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l,&^^ PUBBLICAZIONI
della R. Accademia Virgiliana :
Serie II : MISCELLANEA \
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^L' E N E I D E
TRADOTTA
DA
GIUSEPPE ALBIXÌ
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4
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V
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
MCMXXI
l/ EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI
ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI
H.tlf.-r.i - .St.ibilim«nti Po|;;.'rHfiri Riuniti - II-io;ì2
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!
ECO SOMMESSA DI UNA GRAN VOCE
QUESTA VERSIONE DEL POEMA DI VIRGILIO
NEL SESTO CENTENARIO DALLA MORTE DI DANTE
UN DEVOTO DI ENTRAMBI
OFFRE AL POPOLO ITALIANO
CHE AMA I SUOI VATI
IL
POE7AA
NOSTRA MAGGIOR MUSA.
Virgilio non attende da un pezzo né apologie
né apoteosi.
Ciò che secondo il suo concetto mancava alla
Eneide è insomma un segreto ch'egli portò con sé.
Non molti i passi e rare le pagine che visibilmente
volevano ancora la mano dell' artefice ; più rare
le parti che dovevano venir meglio composte e
legate nelle mutue rispondenze. E non intendo
già le lievi discontinuità logiche, o certi sottintesi
e supposti, di cui i poeti si danno poco pensiero,
e Virgilio meno degli altri, ma le disarmonie che
ai poeti più che a tutti, e più come più son grandi
e perfetti, debbono spiacere.
Ogni discrezione osservata, rimarrà fermo che
l'Eneide, se paia troppo semplice dirla col Car-
ducci il più bel poema epico delle genti latine, è
la più grandiosa e armoniosa opera che un ingegno
ispirato abbia composto a onore della patria.
Roma, quanto più faceva di storia, più cre-
sceva nella superba coscienza di sé. Non fu piccolo
X PREFAZIONE
merito a' suoi vecchi poeti, come ben vide Orazio,
celebrare domestica facta. Schietti interpreti dello
spirito quirite, non dubitarono che, se tanto argo-
mento di epopea era Troia, Roma non fosse, e
che non potesse Romolo coi Decii e gli Emilii
tenere la scena non meno che le tragiche famiglie
argoJiche. Ennio percosse il bronzo della storia
traendone chiare risonanze nell'eloquio scolpito,
e si senti a dirittura l'anima di Omero. VirgiUo
si contentò dell'arte omerica, ma sempre animato
di sé stesso, e non immemore né sdegnoso dei
predecessori. Fu de' rarissimi casi in cui l'imita-
zione, così sterile e fastidiosa in basso, sembra
quasi un lume di superiore simpatia onde si rispon-
dono di gente in gente le cime più alte. A certi
riscontri torna in mente e par giusta la parola
di quell'antico — e non diciamo noi lo stesso a
certi luoghi di Dante ? — che fa piacere udir con-
suonare le voci dei due poeti : quid suavius quam
diios prcEcipuos vates audire idem loqiientes?
Intanto pochi o nessuno al mondo ebbero più
personale indole di poeta che Virgilio, il cui siile
è un miracolo come V anima sua (anche quell' italiano
di Sebenico aveva ragione). E qui la ispirazione,
la intuizione poetica fu in questo : Roma è la
unica epopea possibile e accettabile a Roma ; solo
che la sua storia, già così disposta a sforzare i
termini della comune realtà, vuole i prospetti
aerati, le luci e i veU del mito. Si farà poesia
apparendo come Venere che reca i doni fatali a
Enea aetherios inter dea candida nimhos.
IL POEMA XI
A quel modo che nella valle elisia, in quella
solenne indicazione che fa Anchise al suo figlio
dei futuri nipoti, il poeta rappresenta le ombre
come abbiano già le forme e i caratteri della loro
incarnazione romana; e si vede Romolo guerriero
e dio, si vedono i sacri arredi e la bianca barba
di Numa, e Marcello con le spoglie opime, e Augu-
sto con la dignità dell' impero : allo stesso modo
la leggenda è tutta penetrata degli spiriti, tutta
sparsa dei riverberi della storia, e le figure si
illuminano come di chi va verso il sole. Il mito
ha i vivi risalti e i netti contorni della realtà,
la realtà le fuggenti aureole del mito : si toccano
e si compiono a vicenda. Chi non ricorda un pen-
siero del magnifico proemio liviano? Se è con-
sueto e naturale alle genti render più auguste le
proprie origini facendole risahre agh Dei, tanta
è la gloria vittoriosa del popolo Romano che gli
altri popoH, con lo stesso animo con che ne sop-
portano r impero, debbono consentirgli di vantare
Marte a progenitore. A me parve sempre che il
pensiero di Livio sia anche, mirabilmente plastico,
in VirgiHo : quando Enea solleva in ispalla lo
scudo di Vulcano tutto istoriato di cose romane,
è proprio la leggenda a portare in alto la storia,
la storia a difendere la leggenda.
La ricca azione dell'Eneide (e qui non cer-
chiamo le fonti più e meno antiche) si svolge
così disegnata che è facile seguirla con l'occhio.
Errante da ben sei anni per terre e mari ecco
XII PREFAZIONE
finalmente Enea navigare il Tirreno verso l'Italia,
e Giunone implacata respingerlo. La persecutrice
è ricorsa a Eolo, la protettrice ricorre a Giove,
la cui solenne parola rivelatrice del destino con-
ferma a Venere le sorti della gloriosa prosapia,
alla quale Giunone stessa finirà placabile e benigna.
Questo libro introduttivo, così vivace e potente
ad attrarre e avvincere subito gli animi, florido
di avventure e di fantasia, pieno di spettacoli
grandi e di tratti leggiadri, di sentimenti e di
espressioni profonde, si chiude mostrando il pro-
genitore di Roma, che s'era visto quasi dispe-
rare tra la burrasca, adagiato alle splendide mense
di colei che ha fondato Cartagine.
L' epico passo indietro, cioè la narrazione dei
casi intercorsi tra la fine della guerra famosa e
questo approdo, si arresta prima alla caduta
di Troia. È de' caratteri dell'Eneide che quasi
ogni libro sembri compiuto in sé e sia insieme
congiuntissimo agli altri, e da libro a libro corre
di solito una mirabile varietà. Il secondo (pur
così virgiliano, per quanto accogUesse da poemi
ciclici : il solo esordio, con la semplice accorata
nobiltà, quali echi destò!) è la pagina compren-
siva della catastrofe d'IHo, la città destinata a
fiammeggiare con l'Iliade in perpetuo all'oriz-
zonte della nostra coltura. E nel terzo, eh' è il
libro delle peregrinazioni errabonde dietro la fatale
terra fuggente, la poesia non perde mai il solco
della sbattuta flotta : tra varietà di paesi e di
casi è un seguirsi di scene, di voci, di figure che
IL POEMA XIII
non si cancellano, dal pietoso Polidoro all'ineffa-
bile Andromaca, dalle abominevoli Arpie al tru-
culento Polifemo. Achem.enide, riflesso dell'Odissea
e che pur tiene qualcosa di Filottete, è l' ultimo
episodio, e naturale, che non era possibile ai nuovi
pellegrini toccare quel lido senza che il poeta toc-
casse materia ciclopica. Ultima iattura è la morte
di Anchise : il quale, oh ! non poteva essere col
figlio a Cartagine. Dove l'eroico narratore con-
chiudendo ritoma, tra l'attenzione di tutti e sotto
i profondi sguardi infiammati della regina.
Il IV è Bidone, tra le più potenti e perfette
creazioni deU' arte antica : ben degna che Venere
stessa nel primo libro dica quasi il prologo di
sua tragedia. Ricordiamo pure Medea, l'attica
e l'alessandrina; ma poi, appunto perché fiere
e vive anch' esse, lasciamole : Bidone è un' altra.
E nulla ha perduto per avere il poeta alterata
o non seguita la versione che la faceva fedele e
devota a Sicheo fino a morte, e morte volon-
taria. Si armonizzano in lei altamente quelle che
sogliono essere in tanto contrasto, passione e
dignità : estrema è la passione, disperata ; ma la
grandiosa nobiltà appena è che si smarrisca o
veli un istante. E pare che si accordino a far sì
che Bidone mai non giunga a ciò in che l' uma-
nità si abbassa e si oscura, non incrudeUsce mai :
anche quando si rammarica d' essere stata pietosa,
quando rimpiange e quasi vagheggia le cose atroci
che avrebbe potuto commettere, non ne commette
alcuna, se non contro sé stessa. Solo impreca, oh
Albim - Eneide
Xl\- PRErAZIONE
l' imprecazione è terribile ! e ci par vedere il fan-
tasma di Annibale impaziente che vengano i giorni,
cum fera Karthago Romanis arcibus olirti
cxitium magnum atque Alpes immittet apertas
(come predirà Giove, e il verso è degno di Giove).
Intanto Enea si partì per seguire onesta e lauda-
bile via e fruttuosa. La stessa burrasca, si direbbe,
dopo un anno di tragico amore seme di odio
eterno, lo rende alle spiagge sicule per T anniver-
sario della morte paterna. E mentre esso si terge
tra sensi e uffici di pietà, il suo poeta respira dalla
patetica tragedia tra fresche eleganze. I ludi ome-
rici son ridotti di numero, cresciuti di ampiezza.
Vita e commedia abbondano nella gara delle navi,
poste in luogo de' carri; e in quella dei corridori.
Quella dei pugili ha grandi masse di scultura: e
la freccia del vecchio Aceste che, lanciata senza
bersaglio, si accende simile a trascorrere di stella
che dura poco, come poesia non si smorza. La
giostra degli adolescenti, il ludus TroicB sem-
bra spiegare agli sguardi le primizie della virtù
latina, serninarium reipuhliccE. Poi la scena, si ab-
buia : che tristezza in quelle donne su la spiaggia
in disparte che fanno il compianto di Anchise e
quasi di loro stesse insieme !
.... profundum
pontum aspectabant flentes.
Così son lasciati a nuova cittadinanza gli
stanrhi do] mare e incuranti di gloria, nil ma-
IL POEMA XV
gna laudi s egente s. Procedono con Enea gli
eletti cuori,
exigui numero sed bello vivida virtus;
e quando toccano Cuma, esso è che, caduto il
buon Palinuro, regge la nave.
L'andata agli Elisi è quasi termine di errori
a chi tanto ha corso di mare e di terra. E per
quella intese cose che furon cagione di sua vittoria,
ben disse chi ben lesse :
et dubitamus adhuc virtutem extendere factis
aut metus Ausonia prohibet consistere terra?
Ciò per r azione del poema : per la poesia piac-
que a Virgilio che la catabasi dell' eroe non fosse
un rapido andare al colloquio del padre, ma una
compiuta visione del mondo di là, penetrato e
percorso, o almeno narrato. Il che aggiimge solen-
nità nuova alla materia, ne accresce il significato
morale, l'avvolge come di un'aura sacra. E in
questa scena fuori del sensibile, in questo quasi
abbraccio dell'eterno le cose e le persone romane
son gettate a campeggiare più largamente che
altrove. Ben si può dire del VI, più ancora che
del II e del IV, che è un poema nel poema, e
come ricco in sé, così fonte di luce per gli altri
canti, e per altri cantori !
Multa quoque et bello passus. Comin-
ciando la seconda parte è manifesto che il poeta
si compiace di ricondurre le cose, quantunque
XVI PREFAZIONE
tanto avanzate, a situazioni simili a quelle del
I libro con più largo svolgimento. Enea è in
porto, ed ecco Giunone a muovere in suo danno
l'inferno, e Venere appresso ricorrere in sua di-
fesa a Vulcano. La Furia non è come Eolo che
spalancò il monte di un colpo : Alletto imper-
versa in tre scene, l' ultima delle quali si tinge
di sangue, e più spaventoso si diffonde il corno
tartareo per la beila campagna e tra i motivi pa-
storali felicemente inseriti alla rude materia.
Ma, Enea è nel Lazio ! La natura fa festa al
gran padre che tocca l'Italia non più fuggente.
E anche l'arte: che splendore d'imagini e di
versi pur lunghesso il rischioso litorale Circeo che
gli Eneadi per benignità di Nettuno oltrepassano
al largo! E il primo entrare la foce del fiume
prediletto al cielo è sotto un trionfo verde sparso
di voli e di canti. Quando poi Enea lo risale,
e ne segue sparendo e riapparendo le curve, è
un piano andare per un placido specchio tra om-
brose sponde fiorite ; e quando giunge a' luoghi
che aspettano Roma, tutto è illuminato dal mez-
zogiorno. E quel giorno è la festa d'Ercole: si
celebra il viaximiis ultor che purgò dal genio
malefico il luogo, si accende Tara maxima che
esso pose in perpetuo; il racconto il rito l'inno
si succedono ampli e solenni. Vien la sera : Evan-
dro accompagna Enea per la contrada erbosa che
fu così sontuosa poi (ma già allora si sentiva il
dio sul colle fatale!), lo accompagna, che tutto
guarda e ode benigno e desideroso, alla piccola
IL POEMA XVII
reggia; e quivi su le soglie gli dice la grande
parola : « Aude, hospes, contemnere opes : qui
fu Ercole ; tu pure degno del dio fa buon viso alla
povertà ». Ma il trionfo maggiore è del poeta,
che non apparisce mai così intero come quando
si accostano davanti alla sua fantasia il divinum
rus e la maxima rerum Roma, la semplicità e la
grandezza, il libero respiro delle cose e la virtù
efficace degli uomini.
Il VII libro ha introdotto Latino, 1' augusto re
nato a essere franteso, non che dai belli spiriti e
dai dotti critici recenti, ma già al suo tem.po e in
casa sua e anche in cielo. La dea Giunone, la re-
gina Amata gh rinfacciano la parola non tenuta a
Turno, quando né esso ammette mai né il poeta
racconta mai eh' egli avesse promessa La\inia al
principe de' Rutuli. S'intende bensì che glie la
avrebbe sposata volentieri, se non erano i presagi
e le voci, ch'esso udiva e non altri, dei Numi.
A Turno egli non vuol male no certo; lo vor-
rebbe rassegnato e incolume, l'intende lo pregia
lo compatisce. Naturalmente: Turno è violento,
ma prestante di valore, di persona e di for-
tuna, e niente affatto un empio, anzi alle sue
ore fa sempre col suo ingenito ardore le sue
preghiere oneravitque aethera votis; solo che non
vede e non crede nuUa di là dal corso ordinario
delle cose, e non ravvisa in Enea se non l'av-
venturiero che vuole usurpargli il suo diritto e
il suo amore.
Latino non è un dappoco, ma la sua condotta,
XVIII PREFAZIONE
ch'esso vorrebbe conformare ai moniti interiori,
è sopraffatta da un altro destino in contrasto :
frangimnr hcu ! fatis, inquit, ferimurque procella.
A quanti nobili spiriti avviene il medesimo ! i
propositi più saldi cedono, o si temperano al-
m^eno, alle ragioni prementi della vita, e gli uo-
mini appaiono, e anche sono, minori della loro
parte fatale, non già perché siano essi ignavi,
ma perché quella è sommamente difficile. Il pio
Enea si dorrà dell' alleato e del suocero malfermo ;
non però questi è un fedifrago di basso cuore,
anzi una profonda coscienza agitata, una figura
che, se non ispira ammirazione, incute riverenza,
poca meno di Priamo.
La sua Lavinia è tra lui e la madre quasi nel-
r ombra, se talora non fosse avviluppata da fiam-
me presaghe, e tal altra un fugace turbamento,
un rossore, non lasciasse intendere che Turno lo
avrebbe ella accolto dalla vita, Enea lo accoglierà
dal cielo. Quasi misteriosa, del resto, compunta,
passiva, si direbbe, come spesso le predestinate^
le progenitrici di popoli. Quando Ovidio in un'ora
non buona rimetterà le mani ad Anna sorella di
Bidone e a Lavinia, sarà pur forza sentire quanta
era la poesia delle donne virgiliane.
Il VII libro e il mirabile Vili dopo altre
rispondenze ne hanno infine una insigne : questo,
l'armatura con che Enea può fronteggiare tutto
il Lazio; quello, una rassegna delle forze che si
II. POEMA XIX
armano per Turno. Davanti alle quali il poeta,
che sa bene come ora si tratti di un urto fatale
ma tra genti cBterna in pace futuras, par che le
saluti al passaggio, e si compiace a osservare
quibus Itala iam tum
floruerit terra alma viris,
e li guarda, tranne pochi, con una simpatia ara-
mirata non dissimile a quella con cui i campa-
gnoli e le donne guardavano la gio\dne condot-
tiera del brillante squadrone de' Volsci.
Il IX mette capo a quella che si può dire
la giornata di Turno, terribile fuori e dentro alla
cittadella degli Eneadi nell'assenza di Enea. Ma
quante cose precedono ! Spicca tra queste il pri-
mo tratto bellico di Ascanio, con la bravata ostile
che lo provoca, con la parola apollinea che lo
premia. E segnalati su tutti in perpetuo vanno
Eurialo e Niso.
Questi nomi ci portano ad avvertire il seguirsi
vicino di scene e motivi tra loro consimiH. 11
libro IX ha l'impresa eroica dei due amici e il
pianto della madre di Eurialo all'annunzio e alla
vista dello strazio del figlio. Il X ha la morte
di Fallante e di Lauso, e la disperazione di Me-
zenzio, più commovente in tale uomo, nel quale
r umanità si risente solo e si rivela all' ora estre-
ma neir estremo dolore. L' XI ha il lamento di
Evandro tra disperato e magnanimo, di Evandro
che neir VIII, ne' congedi al figliuolo, aveva fatto
XX PREFAZIONE
quasi il preludio a questa serie di eroiche elegie.
E il poeta, che già pianse Marcello, fa gran prova
in questa molteplicità di tratti somiglianti e di-
versi, ma il mirabile è in quell'intimo senso che
lo conduce a rappresentare tra le atrocità della
guerra massimo, con quello de' figli, il sacrificio
dei genitori. Di tutti i genitori: Enea che, pur
costretto a dar morte a Lauso, dopo averlo am-
monito e cercato risparmiare, ne solleva il bel
capo chiomato dalla polvere e con la pietà del
povero fiore reciso sente la stretta del dolore pa-
terno, è della più profonda e toccante poesia.
Ma è anche di quella che ai nostri giorni non
ha bisogno di commenti.
L' alacrità indefessa delle aiutatrici divine dal-
l'una e dall'altra parte, aggiuntovi l'intervento
di Cibele a trasformare in ninfe le navi d'Enea,
fa essere a luogo il concilio degli Dei, a' quali
Giove proibisce ormai il parteggiare: fata viam
invenient. Ciò deve aprire il campo al manifesto
prevalere degli Eneadi per lor propria virtù. E
prevalgono infatti: pur con vittime lagrimate, pur
di fronte a feroci e a generosi avversari, nel X è
la rivalsa grande e definitiva di Enea su Turno ;
e anche questa si contrappone alla fine del libro
innanzi.
L'XI si disegna in tre grandi scene. La prima
è, si può dire, della tregua per i roghi e le sepol-
ture de' mor^i ne' due campi ; e quelle ricche
pagine sono sparse di parole grandi e di umanis-
sime imagini che scendono per i secoh con sottile
IL POEMA XXI
solco luminoso, come le torce degli Arcadi mossi
incontro al funerale di Fallante :
lucet via longo
ordine flammariim et late discriminat agros.
L' ultimo consiglio adunato da re Latino, dopo
le proposte di lui coscienzioso e combattuto sem-
pre, ha i due discorsi di Drance e di Turno, che,
nonostante i precedenti in poeti e storici, diven-
gono il prototipo di tali epici contrasti. Ma la
guerra sopraffa V assemblea : ed ecco al centro de'
fatti la storia e la figura di Camilla. Tiene anche
essa di qualche già nota eroina, sicché il poeta
potrebbe richiamare in paragone Arpalice e Pen-
tesilea, ma è tutta nuova e tutta fresca, vaga
d' invenzione e viva di verità, con una ricchezza
di toni e di tratti che va dal più virile e prodi-
gioso eroismo alla femminilità di un' ingenua fan-
ciulla.
Il hbro XII si raccoglie tutto intorno al duello:
ampia e ben connessa materia, tra cui si leva il
giuramento de' due re solenne e senz'irà, poi il
prodigio ingannevole ond' è illuso e mosso a susci-
tare r illecita mischia il felix Tolunmius ; ma nulla
è più profondo che 1' improv\dso smarrimento di
Turno. Il violento giovine in poco spazio di versi
assomigliato al cavallo che scapezzato corre bal-
danzoso per l'aperto, al leone che dopo la ferita
è più feroce, al toro che sta per avventarsi, eccolo
a un tratto palhdo e tardo. Il suo sgomento non
è da nessuna viltà, e non lo corta a nessuna : ma
XXII PREFAZIONE
come Didone, già prima della spada e del rogo,
era per il veggente poeta pallida della morte fu-
tura, così Turno sente già non il colpo dell'av-
versario ma il cenno del freddo e ferreo destino :
vis inimica propinquat.
Dopo una prima vicenda che li dissipò, quando
i due rivali tornano a essere per l'ultima volta
di fronte, la grande scena è sospesa: il fato sta
per adempiersi in terra, e si adempie in cielo il
vaticinio che su l' inizio del poema fece Giove a
Venere ; Giunone è rassegnata alla vittoria di Enea
e propensa alla gloria di Roma. Di conseguenza
vien meno a Turno l' ultimo aiuto della sorella
Giuturna che nell' abbandonarlo deplora con pa-
role ineffabili la propria immortalità : immortalis
ego?... E seguitando si torna ai due magnanimi
restati a fronte. La fine, tra catastrofe e catarsi,
è sparsa di umano : umane le parole del vinto,
e umano sarebbe il vincitore, se non lo facesse
inesorabile una diversa pietà, gli ostentati trofei
di Fallante che attende vendetta.
Tale si svolge, limpida e armoniosa, 1' azione
del poema. Le armonie, le rispondenze intime o
esterne, son più diffìcili a numerare e facili ad
avverare che non le discordanze osservate e osser-
vabili. Si direbbe che a luoghi vadano oltre la
intenzione stessa dell'autore. Il poema di Roma
con quale parola si poteva intonare che ugua-
gliasse questa Urhs antiqua FUIT.... Karthago? Il
piloto della flotta di Enea, nel momento che toccò
IL POEMA XXIII
r Italia, chi poteva essere se non Enea stesso ?
E chi doveva accamparsi primo contro il pio se
non Mezenzio, sprezzatore degh Dei e contrista-
tore degli uomini ? Un' ombra restava intorno a
Enea dall' Iliade, viva e presente a tanti : Dio-
mede fu per vincerlo (anche Achille, ma troppi
ne vinse Achille, e sparì nella gloria). Enea non
se ne vergogna, anzi, tra lo scatenarsi furioso
degh elementi, rimpiange di non essere caduto
in patria sotto a cosi degno nemico. Ebbene :
Turno e i Latini nell' imprendere la guerra man-
dano a Diomede, ora colono e re nell' umile Italia,
per averlo naturale e poderoso alleato ; ed è Dio-
mede a magnificare Enea, a dissuadere dal com-
battergli contro, a pareggiarlo e preporlo a Ettore ;
i due nomi che già si udirono insieme su le pure
labbra di Andromaca.
Se taluni critici furono disposti, senz' avve-
dersene, a non contentarsi dell' Eneide per la fama
che non se ne contentasse l' autore, sarebbe anche
più grave illusione attendere troppo a quella sua
semplice arguzia, che i suoi versi nascevano in-
formi come gli orsacchi e solo a lisciarli abbelli-
vano. Così altra volta scriveva candidamente ad
Augusto che gli pareva aver commesso una pazzia
a mettersi a una così grande opera. Quanti ne
sono invece di que' versi eh' egli sembra aver
colti per r aria luminosa ! come le sue api colgono
i nuovi sciami dalle foglie verdi, e joliis natos et
snavihiis herbis ore legunt. Solo che, all' in fuori di
certi pochi luoghi che hanno vestigio non pure
XXIV PREFAZIONE
d'incompiutezza ma d'improvviso e precario, la
musica e la parola non ridondano né si appon-
gono ma si contemperano nella vita interiore del-
l'ispirazione e ne' meditati vagheggiamenti del-
l'arte. Non si abusò mai peggio del nome di Virgilio
che quando si prodigò lode di virgiliani a versi
nulli o a sfoggi di così dette eleganze. È delle
sventure toccate a lui, ma le porta in pace com-
pensandole con le sue fortune.
Tra le altre qualità che i Romani tenevano
necessarie ai grandi condottieri era quella che da
loro si diceva felicitas e che, comunque voglia
dirsi, bisogna a tutti, anche ai grandi poeti. Più
volte parve che a Virgilio mancasse, ma insomma
non fu vero.
Quando nell'anno 19 a. C. a' 21 di settembre
(il mese, quasi i giorni di Dante) morì Publio
Virgilio Marone, che solo alle idi d' ottobre avrebbe
compiuto i suoi cinquantuno, l' ingegno suo fioriva
ancora in estate, come troppo estivo era il sole
che gli affocò quell' ultimo viaggio. Triste 1' ombra
che avvolgeva quella vita e minacciò di avvolgere
l'opera che gli era stata più che decenne fatica.
Ma Augusto, che il poeta aveva scritto tra gli
eredi, sentì la parte sua, avventurata e gloriosa,
nel retaggio poetico.
IJ)i Virgilio, e anche di Orazio, nelle relazioni
col principe credo si possa ripetere la bella parola
di Cicerone per Aristotele e Teopompo, che cioè
scrivevano cose onorevoli a loro e accette ad Ales-
sandro, UH et qncc ipsis honesta essent scrihehant
à
IL POEMA XXV
et grata Alexandro. I grandi poeti augustei, che
nulla sconoscevano della storia di Roma, che ren-
devano onore anche alle ultime resistenze e virtù
repubblicane, avevano intese e sinceramente ab-
bracciate le ragioni dell' impero. Né queste pote-
vano imprimersi e trionfare in magnificenza poe-
tica che uguagliasse V Eneide, la quale, veramente
incompiuta solo per il suo autore, non già con-
sumarsi in fiamma breve ma doveva splendere faro
perpetuo. Lucio Vario, amico buono, e buon poeta
cui non arrise felicitas, fu esso nuova e rara for-
tuna per Virgilio pubblicandone, discreto e sagace,
il carme immortale.
