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Full text of "L'Eneide;"

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urna 


l,&^^  PUBBLICAZIONI 

della  R.  Accademia  Virgiliana    : 


Serie  II  :  MISCELLANEA     \ 
i  N.  £  i 


^L'  E  N  E  I  D  E 


TRADOTTA 

DA 


GIUSEPPE  ALBIXÌ 


^^ 


4 


% 


V 


BOLOGNA 
NICOLA  ZANICHELLI 

MCMXXI 


l/  EDITORE    ADEMPIUTI    I    DOVERI 
ESERCITERÀ    I    DIRITTI    SANCITI    DALLE    LEGGI 


H.tlf.-r.i  -  .St.ibilim«nti  Po|;;.'rHfiri  Riuniti  -  II-io;ì2 


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! 


ECO    SOMMESSA   DI    UNA   GRAN    VOCE 

QUESTA   VERSIONE    DEL    POEMA   DI    VIRGILIO 

NEL  SESTO  CENTENARIO  DALLA  MORTE   DI   DANTE 

UN    DEVOTO    DI    ENTRAMBI 

OFFRE     AL    POPOLO    ITALIANO 

CHE  AMA  I  SUOI  VATI 


IL 
POE7AA 


NOSTRA    MAGGIOR   MUSA. 


Virgilio  non  attende  da  un  pezzo  né  apologie 
né  apoteosi. 

Ciò  che  secondo  il  suo  concetto  mancava  alla 
Eneide  è  insomma  un  segreto  ch'egli  portò  con  sé. 
Non  molti  i  passi  e  rare  le  pagine  che  visibilmente 
volevano  ancora  la  mano  dell'  artefice  ;  più  rare 
le  parti  che  dovevano  venir  meglio  composte  e 
legate  nelle  mutue  rispondenze.  E  non  intendo 
già  le  lievi  discontinuità  logiche,  o  certi  sottintesi 
e  supposti,  di  cui  i  poeti  si  danno  poco  pensiero, 
e  Virgilio  meno  degli  altri,  ma  le  disarmonie  che 
ai  poeti  più  che  a  tutti,  e  più  come  più  son  grandi 
e  perfetti,  debbono  spiacere. 

Ogni  discrezione  osservata,  rimarrà  fermo  che 
l'Eneide,  se  paia  troppo  semplice  dirla  col  Car- 
ducci il  più  bel  poema  epico  delle  genti  latine,  è 
la  più  grandiosa  e  armoniosa  opera  che  un  ingegno 
ispirato  abbia  composto  a  onore  della  patria. 

Roma,  quanto  più  faceva  di  storia,  più  cre- 
sceva nella  superba  coscienza  di  sé.  Non  fu  piccolo 


X  PREFAZIONE 

merito  a'  suoi  vecchi  poeti,  come  ben  vide  Orazio, 
celebrare  domestica  facta.  Schietti  interpreti  dello 
spirito  quirite,  non  dubitarono  che,  se  tanto  argo- 
mento di  epopea  era  Troia,  Roma  non  fosse,  e 
che  non  potesse  Romolo  coi  Decii  e  gli  Emilii 
tenere  la  scena  non  meno  che  le  tragiche  famiglie 
argoJiche.  Ennio  percosse  il  bronzo  della  storia 
traendone  chiare  risonanze  nell'eloquio  scolpito, 
e  si  senti  a  dirittura  l'anima  di  Omero.  VirgiUo 
si  contentò  dell'arte  omerica,  ma  sempre  animato 
di  sé  stesso,  e  non  immemore  né  sdegnoso  dei 
predecessori.  Fu  de'  rarissimi  casi  in  cui  l'imita- 
zione, così  sterile  e  fastidiosa  in  basso,  sembra 
quasi  un  lume  di  superiore  simpatia  onde  si  rispon- 
dono di  gente  in  gente  le  cime  più  alte.  A  certi 
riscontri  torna  in  mente  e  par  giusta  la  parola 
di  quell'antico  —  e  non  diciamo  noi  lo  stesso  a 
certi  luoghi  di  Dante  ?  —  che  fa  piacere  udir  con- 
suonare le  voci  dei  due  poeti  :  quid  suavius  quam 
diios  prcEcipuos  vates  audire  idem  loqiientes? 

Intanto  pochi  o  nessuno  al  mondo  ebbero  più 
personale  indole  di  poeta  che  Virgilio,  il  cui  siile 
è  un  miracolo  come  V anima  sua  (anche  quell'  italiano 
di  Sebenico  aveva  ragione).  E  qui  la  ispirazione, 
la  intuizione  poetica  fu  in  questo  :  Roma  è  la 
unica  epopea  possibile  e  accettabile  a  Roma  ;  solo 
che  la  sua  storia,  già  così  disposta  a  sforzare  i 
termini  della  comune  realtà,  vuole  i  prospetti 
aerati,  le  luci  e  i  veU  del  mito.  Si  farà  poesia 
apparendo  come  Venere  che  reca  i  doni  fatali  a 
Enea  aetherios  inter  dea  candida  nimhos. 


IL    POEMA  XI 

A  quel  modo  che  nella  valle  elisia,  in  quella 
solenne  indicazione  che  fa  Anchise  al  suo  figlio 
dei  futuri  nipoti,  il  poeta  rappresenta  le  ombre 
come  abbiano  già  le  forme  e  i  caratteri  della  loro 
incarnazione  romana;  e  si  vede  Romolo  guerriero 
e  dio,  si  vedono  i  sacri  arredi  e  la  bianca  barba 
di  Numa,  e  Marcello  con  le  spoglie  opime,  e  Augu- 
sto con  la  dignità  dell'  impero  :  allo  stesso  modo 
la  leggenda  è  tutta  penetrata  degli  spiriti,  tutta 
sparsa  dei  riverberi  della  storia,  e  le  figure  si 
illuminano  come  di  chi  va  verso  il  sole.  Il  mito 
ha  i  vivi  risalti  e  i  netti  contorni  della  realtà, 
la  realtà  le  fuggenti  aureole  del  mito  :  si  toccano 
e  si  compiono  a  vicenda.  Chi  non  ricorda  un  pen- 
siero del  magnifico  proemio  liviano?  Se  è  con- 
sueto e  naturale  alle  genti  render  più  auguste  le 
proprie  origini  facendole  risahre  agh  Dei,  tanta 
è  la  gloria  vittoriosa  del  popolo  Romano  che  gli 
altri  popoH,  con  lo  stesso  animo  con  che  ne  sop- 
portano r  impero,  debbono  consentirgli  di  vantare 
Marte  a  progenitore.  A  me  parve  sempre  che  il 
pensiero  di  Livio  sia  anche,  mirabilmente  plastico, 
in  VirgiHo  :  quando  Enea  solleva  in  ispalla  lo 
scudo  di  Vulcano  tutto  istoriato  di  cose  romane, 
è  proprio  la  leggenda  a  portare  in  alto  la  storia, 
la  storia  a  difendere  la  leggenda. 

La  ricca  azione  dell'Eneide  (e  qui  non  cer- 
chiamo le  fonti  più  e  meno  antiche)  si  svolge 
così  disegnata  che  è  facile  seguirla  con  l'occhio. 

Errante  da  ben  sei  anni  per  terre  e  mari  ecco 


XII  PREFAZIONE 

finalmente  Enea  navigare  il  Tirreno  verso  l'Italia, 
e  Giunone  implacata  respingerlo.  La  persecutrice 
è  ricorsa  a  Eolo,  la  protettrice  ricorre  a  Giove, 
la  cui  solenne  parola  rivelatrice  del  destino  con- 
ferma a  Venere  le  sorti  della  gloriosa  prosapia, 
alla  quale  Giunone  stessa  finirà  placabile  e  benigna. 
Questo  libro  introduttivo,  così  vivace  e  potente 
ad  attrarre  e  avvincere  subito  gli  animi,  florido 
di  avventure  e  di  fantasia,  pieno  di  spettacoli 
grandi  e  di  tratti  leggiadri,  di  sentimenti  e  di 
espressioni  profonde,  si  chiude  mostrando  il  pro- 
genitore di  Roma,  che  s'era  visto  quasi  dispe- 
rare tra  la  burrasca,  adagiato  alle  splendide  mense 
di  colei  che  ha  fondato  Cartagine. 

L' epico  passo  indietro,  cioè  la  narrazione  dei 
casi  intercorsi  tra  la  fine  della  guerra  famosa  e 
questo  approdo,  si  arresta  prima  alla  caduta 
di  Troia.  È  de'  caratteri  dell'Eneide  che  quasi 
ogni  libro  sembri  compiuto  in  sé  e  sia  insieme 
congiuntissimo  agli  altri,  e  da  libro  a  libro  corre 
di  solito  una  mirabile  varietà.  Il  secondo  (pur 
così  virgiliano,  per  quanto  accogUesse  da  poemi 
ciclici  :  il  solo  esordio,  con  la  semplice  accorata 
nobiltà,  quali  echi  destò!)  è  la  pagina  compren- 
siva della  catastrofe  d'IHo,  la  città  destinata  a 
fiammeggiare  con  l'Iliade  in  perpetuo  all'oriz- 
zonte della  nostra  coltura.  E  nel  terzo,  eh' è  il 
libro  delle  peregrinazioni  errabonde  dietro  la  fatale 
terra  fuggente,  la  poesia  non  perde  mai  il  solco 
della  sbattuta  flotta  :  tra  varietà  di  paesi  e  di 
casi  è  un  seguirsi  di  scene,  di  voci,  di  figure  che 


IL    POEMA  XIII 


non  si  cancellano,  dal  pietoso  Polidoro  all'ineffa- 
bile Andromaca,  dalle  abominevoli  Arpie  al  tru- 
culento Polifemo.  Achem.enide,  riflesso  dell'Odissea 
e  che  pur  tiene  qualcosa  di  Filottete,  è  l' ultimo 
episodio,  e  naturale,  che  non  era  possibile  ai  nuovi 
pellegrini  toccare  quel  lido  senza  che  il  poeta  toc- 
casse materia  ciclopica.  Ultima  iattura  è  la  morte 
di  Anchise  :  il  quale,  oh  !  non  poteva  essere  col 
figlio  a  Cartagine.  Dove  l'eroico  narratore  con- 
chiudendo ritoma,  tra  l'attenzione  di  tutti  e  sotto 
i  profondi  sguardi  infiammati  della  regina. 

Il  IV  è  Bidone,  tra  le  più  potenti  e  perfette 
creazioni  deU'  arte  antica  :  ben  degna  che  Venere 
stessa  nel  primo  libro  dica  quasi  il  prologo  di 
sua  tragedia.  Ricordiamo  pure  Medea,  l'attica 
e  l'alessandrina;  ma  poi,  appunto  perché  fiere 
e  vive  anch'  esse,  lasciamole  :  Bidone  è  un'  altra. 
E  nulla  ha  perduto  per  avere  il  poeta  alterata 
o  non  seguita  la  versione  che  la  faceva  fedele  e 
devota  a  Sicheo  fino  a  morte,  e  morte  volon- 
taria. Si  armonizzano  in  lei  altamente  quelle  che 
sogliono  essere  in  tanto  contrasto,  passione  e 
dignità  :  estrema  è  la  passione,  disperata  ;  ma  la 
grandiosa  nobiltà  appena  è  che  si  smarrisca  o 
veli  un  istante.  E  pare  che  si  accordino  a  far  sì 
che  Bidone  mai  non  giunga  a  ciò  in  che  l' uma- 
nità si  abbassa  e  si  oscura,  non  incrudeUsce  mai  : 
anche  quando  si  rammarica  d'  essere  stata  pietosa, 
quando  rimpiange  e  quasi  vagheggia  le  cose  atroci 
che  avrebbe  potuto  commettere,  non  ne  commette 
alcuna,  se  non  contro  sé  stessa.  Solo  impreca,  oh 


Albim   -  Eneide 


Xl\-  PRErAZIONE 

l' imprecazione  è  terribile  !  e  ci  par  vedere  il  fan- 
tasma di  Annibale  impaziente  che  vengano  i  giorni, 

cum  fera  Karthago  Romanis  arcibus  olirti 
cxitium  magnum  atque  Alpes  immittet  apertas 

(come  predirà  Giove,  e  il  verso  è  degno  di  Giove). 

Intanto  Enea  si  partì  per  seguire  onesta  e  lauda- 
bile via  e  fruttuosa.  La  stessa  burrasca,  si  direbbe, 
dopo  un  anno  di  tragico  amore  seme  di  odio 
eterno,  lo  rende  alle  spiagge  sicule  per  T  anniver- 
sario della  morte  paterna.  E  mentre  esso  si  terge 
tra  sensi  e  uffici  di  pietà,  il  suo  poeta  respira  dalla 
patetica  tragedia  tra  fresche  eleganze.  I  ludi  ome- 
rici son  ridotti  di  numero,  cresciuti  di  ampiezza. 
Vita  e  commedia  abbondano  nella  gara  delle  navi, 
poste  in  luogo  de'  carri;  e  in  quella  dei  corridori. 
Quella  dei  pugili  ha  grandi  masse  di  scultura:  e 
la  freccia  del  vecchio  Aceste  che,  lanciata  senza 
bersaglio,  si  accende  simile  a  trascorrere  di  stella 
che  dura  poco,  come  poesia  non  si  smorza.  La 
giostra  degli  adolescenti,  il  ludus  TroicB  sem- 
bra spiegare  agli  sguardi  le  primizie  della  virtù 
latina,  serninarium  reipuhliccE.  Poi  la  scena,  si  ab- 
buia :  che  tristezza  in  quelle  donne  su  la  spiaggia 
in  disparte  che  fanno  il  compianto  di  Anchise  e 
quasi  di  loro  stesse  insieme  ! 

....  profundum 
pontum  aspectabant  flentes. 

Così  son  lasciati  a  nuova  cittadinanza  gli 
stanrhi  do]    mare   e  incuranti  di  gloria,   nil  ma- 


IL    POEMA  XV 


gna    laudi s    egente s.    Procedono    con    Enea    gli 
eletti  cuori, 

exigui  numero  sed  bello  vivida  virtus; 

e  quando   toccano   Cuma,    esso  è  che,    caduto  il 
buon  Palinuro,  regge  la  nave. 

L'andata  agli  Elisi  è  quasi  termine  di  errori 
a  chi  tanto  ha  corso  di  mare  e  di  terra.  E  per 
quella  intese  cose  che  furon  cagione  di  sua  vittoria, 
ben  disse  chi  ben  lesse  : 

et  dubitamus  adhuc  virtutem  extendere  factis 
aut  metus  Ausonia  prohibet  consistere  terra? 

Ciò  per  r  azione  del  poema  :  per  la  poesia  piac- 
que a  Virgilio  che  la  catabasi  dell'  eroe  non  fosse 
un  rapido  andare  al  colloquio  del  padre,  ma  una 
compiuta  visione  del  mondo  di  là,  penetrato  e 
percorso,  o  almeno  narrato.  Il  che  aggiimge  solen- 
nità nuova  alla  materia,  ne  accresce  il  significato 
morale,  l'avvolge  come  di  un'aura  sacra.  E  in 
questa  scena  fuori  del  sensibile,  in  questo  quasi 
abbraccio  dell'eterno  le  cose  e  le  persone  romane 
son  gettate  a  campeggiare  più  largamente  che 
altrove.  Ben  si  può  dire  del  VI,  più  ancora  che 
del  II  e  del  IV,  che  è  un  poema  nel  poema,  e 
come  ricco  in  sé,  così  fonte  di  luce  per  gli  altri 
canti,  e  per  altri  cantori  ! 

Multa  quoque  et  bello  passus.  Comin- 
ciando la  seconda  parte  è  manifesto  che  il  poeta 
si   compiace   di   ricondurre    le    cose,    quantunque 


XVI  PREFAZIONE 

tanto  avanzate,  a  situazioni  simili  a  quelle  del 
I  libro  con  più  largo  svolgimento.  Enea  è  in 
porto,  ed  ecco  Giunone  a  muovere  in  suo  danno 
l'inferno,  e  Venere  appresso  ricorrere  in  sua  di- 
fesa a  Vulcano.  La  Furia  non  è  come  Eolo  che 
spalancò  il  monte  di  un  colpo  :  Alletto  imper- 
versa in  tre  scene,  l' ultima  delle  quali  si  tinge 
di  sangue,  e  più  spaventoso  si  diffonde  il  corno 
tartareo  per  la  beila  campagna  e  tra  i  motivi  pa- 
storali felicemente  inseriti  alla  rude  materia. 

Ma,  Enea  è  nel  Lazio  !  La  natura  fa  festa  al 
gran  padre  che  tocca  l'Italia  non  più  fuggente. 
E  anche  l'arte:  che  splendore  d'imagini  e  di 
versi  pur  lunghesso  il  rischioso  litorale  Circeo  che 
gli  Eneadi  per  benignità  di  Nettuno  oltrepassano 
al  largo!  E  il  primo  entrare  la  foce  del  fiume 
prediletto  al  cielo  è  sotto  un  trionfo  verde  sparso 
di  voli  e  di  canti.  Quando  poi  Enea  lo  risale, 
e  ne  segue  sparendo  e  riapparendo  le  curve,  è 
un  piano  andare  per  un  placido  specchio  tra  om- 
brose sponde  fiorite  ;  e  quando  giunge  a'  luoghi 
che  aspettano  Roma,  tutto  è  illuminato  dal  mez- 
zogiorno. E  quel  giorno  è  la  festa  d'Ercole:  si 
celebra  il  viaximiis  ultor  che  purgò  dal  genio 
malefico  il  luogo,  si  accende  Tara  maxima  che 
esso  pose  in  perpetuo;  il  racconto  il  rito  l'inno 
si  succedono  ampli  e  solenni.  Vien  la  sera  :  Evan- 
dro accompagna  Enea  per  la  contrada  erbosa  che 
fu  così  sontuosa  poi  (ma  già  allora  si  sentiva  il 
dio  sul  colle  fatale!),  lo  accompagna,  che  tutto 
guarda  e  ode  benigno  e  desideroso,   alla  piccola 


IL    POEMA  XVII 


reggia;  e  quivi  su  le  soglie  gli  dice  la  grande 
parola  :  «  Aude,  hospes,  contemnere  opes  :  qui 
fu  Ercole  ;  tu  pure  degno  del  dio  fa  buon  viso  alla 
povertà  ».  Ma  il  trionfo  maggiore  è  del  poeta, 
che  non  apparisce  mai  così  intero  come  quando 
si  accostano  davanti  alla  sua  fantasia  il  divinum 
rus  e  la  maxima  rerum  Roma,  la  semplicità  e  la 
grandezza,  il  libero  respiro  delle  cose  e  la  virtù 
efficace  degli  uomini. 

Il  VII  libro  ha  introdotto  Latino,  1'  augusto  re 
nato  a  essere  franteso,  non  che  dai  belli  spiriti  e 
dai  dotti  critici  recenti,  ma  già  al  suo  tem.po  e  in 
casa  sua  e  anche  in  cielo.  La  dea  Giunone,  la  re- 
gina Amata  gh  rinfacciano  la  parola  non  tenuta  a 
Turno,  quando  né  esso  ammette  mai  né  il  poeta 
racconta  mai  eh'  egli  avesse  promessa  La\inia  al 
principe  de'  Rutuli.  S'intende  bensì  che  glie  la 
avrebbe  sposata  volentieri,  se  non  erano  i  presagi 
e  le  voci,  ch'esso  udiva  e  non  altri,  dei  Numi. 
A  Turno  egli  non  vuol  male  no  certo;  lo  vor- 
rebbe rassegnato  e  incolume,  l'intende  lo  pregia 
lo  compatisce.  Naturalmente:  Turno  è  violento, 
ma  prestante  di  valore,  di  persona  e  di  for- 
tuna, e  niente  affatto  un  empio,  anzi  alle  sue 
ore  fa  sempre  col  suo  ingenito  ardore  le  sue 
preghiere  oneravitque  aethera  votis;  solo  che  non 
vede  e  non  crede  nuUa  di  là  dal  corso  ordinario 
delle  cose,  e  non  ravvisa  in  Enea  se  non  l'av- 
venturiero che  vuole  usurpargli  il  suo  diritto  e 
il  suo  amore. 

Latino  non  è  un  dappoco,  ma  la  sua  condotta, 


XVIII  PREFAZIONE 

ch'esso  vorrebbe  conformare  ai  moniti  interiori, 
è  sopraffatta  da  un    altro   destino  in  contrasto  : 

frangimnr  hcu  !  fatis,  inquit,  ferimurque  procella. 

A  quanti  nobili  spiriti  avviene  il  medesimo  !  i 
propositi  più  saldi  cedono,  o  si  temperano  al- 
m^eno,  alle  ragioni  prementi  della  vita,  e  gli  uo- 
mini appaiono,  e  anche  sono,  minori  della  loro 
parte  fatale,  non  già  perché  siano  essi  ignavi, 
ma  perché  quella  è  sommamente  difficile.  Il  pio 
Enea  si  dorrà  dell'  alleato  e  del  suocero  malfermo  ; 
non  però  questi  è  un  fedifrago  di  basso  cuore, 
anzi  una  profonda  coscienza  agitata,  una  figura 
che,  se  non  ispira  ammirazione,  incute  riverenza, 
poca  meno  di  Priamo. 

La  sua  Lavinia  è  tra  lui  e  la  madre  quasi  nel- 
r  ombra,  se  talora  non  fosse  avviluppata  da  fiam- 
me presaghe,  e  tal  altra  un  fugace  turbamento, 
un  rossore,  non  lasciasse  intendere  che  Turno  lo 
avrebbe  ella  accolto  dalla  vita,  Enea  lo  accoglierà 
dal  cielo.  Quasi  misteriosa,  del  resto,  compunta, 
passiva,  si  direbbe,  come  spesso  le  predestinate^ 
le  progenitrici  di  popoli.  Quando  Ovidio  in  un'ora 
non  buona  rimetterà  le  mani  ad  Anna  sorella  di 
Bidone  e  a  Lavinia,  sarà  pur  forza  sentire  quanta 
era  la  poesia  delle  donne  virgiliane. 

Il  VII  libro  e  il  mirabile  Vili  dopo  altre 
rispondenze  ne  hanno  infine  una  insigne  :  questo, 
l'armatura  con  che  Enea  può  fronteggiare  tutto 
il  Lazio;  quello,  una  rassegna  delle  forze  che  si 


II.    POEMA  XIX 

armano  per  Turno.  Davanti  alle  quali  il  poeta, 
che  sa  bene  come  ora  si  tratti  di  un  urto  fatale 
ma  tra  genti  cBterna  in  pace  futuras,  par  che  le 
saluti  al  passaggio,  e  si  compiace  a  osservare 

quibus  Itala  iam  tum 
floruerit  terra  alma  viris, 

e  li  guarda,  tranne  pochi,  con  una  simpatia  ara- 
mirata  non  dissimile  a  quella  con  cui  i  campa- 
gnoli e  le  donne  guardavano  la  gio\dne  condot- 
tiera  del  brillante  squadrone  de'  Volsci. 

Il  IX  mette  capo  a  quella  che  si  può  dire 
la  giornata  di  Turno,  terribile  fuori  e  dentro  alla 
cittadella  degli  Eneadi  nell'assenza  di  Enea.  Ma 
quante  cose  precedono  !  Spicca  tra  queste  il  pri- 
mo tratto  bellico  di  Ascanio,  con  la  bravata  ostile 
che  lo  provoca,  con  la  parola  apollinea  che  lo 
premia.  E  segnalati  su  tutti  in  perpetuo  vanno 
Eurialo  e  Niso. 

Questi  nomi  ci  portano  ad  avvertire  il  seguirsi 
vicino  di  scene  e  motivi  tra  loro  consimiH.  11 
libro  IX  ha  l'impresa  eroica  dei  due  amici  e  il 
pianto  della  madre  di  Eurialo  all'annunzio  e  alla 
vista  dello  strazio  del  figlio.  Il  X  ha  la  morte 
di  Fallante  e  di  Lauso,  e  la  disperazione  di  Me- 
zenzio,  più  commovente  in  tale  uomo,  nel  quale 
r  umanità  si  risente  solo  e  si  rivela  all'  ora  estre- 
ma neir  estremo  dolore.  L'  XI  ha  il  lamento  di 
Evandro  tra  disperato  e  magnanimo,  di  Evandro 
che  neir  VIII,  ne'  congedi  al  figliuolo,  aveva  fatto 


XX  PREFAZIONE 


quasi  il  preludio  a  questa  serie  di  eroiche  elegie. 
E  il  poeta,  che  già  pianse  Marcello,  fa  gran  prova 
in  questa  molteplicità  di  tratti  somiglianti  e  di- 
versi, ma  il  mirabile  è  in  quell'intimo  senso  che 
lo  conduce  a  rappresentare  tra  le  atrocità  della 
guerra  massimo,  con  quello  de'  figli,  il  sacrificio 
dei  genitori.  Di  tutti  i  genitori:  Enea  che,  pur 
costretto  a  dar  morte  a  Lauso,  dopo  averlo  am- 
monito e  cercato  risparmiare,  ne  solleva  il  bel 
capo  chiomato  dalla  polvere  e  con  la  pietà  del 
povero  fiore  reciso  sente  la  stretta  del  dolore  pa- 
terno, è  della  più  profonda  e  toccante  poesia. 
Ma  è  anche  di  quella  che  ai  nostri  giorni  non 
ha  bisogno  di  commenti. 

L'  alacrità  indefessa  delle  aiutatrici  divine  dal- 
l'una  e  dall'altra  parte,  aggiuntovi  l'intervento 
di  Cibele  a  trasformare  in  ninfe  le  navi  d'Enea, 
fa  essere  a  luogo  il  concilio  degli  Dei,  a'  quali 
Giove  proibisce  ormai  il  parteggiare:  fata  viam 
invenient.  Ciò  deve  aprire  il  campo  al  manifesto 
prevalere  degli  Eneadi  per  lor  propria  virtù.  E 
prevalgono  infatti:  pur  con  vittime  lagrimate,  pur 
di  fronte  a  feroci  e  a  generosi  avversari,  nel  X  è 
la  rivalsa  grande  e  definitiva  di  Enea  su  Turno  ; 
e  anche  questa  si  contrappone  alla  fine  del  libro 
innanzi. 

L'XI  si  disegna  in  tre  grandi  scene.  La  prima 
è,  si  può  dire,  della  tregua  per  i  roghi  e  le  sepol- 
ture de'  mor^i  ne'  due  campi  ;  e  quelle  ricche 
pagine  sono  sparse  di  parole  grandi  e  di  umanis- 
sime imagini  che  scendono  per  i  secoh  con  sottile 


IL   POEMA  XXI 


solco  luminoso,  come  le  torce  degli  Arcadi  mossi 
incontro  al  funerale  di  Fallante  : 

lucet  via  longo 
ordine  flammariim  et  late  discriminat  agros. 

L' ultimo  consiglio  adunato  da  re  Latino,  dopo 
le  proposte  di  lui  coscienzioso  e  combattuto  sem- 
pre, ha  i  due  discorsi  di  Drance  e  di  Turno,  che, 
nonostante  i  precedenti  in  poeti  e  storici,  diven- 
gono il  prototipo  di  tali  epici  contrasti.  Ma  la 
guerra  sopraffa  V  assemblea  :  ed  ecco  al  centro  de' 
fatti  la  storia  e  la  figura  di  Camilla.  Tiene  anche 
essa  di  qualche  già  nota  eroina,  sicché  il  poeta 
potrebbe  richiamare  in  paragone  Arpalice  e  Pen- 
tesilea,  ma  è  tutta  nuova  e  tutta  fresca,  vaga 
d' invenzione  e  viva  di  verità,  con  una  ricchezza 
di  toni  e  di  tratti  che  va  dal  più  virile  e  prodi- 
gioso eroismo  alla  femminilità  di  un'  ingenua  fan- 
ciulla. 

Il  hbro  XII  si  raccoglie  tutto  intorno  al  duello: 
ampia  e  ben  connessa  materia,  tra  cui  si  leva  il 
giuramento  de'  due  re  solenne  e  senz'irà,  poi  il 
prodigio  ingannevole  ond'  è  illuso  e  mosso  a  susci- 
tare r  illecita  mischia  il  felix  Tolunmius  ;  ma  nulla 
è  più  profondo  che  1'  improv\dso  smarrimento  di 
Turno.  Il  violento  giovine  in  poco  spazio  di  versi 
assomigliato  al  cavallo  che  scapezzato  corre  bal- 
danzoso per  l'aperto,  al  leone  che  dopo  la  ferita 
è  più  feroce,  al  toro  che  sta  per  avventarsi,  eccolo 
a  un  tratto  palhdo  e  tardo.  Il  suo  sgomento  non 
è  da  nessuna  viltà,  e  non  lo  corta  a  nessuna  :  ma 


XXII  PREFAZIONE 

come  Didone,  già  prima  della  spada  e  del  rogo, 
era  per  il  veggente  poeta  pallida  della  morte  fu- 
tura,  così  Turno  sente  già  non  il  colpo  dell'av- 
versario ma  il  cenno  del  freddo  e  ferreo  destino  : 
vis  inimica  propinquat. 

Dopo  una  prima  vicenda  che  li  dissipò,  quando 
i  due  rivali  tornano  a  essere  per  l'ultima  volta 
di  fronte,  la  grande  scena  è  sospesa:  il  fato  sta 
per  adempiersi  in  terra,  e  si  adempie  in  cielo  il 
vaticinio  che  su  l' inizio  del  poema  fece  Giove  a 
Venere  ;  Giunone  è  rassegnata  alla  vittoria  di  Enea 
e  propensa  alla  gloria  di  Roma.  Di  conseguenza 
vien  meno  a  Turno  l' ultimo  aiuto  della  sorella 
Giuturna  che  nell'  abbandonarlo  deplora  con  pa- 
role ineffabili  la  propria  immortalità  :  immortalis 
ego?...  E  seguitando  si  torna  ai  due  magnanimi 
restati  a  fronte.  La  fine,  tra  catastrofe  e  catarsi, 
è  sparsa  di  umano  :  umane  le  parole  del  vinto, 
e  umano  sarebbe  il  vincitore,  se  non  lo  facesse 
inesorabile  una  diversa  pietà,  gli  ostentati  trofei 
di  Fallante  che  attende  vendetta. 

Tale  si  svolge,  limpida  e  armoniosa,  1'  azione 
del  poema.  Le  armonie,  le  rispondenze  intime  o 
esterne,  son  più  diffìcili  a  numerare  e  facili  ad 
avverare  che  non  le  discordanze  osservate  e  osser- 
vabili. Si  direbbe  che  a  luoghi  vadano  oltre  la 
intenzione  stessa  dell'autore.  Il  poema  di  Roma 
con  quale  parola  si  poteva  intonare  che  ugua- 
gliasse questa  Urhs  antiqua  FUIT....  Karthago?  Il 
piloto  della  flotta  di  Enea,  nel  momento  che  toccò 


IL    POEMA  XXIII 


r  Italia,  chi  poteva  essere  se  non  Enea  stesso  ? 
E  chi  doveva  accamparsi  primo  contro  il  pio  se 
non  Mezenzio,  sprezzatore  degh  Dei  e  contrista- 
tore  degli  uomini  ?  Un'  ombra  restava  intorno  a 
Enea  dall'  Iliade,  viva  e  presente  a  tanti  :  Dio- 
mede fu  per  vincerlo  (anche  Achille,  ma  troppi 
ne  vinse  Achille,  e  sparì  nella  gloria).  Enea  non 
se  ne  vergogna,  anzi,  tra  lo  scatenarsi  furioso 
degh  elementi,  rimpiange  di  non  essere  caduto 
in  patria  sotto  a  cosi  degno  nemico.  Ebbene  : 
Turno  e  i  Latini  nell'  imprendere  la  guerra  man- 
dano a  Diomede,  ora  colono  e  re  nell'  umile  Italia, 
per  averlo  naturale  e  poderoso  alleato  ;  ed  è  Dio- 
mede a  magnificare  Enea,  a  dissuadere  dal  com- 
battergli contro,  a  pareggiarlo  e  preporlo  a  Ettore  ; 
i  due  nomi  che  già  si  udirono  insieme  su  le  pure 
labbra  di  Andromaca. 

Se  taluni  critici  furono  disposti,  senz' avve- 
dersene, a  non  contentarsi  dell'  Eneide  per  la  fama 
che  non  se  ne  contentasse  l' autore,  sarebbe  anche 
più  grave  illusione  attendere  troppo  a  quella  sua 
semplice  arguzia,  che  i  suoi  versi  nascevano  in- 
formi come  gli  orsacchi  e  solo  a  lisciarli  abbelli- 
vano. Così  altra  volta  scriveva  candidamente  ad 
Augusto  che  gli  pareva  aver  commesso  una  pazzia 
a  mettersi  a  una  così  grande  opera.  Quanti  ne 
sono  invece  di  que'  versi  eh'  egli  sembra  aver 
colti  per  r  aria  luminosa  !  come  le  sue  api  colgono 
i  nuovi  sciami  dalle  foglie  verdi,  e  joliis  natos  et 
snavihiis  herbis  ore  legunt.  Solo  che,  all'  in  fuori  di 
certi  pochi  luoghi   che   hanno    vestigio  non  pure 


XXIV  PREFAZIONE 

d'incompiutezza  ma  d'improvviso  e  precario,  la 
musica  e  la  parola  non  ridondano  né  si  appon- 
gono ma  si  contemperano  nella  vita  interiore  del- 
l'ispirazione  e  ne'  meditati  vagheggiamenti  del- 
l'arte. Non  si  abusò  mai  peggio  del  nome  di  Virgilio 
che  quando  si  prodigò  lode  di  virgiliani  a  versi 
nulli  o  a  sfoggi  di  così  dette  eleganze.  È  delle 
sventure  toccate  a  lui,  ma  le  porta  in  pace  com- 
pensandole con  le  sue  fortune. 

Tra  le  altre  qualità  che  i  Romani  tenevano 
necessarie  ai  grandi  condottieri  era  quella  che  da 
loro  si  diceva  felicitas  e  che,  comunque  voglia 
dirsi,  bisogna  a  tutti,  anche  ai  grandi  poeti.  Più 
volte  parve  che  a  Virgilio  mancasse,  ma  insomma 
non  fu  vero. 

Quando  nell'anno  19  a.  C.  a'  21  di  settembre 
(il  mese,  quasi  i  giorni  di  Dante)  morì  Publio 
Virgilio  Marone,  che  solo  alle  idi  d'  ottobre  avrebbe 
compiuto  i  suoi  cinquantuno,  l' ingegno  suo  fioriva 
ancora  in  estate,  come  troppo  estivo  era  il  sole 
che  gli  affocò  quell'  ultimo  viaggio.  Triste  1'  ombra 
che  avvolgeva  quella  vita  e  minacciò  di  avvolgere 
l'opera  che  gli  era  stata  più  che  decenne  fatica. 

Ma  Augusto,  che  il  poeta  aveva  scritto  tra  gli 
eredi,  sentì  la  parte  sua,  avventurata  e  gloriosa, 
nel  retaggio  poetico. 

IJ)i  Virgilio,  e  anche  di  Orazio,  nelle  relazioni 
col  principe  credo  si  possa  ripetere  la  bella  parola 
di  Cicerone  per  Aristotele  e  Teopompo,  che  cioè 
scrivevano  cose  onorevoli  a  loro  e  accette  ad  Ales- 
sandro, UH  et  qncc  ipsis  honesta  essent  scrihehant 


à 


IL    POEMA  XXV 


et  grata  Alexandro.  I  grandi  poeti  augustei,  che 
nulla  sconoscevano  della  storia  di  Roma,  che  ren- 
devano onore  anche  alle  ultime  resistenze  e  virtù 
repubblicane,  avevano  intese  e  sinceramente  ab- 
bracciate le  ragioni  dell'  impero.  Né  queste  pote- 
vano imprimersi  e  trionfare  in  magnificenza  poe- 
tica che  uguagliasse  V  Eneide,  la  quale,  veramente 
incompiuta  solo  per  il  suo  autore,  non  già  con- 
sumarsi in  fiamma  breve  ma  doveva  splendere  faro 
perpetuo.  Lucio  Vario,  amico  buono,  e  buon  poeta 
cui  non  arrise  felicitas,  fu  esso  nuova  e  rara  for- 
tuna per  Virgilio  pubblicandone,  discreto  e  sagace, 
il  carme  immortale. 

In  verità  la  letteratura  latina,  così  potente 
ove  reca  l'impronta  sua,  così  proficua  ove  si  rifa 
dai  Greci,  non  ha  se  non  il  tesoro  ciceroniano 
che  pareggi  o  vinca  Virgilio  nell'  irradiarsi  efficace 
e  benefico  ad  animare  e  ingentilire  i  secoli.  Se 
non  che  per  il  fascino  della  poesia  e  del  verso 
Virgilio  potè  di  più,  sì  tra  i  modesti  che  attin- 
gono a  fior  di  labbra  dal  fonte  delle  Muse  orna- 
mento e  diletto,  e  sì  nell'alto  ove  le  menti  ispirate 
accendono  alla  grandezza  altrui  la  propria  gran- 
dezza. Il  fervido  ossequio  che  gh  ebbero,  il  fe- 
condo alimento  che  ne  trassero  cuori  e  intelletti 
sovrani,  e  gh  echi  virgiHani  non  meno  propagati 
per  età  torbide  e  buie,  mostrano  la  potenza  e 
floridezza  perenne  del  poeta,  che  tanta  armonia 
ebbe  d'invenzioni  e  di  parole,  e  così  altero  il  lin- 
guaggio della  maestà,  così  intenso  quello  della 
preghiera,  e,  pieno  di  sensi  delicati  e  sani,  fu  di- 


XXVI  PREFAZIONE 

Sposto  a  ogni  bontà  e^insieme  tutto  impresso  della 
romanità  in  cui  si  esaltava. 

La  perfetta  intelligenza  di  Virgilio  è  tra  le 
meraviglie  di  Dante,  che  ben  lo  cinse  di  aureole, 
ma  lo  cercò,  terso  di  tutti  i  vapori  medievali, 
nel  suo  volume:  nacque  dal  lungo  studio  il  grande 
amore. 

ONORATE    l'altissimo    POETA 

è  il  verso  di  Dante  che  a  Dante  naturalmente 
ritorna  ;  ma  Dante  lo  scrisse  per  Virgilio  e  lo  fece 
dire  da  Omero.  Perché^l'uomo  che  più  alto  ebbe 
il  concetto  del  poeta,  mentre  sentiva  sovrana- 
mente in  sé  che  la  poesia  rinasce  col  poeta  nuovo 
come  la  primavera  ogni  anno  e  l'amore  in  ogni 
anima,  vedeva  altresì  e  amava  una  rispondenza 
e  continuità  tra  gl'ingegni  emersi  dalle  caligini 
mondane  a  esser  voci  e  splendori  dei  popoH.  Esso 
volle  la  compagnia  di  Virgilio  :  e  se  altro  legame 
non  fosse  tra  l' Italia  antica  e  la  moderna,  indis- 
solubile è  questo  e  luminoso  che  avvicina  nella 
lor  pura  e. benefica  gloria  i  due  poeti  nazionali. 

Sono  grato  alla  R.  Accademia  Virgiliana  di 
Mantova,  che  si  aggiunse  auspice  a  questa  pub- 
blicazione con  la  fiducia,  vorrei  non  vana,  di 
concorrere  così  per  opportuna  via  alla  celebra- 
zione dell'  anno  secolare  dantesco. 

//  uttolnr  i j2i 


LIBRO  PRIMO 


L'armi  e  Fuom  canto  che  dal  suol  di  Troia 

primo  in  Italia  profugo  per  fato 

venne  e  al  Lavinio  lido,  in  terra  molto 

incalzato  e  sul  mar  da  violenza 

ei  de'  Celesti  per  la  memore  ira 

de  la  crudel  Giunone,  e  molto  ancora 

provato  in  guerra,  fin  ch'ebbe  fondata 

la  città  e  gli  Dei  posti  nel  Lazio, 

onde  il  Latino  genere  e  gli  Albani 

padri  e  le  mura  de  l' eccelsa  Roma. 

Musa,  le  cause  narrami,  per  quale 
sfregio  a  sua  deità,  di  che  dogliosa, 
la  Regina  de'  Numi  un  uom  costrinse 
di  pietà  sì  preclaro  a  correr  tante 
vicende,  a  incontrar  tanti  travagli  : 
ed  è  sì  grande  in  cuor  divino  V  ira  ? 

Antica  città  fu  (gente  di  Tiro 
la  possedè)  Cartagine,  rimpetto 


A.tBiNi  -  Eneide 


ENEIDE 


a  Italia  lungi  ed  a  le  tiberine 
bocche,  opulenta,  acerrima  guerriera: 
cui  frequentar  dicevano  Giunone 
più  che  ogni  altro  paese  e  Samo  istessa; 
qui\4  fur  l'armi  sue,  quivi  il  suo  carro, 
e  che  quello,  assentendolo  i  destini, 
divenisse  l'impero  de  le  genti, 
fin  d'allora  la  Dea  studia  e  vagheggia. 
Però  che  udito  avea,  dal  troian  sangue 
scender  progenie  che  le  tirie  ròcche 
rovescerebbe  un  dì  ;  che  quindi  larga- 
mente un  popolo  re,  superbo  in  guerra, 
moverebbe  a  rovina  de  la  Libia  : 
così  volger  le  Parche.  La  Saturnia, 
questo  temendo,  e  de  l'antico  stormo 
memore  ch'essa  avea  guidato  a  Troia 
per  Argo  sua;  né  le  cadeau  di  mente 
le  cagioni  de  l'ira  e  i  fieri  crucci, 
fìtto  rimane  nel  profondo  seno 
il  giudizio  di  Paride,  il  dispregio 
di  sua  bellezza,  l'odiosa  stirpe 
e  gli  onor  del  rapito  Ganimede; 
da  tali  fiamme  accesa  i  Teucri,  avanzo 
de'  Danai  e  del  feroce  Achille,  a  tutte 
le  marine  travolti  respingea 
dal  Lazio,  e  già  molti  anni  erravan  spinti 
dal  fato  ad  ogni  mar:  sì  dura  impresa 
era  fondare  la  romana  gente. 

Appena  da  la  vista  de  la  terra 
siciliana  lieti  verso  l'alto 


LIBRO    PRIMO 


veleggiavano  e  con  le  bronzee  prore 

frangean  le  spume,  che  Giunone,  in  cuore 

alimentando  la  ferita  etema, 

disse  tra  sé  :  e  Vinta  desistere  io 

da  l'opera,  e  sviare  il  re  de'  Teucri 

non  poter  da  l'Italia!  ho  contro  i  fati! 

E  Pallade  bruciar  potè  la  fiotta 

degli  Argivi  e  sommergerli  pe'  1  fallo 

e  la  foUia  d' Aiace  sol  d'Oileo? 

Essa  da'  nembi  il  rapido  scagHando 

foco  di  Giove  dissipò  le  navi, 

Tacque  al  vento  sconvolse,  e  lui  spirante 

vampe  dal  petto  squarciato  rapì 

nel  turbine  e  il  confìsse  a  scogHo  acuto. 

Ma  io  che  degh  Dei  regina  incedo, 

sorella  e  moghe  di  Giove  io  con  una 

sola  gente  per  tanti  anni  guerreggio. 

E  ancor  v'  è  chi  di  Giuno  il  nume  adora 

e  pregando  a  l'aitar  porrà  l'offerta  ?  ». 

Tanto  tra  sé  ne  l'infiammato  cuore 

agitando  la  Dea  move  a  la  patria 

de'  nembi,  pregna  d'austri  furibondi, 

a  r  EoHa.  Ivi  Eolo  re  in  vasto  antro 

i  riluttanti  venti  e  le  tempeste 

sonore  signoreggia  ed  imprigiona: 

queUi  sbuffando  con  susurro  immenso 

fremono  intomo  agli  sbocchi  del  monte, 

ma  Eolo  scettrato  in  alto  siede 

e  tempera  gli  umori  e  frena  Tire; 

senza  ciò  il  mar  la  terra  e  il  ciel  profondo 


ENEIDE 


seco  trascinerebbero  nel  volo 

e  spazzerebber  via.  L'onnipotente 

Padre  temendo  ciò  ne  le  caverne 

buie  li  chiuse,  mole  di  montagne 

alte  vi  sovrappose,  e  un  re  lor  diede 

che  con  patto  fermato  e  dietro  al  cenno 

tirar  sapesse  ed  allentar  le  briglie. 

Supplice  a  lui  allor  Giuno  si  volse: 

«  Eolo,  poi  che  il  Padre  degli  Dei 

e  degli  uomini  re  ti  die  possanza 

di  blandir  Fonda  e  sollevar  col  vento, 

gente  nemica  a  me  solca  il  Tirreno 

portando  Ilio  in  Italia  e  gli  sconfitti 

Penati  :  desta  l' impeto  ne'  venti, 

investi  quelle  poppe  e  le  sommergi, 

o  dissipali  e  spargili  sul  mare. 

Ho  sette  e  sette  ninfe,  di  bellezza; 

la  più  bella  tra  lor  Déiopèa 

ti  legherò  di  stabile  connubio 

e  farò  esser  tua,  che  teco  passi 

tutta  per  questo  merito  la  vita 

e  con  prole  gentil  padre  ti  renda  >•>: 

Eolo  in  risposta:  «  A  te  spetta,  o  regina, 

veder  che  ti  talenta;  a  me,  obbedire. 

Tu  questo  regno  quanto  egU  è,  lo  scettro 

e  Giove  mi  propizi  tu;  tu  fai 

ch'io  m'adagi  a  le  mense  degli  Dei 

e  i  nembi  signoreggi  e  le  tempeste  ^>. 

Ciò  detto,  con  la  cuspide  rivolta 

percosse  il  fianco  al  cavo  monte,  e  i  venti 


LIBRO     l'KlMi 


in  groppo  si  minano  a  l'uscita 

e  percorron  la  terra  turbinosi. 

Calarono  sul  mare,  e  dal  profondo 

lo  sconvolgono  tutto  ed  Euro  e  Noto 

ed  Africo  impregnato  di  procelle, 

e  spingono  a  le  rive  i  cavalloni. 

Segue  d'uomini  un  grido,  un  cigolio 

di  gómene.  Improvvise  il  cielo  e  il  giorno 

tolgon  le  nubi  agli  occhi  de'  Troiani  ; 

cupa  incombe  sul  pelago  la  notte. 

Tonò  la  volta  eterea,  l'aer  guizza 

di  folgori  frequenti,  e  tutto  intorno 

è  una  minaccia  d'imminente  morte. 

Enea  pe'  membri  sente  un  gel,  sospira, 

ed  «  Oh  !  »,  tendendo  alto  le  palme  esclama, 

«  tre  volte  e  quattro  fortunati  quelh 

ch'ebbero  in  sorte  di  morir  su  gh  occhi. 

de'  padri,  sotto  a'  muri  alti  di  Troia  ! 

O  Tidide,  fortissimo  de'  Danai, 

non  avere  io  potuto  in  terra  d'Ilio 

cadere  e  per  la  tua  mano  spirare 

quest'anima,  ove  il  fiero  Ettore  giace 

del  colpo  de  l'Eàcide,  ove  il  grande 

Sarpèdone,  ove  tanti  il  Simoenta 

scudi  d'eroi  travolge  ed  elmi  e  salme  !  )>. 

Mentre  ch'ei  si  sconsola,  una  stridente 

raffica  d'aquilon  coglie  sua  vela 

in  faccia  e  leva  fino  agli  astri  i  flutti. 

Fiaccati  i  remi,  girasi  la  prora 

e  dà  il  fianco  a*  marosi;  una  montagna 

accumulata  e  scoscesa  vien  d'acqua. 


ENEIDE 

Questi  pendono  in  cima  al  flutto,  a  questi 
scopre  tra'  flutti  l'onda  spalancata 
la  terra,  va  il  bollor  fino  a  l'arene. 
Tre  navi  avventa  Noto  a  sassi  occulti 
(Are  li  chiaman  gl'Itali,  a  fior  d'acqua 
schiena  enorme),  tre  navi  Euro  dall'alto 
sospinge  in  secche  e  sirti  (a  veder  triste), 
le  sbatte  a'  banchi  e  accerchiale  di  sabbia. 
Una,  che  i  Liei  ed  il  fedele  Oronte 
portava,  immensa  ondata  innanzi  agli  occhi 
di  lui  percote  in  poppa:  a  capo  in  giù 
il  timonier  n'è  scosso,  e  lì  tre  volte 
aggira  il  flutto  intorno  a  sé  la  nave 
ed  il  rapido  vortice  l' inghiotte. 
Rari  natanti  per  il  gorgo  vasto 
appaiono,  armi  di  guerrieri  e  tavole 
e  troiana  dovizia  galleggiante. 
Già  il  saldo  legno  d' Dioneo,  già  quello 
del  forte  Acate,  quel  che  porta  Abante, 
quel  che  l'annoso  Alete,  il  nembo  ha  vinti: 
tutti  per  lo  sconnettersi  de'  fianchi 
bevono  la  nemica  onda  sfasciati. 

Sentì  l'immenso  murmurc  del  mare 
Nettuno  intanto  pien  di  meraviglia 
e  scatenata  la  burrasca  e  i  fondi 
rimescolati,  e  fuori  da  le  schiume 
sporse  il  placido  capo  a  riguardare. 
Dissipata  d'Enea  vede  la  flotta 
per  tutte  l'acque,  sopraffatti  i  Teucri 
dal  rovescio  del  ciel,  né  le  insidiose 


LIBRO    PRIMO 

sfuggirono  al  fratello  ire  di  Giuno. 
Euro  e  Zefiro  a  sé  chiama  e  lor  dice: 
«  Tanta  baldanza  de  la  vostra  schiatta 
dunque  v'ha  preso  ?  Ornai  l'aria  e  la  terra 
senza  me,  venti,  a  perturbar  vi  ardite 
e  a  sollevar  di  simili  montagne? 
Io  vi....  Ma  prima  è  da  chetare  i  flutti, 
poi  sconterete  a  me  ben  altra  pena. 
Fuggite  rapidi  e  al  re  vostro  dite 
che  non  a  lui,  a  me  fu  dato  in  sorte 
la  signoria  de'  mari  e  il  gran  tridente. 
Egli  ha  le  vostre  case,  Euro,  rupestri; 
Eolo  in  quella  reggia  si  pompeggi 
e  regni  dentro  il  carcere  de'  venti  ». 
Cosi  dice  e  più  presto  del  suo  detto 
placa  il  gonfio  elemento  e  fa  le  accolte 
nubi  fuggire  e  ritornare  il  sole. 
Cimòtoe  ed  insiem  Tritone  a  forza 
spiccan  le  navi  da  l'acuto  scoglio: 
esso  le  aiuta  col  tridente  ed  apre 
l'ampie  sirti  e  a  far  mite  la  marina 
va  con  le  lievi  rote  a  fior  de  l'acque. 
E  come  in  un  gran  popolo  se  nata 
sovente  è  la  sommossa  e  infuria  in  cuore 
l'ignobil  volgo,  e  già  fiaccole  e  pietre 
volano,  l'ira  somministra  l'armi; 
allora  se  un  uom  veggano  cospicuo 
di  meriti  e  virtù,  tacciono  e  stanno 
con  intente  le  orecchie,  e  quei  gli  umori 
domàna  ragionando  e  li  addolcisce  : 
così  tutto  del  mar  cadde  il  fragore, 


ENEIDE 


poi  che  il  Padre  levato  a  guardar  Tacque 
sotto  l'aperto  ciel  move  i  cavalli 
con  le  redini  al  volo  abbandonate. 

Stanchi  gli  Eneadi  il  più  vicino  lido 

si  sforzano  raggiungere  e  son  volti 

a  le  spiagge  di  Libia.  Ivi  s'addentra 

profondo  un  grembo:  un'isola  fa  porto 

con  le  sue  braccia,  a  cui  rompe  da  l'alto 

ogni  onda  e  si  rispiana  entro  quel  seno. 

Vaste  rupi  a'  due  lati  e  minacciosi 

due  scogli  contro  il  ciel,  sotto  il  cui  ciglio 

addormentato  si  dilata  il  mare: 

ma  sopra  è  scena  di  vibranti  selve 

e  cupo  rezzo  di  boscaglia  bruna; 

di  faccia  i  massi  formano  una  grotta 

scendenti,  e  dentro  v'è  acque  dolci  e  seggi 

di  vivo  sasso,  casa  de  le  ninfe. 

Non  legame  ivi  tien  le  stanche  navi, 

non  àncora  col  suo  dente  le  afferra. 

Là  con  sette  di  tutti  i  legni  suoi 

entra  Enea:  per  gran  vogHa  de  la  terra 

balzano  i  Teucri  a  la  bramata  sponda 

e  si  gettano  madidi  sul  lido. 

Pria  trasse  da  la  selce  una  scintilla 

Acate  e  a  foglie  e  ad  aridi  sarmenti 

apprese  e  a  l'esca  propagò  la  vampa: 

poi  la  intrisa  di  mar  cerere  fuori 

levan  que'  lassi  e  i  cereali  arnesi, 

affrettandosi  il  grano  preservato 

tostare  al  foco  e  stritolar  col  sasso. 


LIBRO    PRIMO 


Intanto  Enea  sale  uno  scoglio  e  tutto 

abbraccia  con  lo  sguardo  il  mar,  se  nulla 

Anteo  scorgesse  a  la  mercé  del  vento 

e  le  frigie  triremi,  o  Capi  e  l'armi 

alte  su  l'alta  poppa  di  Calco. 

Nave  in  vista  nessuna  :  errar  sul  lido 

vede  tre  cervi,  e  intiere  torme  dietro 

che  pascolano  sparse  per  le  valli. 

Stette  ed  a  l'arco  die  di  piglio  e  a'  presti 

dardi,  armi  che  recava  il  fido  Acate; 

e  i  duci  prima  ch'ivano  a  test'alta 

inalberando  le  lor  corna  atterra, 

indi  dà  ne  la  mandra  e  con  gli  strali 

la  fa  in  frotta  fuggir  tra  quelle  frasche, 

né  si  rista  che  trionfante  innanzi 

non  istenda  al  terren  sette  gran  corpi 

e  con  le  navi  il  numero  pareggi. 

Indi  al  porto  procede  e  H  comparte 

tra  tutti  i  suoi;  e  quel  vino  che  avea 

posto  negh  orci  sul  trinacrio  Udo 

Aceste  il  buono  eroe  dandoli  a  loro 

che  si  partian,  distribuisce,  e  i  tristi 

cuori  così  dicendo  riconforta  : 

«  Compagni  —  oh  già  non  slam  nuovi  a'  dolori, 

voi  che  peggio  soffriste,  a  questo  ancora 

porrà  una  fine  Dio.  Voi  la  scillea 

rabbia  fin  presso  a'  romorosi  scogli 

sfidaste,  conosceste  le  ciclopie 

caverne  voi:  gli  spirti  richiamate 

e  cacciate  il  timor  mesto;  un  di  forse 

questo  ricordo  ancor  ci  sarà  bello. 


IO  ENEIDE 

Per  le  varie  vicende  e  i  rischi  tanti 
tendiamo  al  Lazio,  ove  ci  mostra  il  fato 
cheta  stanza;  ivi  può  risorger  Troia. 
Reggete,  e  a'  dì  serbatevi  sereni  ». 
Così  dice  col  labbro  e  pien  d'affanno 
simula  in  volto  la  speranza,  preme 
entro  il  cuore  il  dolor.  Quelli  a  la  preda 
s'accingono  per  lor  cibo:  a  le  carni 
strappan  le  terga  e  scopron  le  interiora; 
chi  ne  fa  pezzi,  e  t remole  agh  spiedi 
le  infìgge,  chi  pone  sul  hdo  il  rame 
avvampandolo  intorno.  La  vivanda 
rifa  le  forze,  e  s'empion  stesi  a  l'erba 
di  vin  vecchio  e  di  pingue  selvaggina. 
Sazia  la  fame  e  tolte  via  le  mense, 
in  lungo  conversar  bramano  i  loro 
persi  compagni,  tra  fidanza  e  tema, 
o  che  sian  vivi  ancora  o  giunti  al  fine 
e  non  odano  più  chi  h  richiama. 
Più  che  tutti  il  pio  Enea  tra  sé  compiange 
or  del  pugnace  Oronte,  or  la  iattura 
d'Amico  ed  il  crudel  fato  di  Lieo; 
compiange  il  forte  Già,  Cloanto  forte. 

E  cessavano  oniai,  quando  dal  sommo 
mirando  Giove  al  mare  veleggiato 
ed  a  l'umili  terre  e  a'  lidi  e  a'  lati 
popoli,  così  stette  in  vetta  al  cielo 
e  ne'  regni  di  Libia  il  guardo  affisse. 
A  lui  che  tale  in  cuor  volgea  pensiero 
mesta  e  di  pianto  sparsa  gU  occhi  belli 


LIBRO    PRIMO  II 

dice  Venere:  «  O  tu  eh*  uomini  e  Dei 

regni  eterno  e  col  fulmine  atterrisci, 

qual  contro  te  il  mio  Enea  colpa  sì  grande 

o  poteron  commettere  i  Troiani, 

a'  quali  dopo  tante  morti  tutto 

davanti  a  Italia  s'attraversa  il  mondo? 

Pur  da  loro,  col  volgere  degli  anni, 

nascituri  i  Romani  promettesti; 

da  loro  un  dì,  dal  rinfrescato  sangue 

di  Teucro  i  duci  che  la  terra  e  il  mare 

avrebbero  in  balia  :  deh  !  padre,  quale 

pensier  ti  cangia?  In  questo  io  consolava 

il  doloroso  minar  di  Troia, 

co'  fati  nuovi  compensando  il  fato  : 

invece  è  la  medesima  fortuna 

che  dopo  tanto  perigliar  li  preme. 

Qual  concedi,  gran  Re,  fine  a'  travagli  ? 

Antenore  potè  di  tra  gli  Achivi 

sfuggir,  ne'  golfi  illirici  securo 

e  penetrar  ne'  regni  de'  Libumi 

e  valicar  la  fonte  del  Timavo, 

onde  con  vasto  muimure  del  monte 

per  nove  bocche  va  mare  diffuso 

e  rifluendo  allaga  le  campagne. 

Pur  quivi  egli  fondò  Padova  a  stanza 

de'  Teucri,  diede  a  la  sua  gente  un  nome 

e  appese  le  troiane  armi;  tranquillo 

ora  in  placida  pace  si  riposa. 

Noi  tua  progenie,  cui  le  vette  assenti 

del  ciel,  perdute  ahimé  le  navi,  siamo 

per  l'ira  d'una  sola  abbandonati 


12  ENEIDE 

e  risospinti  da  l'Italia.  Questo 

premio  ha  pietà  ?  così  ci  rendi  al  regno  ?  «. 

A  quella  sorridendo  il  Creatore 

degli  uomini  e  de'  numi  con  quel  volto 

che  rasserena  il  cielo  e  le  tempeste, 

sfiorò  le  labbra  de  la  figlia,  e  dice: 

<(  Non  temer,  Citerea  :  vedrai  la  cerchia 

di  Lavinio  murar  che  t'è  promessa 

e  il  magnanimo  Enea  solleverai 

tra  gli  astri  in  cielo:  me  pensier  non  cangia. 

Quel  tuo  (dirò,  poi  che  di  ciò  t'affanni, 

e  più  largo  aprirò  de'  fati  il  velo) 

grande  farà  guerra  in  Italia  e,  dome 

fiere  genti,  darà  norme  e  dimore, 

fin  che  la  terza  estate  abbia  veduto 

lui  nel  Lazio  regnare  e  sian  tre  verni 

a'  soggiogati  Rutuh  trascorsi. 

Indi  il  fanciullo  Ascanio,  che  ora  il  nome 

ha  di  Giulo,  Ilo  fu  mentr'IUo  stette, 

trenta  imperando  giri  ampli  di  mesi 

compirà,  trasporrà  la  regia  sede 

da  Lavinio  a  la  Lunga  Alba  munita. 

Lieto  Romolo  poi  del  fulvo  vello 

de  la  lupa  nutrice  avrà  retaggio 

la  gente,  fonderà  le  marzie  mura, 

li  chiamerà  dal  nome  suo  Romani. 

Quivi  omai  per  trecento  anni  seguiti 

regno  sarà  sotto  l'ettorea  gente, 

fin  che  real  sacerdotessa  a  Marte 

Ilia  partorirà  prole  gemella. 


LIBRO    PRIMO  13 

A  costoro  né  termine  di  cose 
io  pongo  né  di  tempo:  ho  dato  a  loro 
imperio  senza  fine.  Anch'essa  inoltre 
l'acerba  Giuno,  che  or  la  terra  e  il  mare 
e  il  ciel  riempie  di  spavento,  in  meglio 
volgerà  il  cuor,  meco  amerà  di  Roma 
il  dominante  popolo  togato. 
Così  piacque.  Verrà  co'  tempi  il  tempo 
che  la  casa  di  Assaraco  si  renda 
soggetta  Ftia  con  l'inclita  Micene 
e  signoreggi  in  Argo  debellata. 
Troiano  nascerà  dal  gentil  ceppo 
Cesare,  con  l'Oceano  l'impero, 
a  limitar  la  fama  con  le  stelle, 
Giuho,  nome  dal  gran  Giulo  disceso. 
Un  dì  nel  ciel  tu  lui  pien  de  le  spoglie 
de  l'oriente  accoglierai  serena; 
invocato  egU  pur  sarà  ne'  voti. 
Posate  allor  le  guerre,  il  fiero  tempo 
s'addolcirà:  la  Fé'  candida  e  Vesta, 
Quirino  col  fratel  Remo  daranno 
leggi;  saran  con  ferrei  serrami 
chiuse  le  dure  porte  de  la  Guerra  ; 
prigione  dentro  il  Furor  bieco,  assiso 
sopra  l'armi  crudeli  e  avvinto  a  tergo 
da  cento  bronzei  ceppi,  orrìbilmente 
fremerà  con  la  bocca  sanguinosa  ^». 

Così  dice,  e  il  fighuol  di  Maia  invia, 
sì  che  il  suol  di  Cartagine  e  le  nuove 
rocche  a'  Teucri  si  schiudano  ospitali, 


li  ENEIDE 

né  ignara  del  destin  Dido  li  cacci 

dal  paese.  Quei  va  per  l'aer  vasto 

col  remeggio  de  l'ali  ed  a  la  Libia 

subito  è  giunto.  Ecco  che  adempie  il  cenno, 

e  depongono  i  Peni  il  cuor  nemico, 

volente  Dio:  su  tutti  la  regina 

mansueta  si  rende  e  generosa. 

Ma  il  pio  Enea  tutto  in  pensier  la  notte, 
come  prima  fruì  la  bella  luce, 
si  propose  cercare  i  luoghi  novi 
ed  a  che  piagge  l'ha  portato  il  vento, 
se  sia  d'uomini  stanza  o  sia  di  belve 
(che  incolto  vede),  e  riferirne  a'  suoi. 
La  flotta  nel  convesso  de  le  selve 
nasconde  sotto  il  ciglio  de  la  rupe, 
tra  gli  stormenti  chiusa  alberi  ombrosi: 
esso  sen  va,  compagno  il  solo  Acate, 
con  due  di  largo  ferro  aste  tra  mano. 
Ecco,  la  madre  gli  si  offerse  incontro 
ne*  boschi,  con  la  faccia  e  la  persona 
di  giovinetta,  in  armi  di  spartana, 
o  qual  la  trace  Arp  alice  i  cavalli 
sprona,  e  supera  in  corsa  il  rapid'  Ebro. 
Da  cacciatrice  agh  omeri  sospeso 
aveva  il  docile  arco  e  sparsi  al  vento 
i  capelli;  scoperta  le  ginocchia, 
e  rannodate  le  fluenti  pieghe. 
«  Oh,  per  prima  esclamò,  giovani,  dite, 
se  mai  qui  una  de  le  mie  sorelle, 
con  la  faretra  e  una  dipinta  pelle 


LIBRO    PRIMO  15 

di  lince,  errar  vedeste,  o  correr  dietro 

a  spumoso  cinghiai  con  alte  grida  ». 

Così  Venere,  e  fa  così  risposta 

di  Venere  il  figliuol  :  «  Udita  o  vista 

non  ho  nessuna  de  le  tue  sorelle, 

o....  Come  debbo,  vergine,  chiamarti? 

l'aspetto  tuo  non  è  mortai,  né  donna 

suona  la  voce  —  ;  o  certam.ente  dea 

—  la  sorella  di  Febo  ?  o  da  la  stirpe 

de  le  Ninfe  una  ?  — ,  sii  propizia  e  il  nostro 

affanno  allevia,  qual  tu  sia  :  ne  insegna 

sotto  che  cielo  e  in  qual  parte  del  mondo 

siam  pur  fatti  vagar  :  nuovi  degli  uomini 

e  de'  luoghi  vagando  andiam.,  cacciati 

qua  da'  venti  e  da  l' impeto  de'  flutti. 

Molte  t'immolerem  vittime  a  l'are  ». 

Venere  allora  :  «  Oh  !  non  son  fatta  io  degna 

di  tanto.  È  l'uso  a  le  fanciulle  tirie 

portar  faretra,  e  il  porporin  coturno 

alto  al  piede  allacciar.  Punico  regno, 

Tirii  e  città  di  Agenore  tu  vedi; 

ma  è  suol  di  Libia,  gente  rotta  a  guerra. 

Tiene  Dido  l'impero,  qui  sfuggita 

da  la  tiria  città  via  dal  fratello. 

È  lunga  offesa,  lunghe  trame;  ed  io 

per  sommi  capi  toccherò  le  cose. 

Marito  a  questa  donna  era  Sicheo, 
tra'  Fenici  ricchissimo  di  terre 
e  ch'ella  amò  perdutamente,  data 
vergine  a  lui  dal  padre  e  disposata 


Ih  ENEIDE 

co'  primi  auspici.  Ma  di  Tiro  al  regno 
seguiva  il  fratel  suo  Pigmalione, 
più  malvagio  su  tutti  ed  efferato. 
E  tra  i  cognati  si  frappose  l'ira. 
Quegli  empio  e  cieco  da  l'amor  de  l'oro, 
nulla  pensando  al  cuor  de  la  sorella, 
con  traditrice  spada  innanzi  a  Tare 
inavveduto  sopraffa  Sicheo; 
e  il  fatto  a  lungo  ascose  e  di  fallace 
speme  ingannò  la  mesta  innamorata. 
Ma  l'ombra  venne  a  lei  de  l'insepolto 
sposo  ne'  sogni,  e  sollevando  il  viso 
mirabilmente  pallido  le  aperse 
l'aitar  crudele  ed  il  trafitto  seno 
e  tutto  il  bieco  orror  de  la  famiglia. 
Prender  la  fuga,  abbandonar  la  patria 
le  persuade,  e  buono  al  suo  viaggio 
tesoro  antico  le  rivela  in  terra, 
ignorato  valor  d'oro  e  d'argento. 
Da  tanto  indótta  preparava  Dido 
la  fuga  e  i  soci  :  si  radunan  quelli 
che  hann'odio  fiero  del  tiranno  o  \'ivo 
sospetto;  navi  erano  a  sorte  pronte, 
e  quelle  hanno  afferrate  e  d'oro  colme. 
Salpa  in  mar  la  dovizia  de  l'avaro 
Pigmalion:  duce  una  donna  al  fatto. 
Vennero  a'  luoghi  ove  or  l'eccelse  mura 
vedi  e  sorger  la  ròcca  de  la  nova 
Cartagine,  e  comprarono  terreno, 
Birsa  dal  nome  de  la  cosa,  quanto 
con  un  cuoio  taurino  avesser  cinto. 


LIBRO    PRIMO  17 

Ma  voi  chi  siete  ?  e  da  che  terra  giunti  ? 
dove  avviati  ?  ». 

Al  dimandar  di  lei 
quegli  così  rispose  sospirando 
con  una  voce  che  dal  cuor  saliva: 
«  O  dea,  s' io  mi  rifaccio  dal  principio 
e  i  fasti  attendi  udir  de'  nostri  mali, 
V^espero  in  ciel  chiuderà  prima  il  giorno. 
Da  Troia  antica  noi,  se  a'  vostri  orecchi 
Troia  sonò,  di  mare  in  mar  portati 
spinse  a  la  Libia  l'arbitra  tempesta. 
Sono  il  pio  Enea,  per  fama  ito  a  le  stelle, 
che  i  Penati  sottratti  dal  nemico 
reco  per  mar  con  me.  Cerco  l'Italia 
avita  e  il  ceppo  che  da  Giove  scende. 
Con  venti  navi  il  frigio  mare  io  presi, 
e  la  dea  madre  mi  mostrava  il  solco, 
dietro  i  fati  assegnati  :  or  sette  sole 
restano,  guaste  da  l'onde  e  dal  vento. 
Ignoto,  ignudo  erro  le  libie  lande, 
d'Europa  e  d'Asia  reietto  ». 

Seguire 
non  gli  lasciando  sua  querela  triste, 
Venere  interrompea  :  «  Oual  che  tu  sia, 
non  inviso  a'  Celesti,  io  credo,  l'aure 
spiri  vitali,  poi  che  se'  venuto 
a  la  tiria  città  :  solo  procedi 
a  le  soglie  da  qui  de  la  regina. 
Per  ch'io  ti  annunzio  reduci  i  compagni, 
resa  la  fiotta  e  da  mutati  venti 
tratti  in  salvo,  se  un  vano  presagire 

Albini  -  Eneide  » 


l8  ENEIDE 

vani  non  m'insegnarono  i  parenti. 

Sei  e  sei  cigni  guarda  lieti  a  schiera, 

cui  l'augello  di  Giove  minando 

da  l'aria  avea  per  l'ampio  ciel  sgomenti, 

or  calarsi  ordinati  e  prender  terra 

o  quasi  presa  già  d'alto  adocchiarla. 

Come  quelli  tornanti  batton  l'ale 

e  abbraccian  l'aria  e  il  canto  hanno  ridesto, 

così  le  prore  e  i  prodi  tuoi  nel  porto 

già  sono  o  v'entrano  a  spiegate  vele. 

Sol  va',  prosegui  dietro  la  tua  via  ». 

Disse,  e  die  nel  rivolgersi  un  baleno 

da  la  rosea  gola;  odor  divino 

spirarono  dal  suo  capo  le  ambrosie 

chiome,  la  veste  fino  al  pie  discese, 

e  palese  a  l'andar  parve  la  dea. 

Egli  come  la  madre  riconobbe, 

con  questo  dir  la  perseguì  fuggente: 

«  Tante  volte  perché,  tu  pur  crudele, 

illudi  il  figlio  con  sembianze  false? 

né  mi  è  dato  a  la  man  porre  la  mano, 

e  parlare  e  rispondere  sincero?  ». 

Così  si  duole  e  a  la  città  s'avvia. 

Ma  Venere  d'oscuro  aer  li  cinge 

e  li  riveste  d'una  nebbia  folta, 

che  vederli  niun  possa  o  toccarli, 

fermarli  o  chieder  del  venir  cagione. 

Alto  essa  a  Pafo  rivolò,  si  rese 

Heta  ne  la  dimora  ov'è  il  suo  tempio 

e  d'incenso  sabeo  fumano  cento 

altari  e  odoran  di  ghirlande  fresche. 


LIBRO    PRIMO  19 

Prendon  quelli  la  via  com'è  segnata, 
e  già  salivari  la  collina  che  ampia 
a  la  città  sovrasta  e  la  prospetta. 
Ammira  Enea  le  moli,  e  fur  capanne, 
e  le  porte  e  lo  strepito  e  le  strade. 
Sudano  i  Tirii  a  l'opera  :  chi  stende 
i  muri  e  innalza  l'arce  e  volge  a  forza 
macigni;  chi,  scelto  a  sua  casa  il  sito, 
d'un  solco  il  gira  :  allogan  la  ragione, 
i  magistrati  e  l' inchto  senato  : 
altri  qui  scava  il  porto,  altri  là  pone 
profondi  del  teatro  i  fondamenti 
e  spicca  da  le  rupi  alte  colonne, 
superbo  onor  de  le  future  scene. 
Tali  l'api  tra  '1  sol  preme  il  desio 
a  nova  estate  per  i  campi  in  fiore, 
quando  i  maturi  parti  di  lor  gente 
mettono  fuori,  o  stipano  il  fluente 
miele  e  spalman  le  celle  di  suo  dolce, 
o  alleviano  dal  peso  le  tornanti, 
o  schierate  respingon  da'  presepi 
l'ignavo  stuol  de'  fuchi  :  ferv^e  l'opra 
e  dà  sentor  di  tim.o  il  miei  fragrante. 
<?  Fortunati,  la  cui     città  già  sorge  !  )-, 
esclama  Enea  guardando  alto  i  fastigi. 
E  avvolto  in  nebbia  va,  prodigio  a  dire, 
per  mezzo  a  tutti  né  il  disceme  alcuno. 

Nel  cuor  de  la  città,  beato  d'ombra 
un  bosco  fu,  dove  da  prima  i  Peni 
da'  marosi  e  dal  turbine  sbattuti 


20  ENEIDE 

cavarono  il  segnai  che  la  dea  Giuno 

predetto  avea,  la  testa  d'un  destriero: 

onde  sarà  ne'  secoli  la  gente 

possente  in  guerra  ed  abbondante  in  pace. 

Ivi  un  gran  tempio  la  sidonia  Dido 

fabbricava  a  Giunone,  per  i  doni 

dovizioso  e  il  nume  de  la  dea. 

Bronzea  su'  gradi  ne  sorgea  la  soglia, 

le  travi  in  bronzo  avvinte,  a  bronzee  porte 

il  cardine  stridea.  Qui  nova  cosa 

si  offerse  che  lenì  prima  il  timore, 

qui  prima  Enea  sperare  osò  salvezza 

e  consolarsi  de  l'afflitto  stato. 

Che  mentre  sotto  l'ampia  volta  esplora 

ogni  cosa,  aspettando  la  regina, 

mentre  de  la  città  la  floridezza 

e  il  pregio  degli  artefici  e  l'industria 

ammira  in  cuor  de  l'opere,  ecco  vede 

in  ordine  le  iliache  battaglie 

e  la  guerra  dovunque  omai  famosa, 

gli  Atridi  e  Priamo  e  fiero  a  entrambi  Achille. 

Si  fermò  lagrimando  e  disse  :  «  Acate, 

qual  resta  luogo  o  regione  al  mondo 

che  non  sia  piena  del  nostro  dolore  ? 

Ecco  Priamo.  Anche  qui  virtù  si  pregia, 

e  piange  la  pietà  sui  casi  umani. 

Non  temer  più  :  ti  recherà  tal  fama 

alcuno  scampo  >. 

Così  dice,  e  gode 
di  quel  vano  dipinto  sospirando 
e  largamente  inumidisce  il  volto. 


LrBRO    PKIMO  21 

Che  guerreggianti  a  Pergamo  d'intorno 

qua  vedea  fuggir  Grai  davanti  al  nerbo 

troiano,  e  Frigi  là  col  carro  a  tergo 

de  l'impiumato  Achille.  Indi  non  lungi 

ravvisa  lagrimando  i  padiglioni 

di  Reso  a  bianche  vele,  cui  traditi 

dal  primo  sonno  devastava  rosso 

il  Tidide  di  strage,  e  i  bei  cavalli 

via  ne  sospinse  verso  il  campo,  prima 

che  avessero  gustata  erba  di  Troia 

o  bevuto  lo  Xanto.  In  altra  parte 

fuggente,  perse  l'armi,  è  trascinato 

Troilo,  infehce  giovine,  ineguale 

con  Achille  affrontatosi:  supino 

giace  sul  carro  vano,  ancor  tenendo 

le  briglie;  scrive  il  suol  l'asta  rovescia. 

Andavano  le  Iliadi  frattanto 

col  peplo  offerto  al  tempio  de  l'avversa 

Pallade,  sciolto  il  crin,  battendo  il  petto, 

supplicemente  accorate:  la  dea 

tien  fìsso  a  terra  in  altra  parte  il  guardo. 

Tre  volte  intorno  de  l'iliache  mura 

Achille  strascinato  Ettore  aveva 

e  a  prezzo  ne  vendea  la  salma:  oh  allora 

getta  dal  cuor  profondo  un  gran  sospiro, 

quando  le  spoglie,  quando  il  carro,  quando 

esso  innanzi  si  vide  il  morto  amico 

e  Priamo  che  tendea  le  palme  inermi  ! 

Riconobbe  anche  sé  tra  i  duci  achei, 

gli  orientali  eserciti  e  del  nero 

Mèmnone  l'armi.   Impetuosa  guida 


22  ENEIDE 

Pentesilea  con  le  lunate  targhe 
le  squadre  de  le  Amazzoni,  e  succinta 
di  cinghio  d'oro  la  mammella  ignuda, 
in  mezzo  a'  mille  e  mille  arde  guerriera 
né  paventa  sfidar  vergine  i  prodi. 

Mentre  al  dardanio  Enea  si  scopron  queste 

maraviglie,  mentr'ei  si  sta  rapito 

e  fiso  a  contemplarle,  al  tempio  è  mossa 

la  regina  bellissima  Bidone, 

da  florido  corteggio  accompagnata. 

Quale  in  riva  a  l'Eurota  o  per  i  gioghi 

del  Cinto  i  cori  esercita  Diana, 

cui  cerchian  mille  Oreadi  seguaci; 

essa  a  le  spalle  ha  la  faretra  e  andando 

sopravanza  le  ninfe  tuttequante; 

tenta  il  cuor  di  Latona  occulta  gioia  : 

tale  era  Dido,  tale  procedea 

luminosa  nel  mezzo,  invigilando 

al  fondamento  de'  futuri  regni. 

Poi  ne  le  soglie  de  la  Dea,  sott'essa 

la  volta  sacra,  in  mezzo,  d'armi  cinta 

e  salita  sul  trono  alto  si  assise. 

Dettava  a'  suoi  ragioni  e  leggi,  ed  equa 

partiva  o  sorteggiava  le  fatiche; 

quando  ad  un  tratto  Enea  vede  in  gran  folla 

Anteo  e  Sergesto  giungere  ed  il  forte 

Cloanto  ed  altri  Teucri  che  per  l'onde 

disseminati  la  procella  fosca 

aveva  e  spinti  a  più  remote  prode. 

Esso  stupì,  stupì  sorpreso  Acate 


LIBRO    PRIMO  23 

tra  gioia  e  tema:  ardean  stringer  le  destre, 
ma  li  turba  nel  cuor  la  cosa  ignota. 
Se  ne  stanno,  e  vestiti  de  la  nube 
attendono  qual  sia  de'  loro  il  caso, 
ove  approdati,  a  che  vengano  :  poi  che 
scelti  venian  da  tutti  i  legni  a  chieder 
grazia  e  preme van  clamorosi  al  tempio. 

Entrati  e  avuta  del  parlar  licenza, 

l'annoso  IHoneo  pacatamente 

incominciò  :  «  Regina,  cui  die  Giove 

nova  città  fondare  e  con  giustizia 

frenar  genti  superbe,  te  preghiamo 

noi  Troiani  infelici  al  vento  volti 

per  ogni  mare:  lo  spietato  incendio 

da  le  navi  allontana,  una  pia  stirpe 

risparmia  e  in  noi  più  giusto  abbi  riguardo. 

Già  non  venimmo  a  devastar  col  ferro 

i  Ubici  Penati  e  trarre  al  lido 

rapite  prede  :  che  non  hanno  in  cuore 

tal  violenza  né  superbia  i  vinti. 

È  un  luogo,  Esperia  l'usan  dire  i  Grai, 

fiera  in  armi  e  ferace  antica  terra  : 

gli  Enotri  l'abitarono,  ora  è  fama 

che  dal  nome  di  un  duce  i  lor  nepoti 

ItaHa  nominassero  la  gente. 

Questo  il  viaggio  fu  : 

allor  che  gonfio  d'improvviso  flutto 

il  nemboso  Orione  ci  travolse 

e  in  balìa  de'  protervi  austri  per  l'onde. 

sopraffatti  dal  pelago,  e  per  gli  aspri 


24  ENEIDE 

scogli  ci  dissipò  :  pochi  di  noi 
arrivammo  nuotando  al  vostro  lido. 
Che  gente  è  qui  ?  qual  sì  barbara  patria 
tali  modi  consente?  Da  lo  scampo 
siam  ributtati  de  la  sabbia:  guerra 
movono,  d'afferrar  vietan  la  sponda. 
Se  gli  uomini  e  le  umane  armi  sprezzate, 
oh  pensate  agli  Dei  che  son  custodi 
e  del  bene  e  del  male!  Era  il  re  nostro 
Enea,  di  cui  non  fu  più  giusto  alcuno 
né  di  pietà  maggiore  o  di  prodezza. 
Che  se  il  destino  a  noi  lo  serba,  s'egh 
spira  le  vivide  aure  e  ancor  non  giace 
ne  le  crudeli  tenebre,  siam  salvi  ; 
né  ti  dorrai  se  gareggiasti  prima 
tu  di  benignità.  Città  pur  sono 
ne  la  region  siciliana  ed  armi 
e  da  sangue  troiano  inclito  Aceste. 
Il  fiaccato  da'  venti  a  riva  trarre 
naviglio  sia  concesso,  e  da  le  selve 
le  tavole  foggiar,  temprare  i  remi  : 
sì  che,  se  lecito  è  cercar  l' Italia 
co'  soci  e  il  re  ricuperato,  lieti 
verso  l'Italia  e  il  Lazio  navighiamo; 
ma  se  persa  è  salvezza,  e  te,  de'  Teucri 
ottimo  padre,  il  mar  di  Libia  tiene, 
e  più  la  speme  non  riman  di  Giulo, 
ai  porti  di  Sicilia  e  a  le  dimore 
sicure  almeno,  onde  qui  fummo  spinti, 
ed  al  regno  di  Aceste  alziam  la  vela  ». 
Ilioneo  così  ;  fremeano  assenso 


LIBRO    PKl.MO  25 

i  Dardanidi  intorno. 
Breve  Bidone  allor  con  gli  occhi  bassi 
parla:  a  Dal  cuor  sgombrate  ogni  sospetto, 
posate,  o  Teucri,  da  l'affanno.  Il  duro 
stato  e  la  novità  del  regno  a  questi 
modi  tener  mi  sforzano  e  di  guardia 
tutti  all'in  giro  assicurare  i  lidi. 
Chi  gli  Eneadi,  chi  può  Troia  ignorare  ? 
e  gli  eroi  e  l'incendio  di  tal  guerra  ? 
Non  sì  ottusi  sensi  abbiam  noi  Peni 
né  da  qui  sì  remoto  il  sol  carreggia. 
O  che  r  Esperia  grande  ed  i  saturnii 
campi  cerchiate,  o  d'Èrice  il  paese 
e  Aceste  re,  vi  manderò  sicuri 
d'aiuto  e  dono  vi  farò  di  forze. 
O  qui  pur  vi  volete,  in  questo  regno, 
con  me  restare  ?  La  città  ch'io  fondo 
è  vostra:  i  legni  ritraete  a  riva; 
fra  Teucri  e  Tirii  non  porrò  divario. 
Fosse  presente  anch'esso  il  re,  sospinto 
dal  medesimo  Noto,  Enea!  Ben  io 
per  ogni  spiaggia  manderò  sagaci 
tutta  Libia  a  cercar,  se  forse  ei  vada 
per  selve  o  per  città  naufrago  errando  ». 

A  questi  detti  preso  cuore,  il  forte 
Acate  e  il  padre  Enea  già  già  pur  dianzi 
ardevano  di  erompere  la  nube. 
Per  il  primo  ad  Enea  volgesi  Acate  : 
«  O  figlio  de  la  Dea,  quale  or  pensiero 
ti  nasce  in  mente?  Sicurtà  qui  vedi, 


26  ENEIDE 

e  racqtiistati  i  legni  ed  i  compagni. 
Sol  quello  manca  che  mirammo  noi 
esser  sommerso  in  mezzo  a  la  burrasca: 
risponde  il  resto  al  detto  de  la  madre  ». 
Parlato  appena  avea  così,  che  pronta 
s'apre  la  nube  che  teneali  avvolti 
e  lieve  per  V  aperto  aere  sfuma. 
Aito  rifulse  in  chiara  luce  Enea, 
simile  il  volto  e  gU  omeri  a  un  iddio; 
ch'essa  al  figlio  la  madre  adorne  chiome 
e  purpureo  splendor  di  giovinezza 
e  novo  incanto  avea  spirato  al  guardo, 
quale  a  l'avorio  aggiunge  l'arte  fregio, 
o  se  l'argento  o  se  la  paria  pietra 
si  fa  di  biondeggiante  oro  contorno. 
Allor  così  si  volge  a  la  regina 
e  subito  imprevisto  a  tutti  parla  : 
«  Presente,  quegli  che  cercate,  io  sono, 
Enea  troiano,  al  libio  mar  scampato. 
O  di  Troia  al  dolor  sola  pietosa, 
che  noi,  avanzo  de'  Danai,  già  corso 
de  la  terra  e  del  mare  ogni  periglio, 
stremi  di  tutto,  di  città  e  di  casa 
soci  ti  fai,  render  le  grazie  degne 
non  è  in  nostro  poter,  Dido,  e  di  quanta 
sparsa  pe'  1  mondo  va  gente  dardania. 
A  te  gli  Dei,  se  Dei  guardano  i  buoni, 
se  vale  in  terra  la  giustizia  e  un  cuore 
conscio  di  sua  virtù,  dian  premio  degno. 
Qual  ti  portò  beata  età?  di  quali 
sì  gran  parenti  così  fatta  nasci? 


LIBRO    PRIMO  27 

Mentre  che  i  fiumi  correranno  al  mare, 
e  gireranno  l'ombre  i  seni  a'  monti, 
mentre  il  ciel  pascerà  le  stelle,  sempre 
il  tuo  nome  e  la  gloria  dureranno, 
qualunque  terra  attenda  me  ».  Ciò  detto, 
porge  a  l'amico  Ilioneo  la  destra 
e  la  manca  a  Seresto,  agli  altri  poi, 
ed  al  forte  Cloanto  e  al  forte  Già. 

Stupì  Dido  Sidonia  a  l'apparire, 

indi  a  tanta  vicenda  de  l'eroe, 

e  mosse  il  labbro:  «  Qual  ventura  a  tali 

cimenti,  figlio  de  la  Dea,  t'incalza? 

qual  t'urge  forza  a  l' inclem^enti  prode? 

Tu  quell'  Enea  che  al  dardanio  Anchise 

partorì  l'alma  Venere  lunghesso 

il  frigio  Simoenta?  Io,  sì,  rammento 

venir  Teucro  a  Sidone,  di  sua  patria 

cacciato,  a  ricercar  novello  regno 

con  l'ausilio  di  Belo:  il  Dadre  Belo 

iva  struggendo  allor  la  ricca  Cipro 

e  trionfa.nte  la  signoreggiava. 

Fin  da  quel  tempo  seppi  la  iattura 

de  la  città  troiana  e  il  nome  tuo 

e  i  re  pelasghi.  Quel  nemico  istesso 

i  Teucri  celebrava  e  da  l'antica 

stirpe  de'  Teucri  si  volea  disceso. 

Entrate  or  dunque  ne  le  case  nostre, 

giovani.  Me  pur  simile  fortuna 

spinse  per  molte  prove,  e  in  questa  terra 

fece  al  fine  posar  :  di  m^ali  esperta 


28  ENEIDE 

agi'  infelici  sovvenire  appresi  )\ 

Così  parla;  ed  insieme  Enea  conduce 

a  la  reg.eia,  insiem  fa  ne'  templi  a'  Numi 

sacrificare.  E  non  frattanto  oblia 

venti  tori  mandar  sul  lido  a'  soci, 

cento  di  grandi  porci  irsute  schiene 

e  cento  pingui  con  le  madri  agnelli, 

doni  e  gioia  del  dì. 

Ma  di  lusso  regal  si  adorna  e  splende 

la  casa  dentro,  ed  il  convito  in  mezzo 

v'apparecchiano:  drappi  lavorati 

con  arte  in  prezioso  ostro,  dovizia 

d'argento  su  le  mense,  e  in  oro  incisi, 

serie  infinita,  i  gran  fatti  de'  padri, 

di  tempo  in  tempo  da  l'origin  prima. 

Enea,  poi  che  il  paterno  amor  non  lascia 

ch'ei  non  vi  pensi,  rapido  a  le  navi 

premette  Acate,  che  ad  Ascanio  rechi 

le  nuove  e  lui  a  la  città  conduca  : 

tutto  in  Ascanio  è  il  cuor  del  caro  padre. 

I  doni  ancor  sottratti  a  le  mine 

iliache  ingiunge  di  portar,  la  palla 

rigida  tutta  di  figure  d'oro 

e  il  vel  di  giallo  acanto  attorniato, 

fogge  che  fur  d'  Elena  argiva,  ed  essa, 

movendo  a  Troia  ed  al  vietato  imene, 

se  l'aveva  portate  di  Micene, 

mirabil  dono  di  sua  madre  Leda  ; 

e  lo  scettro  altresì  che  un  giorno  Ilioria 

resse,  la  primogenita  di  Priamo, 


LIBRO    PRIMO  2Q 

e  il  monile  di  perle  e  la  corona 
mezza  tra  gemme  e  oro.  Queste  cose 
affrettando,  a  le  navi  Acate  andava. 

Ma  Citerea  nuove  arti  e  pensier  novo 

volge  in  cuor,  che  mutato  a  le  sembianze 

venga  Cupido  per  il  dolce  Ascanio 

e  follemente  accenda  la  regina 

co'  doni  e  metta  a  lei  per  l'ossa  il  fuoco. 

Ch'ella  ha  in  sospetto  quella  dubbia  casa 

ed  i  Tini  bilingui,  la  tormenta 

l'atroce  Giuno,  e  non  riposa  a  notte. 

Dunque  a  l'alato  Amor  così  favella  : 

"  Figlio,  potenza,  onnipotenza  mia, 

figlio  che  del  gran  Padre  il  dardo  spregi 

a  Tifoeo  tremendo,  a  te  ricorro, 

supplice  imploro  il  nume  tuo.  Che  in  mare 

il  tuo  fratello  Enea  di  riva  in  riva 

vien  tragittato  e  sbattuto  per  l'odio 

de  l'empia  Giuno,  a  te  soii  cose  note 

e  spesso  ti  dolesti  al  mio  dolore. 

Or  la  fenicia  Dido  il  tiene  e  lega 

con  lusinghiere  voci,  e  temo  a  che 

le  giunonie  riescano  accoglienze  : 

già  non  pensa  a  ritrarsi  in  sì  gran  punto. 

Però  sorprender  la  regina  innanzi 

vo'  con  inganni  e  cingerla  di  fiamma, 

che  per  venma  deità  non  cangi 

ma  sia  meco  ad  Enea  stretta  d'amore. 

Odi,  com'abbi  a  fare,  il  pensier  mio. 

Il  fanciullo  real  che  ho  tanto  a  cuore 


3©  ENEIDE 

del  caro  padre  al  cenno  ir  si  prepara 
a  la  città  sidonia,  co*  presenti 
salvi  dal  mare  e  da  Tardor  di  Troia. 
Lui  sopito  nel  sonno  sopra  l'alta 
Citerà  o  su  l'Idalio  in  sacra  sede 
io  celerò,  così  ch'egli  non  possa 
risaper  l'artifìcio  ed  interporsi. 
Le  sembianze  di  lui  sola  una  notte 
simula  e  del  fanciullo  tu  fanciullo 
il  noto  volto  prendi,  sì  che  quando 
lietissima  t'avrà  Bidone  in  grembo 
tra  le  mense  regali  e  i  lieti  vini, 
e  amplessi  ti  darà,  teneri  baci 
t'imprimerà,  e  tu  a  lei  nascoso 
infonda  fuoco  e  tosco  inavvertito  ». 
A'  detti  de  la  cara  genitrice 
ubbidiente  Amor  l'aU  si  spoglia 
e  col  passo  di  Giulo  àlacre  incede. 
Ma  Venere  ad  Ascanio  per  le  membra 
sparge  quiete  placida  ed  in  braccio 
recalo  su  ne'  boschi  alti  d' Idalia, 
là  dove  il  molle  amàraco  lo  culla 
di  fiori  e  di  soave  ombria  ravvolto. 

Docile  al  detto  ecco  venir,  co'  regi 
doni  pe'  Tirii,  e  avea  compagno  Acate, 
Cupido.  Al  giunger  suo,  tra  le  pareti 
fulgide  la  regina  s'è  composta 
su  l'aurea  sponda  e  collocata  in  mezzo 
il  padre  Enea,  la  gioventù  troiana 


LIBRO    PRIMO  31 

già  convengono  e  adagiansi  al  convito 

su  la  distesa  porpora.  A  le  mani 

danno  l'acqua  i  valletti  e  da'  canestri 

tolgono  il  pane  e  lisci  d'ogni  vello 

porgono  lini.  Son  cinquanta  ancelle 

a  disporre  la  lunga  imbandigione 

dentro  e  a'  Penati  alimentar  la  fiamma  ; 

cento  altre  quivi,  e  d'una  età  con  loro 

altrettanti  ministri,  a  ricolmare 

di  vivande  le  mense  e  a  porre  i  nappi. 

Anch'essi  i  Tirii  le  festanti  soglie 

popolano  e  son  fatti  su'  dipinti 

letti  adagiare.  Ammirano  d'Enea 

i  doni,  ammiran  Giulo  e  il  volto  acceso 

del  nume  e  i  fìnti  detti,  e  quella  palla 

e  il  vel  trapunto  di  dorato  acanto. 

Di  tutti  più,  sacra  al  futuro  danno, 

la  Fenicia  infelice  non  si  sazia 

e  più  arde  guardando,  e  del  fanciullo 

è  del  pari  commossa  e  de'  presenti. 

Esso,  poi  che  d'  Enea  sospeso  al  collo 

appagò  del  non  vero  padre  il  grande 

amore,  corre  a  la  regina.  Questa 

ha  le  pupille  e  tutto  il  cuore  in  lui, 

e  in  grembo  anche  il  riceve,  inconscia  Dido 

qual  grande  iddio  su  lei  misera  posi. 

Memore  ei  ben  de  l'acidalia  madre 

s'accinge  e  studia  a  cancellar  Sicheo, 

e  move  a  vincer  con  un  vivo  affetto 

gli  spiriti  da  tempo  illanguiditi. 


.i^ 


ENEIDE 


Al  posar  primo  del  banchetto,  via 

tolte  le  mense,  appongono  i  crateri 

grandi  e  i  vini  coronano.  Un  clamore 

è  per  le  stanze  e  voci  empion  le  volte  : 

pendono  i  lumi  da'  soffitti  aurati 

e  vive  torce  vincono  la  notte. 

Qui  la  regina  chiese  un  nappo  grave 

di  gemme  e  d'oro,  e  lo  colmò  di  vino, 

in  uso  a  Belo  e  a  quanti  son  da  Belo; 

e  fu  silenzio  per  le  stanze  allora  : 

«  O  Giove,  poi  che  agli  ospiti  dar  legge 

dicono  te,  tu  questo  dì  fa  lieto 

a'  Tini  e  a  quei  che  Vennero  da  Troia. 

e  che  l'abbiano  a  mente  i  nostri  figli. 

Dator  di  gioia,  Bacco  assista  e  amica 

Giuno  :  e  al  convegno  voi  deh  !  v'accogliete, 

Tirii,  di  cuore  -^  Disse,  e  su  le  mense 

la  primizia  del  calice  spargea; 

indi  per  prima  vi  posò  le  labbra, 

e  a  Bitia  il  die  garrendolo  :  voglioso 

da  lo  spumante  pieno  oro  egli  bevve, 

e  di  poi  gli  altri  principi. 

Il  chiomato 
lopa  tocca  la  dorata  cetra, 
discepolo  che  fu  del  sommo  Atlante. 
Canta  l'errante  luna  e  il  sol  che  oscura, 
degli  uomini  l'origine  e  de'  bruti, 
e  de  l'acqua  e  del  fuoco,  Arturo  e  V  ladi 
piovose  e  i  due  Trioni,  e  come  al  mare 
caUn  sì  presto  gl'in vemah  soH, 
quale  le  notti  lente  abbiano  indugio. 


LIBRO    PRIMO 


33 


Raddoppiali  plauso  i  Tirii  e  i  Troi  con  loro. 
Essa  in  vario  colloquio  protraeva 
l'infelice  Didon  la  notte  e  a  lungo 
bevea  l'amore,  molto  intomo  a  Priamo, 
molto  a  Ettore  intorno  domandando, 
e  con  quali  armi  il  figlio  de  l'Aurora 
fosse  venuto,  e  quali  Diomede 
cavalli  avea,  com'era  grande  Achille. 
«  Su  \da,  poi  dice,  da  l' inizio  primo, 
ospite,  a  noi  de'  Danai  l'insidia 
narra  e  de'  tuoi  l'offesa  e  il  tuo  viaggio; 
che  la  settima  estate  or  già  ti  porta 
per  le  terre  vagante  e  le  marine  ». 


Albisi  -  Eneide 


LIBRO  SECONDO 


Tacquero  tutti,  con  gli  sguardi  a  lui. 
AUor  così  dal  divano  alto  il  padre 
Enea  prese  a  parlar  :  '<  Tu  vuoi,  regina, 
che  un  immenso  dolore  io  rinno velli, 
come  i  Danai  distrusser  la  potenza 
troiana  e  il.  lagrime  voi  regno,  atroci 
cose  ch'io  vidi  e  di  che  fui  gran  parte. 
A  raccontarle,  chi  terrebbe  il  pianto 
de'  Mirmidoni  o  Dòlopi  o  soldato 
del  duro  Ulisse?  E  già  dal  ciel  declina 
l'umida  notte,  e  le  cadenti  stelle 
chiamano  al  sonno.  Pur,  se  tanto  affetto 
di  conoscere  hai  tu  le  nostre  pene 
e  in  breve  udire  l'agonia  di  Troia, 
quantunque  il  cuor  ne  sbigottisce  e  sempre 
ne  rifugge,  dirò. 

Vinti  a  la  guerra 
e  dal  fato  respinti,  i  condottieri 
de'  Danài,  già  tanti  anni  passati, 
con  l'arte  de  la  dea  Pallade  fanno 


36  ENEIDE 

un  cavallo  ch'è  simile  ad  un  monte, 
costruito  di  tavole  d'abete. 
Fingon  che  sia  per  il  ritorno  un  voto, 
e  il  grido  va.  Per  entro  il  cieco  fianco 
tratti  a  sorte  nascondono  di  furto 
scelti  guerrieri,  e  le  caverne  e  il  ventre 
tuttoquanto  riempiono  d'armati. 
Tènedo  è  in  vista,  un'isola  famosa, 
doviziosa,  mentre  stava  il  regno 
di  Priamo,  ora  solamente  un  grembo, 
malfido  asilo  de  le  navi:  quivi 
vanno  a  celarsi  nel  deserto  lido. 
Noi  li  crediam  partiti  e  veleggiare 
verso  Micene:  tutta  dunque  Troia 
sciolta  respira  dal  suo  lungo  affanno. 
S'apron  le  porte;  piace  uscir,  vedere 
il  campo  greco  e  i  luoghi  abbandonati, 
libero  il  lido:  i  Dolopi  eran  ivi, 
ivi  il  crudele  Achille  avea  la  tenda; 
la  flotta  qui,  là  stavano  le  schiere. 
Al  dono  pernicioso  di  Minerva 
parte  si  affisa  e  ammirano  la  mole 
del  cavallo:  tra  lor  primo  Timete 
di  trarlo  esorta  entro  le  mura  e  porlo 
in  su  la  rocca,  o  per  inganno,  o  vero 
già  portavan  così  di  Troia  i  fati. 
Ma  Capi  e  gU  altri  di  miglior  consiglio 
gridano,  o  si  precipiti  nel  mare 
e  incenerisca  con  le  fiamme  sotto 
la  greca  insidia  ed  il  sospetto  dono, 
o  che  si  squarci  e  spii  l'ascoso  fianco. 


LTSRO    SECON'DO  37 

Vario  in  vario  pensier  si  scinde  ii  volgo. 

Primo  allor  tra  gran  gente  che  il  seguiva 

Laocoonte  fervido  da  l'alto 

corre  giù  de  la  rocca,  e  di  lontano: 

—  Qual  demenza  è  cotesta,  o  sventurati 

cittadini  ?  credete  ito  il  nemico  ? 

e  alcun  dono  pensate  esser  de'  Danai 

senza  inganno  ?  così  v'è  noto  Ulisse  ? 

O  dentro  a  questo  legno  son  celati 

Achei,  o  questa  macchina  è  costrutta 

de'  nostri  muri  a  danno,  ad  esplorare 

le  case  e  coglier  la  città  da  sopra, 

o  alcuna  insidia  celasi  :  al  cavallo, 

o  Teucri,  non  credete;  qual  ch'ei  sia, 

i  Danai  temo  anche  se  portan  doni  -. 

Così  detto,  con  valido  vigore 

la  grande  asta  avventò  contro  la  belva 

nel  ventre  curvo  di  commesse  travi. 

Stette  tremula  l'asta  e,  il  grembo  scosso, 

tinnì  la  cupa  e  risonò  caverna. 

E  se  i  fati  de'  Numi,  e  se  la  mente 

nostra  non  era  avversa,  ei  n'avea  spinti 

a  infrangere  col  ferro  il  nascondiglio 

argolico,  e  ancor  Troia  si  ergerebbe 

e  ancor,  arce  di  Priamo  alta,  saresti. 

Ecco  intanto,  le  mani  a  tergo  avvinte, 
un  giovine  traevano  pastori 
dardani  al  re  con  gran  rumor,  che  ignoto 
offerto  a  lor  s'era  da  sé,  pur  questo 
per  macchinare  e  aprir  Troia  agli  Achivi, 


38  ENEIDE 

fidente  in  cuore  e  a  doppia  sorte  pronto, 

compier  l'inganno  o  certa  incontrar  morte. 

D'ogni  parte  per  voglia  di  vedere 

corre  e  s'affolla  gioventù  troiana, 

e  gareggiano  a  scherno  del  captivo. 

Odi  or  de'  Danai  l'arti  e  da  una  colpa 

conosci  tutti. 

Come  in  vista  di  tanti  incerto,  inerme 

ristette  e  lento  girò  gli  occhi  intorno 

sul  popol  frigio  :  ~  Ahi  quale  or  terra,  esclama, 

quale  accoglier  mi  può  mare?  che  resta 

a  l'infelice  dunque  più,  se  luogo 

non  ho  tra  i  Danai,  e  i  Dardani  pur  essi 

esigono  da  me  pena  di  sangue?  - 

Mutati  i  cuori  a  questo  grido  ed  ogni 

infierir  fu  represso  :  l'esortiamo 

a  dire  di  che  sangue  sia,  che  rechi, 

qual  fiducia  ebbe  a  rendersi  prigione. 

—  Certo  ogni  cosa,  o  re,  che  che  ne  segua, 

ti  dirò  vera,  dice;  e  d'esser  greco 

non  negherò,  per  prima:  e  se  Fortuna 

Sinone  ha  fatto  misero,  mendace 

non  lo  potrà  far  mai  né  ingannatore. 

