino spa-
ventato fuggiva abbandonando la Melarancia.
Gli stupori, i riflessi, che faceva questo grot-
tesco Principe sui gusci delle due Melarance ta-
gliate, e sopra a' due cadaveri delle giovinette, non
sono dicibili.
Le maschere facete della Commedia all' im-
provviso in una circostanza simile a questa fanno
■ delle scene di spropositi tanto graziosi, di scorci,
€ di lazzi tanto piacevoli, che né sono esprimibili
•-=^all' inchiostro, né superabili da' Poeti.
Dopo un lungo, e ridicolo soliloquio. Tartaglia
vedeva passar due villani, ordinava l'onorata se-
poltura di quelle due giovinette. I villani le por-
tavano via.
Il Principe si volgeva alla terza Melarancia.
Ella era con «uà sorpresa portentosamente cre-
sciuta, quanto una grandissima zucca.
Vedeva il lago vicino, dunque per i ricordi di
? Celio, il luogo era opportuno per aprirla ; 1' apriva
col suo spadone, ed usciva da quella una grande,
e bella fanciulla, vestita di teletta bianca, la quale
adempiendo al testo del grave argomento escla-
mava:
Chi mi trae dal mio centro ! Oh Dio ! muoio di sete.
Presto datemi bere, o invan mi piangerete.
(cadeva in terrà.)
DELLE TRE MELARANCE. 3}
n Principe intendeva la ragione dell'ordine di
Celio. Era imbrogliato per non aver nulla da rac-
coglier dell' acqua. Il caso non ammetteva riguardi
di politezza. Si traeva una delle scarpe di ferro,
correva al lago, la empieva d'acqua, e chiedendo
perdono dell' improprietà del bicchiere, dava ristoro
alla giovinetta, che robusta si rizzava ringrazian-
dolo del soccorso.
Ella narrava d'esser figliuola di Concul, Re
degli Antipodi, e d'essere stata condannata con
due sorelle dalla crudel Creonta, per incantesimo,
nel guscio d'una Melarancia, per ragioni tanto
verisimili, quant' era verisimile il caso. Seguiva una
scena facetamente amorosa. Il Principe giurava di
sposarla. La città era vicina. La Principessa non
avea decenti vestiti. Il Principe l' obbligava ad
aspettarlo assisa sopr'al sasso all'ombra dell'al-
bero. Sarebbe venuto con ricco vestiario, e cori
tutta la Corte a levarla. Ciò concluso, si stacca-
vano con de' sospiri.
Smeraldina Mora, attonita per quanto aveva
veduto, usciva. Vedeva 1' ombra della bella giovine
nell' acqua del Lago. Non era pericolo, eh' ella non
eseguisse diligentemente quanto si narra nella Fa-
vola di cotesta Mora. Non parlava più Turco ita-
lianizzato. Morgana le aveva fatto entrar nella
lingua un Diavolo toscano. Sfidava tutti i Poeti
nel ragionare correttamente. Scopriva la giovine
Principessa, il di cui nome era Ninetta. La lusin-
gava, si esibiva ad acconciarle il capo, se le avvi-
Gozzi. 3
34 l' AMORE
dilava, la tradiva. Le piantava nel capo imo dei
due spilloni portentosi. Ninetta diventava una co-
lomba, volava per Paere. Smeraldina sedeva nel
suo posto attendendo la Corte ; si preparava a trar»
dire Tartaglia coli' altro spillone, quella notte.
A t|atto il mirabile misto col ridicolo, e le
puerilità di queste scene, gli uditori informati sino
dai loro primi anni dalle balie, e dalle nonne loro
degli accidenti di questa fola, erano immersi pro-
fondamente nella materia, e impegnati stretta-
mente cogli animi nell' ardita novità di vederli
esattamente rappresentati sopra un teatro.
Al suono d' una marcia giungeva il Re di
Coppe, il Principe, Leandro, Oarice, Pantalone,
Brighella, e tutta la Corte, per levare solenne-
mente la Principessa sposa. La nuova figura della
Mora trovata, e non conosciuta per le stregherie
di Morgana, faceva arrabbiare il Principe. La Mora
giurava, esser lei la Principessa ivi lasciata. Il
Principe non mancava di far ridere colle sue di-
sperazioni. Leandro, Clarice, e Brighella erano al-
legri. Vedevano, da dove veniva V arcano. Il Re
di Coppe entrava in gravità ; obbligava il figliuolo
a mantenere la principesca parola, e a sposare la
Mora. Minacciava. Il Principe con buflFoneschi
scorci acconsentiva, tutto mestizia. Si suonavano
gli strumenti. Il drappello passava alla Corte per
celebrare le nozze.
Truffaldino non era venuto colla Corte. Aveva
ottenuto il perdono dal Principe dei suoi errori.
DELLE TRE MELARANCE. 35
Aveva avuta la carica di cuoco regio. Era rimasto
nella cucina per apparecchiare il banchetto nuziale.
La scena, che seguiva dopo la partenza della
Corte, è la più ardita di questa scherzevole .par^
rodlg;, I due partiti delli Sigg. Chiari e Goldoni,
ch'erano nel Teatro, e che s'avvidero del tratto
mordace, fecero ogni prova per porre in un tu- *
multo di sdegno V uditorio, ma tutti gli sforzi fu-
rono vani. Ho detto, che, nella persona di Celio
mago, io aveva figurato il Sig. Goldoni, in quella
di Morgana il Sig. Chiari. Il primo aveva fatto un
tempo V avvocato nel foro Veneto. La sua maniera
di scrivere sentiva dello stile delle scritture, che
si accostumano dagli avvocati in quel rispettabile
foro. Il Sig. Chiari si vantava d' uno stile pinda- ^
rico e sublime; ma, sia detto con sopportazione,
non ci fu nessun gonfio e irragionévole scrittore
seicentista, che superasse i suoi smoderati tra-
scorsi.
Celio e Morgana avversi, e furiosi incontran-
dosi formavano la scena, ch'io trascriverò intera-
mente col dialogo medesimo, e come seguì.
Si rifletta, che, se le parodìe non danno nella
caricatura, non hanno giammai l' intento, che si
desidera, e s'usi indulgenza ad un capriccio, che
nacque da un animo puramente allegro, e scher-
zevole, ma amicissimo nell' essenziale de' Sigg.
Chiari e Goldoni.
Celio (uscendo impetuoso, a Morgana) Scel-
leratissima maga, ho già saputo ogni tuo inganno;
36 l'amore
ma Plutone m'assisterà. Strega infame, strega
. maledetta.
Morgana. Che parlare è il tuo, mago ciarla-
tano? Non mi pungere; perch'io ti darò una
rabbuffata in versi martelliani, che ti farò morire
sbavigliando.
Celio. A me, strega temeraria? Ti renderò
pane per focaccia. Ti sfido in versi martellianL
A te :
Sarà seinpre tenuto un vano tentativo,
Subdolo, insussistente, d^ ogni giustizia privo.
Le tali quali incaute, maligne, rovinose
Stregherie di Morgana colP altre annesse cose;
E sarà ad evidenza ogni mal operato
Tagliato, carcerato, cassato, evacuato.
Morgana. Oh cattivi! A n^e, mago dappoco.
Prima i bei raggi d'oro di Febo risplendente
Diverran piombo vile, e il Levante Ponente;
Prima V opaca luna le argentee corna belle,
E r eterico impero cambierà colle stelle.
I mormoranti fiumi col lor natio cristallo
Poggeran nelle nuvole sul Pegaseo cavallo;
Ma sprezzar non potrai, vii servo di Plutone,
Del mio spalmato legno le vele, ed il timone.
Celio. Oh Fata, gonfia, come una vescica l
aspettami.
Seguirà assoluzione in capo di converso,
Come fia dichiarato nel primo capoverso
DELLE TRE MELARANCE. 37
Ninetta Principessa in colomba cambiata
Sia, per quanto in me consta, presto ripristinata;
Ed in secondo capo, capo di conseguenza,
Clarice e il tuo Leandro cadranno in indigenza^
E Smeraldina Mora, indebita figura.
Per il ben giusto effetto a tergo avrà 1^ arsura.
Morgana. Oh goffo, goffo verseggiatore! Ascoi
tamì; voglio atterrirti.
Con le volanti penne Icaro insuperbito
Poggia al Ciel, scende ai flutti garrulo, incauto,- ardita
Sopra Pelio Ossa posero, Olimpo sopra ad Ossa
Temerari gli Enceladi per dare al Ciel la scossa.
Precipitano gPIcari nel salso umor spumante,
E gli Enceladi in cenere manda il folgor tonante.
Salga Clarice al Trono per tuo dolor protervo,
Si tramuti Tartaglia, qual Atteone, in cervo.
Celio a parte. (Costei mi vuol sopraffare con
poetiche superchjeri^. Se crede di cacciarmi nel
sacco, s'inganna).
Nulla lascierò correre senza risposta, e presto
Applico a tue mendacie un valido protesto.
Morgana.
Dei Monarchi di Coppe fia libero il paese.
( partiva ).
Celio (le gridava dietro).
Ed io ti riprotesto, salvia, e nelle spese.
( entrava ).
38 l' amorb
Aprivasi la scena alla cucina regia. Non si vide
mai una regia cucina più miserabile di questa.
Il resto della Rappresentazione non era, che
il resto della fola minutamente rappresentata,
in cui erano già interessatissimi gli animi degli
spettatori.
La parodìa non girava, che sulle bassezze, e
trivialità d' alcune opere, e sull* avvilimento di al-
\cuni caratteri dei due Poeti.
Un' eccessiva mendicità, improprietà e bassezza
^ formavano la parodìa.
Si vedeva Truffaldino affaccendato a infilzare
un arrosto. Narrava disperato, che, non essen-
dovi in quella cucina girarrosto, girando egli lo
spiedo, era comparsa una colomba sopra un fine-
strino; ch'era corso tra lui e la colomba questo
dialogo. Le parole sono del testo. La colomba
gli aveva detto: Bon rfì, cogq de cusina. Egli le
avea risposto: Bon dì, bianca colombina. La co-
lomba aveva soggiunto: Prego el Cielo, che ti
te possi indormen^ar: che el rosto se possa bru-^
sar: perchè la Mora, brutto muso, no ghe ne
possa magnar. Un prodigioso sonno lo aveva as-
salito; s'era addormentato; l'arrosto si era ince-
nerito. Questo accidente era nato due volte. Due
arrosti si erano abbruciati. Frettoloso metteva il
terzo arrosto al fuoco. Si vedeva comparire la co-
lomba, il dialogo si replicava. Il sonno portentoso
assaliva Truffaldino. Questo grazioso personaggio
faceva tutti gli sforzi per non dormire; i suoi
DELLE' TRE MELARANCE. 39
lazzi erano facetissimi. S' addormentava. Le fiamme
incenerivano il terzo arrosto.
Si chieda all'uditorio, il perchè questa scena
piacesse estremamente.
Giimgeva Pantalone gridando. Destava Truf-
fieddino. Diceva che il Re era in collera, perchè si
erano mangiati la minestra, P alesso, e il fegato,
e l'arrosto non compariva. Viva il coraggio d'un
Poeta. Questo era im sorpassar nella bassezza le ^
baruffe per le zucche baruche delle Chiozzotte del V
Sig. Goldoni Truffaldino narrava il caso della co-
lomba. Pantalone non credeva tal maraviglia. Com-
pariva la colomba, replicava le parole portentose.
Truffaldino era per cadere dal sonno. Questi due
personaggi davano la caccia alla colomba, che svo-
lazzava per la cucina.
Tal caccia interessava molto l' uditorio. Si
prendeva la colomba, si metteva sopra una tavola,
si accarezzava. Si le sentiva un picciolo gruppetto
nel capo; era lo spillone magico. Truffaldino lo
strappava. Ecco la colomba trasformata nella Prin-
cipessa Ninetta.
Gli stupori erano grandissimi. Compariva la
Maestà del Re di Coppe, il quale con monarche-
sca gravità, e collo scettro alla mano minacciava
TrùfEaddino per la tardanza dell' arrosto, e per la
vergogna, che sofferì va un suo pari coi convitati.
Gran superiorità d' un autore! Giugneva il Principe
Tartaglia, riconosceva la sua Ninetta. Era folle
per l'allegrezza. Ninetta con brevità narrava i
40 L AMORE
suoi casi; il Re rimaneva attonito. Vedeva com-
parire la Mora e il resto della Corte in traccia,
della Maestà sua nella cucina. Il Re con sussiego
sommo ordinava a' due Principi di ritirarsi nella
spazzacucina. Destinava il focolare per suo trono,
siedeva sul focolare con sostegno reale. Giugneva
la Mora, e la Corte tutta. Il Re, fedel custode
della favola, metteva il caso nei termini, chiedeva
qual castigo meritassero i delinquenti a quel caso.
Ognuno sbalordito diceva il suo parere. Il Re nelle
furie condannava Smeraldina Mora alle fiamme.
Compariva Celio. Dichiarava le colpe occulte di
Clarice, Leandro e Brighella. Erano condannati
in una relegazione crudele. Si chiamavano i due
Principi sposi dalla spazzacucina. Tutto era al-
legrezza.
Celio esortava Truffaldino a tener lunge i versi
y martelliani diabolici dalle regie pignatte, e far ri-r
dere i suoi Sovrani. Non lasciava di terminare la
favola col consueto finale, che sa a memoria ogni
ragazzo; di nozze, di rape in composta, di sorci
pelati e di gatti scorticati, ecc. e siccome i Sigg,
Gazzettieri di quel tempo facevano elogi stermi-
nati sui loro fogli ad ogni opera nuova, che ve-
niva rappresentata del Sig. Goldoni, non si om-
metteva una calda raccomandazione all'uditorio,
perch' egli volesse farsi intercessore coi Sigg. Gaz-
zettieri in vantaggio della buona fama di questa
fanfaluca misteriosa.
^ Non fu mia colpa. Il cortese pubblico volle re-
DELLE TRE MELARANCE.
41
plicata molte sere alla fila questa parodia fanta-;
stica. Il concorso fii gi-ande. La truppa del Sacchi
cominciò a respirare dall'oppressione. Si trove-
ranno in seguito le conseguenze grandi derivate
da si frìvolo principio, nella parodìa del quale chi
conosce l' Italia, e non sarà entusiasta geniale della
delicatezza francese, non formerà giudizio col con-
fronto delle parodìe di quella nazione.
/
IL CORVO
HABA TEATRALE TRAGICOMICA
IN CINQUE ATTI
PERSONAGGI
MILLO, Re di Frattombrosa.
JENNÀRO, Principe suo fratello.
LEANDRO J ^.. . .
} Ministri.
TARTAGLIA )
ARMILLA, Principessa di Damasco.
SMERALDINA, sua Damigella.
NORANDO, Negromante.
TRUFFALDINO ì ^ . . ^ , „
> Cacciatori del Re.
BRIGHELLA )
PANTALONE, Ammiraglio Zuechino,
DUE COLOMBE, che parlano.
MARINARI e ciurma di galeotti.
SOLDATL
SERVL
L^ azione è nella Città immaginaria di Frattombrosa,
e ne^suoi porti vicini.
ATTO PRIMO
Spiaggia con alberi, mare in burrasca da lontano,
nembo, tuoni e saette.
SCENA PRIMA.
Pantalone, affaccendato sulla corsìa d'una galera in
procella, suonerà un :(uffoletto, griderà colla ciurma, darà
degli ordini con delle grida, che saranno con/use dallo stre^
pilo del nembo. La burrasca anderà cessando, la galera
s'awierà verso la spiaggia.
Pant. {bastonando i galeotti con una corda e
gridando)
lA quel timon. Cazze quella scotta, ca-
I gadonaL A ti, marmitton.
Ciurma. Terra, terra.
Pant. Terra, terra, si sbasii; se non fusse mi su
sta galera 1 (fischia) Allestì all'ancora, am-
mazzaL
Ciurma. Sier sì» {La galera s^ avvicinerà alla
spiaggia^ si metterà la scala a terra).
Pant. A ringraziar el Cielo, cani, {fischierà tre
46 IL CORVO.
volte; ad ogni fischiata la Ciurma rispon-
derà con un urlo. Si farà vedere il Principe
Jennaro vestito da mercante orientale, uscirà
sulla spiaggia con Pantalone).
SCENA SECONDA.
Jbnnaro e Pantalonb.
Jen. Pantalone, io mi credei perduto a eoa or-
ribile burrasca.
Pant. Come! Sala da che paese sia mi?
Jen. Si, dalla Giudeca di Venezia; me P avrete
detto mille volte.
Pant. Mo dassenazzo, che, dove ghe xe Zuechinì^
. no pericola bastimenti. Ho impara a mie spese.
Do pieleghi e un trabaccolo ho rotto da Mala-
mocco a Zara per imparar el mestier. Ancuo me
tremava un poco le tavemelle, noi nego; no
miga per mi, né -per el pericolo, che za nù, non
fursi, semo usi a ste marendine; ma per ella. Oh
Dio, Pho vista a nascer; l'ho avuda su stì
bracci, tanto longo. La bon' anima de mia muger
Pandora r ha latta, r ho arlevada facendola bal-
lar su sti zenocchi; me par ancora de darghe de
quei basetti, quando che ella me spenzeva el
muso in là colle so manine, disendome: mo la-
sciatemi, che mi ruspitate con quella barba. In
somma, che cade? me par die la sia mio fio,
e temeva più per ella, che per mi. E pò ^o el
pan d'Armiragio dalla so famegìa, ho abuo
ATTO PRIMO. 47
mille beneficenze, che xe trent'anni, sin sotto
la felice memoria del Re so Pare, e pò son im
cuor della Zuecca, e tanto basta. , ^
Jkn. e vero; ho infinite caparre del vostro buon
animo, e della vostra bravura nella navigazione^
e in fatti Paver oggi ridotta in porto, e in
salvo questa galera da sì tremenda burrasca
basta per immortalare un Ammiraglio. Quanto
siamo lontani dal Regno nostro di Frattom-
brosa? Che farà questo tempo, Pantalone?
Pant. Questo se chiama porto Sportela. Dalla città
de Frattombrosa semo lontani diese mia. El
tempo va bonazzando; el vento se va zirando
da ponente. Da qua do o tre ore, nu gavemo
seren, e in tun' oretta e mezza al più semo a
Frattombrosa a consolar el povero Re Millo, so
fradello, al qual le recchie deve businar ogni
momento, perchè ella non fa altro die nomi-
narlo. El dièesser appassiona morto de no aver
de ella né niova, ne imbassada; che sia bene-
detto ai fradelli, che se voi ben. Possio dir an-
cora, che la xe fradello d'un Re?
Jbn. Sì, ora lo potete dire {guardando verso la
galera, da cui si vedranno uscire Armilla e
Smeraldina, piangenti, assistite dai servi). Ma
ecco la mia rapita Principessa, ch'esce dalla ga-
lera oppressa dalla mestizia. Partite, e fate di-
rizzare due padiglioni su questa spiaggia, onde
si possa prendere un poco di riposo, e rinfran-
carsi dalla passata burrasca. Spedite tosto un
48 IL CORVO.
messo per terra al Re Millo, mio fratello, a
dargli la notizia del nostro arrivo.
Pant. No perdo un'onza de tempo. Oh che gusto I
Oh che allegrezza l Oh che nozze, che avemo
da far a Frattombrosal I me dirà che son matto
a sentir allegrezza de nozze in età de settan-
tacinqu'anni; ma co sento a dir nozze, me par
anca de sentir quella solita ragazzada de rave
in composta, de sorzi pelai, de gatti scortegai,
e devento im putello. (Passando dinanzi alla
Principessa che verrà piangendo ). Eh cocola,
cocola, co ti saverà, chi semo, no ghe sarà tante
lagreme no. ( Entra e fa poscia piantare un
padiglione).
SCENA TERZA.
Jbnnaro^ Armilla, Principessa vestita all' orientale, av-
vertendo, che dovrà aver le ciglia e le chiome, fatte ad
arte nerissime. Smeraldina all' orientale. Le donne verranno
condotte dai servii e piangendo, I servi si ritireranno,
Jbn. Armilla, voi piangete, e il vostro pianto
M'è rimprovero acerbo. Eppure, Armilla,
Tanta cagion di pianto non avete,
Quanta credete aver.
Arm. Crudel pirato. (piange)
'Smer. Iniquo, traditor. (piange)
Jen. e ver; crudele,
Iniquo, traditor. Ma, Principessa,
Io vi dirò...
Smer. Che le dirai, ladrone?
Jen. Io le dirò...
ATTO PRIMO. 49
SuER. Boiacche le dirai?
Che ridur puòssi una real donzella
In sul tuo legno con preghiere ed arte,
Per mostrarle merletti, e drappi, e gioie,
E nastri e gale non più viste al mondo,
Ond'ella possa comperar, e scegliere
Ciò, che le piace più, così incitando
La femminil vana fralezza, e poi
Mentre sta intenta l' innocente in mille
Merci divèrse, le dirai, che puossi
Salpar il ferro, dar le vele a' venti,
Ridursi in alto mare, e a questo modo
Dal sen paterno distaccar le figlie?
Rapir le Principesse ? Ladro, infame,
Ben degno d'un capestro, e d'una forca.
D'una scure sul collo...
Jen. Olà, miei servi.
Levatemi di qua questa insolente.
Garrula femminetta ( vengono dei servi ). .
Arm. Oh Dio! Tiranno,
Solo con me vuoi rimaner? T'intendo.
Prima morrò... v
Jen. No, Principessa illustre.
Sol di scolparmi intendo, e male io soffro
D' un' arrabbiata femmina parole
Ingiuriose troppo, e che interfotto
Il mio discorso sia, che non mi toglie
La colpa no, ma raddolcir la puote,
E in parte a voi calmar l'angoscia. Vada.
( ai servi, che la conducono via a fon^a ).
Gozzi. 4
50 IL CORVO. » ^
Smbr. Iniquo, scellerato. Ciel, puniscilo.
( a parte ) Ah che del ratto i crudi vaticini
Che chiusi ho in sen, s'avveranno alfine.
^ ( entra condotta dai servi ).
SCENA QUARTA.
' . Armilla e Jennaro.
Arm. Barbaro, che dirai? Starami discosto,
Corsale ardito, e, s' altra arma non temi,
Rispetta in me. la figlia di Norando,
Principe di Damasco. Al suo potere
Pensando trema, e una vendetta attendi
La più feroce.
JpN. Avvenga pure. Intanto
Io dirò a voi, che vii corsal non sono,
Ma fratello di Re. Di Frattombrosa
È Millo Re; di Millo io son fratello;
Principe son. Jennaro è il nome mio.
Arm. Tu di Millo fratel? Di Re fratello
Di mercante in arnese, con inganno
Riduci in sul tuo legno le donzelle.
Principesse innocenti, e le rapisci 1
Jen. Sì, Armilla. QuelP affetto, che mi strigne
A Millo, fratel mio; l'aver inteso
L' inaccessibil cor di vostro padre.
Barbaro per costume, il caso avverso,
L' imperscrutabil caso a forza volle, .
Ch' io vi rapissi.
Arm. e qual imperscrutabile
ATTO PRIMO. 51
Caso un fratel d'un Re sforza a lordarsi
D'azioni indegne?
Jen. Eccovi il caso, Armilla.
L'amato- Millo,. mio fratel, che adoro,
Primogenito e Re, sin da prim'anni
Nelle cacce allettossi. Altro non mai
Cercò diletto. Nella caccia sempre
Fu indefesso, ed intento a tal, che, fuori
Da' destrier, da' falconi, ed archi, e cani.
Poco uscia co' discorsi. Or son tre anni,
(Terribile momento) che cacciando
Leprette e quaglie, in una selva giunse.
Sopra una quercia un nero Corvo mira.
Dà mano all'arco, l'arma di saetta,
Scocca e il trafigge. Sotto a quella pianta
Di bianchissimo marmo un bel sepolcro
Stava innalzato, e sopra quella candida
Lastra, ch'era coperchio al monumento,
II nero Corvo cadde, e starnazzando
Sparse vermiglio sangue, e uscì di vita.
Tutto il bosco tremò; sentissi un tuono
Spaventevole, orrendo e d'una grotta,
Quindi vicina, uscir vedemmo un Orco,
A cui sacro era il Corvo. ( Oh Dio, che vista 1 )
Era gigante; gli occhi avea di foco.
La fronte oscura, e fuor dall'ampia bocca
Di porco gli uscien denti, e schifa bava
Verde e sanguigna. O Millo, o Millo, disse,
Ti maledico; e con tremenda voce
Intuonò questi carmi. Ancor gli sento.
5» IL coRva
Se non ritrovi femmina^ che^ sia,
Come quel marmo bianca,
Vermiglia come il sangue del mio Corvo,
Di ciglia e chiome ad eguaglianza nere
Del mio Corvo alle penne, io prego Pluto,
Di smania e d' inquietudine tu mora,
Gdsì detto disparve, e il mio fratello,
(Mirabil caso!) in quell'augello fiso, '
In quel sangue, in quel marmo, affàsdniato;
Inquieto, rabbioso,- da quel loco
Più partir non volea. Di là con forza
Alla Reggia il ridussi. Da quel punto
Non argomenti, non riflessi, o, prieghi,
O mille arti bastar. Sospiri e lagrime,
Mestizia insuperabile, il fratello,
U caro fratel mio consuma e uccide ;
E folle per la Reggia ogni momento
Va reiterando; Chi di voi nù reca
Donna di chiome e ciglia nere, come
Le penne del fatai Corvo, e vermiglia,
Come il suo sangue, e bianca al paragone
Della pietra, su cui l'augel morio?
Arm. (a parte) Mirabil veramente è il ca^o, e nuovo!
Jen. Afflitto io mando ambasciatori e spie
Per tutte le città, di simil donna
In traccia, e indamo; che la candidezza
Di quella pietra, e del sangue il vermìglio
Di quel Corvo, ed il nero delle piume
Non si rinvenne in donna mai. Frattanto
Il mio caro fratel vedea perire.
ATTO PRIMO. 53
Io disperato allora armo un naviglio,
Ed in persona immenso mar solcando
Dall'Indo al Mauro ima tal donna cerco.
Vidi mille città, rare bellezze
Di donzelle infinite; e là 'nell'Adria
Vaghe beltà mirai candide, bionde,
Pallidette, gentili e maestose;
Ma la nerezza, ed il vermiglio, e il bianco
Della pietra, e del Corvo invan cercai
Per il corso d' un anno. Or son tre giorni,
Che in Damasco pervenni. Ad ima spiaggia
Un picciol vecchiarel lacero e lordò
Indovinò l'angoscia mia. Di voi
Mi die la traccia, e m'insegnò l'inganno.
Con cui potea rapirvi. Il genitore
Di lei (mi disse) fuggi. Alla finestra
Vi mirai, scorsi in voi le qualitadi
Sì desiate, ed in mentite spoglie
.^V'allettai colle merci, a tradimento ì
V'addussi sul naviglio, e traditore
Divenni poi rapendovi e fuggendo.
Arm. e perchè ne' due giocni di viaggio
Ciò mi celaste?
Jen. Il mio rimorso, i pianti
Vostri^ e l' abborrimentò, che mostraste .
Verso me, mi fer timido, e fur causa,
Ch' io non mi v' appressai, stimando meglio
Lasciarvi sola, ed aspettar il tempo
Con più quiete a palesarvi il vero
Della mia azion, che tuttavia m'affligge.
54 .IL coRva
Ma se l'estremo amor d'un mio fratello,
Se la necessità, se il caso atroce
M!han ridotto a tal passo, e se nel petto,
Come negli occhi vostri, e nel sembiante
Dolcemente apparisce, avete il core,
Perdono Armilk, deh perdoni... (s'inginocchia).
Arm. Jfennaro,
Sorgete. Dappoiché di Re consorte
Esser dovrò, del rigido mio padre.
Confesso a voi, che mal la schiavitude.
In cui barbaramente mi tenea,
Sofiferiva. Perdono all' error vostro,
E lodo in voi, che d'un fratello amante,
Raro esempio a' di nostri, a sì gran segno
Siate, o Jennaro.
Jen. {aliandosi) O umana, o saggia, o illustre,
O generosa Principessa.
Arm. Ma,
Che vai, Jennaro, il mio perdon? Compiango
In voi, misero, in voi tra i piCf infelici
La miseria maggior.
Jen. Qual iafortunio
La mia felicità scemar potrebbe?
Salvo un fratel, che più di me stesso amo:
Da voi dell'. error mio perdono ottenni:
Chi^può turbar?...
Arm. Norando, il padre mio,
Implacabile, fier,. di regia stirpe,
Insuperabil negromante, a tale,
Che ferma il sol, rovescia i raoriti alpestri,
ATTO I^RIMO. 55
Cambia gli uomini in piante, e ciò che brama,
Tutto avvien, quando voglia, il ratto Vostro
Non sofirirà. Del torto alta vendetta
Attendete, o Jennaro. Io vi compiango,
Sventurato garzone, e me compiango,
Che contro al rigoroso suo divieto
Di non uscir giammai dalle mie stanze.
Incauta, semplicetta e curiosa ..
Mi lasciai trar da voi. Millo compiango,
E quanti son del ratto mio cagione. '
Forse quella burrasca oggi trascorsa
Opra fu di mio padfe. Oh Dio! qual scempio
Attendo in breve, ed inaudito scempio 1
Jen. Ciò, che il Ciel vuol, succeda. Il mio contento
Il mio giubilo è tal, che concepire
Di mestizia l' idea per or non posso.
Armilla, quello è un padiglion.
( mostra un padiglione di dentro ) la quello
Le membra stanche dal naufragio andate
^ A ristorare; in questo io fo lo stesso.
{mostra l^ altro padiglione sulla scena).
Dopo poche ore di riposo il tempo
Si calmerà. Breve viaggio a Millo,
Mio fratel, condurracci.
Arm. , Io vado, io vado;
.Ma lagrime, sospiri, e angosce estreme
In breve, e non riposo, e gioia avremo (en/ra).
56 , IL CORVO.
SCENA QUINTA.
Pantalone e Jenna ro
Pant. e viva! Le fortune corre drio, come le ce-
riése. Altezza, fio mio, ve vogio dar una niova ;
no digo, che la sia granda, ma savendo quanto
sviscera che se per el vostro fradelletto, tanto
deiettante de cavalli, e de cazza, no la xe mo
gnanca piccola lù.
Jen. Che c'è, il mio caro Pantalone?
Pant. Mo ghe xe, che intanto che ella parlava
colla Prencipessa, me son retir^, come gera el
mio dover, e spasizava pjer sta piazza. Xe com-
parso un cazzador a cavallo. Oh che cavallo!
Son Zuecchin veramente, e doverla intender-
mene de battelli; ma ho visto anca dei cavalli
a sto mondo. Ob che cavallo da retrazzerl
Tigrà, ben quarta, petto largo, tanto de groppa,
^ testa piccola, occhi grandi, uria recchietta cusì,
el galeggiava, ^el saltava, el ballava in tuna
maniera, che, se el fusse sta una cavalla, dirla
che la fusse la più- brava ballarina del nostro
. secolo, che avesse fatto una tmsmigrazion pi-
tagorica, co'dixe i matti.
Jen. Questa è una rarità, e bisogna acquistarla per
mio fratello. ,
: Pant. Adasio, sentì de più e stupì." Sto cazzacior
aveva un falcon in pugno bellissimo;' e l'an-
dava gàleggiando su sto superbo cavallo. Bi-
ATTO PRIMO. 57
' s *
sogna che sta spiaza sia abondante de salvadego.
Xe salta su sie pernise, tre o quattro cotorni,
non so quante galina^e, e dei francolini. El
cazzador ha mola el falcon. Quel, che ho vistò,
par impossibile. Sto falcon, de volo vede, de
volo, co una zatta l'ha chiappa una pernise;
coir altra zatta un cotorno; col becco una ga-
linazza; e colla eoa... vu no mei credere, Al-
tezza, mo colla eoa, varenta el ben, che ve
vogio, colla eoa l'ha copà un francolin.
Jen. ( ridendo ) S' usa alla Giudecca di narrare -di
queste fole, Pantalone?
Pant. El Cielo me castiga, se ghe conto pan-
chiane. Gj una pernise in tuna zàtta, co un co-
tomo in tei' altra, co una gallnazza in tei becco,
quel maledetto ha coppa, sbasio^ un francolin
colla eoa.
Jen. Ma conviene acquistare questo eavallo, e que^
sto falcone certamente. Unite queste due rarità
alla Principessa, io fo mio fratello 1' uomo più
felice -che viva.'
Pant. No oceor altro, son in possesso, adesso le
xe mie.
Jen. Quanto vi costarono?
Pant. Quel che volesto; gnente; tre bezzi; sie
milioni de zecchini. No ho mai da esser pa-
ron mi, dopo tante^ beneficenze, che ho rece-
vesto, de mostrar una picciola gratitudine? Le
xe vostre ; vqgìo che le ricevè ; no vogio che me
le paghe; come ve comandava da piccolo, vo-
.58 JL CORVO. ,
gio poder vcomandarve anca' da grande qualche
volta. Via, andè un poco a repossar, che d
tempo se va facendo bon per sto resto de
viazo. Oe, digo, la Principessa, xe za in ho-
nazza ah?
Jen. Sì, e calmata. Ma certamente di questo vo-
stro acquisto dovete essere risarcito. Basta, ci
penserò io.
Pant. Mo via, sier pissotto, andè a dormir, no
me mortifichè. {ti parie) Ho speso dusento zec-
chini, e se avesse anca speso un occhio, averia
gusto, prima perchè sto putto xe le mie vi-
scere, e pò per far veder, che anca alla Zuecca
ghe xe dei Ceseri, dei Pompei, e dei Go-
fredi ( entra y
' Jen. {da se) Veramente buon vecchio, ottimo core,
' Carattere invidiabile. Io dovrei
Esser felice; eppure quanto disse
A me quel prodigioso vecchiarello,'
. Che Armilla m' additò, della possanza
Di Norando, suo padre, e quanto anch' ella
Mi disse poi, nel core mi conturba.
. Cerchiam qualche riposo ; io n' ho bisogno.
{va, e si corca sotto un padiglione in vista^.
il qual padiglione sarà da una parte sotto
un albero):
ATTO PRIMO. 59
SCENA SESTA. '
Due Colombe^ che, fatto un giro volando, si porranno
sull albero sopra al padiglione ; e Jbnnaro corcato.
Col. I. Infelice Jennaro, Principe sfortunato!
Col. 2. Perchè, cara compagna? chi lo fa sventurato?
Jen. {da se scuotendosi) Cornei Dove son io? qual
mai portento ,
È questo? Due colombe che favellano?
Che favellan di me? S'ascolti e taccia.
Col. I. Quel falcon, che ha in potere, appena a suo
f fratello
Consegnerà, il Calcone caverà gli occhi a quoUq;
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nulla mancherà.
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. (spaventato da se) Ahi barbara sentenza! e
fia ciò vero?
Col. 1. Infelice Jennaro, Principe sfortunato!
Col. 2. E per maggior disgrazia ei sarà sventurato?
Col. I. Del cavai, che ha in potere, appena suo
fratello
Salirà sopr'al dorso, sarà morto da quello.
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nulla mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. (da sé più spaventato) Sogno, o son desto?
O inumano decreto!
6o i IL CORVO.
Col, I. Oh infelice Jennaro! Principe sfortunato j
Col. 2. e a più gravi sciagure, misero, è con-
dannato?
Col. I Armilia, che ha in potere, se sposa suo
fratello,
La notte un mostro orrendo trangugierassi quello.
Se non gli reca Armilia, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è Infallibile; se in nulla mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. ( agitato ) Verso la mia persona saran .Corvi
Sin le Colombe? Oh un arcobugio avessi,
Malnati augelli! Dentro al mio naviglio
Ritroverò... (si leva furioso, le colombe fug'--
gono ) ■
Ma se ne vanno...
SCENA SETTIMA.
NoRAMDO e Jennaro. Al fuggire delle colombe apparirà
dal mare sopra un mostro marino Morando, vecchio vene-
r abile e fero} in vista, con vesti ricche all' Orientale;
smonterà sulla spiaggia, si farà incontrò con maestà a
Jennaro.
NoR. Ferma,
Scellerato, imprudente, ardito, iniquo
Rapitor di donzelle. Io son Norando.
Quelle colombe fur messaggi miei,
Veridici, infallibili. Va pure.
Quel falcon, quel destrier, .per opra mia
Qui giunti in tuo poter; la bella Armilia,
ATTO PRIMO. 6l
Armilla, dolce mia figliuola, reca
A Millo, tuo fratel. Del torto indegno,
Che a me facesti, pagherai la pena,
E pagheralla il fratel tuo. Norando, ^
Principe di Damasco, non è vile .
Da sofferir gli oltraggi. Se la fiera
Burrasca non bastò per farti chiaro
Del mio poter, s'avvereranno i detti
Delle colombe...
Jen. (supplichevole) Ma, Norando, ascolta...
NoR. No, non t'ascolto più. Dalla mia forza,
Che credi tu, che Armilla, ora tua preda.
Non si potesse tor? Vendetta io voglio,
Bramo vendetta sol, strage, rovina
Contro la stirpe tua, contro ad Armilla,
Disubbidiente a me. Norando offeso
Vendicato sarà. Conduci Armilla,
Quel destrier, quel falconej a tuo fratello
Tutto consegna, o pietra rimarrai.
Se con un cenno solo farai noto
Ad altri, fuor di te, quel gran periglio.
Che sovrasta al fratello, un freddo sasso
Rimarrai tosto. Ti rimani, iniquo^,
Nell'abisso crudel de' tuoi spaventi.
De' tuoi castighi. A rapir donne impara {sale
di nuovo sul mostro marino, e velocemente
sparisce).
Jen. (spaventato ed attonito) Misero me! che fo?
Conduci Afmilla,
Quel destrier, quel falcone; a tuo fratello
62 IL CORVO.
Tutto consegna, o pietra rimarrai!
Se con un cenno solo farai noto
Ad altri, fuor di te, quel gran periglio,
Che sovrasta al fratello, un freddo sasso
Rimarrai tosto! E s'io tutto consegno.
Gli occhi trarrà il falcone al fratel mio,
O morto fia dal rio destriere, o morto
Da un mostro fier, se sposo con Armilla
Si corcherà! Falcon, destriere, Armilla,
Orridi oggetti di spavento! Q caro.
Amato mio fratel, qual gioia è questa.
Ch'io reco a te, dopo sì lunghe pene
E sì lunghe fatiche, e pianti amari! {piange).
SCENA OTTAVA.
Pantalone e Jennaro, indi due servi, V uno de* quali avrà
in pugno un grande e vago falcone, V altro condurrà a
mano un leggiadro cavallo, uniforme al ritratto fatto da
Pantalone nella scena quinta, bardato e fornito riccamente,
Pant. Coss'è! no la dorme?
Jen. {scuotendosi) No, Pantalone.
Pant. La varda mo ste do zogiette. Oè putti,
vegnl via con quel falcon e quel cavallo, fe-
gheli goder {usciranno i servi col falcone e
col cavallo passando dinanzi a Jennaro; il
cavallo galleggerà con destre:{:{a ). O belli ! o
bravo, se no fusse vecchio, vorria farghe veder
mi a far quattro capriole su quel cavallo.
Jen, Ah caro amico... {piange).
Pant. {sorpreso) Cossa vedio! la pianze?
ATTO PRnCÒ. 63
Jen, Quegli oggQttL.(a parte spa^enìato) Ah troppo
Dissi, ed in freddo sasso già mi sembra
Ogni momento di cambiarmi...
Pant. Sì, questi xe i oggetti portentosi, che go
dito. No xeli una bellezza? e, za che vedo el
tempo fatto bon, vago a imbarcarli. Son sta
insin adesso a far compagnia alla Principessa;
gnanca ella no poi dormir, la xe smaniosa, af-
flitta. Cari putti, chi fifa de qua, chi fifa de
là ; me tolè el cuor. Me par che sia tempo de
allegrezza, e no de malinconie. (Jennaro prò-
romperà in pianto) Tolè: el pianzel Mo cossa
gaveu ?
Jen. (a parte smanioso) Oh Diol
Parlar non posso. ( a Pant. ) Un sogno, amico,
un sogno...
Un terribile sogno... Una fantasma...
Dov'è la Principessa?
Pant. Ah, no ghe altro, che sogni? E via, vergo-
gne ve. Sogni, fa;tasme... Vescighe, vescighe:
allegri. La Principessa vien adesso, e mi vado
a allestir tutto per sto resto de viazo. ( a^ servi )
Andemo. Va pi \n ti con quel puliero, che noi
se fazza mal. {alla ciurma) Su porchi, su
marmitoni, a salpar, a issar le vele, ai remi
{fischia^ entra n?lla galera coi servi e coi
due animali),
Jen. {da sé agitato) Oh me infelice 1
Che far degg'io? {pensa) Si lasci quel falcone,
E quel destriere in questa spiaggia. Armilla ^
64 IL CORVO.
Si riconduca al padre, (ri/lette) Ahnoj ch'io deggio
Tutto ài fratello consegnar, o in marmo
Cangiar deggio le membr^. Ma il fratello
Dovrà morir? Del caro sangue mio
Carnefice sarò? Crudel sentenza!
• Che far degg'io? (spav. ) Ma troppo il truce arcano ■
Co' miei gesti paleso. Ah Ciel, soccorri
Col tuo consiglio il mio barbaro caso (piange),
(scuotendosi) Sì, il Ciel m'assisterà. Raggio di luce
Par che la mente mia rischiari. Fa
Core, o Jennaro. ,
SCENA NONA.
Armilla, Smeraldina, Jennaro, Pantalone dalla galera.
Jen. (coraggioso) Armilla, tutto è pronto.
Andiamo Principessa (la prende per la mano).
Arm. • Io son con voi.
Smer. Principe, perdonate alle parole
Ingiuriose troppo. Io vi credea.
Non fratello di Re, ma reo corsale.
Jen. Sì, ti perdono, (a parte) Ciel, m'assisti. An-
diamo.
Pant. (dalla galera) Via, a saludar i Prencipi,
squartai, (fischia tre volte; la ciurma ad ogni
fischio risponde con un urlo universale. Im-
barcati i Principi^ si danno le vele à^ venti, i
remi all'acque, e colla galera tutti entrano).
L,
ATTO SECONDO
Stanza nella Reggia di Frattombrosa.
SCENA PRIMA.
Millo, sdraiato sopra ad origlieri nel fondo della scena
addormentato; e Truffaldino da cacciatore.
TrUFF.
SCE adagio per non destar il
Re. Parlerà basso, darà qualche
cenno del misero stato, in cui
sì trova il Re, dopo aver ucciso il maledetto
Corvo. Non bisogna impacciarsi con Corvi. Sa-
tira allusiva. Descrive la grassezza, e il buon
stato del I^e prima, la magrezza e il pessimo
stato dopo il corvicidio. E divenuto pazzo dopo
la maladizione del brutto Orco. Replica le pa-
role, che suol dir Millo, quando è preso dalla
sua smania.
O G>rvo, o G>rvo! Chi di voi mi reca
Donna Ai chiome, e ciglia nere, come
GozzL 3
66 IL CORVO.
Le penne del fintai Corvo, e vermiglia,
Come il suo sangue, e bianca a paragone
Della pietra, su cui V augel morio ?
, Ha udite tante volte queste parole, che, quan-
tunque abbia duro ^1 cervello, le ha apprese a
memoria. Ha compassione del Re. Per la bontà
sua egli è capocaccia della G)rte. II Re ha del
lucido intervallo, ma quando comincia a dire . . .
o Corvo, o Corvo ec. convien fuggire, perch' è
pericoloso. Ha ordine di destarlo alle nove ore,
perchè vuol andarsi a sollevare a caccia, sua prin-
cipale inclinazióne. Non sa, se le nove ore siano
suonate. Non vorrebbe errare, e farlo cadere ne'
suoi furori. In questo s' ode un orologio suonare
distintamente }e ore. Trufifaldino si rallegra di
sentir le ore, perchè potrà noverarle. Nel tempo
della sua contentezza l' orologio ha già battuto
tre ore. Truffaldino scioccamente comincia a
noverarle dopo le tre suonate; le novera per sei.
Corregge sé stesso della stolidaggine d' esser ve-
nuto così per tempo, e tre ore prima delle nove.
Pieno di timori adagio è per ritirarsi.
SCENA SECONDA. ,
Brighblla e gli antedetti.
Brio. Esce frettoloso con del romorp. Truff. Io mi-
naccia con cenni, perchè non desti la Maestà del
ATTO SECONDO. 6?
Re- Brig. che sono suonate le nove ore; è ve-
" nuto per destar il Re. Truff. con voce bassa,
che sono sei. Brig. con voce bassa, che sono
nove. Truff. alquanto più forte, che non sono
nove. Non vuol preminènze,^ egli è capocaccia,
sa ciò, che fa. Si riscaldano, si minacciano.
Truff. sempre sostenendo, che le ore siano sei,
e mostrando grandissimi riguardi, perchè il Re
non sia destato, alza le sue grida smisurata-
mente. Il Re si desta.
MiL. Chi è là? Chi fa romòr? Qual insolenza?
(furente per la scena)
Oh Corvo! Oh Corvo. .
Truff. Spaventato dalle parole pericolose, gridando
fugge da una parte. Brig. per la stessa ragione
fugge dall' altra; Millo furente segue il suo va-
neggiamento.
Chi di voi mi reca
Donna di chiome, e ciglia nere, come
Le penne del fatai corvo, e vermiglia
Come il suo ssmgue, e bianca a paragone
Della pietra, su cui l'augel morio? (si scuote)
Ma dove sono! In me stesso ritorno.
Oh amaro punto, in che scoccai quel strale!
Oh afifanno insofiferibile, che toglie
A me la vita, i sudditi conturba.
La Reggia empie di pianto, e dal mio fianco
Disgiunto ha il caro mio fratel Jennaro,
Di cui, sa il Ciel che avvenne: e per me, forse.
Solcando il mar, la vita avrà perduta!
68 IL CORVO,
SCENA TERZA.
Tartaglia e Millo.
Tart. (uscendo frettoloso) O Maestà, Maestà...
una gran nuova
MiL. Qual nuova? Altre sciagure? Di, Ministro.
Tart. Aspettate... attendete... è grande tanto,
ch'ella m'affoga... Un flesso ha portata la
nuova... che vostro fratello... (prorompe in
un pianto caricato)
MiL. Ahi! voi piangete? Mio fratello è morto.
Oh amato, oh caro mio fra tei! Chi mai?
Tart. No, no, no; piango d'allegrezza. È qui vi-
cino con la galera ; giugnerà fra poco. Ha seco
una donzella Principessa, rapita a Norando,
Principe di Damasco, che ha le chiome, e le
ciglia nere, le gifance, e le carni vermiglie, e
bianche in tutto, e per tutto, come le male-
dette penne, come il maledetto sangue, come
la maledetta pietra del maledetto Corvo, del
maledettissimo Orco.
MiL. Caro Tartaglia, ed è possibil questo!
Tart. La nuova è certissima. Un messo spedito
dal Principe per terra, l' ha recata. Dice che il
Principe è con la galera a porto Sportella, colà
salvato da una precipitevollssima burrasca per
la bravura dell! Ammiraglio Pantalone, e dice,
eh' io avvisi Vostra Maestà, che rischiarato il
tempo verrà alla volta di Frattombrosa. Il
tempo è bellissimo ; dev' esser vicino alla Città.
ATTO SECONDO. 69
MiL O Cielo! o sorte! o fratel mio diletto,
Quanti obblighi t'aVrò! Tartaglia, tosto
S' apparecchi la Corte. Al porto corra
Gente a veder, se la galera giugne;
Indi lieti andiam tutti ad incontrarla, (entra)
Tart. Uh, quanto furare I Andiamo a vedere que-
sta rara bellezza, questo sole, che ha tenuta
questa Città in mestizia tre anni, e perchè?
perchè somiglia ad un Corvo, (entra)
SCENA QUARTA.
Veduta del porto della città con una torre
fornita dì cannonL
Truffaldino, Brighella ed una Sentinella sulla torre.
Truff. e Brio. Accennano d'esser venuti al porto
per ordine della Corte a vedere se giunge una
galera. Truff. averà un lungo cannocchiale, con
cui in caricatura guarderà all' opposto del mare,
cioè r Uditorio. Scherzerà sopra gli oggetti, che
vede, spezialmente ne' palchetti, con modera-
zione ad arbitrio; concluderà di non veder ga-
lere. Brig. lo correggerà suU' errore, prenderà
il cannocchiale, guarderà verso il mare, scoprirà
una galera in lontano. Truff. prenderà il can-
nocchiale; guarderà; dirà, che quella è una fo-
lica. Brig. eh' è una galera. Truff. eh' è im' oca.
Brig. eh' è ima galera.^ Truff. sempre guar-
dando, eh' è un'asino, indi un'elefante ecc. a,
ya IL CORVO.
misura, che la galera s'avvicinerà, Truffa ve-
drà l'oggetto maggiore, e nominerà dei spro-
positati oggetti. La sentinella batterà una carni-
paria, griderà dalla torre : Una galera. Truff. ri-
man persuaso, e fatta una scenetta buffonesca
popolare, adattata alla* piccolezza dell'argo-
mento, da' due personaggi, correrà con Brighella
alla Corte per recar l' avviso, che la galera
giugne in porto.
SCENA QUINTA.
Udirannosi sette tiri di cannone dalla galera non an"
Cora in vista, che saluterà la Forte^^a ; si risponderà dalla
torre con tre tiri e si replicheranno tre tiri dalla galera
conservando le formalità marittime militari, Sentirassi il
s^uffoletto, e la voce di Pantalone^ che grida colla ciurma
Apparirà la galera fornita di bandiere, e fiammole^ con
suono di vari strumenti militari. Dalla torre si suonerà il
tamburo. Si porrà la scala a terra alle grida di Pantalone,.,
Usciranno
Jbnnaro, Armilla e Smeraldina.
Jen. (mesto, e con qualche agitatone)
Eccoci, Armilla, a Frattombrosa. È questa
La Città, dove, a Re consorte, in trono
Salirete fra poco.
Smer. ^È bella, è allegra
Questa città.
ATTO SECONDO. . 71
Arm. Bella; e felice asilo
Prometton questo mar placido, e i colli
Aprici, che il circondano^ quest' aura,
Che si respira; le promesse, e il dolce »
Temperamento, e nobil -di Jennaro: (vp'so Jérm.)
(ironica) Ma di Jennaro quell' affanno interno,
Ch'egli si sforza a ricoprir, palese
Fatto dagl'inquieti movimenti.
Da furtivi cospiri, il cor mi passa.
Ed- altro mi promette, che felice
Asilo, e trono, e nozze, e lieta vita.
Jbn. (scuotendosi) Forse l'azion ch'io feci di
rapirvi,.
Non ben nell' alma vostra perdonata...
L'esser voi fuor del patrio tetto, e in mezzo
A nuova gente sconosciuta, in petto.
Vostro mal grado, ed a ragion vi desta
Mille sospetti, e di veder vi sembra...
E vi sembra d' udir .,, (a parte affannoso) Cruda
condanna
Che il palesar mi togli!.. Ah che tormento 1
(guarda dentro^ poi con velocità, ed agita-
zione)
Eccovi, Armilla, il caro mio fratello.
Lo sposo vostro, che s' avanza.. Deh
Rasserenate il ciglio. D' amarezza
Non s'empia Millo, che tant'amo. Troppo
Fu sin or flagellato, afflitto, e oppresso, (cor-
rendo verso Millo)
Millo, v'abbraccio, e bacio.
72 IL CORVO.
SCENA SESTA.
Millo, Leandro, Tartaglia, guardie, e detti,
MiL. O caro, o amato
Jennaro, fratel mio, chi vi conduce
Ancor tra queste braccia! (si abbracciano e
baciano con notabile trasporto e tenere:{^a)
Lean. (a Tart) Bell'esempio di due fratelli!
Tart. O fratel mio Pancrazio, traditore dove sei?
che dopo avermi in casa, e fuor di casa rubata
tutto a forza di farmi lite m' hai fatto vendere
sino alle brachesse!
MiL. (osservando Armilla con allegre^^^d, ed am^
mirapone) È questa?...
Jen. Sì, la Principessa è questa
Armilla di Damasco, a voi la reco.
MiL. O bellezza splendente ! (da se) Ecco le guance
Ecco le chiome, e ciglia prodigiose,
Con sì ardente implacabile martire,
E sì funesto desiate, alfine
Al mio fianco averò. Sento di gioia
Colmarmi il séno, e il barbaro tormento
Dal mio cor si dilegua, (aito) Novamente
V'abbraccio fratel mio. (abbraccia Jenn,)
Smer. (basso ad Arm.) Vi piace il Re?
Arm. (basso) Mi piace.
MiL. Voi, Tartaglia, andate tosto
Al reale palagio a far, che sia
' Addobbato, ecjl in punto, e voi, Leandro,
ATTO SBCOHDO. 7}
Al tempio andate. I sacerdoti tengano
Parata FAra, ed alle nozze pronta.
Tart. (da se) Uh, uh; che fretta! è guarito, è
guarito.
(alto) Corro ad obbedire vostra Maestà (entra)
Lean. Al tempio io volo, (in atto dì partire)
Jen. (agitato) No, fermate, Leandro... ^ (a Millo)
Appena giunta?...
Così tosto fratello?...
MiL. (sorpreso alquanto) E che s'oppone?
(ad Arm.) Voi, Principessa, il mio stato infelice
Cambiaste nel più allegro. Il caso mio
Già il fratel v* avrà detto. Or mi risanano
Quelle chiome, quel ciglio, e il bianco viso,
Quella vostra presenza; e sol mi duole,
Ch'io fui cagion, che fuor del patrio tetto,
(Per rimedio al mio mal, che iniqua stella
Scagliò sopra di me) voi tratta foste,
E forse vi dolete. Supplichevole
Io vi chiedo perdono, ed una destra
V oflfro d' un Re. V oflfro uno sposo forse
Abbonito da voi, ma che nel seno
Arde di brama, ch'uno sposo abbiate
In me, conforme al genio vostro, e se
Tal lo trovate, in questo punto accese -
Fieno le tede, e mia sposa sarete.
Fortunato momento avidamente
Desiato da me! Dal vostro labbro
La mia vita, o la morte omai dipende:
Violenze io non uso, e j5P morire.
74 II* CORVO.
Smek, (basso ad Arm.) È bel; vi piace; è tenero;
è gentile;
E Re; v'adora; a che tardate?
Arm. Millo,
Vostra son, noi ricuso, e pronta sono
Per l'aitar, per le nozze.
MiL. O generosa,
Umana Principessa! Voi, Leandro,
Servitela alla Reggia, ond'ella possa
Alquanto riposar. Frattanto al Tempio
Vadan gli ordini miei.
3mer. (basso ad Arm,) Via, state allora.
Andiamo; allegra.
Arm. (basso) Ah, Smeraldina mia,
Questo Cor non lo vuol. (servita Armilla
da Leandro^ dopo urC inchino, ed un^ occhiata
notabile a Jennaro che sarà immerso in una
profonda malincomay parte)
Smer. (a parte) La compatisco.
Se sapesse i pronostici!... Qui vedo
Un certo che... Ma forse saran fiabe.
Le nozze non turbiam. (entra)
SCENA SETTIMA.
Millo, Jinnaro indi Pantalone e servi
lUxL. (a Jén.) Perchè tardanze
»Alla mia contentezza, al mio conforto
Volevate, o Jennaro?
ATTO SECONDO. 75
Jenn. (mesto e confuso) Io mi credea
Dopo un lungo viaggio... Or basta... Or bene...
(a parte agitato) Oh Dio! crudo Norando!
e tacer deggio ! (vedendo uscir dalla galera
Pantalone^ e i servi col cavallo, e il fai"
cone, segue da se affannoso)
Ecco il falcone, ecco il destrier venire;
Eccomi al duro passo. O Giove sommo,
Soccorri a me, al fratello, e fa ch'io possa
All'orrenda sentenza oppor l'ingegnoi
MiL. (da sé, che V averà osservato) Il fratello che
ha? più noi conosco, (s^ avan:(ano i servi
col falcone, e col cavallo che verrà saltel^
landò. A cenni di Pantalone si fermano da
una parte. Pantalone s^^van:[a con umiltà.
Pant. Xe permesso a un povero vecchio, inu-
tile ai so paroni, de basarghe la man? (bacia
la mano a Millo)
MiL. Disutil voi ? De' Cortigiani suoi
Il più utile in voi Millo contempla.
Il valor vostro al procelloso mare
So che tolse un fratel, che tolse Armilla,
La vita del Re vostro.
Pant. E1 Cielo, che ghe voi ben a ella, ha assi-
stio la mia poca abilità. La ringrazia el Cielo
in primo logo, e pò el coraggio, l'amor, el
cuor, la rara fortezza fraterna del Principe
Jennarb, verso el qual, me sia permesso el
dirlo con tutte le viscere, e senza riguardi,
^ no la pagherà mai le so obbligazion.
76 IL CORVO.
MiL. Si, il confesjso. (osservando il falcone,
e il destriere)
Ma si doni all'estrema debolezza
Del mio genio alla caccia. Quel destriere.
Quel falcon sono i due più rari oggetti,
Che alla mia inclinazion servisser mai.
Di chi sono? (Jennaro si mostrerà inquieto)
Pant. De chi ? De quel so fradelletto, che no spa-
ragna mai attenzion per indovinar quali og-
getti «possa esser più grati a un'altro so fra-
delletto.
MiL. Vi son grato all'estremo.
Cari son quegli oggetti al fratel vostro.
Jen. (da sé agitato) Del barbaro decreto ecco il
principio.
Coraggio. Si, fratel, questo è un falcone,
(prende il falcone)
Ch'è raro mostro di bravura, ed io
Nelle man vostre lo consegno.
(va incontro a Millo col falcone)
MiL. (con atto di contentej:^a appressandosi per
riceverlo)
È vago.
Quant' obbligo ! . . .
Jen. (smanioso a parte) Si salvino le luci
Al fratel mio, (consegna a Millo il falcone,
e neir atto medesimo sfodera un coltello,
che avrà nella cintura, recide il capo al
falcone, lo getta in terra con impeto, e ri^
mane ottuso).
ATTO SfiGONbO. 77
MiL. (sorpreso) Qual stravaganza è questa!
Pant. (attonito) Cossa diavolo aveu fatto 1 Un fal-
con de quella sorte, che copava i francolini colla
eoa? Oh poveretto mil Son storne, non intendo
gnente.
^MxL. (con sussiego) Era vostro, ' fratel. Se v' era
caro,
Potevate tenerlo. Vi sovvenga,
Fratel vi son, ma vi son Re.
Jen. (confuso) Scusate...
Un ratto... un entusiasmo... (a parte dispe-
rato) Acerbo arcano!
E svelar non ti posso! (con amorevolena)
Quel corsiere,
D'ogni altro più gentil, vi risarcisca
Dell'ucciso falcon. Su quel salendo,
E ritrovando in quello una destrezza,
Ch'unqua non fu in destrier, vi scorderete
Della perdita fatta, e eh' ora il mio
Cieco entusiasmo cagionò.
MiL. (da sé) Vaneggio;
E non so indovinar ... Si, quel destriere
Accetto, e salirò. Sino alla Reggia
Proverò il suo valor. Nel cocchio mio
Voi salirete insiem coli' Ammiraglio.
(I servi avvicinano il cavallo; Millo prende
le redini per salirvi)
Jen. (da sé con furore) Date forza voi. Numi, al
braccio mio.
Sicché un fratel possa salvar da morte.