In verità la letteratura latina, così potente
ove reca l'impronta sua, così proficua ove si rifa
dai Greci, non ha se non il tesoro ciceroniano
che pareggi o vinca Virgilio nell' irradiarsi efficace
e benefico ad animare e ingentilire i secoli. Se
non che per il fascino della poesia e del verso
Virgilio potè di più, sì tra i modesti che attin-
gono a fior di labbra dal fonte delle Muse orna-
mento e diletto, e sì nell'alto ove le menti ispirate
accendono alla grandezza altrui la propria gran-
dezza. Il fervido ossequio che gh ebbero, il fe-
condo alimento che ne trassero cuori e intelletti
sovrani, e gh echi virgiHani non meno propagati
per età torbide e buie, mostrano la potenza e
floridezza perenne del poeta, che tanta armonia
ebbe d'invenzioni e di parole, e così altero il lin-
guaggio della maestà, così intenso quello della
preghiera, e, pieno di sensi delicati e sani, fu di-
XXVI PREFAZIONE
Sposto a ogni bontà e^insieme tutto impresso della
romanità in cui si esaltava.
La perfetta intelligenza di Virgilio è tra le
meraviglie di Dante, che ben lo cinse di aureole,
ma lo cercò, terso di tutti i vapori medievali,
nel suo volume: nacque dal lungo studio il grande
amore.
ONORATE l'altissimo POETA
è il verso di Dante che a Dante naturalmente
ritorna ; ma Dante lo scrisse per Virgilio e lo fece
dire da Omero. Perché^l'uomo che più alto ebbe
il concetto del poeta, mentre sentiva sovrana-
mente in sé che la poesia rinasce col poeta nuovo
come la primavera ogni anno e l'amore in ogni
anima, vedeva altresì e amava una rispondenza
e continuità tra gl'ingegni emersi dalle caligini
mondane a esser voci e splendori dei popoH. Esso
volle la compagnia di Virgilio : e se altro legame
non fosse tra l' Italia antica e la moderna, indis-
solubile è questo e luminoso che avvicina nella
lor pura e. benefica gloria i due poeti nazionali.
Sono grato alla R. Accademia Virgiliana di
Mantova, che si aggiunse auspice a questa pub-
blicazione con la fiducia, vorrei non vana, di
concorrere così per opportuna via alla celebra-
zione dell' anno secolare dantesco.
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LIBRO PRIMO
L'armi e Fuom canto che dal suol di Troia
primo in Italia profugo per fato
venne e al Lavinio lido, in terra molto
incalzato e sul mar da violenza
ei de' Celesti per la memore ira
de la crudel Giunone, e molto ancora
provato in guerra, fin ch'ebbe fondata
la città e gli Dei posti nel Lazio,
onde il Latino genere e gli Albani
padri e le mura de l' eccelsa Roma.
Musa, le cause narrami, per quale
sfregio a sua deità, di che dogliosa,
la Regina de' Numi un uom costrinse
di pietà sì preclaro a correr tante
vicende, a incontrar tanti travagli :
ed è sì grande in cuor divino V ira ?
Antica città fu (gente di Tiro
la possedè) Cartagine, rimpetto
A.tBiNi - Eneide
ENEIDE
a Italia lungi ed a le tiberine
bocche, opulenta, acerrima guerriera:
cui frequentar dicevano Giunone
più che ogni altro paese e Samo istessa;
qui\4 fur l'armi sue, quivi il suo carro,
e che quello, assentendolo i destini,
divenisse l'impero de le genti,
fin d'allora la Dea studia e vagheggia.
Però che udito avea, dal troian sangue
scender progenie che le tirie ròcche
rovescerebbe un dì ; che quindi larga-
mente un popolo re, superbo in guerra,
moverebbe a rovina de la Libia :
così volger le Parche. La Saturnia,
questo temendo, e de l'antico stormo
memore ch'essa avea guidato a Troia
per Argo sua; né le cadeau di mente
le cagioni de l'ira e i fieri crucci,
fìtto rimane nel profondo seno
il giudizio di Paride, il dispregio
di sua bellezza, l'odiosa stirpe
e gli onor del rapito Ganimede;
da tali fiamme accesa i Teucri, avanzo
de' Danai e del feroce Achille, a tutte
le marine travolti respingea
dal Lazio, e già molti anni erravan spinti
dal fato ad ogni mar: sì dura impresa
era fondare la romana gente.
Appena da la vista de la terra
siciliana lieti verso l'alto
LIBRO PRIMO
veleggiavano e con le bronzee prore
frangean le spume, che Giunone, in cuore
alimentando la ferita etema,
disse tra sé : e Vinta desistere io
da l'opera, e sviare il re de' Teucri
non poter da l'Italia! ho contro i fati!
E Pallade bruciar potè la fiotta
degli Argivi e sommergerli pe' 1 fallo
e la foUia d' Aiace sol d'Oileo?
Essa da' nembi il rapido scagHando
foco di Giove dissipò le navi,
Tacque al vento sconvolse, e lui spirante
vampe dal petto squarciato rapì
nel turbine e il confìsse a scogHo acuto.
Ma io che degh Dei regina incedo,
sorella e moghe di Giove io con una
sola gente per tanti anni guerreggio.
E ancor v' è chi di Giuno il nume adora
e pregando a l'aitar porrà l'offerta ? ».
Tanto tra sé ne l'infiammato cuore
agitando la Dea move a la patria
de' nembi, pregna d'austri furibondi,
a r EoHa. Ivi Eolo re in vasto antro
i riluttanti venti e le tempeste
sonore signoreggia ed imprigiona:
queUi sbuffando con susurro immenso
fremono intomo agli sbocchi del monte,
ma Eolo scettrato in alto siede
e tempera gli umori e frena Tire;
senza ciò il mar la terra e il ciel profondo
ENEIDE
seco trascinerebbero nel volo
e spazzerebber via. L'onnipotente
Padre temendo ciò ne le caverne
buie li chiuse, mole di montagne
alte vi sovrappose, e un re lor diede
che con patto fermato e dietro al cenno
tirar sapesse ed allentar le briglie.
Supplice a lui allor Giuno si volse:
« Eolo, poi che il Padre degli Dei
e degli uomini re ti die possanza
di blandir Fonda e sollevar col vento,
gente nemica a me solca il Tirreno
portando Ilio in Italia e gli sconfitti
Penati : desta l' impeto ne' venti,
investi quelle poppe e le sommergi,
o dissipali e spargili sul mare.
Ho sette e sette ninfe, di bellezza;
la più bella tra lor Déiopèa
ti legherò di stabile connubio
e farò esser tua, che teco passi
tutta per questo merito la vita
e con prole gentil padre ti renda >•>:
Eolo in risposta: « A te spetta, o regina,
veder che ti talenta; a me, obbedire.
Tu questo regno quanto egU è, lo scettro
e Giove mi propizi tu; tu fai
ch'io m'adagi a le mense degli Dei
e i nembi signoreggi e le tempeste ^>.
Ciò detto, con la cuspide rivolta
percosse il fianco al cavo monte, e i venti
LIBRO l'KlMi
in groppo si minano a l'uscita
e percorron la terra turbinosi.
Calarono sul mare, e dal profondo
lo sconvolgono tutto ed Euro e Noto
ed Africo impregnato di procelle,
e spingono a le rive i cavalloni.
Segue d'uomini un grido, un cigolio
di gómene. Improvvise il cielo e il giorno
tolgon le nubi agli occhi de' Troiani ;
cupa incombe sul pelago la notte.
Tonò la volta eterea, l'aer guizza
di folgori frequenti, e tutto intorno
è una minaccia d'imminente morte.
Enea pe' membri sente un gel, sospira,
ed « Oh ! », tendendo alto le palme esclama,
« tre volte e quattro fortunati quelh
ch'ebbero in sorte di morir su gh occhi.
de' padri, sotto a' muri alti di Troia !
O Tidide, fortissimo de' Danai,
non avere io potuto in terra d'Ilio
cadere e per la tua mano spirare
quest'anima, ove il fiero Ettore giace
del colpo de l'Eàcide, ove il grande
Sarpèdone, ove tanti il Simoenta
scudi d'eroi travolge ed elmi e salme ! )>.
Mentre ch'ei si sconsola, una stridente
raffica d'aquilon coglie sua vela
in faccia e leva fino agli astri i flutti.
Fiaccati i remi, girasi la prora
e dà il fianco a* marosi; una montagna
accumulata e scoscesa vien d'acqua.
ENEIDE
Questi pendono in cima al flutto, a questi
scopre tra' flutti l'onda spalancata
la terra, va il bollor fino a l'arene.
Tre navi avventa Noto a sassi occulti
(Are li chiaman gl'Itali, a fior d'acqua
schiena enorme), tre navi Euro dall'alto
sospinge in secche e sirti (a veder triste),
le sbatte a' banchi e accerchiale di sabbia.
Una, che i Liei ed il fedele Oronte
portava, immensa ondata innanzi agli occhi
di lui percote in poppa: a capo in giù
il timonier n'è scosso, e lì tre volte
aggira il flutto intorno a sé la nave
ed il rapido vortice l' inghiotte.
Rari natanti per il gorgo vasto
appaiono, armi di guerrieri e tavole
e troiana dovizia galleggiante.
Già il saldo legno d' Dioneo, già quello
del forte Acate, quel che porta Abante,
quel che l'annoso Alete, il nembo ha vinti:
tutti per lo sconnettersi de' fianchi
bevono la nemica onda sfasciati.
Sentì l'immenso murmurc del mare
Nettuno intanto pien di meraviglia
e scatenata la burrasca e i fondi
rimescolati, e fuori da le schiume
sporse il placido capo a riguardare.
Dissipata d'Enea vede la flotta
per tutte l'acque, sopraffatti i Teucri
dal rovescio del ciel, né le insidiose
LIBRO PRIMO
sfuggirono al fratello ire di Giuno.
Euro e Zefiro a sé chiama e lor dice:
« Tanta baldanza de la vostra schiatta
dunque v'ha preso ? Ornai l'aria e la terra
senza me, venti, a perturbar vi ardite
e a sollevar di simili montagne?
Io vi.... Ma prima è da chetare i flutti,
poi sconterete a me ben altra pena.
Fuggite rapidi e al re vostro dite
che non a lui, a me fu dato in sorte
la signoria de' mari e il gran tridente.
Egli ha le vostre case, Euro, rupestri;
Eolo in quella reggia si pompeggi
e regni dentro il carcere de' venti ».
Cosi dice e più presto del suo detto
placa il gonfio elemento e fa le accolte
nubi fuggire e ritornare il sole.
Cimòtoe ed insiem Tritone a forza
spiccan le navi da l'acuto scoglio:
esso le aiuta col tridente ed apre
l'ampie sirti e a far mite la marina
va con le lievi rote a fior de l'acque.
E come in un gran popolo se nata
sovente è la sommossa e infuria in cuore
l'ignobil volgo, e già fiaccole e pietre
volano, l'ira somministra l'armi;
allora se un uom veggano cospicuo
di meriti e virtù, tacciono e stanno
con intente le orecchie, e quei gli umori
domàna ragionando e li addolcisce :
così tutto del mar cadde il fragore,
ENEIDE
poi che il Padre levato a guardar Tacque
sotto l'aperto ciel move i cavalli
con le redini al volo abbandonate.
Stanchi gli Eneadi il più vicino lido
si sforzano raggiungere e son volti
a le spiagge di Libia. Ivi s'addentra
profondo un grembo: un'isola fa porto
con le sue braccia, a cui rompe da l'alto
ogni onda e si rispiana entro quel seno.
Vaste rupi a' due lati e minacciosi
due scogli contro il ciel, sotto il cui ciglio
addormentato si dilata il mare:
ma sopra è scena di vibranti selve
e cupo rezzo di boscaglia bruna;
di faccia i massi formano una grotta
scendenti, e dentro v'è acque dolci e seggi
di vivo sasso, casa de le ninfe.
Non legame ivi tien le stanche navi,
non àncora col suo dente le afferra.
Là con sette di tutti i legni suoi
entra Enea: per gran vogHa de la terra
balzano i Teucri a la bramata sponda
e si gettano madidi sul lido.
Pria trasse da la selce una scintilla
Acate e a foglie e ad aridi sarmenti
apprese e a l'esca propagò la vampa:
poi la intrisa di mar cerere fuori
levan que' lassi e i cereali arnesi,
affrettandosi il grano preservato
tostare al foco e stritolar col sasso.
LIBRO PRIMO
Intanto Enea sale uno scoglio e tutto
abbraccia con lo sguardo il mar, se nulla
Anteo scorgesse a la mercé del vento
e le frigie triremi, o Capi e l'armi
alte su l'alta poppa di Calco.
Nave in vista nessuna : errar sul lido
vede tre cervi, e intiere torme dietro
che pascolano sparse per le valli.
Stette ed a l'arco die di piglio e a' presti
dardi, armi che recava il fido Acate;
e i duci prima ch'ivano a test'alta
inalberando le lor corna atterra,
indi dà ne la mandra e con gli strali
la fa in frotta fuggir tra quelle frasche,
né si rista che trionfante innanzi
non istenda al terren sette gran corpi
e con le navi il numero pareggi.
Indi al porto procede e H comparte
tra tutti i suoi; e quel vino che avea
posto negh orci sul trinacrio Udo
Aceste il buono eroe dandoli a loro
che si partian, distribuisce, e i tristi
cuori così dicendo riconforta :
« Compagni — oh già non slam nuovi a' dolori,
voi che peggio soffriste, a questo ancora
porrà una fine Dio. Voi la scillea
rabbia fin presso a' romorosi scogli
sfidaste, conosceste le ciclopie
caverne voi: gli spirti richiamate
e cacciate il timor mesto; un di forse
questo ricordo ancor ci sarà bello.
IO ENEIDE
Per le varie vicende e i rischi tanti
tendiamo al Lazio, ove ci mostra il fato
cheta stanza; ivi può risorger Troia.
Reggete, e a' dì serbatevi sereni ».
Così dice col labbro e pien d'affanno
simula in volto la speranza, preme
entro il cuore il dolor. Quelli a la preda
s'accingono per lor cibo: a le carni
strappan le terga e scopron le interiora;
chi ne fa pezzi, e t remole agh spiedi
le infìgge, chi pone sul hdo il rame
avvampandolo intorno. La vivanda
rifa le forze, e s'empion stesi a l'erba
di vin vecchio e di pingue selvaggina.
Sazia la fame e tolte via le mense,
in lungo conversar bramano i loro
persi compagni, tra fidanza e tema,
o che sian vivi ancora o giunti al fine
e non odano più chi h richiama.
Più che tutti il pio Enea tra sé compiange
or del pugnace Oronte, or la iattura
d'Amico ed il crudel fato di Lieo;
compiange il forte Già, Cloanto forte.
E cessavano oniai, quando dal sommo
mirando Giove al mare veleggiato
ed a l'umili terre e a' lidi e a' lati
popoli, così stette in vetta al cielo
e ne' regni di Libia il guardo affisse.
A lui che tale in cuor volgea pensiero
mesta e di pianto sparsa gU occhi belli
LIBRO PRIMO II
dice Venere: « O tu eh* uomini e Dei
regni eterno e col fulmine atterrisci,
qual contro te il mio Enea colpa sì grande
o poteron commettere i Troiani,
a' quali dopo tante morti tutto
davanti a Italia s'attraversa il mondo?
Pur da loro, col volgere degli anni,
nascituri i Romani promettesti;
da loro un dì, dal rinfrescato sangue
di Teucro i duci che la terra e il mare
avrebbero in balia : deh ! padre, quale
pensier ti cangia? In questo io consolava
il doloroso minar di Troia,
co' fati nuovi compensando il fato :
invece è la medesima fortuna
che dopo tanto perigliar li preme.
Qual concedi, gran Re, fine a' travagli ?
Antenore potè di tra gli Achivi
sfuggir, ne' golfi illirici securo
e penetrar ne' regni de' Libumi
e valicar la fonte del Timavo,
onde con vasto muimure del monte
per nove bocche va mare diffuso
e rifluendo allaga le campagne.
Pur quivi egli fondò Padova a stanza
de' Teucri, diede a la sua gente un nome
e appese le troiane armi; tranquillo
ora in placida pace si riposa.
Noi tua progenie, cui le vette assenti
del ciel, perdute ahimé le navi, siamo
per l'ira d'una sola abbandonati
12 ENEIDE
e risospinti da l'Italia. Questo
premio ha pietà ? così ci rendi al regno ? «.
A quella sorridendo il Creatore
degli uomini e de' numi con quel volto
che rasserena il cielo e le tempeste,
sfiorò le labbra de la figlia, e dice:
<( Non temer, Citerea : vedrai la cerchia
di Lavinio murar che t'è promessa
e il magnanimo Enea solleverai
tra gli astri in cielo: me pensier non cangia.
Quel tuo (dirò, poi che di ciò t'affanni,
e più largo aprirò de' fati il velo)
grande farà guerra in Italia e, dome
fiere genti, darà norme e dimore,
fin che la terza estate abbia veduto
lui nel Lazio regnare e sian tre verni
a' soggiogati Rutuh trascorsi.
Indi il fanciullo Ascanio, che ora il nome
ha di Giulo, Ilo fu mentr'IUo stette,
trenta imperando giri ampli di mesi
compirà, trasporrà la regia sede
da Lavinio a la Lunga Alba munita.
Lieto Romolo poi del fulvo vello
de la lupa nutrice avrà retaggio
la gente, fonderà le marzie mura,
li chiamerà dal nome suo Romani.
Quivi omai per trecento anni seguiti
regno sarà sotto l'ettorea gente,
fin che real sacerdotessa a Marte
Ilia partorirà prole gemella.
LIBRO PRIMO 13
A costoro né termine di cose
io pongo né di tempo: ho dato a loro
imperio senza fine. Anch'essa inoltre
l'acerba Giuno, che or la terra e il mare
e il ciel riempie di spavento, in meglio
volgerà il cuor, meco amerà di Roma
il dominante popolo togato.
Così piacque. Verrà co' tempi il tempo
che la casa di Assaraco si renda
soggetta Ftia con l'inclita Micene
e signoreggi in Argo debellata.
Troiano nascerà dal gentil ceppo
Cesare, con l'Oceano l'impero,
a limitar la fama con le stelle,
Giuho, nome dal gran Giulo disceso.
Un dì nel ciel tu lui pien de le spoglie
de l'oriente accoglierai serena;
invocato egU pur sarà ne' voti.
Posate allor le guerre, il fiero tempo
s'addolcirà: la Fé' candida e Vesta,
Quirino col fratel Remo daranno
leggi; saran con ferrei serrami
chiuse le dure porte de la Guerra ;
prigione dentro il Furor bieco, assiso
sopra l'armi crudeli e avvinto a tergo
da cento bronzei ceppi, orrìbilmente
fremerà con la bocca sanguinosa ^».
Così dice, e il fighuol di Maia invia,
sì che il suol di Cartagine e le nuove
rocche a' Teucri si schiudano ospitali,
li ENEIDE
né ignara del destin Dido li cacci
dal paese. Quei va per l'aer vasto
col remeggio de l'ali ed a la Libia
subito è giunto. Ecco che adempie il cenno,
e depongono i Peni il cuor nemico,
volente Dio: su tutti la regina
mansueta si rende e generosa.
Ma il pio Enea tutto in pensier la notte,
come prima fruì la bella luce,
si propose cercare i luoghi novi
ed a che piagge l'ha portato il vento,
se sia d'uomini stanza o sia di belve
(che incolto vede), e riferirne a' suoi.
La flotta nel convesso de le selve
nasconde sotto il ciglio de la rupe,
tra gli stormenti chiusa alberi ombrosi:
esso sen va, compagno il solo Acate,
con due di largo ferro aste tra mano.
Ecco, la madre gli si offerse incontro
ne* boschi, con la faccia e la persona
di giovinetta, in armi di spartana,
o qual la trace Arp alice i cavalli
sprona, e supera in corsa il rapid' Ebro.
Da cacciatrice agh omeri sospeso
aveva il docile arco e sparsi al vento
i capelli; scoperta le ginocchia,
e rannodate le fluenti pieghe.
« Oh, per prima esclamò, giovani, dite,
se mai qui una de le mie sorelle,
con la faretra e una dipinta pelle
LIBRO PRIMO 15
di lince, errar vedeste, o correr dietro
a spumoso cinghiai con alte grida ».
Così Venere, e fa così risposta
di Venere il figliuol : « Udita o vista
non ho nessuna de le tue sorelle,
o.... Come debbo, vergine, chiamarti?
l'aspetto tuo non è mortai, né donna
suona la voce — ; o certam.ente dea
— la sorella di Febo ? o da la stirpe
de le Ninfe una ? — , sii propizia e il nostro
affanno allevia, qual tu sia : ne insegna
sotto che cielo e in qual parte del mondo
siam pur fatti vagar : nuovi degli uomini
e de' luoghi vagando andiam., cacciati
qua da' venti e da l' impeto de' flutti.
Molte t'immolerem vittime a l'are ».
Venere allora : « Oh ! non son fatta io degna
di tanto. È l'uso a le fanciulle tirie
portar faretra, e il porporin coturno
alto al piede allacciar. Punico regno,
Tirii e città di Agenore tu vedi;
ma è suol di Libia, gente rotta a guerra.
Tiene Dido l'impero, qui sfuggita
da la tiria città via dal fratello.
È lunga offesa, lunghe trame; ed io
per sommi capi toccherò le cose.
Marito a questa donna era Sicheo,
tra' Fenici ricchissimo di terre
e ch'ella amò perdutamente, data
vergine a lui dal padre e disposata
Ih ENEIDE
co' primi auspici. Ma di Tiro al regno
seguiva il fratel suo Pigmalione,
più malvagio su tutti ed efferato.
E tra i cognati si frappose l'ira.
Quegli empio e cieco da l'amor de l'oro,
nulla pensando al cuor de la sorella,
con traditrice spada innanzi a Tare
inavveduto sopraffa Sicheo;
e il fatto a lungo ascose e di fallace
speme ingannò la mesta innamorata.
Ma l'ombra venne a lei de l'insepolto
sposo ne' sogni, e sollevando il viso
mirabilmente pallido le aperse
l'aitar crudele ed il trafitto seno
e tutto il bieco orror de la famiglia.
Prender la fuga, abbandonar la patria
le persuade, e buono al suo viaggio
tesoro antico le rivela in terra,
ignorato valor d'oro e d'argento.
Da tanto indótta preparava Dido
la fuga e i soci : si radunan quelli
che hann'odio fiero del tiranno o \'ivo
sospetto; navi erano a sorte pronte,
e quelle hanno afferrate e d'oro colme.
Salpa in mar la dovizia de l'avaro
Pigmalion: duce una donna al fatto.
Vennero a' luoghi ove or l'eccelse mura
vedi e sorger la ròcca de la nova
Cartagine, e comprarono terreno,
Birsa dal nome de la cosa, quanto
con un cuoio taurino avesser cinto.
LIBRO PRIMO 17
Ma voi chi siete ? e da che terra giunti ?
dove avviati ? ».
Al dimandar di lei
quegli così rispose sospirando
con una voce che dal cuor saliva:
« O dea, s' io mi rifaccio dal principio
e i fasti attendi udir de' nostri mali,
V^espero in ciel chiuderà prima il giorno.
Da Troia antica noi, se a' vostri orecchi
Troia sonò, di mare in mar portati
spinse a la Libia l'arbitra tempesta.
Sono il pio Enea, per fama ito a le stelle,
che i Penati sottratti dal nemico
reco per mar con me. Cerco l'Italia
avita e il ceppo che da Giove scende.
Con venti navi il frigio mare io presi,
e la dea madre mi mostrava il solco,
dietro i fati assegnati : or sette sole
restano, guaste da l'onde e dal vento.
Ignoto, ignudo erro le libie lande,
d'Europa e d'Asia reietto ».
Seguire
non gli lasciando sua querela triste,
Venere interrompea : « Oual che tu sia,
non inviso a' Celesti, io credo, l'aure
spiri vitali, poi che se' venuto
a la tiria città : solo procedi
a le soglie da qui de la regina.
Per ch'io ti annunzio reduci i compagni,
resa la fiotta e da mutati venti
tratti in salvo, se un vano presagire
Albini - Eneide »
l8 ENEIDE
vani non m'insegnarono i parenti.
Sei e sei cigni guarda lieti a schiera,
cui l'augello di Giove minando
da l'aria avea per l'ampio ciel sgomenti,
or calarsi ordinati e prender terra
o quasi presa già d'alto adocchiarla.
Come quelli tornanti batton l'ale
e abbraccian l'aria e il canto hanno ridesto,
così le prore e i prodi tuoi nel porto
già sono o v'entrano a spiegate vele.
Sol va', prosegui dietro la tua via ».
Disse, e die nel rivolgersi un baleno
da la rosea gola; odor divino
spirarono dal suo capo le ambrosie
chiome, la veste fino al pie discese,
e palese a l'andar parve la dea.
Egli come la madre riconobbe,
con questo dir la perseguì fuggente:
« Tante volte perché, tu pur crudele,
illudi il figlio con sembianze false?
né mi è dato a la man porre la mano,
e parlare e rispondere sincero? ».
Così si duole e a la città s'avvia.
Ma Venere d'oscuro aer li cinge
e li riveste d'una nebbia folta,
che vederli niun possa o toccarli,
fermarli o chieder del venir cagione.
Alto essa a Pafo rivolò, si rese
Heta ne la dimora ov'è il suo tempio
e d'incenso sabeo fumano cento
altari e odoran di ghirlande fresche.
LIBRO PRIMO 19
Prendon quelli la via com'è segnata,
e già salivari la collina che ampia
a la città sovrasta e la prospetta.
Ammira Enea le moli, e fur capanne,
e le porte e lo strepito e le strade.
Sudano i Tirii a l'opera : chi stende
i muri e innalza l'arce e volge a forza
macigni; chi, scelto a sua casa il sito,
d'un solco il gira : allogan la ragione,
i magistrati e l' inchto senato :
altri qui scava il porto, altri là pone
profondi del teatro i fondamenti
e spicca da le rupi alte colonne,
superbo onor de le future scene.
Tali l'api tra '1 sol preme il desio
a nova estate per i campi in fiore,
quando i maturi parti di lor gente
mettono fuori, o stipano il fluente
miele e spalman le celle di suo dolce,
o alleviano dal peso le tornanti,
o schierate respingon da' presepi
l'ignavo stuol de' fuchi : ferv^e l'opra
e dà sentor di tim.o il miei fragrante.
<? Fortunati, la cui città già sorge ! )-,
esclama Enea guardando alto i fastigi.
E avvolto in nebbia va, prodigio a dire,
per mezzo a tutti né il disceme alcuno.