Se  per  voce  agli  orecchi  ti  pervenne 

il  nome  del  belìde  Palamede 

e  la  chiara  sua  gloria,  cui  per  falso 

tradimento  i  Pelasghi  e  infame  accusa, 

perché  la  guerra  non  volea,  innocente 

trassero  a  morte,  e  spento  il  piangon  ora; 

a  lui  compagno,  e  stretto  anche  di  sangue, 

me  il  mio  padre  povero  mandava 


LIBRO    SECONDO  39 

a  questa  guerra  su  l'età  mia  prima. 
Mentre  saldo  nel  regno  era  e  fioriva 
ne'  consigli  dei  re,  nome  ed  onore 
ebbi  alcuno  pur  io.  Ma  poi  che  morto 
fu  per  livore  de  l'infinto  Ulisse 
(cose  sapute  narro),  in  ombra  mesta 
abbattuto  io  traeva  i  dì,  la  sorte 
piangeva  in  cuor  de  l'innocente  amico. 
Stolto,  e  non  tacqui!  Se  si  offrisse  caso, 
se  lieto  mai  tornassi  in  patria  ad  Argo, 
giurai  vendetta  e  al  bieco  odio  m'esposi. 
Quindi  il  principio  del  mio  male,  e  Ulisse 
sempre  a  incalzarmi  di  calunnie  nove, 
a  sparger  contro  me  voci  nel  volgo 
ambigue  e  a  preparar  sagace  l'armi. 
Né  si  risté,  che  ad  opra  di  Calcante.... 
Ma  perché  mai  rinfresco  io  la  spiacente 
storia  ?  perché  v'  indugio  ?  Se  per  voi 
son  tutti  eguaU  i  Greci,  e  ciò  v'è  assai, 
or  m'uccidete  :  l' Itaco  il  vorrebbe 
e  caro  prezzo  ne  darian  gli  Atridi  -. 
Di  chiedere  e  saper  cresce  l'ardore, 
ignari  noi  di  scelleraggin  tanta 
e  de  l'arte  pelasga.  Pauroso 
prosegue  ed  infingendosi  favella  : 
—  Spesso  i  Danai  bramarono  la  fuga 
prender  da  Troia  e  stanchi  da  la  guerra 
lunga  partire.  Deh  l'avesser  fatto! 
Spesso  li  tenne  lo  sconvolto  verno 
del  mar  e  l'austro  H  atterrì  già  mossi; 
e  più  che  mai,  che  già  questo  cavallo 


40 


ENEIDE 


fatto  di  travi  d'acero  sorgea, 
per  tutto  il  cielo  risonaron  nembi. 
Sospesi  Eurìpilo  inviam  di  Febo 
a  interrogar  l'oracolo,  e  dal  tempio 
questo  amaro  responso  ei  ne  riporta: 
—  Col  sangue  d'una  vergine  immolata 
placaste  i  venti,  o  Danài,  movendo 
prima  a  le  sponde  iliache:  col  sangue 
dee  cercarsi  il  ritorno  e  con  l'offerta 
d'un'argolica  vita  — . 

Divulgata 
che  fu  tal  voce,  sbigottì  ciascuno 
con  gelido  tremor  ne  l'ossa,  a  cui 
preparin  morte,  chi  domandi  Apollo. 
Qui  con  grande  scalpor  l' Itaco  trae 
l'indovino  Calcante  in  fra  le  turbe, 
qual  sia  quel  cenno  degli  Dei  gli  chiede: 
e  molti  già  mi  predicean  l'atroce 
misfatto  de  l'artefice  o  tacendo 
prevedevan  l'evento.  QuegU  tace 
per  cinque  e  cinque  dì;  chiuso  ricusa 
svelar  esso  nessuno  e  offrirlo  a  morte. 
Solo  a  la  fin,  dal  tempestar  d'Ulisse 
stretto,  d'accordo  schiude  il  labbro  e  me 
designa  a  l'ara.  Consentiron  tutti, 
paghi,  quel  che  ciascun  per  sé  temea, 
d'un  sol  meschino  ricadere  in  danno. 
E  già  veniva  il  giorno  maledetto, 
si  preparava  il  sacrifizio  mio 
e  il  salso  orzo  e  le  bende  a  le  mie  tempie. 
Mi  sottrassi,  confesso,  a  morte  e  ruppi 


LIBRO    SECONDO  41 

i  legami;  tra  il  limo  e  le  cannucce 

del  padule  acquattato  per  la  notte 

mi  tenni,  fin  che  dessero,  se  m.ai 

date  al  vento  le  avessero,  le  vele. 

Né  speranza  era  in  me  più  di  vedere 

la  patria  antica  né  i  diletti  figli 

né  il  sospirato  padre,  a'  quali  forse 

faran  quelli  espiar  mio  scampo  e  il  fallo 

col  sangue  de'  meschini  emenderanno. 

Ond'io  te,  per  i  Superi  ed  i  Numi 

consci  del  ver,  per  l'illibata  fede, 

se  tale  alcuna  sopravvive  al  m.ondo, 

imploro,  abbi  pietà  di  dolor  tanto, 

pietà  d'un  uom  senza  sua  colpa  oppresso  -. 

Doniam  la  vita  a  questo  pianto  e  molta 

compassion.  Da  Priamo  è  l'esempio 

che  i  ceppi  gli  fa  togliere  da'  polsi 

e  gli  ragiona  con  parole  amiche  : 

—  Oual  che  tu  sia,  dimentica  i  perduti 

Grai  da  quest'ora;  sarai  nostro,  e  a  questo 

interrogar  rispondimi  verace. 

A  che  la  mole  di  si  gran  cavallo? 

chi  la  pensò  ?  che  vogliono  ?  è  devota 

offerta,  o  qualche  macchina  di  guerra  ?  - 

Avea  detto.  Colui,  pien  degl'inganni 

e  de  l'arte  pelasga,  alzò  le  palme 

sciolte  da'  ceppi  al  ciel:  —  Voi,  fuochi  etemi, 

e  il  vostro  chiamo  inviolabil  nume; 

voi,  are  e  spade  orrende  ch'io  fuggii, 

e  bende  pie  che  vittima  portai; 

lecito  è  a  me  de'  Grai  scioglier  le  sacre 


42 


ENEIDE 


ragioni,  lecito  odiarli,  e  tutti 
recar  davanti  al  sole  i  lor  segreti, 
né  di  patria  mi  tien  legge  nessuna. 
Sol  che  tu  resti  a  le  promesse,  o  Troia, 
e  da  me  salva  serbi  a  me  la  fede, 
se  dirò  ver,  se  pagherò  gran  prezzo. 

Ogni  speme  de'  Greci  e  la  fiducia 
sempre  posò  de  l'intrapresa  guerra 
su  gli  aiuti  di  Pallade.  Ma  quando 
empio  infatti  il  Tidide  e  l'inventore 
de'  tradimenti  UKsse,  accinti  a  torre 
il  Palladio  fatai  dal  sacro  tempio, 
le  guardie  uccise  de  la  rocca  eccelsa, 
rapirono  la  santa  imagine,  osi 
con  man  cruente  le  virginee  bende 
de  la  Diva  toccar;  da  quel  momento 
rifluire  a  l' indietro  e  dileguare 
la  speranza  de'  Grai,  le  forze  infrante, 
nemico  de  la  Dea  l'animo.  E  in  segno 
la  Tritonia  ne  offrì  chiari  portenti. 
Posto  nel  campo  il  simulacro  appena, 
arser  negli  sbarrati  occhi  bagUori 
di  fiamme,  scorse  un  sudor  salso  i  membri, 
e  tre  volte  dal  suolo  essa,  oh  prodigio!, 
col  cUpeo  e  la  vibrante  asta  die  un  balzo. 
Subito  in  fuga  prender  la  marina 
Calcante  indice,  né  poter  gittarsi 
Pergamo  a  terra  per  argoliche  armi, 
se  in  Argo  non  riprendano  gli  auspici 
e  ne  riportin  seco  amico  il  nume 


LIBRO    SECONDO  43 

ch'ebber  portato  su  le  curve  chiglie. 

Ed  or  che  veleggiarono  a  Micene, 

armi  e  Dei  s'apparecchiano  compagni 

e,  ri  varcato  il  pelago,  improvvisi 

saranno  qui.  Così  tutto  disegna 

Calcante.  Per  l'offesa  del  Palladio 

costrussero  esortati  questa  effìgie 

ad  espiare  il  sacrilegio  indegno. 

Pur  tanto  immensa  adergere  una  mole 

volle  il  vate  di  roveri  commesse, 

perché  varcar  le  porte,  entrar  le  mura 

ella  non  possa  e  il  popolo  guardare 

a  l'ombra  de  l'antica  reUgione. 

Che  se  la  vostra  mano  violato 

avesse  il  dono  di  Minerva,  allora 

grande  rovina  (deh!  l'augurio  in  lui 

prima  tornin  gli  Dei)  ne  seguirebbe 

a  l'impero  di  Priamo  ed  a'  Frigi. 

Ma  se  a  la  città  vostra  per  le  vostre 

mani  ascendesse,  essa  verrebbe  l'Asia 

a'  muri  pelopei  con  grande  stormo, 

e  de'  nostri  nepoti  esser  que'  fati.  — 

Per  artifìcio  tal  de  lo  spergiuro 

Sinone  si  credè  la  cosa,  e  quelli 

furon  presi  agl'inganni  e  a  un  falso  pianto, 

cui  né  il  Tidide  o  il  larisseo  Achille 

né  domaron  dieci  anni  e  mille  navi. 

Qui  caso  altro  maggior,  viepiù  tremendo, 
si  offre  a'  miseri  e  turba  i  cuor  sorpresi. 
Laocoonte,  in  sorte  sacerdote 


44 


ENEIDE 


tratto  a  Nettuno,  un  gran  toro  immolava 

a'  consueti  altari.  Ed  ecco  due 

da  Tenedo  per  l'alte  acque  tranquille 

serpenti  (inorridisco  a  raccontarlo) 

sul  pelago  con  mostruosi  cerchi 

incombono  e  di  par  tendono  a  riva. 

Erti  tra'  flutti  i  lor  petti  e  le  creste 

sanguigne  stanno;  tutto  il  resto  dietro 

spazza  l'onda  e  di\dncolasi  enorme. 

Va  un  suon  pe'  1  mar  che  spuma  ;  e  già  la  riva 

tenevano  e,  gli  ardenti  occhi  iniettati 

di  sangue  e  fuoco,  con  vibrate  lingue 

si  lambivan  le  bocche  sibilanti. 

Qua  e  là  fuggiam  smorti  a  tal  vista  :  quelli 

dirittamente  cercan  Laocoonte; 

e  prima  i  suoi  due  pargoli  figliuoli 

avvinghia  e  serra  l'uno  e  l'altro  drago 

e  dà  di  morso  a  le  misere  membra, 

poi  lui  che  vola  in  armi  a  lor  soccorso 

pigliano  e  legano  entro  l'ampie  spire, 

e  già  due  volte  a  mezzo  la  persona, 

due  volte  ribaditi  intorno  al  collo, 

gli  sovrastar!  col  capo  e  la  cervice. 

Egli  insiem  con  le  man  sgroppar  que'  nodi 

si  sforza,  per  le  bende  gocciolando 

del  suo  sangue  e  di  reo  tossico,  insieme 

leva  le  grida  orribili  a  le  stelle, 

a  que'  muggiti  simili  del  toro 

che  sia  sfuggito  ferito  da  l'ara, 

scossa  dal  collo  la  malferma  scure. 

Ma  i  due  draeroni  via  strisciano  verso 


LIBRO    SECONDO  45 

l'alto  delubro  e  l'arce  de  la  fiera 
Tritonide,  e  s'acquattan  sotto  a.'  piedi 
de  la  diva  ed  al  cerchio  de  lo  scudo. 

Novello  allor  ne'  tremebondi  petti 
s'insinua  sgomento  a  tutti:  giusta- 
mente punito  par  Laocoonte, 
d'aver  con  la  sua  punta  il  sacro  legno 
offeso  ed  avventatagli  nel  fianco 
la  sacrilega  lancia:  il  simulacro 
gridan  che  al  tempio  adducasi,  e  s'implori 
il  nume  de  la  Dea. 

Spezziamo  i  muri  e  spalanchiam  le  mura. 
Tutti  a  l'uopo  si  accingono  :  a  le  zampe 
sottopongon  scorrevoli  le  ruote 
ed  al  collo  accomandano  le  funi. 
Sale  i  muri  la  macchina  fatale, 
gravida  d'armi:  giovinetti  intorno 
e  vergini  fanciulle  cantano  inni 
e  il  canape  toccar  godon  con  mano. 
Quella  sottentra  e  minacciosa  scorre 
nel  cuor  de  la  città.  0  patria!  o  Ilio 
casa  de*  Numi,  e  gloriose  in  guerra 
de'  Dardanidi  mura  !  Quattro  volte 
urtò  li  su  la  sogHa  de  la  porta, 
quattro  dal  grembo  risonaron  l'armi. 
Pure  incalziam  noi  ciechi  di  follia 
e  il  mostro  infausto  su  la  sacra  rocca 
collochiamo.  A'  futuri  fati  il  labbro 
apre  anche  allor  Cassandra,  da'  Troiani 
per  volere  del  Dio  non  mai  creduta. 


46  ENEIDE 

Noi  sciagurati,  cui  l'ultimo  giorno 
esser  quello  dovea,  per  le  contrade 
i  templi  orniamo  di  festiva  fronda. 

Girasi  intanto  il  cielo  e  vien  dal  mare 
la  notte  ravvolgendo  ne  la  grande 
ombra  la  terra  e  l'aere  e  gì'  inganni 
de'  Mirmidoni.  I  Teucri  sparsi  per  la 
città  si  tacquero  :  occupa  il  sopore 
le  membra  stanche.  E  la  falange  argiva 
de  le  schierate  navi  al  noto  lido 
da  Tenedo  moveasi  tra  l'amico 
silenzio  de  la  cheta  luna,  quando 
la  regia  poppa  alzato  ebbe  le  fiamme, 
e  protetto  Sinon  da'  fati  avversi 
de'  Numi  schiude  i  Danài  furtivo 
e  la  chiostra  di  pino.  Spalancato 
il  cavallo  li  rende  a  l'aria,  e  lieti 
da  la  cava  prigione  escon  Tessandro 
e  Stendo  guerrieri  e  il  crudo  Ulisse 
per  il  calato  canape  labendo 
e  Acamante  e  Toante  ed  il  peUde 
Neottolemo,  Macaone  per  primo, 
Menelao  e,  fabbro  de  l'insidia,  Epeo. 
Invadon  la  città  nel  sonno  immersa 
e  nel  vino;  le  scolte  trucidate, 
apron  le  porte  a  tuttiquanti  i  loro 
riunendo  le  compHci  masnade. 

Era  l'ora  che  il  primo  sonno  scende 
agli  affranti  mortali  e,  divin  dono. 


LIBRO    SECONDO  47 

soave  si  diffonde.  Ecco,  mi  parv^e 

mestissimo  vedere  Ettore  in  sogno 

con  grande  pianto,  qual  fu  strascinato 

già  da  la  biga  e  nero  di  cruenta 

polvere  e  per  gli  enfiati  pie  trapunto 

da  le  redini.  Ahimé  qual  era!  quanto 

cangiato  da  quell'Ettore  che  torna 

de  le  spoglie  d'Achille  rivestito, 

o  messo  il  frigio  fuoco  a'  legni  achei  ! 

Fosca  la  barba,  il  crin  grumi  di  sangue, 

con  le  tante  ferite  che  d'intorno 

a*  muri  de  la  patria  ebbe  per  lei. 

È  mi  parve  che  primo  io  lo  chiamassi 

piangendo  e  mesto  prorompessi  :  —  O  luce 

de  la  Dardania,  o  la  più  salda  spem.e 

de'  Teucri,  quale  ti  trattenne  indugio 

si  lungo  ?  da  che  terra,  Ettore,  vieni 

sospirato  ?  Deh  come,  dopo  molte 

morti  de*  tuoi  e  dopo  il  vario  affanno 

de  la  città,  te  lassi  rivediamo  ! 

Qual  malvagia  cagione  ha  guasto  il  tuo 

volto  sereno?  e  che  ferite  vedo  ?  — 

Ei  nulla,  e  al  vano  chieder  mio  non  bada; 

ma  con  un  grido  e  un  gemito  profondo 

—  Ah!  fuggi,  figlio  de  la  Dea,  mi  dice, 

e  scampa  a  queste  fiamme.  È  tra  le  mura 

il  nemico  ;  precipita  dal  sommo 

l'alta  Troia.  Fu  fatto  per  la  patria 

e  per  Priamo  assai.  Se  si  potesse 

or  Pergamo  difendere  col  braccio, 

era  difesa  già  dal  braccio  mio. 


48  ENEIDE 

Troia  ti  affida  le  sue  sacre  cose 

e  i  suoi  Penati:  prendili  compagni 

de'  fati  e  cerca  lor  novelle  mura 

che  grandi,  corso  il  mare,  al  fin  porrai  — . 

Così  dice,  e  di  sua  man  da'  riposti 

penetrali  mi  porge  fuor  le  bende, 

Vesta  possente  ed  il  perenne  fuoco. 

Sconvolta  intanto  da  diverso  lutto 

è  la  città,  e  più  e  più,  quantunque 

si  apparti  dietro  gli  alberi  la  casa 

del  padre  Anchise,  si  fan  chiari  i  suoni 

e  rinforza  lo  strepito  de  l'armi. 

Son  riscosso  dal  sonno  e  salgo  in  cima 

in  cima  de  la  casa  e  sto  in  ascolto: 

come  quando  la  fiamma  tra  la  messe 

cade  al  furor  de  l'austro,  o  vien  dal  monte 

il  rapido  torrente  e  strugge  i  campi 

e  i  bei  maggesi  e  l'opere  de'  buoi 

e  porta  a  precipizio  le  foreste, 

ignaro  trasahsce  udendo  il  rombo 

dal  ciglio  d'una  rupe  alta  il  pastore. 

Ben  manifesta  allor  la  fede  e  aperte 

son  le  insidie  de'  Danai.  La  grande 

casa  già  di  Deifobo  è  caduta 

tra  l'alte  vampe,  già  il  vicino  brucia 

Ucalegonte:  il  mar  sigeo  rispecchia 

ampio  gl'incendi.  Levasi  un  gridare 

d'uomini  e  uno  squillar  di  trombe:  l'armi 

fuor  di  me  prendo,  e  ne  l'armarmi  certo 

non  ho  disegno;  ma  far  gente  a  guerra 


LIBRO    SECONDO  49 

e  correre  con  gli  altri  a  l'arce  anelo  : 

un'ira  folle  vince  ogni  consiglio, 

sol  mi  sovvien  che  in  armi  è  un  bel  morire. 

Ma  ecco  Panto  a'  colpi  achei  sfuggito, 

Panto  d'Otri  figliuolo,  sacerdote 

de  la  rocca  e  di  Febo,  esso  tra  mano 

le  sacre  cose  e  i  vinti  Dei  ne  viene 

ed  il  nipote  pargolo  traendo 

e  forsennato  affrettasi  a  le  soglie. 

—  0  Panto,  a  che  ne  siam?  qual  rocca  resta?  — 
Appena  chiesi,  e  mi  rispose  in  pianto  : 

—  Venne  l'ultimo  giorno  e  la  fatale 
ora  de  la  Dardania.  Noi  Troiani, 
fummo;  fu  Ilio  e  l'alta  gloria  nostra. 
Tutto  traspose  il  fiero  Giove  in  Argo  : 
regnan  gli  Achei  ne  la  città  che  brucia. 
Dritto  nel  cuore  de  la  cerchia  e  alto 
piove  armati  il  cavallo,  e  attizza  incendi 
oltracotato  vincitor  Sinone. 

Entrano  da  le  porte  spalancate 

quante  mai  venner  da  la  gran  Micene 

migliaia;  altri  l'angustie  de  le  vie 

hanno  occupate  e  oppongon  l'armi;  pronte 

a  ferire,  lampeggiano  le  punte. 

Le  prime  guardie  de  le  porte  a  stento 

osan  la  pugna  e  far  cieca  difesa  — . 

A  tah  detti  de  l'Otriade,  al  cenno 

de'  Numi  volo  tra  le  fiamme  e  l'armi, 

ove  la  trista  Erinni,  ove  mi  chiama 

il  fremito  e  il  furor  che  giunge  al  cielo. 

Albini  -  Enti  de  t, 


50  ENEIDE 

Rifeo  mi  s'accompagna  e  il  guerrìer  sommo 

Èpito,  apparsi  tra  la  luna,  ed  Ipani 

e  Dimante,  e  si  stringono  al  mio  fianco, 

e  il  giovine  migdonide  Corebo. 

Que'  dì  per  sorte  era  venuto  a  Troia 

del  folle  amore  di  Cassandra  acceso 

e  genero  aiutava  Priamo  e  i  Frigi; 

sventurato,  che  fu  sordo  a'  comandi 

de  la  sposa  ispirata. 

Come  stretti  li  vidi  osar  battaglia, 

soggiungo  :  —  Prodi,  o  inutilmente  invitti 

cuori,  se  brame  risolute  avete 

di  seguitarmi  a  l'ardimento  estremo, 

voi  vedete  la  sorte  de  le  cose: 

dai  sacrari  e  da  Tare  usciron  tutti 

gli  Dei  che  questo  impero  avean  sorretto; 

voi  soccorrete  una  città  che  brucia: 

moriam,  corriamo  in  mezzo  a  l'armi:  ai  vinti 

sola  salvezza  è  disperar  salvezza  — . 

Così  crebbe  l'ardore  a'  valorosi. 

Indi,  come  per  cupa  nebbia  lupi  ^ 

rapitori,  cui  ciechi  l'indiscreta 

rabbia  del  ventre  spinse,  e  i  lupicini  d 

aspettan  soli  con  le  gole  asciutte, 

andiam  tra  l'armi,  tra'  nemici  verso 

la  certa  morte  e  a  la  città  per  mezzo 

teniam  la  via:  nera  dintorno  vola 

con  la  profonda  tenebra  la  notte. 

Di  quella  notte  chi  può  dir  la  strage, 
chi  noverar  le  morti  e  pareggiare 
con  le  lagrime  i  lutti  ?  Essa  rovina 


LIBRO    SECONDO  51 

la  vetusta  città  che  fu  molti  anni 
dominatrice.  Giaccion  per  le  vie 
senza  numero  sparse  inerti  salme 
e  per  le  case  e  per  le  sacre  soglie 
de'  templi.  Né  già  soli  il  proprio  sangue 
versano  i  Teucri:  a'  vinti  anche  talvolta 
il  valore  ne  l'anima  ritoma, 
onde  cadono  i  Danai  vincitori. 
Dovunque  acerbo  duol,  terrore  ovunque, 
e  facce  innumerevoH  di  morte. 
Primo,  di  Greci  tra  una  gran  caterva, 
Andrògeo  si  offre  a  noi,  credendoci  armi 
amiche,  inconscio,  e  primo  amicamente 
sì  ne  chiama:  -  Affrettatevi,  compagni; 
e  qual  sì  lunga  vi  tenea  lentezza? 
Saccheggiano  altri  Pergamo  eh' è  in  fiamme, 
e  voi  da  l'alte  navi  ora  venite?  — 
Disse,  e  sùbito  (poi  che  fide  assai 
risposte  non  si  davano)  si  avvide 
in  mezzo  de'  nemici  esser  caduto. 
Gelò,  rattenne  con  la  voce  il  passo. 
Qual  chi  col  pie  calcò  tra  gli  spinosi 
rovi  un  serpe  non  visto,  e  spaurito 
rapidam.ente  rifuggì  da  quello 
che  rizza  l'ire  e  Hvido  enfia  il  collo; 
non  altrimenti  trepido  e  sorpreso 
Andrògeo  indietreggiava.  Irrompiam,  densi 
in  armi  facciam  siepe,  e  ne  atterriamo, 
nuovi  del  luogo  e  pieni  di  spavento. 
Ride  al  primo  ardimento  la  fortuna. 
Baldo  allor  del  successo  ed  animoso 
—  Soci,  —  Corebo  esclama  —  la  fortuna 


52  ENEIDE 

che  prima  insegna  a  noi  via  di  salute, 

per  dove  ci  si  fa  veder  propizia, 

la  seguitiamo:  barattiam  gli  scudi, 

adattiamci  l'insegne  degli  Achei. 

Arte  o  valor,  chi  guarda  in  un  nemico? 

L'armi  ne  presteranno  essi  — .  Ciò  detto, 

il  chiomato  d'Andrògeo  elmo  e  il  fulgore 

del  suo  clipeo  si  veste  e  al  fianco  cinge 

l'argiva  spada.  Così  fa  Rifeo, 

esso  Dimante  e  tutti  a  gara  i  prodi: 

de  le  spoghe  recenti  armasi  ognuno. 

Frammisti  a'  Danai  andiam  col  cielo  avverso, 

e  in  molti  scontri  per  la  buia  notte 

molti  precipitiam  di  queUi  a  l'Orco. 

Altri  a  le  navi  fuggono,  di  corsa 

volti  al  Udo  fedel;  risalgono  altri 

il  gran  cavallo  con  paura  vile 

e  s'acquattano  dentro  al  noto  grembo. 

Ahi  nulla  speri  Tuom  se  ha  contro  i  Numi! 

Ecco  veniva  coi  capelU  sciolti 

la  vergine  priàmide  Cassandra 

dal  sacrario  del  tempio  di  Minerva 

tratta,  levando  le  pupille  ardenti 

al  cielo  indarno;  le  pupille,  poi  che 

ceppi  stringean  le  delicate  palme. 

Non  resse  a  quella  vista  furibondo 

in  cuor  Corebo  e  si  gettò  a  morire 

tra'  1  folto  :  il  seguiam  tutti,  e  densi  in  armi 

irrompiam. 

Da  la  vetta  allor  del  tempio 


LIBRO    SECONDO  53 

SU  noi  principia  il  dardeggiar  de'  nostri, 

e  nasce  miserevole  una  strage 

per  l'aspetto  de  l'armi  e  per  l'errore 

de'  grai  cimieri.  I  Danai  allor,  tra  duolo 

e  ira  per  la  vergine  ritolta, 

corrono  al  cozzo  d'ogni  parte,  Aiace 

ferocissimo  e  l'uno  e  l'altro  Atride 

e  de'  Dolopi  il  nerbo  tuttoquanto  : 

così  qualor  di  fronte  scatenati 

s'urtano  i  venti  insiem,  Zefiro  e  Noto 

ed  Euro  lieto  degli  eoi  cavalli, 

stridon  le  selve,  col  tridente  infuria 

Nereo  spumoso  e  move  il  mar  dal  fondo. 

Tutti  ancor  quelli  che  avevam  per  l'ombre 

fugati  con  l'astuzia  ed  inseguiti 

per  tutta  la  città,  tornano,  e  primi 

ravvisan  le  mentite  armi  e  gli  scudi 

e  notan  de  le  bocche  il  suon  diverso. 

Già  ci  soverchia  il  numero,  e  per  primo 

cade,  per  man  di  Penelèo,  Corebo 

a  l'aitar  de  la  Dea  possente  in  guerra  ; 

cade  anch'esso  Rifeo,  giusto  fra  i  Teucri 

singolarmente  e  ad  equità  devoto 

(altro  parve  agh  Dei)  ;  periscono  ìpani 

e  Dimante  trafitti  da'  compagni  ; 

né  te  la  tua  pietà,  Panto,  sì  grande 

né  l'infula  d'ApoUine  difese, 

che  non  cadessi.  0  voi  ceneri  d' Ilio, 

o  ultima  de'  miei  fiamma,  vi  chiamo 

in  testimonio  ch'io  nel  cader  vostro 


54  ENEIDE 

arma  né  assalto  non  schivai  de*  Danai 
e  che,  s'era  destin  ch'io  pur  cadessi, 
mi  meritai  con  l'opera  cadere. 

Ci  strappiamo  di  là,  Ifito  e  Pèlia 

con  me  (de'  quali  Ifito  già  provetto 

d'anni,  Pèlia  anche  offeso  di  ferita 

d'Ulisse),  incontanente  dal  rumore 

al  palazzo  di  Priamo  chiamati. 

Quivi  tal  mischia,  qual  se  altra  non  fosse, 

ninno  in  tutta  la  città  morisse, 

così  sfrenato  vediam  Marte  e  i  Danai 

accorrenti  a  la  casa  e  il  limitare 

di  testuggine  stretto.  A  le  pareti 

poggian  le  scale,  e  lì  presso  le  porte 

Saigon  pe'  gradi  e  con  la  manca  a'  dardi 

oppongono  coprendosi  gli  scudi, 

i  comignoli  afferran  con  la  destra. 

Dal  canto  loro  i  Dardani  le  torri 

e  i  pinnacoh  svellono  (con  queste 

armi,  vistisi  a  l'ultimo  e  su  l'ora 

già  de  la  morte,  tentan  la  difesa), 

e  le  dorate  travi,  eccelso  fregio 

degli  avi  antichi,  gettan  giù:  con  nude 

le  spade  altri  occupato  hanno  le  soglie 

terrene  e  guardia  fanno  in  densa  schiera. 

Mi  riarse  desio  di  dar  soccorso 

a  la  casa  del  re,  giovar  d'aiuto 

que'  prodi  e  vigoria  crescere  a'  vinti. 

V'era  un  adito  ascoso,  agevol  passo 


LIBRO    SECONDO  55 

tra  le  case  di  Priamo,  una  portella 
negletta  dietro,  per  la  qual  solea, 
mentre  il  regno  fioriva,  l'infelice 
Andromaca  venir  senza  compagni 
a*  suoceri  sovente  e  accompagnare 
il  fanciullo  Astianatte  a  l'avo  suo. 
Riesco  al  sommo,  là,  donde  gl'infausti 
Teucri  scagliavano  i  lor  colpi  vani. 
Ad  una  torre  che  si  ergeva  a  filo 
su  l'estremo  del  tetto  alteramente, 
da  la  quale  si  usò  tutta  vedere 
Troia  e  la  flotta  e  il  campo  degli  Achei, 
stretti  col  ferro  intomo,  ove  men  salda 
offrian  l'ultime  tavole  giuntura, 
la  dispicchiamo  da  quell'alta  sede 
e  l'urtiam  giù  :  precipitando  a  un  tratto 
trae  romorosa  una  rovina  e  cade 
su  le  schiere  de'  Danai  largamente. 
Ma  si  fanno  altri  sotto  e  non  intanto 
cessano  sassi  né  altro  getto. 

Là,  davanti  al  vestibolo  e  sul  primo 
limitar  Pirro  imbaldanzisce,  ardente 
nel  bronzeo  fulgor  de  l'armi  :  quale 
il  serpe  al  dì,  di  male  erbe  pasciuto, 
che  la  bruma  copria  gonfio  sotterra, 
rinnovellato  de  le  squame  e  lustro 
di  gioventù,  le  flessuose  spire, 
levando  il  petto,  attorce  ritto  al  sole 
e  vibra  in  bocca  la  trisulca  lingua. 
Seco  il  gran  Perifante  e  Automedonte 


56  ENEIDE 

de'  cavalli  d'Achille  armato  auriga, 

seco  tutto  lo  stuol  scizio  a  la  reggia 

premono  e  a*  tetti  avventano  le  fiamme. 

Esso  tra'  primi  con  brandita  scure 

spezza  le  soglie  e  scardina  le  porte 

ferme  e  ferrate,  e  già,  rotta  la  trave, 

squarciati  ha  i  saldi  serramenti  e  fatta 

grande  con  larga  aperta  una  finestra. 

La  casa  interna  appare  e  gli  atrii  lunghi 

dischiusi,  appaion  le  segrete  stanze 

di  Priamo  e  degli  antichi  re:  gh  armati 

veggono  stanti  su  la  soglia  prima. 

Ma  nel  cuor  de  la  casa  è  tutto  pieno 

di  gemiti  e  di  misero  tumulto, 

e  del  donnesco  disperar  le  volte 

urlano;  giunge  a  l'auree  stelle  il  grido. 

Erran  sgomente  per  le  sale  vaste 

le  matrone  e  s'abbracciano  a  le  porte 

e  v'  imprimono  baci.  Incalza  Pirro 

col  paterno  vigor,  e  non  difesa 

né  regger  possono  essi  i  difensori  : 

crolla  a  lo  spesso  ariete  la  porta 

e  piombano  da'  cardini  le  imposte. 

Si  fa  la  forza  via:  vincon  l'entrare 

i  Danai  e  trucidano  irrompendo 

que'  primi  e  intorno  intorno  empion  d'armati. 

Non  cosi,  rotti  gh  argini  spumante 

quando  uscì  '1  fiume  e  vorticoso  i  massi 

opposti  dissipò,  trabocca  in  piena 

ne'  campi  a  furia     e  trae  per  ogni  villa 

con  le  stalle  gli  armenti.  Io  stesso  vidi 


LIBRO    SECONDO  57 

fremente  Neottolemo  di  strage 

e  su  la  soglia  l'uno  e  l'altro  Atride; 

vidi  Ecuba  e  le  cento  nuore  e  Priamo 

che  su  per  l'are  insanguinava  i  fuochi 

ch'esso  sacrati  avea.  Cinquanta  a  lui 

talami,  di  nepoti  ampia  promessa, 

pareti  altere  di  barbarie' oro 

e  di  trofei,  cadevano  distrutti  : 

giungono  i  Greci  ove  non  giunge  il  fuoco. 

Forse  anche  il  fato  vuoi  saper  qual  fosse 

di  Priamo.  Come  vide  egli  la  sorte 

de  la  presa  città,  le  soglie  infrante 

de  la  reggia  e  il  nemico  entro  le  stanze, 

l'armi  da  tempo  disusate  il  vecchio 

a'  tremoli  dagh  anni  omeri  adatta 

invan,  la  spada  inutile  si  cinge, 

e  move  tra  la  densa  oste  a  morire. 

Era  in  mezzo  a  la  casa  e  sotto  l'occhio 

nudo  del  ciel  una  grande  ara  e  a  lato 

un  alloro  antichissimo,  su  Fara 

steso,  i  Penati  ad  abbracciar  con  l'ombra. 

Ecuba  quivi  e  le  figliuole  accorse, 

quali  colombe  a  voi  pe'  1  tempo  nero-, 

inutilmente  degli  altari  intorno 

sedeano  e  strette  a'  simulacri  santi. 

Ma  come  in  giovenih  armi  lui  vide 

—  Oh  !  esclamò,  qual  mai  pensier  sì  folle 

t'ha  spinto,  infelicissimo  consorte, 

a  cingerti  queste  armi?  e  dove  corri? 

Non  tale  aiuto  né  difese  tali 


58  ENEIDE 

chiede  il  momento;  no,  se  anche  presente 

or  fosse  Ettore  mio.  Deh!  qui  ne  \deni: 

ci  proteggerà  tutti  questo  altare, 

o  morirai  con  noi  — .  E  a  sé  lo  trasse 

e  ne  la  sacra  sedia  il  veglio  pose. 

Ecco,  al  micidial  Pirro  davanti, 

un  de'  figli  di  Priamo,  PoUte, 

tra  l'armi,  tra'  nemici  per  i  lunghi 

portici  fugge  e  i  vuoti  atrii  percorre 

ferito.  Lui  col  mortai  colpo  insegue 

Pirro  a  furia,  già  già  con  man  lo  afferra, 

con  l'asta  il  tocca.  Come  alfin  davanti 

agli  occhi  e  a'  volti  riuscì  de*  suoi, 

cadde  e  la  vita  con  gran  sangue  effuse. 

Priamo  allor,  quantunque  in  braccio  a  morte, 

sé  non  contenne  né  la  voce  e  l'ira: 

—  Ma  te,  grida,  per  tanta  infamia  audace  ;j 

gli  Dei,  s'è  in  ciel  pietà  che  di  ciò  curi,  ^' 

ripaghin  degnamente  e  ti  dian  premio  ^ 

debito,  che  veder  morire  un  figho  j 

m'hai  fatto  e  di  morte  hai  contaminato 

la  paterna  presenza.  Oh  non  già  quello,  j 

di  cui  fighuolo  ti  mentisci.  Achille  ^ 

verso  il  nemico  Priamo  fu  tale: 

ma  i  diritti  del  supplice  e  la  fede 

riverì,  rese  a  sepellir  la  salma 

d'Ettore  e  rimandò  me  nel  mio  regno  — . 

Ciò  disse  e  imbelle  senza  colpo  un  dardo 

il  veglio  trasse,  dal  ronzante  bronzo 

subito  rintuzzato  e  penzolante 

in  van  da  l'alto  centro  de  lo  scudo. 


i 


LIBRO    SECONDO  59 

Pirro  a  lui:  —  Ciò  riferirai  tu  dunque 
e  n'andrai  nunzio  al  genitor  Pelide: 
rammenta  di  narrargli  i  miei  sinistri 
fatti  e  che  Neottolemo  traligna: 
or  muori  — .  In  questo  dir  proprio  su  Tare 
lo  strascinò  tremante  e  sdrucciolante 
nel  molto  sangue  del  fìgliuol,  la  manca 
ne  la  chioma  gli  avvolse,  e  con  la  destra 
levò  lucente  e  gl'immerse  nel  fianco 
sino  a  l'elsa  la  spada. 

Ecco  la  fine 
di  Priamo;  quest'esito  di  fati 
si  portò  lui,  vedendo  Troia  in  fiamme, 
Pergamo  in  terra,  re  superbo  un  giorno 
d'Asia  per  tanti  popoli  e  paesi. 
Giace  sul  lido  un  gran  tronco  e  spiccato 
dal  busto  un  capo  e  senza  nome  un  corpo. 

Allora  cinse  me  crudele  orrore. 
Rabbrividii,  l'imagine  mi  sorse 
del  caro  padre,  quando  il  re  coevo 
vidi  spirare  di  brutal  ferita; 
abbandonata  imaginai  Creusa, 
guasta  la  casa,  a  rischio  il  piccol  Giulo. 
Mi  volgo  e  miro  quanti  siano  intorno: 
m'hanno  lasciato  per  lassezza  tutti 
o  si  gettar  sfiniti  a  terra  o  in  fuoco. 

E  omai  solo  uno  io  rimaneva,  quando 
la  Tindaride  vedo  entro  le  soglie 
starsi  di  Vesta  e  tacita  occultarsi 


60  ENEIDE 

ne  la  sede  segreta.  Il  grande  incendio 

fa  luce  a  me  vagante  e  che  gli  sguardi 

giro  per  tutto  tra  l'andar.  Colei, 

per  la  distrutta  Pergamo  nemici 

presentendo  a  sé  i  Teucri,  e  le  vendette 

de'  Danai  e  Y  ire  del  deserto  sposo, 

di  Troia  e  de  la  patria  unica  Erinni, 

s'era  ascosa  e  sedea  malvisa  a  l'are. 

M'arde  un  foco  nel  cuor;  ira  mi  prende 

di  vendicare  la  cadente  patria 

e  d'eseguir  la  scellerata  pena. 

—  Sì  veramente!  incolume  costei 

potrà  Sparta  vedere  e  la  paterna 

Micene  ed  in  trionfo  andar  regina. 

Nozze  e  case  vedrà,  padri  e  figliuoli, 

fra  un  corteo  di  Troiane  e  fra  ministri 

frigi.  Di  ferro  sarà  morto  Priamo! 

e  Troia  in  fiamme!  la  dardania  sponda 

avrà  sudato  tante  volte  sangue! 

Ah  no  !  Quantunque  memorabil  fama 

del  punire  una  femmina  non  sia 

né  gloria  importi  la  vittoria,  pure 

sarò  lodato  de  la  spenta  infamia 

e  de  la  presa  giusta  pena,  e  lieto 

d'aver  sazia  la  brama  punitrice 

e  placate  le  ceneri  de'  miei  — . 

Ciò  in  me  volgendo  fuor  di  me  correa, 

quando,  agli  occhi  non  mai  prima  sì  chiara, 

mi  si  offerse  a  veder  l'alma  parente 

e  in  puro  raggio  mi  brillò  tra  l'ombre, 

dea  manifesta  e  così  bella  e  grande 


LIBRO    SECONDO  Ol 

qual  si  mostra  a'  Celesti;  e  con  la  destra 

mi  tenne  e  aggiunse  da  la  rosea  bocca: 

—  Figlio,  qual  gran  dolor  sì  sfrena  l'ire? 

perché  folleggi?  ed  il  pensier  di  noi 

dove  t'è  ito?  Non  vedrai  da  prima 

ove  stanco  dagli  anni  il  padre  x\nchise 

abbi  lasciato  e  se  la  donna  tua 

Creusa  sopravviva  e  il  figlio  Ascanio? 

A'  quali  tutti  tutto  intorno  vanno 

graie  schiere  e,  se  oppormi  io  non  curassi, 

H  avrian  le  fiamme  avvolti  e  la  nemica 

spada  finiti.  Tu  non  l'odioso 

volto  de  la  Tindaride  spartana 

né  Paride  incolpare.  DegH  Dei, 

degh  Dei  l'inclemenza  abbatte  il  regno 

e  dal  culmine  suo  rovescia  Troia. 

Guarda;  ch'io  tutta  leverò  la  nube 

che  ora  ti  offusca  la  mortai  pupilla 

e  d'umida  caligine  la  cinge: 

non  temer  tu  di  alcun  cenno  materno 

né  ricusare  indocile  i  precetti. 

Là,  dove  rotte  moli  e  massi  vedi 

spicchi  da  massi  e  ondeggiar  polve  e  fumo, 

Nettuno  i  muri  e  i  fondamenti  crolla 

smossi  col  gran  tridente  e  da  radice 

rovina  la  città.  Là  Giuno  ingombra 

le  porte  Scee  spietata  innanzi  a  tutti 

e  da  le  navi  le  compagne  schiere 

fiera  in  armi  pur  chiama. 

Già  l'alte  rocche,  volgiti,  occupate 

ha  la  tritonia  Pallade,  fulgente 


62  ENEIDE 

d'un  nimbo  e  de  la  Gòrgóne  crudele. 

Esso  il  Padre  fervore  e  amiche  forze 

a'  Danai  somministra,  esso  gli  Dei 

anima  contro  la  dardania  gente. 

Scampa,  scampa,  figliuolo,  e  poni  un  fine 

al  travaglio:  sarò  con  te  per  tutto, 

ti  addurrò  salvo  a  le  paterne  soglie  — . 

Disse,  e  in  seno  a  la  tenebra  si  ascose. 

Mi  appaiono  i  terribili  fantasmi 

ed  i  nemici  a  noi  possenti  numi 

degli  Dei. 

Tutta  conobbi  allor  solversi  in  brage 

Ilio  e  giacere  la  nettunia  Troia: 

e  come  quando  in  vetta  a'  monti  un  omo 

annoso  a  gara  abbattono  i  coloni 

co*  tagli  intorno  di  percosse  scuri  ; 

quello  sempre  minaccia  e  sempre  accenna 

con  la  chiomata  tremolante  cima, 

fin  che  da  le  ferite  vinto  a  poco 

a  poco  geme  anche  una  volta  e  trae 

per  i  gioghi  schiantato  una  rovina. 

Discendo,  e  vo,  duce  la  dea,  spedito 
tra  la  fiamma  e  i  nemici;  mi  fan  luogo 
l'armi,  e  la  vampa  si  ritrae. 

Le  soglie 
come  toccai  de  la  paterna  sede 
e  la  casa  vetusta,  il  padre,  a  cui 
prima  mi  volsi  per  portarlo  a'  monti, 
nega  di  viver  più  caduta  Troia 
e  l'esiglio  soffrir.  —  Voi,  dice,  freschi 


LIBRO    SECONDO  63 

di  sangue  e  saldi  del  vigor  nativo, 
voi  pensate  a  esulare. 
Me  se  i  Superi  ancor  volevan  vivo, 
m'avrebber  salva  questa  patria.  Assai 
e  troppo  fu  che  una  rovina  vidi 
sopravvivendo  a  la  città  disfatta. 
Ditemi  vale  come  a  morto  e  andate. 
Saprò  trovar  con  l'opera  la  morte: 
m'avrà  pietà  il  nemico  e  le  mie  spoglie 
vorrà:  piccola  perdita  il  sepolcro. 
In  odio  a'  Numi  e  inutile  da  tempo 
aspetto  gli  anni,  poi  che  degli  Dei 
il  padre  e  re  degh  uomini  col  soffio 
mi  rasentò  del  fulmine  e  col  fuoco  — . 
Questo  a  dir  persisteva  e  non  cedea. 
Noi  a  scioglierci  in  lagrime,  e  la  moglie 
Creusa  e  Ascanio  e  la  famiglia  tutta, 
che  ogni  altra  cosa  con  sé  morta  ei  padre 
non  volesse  e  incalzar  l'urgente  fato. 
Nega,  e  luogo  e  proposito  non  muta. 
Son  risospinto  a  l'armi  e  disperato 
bramo  la  morte:  e  qual  disegno  omai 
o  quale  a  me  si  concedea  fortuna? 
—  E  tu  pensasti  ch'io  potessi,  o  padre, 
partire  abbandonandoti  e  consiglio 
uscì  sì  reo  da  le  paterne  labbra? 
Se  di  tanta  città  nulla  gli  Dei 
voglion  che  resti,  e  il  tuo  proposto  è  tale 
che  te  co'  tuoi  aggiunger  brami  a  Troia 
che  muor,  la  porta  a  cotal  morte  è  schiusa. 
Or  or  sopraverrà  dal  molto  sangue 


64  ENEIDE 

di  Priamo  Pirro  che  il  figliuol  davanti 

gli  occhi  del  padre  e  il  padre  a  Tare  uccide. 

Per  ciò  mi  salvi,  o  alma  genitrice, 

a  traverso  armi  e  fiamme,  perch'io  veda 

il  nemico  nel  mezzo  de  la  casa 

ed  Ascanio  e  mio  padre  e  insiem  Creusa 

l'un  de  l'altro  nel  sangue  trucidati? 

L'armi,  o  prodi,  qua  l'armi;  il  giorno  estremo 

i  vinti  vuole  ;  a'  Danai  mi  rendete  ; 

la  pugna  rinnovar  lasciatemi:  oggi, 

no,  non  morremo  invendicati  tutti  — . 

Mi  ricingo  la  spada,  e  mi  adattavo, 

la  sinistra  passandovi,  lo  scudo, 

avviato  ad  uscir.  Ma  su  la  soglia 

ecco  Creusa  ad  abbracciarmi  i  piedi 

ferma  e  porgendo  al  padre  il  piccol  Giulo: 

—  Se  a  morir  vai,  con  te  prendi  anche  noi 

ad  ogni  rischio:  ma  se  ancor,  tu  esperto, 

serbi  ne  l'armi  una  speranza,  prima 

questa  casa  difendi.  A  chi  tu  lasci 

il  tuo  piccolo  Giulo,  a  chi  tuo  padre 

e  me  che  detta  un  giorno  fui  tua  moglie?  — 

Tutte  empiva  le  stanze  il  suo  lamento, 
quando  improvviso  e  a  dir  meraviglioso 
nasce  prodigio.  Tra  le  braccia  e  gli  occhi 
de'  mesti  suoi  sul  capo,  ecco,  di  Giulo 
parve  un  sottil  brillare  eretto  raggio 
ed  una  fiamma  innocua  lambire 
le  sue  morbide  chiome  e  le  sue  tempie. 
Noi  di  tema  tremar,  scoter  gli  accesi 


LIBRO    SECONDO 

capelli  e  portar  acqua  al  santo  ardore. 
Ma  il  padre  Anchise  levò  gli  occhi  lieto 
e  tese  al  ciel  con  questo  dir  le  palme  : 

—  0  Giove  onnipotente,  se  ti  move 
preghiera,  guarda  noi  1  ciò  basta  ;  e  poi, 
se  pietà  ci  fa  degni,  un  segno  invia, 
padre,  e  conferma  a  noi  questi  presagi  — 
Appena  il  vecchio  detto  avea,  di  schianto 
tonò  da  manca  e  per  il  cielo  ombroso 
con  vivido  chiaror  corse  una  stella. 

La  vediamo  sfiorando  il  nostro  tetto 

bianca  sparire  ne  la  selva  Idea 

e  segnare  il  cammin;  per  lunga  traccia 

un  solco  luce  e  un  fumigar  di  solfo. 

Allora  vinto  il  genitor  si  leva 

alto,  invoca  gli  Dei,  la  stella  adora  : 

—  Nessuno  indugio  più;  vi  seguo  e  sono 
con  voi  per  tutto.  O  Dei  patrii,  salvate 
la  mia  casa,  salvate  il  mio  nipote. 
Vostro  è  l'augurio,  e  ne  la  grazia  vostra 
è  Troia.  Ecco  ch'io  cedo  e  non  ricuso 

di  venirti  compagno,  o  figlio  mio  — . 
Avea  detto,  e  cresceva  entro  le  mura 
l'incendio  e  vampe  ne  volgea  vicine. 

—  Su!  padre  mio,  su  le  mie  spalle  vieni; 
ti  porterò,  né    mi  sarà  fatica. 
Qualunque  i  casi  volgano,  il  periglio 
avrem  comune  entrambi  e  la  salvezza. 
Venga  il  piccolo  Giulo  a  me  per  mano  ; 
segua  discosta  il  nostro  andar  Creusa. 

E  voi,  servi,  attendete  a  quel  ch'io  dico. 

Albini  •  Eneide 


b6  ENEIDE 

A  l'uscir  di  città  v'è  un  monticello 
e  un  tempio  antico  de  l'abbandonata 
Cerere,  e  a  canto  v'è  un  cipresso  annoso 
da  la  pietà  de'  padri  conservato  : 
là  converremo  da  diverse  parti. 
Tu,  genitor,  le  sacre  cose  prendi 
ed  i  patrii  Penati:  a  me  che  vengo 
da  guerra  così  fiera  e  strage  fresca 
toccarli  è  fallo,  fin  che  a  una  sorgente 
vi^^a  sia  terso  — . 

Detto  così,  su'  larghi  omeri  e  al  collo 
stendo  una  fulva  pelle  di  leone 
e  mi  fo  sotto  al  carico  :  mi  prese 
stretto  il  piccolo  Giulo  per  la  destra, 
e  vien  col  padre  a  passi  diseguali: 
dietro  segue  la  moglie. 

Andiam  per  l'ombra 
ed  io,  cui  dianzi  né  avventati  strali 
né  impaurivan  greci  assalitori, 
ad  ogni  alito  d'aura  or  trasaUsco, 
balzo  ad  ogni  rumor,  ansio  e  pensoso 
per  il  corapagno  e  per  il  peso  insieme. 

Ed  a  le  porte  già  mi  avvicinava 

ed  esser  mi  parca  fuor  d'ogni  stretta, 

quando  fitto  appressarsi  un  calpestio 

parvemi,  e  il  padre  che  guatava  innanzi 

per  l'ombre,  grida:  —  Figlio,  figlio,  fuggi! 

vengono.  Vedo  splendere  gli  scudi 

e  l'armi  scintillar  — . 

Non  so  qual  dio 


LIBRO    SECONDO  67 

poco  amico  la  mente  allor  mi  tolse 

trepidante  confusa:  mentre  a  corsa 

prendo  fuor  de  le  vie  note  a  traverso, 

ahimé  !  Creusa,  dal  destin  rapita, 

ristette  ?  usci  di  via  ?  stanca  si  assise  ? 

è  incerto;  e  più  non  parve  agli  occhi  nostri. 

Né  prima  a  la  smarrita  riguardai 

e  rivolsi  il  pensier,  che  fummo  giunti 

al  poggio  e  al  tempio  de  l'abbandonata 

Cerere  :  quivi  alfin  tutti  raccolti, 

ella  ci  mancò  sola,  ella  deluse 

i  com.pagni  il  figUuolo  ed  il  marito. 

Oual  fuor  di  m.e  non  accusai  degli  uomini 

e  degli  Dei?  qual  più  reo  strazio  vidi 

ne  la  città  distrutta? 

Ascanio  e  Anchise 
padre  e  i  teucri  Penati  raccomando 
a'  soci  e  in  grembo  de  la  valle  celo. 
Io  torno  a  la  città,  mi  cingo  l'armi 
fulgenti.  Ho  fermo  ripassar  per  ogni 
vicenda,  ripercorrer  tutta  Troia 
e  di  nuovo  a'  pericoli  offerirmi. 
Da  prima  a'  muri  ed  a  l'oscure  soglie 
de  la  porta,  onde  uscito  era,  ritorno, 
e  l'orme  che  segnai  seguo  a  T  indietro 
per  la  notte  e  col  guardo  esploro.  Intorno 
tutto  mi  serra  il  cuor,  fino  il  silenzio. 
Poi  a  la  casa  mia,  se  mai,  se  mai 
là  fosse  andata,  mi  rivolgo.  Invasa 
l'aveano  i  Danai  e  l' occupa van  tutta. 
Rapido  il  fuoco  divorante  al  tetto 


68  ENEIDE 

dal  vento  è  volto  ;  sormontali  le  fiamme, 

infuria  la  fornace  a  l'aure.  Inoltro, 

e  la  reggia  di  Priamo  e  la  rocca 

ritrovo.  Omai  di  Giuno  entro  l'asilo 

per  i  portici  vuoti  a  guardia  scelti 

Fenice  e  il  crudo  Ulisse  su  la  preda 

vigilavano.  Quivi  da  ogni  parte 

la  troiana  dovizia  si  riversa 

a  mucchi,  da'  sacrari  arsi  rapita, 

e  le  mense  de'  Numi  ed  i  crateri 

massicci  d'oro  ed  i  predati  drappi. 

Fanciulli  e  in  lunga  fila  paurose 

donne  a  l'intorno. 

Anche  mettere  osai  voci  per  l'ombra, 

di  grida  empir  le  vie  :  triste  più  volte 

inutilmente  richiamai  Creusa. 

Mentr'  io  cercava  senza  fine  a  furia 

di  casa  in  casa,  il  pallido  fantasma 

e  di  lei  stessa  l'ombra  agli  occhi  miei 

parve,  in  figura  de  la  sua  maggiore. 

Rabbrividii,  ritti  i  capelli  e  in  gola 

si  fé'  muta  la  voce.  E  allora  quella 

a  parlarmi  così  per  mio  conforto  : 

—  Che  giova  abbandonarsi  a  un  dolor  folle, 

dolce  marito  ?  Non  senza  il  volere 

degli  Dei  questo  avvien  ;  di  qui  compagna 

portar  Creusa  non  ti  è  dato,  il  vieta 

QuegU  che  regna  nel  superno  Olimpo. 

Lontani  esigh  tu,  larga  distesa 

di  mar  devi  solcare,  ed  a  la  terra 


LIBRO    SECONDO  69 

esperia  giungerai,  là  dove  il  lidio 

Tebro  scorre  con  placida  corrente 

tra  campi  opimi  d'uomini.  T'aspetta 

ivi  italico  regno  e  regia  sposa: 

il  pianto  lascia  de  la  tua  Creusa. 

Non  vedrò  de'  Mirmidoni  le  case 

o  de'  Dolopi  altere  ;  a  greche  donne 

non  andrò  serva,  io  dardana  e  a  la  diva 

Venere  nuora. 

Me  la  gran  genitrice  degli  Dei 

trattiene  in  questi  lidi.  Or  dunque  addio, 

e  del  nostro  fìgliuol  serba  l'amore  — . 

Detto  ch'ebbe  così,  me  che  piangeva 

e  molto  volea  dir  lasciò  deserto 

e  ne  l'aere  vano  si  ritrasse. 

Tre  volte  allor  cercai  de  le  mie  braccia 

cingerle  il  collo,  tre  l'ombra  invan  cinta 

sfuggì  le  mani  lieve  come  il  vento 

e  similissima  a  un  alato  sosrno. 

Così  ritorno,  ita  la  notte,  a'  miei. 

E  qui  maravigliando  esser  concorsa 

trovo  una  folla  di  compagni  novi, 

donne  e  uomini,  un  popolo  adunato 

per  r  esigilo,  compassione  voi  turba. 

Da  ogni  parte  vennero,  disposti 

con  i  cuori  e  le  cose  a  seguitarmi 

in  qual  ch'io  vogHa  suol  pe'  1  mare  addurh. 

E  già  su  l'alto  vertice  de  l' Ida 

Lucifero  sorgea  portando  il  giorno: 


70 


ENEIDE 


i  Danài  le  soglie  de  le  porte 
tenean  guardate,  né  speranza  alcuna 
di  dar  soccorso  rimanea:  mi  mossi, 
e  m'avviai,  col  padre  in  collo,  a'  monti. 


— 'O.^ 


LIBRO  TERZO 


Poi  che  piacque  a'  Celesti  rovesciare 
d'Asia  il  regno  e  di  Priamo  la  gente 
incolpevole,  e  cadde  il  superbo  Ilio 
e  a  terra  fuma  la  nettunia  Troia, 
siam  da'  cenni  divini  a  cercar  mossi 
per  vario  error  le  abbandonate  rive, 
e  navi  fabbrichiam  lì  sotto  Antandro 
e  le  vette  del  frigio  Ida,  dubbiosi 
ove  il  fato  ci  porti,  ove  ci  posi; 
e  facciam  gente.  Cominciata  appena 
era  l'estate  e  il  padre  Anchise  a'  fati 
dar  le  vele  ingiungeva,  allor  eh'  io  lascio 
i  lidi  de  la  patria  lagrimando 
e  il  porto  e  i  campi  ove  fu  Troia.  Salpo 
esule  verso  l'alto  coi  compagni 
e  il  figlio,  coi  Penati  e  i  grandi  Iddii. 


Ampia  in  disparte  marzia  terra  giace, 
l'arano  i  Traci,  un  dì  dal  fìer  Licurgo 


72  ENEIDE 

regnata,  ospite  antica  ed  alleati 
Penati  a  Troia,  al  tempo  di  fortuna. 
Portato  là,  sul  curvo  lido  imprendo 
le  mura  prime  con  destino  avverso; 
Eneadi  dal  mio  ne  formo  il  nome. 
A  la  dionea  madre  un  rito  e  a'  Dei 
auspici  de  l' impresa  io  celebrava 
ed  immolava  candido  sul  lido 
un  toro  a  Giove.  Era  ivi  presso  un  poggio, 
a  sommo  il  poggio  un  folto  di  cornioli, 
ed  ispido  di  spesse  punte  un  mirto. 
M'accostai,  e  da  terra  un  verde  cespo 
sveller  volendo  per  coprir  di  rami 
frondosi  l'are,  orribile  un  portento 
vedo  e  maraviglioso  a  dir:  quel  primo 
arbusto  che  strappai  da  le  radici, 
gli  scorron  giù  gocce  di  sangue  bruno 
a  macchiare  il  terren.  Freddo  ribrezzo 
mi  scote  e  per  timor  gela  ogni  vena. 
Pur  d'  un  secondo  sterpo  un  lento  vinco 
a  sveller  seguo  e  l'intime  a  cercare 
cagioni  ascose,  e  del  secondo  ancora 
nero  da  la  corteccia  usciva  sangue. 
Tutto  turbato  in  cuor,  le  Ninfe  agresti 
supplicava  e  Gradivo  padre,  sire 
de  le  getiche  terre,  a  secondare 
miti  il  portento  e  alleviar  l'augurio. 
Ma  quando  con  più  sforzo  al  terzo  ceppo 
vengo  e  contro  il  terren  punto  i  ginocchi, 
(debbo  dire  o  tacer?)  di  sotto  il  poggio 
s'ode  un  piangente  gemito  e  una  voce 


LIBRO    TERZO 


viene  agli  orecchi:  —  Perché  strazi,  Enea, 
l'infelice  ?  risparmia  deh  !  un  sepolto, 
risparmia  di  bruttar  le  pure  mani. 
Estranio  a  te  non  mi  fé'  Troia,  e  questo 
sangue  non  vien  da  un  legno.  Ahi  !  fuggi,  fuggi 
queste  crudeli  terre  e  il  seno  avaro. 
Perch'io  son  Polidoro:  qui  trafitto 
ferrea  messe  di  dardi  mi  coperse 
e  crebbe  in  punte  acute  — .  AUor  da  incerta 
paura  stretto  il  cuor,  rabbrividii, 
ritti  i  capelli  e  la  parola  in  gola. 

Quel  Polidoro  con  tesoro  grande 
nascostamente  avea  Priamo  infehce 
fidato  al  tracio  re  che  il  preservasse, 
quando  omai  disperato  era  de  l'armi 
dardanie  e  assediar  vedea  le  mura. 
Colui,  vinto  che  fu  de'  Teucri  il  nerbo 
e  la  fortuna  volta,  seguitando 
l'agamennonia  vincitrice  insegna, 
rompe  ogni  legge;  Pohdoro  uccide, 
e  violento  sue  ricchezze  usurpa. 
A  che  non  sforzi  i  petti  umani,  o  fame 
maledetta  de  l'oro?  In  me  cessato 
lo  sgomento,  agli  scelti  de  la  gente 
principi  e  prima  al  padre  mio  propongo 
i  portenti  de'  Numi,  e  il  loro  avviso 
chiedo  qual  sia.  Di  tutti  un  solo:  uscire 
da  la  rea  terra,  abbandonar  l' impuro 
asilo  e  dare  a'  legni  il  vento.  Dunque 
prepariamo  l'esequie  a  Polidoro, 


74  ENEIDE 

e  molta  terra  al  tumulo  s'ammonta: 

sorgono  ai  Mani  Fare,  luttuose 

di  brune  bende  e  di  cupo  cipresso, 

e  intorno  son  le  iliache  donne,  sciolte 

giusta  il  rito  i  capelli.  Per  inferie 

tepido  latte  in  ciotole  spumose 

e  calici  porgiam  di  sangue  sacro: 

ì'anim.a  ricovriamo  nel  sepolcro, 

e  a  gran  voce  il  chiamàam  l'ultima  volta. 

Poi,  non  appena  il  mare  affida  e  in  calma 

lo  lascia  il  vento,  e  un  lieve  soffio  d'austro 

chiama  in  alto,  giù  i  miei  traggon  le  navi 

e  gremiscon  la  riva.  Usciam  dal  porto; 

le  terre  e  le  città  si  fanno  indietro. 


Sacra  e  devota  in  mezzo  a  la  maiina 
è  un'isola  carissima  a  la  madre 
de  le  Nereidi  e  a  Nettuno  Egeo, 
che  un  tempo  vaga  per  le  prode  intorno 
il  Nume  arciere  piamente  avvinse 
a  Mìcono  alta  e  a  Gìaro  e  la  fece 
venerar  salda  e  non  curare  il  vento. 
Son  tratto  là;  gli  stanchi  ella  raccoghe 
placida  tutti  nel  tranquillo  porto. 
Scesi  onoriam^o  la  città  d'Apollo. 
Re  Ànio,  re  degli  uomini  ed  insieme 
sacerdote  di  Febo,  incoronato 
di  bende  e  sacro  alloro,  incontro  viene 
e  riconosce,  antico  amico,  Anchise: 
ospiti  uniam  le  destre  e  accolti  siamo. 
Il  tempio,  fatto  di  vetusto  sasso. 


LIBKO    TERZO  75 

adorava  io  del  Dio  :  - —  Timbreo,  concedi 

una  casa,  concedi  a  questi  stanchi 

mura  e  famiglia,  e  una  città  che  duri; 

salva  la  nuova  Pergamo  di  Troia, 

de'  Danai  avanzo  e  del  feroce  Achille. 

Chi  seguitare?  dove  andar  c'imponi 

e  collocar  la  nostra  stanza?  Padre, 

fa  cenno  e  ne  le  nostre  anime  scendi  — . 

Appena  io  detto  avea,  che  tutto  intomo 

parve  tremar,  le  soglie  e  i  lauri  sacri, 

scotersi  intero  il  monte,  e  la  cortina 

muggire  da'  dischiusi  aditi.  A  terra 

ci  prosterniamo  e  vien  voce  agh  orecchi: 

—  Dardani  indomi,  quella  terra  stessa 

che  vi  produsse  fin  dal  ceppo  avito, 

nel  verde  sen  v'accogUerà  tornanti: 

ritrovate  l'antica  madre.  Quivi 

d'Enea  la  casa  regnerà  sul  mondo, 

ed  i  figh  de'  figh  e  i  figli  loro  — . 

Cosi  Febo,  e  una  gran  letizia  sorse 

mista  di  turbamento;  e  chiedon  tutti 

quali  le  mura  siano,  dove  Febo 

chiami  gli  erranti  e  ritornare  imponga. 

Il  padre  ailor,  volgendo  le  mem.orie 

de'  vecchi  tempi,  —  Udite,  o  prodi,  esclama, 

ed  imparate  le  speranze  vostre. 

Creta  del  sommo  Giove  isola  giace 

nel  mezzo  al  mare;  quivi  il  monte  ideo 

e  la  culla  di  nostra  gente.  Cento 

abitan  gran  città,  florido  regno. 

Di  là,  se  bene  quel  che  udii  rammento, 


76  ENEIDE 

Teucro  progenitor  mosse  a  le  prode 
retèe  da  prima  e  scelse  al  regno  il  luogo. 
Ilio  ancor  non  sorgeva  e  la  pergàmea 
rocca  :  abitavan  ne  le  valli  fonde. 
Indi  è  la  madre  che  sul  Cibelo  erra 
e  i  coribàntii  bronzi  e  l' idèa  selva  ; 
indi  il  fedel  silenzio  de'  misteri, 
e  i  leoni  che  traggono  aggiogati 
il  carro  de  la  diva.  Animo  dunque, 
e  dietro  il  cenno  degli  Dei  moviamo; 
plachiamo  i  venti  e  veleggiamo  a  Gnosso. 
Non  è  gran  corso  :  pur  che  Giove  assista, 
ancoreremo  tra  due  giorni  a  Creta  — . 

Disse  e  a  l'are  immolò  debite  offerte  : 
uno  a  Nettuno  e  un  toro  a  te,  fulgente 
Apollo;  un'agna  nera  a  la  Tempesta 
ed  una  bianca  a'  Zefiri  benigni. 
La  fama  vola,  da'  paterni  regni 
essere  il  duce  Idom.eneo  sbandito 
e  il  suol  cretese  abbandonato,  e  senza 
nemico  offrirsi  libere  dimore. 
Lasciam  d'Ortigia  i  porti  e  per  il  mare 
voliam:  Nasso  pe'  suoi  clivi  baccante 
e  la  verde  Donusa,  Olèaro  e  Paro 
nivea  e  le  sparse  Cicladi  per  l'acque 
ed  i  seni  radiam  tra  le  frequenti 
terre  agitati.  Il  nautico  clamore 
levasi  in  varia  gara,  e  la  canzone 
de'  nostri  è  navigare  a  Creta  e  agli  avi. 


LIBRO    TERZO  77 

Sorto  il  vento  ne  agevola  da  poppa, 
e  approdiam  de'  Cureti  al  suolo  antico. 

Alacre  a'  muri  de  la  desiata 
città  mi  accingo  e  Pergamo  la  chiamo  ; 
la  gente  esorto,  che  del  nome  gode, 
amare  i  focolari  e  alzar  la  rocca. 
Erano  omai  tutte  le  poppe  in  secco, 
a'  connubi  ed  a'  campi  novi  attesa 
la  gioventù,  leggi  e  dimore  io  dava, 
quando  ad  un  tratto,  l'aere  corrotto, 
una  morbida  a'  membri  e  miseranda 
sopravvenne  e  a  le  piante  e  a'  seminati 
pestilenza  e  mortifera  stagione. 
Perdean  le  dolci  vite,  o  i  corpi  smunti 
traeano  :  e  Sirio  ad  infocar  le  terre 
sterili;  inaridivan  l'erbe,  e  pane 
non  concedevan  le  malate  spighe. 
A  l'oracolo  ancor  di  Ortigia  e  a  Febo 
rimisurando  il  mar  consiglia  il  padre 
ire  in  grazia  a  implorar,  qual  fine  assegni 
a  le  miserie,  onde  cercare  ingiunga 
aiuto  a'  mah,  ove  drizzare  il  corso. 

Era  la  notte,  e  il  sonno  per  la  terra 
gli  animali  tenea  :  le  imagin  sante 
degli  Dei  e  i  Penati  frigi,  ch'io 
da  Troia  mi  portai  fuor  de  l'incendio, 
parver  nel  sogno  avanti  a  me  giacente 
starsi  in  gran  luce  chiari,  ove  la  piena 


jS  ENEIDE 

luna  per  gli  spiragli  penetrava, 

e  così  favellare  a  mio  conforto: 

~  Quel  eh' è  per  dirti,  se  ad  Ortigia  vai, 

Apollo,  qui  ti  presagisce,  ed  ecco 

spontaneo  noi  a  le  tue  soglie  invia. 

Noi  che  te,  arsa  la  Dardania,  e  i  tuoi 

segni  seguimmo,  che  passammo  il  gonfio 

mar  sotto  te  per  nave,  innalzeremo 

noi  i  venturi  tuoi  nipoti  al  cielo, 

e  darem  regno  a  la  città.  Tu  mura 

grandi  a'  grandi  prepara,  e  il  diuturno 

non  rifuggire  affanno  de  l'esigho. 

La  stanza  è  da  mutar:  non  a  te  questi 

lidi  suase,  né  posarti  in  Creta 

il  deho  Apollo  ti  prescrisse. 

È  un  luogo, 
lo  chiama  Esperia  il  Greco,  antica  terra, 
possente  in  armi  e  in  ubertà  di  suolo; 
gh  Enotri  l'abitarono  ;  ora  è  fama 
che  dal  nome  di  un  duce  i  discendenti 
nominata  le  gente  abbiano  Italia. 
Quella  è  sede  per  noi:  Bardano  quindi 
nacque  e  làsio  padre,  il  ceppo  primo 
di  nostra  gente.  Sorgi,  e  heto  questi 
detti  a  l'annoso  genitor  non  dubbi 
riporta:  Còrito  e  le  terre  ausonie 
trovi;  i  campi  dittèi  Giove  ti  vieta  — . 

Preso  a  la  visione  ed  a  la  voce 
divina  (né  sopore  era  quel  mio, 
ma  mi  parca  conoscere  presenti 


LIBRO    TERZO  jg 

i  volti  e  le  velate  chiome  e  i  numi; 

freddo  sudor  corre vami  le  membra), 

di  subito  mi  levo,  al  ciel  supine 

tendo  le  palme  con  la  prece,  e  spargo 

su'  brageri  V  intatta  libagione. 

Lieto,  compiuto  il  rito,  avverto  Anchise 

e  la  cosa  per  ordine  gli  svelo. 

Riconobbe  i  confusi  rami  e  i  due 

progenitori,  e  che  ingannato  era  esso 

da  nuovo  error  de'  vecchi  luoghi.  E  dice: 

—  Figlio,  da'  fati  d' Ilio  esercitato, 

sola  mi  predicea  tali  vicende 

Cassandra;  or  la  rammento  nunzìare 

tanto  aspettarsi  al  nostro  sangue,  e  spesso 

l'Esperia  ed  invocar  gl'itah  regni. 

Ma  chi  creder  poteva  essere  i  Teucri 

d'Esperia  a'  lidi  per  andar  ?  chi  fede 

prestato  avrebbe  allora  a  vaticinio 

di  Cassandra?  Su  via,  cediamo  a  Febo, 

e  fatti  accorti  ne  volgiamo  al  megUo  — . 

Dice,  e  al  detto  obbediam  gioiosi  tutti. 

Abbandoniamo  quella  sede  ancora 

e,  lasciativi  pochi,  apriam  la  vela 

per  la  vasta  marina  in  cavo  legno. 

Dopo  che  l'alto  tennero  le  navi 
e  già  nessuna  più  terra  si  vede, 
tutto  cielo  d'intorno  e  tutto  mare, 
ecco  sul  capo  livida  mi  stette 
di  notte  e  verno  nuvola  foriera, 
e  si  fé  l'onda  abbrividendo  buia. 


So  ENEIDE 

Siibito  i  venti  volgono  marosi 
che  s'alzan  grandi:  siam  gettati  e  sparsi 
pe'  1  gorgo  vasto.  Hanno  fasciato  il  giorno 
i  nembi,  umida  notte  ha  tolto  il  cielo, 
frequenti  fuochi  fendono  le  nubi. 
Disviati  vaghiam  per  l'acqua  cieca: 
esso  scerner  non  sa  s'è  il  di  o  la  notte 
Palinuro  e  trovar  tra  l'onde  il  solco. 
Ben  tre  soli  in  caligine  ravvolti 
ed  altrettante  notti  senza  stelle 
erriamo  per  il  pelago:  spuntare 
solo  al  quarto  mattin  terra  fu  vista 
e  scoprir  lunge  i  monti  e  alzare  il  fumo. 
Cadon  le  vele,  ci  drizziam  sui  remi; 
nessuno  indugio,  a  forza  i  naviganti 
torcon  le  spume  e  tagliano  l'azzurro. 

Scampato  a  l'onde  mi  riceve  il  lito 

de  le  Strofadi  :  Strofadi  chiamate 

in  greco  nome,  ne  Y  Ionio  vasto 

isole  stanno,  e  la  crudel  Celeno 

v'abita  e  l'altre  Arpie,  poi  che  la  casa 

di  Fineo  chiusa  ed  elle  fur  cacciate 

da  le  mense  di  prima  con  paura. 

Più  odioso  di  lor  mostro,  più  rea 

maledizion  del  cielo  non  emerse 

da  l'onde  stige.  Faccia  di  fanciulla 

hanno  gli  alati,  nauseoso  effluvio 

di  ventre,  unghiate  mani,  e  i  visi  sempre 

pallidi  per  la  fame. 

Come  quivi  sospinti  entrammo  in  porto. 


LIBRO    TERZO  8l 

ecco  belle  di  buoi  mandre  vediamo 

vaganti  a  la  campagna  ed  una  greggia 

di  capre  senza  guardian  per  l'erbe. 

Con  Tarmi  le  assaltiam,  gli  Dei  chiamando 

e  Giove  stesso  a  parte  ed  a  la  preda  : 

sul  curvo  lido  disponiamo  i  deschi 

e  banchettiam  de  le  vivande  laute. 

Ma  improvvise  terribili  calando 

ecco  l'Arpie  dai  monti  e  squassan  l'ali 

rombanti,  strappan  le  vivande,  e  tutto 

del  tocco  lercio  imbrattano  :  selvaggia 

è  la  lor  voce  tra  l'orribil  puzzo. 

Di  nuovo  in  parte  più  risposta  e  sotto 

il  cavo  ciglio  d'una  rupe,  cinti 

dagli  stormenti  intorno  alberi  ombrosi, 

poniam  le  mense  e  ravviviamo  l'are  : 

di  nuovo  da  diversa  plaga  e  ignoti 

covi  il  sonoro  stormo  intomo  vola 

co'  pie  adunchi  a  la  preda  e  con  le  bocche 

insozza  i  cibi.  Allor  bandisco  a'  miei 

prendano  Farmi  e  che  bisogna  guerra 

a  l'iniqua  genìa.  Fanno  il  comando, 

e  nascose  preparano  tra  l'erba 

e  le  spade  e  gli  scudi.  Or  come  dunque 

precipitose  sparsero  fragore 

pe'  1  curvo  Udo,  dà  Miseno  il  segno 

col  bronzo  cavo  da  la  specola  alta. 

Balzano  a  nuova  pugna  i  miei,  col  ferro 

i  sinistri  ferir  marini  uccelH  : 

ma  non  offesa  a  le  lor  penne,  al  dosso 

non  risenton  ferite,  e  in  presta  fuga 

Albini  -  Eneide  6 


82  ENEIDE 

lasciano  sollevandosi  la  preda 
mezzomangiata  e  i  luridi  vestigi. 

Sola  posò  nel  sommo  de  la  rupe 

Celeno  e  infausta  profetessa  avventa 

queste  voci  dal  petto:  —  Anche  la  guerra 

per  ammenda  de'  bovi  divorati, 

o  Laomedontiadi,  la  guerra 

mover  volete  e  l'innocenti  Arpie 

cacciar  dal  patrio  regno?  Udite  or  dunque 

e  figgetevi  in  cuor  la  mia  parola: 

quello  che  a  Febo  il  Padre  onnipotente, 

che  Febo  Apollo  a  me  predisse,  ed  io 

massima  de  le  Furie  a  voi  rivelo. 

Voi  col  vento  a  l'ItaHa  veleggiate, 

a  l'Italia  e  nel  porto  arriverete: 

non  però  murerete  la  fatale 

città,  prima  che  squallida  la  fame 

e  la  micidiale  offesa  nostra 

vi  faccia  a  morsi  consumar  le  mense  — . 

Disse,  e  a  voi  rifuggì  dentro  la  selva. 

Gelido  a'  miei  di  subito  spavento 

ristette  il  sangue;  cadde  il  cuor:  con  Farmi 

non  più,  ma  voglion  con  preghiere  e  voti 

pace  implorare,  o  le  sian  dive,  o  dire 

malaugurose  alate.  E  il  padre  Anchise 

a  tese  palme  da  la  riva  invoca 

i  Numi  santi  e  indice  il  giusto  rito: 

—  Dèi,  le  minacce  allontanate  !  Dei, 

stornate  tal  miseria  e  preservate 

benigni  i  buoni!  —  Poi  strappar  la  fune 


LIBRO    TERZO  83 

dal  lido,  scotere  e  snodar  le  gomene 
ingiunge.  I  Noti  stendono  le  vele; 
fuggiam  su  le  spumanti  onde,  per  dove 
il  corso  dirigean  vento  e  piloto. 

Già  nel  mezzo  de'  flutti  la  selvosa 
Zacinto  appar,  Dulichio  e  Same  ed  alta 
sopra  i  dirupi  Nèrito  ;  gli  scogli, 
laerzio  regno,  d' Itaca  schiviamo, 
maledicendo  del  crudele  Ulisse 
la  terra  madre.  I  vertici  nebbiosi 
scopronsi  poi  del  monte  di  Leucate 
e  il  paventato  da'  nocchieri  Apollo. 
A  lui  ci  volgiam  stanchi  e  sottentriamo 
la  piccola  città  :  1'  àncora  cade 
da  la  prora,  le  poppe  a  riva  stanno. 
Dunque  alfìn  presa  la  insperata  terra, 
ci  rifacciamo  a  Giove  mondi  e  l'are 
avvampiamo  di  voti;  l'azia  sponda 
•ferve  festante  degl'iUaci  ludi. 
Trattano  nudi  le  palestre  patrie 
lubrici  d'olio  i  miei  compagni  :  è  gioia 
tante  argoliche  aver  città  sfuggite 
e  tra  la  schiera  ostil  trovato  scampo. 
Intanto  il  sole  un  lungo  anno  si  volge 
ed  il  gelido  verno  arruffa  l'onde 
con  gli  aquiloni.  Un  bel  concavo  bronzo, 
usbergo  già  del  grande  Abante,  appendo 
agh  stipiti,  e  al  dono  il  detto  inscrivo: 
Enea  dal  Gt^eco  vincitor  quest'arme. 
Quindi  comando  di  lasciar  la  spiaggia 


84  ENEIDE 

e  di  seder  su'  banchi:  a  gara  i  miei 
battono  il  mare  e  tagliano  le  spume. 
Presto  facciam  le  cime  alte  sparire 
de'  Feaci,  la  costa  de  l' Epiro 
radiam,  entriamo  nel  caonio  porto 
ed  a  l'alta  città  siam  di  Butroto. 

Inopinata  quivi  udiam  novella, 
come  il  priàmide  Èleno  su  graie 
città  vi  regna  e  tien  talamo  e  trono 
de  l'eàcide  Pirro,  e  novamente 
a  patrio  sposo  Andromaca  è  congiunta. 
Stupii,  e  m'arse  gran  desio  nel  cuore 
di  favellargli  e  udir  tanta  vicenda. 
Lasciando  i  legni  e  il  lido  esco  dal  porto, 
che  le  usate  vivande  e  i  mesti  doni, 
tra  un  bosco  avanti  la  città,  su  l'onda 
d'un  falso  Simoenta,  essa  Ubava 
Andromaca  a  le  ceneri,  ed  i  Mani 
presso  il  sepolcro  d' Ettore  invocava, 
cui  con  due  are  in  verdi  zolle  vuoto, 
causa  del  pianto,  consacrato  avea. 
Come  venir  mi  vide  e  troiane  anni 
a  l'intorno  mirò,  scossa  e  smarrita 
del  gran  portento,  vacillò  guardando; 
ogni  calor  l'ossa  fuggì;  vien  meno, 
e  solo  a  stento  finalmente  dice: 
—  Vero  corpo  a  me  giungi  e  nunzio  vero, 
o  figlio  de  la  Dea  ?  Sei  vivo  ancora  ? 
o  se  ti  abbandonò  la  dolce  luce, 
Ettore  ov'  è  ?  — 

Disse,  e  si  sciolse  in  pianto, 


LIBRO    TERZO  85 

e  tutto  empiva  di  lamento  intorno. 

Poco  soggiunger  posso  a  la  delira, 

e  a  rari  accenti  apro  turbato  il  labbro: 

-  Sì,  vivo,  e  rischi  estremi  è  la  mia  vita. 

Non  dubitar,  che  vedi  il  vero. 

Ahi!  te  scaduta  da  si  gran  consorte 

quale  accogHe  sventura  ?  o  degna  assai 

è  ritornata  la  fortuna  a  starsi 

con  Andromaca  d' Ettore  ?  le  nozze 

di  Pirro  serbi  ?   — 

Chinò  gh  occhi  a  terra, 
e  mormorò  sommessa  :  —   Oh  sopra  tutte 
fortunata  la  vergin  priamèa, 
che  su  la  tomba  del  nemico,  avanti 
l'alte  mura  di  Troia  ebbe  a  morire, 
né  sorteggi  patì,  né  prigioniera 
toccò  di  vincitor  padrone  il  letto  I 
Arsa  la  patria,  noi,  via  per  i  mari 
tratte,  de  l'achillèa  stirpe  l'altura 
ed  il  protervo  giovine,  feconde 
in  servitù,  soffrimmo.  Il  qual  poi,  volto 
a  vagheggiare  Ermìone  ledea 
e  gl'imenei  lacedemonii,  cesse 
me,  schiava  a  schiavo,  ad  Eleno.  Ma  lui, 
Oreste  arso  d'amor  per  la  rapita 
sposa  e  agitato  da  le  Furie  nitrici 
inavveduto  lo  sorprende  e  uccide 
presso  i  paterni  altari.  Per  la  morte 
di  Neottolemo  una  parte  scadde 
a  Eleno  de'  regni,  ed  ei  caonii 
campi  e  tutta  da  Càone  troiano 


86  ENEIDE 

fé'  di  nome  Caonia,  e  su  le  vette 
Pergamo  pose,  questa  iliaca  rocca. 
Ma  quali  venti  a  te,  qual  fato  diede 
la  via?  qual  nume  ti  sospinse  novo 
a'  nostri  lidi  ?  E  il  giovinetto  Ascanio  ? 
viv'egli  ancora  e  l'aere  respira, 
che  a  te  quando  già  Troia....? 
Qualche  pensier  de  la  perduta  madre 
serba  il  fanciullo  pur?  sproni  gli  sono 
a  l'antico  valore  e  a  cuor  virile 
Enea  suo  padre  ed  Ettore  suo  zio  ?  — 

Cosi  diceva  lagrimando  e  lunghi 

metteva  in  van  sospiri,  allor  che  viene 

da  le  mura  l'eroe  priàmide  Eleno 

in  mezzo  a  molti,  e  riconosce  i  suoi 

e  lieto  li  conduce  a  le  sue  soglie 

di  pianto  accompagnando  le  parole. 

M'avanzo,  ed  una  Troia  piccoletta, 

una  Pergamo  che  imita  la  grande 

ed  un  magro  ruscel  che  ha  nome  Xanto 

ravviso,  e  la  Scea  porta  riabbraccio. 

Insiem  del  pari  la  città  congiunta 

godono  i  Teucri:  il  re  li  riceveva 

ne*  portici  ampli  ;  de  la  corte  in  mezzo 

spargean  libando  il  vin  su  le  vivande 

apposte  in  oro  e  in  mano  avean  le  coppe. 

Già  il  primo  se  n'andava  e  il  di  secondo, 
l'aure  chiaman  le  vele  e  il  sen  si  gonfia 


LIBRO    TERZO  87 

tutto  da  l'austro;  mi  rivolgo  al  vate 

a  chiedere  e  pregar:  —  Di  Troia  figlio, 

interprete  de'  Numi,  che  i  voleri 

di  Febo  intendi  e  i  tripodi  e  di  Claro 

i  lauri,  gli  astri,  degli  uccelU  il  canto 

e  il  presagir  de  la  volante  penna, 

dimmi  deh  !  (che  ogni  pio  rito  propizio 

mi  promise  il  viaggio,  e  di  lor  cenno 

tutti  gli  Dei  mi  volsero  a  l' Italia 

e  il  paese  riposto  a  ricercare  ; 

sola  un  nuovo  e  a  ridir  tremendo  intona 

l'arpia  Celeno  vaticinio  e  fiere 

ire  m'annunzia  e  orribil  fame)  ;  quali 

schivo  prima  pericoli?  per  quale 

via  superar  potrei  prove  sì  dure?  — 

Eleno  allor,  sacrificati  avanti 

i  giovenchi  di  rito,  umile  implora 

la  grazia  degli  Dei,  si  scioglie  al  sacro 

capo  le  bende,  a  le  tue  soglie,  Febo, 

per  mano  adduce  me  vinto  a  quel  raggio 

divino  che  l'avvolge,  e  sacerdote 

così  dischiude  l' ispirato  labbro  : 

—   O  figlio  de  la  Dea  (che  manifesto 
navighi  il  mare  per  più  alto  augurio; 
così  de'  Numi  il  re  sorteggia  e  volge 
le  vicende  fatali,  e  il  corso  è  questo), 
poco  di  molto  io  ti  dirò,  per  fare 
che  meno  inospitali  affronti  l'onde 
e  posar  possa  ne  l'ausonio  porto: 
più  non  lasciano  a  Eleno  le  Parche 


88  ENEIDE 

saper,  più  dire  la  saturnia  Giuno. 

In  prima,  quelF  Italia  che  già  presso 

ti  credi  e  t'apparecchi,  o  ignaro,  in  porti 

vicini  entrar,  lungo  l'apparta  e  tiene 

di  lunghe  terre  invalicabil  varco. 

Torcere  il  remo  nel  trinacrio  flutto 

e  rader  con  le  navi  il  lido  ausonio 

ed  il  lago  d'Averno  e  de  l'eèa 

Circe  l'isola  tu  prima  dovrai 

che  possa  in  certo  suol  mura  fondare. 

I  segni  ti  dirò,  scrivili  a  mente. 

Quando,  pensoso  a  solitario  fiume, 

ben  grande  sotto  l'elei  de  la  riva 

una  scrofa  giacersi  troverai 

sgravatasi  di  trenta  capi,  bianca, 

per  terra,  bianchi  a  le  sue  poppe  i  nati, 

quivi  la  tua  città,  quivi  il  riposo. 

Né  di  un  futuro  mordere  le  mense 

tremare:  i  fati  troveran  la  via, 

e  sarà  presso  agi' invocanti  Apollo. 

Ma  queste  terre,  questa  itala  proda 

cui  più  prossima  batte  il  nostro  flutto, 

schivala  :  è  tutto  pien  d'infesti  Grai. 

Ivi  e  i  naricii  Locri  han  fabbricato 

e  accampò  suoi  guerrier  nel  sallentino 

paese  il  Httio  Idomeneo:  del  duce 

melibeo  Filottete  ivi  s  appoggia 

la  piccola  Petelia  a  la  sua  cerchia. 

Poi,  tragittata  oltre  quel  mar  la  fiotta, 

come  sul  lido  già  posti  gli  altari 

i  voti  scioglierai,  copriti  il  capo 


LIBRO    TERZO  89 

di  vel  purpureo,  che  nemico  aspetto 
tra  i  sacri  fuochi  nel  devoto  rito 
non  t'apparisca  e  il  buono  augurio  turbi. 
Questa  norma  solenne  i  tuoi  compagni, 
questa  tu  serba  e  in  cerimonia  tale 
illibati  perdurino  i  nepoti. 

Indi  partito,  come  t'abbia  il  vento 

a  la  Sicilia  fatto  presso  e  il  varco 

de  l'angusto  Peloro  ti  traluca, 

ticDi  i  hdi  a  ministra  e  l'onda  in  ampio 

giro;  da  destra  sfuggi  terra  e  mare. 

Oue'  luoghi  un  dì  per  violenta  e  vasta 

rovina  (così  grande  mutamento 

può  far  la  lunga  vetustà  degli  anni), 

è  fama,  si  staccarono;  tutt'ana 

erano  le  due  terre;  il  mare  a  forza 

s'insinuò,  dal  siculo  l'esperio 

lato  spiccando,  e  tra  i  disgiunti  campi 

e  le  città  con  breve  gorgo  scorse. 

Il  destro  lato  Scilla  tien,  spietata 

il  sinistro  Cariddi  e  vorticosa 

trae  giù  tre  volte  e  inghiotte  i  vasti  flutti 

ed  a  vicenda  poi  fuor  li  rimanda 

flagellandone  il  ciel.  Una  spelonca 

ne  le  tenebre  sue  racchiude  SciUa 

che  s'affaccia  agli  scogli  e  i  legni  attira. 

Ha  volto  lunano  e  bel  virgineo  busto 

fino  al  pube:  gran  mostro  è  il  resto,  e  code 

ha  di  delfìni  a  un  utero  di  lupi. 

Meglio  indugiarsi  a  radere  le  mete 


C)0  ENEIDE 

É 
del  trinacrio  Pachino  in  solco  largo  >> 

che  una  volta  mirar  sotto  il  grande  antro 

la  mostruosa  Scilla  e  la  scogliera 

latrante  intorno  di  cerulee  cagne. 

Inoltre,  se  ha  saggezza  Eleno  alcuna, 

s'egli  è  credibil  vate  e  il  ver  gì' incuora 

Apollo,  questo,  o  figUo  de  la  Dea, 

ti  predirò,  questo  per  tutto  solo  ^ 

tornerò  senza  fine  ad  inculcarti  :  j 

il  nume  innanzi  de  la  gran  Giunone  ^ 

pregando  adora,  a  lei  di  cuor  ti  vota, 

e  con  supphci  offerte  la  possente 

signora  piega:  così  alfin  vincente 

di  Trinacria  in  Italia  salperai. 

Là  giunto,  quando  a  la  città  cumea 

sarai  vicino  ed  agli  arcani  laghi 

e  a  1  Averno  di  selve  risonante, 

visita  l'invasata  profetessa 

che  de  la  rupe  a  pie  dice  i  destini 

e  a  foglie  affida  sillabe  e  sentenze. 

Quanti  scrisse  la  vergine  responsi 

su  le  foghe,  li  novera  e  dispone 

e  ne  l'antro  abbandonali  raccolti. 

Immoti  quelli  restano  e  fedeli 

a'  luoghi  lor,  ma  poi,  se  un  sottil  ventò, 

il  cardine  girato,  li  sospinse 

e  la  porta  turbò  le  lievi  fronde, 

già  non  più,  voUtanti  per  la  grotta, 

prenderli  ha  cura  e  l'ordine  rifare 

degli  oracoli.  Partono  i  delusi 


LIBRO    TERZO  qi 

l'antro  maledicendo  e  la  Sibilla. 

Ivi  sì  non  pregiar  spesa  d'indugio, 

benché  i  compagni  premano,  e  la  \da 

voglia  le  vele  a  l'alto,  ed  a  buon  vento 

si  possano  gonfiar,  che  la  veggente 

tu  non  ricerchi  e  di  responso  preghi 

istantemente  :  ma  predica  dessa 

e  indulgente  la  voce  e  il  labbro  sciolga. 

Ella  d'Italia  i  popoli  e  le  guerre 

ti  svelerà  venture  e  di  che  guisa 

ogni  cimento  tu  sfugga  o  sopporti, 

e  venerata  ti  aprirà  secure 

le  vie.  Tanto  saper  da  la  mia  bocca 

è  conceduto  a  te.  Su,  vanne  e  grande 

innalza  al  cielo  con  le  imprese  Troia  — . 

Dopo  ch'ebbe  così  con  labbro  amico 

parlato  il  vate,  doni  d'oro  gravi 

fa  recare  e  di  lamine  d'avorio 

a  le  na\d  e  vi  addensa  ne  le  chiglie 

argento  molto  e  dodonei  lebeti, 

una  lorica  a  triplice  aurea  maglia 

e  un  cono  di  bell'elmo  e  ben  chiomato, 

armi  di  Neottolemo.  Suoi  doni 

anche  riceve  il  genitor.  Cavalli 

aggiunge,  aggiunge  aurighi  : 

colma  il  remeggio,  i  miei  pur  d'armi  veste. 

Porre  a  la  vela  intanto  comanda\'a 
Anchise,  per  non  fare  indugio  al  vento 
propizio.  Dice  a  lui  con  grande  onore 


92 


ENEIDE 


r interprete  di  Febo:  —  0  fatto  degno 

de  le  nozze  di  Venere  superbe, 

Anchise,  cura  degli  Dei,  due  volte 

di  Pergamo  sottratto  a  la  rovina, 

eccoti  il  suol  d'Ausonia,  a  quel  veleggia. 

E  quello  pure  oltrepassar  per  l'acque 

t'è  necessario:  de  l'Ausonia  lungi 

è  quella  parte  che  ti  schiude  Apollo. 

Felice  o  tu  per  la  pietà  del  figlio, 

vanne  — ,  dice:  più  oltre  a  che  trascorro 

e  trattengo  col  dir  l'austro  che  spira?  — 

Andromaca  non  men,  triste  a  l'addio, 

offre  vaghi  ricami  a  trama  d'oro 

ed  una  frigia  clamide  ad  Ascanio, 

con  pari  onore  ;  de'  tessuti  doni 

il  colma  e  volge  a  Jui  tali  parole  : 

—  Prendi  anche  questi  che  ti  sien  ricordo 

de  le  mie  mani,  o  giovinetto,  e  a  lungo 

ti  attestino  d'Andromaca  l'amore, 

donna  d' Ettore.  Gli  ultimi  presenti 

abbi  de'  tuoi,  o  sola  che  mi  resti 

del  mio  Astianatte  imagine  !  Così 

gli  occhi  egli  avea,  così  le  miani  e  il  volto, 

ed  or  con  te  sarebbe  adolescente  — . 

A  loro  sul  partir  non  senza  pianto 

io  diceva:  —  Vivetevi  felici, 

a  cui  già  piena  è  la  fortuna  sua  ; 

inca.lzati  slam  noi  di  fato  in  fato. 

Voi  vi  posaste,  né  a  solcar  marina 

vi  rimane  o  a  cercare  ausonie  rive 

sempre  indietro  fuggenti.  Una  sembianza 


LIBRO    TERZO  93 

de  lo  Xanto  vedete  ed  una  Troia 
fatta  di  vostra  mano,  con  migliori 
destini,  prego,  e  meno  esposti  a'  Grai. 
Se  il  Tebro  mai  ed  i  vicini  al  Tebro 
campi  entrerò,  se  mirerò  le  mura 
date  a  mia  gente,  le  città  sorelle 
ne  l'avvenire  e  i  popoli  propinqui, 
a  r  Epiro  r  Esperia,  a  cui  comune 
Bardano  è  padre  e  son  comuni  i  casi, 
una  farem  le  due  Troie  col  cuore: 
sia  de'  nostri  nepoti  un  tal  pensiero  — . 

Avanziamo  sul  mar  lungo  i  vicini 

Cerauni,  donde  è  il  navigar  più  breve 

verso  r  Italia.  Cade  intanto  il  sole 

e  s'inombrano  opachi  i  monti.  In  grembo 

ci  gettiam  de  la  desiata  terra 

al  mar,  sortiti  i  remi,  e  ne  l'asciutto 

ci  disperdiamo  per  ristoro  intorno: 

imga  il  sonno  gli  spossati  corpi. 

Né  a  mezzo  il  giro  ancor  tratta  da  l'Ore 

salìa  la  Notte,  levasi  solerte 

PaKnuro  ed  esplora  tutti  i  venti 

fenno  in  orecchi  a  coglier  l'aure.  Osserva 

tutte  volger  le  stelle  in  ciel  tranquillo; 

Arturo  e  le  piovose  ladi  in  giro 

contempla  e  i  due  Trioni  ed  Orione 

armato  d'oro.  Come  tutto  vide 

calmo  in  sereno  ciel,  chiaro  il  segnale 

di  su  la  poppa  dà:  moviamo  il  campo 

e  avviati  apriam  l'ali  de  le  vele. 


94  ENEIDE 

E  già  fugati  gli  astri  rosseggiava 
l'Aurora,  quando  discerniam  lontano 
oscuri  i  colli  ed  umile  l'Italia: 
Italia  primo  grida  Acate,  Italia 
lietamente  salutano  i  compagni. 
Allora  il  padre  Anchise,  incoronato 
un  gran  cratere,  lo  colmò  di  vino 
e  pregò,  ritto  su  la  poppa: 

—  Dèi,  signori  del  mare  e  de  la  terra 
e  de  l'aere,  agevole  a  buon  vento 
fate  la  via,  spirateci  a  seconda  —  : 
Soffiano  le  invocate  aure,  e  già  s'apre 

più  presso  il  porto  e  il  tempio  appar  su  l'arce 

di  Minerva.  I  miei  calano  le  vele 

ed  al  lido  dirigono  le  prore. 

Il  porto  de  l'euròo  flutto  a  riparo 

curvasi  in  arco;  spumano  del  salso 

spruzzo  le  opposte  rocce,  esso  si  addentra; 

in  doppio  muro  abbassano  i  turriti 

scogli  le  braccia  e  si  fa  indietro  il  tempio. 

Quattro  cavalli  là,  presagio  primo, 

liberi  vidi  a  pascolar  per  l'erba, 

di  bianchezza  di  neve.  E  il  padre  Anchise 

—  Guerra  tu  porti,  o  terra  ospite  —  dice: 
a  guerra  s'armano  i  cavalli,  guerra 
questa  mandra  minaccia.  Ed  essi  pure 
sottentrano  i  quadrupedi  al  timone, 
apparigliati  e  ubbidienti  al  freno; 
speranza  anche  di  pace  — .  Il  nume  pio 
preghiamo  allor  di  Pallade  guerriera 

che  per  prima  ne  accolse  trionfanti, 


LIBRO    TERZO  95 

ricoprendoci  avanti  l'are  il  capo 
di  frigio  velo,  e  d'  Eleno  al  precetto 
massimo  che  ci  die,  destiam  devoti 
a  Giuno  argiva  le  prescritte  fiamme. 
Senza  indugiar,  di  seguito  compiuto 
ogni  rito,  le  punte  rivolgiamo 
de  le  velate  antenne  e  abbandoniamo 
quelle  case  di  Greci  e  il  suol  sospetto. 
Indi  si  scorge  il  grembo  de  l'erculea, 
se  vera  è  fama,  Taranto:  la  diva 
Lacinia  s'erge  incontro  e  di  Caulone 
l'arci  e  pien  di  naufragi  Scilaceo. 
Remoto  poi  dal  mare  il  siculo  Etna 
si  scerne,  e  udiamo  di  lontan  l'ingente 
gemer  de  l'onda  ed  i  percossi  sassi 
e  l'urlo  a  riva  de*  frangenti  :  i  gorghi 
ribollono  mischiandosi  di  rena. 
E  il  padre  Anchise:  —  Ben  quella  Ca riddi 
è  questa;  questi  scogh  Eleno,  questi 
tremendi  sassi  predicea.  Compagni, 
schivateU  e  v'alzate  insiem  su'  remi  — . 
Obbediscono  al  cenno,  e  Palinuro 
per  il  primo  sviò  verso  sinistra 
cigolante  la  prora,  e  fanno  forza 
tutti  a  sinistra  co'  remi  e  col  vento. 
Siam  sollevati  al  ciel  su'  curvi  dorsi 
e  inabissiamo  al  rifuggir  de  l'onda. 
Tre  volte  strepitarono  gli  scogli 
fra  i  cavi  sassi,  tre  franger  le  spume 
vedemmo  e  inumidirsene  le  stelle. 
Intanto  lassi  ci  lasciò  col  sole 


gò  ENEIDE 

il  vento,  ed  inesperti  de  la  via 
approdiamo  a  le  spiagge  de'  Ciclopi. 

Esso  il  porto  da  V  impeto  de'  venti 

è  immoto  e  vasto,  ma  vicin  gli  romba 

l'Etna  con  soaventevoli  rovine 

e  talor  lancia  al  ciel  nube  fumosa 

di  nera  pece  e  di  faville  vive, 

alza  globi  di  fiamme  e  gli  astri  sfiora, 

rocce  erutta  talor  fuori  e  spiccate 

le  viscere  del  monte  e  addensa  in  aria 

liquefatti  macigni  mugolando 

e  dal  fondo  più  intimo  ribolle. 

È  fama  che  dal  fulmine  mezz'arso 

Encelado  stia  sotto  la  montagna, 

e  che  su  lui  gravando  ingente  l' Etna 

da  le  bocche  l'incendio  ne  respiri, 

e  quante  volte  lasso  ei  muta  lato, 

tutta  Trinacria  fremebonda  tremi 

e  stenda  sotto  al  ciel  nube  di  fumo. 

Per  quella  notte  ne  le  selve  ascosi 

tolleriamo  il  terribile  portento 

senza  vedere  la  cagion  del  rombo  : 

che  non  v'era  splendor  d'astri  né  il  polo 

de  la  plaga  stellata  rilucea, 

ma  v'eran  nubi  ne  l'oscuro  cielo 

e  notte  cupa  ravvolgea  la  luna. 

Il  domani  spuntava  in  oriente 

e  rimossa  dal  cielo  avea  l'Aurora 

r  umid'  ombra  ;  improvviso  da  le  selve 


LIBRO   ti:rzo 


strana  figura,  di  magrezza  estrema, 
d'uom  sconosciuto  e  squallido  s'avanza, 
tese  le  mani  supplicando  al  lido. 
Lo  riguardiamo  :  sordida  miseria, 
lunga  la  barba,  un  mantello  cucito 
insiem  da  spine,  ma  nel  resto  un  greco 
e  mosso  un  di  ne  l'armi  patrie  a  Troia. 
Ei,  come  di  lontan  dardani  aspetti 
conobbe  e  troiane  armi,  un  poco  stette, 
a  la  vista  atterrito,  e  tenne  il  passo; 
indi  precipitoso  al  lido  corse 
con  lagrime  e  preghiere:  —  Per  le  stelle 
v'invoco,  per  i  Superi  e  per  queste 
spirabili  aure  luminose,  o  Teucri, 
prendetemi,  portatemi  dovunque; 
basterà.  Mi  so  uno  de  le  dànae 
navi  e  confesso  esser  venuto  in  armi 
contro  i  Penati  iliaci.  Per  questo, 
se  de  la  colpa  mia  tanta  è  l'offesa, 
spargetemi  per  l'acque  a  brani,  in  fondo 
m'immergete  del  pelago  :  se  muoio, 
morir  per  mano  d'uomini  avrò  caro  — . 
Avea  detto  e  abbracciava  le  ginocchia 
in  ginocchio  implorando.  A  dir  chi  sia 
e  di  che  sangue  nato  l'esortiamo 
e  rivelar  qual  poi  vicenda  il  prema. 
Esso,  senza  esitar,  il  padre  Anchise 
gli  dà  la  destra  e  del  parlante  pegno 
lo  rassicura. 

Quegli,  finalmente, 
deposta  la  paura,  così  dice: 

Albini  -  Eneide 


9^  ENEIDE 

—  D'Itaca  io  son,  de  l'infelice  Ulisse 

un  compagno,  Achemenide  di  nome, 

ito  a  Troia,  Adamasto  avendo  a  padre 

povero  (oh  fosse  povertà  durata!). 

Me  qui,  mentre  s'affannan  le  crudeli 

soglie  a  fuggir,  dimentichi  i  compagni 

lasciarono  ne  l'antro  del  Ciclope. 

Tutta  grumi  è  la  stanza  e  atroci  resti, 

oscura  dentro  e  vasta.  Esso  è  gigante 

che  tocca  gU  astri  (sterminate,  o  Dei, 

tale  dal  mondo  orror),  né  d'affisarlo 

né  di  parlargH  è  dato  ad  uom.  Divora 

le  viscere  de'  miseri  ed  il  sangue. 

Io  stesso  vidi  quando  due  de'  nostri 

presi  con  la  gran  mano,  in  mezzo  a  l'antro 

sdraiato,  percoteali  a  la  parete, 

e  la  strage  inondava  intorno  intorno; 

morder  lo  vidi  le  grondanti  membra 

che  sotto  a'  denti  gh  tremavan  calde. 