78 IL CORVO.
Pant. La aspetta, Maestà, che me vogio dar Ponor
. de tegnirghe la staffa, (prende la staffa; Millo
porrà il piede nelV altra staffa^ e nelV atto,
cW egli è per salire a cavallo, Jennaro sfodera
rando velocemente la spada, con un colpo ta-
glierà le gambe dinan:{i al cavallo, il quale
cadendo addosso a Pantalone lo getterà in
terra) Oi, oimè, aiuto. Cos'è ste cosse 1 Ah
che un strolego me l'ha dito: impazzevene
colle vostre barche, e ste lontan dai cavalli.
(Viene sbaraif^fato di sotto al cavallo dai servii
e condotto via zoppicante). Guardie, zente, per
carità abbiè occhio, che no i se offenda tra fra-
delli. (entra)
MiL. (con fieres^^a) Fratel, v' intendo : il procurar
ritardo
Alle mie nozze, e l' inaudita, e strana
Forma d' insolentarmi co' dispetti
Chiaro palesa un cieco, inopportuno,
E folle amor, che per Armilla avete,
E ch'odio verso me v'accende il seno.
Vamo, fratel; de' benefizi vostri
Non v'abusate. Non sorpassi innanzi
L'eccesso vostro; o. Re, saprò punirvi.
(aparte) Quale sospetto!., gelosia m' agghiaccia,
Mi strugge il core. È troppo bella Armilla;
Jennaro m'è fratel; ma amor non guarda
A congiunti, ad affronti, ad odj, a risse . . .
Ah, che mi sento il foco entro alle vene.
(parte dispettoso colle guardie)
ATTO SECON0O.
79
&N. Fratello... Millo... O Dio! sdegnoso ei parte.
E dirgli non potrò: troncando il capo
A quel falcon, le gambe a quel destriere,
Le care luci ti serbai; la vita
T'ho difesa, o fratello? E, se l'arcano
Paleserò per iscusarmi, in pietra
Cambierassi Jennaro! Ah pazienza
Di quanto fii sin' ora. Come mai,
Se sieguono le nozze con Armilla,
Potrò salvar dal minacciato mostro
Questa notte il fratel? Tutto il mio spirto
Certo porrò per far che sia deluso
Di Norando il poter. Tentisi ogni opra;
Si mora alfin, pur che il fratel sia salvo.
ATTO TERZO
Sala Regia.
SCENA PRIMA.
Millo ed Armilla.
MiL. I^^^K^RMILLA, del cor mio parte più cara,
|(con calore) Armilla del mio cor
strazio e rovina,
Io più non posso...
Arm. Che vi turba e affligge?
MiL. Jennaro, mio fratel, v'è amante. A voi,
Crudele, tutto è noto, e mi celate
Ciò, che il sapere a morte mi condanna,
E il non sapere in più terribil forma
Cadavere mi rende.
Arm. Qual follia,
Millo, v'assale?
MiL. Ingrata 1 io non son folle.
I dispetti a voi noti, e i modi, usati
Verso me dal fratel, parlan svelato.
Gozzi. 6
82 IL CÒRVO.
Or per la Reggia i miei fidi ministri
Mesto e pensóso Than veduto andarsi,
E come fuor di se. Sospiri e lagrime,
Affannosi sospiri, e pianto amaro
Versar dagli occhi, indi celarsi invano.
Deh mi togliete un sì barbaro peso
Da questo sen; tutto narrate, e datemi
. A un colpo sol la morte.
Arm. Io non vi niego,
Millo, le stravaganze usate, e questo
Sospirar, lagrimar, che mi narrate,
Sospettosa mi rende. Del cor mio
Render posso ragion. Millo, io v'adoro,
. E, se v' inganno, un fulmine dal Cielo
Gaggia su questo capo. Per le nozze
' Pronta son. Più verace e chiaro pegno
Dell'amor mio non saprei dare ad uomo.
Strano vi parrà forse un così forte.
Ed improvviso affetto, una sì salda
Simpatia, ch'ho per voi, che romanzesca
Sembra ed inverisimile. Di questa
In gran parte è cagione il fratel vostro
Che nel breve viaggio, che facemmo
In questo di, co' più sqavi modi,
Co' più vivi colori, e con favella
Seducente, di voi sempre parlommi;
E la bella presenza, e i dolci modi,
E il cor sincero, e l'indole costante
. Mi dipinse anelando, e a tal, che prima,
Ch'io vi vedessi, era di voi ferita,
ATTO TERZO.
^3
Allacciata per voi. Se sì bell'arte
Generosa ed industre in fevor vostro
Usata da Jennaro, lo condanna, ''
Questo è quanto di lui narrar vi posso.
MiL. Ma perchè mai con stravaganti modi,
E disprezzi, ed insulti molestarmi?
E perchè sospirar? perchè lagnarsi
DeUe nozze ordinate? Armilla, certo
Qualche affetto improvviso, violento
Preso ha Jennaro, or che privar si vede
Di si bel sol, né a voi, né al fratel osa
Palesarlo e fremisce. Eccolo appunto. .
Cor mio, deh per l'amor, che dimostrate,
E ch'io non merto, per quel sacro nodo.
Ch'oggi prometto, e che sciorrà sol morte,
Pria di passare al Tempio, procurate,
Ch'ei vi palesi il ver; siate contenta.
Ch'io qui celato ascolti. Non v'offenda
Un geloso furor, che mi divora.
Un'inquieta brama, che in me regna
Di possedervi, e possedervi in pace (si cela
in dietro)
Arm. Appagatevi pur; nulla m'offendo.
SCENA SECONDA.
Jennaro, Armilla e Millo celato,
Jen. (ottuso, non scorgendo Armilla, da sé).'
Sin or provvidi, o parmi aver provvisto
Per torre a morte il mio fratel. Le nozze
84 .IL CORVO,
I ministri apparecchiano, ne trovo
Norma a salvar dalla vorace fera,
Da Norando crudele minacciata,
Le carni sue. O umano ingegno frale I
O tremor, che le viscere mi scuoti!
O barbara cagion de' miei tormenti,
Palesar non ti posso! (vede Armilla; si spor
venta) Oh Dio! qui Armilla!
Che m'abbia udito? Già ribrezzo e spasmo
Mi stringe il core, e di cambiarmi in pietra
Mi sembra ogni momento.
Arm. {appressandosegli) Sono queste,
Jennaro, le allegrezze, e quella gioia,
E quelle nozze tanto desiate?
Con sospir, con singulti, con affanni.
Con strani modi, con dispetti enormi
S'accendono dissidi? S'accompagnano
Con tai feste le nozze? Quelle nozze
Da voi volute, e per si lungo tempo,
E. sì lunghe fatiche, da voi stesso
Procurate al fratello? Sì felice
Principio hanno i miei giorni in questa Reggia?
Ditemi il ver, Jennaro ; avete forse
Qualche timor sì fòrte di Norando,
Mio genitor, della sua gran possanza
Che fuor da' sentimenti oprar vi faccia?
Confessatemi il vero.
Jen. ( da se agitato ) Oh Dio4 m' ha inteso
A favellar, {alto con franchei^a sformata) Ah
qual pensiero mai
ATTO TEJ^ZO. 85
Inopportuno, Armillà, e vano e frale
Vi prende? Di che mai temere? In questa
Reggia Siam salvi.
Arm. Adunque, qual cagione
Vi fa si strano, impaziente, e torbido
Disturbator della mia pace, e della
Pace del fratel vostro, e delle nozze? .
Confessatemi il ver. {con dolce:{^a) Forèe?...
Deh dite...
Confessatemi il ver. Forse v'han preso
Queste, quali si sieno, mie fattezze, '
Di stravagante ed improvviso amore.
Che vi metta in tumulto? Ah no, Jennaro;
So, ch'io mal penso. i. è vero? A Millo vostro.
Che tanto amate, un sì gran torto mai
Non fareste, o Jennaro. . . è vero ?. . . A Millo,
Ch'è le viscere vostre, e sì vi preme.
Non torreste la vita... è ver?... Piangete!
Oh Dio, che vedo mai? Piangete^
Jen. ^ Armilla,
Non è ver ciò che dite. Amo il fratello,
Più che le carni mie. So, che in voi stessa
Amar dovrei del fratel mio la sposa... {a parte
con affanno)
Troppo dico... che penai... che barbarie!
{ad Arm.) Altro non posso dir, ne deggio dirvi,
Ne vi so dire.... {s^ inginocchia) E solo col
più forte
Sentimento dell'alma, per l'affetto,
Che avete pel fratel, per quel dolore.
86 IL CORVO.
Che mi trafigge, se pietà in voi regna,
Sospendete le nozze; a mio fratello
In preda non vi date... {prende per una mano
piangendo Arm.)
^ MiL. {facendosi innanzi furioso ) Ah traditore,
Non più fratel ; t' intendo. ArmiUa, al Tempio.
È già parata PArau Io saprò infine
Bagli attentati, e insulti d' un rivale.
Più reo, perch'è fratel, difender voi,
Difender me. Degli ordini opportuni
Darò. Cadrà, se con maggiori eccessi
Si avanzerà. Trema, fratello. Andiamo,
' Che la notte s' appressa, e impaziente
Mal soffro ogni tardanza. Andiamo, Armilla.
Arm. (a parte) O nozze di miseria e non di gioia!
{entra con Millo)
Jen. (furetìte) 0 sentenza ! o decreto intollerabile !
O makdelto Corvo! maladetto
Il punto sia, che dallo strai trafitto
Di mio fratel cadesti. Eccomi oggetto
D' abborrimento e d' odio al fratel mio, -
Ad Armilla, alla Corte, al popol tutto, .
E d' innocenza oggetto. Ah, l' innocenza
Che mi vai, se non posso palesarla? {piange)
ATTO TERZO. 87
SCENA TERZA.
Spalancasi un p€:{\o della tappe:{\eria,
e comparisce con prodigio Norando,
NORANDO e Jennaro.
NoR. Si, palesala pure. Un duro marmo
Diverrai- tosto.
Jen. (spaventato) Tu, Norando I Come
^ In questo loco?...
NoR. Non mi chieder questo.
Io tutto posso. Tu il falcone, e tu
Quei destriere uccidesti, maggior ira
Nel mio petto accendendo. Se tardasti
La mia vendetta, segua la vendetta,
E questa notte divorato sia
Da un dragone il tuo Millo. Va, pale^
L'arcano pur; in freddo sasso tosto
Cambierassi il tuo corpo. U mondo pera,
Ma l'affronto a Norando inesorabile
Che tu facesti, vendicato fia. (in atto di pari.)
Jen. (in atto supplichevole) Norafìdo... deh No-
rando... Signor mio...
NoR. No, non t'ascolto. A rapir donne impara.
{rientra nella tappe:{ieria^ che si ristabilisce)
Jen. {disperato) O nimico implacabile, infernale
Persecutor, che più dell'ombra mia
Mi sei sempre d'intorno, e di spavento,
E di furore, e di dolore il seno
M' empi, e la mente e di ceraste e serpi !
88 IL CORVO.
SCENA QUARTA.
- Esce Pantalone con una benda bianca alla testa, ro-
perta dalla sua berretta., e con altra benda e un braccio
al collo.
Pantalone e Jennaro.
Jen. {con passione) Ah, buon vecchia e fedele;
oggimai solo
Io cferto son, che m'ami. Come mai
Voi qui? se mi fu detto, che impossente.
Per la percossa del destriero, in mano
De' chirurghi eravs^te ? Io fui la causa
Anche del vostro male. Umil vi chiedo
Perdono, amico.
Pant. a mi perdonànzal a un vostro servitor? a
un che ve adora? che v'ha brazzolà? a un
cuor della Zuecca? xe vero, gera in man del
cerusico, el m'ha drezzà sta man, che gera
stransia, el m' ha messo una chiarada qua sulla
- testa, che gera un poco rotta, come vede (si
scopre e mostra la benda) el m'ha onto tutto
el corpo, che gera pien de lividure; no me
podeva mover; no podeva arfiar; ma le pa-
role ... le parole, caro fio, ha buo più forza de
quanti cerotti ghe xe a sto mondo. Ogni mo-
mento sentir a dir: In Corte' ghe dessension
tra fradelli. El Re xe in collera. El Prencipe
l'ha offeso in cento maniere. I ha cria tra de
ATTO TERZO. 89
elli. El Re ha manazzà el Prencipe della vita.
No poi far che nassa qualche tragedia. Tutta
la città mormora. Questi xe quei medicamenti
pezo del mal si, ma che m^ha scazza d^l letto^
che m'ha fatto desmentegar -el dolor, che ha
dà tanta forza a sto povero vecchio infermo,
inutile, ma che xe tutto cuor, de vegnirvè a
veder, de vegnir a intender dalla vostra bocca
la causa de sti desordeni, de consegiarve con
sincerità vera, con vero amor, e de perder sto
misero avanzo de vita ih vostro servizio, se
altro noi poderà far.
Jen. (a parte commosso) Povero vecchio, tutto
mi commove.
{alto) Deh non piangete. Pantalone. È vero
Tutto ciò che fu detto, ma cagione
Tutto è di pianto a me, non già ad altrui.
Pant. Caro fio, caro el mio cuor. Ah scuse, se ve
parlo, come se ve fusse pare, e no come sud-
dito, come servo; diseme tutto a mi. Da cossa
nasce ste vostre stravaganze improvvise? sti
torti? ste insolenze che fé a vostro fradello? a-
vostro fradello, che gera pur l'unico vostro
amor. Se ave qual cosa de sconto in tei cuor,
se ve xe sta fatto qualche affronto, palesemelo.
Se gaverè rason, mi cusì vecchio, che me vede,
sarò el primo a suggerirve el resarcimento, ma
una vendetta nobile e da par vostro. Quel-
r ammazzarghe un falcon in tele man, quel
tagiarghe le gambe a un cavallo, mentre el sta
90 IL coitvo. ^
: per montarghe in sella^ perdoneme, alla Zuecca
sé ghé dirla bassezze, vendette da scortegaori^
e no mai da un Prencipe, come se vù. Se
gnente ho mai merita, se amè el vostro onor,
se no ave piaser della morte d' un povero vec-
chio che ve voi ben, espettoreve con mi, feme
degno... feme degno della vostra confidenza;
no fé, che mora aspettator de quelle desgrazie,
che se va descorrendo, e che solo a pensarle
me sento a passar el cuor da cento stilettae.
(piange)
Jen. Ah, caro amico, vecchio benemerito,
Esempio raro d'ogni servo, onore
Di quell' alma Città, che vi produsse,
A che cercate di troncar le angosce
Col raddoppiarle, la ragion cercando
D'onde la ragion nasce, che v'affligge?
(a parte) Ah troppo dissi; il sangue mi s'ag-
ghiaccia.
Pant. Via sì, caro; lassemo i parlari da oracoli,
paleseme tutto ; tronchemo ste dissension ; deme
quella man; andemo al Tempio insieme, e là
in mezzo a tutto el popolo aspettator delle
nozze, mostreve allegro, abbrazzè vostro fra-
delio, el vostro sangue, deghe un basazzo e
femo morsegar tante lengue cagadonae, invi-
diose della concordia, e deUa pase.
Jen, (con agitazione) È dunque al Tempio mio
fratello, e seguono
Le nozze, è ver?
ATTO TERZO. 9I
Pant. ( con sorpresa ) Sior ! . . . piase ! . . T che cossa
sentio, ve despiase forsi ste noz^e? averessi
qualche amor per la... eh via!... chi sa? perchè
no? sé zovene... delle volte no se poi defen-
derse... Perchè no dirmelo quando gerimo in
galera? Averla volta el spiron all'opposto, e
saressimo -andai .. . che sogio mi? se no altro
alla Zueccg.
Jen. (da se) Ogni parola mi spaventa, e panni
D'aver Norando in faccia, di vederlo,
D'un freddo sasso rimaner. Si pensi
A salvar il fratello. Ogni discorso
Si fugga di cimento, (alto) Pantalone,
So che nella mia dura circostanza
Tutti mi son nimici, e che voi solo
M'amate ancora. Io giuro al Cielo, e a voi.
Ch'amo il fratello mio più che me stesso.
Che in Armilla amo una cognata solo.
Che non potei non far quant'oggi ho fatto.
Di più non dico. L'onor mio, la fama
All' amor vostro, e l' innocenza mia
Raccomando, e vi lascio, (a parte) Un mezzo
il Cielo
Par che m' ispiri. O salverò il fratello,
O per suo amor perderà anch'io la vita, (m
atto di partire).
Pant. No, no, vogio seguitarve, vogio star con vu;
fermeve, sentì; diseme...
Jen. {con sussiego) Io vel comando. Rimanete.
Addio, (entra)
92 IL CORVO. ^
Pànt. (stringendosi nelle spalle) Resterò, Son ser-
vitor. Devo obbedir. Ma cossa mai xe sti arcani !
Io, giuro al Cielo, e a voi
Ch' amo el fradello mio piii de mi istesso.
Che in Armilla amo solo mia cugnada.
Che no podei no far quello, che ho fattoi
Indovinela ti, grillo. Mi non intendo gnente.
Qualche diavolo, ghe xe, ma scometto tutto el
sangue, che ho in tele vene, che el dise la ve-
rità. Mi lo conosso sto putto. L' ho arlevà niL
L' è sta sempre l' istessa sincerità insin da pi-
cbenin; noi xe mai sta capace de dir una bu-
sia. Se el rompeva una tazza, se el toleva un
pomo, se el fava pissin, no V è mai sta capace
de scusarse con quella fandonia, che ghe inse-
gnava la bonanema de mia muger, che gera
la so nena. Xe sta el gatto, la massera, el totò ;
missier made; el diseva subito: son stato io,
ve domando perdonanza, noi farò più; e cusì
dal primo dì, che Tha scomenzà a parlar, sin
ancuo, che el ga vint' anni, noi xe mai sta ca-
pace di dir una falsità. So mi, che passion, che
ga costà el rapir la Principessa con finzion ;
ma se trattava della vita de so fradello, biso-
gnava farlo. -O Giove, suggerime vu, come
possa defender un'innocenza, che non posso
mostrar, ma che xe innocenza segura. Pove-
retto! a mi el s'ha raccomanda, a mi solo. L'è
abbandona da tutti, caro el mio ben.
Atro TERZO. 93
SCENA QUINTA.
Leandro e Pantalonb. ^
Lean. (uscendo affaccendato) Dite, Ammiraglio;
il Principe Jennaro
Vedeste voi? -
Pant. {sorpreso) Perchè me domandeu stacossa?
Lean. Perchè mi furon date
Commissioni dal Re.
Pant. {a parte) O poveretto mi! (^//o)Che com-
mission gaveu, caro sior Leandro?
Lean. (collerico) L^ avete voi
Veduto, o no?
Pant. L'ho visto; ma diseme per carità i ordeni
che gavè.
Lean. Ma dov'è andato, ch'io
Noi posso ritrovar?
Pant. Co saverò le commission, ve lo insegnerò.
Lean. Non son tenuto
Gli ordini d'un Monarca a palesarvi.
Lo saprò ritrovar senza di voi. (entra fret-
toloso )
Pant. Ah canil ah cani! Certo i ga qualche or-
dene resoluto e crudel. I me lo perseguita, i
me lo voi tor su.
94 IL CORVO,
SCENA SESTA.
Tartaglia e Pantalone.
Tart. {uscendo affaccendato) Ammiraglio, avete
veduto Leandro?
Pant. Sì, l'ho visto; cossa volevi? (ironico) Se
allegri, che par che andè a nozze. Avere da
darghe qualche bona nova.
Tart. Dov'è andato? ditelo presto. Ho degli or-
dini del Re.
Pant. Ah caro Tartaglia, se me se amigo, se me
volè ben, diseme i ordini che gavè.
Tart. Io non ho difficoltà, ve li dico subito. Lean-
dro aveva l' ordine di dare l' arresto al Principe
\ nelle sue stanze. A me ha cresciuta la dose ; è
inquieto, non è contento di questo ; ma vuole,
che immediatamente sia condotto nell' Isola del
pianto e colà confinato.
Pant. In tell'Isola del pianto! el Re contro un
fradello tanto benemerito? contro el so san-
gue? ste crudeltà? Povero innocente!
Tart. Innocente? Se gli ha scannato un falcone
nelle mani,^ ammazzato un cavallo sotto; ma
voi dovreste ricordarvelo ; avete per quel caso
un braccio al collo e la testa rotta.
Pant. No importa gnente* Nissun sa la rason de
ste cosse; mi la so, np la so, ma .so che l'è
innocente.
ATTO TERZO. 95
Tart. Ma se dopo tutte queste insolenze il Re
Pha ritrovato ginocchioni innanzi alia Princi-
pessa che le baciava la mano, che l' accarez-
zava, e le diceva piangendo : Uh, ben mio, uh,
vita mia, non sposate mio fratello, se non mi
volete morto? È innocenza questa?
Pànt. (a parte) Mo cordoni! questa certo xe
granda. (alto) Cosa importa? Cossa saveu vu
i arcani?
Tart. Arcani! Qui non c'è bisogno d'interpreta-
zioni. Il Re è entrato in maggiori sospetti,
massime non avendolo veduto nell'accompa-
gnamento al Tempio, e fa benissimo a levarsi
dinanzi un fratello, che può macchinare mag-
giori bestialità, e anche scannarlo per gelosia
nel letto colla sposa. Tutta la Corte è scanda-
lezzata e irritata contro al Prmcipe, e il po-
polo è in tumulto. A questi papaveri si deve
troncar il capo. Ma voi avete la testa rotta, e
il cervello vi deve traballare, e fate certi di-
scorsi, che mi sembrate un matto.
Pant. e vu me pare un ministro traditor, un omo
d' un cuor negro, uno de quei ( co' dise el pro-
verbio) dai al can che el xe rabbioso; un che
no cerca altro, che dar drio alla passion d' un
Re per coltivar la propria fortuna ; che, in vece
de buttar acqua, zonze del fogo, e che scor-
dandose che nasse el scandalo, la rovina tra
sangue, tra do fradelli, che tanto se amava, ha
piaser, per darse merito, de quelle novità, che
96 IL tX)RVO.
doveria far pianzer, spezzar el cuor, come le
me fa a mi, povero vecchio, che no gaverò più
pase, e che forsi lasserò stassera la vita sotto'
al peso de sta passion. (piange)
Tart. Con tutte le insolenze che m'avete dette,
caro Ammiraglio, voi mi promovete anche il
pianto, perchè conosco V ainore, che avete al
Principe Jennaro; ma la colpa non è mia, è
sua; e gli ordini di sua Maestà conviene ese-
guirli.
Pant. Sì, xe. vero, se deve obbedir el so Re, Mi
solo in sta Corte, benché povero Zuechin, ave-
ria proccurà de calmar l'animo del mio Re, e
quando l' avesse insistio contro so fradello, ave-
ria buo cuor de renonziar la carica, de perder
el stato, de farme metter anca i ferri ai pie,
piuttosto de esser nunzio a un putto de quella
sòrte de tanta desgrazia, de tanta mortificazion.
Tart. Ma a Napoli, caro Pantalone, non c'è l'edu-
cazione della vostra Giudecca, e s' usa ad ese-
guire gli ordini d'un Re con prontezza, senza
tanti eroismi
Pant. Eseguili pur; ma mi, che son dalla Zueca,
vedeu sior, son ancora a tempo de insegnarve,
come se fa a lassar i comodi e le fortune, per
andar a fenir i zorni in esilio, e al fianco sem-
pre de un povero sfortuna, abbandona da tutti>
ma che sarà sempre le viscere mie.
. , ATTO TERZO. 97
SCENA SETTIMA. .
Truffaldino, Tartaoma e Pantalone.
Truff. Uscirà furioso, chiederà se abbiano sa-
puto il gran caso successo. Pant Chiederà
se il Principe si sia riconciliato col fratello.
Tart Chiederà, se Jennaro abbia fatta qualche
maggior bestialità. Truff. Sì pianterà in un'at-
titudine d' un tragico recitante, e comincierà in
tuono grave: Mentre il popolo. Troncherà il
racconto, chiederà in grazia di non esser ia-,
terrotto, perchè un poeta gli ha data in iscrìtto
la narrazione in versi, acciò possa farsi del-
l'onore, e che spera di averla a memoria.
Pant Che si sbrighi, che egli si aspetta qual-
che maggior disgrazia. Tart Che s'aspetta
qualche altra pazzia di Jennaro. Truff. Si
rimette in una caricata serietà, e con en-
fasi tragica recita la seguente narrazione, ge-
stendo accademicamente con una goffaggine,
proporzionata al suo carattere, e con somma
affettazione:
Mentre il popolo attento ed afollato.
Nel magnifico Tempio aspettatore
Era di no^^e, e il Sacerdote avea
Parata V Ara ; Millo, il Re, per mano
Teneva Armilla, la sua dolce Armilla^
E al suon degli oricalchi^ e armoniosi
Bossi^ e sonori timpani in concerto.
Gozzi.
98 . . li; coRva
E di musiche voci, il desiato
Nodo seguì. Ma che? V aere del Tempio
S' empiè di gufi, e d* altri augei notturni.
Di mesti auguri apportatori, e quinci,
E quindi svola:[i[ando, d* ululati,
E di querule voci echeggia il Tempio,
E cento cani^ e cento, eh* eran sparsi
Per V ampia mole urlar di voci orrende.
Dalle ricche pareti un terso specchio
Cade, e in minute scheggie si converte, v
Ed un vaso di sai, che sulV altare
Stava riposto, si versò, si sparse-
Indi un allocco in sul capo al Monarca
Vola, e si ferma, e una civetta enorme
Sul capo alla Regina sì riposa^
JE coli' adunco artiglio le spama\:{a
- Le chiome nere, ed il tuppè sublime,
(Si rasciuga il sudore)
Pont Impaziente gli chiede come sieno alfine ter-
minate le faccende. Truff, Dice di essere stancQ
di parlare in versi, che teme di annoiarli, non
essendo cosa propria al suo personaggio il ra-
gionare in versi ;. che terminerà in prosa. U Re
ed il popolo erano in commozione per gli au-
gùri funesti. Leandrp era giunto al Re -a rife-
rire, che Jennaro non si trovava in nessun
luogo. Il Re era entrato in un grandissimo so-
spetto, e timore d'una ribellione del. fratello.
Aveva dato ordine di porre i soldati sull'armi,
e che tutte le persone di Corte stessero in
guardia quella notte, che si era ritirato colla
- sposa nelle stanze nuziali, ec. Pant Disperato
di ' sentire che non si trova Jennaro, dubita,
ATTO TERZO.
99
eh' egli sia andato ad annegarsi^ e commiseran-
dolo con delle grida entra da una parte. Tart Sen-
tendo gli ordini della guardia in quella notte, per
provvedersi di tabacco gagliardo, che lo tenga ri-
svegliato, entra da un' altra parte. Truff. Per an-
dare a porre in ordine i suoi cani da caccia, e per
auzzarli a Jennaro quella notte, se fa il matto,
entra.
ATTO QUARTO
Anticamera regia, con una porta grande nel prospetto. K la
notte oscura. Vedesi sollevare una lastra del pavimento,
e uscire Jennaro con una fiaccola accesa in una mano, e
con una scimitarra ignuda nelP altra.
SCENA PRIMA.
Jennaro^ con voce bassa e agitata.
EN poteano gli sterpi, i bronchi, i sassi
Di questo sotterraneo, per il tempo
Dimenticato, il passo mio far tardo,
Non mai fermarlo. Dell' amato e caro,
Benché nimico, mio fratello, troppo
A cor mi sta la vita. Altr' uscio certo.
Onde il dragon possa alla regia stanza
Del fratel mio passar, non v'è che questo.
Qui la mia vita lascierò! La morte
Farà palese P innocenza mia.
S'io favellando il ver narrar non posso.
( vedrassi lampeggiare da una parte di dentro )
Ma quai vampe, e qual foco, e qual fetore
102 IL CORVO.
L'aere ammorba, e il respirar m'opprime?
Questo è l'alito certo di quel mostro
Infemal minacciato, òhe s'appressa.
(attonito) Eccolo entrar da questa loggia. Oh vista
Spaventevole ed atra! Giusto Cielo,
Che tutto scorgi e degli oppressi hai cura,
Dà forza a quésta spada, a questo braccio,
^questo cor, che a* tuoi voleri è servo, {pianta
la fiaccola )
( uscirà un grande e spaventoso dragone, che vo-
fniterà qualche fiamma. Jennaro lo assalirà )
Alla tua ingorda canna, orrido verme.
Vittima sarò prima. -
( seguirà combattimento con vari giri violenti per
la scena, I colpi di Jennaro saranno inutili.
' n mostro sbanderà avvicinando alla porta
dirimpetto. Jennaro anderà rinculando verso
quella per difenderla )
O me infelice !
D'adamante o di porfido ha le scaglie
Questo crudo animai (darà altri colpi) Fratello,
oh Dio!
Mal ti difendo.
{f7 mostro spingerà Jennaro da una parte, s'av-
vicinerà alla porta )
Questo a voi consacro
Ultimo colpo disperato, o Numi.
(als[erà la spada a due mani, darà un colpo
grandissimo ferendo il mostro^ e tagliando
a un tratto la porta, che si spalancherà. Il
ATTO QUARTO. IO3
mostro sparirà. Jennaro rimarrà attonito colla
spada nelle mani).
SCENA SECONDA.
Esce Millo me\\o spoglio^ con un lume nella sinistra
mano, una spada ignuda neW altra, vede Jennaro nella
positura accennata. Sorpreso^ fa qualche passo indietro.
Millo e Jennaro.
MiL. Ah traditori tu quii di notte! solo!
Col ferro in pugno? violento, folle,
Spezzi le porte, e vieni, empio, la vita
Per torre al fratel tuo?
Jen. (confuso^ guardando intomo da se) Lasso!
sparito
E il mostro; più difendermi non posso.
MiL. Ecco la vita; ecco quel sangue, indegno,
Che brami di versar. Per questa spada
n colpo vibra. Forse la tua morte... (si mette
in guardia)
Jbn. Fratello... sappi... in questo loco io venni . .
Io son per tua... {a parte disperato) Ma fa-
vellar non posso.
Barbare stelle!
MiL. Olà, miei servi entrate.
Olà, servi, ove siete?
I04 IL CORVO.
SCENA TERZA.
Leandro, Tartaglia, soldati e detti,
Tart. Eccoci pronti, Maestà, {vedendo Jen.) Oh
diavolo! eh' è quello, ch'io vedo!
Lean. (sorpreso) Come! oh Cielo!
MiL. Servi mal cauti, negligenti servi.
Così del vostro Principe la vita
Voi custodite? I miei sospetti forse
V'uscir di mente? In questa estrema stanza
Lasciate penetrare i traditori
Contro agli ordini miei. ( verso Jen, crollando
il capo) Que' traditori,
Ch'osan col ferro ignudo, con un colpo
Spezzar l' ultima porta, e in braccio al sonno
Trucidar un fratello? Ah scellerato...
Disarmatelo tosto.
Tart. Io non intendo, come...
Lean. Mio Re, noi siam confusi e non sappiamo,
Come entrato qui sia...
Jen. Sono innocenti.
Io per un sotterranea omai pel tempo
Dimenticato, e dalla passione.
Che mi trafigge il seno, fatto industre.
Qui giunsi, e per tuo amor giunsi, fratello;
Col brando ignudo son, ma per tuo amore;
Spezzai la porta, e per tuo amor ciò feci.
MiL. Empio, qual scusa? qual amore, indino?.
ATTO QUARTO. IO5
Jen. Non chieder più. Fu amor che mi condusse.
MiL. Ben io so che fu amor. Ma che più bado?
D' un* alma delinquente, dall' eccesso
Confusa, detti stolidi son questi.
Disarmatelo tosto. In prigion dura
Vada, e il Regio Consiglio ^i raduni:
Deciso sia della sua vita, (entra con impeto)
Jen. Ingrato!
{getta la spada) Eccovi il ferro, ecco la vita
mia.
Mi tolga morte omai da tante angosce;
Ch' io più non posso. Avverrà forse un giorno.
Che il fratel mio mi pianga, e in sul sepolcro
Con sospiri e singulti, invan mi chiami
Col nome d'innocente, (a parte) Or sarai
lieto,
Crudel Norando. Il sacrifizio basti
Di questo sangue almeno. Altra sciagura
Non succeda al fratello, e con Armilla
Viva lieto i suoi dì.
Lean. Principe! Ah come
Vi riduceste a tal misfatto?
Tart. Ah come mai, Jennaro mio?...
Jen. (con impero) Basti.
Rimproveri da voi non soffro. Siete
Ministri? D'un Re il cenno obbedir dessi.
( entra con ^ere{s[a )
Lean. Ebben, l'eseguiremo.
Tart. Oh senza dubbio, {entra colie guardie die^
tro Jennaro)
106 IL CORVO.
SCENA QUARTA.
ARMn.L4 e àiiERALDiNA iti abìto da camera e in canfu'
sione. La prima esce dalla porta dirimpetto, V altra da una
scena: s'incontrano.
Smer. Quai tumulti, quai strepiti son questi,
Mia Principessa, e come in ogni loco
Di questa Reggia splender veggio accese
Fiaccole e torce, e fatta giorno ormai
L'oscura notte, e in folla andar soldati,
Tornar ministri e sussurrar per tutto
Ordini, conmiession, voci confuse?
Che fu? che avvenne?
Arm. Deh lasciami in pace.
Jennaro qui nascosto a forza aperse
L'uscio alla stanza, e con la spada ignuda
Trucidar volle Millo, sposo mio,
A me da presso, Millo, suo fratello.
In carcere fu posto, e strage e sangue
M'aspetto in vece di quiete e gioia.
Smer. Che mi narrate 1 Ov'è lo sposo vòstro?
Arm. Furente il vidi, sospirò, guardommi.
Pianse d'amare lagrime, ed entrando.
In un, suo gabinetto si rinchiuse.
Ne al mio pregare aperse, e solo il suono
Di singulti, e di pianti udir potei.
Smer. Armilla, Principessa, figlia mia,
Fuggiam di qui. Fuggiam nelle caverne
D' un' alpestre montagna. È questo il punto,
Atro QUARTO. 107
In cui scorgo avverar ciò, che sin ora
10 celata vi tenni.
Arm. e che tenesti
Celato? Dillo, e più m'opprimi il core.
Smer. Io vel dirò. Quando nasceste, il padre
Vostro, Norando, volle i Sapienti
Consultar sopra voi. N' ebbe in risposta,
Che per P uccision d' un certo augello
Di nere penne consacrato all'Orco,
Voi rapita sareste, e che dal ratto
Nascerebbon miserie, e strazi, e morte.
Ch'ei stesso, da crudel barbara stella
A forza mosso, diverria inumano, ^
Cieco ministro delle più tiranne
Occasion d' angosce. Eccovi, Armilla,
La cagione, per cui dal padre foste
Austeramente custodita e chiusa.
Ma che! cede al destino ed alle stelle
L'umano ingegno, ed avverato è alfìne
11 vaticinio. Deh fuggiamo, Armilla,
Pria che s'avveri in tutto. Non vogliate
Rimaner spettatrice d'inaudite
Stragi, e di sangue sparso, e d'altri orrendi
Inaspettati casi.
Arm. Io fuggir? Come
Potrei staccarmi dall'amato sposo?
Non fuggirò. Forse la mia presenza
Qualche riparo potrà opporre. Alfine
Morte tronca ogni angoscia: io non la temo.
I08 IL CORVO.
Smer. Oh cieca figliai Oh sventurata figlia! (/a
segue ).
SCENA QUINTA.
77 teatro si cambia e rappresenta una prigióne,
Jennàro incatenato.
Solo a voi, marmi orrendi, oscure stanze,
Impenetrabil ferri, a voi catene,
L'infelice Jennaro potrà dire.
Che per serbar le luci a suo fratello,
Per serbargli la vita, a morte è giunto?
Né il ver, né la cagion dell'oprar mio
Ad uomo potrò dire, o in freddo sasso
Dovrò cangiarmi? Qual stato più misero
Fu mai del mio ? Morrò. Ma tu; Norando,
Crudel Norando, che invisibil certo
Mi sei d' intorno, e la miseria mia
Vedi, deh dimmi almen, se finiranno
Insiem colla mia vita le sciagure
Dell' amato fratel, con me tiranno,
Ma tiranno a ragion per tuo volere.
SCENA SESTA.
Norando esce prodigiosamente dalle pareti, e se gli
presenta colla consueta Jiere^^ia spaventandolo,
Norando e Jrnnaro.
NoRi Mori, ladron dì donne, e coli' infamia
Mori di traditor. Se il vuoi, palesa
ATTO QUARTO. IO9
La tua innocenza. Statua diverrai.
Ne per morir, ne per cangiarti in marmo,
Saper dèi tu ciò, che di tuo fratello
Esser deve, e d'Armilla... di mia figlia,
Del caro sangue mio... Ma cosi vuole
Il destin; cosi voglio, (in atto di partire)
Jen. (supplichevole) Ah crudo, ascolta...
NoR. No, non t'ascolto. A rapir donile impara.
{entra prodigiosamente per le pareti che si ri"
stabiliscono) '
Jen. (disperato) Tu ciel, tu del, tu ciel, che tutto
intendi,
Che giusto sei, soccorrimi. A te solo
Posso chieder pietà. Pietà ti chiedo, (piange)
SCENA SETTIMA.
Pantalone e Jbnnaro.
Pant. (frettoloso e affannato) Jennaro, fio mio,
viscere mie, no ve domando la causa dei vo-
stri misfatti, no ve tormento, no ve rimpro-
vero ; no ghe tempo da perder. El Parlamento
regio xe raduna ; de altro no se tratta, che della
forma de farve morir; ma la niorte xe scgura.
Oh Diol sta parola de morte sora de vu me
fa morir d'angossa. Con quanto aveva a sto
mondo ho corrotto le guardie, ho prepara ima
feluca a dodese remi; ringrazio el Cielo. No
perdemo tempo ; andemo via subito. Sarà quello
che vorrà la fortuna. Co ho salva la vostra
no IL CORVO.
vita, son- ricco. No perdemo tempo, caro ei mio
fio; seguitème.
Jkm. Io partir? Vi ringrazio, o solo amico
Nella miseria mia. Partir non deggio.
Una fuga improvvisa, inaspettata
Reo mi farebbe, ed innocente io sono.
Innocente morrò.
Pant. Ah no xe tempo, care le mie viscere, de
parlar più de innocenza. La xe stada una paz-
zia... La xe stada quello che volè, ma...
Jen. (impetuoso) Reo mi credete 1
Pant. Sarè innocente, via, quello che ve plase; ma
^ cossa giova? Adesso una fuga sola poi dar
tempo al tempo, poi dar campo al maneggio,
poi dar qualche color de innocenza un di ai
successi; poi ancora metterve in grazia de vo-
stro fradello. Una condanna de traditor, de
sassin del proprio sangue, de ribello, una morte
segura, anèma mia, una inorte de ignominia,
in mezzo un pubblico, su un palco, per man
del carnefice; questa xe quella, che immedia-
tamente ve qualifica reo in te la mente dei
omeni, che no ammette reme4io, e che lassa
una memoria infame della vostra persona. Ah,
caro ben, mi ve son pare in sto ponto ; no tai^
demo un momento; deme sta man a mi... feve
coràggio.
Jbn. Ah dite il vero troppo, amico vecchio.
La morte reo mi stabilisce, e infame
Himango nelle menti; ma la fiiga
ATTO QUARTO. Ili
Anche reo mi condanna, (pensa) Ne morire,
Ne fuggir deggio. (pensa) Un sol rimedio resta...
Pant. Via, presto dixè; che remedio ghe, fuora
delia fuga, che ve esibisso?
Jen. Sì, caro amico, un sol rimedio resta
Per non fuggir, per non morir infame,
Per far palese l'innocenza mia.
Rimedio per me peggio della morte.
Che le più interne viscere m' agghiaccia
Spio in pensarlo, (a parte) Alfine, oh Diol si ceda
All'empio mio destin. Di me non resti
Un'infame memoria tra le genti.
Pant. Che arcani? che remedi? eh, caro fio, nò ve
perde in zavariamenti, o se ghe xe sto reme-
dio, uselo subito, perchè la morte ve xe sora
la testa, e me par de sentir...
Jen. (risoluto) Non più, liberal vecchio. Ècco il
rimedio.
Ite a Millo, fratel; ditegli, ch'io
Pria di morir, di favellargli bramo.
Che, se tra l'opre mie, nella sua mente
Richiamandole tutte, gratitudine
Merita alcuna, non mi nieghi grazia
Di potergli parlar prima ch'io mora.
Più non potrete dirmi allor, ch'io fugga;
Più infame non morrò. Paghi sarete
Di vedermi innocente.
Pant. (con trasporto ed allegre^^a) Diseu da seno?
Jen. Il vero io dico.
Ite al fratello. Venga. Ei sarà pago.
112 IL CORVO.
Pant. O caro fio, me fé' respirar. Ve dago un baso,
(lo bacia) e pò corro da vostro fradello. Pre-
^erò, pianzerò, me butterò in zenocchion. Oh
che allegrezza che ho da aver! Ve dago un
altro baso e pò svolo, (lo bacia con impeto ed
entra)
Jen. Misero vecchio! Quante amare lagrime
Verserai da quegli occhi, e quante angosce
Proverà il fratel mio, la Corte, il Regno I
Ma nessun più di me sarà infelice.
SCENA OTTAVA.
Tartaglia con un foglio^ guardie e J^inaso.
Tart. U cielo sa, Altezza, con quanto dolore, con
quanto crepacuore io vengo a lei. Mi tremala
voce... non so come incominciar a parlare...
ma sono ministro...
Jen. Via sì. Tartaglia, il so. Fu già deciso
Della mia morte; e ver?
Tart. Per servirla. Ho qui una carta; non so, se
averò fiato di leggerla: lei m'intenderà per
discrezione, {legge piangendo interrottamente)
Il Regio Parlamento, esaminate
Le a:{ioni di Jennaro, e spezialmente
La furtiva, notturna, a mano armata;
E ritrovando V attentato enorme.
Chiaro, evidente, contro la persona
Del Re, fratello suo; di morte degno ■
Giudicato ha Jennaro. Gli sia tronco
H capo in faccia al pubblico, e si mora.
ATTO QUARTO. II3
Jen. Millo ha fìrmata la sentenza mia?
TTart. Per servirla. Guardi qui: Millo, Re di Frat-
tombrosa:
Jen. Inumano fratell
TTart. {sempre piangendo) Mi perdoni per carità.
A voi, guardie, lo consegno. Fra un' ora, fate
che sia eseguita la sentenza. Io me ne vado,
perchè sento, che non posso più resistere. Fe-
lice giorno a Vostra Altezza.
Jen. Sarà pur vero.
Che a si barbaro passo io sia ridotto!
SCENA NONA.
Millo, Jbnnaro e guardie.
MiL. A'prieghi vostri, a quei dell'Ammiraglio
Ratto qui venni; ma più venni mosso
Da' giuramenti del buon vecchio, ch'io
Saprei dal labbro vostro, che innocente
Siete, o Jennaro. Io so, che saran questi
Mendicati ritardi a un duro passo.
Che v' affanna, di morte. Io vi compiango;
Io vi bramo innocente; ma innocente
Non so sperarvi. Manifesti troppo,
E senza scusa gli attentati sono.
Basta. Crudel non son. Qui venni e ascolto.
{alle guardie) Olà, quelle catene gli levate.
Qui da seder, {vengono levate le catene a'
Jennaro, e vengono posti due origlieri al-*
GozzL 8
114 ^^ CORVO.
P orientale da sedere, vicini al posto oppor^
tuno alla trasformazione, che deve seguire,
Millo siede, fa cenno al fratello, che sieda.
Siede)
Jen. {con voce di commozione) Crudel non vi
credea.
Cieco fossMo, per non aver veduti
! caratteri vostri, e il vostro nome,
' Che a morte mi condanna, {piange)
MiL. {commosso e sostenuto) Il Parlamento...
Le colpe vostre... gli ordini... le leggi...
Le ragioni di stato... {scuotendosi) Or qui non
venni
Per rimproveri a voi. Cerco innocenza.
Crudel non sono.
Jen. {a parte agitato) Ahi duro punto!... ahi
misero!...
Quanta necessitade, e qual ribrezzo
Mi sprona, e mi trattieni {con dolcezza a
Millo) Deh, fratel mio,
Richiamate al pensier sin quando fummo
Pargoletti innocenti, e quell'affetto
Che sempre ci stringea, sì eh' un momento
L'un senza l'altro mal soffria di starsi.
Ne' fanciulleschi giuochi vi ricorda
La tenerezza e l'armonia. Non mai
Picciol disgusto, o puerile invidia
Fu tra di noi. Sovvengavi, eh' ognora
Tutti i piccioli doni, e tutti i beni.
Che avevamo, divisi tra dì noi
ATTO QUARTO. e' 1 15'
Con scherzi e baci furo, e che giammai
Godergli potè l' un senza dell' altro. ( Millo cont-
mosso piangerà)
Vi ricorda fratel, che agli aji, ai servi,
Ed ammaestri io sempre m'accusava
De' puerili errori vostri, e voi
V'accusaste de' miei. Ch'unqua di febbre
L'un di noi fu assalito, che mestizia
L'altro non assalisse, e non piangesse;
E le man tenerelle dell' infermo
Stringendo tra le sue, non si staccava
Mai dal suo letto, rasciugando all'altro
Ora il sudor dal viso, ora scacciando
Molesti estivi insetti, ora porgendo
Con prieghi affettuosi i succhi amari
Di medie' arte, con la propria bocca
Assaggiandoli prima, e cuor facendo
Al fratel suo di berlL Or che mai vado
Rammemorando affettuosi modi?
Io vi priego, fratel, che da' prim' anni.
Sino all'adulta età nostra, un sol tratto
Mi ricordiate, che d'amor non fosse,
Del più tenero amore. E alfin sovvengavi
Dal dì, che il fatai Corvo trafiggeste.
Gli spasmi, le fatiche, i rischi miei;
Che per voi rapitor fui di donzelle.
Ratto fatai! ma che vi die la vita.
E reo mi giudicaste d'attentati
Contro di voi? Di morte reo, crudele,
Mi condannaste?
'll6 IL. CORVO.
MiL. (rasciugandosi gli occhi e scuotendosi) L'opre
ultime vostre
Vi condannano a. morte. Io qui non venni
Per ascoltar rettorici colori
Di favellar industre, e venni solo
A cercar innocenza. O mi scoprite
• Innocenza, o men vado.
Jen. (a parie con profondo sospiro) Ahi crude stelle!
'M'abbandona, ribrezzo, e fa, ch'io possa
Armarmi di costanza al duro passo.
(piangendo) Ah, fratello, io ti giuro, che in-
nocente
E il tuo Jennaro, che innocente danni
A morte tuo fratel. Deh non m'astringere
A palesarti l'innocenza mia. (piange dirotta-
mente)
MiL. D' un condannato il sospirar e il piangere
Non dimostra innocenza, (si leva) Io t'ab-
bandono
A' tuoi rimorsi, alia miseria tua. (in atto di
partire)
Jen. (levandosi disperato) Barbaro, ferma, e poi
che sì ti cale
Di trovarmi innocente, m'averai.
Apparecchiati a piangermi innocente.
Ed a piangermi invano, (a parte con dispera-
tone) Ecco Norando,
,La tua vendetta; io mi t'arrendo alfine.
MiL. (con modo sardonico) Udiam quest'inno-
cenza, que$ti oracoli
ATTO QUARTO. . **7'
Jen. ( con somma forte:(:[a ) Rapita ho ArmiUa per
tuo amore, ed ebbi
Quel falcon, quel destriere, e grato dono
Sperai di farti. Quel falcon uccisi,
Uccisi quel destrier; pregata ho ArmiUa
A non sposarti, ed ecco la ragione
Di tutto ciò. Mentre eh' io solo stava
Procurando riposo, due colombe^
Prodigiose colombe parlatrici.
Sopra me si fermaro, e messaggiere
Fur di strane minacce. Indi Norando,
Padre d' ArmiUa, apparve, e furioso
Delle colombe ha confermati i detti.
(a parte affannoso) Ah Cielo I io son pur giunto
alia crudele
Metamorfosi orrenda, (a Millo) Eccoti i detti
Delle colombe e di Norando alfine:
Infelice Jennaro, Principe sventurato!
Quel falcon ch'ha in potere, appena a suo frateUo
G>nsegnerà, il falcone caverà gli occhi a quello;
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nuUa mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Io dovei consegnartelo ed ucciderlo
Per serbarti le luci, e in un tacere
Per serbar la mia vita, (a parte con grido dì
dolore) Oh Diol mi sento
Il8 IL CORVO.
Cambiar in marmo, (udirassi un tremuoto.
Jennaro si cambierà in marmo candido dai
piedi sino al ginocchio)
MiL. {spaventato dal tremuoto, non osservando il
fratello) Qua! tremuoto è questo 1 (in atto di
fuggire)
Jen. Non fuggire, inumano. I detti seguo
Delle colombe, ascoltali; son questi:
Del cavai, ch'ha in potere, appena suo fratello
Salirà sopra il dorso, sarà morto da quello.
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto ;
n decreto è infallibile; se in nulla mancherà
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Io dovei consegnartelo ed ucciderlo
Per serbarti la vita, e in un tacere
Per serbarti la mia. (a parte con grido) Si
compie, oh Dio!
L'inumano decreto, (odesi di nuovo il tre-
muoto. Jennaro si cambia in marmo can-
dido il corpo e le braccia, rimanendo in no-
bile attitudine)
MiL. {osservando il cambiamento, inorridito e
commosso) Oimè misero!
Che veggio mai! Deh fermati, fratello;
Innocente fratel, deh chiudi il labbro.
Non dir più oltre.
Jen. Ah barbaro, m'ascolta.
Non è più tempo omai. Soffri tu ancora
ATTO QUARTO. ' 1 19
Rimorso e angoscia della mia innocenza,
Giacché il. volesti. A' detti ultimi sono.
MiL. Ah no, non dirli, fratel mio.
Ien. {con isdegno e risoluto) Son questi.
{segue con voce debile)
Armilla, ch'ha in potere, se sposa suo fratello.
La notte un mostro orrendo trangugierassi quello.
Se non gli reca Armilla, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
n decreto è infallibile; se in nulla mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Combattei col dragone questa notte.
Che la porta spezzai. Fu quello il colpo,
Che ti serbò la vita, e eh' è cagione
Per serbarti la mia, ch'ora... la perdo.
Salvati da Norando... io più non posso, {segue
tremuoto, e Jennaro cambia il capo e la fac-
cia in marmo)
MiL. {con disperazione) Fulmina, Ciel, percuotimi.
Innocente
Fratel, chi mi t'ha tolto? Oh DioI Soldati,
Servi, Ministri, era innocente il mio
Caro fratello. Io fui, che l' ho tradito ; ,
Io son di morte reo. Deh mi recate
Nella Reggia l' amaro simulacro. ^
A' suoi piedi morrò distrutto in lagrime.
ATTO QUINTO
Il Teatro rappresenta una picciola Sala.
SCENA prima-
Truffaldino e fìRIGHBLUU
UESTI due personaggi avranno tutti due
un fardello sotto al braccio deMoro mo-
bili. Avranno risolto di abbandonar quella
Corte, resa troppo infelice. Faranno de' riflessi
proporzionati al loro carattere sulle circostanze
di quella. Brighella è avaro. Trova troncate le
vie di utilizzare per la mestizia introdotta;
dunque V uomo di abilità deve abbandonarla.
Trufifaldino è un parasito. Trova la cucina ino-
perosa, tronche le vie de' stravizzi; dunque
Puomo di abilità deve abbandonarla. Eglino
sono due personaggi fatti per far ridere. Li(
Corte è ridotta seria e malinconica sino nella
servetta; eglino non ci staimo più a propo-
sito. Brighella ; che ivi stanno come fioretti
122 , IL CORVO.
in mare, pesci in prato, ec. TrufiFaldino: anzi
come formaggio in una libreria. Brighella: anzi
com' acqua in tavola d'un Tedesco, ec Truf-
faldino: anzi come Gamici in un Teatro poco
frequentato, ec. Dopo un dialogo, che satirica-
mente dimostri due servi cattivi, che non sen-
tono gratitudine de' benefizi ricevuti, ma ab-
bandonano i loro padroni caduti in miseria,
-giudicando, che così deva fare l' uomo di spi-
rito, per cercar miglior fortuna altrove, entrano.
\/
SCENA SECONDA.
Il Teatro si cambia e rappresepta una gran sala fornita
d^una lugubre tappezzeria. Sì vedrà nel mezzo Jennaro in
istatua sopra un picciolo piedestallo, e nelP attitudine, in cui
sarà rimasto nella prigione. La statua avrà due sedili uno
per parte.
Pantalone e Jennaro statua.
Pant. {gridando dì dentro) Dove xele le mie vi-
scere? dove xele le mie carne, el mio sangue
innocente? Guardie, lasseme andar per carità.
{esce) Dov' elio?... {guarda la statua; rimane
alquanto sospeso pel dolore; indi segue pian-
gendo grado a grado a misura dei sentii
menti del suo discorso) Fio mio, simulacro
della innocenza, esempio d'ogni virtù. Ah che
me sona ancora in te le recchie quelle vostre
ultime parole:
ATTO QUINTO. I23
Ite al fratello. Non mi nieghi gra:{ia
Di potergli parlar prima, eh' io mora.
Più non potrete dirmi allor, eh* io fugga:
Più infame non morrò. Paghi sarete
Di vedermi innocente.
Caro el mio ben, e mi son sta ministro della
vostra desgrazia; ma ministro innocente anca mi,
e credendo de far ben, ho buo parte nella vostra
miseria. Ma chi averia credesto, caro el mio cuor,
che sotto quelle parole ghe fosse sconta una de-
sgrazia de sta natura? Ve domando perdon no-
nostante, (s^ inginocchia e bacia i piedi alla sta-
tua, sempre piangendo ) Ste lagreme, che sparzo
sora le vostre piante, parla per il mio cuor. Vor-
ria poderve mostrar le viscere, e che podessi ve-
der, quanto volentiera baratteria la mia vita col
vostro stato. Ah che poco ve doneria, e forsi ve
£aria più infelice de quel che se, perchè una vita
più addolorada de quella de sto povero vecchio^
•no se trova a sto mondo, (si leva a stento, e
guardando fissa la statua) Quella bocca, che
gera la mia consolazion, più no me parla... No
son più degno de esser conforta, né rimprovera
da quella ose, che me levava tutti i pesi del cuor...
No go più forza de resister avanti la vostra pre-
senza cambiada, non go cuor de vardarla... Me
vien l'orbariola... me sento a cascar... farò forza
a mi istesso, e in te la più scura stanza de sto
palazzo anderò a pianzer solo, e a aspettar quella
morte che me sento vicina.
{entra piangendo dirottamente)
12'4 IL CORVO.
SCENA TERZA.
Udirasst 'l suono d' una marcia flebile. Usciranno édle
guardie con segni di tutto, indi Millo vestito a luttOy tm>
merso in una profonda mestizia.
MiL. Soldati, amici, popoli, lasciatemi:
Qui bramo di morir, piangendo sempre.
Non mi si rechi mai cibo, o conforto. ( le guar-
die partono )
Qui vo' morir. Da quest'afflitta salma
Tra sospir caldi, e lagrime sanguigne
Esca lo spirto mio. (siede al fianco della sta-
tua, e abbraccia le ginocchia di quella)
Dolce fratello;
* Innocente fratel, chi mi t'ha tolto?
Io fui quel traditore, io fui quell' empio, ^
Che la vita ti tolse. Cara vita,
Vita della mia vita! Almen potessi
Farti capir, che i miei crudi sospetti,
Ch'ebbi sopra di te, fiiron cagione
Ch'io firmai la tua morte, e sol lo feci
Per intender il ver di tanti arcani
Dalla tua bocca; ma che non sarei '
Condisceso alla barbara sentenza
Di vederti morir. Lo giuro al Cielo,
Poiché t'è tolto l'ascoltarmi, e forse
Se m' ascoltassi, non lo crederesti.
Lo ^uro al Cielo, e al Ciel lo giuro invano;
Che perdon non avrò. Perdon, fratello:
Io ti chiedo perdono. Altro in vendetta
ATTO QUINTO. ' I25
Per r amaro tuo caso non potresti
Voler, che la mia morte. A te dinanzi
La mia morte averai. Qui la mia morte
Seguirà a' piedi tuoi; {piangendo amaramente)
e allor ch'estinto
Cadrò qui in terra, sotto a' piedi tuoi
Fia il mio sepolcro, e tu vittorioso
Simulacro sarai sopr' al mio capo.
S'incideran sul mio fatai coperchio
I tuoi merti, i miei torti e di Norando
L'enorme crudeltà... {spe^:[asi una parete e
comparisce Norando)
SCENA QUARTA.
Norando e Millo.
NoR. Crudo è il destino; ^
Io di quel son ministro.
MiL. (spaventato rilavandosi) E chi sei tu?
NoR. Norando di Damasco, e nunzio sono
Di miseria maggior. Ben sta Jennaro
Cambiato in marmo, e ben stanno i singulti,
Le angoscie entro al tuo sen. Scritta ne' fati
Fu d'un Corvo la morte, indi fu scritta
La maladizion, che ti fu data:
Scritto è il ratto d'Armilla, e scritto è ancora,
Ch'esser debba crudele alla tua stirpe,
A me stesso crudel per mia vendetta.
MiL. (inginocchiandosi) Ah Norando... ah Signor,
che tutto puoi.
126 IL CORVO.
Togliti questa vita, e nel primiero
Stato toma il f ratei.
NoR. {con Jiere^^a) Sorgi. Non dessi
Voler ciò, che non puossi. Di Jennaro
Scioglier non può le membra di quel marmo
Fuor, eh' un rimedio sol. (a parte con ismania)
Barbare stelle 1
A che mi condannate ! ( trae un pugnale e lo
pianta a^ piedi della statua) Ecco il rimedia
Con quel pugnale trucidata Armilla
Resti sopra la statua. Il sangue solo
D' Armilla trucidata, il simulacro
Spruzzando, al suo primier stato Jennaro
Potrà ridur. S' hai cor di porre in opra
Un tal rimedio, ponlo. Altro rimedio
Non posso darti. Sofifri. {con un sospiro) Io
soffro ancora. ( entra per dov* è giunto con
prodigio)
MiL. Fermati... ascolta... e la tua figlia, barbaro !...
La cara sposa mia! Che intesi mail
SCENA QUINTA.
Armilla e Millo.
MiL. Fuggi, Armilla, deh fuggi. Tu sei giunta
In quel d'Edipo, ed in peggior albergo
Tra gli strazi d' inferno.
Arm. Sposo mio,
Da te non vo' fuggir. Qui venni, e intendo
ATTO QUINTO. I27
Di recarti consiglio. Non sprezzarlo,
Millo, benché di donna.
MiL. X E qual consiglio?
Arm. Sopra un naviglio a una medesma sorte
Andiamo, o sposo, ed in Damasco andiamo.
Ginocchion chiederemo al padre mio
Perdon, pietà. Le lagrime d'Armilla
Saran sì calde, che a Norando certo
Ammolliranno il core. A pietà mosso
Ricambierà le membra di quel misero
Nello stato primier. Perdoneracci;
Sposi ci soffrirà; vivremo in pace.
MiL. Non mi parlar di pace, amata sposa.
Con sì dolce linguaggio il cor mi spezzi
In più barbara forma. Cara Armilla,
Non c'è più pace. A me restar non deve
Che disperazione, che furore,
Che pianto e morte. Sappi, che Norando
Or ora apparve in questo loco, e seco
Favellai, né ascoltommi. Inesorabile
Contro al fratello, a me, contro a te stessa. ••
Oh Diol che disse mail
Arm. Norando qui?