Nel cuor de la città, beato d'ombra
un bosco fu, dove da prima i Peni
da' marosi e dal turbine sbattuti
20 ENEIDE
cavarono il segnai che la dea Giuno
predetto avea, la testa d'un destriero:
onde sarà ne' secoli la gente
possente in guerra ed abbondante in pace.
Ivi un gran tempio la sidonia Dido
fabbricava a Giunone, per i doni
dovizioso e il nume de la dea.
Bronzea su' gradi ne sorgea la soglia,
le travi in bronzo avvinte, a bronzee porte
il cardine stridea. Qui nova cosa
si offerse che lenì prima il timore,
qui prima Enea sperare osò salvezza
e consolarsi de l'afflitto stato.
Che mentre sotto l'ampia volta esplora
ogni cosa, aspettando la regina,
mentre de la città la floridezza
e il pregio degli artefici e l'industria
ammira in cuor de l'opere, ecco vede
in ordine le iliache battaglie
e la guerra dovunque omai famosa,
gli Atridi e Priamo e fiero a entrambi Achille.
Si fermò lagrimando e disse : « Acate,
qual resta luogo o regione al mondo
che non sia piena del nostro dolore ?
Ecco Priamo. Anche qui virtù si pregia,
e piange la pietà sui casi umani.
Non temer più : ti recherà tal fama
alcuno scampo >.
Così dice, e gode
di quel vano dipinto sospirando
e largamente inumidisce il volto.
LrBRO PKIMO 21
Che guerreggianti a Pergamo d'intorno
qua vedea fuggir Grai davanti al nerbo
troiano, e Frigi là col carro a tergo
de l'impiumato Achille. Indi non lungi
ravvisa lagrimando i padiglioni
di Reso a bianche vele, cui traditi
dal primo sonno devastava rosso
il Tidide di strage, e i bei cavalli
via ne sospinse verso il campo, prima
che avessero gustata erba di Troia
o bevuto lo Xanto. In altra parte
fuggente, perse l'armi, è trascinato
Troilo, infehce giovine, ineguale
con Achille affrontatosi: supino
giace sul carro vano, ancor tenendo
le briglie; scrive il suol l'asta rovescia.
Andavano le Iliadi frattanto
col peplo offerto al tempio de l'avversa
Pallade, sciolto il crin, battendo il petto,
supplicemente accorate: la dea
tien fìsso a terra in altra parte il guardo.
Tre volte intorno de l'iliache mura
Achille strascinato Ettore aveva
e a prezzo ne vendea la salma: oh allora
getta dal cuor profondo un gran sospiro,
quando le spoglie, quando il carro, quando
esso innanzi si vide il morto amico
e Priamo che tendea le palme inermi !
Riconobbe anche sé tra i duci achei,
gli orientali eserciti e del nero
Mèmnone l'armi. Impetuosa guida
22 ENEIDE
Pentesilea con le lunate targhe
le squadre de le Amazzoni, e succinta
di cinghio d'oro la mammella ignuda,
in mezzo a' mille e mille arde guerriera
né paventa sfidar vergine i prodi.
Mentre al dardanio Enea si scopron queste
maraviglie, mentr'ei si sta rapito
e fiso a contemplarle, al tempio è mossa
la regina bellissima Bidone,
da florido corteggio accompagnata.
Quale in riva a l'Eurota o per i gioghi
del Cinto i cori esercita Diana,
cui cerchian mille Oreadi seguaci;
essa a le spalle ha la faretra e andando
sopravanza le ninfe tuttequante;
tenta il cuor di Latona occulta gioia :
tale era Dido, tale procedea
luminosa nel mezzo, invigilando
al fondamento de' futuri regni.
Poi ne le soglie de la Dea, sott'essa
la volta sacra, in mezzo, d'armi cinta
e salita sul trono alto si assise.
Dettava a' suoi ragioni e leggi, ed equa
partiva o sorteggiava le fatiche;
quando ad un tratto Enea vede in gran folla
Anteo e Sergesto giungere ed il forte
Cloanto ed altri Teucri che per l'onde
disseminati la procella fosca
aveva e spinti a più remote prode.
Esso stupì, stupì sorpreso Acate
LIBRO PRIMO 23
tra gioia e tema: ardean stringer le destre,
ma li turba nel cuor la cosa ignota.
Se ne stanno, e vestiti de la nube
attendono qual sia de' loro il caso,
ove approdati, a che vengano : poi che
scelti venian da tutti i legni a chieder
grazia e preme van clamorosi al tempio.
Entrati e avuta del parlar licenza,
l'annoso IHoneo pacatamente
incominciò : « Regina, cui die Giove
nova città fondare e con giustizia
frenar genti superbe, te preghiamo
noi Troiani infelici al vento volti
per ogni mare: lo spietato incendio
da le navi allontana, una pia stirpe
risparmia e in noi più giusto abbi riguardo.
Già non venimmo a devastar col ferro
i Ubici Penati e trarre al lido
rapite prede : che non hanno in cuore
tal violenza né superbia i vinti.
È un luogo, Esperia l'usan dire i Grai,
fiera in armi e ferace antica terra :
gli Enotri l'abitarono, ora è fama
che dal nome di un duce i lor nepoti
ItaHa nominassero la gente.
Questo il viaggio fu :
allor che gonfio d'improvviso flutto
il nemboso Orione ci travolse
e in balìa de' protervi austri per l'onde.
sopraffatti dal pelago, e per gli aspri
24 ENEIDE
scogli ci dissipò : pochi di noi
arrivammo nuotando al vostro lido.
Che gente è qui ? qual sì barbara patria
tali modi consente? Da lo scampo
siam ributtati de la sabbia: guerra
movono, d'afferrar vietan la sponda.
Se gli uomini e le umane armi sprezzate,
oh pensate agli Dei che son custodi
e del bene e del male! Era il re nostro
Enea, di cui non fu più giusto alcuno
né di pietà maggiore o di prodezza.
Che se il destino a noi lo serba, s'egh
spira le vivide aure e ancor non giace
ne le crudeli tenebre, siam salvi ;
né ti dorrai se gareggiasti prima
tu di benignità. Città pur sono
ne la region siciliana ed armi
e da sangue troiano inclito Aceste.
Il fiaccato da' venti a riva trarre
naviglio sia concesso, e da le selve
le tavole foggiar, temprare i remi :
sì che, se lecito è cercar l' Italia
co' soci e il re ricuperato, lieti
verso l'Italia e il Lazio navighiamo;
ma se persa è salvezza, e te, de' Teucri
ottimo padre, il mar di Libia tiene,
e più la speme non riman di Giulo,
ai porti di Sicilia e a le dimore
sicure almeno, onde qui fummo spinti,
ed al regno di Aceste alziam la vela ».
Ilioneo così ; fremeano assenso
LIBRO PKl.MO 25
i Dardanidi intorno.
Breve Bidone allor con gli occhi bassi
parla: a Dal cuor sgombrate ogni sospetto,
posate, o Teucri, da l'affanno. Il duro
stato e la novità del regno a questi
modi tener mi sforzano e di guardia
tutti all'in giro assicurare i lidi.
Chi gli Eneadi, chi può Troia ignorare ?
e gli eroi e l'incendio di tal guerra ?
Non sì ottusi sensi abbiam noi Peni
né da qui sì remoto il sol carreggia.
O che r Esperia grande ed i saturnii
campi cerchiate, o d'Èrice il paese
e Aceste re, vi manderò sicuri
d'aiuto e dono vi farò di forze.
O qui pur vi volete, in questo regno,
con me restare ? La città ch'io fondo
è vostra: i legni ritraete a riva;
fra Teucri e Tirii non porrò divario.
Fosse presente anch'esso il re, sospinto
dal medesimo Noto, Enea! Ben io
per ogni spiaggia manderò sagaci
tutta Libia a cercar, se forse ei vada
per selve o per città naufrago errando ».
A questi detti preso cuore, il forte
Acate e il padre Enea già già pur dianzi
ardevano di erompere la nube.
Per il primo ad Enea volgesi Acate :
« O figlio de la Dea, quale or pensiero
ti nasce in mente? Sicurtà qui vedi,
26 ENEIDE
e racqtiistati i legni ed i compagni.
Sol quello manca che mirammo noi
esser sommerso in mezzo a la burrasca:
risponde il resto al detto de la madre ».
Parlato appena avea così, che pronta
s'apre la nube che teneali avvolti
e lieve per V aperto aere sfuma.
Aito rifulse in chiara luce Enea,
simile il volto e gU omeri a un iddio;
ch'essa al figlio la madre adorne chiome
e purpureo splendor di giovinezza
e novo incanto avea spirato al guardo,
quale a l'avorio aggiunge l'arte fregio,
o se l'argento o se la paria pietra
si fa di biondeggiante oro contorno.
Allor così si volge a la regina
e subito imprevisto a tutti parla :
« Presente, quegli che cercate, io sono,
Enea troiano, al libio mar scampato.
O di Troia al dolor sola pietosa,
che noi, avanzo de' Danai, già corso
de la terra e del mare ogni periglio,
stremi di tutto, di città e di casa
soci ti fai, render le grazie degne
non è in nostro poter, Dido, e di quanta
sparsa pe' 1 mondo va gente dardania.
A te gli Dei, se Dei guardano i buoni,
se vale in terra la giustizia e un cuore
conscio di sua virtù, dian premio degno.
Qual ti portò beata età? di quali
sì gran parenti così fatta nasci?
LIBRO PRIMO 27
Mentre che i fiumi correranno al mare,
e gireranno l'ombre i seni a' monti,
mentre il ciel pascerà le stelle, sempre
il tuo nome e la gloria dureranno,
qualunque terra attenda me ». Ciò detto,
porge a l'amico Ilioneo la destra
e la manca a Seresto, agli altri poi,
ed al forte Cloanto e al forte Già.
Stupì Dido Sidonia a l'apparire,
indi a tanta vicenda de l'eroe,
e mosse il labbro: « Qual ventura a tali
cimenti, figlio de la Dea, t'incalza?
qual t'urge forza a l' inclem^enti prode?
Tu quell' Enea che al dardanio Anchise
partorì l'alma Venere lunghesso
il frigio Simoenta? Io, sì, rammento
venir Teucro a Sidone, di sua patria
cacciato, a ricercar novello regno
con l'ausilio di Belo: il Dadre Belo
iva struggendo allor la ricca Cipro
e trionfa.nte la signoreggiava.
Fin da quel tempo seppi la iattura
de la città troiana e il nome tuo
e i re pelasghi. Quel nemico istesso
i Teucri celebrava e da l'antica
stirpe de' Teucri si volea disceso.
Entrate or dunque ne le case nostre,
giovani. Me pur simile fortuna
spinse per molte prove, e in questa terra
fece al fine posar : di m^ali esperta
28 ENEIDE
agi' infelici sovvenire appresi )\
Così parla; ed insieme Enea conduce
a la reg.eia, insiem fa ne' templi a' Numi
sacrificare. E non frattanto oblia
venti tori mandar sul lido a' soci,
cento di grandi porci irsute schiene
e cento pingui con le madri agnelli,
doni e gioia del dì.
Ma di lusso regal si adorna e splende
la casa dentro, ed il convito in mezzo
v'apparecchiano: drappi lavorati
con arte in prezioso ostro, dovizia
d'argento su le mense, e in oro incisi,
serie infinita, i gran fatti de' padri,
di tempo in tempo da l'origin prima.
Enea, poi che il paterno amor non lascia
ch'ei non vi pensi, rapido a le navi
premette Acate, che ad Ascanio rechi
le nuove e lui a la città conduca :
tutto in Ascanio è il cuor del caro padre.
I doni ancor sottratti a le mine
iliache ingiunge di portar, la palla
rigida tutta di figure d'oro
e il vel di giallo acanto attorniato,
fogge che fur d' Elena argiva, ed essa,
movendo a Troia ed al vietato imene,
se l'aveva portate di Micene,
mirabil dono di sua madre Leda ;
e lo scettro altresì che un giorno Ilioria
resse, la primogenita di Priamo,
LIBRO PRIMO 2Q
e il monile di perle e la corona
mezza tra gemme e oro. Queste cose
affrettando, a le navi Acate andava.
Ma Citerea nuove arti e pensier novo
volge in cuor, che mutato a le sembianze
venga Cupido per il dolce Ascanio
e follemente accenda la regina
co' doni e metta a lei per l'ossa il fuoco.
Ch'ella ha in sospetto quella dubbia casa
ed i Tini bilingui, la tormenta
l'atroce Giuno, e non riposa a notte.
Dunque a l'alato Amor così favella :
" Figlio, potenza, onnipotenza mia,
figlio che del gran Padre il dardo spregi
a Tifoeo tremendo, a te ricorro,
supplice imploro il nume tuo. Che in mare
il tuo fratello Enea di riva in riva
vien tragittato e sbattuto per l'odio
de l'empia Giuno, a te soii cose note
e spesso ti dolesti al mio dolore.
Or la fenicia Dido il tiene e lega
con lusinghiere voci, e temo a che
le giunonie riescano accoglienze :
già non pensa a ritrarsi in sì gran punto.
Però sorprender la regina innanzi
vo' con inganni e cingerla di fiamma,
che per venma deità non cangi
ma sia meco ad Enea stretta d'amore.
Odi, com'abbi a fare, il pensier mio.
Il fanciullo real che ho tanto a cuore
3© ENEIDE
del caro padre al cenno ir si prepara
a la città sidonia, co* presenti
salvi dal mare e da Tardor di Troia.
Lui sopito nel sonno sopra l'alta
Citerà o su l'Idalio in sacra sede
io celerò, così ch'egli non possa
risaper l'artifìcio ed interporsi.
Le sembianze di lui sola una notte
simula e del fanciullo tu fanciullo
il noto volto prendi, sì che quando
lietissima t'avrà Bidone in grembo
tra le mense regali e i lieti vini,
e amplessi ti darà, teneri baci
t'imprimerà, e tu a lei nascoso
infonda fuoco e tosco inavvertito ».
A' detti de la cara genitrice
ubbidiente Amor l'aU si spoglia
e col passo di Giulo àlacre incede.
Ma Venere ad Ascanio per le membra
sparge quiete placida ed in braccio
recalo su ne' boschi alti d' Idalia,
là dove il molle amàraco lo culla
di fiori e di soave ombria ravvolto.
Docile al detto ecco venir, co' regi
doni pe' Tirii, e avea compagno Acate,
Cupido. Al giunger suo, tra le pareti
fulgide la regina s'è composta
su l'aurea sponda e collocata in mezzo
il padre Enea, la gioventù troiana
LIBRO PRIMO 31
già convengono e adagiansi al convito
su la distesa porpora. A le mani
danno l'acqua i valletti e da' canestri
tolgono il pane e lisci d'ogni vello
porgono lini. Son cinquanta ancelle
a disporre la lunga imbandigione
dentro e a' Penati alimentar la fiamma ;
cento altre quivi, e d'una età con loro
altrettanti ministri, a ricolmare
di vivande le mense e a porre i nappi.
Anch'essi i Tirii le festanti soglie
popolano e son fatti su' dipinti
letti adagiare. Ammirano d'Enea
i doni, ammiran Giulo e il volto acceso
del nume e i fìnti detti, e quella palla
e il vel trapunto di dorato acanto.
Di tutti più, sacra al futuro danno,
la Fenicia infelice non si sazia
e più arde guardando, e del fanciullo
è del pari commossa e de' presenti.
Esso, poi che d' Enea sospeso al collo
appagò del non vero padre il grande
amore, corre a la regina. Questa
ha le pupille e tutto il cuore in lui,
e in grembo anche il riceve, inconscia Dido
qual grande iddio su lei misera posi.
Memore ei ben de l'acidalia madre
s'accinge e studia a cancellar Sicheo,
e move a vincer con un vivo affetto
gli spiriti da tempo illanguiditi.
.i^
ENEIDE
Al posar primo del banchetto, via
tolte le mense, appongono i crateri
grandi e i vini coronano. Un clamore
è per le stanze e voci empion le volte :
pendono i lumi da' soffitti aurati
e vive torce vincono la notte.
Qui la regina chiese un nappo grave
di gemme e d'oro, e lo colmò di vino,
in uso a Belo e a quanti son da Belo;
e fu silenzio per le stanze allora :
« O Giove, poi che agli ospiti dar legge
dicono te, tu questo dì fa lieto
a' Tini e a quei che Vennero da Troia.
e che l'abbiano a mente i nostri figli.
Dator di gioia, Bacco assista e amica
Giuno : e al convegno voi deh ! v'accogliete,
Tirii, di cuore -^ Disse, e su le mense
la primizia del calice spargea;
indi per prima vi posò le labbra,
e a Bitia il die garrendolo : voglioso
da lo spumante pieno oro egli bevve,
e di poi gli altri principi.
Il chiomato
lopa tocca la dorata cetra,
discepolo che fu del sommo Atlante.
Canta l'errante luna e il sol che oscura,
degli uomini l'origine e de' bruti,
e de l'acqua e del fuoco, Arturo e V ladi
piovose e i due Trioni, e come al mare
caUn sì presto gl'in vemah soH,
quale le notti lente abbiano indugio.
LIBRO PRIMO
33
Raddoppiali plauso i Tirii e i Troi con loro.
Essa in vario colloquio protraeva
l'infelice Didon la notte e a lungo
bevea l'amore, molto intomo a Priamo,
molto a Ettore intorno domandando,
e con quali armi il figlio de l'Aurora
fosse venuto, e quali Diomede
cavalli avea, com'era grande Achille.
« Su \da, poi dice, da l' inizio primo,
ospite, a noi de' Danai l'insidia
narra e de' tuoi l'offesa e il tuo viaggio;
che la settima estate or già ti porta
per le terre vagante e le marine ».
Albisi - Eneide
LIBRO SECONDO
Tacquero tutti, con gli sguardi a lui.
AUor così dal divano alto il padre
Enea prese a parlar : '< Tu vuoi, regina,
che un immenso dolore io rinno velli,
come i Danai distrusser la potenza
troiana e il. lagrime voi regno, atroci
cose ch'io vidi e di che fui gran parte.
A raccontarle, chi terrebbe il pianto
de' Mirmidoni o Dòlopi o soldato
del duro Ulisse? E già dal ciel declina
l'umida notte, e le cadenti stelle
chiamano al sonno. Pur, se tanto affetto
di conoscere hai tu le nostre pene
e in breve udire l'agonia di Troia,
quantunque il cuor ne sbigottisce e sempre
ne rifugge, dirò.
Vinti a la guerra
e dal fato respinti, i condottieri
de' Danài, già tanti anni passati,
con l'arte de la dea Pallade fanno
36 ENEIDE
un cavallo ch'è simile ad un monte,
costruito di tavole d'abete.
Fingon che sia per il ritorno un voto,
e il grido va. Per entro il cieco fianco
tratti a sorte nascondono di furto
scelti guerrieri, e le caverne e il ventre
tuttoquanto riempiono d'armati.
Tènedo è in vista, un'isola famosa,
doviziosa, mentre stava il regno
di Priamo, ora solamente un grembo,
malfido asilo de le navi: quivi
vanno a celarsi nel deserto lido.
Noi li crediam partiti e veleggiare
verso Micene: tutta dunque Troia
sciolta respira dal suo lungo affanno.
S'apron le porte; piace uscir, vedere
il campo greco e i luoghi abbandonati,
libero il lido: i Dolopi eran ivi,
ivi il crudele Achille avea la tenda;
la flotta qui, là stavano le schiere.
Al dono pernicioso di Minerva
parte si affisa e ammirano la mole
del cavallo: tra lor primo Timete
di trarlo esorta entro le mura e porlo
in su la rocca, o per inganno, o vero
già portavan così di Troia i fati.
Ma Capi e gU altri di miglior consiglio
gridano, o si precipiti nel mare
e incenerisca con le fiamme sotto
la greca insidia ed il sospetto dono,
o che si squarci e spii l'ascoso fianco.
LTSRO SECON'DO 37
Vario in vario pensier si scinde ii volgo.
Primo allor tra gran gente che il seguiva
Laocoonte fervido da l'alto
corre giù de la rocca, e di lontano:
— Qual demenza è cotesta, o sventurati
cittadini ? credete ito il nemico ?
e alcun dono pensate esser de' Danai
senza inganno ? così v'è noto Ulisse ?
O dentro a questo legno son celati
Achei, o questa macchina è costrutta
de' nostri muri a danno, ad esplorare
le case e coglier la città da sopra,
o alcuna insidia celasi : al cavallo,
o Teucri, non credete; qual ch'ei sia,
i Danai temo anche se portan doni -.
Così detto, con valido vigore
la grande asta avventò contro la belva
nel ventre curvo di commesse travi.
Stette tremula l'asta e, il grembo scosso,
tinnì la cupa e risonò caverna.
E se i fati de' Numi, e se la mente
nostra non era avversa, ei n'avea spinti
a infrangere col ferro il nascondiglio
argolico, e ancor Troia si ergerebbe
e ancor, arce di Priamo alta, saresti.
Ecco intanto, le mani a tergo avvinte,
un giovine traevano pastori
dardani al re con gran rumor, che ignoto
offerto a lor s'era da sé, pur questo
per macchinare e aprir Troia agli Achivi,
38 ENEIDE
fidente in cuore e a doppia sorte pronto,
compier l'inganno o certa incontrar morte.
D'ogni parte per voglia di vedere
corre e s'affolla gioventù troiana,
e gareggiano a scherno del captivo.
Odi or de' Danai l'arti e da una colpa
conosci tutti.
Come in vista di tanti incerto, inerme
ristette e lento girò gli occhi intorno
sul popol frigio : ~ Ahi quale or terra, esclama,
quale accoglier mi può mare? che resta
a l'infelice dunque più, se luogo
non ho tra i Danai, e i Dardani pur essi
esigono da me pena di sangue? -
Mutati i cuori a questo grido ed ogni
infierir fu represso : l'esortiamo
a dire di che sangue sia, che rechi,
qual fiducia ebbe a rendersi prigione.
— Certo ogni cosa, o re, che che ne segua,
ti dirò vera, dice; e d'esser greco
non negherò, per prima: e se Fortuna
Sinone ha fatto misero, mendace
non lo potrà far mai né ingannatore.
Se per voce agli orecchi ti pervenne
il nome del belìde Palamede
e la chiara sua gloria, cui per falso
tradimento i Pelasghi e infame accusa,
perché la guerra non volea, innocente
trassero a morte, e spento il piangon ora;
a lui compagno, e stretto anche di sangue,
me il mio padre povero mandava
LIBRO SECONDO 39
a questa guerra su l'età mia prima.
Mentre saldo nel regno era e fioriva
ne' consigli dei re, nome ed onore
ebbi alcuno pur io. Ma poi che morto
fu per livore de l'infinto Ulisse
(cose sapute narro), in ombra mesta
abbattuto io traeva i dì, la sorte
piangeva in cuor de l'innocente amico.
Stolto, e non tacqui! Se si offrisse caso,
se lieto mai tornassi in patria ad Argo,
giurai vendetta e al bieco odio m'esposi.
Quindi il principio del mio male, e Ulisse
sempre a incalzarmi di calunnie nove,
a sparger contro me voci nel volgo
ambigue e a preparar sagace l'armi.
Né si risté, che ad opra di Calcante....
Ma perché mai rinfresco io la spiacente
storia ? perché v' indugio ? Se per voi
son tutti eguaU i Greci, e ciò v'è assai,
or m'uccidete : l' Itaco il vorrebbe
e caro prezzo ne darian gli Atridi -.
Di chiedere e saper cresce l'ardore,
ignari noi di scelleraggin tanta
e de l'arte pelasga. Pauroso
prosegue ed infingendosi favella :
— Spesso i Danai bramarono la fuga
prender da Troia e stanchi da la guerra
lunga partire. Deh l'avesser fatto!
Spesso li tenne lo sconvolto verno
del mar e l'austro H atterrì già mossi;
e più che mai, che già questo cavallo
40
ENEIDE
fatto di travi d'acero sorgea,
per tutto il cielo risonaron nembi.
Sospesi Eurìpilo inviam di Febo
a interrogar l'oracolo, e dal tempio
questo amaro responso ei ne riporta:
— Col sangue d'una vergine immolata
placaste i venti, o Danài, movendo
prima a le sponde iliache: col sangue
dee cercarsi il ritorno e con l'offerta
d'un'argolica vita — .
Divulgata
che fu tal voce, sbigottì ciascuno
con gelido tremor ne l'ossa, a cui
preparin morte, chi domandi Apollo.
Qui con grande scalpor l' Itaco trae
l'indovino Calcante in fra le turbe,
qual sia quel cenno degli Dei gli chiede:
e molti già mi predicean l'atroce
misfatto de l'artefice o tacendo
prevedevan l'evento. QuegU tace
per cinque e cinque dì; chiuso ricusa
svelar esso nessuno e offrirlo a morte.
Solo a la fin, dal tempestar d'Ulisse
stretto, d'accordo schiude il labbro e me
designa a l'ara. Consentiron tutti,
paghi, quel che ciascun per sé temea,
d'un sol meschino ricadere in danno.
E già veniva il giorno maledetto,
si preparava il sacrifizio mio
e il salso orzo e le bende a le mie tempie.
Mi sottrassi, confesso, a morte e ruppi
LIBRO SECONDO 41
i legami; tra il limo e le cannucce
del padule acquattato per la notte
mi tenni, fin che dessero, se m.ai
date al vento le avessero, le vele.
Né speranza era in me più di vedere
la patria antica né i diletti figli
né il sospirato padre, a' quali forse
faran quelli espiar mio scampo e il fallo
col sangue de' meschini emenderanno.
Ond'io te, per i Superi ed i Numi
consci del ver, per l'illibata fede,
se tale alcuna sopravvive al m.ondo,
imploro, abbi pietà di dolor tanto,
pietà d'un uom senza sua colpa oppresso -.
Doniam la vita a questo pianto e molta
compassion. Da Priamo è l'esempio
che i ceppi gli fa togliere da' polsi
e gli ragiona con parole amiche :
— Oual che tu sia, dimentica i perduti
Grai da quest'ora; sarai nostro, e a questo
interrogar rispondimi verace.
A che la mole di si gran cavallo?
chi la pensò ? che vogliono ? è devota
offerta, o qualche macchina di guerra ? -
Avea detto. Colui, pien degl'inganni
e de l'arte pelasga, alzò le palme
sciolte da' ceppi al ciel: — Voi, fuochi etemi,
e il vostro chiamo inviolabil nume;
voi, are e spade orrende ch'io fuggii,
e bende pie che vittima portai;
lecito è a me de' Grai scioglier le sacre
42
ENEIDE
ragioni, lecito odiarli, e tutti
recar davanti al sole i lor segreti,
né di patria mi tien legge nessuna.