Non  senza  pena  pur,  che  non  sofferse 

Ulisse  tanto  né  obliò  sé  stesso 

ritaco  in  tal  frangente.  Non  appena, 

sazio  del  pasto  e  sepolto  nel  vino, 

giù  pose  il  capo  e  per  la  grotta  giacque 

immenso,  grumi  e  frustoli  tra  '1  sonno 

misti  eruttando  a  vin  sanguinolento, 

noi,  invocati  i  sommi  Dei,  sortite 

le  parti,  tutti  stretti  intorno  a  lui 

con  aguzzo  troncon  gli  crivelliamo 

l'occhio  che  grande  e  solo  s'appiattava 

sotto  la  torva  fronte,  quasi  scudo 


LIBRO    TERZO  99 

argolico  o  la  lampada  febea, 

e  lieti  vendichiam  l'ombre  de'  nostri. 

Ma  su,  fuggite,  o  miseri,  fuggite 

e  strappate  la  fune: 

che  com'è  Polifemo,  e  quale  e  quanto 

chiude  la  greggia  e  munge  entro  lo  speco, 

cento  altri  tali  popolano  il  Udo 

esecrati  Ciclopi  e  per  le  cime 

errano.  Già  la  luna  empì  di  luce 

le  terze  coma,  da  ch'io  traggo  in  selve 

tra  i  sohnghi  covili  de  le  fiere 

la  vita  e  i  Ciclopi  alti  su  le  rupi 

spio  trasalendo  al  suon  de'  passi  e  a  l'urlo. 

Bacche  e  petrose  prune  in  cibo  amaro 

mi  danno  i  rami  e  strappo  le  radici. 

Tutto  sempre  esplorando,  io  vidi  prima 

questa  flotta  arrivar;  m'addissi  a  questa, 

qual  che  si  fosse,  sol  eh?  da  la  razza 

scampi  brutal.  Piuttosto  questa  vita 

voi  mi  togliete  per  qualunque  morte  — . 

Appena  detto  avea  che  a  sommo  il  monte 

lui  vediam  tra  le  pecore  il  pastore 

Polifemo  in  sua  gran  mole  avanzare 

ed  avviarsi  al  consueto  lido. 

Orrendo  informe  enonne  mostro,  e  cieco; 

strappato  un  pino  in  man  regge  i  suoi  passi  : 

gli  va  compagna  la  lanuta  greggia; 

quella  la  sola  gioia  ed  il  sollievo 

del  danno. 

Poi  che  l'onde  toccò  de  la  marina. 


É: 


ino  ENEIDE 


l'umor  de  lo  scavato  occhio  sanguigno 
deterse  digrignando  gemebondo, 
e  nel  mezzo  de  l'acque  ornai  cammina 
né  a  la  cintola  ancor  gli  sale  il  flutto. 
Noi  quindi  lungi  trepidi  affrettare 
la  fuga,  accolto  il  supplice  sì  degno, 
e  in  silenzio  tagliar  la  fune:  e  curvi 
fendiamo  il  mar  con  gareggianti  remi. 
Sentì,  l'andar  verso  la  voce  volse; 
ma  poi  che  già  non  ne  può  dar  di  piglio 
né  uguagliare  inseguendoci  l' Ionio, 
grido  immenso  levò,  che  le  marine 
ne  tremarono  e  addentro  sbigottita 
fin  la  terra  d' Italia  e  muggì  l' Etna 
da  le  curve  caverne.  A  quel  richiamo 
fuor  da  le  selve,  giù  da  le  montagne 
la  razza  de'  Ciclopi  si  ruina 
verso  il  porto  ed  i  lidi  empie.  Vediamo 
con  l'occhio  torvo  inutilmiente  starsi 
gli  etnei  fratelli  e  alzar  le  teste  al  cielo, 
concilio  orrendo;  quah  in  vetta  a  l'alpe 
querci  aerie  o  coniferi  cipressi 
soglion  superbi  sorgere,  di  Giove 
alta  selva  o  recinto  di  Diana. 
Precipitosi  il  gran  timor  ci  spinge 
a  scotere  le  sarte  per  dovunque 
e  dar  le  vele  a  lo  spirar  de'  venti. 
D'Eleno  l'ammonir  contrario  suona, 
se  tra  Scilla  e  Cariddi,  entrambe  via 
rasente  a  morte,  non  tengano  il  solco; 
vale  il  pensier  di  veleggiare  indietro. 


l.lh'.KU      1  i:.K/.v  '  lOI 

Ed  ecco  da  la  stretta  di  Peloro 

Borea  ne  spira:  valico  la  foce 

tra  vivo  sasso  del  Pantagia  e  il  seno 

mégaro  e  la  giacente  Tapso.  I  luoghi 

novamente  radendoli  a  ritroso 

ci  veniva  Achemenide  mostrando, 

socio  che  fu  de  l'infelice  Uhsse. 

Una  al  sicano  golfo  innanzi  stesa 

contro  il  Plemirio  ondoso  isola,  giace; 

Ortigia  la  chiamarono  i  maggiori. 

È  fama  che  l'Alfeo  d' Elide  fiume 

per  cieca  via  di  sotto  al  mxar  qui  corse 

ed  ora  per  la  tua  bocca,  Aretusa, 

a  le  sicule  Hnfe  si  confonde. 

Docih  veneriamo  i  numi  santi 

di  quella  terra,  ed  oltrepasso  poi 

il  pingue  suol  de  lo  stagnante  Eloro. 

Indi  l'eccelse  punte  e  i  procorrenti 

sassi  radiamo  di  Pachino,  e  appare 

Camarina  lontan,  cui  vieta  il  fato 

mutarsi  mai,  e  i  Geloi  campi  e  Gela 

denomxinata  dal  rubesto  fiume. 

Alta  Agrigento  poi  da  lungi  ostenta 

sue  gran  mura,  di  nobili  cavalli 

un  dì  ferace;  e  te  varco  a  buon  vento, 

palmosa  Selinunte,  e  i  lihbei 

gorghi  costeggio  aspri  di  scogli  ascosi. 

Il  porto  aliìn  di  Drepano  e  la  riva 

infausta  mi  riceve:  ivi,  da  tante 

fortune  in  mar  sbattuto,  il  oadre  mio. 


102 


ENEIDE 


de*  pensieri  conforto  e  de'  perigli, 

Anchise  ahi!  perdo;  ivi  me  stanco  ahi!  lasci, 

ottimo  genitor,  inutilmxente 

a  rischi  innumerevoli  sottratto. 

Né  sì  gran  duolo  a  me  tra  i  molti  eventi 

predisse  Eleno  vate  e  non  la  cruda 

Celeno.  Questo  l'ultimo  travaglio, 

questa  la  meta  de  le  lunghe  vie. 

Indi  partito,  un  dio  mi  spinse  a  voi  ». 

Ascoltandolo  tutti,  il  padre  Enea 
così  de'  fati  ritessé  la  tela 
e  il  viaggio  narrava.  E  qui  si  tacque, 
giunto  a  la  fine,  e  fu  sua  voce  cheta. 


LIBRO  QUARTO 


Ma  la  regina,  di  profondo  affanno 

pur  dianzi  vinta,  la  ferita  in  cuore 

nutre  e  si  strugge  di  nascosta  fiamma. 

Sempre  il  valore  de  l'eroe,  l'onore 

de  la  gente  ritoma  al  suo  pensiero; 

ha  fitti  in  seno  il  volto  e  le  parole, 

né  dà  la  passion  pace  a  le  membra. 

Il  domani  schiariva  col  febeo 

lume  le  terre  e  avea  di  ciel  l'Aurora 

l'umid'ombra  cacciata;  ella  si  volge 

fuor  di  sé  quasi  a  la  fedel  'sorella  : 

«Anna  sorella  mia,  quaU  mai  sogni 

mi  turbano  e  mi  affannano?  Che  novo 

ospite  è  questo  che  ci  giunse  in  casa? 

quale  aspetto!  che  forte  cuor!  che  braccio 

Credo  ben  io,  né  credo  invan,  che  stirpe 

è  degh  Dei:  i  trahgnanti  accusa 

lor  viltà.  Da  che  fati  ahimé  sospinto! 

quah  narrava  superate  guerre! 

Se  nel  mio  cuore  immobilmente  ferma 


104  i:  NE  IDE 

non  fossi  a  ricusar  nodo  di  nozze, 

poi  che  morendo  il  primo  amor  m'illuse; 

se  preso  in  odio  il  talamo  e  le  tede 

già  non  avessi,  fors'  eli'  era  questa 

l'unica  col[;a  cui  ceduto  avrei. 

Anna,  il  confesserò,  sì,  dopo  il  fato 

del  misero  Sicheo  mio  sposo  e  il  sangue 

di  che  il  fnitello  empì  la  casa,  solo 

questi  m'ha  scosso  i  sensi  e  il  cuor  che  trema 

conosco  i  segni  de  l'antica  fiamma. 

Ma  prima  s'apra  a  me  la  terra  cupa 

e  mi  fulmini  il  gran  Padre  tra  l'ombre, 

le  pallide  ombre  e  l'infinita  notte, 

ch'io  te.  Pudore,  o  le  tue  leggi  offenda. 

Quegli  che  primo  a  sé  mi  strinse,  il  mio 

amor  se  ne  portò;  quegli  se  l'abbia 

sepolto  insieme  ». 

Così  disse,  e  in  seno 
il  pianto  le  proruppe.  Anna  risponde: 
«  O  più  cara  del  giorno  a  la  sorella, 
e  tutta  sfiorirai  la  giovinezza 
da  sola,  senza  i  dolci  figli,  senza 
di  Venere  le  gioie  ?  E  di  ciò  pensi 
che  si  curi  la  cenere  de'  morti  ? 
Sia,  nel  tuo  lutto  un  dì  non  ti  piegava 
sposo  di  Libia,  e  non  di  Tiro  prima; 
larba  disprezzasti  e  gli  altri  duci 
che  ricca  ni  trionfi  Africa  nutre: 
r-^spingerai  anche  un  gradito  amore? 
Né  ti  sovviene  in  qual  terren  tu  vivi  ? 
hai  da  una  parte  le  città  getule, 


LIBRO    QUARTO  I05 

stirpe  guerriera,  e  i  Nùmidi  sbrigliati 

e  l'inospita  Sirti;  le  assetate 

lande  hai  da  l'altra  ed  il  furor  barceo 

che  largo  inonda.  E  debbo  dir  le  guerre 

imminenti  da  Tiro  e  la  minaccia 

del  germano? 

Auspici  inver  gh  Dei,  penso,  e  arridente 

Giunone,  questo  solco  hanno  tenuto 

veleggiando  l'iliache  carene. 

Quale  vedrai  questa  città,  sorella, 

qual  sorger  regno  per  connubio  tale! 

de'  Teucri  amiche  l'armi,  ne  l' imprese 

quanta  grandeggerà  punica  gloria! 

La  grazia  sol  de'  Numi  implora  e,  i  riti 

compiuti,  a  l'ospitahtà  sorridi; 

trova  cagioni  a  l'indugiar,  nel  m.entre 

che  il  verno  infuria  ed  Orion  nemboso 

sul  mar,  né  sani  sono  i  legni;  mentre 

male  i  nembi  si  affrontano  ». 

Con  questi 
detti  d'immenso  amor  l'animo  accese, 
die  speme  ai  dubbio  cuor,  vinse  il  ritegmo. 

Vanno  da  prima  a'  tempH,  e  ad  ogni  altare 

chiedon  grazia  :  le  scelte  agne  di  rito 

a  Cerere  leggifera  ed  a  Febo 

immolano  e  a  Lieo  padre,  su  tutti 

a  Giuno  eh' è  de'  nodi  coniugali 

protettrice.  Bellissima  Bidone 

versa  una  tazza  con  la  propria  destra 

fra  le  corna  di  candida  giovenca, 


I06  ENEIDE 

o  davanti  agli  Dei  ed  a  le  pingui 

are  passeggia,  e  inizia  con  le  offerte 

il  giorno,  e  intenta  sopra  l'ostie  scisse 

le  palpitanti  viscere  consulta. 

Oh  misero  pensier  degl'indovini! 

che  fanno  i  voti  e  i  templi  a  la  furente? 

Fiamma  intanto  divora  le  midolle 

molli  e  tacita  in  sen  vive  la  piaga. 

Arde  Dido  infelice,  e  forsennata 

scorre  per  tutta  la  città,  qual  cerva 

cui  lunge  incauta  tra  le  macchie  in  Creta 

un  pastore  incalzandola  di .  strali 

d'uno  pur  colse  e  in  lei  lasciò  l'alato 

dardo  senza  saperlo;  e  quella  in  fuga 

per  le  fratte  e  i  dittei  balzi  dilegua, 

ma  la  punta  mortai  fitta  è  nel  fianco. 

Or  seco  Enea  per  mezzo  a'  suoi  conduce, 

gli  mostra  la  sidonia  floridezza 

e  pronta  la  città;  prende  a  parlare 

ed  a  mezzo  il  parlar  s'arresta:  or  torna 

col  di  cadente  a'  soliti  conviti 

e  chiede  ancora  udir  le  iliache  pene 

e  pende  ancor  del  narrator  dal  labbro. 

Come  poi  son  partiti  e  l'ora  viene 

che  vela  il  lume  suo  scura  la  luna 

e  il  sonno  chiaman  le  cadenti  stelle, 

sola  si  strugge  ne  le  stanze  vuote 

e  resta  sui  tappeti  abbandonati. 

Lontana  lui  lontano  ascolta  e  vede, 

o  vinta  a  la  paterna  somiglianza 

gode  di  trattenersi  Ascanio  in  grembo, 


LIBRO    QUARTO  lO^ 

se  illuder  possa  il  tormentoso  amore. 
Non  Saigon  più  le  torri  incominciate; 
non  trattan  l'arme  i  giovani,  né  a'  porti 
sudano  e  a'  forti  arnesi  de  la  guerra: 
pendono  l'opere  interrotte  e  i  merli 
grandi  de'  muri  e  i  palchi  alzati  al  cielo. 

Appena  vide  lei  dal  mal  sì  presa, 

né  ritegno  la  fama  a  la  follia, 

la  saturnia  di  Giove  amata  sposa 

con  questo  ragionar  Venere  assale  : 

«  Splendida  lode  in  ver,  trofei  superbi 

tu  col  figliuolo  tuo  ne  riportate  : 

meraviglioso  e  memorabil  vanto, 

per  l'arte  di  due  Dei  vinta  una  donna! 

Già  non  mi  sfugge  che  le  nostre  mura 

tu  paventando,  per  sospette  avevi 

le  case  di  Cartagine  alta.  E  quando 

porrai  fine  ?  a  che  più  tanto  armeggiare  ? 

Perché  piuttosto  non  esercitiamo 

eterna  pace  e  pattuite  nozze  ? 

Già  quello  hai  tu  che  avidamente  ambivi  : 

arde  amiorosa  Dido  e  fino  a  l'ossa 

bevve  la  frenesia.  Dunque  comune 

questo  popol  reggiamo  àuspici  eguali: 

io  non  vieto  obbedir  frigio  marito 

e  dare  i  Tirii  a  la  tua  destra  in  dote  ». 

A  lei  (che  falso  favellar  la  intese, 

per  divergere  a'  Hdi  de  la  Libia 

d'Italia  il  regno)  Venere  rispose  : 

u  Chi  a  ciò  darebbe  folle  una  ripulsa 


eleggendo  di  far  con  te  la  guerra? 

sol  che  fortuna  prosperi  l'evento 

che  dici  -  ma  sono  io  dubbia  de'  fati  - 

e  un'unica  città  Giove  consenta 

avere  i  Tirii  e  i  profughi  da  Troia 

e  mescolarsi  ed  allearsi  in  patto. 

La  moglie  sei,  e  puoi  tentar  pregando 

il  suo  talento.  Va',  ti  terrò  dietro  ». 

Soggiunse  allora  la  regai  Giunone: 

«  Mia  sarà  questa  cura.  Or  di  che  guisa 

quello  si  possa  adempiere  che  preme, 

ti  mostrerò,  m'ascolta,  in  breve.  Enea 

e  con  lui  l'amantissima  Bidone 

si  preparano  andar  ne'  boschi  a  caccia, 

non  appena  domani  il  sol  nascente 

co'  suoi  raggi  riveli  l'universo. 

Io  di  grandine  misto  un  nero  nembo, 

mentre  le  schiere  a  collocar  le  reti 

s'affannano,  rovescerò  su  loro 

e  moverò  tutto  tonante  il  cielo. 

Qua  e  là  fuggiran  gli  altri,  ne  la  cupa 

notte  ravvolti  :  Dido  e  il  teucro  duce 

ripareranno  a  la  spelonca  stessa. 

Quivi  sarò  :  se  il  tuo  piacer  m'è  chiaro, 

glie  la  unirò  di  stabile  connubio 

per  sempre  sua.  Sarà  quivi  Imeneo  ». 

Annuì  senza  opporsi  a  la  chiedente 

e  sorrise  a  le  trame  Citerea. 

L'Aurora  intanto  da  l'Oceano  è  sorta. 
Vien  da  le  porte  col  novello  raggio 


LIBRO    QUARTO  100 

la  eletta  gioventù.  Là  reti  rade 
e  lacci  e  giavellotti  a  larga  lama  ; 
e  accorrono  massili  ca,valieri 
e  de'  cani  il  sottil  fiuto.  A  le  soglie 
stanno  i  primi  de'  Peni  ad  aspettare 
la  regina  nel  talamo  indugiata  : 
e  un  destrier  d'ostro  e  d'oro  rifulgente 
impaziente  morde  il  fren  schiumoso. 
Ultima,  tra  un  corteo  frequente,  avanza, 
in  clamide  sidonia  ricamata 
a'  lembi  :  d'oro  ha  la  faretra,  in  oro 
annodati  i  capelli,  ed  un  fermaglio 
d'oro  raccoglie  la  purpurea  veste. 
Ecco  i  frìgi  compagni  anch'essi  e  lieto 
Giulo  apparir:  bellissimo  su  tutti 
Enea  procede  e  le  due  squadre  unisce. 
Qual  è  Apollo,  allor  che  l'invernale 
Licia  lasciando  e  i  corsi  de  lo  Xanto 
riede  a  veder  la  sua  materna  Delo 
e  desta  i  cori;  misti  a  l'are  intorno 
Cretesi  e  Driopi  fremono  e  dipinti 
Agatirsi;  pe'  gioghi  va  del  Cinto 
esso  e  il  fluente  crin  preme  composto 
di  pieghevole  fronda  e  d'aureo  cerchio, 
romba  il  turcasso  agli  omeri:  non  meno 
animoso  di  lui  veniva  Enea; 
tanta  è  beltà  nel  nobile  sembiante. 

Poi  che  si  giunse  agli  alti  monti  e  a'  covi 
riposti,  giù  da'  vertici  sbalzate 
scorser  pe'  clivi  le  selvagge  capre  ; 


no  ENEIDE 

e  d'altra  parte  i  cervi  i  campi  aperti 
trasvolano  e  s'agglomerano  in  frotte 
polverose  fuggendosi  da'  monti. 
Il  giovinetto  Ascanio  del  suo  vivo 
poliedro  gode  in  grembo  a  le  vallate 
ed  ora  questi  in  corsa  or  passa  quelli, 
e  agogna  pur  che  tra  l'imbelle  armento 
o  spumoso  cinghiai  gh  si  offerisca 
o  discenda  nel  pian  fulvo  leone. 

Comincia  intanto  a  conturbarsi  il  cielo 

d'immenso  mormorar;  grandine  e  nembo 

scoppiano  quindi.  I  tirii  cacciatori 

trepidi  a  caso  e  i  giovani  troiani 

e  il  dardanio  di  Venere  nipote 

cercaron  qua  e  là  pe'  campi  asilo  : 

da'  monti  scrosciano  i  torrenti. 

Dido 

e  il  teucro  duce  a  la  spelonca  stessa 

riparano.  La  Terra  prima  e  Giuno 

pronuba  danno  il  segno:  arsero  lampi 

nel  cielo  consapevole  a  l'amplesso; 

su  le  rupi  ulularono  le  Ninfe. 

Quello  il  dì  primo  fu  di  morte,  il  primo 

forier  de'  mah  :  che  non  ha  pensiero 

Dido  de  l'apparire  e  de  la  fama, 

e  più  non  serba  quell'amor  nel  cuore 

nascostamente,  ma  connubio  il  chiama 

e  fa  del  nome  a  la  sua  colpa  velo. 

Subito  per  le  gran  città  di  Libia 
la  Fama  va,  la  Fama,  il  più  veloce 


LIBRO    QUARTO  III 

che  sia  malanno;  vigoreggia  per  la 

mobilità  e  forze  acquista  andando. 

Piccola  prima  e  pavida,  si  leva 

poi  alto  a  l'aure;  sul  terren  cammina 

e  il  capo  tra  le  nuvole  nasconde. 

Lei,  narrano,  la  Terra  genitrice 

irritata  de  l'ira  degli  Dei, 

lei  di  Ceo  e  d'  Encelado  sorella 

ultima  partorì,  presta  di  piedi 

e  d'agili  ali,  orribil  mostro  e  grande; 

che  quante  ha  penne  per  il  corpo,  tanti, 

prodigio  a  dir,  sott'esse  ha  vigiH  occhi, 

hngue  e  bocche  le  parlano  altrettante, 

tanti  dirizza  orecchi.  A  notte  vola 

tra  terra  e  cielo  stridula  per  l'ombra, 

né  chiude  al  dolce  sonno  le  pupille; 

il  giorno  o  su'  comignoH  de'  tetti 

siede  osservando  o  de  le  torri  in  cima, 

ed  assorda  le  gran  città,  tenace 

del  falso  e  reo,  come  del  ver  foriera. 

Questa  allora  esultante  riempiva 

le  genti  di  moltephce  ridire 

e  il  fatto  e  il  finto  insieme  ricantava  : 

di  teucra  stirpe  esser  venuto  Enea, 

e  a  lui  non  isdegnar  la  bella  Dido 

congiungersi;  or  passare  il  verno  in  gioia, 

quanto  è  lungo,  tra  lor,  dimenticando 

i  regni,  al  vii  talento  abbandonati. 

Per  le  bocche  la  dea  questa  vergogna' 

sparge  :  ad  larba  re  dirige  il  volo 

e  gli  desta  co'  detti  incendio  d' ira. 


112  ENEIDE 


Questi,  nato  ad  Ammon  da  la  rapita 
Garamantide  ninfa,  ha  posti  a  Giove 
cento  per  l'ampio  regno  eccelsi  templi, 
cento  are,  e  avea  sacrato  il  vigil  fuoco, 
scolte  de'  Numi  eterne  ;  ed  il  suol  pingue 
del  sangue  de  le  vittime  e  le  soglie 
de*  svariati  serti  floride.  Egli, 
sconvolto  il  cuore  e  acceso  al  triste  grido, 
davanti  a  l'are,  in  mezzo  a'  numi  santi, 
supplice  a  Giove  con  le  palme  tese 
dicono  alzasse  instante  la  preghiera: 
«  Onnipotente  Giove,  a  cui  la  maura 
gente  su'  pinti  letti  convitata 
liba  l'onor  leneo,  vedi  tu  questo? 
ovver  te  fulminante,  o  genitore, 
senza  ragion  temiamo  e  del  terrore 
fuochi  son  causa  tra  le  nubi  occulti 
e  via  con  bruto  murmurc  striscianti? 
Una  donna,  che  profuga  nel  nostro 
suolo  esigua  città  fondò  per  oro, 
e  le  diemmo  ad  arar  terra  e  a  dettarvi 
la  legge,  ricusò  le  nozze  mie 
e  per  signore  accolse  al  regno  Enea. 
Quel  Paride,  col  suo  non  maschio  gregge, 
succinto  al  mento  la  meonia  mitra 
e  al  crin  stillante,  or  la  rapina  gode: 
e  noi  portiamo  a'  templi  tuoi  le  offerte 
alimentando  una  credenza  inane!». 

Lui  che  così  pregava  a  l'are  stretto 
udì  l'Onnipotente  e  torse  gli  occhi 


LIBKO    Ql-ARTO  Ijo 

a  le  mura  regali  ed  agli  amanti 

de  la  fama  migliore  ismemorati.  " 

Poi  si  volge  a  Mercurio  e  sì  gì' ingiunge: 

«  FigHo,  chiama  gli  zefiri  e  volando 

scendi:  al  dardanio  duce  che  or  s'indugia 

ne  la  tiria  Cartagine  e  non  guarda 

più  le  città  concessegh  dal  fato, 

paria  e  reca  per  l'aere  il  mio  cenno. 

Lui  la  madre  belhssima  non  tale 

ci  promise  -  né  due  volte  di  mano 

lo  strappa  a'  Crai  per  questo  -  si  ben  ch'egH 

pregna  di  tirannie,  guerra  spirante 

reggerebbe  l'Itaha,  la  prosapia 

rivelerebbe  che  da  Teucro  scende 

e  darebbe  la  legge  a  Tuniverso. 

Se  non  l'infiamma  gloria  di  si  grandi 

cose  né  vuole  accingersi  a  fatiche 

per  propria  lode,  Ascanio  ei  padre  froda 

de  le  romane  rocche  ?  E  che  disegna  ? 

o  per  qual  mai  speranza  tra  nemica 

gente  dimora  ed  a  l'ausonia  prole 

più  non  riguarda  né  al  lavinio  suolo  ? 

Navighi:  questo  è  tutto,  e  tu  l'annunzia». 

Aveva  detto.  Quei  si  preparava 
obbedir  del  gran  Padre  il  cenno,  e  prima 
s'allaccia  a' pie  gh  aurei  talari:  a  volo 
questi  su  le  marine  e  i  continenri 
il  portano  alto  a  par  con  l'aure  lievi. 
Prende  la  verga  poi  :  con  questa  fuori 
ei  chiama  l'ombre  pallide  da  l'Orco, 

AtEiNi  -  Eneide 


114  ENEIDE 

altre  nel  triste  Tartaro  sommerge, 
dà  il  sonno  e  leva,  e  chiude  gli  occhi  in  morte. 
Rompe  or  con  essa  i  venti  e  tra  le  nubi 
torbide  varca.  E  già  tra  '1  volo  scorge 
il  picco  e  i  fianchi  eccelsi  del  rubesto 
Atlante  che  sostenta  il  ciel  col  capo, 
d'Atlante  che  i  pineti  de  la  vetta 
perennemente  ha  in  nuvole  ravvolti 
e  dal  vento  è  battuto  e  da  la  pioggia: 
vien  la  neve  a  coprir  gli  omeri;  allora 
scorron  dal  mento  del  vegliardo  i  fiumi 
e  irrigidisce  l'irta  barba  al  gelo. 
Quivi  stette  librandosi  su  l'ali; 
poi  s'abbandonò  tutto  verso  l'onde, 
simile  a  queir augel  che  basso  vola 
intorno  a'  Hdi  ed  a'  pescosi  scogli 
radendo  il  mar:  non  altrimenti  a  volo 
tra  terra  e  ciel  verso  il  sabbioso  lido 
de  la  Libia  fendea  l'aer  venendo 
dal  materno  avo  la  cillenia  prole. 

Toccati  appena  con  le  alate  piante 
i  tuguri,  discerne  Enea  che  attende 
a  fondar  torri  e  foggiar  tetti.  Aveva 
stellata  spada  di  diaspro  biondo 
e  breve  manto  gli  fulgea  di  tirio 
murice  da  le  spalle,  opera  e  dono 
che  fatti  aveva  l' opulenta  Dido 
e  divisati  a  fila  d'oro  i  drappi. 
Di  subito  l'assale  :  «  Or  tu  lavori 
a'  fondamenti  di  Cartagine  alta 


LIBRO    QUARTO  II- 

e  tutto  moglie  la  città  fai  bella, 
oh  immemore  del  regno  e  di  tue  cose! 
Esso  dal  chiaro  Ohm.po  a  te  mi  manda 
il  Re  de'  Numi  che  ad  arbitrio  suo 
volge  il  cielo  e  le  terre,  esso  m'ingiunge 
che  per  l'aere  il  suo  cenno  ti  rechi. 
Tu  che  disegni?  per  qual  mai  speranza 
stai  neghittoso  in  libico  paese? 
Se  non  ti  punge  gloria  di  sì  grandi 
cose  né  ordisci  a  lode  tua  fatiche, 
guarda  Ascanio  crescente  e  le  speranze 
di  Giulo  erede,  cui  dovuto  il  regno 
è  de  ritaha  e  la  romana  terra». 
Detto  che  in  tal  sentenza  ebbe  Cillenio, 
sfuggi  tra  il  dir  così  gli  occhi  mortali 
e  dileguò  ne  l'aere  lontano. 

Ammutì  di  sé  fuori  a  quell'aspetto 
Enea;  rabbrividì,  ritri  i  capeUi, 
ne  le  fauci  la  voce.  Via  fuggire 
anela  e  abbandonar  le  dolci  terre, 
percosso  a  l'alto  ammonimento  e  al  cenno. 
Ahi!  che  si  far?  con  che  parole  osare 
mettersi  intorno  a  la  regina  ardente? 
qual  principio  trovar?  E  il  suo  pensiero 
or  qua  or  là  rapido  ei  volge  e  in  ogni 
parte  l'invia  per  tutte  le  vicende. 
Ondeggiando  così,  mighore  avviso 
questo  gh  parve:  Mnèsteo  e  Sergesto 
chiama  e  il  forte  Seresto;  armino  cheti 
la  flotta,  e  i  soci  adunino  a  la  riva. 


Il6  ENEIDE 

preparili  tutto,  e  de  la  cosa  nova 

la  ragione  dissimulino;  ed  esso, 

da  che  l'ottima  Dido  è  ignara  e  rotto 

non  teme  un  tanto  amor,  vedrà  le  vie 

e  la  più  facile  ora  a  favellarle, 

e  ogni  destro  che  paia.  Alacri  e  Heti 

tutti  ascoltano  e  adempiono  i  comandi. 

Ma  la  regina  presentì  le  trame 

(e  chi  potrebbe  eludere  un  amante?) 

e  le  mosse  a  venir  prima  sorprese, 

trepida  in  sicurezza.  E  l'empia  Fama 

riferi  parimente  a  l'amorosa 

la  flotta  pronta  e  prossimo  il  salpare. 

Smania  e  le  cade  il  cuor;  baccando  in  fiamme 

erra  per  tutta  la  città,  qual  tiade 

che  balza  mossi  appena  i  sacri  arredi 

quando  al  grido  di  Bacco  ogni  terz'anno 

stimolan  l'orgie  e  clamoroso  a  notte 

il  Citerone  chiama  a  sé. 

Con  queste 
voci  in  fine  ad  Enea  parla  la  prima: 
«  Anche  dissimular  sì  nero  eccesso, 
o  perfido,  speravi  e  da  la  mia 
terra  occulto  partir?  Né  l'amor  nostro 
né  la  destra  un  dì  porta  e  non  ti  arresta 
Dido  che  ne  morrà  di  crudel  morte? 
Sotto  gli  astri  invernali  armi  la  flotta 
e  al  soffio  aquilonar  levi  le  antenne, 
crudele  !  E  che  sarebbe  se  or  tendessi 
non  a  terre  d'altrui  né  a  case  ignote, 


LIBRO    QLARTO  117 

ma  fosse  ancor  l'antica  Troia,  a  Troia 
si  veleggiasse  per  l'ondoso  mare? 
E  fuggi  me?  Per  questo  pianto  e  per  la 
tua  destra  (poi  che  nulla  altro  lasciai 
a  me  misera  io  stessa),  per  il  nostro 
connubio,  pe'  cominciati  imenei, 
se  qualche  bene  ti  fec'io,  se  nulla 
ti  fu  caro  di  me,  pietà  di  questa 
casa  crollante  e  un  tal  pensier,  ti  prego, 
se  luogo  resta  di  pregar,  deponi. 
M'odian  per  cagion  tua  le  genti  libie 
e  i  tiranni  de'  Nòmadi,  ho  nemici 
i  Tini;  ancor  per  te  spento  è  il  pudore 
e  la  fama  di  un  di,  sola  per  cui 
ero  a  le  stelle.  A  chi  me  moribonda 
lasci,  o  ospite  ?  nome  unico  omai 
che  riman  del  consorte.  A  che  vivrei? 
fin  che  la  mia  città  strugga  il  fratello 
Pigmalion  ?  fin  che  il  getulo  larba 
schiava  mi  tragga?  Avessi  avuta  almeno 
di  te  pria  de  la  fuga  alcuna  prole, 
ed  uno  mi  scherzasse  ne  la  reggia 
pargolo  Enea,  che  pure  a  le  sembianze 
ti  richiamasse,  non  del  tutto  allora 
mi  sentirei  delusa  e  abbandonata  ». 

Avea  detto.  Pe'  moniti  di  Giove 
immobili  teneva  ei  le  pupille 
ed  a  forza  nel  cuor  premea  l'affanno. 
Breve  risponde  alfine  :  «  Io  te,  regina, 
sempre  confesserò  meriti  avere 


IlS  ENEIDE 

quanti  a  parole  noverarne  puoi, 

e  caro  avrò  di  ricordarmi  Elisa 

fin  eh'  io  ricordi  me,  fin  che  mi  regge 

l'anima  queste  membra.  Per  la  causa 

poco  dirò.  Già  non  sperai  di  furto, 

non  te  lo  figurar,  prender  la  fuga, 

né  mai  proffersi  maritah  tede 

o  venni  per  tal  nodo.  Io,  se  il  mio  fato 

viver  co'  miei  auspici  mi  lasciava 

e  secondar  spontaneo  l'affetto, 

prima  vorrei  ne  la  città  troiana 

e  co'  dolci  restar  resti  de'  miei  : 

durerebbero  i  tetti  alti  di  Priamo 

ed  io  rifatta  avrei  Pergamo  a'  \dnti. 

Ora  Apollo  grineo  m'addita  invece 

r  Italia  grande,  Italia  a  me  le  licie 

sorti:  questo  l'amor,  questa  è  la  patria. 

Se  l'arce  di  Cartagine  e  la  vista 

d'afra  città  sorride  a  te  fenicia, 

ne  l'ausonio  terreno  e  perché  vieti 

posare  i  Teucri  ?  è  lecito  anche  a  noi 

cercar  stranieri  regni.  Quante  volte 

cinge  la  notte  in  velo  umido  il  mondo, 

quante  volte  si  accendono  le  stelle, 

m'avverte  in  sogno  e  m'atterrisce  offesa 

l'ombra  del  padre  Anchise,  e  Ascanio  mio 

e  la  iattura  del  diletto  capo 

cui  del  regno  fatai  d'  Esperia  privo. 

Or  anche  il  messaggero  degli  Dei 

inviato  da  Giove  stesso,  il  giuro 

per  le  nostre  due  vite,  m' ha  recato 


LIBRO    QUARTO  IIQ 

rapido  giù  per  l'aere  il  comando: 
ben  io  lo  vidi  in  chiara  luce  il  dio 
entrar  le  mura  e  bevvi  la  sua  voce 
con  questi  orecchi.  Lascia  di  turbare 
me  fieramente  e  te  col  tuo  lamento: 
cerco  r  ItaUa  a  un  cenno  ». 

Lui  che  così  dicea  guardava  obliqua 
inquiete  rotando  le  pupille 
e  lo  percorre  con  lo  sguardo  muto 
tuttoquanto,  e  così  prorompe  accesa  : 
«  Né  tua  madre  una  dea  né  de  la  stirpe 
Bardano  è  autore,  o  perfido:  il  selvaggio 
Caucaso  ti  creò  da  l'aspre  rupi 
e  ti  dieder  la  poppa  ircane  tigri. 
Che  dissim.ulo  io  più  ?  peggio  che  attendo  ? 
Sospirò  del  mio  pianto  o  mosse  cigho  ? 
versò  lagrime  vinto  o  de  l'amante 
ebbe  pietà  ?  Qual  è  l'orror  ma,ggiore  ? 
Né  la  massima  Giuno  omai  né  il  Padre 
saturnio  a  ciò  con  giusti  occhi  riguarda. 
Morta  al  mondo  è  la  fé.  Naufrago,  nudo 
lo  raccolsi  e  del  regno  il  posi  a  parte, 
folle!  ;  strappai  da  morte  la  dispersa 
flotta,  i  compagni.  Ah  che  il  furor  m'invade! 
Ora  l'augure  Apollo,  ora  le  Hcie 
sorti,  da  Giove  stesso  ora  inviato 
il  messaggero  degli  Dei  gH  reca 
per  l'aure  abominevole  comando  ! 
Hanno  i  Superi  inver  questo  pensiero, 
questo  zelo  li  affanna  in  lor  quiete  ! 


120  ENEIDE 

Te  non  trattengo  né  il  tuo  dir  confondo. 
Va',  segui  Italia  al  vento  e  cerca  il  regno 
per  Fonde.  Oh  spero,  se  i  pietosi  Numi 
possono  ancor,  che  degli  scogli  in  mezzo 
troverai  tuo  supplizio  e  a  nome  Dido 
chiamerai  spesso.  Con  infauste  faci 
ti  seguirò  lontana  e,  quando  sole 
la  fredda  morte  lascerà  le  membra, 
ombra  ti  sarò  presso  in  ogni  luogo. 
Darai,  empio,  la  pena  :  udrò  l'annunzio, 
l'udrò  venire  a  me  giù  tra  i  sepolti  ». 
Rompe  il  colloquio  in  questo  dire  e  affranta 
fugge  il  dì,  si  rivolge  e  toglie  al  guardo, 
lasciandolo  tra  pa\àdo  e  sospeso 
che  molto  volea  dir.  Venuta  meno 
le  ancelle  la  riportano  al  marmoreo 
talamo  e  ve  l'adagian  su  le  coltri. 

Ma  il  pio  Enea,  benché  la  dolorosa 

brami  di  consolar  con  sue  parole, 

afflitto  e  il  cuor  d'amore  intenerito, 

pure  ubbidisce  al  cenno  degli  Dei 

e  torna  a'  suoi  che  più  volenterosi 

traggon  per  tutto  il  lido  in  mar  le  navi. 

Galleggia  l'unta  chiglia,  e  da  le  selve 

porta n  remi  frascosi  e  legni  grezzi 

per  fretta  de  la  fuga. 

Migrar  li  vedi  e  da  le  vie  fluire; 

e  come  allor  che  un  gran  mucchio  di  farro 

saccheggiano  pensose  de  l' inverno 

le  formiche  e  ripongon  ne  la  casa, 


LIBRO    QUARTO  121 

va  per  le  terre  il  bruno  stuoL  la  preda 
convogliano  in  sottil  solco  tra  l'erba, 
altre  per  forza  d'omeri  sospingono 
i  grossi  grani,  altre  a  tener  le  file 
strette  e  vive;  tutt'opera  è  il  sentiero. 

Quale  a  tal  vista  era  il  tuo  cuore,  o  Dido, 

quali  i  sospiri,  mentre  l'amxpia  riva 

contemplavi  gremir  da  l'alta  rocca 

e  tutto  sotto  a  te  fervere  il  mare 

d' immensa  alacrità  ?  Spietato  Amore, 

a  che  non  sforzi  tu  gU  umani  petti? 

Ella  è  sforzata  di  tornare  a'  pianti, 

di  tornare  a  tentar  con  le  preghiere 

e  l'orgoglio  sommettere  a  l'amore, 

suppKce,  sì  che  nulla  d'intentato 

inutilmente  moritura  ometta. 

«  Anna,  la  fretta  vedi  in  tutto  il  Udo  : 

sono  concorsi  d'ogni  parte;  omai 

chiama  la  vela  l'aure,  e  i  naviganti 

ilari  coronarono  le  poppe. 

Se  aspettarmi  potei  sì  gran  dolore, 

e  soffrirlo  potrò,  sorella.  Pure 

di  ciò  compiaci,  o  Anna,  l'infelice; 

che  te  sola  quel  perfido  onorava, 

ti  confidava  i  sentimenti  arcani, 

sola  le  \de  sapevi  ed  i  momenti 

d'avvicinarlo.  Va',  sorella,  e  paria 

al  nemico  superbo  supplicando. 

Non  io  co'  Greci  in  Aulide  giurai 

strugger  la  teucra  gente  e  non  mandai 


122  ENEIDE 

a  Pergamo  la  flotta,  né  d'Anchise 
il  cenere  turbai  e  l'ombra.  Al  mio 
pregar  perché  dure  l'orecchie  serra? 
dove  corre  ?  Quest'ultimo  conceda 
dono  a  la  mesta  amante:  aspetti  l'ora 
buona  al  viaggio  ed  i  propizi  venti. 
Le  antiche  nozze  ch'ei  tradì  non  chiedo 
più,  né  che  privo  ei  sia  del  Lazio  bello 
e  lasci  il  regno:  un  tempo  vano  io  chiedo, 
una  tregua  al  furor,  fin  che  a  soffrire 
la  mia  fortuna  a  me  sconfitta  insegni. 
Quest'ultima  (oh  pietà  de  la  sorella!) 
grazia  domando,  e  s'ei  me  la  concede, 
la  renderò  cresciuta  de  la  morte  ». 

Così  pregava,  e  tal  pianto  recando 
va  e  vien  l' infelicissima  sorella. 
Ma  né  per  pianti  ei  movesi  né  voce 
è  che  lo  pieghi:  stanno  contro  i  fati 
e  un  dio  gh  serra  placidi  gli  orecchi. 
Come  qualor  nel  secolar  vigore 
salda  una  querce  a  gara  i  sofìì  alpini 
or  di  qua  or  di  là  tentan  scalzare, 
giù  dal  tronco  che  cigola  agitato 
l'alte  fronde  cospargono  il  terreno, 
essa  a  la  rupe  sta,  le  vette  al  cielo 
stendendo  quanto  le  radici  a  l'Orco  ; 
l'eroe  così  percosso  e  ripercosso 
è  da  le  voci  e  stretto  il  cuor  d'alìPanno; 
ferma  è  la  mente  e  vano  scorre  il  pianto 


LIBRO    QUARTO  12$ 

Vinta  da'  fati  allor  Dido  infelice 
morte  chiama,  la  vista  odia  del  cielo. 
A  far  che  nel  proposito  s'accenda 
e  fugga  il  dì,  mentre  poneva  offerte 
su  gì'  incensati  altari,  orrendo  a  dire  ! 
vide  il  liquor  sacrato  a  farsi  nero 
e  il  vin  che  si  mescea  torbido  sangue. 
Vide,  e  a  niun,  né  a  la  sorella  stessa, 
il  rivelò.  Fu  ne  la  reggia  inoltre 
marmoreo  tempio  del  marito  antico, 
cui  venerava  con  devoto  culto, 
di  velli  nivei  e  vaghi  serti  cinto. 
Indi  parvero  udirsi  voci  e  come 
un  chiamar  del  consorte,  mentre  scura 
tenea  il  mondo  la  notte,  e  solitario 
spesso  col  grido  lùgubre  lagnarsi 
il  gufo  da'  comignoli  allungando 
le  note  in  pianto.  Molti  ancor  presagi 
di  prischi  vati  colmano  d'orrore. 
Esso  ne'  sogni  fiero  Enea  persegue 
la  folle;  e  sempre  esser  lasciata  sola, 
sempre  le  par  senza  compagni  andare 
per  lunga  via,  e  nel  deserto  suolo 
cercare  i  Tirii.  Tal  demente  Pènteo 
rimira  de  l'Eum^enidi  la  turba 
e  due  soH  apparire  e  doppia  Tebe; 
o  per  le  scene  Oreste  agamennonio 
quando  incalzato  fugge  da  la  madre 
di  faci  armata  e  d'atre  serpi,  e  nitrici 
sul  Hmitare  seggono  le  Furie. 


124 


ENEIDE 


Dunque  per  troppo  duol  volta  in  furore 
e  ferma  di  morire,  il  tempo  e  il  modo 
tra  sé  divisa  e,  a  la  mesta  sorella 
volgendosi,  il  pensier  col  volto  cela 
e  rasserena  la  speranza  in  fronte. 
«  Ho  trovata  la  via,  germana,  godi 
con  la  sorella,  che  mi  renda  lui 
o  liberi  da  lui  l'innamorata. 
Tra  1  confìn  de  l'Oceano  e  il  sol  cadente 
degli  Etiopi  è  l'ultimo  paese, 
ove  il  massimo  Atlante  in  su  le  spalle 
gira  la  volta  d'astri  ardenti  fitta. 
Sacerdotessa  di  massila  gente 
indi  mostra  mi  fu,  custode  al  tempio 
de  l' Esperidi,  che  il  suo  pasto  dava 
al  drago  e  sacri  su  la  pianta  i  rami 
serbava,  insiem  col  rugiadoso  miele 
sonnifero  papavero  spargendo. 
Ella  incantando  liberare  i  cuori 
a  sua  voglia  si  vanta  ed  altri  invece 
stringer  d'amore,  fermar  l'acque  a'  fiumi 
e  far  tornar  le  stelle  indietro.  L'ombre 
a  notte  sveglia  :  sotto  i  pie  mugghiare 
vedrai  la  terra  e  scendere  dà'  monti 
gli  orni.  Giuro  agli  Dei,  cara  germana, 
a  te  e  al  dolce  capo  tuo,  che  accinta 
di  mal  cuore  mi  sono  a  magiche  arti. 
Or  tu  segreta  ne  le  interne  stanze 
innalza  a  l'aure  un  rogo,  e  l'armi  sue 
che  lasciò  l'empio  al  talamo  sospese, 
e  l'altre  cose  e  il  letto  coniugale 


LIBRO    QUARTO  12; 

che  mi  perde,  si  gettiti  sopra:  vuole 

incenerito  la  sacerdotessa 

ogni  ricordo  del  crudel  guerriero  ». 

Così  detto  si  tace  ed  il  pallore 

le  invade  il  volto.  Non  per  questo  crede 

Anna  che  la  germana  con  le  nuove 

cerimonie  pensier  veh  ferale, 

né  tutto  abbraccia  in  mente  quell'incendio 

o  teme  più  che  in  morte  di  Sicheo. 

Dunque  gli  ordini  adempie. 

Ma  ne  l'intima  reggia  la  regina, 

gran  rogo  eretto  al  ciel  di  pino  e  d'elee, 

stende  il  luogo  di  serti  e  l'incorona 

di  fronda  funerali  sopravi,  vesti 

e  la  spada  lasciatale  e  l'effìgie 

sul  tetto  pone,  conscia  del  futuro. 

Sorgono  l'are  intorno  e  sciolti  i  crini 

tonante  invoca  la  sacerdotessa 

trecento  dèi,  e  l'Èrebo  ed  il  Caos 

e  la  trigemina  Ecate,  tre  visi 

de  la  vergin  Diana;  e  sparse  avea 

l'acque  del  fonte  Averno  simulate, 

e  adopra  le  mietute  erbe  a  la  luna 

con  falce  bronzea,  rigogliose  e  piene 

d'atro  veleno,  adopera  l'amore 

spicco  di  fronte  al  polledrin  che  nasce 

e  pretolto  a  la  madre. 

Essa,  il  farro;  e  con  pie  mani,  agli  altari 

presso,  l'un  pie  senza  legami,  in  veste 

succinta,  chiama  moritura  i  Numi 


126  ENEIDE 

e  gli  astri  consci  del  destino,  e  prega 
se  v'ha  dio  protettor  memore  e  giusto 
degli  amanti  cui  mal  risponde  amore. 

Era  notte,  e  godean  stanchi  il  tranquillo 

sopore  i  vivi  per  la  terra;  cheti 

eran  fatti  le  selve  e  il  fiero  mare, 

ne  l'ora  che  si  volgono  le  stelle 

a  mezzo  il  corso,  che  ogni  campo  tace; 

le  greggi  e  i  pinti  uccelli,  e  quanti  han  vita 

tra  le  belle  acque  chiare  e  gh  aspri  dumi, 

ne  l'amplesso  del  sonno  e  del  silenzio 

lenian  gli  affanni  ed  obliosi  i  cuori. 

Ma  non,  piena  d'angoscia,  la  Fenicia, 

e  mai  non  piega  al  sonno  e  non  accoglie 

negli  occhi  o  in  sen  la  notte:  il  dolor  cresce 

ed  imperversa  risorgendo  amore 

ondeggiante  negl'impeti  de  l'ira. 

Cosi  sta,  cosi  volge  ella  in  sé  stessa: 

«  Ed  or  che  fo  ?  Schernita  i  pretendenti 

ritenterò  di  prima  ed  il  connubio 

de'  Nomadi  ambirò  supplice,  quelli 

che  tante  volte  già  sprezzai  mariti  ? 

Seguirò  dunque  i  legni  iliaci  ed  ogni 

cenno  de'  Teucri  ?  perché  inver  godere 

debbo  d'averh  salvi  e  posta  in  loro 

la  ricordanza  del  ben  far  ch'io  feci! 

E,  poni  eh'  io  volessi,  e  chi  mi  lascia 

odiata  salir  le  prore  altere? 

Non  sai,  meschina,  oh  ancor  non  sai  le  frodi 

de  la  progenie  laomedontea? 


LIBRO    QUARTO  I27 

Poi,  ne  la  fuga  andrei  sola  compagna 

a'  marinari  glorianti,  o  tutte 

trarrei  con  me  de'  Tirii  miei  le  schiere 

e,  staccatili  appena  da  Sidone, 

li  spingerei  sul  pelago  di  nuovo, 

farei  le  vele  al  vento  aprir?  Su,  muori, 

che  il  meritasti,  e  il  duol  caccia  col  ferro. 

Tu  dal  mio  pianto  vinta,  tu  la  prima 

fai  cader  su  la  forsennata  questi 

mali,  germana,  e  l'offri  a  l'inimico. 

Non  mi  fu  dato  senza  nozze  e  colpa 

viver  la  vita  a  guisa  d'una  fiera 

e  star  lontana  da  sì  fatte  pene; 

non  tenni  fede  al  cener  di  Sicheo  ». 

Sì  alti  ella  dal  cuor  mettea  lamenti. 
Su  l'alta  poppa,  fermo  di  salpare 
e  già  preste  le  cose.  Enea  dormiva . 
Nel  sonno  a  lui  l'imagine  si  offerse 
del  dio  tornante  ne  l'aspetto  istesso 
e  di  nuovo  così  parve  ammonire, 
Mercurio  in  tutto,  a  la  voce  al  candore 
al  biondo  crine,  al  fior  di  giovinezza: 
«  0  figlio  de  la  Dea,  puoi  darti  al  sonno 
in  tal  frangente?  folle,  e  non  t'accorgi 
che  pericoli  poi  ti  sono  intorno, 
né  i  Zefiri  spirare  odi  propizi  ? 
Ella  atroci  nel  cuor  volge  disegni, 
deliberata  di  morir,  e  ondeggia 
in  vario  impeto  d'ire.  E  tu  non  fuggi 
precipitoso  mentre  n'hai  potere? 


128  ENEIDE 

Or  or  di  navi  pullulare  il  mare 

e  fiere  scintillar  faci  vedrai, 

vedrai  la  riva  in  un  baglior  di  fiamme, 

se  te  lento  l'aurora  in  questo  lido 

ritroverà.  Su  via,  rompi  gl'indugi. 

Femmina  è  varia  cosa  e  mobil  sempre  ». 

Così  detto,  a  la  notte  si  confuse. 

Scosso  da  l'improvvisa  visione 

Enea  dal  sonno  balza  e  sprona  i  suoi: 

«  Precipitosi  vi  levate,  o  prodi, 

a  remigare,  a  inalberar  le  vele. 

Di  nuovo  ecco  ci  esorta  un  dio  mandato 

da  l'aer  sommo  ad  affrettar  la  fuga 

ed  a  tagliar  le  attorte  funi.  O  santo 

degli  Dei,  qual  tu  sia,  ti  seguitiamo 

ed  al  cenno  obbediam  festanti  ancora. 

Ci  assisti  e  aiuta  placido,  e  le  stelle 

volgine  in  cielo  am.iche  ».  E  disse  e  snuda 

la  fulminea  spada  percotendo 

i  legami.  Un  ardore  insieme  è  in  tutti: 

afferrano  ed  accorrono;  han  lasciato 

la  riva,  sotto  a'  legni  il  mar  dispare, 

torcon  le  spume  e  radono  l'azzurro. 

E  già  spargea  di  nova  luce  il  mondo 
la  prima  Aurora  fuor  del  croceo  letto 
di  Titon:  la  regina  appena  vide 
da  le  vedette  imbiancar  l'aria  e  a  piene 
vele  la  flotta  allontanar,  né  a  riva 
né  più  restarsi  remigante  in  porto, 
tre  volte  e  quattro  il  bel  seno  percosse 


ENEIDE  12Q 

e  il  biondo  crin  strappandosi  «  Deh  Giove  ! 

se  n'andrà  dunque,  grida,  e  preso  a  scherno 

il  nostro  regno  avrà  questo  straniero  ? 

Non  brandiranno  l'armi  ad  inseguirlo 

da  tutta  la  città?  non  strapperanno 

le  navi  agli  arsenaU  ?  Oh  qua  le  fiamme 

presto,  gli  strali  qua!  date  ne' remi!.... 

Che  dico  ?  e  dove  son  ?  qual  follia  nova  ? 

Dido  infehce,  or  te  l'empiezza  offende  ? 

Allor  dovea,  quando  gh  scettri  offrivi. 

Oh  qual  braccio,  qual  cuor  l'uom  che  si  vanta 

portar  seco  i  Penati  de  la  patria 

e  su  le  spalle  il  vecchio  padre  stanco! 

No'  1  poteva  io  mettere  in  brani  e  in  mare 

gittarlo?  e  trucidar  sua  gente,  il  suo 

Ascanio  stesso  ed  imbandirlo  al  padre  ? 

Ma  dubbia  de  la  lotta  era  la  sorte: 

fosse;  di  chi  temere  io  moritura? 

Portato  avrei  nel  campo  i  tizzi,  empiti 

di  bragia  i  banchi,  il  figlio  e  il  padre  e  il  seme 

spento,  e  gittata  sopra  lor  me  stessa. 

Sole  che  tutte  l'opere  del  mondo 

fiammante  scorri,  e  tu  di  queste  angosce, 

Giuno,  fomite  e  conscia;  Ecate,  a  notte 

per  la  città  ne'  trivii  ululata, 

e  Furie  nitrici  e  Dei  de  la  morente 

Elisa,  date  ascolto,  contro  gli  empi 

deh!  rivolgete  il  provocato  nume 

ed  esaudite  le  nostre  preghiere. 

Se  necessario  è  ch'entri  in  porto  e  approdi 

Albini  -  Eneidr  q 


130  ENEIDE 

lo  scellerato,  e  questo  chiede  il  fato 
di  Giove,  questo  è  termin  fisso,  almeno 
dal  guerreggiar  d'un  popolo  animoso 
stremato,  in  bando  dal  paese,  lungi 
da  l'amplesso  di  Giulo,  aiuto  implori 
e  vegga  m.orti  misere  de'  suoi  ; 
e  poi  che  a  leggi  di  gravosa  pace 
reso  si  sia,  non  goda  il  regno  e  non  la 
dolce  luce,  ma  cada  anzi  il  suo  giorno 
e  senza  sepoltura  in  un  deserto. 
Questo  io  domando,  questa  voce  estrema 
spargo  col  sangue.  Voi  la  razza  poi, 
o  Tini,  tutta  la  razza  futura 
con  l'odio  perseguitela,  e  sì  degno 
mandate  al  nostro  cenere  tributo. 
Nessuno  amor  tra  i  popoli  né  patto: 
sorgi  un  da  l'ossa  mie  vendicatore 
incalzando  i  dardanidi  coloni 
con  foco  e  ferro,  adesso,  un  giorno,  in  ogni 
tempo  che  forza  assista.  I  Hdi  a'  lidi 
avversi,  il  mare  al  mare  e  l'armi  a  l'armi 
impreco  :  pugnino  i  presenti  e  i  posteri  w. 

In  questo  dir,  tutta  agitata  in  cuore, 
cerca  il  più  presto  romper  l'odiosa 
luce.  Però  breve  si  volge  a  Barce 
nutrice  di  Sicheo  (che  ne  la  patria 
antica  era  la  sua  cenere  bruna)  : 
«  Fammi,  buona  nutrice,  la  sorella 
Anna  venir  :  di'  che  si  terga  a  l'acqua 
corrente  e  qui  con  sé  sùbito  porti 


LIBRO    QUARTO  I3T 


ragne  e  respiazioni  ch'io  le  dissi; 
così  venga,  e  tu  pur  mettiti  in  capo 
devote  bende.  Voglio  a  Giove  Stigio 
l'olocausto  compir  che  ben  disposi 
segnando  un  fine  a  questi  affanni,  e  dare 
al  fuoco  il  rogo  del  troiano  ».  Dice  ; 
e  quella  con  serdl  fretta  s'è  mossa. 

Trepida  allor  e  ne  l'impresa  atroce 

Dido  ardente,  rotando  occhi  sanguigni, 

sparsa  di  macchie  le  frementi  gote, 

pallida  già  de  la  futura  morte, 

nel  cuore  irrompe  de  la  casa,  in  cima 

al  rogo  sale  furibonda  e  snuda, 

dono  non  chiesto  a  ciò,  la  teucra  spada. 

Poi  che  le  iHache  vesti  e  il  noto  letto 

mirò,  sospesa  in  pianto  ed  in  pensiero 

un  istante,  piegò  su  quella  coltre 

e  disse  le  novissime  parole: 

((  O  dolci  spoglie  mentre  a'  fati  e  a  Dio 

piaceva,  ricevete  questa  vita 

e  da  tanto  dolor  mi  Hberate. 

Vissi,  e  il  cammino  che  mi  die  fortuna 

percorsi;  or  grande  l'ombra  mia  sotterra 

andrà:  superba  una  città  fondai, 

mie  mura  vidi;  vendicai  lo  sposo 

e  al  nemico  fratello  inflissi  pena. 

Avventurata,  ahi  troppo  avventurata, 

sol  che  mai  tocco  non  avesser  prore 

dardanie  il  nostro  lido  !  »  Indi  premendo 

il  suo  viso  a  la  coltrice  "  Morremo 


132  FXEIDE 

invendicate,  dice,  e  pur  moriamo. 
Così,  così  voglio  ire  a  l'ombre.  Miri 
questa  vampa  dal  mar  l'empio  troiano; 
l'augurio  abbia  con  sé  de  la  mia  morte  ». 

Avea  detto,  e  tra  il  dire  abbandonata 
su  la  punta  la  scorgono  le  ancelle 
con  la  spada  e  le  mani  sanguinose. 
Sale  il  grido  a  le  volte  alte;  la  Fama 
per  la  città  commossa  si  propaga  : 
pianti  sospiri  e  femm^inili  strida 
scuoton  la  reggia,  e  l'aere  risuona 
d'un  immenso  dolor,  non  altrimenti 
che  se  rovini  da'  nemici  invasa 
tutta  Cartagine  o  l'antica  Tiro 
e  furenti  sormontino  le  fiamme 
degli  uomini  le  case  e  degK  Dei. 
Udì  gelando  la  sorella  e  a  corsa, 
con  l'ugne  in  faccia  e  fieri  pugni  al  seno, 
rompe  la  folla  e  chiama  la  morente  : 
«  Era  questo,  germana  ?  e  m' ingannavi  ? 
m'apparecchiavan  questo  il  rogo  e  i  fuochi 
e  l'are  ?  Di  che  pria  deserta  piango  ? 
Non  mi  volesti  per  compagna  in  morte  ? 
m'avessi  tu  chiamata  al  fato  istesso; 
uno  stesso  dolore,  una  stessa  ora 
trafitte  entrambe  avrebbe.  E  con  le  mie 
mani  operai,  chiamai  con  la  mia  voce 
i  patrii  Dei,  per  poi  crudel  lasciarti 
così  sola  a  morir!  Te  e  me,  sorella, 


1  JHU^o    (il   AR  IO  I^x 


.)^ 


hai  spento  e  tutto  il  popolo  e  i  sidonii 

padri  e  la  tua  città.  Fate  eli'  io  lavi 

con  l'acque  la  ferita,  e  se  un  estremo 

alito  spira,  con  le  labbra  il  colga  ». 

Così  dicendo  avea  saKti  i  gradi 

tutti  ed  al  sen  tra  le  braccia  stringea 

la  moribonda  sorella  pÌ3.ngendo 

e  tergea  con  la  veste  il  bruno  fiotto. 

Quella,  tentando  sollevare  i  gravi 

occhi,  ricade  giù;  profonda  in  petto 

geme  e  stride  la  piaga.  Per  tre  volte 

sul  gomito  a  fatica  si  levò, 

per  tre  volte  ricadde  su  la  coltre, 

e  verso  il  ciel  con  le  pupille  erranti 

cercò  la  luce  e  sospirò  a  vederla. 

Allor  pietosa  Giuno  onnipotente 
del  lungo  duol,  de  la  difficil  morte, 
Iri  mandò  giù  da  l'Olimpo  a  sciorre 
l'alma  lottante  e  l'avvincenti  membra. 
Che,  non  per  fato  o  meritata  fine 
quella  morendo,  ma  per  troppo  amore 
sùbito  forsennata  anzi  il  suo  giorno, 
Proserpina  non  anche  il  biondo  crine 
svelto  le  aveva  e  sacro  il  capo  a  l'Orco. 
Dunque  Iride  pe  '1  ciel  con  fulve  penne 
rorida,  mille  contro  a.1  sol  colori 
svariati  traendo,  a  terra  vola 
e  si  librò  su  la  sua  testa  :  «  Questo 
io  comandata  porto  a  Dite  sacro 


hxeidp: 


e  te  disciolgo  da  coleste  membra  ». 
Così  dice,  ed  il  crine  con  la  destra 
svelle:  ad  un  punto  andò  tutto  il  calore 
sperso  e  tra  i  venti  rifuggì  la  vita. 


LIBRO  QUINTO 

Intanto  Enea  nel  mezzo  del  cammino 
procedea  risoluto  con  l'armata 
e  i  flutti  cupi  a  l'aquilon  solcava, 
riguardando  le  mura  che  de'  fuochi 
splendono  già  de  l'infelice  Elisa. 
Di  tanto  incendio  è  la  cagione  ignota  ; 
ma  il  fiero  duol  d'un  grande  amore  offeso, 
e  il  sapere  in  furor  donna  che  possa, 
movono  a  triste  augurio  il  cuor  de'  Teucri. 


Com.e  ne  l'alto  giunsero  le  navi 
e  già  nessuna  più  terra  si  mostra, 
tutto  mare  a  l'intorno  e  tutto  cielo, 
a  lui  sul  capo  livida  una  nube 
sorse  di  notte  e  verno  apportatrice 
e  si  fé'  l'onda  abbrividendo  buia. 
Palinuro  il  nocchier  da  l'alta  poppa 
anch'esso  :  «  Deh  !  perché  tal  cerchio  in  aria 
di  nembi?  o  che,  padre  Nettuno,  arrechi  ?  ». 
Poi  bene  armarsi  ingiunge  e  dar  ne'  remi, 


136  ENEIDE 

oblique  a'  venti  offre  le  vele,  e  dice  : 
«  O  magnanimo  Enea,  se  Giove  stesso 
mallevasse,  non  io  con  questo  cielo 
avrei  fiducia  di  toccar  l' Italia. 
Fremon  mutate  di  traverso  l'aure 
e  soffiano  da  l'occidente  fosco, 
il  ciel  s'addensa  in  nuvoli,  né  noi 
a  regger  contro  od  a  schermirci  solo 
bastiam.  Poi  che  soverchia  la  fortuna, 
seguiamola,  pieghiam  dov'ella  vuole. 
E  non  lontano  penso  essere  i  lidi 
fidi  fraterni  d' Erice  co'  porti 
sicani,  se  pur  bene  io  mi  rammento 
.     gli  astri  seguiti  che  a  l' indietro  or  seguo  », 
Allor  il  pio  Enea  :  «  Già  me  n'avvidi 
che  i  venti  così  chiedono  e  che  invano 
ti  schermisci.  La  via  volgi  a  le  vele. 
Esser  potrebbe  a  me  terra  più  cara, 
e  cui  meglio  conceda  i  legni  stanchi, 
di  quella  che  mi  serba  il  teucro  Aceste 
e  copre  l'ossa  di  mio  padre  Anchise  ?  ». 
Dopo  questo  parlar  tendono  al  porto, 
che  i  zefiri  propensi  empion  le  vele: 
rapida  va  pe*  vortici  la  flotta 
e  afferran  lieti  alfin  la  nota  sponda. 

Lungi  di  su  la  vetta  alta  del  monte 

fiso  al  venir  de  le  cognate  navi, 

move  a  l'incontro  Aceste,  aspro  ne'  dardi 

e  in  una  pelle  di  libistide  orsa; 

cui,  dal  fiume  Criniso  concepito. 


LIBKU    QLTNTO  l  T,J 

troiana  madre  partorì.  De'  vecchi 
parenti  ei  non  immemore,  si  allegra 
de'  tornanti,  festoso  li  riceve 
tra  dovizia  campestre  e  ne  ristora 
con  le  amabili  offerte  la  stanchezza. 

Chiaro  il  dom^ani  al  balzo  d'oriente 

come  fugato  ebbe  le  stelle,  Enea 

tutti  da  tutto  il  lido  aduna  i  suoi 

e  a  lor  da  un  alto  ciglio  parla  :  «  O  grandi 

Dardani,  sangue  dagli  Dei  disceso, 

l'annuo  co'  mesi  suoi  giro  si  compie 

da  che  del  di\dn  Dadre  i  resti  e  l'ossa 

ponemmo  in  terra  e  meste  are  sacrammo. 

Già,  se  non  erro,  il  giorno  viene,  il  giorno 

che  sempre  acerbo  avrò,  sempre  onorato 

-  così  vi  piacque,  o  Dei  -.  Se  in  giorno  tale 

ne  le  getùle  Sirti  esule  io  fossi, 

stretto  nel  mare  argohco  o  ne'  muri 

micenei,  gli  annuah  voti  pure 

e  i  giusti  riti  adempirei  fedele 

e  colmerei  de'  suoi  doni  l'altare. 

Or  proprio  a  le  sue  ceneri  ed  a  l'ossa 

paterne  siamo,  oh  non  per  fermo  credo 

senza  pensier,  senza  voler  de'  Numi, 

portati  ad  ancorare  in  porto  amico. 

Su  dunque,  e  largo  gU  rendiam  tributo 

tutti:  imploriamo  i  venti,  e  che  gli  piaccia 

ch'io  questo  rito  gli  rinnovi  ogni  anno 

ne  la  nostra  città,  ne'  templi  suoi. 

A  voi  da  Troia  generato  Aceste 


I -tò 


dona  due  buoi  per  ogni  nave:  i  patrii 
Penati  e  quei  che  Aceste  ospite  onora 
chiamate  a  parte  del  convito.  Inoltre, 
se  l'almo  dì  la  nona  aurora  porti 
a'  mortah  e  co'  raggi  il  mondo  scopra, 
a'  Teucri  proporrò  prima  una  gara 
de  le  rapide  navi:  indi,  chi  vale 
correndo  a  piedi,  e  chi  fiero  di  forze 
meglio  scocca  da  l'arco  agili  dardi 
o  fiducioso  stringesi  a  le  prese 
col  duro  cesto,  sian  tutti  presenti 
e  aspettin  premio  de  le  giuste  palme. 
In  devoto  silenzio  ora  ciascuno 
s'incoroni  di  fronde  )>. 

Cosi  detto, 
vela  sue  tempie  del  materno  mirto; 
e  questo  Èlimo  fa,  questo  il  provetto 
negli  anni  Aceste  e  il  giovinetto  Ascanio, 
ed  i  restanti  prodi  al  loro  esempio. 

Esso  da  l'adunanza  se  n'andava 
con  le  migliaia  al  tumulo,  nel  mezzo 
del  gran  corteo.  Libando  ivi  di  rito 
due  di  vin  pretto  al  suol  versa,  due  tazze 
di  fresco  latte,  due  di  sangue  sacro, 
e  sparge  fior  purpurei  e  così  dice  : 
'(Salve,  mio  santo  genitor,  di  nuovo! 
salvete,  invano  preservate  ceneri, 
anima,  ombra  paterna  :  conceduto 
non  mi  fu  ricercar  con  te  le  rive 


LIBRO    QUINTO  139 

italiche  e  il  terren  predestinato 

né,  qualunque  si  sia,  l'ausonio  Tebro  ». 

Detto  avea  ciò,  quando  da  Timo  ascoso 

sdrucciolevole  svolse  un  gran  serpente 

le  settemplici  spire  in  sette  giri, 

placidamente  il  tumulo  abbracciando 

e  guizzando  per  l'are,  Avea  sul  tergo 

cerulee  chiazze,  e  un  fulgor  sparso  d'oro 

le  squame  gli  accendea,  come  arco  in  nube 

che  mille  in  faccia  al  sol  getta  colori. 

Stette  a  la  vista  Enea  stupito:  quello 

lungo  snodato  alfine  tra  le  coppe 

e  i  levigati  caHci  serpendo 

le  vivande  Ubò,  poi  senza  danno 

di  nuovo  sotto  al  tumulo  disparve 

abbandonando  gli  sfiorati  altari. 

Però  viepiù  rinfresca  gì' intrapresi 

onori  al  genitor,  dubbio  se  quello 

dei  luogo  un  genio  o  un  servo  sia  del  padre: 

immola  giusta  l'uso  due  bidenti, 

due  porci  e  due  di  nero  pel  giovenchi, 

e  il  \dno  da  le  patere  spargendo 

del  grande  Anchise  l'anima  invocava 

e  i  Mani  ritornanti  d'Acheronte. 

I  compagni  non  men  volenterosi 

recano,  quante  n'ha  ciascuno,  offerte, 

colmano  l'are  e  uccidono  giovenchi: 

ordinano  altri  i  bronzei  vasi  e  sparsi 

per  l'erba  sottopongono  le  brage 

agli  spiedi,  le  viscere  arrostendo. 


140  KXEIDE 

Era  il  giorno  aspettato,  e  con  serena 

luce  ecco  che  i  cavalli  di  Fetonte 

portavano  la  nona  aurora;  e  avea 

la  fama  e  il  nome  de  l'illustre  Aceste 

i  confinanti  richiamati  :  il  lido 

empiean  di  moltitudine  festosa, 

per  vedere  gli  Eneadi,  e  parte  pronti 

a  cimentarsi.  Prima  innanzi  agli  occhi 

nel  mezzo  al  circo  vengon  posti  i  premi, 

tripodi  sacri  e  floride  corone, 

e  palme  fregio  di  vittoria  ed  armi 

e  drappi  tutti  porpora  e  un  talento 

d'argento  e  d'oro.  Poi  da  l'alto  mezzo 

la  tromba  squilla  il  cominciar  de'  giochi. 

Entran  di  pari  ne  la  prima  gara 

con  grevi  remi  quattro  chiglie,  fiore 

de  la  flotta  :  di  valido  remeggio 

Mnèsteo  sospinge  la  veloce  Pristi 

-  italo  Mnesteo  in  breve,  dal  cui  nome 

la  Memmia  gente  -,  e  Già  la  gran  Chimera, 

quasi  città,  che  in  sua  gran  mole  avanti 

premono  i  teucri  giovani  con  urto 

triplice,  in  tre  sorgendo  ordini  i  remi; 

e  Sergesto,  da  cui  la  casa  Sergia 

si  noma,  vien  su  la  Centauro  vasta, 

e  su  la  Scilla  cernia  Cloanto, 

onde  la  stirpe  tua,  roman  Cluenzio. 

È  discosto  nel  mare  a  lo  spumoso 
lido  di  contro  un  sasso  che  sommerso 


LIRKO    QUIXTO  T4I 

e  battuto  è  talor  dal  gonfio  flutto, 

quando  i  Cori  invernali  ascondon  gli  astri  : 

ne  la  bonaccia  tace  e  a  fior  de  l'onda 

piace  agli  smerghi  che  si  stanno  al  sole. 

Verde  una  meta  là  da  frondosa  elee 

pose  per  segno  a'  naviganti  il  padre 

Enea,  donde  sapessero  il  ritorno 

e  dove  con  largo  ambito  dar  volta. 

Traggono  a  sorte  i  luoghi  e  su  le  poppe 

splendono  lunge  in  oro  e  in  ostro  i  duci: 

tutti  gli  altri  coronansi  di  pioppo, 

le  nude  spalle  luccicanti  d'olio. 

Siedono  a'  banchi,  con  le  braccia  a'  remi  : 

fisi  aspettano  il  segno,  e  gii  agognanti 

cuori  pervade  un  palpito  d'affanno 

e  de  la  gloria  la  ridesta  smania. 

Poi  come  die  la  chiara  tromba  il  suono, 

proruppero  ciascun  dal  suo  confine 

immantinente  :  il  nautico  clamore 

giunge  al  ciel;  spuman  da' ritratti  polsi 

attorte  l'acque.  Affondan  solchi  a  prova, 

e  tuttoquanto  schiudesi  da'  remi 

rotto  e  da'  rostri  tridentati  il  mare. 

Non  sì  precipitosi  entrano  in  campo 

i  carri  ne  la  gara  de  le  bighe 

a\^entandosi  fuori  de'  cancelli, 

e  non  così  gli  aurighi  a  le  sfrenate 

coppie  scoton  le  redini  ondeggianti 

chinandosi  protesi  su  la  sferza. 

D'un  fremito  di  plausi  allor,  del  grido 

de*  parteggianti  tutto  il  bosco  suona 


142  ENEIDE 

e  per  il  chiuso  lido  erra  la  voce, 
l'eco  rimbalza  da'  percossi  colli. 

Sfugge  su  le  prime  onde  avanti  agli  altri 

tra  quella  furia  fremebonda  Già, 

e  lui  Cloanto  seguita,  di  remi 

miglior,  ma  il  legno  lento  per  il  peso 

il  tiene:  dopo  lor  Pristi  e  Centauro 

ad  intervallo  egual  studian  rapirsi 

il  luogo  innanzi,  ed  or  Pristi  l'ottiene, 

ora  sorpassa  lei  l'ampia  Centauro, 

or  procedono  insieme  a  fronti  pari, 

lunghe  chiglie  solcanti  i  salsi  guadi. 

E  omai  s'avvicinavano  a  lo  scoglio 

e  toccavan  la  meta,  quando  Già 

che  primo  in  mezzo  al  gorgo  trionfava 

così  rampogna  il  suo  nocchier  Menete  : 

«  O  dove  tanto  a  destra  mi  ti  svii  ? 

in  qua  volgi,  ama  il  lido  e  fa'  che  a  manca 

il  piatto  remo  rada  i  picchi.  Il  largo 

prendano  gli  altri  ».  Disse,  ma  temendo 

Menete  i  ciechi  scogli  pur  la  prora 

torce  a  l'ampia  marina.  «  Ove  devii  ? 

Menete,  serrati  a  la  roccia  »,  ancora 

Già  tempestava,  ed  ecco  che  si  vede 

Cloanto  a  tergo  e  che  stringea  rasente. 

Tra  la  nave  di  Già  quegli  e  i  sonanti 

scogli  fende  il  mancino  interno  calle 

e  improvviso  sorpassa  il  primo  e  tiene 

oltre  la  meta  il  mar  libero.  Allora 

arse  gran  duolo  al  giovine  ne  l'ossa 


LIBRO    QUINTO  I43 

e  gli  corsero  lagrime  le  gote; 
e  del  decoro  suo,  de  la  salute 
oblioso  de'  suoi,  da  l'alta  poppa 
precipita  nel  mar  Menete  pigro  : 
esso  per  timonier  sottentra  e  duce, 
gli  altri  esorta  e  il  timone  al  lido  volge. 
Ma  quando  grave  alfìn  da  l'imo  fondo 
Menete  ritornò,  vecchio  com'era 
omai  e  da  le  vesti  tutte  intrise 
gocciolante,  s'arrampica  a  lo  scoglio 
e  su  la  cima  asciutta  vi  si  assise. 
Di  lui  risero  i  Teucri  al  suo  cadere 
e  al  suo  nuotare,  ridono  di  lui 
ri  vomitante  le  salate  spume. 

Qui  negli  ultimi  due,  Sergesto  e  Mnesteo, 

Keta  speme  brillò,  di  sorpassare 

Già  ritardato.  Occupa  il  luogo  avanti 

Sergesto  avvicinandosi  a  lo  scoglio  : 

né  ancora  pur  di  tutta  la  carena 

precede;  in  parte  sì,  ma  l'altra  parte 

l'emula  Pristi  col  suo  rostro  preme. 

E  per  la  tolda  in  m.ezzo  a'  suoi  correndo 

Mnesteo  li  esorta  :  «  Or  sì,  su'  remi  forte, 

ettorei  soci,  che  nel  fato  estremo 

di  Troia  mi  prescelsi  per  com.pagni; 

or  quel  nerbo  mostrate,  ora  quel  cuore 

che  a  le  getule  Sirti  e  ne  Y  Ionio 

e  tra  l'urgenti  opraste  onde  di  Màlea. 

Più  non  domando  io  Mnesteo  il  luogo  primo 

né  m'affatico  a  vincere:  quantunque 


144  ENEIDE 

oh!....  Ma  vincano  quei  che  tu  volesti, 

Nettuno.  Ci  spiaccia  ultimi  tornare: 

tanto  vincete,  o  cittadini,  e  l'onta 

impedite  ».  In  supremo  sforzo  quei  si 

curvano  :  trema  de*  possenti  colpi 

la  bronzea  poppa  e  sotto  sfugge  il  suolo; 

un  frequente  ansimar  scote  le  membra 

e  le  bocche  riarse;  il  sudor  gronda. 

Fu  caso  che  lor  die  l'onor  bramato. 

Mentre  con  ebbro  cuor  Sergesto  spinge 

in  dentro  il  legno  sotto  sotto  il  sasso 

ne  lo  spazio  sì  scarso,  ebbe  sventura 

che  s'impigliò  ne  le  sporgenti  punte. 

Tremò  la  rupe,  ne  l'aguzze  conche 

i  remi  crepitarono  percossi 

ed  urtata  la  prua  restò  sospesa. 

Balzano  i  naviganti  e  con  grand 'urlo 

s'arrestano,  le  pertiche  ferrate 

brandiscono  ed  i  pali  acuminati 

e  raccolgon  per  l'acqua  i  remi  infranti. 

Ma  lieto  Mnesteo  e  dal  successo  stesso 

animato  con  rapido  remeggio 

e  co'  venti  invocati  a  la  marina 

Ubera  giunge  e  per  l'aperto  scorre. 

Qual  colomba  di  subito  sturbata 

da  la  spelonca  ove  ha  la  casa  e  il  dolce 

nido  in  occulta  pomice,  volando 

volgesi  a'  campi  e  dà  in  levarsi  un  rombo 

di  penne  alto  nel  chiuso,  indi  venuta 

in  seno  del  tranquillo  aere  sfiora 

la  lieve  via  su  l'agiH  ali  aperte; 


LI  URO    OLINTO  145 

cosi  Mnesteo,  così  solca  la  Pristi 
fuggente  l'ultime  acque,  così  lei 
l'impeto  stesso  se  ne  porta  a  volo. 
E  prima  ne  lo  scoglio  erto  a  lottare 
lascia  Sergesto  e  negli  angusti  guadi 
ed  a  chiamare  inutilmente  aiuto 
e  ad  imparar  la  corsa  senza  remi; 
poi  Già  raggiunge  e  quella  gran  Chimera: 
cede,  che  priva  fu  del  suo  piloto. 

Solo  rimane  e  già  presso  a  la  meta 
Cloanto  :  dietro  a  lui  quegli  si  caccia 
a  tutta  forza.  Or  sì  che  addoppia  il  grido, 
tutti  r  inseguitor  premon  co'  plausi 
e  di  fragori  l'aere  risuona. 
Sdegnano  quelli  perdere  lor  vanto 
già  conquistato  e  mettono  la  vita 
per  l'onore,  questi  anima  il  successo; 
possono,  perché  veggonsi  potere. 
E  forse  aveano  a  rostri  pareggiati 
il  premio,  se  tendendo  al  mar  le  palme 
Cloanto  non  piegava  i  numi  al  prego: 
a  Dèi  che  avete  del  pelago  l' impero, 
de'  quali  corro  i  regni,  a  voi  lieto  io 
trarrò  su  questo  Udo  un  bianco  toro 
davanti  a  l'are,  ne  fo  voto,  e  a'  salsi 
flutti  darò  col  chiaro  vin  le  fibre  ». 
Disse,  e  l'udì  negl'imi  gorghi  il  coro 
tutto  de  le  Neréidi  e  di  Forco 
e  Panopèa  fanciulla:  esso  Portuno 
padre  con  la  gran  man  pinse  l'andante 

Albini  -  Eneide  io 


146  ENEIDE 

chiglia  che  più  di  vento  e  di  saetta 
fugge  a  la  riva  e  s'addentrò  nel  porto. 

D'Anchise  il  figlio  allor,  tutti  adunati 

giusta  Fuso,  per  gran  voce  d'araldo 

proclama  vincitor  Cloanto  e  al  crine 

cerchio  gli  fa  di  verde  alloro.  Ad  ogni 

nave  tre  buoi  consente  in  dono,  e  vini 

e  un  d'argento  portar  grave  talento. 

Viepiù  de'  duci  le  persone  onora  : 

una  a  chi  vinse  clamide  dorata, 

cui  ricca  scorre  in  duplice  meandro 

porpora  melibea;  qui\d  intessuto, 

sul  frondoso  Ida  il  giovinetto  regio 

i  cervi  stanca  dardeggiando  in  corsa, 

acceso  e  come  trafelato,  e  lui 

rapì  l'alato  armigero  di  Giove 

su  da  r  Ida  pe  '1  ciel  :  alzan  le  palme 

i  canuti  custodi  inutilmente 

ed  abbaiano  irosi  i  cani  a  l'aria. 

Chi  luogo  ottenne  per  valor  secondo, 

una  lorica  a  lui  di  lisce  squame 

fatta  e  a  tre  fili  d'oro  :  esso  l'aveva 

vincitore  a  Demòleo  spogliata 

presso  il  rapido  Simoi  sotto  IHo 

alta;  e  al  guerrier  la  dà  fregio  e  difesa. 

I  servi  Fègeo  e  Sàgari  a  fatica 

la  portavan  con  forza  de  le  spalle, 

sì  complessa,  ed  in  quella  un  dì  Demòleo 

seguìa  correndo  i  dissipati  Troi. 


LIBRO    QUINTO  I47 

Fa  terzo  dono  due  bronzei  lebeti 
e  scabri  di  figure  argentei  nappi. 

E  già  tutti  donati  e  tutti  adorni 

ivano  con  vermiglie  bende  in  fronte, 

quando  da  l'aspro  scoglio  con  molt'arte 

a  fatica  spiccato,  persi  i  remi 

e  monco  ad  un  solo  ordine,  Sergesto 

traea  l'irrisa  inonorata  nave. 

Qual  sorpreso  sul  colmo  de  la  via 

sovente  un  serpe,  cui  passò  traverso 

ferrea  ruota  o  con  greve  man  d'un  sasso 

il  passegger  lasciò  malvivo  e  scisso, 

indarno  lunghi  dà  fuggendo  guizzi, 

in  parte  fiero  e  con  pupille  acceso 

ed  alto  alzando  il  sibilante  collo, 

ma  la  parte  ferita  lo  ritiene 

che  s'appoggia  su'  nodi  e  in  sé  si  attorce  ; 

con  tal  remeggio  tarda  si  moveva 

la  nave,  pur  fa  vela  e  a  vela  piena 

la  foce  imbocca.  Enea  porge  il  promesso 

dono  a  Sergesto,  pago  che  salvata 

gli  abbia  la  nave  e  riaddotti  i  prodi: 

Una  schiava  gli  è  data,  usa  a'  lavori 

di  Minerva,  per  nascita  cretese, 

Fòloe,  che  aveva  due  gemelH  al  seno. 

Da  questa  gara  .il  pio  Enea  si  move 
a  un  verde  prato  che  abbracciavan  selve 
con  un  arco  di  colli  intomo,  e  in  mezzo 
de  la  valle  era  un  circo  di  teatro  ; 


148 


ENEIDK 


ove  l'eroe  tra  le  migliaia  giunto 

si  assise  in  mezzo  del  costrutto  poggio. 

Indi,  a  quanti  talenta  gareggiare 

ne  la  rapida  corsa,  il  loro  ardire 

tenta  col  pregio  e  i  premi  offerti.  D'ogni 

parte  s'affollan  Teucri  e  insiem  Sicani: 

Niso  ed  Eurialo  primi, 

Eurialo  insigne  di  bellezza  in  fiore, 

Niso  d'amor  gentile  al  giovinetto; 

poi  a  lor  seguitò  de  la  sovrana 

stirpe  di  Priamo  il  real  Diore, 

ed  a  lui  Salio  e  in  una  anche  Patrone, 

onde  questi  acarnane  e  quei  del  sangue 

arcadico  di  gente  tegeèa; 

Èlimo  quindi  e  Pànope,  trinacrii 

giovani,  consueti  a  le  foreste, 

seguitatori  del  vegliardo  Aceste; 

e  molti  più  che  oscura  fama  asconde. 

In  mezzo  a  quelli  così  disse  Enea: 

«  Questo  accoghete  in  cuore  e  lietamente 

ascoltate.  Nessuno  di  tra  voi 

mi  se  n'andrà  senza  presenti:  due 

dardi  darò  di  Gnosso  in  hscio  ferro 

lustranti  e  cesellata  una  bipenne 

d'argento:  questo  egual  tributo  a  tutti. 

I  primi  tre  riceveranno  i  premi 

e  le  corone  de  la  bionda  ohva. 

Un  destrier  gualdrappato  avrà  chi  vince; 

amazonia  il  secondo  una  faretra 

piena  di  frecce  tracie,  cui  s'aggira 

una  cintura  in  largo  oro  e  un  fermaglio 


LIBRO    OriNTO  149 

l'appunta  di  pulita  gemma  ;  il  terzo 

pago  ne  andrà  di  questo  argolico  elmo  ». 

Detto  ch'ebbe  cosi,  prendono  il  luogo 

ed  al  segnale  ne  prorompon  via, 

pari  a  nembo  che  scoppia,  ne  lo  stadio, 

e  già  miran  la  meta.  Primo  vola 

e  balza  Niso  molto  avanti  a  tutti, 

vento  e  ala  di  fulmine  vincendo: 

prossimo  a  lui,  ma  prossimo  a  distanza 

grande,  vien  Salio,  e  dopo  altro  intervallo 

per  terzo  Eurialo: 

ad  Eurialo  segue  Èhmo,  e  a  lui 

ecco  a  le  spalle,  e  il  pie  col  pie  già  preme, 

Diore:  che  se  più  spazio  restasse, 

il  passerebbe  o  lascerebbe  in  dubbio. 

Erano  omai  nel  tratto  ultimo  e  stanchi 

precipitavano  a  la  fine,  quando 

Niso  infelice  sdrucciola  sul  sangue 

d'immolati  giovenchi  a  terra  sparso 

e  che  avea  l'erba  verde  inumidita. 

Già  trionfante  vincitor  non  resse 

il  giovin  le  turbate  orme,  ma  cadde 

bocconi  in  quella  lurida  sanguigna 

mota  del  sacrifizio,  e  non  già  pure 

Eurialo  obhando  e  l'amicizia; 

che,  tra  quel  guazzo  alzandosi,  fé'  intoppo 

a  Salio  che  sul  suol  giacque  disteso. 

Eurialo  balza  e  vincitor  per  dono 

de  l'amico  si  accampa  il  primo  e  vola 

tra  il  favorevol  fremito  de'  plausi. 

Elimo  viene  appresso  e,  terza  palma 


150  ENEIDE 

ornai,  Diore. 

Allor  d'alto  scalpore 
empie  Salio  le  folte  gradinate 
ed  i  prossimi  padri,  e  vuol  che  a  lui 
il  tolto  per  inganno  onor  sia  reso. 
Copre  Eurialo  il  favore  e  il  pianto  vago 
e  il  valor  eh'  è  più  grato  in  belle  membra. 
L'aiuta  e  asseverando  urla  Diore 
che  seguì  nel  successo  e  inutilmente 
al  premio  ultimo  giunse,  ove  sian  dati 
a  Salio  i  primi  onori.  Allor  pronunzia 
il  padre  Enea  :  «  Son  fermi  i  vostri  premi, 
o  giovani,  né  alcun  l'ordine  muta; 
a  me  si  lasci  compatir  la  sorte 
d'un  amico  incolpevole  ».  Ciò  detto, 
l'enorme  spoglia  di  leon  getulo 
a  Salio  dà,  vellosa  e  aurata  l'ugne. 
Qui  Niso  esclama  :  «  Se  di  tali  premi 
hanno  i  vinti  e  tu  senti  de'  caduti 
pietà,  che  doni  darai  degni  a  Niso  ? 
Io  meritai  col  fatto  il  primo  serto, 
se  me  con  Salio  non  cogliea  sventura  ». 
Così  dicendo  il  volto  e  la  persona 
mostrava  umidi  e  lordi.  Gli  sorrise 
l'ottimo  padre  e  fé'  recar  l'usbergo, 
opra  di  Didimàone,  che  i  Danai 
sconficcaron  dal  tempio  di  Nettuno. 
Porge  il  nobil  presente  al  giovin  prode. 

Poi,  finita  la  corsa  e  dati  i  premi: 

e  Or,  chi  ha  vigore  e  saldo  cuor,  si  avanzi 


LIBRO    QUINTO  15 1 

e  con  le  palme  armate  alzi  le  braccia  »  ; 

dice,  e  due  de  la  gara  offre  compensi, 

un  toro  al  vincitor  con  auree  bende 

ed  una  spada  per  conforto  al  vinto 

con  un  bell'elmo.  Incontanente  fiero 

di  suo  gran  nerbo  accampasi  Darete 

e  tra  un  diffuso  mormorio  si  leva; 

l'unico  che  uso  fu  combatter  contro 

Paride  e,  presso  al  tumulo  ove  il  sommo 

Ettore  posa,  a  Bute  invitto  e  immane 

de  la  persona,  che  il  bebricio  ceppo 

d'Amico  millantava,  il  colpo  diede 

e  moribondo  sul  terren  lo  stese. 

Tale  è  Darete  che  solleva  il  capo 

per  primo  a  la  tenzone  e  mostra  i  larghi 

omeri  e  or  l'uno  or  l'altro  braccio  innanzi 

scaglia  e  flagella  de'  suoi  colpi  il  vento. 

Cercasi  un  altro  a  questo,  e  non  è  uno 

di  sì  gran  turba  che  accostarlo  ardisca 

e  mettersi  a  le  mani  i  cesti.  Altero 

dunque,  che  tutti  rifuggir  h  crede, 

fermo  a'  piedi  d'Enea,  senza  più,  prende 

con  la  sinistra  per  un  corno  il  toro 

e  dice  :  «  FigUo  de  la  Dea,  se  alcuno 

non  s'arrischia  a  la  pugna,  a  che  staremo  ? 

perché  debbo  aspettar?  Dammi  il  mio  premio». 

E  tutti  ad  una  i  Dardani  fremeano 

che  sia  tenuta  la  promessa  al  forte. 

Qui  con  grave  rampogna  Aceste  parla 
ad  Entello,  sedutosi  com'era 


152  ENEIDE 

ivi  presso  sul  verde  letto  :  «  Entello, 

invano  un  dì  fortissimo  de'  forti, 

e  sì  gran  posta  lascerai  sì  cheto 

senza  lotta  portar?  Dove  or  ci  è  ito 

quel  dio  maestro  rammentato  indarno 

Erice?  e  la  tua  fama  per  l'intiera 

Sicilia  e  que'  trofei  che  a  le  tue  case 

pendono  affissi  ?  ».  L'altro  a  tal  rimbrotto  : 

«  Non  l'amor  de  l'impresa  e  non  la  gloria 

si  ritirò  per  tema;  bensì  freddo 

tardato  da  vecchiezza  il  sangue  torpe 

e  il  vigor  langue  nel  corpo  stremato. 

Se  quella  avessi  ch'ebbi  un  giorno,  e  in  cui 

gonfia  e  fida  cosi  quest'indiscreto, 

se  quella  avessi  giovinezza  ancora, 

oh  non  mosso  dal  premio  e  dal  torello 

sarei  venuto,  che  non  guardo  a'  doni  j). 

Poi  ch'ebbe  detto,  due  gettò  nel  mezzo 

pesantissimi  cesti,  con  cui  fu 

uso  a  le  prese  uscir  Erice  fiero 

e  ravvolger  le  braccia  in  duro  cuoio. 

Sbigottirono  tutti:  di  sì  grandi 

buoi  sette  vaste  pelli  turgean  piene 

di  piombo  inserto  e  ferro.  Esso  Darete 

più  sbigottisce  e  tutto  si  ricusa: 

ed  il  magnanimo  Anchisiade  al  peso 

pon  mente  e  smove  que'  viluppi  enormi. 

Il  vecchio  allor  tali  rendea  parole: 

«  E  che  sarebbe,  se  uno  avesse  visto 

quelh  d'  Ercole  stesso  e  qui  su  questo 

lido  l'atroce  pugna?  Un  dì  queste  armi 


LIBRO    QLIXTO  I53 

Erice  tuo  germano  avea;  le  vedi 

di  sangue  e  di  cervello  ancor  macchiate: 

stette  con  queste  contro  il  grande  Alcide; 

ed  io  le  usai,  mentre  migliore  il  sangue 

forze  mi  dava  e  non  per  anche  in  capo 

mi  biancheggiava  T  invida  vecchiezza. 

Ma  se  ricusa  questi  nostri  arnesi 

Dares  troiano,  e  al  pio  Enea  ciò  piace, 

l'approva  Aceste  animator,  le  parti 

pareggiamo  :  a  te  d'Erice  condono, 

fa' cuore,  i  cuoi;  tu  i  teucri  cesti  spoglia». 

Così  detto,  gettò  la  doppia  veste 

da  le  spalle,  e  le  membra  come  travi, 

l'ossa  grandi  ed  i  muscoli  scoperse, 

e  imm.enso  in  mezzo  si  piantò  del  circo. 

D'Anchise  il  figho  allor  fé'  portar  fuori 

ragionevoH  cesti  e  a  l'uno  e  a  l'altro 

ebbe  armate  di  pari  armi  le  palme. 

Stettero  eretti  su  le  punte  entrambi 
subitamente,  sollevando  al  cielo 
impavidi  le  braccia,  e  le  teste  alte 
molto  indietro  ritrassero  dal  colpo, 
e  intrecciano  le  mani  al  fiero  gioco. 
Più  mobile  su'  piedi  è  quegli  e  forte 
di  gioventù,  di  sua  gran  mole  questi, 
ma  titubano  al  tremulo  i  ginocchi 
e  gli  scote  le  gran  membra  l'affanno. 
Molti  indarno  tra  lor  si  avventan  colpi, 
ne  addensan  molti  al  cavo  fianco,  i  petti 
si  fanno  risonar,  spessa  la  mano 


154  ENEIDE 

guizza  agli  orecchi  ed  a  le  tempie  intorno, 

crosciano  a  le  percosse  le  mascelle. 

Entello  grave  sta  dove  s'è  fitto, 

solo  con  la  persona  e  i  vigili  occhi 

sfugge  le  offese:  l'altro,  qual  chi  serra 

alta  città  con  macchine  ed  assedia 

montani  baluardi,  or  questo  or  quello 

accesso  ed  ogni  parte  accorto  spia 

e  invan  si  stringe  a  differenti  assalti. 

Mostra  ergendosi  Entello  alto  levata 

la  destra  :  quegh  il  colpo  che  piombava 

veloce  vide  e  lo  causò  d'un  salto; 

Entello  sparse  quello  sforzo  al  vento, 

e  pesante  esso  ancor  pesantemente 

cadde  al  suol,  qual  talor  diradicato 

su  r  Erimanto  o  l' Ida  un  cavo  pino. 

Balzano  ardenti  i  Teucri  ed  i  Trinacrii: 

va  il  grido  al  ciel,  e  primo  accorre  Aceste 

a  sollevar  commosso  il  coetaneo 

amico.  Ma  l'eroe  non  attardato 

da  la  caduta  né  atterrito  torna 

più  fiero  a  l'urto,  forze  aggiunge  l'ira, 

l'onta  e  il  valor  conscio  di  sé  lo  infiammano 

ed  incalza  Darete  a  precipizio 

per  tutto  il  campo,  raddoppiando  i  colpi 

or  con  la  destra  or  con  la  manca,  senza 

posa  né  tregua  :  con  quanta  su'  tetti 

grandine  si  rovescia  l'uragano, 

di  così  fitte  con  due  man  percosse 

l'eroe  picchia  e  perseguita  Darete. 


LIBRO    QUINTO  I55 

Allora  il  padre  Enea  più  non  sofferse 

trascorrer  l'ire  e  incrudelire  Entello 

in  suo  furor,  ma  die  fine  al  duello 

e  ne  strappò  Darete  stanco,  in  questa 

maniera  lusingandolo  :  «  Infelice, 

qual  ti  venne  in  pensi er  follia  si  grande? 

altre  forze  non  senti  e  fatti  avversi 

i  numi  ?  cedi  al  dio  « .  Disse  e  dicendo 

la  lotta  separò.  Ma  i  fidi  amici 

lui  strascicante  a  fatica  i  ginocchi 

e  ciondolante  il  capo,  e  da  la  bocca 

sangue  gettando  e  misti  al  sangue  i  denti, 

conducono  a  le  navi,  ed  in^/itati 

ricevono  quell'elmo  e  quella  spada, 

la  palma  e  il  toro  lasciano  ad  Entello. 

Vittorioso  questi,  altero  in  cuore, 

fiero  del  toro,  «  O  figlio  de  la  Dea, 

dice,  e  voi  Teucri,  or  apprendete  quali 

ebb'io  le  forze  giovani,  e  da  quale 

morte  Darete  richiamaste  ».  Disse, 

e  in  faccia  al  toro,  premio  suo,  si  pose, 

poi  dritto  con  la  destra  indietro  tratta 

gli  vibrò  tra  le  corna  i  duri  cesti 

ed  il  cervello  misto  a  l'ossa  infranse: 

tremebondo  morente  il  bue  stramazza. 

Indi  l'eroe  soggiunse  ancora:  ((Questa 

più  confacentc  vita,  Erice,  t'offro 

in  luogo  de  la  morte  di  Darete  : 

qui  \'incitor  depongo  i  cesti  e  l'arte  «. 


156  ENEIDE 

Enea  subito  poi  chiama  chi  voglia 
gareggiar  con  la  rapida  saetta, 
ponendo  i  premi,  e  con  possente  mano 
trattolo  da  la  nave  di  Seresto 
l'albero  drizza  e  \d  sospende  in  vetta 
implicata  di  fune  agii  colomba, 
segno  a'  colpi.  Avanzarono  i  campioni, 
ed  un  elmo  di  bronzo  in/sé  raccolse 
le  sorti.  Uscì  prima  tra  plausi  quella 
d' Ippocoonte  d' Irtaco  fighuolo  ; 
Mnesteo  gli  segue,  \dncitor  pur  ora 
nel  certame  naval,  Mnesteo  col  verde 
serto  d'olivo;  e  terzo  Euritione, 
il  tuo.  fratello,  o  Pandaro  famoso, 
che  un  dì  sospinto  a  violare  il  patto 
primo  traesti  un  dardo  tra  gli  Achei. 
Ultimo  in  fondo  a  l'elmo  si  rimase 
Aceste,  oso  sfidare  anch'esso  impresa 
di  braccio  giovanil.  Ecco  que'  prodi 
con  fiero  sforzo  ognun  piegano  gli  archi 
e  versan  fuor  de  la  faretra  i  dardi. 
Stride  il  nervo  e  per  prima  la  saetta 
de  l'irtàcide  sferza  l'aure  lievi 
e  va,  si  ficca  a  l'albero  davanti. 
L'albero  ne  tremò,  temè  l'alato 
e  fu  rumor  de  le  agitate  penne. 
Poi  fiero  Mnesteo  s'accampò  con  l'arco 
teso  e  la  mira  in  su,  lanciando  insieme 
e  lo  sguardo  e  lo  strai,  ma  sventurato 
non  seppe  la  colomba  coglier  giusto, 
e  solo  i  nodi  e  i  vincoli  di  lino 


LÌBUO    QIINTO  157 

ruppe,  onde  avvinta  il  pie  pendea  da  l'alto 

albero  :  quella  spiccò  via  tra  i  venti 

e  le  nuvole.  Allor  rapido,  avendo 

già  la  freccia  incoccata  e  pronto  l'arco, 

Eurition  fé'  voto  al  suo  fratello  ; 

lieta  in  libero  ciel  battendo  l'ali 

mirata  la  colomba,  la  trafigge 

sotto  una  nera  nube:  cade  giù, 

spersa  tra  gli  astri  eterei  la  vita, 

e  fitta  porta  cadendo  la  freccia. 

Solo  senza  più  premio  rimaneva 

Aceste  padre  e  verso  l'alto  cielo 

scagliò  pure  il  suo  dardo,  dimostrando 

l'arte  e  l'arco  sonante.  Ed  ecco  agli  occhi 

improvviso  miracolo  si  offerse, 

di  gran  presagio;  l'alto  effetto  poi 

il  chiarì,  palesarono  il  portento 

dopo  molti  a.nni  i  paventati  vati. 

Per  le  limpide  nuvole  volando 

arse  lo  strale,  fé'  di  fiamma  un  solco, 

poi  si  consunse  e  dileguò  nel  vento; 

così  spesso  nel  ciel  cadenti  stelle 

trascorrono  chiomate  di  splendore. 

Stetter  sospesi  in  cuor  Siculi  e  Teucri 

a'  Celesti  volgendo  la  preghiera; 

né  respinse  l'augurio  il  sommo  Enea, 

anzi  abbraccia  il  sereno  Aceste,  il  dona 

con  gran  magnificenza  e  così  dice: 

«A  te,  padre;  che  il  gran  Re  de  l'Ohmpo 

ben  volle  te  per  così  fatto  segno 


I  =>8  ENEIDE 


a  r  in  fuor  de  la  sorte  avere  onori  : 

abbiti  questo,  che  fu  già  d'Anchise, 

cratere  cesellato  di  figure; 

un  dì  Cisseo  di  Tracia  al  padre  Anchise 

Favea  donato  qual  presente  insigne, 

ricordo  e  pegno  de  l'affetto  suo  ». 

Detto  così,  di  verdeggiante  alloro 

gli  corona  la  fronte  e  vincitore 

primo  proclama  sopra  tutti  Aceste. 

Né  s'adontò  de  la  preposta  lode 

il  buono  Eurition,  quantunque  solo 

avea  fatto  cadere  la  colomba. 

Segue  ne'  doni  quei  che  ruppe  il  laccio, 

ultimo  quegli  che  trafisse  il  palo. 

Ma  il  padre  Enea  durante  ancor  la  gara, 
a  sé  chiamato  Epitide,  il  custode 
e  compagno  di  Giulo  adolescente, 
«  Or  va,  gli  dice  a  le  fidate  orecchie, 
e  ad  Ascanio,  se  ha  già  la  puerile 
squadra  disposta  e  in  ordine  la  corsa 
de'  cavalli,  dirai  che  guidi  a  l'avo 
la  cavalcata  e  sé  mostri  ne  l'armi  ». 
Dice,  e  l'onda  del  popolo  ritrarre 
esso  fa  dal  gran  circo  e  dare  il  campo. 
I  giovinetti  avanzano  e  di  pari 
su'  frenati  destrieri  innanzi  agh  occhi 
splendon  de'  padri  :  fremono  al  passaggio 
la  teucra  gente  e  sicula  ammirando. 
Tutti  a  l'usanza  premono  la  chioma 
di  tosata  ghirlanda:  due  di  corno 


LIBRO    OLINTO  T ^Q 

hanno  lanciotti  con  in  punta  il  ferro, 
lisce  taluni  a  l'omero  faretre; 
a  sommo  il  petto  va  flessibil  cerchio 
de  l'oro  che  li  avvolge  intorno  al  collo. 
Cavalcano  tre  squadre  con  tre  duci, 
ed  a  ciascuno  sei  e  sei  garzoni 
in  due  file  risplendono  seguaci 
con  due  maestri. 