Come?... Ah perché non fui... Dimmi : rimedio
Non chiedesti al fratel?
MiL. {sospirando) Lo chiesi, Armilla...
Non bramar di saperlo.
Arm. Deh lo narra;
Io vo' saperlo. Che ti disse il padre?
MiL. Non bramar di saperlo.
128 IL CORVO.
Arm. {pigliandolo per mano) Dir mei devi.
MiL. A che mi sforzi, mia sposa diletta!
Qie brami di- saper! Fratello mio,
Perduto fratel mio per sempre! {piange) Sposa,
Non m'obbligar...
Arm. Deh, parla; io vo' saperlo.
MiL. E inutile il saperlo. È già impossibile
Porlo air esecuzion.
Arm. Dillo; io lo voglio.
MiL. {staccandosi) Inorridisci, Armilla. Il tuo No-
rando
A' miei prieghi rispose: Ecco il rimedio.
Con quel pugnale {mostra il pugnale c^ piedi
della statua) trucidata Armilla
Resti sopra la statua. Il sangue solo
D' Armilla trucidarla, il simulacro
Spruzzando, al suo primier stato Jennaro
Potrà ridur. S'hai cor di porre in opra
Un tal rimedio, ponlo. Altro conforto
Non posso darti. Soffri. Io sofiro ancora.
Così detto disparve, e zolfo, e foco
Lasciommi entro alle vene. Or vedi Armilla,
S' è il rimedio possibile. S' io devo
Furente, disperato, lacerarmi,
Passarmi '1 seno, {con atto di disperazione ) Ah
che la morte sola
Può levarmi d'angoscia, (entra /un'omo. Arm,
resta attonita)
Arm. {con atto di orrore) Dove sono!
Che intesi mai! Qual gelo mi trascorre
ATTO QUINTO. I29
Per le midolle, e qual freddo sudore
Mi circonda la fronte! Tra le donne
Chi si trova di me più miserabile?
Per viver prigioniera al mondo nata,
O per esser cagion di tanti mali,
Ch' odio, ed abbominevol creatura
Mi rendano alle genti. Ah, ben t'intendo,
Déstin; so quel che brami, e ciò che brama
Per vendetta mio padre. Ahi padre iniquo 1
La mia morte tu brami! Or l'averai. {con atto
di dispera!(ione corre, prende il pugnale, e si
mette a fianco della statua )
Jennaro, alma innocente, è ben ragione,
Che il mio sangue ti lavi, e ti disciolga
Da quel marmo crudel, che t'imprigiona.
Io finalmente picciol sacrifizio
Fo di me stessa, s' esco con la morte
Da un abisso di lagrime e sciagure.
Né a minor prezzo ridonar si puote
Al fratello un fratel di sì gran merto,
Qual tu sei, raro al mondo, {con for^a) Io ti
consacro
Me stessa, e il sangue mio. {abbraccia la statua,
si ferisce: il sangue sprus[!i;a nella statua, la
quale perde il bianco, e rimane la persona,
come prima. Jennaro bal:^a giù, dal piedestallo,
NelV atto del ferirsi d^ Armilla uscirà Smeral-
dina con uno strido femminile )
Gozzi.
130 IL CORVO.
SCENA SESTA.
Smeraldina, Armilla e Jbnnaro.
Smer. Ahi!
JÈN« Chi mi scioglie
Dalla dura prigioni
Arm. Oh Dio! son morta, {cade sopra un sedile)
Smer. Ah, Principessa... ah, figlia, chi t'indusse
Ad uccider te stessa! {si fa al fianco d' Ar-
milla )
Jen. Come! Armilla
Piagata il sen! Chi v^ha ferita? Oh Numi!
Donna, mi di, chi fu, che l'ha ferita?
Io la vendicherò...
Smer. {piangendo) Da se infelice.
Io la vidi ferirsi.
Arm. {languendo) Non cercare,
Jennaro, la ragion della mia morte.
n padre mio mi volle estinta, e volle,
Ch'altro rimedio al viver tuo non fosse
Fuor che il mio sangue... Il mio sangue t'ho
dato...
Vivi felice... al tuo fratel vicino.
Gratitudine sol nella memoria
Serba per me, se il merto.
Jen. Oh generosa!
No, non morrai, che forse la ferita
Non è mortai Medica mano forse... {in atto
di partire)
ATTO QUINTO. I3I
Arm. Fermatf. Ornai non ti bisogna... figlio...
Cercar riparo... (spirante) Io sento in sulle
labbra
L*alma, che fugge... A Millo... al caro sposo...
Dì addio... per me... se vedici padre... digli...
Digli... ch'io P appagai... che si ricordi...
Digli, che... oh Dio!. . dirai... che... oh Dio...
già spiro, (muore)
Smer. Ahi, ahi, oimè.
Jen. (furente) Passata è la meschina.
Oh giorno! oh Cielo! oh me infelice! oh Millo!
Oh Norando crudel!
SCENA SETTIMA.
Millo e detti.
MiL. Quai pianti, e strida! (vedendo Jennaro) Oh
fratel mio, Jennaro!
Chi mi ti dona al sen? ( corre ad abbracciarlo)
Jen. (procurando di nascondergli Arm.) Fuggi,
fratello;
Volgi la faccia altrove. Il sguardo tuo.
Lasso! deh non fissare in questa parte.
MnL. (scoprendo il cadavere) Che! Armilla! la mia
sposa! esangue! immersa
Nel proprio sangue!... Ah misero, qual folgore
Mi rischiara la mente? Io fui, fratello,
Dell'infelice l'uccisor. Qui sola
La lasciai: disperato, forsennato.
Cieco non vidi, che la generosa
132 IL CORVO. t
Donna potea dà se... Ma che più attendo?
{raccoglie il pugnale)
Questo pugnai, che il bianco seno aperse
Vendichi la sua morte, (vuol ferirsi ; Jermaro
lo trattiene)
Jen. Non fia mal
Fratel, torna in te stesso.
Mil! {facendo for\a ) Deh mi lascia
Terminar i miei giorni.
SCENA OTTAVA.
Il Teatro si cambia a vista; spariscono tutti gli oggetti
lugubri, e rappresenta una vasta sala risplendente, nel fondo
della quale apparisce Norando, che s^ avanza.
NoRANDo e detti,
NoR. Olà, fermate.
A bastanza fin or puniti siete;
A bastanza piagneste. Un Corvo ucciso
Doveva un ritto cagionare; il ratto
Esser dovea funesto a un grado estremo
Per voi, per me. Già vidiT Corvo estinto
Resuscitato per la morte acerba
Della mia figlia, e Porrid'Orco allegro.
Or solamente in libertà rimango
Di non esser più crudo. E già compiuto
Il .grand' arcano, né ragion si chieda.
Una picciol favilla arse ha cittadi.
Ed ha frale principio ogni sciagura.
MiL. Tiranno, chi mi rende la mia sposa?
ATTO QUINTO. I33
Jen. Come finiscon le sciagure, dimmi,
Con la morte di quella altera donna,
Figlia tua, sol conforto a questa Reggia?
Smer. Mal finisco le angosce colla morte
Di lei, per cui morremo in doglia e in piantL
NoR. Dopo tante vicende a im Corvo estinto,
Dopo tanti prodigi di Norando,
Tai ricerche si fanno! È il verisimile
Al proposito nostro? E lo trovate
Forse in qualch'opra, in cui vi par vederlo?
{prende Armilla per una mano )
SoTgij figliuola, Armilla; al mio potere
Nulla s'oppone. Or posso esser umano.
Sorgi, mia figlia, e il tuo risorgimento
Consoli questi afflitti, e in im consoli
Me, eh' è tempo oggimai.
Arm. (sorgendo) Chi è, che mi scuote
Dal cupo sonno! Ah, padre mìo, tu fosti.
Che due volte la vita m'hai donata.
MiL. ( con trasporto ) Sposa !
Arm. Sposo !
Jen. Cognata ! Oh maraviglia!
(s^ abbracciano reciprocamente)
Smer. {furiosa di giubilo ) Oh stupor grande ! oh
che mai vidi! oh cara!
( bacia Arm. ) Io son fuori di me, scusate, {corre
per la scena) Gente,
Ministri, guardie, accorrete, accorrete.
Venite a veder cose oltre natura.
Accorrete.
134 • IL CORVO.
SCENA UTLIMA.
Leandro, Tartaglia, Pantalone^ Truffaldino e Brighella
co* loro fardelli e detti,
Lean. {correndo) Che fu? {guarda Jen.) Che
veggo mai!
Tart. {correndo^ suo atto di stupore) La statua!...
Jennaro !
Pant. {correndo; sua sorpresa) Cossavedio! Vì-
scere mie... Ah lasse, che ve struccola, che ve
magna. {accarej:(a con trasporto Jen.)
Truff. e Brigh. {correndo, loro sorpresa e pert-
timento )
NoR. Or ben. Vedete, pazzi, questa Corte
Tutta cambiata, e in festa. 'Non si parte.
^ Provato abbiam, se falsa illusione
^ Ha sugli animi forza e se perdono
Può meritar da un Pubblico. Il vedremo.
Le risa or s'incominciano, e si perde
Tutta la gravità, lugubre e tragica, {si fàin^
nan^i e chiude la Rappresenta:{ione con le
seguenti parole^ colle quali sogliono le vec*
chierelle chiudere le Fole a^ fanciulli, che
le ascoltano)
Si rinnovellino le nozze con rape in composta,
sorci pelati, gatti scorticati, e, se d'altro non
siamo degni, almeno i fanciulletti colle loro
picciole mani faccian qualche segno di aggra-
dimento.
IL RE CERVO
FIABA TEATRALE TRAGICOMICA
IN TRE ATTI
PERSONAGGI
CIGOLOTTI, storico di piazza, persona imitata, prologo ddJa
Rappresentazione.
DERAMO, Re di Serendippo, amante 4i
ANGELA, figliuola di
PANTALONE, secondo ministro di Deramo.
TARTAGLIA^ primo ministro, ed intimo Segretario di De-
ramo, amante di Angela.
CLARICE, figliuola di Tartaglia, amante di
LEANDRO, Cftvalier di corte, e figliuolo di Pantalone.
BRIGHELLA, credenziere del Re.
SMERALDINA, sua sorella.
TRUFFALDINO, uccellatore, amante di Smeraldina.
DURANDARTE, Mago,
GUARDIE.
CACCIATORI.
VILLANL
La scena è in Serendippo, e nelle sue vicine campa-
gne. Tutti ì personaggi, salvo il Cigolotti, sono vestiti al-
P Orientale.
ATTO PRIMO
Il Teatro rappresenta una piccola piazza.
SCENA PRIMA.
CiGOLOTTi, prologo.
Questo personaggio imitatore ne* vestiti^ nel ragionare^
e nei gesti d* un uomo solito a narrare delle favole, e dei
romam^i al popolo nella gran pia\:{a di Vene:{ia, si trarrà
la berretta t s* inchinerà all' uditorio, e ripostasi la sua ber-
retta, farà il seguente discorso.
eco eh' io vengo, miei riveriti padroni,
a raccontarvi delle gran cose. Già sonò
in questo punto cinque anni, che giunse
in questa Città di Serendippo un gran Mago
astronomico, il quale possedeva la magia bianca,
la negra, la rossa, la verde, e credo anche la
turchina; si chiamava il gran Durandarte, ed
io sono stato suo fedel servo. Appena il Re
Deramo di questa Città seppe, ch'era giunto
all'osteria della Scimmia il mio padrone, chiamò
138 IL RE GERVa
a sé un suo fedel ministro, e disse: Tartaglia;
(che tale è il nome dell'eroico ministro) andate,
disse, mio fido, all' osteria della Scimmia, e condu-
cetemi Durandarte, il Mago. Ubbidì il fedele Tar-
taglia, e condusse Durandarte a Sua Maestà. Lungo
sarebbe il dire il ricco trattamento che si fece al
mio padrone, e basta il sapere, che alla sua par-
tenza lasciò due gran segni di affetto a Sua Mae-
stà in ricognizione. Questi consistono in due gran
secreti magici, in due portenti, in due maraviglie
di questa natura... Ma io non ve li posso dire,
perchè vi leverei la curiosità e il piacere, che il
Cielo voglia che abbiate nel vederli. Vi dirò solo,
ch'io ebbi l'onore di servire il Negromante Du-
randarte per quarant' anni, e che giammai nulla
potei imparare dalla sua gran virtù. Egli sola-
mente un giorno mi disse: Cigolotti, guai a te,
se discorri con nessuno de' due secreti, ch'io la-
sciai al Re di Serendippo, prima dell'anno 1762.
Vivi sempre con una sottana di panno nero lacera,
con una berretta di lana in testa, colle scarpe
rotte, e facendoti una volta ogni due mesi la
barba, campa la vita raccontando fiabe sulla gran
piazza di Venezia. Del 1762 poi, a' dì 5 di Gen-
naio, da questi due secreti nasceranno gran mera-
viglie, e tu mi porterai nella vicina selva di Ron-
cislappe in forma di Pappagallo; colà mi lascierai;
che col mio mezzo doverà essere punito un tra-
dimento cagionato dal più terribile di quei due
secreti, ch'io lasciai al Re di Serendippo. Quando
I
ATTO PRIMO. 139
ebbe così detto, esclamò: Ahi, amato Cigolotti,
si compie la mia condanna. Demogorgone, Dio
delle Fate, vuole, che per il corso di cinque anni
io viva Pappagallo. Ricordati l'anno 1762 a' di
5 di Gennaio, di lasciarmi in libertà nella selva
di Roncislappe, dove rimanendo preda d'un uc-
cellatore, opererò gran portenti, ed averà fine
la mia condanna; e tu verso le ore sei della
notte averai un guadagno di venti soldi per la
tua fedel servitù, e fatica. Così detto, lasciò le
umane spoglie, e con mio gran stupore diventò
un bellissimo Pappagallo.
Attenti dunque, o riveriti Signori, ai grandi acci-
denti di questo giorno; ch'io me ne vado a
mettere nella selva di Roncislappe Durandarte,
il mago Pappagallo, e poi riscuotendo i tanto
bramati venti soldi anderò a farvi un brindisi
all' osteria della Scimmia all' onore di chi tanto
merita con pace, sanità e allegrezza, (si trae
la berrettay fa il suo inchino, ed entra )
SCENA SECONDA.
Cambiasi il Teatro, e rappresenta una Sala.
Tartaglia e Clarice.
Tart. Figlia mia, già vedi, quanto bella fortuna
abbiamo avuta in questo Regno di Serendippo.
Tu sei divenuta Dama, ed io sono primo mi-
140 IL RE CERVO. .
lustro, temuto da tutti, e amato dal Re De-
ramo. Questo è il punto, aarice cara, di fare
un gran salto, e, se m' ubbidisci, sarai, in que-
sto giorno coronata Regina.
Clar. Io Regina! come?
Tart. Si, Regina, Regina. Sai bene, che il Re
Deramo, dopo avere interrogate duemila set-
tecento e quarantotto donzelle, Principesse e
Dame nel suo gabinetto secreto, io non so per
qual diavolo, le ha ricusate tutte, e che son
quattr' anni, eh' egli ha fissato di non più am-
mogliarsi.
Clar. Lo so ; né crederei, che volesse me per con-
sorte dopo tante gran signore rinunziate.
,Tart. {con fiere:{ia) Signora frasca, quando parlo,
so quello ch'io dico. Lasciami finire. Io l'ho
ridotto ieri a forza d' arte, dicendogli, che il
Regno non ha successore, che i popoli sono
malcontenti, e ammutinati, ec. ; e P ho persuaso
a prendere una moglie. Ma egli ha quella mar
ledetta fissazione di voler prima interrogare la
fanciulla nel suo gabinetto secreto. E perchè
non ci sono più Principesse da esaminare, si è
risolto di bandire, che ogni qualità di donzella
si possa produrre, e di qualunque condizione,
, per essere in quel suo maledetto gabinetto da
lui interrogata, con impegno di prendere quella,
che ritrova a suo modo. Si sono date in nota
dugento fanciulle; furono estratti i nomi da
un'urna a sorte per l'ordine della produzione.
. ' ATTO PRIMO. 141
Il tijo nome è uscito primo, e conviene pro-
dursi alla sua interrogazione. Egli mi vuole
tutto il suo bene ; tu sei mia figliuola ; non sei
Porco; se ti porterai bene nell'esame, sono
certo, che oggi tu sei Regina, e ch'io son
l'uomo il più risplendente di questo mondo.
(basso) Dimmi, figlia; non avresti già qual-
che tacchereUa secreta, eh' egli potesse sco-
prire, eh?
Clar. Ah, caro padre, dispensatemi, scioglietemi
da questo cimento, vi supplico.
Tart. Che! come! pettegola. Produciti tosto, e
portati bene nell'esame; altrimenti... tu m'in-
tendi... tu mi conosci.. i Moccina... perchè ri-
cusi d'obbedirmi? (basso) Hai, hai qualche
tacchereUa secreta, eh?
Clar. Io non ho nulla; ma ho soggezione; non
mi porterò bene nell' esame ; è impossibile ; sarò
ricusata.
Tart. Che soggezione! che ricusata! Non può esr
sere. Avrà de' riguardi per me. Orsù, andiamo,
eh' è tempo. Egli ti attende nel suo gabinetto.
( /^ figlia P^ ^n braccio )
Clar. (sfondandosi per non andare) No certo,
padre; no certo.
Tart. Io ti strapperò le orecchie; ti taglierò il
naso. Vieni, dico, e portati bene nell'esame;
altrimenti... (le fa violenta)
Clar. Caro padre, io non potrò portarmi bene; e
infine vi confesso, eh' io sono innamorata morta
142 IL RE CERVO
per Leandro. Io non averò forza di celare h
mia passione dinanzi al Re.
Tart. (furioso rinculando) Di Leandro, figliuolo,
di Pantalone, secondo ministro! semplice Ca-
valiere di Corte! Preferiresti il figliuolo d'un
Pantalone a un Monarca! Tu sei, mia figlia?
Oh vile, indegna figlia di Tartaglia tremendo!
Sentimi. Se innanzi al Re palesi questo tuo
vilissimo amore... Se non lo fai scegliere in
tuo favore... Sentimi... Andiamo tosto: non
mi far dire di più. (la piglia per un braccio)
Clar. Dispensatemi per pietà. Io non farò mai
torto ad Angela, mia amica, mettendomi in
sua competenza. So ch'ella ama perdutamente
il Re.
Tart. ( rinculando di nuovo ) Angela, figliuola di
Pantalone, ama il Re. (a parte) Angela, le vi-
scere mie! quella gioia, ch'io aveva destinato
di voler oggi per amore o per forza in mia
consorte! Ama il Re! (alto) Qarice, ascolta e
trema. Se immediatamente non ti presenti al
Re; se non ti porti bene nell'esame; se palesi
l'amore di Leandro; se non lo fai scegliere
la tua persona, e se di queste mie parole fiai
col Re nessun cenno; un veleno è pronto; la
morte per te è preparata; cadrai vittima del
mio furore.
Clar. (spaventata) V ubbidirò. Sarete pago di
vedermi ricusata, svergognata.
Tart. (impetuoso pigliandola) Non si tardi più.
ATTO PRIMO. '4J
Pensa alla tua vita, al mio comando, frasca^
pettegola, moccina. (entrano)
SCENA TERZA.
Pantalone ed Angela.
Pant. No se sa gtiente, cara fia mia, no se sa
gnente. Domile settecento e quaranta otto tra .
Prencipesse e Dame xe stae ricusae certo dal
nostro Re. El le conduse in tei so gabir
netto secreto, el ghe fa tre o quattro interro-
gazion, e pò el le manda in pase con civiltà.
Sia che no ghe piasa la ose, sia che no ghe
piasa el spirito, sia che V abbia una mente cusl
acuta, che scoverza qualche bisinella dei in-
terni, che no ghe comoda, sia che V abbia quat-
che spirito, che ghe scoverza qualche petolon...
no se sa gnente. Stravagante noi xe certo,
perchè xe tanto tempo, che el servo, e l'ho
esperimentà un Prencipe savio, benigno, e con
tutte le qualità, che poi aver un Monarca, ma
in sta cossa qualche diavolo gh'è certo.
Ano. Caro padre, perchè mai non vi siete difeso
dal farmi esporre a tanta vergogna ? S' egli mi
ricusa, come succederà, io muoio certo dalla
passione.
Pant. Oh el te recusa seguro; ma, care viscere,
me son butta in zenocchion, Fho prega, l'ho
sconzurà, perchè el te despensasse da sta com-
parsa. Gho dito, che xe ben vero, che seme
144 IL RÈ CERVO.
nati civilmente a Venezia, che semo onesti; ma
che.semo povera zente, e innalzai senza merito
dalla so generosità; che no semo degni de con-
correr a tanto onor. Gnente. Sastu cossa, che
el m'ha resposto?
Non sarebbe giustizia, poich* è aperto
Per mio volere ad ogni donna V adito.
Che vostra figlia avesse privilegio
Di non esser coli* altre al gran cimento.
Prega, reprega, fiabe; l'andava in collera; ci
t'ha fatto imbossolar anca ti, e ti xe vegnua
fuora per terza. Cossa vustu mo, che te Tazza?
Bisogna andar. Credistu, che li goda mi i pet-
tegolezzi e le dicerie dei bei spiriti? Me schioppa
el cuor, Anzola, me schioppa el cuor.
Ang. Il conoscermi indegna di tanta altezza mi fa
del ribrezzo ad espormi. S'egli però co' suoi
esami cerca sincerità, fedeltà; se cerca amore...
Pant. Piase! Ti xe innamorada, frascona?
Ang. Sì, lo confesso a voi, che mi siete padre
amoroso. Caro padre, sono stata così audace
d' innamorarmi perdutamente del mio Re. Sarò
rifiutata, mio padre, e morirò; e non già per
il rifiuto d' un Monarca ; che una povera figlia
non deve sentire questa ambizione; ma il ve-
dermi disprezzata, rifiutata da chi è il cor mio,
la mia vita, sarà la cagion della mia morte.
Pant. Oh poveretto mi, cossa sentiol
Ang. Ah che più di tutto nella mia circostanza
ATTO PRIMO. 145
temo la contrarietà di Tartaglia, il quale oltre
all' ambizione, che ha sul concorrere della
figliuola propria, mi guarda sempre con un oc-
chio amoroso, e sospira; e questa mattina mi
persuadeva a fingermi ammalata, acciò non mi
esponessi nel gabinetto.
Pant. Pulito! Un altro amoretto de quel lato? El
Cielo te la manda bona, fìa mia. No so cossa
dir. Ma qua se fa tardi, e bisogna andar, che
ti xe in nota per terza.
Ano. Amore, a te mi raccomando, {entrano)
SCENA QUARTA.
Brighella e Smeiialdina. Tutti due all' Orientale. Sme^
r aldina avrà un gran ventaglio, de' gran fiori e pennacchi
in caricatura.
Brio. Mo tien alta quella testa; no tegnir quei
brazzi così goffi, in malora. Xe un' ora, che te
fazzo scuola, e ti xe pezo che mai. Ti me par
quella che cria : rose pelae, zizole col confetto.
Smer. 0)me fratello! Non ti pare, ch'io sia acco-
modata in modo da far innamorare un ani-
male, non che un Re?
Brio. Che maniera de parlar! Se ti disi un de sti
. sentimenti davanti a so Maestà, da galantomo
che ti fa innamorar una delle so sleppe. Mi
t'averia volesto conzada piuttosto alla Vene-
ziana, con un Ipel tegnon, e con un mantiglion
negligente.
Goizi. 10
146 IL RE CERVO.
Smer. Oh che matto! Io ci scometto, che, se vado
a Venezia in questa forma, fo innamorare tutti
i Veneziani di buon gusto, e che i Berrettini
rubano dieci mode da questi miei abbigliamenti,
,e vuotano in .tre giórni le borse a tutte k
donne Veneziane.
Brio. Mo sicuro. La novità piase, e per questo se
ti fussi comparsa avanti al Re de Serendippo
alla Veneziana, ti £aressi qualche colpo colk
novità. Lta facenda no xe. da tor de sora via.
Sastu, che se ti innamori so Maestà; ti diventi
Regina ancuo, e che mi, per esser tp fradello,
de credenzier devento almanco Generale in
capite?
Smer. Oh se altro non occorre, che farlo innamo-
rare, lascia fare a me. Sono tre giorni, ch'io
leggo il canto di Armida del Tasso, e la parte
di Corisca nel Pastor fido. Ho imparati i più
ber sospiri, i più bei svenimenti del mondo.
Puoi cantare allegramente quei versi del-
l' Ariosto :
Che per amor venne in furore^ e matto
LP uom, che sì saggio era stimato prima,
Brig. Basta; prego el Cielo, che la sia cussi; ma
quel to muso... quella to fegura... basta...
andemo, buttemose in mar. (m atto dipartire)
ATTQ PRIMO. 147
SCENA QUINTA.
Truffaldino e detti
Truffaldino sarà all' Orientale, vestito di verde da uo-
cellatore, con parecchi fischietti legati al petto, e spropor-
:(ionati in modo buffonesco.
Truff. Incontrando Smeraldina e Brighella, farà
una gran risata sugli abbigliamenti caricati xli
Smeraldina; chiederà, dove vada. Brig, Ad
esporsi nel Gabinetto regio alla concorrenza di
sposa del Re. Truff. Raddoppiando le risa, de-
ride Smeraldina. Smeraldina lo minaccia con
gravità. Truff. Chiede se parli in sul sodo.
Smer. Da verissimo. Brig. Che non si deve ab-
bassare a badar a quel miserabile; dà il braccio
a Smeraldina; grandeggiando, vogliono partire.
Truff. S'oppone con violenza; indi con se^
rietà protesta di voler impedire a Smeraldina,
che gli ha data parola di matrimonio, di con-
correre allo sposalizio del Re. Smer. Che gli
ordini reali spezzano tutte le parole. Truff. Che
dirà alla Maestà sua di non fargli quel torto.
Brig. Ride, adduce, che la sorella sua, che
aspira ad un Trono, non deve sposare un rài-
serabile uccellatore. Contrastano sul grado loro,
e sulla loro nascita. Truff. Piange. Smer. S'in-
tenerisce, lo conforta tragicamente; promette
beneficenze, quando sarà Regina, e parte con
Brighella. Truff. Resta disperato.
148 IL RE CBRVa
SCENA SESTA-
Leandro e Truffaldino.
Lean^ Da una parte esclama dolente sul dubbio,
che Clai^ice, sua amante, sia per le sue gran
bellezze scelta dal Re, e di rimaner delusa
Truff, Dall'altra parte afflittissimo fa una ca-
ricata descrizione sulle bellezze di Smeraldina;
la dipinge orrida; dubita, che la scelta dèi Re
cada sopra lei; si dispera. Lean, Si lagna sulla
poca costanza di Clarice; giudica però, che
V ambizione di Tartaglia l' abbia indotta, e sfor-
zata ad esporsi nel Gabinetto regio. Truff. Fa
parodia ridicola dall' altra parte, riguardo a
Smeraldina; giudica, ch'ella sia stata sforzata
dal mezzano Brighella, suo fratello. Piangono
tutti due; si scoprono; si chiedono la cagione
del pianto reciproco. Lean. Sostiene, che Cla-
rice sarà la scelta. Truff. Sostiene, che la
scelta sarà Smeraldina. Si riscaldano sulla loro
opinione, e sul loro buon gusto; si dimenti-
' cano il periglio, e la passione. Lean. Spera ri-
flettendo alle duemila settecento quaranta otto
donzelle, esposte invano col Re, che Clarice
non sia la mosca bianca; e parte. Truff. Che
se il Re rinunzia Smeraldina, noiji averà più
stomaco atto a ricevere un rifiuto certamente.
{entra)
ATTO PRIMO. 149
SCENA SETTIMA.
Si cambia la scena, che rappresenterà il Gabinetto regio
di Deramo, con porta di facciata. Ai lati della porta vi Sa-
ranno due nicchie, e in queste due mezzi busti di statue. 11
mezzo busto sulla sinistra sarà un uomo vivo congegnato
sino alla cintura, e bianco in modo, che l'uditorio lo creda
uno stucco, simile a quello della destra. L'uomo, che pre^
senterà questo stucco, sia comico, ed abbia abilità di asse-
condare le scene, che seguono, come si vedrà nouto. Questa
statua si suppone esser uno de' due gran segreti magici, do-
nati da Durandarte, Negromante, al Re Deramp, accennati
<lal Cigolotti, prologo. Nel mezzo al gabinetto vi saranno del
cuscini all'Orientale da sedere.
Dbramo solo.
Eccomi per consiglio del prudente
Mio Ministro Tartaglia, al duro punto
Di sceglier sposa, (volgendosi alV uomo di
stucco) A te mi raccomando.
Di Durandarte, ipago, egregio dono,
Che rìdendo sin^ora alle menzogne
Delle donne bugiarde, m' hai difeso
Dal nodo indissolubile di sposo
Scoprendo il loro interno mal sincero.
Segreto arcano a me sol noto, e caro.
Deh non m'abbandonar. Dammi pur segno,
n ver scoprendo colle risa tue,
A quante oggi presentansi bugiarde;
Ch'amerò meglio non lasciar alcuno
Successore al mio Regno, ch'esser preda
Ì50 IL RE CERVO.,
Di menzognera donnei, che tradisca
L* amore e l'onor mio, che sin, ch'io viva,
O ch'ella esista, ell^ un marito abborra.
Io sospettoso d' una moglie sia.
Ecco la figlia di Tartaglia giugne.
Veggiam, com'ella sia sincera. Panni
Impossibil trovar donna, che dica
La verità dopo si lutigo esempio, (siede)
SCENA OTTAVA.
Clarice e Dbramo, Guardie che accompagnano Clarice.
Clarice entra per la porta di me^^o. Le guardie, che la
precedono, nel darle luogo al passaggio occupano alla vista
dell* uditorio le due statue. Il Re fa cenno alle guardie di
uscire. Escono^ e chiudon la porta.
Der. Siedete pur, Clarice. La presenza
Del vostro Re non dia punto timore
All'alma vostra, e in libere parole
Rispondete alle mie. Son grandi i merti
Di vostro padre in guerra, e in pace, e voi
Non dovete avvilirvi.
. Clar. {con mestizia) Signor mio.
Mio Re, di tal bontade vi ringrazio,
E sol, perchè deggio ubbidirvi, io siedo, (siede)
Der. Sposa scegliere io deggio, e ben sareste
Degna di me. La figlia di Tartaglia^
Che m'è sì caro, perchè mai dovrebbe
Non meritar le nozze mie? Ma prima
Voglio saper da voi, se veramente
Tai nozze avreste care.
ATTO PRIMO. 151
Clar. e chi potrebbe
Non ^ver care nozze tanto illustri,
Re generoso, esempio di pietade,
Esempio di virtù?
Der. («* volgerà non veduto da Clarice; gtiar-
derà soft' occhio la statua di stucco, la quale
non darà alcun segno)
Son generali troppo i vostri detti.
Voglio saper di voi. Lo so, che grate
Sarieno le mie nozze a innumerabili
Donne viventi, eppur con. tutto questo
Forse tra quella innumerabil torma
Esser, Clarice, non vorreste. È questo
Ciò, che vi chiedo, e che saper intendo.
Clar. ( a parte ) ( Ciclo I come m* astringe 1 )
E come mai
Tra tante credereste, Signor mio.
Ch'io fòssi sciocca, e di si gran fortuna
Non avessi piacer?
Der. {si volge, come sopra alla statua, la quale
non si muove) Voi favellate,
Qarice, ambiguo troppo. Io son, che ^rego.
Di voi sapere io voglio. Le mie nozze
Avreste care, o no? Di voi ragiono.
Clar. (a parte) Padre crudele, ah tu mi vuoi
bugiarda 1
Si, le avrei care, amato Re.
Der. {si volge, come sopra^ alla statua, che fa im
viso ridente, e poi si ricompone) Oarice,
Clarice, io so, ch'entro all'interno vostro
152 IL RE CERVO.
Temete forse in dir: mi son discare,
D'usar disprezzo al vostro Re. Può darsi.
Ch'altro temiate ancor: sinceramente
Non favellate. Avreste forse il core
D'altro amante occupato?
Clar. (a parte) (Ahi crudel padre!
Per te son menzognera, e per serbare
Questa vita infelice). No, mio Re:
Amo sol voi... So ben, ch'io non son degna
Della destra d'un Re; ma, se la fossi,
La vostra bramo solo, ed altro amante
Non ebbi mai.
Der. (giiarda la statua, che accresce il gesto di
rider Cy poi si ricompone) Or ben Qarice,
Ite; che tutto intesi. Io non lusingo,
Io non dispero alcuna. Or udiam l' altre.
Risolverò a suo tempo.
Clar. {si leva; fa un inchino. A parte) Oh voglia
il Gelo!
Ch' ei mi ricusi, e che a Leandro io resti, (en-
trano le guardie, occupano le statue. Clar
entra, le guardie la seguono)
SCENA NONA.
Dbramo solo.
Ben strano mi parea d' aver trovata
Donna sincera, {volto alla statua) Ò portentoso
ordigno,
ATTO PRIMO. 153
Grazie ti rendo. Mi tremava il core,
Non vedendoti ridere, che investi
Perduta tua virtù.
SCENA DECIMA.
Smkraldina, guardie e Diramo. Le guardie fanno, come
sopra, indi escono e chiudono. Smeraldina con inchini, e
gesti ridicoli e caricati si avan:;a.
Der. Chi siete voi?
Siedete pur. (a jparte) Costei mi sembra certo
Sorella al Credenzier.
Smer. {sedendo) Son io, Signore,
Di Brighella la suora. Alto lignaggio
Abbiamo in Lombardia; ma le sventure
Ci abbassano di stato, e quinci... e quindi...
Ma povertà don guasta gentilezza.
Dbr. {si volge alla statiuty che riderà) Intesi. Or!
dite, mia dama Lombarda,
M'amate voi?
Smer. (sospirando forte) Ah...! ah...! tiranno^
e quale
Dimanda è questa! Io son per voi conquisa.
(sospira)
Dbr. (guarda la statua che ride maggiormente)
Deh mi dite di più. S' io vi scegliessi
Per mia sposa, e morissi pria di voi,
Vedovella lasciandovi, avereste
Dolor di ciò?
154 IL RE CERVO.
Smer. (con gesti di dolore caricati) Crudel! che
mai diceste?
Se non siete empia tigre in volto umano,
Tai discorsi non fate. Ahi eh' io mi sento
Solo in pensarvi dal dolor svenire, (sviene
fintamente)
Der. (guarda, come sopra; la statua ride mag^
giormente) Oh me meschino! Quiconvien
chiamare
Servi, che portin via questa LrOmbarda. (Sme^
r aldina ciò sentendo ritorna tosto in se )
Signora, il vostro affetto è troppo grande.
Siete in istato vedovile, o siete
Donzella da marito?
Smer. Oh come inai,
Quando vedova fossi, a tal Monarca
Di primizie sol degno, avrei coraggio
D' esibirmi in isposa ! Io son pulcella. ( con con^
tegno affettato^ e facendosi fresco col ven»
taglio )
Der. (guarda la statua, che riderà smisurator-
mente con visacci strani, e colla bocca spa^
' lancata )
Basta cosi, Dama Lombarda; andate.
V'accerto, che sin' ora a quante donne
Si presentaro a me prima di voi,
\ Maggior piacer non ebbi. Andate, andate;
Risolverò; partite.
Smer. (levandosi allegra) Ah, mio Signore,
Aveva qui nel gozzo un mar d'affetti,
ATTO PRIMO. 155
Di sentimenti i più dolci, i più teneri;
Tutto non posso dir, ma gli risparmip
Al dolce punto maritale: Allora
Conoscerete, quanto v'amo. Addio.
{a parte) U colpo e fatto; è cotto; io son
Regina.
(fa degV inchini affettati con dei sospiri, voi--
gendosi di quando in quando. Entrano le guar--
die, per riceverla, occupano le due statue;
vien cambiato l'uomo statua occultamente con
uno stucco verosimilissimo Smeraldina parte, le
guardie la seguono)
SCENA UNDECLMA.
Dbramo solo.
{verso lo stucco) Ah, caro ordigno, che piacere
è questo,
Che mi dai col tuo riso! Oh maritati,
Oh padri, ed oh serventi, qual ventura
Sarebbe a voi Pavere simile ordigno
Tutti ne' vostri alberghi, e le sorelle,
E le mogli, e le amate interrogando,
Saper de' loro interni!... Ah no, che questa
Sarebbe la maggior disavventura.
Ch'uomo potesse aver. Quanto sarebbe
Meglio, che in vece di scoprir le donne,
Tu scoprissi degli uomini l' interno,
Per potersi guardar da' falsi amici,
156 IL RE CERVO.
Da' servi indegni, e da' ministri infidi!
(gtiarda verso la porta) Angela si presenta.
Io giuro al' Cielo,
Che ad iscoprir costei bugiarda, e fìnta
M' increscerà. Desidero trovarla...*
Ma folle desiderio 1 II lungo esempio
Lusinga non mi lascia... Eppur... vorrei...
Ah ch'io vaneggio... Ordigno, il ver palesa.
SCENA DODICESIMA.
Angela e Deslamo.
Ano. (con nobile franche:[:[a) Qui son, uno Re,
per un decreto vostro;
Se sia giusto, noi so.
Der. {a parte) Che bell'ardire!
Siedete pure; ingiusto io mai non sono.
Ang. (siede) Siete Re. Chi può aver coraggio mai
Di bilanciarvi in faccia, e farvi chiara
L'ingiustizia talor de' vostri editti?
Der. Angela non mi sembra di coraggio
SI scarsa, a quel ch'io sento, che timore
Abbia a rimproverare il suo Sovrano.
Pur, se a bastanza non ne avesse, io voglio
Ch' eli' abbia intera libertade in dono.
Franca ragioni. Offesa io non ricevo.
Ang. (a parte) (Ah mi lusinga, e mi tradisce il
barbaro...
Povero cor!) E qual giustizia ha. Sire,
ATTO PRIMO. 157
L' obbligar le infelici, meschinelle,
Povere figlie a forza a esporsi in questa
Stanza secreta, ed alla- concorrenza,
D'esser spose d'un Re, nate in umile
Stato, e sì disugual, perchè la mente
Debile si lusinghi, e ricusata
Poi sen vada piangendo, di vergogna
Carca, e dolor di non piacervi, {con sospiro}
e forse
Ricusata a ragion per poco merto?
Qual giustizia sarà, se, mio malgrado,
Son qui condotta, e se del genitore
Povero mio fur le preghiere vane
Per fuggir tal rossor ; s' ei per pietade
Vi chiese a dispensarlo dall' espormi
Alla vostra grandezza, al vostro acume,
O... (sia permesso) ad un capriccio vostro, •
Per cui tante donzelle sfortunate
Furono offese ornai? Mio Re, Deramo,
Ricordivi del Gel, eh' è giusto, e attende
Tempo a punir pe' danni altrui. Ragiono,
Non per me, che al rifiuto sono esposta,
E soffrirò il rifiuto, ma per tante
Misere donne, che son fuori, e attendono
Meste l'ingiuria loro. Dispensatele.
L'ultima Angela sia, che soffra a forza
D'un rifiuto il dolor. Mio Re, perdono;
Libertà mi donaste, e libertade
Usai nel favellar.
Dir. (a parte) . Qual arte è questa
158 IL RE CERVO.
Che attonito mi rende! (guarda lo stuccOy che
non fa motto ) E pur non ride
n simulacro. E fia mai ver, che questa
Abbia sincero il gor? Lo voglia il Cielo:
Non mi lusingo ancora. Io vi perdono,
Angela, e lodo. Ahi se sapeste il vero,
Non direste cosi. Ne' tempi andati
Cercai donna sincera, che m'amasse,
Che mi dovesse amar sino alla morte;
Pur non la ritrovai. Necessitade
Di dar eredi al Regno oggi mi sforza
A tentar di trovarla, e temo vana
.. La mia ricerca.
Ano. e chi v'accerta. Sire,
Che di tante donzelle a voi qui entrate
Alcuna tal non fosse?
Deh. Chi m' accerta ? . . .
Non ve lo posso dir; ma certo io sono.
M'amate, Angela, voi? {con tenere:(:(a)
Ano. (sospirando) Volesse il Cieio,
Ch'io non v'amassi, che di mortai doglia
Non mi saria il rifiuto, già imminente,
E eh' attendo. Signor, con quella pace,
;- Che non auguro a voi.
Deh. (guarda lo stucco, che non si move. A parte)
Né la deride
Ancora il simulacro 1... O quanta gioia
Mi trabocca nel core!... Ah eh' è impossibile!...
Angela, dite il vero? (con trasporto) E m'ame-
reste
ATTO PRIMO. 1.59
Sino a quel dì, in cui forse io sarò primo...
Sì, sarò primo a chiuder queste luci?
Ang. Signor, credo di si, se dall'affetto,
ChMo sento al core, misurar si puote
Qò, eh' esser dee. Ma come mat mescete
n dolce coli' amaro di lugubri
Ricerche, p Re? Lusinghe... amor... angosce...
Povero cor! (piange)
Der. (guarda lo stucco^ che non fa motto) Sta
fermo il simulacro!
Questa Veneta donna, dopo tante,
Sarà sincera! (guarda come sopra) Oh Dio!
forse l'amore
M'abbarbaglia la vista, e il ver non scopro.
(guarda ec.)
(con agitazione) Se non m'amate... s'altri
amanti avete...
Se alcun secreto è in voi, deh palesatolo,
Angela, per pietà, prima, ch'io passi
A scegliervi in isposa. Io più non posso,
Angela, e v'amo sì, che, se scoprissi
Dopo un inganno in voi, morrei d' affanno.
Ano. ( levandosi, e precipitando a' suoi piedi )
Deh datemi il rifiuto... quel rifiuto.
Ch'esser dee la mia morte. Omai, Deramo,
Cessate di più offendermi; frenate
Le tiranne lusinghe. Qual onore
Traete voi da. sì barbare forme.
Nel lacerar il cor d' un' infelice
Fanciulla meschinetta, ed innocente.
i6o
IL RB CERVO.
Che indegna si conosce, e che abbastanza
Ha sofferto sin' or? Ahi, più non posso...
Più non posso, Deramo... mi si spezza
n cor... Deramo, per pietà lasciatemi...
Più non mi lusingate, (piange dirottamente)
Deh. ( commosso guarda come sopra lo stucco, che
non fa motto. Si leva) Oh cara donna...
, Donna rara a miei dì, più non piangete ; ( la
solleva )
Levatevi. Sì bello, e caro spirto
Ben sarei scellerato rifiutando.
Olà, ministri, guardie, entrate, entrate.
Il popol si rallegri. Ho ritrovata
Donna, che m' ama, e m' amerà' per sempre,
Diletta a questo cor. (entrano le guardie)
Ano. Ah no... Deramo,
Non mi fate morir. Soffro il rifiuto,
Ma almeno in faccia al popolo non sia:
Troppo è l'atto tiranno. Io già confesso,
Non son degna di voi.
Deh. Degna sareste
Di Monarca maggior. Veneta donna,
Esempio d'amor vero, che smentisce
Le indegne lìngue, che pel mondo vanno
Predicando incostanza, ed amor finto,
E volubilità nel sesso molle,
Che adorna l'Adria tua. Ministri, entrate;
Scelta ho sposa alla fine. Angela ho scelta»
-ATTO PRIMO. l6l
SCENA TREDICESIMA.
Tartagua, Pantalonb e detti.
Pant. (con trasporto) Mia fia, Maestae?
Der. Sì, vostra figlia, fortunato padre,
E fortunato più d'aver prodotta
Sì beli' anima al mondo, che per essere
Suocero d' un Monarca.
Tart. (irato a parte) Oh maledetto punto! Io mi
sento morire. Angela perdo; perde il trono
mia figlia.
Pant. Ah, Maestae, no bastava, che avesse da ella
tante beneficenze senza meriti, che la voi in-
nalzar a tanto grado' una povera fiola?...
Der. La virtude v^
Innalzo al posto suo. Necessitade
Di successore al Regno a sceglier sposa
Mi sforza, ed una sposa la più degna
D'Angela non trovai
Tart. (con affettata allegre^ja) E viva, e viva...
Maestà, mi rallegro; non potevate far miglior
scelta. Angela, mi consolo... Pantalone, non
posso esprimere la mia gioia... (a parte)
Mi sento rodere... o morte... o inferno... o
vendetta.
Pant. Cara fià, no te desmenteg^ mai la to na-
scita; no te insuperbir. Varda ogni momento
el Cielo, dal qual vien le fortune, ma vien
anca le desgrazie improvvise. Basta; el nostro
G02ZI. 1 1
l62 IL .RR CERVO.
Re me farà una grazia de lassarme do ore a
quattr'occhi con ti, tanto, che te possa dar
' qualche recordo, farte un' ammonizion da boD
vecchio, da bon pare; ma me par ancora im-
possibile...
Deh. Comel Non m'offendete. Ecco la destra.
Angela è sposa mia, s'ella il consente.
Ang. Mio Re, questa è la destra, e quella destra,
Che vi dona lo spirto, e fede etema, {s^ im-
palmano)
Tart. (a parte) (Greppo per la rabbia...) Ma
come mai, dilettissimo Monarca, perdeste tanto
tempo a consolarci, e dopo dueiùila settecento
e quaranttotto donzelle, questa Veneziana?...
Der. Ora ve lo dirò. Sono cinque anni,
Ch'ebbi dal mago Durandarte in dono
Due gran secreti, uno de' quali è quello; (mo-
stra lo sttécco)
L'altro in petto lo serbo. Ha quel virtude.
Che al dir menzogne dalle donne ride,
'' Scoprendo il loro interno. Insino ad ora
Angela sola d' animo sincero
Mi comparve dinanzi; Angela ho scelta.
Ano. {farà un atto di ammira^fione)
Pant. Ve! mo la xe ben grandal
Tart. {iracondo) E rise quella statua di Qarìce!
Dunque mia figlia è una bugiarda. Con per^
missione; vado a scannarla.
Der. Fermatevi. Qarice è innamorata
D'altra persona, n seppi. Ella non era
ATTO PRIMO. 163
Più sposa di me degna. Angela mia,
Illibata fanciulla, io v^amo tanto,
Si di voi sono pago, e persuaso.
Che non soffro tener più a me dappresso
Sì forte tentazion di sospettare
Dell'amor vostro, e della vostra fede
In avvenire, ed alla virtù vostra.
Al vostro amor sacrifico per sempre
La credenza, ed il core; (sguaina la scimi"
tarra) e chiaro segno
Sia lo spezzar quest'infernale ordigno.
Per non cercar in voi macchia, o viltade.
(sjpe^^a lo stucco)
Impari ognun da me, come si tronchi
Sospetto e gelosia, cagion d'offesa
Alle mogli fedeli, e cagion forse
Del mal, che non sarebbe, o torto alfine.
Giubili la città, (a Tari.) Fido ministro,
Or sarete contento. Via, scuotetevi
Dalla malinconia per vostra figlia.
Andiamo a divertirci. Oggi ordinate
Una festevol caccia. Angela, al Tempio.
Amg. Io vi seguo, mio Re, grata e confusa, (entrano)
Pant. Da galantomo che el me par un sogno.
Vado a dar parte con quattro righe a mio fra-
delio Boldo a Venezia delie mie esaltazion.
Si ben che sta novità anderà su madama la
gazzetta (*), nonostante vogio scriver una ma-
(*) ÀUudesi alla gazzetta, che scriveva in quel tempoT il
Sìg. Abb. Chiari, appellandola madama la gazzetta.
1^4
IL RE CERVO.
dama lettera, e metterla a madama la posta.
(entra)
Tart. Mia figlia rifiutata 1... Angela mia! An-
gela mia perduta! Ah ch'io sento la rabbia,
r invidia, l'ambizione, l'amore, la gelosia, il
v^ canchero qui nel ventricolo, che mi rodono, mi
divorano! Un uomo della mia qualità!... È imr
possibile, ch'io possa tenere occulta la rivolu-
zione, che ho nel corpo. Bisognerà sforzarsi.
È questo, il punto di condurmi alla caccia per
divertirmi? Maledico mia figlia. Pantalone, il
Re, e quello stucco infernale. Starò in atten-
zione, e in tanta attenzione, che troverò il mo-
mento di fare una delle più strepitose vendette,
^ che sieno state rappresentate in un Teatro.
I miei posteri sentendola raccontare, caderanno
inorriditi col taffanario per terra.
ATTO SECONDO
Sala regia.
SCENA PRIMA.
Tartaglia e Clarice.
Tart. 5?9^ 1^1 NDEGNA^ assassina. Per tua ca-
I gione io ho perduto ogni mio
bene, e tu non sei Regina. Hai
palesati gii amoretti, che avevi per Leandro,
precipitando te, e me ad un tratto. Malanno ti
colga... il canchero... il vermocane.
Clar. No, caro padre; nulla ho palesato, vi giuro;
fu lo stucco, che ha scoperto il mio cuore.
Tart. Stucco o non stucco, cuore o non cuore,
chi t'ha data licenza, che t'innamori di Lean-
dro? Se tu non eri innamorata, non averestì
fatto ridere lo stucco, pettegola.
Clar. La bellezza, gli occhi di Leandro, le sue
belle parole non m' hanno dato tempo di chie-
l66 IL RB CERYO.
der licenza d'innamorarmi, e mi sono inna-
morata senz' avvedermene.
Tart. Oh si, bada alle occhiate di tutti gli uo-
mini, e alle belle parole; t'innamorerai spesso
senza permissione, bricconcella.
Clàr. Deh non mi strapazzate, padre, e giacché
Deramo ha scelta consorte, consolatemi
Tart. Consolatemi! Di che, temeraria!
Clar. Di lasciare, ch'io sposi Leandro. È final-
mente Cavaliere di Corte, è fratello della Re-
- ^a, avanzerà di grado.
Tart. (furioso) Sentimi... (a parte) La bile mi
tradisce. Se voglio vendicarmi, convien fingere.
( con dolce:^:(a affettata ) Sentimi, figliuola mia
cara; non badare a quanto t' ho detto. La col-
lera mi fa parlare. Dammi tempo; lascia che
passi questa gran rabbia; compatisdmL Ti
consolerò; ma non aver fretta, {a parte) Piut-
tosto voglio impiccarti.
Clar. Sì, padre mio, sì, mi consolerete.
Tant. Si, si; ma ritirati nel tuo appartamento. P^
ora non mi parlar più.
Clar. V'ubbidisco; ma lasciate, ch'io vi bad la
mano.
Tart. Si, si, baciami... bacia ciò che vuoi; si; va
via, lasciami un poco sfumare la rabbia, {la
spinge dentro ) Prima voglio spaccarti, come
una tinca, come un' anguilla. Ora il Re sarà in
conversazione con Angela. Ah, ch'io mi sento
crepare... darei la testa in una muraglia. Che
ATTO SJSOONBO. 167
gelosia!... che odici... Voglio andarlo a di-
sturbare con qualche pretesta Dirò, che k cac-
cia è in punto, (intatto di partire)
SCENA SECONDA.
LEANDBp e Tartagua.
Lbah. Signor Tartaglia.
Tart. Che c'è? Vado a caccia, {a pcarte) Un'altra
seccatura
Lban. Giacche ho avuta la fortuna, che il Re
scelga mia sorella per moglie, e che Clarice,
vostra figliuola, è rimasta esclusa, se non mi
credete indegno, la desidero per mia sposa
Tart. Giacché ho avuta la fortuna, che il Re
scelga mia sorella, e che vostra figliuola è ri-
masta esclusal Che maniera petulante è questa?
{a parte) Se tu hai due fortune, io ho due
disgrazie, che mi divorano il f>olmone, cane.
Basta io non ricuso la vostra parentela (a parte)
Vorrei vederti fulminato con tuo padre. Ma da-
. temi tre o quattro giorni di tempo, perchè ho
degli affari di Stato, che m'occupano, {a parte)
Farò vedere, quali sono gli aCEm di Stato, se
il diavolo mi spalleggia
Lban. Ah caro Signor Tartaglia, giacché il giorno
è d'allegrezza... {odorisi comi di cacciatori^
e cani latrare)
Tart. Oh questo è il segno, che la caccia é in
l68 ,^ IL RE CERTO.
punto. Sua Maestà dev' essere a cavallo. Appa-
recchiatevi anche voi a seguirlo; andate.
Lean. Dite bene. Vado subito. La caccia dove
^ si fa?
Tart. Qui fuori delle porte, nel vicino bosco di
Roncislappe. (a parte) Dove forse la preda mia
sarà molto grossa, {entra)
Lean. Tartaglia è ottuso. Risponde con malagrazia;
ma è padre di Clarice, «d è favorito dal Re;
convien trattarlo con prudenza, {entra)
SCENA TERZA.
TftUPFALDiMO e Smeraldina.
Truff. Uscirà fuggendo da Smeraldina, che gli
corre dietro; vorrebbe accomodarsi con lui,
giacché il Re l'ha ricusata. Truff. Uabborri-
sce. La rimprovera d' essersi esposta contro al
suo volere. Non vuol per moglie un rifiuto,
massime dopo che uno stucco ha scoperto i
suoi difetti. Averà scoperti amori, errori se-
creti, magagne occulte, denti posticci, cau-
teri ec. Smer. Che solo per esser amante di
lui, lo stucco rha derisa. Che Brighella fii
cagione, eh' ella s' è esposta. Sue languidezze,
suoi sospiri. Truff. È forte; la ricusa. Dopo
una scena di artifizio, e di contrasti ad arbi-
trio de' due abili personaggi, Truff. Vuol par-
tire per andare all'uccellagione. Smer. VucA
ATTO SECONDO. Ì6g
seguirlo. Truff. La impedisce. Rabbaruffati, e
collerici entrano.
SCENA QUARTA.
Apresi la scena nella selva di Roncislappe. La veduta è
vasta. La decorazione è d^ una veduta boschereccia, e mon-
tuosa, con una caduta d' acqua, che forma un fiume. Si V6>
dono vari macigni atti a servir di sedili.
Esce CiGOLOTTi con un pappagallo in pugno.
CiG. È questa, o Durandarte, mio Signore, la fo-
resta di Roncislappe.
Papp. Si, Cigolotti, scioglimi.
CiG. Addio, Durandarte. Andate ad operare i vo-
stri gran portenti all'onore di chi tanto me-
rita, a alle sei della notte v' aspetto nel vostro
pristino stato d' uomo all' osteria della scimmia,,
dove faremo un brindisi alla nobiltà riverita
con pace, sanità e allegrezza, (mette in libertà
il Pappagallo, che vola per la selva. Cigo-
lotti entra)
SCENA QUINTA.
Dbbamo e Tartaglia.
Deramo uscirà con un archibugio in ispalla. Tartaglia
con un archibugio nelle mani»
Der. {guardando il bosco) Questo, Tartaglia, è
il gran. bel loco, {volge la schiena a Tarta-
ITO IL &B CBItta
gita, il quale inarcherà V archibugio per spa-
rargli nella schiena. Deramo si volgerà;
Tari, si ricomponerà con preste^^^a. Questo
lafjo sarà replicato molte volte^ né Deramo
dovrà avvedersi mai delP empio desiderio del
Ministro)
Tart. {ricomponendosi) È vero Maesti; il loogo
è bello, {a parte) Non mi dà mai tempo.
Dbr. In vero;
Qui doverebbe certo alcuna fera
Passare, {volge la schiena: Tart inarca Par-
chibugio: Der. volge la faccia) E cagionarci
dello spasso.
Tart. ( che con preste:[:[a si sarà ricomposto ) Oh
certamente, (a parte) Ah mi trema la mana
. Se mi riesce... siamo qui soli... lo getto in
quel fiume.
Dbr. In questo loco istesso mi sovviene
Di aver uccbo un cervo, (come sopra con pro-
por :[ione, e tempo)
Tart. Certo, certo; è vero, me lo ricordo, (a parte)
Ho de' soldati pronti. Prendo subito il pos-
sesso di Angela, e della Qttà; ma il core mi
trema.
Dbr. Siam qui soli.
Dove mai sono gli altri cacciatori? {come sopra)
Tart. {con rabbia) Oh son lontani, (a parte)
Maledetto un momento di più.
DcR. {osservandolo) Caro Tartaglia, mi sembrate
Melanconico, ottuso. Amico, avete
ATTO SECONDO. I7I
Nulla, che il cor v'attristi? {siede sopra un
sasso) Io non ho core
Di vedervi cosi. Voi foste sempre
n mio sollievo, e intendo, che, se nulla
Vi reca dispiacer, mei palesiate.
Tutto farò per voL Via qui siedete:
DisccM-rìamo da amicL Certamente
Io non soffro il vedervi cosi mesto.
Tart. (a parte) Ora ho finito. Attenderò altro
pimto. Mai non fui poltrone, quant' oggi Mae-
stà, io non ho nulla.
Dbr. No certamente. Io scopro che nel seno
Qualche molestia avete. Conservate
Forse spiacere de' passati casi?
Sfogatevi, siedete, ricordatevi.
Che un amico vi son, che v'amo assai.
Tart. (siedendo, a parte) Mescolerò la bugia colla
verità, perchè non sospetti. Signore, io non
potrei tacervi finalmente ch'io sono appassio-
nato, e mortificato fuor di modo.
Dbr. Di che, fido ministro? dichiaratemi
I vostri dispiacer, vendicherovvi,
O giustificherò, quanto v' offende.
Tart. Sono trent'anni, ch'io vi servo con tanta
fedeltà, e ben sapete, quanti buoni consigli
v'ho dati in guerra, ed in pace. Quante volte
mi sono esposto nelle battaglie sanguinose, che
si doverono incontrare per gli affronti fatti da
voi nel rifiutare tante Principesse! Non ho ri-
sparmiato il sangue, e la vita. Sono rimasto
172 IL RE CERVO.
sempre vittorioso; ma le ferite, che ho sopra
il mio corpo, dicono a qual costo io abbia di-
feso la gloria, e V onor vostro. Veramente fui
rimunerato oltre ai miei meriti; ma avess'io
almeno acquistata la morte, che oggi non ave-
rei avuta la mortificazione d'essere ofFeso nel-
l'affetto da voi, che amo quanto le viscere
mie. {piange fintamente)
Der. In che v'ofiFesi mai? Tartaglia, ditelo.
Caro ministro, in che? ditelo tosto.
Tart. In che!... scusate per carità. Io mi dolgo
solo per l' affetto, che ho per voi, e piango,
come un ragazzo, eh' è in contrasto per gelosia
d'amore con l'amante, {piange)
Der. Deh spiegatevi meglio; io non v'intenda
Tart. Sono cinque anni, che possedete de' secreti
del mago Durandarte; a me, che ho tanti me-
riti, non li palesate, e in ciò avete ragione ; ma
almeno mi aveste usata la clemenza di distin-
guermi dagli altri, e di non far esporre la mia
propria figliuola alle risa di quel vostro stucco
incantato per mia vergogna. Non cerco onori,
non cerco grandezze, ma cerco amore. Il cuore,
che avete avuto per me, le risa di quel vostro
maledetto stucco mi stanno sempre dinanzi agli
occhi, e l' aver scoperto, che non mi credete
degno della vostra confidenza interamente, e
che non mi volete quel bene, ch'io sperava,
nella mia delicatezza sarà cagione ch'io mi
distruggerò in lagrime, {piange)
ATTO SECONDO. I73
Dbr. Mancai, Tartaglia; è vero. È ver, poteva
In voi più confidar pel lungo esempio
Della fedeltà vostra, o almen scansarvi
Dal far espor Qarice al gran cimento.