Sol che tu resti a le promesse, o Troia,
e da me salva serbi a me la fede,
se dirò ver, se pagherò gran prezzo.
Ogni speme de' Greci e la fiducia
sempre posò de l'intrapresa guerra
su gli aiuti di Pallade. Ma quando
empio infatti il Tidide e l'inventore
de' tradimenti UKsse, accinti a torre
il Palladio fatai dal sacro tempio,
le guardie uccise de la rocca eccelsa,
rapirono la santa imagine, osi
con man cruente le virginee bende
de la Diva toccar; da quel momento
rifluire a l' indietro e dileguare
la speranza de' Grai, le forze infrante,
nemico de la Dea l'animo. E in segno
la Tritonia ne offrì chiari portenti.
Posto nel campo il simulacro appena,
arser negli sbarrati occhi bagUori
di fiamme, scorse un sudor salso i membri,
e tre volte dal suolo essa, oh prodigio!,
col cUpeo e la vibrante asta die un balzo.
Subito in fuga prender la marina
Calcante indice, né poter gittarsi
Pergamo a terra per argoliche armi,
se in Argo non riprendano gli auspici
e ne riportin seco amico il nume
LIBRO SECONDO 43
ch'ebber portato su le curve chiglie.
Ed or che veleggiarono a Micene,
armi e Dei s'apparecchiano compagni
e, ri varcato il pelago, improvvisi
saranno qui. Così tutto disegna
Calcante. Per l'offesa del Palladio
costrussero esortati questa effìgie
ad espiare il sacrilegio indegno.
Pur tanto immensa adergere una mole
volle il vate di roveri commesse,
perché varcar le porte, entrar le mura
ella non possa e il popolo guardare
a l'ombra de l'antica reUgione.
Che se la vostra mano violato
avesse il dono di Minerva, allora
grande rovina (deh! l'augurio in lui
prima tornin gli Dei) ne seguirebbe
a l'impero di Priamo ed a' Frigi.
Ma se a la città vostra per le vostre
mani ascendesse, essa verrebbe l'Asia
a' muri pelopei con grande stormo,
e de' nostri nepoti esser que' fati. —
Per artifìcio tal de lo spergiuro
Sinone si credè la cosa, e quelli
furon presi agl'inganni e a un falso pianto,
cui né il Tidide o il larisseo Achille
né domaron dieci anni e mille navi.
Qui caso altro maggior, viepiù tremendo,
si offre a' miseri e turba i cuor sorpresi.
Laocoonte, in sorte sacerdote
44
ENEIDE
tratto a Nettuno, un gran toro immolava
a' consueti altari. Ed ecco due
da Tenedo per l'alte acque tranquille
serpenti (inorridisco a raccontarlo)
sul pelago con mostruosi cerchi
incombono e di par tendono a riva.
Erti tra' flutti i lor petti e le creste
sanguigne stanno; tutto il resto dietro
spazza l'onda e di\dncolasi enorme.
Va un suon pe' 1 mar che spuma ; e già la riva
tenevano e, gli ardenti occhi iniettati
di sangue e fuoco, con vibrate lingue
si lambivan le bocche sibilanti.
Qua e là fuggiam smorti a tal vista : quelli
dirittamente cercan Laocoonte;
e prima i suoi due pargoli figliuoli
avvinghia e serra l'uno e l'altro drago
e dà di morso a le misere membra,
poi lui che vola in armi a lor soccorso
pigliano e legano entro l'ampie spire,
e già due volte a mezzo la persona,
due volte ribaditi intorno al collo,
gli sovrastar! col capo e la cervice.
Egli insiem con le man sgroppar que' nodi
si sforza, per le bende gocciolando
del suo sangue e di reo tossico, insieme
leva le grida orribili a le stelle,
a que' muggiti simili del toro
che sia sfuggito ferito da l'ara,
scossa dal collo la malferma scure.
Ma i due draeroni via strisciano verso
LIBRO SECONDO 45
l'alto delubro e l'arce de la fiera
Tritonide, e s'acquattan sotto a.' piedi
de la diva ed al cerchio de lo scudo.
Novello allor ne' tremebondi petti
s'insinua sgomento a tutti: giusta-
mente punito par Laocoonte,
d'aver con la sua punta il sacro legno
offeso ed avventatagli nel fianco
la sacrilega lancia: il simulacro
gridan che al tempio adducasi, e s'implori
il nume de la Dea.
Spezziamo i muri e spalanchiam le mura.
Tutti a l'uopo si accingono : a le zampe
sottopongon scorrevoli le ruote
ed al collo accomandano le funi.
Sale i muri la macchina fatale,
gravida d'armi: giovinetti intorno
e vergini fanciulle cantano inni
e il canape toccar godon con mano.
Quella sottentra e minacciosa scorre
nel cuor de la città. 0 patria! o Ilio
casa de* Numi, e gloriose in guerra
de' Dardanidi mura ! Quattro volte
urtò li su la sogHa de la porta,
quattro dal grembo risonaron l'armi.
Pure incalziam noi ciechi di follia
e il mostro infausto su la sacra rocca
collochiamo. A' futuri fati il labbro
apre anche allor Cassandra, da' Troiani
per volere del Dio non mai creduta.
46 ENEIDE
Noi sciagurati, cui l'ultimo giorno
esser quello dovea, per le contrade
i templi orniamo di festiva fronda.
Girasi intanto il cielo e vien dal mare
la notte ravvolgendo ne la grande
ombra la terra e l'aere e gì' inganni
de' Mirmidoni. I Teucri sparsi per la
città si tacquero : occupa il sopore
le membra stanche. E la falange argiva
de le schierate navi al noto lido
da Tenedo moveasi tra l'amico
silenzio de la cheta luna, quando
la regia poppa alzato ebbe le fiamme,
e protetto Sinon da' fati avversi
de' Numi schiude i Danài furtivo
e la chiostra di pino. Spalancato
il cavallo li rende a l'aria, e lieti
da la cava prigione escon Tessandro
e Stendo guerrieri e il crudo Ulisse
per il calato canape labendo
e Acamante e Toante ed il peUde
Neottolemo, Macaone per primo,
Menelao e, fabbro de l'insidia, Epeo.
Invadon la città nel sonno immersa
e nel vino; le scolte trucidate,
apron le porte a tuttiquanti i loro
riunendo le compHci masnade.
Era l'ora che il primo sonno scende
agli affranti mortali e, divin dono.
LIBRO SECONDO 47
soave si diffonde. Ecco, mi parv^e
mestissimo vedere Ettore in sogno
con grande pianto, qual fu strascinato
già da la biga e nero di cruenta
polvere e per gli enfiati pie trapunto
da le redini. Ahimé qual era! quanto
cangiato da quell'Ettore che torna
de le spoglie d'Achille rivestito,
o messo il frigio fuoco a' legni achei !
Fosca la barba, il crin grumi di sangue,
con le tante ferite che d'intorno
a* muri de la patria ebbe per lei.
È mi parve che primo io lo chiamassi
piangendo e mesto prorompessi : — O luce
de la Dardania, o la più salda spem.e
de' Teucri, quale ti trattenne indugio
si lungo ? da che terra, Ettore, vieni
sospirato ? Deh come, dopo molte
morti de* tuoi e dopo il vario affanno
de la città, te lassi rivediamo !
Qual malvagia cagione ha guasto il tuo
volto sereno? e che ferite vedo ? —
Ei nulla, e al vano chieder mio non bada;
ma con un grido e un gemito profondo
— Ah! fuggi, figlio de la Dea, mi dice,
e scampa a queste fiamme. È tra le mura
il nemico ; precipita dal sommo
l'alta Troia. Fu fatto per la patria
e per Priamo assai. Se si potesse
or Pergamo difendere col braccio,
era difesa già dal braccio mio.
48 ENEIDE
Troia ti affida le sue sacre cose
e i suoi Penati: prendili compagni
de' fati e cerca lor novelle mura
che grandi, corso il mare, al fin porrai — .
Così dice, e di sua man da' riposti
penetrali mi porge fuor le bende,
Vesta possente ed il perenne fuoco.
Sconvolta intanto da diverso lutto
è la città, e più e più, quantunque
si apparti dietro gli alberi la casa
del padre Anchise, si fan chiari i suoni
e rinforza lo strepito de l'armi.
Son riscosso dal sonno e salgo in cima
in cima de la casa e sto in ascolto:
come quando la fiamma tra la messe
cade al furor de l'austro, o vien dal monte
il rapido torrente e strugge i campi
e i bei maggesi e l'opere de' buoi
e porta a precipizio le foreste,
ignaro trasahsce udendo il rombo
dal ciglio d'una rupe alta il pastore.
Ben manifesta allor la fede e aperte
son le insidie de' Danai. La grande
casa già di Deifobo è caduta
tra l'alte vampe, già il vicino brucia
Ucalegonte: il mar sigeo rispecchia
ampio gl'incendi. Levasi un gridare
d'uomini e uno squillar di trombe: l'armi
fuor di me prendo, e ne l'armarmi certo
non ho disegno; ma far gente a guerra
LIBRO SECONDO 49
e correre con gli altri a l'arce anelo :
un'ira folle vince ogni consiglio,
sol mi sovvien che in armi è un bel morire.
Ma ecco Panto a' colpi achei sfuggito,
Panto d'Otri figliuolo, sacerdote
de la rocca e di Febo, esso tra mano
le sacre cose e i vinti Dei ne viene
ed il nipote pargolo traendo
e forsennato affrettasi a le soglie.
— 0 Panto, a che ne siam? qual rocca resta? —
Appena chiesi, e mi rispose in pianto :
— Venne l'ultimo giorno e la fatale
ora de la Dardania. Noi Troiani,
fummo; fu Ilio e l'alta gloria nostra.
Tutto traspose il fiero Giove in Argo :
regnan gli Achei ne la città che brucia.
Dritto nel cuore de la cerchia e alto
piove armati il cavallo, e attizza incendi
oltracotato vincitor Sinone.
Entrano da le porte spalancate
quante mai venner da la gran Micene
migliaia; altri l'angustie de le vie
hanno occupate e oppongon l'armi; pronte
a ferire, lampeggiano le punte.
Le prime guardie de le porte a stento
osan la pugna e far cieca difesa — .
A tah detti de l'Otriade, al cenno
de' Numi volo tra le fiamme e l'armi,
ove la trista Erinni, ove mi chiama
il fremito e il furor che giunge al cielo.
Albini - Enti de t,
50 ENEIDE
Rifeo mi s'accompagna e il guerrìer sommo
Èpito, apparsi tra la luna, ed Ipani
e Dimante, e si stringono al mio fianco,
e il giovine migdonide Corebo.
Que' dì per sorte era venuto a Troia
del folle amore di Cassandra acceso
e genero aiutava Priamo e i Frigi;
sventurato, che fu sordo a' comandi
de la sposa ispirata.
Come stretti li vidi osar battaglia,
soggiungo : — Prodi, o inutilmente invitti
cuori, se brame risolute avete
di seguitarmi a l'ardimento estremo,
voi vedete la sorte de le cose:
dai sacrari e da Tare usciron tutti
gli Dei che questo impero avean sorretto;
voi soccorrete una città che brucia:
moriam, corriamo in mezzo a l'armi: ai vinti
sola salvezza è disperar salvezza — .
Così crebbe l'ardore a' valorosi.
Indi, come per cupa nebbia lupi ^
rapitori, cui ciechi l'indiscreta
rabbia del ventre spinse, e i lupicini d
aspettan soli con le gole asciutte,
andiam tra l'armi, tra' nemici verso
la certa morte e a la città per mezzo
teniam la via: nera dintorno vola
con la profonda tenebra la notte.
Di quella notte chi può dir la strage,
chi noverar le morti e pareggiare
con le lagrime i lutti ? Essa rovina
LIBRO SECONDO 51
la vetusta città che fu molti anni
dominatrice. Giaccion per le vie
senza numero sparse inerti salme
e per le case e per le sacre soglie
de' templi. Né già soli il proprio sangue
versano i Teucri: a' vinti anche talvolta
il valore ne l'anima ritoma,
onde cadono i Danai vincitori.
Dovunque acerbo duol, terrore ovunque,
e facce innumerevoH di morte.
Primo, di Greci tra una gran caterva,
Andrògeo si offre a noi, credendoci armi
amiche, inconscio, e primo amicamente
sì ne chiama: - Affrettatevi, compagni;
e qual sì lunga vi tenea lentezza?
Saccheggiano altri Pergamo eh' è in fiamme,
e voi da l'alte navi ora venite? —
Disse, e sùbito (poi che fide assai
risposte non si davano) si avvide
in mezzo de' nemici esser caduto.
Gelò, rattenne con la voce il passo.
Qual chi col pie calcò tra gli spinosi
rovi un serpe non visto, e spaurito
rapidam.ente rifuggì da quello
che rizza l'ire e Hvido enfia il collo;
non altrimenti trepido e sorpreso
Andrògeo indietreggiava. Irrompiam, densi
in armi facciam siepe, e ne atterriamo,
nuovi del luogo e pieni di spavento.
Ride al primo ardimento la fortuna.
Baldo allor del successo ed animoso
— Soci, — Corebo esclama — la fortuna
52 ENEIDE
che prima insegna a noi via di salute,
per dove ci si fa veder propizia,
la seguitiamo: barattiam gli scudi,
adattiamci l'insegne degli Achei.
Arte o valor, chi guarda in un nemico?
L'armi ne presteranno essi — . Ciò detto,
il chiomato d'Andrògeo elmo e il fulgore
del suo clipeo si veste e al fianco cinge
l'argiva spada. Così fa Rifeo,
esso Dimante e tutti a gara i prodi:
de le spoghe recenti armasi ognuno.
Frammisti a' Danai andiam col cielo avverso,
e in molti scontri per la buia notte
molti precipitiam di queUi a l'Orco.
Altri a le navi fuggono, di corsa
volti al Udo fedel; risalgono altri
il gran cavallo con paura vile
e s'acquattano dentro al noto grembo.
Ahi nulla speri Tuom se ha contro i Numi!
Ecco veniva coi capelU sciolti
la vergine priàmide Cassandra
dal sacrario del tempio di Minerva
tratta, levando le pupille ardenti
al cielo indarno; le pupille, poi che
ceppi stringean le delicate palme.
Non resse a quella vista furibondo
in cuor Corebo e si gettò a morire
tra' 1 folto : il seguiam tutti, e densi in armi
irrompiam.
Da la vetta allor del tempio
LIBRO SECONDO 53
SU noi principia il dardeggiar de' nostri,
e nasce miserevole una strage
per l'aspetto de l'armi e per l'errore
de' grai cimieri. I Danai allor, tra duolo
e ira per la vergine ritolta,
corrono al cozzo d'ogni parte, Aiace
ferocissimo e l'uno e l'altro Atride
e de' Dolopi il nerbo tuttoquanto :
così qualor di fronte scatenati
s'urtano i venti insiem, Zefiro e Noto
ed Euro lieto degli eoi cavalli,
stridon le selve, col tridente infuria
Nereo spumoso e move il mar dal fondo.
Tutti ancor quelli che avevam per l'ombre
fugati con l'astuzia ed inseguiti
per tutta la città, tornano, e primi
ravvisan le mentite armi e gli scudi
e notan de le bocche il suon diverso.
Già ci soverchia il numero, e per primo
cade, per man di Penelèo, Corebo
a l'aitar de la Dea possente in guerra ;
cade anch'esso Rifeo, giusto fra i Teucri
singolarmente e ad equità devoto
(altro parve agh Dei) ; periscono ìpani
e Dimante trafitti da' compagni ;
né te la tua pietà, Panto, sì grande
né l'infula d'ApoUine difese,
che non cadessi. 0 voi ceneri d' Ilio,
o ultima de' miei fiamma, vi chiamo
in testimonio ch'io nel cader vostro
54 ENEIDE
arma né assalto non schivai de* Danai
e che, s'era destin ch'io pur cadessi,
mi meritai con l'opera cadere.
Ci strappiamo di là, Ifito e Pèlia
con me (de' quali Ifito già provetto
d'anni, Pèlia anche offeso di ferita
d'Ulisse), incontanente dal rumore
al palazzo di Priamo chiamati.
Quivi tal mischia, qual se altra non fosse,
ninno in tutta la città morisse,
così sfrenato vediam Marte e i Danai
accorrenti a la casa e il limitare
di testuggine stretto. A le pareti
poggian le scale, e lì presso le porte
Saigon pe' gradi e con la manca a' dardi
oppongono coprendosi gli scudi,
i comignoli afferran con la destra.
Dal canto loro i Dardani le torri
e i pinnacoh svellono (con queste
armi, vistisi a l'ultimo e su l'ora
già de la morte, tentan la difesa),
e le dorate travi, eccelso fregio
degli avi antichi, gettan giù: con nude
le spade altri occupato hanno le soglie
terrene e guardia fanno in densa schiera.
Mi riarse desio di dar soccorso
a la casa del re, giovar d'aiuto
que' prodi e vigoria crescere a' vinti.
V'era un adito ascoso, agevol passo
LIBRO SECONDO 55
tra le case di Priamo, una portella
negletta dietro, per la qual solea,
mentre il regno fioriva, l'infelice
Andromaca venir senza compagni
a* suoceri sovente e accompagnare
il fanciullo Astianatte a l'avo suo.
Riesco al sommo, là, donde gl'infausti
Teucri scagliavano i lor colpi vani.
Ad una torre che si ergeva a filo
su l'estremo del tetto alteramente,
da la quale si usò tutta vedere
Troia e la flotta e il campo degli Achei,
stretti col ferro intomo, ove men salda
offrian l'ultime tavole giuntura,
la dispicchiamo da quell'alta sede
e l'urtiam giù : precipitando a un tratto
trae romorosa una rovina e cade
su le schiere de' Danai largamente.
Ma si fanno altri sotto e non intanto
cessano sassi né altro getto.
Là, davanti al vestibolo e sul primo
limitar Pirro imbaldanzisce, ardente
nel bronzeo fulgor de l'armi : quale
il serpe al dì, di male erbe pasciuto,
che la bruma copria gonfio sotterra,
rinnovellato de le squame e lustro
di gioventù, le flessuose spire,
levando il petto, attorce ritto al sole
e vibra in bocca la trisulca lingua.
Seco il gran Perifante e Automedonte
56 ENEIDE
de' cavalli d'Achille armato auriga,
seco tutto lo stuol scizio a la reggia
premono e a* tetti avventano le fiamme.
Esso tra' primi con brandita scure
spezza le soglie e scardina le porte
ferme e ferrate, e già, rotta la trave,
squarciati ha i saldi serramenti e fatta
grande con larga aperta una finestra.
La casa interna appare e gli atrii lunghi
dischiusi, appaion le segrete stanze
di Priamo e degli antichi re: gh armati
veggono stanti su la soglia prima.
Ma nel cuor de la casa è tutto pieno
di gemiti e di misero tumulto,
e del donnesco disperar le volte
urlano; giunge a l'auree stelle il grido.
Erran sgomente per le sale vaste
le matrone e s'abbracciano a le porte
e v' imprimono baci. Incalza Pirro
col paterno vigor, e non difesa
né regger possono essi i difensori :
crolla a lo spesso ariete la porta
e piombano da' cardini le imposte.
Si fa la forza via: vincon l'entrare
i Danai e trucidano irrompendo
que' primi e intorno intorno empion d'armati.
Non cosi, rotti gh argini spumante
quando uscì '1 fiume e vorticoso i massi
opposti dissipò, trabocca in piena
ne' campi a furia e trae per ogni villa
con le stalle gli armenti. Io stesso vidi
LIBRO SECONDO 57
fremente Neottolemo di strage
e su la soglia l'uno e l'altro Atride;
vidi Ecuba e le cento nuore e Priamo
che su per l'are insanguinava i fuochi
ch'esso sacrati avea. Cinquanta a lui
talami, di nepoti ampia promessa,
pareti altere di barbarie' oro
e di trofei, cadevano distrutti :
giungono i Greci ove non giunge il fuoco.
Forse anche il fato vuoi saper qual fosse
di Priamo. Come vide egli la sorte
de la presa città, le soglie infrante
de la reggia e il nemico entro le stanze,
l'armi da tempo disusate il vecchio
a' tremoli dagh anni omeri adatta
invan, la spada inutile si cinge,
e move tra la densa oste a morire.
Era in mezzo a la casa e sotto l'occhio
nudo del ciel una grande ara e a lato
un alloro antichissimo, su Fara
steso, i Penati ad abbracciar con l'ombra.
Ecuba quivi e le figliuole accorse,
quali colombe a voi pe' 1 tempo nero-,
inutilmente degli altari intorno
sedeano e strette a' simulacri santi.
Ma come in giovenih armi lui vide
— Oh ! esclamò, qual mai pensier sì folle
t'ha spinto, infelicissimo consorte,
a cingerti queste armi? e dove corri?
Non tale aiuto né difese tali
58 ENEIDE
chiede il momento; no, se anche presente
or fosse Ettore mio. Deh! qui ne \deni:
ci proteggerà tutti questo altare,
o morirai con noi — . E a sé lo trasse
e ne la sacra sedia il veglio pose.
Ecco, al micidial Pirro davanti,
un de' figli di Priamo, PoUte,
tra l'armi, tra' nemici per i lunghi
portici fugge e i vuoti atrii percorre
ferito. Lui col mortai colpo insegue
Pirro a furia, già già con man lo afferra,
con l'asta il tocca. Come alfin davanti
agli occhi e a' volti riuscì de* suoi,
cadde e la vita con gran sangue effuse.
Priamo allor, quantunque in braccio a morte,
sé non contenne né la voce e l'ira:
— Ma te, grida, per tanta infamia audace ;j
gli Dei, s'è in ciel pietà che di ciò curi, ^'
ripaghin degnamente e ti dian premio ^
debito, che veder morire un figho j
m'hai fatto e di morte hai contaminato
la paterna presenza. Oh non già quello, j
di cui fighuolo ti mentisci. Achille ^
verso il nemico Priamo fu tale:
ma i diritti del supplice e la fede
riverì, rese a sepellir la salma
d'Ettore e rimandò me nel mio regno — .
Ciò disse e imbelle senza colpo un dardo
il veglio trasse, dal ronzante bronzo
subito rintuzzato e penzolante
in van da l'alto centro de lo scudo.
i
LIBRO SECONDO 59
Pirro a lui: — Ciò riferirai tu dunque
e n'andrai nunzio al genitor Pelide:
rammenta di narrargli i miei sinistri
fatti e che Neottolemo traligna:
or muori — . In questo dir proprio su Tare
lo strascinò tremante e sdrucciolante
nel molto sangue del fìgliuol, la manca
ne la chioma gli avvolse, e con la destra
levò lucente e gl'immerse nel fianco
sino a l'elsa la spada.
Ecco la fine
di Priamo; quest'esito di fati
si portò lui, vedendo Troia in fiamme,
Pergamo in terra, re superbo un giorno
d'Asia per tanti popoli e paesi.
Giace sul lido un gran tronco e spiccato
dal busto un capo e senza nome un corpo.
Allora cinse me crudele orrore.
Rabbrividii, l'imagine mi sorse
del caro padre, quando il re coevo
vidi spirare di brutal ferita;
abbandonata imaginai Creusa,
guasta la casa, a rischio il piccol Giulo.
Mi volgo e miro quanti siano intorno:
m'hanno lasciato per lassezza tutti
o si gettar sfiniti a terra o in fuoco.
E omai solo uno io rimaneva, quando
la Tindaride vedo entro le soglie
starsi di Vesta e tacita occultarsi
60 ENEIDE
ne la sede segreta. Il grande incendio
fa luce a me vagante e che gli sguardi
giro per tutto tra l'andar. Colei,
per la distrutta Pergamo nemici
presentendo a sé i Teucri, e le vendette
de' Danai e Y ire del deserto sposo,
di Troia e de la patria unica Erinni,
s'era ascosa e sedea malvisa a l'are.
M'arde un foco nel cuor; ira mi prende
di vendicare la cadente patria
e d'eseguir la scellerata pena.
— Sì veramente! incolume costei
potrà Sparta vedere e la paterna
Micene ed in trionfo andar regina.
Nozze e case vedrà, padri e figliuoli,
fra un corteo di Troiane e fra ministri
frigi. Di ferro sarà morto Priamo!
e Troia in fiamme! la dardania sponda
avrà sudato tante volte sangue!
Ah no ! Quantunque memorabil fama
del punire una femmina non sia
né gloria importi la vittoria, pure
sarò lodato de la spenta infamia
e de la presa giusta pena, e lieto
d'aver sazia la brama punitrice
e placate le ceneri de' miei — .
Ciò in me volgendo fuor di me correa,
quando, agli occhi non mai prima sì chiara,
mi si offerse a veder l'alma parente
e in puro raggio mi brillò tra l'ombre,
dea manifesta e così bella e grande
LIBRO SECONDO Ol
qual si mostra a' Celesti; e con la destra
mi tenne e aggiunse da la rosea bocca:
— Figlio, qual gran dolor sì sfrena l'ire?
perché folleggi? ed il pensier di noi
dove t'è ito? Non vedrai da prima
ove stanco dagli anni il padre x\nchise
abbi lasciato e se la donna tua
Creusa sopravviva e il figlio Ascanio?
A' quali tutti tutto intorno vanno
graie schiere e, se oppormi io non curassi,
H avrian le fiamme avvolti e la nemica
spada finiti. Tu non l'odioso
volto de la Tindaride spartana
né Paride incolpare. DegH Dei,
degh Dei l'inclemenza abbatte il regno
e dal culmine suo rovescia Troia.
Guarda; ch'io tutta leverò la nube
che ora ti offusca la mortai pupilla
e d'umida caligine la cinge:
non temer tu di alcun cenno materno
né ricusare indocile i precetti.
Là, dove rotte moli e massi vedi
spicchi da massi e ondeggiar polve e fumo,
Nettuno i muri e i fondamenti crolla
smossi col gran tridente e da radice
rovina la città. Là Giuno ingombra
le porte Scee spietata innanzi a tutti
e da le navi le compagne schiere
fiera in armi pur chiama.
Già l'alte rocche, volgiti, occupate
ha la tritonia Pallade, fulgente
62 ENEIDE
d'un nimbo e de la Gòrgóne crudele.
Esso il Padre fervore e amiche forze
a' Danai somministra, esso gli Dei
anima contro la dardania gente.
Scampa, scampa, figliuolo, e poni un fine
al travaglio: sarò con te per tutto,
ti addurrò salvo a le paterne soglie — .
Disse, e in seno a la tenebra si ascose.
Mi appaiono i terribili fantasmi
ed i nemici a noi possenti numi
degli Dei.