Un  alacre  squadrone 
guida  il  piccolo  Priamo,  che  rende 
de  l'avo  il  nome,  tuo  gentil  germoglio, 
PoUte,  a  crescer  gì'  Itali  :  lo  porta 
tracio  destrier  di  due  colori,  bianco 
Tun  pie  davanti  e  l'alta  fronte  bianca. 
Ati  segue,  onde  trassero  la  schiatta 
gli  Azii  latini,  Ati  fanciullo  a  Giulo 
fanciullo  caro.  Ultimo  Giulo,  e  bello 
su  tutti,  vien  sopra  corsier  sidonio 
che  donato  gH  avea  fidente  Dido 
ricordo  e  pegno  de  l'affetto  suo. 
Su  cavalli  son  gh  altri  del  trinacrio 
annoso  Aceste. 

I  Troiani  ricevono  con  plauso 
i  peritosi  e  godono  a  guardarli 
ravvisando  a'  sembianti  i  padri  loro. 
Poi  che  Heti  passarono  a  cavallo 
avanti  a  tutto  il  popolo  e  a  lor  gente, 
Epitide  lontano  agli  aspettanti 
alto  die  segno  ed  ischioccò  la  frusta. 
Quelli  eguah  discorsero  e  le  file 
suddivise  a  tre  sciolsero,  e  al  richiamo 


l6o  ENEIDE 

fecer  fronte  portando  armi  contr'armi. 

Indi  altre  corse  ed  altre  volte  danno 

da  opposte  parti  e  intrecciano  alternanti 

cerchi  a  cerchi  e  un'imagin  di  battaglia 

rendono  in  giostra,  e  or  mostrano  fuggendo 

le  spalle,  ostili  or  voltano  le  punte, 

or  di  pari  cavalcano  pacati. 

Qual  si  narra  che  un  dì  ne  l'alta  Creta 

il  Labirinto  tra  pareti  cieche 

ebbe  un  avvolto  andar  e  il  dubbio  inganno 

di  mille  vie,  dove  di  via  traea 

impreveduto  e  inestricato  errore  : 

non  altrimenti  i  figli  de'  Troiani 

intrecciano  lor  corse  e  fughe  e  pugne 

per  gioco,  simili  a'  delfini  quando 

tra  l'acque  a  nuoto  solcano  il  carpazio 

o  il  libio  mare  e  giocano  per  l'onde. 

Questa  foggia  di  corsa  e  queste  gare 

primo  Ascanio  riprese,  allor  che  cinse 

Alba  Lunga  di  mura,  e  fu  maestro 

degli  antichi  Latini  a  praticarle 

ne  la  maniera  ch'esso  da  fanciullo 

e  la  troiana  gioventù  con  lui. 

Le  insegnaron  gli  Albani  ai  loro,  e  quindi 

le  ricevè  Roma  sovrana,,  il  patrio 

rito  serbando:  Troia  i  giovinetti 

ancor,  Troiano  il  loro  stuol  si  dice. 

Finquì  le  gare  a  onor  del  padre  santo. 

Poi  cominciò  Fortuna  a  mutar  fede. 
Mentre  al  sepolcro  co'  diversi  ludi 


LIBRO    QUINTO  I'-)! 

rendon  l'omaggio,  la  Saturnia  Giuno 
mandò  Iri  dal  cielo  a'  teucri  legni 
e  spira  l'aure  al  voi,  piena  d' intenti 
e  ancor  non  sazia  del  dolore  antico. 
Giù  discese  la  vergine  per  l'arco 
di  color  mille  rapida  e  non  vista. 
Mira  il  grande  concorso  e  passa  i  lidi, 
deserti  vede  i  porti  e  abbandonata 
la  fiotta. 

Ma  le  Troadi  in  disparte 
raccolte  su  la  riva  solitaria 
piangevano  il  perduto  Anchise  e  tutte 
l'alto  mare  guardavano  piangendo. 
Ahi  tanto  ancor  viaggio  a  lor  sì  stanche 
e  tant'acqua  restar!  voce  è  di  tutte. 
Vogliono  una  città,  non  più  patire 
i  disagi  del  pelago. 

Tra  loro 
dunque  si  mette,  destra  in  recar  danno, 
e  si  spoglia  di  diva  e  volto  e  veste. 
Bèroe  si  fa,  l'annosa  di  Doriclo 
tmario  consorte,  tal  che  illustre  sangue 
e  aveva  avuto  un  dì  fama  e  figliuoli. 
E  così  vien  tra  le  dardanie  donne. 
«  Voi  misere,  dicea,  cui  l'armi  achee 
non  ridussero  a  morte  sotto  i  muri 
de  la  patria  !  a  che  strazio  la  fortuna, 
o  gente  sventurata,  ti  riserba? 
Sette  estati  son  già  da  la  rovina 
di  Troia,  che  per  l'acque  e  per  le  terre 
tutte  siam  tratte,  superando  asprezze 


Albini  -  Eneide 


IÒ2  ENEIDE 

di  scogli  e  di  stagioni,  in  preda  a  l'onde 
sempre  cercando  una  fuggente  Italia. 
Questo  è  fraterno  suol  d'  Erice,  è  nostro 
ospite  Aceste  :  chi  fondar  ci  vieta 
le  mura  e  farne  cittadini?  Oh  patria 
e  Penati  al  nemico  invan  sottratti! 
Dunque  nessune  più  si  udranno  dire 
mura  di  Troia?  non  vedrò  più  al  mondo 
gh  ettorei  fiumi,  Xanto  e  Simoenta? 
Su!  bruciate  con  me  le  infauste  prore. 
Che  l'ombra  di  Cassandra  profetessa 
porgere  in  sogno  io  vidi  accese  faci: 
—  Qui  cercatevi  Troia,  è  qui  la  casa 
vostra  —  diceva.  L'ora  è  già  di  farlo 
senza  esitare  a  simili  portenti. 
Ecco  quattro  are  per  Nettuno  :  è  il  dio 
a  prestarci  le  fiaccole  e  l'ardire  ». 
Cosi  dicendo  dà  di  piglio  prima 
al  triste  fuoco,  e  con  la  destra  lungi 
levata  forte  l'agita  e  l'avventa. 
Sorprese  fur  le  Iliadi  e  sgomente; 
quando  una  tra  le  molte,  la  più  vecchia, 
Pirgo,  regia  nutrice  a'  tanti  nati 
di  Priamo  :  «  Ella  non  è  Beròe,  donne, 
non  la  retea  di  Dòriclo  consorte. 
Vedete  i  segni  di  beltà  divina 
e  gli  occhi  fiammeggianti,  e  com'è  altera, 
e  il  suo  volto  e  la  voce  e  il  portamento. 
Beròe  dianzi  io  stessa  l'ho  lasciata 
inferma,  addolorata  di  mancare 
sola  agli  onori  debiti  d'Anchise  ». 


LIBRO    QUINTO  103 

Cosi  disse. 

Le  donne  da  principio  dubitose 

e  con  occhi  sfuggenti  a  riguardare 

i  legni,  combattute  tra  l'intenso 

amore  del  presente  suolo  e  i  regni 

per  destino  aspettanti:  quando  in  aria 

si  levò  su  le  aperte  ali  la  dea, 

sotto  a  le  nubi  un  grande  arco  segnando. 

Scosse  al  portento  allor,  vinte  al  furore, 

urlano  e  dagl'  interni  focolari 

strappan  tizzoni;  parte  spoglian  l'are, 

frasche  e  virgulti  e  fiaccole  scaghando. 

Sbrigliato  per  le  tolde  erra  Vulcano, 

per  i  remi  e  le  pinte  assi  d'abete. 

Al  sepolcro  d'Anchise  e  al  gran  teatro 
va  nunzio  Eumelo  de  le  navi  in  fiamme, 
ed  essi  stessi  volgonsi  a  guardare 
fosche  tra  globi  scintillar  faville. 
E  primo  Ascanio,  come  reggea  lieto 
la  giostra,  così  fervido  a  cavallo 
accorre  a  la  rivolta,  e  trafelati 
rattenerlo  non  possono  i  maestri. 
((  Che  furia  nova  è  cotesta  ?  che  fate 
deh!,  sciagurate  cittadine?  grida: 
non  a'  nemici  o  al  campo  degli  Achivi, 
voi  date  fuoco  a  le  speranze  vostre. 
Guardate  il  vostro  Ascanio  !  »  Innanzi  a'  piedi 
via  si  gittò  dal  capo  l'elmo,  in  cui 
quella  animava  fìnzion  di  guerra. 
Insieme  Enea  s'affretta,  insieme  i  Teucri. 


104  ENEIDE 

Ma  quelle  qua  e  là  per  varie  parti 

smarrite  si  disperdono,  a  le  selve 

traggono  quatte  e  dove  faccian  grembo 

le  rupi,  incresce  lor  l'atto  e  la  luce, 

i  loro  riconoscono  cangiate 

e  dal  seno  si  scossero  Giunone. 

Ma  non  però  le  fiamme  de  l'incendio 

poser  la  foga  indomita:  sott'esso 

l'umido  legno  ancor  la  stoppa  viva 

fumiga  pigra  e  lento  il  calor  strugge 

le  chiglie  e  a  tutto  si  propaga  il  danno, 

né  vai  zelo  di  prodi  o  versar  d'acque. 

Stracciasi  allora  il  pio  Enea  le  vesti 

agli  omeri  e  implorò  gli  Dei  clementi 

a  palme  tese  :  «  O  Giove  onnipotente, 

se  tutti  fino  a  l'ultimo  non  prendi 

i  Teucri  in  odio,  se  riguardo  alcuno 

ha  l'antica  pietà  de'  casi  umani, 

fa'  che  il  naviglio,  o  padre,  al  fuoco  scampi 

e  de'  Troiani  il  poco  aver  preserva  ; 

o,  s'io  lo  meritai,  questo  che  avanza 

tu  col  nemico  fulmine  sprofonda 

ed  annichila  qui  con  la  tua  destra  ». 

Aveva  detto  appena,  e  rompe  il  nembo 

con  un  rovescio  inusitato;  al  tuono 

tremano  le  terrestri  vette,  e  viene 

da  tutto  il  ciel  ne'  campi  acqua  a  torrenti, 

scura  piova  al  soffiar  de  la  bufera: 

i  legni  ne  riboccano,  mezzo  arse 

ne  grondan  l'assi,  fin  che  il  caldo  muore 

e,  tranne  quattro,  scampano  le  navi. 


LIBRO    QUINTO  165 

Ma  il  padre  Enea  scosso  dal  caso  acerbo 
or  qua  or  là  mutava  in  cuor  l'ingente 
pensiero,  se  nel  siculo  paese 
dimenticando  i  fati  si  posasse 
o  a  l'italiche  prode  ancor  tendesse. 
Il  vecchio  Nante  allor,  che  la  tritonia 
Pallade  amm.aestrò  su  tutti  e  insigne 
di  molt'arte  lo  fé',  tali  responsi 
dava,  e  che  la  minace  ira  de'  Numi 

0  richiedesse  l'ordine  de'  fati; 

ei  riconforta  Enea  con  questo  dire: 
u  O  figlio  de  la  Dea,  dove  il  destino 
chiama  o  richiama  andiam;  che  che  si  sia, 
la  pazienza  vinca  la  fortuna. 
Qui  di  stirpe  divina  è  il  teucro  Aceste  : 
abbilo  per  compagno  ne'  disegni 
volenteroso,  e  a  lui  cedi  chi  sopra- 
vanza perse  le  navi  e  ornai  rifugge 
da  l'alta  impresa  e  da  le  tue  vicende. 

1  vecchi  stanchi  e  le  donne  spossate 
dal  mar  scevera,  e  quanto  con  te  viene 
di  fiacco  e  pauroso  de'  perigli  : 
abbiano  qui  la  lor  città  gli  stanchi 

e  lor  sia  dato  nominarla  Acesta  ». 
Tocco  a  tal  dire  de  l'annoso  amico, 
viepiù  tra  pensier  vari  è  combattuto. 
E  bruna  su  la  biga  in  ciel  saliva 
la  Notte,  ecco  da  l'alto  a  l'improvviso 
parve  la  vision  del  padre  Anchise 
scendere  e  favellargh  in  queste  voci  : 
«  O  figlio,  a  me  più  caro  de  la  vita 


l66  ENEIDE 

nel  tempo  che  la  vita  mi  durava, 

o  travagliato  dagl'iliaci  fati, 

vengo  al  cenno  di  Giove  che  la  fiamma 

stornò  da'  legni  e  alfin  ti  si  fé'  pio. 

Odi  i  consigli  che  ti  dà  sì  buoni 

Nante  longevo  :  gioventù  prescelta, 

validissimi  cuor,  porta  in  Italia; 

dura  una  gente  e  ru\dda  dovrai 

nel  Lazio  debellar.  Ma  prima  pure 

cerca  di  Dite  l'ime  case  e  vieni 

per  l'alto  Averno,  o  figlio,  al  mio  colloquio. 

Me  non  tien  l'empio  Tartaro,  dolenti 

ombre,  ma  sono  tra  gli  ameni  cori 

de'  buoni  ne  1'  Elisio.  I\i  la  casta 

Sibilla  ti  addurrà,  per  molto  sangue 

di  nere  agnelle.  Allor  tutta  saprai 

tua  prole  e  qual  città  ti  si  conceda. 

Intanto  addio  :  la  Notte  umida  piega 

da  mezzo  il  corso  e  già  crudel  mi  sfiora 

col  soffio  de'  cavalli  l'oriente  ». 

Avea  detto  e  svanì  simile  a  fumo 

tra  l'aure  lievi.  Enea  '<  Dove  t'affretti  ? 

dove  t' involi  ?  esclama  ;  oh  chi  tu  fuggi  ? 

chi  t'allontana  da  l'abbraccio  mio  ?  » 

Scote  tra  '1  dire  le  sopite  brage, 

ed  il  Lare  di  Pergamo  e  il  sacrario 

de  la  canuta  Vesta  con  devoto 

farro  e  pieno  incensier  supplice  adora. 

Subito  chiama  i  suoi  e  primo  Aceste  : 
narra  il  cenno  di  Giove  ed  i  comandi 


LIBRO    gi'INTO  167 

del  caro  padre  e  quel  ch'esso  disegni. 
Senza  indugio  è  il  partito  e  Aceste  assente. 
Scrivon  le  donne  a  la  cittadinanza 
e  abbandonano  il  popolo  voglioso, 
cuori  non  vaghi  d' un'  eccelsa  gloria. 
I  banchi  essi  ristorano,  rifanno 
le  abbrustolate  tavole  al  naviglio, 
preparan  remi  e  gomene;  a  contarli 
pochi,  ma  fiamme  di  virtù  guerriera. 
Intanto  con  l'aratro  Enea  disegna 
le  mura  e  a  sorte  trae  le  case  :  vuole 
questo  esser  Ilio  e  questi  luoghi  Troia. 
Regna  il  troiano  Aceste  e  assegna  il  foro 
e  dà  le  leggi  a'  padri  convocati. 
Vicino  agli  astri  poi  su  l'ericina 
vetta  a  Venere  idalia  un  tempio  è  posto, 
e  un  sacerdote  aggiungesi  e  un  ombroso 
largo  recinto  al  sepolcro  anchiseo. 

Già  nove  giorni  banchettò  la  gente 

e  compiuto  agli  altari  era  ogni  rito; 

i  venti  cheti  hanno  disteso  il  mare, 

e  l'austro  risusurra  e  a  l'alto  invita. 

Nasce  gran  pianto  per  le  curve  rive: 

abbracciati  tra  lor  la  notte  e  il  giorno 

stanno.  Esse  omai  le  donne,  essi  cui  dianzi 

del  mar  la  faccia  orrida  parve  e  il  nome 

intollerabile,  or  vogliono  andare 

e  patire  ogni  stento  de  l'esiglio. 

Ma  il  buono  Enea  benigno  li  consola 

e  lagrimando  al  consanguineo  Aceste 


t6.S  kxi^ide 

li  affida.  Quindi  a  Elice  immolare 

fa  tre  vitelli  e  un'agna  a  le  Tempeste 

e  tiittequante  sciogliere  le  funi: 

esso,  diritto  là  su  la  sua  prora, 

col  capo  cinto  di  tosata  oliva, 

ha  la  patera  in  mano  e  a'  salsi  flutti 

porge  visceri  e  vin  limpido  versa. 

Sorge  da  poppa  e  li  accompagna  il  vento 

battono  a  gara  i  remi  e  solcan  Tonde. 

Venere  intanto  con  l'affanno  in  cuore 
a  Nettuno  si  volge  e  si  querela  : 
((  La  fiera  di  Giunone  ira  e  gli  sdegni 
non  sazi  mai  mi  sforzano,  Nettuno, 
a  discendere  a  tutte  le  preghiere. 
Tempo  non  è,  non  è  che  l'addolcisca 
pietà  nessuna  :  dal  voler  di  Giove 
indomita  e  da'  fati  ella  non  posa. 
Dal  cuore  de  la  Frigia  aver  schiantata 
co'  nefandi  odi  una  città  non  basta 
e  trascinata  per  ogni  tormento: 
le  reliquie  di  Troia,  polve  ed  ossa 
de  la  morta,  perseguita.  Le  cause 
di  sì  cieco  infierire  essa  le  vegga. 
Testimonio  mi  sei,  quanta  pur  ora 
levò  minaccia  ne  le  libiche  onde  : 
tutto  mischiò  col  cielo  il  mare,  indarno 
ne  l'eolie  procelle  confidata, 
tanto  ardita  in  tuo  regno. 
Ecco  anche  spinte  le  troiane  donne 
a  scelleraggine,  arse  indegnamente 


i  legni  e  fu  cagion,  persa  la  flotta, 

di  lasciar  gente  a  una  straniera  terra. 

Quei  che  avanza,  t'imploro,  oh  veleggiarti 

possa  securo  ed  il  laurente  possa 

Tebro  toccar,  se  giuste  cose  io  chiedo, 

se  quelle  mura  assegnano  le  Parche  ». 

Il  Saturnio  signor  del  m.ar  profondo 

allor  cosi  parlò  :  «  Bene  a  ragione, 

o  Citerea,  ne'  regni  miei  confidi, 

onde  hai  tu  nascimento.  E  il  meritai. 

Spesso  compressi  l' ire  e  la  mina 

e  del  cielo  e  del  mar.  Né  in  terra  meno, 

ne  attesto  Xanto  e  Simoenta,  il  tuo 

Enea  m'è  a  cuor.  Quando  Achille  inseguiva 

verso  le  mura  i  trafelati  Teucri 

e  spargea  i  morti  a  mille,  e  colmi  i  fiumi 

muggivano  né  più  sapea  lo  Xanto 

trovar  la  via  di  correre  nel  mare, 

allora  Enea  ch'era  del  gran  PeHde 

a  fronte,  disegnai  di  Numi  e  nerbo, 

sottrassi  entro  una  nube  io,  pur  bramando 

le  fabbricate  con  le  mani  mie 

mura  atterrar  de  la  spergiura  Troia. 

Ho  quell'animo  ancor  :  lascia  i  timori. 

Securo  i  porti  toccherà  d'Averno, 

che  brami  ;  un  solo  smarrirai  ne'  gorghi, 

un  per  i  molti  si  darà  ». 

Poi  che  blandì  con  questi  detti  il  lieto 

cuor  de  la  diva,  aggioga  in  oro  il  padre 

i  corsieri,  atta  gli  spumosi  freni 

e  fluenti  le  redini  abbandona. 


lyO  ENEIDE 

Sul  ceruleo  carro  a  fior  de  l'acque 
lieve  vola:  s'abbassan  l'onde,  e  sotto 
Tasse  tonante  ogni  boUor  si  spiana; 
fuggon  pe'  1  vasto  etere  i  nembi.  Ed  ecco 
il  corteggio  molteplice,  gli  enormi 
mostri,  di  Glauco  il  seguito  vetusto 
e  Palemone  d'Ino  ed  i  Tritoni 
solleciti  e  l'esercito  di  Forco 
tuttoquanto  ;  ecco  tengon  la  sinistra 
Teti  e  Mèlite  e  Pànope  fanciulla, 
Nisèa  e  Spio,  Cimodoce  e  Talia. 

Gioioso  senso  a  la  sua  volta  vince 
il  sospeso  pensier  del  padre  Enea  : 
presto  tutti  alzar  gli  alberi,  le  vele 
ordina  inalberar.  Le  scotte  ad  una 
tesero  tutti  e  parimente  a  manca 
or  disciolsero  e  a  destra  i  seni,  ad  una 
drizzan  le  antenne  e  volgono.  Buon  vento 
porta  la  flotta. 

Primo  avanti  a  tutti 
guidava  Palinuro  il  denso  stuolo; 
agli  altri  era  dover  di  seguitarlo. 

E  già  l'umida  Notte  avea  toccato 
circa  il  mezzo  del  ciel;  sottesso  i  remi 
stesi  pe'  duri  scanni  i  naviganti 
allentavano  placidi  le  membra: 
quando  lieve  dagli  astri  eterei  sceso 
il  Sonno  ruppe  l'aer  tenebroso 
e  scosse  l'ombre,  verso  te  movendo, 


I.THRO    OiTNTO  l'P'r 

o  Palinuro,  e  infauste  visioni 

a  te  non  meritevole  recando. 

Su  l'alta  poppa  iddio  sedè,  col  volto 

di  Forbante,  e  così  schiuse  le  labbra  : 

«  O  Palinuro  iàside,  le  navi 

da  sé  le  pòrta  il  mar  ;  son  l'aure  amiche  : 

or  si  può  riposare;  adagia  il  capo 

e  gli  occhi  stanchi  togli  a  la  fatica. 

Io  per  poco  terrò  le  veci  tue  ». 

E  Palinuro  a  lui  levando  appena 

gU  occhi  dice  :  «  E  vuoi  tu  eh'  io  non  rammenti 

del  cheto  sale  il  volto  e  la  bonaccia  ? 

ch'io  creda  a  questo  mostro  ?  Enea,  sì  certo, 

gH  affiderò,  da'  zefiri  fallaci 

tante  volte  io  deluso  e  da  l'insidia 

del  ciel  sereno  ».  Questo  rispondendo, 

fermo  e  stretto  il  timon  mai  non  lasciava 

con  lo  sguardo  a  le  stelle.  Ed  ecco  il  dio 

un  ramo  intriso  di  letea  rugiada 

e  soporoso  per  influsso  stigio 

su  le  tempie  gh  scote  e  a  l'esitante 

le  natanti  pupille  allenta.  Appena 

il  sopor  primo  invase  avea  le  membra, 

che  premendo  su  lui,  con  parte  svelta 

de  la  poppa  e  col  temo,  a  capo  in  giù 

in  mezzo  a  l'acque  lo  gittò,  più  volte 

vanamente  chiamante  i  suoi  compagni. 

Esso  su  l'ali  si  levò  ne  l'aria. 

Corre  non  men  sicuro  solco  in  m.are 
la  fiotta  ed  imperterrita  veleggia 


ENEIDE 


a  la  promessa  di  Nettuno  padre. 
E  già  veniva  a  radere  gli  scogli 
de  le  Sirene,  perigliosi  un  giorno 
e  de  l'ossa  di  molti  biancheggianti, 
allor  rochi  sonavan  lunge  i  sassi 
al  battere  del  flutto,  quando  Enea 
si  accorse  incerta  fiotteggiar  la  nave 
senza  piloto  e  ne'  notturni  guadi 
esso  la  resse,  molto  sospirando 
per  dolor  de  l'amico:  «Ahi!  Palinuro 
troppo  fidato  al  mar  e  al  ciel  sereno, 
nudo  su  ignote  arene  giacerai  ». 


LIBRO  SESTO 


Così  dice  piangendo  e  dà  le  briglie 
a  la  flotta,  ed  alfìn  tocca  Teuboiche 
spiagge  di  Clima.  Voltano  le  prore 
a  l'alto  mar,  poi  l'ancora  col  dente 
tenace  assicurava  al  fondo  i  legni; 
le  curve  prore  fanno  siepe  a  riva. 
Balzano  ardenti  i  giovani  sul  lido 
esperio;  e  chi  sprizzar  fa  la  scintilla 
ascosa  entro  la  selce,  e  chi  percorre, 
folte  dimore  de  le  fiere,  i  boschi 
e  i  corsi  addita  de'  trovati  fiumi. 


Ma  il  pio  Enea  le  vette,  cui  presiede 
l'alto  Apollo,  ricerca  ed  il  riposto 
asilo,  immensa  grotta,  de  l'augusta 
Sibilla,  a  la  qual  dona  il  Delio  vate 
larghezza  e  fiamma  d'ispirata  mente 
e  le  apre  l'avvenir.  Sono  già  sotto 
a  le  piante  di  Trivia  e  a  l'aureo  tetto, 


174 


ENEIDE 


Dedalo,  è  fama,  Minos  re  fuggendo, 

oso  fidarsi  al  del  su  preste  penne, 

nuotò  per  novo  solco  a  le  fredde  Orse 

e  su  l'arce  calcidica  leggiero 

a  la  fin  si  librò.  Qui  reso  a  terra, 

a  te  de  l'ali  consacrò  il  remeggio, 

o  Febo,  e  vasto  ti  costrusse  il  tempio. 

Su  la.  porta  è  d'Andrògéo  la  morte, 

i  Cecropidi  poi  sforzati  a  darne 

in  pena  ohimè  !  sette  figliuoli  ogni  anno  : 

ecco  l'urna  onde  uscirono  le  sorti. 

Di  contro  alta  sul  mar  la  gnossia  terra 

risponde:  ivi  il  crudele  amor  del  toro; 

Pasifàe  suppostasi  di  furto; 

mista  biforme  prole  il  Minotauro, 

ricordo  de  la  venere  nefanda; 

ivi  quel  faticoso  avvolgimento 

di  casa;  unico  Dedalo  risolse, 

pietoso  al  grande  amor  de  la  regina, 

gl'inganni  inestricabili,  d'un  filo 

le  cieche  orme  reggendo.  E  tu  gran  parte, 

permettendo  il  dolor,  Icaro,  avresti 

nel  gran  lavoro  :  per  due  volte  i  tuoi 

casi  tentò  di  effigiar  ne  l'oro, 

cadder  due  volte  le  paterne  mani. 

A  tutto  seguitando  avrebbe  volti 

gli  sguardi  suoi,  se  il  già  mandato  innanzi 

Acate  non  mostravasi  e  con  lui 

di  Febo  e  Trivia  la  sacerdotessa, 

Deìfobe  di  Glauco.  Ella  al  re  dice  : 


LIBRO    SESTO  IJ; 

«  Non  vuol  tali  spettacoli  quest'ora. 

Meglio  sarà  sette  giovenchi  offrire 

da  intatto  armento  e  tante  giusta  il  rito 

scelte  bidenti  ».  Così  detto  a  Enea, 

(né  tardano  essi  al  sacro  cenno)  i  Teucri 

chiama  al  gran  tempio  la  sacerdotessa. 

È  l'ampio  fianco  de  l'euboica  rupe 
cavato  in  antro,  e  cento  larghe  entrate 
v'adducon,  cento  porte,  escono  a  cento, 
de  la  Sibilla  oracoli,  le  voci. 
S'era  giunti  a  le  soghe,  ed  essa  esclama 
la  vergine  :  «  Tempo  è  di  domandare 
i  fati;  ecco,  ecco  il  dio!  ». 

Tra  questo  dire, 
sul  limitar,  d'un  tratto  non  eguale 
né  il  volto  né  il  color  né  le  rim.ase 
composto  il  crin,  ma  di  furor  si  gonfia 
il  petto  ansante  ed  il  selvaggio  cuore: 
par  più  grande  né  voce  ha  di  mortale, 
tocca  dal  soffio  già  dèi  dio  che  \dene. 
((  Sei  lento  a'  voti  ed  a  le  preci,  esclama, 
o  teucro  Enea,  sei  lento  ?  E  pur  non  prima 
si  schiuderan  de  l'ispirata  casa 
le  grandi  bocche  ».  Così  detto,  tacque. 
Freddo  un  brivido  corse  a'  Teucri  per  le 
dure  ossa,  e  il  re  cosi  prega  dal  cuore  : 

«  Febo,  pio  sempre  al  gran  dolor  di  Troia, 
che  il  dardano  di  Paride  reggesti 
strale  contro  1'  Eacide  e  la  mano, 


IJt'  ENEIDE 

per  tanti  mari  a  grandi  terre  opposti 
entrai,  te  duce,  e  ne'  profondi  seni 
de'  Massili  e  al  suol  cinto  da  le  Sirti  : 
pure  una  volta  raggiungiam  le  sponde 
de  l'Italia  fuggente,  oh  fìnquì  noi 
la  troiana  fortuna"  abbia  seguiti! 
Voi  pure  ornai  a  la  pergàmea  gente 
vi  potete  placar.  Dei  tutti  e  Dee 
cui  dispiacque  Ilio  e  la  superba  gloria 
de  la  Troade.  E  tu,  divina  vate, 
presaga  d'avvenir,  dammi  (non  chiedo 
regno  indebito  a'  fati  miei)  che  i  Teucri 
si  posino  nel  Lazio  e  le  vaganti 
perseguitate  deità  di  Troia. 
A  Febo  e  a  Trivia  allor  tutto  di  marmo 
un  tempio  e  feste  ordinerò  dal  nome 
di  Febo.  Ampio  te  pur  sacrario  aspetta 
ne'  regni  nostri  :  ivi  porrò  tue  sorti 
e  gli  arcani  destini  a  la  mia  gente 
svelati,  e  scelti  avrai  ministri,  o  santa. 
Sol  non  fidare  a  foglie  i  tuoi  presagi, 
che  non  vohn  confusi  in  preda  al  vento: 
prego  che  parli  tu  )>. 

Qui  chiuse  il  labbro. 

Ma  non  di  Febo  tollerante  ancora 
la  profetessa  erra  per  l'antro  a  furia, 
se  possa  il  grande  iddio  scoter  dal  seno: 
quello  viepiù,  l'acerbo  cuor  domando, 
preme  la  indocil  bocca  e  al  fren  la  piega. 
E  de  la  casa  ornai  le  cento  grandi 


LIBRO    SESTO  I77 

porte  si  spalancarono  spontanee 

e  diffusero  a  l'aure  il  vaticinio  : 

«  O  uscito  alfin  dai  gran  rischi  del  mare 

-  ma  restano  più  gravi  in  terra  -,  i  Teucri 

al  regno  di  Lavinio  giungeranno, 

sgombra  il  dubbio  dal  cuor,  -  ma  vorranno  anche 

non  esser  giunti.  Guerre,  orrende  guerre 

vedo  e  il  Tebro  spumar  di  molto  sangue. 

Non  Sìmoi  né  Xanto  a  te  né  l'oste 

dorica  verrà  meno  :  un  altro  Achille 

già  nato  è  al  Lazio,  anch'ei  fìgliuol  di  dea, 

né  contro  a'  Teucri  mancherà  mai  Giuno, 

mentre  supplice  tu  ne  la  strettezza 

quali  non  genti  implorerai  d' Italia, 

quali  città?  Causa  di  tanto  danno 

una  sposa  di  nuovo  ospite  a'  Teucri, 

di  nuovo  uno  stranier  talamo. 

Tu  non  cedere  a'  mah,  anzi  più  fiero 

li  affronta,  per  la  via  che  tua  fortuna 

ti  darà.  Primo  t'apparecchia  scampo 

una  città,  certo  noi  pensi,  greca  w. 

Con  tah  detti  la  cumea  Sibilla 

da  l'antro  sacro  fiere  ambagi  intuona 

e  rugge,  d'ombre  ravvolgendo  il  vero  : 

così  scote  le  briglie  a  la  fremente 

e  con  gli  sproni  entro  la  punge  Apollo. 

Quando  allentò  il  furore  e  la  schiumosa 

bocca  fu  cheta,  prende  a  dir  l'eroe: 

«  Nuova,  o  vergine,  a  me  né  inaspettata 

faccia  non  è  di  mali  alcuna  :  tutti 

Albini  -  Eneide  !> 


i 


lyS  ENEIDE 

li  pregustai,  li  consumai  nel  cuore. 

Prego  sol  :  poi  che  qui  dicon  la  porta 

del  rege  inferno  e  la  palude  buia 

cui  riversa  Acheronte,  a  me  sia  dato 

a  la  presenza  andar  del  caro  padre: 

la  via  m'insegna,  il  sacro  adito  m'apri. 

Lui  tra  le  fiamme  e  l'incalzar  de  l'armi 

sottrassi  su  questi  omeri  e  salvai 

da  la  mischia:  compagno  al  mio  viaggio 

tutti  i  mari  con  me,  tutte  durava 

le  minacce  del  pelago  e  del  cielo, 

pur  lasso,  oltre  le  forze  e  la  fortuna 

de  la  vecchiezza.  E  ben  fu  desso  a  farmi 

prego  e  cenno  che  a  te,  che  a  le  tue  soglie 

supplice  mi  rendessi.  Or  del  figliuolo 

e  del  padre  pietà  4eh!  abbi,  o  alma, 

che  tutto  puoi,  e  non  inutilmente 

Ecate  ti  prepose  a'  boschi^,  averni. 

Se  Orfeo  col  suono 'de  le  tracie  corde 

richiamar  potè  l'ombra  de  la  sposa,  ì 

se  Polluce  il  fratel  con  morte  alterna 

redense  e  va  e  vien  per  quella  via, 

debbo  il  gran  Teseo  ricordarti  o  Alcide?, 

dal  sommo  Giove  sono  anch'  io  disceso  ». 

Con  tali  detti  orava  e  stringea  l'are, 

quando  riprese  a  dir  la  profetessa: 

((  Divin  sangue,  Anchisiade  troiano, 

facile  è  la  discesa  de  l'Averno; 

dì  e  notte  il  fosco  Dite  ha  porta  schiusa  : 

ma  il  pie  ritrarre  e  risalire  al  sole, 


LIBRO    SESTO  I79 

questa  è  l'impresa  e  la  fatica.  Pochi, 
cui  benigno  amò  Giove  e  acceso  ardire 
a  le  stelle  levò,  nati  da  numi, 
il  poterono.  In  mezzo  è  tutto  selve, 
e  Cocito  fluendo  le  circonda 
del  grembo  cupo.  Ma  se  tanto  affetto, 
se  hai  tanto  ardore  di  nuotar  due  volte 
lo  stigio  lago,  di  veder  due  volte 
il  Tartaro,  e  a  la  folle  opera  inclini, 
odi  le  cose  da  compirsi  avanti. 
In  un  albero  ombroso  un  ramo  d'oro  /^ 
di  foglie  e  fronda  flessile  si  cela 
a  \à  Giunone  inferna  consacrato  : 
tutta  la  selva  gli  fa  velo  e  l'ombre 
l'avvolgono  nel  rezzo  de  le  vaUi. 
Ma  .vietati  i  segreti  di  sotterra 
sono  a  chiunque  non  ha  colto  prima 
da  l'albero  l'aurìcomo  germoglio. 
Questo  come  tributo  suo  la  bella 
Proserpina  ordinò  che  le  si  rechi. 
Spiccato  l'un,  non  manca  l'altro,  d'oro, 
e  lo  stelo  s'infronda  del  metallo. 
Dunque  in  alto  ricercalo  con  gH  occhi 
e  ritrovato  con  la  man  lo  spicca: 
la  seguirà  da  sé  docile  e  pronto 
se  i  destini  ti  chiamano,  altrimenti 
vincerlo  non  potrai  per  forza  alcuna 
né  schiantarlo  col  duro  ferro. 

Inoltre 
ti  giace  (ah  tu  noi  sai!)  morto  un  amico 
e  di  morte  contamina  la  flotta 


l80  ENEIDE 

intiera,  mentre  oracoli  domandi 
incerto  a  queste  soglie.  Al  suo  riposo 
lui  rendi  avanti  e  lo  raccogli  in  tomba. 
Nere  pecore  adduci  a  prima  offerta. 
Solo  allora  vedrai  di  Stige  i  boschi 
e  il  regno  inaccessibile  a'  viventi  )>. 
Disse,  e  le  labbra  taciturna  chiuse. 

Enea  col  volto  mesto  e  fisso  il  guardo 
si  parte  da  la  grotta  e  volge  in  cuore 
gli  ascosi  eventi.  Il  fido  Acate  è  seco 
tra  simili  pensier  l'orme  segnando. 
Di  tante  cose  discorrean  tra  loro, 
qual  dicesse  la  vate  amico  estinto 
ed  insepolto.  E  videro  Miseno, 
come  fur  presso,  su  l'asciutto  lido, 
di  morte  immeritevole  finito, 
l'eolide  Miseno,  onde  non  altri 
più  valse  a  scoter  con  la  tromba  i  prodi 
e  ad  infiammar  squillando  la  battaglia. 
Era  stato  al  grand' Ettore  compagno   ' 
e  ad  Ettore  vicino  entrava  in  guerra 
segnalato  pel  lituo  e  la  lancia. 
Poscia  che  Achille  vincitor  spogliava 
quello  di  vita,  del  dardanio  Enea 
il  fortissimo  eroe  si  pose  a  fianco, 
seguace  a  non  minor  virtù.  Ma  intanto 
che  con  sua  cava  conca  introna  il  mare, 
folle,  e  squillando  chiama  in  gara  i  divi, 
un  rivale  Triton  che  gU  fu  sopra, 
se  credere  si  vuol,  tra  le  scogliere 


LIBRO    SESTO  l8l 

l'avea  ne  la  spumosa  onda  sommerso. 
Dunque  tutti  fremevano  d'intorno 
in  gran  compianto,  e  il  pio  Enea  su  tutti. 
Nessuno  indugio,  affrettano  piangendo  --^" 
de  la  Sibilla  gli  ordini  e  di  tronchi 
formano  a  prova  l'ara  del  sepolcro 
eretto  a  ciel.  Si  va  ne  la  foresta 
annosa,  antri  profondi  de  le  fiere: 
precipitan  le  picee,  percosse 
suonan  da  scuri  l'elei;  fìccan  cunei 
ne'  frassini  alti  e  ne  le  scisse  roveri 
e  rotolano  grandi  orni  da'  monti. 

Anch'esso  Enea  tra  tali  opere  primo 
esorta  i  suoi  d'eguah  armi  fornito. 
E  col  triste  cuor  suo  ragiona  intanto 
guardando  la  foresta  immensa  e  viene 
augurando  così  :  «  Se  ora  quell'aureo 
ramo  da  l'albero  apparisse  a  noi 
in  tanta  selva!  Poi  che  ver  purtroppo 
di  te  parlò,  Miseno,  la  veggente!  ». 
Appena  detto  avea  che  due  colombe 
sotto  gli  occhi  di  lui  venian  volando 
dal  cielo  e  sceser  giù  sul  verde  suolo. 
Riconosce  il  sovrano  eroe  gli  alati 
materni  e  heto  prega:  «  Oh  siate  guide, 
se  via  v'è;  dirigetemi  per  l'aria 
ne'  boschi  ove  fa  ombra  il  ricco  ramo 
al  suol  ferace.  E  tu  ne  l'ora  incerta 
non  mi  mancar,  di\dna  madre  ».  E  stette, 
mirando  qual  dien  segno,  ove  sien  volte. 


l82  ENEIDE 

E  quelle  ad  avanzarsi  pascolando 
a  voli  che  seguir  potesse  il  guardo. 
Giunte  a  la  bocca  fetida  d'Avemo, 
•  si  sollevano  rapide  e,  calando 
per  l'aer  lieve,  al  desiato  luogo 
posan  sul  duplice  albero,  dal  quale 
varia  fulse  tra'  rami  un'aura  d'oro. 
Qual  suole  ne  le  selve  al  freddo  tempo 
il  vischio  verdeggiar  di  fronda  nova, 
cui  non  la  pianta  germina,  e  de'  flavi 
germogli  circuir  gli  agili  tronchi; 
era  tale  a  veder  su  l'elee  bruna 
quell'oro  frondeggiar,  tale  il  virgulto 
al  molle  vento  susurrava.  Enea 
l'afferra  avido  e  spicca  dal  suo  nodo 
e  a  la  veggente  vergine  lo  reca. 

Non  meno  intanto  su  la  riva  i  Teucri 
piangevano  Miseno  ed  a  l'infausta 
salma  rendean  l'esequie.  Una  gran  pira 
di  pingue  pino  e  rovere  segata 
costrusser  prima;  d'atre  fronde  i  lati 
le  intrecciano,  le  pongono  davanti 
il  cipresso  funereo,  e  di  sopra 
la  fregiano  de  l'armi  luminose. 
Parte  i  caldi  lavacri  appresta  e  i  rami 
gorgoglianti  a  la  vampa,  e  lui  gelato 
lavano  e  ungono.  Il  compianto  sorge: 
adagian  poi  le  membra  piante  e  sopra 
gettano  le  purpuree  vesti  note. 
S'accostarono  al  gran  feretro  alcuni, 


LIBRO    SESTO  183 

mesto  ufficio,  e  le  faci  a  mo'  de  padri 
vi  tenner  sotto  con  la  faccia  volta. 
Insiem  s'ardono  i  doni  de  l'incenso, 
le  vivande  e  versanti  olio  i  crateri. 
Cadute  poi  le  ceneri,  la  fiamma 
finita,  i  resti  e  le  suggenti  brage 
aspersero  di  vino  e  l'ossa  accolte 
Corineo  chiuse  in  una  urna  di  bronzo. 
Esso  tre  volte  va  con  l'acqua  pur^ 
intorno  per  gli  astanti  leggermente 
rorandoli  d'un  ramo  del  benigno 
ulivo  e  così  tutti  ebbe  lustrati 
e  disse  le  novissime  parole. 
Ma  il  pio  Enea  di  gran  mole  un  sepolcro 
sovrappone  a  quel  prode  e  l'armi  sue 
e  remo  e  tromba  ne  l'aerio  monte 
che  Miseno  da  quello  oggi  si  chiama 
e  il  nome  per  i  secoli  propaga. 

Appresso  poi  sollecito  i  precetti 
compie  de  la  Sibilla.  Una  spelonca 
profonda  fu  che  spaventosa  s'apre, 
scoghosa  ;  la  difendono  il  palude 
nero  e  la  tenebria  de  le  foreste, 
su  la  qual  non  potevano  gli  uccelli 
stendere  il  volo  impunemente,  tale 
fiato  si  esala  da  la  tetra  gola 
(onde  dissero  il  lungo  A  orno  i  Grai). 
Quattro  giovenchi  da  le  terga  nere 
prima  vi  trae  la  sacerdote,  in  fronte 
lor  versa  il  vino,  tra  le  coma  a  sommo 


184  ENEIDE 

un  ciuffo  strappa  e,  ritual  primizia, 

getta  a,'  bracieri,  alto  Ecate  invocando 

e  nel  cielo  e  ne  l'Èrebo  possente. 

Altri  i  coltelli  sottopone  e  il  caldo 

sangue  riceve  ne  le  tazze.  Enea 

con  la  spada  un'agnella  d'atro  vello 

immola  de  l'Eumenidi  a  la  madre 

e  a  la  sua  gran  sorella,  ed  una  vacca 

sterile  a  te,  Proserpina.  I  notturni 

riti  a  lo  stigio  re  quindi  principia 

e  intere  ammucchia  viscere  di  tori 

sopra  le  fiamme,  le  ferventi  fibre 

di  pingue  olio  spargendo.  Ed  ecco,  presso 

al  nascente  chiaror  del  primo  sole, 

muggir  la  terra  sotto  i  pie,  le  vette 

cominciare  a  crollarsi  de  le  selve, 

e  per  l'ombra  ulular  parver  le  cagne 

appressando  la  dea.  «  Lungi,  profani  ! 

lungi  di  qui!  la  profetessa  grida, 

e  tenetevi  fuor  da  tutto  il  bosco. 

E  tu  invadi  la  via,  snuda  la  spada: 

qui  si  vuol  cuore  Enea,  qui  petto  saldo  ». 

Detto  così,  si  mise  furiosa 

per  l'antro  aperto,  e  a  la  sua  duce  mossa 

quei  con  securo  pie  move  di  pari. 

Dèi  che  avete  de  l'anime  l'impero, 
e  ombre  mute  e  Caos  e  Flegetonte, 
luoghi  per  la  notte  ampia  taciturni, 
dir  mi  sia  dato  quel  che  udii,  sia  dato 


LIBKO    SESTO  1S5 

col  voler  vostro  rivelar  le  cose 
sotterra  ne  la  tenebra  sepolte. 

Andavan  sotto  la  solinga  notte 

scuri  per  l'ombra  e  per  le  case  vacue 

di  Dite  e  i  vani  regni:  era  un  andare 

qual  per  l'incerta  luna  a  luce  scarsa 

ne'  boschi,  quando  Giove  ha  chiuso  il  cielo 

nel  buio  e  l'atra  notte  il  color  tolto 

a  le  cose. 

Al  vestibolo  davanti, 
su  la  bocca  de  l'Orco  prima  prim^a, 
l'Affanno  e  le  vendicatrici  Angosce 
posero  lor  covil,  v'hanno  dimora 
pallidi  i  Morbi  e  infausta  la  Vecchiezza 
e  la  Paura  e  mala  consigliera 
la  Fame  e  l'Indigenza  ontosa,  orrori 
a  vedere,  e  la  x\Iorte  e  la  Miseria, 
indi  il  Sopor  fratello  de  la  Morte 
ed  i  Tripudi  de  la  m.ente  falsi; 
e  su  la  sogha  la  Guerra  omicida 
e  i  ferrei  de  i'Eumenidi  giacigli 
e  la  Discordia  pazza  avvolta  in  bende 
sanguinose  le  chiome  viperine. 

Nel  mezzo  i  rami  e  le  vetuste  braccia 

un  olmo  stende  fosco,  grande,  e  in  quello 

si  dice  esser  a  frotte  i  Sogni  vani, 

sì  che  più  d'un  ve  n'  ha  sott'ogni  foglia. 

Molti  altri  mostri  di  diverse  fiere, 

i  Centauri  s'installano  a  le  porte 


l86  ENEIDE 

e  le  Scille  biformi  e  Briareo 

centìmano  e  la  belva  sibilante 

di  Lerna  e  la  Chimera  irta  di  fiamme, 

le  Gorgoni,  le  Arpie,  Tuom  dai  tre  corpi. 

Sobbalzando  di  subito  spavento, 

qui  stringe  Enea  la  spada  ed  a'  vegnenti 

drizza  la  punta:  e  se  la  savia  duce 

non  l'ammonisse  che  le  sono  esìli 

incorporee  vite  vagolanti 

che  paiono  persona,  irromperebbe 

a  percotere  invan  l'ombre  col  ferro. 

Di  qui  la  via  che  mena  a  le  tartaree 
acque  de  l'Acheronte.  Pien  di  melma 
bolle  con  vasto  vortice  quel  flutto 
e  la  molta  in  Cocito  arena  erutta. 
Spaventoso  nocchier  tien  la  riviera 
"fronte,  d'un'orrenda  squallidezza, 
cui  larga  invade  irta  canizie  il  mento, 
s'apron  gli  occhi  di  fiamma,  e  da  le  spalle 
pende  annodato  lurido  mantello.  ^~~^ 
Esso  regge  a  la  barca  e  remo  e  vela; 
su  la  ferrigna  chigha  i  corpi  porta, 
vecchio,  ma  cruda  ha  il  dio  verde  vecchiezza.  ^ 
Quivi  a  riva  una  gran  folla  correva, 
donne  e  uomini,  e  corpi  senza  vita 
di  magnanimi  eroi,  e  giovinetti 
e  vergini,  e  recati  sotto  gU  occhi 
de'  genitori  adolescenti  al  rogo  ; 
quante  col  primo  freddo  de  l'autunno 
si  spiccano  ne'  boschi  e  cadon  foghe. 


LIBRO    SESTO  187 

o  quanta  da  l'oceano  a  le  spiagge 
va  nuvola  d'uccelli,  allor  che  il  gelo 
oltre  mare  li  caccia  a  terre  apriche. 
Stavan,  pregando  di  passare  i  primi, 
e  tendevan  le  mani  per  amore 
de  l'altra  sponda,  ma  il  nocchiero  arcigno 
ora  questi  ora  quei  riceve  e  gli  altri 
allontana  e  ricaccia  da  la  riva. 

Enea,  sospeso  e  scosso  a  quel  tumulto, 
«  Dimmi,  o  vergine,  dice,  a  che  tal  ressa 
al  fiimie  ?  quale  han  l'anime  desio  ? 
per  che  divario  queste  son  respinte, 
quelle  solcan  la  livida  palude  ?  ». 
E  breve  a  lui  l'annosa  profetessa  : 
((  Nato  d'Anchise,  manifesta  prole 
degU  Dei,  l'alto  stagno  di  Oocito 
tu  vedi  e  la  palude  stigia,  nome 
cui  temono  gli  Dei  giurare  invano. 
Tutta  questa  che  miri  è  la  meschina 
turba  insepolta,  quel  nocchier  Caronte, 
quelli  i  sepolti  che  trasporta  l'onda. 
Né  prima  è  dato  il  buio  greto  e  il  roco 
flutto  passar  che  abbian  riposo  l'ossa. 
Erran  cento  anni  vohtando  intorno 
a  questi  lidi,  e  finalmente  ammessi 
rivedono  gli  stagni  desiati  ». 
Stette  il  fìghuol  d'Anchise  e  tenne  il  passo, 
tutto  pensoso  e  in  cuor  pietoso  a  quella 
sorte  gravosa. 

Quivi  scorge  mesti 


l88  ENEIDE 

e  privi  de  l'estremo  onor  Leucaspi 
e  Oronte  duce  de  la  licia  flotta, 
che  insiem  da  Troia  pe'  velatosi  mari 
portati  l'austro  sopraffece,  d'acqua 
avvolgendo  la  nave  e  i  naviganti. 

Ed  ecco  che  il  pilota  Palinuro 

veniva,  il  qua]  nel  libico  passaggio 

pur  ora,  mentre  guarda  gli  astri,  in  mezzo 

a  l'onde  da  la  poppa  era  caduto. 

Come  a  stento  tra  tanta  ombra  lui  mesto 

vide,  primo  gh  parla  :  «  O  Palinuro, 

qual  degli  Dei  ti  tolse  a  noi  e  in  mezzo 

a  la  marina  ti  sommerse?  Dimmi, 

che,  non  trovato  mai  fallace  innnanzi, 

solo  in  questo  responso  mi  deluse 

Apollo,  il  qual  te  presagiva  immune 

dal  pelago  dover  giungere  a'  lidi 

d'Ausonia.  Or  questa  è  la  promessa  fede  ?  ». 

E  quegli  :  «  Né  di  Febo  la  cortina 

t'ingannò,  Anchisiade  condottiero, 

né  mi  sommerse  il  dio  ne  la  marina  : 

che  per  sorte  il  timon  schiantato  a  forza, 

ch'io  stringeva  custode  e  regolava, 

precipitando  trascinai  con  me. 

Per  le  tempeste  giuro  che  non  ebbi 

di  me  timor,  ma  che  la  nave  tua, 

spogha  de  l'armi  sue,  scossa  del  duce, 

venisse  meno  in  quel  gonfiar  de  l'onde.  — 

Tre  tempestose  notti  per  l'immenso 

mar  mi  spinse  tra'  flutti  un  fiero  vento  : 


LIBRO    SESTO  189 

solo  al  quarto  mattin  vidi  lontano, 

su  la  cresta  di  un'onda  alto,  Y  Italia. 

Io  mi  traea  nuotando  verso  lei, 

e  già  terra  toccavo,  se  una  gente 

crudel  me  grave  con  le  vesti  pregne, 

e  che  i  ronchi  ghermia  con  mani  adunche, 

non  assaliva  armata,  in  me  pensando, 

stolta!  una  preda.  Ora  mi  tiene  il  flutto 

e  i  venti  mi  percotono  sul  Udo. 

Dunque  pe  1  ciel  ti  prego  e  l'aure  azzurre, 

per  il  tuo  genitor,  per  le  speranze 

del  tuo  fiorente  Giulo,  a  questo  danno 

strappami,  o  invitto:  o  coprimi  di  terra, 

che  il  puoi,  ed  il  velin  porto  ritrova; 

ovvero,  se  via  v'  è,  se  te  ne  mostra 

la  diva  madre  (senza  numi,  credo, 

già  non  prendi  a  varcar  tal  fiume  e  Stige), 

porgi  la  destra  al  misero  e  mi  porta 

oltre  l'acqua  con  te,  sì  che  in  tranquilla 

sede  almeno  da  morto  io  mi  riposi  ». 

Avea  detto  così,  così  riprese 

la  profetessa  :  «  Donde,  o  Palinuro, 

cotesta  in  te  sì  folle  brama?  l'acque 

stigie  vedrai  tu  non  sepolto  e  il  fiume 

severo  de  l' Eumenidi  e  a  la  riva 

senza  cenno  verrai?  Non  isperare 

che  i  fati  degli  Dei  pieghino  a  prego. 

Ma  odi  e  nota,  per  conforto  al  danno  : 

mossi  i  vicini  da  celesti  segni 

per  le  città  tutto  a  l'intorno,  Tossa 

tue  placheranno,  le  porranno  in  tomba, 


IQO  ENEIDE 

a  la  tomba  faranno  i  riti,  e  il  luogo 
eterno  avrà  di  Palinuro  il  nome  ». 
A  questi  detti  si  temprò  l'angoscia 
e  il  duolo  un  tratto  usci  dal  mesto  cuore  : 
di  quella  terra  col  suo  nome  gode. 

Seguono  dunque  l'intrapresa  via 
accostandosi  a  l'acqua,  onde  il  nocchiero 
infernal  non  appena  li  ebbe  scorti 
movere  verso  il  greto  per  la  muta 
selva  il  piede,  si  volge  ad  assalirli 
ed  a  rimproverar  cosi  :  «  Chiunque 
sia  tu  che  armato  scendi  al  nostro  fiume, 
dimmi  di  costì,  dimmi  a  che  ne  vieni, 
e  t'arresta.  De  l'ombre  il  luogo  è  questo, 
del  sonno  e  de  la  notte  soporosa: 
non  può  vivi  portar  la  stigia  barca. 
Né  davver  mi  allegrai  di  avere  accolto 
Alcide  al  passo,  e  non  Teseo  e  Pirìtoo, 
benché  figli  di  numi  e  forti  eroi:     y^ 
gettò  quegU  il  guinzaglio  al  guardiano 
tartareo,,  il  trasse  tremante  dal  soglio 
stesso  del  re;  rapir  tentaron  questi 
dal  talamo  di  Dite  la  regina  ». 
Breve  rispose  a  ciò  l'anf risia  vate: 
«  Non  tali  insidie  qui,  lascia  gli  sdegni, 
né  fanno  forza  l'armi.  Il  gran  portiere 
latri  eterno  da  l'antro  ed  atterrisca 
l'ombre  esangui;  Proserpina  le  soglie 
inviolata  de  lo  zio  possegga. 
Enea  troiano,  il  valoroso  e  pio, 


LIBRO    SESTO  IQI 

scende  a  veder  tra  l'ombre  ultime  il  padre. 

Se  di  simil  pietà  poco  è  la  vista, 

e  tu  conosci  questo  ramo  !»  E  il  trae 

da  la  veste.  Quel  cuor  gonfio  da  l'ira 

si  posa  allor;  non  più  parole:  ei  guata 

il  sacro  dono  del  fatai  virgulto, 

qual  gli  apparia  dopo  gran  tempo,  e  volge 

verso  la  riva  la  sua  bruna  prora. 

Poi  l'altre  anime  caccia  che  sedeano 

pe'  lunghi  banchi,  libera  la  tolda, 

e  ne  la  chìglia  il  grande  Enea  riceve: 

cigolò  sotto  il  peso  la  contesta 

carena  e  molto  bevve  del  padule 

per  gli  spiragU  :  al  fin  di  là  dal  fiume 

sicuri  espone  la  veggente  e  il  prode 

su  lo  squallido  fango  e  l'ulva  bigia. 

Cerbero  immane  questi  regni  introna 
col  trifauce  latrato,  in  un  covile 
sdraiandosi  di  faccia.  Or  lui  vedendo 
tutto  arruffar  già  di  serpenti  il  collo, 
getta  la  vate  im'offa  soporosa 
per  miele  e  lavorate  farine.  Esso 
tre  gole  aprendo  con  rabbiosa  fame 
l'acceffa  in  aria  e  l'ampio  dorso  allenta 
distendendosi  enorme  in  tutto  l'antro. 
Sepolto  il  guardiano,  occupa  Enea 
le  soglie  e  passa  rapido  la  sponda 
di  quell'acqua  che  più  non  si  rivarca. 

Quivi  si  udiron  voci  e  un  gran  vagire__ 
e  degl'infanti  l'anime  piangenti 


iqZ  ENEIDE 

SU  l'entrar  primo,  cui  nuovi  a  la  dolce 
vita  strappò  da  la  mammella  il  nero 
giorno  ed  in  morte  acerba  li  sommerse. 
Presso  a  loro  i  dannati  per  ingiusta 
accusa  e  spenti.  Né  già  sono  i  luoghi 
senza  sorteggio  e  giudice  assegnati: 
indagator  Minosse  l'urna  move, 
esso  la  turba  de'  tacenti  aduna 
e  vite  e  colpe  apprende.  Indi  vicine 
i  mesti  hanno  lor  sedi  che  ilhbati 
si  diedero  la  morte  e  fecer  getto 
de  l'anima  per  odio  de  la  luce. 
Come  or  vorrian  ne  l'aere  superno 
la  povertà  soffrire  ed  i  travagli! 
I  decreti  si  oppongono  e  con  l'onda 
li  lega  l'inamabile  palude 
e  nove  volte  li  ravvolge  Stige. 

Né  lontano  di  lì  s'aprono  in  ogni 

parte  i  campi  del  pianto:  han  questo  nome. 

I  riposti  sentieri  accolgono  ivi 

quei  che  struggea  miseramente  amore 

e  una  selva  di  mirti  H  protegge: 

li  accompagna  l'affanno  ancora  in  morte. 

Quivi  discerne  Fedra  e  Procri  e  mesta 

Erìfìle  che  mostra  le  ferite 

del  crudel  figlio  ed  Evadne  e  Pasifae; 

e  va  con  lor  Laodamia,  va  Cèneo, 

un  dì  garzone,  or  femmina  e  di  nuovo 

resa  per  fato  ne  la  forma  prima. 


LIBRO    SESTO  IQ3 

Fresca  de  la  ferita  in  mezzo  a  quelle 
la  fenicia  Bidone  errava  per  la 
gran  selva.  Come  prima  il  teucro  eroe 
le  fu  presso  e  per  l'ombre  la  conobbe 
oscura,  quale  alcun  vede  la  luna 
o  si  crede  vederla  al  novo  mese 
sorger  tra  nubi,  non  contenne  il  pianto 
e  con  tenero  amor  le  si  rivolse: 
«  Infelice  Bidone,  annunzio  vero 
dunque  mi  giunse  ch'eri  morta  e  corsa 
di  tua  mano  a  la  fine!  Ah  fui  cagione 
de  la  tua  morte  !  Per  le  stelle  giuro, 
per  i  Celesti,  o  se  altro  giuramento 
nel  cupo  mondo  vale,  io  di  mal  cuore, 
o  regina,  dal  tuo  Udo  partii. 
Ma  i  voleri  de'  Numi  ed  i  lor  cenni 
mi  sospinsero,  come  or  per  quest'ombre 
e  lo  squallore  de  la  notte  immensa  : 
né  credere  io  potea  col  mio  partire 
darti  tanto  dolore.  iVrresta  il  passo, 
e  non  sottrarti  al  guardo  mio.  Chi  fuggi? 
l'ultima  volta  che  ti  parlo  è  questa  «. 
Con  taU  detti  Enea  l'ardente  cuore 
leniva  e  bieco  riguardante,  e  al  pianto 
l'inteneriva:  quella  a  terra  fìssi 
gli  occhi  teneva  in  altra  parte  volta, 
né  più  si  muta  a  quel  parlar  nel  viso 
che  se  aspra  selce  o  sia  marpesia  punta. 
Alfìn  via  si  spiccò,  sparve  nemica 
tra  l'ombrifera  selva  ove  lo  sposo 
primo  a  l'affetto  suo  Sicheo  risponde 


Alsim  -  Eneide  j- 


194  ENEIDE 

e  la  eguaglia  d'amor. 

Ma  pur  pensoso 
del  duro  caso  Enea  lungi  la  segue 
col  pianto  e  la  commisera  fuggente. 

Indi  segue  il  fatai  viaggio.  E  ornai 

ne'  campi  erano  estremi  ove  appartati 

gl'incliti  in  guerra  si  radunano.  Ivi 

Tideo  gli  viene  incontro  e  il  prode  in  armi 

Partenopeo,  la  pallida  sembianza 

di  Adrasto  insiem,  ivi  i  compianti  al  mondo 

Dardanidi  caduti  ne  la  guerra. 

Sospirò  nel  guardarli  in  lunga  schiera 

tutti,  Glauco  e  Tersiloco  e  Medonte, 

i  tre  figli  d'Antenore  ed  il  sacro  a 

Cerere  Polifete,  e  Ideo  che  ancora 

il  carro,  ancor  l'armi  tenea.  Frequenti 

gU  son  l'anime  intorno  a  destra  e  a  manca, 

né  averlo  \dsto  è  assai,  piace  indugiare 

e  andar  di  pari  e  chiedere  a  che  venga. 

Ma  i  principi  de'  Danai  e  le  falangi 

agamennonie  come  \ider  prima 

l'eroe  per  l'ombra  e  l'armi  luminose, 

a  smarrirsi  di  subita  paura, 

chi  volto  in  fuga  come  un  dì  a  le  navi 

e  chi  levando  una  voce  sottile, 

ma  il  grido  manca  tra  le  labbra  schiuse. 

E  vide  là  con  la  persona  a  brani 
Deifobo  di  Priamo,  crudelmente 
mutilo  il  viso,  il  viso  e  le  due  mani. 


LIBRO    SESTO  I95 

devastate  le  tempie  senza  orecchi 

e  tronco  il  naso  con  deforme  piaga. 

Sì  che  a  stento  il  conobbe  vergognoso 

che  tentava  celar  suo  reo  supplizio, 

e  gli  si  volse  con  la  nota  voce  : 

(f  Valoroso  Deifobo,  progenie 

del  gran  sangue  di  Teucro,  e  chi  mai  volle, 

chi  potè  far  di  te  simile  strazio? 

La  fama  mi  recò  che  ne  l'estrema 

notte  tu  stanco  de'  Pelasghi  uccisi 

cadevi  in  mucchio  di  confusa  strage. 

Su  la  proda  retea  tumulo  vuoto 

allor  ti  eressi  ed  a  gran  voce  i  Mani 

chiamai  tre  volte  ;  là  son  Tarmi  e  il  nome  : 

ma  te,  amico,  non  potei  vedere 

né  in  terren  patrio  sul  partir  comporre  ». 

Il  Priàmide  a  ciò  :  «  Tu  non  lasciasti, 

amico,  nulla,  tu  rendesti  tutto 

a  Deifobo  e  a  l'om.bra  del  suo  frale. 

Ma  i  fati  miei  ed  il  delitto  atroce 

de  la  Spartana  m'han  ridotto  a  questo 

orrore,  questi  segni  ella  m'im_presse. 

Come  l'ultima  notte  in  falsa  gioia 

passamm_o,  sai;  ben  ricordarlo  è  forza. 

Quando  il  fatai  cavallo  col  suo  salto 

fu  di  Pergamo  in  vetta  e  pregno  espose 

gii  armati  fanti,  ella  fingendo  un  coro 

chiamò  le  frigie  a  l'evoé  de  l'orgia; 

teneva  essa  nel  mezzo  una  gran  fiamma 

e  i  Danài  da  l'arce  alta  chiamava. 

Da  le  fatiche  me  vinto  e  dal  sonno 


196  ENEIDE 

ebbe  T  infausto  talamo  e  m'avvolse 
abbandonato  una  dolce  quiete, 
a  la  placida  morte  somigliante. 
L'egregia  moglie  tutte  l'armi  intanto 
leva  di  casa,  e  avea  dal  capezzale 
sottratta  la  fedel  mia  spada;  e  chiama 
Menelao  spalancandogli  l'entrare, 
sicura  già  che  ciò  sarebbe  pegno 
prezioso  a  l'amante  e  avrebbe  forse 
spento  il  ricordo  de  l'oltraggio  antico. 
A  che  m' indugio  ?  Invadono  la  stanza  ; 
gli  vien  compagno,  consigher  d'infamia, 
l'Eolide.  Innovate,  o  Dei,  lo  scempio 
per  i  Grai!  se  con  pia  bocca  il  richiedo, 
^vla  quali  casi  te,  dimmi  a  vicenda, 
qui  vivo  abbiano  addotto.  Per  errori 
vieni  del  mare  o  per  divin  consiglio? 
e  in  quale  angustia  sei,  da  visitare 
le  tristi  senza  sol  pallide  case  ?  «. 

Tra  gh  alterni  parlari  avea  l'Aurora 
de  l'etereo  sentier  varcato  il  mezzo 
con  le  rosee  quadrighe,  e  forse  tutta 
spendevano  cosi  l'ora  concessa, 
ma  la  duce  ammonì,  ma  la  Sibilla 
breve  parlò  :  «  La  notte  appressa,  Enea, 
e  noi  passiamo  lagrimando  il  tempo. 
Il  luogo  è  qui  che  in  due  la  via  si  parte 
la  destra  che  del  gran  Dite  s'affretta 
a  la  città,  per  questa  è  il  nostro  elisio 
viaggio  ;  la  sinistra  de'  malvagi 


LIBRO    SESTO  IQ7 

le  pene  adempie  e  al  reo  Tartaro  adduce  ». 

Deifobo  a  Y  incontro  :  «  Sii  pietosa, 

o  gran  sacerdotessa;  andrò,  la  schiera 

rifarò  piena  e  tornerò  nel  buio. 

Va',  gloria  nostra,  va',  con  miglior  fato  ». 

Tanto  disse,  e  tra  '1  dir  si  volse  indietro. 


TEnea  riguarda  e  d'improvviso  vede 
/  gran  •  città  sotto  una  rupe  a  sinistra, 
I  cerchiata  di  tre  mura,  e  intomo  fiume 
^fiammeggiante  il  tartareo  Flegetonte 
e  travolgente  romorosi  massi. 
In  faccia  è  una  gian  porta  e  tutto  acciaio 
colonne  cui  schiantar  non  forza  d'uomo 
né  potrebbe  de'  Superi  la  guerra. 
Ferrea  una  torre  sorge  in  aito,  e  assisa  ^^ 
Tisifone  con  manto  sanguinoso 
al  vestibolo  veglia  e  notte  e  giorno. 
Indi  sospiri  e  suon  d'aspre  percosse 
e  strider  ferro  e  strascicar  catene 
s'udia.  Ristette  sbigottito  Enea 
in  orecchi  a  lo  strepito.  «  Che  colpe 
sono?  o  vergine,  parla:  e  di  che  pene 
soffrono  ?  qual  tumulto  è  che  si  leva  ?  ». 

E  cosi  prese  a  dir  la  profetessa: 

«  Duce  incHto  de'  Teucri,  a  nessun  pio 

dato  è  calcar  la  scellerata  soglia: 

pur,  quando  mi  prepose  a'  boschi  avemi, 

Ecate  stessa  mi  mostrò  le  pene 

divine  e  le  mi  fé'  percorrer  tutte. 


198  ENEIDE 

Radamanto  di  Gnosso  ha  questi  regni 

durissimi:  ei  condanna,  ode  le  colpe, 

e  sforza  a  quelle  rivelar  che,  lieto 

altri  d'un  vano  eludere,  produsse 

a  l'ora  de  la  morte  inespiate. 

Subitamente  armata  di  flagello 

balza  a  ghermire  i  rei  la  punitrice 

Tisifone  e,  protesi  con  la  manca 

i  torvi  serpi,  chiama  le  sorelle. 

Allor  su  l'aspro  cardine  stridenti 

s'apron  le  porte  m.aledette.  Vedi 

qual  guardia  è  su  l'entrare  e  in  quale  aspetto.  / 

Dentro  dimora  più  crudele,  enorme 

con  le  cinquanta  nere  gole,  l' Idra. 

Viene  il  Tartaro  alftn  che  si  sprofonda 

tanto  due  volte,  quanto  sale  il  guardo 

fino  a  la  faccia  del  celeste  Olimpo. 

Là,  de  la  Terra  antico  parto,  a  l'imo 

son  gettati  i  Titani  fulminati  ; 

i  due  Aloidi  là  vidi  giganti 

che  alzar  le  mani  a  lacerare  il  cielo, 

a  cacciar  Giove  da'  superni  regni. 

Anche  Salmoneo  vidi  che  l'acerba 

pena  pagò,  mentre  di  Giove  i  fuochi 

iva  imitando  e  i  fremiti  d'Olimpo. 

Ei  con  quattro  cavalli  ed  isquassando 

una  fiaccola  via  pe  '1  suol  de'  Grai 

e  la  città  ch'è  a  l'Elide  nel  mezzo 

trionfava  e  adorato  esser  voleva: 

stolto,  che  i  nembi  contraffare  e  il  fulmine 

osò  non  imitabile  con  bronzo 


LIBRO    SESTO  IQQ 

e  lo  sfrenato  scalpito  sonante. 

Ma  il  Padre  onnipotente  di  tra  i  folti 

nuvoli  il  dardo  gli  avventò,  non  faci 

già  né  baglior  di  fumiganti  tede, 

e  lo  travolse  vorticoso  a  l'imo. 

Tizio  del  pari  si  vedeva,  figlio 

de  la  Terra  comun  madre,  disteso 

per  nove  interi  iugeri  le  membra: 

grande  avvoltoio  con  l'adunco  rostro 

morsecchiandogli  il  fegato  immortale 

e  le  viscere  fertili  a  le  pene 

adocchia  il  pasto  e  gli  abita  entro  il  petto, 

né  a  le  fibre  rinate  è  mai  riposo,  y^ 

A  che  parlar  de' Làpiti,  d' Issìone 

e  di  Pirìtoo,  sopra  i  quali  penzola 

un  macigno  caduco  e  par  che  cada  ? 

Risplendono  aurei  pie  di  geniali 

alti  letti  e  imbandite  avanti  agli  occhi 

vivande  con  regal  magnificenza,      — — - 

ma  la  Furia  maggior  s'acquatta  presso 

e  le  mani  accostar  vieta  a  le  mense 

e  con  la  face  levasi  e  con  l'urlo. 

Quivi  color  che  in  vita  ebbero  in  odio 

i  lor  fratelli  o  percossero  il  padre 

o  frode  ordirono  al  cliente  o  soli 

il  tesoro  abbracciarono  adunato 

senza  a'  suoi  farne  parte  (e  più  son  questi) 

o  furon  morti  in  adulterio  od  armi 

seguitarono  ingiuste  e  de'  signori 

la  fede  violarono,  prigioni 

aspettano  la  pena.  Oh  !  non  cercare 


200  ENEIDE 

saper  qual  pena,  o  qual  norma  e  fortuna 
sommerse  in  pianto  le  misere  genti. 
Voltano  altri  un  gran  sasso,  o  stretti  a'  raggi 
pendon  di  ruote:  siede  l'infelice 
Teseo  e  in  eterno  sederà;  per  l'ombre 
Flegia  sventuratissimo  a  gran  voce 
grida  a  tutti:  —  Imparate  da  l'esempio 
seguir  giustizia  e  non  spregiar  gli  Dei  — . 
Vendè  per  oro  altri  la  patria  e  fiero 
signor  le  impose,  fé'  leggi  e  disfece 
a  prezzo;  il  letto  de  la  figlia  assalse 
altri  e  vietate  nozze;  ardiron  tutti 
nefanda  colpa  e  fu  Tardi r  compiuto. 
Se  cento  lingue  in  cento  bocche  avessi 
e  ferrea  voce,  non  potrei  le  forme 
tutte  abbracciare  de'  misfatti,  tutte 
ad  una  ad  una  nominar  le  pene  ». 

Poi  che  di  Febo  la  ministra  annosa 
ebbe  detto  così,  «  Su  via,  soggiunge, 
il  cam.mino  e  il  proposito  compisci. 
Affrettiam.  Fatte  a'  fuochi  de'  Ciclopi 
veggo  le  mura  e  l'arco  de  la  porta 
ov'è  prescritto  a  noi  di  porre  il  donow. 
Aveva  detto  e  pe'  sentieri  opachi 
superano  di  pari  l'intervallo 
fino  a  la  soglia.  Vi  s'accosta  Enea, 
ad  un'acqua  corrente  si  deterge 
e  davanti  a  la  porta  il  ramo  affigge. 
Ciò  fatto  alfin,  resa  a  la  Dea  l'offerta, 
giunsero  a'  luoghi  lieti  ed  agli  ameni 


LIBRO    SESTO  201 

verzieri  de  le  selve  fortunate 

e  a  le  sedi  felici.  Un  ciel  più  largo 

qui  veste  i  campi  di  purpurea  luce; 

mirano  un  loro  sole  e  loro  stelle. 

Ne  l'erbose  palestre  esercitarsi  /^ 

parte  gode  e  lottare  in  fulva  arena, 

parte  co'  pie  batte  le  danze  e  canta. 

Anch'esso  il  Tracio  sacerdote  in  lunga 

veste  a  la  melodia  tempera  il  vario 

suon  de  le  sette  voci,  or  con  le  dita 

toccandole  or  col  pettine  d'avorio. 

Quivi  è  di  Teucro  la  progenie  antica, 

splendidi  figli,  generosi  eroi, 

a  miglior  tempo  nati,  e  Ilo  e  Assàraco 

e  Bardano  progenitor  di  Troia. 

L'arme  in  disparte  e  i  vuoti  carri  mira; 

l'arme  son  fitte  a  terra,  e  sciolti  e  vaghi 

pascolano  i  cavalli  per  il  prato. 

L'amor  ch'ebbero  vivi  a'  carri  e  a  l'armi, 

l'uso  di  pascer  fulgidi  cavalh, 

li  accompagna  cosi  dopo  il  sepolcro. 

Ecco  a  destra  e  a  sinistra  ne  discerne 
a  banchettar  tra  '1  verde  altri  o  cantare 
in  coro  giocondissimo  peana 
tra  l'odorosa  selva  degli  allori, 
onde  di  sopra  immenso  in  mezzo  a  selve 
il  fiume  de  1'  Eridano  si  volve. 
Ivi  la  schiera  che  patì  ferite 
pugnando  per  la  patria,  e  i  sacerdoti 
che  vissero  illibati,  e  i  vati  buoni 


202  ENEIDE 

che  parole  dicean  degne  di  Febo, 

o  quelli  che  abbellirono  la  vita 

trovando  l'arti  e  quei  che  per  ben  fare 

lasciarono  di  sé  memori  gli  altri, 

tutti  una  nivea  benda  hanno  a  la  fronte. 

A  loro  intorno  sparsi  la  Sibilla 

così  si  volse  ed  a  Museo  su  tutti 

(che  intorno  a  lui  è  un  popolo  e  il  sogguarda 

emergente  con  gli  alti  omeri)  :  «  Dite, 

fehci  anime,  dinne,  ottimo  vate: 

Anchise  ov'è?  Qual  region  l'accoglie? 

Per  lui  venimmo  e  traversammo  i  fiumi 

paurosi  de  Y  Èrebo  ».  L'eroe 

breve  così  le  rese  la  risposta  : 

«  Nessuno  ha  luogo  certo  ;  abitiam  l'ombre 

de'  boschi  e  per  i  grembi  de  le  rive 

andiamo  e  i  prati  freschi  di  ruscelli. 

Ma  voi,  se  così  porta  in  cuor  l'affetto, 

questo  giogo  varcate,  e  dopo  questo 

vi  porrò  per  agevole  sentiero  ». 

Disse  e  davanti  mosse  il  piede,  e  i  campi 

luminosi  da  l'alto  addita  :  quindi 

abbandonano  i  vertici  del  colle. 

Ma  il  padre  Anchise  in  seno  a  la  convalle 
verde  le  raccolte  anime  che  al  sole 
dovean  salire  con  attenta  cura 
mirava  e  tutte  andava  rassegnando 
de'  suoi  le  schiere  ed  i  nipoti  cari, 
lor  fati  e  lor  fortune,  indoh  e  imprese. 


LIBRO    SESTO  203 

Com'egli  vide  per  i  prati  Enea 
venirgl' incontro,  coralmente  stese 
le  due  palme  e  gli  corser  per  le  guance 
le  lagrime  e  dal  labbro  le  parole  : 
«  Venisti  aliìn,  e  la  pietà  che  il  padre 
da  te  si  attese  vinse  il  cammin  duro  : 
m'è  concesso  veder,  figlio,  il  tuo  viso 
e  rinnovare  i  soliti  colloqui. 
Questo  io  credeva,  questo  ebbi  per  certo 
contando  l'ore,  né  il  mio  cuor  m'illuse. 
Per  quante  io  terre  te,  per  quanti  mari 
corso  ricevo  !  tra  perigli  quanti 
sbattuto,  o  figlio!  come  fui  sgomento 
che  ti  nocesse  il  regno  de  la  Libia!  •». 
E  quegli  :  «  O  padre,  l'ombra  tua,  la  tua 
ombra  dolente  col  mostrarsi  spesso 
mi  sforzò  di  venire  a  queste  sedi. 
.Nel  Tirreno  è  su  l'ancore  la  flotta. 
Porgi  deh  padre,  porgimi  la  mano 
e  non  sottrarti  da  l'amplesso  mio  ». 
Così  diceva  e  l'inondava  il  pianto. 
Tre  volte  allor  tentò  de  le  sue  braccia   , 
cingergli  il  collo,  tre  l'ombra  invan  cinta 
sfuggi  le  mani,  pari  a  lievi  venti 
e  similissima  a  un  alato  sogno. 

Intanto  Enea  ne  la  riposta  valle 
vede  in  disparte  un  bosco  e  susurranti 
selvatici  virgulti  e  il  leteo  fiume 
nuotare  avanti  a  le  placide  case  : 
e  come  quando  a  la  serena  estate 


204  ENEIDE 

ne'  prati  in  varii  fior  posano  Tapi 

od  a  candidi  gigli  errano  intorno, 

sembra  tutta  un  ronzio  quella  campagna. 

A  la  subita  vista  trasalisce 

e  le  cose  ricerca  inconscio  Enea, 

quale  fiume  sia  dunque  e  quali  genti 

colmino  si  molteplici  le  rive. 

Il  padre  Anchise  allor  :  «  L'anime  a  cui 

novelli  corpi  spettano  per  fato 

a  la  corrente  bevono  di  Lete 

tranquille  linfe  e  lunghe  oblivioni. 

Ben  queste  a  te  narrar  e  offrirti  al  guardo, 

questa  de'  miei  progenie  annoverarti 

da  gran  tempo  desio,  sì  che  tu  meglio 

goda  con  me  de  la  raggiunta  Italia  ». 

«  O  padre,  e  si  dee  credere  che  alcuna 

anima  fuor  di  qui  risalga  a  l'aure 

e  torni  a'  lenti  corpi  ?  oh  le  infelici 

qual  provano  del  dì  si  fiera  brama?  ». 

«  Io  tei  dirò,  né  ti  terrò  sospeso, 

o  fi„glio  mio  ». 

Così  riprende  Anchise 
e  rivela  per  ordine  le  cose. 

«  Primieramente  il  ciel  le  terre  i  campi 
fluidi  e  il  lucente  globo  de  la  luna 
e  il  titanio  astro  entro  uno  spirto  nutre 
e  una  mente  pe'  membri  sparsa  avviva 
tutta  la  mole  e  al  gran  corpo  si  mesce. 
La  stirpe  indi  è  degli  uomini  e  de'  bruti, 
le  vite  degli  alati  e  quanti  mostri 


LIBRO    SESTO  205 

sotto  il  marmoreo  piano  il  mar  produce. 
Vivida  una  scintilla,  una  celeste 
origine  que'  germi  hanno,  per  quanto 
nocivo  non  li  grava  il  corpo  e  ottunde 
terreno  frale  e  moriture  membra. 
Di  qui  tema  e  desio,  dolore  e  gioia 
in  lor,  né  sanno  più  scernere  il  cielo 
chiusi  ne  l'ombra  di  carcere  cieco. 
E  allora  pur  che  con  l'estremo  raggio 
la  vita  h  lasciò,  non  tutto  il  male 
per  i  miseri  e  non  dileguan  tutti 
i  corporei  vizi,  che  profonda- 
mente in  copia  ed  a  lungo  concresciuti 
forza  è  che  abbian  mirabile  rigoglio. 
Dunque  sono  da  pene  esercitati 
e  soddisfanno  de'  peccati  antichi. 
Sospese  a  la  balia  de'  lie\à  venti 
s'espongono  talune  anime,  ad  altre 
sotto  ad  un  vasto  vortice  l'impressa 
colpa  si  lava  o  la  si  brucia  al  fuoco  : 
soffriam  ciascuno  l'ombra  sua. 

Siam,  quindi 
avviati  per  l'ampio  Elisio,  e  pochi 
ne'  Heti  campi  dimoriam_,  se  prima 
un  lungo  dì,  pieno  del  tem^po  il  giro, 
non  tolse  la  contratta  macchia  e  puro 
lascia  il  senso  celeste  e  la  favilla 
di  quel  semplice  soffio.  Tutte  queste, 
poi  che  volser  di  mille  anni  la  ruota, 
presso  al  fiume  di  Lete  evoca  Iddio, 
così  che,  fatte  imimemori,  di  nuovo 


206  ENEIDE 

escan  del  cielo  a  riveder  la  volta 
e  rientrar  s'invogKno  ne'  corpi  ^>. 

Poi  ch'ebbe  detto,  iVnchise  il  suo  figliuolo 

e  la  Sibilla  insiem  conduce  in  mezzo 

de  l'adunata  risonante  turba, 

e  sale  un  balzo,  onde  potesse  tutte 

vedersi  avanti  quelle  folte  schiere 

e  de'  vegnenti  ravvisare  i  volti. 

«  Su  via,  qual  gloria  a  la  dardania  stirpe 

s'aspetti  in  avyenir,  quali  nepoti 

da  l'italico  ceppo,  anime  chiare 

che  fioriranno  un  dì  nel  nostro  nome, 

dirò,  te  de'  tuoi  fati  ammaestrando. 

Quegli,  il  vedi,  che  giovine  si  appoggia 

a  un'asta  pura,  tien  per  sorte  il  luogo 

più  prossim_o  a  la  luce  e  primo  a  l'aure 

misto  uscirà  d'italo  sangue,  Silvio, 

albano  nome  e  tua  tardiva  prole, 

che  in  selve  a  te  longevo  la  consorte 

Lavinia  produrrà,  re  di  re  padre, 

onde  la  nostra  schiatta  su  la  Lunga 

Alba  dominerà.  Quel  suo  vicino 

è  Proca  fregio  de  la  teucra  gente, 

e  Capi  e  Numitor  e  Silvio  Enea 

che  nel  nome  ed  insiem  pietoso  e  prode 

rinnovellerà  te,  come  riceva 

lo  scettro  d'Alba.  Quali  giovinezze! 

e  quanto,  guarda,  raggiano  di  forza  ! 

ombrati  di  civil  quercia  le  tempie. 


LIBRO    SESTO  207 

Questi  Xomento  e  Gabi  e  di  Fidene 
la  città,  questi  Tarci  collatine 
ti  porranno  su'  vertici  e  Pomerio 
ed  il  Castello  d' Inuo  e  Boia  e  Cora, 
allora  nomi,  or  terre  senza  nome. 
Indi  si  aggiungerà  compagno  a  Favo 
Romolo  di  Mavorte,  e  a  lui  del  sangue 
di  Assaraco  Ilia  sarà  madre.  Vedi 
come  sul  capo  eretti  ha  due  cimieri 
e  il  padre  già  di  deità  lo  impronta  ? 
Ecco,  figliuol,  che  per  gli  auspici  suoi 
adeguerà  quella  famosa  Roma 
l'impero  al  mondo  e  l'animo  a  l'Olimpo, 
unica  sette  colli  in  sé  cerchiando, 
fiera  di  forti  genitrice  :  quale 
innanzi  vien  la  berecintia  madre 
per  le  frigie  città  turrita  in  cocchio, 
lieta  del  parto  degli  Dei,  ben  cento 
abbracciando  nepoti  e  tuttiquanti 
dominatori  etemi  de  le  sfere. 

Or  qua  piega  gli  sguardi,  a  questa  gente 

de'  tuoi  Romani.  È  qui  Cesare  e  tutta 

la  prosapia  di  Giulo  destinata 

sotto  l'ampia  ad  uscir  volta  del  cielo. 

£  questi,  è  l'uorn  che  a  te  pronietterg_p_di 

sì  spesso,  Augusto  Cesare,  germoglio 

del  Divo,  che  l'età  de  l'oro  al  Lazio 

rifarà  per  le  terre_  un  dì  regnate 

da  Saturno,  e  dilaterà  l'impero 

sui  Garamanti  e  gì'  Indi  :  oltre  le  stelle 


208  ENEIDE 

giace  la  terra,  oltre  le  vie  de  Tanno 

e  del  sol,  ove  regge  aerio  Atlante 

su  gli  omeri  il  girar  degli  astri  ardenti. 

Per  l'avvento  di  lui  fin  d'ora  il  caspio 

regno  trema  e  il  meotico  paese 

di  responsi  divini,  e  perturbate 

del  settemplice  Nilo  erran  le  bocche. 

Né  Alcide  in  vero  tanto  mondo  corse,  ^ 

benché  ferì  la  cerva  pie -di  bronzo 

e  tranquillò  le  selve  d'Erimanto 

e  fé'  tutta  tremar  Lerna  con  l'arco, 

né  il  trionfante  Libero  che  volge 

le  redini  di  pampino  guidando 

da  Nisa  giù  le  apparighate  tigri, 

E  dubitiamo  ancor  di  propagare 

il  valor  con  le  imprese,  o  v'  è  paura 

che  ci  vieti  posare  in  suol  d'Ausonia? 

Ma  là  presso  chi  è,  cinto  de'  rami 
de  l'olivo,  che  porta  i  sacri  arredi? 
Conosco  il  crine  ed  il  canuto  mento 
del  re  romano  che  la  città  prima 
con  leggi  fonderà,  mandato  al  sogho 
da  la  piccola  sua  povera  Curi. 
Gli  sottentrerà  Tulio,  e  la  quiete 
scoterà  de  la  patria,  gli  allentati 
cuori  a  l'armi  movendo  e  le  falangi 
già  da'  trionfi  disavvezze.  Il  segue 
Anco  più  baldanzoso  e  che  già  troppo 
mostra  goder  de  l'aure  popolari. 
I  re  Tarquini  e  l'anima  superba 


LIBRO    SESTO  2O9 

vuoi  pur  vedere  e  del  vendicatore 

Bruto  i  recuperati  fasci  ?  Ei  primo 

di  console  V  impero  e  le  severe 

scuri  riceverà;  padre  i  figliuoli, 

a  nuova  guerra  intesi,  per  la  bella 

libertà  chiamerà  sotto  la  pena. 

Infelice  !  per  quanto  i  discendenti 

l'ammireranno  :  vincerà  l'amore 

di  patria  e  l'infinito  ardor  di  gloria. 

I  Deci  e  i  Drusi  ancor  discosto  guarda 

e  Torquato  severo  per  la  scure 

e  Camillo  tornante  co'  vessilK.,^^^ 

Quelle  due  poi  che  in  eguali  arme  vedi 

splendere  ora  concordi  anime  a  l'ombra, 

oh  qual  tra  loro  dolorosa  guerra, 

sorte  che  siano  al  lume  de  la  vita, 

quante  susciteranno  e  schiere  e  stragi/^ 

da'  varchi  alpini  il  suocero  e  da  l'arci 

di  Moneco  scendendo,  e  fatto  forte 

il  genero  d'opposti  orientaU! 

No,  figli,  il  cuor  non  avvezzate  a  guerre 

sì  fiere,  e  non  volgete  il  bel  vigore 

contro  il  sen  de  la  patria.  E  tu  deh!  primo 

cessa,  che  da  l'Olimpo  origin  prendi, 

tu  getta  l'armi  sangue  mio. 

Quei  spingerà  su  l'alto  Campidoglio 
vincitor  di  Corinto  la  quadriga, 
insigne  per  gli  spenti  Achivi.  Quegli 
Argo  e  Micene  agamennonia  ed  esso 
abbatterà  l' Eacide  disceso 


210  ENEIDE 

dal  fortissimo  Achille,  vendicando 
gli  avi  di  Troia  e  il  tempio  di  Minerva. 
E  in  silenzio  chi  te,  grande  Catone, 
o  lascierebbe  te,  Cosso  ?  o  di  Gracco 
la  prole,  o  i  due,  due  fulmini  di  guerra, 
Scipìadi,  strage  de  la  Libia,  o  il  forte 
in  povertà  Fabrizio,  o  te,  Serrano, 
che  semini  il  tuo  solco?  Ove  me  stanco, 
Fabii,  traete?  Il  Massimo  tu  sei, 
solo  che  salvi  a  noi  tardando  Roma.  / 
Altri  più  molle  getteranno  il  bronzo 
spirante,  il  credo  io  ben,  vivi  trarranno 
dal  marmo  i  volti;  a  perorar  le  cause 
migliori,  a  disegnar  con  verga  il  corso 
degli  astri,  a  dire  il  sorger  de  le  stelle: 
tu  con  l'impero  i  popoli  governa. 
Romano,  queste  saran  l'arti  tue, 
ed  a  la  pace  norma  dà,  clemenza 
verso  i  sommessi  e  debellar  gli  alteri  ». 

Così  diceva  Anchise,  e  agli  ammiranti 
soggiunge  :  «  Vedi  come  vien  Marcello 
superbo  de  le  spoglie  opime  e  a  tutti 
vincitore  sovrasta.  In  gran  fortuna 
ei  terrà  salde  le  romane  cose, 
prostrerà  cavalcando  i  Peni  e  il  Gallo 
ribelle,  ed  a  Quirino  padre  il  terzo 
da'  suoi  nemici  appenderà  trofeo  ». 

Allora  Enea  (che  gli  vedeva  insieme 
un  giovin  bello  di  sembianza  e  d'armi, 


LIBRO    SESTO  211 

ma  con  la  fronte  scura  e  gli  occhi  bassi)  : 
«  Padre,  e  quegli  chi  è  che  sì  accompagna 
l'eroe  ?  suo  figlio  o  alcun  de  l'alta  gesta 
de'  nipoti  ?  Qual  premer  di  seguaci 
intorno  gh  è  !  quanta  grandezza  in  lui  ! 
Ma  triste  notte  gli  ra\'\''olge  il  capo  ». 
Il  padre  Anchise  allor  con  lagrimose 
cigha  «  Oh,  dice,  fighuol,  non  domandare 
un  immenso  rammarico  de'  tuoi. 
I  fati  al  mondo  il  mostreranno  solo 
e  più  noi  patiranno  \t.vo.  Troppo 
forte  a  voi  parve  la  romana  stirpe, 
o  Celesti,  se  fermo  avea  tal  dono. 
Quanti  sospiri  d'uomini  quel  Campo 
spargerà  ne  la  gran  città  di  Marte  ! 
e  quale  funeral,  Tebro,  vedrai 
oltre  scorrendo  al  tumulo  recente! 
Non  giovinetto  de  l'iUaca  gente 
a  sì  alto  sperar  leverà  gh  avi 
latini,  né  già  mai  d'altro  germogUo 
avrà  tal  vanto  la  romulea  terra. 
Oh  sua  pietà  !  sua  fede  antica  !  e  invitta 
destra  a  la  guerra!  Impunemente  a  lui 
armato  non  sarebbe  occorso  alcuno, 
sia  che  pedone  entrasse  in  campo,  o  sia 
che  a  spumoso  destrier  pungesse  i  fianchi. 
Ahi!  misero  fanciullo,  ove  tu  possa 
sforzare  i  fati,  tu  sarai  Marcello. 
Lasciatemi  che  gigli  a  piene  mani, 
purpurei  fiori,  sparga,  e  ahnen  di  questo 
nembo  l'anima  avvolga  del  nipote, 


212 


ENEIDE 


con  inane  tributo  ».  Così  vanno 
per  quella .  intorno  region  ne'  vasti 
campi  de  l'aria  e  passano  ogni  cosa. 

Poi  che  Anchise  per  tutto  addusse  il  figlio 

e  l'animo  gli  accese  de  l'amore 

de  la  sorgente  fama,  indi  le  guerre 

che  avrà  gli  narra,  il  popolo  laurente 

e  la  città  gli  mostra  di  Latino, 

e  come  ogni  cimento  o  sfugga  o  sfidi. 

Sono  del  Sonno  due  le  porte,  l'una 
è,  dicono,  di  corno,  onde  si  dona 
agevole  a  le  vere  ombre  l'uscita, 
lucida  l'altra  e  candida  di  avorio, 
ma  falsi  al  ciel  ne  invia  sogni  l'Averno. 
Poi  ch'ebbe  allor  tali  discorsi  Anchise 
al  figho  volti  e  a  la  Sibilla,  e  fuori 
messiU  per  l'eburnea  porta,  quegli 
a  le  navi  s'affretta  e  a'  suoi  si  rende. 
Poi  costeggiando  al  porto  di  Gaeta 
dirige  il  solco:  l'ancora  da  prora 
si  getta  in  mar;  stanno  le  poppe  a  riva. 


LIBRO  SETTIMO 


Tu  pure  a'  lidi  nostri  eterna  fama, 
o  nutrice  d'Enea,  desti  morendo, 
Gaeta:  Tonor  tuo  tien  queUa  spiaggia 
ancora,  e  Tossa,  se  v'è  gloria  in  questo, 
segnano  un  nome  ne  la  grande  Esperia. 

Ma  il  pio  Enea,  fatte  le  giuste  esequie 
ed  innalzato  il  tumolo,  che  l'onda 
posava,  apre  le  vele  e  lascia  il  porto. 
Spirano  l'aure  al  veleggiar  notturno, 
bianca  la  luna  lo  seconda,  e  splende 
sotto  il  tremolo  lume  la  marina. 
Radono  prima  il  litoral  circeo, 
ove  del  Sol  la  ricca  figlia  i  boschi 
inaccessi  sonar  fa  de  l'assiduo 
canto  ed  accende  a  rischiarar  la  notte 
ne  le  stanze  superbe  l'odoroso 
cedro,  mentr'ella  le  sottih  tele 
col  risonante  pettine  percorre. 
Indi  un  iroso  fremer  di  leoni 


214  ENEIDE 

ribelli  a'  ceppi  e  tra  '1  buio  ruggenti 

de  l'alta  notte,  un  furiar  ne'  chiusi 

di  setolosi  porci  e  d'orsi,  e  lungo 

di  spaventosi  lupi  un  ululare: 

cui  da  l'aspetto  d'uomini  la  dea 

Circe  crudele  co'  possenti  succhi 

in  ceffi  e  schiene  tramutò  di  belve. 

Perché  non  offendesse  i  pii  Troiani 

simil  portento  ivi  approdando,  ed  essi 

non  toccasser  la  rea  terra,  Nettuno 

le  vele  empì  d'amico  vento  e  lievi 

oltre  le  addusse  i  ribollenti  guadi. 

E  già  s'imporporava  il  mar  di  raggi 

e  da  l'alto  fulgea  bionda  l'Aurora 

su  la  biga  di  rose,  allor  che  l'aure 

posarono  ed  ogni  ahto  ad  un  tratto 

die  giù,  stentando  in  lento  marmo  i  remi. 

Ed  ecco  Enea  dal  mare  un'ampia  selva 

discerne.  Ameno  in  mezzo  a  quella  il  Tebro 

biondo  di  sabbia  co'  rapaci  gorghi 

in  mar  prorompe.  Molti  intorno  e  sopra 

ucceUi,  usi  del  fiume  al  greto  e  al  letto, 

l'aer  di  canti  e  i  rami  empiean  di  voh. 

Egh  comanda  a'  suoi  di  piegar  via 

e  a  la  terra  voltar  le  prore,  e  lieto 

entra  nel  fiume  sotto  il  verde  rezzo. 

Orsù  ch'io  narri  de  l'antico  Lazio 
i  regi,  Èrato,  i  tempi  ed  il  suo  stato, 
come  prima  l'esercito  straniero 
approdò  con  la  flotta  a'  lidi  ausonii 


LIBRO    SETTIMO  215 

e  quel  primo  richiami  ardor  di  guerra. 
Tu,  dea,  tu  ispira  il  vate.  Orride  guerre 
dirò,  dirò  le  schiere  e  gli  animati 
principi  a  strage  e  la  falange  etrusca 
e  tutta  accolta  sotto  l'armi  Esperia. 
Maggior  di  cose  un  ordine  mi  nasce, 
maggiore  opera  avvio. 

Placide  in  lunga 
pace  le  terre  e  le  città  reggea 
grave  omai  d'anni  il  re  Latino  :  nato 
lui  di  Fauno  sappiamo  e  di  Marica 
laurente  ninfa;  Pico  a  Fauno  padre, 
ed  ei  te  vanta  genitor.  Saturno; 
l'ultimo  autor  tu  de  la  gente  sei. 
Per  divin  fato  non  avea  Latino 
prole  virile,  in  sul  primo  fiorire 
mancatagli.  Restava  a  sì  gran  casa 
sola  una  figlia,  già  matura  a  nozze, 
in  piena  età  di  sposa.  Molti  a  lei 
dal  gran  Lazio  aspiravano  e  da  tutta 
l'Ausonia:  ma  davanti  a  tutti  gli  altri 
il  bellissimo  Turno,  illustre  d'avi, 
e  lui  genero  farsi  la  regina 
sollecitava  con  ardente  amore  : 
ma  è  contro  il  ciel  con  paurosi  segni. 

Era  nel  mezzo  a  l'alta  reggia  un  lauro, 
di  santa  fronda,  e  molti  anni  con  tema 
serbato,  cui  dicean  Latino  padre 
trovato  aver  e  sacro  a  Febo,  in  porre 
fondamento  a  la  rocca,  e  aver  da  quello 


2l6  ENEIDE 

dato  agli  abitator  nome  Laurent! . 
La  vetta  de  l'alloro,  oh  maraviglia!, 
per  il  sereno  stridule  giungendo 
cinsero  l'api  e,  i  pie  tra  lor  connessi, 
lo  sciame  si  fé'  grappolo  ad  un  ramo. 
Subito  l'indovino  «  Uno  straniero, 
grida,  vediam  venir,  da  quelle  parti 
a  questa  parte,  e  dominar  la  rocca  ». 
Inoltre,  in  quella  che  con  pure  faci 
ravviva  l'are,  e  al  genitor  da  canto 
sta  la  vergin  Lavinia,  ecco,  ella  parve 
a'  lunghi  crini,  orrori,  prendersi  fuoco 
e  bruciar  crepitando  ogni  ornamento, 
accesa  le  regali  chiome,  accesa 
la  corona  di  perle  preziosa; 
poi  fumigante  e  avvolta  in  fulva  luce 
sparger  l'incendio  per  la  reggia  tutta. 
Ciò  valse  a  gran  miracolo  e  terrore, 
come  presagio  che  verrebbe  insigne 
e  di  fama  e  di  fati  essa,  ma  grande 
apparecchiava  al  popolo  una  guerra. 

Pensoso  de'  portenti  il  re  ricorre 

a  l'oracol  di  Fauno  genitore 

fatidico,  e  consulta  i  luchi  sotto 

l'alta  Albunea,  il  maggior  fonte  de'  boschi 

che  in  sacro  suono  scaturisce  e  spira 

di  tra  l'ombra  mefitici  vapori. 

Di  qui  r  Itale  genti  e  tutta  Enotria 

ne  le  dubbiezze  lor  chiedon  responsi; 

qui  poi  che  addusse  offerte  il  sacerdote 


LIBRO    SETTIMO  217 

e  SU  le  pelli  de  T uccise  agnelle 
per  la  notte  silente  si  distese 
desiando  dormir,  mirabilmente 
a  torme  vede  vagolar  fantasmi 
e  varie  voci  ascolta  e  del  colloquio 
degli  Dei  gode  e  volge  la  parola 
a  TAcheronte  del  profondo  Averno. 
E  quivi  allor  esso  Latino  padre 
cento  per  un  responso  offria  di  rito 
lanigere  bidenti  e  si  giacca 
su'  velli  de  le  lor  terga.  Ad  un  tratto 
dal  cuor  del  bosco  voce  gli  rispose  : 
«  Non  voler  la  figliuola  ad  uom  latino 
sposare,  o  mia  progenie,  e  non  fidarti 
a'  talami  di  qui:  da  fuor  verranno 
generi,  che  per  nozze  il  nostro  nome 
portino  in  cielo,  e  di  tal  ceppo  scesi 
i  nepoti,  per  quanto  stende  il  corso 
tra  i  due  Oceani  il  Sol,  sotto  i  lor  piedi 
tutto  volgersi  e  reggersi  vedranno  ». 
Questo  responso  ammonitor  che  il  padre 
Fauno  gli  die  per  la  silente  notte 
segreto  in  sé  no  '1  chiude  esso  Latino, 
ma  intorno  intorno  la  volante  Fama 
per  l'ausonie  città  l'avea  diffuso, 
quando  la  gente  laom.edontea 
al  verde  littoral  legò  sue  navi. 

Enea  co'  primi  duci  e  il  vago  Giulo 
postisi  sotto  un  verde  albero  grande 
dan  mano  a  le  vivande,  a  cui  su  l'erba 


2l8  ENEIDE 

sottopongo!!  focacce  di  fnimento 

(Giove  ciò  suggeriva)  ed  hanno  colmo 

il  desco  cereal  di  frutti  agresti. 

Or  quando,  consumate  l'altre  cose, 

li  fece  la  penuria  del  mangiare 

volgere  a  la  sottil  cerere  i  denti 

e  con  la  mano  e  le  mascelle  audaci 

il  rotondo  spezzar  pane  fatale 

e  non  ne  risparmiare  i  larghi  quarti, 

a  Oh,  mangiam  fin  le  mense  »  esclama  Giulo 

scherzando,  e  nulla  più.  Quella  parola 

fu  la  fin  de'  travagh;  in  su  le  labbra 

il  padre  glie  la  colse  e  nel  suo  cuore, 

tutto  compreso  de  l'iddio,  la  chiuse. 

«  Salve,  o  da'  fati  a  me  dovuta  terra, 

subito  esclama,  e  voi  fidi  salvete 

o  Penati  di  Troia:  è  qui  la  casa, 

questa  è  la  patria.  Or  lo  rammento  :  il  padre 

Anchise  mi  lasciò  tal  detto  arcano: 

—  Quando  te,  figho,  a  ignoto  suol  portato 

la  fame  sforzerà,  senza  più  cibi, 

a  divorar  le  mense,  allora  spera 

ivi  stanco  le  case,  ivi  pon  mano 

a  fabbricare  ed  a  guernir  la  cerchia  — . 

Questa  era  quella  fame;  era  l'estremo 

che  terminasse  i  nostri  danni. 

Alacri  dunque  col  novello  sole, 

per  varie  vie  dal  porto,  investighiamo 

quali  i  luoghi  e  la  gente,  ove  le  mura. 

Or  libate  le  tazze  a  Giove,  il  padre 

Anchise  supphchevoU  invocate, 


LIBRO    SETTIMO  219 

e  riponete  su  le  mense  il  vdno  ». 

Detto  ch'egli  ebbe,  d'un  frondente  ramo 

si  corona  le  tempie  e  prega  il  genio 

del  luogo  e,  prima  tra  gli  Dei,  la  Terra, 

le  Ninfe,  i  fiumi  non  per  anche  noti, 

poi  la  Notte  e  i  suoi  segni  omai  nascenti, 

e  l'idèo  Giove  in  ordine  e  la  Frigia 

madre  invoca  ed  entrambi  i  genitori 

suoi  nel  Cielo  e  ne  l'Èrebo.  Tre  volte 

allora  il  Padre  onnipotente  chiaro 

tuonò  da  l'alto  e  fé'  vedere  un  nimbo 

scosso  per  l'aria  di  sua  mano  acceso 

tutto  di  raggi  luminosi  e  d'oro. 