Risarcirvi desidero del torto,
E per farvi veder, ch'io v'amo sopra
Qualunque amico, e quanto me medesimo,
Io voglio farvi a parte del maggiore
Secreto, e più tremendo, che quel Mago
M'abbia lasciato, pria che da me parta.
Exrco un verso infernale, (si trae dal seno una
picciola carta) Udite, amico,
, La portentosa facoltà di questo.
A qualunque animale, od uomo morto
Recitandolo sopra, voi morrete,
E per magica forza il vostro spirto
Passerà nel cadavere di quello,
E in quello entrato lo farete vivo.
Lasciando il vostro corpo in terra morto...
Tart. Come! come! Recitando, verbigrazia, que-
sto verso sopra un asino morto, entrerò io
nell'asino morto, e lo resusciterò, e lasciando
per terra il mio corpo morto, averò V avan-
taggio di restare un asino. Eh povero Tarta-
glia 1 Vostra Maestà è padrona di scherzare, e
di caricarmi di maggiori mortificazioni; è pa-
drona anche della mia vita.
Der. M'offendete, Tartaglia. Io non aveva
Terminato di dirvi la virtude
Di quel magico verso. Ora sappiate.
174 M* WS CERVO.
Che l'animale, in cui sarete, posto
Sopra il vostro cadavere, e dicendo
Lo stesso verso, tornerà vivente
n corpo vostro, e P animale estinto, (si lewa)
Questo è il canne fatai, con cui passando
Talora entro ad un cane, ad un uccello,
E in qualunque animale, o altr'uomo estmtOi
Non conosciuto ribellion scopersi,
Litiganti bugiardi, e false genti,
Misfatti enormi, e portentosamente
Puniti ho i rei, tenendo questo regno
Netto dai malfattori. Ora fo parte
Col mio Tartara di sì raro carme, {dà a TarL
il verso)
E vicendevolmente tuttidue
Potremo usarlo. L'apprendete a mente,
E più non dite, ch'io non v'ami, o amica
(P abbraccia)
Tart. (a parte) Ah, s'è vero questo, forse misi
apre la via di vendicarmi, e di ricuperare Angeh
mia. Mio Re, scusate il torto, che v'ho fatto,
che nacque solo dalla gelosia dell' inestinguiUle
affetto, che ho per voi. Questo è im gran se-
creto, un gran segno della vostra generosa
confidenza. Lasciate, ch'io... {vuole inginoa)
Dbr. Sorgete, o caro. Io so, che vostra figlia
Ama Leandro, ed a Leandro dono
Le Castella dell'Isola. Consorte
Gli sia Qarice. A questo modo voglio
Risarcire il rifiuto di lei fatto.
ATTO SBGONBa I75
Tàmt. (a parte) Eh la mia cara Angela mi sta
sul cuore. O mio generoso Re, quando mai
potrò compensare i tanti benefìzi?...
Dbr. Basti Apprendete il grand' arcano a mente.
E partiamo di qua, che miglior loco
Vo' cercar, non vedendo alcuna fera, (entra)
Ta«t. {apre la carta, e segue il Re, leggendo
il seguente verso del Merlino Cocai, tartara
gliando )
Cra era trìf traf not sgnieflet canatauta riogna.
O maledetto verso: è molto diffìcile per me,
ma forse mi sarà utile, {entra)
SCENA SESTA.
Udiransi di dentro voci di cacciatori^ di PAifTALonBi di
Brighella e di Leandro, e suono di corni. Uscirà un orso
inseguito dai sopradetti^ armati di archibugi Brighella
dopo aver scaricata un' archibugiata verso V orso, che
Brio. Un buso in acqua. A ella, Sior Pantalon.
Pant. Ah, faloppa, cavete; a mi. {scarica verso
VorsOy il quale fuggendo entra)
Brig. Bravo. El va sempre più in là, sior Pan-
talon.
Pant. El fogon gera umido, sier aseno. A ti fio,
che el ze ancora a tiro; a ti.
Lean. {correndo verso la parte, dov'è entrato
r orso) A me, a me. {spara)
176 IL RE CBRVa
Pant. a me a me. Bravo el porchette. El va, che
el diavolo se lo porta.
Lean. e ferito, è ferito.
Pant. Eh xe ferìo i totani I A vu, pampalughL
{due cacciatori sparano)
Brio. Oh aseni! i ha ammazza un can.
Pant. Al monte al monte, all'erta, andemogfae
drio. Va de là ti. Brighella. Toghe la volta ti,
Leandro. Corre, squartai, (entrano tutti cor^
rendo per diverse parti )
SCENA SETTIMA.
Dbbamo e Tartaglia.
Der. Le gran archibugiate! udiste? Qui
Non vedo più nessun.
Tart. Ho creduto di ritrovar morto un Rinoce-
ronte. Vedo li cacciatori andare lontani, e cor-
rere dietro alla montagna.
Der. {guardando in lontano) Tartaglia, io vedo
Venir due cervi a questa volta. Presto.
Nascondetevi, presto, {si nasconde)
Tart. Per bacco sono belli {si nasconde da ta^al"
. tra parte. Escono due cervi in corso, De^
ramo esce da una parte spara P archibugio,
uccide uno dei cervi Tartaglia esce dalP al--
tra parte, spara V archibugio, uccide P altro
cervo)
Tart. Bravo, Maestà.
ATTO SECONDO. '. I77
Der. Tuttidue
Fummo valenti. Alla mia cara $posa
Fo de' cervi un presente.
Tàrt. (a parte) Ah il gran sublime pensiero!...
Se mi riuscisse, mi vendicherei dell'ingiuria...
io diventdrei... Tu non goderesti più Angela
mia. Tentiamo. Mio Re, quelli sonò due cervi
morti.
Der. Non v'ha dubbio.
Non si muovono più.
Tart. Ora non potressimo noi, giacche siamo soli,
e che tutti li cacciatori sono lontani, fare quella
bella esperienza di quel verso, e passando noi
in questi due cervi, divertirci andando sopra
quel colle a godere le belle vedute. Per un
momento solo, per un momento. Le dico il
vero, mi sembra impossibile questa maraviglia;
ho una brama di vederla, che crepo.
Der. Sì, dite il vero.
Possiamo farlo. Vederete, ch'io
Non vi dissi menzogna. Andate, andate
Sopra un de' cervi, dite il fatai verso,
Vederete FefiFetto.
Tart. (ritroso e ridente) Eh eh, ah ah... Maestà
ho un poco di paura, e di ribrezzo... eh eh,
ah ah. . . lei si vuol prendere un poco di spasso. « .
ho timore, ah ah ah... * ;
Der. Orsù, v'intendo
Voi diffidate. In ver sembra impossibile,
Che sia ver ciò, eh' io dissi. Io sarò il primo.
Gozzi. 12
178 IL RE CERVO.
D vero scoprirete. Sopra l' altro
Cervo farete ciò, ch'io fo, e seguitemL {De-
ramo si farà sopra un dé^ cervia e dirà il
verso )
Cra, cra^ tri, traf, not, sgnieflet, canataua rìogna.
{anderà cadendo grado gradoy mentre va
dicendo il verso, terminato il quale coderà
morto; il cervo risusciterà; si volterà colla
testa a Tartaglia, indi entrerà veloce)
Tart. Oh maravigliai Sono fuori di me. Corag-
. gio, Tartaglia. Ecco il punto, eh' io sono ven-
dica,to e felice. Eàtro nel corpo del Re; e,
creduto Deramo, vado in possesso del Regno e
più d'Angela mia, che adoro. Ma quando sarò
in questo corpo, chi sa, se conserverò il di-
fetto di tartagliare? Non vorrei essere cono-
sciuto. Ma, quando sono Re, di che temere ?
Non perdiamo più tempo, {onderà verso il
corpo del Re^ e mentre vorrà dire il verso,
udirassi strepito di corni, e di cacciatori,
che usciranno inseguendo un orso. Torta--
glia spaventato si ritirerà, I cacciatori en-
treranno inseguendo V orso. Uscirà un uomo
nella forma di Tartaglia a tale, che s* os^
somigli a segno d' ingannare, si farà sopra
il corpo del Re. Tartaglia dirà in poca
distan3[a il verso era era, ec. quel suo simile
accompagnerà le parole col gesto, coderà
ATTO SECONDO. '79 '
morto, risusciterà il Re. Nuovamente di ritomo
usciranno i cacciatori j inseguendo l'orso. Il Re
si ritirerà. Partito l'orso e i cacciatori, uscirà
nuovamente Tartaglia in forma di Deramo,
Avvertasi, che sin dal principio Deramo dovrà
avere una maschera, per poter con altra simil
maschera accomodar al possibile la somi-
glian:{a di questi due personaggi).
SCENA OTTAVA.
Tartaglia solo.
Resti Deramo nella sua miseria, {tartaglierà) Oh
maledetta imperfezione di lingua, e ancora mi
perseguiti? Basta, ora sono Re, e del regno, e
di Angela in pos^sso. Di che temer? Chi più
di me è felice? Ben saprò liberarmi di tutte le
persone a me sospette, e da me odiate. E tu,
mio corpo, ( verso il corpo del Tartaglia
morto) rimarrai corpo inutile, perchè il Re, ora
cervo, di te non possa valersi, cagionandomi
qualche disordine in corte. ( taglia con la sci--
mitarra la testa, e spinge il busto in un ce-
spuglio) Dietro questa macchia rimanti, infe-
lice corpo mio, che non ho più bisogno d' in-
vidiare la sorte tua. {guarda dentro) Ecco i
ministri, e i cacciatori del Re. Qui ci vuol
gravità. Per prima cosa converrà perseguitare,
e uccider il cervo, che alloggia lo spirito di
l8o IL RE CERVO.
Deramo. Questo mi deve stare fOramamente a
cuore, perchè potrebbe farmi qualche brutta
burla. Ho veduta troppo la virtù di quel era
era trif traf. Morto che sia quel cervo, io non
temo più nulla.
SCENA NONA.
Pantalone, Leandro, Brighella^ Cacciatori e Tartaglia
finto Deramo, Tutti all' uscire faranno de* profondi inchini
al Re, che starà con affettata sostenute:{!(a*
Xart. Presto, Ministri, presto. Comparvero qui
due cervi ; uno ne uccisi, come vedete. L' altro
è andato per quella parte. Mi preme, che sia
ucciso. Chi l'ammazzerà, avrà da me qualun-
que grazia saprà chiedere. Seguitemi, {entra)
Pant. Anemo, putti, presto. Servì so Maestà, (entra)
Lkan. La cura sarà mia. Se uccido questo cervo,
» chiedo in grazia Clarice, (entra)
Brig. Alon, alon, alon. La finirà pò, come quella
dell'orso, che nessun gha podesto pizzegar le
. natiche, (entra)
(s^ udirà di dentro romore di comi, spari
di arcobugiy e voci, che grideranno : Eccolo,
eccolo. Uscirà il cervo spaventato correndo)
Pant. A mi. (spara, e fallisce)
Lean. a me. (spara, e fallisce)
Brig. A mi. (spara, e fallisce)
Tart. (furioso) Ah, cacciatori asini...
ATTO^ SECONDO. l8x
SCEMA DECIMA.
Un Vecchio villano e detti.
Questo Vecchio villano, che dovrà esser decrepito, cen-
cioso, ed orrido, sarà il personaggio, che rappresenta la
parte di Deramo, ma un altro parlerà per lui, ed egli non
farà, che i gesti proporzionati alle parole; avrà un ba-
stone, sopra cui si appoggierà uscendo dal fondo del
Teatro.
Tart. {al vecchio) Dimmi, vecchio; hai tu veduto
da qual parte ha girato quel cervo, che passò
per di qua?
Vec. Io non lo vidi.
Tart. Oh noi vedesti? (furiosissimo) .Maledetti
tutti. Inutil vecchio, paga tu la pena, e finisci
di servir d'imbroglio a questo mondo, (spara
una pistola, e uccide il vecchio )
Vec. Oimè, son morto.
Lean. (a parte) Qual nuova tirannia!
Brig. (a parte) Mi debotto me la fazzo a gambe.
Pant. Cossa vedio! Che el sia imbriagol Maestà,
xela storno? Se sentela qualche mal? cossa
fala?
Tart. (minaccievole) Olà, non mi seccate, o sa-
prò levarmi dinanzi tutti gl'inutili. Oggi non
è più tempo, ma dimani state pronti. Sia cir-
condato questo bosco, voglio morto quel cervo.
Pubblicherete, che chiunque mi recherà un
cervo, che abbia una macchia bianca sulla
l82 • IL RE CERVO.
fronte, com' ho veduto, che aveva Quello, averà
diecimila zecchini. Ma dov'è Tartaglia? {tar--
taglierà )
Pant. (a parte) Mi son sbasio! l'è diventa un
can. No lo conosso più. L'ha cambia inlin la
ose, e el se intartagia, che el fa stomego.
Tart. Dov'è Tartaglia, dico? che dicevate di Tar-
taglia? (tartaglierà)
Pant. (pauroso) Eh gnente, gnente. Tartagia gera
con V. M.
Tart. È vero; ma è un gran tempo, che V ho
perduto di vista.
Lean. La città è vicina; se non è andato alla
città, è già pratico della strada.
Tart. Sì, sì, ma so, eh' egli è un ministro odiato,
> perchè io l'amo, e non vorrei, che gli fosse
nato qualche accidente scabroso, (tartaglierà
notabilmente ) *
Pant. {a parte) Tolè! Che schienze de tartagiael
Tart. (a parte) Questa imperfezione mi perse-
guita... Non vorrei... ma di che temere? Cac-
ciatori, prendete in spalla quel cervo morto.
Voglio fare un presente alla mia cara Angela,
che non vedo l' ora d' abbracciare. Dimani
ognuno sia in punto, (entra)
Pant. Andemo pur. Son stracco, che me dol i ga-
retoli, ma son tanto spaventa dalle novità, che
ho visto, che se non fusse per abbandonar
mia fìa, da ministro regio d'onor che vorrìa
. correr verso Venezia, come un lacchè, (entra)
ATTO SECONDO. 183
Lean. (a Brig.) Ma, s'io ammmazzaVa il cervo,
Brighella, ora potrei chiedere Qarice in con-
sorte, {entra)
Brig. Sto signor gha in testa i amoretti, e a mi
me par de aver in tela testa quella nespola,
che gha tocca a quel povero decrepito con
tutto quel sugo.
SCENA UNDECIMA.
Dbbamo Cervo,
Jl cervo uscirà, si porrà vicino al vecchio morto, il quale
parlerà per il Cervo per conservare l' illusione.
Der. {cervo) O Giove, ti ringrazio, che m'hai
salvo
Dal periglio crudel. Ma, oimè infelice!
O cieli misero me! qual rimango io!
Kù ch'uomo, saper volli, e il troppo ardire
Castiga il ciel, che in bruto or mi condanna.
Da'cacciator perseguitato, e cani,
Con periglio di morte ogni momento.
L'erba mi sarà cibo, e il terren aspro
Sarà letto al mio corpo, a venti, a pioggie
Esposto, e alle tempeste. Ah qual dolore
Mi trafigge più, ch'altro! Angela mia.
Ingannata dal reo crudo ministro.
Con la real presenza in preda resta
Del traditor, credendolo suo sposo.
184 II* RE CERVO. . /
Oh insofferibil doglia! io più non posso {vedendo
il cadavere del vecchio)
Ma che vedo! Un estinto vecchiarello!
Colle magiche note in questo io passo.
Mi s'aprirà più facile la via
Di poter favellare alla consorte, (si fa sopra il
corpo del vecchio; recita il solito versOj il cervo
còde morto; il vecchio risuscita)
SCENA DODICESIMA.
. Dbramo resuscitato nel vecchio con bastone*
Il ciel non m'abbandona, e sono ancora
In corpo uman; potrò cercar vendetta. (Specchiasi
tiel fiume)
Ma qual figura d'orridezza miro
Specchiandomi in quest'acque! Io son Deramo!
Dov'è il mio corpo? oh Dio! Deramo io sono?
In qual stato son io! crudo ministro,
Traditor, empio. È questa ricompensa
A tanti benefizi, ch'io ti feci,
Traendoti dal fango? Ah, cieco io fui,
Che non dovea fidarmi, e maledico
Il punto, in cui ti volli fare a parte
Del geloso secreto. Ah, che tant'anni
Di.sperienza di fedel servigio
Ingannarmi dovean; ma un punto solo
Fece veder di quanta scelleraggine,
J)i quanta iniquità fosti capace.
ATTO SECONDO. 185
Angela mia perduta! Angela mia!... (smanioso)
Oh Dio! parmi vederti fra le braccia,
Ingannata, dell' empio, (in atto dipartire ) Af-
fretto il passo...
M'introduco alla corte... Alla consorte... (si
ferma )
Ma che? come farò, perch'ella creda,
Ch'io sono il suo Deramo, se l'infame
Ministro nel mio corpo or l'è consorte?
E se potessi ancor farle palese.
Ch'io sono il suo Deramo^ e che quell' empio?...
Come amerà questo deforme, e inetto
Corpo in confronto al mio? Ella è pur donna
E più bel corpo con iniquo spirto.
Che gentil spirto in orridezza chiuso ^
Vorrà, seguendo il femminil costume.
Stanche membra, coraggio. Angela forse ^
Non è, com' altre son. Tutte le forze
Raccolgo, ed alla Reggia m'introduco.
Morte non manca, e il ciel non abbandona.
(entra)
SCENA TREDICESIMA.
Truffaldino solo.
Elsce con una rete in collo, e vari attrecci atti-
nenti all' uccellatura. Esamina il luogo, lo trova
opportuno a tendere insidie a' volatili. Vede il
cervo itiorto, l'esamina, scopre, ch'egli ha la
l86 IL «E CERVO. V.
macchia bianca sulla fronte, si ricorda la taglia
posta dal Re, fa de' trasporti di gioia sopra il
buon principio dell'uccellatura. Tende la sua
rete, discorrendo indispettito del torto fattogli
,da Smeraldina. Rammemora i regali, che le ha
fatti, di uccelli. Protesta di non voler più guar-
darla. Parla con voce bassa per non sturbare
l'uccellagione. Tesa la rete, si ritira da ima
parte. Suona vari zuffoletti da uccellatore per
richiamo di uccelli, ne suona di caricati, e pro-
porzionati al suo carattere. Scopre il pappagallo,
eh' è il Mago Durandarte, ivi lasciato da Cigo-
lotti. Mostra avidità di prenderlo nella rete.
Fischia con caricatura, s' affanna. Il pappagallo
entra volontario nella rete. Truff. corre alle-
gro, lo prende, lo mette in una gabbia grande.
Ritoma all'uccellatura. Non prende più nulla.
Il pappagallo gli parla con voce imitata di
pappagallo.
SCENA QUATTORDICESIMA.
^ Durandarte pappagallo e TRUFFALoma
DuR. Truffaldino.
Truff. Farà degli stupori, e degli atti di spaventa
Non sa chi parli. Guarda intorno, trova il corpo
e la testa di Tartaglia; si spaventa maggior-
mente. Teme, che quel cadavere l' abbia chia-
mato. Vuol . raccogliere le reti, le prede, e
fuggire.
ATTO SECONDO. 187
DuR. Truffaldino, non aver paura.
Truef. S'avvede, che la voce non viene dalla
parte del cadavere. Sospetta, che sia il pappa-
gallo. Si. prova a parlargli, cominciando colle
solite parole: Pappagallo real ec.
DuR. Portami in corte alla Regina.
Truff. In Corte? alla Regina?
DuR. Si si, sarai ricco, ricco, ricco.
Truff. Sue maraviglie. Suoi imbrogli, timori, al-
legrezze; non può raccoglier tutto, il cervo, la
' gabbia, la rete. Chiama due villani, ordina loro
di levare quel cervo in ispalla, e di seguitarlo;
eh' è in caso di donar loro sei possessioni. Af-
faccendato raccoglie tutto. Accenna di portar
nella città anche la nuova del cadavere ritro-
vato di Tartaglia, {entra)
SCENA QUINDICESIMA.
Sala regia.
Tartaoua R€ ed Angela.
Tartaglia uscirà dietro ad Angela, che lo/uggirà. Egli
terrà de* modi goffi e villani, e tar taglierà tratto tratto
con del dispetto da sé.
Ano. {uscendo mesta) Deh lasciatemi in pace.
Tart. Come diavolo.
Caro cor mio, vi siete voi cambiata?
Dov'è quell'allegrezza? È un'ora buona^
Che vi son dietro colle mie carezze.
l88 IL RE CERVO.
Mi parete una matta. Io non fui buono
Ancora di pigliarvi per la mano, (mentre par-
lerà con tal goffaggine, Angela lo guar-
derà fiso con d^ gesti di stupore, massime
a qualche tartagliata)
( a parte) Mi guarda fiso! che si fosse accorta?
Eh non può darsi. Via, cara, chetatevi
Dov'è quel grand' amore?...
Ang. (agitata) Oh Dio! Deramo,
Non vi sdegnate, se ragiono franca.
Più non posso soffiir...
Tart. Sì ragionate
Liberamente col nome del diavolo.
Ano. (ributtandosi) Mio Re, sarà illusione sfor-
tunata
Quella, che mi travaglia. Io più non trovo
U mio Deramo in voi
Tart. Come! che dite!
Perchè? (a parte) Questo è un imbroglio ma-
ledetto.
Ano. Noi so. (guardandolo) Pur siete quello
stesso. E quella
La bella faccia, e quelle son le belle
Membra, che amor m'hanno ispirato. Pure
I gesti non son quelli, i sentimenti
Dello spirito vostro, il favellare.
L'elevatezza del pensar sublime,
Le delicate immagini non sono
O non mi sembran più quelle, che il core
M'han rubato dal sen, che m'han sforzata
ATTO SECONDO. ' 189
A palesarvi Tamor mio, ch'han mosso
n desiderio in me d'avervi sposo.
Perdon, mio Re; perdono; le bellezze
Del vostro corpo la cagion non furo -
Etel vero aflFetto mio. Furo le nobili
Forme del pensar vostro, e le ingegnose
Immagin dello spirto, e i gravi modi,
Che uscien dall' alma vostra, che m' han presa.
Quelli ch'io più non trovo, o che mi sembra
Più non trovar in voi, per mia «ventura.
(piange)
Tart. {a parte) Ma possibile fia, che in questo
corpo
10 non possa ingegnarmi a parer quello?
Eh non piangete, Angela bella mia.
Ano. lo vi confesserò con quella stessa
Bella sincerità, che sì vi piacque,
Che, se m'aveste voi prima la spezie
Fatta, che mi fate ora, io v'avrei detto: (con
orgoglio )
Signor, non v'amo, e sposo non vi voglio.
Tart. Oh via, queste poi sono fissazioni.
Questa è una malattia d'effetto isterico.
11 mal sta nel cervello. Caro bene,
Si chiameran dei medici, e faremo,
Che vi sia tratto sangue.
Ano. (collerica) Si, può darsi.
Ch'abbia la mente inferma. Ah, certo i modi
Vostri non son quelli di prima. Deh
Lasciatemi partir, lasciate, ch'io
190 IL RR CERVO.
Nelle mie stanze mi ritiri a piangere
Con libertà. Nel pianto io vo' distruggermL
( entra )
Tart. Sì, cara gioia mia. Già sono certo,
Che il mal vi passerà, che m'amerete.
SCENA SEDICESIMA.
Tartaoua solo.
Ah ci vuol flenima. Io sento nell'interno
Un amor tutto furia. Userò zucchero,
Moine, e preghi, e poi la forza, e peri
Farò vendetta. Arsenico non manca.
Ora mi convien far qualche fierezza
Per metterla in terrore da una parte;
Dall'altra accarezzarla, e, s'è possibile.
Ridurla a sollevar la fiamma mia.
Son Re, resterò Re. Saprò distruggere
Tutto ciò, che m' annoia, e non m' alletta.
Più di cento persone andranno in carcere;
Sangue, e strage farò, se ella resiste.
SCENA DIECISETTESIMA.
Claricb e detto,
Clar. Ah, mio buon Re, giustizia per pietade.
(piange dirottamente)
Tart. Che fu, Clarice?
Clar. Mio padre meschino
Fu nel vicino bosco ritrovato.
Tronco il capo dal busto, (jpiaftge)
ATTO SECONDO. I9I
Tart. (a parte) Poverina!
Mi fa compassion. Come! che dite?
Oh me infelice! Gli assassini iniqui,
Che il mio fido ministro m' hanno tolto,
Chi fiiro? me li dite. Ah ben lo dissi,
Quando non si vedea più sulla caccia...
Egli era odiato... I traditori tosto
Mi palesate.
Clar. Ignoti sono, e solo
So, ch'una figlia io son la più dolente,
La più angosciosa, che nel mondo viva, (piange
dirottamente)
Tart. {commosso farà de? la^i occulti di tene-
re\\aj vorrà abbracciarla, poi si tratterrà)
(a parte) Sento, che mi commove. Oh se potessi
Palesarle l'arcano! Non mi fido.
Chetatevi Clarice; in me averete
Un altro padre; il giuro. Vi prometto,
Che per la morte del mio fido amico
Strage, e sangue farò. Saprò ben io
L'assassino scoprir. Voi ritiratevi.
Clar. Io v' ubbidisco. A voi mi raccomando, (pian-
gendo entra)
SCENA DICIOTTESIMA.
Pantalone, Leandro e Tartaglia.
Lean. (frettoloso) Deramo, Re, con mio dolore
deggio
Un'infausta novella a voi far nota.
192 IL RE CERVO.
Pant. {frettoloso) O Maestà... Maestà... El povero
Tartagia.
Tart. (con fiere^:{a) So tutto. Miserabile Ministro!^
Mio più fedele amico!... {finge di piangere)
Chi portata
Ha la funesta nuova del misfatto?
Pant. Uoselador de corte, Truffaldin, Maestà. El
dixe, che el 1' ha' trova in tei bosco vicin de
Roncislappe in tun baro de spini, tagià la testa.
Tart. Olà, guardie, {entrano delle guardie) Sìa
tosto il caro corpo
Del mio Ministro incenerito, e poste
Sien le ceneri sue dentro d' un' urna.
Quest'urna posta sia nelle mie stanze;
Le voglio presso a me. Voglio memoria
Conservar sempremai d'un uom si degno.
Sia imprigionato Truffaldino, e tutti
Sieno posti prigion color, che furo
Oggi meco alla caccia. Disarmate
Leandro tosto, e Pantalone, e posti
Sien d' una torre in fondo. S' incominci
Da questi due la mia perquisizione.
Lean. Io disarmato I
Pant. Mi, Maestà!
Tart. {alle guardie) M'ubbidite. Io so,
Quanto nel cor de' Cortigiani puote
L'invidia, e il tradimento. Voi, Leandro,
So, che la figlia sua amavate, e so.
Che quello sfortunato renitenza
Aveva di concedercela sposa.
ATTO SECONDO.
193
Vecchio, a voi forse rincresceva troppo,
Ch'egli mi fosse c^o. Ite alla torre;
Se sarete innocenti, saprò assolvervi.
{a parte) Quel cervo mi sta a cor; ma al
nuovo giorno
Tutto farò per dargli morte. Intanto
Ete'più forti mi sono assicurato.
Angela tema. Il regno più non perdo.
Lean. O me infelice^ Ogni speranza è persa, {erir
tra tra le guardie) ^
Pant. Questa è la prima entrada, che scodo a esser
mlssier de so Maestà; ma el Cielo defendetà la
. mia innocenza, {entra tra le guardie)
Gozzi,
i3
ATTO TERZO
Stanza regia. Vedeai nel fondo una gabbia grande con entro
un Pappagallo. Tal gabbia sarà posta sopra una tavt>la, o
altro, che serva a, focilitare la trasformazione^ che seguirà.
SCENA PRIMA.
Deramo vecchio entrando afaticato e tiinoroso.
ASSO! non posso più. Le membra stanche
Io reggo a stento. In questa reggia, dove
Monarca fui, devo fuggir ognimo;
Temer ogni ministro, ogni vii servo;
Introdurmi di ftirto. Oh quale assalto
Ebbi da' cani miei! M'ha salvo il Cielo.
L'intime stanze queste son. Vorrei
Veder Angela mia, vederla sola
Per poterle narrar... Ma nascondiamo,
Che alcun non mi scoprisse. Angela forse
Capiterà; potrò parlarle. Oh misero!
Chi sa, se al mio parlar presterà fede?
Chi condannarla può, se non la presta? (si .na^
sconde)
196 IL RE CERVO.
SCENA SECONDA.
- Angela e Derauo vecchio.
Ang. (da 5e>Come! Tartaglia è morto! Il padre mio,
Il fra tei mio prigioni Quai stravaganze?
Quai cambiamenti, e tirannie saranno
Queste del sposo? Ah, più mi riconfermo,
Ch' ei differente sia da quello, eh' era.
Der. {uscendo in dietro) Ecco la sposa mia; {guarda
dentro) Ma, oh rio destino!
Un servo arriva, e m'impedisce ogn'opra. {si
nasconde)
SCENA TERZA.
Angela e Truffaldino.
Truff. Esce, si presenta con una goffa umilia-
zione. Dice di esser venuto, perch'ella possa
rassegnarle i suoi rispetti, perchè egli si degna
. di regalarle, piosso dalla generosità verso i suoi
demeriti, una cosa assai rara ec.
Ano. Eh caro Truffaldino, ho ben in mente
Altro, che i tuoi presenti, e le tue sciocche
Goffaggini ridicole. Deh parti.
Quai regali vuoi farmi? Va, mi lascia.
Tritff. Che vuol donarle un pappagallo, il più
virtuoso, il più dotto, che sia uscito dal Semi-
nario. Ch'egli l'aveva ^à portato in quella
stanza, e che attendeva 1' occasione di poterlo
rassegnare al suo ossequioso demerito ec.
ATTO TERZO^ , ^197
Ang. Vanne, servo importuno, e teco porta
I pappagalli tuoi; non mi dar noia.
Truff. Ma che S. M. deve sapere, che quello è
un pappagallo più eloquente di tutte le fen>
mine del mondo. Si volge al pappagallo per
farlo pgy-lare. Lo chiama con quei modi, che
s'adoperano co' pappagalli ; si volge alla Re-
gina, pregandola ad ascoltare. Si volge al pap-
pagallo di nuovo; lo stimola; quello non ri-
sponde mai. Truff, s'infuria con minacce al
pappagallo, e con preghi alla Regina, che ascolti.
Fa molti la^zi spropositati.
Ang. Parti, ti dico ; più non molestarmi,
O dal veron ti fo gettare in piazza.
Truff. Al pappagallo, maledicendolo, se quelle
sieno le ricchezze da lui promesse nel presen-
tarlo alla Regina.
SCENA QUARTA.
Una GUARDIA e detti,
Guar.^ Signora, con licenza.
Ang. Che vuoi qui?
Truff. Alla Regina, che non si riscaldi. Esser
quella una persona naturalmente spedita dal Re
a pagargli diecimila zecchini di taglia, perch' egli
ha valorosamente Ucciso il cervo dalla macchia
bianca in fronte, per ordine di S. M. Si volge
alla guardia, chiedendo i danari.
198 IL RE CERVO. ■
GuAR. n Re comanda; che costui conduca
, Nel fondo d' una torre. Egli è sospetto, .
Signora, sulla morte di Tartaglia.
U ar^ir mio non v' ofEenda. Andiam, birbante.
( ^o piglia per un braccio )
Truff. Se quella sia la taglia guadagn^ita ec.
Ang- G)mel Nelle mie stanze!... È questo il loco?...
GuAR. Ubbidisco al mio Re. Vieni, buffone.
Tempo non è di tue sciocchezze. Andiamo. ( lo
strascina)
Truff. Sue collere còl pappagallo, col Re, colla Re-
gina, col Cervo, entra colla guardia piangendo.
SCENA QUINTA.
Angela sola.
Crescon le tirannie. Misera me!
Già attendo sopra al capo mio sciagure,
Che averan fine colla morte mia.
Ah, caro padre, ah, caro mio fratello,
Qual colpa avete voi, che sia Tartaglia
Nel bosco ucciso, e qual, eh' io più non possa
Amar lo sposo, come prima amava? {piange)
SCEI^A SESTA.
Deràmo vecchio ed Angela.
Der. (di dentro) Non pianger, no, cara mia vita.
Dolce
Consorte mia, non lagrimar.
ATTO TERZO. . ^99
Ai4G. (sorpresa e spaventata) Che sento l
Questa è, del Re la voce.
Der. {di dentro) Ella è pur troppo
Del tuo sposo la voce, alma innocente.
Ang. (più sorpresa) Qie!... il pappagallo forse?...
come mai?
Der. (uscendo, e al^^ando una mano tremante verso
Angela) Non sbigottirti, e non m'avere a schifo,,
Viscere mie, ti prego, (s^ avanza lentamente)
Ang. (confusa e agitata) Ah, vecchio, dimmi.
Chi t' introdusse I Chi sei tu? Che dici?
Parti dalle mie stanze, traditore.
(a parte) Certo di furto egli, s'è qui nascosto
Per udire i miei detti, ^ riportarli
A Deramo sdegnato, che m'ha in ira.
Fuggi vecchio maligno, o i servi mi^i... (in
atto di chiamare)
Der. Fermati per pietade; Angela, ascolta.
( a parte ) Ahi, m' abborrisce, ed ha ragion ; né
puote
Il suo Deramo in me conoscer mai.
Angela, dimmi; in quest'orrida scorza
Tutto abborrisci, e in me non trovi nulla?...
Nulla, che non t' incresca?...
Ang. * Quai parole
Di vecchio stolto l che di tu? che chiedi?
Der. Stolto, pur troppo è ver. Dimmi, idol mio?
Nel Re non trovi alcuna differenza
Da quel, eh' era stamane ?
Ang. (sorpresa) Oh Dio! che sento!
200 IL RE CERVO.
Quai parole son queste? miserabile,
Chi qua ti manda a chiedermi di questo?
Der* Miserabile, è ver. Ti sovverrebbe,
Che il tuo Deramo allo spezzar che fece
Il feiixiulacro magico stairjape,
' Che alle donnesche falsità ridea,
Per non avere occasion d' offendere
La cara Angela sua, ch'ei così disse:
Ebbi, cinqu' anni or son, da uh mago in dono
Due gran segreti, uno de' quali è quello,
' L'altro in petto lo serbo?
Ano. (sorpresa maggiormente) È ver; lo disse;
Ma come sai tu tanto? Oh me infelice!
Quali copfusi dubbi mi travagliano!
Mi s'aggirano in mente!
Der. (a parte) El^la sospetta;
Opportuno sospetto. Ti sovviene.
Angela, che stamane il tuo Deramo...
(battendosi il petto) Il tuo Deramo, nell'estreme
stanze
Teco scherzò d'un picciol segno, e' hai
Sopra il petto nascosto, e ti dicea,
Ch'ei ti scema bellezza? (Angela ascoltando
dimostra somma sorpresa. Deramo pian--
gendo segue) '
Ah ben maggiori,
E da ver, d'orridezza ha mille segni -
^ Ora lo sposo tuo, da mortai pena
Trafitto, che la sposa noi conosca.
Privo di giovinezza, e servi, e regno, (piange)
ATTO TERZO. . 20I
Ang. (agitata avvicinandoseglì) Vecchio... che
dici?... Oimè, che intesi mai.
Ritoma a dirmi... dimmi...
Der. {raccogliendo le fon(e) Angela sappi...
Oh ciel, dammi tu forza, ond' apparisca
Verità sul mio labbro. Angela, sappi,
Ch'io sono il tuo Deramó, in questo corpo ■
Deforme chiuso. Il corpo mio. Consorte,
Chiude lo spirto di Tartaglia infido
Per magico potere. Io di lui troppo
Mi fidai, cara sposa; e della mia
Debolezza fatai dovremo piangere
La sciagura per sempre.
Ang. Ah, come, vecchio,
Può darsi metamorfosi sì strana!
Der. Se m' abborrisci, anima mia, e noti credi,
Se più non m'ami, levami la vita;
Tanta miseria almen non sofferire
Che la miseria mia di tanto accresca, (piange}
Ang. Ah, che questa è la voce certamente,
E questi sono i sentimenti alteri
Certo del spirto invitto di Deramo.
Deramo, è ver; voi siete il mio Deramo. ( la
piglia per una mano)
Der. M'ami tu dunque ancora, anima mia.
Né ti spaventa quest'orrido corpo?
Anima grande, anima rara al mondo. ( le bacia
una mano piangendo )
Ang. Ma come mai voi sì deforme in vista,
Tartaglia Re, Tartaglia estinto, e poi
202 IL RE CERVO.
Or si abbrucia il cadavere di lui!
Quai stravaganze! Io nulla intendo, e solo
Spasmi, ed angosce son quelle, che intendo.
Ah, ben m'avvidi, che il diletto spirto
Del sposo mio nel corpo suo non era. {piange)
Der. Non pianger, per pietà, che maggiormente
Angela, accresci la miseria mia.
Dimmi, se il traditor nella mia formia
Di te, cara... Ah noi dir, taci per sempre*
La mia sventura, e, se per sorte io deggio
Rimaner testimonio de' miei torti.
Tu vivi, anima mia, tu vivi pure,
Se hai cor; ma più non viva il tuo Deramo.
Di questa salma scioglimi... m'uccidi (conrfi-
spercu^ione)
Ang. Non sospettar, Deramo; il tuo bel corpo
Senza lo spirto tuo, caro, ho sprezzato,
Vilipeso, abborrito. In smania, in ira
E il traditor ministro, e in tirannie
Sfoga la rabbia sua. Già son prigioni
GÌ' infelici mio padre, e mio fratello.
Tutti minaccia... Ah, ch'io men corro tosto
A palesar l' inganno, a sollevare
Il popol tutto. Forse trucidato
Morrà l'indegno... (m atto di partire)
Der. Fermati, mia vita.
Tutti farai perir. Come potrai
Fede in ciò ritrovare? Altra speranza
Non mi rimane, che nella tua calma,
Ma sento venir gente. È questo loco
ATTO TERZO. , 2O3
Periglioso per noi. Nel gabinetto,
Se 4ion isdegni, andiamo. Ivi udirai...
Ivi ammaestrerotti, e l'amor solo
D'Angela mia può vendicarmi; a quello
Mi raccomando.
Ang, Ah, se un costante affetto
Può giovarti, idol mio, non passa molto,
Che Siam felici, e la vendetta è fatta, (entrano)
SCENA SETTIMA.
Camera corta.
Smeraldina e Brighella.
Brio, (fuggendo da Smeraldina, che lo segue)
Ma ti m' ha mo secca, che son agro. Figu-
rarse! me xe sta dito, che una guardia me
cerca per metterme preson; go altro in testa,
che le to seccadine. Mi debotto te dago do
peadine in tei cesto, e te ficco fora de casa.
Astu el diavolo adosso?
Smer. Sì, sì, traditore, la tua ambizione fu causa
della mia rovina. Mi volesti esporre nel gabi-
netto del Re; fui rifiutata; e per questo Truf-
faldino non mi vuol più. Il mio decoro è scre-
ditato. Ho perdute tutte le occasioni; e però
pensa a ritrovarmi un marito, altrimenti ave-
rai satanasso in casa; ti sarò sempre a' fianchi,
ti farò infelice, ti farò impiccare per la di-
sperazione.
204 l^ RB CERVO.
Brig. Ma se gerimo d'accordo... Ma se ti avevi
più vogia ti de mi de produrte al Re... Ma
gran femene! gran femene! Mi ti voi che te
trova marido? Va in malora; mettite all'in-
canto. Trovetelo ti, se ti xe bona.
Smer. Dal canto mio, signor asino, ho fatto il pos-
sibile; non voglio più diventar matta. Ho pro-
vato a stringere la mano a tutti gli staffieri, a
far l'occhiolino a tutti i guatteri di cucina, a
sospirare innanzi a tutti i facchini di Corte, a
tutti i mozzi di stalla; ma nessuno mi vuol
guardare; mostrano di aver nausea di me, mi
fanno gli sberleffi, e ridono; e questo mi suc-
cede appunto per essere screditata, pregiudicata
dal rifiuto del Re, nato per tua causa.
Brig. Oh vustu, che te diga mi, perchè tutti te fa
i sberleffi, e cossa che te pregiudica?
Smer. Perchè? che cosa? Perchè? che cosa? assas-
sino della mia riputazione, e del mio stato!
Brig. (riscaldato) Te pregiudica quaranta, e più
anni, che ti ga sul preterito. Te pregiudica^
che ti xe più brutta de Chiara matta, e te pre-
giudica... (No posso più taser) che ti vuol pas-
sar per donzella, e oramai se sa anca in sto
paese, che a forza dei to maledetti desideri de
aver marido, ti ha servì in Lombardia in più
de sie casade per nena. No me seccar più, pezzo
de matta, (entra furioso)
Smer. Ah, canaglia, briccone, traditore! (gli corre
dietro)
ATTO TERZO. 20$
SCENA OTTAVA.
Camera prima col pappagallo, e preparata alle trasformazioni
che seguiranno.
Angela, Deramo vecchio e Durandartb in pappagallo,
Ang. Sì, mio ben, non temete; io farò tutto
Ciò, che voi m'insegnaste, e, se pur vana
Fosse l'opera mia, non dubitate;
Morrà Tartaglia, e voi ritornerete
Nello stato primiero.
Der. Ah, sposa, è questo
L' unico modo di recar soccorso
Al tuo caro consorte. Violenza
Perigliosa sarebbe. Ma la voce
Sento del traditore. Oh robustezza!...
Mie .prime forze, dove siete mai?
Perchè m'abbandonaste, e perchè sento
Tanto furor nell'alma, e tal fiacchezza
Disugual nelle membra, ch'io non possa
Vendicarmi, sfogarmi? Io mi nascondo.
. Pensa a ricuperare il tuo Deramo,
Qual era prima. Angela, t'accomando...
{le prende una mano) Usa arte, quanto puoi;
ma ti scongiuro.
Deh non l'accarezzar; fa, che l'iniquo
Non s'avvicini a te. Fa quanto puoi...
Ah., non badarmi... passion m'accieca...
Furor di gelosia, non mi tradire, {si ritira)
206 IL RE CERVO.
Ano. Ite, ch'ei s'avvicina. Testimonio
Dell'oprar mio sarete; ite, celatevi.
SCENA NONA.
Tartaglia Re, Guardie Jn dietro, Angbla
e DuRANDARTB iVi pappagallo.
Tart. (da se) Il cervo è morto, e lo conobbi al
segno;
Ma TrufFaldin s'imbroglia, e non l'uccise
Pieno son di sospetti, non vorrei...
Ma che temer? Son Re, tremi ciascuno.
Ang. (da se) Mio cor, resisti. A fingere ti sforza,
E a soflferir del traditor la vista.
Tart. ( da^ se) Solo il cor di costei mi manca, e poi
Sono felice. Ah sento, che l'amore
Mi fa rabbioso. Or fo 1' ultima prova :
Angeletta, cor mio5 ^^ ^^y vi siete
Ancor risolta a non lasciar, eh' io crepi
Per amor vostro? Vi sentite ancora
Passar la fissa2Ìon, gli effetti isterici,
Che m'han privato dell' affetto vostro?
(a parte) Più gentilmente noti si può trattarla.
Ang. Signore, io.facea yoti, e umili prieghi
Al Ciel, che mi togliesse un'illusione,
Che infelice mi rende, e già dal core,
E dalla mente disgombrare in parte
Mi sentiva il crudele abborrimento.
Poi da me stessa con riflessi saggi
^ Diceva: Egli è, pur quel, che sì mi piacque!
ATTO TERZO. 20J
Da qual follia mi lascio prender mai,
Che mi tolga la pace insin eh' io viva ?
Vinci te stessa, Angela incauta, e seguì
Ad amar chi t' adora. È l' infernale
Mostro, che ti persegue, e cambia in aspra
Vita la coniugai felicitade.
Così, Deramo, da me stessa andava
Soccorrendo il mio core, e risvegliando
La tenerezza in me.
Tart. (pigliandola per una mano) Cara! bravissima!
- Così mi piace. Via.
Ang. (a parte) Empio!... fellone!
Ma qual intoppo a me non fu il sentire.
Che il caro padre mio, barbaramente,
E mio fratel, son posti in prigion dura
Per vostra commessióne, e eh' altri cento
In carceri son posti? Ah, dissi questi
Tiranni modi di Deramo mio
Non sono già. Rinnovellato ho il pianto.
Misera, ricadendo... (in atto di piangere)
Tart. Non piangete,
Mio sol, mia luna (a parte) Buon fu il mio
cerotto
Per ammollire i calli del suo cuore.
Io gli misi in prigione, Angela mia.
Per appagar il popolo, che freme.
Del mio fedel Tartaglia appassionalo;
Ma dopo alcuni esami, assicuratevi,
' Salyo fia vostro padre, ed il fratello, •
Quand'anche sieno a parte del misfatto.
208 IL RE CERVO.
Akg. (a parte) Ah, traditori
Tart. e se per sorte al scioglierli
Tosto il cor vostro al mio core s'arrende,
Liberi saran tosto, {ad una guardia) Olà;
Leandro,
E Pantalone in libertà sian posti {una gnar-
dia parte)
Ang. Caro Deramo^ si questi son modi,
Che destan nel cor mio la tenerezza,
Scaccian l' abborrimento. Più bei tratti
Non son di questi, che sanar mi possano.
Già ad amarvi incomincio.
Tart. {con trasporto grande) Oh sangue mio.
Seguite a chieder grazie; via pensate;
Ruminate tra voi; tutto chiedete;
Tutto farò per voi.
Ang. {fingendo tenere^a) Caro il mio sposo.
Poco m'avanza a superar. Leandro
Ama Clarice, il fratel mio, deh fate
Che consolato ei sia.
Tart. {in maggior trasporto) Uh uh uh uhi
Le Castella d' Isola, e Clarice
Dono a Leandro. Andiamo, Angela mia. {pi-
gliandola per un braccio)
Ang. {con somma tenere^s^a) Caro Deramo, no;
sappi, alcun picciolo
Ribrezzo mi molesta ancora. Io penso
A chieder grazie per aver cagioni
Di doverti adorar, né più saprei
Qual favor chieder deggia.
ATTO TERZO. 2(fg
Tart. Via, colomba.
Più non mi tormentate. Su, chiedete,
Chiedete tutto in ima volta... e andiamo.
Ang. {basso a Tart.) Mandate via, Signor, questi
soldati.
Tart. {alle guardie) Ite, ed a' cenni miei ritor-
nerete. ( le guardie partono )
Ano. {mostrando soggepone) Voi mi diceste pur
per darmi un segno
Di vero amor, di vera fé stamane.
Che possedete un magico secreto
Da passar collo spirto in un cadavere.
Restando morto, e ravvivando quello;
E ch'indi ritornar nel vostro corpo
Potete poi con magiche parole.
Fatemi ancor di sì possente arcano
Veder la esperienza.
Tart. ( a parte con sorpresa ) Oimè l Deramo
Confidato ha il segreto alla consorte!
Ang. Parmi, che abbiate qualche renitenza
Ad appagarmi in ciò. Forse dì fede
Temete ch'io mancar vi possa?
Tart. ^ No.
{a parte) Ah questo è troppo... i miei sospetti
crescono,
Mostriam franchezza. Anche di questo voglio
Appagarvi, cor mio; ma è ben dovere
Dopo tanti attestati del mio affetto.
Ch'anche voi m'appaghiate in qualche cosa.
Vi son consorte alfin.
Gozzi. 14
2 IO IL RE CERVO.
Ahg. Ah, mio Deramo,
Io v'asskuro, dopo questa grazia
Quanto capace sono, vederete,
D' amor per il mio sposo.
. Tart. {a parte) Oh certamente
Questo è troppo periglio, ed i sospetti
Crescono fuor di modo. Io non l'appago.
S' usi la forza alfìn ; di che temere ?
Angela, un cervo morto sta qui fuori,
Qui lo farò recar; la sperienza
Ben vi farò veder, ma intanto andiamo.
Ano. Appagatemi prima, e vostra sono.
Tart. (la piglia con violerv^a) Eh sono stanco;
troppo ingrata siete,
A forza finalmente...
Ang. {da se agitata) Ah vana è l'opra.
Misera mei Deramo, io vi scongiuro...
Tart. (strascinandola) Non ci sono scongiuri; via,
venite.
Ang. (difendendosi) Oh Cieli... Deramo...! sof-
frii..^ Oh Diol... Deramo...
SCENA DECIMA.
Deramo e detti
Der. (di dentro) Fermati, traditore; iniquo, fermati
Tart. (da se agitato) Qual voce è questa! io
sono rovinato.
(si stacca da Ang, sbigottito) Questa è del Re
la voce. Ah traditora!
ATTO .TERZO. , 211
, » ■
Tu per tormi la vita gli assassini
Hai qui nascosti? Io scoprirò gli agguati.
Trema per chi è nascosto, e per te trema.
(entra dalla patzte, dov* è DeramOy traendo
la spada)
Ano. Misera me!... misera me!... sori morta.
{Angela cade in deliquio. Tartaglia esce
colla spada ignuda, e strascinando Deramo
per un braccio)
Tart. (furioso) Dimmi, chi sei, vecchio insensato?
Dimmi,
Come sei qui? Ragiona, o questa spada
Ti ficco nella gola.
Der. Empio, rispettami.
Son Derimo, il tuo Re. De' benefizi
Ricordati, fellon. Se ti rincresco.
Svenami pur; rimetto al Ciel l'inganno.
Tart. ( confuso da se) Ah questo vecchio ben co-
nosco; è quello,
'Che alla caccia oggi uccisi. Incauto io fui
Quel corpo ivi a lasciar. Pur troppo è vero;
Orba l' uomo il suo errof . Ma sono a tempo.
Mori, vecchio bugiardo, e nell'abisso...
(al:[a la spada per trucidarlo. Odesi un
tremuoto improvviso. Deramo e Tartaglia
spaventati si separano, e vannosi a porre
a^ lor posti per la trasformazione, che dee
seguire. Angela al romore torna in sé. Du^
r andar te in pappagallo scioglie la voce)
DuR. Provvido Cielo, i tuoi prodigi seguita.
212 IL, RE CERVO. • . .
Difendi l' innocenza, insin ch'io spoglio
Queste penne d'augel; che questo è il punto.
(segue la tras/ormaiione del pappagallo in uomo)
Der. ( attonito ) E quai j^rodigi ! Oh come il Cielo
a tempo
Anche de' più infelici si ricordai
Tart. (sbalordito) Che risolvp? che fo? Fuggo?
sto fermo?
Non ho più mente; mi confondo e tremo.
DuR. (facendosi innaw[i con una verga nella mano)
(a Der.) Innocente Deramo, non temere.
(a Tart,) Ministro traditor, tutto paventa.
Angela amante, virtuosa donna,
Non temer nulla. Della tua vendetta
Ti voglio spettatrice.
Der. (con voce piangente) Angela amata,
Un prodigio mi serba; ma mi serba
Un oggetto abborribile al tuo sguardo.
Ano. Lo spirto tuo fa bella la jtua spoglia;
Non t'affigger di ciò.
Tart. Ma chi mi toglie.
Forza di vendicarmi! Olà, ministri,
Servi, soldati; il vostro Re è tradito.
DuR. Sordo è ognuno per te, che il Ciel favore
Sol dona agl'innocenti; or t'avvedrai.
L'empio è punito aljor, che men s'aspetta.
Servi d' esempio, traditor ministro,
A tutti i pari tuoi, che con usurpi
Préndon dei Re la forma, e i lor Monarchi
A' sudditi, e a' vassalli mostruosi
ATTO TERZO. , ^21^
Rendon, come Deramo, disponendo
Della possanza, dell' onor, del regno.
Sappi, fellon, che gentil alma è quella,
Che r uom distingue; e se a Deramo invitto
È necessario d' appagar la vista
De' mortai colle spoglie, e con bellezza, {con
voce alta)
Cambinsi i corpi. Tutta la miseria
Del Re sopra te caschi, e peggio ancora.
L'usurpata fortuna al buon Deramo
Restituisce il CieL (a Tart) Fremi* {a Der.)
T' allegra.
{batte la verga. Deramo si cambia sino al
ginocchio con abiti reali. Tartaglia si cam^
bia sino al ginocchio colle gambe sca^e
tutte piagate )
Ang. Che veggo mai!
Der. {a Dar.). Amico... oh qual fortuna!
Tart. O Dio! fermati... basta... oh qual miseria 1
DuR. Seguiti il tuo destino, anima indegna.
Angela esulti, il buon Deramo, e H Regno.
( batte con la verga. Deramo cambia il corpo
con ricco vestimento. Tartaglia cambia il
corpo con una camicia lacera^ per i buchi
della quale si veggono le carni ignude di
Tartaglia ) ,
Ano. {esultante) O del, segui il tuo aruto.
Der. Oh sorte!... Oh amico !«.
Tart. Inorridisco... ferma
Dur. Soffri, iniquo.
214 ' IL RE CERVO.
• Voi v'allegrate, che il destin si compie.
{batte la verga. Deramo cambia il capo con
turbante gioiellato. Tartaglia cambia il capo
in orrido mostro cornuto. Trovasi avere
sotto le braccia due grucce da storpiato)
Ang. Deramo mio... Deramo...
Der. Angela mia.,.' (s^ abbracciano)
Tart. (furioso e disperato) Oh dove mi nascondo?...
Oh dove corro?...
Oh maladetto amore... maladetta
Ambizione... maladetto il punto,
Che traditor divenni... In un diserto... {in
atto di fuggire)
DuR. Fermati, scellerato; di vergogna
Qui dei morir. Divenga questa stanza
Pubblica piazza. Il popolo s'affolli.
Spettacol reso seL Fremi. Ti rodi.
{baite la verga. Si cambia la stanca in
pia![s[a con quella magnifcèw[a e lonta-
nan^a, che dipende dal l* arbitrio, e dalla
grande\\a del teatro).
V
SCENA ULTIMA.
Tutti gli attori, guardie e popolo.
Tart. {correndo per la scena furente) Chi per
pietà m' uccide ? Chi m' uccide ?
Amici, io son Tartaglia in questo mostro
Dal Ciel cambiato. Un scellerato io sono.
( Tutti fanno degli atti di stupore ).
ATTO tERZO.^ 215
Clar. {piangendo) Oh Dio! che vedo! oh Dio, che
, sento!... misera! .
Padre mio... padre mio...
Tart. Non pianger, figlia ;
Pianto non merto; scordati del padre,
Dell'iniquo tuo padre. Ognun si scordi
D'un mostro abbominevole. Già sento,
Che vergogna, e rimòrso al cor m'aduna
Tanto dolor, che dell'odiata luce,
E di vita mi priva. È il Re Deramo
Vendicato abbastanza. X' infelice
Mia figlia, o Re, quell'innocente almeno
Non patisca per me. Sposi Leandro,
Sia protetta da voi, poich' altro padre
Non le resta, che voi. L'ambizione...
■ L'amor... la gelosia... m'han fatto iniquo.
Mostro divenni... ed il dolor m'uccide...
M' uccide il duol... {tremando) La rabbia...
Ecco la morte...
' Ecco il demonio orrendo... oimè, son morto.
{cade morto)
Pa^t. No so, se sia più granda la paura, la alle-
grezza, o la curiosità de saver sto arcano.
Lean. Io son di pietra. Non comprendo nulla.
Clar. {piangerà; tutti gli altri faranno gesti di
spavento e di stupore)
Der. Amici, ben vi scuso, se vi prende
Gran maraviglia. Io miglior tenipo atìtendó
A tutto dichiararvi. Voi, Clarice,
Calmate il core, e di Leandro sposa
21 6 IL RE CERVO.
Sarete un dì.. Voi, Negromante illustre^
Ch'io ben conosco, della mia persona
Disponete, e del Regno,
DuR. Durandarte
Non ha mestier di Regni, e sol vi dice.
Ch'oggi i segreti ma^ci hanno fine;
Ch'io più mago non son. Resti i'incarca
Alla Fisica industre di far guerra
Sugli organi, e le voci, che passando
Di corpo in corpo le medesme sono.
Tolga questo mio fine a' dotti spirti
Cagion di disputar. Si rinnovellino
Colle solite rape, e i consueti
Sorci le nozze; e voi, pietosi spirti,
Se il convertirsi nostro, sino in bestie,
Per divertirvi, qualche scusa merta,
Consolateci almen con qualche segno
Di quella umanità, che sì v' onora.
TURANDO!
FUBA CHINESE TEATRALE TRAGICOMICA
IN CINQUE ATTI
PERSONAGGI
TURANDOT, Principessa Chinese, figliuola di
ALTOUM, Imperatore della China.
àDELMA, Principessa Tartara, schiava fiavonu di Turandot.
ZELIMA, altra schiava di Turandot*
SCHIRINA, madre di Zelima, moglie di
BARACH, sotto nome di Assan, fu Aio di
CALAF, Principe dei Tartari Nogaesi, figliuolo di -
TIMUR, Re d'Astracan.
ISMAELE, fu Aio del Principe di Samarcanda.
PANTALONE, Segretario d'Altoura.
TARTAGLIA, gran Cancelliere.
BRIGHELLA, Maestro de' Paggi.
TRUFFALDINO, Capo degli Eunuchi del Serraglio di Tu
randotc
OTTO DOTTORI Chinesì del Divano.
MOLTE SCHIAVE serventi nel Serraglio.
MOLTI EUNUCHI
UN CARNEFICE.
SOLDATI.
La scena è in Pechino, e nei sobborghi. Il vestiario di
tutti i Personaggi è Chinese, salvo quello di Adelma, di Ca-
laf e di Timur, eh' è alla Tarura.
ATTO PRIMO
Veduta d^ una porta della Città dì Pechino, sopra la quale ci
Steno molte aste di ferro piantate; sopra queste si vedranno
alcuni teschi fitti, rasi, col ciuffo alia Turca.
SCENA PRIMA.
Calaf uscendo da una parte, indi Barach.
Cal. KS^^^fc^ NCHE in Pechin qualch' animo
cortese
Pur dovea ritrovar.
Bar. (uscendo dalla città) Oimè! che vedo!
Il Principe Calafl come! ed è vivo?
Cal. (sorpreso) Barach.
Bar. $ignor...
Cal. Tu qui!
Bar. Voi quii voi vivo!
Cal. Taci; non palesarmi per pietade.
Dimmi, come sei qui?
Bar. Dopo la rotta
Dell'esercito vostro sfortunato
Sotto Astracan, veggendo i Nogaesi
220 TURANDOT. '
Fuggir sconfitti, e'I barbaro Sultano
Di Carizmo feroce, usurpatore
Del regno vostro, già vittorioso
Scorrer per tutto, in Astracan ferito
Mi ritrassi dolente. Quivi intesi,
Che'l Re Timur, genitor vostro, e voi
Morti eravate nel conflitto. Io piansi.
Corro alla Reggia per salvar Elmaze,
Vostra madre infelice; e iitvan la cerco.
Già'l Soldan di Carizmo furioso.
Senza trovar chi s* opponesse, entrava
In Astracan coi suoi. Io disperato
Fuggii dalla Città. Peregrinando
Più mesi andai. Qui in Pechin giunsi, e quivi
Sotto nome di Assan, in Persia nato,
A una vedova donna m'abbattei
D'oppression colma, sfortunata; ed io
Coi miei consigli, e con alcune gemme,
Che avea, vendendo in suo favor, lo stato
Dell'infelice raddrizzai. Mi piacque;
Ella ebbe gratitudine; mia sposa
Divenne alfin, e la mia sposa istessa
Persian mi crede ancora, Assan mi chiama^
E non Barach. Qui vivo coi suoi beni.