Tutta conobbi allor solversi in brage
Ilio e giacere la nettunia Troia:
e come quando in vetta a' monti un omo
annoso a gara abbattono i coloni
co* tagli intorno di percosse scuri ;
quello sempre minaccia e sempre accenna
con la chiomata tremolante cima,
fin che da le ferite vinto a poco
a poco geme anche una volta e trae
per i gioghi schiantato una rovina.
Discendo, e vo, duce la dea, spedito
tra la fiamma e i nemici; mi fan luogo
l'armi, e la vampa si ritrae.
Le soglie
come toccai de la paterna sede
e la casa vetusta, il padre, a cui
prima mi volsi per portarlo a' monti,
nega di viver più caduta Troia
e l'esiglio soffrir. — Voi, dice, freschi
LIBRO SECONDO 63
di sangue e saldi del vigor nativo,
voi pensate a esulare.
Me se i Superi ancor volevan vivo,
m'avrebber salva questa patria. Assai
e troppo fu che una rovina vidi
sopravvivendo a la città disfatta.
Ditemi vale come a morto e andate.
Saprò trovar con l'opera la morte:
m'avrà pietà il nemico e le mie spoglie
vorrà: piccola perdita il sepolcro.
In odio a' Numi e inutile da tempo
aspetto gli anni, poi che degli Dei
il padre e re degh uomini col soffio
mi rasentò del fulmine e col fuoco — .
Questo a dir persisteva e non cedea.
Noi a scioglierci in lagrime, e la moglie
Creusa e Ascanio e la famiglia tutta,
che ogni altra cosa con sé morta ei padre
non volesse e incalzar l'urgente fato.
Nega, e luogo e proposito non muta.
Son risospinto a l'armi e disperato
bramo la morte: e qual disegno omai
o quale a me si concedea fortuna?
— E tu pensasti ch'io potessi, o padre,
partire abbandonandoti e consiglio
uscì sì reo da le paterne labbra?
Se di tanta città nulla gli Dei
voglion che resti, e il tuo proposto è tale
che te co' tuoi aggiunger brami a Troia
che muor, la porta a cotal morte è schiusa.
Or or sopraverrà dal molto sangue
64 ENEIDE
di Priamo Pirro che il figliuol davanti
gli occhi del padre e il padre a Tare uccide.
Per ciò mi salvi, o alma genitrice,
a traverso armi e fiamme, perch'io veda
il nemico nel mezzo de la casa
ed Ascanio e mio padre e insiem Creusa
l'un de l'altro nel sangue trucidati?
L'armi, o prodi, qua l'armi; il giorno estremo
i vinti vuole ; a' Danai mi rendete ;
la pugna rinnovar lasciatemi: oggi,
no, non morremo invendicati tutti — .
Mi ricingo la spada, e mi adattavo,
la sinistra passandovi, lo scudo,
avviato ad uscir. Ma su la soglia
ecco Creusa ad abbracciarmi i piedi
ferma e porgendo al padre il piccol Giulo:
— Se a morir vai, con te prendi anche noi
ad ogni rischio: ma se ancor, tu esperto,
serbi ne l'armi una speranza, prima
questa casa difendi. A chi tu lasci
il tuo piccolo Giulo, a chi tuo padre
e me che detta un giorno fui tua moglie? —
Tutte empiva le stanze il suo lamento,
quando improvviso e a dir meraviglioso
nasce prodigio. Tra le braccia e gli occhi
de' mesti suoi sul capo, ecco, di Giulo
parve un sottil brillare eretto raggio
ed una fiamma innocua lambire
le sue morbide chiome e le sue tempie.
Noi di tema tremar, scoter gli accesi
LIBRO SECONDO
capelli e portar acqua al santo ardore.
Ma il padre Anchise levò gli occhi lieto
e tese al ciel con questo dir le palme :
— 0 Giove onnipotente, se ti move
preghiera, guarda noi 1 ciò basta ; e poi,
se pietà ci fa degni, un segno invia,
padre, e conferma a noi questi presagi —
Appena il vecchio detto avea, di schianto
tonò da manca e per il cielo ombroso
con vivido chiaror corse una stella.
La vediamo sfiorando il nostro tetto
bianca sparire ne la selva Idea
e segnare il cammin; per lunga traccia
un solco luce e un fumigar di solfo.
Allora vinto il genitor si leva
alto, invoca gli Dei, la stella adora :
— Nessuno indugio più; vi seguo e sono
con voi per tutto. O Dei patrii, salvate
la mia casa, salvate il mio nipote.
Vostro è l'augurio, e ne la grazia vostra
è Troia. Ecco ch'io cedo e non ricuso
di venirti compagno, o figlio mio — .
Avea detto, e cresceva entro le mura
l'incendio e vampe ne volgea vicine.
— Su! padre mio, su le mie spalle vieni;
ti porterò, né mi sarà fatica.
Qualunque i casi volgano, il periglio
avrem comune entrambi e la salvezza.
Venga il piccolo Giulo a me per mano ;
segua discosta il nostro andar Creusa.
E voi, servi, attendete a quel ch'io dico.
Albini • Eneide
b6 ENEIDE
A l'uscir di città v'è un monticello
e un tempio antico de l'abbandonata
Cerere, e a canto v'è un cipresso annoso
da la pietà de' padri conservato :
là converremo da diverse parti.
Tu, genitor, le sacre cose prendi
ed i patrii Penati: a me che vengo
da guerra così fiera e strage fresca
toccarli è fallo, fin che a una sorgente
vi^^a sia terso — .
Detto così, su' larghi omeri e al collo
stendo una fulva pelle di leone
e mi fo sotto al carico : mi prese
stretto il piccolo Giulo per la destra,
e vien col padre a passi diseguali:
dietro segue la moglie.
Andiam per l'ombra
ed io, cui dianzi né avventati strali
né impaurivan greci assalitori,
ad ogni alito d'aura or trasaUsco,
balzo ad ogni rumor, ansio e pensoso
per il corapagno e per il peso insieme.
Ed a le porte già mi avvicinava
ed esser mi parca fuor d'ogni stretta,
quando fitto appressarsi un calpestio
parvemi, e il padre che guatava innanzi
per l'ombre, grida: — Figlio, figlio, fuggi!
vengono. Vedo splendere gli scudi
e l'armi scintillar — .
Non so qual dio
LIBRO SECONDO 67
poco amico la mente allor mi tolse
trepidante confusa: mentre a corsa
prendo fuor de le vie note a traverso,
ahimé ! Creusa, dal destin rapita,
ristette ? usci di via ? stanca si assise ?
è incerto; e più non parve agli occhi nostri.
Né prima a la smarrita riguardai
e rivolsi il pensier, che fummo giunti
al poggio e al tempio de l'abbandonata
Cerere : quivi alfin tutti raccolti,
ella ci mancò sola, ella deluse
i com.pagni il figUuolo ed il marito.
Oual fuor di m.e non accusai degli uomini
e degli Dei? qual più reo strazio vidi
ne la città distrutta?
Ascanio e Anchise
padre e i teucri Penati raccomando
a' soci e in grembo de la valle celo.
Io torno a la città, mi cingo l'armi
fulgenti. Ho fermo ripassar per ogni
vicenda, ripercorrer tutta Troia
e di nuovo a' pericoli offerirmi.
Da prima a' muri ed a l'oscure soglie
de la porta, onde uscito era, ritorno,
e l'orme che segnai seguo a T indietro
per la notte e col guardo esploro. Intorno
tutto mi serra il cuor, fino il silenzio.
Poi a la casa mia, se mai, se mai
là fosse andata, mi rivolgo. Invasa
l'aveano i Danai e l' occupa van tutta.
Rapido il fuoco divorante al tetto
68 ENEIDE
dal vento è volto ; sormontali le fiamme,
infuria la fornace a l'aure. Inoltro,
e la reggia di Priamo e la rocca
ritrovo. Omai di Giuno entro l'asilo
per i portici vuoti a guardia scelti
Fenice e il crudo Ulisse su la preda
vigilavano. Quivi da ogni parte
la troiana dovizia si riversa
a mucchi, da' sacrari arsi rapita,
e le mense de' Numi ed i crateri
massicci d'oro ed i predati drappi.
Fanciulli e in lunga fila paurose
donne a l'intorno.
Anche mettere osai voci per l'ombra,
di grida empir le vie : triste più volte
inutilmente richiamai Creusa.
Mentr' io cercava senza fine a furia
di casa in casa, il pallido fantasma
e di lei stessa l'ombra agli occhi miei
parve, in figura de la sua maggiore.
Rabbrividii, ritti i capelli e in gola
si fé' muta la voce. E allora quella
a parlarmi così per mio conforto :
— Che giova abbandonarsi a un dolor folle,
dolce marito ? Non senza il volere
degli Dei questo avvien ; di qui compagna
portar Creusa non ti è dato, il vieta
QuegU che regna nel superno Olimpo.
Lontani esigh tu, larga distesa
di mar devi solcare, ed a la terra
LIBRO SECONDO 69
esperia giungerai, là dove il lidio
Tebro scorre con placida corrente
tra campi opimi d'uomini. T'aspetta
ivi italico regno e regia sposa:
il pianto lascia de la tua Creusa.
Non vedrò de' Mirmidoni le case
o de' Dolopi altere ; a greche donne
non andrò serva, io dardana e a la diva
Venere nuora.
Me la gran genitrice degli Dei
trattiene in questi lidi. Or dunque addio,
e del nostro fìgliuol serba l'amore — .
Detto ch'ebbe così, me che piangeva
e molto volea dir lasciò deserto
e ne l'aere vano si ritrasse.
Tre volte allor cercai de le mie braccia
cingerle il collo, tre l'ombra invan cinta
sfuggì le mani lieve come il vento
e similissima a un alato sosrno.
Così ritorno, ita la notte, a' miei.
E qui maravigliando esser concorsa
trovo una folla di compagni novi,
donne e uomini, un popolo adunato
per r esigilo, compassione voi turba.
Da ogni parte vennero, disposti
con i cuori e le cose a seguitarmi
in qual ch'io vogHa suol pe' 1 mare addurh.
E già su l'alto vertice de l' Ida
Lucifero sorgea portando il giorno:
70
ENEIDE
i Danài le soglie de le porte
tenean guardate, né speranza alcuna
di dar soccorso rimanea: mi mossi,
e m'avviai, col padre in collo, a' monti.
— 'O.^
LIBRO TERZO
Poi che piacque a' Celesti rovesciare
d'Asia il regno e di Priamo la gente
incolpevole, e cadde il superbo Ilio
e a terra fuma la nettunia Troia,
siam da' cenni divini a cercar mossi
per vario error le abbandonate rive,
e navi fabbrichiam lì sotto Antandro
e le vette del frigio Ida, dubbiosi
ove il fato ci porti, ove ci posi;
e facciam gente. Cominciata appena
era l'estate e il padre Anchise a' fati
dar le vele ingiungeva, allor eh' io lascio
i lidi de la patria lagrimando
e il porto e i campi ove fu Troia. Salpo
esule verso l'alto coi compagni
e il figlio, coi Penati e i grandi Iddii.
Ampia in disparte marzia terra giace,
l'arano i Traci, un dì dal fìer Licurgo
72 ENEIDE
regnata, ospite antica ed alleati
Penati a Troia, al tempo di fortuna.
Portato là, sul curvo lido imprendo
le mura prime con destino avverso;
Eneadi dal mio ne formo il nome.
A la dionea madre un rito e a' Dei
auspici de l' impresa io celebrava
ed immolava candido sul lido
un toro a Giove. Era ivi presso un poggio,
a sommo il poggio un folto di cornioli,
ed ispido di spesse punte un mirto.
M'accostai, e da terra un verde cespo
sveller volendo per coprir di rami
frondosi l'are, orribile un portento
vedo e maraviglioso a dir: quel primo
arbusto che strappai da le radici,
gli scorron giù gocce di sangue bruno
a macchiare il terren. Freddo ribrezzo
mi scote e per timor gela ogni vena.
Pur d' un secondo sterpo un lento vinco
a sveller seguo e l'intime a cercare
cagioni ascose, e del secondo ancora
nero da la corteccia usciva sangue.
Tutto turbato in cuor, le Ninfe agresti
supplicava e Gradivo padre, sire
de le getiche terre, a secondare
miti il portento e alleviar l'augurio.
Ma quando con più sforzo al terzo ceppo
vengo e contro il terren punto i ginocchi,
(debbo dire o tacer?) di sotto il poggio
s'ode un piangente gemito e una voce
LIBRO TERZO
viene agli orecchi: — Perché strazi, Enea,
l'infelice ? risparmia deh ! un sepolto,
risparmia di bruttar le pure mani.
Estranio a te non mi fé' Troia, e questo
sangue non vien da un legno. Ahi ! fuggi, fuggi
queste crudeli terre e il seno avaro.
Perch'io son Polidoro: qui trafitto
ferrea messe di dardi mi coperse
e crebbe in punte acute — . AUor da incerta
paura stretto il cuor, rabbrividii,
ritti i capelli e la parola in gola.
Quel Polidoro con tesoro grande
nascostamente avea Priamo infehce
fidato al tracio re che il preservasse,
quando omai disperato era de l'armi
dardanie e assediar vedea le mura.
Colui, vinto che fu de' Teucri il nerbo
e la fortuna volta, seguitando
l'agamennonia vincitrice insegna,
rompe ogni legge; Pohdoro uccide,
e violento sue ricchezze usurpa.
A che non sforzi i petti umani, o fame
maledetta de l'oro? In me cessato
lo sgomento, agli scelti de la gente
principi e prima al padre mio propongo
i portenti de' Numi, e il loro avviso
chiedo qual sia. Di tutti un solo: uscire
da la rea terra, abbandonar l' impuro
asilo e dare a' legni il vento. Dunque
prepariamo l'esequie a Polidoro,
74 ENEIDE
e molta terra al tumulo s'ammonta:
sorgono ai Mani Fare, luttuose
di brune bende e di cupo cipresso,
e intorno son le iliache donne, sciolte
giusta il rito i capelli. Per inferie
tepido latte in ciotole spumose
e calici porgiam di sangue sacro:
ì'anim.a ricovriamo nel sepolcro,
e a gran voce il chiamàam l'ultima volta.
Poi, non appena il mare affida e in calma
lo lascia il vento, e un lieve soffio d'austro
chiama in alto, giù i miei traggon le navi
e gremiscon la riva. Usciam dal porto;
le terre e le città si fanno indietro.
Sacra e devota in mezzo a la maiina
è un'isola carissima a la madre
de le Nereidi e a Nettuno Egeo,
che un tempo vaga per le prode intorno
il Nume arciere piamente avvinse
a Mìcono alta e a Gìaro e la fece
venerar salda e non curare il vento.
Son tratto là; gli stanchi ella raccoghe
placida tutti nel tranquillo porto.
Scesi onoriam^o la città d'Apollo.
Re Ànio, re degli uomini ed insieme
sacerdote di Febo, incoronato
di bende e sacro alloro, incontro viene
e riconosce, antico amico, Anchise:
ospiti uniam le destre e accolti siamo.
Il tempio, fatto di vetusto sasso.
LIBKO TERZO 75
adorava io del Dio : - — Timbreo, concedi
una casa, concedi a questi stanchi
mura e famiglia, e una città che duri;
salva la nuova Pergamo di Troia,
de' Danai avanzo e del feroce Achille.
Chi seguitare? dove andar c'imponi
e collocar la nostra stanza? Padre,
fa cenno e ne le nostre anime scendi — .
Appena io detto avea, che tutto intomo
parve tremar, le soglie e i lauri sacri,
scotersi intero il monte, e la cortina
muggire da' dischiusi aditi. A terra
ci prosterniamo e vien voce agh orecchi:
— Dardani indomi, quella terra stessa
che vi produsse fin dal ceppo avito,
nel verde sen v'accogUerà tornanti:
ritrovate l'antica madre. Quivi
d'Enea la casa regnerà sul mondo,
ed i figh de' figh e i figli loro — .
Cosi Febo, e una gran letizia sorse
mista di turbamento; e chiedon tutti
quali le mura siano, dove Febo
chiami gli erranti e ritornare imponga.
Il padre ailor, volgendo le mem.orie
de' vecchi tempi, — Udite, o prodi, esclama,
ed imparate le speranze vostre.
Creta del sommo Giove isola giace
nel mezzo al mare; quivi il monte ideo
e la culla di nostra gente. Cento
abitan gran città, florido regno.
Di là, se bene quel che udii rammento,
76 ENEIDE
Teucro progenitor mosse a le prode
retèe da prima e scelse al regno il luogo.
Ilio ancor non sorgeva e la pergàmea
rocca : abitavan ne le valli fonde.
Indi è la madre che sul Cibelo erra
e i coribàntii bronzi e l' idèa selva ;
indi il fedel silenzio de' misteri,
e i leoni che traggono aggiogati
il carro de la diva. Animo dunque,
e dietro il cenno degli Dei moviamo;
plachiamo i venti e veleggiamo a Gnosso.
Non è gran corso : pur che Giove assista,
ancoreremo tra due giorni a Creta — .
Disse e a l'are immolò debite offerte :
uno a Nettuno e un toro a te, fulgente
Apollo; un'agna nera a la Tempesta
ed una bianca a' Zefiri benigni.
La fama vola, da' paterni regni
essere il duce Idom.eneo sbandito
e il suol cretese abbandonato, e senza
nemico offrirsi libere dimore.
Lasciam d'Ortigia i porti e per il mare
voliam: Nasso pe' suoi clivi baccante
e la verde Donusa, Olèaro e Paro
nivea e le sparse Cicladi per l'acque
ed i seni radiam tra le frequenti
terre agitati. Il nautico clamore
levasi in varia gara, e la canzone
de' nostri è navigare a Creta e agli avi.
LIBRO TERZO 77
Sorto il vento ne agevola da poppa,
e approdiam de' Cureti al suolo antico.
Alacre a' muri de la desiata
città mi accingo e Pergamo la chiamo ;
la gente esorto, che del nome gode,
amare i focolari e alzar la rocca.
Erano omai tutte le poppe in secco,
a' connubi ed a' campi novi attesa
la gioventù, leggi e dimore io dava,
quando ad un tratto, l'aere corrotto,
una morbida a' membri e miseranda
sopravvenne e a le piante e a' seminati
pestilenza e mortifera stagione.
Perdean le dolci vite, o i corpi smunti
traeano : e Sirio ad infocar le terre
sterili; inaridivan l'erbe, e pane
non concedevan le malate spighe.
A l'oracolo ancor di Ortigia e a Febo
rimisurando il mar consiglia il padre
ire in grazia a implorar, qual fine assegni
a le miserie, onde cercare ingiunga
aiuto a' mah, ove drizzare il corso.
Era la notte, e il sonno per la terra
gli animali tenea : le imagin sante
degli Dei e i Penati frigi, ch'io
da Troia mi portai fuor de l'incendio,
parver nel sogno avanti a me giacente
starsi in gran luce chiari, ove la piena
jS ENEIDE
luna per gli spiragli penetrava,
e così favellare a mio conforto:
~ Quel eh' è per dirti, se ad Ortigia vai,
Apollo, qui ti presagisce, ed ecco
spontaneo noi a le tue soglie invia.
Noi che te, arsa la Dardania, e i tuoi
segni seguimmo, che passammo il gonfio
mar sotto te per nave, innalzeremo
noi i venturi tuoi nipoti al cielo,
e darem regno a la città. Tu mura
grandi a' grandi prepara, e il diuturno
non rifuggire affanno de l'esigho.
La stanza è da mutar: non a te questi
lidi suase, né posarti in Creta
il deho Apollo ti prescrisse.
È un luogo,
lo chiama Esperia il Greco, antica terra,
possente in armi e in ubertà di suolo;
gh Enotri l'abitarono ; ora è fama
che dal nome di un duce i discendenti
nominata le gente abbiano Italia.
Quella è sede per noi: Bardano quindi
nacque e làsio padre, il ceppo primo
di nostra gente. Sorgi, e heto questi
detti a l'annoso genitor non dubbi
riporta: Còrito e le terre ausonie
trovi; i campi dittèi Giove ti vieta — .
Preso a la visione ed a la voce
divina (né sopore era quel mio,
ma mi parca conoscere presenti
LIBRO TERZO jg
i volti e le velate chiome e i numi;
freddo sudor corre vami le membra),
di subito mi levo, al ciel supine
tendo le palme con la prece, e spargo
su' brageri V intatta libagione.
Lieto, compiuto il rito, avverto Anchise
e la cosa per ordine gli svelo.
Riconobbe i confusi rami e i due
progenitori, e che ingannato era esso
da nuovo error de' vecchi luoghi. E dice:
— Figlio, da' fati d' Ilio esercitato,
sola mi predicea tali vicende
Cassandra; or la rammento nunzìare
tanto aspettarsi al nostro sangue, e spesso
l'Esperia ed invocar gl'itah regni.
Ma chi creder poteva essere i Teucri
d'Esperia a' lidi per andar ? chi fede
prestato avrebbe allora a vaticinio
di Cassandra? Su via, cediamo a Febo,
e fatti accorti ne volgiamo al megUo — .
Dice, e al detto obbediam gioiosi tutti.
Abbandoniamo quella sede ancora
e, lasciativi pochi, apriam la vela
per la vasta marina in cavo legno.
Dopo che l'alto tennero le navi
e già nessuna più terra si vede,
tutto cielo d'intorno e tutto mare,
ecco sul capo livida mi stette
di notte e verno nuvola foriera,
e si fé l'onda abbrividendo buia.
So ENEIDE
Siibito i venti volgono marosi
che s'alzan grandi: siam gettati e sparsi
pe' 1 gorgo vasto. Hanno fasciato il giorno
i nembi, umida notte ha tolto il cielo,
frequenti fuochi fendono le nubi.
Disviati vaghiam per l'acqua cieca:
esso scerner non sa s'è il di o la notte
Palinuro e trovar tra l'onde il solco.
Ben tre soli in caligine ravvolti
ed altrettante notti senza stelle
erriamo per il pelago: spuntare
solo al quarto mattin terra fu vista
e scoprir lunge i monti e alzare il fumo.
Cadon le vele, ci drizziam sui remi;
nessuno indugio, a forza i naviganti
torcon le spume e tagliano l'azzurro.
Scampato a l'onde mi riceve il lito
de le Strofadi : Strofadi chiamate
in greco nome, ne Y Ionio vasto
isole stanno, e la crudel Celeno
v'abita e l'altre Arpie, poi che la casa
di Fineo chiusa ed elle fur cacciate
da le mense di prima con paura.
Più odioso di lor mostro, più rea
maledizion del cielo non emerse
da l'onde stige. Faccia di fanciulla
hanno gli alati, nauseoso effluvio
di ventre, unghiate mani, e i visi sempre
pallidi per la fame.
Come quivi sospinti entrammo in porto.
LIBRO TERZO 8l
ecco belle di buoi mandre vediamo
vaganti a la campagna ed una greggia
di capre senza guardian per l'erbe.
Con Tarmi le assaltiam, gli Dei chiamando
e Giove stesso a parte ed a la preda :
sul curvo lido disponiamo i deschi
e banchettiam de le vivande laute.
Ma improvvise terribili calando
ecco l'Arpie dai monti e squassan l'ali
rombanti, strappan le vivande, e tutto
del tocco lercio imbrattano : selvaggia
è la lor voce tra l'orribil puzzo.
Di nuovo in parte più risposta e sotto
il cavo ciglio d'una rupe, cinti
dagli stormenti intorno alberi ombrosi,
poniam le mense e ravviviamo l'are :
di nuovo da diversa plaga e ignoti
covi il sonoro stormo intomo vola
co' pie adunchi a la preda e con le bocche
insozza i cibi. Allor bandisco a' miei
prendano Farmi e che bisogna guerra
a l'iniqua genìa. Fanno il comando,
e nascose preparano tra l'erba
e le spade e gli scudi. Or come dunque
precipitose sparsero fragore
pe' 1 curvo Udo, dà Miseno il segno
col bronzo cavo da la specola alta.
Balzano a nuova pugna i miei, col ferro
i sinistri ferir marini uccelH :
ma non offesa a le lor penne, al dosso
non risenton ferite, e in presta fuga
Albini - Eneide 6
82 ENEIDE
lasciano sollevandosi la preda
mezzomangiata e i luridi vestigi.
Sola posò nel sommo de la rupe
Celeno e infausta profetessa avventa
queste voci dal petto: — Anche la guerra
per ammenda de' bovi divorati,
o Laomedontiadi, la guerra
mover volete e l'innocenti Arpie
cacciar dal patrio regno? Udite or dunque
e figgetevi in cuor la mia parola:
quello che a Febo il Padre onnipotente,
che Febo Apollo a me predisse, ed io
massima de le Furie a voi rivelo.
Voi col vento a l'ItaHa veleggiate,
a l'Italia e nel porto arriverete:
non però murerete la fatale
città, prima che squallida la fame
e la micidiale offesa nostra
vi faccia a morsi consumar le mense — .
Disse, e a voi rifuggì dentro la selva.
Gelido a' miei di subito spavento
ristette il sangue; cadde il cuor: con Farmi
non più, ma voglion con preghiere e voti
pace implorare, o le sian dive, o dire
malaugurose alate. E il padre Anchise
a tese palme da la riva invoca
i Numi santi e indice il giusto rito:
— Dèi, le minacce allontanate ! Dei,
stornate tal miseria e preservate
benigni i buoni! — Poi strappar la fune
LIBRO TERZO 83
dal lido, scotere e snodar le gomene
ingiunge. I Noti stendono le vele;
fuggiam su le spumanti onde, per dove
il corso dirigean vento e piloto.
Già nel mezzo de' flutti la selvosa
Zacinto appar, Dulichio e Same ed alta
sopra i dirupi Nèrito ; gli scogli,
laerzio regno, d' Itaca schiviamo,
maledicendo del crudele Ulisse
la terra madre. I vertici nebbiosi
scopronsi poi del monte di Leucate
e il paventato da' nocchieri Apollo.
A lui ci volgiam stanchi e sottentriamo
la piccola città : 1' àncora cade
da la prora, le poppe a riva stanno.
Dunque alfìn presa la insperata terra,
ci rifacciamo a Giove mondi e l'are
avvampiamo di voti; l'azia sponda
•ferve festante degl'iUaci ludi.
Trattano nudi le palestre patrie
lubrici d'olio i miei compagni : è gioia
tante argoliche aver città sfuggite
e tra la schiera ostil trovato scampo.