La  voce  va  per  le  troiane  schiere 

che  venne  il  giorno  di  fondar  le  mura 

destinate.  Gareggiano  a  riporre 

le  mense  e  lieti  de  l'eccelso  augurio 

collocano  e  coronano  le  tazze. 

Quando  l'altra  mattina  illuminava 
del  primo  sole  il  mondo,  in  varie  vanno 
parti  esplorando  la  città,  il  paese, 
il  popolo  :  quest'  è  il  ruscel  Numico 
e  quello  il  fiume  Tevere,  qui  stanza 
hanno  i  forti  Latini.  Allora  il  figho 
d'Anchise,  di  ciascun  grado  trascelti 
cento  oratori,  a  la  città  regale 
li  avvia,  tutti  velandosi  de'  rami 
di  Pallade,  a  recare  al  re  presenti 
e  per  i  Teucri  chiedere  alleanza. 
Senza  indugio  si  partono  al  suo  cenno 


220  ENEIDE 

e  camminano  rapidi.  Esso  in  terra 

segna  un  solco  di  mnra,  e  fonda  e  innalza, 

ed  a  le  prime  fabbriche  sul  lido, 

come  ad  un  campo,  merli  e  vallo  cinge. 

Già,  percorsa  la  \da,  quelli  scorgevano 
alte  le  torri  de'  Latini  e  i  tetti 
e  a  le  mura  appressavano  -  là  fuori 
fanciulli  e  gioventù  nel  primo  fiore 
s'addestrano  a  domar  cavalli  e  carri 
nel  campo,  tendon  con  le  braccia  i  forti 
archi  e  vibran  le  flessili  saette, 
gareggiando  nel  correre  e  nel  colpo  -, 
quando  a  cavallo  un  messagger  precorre 
a  riportare  al  vecchio  re  l'arrivo 
d'uomini  in  veste  sconosciuta  grandi. 
Egli  comanda  entro  le  sogHe  addurli 
e  in  mezzo  si  sede  sul  trono  avito. 

Sopra  cento  colonne  augusto  ed  ampio 

sorse,  già  reggia  del  laurente  Pico, 

a  sommo  la  città  cinto  il  palagio 

di  selva  e  de  la  sacra  ombra  degli  avi. 

Quivi  assumer  lo  scettro  e  alzar  le  verghe 

inizio  era  de'  re,  fu  quel  recinto 

la  loro  curia,  qui  la  sede  a'  sacri 

banchetti,  ove,  l'a-riete  immolato, 

solean  sedersi  a  lunghe  mense  i  padri. 

V'erano  ancor  d'antico  cedro  sculti 

in  ordine  i  prischi  avi,  in  pie  ne  l'atrio. 

Italo  e  Sabin  padre,  de  la  vigna 


LIBRO    SETTIMO  221 

cultor,  che  anco  in  figura  ha  la  sua  ronca, 
Saturno  vecchio  ed  il  bifronte  Giano, 
e  gli  altri  originari  re  che  in  guerra 
per  la  patria  soffersero  ferite. 
Molte  inoltre  pendeano  armi  da'  sacri 
stipiti,  cocchi  in  campo  presi  ed  azze, 
pennacchi  d'elmi,  ben  sbarrate  porte, 
e  frecce  e  scudi  e  rostri  svelti  a  navi. 
Esso,  col  quirinal  lituo,  di  breve 
tràbéa  mantellato,  e  con  l'ancile 
ne  la  sinistra,  si  sedeva  Pico, 
domxator  di  cavalli.  Lui  la  sposa 
vinta  di  vogha  Circe  con  la  verga 
d'oro  percosse  e  il  tramutò  con  l'erbe, 
uccello  il  fé'  di  colorite  piume. 

Nel  cuor  di  tale  degli  Dei  recinto 
Latino  assiso  e  nel  paterno  seggio 
chiama  i  Troiani  entro  le  soglie  e  a  loro 
così  si  volge  con  benigno  labbro  : 
«  Dardani,  dite  (già  non  siamo  ignari 
de  la  città  né  de  la  stirpe  e  udimmo 
del  vostro  navigar),  che  domandate? 
Qual  cagion,  qual  bisogno  al  lido  ausonio 
portò  per  tanto  azzurro  i  vostri  legni? 
Se  per  error  di  via,  se  per  burrasche, 
soHti  casi  a  chi  veleggia  in  alto, 
entraste  il  fiume  e  vi  posate  in  porto, 
non  vi  spiaccia  esserne  ospiti  e  i  Latini 
conoscere,  la  gente  di  Saturno, 
non  per  leggi  ma  giusta  per  amore, 


222  ENEIDE 

e  fida  a  l'uso  de  l'antico  iddio. 

Oh!  mi  rammento  (oscuran  gli  anni  il  fatto) 

narrar  così  gli  Aurunci  vecchi:  nato 

in  questa  terra  Bardano  si  spinse 

insino  a  le  città  frigie  de  V  Ida 

ed  a  la  tracia  Samo,  or  Samotracia. 

Di  qui  partito,  da  l'etrusca  sede 

di  Còrito,  ora  lui  l'aurata  reggia 

accoglie  e  bea  de  lo  stellato  cielo 

e  sugH  altari  un  nume  a'  numi  aggiunge  )>. 

Aveva  detto  ;  IHoneo  rispose  : 

«  0  re,  di  Fauno  egregia  stirpe,  avverso 

nembo  per  mar  non  ci  sospinse  a'  vostri 

hdi  né  stella  ci  sviò  né  sponda  : 

pensier,  desio  tutti  ci  porta  a  questa 

città,  da  un  regno  espulsi  onde  il  più  grande 

già  non  si  offriva  a  l'oriente  sole. 

Da  Giove  è  il  ceppo,  lui  progenitore 

vantano  i  Dardani,  ed  il  re,  che  anch'esso 

da  la  schiatta  suprema  esce  di  Giove, 

Enea  troiano  a'  lari  tuoi  ne  invia. 

Quanta  tempesta  la  cnidel  Micene 

rovesciasse  a  infierir  ne'  campi  idèi, 

per  che  fati  cozzassero  i  due  mondi 

d' Europa  e  d'Asia  insiem,  il  sa  fin  quegli 

cui  sul  cerchiante  Oceano  la  terra 

ultima  apparta  o  a  l'altre  quattro  in  mezzo 

la  plaga  tiene  del  soverchio  sole. 

Tratti  da  tal  diluvio  a  tanto  mare, 

una  piccola  sede  agli  Dei  patrii 


LIBKO    SETTIMO  223 

imploriamo  ed  un  lido  senza  danno 
con  libera  per  tutti  e  l'acqua  e  l'aria. 
Disdoro  al  regno  non  sarem,  né  poco 
avrete  onor  né  breve  del  gran  fatto 
riconoscenza;  mai  dolersi  Ausonia 
dovrà  che  accolse  Troia  in  grembo:  il  giuro 
per  i  fati  d'Enea,  per  la  sua  destra 
luminosa  di  fede  e  di  prodezza. 
Molti  popoli  già,  molte  noi  genti 
(non  ispregiarne,  se  rechiam  spontanei 
bende  tra  mano  e  supplici  parole) 
chiedean,  voleano  unire  a  sé;  ma  noi 
spinse  a  cercar  le  vostre  terre  il  cielo. 
Di  qui  Dardano  nacque  e  qui  ritorna; 
e  col  cenno  sovrano  Apollo  il  preme 
verso  il  tirreno  Tevere  e  la  sacra 
sorgente  del  Numico.  Inoltre  queste 
poche  reliquie  del  primiero  stato 
t'offre,  sottratte  da  l'ardente  Troia. 
In  quest'oro  hbava  il  padre  Anchise 
a  l'are;  la  real  pompa  di  Priamo 
questa  era,  quando  a'  popoli  adunati 
dava  legge,  e  lo  scettro  e  la  tiara 
ed  opra  de  le  Ilìadi  il  manto  ». 

Tra  questo  dir  d'Ilioneo,  Latino 

tien  fisso  il  volto  immobilmente  al  suolo 

gl'intenti  occhi  girando,  e  non  lo  tocca 

la  ricamata  porpora  e  lo  scettro 

così  di  Priamo,  come  il  fa  pensoso 

la  sorte  maritai  de  la  figliuola; 


224  ENEIDE 

e  medita  in  suo  cuor  del  vecchio  Fauno 
i  presagi:  questo  essere  il  promesso 
dai  fati,  di  stranier  suolo  partito, 
genero  e  al  regno  con  eguali  auspici 
chiamato;  a  questo  nascitura  prole 
esser  concessa,  di  valore  egregia, 
che  si  assoggetti  vigorosa  il  mondo. 
Lieto  prorompe  al  fin  :  «  Compian  gh  Dei 
la  vostra  impresa  ed  i  responsi  loro  : 
avrai,  Troiano,  quel  che  brama.  E  i  doni 
ho  in  pregio.  Non  a  voi,  Latin  regnante, 
Tubertà  de  la  florida  campagna 
né  l'opulenza  mancherà  di  Troia. 
Sol  ch'esso  Enea,  se  ha  tal  desìo  di  noi, 
se  ospite  nostro  e  socio  esser  gh  tarda, 
venga  né  sfugga  la  presenza  amica; 
segno  avrò  d'amistà  toccar  sua  destra. 
Or  voi  tornate  al  re  co'  miei  mandati. 
Una  figliuola  ho  io,  che  ad  uom  di  nostra 
gente  sposare  non  consenton  voci 
fuor  dal  paterno  santuario  uscite 
e  portenti  moltissimi  dal  cielo. 
Di  suol  straniero  generi  verranno 
-  tanto  predicono  aspettarsi  al  Lazio  -, 
per  il  cui  sangue  il  nostro  nome  agh  astri 
voU.  Or  questo  l'atteso  esser  de'  fati 
penso  e,  se  vero  il  cuor  favella,  bramo  ». 

Si  dice  il  padre,  e  tra  i  cavalli  sceglie: 

splendidi  se  n'ergeano  trecento 

ne'  presepi  alti  :  per  ciascun  de'  Teucri 


LIBRO    SETTIM©  225 

sùbito  vuol  si  adducano  i  corsieri 

di  porpora  guerniti  e  di  ricami  ; 

aurei  collari  pendono  sui  petti  ; 

coperti  d'  oro,  e  fulgid'  oro  in  bocca 

mordono;  e  per  Enea  eh' è  lungi  un  cocchio 

e  d'etereo  sangue  una  pariglia 

che  soffia  fuoco  da  le  nari,  scesi 

di  quella^  razza  che,  di  furto  al  padre, 

spuria  si  procurò  la  scaltra  'Circe 

sottoponendo  una  mortai  polledra. 

Con  tali  doni  e  detti  di  Latino 

fanno  ritorno  eccelsi  su'  cavalli 

gli  Eneadi  e  con  pacifico  messaggio. 

Ed  ecco  da  l' inachia  Argo  tornando 
l'aspra  Donna  di  Giove  il  ciel  col  carro 
teneva,  e  lieto  Enea,  Meta  la  fiotta 
de'  Dardani  per  l'etere  lontano 
distinse  fin  dal  siculo  Pachino. 
Già  case  edificare,  assicurarsi 
fuor  de  le  navi  già  li  vede  a  terra; 
e  s'arrestò  trafitta  di  dolore. 
Poi  prorompe  così  scotendo  il  capo  : 
«  Razza  odiosa  !  e  a'  fati  miei  contrario 
fato  de'  Frigi!  Del  Sigeo  ne'  campi 
caddero  ?  o  presi  fur  quando  fur  presi  ? 
o  Troia  in  fiamme  seco  U  consunse? 
Per  mezzo  de'  nemici  e  degl'incendi 
trovarono  la  via.  Certo  il  mio  nume 
stanco  d'odio  si  giace  ed  io  posai 
ben  soddisfatta  !  Anzi  implacata  volli 

Albini  -  Eneide  r- 


220  ENEIDE 

seguitarli  per  l'onde  anche  in  esiglio 
e  i  fuggiaschi  sfidar  per  tutte  l'acque. 
Vane  le  forze  in  lor  del  ciel,  del  mare. 
Le  Sirti  o  Scilla  che  mi  valse  e  il  gorgo 
di  Cariddi?  Entro  al  desiato  letto 
già  del  Tebro  s'acquattano,  incuranti 
del  pelago  e  di  me. 

Ben  potè  Marte 
de'  Làpiti  stremar  la  gente  fiera, 
esso  il  Dio  padre  di  Diana  a  l' ire 
concesse  la  vetusta  Calidone; 
qual  tanto  orrore  i  Làpiti  mertando 
o  Calidone?  Ma  di  Giove  io  l'alta 
consorte,  che  in  furor  nulla  intentato 
seppi  lasciar,  ch'ebbi  ricorso  a  tutto, 
sono  vinta  da  Enea. 

Che  se  il  mio  nume 
assai  grande  non  è,  senza  esitare 
implorerò  qual  sia  dovunque  nume  : 
se  il  Ciel  non  posso,  moverò  l' Inferno. 
Non  sarà  dato,  e  sia,  dal  latin  regno 
respingerlo,  e  gli  è  fissa  per  destino 
Lavinia  moglie:  ma  protrarre  in  lente 
dimore  ben  si  può  sì  grandi  eventi, 
ma  ben  si  può  de'  due  re  logorare 
i  popoli.  A  cotal  prezzo  de'  suoi 
siano  genero  e  suocero  congiunti. 
Sangue  troiano  e  rutulo  per  dote, 
vergine,  avrai,  e  a  pronuba  Bellona. 
Non  d'una  face  la  Cisseide  incinta 
partorì  sola  fiamme  nuziali  : 


i 


LIBRO    SETTIMO  11"] 

tale  è  il  suo  nato  a  Venere,  novello 
Paride  anch'esso  e  nova  infausta  teda 
al  rinascente  Pergani^ 

oi»j  detto, 
terribile  calò  verso  la  terra. 
Da  la  dimora  de  le  crude  iddie 
tenebrosa  d'Averno  Alletto  chiama 
contristante,  che  l'aspre  guerre  ha  care, 
l'ire  l'insidie  e  le  nocenti  accuse. 
Fin  Fiuto  padre  l'odia,  odiano  il  mostro 
le  tartaree  sorelle  :  in  tante  ree 
forme  si  cangia,  tanti  in  suo  squallore 
porta  serpenti.  Or  a  costei  Giunone 
aggiunge  sprone  di  parole  tali  : 
(^  Consacra,  o  vergin  figlia  de  la.  Notte, 
una  fatica  a  me,  sì  che  non  cada 
il  nome  e  l'onor  mio,  né  a  parentado 
possan  gli  Eneadi  circuir  Latino 
né  si  usurpare  italo  suol.  Tu  puoi 
unanimi  fratelli  armare  in  guerra, 
e  le  case  turbar  d'astio;  flagelli 
a'  tetti  e  faci  funebri  avventare; 
hai  mille  nomi,  mille  arti  a  rovina. 
Scuoti  il  fecondo  sen  :  la  pattuita 
rompi  amistà,  cause  di  guerra  intreccia; 
armi  la  gioventù  gridi  e  le  afferri  r^. 

De'  gorgònei  veleni  Alletto  pregna 
al  Lazio  prima  e  a  l'alte  case  è  volta 
del  sir  laurente  e  invade  le  silenti 
soglie  d'Amata,  che  il  venir  de'  Teucri 


228  ENEIDE 

e  gl'imenei  di  Turno  agitano  arsa 

di  femminile  affanno  e  di  rancore. 

Da'  cernii  capelli  a  lei  la  dea 

un  angue  scocca  per  il  seno  al  cuore, 

onde  la  casa  ella  in  furor  sconvolga. 

Quel  tra  le  vesti  e  i  molli  seni  lieve 

guizza  e  non  tocca,  e  inavvertito  infonde 

il  viperino  spirito  a  la  folle. 

Al  collo  le  si  fa  monile  d'oro 

il  gran  serpe,  si  fa  prolissa  benda 

e  lega  il  crine  e  per  le  membra  scorre. 

Mentre  il  primo  contagio  insinuato 

del  viscido  veleno  i  sensi  tenta 

e  reca  a  l'ossa  l'ardor  suo,  ma  tutta 

non  anche  in  petto  divampò  la  fiamma, 

ella  parlò  rimessa  e  come  donna 

con  molto  lagrimar  sopra  il  connubio 

frigio  de  la  figliuola.  «  E  si  dà  sposa 

agli  esuli  Troiani,  o  re,  Lavinia? 

né  pietà  de  la  figlia  e  di  te  stesso, 

né  de  la  madre  hai  tu,  che  al  primo  vento 

qui  lascierà  quel  perfido  ladrone 

prendendo  il  mar  con  la  fanciulla?  A  Sparta 

non  entra  in  questo  modo  il  pastor  frigio 

ed  Elena  ledèa  portasi  a  Troia  ? 

Ove  la  pia  tua  fede  ?  ov'è  l'antica 

cura  de'  tuoi  ?  a  che  fu  tante  volte 

porta  tua  destra  al  consanguineo  Turno? 

Se  un  genero  a'  Teatini  si  richiede 

straniero,  e  questo  hai  fermo  e  t'urge  il  cenno 

di  Fauno  padre,  qual  città  non  serve 


i.fHi^)   >i-:Tfi\i<)  229 

libera  a'  nostri  scettri,  io  quella  estimo 
straniera  e  che  cosi  dican  gli  Dei. 
Anche  Turno,  chi  cerchi  la  radice 
prima,  fu  nato  da'  progenitori 
Inaco  e  Acrisie  in  grembo  di  Micene  ^>. 
Come  con  tali  detti  invan  tentando 
vede  Latino  immobile,  e  il  serpente 
furiai  penetrato  a  le  midolle 
tutta  omai  la  possiede,  oh  !  V  infelice 
allor,  a  orrende  visioni  in  preda, 
per  l'immensa  città  corre  invasata. 
Qual  va  sotto  a  la  sferza  la  fugace 
trottola,  cui  pe'  vuoti  atri  in  gran  giro 
volenterosi  cacciano  i  fanciulU, 
vìa.  la  trottola  va  sotto  a  la  sferza 
in  curve  scorse  ;  i  giovinetti  visi 
le  pendon  sopra  curiosi,  il  bosso 
ammirando  volubile,  e  la  frusta 
ne  ravviva  il  vigor  :  impetuosa 
non  men  per  mezzo  le  città  è  rapita 
e  i  popoli  feroci.  Indi  a  le  selve 
fuor,  simulando  una  baccante  invasa, 
a  più  d'eccesso  tratta  e  di  follia, 
vola,  e  la  figlia  tra  i  frondosi  monti 
cela,  per  impedir,  per  indugiare 
il  talamo  e  le  tede  a'  Teucri.  Freme  : 
«  Evoé,  Bacco  !  »,  solo  te  gridando 
de  la  vergine  degno,  e  per  te  quella 
stringere  i  molli  tirsi,  a  te  danzare 
in  coro,  sacre  a  te  pascer  le  chiome. 
La  fama  vola,  e  di  furore  accese 


230  KXlilDK 

preme  tutte  le  madri  eguale  ardore 

a  nova  stanza:  lasciano  le  case; 

danno  le  chiom.e  su  le  spalle  al  vento, 

empiono  altre  di  tremuli  ululati 

l'aria,  cinte  di  pelli,  in  man  le  verghe 

pampinose.  Essa  in  mezzo  a  tutte  ardente 

regge  un  brancon  di  pino  in  fiamme  e  canta 

di  Lavinia  e  di  Turno  l'imeneo, 

sguardando  con  sanguigni  occhi,  e  ad  un  tratto 

rauca  prorompe  :  «  Udite  olà,  dovunque, 

madri  latine;  se  nel  cuor  vi  resta 

affetto  pio  de  l'infelice  Am^ata, 

se  amor  vi  punge  del  materno  dritto, 

sciogliete  al  crin  le  bende,  e  con  me  fate 

l'orgia  )\  Così  via  per  le  selve  e  gli  ermi 

luoghi  ferini  Alletto  la  regina 

con  gli  stimoli  bacchici  travolge. 

Poi  che  le  parve  il  furor  primo  assai 

aver  desto  ed  il  senno  sovvertito 

e  di  Latin  tutta  la  casa,  tosto 

indi  la  triste  dea  su  l'ali  fosche 

va  de  l'audace  Rutulo  a  le  mura, 

città  eh'  è  fama  Danae  fondasse 

per  acris'ionèi  coloni,  addotta 

da  impetuoso  Noto.  Àrdea  fu  detto 

il  luogo  un  di  dagli  avi,  ed  Ardea  serba 

ora  il  gran  nome,  ma  la  sua  fortuna 

fu.  Ne  la  reggia  per  la  nera  notte 

allor  Turno  posava  a  mezzo  il  sonno. 

Spogliasi  Alletto  l'orror  suo  di  Furia 


LIBKO    SETTIMO  23 1 

e  in  sembianze  senili  si  trasforma; 

solca  di  rughe  la  rea  fronte,  e  assume 

una  canizie  con  la  benda  e  il  ramo 

de  l'olivo  ;  vien  Càlibe,  l'annosa 

sacerdotessa  al  tempio  di  Giunone, 

ed  apparisce  al  giovine  dicendo  : 

<(  Turno,  tante  fatiche  sparse  al  vento 

sopporterai  e  che  il  tuo  scettro  sia 

trasferito  ne'  Dardani  coloni  ? 

Le  nozze  il  re,  la  dote  a  sangue  compra 

ti  nega  ;  stranio  successor  si  chiede. 

Or  va,  t'offri,  deriso,  a  steri!  rischio; 

va,  vinci  le  falangi  etrusche,  e  copri 

de  la  pace  i  Latini.  Essa  ciò  dirti 

chiaro,  che  in  sonno  placido  giacevi, 

m'ingiimse  la  Saturnia  onnipotente. 

Comanda  or  dunque  fiero  a'  prodi  armarsi 

e  prorompere  in  guerra,  e  i  frigi  duci, 

che  son  posati  lungo  il  fiume  bello, 

e  le  dipinte  chiglie  incendia.  Il  vuole 

la  forza  grande  de'  Celesti.  Ed  esso 

il  re  Latino,  dove  non  prometta 

di  conceder  le  nozze  e  stare  al  detto, 

s'avvegga  e  al  fine  Turno  assaggi  in  campo  ». 

Cosi,  la  profetessa  deridendo, 

a  la  sua  volta  il  giovine  ripiglia  : 

*(  Che  una  flotta  le  foci  entrò  del  Tebro, 

non  m'è,  come  tu  pensi,  annunzio  novo. 

Non  crearmi  spaventi  :  e  la  dia  Giuno 

ha  memoria  di  noi. 

Ma  la  vecchiezza  squallida  e  insensata 


1:?>,H1UK 


te  di  vani  pensieri,  o  madre,  affanna 
e  tra  l'armi  de'  re  di  falsa  tema 
profetessa  t' illude.  Oh  !  cura  il  tempio 
tu  e  i  devoti  simulacri:  ai  prodi 
stian  guerra  e  pace,  che  la  guerra  è  loro  ». 
A  tali  detti  Alletto  arse  in  furore; 
e  al  giovine  tra  '1  dir  prese  improvviso 
tremito  i  membri  e  si  sbarraron  gli  occhi, 
di  tante  serpi  sibila  1'  Erinni, 
e  tal  si  manifesta  in  sua  figura. 
Poi  con  fiammanti  obliqui  sguardi  lui 
così  perplesso  e  che  volea  più  dire 
respinse,  due  rizzò  serpi  sul  crine, 
squassò  il  flagello  e  fremebonda  aggiunse  : 
«  La  squallida  son  io  che  l'insensata 
vecchiezza  tra  l'armi  de'  re  di  falsa 
tema  illude.  Qui  guarda  :  da  la  casa 
de  le  crude  sorelle  io  vengo,  e  in  mano 
ho  guerra  e  morte  ^). 
Scagliò,  ciò  detto,  al  giovine  una  face 
e  in  cuor  gli  fìsse  la  fumosa  fiamma. 
Rompe  il  suo  sonno  gran  timor,  profuso 
gli  va  sudor  per  l'ossa  e  la  persona. 
Armi  freme  furente,  armi  ricerca 
presso  il  letto  e  per  casa  ;  si  disfrena 
l'amor  del  ferro  e  la  demenza  atroce 
de  la  guerra,  insiem  l' ira  :  così  quando 
con  romoroso  strepito  s'accosta 
vampa  di  stecchi  al  gorgogliante  rame 
e  sussultano  l'acque,  entro  è  un  furore 
fumante  e  sopra  un  ridondar  di  spume, 


LIBKO    SETTIMO 


né  l'umor  si  contien,  vapora  e  vola. 
Dunque,  la  pace  perturbata,  ei  manda 
i  precipui  de'  prodi  al  re  Latino 
volendo  Tarmi  apparecchiarsi,  Italia 
difendere,  il  nemico  ricacciarne  : 
lui  a'  Teucri  venir  buono  e  a'  Latini. 
Poi  che  sì  disse  ed  invocò  gli  Dei 
a'  voti  suoi,  s'esortano  a  vicenda 
i  Rutuli  a  la  guerra,  insiem  commossi 
da  quel  fulgor  di  giovenil  bellezza, 
dagli  avi  re,  dal  ben  provato  braccio. 

Mentre  i  Rutuli  Turno  empie  d'ardire, 
lo  stigio  voi  dirizza  Alletto  a'  Teucri. 
Spiato  il  luogo  con  malizia  nova 
dove  sul  lido  il  vago  Giulo  in  caccia 
le  fiere  urgea,  la  vergin  di  Cocito 
sùbita  bramosia  mette  a  le  cagne 
recando  loro  al  fiuto  un  noto  odore, 
che  d'un  cervo  balzassero  su  Forme  ; 
prima  cagion  che  fu  de  l'aspre  pugne 
ed  a  guerra  infiammò  gli  animi  agresti. 
Bellissimo  era  e  di  gran  corna  un  cervo, 
cui  di  Tirro  i  figliuoli  avean  rapito 
da  la  poppa  materna  e  il  nutrian  essi 
e  Tirro  pur,  eh 'è  degli  armienti  regi 
e  di  largo  terren  capo  e  custode. 
Mansuefatto  Silvia  la  sorella 
con  ogni  cura  ornavalo  tessendo 
a  le  corna  ghirlande  e  il  pettinava 
e  lavava  a  la  limpida  sorgente. 


2.  U  KXEIDE 


Quello,  dolce  a  la  mano  e  de'  padroni 

uso  a  la  mensa,  errava  per  le  selve, 

poi  da  sé  stesso  a  la  sua  nota  casa, 

quantunque  a  tarda  notte,  ritornava. 

Lui  lungi  errante  le  agognanti  cagne 

di  Giulo  impaurirono,  nel  mentre 

che  veniva  secondo  la  corrente 

a  temperar  sul  verde  greto  il  caldo. 

Desso  Ascanio,  allettato  a  sì  bei  colpo, 

gli  dirizzò  dal  curvo  arco  uno  strale  ; 

né  il  dio  non  l'assistè,  sì  che  fallisse, 

ma  sibilando  la  saetta  venne 

per  il  ventre  a  passarlo  e  per  i  fianchi. 

Ferito  rifuggì  dentro  il  recinto 

il  Silvestro  ed  entrò  gemendo  al  chiuso, 

e  sanguinando  tutte  di  lamento 

le  case  riempia  com'un  che  implora. 

Prima  Silvia  sorella,  percotendo 

a  ie  braccia  le  palme,  aiuto  chiede 

ed  alto  chiama  i  duri  agricoltori. 

Quelli  (che  la  pestifera  nemica 

cova  ne'  boschi)  accorrono  improvvisi  ; 

chi  d'uno  spiedo  armato  arso  a  la  cima, 

chi  di  mazza  nodosa  ;  arme  fa  l' ira 

di  ciò  che  ognun  nel  primo  impeto  afferra 

Tirro  le  torme  aduna,  come  in  quattro 

una  quercia  co'  cunei  allor  spaccava, 

con  pigho  atroce  la  bipenne  alzando. 

La  fiera  dea,  da  le  vedette  il  tempo 

al  nuocer  colto,  in  vetta  a  le  capanne 

sobbalza  e  dal  comignolo  più  alto 


L!KR->    SETTI.\rO 


squilla  il  segnale  pastoral,  nel  curvo 

corno  sforzando  la  tartarea  voce; 

onde  tosto  tremò  quant'era  il  bosco 

e  le  valli  echeggiarono  dal  fondo  : 

udì  lontan  di  Trivia  il  lago,  bianca 

la  Nera  udì  de  la  sulfurea  vena 

e  i  fonti  del  Velino,  e  paurose 

strinsero  al  seno  i  pargoli  le  madri. 

Pronti  a  la  voce  allor,  dovunque  il  fiero 

segno  squillò,  concorrono  i  rubesti 

agricoli  con  l'armi  d'ogni  parte; 

e  la  troiana  gioventù  non  meno 

vien  d'aiuto  ad  Ascanio  in  campo  aperto. 

Steser  le  file.  Non  agreste  mischia 

è  più  di  baston  duri  e  pali  aguzzi  : 

col  bitagliente  ferro  è  la  tenzone, 

e  atra  e  ampia  e  ispida  la  messe 

de  le  spade;  rifulgono  i  metalli 

dal  sol  percossi  e  sprizzan  lampi  in  aria  : 

così  quando  a  imbiancar  principia  il  mare, 

a  poco  a  poco  si  solleva  e  ondeggia, 

e  sconvolgesi  poi  dal  fondo  al  cielo. 

Qui  su  la  prima  schiera  Aimone,  il  figlio 

maggior  di  Tirro,  di  stridente  dardo 

cade;  lo  colse  la  ferita  in  gola 

e  col  sangue  gli  chiuse  de  la  voce 

l'umida  strada  ed  il  sottil  respiro. 

Molti  intorno  con  lui  caddero,  e  il  vecchio 

Galeso,  m.entre  s'offre  a  trattar  pace, 

giusto  che  fu  per  eccellenza  e  un  tempo 

ricchissimo  d'ausonie  terre  ;  cinque 


2^b  ENEIDE 

gli  ritornavan  greggi  e  cinque  armenti, 
e  lavorava  il  suo  con  cento  aratri. 

Mentre  ne'  campi  la  battaglia  pende, 

la  dea  che  in  pugno  ha  sua  promessa,  intrisa 

già  di  sangue  la  guerra  e  così  strette 

le  uccisioni  de  la  prima  pugna, 

lascia  r  Esperia  e  pe'  convessi  cieli 

dice  con  grido  di  trionfo  a  Giuno  : 

«  Eccoti  scatenata  una  discordia 

a  guerra  grande  :  or  di'  che  in  amicizia 

si  leghino  e  patteggino  alleanze, 

poi  che  d'ausonio  sangue  i  Teucri  aspersi. 

Altro  farò  se  il  tuo  voler  m'è  chiaro  : 

trarrò  nel  foco  le  città  vicine 

co'  parlari,  attizzando  il  folle  amore 

di  Marte  ;  spargerò  l'armi  per  l'agro  ». 

Ma  Giuno  a  lei  :  <*  Già  di  spaventi  e  inganni 

è  assai.  Di  guerra  le  cagioni  stanno; 

e  si  combatte  da  vicin  con  l'armi: 

un  caso  le  fornì,  le  intrise  il  sangue. 

Cosi  fatti  festeggino  sponsali 

di  Venere  il  gran  lìglio  e  il  re  Latino. 

Che  tu  più  vada  per  il  ciel  vagando, 

no  '1  vorrebbe  quel  Padre  che  in  Olimpo 

regna  sovrano.  Ti  diparti  :  io  stessa 

vedrò,  se  alcuna  a  provveder  vicenda 

resti  ''.  Sì  detto  la  Saturnia  avea. 

Quella  su  l'ali  stridule  di  serpi 

librasi  e  lungi  dal  superno  azzurro 

volge  a'  recessi  di  Cocito.  È  un  luogo 


LIBRO    SETTIMO  237 

nel  mezzo  a  Italia  sotto  ad  alti  monti 

per  larga  fama  celebre,  le  valli 

d'Amsanto  :  ai  lati  il  serrano  le  falde 

d'un  bosco  bruno,  e  il  solca  e  romoreggia 

un  torrente  tra'  sassi  vorticoso. 

vSi  mostrano  ivi  una  spelonca  orrenda 

e  i  pertugi  del  fiero  Dite,  e  vasta 

voragine  scoscesa  a  l'Acheronte 

le  sue  fauci  pestifere  spalanca  ; 

per  esse  sprofondando,  inviso  nume, 

l'Erinni  terra  e  cielo  alleviava. 

L'ultima  intanto  dà.  mano  a  la  guerra 
la  saturnia  regina.  Da  la  pugna 
premono  a  la  città  tutti  i  pastori 
e  ne  riportan  morti  il  giovinetto 
Aimone  e  di  Galeso  il  guasto  volto, 
e  implorano  gli  Dei,  chiaman  Latino. 
V'è  Turno  e,  in  mezzo  al  rinfacciar  focoso 
di  quella  strage,  lo  sgom^ento  accresce: 
Teucri  chiamarsi  al  regno,  mescolarsi 
la  stirpe  frigia,  ributtarsi  lui. 
Quelli  poi,  le  cui  m.adri  in  preda  a  Bacco 
batton  le  selve  inospite  ne  l'orgia, 
(che  non  lieve  d'Amata  il  nome  pesa) 
vengono  d'ogni  parte  e  incalzan  marte. 
Universale  è  il  chiedere  l'indegna 
guerra,  contro  gli  auguri,  contro  i  fati 
degli  Dei,  rovesciando  il  voler  sommo. 
Stringon  la  reggia  di  Latino  a  prova, 


ENEIDE 

Ei  sta,  come  del  mare  immota  rupe, 
come  rupe  del  mar  che  tra  l'assalto 
d'innumerevoli  onde  fragoroso 
emerge  salda;  indarno  gl'irti  scogli 
fremono  intorno  e  spumano-,  e  sbattuta 
contro  i  suoi  fianchi  ne  ripiove  l'alga. 
Ma  poi  che  alcuna  facoltà  non  resta 
a  vincere  quel  cieco  impeto  e  al  cenno 
de  la  cruda  Giunon  vanno  le  cose, 
alto  implorando  in  testimonio  i  Numi 
e  l'aure  vane  esclama  il  padre  : 

((  Infranti 
ahi!  siam  dal  fato  e  preda  a  la  procella. 
Ben  questa  pena  voi  con  l'empio  sangue 
pagherete,  o  infelici.  E  a  te  si  serba, 
a  te,  Turno,  purtroppo,  aspro  castigo, 
e  i  Numi  implorerai  con  tarda  prece. 
Che  a  me  pronto  è  il  riposo,  e  tutto  omai 
entrando  in  porto,  sol  mi  veggo  privo 
d'una  fine  felice  ». 

Ei  così  disse, 
né  disse .  più  :  si  chiuse  ne  le  stanze, 
e  abbandonò  le  redini  del  regno. 

Era  un  costume  ne  l'esperio  Lazio, 
che  le  albane  città  retaggio  sacro 
tennero,  il  tiene  la  superba  Roma, 
quando  movono  Marte  a  nuove  pugne, 
sia  che  portar  la  lagrimevol  guerra 
vogliano  a'  Oeti  o  agli  Arabi  o  agi'  Ircani, 
sia  che  tender  agl'Indi  ed  a  l'aurora 


LIEI-:  ,1  239 

e  a  ridomandar  le  insegne  ai  Parti. 
Sono  due  porte  de  la  guerra  (è  il  nome) 
sacre  per  il  devoto  orror  di  Marte  : 
cento  le  chiudon  bronzee  sbarre  e  tempre 
di  ferro  eterne;  de  le  soglie  è  assiduo 
custode  Giano.  Queste,  quando  i  padri 
hanno  fermo  il  proposito  de  l'armi, 
esso  il  console,  della  quirinale 
trabea  fregiato  e  del  gabino  cinto, 
cigolanti  disserra,  e  guerra  indice  : 
il  seguono  gli  eserciti,  ed  i  corni 
rispondono  metallici  consensi. 
In  questa  forma  si  chiedeva  allora 
che  sfidasse  gli  Eneadi  Latino 
e  dischiudesse  le  dolenti  porte. 
Toccarle  il  padre  non  volea,  si  tolse 
al  triste  peso  e  si  celò  ne  l'ombra. 
Ma  la  regina  degli  Dei  dal  cielo 
scesa  le  porte  con  la  man  saturnia 
spinse  indugianti,  e  da'  cardini  loro 
le  ferree  imposte  de  la  guerra  infrange. 
Arde  l'Ausonia,  cheta  e  immota  avanti. 
V  è  chi  s'addestra  a  ir  pedone,  in  sella 
chi  tra  la  polve  alto  volteggia;  tutti 
cercano  l'armi.  I  levigati  usberghi 
lustra  taluno  e  le  quadrella  ardenti 
di  pingue  grasso  e  affilano  le  scuri: 
piace  i  vessilh  alzare  e  udir  le  trombe. 
Ben  cinque  gran  città  sopra  le  incudini 
armi  foggiano  nuove,  la  possente 
Atina  e  la  suuerba  Tivoli,  Àrdea 


240 


ENEIDE 


e  Crustumerio  ed  Antenna  turrita. 
Gli  schermi  altri  arrotondano  del  capo, 
piegano  il  salce  a  intessere  gli  usberghi  ; 
martellano  altri  bronzee  corazze, 
Usci  schinieri  di  duttile  argento  : 
ogni  onore  di  vomere  e  di  falce, 
ogni  amore  d'aratri  or  qui  s'  è  volto  ; 
fanno  a'  fuochi  le  spade  de  la  patria. 
E  già  le  trombe  squillano,  va  intorno 
la  tessera  a  conoscersi  tra  l'armi. 
Questi  trepido  spicca  a  la  parete 
l'elmo;  costringe  i  frementi  cavalli 
al  giogo  quegli,  e  il  clipeo  e  la  lorica 
a  fili  d'oro  triplici  si  veste 
e  la  spada  fedel  cingesi  al  fianco. 

Aprite  or  1'  Elicona,  o  Dive,  e  i  canti 
dettate  :  quali  re  sorsero  in  guerra, 
quali  a  ciascun  seguaci  schiere  in  campo 
stettero,  e  di  che  prodi  fin  d'allora 
fiorì  r  Italia,  quale  incendio  l'arse. 
Ben  voi  lo  ricordate,  o  Dive,  e  voi 
mentovarlo  potete:  a  noi  soltanto 
una  lieve  discende  aura  di  fama. 

Primo  entra  in  guerra  da  1'  Etruria  fiero 
lo  sprezzatore  degli  Dei  Mezenzio 
e  le  schiere  arma.  Il  suo  figliuolo  accanto 
Lauso,  di  cui  più  bello  altri  non  era 
tranne  il  laurente  Turno,  di  cavalH 
domator  Lauso  e  cacciator  di  belve, 
mille  adducea  da  la  città  di  Agilla 


LIBRO    SETTIMO  24! 

guerrieri  inutilmente  a  lui  seguaci, 
degno  di  assai  miglior  paterno  impero 
e  di  avere  altro  padre  che  Mezenzio. 

Dopo  questi,  figliuol  d' Ercole  bello, 
bello  Aventino  per  il  verde  ostenta 
di  palma  insigne  un  cocchio  e  trionfali 
cavalli  e  porta  su  lo  scudo,  insegna 
paterna,  cinta  di  cento  angui  l' idra. 
Lui  del  colle  Aventino  entro  la  selva 
furtivo  in  luce  die  Rea  sacerdote, 
donna  a  dio  mista,  poi  che  vincitore 
de  l'estinto  Gerìone  il  Tirintio 
ebbe  tocchi  i  laurenzi  campi  e  immerse 
nel  tosco  fiume  le  giovenche  ibere. 
Pili  portano  in  guerra  e  stili  acerbi, 
tornito  stocco  e  schidion  sabello. 
Esso  a  piedi,  in  gran  pelle  leonina 
ravvolto  la  persona,  e  tratto  in  capo 
l'orribil  vello  da  le  zanne  bianche, 
così  veniva  a'  regi  tetti,  fiero, 
con  quel  mantello  erculeo  su  le  spalle. 

Fratelli,  lascian  le  tiburti  mura, 
dal  fratello  Tiburto  nominate, 
Catillo  e  l'aspro  Cora,  argivo  sangue, 
che  in  prima  fila  corrono  a  la  mischia  : 
come  due  nubigeniti  Centauri 
quando  da'  monti  calano,  lasciando 
Otri  nevoso  e  Òmole  di  corsa; 
fa  luogo  la  foresta  a'  minanti 
e  si  ritrae  frusciando  ogni  virgulto. 

Albìni  •  Ene'de  U 


242  ENEIDE 

Fondato!"  de  le  mura  prenestine 

Cèculo  non  mancò,  figlio  a  Vulcano, 

cui  credette  ogni  età  re  tra  gli  armenti 

e  ritrovato  sopra  il  focolare. 

Rustica  legione  è  con  lui  molta  : 

quei  che  l'alta  Preneste  e  il  suol  gabino 

tengon  di  Giuno  e  il  gelido  Aniene 

e  le  fresche  di  rivi  Erniche  vette; 

quelli  cui  pasce  l'ubertosa  Anagni 

e  quei  che  tu,  padre  Amaseno.  Tutti 

armatura  non  hanno  e  scudo  e  carro  : 

gettano  ghiande  di  livido  piombo 

i  più,  parte  hanno  due  lanciotti  in  mano, 

fulvi  galeri  di  lupina  pelle 

in  capo,  e  nuda  del  sinistro  piede 

l'orma,  l'altra  ricopre  un  rozzo  cuoio. 

Ma  di  cavalli  domator  Messapo, 
nettunia  prole,  cui  con  fuoco  o  ferro 
dato  è  a  nessuno  di  prostrar,  le  genti 
da  tempo  lente  e  i  disusati  a  guerra 
ordini  a  un  tratto  schiera  e  il  ferro  snuda. 
Questi  le  squadre  fescennine  e  sono 
gli  Equi  Falisci,  questi  abitan  l'alto 
Soratte  e  i  campi  di  Flavina  e  il  lago 
di  Cimino  col  monte  e  di  Capena 
i  boschi.  Andavano  in  eguali  file 
e  il  loro  re  cantavano  tra  via  ; 
come  talor  tra  '1  chiaro  aere  i  bianchi 
cigni  che  al  ritornar  da  la  pastura 
rendon  concenti  per  i  lunghi  colli  : 


LIBRO    SHTIIAIO  243 

il  fiume  ne  risuona  e  largamente 

Tasia  palude. 

Né  penserebbe  alcun  che  armate  schiere 

fosser  formate  di  cotanta  turba, 

ma  che  da  l'alto  mar  spinta  venisse 

una  nube  di  rochi  uccelli  al  lido. 

Ecco  dal  vecchio  sangue  de'  Sabini 
Clauso  con  grande  schiera,  ed  una  grande 
schiera  esso  vai,  dal  quale  or  si  propaga 
pe  '1  Lazio  la  tribù  Claudia  e  la  gente, 
poi  che  fu  Roma  de'  Sabini  in  parte. 
Amiterna  coorte  numerosa 
v'era  e  i  prischi  Curiti  e  tuttaquanta 
Erèto  e  l'olivifera  Mutusca; 
v'eran  quei  che  Nomento  abitan,  quelli 
che  Rosea  dei  Velino,  e  la  rupestre 
orrida  Tètrica  e  il  severo  monte, 
Casperia,  Fòruli  e  d' Imella  il  fiume, 
quei  che  il  Tevere  e  il  Fàbari  disseta, 
quei  che  inviò  la  fredda  Norcia  e  Orte 
e  i  popoli  Latini,  quei  che  bagna 
interfluendo  l'Alha,  infausto  nome  : 
quante  son  l'onde  libiche,  calando 
fiero  Orion  nel  pelago  invernale, 
o  dense  al  novo  sole  ardono  spiche 
lunghesso  1'  Ermo  o  ne  la  Licia  bionda. 
Suonan  gli  scudi  e  il  suol  calpesto  trema. 
Quindi,  nemico  del  troiano  nome, 
l'agamennonio  Aleso  il  carro  aggioga 
e  mille  a  Turno  popoli  feroci 


244  ENEIDE 

trae:  quelli  son  che  il  massico  terreno 

arano  lieto  de  la  vigna,  quelli 

che  i  padri  Aurunci  invian  dagli  alti  colli, 

che  la  pianura  Sidicina  invia, 

quei  che  lasciano  Cale,  e  il  nato  in  riva 

del  Volturno  guadoso,  e  di  par  l'aspro 

Satìculo  e  i  manipoli  degli  Osci. 

Àclidi  ben  tornite  hanno  a  lanciare, 

e  le  usano  allacciare  a  obbediente 

briglia  :  cetra  protegge  le  sinistre, 

pugnano  da  vicin  spade  falcate. 

Né  passerai  taciuto  nel  mio  canto, 

Èbalo,  tu,  cui  procreò,  si  dice, 

da  la  ninfa  Sebètide  Telone 

già  vecchio,  mentre  de'  Telèboi  regno 

Capri  tenea;  ma  del  tener  paterno 

non  più  contento  il  figlio  in  suo  dominio 

ampio  abbracciava  i  popoli  Sarrasti 

e  il  pian  che  Sarno  riga  e  gh  abitanti 

e  di  Rufra  e  di  Batulo  ed  i  campi 

di  Celemna  e  color  cui  d'alto  mira 

la  pomifera  Abella,  usi  lanciare 

a  la  guisa  teutonica  cateie  : 

spiccano  per  difesa  de  la  testa 

la  corteccia  del  sughero  ;  di  bronzo 

brillan  le  targhe,  brillano  le  spade. 

E  te  mandò  la  montuosa  Nersa, 
Utente,  chiaro  e  fortunato  in  armi. 
Ben  selvaggia  è  sua  gente  e  avvezza  a  molto 
cacciar  boschivo,  EquicoH  dal  duro 


LIBRO    SETTIMO  245 

suolo.  Armati  lavorano  la  terra, 

e  fresche  sempre  convogliar  le  prede 

è  lor  piacere  e  viver  di  rapina. 

E  di  Marruvia  gente  sacerdote 
col  ramo  a  l'elmo  del  benigno  ulivo 
venne,  d'Archippo  re  per  cenno,  Umbrone 
fortissimo.  La  razza  viperina 
e  l'idre  attossicanti  egli  soleva 
cantando  e  carezzando  addormentare, 
blandirne  l'ire  e  medicarne  il  morso. 
Pure  guarir  de  la  dardania  punta 
non  seppe  il  colpo,  e  per  la  sua  ferita 
il  sonnifero  canto  non  gli  valse 
e  le  pe'  marsi  clivi  erbe  raccolte. 
Te  la  selva  d'Angizia,  te  gli  specchi 
pianser  molli  del  Fucino. 

Bellissimo  a  la  guerra  anche  movea 
d'Ippolito  fìgliuol  Virbio  che  Aricia 
madre  inclito  mandò,  cresciuto  a  l'ombre 
di  Egeria  lungo  le  fluenti  rive, 
ove  ha  Diana  aitar  florido  e  pio. 
Che  d'Ippolito  è  fama,  poi  che  morto 
per  l'arti  fu  de  la  matrigna  e  al  padre 
diede  il  suo  sangue  in  pena,  dagli  ombrati 
cavalli  strascinato,  un'altra  volta 
rivedesse  le  stelle  e  il  cielo  azzurro 
per  l'erbe  di  Peone  e  il  cuor  di  Trivia. 
Allora  il  Padre  onnipotente,  in  ira 
avendo  che  mortale  alcun  risorga 
da  l'ombre  interne  al  raggio  de  la  vita, 


24t)  ENEIDE 

il  trovator  di  tale  medicina 

e  maestria  benché  figliuol  di  Febo 

col  fulmine  a  la  stigia  onda  sospinse. 

Ma  l'alma  Trivia  ne'  recessi  asconde 

Ippolito,  e  a  la  ninfa  Egeria  e  al  bosco 

il  relega,  dov'ei  solingo  in  selva 

ignorato  dagl'  Itali  vivesse 

e  Virbio  fosse  con  mutato  nome. 

Onde  ancora  da  quel  tempio  di  Trivia 

e  da  l'ombre  devote  si  tien  lungi 

de'  cavalli  lo  scalpito,  che  il  cocchio 

sul  lido  riversarono  ed  il  sire 

dal  portento  marino  impauriti. 

Non  meno  il  figlio  esercitava  al  piano 

corsieri  ardenti  e  li  spronava  in  guerra. 

Esso  tra  i  primi  vigoroso  Turno 

vibrasi  in  armi  e  tutto  il  capo  ha  sopra. 

Il  suo  di  tre  criniere  elmo  crinito 

una  Chimera  inalbera  che  soffia 

fuochi  etnei  da  le  fauci  e  allor  più  freme 

e  più  lampeggia  furiosa  quando 

aspre  le  pugne  più  corrono  sangue. 

D'oro  il  suo  liscio  scudo  adornava  Io 

cornuta  e  già  di  peli  irta  giovenca 

(argomento  preclaro)  e  custode  Argo 

de  la  fanciulla  ed  Inaco  suo  padre 

versando  acque  da  l'urna  cesellata. 

Di  fanti  un  nembo  il  segue  e  in  ogni  campo 

si  addensan  chpeate  file,  Argivi 

giovani  e  Aurunci,   Kutuli  e  vetusti 


LIBRO    SETTIMO  247 

Sicani,  de'  Sacrani  insiem  lo  stuolo 

e  de'  Labìci  dal  dipinto  scudo, 

quei  che  aran,  Tiberino,  i  boschi  tuoi 

e  del  Numico  il  terren  sacro,  o  il  solco 

guidano  per  le  rutule  pendici 

e  pel  capo  Circeo;  le  terre  che  ama 

proteggere  Giove  Ànxuro  e  Feronia 

lieta  del  verde  bosco,  e  dove  imbruna 

di  Sàtura  il  palude  e  il  fresco  Ufente 

cerca  la  via  per  F  ime  valli  al  mare. 

Giunse  oltre  questi  da  la  Volsca  gente 
Camilla  che  uno  stuol  di  cavalieri 
conduceva  ne  l'arme  luminosi  ; 
guerriera,  né  avvezzò  le  femminili 
mani  a'  cestelli  e  al  fuso  di  Minerva, 
ma  fanciulla  sfidar  le  maschie  prove 
e  superare  ne  la  corsa  il  vento. 
Ben  passerebbe  a  fiore  de  la  messe 
senza  offesa  lasciar  pure  una  spiga  ; 
alta  per  mezzo  il  mar  su  l'onde  gonfie 
sorvolerebbe  con  le  piante  asciutte. 
Lei  da  le  case,  lei  da'  campi  accorsa 
tutta  la  gioventù  mira  e  le  madri 
la  guardano  passar,  tra  sé  stupiti 
de  la  porpora  regia  che  le  spalle 
morbide  vela,  de  la  fibbia  d'oro 
che  le  annoda  i  capelli,  e  come  venga 
essa  portando  la  faretra  licia 
e  il  mirto  pastoral  ferrato  in  punta. 


LIBRO  OTTAVO 


Poi  che  da  la  laurente  rocca  il  segno 
levò  Turno  di  guerra  e  in  rauco  suono 
strepitarono  i  corni,  e  poi  che  scosse 
gU  animosi  cavalli  e  spinse  Tarmi, 
subito  i  cuori  s'agitano,  tutto 
congiura  il  Lazio  impaziente,  e  freme 
fiera  la  gioventù.  Messapo  e  Utente 
e  sprezzatore  degli  Dei  Mezenzio 
son  duci  primi  a  radunar  le  forze 
desolando  di  braccia  i  campi  intorno. 
Vènulo  inoltre  a  la  città  s'invia 
del  grande  Diomede  per  ausilio 
chiedere  ed  annunciare  esser  nel  Lazio 
i  Troiani;  che  giunto  Enea  dal  mare 
porta  i  Penati  vinti  e  sé  dai  fati 
dice  richiesto  a  re;  che  al  sir  dardanio 
molte  genti  s'accostano  e  il  suo  nome 
frequente  per  le  lazie  aure  si  spande. 
A  che  si  accinga,  qual  successo  a  l'armi, 
se  la  fortuna  lo  secondi,  agogni, 


250  ENEIDE 

più  manifesto  deve  a  Diomede 

che  a  Turno  re  parere  o  a  re  Latino. 

Ciò  per  il  Lazio. 

E  il  laomedonteo 
eroe,  tutto  vedendo,  in  gran  tempesta 
ondeggia  di  pensieri,  or  qua  la  mente 
or  là  rapida  volge,  e  in  ogni  parte 
le  dà  Tali  per  tutte  le  vicende: 
qual  tremulo  brillar  d'acque  ne'  bronzei 
vasi,  dal  sol  percosso  e  da  la  luna 
specchiata,  Heve  si  riflette  intorno 
e  balza  e  il  sommo  de  le  stanze  irraggia, 
Era  notte,  e  per  ogni  terra  stanchi 
gli  animali  che  volano  e  che  vanno 
alto  sonno  teneva:  il  padre  Enea 
su  la  riva  e  sottesso  il  freddo  cielo, 
afflitto  in  cuore  da  la  triste  guerra, 
diede  a  le  membra  sue  tardo  riposo. 
Ed  ecco  gli  sembrò  dal  fiume  ameno 
tra  le  fronde  de'  pioppi  sollevarsi, 
del  luogo  annoso  nume,  Tiberino  ; 
tenue  lino  il  cingea  di  glauco  velo, 
le  canne  gli  ombreggiavano  i  capelli  ; 
e  così  favellare  a  suo  conforto  : 
i<  O  stirpe  degli  Dei  che  ne  riporti 
di  tra'  nemici  Troia  e  fai  perenne 
Pergamo,  o  sospirato  ne  la  terra 
laurente  e  ne'  latini  campi,  è  questa 
la  casa  tua,  son  qui,  non  ne  partire, 
i  tuoi  Penati,  né  temer  minacce 
di  guerra  :   tutto  si  posò  il   bollore 


LIBRO    OTfAVO  25I 

de  r  ire  degli  Dei. 

Eccoti  gik  -  che  tu  non  creda  un  vano 

sogno  vedere  -  sotto  Felci  a  riva 

grande  giacer  la  scrofa  troverai 

che  si  sgravò  de'  trenta  capi,  bianca, 

per  terra,  bianchi  a  le  sue  poppe  i  nati. 

Di  qui  tre  volte  i  dieci  anni  volgendo, 

Ascanio  fonderà  dal  chiaro  nome 

Alba.  Non  presagisco  incerte  cose. 

Or  breve,  ascolta,  ti  dirò  la  via 

che  vincitor  tu  quel  che  preme  adempia. 

Gli  x\rcadi,  scesi  da  Fallante,  in  queste 

spiagge,  seguendo  Evandro  e  i  suoi  vessilli, 

elessero  lor  sede  e  sopra  il  monte 

posero  la  città  che  dal  loro  avo 

Fallante  nominaron  Fallanteo. 

Questi  hanno  guerra  co'  Latini  assidua  ; 

te  li  associa  a  l'impresa  in  alleanza. 

Io  stesso  indietro  t'addurrò  pel  fiume 

a  vincere  co'  remi  la  corrente. 

Su,  figliuol  de  la  Dea,  col  declinare 

primo  degli  astri  porgi  le  sue  preci 

a  Giunone  e  ne  supera  co'  voti 

supplichevoli  r  ira  e  le  minacce. 

L'onore  a  me  farai  dopo  il  successo. 

Guai  tu  mi  vedi  radere  le  sponde 

in  piena  tra  le  terre  coltivate, 

il  ceruleo  Tevere  son  io, 

fiume  al  ciel  prediletto.  È  qui  la  grande 

mia  casa,  il  capo  a  città  eccelse  nasce  ». 

Disse,  poi  si  calò  ne  l'imo  gorgo: 


252  ENEIDE 

se  ne  va  per  Enea  la  notte  e  il  sonno. 
Si  leva,  e  vòlto  dove  sorge  il  sole 
devoto  tra  le  palme  acqua  dal  fiume 
attinge  e  verso  il  ciel  move  la  voce: 
«  Ninfe,  laurenti  Ninfe,  onde  hanno  i  rivi 
origine,  e  tu,  Tebro  genitore 
col  fiume  santo,  ricevete  Enea 
e  traetelo  alfine  da'  perigli. 
Qualunque  il  gorgo  sia  che  te  raccoglie 
che  pietà  senti  de'  travagli  nostri, 
qualunque  il  suolo  onde  bellissimo  esci, 
sempre  l'onor,  sempre  i  miei  doni  avrai, 
lunato  fiume  re  de  l'acque  esperie. 
Solo  m'assisti  e  mi  confenna  il  cenno  ». 
Ei  così  parla,  e  da  la  flotta  due 
biremi  sceglie  col  remeggio  loro, 
insieme  dà  Tarmi  a'  compagni.  Ed  ecco, 
improvviso  mirabile  portento, 
candida  tra  le  piante  e  concolore 
co'  bianchi  nati  su  la  verde  riva 
una  scrofa  giacersi.  A  te  l'immola 
il  pio  Enea,  a  te,  massima  Giuno, 
e  la  fa  star  con  la  sua  turba  a  l'ara. 

Gonfia  per  quella  notte  quanto  è  lunga 

il  Tevere  abbonì  la  sua  corrente 

e  sì  la  rese  tacita  che  a  modo 

di  cheto  stagno  e  placida  palude 

piana  si  stende  e  senza  intoppo  al  remo. 

Dunque  l'impresa  via  con  rumor  lieto 

tengono;  scorre  lo  spalmato  abete; 


LIBRO    OTTAVO  253 

e  ammiran  l'onde,  ammira  la  foresta 
sorpresa  lungi  lampeggiar  gli  scudi 
e  nuotando  venir  le  pinte  prore. 
Quei  sudano  al  remeggio  notte  e  giorno 
e  seguono  le  lunghe  curve;  sotto 
agli  alberi  scompaiono  solcando 
per  il  placido  pian  le  verdi  selve. 
Salito  in  mezzo  al  cielo  il  sole  ardea, 
quando  i  muri  e  la  rocca  di  lontano 
vedono  e  rari  de  le  case  i  tetti  : 
la  romana  grandezza  or  tutto  quivi 
fece  divino,  allor  tenealo  Evandro 
povero  regno.  Volgono  le  prore 
rapide  e  a  la  città  si  fanno  presso. 

Giusto  quel  dì  rendea  solenne  rito 
a  TAnfìtrioniade  e  agli  Dei 
l'arcade  re  fuor  la  città  nel  bosco. 
Con  lui  Fallante  suo  fìgliuol,  con  lui 
i  principali  e  il  povero  senato 
incensi  offrian  :  fumava  il  sangue  a  l'are. 
Come  vider  le  navi  alte  e  tra  '1  folto 
quelli  appressar  curvi  su'  remi  e  muti, 
sgomenti  al  subito  apparir,  da  mensa 
balzano  tutti.  Ma  Fallante  audace 
vieta  che  il  rito  s'interrompa,  e  solo, 
afferrato  uno  strai,  vola  a  l' incontro, 
e  da  un'altura  lungi  grida  :  «  Oh  voi, 
qual  vi  spinse  cagion  pe  '1  nuovo  solco  ? 
chi  siete  ?  onde  venite  ?  a  pace  o  guerra  ?  » 
Da  l'alta  poppa  il  padre  Enea  risponde 


25-j  ENEIDE 

porgendo  il  ramo  de  la  mite  oliva: 

e  Teucri  tu  vedi  ed  a'  Latini  avverse 

armi,  che  quelli  con  superba  guerra 

cacciano  a  ramingar.  \'eniamo  a  Evandro. 

Tornate  e  riferitegli  esser  giunti 

eletti  di  Dardania  condottieri 

a  domandare  un'alleanza  d'anni  ». 

Stupì  Fallante  al  suon  di  tanto  nome  : 

«  Approda,  qual  tu  sia,  parla  a  mio  padre  ; 

entra  a'  nostri  Penati  ospite  »  disse  : 

e  l'accolse  e  si  strinse  a  la  sua  destra. 

Sotto  le  piante  avanzano  dal  fiume. 

Enea  si  volge  al  re  con  voce  amica  : 

(f  Ottimo  tu  de'  Greci,  a  cui  Fortuna 

volle  eh'  io  porga  preci  e  stenda  i  rami 

tra  le  bende,  non  io  certo  temei 

perché  duce  d 'Argivi  arcade  fossi 

e  consanguineo  de'  fratelU  Atridi  ; 

anzi  la  fede  mia,  del  cielo  i  santi 

oracoli,  i  comuni  avi,  la  tua 

fama  pe '1  mondo,  a  te  sì  m'hanno  stretto, 

da  venir  heto  per  la  via  de'  fati. 

Dardano,  d' Ilio  padre  e  fondatore, 

nato  di  Elettra  atlantide,  al  narrare 

de'  Grai,  ne  viene  a'  Teucri:  il  sommo  Atlante 

Elettra  procreò,  che  su  le  spalle 

del  ciel  regge,  le  volte.  A  voi  Mercurio 

è  padre,  cui  la  bella  Maia  espose 

su  la  gelida  vetta  di  Gliene  : 

or  Maia,  se  diam  fede  al  detto.  Atlante, 


LIBRO    OTTAVO 


^DD 


lo  Stesso  Atlante  genera  che  regge 

gli  astri  del  del.  Così  d'ambo  la  schiatta 

scende  da  un  sangue  e  si  dirama  in  due. 

Fidato  in  questo,  te  provar  non  volli 

prima  per  arte  di  legati:  io  stesso 

venni,  io  mi  t'offerisco,  io  ti  scongiuro. 

Quella  stessa,  che  te,  gente  di  Daimo 

noi  guerreggia  crudel  :  cacciati  noi, 

nulla  pensa  mancar,  che  al  giogo  suo 

tutta  r  Esperia  non  sommetta  e  regni 

quel  mar  che  sopra  e  quel  che  sotto  ondeggia. 

Prendi  e  rendi  la  fede  :  in  guerra  forti, 

e  cuore  abbiamo  e  ben  provata  gente  ■>. 

Questo  avea  detto  Enea.  Mentr'ei  parlava, 

pur  gli  veniva  l'altro  esaminando 

il  viso  e  gli  occhi  e  tutta  la  persona. 

Poi  breve  esclama  :  «  Oh  di  che  cuor  t'accolgo, 

fortissimo  de'  Teucri,  e  ti  ravviso  ! 

come  la  voce  e  le  parole  e  il  volto 

del  grande  Anchise  padre  tuo  rammento  ! 

Sì,  mi  sovvien  che  Priamo  sovrano, 

per  \dsitar  de  la  sorella  Esìone 

il  regno,  mosso  a  Salamina,  al  freddo 

si  sospinse  paese  de  l'Arcadia. 

Allora  fresca  mi  fioria  la  gota: 

guardavo  i  teucri  duci,  esso  guardavo 

il  Laomedontiade,  ma  sopra 

tutti  era  Anchise.  Oh  giovami  vaghezza 

di  favellargli     e  di  toccar  sua  mano  ! 

M'accostai,  giubilai  con  me  d'averlo 

a  Fènéo.   Partendo  egli  mi  diede 


250  EX  FI  Dì-: 

una  bella  faretra  e  licie  frecce, 

una  clamide  in  oro  ricamata, 

d'oro  due  freni  che  usa  il  mio  Fallante. 

Dunque  è  già  stretta,  qual  chiedete,  al  patto 

la  mia  destra,  e  domani  a'  primi  raggi 

vi  lascierò  partir  lieti  d'aiuto 

e  giovati  di  forza.  Intanto  a  l'annuo 

rito,  che  è  colpa  differire,  amici 

poi  che  giungeste,  unitevi  di  cuore 

e  a  le  mense  de'  soci  or  già  v'usate  ". 

Detto  così,  fa  le  vi\ande  apporre 

di  nuovo  e  i  nappi  già  levati;  alluoga 

esso  i  guerrieri  in  seggio  erboso,  e  a  onore 

sopra  un  gran  vello  leonino  Enea 

accoghe  e  al  sogho  d'acero  l' invita. 

Recano  a  prova  allor  scelti  garzoni 

e  il  ministro  de  l'ara  abbrustolate 

di  tori  entragne,  colmano  canestri 

di  lavorati  cereali  doni 

e  versan  bacco.  Insiem  si  ciba  Enea 

e  la  troiana  gioventù  del  tergo 

d'un  gran  bove  e  di  viscere  lustrali. 

Doma  la  fame  ed  il  desio  de'  cibi, 
soggiunge  Evandro  :  «  Questo  sacro  rito, 
questo  solenne  desco,  quest'altare 
di  sì  gran  nume,  non  l'impose  a  noi 
vana  e  obliosa  degU  antichi  Dei 
superstizione:  salvi  da  crudeli 
rischi,  ospite  troian,  così  facciamo 
e  meritato  rinnoviam  l'omaggio. 


LIBRO    OTTA'.O  2f 

Or  vedi  prima  questa  rupe  m  alto 
sospesa  e  come,  dissipati  i  massi. 
\iiota  del  monte  sia  la  casa  e  vasto 
scoscendimento  intomo.   Una  spelonca 
qui  fu  che  immensa  s'internava  addentro, 
e  il  crudo  ceffo  la  tenea  di  Caco 
mezzo  bestia,  del  sol  negata  ai  raggi  : 
sempre  fumava  il  suol  di  fresco  sangue, 
e  sempre  affissi  a  le  feroci  porte 
erano  volti  pallidi  e  stillanti. 
Padre  del  mostro  era  \'ulcano  ;  e  i  foschi 
fuochi  di  lui  di  bocca  vomitando 
enorme  esso  incedeva.  Il  tempo  alfine 
anche  al  nostro  desio  portò  soccorso 
col  giungere  di  un  dio.  \'endicatore 
massimo,  de  la  morte  e  de  le  spoghe 
del  triphce  Gerione  superbo, 
giungeva  Alcide  e  trionfante  i  grandi 
tori  davanti  a  sé  per  qua  spingeva  : 
tutta  la  valle  e  il  greto  empia  l'armento. 
Ma  in  sua  foUia  la  mente  empia  di  Caco. 
per  non  lasciar  colpa  o  malizia  senza 
osar  tentarla,  quattro  da  le  stalle 
splendidi  tori  trasse  ed  altrettante 
segnalate  gio\-enche  :  e  perché  nulla 
diretta  orma  apparisse,  per  la  coda 
strascinandoli  a  l'antro,  ed  in  contrario 
volta  la  spia  de  la  rapina,  dentro 
la  rupe  cieca  li  ascondea  :  chi  cerchi. 
no  1  portava  vestigio  a  la  spelonca. 
Intanto,  come  riposati  e  -azi 


A^  BINI 


25?'  n.XEIDE 

già  l'Antìtrioniade  gli  armenti 

movea  presto  a  partir,  su  la  partita 

muggirono  le  mandre  e  del  muggito 

fu  piena  la  foresta  e  la  collina. 

Rese  de  le  giovenche  una  la  voce 

e  mugolò  sotto  il  vasto  antro,  e  chiusa 

così  di  Caco  il  confidar  deluse. 

Ecco  in  Alcide  pien  d' ira  e  di  bile 

si  fu  desto  il  dolor:  rapidamente 

porse  la  mano  a  la  nodosa  clava 

e  prese  a  corsa  su  pe'l  monte.  Allora 

videro  i  nostri  per  la  prima  volta 

Caco  allibbir  tutto  smarrito  :  fugge 

subito  via  più  rapido  del  vento 

verso  l'antro  ;  ali  a'  pie  die  la  paura. 

Chiuso  che  fu,  fatto  piombar,  schiantando 

la  catena,  il  gran  sasso  che  pendea 

per  ferro  opra  paterna,  e  di  tal  mole 

rafforzata  la  porta,  ecco  furente, 

ecco  il  Tirintio  sopraggiunger  che  ogni 

adito  tenta  e  qua  e  là  si  volge 

stringendo  i  denti.  In  suo  furor  tre  volte 

tutto  il  monte  Aventin  gira,  tre  volte 

crolla  i  massi  a  le  soglie  indarno,  e  lasso 

tre  volte  ne  la  valle  ebbe  a  fermarsi. 

Sul  dorso  a  la  spelonca,  in  mezzo  agli  altri 

mozzi  pietroni,  altissima  spiccava 

a  lo  sguardo  una  punta,  acconcio  luogo 

a'  nidi  degli  uccelli  di  rapina. 

Questa,  com'era  pel  declivio  prona 

a  sinistra  '^iil   fiume.   (M*   yer^n  destra 


LIBRO    OTTANO  25Q 

sforzò,  la  svelse  fin  da  le  radici, 

poi  d'un  tratto  la  spinse,  e  tal  fu  spinta, 

che  ne  rimbomba  l'alto  ciel,  le  rive 

sobbalzano  e  atterrito  arretra  il  fiume. 

La  spelonca,  la  gran  reggia  di  Caco 

scoperchiata  apparì  con  le  profonde 

tenebrose  caverne;  e  fu  si  come 

se  a  forza  spalancandosi  la  terra 

mostrasse  i  luoghi  inferni  e  i  regni  bui, 

odiosi  agli  Dei,  e  d'alto  quello 

si  discoprisse  baratro  infinito, 

tremando  l'ombre  a  l' inondar  del  giorno. 

Dunque  sorpreso  lui  da  l'inatteso 

lume  nel  covo  e  più  che  mai  ruggente 

di  su  rinveste  con  gli  strah  Alcide, 

e  gli  vien  buona  ogni  arma,  e  di  tronconi 

e  di  macigni  smisurati  il  copre. 

Colui  (che  più  non  è  fuga  nessuna) 

di  bocca  spira  un  incredibil  fumo 

e  tutto  fa  caliginoso  intorno, 

toglie  il  vedere  e  ne  lo  speco  addensa 

nebbiosa  notte  cui  lingueggia  il  fuoco. 

Non  lo  sofferse  xiloide  e  per  la  vampa 

si  gittò  d'un  gran  salto,  ove  più  denso 

ondeggia  il  fumo  e  il  fiotto  atro  de  l'antro. 

Là  Caco  ne  le  tenebre  che  vani 

vomita  incendi  d'un  gran  nodo  serra, 

scoppian  gli  occhi  e  la  gola  senza  sangue. 

Rotte  le  porte  or  la  rea  casa  s'apre, 

e  i  buoi  nascosti  e  i  furti  spergiurati 

mostransi  al  cielo,  e  per  i  pie  si  trae 


26o  ENEIDE 

fuor  l'orrendo  cadavere.   Non  sanno 
saziarsi  a  guardar  gli  occhi  feroci, 
il  ceffo  e  tutto  setoloso  il  petto 
de  l'uom  selvaggio  e  le  smorzate  fauci. 
Da  quel  tempo  la  festa  è  celebrata, 
e  osservarono  il  di  lieti  i  figliuoli, 
Potizio  il  primo  de  l'erculea  sagra 
ordinator  e  la  Pinaria  casa 
che  n'è  custode.  Quest'Ara  nel  bosco 
egli  innalzò,  che  noi  Massima  sempre 
diremo  e  che  sarà  Massima  sempre. 
Or,  per  sì  glorioso  beneficio, 
v'inghirlandate,  o  giovani;  le  tazze 
levate  ne  la  destra,  e  il  dio  comune 
invocate  libando  il  vin  devoti  ». 
Disse,  ed  il  pioppo  bicolor  d'erculea 
ombra  velò  le  chiome  intesto  e  lieve 
e  il  sacro  scifo  empì  la  destra.  Tutti 
libano  su  la  mensa  orando  i  Numi. 

Ma  declinando  il  ciel  Vespro  s'accosta, 

e  i  sacerdoti  già,  Potizio  il  primo, 

venian,  cinti  le  pelli  rituali, 

con  le  fiamme.   Rinnovano  il  convito, 

recan  de  la  seconda  mensa  i  grati 

doni,  di  colme  lanci  empiono  l'are. 

Indi  a  l'intorno  degU  accesi  altari 

s'avanzano  a'  lor  canti  i  vSalii,  cinti 

de  le  frondi  populee  le  tempie, 

l'un  di  giovani  coro  e  l'un  di  vecchi  ; 

e  inneggiano  l'erculee  fatiche  : 


lAÌ'Ali)    (>!   IA\.<)  2f)I 


come  de  la  matrigna  i  mostri  primi 
e  i  due  draghi  strozzò  con  la  sua  mano  ; 
come  abbatté  città  famose  in  guerra, 
Troia  ed  Ecalia  ;  come  aspri  infiniti 
sofferse  sotto  Euristeo  re  travagii 
pe  '1  mal  volere  di  Giunone.  ^<  O  invitto, 
tu  i  figli  de  la  nuvola  bimembri, 
lièo  e  Polo,  uccidi,  tu  il  portento 
eresio  e  sotto  la  rupe  il  gran  leone 
di  Xèmea.  Te  tremaron  l'acque  stigie, 
te  il  guardian  de  l'Orco  accovacciato 
sopra  le  rosicchiate  ossa  cruente. 
Né  mai  te  mostro  impaurì,  non  esso 
Tifoeo  torreggiante  in  armi  ;  l' idra 
lernèa  smarrito  non  ti  fé',  d'intorno 
rigermogliando  gì'  infiniti  capi. 
Salve,  vero  figliol  di  Giove,  aggiunto 
decoro  a'  Divi,  e  a  noi  ed  al  tuo  rito 
con  piede  favorevole  discendi  > . 
Questo  ne  l'inno  celebrano,  e  sopra 
tutto  di  Caco  aggiungon  la  spelonca 
e  lui  spirante  da  le  fauci  il  fuoco. 
Empie  il  canto  la  .selva  e  l'eco  i  poggi. 
Così  compiute  le  divine  cose, 
toman  tutti  a  città. 

Grave  il  re  d'anni 
andava  e  a  lato  avea  compagno  Enea 
e  il  proprio  figlio,  e  più  facea  gradito 
col  variato  favellar  l'andare. 
Mira  e  per  tutto  i  facili  occhi  move 
Enea,  de'  luoghi  preso,  e  chiede  e  ode 


262  ENEIDE 

a  una  a  una  le  meniorie  antiche. 
Il  fondator  de  la  romana  rocca 
Evandro  re  dicea  :  «  Nativi  Fauni 
teneano  e  Ninfe  questi  boschi,  e  gente 
da'  tronchi  uscita  e  da  la  dura  quercia, 
senza  legge  né  modo  :  aggiogar  tori, 
adunar  frutti  e  provvidi  riporre 
non  sapeano;  ma  gli  alberi  e  la  dura 
caccia  li  alimentava.  Primo  venne 
da  l'Olimpo  Saturno  che  fuggìa 
l'armi  di  Giove  ed  esule  dal  regno. 
Questi  la  gente  indomita  e  dispersa 
pe'  monti  alti  raccolse  e  a  lor  die  legge, 
e  Lazio  volle  nominar  la  terra 
ove  latente  in  sicurezza  stette. 
Il  secol  d'oro  che  si  narra,  lui 
regnante  fu  :  de'  popoli  gran  pace  : 
fin  che  un'età  scaduta  e  scolorata 
a  grado  a  grado  ed  il  furor  di  guerra 
e  l'ingordigia  de  l'aver  successe. 
Ausonia  schiera  poi,  genti  Sicane 
vennero,  e  spesso  la  Saturnia  terra 
depose  il  nome  :  i  re  fur  quindi  e  il  fiero 
Tebro  di  gran  persona,  onde  noi  Tebro 
Itali  nominammo  il  nostro  fiume, 
e  il  suo  vero  la  vecchia  Albula  perse. 
Me  di  patria  sbandito  e  corsi  i  rischi 
del  mar  in  questi  luoghi  la  fortuna 
onnipotente  e  l'invincibil  fato 
posero,  e  de  la  mia  madre  la  ninfa 
Carmente  mi  v'  indussero  i  solenni 


LIBRO    OTTA\0  263 

responsi  e  il  dio  che  l' inspirava  Apollo  - . 

Appena  detto  avea,  s'avanza  e  mostra 

Tara  e  la  porta  che  il  Romano  chiama 

Carmental,  prisco  vanto  de  la  ninfa 

Gannente,  la  veridica  veggente 

che  per  la  prima  presagi  futuri 

gli  Eneadi  grandi  e  il  nobii  Pallanteo. 

Indi  ampio  bosco  addita,  ch'esser  volle 

l'acre  Romolo  Asilo,  e  sotto  il  ciglio 

di  fredda  rupe  il  Lupercal,  chiamato 

dal  parrasio  chiamar  di  Pan  licèo. 

E  del  sacro  Argileto  addita  inoltre 

la  boscagha  e  designa  il  luogo  e  narra 

quella  de  l'ospite  Argo  uccisione. 

Quindi  al  Tarpeo  l'adduce  e  al  Campidoglio, 

che  d'oro  è  oggi,  allor  fu  selva  e  spine. 

Allora  già  un  terror  sacro  del  luogo 

comprendeva  gh  agresti  abitatori, 

venerabondi  del  selvoso  sasso. 

<(  Questo  bosco  >)  il  re  dice  '(  e  questa  vetta 

frondosa,  non  si  sa  qual  dio,  ma  un  dio 

l'abita.  Credon  gli  Arcadi  aver  visto 

esso  Giove  talor  che  con  la  destra 

la  bruna  egida  scuote  e  aduna  i  nembi. 

Qui  due  dìrute  moU  altresì  vedi 

resti  e  ricordi  de'  progenitori  : 

Giano  padre  quest'arce,  e  questa  pose 

Saturno,  onde  Gianicolo  era  quella 

e  quest'altra  Saturnia  nominata  ». 

Cosi  tra  lor  parlando  a  la  dimora 

già  del  semplice  Evandro  eran  vicini, 


J(>4  ICXHIDK 

e  vedean  sparsi  mugolare  armenti 
per  il  Romano  Foro  e  le  Carine 
splendide.  Come  furono  a  le  soglie, 
«  Qui  »  disse  «  entrò  vittorioso  Alcide  ; 
questa  reggia  il  contenne.  Osa  spregiare, 
ospite,  le  dovizie,  e  te  pur  degno 
fa  del  dio  ;  vieni,  e  a  povertà  sorridi  ». 
Cosi  nel  tetto  angusto  il  grande  Enea 
mise  e  gli  die  foglie  per  letto  ed  una 
pelle  d'  un'  orsa  libica. 

La  notte 
cade  e  abbraccia  con  fosche  ali  la  terra. 

Ma  V^enere,  sgomenta  non  indarno 

nel  cuor  materno  a  le  minacce  e  a'  moti 

de'  Laurenti,  rivolgesi     a  Vulcano 

entro  il  talamo  d'oro,  ed  incomincia, 

divino  amor  spirando  a  le  parole  : 

«  Mentre  gli  argivi  re  Pergamo  a  loro 

dovuta  desolavano  di  guerra 

e  con  incendio  ostil  l'arci  caduche, 

non  aita  pe'  miseri,  non  chiesi 

armi  di  tua  maestra  man,  né  volli 

te,  diletto  marito,  esercitare 

inutilmente  a  l'opera,  quantunque 

fossi  di  Priamo  a'  figli  debitrice 

e  d'  Enea  mi  accorasse  il  duro  affanno. 

Or  per  voler  di  Giove  egli  s'  è  fermo 

ne  la  terra  de'   Rutuli  :  quell'  io 

dunque  supplice  vengo  e  l'armi  chiedo 

madre  pe  '1  figho  al  nume  che  m'è  sacro. 


LIBKO    OTT.WO  205 

Te  di  Nereo  la  figlia  e  te  col  pianto 
piegar  seppe  la  donna  di  Titono. 
Mira  che  genti  adunansi,  ed  il  ferro 
quali  affilan  città,  chiuse  le  porte, 
a  offesa  mia,  per  distruzion  de'  miei  ». 
Avea  detto,  e  le  bianche  braccia  aprendo 
cinge  di  molle  amplesso  il  dubitoso. 
Sùbito  ei  risentì  l'usata  fiamma, 
ed  il  noto  calor  fino  al  midollo 
per  le  trepide  corse  ossa  struggenti; 
come  qualor  tra  l'abbagliante  schianto 
per  le  nuvole  guizza  un'ignea  lista. 
Lieta  il  sentì  de  le  lusinghe  e  conscia 
di  sua  beltà  la  moglie  ;  esso,  conquiso 
da  l'eterno  amor  suo,  così  rispose  : 
H  E  perché  movi  da  sì  alto  ?  e  come 
la  fede  in  me  smarristi,  o  dea  ?  Se  tale 
avevi  brama,  ben  potemmo  i  Teucri 
anche  allora  afforzar,  né  già  vietava 
il  Padre  onnipotente  né  il  destino 
Troia  e  Priamo  durare  altri  dieci  anni. 
Ed  or  se  a  guerra  t'apparecchi  e  intendi, 
quanto  prometter  so  ne  l'arte  mia 
di  zelo,  quanto  si  può  far  con  ferro 
e  con  liquido  elettro,  o  per  vigore 
di  mantici  e  di  fiamme,  oh  !  non  pregare, 
quasi  dubbio.sa  de  la  tua  potenza  ». 
Le  die,  ciò  detto,  il  desiato  amplesso, 
e  abbandonato  a  la  consorte  in  grembo 
si  riposò  di  placido  sopore. 


266  ENEIDE 

Poi  che  il  primo  riposo  a  mezzo  il  corso 

già  de  l'ombra  che  fugge  avea  cacciato 

il  sonno,  ed  in  quell'ora  che  la  donna 

che  dee  col  fuso  e  i  piccoli  lavori 

campar  la  vita,  le  sopite  brage 

riscote  da  la  cenere,  aggiungendo 

la  notte  a  la  fatica,  e  in  opra  lunga 

a  la  fiaccola  esercita  le  fanti, 

per  serbare  del  talamo  l'onore 

ed  allevare  i  piccoli  figliuoli; 

non  altrimenti  quel  signor  del  foco, 

né  ad  ora  men  sollecita,  si  leva 

dal  molle  letto  a  l'opere  di  fabbro. 

Sta  lungo  il  fianco  siculo  e  l'eolia 

Lipari  un'alta  isola  che  fuma: 

sotto  quella  riarsi  da'  camini 

de'  Ciclopi  rimbombano  antri  etnèi, 

i  fieri  colpi  su  l'incudini  hanno 

echi  ululanti,  rugghiano  le  rudi 

masse  de'  Càlibi  entro  le  caverne, 

ne  le  fornaci  il  fuoco  anela;  è  casa 

di  Vulcano  e  Vulcania  terra  il  nome. 

Quivi  scese  dal  cielo  il  dio  del  fuoco. 

Ferro  battean  nel  vasto  antro  i  Ciclopi, 

Bronte  e  Sterope  e  nudo  Piracmone. 

Da  lor  foggiato  e  già  brunito  in  parte 

era  un  fulmine,  quali  a>'venta  il  Padre 

da  tutto  il  cielo  in  su  la  terra  tanti, 

ed  una  parte  rimaneva  a  fare. 

Tre  di  grandine  raggi  e  tre  di  piova 


LIBRO    OTTAVO  267 

intrudi  \  '  hanno,  tre  di  roggio  fuoco 

e  d'alato  austro  :  ora  l'orribil  lampo 

vi  mescono  e  il  fragore  e  lo  spavento 

e  secondata  da  le  fiamme  l'ira. 

In  altro  lato  un  carro  e  le  correnti 

rote  per  ]\Iarte  affrettano,  su  cui 

esso  i  guerrieri  e  le  città  commuove  ; 

ed  un'egida  orribile,  armatura 

de  la  turbata  Pallade,  di  scaglie 

serpentine  finiano  a  gara  e  d'oro, 

e  serpi  a  gruppi,  e  sul  divino  seno 

il  capo  de  la  Gòrgóne,  che  torce, 

dispiccato  dal  busto,  le  pupille. 

«  Lasciate,  grida,  interrompete  tutto 

Etnei  Ciclopi,  e  m'ascoltate  intenti  : 

l'armatura  dee  farsi  ad  un  eroe. 

Or  bisognano  forze,  or  m^ani  pronte, 

tutta  or  l'arte  maestra.  E  senza  indugio  » 

Non  disse  più  ;  ma  quei  s'accinser  tutti 

subito  e  sorteggiar on  la  fatica. 

Eluisce  a  rivi  il  bronzo  e  l'oro,  il  ferro 

micidiale  in  gran  forno  si  squaglia. 

Foggiano  immenso  scudo,  un  contro  tutte 

l'anni  latine,  e  sette  cerchi  insieme 

commettono.  Ne'  mantici  ventosi 

l'aure  altri  aduna  e  le  respinge,  attuffa 

altri  ne  l'acque  lo  stridente  ferro. 

L'antro  rintrona  de  le  incudini.  Essi 

a  tempo  con  gran  forza  alzan  le  braccia, 

voltan  la  massa  con  tenace  morsa. 


»68  K.NKIUK 

.Mentre  il  dio  lemnio  ne  l'eolie  sponde 

l'opre  affretta  così,  da  l'umil  tetto 

svegliano  Evandro  l'alma  luce  e  il  canto 

mattutino  sul  tetto  degli  uccelli. 

Sorge  il  vecchio,  la  tunica  si  veste, 

i  tirreni  calzari  a'  pie  s'allaccia, 

poi  al  fianco  ed  a  l'omero  sospende 

la  spada  tegeèa,  da  manca  il  vello 

pendulo  di  pantera  ritorcendo. 

E  due  guardie  precedono  da  l'alta 

soglia  l'andare  del  signor,  due  cani. 

Va  de  l'ospite  Enea  verso  la  stanza 

appartata  l'eroe,  de'  lor  discorsi 

memore  e  del  promesso  aiuto  ;  Enea 

non  meno  usci\^a  mattiniero  :  il  figlio 

Fallante  a  l'un,  compagno  a  l'altro  Acate. 

Incontrati  congiungono  le  destre 

e  assidendosi  al  mezzo  de  la  casa 

godono  alfin  di  libero  colloquio. 

Fu  primo  il  re  : 

'  Sommo  duce  troian,  che  mentre  vivi, 

non  mai  vinta  dirò  Troia  e  il  suo  regno, 

a  sovvenir  la  tua  grandezza  in  guerra 

scarse  abbiam  forze  :  da  una  parte  il  tosco 

fiume  ci  chiude,  i  Rutuli  da  l'altra 

fin  sotto  a'  muri  rom.oreggian  d'armi. 

Pure  a  te  grandi  popoli  e  falangi 

di  possenti  reami  unire  intendo, 

salvezza  offerta  da  impensata  sorte  : 

a  domanda  de'  fati  or  tu  se'  giunto. 


J 


LIBRO    OTTANO  .    269 

Di  qui  non  lungi  su  vetusto  sasso 
fondata  una  città  s'abita,  Agilla, 
dove  un  dì  lidia  gente  in  guerra  illustre 
si  collocò  su'  vertici  d'  Etruria. 
Florida  per  molt'anni,  indi  la  tenne 
con  grave  imperio  e  con  armi  crudeli 
Mezenzio  re.  Perche  narrar  le  stragi 
spietate  e  gli  atti  del  tiranno  infami  ? 
In  capo  a  lui  e  a'  suoi  le  torni  il  cielo. 
Fin  per  tormento  a'  morti  corpi  i  vivi 
congiungea,  mani  a  mani  e  bocca  a  bocca, 
e  colanti  putredine  nel  triste 
abbraccio  li  uccidea  di  lunga  morte. 
Stanchi  a  la  fine  i  cittadini  il  mostro 
accerchiano  con  l'armi  e  la  sua  casa, 
trucidano  i  seguaci  e  gettan  fuoco 
a'  tetti.  Tra  l'eccidio  egli  sfuggito, 
a  riparar  de'  Rutuli  nel  regno 
e  da  l'ospite  Turno  esser  difeso. 
Dunque  tutta  levò  ne  l'ira  giusta 
r  Etruria,  ed  a  la  pena,  offrendo  guerra, 
ridomandano  il  re. 

Te  capitano 
io  vogho  dare  a  questi  mille  e  mille. 
Che  in  tutto  il  Hdo  premono  le  navi 
dense  e  chiedon  battaglia  ;  le  trattiene 
vaticinando  aruspice  longevo  : 
—  o  scelta  gio\'entù  de  la  Meonia, 
fiore  e  valor  de'  vecchi  padri,  mossi 
da  sdegno  pio  contro  il  nemico,  e  accesi 
da  Mezenzio  in  legittimo  furore, 


70  ENEIDE 

non  è  concesso  a  un  Italo  imperarvi: 

stranieri  duci  v'augurate  — .  Stette 

nel  campo  allor  l'etrusca  forza,  al  cenno 

atterrita  del  ciel.  Esso  Tarcone 

legati  a  me  inviò  con  la  regale 

corona,  con  lo  scettro  e  con  le  insegne, 

che  al  campo  io  vada  e  il  regno  etrusco  assuma. 

Ma  vieta  a  me  l'imperio  la  vecchiezza 

fredda  e  stremata  e  le  mie  forze  tarde 

a  fieri  gesti.  Esorterei  mio  figlio, 

se,  di  madre  sabina,  ei  non  traesse 

da  qui  la  patria  in  parte.  Enea,  che  i  fati 

per  gli  anni  favoriscono  e  pe  '1  sangue, 

che  chiamano  gli  Dei,  muovi  tu,  duce 

fortissimo  degl'Itali  e  de'  Teucri. 

Questo  a  te  pur,  speme  e  conforto  mio. 

Fallante  aggiungerò  :  che  la  milizia 

s'avvezzi  e  il  peso  a  tollerar  di  Marte 

avendo  te  maestro  e  l'alto  esempio, 

e  te  dagli  anni  giovinetti  ammiri. 

Arcadi  cavalieri  a  lui  dugento 

darò,  fior  di  valore,  ed  altrettanti 

in  nome  suo  te  ne  darà  Fallante  >. 

Questo  avea  detto  appena,  e  fiso  il  guardo 
teneano  Enea  d'Anchise  e  il  fido  Acate, 
molti  volgendo  in  cuor  tristi  pensieri, 
se  dato  non  avesse  a  ciel  sereno 
un  segno  Citerea.  Che  d'improvviso 
d'alto  vibrato  un  fulmine  sonoro 
viene,  e  sembrò  precipitare  il  mondo 


LIBRO    OTTA\0  '2/1 

e  ne  l'aria  sonar  tirrena  tromba. 

Guardano  in  su;  più  volte  il  suon  rintona. 

Armi  tra  un  nimbo  in  un'azzurra  plaga 

veggon  raggiare  e  urtate  insiem  tinnire. 

Sbigottirono  gli  altri,  ma  il  troiano 

eroe  conobbe  il  suono  e  de  la  diva 

sua  madre  le  promesse,  e  così  parla  : 

«.  Ospite,  no,  non  domandar  qual  caso 

rechi  il  portento:  me  l'Olimpo  chiede. 

Mi  presagì  la  diva  genitrice 

tal  segno,  se  la  guerra  s'addensasse, 

e  di  Vulcan  recarmi  un'armatura 

in  aiuto  dal  ciel.  Oh  quante  stragi 

s'apparecchiano  a'  miseri  Laurenti  ! 

Qual  fio  mi  pagherai,  Turno!  Tra  Tonde, 

Tevere  padre,  quanti  scudi  ed  elmi 

e  valorosi  volgerai  guerrieri! 

Gridino  a  l'armi  e  rompano  alleanze  !  )> 

Detto  ch'ebbe  cosi,  da  l'alto  seggio 
si  leva,  e  prima  con  l'erculeo  fuoco 
desta  i  sopiti  altari,  e  al  focolare, 
come  il  dì  avanti,  e  a'  piccoli  Penati 
sereno  appressa:  due  pecore  scelte 
offrono,  com'è  il  rito,  Evandro  insieme 
e  la  troiana  gioventù.  Poi  move 
quindi  a  le  navi  e  a  rivedere  i  suoi. 
Tra  loro  elegge  a  seguitarlo  in  guerra 
i  segnalati  di  valore  ;  gli  altri 
si  lasciano  portare  a  la  corrente 
del  fiume  in  givi,  per  essere  ad  Ascanio 


ENEIDE 


degli  eventi  e  del  padre  messaggeri. 
A'  Teucri  che  son  mossi  al  suol  tirreno 
si  assegnano  cavalli  :  uno  prescelto 
per  Enea  ne  conducono,  guernito 
d'un  vello  di  leon  con  l'unghie  d'oro. 

La  Fama  vola  e  subito  riempie 

la  piccola  città,  che  i  cavalieri 

vanno  a  la  volta  de  l'etrusco  sire.  • 

Trepide  i  voti  addoppiano  le  madri, 

che  l'affanno  al  pericolo  si  adegua 

e  rimagin  di  Marte  appar  maggiore. 

Allora  Evandro  del  figliuol  che  parte 

la  destra  tien  con  infinito  pianto 

e  dice  :    <  Oh  se  a  me  Giove  i  trascorsi  anni 

rendesse,  quale  io  era  allor  che  sotto 

essa  Preneste  urtai  la  prima  schiera 

e  bruciai  vincitor  monti  di  scudi 

e  di  mia  mano  Erulo  re  mandai 

ai  Tartaro,  cui  dato  avea  tre  vite 

(mostruoso  a  narrar)  Feronia  madre 

—  tre  armi  si  volean,  tre  volte  a  morte 

prostrarlo,  e  pur  tutte  quel  dì  le  vite 

questa  destra  gli  tolse  e  d'altrettante 

armature  il  spogliò       ,  non  or  sarei 

dal  dolce  amplesso  tuo,  figlio,  strappato. 

né  con  insulto  a  me  vicino  avrebbe 

Mezenzio  mai  tante  di  ferro  morti 

commesse  né  di  tanti  cittadini 

vedova  fatta  la  città.  Ma  voi, 

deh  !   voi  Celesti  e  tu  nume  de'  numi 


LIBKO    OTTA\0  2/3 

Giove,  a  l'arcadio  re,  suppKco,  abbiate 

pietà,  ne  udite  la  paterna  prece. 

Se  il  voler  vostro,  se  mi  serba  il  fato 

incolume  Fallante,  e  se  avrò  vita 

per  rivederlo  ed  essere  con  lui, 

viver  chiedo,  a  patire  ogni  travaglio 

son  presto.  Ma  se  caso  alcuno  atroce, 

o  Fortuna,  minacci,  or  mi  sia  dato, 

deh!  or  troncare  la  vita  crudele, 

mentre  vago  è  il  pensier,  la  speme  incerta 

de  l'avvenir,  e  te,  caro  fanciullo, 

mia  unica,  mia  ultima  dolcezza, 

ho  tra  le  braccia;  né  un  dolor  gU  orecchi 

ferisca...  » 

Queste  nel  congedo  estremo 
voci  spargeva  il  genitor,  poi  venne 
meno,  ed  i  ser\'i  lo  rendeano  a  casa. 

E  da  le  aperte  porte  i  cavalieri 
prorompevano  già,  tra  i  primi  Enea 
e  il  fido  Acate,  poi  di  Troia  gh  altri 
duci,  e  in  mezzo  a  la  schiera  esso  Fallante 
ne  la  clamide  bello  e  l'armi  adorne; 
Lucifero  è  così,  cui  predihge 
Venere  a  tutti  i  fuochi  de  le  stelle, 
quando  de  le  marine  onde  stillante 
si  leva  in  cielo  e  dissipa  la  notte. 
Stanno  su'  muri  pavide  le  madri, 
seguon  con  gli  occhi  il  polveroso  nembo 
e  gii  squadroni  fulgidi  di  bronzo. 
Quelli  prendono  armati  per  le  fratte 

Albini   -  Eneide  iS 


274  ENEIDE 

che  van  prime  a  la  meta  ;  il  grido  sale, 

e  in  fitto  stuolo  l'unghia  il  suol  che  fuma 

di  quadruplice  scalpito  per  cote. 

Grande,  presso  di  Cere  al  freddo  fiume, 

è  un  bosco,  per  devozion  de'  padri 

tutto  scuro;  lo  serrano  colline, 

bruni  abeti  lo  cingono.  A  Silvano, 

dio  de'  campi  e  del  gregge,  il  bosco  e  un  giorno 

è  fama  dedicassero  gli  antichi 

Pelasghi  che  già  tennero  per  primi 

il  paese  latino.  Indi  non  lunge 

Tarcone  ed  i  Tirreni  aveano  il  campo 

in  sicurezza,  e  si  potea  già  tutta 

la  legion  veder  da  l'alto  clivo 

largamente  attendata  a  la  campagna. 

Ivi  si  fanno  presso  il  padre  Enea 

ed  i  suoi  scelti  prodi,  e  affaticati 

de'  cavalli  e  di  sé  prendono  cura. 

Ma  tra  i  veh  del  ciel  Venere  bella 
venia  co'  doni,  e  al  figlio  in  una  valle 
riposta,  appena  che  appartato  il  vide 
dal  freddo  fiume,  con  parole  tali 
si  offerse  :  «  Ecco  i  promessi  doni  a  l'arte 
del  mio  sposo  dovuti,  onde  potrai 
senz'altro,  figliuol  mio,  chiamare  a  prova 
i  Laurenti  superbi  e  il  fiero  Turno». 
Disse,  e  a  l'abbraccio  ella  volò  del  figlio, 
e  dinanzi  a  una  quercia  le  raggianti 
armi  depose. 

Ki  del  divino  dono 


LIBRO    OTTAVO  275 

senza  fine  godendo  il  guardo  volge 
per  ciascun 'arme  e  mira,  e  tra  le  mani 
e  le  braccia  il  terribile  piumato 
elmo  agita  e  la  spada  ond'  esce  fiamma 
e  morte,  la  lorica  in  saldo  bronzo 
vasta,  sanguigna,  come  glauca  nube 
che  si  accende  di  sole  e  lungi  splende  ; 
indi  i  lisci  schinieri  di  purgato 
oro  e  d'elettro,  e  l'asta  e  de  lo  scudo 
l'ultima  inenarrabil  meraviglia. 

Ivi  l'itala  storia  ed  i  trionfi 
romani  fatti  avea,  conscio  de'  vati, 
de  l'avvenir  presago,  il  Dio  del  fuoco; 
la  lunga  ivi  d'Ascanio  discendenza 
e  in  ordine  le  guerre  combattute. 
Anche  aveva  nel  verde  antro  di  Marte 
a  giacer  posta  una  sgravata  lupa, 
e  a  le  poppe  due  pargoli  gemelli 
erti  scherzare  e  suggere  la  madre 
impavidi;  ella,  molle  la  cervice 
ripiegando,  a  vicenda  tutti  e  due 
li  lambia  con  la  lingua  e  lì  lisciava. 
Aggiunta  avea  quindi  non  lungi  Roma 
e  rapite  ad  arbitrio  le  Sabine 
dal  teatro  gremito  a'  gran  Circensi  ; 
onde  nova  a'  Romulidi  era  guerra 
col  vecchio  Tazio  e  la  severa  Curi. 
Ma  poi  gli  stessi  re,  poste  le  offese, 
diritti  in  armi  con  le  tazze  in  mano 
stavan  di  Giove  avanti  l'ara  e,  un  verro 


276  r-:M:i!>i-: 


immolato,  stringevano  alleanza. 

Quivi  presso  le  rapide  quadrighe 

tratto  in  due  parti  avean  Metto  (e  tu  fede 

dovevi,  Albano,  a  la  parola!),  e  Tulio 

lacerava  le  viscere  del  falso; 

roridi  sanguinavano  i  virgulti. 

E  Porsenna  ricevere  ingiungeva 

lo  scacciato  Tarquinio  e  d'aspro  assedio 

stringeva  la  città;  ma  pronti  a  l'armi 

gli  Eneadi  per  la  libertà  correano. 

Irato  lui  vedevi  e  minaccioso 

perché  il  ponte  tagliar  Coclite  osasse 

e,  rotti  i  ceppi,  nuotar  Clelia  il  fiume. 

A  sommo  stava  de  la  tarpèa  rocca 

Manlio  custode  avanti  al  tempio  e  l'alto 

Campidoglio  tenea;  parea  la  reggia 

iTivida  ancor  de  la  romulea  paglia. 

Pur  quivi  argentea  starnazzando  l'oca 

per  i  portici  aurati  denunciava 

i  Galli  apparsi  al  limitare  :  i  Galli 

su  per  i  pruni  afferravan  la  rocca, 

tra  l'ombre  e  il  dono  de  la  notte  opaca. 

Oro  i  capelli  ed  oro  eran  le  vesti, 

screziati  lucevano  i  mantelli, 

auree  cingean  collane  i  bianchi  colli; 

vibrava  ognun  due  giavellotti  alpini, 

di  lunghi  scudi  la  persona  ombrando. 

Saltanti  i  Salii  e  nudi  ivi  i  Luperci 

aveva  sculti  ed  i  lanosi  pilei 

e  gli  ancili  che  piovono  dal  cielo: 

le  pie  matrone  su  gli  agiati  cocchi 


LIBRO    OTTAVO  2/7 

movean  per  la  città  devoti  riti. 

Anche  aggiunge  da  un  lato  le  tartaree 

sedi,  cupi  vestiboli  di  Dite, 

ed  i  castighi  de  le  colpe  e  te, 

Catihna,  pendente  a  ruinoso 

scoglio  e  tremante  i  ceffi  de  le  Furie  : 

in  parte,  i  buoni,  e  sopra  lor  Catone. 

Ampia  in  mezzo  l'imagine  correa 
del  gonfio  mare  in  oro,  ma  l'azzurro 
ispumeggiava  di  canuto  flutto  : 
a  cerchio  intorno  nitidi  d'argento 
con  le  code  radevano  l'ampiezza 
i  delfini  e  solcavano  i  m.arosi. 
Visto  avresti  in  quel  mar  flotte  di  bronzo, 
l'aziaca  guerra,  e  tutto  di  battaglia 
ferver  Leucàte  e  lustrar  d'oro  i  flutti. 
Da  l'una  parte  Augusto  Cesare,  alto 
su  l'alta  poppa,  gl'Itali  a  le  pugne 
guida,  co'  padri  e  il  popolo  e  i  Penati 
e  i  grandi  Iddìi:  da  le  superbe  tempie 
gli  raggia  ilo  due  fiamme  e  sul  suo  capo 
si  disasconde  la  patema  stella. 
Discosto  Agrippa  col  favor  de'  venti 
e  degli  Dei  che  guida  eccelso  i  suoi: 
rostrata  a  lui,  di  guerra  altera  insegna, 
splende  la  fronte  di  naval  corona. 
Da  l'altra  parte  Antonio  con  la  possa 
barbarica  e  le  varie  armi,  tornante 
vincitor  da  l'Aurora  e  il  Rosso  lido, 
porta  con  sé  l'Egitto  e  d'oriente 


2/0  ENEIDE 

lo  sforzo  e  la  remota  Battra  ;  lui 
l'onta  accompagna  de  l'egizia  moglie. 
Tutti  a  l'urto  precipitano,  tutto 
solcato  spuma  da'  ritratti  al  petto 
remi  e  da'  rostri  tridentati  il  mare. 
Tendono  a  l'alto,  e  ben  nuotar  per  l'alto 
crederesti  le  Cicladi  divelte 
e  contro  monti  urtar  gran  monti,  tanta 
mole  si  avanza  di  turrite  prore. 
GÌ' infiammati  malleoli  con  mano 
e  con  le  frombole  il  volante  ferro 
spargesi:  già  la  faccia  di  Nettuno 
vien  rossa.  In  mezzo  la  regina  appare 
che  le  torme  col  patrio  sistro  chiama 
né  ancor  si  vede  i  due  serpenti  a  tergo. 
E  gli  dei  d'ogni  gente  mostruosi 
ed  il  latrante  Anubi  in  armi  stanno 
contro  a  Nettuno  a  Venere  a  Minerva. 
Nel  cuore  infuria  de  la  mischia  Marte 
sbalzato  in  ferro,  e  le  sinistre  Dire 
per  l'aria  e  gavazzante  la  Discordia 
con  lo  squarciato  manto  erra,  e  la  segue 
col  sanguinoso  suo  flagel  Bellona. 
Fiso  a  guardar  tendeva  Tazio  Apollo 
l'arco  da  l'alto:  tutto  a  tal  terrore 
r  Egitto  e  gì'  Indi,  ogni  Arabo,  le  spalle 
tuttiquanti  voltavano  i  Sabei. 
Essa  vedeasi  la  regina  a'  venti 
invocati  distendere  le  vele 
e  le  gómene  lente  abbandonare. 
Pallida  lei  de  la  futura  morte 


LIBRO    OTTAVO  27Q 

tra  le  stragi  avea  fatta  il  dio  del  fuoco 

da  l'onde  e  da  l' làpige  portata, 

e  gigantesco  di  rincontro  il  Nilo 

addolorato  tutti  aprire  i  seni 

de  l'ampia  veste,  a  sé  chiamando  i  vinti 

nel  glauco  grembo  e  ne'  celati  gorghi. 