Povero a quel, che fui, ma fortunato
In questo punto son, dappoiché in vita
Il Principe Calaf, quasi mio figlio
Da me allevato, io miro, e morto il piansi.
Ma come vivo, e come qui in Pechino?
Cal. Barach, non nominarmi. Il di funesto,
ATTO PRIMO. 221
Dopo il conflitto, in Astracan col Padre
Cprsi alia Reggia, e delle miglior gemme ,
Fatto fardello, con Timur, e Elmaze,
Miei genitor, di panni villerecci
Travestiti, fuggimmo prontamente.
Per i deserti, e per 1' alpestri roccie
P>r andavamo celati. Oh Dio! Barach^
Quante miserie, e quanti patimenti!
Sotto '1 monte Caucaseo i malandrini
Ci spogliaron di tutto; e i nostri pianti
Sol dono della vita hanno ottenuto.
Con la fame, la sete, ogni disagio
Era compagno nostro. Il vecchio padre
Or sugli omeri miei per alcun tempo.
Or la tenera Madre via portando,
Seguivamo il viaggio. Cento volte
Trattenni il genitor, che disperato
Uccidersi volea. Ben altrettante
Cercai la madre ritornar in vita,
Per languidezza, e per dolor svenuta.
Alla Città d' Jaich giugnemmo un giorno.
Quivi, piangendo, io stesso, in sulle porte
Delle Moschee, chiedea pien di vergogna.
Nelle botteghe, e per le vie cercando
Tozzi di pane, e picciole monete.
Miseramente i genitor sostenni.
Odi sventura. Il barbaro Sultano
Di Carizmo crudel, non ancor pago
Della fama, che morti ci faceva,
Non ritrovando i nostri corpi estinti,
222 TURANDQT.
Ricche taglie promise a chi recasse
I capi nostri. Lettere ai Monarchi
Con lumi, e contrassegni ebbe spedite,
Con le quali chiedea di noi le teste.
Tu sai, quanto è' quel fier da ognun temuto.
Se un caduto Monarca è più infelice
Per i sospetti, di qualunque uom vile,
E quanto vai politica di stato.
Un provvido accidente mi fé noto,
Che '1 Re d' Jaich per tutta la Cittade
Cercar facea di noi secretamele.
Ai genitori miei corsi veloce;
Gli animai per la fuga. Il padre mio
Pianse, e la madre pianse, e in braccia a morte
Voleano darsi. Amico, oh qual fatica
L' anime disperate è a porre in calma.
Del Ciel gli arcani, ed i decreti suoi
Ricordando, e pregando! Alfin fuggimmo,
E nuove angosce, e nuove inedie, e nuovi
Patimenti soffrendo...
Bar. (piangendo) Deh, Signore,
Non dite più; sento, che'l cor mi scoppia.
Timur, il mio Monarca a tal ridotto
, Con la sposa, e col figlio! Una famiglia
Real, la più clemente e prode, e saggia,
In tal mendicità! Deh dite: Vive
II mio Re, la sua sposa?
Cal. Sì, Barach,
Vivono tuttidue. Lascia, ch'io narri
A qual tribolazion soggetto è Puomo,
ATTO PRIMO. 223
Benché nato in grandezza. Un'alma forte
Tutto de'soflferir. De' ricordarsi,
Che, a petto a' Numi, ogni Monarca è nulla,
E che costanza, e obbedienza solo ^ .
Ai decreti del Ciel fa Puom di pregio.
De'Carazani al Re fummo, ed in Corte
Nei più bassi servigi m'adattai
Per sostenere i genitori. Adelma,
Del Re Cheicobad de'Carazani,
Avea di me qualche pietade, e panni
Poter assicurar, ch'ella sentisse
Più, che pietà per me. Co' sguardi suoi
Parea, che penetrasse, ch'io non era
Nato^ quale apparta. Ma non so, quale
Puntiglio il padre suo mosse a far guerra
Ad Altoum, Gran Can qui di Pechino.
Stolti furo i racconti, che dal volgo
Venieno fatti per tal guerra, e solo
So, che fu ver, che'l Re Cheicobad
Fu. vinto, e desolato, e che fu estinta
Tutta la stirpe sua, che Adelma stessa
Morì in un fiume. Cosi fama sparse.
Anche da'Carazani via fuggimmo
Per fuggir strage, ed il furor di guerra.
Dopo lungo patir giugnemmo a Berlas
Laceri, e scalzi. Ma che più dir deggio?
Non istupir. La madre, e '1 padre mio
Alimentai quattr'anni al prezzo vile
Di portar sopr'agli omeri le casse.
Le sacca, ed altri insofferìbil pesi.
224 TURANDOT.
Bar. Non più. Signor, non più... Poiché vi miro
In arnese reale, ogni miseria
Lasciam da parte, e finalmente dite,
Come fortuna un dì vi fu cortese.
Cal. Cortese! Attendi. Uno spander perduto
Fu da Alinguer, Imperator di Berlas,
Che molto caro avea. Fu preda mia,
Ad Alinguer lo presentai. Mi chiese.
Chi fossi; io tenni l'esser mio celato.
Dissi, eh' ero un meschin, che i genitori
Sostenea, via portando a prezzo i pesL
L' Imperator nell' ospitai fé porre
La madre, e'I padre mio. Die commesacmc,
Che ben serviti, e mantenuti in vita
Fossero in quell'asilo di meschini
(piangendo) Barach, ivi è'I tuo Re... la tua
Regina...
Sono i miei genitor sempre in spavento
D' esser scoperti, e di lasciar il capo.
Ba^. {piangendo) Oh Diol che sento mail
Cal. L' Imperatore.
A me die questa borsa, {trae dal seno una
borsa) un bel destriere,
E questa ricca veste. Disperato
At)braccio i genitor. Lor dico: Io vado
A ricercar fortuna. O questa vita
Infelice vo' perdere, o gran cose
V'attendete da me; che'l cor non soffi*e
In sì miserò stato di vedervi.
Trattenermi volean, volean seguirmi;
ATTO PRIMO. 2^
E'I Ciel non voglia, che di là partiti
Sieno per caldo amor dietro al lor figlio.
Lungi dal mio Tiranno di Carizmo,
Qui in Pechin giunsi, e del gran Can intendo
Sotto mentito nome esser soldato.
, Se m' innalzo, Barach, se la fortuna
Mi favorisce, ancor fare vendetta.
Per non so qual funzione è la cittade ,
Piena di forestier, ne da alloggiarvi
Potei trovar. Qui una pietosa donna
Di quell'albergo m'accettò, ripose
Il mio destrier...
Bar. Signor, quella è mia moglie.
Cal. Tua moglie l Va, che fortunato sei
Possedendo una donna si gentile.
(in atto di partire) Barach, ritornerò. Dentro
a Pechino ]
Questa solennità bramo vedere.
Che tante genti aduna. Ad Altoum,
Gran Can, poi mi presento, e grazia chiedo
Di militar per lui. (va verso la porta della
Città) *
Bar. Calaf, fermatevi.
Non vi prenda disio d' esser presente
A un atroce spettacolo. Voi siete
In un teatro abbominevol giunto
Di crudeltà inaudite.
Cal. Chel Mi narra.
Bar. Noto non v' è, che Turandot, là figlia
Unica d' Altoum Imperatore,
Gozzi. i5
226 TURANDOT.
Bella, quanto crudel, qui nella Chiaa
È cagion di barbarie, e lutti, e lagrime?
Gal. Io 'ben tra Caraz^ni alcune fole
Udia narrar. Diceasi anzi, che'l figlio
Del Re Cheicobad in strana forma
. Perito era in Pechino, e' che la guerra
Con Altoum per questo si facea;
Ma U volgo ignaro inventa, e negli arcani
Volendo entrar de' gabinetti, narra
Facete cose, e chi ha buon senno, ride.
Di pur, Barach.
Bar. D' Altoum Can la figlia,
Turandot, in bellezza inimitabile
Da pennello il più industre, di profonda
Perspicacia di mente, di cui vanno
Molti ritratti per le Corti in giro,
È d'animo si truce, ed è si avversa
Al sesso mascòlin, che invan fu chiesta
Da gran Monarchi in sposa.
Cal. Ecco l'antica
Fiaba, che udii tra Carazani, e risL
Di pur, Baruch.
Bar. Fiabe non sono. Il Padre
Volle più volte maritarla, eh' ella
Erede è dell'Impero, e volle darle
Sposo di real stirpe, atto al governo.
Ricusò quell'indomita superba;
E'I padre suo, ch'estremamente l'ama,
Non ebbe cor di maritarla a forza.
Spesso avea guerre per cagion di lei,
ATTO Pallio. 227
E, quantunqu'è possente, e superasse
Tutti gli assalitori, egli è pur vecchio, '
E un giórno con parole risolute,
E con riflessi alfin disse alla figlia:
O pensa a prender sposo, o suggerisci,
Com'io possa troncar le guerre al Regno,
Ch' io son già vecchio, e troppi Re ho affrontati
Te promettendo, e poi per amor tuo
Mancando alla promessa ingiustamente.
Vedi, che giusta è la richiesta mia, y
Che d'amor non ti manco. O ti marita,'.
O di troncar le guerre un mezzo addita,
E vivi poi, come t'aggrada, e mori.
Si scosse la superba, ed ogni Sforzo
Fé' per disobbligarsi. Assai preghiere
Porse al tenero padre ; ma fur vane.
S'infermò quella vipera di rabbia.
Fu per morir. Al padre adolorato.
Ma forte in ciò, questa dimanda fece.
Della terribil donna udite in grazia
Diabolica richiesta.
Gal. Odo la fola, (
Che udita ho ancora, e che rider mi fece.
Odi, s'io la so bene. Ella un editto
Volle dal padre, che qualunque Principe
Per sua consorte chiederla potesse.
Ma con tal patto : eh' ella nel Divano
Solennemente in mezzo de' Dottori
Esporrebbe tre enigmi al concorrente;
Che, s'egli li sciogliesse, era contenta
228 TURANDOT.
D' Saverio sposo, e del suo Impero erede;
Ma che, se i suoi tre enigmi non sciogliesse,
Altoum Can, per sacro giuramento
A' Numi suoi, troncar farebbe il capo
Al Prence incauto, e mal capace a sciorre
Gli enigmi della figlia. Dì, Barach,
Non è questa la fola? Or dì tu'l resto.
Ch'io m'annoio nel dirla.
Bar. Fola! Fola!
Oh lo volesse il Cielo. Si riscosse
L'Imperatore a ciò, ma quella tigre
Con alterigia, ed or con vezzi, ed ora
Moribonda apparendo, vacillare
Fé' la mente al buon vecchio, e alla fin trasse
Al padre troppo tenero la legge.
Ell'addilcea: Nessuno avrà coraggio
D' esporsi al gran periglio; io vivrò in pace.
Se alcuno s'esporrà, non avrà taccia
Il padre mio, s' eseguir fa un editto
Pubblicato, e giurato. Questa legge
^Fu giurata, e andò intorno, ed io vorrei
Fole narrarvi, e poter dir, che sogni
Sono gli effetti della cruda legge.
Cal. Credo, poiché tu '1 narri, quest' editto;
Ma certamente nessun Prence stolto
Si sarà cimentato.
Bar. Che! Mirate.
{mostra i teschi infil:{ati sulla mura)
Que'capi tutti son di giovanetti
Principi, esposti per discior gli oscuri -
ATTO PRIMO. 229
Enigmi della cruda, e esposti invano
Vi lasciaron la vita.
Gal. (sorpreso) Oh atroce vistai
Come può darsi tal sciocchezza in uomo
D'espor la testa per aver consorte
SI barbara fanciulla?-
Bar. ' Ma, non dite
Questo, Calaf. Chiunque il suo ritratto.
Che gira intorno, vede, una tal forza
Sente nel cor, che per P originale
Cieco alla morte corre.
Gal. Un qualche folle.
Bar. No, no, qualunque saggio. Oggi U concorso
In Pechino è, perchè si tronca il capo
Di Samarcanda al Principe, il più bello.
Il più saggio, e gentile giovinetto,
Che la c;ittà vedesse. Altoum piange
Della giurata legge, e l'inumana
Si pavoneggia, e gode, (si mette in ascolto,
Odesi un suono lugubre (T un tamburo scor-
dato) Udite! udite l
Questo suono lugubre è '1 mesto segno,
CheU colpo segue. Io di Pechino uscita
Sono per non vederlo.
Cal. Tu mi narri
Strane cose, Barach. Ed è possibile.
Che da natura uscita una tal donna
Sia, com'è Turandotte? Sì incapace
D'innamorarsi, e di pietà si ignuda?
Bar. Ha mia consorte una sua figlia, serva
2^30 , TDRANDOT.
Della crudele nei Serraglio, e narra ,
Di quando in quando a mia consorte cose.
Che sembrano menzogne. Turaridot
È una tigre, Signor; ma la superbia,
L'ambizione è in lei più, ch'altro viila
Gal. Vadano tra i dimohi questi mostri,
Abbominevol mostri di natura.
Che umanità non han. S'io fossi '1 padre,
Morrebbe tra le fiamme.
Bar. (guarda verso la Città) Ecco Ismaele,
L'Aio infelice del già morto Prence,
Amico mio, che vien piangendo.
SCENA SECONDA.
Ismaele e detti
IsM. (esce piangendo dalla Città) Amico,
Morto è'I Principe mio. Colpo fatale!
Deh perchè sul mio capo non cadesti? {piange
dirottamente)
Bar. Ma perchè mai lasciarlo esporre, amico.
Nel Divano al cimento?
IsM. E aggiungi ancora
All'angoscia rimproveri? Barach,
. Non mancai di dover. Se tempo aveva.
Il suo padre avvertia. Tempo non ebbi,
Ragion non valse, e l'Aio alfine è servo,
Ne al Principe comanda, {piange)
Bar. Datti pace.
Filosofia t'assista.
ATTO PRIMO.. 231
IsM. Pace! pace!
Amor mi tenne, e sino all' ultim' ora
Presso mi volle. I detti suoi mi sono
Fitti nell'alma, e tante acute spine
Saranno a questo seno eternamente.
Non pianger, mi dicea, volontier muoio,
Che la crudele posseder non posso. /
Scusami al Re, mio padre, che partito
Son dalla Corte sua senza un addio.
Dì, che '1 timor, eh' ei s' opponesse allora
Al mio desir, mi fé' disubbidiente.
Questo ritratto mostragli, {trae dal seno un
ritratto) Veggendo
Tanta bellezza dell' altera donna.
Mi scuserà, piangerà teco il mio
Caso crudel. Ciò detto, cento baci
• Impresse in questa maledetta effigie.
Poscia il suo collo espose, e vidi a un tratto
(Orribil vista, che natura oppresse!)
Sangue spruzzar, busto cadere, in mano
Del ministro crudele il caro capo
Del mio Signor. Fuggii, d'orror, di doglia
Desolato, acciecato. {getta in terra, e calpesta
il ritratto) O maladetto,
Diabolico ritratto, qui rimanti
Calpestato nel fango. Almen potessi
Calpestar teco Turandotte iniqua.
Ch'io ti rechi al mio Re? No, Samarcanda
Più non mi rivedrà. Piangendo sempre
In un diserto lascierò la vita, {parte furioso)
232 TURANDOT.
SCENA TERZA.
Barach e Calap.
Bar. Signor, udiste?
Gal. Sì, tutto commosso
Sono per quanto udii. Ma come mai
Aver può tanta forza non intesa
Questo ritratto? {va per raccogliere il ritratto^
Barach lo trattiene)
Bar. Oh Diol Signor, che fate?
Gal. (sorrid.) Quel ritratto raccolgo. Io vo' vedere
Queste sì formidabili bellezze. (ìuoI racco-
gliere il ritratto: Barach lo trattiene con
for^a)
Bar. Meglio saria per voi fissar lo sguardo
Nella faccia tremenda di Medusa^
Non vel permetterò.
Gal. Sei pazzo! Eh via {lo ri-
spinge, raccoglie il ritratto)
Se tu sei folle, io tal non son. Bellezza
Di donna non fu mai, che un sol momento
Fermasse gl'occhi miei, non che nel core
Potesse penetrar. Di donna viva
Parlo, Barach: vedi se pochi segni
Da pittor coloriti hanno a far colpo,
E'I colpo, che tu narri, in questo seno.
Baie son queste, {sospirando) l casi mici,
Baraci^
ATTO PRlirO. 233
Chiaman altro, che amorì, (è in atto di guar-
' dare il ritratto. Barach impetuoso gli mette
sopra una mano, gì' impedisce il vederlo)
Bar. Per pietade,
Chiudete gli occhi...
Cal. {respingendolo) Eh via, stolto, m'offendi»
{guarda il ritratto, riman sorpreso, indi
grado grado con las[^i sostenuti s'incanta
in esso)
Bar. {addolorato) Misero jne! qual infortunio è
questo !
Gal. ( attonito ) Barach, che miro ! in questa dolce
effigie,/
In questi occhi benigni, in questo petto
L'alpestre cor tiranno, che narrasti.
Albergar non può mai.
Bar. Lasso! che sento?
Signor, più bella è Turandot, né mai
Giunse pittore a colorir le intere
Bellezze di colei. Non celo il vero.
Ma non potrìa degli uomini eloquenti
La più faconda lingua dispiegarvi
L'ambizion, la boria, i sentimenti
Crudi, e perversi del suo core iniquo.
Deh scagliate, Signor, da voi lontana
La velenosa effigie; fìù non beva
La mortifera peste il guardo vostro
Delle crude bellezze, io vi scongiuro.
Cal. {che sarà sempre stato contemplando il ri"
tratto)
234 TDRANDOT.
Invano tenti spaventarmi. Care
Rosate. guance, amabili pupille,
Ridenti labbra! oh fortunato in terra
Chi di sì bel complesso l' armonia
Animata, e parlante possedesse! (sospeso al-
quanto, poi risoluto)
Barach, non palesarmi. È questo il punto
Di tentar la fortuna. O la più bella
Donna, che viva, e in un possente Impero,
Disciogliendo gli enigmi, a un tratto acquisto,
O una misera vita, divenuta
Insofiferibil peso, a un tratto lascio, (guarda il
ritratto )
Dolce speranza mia, già m'apparecchio
Vittima nuova a dispiegar gli enigmi.
Abbi di me pietà. Dimmi, Barach;
Là nel Divano almen, pria di morire,
Vedranno gli occhi miei l' immagin viva
Di si rara bellezza? (udir assi un suono lugu-
bre di tamburo scordato dentro le mura
della Città, e più vicino della prima volta.
Cala/ si porrà in attenpone. Vedrassi in-
nalzarsi per di dentro sulle mura un orrido
carnefice Chinese con le braccia ignude, e
sanguinose, che pianterà il capo del Prin-
cipe di Samarcanda, indi si ritirerà)
Bar. Deh mirate
Prima, e v'inorridite. È quello il teschio
Del Principe infelice ancor fimiante.
Di sangue intriso, e quel, ch'ivi lo fisse
ATTO PRIMO. 235
È'I carnefice* vostro. Vi trattenga
Sicurezza di morte. È già impossibile
Discior gli enigmi della crudel donna.
Il caro capo vostro orrido in vista
Di spettacolo agli altri invano arditi
Presso a quello diman sarà confitto, (piange)
Cal. (verso al teschio) Sventurato garzon, qual
forza estrema
Vuol, Mìo ti sia compagno? Odi, Barach;
Morto già mi piangesti, a che più piangere?
Vado ad espormi. Tu non palesare
U nome mio a nessun. Fors'è il Ciel sazio
Di mie sventure, e vuol farmi felice.
Perch'io sollevi i genitor meschini.
S'io disciolgo gli enigmi, a tanto amore
Ti sarò grato. Addio, (vuol partire, Barach
lo trattiene)
Bar. No certamente...
Per pietà. . . caro figlio. . . oh Dio. . . l Consorte,
Vieni... m'assisti... questa a me diletta
Persona espor si vuole a scior gli enigmi
Di Turandot crudele.
SCENA QUARTA.
ScRiRiNA e detti.
ScH. Oimè! che sento!
Non siete voi l'ospite mio? Chi guida
Questo affabile oggetto in braccio a morte?
236 TDRANDOT.
Gal. Pietosa donna, al mio destin mi tragge
Questa bella presenza, (mostra il ritratto}
ScH. Ah, chi gli ha data
L'immagin infernali (piange)
Bar. (piangendo) Puro accidente.
Gal. (liberandosi) Assan, donna gentile, il mia
destriere
Rimanga a voi con questa borsa in dono, (trae
la borsa dal seno, e la dà a Schirina)
Altro non ho nella miseria mia
Da spiegarvi il mio cor. Se non v' incresce,
Qualche parte del dono in mio soccorso
Spendete in sacrifizi a' Dei celesti,
A' poverelli dispensate. Ognuno
Preghi per questo sventurato. Addio, (entra
nella Città)
Bar. Signor... Signor...
SoH. Figlio. . . fermate. . . figlio. . .
Ah vane son le voci. Dimmi, Assan,
Chi è quel generoso sfortunato.
Che alla morte sen corre?
Bar. Non ti prenda
Tal curiositade. È tal d'ingegno,
Ch' io non dispero in tutto. Andiam, Consorte.
A' poverelli tutto, e ai Sacerdoti
Vada quell'oro, onde si chieda al Cielo
Grazia per lui... Ah morto il piangeremo! (en-
tra in casa disperato)
y ScH. Non sol quest'oro, ma di quanto mai
Spogliar mi posso, tutto in pietose opre
ATTO PRIMO.
Dato fia pel meschin. Certo esser deve
Qualche grand' alma alle maniere nobili,
All'aspetto sublime. Egli è sì caro
Al mio sposo fedel? Tutto si faccia.
Ben trecento pollastri, ed altrettanti
Pesci di fiume al gran Berginguzino
Saranno offerti, e ai Geni sacrifizio
Di legumi abbondanti, e riso in coppia
Certo fatto sarà. Confuzio voglia
De'Bonces alle preci condiscendere.
237
ATTO SECONDO -
Gran Sala del Divano con due portoni Tuno in faccia alVal-
tro. Supponesi, che Puno apra il passaggio al Serraglio
della Principessa Turandot, e che P altro apra il passag-
gio agli appartamenti delP Imperatore, suo padre.
SCENA PRIMA.
Truffaldino, Brighella, Eunuchi, tutti alla Chinese.
Truff.
OMANDA ai suoi Eunuchi, che
spazzino la Sala. Fa erigere due
troni alla Chinese l'uno dall'una,
r altro dall' altra parte del Teatro. Fa porre
otto sedili per gli otto Dottori del Divano; è
allegro, e canta. Brig, Sopraggiunge, chiede la
ragione dell' apparecchio. Truff, Che devesi
radunare in fretta il Divano coi Dottori, l' Im-
peratore, e la sua cara Principessa. Per grazia
del Cielo le faccende vanno felicemente. È com-
parso un altro Principe a farsi tagliar Is^ testa.
Brig. Esseme perito uno tre ore prima. Rim-
provera Truffaldino, che sia allegro per un
240 TURANDOT.
macello cosi barbaro. Truff. Nessuno chiama Prin-
cipi a farsi mozzare il capo; se sono pazzi volon-
tari, il danno sia di loro ec. Che la sua adorabik
Principessa, ogni volta, che confonde un Principe
co' suoi enigmi, e lo manda al suo destino, per
l'allegrezza d'esser vittoriosa lo regala, ec Brig,
Abborisce sentimenti tali nel patriota. Detesta la
crudeltà della Principessa. Dovrebbe maritarsi e
troncar quella miseria ec Truff. Che a non vo-
lersi maritare ha ragione ec. Sono seccature in-
discrete ec. Brig. Che parla da Eunuco inutile ec
Tutti gli eunuchi odiano i matrimoni ec. Truff,
Collerico, che odia i matrimoni, temendo, che pro-
ducano dei Brighelli. Brig. Irritato; eh' è un ga-
lantuomo ec. Che le sue massime sono pemiziose,
che, se sua madre non si fosse maritata non sa-
rebbe nato. Truff. Che mente per la gola. Sua
madre non fu mai maritata, ed egli è nato felice-
mente. Brig, Si vede, eh' egli è un partorito con-
tro le buone regole. Truff. Ch' egU è capo degH
Eunuchi; non venga ad impedir gli affari suoi, e
vada, giacch'è maestro dei Pag^, a fare il suo
dovere; ma ch'egli sa, che insegna delle belle
cose ai Paggi a proposito dei matrimoni ec. Men-
tre il contrasto dura tra questi due personaggi,
gli Eunuchi avranno assettata la sala. Odesi una
marcia di strumenti. È l' Imperatore, che giugne
nel Divano colla Corte, e coi Dottori Brighella
parte per rispetto; Truffaldino coi suoi Eunuchi
per andar a levare la sua cara Principessa.
ATTO SECONDO. -, 24!
SCENA SECONDA.
Al suono cPuna marcia escono le guardie alla Chinese;
indi gli otto Dottori, poscia Pantalone, Tartagua^ e dopa
Altoum Can, Tutti sono alla Chinese. Altoum è un vec^
chiane venerando, riccamente vestito ancK^ egli alla Chinese,,
Al suo comparire tutti si gettano colla fronte per terra.
Altoum sale, e, siede sul trono, posto alla parte da dove è
uscito. Pantalone e Tartaglia si mettono uno per parte
del trono. I Dottori siedono sopr* ai loro sedili. Termina
la marcia.
Alt. e sino a quando, miei fedeli, deggio
Sofiferir tali angoscie? Appena... appena
Le dovute funebri opre hanno fine
D' un infelice Principe sull' ossa,
E sull'ossa di lui mi struggo in lagrime;
Nuovo oggetto s'espòn^ nuove angosce
Destando in questo sen. Barbara figlia,
Nata per mio tormento! Che mi vale
Il punto maledir, che sull'editto
Al tremendo Confuzio il giuramento
Feci solennemente di eseguirlo?
Spergiuro esser non posso. Non si spoglia
Di crudeltà mia figlia. Mai non mancano
Stolti amanti ostinati, e non ritrovo
Mai chi doni consiglio in tanta doglia.
Pant. Cara Maestà, no saveria che consegio dar-
ghe. In tei nostri paesi no se zura de sta sorte
de legge. No se fa de sta qualità de edittL No
ghe esempio, che i Prencipi se innamora de un
retiattin, a segno de perder la testa per l'ori-
Gozzi. 16
24a f URANDOT.
gìnal, e no na^e putte, che odia i otneni, come
la Prencipessa Turandot, so fia. Oibò, no glie
xe idea da nu de sta sorte de creature, gnanca
per sogno; Prima che le mie desgrazie me fa-
cesse abbandonar el mio paese, e che la mia
fortuna me innalzasse senza marito all' onor de
•secretario de vostra Maestà, no aveva altra co-
gnizión della China,^ se no che la fusse una
polvere bonissima per la freve terzana, e son
sempre, cóme un omo incocalio de aver trova
qua de sta sorte de costumi, de sta sorte de
zuramenti, e de sta sorte de putti, e de putte.
Se contasse sta istoria a Venezia, i me dirla :
Via, sier bomba, sier slappa, sier pancfaiana,
andè a contar ste fiabe ai puttelli; i me rìderìa
in tei muso, e i me volteria tanto de bero.
Alt. Tartaglia, foste a visitar il nuovo
. Temerario infelice?
Tart. Maestà si; è qui nelle solite stanze del pa-
lagio, che s'assegnano a' Principi forestieri. Sono
rinìasto stupefatto della sua bella presenza, della
sua dolce fìsonomia, della sua maniera nobile
di favellare. In vita mia non ho veduta la più
degna persona. Ne sono innamorato, e mi sento
strappare il cuore, che venga ad esporsi al ma-
cello, come un becco, un Principe così bello,
così buono, così giovane... (piange)
Alt. Oh indidbil miseria 1 Già eseguiti
Saranno i sacrifizi, onde dal Cielo
Sia soccorso il meschin di tanto lume
ATTO SECONDO^ 243
Da penetrare, da discior gli oscuri
Enigmi della barbara mia figlia?
Ah invan Io spero!
Pant. La poi star certa, Maestà, che non s' ha manca
de sacrifizi. Cento manzi xe stai sacrificai al
Cielo, cento cavalli al Sol, e cento porchi alla
Luna, (a parte) Mi pò no so cossa se possa
sperar da sta generosa beccarla imperiai.
Tart. (a parte) Sarebbe stato meglio sacrificare .
quella porchetta della Principessa. Ogni disgra-
zia sarebbe finita.
Alt. Or ben, qui si conduca il nuovo Prence.
(parte una guardia)
Si procuri distorlo dal cimento;
E voi, saggi Dottori del Divano,
Ministri fidi m' assistete, dove
Il dolor mi troncasse là favella.
Pant. Gavemo tante esperienze, che basta, Maestà.
Se sfiataremo de bando, e pò l'anderà a farse
sgargatar, come im dindio.
Tart. Senti, Pantalone. Ho conosciuto in lui della
virtù, e dell'acume; non sono senza speranza.
Pant. Che! che el spiega le indovinelle de quella
cagna? oh fallada la xe!
SCENA TERZA.
Calaf accompagnato da una guardia, e detti,
Cal, {s'inginocchierà con una marto -alla fronte)
Alt. Sorgi, incauto garzon. ( Calaf s^ al^a^ e fatto
244 TURANDOT.
un inchino, si pianta con nobiltà nel me^^o
al Divano tra i due troni verso alV Udito-
rio. Altoum segue a parte dopo aver con-
templato Jissamerite Calaf) Che bella idea!
Quanta compassion mi desta in seno!
Dimmi, infelice, donde sei? Dì quale
Principe sei figliuolo?
Gal. {sorpreso, alquanto, indi^con inchino nobile)
Signor, per grazia
11 mio nome stia occulto.
Alt. e come ardisci,
3enza dirmi la nascita, d' esporti
A pretender le nozze di mia figlia?
Gal. {con grande^^a) Principe son. Se'l Ciel
vorrà, eh' io mora,
Prima del fatai punto fia palese
11 mio nome, la nascita, lo stato.
Perchè si sappia allor, che all'alto nodo.
Senza sangue reale in queste vene,
D' aspirar non avrei temeritade.
( cqn inchino ) Grazia è, per or, che '1 nome mio
stia occulto.
Alt. {a parte) Che nobiltà di favellare! Oh quanta
Compassion mi desta! {alto) Ma, se sciogli
Gli oscurissimi enigmi, e di non degna
Nascita sei, come potrò la legge?...
Gal. {interrompendolo arditamente) Per i Principi
sol scritta è la legge.
Signor.. . oh T Ciel lo voglia... allor, s' io sono
D' ignobil stirpe, il capo mio la pena
ATTO SECONDO. 245
Paghi sotto» Una scure, ed insepolte
Sien queste membra pascolo alle fere,
A' cani, alle cornaccbié. Ho già in Pechino
Chi mi conosce, e l'esser mio può dirvL
{con inchino) Grazia è per or, che'l nome mio
stia occulto.
Alla vostra clemenza in grazia il chiedo.
Alt. Abbi tal grazia in dono. Io non potrei
A quella voce, alle tue belle forme.
Nulla negar. Cosi disposto fossi
Grazia tu a fare ad un Imperatore,
Che dall' alto suo seggio a te la chiede.
Desisti, deh desisti dal cimento,
A cui t'esponi. Tanta simpatia
Di te mi prende, che del mio potere
A te tutto esibisco. Sii compagno
Di me nel Regno, ed al serrar quest^ occhi
Ogni possibil mia beneficenza
Da quest'animo attendi. Non volere,
Ch' io sia tiranno a forza. Io son l' obbrobrio,
Per l' incautela mia, di tutti i sudditi.
- Anima audace, se pietà può nulla
Sopra di te, non obbligarmi a piangere
Sul cadavere tuo. Non far, che accresca
L' odio a mia figlia, l' odio a me medesmo
D'aver prodotta una perversa figlia.
Orgogliosa, crudel, vana, ostinata,
Cagion d'ogni mia angoscia, e della morte.
(piange)
Gal. Sire, datevi pace. Al Cielo è nota
246 TURANDOT.
La pietàde, eh' io sento. D' un tal padre,
Qual siete voi, da educazion non ebbe
D'esser tiranna esempio vostra figlia.
Non ricerchiam di più. Colpa è in toi solo.
Se colpa dir si può, tenero affetto
Verso un' unica figlia, e d' aver data
Al mondo una bellezza si possente,
Che trae 1' uom di se stesso. Io vi ringrazio
De' generosi sentimenti vostri.
Mal vi sarei compagno. O'I Ciel felice
Mi vuol, di Turandot a me diletta
Donandomi '1 possesso, o vuol, che questa
Mìsera vita, insofieribil peso
Senza di Turandot, abbia il suo fine.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Pant. Ma, cara Altezza, cara vita mia, avere za
visto sofa la porta della Città tutte quelle
crepe de morto impirae, no vo digo de più.
No so che gusto, che abbiè a vegnirve a far
scannar, come un cavroil, con sicurezza, per
farne pianzer, come desperai tutti quanti. Sap-
piè, che la Principessa ve farà un impianto de
tre indovhielle, che no le spiegheria el ;strolego
Cingarello. Nu, che semo dà tanto tempo de-
putai con sti Eccellentissimi Dottori del Divan
t a dar sentenza de chi spiega^ ben, e de chi
spiega mal, per far eseguir là legge, pratici,
consumai sui libri, stentemo all' improvviso a
arrivar all'acutezza dei enigmi de sta Princi-
pessa crudel, perchè no i xe minga: panza
ATTO SECONDO. 247
de ferro, buelle de bombaso, e va descorrendo;
i xe novi de trinca e maledetti; e, se no' la. li.
consegnasse proposti, sjpiegai, e sigillai in tante
cartoline a sti Eccellentissimi Dottori, forsi
gnanca elli saverià, dove i avesse la testa. Ande
in pase, caro fio. Se' là, che pare un fior} me
fé' pecca. Varenta al ben, che ve vogio, che se
ve ostine, fazzo più conto d' un ravanello del
gobbo ortolan, che della vostra testa. ^
Cal. Vecchio, invan t' affatichi, invan ragioni.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Tart. Turandotte... Turandotte, Ma che diavolo
di ostinazione, caro figlio mio. Intendi bene.
Qui non si giuoca a indovinare colla scommessa
.d'un caffè col pandolo, o di mezza cioccolata
colla vaniglia. Capisci, capisci una volta; qui
ci va la testa. Io non uso altri argomenti per'
persuaderti a desistere. Questo è grande. La
testa, la testa ci va; la testa. Sua Maestà ti
prega, ha fatto sacrificare cento cavalli al Sole,
cento buoi al Cielo, cento porci alla Luna,
cento vacche alle Stelle in tuo favore, e tu,
ingrato, vuoi resistere per dargli questo ram-
marico. Se non vi fossero altre femmine al
mondo, che la Principessa Turandotte, la tua
risoluzione sarebbe ancora una gran bestialità.
Scusa, caro Principe mio. In coscienza è l'amore,
che mi fa parlare con libertà. Hai tu ben ca-
pito, che cosa sia il perdere la testa? mi par
impossibile.
248 TURANDOT.
Gal. Troppo dicesti. E vana ogni fatica.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Alt. Crudel, ti sazia; abbi la morte, ed abbi
La mia disperazion. (alle guardie) La Prin-
cipessa
Entri ài cimento nel Divan; s'appaghi
D' una vittima nuova. ( parte una guardia )
Gal. {da se con fervore) Etemi Numi,
M'ispirate talento. Non m'opprima
La vista di costei. Io vi confesso,
Ghe vacilla la mente, e che tremore
Ho nel sen, dentro al core, e sulle labbra.
(air assemblea) Sacro Divan, saggi Dottori,
giudici
Nelle risposte mie della mia vita.
Scusate tanto ardir; clemenza abbiate
Per un cieco d' amor, che non conosce
. Dove sia, quanto vaglia, e s' abbandona
Tratto da occulta forza al suo destino.
SCENA QUARTA.
Udrassi il >suono d* una marcia, intrecciato con tambu'
relli. Uscirà Truffaldino con la scimitarra alla spalla, i
suoi Eunuchi lo seguiranno. Dietro a questi usciran varie
Schiave di ^cconfpajpiamento con tamburelli suonando. Dopo
usciranno due schiave velate, una vestita riccamente e mae-
stosamente alla Tartara, che sarà Adelma^ l* altra passa-
bilmente alla Chinese, che sarà Zelima, Questa avrà un
picciolo bacile con fogli suggellati. Truffaldino e gli £k-
nuchi nel passar difilati si getteranno colla faccia a terra
innamfi ad Altoum, poi sorgeranno. Le schiave s* inginoc-
chieranno colla mano alla fronte. Uscirà ' Turandole ve-
ATTO SECONDO. 249
lata, vestita riccamente alla Chinese, con aria grave, e
baldan:(Osa, I Dottori^ e i Ministri, si getteranno colla fac^
eia a terra, Altoum si leverà in piedi. Turafidotte si porrà
una mano alla fronte, e farà un'inchino grave al padre,
indi salirà il suo trono, e siederà. Zelima si porrà al suo
fianco sulla sinistra^ Adelma alla destra, Calaf, che si sarà
inginocchiato alla comparsa di Turandoti si rijyjyeri, e ri'
marra incantato in essa. Tutti torneranno a' lor posti Truf*
/aldino, eseguite alcune cerimonie facete a suo modo^ pren-
derà il bacile di Zelima coi fogli suggellati: li dispenserà
ai Dottori^ e si ritirerà dopo altre cerimonie e riverente
Chinesi. Durante tutte queste solennità mute, si sarà suo*
nata la marcia. Al partire di Truffaldino rimarrà la gran
Sala del Vivano in silem^io.
SCENA QUINTA.
Altoum, Turandot, Calaf, Zelima, Adelma, Pantalonb,
Tartaglia, Dottori e guardie,
TcR. (alteramente) Chi è, che si lusinga audace-
mente
Di penetrar gli acuti enigmi ancora
Dopo sì lunga e^rienza; e brama
Miseramente di lasciar la vita?
Ahi. Figlia, egli è quello; {addita Calaf y che
sarà attonito nel me^!(o del Divano in piedi)
E ben degno sarebbe,
Che tuo sposo il scegliessi, e che finissi
D'esporlo al gran cimento, lacerando
Di chi ti die la vita il core afflitto.
Tur. (dopo aver mirato alquanto Cai. basso a ZeL}
Zelima, oh <Iielo ! alcun oggetto, credi,
Nel Divan non s'espose, che destasse
2^0 TURANDOT.
Q)mpassione in questo sen. Costui
Mi fa pietà.
Zel. (basso) Di tre facili enigmi
Lo caricate, e terminate omai
D'esser crudel.
Tur. (con sussiego, basso) Che dici! La mit
gloria!
Temeraria, tant'osi?
Adel. (che avrà osservato Cai. attentamente, da se)
Oh Cieli che miro!
Non è costui quel, ch'alia Corte mia
De Carazai^i un di vii servo io Mdi,
Quando vivea Cheicobad, mio padre?
Principe è dunque! Ah ben mei disse il core,
Quel cor, eh' è suo.
Tur. Principe, desistete
Dall'impresa fatale. Al Cielo è noto,
Che quelle voci, che crudel mi fanno,
Son menzognere. Abborrimento estremo
Ch'ho al sesso vostro, fa, ch'io mi difenda,
Com' io so, com' io posso, a viver lunge
Da un sesso, che abborrisco. Perchè mai
Di quella libertà, di che disporre
Dovria poter ognun, dispor non posso?
Chi vi conduce a far, eh' io sia crudele
Contro mia volontà? Se vaglion prieghi,
10 m'umilio a pregarvi. Desistete,
Principe, dal cimento. Non tentate
11 mio talento mai. Superba sono
Di questo solo. Il Ciel mi die in favore
ATTO SECONDO. 25 1
Acutezza e talento. Io cadrei morta,
Se nel Divan con pubblica vergogna
Fossi vinta d'acume. Ite, scioglietemi
Dal proporvi gli enigmi; ancora è tempo;
O piangerete invan la morte vostra.
Cal. Sì bella voce, e si bella presenza.
Sì raro spirto, e insuperabil mente
In una donna! Ah qual'error è mai
Neil' uom, che mette la sua vita a rischio
. Per possederla? E di sì raro acume
Turandotte si vanta? E non iscopre,
Che quanto i merti suoi sono maggiori.
Che quant' avversa è più d' esser d' uom moglie,
Arder l'uomo più deve? Mille vite,
Turandotte crudele, in questa salma
Fossero pur. Io core avrei d'esporle
Mille volte a un patibolo per voi.
Zel. (bassa a Tur.) Ah facili gli enigmi per
pietade.
Egli è degno di voi.
Adel. (a parte) Quanta dolcezza!
Oh potess' esser mio! Perchè non seppi.
Ch'era Prence costui, prima che schiava
Mi volesse fortuna, e in basso stato!
Oh quanto amor m'accende or che m'è noto.
Ch'egli è d'alto lignaggio! Ah che non manca
Mai coraggio ad amor, (basso a Tur. ) La glo-
ria vostra
Vi stia a cor, Turandot.
Tur. (perplessa da se) E questo solo
252 TURANDOT. .
Ha forza di destar compassione
. In questo sen? (risoluta) No, superarmi k)
deggio.
(a Cala/ con impeto) Temerario, al cimento
t' apparecchia.
Alt. Principe, insisti ancor?
Gal. Signor, già'l dissL
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Alt. Il decreto fatai dunque si legga
Pubblicamente; egli l'ascolti e tremL (Panta-
lone caverà dal seno il libro della leggty
lo baderà, se lo porrà sul petto, poi alla
fronte, , indi lo presenterà a TartaffliOy il
quale gettandosi prima colla fronte a terrOy
lo riceverà, poscia leggerà ad alta voce)
Ogni Principe possa Turandotte
Pretender per consorte; ma disdotga
Prima tre enigmi della Principessa
Tra i Dottor nel Divano. Se gli spiega
L'abbia per moglie. Se non è capace^
Sia condannato in mano del carnefice.
Che gli tronchi la testa, sicché muoia.
Al tremendo Copfuzio Altoum Can
D'eseguire il decreto afferma e giura.
( Terminata la lettura, Tartaglia baderà
il libro, se lo porrà sul petto,^ e sulla fronte,
e lo riconsegnerà a Pantalone, il quale ri-
cernitolo colla fronte per terra, si ri:{^erà,
•ATTO SECONDO. '253
e lo presenterà ad Altoum, il quale, levata
una mano, gliela porrà sopra )
Alt. (con sospiro) O legge l O mio tormento!
D' eseguirti
Al tremendo Confuzio affermo e giuro.
(Pantalone si porrà di nuovo il libro, in
seno. Il Divano sarà in un gran silen^fio.
Turandotte si leverà in piedi ) .
Tur. ( in tuono accademico )
Dimmi, stranieri chi è la creatura
D' ogni città, d' ogni castello, e terra.
Per ogni loco, ed è sempre sicura,
Tra gli sconfitti, e tra i vincenti in guerra ? .
Notissima ad ogn'uomo è sua figura,
Ch'ella è amica di tutti in sulla terra.
Chi eguagliarla volesse è in gran follia.
Tu r hai presente, e non saprai chi sia. (siede)
Cal. (dopo aver guardato il Cielo in atto di
pensare, fatto un inchino colla mano alla
fronte verso Turandot)
Felice me, se di più oscuri enigmi
Il peso non mi deste! Principessa,
Chi non saprà, che quella creatura
D'ogni città, d'ogni castello, e terra.
Che sta con tutti, ed è sicura sempre
Tra gli sconfitti, e tra i vittoriosi.
Palese al mondo, che non soffre eguali,
E ch'ho presente (il sofferite) è il Sole?
256 V TtJRANDOT.
Gal. Signor, non v'affannate.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Tur. (sdegnosissima) Sposa tua fia la morte. Or
lo vedraL
(si leva in piedi, e segue in tuono accadem.)
Dimmi, qual sìa quella terribil fera
Quadrupede, ed alata, che pietosa
Ama chi l'ama, e co'nimici è altera,
Che tremar fece il mondo, e che orgogliosa
Vive, e trionfa ancor. Le robuste anche
Sopra Pistabil mar ferme riposa;
Indi, col petto, e le feroci branche
Preme immenso terren. D'esser felice
Ombra, in terra ed in mar, mai non son stanche
L'ali di questa nuova altra fenice.
{recitato V enigma^ Turandotte furiosa si
lacera dal viso il velo per sorprender Cai.)
Guardami 'n volto, e non tremar. Se puoi,
Spiega, chi sia la fera, o a morte coni.
Cal. (sbalordito) Oh bellezza! Oh splendor! (r^
sta sospeso colle mani agV occhi )
Alt. (agitato) Oimè, si perde!
Figlio, non sbigottirti; in te ritoma.
Zel. (a^ parte affannosa) Io mi sento mancar.
Adkl. ( a parte ) Stranier, sei mie.
Mi sarà guida amor per. involarti.
Pant. (smanioso) Anemo, anemo, fio. Oh se po-
desse aiutarlo! me trema le tavernelle, che el
se perda.
ATTO SECONDO. «57
Tart. Se non fosse per il decoro del posto, onderei
a prendere il vaso dell' aceto in cucina.
Tur. Misero, morto seL Della tua sorte
Te medesmo condanna.
Go. (rientrando in sé stesso) Turandotte,
Fu la bellezza vostra, che mi colse
Improvviso, e confuse. Io non son vinto, (vol-
gendosi alV uditorio)
Tu, quadrupede Fera, e in uno alata,
Terror dell' universo, che trionfi,
E vivi in terra, e in mare, ombra facendo
Colle immense ali tue grata, e (elice
All'elemento instabile, e aUa terra,
Agl'illustri tuoi figli, e cari sudditi.
Nuova fenice,. è ver, Fera beata,
Sei dell'Adria il Leon feroce, e giusta
Pànt. (con trasporto) Oh siestu benedetto. No
me posso più tegnir. (corre ad abbracciarlo)
Tart. (ad Alt. ) Maestà consolatevi.
(t dottori aprono il tenfo foglio sigillato,
indi in coro)
È dell'Adria il Leone: è vero, è vera
(odonsi degli evviva allegri del popolOy e
uno strepito grande di strumenti. Turandot
cade in isfinimento sul trono. Zelima e
Adelma l^ assistono)
Zel. Datevi pace. Principessa. Ha vinto.
Adel. ( a parte ) Ahi perduto amor mio . . . No, hon
sei persa
(Altoum allegro discende dal tronOf assi-
GozzL t6
258 ' TURANDOT.
stito da Pantalone e da Tartaglia, I Dai-
tori si ritirano in fila nel fondo del teatro)
Alt. Finisci, figlia, d' essermi tiranna
Colle tue stravaganze. Amato Prence,
Vieni al mio sen. {abbraccia Calaf. Turandot
rinvenuta precipita furente dal trono )
Tur. {invasata) Fermatevi Non speri
Q)stui d'esser mio sposo. Io nuovamente
Pretendo di propor tre nuovi enigmi
Al nuovo giorno. Troppo breve tempo
. Mi fu dato al cimento. Io non potei
Quanto dovea riflettere. Fermate...
Alt. {interrompendola) Indiscreta, crudeli Non e
più tempo;
Più facil non m'avrai. La dura legge
È già eseguita, ed a Ministri miei
La sentenza rimetto.
Pant. La perdoni No gh' è bisogno de altre in-
dovinelle, né de tagiar altre teste, come se
le fusse zucche baruche. Sto putto ha indo-
vina. La legge xe esequida, e avemo da magnar
sti confetti, {a Tart) Cossa diseu vu, Can-
cellier?
Tart. Eseguitissima. Non v* è bisogno d' interpre-
tazioni. Che dicono gli Eccellentissimi Signori
Dottori?
( Tutti i Dottori) È consumata, è consumata, è
sciolta.
Alt. Dunque al Tempio si vada. Quest'ignoto
Riconoscer si faccia, e i Sacerdoti...
ATTO SECONDO. 259
Tur. (disperata) Ah, padre mio, deh per pietà
sospendasi...
Alt. (sdegnoso) Non si sospenda; io risoluto sono.
Tur. (precipitando ginocchioni) Padre, per quanto
amor, per quanto cara
Ve questa vita, al nuovo di concedasi
Nuovo cimento ancora. Io non potrei
Soflferir tal vergogna. Io morrò, prima
D'assoggettarmi a quest'uomo superbo,
Pria d'esser moglie. Ahi questo nome solo
D'esser consorte ad uom, solo il pensiero
D'esser soggetta ad uom, lassa, m'uccide, (piange)
Alt. (collerico) Ostinata, fanatica, brutale;
Più non t'ascolto. Olà, ministri, andate.
Gal. Sorgi, di questo cor bella tiranna.
Signor, deh per pietade sospendete
Gli ordini vostri. Io non sarò felice,
S' ella m' abborre, ed odia. L' amor mio
Non potria soflferir d'esser cagione
Del suo tormento. Che mi vai l'affetto,
Se d'odio solo la mia fiamma è degna?
Barbara tigre, s'io non ammollisco
Queir anima crudel, sta Jieta, e godi ;
Io non sarò tuo sposo. Ah, se vedessi
Questo cor lacerato, io certo sono.
Che n'avresti pietà. Della mia morte
Ingorda sei? Signor, le si conceda
Nuovo ciinento; io questa vita ho a sdegno.
Alt. No; risoluto son. Vadasi al Tempio;
Non si conceda altro cimento... incauto...
a60 '^ TinUNDOT.
TéTR. (tmpe/|«05a) Vadasi al Tempio pur; ma so-
pra FAra
Spirerà vostra figlia.
Cix. Spirerà!
Mio Signor... Principessa, d'una grazia
Ambi fatemi degno. Al nuovo giorno
Qui nel Divano io proporrò un enigma
All' indomito spirto, e questo fia:
Di chi figlio è quel Principe, e qual nome
Porta lo stesso Principe, ridotto
A mendicar il pane, a portar pesi
A prezzo vii, per sostener la vita;
Che giunto al colmo di felicitade
È sventurato ancor più, che mai fosse?
Diman qui nel Divano, alma crudele.
Del padre il nome, eU nome del dolente
Indovinate. Se non v'è possibile,
Traete fuor d'angoscia un infelice;
Non mi negate quell'amata destra; «
S'ammollisca quel cor. Se indovinate,
Sazia della mia morte, e del mio sangue
Sia quell' alma feroce, insuperabile.
Tur. Straniero, il patto accetto, e mi contenta
Zel. {a parte) Nuovo periglio ancor.
Adel. (a parte) Nuova speranza.
Alt. Contento non son io. Nulla concedo.
S'eseguisca la legge.
Gal. (inginocchiandosi) Alto Signore,
S'io nulla merto, se pietà in voi regna,
Appagate la figlia, e me appagate.
ATTO SECONDO. 201
Deh non manchi da me, eh' ella sia sazia,
Quello spirto si sfoghi S' ella ha acume,
Quanto ho proposto nel Divan dispieghi.
Tur. (a parte) Io m'affogo di sdegno. Ei mi di-
leggia.
Alt. Imprudente, che chiedi! Tu non sai,
Quanto ingegno è in costei... Ben: vi concedo
Questo cimento nuovo. Sciolta sia
D'esser tua sposa, s'ella i nomi espone.
Ma non concedo già nuove tragedie.
Salvo te n'anderai, s'ella indovina.
Più non pianga Altoum le altrui miserie.
(basso a Cala/) SeguimL.. incauto, che fa-
cesti maii
{Ripigliasi un suono di marcia. Altoum con
le guardie, i Dottori, Pantalone e Tartan-
glia con gravità entrerà per il portone, dal
quale è uscito. Turandotte, Adelma, Zelima,
Truffaldino, Eunuchi e schiave con tambu--
relli entreranno per V altro portone. )
ATTO TERZO
Camera del Serraglio.
SCENA PRIMA.
Adblma e una Schiava Tartara sua confidente.
Adbl.
(con fiere:{s[a)
I proibisco il favellarmi ancora^
Già capace non son de' tuoi con-
sigli:
Altro mi parla al cor. Possente amore,
Che dell' ignoto Principe m' abbrucia.
Odio, che a questa empia superba io porto,
Dolor di schiavitù. Troppo ho sofferto.
Scorsi cinqu'anni or son che dentro al seno
Chiudo il velen, rassegnazion dimostro,.
E amor per questa ambiziosa donna.
Della miseria mia prima cagione.
In queste vene real sangue scorre,
Tu'l sai, né Turandot m'è superiore.
In vergognosi lacci schiava umile
264 TUIUNDOT.
E sino a quando una mia pari deve,
Corne ancella, servir? Gli sforzi estremi
Per simular m'hanno già resa inferma;
Di giorno in giorno io mi distruggo, come
Neve al sol, cera al foco. Dì, conosci
In me più Adelma? Io risoluta sono
Oggi d' usar quant* arte posso. Io voglio.
Per la strada d'amor, di schiavitude,
^ O di vita fuggir.
ScH. No, mia Signora...
No, non è tempo ancor...
Adbl. {con impeto) Va, non tentarmi.
Ch'io soffra più. D'un solo accento, un solo
Non molestarmi ancora. Io tei comando, (la
schiava, fatto un inchir^ con una mano alla
fronte, timorosa partirà )
Ecco la mia nimica, accesa l'alma
Di rabbia, di vergogna, forsennata,
Fuor di sé stessa. È questo il vero punto
Di tentar tutto, o di morir. S'ascolti, {si na-
sconde)
SCENA SECONDA.
TuRAifDOT, Zblima, Ìndi Adblxa.
Tur. Zelìma, più non posso. Sol pensando
Alla vergogna mia, sento, che un foco
L'alma mi strugge.
Zel. Come mai, Signora,
Un si amabile oggetto, un sì beli' uonao.
ATTO TERZO. , l6$
SI generoso, tanto innamorato
Può destarvi nel seno odio, e puntiglio?
Tur. Non tormentarmi. . . sappL . . ah mi vergogno
A palesarlo... ei mi destò nel petto
Commozioni a me ignote... un caldo... un gelo..»
No, non è ver. Zelima, io Podio a morte.
Ei della mia vergogna nel Divano
Fu la cagion. Per tutto il Regno, e fuori
Si saprà, ch'io fui vinta, e riderassi
Dell'ignoranza mia. Dimmi, se'l sai.
Soccorrimi, Zelima. U padre mio
Diman vuol, che nell'alba si raduni
L' assemblea de' Dottori, e, s' io mal sciolgo
L' oscurissimo enigma, eh' è proposto.
Vuol, che seguan le nozze in quel momento»
IX chi figlio è quel Principe, e qual nome
Porta lo stesso Principe, ridotto
A mendicar il pane, a portar pesi
A pre!(^o vii per sostener la vita;
Che giunto al colmo di felicitade
È sventurato ancor più che mai fosse?
Lo scorgo ben, che questo sconosciuto
È'I Principe proposto; ma chi puote,
Del padre il nome indovinar, e'I suo?
S'è sconosciuto? Se l'Imperatore
Grazia gli die di star occulto insino
Alla fin del cimento? Io l'accettai
Per non ceder la destra. Ah eh' è ìmposdbile
Ch'io l' indovini Di, che far potrei?
Zbl. Quivi in Pechin v' è ben, chi l' arte magica
266 ^TURANDOT.
Perfettamente sa. Ve, chi la cabala
Sa trar divinamente; ad un di questi
Voi ricorrer potreste.
Tur. Io non son folle,
Come tu sei, Zelima. Per il volgo
Sono questi impostori, e l'ignoranza
È fruttifero campo a tali astuti
Altro non suggerisci?
Zbl. Io vi ricordo
Le parole, i sospiri, il duolo intenso
Di quell'Eroe. Come prostrato a' piedi
Del padre vostro con sì bella grazia
Per voi chiese favor.
Tur. Non dir più oltre.
Sappi, che questo core... Ah non è vero...
Io r odio a morte. Io so, che tutti perfidi
Gli uomini son, che non han cor sincero,
Ne capace d'amor. Fingono amore
Per ingannar fanciulle, e appena giunti
A possederle, non più sol non le amano,
Ma'l sacro nodo maritai sprezzando
Passan di donna in donna, ne vergogna
Gli prende a dar il core alle più vili
Femminette del volgo, alle più lorde
Schiave, alle meretrìci. No, Zelima,
Non parlar di colui. Se diman vince.
Più che morte l'abborro. Figurandomi
Moglie soggetta ad uom, immaginando,
Ch' ei m' abbia vinta, sento, che 1 furore
Mi trae fuor di me stessa.
ATTO TERZO. 267
Zbl. Eh, mia Signora,
E Tetà vostra fresca, che alterigia
Vi desta in cor. Verrà l'età infelice,
Che i concorrenti mancheranno, e allora
Vi pentirete invan. Che mai perdete?
Qual fanatica gloria, e quaP onore?
Adbl. (che a poco a poco si sarà fatta innam^i
ascoltando, interrompendola con gravità)
Chi bassamente è nata non ha idee
Da quelle di Zelima differenti.
Scusa, Zelima. D'una Principessa,
Che in un Divan con pubblico rossore.
Dopo un corso di gloria, e di trofei,
Da un ignoto sia vinta, mal conosci
La necessaria doglia, e la vergogna.
Io con questi occhi vidi 1' esultanza
Di cento maschi, e un beffeggiar maligno
Sugli enigmi proposti, quasi fossero
Sciocchi enigmi volgari, e n'ebbi sdegno,
Perch' io l' amo da ver. Che mi dirai
Della sua circostanza? Ella è ridotta
Contro l' istinto suo, contro sua voglia,
Sforzatamente a divenir consorte.
Tur. (impetuosa) Non m'accender di più.
Zel. Ma qual sventura
È divenir consorte?
Adel. Eh taci, taci.
, Obbligo non hai tu d' intender, come
Un magnanimo cor de' risentirsi.
Non sono adulatrice. E ti par poco,
268 TURANDOT.
Ch'ella impegnata siasi con franchezza
D'indovinar que'nomi; e tP apparire
Dimani nel Divano in faccia al volgo? .
Che rimarrà, se in pubblico apparita
Scioccamente risponde, o là confessa.
Che fii stolto il suo assunto! Ah che mi sembra
Mille scherzi di beffe, e aperte risa
Del popolo sentir, quasi ella fosse
Un'infelice comica, che caggia
In error sulla scena.
Tur. {furiosa) Sappi, Adelma,
Se i nomi non iscopro, in mezzo al Tempio,
(Già risoluta sono) in questo seno
M'immergerò un pugnai
Adel. No, Principessa.
Per scienza, od inganno si de'sciorre
Quell'enigma proposto.
Zbl. Ben; se tanto
Adelma l'ama e più di me capisce,
Più di me la soccorra.
Tur. Cara Adelma,
Soccorrimi. Del padre il nome, e'I suo
Come deggio saper, se noi conosco.
Né so, d'onde sia giunto?
Adel. Ei nel Divano
Sb che disse aver gente qui in Pechino,
Che lo conosce. Sì de' por sossopra
La città tutta, ed oro e gemme spendere.
Tutto si de' poter.
Tur. D'oro, e di gemme
ATTO TERZO. oSg
Disponi a voglia tua. Pur ch'io lo sappia^
Non si curi un tesoro.
Zeu e dove spenderlo?
Di chi cercar? Con qual cautela, e come,
Quand' anche si sapesse, un tradimento
Tener occulto, e far che non si sappia,
Che p^r inganno, e non per sua virtude
EU' ha carpiti i nomi?
Adel. Sarà forse
Zelima traditrice a discoprirlo?
Zel, (con ira) Ah troppo offesa son. Mia Prin-
cipessa,
Risparmiate il tesora Io mi credea
Di placar l'alma vostra, e persuadervi
Sperava a dar la destra ad un ben degno
Tenero amante, che a pietà mi mosse.