Intanto il sole un lungo anno si volge
ed il gelido verno arruffa l'onde
con gli aquiloni. Un bel concavo bronzo,
usbergo già del grande Abante, appendo
agh stipiti, e al dono il detto inscrivo:
Enea dal Gt^eco vincitor quest'arme.
Quindi comando di lasciar la spiaggia
84 ENEIDE
e di seder su' banchi: a gara i miei
battono il mare e tagliano le spume.
Presto facciam le cime alte sparire
de' Feaci, la costa de l' Epiro
radiam, entriamo nel caonio porto
ed a l'alta città siam di Butroto.
Inopinata quivi udiam novella,
come il priàmide Èleno su graie
città vi regna e tien talamo e trono
de l'eàcide Pirro, e novamente
a patrio sposo Andromaca è congiunta.
Stupii, e m'arse gran desio nel cuore
di favellargli e udir tanta vicenda.
Lasciando i legni e il lido esco dal porto,
che le usate vivande e i mesti doni,
tra un bosco avanti la città, su l'onda
d'un falso Simoenta, essa Ubava
Andromaca a le ceneri, ed i Mani
presso il sepolcro d' Ettore invocava,
cui con due are in verdi zolle vuoto,
causa del pianto, consacrato avea.
Come venir mi vide e troiane anni
a l'intorno mirò, scossa e smarrita
del gran portento, vacillò guardando;
ogni calor l'ossa fuggì; vien meno,
e solo a stento finalmente dice:
— Vero corpo a me giungi e nunzio vero,
o figlio de la Dea ? Sei vivo ancora ?
o se ti abbandonò la dolce luce,
Ettore ov' è ? —
Disse, e si sciolse in pianto,
LIBRO TERZO 85
e tutto empiva di lamento intorno.
Poco soggiunger posso a la delira,
e a rari accenti apro turbato il labbro:
- Sì, vivo, e rischi estremi è la mia vita.
Non dubitar, che vedi il vero.
Ahi! te scaduta da si gran consorte
quale accogHe sventura ? o degna assai
è ritornata la fortuna a starsi
con Andromaca d' Ettore ? le nozze
di Pirro serbi ? —
Chinò gh occhi a terra,
e mormorò sommessa : — Oh sopra tutte
fortunata la vergin priamèa,
che su la tomba del nemico, avanti
l'alte mura di Troia ebbe a morire,
né sorteggi patì, né prigioniera
toccò di vincitor padrone il letto I
Arsa la patria, noi, via per i mari
tratte, de l'achillèa stirpe l'altura
ed il protervo giovine, feconde
in servitù, soffrimmo. Il qual poi, volto
a vagheggiare Ermìone ledea
e gl'imenei lacedemonii, cesse
me, schiava a schiavo, ad Eleno. Ma lui,
Oreste arso d'amor per la rapita
sposa e agitato da le Furie nitrici
inavveduto lo sorprende e uccide
presso i paterni altari. Per la morte
di Neottolemo una parte scadde
a Eleno de' regni, ed ei caonii
campi e tutta da Càone troiano
86 ENEIDE
fé' di nome Caonia, e su le vette
Pergamo pose, questa iliaca rocca.
Ma quali venti a te, qual fato diede
la via? qual nume ti sospinse novo
a' nostri lidi ? E il giovinetto Ascanio ?
viv'egli ancora e l'aere respira,
che a te quando già Troia....?
Qualche pensier de la perduta madre
serba il fanciullo pur? sproni gli sono
a l'antico valore e a cuor virile
Enea suo padre ed Ettore suo zio ? —
Cosi diceva lagrimando e lunghi
metteva in van sospiri, allor che viene
da le mura l'eroe priàmide Eleno
in mezzo a molti, e riconosce i suoi
e lieto li conduce a le sue soglie
di pianto accompagnando le parole.
M'avanzo, ed una Troia piccoletta,
una Pergamo che imita la grande
ed un magro ruscel che ha nome Xanto
ravviso, e la Scea porta riabbraccio.
Insiem del pari la città congiunta
godono i Teucri: il re li riceveva
ne* portici ampli ; de la corte in mezzo
spargean libando il vin su le vivande
apposte in oro e in mano avean le coppe.
Già il primo se n'andava e il di secondo,
l'aure chiaman le vele e il sen si gonfia
LIBRO TERZO 87
tutto da l'austro; mi rivolgo al vate
a chiedere e pregar: — Di Troia figlio,
interprete de' Numi, che i voleri
di Febo intendi e i tripodi e di Claro
i lauri, gli astri, degli uccelU il canto
e il presagir de la volante penna,
dimmi deh ! (che ogni pio rito propizio
mi promise il viaggio, e di lor cenno
tutti gli Dei mi volsero a l' Italia
e il paese riposto a ricercare ;
sola un nuovo e a ridir tremendo intona
l'arpia Celeno vaticinio e fiere
ire m'annunzia e orribil fame) ; quali
schivo prima pericoli? per quale
via superar potrei prove sì dure? —
Eleno allor, sacrificati avanti
i giovenchi di rito, umile implora
la grazia degli Dei, si scioglie al sacro
capo le bende, a le tue soglie, Febo,
per mano adduce me vinto a quel raggio
divino che l'avvolge, e sacerdote
così dischiude l' ispirato labbro :
— O figlio de la Dea (che manifesto
navighi il mare per più alto augurio;
così de' Numi il re sorteggia e volge
le vicende fatali, e il corso è questo),
poco di molto io ti dirò, per fare
che meno inospitali affronti l'onde
e posar possa ne l'ausonio porto:
più non lasciano a Eleno le Parche
88 ENEIDE
saper, più dire la saturnia Giuno.
In prima, quelF Italia che già presso
ti credi e t'apparecchi, o ignaro, in porti
vicini entrar, lungo l'apparta e tiene
di lunghe terre invalicabil varco.
Torcere il remo nel trinacrio flutto
e rader con le navi il lido ausonio
ed il lago d'Averno e de l'eèa
Circe l'isola tu prima dovrai
che possa in certo suol mura fondare.
I segni ti dirò, scrivili a mente.
Quando, pensoso a solitario fiume,
ben grande sotto l'elei de la riva
una scrofa giacersi troverai
sgravatasi di trenta capi, bianca,
per terra, bianchi a le sue poppe i nati,
quivi la tua città, quivi il riposo.
Né di un futuro mordere le mense
tremare: i fati troveran la via,
e sarà presso agi' invocanti Apollo.
Ma queste terre, questa itala proda
cui più prossima batte il nostro flutto,
schivala : è tutto pien d'infesti Grai.
Ivi e i naricii Locri han fabbricato
e accampò suoi guerrier nel sallentino
paese il Httio Idomeneo: del duce
melibeo Filottete ivi s appoggia
la piccola Petelia a la sua cerchia.
Poi, tragittata oltre quel mar la fiotta,
come sul lido già posti gli altari
i voti scioglierai, copriti il capo
LIBRO TERZO 89
di vel purpureo, che nemico aspetto
tra i sacri fuochi nel devoto rito
non t'apparisca e il buono augurio turbi.
Questa norma solenne i tuoi compagni,
questa tu serba e in cerimonia tale
illibati perdurino i nepoti.
Indi partito, come t'abbia il vento
a la Sicilia fatto presso e il varco
de l'angusto Peloro ti traluca,
ticDi i hdi a ministra e l'onda in ampio
giro; da destra sfuggi terra e mare.
Oue' luoghi un dì per violenta e vasta
rovina (così grande mutamento
può far la lunga vetustà degli anni),
è fama, si staccarono; tutt'ana
erano le due terre; il mare a forza
s'insinuò, dal siculo l'esperio
lato spiccando, e tra i disgiunti campi
e le città con breve gorgo scorse.
Il destro lato Scilla tien, spietata
il sinistro Cariddi e vorticosa
trae giù tre volte e inghiotte i vasti flutti
ed a vicenda poi fuor li rimanda
flagellandone il ciel. Una spelonca
ne le tenebre sue racchiude SciUa
che s'affaccia agli scogli e i legni attira.
Ha volto lunano e bel virgineo busto
fino al pube: gran mostro è il resto, e code
ha di delfìni a un utero di lupi.
Meglio indugiarsi a radere le mete
C)0 ENEIDE
É
del trinacrio Pachino in solco largo >>
che una volta mirar sotto il grande antro
la mostruosa Scilla e la scogliera
latrante intorno di cerulee cagne.
Inoltre, se ha saggezza Eleno alcuna,
s'egli è credibil vate e il ver gì' incuora
Apollo, questo, o figUo de la Dea,
ti predirò, questo per tutto solo ^
tornerò senza fine ad inculcarti : j
il nume innanzi de la gran Giunone ^
pregando adora, a lei di cuor ti vota,
e con supphci offerte la possente
signora piega: così alfin vincente
di Trinacria in Italia salperai.
Là giunto, quando a la città cumea
sarai vicino ed agli arcani laghi
e a 1 Averno di selve risonante,
visita l'invasata profetessa
che de la rupe a pie dice i destini
e a foglie affida sillabe e sentenze.
Quanti scrisse la vergine responsi
su le foghe, li novera e dispone
e ne l'antro abbandonali raccolti.
Immoti quelli restano e fedeli
a' luoghi lor, ma poi, se un sottil ventò,
il cardine girato, li sospinse
e la porta turbò le lievi fronde,
già non più, voUtanti per la grotta,
prenderli ha cura e l'ordine rifare
degli oracoli. Partono i delusi
LIBRO TERZO qi
l'antro maledicendo e la Sibilla.
Ivi sì non pregiar spesa d'indugio,
benché i compagni premano, e la \da
voglia le vele a l'alto, ed a buon vento
si possano gonfiar, che la veggente
tu non ricerchi e di responso preghi
istantemente : ma predica dessa
e indulgente la voce e il labbro sciolga.
Ella d'Italia i popoli e le guerre
ti svelerà venture e di che guisa
ogni cimento tu sfugga o sopporti,
e venerata ti aprirà secure
le vie. Tanto saper da la mia bocca
è conceduto a te. Su, vanne e grande
innalza al cielo con le imprese Troia — .
Dopo ch'ebbe così con labbro amico
parlato il vate, doni d'oro gravi
fa recare e di lamine d'avorio
a le na\d e vi addensa ne le chiglie
argento molto e dodonei lebeti,
una lorica a triplice aurea maglia
e un cono di bell'elmo e ben chiomato,
armi di Neottolemo. Suoi doni
anche riceve il genitor. Cavalli
aggiunge, aggiunge aurighi :
colma il remeggio, i miei pur d'armi veste.
Porre a la vela intanto comanda\'a
Anchise, per non fare indugio al vento
propizio. Dice a lui con grande onore
92
ENEIDE
r interprete di Febo: — 0 fatto degno
de le nozze di Venere superbe,
Anchise, cura degli Dei, due volte
di Pergamo sottratto a la rovina,
eccoti il suol d'Ausonia, a quel veleggia.
E quello pure oltrepassar per l'acque
t'è necessario: de l'Ausonia lungi
è quella parte che ti schiude Apollo.
Felice o tu per la pietà del figlio,
vanne — , dice: più oltre a che trascorro
e trattengo col dir l'austro che spira? —
Andromaca non men, triste a l'addio,
offre vaghi ricami a trama d'oro
ed una frigia clamide ad Ascanio,
con pari onore ; de' tessuti doni
il colma e volge a Jui tali parole :
— Prendi anche questi che ti sien ricordo
de le mie mani, o giovinetto, e a lungo
ti attestino d'Andromaca l'amore,
donna d' Ettore. Gli ultimi presenti
abbi de' tuoi, o sola che mi resti
del mio Astianatte imagine ! Così
gli occhi egli avea, così le miani e il volto,
ed or con te sarebbe adolescente — .
A loro sul partir non senza pianto
io diceva: — Vivetevi felici,
a cui già piena è la fortuna sua ;
inca.lzati slam noi di fato in fato.
Voi vi posaste, né a solcar marina
vi rimane o a cercare ausonie rive
sempre indietro fuggenti. Una sembianza
LIBRO TERZO 93
de lo Xanto vedete ed una Troia
fatta di vostra mano, con migliori
destini, prego, e meno esposti a' Grai.
Se il Tebro mai ed i vicini al Tebro
campi entrerò, se mirerò le mura
date a mia gente, le città sorelle
ne l'avvenire e i popoli propinqui,
a r Epiro r Esperia, a cui comune
Bardano è padre e son comuni i casi,
una farem le due Troie col cuore:
sia de' nostri nepoti un tal pensiero — .
Avanziamo sul mar lungo i vicini
Cerauni, donde è il navigar più breve
verso r Italia. Cade intanto il sole
e s'inombrano opachi i monti. In grembo
ci gettiam de la desiata terra
al mar, sortiti i remi, e ne l'asciutto
ci disperdiamo per ristoro intorno:
imga il sonno gli spossati corpi.
Né a mezzo il giro ancor tratta da l'Ore
salìa la Notte, levasi solerte
PaKnuro ed esplora tutti i venti
fenno in orecchi a coglier l'aure. Osserva
tutte volger le stelle in ciel tranquillo;
Arturo e le piovose ladi in giro
contempla e i due Trioni ed Orione
armato d'oro. Come tutto vide
calmo in sereno ciel, chiaro il segnale
di su la poppa dà: moviamo il campo
e avviati apriam l'ali de le vele.
94 ENEIDE
E già fugati gli astri rosseggiava
l'Aurora, quando discerniam lontano
oscuri i colli ed umile l'Italia:
Italia primo grida Acate, Italia
lietamente salutano i compagni.
Allora il padre Anchise, incoronato
un gran cratere, lo colmò di vino
e pregò, ritto su la poppa:
— Dèi, signori del mare e de la terra
e de l'aere, agevole a buon vento
fate la via, spirateci a seconda — :
Soffiano le invocate aure, e già s'apre
più presso il porto e il tempio appar su l'arce
di Minerva. I miei calano le vele
ed al lido dirigono le prore.
Il porto de l'euròo flutto a riparo
curvasi in arco; spumano del salso
spruzzo le opposte rocce, esso si addentra;
in doppio muro abbassano i turriti
scogli le braccia e si fa indietro il tempio.
Quattro cavalli là, presagio primo,
liberi vidi a pascolar per l'erba,
di bianchezza di neve. E il padre Anchise
— Guerra tu porti, o terra ospite — dice:
a guerra s'armano i cavalli, guerra
questa mandra minaccia. Ed essi pure
sottentrano i quadrupedi al timone,
apparigliati e ubbidienti al freno;
speranza anche di pace — . Il nume pio
preghiamo allor di Pallade guerriera
che per prima ne accolse trionfanti,
LIBRO TERZO 95
ricoprendoci avanti l'are il capo
di frigio velo, e d' Eleno al precetto
massimo che ci die, destiam devoti
a Giuno argiva le prescritte fiamme.
Senza indugiar, di seguito compiuto
ogni rito, le punte rivolgiamo
de le velate antenne e abbandoniamo
quelle case di Greci e il suol sospetto.
Indi si scorge il grembo de l'erculea,
se vera è fama, Taranto: la diva
Lacinia s'erge incontro e di Caulone
l'arci e pien di naufragi Scilaceo.
Remoto poi dal mare il siculo Etna
si scerne, e udiamo di lontan l'ingente
gemer de l'onda ed i percossi sassi
e l'urlo a riva de* frangenti : i gorghi
ribollono mischiandosi di rena.
E il padre Anchise: — Ben quella Ca riddi
è questa; questi scogh Eleno, questi
tremendi sassi predicea. Compagni,
schivateU e v'alzate insiem su' remi — .
Obbediscono al cenno, e Palinuro
per il primo sviò verso sinistra
cigolante la prora, e fanno forza
tutti a sinistra co' remi e col vento.
Siam sollevati al ciel su' curvi dorsi
e inabissiamo al rifuggir de l'onda.
Tre volte strepitarono gli scogli
fra i cavi sassi, tre franger le spume
vedemmo e inumidirsene le stelle.
Intanto lassi ci lasciò col sole
gò ENEIDE
il vento, ed inesperti de la via
approdiamo a le spiagge de' Ciclopi.
Esso il porto da V impeto de' venti
è immoto e vasto, ma vicin gli romba
l'Etna con soaventevoli rovine
e talor lancia al ciel nube fumosa
di nera pece e di faville vive,
alza globi di fiamme e gli astri sfiora,
rocce erutta talor fuori e spiccate
le viscere del monte e addensa in aria
liquefatti macigni mugolando
e dal fondo più intimo ribolle.
È fama che dal fulmine mezz'arso
Encelado stia sotto la montagna,
e che su lui gravando ingente l' Etna
da le bocche l'incendio ne respiri,
e quante volte lasso ei muta lato,
tutta Trinacria fremebonda tremi
e stenda sotto al ciel nube di fumo.
Per quella notte ne le selve ascosi
tolleriamo il terribile portento
senza vedere la cagion del rombo :
che non v'era splendor d'astri né il polo
de la plaga stellata rilucea,
ma v'eran nubi ne l'oscuro cielo
e notte cupa ravvolgea la luna.
Il domani spuntava in oriente
e rimossa dal cielo avea l'Aurora
r umid' ombra ; improvviso da le selve
LIBRO ti:rzo
strana figura, di magrezza estrema,
d'uom sconosciuto e squallido s'avanza,
tese le mani supplicando al lido.
Lo riguardiamo : sordida miseria,
lunga la barba, un mantello cucito
insiem da spine, ma nel resto un greco
e mosso un di ne l'armi patrie a Troia.
Ei, come di lontan dardani aspetti
conobbe e troiane armi, un poco stette,
a la vista atterrito, e tenne il passo;
indi precipitoso al lido corse
con lagrime e preghiere: — Per le stelle
v'invoco, per i Superi e per queste
spirabili aure luminose, o Teucri,
prendetemi, portatemi dovunque;
basterà. Mi so uno de le dànae
navi e confesso esser venuto in armi
contro i Penati iliaci. Per questo,
se de la colpa mia tanta è l'offesa,
spargetemi per l'acque a brani, in fondo
m'immergete del pelago : se muoio,
morir per mano d'uomini avrò caro — .
Avea detto e abbracciava le ginocchia
in ginocchio implorando. A dir chi sia
e di che sangue nato l'esortiamo
e rivelar qual poi vicenda il prema.
Esso, senza esitar, il padre Anchise
gli dà la destra e del parlante pegno
lo rassicura.
Quegli, finalmente,
deposta la paura, così dice:
Albini - Eneide
9^ ENEIDE
— D'Itaca io son, de l'infelice Ulisse
un compagno, Achemenide di nome,
ito a Troia, Adamasto avendo a padre
povero (oh fosse povertà durata!).
Me qui, mentre s'affannan le crudeli
soglie a fuggir, dimentichi i compagni
lasciarono ne l'antro del Ciclope.
Tutta grumi è la stanza e atroci resti,
oscura dentro e vasta. Esso è gigante
che tocca gU astri (sterminate, o Dei,
tale dal mondo orror), né d'affisarlo
né di parlargH è dato ad uom. Divora
le viscere de' miseri ed il sangue.
Io stesso vidi quando due de' nostri
presi con la gran mano, in mezzo a l'antro
sdraiato, percoteali a la parete,
e la strage inondava intorno intorno;
morder lo vidi le grondanti membra
che sotto a' denti gh tremavan calde.
Non senza pena pur, che non sofferse
Ulisse tanto né obliò sé stesso
ritaco in tal frangente. Non appena,
sazio del pasto e sepolto nel vino,
giù pose il capo e per la grotta giacque
immenso, grumi e frustoli tra '1 sonno
misti eruttando a vin sanguinolento,
noi, invocati i sommi Dei, sortite
le parti, tutti stretti intorno a lui
con aguzzo troncon gli crivelliamo
l'occhio che grande e solo s'appiattava
sotto la torva fronte, quasi scudo
LIBRO TERZO 99
argolico o la lampada febea,
e lieti vendichiam l'ombre de' nostri.
Ma su, fuggite, o miseri, fuggite
e strappate la fune:
che com'è Polifemo, e quale e quanto
chiude la greggia e munge entro lo speco,
cento altri tali popolano il Udo
esecrati Ciclopi e per le cime
errano. Già la luna empì di luce
le terze coma, da ch'io traggo in selve
tra i sohnghi covili de le fiere
la vita e i Ciclopi alti su le rupi
spio trasalendo al suon de' passi e a l'urlo.
Bacche e petrose prune in cibo amaro
mi danno i rami e strappo le radici.
Tutto sempre esplorando, io vidi prima
questa flotta arrivar; m'addissi a questa,
qual che si fosse, sol eh? da la razza
scampi brutal. Piuttosto questa vita
voi mi togliete per qualunque morte — .
Appena detto avea che a sommo il monte
lui vediam tra le pecore il pastore
Polifemo in sua gran mole avanzare
ed avviarsi al consueto lido.
Orrendo informe enonne mostro, e cieco;
strappato un pino in man regge i suoi passi :
gli va compagna la lanuta greggia;
quella la sola gioia ed il sollievo
del danno.
Poi che l'onde toccò de la marina.
É:
ino ENEIDE
l'umor de lo scavato occhio sanguigno
deterse digrignando gemebondo,
e nel mezzo de l'acque ornai cammina
né a la cintola ancor gli sale il flutto.
Noi quindi lungi trepidi affrettare
la fuga, accolto il supplice sì degno,
e in silenzio tagliar la fune: e curvi
fendiamo il mar con gareggianti remi.
Sentì, l'andar verso la voce volse;
ma poi che già non ne può dar di piglio
né uguagliare inseguendoci l' Ionio,
grido immenso levò, che le marine
ne tremarono e addentro sbigottita
fin la terra d' Italia e muggì l' Etna
da le curve caverne. A quel richiamo
fuor da le selve, giù da le montagne
la razza de' Ciclopi si ruina
verso il porto ed i lidi empie. Vediamo
con l'occhio torvo inutilmiente starsi
gli etnei fratelli e alzar le teste al cielo,
concilio orrendo; quah in vetta a l'alpe
querci aerie o coniferi cipressi
soglion superbi sorgere, di Giove
alta selva o recinto di Diana.
Precipitosi il gran timor ci spinge
a scotere le sarte per dovunque
e dar le vele a lo spirar de' venti.
D'Eleno l'ammonir contrario suona,
se tra Scilla e Cariddi, entrambe via
rasente a morte, non tengano il solco;
vale il pensier di veleggiare indietro.
l.lh'.KU 1 i:.K/.v ' lOI
Ed ecco da la stretta di Peloro
Borea ne spira: valico la foce
tra vivo sasso del Pantagia e il seno
mégaro e la giacente Tapso. I luoghi
novamente radendoli a ritroso
ci veniva Achemenide mostrando,
socio che fu de l'infelice Uhsse.
Una al sicano golfo innanzi stesa
contro il Plemirio ondoso isola, giace;
Ortigia la chiamarono i maggiori.
È fama che l'Alfeo d' Elide fiume
per cieca via di sotto al mxar qui corse
ed ora per la tua bocca, Aretusa,
a le sicule Hnfe si confonde.
Docih veneriamo i numi santi
di quella terra, ed oltrepasso poi
il pingue suol de lo stagnante Eloro.
Indi l'eccelse punte e i procorrenti
sassi radiamo di Pachino, e appare
Camarina lontan, cui vieta il fato
mutarsi mai, e i Geloi campi e Gela
denomxinata dal rubesto fiume.
Alta Agrigento poi da lungi ostenta
sue gran mura, di nobili cavalli
un dì ferace; e te varco a buon vento,
palmosa Selinunte, e i lihbei
gorghi costeggio aspri di scogli ascosi.
Il porto aliìn di Drepano e la riva
infausta mi riceve: ivi, da tante
fortune in mar sbattuto, il oadre mio.
102
ENEIDE
de* pensieri conforto e de' perigli,
Anchise ahi! perdo; ivi me stanco ahi! lasci,
ottimo genitor, inutilmxente
a rischi innumerevoli sottratto.
Né sì gran duolo a me tra i molti eventi
predisse Eleno vate e non la cruda
Celeno. Questo l'ultimo travaglio,
questa la meta de le lunghe vie.
Indi partito, un dio mi spinse a voi ».
Ascoltandolo tutti, il padre Enea
così de' fati ritessé la tela
e il viaggio narrava. E qui si tacque,
giunto a la fine, e fu sua voce cheta.
LIBRO QUARTO
Ma la regina, di profondo affanno
pur dianzi vinta, la ferita in cuore
nutre e si strugge di nascosta fiamma.
Sempre il valore de l'eroe, l'onore
de la gente ritoma al suo pensiero;
ha fitti in seno il volto e le parole,
né dà la passion pace a le membra.
Il domani schiariva col febeo
lume le terre e avea di ciel l'Aurora
l'umid'ombra cacciata; ella si volge
fuor di sé quasi a la fedel 'sorella :
«Anna sorella mia, quaU mai sogni
mi turbano e mi affannano? Che novo
ospite è questo che ci giunse in casa?
quale aspetto! che forte cuor! che braccio
Credo ben io, né credo invan, che stirpe
è degh Dei: i trahgnanti accusa
lor viltà. Da che fati ahimé sospinto!
quah narrava superate guerre!
Se nel mio cuore immobilmente ferma
104 i: NE IDE
non fossi a ricusar nodo di nozze,
poi che morendo il primo amor m'illuse;
se preso in odio il talamo e le tede
già non avessi, fors' eli' era questa
l'unica col[;a cui ceduto avrei.
Anna, il confesserò, sì, dopo il fato
del misero Sicheo mio sposo e il sangue
di che il fnitello empì la casa, solo
questi m'ha scosso i sensi e il cuor che trema
conosco i segni de l'antica fiamma.
Ma prima s'apra a me la terra cupa
e mi fulmini il gran Padre tra l'ombre,
le pallide ombre e l'infinita notte,
ch'io te. Pudore, o le tue leggi offenda.
Quegli che primo a sé mi strinse, il mio
amor se ne portò; quegli se l'abbia
sepolto insieme ».
Così disse, e in seno
il pianto le proruppe. Anna risponde:
« O più cara del giorno a la sorella,
e tutta sfiorirai la giovinezza
da sola, senza i dolci figli, senza
di Venere le gioie ? E di ciò pensi
che si curi la cenere de' morti ?
Sia, nel tuo lutto un dì non ti piegava
sposo di Libia, e non di Tiro prima;
larba disprezzasti e gli altri duci
che ricca ni trionfi Africa nutre:
r-^spingerai anche un gradito amore?
Né ti sovviene in qual terren tu vivi ?
hai da una parte le città getule,
LIBRO QUARTO I05
stirpe guerriera, e i Nùmidi sbrigliati
e l'inospita Sirti; le assetate
lande hai da l'altra ed il furor barceo
che largo inonda. E debbo dir le guerre
imminenti da Tiro e la minaccia
del germano?