Ma  Cesare,  con  tripHce  trionfo 
entrando  le  romane  mura,  a'  Numi 
italici,  immortai  voto,  sacrava 
grandi  per  la  città  trecento  templi. 
Di  tripudio  le  vie,  di  festa  e  plauso 
fremevano  :  le  madri  a  schiera  in  ogni 
tempio,  ed  are  in  ognuno,  avanti  a  l'are 
d'immolati  giovenchi  il  suol  coperto. 
Esso,  sedendo  su  la  nivea  soglia 
del  biondo  Febo,  i  doni  de  le  genti 
rassegna  e  appende  a  le  superbe  porte  : 
vanno  i  popoU  vinti  in  lunga  fila, 
come  di  lingue,  sì  di  vesti  e  d'arme 
diversi.  Qui  de'  Nùmidi  la  stirpe 
e  i  discinti  Afri  il  divo  fabbro  pose, 
quivi  i  Lèlegi  e  i  Cari  e  i  saettanti 
Geloni:  omai  con  più  sommesso  flutto 
iva  r  Eufrate,  e  i  Mòrini  remoti 
ed  il  Reno  bicorne  e  gl'indomati 
Dai  e  l'Arasse  ch'ebbe  a  sdegno  il  ponte. 

Questo  sul  clipeo  di  Vulcan,  materno 
dono,  ei  contempla  e,  de  le  cose  ignaro, 
de  l'imagine  gode,  :^n  su  la  spalla 
la  fama  e  il  fato  de'  nepoti  alzando. 


LIBRO  NONO 


E  mentre  questo  in  altra  parte  avviene, 

mandò  dal  cielo  la  saturnia  Giuno 

Iri  a  l'audace  Turno.  Allor  nel  bosco 

de  l'avo  suo  Pilumno  in  sacra  valle 

si  stava  assiso;  e  a  lui  col  roseo  labbro 

disse  la  lìglia  di  Taumante  :  «  Turno, 

quel  che  non  oserebbe  al  tuo  desio 

prometter  nume,  ecco  per  sé  t'offerse 

l'ora  che  volge.  La  città  i  compagni 

la  flotta  abbandonando,  Enea  s' è  mosso 

a  la  reggia  d'Evandro  palatino  : 

né  basta;  s'addentrò  fino  a  le  mura 

di  Còrito  riposte,  e  aduna  ed  arma 

lide  schiere  di  villici.  Che  stai  ? 

or  di  cavalli,  ora  di  carri  è  il  tempo  ; 

schierali  orsù,  rompi  ogn' indugio,  e  piomba 

sopra  il  turbato  accampamento  ». 

Disse, 
ed  al  ciel  si  levò  con  l'ali  tese, 
sotto  le  nubi  un  grande  arco  segnando. 


282  ENEIDE 

La  riconobbe  il  giovine,  le  palme 
alzò,  seguì  con  queste  voci  il  volo  : 
a  In,  fregio  del  ciel,  chi  ti  mandava 
da  le  nuvole  a  me?  Donde  ad  un  tratto 
questa  chiara  meteora?  dischiuso 
il  ciel  nel  mezzo,  errar  vedo  le  stelle. 
Chiunque  sei  che  chiami  a  l'armi,  seguo 
sì  gran  presagio  >». 

S'appressò  ciò  detto 
al  fiume,  e  l'acqua  a  fior  ne  attinse,  molto 
gli  Dei  pregando,  e  il  ciel  colmò  di  voti. 

E  già  tutto  l'esercito  era  mosso 

via  per  l'aperto,  ricco  di  cavalh, 

ricco  di  vesti  screziate  e  d'oro  ; 

le  prime  file  regola  Messapo, 

di  Tirro  i  figli  l'ultime,  nel  mezzo 

è  Turno  duce  ;  qual  di  sette  fiumi 

in  sé  pacati  il  Gange  va  profondo 

e  taciturno  o  con  pingui  acque  il  Nilo 

quando  da'  campi  si  raccoglie  al  letto. 

Ecco  addensar  di  nera  polve  un  nembo 

lontano  i  Teucri  mirano  e  salire 

l'ombra  dal  suol.   Primo  Caìco  grida 

da  l'eccelsa  vedetta  :  «  Cittadini, 

qual  sorge  nube  di  caligin  fosca  ? 

A  l'armi!  a  l'armi!  ed  occupate  i  muri: 

presto!   Il  nemico  è  qui  o. 

Per  tuttequante 
le  porte  con  rumor  grande  i  Troiani 
rientrano  e  gremiscono  gli  spaldi. 


LIBRO    NONO  283 

Perché  così  prescritto  avea  partendo 
il  guerrier  sommo  Enea:  se  alcun  cimento 
frattanto  si  offerisse,  non  rischiare 
di  schierarsi  né  uscir,  ma  solamente 
tenere  il  campo  e  i  ben  cerchiati  muri. 
Dunque,  benché  l'onore  e  Tira  accenni 
la  mischia,  ubbidienti  tuttavia 
fanno  barriera  de  le  porte  e  armati 
entro  le  torri  aspettano  il  nemico. 

Turno,  che  a  volo  la  più  tarda  schiera 

con  venti  scelti  cavalier  precorre, 

giunge  improvviso  a  la  città  :  lo  porta 

tracio  destriero  a  macchie  bianche  ;  in  capo 

ha  l'elmo  d'oro  col  cimier  vemiigUo. 

a  Chi  sarà  meco,  o  giovani,  chi  primo 

contro  il  nemico?,  grida;  Ecco!  )•  e  uno  strale 

vibra  e  scaglia  per  l'aere,  principio 

di  battaglia,  ed  eccelso  avanza  in  campo. 

Risponde  l'alto  fremito  al  suo  grido 

de'  suoi,  stupiti  a  la  viltà  de'  Teucri, 

non  accamparsi  a  fronteggiarli  in  armi, 

ma  pur  covar  gh  attendamenti.  Ei  torvo 

or  qua  cavalca  or  là  dintorno  a'  muri, 

la  via,  per  dove  non  è  \'ia,  cercando. 

Come  quando  appostato  a  un  pieno  ovile 

mugola  il  lupo  agh  steccati,  dopo 

la  mezzanotte,  al  vento  ed  a  la  pioggia  ; 

sotto  le  madri  belano  gh  agnelli 

securi,  e  quello  impaziente  e  iroso 

già  li  divora  con  la  lunga  rabbia 


284  ENEIDE 

del  pasto  e  le  fauci  aride  di  sangue  : 

1)011  altrimenti  al  Rutulo  che  scruta 

i  muri  e  il  campo  accendesi  il  furore 

e  penetra  le  dura  ossa  il  tormento, 

in  che  guisa  l'accesso  tenti,  e  quale 

arte  i  Troiani  rinserrati  sforzi 

a  uscir  del  vallo  e  spargersi  nel  piano. 

La  flotta,  ch'era  presso  al  campo  in  ombra, 

d'aggere  cinta  e  dal  corrente  fiume, 

investe,  ed  a'  compagni  trionfanti 

incendio  chiede  ed  esso  furibondo 

d'un  avvampato  pino  empie  la  destra. 

iVllor  tutti  s'affannano  (gl'^incalza 

la  presenza  di  Turno),  s'arman  tutti 

di  nereggianti  faci  :  han  saccheggiato 

i  focolari;  le  fumose  tede 

luce  di  pece  spandono,  e  Vulcano 

miste  di  fumo  al  ciel  sprizza  scintille. 

Muse,  qual  dio  da  sì  crudele  incendio 
i  Troiani  salvò  ?  qual  da  le  navi 
sì  grandi  fuochi  allontanò  ?  Narrate. 
Antico  è  il  fatto  ma  la  fama  eterna. 

Nel  primo  tempo  che  foggiava  Enea 
sul  frigio  Ida  la  fiotta,  apparecchiato 
a  veleggiar  per  l'alto,  è  voce  ch'essa 
la  berecintia  madre  degli  Dei 
così  parlasse  al  sommo  Giove  :  «  Figlio, 
concedi  al  prego  quel  che  la  tua  cara 
genitrice  desia,  domo  l'Olimpo. 
Una  pineta,  per  molti  anni  cara, 


ebbi,  recinto  in  vetta  al  monte,  dove 

traea  la  gente  a'  sacrifizi,  oscuro 

di  brune  picee  e  d'aceri  solenni. 

Questo  al  dardano  eroe  lieta  donai 

necessitoso  d'una  fiotta,  ed  ora 

di  quelle  navi  gran  pensier  m'affanna. 

Liberami  da  pena,  e  fa'  che  ta.nto 

valga  il  pregar  materno  :  non  sien  rotte 

da'  viaggi  né  vinte  a  le  bufere  ; 

giovi  esser  nate  a  lor  su'  nostri  monti  ». 

E  ii  figlio  a  lei ,  che  volge  gli  astri  in  cielo  : 

«  Madre,  a  che  sforzi  il  fato  ?  e  che  domandi 

per  quelle?  Chiglie  di  mortai  fattura 

avranno  sorte  d'immortali,  e  certo 

gl'incerti  rischi  passerebbe  Enea? 

quale  ha  tra  i  Numi  potestà  si  grande  ? 

Ma  pure,  uscite  al  fin  del  corso  e  presi 

gl'itali  porti  un  dì,  qual  sia  scampata 

da  le  burrasche  ed  a'  laurenzi  Hdi 

abbia  recato  il  teucro  duce,  tutte 

le  spogherò  de  la  caduca  forma 

e  farò  viver  dive  oceanine, 

qual  è  Doto  di  Xèreo  e  Galatea 

che  rompono  col  petto  il  mar  spumoso  ». 

Disse,  e  pel  nume  del  fratello  stigio, 

da'  tetri  gorghi  torridi  di  pece, 

ratificò  cennando  le  parole 

e  tutto  al  cenno  fé'  tremar  l'Olimpo. 

Era  il  promesso  dì,  compiuto  il  tempo 
debito  avean  le  Parche,  allor  che  mosse 


2S6  KNKIDK 

quell'assalto  di  Turno  la  gran  Madre 
a  stornar  da  le  navi  sacre  il  fuoco. 
Nova  una  luce  balenò  da  prima 
agli  occhi  e  vasto  parve  da  l'aurora 
correr  per  l'aria  un  nimbo  e  i  cori  idei; 
indi  piove  da  l'alto  una  gran  voce 
ch'empie  de'  Teucri  e  RutuU  le  schiere  : 
«  Non  v'affannate,  o  Teucri,  a  la  difesa 
de  le  mie  navi,  e  non  v'armate:  Turno 
brucerà  prima  il  mar  che  i  sacri  pini. 
E  voi,  itene  sciolte,  itene  dee 
del  mar  ;  così  la  genitrice  impone  ». 
Ruppero  allor  le  poppe  ad  una  ad  una 
da  la  sponda  i  legami,  e  giù  co'  rostri 
s'attuffarono  a  modo  di  delfini; 
poi  dal  fondo,  mirabile  prodigio, 
in  altrettanti  visi  di  fanciulle 
tornano  fuori  ed  errano  sul  mare. 

Colpito  è  il  cuor  de'  RutuU,  Messapo 
anch'  esso  adombra  come  i  suoi  cavaUi, 
ed  il  corso  del  Tevere  muggendo 
par  che  s'arresti  e  si  rivolga  al  fonte. 
Ma  Turno  ardito  non  perde  fiducia, 
anzi  co'detti  i  cuori  eccita  e  sprona  : 
«  Contro  a'  Troiani  son  questi  portenti  ; 
Giove  stesso  rapì  loro  l'usato 
scampo,  senza  che  attendano  le  nostre 
saette  e  fiamme.  Così  chiuso  è  a'  Teucri 
il  mar,  di  fuga  non  è  più  speranza. 
L' una  parte  hanno  persa,  ed  è  la  terra 


LIBRO    NONO  2&/ 

in  nostre  mani,  tante  son  migliaia 

d'itale  genti  in  arme.  Io  non  pavento 

i  responsi  fatali  degli  Dei, 

di  che  vantansi  i  Frigi.  A'  fati  assai 

si  concesse  ed  a  Venere,  che  i  Teucri 

han  tocco  il  suol  de  la  ferace  Ausonia. 

Bene  ho  i  miei  fati  anch'io,  la  scellerata 

gente  col  ferro  sterminar  che  venne 

la  mia  sposa  a  rapir  :  questo  dolore 

non  punge  sol  gh  Atridi,  e  il  prender  l'armi 

solo  a  Micene  non  si  dà.  —  Ma  basta 

sian  periti  una  volta  —  :  oh  dovea  prima 

il  peccare  bastar,  per  poco  in  odio 

non  tutto  avendo  il  ceto  femminile, 

costor  cui  fa  coraggio  l'interposto 

vallo  e  gl'indugi  de  le  forze,  breve 

intervallo  da  morte  !  O  non  le  han  viste 

fabbricate  per  mano  di  Nettuno 

le  mura  d'IHo  minare  in  brage? 

Ma  voi,  o  eletti,  chi  squarciar  si  attenta 

il  vallo  e  meco  invade  il  trepidante 

accampamento  ?  L'armi  di  Vulcano 

non  ho  mestieri  né  le  mille  navi 

contro  a'  Troiani,  e  a  lor  s'aggiungan  pure 

tutti  gli  Etruschi.  L'ombre  e  il  furto  imbelle 

del  Palladio,  uccidendo  i  guardiani 

de  la  rocca,  non  temano,  né  in  grembo 

ci  acquatteremo  del  cavallo  :  al  sole 

vogliam  le  mura  circondar  di  fiamma. 

Farò  che  non  si  credano  a  le  prese 

con  Danai  o  con  Pelasghi,  che  aspettare 


2-*^8  KM-:iI>K 

Ettore  fece  lino  al  decim'anno. 
Ma  or  eh'  è  ito  il  più  del  di,  nel  resto 
pensate,  o  prodi,  a  voi,  del  buon  principio 
lieti,  e  attendete  la  battaglia  pronta  ». 

A  Messapo  il  pensier  si  affida  intanto 

di  assicurar  con  le  notturne  scolte 

le  porte  e  accender  tutto  intorno  i  fuochi. 

Sette  Rutuli  e  sette  a  guernir  d'armi 

i  muri  si  trascelgono,  e  a  ciascuno 

di  quelli  cento  giovani  van  dietro, 

rossi  il  cimiero  e  lustreggianti  d'oro. 

Si  spargono,  e  avvicendano  ne'  posti, 

o  adagiati  ne  l'erba  da'  crateri 

di  bronzo  mescono  a  diletto  il  vino. 

Brillano  i  fuochi,  e  trae  la  guardia  in  gioco 

la  notte  insonne. 

Ciò  dal  vallo  rimirano  i  Troiani 

che  armati  tengon  l'alto,  e  premurosi 

di  sospetto  non  men  guardan  le  porte 

e  con  ponti  collegano  le  torri 

avanzate  ed  arrecano  armi.  Mnèsteo 

e  l'ardente  Seresto  instano,  i  due 

cui  volle  il  padre  Enea,  se  rischio  stringa, 

duci  de'  prodi  e  arbitri  de'  fatti. 

Tutta  la  legion  veglia  pe'  muri, 

tratti  a  sorte  i  cimenti,  e  fa  sue  parti, 

giusta  quel  che  a  ciascuno  è  dato  in  cura. 

Era  a  la  guardia  d'una  porta  Niso 
d' Irtaco  figlio,  acerrimo  guerriero 


LIBRO    XOXO  289 

e  destro  gittator  d'alati  strali 
—  lui  mandò  con  Enea  la  cacciatrice 
Ida  — ;  ed  Eurialo  gli  era  presso,  bello 
che  niun  più  tra  gli  Eneadi  o  tra  quanti 
cinsero  armi  troiane  ;  gli  fioriva 
la  prima  gioventù  le  intonse  gote. 
Eran  uno  d'affetto,  uniti  insieme 
volavano  a  la  guerra,  ed  anche  allora 
in  custodia  comune  avean  la  porta. 
«  Eurialo  —  disse  Niso  — ,  e  son  gli  Dei 
che  questo  incendio  spirano  ne'  cuori? 
o  a  ciascun  si  fa  dio  sua  fiera  brama? 
Una  battaglia,  o  non  so  che  di  grande, 
da  tem_po  agogno,  né  lo  star  mi  appaga. 
Vedi  quale  hanno  i  RutuK  fidanza! 
Rari  splendono  i  lumi:  il  sonno  e  il  vino 
tutti  fi  ha  stesi  al  suol;  tutto  è  silenzio. 
Odi  senz'altro  tu  quel  che  mi  affanna, 
odi  pensiero  che  m' è  nato  in  mente. 
Che  si  richiami  Enea,  popolo  e  padri 
chieggono  tutti,  e  a  lui  vadan  messaggi 
degli  eventi.  Se  quel  che  per  te  chiedo 
mi  promettono  (a  me  la  fama  è  assai 
del  fatto),  io  credo  sotto  a  quell'altura 
la  via  trovare  a'  muri  pallantei  ». 
Stette,  pervaso  da  un  ardor  di  gloria, 
Eurialo,  e  dice  a  l'animoso  amico  : 
((  Me  dunque  teco  a  le  più  belle  imprese, 
Niso,  non  vuoi?  e  a  tal  perigUo  ir  solo 
ti  lascierò?  Non  m'istruì  né  crebbe 
così  mio  padre,  Ofelte  uso  a  le  guerre, 

Albim  -   F.neide  la 


290  ENEIDE 

tra  lo  spavento  argolico  e  il  travaglio 

di  Troia;  né  così  parvi  al  tuo  fianco, 

Enea  seguendo  agli  ultimi  cimenti: 

ho  cuore,  ho  cuor  che  tien  la  vita  a  vile, 

e  sa  che  ben  si  compra  con  la  vita 

l'onor  cui  tendi  )).  Gli  soggiunse  Niso  : 

«  Certo  non  temeva  io  simili  cose 

di  te,  che  noi  potrei,  no;  trionfante 

così  mi  ti  riporti  il  sommo  Padre 

e  qualunque  a  ciò  volge  amico  sguardo. 

Ma  se  —  tu  vedi  la  rischiosa  impresa  — , 

se  mi  tragga  in  rovina  un  caso  o  un  dio, 

io  ti  vorrei  superstite;  per  gU  anni 

sei  più  degno  di  vivere.  Vi  sia 

chi  mi  raccolga  o  mi  ricompri,  a  pormi 

sotto  la  terra  sohta,  o,  se  tanto 

qualche  fortuna  vieterà,  mi  renda, 

anche  disperso,  inferie  e  onor  di  tomba  ; 

e  ch'io  non  sia  di  sì  gran  duol  cagione 

a  la  tua  madre  misera  che,  sola 

di  tante  madri,  è  ardita  seguitarti 

e  sdegna  la  città  del  grande  Aceste  ». 

Ma  l'altro  :  «  Invano  scuse  vane  intessi, 

che  già  più  non  si  muta  il  mio  pensiero. 

Affrettiamoci  »  dice.  E  così,  deste 

le  scolte  che  sottentrino,  dal  posto 

move  compagno  a  Niso,  e  al  re  ne  vanno. 

Gli  altri  animali  per  le  terre  tutte 
allentavan  nel  sonno  lor  fatiche, 
obliavan  gli  affanni:  i  primi  duci 


LIBRO    XOXO  291 

de'  Teucri,  eletta  gioventù,  consiglio 

de  le  somme  tenean  cose  del  regno, 

che  fare,  e  chi  mandar  nunzio  ad  Enea. 

Poggiati  a  le  lunghe  aste  e  con  gli  scudi 

son  ritti  in  mezzo  degli  accampamenti. 

Ecco  Niso,  ecco  Eurialo  con  lui 

premurosi  domandano  udienza  : 

esser  gran  fatto,  e  prezzo  de  l'indugio. 

Primo  gl'impazienti  accolse  Giulo 

e  disse  a  Niso  che  parlasse.  .E  Niso: 

«  Benignamente,  Eneadi,  ascoltate, 

né  si  guardi  da'  nostri  anni  l'offerta. 

Vinti  dal  sonno  i  Rutuli  e  dal  vino 

tacquero  :  un  luogo  per  l' insidie  buono 

noi  esplorammo,  al  bivio  de  la  porta 

eh' è  presso  al  mar:  son  interrotti  i  fuochi, 

e  nereggiano  al  ciel  buffi  di  fumo. 

Se  ci  lasciate  usar  de  la  fortuna, 

Enea  cercando  e  i  muri  pallantei, 

qui  ci  vedrete  reduci  tra  breve 

con  le  spoglie  di  molta  uccisione. 

La  via  non  ignoriamo  de  l'andare  : 

dal  cupo  de  le  valh  ne  le  cacce 

assidue  la  città  già  travedemmo 

e  tuttoquanto  percorremmo  il  greto  ». 

Qui  grave  d'anni  e  di  consiglio  Alete  : 

«  O  patrii  Dei  sotto  il  cui  mrnie  è  sempre 

Troia,  non  dunque  sperdere  i  Troiani 

volete  al  tutto,  quando  anime  tah 

di  generosi  giovani  creaste  ». 

Così  dicendo  gli  omeri  e  le  miani 


292  ENEIDE 

stringea  d'entrambi  e  sparso  era  di  pianto. 

«  Che  premi  a  voi  degni  di  voi  per  questa 

gloria,  o  prodi,  trovar?  Prima  il  più  bello 

gli  Dei  vi  renderanno  e  i  cuori  vostri, 

e  gli  altri  poi  ve  li  darà  tra  breve 

il  pio  Enea  ed  il  fiorente  Ascanio 

non  immemore  mai  di  sì  gran  merto  ». 

'f  x\nzi,  Ascanio  soggiunge,  io  che  ho  salvezza 

solo  se  torni  il  genitor,  vi  giuro, 

Niso,  pei  gran  Penati  e  per  il  lare 

di  Assaraco  e  il  sacrario  de  la  bianca 

Vesta:  ogni  mia  fortuna,  ogni  fiducia 

è  in  voi;  fate  ch'ei  torni  e  ch'io  lo  veda, 

nulla  m'è  triste  riavuto  il  padre. 

Due  vi  darò  nappi  d'argento  a  fregi 

ch'esso  ebbe  presi  da  la  vinta  Arisba, 

e  due  tripodi,  due  talenti  d'oro 

gravi,  e  un  cratere  antico  che  mi  dona 

Dido  Sidonia.  Che  se  poi  m'avvenga 

di  prendere  l' Italia  q  vincitore 

tener  lo  scettro  aggiudicando  a  sorte 

le  prede,  hai  tu  veduto  quel  cavallo 

sul  quale  andava  Turno  aureo  ne  l'armi  ? 

quello  e  lo  scudo  ed  il  cimier  vermiglio 

non  sorteggerò,  Niso,  e  sono  tuoi. 

Dodici  inoltre  vi  darà  mio  padre 

trascelte  donne  e  dodici  captivi 

con  l'armi  sue  ciascuno,  in  fine  i  campi 

ch'esso  per  qui  possiede  il  re  Latino. 

Te  poi,  ch'io  seguo  più  vicino  d'anni, 

adorabil   fancinllr»,   accolgo  in  cuore 


I.IHR!  )     XOXd 


■93 


e  t'abbraccio  compagno  ad  ogni  evento, 
(jloria  per  me  non  cercherò  nessuna 
senza  di  te  :  che  in  pace  o  in  guerra  io  viva, 
mi  sarai  primo  a'  fatti  ed  a'  consigli  y>. 
Eurialo  gli  risponde  :  «  Nessun  giorno 
me  diverso  vedrà  da  questo  ardire; 
solo  non  torni  la  fortuna  lieta 
in  luttuosa.  Ma  su  tutti  i  doni 
d'una  cosa  ti  prego  :  ho  la  madre  io, 
de  la  gente  di  Priamo  vetusta, 
cui  non  fermò  che  non  partisse  meco 
né  d'Ilio  il  suol  ne  la  città  di  Aceste. 
Or  lascio  io  lei,  che  nulla  sa  di  questo 
qualsiasi  rischio,  e  senza  dirle  addio 
(testimonio  la  notte  e  la  tua  destra) 
perché  non  saprei  reggere  al  suo  pianto. 
Deh!  tu  consola  quella  poveretta, 
assisti  la  deserta.  Fa'  ch'io  pprti 
questa  speme  di  te  :  n'andrò  più  fiero 
ad  ogni  evento  •>. 

Piansero  commossi 
i  Teucri,  più  che  tutti  il  vago  Giulo 
e  vide  l'ombra  de  l'amor  paterno. 
Poi  così  dice  : 

'i  Pari  a  F  impresa  cui  ti  accingi  tutto 
ti  riprometti:  avrò  per  madre  lei, 
le  mancherà  sol  di  Creusa  il  nome  ; 
poco  non  merta  chi  di  te  s' incinse. 
Segua  \dcenda  qual  vorrà,  ti  giuro 
pel  capo  mio  per  cui  giurava  il  padre, 
tutto  che  a  te  prometto  e  al  tuo  ritorno 


294  ENEIDE 

avventuroso,  a  la  tua  madre  tutto 
sarà  serbato  ed  a  la  vostra  gente  ». 
Si  dice  lagrimando,  e  da  le  spalle 
toglie  l'aurata  spada  che  Licàone 
di  Gnosso  fé'  mirabilmente  e  pose 
agevole  in  un  fodero  d'avorio. 
A  Niso  l'irto  vello  d'un  leone 
Mnèsteo  dà,  gli  muta  elmo  il  fido  Alete. 
Armati  già  si  avviano:  a  le  porte 
i  precipui  de'  giovani  e  de'  vecchi 
a  schiera  li  accompagnano  co'  voti. 
Ed  esso  il  vago  Giulo  che  ha  pensiero 
avanti  gli  anni  e  cuor  d'uomo,  commette 
assai  cose  pel  padre  suo,  ma  il  vento 
le  dissipa  tra  il  volo  de  le  nubi. 

Escono  e  i  fossi  varcano,  avviati 
tra  la  notte  agl'infausti  alloggiamenti, 
pur  per  essere  prima  a  molti  morte. 
E  dal  sonno  e  dal  vin  gettati  a  terra 
veggon  molti  qua  e  là,  veggono  carri 
co'  lor  timoni  a  l'aria,  e  tra  le  briglie 
e  le  ruote  giacer  guerrieri  ed  armi 
e  vino  insiem.  L' Irtacide  per  primo, 
«  Eurialo,  dice,  or  deve  il  braccio  osare  ; 
essa  la  cosa  invita,  il  vaico  è  questo. 
Tu,  che  non  ci  si  levi  alcuno  a  tergo, 
guarda  e  specula  lungi;  io  darò  il  guasto 
e  spaziosa  ti  farò  la  strada  ». 
Cosi  detto  si  tace,  e  con  la  spada 
al  superbo  Ramnete  insiem  s'avventa 


LIBRO    NONO  295 

che  alto  sopra  un  monte  di  tappeti 

soffiava  il  sonno  dal  profondo  petto. 

re  ed  a  Turno  re  caro  profeta, 

ma  pur  lui  non  campò  sua  profezia. 

Sorprende  accanto,  stesi  a  la  ventura 

in  mezzo  l'armi,  tre  servi  di  Remo 

e  l'armigero  giù  sotto  i  cavalli 

auriga,  e  taglia  quelle  gole  prone  : 

poi  mozza  il  capo  al  sire,  e  lascia  il  busto 

singhiozzante  di  sangue;  il  suolo  e  il  letto 

s'impregnan  bruni  de  la  calda  vena. 

Làmiro  e  Lamo  ancor  e  il  giovinetto 

Serrano  che  giocato  quella  notte 

aveva  tanto,  bello  di  sembianze, 

e  che  domo  giacca  dal  molto  iddio; 

felice,  se  traea  lungo  il  suo  gioco 

quanto  la  notte  insino  a'  primi  raggi! 

Tal  digiuno  leone  a'  pieni  ovili 

spaventoso  (crudel  fame  lo  spinge) 

il  molle  armento  muto  di  paura 

trae,  sbrana,  arrossa  la  fremente  bocca. 

Né  minore  d'Eurialo  è  la  strage  : 
acceso  anch'esso  infuria,  e  molta  plebe 
senza  nome  nel  mezzo,  e  Fado,  Erbeso, 
Reto  ed  Abari  assale,  incoscienti, 
ma  Reto  sveglio  e  che  vedeva  tutto 
e  dopo  un  gran  cratere  si  celava: 
s'accosta,  e  in  petto  a  lui  mentre  si  leva 
tutta  immerse  la  SDada  e  la  ritrasse 
piena  di  morte.  L'anima  purpurea 


!QÒ  ENEIDE 

rende  quegli  ed  il  vin  mischiato  al  sangue 
questi  imperversa  negli  assalti. 

E  ornai 
tendeva  a'  soci  di  Messapo  ;  quivi 
mancar  vedeva  i  fuochi  e  a  l'uso  sciolti 
pascolare  i  cavalli;  allor  che  Niso, 
che  troppo  il  vide  inebriar  di  strage, 
disse  :  <(  Cessiamo,  che  la  luce  infausta 
s'avvàcina;  infliggemmo  assai  di  pene 
ed  aperto  il  passaggio  è  tra' nemici  ». 
Lasciano  molte  di  massiccio  argento 
armi  e  crateri  e  fulgidi  tappeti. 
Eurialo  la  gualdrappa  di  Ramnete 
prende  e  la  bandoliera  a  borchie  d'oro, 
che  a  Remolo  di  Tivoli  una  volta 
il  ricchissimo  Ccdico,  stringendo 
lungi  ospitalità,  mandava  in  dono  ; 
ei  l'assegna  morendo  al  suo  nipote, 
e  morto  lui  signori  guerreggiando 
se  ne  fecero  i  RutuU:  la  prende 
ed  agli  omeri  forti  invan  l'appende. 
Poi  la  celata  di  Messapo  lieve 
e  di  pennacchi  splendida  si  adatta. 
Escon  dal  campo  a  più  sicura  via. 

Intanto  cavalier  mandati  avanti 
da  la  città  latina,  mentre  indugia 
la  legione  armata  a  la  campagna, 
ivano  a  Turno  re  con  un  messaggio  ; 
trecento,  tutti  con  lo  scudo,  duce 
Volcente  :  e  già  si  facean  presso  e  sotto 


LIBRO    NONO  297 

a  la  cerchia  campale,  ecco  in  disparte 

scorgono  i  due  che  piegano  a  sinistra, 

e  per  l'ombra  chiarita  de  la  notte 

l'elmo  Eurialo  tradì  che  non  pensava, 

illuminato  dal  diretto  raggio. 

Non  fu  vano  veder.  Grida  Volcente  : 

«  Fermi  !  chi  siete  ?  qual  cagion  vi  mosse  ? 

e  dove  andate  ?  >'  Quelli  invece  muti, 

dileggiando  tra  gli  alberi  e  la  notte. 

PigUano  i  cavalieri  i  noti  sbocchi 

e  tutti  li  coronano  di  guardia. 

Irto  di  pruni  il  bosco  e  d'elei  nere 

s'allargava  selvatico  e  sterposo  : 

raro  lucea  sentier  pe'  calli  ascosi. 

L'ombra  de'  rami  e  il  peso  de  la  preda 

impediscono  Eurialo,  e  lo  trae 

Io  sgomento  di  via.  Niso  precorre  : 

e  già  senza  pensare  oltre  i  nemici 

passava  e  i  luoghi  che  dal  nome  d'Alba 

furono  poi  chiamati  Albani,  allora 

li  possedea  selvaggi  il  re  Latino  ; 

quando  ristette  a  riguardare  invano 

l'amico  che  non  v'era  .  <'  Ah  dove,  o  mio 

povero  Eurialo,  ti  lasciai?  per  dove 

ti  cercherò,  tra  le  sue  spire  indietro 

ripercorrendo  la  fallace  selva  ?  > 

E  s'è  rivolto  già  su  l'orme  sue 

e  tra*  pruneti  taciti  s'aggira. 

Lo  scalpito  e  lo  strepito  ed  i  segni 

ode  de  l'inseguir:  né  molto  indugia 

che  a  l'orecchio  gH  giungono  le  grida 


298  ENEIDE 

e  vede  Eurialo  cui  la  torma  intiera 
impetuosa  dal  notturno  agguato 
•  ha  sopraffatto  ed  ei  rilutta  indarno. 

Che  far  ?  quale  a  salvarlo  ardire  o  forza  ? 

o  deve  tra'  nemici  esso  gettarsi 

affrettando  per  Tarmi  un  bel  morire? 

Di  sùbito  incoccato  un  giavellotto, 

riguarda  l'alta  Luna  e  così  prega  : 

«  Tu  dea,  deh  !  tu  benigna  ci  soccorri 

nel  bisogno,  ornamento  de  le  stelle 

e  de'  boschi  latonia  protettrice. 

Se  mai  doni  per  me  ti  offerse  a  l'are 

Irtaco  padre,  e  s' io  da  le  mie  cacce 

pur  te  li  accrebbi  ed  a  la  volta  e  a'  sacri 

pinnacoH  ne  appesi,  or  fa'  eh'  io  sperda 

questa  masnada  e  il  dardo  in  aria  reggi  ». 

Disse,  e  con  tutta  la  persona  imprime 

forza  a  lo  strale  che  sferzando  l'ombra 

coglie  in  petto  Sulmone  e  gli  trascorre 

al  dorso,  infranto  ne  l'infranto  cuore. 

Trabocca  quegli  vomitando  un  fiume 

caldo  dal  seno,  e  batte  i  fianchi  in  lunghi 

singulti  freddo.  D'ogni  parte  intorno 

riguardano.  Più  fiero  esso  vibrava 

di  su  l'orecchio  la  seconda  freccia. 

Tra  gli  affannati  per  le  tempie  a  Tago 

passa  la  sibilante  asta  e  si  stette 

nel  trafitto  cervello  intepidita. 

Furioso  Volcente  non  iscopre 

l'autor  del  colpo  in  cui  possa  avventarsi. 


LIBRO    XONO  299 

«  Ma  pure  intanto  tu  col  caldo  sangue 

mi  pagherai  per  ambedue  »,  prorompe, 

e  con  la  spada  sguainata  andava 

contro  Eurialo.  Allora  esterrefatto, 

folle  Niso  dà  un  urlo,  e  ascoso  in  ombra 

più  star  non  sa  né  sì  gran  duol  patire. 

«  Me,  me  !  qui  sono,  io  fui  :  contro  me  l'armi, 

Rutuli  !  tutta  questa  trama  è  mia  : 

nulla  osò  questi  e  no  '1  potea,  lo  giuro 

a  questo  cielo  e  a  le  veggenti  stelle; 

sol  che  amò  troppo  l'infelice  amico». 

Così  diceva;  ma  il  fendente  sceso 

passò  le  coste  e  il  bianco  petto  ruppe. 

Cade  Eurialo  morente,  e  per  le  belle 

membra  va  il  sangue,  e  su  l'omero  cade 

abbandonata  la  cervice  :  come 

purpureo  fior  eh'  è  raso  da  l'aratro 

languido  smuore,  o  sopra  il  collo  stanco 

i  papaveri  piegano  la  testa, 

quando  li  preme  il  peso  de  la  pioggia. 

Ma  Niso  sbalza  in  mezzo  a  tutti,  e  solo 

vuol  fra  tutti  Volcente  e  in  lui  s'appunta 

D'  ogn'  intorno  lo  serrano  i  nemxici 

intesi  a  ributtarlo.  Egli  non  meno 

incalza  e  ruota  la  fulminea  spada, 

fin  che  in  bocca  del  Rutulo  gridante 

la  mise  ed  a  lui  die  miorendo  morte. 

Poi  pien  di  colpi  si  lasciò  cadere 

su  l'esanime  amico,  e  finalmente 

ne  la  mortai  quiete  ivi  si  posa. 

Felici  entrambi!  se  il  mio  canto  vale, 


>00  KNEIOE 

nessun  tempo  farà  da  le  memorie 
voi  tramontar,  fin  che  d'Enea  la  stirpe 
terrà  del  Campidoglio  il  sasso  immoto 
ed  i  padri  romani  a^•ranno  impero. 

Con  la  preda  e  le  spoglie  vincitori 
i  Rutuli  portavano  piangendo 
Volcente  morto  ne  l'accampamento. 
Né  minor  lutto  è  quivi,  di  Ramnete 
trovato  esangue  e  tanti  in  una  strage 
principi  spenti,  e  di  Serrano  e  Numa. 
Gran  calca  è  presso  a'  morti  e  a'  morienti 
ne'  luoghi  caldi  del  recente  eccidio 
tra  '1  sangue  che  tuttor  gorgogha  e  geme. 
Vanno  le  spoglie  insiem  riconoscendo 
e  l'elmo  luminoso  di  Messapo 
e  i  fregi  a  gran  sudor  ricuperati. 

E  già  spargea  di  nova  luce  il  mondo 

la  prima  aurora  fuor  del  croceo  letto 

di  Titone  ;  balzate  già  dal  buio 

nel  sol  si  coloravano  le  cose  : 

Turno  a  l'arme  i  guerrieri,  anch'esso  in  arme, 

chiama  ;  ordina  ciascuno  e  schiera  i  suoi, 

e  co'  vani  racconti  attizzan  l'ire. 

Inoltre  in  punta  a  le  diritte  lance 

configgono,  e  accompagnano  gridando, 

spettacol  miserabile,  le  teste 

d'Eurialo  e  di  Niso. 

GH  Eneadi  fieri  a  la  sinistra  parte 

de  le  mura  fronteggiano  accampati 


LIBRO    XOXO  301 

(che  la  destra  dal  fiume  è  cinta),  e  l'ampie 
fosse  difendono,  o  su  l'alte  torri 
si  stanno  mesti:  i  capi  degli  eroi 
confitti  crescon  la  mestizia,  ahi!  troppo 
noti  e  stillanti  di  grommato  sangue. 

Intanto  a  voi  per  la  città  sgomenta 

messaggera  la  Fam_a  erra  e  agli  orecchi 

de  la  madre  d'  Eurialo  perviene. 

Gelo  improvviso  fino  a  l'ossa  corse 

de  r  infelice  :  le  cadder  di  mano 

la  spola  ed  i  gomitoli  correnti  : 

esce  fuor,  con  femmineo  ululato 

stracciandosi  le  chiome;  forsennata 

corre  su'  muri  e  ne  le  file  prime, 

immemore  degli  uomini  e  del  rischio 

de  l'armi,  ed  empie  il  ciel  del  suo  lamento. 

<(  Tal  ti  rivedo,  Eurialo  ?  conforto 

de  la  vecchiezza  mia,  lasciarmi  sola, 

crudel,  potesti  ?  A  l'ultimo  cimento 

movevi,  e  favellarti  anche  una  volta 

non  fu  dato  a  la  povera  tua  madre? 

Ahi  !  su  straniera  terra  in  preda  giaci 

a  le  cagne  latine  ed  agli  uccelli, 

né  a  te,  a  la  salma  tua,  madre  fui  presso, 

né  chiusi  gli  occhi  o  tersi  le  tue  piaghe, 

de  la  veste  coprendoti  che  il  giorno 

e  la  notte  io  sollecita  tessea 

a  consolar  la  tenerezza  estrema. 

Dove  seguirti  ?  in  qual  mai  terra  sono 

le  membra  sparse  de  la  tua  persona  ? 


302  ENEIDE 

Di  te  sol  questo  mi  riporti,  o  figlio? 
questo  io  seguiva  per  la  terra  e  il  mare? 
Me  trafiggete,  se  pietà  vi  resta; 
tutte,  o  Rutuli,  mie  sian  le  saette; 
per  prima  annichilatemi  con  l'armi. 
Ovvero  tu,  gran  Padre  degli  Dei, 
m'abbi  misericordia  e  col  tuo  lampo 
sprofondami  a  l'Avemo,  se  altrimenti 
romper  non  posso  questa  orribil  vita  ». 
Son  tocchi  i  cuori  da  quel  pianto,  e  il  triste 
gemito  a  tutti  si  propaga:  torpe 
illanguidito  ogni  vigor  di  guerra. 
Attore  e  Ideo  lei  che  movea  dolore 
raccolgono  per  cenno  d' Ilioneo, 
non  che  di  Giulo  che  piangea  dirotto, 
e  riportano  a  casa  in  su  le  braccia. 

Ma  la  tromba  col  suo  bronzo  canoro 

lungi  squillò  terribilmente  :  segue 

clamor  e  il  ciel  rimugghia.  I  Volsci  ad  una, 

serrata  la  testuggine,  s'avventano 

a  empir  le  fosse  ed  a  schiantare  il  vallo. 

Parte  un'entrata  cercano  e  salire 

scalando  i  muri,  ove  la  guardia  è  meno 

e  la  corona  de'  guerrier  traluce 

d' intervalli.  I  Troiani  di  rincontro 

a  gradinar  d'ogni  maniera  strali 

e  a  ributtar  con  pertiche  robuste, 

avvezzi  a  tal  difesa  in  lunga  guerra.    • 

Sassi  ancor  travolgevan  ponderosi, 

per  pur  tentare  la  coperta  schiera 


LIBRO    NONO  30 

d'infrangere,  mentr'ella  pur  sopporta 
sotto  lo  schermo  suo  tutto  che  cade. 
Ma  non  reggono  più.  Che  dove  preme 
denso  lo  sforzo,  i  Teucri  un  masso  immane 
rotolano  e  ruinano,  che  molti 
fiaccò  nemici  e  il  tetto  insiem  de  l'armi. 
Né  omai  gli  audaci  RutuH  han  pensiero 
d'oprar  coperti,  m.a  sguernir  gh  spaldi 
saettando  si  studiano. 
x\ltrove,  orribile  a  veder,  Mezenzio 
squassava  etrusco  pino  e  con  fumosa 
vampa  ne  vien:  Messapo,  di  cavalli 
domator,  prole  di  Nettuno,  scrolla 
gli  steccati  e  a  salir  scale  domanda. 

Voi  m' ispirate,  deh  !  Calliope,  il  canto, 
quale  ivi  allor  col  ferro  strage,  quali 
morti  Turno  spargesse,  e  che  guerrieri 
ciascun  precipitasse  a  l'Orco;  e  meco 
il  gran  libro  spiegate  de  la  guerra. 

V'era  una  torre  a  riguardar  superba, 

con  alti  ponti,  in  opportuno  luogo: 

ogni  forza,  ogni  sforzo  ad  espugnarla 

tutti  volgevan  gì'  Itali,  e  i  Troiani 

con  le  pietre  a  difenderla  e  coi  dardi 

fitti  scagliati  per  le  feritoie. 

Turno  primiO  gittò  fiaccola  e  fiamma 

che  da  un  lato  si  apprese  e  crebbe  al  vento 

e  corse  per  le  tavole  e  le  porte. 

Dentro  sgomenti  trepidar,  cercare 


304  ENEIDE 

invan  lo  scampo  dal  periglio.  E  in  quella 
che  addensati  s'arretrano  a  la  parte 
dal  danno  immune,  a  l'improvviso  peso 
giù  ruina  la  torre  e  scroscia  un  rombo. 
Semivivi  al  terren  vengono,  sotto 
la  gran  caduta,  infitti  ne  le  loro 
armi  o  passati  il  sen  da  duro  legno. 
Solo  Elènore  e  Lieo  furon  salvi: 
de'  quali  il  fresco  Elenore,  che  al  lidio 
re  di  furto  allevò  Licimnia  schiava 
ed  il  mandò  con  vietate  armi  a  Troia, 
ha  nuda  spada  e  scudo  senza  fregio. 
Quando  tra  i  mille  e  mille  egli  di  Turno 
si  vide  e  d'ogni  parte  armi  latine, 
come  la  fiera  che,  da  un  cerchio  stretta 
di  cacciatori,  le  minacce  affronta 
e  non  ignara  gittasi  a  la  morte 
spiccando  sopra  de  le  picche  il  salto, 
non  altrimenti  il  giovine  si  scaglia 
tra  i  nemici  a  morir,  dove  più  densi. 
Ben  più  ratto  di  pie  Lieo  fuggendo 
tra  gli  uomini  e  tra  l'armi  a'  muri  giunge, 
e  già  si  studia  d'afferrare  i  merH 
e  de*  compagni  suoi  prender  le  destre. 
Ma  Turno,  insiem  di  corsa  e  di  saetta 
seguendolo,  urla  trionfante:  «  pazzo  ! 
e  sperasti  campar  da  le  mie  mani  ?  »  ; 
e  il  ghermisce  a  mezz'aria  e  via  lo  svelle 
con  gran  part'^.  di  muro:  qual  di  Giove 
l'augello  allor  che  tra  gli  artigU  al  cielo 
si  porta  un  lepre  od  un  nitente  cigno, 


LIBRO    NOVO  305 

o  il  marzio  lupo  che  rapi  l'agnello, 
e  la  madre  lo  cerca  e  a  lungo  bela. 
Levasi  intorno  il  grido  :  innanzi  vanno 
ed  i  fossati  colmano,  mentre  altri 
scagliano  ardenti  fiaccole  a  la  cima. 
Ilioneo  d'un  gran  pezzo  di  monte 
Lucezio  atterra  che  col  foco  in  mano 
a  la  porta  venia;  Lìgere  prostra 
Ematione,  Asila  Corineo, 
quei  buono  al  getto,  questi  a  l' improvviso 
da  lungi  saettar:  Cèneo  ad  Ortigio, 
a  Ceneo  vincitor  dà  morte  Turno, 
Turno  a  Iti  ed  a  Gonio,  a  Diossippo 
e  a  Promolo,  ed  a  Sàgari  e  a  quell'  Ida 
che  difendea  le  torri  alte;  a  Privemo, 
Capi.  Costui  sfiorato  avea  da  prima 
lieve  la  lancia  di  Temiila:  ei  folle, 
avanzando  lo  scudo,  a  la  ferita 
pose  la  mano,  ed  ecco  una  saetta 
che  la  man  gh  confisse  al  manco  lato 
e  penetrata  addentro  di  mortale 
piaga  le  vie  gli  ruppe  del  respiro. 
D*Arcente  il  figlio  in  belle  armi  si  stava, 
ricamato  la  clamide  e  lucente 
d'ostro  iberico,  nobile  d'aspetto, 
che  il  genitore  Arcente  avea  mandato, 
cresciutolo  nel  bosco  di  Cibele 
in  riva  del  Simeto,  ove  fiorisce 
incruento  l'altare  di  Palico  : 
posate  l'aste,  una  stridente  fionda 
esso  Mezenzio  si  girò  tre  volte 

Ai.a:x:  -  Eneide  zm 


306  ENEIDE 

intorno  al  capo  e  a  lui  che  gli  era  in  faccia 
col  liquefatto  piombo  apri  le  tempie 
e  lungo  lo  distese  in  su  l'arena. 

Fama  è  che  allor  la  prima  volta  in  guerra 

vibrasse  Ascanio  l'agile  saetta, 

uso  innanzi  atterrir  fiere  fugaci, 

e  del  colpo  prostrò  Numano  forte, 

soprannomato  Remolo,  pur  dianzi 

sposo  di  Turno  a  la  minor  sorella. 

Questi  avanti  le  file  a  dritto  e  a  torto 

vociferando,  e  tumido  nel  cuore 

de  la  regahtà  nova,  perverso 

si  pompeggiava  rumorosamente. 

«  Non  v'  è  rossor,  due  volte  presi  Frigi, 

un  altro  assedio?  e  opporre  a  morte  un  muro? 

Ecco  chi  a  forza  vuol  le  nostre  spose  ! 

Quale  Iddio,  qual  follia  spinse  in  Itaha 

voi?  qui  non  son  gli  Atridi  e  non  Ulisse 

maestro  a  dire.  Fin  dal  ceppo  forti 

noi  giù  portiamo  i  nostri  figli  a'  fiumi; 

al  gelo  e  a  l'onde  li  tempriam  :  fanciulli 

vegliano  in  caccia  e  battono  le  selve, 

domar  cavalli  e  scoccar  dardi  è  gioco. 

Paziente  de  l'opra  e  al  poco  avvezza, 

la  gioventù  rompe  co'  rastri  il  suolo, 

crolla  con  l'armi  le  città.  Tra  '1  ferro 

si  consuma  ogni  età:  l'asta  rovescia 

è  pungolo  a  le  terga  de'  gio\'enchi. 

Né  la  tarda  vecchiezza  indebolisce 

i  vigorosi  spiriti  o  li  muta  : 


•  LIBRO   xnxo  307 

l'elmo  calchiam  su  la  canizie,  e  sempre 
fresche  amiani  prede  e  \iver  di  rapina. 
A  voi  le  vesti  piacciono  di  croco 
e  di  fulgida  porpora  dipinte, 
e  l'ozio  molle  e  i  dilettosi  baUi. 
le  maniche  e  le  mitre  co'  fermagli. 
O  Frigie  veramente,  e  non  già  Frigi, 
ite  per  Talto  Dindimo,  ove  il  flauto 
canta  sua  nota  duphce  a'  devoti; 
i  tamburelli  e  il  bosso  berecinzio 
de  l'idèa  Madre  chiaman  voi  :  lasciate 
a'  guerrieri  la  guerra  e  fate  largo  >. 

Non  sofferì  l'insultator  protervo 

Ascanio,  e  vòlto  a  lui  pose  la  freccia 

sul  nervo  equino  e  con  distratte  braccia 

stette,  invocando  pria  Giove  co'  voti: 

«  L'ardire,  o  Giove  onnipotente,  aiuta. 

E  porterò  solenni  doni  a'  templi  ; 

davanti  a  l'are  con  dorate  corna 

bianco  torello  ti  addurrò,  che  ormai 

erga  la  testa  al  pari  de  la  madre, 

e  già  cozzi  e  co'  pie  sparga  l'arena  ». 

L'udì,  tonò  dal  ciel  sereno  a  manca 

il  Padre,  iìschia  insieme  il  fatale  arco  : 

vola  stridendo  l'avventato  strale 

e  le  tempie  di  Remolo  trafigge. 

«Va',  motteggia  il  valor  co'  detti  impronti! 

Questa  i  due  volte  presi  Frigi  fanno 

a'  Rutuli  risposta  ».  E  tacque  a  tanto. 

Il  grido  segue  de'  Troiani  e  un  fremito 


308  KNKIDK 

di  gioia  e  un  vampo  di  cresciuto  ardire. 
Sta  vasi  allora  da  un 'eteri  a  plaga 
Apolline  chiomato  a  riguardare 
l'ausonie  schiere  e  la  città,  sopra  una 
nuvola  assiso,  e  tal  saluto  volge 
a  Giulo  vincitori  «Viva,  o  fanciullo, 
il  valor  novo!  Così  al  ciel  si  sale, 
figlio  e  futuro  genitor  di  numi. 
A  ragion,  quante  ha  l'avvenir  fatah 
guerre,  sotto  d'Assaraco  la  gente 
poseranno,  né  te  Troia  contiene  ». 
Così  dicendo  giii  dal  ciel  si  cala 
e  vien  per  le  lievi  aure  verso  Ascanio. 
Allor  muta  l'aspetto  in  quel  del  vecchio 
Bute,  che  fu  del  dardanio  x\nchise 
scudiero  prima  e  famigliar  fedele, 
poi  diello  il  padre  a  compagnia  d' Ascanio. 
Apollo  in  tutto  simile  al  vegliardo, 
a  la  voce  a  le  carni  al  bianco  crine 
e  a  l'armi  dal  terribile  tinnire, 
così  favella  a  l'animoso  Giulo: 
«  Or  basti,  Enide,  che  Numano  cadde 
del  colpo  tuo  senza  tuo  danno  :  prima- 
ti assente  il  grande  Apollo  questa  lode 
e  non  invidia  a  l'armi  uguali:  omai 
astienti,  o  figlio,  da  la  guerra  ».  Disse, 
e  a  mezzo  il  dir  lasciò  l'uman  sembiante 
e  dal  guardo  disparve  in  sottil  aura. 
Riconobbero  i  dardani  guerrieri 
il  dio,  le  divine  armi,  e  ben  fuggente 
sentirono  sonar  la  sua  faretra. 


LIBRO    NOXO  309 

Dunque  pe'  detti  e  pe  '1  voler  di  Febo 
frenano  Ascanio  di  pugnar  bramoso, 
ed  essi  fan  ritorno  a  la  battaglia 
e  agli  aperti  cimenti  offron  la  vita. 
Va  per  tutte  le  mura  e  per  le  torri 
il  clamor;  tendono  i  fieri  archi,  a  l'aste 
scoton  la  brigKa  ;  tutto  il  suolo  è  strali  ; 
gli  scudi  e  gli  elmi  cavi  a  le  percosse 
rimbombano  ;  la  mischia  aspra  si  leva  : 
tal  da  ponente  vien  sotto  i  piovosi 
Capretti  su  la  terra  un  gran  rovescio, 
e  così  fitto  grandina  sul  mare, 
qualor  con  gli  austri  Giove  tenebroso 
rotola  l'uragano  e  squarcia  i  nembi. 

Pandaro  e  Bizia,  figli  de  l'idèo 
Alcànore,  che  in  quel  bosco  di  Giove 
allevò  la  silvestre  lèra,  giovani 
alti  come  gli  abeti  a'  patrii  m_onti, 
la  porta  che  dal  duce  è  a  lor  commessa 
spalancano  fidandosi  ne  l'armi 
ed  invitano  dentro  essi  il  nemico. 
Essi  di  dentro  comie  torri  stanno 
a  destra  e  a  manca  tutti  aspri  di  ferro 
e  col  cimier  su'  capi  alti  fremente  : 
così  lunghesso  i  fiumi,  o  sian  le  rive 
del  Po,  sian  de  l'ameno  /\dige,  due 
quercie  si  vedon  sorgere  chiomate 
ed  accennare  con  le  somme  vette. 
Vi  s'avventano  i  Rutuli,  veduto 
schiuso  l'entrar:  ma  sùbito  Quercente, 


'XO  ENEIDE 

da  le  belle  armi  Aquicolo,  il  focoso 

Tmaro  e  il  bellico  Emon  con  tutti  i  loro, 

o  percossi  voltarono  le  spalle 

o  là  sul  varco  resero  la  vita. 

Più  cresce  allor  ne'  cuori  avversi  l' ira  : 

e  già  quivi  s'addensano  i  Troiani 

d'azzuffarsi  e  avanzare  inanimati. 

A  Turno  re  che  altrove  infuria  e  incalza 
l'annunzio  va  che  l'avversario  è  sorto 
a  strage  nova  e  dà  le  porte  aperte. 
Lascia  l'impresa  e  pien  d'ira  feroce 
vola  a  la  porta  e  a'  due  portier  superbi. 
Primo  Antifate  (primo  egli  venia), 
spurio  del  gran  Sarpèdone  di  madre 
tebana,  atterra  d'uno  strai:  ne  l'aria 
fugge  l'itala  penna  e  per  la  gola 
si  profonda  nel  petto,  una  caverna 
v'apre  che  sgorga  fuor  spumoso  fiotto, 
e  ferve  il  ferro  nel  polmon  trafìtto. 
Indi  Merope  atterra  ed  Erimante, 
indi  Afìdno,  indi  Bizia  igneo  negh  occhi 
e  fremebondo  in  cuor,  ma  non  di  freccia 
(che  certo  ei  non  cadea  per  una  freccia), 
si  venne  come  un  fulmine  fischiando 
una  falàrica  :  i  due  cuoi  taurini 
non  ressero  né  resse  la  lorica 
fedel  a  doppia  lastra  d'oro;  piomba 
il  gran  corpo  sul  suol  che  ne  risuona, 
e  romba  sul  caduto  il  grande  scudo. 


LIBRO    NONO  311 

Tale  di  Baia  su  Feuboico  lido 
cade  talor  pilone  di  macigno, 
che  su  gran  massi  preparato  avanti 
gettano  in  mare;  così  giù  rovina 
e  percosso  rista  ne  l'imo  fondo  : 
s'agitan  l'acque  e  bruna  si  solleva 
la  sabbia;  al  tonfo  Procida  alta  trema 
e  ne  trema  Ischia  per  voler  di  Giove 
imposta  a  Tifoèo  duro  giaciglio. 

Qui  Marte  armipotente  animo  e  forza 
crebbe  a'  Latini  e  li  toccò  di  sprone, 
mandò  la  Fuga  e  il  reo  Timor  fra'  Teucri. 
Concorron  quelli,  poi  che  il  campo  è  dato 
e  il  dio  pugnace  move  i  cuori. 
Pandaro,  a  terra  il  suo  fratel  veduto 
e  il  volger  de  le  cose  e  la  vicenda, 
la  porta  a  tutta  forza  risospinge 
puntando  con  le  larghe  spalle,  e  molti 
chiude  fuori  de'  suoi  tra  la  battaglia, 
ma  seco  altri  rinserra  e  li  rattiene 
precipitanti;  folle,  che  non  vide 
esso  il  rutulo  Re  tra  la  sua  schiera 
prorompere,  ma  dentro  lo  rinchiuse, 
come  tra  imbelle  armento  atroce  tigre. 
Nova  una  luce  balenò  dagli  occhi 
e  orribilmente  gli  sonaron  l'armi  : 
fremon  le  punte  del  cimier  sanguigno 
ed  è  guizzi  di  folgori  lo  scudo. 
Ben  riconoscon  l'odiata  faccia 


312  ENEIDE 

e  il  gran  corpo  gli  Eneadi  d'un  tratto 
sgomenti. 

Balza  allor  Pandaro  enorme 
e  grida,  iroso  del  fraterno  scempio  : 
«  Non  questa  è  la  dotai  reggia  di  Amata, 
non  Àrdea  già  tra  le  native  mura 
abbraccia  Turno:  quel  che  vedi  è  il  campo 
avverso  ;  uscir  di  qui  non  è  potere  ì\ 
E  con  un  riso  a  lui  placido  Turno  : 
«  Comincia,  se  hai  virtù  :  vieni.  Dirai 
a  Priamo  che  anche  qui  s'  è  visto  Achille  ». 
Avea  detto.  Colui  rozza  e  nodosa, 
di  cruda  scorza,  a  tutta  possa  un'asta 
scaglia:  fu  al  vento;  la  saturnia  Giuno 
sviò  la  piaga  che  veniva,  e  Fasta 
piantasi  ne  la  porta.  «  Ma  non  questa 
arme,  che  tratta  la  mia  destra  forte, 
tu  sfuggirai  ;  eh' è  il  feritor  diverso  r,. 
Disse,  e  si  eresse  con  la  spada  in  alto 
e  di  ferita  orribile  gli  aperse 
la  fronte  in  mezzo  e  le  mascelle  imberbi. 
Fu  fracasso  e  tremor  di  sì  gran  peso  : 
batte  a  terra  le  membra  ei  moribondo 
e  del  cervello  sparse  Tarmi:  il  capo 
penzola  dimezzato  a  le  due  spalle. 
Costernati  si  sbandano  i  Troiani: 
e  se  in  pensiero  al  vincitor  veniva 
franger  le  sbarre  e  chiamar  dentro  i  suoi, 
ultimo  de  la  guerra  e  de  la  gente 
era  quel  dì  :  ma  cieco  amor  di  strage 
via  lo  rapì  contro  a'  nemici. 


LIBKO    XONO  313 

Primo  s'abbatte  a  Fàleri  ed  a  Gige 
recidendogli  il  poplite  ;  ritratte 
l'aste  le  scaglia  de'  fuggenti  a  tergo 
(animo  e  forza  gli  ministra  Giuno); 
Ali  compagno  aggiunge  e  Fègeo,  cui 
passò  la  parma;  ignari  su  le  mura 
appresso  e  provocanti  Alcandro  e  Alio 
e  Noèmone  e  Pritani.  Poi  Linceo, 
che  gli  si  spinge  contro  e  chiama  i  soci, 
col  vivo  brando  da  lo  spaldo  a  destra 
soprafià  (lì  spiccatogli  d'un  colpo 
giacque  con  Telmo  il  capo  suo  lontano), 
Amico  poscia  distruttor  di  belve, 
che  a  unger  dardi  e  avvelenar  la  punta 
ben  sapea  far  meglio  che  tutti,  e  Clizio 
eolide,  e  a  le  Muse  amico  Crèteo, 
Creteo  compagno  de  le  Muse,  ch'ebbe 
sempre  i  carmi  e  la  cetra  a  cuore  e  il  canto 
a  le  corde  sposato,  e  cantò  sempre 
cavalli  ed  armi  e  battagliar  d'eroi. 

I  teucri  duci  alfine,  udito  il  danno, 

convengon,  Mnèsteo  e  il  fìer  Seresto,  e  in  rotta 

veggono  i  loro  ed  il  nemico  in  casa. 

E  Mnèsteo  grida:  a  A  che  fuggire  ?  e  dove  ? 

qual  città  più,  quah  altre  mura  avete? 

Un  uomo  solo,  o  cittadini,  e  stretto 

entro  i  vostri  steccati,  impunemente 

la  città  riempita  avrà  di  stragi 

e  i  più  forti  guerrier  piombati  a  l'ombre  ? 

Non  de  la  patria  sventurata,  o  lenti. 


314  ENEIDE 

de'  vecchi  Dei,  del  grande  Enea  vi  tocca 
pietà,  riguardo  ?  ))  Rincorati  a  questo 
serransi  tutti  e  fanno  fronte. 

Turno 
a  grado  a  grado  uscìa  da  la  battaglia 
verso  il  fiume  e  la  parte  che  n'è  cinta. 
Però  più  aspri  con  immenso  grido 
s'agglomerano  i  Teucri  ad  incalzarlo. 
Come  quando  una  turba  saettante 
caccia  un  crudo  leon,  che  sopraffatto, 
truce,  con  torve  occhiate,  si  ritrae, 
né  per  l'ira  e  il  valor  soffre  fuggire, 
e  non  può  pur  bramoso  in  mezzo  a  l'armi 
e  la  gente  balzar;  non  altrimenti 
dubbioso  arretra  Turno,  e  non  s'affretta, 
con  l'incendio  nel  cuor.  Anzi  due  volte 
tornò  a  scagliarsi  tra'  nemici,  e  due 
empì  gli  spalti  di  confusa  fuga  : 
ma  tutto  il  campo  contro  lui  si  accoghe; 
né  forze  ardisce  la  saturnia  Giuno 
prestargli,  che  d'Olimpo  a  la  sorella 
Giove  spedita  aveva  Iri  celeste 
con  sua  non  He  ve  ingiunzion,  se  Turno 
la  troiana  città  non  abbandoni. 
Col  braccio  dunque  e  con  l'usbergo  solo 
regger  non  può,  tra  il  nembo  che  l'opprime 
de  le  saette.  È  un  crepitìo  continuo 
l'elmo  intorno  a  le  tempie,  il  buon  metallo 
si  fende  a'  sassi,  volan  via  dal  capo 
le  creste,  a'  colpi  smagliasi  lo  scudo. 
I  Troiani  imperversano  con  l'aste 


LIBRO    NONO 

e  anch'esso  Mnesteo  fulminante.  Tutta 
il  sudore  gli  corre  la  persona 
in  rivoli  nerastri,  e  respirare 
non  può;  scote  l'affanno  il  corpo  stanco. 
Alfine  allor  d'un  salto  giù  nel  fiume 
con  tutte  l'armi  si  lasciò  :  l'accolse 
al  suo  venire  la  corrente  bionda, 
mansueta  lo  resse,  e  trionfante 
deterso  da  la  strage  a'  suoi  lo  rese. 


315 


LIBRO    DECIMO 


S'apre  intanto  la  casa  de  l'Olimpo 

onnipotente,  e  il  Padre  degli  Dei 

e  degli  uomini  Re  concilio  aduna 

ne  la  stellata  sede,  onde  alto  mira 

le  terre  tutte  e  il  campo  de'  Troiani 

e  i  popoli  Latini.  Ne  la  stanza 

siedono  bipatente  :  esso  incomincia  : 

u  Grandi  Celesti,  onde  il  pensier  vi  muta 

e  sì  lottate  con  avversi  cuori? 

Vietai  che  Italia  guerreggiasse  i  Teucri. 

Contro  il  divieto  qual  discordia  ?  quale 

trepidanza  suase  o  questi  o  quelli 

a  cercar  l'armi  e  rompere  in  battaglia  ? 

Verrà,  non  l'affrettate,  il  giusto  tempo 

di  guerra,  quando  un  di  l'aspra  Cartago 

moverà  contro  le  romane  rocche 

un  estenninio  grande  e  l'Alpi  aperte. 

Allor  gareggiar  d'odii,  allor  fia  bello 

sovvertire  ogni  cosa  :  ora  lasciate 

e  riposate  in  un  concorde  patto  », 


3l8  ENEIDE 

Giove  in  breve  così,  ma  non  già  breve 

risponde  l'aurea  Venere  : 

«  Padre,  eterno  signor  d'uomini  e  cose 

(e  a  chi  potremmo  avere  omai  ricorso?), 

vedi  tu  come  i  Rutuli  son  baldi 

e  Turno  corre  tra  la  mischia  e  vola 

alto  sul  carro  e  gonfio  de'  successi  ? 

Non  bastano  a  difendere  i  Troiani 

le  chiuse  mura  :  entro  le  porte,  in  cima 

agh  spaldi  già  vengono  a  le  prese, 

e  le  fosse  ridondano  di  sangue. 

È  lungi  e  ignaro  Enea. 

Non  mai  d'assedio 
li  francherai  ?  De  la  nascente  Troia 
stringe  il  nemico  un'altra  volta  i  muri 
e  un  esercito  novo;  un'altra  volta 
sorgerà  contro  a'  Teucri  da  l'etola 
Arpi  il  Tidide.  Più  non  manca,  credo, 
che  le  ferite  mie  :  la  tua  figliuola 
attendendo  si  sta  dardi  mortali. 
Se  contro  il  tuo  piacer,  senza  l'assenso 
i  Troiani  salparono  a  l'Italia, 
paghin  la  colpa  e  privali  d'aiuto  : 
ma  se  dietro  gli  oracoli  fur  mossi 
che  sì  spessi  rendean  Superi  e  Mani, 
perché  v'ha  chi  rimuta  oggi  il  tuo  cenno 
e  presume  crear  novi  destini  ? 
Dirò  le  navi  al  Udo  d'  Erice  arse  ? 
o  il  re  de  le  tempeste  suscitato 
e  da  l'Eolia  i  venti  furibondi? 
o  da  le  nuvole  Iride  mandata  ? 


LIBRO    DECIMO  319 

Ora  move  fin  l'ombre  (l'universo 

serbava  intatta  quella  parte),  e  Alletto 

eruppe  d'improvviso  sotto  il  sole, 

per  l'itale  città  pazza  scorrendo. 

Non  m'affanno  d' impero  :  io  lo  sperai 

a'  lieti  giorni  :  vinca,  chi  tu  vuoi. 

Se  non  è  region  che  la  tua  dura 

consorte  a'  Teucri  dia,  padre,  ti  prego 

per  le  fumanti  ceneri  di  Troia, 

che  si  possa  campar  da  l'armi  Ascanio 

incolume,  superstite  nipote. 

Vada  per  onde  ignote  Enea  sbattuto  ; 

qual  via  Fortuna  assegnerà,  la  corra  : 

ma  questo,  ch'io  lo  salvi  e  lo  sottragga 

a  l'empia  guerra.  Ho  Amatunta,  ho  l'alta 

Paf o  e  Citerà  con  l' idahe  case  : 

qui\d  senz'armi  viva  e  senza  gloria. 

Fa'  che  in  fiero  dominio  signoreggi 

Cartagine  l'Ausonia  :  indi  nessuna 

a  le  tirìe  città  verrà  molestia. 

Che  valse  uscir  dal  vortice  di  guerra 

e  per  mezzo  sfuggir  le  argive  fiamme 

e  tanti  in  terra  e  in  mar  rischi  patire, 

cercando  i  Teucri  il  Lazio  e  una  risorta 

Pergamo?  Deh,  non  era  meglio  stare 

su  le  reUquie  de  la  patria  estreme, 

là  dove  Troia  fu  ?  Padre,  oh  !  tu  rendi 

agl'infeUci  Xanto  e  Simoenta 

e  fa'  che  la  vicenda  si  rinnovi 

d'Ilio  a'  Troiani  ». 

La  regal  Giunone 


[20  i-:neti)K 

allor,  accesa  di  furor  profondo: 

a  L'alta  silenzio  a  che  romper  mi  sforzi 

e  in  parole  svelar  l'intimo  sdegno? 

Enea  qual  uom,  qual  dio  l'astrinse  a  guerra 

e  lo  mosse  nemico  al  re  Latino  ? 

Venne  in  Italia  per  i  fati,  e  sia, 

stimolato  dagli  estri  di  Cassandra  : 

forse  che  a  uscir  dal  campo  l'esortammo 

e  commettersi  a'  venti  ?  a  dare  in  mano 

e  le  mura  e  la  guerra  ad  un  fanciullo? 

l'etrusca  fede  e  i  popoli  quieti 

turbar  ?  Qual  dio  lo  spinse  al  mal,  qual  nostra 

mai  prepotenza  ?  dov'è  qui  Giunone 

o  da  le  nuvole  Iride  mandata? 

Indegna  cosa  a  la  nascente  Troia 

gì'  Itali  porre  intorno  il  fuoco,  indegna 

stanziar  Turno  ne  la  patria  terra, 

cui  fu  avo  Pilumno  e  cui  fu  madre 

la  dea  Venilia  :  ed  i  Troiani  contro 

a'  Latini  venir  con  tetra  face  ? 

campi  altrui  soggiogar,  portarne  prede? 

i  suoceri  trascegliersi  e  rapire 

lor  di  grembo  le  spose?  con  la  mano 

pace  implorare,  armar  le  poppe  a  guerra? 

Tu  Enea  puoi  trarre  da  le  man  de'  Grai 

e  porre  in  luogo  suo  la  nebbia  e  il  vento, 

puoi  de  le  navi  tu  far  tante  ninfe  : 

s'io  giovo  in  nulla  i  Rutuli,  è  delitto? 

È    lungi  e  ignaro  Enea.  Sia  lungi  e  ignaro. 

Hai  Pafo  e  Idalio,  hai  tu  l'alta  Citerà  ; 

una  città  eh'  è  gravida  di  guerre 


LIBRO    DECn.IO  321 

e  fieri  cuori  perché  tenti?  Forse 

ci  sforziam  noi  di  rovesciarti  il  frale 

stato  de'  Frigi  ?  noi,  o  chi  di  fronte 

pose  agli  Achivi  i  poveri  Troiani  ? 

Qual  fu  cagione  a  sollevarsi  in  armi 

l'Europa  e  l'Asia  e  dissipar  la  pace 

con  un  ratto?  L'adultero  troiano 

forse  da  me  condotto  espugnò  Sparta? 

il  dardo  io  diedi  e  in  voluttà  la  guerra 

scaldai  ?  Dovevi  allor  pe'  tuoi  temere  : 

tarda  or  ti  levi  a  lamentele  ingiuste 

e  vai  spargendo  inutili  corrucci  ». 

Così  Giunone  perorava  e  tutti 

i  Celesti  fremean  con  vario  assenso, 

come  quando  i  primi  ahti  nascosi 

metton  tra  '1  bosco  un  murmurc  indistinto, 

indizio  al  marinar  che  viene  il  vento. 

Allora  il  Padre  onnipotente,  primo 
de  le  cose  signor,  parla  (al  suo  dire 
ammutisce  la  casa  alta  de'  Numi 
e  giù  la  terra  trepida,  si  tace 
il  som^mo  ciel,  gli  zefiri  son  cheti, 
e  l'oceano  placido  si  spiana)  : 
«  M'udite  dunque  e  in  cuor  figgete  il  detto. 
Poi  che  stringere  accordo  Ausoni i  e  Teucri 
non  fu  concesso,  e  la  discordia  vostra 
dura  infinita,  qual  che  abbia  ciascuno 
oggi  fortuna,  qual  solchi  speranza, 
Teucro  o  Rutulo,  io  non  farò  divario, 
o  per  fati  degl'Itah  sia  stretto 

Albini  -  Eneide  ai 


322  ENEIDE 

d'assedio  il  campo  o  per  infausto  errore 
di  Troia  e  per  oracoli  sinistri. 
Né  i  Rutuli  prosciolgo.  Avrà  ciascuno 
il  danno  e  la  fortuna  de  la  propria 
impresa.  Giove  è  re  per  tutti  eguale. 
I  fati  troveran  la  via  ». 

Pe  '1  fiume 
indi  accennò  del  suo  fratello  stigio 
dai  tetri  gorghi  torridi  di  pece, 
e  tutto  al  cenno  fé'  tremar  l'Olimpo. 
Qui  finir  le  parole.  Allor  si  leva 
Giove  da  l'aureo  trono,  ed  i  Celesti 
in  cerchio  l'accompagnano  a  le  soglie. 

I  Rutuli  frattanto  ad  ogni-  porta 
premono  a  studio  di  atterrar  guerrieri 
e  le  mura  cerchiar  d' incendio.  Stretta 
ne*  valH  sta  la  legion  d'Enea, 
né  speranza  è  di  fuga.  Su  le  torri 
alte  i  miseri  stanno  inutilm.ente, 
e  rari  coronarono  gli  spaldi. 
Asio  Imbratide  appar,  l' Icetaonio 
Timete  ne  la  prima  schiera,  e  i  due 
Assaraci  e  con  Castore  il  provetto 
Timbri  :  compagni  vengono  di  questi 
entrambi  di  Sarpèdone  i  germani 
Claro  e  Temone  da  l'alpestre  Licia. 
Con  isforzo  di  tutta  la  persona 
un  gran  sasso,  una  falda  anzi  di  monte, 
porta  il  lirnesio  Acmon,  né    a  Lizio  padre 
né  al  fratello  Menèsteo  inferiore. 


LIBRO    DECIMO 


Questi  col  getto,  quei  volgendo  pietre 

studiano  a  la  difesa  e  avventar  fuoco 

ed  incoccare  le  saette  al  nervo. 

Esso  nel  mezzo,  degno  amor  di  Venere, 

è  il  dardanio  fanciullo  a  capo  ignudo; 

quale  brilla  tra'  1  biondo  oro  una  gemma 

di  fregio  al  collo  o  al  crine,  e  qual  per  arte 

commesso  avorio  luccica  tra  '1  bosso 

o  il  terebinto  d'Orico  :  i  capelli 

gii  piovon  su  la  candida  cervice, 

li  annoda  un  cerchio  di  pieghe  voi  oro. 

Te  pur  r  inclita  gente,  Ismaro,  vide 

diriger  colpi  e  attossicar  saette, 

di  nobil  casa  di  Meonia,  dove 

esercitano  gli  uomini  le  zolle 

feraci,  dal  Fattolo  aureo  irrigate. 

Anche  Mnesteo  vi  fu,  cui  leva  a  cielo 

la  prima  gloria  del  cacciato  Turno 

da  la  cerchia  de'  muri,  e  vi  fu  Capi, 

onde  ha  suo  nome  la  città  campana. 

Quelli  tra  lor  le  gare  aspre  di  guerra 
fecero  :  Enea  nel  cuore  de  la  notte 
solcava  il  mar.  Poiché,  come  da  Evandro 
entrato  al  campo  etrusco  al  re  ne  viene 
e  al  re  dice  il  suo  nome  e  la  sua  gente, 
quel  che  domanda  e  quel  che  offre,  ed  espone 
quali  Mezenzio  si  procacci  aiuti, 
quanta  di  Turno  sia  la  violenza, 
e  gli  rammenta  le  vicende  umane 
pregandolo;  Tarcone  senza  indugio 


324  ENEIDE 

le  forze  unisce  e  stringe  l'alleanza. 
Libera  allor  dal  fato,  i  legni  sale 
la  lidia  gente,  per  divin  volere 
commessa  al  cenno  di  straniero  duce. 

D'Enea  la  nave  innanzi  va,  con  due 

frigi  leoni  sotto  al  rostro,  e  sopra, 

rida,  diletto  a'  profughi  Troiani. 

Qui  siede  il  grande  Enea  tra  sé  volgendo 

gli  eventi  vari!  de  la  guerra,  e  a  manca 

gli  si  stringe  Fallante,  ora  chiedendo 

degli  astri,  guide  de  l'opaca  notte, 

or  di  quanto  sofferse  in  terra  e  in  mare. 

Aprite  or  l'Elicona,  o  Dive,  e  il  canto 
dettate,  quale  da  le  tosche  prode 
stuolo  accompagni  intanto  Enea,  venendo 
per  la  marina  su  le  armate  navi. 

Primo  il  mar  solca  su  la  bronzea  Tigre 
Massico,  sotto  a  cui  mille  da  Chiusi 
e  da  Cosa  si  mossero  :  saette 
son  l'armi  loro  e  a  l'omero  leggieri 
geriti  ed  infallibile  arco. 

Insieme 
dal  fiero  piglio  Abante  :  i  suoi  drappelH 
tutti  in  bello  fulgean  guerresco  arnese 
e  di  dorato  Apolhne  la  poppa. 
Seicento  gli  avea  dati  Populonia 
di  suoi  figli  agguerriti,  Elba  trecento 
isola  inesauribile  miniera 


LIBRO    DECIMO  325 

de'  Càlibi. 

Veniva  terzo  Asila, 
quel  degli  uomini  interprete  e  de'  numi, 
cui  le  fibre  del  gregge,  cui  son  chiari 
gii  astri  del  ciel,  le  lingue  degli  uccelli 
e  i  guizzi  de  la  folgore  presaghi, 
con  mille  in  campo  densi  orridi  astati. 
Ghe  H  sommette  alfea  d'origin  Pisa, 
città  etrusca  di  suol. 

Bellissimo  Astir 
seguita,  Astir  fidente  nel  destriero 
e  ne  le  variegate  armi.  Trecento, 
con  im  unico  cuor  di  seguitarlo, 
gli  aggiungon  quei  di  Cere  e  quei  che  sono 
del  Minion  ne'  campi  e  Pirgo  antica 
e  da  le  non  leggiere  aure  Gravisca. 

Non  io  già  te,  de'  Liguri  sì  prode 

condottier,  leggermente  passerei, 

da  pochi  accompagnato  Cupavone, 

cui  penne  in  fronte  sorgono  di  cigno  : 

amore  è  vostra  colpa  ed  è  l'insegna 

de  la  foiTna  paterna.  Il  grido  narra 

che  nel  rimpianto  di  Fetonte  amato, 

tra  le  pioppe  e  l'ombria  de  le  sorelle, 

mentre  canta  e  cantando  si  consola, 

incanuti  di  molle  piimia  Cigno, 

con  la  voce  dal  suol  mosso  a  le  stelle. 

Il  figlio,  in  nave  il  coetaneo  stuolo 

accompagnando,  avanti  fa  co'  remi 

un  gran  Centauro  :  quel  sovrasta  a  l'acqua 


320 


ENEIDE 


e  ingente  sasso  a  Fonde  alto  minaccia, 
fendendo  i  flutti  con  la  lunga  chiglia. 

Quell'Odio  ancor  dal  terren  patrio  a  l'armi 
guerrieri  trae,  de  V  indo^dna  Manto 
figlio  e  del  tosco  fiume,  ei  che  co'  muri 
de  la  madre  ti  die,  Mantova,  il  nome; 
Mantova,  ricca  d'avi,  ma  non  d'una 
radice  tutti  :  tre  le  genti,  quattro 
sott'ogni  gente  i  popoh;  essa  capo 
de'  popoh,  dal  tosco  sangue  il  nerbo. 
Mezenzio  n'arma  contro  sé  pur  quindi 
cinquecento  :  fighuolo  del  Benaco, 
velato  il  I\Iincio  de  le  canne  verdi 
traeah  al  mare  su  l'infesto  abete. 
Va  grave  Auleste  ed  al  maneggio  insorge 
di  cento  remi  che  percoton  l'onde. 
Gran  Tritone  h  porta  e  i  flutti  assorda 
con  l'azzurra  conchiglia  :  insino  a'  fianchi 
nuotando  offre  sembianza  ispida  d'  uomo, 
termina  il  ventre  in  mostro  ;  spumeggiante 
sotto  al  selvaggio  sen  mormora  il  mare. 

Tanti  scelti  guerrier  su  trenta  navi 

in  aiuto  movevano  di  Troia 

e  solcavan  co'  rostri  i  campi  salsi. 

E  già  dal  cielo  il  di  s'  era  partito, 

e  l'alma  Febe  col  notturno  carro 

batteva  il  mezzo  de  l' Olimpo  :  Enea, 

cui  non  lascia  il  pensier  posar  le  membra, 

esso  siede  al  timone,  esso  a  le  vele. 


LIBRO    DECIMO  3 

Ed  ecco  tra  il  ^ias'gio  in  lui  s'incontra 
il  coro  de  le  sue  compagne  :  quelle, 
che  di  navi  esser  ninfe  in  mar  di^Hne 
l'alma  Cibele  avea  voluto,  a  scMera 
nuotavano  i\*i,  quante  erano  state 
rigide  un  giorno  bronzee  prore  a  riva. 
Riconoscono  il  re  da  limgi,  e  intomo 
gli  danzano.  E  di  lor  la  più  faconda, 
Cimodocea,  dietro  seguendo,  pone 
a  la  poppa  la  destra  e,  fuori  emersa 
col  dorso,  cheta  remiga  sott'acqua 
con  la  sinistra  ed  a  l' inconscio  dice  : 
«Sei  svegho,  Enea,  figlio  di  nun:i'  ^>glia, 
ed  a  le  vele  Kbera  le  sarte. 
Siam  noi,  i  pini  siam  del  sacro  monte 
Ida,  or  rinfe  del  n:2.r,   5Ìam  la  tua  fiotta. 
Come  il  p:-rndo  Ku:u1j  v:l;:\-a 
con  ferro  e  fiamma  a  furia  ina::^-?.::i, 
rompemm.o  contro  voglia  i  ::. ::  .i^arai 
e  per  il  :a:.:     ::    iviaaii^ai.   La  :::3.dre 
ci  die  pietosa  questa  nova  fonna 
e  in  grembo  a  l'acque  \'iver  come  dee. 
Ma  il  gio\inetto  A^      '       :::  r:;-.;::  e  l'assi 
è  costretto  da  l'arnii  e  da'  Latini 
spiranti  guerra.  A'  comandati  luog:hi 
già  sono  insiem  col  valoroso  E:ra=a3 
l'Arcade  cavaher:  fra^-"-'---^  irld 

le  sue  torme,  che  al  a.iiiirsi 

non  possano,  è  il  proa     ::     di  Turno. 
Or  sorgi  e  primo  su  I\aa.    :a  i  tuoi 
fa'  si  chiamino  a  l'anni  e  prendi  il  cHpeo 


328  ENEIDE 

che  invitto  esso  ti  diede  il  Dio  del  fuoco 
e  il  cinse  d'oro.  Il  sole  di  domani, 
se  vane  non  terrai  le  mie  parole, 
de'  Rutuli  vedrà  sanguigno  mucchio  ». 
Avea  detto,  e  spiccandosi  sospinse, 
dotta  del  modo,  con  la  man  la  poppa: 
questa  va  più  che  strai  che  va  col  vento; 
e  così  r  altre  affrettano  la  corsa. 

Il  troiano  Anchisiade  stupisce 

ignaro,  pur  si  esalta  del  presagio 

e  breve  prega  riguardando  in  alto  : 

«  Alma  de'  Numi  genitrice  Idea, 

che  Dindimo  ami  e  le  città  turrite 

e  i  leoni  a  pariglia,  or  tu  m'avvii 

a  la  battaglia,  e  tu  l'augurio  adempi 

e  i  Frigi,  o  dea,  benignamente  assisti  ». 

Così  detto,  che  già  tornando  in  volta 

il  dì  chiariva  e  avea  cacc^'ate  l'ombre, 

da  prima  ordina  a'  suoi  che  dietro  a'  segni 

s' animino  e  preparino  a  la  pugna. 

Esso  diritto  poi  su  l'alta  poppa, 

già  in  vista  avendo  i  Teucri  ed  il  suo  campo, 

con  la  sinistra  sollevò  lo  scudo 

fiammante. 

Un  grido  alzano  al  ciel  da'  muri 
i  Teucri,  nova  speme  attizza  l'ire, 
e  lancian  dardi  :  quali  sotto  al  nembo 
si  fanno  le  strimonie  gru  sentire 
che  r  aere  traversano  rombando 
e  con  lieto  clamor  fuggono  i  Noti. 


LIBRO    DECIMO  329 

Quella  al  rutulo  re  fu  maraviglia 

e  a'  duci  ausonii,  insin  che  riguardando 

vedon  le  poppe  al  lido  volte  e  tutto 

venire  a  riva  con  la  flotta  il  mare. 

Arde  Telmo  a  la  cima  e  da  le  piume 

fiamma  si  sparge  e  il  rilevato  centro 

de  l'aureo  scudo  un  vasto  incendio  spira; 

non  altrimenti  se  per  chiara  notte 

luttuose  rosseggiano  comete, 

o  il  Sirio  ardore,  quel  forier  di  sete 

e  di  morbi  a'  mortali  egri,  si  leva 

e  del  sinistro  lume  il  ciel  contrista. 

Non  però  la  fidanza  a  Turno  audace 

venne  rnen  di  preoccupare  il  lido 

e  i  venienti  ributtar  da  terra; 

anzi  co'  detti  i  cuori  eccita  e  sprona  : 

u  Quel  che  bramaste,  or  franger  con  la  destra 

potete  ;  in  pugno  de'  guerrieri  è  Marte. 

Or  la  sua  donna  ognuno  e  la  sua  casa 

rammenti,  or  si  rinnovino  le  glorie 

de'  padri.  Riceviamoli  a  la  sponda, 

trepidi  ancor  ne'  primi  incerti  passi. 

Ride  agli  arditi  la  fortuna  ». 

Dice,  e  divisa  chi  a  lo  scontro  meni, 

a  chi  confidi  l'accerchiate  mura. 

Intanto  Enea  da  l'alte  poppe  i  suoi 
coi  ponti  sbarca.  Colgono  l' istante 
molti  che  si  ritrae  languida  l'onda 
e  balzan  su  l'arena,  altri  pe'  remi. 


330  ENEIDE 

Esplorando  Tarcone  ov'è  profondo, 
ove  non  frange  mormorando  il  flutto 
ma  gonfio  arriva  e  senz'intoppo  il  mare, 
là  dirige  la  prora  e  i  soci  esorta  : 
«  Ora,  miei  prodi,  date  forte  a'  remi, 
via  levate  in  un  volo  i  legni,  e  in  questa 
sponda  nemica  a  noi  piantate  i  rostri, 
che  la  chiglia  da  sé  si  faccia  il  solco. 
Presa  terra  una  volta,  a  me  non  cale 
romper  la  nave  ne  l'approdo  ». 

Tanto 
disse  Tarcone,  e  quelli  erti  al  remeggio 
tra  le  schiume  a  lanciar  nel  suol  latino 
le  navi  :  i  rostri  mordono  l'asciutto, 
e  posaron  le  chiglie  ;  illese  tutte, 
non,  Tarcone,  la  tua,  che  urtata,  mentre 
sopra  la  secca  disegnai  vacilla 
aiutandosi  a  lungo  e  dibattendo, 
sfasciasi  ed  i  guerrieri  in  acqua  versa. 
Impaccio  sono  a  lor  le  galleggianti 
tavole  e  gli  spezzati  remi,  insieme 
l'onda  nel  rifluir  ne  porta  il  piede. 

Né  Turno  inerte  si  rista,  ma  fiero 
tutti  trascina  contro  i  Teucri  e  pianta 
in  su  la  riva  i  suoi.  Squillano  i  segni. 
Primo  assalì  le  torme  agresti  Enea, 
augurio  de  la  pugna,  e  mise  in  terra 
i  Latini  uccidendo  quel  Terone 
che  su  tutti  veniva  Enea  sfidando: 
per  le  maglie  di  bronzo  e  per  le  scaglie 


LIBRO    DECIMO  331 

de  la  tunica  d'oro  il  iìanco  nudo 

gli  colpì  con  la  spada.  Indi  colpisce 

Lica,  spiccato  un  dì  da  la  già  morta 

madre  e  a  te,  Febo,  consacrato  :  i  rischi 

del  ferro  ei  seppe  vincer  piccolino. 

Lì  presso  a  morte  die  Cisseo  feroce 

e  il  vasto  Già  da  l'omicida  clava  : 

d'Ercole  l'arma  né  il  possente  polso 

non  li  salvò  né  il  genitor  Melampo, 

com.pagno  fido  ognor  d'Alcide,  mentre 

gravi  la  terra  gli  offerì  fatiche. 

Ecco,  a  Farone  che  sclamava  al  vento, 

gH  confìgge  mentre  urla  un  dardo  in  bocca. 

Tu  pur,  Cidone,  che  mal  segui  Clizio, 

nova  delizia  con  la  gota  bionda 

del  primo  pelo,  per  la  man  troiana, 

guarito  de  l'amor  che  sempre  avevi 

di  giovinetti,  misero  cadresti, 

se  incontro  non  venian  stretti  a  coorte 

sette  fratelli,  a  Forco  figli,  e  sette 

scoccano  strali,  che  una  parte  vani 

rimbalzano  da  l'elmo  e  da  lo  scudo, 

una  parte  radenti  la  persona 

li  sviò  l'alma  Venere. 

Si  volge 
al  fido  Acate  Enea  :  <<  Dammi  de  l'armi, 
né  sia  che  a  vuoto  io  n'abbia  una  scagliata 
contro  i  Rutuli,  quando  a'  campi  d'Ilio 
così  bene  colpivano  ne'  Greci  ». 
Afferra  allor  una  grande  asta  e  avventa, 
che  a  voi  trapassa  il  bronzo  de  l'usbergo 


332  ENEIDE 

di  Mèone  e  squarcia  la  corazza  e  il  petto. 
Alcànore  sottentra  al  suo  fratello 
che  trabocca,  e  lo  regge  con  la  destra  : 
un'asta  vien  che  gli  trafigge  il  braccio, 
indi  continua  sanguinosa  il  volo, 
e  penzolò  da  l'omero  la  destra 
co'  morti  nervi.  Dal  fraterno  corpo 
tratta  la  lancia,  Numitor  si  volse 
contro  ad  Enea,  né  già  potè  ferirlo 
e  la  coscia  sfiorò  del  grande  Acate. 
Clauso  da  Curi  del  suo  fresco  fiore 
baldo  sen  viene  e  con  la  rigid'asta 
coglie  di  Innge  Drìope  affondata 
di  sotto  al  mento,  e  per  la  rotta  gola 
parola  e  vita  insiem  gli  toglie  :  quello 
dà  de  la  fronte  al  suol  e  denso  versa 
di  bocca  il  sangue.  Con  diverse  morti 
prostra  altri  tre  de  la  suprema  gente 
del  tracio  Borea,  e  ancora  tre  che  invia 
Ida  padre  e  la  patria  Ismara.  Accorre 
Aleso  con  l'aurunco  stuol,  sottentra 
nettunia  prole  il  cavalier  Messapo. 
Di  ricacciarsi  tentano  a  vicenda  : 
su  le  soglie  d'Italia  è  la  tenzone. 
Come  per  l'ampio  ciel  discordi  venti 
s'azzuffano  con  furia  e  forze  uguali  ; 
non  cedon  essi,  non  le  nubi  e  il  mare, 
de'  cozzanti  elementi  è  lunga  lotta  : 
non  altrimenti  le  troiane  schiere 
e  le  schiere  latine  a  fronte  stanno; 
piede  a  piede  si  serra  ed  uomo  ad  uomo. 


LIBRO    DECIMO  333 

Ma  in  altra  parte,  che  il  torrente  aveva 

ingombra  tutta  di  travolti  sassi 

e  d'alberi  a  le  sponde  sradicati, 

come  Fallante  gli  Arcadi,  non  usi 

pugnar  pedoni,  dar  vide  le  spalle 

al  Lazio  inseguitor  (li  avea  l'asprezza 

del  luogo  fatti  scendere  di  sella), 

solo  rimedio  al  misero  momento, 

or  con  prece  li  avviva  or  con  rampogne  : 

«  Compagni,  ove  fuggite  ?  Per  voi  stessi 

e  i  vostri  vanti,  per  il  regio  nome 

d' Evandro  e  sue  vittorie,  per  me  novo 

emulatore  del  valor  paterno, 

non  fidate  ne'  pie.  La  via  col  ferro 

s' ha  da  far  tra'  nemici.  Ove  minaccia 

quel  più  denso  manipolo  guerriero, 

là  voi  con  me  la  nobil  patria  chiama. 

Non  ci  assalgon  già  Dei;  siam  combattuti 

mortali  da  mortali,  ed  abbiam  noi 

una  vita  e  due  mani  al  par  di  loro. 

Ecco,  una  gran  barriera  il  mar  ci  oppone; 

manca  terra  al  fuggir  :  ci  volgeremo 

al  mare  o  a  Troia  ?  -> 

Così  dice,  e  in  mezzo 
al  folto  de  l'avversa  oste  prorom.pe. 
Primo  gli  si  offre  per  suo  triste  fato 
Lago:  lui,  mentre  spicca  un  ponderoso 
sasso,  trafigge  d'aggiustato  dardo, 
ove  in  mezzo  a  le  costole  è  la  spina, 
e  ritrae  l'asta  penetrata  a  l'ossa. 
Né  lo  sorprende,  e  lo  sperava,  Isbone; 


334  ENEIDE 

anzi,  precipitante  forsennato 

per  l'aspra  morte  del  compagno,  lui 

Fallante  accoglie  subito  e  la  spada 

gli  profonda  nel  tumido  polmone. 

Poi  Stènio  assale  e  Anchèmolo,  di  Reto 

da  la  gente  vetusta,  oso  incestare 

de  la  matrigna  il  talamo.  Gemelli, 

voi  pur  ne'  campi  rutuli  cadeste, 

Larìde  e  Timbro,  figli  a  Dauco;  tanto 

simiglianti  tra  lor,  che  a'  lor  parenti 

eran  cagione  di  gradito  errore: 

or  fece  in  voi  Fallante  aspro  divano, 

che  a  te.  Timbro,  spiccò  l' evandrìa  spada 

il  capo,  e  te,  Larìde,  la  tua  destra, 

te  tronca  cerca,  e  palpitano  in  terra 

le  moribonde  dita  a  stringer  l'elsa. 

Gli  Arcadi,  accesi  a  le  parole  e  a  l'alta 

vista  di  sue  prodezze,  a  la  battaglia 

arma  un  misto  di  sdegno  e  di  rossore. 

Ecco,  Falla  trapassa  Rèteo  via 

su  la  biga  fuggente.  E  fu  per  Ilo 

quel  breve  attimo  assai;  che  di  lontano 

contro  Ilo  la  grande  asta  avea  diretta, 

e  a  riceverla  Rèteo  si  frappose, 

mentre  da  te  scampava,  ottimo  Teutra, 

e  da  Tire  f ratei.  Giù  da  la  biga, 

dà  su  rutulo  suol  gli  ultimi  guizzi. 

Come  d'estate  al  desiato  vento 

mette  il  pastor  d'intorno  al  bosco  il  fuoco, 

ma  corre  al  mezzo  rapida  e  tutt'una 

si  fa  la  veemenza  di  Vulcano; 


LIBRO   DECIMO  335 

quei  pago  siede  e  guarda  giù  le  fiamme 

che  trionfano  :  in  simil  guisa  tutto 

de'  compagni  il  valore  in  un  s'accoglie, 

e  tu  godi,  Fallante.  Ma  il  pugnace 

Aleso  vien,  stretto  ne  Tarmi  sue, 

e  uccide  di  tra  lor  Ladon,  Perete, 

Demodoco;  a  Strimonio  d'un  fendente 

de  la  fulgida  spada  via  la  destra 

strappa  levata  a  la  sua  gola;  un  masso 

gitta  in  viso  a  Toante,  e  gli  sfragella 

l'ossa  e  il  cervello  in  misero  miscuglio. 

Vate  de'  fati,  il  padre  avea  nascosto 

ne'  boschi  Aleso  ;  ma  com'ebbe  il  vecchio 

ne  la  morte  i  canuti  occhi  sopiti, 

l'afferraron  le  Parche  e  lo  dier  segno 

agli  strali  d'Evandro.  A  lui  Fallante 

mira,  prima  pregando  :  «  Or  tu  concedi, 

Tebro  padre,  a  lo  strai  che  ho  qui  su  l'ale 

felice  volo  al  duro  cuor  di  Aleso. 

Tua  querce  avrà  quest'arma  e  le  sue  spoglie  )>. 

Il  dio  l'udì:  mentre  fa  scudo  Aleso 

a  Imàone,  offerisce  l'infehce 

a  l'arcadica  freccia  il  petto  inerme. 

Ma  dal  cader  di  un  tant'uomo  sgomenti 

Lauso,  cuor  de  la  guerra,  i  suoi  non  lascia  : 

previene  e  prostra,  che  il  fronteggia,  Abante, 

de  la  battaglia  groppo  e  indugio. 

Cade 
Arcade  gioventù,  cadono  Etruschi 
e  voi  da'  Greci  inviolati  Teucri. 
Cozzan  pari  le  parti  in  duci  e  in  forze. 


336  ENEIDE 

Gli  ultimi  urgon  le  file,  né  la  ressa 
lascia  Tanni  e  le  man  libere. 

Incalza 
di  qua  Fallante  e  là  di  contro  Lauso. 
Poco  diversa  è  loro  età;  son  belli: 
ma  la  Fortuna  a  entrambi  avea  negato 
tornare  in  patria.  Il  Re  del  grande  Olimpo 
pur  non  vuol  che  si  affrontino  :  li  attende 
il  fato  lor  sotto  maggior  nemico. 

L'alma  sorella  intanto  anima  Turno, 

che  per  le  file  va  con  l'agii  carro, 

di  sottentrare  a  Lauso.  I  suoi  veduti, 

«  È  tempo  di  lasciar  la  pugna  :  io  solo 

Fallante  assalgo,  solo  a  me  Fallante 

si  dee  ;  vorrei  qui  spettatore  il  padre  «  ; 

disse,  e  cessero  i  suoi  dal  pian  vietato. 

Al  ritrarsi  de'  Rutuli,  al  comando 

superbo  il  giovinetto  è  fiso  in, Turno 

e  move  gli  occhi  per  la  gran  persona, 

osa  fiero  guardar  tanta  minaccia 

e  questo  rende  al  grido  del  tiranno  : 

«  Ora  o  il  vanto  avrò  io  di  tue  rapite 

opime  spoglie  o  d'una  morte  degna: 

a  questo  e  a  quel  mio  padre  è  pronto  ;  lascia 

di  minacciar  ».  E  in  mezzo  al  campo  avanza. 

Freddo  agli  Arcadi  in  cuor  s'accoglie  il  sangue. 

Turno  balzò  giù  da  la  biga,  e  a  piedi 

si  fa  vicino:  qual  vola  il  leone, 

se  da  l'alta  vedetta  un  toro  ha  scorto 


LIBRO    DECIMO  337 

lungi  nel  campo  meditar  battaglia, 
non  dissimile  appar  Turno  che  viene. 
Come  al  tiro  de  Tasta  il  crede  giunto, 
ecco  primo  ir  Fallante,  se  a  l'ardito 
oltre  sue  forze  alcuna  sorte  arrida, 
e  riguardando  l'ampio  cielo  esclama  : 
«  Per  l'ospitalità  nostra  e  la  mensa 
cui  venisti  tra  via  ti  prego,  Alcide, 
aiuta  l'alta  im^presa.  Moribondo 
le  sue  rapir  mù  vegga  armi  cruente, 
e  vincitor  mi  specchino  languenti 
le  pupille  di  Turno  «. 

Udì  la  prece 
Alcide;  immenso  in  fondo  al  cuor  si  preme 
un  rammarico  e  versa  inutil  pianto. 
Allor  benigno  il  Padre  al  figho  dice  : 
«  Fisso  a  ognuno  è  il  suo  dì  ;  breve  è  la  vita 
per  tutti  e  irrevocabile,  ma  il  nome 
è  opra  di  virtù  rendere  eterno. 
Tanti  di  Troia  sotto  l'alte  mura 
cadder  fìgh  di  Dei;  cadde  con  gli  altri 
Sarpèdone  mia  prole.  Ed  anche  Turno 
chiama  il  suo  fato,  e  omai  tocca  la  meta  ». 
Disse,  e  gli  occhi  ritorce  dal  paese 
de'  Rutuh. 

Fallante  a  tutta  forza 
scagha  l'asta  e  dal  fodero  la  spada 
strappa  fuori  fulgente.  A  volo  quella 
coglie  ove  il  pettoral  tocca  le  spalle 
e  per  gU  orli  del  cHpeo  insinuata 
giunge  a  sfiorar  le  gran  membra  di  Turno. 

Albini  -  Eneide  22 


338  ENEIDE 

Turno  allor  bilanciatala  buon  tratto 
lancia  la  trave  sua  ferrata  in  punta 
contro  Fallante  e  così  dice  :  «  Or  vedi 
se  l'arme  mia  più  penetrabil  fosse  ». 

Avea  detto,  e  lo  scudo  a  tante  coti 
e  di  ferro  e  di  bronzo,  e  cui  rafforza 
cuoio  taurino  tante  volte  in  giro, 
la  cuspide  col  suo  terribil  colpo 
l'attraversa  per  mezzo,  e  le  difese 
fora  de  la  lorica  e  il  petto  grande. 
Quegli  si  strappa  indamo  il  caldo  ferro 
escon  per  una  via  la  vita  e  il  sangue. 
Cade  su  la  ferita,  sopra  lui 
sonaron  l'armi,  e  la  nemica  terra 
batte  morente  con  bocca  sanguigna. 
Turno  standogli  sopra  : 
«  Arcadi,  a  Evandro  riportate  fidi  : 
Fallante,  qual  si  meritò,  gli  rendo. 
Ogni  fregio  di  tomba,  ogni  conforto 
di  sepoltura,  lo  concedo.  Foco 
a  lui  non  costerà  l'ospite  Enea  ». 
Disse,  e  calcò  del  pie  sinistro  il  morto, 
il  gran  peso  strappandogli  del  balteo 
e  r  impresso  delitto  :  in  una  stessa 
nuzial  notte  indegnamente  spenta 
una  schiera  di  giovani  e  cruenti 
i  talami,  che  in  molt'oro  avea  sculto 
Clono  Eurìtide;  e  Turno  de  la  spoglia 
gode  e  d'impadronirsene  trionfa. 
O  mente  umana  del  destino  inconscia 


LIBRO    DECIMO  339 

e  del  futuro,  e  di  serbar  misura, 
inorgoglita  de  l'evento  lieto  ! 
Tempo  a  Turno  verrà  che  ad  ogni  prezzo 
vorrebbe  non  aver  tocco  Fallante, 
queste  spoglie  odiando  e  questo  giorno. 
Ma  i  compagni  con  lagrime  e  lamento 
su  lo  scudo  riportano  Fallante 
numerosi.  Oh  dolore  ed  onor  grande 
che  al  padre  tornerai!  Questo  dì  primo 
a  la  guerra  ti  die,  questo  ti  toglie, 
pur  gran  mucchio  di  Rutuli  lasciando. 

Né  solo  il  grido  omai  di  si  gran  danno, 

ma  più  certo  messaggio  accorre  a  Enea, 

essere  a  un  filo  da  la  morte  i  suoi, 

stringer  l'aiuto  agli  sconvolti  Teucri. 

Miete  davanti  a  sé  con  la  sua  spada 

impetuoso  e  si  fa  larga  via, 

te  de  la  fresca  uccision  superbo, 

Turno,  cercando.  Egli  ha  Fallante,  Evandro, 

ogni  cosa  negh  occhi,  e  le  lor  mense 

cui  prima  venne  e  le  congiunte  destre. 