Trionfi in me parzialità, ch'io deggio
A chi deggio ubbidir. Fu qui Schirina
La madre mia. Fu a visitarmi allegra
Per gli enigmi disciolti, e non sapendo
Del novello cimento di dimani
Mi palesò, che'l Prence forestiere
Alloggiò nel suo albergo, indi che Assan,
Mio patrigno il conosce, e che l'adora.
Chiesi del nome suo, ma protestommi,
Ch' Assan non glielo disse, e ch'anzi nega
Di volerglielo dire. Ella promise
Di far quanto potrà. Dell'amor mio
La mia Regina or dubiti, se'l merto. (entra
dispettosa)
270 TURANDOT.
Tur. Vicn, Zelima, al mio scn, perchè tcn vai?...
Adei^ Turandone, Zelima v'ha scoperta
Qualche util traccia, ma è imbecil di mente.
Stoltezza è lo sperar, che volontario,
Non usando V ingegno, il suo patrigno
Palesi i nomi or che saprà '1 cimento.
Non si perda più tempo. In più celata
Parte un consiglio mio vo' , eh' eseguiate,
Se credete al mio amor.
Tur. Sì, amica, andiamo
Pur che'l stranier non vinca, io farò tntto.
(entra)
Adel. Amor, tu mi soccorri, e tu seconda
I miei desiri, onde di schiavitude
Possa uscir lieta. M' apra la superbia
Di questa mia nimica e strada, e campo, (entra)
SCENA TERZA.
Sala della Reggia.
Calaf e Barach.
Gal. Ma se '1 mio nome, e quello di mio padre
Noti in Pechino solamente sono
Alla tua fedeltà. Se'l Regno nostro
Da questa regione è si lontano.
Ed è perduto ben ott'anni or sono.
Occulti Siam vissuti, e fama è scorsa,
Che la morte ci colse. Eh che si perde
ATTO TERZO. 27 1
Di chi cade in miseria la memoria
Facilmente, Barach.
Bar. No, fu imprudenza;
Scusatemi, Signor. Gli sventurati
Anche degl'impossibili temere
Devono sempre. Le muraglie, i tronchi,
Le inanimate cose acquistan voce
Contro gli sfortunati, e tutto han contro.
10 non mi so dar pace. Avete in sorte
Vinta una donna si famosa, e bella,
Vinto un si vasto regno al grave rischio
Di quella vita, e poi tutto ad un tratto.
Per fralezza di cor, tutto è perduto.
Gal. Non misurar Barach coli' interesse
11 mio tenero amor. Di Turandot,
Sola mia vita, non vedesti, amico
L'ira, il furor, né la disperazione
Contro a me nel Divan.
Bar. Doveva un figlio,
Più che al furor di Turandot, già vinta,
Pensar alla miseria, in cui lasciati
Ha i genitor meschini un giorno a Berlas.
Gal. Non mi rimproverar. Volli appagarla.
Tento ammollir quel cor. L' azion, eh' io feci,
Forse non le dispiacque. Una scintilla
Forse di gratitudine ora sente.
Bar. Chi! Turandottel Ah, mal vi lusingate.
Gal. Perderla già non posso. Dì, Barach,
Tu non mi palesasti, è ver? Avresti
Alla tua sposa detto, chi io mi sia?
a7^ turandot:
Bar. No, Signor, non gliel dissL A^ cenni vostri
Sa Barach obbedir. Pur non so quale
Presentimento mi spaventa, e tremo.
SCENA QUARTA.
Pantalons, Tartagua Brighella, soldati, e $opraddetd.
Pant. (tiscendo affaccendato) Oh velo qua, velo
qua per diana.
Tart. (a Cala/) Altezza, chi è costui?
Pant. Mo dove se ficheto? con chi parlela?
Bar. (a parte) Misero me, che fìal
Gal. Questo è a me ignota
Qui lo trovai per accidente. A lui
Chiedea della città, de' riti, d' altro.
Tart. Perdonatemi, voi siete un ragazzo col cer-
vello sopra al turbante, e avete un animo
troppo cortese. Me ne sono accorto nel Di-
vano. Perchè diavolo avete fatta quella ba-
lordaggine?
Pant. Oh basta, quel che xe fatto, xe fatta Al-
tezza, ella no sa in quanti pie de acqua che
la sia, e se no averemo i occhi nù sulla so
condotta, ella se lasserà far zo, come un par-
pagnacco. (a Bar.) Sier mustacchi caro, que-
sto no xe logo per vu. Ella, Altezza, la se coo-
tenta de ritirarse in tei so appartamento, Bri-
ghella, za xe dà r ordene, che se metta sul-
l'arme domile soldai de guardia, e vu custodire
ATTO TERZO. . 273
coi vostri paggi $ia domattina :le' porte -della
so abitazion, perchè no ghe entceì; riissua. To-
* lelo in mezzo alle arme, e fellol ^strt> debita
Questo xe ordene deU' Imperatoj^jsala.? El s'ha
innamora de ella, no gh' è caso, el trema, che
nassa qualche accidente. Se no la deventa so
zenero domattina^ mi credo, che quel povero,
vecchio mora certo dalla passion. Ma la me
scusa, la xe stada ima gran puttellada quella
d'ancuot (basso a Cai.) Per carità no ghe
sbrìssasse mai de bocca el so nome ; se però là
ghelo disesse a sto vecchietto onorato pian
pianin, el lo receverìa per una gran finezza*
* Ghe fala sto regalo?
Cal. Vecchio, mal ubbidite al Signor vostro.
Pant. Ah bravo 1 O, a vù, sier Brighella.
Brig. La finissa pur ella le chiaccole, che mi farò
i fatti.
Tart. Signor Brighella, guardate bene, che ci va
la testa.
Brig. Conosso el merito della mia testa,^e no go
bisogno de recordi.
Tart. (basso a Cai.) Sono curioso, che crepo, dì
sapere il vostro nome. Uh, se mi faceste la
grazia di dirmelo, lo saprei tenere rinchiuso
nelle budella io.
Cal. Invan mi tenti; al nuovo di'l saprai.
Tart. Bravissimo, cospetto di bacco.
Pant. Altezza, ghe son servitor. (a Barach) E vu,
sier mustacchi caro, fare megio a andar a fu-
Gozzi. 18
274 TURANixyr.
mar una pipa in' piazza, che a ^tar qua in sto
• palazzo. Ve consegio a andar per i fatti vostri,
che fare megio. (entra)
Tart. Oh meglio assai. NT hai un certo ceffo da
birbante, che non mi piace nulla, (entra)
Brio. La me permetta, che obbedissa a chi poi
comandar. La fazza grazia de restar servida
subito in tei so appartamento.
Gal. Sì, teco sono, (a Bar,) Amico, a rivederd.
Ci rivedremo in miglior punto. Addio.
Bar. Signore, ri son schiavo.
Brio. Allon, allon, finimo le ceremonie. (ordina
ai soldati di prender nel- me^jo alP armi
Calafy ed entrano)
SCENA QUINTA.
Barach indi TiMUR. Timur sarà un pecchia tremante
con un vestito che dinoti un'estrema miseria.
Bar. (verso Calafy che parte nel mej![o alP armi)
Il Ciel t'assista.
Principe incauta Dal mio canto certo
Custodirò la lingua.
TiM. ( vedendo partire il Jiglitiolo nel me:{^o al-
V armiy agitato da sé)
Oimè! mio figlio!
In mezzo all'armi! Ah cheU Soldan tiranno
Di Carizmo, crudele usurpatore
Del Regno mio, sino in Pediin Tha giunto!
ATTO TERZO. 275
Io seco morirò, {disperato^ e in atto di se^
guirlo) Calaf, Calaf...
Bar. (sorpreso sguainando la scimitarra, e pi-
gliandolo per un braccio )
Vecchio ti ferma, taci, o ch'io ti uccido.
Chi, sei tu! donde vieni? come sai
Di quei giovane il nome?
TiM. {guardandolo) Oh Diol... Barach...!
Tu qui in Pechin! Tu ribellato ancora!
Col ferro in pugno contro al tuo Monarca
In miseria ridotto, e contro al figlio?
Bar. {con somma sorpresa) Tu sei Timur!
TiM. Sì, traditor... ferisd...
Tronca pur i miei giorni. Io son già stanco
Di viver più; né sopravviver voglio.
Se i più fidi ministri ingrati or miro
Per interesse vii; se'l figlio mio
Sacrificato al barbaro furore
Del Sultan di Carizmo io veggio alfine, {piange)
Bar. Signor... misero me!... questo è '1 mio Prence!
Sì, pur troppo '1 rawiso. .{s^ inginnocchia) Ah
mio Sovrano,
Io vi chiedo perdono... Il furor mio
Fu per amor di voi... Per quanto caro
V'è'l vostro figlio, mai di bocca v'esca
Nè'l nome di Timur, né quel del figlio.
Io qui mi chiamo Assan, non più Barach. {sor-
gendo, e guardando intorno e agitato)
Ahi, che forse fu inteso. Dite... dite...
Elmaze, vostra sposa, é qui in Pechino?
276 TURANDOT.
Tm. {sempre piangendo) Non mi rammemorar la
cara sposa.
•Barach, in meschinello asilo in Berlas
Tra le passate angosce, e le presenti.
Cedendo al rio destin, col nome in bocca
Dell'amato suo figlio, ed appoggiando
A questo affitto sen la cara fronte,
Tra queste braccia sfortunate e stanche,
Me confortando, spirò V alma, e giacque.
Bar. {piangendo) Misera Principessa!
Tnc. Io disperato
In traccia dell' amato figlio mio,
E in traccia della morte in Pechin giunsi,
E appeha giunto il misero mio figlio
Veggo tra V armi al suo destin condotto.
Bar. Partiam, Signor. Del figlio non v'incresca.
Diman fors'è felice; in un felice
Diverrete anche voi, pur che non v'esca
Dalle labbra il suo nome, e'I nome vostro.
Io qui Barach non son, ma Assah mi chiama
TiM. Qual arcano mi 4ì ? . . .
Bar. Farò palese
Lungi da queste mura ogni secreto.
Partiam tosto. Signor, {guarda intomo con 50-
spetto) Ma che mai vedo!
Schirina dal Serraglio! Ohimè! meschino!
D'onde vieni? a che andasti?
ATTO TERZO. , 277
SCENA SE$TA.
S e R I R I N A e detti,
ScH. L' allegrezza,
Che l'ignoto gentile ospite nostro
Vittorioso sia; curiositade
Di saper, come quella tigre ircana -
S'assoggettasse a divenir consorte,
Nel Serraglio mi spinse, e con Zelima,
Figlia mia, m'allegrai.
Bar. {sdegnoso) Femmina incauta...
Tu non sai tutto, e garrula ghiandaia
Ten corresti al serraglio. Io ti cercai
Per proibirti ciò, che tu facesti.
Ma stolta debolezza femminile
Più sollecita è sempre d' ogni saggio
Pensier dell' uom, che rare volte è a tempo.
Quai discorsi tenesti? Udirti parmi
Nella folle allegrezza a dir: L' ignoto, .
Zelima, ospite è nostro, e mio consorte
Lo conosce, e l'adora. Ciò dicesti?
ScH. {mortificata) Che! sana mal, se ciò le avessi
detto?
Bar. No, confessalo pur: di, gliel dicesti?,
ScH. Gliel dissi: ella volea dopo, che'l dome
Le palesassi; e a dirti '1 ver, promisi...
Bar. {impetuoso) Misero mei perduto sono... Ahi
stolta!...
Fuggiam di qua.
278 TURANDOT.
Tnf. Deh di; che arcano è questo?
Bar. (agitato) Fuggiam da queste soglie^ e di
Pechino
Fuggiamo tosto, (guarda ^en^o) Ohimè! noa
è più tempo...
X Gli Eunuchi della* cruda Turandot...
(a Sch.) Ingrata... ingrata, folle... Io più non
deggio
Fuggir. Tu fuggi, e questo miserabile
Salva teco, e nascondi.
TiM. Ma mi narra...
Bar. (basso a Tim.) Chiudete il labbro. Il nome
vostro mai
Dalla bocca non v' esca. Tu, mia sposa,
(con fretta) Se de' tuoi benefizi, eh' io sia grato.^
Se del mal, che facesti, alcun rimedio
Desideri di oppor, non nel tuo albergo,
Ma in altro asilo celati, e quel vecchio
. Teco celato tjen, sin che passata
Sia la metà del nuovo giorno.
Sch. Sposo...
TiM. Con noi vieni. Perchè?...
Bar. Non replicate.
Di me si cerca, io fui scoperto. Andate.
Io devo rimaner. Tu non tardare, (guarda
dentro)
Ite a celarvi tosto... m'ubbidite.
TiM. Ma perchè mai non puoi?...
Bar. (inquieto) Oh Dio! che penai (guarda dentro)
Sch. Dimmi, in che feci errori
ATTO TÈRZO. * 279
t ■
Bar, Oimè, infelice!...
, {respingendoli) Ite... tticete il nome vostro.
(guarda dentro) Ah invano
Getto il tempo, e i consigli .. . Ingrata sposa I . . .
Misero vecchio 1... sfortunato vecchio!...
Tutti fuggiamo adunque... Ah tardi è ornai.
(tutti in atto di fuggire)
SCENA SETITIMA.
Truffaldino, Eunuchi armati e detti. Truffaldino il
fermerà presentando loro l'arme al petto; farà chiudere
tutti i passL
Bar. So, che d'Assan si cerca, io teco sono.
Truff. Che non faccia romore ; eh' egli è venuto
per fargli una grazia grande.
Bar. Sì, nel Serraglio vuoi condurmi. Andiamo. .
Truff. Esagera sulla gran fortuna di Assan. Che,
se una mosca entra nel serraglio, si esamina,
s'è maschio o femmina, e s'è maschio, s'im-
pala, ecc.: chiede, chi sia quel vecchio.
Bar. Quegli è un meschin, ch'io non conosco.
Andiamo.
Truff. Che ha fatto conto di voler fare la for-
tuna anche di quel vecchio meschino. Chi sia
quella donna.
Bar. So, che la tua Signora di me cerca.
Lascia quel miserabile. La donna
Io qon vidi giammai, né so, chi sia.
Truff. Collerico rimprovera Barach della bugia
28o
TURANDOT. *
detta; Ch' egli la conosce per sua moglie, e per
madre di Zelima: che l'ha veduta |d scrraglia
Ordina con maestà a' suoi Eunuchi di coprire
quelle tre persone, e xrhe col favore del buio
* della notte le conducano nel serraglio-
TiM. Dimmi, che fià di me?
ScH. Io nulla, intenda
Bar. Vecchio, che fia di te? Di me che fia?
Io tutto soffrirò: tu soffri ancora.
Non scordarti i miei detti. Or sarai paga,
Femmina stolta.
ScH. Io son fuor di meN stessa.
Truff. Minacciante li fa tutti coprire, ed^ entrana
ATTO QUARTO
NOTTE
Àtrio con colonne. Una tavola con un grandissimo
bacile, colmo di monete d^ora
SCENA PRIMA.
TtntANDOT, Barach, TiMUR, ScHiRiNA, Zelima, Eunuchi. Gli
Eunuchi legheranno a due colonne separati Barach e'Ti^
mur, I quali saranno in camicia sino alla cintura. Zelima,
e ^ Schirina saranno da una parte piangendo, Turandot
daW altra in atto di fiere^^a.
Tur. IÌKtI IS?fl EMPO è ancor di salvarvi. Io rin-
novello
I prieghi miei. Quel monte d' ora
è vostro.
Ma se del padre, e dell' ignoto il nome
V ostinate a occultarmi, flagellati
Dalle robuste braccia de' miei servi
Senza compassion cadrete morti.
Olà ministri, pronti a' cenni miei. ( Gli Eur^
nuchi, fatto un profondo inchinOy s^ armano
di bastoni)
282 TUIUNDOT.
Bar. Paga sarai Schirina. Or t'è palese
L' effetto del tuo errore, (conforma) Turandot,
Saziatevi pure. Io non intendo
Di sospender tormenti. Risoluto
Anzi son di morir. Crudi ministri,
Percuotetemi, via. Del Prence ignoto
Conosco il padre, d'ambidue so i nomi;
Ma strazio, angoscia vo' soffrire, e morte;
E non mai palesarli. Quei tesori
Meno del fango apprezzo. Tu, consorte,
Non t'afiBigger per me. Quelle tue lagrime,
Se in un barbaro cor penetrar ponno.
Per quell'afflitto vecchio impiega solo.
Resti '1 misero salvo, (piangendo) Egli ha sol
colpa
D'esser amico mio.
ScH. (supplichevole) Deh per pietade...
TiM. Nessun s' affligga, alcun non prenda cura
D'un, che a uscir di miseria ha esperienza
Che sol morte può trarlo. Amico, io voglio
Te salvare, io morir. Sappi, tiranna...
Bar. (impetuoso) No, per pietà. Non v'esca dalle
labbra
Il nome dell'ignoto: egli è perduto.
Tur. (sorpresa) Vecchio, tu dunque il sai?
TiM. Se'l so? cnidelel
(volto a Bar.) Dimmi, amico, l'arcana Per-
chè mai
Non poss'io palesar?
Bar. Perch'è la morte
ATTO QUARTO. 283
Certa dell'infelice. Perchè siamo
Tutti perduti
Tur. Vecchio, non temere.
Costui vuol spaventarti. Olà, ministri,
Si percuota l'audace, {gli Eunuchi s^ appareo-
chiano a percuoterlo)
ScH. OimèI che pena!...
Marito mio... marito mio... Fermate...
Tue Dove soni... che mai soflFro!... Principessa,
Giura sopra 1 tuo capo, che la vita
Di lui fìa salva e che fia salva quella
Del Prence sconosciuto. Sulla mia
Cada pure ogni strazio. Non mi curo
Punto di sua salvezza. Io ti prometto
Tutto di palesarti.
Tur. Al gran Confuzio
Solenne giuro io fo su questa fronte.
Che salva dell'ignoto fia la vita.
Salve fieno le vostre, {si mette la mano alla
fronte)
Bar. {audacemente) Ah menzognera!
Vecchio ti ferma; il giuramento ha sotto
Velen nascosto. Turandot, giurate,
Che, sapendo i due nomi desiati.
Sposo vostro è l'ignoto, com'è giusto.
Ben lo sapete ingrata; o ch'ei non more.
Ricusato, d'angoscia, o non s'uccide.
Giurate ancor, che queste nostre vite,
Tosto che palesati hanno i due nomi.
Non sol da crudel morte andranno esenti,
286 TURANDOT. -
Dalle sue stanze per venir a voi.
A me Schirina, e a me tutto quel!' oro.
G>rrotte son le guardie, che alle stanze
Dell' ignoto han custodia. È mia V impresa.
Puossi entrar alle stanze, ove soggiorna,
Favellar seco, e, se de' miei consigli
Ognuno farà buon uso, consolata
Fia Turandohe, sciolta, e gloriosa.
Schirina, se ti preme U tuo consorte,
Zelima, se t'è cara la tua madre,
A modo mio farete. Chi avrà sorte
Di vincer quant' io penso, ricco fia.
Non si perda più tempo. Io spero in breve
Di rallegrarvi.
Tur. Amica, a te. m'affido.
Seco vada il tesoro. Teco vengano
E Schirina, e Zelima. Io tutto spero
In Adelma, in Zelima, ed in Schirina.
Adbl. Schirina, e voi Zelima, mi seguite.
Meco sia quel tesoro, (a parte) Ah forse io posso
Or rilevar i nomi, e far, che resti
Vinto l'ignoto; e, rinunziato, forse
Resterà mio. Forse averò tant'arte
Di sedurlo a fuggir, di meco trarlo
Fuori da questo Regno. (Adelma, Zelima,
Schirina e un Eunuco col tesoro entrano)
Bar. Moglie, figlia.
Non mi tradite. A quest'alme infernali
Non siate ubbidienti. Oimè, Signore,
Chi sa, che avverrà mail
ATTO QUARTO. 287
Tur. Miei fidi tosto
Ne' sotterranei del serraglio occulti
Costor sien chiusi.
TiM. Turandot, adopra
Quanto vuoi contro a me, maU figlio mio
Sia salvo per pietà.
Bar. Pietà in costei!
Tradito è'I figlio; e noi perpetua notte
Chiusi terrà, che'l tradimento celi.
Trema del Ciel, crudele, della tua
Alma ingrata, selvaggia, abbominevole.
Tieni per fermo, il Ciel ti de' punire. ( Timur
e Barach vjngono condotti via dagli Eu-
nuchi )
SCENA TERZA.
TUHANDOT.
Che farà Adelma? Oh, se mai giungo al fine
Di quest'impresa, chi averà più fama
Di Turandotte? Chi sarà lo stolto,
vChe più s'arrischi a vincer la sua mente?
Quanto godrò nel rinfacciargli i nomi
Nel Divan fra i Dottori, e di scacciarlo
Svergognato, e deluso 1 (sospesa) E pur mi
sembra
Che n'avrei dispiacer... Farmi già afflitto
Di vederlo, e piangente, e, non so come.
Mi tormenta il pensarlo... Ah, Turandotte...
:i88 TtJRANDOT.
Animo vii, che pe^sil che ragioni 1
Ebb' egli dispiacer là nel Divano
A scior gli enigmi, e a far, che tu arrossissi
Cielo, soccorri Adelma, e fa, ch'io possa
Svergognarlo, scacciarlo, e rimanere
Nella mia libertà; che sprezzar possa,^
Sciolta da un nodo vile, un sesso iniquo.
Che sommesse ci vuol, frali, ed inette.
SCENA QUARTA.
Altoux, Pantalone, Tartagua, guardie e Turamdot.
Alt. (da se pensoso) Il Sultan, di Carizmo usur-
patore,
Così dovea finir. Dovea Calaf,
Figlio a Timur, qui giugnere, e per strane
Vicende esser felice. Oh giusto Cielo,
Chi di tua providenza i gravi arcani
Può penetrar? Chi jpuò non rispettarli?
Pant. (basso a Tari.) Cossa diavolo ga Flmpe-
rator, che el va barbottando?
TARt. (basso) Egli ha avuto un messo secreto:
qualche diavolo e* è.
Alt. Figlia, il giorno s'appressa, e tu vaneggi
Pel serraglio svegliata, che vorresti
U impossibil saper. Io, noi cercando.
So quanto brami, e tu, che in traccia vai,
Vanamente lo cerchi (trae un foglio) In que-
sto fòglio
; ATTO QUARTO. 289
Scritti sono i due nomi, e gli evidenti
Segni delle persone. Un messo or ora
^ Secretamente da region lontane
A me sen venne; favellommij e dopo ^ ^
Da me chiuso, e in gelosa guardia posto,
Sino che passi il nuovo giorno, in questo *
Foglio mi diede i nomi, ed altre molte
Liete e gravi notizie. E Re l'ignoto.
È figliuolo di Re. Non è possibile
Che tu sappi, chi sieno; è troppo, o figlia,
Rimoto il nome lor. Però qui venni,
Perchè mi fai pietà. Là nel Divano,
In mezzo al popol tutto, qual piacere
Hai la seconda volta volontaria
.A farti dileggiar? Ululi e fischi
Della vii plebe avrai, troppo giuliva
Ch'una superba, odiata, ed abborrìta
Per la sua crudeltà, punita sia.
Mal si tenta frenar l'impeto intero
w D' un popol furioso, (fa cenno con sussiego a
Pantalone^ a Tartaglia e alle guardie^ che
partono. Tutti con preste^^a, fatto il solito
inchino colla fronte a terra, partono. Al-
toum segue)
Io posso, o figlia.
Riparare al tuo onor.
Tur. {alquanto confusa) Che onor! quai detti!
Padre, grazie vi rendo. Io non mi curo
D'aiuti, o di ripari. Da me stessa
Ripararmi saprò là nel Divano.
Gozzi. 19
290 TORANDOT.
Alt. Ah no. Credimi, figli^ è già impossibile
Quanto speri saper. Veggo in quegli occhi.
Nella faccia confusa, che folleggi,
Che disperata sei. Io son tuo padre;
T'amo, e tu! sai; siam soli Dimmi, fi^ia.
Se tu sai queMue nomi.
Tur. Nel Divano
Si saprà, s'io gli so.
Alt. No, Turandot.
Tu non gli puoi saper. Vedi, s' io t' amo.
Se li sai, mei palesa. Io ti dimando
Questo per grazia. A quel meschin fo intendere,
Ch* egli è scoperto, e fuor da' stati miei
Libero il lascio uscire. Spargo fama,
Che tu l'hai vinto, e che fu tua pietade,
Che a un pubblico rossor non s'esponesse.
Fuggi così l'odiosità de' sudditi,
Che abborron tua fierezza, e me consoli.
Ad un tenero padre, che si poco
Chiede a un'unica figlia, il negherai?
Tur. So i nomi... Non li so... S'eì nel Divano
Della vergogna mia non s'è curato.
Giustizia è, ch'egli soffra infra i Dottori,
Quanto soffersi anch' io. Se saprò i nomi.
Nel Divan fien palesi.
Alt. (con atto a parte d^ impa:[ten:^a, ìndi sfor-
!(andosi alla dolce:{3[a') Ei fé' arrossirti
Per amor, ch'ha per te, per la sua vita.
Ira, furor, puntiglio, Turandot,
Lascia per poco. Io vo', che tu conosca.
ATTO QUARTO. 29I
Quanto t'ama tuo padre. Questo capo
Scommetto, o figlia, che non sai que' nomi.
Io gli so; scritti sono in questo foglio,
E te li voglio dir. Vo', che s'aduni
n Divan, fatto il giorno, che apparisca
In pubblico l'ignoto, e ch'egli soffra
Che tu lo vinca; che vergogna egli abbia;
Che provi angoscia, pianga, si disperi,
Sia per morirsi per aver perduta
Te, che sei la sua vita. Sol ti chiedo,
Dopo'l tormento suo, che tu gli porga
Quella destra in consorte. Giura, figlia.
Che ciò farai. Siamo qui soli. Io tosto
Ti paleso i due nomi. Tra noi due
Rimarrà questo arcano. Gloriosa
Appaghi il tuo puntiglio. Amore acquisti
De' sudditi sdegnati. Hai per consorte
L' uom più degno, che viva, e dopo tante
Passion date al padre, nella sua
Vecchiezza estrema il padre tuo consoli.
Tur. ( turbata e titubante a parte )
Ah quant'arte usa il padre!... che far deggio?
Dovrò affidarmi a Adelma, e sol sperando
Attender il cimento? O deggio al padre
Chieder i nomi, e all'abborrito nodo
Giurar d' esser consorte ? . . . Turandotte,
T'assoggetta alla fin... minor vergogna
È accomandarsi al padre , . . Ma F amica
Troppo franca promise... E se rileva?...
Ed io vilmente al padre il giuramento?...
292 TtmAKDOT.
Alt. Che pensi, o figlia? a che vaneggi, ondeggi
Combattuta, e confusa? e vuoi, ch'io creda
In tanta agitazion, che sei sicura
Di spiegar queli' enigma? Eh cedi al padre!
Tur. {sempre a parte titubante) No: s'attenda
r amica. Il genitore
Qual zelo prende ! Questo è chiaro segno^
Ch'è possibil, ch'io sappia quanto ei teme.
Ama l' ignoto, e dall' ignoto istesso
Ebbe i nomi in secreto, e con l' audace
È in accordo, e mi tenta.
Alt. Or via, risolvi,
Calma quel spirto indomito, finisci
Di tormentar te stessa.
Tur. (scuotendosi) Ho già risolto.
Al nuovo dì là nel Divan s' aduni
L'assemblea de' Dottori.
Alt. Adunque vuoi
Rimaner svergognata^ e condiscendere
Più alla forza, che al padre?
Tur. Risoluta
Vo', che segua il cimento.
Alt. ( iracondo ) Ah stolta... ah sciocca—
Più ignorante, che l' altre. Io son sicuro,
. Che ti fai svergognar pubblicamefite,
Che possibil non è, che tu indovini
Sappi; il Divan fia pronto, ed il Divano,
Per tua rabbia maggior, vinta che sia.
Tempio, ed Ara sarà. Là fieno pronti
I Sacerdoti, e in mezzo al popol tutto.
ATTO QUARTO. 293
Tra le risa, e'I dileggio, a tuo dispetto,
Ivi, in quel punto vo', che segua il nodo.
Ben mi ricorderò, che sin poche ore
D'agitazion al cor del padre tuo
Ricusasti di tor. Folle, rimanti, (entra collerico)
Tur. Adelma, amica mia, che tanto m' ami.
Meco è'I padre sdegnato... abbandonata
In te solo confido... dal tuo amore
Solo attendo soccorso al mio cimento, (entree)
SCENA QUINTA.
Cambiasi 'I Teatro in una camera magnifica con varie porte.
Nel mezzo avrà un sofk air orientale^ per servir al riposo
di Calaf. È la notte oscura.
Brighi^lla con una torcia e Calap.
Brig. Altezza, xe nove ore sonade. L'apparta-
mento \3L'io ha passeggia tresento e sedese
volte in ponto. A dirghe el vero, son stracco;
se la volesse un poco reposar, qua la xe
sicuro.
Gal. ( ottuso ) Si, ti scuso, ministro. L' agitato
Spirto mi fa inquieto. Va, e mi lascia.
Brig. Cara Altezza, la supplico d' una grazia. Se
mai capitasse qualche fantasma, la se regola
con prudenza.
Gal. Quali fantasme? qui fantasme? come?
Brig. Oh Cielo I Nu gavemo commission, pena la
vita, de no lassar entrar nissun in sto appar-
294 TDRANDOT.
tamento, dove la xe; ma... poveri ministri!...
rimperator xe l' Imperator, la Prencipessa xe,
se poi dir, l'Imperatrice, e la sa, che cuor che
la ga... Poveri ministri!... xe difficile a pas-
sar tra una giozza, e l'altra... se la savesse...
gavemo la nostra vita tra el lancuzene e el
martello... no se vorria desgustar nissun... se
la me intende... Ma, poveri diavoli, se vorria
anca avanzar qualcossa per l'età decrepita...
ma, poveri squartai, semo a una cattiva con-
dizìon.
Gal. (sorpreso) Servo, mi dì. Dùnque la vita mia
In queste stanze non sarà sicura?
Bbig. No digo questo ; ma la sa la curiosità, che
ghe xe de saver, chi ella sia. Poi vegnir ... per
esempio... per el buso della chiave qualche
folletto, qualche fada con delle tentazion...
basta, che la staga in filo, e che la se regola.
Me spieghio?... Poveri ministri!... poveri
squartai!
'Cal. Va, non temer; t'intendo; avrò cautela.
Brio. Oh bravo. No la me palesa per carità. Me
raccomando alla so protezion. (a parte) Se poi
dar, che un borson de zecchini se possa ricu-
sar. Per mi ho fatto ogni sforzo, ma no ho
podesto. Le xe catarigole; chi le sente, e chi
no le sente, (entra)
<ÌAL. Costui m'^ha posti de' sospetti in capo.
Chi mai giugner può qui?... Saprò difendermi,
Ciunga l' inferno ancor. Troppo mi preme
ATTO QUARTO. / 295
Posseder Turandot. Ancor per poco
Penar dovrò, che non è lungi il giorno.
Possibil, che quel cor sempre sia avverso?
Cerchianl, se pur si può, qualche riposo, {è p^
coricarsi )
SCENA SESTA.
ScHntmA, travestita da soldato Chinese e Calaf.
ScH. Figlio... {si guarda intorno) Signor... {si
guarda intorno) mi trema il cor nel seno.
Gal. Chi sei? che vuoi? che cerchi?
ScH. Io son Schiriiia,
Moglie d'Assan, dell'infelice Assan.
Qui con questa divisa militare.
Simile a quella delle guardie vostre
Tra i soldati m'addussi; il punto colsi,
E venni in questa stanza. Assai sventure
Deggio narrarvi, ma timor... sospetto...
E più pianto, e dolor mi toglie forza...
Gal. Schirina, che vuoi dirmi?
ScH. Il miserabile
Mio maritò è celato. A Turandot
Fu detto, ch'egli vi conobbe altrove,
E perchè le palesi il vostro nome,,
Secretamente nel Serraglio il vuole.
Della vita è in periglio. A mille strazi.
S'è scoperto, è soggetto, e, se ciò nasce,
Pria vuol morir, che palesar, chi siete.
Gal. Ah caro servo!... Ah Turandot crudele l
296 TtfRANbOT.
ScH. Si più deggio narrarvi. Il Padre vostro
E in casa mia, vedovo sconsolato
Di vostra madre...
Gal. (addolorato) Oimè, che narri! Oh Dio!
ScH. Di più dirovvi. Ei sa, ch^Assan si cerca;
Che voi siete fra Tarmi. Ha mille dubbi.
Mille spaventi e piange. Ei disperato
Vuol esporsi alla Corte, e palesarsi,
E « col mio figlio » ei grida, « io vo' morire »!
, M'affaticai, narrando i casi vostri, ,
Per trattenerlo: egli inventate fole
Tutte le crede. Il tenni, e sol lo tenni
Con la promessa di recargli un foglio
Da voi firmato, e scritto dalla mano
Del proprio figlio, che'l consoli, e dica,
Ch'egli è salvo, e non tema. A tanti rischi
Mi sono esposta per aver un foglio.
Per acchetar quell'angoscioso vecchio.
Cal. Il Padre mio in Pechini La madre morta!
Tu m'inganni, Schirina.
ScH. Se v'inganno,
M'arda Berginguzin.
Gal. Misera madre!
Padre mio sventurato! (piange)
ScH. Ah, non tardate.
Maggior sventure nasceran, se'l foglio
Non vergate sollecito. Se mancano
Fogli, ed inchiostro, e penna, io diligente
Tutto provvidi. ( trae '/ bisognevole per iscri^
vere) Quell'afflitto vecchio
ATTO QUARTO. 297
Poche note firmate abbia, che'l figlio
E in sicurezza, e clie sarà felice;
O alla Corte sen corre, e ogn'opra guasta.
Gal. Sì, mi reca que' fogli ... (in atto di scrivere;
poi sospendendo)
Ma che fo? {pensa alquanto, indi getta il
foglio)
Schirina, al padre corri, e gli dirai
' Per parte mia, che ad Altoum sen vada;
Chieda udienza secreta, e gli palesi
Quanto brama, e ricerchi quanto brama
Per calma del suo core. Io mi contento.
ScH. (confusa) Ma non volete?...* un foglio vo*
stro basta...
Gal. No, Schirina, non scrivo. Il nome mio
Diman saprassi solo. Assai stupisco.
Che la moglie d'Assan tenti tradirmi.
ScH. (più confusa) Tradirvi...! che mai dite? Ah
non si guastino (a parte)
U altre trame di Adelma. (alto) E bene; al
padre
DlfQ quanto diceste. Io non credeva.
Dopo tanta fatica, e tanto rischio.
La taccia meritar di traditrice.
(a parte) Adelma è desta, ma costui non
dorme, (entra)
Gal. Ben mi disse il ministro, che fantasme
Sarebbero apparite* Ma Schirina
Con sacro giuramento ha confermato,
Che mio padre è in Pechin, la madre estinta.
298 TURANDOT.
Purtroppo sarà ver; che le sventiire
Piovon sopra di me ... ( guarda utf altra porta
della stan^^a) Nuovo fantasma!
Vediam, che venga a far.
SCENA SETTIMA.
Zelima e Calaf.
Zel. Prence, io son schiava
Di Turandot, in questo loco giunta
Per quelle vie, che ad una Principessa
Possibili son sempre, e apportatrice
Son di felice annunzio.
Cal. Oh'l Ciel volesse.
Schiava, non mi lusingo; è troppo barbaro
Della' tua Principessa il cor sdegnato.
-Zel. e ver; noi so negar. Ma pur. Signore,
Voi siete il primo. Impre§sion d' affetti
Le destaste nel sen. Parrà impossibile,
E certa son che le parole mie
Terrete per menzogne. Ella persiste
Nel dir, che v'odia, eppur mi sono accorta,
Ch'ella è amante di voi. S'apra il terreno
E m'ingoi, se non v'ama.
Cal. e ben; ti credo.
E felice l'annunzio; altro vuoi dirmi?
-Zel. Io deggio dirvi, ch'ella è disperata
Sol per ambizion; ch'ella confessa.
Che impossibile assunto nel Divano
Si prese al nuovo giorno, e che mortale
ATTO QUARTO. " 299
Rossor la prende a comparir dimani,
Dopo tante, benché crude, vittorie,
A farsi dileggiar dal popol tutto.
S'apra F abisso, e questa schiava inghiotta,
Se menzogna vi dissi.
Cal. Non chiamarti.
Donna, si gran sventure. Io già ti credo.
Or via, di a Turandotte, eh' io ben posso
Sospender il cimento. Miglior fama
Ella s'acquisterà, che co' cimenti,
A cambiar il suo core, a far palese.
Che di pietà è capace, che risolta
È di darmi la cara amata destra
Per consolar un disperato amante.
Un padre, un Regno. Il tuo felice annunzio,
Serva, saria mai questo?
Zel. No, Signore;
Non pensiamo così. La debolezza
Scusar si deve in noi. La Principessa
Una grazia vi chiede. Ella sol salva
Vuol la sua vanagloria, e nel Divano
Que'nomi poter dire; indi pietosa
Discender dal suo trono, e la sua destra
Con atto generoso unire a voi.
Qui siamo soli; a voi poco ciò costa.
Guadagnate quel cor. Sì bella sposa
Tenera abbiate, e non sdegnata, e a forza.
Cal. (con sorriso) Al terminar quest'ultimo di-
scorso.
Schiava, ommesse hai le solite parole.
300 . TURANDOT.
Zel. Quai parole, Signor?
Gal. S' apra 1' abisso,
E questa schiava nei suo centro inghìotta^
Se menzogna vi dissi.
Zel. Dubitate,
Ch'io non vi dica il ver?
Gal. Dubito in parte,
E sì forte è'I mio dubbio, ch'io ricuso
D'appagarti di ciò. Va a Turandotte,
Dille, che m' ami, e eh' io le niego i nomi
Per eccesso d' amor, non per oflFesa.
Zel. {con audacia) Imprudente, non sai quanto
costarti
Può questa ostinazion.
Gal. Costi la vita.
Zel. {fieramente) E ben; pago, sarai {a parte)
Vana fu l'opra, {entra dispettosa)
Gal. Ite, inutili larve. Ah, le parole
Di Schirìna m' affliggono. Vorrei,
Che l'infelice madre... il padre mio...
Alma, resisti. Ancor poche ore mancano
A saper tutto, a uscir d' angoscia, e spasma
Riposiam, se si può. {siede sul sofà) La tra-
vagliata
Mente brama riposo, e par, che venga
Sonno a recar conforto a queste membra.
{s^ addormenta)
ATTO QUARTO. 3OI
SCENA OTTAVA.
Truffaldino e Calaf che dorme,
Truff. Entra adagio, e dice con voce bassa, che
può buscare due borse d' oro, se giugne a rile
vare i due nomi dall' ignoto, ^il quale opportu-
namente dorme. Ch' egli ha comperata con un
soldo dal N. N., ciarlatano in Piazza, la mira-
bil radice della mandragora, che posta sotto il
capo di chi dorme fa parlare in sogno il dor-
miente, e lo fa confessare ciò, che si vuole.
Narra degli stupendi casi avvenuti sul propo-
sito, cagionati dalla virtù di quella radice, nar-
rati da N. N. ciarlatano, ecc. S' accosta a Ca-
' laf adagio, gli mette la radice sotto al capo,
si tira indietro, sta in ascolto, fa de' lazzi ri-
dicoli. Cai. Non parla, fa alcuni movimenti
colle gambe, e colle braccia. Truff. S' imagina,
che que' movimenti sieno parlanti per virtù
della mandragora. S'idea, ch'ogni movimento
sia una lettera dell'alfabeto. Da' movimenti di
Calaf interpreta lettere, e forma, e combina un
nome strano e ridicolo a suo senno; indi al-
legro sperando d' aver ottenuto quanto voleva^
entra.
302 . TURANDOT.
SCENA NONA.
Adelma, velata la faccia, con un torchietto^
e CALAtr che dorme.
Adbl. {da se) Tutte le trame mie non saran vane.
Se ìnvan tentossi aver i nomi, invano
Forse non tenterò di meco trarlo
Fuori da queste mura, e farlo mio.
Sospirato momento! Amor, che forza
. Sin' or mi desti, e ingegno ; e tu, fortuna,
Che modo mi donasti, onde potei
Tanti ostacoli vincere, soccorri
Quest'amante affannata, e fa, ch'io possa
Giugnere al fin de' miei disegni audaci.
Fammi contenta, amor. Fortuna,* spezza
Queste di schiavitù vili catene, {guarda col
lume Cala/)
Dorme l'amato ben. Ti rassicura,
Cor mio; non palpitar. Care pupille,
Quanta pena ho a sturbarvi 1 Ah, non si perda
Un momento a' disegni, {ripone il lume^ poi
con voce alta) Ignoto, destatL
Cal. {destandosi, e levandosi spaventato)
Chi mi risveglia? chi sei tu? che chiedi.
Nuova larva insidiosa? avrò mai pace?
Adel. Qual furori Di che temi? In me ravvisa
Una donna infelice, che non viene
Per saper il tuo nome, e, se pur brami
Di saper, chi io mi sia, siedi, e m' ascolta.
ATTO QUARTO. 3O}
Cal. Donna, a che in queste stanze? Invan, t'av-
verto,
Tradirmi tenti.
Adel. (con dolce^^a) Io per tradirti! ingrato!
Deh mi narra, stranieri Fu qui Schirina
A tentarti d' un foglio?
Gal. Fu a tentarmi.
Adel. (precipitosa) Non l'appagasti già?
Gal. Non V appagai ;
Che sì stolto non fui.
Adel. Ringrazia il Cielo.
Fu qui una schiava con raggiri industri
Per saper, chi tu sia?
Gal. Si, fu; ma andossi
Senza saperlo, come tu anderai.
Adel. Mal sospetti, Signor, mal mi conosci.
Siedi, m'ascolta, e poi di traditrice,
Se lo puoi, mi condanna. ( siede sul sofà )
Cal. (sedendole appresso) Or ben, mi narra;
Dunmì, che vuoi da me?
Adel. Prima, che guardi
Voglio queste mie spoglie, e che palesi,
Chi ti credi, ch'io sia.
Cal. ( esaminandola ) Donna, s' io guardo
A' gesti, al portamento, all'aere altero.
Maestà tutto ispira. Alle tue spoglie
Schiava umil mi rassembri, e già ti vidi
Nel Divan, s'io non erro, e ti compiango.
Adel. Ben ti compiansi anch'io, cinqu'anni or sono.
Vedendoti servire in basso stato,
304 TDRANDOT.
E più quand' oggi nel Divan ti scorsL
Mei disse un giorno il cor, che tu non eri
Nato a vili servigi. So, eh' io feci
Quanto potei per te, quando il mio stato
Soccorso potea dar. So, che i miei sguardi.
Per quanto puote una real donzella,
Ti parlavano al cor. {si svela) Dì, questo volto.
Mira, vedesti mai?
Gal. (sorpreso) Che miro! Adelma,
De'Carazani Principessa! Adelipa,
Creduta estinta!
Adel. Di Cheicobad,
De' Carazani Re, tra lacci indegni
Di schiavitù miri la figlia Adelma,
Per regnar nata, ed a servir ridotta,
Miserabile ancella, oppressa, afflitta, {piange)
Cal. Morta ti pianse ognun. Qual mai ti veggio!
Del gran Cheicobad figlia! Regina!
In catene! vii serva! '
Adel. Sì, in catene.
Non istupir, non isdegnar, ch'io narri
Delle miserie mie l'aspra cagione.
Ebbi un fratel, che fu cieco d'amore,
Come sei tu, di Turandotte altera.
S'espose nel Divan. (piangendo) Fra i molti
teschi
Fitti sopra alla porta, avrai veduto,
Spettacolo crudele! il capo amato
Del caro mio fratel, ch'io piango àncora, (piange
dirottamente)
' , ^ A.TTO QUARTO; ' 3O5
Cal. Misera! Udii narrare il caso altrove,
Lo credei fola, or così dir non posso.
Adel. Cheicobad, mio padre, uom coraggioso,
Sdegnato del fin barbaro del figlio.
Radunò. le sue forze, ed ebbe core,
Per' vendicar il figlio, d'assalire
Gli stati d' Altoum. La sorte iniqua
Gli fu contraria, e fu sconfitto, e morto.
Un Visir d' Altoum senza pietade
Volle estirpar della famiglia nostra.
Per gelosia di stato, ogni rampollo.
Tre miei fratelli trucidati furo.
La madre mia, colle sorelle mie
Meco scagliate in un rapido fiume
A terminar i giorni. In sulla riva
n pietoso Altoum giunse, e sdegnato
Contro al Visir, fé' ripescar nell'acque
Nostre misere vite. Era mia madre
Colle sorelle morta. Io, più infelice.
Semiviva fui tratta, e in diligenza
Alla vita riscossa, indi in trionfo
Schiava alla cruda Turandotte in dono -
Mi diede il padre suo. Principe ignoto.
Se d' uman sentimento non sei privo
Compiangi i casi miei. Pensa a qual costo,
Con qual core a servir schiava m'indussi
Delle miserie mie la cagion prima,
L' abborribile oggetto de' miei mali,
In Turandotte. {piange)
Cal. (commosso) Sì, pietà in me destano,
GOXZI. 20
306 TURANDOT.
Principessa, i tuoi casi; ma la prima
Cagion de' mali il fratel tuo fii certo,
Indi'l padre imprudente. E che mai puote^
Adelma, Principessa, in tuo favore
Un sfortunato oprar? S'io giungo al colmo
De' miei desir, spera da un core umano
Libertade, e soccorso. Or il racconto
Delle sciagure tue non fa, che accrescere
Mestizia alla mestizia, che m'opprime.
Ajdel. a te mi palesai, scoprendo il volto.
Noto t' è '1 mio lignaggio, e note or sono
Le mie sventure a te. Vorrei, che l'essere
Nata figlia di Re trovasse fede
A quanto, mossa da compassione,
Giacché mossa da' amor dù* non ti deggio,
Mi convien palesarti. Oh voglia il Cielo,
Quantunque io sia chi son, eh' un core amante^
Per Turandotte prevenuto, e cieco,
I Mi presti fede, ed i veraci detti
Contro di Turandotte non disprezzi
Cal. Dimmi, Adelma, alla fin che vuoi narrarmi?
Adel. Narrarti io vo' . . . Ma tu dirai, eh' io sono
Qui giunta per tradirti, e mi porrai
Coli' altre anime vili a servir nate, (piange)
Cal. Non mi tener, Adelma, in maggior strazia
Dplle viscere mie, di, che vuoi dirmi?
Adel. (a parte) Ciel, fa, ch'ei creda alla menzo-
gna mia.
(a Cai. conforma) Signor, la cruda Turan-
dotte irata,
ATTO QUANTO. 307
La scellerata Turandotte iniqua,
Di trucidarti alla nuov'alba.ha dati
Gli opportuni comandi. Sono queste
Delle viscere tue le amanti imprese.
Gal. (sorpreso, levandosi furiosamente) Di tru-
cidarmi!
Adbl. {levandosi con sommo vigore) Trucidarti, sì.
All'uscir tuo diman da queste stanze,
Venti, e più ferri acuti in quella vita
S'immergeranno, e tu cadrai svenato.
Gal. (smanioso) Avvertirò le guardie, (in atto di
partire)
Adel. (trattenendolo) No: che fai?
Se tu speri, Signor, di dar avviso
Alle guardie, e salvarti... Oh te meschino 1
Non sai, dove tu sia... quanto s'estenda
Della cruda il poter... dove sìen giunti
I maneggi, le trame, i tradimenti.
Gal. (in disperato cieco trasporto) Oh misero Ca-
laf... Timur... mio padre...
Ecco il soccorso, ch'io ti reco alfine, (resta
fuori di sé addolorato colle mani alla fronte)
Adel. (sorpresa a parte) Calaf, figlio a Timur I
Oh fortunata '
Menzogna miai Tu a doppio favorisci
Forse quest'infelice. Amor, m'assisti.
Colorisci i miei detti, e, s'ei non cede,
Ho quanto basta ad annullar la brama
D'esser di Turandot.
Gal. (segue disperato) Or che ti resta,
308^ TURANDOT.
Scellerata fortuna, porre in opra *
Dopo tante miserie co' tuoi colpi
Contr'un oppresso, un disperato, un Principe
Tutto amor, tutto fede, ed innocenza?
E fia di tanto, sì, di tanto fia
Capace Turandottel... Ah, non può dsu^i
Un cor sì traditore in si bel volto, (con isdegno)
Principessa, m'inganni.
ÀDEL. Io non m'offendo
Del torto, che mi fai. Già ben previdi
Che dubitar dovevi. Sappi, ignoto.
Che per l'enigma tuo là nel Serraglio
Furente è Turandot. Ella già scorge
Impossibil l'impresa del disciorlo.
{caricata) Forsennata passeggia, e, come cagna,
Latra, si scuote, si difforma, e grida.
Verde ha la faccia, di color sanguigno
Ha gli occhi enfiati, loschi, e'I ciglio oscuro.
Orrida ti parrebbe, e non più quella.
Che nel Divan t'apparve. Io m'ingegnai
Di colorir le tue soavi forme.
Per placare i trasporti, e tutto feci,
Perch'ella in suo consorte ti prendesse.
Ogni sforzo fu vano. Alcune insidie
Ella ordì; tu le sai. S'eran fallaci,
A certi suoi fedeli Eunuchi diede
Ordine d' ammazzatrti a tradimento.
Son più vasti i comandi. Infemal alma
Peggior non nacque, e tu compensi morte,
Ch' hai sopra il capo, alla crudel d' amore
ATTO QUARTO. 3O9
Se tu non credi, il torto, che mi fai,
Men.mi dorrà, che'l mal, che a te sovrasta.
(piange)
Gal. Dunque in mezzo a' soldati d' un Monarca,
Posti per mia salvezza, io son tradito!
' Ah, ben mei disse quel ministro infame.
Che interesse e timor spezza ogni fede.
Vita, più non ti curo. Invan si tenta
Fuggir da cruda stella, che persegue.
Barbara Turandot, in questa forma
Paghi un amante fuor di se medesmo.
Che s'abbassa, si sforza, e l'impossibile
Vince in se stesso ad appagar tue brame? (^ìi-
rioso,)
Vita, più non ti curo. Invan si tenta
Fuggir da cruda stella, che persegue.
Adel. Ignoto, di fuggir tua cruda stella
T'apre Adelma una via. Sappi, un tesoro
Giusta compassion m' indusse a spendere
Per corromper le guardie. Io cerco trarre
Te dalla morte, e me dalle catene.
Là nel mio Regno in sotterraneo loco
Altro immenso tesoro sta nascosto.
Congiunta son di sangue, e d'amistate
Ad Alinole, Imperator di Berlas.
Qui tra le guardie un numero è già pronta
Per scorta mia. Destrier parati sono.
Fuggiam da queste sozze orride mura
Io odio ai Dei. Forze avrò in campo, ed armi.
Unite a quelle d'Alinguer, di Berlas,
3IO "^ TXJRANDOT.
Da riscattare il Regno mio. Fia tuo.
Tua questa destra fia, se gratitudine
Per me ti prende, e, se ti spiace il nodo^
Fra Tartari non mancan Principesse,
Che avanzano in bellezza questa fiera,
Affettuose in cor, degne del tuo;
Suddita io resterò. Pur che tu sia
Salvo da morte, e chMo d'indegno laccio
Bisca di schiavitù, saprò in me vincere
Quell'amor, che mi strugge, e che rossore
Mi prende a palesarti. Ah, la tua vita
Ti stia a cor solamente, ed abborrisd,
Quanto vuoi, questa destra. E presso il giorno..
Io mi sento morir... stranier fuggiamo.
Cal. Adelma generosa 1 Oh qual dolore
Provo per non poter condurti a Berlas,
Trarti di schiavitù. Che mai direbbe
Altoum della fuga? Egli a ragione
Mi dirla traditor; che per rapirti
Le sacre leggi d' ospitalitade
Non curai di tradir.
Adel. Anzi la figlia
D' Altoum le tradisce.
Oll. Io non ho'l core,
Che più sia mio. Godrò morendo, Adehna,
Per commession d' una crudel che adoro.
Tu puoi fuggire. Io risoluto sono
Di morir per colei. Che vai la vita?
.Senza di Turandotte io più, che morto,
Ali considero al mondo: ella s' appaghi
ATTO QUARTO. 3II
jÀj>el. Dì tu da ver! sì cieco sei d'amore?
Oal. Sol d'amore, e di morte io son capace.
ADEL.,Ah, ben sapea, stranier, che la tiraona
Di bellezza m'avanza, e sperai solo,
Che'l mio cor differente gratitudine
Potesse ritrovar. Io non mi curo
De' disprezzi, che soffro, e sol mi preme
L'adorabil tua vita. Deh 'fuggiamo;
Salva quella tua vita, io ti scongiuro.
Cal. Adelma, io vo' morir; son risoluto.
Adel. Ingrato! resta pur,; per tua cagione
Io pur non fuggirò, rimarrò schiava.
Ma per momenti ancor. Se '1 Ciel m' è contro,
Vedrem chi di noi due la propria vita
Sa sprezzar maggiormente a' casi avversL
( a parte ) Perseveranza amor premia sovente.
Calaf di Timur figlio? (alto) Ignoto, addio.
{entra)
Gal. Notte più cruda chi passò giammai?
G)mbattuto lo spirto da un ardente
Amor, che mi distrugge. Sfortunato,
Dall'amata abborrito, circuito
Da tante insidie, ed intronato il capo
Da funeste novelle di mia madre.
Del genitor, del servo, e, quando io spero
D'esser in porto, in mezzo a chi mi salvi,
Al colmo d'ogni gioia, trucidato
Mi vuol chi è la mia vita, e chi tant'amo. ^
Turandotte spietata! Ah, ben mi disse :
La tua schiava crudele, a cui npn volli
312 TURàNDOT.
Palesar il mio nome, e quel del padre,
' Che la mia ostinazion costar dovrebbe
A caro prezzo. Or ben, già spunta il sole, (si
rischiara )
Tempo è, che'l sangue mio satolli aliine
La serpe, che n' è ingorda. Usciam d' angoscia.
SCENA DECIMA.
Brighella, guardie e Calaf.
Brig. Altézza, questa xe l'ora del gran cimento.
Gal. (agitato) Ministro, sei tu quellp?... Via^
s' adempiano
Gli ordini, e' hai. Crudel, finisci pure
Di troncar i riiiei giorni; io non li curo.
Brig. (attonito) Che ordeni! Mi no go altro or-
dene, che de farla incamminar verso el Divan,
perchè Tlmperator s'ha za pettenà la barba
per far l'istesso.
Càl. ( con entusiasmo ) Vadasi nel Divan. Già nel
Divano
So che non giui^erò. Vedi, se intrepido
Io so andar a morir, (getta la spada) Non
vo' difesa.
Sappia almen la crudel, che ignudo esposi
Volontario il mio seno alle sue brame, (entra
furioso)
Brig. (sbalordito ) Cossj^ diavolo diselo! Gran m»-
ATTO QUARTO.
313.
ledette femeneì No. le l'ha lassa dormir, e le ga
fatto zirar la barilla. Olà, presente l'.arme, com-
pagnelo, steghe attenti, {entra. Odesi un suono
di tamburi, e cP altri strumenti)
ATTO QUINTO
Il Teatro rappresenta il Divano,' come nel Patto secondo. Nel
fondo vi sarà un altare con una Deità Chincse, e due Sa-
cerdoti ; ma tutto dietro una gran cortina. All' aprirsi della
scena Altoum sarà sul suo trono: i Dottori saranno al
lor posto; Pantalone e Tartaglia affianchi d'Àltoum. Le
guardie disposte, come nelPatto secondo.
SCENA PRIMA.
Altoum, Pantalone, Tartaglia, Dottori, guardie, indi
Calaf. Cala/ uscirà agitato guardandosi intorno sospet"
toso. Giunto nel me^^o della scena farà un inchino ad Al'
toum, indi da sé.
OME! Tutta la via felicemente
Scorsi, e rimmagin della morte avendo
Sempre dinanzi, aliìn nessun m' offese!
O Adelma m' ha ingannato, o Turandotte
Seppe que'nomi, l'ordine sospese
Della mia morte, ed io perdo il mio bene.
Meglio era morte, s'avverar si deve
Il mio dubbio crudel. {resta pensoso)
Alt. Figlio, tu sei.
3l6 TURANDOT.
Ben ti scorgo, agitato. Io vo' vederti
Dare in volto; più non dei temere.
Oggi hanno fin le tue sventure. Io tengo
' Secreti in sen di giubilo, e di pace.
Mia figlia è tua consorte. Tre ambasciate
Ebbi sin' or da lei. Calde preghiere
Spedì reiterate, ond* io volessi
Dispensarla da esporsi nel Divano,
E dalle nozze ancor. Vedi, se devi
Rassicurarti, e intrepido, aspettarla.
Pant. Certo, Altezza. Mi in persona son sta do
volte a recever i comandi della Principessa alle
porte del Serraglio. Me son vesti in pressa, e
soft corso. Gera un agerin freddo, che me trema
ancora la barba. Ma gnente. Confesso, che ho
abuo un gran spasso a vederla desperada, e
pensando alla allegrezza, che avemo da aver.
Tart. Io ci sono stato a tredici ore. Cominciava
appunto, a spuntar V alba. M' ha tenuto mez-
z'ora a pregarmi. Tra'l freddo e la rabbia,
crédo di averle detto delle bestialità, {a parte}
U averei sculacciata.
Alt. Vedi, come ritarda? Ho già spedite
Commession risolute; e vo', che venga
A forza nel Divan. S' ella ricusa.
Dissi, che a forza ella sia qui condotta.
Forte ragione ho di mostrarle sdegno.
Eccola, e mesta a comparir la veggio.
Soffra il rossor, ch'io volli torle invano.
Figlio, t'allegra pur.
ATTO QUINTO. 3^7
Gal. Signor, scusate.
Grazie vi rendo. Io combattuto sono
Da sospetti crudeli, e combattuto
Sono d' esser cagion, eh' ella patisca
Violenza e rossor. Vorrei piuttosto...
Ah, eh' io noi posso dir. Se non è mia,
Come viver potrei! Col tempo io voglio
Co' più teneri affetti far, che scordi
Certo l' abborrimento. Questo core
Tutto fia della sposa. Io vorrò sempre
Ciò, ch'ella bramerà. Grazie, e favori
Chi cercherà da me, non andrà in traccia
Di adulator, di paraslti iniqui,
Dell'altrui dònna, che mi possa; e solo
Dalla consorte mia richieste attendo
Per favorire altrui. Fedel, costante
Sempre sarò nell'amor suo. Giammai
Sospetti le darò. Forse non molto
Andrà, che adorerammi, e pentimento
Dell' avversion, che m'ebbe, in breve io spero.
Alt. Olà, ministri miei, più non si tardi.
Questo Divan sia Tempio, ond'ella entrando
Scopra, ch'io so voler quanto le dissi.
Si permetta l'ingresso al popol tutto.
Tempo è, che paghi quest' ingrata iìglia
Con qualche dispiacer le tante angosce.
Che suo padre ha sofferte. Ognun s'allegri.
Le nozze seguiran. L'Ara sia pronta.
{Apresi la cortina nel fondo^ e scopresi
V Altare co^ Sacerdoti Chinesi)
3l8 TUItANDOT.
Pant. CanccUier, la vien, la vien. Me par che la
pianza.
Tart. L'accompagnamento è malinconico certa
Questo è un noviziato, che mi pare un mor*
torio.