Auspici inver gh Dei, penso, e arridente
Giunone, questo solco hanno tenuto
veleggiando l'iliache carene.
Quale vedrai questa città, sorella,
qual sorger regno per connubio tale!
de' Teucri amiche l'armi, ne l' imprese
quanta grandeggerà punica gloria!
La grazia sol de' Numi implora e, i riti
compiuti, a l'ospitahtà sorridi;
trova cagioni a l'indugiar, nel m.entre
che il verno infuria ed Orion nemboso
sul mar, né sani sono i legni; mentre
male i nembi si affrontano ».
Con questi
detti d'immenso amor l'animo accese,
die speme ai dubbio cuor, vinse il ritegmo.
Vanno da prima a' tempH, e ad ogni altare
chiedon grazia : le scelte agne di rito
a Cerere leggifera ed a Febo
immolano e a Lieo padre, su tutti
a Giuno eh' è de' nodi coniugali
protettrice. Bellissima Bidone
versa una tazza con la propria destra
fra le corna di candida giovenca,
I06 ENEIDE
o davanti agli Dei ed a le pingui
are passeggia, e inizia con le offerte
il giorno, e intenta sopra l'ostie scisse
le palpitanti viscere consulta.
Oh misero pensier degl'indovini!
che fanno i voti e i templi a la furente?
Fiamma intanto divora le midolle
molli e tacita in sen vive la piaga.
Arde Dido infelice, e forsennata
scorre per tutta la città, qual cerva
cui lunge incauta tra le macchie in Creta
un pastore incalzandola di . strali
d'uno pur colse e in lei lasciò l'alato
dardo senza saperlo; e quella in fuga
per le fratte e i dittei balzi dilegua,
ma la punta mortai fitta è nel fianco.
Or seco Enea per mezzo a' suoi conduce,
gli mostra la sidonia floridezza
e pronta la città; prende a parlare
ed a mezzo il parlar s'arresta: or torna
col di cadente a' soliti conviti
e chiede ancora udir le iliache pene
e pende ancor del narrator dal labbro.
Come poi son partiti e l'ora viene
che vela il lume suo scura la luna
e il sonno chiaman le cadenti stelle,
sola si strugge ne le stanze vuote
e resta sui tappeti abbandonati.
Lontana lui lontano ascolta e vede,
o vinta a la paterna somiglianza
gode di trattenersi Ascanio in grembo,
LIBRO QUARTO lO^
se illuder possa il tormentoso amore.
Non Saigon più le torri incominciate;
non trattan l'arme i giovani, né a' porti
sudano e a' forti arnesi de la guerra:
pendono l'opere interrotte e i merli
grandi de' muri e i palchi alzati al cielo.
Appena vide lei dal mal sì presa,
né ritegno la fama a la follia,
la saturnia di Giove amata sposa
con questo ragionar Venere assale :
« Splendida lode in ver, trofei superbi
tu col figliuolo tuo ne riportate :
meraviglioso e memorabil vanto,
per l'arte di due Dei vinta una donna!
Già non mi sfugge che le nostre mura
tu paventando, per sospette avevi
le case di Cartagine alta. E quando
porrai fine ? a che più tanto armeggiare ?
Perché piuttosto non esercitiamo
eterna pace e pattuite nozze ?
Già quello hai tu che avidamente ambivi :
arde amiorosa Dido e fino a l'ossa
bevve la frenesia. Dunque comune
questo popol reggiamo àuspici eguali:
io non vieto obbedir frigio marito
e dare i Tirii a la tua destra in dote ».
A lei (che falso favellar la intese,
per divergere a' Hdi de la Libia
d'Italia il regno) Venere rispose :
u Chi a ciò darebbe folle una ripulsa
eleggendo di far con te la guerra?
sol che fortuna prosperi l'evento
che dici - ma sono io dubbia de' fati -
e un'unica città Giove consenta
avere i Tirii e i profughi da Troia
e mescolarsi ed allearsi in patto.
La moglie sei, e puoi tentar pregando
il suo talento. Va', ti terrò dietro ».
Soggiunse allora la regai Giunone:
« Mia sarà questa cura. Or di che guisa
quello si possa adempiere che preme,
ti mostrerò, m'ascolta, in breve. Enea
e con lui l'amantissima Bidone
si preparano andar ne' boschi a caccia,
non appena domani il sol nascente
co' suoi raggi riveli l'universo.
Io di grandine misto un nero nembo,
mentre le schiere a collocar le reti
s'affannano, rovescerò su loro
e moverò tutto tonante il cielo.
Qua e là fuggiran gli altri, ne la cupa
notte ravvolti : Dido e il teucro duce
ripareranno a la spelonca stessa.
Quivi sarò : se il tuo piacer m'è chiaro,
glie la unirò di stabile connubio
per sempre sua. Sarà quivi Imeneo ».
Annuì senza opporsi a la chiedente
e sorrise a le trame Citerea.
L'Aurora intanto da l'Oceano è sorta.
Vien da le porte col novello raggio
LIBRO QUARTO 100
la eletta gioventù. Là reti rade
e lacci e giavellotti a larga lama ;
e accorrono massili ca,valieri
e de' cani il sottil fiuto. A le soglie
stanno i primi de' Peni ad aspettare
la regina nel talamo indugiata :
e un destrier d'ostro e d'oro rifulgente
impaziente morde il fren schiumoso.
Ultima, tra un corteo frequente, avanza,
in clamide sidonia ricamata
a' lembi : d'oro ha la faretra, in oro
annodati i capelli, ed un fermaglio
d'oro raccoglie la purpurea veste.
Ecco i frìgi compagni anch'essi e lieto
Giulo apparir: bellissimo su tutti
Enea procede e le due squadre unisce.
Qual è Apollo, allor che l'invernale
Licia lasciando e i corsi de lo Xanto
riede a veder la sua materna Delo
e desta i cori; misti a l'are intorno
Cretesi e Driopi fremono e dipinti
Agatirsi; pe' gioghi va del Cinto
esso e il fluente crin preme composto
di pieghevole fronda e d'aureo cerchio,
romba il turcasso agli omeri: non meno
animoso di lui veniva Enea;
tanta è beltà nel nobile sembiante.
Poi che si giunse agli alti monti e a' covi
riposti, giù da' vertici sbalzate
scorser pe' clivi le selvagge capre ;
no ENEIDE
e d'altra parte i cervi i campi aperti
trasvolano e s'agglomerano in frotte
polverose fuggendosi da' monti.
Il giovinetto Ascanio del suo vivo
poliedro gode in grembo a le vallate
ed ora questi in corsa or passa quelli,
e agogna pur che tra l'imbelle armento
o spumoso cinghiai gh si offerisca
o discenda nel pian fulvo leone.
Comincia intanto a conturbarsi il cielo
d'immenso mormorar; grandine e nembo
scoppiano quindi. I tirii cacciatori
trepidi a caso e i giovani troiani
e il dardanio di Venere nipote
cercaron qua e là pe' campi asilo :
da' monti scrosciano i torrenti.
Dido
e il teucro duce a la spelonca stessa
riparano. La Terra prima e Giuno
pronuba danno il segno: arsero lampi
nel cielo consapevole a l'amplesso;
su le rupi ulularono le Ninfe.
Quello il dì primo fu di morte, il primo
forier de' mah : che non ha pensiero
Dido de l'apparire e de la fama,
e più non serba quell'amor nel cuore
nascostamente, ma connubio il chiama
e fa del nome a la sua colpa velo.
Subito per le gran città di Libia
la Fama va, la Fama, il più veloce
LIBRO QUARTO III
che sia malanno; vigoreggia per la
mobilità e forze acquista andando.
Piccola prima e pavida, si leva
poi alto a l'aure; sul terren cammina
e il capo tra le nuvole nasconde.
Lei, narrano, la Terra genitrice
irritata de l'ira degli Dei,
lei di Ceo e d' Encelado sorella
ultima partorì, presta di piedi
e d'agili ali, orribil mostro e grande;
che quante ha penne per il corpo, tanti,
prodigio a dir, sott'esse ha vigiH occhi,
hngue e bocche le parlano altrettante,
tanti dirizza orecchi. A notte vola
tra terra e cielo stridula per l'ombra,
né chiude al dolce sonno le pupille;
il giorno o su' comignoH de' tetti
siede osservando o de le torri in cima,
ed assorda le gran città, tenace
del falso e reo, come del ver foriera.
Questa allora esultante riempiva
le genti di moltephce ridire
e il fatto e il finto insieme ricantava :
di teucra stirpe esser venuto Enea,
e a lui non isdegnar la bella Dido
congiungersi; or passare il verno in gioia,
quanto è lungo, tra lor, dimenticando
i regni, al vii talento abbandonati.
Per le bocche la dea questa vergogna'
sparge : ad larba re dirige il volo
e gli desta co' detti incendio d' ira.
112 ENEIDE
Questi, nato ad Ammon da la rapita
Garamantide ninfa, ha posti a Giove
cento per l'ampio regno eccelsi templi,
cento are, e avea sacrato il vigil fuoco,
scolte de' Numi eterne ; ed il suol pingue
del sangue de le vittime e le soglie
de* svariati serti floride. Egli,
sconvolto il cuore e acceso al triste grido,
davanti a l'are, in mezzo a' numi santi,
supplice a Giove con le palme tese
dicono alzasse instante la preghiera:
« Onnipotente Giove, a cui la maura
gente su' pinti letti convitata
liba l'onor leneo, vedi tu questo?
ovver te fulminante, o genitore,
senza ragion temiamo e del terrore
fuochi son causa tra le nubi occulti
e via con bruto murmurc striscianti?
Una donna, che profuga nel nostro
suolo esigua città fondò per oro,
e le diemmo ad arar terra e a dettarvi
la legge, ricusò le nozze mie
e per signore accolse al regno Enea.
Quel Paride, col suo non maschio gregge,
succinto al mento la meonia mitra
e al crin stillante, or la rapina gode:
e noi portiamo a' templi tuoi le offerte
alimentando una credenza inane!».
Lui che così pregava a l'are stretto
udì l'Onnipotente e torse gli occhi
LIBKO Ql-ARTO Ijo
a le mura regali ed agli amanti
de la fama migliore ismemorati. "
Poi si volge a Mercurio e sì gì' ingiunge:
« FigHo, chiama gli zefiri e volando
scendi: al dardanio duce che or s'indugia
ne la tiria Cartagine e non guarda
più le città concessegh dal fato,
paria e reca per l'aere il mio cenno.
Lui la madre belhssima non tale
ci promise - né due volte di mano
lo strappa a' Crai per questo - si ben ch'egH
pregna di tirannie, guerra spirante
reggerebbe l'Itaha, la prosapia
rivelerebbe che da Teucro scende
e darebbe la legge a Tuniverso.
Se non l'infiamma gloria di si grandi
cose né vuole accingersi a fatiche
per propria lode, Ascanio ei padre froda
de le romane rocche ? E che disegna ?
o per qual mai speranza tra nemica
gente dimora ed a l'ausonia prole
più non riguarda né al lavinio suolo ?
Navighi: questo è tutto, e tu l'annunzia».
Aveva detto. Quei si preparava
obbedir del gran Padre il cenno, e prima
s'allaccia a' pie gh aurei talari: a volo
questi su le marine e i continenri
il portano alto a par con l'aure lievi.
Prende la verga poi : con questa fuori
ei chiama l'ombre pallide da l'Orco,
AtEiNi - Eneide
114 ENEIDE
altre nel triste Tartaro sommerge,
dà il sonno e leva, e chiude gli occhi in morte.
Rompe or con essa i venti e tra le nubi
torbide varca. E già tra '1 volo scorge
il picco e i fianchi eccelsi del rubesto
Atlante che sostenta il ciel col capo,
d'Atlante che i pineti de la vetta
perennemente ha in nuvole ravvolti
e dal vento è battuto e da la pioggia:
vien la neve a coprir gli omeri; allora
scorron dal mento del vegliardo i fiumi
e irrigidisce l'irta barba al gelo.
Quivi stette librandosi su l'ali;
poi s'abbandonò tutto verso l'onde,
simile a queir augel che basso vola
intorno a' Hdi ed a' pescosi scogli
radendo il mar: non altrimenti a volo
tra terra e ciel verso il sabbioso lido
de la Libia fendea l'aer venendo
dal materno avo la cillenia prole.
Toccati appena con le alate piante
i tuguri, discerne Enea che attende
a fondar torri e foggiar tetti. Aveva
stellata spada di diaspro biondo
e breve manto gli fulgea di tirio
murice da le spalle, opera e dono
che fatti aveva l' opulenta Dido
e divisati a fila d'oro i drappi.
Di subito l'assale : « Or tu lavori
a' fondamenti di Cartagine alta
LIBRO QUARTO II-
e tutto moglie la città fai bella,
oh immemore del regno e di tue cose!
Esso dal chiaro Ohm.po a te mi manda
il Re de' Numi che ad arbitrio suo
volge il cielo e le terre, esso m'ingiunge
che per l'aere il suo cenno ti rechi.
Tu che disegni? per qual mai speranza
stai neghittoso in libico paese?
Se non ti punge gloria di sì grandi
cose né ordisci a lode tua fatiche,
guarda Ascanio crescente e le speranze
di Giulo erede, cui dovuto il regno
è de ritaha e la romana terra».
Detto che in tal sentenza ebbe Cillenio,
sfuggi tra il dir così gli occhi mortali
e dileguò ne l'aere lontano.
Ammutì di sé fuori a quell'aspetto
Enea; rabbrividì, ritri i capeUi,
ne le fauci la voce. Via fuggire
anela e abbandonar le dolci terre,
percosso a l'alto ammonimento e al cenno.
Ahi! che si far? con che parole osare
mettersi intorno a la regina ardente?
qual principio trovar? E il suo pensiero
or qua or là rapido ei volge e in ogni
parte l'invia per tutte le vicende.
Ondeggiando così, mighore avviso
questo gh parve: Mnèsteo e Sergesto
chiama e il forte Seresto; armino cheti
la flotta, e i soci adunino a la riva.
Il6 ENEIDE
preparili tutto, e de la cosa nova
la ragione dissimulino; ed esso,
da che l'ottima Dido è ignara e rotto
non teme un tanto amor, vedrà le vie
e la più facile ora a favellarle,
e ogni destro che paia. Alacri e Heti
tutti ascoltano e adempiono i comandi.
Ma la regina presentì le trame
(e chi potrebbe eludere un amante?)
e le mosse a venir prima sorprese,
trepida in sicurezza. E l'empia Fama
riferi parimente a l'amorosa
la flotta pronta e prossimo il salpare.
Smania e le cade il cuor; baccando in fiamme
erra per tutta la città, qual tiade
che balza mossi appena i sacri arredi
quando al grido di Bacco ogni terz'anno
stimolan l'orgie e clamoroso a notte
il Citerone chiama a sé.
Con queste
voci in fine ad Enea parla la prima:
« Anche dissimular sì nero eccesso,
o perfido, speravi e da la mia
terra occulto partir? Né l'amor nostro
né la destra un dì porta e non ti arresta
Dido che ne morrà di crudel morte?
Sotto gli astri invernali armi la flotta
e al soffio aquilonar levi le antenne,
crudele ! E che sarebbe se or tendessi
non a terre d'altrui né a case ignote,
LIBRO QLARTO 117
ma fosse ancor l'antica Troia, a Troia
si veleggiasse per l'ondoso mare?
E fuggi me? Per questo pianto e per la
tua destra (poi che nulla altro lasciai
a me misera io stessa), per il nostro
connubio, pe' cominciati imenei,
se qualche bene ti fec'io, se nulla
ti fu caro di me, pietà di questa
casa crollante e un tal pensier, ti prego,
se luogo resta di pregar, deponi.
M'odian per cagion tua le genti libie
e i tiranni de' Nòmadi, ho nemici
i Tini; ancor per te spento è il pudore
e la fama di un di, sola per cui
ero a le stelle. A chi me moribonda
lasci, o ospite ? nome unico omai
che riman del consorte. A che vivrei?
fin che la mia città strugga il fratello
Pigmalion ? fin che il getulo larba
schiava mi tragga? Avessi avuta almeno
di te pria de la fuga alcuna prole,
ed uno mi scherzasse ne la reggia
pargolo Enea, che pure a le sembianze
ti richiamasse, non del tutto allora
mi sentirei delusa e abbandonata ».
Avea detto. Pe' moniti di Giove
immobili teneva ei le pupille
ed a forza nel cuor premea l'affanno.
Breve risponde alfine : « Io te, regina,
sempre confesserò meriti avere
IlS ENEIDE
quanti a parole noverarne puoi,
e caro avrò di ricordarmi Elisa
fin eh' io ricordi me, fin che mi regge
l'anima queste membra. Per la causa
poco dirò. Già non sperai di furto,
non te lo figurar, prender la fuga,
né mai proffersi maritah tede
o venni per tal nodo. Io, se il mio fato
viver co' miei auspici mi lasciava
e secondar spontaneo l'affetto,
prima vorrei ne la città troiana
e co' dolci restar resti de' miei :
durerebbero i tetti alti di Priamo
ed io rifatta avrei Pergamo a' \dnti.
Ora Apollo grineo m'addita invece
r Italia grande, Italia a me le licie
sorti: questo l'amor, questa è la patria.
Se l'arce di Cartagine e la vista
d'afra città sorride a te fenicia,
ne l'ausonio terreno e perché vieti
posare i Teucri ? è lecito anche a noi
cercar stranieri regni. Quante volte
cinge la notte in velo umido il mondo,
quante volte si accendono le stelle,
m'avverte in sogno e m'atterrisce offesa
l'ombra del padre Anchise, e Ascanio mio
e la iattura del diletto capo
cui del regno fatai d' Esperia privo.
Or anche il messaggero degli Dei
inviato da Giove stesso, il giuro
per le nostre due vite, m' ha recato
LIBRO QUARTO IIQ
rapido giù per l'aere il comando:
ben io lo vidi in chiara luce il dio
entrar le mura e bevvi la sua voce
con questi orecchi. Lascia di turbare
me fieramente e te col tuo lamento:
cerco r ItaUa a un cenno ».
Lui che così dicea guardava obliqua
inquiete rotando le pupille
e lo percorre con lo sguardo muto
tuttoquanto, e così prorompe accesa :
« Né tua madre una dea né de la stirpe
Bardano è autore, o perfido: il selvaggio
Caucaso ti creò da l'aspre rupi
e ti dieder la poppa ircane tigri.
Che dissim.ulo io più ? peggio che attendo ?
Sospirò del mio pianto o mosse cigho ?
versò lagrime vinto o de l'amante
ebbe pietà ? Qual è l'orror ma,ggiore ?
Né la massima Giuno omai né il Padre
saturnio a ciò con giusti occhi riguarda.
Morta al mondo è la fé. Naufrago, nudo
lo raccolsi e del regno il posi a parte,
folle! ; strappai da morte la dispersa
flotta, i compagni. Ah che il furor m'invade!
Ora l'augure Apollo, ora le Hcie
sorti, da Giove stesso ora inviato
il messaggero degli Dei gH reca
per l'aure abominevole comando !
Hanno i Superi inver questo pensiero,
questo zelo li affanna in lor quiete !
120 ENEIDE
Te non trattengo né il tuo dir confondo.
Va', segui Italia al vento e cerca il regno
per Fonde. Oh spero, se i pietosi Numi
possono ancor, che degli scogli in mezzo
troverai tuo supplizio e a nome Dido
chiamerai spesso. Con infauste faci
ti seguirò lontana e, quando sole
la fredda morte lascerà le membra,
ombra ti sarò presso in ogni luogo.
Darai, empio, la pena : udrò l'annunzio,
l'udrò venire a me giù tra i sepolti ».
Rompe il colloquio in questo dire e affranta
fugge il dì, si rivolge e toglie al guardo,
lasciandolo tra pa\àdo e sospeso
che molto volea dir. Venuta meno
le ancelle la riportano al marmoreo
talamo e ve l'adagian su le coltri.
Ma il pio Enea, benché la dolorosa
brami di consolar con sue parole,
afflitto e il cuor d'amore intenerito,
pure ubbidisce al cenno degli Dei
e torna a' suoi che più volenterosi
traggon per tutto il lido in mar le navi.
Galleggia l'unta chiglia, e da le selve
porta n remi frascosi e legni grezzi
per fretta de la fuga.
Migrar li vedi e da le vie fluire;
e come allor che un gran mucchio di farro
saccheggiano pensose de l' inverno
le formiche e ripongon ne la casa,
LIBRO QUARTO 121
va per le terre il bruno stuoL la preda
convogliano in sottil solco tra l'erba,
altre per forza d'omeri sospingono
i grossi grani, altre a tener le file
strette e vive; tutt'opera è il sentiero.
Quale a tal vista era il tuo cuore, o Dido,
quali i sospiri, mentre l'amxpia riva
contemplavi gremir da l'alta rocca
e tutto sotto a te fervere il mare
d' immensa alacrità ? Spietato Amore,
a che non sforzi tu gU umani petti?
Ella è sforzata di tornare a' pianti,
di tornare a tentar con le preghiere
e l'orgoglio sommettere a l'amore,
suppKce, sì che nulla d'intentato
inutilmente moritura ometta.
« Anna, la fretta vedi in tutto il Udo :
sono concorsi d'ogni parte; omai
chiama la vela l'aure, e i naviganti
ilari coronarono le poppe.
Se aspettarmi potei sì gran dolore,
e soffrirlo potrò, sorella. Pure
di ciò compiaci, o Anna, l'infelice;
che te sola quel perfido onorava,
ti confidava i sentimenti arcani,
sola le \de sapevi ed i momenti
d'avvicinarlo. Va', sorella, e paria
al nemico superbo supplicando.
Non io co' Greci in Aulide giurai
strugger la teucra gente e non mandai
122 ENEIDE
a Pergamo la flotta, né d'Anchise
il cenere turbai e l'ombra. Al mio
pregar perché dure l'orecchie serra?
dove corre ? Quest'ultimo conceda
dono a la mesta amante: aspetti l'ora
buona al viaggio ed i propizi venti.
Le antiche nozze ch'ei tradì non chiedo
più, né che privo ei sia del Lazio bello
e lasci il regno: un tempo vano io chiedo,
una tregua al furor, fin che a soffrire
la mia fortuna a me sconfitta insegni.
Quest'ultima (oh pietà de la sorella!)
grazia domando, e s'ei me la concede,
la renderò cresciuta de la morte ».
Così pregava, e tal pianto recando
va e vien l' infelicissima sorella.
Ma né per pianti ei movesi né voce
è che lo pieghi: stanno contro i fati
e un dio gh serra placidi gli orecchi.
Come qualor nel secolar vigore
salda una querce a gara i sofìì alpini
or di qua or di là tentan scalzare,
giù dal tronco che cigola agitato
l'alte fronde cospargono il terreno,
essa a la rupe sta, le vette al cielo
stendendo quanto le radici a l'Orco ;
l'eroe così percosso e ripercosso
è da le voci e stretto il cuor d'alìPanno;
ferma è la mente e vano scorre il pianto
LIBRO QUARTO 12$
Vinta da' fati allor Dido infelice
morte chiama, la vista odia del cielo.
A far che nel proposito s'accenda
e fugga il dì, mentre poneva offerte
su gì' incensati altari, orrendo a dire !
vide il liquor sacrato a farsi nero
e il vin che si mescea torbido sangue.
Vide, e a niun, né a la sorella stessa,
il rivelò. Fu ne la reggia inoltre
marmoreo tempio del marito antico,
cui venerava con devoto culto,
di velli nivei e vaghi serti cinto.
Indi parvero udirsi voci e come
un chiamar del consorte, mentre scura
tenea il mondo la notte, e solitario
spesso col grido lùgubre lagnarsi
il gufo da' comignoli allungando
le note in pianto. Molti ancor presagi
di prischi vati colmano d'orrore.
Esso ne' sogni fiero Enea persegue
la folle; e sempre esser lasciata sola,
sempre le par senza compagni andare
per lunga via, e nel deserto suolo
cercare i Tirii. Tal demente Pènteo
rimira de l'Eum^enidi la turba
e due soH apparire e doppia Tebe;
o per le scene Oreste agamennonio
quando incalzato fugge da la madre
di faci armata e d'atre serpi, e nitrici
sul Hmitare seggono le Furie.
124
ENEIDE
Dunque per troppo duol volta in furore
e ferma di morire, il tempo e il modo
tra sé divisa e, a la mesta sorella
volgendosi, il pensier col volto cela
e rasserena la speranza in fronte.
« Ho trovata la via, germana, godi
con la sorella, che mi renda lui
o liberi da lui l'innamorata.
Tra 1 confìn de l'Oceano e il sol cadente
degli Etiopi è l'ultimo paese,
ove il massimo Atlante in su le spalle
gira la volta d'astri ardenti fitta.
Sacerdotessa di massila gente
indi mostra mi fu, custode al tempio
de l' Esperidi, che il suo pasto dava
al drago e sacri su la pianta i rami
serbava, insiem col rugiadoso miele
sonnifero papavero spargendo.
Ella incantando liberare i cuori
a sua voglia si vanta ed altri invece
stringer d'amore, fermar l'acque a' fiumi
e far tornar le stelle indietro. L'ombre
a notte sveglia : sotto i pie mugghiare
vedrai la terra e scendere dà' monti
gli orni. Giuro agli Dei, cara germana,
a te e al dolce capo tuo, che accinta
di mal cuore mi sono a magiche arti.
Or tu segreta ne le interne stanze
innalza a l'aure un rogo, e l'armi sue
che lasciò l'empio al talamo sospese,
e l'altre cose e il letto coniugale
LIBRO QUARTO 12;
che mi perde, si gettiti sopra: vuole
incenerito la sacerdotessa
ogni ricordo del crudel guerriero ».
Così detto si tace ed il pallore
le invade il volto. Non per questo crede
Anna che la germana con le nuove
cerimonie pensier veh ferale,
né tutto abbraccia in mente quell'incendio
o teme più che in morte di Sicheo.
Dunque gli ordini adempie.
Ma ne l'intima reggia la regina,
gran rogo eretto al ciel di pino e d'elee,
stende il luogo di serti e l'incorona
di fronda funerali sopravi, vesti
e la spada lasciatale e l'effìgie
sul tetto pone, conscia del futuro.
Sorgono l'are intorno e sciolti i crini
tonante invoca la sacerdotessa
trecento dèi, e l'Èrebo ed il Caos
e la trigemina Ecate, tre visi
de la vergin Diana; e sparse avea
l'acque del fonte Averno simulate,
e adopra le mietute erbe a la luna
con falce bronzea, rigogliose e piene
d'atro veleno, adopera l'amore
spicco di fronte al polledrin che nasce
e pretolto a la madre.