Quattro  giovani  usciti  di  Sulmona, 

altrettanti  cresciuti  su  l'Ufente 

viventi  afferra,  da  immolare  inferie 

a  l'ombra  e  sparger  del  captivo  sangue 

l'accesa  pira.  Avea  poi  tratta  a  Mago 

l'infesta  asta  lontan:  quel  si  fa  sotto 

accorto,  l'asta  il  ventilò  passando, 

e  supplice  gli  abbraccia  le  ginocchia  : 

«  Fer  l'anima  paterna  e  le  speranze 


340  ENEIDE 

io  ti  scongiuro  del  crescente  Giulo, 

che  tu  vivo  mi  lasci  al  figUo  e  al  padre. 

Ho  un'alta  casa,  v'  è  talenti  ascosi 

di  cesellato  argento  e  pesi  d'oro 

scolpito  e  grezzo.  Non  di  qui  dipende 

la  vittoria  de'  Teucri  ed  una  vita  | 

peserà  poco  a  tanto  ».  Aveva  detto.  | 

Enea  gli  fa  questa  risposta  :  «  I  molti 

che  tu  dici  d'argento  e  d'or  talenti 

serbali  a'  figli  tuoi.  Fu  Turno  il  primo 

a  togher  via  taU  commerci  in  guerra, 

quando  uccise  Fallante.  Così  l'ombra 

d'Anchise  padre,  così  sente  Giulo  )). 

Indi  gli  pone  la  sinistra  a  l'elmo 

e,  la  cervice  al  supplice  piegando, 

v'immerge  il  ferro  fino  a  l'elsa. 

Presso 
l'Emònide  si  stava,  sacerdote 
di  Febo  e  Trivi  a,  cui  cingea  di  sacre 
bende  le  tempie  l'infula,  e  lustrava 
tutto  a  le  vesti  e  a  le  belle  armi.  Lui 
assalisce  e  persegue  e  sul  caduto 
soprastando  l' immola  e  de  la  grande 
ombra  il  copre  :  le  scelte  armi  Seresto 
si  accolla,  a  te,  Gradivo  re,  trofeo. 
Cèculo  da  Vulcano  generato  ^| 

e  da'  monti  de'  Marsi  Umbron  disceso 
ristorano  le  file.  Le  sbaraglia 
il  Dardanide.  Ad  Ànxure  recisa 
avea  la  manca  d'un  fendente  e  tutto 
il  cerchio  de  lo  scudo:  avea  costui 


i 


LIBRO    DECIMO  341 

fatto  qualche  bravata  e  la  parola 

s'era  creduto  riuscir  possente, 

e  s'esaltava  forse  promettendo 

la  canizie  a  sé  stesso  ed  anni  lunghi. 

Tàrquito  baldo  e  luminoso  in  armi, 

cui  al  silvestre  Fauno  procreava 

Drìope  ninfa,  si  fé'  contro  al  fiero: 

ei  ritrae  l'asta  e  avventa,  e  gli  conficca 

la  lorica  e  l'usbergo  ponderoso; 

poi,  mentre  prega  indarno  e  vuol  pur  dire, 

gli  getta  il  capo  per  le  terre  e,  il  tronco 

tepido  rotolando,  anche  soggiunge 

con  inimico  cuore  :  «  Or  costì  giaci, 

o  tremendo.  Non  te  l'ottima  madre 

porrà  sotterra  e  nel  sepolcro  avito: 

rimarrai  preda  de'  rapaci  uccelli, 

o  in  mar  gittato,  andrai  con  l'onda  e  i  pesci 

ti  lambiranno  ingordi  le  ferite  )>. 

Senza  respiro  Anteo  persegue  e  Luca, 

prime  file  di  Turno,  e  il  forte  Numa 

e  il  nato  dal  magnanimo  Volcente 

fulvo  Camerte,  tra  la  gente  ausonia 

ricchissimo  che  fu  di  campi  e  tenne 

il  regno  de  la  taciturna  Amicla. 

Quale  Egeon,  cui  cento  braccia  e  cento 

mani,  e  in  cinquanta  bocche  e  petti  il  fuoco 

narran  che  ardesse,  allor  che  contro  a  Giove 

fulminante  altrettanti  fragorosi 

scudi  squassava  e  tante  stringea  spade; 

così  per  tutto  il  piano  infuria  Enea 

invitto,  da  che  prima  il  ferro  tinse. 


342  ENEIDE 

Or  la  quadriga  affronta  di  Nifeo: 

come  i  cavalli  videro  i  gran  passi 

e  il  piglio  orrendo,  paurosi  indietro 

precipitando  rovesciano  il  duce 

ed  il  carro  strascinano  a  la  riva.  | 

Frattanto  in  bianca  biga  entra  nel  mezzo 

Lùcago  col  fratel  Ligere  :  questi 

regge  le  briglie,  quei  ruota  la  spada. 

Spiacque  ad  Enea  lor  fervido  furore, 

e  grande  si  attraversa  a  lancia  tesa. 

Ligere  a  lui: 

«  Non  i  cavalli  di  Diomede  o  il  carro 

vedi  d'Achille  o  de  la  Frigia  i  campi  : 

or  qui  per  te  avran  fine  e  l'armi  e  gli  anni  ». 

Volan  del  folle  Ligere  gli  accenti: 

ma  non  rende  parole  il  teucro  eroe, 

sì  scagHa  il  colpo  a  l'avversario.  Chino 

Lùcago  avanti  a  stimolar  col  brando 

la  pariglia,  ne  l'attimo  che  avanza 

il  pie  sinistro  e  s'apparecchia  a  l'urto, 

per  gì'  imi  bordi  del  fulgente  clipeo 

sottentra  l'asta  e  il  manco  inguine  fora. 

Scosso  dal  carro  ei  moribondo  rotola  « 

al  suol,  e  amaro  il  pio  Enea  gli  dice:  1 

«  Lùcago,  lento  correr  di  cavalli 

non  tradiva  il  tuo  carro,  né  fantasmi 

di  tra  i  nemici  l'atterriron  vani. 

Sei  tu  che  balzi  da  la  biga  ».  Detto, 

dà  di  piglio  a'  corsier.  Le  palme  inerti 

sdrucciolato  dal  carro  anche  il  fratello 

triste  porgea  :  «  Per  te,  per  i  parenti 


LIBRO    DECIMO  343 

che  tal  ti  generarono,  o  Troiano, 
odi  la  prece  e  lasciami  la  vita  )>. 
E  ancor  prega,  ma  Enea  :  «  Tu  non  parlavi 
dianzi  così.  Muori,  né  abbandonare 
fratello  il  tuo  fratel  «.  Poi  d'un  fendente 
gli  schiude,  covo  de  la  vita,  il  petto. 
Tale  il  dardanio  condottier  menava 
strage  pe'  campi,  col  furor  d'un'acqua 
torrente  o  d'atro  turbine. 

A  la  fine 
prorompon  da  l'accampamento  Ascanio 
giovinetto  e  i  suoi  prodi  invan  cerchiati. 

Intanto  Giove  volgesi  a  Giunone: 

«O  mia  sorella  e  insiem  dolce  consorte, 

come  pensavi,  e  il  tuo  pensier  non  erra, 

è  Venere  a  sorreggere  i  Troiani, 

non  la  lor  destra  vivida  a  la  guerra 

e  il  fiero  cuore  de'  perigh  amico  ». 

Sommessa  Giuno  a  lui:  «Fulgido  sposo, 

perché  pungi  l'afflitta  e  timorosa 

de'  severi  tuoi  detti?  Oh!  se  in  amore 

la  forza  avessi  ch'ebbi  e  aver  dovrei, 

ciò  non  mi  vieteresti,  Onnipotente, 

ch'io  sottraessi  a  la  battaglia  Turno 

e  incolume  il  serbassi  a  Danno  padre. 

Or  muoia  e  paghi  del  buon  sangue  i  Teucri. 

Ei  tuttavia  da  noi  deriva  il  nome, 

Pilumno  è  suo  bisavolo,  e  d'offerte 

larghe  e  frequenti  a  te  colmò  gli  altari  ». 

E  breve  a  lei  il  Re  de  l'alto  Olimpo: 


344  ENEIDE 

V  Se  un  indugio  s' implora  de  la  morte 

per  il  caduco  giovine  e  tu  intendi 

ch'io  questo  intenda,  fa'  che  Turno  fugga 

e  lo  rapisci  agl'incalzanti  fati. 

Tanto  posso  assentir.  Che  se  più  alta 

grazia  in  cotesto  supplicar  si  cela, 

se  movere  e  mutar  pensi  la  somma 

de  la  guerra,  speranze  nutri  vane  ». 

E  Giuno  lagrimosa  :  «  Or  se  in  tuo  cuore 

gH  concedessi  quel  che  in  voce  stenti? 

e  salda  rimanesse  a  lui  la  vita? 

Senza  colpa  or  l'attende  un  triste  fine, 

se  ombra  di  vero  io  so.  Deh  m'illudessi 

io  di  falsa  paura  e,  tu  che  il  puoi, 

piegassi  a  miglior  sorte  il  tuo  pensiero  !  » 

Detto  ch'ebbe  così,  da  l'alto  cielo 
subito  si  calò  cinta  e  precorsa 
dal  nembo,  a  ritrovar  le  schiere  d' Ilio 
e  de'  Laurenti  il  campo.  Ivi  la  dea 
di  vana  nebbia  una  heve  ombra  frale 
in  sembianza  d'Enea,  mirabil  vista, 
riveste  di  dardanie  armi,  e  lo  scudo 
fìnge  e  il  pennacchio  del  divino  capo; 
voci  vane  le  dà,  suon  senza  mente, 
ed  un  andare  che  somiglia  il  suo  : 
tali  de'  morti  è  fama  errar  fantasmi, 
o  illudon  sogni  gli  assopiti  sensi. 
L'ombra  innanzi  a  le  file  imbaldanzisce 
e  sfida  Turno  pur  con  dardi  e  detti. 
Turno  la  insegue  e  di  lontan  le  avventa 


LIBRO    DECIMO  345 

l'asta  fìschiante  :  quella  in  fuga  è  volta. 
E  Turno  che  credeva  Enea  fuggire, 
nel  turbato  pensier  quella  accogliendo 
speranza  inane  :  «  Dove  fuggi,  Enea  ? 
non  disertare  il  talamo  promesso  : 
per  questa  man  ti  si  darà  la  terra 
che  cercasti  per  mar  ».  Così  V  insegue 
urlando  e  vibra  la  snudata  spada, 
e  non  vede  ch'è  vento  il  suo  trionfo. 

Fermata  al  piede  d'un  eretto  scoglio 
con  le  scale  calate  e  il  ponte  pronto 
trovavasi  una  nave,  in  che  venuto 
Osinio  re  da'  lidi  era  di  Chiusi. 
L'ombra  d'Enea  fuggente  paurosa 
vi  sali,  sparve  giù  ne'  fondi  :  Turno 
non  però  meno  incalza  e  sorvolando 
gl'impedimenti  l'alto  ponte  varca. 
Appena  tocca  avea  la  prora,  e  Giuno 
rompe  il  canape  e  via  spicca  la  nave 
indietro  per  il  mar. 

Intanto  Enea 
va  chiamando  l'assente  a  la  battaglia 
e  molti  in  che  s'affronta  a  morte  invia. 
Già  la  He  ve  ombra  più  non  cerca  i  fondi, 
ma  vola  in  aria  e  mescesi  a  le  nubi, 
mentre  naviga  Turno  al  vento  buono. 
De'  fatti  ignaro,  ingrato  de  lo  scampo, 
egli  si  guarda  dietro  ed  alza  al  cielo 
con  la  voce  le  palme  :  «  Onnipotente 
Padre;  e  di  macchia  tal  degno  mi  credi 


346  ENEIDE 

e  tal  castigo  m' infliggesti  ?  Dove 
vo,  donde  mossi?  quale  ontosa  fuga 
così  m'apparta  ?  Ancor  vedrò  le  mura 
de'  Laurenti  e  le  tende?  E  quelle  schiere 
a  me  seguaci  ed  a'  miei  segni,  e  quanti, 
oh  vergogna  !  lasciai  preda  di  morte, 
e  già  vedo  i  dispersi  e  de'  caduti 
odo  il  lamento  ?  Che  farò  ?  qual  basta 
voragine  profonda  ad  inghiottirmi? 
Almen  deh!  voi  pietà  m'abbiate,  o  venti: 
contro  le  rupi,  il  cuor  di  Turno  implora, 
contro  gh  scogli  e  ne  le  secche  sirti 
sbattete  il  legno,  ove  a'  Rutuli  io  sfugga 
e  al  grido  de  l' infamia  ».  In  così  dire 
ondeggia  vario  il  suo  pensier,  se  debba 
per  così  gran  disdoro  forsennato 
col  ferro  punitor  passarsi  il  petto, 
o  gettarsi  nel  mar,  nuotare  a  riva 
e  contro  l'armi  ritornar  de'  Teucri. 
Tentò  tre  volte  l'una  e  l'altra  via, 
tre  lo  ritenne  e  lo  frenò  la  somma 
Giuno  di  lui  tutta  pietosa.  Ei  scorre 
per  l'alto  e  addotto  vien  dal  flutto  amico 
a  l'antica  città  del  padre  Danno. 

Intanto  per  i  moniti  di  Giove 
fiero  ne  la  battaglia  entra  Mezenzio 
ed  urta  i  Teucri  trionfanti.  Fanno 
testa  i  Tirreni  e  tutti  contro  ad  uno 
tutte  appuntano  in  lui  l'ire  e  le  frecce. 
Ei,  come  scoglio  che  s'avanza  in  mare 


LIBRO    DECIMO  347 

a  fronteggiare  le  bufere  e  i  flutti 

e  de  l'aria  e  de  l'acque  al  furor  dura 

immobilmente,  atterra  Ebro  figliuolo 

di  Dolicàone,  e  Làtago  con  lui 

e  Palmo  fuggitivo,  ma  la  faccia 

a  Latago  d'un  gran  pezzo  di  monte 

coglie  in  pieno,  col  poplite  reciso 

ir  lascia  Palmo  e  strascinarsi  lento, 

l'armi  dà  in  dono  a  Lauso,  che  sen  voglia 

guemir  le  spalle  ed  impennar  la  fronte. 

Evante  frigio  insiem  prostra  e  Mimante 

coetaneo  di  Paride  e  compagno: 

die  questo  figlio  ad  Amico  Teano 

la  stessa  notte  che,  di  face  incinta, 

la  regina  cissèa  Paride  espone; 

dorme  costui  ne  la  città  paterna, 

copre  il  laurente  suol  Mimante  oscuro. 

E  come  quel  cinghiai  giù  da  le  vette 

cacciato  da'  canini  cefiì,  dopo 

molti  anni  che  il  pinifero  Monviso 

e  la  palude  laurentina  il  cinse, 

ne'  canneti  pasciuto,  or  chiuso  in  reti 

s'arresta  fremebondo  e  tutto  irsuto; 

né  osando  alcuno  d'appressar,  di  lungi 

mandano  i  colpi  e  le  sicure  grida: 

così  quelh  che  in  giusta  ira  Mezenzio 

hanno,  hanno  orrore  di  venirgh  a  fronte; 

l'investono  lontan  di  strah  e  d'urli; 

impavido  esso  e  in  ogni  parte  volto 

digrigna  e  scrolla  da  le  schiene  i  dardi. 

Era  venuto  da  l'antica  terra 


348  ENEIDE 

di  Còrito  Acron  greco,  interrompendo 

profugo  gli  sponsali.  Il  vide  lungi 

le  schiere  in  mezzo  scombuiar,  vermiglio 

di  piume  e  d'ostro  che  gli  die  la  sposa. 

Qual  digiuno  leon  spesso  tra'  cupi 

covili  errando  (cruda  fame  il  preme), 

se  rapida  camozza  o  un  cervo  scorge 

da  le  corna  ramose,  a  spalancate 

fauci  balza  e  arruffando  la  criniera 

su  le  viscere  è  chino,  il  sangue  imbruna 

l'ingorda  bocca  ; 

tal  ne'  folti  nemici  urta  Mezenzio. 

Cade  il  misero  Acron,  co'  pie  percote 

ne'  moti  estremi  l'atra  terra  e  arrossa 

le  infrante  armi.  Sdegnò  colpire  invece 

Orode  in  fuga  e  di  scagliata  punta 

fargli  cieca  ferita,  anzi  l'affronta 

e  'a  petto  a  petto  con  lui  sta,  vincendo 

non  di  sorpresa  ma  in  duello  acerbo. 

Poi  sul  caduto  posto  il  piede,  e  a  l'asta 

poggiando  :  «  In  terra  è  l'alto  Orode,  o  prodi, 

non  ispregevol  parte  de  la  guerra  ». 

Levano  quelU  allor  lieto  peana. 

Ma  quel  morente  :  «  O  tu,  chiunque  sei, 

vittoria  non  godrai  senza  vendetta 

né  a  lungo:  te  pur  mira  un  fato  eguale 

e  su  la  terra  stessa  giacerai  ». 

A  ciò  Mezenzio  tra  il  sorriso  e  l'ira: 

«  Or  muori.  Di  me  poi  vegga  il  gran  Padre 

de'  Numi  e  re  degli  uomini  ».  Ritrasse 

in  così  dir  la  lama  da  la  piaga  : 


LIBRO   DECIMO  349 

cade  rombra  su  quello  e  il  ferreo  sonno, 
si  chiudon  gli  occhi  ne  la  eterna  notte. 

Cèdico  uccide  Alcàtoo,  Sacràtore 
Idaspe;  ha  morte  da  Rapon  Partenio 
e  il  robustissim'Orse,  da  Messapo 
e  Gonio  ed  Erichète  di  Licàone, 
quegli  atterrato  per  lo  stramazzare 
del  focoso  destrier,  questi  pedone. 
Pedone  Agide  licio  anche  avanzava; 
de  l'avito  valor  Valero  erede 
l'abbatte  :  SaHo  abbatte  Tronio,  e  lui 
Nealce  con  l'insidie  e  la  saetta 
che  vien  di  lunge  ed  improvvisa  coglie. 

Già  ragguaghava  il  fiero  Marte  i  lutti 

di  alterne  morti:  vincitori  e  vinti 

uccidevan,  cadevano  del  pari; 

ignota  a  questi  e  a  quelh  era  la  fuga. 

Quel  vano  vicendevole  furore 

e  il  tanto  travagliarsi  de'  mortali 

in  Ohmpo  commiserano  i  Numi. 

Venere  mira  e  la  saturnia  Giuno 

da  opposta  parte  :  in  mezzo  a  le  migliaia 

la  pallida  Tisifone  imperversa. 

Ma  crollando  la  enorme  asta  Mezenzio 

torvo  pe  '1  campo  va.  Quale  Orione, 

quand'a  pie  fa  la  via  per  l'alto  mare, 

grande  a  l'onde  con  l'omero  sovrasta, 

o  da'  monti  recando  un  orno  annoso 

cammina  in  terra  e  tra  le  nubi  ha  il  capo: 


350  ENEIDE 

tal  move  con  le  vaste  armi  Mezenzio. 

Enea  che  lo  spiò  tra  schiera  e  schiera 

s'appresta  ad  incontrarlo  :  e  quegh  attende 

impavido  il  magnanimo  nemico, 

e  gigantesco  sta;  poi,  misurato 

con  gli  occhi  il  tratto  al  gitto  de  la  lancia: 

«  La  destra  ch'è  il  mio  dio,  l'asta  che  vibro, 

or  m'assistano.  Cinto  de  le  spoglie 

de  l'ucciso  predone,  o  Lauso,  io  voto 

te  ad  Enea  trofeo  ».  Disse,  e  da  lungi 

scaghò  la  sibilante  asta,  ma  il  volo 

ne  ribatté  lo  scudo,  e  quella  viene 

a  trapassar  tra  il  fianco  e  il  ventre  Antore, 

l'ottimo  Antore  d'Ettore  compagno 

che  partitosi  d'Argo  appresso  Evandro 

in  itala  città  s'era  posato. 

Di  ferita  non  sua  quell'infeHce 

or  cade  e  cerca  con  lo  sguardo  il  cielo 

e  tra  il  morir  la  dolce  Argo  rammenta. 

Allor  l'asta  il  pio  Enea  scaglia  :  pe  '1  curvo 

cerchio  di  bronzo  triplice,  pe'  densi 

lini  ed  i  tre  taurini  cuoi  trascorse, 

e  l'inguine  ferì  senz'altra  forza. 

lieto  al  vedere  de  l'etrusco  il  sangue 

rapido  Enea  la  spada  trae  dal  fianco 

e  al  vacillante  avventasi.  Profondo 

geme  Lauso  a  tal  vista  e  per  l'amore 

del  padre  suo  rigò  di  pianto  il  volto. 

Qui  di  tua  dura  morte  e  del  valore, 
se  alcuna  età  remota  a  l'alto  fatto 


LIBRO   DECIMO  35^ 

fede  darà,  non  tacerò  già  io 

né  di  te,  memorando  adolescente. 

Quegli  arretrando  inerte  ed  impedito 

da  lo  scudo  traea  l'asta  nemica. 

Ealzò  tra  l'arme  il  giovine;  ad  Enea 

che  già  levava  il  braccio  a  novo  colpo 

si  fé'  sotto  e  la  spada  e  lui  rattenne. 

Di  grida  l'assecondano  i  compagni, 

mentre  che  sotto  l'egida  del  fìgho 

il  genitor  partisse,  e  di  lontano 

saettando  respingon  l'avversario. 

Enea  ne  freme  ma  si  tien  coperto. 

E  come,  allor  che  grandinando  i  nembi 

scoppiano,  ogni  arator  fugge  da'  campi, 

ogni  colono,  e  il  viator  ripara 

lungo  il  greto  del  fiume  o  sotto  il  cigHo 

d'un'alta  rupe,  mentre  intomo  scroscia, 

per  tornar  poi  tornando  il  sole  a  l'opre; 

così  sotto  quel  turbine  di  dardi, 

fin  che  tutto  scateni.  Enea  resiste, 

e  a  Lauso  sgrida  e  Lauso  pur  minaccia: 

«  Dove  corri  a  morir  con  ardimento 

oltre  le  forze  ?  Il  tuo  bel  cuor  t' inganna  ». 

Persiste  quei  ne  la  baldanza  folle, 

e  omai  più  fiera  nel  dardanio  duce 

levasi  l'ira,  omai  l'ultimo  stame 

filan  le  Parche  a  Lauso:  Enea  la  forte 

spada  in  lui  attraversa  e  tutta  immerge. 

Passò  quella  e  la  targa,  armi  leggiere 

de  l'audace,  e  la  tunica  che  a  lui 


352  ENEIDE 

tessuta  avea  di  fine  oro  la  madre, 

e  sangue  il  grembo  empì:  mesta  la  vita 

discese  a  l'ombre  e  abbandonò  le  membra. 

Come  il  figliuol  d'Anchise  il  volto  vide, 

vide  il  volto  che  tutto  scolorava, 

alta  n'  ebbe  pietà,  stese  la  destra, 

e  del  paterno  duol  senti  la  stretta. 

«  Per  valor  tanto,  o  povero  fanciullo, 

che  ti  può  dare  il  pio  Enea,  de  l'alta 

indole  degno?  Sieno  tue  quell'armi 

di  che  godevi,  e  al  cenere  ed  a'  Mani 

de'  padri  tuoi,  se  a  grado  l'hai,  ti  rendo. 

Pur  ti  consoli  de  l'infausta  morte 

che  per  la  man  del  grande  Enea  tu  cadi  )>. 

Gli  esitanti  compagni  esso  ammonisce 

e  dal  suol  lo  solleva  che  nel  sangue 

lorda  i  capelli  al  modo  usato  adorni. 

Intanto  il  genitore  al  Tebro  in  riva 
tergea  con  l'acqua  le  ferite  e  al  piede 
respirava  d'un  albero.  In  disparte 
l'elmo  di  bronzo  sta  sospeso  a'  rami 
e  posan  le  pesanti  armi  sul  prato. 
Giovani  eletti  lo  circondano  :  esso 
egro  anelante  appoggia  la  cervice, 
piovendogli  la  gran  barba  sul  petto. 
Molto  chiede  di  Lauso,  e  manda  e  manda 
a  richiamarlo  ed  a  recargli  il  cenno 
de  l'affannato  padre. 

Ma  i  compagni 
Lauso  portavan  sopra  l'armi  morto, 


LIBRO    DECIMO  353 

piangendo,  grande  con  la  grande  piaga. 
Ben  riconobbe  i  gemiti  da  lunge 
il  cuor  presago  di  sventura  :  ei  tutta 
sparge  di  polve  sua  canizie,  e  leva 
alto  le  palme,  e  su  lui  s'abbandona. 
<(  0  figlio,  e  tanto  amor  posi  a  la  vita 
che  offrir  soffersi  a  la  nemica  destra 
l'unigenito  mio  per  me?  Son  vivo 
ancora  io  dunque,  perché  tu  sei  morto? 
Or  sì,  misero  me,  duro  m'  è  il  fato, 
or  sì  m'  è  scesa  la  ferita  addentro  ! 
O  figlio,  e  son  pur  io  che  il  nome  tuo 
macchiai  di  colpa,  e  venni  in  ira  e  privo 
del  sogho  e  de  lo  scettro  avito.  Pena 
a  la  patria  ed  al  popolo  che  m'odia 
io  doveva  :  oh  l'avessi  a  lor  pagata 
per  qual  sia  morte  questa  vita  rea! 
Pur  vivo,  e  ancora  gli  uomini  e  la  luce 
non  lascio.  Ma  li  lascierò  ». 

Dicendo 
così  si  leva  su  l'infermo  fianco 
e,  affranto  pur  da  la  ferita  acerba, 
non  avvinto  vuol  che  gii  si  adduca 
il  suo  cavallo.  Era  sua  gloria  e  gioia, 
e  con  quello  vincea  sempre  a  la  guerra. 
Or  così  parla  a  quel  malinconioso: 
«  O  Rebo,  a  lungo,  se  v'  è  cosa  lunga 
per  i  mortali,  siam  vissuti.  O  in  oggi 
riporterai  trofeo  cruento  il  capo 
d'Enea,  con  me  vendicando  lo  strazio 
di  Lauso,  o,  se  non  è  forza  che  basti, 

Albini  -  Eneide  zx 


354  ENEIDE 

cadrai  con  me,  che  a  sdegno  hai  tu,  mio  bravo, 

cenno  straniero  e  dardani  padroni  ». 

Disse,  ed  accolto  su  l'usato  dorso 

ambe  le  mani  si  gravò  di  dardi, 

con  l'elmo  in  capo  fulgido  e  chiomato, 

e  così  corse  verso  la  battaglia 

—  alto  rimorso  in  cuor  gli  ferve  e  insieme 

una  demenza  nata  di  dolore  — , 

e  là  Enea  a  gran  voce  tre  volte 

chiamò. 

Enea  che  lo  conobbe,  lieto 
esclama  :  «  Così  voglia  il  Re  de'  Numi, 
l'alto  Apollo  così,  che  tu  incominci 
ad  offrirti  al  cimento  ». 
Ciò  solo  disse  e  l'affrontò  con  l'asta. 
E  l'altro  :  e  Perché  me  tenti,  o  spietato, 
impaurir,  poi  che  m'hai  tolto  il  figlio? 
Unica  via  d'uccidermi  fu  quella. 
Morte  non  temo  né  ho  riguardo  a  iddio. 
Cessa,  eh'  io  vengo  per  morire  e  prima 
questi  doni  ti  porto  ».  In  così  dire 
gli  avventa  un  dardo  e  un  altro  ancora  e  un  altro, 
e  in  larga  ruota  gli  cavalca  intorno 
saettando,  ma  saldo  è  l'aureo  scudo. 
Tre  volte  quei  cinse  il  nemico  in  cerchi 
verso  manca  e  traea  dardi;  tre  volte 
il  teucro  eroe  girò  con  sé  la  densa 
selva  crescente  sul  ferrato  usbergo. 
Ma  poi  che  il  più  tardar  gli  pesa  e  tante 
punte  spiccare  e  l'inegual  certame 
lo  stringe,  con  sicuro  accorgimento 


LIBRO    DECIMO 


355 


al  fin  prorompe  e  tra  le  cave  tempie 
del  pugnace  destrier  scaglia  la  lancia. 
Dritto  s'alza  il  quadrupede  agitando 
le  zampe  in  aria  e  sul  guerrier  caduto 
poi  anch'esso  trabocca  in  mucchio,  prono 
sopra  il  riverso  con  la  spalla.  Un  grido 
divampa  al  ciel  de'  Teucri  e  de'  Latini. 
Accorre  Enea  traendo  fuor  la  spada. 
«.  Or  dov'  è,  dice,  quel  Mezenzio  fiero 
e  quell'anima  impavida  ?  »  L'etrusco, 
poi  che  con  gH  occhi  al  ciel  bevve  la  luce 
e  risentito  fu,  gii  dà  risposta  : 
«  Nemico  amaro,  a  che  sgridi  e  minacci  ? 
Non  è  orror  ne  la  morte  e  con  tal  cuore 
al  duello  non  venni,  né  il  mio  Lauso 
mi  pattuì  con  te  sim.ih  accordi. 
Ti  chiedo  sol,  se  co'  nemici  \^inti 
usa  indulgenza,  lascia  questa  salma 
coprir  di  terra.  So  che  acerbo  intomo 
mi  sta  l'odio  de'  miei  :  tu  quel  furore 
allontana,  ti  prego,  e  mi  concedi 
una  col  figlio  mio  la  sepoltura  ». 
Cosi  detto,  riceve  ne  la  gola 
non  inconscio  la  spada  e  sopra  l'armi 
con  tutto  il  sangue  suo  versa  la  vita. 


LIBROiUNDECIMO 


Su  da  l'Oceano  intanto  uscì  l'Aurora  : 

Enea,  quantunque  sepellir  gli  tarda 

i  compagni  e  da  morte  ha  il  cuor  turbato, 

scioglieva  vincitore  i  voti  a'  Numi 

in  sul  primo  mattino.  Una  gran  quercia 

potata  d'ogni  ramo  in  un'altura 

piantò  ritta  e  vestille  armi  fulgenti, 

le  spoglie  di  Mezenzio  re,  trofeo 

a  te,  gran  Sire  de  la  guerra:  innesta 

quivi  i  pennacchi  roridi  di  sangue 

e  l'aste  infrante  e  la  corazza  in  sei 

e  sei  punti  percossa  e  perforata  ; 

lega  sotto  la  manca  il  bronzeo  scudo 

e  la  spada  d'avorio  al  collo  appende. 

Indi  a'  soci  ch'esultano,  e  già  tutti 

si  stringevano  a  lui,  così  favella  : 

(<  Molto  è  fatto  ;  lontana  ogni  paura, 

o  prodi,  omai  :  queste  le  spoglie  sono 

e  dal  superbo  re  còlte  primizie, 

e  per  la  mano  mia  Mezenzio  è  questo. 


358  ENEIDE 

Ora  è  il  nostro  cammino  a  le  regali 
mura  latine  :  apparecchiate  in  cuore 
e  ne  l'attesa  pregustate  Tarmi, 
sì  che  indugio  non  sia,  come  il  ciel  prima 
mover  conceda  i  segni  e  uscir  dal  campo, 
a  trattenervi  ignari  e  non  pensiero 
che  men  vi  renda  per  temenza  pronti. 
Or  de'  compagni  le  insepolte  salme, 
a  chi  passò  Acheronte  unico  onore, 
poniam  sotterra.  Andate,  dice,  e  i  forti 
che  questa  patria  a  noi  fecer  col  sangue 
loro,  onorate  del  tributo  estremo; 
e  primo  a  la  città  mesta  d' Evandro 
s'accompagni  Fallante,  il  valoroso 
cui  rapì  l'atro  giorno  e  lo  sommerse 
in  morte  acerba  ». 

Così  dice  in  pianto 
e  a  le  stanze  rientra,  ove  a  la  salma 
composta  di  Fallante  il  vecchio  Acete 
vegliava,  che  al  parrasìo  Evandro 
scudier  fu  prima,  or  con  men  fausti  auspizi 
era  dato  compagno  al  dolce  alunno. 
Tutta  la  schiera  de'  famigli  intorno 
era  e  turba  di  Teucri  e  giusta  il  rito 
le  Iliadi  sciolte  luttuoso  il  crine. 
Come  apparì  su  l'alta  soglia  Enea, 
grande  il  compianto  levano  a  le  stelle 
percotendosi  il  petto,  ed  è  la  reggia 
tutta  un  singulto.  Esso,  mirando  il  capo 
giacere  e  il  viso  di  Fallante  bianco, 
e  vasta  nel  gentil  petto  la  piaga 


LIBRO    UNDECIMO  359 

de  la  cuspide  ausonia,  con  le  ciglia 
molli  «  E  te,  dice,  povero  fanciullo, 
Fortuna,  che  venia  Keta,  mi  tolse, 
che  non  vedessi  i  regni  nostri  e  fossi 
trionfante  portato  al  suol  paterno? 
Non  io  questo  di  te  promesso  aveva 
a  Evandro  padre  nel  partir,  quand'egh 
m'abbracciava  inviato  a  grande  impero 
e  pensoso  ammonia  ch'eran  guerrieri 
forti  e  con  duro  popolo  la  guerra. 
E  forse  ch'egli  in  braccio  a  la  speranza 
vana  fa  voti  ancor,  d'offerte  colma 
gli  altari:  noi  il  giovinetto  estinto 
e  che  nulla  più  deve  a  nessun  dio 
mesti  seguiamo  con  inane  onore. 
Infelice  !  la  misera  vedrai 
morte  del  figho  tuo.  Questo  il  ritomo 
e  gli  aspettati  son  trionfi  nostri! 
questa  la  mia  gran  lealtà!  Ma  pure 
no,  Evandro,  non  vedrai  ferite  vili 
o  sì  scampato  il  tuo  figliuol  che  debba 
desiargU  tu  padre  un'aspra  morte. 
Ahim.é,  qual  mai  grande  presidio  perdi. 
Ausonia  !  qual  presidio  perdi,  o  Giulo  !  ». 

Poi  che  così  compianse,  fa  levare 
la  miserevol  salma,  e  miille  scelti 
tra  tutti  vuol  che  seguano  l'estremo 
corteo  fino  a  le  lagrime  paterne, 
lieve  conforto  di  cordoglio  immenso 
ma  ben  dovuto  a  l' infelice  padre. 


360  EXEIDE 

Subito  gli  altri  intrecciano  una  molle 

bara  con  rami  d'albatro  e  traversi 

di  quercia  e  fanno  al  letticciuolo  intorno 

velo  e  ombra  di  fronde.  Ivi  si  pone 

su  l'agreste  giaciglio  il  giovinetto, 

qual  da  virginea  man  spiccato  fiore, 

gentil  viola  o  languido  giacinto, 

che  ancor  non  perse  il  raggio  e  la  bellezza 

ma  non  lo  nutre  più  la  terra  madre. 

Allor  due  drappi  d'oro  e  d'ostro  spessi 

Enea  recò,  che  lieta  operatrice 

gli  fé'  già  di  sua  man  Dido  sidonia 

d'auree  fila  le  tele  screziando. 

D'uno  di  questi  per  suprem.o  fregio 

l'adolescente  avvolge  e  quelle  chiome 

vela  che  il  rogo  attende.  E  molti  aduna 

premi  altresì  de  la  laurente  pugna 

e  fa  trarre  in  lungo  ordine  le  prede, 

i  destrier,  l'armi  ch'ei  strappò  al  nemico. 

Avea  le  mani  dietro  il  tergo  avvinte 

a  quelh  ch'ei  voleva  inferie  a  l'ombra 

spargendo  i  fuochi  d'immolato  sangue, 

e  fa  portare  a'  duci  stessi  i  tronchi 

con  l'arme  de'  nemici  e  inscritti  i  nomi. 

Sfinito  d'anni  e  di  dolor  si  adduce 

Acete  che  si  offende  ora  co'  pugni 

il  petto  ed  or  con  l'unghie  il  viso,  e  a  terra 

tuttoquanto  si  accascia.  Menano  anche 

carri  di  sangue  rutulo  bagnati. 

Viene  il  destrier  di  guerra  Etone  dietro, 

sguernito,  lagrimante  a  gocce  grandi. 


LIBRO    l.NDECIMO  36 


L'asta  e  l'elmo  altri  portano,  che  il  resto 
ha  Turno  vincitor.  Falange  triste 
seguono  i  Teucri  ed  i  Tirreni  tutti 
e  gli  Arcadi  con  l'armi  arrovesciate. 
Poi  che  tutta  era  mossa  lontanando 
la  compagnia  seguace,  Enea  ristette 
e  con  profondo  gemito  soggiunse  : 
«  Di  qui  ad  altre  lagrime  noi  chiama 
lo  stesso  orrido  fato  de  la  guerra: 
per  sempre  ti  saluto,  o  gran  Fallante; 
e  addio  per  sempre  !  « 

Senza  più  si  volse 
a  l'alte  mura  ed  a  tornar  nel  campo. 

Già,  velati  de'  rami  de  T ulivo, 

implorando  eran  quivi  am.basciatori 

de  la  città  latina:  i  corpi  renda 

che  il  ferro  ha  seminati  a  la  campagna 

e  lor  consenta  il  tumulo  sotterra; 

co'  vinti  non  è  lotta  e  con  gh  estinti  ; 

sia  propizio  a  color  che  ospiti  un  giorno 

e  suoceri  chiamò.  Benigno  Enea 

corrispondeva  a  la  domanda  onesta 

e  soggiungeva  simili  parole  : 

«  Qual  rea  fortuna  in  tal  guerra  v'  involse. 

Latini,  da  fuggir  noi  per  amici? 

Pace  pe'  morti  e  pe'  caduti  in  guerra 

mi  chiedete  ?  Anche  a'  \i\'i  io  volea  darla. 

Non  venni  se  non  dandomi  il  destino 

sede  prescritta;  e  guerra  non  ho  io 

col  popolo:  ma  il  re  \4a  ci  respinse 


362  ENEIDE 

ospiti  e  a  l'armi  si  affidò  di  Turno. 

Più  giusto  era  che  Turno  si  offerisse 

a  questa  morte.  Se  finir  la  guerra 

in  campo,  se  cacciar  medita  i  Teucri, 

con  queste  armi  dovea  meco  affrontarsi. 

Sarebbe  visso,  cui  la  vita  Iddio 

avesse  data  o  il  suo  valore.  Andate, 

fate  a'  com.pianti  cittadini  il  rogo  ». 

Aveva  detto  Enea.  Stupiti  e  muti 

quelli  si  riguardavano  tra  loro. 

Poi  Drance,  il  maggior  d'anni  e  sempre  acerbo 

d'odi  e  d'accuse  contro  il  giovin  Turno, 

a  vicenda  gli  fa  questa  risposta: 

«  Grande  di  fama  e  di  virtù  più  grande 

Troiano,  con  che  iodi  alzarti  a  cielo? 

Per  la  giustizia  ch'io  t'ammiri  prima 

o  pe  '1  vanto  guerrier  ?  Grati  codesto 

a  la  patria  città  riferiremo 

e,  se  una  via  ci  mostri  la  fortuna, 

ti  accorderemo  a  re  Latino.  Turno 

alleanze  si  cerchi.  A  noi  fia  bello 

d'innalzare  le  tue  mura  fatali 

e  in  ispalla  recar  troiane  pietre  », 

Avea  detto  così;  tutti  concordi 

fremevano  così.  Dodici  giorni 

pattuirono,  e  misti  impunemente, 

per  l'interposta  pace,  in  selve  e  in  monti 

i  Troiani  si  sparsero  e  i  Latini. 

Scroscia  sotto  la  scure  il  frassino  alto, 
schiantano  i  pini  eretti  al  ciel,  ficcare 


LIBRO    UNDECIMO  363 

i  cunei  ne  le  roveri  e  ne'  cedri 
odorosi  non  cessano  e  portare 
carchi  su'  plaustri  cigolanti  gli  orni. 

E  già  la  Fama  a  voi  di  sì  gran  lutto 

apportatrice  Evandro  e  la  sua  casa 

e  la  città  riempie,  essa  che  dianzi 

narrò  nel  Lazio  vincitor  Fallante. 

Gli  Arcadi  premono  a  le  porte,  e  al  modo 

antico  han  preso  funerali  faci  : 

splende  la  via  di  fiamme  in  lunga  fila 

e  riga  lontanando  la  campagna. 

Incontro  arriva  il  popolo  de'  Frigi 

congiungendo  sua  schiera  dolorosa. 

Come  entrati  li  \idero  le  dorme, 

fanno  de  la  città  tutta  un  lamento. 

Ma  Evandro  non  è  forza  che  il  trattenga 

e  in  mezzo  viene.  Posta  giù  la  bara, 

cadde  sopra  Fallante  e  gh  si  stringe 

con  lagrime  e  con  gemiti  :  sol  tardi 

a  la  voce  la  via  diede  il  dolore. 

'<  O  Fallante,  non  questa  è  la  promessa 

che  avevi  data  al  padre,  esser  prudente 

ne'  crudeli  cimenti.  Io  lo  saueva 

A. 

quanto  potesse  la  novella  gloria 
e  la  vaghezza  de  le  prime  prove. 
Oh  tue  primizie  infauste  e  duro  saggio 
de  la  guerra  avvenire!  oh  inesaudite 
in  ciel  preghiere  e  voti  miei  !  Felice 
te,  benedetta  donna  mia,  che  sei 


3^H  ENEIDE 

morta  e  non  riserbata  a  questo  pianto! 

Invere  io  vinsi  il  fato  mio  vivendo, 

si  da  restar  superstite  a  la  prole. 

Seguendo  le  alleate  anni  troiane 

mi  coprissero  i  Rutuli  di  dardi! 

data  avrei  io  la  vita,  e  me  il  corteo 

riporterebbe  a  casa  e  non  Fallante. 

Non  di  voi  mi  dorrei,  Teucri,  o  del  patto 

e  de  le  destre  ospitalmente  unite: 

sorte  era  giusta  per  la  mia  vecchiezza. 

Pur  se  attendea  morte  precoce  il  figlio, 

gloria  sarà  ch'ei  cadde,  uccisi  prima 

de'  Volsci  a  mille,  conducendo  i  Teucri 

nel  Lazio.  Non  più  degno  funerale, 

Fallante,  io  ti  farei  che  il  pio  Enea 

e  i  grandi  Frigi  e  i  duci  Etruschi  e  tutto 

degli  Etruschi  l'esercito,  i  trofei 

di  quei  recando  che  tu  metti  a  morte. 

Sorgeresti  tu  pur  gran  tronco  in  armi, 

se  pari  era  l'età,  pari  con  gli  anni 

la  forza,  o  Turno.  Ma  perché  trattengo, 

misero,  lungi  da  la  pugna  i  Teucri? 

Andate  e  riferite  al  re  feden: 

che  questa  vita  io  reggo,  si  odiosa 

morto  Fallante,  n'è  cagion  tua  destra 

che  al  figlio  e  al  padre,  il  vedi,  è  debitrice 

di  Turno.  A  le  tue  lodi  e  a  la  fortuna 

manca  ciò  solo.  Né  già  chiedo  questa 

gioia  per  la  mia  vita  (oh!  non  potrei), 

ma  ch'io  la  rechi  giù  tra  l'ombre  al  figlio  ». 


LIBRO    LNDECIMO  365 

L'Aurora  intanto  a'  miseri  mortali 

l'opere  riportando  e  le  fatiche 

avea  chiarito  il  ciel  :  già  il  padre  Enea 

e  già  Tarcone  per  il  curvo  lido 

le  pire  costruirono.  Ciascuno 

quivi  i  corpi  de'  suoi  nel  modo  avito 

venne  recando,  e  sotto  accesi  i  fuochi, 

l'aere  di  caligine  si  vela. 

Tre  volte  intorno  agh  avvampanti  roghi 

scorsero  ne  le  fulgide  armature, 

tre  volte  il  mesto  funerale  incendio 

plorando  circuirono  a  cavallo. 

Gronda  pianto  sul  suol,  gronda  su  l'armi; 

va  di  genti  clamor,  clangor  di  trombe. 

Altri  qui  getta  ne  la  fiamma  spoglie 

tratte  a'  Latini  uccisi,  e  caschi  e  spade 

adorne,  freni  e  turbinose  rote  ; 

altri  i  doni  ben  noti,  e  quei  che  furono 

i  loro  scudi  e  l'armi  sfortunate. 

Molti  bovi  s'immolano  a  la  Morte 

intomo;  e  setolosi  porci  e  greggi 

rapinate  da  tutta  la  cam.pagna 

sgozzano  su  la  vampa.    In  tutto  il  lido 

mirano  poi  bruciare  i  lor  compagni 

e  assistono  devoti  a  quell'ardore 

né  si  sanno  spiccar  fin  che  la  notte 

umida  volge  il  ciel  vivo  di  stelle. 

Mesti  da  l'altro  canto  anche  i  Latini 
innumere  costrusser  pire,  e  in  parte 
molte  salme  sotterrano,  ed  m  parte 


366  ENEIDE 

via  le  trasportano  a'  vicini  campi 

o  a  la  città  rimandano;  gran  mucchio 

d'incerta  strage,  innumerati  e  misti 

ardono  gli  altri.  D'ogn' intorno  è  un  vasto 

lampeggiamento  di  frequenti  fuochi. 

Il  terzo  dì  dal  cielo  avea  la  fredda 

ombra  cacciata:  il  cenere  alto  e  Tossa 

confuse  micsti  riscotean  da'  roghi 

e  H  coprian  de  le  tepenti  zolle. 

La  città  del  ricchissimo  Latino 

ebbe  allor  per  le  case  il  maggior  tuono 

e  la  parte  maggior  del  lungo  lutto. 

Quivi  le  madri  e  le  deserte  nuore, 

quivi  i  soavi  cuor  de  le  sorelle 

addolorate  e  gh  orfani  fanciulli 

a  la  rea  guerra  e  agl'imenei  di  Turno 

imprecano:  esso  si  armi,  esso  guerreggi, 

che  vuol  d'Itaha  il  regno  e  i  primi  onori. 

Ciò  il  fiero  Drance  aggrava,  e  solo  giura, 

solo  sfidato  e  atteso  in  campo  Turno. 

Molti  a  l'incontro  avvisi  in  vario  suono 

per  Turno  stanno,  e  gU  fa.  schermo  il  nome 

grande  de  la  regina,  e  lo  sorregge 

la  giusta  fama  di  trionfi  egregi. 

Tra  questi  moti  e  il  fervido  tumulto 
mesti  inoltre  i  legati  ecco  da  l'alta 
città  diomedea  con  la  risposta: 
nulla  ottenuto  per  sì  calda  istanza, 
nulla  i  doni  né  l'oro  né  le  molte 
preci  esser  valse:  cerchino  i  Latini 


LIBRO    UXDECIMO  367 

altre  armi;  o  al  teucro  re  pace  si  chieda. 
S'affanna  per  gran  duolo  esso  Latino  : 
che  vien  fatale  Enea  per  manifesto 
nume,  ammonisce  l'ira  degli  Dei 
e  sotto  gli  occhi  i  tumuli  recenti: 
dunque  un  concilio  grande  a  l'aite  soglie 
ed  i  primi  de'  suoi  per  cenno  aduna. 
QuelH  a  la  reggia  per  le  vie  gremite 
affluiscono  insiem. 

Siede  nel  mezzo, 
massimo  d'anni  e  per  lo  scettro  il  primo. 
Latino  in  fronte  mesta.  Ai  ritornati 
da  l'etòla  città  narrare  ingiunge 
l'ambasciata  e  per  ordin  la  risposta. 
x\llor  tacquero  tutti,  e  ubbidiente 
Vènulo  a  favellar  così  principia: 
«Vedemmo,  o  cittadini,  Diomede 
e  il  campo  argivo,  e  dopo  misurato 
tutto  il  viaggio  e  corse  sue  vicende 
la  man  toccammo  per  cui  giacque  Troia. 
Quei  la  città  di  Argiripa  dal  nome 
de  la  sua  gente  vincitor  fondava 
nel  terren  de  l'iàpige  Gargano. 
Entrati  e  avuta  del  parlar  licenza, 
i  presenti  offeriam,  diciamo  il  nome 
e  la  città,  chi  n'abbia  mosso  guerra 
e  qual  cagione  ci  conduca  in  Arpi. 
A'  detti  nostri  con  pacato  volto 
cosi  rispose  :  —  O  fortunata  gente 
del  regno  di  Saturno  antichi  Ausonii, 
qual  destino  voi  placidi  inquieta 


ENEIDE 


e  v'anima  a  tentar  ignote  guerre? 
Quanti  mettemmo  il  ferro  a'  campi  d' Ilio 
(e  lascio  ciò  che  si  sofferse  in  armi 
sotto  quell'alte  mura,  e  che  guerrieri 
il  Simoi  travolga),  per  il  m_ondo 
ogni  pena  tocchiam.o,  ogni  castigo, 
che  ci  avrebbe  a  pietà  Priamo  istesso. 
Di  Minerva  lo  sa  l'avversa  stella, 
Feuboico  sasso  e  il  vindice  Cafèreo. 
Sbattuti  da  quel  campo  a  varie  sponde, 
esula  fin  di  Proteo  a  le  colonne 
TAtride  Menelao,  gh  etnei  Ciclopi 
Ulisse  vide.  E  debbo  dire  il  regno 
di  Neottòlemo  e  i  distrutti  lari 
d'Idomeneo  ?  posati  in  Libia  i  Locri  ? 
Esso  de'  grandi  Achivi  il  miceneo 
condottiero  per  man  de  la  nefanda 
moglie  si  giacque  nel  varcar  la  sogha: 
l'adultero  appostò  l'Asia  sconfìtta. 
E  avversi  a  me  gli  Dei,  che  non  vedessi 
a  l'are  patrie  reso  la  consorte 
desiata  e  la  bella  Caiidone? 
E  tuttora  mi  seguono  portenti 
spaventosi:  i  compagni  miei  perduti 
dilesruarono  in  aria  e  sono  uccelli 
vaghi  su  l'acque  (oh  ree  pene  de'  miei  !) 
ch'empiono  le  scogliere  di  lamento. 
Oh  bene  io  tanto  ebbi  a  temer,  da  quando 
volsi  folle  la  spada  in  un  celeste, 
colpevole  di  Venere  ferita! 
Non  m'invitate  a  simili  battaghe: 


LIBRO    l'NDECIMO 


369 


guerra  non  ho  co'  Teucri,  Ilio  distrutta, 
né  memoria  o  piacer  de'  vecchi  affanni. 
I  doni  che  di  patria  m'arrecate 
trasferiteli  a  Enea. 

Stemmo  di  fronte 
l'aspre  lance  a  gittar,  fummo  a  le  prese: 
credete  a  chi  '1  provò,  come  alto  ei  s'erga 
imbracciando  lo  scudo  e  come  avventi 
impetuoso.  Se  la  terra  idèa 
tali  portava  un  altri  due  guerrieri, 
esso  a  le  città  d' Inaco  veniva 
Bardano,  e  Grecia  per  opposti  fati 
or  piangerebbe.  A  la  difhcil  Troia 
quanta  fu  sosta,  la  vittoria  greca 
stette  per  virtù  d'Ettore  e  di  Enea 
e  si  ritrasse  fino  al  decimo  anno. 
Ambo  di  cuor,  di  braccio  ambo  preclari; 
di  pietà  questi  primo.  In  alleanza, 
comunque  è  dato,  stringansi  le  destre, 
ma  di  alzar  vi  guardate  armi  contr'armi  — . 
E  la  risposta  insiem  del  re  qual  sia, 
o  re  ottimo,  udisti  e  il  suo  pensiero 
su  la  difhcil  guerra  ». 

Appena  detto 

i  legati  così,  vario  trascorse 
per  gli  agitati  Ausonidi  un  susurro, 
come  quando  trattengono  macigni 
l'acque  correnti,  che  dal  chiuso  gorgo 
un  murmurc  si  leva  e  le  vicine 
fremono  rive  al  fremito  de  l'onda. 

Albini  -  Eneide  ^ 


370  ENEIDE 

Chetati  alquanto  gli  animi  e  le  labbra, 
il  Re  dal  trono  invoca  i  Numi  e  parla: 
«  Già  fermo  aver  sul  capitale  oggetto 
ben  io  vorrei,  Latini,  ed  era  il  meglio, 
né  radunar  consiglio  in  tal  frangente, 
col  nemico  a  le  mura.  Inopportuna 
guerra  facciamo  con  divina  stirpe, 
o  cittadini,  e  con  guerrieri  invitti 
cui  non  stanca  battaglia  su  battaglia, 
e  non  sanno  posar  pur  vinti  l'arme. 
Se  chiamando  gli  Etoli  ad  alleati 
qualche  speranza  fu,  la  deponete: 
speranza  è  ognuno  a  sé.  Ma  qui  l'angustie 
vedete;  e  fiacca  e  franta  ogni  altra  cosa 
sott' occhio,  sotto  man  chiaro  vi  appare. 
Nessuno  accuso  :  fu  il  valore  grande, 
quanto  essere  potea;  tutto  lo  sforzo 
lottò  del  regno.  Or  qual  nel  turbamento 
faccia  pensier,  dirò,  m'udite,  in  breve. 
È  mia  sul  tosco  fiume  antica  terra 
che  si  stende  a  l'occaso  oltre  i  Sicani: 
la  seminano  Rutuli  ed  Aurunci, 
solcano  con  l'aratro  i  duri  colli,  - 
dov'è  più  aspro  pascolano.  Tutto 
quel  tratto  con  la  plaga  alta  de'  pini 
ceda  de' Teucri  a  l'amicizia;  giusti 
patti  facciamo  d'alleanza,  e  a  parte 
chiamiamoH  del  regno.  Abbian  qui  sede, 
se  han  tanto  affetto,  e  fabbrichino  mura. 
Che  se  ad  altro  paese  e  ad  altra  gente 
è  loro  animo  volgersi,  se  sanno 


LIBRO    UXDECIMO  37^ 

staccarsi  da  la  nostra  terra,  dieci 

e  dieci  lavoriam  d'italo  legno 

navi;  e  se  più  n'hanno  ad  empire  (tutta 

al  lido  pronta  è  la  materia),  dessi 

ci  prescrivano  numero  e  misura, 

diam  noi  metallo  e  braccia  ed  arsenali. 

Inoltre,  i  detti  a  riferire,  i  patti 

a  fermar,  cento  de  la  prima  gente 

Latini  inviar  penso  ambasciatori 

co'  rami  in  mano  de  la  pace,  e  in  dono 

d'oro  e  d'avorio  portino  talenti, 

e  la  sedia  e  la  trabéa  che  sono 

le  insegne  mie  di  re.  Deliberate 

pe  '1  ben  comune  e  ristorate  i  danni  ». 

Allora  Drance  sempre  avverso,  a  cui 
è  di  Turno  la  gloria  amaro  morso 
di  bieca  invidia,  ricco  di  dovizie 
e  più  di  HngTia,  ma  disutil  braccio 
ne  la  guerra,  ascoltato  ne'  consigli, 
forte  a  le  fazioni  (altera  schiatta 
di  madre  avea,  paterno  sangue  oscuro), 
sorge  con  foga  di  parole  e  d'ire. 
«Cosa  che  a  tutti  è  chiara  e  non  bisogna 
del  mio  parlar,  buon  re,  poni  a  consulta: 
ognun  sa  di  saper  quel  che  si  chiede 
al  ben  comune,  ma  la  voce  muore. 
Renda  del  dir  la  Hbertà,  l'altura 
spogh  colui  per  cui  nefasto  auspicio 
e  protervo  costume  (io  lo  vo'  dire, 
s'ei  mi  minacci  pur  d'offesa  e  morte) 


372  ENEIDE 

fior  di  duci  vediamo  esser  caduti 

e  tutta  in  lutto  la  città  sommersa, 

mentr'ei  provoca  i  Teucri  confidato 

ne  la  fuga  e  bravando  assorda  il  cielo. 

Un  dono  ancora,  ottimo  re,  sui  molti 

che  pensi  a'  Teucri  offrire,  un  dono  aggiungi, 

né  violenza  d'uom  sia  che  ti  vinca, 

che  tu  padre  la  figlia  a  degne  nozze 

non  dia  d'eccelso  genero  e  con  patto 

eterno  ci  raffermi  questa  pace. 

Che  se  un  tanto  terror  le  menti  e  i  cuori 

lega,  lui  stesso  supplichiam,  da  lui 

grazia  chiediamo:  ceda,  e  il  lor  diritto 

al  re  rassegni  ed  a  la  patria. 

Al  rischio 
perché  sì  spesso  i  cittadini  avventi, 
fonte  che  sei  di  questi  mali  al  Lazio? 
Non  è  salvezza  ne  la  guerra  :  pace 
tutti  da  te  chiediam,  Turno,  e  di  pace 
l'unico  insieme  inviolabil  pegno. 
Primo  io,  che  tu  ti  fingi  avverso  (ed  io 
non  me  ne  scuso),  a  supplicarti  vengo. 
Pietà  de'  tuoi,  giù  l'albagia;  cacciato 
fosti,  e  va.  SbaragUati,  assai  vedemmo 
gran  funerali  e  desolammo  i  campi. 
Che  se  ami  gloria,  se  tal  nerbo  aduni, 
se  la  reggia  dotale  hai  tanto  a  cuore, 
osa,  esci  a  fronte  del  nemico.  Oh  certo, 
perché  donna  regale  a  Turno  tocchi, 
stiamo  in  campo  a  morir,  noi  vite  vili, 
turba  senza  sepolcro  e  senza  pianto  ! 


LIBRO    UNDECIMO  373 

Anche  tu,  se  hai  qualche  virtù,  se  nulla 
senti  il  patrio  valor,  guardalo  in  \4so 
lui  che  ti  sfida  >k 

Arse  a  questo  parlar  la  violenza 

di  Turno  e  con  un  fremito  prorompe: 

((  Ben  larga  sempre  hai  di  parlar  la  vena, 

Drance,  mentre  la  guerra  il  braccio  chiede 

e  a'  consigh  adunati  arrivi  il  primo. 

Non  giova  empir  la  curia  di  parole 

che  ti  sgorgan  sonore  in  sicurezza, 

fin  che  le  mura  reggono  il  nemico 

e  di  sangue  non  corrono  le  fosse. 

Tuona  dunque  facondo  a  tua  maniera 

e  di  paura  accusa  me  tu,  Drance, 

poi  che  la  destra  tua  ne  ha  fatto  mucchi 

di  Teucri  e  tutto  è  pien  de'  tuoi  trofei. 

Ciò  che  il  vivo  valor  possa,  ti  è  dato 

mostrar:  poco  di  strada,  ed  i  nemici 

troviam,  che  tutte  accerchiano  le  mura. 

Andiam  lor  contro?  Indugi?  O  tu  la  guerra 

con  la  ventosa  lingua  e  i  pie  fugaci 

sempre  farai? 

Cacciato  io?  chi  a  ragion  dirmi  cacciato 

potrebbe,  o  impudentissimo,  se  gonfio 

il  Tevere  vedrà  d'ihaco  sangue 

e  la  casa  d'Evandro  minata 

con  la  sua  stirpe  e  gli  Arcadi  senz'armi? 

Non  tale  Bizia  e  Pandaro  giganti 

sperimentaron  me  né  gii  altri  molti 

che  alacre  a  l'Orco  in  un  sol  dì  mandai. 


374  ENEIDE 

ne  la  città  tra  il  vallo  ostil  rinchiuso. 
Non  è  salvezza  ne  la  guerra.  Folle  ! 
cantalo  a  l'uom  troiano  e  a  casa  tua. 
Seguita,  or  via,  di  metter  lo  spavento, 
leva  le  forze  a  ciel  di  un  popol  vinto 
due  volte,  e  abbassa  Tarmi  di  Latino. 
Ora  anche  i  duci  de'  Mirmìdoni  hanno 
paura  de  le  frigie  armi,  paura 
hanno  il  Ti  di  de  e  il  larisseo  Achille; 
rOfanto  arretra  da  l'adriaco  mare  ! 
Così  quando  si  fìnge  timoroso 
d'impeti  miei,  malizia  è  d'impostore 
che  tremando  avvalora  la  calunnia. 
No,  t'assicura,  un'animuccia  tale 
non  perderai  per  questa  destra  mai  : 
teco  dimori  ed  in  cotesto  cuore. 

Ora,  o  padre,  a  te  riedo  e  al  grande  oggetto. 

Se  più  non  hai  ne  l'armi  nostre  speme, 

se  siam  sì  soli  e,  rintuzzati  appena 

una  volta,  siam  già  precipitati 

né  può  ritrarre  il  piede  la  fortuna, 

imploriamo  la  pace  a  mani  tese. 

Quantunque,  oh  se  vivesse  una  favilla 

de  l'usato  valor!  quegli  su  tutti 

fortunato  per  me  ne  la  distretta 

ed  egregio  di  cuor  che,  non  volendo 

nulla  veder  di  simile,  morente 

cadde  in  campo  e  il  terren  morse  una  volta. 

Ma  se  forze  abbiam  noi  con  fior  di  prodi 

ancor  non  tocchi  e  ci  riman  l'ausilio 


LIBRO    UNDECIMO  375 

de  le  città  e  de'  popoli  d'Italia, 

se  anche  a'  Troiani  questa  gloria  venne 

con  molto  sangue  (hanno  i  lor  morti,  e  il  nembo 

corse  su  tutti),  ingloriosamente 

perché  manchiamo  su  la  sogha  prima? 

perché  tremiamo  prima  de  la  tromba? 

Molte  cose  ridusse  in  meglio  il  tempo 

e  l'inquieto  volger  degU  eventi: 

varia  tornando  a  molti  la  Fortuna, 

pria  li  tradì,  poi  h  rimise  in  sella. 

Non  avremo  con  noi  T  Etolo  ed  Arpi; 

Messapo  avrem,  Tolumnio  fausto,  i  prodi 

da  tante  genti  accorsi,  e  attende  gloria 

gh  scelti  dal  laurente  agro  e  dal  Lazio: 

abbiamo  insiem  di  volsca  illustre  stirpe 

Camilla  che  uno  stuol  di  cavaheri 

ci  conduce  ne  l'arme  luminosi. 

Che  se  me  solo  sfidano  a  le  prove 

i  Teucri,  e  ciò  vi  piace,  ed  a  tal  segno 

io  sono  al  ben  di  tutti  impedimento, 

non  la  Vittoria  è  a  questa  man  sì  avversa 

ch'io  niente  ricusi  a  tanto  effetto. 

Fiero  l'affronterò,  s'ei  pur  valesse 

il  grande  Achille  e  simih  si  vesta 

armi  per  mano  di  Vulcano.  A  voi 

e  al  suocero  Latin  la  vita  io  Turno, 

non  secondo  in  valore  a  niun  degh  avi, 

ho  sacra.  Enea  te  chiama  sol.  Mi  chiami, 

si;  né  Drance  piuttosto,  se  v'è  un'ira 

qui  degh  Dei,  la  plachi  con  la  morte, 

o  se  v'  è  gloria  pe  '1  valor,  la  usurpi  )>. 


376 


ENEIDE 


Quelli  tra  lor  così  del  grave  istante 

trattavano  discordi:  Enea  moveva 

dal  campo  a  la  battaglia.  Ecco  che  il  grido 

corre  a  rumore  per  la  reggia  ed  empie 

d'alto  terrore  la  città,  schierati 

dal  Tebro  i  Teucri  e  la  falange  etrusca 

rovesciarsi  da  tutta  la  campagna. 

È  sconvolto  il  pensier,  gli  animi  scossi 

subito  de  le  turbe  e  sorgon  Tire 

così  spronate.  Cercan  l'armi  a  furia, 

armi  fremono  i  giovani;  sgomenti 

lagrime  danno  e  rotti  accenti  i  padri. 

Grande  allor  d'ogni  parte  al  ciel  si  leva 

de'  pareri  moltephci  il  clamore; 

non  altrimenti  che  se  in  seno  al  bosco 

si  posi  moltitudine  d'alati 

o  rauchi  pe'  loquaci  gorghi  i  cigni 

del  pescoso  Padusa  alzin  la  voce. 

«  Su,  fate  parlamento,  o  cittadini  », 

Turno  gridò,  colto  l'istante,  «e  assisi 

esaltate  la  pace:  in  arme  quelli 

corron  rapidi  al  regno  ».  Senza  più, 

precipitoso  uscì  da  l'alte  stanze. 

«Tu,  Vòluso,  i  manipoH  de'  Volsci 

fa'  che  s'armino  e  Rutuh  anche  mena  » 

dice  :  «  Messapo  la  cavalleria 

e  Cora  col  fratel  sfrenate  intorno. 

Gli  aditi  a  la  città  guardi  una  parte 

ed  occupi  le  torri,  e  con  me  l'altra 

dove  comanderò  venga  a  l'assalto». 


LIBRO    UNDECIMO  377 

Già  è  per  la  città  tutta  un  diffuso 
correre  a'  muri.  Esso  Latino  padre 
il  concilio  e  il  proposito  suo  grande 
lascia  e  rinvia,  turbato  in  tal  frangente, 
e  ben  s'accusa  che  il  dardanio  Enea 
non  ricevè  volenteroso  e  strinse 
a  la  città  qual  genero.  Altri  scava 
anzi  le  porte,  o  massi  e  travi  arreca. 
Aspra  la  tromba  dà  il  segnai  del  sangue. 
Ecco  che  cinti  di  corona  nova 
le  matrone  e  i  fanciulli  ebbero  i  muri: 
tutti  a  sé  vuole  l'ultimo  cimento. 
Al  tempio  insiem  di  Pallade  su  l'arce 
tra  il  grande  stuolo  de  le  madri  è  tratta 
la  Regina  co'  doni,  e  a  lato  a  lei 
va  compagna  la  vergine  Lavinia, 
causa  del  danno,  co'  begh  occhi  bassi. 
Entrano,  e  il  tempio  odorano  d'incenso, 
e  il  mesto  grido  matronal  si  leva  : 
«  Donna  de  l'armi,  duce  de  la  guerra, 
vergin  Tritonia,  di  tua  mano  infrangi 
tu  del  frigio  ladron  la  spada,  e  lui 
atterra  e  stendi  sotto  l'alte  porte  ». 

Arde  in  armarsi  più  che  tutti  Turno. 
Già  cinto  de  la  rutula  corazza 
squamosa,  stretti  gli  schinieri  d'oro, 
nudo  la  fronte  ancor,  s'avea  sospesa 
la  spada  al  fianco,  e  rifulgea  correndo 
aureo  da  l'alto  de  la  rocca,  baldo 
e  pregustando  col  desio  l'assalto: 


378  ENEIDE 

tale  qualor  fuggì,  rotti  i  legami, 

da  le  stalle  il  destrier  libero  al  fine 

e  signor  de  la  libera  campagna, 

o  a'  pascoli  ne  va  de  le  cavalle 

o  a  la  nota  riviera  ove  si  bagna, 

e  freme  con  cervice  alta  superbo, 

scherzan  sul  collo  e  per  le  spalle  i  crini. 

Incontro  venne  a  lui  tra  stuol  di  Volsci 

Camilla  e  proprio  in  su  le  porte  lieve 

balzò  giù  dal  cavallo,  e  la  coorte 

tutta  a  l'esempio  de  la  sua  regina 

da  le  selle  fluì.  Poi  così  dice  : 

«  Turno,  se  in  sé  può  confidare  il  prode, 

oso  e  prometto  fronteggiar  da  sola 

gli  Eneadi  ed  i  Tirreni  cavalieri. 

Lascia  cogliere  a  me  questa  primizia 

del  guerresco  pericolo  :  pedone 

tu  resta  a'  muri  e  la  città  preserva  ». 

Fissando  la  terribile  fanciulla, 

«  Vergine,  onor  d' Italia  »,  esciama  Turno, 

«  quali  dirti  potrò,  qual  render  grazia  ? 

Ma  poi  che  va  il  tuo  cuor  più  su  che  tutto, 

or  dividi,  con  me  l'opera.  Enea, 

come  la  fama  e  i  nostri  esploratori 

attestano,  mandò  maHgno  avanti 

equestri  squadre  a  scalpitare  i  campi; 

ed  esso  varca  per  le  abbandonate 

alture  a  la  città.  Bellica  insidia 

gli  tendo  al  curvo  passo  de  la  selva, 

chiudendogh  d'armati  le  due  bocche. 

Tu  i  tirreni  cavalli  in  campo  aftYonta  : 


LIBRO    UXDECIMO  379 

sarà  con  te  Messapo  forte  e  Tali 
latine  e  la  tibiirte  schiera:  tuo 
sia  di  duce  il  pensier  ».  Disse,  ed  esorta 
similmente  Messapo  e  gli  altri  duci, 
e  va  verso  il  nemico. 

Tortuosa 
è  una  valle,  agl'inganni  atta  de  l'armi, 
cui  i  due  lati  suoi  serrano  bruni 
di  densa  frasca,  ed  un  sentier  vi  mena, 
vi  danno  brevi  aperte  adito  scarso. 
Sopra  questa,  in  vedetta  a  somm.o  il  monte, 
giace  un  ignoto  piaU;  fido  ridotto, 
se  a  destra  o  a  manca  ami  affrontar  nemico 
o  tener  l'alto  e  rotolar  macigni. 
Là  si  dirige  per  le  note  vie 
il  giovine  e  veloce  il  luogo  prese 
posando  ne  la  selva  insidiosa. 

Ne  le  superne  sedi  intanto  ad  Opi, 
agii  fanciulla  de  le  sue  compagne 
e  de  la  sacra  schiera,  mestamente 
favellava  la  figlia  di  Latona  : 
«  O  vergine,  a  crudel  guerra  si  av\àa 
Camilla;  cinta  invan  de  l'armi  nostre, 
prediletta  da  me.  Né  già  novello 
venne  a  Diana  questo  amor  né  il  cuore 
le  toccò  d'improvvisa  tenerezza. 

Dal  regno  espulso,  in  odio  de  l'altera 
sua  Dotenza,  a  l'uscir  Mètabo  fuori 
de  la  città  vetusta  di  Privemo, 


380  ENEIDE 

pargoletta  tra  i  moti  de  la  guerra 

se  la  portò  compagna  de  l'esiglio 

e  lei  dal  nome  di  Casmilla  madre 

cangiato  in  parte  nominò  Camilla. 

Recandosela  in  grembo  camminava 

i  dorsi  lunghi  di  solinghe  selve; 

premevan  l'armi,  ed  ogn'intorno  i  Volsci 

a  volanti  drappelli  erano  sparsi. 

Ecco  che  a  mezzo  de  la  fuga  in  piena 

ispumeggiava  l'Amaseno,  tanta 

era  caduta  furiosa  pioggia. 

Sta  per  gittarsi  a  nuoto;  amor  lo  tiene 

de  l'infante,  timor  pe  '1  caro  peso. 

Tra  l'affollarsi  de'  pensieri  in  uno 

solo  d'un  tratto  si  posò.  Un  lanciotto 

grande  che  aveva  ne  la  man  guerriera, 

saldo  di  nocchi  e  di  riarso  legno, 

a  questo,  avvolta  in  buccia  di  silvestre 

sughero,  la  figliuola  raccomanda, 

legata  in  mezzo  a  la  manevole  asta; 

poi  l'asta  in  alto  libra  e  invoca  il  cielo: 

—  Santa  de'  boschi  amica,  o  vergin  figlia 

di  Latona,  a  te  questa  per  ancella 

io  suo  padre  consacro.  A  l'armi  tue 

stretta  la  prima  volta  supplicando, 

pe  '1  ciel  fugge  il  nemico  :  oh  !  la  ricevi 

questa  tua  che  a  l'incerte  aure  si  affida  - 

Disse  ed,  il  braccio  ritraendo,  avventa 

il  giavellotto.  Risonavan  l'onde  : 

misera  vola  sul  rapido  fiume 

ne  la  saetta  stridula  Camilla. 


LIBRO    L SUE- AMO  38 T 

E  Mètabo,  cui  più  stringea  da  presso 
lo  stormo,  entra  ne  l'onda  e  trionfante 
spicca  la  lancia  e  insiem  la  creatura, 
dono  di  Tri  via,  da  un  cespuglio  verde. 
Non  casa  lui,  non  tra  le  mura  accolse 
città,  né  arreso  si  sarebbe  il  fiero: 
visse  pastore  e  ne'  solinghi  monti. 
Quivi  tra  rovi  e  ruvidi  covili 
nutricava  la  pargola  col  latte 
d'una  cavalla  de  la  mandra  indoma, 
su  la  boccuccia  gli  ùveri  mungendo. 
E  come  prima  ella  si  resse  e  l'orme 
ebbe  preso  a  segnar,  a  la  bambina 
armò  le  mani  di  quadrello  acuto 
e  le  appese  a  le  spalle  i  dardi  e  l'arco. 
In  vece  d'oro  ne'  capelli,  in  vece 
di  ricche  vesti,  le  pendea  di  testa 
per  il  dosso  la  pelle  d'una  tigre. 
Con  la  tenera  mano  infin  d'allora 
fé'  puerili  tratti  e  intorno  al  capo 
girò  con  agii  redine  la  fionda; 
gru  strìmonia  colpì,  candido  cigno. 
Lei  molte  invan  per  la  città  tirrene 
madri  a  nuora  bramarono  :  contenta 
a  la  sola  Diana  e  intemerata, 
ella  conserva  vivido  de  l'armi 
e  de  la  sua  verginità  l'amore. 

Ben  vorrei  non  si  fosse  a  questo  incendio 
presa  e  arrischiata  d'assalire  i  Teucri: 
a  me  cara  e  sarebbe  or  del  mio  coro. 


382  ENEIDE 

Ma  poi  che  la  sospinge  il  fato  acerbo, 
cala,  o  ninfa,  dal  cielo  a  le  latine 
terre,  ove  triste  con  sinistro  augurio 
si  fa  battaglia.  Tieni,  punitrice 
fuor  del  turcasso  una  saetta  leva, 
onde,  chiunque  offenda  di  ferita, 
teucro  o  italo,  quella  che  m' è  sacra, 
parimenti  col  suo  sangue  mi  paghi. 
Io  poi  dentro  una  nube  il  corpo  e  Tarmi 
de  rinfehce  recherò  non  tocche 
al  sepolcro  rendendole  a  la  patria  ». 
Disse,  e  quella  di  turbine  ravvolta 
scorse  sonora  giù  per  l'aure  lievi. 

Ma  la  forza  troiana  intanto  a'  muri 
s'appressa  e  i  toschi  duci  e  i  cavaHeri 
tuttiquanti,  partiti  in  giuste  squadre. 
Freme  per  tutto  il  pian  lo  scalpitante 
corsiero  e  tira  le  tirate  briglie 
caracollando:  orror  di  ferro  è  intomo, 
la  campagna  de  l'armi  alte  lampeggia. 
Ma  di  fronte  a  incontrarli  ecco  Messapo 
e  rapidi  i  Latini  e  col  fratello 
Cora  e  co'  suoi  la  vergine  Camilla: 
ritraggono  e  protendono  le  lance, 
appuntano  gh  strali:  è  un  infiammato 
premer  di  prodi  e  fremer  di  destrieri. 
De  l'armi  al  tiro  gU  uni  e  gU  altri  giunti, 
s'eran  fermi  :  poi  gridano  e  s'avventano 
improvvisi  co'  fervidi  cavalli: 
spargono  insieme  d'ogni  parte  i  dardi 


LIBRO    LXDECI.MO  383 

qual  bufera  di  neve,  e  il  ciel  si  oscura. 

Cozzano  pronti  con  le  lance  in  resta 

TiiTeno  e  il  fiero  Acònteo  e  danno  primi 

suon  d'un  gran  tonfo,  che  a  l'urtar  de'  petti 

i  destrier  si  sfragellano  :  sbalzato 

Aconteo  a  mo'  di  fulmine  o  di  globo 

uscito  di  balestra  va  lontano 

a  cader  e  la  vita  in  aria  sperde. 

A  ciò  sorprese  le  latine  squadre 

gettan  le  targhe  e  voltano  i  cavaUi 

a  la  città  :  gì'  incalzano  i  Troiani, 

Asìla  è  duce  de  la  caccia.  E  ornai 

eran  presso  a  le  porte,  ecco  i  Latini 

rinnovellano  il  grido  ed  agilmente 

rifanno  testa:  or  fuggon  quelli  e  indietro 

si  ritraggono  a  briglie  abbandonate. 

Così  fa  il  mar,  che  con  alterno  flutto 

or  corre  a  riva  e  supera  gli  scogli 

spumoso  e  su  le  sabbie  si  dispiega, 

or  si  ritira  e  riassorbe  l'onda 

rapido  e  via  da  le  scogliere  indietro 

lascia  con  Tacque  languide  l'arena. 

Due  volte  i  Toschi  cacciano  a  le  mura 

i  Rutuli  fuggenti,  e  due  respinti 

sogguardano  coprendosi  le  spalle. 

Al  terzo  assalto  poi,  quando  a  le  prese 

imimischiarono  tutti  gli  squadroni 

e  stette  uom  contro  a  uom,  allor  le  strida 

de'  morenti,  e  nuotare  armi  ed  armati 

nel  sangue,  e  tra  la  strage  semivivi 

cader  cavalli;  aspra  la  pugna  sorge. 


384  ENEIDE 

Orsiloco  di  Remolo  al  cavallo, 

che  assalir  lui  temea,  scaglia  e  confìgge 

sotto  l'orecchio  l'asta.  Impenna  al  colpo 

il  corridore  e  indocile  al  dolore 

diritto  guizza  con  le  zampe  in  aria: 

quei  precipita  al  suol.  Catillo  abbatte 

lolla  e  grande  di  cuor  d'armi  e  membra 

Erminio;  flavo  la  capellatura, 

nudi  ha  la  testa  e  gh  omeri,  e  non  teme, 

vasto  bersaglio  a'  dardi.  Per  le  larghe 

scapole  un'asta  vibrasi  e  trafitto 

il  fa  piegar  di  spasimo.  Per  tutto 

è  sangue,  è  gara  di  ferir  col  ferro: 

bella  tra  l'armi  sfidano  la  morte. 

Ma  ne  la  strage,  x\mazzone  scoperta 
r  un  de'  seni  a  la  pugna,  imbaldanzisce 
Camilla  faretrata,  ed  ora  a  nembi 
spande  i  flessili  strah,  or  con  la  destra 
la  robusta  bipenne  alza  indefessa: 
tinnisce  l'arco  d'or  caro  a  Diana. 
Che  s'ella  pur  talora  ebbe  a  dar  volta, 
drizza  con  l'arco  indietro  le  saette 
fuggenti.  Attornian  lei  le  predilette 
sue  compagne,  la  vergine  Larina 
e  Tulla  e  de  la  scure  agitatrice 
Tarpeia,  italiane  che  a  suo  fregio 
essa  la  dia  Camilla  avea  prescelte, 
in  pace  buone  aiutatrici  e  in  guerra  : 
quaU  le  tracie  Amazzoni  sui  ghiacci 
del  Termodonte  battono  pugnando 


LIBRO    l.'N'DECIMO  385 

con  le  pirite  armi,  a  Ippolita  o  a  la  marzia 
Pentesilea  d'intorno  che  sul  carro 
riede,  e  animoso  quel  donnesco  stuolo 
ulula  e  ondeggia  co'  lunati  scudi. 
Qual  primo  tu,  quale  ultimo  col  dardo, 
fiera  vergine,  abbatti  e  quanti  a  terra 
moribondi?  Per  primo  Euneo  di  Clizio 
figliuolo,  a  cui  con  un  troncon  d'abete 
apre  il  petto  e  trapassa,  e  quegli  cade 
gettando  sangue  e  morde  il  suol  sanguigno 
e  si  contorce  ne  la  sua  ferita. 
Liri  e  Pàgaso  poi  :  Tun,  mentre  stringe 
la  briglia  scosso  dal  destrier  squarciato, 
l'altro  che  soccorrendo  a  quel  cadente 
porge  la  destra  inerme,  a  precipizio 
vanno  del  pari.  Aggiunge  a  loro  Amastro 
Ippòtade,  e  lontan  mira  con  l'asta 
e  Tèreo  e  Arpàlico  e  Demofoonte 
e  Cromi:  quante  la  virginea  mano 
gettò  saette,  e  tanti  cadder  Frigi. 

Con  armi  strane  ed  apulo  cavallo 
Òrnito  cacciator  move  in  disparte  : 
le  larghe  spalle  a  lui  copre  una  pelle 
di  torello  pugnace,  gli  è  cappello 
la  gran  bocca  d'un  lupo  spalancata 
con  le  mascelle  e  i  bianchi  denti,  in  mano 
ha  uno  schidione  villereccio  :  a  tanti 
vibrasi  in  mezzo  e  tutto  il  capo  ha  sopra. 
Colto  ella  lui  (né  fu  fatica,  andando 
le  schiere  in  volta),  lo  trafigge  e  grida 

Albini  -  Eneide  25 


386  ENEIDE 

con  cuore  ostil  :  «  Or  ti  pensavi,  o  tosco, 
cacciar  le  fiere?  Venne  il  dì  che  i  vostri 
vanti  con  femminili  armi  confonde. 
Pur  con  l'ombre  de'  padri  hai  buona  scusa, 
per  mano  di  Camilla  esser  caduto  ». 
Indi  Orsiloco  e  Bute,  de'  più  grandi 
Teucri;  ma  Bute  lo  trafisse  a  fronte 
tra  la  lorica  e  l'elmo,  ove  biancheggia 
il  collo  al  cavalier  e  scende  al  manco 
braccio  lo  scudo;  Orsiloco  lo  illude 
sfuggendogli  in  gran  giro  e  poi  ristretto 
sì  che  r  inseguitore  ella  persegue  : 
per  l'armi  allor,  per  l'ossa  del  guerriero 
che  molto  prega  e  supplica,  alto  eretta 
cala  e  ricala  la  robusta  scure; 
fuma  il  cervello  e  gronda  giù  pe'  1  viso. 

S'abbatte  a  lei;  vedutala,  s'arresta 
atterrito  il  belligero  figliuolo 
d'Auno  de  l'Apennino,  non  postremo 
de'  Liguri,  finché  lasciava  il  fato 
luogo  a  ingannar.  Costui,  quando  si  vede 
non  potere  per  corsa  evitar  l'urto 
né  l'impeto  stornar  de  la  regina, 
pensa  agli  accorgimenti  e  con  malizia 
principia  a  dir  :  «  E'  non  è  poi  gran  vanto  ! 
donna,  ma  confidata  a  un  buon  cavallo. 
Smetti  la  fuga;  in  terra  piana  e  presso 
scendi  con  me,  vieni  al  duello  a  piedi  : 
saprai  cui  noccia  la  nomea  ventosa  ». 
Disse  :  irritata  e  di  dolor  trafitta 


LIBRO    UNDECIMO  387 

ella  cede  il  cavallo  a  una  compagna 

e  gli  si  pianta  in  armi  eguali  a  fronte, 

con  non  più  che  la  spada  e  la  rotella. 

Ma  quei  che  si  pensò  vincer  d'inganno 

or  esso  fugge  subito  e  di  sprone 

più  sollecita  il  rapido  galoppo. 

«  Ligure  vano  e  invano  inorgoglito, 

inutilmente  subdolo  tentasti 

l'arti  paterne:  la  fallacia  tua 

non  ti  renderà  salvo  al  fallace  Auno  ». 

Così  dice  la  vergine  e  sfavilla 

su'  piedi  via,  passa  il  cavallo  in  corsa, 

afferra  il  fren,  stringe  l'assalto  a  fronte 

e  fa  vendetta  nel  nemico  sangue: 

non  così  pronto  spiccasi  sparviero, 

sacro  uccel,  da  la  rupe  ad  inseguire 

un'alta  tra  le  nuvole  colomba; 

la  raggiunge  l'artiglia  la  dilania, 

e  stilla  il  sangue  e  piovono  le  penne. 

Ma  non  senza  riguardo  a  questi  eventi 
degli  uomini  il  gran  Padre  e  degli  Dei 
siede  a  sommo  l'Olimpo.  Ei  move  il  tosco 
Tarcone  a  la  battagha  fiera  e  il  punge 
a  fervid'ira.  Tra  le  stragi  adunque 
Tarcon  cavalca  e  le  cedenti  squadre 
e  le  raccende  con  diverse  voci 
chiamando  a  nome  ognuno,  e  i  rintuzzati 
rifa  guerrieri.  «  Che  viltà  vi  prese, 
o  non  mai  risentiti,  o  sempre  inerti 
Etruschi  ?  Ed  una  femmina  vi  sbanda 


388  ENEIDE 

SÌ  numerosi?  A  che  vestiam  di  ferro 

e  maneggiamo  inutili  le  spade  ? 

Ben  solleciti  a  Venere  voi  siete 

e  a  le  notturne  pugne,  o  quando  chiama 

il  curvo  flauto  bacchico  a  tripudio. 

Le  vivande  attendete  e  a  piena  mensa 

i  caUci  (questo  è  zelo  e  delizia), 

mentre  l'augure  fausto  indice  i  riti 

e  la  vittima  pingue  invita  a'  boschi  ». 

Cosi  detto,  a  morir  disposto  anch'esso, 

sprona  nel  folto  e  tutto  annuvolato 

con  Venulo  s'affronta,  da  l'arcione 

strappandolo  l'abbranca,  e  a  forza  e  a  furia 

via  se  lo  porta  in  grembo.  Al  ciel  va  il  grido 

e  son  volti  a  guardar  tutti  i  Latini. 

Va,  vola,  guizza  per  il  pian  Tarcone 

con  Tarmi  e  l'uom,  da  la  cui  stessa  lancia 

tronca  la  ferrea  punta  e  cerca  il  luogo 

libero  a  dargU  la  mortai  ferita: 

quei  da  la  strozza  a  ricacciar  la  mano 

pur  si  dibatte  e  oppone  forza  a  forza. 

E  come  alto  volando  aquila  fulva 

stringe  il  rapito  drago  entro  gli  artigli 

e  ghe  li  ficca,  ma  il  serpente  attorce 

le  sinuose  spire,  irto  le  squame, 

sibilante  la  bocca,  erto  levato; 

quella  il  ribelle  con  l'adunco  rostro 

pur  doma  e  sferza  insiem  l'aure  con  l'ali: 

non  altrimenti  dal  tiburte  stuolo 

trionfante  Tarcon  porta  sua  preda. 

Dietro  del  duce  al  fortunato  esempio 


LIBRO    UNDECIMO  3^9 

fanno  impeto  i  Meònidi. 

Ed  Arrunte, 

segnato  dal  destin,  con  l'arco  e  l'arte 
primo  si  mette  a  circuir  Camilla, 
spiando  ove  offra  il  destro  la  fortuna. 
Dovunque  s'avanzò  quell'animosa, 
ecco  su  l'orme  sue  tacito  Arrunte; 
e  donde  quella  da  un  nemico  vinto 
retrocede,  ei  di  là  volge  la  briglia. 
Or  questo  accesso  tenta,  or  quell'accesso, 
e  tutto  intorno  esamina  guardingo, 
stretta  con  bramosia  l'asta  sicura. 

Clòreo  al  Cibalo  sacro,  e  sacerdote 

un  dì,  lungi  splendea  ne  l'armatura 

frigia  sopra  un  magnanimo  destriero 

copertato  d'un  vello  a  bronzee  squame 

foggiate  a  penne  e  co'  fermagli  d'oro. 

Di  forestiera  porpora  ferrigna 

esso  lustrante  dal  suo  licio  nervo 

iscoccava  gortinie  quadrella. 

D'oro  avea  l'arco  agli  omeri,  avea  d'oro 

il  vate  l'elmo,  e  in  fulvo  aureo  legame 

il  croceo  manto  raccoglieva  e  i  seni 

di  lin  fruscianti,  ricamato  tutto 

la  tunica  e  le  barbare  gambiere. 

Lui  la  fanciulla  cacciatrice,  o  a'  templi 

appendere  volesse  armi  troiane 

o  sé  stessa  vestir  d'oro  captivo, 

lui  seguitava  a  tutto  il  resto  cieca 

e  a  traverso  la  mischia  ardeva  incauta 


39^  ENEIDE 

d'un  femminile  amor  di  quelle  spogKe; 
quando,  l'istante  alfin  colto,  una  freccia 
scaglia  da  l'ombra  Arrunte  e  così  prega: 
«  Sommo  de'  Numi,  protettor  del  santo 
Soratte  Apollo,  che  adoriam  noi  primi, 
e  fiamme  al  rito  ti  ammucchiam  di  pino, 
e  in  mezzo  al  fuoco  fermi  ne  la  fede 
passiam  co'  pie  sul  letto  de  le  brage, 
deh!  concedimi,  padre  onnipotente, 
che  sperda  il  colpo  mio  questa  vergogna. 
Non  armi,  non  trofeo  de  la  cacciata 
vergine  io  chiedo  né  veruna  spoglia; 
onoreranno  me  gh  altri  miei  fatti  : 
per  me  si  cacci  e  cada  il  reo  flagello, 
e  ch'io  non  ne  abbia  gloria  al  mio  ritorno  ». 

L'ascoltò,  gh  annuì  parte  del  voto 
il  cuor  di  Febo,  e  parte  lo  disperse. 
Che  di  subita  morte  egH  prostrasse 
la  stornata  Camilla,  accolse  il  prego; 
che  l'alta  patria  reduce  il  vedesse, 
negò:  fu  preda  quella  voce  a'  venti. 
Come  dunque  die  suon  scagHata  l'asta 
per  l'aure,  il  pensier  vigile  e  gli  sguardi 
volsero  tutti  a  la  regina  i  Volsci. 
Né  d'aure  né  di  suon  né  sa  di  strale 
essa,  fino  che  a  voi  l'asta  giungendo 
la  cogUe  sotto  la  mammella  ignuda 
e  beve  addentro  del  virgineo  sangue. 
Corrono  trepidanti  le  compagne 
e  la  signora  sorreggon  cadente. 


LIBRO    UNDECIMO  39^ 

Fugge  atterrito  più  che  tutti  Arrunte 
tra  gioia  e  tema,  né  già  più  si  affida 
a  l'asta  o  contro  l'armi  di  Camilla. 
Quale,  prima  d'aver  la  caccia  dietro, 
subito  fuor  di  \ia  ripara  ai  monti, 
poi  che  il  pastore  uccise  o  un  bel  giovenco 
conscio  del  fatto  temerario,  il  lupo, 
e,  con  la  coda  sotto  paurosa 
lambendo  il  ventre,  toma  a  la  foresta; 
tal  si  tolse  confuso  dagU  sguardi 
Amante  e,  assai  contento  de  la  fuga, 
si  mescolò  tra  l'armi. 

Moribonda 

essa  l'asta  si  trae,  ma  fino  a  l'ossa 
nel  fianco  fìtta  s'è  la  ferrea  punta. 

Languisce  esangue,  rigide  di  morte 

languono  le  pupille,  e  da  le  gote 

il  roseo  svanì  color  d'un  giorno. 

Così  spirante  allor  si  volge  ad  Acca, 

la  coetanea  sua  più  fida,  addentro 

nel  pensier  di  Camilla,  e  sì  le  dice: 

«Son  durata  fìnquì.  Acca  sorella; 

or  la  ferita  acerba  mi  consuma 

e  tutto  intorno  mi  diventa  nero. 

Scampa,  e  questo  messaggio  ultimo  reca 

a  Turno:  mi  sottentri  a  la  battaglia 

e  i  Troiani  respinga  da  le  mura. 

E  addio  )). 

Tra  il  dir  le  briglie  abbandonava 
fluendo  a  terra  involontaria.  Allora 
fredda  e  languida  venne  a  poco  a  poco 


392  ENEIDE 

per  ogni  membro,  reclinò  il  morente 

capo,  l'armi  le  sfuggono,  e  la  vita 

con  un  sospir  fugge  sdegnosa  a,  l'ombre. 

Immenso  il  grido  fino  a  l'auree  stelle 
s'alza:  più  cruda,  or  che  Camilla  giace, 
si  fa  la  pugna:  accorron  densi  in  una 
ogni  nerbo  de'  Teucri  ed  i  Tirreni 
duci  e  d'  Evandro  gli  arcadi  squadroni. 

Ma  la  scolta  di  Trivia  Opi  da  tempo 

siede  su'  monti  e  senza  batter  ciglio 

guarda  le  pugne.  Come  lungi  vide 

tra  il  clamore  de'  giovani  pugnaci 

colpita  di  crudel  morte  Camilla, 

mise  un  sospiro  ed  esclamò  dal  cuore: 

«  Troppo,  fanciulla,  oh  troppo  hai  grave  pena 

de  l'ardimento  d'assalire  i  Teucri  ! 

Poco  ti  valse  che  solinga  in  selve 

adorasti  Diana  e  de  le  nostre 

faretre  armasti  gh  omeri.  Ma  pure 

inonorata  te  la  tua  regina 

non  lasciò .  su  la  morte,  e  un  tal  morire 

non  andrà  senza  gloria  per  il  mondo 

né  fama  patirai  d'invendicata. 

Chi  si  sia  che  ferì  la  tua  persona, 

darà  col  sangue  giusta  pena  ». 

Grande, 
sotto  alto  monte,  in  ammucchiata  terra 
di  re  Dercennio  era  il  sepolcro,  antico 
laurente,  a  l'ombra  d'elei  opache.  Quivi 


LIBRO    UNDECniO  393 

posò  la  dea  bellissima  d'un  balzo, 
alta  Arrunte  a  spiar.  Come  lo  vide 
festante  in  cuore  e  in  van  tumido,  <(  Oh,  grida, 
perché  altrove  ten  vai?  qui  vieni,  vieni 
qui  morituro,  che  t'aspetta  il  premio 
di  Camilla.  E  ancor  tu  mxorrai  del  dardo 
di  Diana  ?  » 

Così  disse,  e  da  l'aurea 
faretra  fuor  cavò  la  trace  un  dardo 
alato  e  irosa  l'incoccò,  traendo 
poi  l'arco  si  da  combaciar  curvati 
i  capi  e  toccar  essa  a  mani  pari 
la  punta  de  lo  strai  con  la  sinistra, 
con  la  destra  e  col  nervo  la  mammella. 
Udì  strider  la  freccia  e  fischiar  l'aure 
Arrunte,  e  insieme  gli  si  fìsse  il  telo. 
Lui  spirante  negli  ultimi  singulti 
incuriosi  lasciano  i  compagni 
sopra  l'ignota  polvere  de'  campi. 
Opi  rivolge  a  l'alto  Ohmpo  il  volo. 

Prima  a  fuggir,  perduta  la  signora, 

di  Camilla  è  la  heve  ala,  sgomenti 

fuggono  i  Rutuli,  insiem  l'aspro  Atina, 

e  dissipati  i  condottieri  e  soh 

i  manipoH  affrettano  al  sicuro 

e  a  la  città  rivoltano  i  cavalli. 

Né  alcun  regger  con  l'armi  o  fronteggiare 

i  Teucri  sa  prementi  e  minacciosi: 

ma  lenti  gH  archi  su  le  spalle  basse 

riportano,  e  di  corsa  batte  l'unghia 


394  ENEIDE 

de'  quadiTipedi  il  suol  che  trema  e  fuma. 

Un  vortice  sinistro  e  polveroso 

s'appressa  a  la  città:  su  le  vedette, 

il  petto  percotendosi,  le  donne 

levano  al  cielo  le  femminee  strida. 

Quelli  che  a  furia  per  le  porte  schiuse 

irrupper  primi,  gii  urge  a  tergo  mista 

l'onda  nemica,  e  non  scampano  a  morte 

misera:  là  sul  limitare,  dentro 

le  mura  patrie,  tra  le  fide  case 

son  colti  e  morti.  Altri  a  serrar  le  porte, 

né  osa  dar  la  via  ch'entrino  i  loro, 

suppHci,  e  nasce  miserevol  strage 

de'  divietanti  l'adito  con  l'armi 

e  de'  precipitanti  contro  l'armi. 

Innanzi  a'  lacrimosi  occhi  materni 

gli  esclusi,  parte  son  da  la  gran  ressa 

sospinti  e  ne'  precipiti  fossati, 

e  parte  fuor  di  sé  si  sbriglia  e  sprona 

a  cozzar  ne  le  porte  asserragliate. 

Esse  le  madri  a  l'ultimo  cimento 

(il  vero  amor  di  patria  insegna,  han  visto 

Camilla)  da  gli  spaldi  a  gittar  colpi 

si  affannano,  per  ferro  il  duro  legno 

usando  e  ceppi  acuminati  al  fuoco, 

e  si  offron  per  le  mura  a  morir  prime. 

Intanto  ne  le  selve  orribil  nuova 
investe  Turno,  dove  il  gran  conflitto 
Acca  gli  reca:  annichilati  i  Volsci, 
atterrata  Camilla,  soverchianti 


LIBRO    UNDECIMO  395 

i  nemici  e  per  tutto  col  furore 

di  Marte  imperversanti,  ed  essa  ornai 

la  città  minacciata.  Ei  furioso 

(e  così  vuol  di  Giove  il  nume  avverso) 

lascia  i  preoccupati  colli,  lascia 

le  diffìcili  selve.  Fuor  di  \àsta 

uscito  appena  procedea  nel  piano, 

allor  che  il  padre  Enea  pe'  varchi  aperti 

sale  l'altura  ed  attraversa  il  folto. 

Così  rapidi  entrambi  e  con  lor  nerbo 

tendono  a  la  città,  né  v'è  tra  loro 

lungo  intervallo.  Quando  Enea  scoperse 

pe*  campi  polverosi  andarsi  avanti 

l'oste  laurente,  insiem  Turno  conobbe 

il  fiero  Enea  seguirlo  e  il  calpestio 

udì  de'  fanti  e  il  fremer  de'  cavalH. 

Verrebbero  a  le  prese  incontanente, 

se  rosso  già  ne'  flutti  iberi  Febo 

non  immergesse  i  corridori  stanchi 

e  riportasse  dileguando  notte. 

Fanno  e  afforzano  il  campo  innanzi  a'  muri. 


LIBRO  DFXIMOSECONDO 


Turno  che  affranti  da  l'avversa  pugna 

ceder  vede  i  Latini,  e  sua  profferta 

ora  invocarsi  e  in  lui  fissi  gli  sguardi, 

implacato  più  ferve  e  baldanzoso. 

Qual  ne  le  sabbie  puniche  il  leone 

che  da  la  caccia  ebbe  ferito  il  petto 

ben  s'arma  allora  e  squassar  gode  i  groppi 

de  la  criniera,  la  confitta  freccia 

frange  e  ruggisce  con  bocca  cruenta; 

tale  la  \àolenza  in  Turno  bolle. 

Al  Re  si  volge  e  torbido  favella: 

«Turno  è  pronto:  non  v'è  ragion  che  il  patto 

disdicano  gli  Eneadi  codardi. 

I  riti  adempì  e  le  parole,  o  padre. 

O  manderò  quel  dardano  a  l' A  verno, 

fuggiasco  d'Asia,  con  la  mano  mia 

(seggano  a  lo  spettacolo  i  Latini), 

vindice  io  sol  de  la  comune  offesa  ; 

o  vinti  egli  ci  domini,  gli  vada 

sposa  Lavinia  )>. 


398  ENEIDE 

Placido  risponde 
a  lui  Latino  :  «  Giovin  d'alto  cuore, 
quanto  primeggi  tu  di  generoso 
valor,  con  tanta  più  premura  è  giusto 
ch'io  vegga  e  pesi  trepido  gli  eventi. 
Possiedi  il  regno  di  tuo  padre  Danno, 
prese  da  te  molte  città  possiedi, 
e  non  manca  a  Latino  oro  né  onore  : 
altre  fanciulle  v'  è  nel  Lazio  e  in  terra 
laurentina,  e  non  d'umile  radice. 
Lascia  ch'io  dica  non  piacevol  cosa 
senz'ombra  o  velo,  e  la  ricevi  in  cuore. 
Io  la  figHuola  non  dovea  sposare 
a  veruno  de'  vecchi  pretendenti, 
e  l'ammonivan  tutti  uomini  e  Dei. 
Per  amor  tuo,  per  il  congiunto  sangue, 
e  per  i  pianti  di  mia  donna  mesta, 
vinto  ruppi  ogni  vincolo,  la  sposa 
al  genero  ritolsi,  empie  armi  strinsi. 
Che  vicende  di  poi,  che  guerre,  o  Turno, 
mi  perseguano,  il  vedi,  e  che  travagli 
tu  per  primo  ne  soffra.  In  gran  battaglia 
vinti  due  volte,  ricovriamo  a  stento 
ne  la  città  le  italiche  speranze: 
tepido  ancor  del  nostro  sangue  scorre 
il  Tebro,  d'ossa  il  vasto  pian  biancheggia. 
A  che,  per  qual  follia  sì  mi  rimuto? 
S'io  son  disposto  a  farli  soci,  spento 
Turno,  che,  lui  incolume,  piuttosto 
non  levo  le  contese  ?  E  che  diranno 
i  consanguinei  Rutuli  e  l' Italia 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  399 

tutta,  se  a  morte  offerto  avrò  (Fortuna 
disperda  il  detto)  te  che  mi  chiedevi 
la  mia  figliuola  ?  A  le  vicende  guarda 
varie  di  guerra  :  abbi  pietà  del  padre 
vecchio;  cui  mesto  Àrdea  natia  lontano 
or  tien  da  te  ». 

Non  per  suo  dir  di  Turno 
la  violenza  piegasi,  ma  cresce 
e  a  medicarla  s'inasprisce.  Quando 
potè  prima  parlar,  così  proruppe: 
«  Lo  zelo  che  hai  per  me,  per  me  il  deponi, 
ottimo,  ti  scongiuro,  e  mù  consenti 
di  pattuire  per  l'onor  la  morte. 
Dardi  di  ferro,  o  padre,  avvento  anch'io 
non  fiacchi  e  spiccia  sangue  ov'io  colpisco. 
La  madre  accanto  ei  non  avrà,  che  avvolga 
di  femminea  nuvola  il  fuggente 
e  si  dilegui  non  veduta  insieme  ». 

Ma  la  Regina,  al  novo  rischio  scossa 
del  duello,  piangeva  ed  al  focoso 
genero  si  stringea  disposta  a  morte. 
«  Turno,  per  queste  lagrime,  pel  nome, 
se  ti  preme,  d'Amata  (or  la  speranza 
unica  tu,  de  la  vecchiezza  infausta 
sei  la  pace,  in  te  il  regno  e  di  Latino 
tutta  s'appoggia  sopra  te  la  casa), 
questo  ti  chiedo  :  lascia  d'azzuffarti 
co'  Teucri.  Oual  sia  caso  che  t'aspetti 
in  questa  lotta,  anche  me.  Turno,  aspetta: 
lascierò  insiem  quest'odiosa  luce. 


400  ENEIDE 

né  captiva  vedrò  genero  Enea  ». 
Accolse  le  parole  de  la  madre 
Lavinia  con  le  lagrime  sul  viso, 
e  un  gran  rossore  l'assalì  di  fuoco 
e  si  le  corse  per  le  guance  accese, 
come  quando  si  sparga  ostro  sanguigno 
su  l'indo  avorio,  o  misti  i  bianchi  gigli 
rosseggino  di  molte  rose  :  tali 
la  vergine  sul  volto  avea  colori. 
Lui  turba  amore,  e  la  riguarda  fiso; 
viepiù  s'infiamma  a  l'armi,  e  breve  dice 
ad  Amata  :  «  Non  far,  madre,  non  fare 
che  tal  di  pianto  m'accompagni  augurio, 
mentre  del  duro  Marte  esco  a  le  prove: 
né  in  arbitrio  è  di  Turno  indugiar  morte 
Idmone,  al  frigio  re  questo  messaggio 
reca  per  me,  che  gli  saprà  d'amaro  : 
Come  prima  l'aurora  di  domani 
su  le  purpuree  ruote  in  ciel  s'accenda, 
contro  i  Rutuli  già  non  mova  i  Teucri, 
posino  Teucri  e  Rutuli  senz'armi, 
col  nostro  sangue  decidiam  la  guerra, 
cerchisi  in  quel  terren  sposa  Lavinia  ». 