SCENA SECONDA.
TORANDOT, AdBLMA, ZeLIMA, TRUFFALDINO, EutlUCki,
Schiave e sopraddetti. Ad un suono di marcia lugubre esce
Turandotte^ preceduta dal solito accompagnamento. T»^
il suo seguito avrà un segno di lutto. S' eseguiranno tutti
t cerimoniali^ come nclV atto secondo, Turandotte salita m
trono farà un atto di sorpresa nel veder V Altare e i Sa-
cerdoti. Ognun sarà al solito posto, come nelVatto secondo»
Calaf sarà in piedi nel me\\o.
Tur. Questi segni lugubri, ignoto, e questa
Mestizia, che apparisce ne' miei servi.
So che'l cor ti rallegra. Io miro l'Ara
Parata alle mie nozze, e mi contristo. *
Quant'arte usar potei, sappi ch'ho usata
Per vendicarmi del rossor, che ieri
Mi facesti provar; ma alfin conviemmi
Cedere al mio destin.
Gal. Mia Principessa,
Vorrei poter farvi veder l'interno.
Come la gioia amareggiata viene
Dal vostro dispiacer. Deh, non v' incresca
Di far felice un, che v'adora, e sia
Con reciproco amor sì dolce nodo.
. ATTO QUINTO. 319^'
Io vi chiedo perdon, se chieder dessi
Perdon d' amar chi s' ama.
Alt. Ella non merta,
Figlio, sommesse espression. È tempo,
Ch'ella s'umilj alfin. S'innalzi il suono
. Degli allegri strumenti, e'i nodo segua.
Tur. No, non è tempp ancor. Maggior vendetta
Non posso aver, che far con apparenza
L'animo tuo sicuro, in calma, e allegro,
Per poi scagliarti inaspettatamente
Da letizia ad angoscia, {si leva in piedi) Ognun
m' ascolti.
Calaf figlio a Timur, dal Divan esci.
Questi i due nomi a me commessi sono.
Cerca altra sposa, e Turandot impara
Quanto sa penetrar, misero, e trema.
Gal. {attonito e addolorato) Oh me infelice!...
oh Dio!
Alt. {sorpreso) Dei, che mai sento!
Pant. Sangue de donna Checa, che la ne l'ha
fatta in barba, Cancellier!
Tart. Oh Berginguzinp! questa cosa mi pa$sa
l' anima.
Gal. {disperato) Tutto ho perduto. Chi mi dona
aita?
Ah, nessun può aiutarmi. Io di me stesso
Fui l' omicida, e perdo l' amor mio
Per troppo amor. Io potea pur errore
Far negli enigmi ieri; or questo capo
Tronco sarebbe, e 1' alma mia spirata
320 TURANDOT.
Non sentina più doglia in queste membra,
Peggior di morte. E tu, Altoum pietoso.
Perchè non lasciar correre la legge,
Ch'anche morir dovessi, se scoperti
Fosser dalla tua figlia quei due nomi,
Ch'or più allegra saria? (piange)
Alt. Calaf, l'a&nno
Vecchiezza opprime... L'impensato caso
Trapassa questo sen.
Tur. (basso a Zelima) Zelima, il misero
Mi fa pietà. Difender più non posso
n mio cor da costui
Zblw ( basso ) Deh ceda alfine.
Sento il popol, che freme.
Adel. (da sé) È questo il punto
O di vita, o di morte.
Càl. (vaneggiante) Un sogno parmi...
Mente, non vacillar, (furioso) Tiranna, dimmi;
A non veder morir chi sì t'adora
T* incresce forse? Io vo', che tu trionfi
Anche sulla mia vita, (furente Ravvicina al
trono di Turandot) Ecco dinanzi
Ai piedi tuoi vittima sfortunata
Quel Calaf, che conosci, e eh' abborrisd,
E eh' abborrisce il Ciel, la terra, il fato.
Che disperato, fuor di se medesmo
Spira sugli occhi tuoi, (trae un pugnale; è
per ferirsi; Turandot precipita dal trono,
e lo trattiene)
Tur. (con tenere^^a) Calaf, che fai?
ATTO QUINTO. 321^
jLrr. Che vedol
=^1ai*. ( sorpreso ) Tu impedisci, Turandotte,
Quella morte, che bramì! Tu capace
Sei d' un atto pietosol Ah, tu vuoi, barbara,
Ch' io viva senza te, che in mille angosce.
Ed in mille tormenti io resti in vita.
Di tanto almen non .esser cruda; lascia,
Ch' esca da tal miseria, e, se capace
Sei di qualche pietà, so, che in Pechino
È Timur, padre mio, privo di regno.
Perseguitato, lacero, mendico.
Invan cercai di sollevar quel misero.
Abbi di lui compassione, e lascia.
Ch'io m'involi dal mondo, {vuol uccidersi;
Turandot lo trattiene)
Tur. No, Calaf.
Viver devi per me. Tu vinta m'hai
Sappi... Zelima, a'prigionier te'n corri.
Consola il vecchio afflitto, ed il fedele
Ministro suo; la madre tua consola.
Zkl. e come volontier! (entra)
Adel. (con entusiasmo da se) Tempo è di morte;
Più speranza non c'è.
Tur. Sappi, ch'io vinsi
Per un trasporto sol. Tu palesasti
Ad Adelma, mia schiava, in non so quale
Trasporto tuo stanotte, i due proposti
Nomi, e gli seppi. U mondo tutto sappia,
Ch'io capace non son d' un' ingiustizia,
E sappi ancor, che le tue vaghe forme,
GozzL ai
322 tURANDOT.
L'aspetto tuo gentile ebbero alfine
Forza di penetrare in questo seno,
D' ammollir questo cor. Vivi e ti vanta.
Turandotte è tua sposa,
Adel. {da se con dolore) Oh estrema doglia!
Cal. ( gettando in terra il pugnale) Tu mia! te-
sciami in vita, estrema gioia.
Alt. {discend. dal trono) Figlia... mia cara figlia.
io ti perdono
Tutto il duol, che mi desti. In questo punto
Compensi al padre tuo tutte PofiFese,
Pant. Nozze, nozze. Sion Dottori, le daga Ioga
Tart. Si ritirino nella parte diretana del Divano.
(i Dottori si ritirano indietro)
Adel. (furente si fa innani[i ) Sì, vivi pur, cru-
dele, e lieto vivi
Colla nimica mia. Tu, Principessa,
Sappi, ch'io t'odio, e che gli arcani miei
Furono sol per divenir consorte
Di costui, eh' adorai, cinqu' anni Or senio,
Sin nella Corte mia* Tentai stanotte.
Fingendo favorir le tue premure.
Di fuggir seco, e ti dipinsi iniqua;
Tutto fu vano. Dalle labbra sue
Uscir per accidente que'due nomi.
. Palesandoli a te sperai per questo,
Che tu'l scacciassi, e di poter ancora
Meco a fuggir sedurlo, e farlo mio.
Troppo t'ama costui per mio tormento.
Tutto fu vano, ogni speranza è persa.
* ATTO QUINTO. 323
' Una sol via mi resta, e usar la deggio.
Dì regio sangue io nacqui^ e mi vergogno
ly esser vissuta in vii lorda catena v
Di schiavitù sin' ora. In te abborrisco
Un oggetto crudel. Tu mi togliesti
Padre, fratelli, madre, suore, regno,
E l'amante alla fin. Esca da tante
Sciagure Adelma. Togli anche; il residuo
Della mia stirpe, ed il mio sangue lavi
Viltà fin' or sofferta. ( raccoglie il pugnale di
Cala/, indi Meramente) È questo il ferro,
Che risparmiasti al sen del sposo tuo,
Perch' io mi trucidassi. Il popol miri,
Se dalla schiavitù so liberarmi, (in atto di fe^
rirsi. Calaf la trattiene)
Gal. Fermati, Adelma.
Adel. Lasciami, tiranno... {con voce piangente)
Lasciami ingrato... io vo' morir. '( 5i sfonda
d^ uccidersi. Calaf le leva il pugnale)
Gal. Non fia.
Io da te riconosco ogni mio bene.
Util fu il tradimento. Ei disperato
Mi rese si, che'l cor potei commovere
Di chi m'odiava, e ch'or mi fa felice.
Scusa un amor, che vincer non potrei.
Non mi chiamar ingrato. Ai Numi io giuro,
Che, s' altra donna amar potessi, tua
Questa destra saria.
Adel. (prorompendo in pianto) No; mi son resa
Dì quella destra indegna.
3^4 TURANDOT.
Tuiu Adelina, e quale
Furor ti prese!
Adel. a te palesi sono
Le mie sciagure. Or sappi, che mi togli
Anche un amanite, in cui sperava solo.
Per lui son traditrice, ed ei mi toglie
. Modo di vendicarti. Almen mi lascia
Nella mia libertà. Lascia, ch'io fugga
Raminga di Pechin. Non usar meco
L'ultima crudeltà, ch'io miri in braccio
Calaf di Turandot. Io ti ricordo,
Ch' un cor geloso, un' alma disperata
Tutto può, tutto tenta; e mal sicura
Ognor sei, dov' è Adelma. (piange )
Alt. ( a parte ) Io ti compiango,
Misera Principessa.
Càl. Adelma, lascia
Di tanto lagrimar. Vedi, che in grado
Son or di compensare in qualche parte
Quant'ho per tua cagion. Sposa, Altoum,
Se nulla posso in voi, quest'infelice
Principessa abbia libertade in dono.
Tur. Padre, anch'io ve lo chiedo. Io mi conosco
Oggetto agli occhi suoi troppo crudele ^
Da poter sofFerir. L'amor, l'intera
Confidanza, che in lei posi, fu vana.
L'odio chiuso tenéa. Mai non potrebbe
Turandotte ad Adelma esser amica
Più, che Signora; ella noi crederla.
Lìbera vada, e se maggior favori
ATTO QUINTO. 3^5
Puote Ottener^ padre, a Calaf mio sposo.
Ed alla figlia vostra li donate.
Alt. In sì festevol giorno non misuro
Le grazie mie. Le mie felicitadi
Vo' anch' io da lei La libertà non basti.
Abbia Adelma il suo Regno, e scelga sposo,
Che seco regni di prudenza ornato,
E non di cieca, e mal fondata audacia.
Adbl. Signor... troppo confusa da' rimorsi .. .
Oppressa dall'amor... de' benefizi
n peso non conosco. Il tempo forse
Rischiarerà la mente... Or sol di pianto
Capace son, né raffrenar lo posso.
Gal. Padre, in Pechin tu sei? Dove poss'io
Ritrovarti, abbracciarti, e d'allegrezza
Colmarti '1 sen?
Tur. Presso di ine è tuo padre;
A quest'ora gioisce. In faccia al mondo
Non obbligarmi a palesar le mie
' Stravaganti opre; che di me medesma
Meco arrossisco. Già tutto saprai.
Alt. Timur presso di te! Calaf t'allegra.
Quest^ Impero è già tuo. Timur gioisca.
Libero e '1 Regno suo. Sappi, che'l crudo
Sultano di Carizmo, mal sofferto
Per le sue tirannie, da' tuoi vassalli
Fu trucidato. Un tuo fido Ministro
Tien per te'l scettro, ed a' Monarchi invia
Secretamente lumi e contrassegni
Di te, del padre tuo, chiamando al trono
jaÓ , .TURANDOT. . ,
Unno, o l'altro, se viveu In questo foglio
Leggi, che tronche son le sue sventure. ( ffH
dà un foglio )
Gal. ( osservato il foglio ) O Dei celesti, puote
esser mai questo!
Turaadotte... Signor... Ma a che mi volgo
A' mortali in trasporto? I miei trasporti
Sieno a voi, Numi; a voi le mani innalzo.
Voi benedico, e a voi chiedo sventure
Maggiori ancor delle sofferte, a voi,
A voi, che contr'ogni pensiero umano
Tutto cambiate, umil perdono io chiedo
De' miei lamenti, e, se talor la doglia
Questa vita mortai disperar fece
D' una provvida mano onnipossente,
A voi chiedo perdono, e l'error piango.
( Tutti gli astanti saran commossi^ e piath^
geranno )
Tur. Nessun funesti più le nozze mie.
( in atto riflessivo) Calaf per amor mio la vita
arrischia.
Un Ministro fedel morte non cun^
Per far felice il suo Signor. Un altro
Ministro, ch'esser puote Re, riserva
Pel suo Monarca il trono. Un vecchio oppresso
• Vidi' pel figlio apparecchiarsi a morte;
Ed una donna, che qui meco tenni
Amica più, che serva, mi tradisce.
Ciel, d'un abborrimento si ostinato.
Che al sesso mascolino ebbi sin' ora
ATTO QUINTO.
327
Delle mie crudeltà, perdon ti chiedo.
( si fa innanzi ) Sappia questo gentil popol dei
' maschi,
Ch'io gli amo tutti. Al pentimento mio
Deh qualche segno di perdon si faccia.
LA DONNA SERPENTE
FIABA TEATRALE TRAGICOMICA
IN TRE ATTI
PERSONAGGI
FARRUSCAD, Re di Teflis.
CHERESTANÌ, Fata, Regina di Eldorado, sua sposa.
CANZADE, sorella di Farruscad, guerriera, amante di
TOGRUL, Visir, ministro fedele.
BADUR, altro ministro traditore;
REZIA ì &nciulli, figliuoli genoelli di Farrtiscad e di
BmREDINO i CheresunJ.
SMERALDINA, damigella di Canzade, guerriera.
PANTALONE, Aio di Farruscad.
TRUFFALDINO, cacciatore di Farruscad.
TARTAGLIA, basso ministro. '
BRIGHELLA, servitore di Togrul, Visir.
FARZANA ] „
ZEMINA r^^^-
UN GIGANTE.
SOLDATI e DAMIGELLE, che non parlano.
Diverse voci di persone, che non si vedono.
^ La scena è parte m un ignoto deserto, parte nella Qttà
di Teflis, e nelle sue vicinanze.
ATTO PRIMO
Bosco corto
SCENA PRIMA.
Farzana e Zemina, Fate.
Zem. l!tìlK§^ {con mestica)
ARZANA, dì, e non piangi?
Farz. e di che piangere»
«Cara Zemina?
Zem. Ah ti scordasti, amica,
Quando Cberestanì, l'amabil Fata,
. Figlia di Abdelazin, Re di Eldorado,
Uomo a morte soggetto, e della vaga
Fata Zebdon, Cherestani, diletta
Nostra compagna, a Farruscad amante,
Uomo mortai, volle esser sposa, e volle,
D^ immortai, come noi, chieder natura
Mortai, come il suo sposo? e che'l Re nostro,
Demogorgon, collerico le disse.
Che desistesse, ma che...
Farz. Si, Zemina,
33* * LA "DONNA SERPENTE.
So, che giurò Demogorgon, che, s'ella
Passa il canicolar secondo giorno,
Sin che tramonta il sol, del corrente anno^
Senz' esser, maladetta dal suo sposo,
Che mortai diverrà, come il marito,
Poich'ella così vuole.
Zbm. Oh Dio! dimani
AUo spuntar del sole il dì comincia
Fatai per noi. Perdiam Cherestani
Di cinque lustri appena in sul bel fiore.
La più amabile Fata, la più cara,
, La più bella fra noi. Perdiam, Farzana,
Il più bel fregio del congresso nostro.
Quanto è amabil, tu'l saL
Farz. Non ti ricorda^
Quante Demogorgone opre in dimani
Vuol che Cherestani crude e inaudite
In apparenza a Farruscad suo faccia?
Che condannata l'ha a tener occulto
L' esser suo per ott' anni, e '1 fatai giórno^
E a non scoprir dell'opre sue gli arcani?
Credimi pure: no, diman non passa,
Che sarà maladetta dal suo sposo.
Che rimarrà nostra compagna.
Zem. Ma
Tu sai, che Farruscad deve giurare
Di non mai maladirla, e poi spergiuro
Dee maladirla, e allor Fata rimane.
Farz. E bene, ei giurerà; sarà spergiuro,
E la maladirà; nostra ella fia.
ATTO PRIMO. 333
Zem. Non giurerà.
Farz. Si giurerà.
Zem. Se giura,
Manterrà '1 giuramento.
Farz. No, Zemina,
Ei la maledirà. Fia nostra.
Zem. Cruda I
Né ti sowien dell'orrida condanna,
Alla cjual per due secoli è ristretta?
Che cambierà la sua bella presenza
In schifo, abbominevole serpente.
Se lo sposo in diman la maledice?
Farz. Ben lo so, ma che importa? Della folle
Richiesta sua pagar dee qualche pena.
I dugent'anni passeranno, e intanto
Morrassi il temerario sposo suo,
E, passati due secoli, averemo
Cherestanì compagna nostra ancora.
Zem. PuoUa lo sposo suo dalla condanna
Sciogliere ancor, come t'è noto, e allora
Fatta è mortale, e noi Pabbiam perduta.
Farz. Sogni son questi: ei lascierà la vita.
A me commessa è l' opra. A me la guardia
Della nostra compagna condannata
È commessa, e commessa è a me in dimani
La morte del suo sposo, onde^l periglio.
Ch'ella mortai divenga, in lui finisca.
Zem. Ma di Geonca il Negromante, amico
Di Farruscad, non temi?
Farz. No, non temo.
334 L^ DOKNÀ SERPENTE,
Andiam; che non è onesto il recar tedio
Al mondo aspettator d' opre inaudite,
E soprattutto, con gli arcani nostri
Convien non recar noia a chi ci ascolta.
Poiché d'essi'l miglior saria perduto.
Zem. Oh Ciel, pria d'annoiar chi èT nostro bene.
Con Farruscad Cherestanì perisca, (entrano)
SCENA SECONDA.
Cambiasi la scena, che rappresenterà un orrido deserto eoo
varie rupi nel fondo, e vari sassi sparsi, atti a servir di
sedili
Truffaldino e Brighèlla.
Questi due personaggi escono insieme abbraccian-
dosi. Brig, Ha trovato in quel punto Truffal-
dino; è desideroso di sapere, come Truffaldino
sia in quel deserto, e nuove del Principe Far-
ruscad. Truff, Si pianta, com'uno, che narra
una Fola ad un fanciullo, usando spesso la for-
mula: e ciist, sior mio henedetto^ ec. Narra,
che nel tal anno (accenna un millesimo, che
venga a formare il termine in quel punto
degli otf anni, accennati dalle due Fate) alli
dodici del mese di Aprile, come Brighella
sa, uscirono dalla Città di Teflis il Principe
Farruscad, Pantalone, suo Aio, egli, e molti
cacciatori per andar a caccia. Che giunti in un
bosco, lontano dalla Città, trovarono una cerva
ATTO PRIMO. 335
bianca come k neve, tutta fornita di cordelle
d' oro, di fiori, di gioie al collo, anella alle zampe,
diamanti sul tuppè, ,ec. La più bella cosa... la
più bella cosa, che si possa vedere con due oc^
chi^ ec. Che'l Principe Farruscad s'innamorò di
quella perdutamente, e la seguì. Pantalone correva
dietro al Principe, egli dietro a Pantalone e corri^
e corrij e cammina^ e cammina, ec. Che la cerva
giunse sulla riva d' un fiume ; che '1 Principe le
era appresso, e tutti erano lì lì lì per pigliarla
per la coda, quando la cerva spiccò un salto, si
scagliò nel fiume, e non si vide più. Brig. Che
si sarà annegata. Truff. No, che non interrompa
una narrativa di somma importanza. E così, sior
mio benedetto, ec. il Principe smanioso, innamo-
rato della cerva, e disperato, fece pescare tutto 'l
giorno per trovarla viva o morta. E pesca, e pe^
sca, e pesca, ec. e invano. Quando ... Oh mara-
viglia I Si sentì una voce dolcissima uscir dal fiume,
chiamare, e dire: Farruscad, seguimi. Che'l Prin-
cipe invasato non si potè più trattenere, ma col
capo in giù si gettò nel fiume. Pantalone dispe-
rato con la barba in mano si gettò dietro al pa-
drone : egli voleva gettarsi dietro a Pantalone, ma
che'l timore di bagnarsi lo trattenne. Che guar-
dando nel fiume vide poi nel fondo una mensa
imbandita di vivande, e che la fedeltà al suo pa-
drone l'indusse a gettarsi nel precipizio. Oh ma-
ravigliai trovò nel fondo non più Isf mensa, ma
la cerva cambiata in una Principessa con un se-
338 LA DONNA SERPENTE
nuova del figliuolo, era morto. Che Morgone,
brutto Re Moro, gigante, pretendeva per moglie
Can^ade, Principessa, sorella di Farruscad, e la
corona, e che aveva assalito il regno, e assediata
la città di Teflis. Che Togrul, Visir, amante di
Canzade, era andato alla grotta di Geonca Negro-
mante, per aver . notizia del Principe Farruscad in
tal calamità. Che Geonca gli aveva detto, che si
portasse sul monte Olimpo, dove troverebbe un
baco, e che, discendendo per quel buco, trove-
rebbe il Principe. Che aveva dati a Togrul dei
secreti, tra gli altri, perchè '1 viaggio di quel buco
era lungo, e non troverebbe cibo, ne bevanda, gli
aveva dato un cerotto,, che posto sulla bocca delio
stomaco, teneva sazi, e senza sete gli uomini per
due mesi. Che Togrul, Tartaglia ed egli con
quel cerotto sulla bocca dello stomaco, giunti sul-
r Olimpo, trovato il buco, discesero con de' torchi
accesi; che avevano fatti quaranta milioni, sette-
mila, dugento e' quattro scaglioni, e ch'erano
giunti in quel deserto. Truff. Stupisce. Chiede^
dove sieno Togrul e Tartaglia. Brig, Che gli
aveva lasciati sotto un albero a riposare poco di-
scosti. Chiede, dove sieno il Principe e Pantalone.
Truff, Che sono raminghi pel deserto, perchè T
Principe smanioso cerca sempre la Principessa;
che tuttavia verso la sera si riducono in quel re-
cinto per cenare e riposare. Brig. Qual cosa si
mangi, e come si dorma in quel deserto, dove non
vede, che pietre e bronchi. Truff, Che si dorme
« ATTO PRIMO. 339
sotto alcuni padiglioni appariti dopo lo sparire
del bellissimo palagio, e si mangia benissimo,
cibi, che appariscono in apparecchio ad una sola
dimanda, né si vede da chi. Brig. Stupisce;
sente, che '1 cerotto, che ha sullo stomaco,, perde
- la facoltà. I due mesi della sua virtù spirano.
Egli è languido, non resiste più. Truff. Che
lo segua, e non dubiti, ec. Brig, Che bisogna
anche soccorrer Togrul, e Tartaglia. Truff, Che
sarà fatto, che lo segua, che gli narrerà .del-
l'altre* maraviglie. E custj sior mio benedetto, ec,
( in atto di seguitar de^ racconti entrano )
r
SCENA TERZA.
Farruscad e Pantalonb.
Far. {uscendo inquieto) Vani sono i miei passi.
Dunque, amico.
Più non degg'io veder Cherestanì,
La dolce sposa mia?
Pant. Mi no go più testa; el cervello me boge.
Cara Altezza, a tor suso, ste solane tutto el
dì, chiaparemo una rescaldazion de rene, un
mal maligno, le petecchie. Qua no gavemo
miedeghi, ne spezieri, ne ceruseghi. Moriremo,
come le bestie. Caro fio, caro fio, desmente-
^heve sta sorte de amori.
Far. Come poss'io dimenticarmi, amico.
Tanto amor, tanta tenerezza, tante
«340 LA DONNA SERPENTE,
Beneficrenze e spasmi? Ah, caro servo.
Tutto ho perduto; io non avrò più pace.
Pant. Mo tenerezze, amori, spasemi, sospiri de
chi? de chi?
Far. D'un' alma grande, generosa, altera,
Della più bella Principessa, e cara,
Che '1 sol vedesse, da che '1 mondo Irraggia.
Pant. D' una striga maledetta, che tol la fegura,
che la voi, co ghe piase; che deve aver quat-
tro, o cinquecent' anni sulle taverneile. Oh
anello incanta de Angelica, dove xestu? Ti,
che ti ha scoverto ai occhi de Ruggiero, che
le bellezze de Alcina gera tante deformità, ti
averessi pur guario anca sto povero putto,
scoverzendoghe la Redodese in sta siora Che-
restanì.
Far. (in trasporto da una parte) Belle chiome,
ove siete? io v'ho perdute.
Pant. ( dal P altra parte dopo averlo udito) Zucca
pelada maledetta, con quattro cavelli canai
sulla coppa, e forsi con della tegna, scoverzite
per carità.
Far. ( come sopra ) Occhi, stelle brillanti ; ahi dove
^ete?
Pant. ( come sopra ) Occhi infossai, come quelli
del cavallo del Gonella, pieni de sgargagì, co-
pai, lasseve veder. ,
Far. Bocca, rubini ardenti, bianche perle,
Più non vi rivedrò! chi mi v'ha tolto?
Pant. Zenzìve paonazze, con quattro schienze
ATTd PRIMO. / 341
marze; lavri scaffai, bocca de seppa col negro,
• in to tanta malora lassete veder.
Far- Guance di rose, e gigli, ahi chi v' invola 1
Pant. Ganasse de baccalà, barambagole rapàe, saltè
fiiorà, come se, e guarì sto putto da sta de-
sgrazia, da sta fissazion.
Far. Ah delizioso sen della mia sposa,
Latte rappreso, ove ti sei nascosto!
Pant. O borse de camozza sporca, braghesse de
soatto de luganegher, paleseve, come ve vedo
mi coi occhi della mente, e fé dar una gomi-
tàdina a sto povero striga, {a Farruscad) Al-'
tezza, care viscere, no la se recorda Jia brutta
burla fatta dalla striga Dilnovaz al Re de
Tebet?
Far. Qual burla mai? che mai vorrete dirmi?
Pant. Schienzel La striga Dilnovaz, che aveva
tresento anni, per virtù de una vera incantada,
che la aveva in tei deo menuello, s' ha cambia
in tela fegura della Regina, muger del Re de
Tebet, che gera una zogietta de vint' anni, e
la ha buo tanta forza de scazzar dal letto real
la vera muger, come una impostore, e de restar
ella Regina. Alle quante la vustu? Siccome sta
striga gera una squartada de prima riga, el Re
r ha trovada un zorno in un certo atto', che
no ga piasso, con un... che sogio mi?... da*
casa del diavolo. Noi s' ha podesto tegnir, e el
ga lassa andar una sablada. La sorte ha fatto,
che el ga tagià el deo menuello, dove la ga-
342 LA DONNA SERPENTE.
Veva el servizio incanta, causa della orbarìola;
mo sì, da bon servitor, che ei se l'ha vista a
restar una carampia senza un dente in bocca,
con tanti de peli sulla barba, e tante grespe«
che la pareva un cento pezzi de manzo. Questi
xe fatti de verità, Altezza, no le xe miga fiabe
da contar ai puttelli. El povero Re ha buo pò
de grazia de cercar so muger che poveretta
la andava cercando la lemosina con quelle pa-
. role famose:
Io son moglie di Re, pur non son quella.
Son Principessa, e pur non son chi sono.
V A vu canella. Ghe scometteria mi, che Chere-
stanì xe un' altra striga, come Dilnovaz, Qh
chi avesse podesto trovarghe la veretta incan-
tada, so ben mi.
Far. Eh, non mi dite più. Come può darsi,
Che vecchia sia Cherestanì, mia sposa,
S'ella mi fu feconda di due figli?
Figli perduti, anime mie, mio sangue 1 (piange)
Pant. Certo che quelli m'ha porta via el cuor
anca a mi. I giera i più cari cocoli, el mio
solo devertimento. Quel pultello, quel Bedre-
din, aveva una vivacità, una prontezza de spi-
rilo, oè da farghene un capital grande. Quella
puttella pò, quella Rezia, cara culla, la gera
la gfan cara cossa: me par de vedermeli sem-
pre intorno a zogatolar, e de sentirne a chia-
ATTO PRIMO. 343
mar nono. No bisognarla, che ghe pensasse,
perchè me sento a spezzar le viscere ; {piange )
ma, Altezza, qua bisogna darse pase e corag-
gio. Finalmente, fioi. d'una striga certo. Biso-
gna, che la gabbia el cuor con tanto de pelo
a destaccàr con quella furia dal sen paterno
l'unica consolazion, el proprio sangue.
Far. Ah, Pantalone! io fui di me medesmo
Il traditor. Disubbidii la moglie.
Avea proibizion di non cercare
Mai, chi ella fosse, insino a un certo punto
Determinato. Di saperlo prima
Tentai del tempo. Fui disubbidiente
La curiosità mia maledico.
Pant. Vardè che misfatti! No s'ha da saver più
gnanca, chi sia la propria muger? Sta proibi-
zion, a dirghela, m'ha fatto sempre. spezie, come
m' ha fatto sempre stomego sto matrimonio.
Figurarse, tor per muger una cerva! Xèla se-
guro, che un di, o l'altro no la lo fazza de-
ventar un cervo anca ella? Da galantomo me
trema sempre el cuor de vederghe a spontar i
corni. Vorla, che diga? Ringraziemo el Ciel
de esserse sbrigai de sta striga. Mettemose in
viazo. Qualche buso ghe sarà da andar fuora
de sto inferno. Andemo a trovar el povero
vecchio Atalmuc, so pare. Chi sa, quanti pianti
che l'ha fatto per ella! Chi sa, se el xe più
vivo! povero infelice! Chi sa, se ghe xe più
Regno! La sa, quanto nemigo ghe gera quel
344 J-^ DONNA SERPENTE.
barbaro moro, el Re Morgon, pretendente la
Prencipessa Canzade, so sorella. La restarà un
Re senza regno, un pitocco, un pezzente in
vita sua, mario d' una striga, d' un diavolo, del-
l' orco, d' una saetta, che la possa scoar via.
Far. Tacete, Pantalone. Io morrò, prima
D'abbandonar' queste contrade, il giuro.
Sognai già di veder l'amata sposa;
Parmi d'averla innanzi. Umil perdono
Chiedo al padre, se vive, e, s'egli è morto,
Perdon gli chiedo ancor. Ramingo sempre
Andrò per questi boschi ognor chiamando
Cherestanì, mia sposa. Rezia amata,
Bedredin, caro figlio, e figli, e ^posa. (entra
con un atto di disper asciane)
Pant. Oh povero Pantalon ! Mo la vada, dove che
la voi, che per adesso mi no go più fià de
seguitarla.
SCENA QUARTA.
ToGRUL, Tartaglia e Pamtalohe.
Tart. (uscendo dal fondo^ vedendo Pantalone^
con trasporto di aiiegre^^a)
Signor Togrul, Togrul, Signor Visir.
ToGR. (uscendo) Che c'è Tartaglia?
Tart. Pantalone, Pantalone, non lo vedete?
ToGR. E sarà ciò possibile!
O Cielo ! ti ringrazio ... Ti ringrazio.
Tartaglia, abbiam trovato Farruscad.
]
ATTO PRIMO. 345
Pant. (vedendoli in lontano) Togrul...
Tarta... m' ingosso . . . ogio forsi le vertigini?
Tart. (correndo) O caro Pantalone mio.
ToGR. (abbracciandolo) Oh caro amico, quanto mi
soUieva il ritrovarti!
Pant. La scusa... Tartagia, scuse... Spn ingroppa
el cuor... Oimè... (in atto di deliquio, Tar--
taglia lo sostiene)
Tart. Signor Togrul, il vecchio crepa, e ancora
non ci ha detto, dove sia il Principe. Panta-
lone, narraci, dov' è '1 Principe Farruscad, e poi
mori in pace.
ToGR. Amico, Pantalone.
Pant. ( rinvenendo ) Sior Visir, come mai capita
in sto deserto?
ToGR. La storia è lunga. Prima, deh, mi dite,
Dove sia Farruscad, il mio Sovrano,
Che più tempo non è di perder tempo.
Pant. El xe qua vivo, e san ; ma pef'so, ma impe-
tolà insin ai occhi in tuna desgrazia grande.
Cosse grande, ma grande ; ghe dirò tutto. Come
mai mo ella xela arriva in sto logo fora del
mondo?
ToGR. Qui venni coli' aiuto di Geonca,
n Negromante amico, con Tartaglia,
E Brighella, mio servo. Assai segreti
Mi die Geonca per cavar da questo
LuogQ ignoto il mio Re. Dove s'attrova?
Pant. Eh i sarà secreti per i calli, ma no per ca-
var el Prencipe da sta miseria. Aseo! ghe voi
34^ I^ DONNA SERPENTE.
altro. Sé la crede, che sia da cavar un ravano,
la se inganna.
Tart. Mo dì, dov'è, dov'è, vecchio flemmatico,
non ci seccare.
ToGR. Ogni momento perso. Pantalone,
E della più crudele conseguenza.
Pant. Naturalmente el sarà poco lontan: el fa
qualche ziro, e pò el toma a mea; ma pre-
ghiere, né lagreme no lo cava de qua certo.
Co la dise pò, che la ga sti gran secreti, xe
megio, che se scondemo, che noi ne veda. Bi-
sognerà consegiar, pensar, stabilir. Qua no ghe
posso dir tutto; i arcani xe grandi. Ale biso-
gno de restoro?
Tart. Ma veramente sì, perchè '1 cerotto perde la
sua virtù, e mi sento languido, languido.
Pant. Che cerotto?
Togr. Eh nulla. Andiamo, Pantalone, andiamo.
(entra)
Pant. La se rctira drio quell' arzere, che son con
ella. Dixè, Tartagia; no alo dito che ghe xe
anca Brighella qua? dove xello?
Tart. Sì <:erto; sarà qui d'intorno.
Pant. Mo i totani! Se el Prencipe lo vede, la. for-
tagia xe fatta. Che secreti ga el Visir, caro
fradello?
Tart. Oh son belli ve; senti (gli parla al-
V orecchio )
Pant. Minchionazzi l Sior si che se poi sperar.
Fe'una cossa. Scondeve in qualche logo qua
ATTO PRIMO. 347
intorno. Se vede el Prencipe, no ve lasse ve-
der. Se vede Brighella, per carità, se mai podè,
feghe de moto, che noi se lassa veder, e che
noi diga gnente, e pò vegriì drio a quell' ar-
zere. Oh el cielo vogia, che el Prencipe no
l'abbia visto, e che podemo cavarlo da sta mi-
seria. ( entra )
*Tart. Ei, ei, Pantalone; e mangiare? Oh bella!
mi lasciano qui col cerotto sullo stomaco. Que-
sto aveva la virtù di tener sazi due mesi. Sono
passati cinquantanove giorni, e cinque ore; per
poche ore potrò ancora resistere, ma poi ca-
scherò morto. Bella virtù è però quella di
questo cerotto! A quante povere genti sarebbe
necessario! I Padri giugnerebbero col cerotto
in scarsella, troverebbero le loro famiglie af-
famate a piangere, e taffete, un pezzo di ce-
rotto sullo stomaco a tutti; rimedierebbero a
quella miseria, in cui sono abbandonati. A quanti
Comici, a quanti Poeti sarebbe una manna! Oh
seU Masgomieri avesse questo cerotto, farebbe
certo più fortuna, che col suo balsamo greco,
e col suo taccomacco del Cavalier Burri per
le sciatiche, e per l' inappetenza, e l' indige-
stione. Qui bisogna nascondersi per non essere
scoperto ; ma io mi sento venire una fame xhe
divorerei un bue. {si nasconde)
348 LA DONNA SERPkNTE.
SCENA QUINTA.
Farruscad, Tartaglia nascosto, e una voce di donna*
Far. (uscendo smanioso) Ah invan la cerco, in-
vano ansante corro
Pel deserto dolent^e, che la troppo
Sdegnata mia Cherestanì crudele
Sorda è al dolor, che mi distrugge il core.
Io fili disubbidiente; ma ti chiedo
Umil perdon. Cherestanì, mia sposa...
Cherestanì... per un momento solo
Lasciati riveder. Lascia, che un bacio
Agli amati miei figli ancora imprima.
Toglimi poi la vita, io mi contento.
Tart. (da sé indietro) Quello è il Principe Far-
ruscad:.. è lui senza dubbio. Uh che alle-
grezza!... Io non mi posso ^trattenere... Vo-
glio abbracciarlo, (fa qualche passo con tra-
sporto, poi si ferma) Ma, Tartaglia, che fid?
Crepa per V amore, ma non alterare gli ordini,
che ti furono dati, (si nasconde di nuovo. Qui
apparirà una picciola mensa imbandita di vi--
vande)
Far. (osservando la mensa) No, che cibo non
prendo. Io vo' morire
D' media, e di dolor. Qual tirannìa
È questa, di voler, che in vita io resti,
Perch'io mora d' angoscia ogni momento,
E non morendo mille morti io sofira?
ATTO PRIMO. 349
Tart (in dietro) Quella mensa non c'era. Chi
r ha portata? mi sento, morire di fkme. Se po-
tessi di nascosto prendere qualche cibo, {si
va avvicinando con timore alla mensa di na^
scosto)
( Una voce di dentro) Farruscad, cibo prendi, e
ti nodrisci.
Tart. (spaventato) Che voce è questa ! Dove dia-
volo m'hanno lasciato? (corre a nascondersi
dalV altra parte )
Far. Voce, tu non sei già della consorte.
Voce crudele, ho di morir risolto,
Se i figli miei, se la mia sposa amata
Più non deggìo veder.
,VocE. . No, non morrai.
Disubbidiente, impara, quanto costi
Il trasgredir della tua sposa i cenni.
Tart. ( di nuovo s' avvicina di nascosto alla mensa
per prendere qualche cibo. La mensa sparisce.
Tartaglia spaventato fugge a nascondersi
dall' altra parte)
Far. (alla voce) Dimmi, che far degg'io per porre
in calma
Cherestanì, che offesi ? Io farò tutto, (fa pausa
per udire la voce^ che non risponde; egli
segue)
Tu non rispondi 1 Dimmi almeno, . dimmi.
Se mai non vedrò più la dolce sposa,
Se abbraccierò i miei figli, il sangue mio? (fa
pausa, e come sopra)
350 LA DONNA SERPENTE.
Ah più non mi risponde! indegno sono.
Abbandonato, disperato, solo
Qui senz' alcun compagno, ognun mi lascia^
Ed i ministri miei tra i cibi, e '1 vino
Allegri goderan. Sol Farruscad
Inquieto, rabbioso, in mille angosce
Si flagella, si strugge... Ah, ingiusto sono
A condannar chi passion non sente.
Io solo vo' perir, cibi non voglio.
Sien questi sassi letto alle mie membra
Ornai stanche, languenti, e presso a morte.
(siede sopra un sasso, e appoggia il viso
ad una mano in atto di dormire, e s^ ad-
dor menta)
Tart. ( esce in dietro ) Mi gira il capo, come una
ruota di fochi artifiziali. Ho vedute, e udite
le gran cose ! Mi sembra, che '1 Principe dorma.
SCENA SESTA.
TRUFFALDiifo e Brighbjlla con vari cibi, e Tartaglia.
Truff. Si fa sentir di dentro con voce alta, chie-
dendo a Brighella, dove sieno Togrul, e Tar-
taglia. Tart. Disperato fa cenni a quella parte,
che si deva tacere, e passar per il fondo del
Teatro in dietro. E^scono Truflfaldino e Bri-
ghella. Brig. Mostra a Truffaldino Tartaglia.
Truff. Allegro alza la voce. Tart Si dispera.
Mostra il Principe, che dorme. Si guardano
ATTO PRIMO. 351
r un r altro incantati, e dopo breve scena di
lazzi muti, di monosillabi, e di stupori, ridi-
cola, entrano tutti tre per mangiare.
SCENA SKTTIMA.
Pantalone e Farruscad. Pantalone uscirà sen^a la sO'
lita sua maschera, ma ingombrato il viso da gran basette,
e gran barba bianca. Sotto questa avrà nascosta la con-
sueta sua barba. Abbia una gran mitra sacerdotale. Sotto a
questa sia nascosta la sua maschera di Pantalone^ a tale
che possa cadérgli sul viso allo sparir della mitra. Abbia
una veste sacerdotale; sotto a questa la sua sottana, e le
brache da Pantalone, Sia accomodato in modo, che possa
trasformarsi dalla figura di sacerdote in quella di Panta-
talone. Si avverte, che *l Pantalone accomodato da sacer-
dote non dovrà avere nessun segno, per cui gli spettatori
possano riconoscerlo. Dovrà egli accompagnar con gesti
proporzionati ciò^ che un altro di dentro dirà per lui, sino
al punto della trasformazione^ e'I gesto dovrà esser grave,
e decente ad un vecchio sacerdote,
Pant. ( uscendo in dietro accompagnando col ge-
sto la voce^ che parlerà per lui )
Farruscad, ti risveglia.
Far. (levandosi) Oimè! quaL voce
È questa mai?
Pant. È di Checsaia voce.
Del sacerdote solitario, a cui
Dona il Cielo alti lumi, e grazia somma
Di veder tutto, di s'occorrer quelli.
Che ubbidiscon al Ciel, non all' inferno.
Far. Checsaia, al Ciel diletto! Io ben conosco,
Che sei Checsaia in questa parte giunto
35^ ' • ^A DONNA SERPENTE.
Per mio soccorso. Dimmi, sacerdote,
Che tutto vedi. Per pietà m'insegna^
Dove sieno i miei figli, ove s'asconda
Cherestanì, la mia compagna.
Pant. Taci,
Empio, non nominar chi è in odio al Cielo,
D' un' abborribii sozza maga il nome:
10 vengo a liberarti; sì, qui vengo
A trarti dalle man d'una novella
Circe barbara, iniqua. Ah quanto!... ah quanto
Dovrai patir, stolto garzon, che cieco
A lei ti desti in preda, a ripurgare
La colpa tua d'esserti a lei congiunto!
Far. Come! Checsaia... Che mai narri!... No,
Non è possibil quanto narri...
Pant. Taci,
Belva, e non uomo. Sappi, che imminente
È la sciagura tua. Tutte le fiere,
E gli alberi, che vedi, e i duri sassi,
Che miri in questa erema valle, furo
Uomini, come tu. L' ingorda maga,
Lasciva, infame, poiché amanti gli ebbe,
Che saziate ha l' avide sue brame,
L'un dopo l'altro in fiera, in pianta, in sasso
Gli ha trasformati, e gemono rinchiusL
Far. (spaventato) Oh Dio! che sento mai!
Pant. (conte sopra) Ti scuoti, folle.
11 tuo destino in poco d'ora è questo.
La forma d'uomo in spaventevol drago
Sarà cambiata, e fuor dagli occhi fiamme,
ATTO PRIMO. 353
E dall' orrida bocca schifa bava
Velenosa spargendo, e strascinando
Squamoso ventre, sucido e deforme,
Andrai per il deserto, inaridendo,
Ovunque passerai, l'erbe e'I terreno.
Con urla orrende, e a te stesso spavento
Invan ti lagnerai di tua sventura.
Far. (più spaventato) Misero! che far deggio?
Pant. ( come sopra ) Seguitarmi
Dei senz' alcun ritardo.
Far. Oimè! Checsaia,
Deggio lasciare i figli miei perduti?
No, non ho cor.
Pant. (come sopra) Vergognati. Mi segui.
Perdi ornai la memoria di tai figli,
Figli di sozzo amor, figli d' abisso.
Dammi la destra tua.
Far. Si, sacro lume,
Ti seguirò; ma quì'l mio cor rimane...
Mi raccomando a te. (porge la mano al Sa*
cerdofe^ il quale si trasforma rimanendo
nella figura di Pantalone, che sew^awe"
dersi di essersi trasformato segue con la
propria sua voce)
Pant. Cosi mi piaci.
Ubbidiente, Farruscad, ti mostra.
Saggi riflessi, e salutar bevanda.
Che di Cherestani scordar ti faccia
E de' tuoi figli, abbominevol frutti,
Non mancheranno a me.
GOZZL , 23
354 ^^ DONNA SERPENTE.
Far. (dopo gesti di sorpresa sulla trasforma
^ione)
G>nie! Che vedo! (s^ allontana alquanto-
da sé)
Chi Checsaia mi parve è Pantalone?
Pant. (segue^ come sopra) Che! stolto, ti pentisti?
Far. Temerario,
Col tuo Signor tanto osi? Di qua parti,
Levamiti dinanzi, audace, indegno.
PkìiT.X guardandosi intomo) Oimè! Oimè! Ah,
che rho dito, che co i bei secreti no Io de-
spettolevimo più da sta striga scarabazza. {en-
tra fuggendo)
Far. ( in trasporto ) Cherestanì, tu m' ami ancora.
e vuoi.
Ch'io qui t'attenda... Ma che vidi mai!
Qual meraviglia!
SCENA OTTAVA.
TooRUL e Farruscad. Togrul uscirà trasformato in un
vecchio Re, vestito riccamente, e in figura di Atalmuc,
padre di Farruscad. Una voce di dentro parlerà per 7b-
grul; egli V accompagnerà congesti sino al punto della
tras/ormas^hne, che dovrà seguire. Si segua V ordine della
scena precedente, Togrul uscirà dalla parte opposta a
quella, dov* è entrato Pantalone.
ToGR. È maraviglia, si.
Questa esecranda maga ha tanta^ forza
Da render vano ogni pietoso uffizio.
ATTO PRIMO. 355
E sin di far cambiare i Sacerdoti
In ministri sospetti. Io tutto vidL
(Farruscad vedendo la figura del Padre
rimarrà estatico, ed immobile. Togrul si
avarv(aj e segue)
A me nulla è nascosto. Sappi, figlio,
Che colui, che a te parve Pantalone,
Checsaia è, il Sacerdote. Non t'abbagli
Il cambiamento suo, la fuga sua.
Ch'opra della tua maga è quanto apparve.
Far. (confuso) Padre... Mio genitor... come voi
qui...
Come in questo deserto!... Ah, caro padre...
( corre per abbracciar h )
ToGR. Scostati. Io fui tuo padre, or di tuo padre
Sono lo spirto, ed impalpabii ombra.
( con voce piangente ) Tale m' ha reso il duol
d'aver perduto
Miseramente un figlio. Ott'anni piansi,
Ed alle angosce mie cessero alfine
Le stanche membra, or muto in breve fossa
Cener freddo ridotte. È tua l'impresa.
Far. Ah, caro genitore. Io dunque fui
Morte del padre mio! Cielo, che sento! (piange)
Qual vi rivedo qui! Fu la più bella
Donna, ch'unqua mortale occhio vedesse, »
Che qui mi tenne. Ella è consorte mia.
Due figli ebbi di lei. Padre, tre giorni
Son, che disparve, e...
ToGR. Non mi dir più oltre.
356 LA DONNA SERPENTE.
Abborrirti dovrei. Cherestanì,
Lorda maga, ti tenne. In cerva apparve,
E tu folle... arrossisco a dire il resto
Di quanto è a me palese... inorridisco.
Se del tuo genitor dramma, scintilla
Di rispetto,, e d' amor più senti al core,
Segui almen T ombra sua, dirigi i passi
Dietro alla traccia mia; staccati, figlio,
Da questo asilo d'ogni scelleraggine.
Di bruttura, e di vizio.
Far. Padre mio...
Quanto sento dolor d' aver perduto
Un padre, come voi! Se v'adorai,
Se rispettar so l'ombra vostra, è questo
Il segno, ch'io vi dò. Dove a voi piace,
.Pien di rimorsi, di dolor, confuso,
Seguirò '1 padre mio. Cherestanì,
Rimanti. Oh Dio! qual forza a Famiscad
È necessaria, il sai.
ToGR. Figlio» ti lodo.
Io ti precederà; segui i miei passi, {è per in-
viarsi, nasce la trasforntas[ione di Atalmuc
in Togrul)
Far. {attonito) Togrul, Visir! in questo loco! in
forma
Del padre mio!
Togr. {con la propria voce, altero) Principe,
troppa forza
Ha questa maga, e indarno opre fedeli
Uso, e sento dolore estremo invano.
ATTO PRIMO. 357
Far. Qual stravaganza, e qual temeritade !
ToGR. {con ffrande^^a) Sieno le stravaganze di
chi sono.
QuJ con l'aiuto di Geonca venni,
L'amico Negromante, e sperai trarvi
Dalla miseria vostra. Ah, ben mi disse.
Che inyan m' affannerei. Ma, se fur vane
Le virtù di Geonca, alfin vi mova
La verità, eh' io son per dirvi. Morto
È l'infelice padre vostro. Il regno
Dal Re moro, Morgone, inesorabile,
E assalito, distrutto. Le campagne.
Gli alberghi, i Tempi sacri saccheggiati
Sono, e scorre per tutto il ferro, e'I foco.
Stupri, pianti, rovine, e sangue sparso.
Che de' sudditi vostri allaga il piano.
Sono i trofei d'un Principe accecato.
Che in lunga inerzia, in scellerate trame
D'una vii maga, in odio a' Numi eterni.
Vive sepolto, sozzo, e al Cielo a schifo.
Far. Più non dirmi, Togrul; basta; ti ferma.
ToGR. (ardito) Di chi degg'io temer? D' un, che
s'è reso
Inutile a se stesso? Che abbandona
I sudditi vilmente? i suoi più cari
Sotto a barbare stragi? Ah, Farruscad,
Teflis, la capital città del regno
Fors'ora è presa, e a ferro, e a foco posta«
Canzade, valorosa Principessa,
II sangue vostro, la sorella vostra,
358. LA DONNX SERPENTE.
U unico affetto mio, fors'ora è preda
Del barbaro Morgon, colma d'angoscia,
Svergognata vilmente. Io solo... io solo
Posso far cor di seguitar gli avvisi
Di Geonca fedel, che mi promise,
Che all'apparir di Farruscad nel regno.
Per non intese vie salvo fiaU regno.
Io solo... io solo abbandonar l'amante
Alla testa di pochi sbigottiti,
In periglio evidente, io sol potea.
Per salvare il mio Re, serbargli il regno.
Ma qual regno! qual Rei L'un forse d'altri,
L' altro suddito inetto, anzi in catene
Di abbominevol femmina sonmiesso,
Che di padre defunto, di sorella,
Di trucidati sudditi, di regno
Più non si cura, e del suo mal si pasce.
Farruscad, io la via so di qui trarvL
Se le miserie altrui, se'l vostro stato
Non vi move, e giustizia, i Numi irati
Temete un giorno, e, se non puossi alfine
Nulla ottener da voi, perdono almeno
Un ministro fedel, da zelo mosso.
Che troppo ardì nel favellarvi, ottenga, (^m-
ginoccMa )
Far. Togrul, non mi dir più. Parti, ritirati
Colà ne' padiglioni, e ti riposa.
Già la notte è avanzata. Io vo'star solo
Qualche momento ancor. Lascia, ch'io pensi
Sulla sventura mia. Io ti prometto
ATTO PRIMO. "359
- Alla nuov' alba d' esser teco, e, do\'e
Vorrai, ti seguirò.
XoGR. Deh non perdiamo,
Signor, più tempo.
Far. Lasciami. Riposa.
Giuro, che fra poche ore io sarò teco.
ToGR. V'ubbidisco, Signor, {entra)
SCENA NONA.
Farruscad solo.
Oh qual tormento!...
Oh qual mente agitata! Dovrò dunque
Allontanarmi, perdere i mi«i1ìgli.
La mia consorte! Ah qual consorte, e quali
Figli abbandono alfin? Meglio è, ch'io fugga
Senza rifletter più. M'inorridiscono
Mille sospetti, mille angosce, mille
Passioni d'amor. Qui fosti, o cara
Cherestani, qui t' ho disubbidita, ,
Qui sparisti co' figli, e coli' albergo
Di delizie, di gioia. Ah quai delizie?
Quai gioie mai? Diaboliche illusioni.
Padre, regno, miei sudditi perduti,
Dolce sorella mia, Canzade amata.
Voi si soccorra, e s'abbandoni questo
Duro asilo infernale, aspro, ed atroce, (è in
atto di partire)
Ma qual fiacchezza, e qual sonno improvviso
360 LA DONNA SERPENTE.
M' aissale, e mi trattieni Non so partire...
Non so fermarmi... e vorrei pur... né posso...
(siede sopra un sasso)
L'inaspettato... prodigioso sonno...
Qualcosa vuol da me. (s'addormenta)
SCENA DECIMA.
Farruscad, Cherestanì, seguito di damigelle. Mentre
Farruscad dorme, s'' andrà il deserto trasformando in un
giardino. Il prospetto, che sarà di macigni^ si cambierà
in un magnifico palagio risplendente. Tutto ciò succederà
al suono d'una sinfonia soave, che terminerà sonora e
strepitosa. Allo strepito Farruscad si risveglierà attonito.
Far. (mirando intorno) Come! ove sono!
Qual dolce suono!... (vede il palagio; si ri^{a
con impeto) Ah che l'albergo è questo
Dell'amata mia sposa. Oh dolce sogno!...
Se pur sei sogno, non finir giammai (corre
verso il palagio^ dal quale uscirà Ckere^
stani vestita riccamente, e con tutta la mae-
stà. SarÀ seguita da damigelle. Farruscad
con tutto il trasporto segue)
Cherestanì . . . Cherestanì . . .
Cher. (con nobile mestizia) Crudele!
Tu volevi partir; dimenticarti
Della tua sposa.
Far. Ah, sappi... i miei ministri...
Cher. Sì, giunti son per torti all'amor mio
Con arti portentose, e fatte vane
Dal mio poter.
ATTO PRIMO. 361 *
Far. Ma sappi... il padre mio...
Cher. Sì, morto è per dolor d' aver perduto
Farruscad, il suo figlio.
Far. Il regno mio...
Cher. Scorre di sangue, a foco, e ferro posto.
Tua sorella è in periglio. Ah, Farruscad,
Tu m'amasti, io ti amai; so, quanto io t'amo,
So quanto grande è'I mio dolor, ch'io sono
Cagion di tante stragi. Ma le stelle,
Il destin mio crudel cosi comanda.
Sforzata sono a comparir tiranna
Per eccesso d'amor. Son condannata
A farmi sospettar maga, deforme.
Sotto a finte bellezze, e tutto è amore,
E'I più fervido amor, che a te mi stringe.
ijnange)
Far. Non pianger, per pietà. Se tanto m' anù.
Perchè m'abbandonasti?
Cher. Perchè fosti
Disubbidiente, e vuoi saper, chi io sia.
Far. Da tanto amor non posso ottener grazia
Di saper, chi tu sia? di chi figliuola?
D'ond'esci? di qual clima? Dillo.
Cher. Barbaro!
Non te lo posso dir. Quanto m' affligge
La tua curiosità 1 Cieco abbastanza
Non è'I tuo amor per me. So, che sospetti;
Che ti lasci destar sospetti ognora
In discapito mio, per non sapere.
Chi io mi sia, d' onde venga, e di chi nata.
362 LA DONNA SERPENTE.
Di tanto è offeso Pamor mio. Crudele!
La curiosità, tiranna tua,
Pur troppo al nuovo dì sarà appagata,
Che la sentenza mia, da me voluta
Per eccesso d'amor per Farruscad,
Si compie al nuovo dL So, che non hai
Tanta costanza in cor da sofferire
Quanto nascer vedrai nel vicin giorno;
E perirà Cherestanì, tua sposa.
Sorgerai nuovo sol sanguigno in vista.
L'aere fia tetro, tremerà '1 terreno.
Questo non fia per Farruscad più asilo.
Egli saprà, chi sono; indi pentito
Piangerà la miseria della sposa
Inutilmente, e solo mio fìa'l danno, (piange)
Far. No, amato ben, non piangere... Ah, ministrì,
Vedeste almen tanta bellezza afflitta.
Per scusar V amor mio. Cherestanì,
Qual destin.... qual decreto.... o stella....
dimmi...
M'ha condannato... te condanna... Oh misero!
Dimmi più oltre per pietà.
Cher. Non posso
Più oltre ragionar. Per troppo amore
Sono a te di tormento, a me d'angoscia.
Farruscad, io ti prego, al nuovo giorno.
Giorno per me terribile, con pace
Sofiri quanto vedrai. Non aver brama
Di saper la ragion di quanto vedi;
Non la chieder giammai. Credi, ogni cosa
ATTO PRIMO. 363
Nascerà con ragion. Ma sopratutto,
Per quanto nascer vedi, mai non esca
Dalla tua boc(;a verso la tua sposa
La maladizion. Ahi so, ch'io chiedo
L'impossibile a te. (piange)
Far. (agitato) Di quanti arcani,
E di quanti spaventi mi riempi!
Non ho più lume... un disperato io sono.
Ch£r. (pigliandolo per una mano con isviscera-
te^^a) Deh dimmi, al nuovo giorno soffrirai
Quanto nascer dovrà?
Far. Soffrirò tutto
A costo della vita.
OiKR. Ah no, m'inganni;
So, che noi soffrirai. Deh dimmi... dimmi...
A quanto nascerà, t'indurrai, crudo,
A maladirmi?
Far. In questo seno un ferro
Prima mi pianterò.
Cher. (con impéto) Giuralo... (con agita:{ione)
Ah no,
Noi giurar, Farruscad; sarai spergiuro;
E'I giuramento tuo per me è fatale.
Far. A' più sacri del Ciel Numi lo giuro.
Gher. (staccandosi agitatissima) Barbaro!... Oh
Dio!... Fatale giuramento.
Io pur trarti dovea da quelle labbra...
Compiuta è la sentenza, il rio destino.
Farruscad, l'esser mio tutto dipende
Dalla costanza tua, dal tuo coraggio:
364 Lk DONNA SERPENTE.
Io già perduta son ; che V amor tuo
Non giugne a vendicarmi. ( ripigliandolo per
la mano) Amato sposo,
10 ti deggio lasciar.
Fae. No... perchè ingrata?...
Deh non abbandonarmi I fìgli miei,
Dimmi, ove sono?
Cher. Al vicin giorno i figli
Vedrai, non dubitare. Oh fossi cieco
Per non vederli 1
Far. Qeco! Come!... Oh Dio!
SCENA UNDECIMA.
Farzana, seguito di damigelle, Farruscad, Cherbstaiiì.
Farz. Cherestanì...
Cher. Si, morto è'I padre mio;
Di qua principio hanno le mie sventure.
Misero padre!... (piange)
Farz. Ornai del vostro nome
Suona ogni lido. U popolo affollato
Chiama Cherestanì, Cherestanì.
Voi sua Regina vuole. U regno, il trono
Per voi sta pronto. I sudditi in affanno
Chiedon Cherestanì; più non tardate.
Cher. Farruscad, io ti lascio. In parte udisti.
Chi mi sia, ma non tutto. È ignoto al mondo
U regno mio; ma di più doppi avanza
11 regno tuo di Teflis. Va, riposa,
ATTO PRIMO.
365
Se'I puoi, sino al novello giorno, e poi
Abbi costanza, e cor. Ah non avanzano
Le angoscie tue della tua sposa i mali, (entra
nel palagio con le damigelle e Pantana )
Far. (seguendola) Io vengo... io vengo ... morir
teco io voglio...
Non mi fuggir. ( mentre è per entrare nel pa-
lagio odonsi tuoni j fulmini, è terremoto.
Sparisce il palagio^ e ^l giardino, rimane
il primo deserto in somma oscurità. Farru-
scad disperato colle mani spinte innanzi
segue )
Misero me! che penai
Qual doglia è questa ! Oimè, ministri, oh Dio
Cherestan! è Regina, è d'uom mortale
Nata. Deh udite maraviglie, udite, (entra)
ATTO SECONDO
Il Teatro rappresenta il solito deserto.
SCENA PRIMA.
BftiGUBLLA e Truffaldino.
Xruff.
ICEVA a Brighella d' aver udita
una gran confusione quella notte
tra la vigilia, e'I sonno; chie-
deva, s'egli aveva udito nulla. Brig. Che'l
cibo e i vini perfetti l'avevano fatto dormire
profondamente; benediceva il punto del suo
arrivo in quel luogo, dove si trovava tanta
abbondanza. Rifletteva, che, se anche i cibi
erano infernali, il loro sapore era delicato a
segno, che non si curava. Truff, Aggiungeva,
che in quel deserto si stava assai meglio, che
nelle città. Faceva ima satira sui disturbi, e
sui costumi delle città, massime sulla corte, e
s[)ezialmente sulla penosa vita de' servi. Brig.
Accresceva sopra questo proposito. Truff. Ad-
duceva il gran disturbo de' servi nelle comme-
368 LA DONNA SERPENTE.
die, che piacevano a^padroni, e a' servi na
A lui piaceva T Arlecchino, a' padroni no. Lo
faceva ridere ; i padroni dicevano, che il rìdere
delle buffonate di quel personaggio era una
scioccheria. Se dovesse ficcarsi degli aghi nelle
natiche per non ridere a ciò, che lo faceva ri-
dere. Brig. Che certo quello era un gran di-
sturbo. Che quando le maschere dicevano nella
commedia delle cose, che lo facevano rìdere,
conveniva per la vergogna, eh' egli ridesse sotto
al tabarro. Truff, Ch'egli aveva vedute mol-
tissime Dame, e moltissimi Cavalierì rìdere
senza vergognarsi; che tuttavia è contento
d'esser partito da un mondo, che sosteneva
un'incomoda serietà in apparenza, e in so-
stanza era assai ridicolo. Quella solitudine gli
piaceva, ec. Proponevano di fare una cola-
zione, perchè l'aere era perfetto, e gli aveva
fatti digerire. Contrastavano sulla qualità dei
cibi, che si dovevano chiedere al diavolo. Brig.
Voleva una merenda polita con salse, ecc
Truff, Voleva una merenda da veneto corti-
giano, ecc. Entravano alquanto discordi sopra
questo punto. >
SCENA SECONDA.
Pantalomb e Tartaglia.
Questi due personaggi uscivano spaventati per il
tremuoto udito quella notte. Tart Aveva udito
ATTO SECONbi/. 369
piovere; aveva posta unainano fuori delpacfi-
glione, e dalle goccie si era avveduto, che
la pioggia era d'inchiostro; mostrava i segni.
Pani. Faceva delle osservazioni, confermava^ un
tal' accidente; si spaventava. Tart Aveva udito
tutta la notte civette ululare. PanL Aveva uditi
cani ad urlare. Tart Ch'era da consolarsi,
perchè Togrul, Visir, lo aveva accertato, che
al levar del sole il Principe era disposto a par-
tire da quel diabolico paese. Pant Guardava
l'oriente; vedeva sorgere il sole come sangui-
noso; si spaventava. Tart Accresceva gli spa-
venti scorgendo alberi secchi, montagne cam-
biate di luogo, ruscelli scorrere d' acque pavo-
nazze, ed altri segni di spaventevoli auguri.
Volevano fuggire, non volevano abbandonar il
Principe.
SCENA TERZA.
Fakruscad, Togrul e detti.
ToGR. Nulla, Signor, di quanto mi narraste
La risoluzion vostra infiacchir deve.
Anzi accrescer de' fretta alla partenza.
Far. Togrul, turbato son sì crudelmente, *
Che vigore non ho. Soggetto sono
A imminenti sventure; io vo' soffrirle.
Sorgerà '/ nuovo sol sanguigno in vista.
Sì mi diss'ella, ed ecco il sol sanguigno.
Gozìa. 24
yjO t LA DONNA SERPENTE.*
U aere fia tetro, tremerà ^l terreno.
Tremò '1 terreno, e l'aere è oscuro, e tetra
Questo non fia per Farruscad più asilo:
So, che non mancherà; dovrò seguirtL
Ma sopratutto... orribili parole,
Strazio al mio corei Odile ancora: udite:
Tu saprai, cW io mi sono, e poi pentito
Piangerai la miseria della sposa
Inutilmente, e solo' mio fia 'l danno.
ToGR. Arti d'inferno, crudeltadi, inganni
Da fuggir tosto. Di partir giuraste,
■ Vi risovvenga. Questa incantatrice
Il Re moro, Morgone favorisce.
Per le più strane vie cerca la strage
Del vostro regno, e vostra. Vi scuotete.
Pant. {a T-art.) Mi son contamina a veder sto
povero putto redotto una spezie de stolido.
Assistilo vu; che mi son tanto fiosso, che no
so bon da altro, che da pianzer.
Tart. {a Pant.) Siamo qui tre. Truffaldino e
Brighella doverebbero essere qui d' intorno. In
cinque potressimo legarlo, e portarlo via:
Fati, {da se) Farruscad, io ti prego al nuovo
giorno
Soffri quanto vedrai I Non aver brama
. Di saper la ragion di quanto vedi.
Non la chieder giammai! Credi; ogni cosa
Nascerà con ragion. Al nuovo giorno
I figli rivedrai, ma oh fossi cieco
^ Per non vederli! {con entusiasmo agli astanti)
ATTO 'SECONDO. 37I
, Amici... Amici... Oh Dio!
Chi mi sa dir ciò, che dovrò soffrire?
SCENA QUARTA.
( Dopo un lampo ed un tuono strepitoso )
Bbdrbdino, Rbzia fanciulli e detti,
Pant. (^allegro) Soffrir! Soffrir! cossa? Veli qua
le mie raise, i mii cocoli. {corre ad abbrac-
ciarli) Cocoli, cocoli, cocoli, no me scamperè
mìga più, vede, scagazzeri.
Far. Figli miei, cari figli! Ah ben mi disse
La madre vostra, eh' io vi rivedrei. ( Bedre-
dino e Rei^ia baciano le mani a Farruscad)
ToGR. (a Tari.) Che avvenenti fanciulli! Quai
portenti !
Son fuor di me.
Tart. Io sono di stucco ! Come diavolo sono giunti
qui questi belli piscia a letto?
Far. Rezia, mia figlia, dì, dov'è la madre?
Rez. Padre, la genitrice... Bedredino,
Sai tu, dov'ella fosse?'
Bedr. Eli' era, padre.
In un palagio luminoso, e grande.
Coronata Regina, in mezzo al suono
Di ben mille strumenti, e tante grida
Di voci allegre, che m' aveano fatto ' '
Tanto di testa. Ma non saprei dirvi,
Qual città fosse quella*
37^ LA DONNA SEKPKSTK,
Rbz. Eravam, padre,
Io e Bedredino in una bella stanza
Con cento servi.,. Oh se veduto aveste!
Far. Come giugneste qui?
Bedr. Rezia, lo sai?
Rbz. Lo so, come/1 sai tu. Credo, che un vento
Sia quel, che ci ha portati in un balena
Pant. (a Togr. e a Tart) Sentiu, che negozi 1
Un vento, un vento.
Far. Che vi disse la madre? Che diceva
Pria del vostro partir?
Rez. La madre venne
A ritrovarci nella stanza nostra.
Ci guardò fisi, e sospirò. S' assise
Sopranna sedia; e poi si mise a piangere
Dirottamente. Noi corremmo a lei,
Le prendemmo le man, gliele baciammo.
Ella accrebbe il suo pianto. Un braccio al collo
Pose di Bedredin, T altro sul mio.
Colla bocca or al viso del fratello,
Ora sul mio s'abbandonava. Oh Dio,
Quanto piangeva mail Tutti eravamo
Di lagrime bagnati. Io fui la prima,
E piansi anch'io con lei, poi Bedredino
Pianse anch' ei, non è ver? Piangemmo tutti
Senza saper perchè.
Far. Cieli che avverrà!
Quai parole vi disse?
Bedr. Spaventose.
Ite al padre, ci disse, ah miserabili!...
. ATTO SECONDO* 373
Io mi sento morir. Figli infelici,
-Oh non v'avessi partoriti l Oh quanto
SofBrir dovrete! Oh quanto vostra madre
Crudel sarà con voil Con sé medesma
Quanto cruda sarà! Mi precedete;
Ite allo sposo, al padre vostro; ch'io
Fra poco giugnerò. Ditegli, quanto
Piansi sopra dì voi. Ciò detto, ignota
Forza in aere ci spinse, e qui giugnemmo
Ripieni di spavento, (piange)
Rez. Ah, Bedredino;
Tu piangi, e sei càgioii, che pianga anch'io:
Non mi posso tener. Deh, caro padre,
Salvaci per pietà della miseria.
Che ci sta sopra, (piange)
ToGR. Farruscad, Signore,
A che tardar? Che attendere? Si salvino
Le vostre carni, e usdam da quest' aveino.
Far. Qui attender vo'la mia disgrazia fermo.
La sposa mia disubbidir non vogHo.
Pant. (risoluto) Tartagia, deghe man a quel put-
tello; mi custodirò sta nonola. Si, minchio-
nazzi, semio indormenzai qua? (va per pigliar
Re^ia)
Tart. Pantalone, si rompa il collo chi si pente.
( va per pigliar Bedredino. Odesi tr^muotOi e
" dopo alcun prodigio apparisce Cherestanty cQ"
ronata Regina con seguito di damigelle^ e di
guardie. Tutti si spaventano)
374 ^^ DONNA SERPENTE,
SCENA QUINTA.
Chbrestanì, segtiito e detti
Pant. Vela qua, vela qua per diana, sta striga;
no semo più a tempo, (si ritira al suo posto)
Tart. Rompiti 'l collo, che sei pentito prima di
me. (si ritira al suo posto)
Cher. Fermatevi. Non puossi a' grand' arcani
Della nascita lor tor queMue figli.
ToGR. (da se) Quanta bellezza! Quanta maestade!
Io scuso il mio Signor.
Cher. Miei cari figli,
' Care viscere mie.
Rez. (pigliandola per una mano supplichevole )
Che mai t' affanna, a che piangi, a che piangi?
Cher< (piangendo sempre) Anime mie... ciòcche
non voglio... voglio...
Deggio voler... ciò, che voler non posso...
Piango per voi... per me... pel padre vostra
(gli abbraccia^ e bacia piangendo)
Far. Non mi tener, Cherestani, più oppressa
Quai lagrime son queste? A che soggetti
Vanno i miei figli? A un colpo sol mi leva
Almen la vita; più non tormentarmi
Tart. (basso) Che arcani sono questi, Pantalone?
Pant. Arcani, che, se no schioppo ancuo, no moro
mai più.
Cher. Farruscad, ti sovvenga il giuramento
ATTO SECONDO.^ 375
Tu cominci a mancar.' Non chieder mai
Ragion di quanto vedi. Taci sempre.
Deh non mi maledir. Se in questo giorno ,
Avrai costanza, avrai coraggio, credi, .
Sarai contento appien. Per amor tuo ^ ,
Nasce ciò, che vedrai. Di più non posso
Dirti. Ammutisci. Guarda. Sofifri tutto.
Credi, ch'io sia tiranna a me medesma
Più, che non sono a te. Di qua. comincia
n crudo punto, {smaniosa e piangente) Oimè
dolente! Ahi figli!
(Apparirà nel fondo al teatro una vora^
gine, da cui uscirà una grandissima fiamma
di fuòco, Cherestam volta a' suoi soldati
seguirà con impero)
Soldati, entro all'ardente orrida fiamma
Que' figli miei senza pietà scagliate, (si copre
la faccia per non mirar lo spettacolo)
Rez. Aiuto, padre.
Bebr. Padre, padre... Oh Dio. (i due
fanciulli fuggono dentro, due soldati gVin-"
seguono)
ToGR. Qual crudeltà! non si permetta questo.
(trae la spada; rimane incantato)
Pant. Per amor tuo nasce ciò, che vedrai! Fer-
meve, fermeve, fermeve, cagadonai. (sfodera
V arma; rimane incantato)
Tart. Lascia fare a me, Pantalone, (rimane, come
gli altri. Escono i due soldati, i quali avranno
due bambocci, simili ai due ragajp,. gli scor-
37^ Là dònna serpente.
glieranno nella voragine di fuoco. Udrann
^ le strida de^ raga^^i di dentro. Si chiuderà
la voragine)
Pant. Oh squartada, squartadal Oh che mare!
Povere le mie raise! (piange)
Tartv Oh saette, saette, arrostite anche la madre
st^egona, frìjfgetela, friggetela.
ToGR. Son fuor di me. Deh per pietà fuggiama
Far. {a Cher.) Crudel...
Chbr. . Taci, non più, deh ti ricorda
Del giuramento tuo. Perdono io chiedo
Delle mie tirannie. Già s'avvicina
Al punto più crudel la tua consorte.
' Farruscad, di qui parti. In queste piagge
Più albergo non avrai Vanne al tuo regna
Sappi, eh' egli è neir ultima sciagura.
' La tua presenza è necessaria in quello.
Verso quel poggio co'sieguaci tuoi
Veloce il passo movi. Ignota forza
Vi leverà, né paventar di nulla.
Gravi sventure troverai; ma sappi.
Che le sventure mie saran più gravi.
Ci rivedremo ancor, ma forse^.. barbaro,
Per tua cagion vedrai l'ultima volta
In aspetto a te grato la tua sposa.
Mi mancherai d' amor, di fé, spergiuro;
Per viltà estrema tua sarò a me stessa
Per il corso de' secoli, e a' viventi
Miserabile oggetto, orrido, e schifo, (co» prò-
digiosi lampij e> tuoni sparisce Cherestam,
ATTO SECONDO. 377
e^l suo seguito. Rimangono gli altri spaven^
tati, ed attoniti)
Pant. Ghe ne vorla de più? Se fermela a aspet-
tar, che i ghe brusa el cesto anca a olla?
Tart. Se non mi tagliano le gambe, io non mi
fermo più certo.
ToGR. Scuotetevi, o Signore; a che tardate?
Far. (scuotendosi) Oh infemal piaggiai Oh figli
miei perduti!
Dolor, che non m'uccidi? Amici, al poggio.
Me maladico, non la sposa mia.
Fuggiam di qua: soccorso: al poggio, al poggio. .
(entra con Togrul, che lo segue)
Tart. Al poggio. Corri, Pantalone, che ecco la
strega, (entra)
Pant. Mo no la me toccherà miga le tavemelle,
vede (entra)
SCENA SESTA.
Tkuffaldino e Brighella.
Elscono inorrìditL Hanno chiesti de' soliti cibi, e
sono loro comparsi rospi, scorpioni^ serpenti ec.
Riflettono, che '1 paese si è cambiato. Non ve-
dono i compagni. Gli scoprono in lontana Con
grida gli seguono.
37^ LA. DONNA SERPENTE.
SCENA SETTIMA.
Il Teatro cambia, e vedesi una Sala delia Reggia ia Teflis.
Smeraldina e Canzadb sono armate, e vestite da Ama:^iom.
Smer. {colla scimitarra alla mano) Mi trema il
cor. Panni di aver ancora
QueMiavoIi alle spalle. Io credo certo
D'averne uccisi almeno cinquecento;
Ma sono un mare. Oh Dio, la mia pa4rona
Non vedo comparir. Canzade mia,
Principessa adorata. Ah voi voleste
A troppo esporvi. Sempre fiera, sempre
Por la vita a periglio. Figurarsi,
Con mille soli assalir tutto il campo
Di centomila, e più soldati Mori,
Che non hanno pietà 1 Chi sa, qual strage
Della misera, han fatto ! Se Morgone
L'ha fatta prigioniera, addio Canzade.
Un gigantaccio egli è, che con la testa
Spezzerebbe un pilastro. Figurarsi,
Se Canzade sta fresca 1
SCENA OTTAVA.
Canzadb e Smeraldina.
Canz. ( colla scimitarra ignuda) Ah, Smeraldina!
Siamo perdute.
ATTO SECONDO. ^ 379
Sher. Oh cara figlia mia...
Ciel vi ringrazio...! Come vi salvaste?
Che vi successe al campo? Ove scorreste?
Canz. Rabbia, furor, disperazion mi spinse.
Tanto il destrier spronai, che giunsi al centro
Delle truppe nimiche, con la spada
Facendomi la via, spingendo a terra
Cavalli, e cavalier morti, e feriti.
Qui cieca d^ra con la voce altera
Del barbaro Morgon chiamava il nome,
Sol per morire, o per troncar dal busto
L'orrida testa, d'ogni mal cagione.
Vidi'l gigante, e disdegnosamente
Or a fianchi, or a fronte, di fendenti.
Di punte, di rovesci, e mandiritti
Caricai quel feroce. Ei colpi vani
Della ferrata mazza disperato
Menava all'aria. Il mio destrier veloce
Saltar facendo, a vuoto egli feria.
Già di più piaghe sanguinoso, irato
Ruggìa, come leon. Quando un torrente
De' suoi sopra mi furo, e tante spade,
E tanti dardi ebbi d' intorno, e in capo,
Che morta mi credei. Morgone amante,
Benché irato, e ferito, minacciava
Chiunque mi feria, che prigioniera,
E in vita mi voleva. Allor ben vidi.
Che follemente era trascorsa, e invano.
Spinsi 'I destriero, e insuperabil cerchio
Di soldati spezzai. Gli spron battendo.
380 LA DONNA SERPENTE.
E col ferro fischiando, al ponte giunsL
Innumerabil torma di nìmici
Confusamente sopra '1 ponte arriva,
E cadérmi '1 destrier tagliato V anche
Mi sento in dietro. Disperata il brando
Contro al ponte rivolgo, e con più colpi.
Dal grave pondo di destrieri, e Mori
Aiutati, le tr^vi crepitando.
Cavalli, Cavalieri, e travi, ed asse
• Furon nel fiume, ed io ghermii ben forte
Del ponte una catena, indi soccorsa
Da' miei soldati a salvamento giunsi.
Smer. Voi mi fate tremare. Io più sollecita
^ Volli salvar la vita, e, come morta.
Vi piangeva qui sola. Il Cicl ringrazio
Di vedervi ancor viva.
Cànz. Ah ancor per poco
Viva mi vederai. Morgon sdegnato
Sta preparando il campo, e vuol che in oggi.
Presa sia la città. Non v' è speranza
Di difendersi più. L'amante mio,
Togrul, più non si vede. Mio fratello
Già perduto sarà.. Preda fra poco
Di quel barbaro Moro, orrido, atroce.
Sarà Canzade, e prima d' esser sua
Con un pugnai trapasserommi il. sena
Smer. (guardando dentro) Signora... Ah, che mai
vedo! Ecco il fratello.
Ecco il Visir Togrul. E viva, e viva.
ATTO SBGONDO. ' 38 1
SCENA NONA.
Farauscad, Togrul e dette.
Canz. Farruscad, Visir, qual man celeste
V ha qui condotti? Ah tardi siete giunti.
{piange)
ToGR. Vi rallegrate, Principessa.
Far. Suora,
Non accrescete al mio dolor col pianto
Crudi rimorsi. Ah, queste soglie... Tutto
Mi risveglia alla mente il padre mio.
Per mia colpa già estinto, e mi rimprovera.
Io mi sento morir, {piange)
Smer. Signor, Togrul :
Ch'è di Tartaglia? Di Brighella? Il vecchio
Pantalon, Truffaldino, sono morti?
ToGR. No, vivi sono, e son nell'altre stanze,
Che narrano a' ministri i nuovi casi
De' lor viaggi.
Smer. Oh vo' sentirli anch' io.
Truffaldin vivo! Uh che allegrezza è questa l
{entra)
SCENA DECIMA.
Farruscad, Canzadb e Tooruu
ToGR. Farruscad, Principessa, in pianti vani
Non vi perdete. Al minor mal si pensi
382 LA DONNA SERPENTE.
Far. Dimmi, sorella mia, Canzade amata,
Dimmi, in qual stato è la città; mi narra.
Canz. Perduta è la città. Già s'apparecchia
L'ultimo assalto da Morgon feroce.
Più difesa non v'è. Morti i soldati
Son quasi tuttL Per l'assedio crudo
D'inedia, e fame mezzi i cittadini
Languendo estinti son. Mancati i cibi,
I destrier fiiron cibo, indi ogni cane
Ogni animai domestico fu cibo.
Che più? m'inorridisco. Uomini morti
Cibo furo a' viventi, e padri a' figli,
E figli a' padri, pi alle mogli furo
Delle ingorde, e per fame empie mascelle,
Abbominevol pasto, orrido, e fiero.
Pianti, ulutati, e maladizioni
Pe' desolati alberghi, e per le vie
S' odon reiterar sopr* al tuo capo.
Conta la vita tua, la vita mia,
De' pochi tuoi fedeli, che respirano
Per poco ancora, e poi tutto è perduto.
ToGR. Farruscad, che vi dissi?
Far. Ah, taci, taci;
Non caricarmi di maggiore angoscia;
Sento eh' io mi distruggo. Miei fedeli
Sudditi, padre mio, non dimandate
Altra vendetta al Ciel, ch'io son punito {piange)
Canz. Fratel, non soffro di vederti in tutto,
Disperato, ed afiUtto. Una speranza
Sola ci resta ancor. Badur, Ministro,
ATTO SECONDO. ' 383
Mi promise soccorso alla cittade.
Per incognite vie lungi è più miglia
Ito per provveder di vettovaglia
AU* oppressa città. Forse ristoro
Recherà a' cittadini. Ancor potremo
Colla tua forza, e con Togrul amico
Respinger questi Mori. Può star poco s
Badur a ritornar. Oh voglia il Cielo,
Che salvo arrivi, e vettovaglia porti;
ToGR. Io non dispero ancor. So, che Geonca,
Il Negromante, certo mi promise,
Che all'arrivar di Farruscad nel regno.
Per non intese vie salvo fia'l regno.
La non intesa via forse fia questa.
Far. (guardando dentro) Non è questi Badur?
Ben lo ravviso.
Badur... Badur... dì, rechi morte, o vita?
SCENA UNDECIMA.
Badur, due soldati e detti. I due soldati avranno sopra
due bacili parecchie bottiglie di liquori,
Bad. {con sorpresa) Voi qui. Signori
Far. Si ; non mi chieder questo.
Narrami pur, se rechi alcun ristoro,
O se uccider mi deggio. Dimmi... dimmi...
Bad. Nuove di morte, e d' inauditi casi
Solo posso recar.
Canz. Oimè, che fial
Dì; vettovaglia non recasti in Teflis?
384 LA DONNA SERPENTE.
Bad. Io la recava già; ma, oh Ciel, che vidi!
A me impossibil par ciò, che m'avvenne.
ToGR. Narralo, a che tardar?
f*AR. Via dì; finisci
Di troncar questa vita.
Bad. a salvamento,
Di carnami, di biade, e vini, copia
Di carriaggi io conduceva in Teflis.
Di Cur, il fiume, lungo alla riviera
Chetamente venia, quando assalito
Da immensa schiera di soldati io fui.
Non eran di Morgon, ma gente indomita,
Da me non conosciuta, in ricche vesti
D' oro, e gemme splendenti, ed alla testa
Una Regina avea, che di bellezza
Avanzava ogni donna. Ella gridando
A' suoi: su, miei soldati, si distrugga
Tutta la vettovaglia, e chi s' oppone.
Perchè non sia distrutta. In un momento
Fummo assaliti, e i pochi miei poterono
Poca difesa far. Quella crudele
Nel fiume Cur fece scagliar carnami,
Biade, vin, pane, e tutto ciò, che aveva
Con tanta pena quasi in porto tratto.
Dopo innanzi mi venne, e fiera in vista
Mi disse: A Farruscad, eh' è mio consorte^
Porta la nuova, e di, che l'opra è mia;
Indi è co'suoij come balen, sparita.
Meco avea cento, e novant'otto furo
Trucidati a furor. Con questi due
ATTO SECONDO. 385
Potei salvarmi appena, e della tanta
Vettovaglia, Signor, potei salvare
Quel solo avanzo di liquor, {mostra, le botti-
glie) che puote
Darvi alquanto vigor; perduto èV resto.
ToGR. Barbara incantatricel Ogni speranza.
Di vita, e regno. ella v'ha tolto. Ah,'l dissi,
Che quella maga infame il Re Morgone
Favoria con gP incanti, e che gli arcani
Avrieno fin col torvi il padre, il regno,
I sudditi, ogni asilo, e alfìn la vita. ^
Canz. Qual sposai... Qual barbariel Ah, che ma
sento 1
Morti siamo, frateL
Far. {disperato) Tacete tutti.
Più non mi tormentate. Or apro gli òcchi,
E tardi gli apro; che non v'è più scampo.
Qui m'inviò quella spietata, e volle,
Ch' io nell' ultima strage immerso, afflitto,
Con gli occhi propri la miseria mia
Mirassi, e sotto al peso disperato > V)
Spirassi V alma dalla rabbia oppresso.
Cieco son dal furor. Perduto ho'l padre... 1'
Perduti ho i figli... e in qual' atroce forma! ^
Perdo il regno, la vita, e per mia colpa
Periscon gì' innocenti Oh Cielo . . . come ! . . .
Come comporti tante scelleraggini?
E soffri, e taci, e mai non maledirmi?
Che mi resta a soffrir, femmina iniqua?
Sia maledetto il pimto, in cui ti vidi,
Gozzi. «5
386 LA DONNA SERPENTE.
Ti maledico, infemal maga ii^ame.
Ti maledico sì... Ma inutil sfogo
È questo al mio dolor di maledirti
t SCBNA DODICESIMA.
(dopo alcuni lampi, e tuoni, ed un tremuoio)
ChbrbstanI e detti,
Cher. {uscendo furiosa) Empio... Oh Dio! che
facesti 1 ... Io son perduta, {piange )
Canz. Che vidil
ToGR. {a Can^.) Questa è quella maga iniqua.
Sposa ai fratel, cagion delle miserie.
Bad. Signor, questa è colei, che m'ha assalito.
Far. {con impeto) Rendimi il padre mio, rendimi
il regno,
. Rendimi i figli, scellerata maga;
Risarcisci de' sudditi le stragi«
Gli arcani tuoi, crudel, tutto m'han tolto,
E mi torranno in breve anche la vita.
Cher. Spergiuro...! ingrato,..! affetto mio tradito
Un punto sol mancava a sofferire,
. Poi tutto era compiuto, eri felice.
Sappi, crudele... Oh Dio! dammi tu forza.
Ch'io lo faccia pentir... Dammi un momento
Di tempo ancor, sicch' io dichiarar possa
Quanto tacqui sin or, la mia innocenza,
B, memorando amor, né mi sia tolto
ATTO SECONDO. 387
Modo di favellare; e al mio destino
, Poi," maledendo me medesma, io cedo, (piange)
Far* Soliti arcani; iniqua, che dirai?
Cher. Sappi, spergiuro, d^ uom mortale io nacqui,
E di Fata immortal. Per esser sempre
Immortai nacqui, e Fata. Di Eldorado
E il regno mio felice, ignoto al mondo.
Mal soffieria l'esser di Fata; ed aspra
M'era la legge, che noi Fate cambia
Spesso, e per alcun tempo, in animale.
Per non morir giammai, soggette sempre.
A sventure crudeli infra i mortali,
E al terminar de' secoli a infinite.
M'innamorai di te... fatai momento!
Sposo mio t'accettai. Crebbe in me brama
D' esser mortale, come tu, di correre
La stessa sorte tua, d'esserti unita,
E di teco morir, per poi seguirti
Dopo la morte ancor. Chiesi tal grazia,
(Che lo poteva) al Re, Monarca nostro.
Irato, bestemmiando, mi concesse
Quanto chiedei, ma sotto aspro decreto.
Va, mi diss'egli, tu mortai sarai,
Se per ott'anni, e un dì^ lo sposo tuo
. Non ti maledirà. Ma ti condanno
A usar l'ultimo giorno in apparenza
Opre atroci così, che Farruscad
Posto al cimento sia di maledirti.
Se maledetta sei d'orride squame
Ti copri tosto, e'I tuo corpo divenga
. 388 ^^ DONNA SBRPBNTB.
Mostruoso serpente. In quella spoglia
Rinchiusa per due secoli starai...
* Barbaro... iniquo... mi maledicesti!
Sento vicino il cambiamento mio.
t^iù non ci rivedremo! {jpiange)
Fjou In apparenza?
Perduto ho'l regno. Io son vicino a morte.
Ogni soccorso tu m^hai tolto. Cruda 1
Apparenze son queste?
Cher. Non temere
Del regno tuo, della tua vita. Io tutto
Con ragion feci, e pur tei dissi, e invano.
(verso Badur) È questi im traditor. Le vrt-
tovaglie
Erano avvelenate. Egli è in accordo
Col tuo nimico assediator. Distrussi
Le vettovaglie. La ragione or saL
Bab. {sbigottito a parte) Ahi, son perduto, (a
Cher.) Incantatrìce iniqua...
{a Far.) Signor, no, non è ver...
Cher. Traditor, tacL
Bevi di quelli avanzi, scellerato,
Che qui recasti. Verità si scopra.
Bab. {disperato) Signor... vero è pur troppo... Io
son scoperto...
Da quel velen... da ignominiosa morte
Tormi saprò colla mia stessa mana {trae
un pugnale; si ferisce^ e cade entro, alle
quinte)
Canz. Quai cose vedol Deh, Togrul, mi narra...
ATTO SECONDO. 389
ToGiL Io son fuori di me. Veggiam, che nasce.
Far. ( smanioso ) Ah non vorrei . . . Togrul . . . Can-
zade... io tremo...
IMmmi, Cherestani; degli arsi figli
Fu apparenza, o fu ver?
Chek. Doveano i fij^li
Dalla nascita lor V ardenti fiamme,
Che tu vedesti, ripurgar, per farli
Interamente tuoi, perchè corressero
Teco la stessa sorte, (guarda dentro\Ecco i
tuoi figli.
Fatti mortali, e tuoL Perfido, io sola
Miseramente abbandonar ti deggio.
Cambiar l'aspetto in orrido serpente,
Perder i figli, e più non esser tua. (piange
dirottamente)
SCENA TREDICESIMA.
Bbasdimo, Rizia condotti da due soldati e detti,
FaIl (in trasporto) Figli.», miei figli... Ah, non
s'avveri il resto...
Cherestani... mia sposa... oh qual miseria
Saria questa per mei
Cakz. Visir!
Tooiu Canzade!
Chek. (agitatissima) Ecco, mi sento... Oh Ciel..»
barbaro! io sento... >
Freddo gelo per 1! ossa..^ Oh Dio... mi cambio...
390 LA DONNA SERPENTE*
Oh qual ribrezzo 1... qual' orrori... qual pena.^1
Farruscad, io ti kscio. Tu potresti
Oggi ancor liberarmL Ah, non lo spero...
Troppa forza ti vuol... No, non esporre
Per me quella tua vita. Ella è a me cara
Anche lungi da me. Pochi prodigi
Oggi ancor posso far. Questi disposti
Fieno per te, per il tuo regna Accetta
Dell'amor mio gli ultimi pegnL Oh Dio...
Visir... Canzade... figli... nascondetevi...
Deh, la miseria della madre vostra
Non mirate... (uggite. Io mi vergogno,
Che voi la rimiriate, (a Far.) Tu, crudele,
Mirala sol, tu sol la tua consorte
Volesti serpe.., eccola serpe, e godi (si tror
sforma in un orrido e lungo serpente dal
collo in giù, cadendo prostesa a terra)
Bedr. Madre mia... Madre mia...
Rez. Dov' è mia madre!
Far. Fermati... Oh Dio!... perdon... deh, sposa
mia... (corre per abbracciarla)
Cher. Più tua non son. Fuggi da me, spergiurù.
(si sprofonda sotto al Teatro)
Canz. Fratel...
ToGR. Signor...
Bedr. Mio padre .^..
Rez. Caro padre...
Far. (disperato) Scostatevi da me. Non sia
suno.
Che s'avvicini a un disperato. Terra,
ATTO SECONPO.
391
Che r amata ^lia sposa in sen nascondi^
Ricevi Farruscad spergiuro ed empio, (entra
furioso)
Canz. (pigliando i fanciulli per mano)
Visir, nipoti miei, seguiamo il padre, (entrano)
ATTO TERZO
11 Teatro non cambia.
SCENA PRIMA.
Famuscad e Pantalonb. Farruscad uscirà, come fugr
gendo da tutti quelli, che vogliono consolarlo,
^^^^ m^^^^ ^ ^ ^^ traditori, della mia
Insofferibil doglia, de' miei falli
Causa maggior, che co' sospetti
vostri
, Mi suscitaste, m'accendeste il core,
E cader mi faceste negli eccessi,
Onde rovina di si amabil sposa
Sono, e di me medesmo. Ite, toglietevi
Dalla mia vista, orridi mostri infami;
Venga la morte, io bramo morte solo.
Pant. Maestà, el Cielo sa, quanto rimorso, quanta
strazzamento de cuor, che provo. Si, la ga ra-
son, la ga rason. Ma cosa vorla far? finalmente
ghe resta i so fioli. El Re Morgon ha scomenzà
un fiero assalto alla città. La deve procurar in
394 i^ donka Serpente.
coscienza de preservar el so Stato alle so crea-
ture. EI Visir Togrul, so sorella, poveretti, se
va preparando alla defesa, ma afflitti, ma desa-
nemai per no veder la so presenza. La fazza
cuor, la se fazza veder sulle mure. La vederà,
quanto coraggio se accenderà in petto ai so
boni servitori alla so comparsa. Uno valerà per
^ cento, e daremo la cazza a sti cagadonai de
Mori. Da galantuomo che ghe demo una bat-
tagia aUe barocole, che i se dà alla fuga spa-
. ventai, come im chiappo de cocalette.
SCENA SECONDA.
Tartagua e detti.
Tart. {allegro) Maestà, maestà, una gran cosa,
un gran prodigio. In un momento, non si sa
come, tutte le botteghe, tutte le osterie, tutte
le beccherie della Città si sono empiute di car-
nami, di pane, di vino, d* olio, di 'minestre, di
butirro, di formaggio, di frutta, e sino di allo-
dole e di beccafichi.
Pant. Parleu sul sodo, Tartagia?
Tart. Certo, che verrò a contare delle tue fanfar
luche a sua Maestà.
Far. Nuovo dolor,' nuovi rimorsi all' alma.
Ecco l'effetto degli estremi detti
Della miseria sua. Pochi prodigi
Oggi ancor posso far. QdesH disposti
ATTO TERZO. 395
Fieno per te, per il tuo regno. Accetta
Dell'amor mio gli ultimi pegni. Oh Dio!
Rimembranza crudel...! Fuggite... andate.
Più non posso vedere alcun oggetto,
E più d' ogn' altro ho me medesmo in ira.
Tart. ( basso a Pani. ) Pantalone, la lontananza
ogni gran piaga salda. Si calmerà. Non abban-
doniamo la Principessa e Togrul, che s' appa-
recchiano alla difesa della Città.
Pant. In fatti, la xe una viltà a star qua a grat-
tarse la panza in tempo, che tutti xe sulle
arme. No la xe azion da bon Venezian. Ghe
manderemo qua dei servitori, che ghe tegna
drio, perchè no vorria qualche sproposito, e
andemo a tagiar cinquanta teste de sti sfon-
dradoni de Mod. Semo pochetti, ah, Tartagia?
Tart. Oh dieci contro diecimila; ma non importa;
mi sento uno spirito superiore. È meglio mo-
rire ammazzato in una battaglia,^ che dalla
fame, (entrano)
. SCENA TERZA.
Farruscad € Farzana Fata in dietro.
Far. (da se) Ella mi disse pure: Tu potresti
Oggi ancor liberarmi. Ah, non lo spero;
Troppa forila ti vuol. No, non esporre
Per me quella tua vita. Ella é a me cara
Anche lungi da me. Detti soavi.
39^ LA DONNA SERPENT1£.
Che mi stracciano il cor. Cherestani,
Cherestanì, come poss'io salvarti?
Non curar questa vita. E assai più dolce
Morte, che questa vita. Ah, se tu puoi,
Se del tutto non m'odj, dammi segno,
Com'espor questa vita in tuo soccorso
Possa, o morir; pietà di me ti mova.
(piange)
Farz. (da se) Si conduca alla morte, onde pe-
riglio
Non vi sia più, che un tempo alcun soccorso
Abbia per liberarla, e torla a noi.
Or che tutte le genti alla battaglia
Stanno occupate, ed è qui solo, venga
Invisibile meco a certa morte.
(si fa innanzi) Tu liberar la sposa? Non hai
core;
- Sei troppo vile.
Far. Ombra diletta... spirito...
Ah, ti conosco ben, che ancor ti vidi
Compagna alla mia sposa. Ah, dov^è mai?
Dimmi, che deggMo far per liberarla?
Farz. Tu liberarla, uomo incostante, donna
Molle, più ch'uom? Tanta bellezza,! tanti
Benefizi perduti per viltade!...
Tu hai cor per liberarla? Altro ci vuole,
Che '1 tuo braccio, e 1 tuo cor per liberarla.
Far. Non m'offender di più; ponmi al cimento.
Volentìer corro a morte; a che tardare?
Farz. Dammi la destra tua.
ATTO TRRZO. 397
Far. La mano è questa..
Dove vuoi, mi conduci, io teco sono, {porge
la destra a Far^ana^ e con un prodigioso
lampeggiar nell'aere sprofondano tutti due)
SCENA QUARTA.
Pantalomb e Tartagua. Questi due personaggi escano
frettolosi
Pant. Maestà... Maestà; un gran prodigio... alle-
gri... Ma dove xelo?
Tart. Doverebb' esser qui. U abbiamo lasciato, che
non è molto, in ìjuesta stanza.
Pant. Ah, che l'ho dito mi, che no se doveva
lassarlo solo. Adesso che xe el tempo dell'al-
legrezza, ste a veder, Tartagia, che ghe xe
qualche gran desgrazia. El gera fora de lu, in-
vasa per so muger serpente; l' ha fatto qualche
bestialità de suicidio, sicuro. ^
Tart. Che bestialità? Ho anch'io una moglie ser-
pente, e la soffro.
Pant. Oh giusto, questo xe tempo da barzelette.
Tart. Andiamo a cercar di lui. Pantalone. Questo
palagio è lungo un miglio. Si sarà cacciato in
queste stanze verso scirocco, (entra)
Pant. Andemo pur verso scirocco; ma mi ho paura,
che el sia andà colla testa in zo da una fene-
stra in ponente, {entra)
398 LA DONNA SERPENTE.
SCENA QUINTA.
Truffaldino con un tabarro eorto e lacero, un cappello
tignoso, e un mtf jf^fo di rela:(ioni a stampa nelle maitf, indi
. Brighella.
Truff. {imitando i venditori delle relaponi^ verrà
gridando il seguente compendio spropositato)
Nuova, distinta e autentica relazion, che ve
descrive, e ve dechiara del gran sanguinoso
combattimento seguito a dì, ec. del mese di, ec
sotto l' alma città di Teflis. Sentir, come el
tremendo gigante Morgone diede V assalto con
due milioni di Mori alla città di Teflis. Sentir,
come bravamente, e valorosamente la città, e
fortezza con quattrocento soldati soli se difese,
e la gran strage, che si fece di quei barbari
cani. Sentir, come se trovava in spaventoso
pericolo la città, e fortezza medesima. Sentir,
come inaspettatamente, e prodigiosamente con
permissione del Cielo se innalzette il fiume,
chiamato Cur, ec. ha inondato tutto il campo
di quei barbari cani. Sentir la tremenda strage,
e come li ha negati tutti, col numero delle
persone, che sono restate morte. Chi avesse
' caro di legger la autentica, e distinta relazion,
si spende la vii moneta di un soldo. Nuova, e
distinta relazion, ec. Brig. L'interrompe, e
chiede, che vada gridando per la Reggia.
Truffa. La relazione della battaglia e del prò-
ATTO TERZO. 399
digio, ec. Brìg, Come si possa scrivere e stam-
pare un fatto successo, che non è un'ora.
Truff, Che gli scrittori, e gli stampatori,
quando si tratta di guadagnare, sono saette.
Brig. Che in quella città venderà poche re-
lazioni alle genti già tutte informate del suc-
cesso. Lo consiglia ad andare a Venezia ad in-
tronar con le grida il capo a c1;lì passa, che
venderà molte relazioni. Truff, Che per ven-
derle a Venezia converrebbe aggiungere alla
relazione trenta volte il doppio di successi.
Brig. Ch' è matto. Chiede dove sia il Principe.
SCENA SESTA.
Tartagua, Pantalone e dettL
Tart. e Pant. Escono disperati. Chiedon, se ab-
biano veduto il Principe. Brig. Che non sa
nulla. Truff; Rinnova le sue grida sulla rela-
zione. Fanno tutti una scena di confusione, e
di strepiti.
SCENA SETTIMA.
Canzadb, Togrul, Smeraldina e detti.
Canz. Dov'è'l fratello mio?
Taht. Principessa cara, una gran disgrazia. Era
in questa stanza. Noi siamo venuti alla batta- .
400 LA DONNA SERPENTE.
glia; e non e' è più. U abbiamo cercato in sci-
rocco, e non si ritrova.
Pant. Ma la xe cusì. El gera desperà, e i desperai
fa delle brutte burle.
Canz. Che mi narrate!
Oh me infelice 1
ToGR. Che mai sento l ( tutti appariscano disperati)
Smer. Oh Dio!
SCENA OTTAVA.
Voce di Geonca e detti.
Voce. Miseri! a che tardate? Deh s'ascolti
La voce di Geonca, e F ubbidite.
Togrid, Canzade, servi, è Farruscad
Presso al monte vicin. Nimica Fata
Ivi P ha tratto per condurlo a morte.
Recate i figli suoi, deh procurate
D'intenerirlo, ond' abbandoni il fiero
Cimento, in cui si trova, di se fuori.
Accorrete, accorrete in suo soccorso.
Ah, tardo forse il vostro aiuto fia.
La voce mia prima di voi soccorra.
Per quanto puote, il Principe in periglia
Canz. Visir, udisti?
ToGR. S'eiseguisca tosto
Quanto l'amica voce ci comanda, (entra con
Cameade)
Smer. Corro a prendere i figli, e vengo anch'io.
{entra)
ATTO TERZO. . 4OI
Pant. Per carità aiutemo sto povero mal manda.
Putti, Tartagia, vegnime drio. {entra)
Takt. Spero, che mi verrai dietro tu; ch'io non
ho le tue magagne occulte, vecchio catar-
roso, (entra)
Brio. Sospension de allegrezze. Andemo a vedef,
come finisce sta catastrofe spaventosa, (entra)
Truff. Chi va lontan dalla sua patria, vede
Cose, da quel, che si credea, lontane.
Nuova, autentica, e distinta relazion, che ve
descrive, e ve dichiara ec. (entra gridando la
relas^ione)
SCENA NONA.
Apresi M Teatro con un luogo campestre. Vedesi nel fondo
sotto una montagna un sepolcro, da una parte una co-
lonna, alla quale sarà attaccato un tìmpano, od altro si-
mile strumento, che battuto rimbombi; appresso a quello
sarà attaccata una mazza.
Farruscad e Farzana.
Farruscad sarà in abito leggiero^ con uno scudOy ed
una spada^ apparecchiato a combattere.
Farz. è questo il loco. Or vederemo, quanto
Isella tua lingua i detti ai sentimenti
Somiglino del core.
Far. a che molesti
Un disperato ancora? Mille vite
Aver vorrei, sacrificarle tutte
Gozzi. 26
4M Là donna srxpbntb
Ptr la consente osa. Ma cbe £itf <l^gk>
In questo campo? Un sol sqxdcro io minx
De^ k> co' morti avor battaj^? Ab diouai, ~
Come possa morir; più non tenermi,
Farzana, in un inferno.
Faus. (« parte) Non s'indugi
AUa sua distruzion. Se tanta brama
Hai di nK>rtr, con qudla mazza picchia
Sopra quell'istrumenta Al suo rindiondK)
Consolato sarai. Quella tua vita
Conta per poco; ma, se vincitore,
Liberata sarà, mortale, e tua. (entra)
Far. Picchiar sol deggio lo strumento! Or via.
Che più attendo? Si picchi, e morte giunga.
(picchia con la ma^^a lo strumento, il rim-
bombo del quale viene accompagnato da un
rimbombo di sonori ùioni, e da uno splen-
dore di lampi. La scena s^ oscura. Farru*
scad segue)
Tremi '1 terren, s' oscuri il sol, dal Cielo
Caggiano in copia i fulmini; non temo.
SCBNA DECIMA.
Esce un toro furioso, che getta fuoco dalla bocca, daiU
coma, e dalla coda, e che assale Farrusead.
Farruscad, indi la voce di Geonea^
Fak. Fiero animai, se sbigottirmi q>eri,
Di gran lunga f inganni.
ATTO TERZO. 4O3
(si rischiara la scena, segue un lungo
combattimento. Il toro carica di fiamme
Farruscad)
Ah, impenetrabile
È la fera crudel.
Voce. Non sbigottirti,
Farruscad, e fa core. All'animale
Tenta staccare il destro corno, o invano
Col ferro lo combatti.
Far. Amica voce,
Io ti ringrazio, e ad ubbidir m'accingo
L'avviso tuo.
{lotta coir animale: gli stacca il destro
corno; il toro con muggiti sprofonda, e
sparisce)
Che a vincere or mi resta?
Pietosa voce, dì, chi sei? Deh dimmi.
Per liberar la dolce mia consorte
Che più far deggio?
Voce. Io son Geonca. Poco
Vincesti ancor. Datti coraggio. Sappi,
Che, se perdi coraggio, a inevitabile
Morte soggetto sei. Fa cor, resisti.
Difendi la tua vita.
SCENA UNDECIMA.
Farzana e Farruscad.
Farz. (uscendo) Che m'avviene!
Chi soccorre costui?
404 LÀ DONNA SERPENTE.
Fuu Farzana, or dimmi,
Che resta a far, perch' io riveder possa
Nel suo stato primier Cherestaoi,
Possederla, abbracciarla?
Farz. Lascia, lascia
Di sperar dà Nolla facesti ancora.
Batti di nuovo lo strumento, e vinci
L'oggetto, che uscirà. Poco avrai fatto '
Ancor, se'l vinci. Giovine meschino.
Non avrai cor di terminar l'impresa, (entra)
Far. Se occorre animo sol, mal si sospetta,
Che'l cor mi manchi. Esca l'inferno tutta
{corre e picchia di nuovo. S* oscura la scenOj
odesi tremuoto)
Terreno, trema pur. Cid, tuona pure;
Di qua non fuggirò, (si rischiara la scena)
SCENA DODICESIMA.
Un Gigante mostruoso con la spada in mano^
Farruscad e la voce di Geonca.
GiG. Non fuggirai,
No, che la testa lascierai sul campo.
Presso alla testa tua rimarrà '1 corpo.
Pasto delle cornacchie, e delle fere, (si pre^
para a combattere)
Far. Avverrà forse a te ciò, che minacci,
E in te averanno i corvi maggior cibo,
Uomo crudo e deforme. Ciel, m'assisti.
ATTO TERZO. 40$
(segue combattimento; dopo vari colpi Far*
ruscad taglia un braccio al gigante, il
qual braccio caderà in terra colla spada.
Farruscad segue)
Combatti ora, se puoi. La vita salva,
Ch' altro da te non voglio.
(il gig<^nte si chinay raccoglie il braccio^
lo rimette al suo luogo, e s^ apparecchia di
nuovo a combattere)
GiG. Altro non vuoi?
Ben io voglio da te nuova battaglia.
(assalta Farruscad fieramente)
Far. Qual nuovo casol Ah, non si perda il core.
(segue un combattimento. Dopo vari colpi
taglia una gamba al Gigante)
GiG. Oh me infelice I Tu vincesti... Io muoio.
Far. Precipita, crudel; svenato muori, (il gigante
raccoglie, e si rimette la gamba)
GiG. Misero pazzarellol Muori I Muori!
Fanciullesche lusinghe 1 Tu morrai, (s^appa^
recchia ad un nuovo assalto )
Far. Qual strana impresa è questa! Deh, Geonca,.
Come resister posso? Ahi, non risponde.
Lena, non mi mancar, ch'io son perduto.
(segue nuovo, e fiero combattimento. Far^
ruscad taglia la testa al gigante)
Or qui finisci, infemal mostro orrendo;
Va nelP abisso, d' onde uscito sei.
( il gigante brancoloni raccoglie la testa, e
se la rimette)
406 LA DONNA SERPENTE.
GiG. (ridendo) Ah ah ah ah, folle, d sei pur
giunto.
Far. Misero! che farò? Geonca... amico,
Lena mi manca, e alfìn vinto rimango, {s'ap-
parecchiano ad un nuovo assalto)
Voce. Se puoi, spiccagli '1 capo. li manco orecchio
Tronca da quello, e libero sarai.
Gio. {assalendo Farruscad) Morì, incauto, eh' è
tempo.
Far. Forze mie,
Aderite alla voce di Geonca,
Resistete a costui.
{getta lo scudo, e combatte disperatamente
colla spada a due mani. Tronca di nuovo
il capo al gigante^ e lo raccoglie. Mentre
Farruscad cerca di tagliare il manco orec-
chio alla testa, il gigante brancoloni la va
cercando. Tagliata r orecchia, il corpo del
gigante cade, e sprofonda sotterra )
Far. {gettando la testa dentro) Rimettila or, se
puoi, ritoma in vita.
Quant' obbligo, o Geonca! Io qui dovea
Certo perir, se tu m'abbandonavi
( Tutte le scene di mirabile, e d^ illusione
di questo popolare atto terjo furono eccel--
lentemente eseguite dalla truppa comica del
Sacchi )
ATTO TERZO. 407
SCENA TREDICESIMA.
Farzana, Farruscad e voce di Geonca,
Faslz. (da sé) Ancora vive! Ed il Gigante è
vinto!
Chi lo soccorre mai? Ah, certamente
Qui celato è Geonca. Ben mi disse
Zemina, eh' io '1 temessi. Mia diletta
Cherestani, noi ti perdiam per sempre,
Farruscad ti discioglie, e ti fa sua.
Tentisi allontanarlo.
Far. Or via, Farzana,
Dov'è Cherestani? che far più deggio?
Farz. Valoroso campion, quanta pietade
Sento per te! Deh, Farruscad, tralascia
Di seguir quest' impresa. È quasi un nulla
Ciò, che sin' or facesti. Al mio sincero
Favellar credi. Di qua parti, e salvati.
Far. Come! partir di qua! L'impegno mio
È di lasciar la vita, o di condanna
Liberar la mia sposa. Tu mantieni
La tua promessa. O morte fa, eh' io m' abbia,
O la consorte mia libera resti.
Che manca al mio dover?
Farz. Manca un' impresa.
Troppo grande per te. Parti; ciò basti.
Non voler cimentarti maggiormente.
408 LA DONNA SERPENTE.
Far. Farzana, le parole al vento spargi.
Finir voglio l'impresa, o qui morire.
Farz. Temerario, su dunque. Or non occorre
Più Parme usar; ma vederem, se vinci
Ciò, che ancor vincer dei. Su quel sepolcro
( accenna il sepolcro nel fondo al Teatro )
Metti ima man. Giura pel tuo Profeta,
Che in bocca baderai qualunque oggetto
All^ aprir del sepolcro entro vedrai
Far. (corre, e con nobile Jrancheiffa mettendo
la mano sul sepolcro)
Ecco la mano. A Macometto io giuro,
Che con le labbra mie baderò in bocca,
Qualunque oggetto che'l sepolcro chiuda.
Farz. Folle! Prendi la mazza, e lo strumento
Nuovamente percuoti.
Far. Altro non vuoi?
Ecco eh' io lo percuoto.
(picchia con la ma^^a; s'oscura la scena
-' e come sopra, S' apre il coperchio del se^
polcro. Si rischiara la scena )
Farz. T' avvicina
A quel sepolcro, e colle labbra imprimi
All'oggetto, che vedi, un bacio in bocca.
Far. Degg'io temer per liberar la sposa
A por le labbra in sulle labbra fredde
D'un cadavere schifo? Altro d vuole
A sbigottire un disperato amante.
Debile impresa è questa. Or lo vednd.
( corre al sepolcro, avvicina il viso per dare
ATTO TERZOr 4O9
i7 bacio promesso. Esce dal sepolcro fino
al petto un serpente con un orrida testa;
apre la bocca facendo vedere denti lunghis
simi; avvicinasi al viso di Farruscad^ il
quale spaventato salterà in dietro, e met»
tendo la mano sulla ^ada)
Qimèt... misero met... qtial tradimento!. ..
(vuol ferire il serpente; il serpente si ,n-
tira nel sepolcro)
Faxz. Eocqrio, che fai? Sin' ora con la spada
Vincer dovevi, e lo facesti; ed ora
Che co' baci esser deve la battaglia.
Ti manca il cor? Non tei diss'io, che'I fine
Era più malagevole? Eseguisci
n giuramento tuo, se ti dà '1 core.
( a parte ) Timor, lo prendi sì, che '1 cor gli
manchi
FàJk. SI, mi da'l cor. Ribrezzo, m'abbandona.
(corre nuovamente al sepolcro risoluto;
s'avvicina col viso; esce il serpente; se gli
appressa coir orrida bocca aprendola. Far--
ruscad rincula. Il serpente si nasconde.
Farruscad sforma se stesso per baciare il
serpente^ il quale sempre maggiormente
battendo i denti con fiere^s^a lo farà rin
culare )
Oh Dio! qual freddo gelo mi trattiene!
Qual diabolica impresa! Ah, non è serpe
Fatta la mia Consorte? Non può forse
Esser Cherestanl quel mostro orrendo
410 LJL DONNA SERPENTE.
Vile, che ti trattìen? (s'avvia, e si ferma) Ma
forse ancora
Questa Fata m'inganna, e vuol, ch'esponga
All'orride mascelle il capo mio,
Che schiacciato rimanga, e dopo tante
Battaglie vinte, senza far difesa,
Miseramente in braccio a morte io corra.
Qual nuova forma di battaglia è questa! (resta
in pensiero)
Farz. (a parte) Timor, segui ad opprimerlo, sic-
ch'egli
Di qua sen fugga, e questa impresa lascL
Far. ( risoluto ) Eh, si mora alla fin. Forse un tal
bado.
Ch'io si abbonisco, scioglier dee l'incanto.
(s'avvicina al sepolcro; il serpente con
maggior fiere^^a s* avventa al suo viso.
Farruscad retrocede, il serpente si na-
sconde )
Oh fortuna crudel, tu non potevi
Espormi ad un più barbaro cimento.
Oh voce di Geonca, a che non suoni?
Che non m'aiuti in tanta estremitade?
Ah, questa spada alfin, che tutto vinse.
Spezzi ancor quel sepolcro, e'I serpe uccida.
(in atto di colpire il sepolcro)
Voce. Fermati, incauto, o piangerai per sempre.
Farzana, omai sperar non ti bisogna
D'aver Cherestani. Va al tuo congresso;
Di, che mortale è a Farruscad rimasta.
ATTO TERZO. 4I t
Figlio, non t'avvilir; bacia il serpente.
Egli è la sposa tua, baciala in bocca.
Non temere i suoi morsi, è tal l'incanto.
Ricordati di me; l'opra è compiuta.
Farz. (disperata) Ahi crudel fatol Ahi maladetta
voce!
Compagne mie, Cherestanì è perduta.
(fugge piangendo, e odonsi molti ululati
di donne)
Far. Chiudansi gli occhi. Vincasi '1 ribrezzo.
Dolce Cherestanì, più non pavento.
Invan, mia cara, impaurirmi tenti.
(s' avvicina impetuoso al sepolcro. Esce il
serpente, come sopra. Dopo alquanti gesti
di ribre{{0, e di risoluzione, Farruscad
bacia il serpente. S^ oscura la scena, se^
guono i soliti lampi, e tuoni con tre^
muoto. Cambiasi '/ sepolcro in magnifico
carro trionfale, sopra cui vedesi Chere^
stanty riccamente^ come Regina, vestita. Si
rischiara )
SCENA QUATTORDICESIMA.
Chbrbstan! e Farruscad.
Ghbr. (abbracciando Far.) Farruscad, sposo mio,
quanta allegrezza!
Quanto ti deggio mai!
412 LA DONNA SERPENTE.
Far. Cara, or sei mia;
Più non ti perderò. Pagai la pena.
Ti so dir, de' miei falli
SCENA ULTIMA.
CaHZADB) RiZIA, BBDRBDOfO, TOGRUL, PaNTALOÌCB» TaBTACUA,
Brighella, Truffaldino, Smeraldina e detti.
Canz. * Eccoci tutti.
Fratello, in tua difesa. Ma che vedol
Far. Questa è la sposa mia. Sorella, abbraccia
La tua cognata. Figli miei... miei fi^...
Quanta allegrezza ho al cori Tutti contenti
Oggi voglio che siate.
( tutti con atto di stupore vanno abbraccian-
dosi j ec)
ToGR. Mio Signore,
Deh mi narrate...
Far. Non è tempo adesso;
Tutto narrerò poi. Cherestani,
Più non ho mente. L' allegrezza toglie
In me discernimento. Tu dbponi,
Onde ognun sia contento, e allegro viva.
Cher. Sì, disporrò. Tu meco co' miei figli
Nel vasto Regno d'Eldorado, occulto
Al mondo tutto, e mio, regnar potrai
Togrul, sposo a Canzade, in Teflìs regni,
Con noi Tartaglia, e Pantalon verranno.
Di Truffaldino Smeraldina sia.
ATTO TERZO. - 4I3
Brighella abbia altra sposa, e ricchi doni
Ma chi m'additerà, come si possa
Dispor r alme cortesi a tanta noia
Delle Favole nostre fanciullesche,
A compatirci ed a dispor le mani
A qualche segno dì perdon, di festa?
INDICE DEL VOLUME PRIMO
Carlo Gozzi b le sue habb teatrali. — Prefazione. Pag. I
Fiabe — L' Amore delle Tre Melarance » i
Il Corvo » 43
Il Re Cerro » i33
Turandot » 217
I^ Donna Serpente » 329
\
^BIBLIOTECA DI SCRITTORI ITALIANI
1 . La Poesia Barbara nei secoli XV e XVI a cura
di Giosuè Carducci. — Un volume L. 5 —
2. Le Odi delV abate Giuseppe Parini riscontrate
su m^ioscritti e stampe con prefazione e note
di Filippo Salveraguo. — Un volume » 5 —
3. Prose edite e inedite di Melchior Cesarotti a
cura dì Guido Mazzoni — Un volume » 5 —
4. Poesie e lettere di Giovanni Pindemonte rac-
colte e illustrate da Giuseppe Biadego .... » 5 —
5. Commedie di Jacopo Angelo Nelli pnhbììcsiit a
cura di Alcibiade Moretti. — Volume primo. » 5 —
6. Lettere disperse e inedite di Pietro Metastasio
a cura di Giosuè Carducci. — Volume primo. » 5 —
7. // viaggio settentrionale di Francesco Negri a
cura di Carlo Gargiolli » 5 —
8-9. Le fiabe di Carlo Go^p a cura di Ernesto
Masi. — Due volumi . » io —
(j\
RETURN TO the clrculatlon desk of any
University of California Library
or to the
NORTHERN REGIONAL LIBRARY FACILITY
BIdg. 400, Richmond Field Station
University of California
Richmond, CA 94804 4698
ALL BOOKS MAY BE RECALLED AFTER 7 DAYS
2-month Ioana may be renewed by calling
(415) 642-6753
1-year Ioana may be recharged by brlnging books
to NRLF
Renewais and recharges may be made 4 days
prior to due date
OL.
DUE AS STAMPED BELOW
* •*
MAY 2 1 1991
Ft
m
i
f
0 ■
GENERAL LIBRARY - U.C. BERKELEY
I
THE UNIVERSITY OF CALIFORNIA