Detto  così,  ricorso  a  casa,  chiede 
i  suoi  cavalli  e  a  riguardarli  gode 
frementi:  essa  Oritìa  dielh  a  Pilumno 
per  suo  decoro,  tah  da  passare 
in  bianchezza  le  nevi,  al  corso  l'aure. 
Intorno  a  lor  s'adoprano  gU  aurighi: 
picchiano  i  petti  con  le  palme,  i  colli 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  4OI 

pettinano  chiomati.  Esso  di  poi 

d'oro  ruvida  agli  omeri  si  veste 

e  di  bianco  oricalco  una  lorica  : 

insiem  s'adatta  agevole  la  spada 

e  lo  scudo  e  il  cimier  da  le  vermiglie 

creste,  la  spada  che  avea  fatta  il  dio 

del  fuoco  a  Danno  genitore  e  rossa 

ne  l'acque  de  lo  Stige  avea  tuffata. 

Poi  la  forte  asta  che  a  la  casa  in  mezzo 

stava,  poggiata  ad  una  gran  colonna, 

spoglia  eh'  è  de  l'aurunco  Attore,  afferra 

e  la  palleggia  tremola  gridando  : 

«  Tu  che  sempre  rispondi  al  mio  chiamare, 

0  asta,  è  il  tempo  :  te  il  sommo  Attore,  ora 
te  la  destra  ha  di  Turno.  Or  fa'  ch'io  prostri 
l'imbelle  Frige,  con  la  man  possente 

gli  strappi  e  squarci  la  lorica,  e  lordi 
ne  la  polvere  il  suo  crine  arricciato 
col  caldo  ferro  e  madido  di  mirra  ». 
Così  s'agita  in  ira,  e  da  la  faccia 
sprizzan  scintille,  ne'  vivi  occhi  è  fuoco: 
come  vicino  ad  avventarsi  il  toro 
mette  muggiti  orribih  ed  arrota 
contro  il  tronco  d'un  albero  le  corna, 
dà  di  cozzo  nel  vento,  e  scalza  e  sparge, 
a  la  lotta  apprestandosi,  l'arena. 

Non  meno  intanto  fiero  a  la  battaglia 
Enea  ne  le  materne  armi  si  accende, 
lieto  che  un  patto  termini  la  guerra. 

1  compagni  rianima  e  il  pensoso 

Albinm  -  Eneide  s6 


402  ENEIDE 

cuore  di  Giulo,  rammentando  i  fati; 
poi  sua  ferma  risposta  a  re  Latino 
fa  che  si  rechi  e  de  l'accordo  i  modi. 

Appena  l'altro  dì  spargea  di  lume 
le  vette  a'  monti,  quando  su  dal  mare 
i  cavalli  del  Sol  nascono  e  luce 
soffiano  da  le  alzate  nari  :  il  campo 
sotto  la  gran  città  Rutuli  e  Teucri 
già  misuravano  al  duello,  e  in  mezzo 
ponean  bracieri  ed  agli  Dei  comuni 
altari  erbosi.  Acqua  fontana  e  fuoco 
portavano  altri,  cinti  di  grembiule 
e  coronati  di  verbena  il  capo. 
La  legione  degli  Ausonii  a  onde 
coi  pili  avanza  fuori  da  le  porte; 
indi  il  troiano  esercito  e  il  tirreno 
con  le  varie  armi  tuttoquanto  accorre, 
non  altrimenti  armati  che  al  chiamare 
aspro  di  Marte.  A'  mille  e  mille  in  mezzo 
passano  i  duci  d'oro  e  d'ostro  adorni, 
Mnèsteo  di  Assàraco  ed  il  forte  Asila 
e  di  cavalli  domator  Messapo 
nettunia  prole.  E  Qome  dato  il  segno 
a'  luoghi  suoi  ciascun  si  trasse,  a  terra 
piantano  l'aste  e  incHnano  gli  scudi. 
Le  donne  desiose  e  il  volgo  insieme 
escono,  i  vecchi  stanchi  a  torri  e  tetti 
s'addensano,  altri  a  sommo  de  le  porte. 

Ma  dal  monte  Giunon,  che  oggi  è  d'Albano, 
nome  allor  non  avea  né  feste  o  fama, 


LIBRO    DECI.MOSECON'DO  4O3 

lungi  davanti  a  sé  guardava  il  campo, 

de'  Laurenti  e  de'  Teucri  ambe  le  schiere, 

e  di  Latino  la  città.  D'un  tratto, 

diva  a  diva,  di  Turno  a  la  sorella 

disse  così,  preposta  a'  fonti  e  a'  fiumi 

sonanti  (le  die  questo  culto  il  sommo 

Giove  per  sua  verginità  rapita)  : 

«  Ninfa,  onore  de'  fiumi  ed  amor  mio, 

sai  com'  io  te,  tra  quante  mai  latine 

vennero  del  gran  Giove  al  letto  ingrato, 

dilessi  e  amica  in  ciel  posi  :  Giuturna, 

sappi  —  che  non  mi  accusi  —  il  tuo  dolore. 

Fin  che  il  sembrò  patire  la  Fortuna 

e  le  Parche  assentian  successi  al  Lazio, 

Turno  difesi  e  le  tue  mura  :  or  veggo 

il  giovine  affrontar  fati  ineguah, 

e  de  le  Parche  il  giorno  e  la  nemica 

forza  s'appressa.  Questa  pugna,  questo 

patto  io  mirar  non  so.  Tu  pe  '1  fratello 

se  cosa  utile  ardisci,  ecco,  è  l' istante. 

Forse  verrà  conforto  agi'  infelici  ». 

Disse  appena,  che  in  lagrime  rompendo 

tre  volte  e  quattro  si  percosse  il  petto 

bello  Giuturna.  E  la  saturnia  Giuno  : 

«  Tempo  non  è  di  pianto  :  affretta,  a  morte, 

se  modo  v'  è,  strappa  il  fratello,  o  guerre 

fa'  nascer  tu  contro  il  composto  patto. 

Consigliera  son  io  de  l'ardimento  jk 

Con  tal  consiglio  la  lasciò  perplessa, 

agitata  ne  l'animo  e  ferita. 


404  ENEIDE 

Intanto  i  re,  con  gran  pompa  Latino 
viene  su  carro  a  quattro,  e  reca  in  fronte 
dodici  raggi  luminosi  d'oro 
segno  de  Favo  Sole;  in  bianca  biga, 
due  ferrate  quadrella  in  man  recando, 
vien  Turno  :  il  padre  Enea  da  l'altra  parte, 
progenitor  de  la  romana  stirpe, 
per  lo  stellato  scudo  e  le  celesti 
armi  smagliante,  e  Ascanio  presso  lui, 
speme  seconda  de  l'augusta  Roma, 
avanzano  nel  campo.  In  veste  schietta 
il  sacerdote  addusse  il  parto  d'una 
ispida  scrofa  ed  un'intonsa  agnella 
e  li  fé'  presso  a  l'are  accese.  Quelli, 
rivolti  a  l'oriente,  il  salso  farro 
spargono  e  il  ciuffo  radono  a  le  fronti 
de  l'ostie  con  la  spada,  e  da  le  tazze 
liban  gli  altari. 

Quivi  così  giura, 
con  la  spada  impugnata,  il  padre  Enea  : 
«Sia  testimonio  a  la  mia  voce- il  Sole 
e  questa  terra  per  la  qual  potei 
sì  grandi  prove  tollerare,  e  il  Padre 
onnipotente  e  tu.  Saturnia  sposa 
(più  mite  alfìn,  più  mite,  o  Dea,  ti  prego), 
e  tu,  Mavorte  glorioso  padre, 
che  sotto  il  cenno  tuo  volgi  ogni  guerra; 
e  i  fonti  e  i  fiumi  invoco,  e  quante  sono 
religioni  nel  superno  cielo 
e  quanti  numi  nel  ceruleo  mare  : 
se  la  vittoria  mai  tocchi  a  l'ausonio 


LIBRO    DECIMOSECONDO  405 

Turno,  è  l'accordo  ritornare  i  vinti 

a  la  città  d'  Evandro,  e  Giulo  i  campi 

sgombrerà,  né  mai  più  ribelli  Eneadi 

con  l'armi  questi  regni  assaliranno. 

Ma  se  Vittoria  Marte  arrida  a  noi 

(che  meglio  credo  e  meglio  piaccia  a'  Numi), 

non  io  vorrò  che  sian  soggetti  a'  Teucri 

gì'  ItaH  né  per  me  domando  il  regno  : 

con  eque  leggi  le  due  genti  invitte 

vadan  di  eterno  vincolo  congiunte. 

Riti  e  dèi  darò  io:  l'armi  Latino 

suocero  regga,  il  suocero  Latino 

serbi  l'impero;  a  me  faranno  i  Teucri 

una  città,  sarà  Lavinia  il  nome  ». 

Così  per  primo  Enea.  Segue  Latino, 

con  gh  occhi  al  cielo,  con  la  destra  al  cielo: 

<(  Giuro  a  la  terra  al  mare  ed  a  le  stelle, 

o  Enea,  lo  stesso  giuramento,  e  a'  due 

latònii  figli  ed  al  bifronte  Giano 

e  a  la  divina  inferna  possa  e  al  cerchio 

del  duro  Dite  :  il  Genitor  lo  ascolti, 

che  i  patti  col  suo  fulmine  sancisce. 

Tocco  l'altare,  e  gl'interposti  fuochi 

e  i  Numi  attesto:  non  sarà  mai  giorno 

che  per  gl'Itali  rompa  questa  pace 

e  questo  patto,  qual  che  segua  evento, 

né  forza  alcuna  mi  farà  volere 

diverso,  no,  s'ella  confonda  in  uno 

la  terra  e  l'acque  ed  inabissi  il  cielo. 

Questo  scettro  cosi  —  ch'ei  lo  stringea  — 


406  ENEIDE 

mai  non  darà  con  vaga  fronda  fiori 
né  ombra,  poi  che  da  la  pianta  svelto 
ne  la  selva  una  volta  è  senza  madre 
e  fu  schiomato  sotto  la  bipenne  : 
albero  un  dì,  d'artefice  l'ingegno 
or  lo  legò  di  fulgido  metallo 
e  in  man  lo  pose  a'  principi  latini  ». 
Fermavano  con  tali  alterni  detti 
l'accordo  in  mezzo  de'  guerrieri  astanti  : 
poi  svenano  le  vittime  devote 
sul  fuoco  e  a  quelle  strappano  pur  vive 
i  visceri  e  ne  accumulano  l'are. 

Ma  già  da  prima  a'  Rutuli  era  parso 

quel  duello  inegual,  e  un  vario  moto 

turbava  i  cuori  allora  più  che  in  vista 

le  forze  differenti  ebber  vicine. 

Turno  a  ciò  conferisce  che  s'avanza 

muto  e  adora  l'aitar  con  gli  occhi  bassi, 

e  le  fiorite  guance  e  quel  pallore 

in  giovinezza.  Non  appena  vide 

la  sorella  Giuturna  a  farsi  spesso 

il  dir  e  i  sensi  fluttuar  del  volgo, 

tra  le  schiere  in  sembianza  di  Camerte 

(grandi  avi  avea,  fu  di  valor  famoso 

il  padre,  era  esso  acerrimo  guerriero), 

tra  le  schiere  s' insinua  sagace 

e  più  parlari  intreccia  e  così  dice  : 

((  Non  vergognate,  o  Rutuli,  per  tutti 

e  tali  di  arrischiar  sola  una  vita? 

Pari  non  siam  di  numero  e  di  forze  ? 


LIBRO    DECIMOSECONDO  4^7 

Ecco  i  Troiani  e  gli  Arcadi  qui  tutti, 

e  fatai  forza  a  Turno  ostil  l' Etruria  : 

ed  a  fatica  un  uom  di  fronte  avremo, 

se  un  sì  e  un  no  scendiamo  in  campo.  Quegli 

ai  Superi,  a  le  cui  are  si  vota, 

andrà  subKme  e  per  le  bocche  vivo; 

noi,  perduta  la  patria,  noi  per  forza 

a  padroni  superbi  obbediremo, 

che  ora  sedemmo  al  suolo  inerti  ».  Ai  detti 

più  e  più  arse  il  giovenil  pensiero, 

e  un  mormorio  serpeggia  per  le  file; 

cangiano  anche  i  Laurenti,  anche  i  Latini. 

Chi  già  sperò  da  Tarmi  esso  posare 

e  riuscir  le  cose,  or  Tanni  vuole, 

vuol  non  fatto  l'accordo,  e  per  iniqua 

la  vicenda  commisera  di  Turno. 

Aggiunge  altro  m.aggior  caso  Giutuma 
e  da  Talto  del  ciel  mostra  un  portento 
di  cui  nessuno  più  possente  mai 
turbò  T  itale  menti  e  le  confuse. 
Per  Taria  rossa  il  fulvo  uccel  di  Giove 
spaventando  i  pennuti  de  le  rive 
e  lo  stormo  sonoro  a  volo  andava; 
poi  subito  calatosi  su  Tacque 
tra  gli  artigh  rapì  mirabil  cigno. 
Sospesi  fur  gTitah  cuori;  e  tutti 
gli  alati  si  rivolgon  clamorosi 
da  la  fuga  (miracolo  a  vedere) 
e  d'ali  oscuran  Taria  e  via  per  Taria, 
stretta  la  nube,  incalzano  il  nemico 


408  ENEIDE 

che  alfin  vinto  a  la  forza  e  insiem  dal  peso 
mancò,  cader  lasciò  la  preda  al  fiume, 
e  tra  l'ultime  nuvole  disparve. 
AUor  d'un  grido  i  Rutuii  l'augurio 
salutano  e  preparano  le  mani, 
e  primo  dice  l'augure  Tolumnio: 
.  «  Ecco,  ecco  ciò  che  desiai  sì  spesso  ! 
Ricevo  e  riconosco  i  numi:  or  l'arme, 
duce  me,  duce  me,  stringete,  o  infausti, 
cui  malvagio  stranier  turba  di  guerra 
come  imbelli  pennuti  e  a  furia  guasta 
le  vostre  rive:  ei  fuggirà  levando 
via  per  l'ultimo  pelago  le  vele. 
Voi  concordi  stringetevi  a  battaglia, 
a  difendere  il  re  che  v'  è  rapito  ». 

Disse,  e  a'  nemici  ch'erano  di  fronte 
lanciò  correndo  innanzi  una  saetta 
che  solcò  l'aure  stridula  e  sicura. 
Levasi  a  questo  un  alto  grido,  e  tutte 
son  scompiglio  le  file  e  fiamma  i  cuori. 
Come  nove  bellissimi  fratelli 
stavan  contro,  che  a  l'arcade  Gilippo 
tutti  una  fida  die  donna  tirrena, 
di  questi  a  voi  quell'asta  uno  per  mezzo, 
splendido  di  persona  e  d'armatura, 
dove  a'  fianchi  la  fibbia  i  giunti  capi 
de  la  contesta  cintola  addentella, 
il  passa  e  abbatte  su  la  fulva  arena. 
Fiera  falange  e  di  dolor  trafitta 
balzan  ciechi  i  fratelli  e  con  le  spade 


LIBRO    DECniOSECOXDO  4O9 

e  con  le  lance  subito  brandite. 
Corron  lor  contro  le  laurenti  schiere, 
e  a  lor  volta  i  Troiani  e  gli  Agillini 
dilagano  e  le  pinte  arcadi  squadre  : 
uno  in  tutti  è  l'ardor  di  lotta  estrema. 
Travolser  Tare;  va  per  tutto  il  cielo 
fosca  bufera  di  saette,  il  ferro 
piove  e  scroscia:  crateri  e  focolari 
via  riportano;  fugge  esso  Latino 
co'  Numi  offesi  de  V  infranto  patto. 

Chi  carri  aggioga,  chi  si  lancia  in  groppa 
a'  destrieri,  e  son  pronti  a  spada  nuda. 
Messapo,  ardendo  di  turbar  l'accordo, 
sprona  il  cavallo  nel  tirreno  Auleste 
re  con  le  regie  insegne:  indietreggiando 
questi  giù  piomba  con  le  spalle  e  il  capo 
miseramente  tra  gli  altari  a  tergo. 
Fervido  vien  Messapo  e  con  la  trave 
de  l'asta  da  l'arcione  alto  tempesta 
lui  supplicante  e  grida  forte  :  «  Ei  l'ebbe. 
Miglior  vittima  è  questa  a'  grandi  Iddii  ». 
GÌ'  Itali  corrono  a  spogliarlo  caldo. 

Da  l'ara  un  tizzo  Corineo  brandisce 
e  ad  Èbuso  che  vien  col  colpo  in  aria 
dà  nel  viso  le  fiamme:  la  gran  barba 
gli  risplendette  e  sparse  sito  ardendo. 
Quegli  incalzante  con  la  man(;a  afferra 
il  turbato  nemico  pe'  capelH 
e  calcandolo  a  terra  col  ginocchio 


41 0  ENEIDE 

la  dura  spada  gli  configge  al  fianco. 

Podalirio  al  pastore  Also  che  armeggia 

in  prima  fila  attergasi  col  brando 

e  già  lo  stringe;  ma  rivolto  quegli 

con  l'azza  il  fende  da  la  fronte  al  mento, 

e  gl'inonda  di  sangue  l'armatura. 

Cade  l'ombra  su  quello  e  il  ferreo  sonno, 

si  chiudon  gli  occhi  ne  la  eterna  notte. 

Ma  il  pio  Enea,  stesa  la  destra  inerme, 

ignudo  il  capo,  a'  suoi  gridava  :  a  Dove, 

dove  correte?  qual  discordia  è  questa 

sì  repentina?  Deh  frenate  l'ira! 

Stretto  è  l'accordo  ed  ogni  legge  è  ferma: 

solo  diritto  di  battaglia  è  il  mio, 

e  lasciatelo  a  me  senza  paura: 

i  patti  sancirò  con  la  mia  mano; 

dovuto  a  me  già  per  il  rito  è  Turno  )\ 

Tra  queste  voci,  a  mezzo  le  parole, 

ecco  stridulo  a  voi  strale  lo  colse, 

non  si  sa  di  qua!  man  teso  e  avventato, 

qual  sì  gran  lode  a'  RutuH  recasse 

o  caso  o  dio:  fu  m.uta  l'alta  gloria, 

né  alcuno  si  vantò  di  Enea  ferito. 

Come  Turno  mirò  ritrarsi  Enea 

da  la  battaglia  e  i  principi  sgomenti, 

sfavilla  d'una  subita  speranza; 

chiede  i  cavalH,  l'arme  vuol,  d'un  salto 

è  già  sul  carro  con  in  man  le  briglie. 

Molti  guerrieri  volteggiando  uccide. 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  4^^ 

molti  trascina  moribondi;  intorno 

urta  le  schiere  e  trae  l'aste  a  fuggenti. 

Qual  balzando  talor  lungo  il  freddo  Ermo 

batte  lo  scudo  il  sanguinoso  Marte 

e  a  guerra  sfrena  i  fervidi  corsieri 

che  per  l'aperto  a  Zefiro  ed  a'  Noti 

volano  avanti  ;  a  l'alto  scalpitare 

rimbomba  fin  l'ultima  Tracia;  intomo 

corron  le  facce  ree  de  lo  Spavento, 

l'Ire  e  le  Insidie:  tal  per  mezzo  l'armi 

spinge  i  cavalU  di  sudor  fumanti 

Turno  passando  sui  caduti  a  furia; 

spruzza  la  rapid'unghia  atre  rugiade, 

e  il  sangue  e  il  fango  son  calpesti  insieme. 

Già  Stenelo,  già  Tàmiro,  già  Folo 

a  morte  die  ;  gli  ultimi  due  di  fronte, 

quello  lontan  ;  gì'  Imbràsidi  lontano 

entrambi,  Glauco  e  Lade,  che  allevati 

in  Licia  aveva  esso  Imbraso  e  fomiti 

d'armi  opportune  a  stringersi  alle  prese 

ed  a  sfidare  cavalcando  i  venti. 

Da  un  altro  canto  in  mezzo  a  la  battagha 

spingesi  Eumede,  chiara  prole  in  guerra 

de  l'antico  Dolone:  al  nome  l'avo 

ei  rinnovava,  al  cuore  e  al  braccio  il  padre, 

che  un  dì,  mosso  a  spiar  nel  campo  acheo, 

per  sua  mercede  osò  chiedere  il  carro 

del  Pehde  ;  il  Tidìde  altra  m.oneta 

gh  ripagò  per  simile  ardimento, 

e  ai  cavalU  d'Achille  ei  non  aspira. 

Come  lunge  il  mirò  Turno  nel  piano. 


412  ENEIDE 

bersagliatolo  pria  di  alato  dardo, 

ferma  la  biga,  giù  ne  balza,  piomba 

sul  caduto  morente  e,  un  pie  sul  collo, 

di  man  gli  strappa  il  brando  e  lampeggiante 

glie  lo  conficca  in  gola  e  pur  soggiunge: 

«  Ecco,  Troiano,  i  campi  e  quelF  Etruria 

che  cercasti  con  l'armi,  or  la  misura. 

Questi,  color  che  m'osano  assaltare, 

hanno  premi  ;  così  fondan  le  mura  ». 

Invia  compagni  a  lui  d'un  colpo  d'asta 

Asbìte,  Clòreo  e  Sibari  e  Darete 

e  Tersìloco  e,  giù  per  la  cervice 

del  traboccato  corridor,  Timete. 

E  come  quando  su  per  l'alto  Egeo 

sibila  il  soffio  de  l'edonio  Borea 

ed  accompagna  i  cavalloni  a  riva, 

fuggono  al  vento  i  nuvoli  del  cielo; 

così  cedono  a  Turno,  ovunque  è  volto, 

le  schiere  e  si  ripiegano  confuse  : 

lui  porta  la  sua  foga,  e  a  l'incontrano 

il  fiottante  cimier  vibrano  l'aure. 

Non  sopportò  quell'impeto  feroce 
Fègeo,  il  carro  affrontò,  piegò  di  forza 
con  la  man  destra  le  spumose  bocche 
de'  lanciati  corsieri.  Strascinato 
e  pendulo  dai  freni,  a  lo  scoperto 
fianco  la  larga  lancia  il  giunse  e,  rotto 
de  la  lorica  il  duplice  tessuto, 
gli  sfiora  la  persona  e  gusta  il  sangue. 
Pur  l'usbergo  opponendo  egli  e  rivolto 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  4I3 

a  rinimico  stava  e  in  sua  difesa 

tratto  la  spada  avea,  quando  la  ruota 

de  l'asse  rapidissimo  a  rovina 

giù  lo  distende,  e  Turno  secondando, 

ove  si  tocca  l'elmo  a  la  corazza, 

gli  spicca  il  capo  e  lascia  il  tronco  a  terra. 

Mentre  va  Turno  seminando  morti 
trionfante  così,  Mnèsteo  e  il  fedele 
Acate  e  Ascanio  insiem  dentro  a  la  tenda 
avean  condotto  sanguinante  Enea 
che  aiutava  l'un  pie  con  l'asta  lunga. 
Freme  e  s'ingegna  di  strappar  la  punta 
del  rotto  strale  e  la  più  pronta  chiede 
via  di  rimedio  :  squarcino  la  piaga, 
scoprano  i  ripostigli  de  la  freccia 
profondamente,  e  il  rendano  a  la  guerra. 
Già  l'assisteva  il  prediletto  a  Febo 
làpige  iàside,  cui  volle 
spontaneo  un  dì  per  molto  amore  Apollo 
donar  suoi  privilegi,  il  vaticinio 
e  la  cetra  e  le  celeri  saette: 
esso  per  differir  l'ora  del  padre 
agonizzante  preferì  sapere 
de  l'erbe  la  virtù,  l'arte  salubre, 
e  senza  gloria  usar  muta  scienza. 
Stava,  poggiato  a  la  grande  asta,  tutto 
fremente  Enea  tra  il  premere  de'  prodi 
e  del  piangente  Giulo,  invitto  al  pianto. 
Il  vecchio,  al  modo  di  Peone,  cinto 
di  attorta  veste,  con  l'esperta  mano 


414  ENEIDE 

e  con  quelle  efficaci  erbe  febee 

invan  si  affanna  e  con  la  destra  preme 

lo  strale  e  il  prende  con  tenace  morsa. 

Non  dà  via  la  fortuna,  non  soccorre 

Apollo  di  consiglio.  E  viepiù  cresce 

il  fiero  orror  nel  campo  e  stringe  il  danno. 

Già  tutto  è  il  cielo  un  polveroso  nembo, 

i  cavalli  s'accostano,  è  una  pioggia 

fitta  di  dardi  ne  l'accampamento. 

Sinistro  sale  grido  di  pugnanti, 

di  soggiacenti  a  l'implacato  Marte. 

Venere  allor,  dal  duolo  indegno  mossa 

del  figlio  suo,  maternamente  coglie 

da  r  Ida  in  Creta  un  dittamo,  chiomato 

di  pregne  foglie  e  porporino  fiore; 

cognito  stelo  a  le  silvestri  capre, 

cui  siensi  fitti  al  fianco  agili  strali. 

Questo,  velata  d'una  opaca  nube. 

Venere  giù  portò;  di  questo  intride, 

nascosa  medicandole,  le  linfe 

entro  le  conche  lucide,  e  salubre 

mesce  ambrosia  e  odorosa  panacea. 

Lenì  l'annoso  lapige  con  questi 

succhi  senza  saper  la  piaga,  ed  ecco 

ogni  dolore  abbandonò  le  membra 

e  l'ima  fonte  si  stagnò  del  sangue; 

senza  fatica  omai  dietro  la  mano 

cade  la  freccia  e  tornano  le  forze. 

«  Dategh  l'arme,  orsù  !  perché  tardate  ?  )) 

grida  lapige  e  gh  animi  raccende 

primo  contro  al  nemico.  «  Non  vien  questo 


LIBRO    DECIMOSECONDO  4I5 

da  forza  umana  o-  umano  magistero, 
né  te  risana.  Enea,  la  destra  mia: 
maggior  dio  ti  ridona  a  maggiore  opra  ». 
Esso  avido  di  pugna  aveasi  stretti 
gli  aurei  schinieri  e  già  \àbrava  l'asta. 
Lo  scudo  al  petto  e  la  lorica  indosso, 
con  tuttequante  l'armi  abbraccia  Ascanio 
e  per  l'elmo  sfiorandolo  d'un  bacio 
dice  :  <'-  Apprendi  da  me,  figlio,  il  valore 
e  il  vero  ardir,  dagli  altri  la  fortuna. 
Or  la  mia  destra  ti  farà  difeso 
e  ti  addurrà  tra  fulgide  conquiste; 
ma  come  prima  sian  maturi  gli  anni 
tu  gli  esempi  rammentati  de'  tuoi  ; 
Enea  tuo  padre,  Ettore  zio  ti  sproni». 

Detto  ch'egli  ebbe,  da  le  porte  usciva 
grande,  scotendo  un'asta  enorme  in  mano: 
in  densa  schiera  insiem  e  Anteo  e  Mnèsteo 
prorompono  e  la  turba  tutta  fuori 
dal  vallo:  abbuia  polveroso  il  campo 
e  al  fitto  calpestio  la  terra  trema. 
Vide  i  vegnenti  da  un  opposto  balzo 
Turno,  h  vider  gì'  Itah  ed  un  freddo 
brivido  a  lor  per  le  midolla  corse. 
La  prima  fra'  Latini  udì,  conobbe 
Giuturna  il  suono  e  rifuggì  smarrita. 
Egli  vola  e  con  lui  quel  nero  globo. 
Quale  il  nembo  talor  squarciando  il  cielo 
va  per  il  mare  (oh  che  i  presaghi  cuori 
lunge  ne  inorridiscon  dei  coloni! 


4l6  ENEIDE 

esterminio  sarà  d'alberi  e  solchi, 

gran  rovina  ogn'  intorno)  ;  avanti  volano 

i  venti  e  l'urlo  portano  a  le  rive: 

tale  il  duce  reteo  contro  i  nemici 

preme  sua  schiera,  e  tutti  a  cunei  folti 

s'agglomerano.  Al  grave  Osiri  cala 

un  fendente  Timbreo,  Mnèsteo  ad  Archètio, 

Acate  ad  Epulon,  a  Utente  Già; 

anch'esso  cade  l'augure  Tolumnio 

che  saettato  avea  primo  i  nemici. 

Va  il  grido  al  ciel,  e  a  la  lor  volta  volti 

danno  i  Rutuli  i  dorsi  polverosi. 

Esso  non  degna  di  atterrar  fuggenti 

e  né  pur  bada  a  chi  fermo  l'affronti 

in  armi:  solo  per  quell'aria  fosca 

di  Turno  indaga,  sfida  Turno  solo. 

Tocca  di  questa  tema  il  cuor,  Giuturna 

violenta  urta  tra  le  briglie  a  terra 

Metisco,  il  guidator  di  Turno,  e  lungi 

caduto  il  lascia  dal  timon:  sottentra 

essa  e  le  ondanti  redini  governa, 

tutta  Metisco,  al  grido  a'  membri  a  l'arme. 

Come  una  bruna  rondine  volando 

va  d'un  ricco  signor  per  l'ampia  casa 

e  l'alte  volte,  in  busca  d'alimento 

esiguo  e  grato  al  susurrante  nido, 

ed  or  pe'  vuoti  portici  ed  or  presso 

fruscia  a'  freschi  laghetti  ;  in  simil  guisa 

erra  per  mezzo  l'oste  coi  cavalli 

Giuturna  e  spinge  l'agii  carro  in  volta, 

or  qua  or  là  mostrando  il  suo  fratello 


LIBRO    DECI.MOSECOXDO  4^7 

trionfale,  ma  ch'ei  venga  a  le  prese 
non  soffre  e  fuor  di  mano  si  dilunga. 
Non  meno  Enea  per  incontrarlo  segna 
obliqui  giri  e  pur  l'esplora  e  a  grande 
voce  per  i  turbati  ordini  il  chiama. 
Quante  volte  ficcò  lo  sguardo  in  lui 
e  s'avventò  correndo  a  la  sua  biga, 
tante  Giuturna  la  ritorse  via. 

Oh  che  dee  far?  inutilmente  ondeggia 
e  da  pensier  diversi  è  combattuto. 
A  lui  Messapo,  che  scorrendo  Heve 
due  si  trovava  aver  ne  la  mancina 
pronti  lanciotti  con  in  punta  il  ferro, 
uno  ne  indrizza  con  sicuro  impulso. 
Ristette  Enea  raccoltosi  ne  l'armi 
in  sul  ginocchio;  pur  gU  rase  l'asta 
l'alto  cimiero  e  ne  portò  le  piume. 
AUor  l'ira  soverchia,  e  a  tali  insidie. 
come  s'avvide  che  cavalh  e  carro 
sempre  sfuggian,  chiamando  in  testimonio 
Giove  e  l'aitar  del  violato  patto, 
balza  a  la  fine  in  mezzo  e,  Marte  amico, 
senza  divario  mena  orrenda  strage 
e  abbandona  le  redini  al  furore. 

Qual  dio  mi  direbbe  ora  i  tanti  orrori, 
quale  ne'  versi  la  sanguigna  guerra 
e  de'  prodi  il  cader,  che  in  tutto  il  campo 
sparge  Turno  a  vicenda  e  il  teucro  eroe? 
Stringer  ti  piacque,  o  Giove,  a  simil  cozzo 
due  genti  nate  a  una  concordia  etema? 

Albini  -  Eneide.  *7 


4lS  ENEIDE 

Al  rutulo  Sucrone  (e  questo  incontro 
valse  a  fermare  i  trasvolanti  Teucri) 
che  fé*  breve  difesa  Enea  colpisce 
il  fianco  e  per  le  costole  del  petto, 
presta  di  morte  via,  passa  la  spada,. 
Turno,  a  pie  fronteggiandoli,  ferisce 
gettato  da  cavallo  Amico  e  il  suo 
fratel  Diore,  l'uno  con  la  lunga 
lancia  al  venir  e  l'altro  d'un  fendente: 
le  due  recise  teste  al  carro  appende 
e  se  le  porta  che  piovevan  sangue. 
Quegli,  tre  in  uno  scontro,  a  morte  invia 
Talone  e  Tànai  e  il  valido  Cetego, 
e  il  mesto  Onìte  poi,  nome  echionio, 
che  partorito  fu  da  Peridìa; 
questi,  fratelli  che  venian  di  Licia 
dagli  apoUinei  campi,  e  il  giovinetto 
invan  di  guerra  odiator  Menete 
arcade,  che  avea  l'arte  lungo  i  rami 
de  la  pescosa  Lerna  ed  umil  tetto 
né  conosceva  lo  splendor  de*  grandi  ; 
seminava  suo  padre  in  solchi  altrui. 
Come  fuochi  scagliati  da  diverse 
parti  tra  secca  selva  o  crepitante 
fronda  di  lauro,  o  giù  da  le  montagne 
spumeggianti  torrenti  ruinosi 
romoreggiano  e  corrono  nel  mare, 
menando  strage  ognun  per  la  sua  china  ; 
Enea  non  altrimenti  e  Turno  entrambi 
danno  per  mezzo:  or  ben  dentro  ribolle 


LIBRO    DECIMOSECONDO  419 

Tira  e  ne  scoppian  gl'indomati  cuori, 
ora  si  fa  di  tutta  forza  strage. 

Quegli  a  Murrano,  che  vantava  gli  a\d 

e  de'  padri  gli  antichi  nomi  e  il  sangue 

tutto  disceso  per  i  re  latini, 

con  la  massiccia  frombola  d'un  sasso 

sbatte  le  tempie  al  suol  :  tra  i  freni  e  il  giogo 

l'urtan  le  rote  e  lo  calpesta  il  fitto 

scalpito  degl'immemori  cavalli. 

Questi  a  Ilio  che  infuria  e  tutto  freme 

si  fa  contro  e  gì'  indrizza  a  la  dorata 

fronte  la  lancia  che  a  traverso  l'elmo 

gh  stiè  fissa  al  cervel.  Né  te  la  tua 

destra,  o  Crèteo  fortissimo  de'  Greci, 

sottrasse  a  Turno,  né  al  venir  d'Enea 

i  numi  suoi  protessero  Capcneo  : 

offerse  il  petto  al  colpo  e  non  gli  valse 

l'impedimento  del  ferrato  usbergo. 

Te  pur  mirarono  i  laurenti  campi, 

o  Eolo,  cader,  steso  per  molto 

spazio  la  schiena  :  cadi,  e  non  potuto 

avean  prostrarti  le  falangi  argive 

né  di  re  Priamo  distruttore  Achilie  : 

quivi  per  te  la  meta  era  di  morte; 

sotto  r  Ida  la  gran  casa,  a  Lirneso 

la  gran  casa,  in  laurente  suol  la  tomba. 

Tuttequante  impegnate  eran  le  schiere  : 

Latini  e  Teucri,  Mnesteo  e  il  fier  Seresto 

e  di  cavalli  domator  Messapo 


420  ENEIDE 

e  il  forte  Asila  e  la  falange  etrusca 
e  Tarcadi  d'Evandro  squadre,  tutti 
s'adoprano  ciascun  di  tutta  lena  : 
senza  posa  o  respiro  è  l'ampia  lotta. 

Qui  la  madre  bellissima  ad  Enea 
mandò  pensier  d'ire  a  le  mura  e  stretto 
volger  lo  sforzo  a  la  città  turbando 
col  subito  pericolo  i  Latini. 
Ei,  come  intorno  gli  occhi  ebbe  girati- 
investigando  per  le  file  Turno, 
la  città  mira  fuor  de  l'onde  ancora 
di  tal  tempesta  e  senza  danno  cheta. 
Arde  al  fantasma  di  maggior  battaglia: 
Mnesteo  e  Sergesto  chiama  ed  il  gagliardo 
Seresto  duci  e  prende  un  balzo,  al  quale 
l'altra  de'  Teucri  legion  concorre 
densa  non  deponendo  usberghi  ed  aimi. 
Sale  nel  mezzo  su  l'altura  e  dice: 
«  Non  indugiate  al  cenno  mio,  sta  Giove 
con  noi,  né  alcun  per  l'opera  improvvisa 
mi  si  allenti.  Oggi  la  città  cagione 
de  la  guerra,  oggi  il  regno  di  Latino, 
se  non  si  porgan  docili  a  obbedire 
vinti,  distruggerò,  fumanti  al  suolo 
adeguerò  le  torri.  Ah  certo,  io  devo 
aspettar  fin  che  a  Turno  piaccia  starmi 
di  fronte  e  vinto  rinnovar  gii  assalti! 
Qui,  cittadini,  il  fonte  e  qui  la  foce 
de  l'empia  guerra:  su,  mano  a  le  faci! 
rivendicate  con  le  fiamme  il  patto  ». 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  .  42I 

Avea  detto,  e  già  tutti  àlacri  fanno 

cuneo  e  ruinan  densa  massa  a'  muri. 

Improvvise  appariscono  le  scale 

e  guizza  il  fuoco.  Corrono  a  le  porte 

alcuni  e  uccidon  chi  rincontran  prima, 

saettano  altri  e  l'aria  ombran  di  dardi. 

Esso  tra'  primi  Enea  leva  a  le  mura 

la  destra  e  accusa  a  gran  voce  Latino, 

e  protesta  agli  Dei  che  un'altra  volta 

è  sforzato  a  le  pugne,  e  già  due  volte 

gli  son  nemici  gì'  ItaH,  e  il  secondo 

patto  questo  è  che  infrangesi.  Discordia 

nasce  fra'  trepidanti  cittadini: 

si  schiuda  la  città,  s'apran  le  porte 

a'  Dardani,  alcun  vuole,  ed  il  Re  stesso 

traggono  su  gli  spaldi;  altri  con  l'armi 

s'affrettano  a  difesa  de  le  mura: 

come  se  in  perforato  sasso  spia 

l'api  il  pastore  e  il  sasso  empie  di  fumo 

spiacente,  quelle  trepide  e  smarrite 

scorrono  per  i  campi  de  la  cera 

e  con  alti  stridori  attizzan  l'ire; 

l'acre  odor  va  per  casa,  entro  un  susurro 

cieco  ronza,  vapora  il  fumo  in  aria. 

Giunge  ai  lassi  Latini  altra  sventura 
che  tutta  la  città  scosse  di  pianto. 
La  Regina,  vedendo  da  la  reggia 
il  nemico  venir,  le  mura  invase, 
volar  le  faci  a'  tetti,  e  nessun  contro 
rutulo  nerbo  né  squadron  di  Turno, 


422  ENEIDE 

misera  pensa  ne  la  prova  spento 
il  giovine,  e  in  dolor  sùbito  grida 
sé  causa  e  colpa  e  capo  d'ogni  male  : 
folle  tra  le  parole  disperate 
via  per  morir  si  strappa  le  purpuree 
vesti  e  da  l'alto  de  le  travi  un  nodo 
intreccia  a  sé  di  sfigurata  morte. 
Come  risepper  quest'orror  le  infauste 
Latine,  prima  di  sua  man  la  figlia 
Lavinia  lacerandosi  i  fioriti 
capelli  e  le  rosate  guance,  poi 
l'altre  a  l'intorno  smaniano  di  duolo: 
tutta  è  la  casa  un  luttuoso  strido. 
E  riempie  le  vie  l'annunzio  triste. 
Cadono  i  cuori.  Con  squarciate  vesti 
Latino  va,  dal  fin  de  la  sua  donna, 
dal  rovinar  di  sua  città  stordito, 
e  si  cosparge  di  lurida  polve 
la  canizie  e  s'accusa  senza  fine 
che  non  accolse  prima  il  teucro  Enea 
né  spontaneo  a  genero  lo  strinse. 

Turno  pugnace  intanto  ne  l'estrema 

pianura  segue  i  rari  dissipati 

con  minor  foga,  e  rispondente  meno 

sente  via  via  l'ardor  de'  suoi  cavalli. 

Ecco  che  l'aura  gli  recò  quel  grido 

d'arcano  duol  ;  ferì  le  tese  orecchie 

un  indistinto  murmurc  sinistro. 

((  Ahimé  !  qual  sì  gran  lutto  empie  le  mura  ? 


LIBRO    DECIMOSECONDO  423 

qual  crudele  clamor  da  tutta  viene 
la  città  ?  » 

Così  dice  e  trae  le  briglie 
fuor  di  sé  soffermandosi.  Risponde 
pronta,  qual'era  di  Metisco  auriga 
in  figura  a  guidar  carro  e  cavalli, 
la  sorella  così  :  «  Per  qua  seguiamo. 
Turno,  i  Troiani,  ove  la  prima  si  offre 
via  di  vittoria  :  altri  vi  son  guerrieri 
che  bastano  a  difendere  le  case. 
GÌ'  Itali  stringe  ne  la  mischia  Enea  ; 
ed  infliggiamo  noi  con  fiero  braccio 
morti  a'  Teucri.  Uscirai  da  la  battaglia 
non  minore  di  vittime  e  di  vanto  >\ 
Ma  Turno  allora: 

((O  sorella,....  e  ben  prima  io  ti  conobbi 
quando  turbasti  con  ingegno  il  patto 
e  qui  venisti  ne  la  guerra,  ed  ora 
invan  dea  mi  ti  celi.  Ma  chi  volle 
che  scendessi  d'Olimpo  a  tal  travaglio? 
forse  a  mirar  del  misero  fratello 
la  fine  acerba  ? . . . .  Oh  che  far  debbo  ?  e  quale 
fortuna  omai  promette  scampo?  Io  vidi, 
vidi  sotto  a'  miei  occhi  e  me  chiamando 
Murrano,  onde  più  caro  un  non  mi  resta, 
grande  cadere  d'una  gran  ferita. 
Cadde  Ufente  infelice,  a  non  vedere 
il  nostro  scorno;  e  son  padroni  i  Teucri 
del  suo  corpo  e  de  l'armi.  Ora  ch'io  lasci 
distruggere  le  case  (questo  estremo 


424  ENEIDE 

mancava  sol)  senza  mostrar  mia  destra 
Drance  bugiardo?  volterò  le  spalle 
e  vedrà  questo  suol  Turno  fuggire? 
Fino  a  tal  segno  è  morte  una  sventura? 
Deh!  ombre,  a  me  siate  benigne  voi, 
poi  che  la  vogHa  de'  Celesti  è  avversa. 
Altera  anima  e  schietta  di  tal  macchia 
a  voi  discenderò,  de'  grandi  padri 


mai  non  indegno 


b' 


)). 


Aveva  detto  appena, 
ed  ecco  a  voi  di  tra  i  nemici  Sace, 
sul  cavallo  spumante  ecco  a  voi  Sace, 
ferito  in  faccia  di  saetta,  e  cade. 
Turno  a  nome  implorando  :  «  La  salvezza 
ultima,  o  Turno,  è  in  te;  pietà  de'  tuoi. 
Fulmina  in  armi  Enea,  radere  al  suolo 
l'alte  rocche  degl' Itah  minaccia; 
a'  tetti  già  volan  le  faci.  Gli  occhi 
hanno  i  Latini  a  cercar  te;  lo  stesso 
re  Latino  vacilla,  quali  accolga 
generi,  a  qual  patto  si  pieghi.  Inoltre 
la  regina,  la  tua  sempre  fedele, 
di  sua  mano  finì  fuggendo  il  sole 
disperata.  Messapo  e  il  fiero  Atina 
unici  reggon  su  le  porte  l'urto. 
Dense  intorno  di  lor  sono  falangi, 
irta  messe  di  ferree  ignude  punte. 
E  tu  volteggi  per  solingo  piano  ?  » 

Stette  al  fantasma  di  vicende  tante 
in  muta  fissità  Turno  confuso. 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  425 

Gli  ferve  in  cuore  alto  rimorso  e  insieme 
frenesia  dolorosa  e  furioso 
amore  e  consapevole  prodezza. 
Come  diradò  l'ombra  e  al  suo  pensiero 
luce  fu  resa,  a  la  città  le  ardenti 
ruote  degli  occhi  volge  torvo,  ed  alto 
riguardò  da  la  biga  a  la  gran  cerchia. 
Ecco  saliva  un  vortice  di  fiamme 
di  palco  in  palco  e  ravvolgea  la  torre, 
la  torre  ch'esso  di  compatte  travi 
aveva  eretta,  con  le  ruote  sotto 
e  gli  alti  ponti  su.  «  Vincono  i  fati, 
sorella,  omai:  cessa  di  opporti;  andiamo 
dove  il  dio  chiama  e  la  fortuna  dura. 
Vo'  pugnar  con  Enea,  patir  vo'  in  morte 
quanto  è  d'acerbo:  indegno  più,  germxana, 
non  mi  vedrai.  Deh!  lasciami,  ti  prego, 
infuriar  de  l'ultimo  furore  ». 

Disse  e  dal  carro  die  ne'  campi  un  salto, 

e  via  per  i  nemici  e  via  per  l'armi, 

desolata  lasciando  la  sorella 

e  rompendo  le  file  impetuoso. 

E  come  allor  che  da  un'alpestre  vetta 

spicco  per  vento  un  sasso  si  ruina, 

cui  penetrato  avean  le  torbe  piove 

o  sotto  sotto  la  vecchiezza  roso, 

a  precipizio  va  la  falda  enorme 

ed  urtata  sobbalza  per  la  china 

alberi  e  armenti  e  uomini  traendo; 

Turno  così  tra  le  sgomente  schiere 


426  ENEIDE 

si  difìla  a  le  mura,  ove  più  sangue 

inonda  e  più  stridon  di  strali  l'aure, 

e  con  man  cenna  ed  a  gran  voce  ingiunge: 

(c  Fermi,  Rutuli,  olà  ;  frenate  l'armi, 

Latini.  Sia  qualunque  la  fortuna, 

è  mia.  Meglio  è  che  per  voi  tutti  io  solo 

il  patto  ammendi  e  termini  la  guerra  )>. 

Uscì  di  mezzo  ognuno  e  fecer  luogo. 

Ma  il  padre  Enea,  di  Turno  il  nome  udito, 

lascia  le  mura  e  lascia  l'alta  rocca, 

rompe  ogn'indugio,  ogni  opera  interrompe 

trionfante,  ed  in  armi  orrendo  suona  : 

sì  grande  l'Ato,  1'  Enee  sì  grande, 

esso  il  padre  Apennin  sì  grande  freme 

de  l'agitate  roveri  e  superbo 

co'  vertici  nevosi  al  ciel  si  leva. 

Or  bene  a  prova  Rutuli  e  Troiani 

e  tutti  volser  gì'  Itali  lo  sguardo 

e  quei  che  in  alto  difendean  le  mura 

e  quei  che  percotevanle  da  l'imo, 

e  deposero  l'armi.  Esso  Latino 

si  affisa  in  que'  due  grandi  che,  in  lontane 

parti  del  mondo  nati,  or  sono  a  fronte 

a  definir  col  ferro. 

Essi,  sgombrato 
che  fu  loro  il  terren,  presti  avanzando, 
avventate  di  lungi  l'aste,  a  l'urto 
vengono  con  fragor  de'  ferrei  scudi. 
Mette  la  terra  un  gemito,  e  già  spesse 
piovono  le  percosse  de  le  spade  : 


LIBRO    DECIMOSKCOMX)  427 

la  fortuna  e  il  valor  son  misti  in  uno. 

E  come  quando  ne  la  vasta  Sila 

o  in  vetta  del  Taburno  a  fronti  basse 

corrono  al  cozzo  orribile  due  tori  ; 

pavidi  si  ritraggono  i  custodi  ; 

tutta  la  mandra  sta  muta  di  tema, 

e  dubbian  le  giovenche,  quale  il  sire 

sarà  de'  paschi  e  il  duce  de  l'armento; 

quelli  tra  lor  feriscon  di  gran  forza, 

puntan,  piantan  le  corna  e  di  copioso 

sangue  i  colli  si  lavano  e  le  spalle  ; 

tutta  gemendo  la  foresta  echeggia  : 

non  altrimenti  il  teucro  e  il  daunio  eroe 

urtan  gli  usberghi  e  tutto  rombi  è  il  cielo. 

Giove  stesso  solleva  una  bilancia 
hbrata  e  il  fato  di  que'  due  vi  pesa, 
qual  condanni  la  lotta  ed  in  qual  parte 
traboccar  faccia  morte. 

Ecco  fidente 
balza  Turno  e  di  tutta  la  persona 
levasi  eretto  con  la  spada  in  alto 
e  ferisce  :  urlano  i  Troiani  e  trepidi 
i  Latini  :  sospesi  sono  i  cuori 
ne'  due  campi.  Ma  perfida  la  spada 
s'infrange  e  lascia  a  mezzo  colpo  il  prode, 
se  col  fuggir  non  s'aiutasse.  Fugge 
più  rapido  del  vento  appena  vide 
un'elsa  ignota  e  il  braccio  disarmato. 
È  fama  che  precipitoso,  al  primo 
salir  la  biga  pronta  a  la  battaglia, 


428  ENEIDE 

egli  lasciando  la  paterna  spada 

tra  tanta  furia  die  di  piglio  a  quella 

de  l'auriga  Metisco,  e  lungamente 

gli  bastò,  fin  che  davano  i  Troiani 

frettolose  le  spalle,  ma  poi  quando 

s'avvenne  a  le  vulcanie  armi  divine, 

il  mortai  brando  come  ghiaccio  frale 

si  ruppe,  e  ne  riluccican  le  schegge 

sul  fulvo  suol.  Dunque  folle  fuggendo 

si  volge  Turno  via,  malcerti  e  obliqui 

giri  intrecciando,  che  il  chiudeano  i  Teucri 

intorno  intorno  di  corona  densa, 

e  da  una  parte  vasta  la  palude, 

lo  serrano  da  l'altra  alte  le  mura. 

Non  meno  Enea,  benché  spesso  il  ginocchio 

dal  dardo  offeso  mal  risponde  al  corso, 

persegue  il  trepidante  ed  animoso 

gì' incalza  il  pie  col  pie.  Così  talora 

il  cane  cacciator  a  un  cervo  chiuso 

dal  fiume  e  cinto  da  lo  spauracchio 

di  rosse  penne  dà  dietro  abbaiando; 

e  quello  tra  le  insidie  e  l'alta  riva 

trepido  in  mille  vie  fugge  e  rifugge; 

ma  preme  il  vivace  umbro  a  bocca  aperta 

e  omai  l'addenta  e  come  già  lo  addenti 

fa  sonar  la  mascella  e  il  morso  è  vano. 

S'alza  allora  un  clamor  :  il  greto  e  il  fiume 
echeggiano  d'intorno  e  tutta  l'aria 
ne  rumoreggia.  Quegli  tra  la  fuga 
tutti  stimola  i  Rutuli  chiamando 


LIBRO    DECIMOSECOXDO  429 

a  nome  ognuno  e  chiede  la  sua  spada. 
Enea  per  contro  immediata  morte 
promette  a  chi  s'accosti  e  i  già  tementi, 
de  la  città  giurando  lo  sterminio, 
atterrisce  e  ancorché  ferito  incalza. 
Cinque  giri  misurano  .correndo 
e  tanti  ne  ritessono  in  contrario, 
che  non  è  lieve  né  da  gioco  il  premio 
ma  del  viver  di  Turno  è  la  tenzone. 

5gcro  a  Fauno  fu  quivi  un  olivastro 

d'amara  foglia,  venerabil  tronco 

a'  marinari  un  dì  che  aveano  in  uso 

dal  mar  campati  appendervi  le  offerte 

al  dio  laurente  e  le  votate  vesti; 

ma  il  fusto  sacro  avean  levato  i  Teucri 

indifferenti,  per  far  netto  il  campo 

agli  assalti.  Colà  stava  d'  Enea, 

venuta  a  conficcarsi  impetuosa, 

l'asta  e  s'abbarbicava  a  le  radici. 

Si  curvò,  con  la  man  volle  spiccarla 

il  dardanide  e  coglier  con  la  lancia 

quello  cui  non  potea  giungere  a  corsa. 

Allora  Turno  a  lo  sgomento  in  preda 

«  Deh  pietà,  grida.  Fauno  I  e  tu  tien  forte, 

ottima  Terra,  il  ferro,  s'io  fui  sempre 

devoto  a'  vostri  onori,  che  al  contrario 

gli  Eneadi  di  guerra  han  profanati  ». 

Disse,  e  non  invocò  l'aiuto  indarno 

del  dio,  che  in  lunghi  sforzi  atteso  Enea 

a  quel  tenace  legno  per  nessuna 


430  ENEIDE 

forza  non  valse  a  disserrarne  il  morso. 

Mentre  più  vi  s'industria,  in  forma  sempre 

de  l'auriga  Metisco  accorre  e  rende 

la  daunia  diva  al  f ratei  suo  la  spada. 

Venere,  irata  che  a  l'audace  ninfa 

tanto  sia  dato,  si  accostò,  la  lancia 

da  la  profonda  radica  divelse. 

Ritti,  d'animo  e  d'armi  ristorati, 

l'uno  fidente  ne  la  spada  e  l'altro 

per  l'asta  ardito  e  altero,  stetter  quelli 

a  fronte  in  gara  di  affannoso  marte. 

Intanto  il  Sire  de  l'onnipotente 

Olimpo  dice  a  Giuno  che  guardava 

da  una  cernia  nuvola  le  pugne: 

«  E  quando  sarà  il  fin,  consorte  ?  ancora 

che  resta?  Il  sai,  e  di  saper  confessi 

tu  pur,  che  al  ciel  si  deve  e  dal  destino 

è  l'indigete  Enea  portato  agli  astri. 

Or  che  ardisci?  per  qual  ti  stai  speranza 

tra  i  freddi  nembi?  E  bello  fu  che  un  dio 

fosse  dal  colpo  di  un  mortai  ferito, 

a  Turno  resa  la  rapita  spada 

(che  mai  poteva  senza  te  Giuturna?) 

e  cresciute  le  forze  a'  vinti?  Oh!  alfine 

desisti  e  piega  a  la  preghiera  nostra: 

né  taciturna  un  tal  cruccio  ti  roda 

né  amari  a  me  da  la  tua  dolce  bocca 

suonin  sì  spesso  affanni.  È  l'ora,  è  l'ora. 

Potesti  travagliar  per  terre  e  mari 

i  Troiani,  attizzar  nefanda  guerra, 


LIBRO    DECIMOSECONDO  43 I 

sfigurare  una  casa  e  gl'imenei 

sparger  di  lutto  :  osar  di  più  ti  vieto  ». 

Cosi  Giove  per  primo,  e  così  a  lui 

la  Dea  saturnia  con  sommesso  volto  : 

«  Poi  eh'  io  cotesto  tuo  piacer  sapeva, 

di  mal  cuore,  gran  Giove,  e  pur  lasciai 

Turno  e  la  terra  :  oh  !  già  non  mi  vedresti 

soHnga  in  aria  degne  e  indegne  cose 

ora  patir;  sarei  giù  tra  le  file 

cinta  di  fiamme  a  trarre  ne  l'infauste 

pugne  i  Troiani.  Al  misero  fratello 

persuasi  soccorrere  Giuturna, 

il  confesso,  e  a  sifo  scampo  arrischiar  tutto; 

non  che  i  dardi  però,  non  che  tendesse 

l'arco,  lo  giuro  per  l'inesorato 

fonte  del  fiume  stigio,  eh'  è  rimasto 

solo  ritegno  de*  celesti  numi. 

Or  mi  ritraggo,  sì,  lascio  le  pugne 

e  le  detesto.  Ma  da  te  richiedo, 

né  vieta  ciò  legge  del  fato  alcuna, 

per  il  Lazio  e  la  maestà  de'  tuoi: 

quando  per  un  connubio  fausto  (e  sia) 

pace  faranno  alfin,  quando  alfin  patti 

stringeran  d'alleanza,  oh!  non  imporre 

che  il  vecchio  nome  cangino  i  Latini 

indigeni,  non  far  che  Teucri  o  Troi 

divengano,  né  mutino  linguaggio 

né  scambin  veste.  Il  Lazio  sia,  gh  Albani 

re  per  secoH  siano,  fiorisca 

la  romana  prosapia  poderosa 

d'italico  valor;  ma  cadde,  e  lascia 


432  ENEIDE 

che  sia  caduta  col  suo  nome  Troia  ». 

Ed  a  lei  sorridendo  il  Creatore 

degli  uomini  e  del  mondo  :  «  Sei  sorella 

di  Giove  e  minor  figlia  di  Saturno, 

si  grandi  agiti  in  cuor  tempeste  d'ira. 

Ma  pure  or  cessa  dal  furor  tuo  vano: 

do  quel  che  vuoi,  vinto  e  volente  cedo. 

Serberanno  i  costumi  e  la  loquela 

patria  gli  Ausonii,  il  nome  che  hanno,  avranno 

sol  che  misti  in  un  corpo  entrino  i  Teucri, 

e  aggiungerò  religione  e  riti, 

e  tutti  a  un  detto  li  farò  Latini. 

Quella  che  ne  uscirà  d'ausonio  sangue 

temprata  stirpe,  di  pietà  vedrai 

sopravanzare  gli  uomini  e  gli  Dei, 

né  sarà  gente  che  te  megho  adori  ». 

Annuì  Giuno  e  in  cuor  mutata  e  lieta 

si  ritirò  da  la  celeste  ntibe. 

x\ltro  il  gran  Padre  dopo  questo  in  cuore 

volge  e  si  accinge  a  rinviar  Giuturna 

da  l'armi  del  fratello.  Son  due  mostri. 

che  si  chiamano  Dire,  e  le  produsse 

insiem  con  la  tartarea  Megera 

a  un  parto  solo  la  profonda  Notte, 

e  di  simili  spire,  di  serpenti 

le  recinse  e  le  armò  d'ah  ventose. 

Queste  di  Giove  al  sogHo  e  ne  la  sede 

del  sire  irato  appaiono,  e  negli  egri 

mortali  crescon  lo  spavento,  ognora 

che  il  Re  de'  Numi  morte  orrenda  e  morbi 


LIBRO    DECIMOSECONDO  433 

destina  o  turba  ree  città  di  guerra. 
Una  di  loro  giù  da  l'aer  sommo 
presta  Giove  inviò  che  qual  presagio 
si  mostrasse  a  Giuturna  :  e  quella  vola 
in  un  rapido  turbine  a  la  terra. 
Non  altrimenti  che  da  nervo  freccia 
via  per  le  nebbie,  cui  del  fiele  intrisa 
di  crudele  velen  lanciava  un  Parto, 
Parto  o  Cidone,  immedicabil  colpo, 
stridula  e  ascosa  l'agih  ombre  varca  ; 
tale  la  figlia  de  la  Notte  scese. 
Poi  che  l'iliaco  esercito  e  le  schiere 
di  Turno  vede,  subito  raccolta 
ne  la  piccola  forma  de  l'uccello 
che  su  le  tombe  o  le  torri  deserte 
posandosi  talora  a  tarda  notte 
ulula  per  le  tenebre  lugubre; 
tramutata  così  vola  e  rivola 
strepitando  la  Furia  avanti  al  volto 
di  Turno  e  il  clipeo  sferzagli  con  l'ale. 
A  lui  strano  un  torpore  allenta  i  membri 
di  smarrimento,  il  crin  d'orror  si  drizza, 
e  si  serra  la  voce  entro  le  fauci. 

Appena  lo  strider  di  lungi  e  il  volo 
de  la  Dira  conobbe,  l'infelice 
Giuturna  strappa  i  suoi  capelli  sciolti, 
con  l'ugne  il  volto  e  con  le  palme  il  seno 
si  offende.  «  Or  che  ti  può  la  tua  sorella, 
Turno,  giovare  ?  a  me  crudel  che  resta  ? 
quale  arte  ho  io  per  allungarti  il  giorno? 

Albini  •  Eneide  28 


434  ENEIDE 

e  come  posso  a  simil  mostro  oppormi? 
Esco  dal  campo  omai.  Non  m'atterrite 
tremante,  orridi  uccelli:  io  ben  conosco 
de  Tale  il  rombo  luttuoso  e  intendo 
del  magnanimo  Giove  il  fiero  cenno. 
Per  la  verginità  questo  mi  rende? 
Perché  immortai  mi  fa?  perché  mi  tolse 
poter  morire?  almen  sì  gran  dolore 
or  finirei  scendendo  a  l'ombre  insieme 
col  misero  fratello.  Immortale  io? 
che  de  le  cose  mie  mi  sarà  caro 
senza,  o  fratello,  te?  quale  sì  cupa 
terra  mi  s'apre  ad  inghiottir  la  dea  ?  » 
Detto  così,  de  la  cerulea  veste 
il  capo  si  coperse,  e  gemebonda 
sparve  la  diva  nel  profondo  gorgo. 

Enea  preme  di  contro  e  l'asta  vibra 
grande  qual  tronco  ed  aspramente  dice: 
«  Or  quale  indugio  ?  Turno,  a  che  più  stai  ? 
Non  al  corso,  con  fiere  armi  e  da  presso 
è  il  gioco.  Mutati  in  qual  vuoi  figura 
e  aduna  quanto  hai  di  coraggio  e  d'arte; 
brama  volar  sublime  in  fino  agli  astri 
o  acquattarti  nel  grembo  de  la  terra...» 
L'  altro  scotendo  il  capo  :  «  Non  la  tua 
fervida  lingua  m'atterrisce,  o  fiero; 
m'  atterriscono  i  Numi  e  Giove  avverso  ». 
Senza  più,  gira  gli  occhi  e  scorge  un  sasso 
antico,  immane,  che  giacca  nel  campo, 
termine  posto  a  dissipar  contese. 


LIBRO    DECIMOSECONDO  435 

Dodici  r  alzerebbero  a  fatica, 

scelti  tra  quei  che  oggi  la  terra  crea: 

r  eroe  lo  prese  con  la  man  convulsa 

e  lo  scagliava  a  l' avversario,  eretto 

levandosi  e  correndo  innanzi.  E  pure 

correndo,  andando  sé  non  riconosce 

né  levando  o  lanciando  la  gran  pietra: 

tremano  le  ginocchia  e  il  sangue  gela. 

Anche  il  masso  per  l' aere  scagliato 

non  percorse  la  via  né  tenne  il  colpo. 

E  come  in  sogno,  quando  a  notte  gli  occhi 

languida  la  quiete  ha  chiusi,  invano 

ci  sembra  voler  correre,  che  a  mezzo 

de  lo  sforzo  precipitiam  sfiniti  ; 

e  la  lingua  non  può,  le  usate  forze 

falliscono,  né  vien  voce  o  parola  : 

così,  qualunque  via  col  valor  tenti, 

nega  la  dira  dea  successo  a  Turno. 

Gli  entrano  allora  in  cuor  diversi  moti: 

i  RutuH  riguarda  e  la  città, 

esita  e  trema  l'imminente  fato, 

né  come  sfugga  o  l' avversario  assalga 

né  il  carro  vede  o  la  sorella  auriga. 

Contro  il  perplesso  l' asta  Enea  brandisce 

fatale  e,  colto  d' un' occhiata  il  destro, 

le  dà  con  tutta  la  persona  il  volo. 

Non  mai  da  murai  macchina  percossi 

così  crosciano  i  massi  né  sì  forte 

rimbalzano  del  fulmine  i  fragori. 

Vola  qual  nero  turbine  portando 

scempio  crudele  Tasta  e  rompe  i  lembi 


436  ENEIDE 

de  la  corazza  e  fin  gli  ultimi  cerchi 
de  lo  scudo  settemplice:  stridendo 
gli  trafigge  la  coscia.  Al  colpo  cade 
grande  al  terren  su  le  ginocchia  Turno. 
Trasaliscono  i  Rutuh  gemendo, 
tutto  rimugghia  il  monte  intorno,  e  larga- 
mente d'entro  le  selve  eco  risponde. 

QuegH  da  terra  suppHce,  con  gU  occhi 
e  con  la  destra  ad  implorar  protesa 
«L'ho  meritato  e  non  mi  dolgo,  dice: 
usa  la  sorte  tua. 

Se  alcun  pensiero 
ti  può  toccar  di  un  infelice  padre, 
ti  prego  (anche  per  te  fu  tale  Anchise), 
a  la  vecchiezza  abbi  pietà  di  Danno, 
e  me  rendi  o,  se  vuoi,  le  morte  membra 
a*  miei.  Vincesti,  e  gì'  Itali  m' han  visto 
vinto  tender  le  palme;  è  tua  consorte 
Lavinia  :  non  mandar  più  oltre  l'odio  ». 

Stette  fiero  ne  l'armi  Enea,  volgendo 

gU  occhi,  e  frenò  la  destra  :  e  dubitoso 

già  lo  venian  piegando  le  parole, 

quando  gh  apparve  sul  nemico  il  triste 

balteo,  rifulse  con  le  note  borchie 

la  cintura  del  giovine  Fallante, 

che  Turno  di  ferita  avea  prostrato 

e  ne  portava  agli  omeri  il  trofeo. 

Ei,  quel  ricordo  di  crudel  dolore 

come  abbracciò  col  guardo  e  quelle  spoghe, 


LIBRO    DECIMOSECOXDO 


437 


infiammato  e  terribile  ne  V  ira  : 
«  Che  tu  m'esca  di  man,  così  vestito 
de  le  spoglie  de'  miei  ?  Desso  Fallante, 
con  questo  colpo  te  Fallante  immola 
e  in  pena  vuol  lo  scellerato  sangue  ». 
Così  dicendo,  in  mezzo  al  cuor  gl'immerge 
la  spada  impetuoso.  Allor  di  Turno 
fredde  le  membra  allentano,  e  la  vita 
con  un  sospir  fugge  sdegnosa  a  l'ombre. 


NOTE    AL   TESTO 


PAUCA    E   MULTIS. 


I  I  (p.  i)  Arma  vtrumque:  le  due  parole  si  compiono 
a  vicenda  e  non  si  possono  staccare.  Così  tornano  altrove. 
Al  poeta  dovettero  anche  piacere  perché  sembrano  ren- 
dere insieme  i  due  inizi  omerici  a-J^v.v  e  àv5pa.  Quindi  i 
poemi  seguitarono  a  intonarsi  con  l'oggetto  :  Tempora 
cum  causis  . . . ,  Bella  per  Emathios . .  ,  Fraternas  acies . . . , 
Magnanimum  Aeaciden . . .;  e  cosi  fino  alla  gioiosa  e  so- 
nante proposizione  ariostea. 

Tuttavia  i  quattro  versi  che  Servio  riferisce  come  de- 
tractos  a  principio  ille  ego  qui  quondam  . . . 

{Quell'io  che  un  dì  su  la  sottil  sampogna 

dissi  canzoni,  e  da  le  selve  uscito 

i  vicini  sforzai  campi  obbedire 

al  colono  pur  avido,  lavoro 

grato  agli  agricoltori,  aspre  or  di  Marte 

L'armi  e  1'  uom  canto  . . .  ) 


sono  probabilmente  del  poeta.  Richiamare  i  poemi  suoi 
precedenti  piaceva  a  Virgilio  (che  non  aveva  rimorsi)  : 
insigne  è  la  fine  de'  Hbri  Georgici  suggellati  col  primo 
verso  dei  carmi  Bucolici.  Ma  probabilmente  Tucca  e 
Vario  ebbero  molta  ragione  a  credere  che  questi  Virgilio 
li  avrebbe  omessi  pubblicando  l'Eneide.  E  arma  virum 
rimase  come  formula  a  citare  il  poema. 


442  ENEIDE 

II  646  (p.  63)  jacilis  iactura  sepulcri.  L' interpretazione 
«facile  enim  conteinnitur  quod  post  exitum  vitae  non 
sentit  exanimis»  è,  come  le  altre  donatiane  a  questo 
verso,  poco  persuasiva.  Troppo  è  nel  poema  narrata  e 
pianta  la  miseria  degl'insepolti  per  ammettere  senza 
esitazione  che  Anchise  determini  proprio  così  la  sua  ras- 
segnazione a  morire.  Forse  s'intende  una  tactura  par- 
ziale, un  sepolcro  non  quale  dovrebb'  essere  (su  tal  mo- 
tivo insiste  Lucano  a  proposito  di  Pompeo).  O  fors'anche 
non  vuol  dire  altro  se  non  "  piccola  perdita  è  quella 
della  vita"  {lieve  perdita  fìa  perdere  il  sole),  e  sarebbe 
pensiero  legatissimo  a  quello  che  segue  "da  gran  tempo 
aspetto  la  morte  ",  e  iaciura  sepulcri  uno  de'  soliti  scorci 
del  genitivo  classico,  a  significare  i  dauni  che  uno  sofire 
morendo.  In  Ovidio  {Trist.  Ili  2)  si  seguono  come  equi- 
valenti sepulcri  ianua  e  interitus  fores,  cioè  sepolcro  e 
morte  si  equivalgono.  Il  passo  liviano  (V  39)  facilem 
iacturam  esse  senior um  non  fa  che  mostrare  una  deUe 
frasi  analoghe  alle  virgiliane,  ma  non  toglie  né  aggiunge 
a  questa  interpretazione.  Né  giova  dar  nel  sottile  per 
cercarne  altre. 

III  252  (p.  83)  vobis  Furiarum  ego  maxima  panda.  Il 
vero  senso  in  che  l' Arpia  si  chiamò  Furiarum  maxima, 
benché  non  dubbio,  è  confermato  dal  frammento  tragico 
che  abbiamo  in  Cicerone,  de  div.  I  50: 

ludicabit  inclitum  iudicium  inter  deas  tris  aliquis, 
quo  iudicio  Lacedaemonia  mulier  Furiarum  una  adveniet. 

312  (p.  84)  Hector  uhi  est?  "  cur  non  tecum  est?  " 
interpreta  Donato.  Ed  è  curioso  che  tra  testo  e  nota 
formano  il  verso  di  Dante  Mio  figlio  ov'è  e  perché  non 
è  teco?  Il  qual  verso  rende  forse  il  vero  intimo  senso 
-  già  inteso  dunque  in  antico  -  che  sia  un  privilegio  a' 
morti  uscire  al  mondo,  e  però  debba  averlo  anche  Ettore; 
non  già  soltanto  che,  se  Enea  è  morto,  abbia  a  sapere 
dell'altro.. 


NOTE  443 

340  (p.  86)  quem  fibi  iam  Troia . . .  Strano  che  proprio 
in  un  luogo  cosi  fervido  di  afietto  cada  l'unico  de'  versi 
incompiuti  che  lascia  incompiuto  anche  il  senso,  dove 
tutti  gli  altri  semipieni  rimasero  a  mezzo  giust'appunto 
perché  il  senso  era,  o  parve,  compiuto.  Qui  l'incompiu- 
tezza è  dall'origine?  o  è  lecito  credere  che  la  si  debba, 
per  qualsiasi  caso  o  causa,  alla  tradizione  ?  Il  pensiero 
e  il  costrutto  sono  in  tutto  analoghi  a  quelli  di  VI  764 
sg.  ;  né  si  può  del  tutto  escludere  che  reintegri  un  esa- 
metro virgiliano  la  lezione  seriore  (quale  conobbe  e  citò 
Dante)  quem  Ubi  tam  Troia  peperit  fumante  Creusa. 

411  (p.  89)  angusti  rarescent  claustra  Pelori.  Nota  il 
Tommaseo  al  IX  del  Purgatorio: 

«  I  grandi  Poeti  sono  commento  a  sé  medesimi  e 
«  r  uno  all'altro  così  come  tutti  gì'  ingegni  e  le  anime  sin- 
«  golari.  Il  passo  alla  prima  non  chiaro  di  Virgilio:  Ast 
«  ubi  digressum  Siculae  te  admoverit  undae  Venius,  et  an- 
«  gusti  rarescent  claustra  Pelori  è  illustrato  da'  versi  di 
«  Dante:  Ed  eravamo  in  parte  Che  là,  dove  pareayni  in 
«  prima  un  rotto,  Pur  com' un  fesso  che  muro  diparte, 
«  Vidi  una  porta.  [In  nota  soggiunge  il  v.  Vedi  Ventrata 
«  là  've  par  disgiunto  .  Questo  rotto  e  questo  fesso,  e  il 
«  rarescent  più  elegante  e  possente,  rappresentano  il  pa- 
ce rere  che  fa  di  lontano  angusta  ogni  apertura  o  seno, 
<'  e  il  venirsi  all'occhio  di  chi  le  si  approssima  dilatando  ». 

Giusto  quel  che  dice  del  commentarsi  tra  loro  i  poeti, 
massime  questi  nostri  due,  e  naturale  l'accostamento  di 
quei  passi,  ma  non  mi  pare  esatta  l' interpretazione  di 
Vu-giho.  Perché  vuol  dire  :  quando  sarai  in  luogo  da 
intravedere  la  piccola  aperta  di  Peloro,  quando  te  ne 
apparirà  l'angusto  varco.  Prima  non  lo  vedeva  né  largo 
né  stretto  :  occorre  sia  pervenuto,  come  dice  il  testo, 
alla  Sicilia. 

684-86  (p.  100)  È  lecito  supporre  che  Virgilio 
avrebbe  fatto  più  chiari  questi  versi,  se  non  altro  per 
la  sua  bontà,  se  avesse  previsto  quanta  faccenda  dovevan 


444  ENEIDE 

dare  agl'interpreti.  De'  quali  i  moderni  si  son  lasciati 
trarre  di  via  dagli  antichi:  da  tre,  sembra,  ma  forse  si 
riducono  a  uno,  che  anche  allora  tutto  stava  che  un 
primo  dicesse.  Dissero  dunque  che  qui  in  ni  teneant  il 
NI  sta  per  ne,  "  qua  particula  plenus  est  Plautus  "  (a 
dirittura).  Sapevano  che  sarebbe  la  sola  volta  in  tutto 
Virgilio,  ma  non  badavano  a  questo:  non  avvertivano 
neppure  che  un  altro  ni  teneant  è  al  libro  V  v.  230,  e 
vuol  dire  evidentemente  nisi.  In  verità  annaspavano 
perché  riusci  lì  per  lì  difficile  a  interpretare  l'espressione, 
tra  ellittica  e  pregnante,  cantra  iiissa  monent,  m  teneant 
cursus:  "Eleno  ammonisce  in  contrario,  annunzia  danno, 
ove  non  sappiano  tener  bene  il  solco,  il  dritto  mezzo  " 
tra  i  due  scogli  voraci  e  mortiferi.  In  quel  monito.  III 
420-32,  si  dice  praestat.  . .:  meglio  girar  largo,  perché, 
impossibile  non  è,  ma  assai  difficile,  il  non  incappare  in 
uno  dei  due  mostri  ;  onde  qui  certuni  est  dare  lintea  retro. 
(Noto  che  di  questi  arditi  scorci  abbiamo  parecchi  casi 
proprio  quand'è  soggiunta  una  proposizione  col  ni  onisi: 
ess.  Vili  523,  XI  112,  XII  733).  Questo  è  ciò  che  più 
rileva  chiarire  e  correggere  nell'interpretazione  del  passo. 
L' Inter  spetta  a  Scyllam  atque  Charyhdin  (tengo  la  le- 
zione del  Palatino:  se  no,  forse  avremmo  Scyllamque 
Charybdimque  inter,  come  in  Gè.  II  344  frigusque  calo- 
remque  inter)  :  l'apposizione  utramque  viam  dobbiamo  in- 
tenderla senza  assottigliarci  a  dire  che  . . .  quelle  non  sono 
vie:  leti  è  assurdo  staccarlo  da  discrimine,  avendo  luoghi 
paralleli  in  IX  143  e  X  511  :  cursum  o  cursus  tenere  così, 
e  solo  così,  è  veramente  proprio. 

IV  no  (p.  108)  Si  luppiter  imam...  lungi.  K  una 
ripresa  particolare  del  precedente  si  modo  quod  memo- 
ras  ...  :  il  sed  fatis  incerta  feror  sta  a  sé,  ed  è  erroneo 
congiungere  incerta  feror,  si...  È  di  qucgl' incisi  propri 
del  parlar  vivo,  o  quasi  famigliare  e  malizioso  come  qui 
(un  "  ma  io  non  so  "  inserito  nel  discorso),  o  concitato 
come  in  VI  84. 


NOTE  445 

308  (p.  it6)  moritura  crudeli  funere,  dice  il  vero  al 
di  là  di  ciò  che  Didone  stessa  pensa  ;  e  però  efficacis- 
simo. Ella  per  ora  sa  e  sente  sol  questo,  che  all'abban- 
dono non  potrebbe  sopravvivere;  Enea  l'abbandonerebbe 
moribundam,  come  or  ora  dirà.  Il  senso  è  ancora  am- 
biguo al  V.  385.  Solo  al  v.  415  albeggia,  se  è  lecito  dire, 
r  idea  del  suicidio,  che  poi  diviene  intenzione,  proposito, 
impazienza  (436,  451,  475,  604.  606...). 

3T3  (p.  117)  Troia  per  undosum  peteretur . .  .  Non  è 
che  una  insistente  ipotesi  coordinata  alla  precedente.  È 
vecchio  maUnteso  farne  l' interrogazione  principale  :  "  an- 
dreste a  Troia  per  l'ondoso  mare?  "  E  perché  no?  po- 
teva ben  rispondere  l'eroe,  in  procinto  com'  è  di  mostrare 
che  per  certe  cagioni  non  si  aspetta  il  mare  buono.  E 
la  donna  eroica  si  sarebbe  maravigliata  non  della  risposta 
di  lui  ma  della  propria  domanda. 

435  sg.  (p.  122)  Extrema  venia  vai  qui  lo  stesso  che 
extremum  mumis  pochi  versi  sopra;  e  "quest'ultima 
grazia  "  la  deve  concedere  Enea,  la  pietà  di  Anna  con- 
siste neir implorarla.  Didone  ricambierà  la  grazia  "con 
la  giunta  della  morte  ",  cuniulatam  morte  :  schiettissimo 
e  consueto  latino  (cumulata  morte  è  una  variante  che 
non  varierebbe  nulla).  S'intende  che  la  morte,  la  quale 
dovrebbe  accedere  velut  cumulus,  è  invece  per  sé  stessa 
tutto  il  ricambio.  Linguaggio  di  passione  :  quelli  che  vi 
desiderano  la  logica,  si  vede  bene  che  non  sono  inna- 
morati né  disperati.  Certo  la  frase  è  imprudente  e  rive- 
latrice; uno  sprazzo  di  verità  tra  la  dissimulazione  con 
che  Didone  illude  Anna.  La  quale  davvero  è  optima  e 
candida  più  che  Didone  non  sia,  e  crede  proprio  alla 
rassegnazione  della  sorella: 

hunc  ego  si  potui  tantum  sperare  dolorem, 
et  perferre,  soror,  poterò; 

stupende  parole  nella  loro  alta  semplicità  che  hanno  un 
senso  per  chi  le  dice  e  un  altro  per  chi  le  ascolta.  Sarà, 


44^  ENEIDE 

crede  Anna,  né  più  né  meno  che  per  la  morte  di  Sicheo 
(v.  502)  ;  povera  Anna  !  vive  per  la  sorella,  e  le  agevola  le 
vie  della  morte, 

550  (p.  127)  more  ferae.  Per  Quintiliano  è  emphasts, 
nel  senso  di  cosa  che  prorompe  dal  fondo  dell'animo  e 
fuori  del  discorso:  "quantunque  Didone  si  lagni  del 
matrimonio,  pure  la  sua  passione  scoppiò  a  dire  che  la 
vita  senza  nozze  le  pare  non  d'uomini  ma  di  bestie". 
Fino  e  profondo  ;  né,  preso  il  passo  da  sé,  si  può  spie- 
gar meglio.  Per  altro,  ricordando  i  versi  32  sg.  e  38,  par 
più  giusto  sentire  in  questo  more  ferae  un'  eco,  un  com- 
pendio vivo  e  amaro  di  quelle  funeste  ragioni  di  Anna 
che  per  troppo  affetto  alla  sorella,  e  con  animo  assai 
più  devoto  che  presago,  la  confortò  all'amore  e  al  con- 
nubio. 

510  (p,  125)  ter  centum  tonai  ore  deos,  vale  proprio 
trecentos,  come  in  altri  luoghi,  né  il  ter  va  unito  a  tonat. 
Ben  inteso  che  è  numero  indeterminato  iperbolico.  E, 
del  resto,  invocare  trecento  Dei,  ovvero  cento  Dei  per 
tre  volte,  in  aritmetica  e  in  poesia  torna  lo  stesso. 

V  654  (p.  163)  oculisque  malignis:  non  sono  propria- 
mente "  occhi  cattivi  ",  che  mostrino  mali  pensieri, 
"  malas  animi  cogitationes  "  (Donato).  È  il  solito  ma- 
hqnus  che  vale  "  scarso  ",  cfr.  XI  525  aditusque  maligni. 
Qui  son  proprio  "occhiate  oblique,  sguardi  fuggenti"; 
naturale,  e  in  piena  armonia  con  tutta  la  rappresenta- 
zione. Non  benigni  certo,  ma  più  che  altro  incerti  :  sguar- 
dano rapidamente,  hmis  oculis. 

VI  96  (p.  177)  qua  tua  te  fortuna  sinet.  La  lezione 
vulgata  quam  è  scorrezione  nata  dal  non  avere  inteso 
che  il  comparativo  audentior  non  aspetta  già  un  termine, 
anzi  è  determmato  da  quel  che  precede  (tal  quale  lo 
ritroveremo,    IX  291,   kajic  sine  me  spem  ferre   iui,   au- 


NOTE  447 

dentioY  ibo  in  casus  omnis).  E  la  fortuna  di  Enea  non  è 
tutt'  una  con  quella  che  fu  de'  Troiani  finquì,  ma  è 
invece  un'  alta  e  privilegiata  fortuna  :  ha  le  vie  difncili, 
ma  una  meta  splendida  e  sicura.  Enea  stesso,  per  quei 
tratti  di  pensosa  malinconia  che  ha  in  comune  col  suo 
poeta,  può  a  certi  momenti  parlare  della  sua  fortuna 
tristemente;  non  così  la  veggente  Sibilla, 

211  (p.  182)  refringit  cunctantem.  E  il  volens  facilisque 
sequetuv  del  v.  146  ?  Forse  che  non  è  pronto  e  cedevole 
abbastanza  per  il  desiderio  di  Enea  ?  Più  veramente  il 
poeta  vuol  far  sentire  che  è  un  ramo  non  posticcio  ma 
proprio  dell'albero;  cunctaiur,  in  quanto  vi  è  connesso; 
refringit,  non  carpii  o  vellit,  perché  è  metallico.  Qualche 
altro  cunctantem  troviamo  che  va  inteso  con  discerni- 
mento. Il  più  notevole,  dopo  questo,  l' incontrammo  già, 
IV  133,  regmam  thalamo  cunctantem...  Anzi  sollecita  e 
impaziente  s' imagmerebbe  Bidone.  Forse  è  l'indugio 
della  bella  signora  che  si  adorna  ?  No,  vuol  dir  solo  che 
la  regina  è  l'ultima  a  scendere;  giunta  lei,  si  parte 
senz'  altro  aspettare.  E  così  dicono  i  versi  seguenti. 

743  (p.  205)  Quisque  suos  patimidr  Manes.  Seneca  che 
nel  suo  Ercole  furioso  parafrasa  tanto  del  VI  dell'  Eneide 
mi  pare  che  traduca  quasi  in  prosa  quest'  emistichio 
poetico  quando  dice  quod  quisque  fecit  patitur.  Risalendo 
alla  grande  poesia,  chi  sa  se  non  sussista  una  relazione 
tra  questa  icastica  frase  e  quei  terribili  corpi  appesi 
ciascuno  al  prun  dell'  ombra  sua  molesta  ? 

VII  122-26  (p.  218)  Il  tratto  così  vivo  e  profondo  — 
Giulo  dice  uno  scherzo  ingenuo.  Enea  sente  in  esso  una 
grande  rivelazione  —  è  un  po'  turbato  da  un  dubbio  : 
come  mai  attribuita  ad  Anchise  la  predizione  che  fece 
la  Harpyia  Celaeno?  Dimentico  il  poeta  non  è  di  certo, 
ricorda  fin  le  parole  (III  256  sg.).  E  allora?...  L'Arpia 
mentitur,  nota  Servio,  per  il  senso  sinistro  e  tragico  che 


448  ENEIDE 

dà  al  fatto  di  mangiare  le  ■mense.  Eleno  ha  già  detto 
(III  394)  che  non  sarà  cosa  sì  spaventevole.  Ci  aspet- 
teremmo altro  più  esplicito  dalle  labbra  di  Anchise  nel 
colloquio  agli  Elisi,  il  quale  invece  si  termina  con  una 
specie  di  eccetera  comprensivo.  —  Ci  aspetteremmo,  ci 
saremm,o  aspettati,  si  sa,  sono  formule  usitate  dai  critici; 
e  si  starebbe  freschi  se  nei  poeti  si  trovasse  solo  ciò 
che  i  critici  si  aspettavano.  Ma  qui  una  discreta  aspet- 
tazione era  a  luogo;  è  delle  incongruenze  o  mancanze 
che  Virgilio  avrebbe  tolte. 

234  sg.  (p.  223)  Fata  per  Aeneae  iuro...  In  generale 
questo  fiero  giuramento  vien  riferito  a  ciò  che  segue: 
molto  più  degna  di  essere  nobilmente  rincalzata  è  l'af- 
fermazione precedente. 

307  (p.  226)  Quod  scehis . . .?  Per  il  senso  poco  rileva, 
ma  il  testo  riesce  meglio  compatto  nella  lezione  con  gli 
accusativi  Lapithas  e  Calydona  merentem.  Scelus  poi  già 
l'interpretarono  poenam  sceleris;  ma  talora  è  la  pena 
stessa  se  sproporzionata  o  iniqua  :  qui  il  linguaggio 
virgiliano  è  conforme  a  quello  dei  comici,  e  dell'  uso 
vivo.  Lo  stupendo  quod  hoc  est  scehis?  di  Plauto,  Captivi 
762,  significa  proprio:  "o  che  persecuzione  è  questa? 
che  infamia  ?  " 

470  (p.  233)  se  satis  ambobus  Teucrisque  venire  Lati- 
nisque.  A  combatter  gli  uni  e  gli  altri  ?  parrebbe  con- 
forme al  V.  434.  Oppure:  per  i  Teucri  a  combatterli,  e 
per  i  Latini  a  difenderli  ?  piace,  in  quanto  Turno,  pure 
imperioso  e  irato,  non  sembra  debba  correr  tanto  a 
guerreggiare  il  padre  e  il  popolo  di  Lavinia.  Forse  il 
modo,  baldanzoso  e  brusco,  è  e  vuol  essere  ambiguo. 

596  (p.  238)  Nefas  non  fa  il  paio  con  quel  che  segue, 
triste  siipplicium  :  è  un  inciso  come  al  v.  73.  In  armonia 
con  questo  è  il  v.  41  dell'  ultimo  libro. 


xoTE  449 

636  (p.  240)  Oppure  "  rifanno  a'  fuochi  le  paterne 
spade  "  ?  Ma  non  sarebbe  il  recoquimt  patrios  fornacibus 
ensis  in  chiara  relazione  con  quel  che  precede.  Invece, 
erano  arnesi  campestri,  sono  rifusi  in  armi,  è  chiaris- 
simo ed  efficace.  Intendo  patrios  da  patria,  non  da  pater; 
più  raro,  ma  certo  :  e  così  pairii  enses  tornano  in  Lu- 
cano, X  528, 

Vili  363  (p.  259)  ahiurataeque  rapmae.  Non  si  legge 
che  Caco  avesse  spergiurato  di  non  aver  commesso  furto. 
Già!  e  neppure  si  legge  che  gli  fosse  deferito  il  giura- 
mento. Spergiurò  col  fatto  fin  da  prim.a,  versis  viarum 
iyidiciis,  209-12. 

408  (p.  266)  cum  f emina  primum ...  È  un  tratto  di 
arte  finissima.  L' imagine  della  donna  laboriosa  è  intro- 
dotta per  indicare  l'ora,  ma  poi  è  cosi  svolta  che  serve 
anche  a  comparazione;  e  la  comparazione  che,  diretta- 
mente, poteva  sembrare  inadeguata,  cosi  invece  torna 
benissimo.  E  il  poeta  quando  dice  haud  secus  par  che 
la  consideri  comparazione  ;  ma  quando  soggiunge  nec 
teìnpore  segnior  ilio  la  riconduce  al  suo  punto  di  par- 
tenza. 

532  (p.  271)  profecto  intenderlo  participio  (cioè,  "  per 
il  tuo  figUo,  partito  che  sia  con  me  ")  può  parere  affet- 
tuoso e  di  profonda  intuizione.  Ma  come  espressione 
riesce  più  insolita  e  dura  dell'  avverbio  che  proprio  cosi 
in  fine  di  verso  si  trova  non  raro  anche  in  altri.  Né 
occorre  intender  così  questa  parola  a  sentire  la  trepida- 
zione di  Evandro  :  appare  assai  in  ciò  che  Enea  dice 
rassicurandolo. 

Altro  dissenso,  già  noto  a  Servio,  è  nel  verso  seguente. 
Ma  ego  poscor  Olympo  è  senza  dubbio  tutta  una  frase, 
e  come  frase  e  come  senso  risponde  esattamente  a  passi 
precedenti,  v.  12  fatis  regern  se  posai,  503  externos  optate 

Albini  -  Eneide  29 


450  ENEIDE 

duces,   477  fatis  hiic  te  poscentibus  adfevs,  512  quem  nu- 
mina  posctmt. 

658  (p.  276)  defensi  tenehris  et  dono  noctis  opacae  (che 
se  ne  ricordasse  Scribe  col  suo  socio  —  la  bella  musica 
italiana  scusi  la  curiosità  —  quando  scrissero  A  la  faveur 
de  cette  nuit  obscure  ?  e  quegli  che  tradusse  Cheti  al  favor 
di  notte  tenebrosa?  Ma  sarà  a  traverso  Molière  Ampli.: 
qui  de  votre  manteau  veut  la  faveur  obscure)  è  un  verso  ti- 
pico di  questa  quasi  endiadi  virgiliana.  E  non  lo  vince  di 
eleganza  se  non  forse  quello,  X  190,  populeas  inter  fron- 
des  umbramque  sororum.  Del  quale  non  meno  ardito  nella 
sua  grandiosità  è  l'altro,  al  principio  dello  stesso  libro, 
exitium  magnum  atque  Alpes  immittet  apertas.  E  resta 
al  suo  luogo  di  gloria  il  sunt  lacrimae  rerum  et  mentem 
mortalia  tangunt,  benché  la  celebrità  sia  solo  della  prima 
parte,  che,  così  staccata  dal  resto,  die  luogo  a  tali  agré- 
ments  ben  lontani  dal  tema  classico,  e  pur  non  sempre 
brutti.  Ho  notato  che  certe  frasi  di  poeti,  come  le  grandi 
parole  di  verità  e  di  salute,  hanno  questa  sorte  :  anche 
non  del  tutto  intese  né  per  il  loro  verso,  restano  buone 
e  belle. 

IX  136  (p.  287)  Un  curioso  precetto  di  retorica  pone 
Servio  qui:  è  lecito  dire  il  falso  quando  non  v' è  chi 
possa  smentire:  "Sunt  et  mea  contra  fata  mihi  hoc 
falsum  est  quod  dicit  Turnus.  Sed  in  arte  rhetorica  tamen 
nobis  conceditur  uti  mendacio,  cum  redarguere  nuUus 
potest,  ut  hoc  loco  est:  quis  enim  vere  potest  scire. 
Turno  data  sint  necne  responsa?".  Lasciando  questa 
svelta  retorica  e  la  sua  bonaria  esposizione,  e'  è  chi 
prende  a  lettera  le  parole  di  Turno  ricordando  gì'  inci- 
tamenti di  Giunone  e  le  apparizioni;  e  certi  luoghi, 
p.  es.  VII  429-32  {Caelestum  vis  magna  iubet)  e  qui  stesso 
al  V.  12  sg.,  possono  senza  sforzo  dar  motivo  ad  affer- 
mare che  anche  Turno  ha  i  suoi  fati.  Se  non  che  altro 
è  qui  il  vero  e  vigoroso  senso  e   spirito  delle   parole,    e 


N'OTE  451 

lo  spiegano  le    dichiarative   susseguenti.    Bene   i   poeti 
intesero  il  poeta. 


214.  (p.  290)  mandet  htimo  solita  oppure  soltta  aut  siqua 
id  fortuna  vetahit?  Servio  preferisce  la  seconda  e  cita  Stazio 
Theb.  X  384  {invida  fata  pus  et  fors  ingentibus  ausis  rara 
Comes:  vero  purtroppo,  e  di  non  peregrina  osservazione). 
Ma  —  quantunque  non  ci  sarebbe  bisogno  di  vederci 
colore  troppo  pessimistico  e  solita  varrebbe  "  frequente  " 
—  sta  meglio  con  htmio  in  significato  di  "  consueta,  ri- 
tuale "  (è  tra  i  insta,  vojii^ójisva),  contrapposto  agli  onori 
resi  absenti.  Poi  solita...  siqua...  non  persuade. 

294  (p.  293)  Atqiie  animum  paiviae  strinxit  pietatis 
imago.  È  un  verso  che  respira  poesia,  è  un  tocco  deli- 
cato e  profondo.  Ciò  tutti  sentono.  Eppure,  e  qui  e 
quando  ritorna  con  heve  variazione  in  X  824,  non  è 
facile  dime  tutto  e  netto  il  significato  :  già  gU  antichi 
interpreti  esitarono,  come  Servio,  o  se  scelsero,  scelsero 
male,  come  Donato.  Certo  è  che  la  patria  pietas,  di  cui 
l'imagine  passa  sul  cuore  di  Giulo,  e  di  Enea  nel  X,  è 
r  afietto  del  padre  per  il  figlio,  non  del  figlio  per  il  padre. 

367  (p.  296)  Interea  . . .  Sensatissima  la  nota  di  Servio  : 
questo  non  contrasta  a  quel  che  è  detto  nel  VII  Saepsit 
se  tectis  rerumque  reliquit  habenas;  s'intende  che  Latino 
al  rompere  della  guerra  si  astenne,  ma  poi  non  negò 
né  forze  né  consigli,  e  lo  vedremo  prender  parte  ad 
alleanze  e  adunanze.  Bella  vetabat,  ma  pur  dovè  essere 
a  capo  del  suo  popolo. 

Precedendo  ex  urbe  Latina  segue  responsa  senza  bi- 
sogno di  determinazione;  e  Turno  regi  sta  bene  qui, 
come  al  v.  691  ductori  Turno  :  non  regis. 

547  (P-  3^4)  Perché  vetitis  armis  ?  "  quia  servi  miUtia 
prohibebantur  ".  Più  strettamente:  perché   non  doveva 


452  ENEIDE 

vivere  :  la  madre  lo  allevò  di  furto,  poi  lo  armò.  O  vie- 
tate perché  destinate  a  non  giovargli?  Di  tali  anticipa- 
zioni è  piena  1'  Eneide. 

X  i8i  (p.  325)  La  parola  dopo  transierim  è  d'incerta 
lezione.  Se  cumano  s' accostasse  alla  vera,  e  si  accettasse 
da  Servio  che  si  tratta  di  un  monte  (sia  pur  del  Piceno: 
il  m.  Conerò  di  Ancona?),  lezione  e  spiegazione  si 
potrebber  dire  trovate.  Ma  né  questa  né  le  varianti 
cinira  o  cinare  che  porterebbero  a  dare  a  Cupavone  un 
fratello  non  desiderato,  almeno  dal  senso,  tolgono  i  dubbi. 
Io  inclino  a  credere  che  il  verso  debba  leggersi  transierim 
temere,  paucis  Gomitate  Cupavo.  Veramente  non  son  d'ac- 
cordo coi  lessici  che  segnano  lunga  la  finale  :  in  Lucrezio 
Virgiho  Orazio  Ovidio  temere  s' incontra  sempre  con  una 
vocale  {propere  non  così),  e  in  Seneca  apparisce  tribraco: 
ma  qui  il  ritmo  e  il  senso  spiegano  l' allungamento  ; 
cfr.  uno  splendido  esempio  in  XII  648,  nella  sua  vera 
lezione. 

188.  Crimen  amor  vesfrum:  di  Cicno  (il  poeta  viene 
a  parlar  di  lui)  e,  per  eredità,  del  figlio.  Non  che  vostra 
colpa,  amore  è  l' insegna  della  forma  di  tuo  padre  (parla 
a  Cupavone),  giacché  quella  trasformazione  fu  conse- 
guenza, ed  è  testimonianza,  di  quel!'  amore.  Incerta  la 
lezione  del  v.  181,  ma  non  V  intelligenza  del  188. 

Ad  Agrippa  (VIII  683)  belli  insigne  superbum,  tempora 
navali  fulgent  rostrata  corona  :  ciò  gli  è  insegna  superba  di 
guerra,  vale  a  dire  della  sua  vittoria.  E  Aventino  (VII 
77)  ha  r  insigne  paternum. 

689  (p.  346)  Ai  lovis  interea  monitis  Mezentius... 
Mezenzio  per  i  moniti  di  Giove?  Proprio  allora  non  si 
moverebbe  di  certo.  Né  giova  sottilizzare  cercando  dare 
alla  frase  significato  diverso  da  quello  che  ha  in  altri 
passi:  siamo  in  uno  dei  tratti  che  recano  segni  più 
manifesti  di  lavoro  ricco  e  assai  bene  sbozzato  ma  im- 
perfetto. 


N-OTE  453 

774  sgg.  (p.  350)  Unire  il  genitivo  Aeneae  a  prae- 
donis,  quando  il  poeta  li  ha  così  disgiunti,  è  sforzo.  Si 
posson  citare  altri  luoghi,  ma  tali  che  il  distacco  vi  è 
compensato  da  qualche  particolare  efficacia:  qui  si  trat- 
terebbe di  un  epcsegetico  ozioso.  Se  si  avverta  che  il 
voto  di  un  trofeo  ha  sempre  espresso  a  chi  il  trofeo  sia 
dedicato,  si  vedrà  che  qui  Aeneae  è  un  dativo.  L'empio 
Mezenzio,  che  nell'  empiezza  sua  coinvolge  anche  la  sola 
creatura  che  gli  è  cara,  con  perverso  sarcasmo  del  rito 
e  delle  formule  votive,  vota  Lauso  vestito  delle  spoglie  di 
Enea  per  trofeo ...  ad  Enea  !  L' irrisione  è  brutale  :  la 
punizione  immensa.  Quanto  al  trofeo,  si  vedrà  al  prin- 
cipio del  seguente  canto  ! 

XI  443  sg.  (p.  375)  Nec  Drances...  potius.  "  Sensus 
obscure  quidem  dictus  sed  facilis . . .  ",  dice  Servio;  ma, 
oscuro  o  no  (e  direi  di  no),  facile  non  gli  è  stato.  Il 
pensiero  di  Turno  è  magnanimo:  "voglio  essere  io,  e 
non  un  altro,  sia  che  si  tratti  di  sacrificarsi,  sia  che  di 
vincere  "  ;  ma  invece  di  dire  io  e  non  un  altro  intreccia 
alla  magnanimità  un  atroce  sarcasmo  e  dice  io  e  non 
Drance;  quasi  che  la  scelta  fosse  tra  lor  due! 

S37  (p.  392)  Spectatque  interrita  pugnasi  '"'quid  enim 
metueret  quae  procul  aberat  et  sedebat  in  summo  ? 
Ma  non  è  questo:  interrita  inchiude  il  senso  di  "ferma, 
non  distolta  o  rimossa  " .  Così  la  flotta  interrita  fertur, 
V  863,  in  quanto  non  è  "  sviata  "  ;  Mezenzio  nianet  im- 
perterritus,  X  770:  il  nostro  "imperterrito"  serba  fino 
a  un  certo  segno  tal  senso,  se  il  contesto  aiuta.  Alla 
giustiziera  che  scdet  spectatque  interrita  è  contrapposto 
il  colpevole  che  fugit  ante  omnis  exterritus. 

857  (p.  393)  tune  etiam  telis  moriere  DianaeP  Si  po- 
trebbe pensare  a  un  significato  riposto:  "  e  ancora  an- 
cora dovrai  tu  morire  degli  strali  di  Diana  ?  è  già  troppo 
per  te:  di  tal  ferro  non  merli  morir  ".   Ma   il  più  ovvio 


454  ENEIDE 

e  semplice  è  il  vero,  vale  a  dire  "  anche  tu  come  già 
tanti  " .  Il  pedisequo  di  Virgilio  lo  conferma,  che  fa  dire 
a  Giove  prima  di  fulminar  Capaneo  : 

quaenam  spes  hominum  tumidae  post  proelia  Phlegrae? 
tune  etiam  feriendus  ? 


XII  12  (p.  397)  quae  pepigere.  Vale  come  un  patto 
degli  Eneadi  la  parola  di  Enea.  Anzi,  se  dal  canto  de* 
Latini  è  naturale  sorgesse  la  voce  Vada  Turno,  da  quel 
de'  Troiani  invece  nessuno  avrebbe  proposto  ed  esposto 
Enea,  ove  non  fosse  lui  a  dirlo  e  volerlo  :  e  vedremo 
che  nel  movere  al  duello  deve  confortare  i  suoi,  v.  no. 
Ora  Enea  aveva  osservato  come  unica  equa  e  discreta 
condotta  di  Turno  affrontare  lui,  e  di  ciò  Drance  si 
fece  propalatore,  e  la  promessa  che  Turno  soggiunse,  e 
che  è  richiamata  in  questo  principio,  non  è  che  accet- 
tazione di  sfida,  cfr.  XI  115  sgg.,  221,  374  sg.,  434  sgg. 

197  sgg.  (p.  405)  Haec  eadeni . . .  turo,  audiat  haec 
genitor.  Il  poeta  con  questa  ripresa  ha  fatto  ben  chiaro 
il  senso  del  primo  haec,  pur  franteso  da  antico.  luro  ha 
due  accusativi,  non  solo  quel  de'  numi  per  cui  si  giura, 
ma  anche  e  prima  un  neutro  che  comprende  l'oggetto  del 
giuramento.  Chi  ascolta  il  giuramento  di  Enea,  special- 
mente se  niente  ricorda  nell'  Iliade  quel  di  Agamennone 
(III  276-91),  così  fieramente  scolpito  e  minaccioso,  sente 
come  non  ha  nulla  di  ostile  :  pronuncia  una  sanzione  se- 
vera per  sé  stesso  nel  caso  di  sconfìtta;  nel  presagio  di 
vittoria,  nulla  si  attribuisce  di  oppressivo.  È  un  patto 
che  mostra  in  sé  due  genti  aeterna  in  pace  futuras,  e  deve 
piacere  a  re  Latino  che  per  le  rivelazioni  e  la  natura 
e  la  coscienza  è  ben  disposto  a  intenderlo.  Sicché  il  suo 
giuramento  non  ha  un  contenuto  nuovo  e  proprio  :  egli 
neir  espressione  si  effonde  con  calore,  nella  sostanza 
non  fa  che  accettare  la  parola  di  Enea  e  ripeterla  o 
intenderla  ripetuta  per  sé.    Del   resto,  anche  nell'  Iliade 


NOTE 


455 


Priamo  che  non  soggiunge  conceptis  verhis  un'altra  for- 
mula di  giuramento,  accoglie  con  ciò  la  sostanza  di 
quello  di  Agamennone. 

746  sg.  (p.  428)  tardata  sagitta  genua  e  762  saucius 
instai.  Qui  è  ben  da  credere  che  Virgilio  avrebbe  cor- 
retto. L'operazione  è  andata  bene,  l' ammalato  è  morto  : 
ciò  accade  al  mondo,  e  si  dice,  e  non  e'  è  da  ridere  ; 
come  a  certi  tempi  si  risentono  ferite  e  doglie.  Ma,  dopo 
il  miracolo  conclamato  di  Venere,  Enea  dev'  esser  gua- 
rito per  sempre  del  tutto.  È  delle  ridondanze  che  anda- 
vano potate  intomo  al  bel  disegno,  delle  dissonanze 
rimaste  sospese  nella  gran  sinfonia. 


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