Essa, il farro; e con pie mani, agli altari
presso, l'un pie senza legami, in veste
succinta, chiama moritura i Numi
126 ENEIDE
e gli astri consci del destino, e prega
se v'ha dio protettor memore e giusto
degli amanti cui mal risponde amore.
Era notte, e godean stanchi il tranquillo
sopore i vivi per la terra; cheti
eran fatti le selve e il fiero mare,
ne l'ora che si volgono le stelle
a mezzo il corso, che ogni campo tace;
le greggi e i pinti uccelli, e quanti han vita
tra le belle acque chiare e gh aspri dumi,
ne l'amplesso del sonno e del silenzio
lenian gli affanni ed obliosi i cuori.
Ma non, piena d'angoscia, la Fenicia,
e mai non piega al sonno e non accoglie
negli occhi o in sen la notte: il dolor cresce
ed imperversa risorgendo amore
ondeggiante negl'impeti de l'ira.
Cosi sta, cosi volge ella in sé stessa:
« Ed or che fo ? Schernita i pretendenti
ritenterò di prima ed il connubio
de' Nomadi ambirò supplice, quelli
che tante volte già sprezzai mariti ?
Seguirò dunque i legni iliaci ed ogni
cenno de' Teucri ? perché inver godere
debbo d'averh salvi e posta in loro
la ricordanza del ben far ch'io feci!
E, poni eh' io volessi, e chi mi lascia
odiata salir le prore altere?
Non sai, meschina, oh ancor non sai le frodi
de la progenie laomedontea?
LIBRO QUARTO I27
Poi, ne la fuga andrei sola compagna
a' marinari glorianti, o tutte
trarrei con me de' Tirii miei le schiere
e, staccatili appena da Sidone,
li spingerei sul pelago di nuovo,
farei le vele al vento aprir? Su, muori,
che il meritasti, e il duol caccia col ferro.
Tu dal mio pianto vinta, tu la prima
fai cader su la forsennata questi
mali, germana, e l'offri a l'inimico.
Non mi fu dato senza nozze e colpa
viver la vita a guisa d'una fiera
e star lontana da sì fatte pene;
non tenni fede al cener di Sicheo ».
Sì alti ella dal cuor mettea lamenti.
Su l'alta poppa, fermo di salpare
e già preste le cose. Enea dormiva .
Nel sonno a lui l'imagine si offerse
del dio tornante ne l'aspetto istesso
e di nuovo così parve ammonire,
Mercurio in tutto, a la voce al candore
al biondo crine, al fior di giovinezza:
« 0 figlio de la Dea, puoi darti al sonno
in tal frangente? folle, e non t'accorgi
che pericoli poi ti sono intorno,
né i Zefiri spirare odi propizi ?
Ella atroci nel cuor volge disegni,
deliberata di morir, e ondeggia
in vario impeto d'ire. E tu non fuggi
precipitoso mentre n'hai potere?
128 ENEIDE
Or or di navi pullulare il mare
e fiere scintillar faci vedrai,
vedrai la riva in un baglior di fiamme,
se te lento l'aurora in questo lido
ritroverà. Su via, rompi gl'indugi.
Femmina è varia cosa e mobil sempre ».
Così detto, a la notte si confuse.
Scosso da l'improvvisa visione
Enea dal sonno balza e sprona i suoi:
« Precipitosi vi levate, o prodi,
a remigare, a inalberar le vele.
Di nuovo ecco ci esorta un dio mandato
da l'aer sommo ad affrettar la fuga
ed a tagliar le attorte funi. O santo
degli Dei, qual tu sia, ti seguitiamo
ed al cenno obbediam festanti ancora.
Ci assisti e aiuta placido, e le stelle
volgine in cielo am.iche ». E disse e snuda
la fulminea spada percotendo
i legami. Un ardore insieme è in tutti:
afferrano ed accorrono; han lasciato
la riva, sotto a' legni il mar dispare,
torcon le spume e radono l'azzurro.
E già spargea di nova luce il mondo
la prima Aurora fuor del croceo letto
di Titon: la regina appena vide
da le vedette imbiancar l'aria e a piene
vele la flotta allontanar, né a riva
né più restarsi remigante in porto,
tre volte e quattro il bel seno percosse
ENEIDE 12Q
e il biondo crin strappandosi « Deh Giove !
se n'andrà dunque, grida, e preso a scherno
il nostro regno avrà questo straniero ?
Non brandiranno l'armi ad inseguirlo
da tutta la città? non strapperanno
le navi agli arsenaU ? Oh qua le fiamme
presto, gli strali qua! date ne' remi!....
Che dico ? e dove son ? qual follia nova ?
Dido infehce, or te l'empiezza offende ?
Allor dovea, quando gh scettri offrivi.
Oh qual braccio, qual cuor l'uom che si vanta
portar seco i Penati de la patria
e su le spalle il vecchio padre stanco!
No' 1 poteva io mettere in brani e in mare
gittarlo? e trucidar sua gente, il suo
Ascanio stesso ed imbandirlo al padre ?
Ma dubbia de la lotta era la sorte:
fosse; di chi temere io moritura?
Portato avrei nel campo i tizzi, empiti
di bragia i banchi, il figlio e il padre e il seme
spento, e gittata sopra lor me stessa.
Sole che tutte l'opere del mondo
fiammante scorri, e tu di queste angosce,
Giuno, fomite e conscia; Ecate, a notte
per la città ne' trivii ululata,
e Furie nitrici e Dei de la morente
Elisa, date ascolto, contro gli empi
deh! rivolgete il provocato nume
ed esaudite le nostre preghiere.
Se necessario è ch'entri in porto e approdi
Albini - Eneidr q
130 ENEIDE
lo scellerato, e questo chiede il fato
di Giove, questo è termin fisso, almeno
dal guerreggiar d'un popolo animoso
stremato, in bando dal paese, lungi
da l'amplesso di Giulo, aiuto implori
e vegga m.orti misere de' suoi ;
e poi che a leggi di gravosa pace
reso si sia, non goda il regno e non la
dolce luce, ma cada anzi il suo giorno
e senza sepoltura in un deserto.
Questo io domando, questa voce estrema
spargo col sangue. Voi la razza poi,
o Tini, tutta la razza futura
con l'odio perseguitela, e sì degno
mandate al nostro cenere tributo.
Nessuno amor tra i popoli né patto:
sorgi un da l'ossa mie vendicatore
incalzando i dardanidi coloni
con foco e ferro, adesso, un giorno, in ogni
tempo che forza assista. I Hdi a' lidi
avversi, il mare al mare e l'armi a l'armi
impreco : pugnino i presenti e i posteri w.
In questo dir, tutta agitata in cuore,
cerca il più presto romper l'odiosa
luce. Però breve si volge a Barce
nutrice di Sicheo (che ne la patria
antica era la sua cenere bruna) :
« Fammi, buona nutrice, la sorella
Anna venir : di' che si terga a l'acqua
corrente e qui con sé sùbito porti
LIBRO QUARTO I3T
ragne e respiazioni ch'io le dissi;
così venga, e tu pur mettiti in capo
devote bende. Voglio a Giove Stigio
l'olocausto compir che ben disposi
segnando un fine a questi affanni, e dare
al fuoco il rogo del troiano ». Dice ;
e quella con serdl fretta s'è mossa.
Trepida allor e ne l'impresa atroce
Dido ardente, rotando occhi sanguigni,
sparsa di macchie le frementi gote,
pallida già de la futura morte,
nel cuore irrompe de la casa, in cima
al rogo sale furibonda e snuda,
dono non chiesto a ciò, la teucra spada.
Poi che le iHache vesti e il noto letto
mirò, sospesa in pianto ed in pensiero
un istante, piegò su quella coltre
e disse le novissime parole:
(( O dolci spoglie mentre a' fati e a Dio
piaceva, ricevete questa vita
e da tanto dolor mi Hberate.
Vissi, e il cammino che mi die fortuna
percorsi; or grande l'ombra mia sotterra
andrà: superba una città fondai,
mie mura vidi; vendicai lo sposo
e al nemico fratello inflissi pena.
Avventurata, ahi troppo avventurata,
sol che mai tocco non avesser prore
dardanie il nostro lido ! » Indi premendo
il suo viso a la coltrice " Morremo
132 FXEIDE
invendicate, dice, e pur moriamo.
Così, così voglio ire a l'ombre. Miri
questa vampa dal mar l'empio troiano;
l'augurio abbia con sé de la mia morte ».
Avea detto, e tra il dire abbandonata
su la punta la scorgono le ancelle
con la spada e le mani sanguinose.
Sale il grido a le volte alte; la Fama
per la città commossa si propaga :
pianti sospiri e femm^inili strida
scuoton la reggia, e l'aere risuona
d'un immenso dolor, non altrimenti
che se rovini da' nemici invasa
tutta Cartagine o l'antica Tiro
e furenti sormontino le fiamme
degli uomini le case e degK Dei.
Udì gelando la sorella e a corsa,
con l'ugne in faccia e fieri pugni al seno,
rompe la folla e chiama la morente :
« Era questo, germana ? e m' ingannavi ?
m'apparecchiavan questo il rogo e i fuochi
e l'are ? Di che pria deserta piango ?
Non mi volesti per compagna in morte ?
m'avessi tu chiamata al fato istesso;
uno stesso dolore, una stessa ora
trafitte entrambe avrebbe. E con le mie
mani operai, chiamai con la mia voce
i patrii Dei, per poi crudel lasciarti
così sola a morir! Te e me, sorella,
1 JHU^o (il AR IO I^x
.)^
hai spento e tutto il popolo e i sidonii
padri e la tua città. Fate eli' io lavi
con l'acque la ferita, e se un estremo
alito spira, con le labbra il colga ».
Così dicendo avea saKti i gradi
tutti ed al sen tra le braccia stringea
la moribonda sorella pÌ3.ngendo
e tergea con la veste il bruno fiotto.
Quella, tentando sollevare i gravi
occhi, ricade giù; profonda in petto
geme e stride la piaga. Per tre volte
sul gomito a fatica si levò,
per tre volte ricadde su la coltre,
e verso il ciel con le pupille erranti
cercò la luce e sospirò a vederla.
Allor pietosa Giuno onnipotente
del lungo duol, de la difficil morte,
Iri mandò giù da l'Olimpo a sciorre
l'alma lottante e l'avvincenti membra.
Che, non per fato o meritata fine
quella morendo, ma per troppo amore
sùbito forsennata anzi il suo giorno,
Proserpina non anche il biondo crine
svelto le aveva e sacro il capo a l'Orco.
Dunque Iride pe '1 ciel con fulve penne
rorida, mille contro a.1 sol colori
svariati traendo, a terra vola
e si librò su la sua testa : « Questo
io comandata porto a Dite sacro
hxeidp:
e te disciolgo da coleste membra ».
Così dice, ed il crine con la destra
svelle: ad un punto andò tutto il calore
sperso e tra i venti rifuggì la vita.
LIBRO QUINTO
Intanto Enea nel mezzo del cammino
procedea risoluto con l'armata
e i flutti cupi a l'aquilon solcava,
riguardando le mura che de' fuochi
splendono già de l'infelice Elisa.
Di tanto incendio è la cagione ignota ;
ma il fiero duol d'un grande amore offeso,
e il sapere in furor donna che possa,
movono a triste augurio il cuor de' Teucri.
Com.e ne l'alto giunsero le navi
e già nessuna più terra si mostra,
tutto mare a l'intorno e tutto cielo,
a lui sul capo livida una nube
sorse di notte e verno apportatrice
e si fé' l'onda abbrividendo buia.
Palinuro il nocchier da l'alta poppa
anch'esso : « Deh ! perché tal cerchio in aria
di nembi? o che, padre Nettuno, arrechi ? ».
Poi bene armarsi ingiunge e dar ne' remi,
136 ENEIDE
oblique a' venti offre le vele, e dice :
« O magnanimo Enea, se Giove stesso
mallevasse, non io con questo cielo
avrei fiducia di toccar l' Italia.
Fremon mutate di traverso l'aure
e soffiano da l'occidente fosco,
il ciel s'addensa in nuvoli, né noi
a regger contro od a schermirci solo
bastiam. Poi che soverchia la fortuna,
seguiamola, pieghiam dov'ella vuole.
E non lontano penso essere i lidi
fidi fraterni d' Erice co' porti
sicani, se pur bene io mi rammento
. gli astri seguiti che a l' indietro or seguo »,
Allor il pio Enea : « Già me n'avvidi
che i venti così chiedono e che invano
ti schermisci. La via volgi a le vele.
Esser potrebbe a me terra più cara,
e cui meglio conceda i legni stanchi,
di quella che mi serba il teucro Aceste
e copre l'ossa di mio padre Anchise ? ».
Dopo questo parlar tendono al porto,
che i zefiri propensi empion le vele:
rapida va pe* vortici la flotta
e afferran lieti alfin la nota sponda.
Lungi di su la vetta alta del monte
fiso al venir de le cognate navi,
move a l'incontro Aceste, aspro ne' dardi
e in una pelle di libistide orsa;
cui, dal fiume Criniso concepito.
LIBKU QLTNTO l T,J
troiana madre partorì. De' vecchi
parenti ei non immemore, si allegra
de' tornanti, festoso li riceve
tra dovizia campestre e ne ristora
con le amabili offerte la stanchezza.
Chiaro il dom^ani al balzo d'oriente
come fugato ebbe le stelle, Enea
tutti da tutto il lido aduna i suoi
e a lor da un alto ciglio parla : « O grandi
Dardani, sangue dagli Dei disceso,
l'annuo co' mesi suoi giro si compie
da che del di\dn Dadre i resti e l'ossa
ponemmo in terra e meste are sacrammo.
Già, se non erro, il giorno viene, il giorno
che sempre acerbo avrò, sempre onorato
- così vi piacque, o Dei -. Se in giorno tale
ne le getùle Sirti esule io fossi,
stretto nel mare argohco o ne' muri
micenei, gli annuah voti pure
e i giusti riti adempirei fedele
e colmerei de' suoi doni l'altare.
Or proprio a le sue ceneri ed a l'ossa
paterne siamo, oh non per fermo credo
senza pensier, senza voler de' Numi,
portati ad ancorare in porto amico.
Su dunque, e largo gU rendiam tributo
tutti: imploriamo i venti, e che gli piaccia
ch'io questo rito gli rinnovi ogni anno
ne la nostra città, ne' templi suoi.
A voi da Troia generato Aceste
I -tò
dona due buoi per ogni nave: i patrii
Penati e quei che Aceste ospite onora
chiamate a parte del convito. Inoltre,
se l'almo dì la nona aurora porti
a' mortah e co' raggi il mondo scopra,
a' Teucri proporrò prima una gara
de le rapide navi: indi, chi vale
correndo a piedi, e chi fiero di forze
meglio scocca da l'arco agili dardi
o fiducioso stringesi a le prese
col duro cesto, sian tutti presenti
e aspettin premio de le giuste palme.
In devoto silenzio ora ciascuno
s'incoroni di fronde )>.
Cosi detto,
vela sue tempie del materno mirto;
e questo Èlimo fa, questo il provetto
negli anni Aceste e il giovinetto Ascanio,
ed i restanti prodi al loro esempio.
Esso da l'adunanza se n'andava
con le migliaia al tumulo, nel mezzo
del gran corteo. Libando ivi di rito
due di vin pretto al suol versa, due tazze
di fresco latte, due di sangue sacro,
e sparge fior purpurei e così dice :
'(Salve, mio santo genitor, di nuovo!
salvete, invano preservate ceneri,
anima, ombra paterna : conceduto
non mi fu ricercar con te le rive
LIBRO QUINTO 139
italiche e il terren predestinato
né, qualunque si sia, l'ausonio Tebro ».
Detto avea ciò, quando da Timo ascoso
sdrucciolevole svolse un gran serpente
le settemplici spire in sette giri,
placidamente il tumulo abbracciando
e guizzando per l'are, Avea sul tergo
cerulee chiazze, e un fulgor sparso d'oro
le squame gli accendea, come arco in nube
che mille in faccia al sol getta colori.
Stette a la vista Enea stupito: quello
lungo snodato alfine tra le coppe
e i levigati caHci serpendo
le vivande Ubò, poi senza danno
di nuovo sotto al tumulo disparve
abbandonando gli sfiorati altari.
Però viepiù rinfresca gì' intrapresi
onori al genitor, dubbio se quello
dei luogo un genio o un servo sia del padre:
immola giusta l'uso due bidenti,
due porci e due di nero pel giovenchi,
e il \dno da le patere spargendo
del grande Anchise l'anima invocava
e i Mani ritornanti d'Acheronte.
I compagni non men volenterosi
recano, quante n'ha ciascuno, offerte,
colmano l'are e uccidono giovenchi:
ordinano altri i bronzei vasi e sparsi
per l'erba sottopongono le brage
agli spiedi, le viscere arrostendo.
140 KXEIDE
Era il giorno aspettato, e con serena
luce ecco che i cavalli di Fetonte
portavano la nona aurora; e avea
la fama e il nome de l'illustre Aceste
i confinanti richiamati : il lido
empiean di moltitudine festosa,
per vedere gli Eneadi, e parte pronti
a cimentarsi. Prima innanzi agli occhi
nel mezzo al circo vengon posti i premi,
tripodi sacri e floride corone,
e palme fregio di vittoria ed armi
e drappi tutti porpora e un talento
d'argento e d'oro. Poi da l'alto mezzo
la tromba squilla il cominciar de' giochi.
Entran di pari ne la prima gara
con grevi remi quattro chiglie, fiore
de la flotta : di valido remeggio
Mnèsteo sospinge la veloce Pristi
- italo Mnesteo in breve, dal cui nome
la Memmia gente -, e Già la gran Chimera,
quasi città, che in sua gran mole avanti
premono i teucri giovani con urto
triplice, in tre sorgendo ordini i remi;
e Sergesto, da cui la casa Sergia
si noma, vien su la Centauro vasta,
e su la Scilla cernia Cloanto,
onde la stirpe tua, roman Cluenzio.
È discosto nel mare a lo spumoso
lido di contro un sasso che sommerso
LIRKO QUIXTO T4I
e battuto è talor dal gonfio flutto,
quando i Cori invernali ascondon gli astri :
ne la bonaccia tace e a fior de l'onda
piace agli smerghi che si stanno al sole.
Verde una meta là da frondosa elee
pose per segno a' naviganti il padre
Enea, donde sapessero il ritorno
e dove con largo ambito dar volta.
Traggono a sorte i luoghi e su le poppe
splendono lunge in oro e in ostro i duci:
tutti gli altri coronansi di pioppo,
le nude spalle luccicanti d'olio.
Siedono a' banchi, con le braccia a' remi :
fisi aspettano il segno, e gii agognanti
cuori pervade un palpito d'affanno
e de la gloria la ridesta smania.
Poi come die la chiara tromba il suono,
proruppero ciascun dal suo confine
immantinente : il nautico clamore
giunge al ciel; spuman da' ritratti polsi
attorte l'acque. Affondan solchi a prova,
e tuttoquanto schiudesi da' remi
rotto e da' rostri tridentati il mare.
Non sì precipitosi entrano in campo
i carri ne la gara de le bighe
a\^entandosi fuori de' cancelli,
e non così gli aurighi a le sfrenate
coppie scoton le redini ondeggianti
chinandosi protesi su la sferza.
D'un fremito di plausi allor, del grido
de* parteggianti tutto il bosco suona
142 ENEIDE
e per il chiuso lido erra la voce,
l'eco rimbalza da' percossi colli.
Sfugge su le prime onde avanti agli altri
tra quella furia fremebonda Già,
e lui Cloanto seguita, di remi
miglior, ma il legno lento per il peso
il tiene: dopo lor Pristi e Centauro
ad intervallo egual studian rapirsi
il luogo innanzi, ed or Pristi l'ottiene,
ora sorpassa lei l'ampia Centauro,
or procedono insieme a fronti pari,
lunghe chiglie solcanti i salsi guadi.
E omai s'avvicinavano a lo scoglio
e toccavan la meta, quando Già
che primo in mezzo al gorgo trionfava
così rampogna il suo nocchier Menete :
« O dove tanto a destra mi ti svii ?
in qua volgi, ama il lido e fa' che a manca
il piatto remo rada i picchi. Il largo
prendano gli altri ». Disse, ma temendo
Menete i ciechi scogli pur la prora
torce a l'ampia marina. « Ove devii ?
Menete, serrati a la roccia », ancora
Già tempestava, ed ecco che si vede
Cloanto a tergo e che stringea rasente.
Tra la nave di Già quegli e i sonanti
scogli fende il mancino interno calle
e improvviso sorpassa il primo e tiene
oltre la meta il mar libero. Allora
arse gran duolo al giovine ne l'ossa
LIBRO QUINTO I43
e gli corsero lagrime le gote;
e del decoro suo, de la salute
oblioso de' suoi, da l'alta poppa
precipita nel mar Menete pigro :
esso per timonier sottentra e duce,
gli altri esorta e il timone al lido volge.
Ma quando grave alfìn da l'imo fondo
Menete ritornò, vecchio com'era
omai e da le vesti tutte intrise
gocciolante, s'arrampica a lo scoglio
e su la cima asciutta vi si assise.
Di lui risero i Teucri al suo cadere
e al suo nuotare, ridono di lui
ri vomitante le salate spume.
Qui negli ultimi due, Sergesto e Mnesteo,
Keta speme brillò, di sorpassare
Già ritardato. Occupa il luogo avanti
Sergesto avvicinandosi a lo scoglio :
né ancora pur di tutta la carena
precede; in parte sì, ma l'altra parte
l'emula Pristi col suo rostro preme.
E per la tolda in m.ezzo a' suoi correndo
Mnesteo li esorta : « Or sì, su' remi forte,
ettorei soci, che nel fato estremo
di Troia mi prescelsi per com.pagni;
or quel nerbo mostrate, ora quel cuore
che a le getule Sirti e ne Y Ionio
e tra l'urgenti opraste onde di Màlea.
Più non domando io Mnesteo il luogo primo
né m'affatico a vincere: quantunque
144 ENEIDE
oh!.... Ma vincano quei che tu volesti,
Nettuno. Ci spiaccia ultimi tornare:
tanto vincete, o cittadini, e l'onta
impedite ». In supremo sforzo quei si
curvano : trema de* possenti colpi
la bronzea poppa e sotto sfugge il suolo;
un frequente ansimar scote le membra
e le bocche riarse; il sudor gronda.
Fu caso che lor die l'onor bramato.
Mentre con ebbro cuor Sergesto spinge
in dentro il legno sotto sotto il sasso
ne lo spazio sì scarso, ebbe sventura
che s'impigliò ne le sporgenti punte.
Tremò la rupe, ne l'aguzze conche
i remi crepitarono percossi
ed urtata la prua restò sospesa.
Balzano i naviganti e con grand 'urlo
s'arrestano, le pertiche ferrate
brandiscono ed i pali acuminati
e raccolgon per l'acqua i remi infranti.
Ma lieto Mnesteo e dal successo stesso
animato con rapido remeggio
e co' venti invocati a la marina
Ubera giunge e per l'aperto scorre.
Qual colomba di subito sturbata
da la spelonca ove ha la casa e il dolce
nido in occulta pomice, volando
volgesi a' campi e dà in levarsi un rombo
di penne alto nel chiuso, indi venuta
in seno del tranquillo aere sfiora
la lieve via su l'agiH ali aperte;
LI URO OLINTO 145
cosi Mnesteo, così solca la Pristi
fuggente l'ultime acque, così lei
l'impeto stesso se ne porta a volo.
E prima ne lo scoglio erto a lottare
lascia Sergesto e negli angusti guadi
ed a chiamare inutilmente aiuto
e ad imparar la corsa senza remi;
poi Già raggiunge e quella gran Chimera:
cede, che priva fu del suo piloto.
Solo rimane e già presso a la meta
Cloanto : dietro a lui quegli si caccia
a tutta forza. Or sì che addoppia il grido,
tutti r inseguitor premon co' plausi
e di fragori l'aere risuona.
Sdegnano quelli perdere lor vanto
già conquistato e mettono la vita
per l'onore, questi anima il successo;
possono, perché veggonsi potere.
E forse aveano a rostri pareggiati
il premio, se tendendo al mar le palme
Cloanto non piegava i numi al prego:
a Dèi che avete del pelago l' impero,
de' quali corro i regni, a voi lieto io
trarrò su questo Udo un bianco toro
davanti a l'are, ne fo voto, e a' salsi
flutti darò col chiaro vin le fibre ».
Disse, e l'udì negl'imi gorghi il coro
tutto de le Neréidi e di Forco
e Panopèa fanciulla: esso Portuno
padre con la gran man pinse l'andante
Albini - Eneide io
146 ENEIDE
chiglia che più di vento e di saetta
fugge a la riva e s'addentrò nel porto.
D'Anchise il figlio allor, tutti adunati
giusta Fuso, per gran voce d'araldo
proclama vincitor Cloanto e al crine
cerchio gli fa di verde alloro. Ad ogni
nave tre buoi consente in dono, e vini
e un d'argento portar grave talento.
Viepiù de' duci le persone onora :
una a chi vinse clamide dorata,
cui ricca scorre in duplice meandro
porpora melibea; qui\d intessuto,
sul frondoso Ida il giovinetto regio
i cervi stanca dardeggiando in corsa,
acceso e come trafelato, e lui
rapì l'alato armigero di Giove
su da r Ida pe '1 ciel : alzan le palme
i canuti custodi inutilmente
ed abbaiano irosi i cani a l'aria.
Chi luogo ottenne per valor secondo,
una lorica a lui di lisce squame
fatta e a tre fili d'oro : esso l'aveva
vincitore a Demòleo spogliata
presso il rapido Simoi sotto IHo
alta; e al guerrier la dà fregio e difesa.
I servi Fègeo e Sàgari a fatica
la portavan con forza de le spalle,
sì complessa, ed in quella un dì Demòleo
seguìa correndo i dissipati Troi.
LIBRO QUINTO I47
Fa terzo dono due bronzei lebeti
e scabri di figure argentei nappi.
E già tutti donati e tutti adorni
ivano con vermiglie bende in fronte,
quando da l'aspro scoglio con molt'arte
a fatica spiccato, persi i remi
e monco ad un solo ordine, Sergesto
traea l'irrisa inonorata nave.
Qual sorpreso sul colmo de la via
sovente un serpe, cui passò traverso
ferrea ruota o con greve man d'un sasso
il passegger lasciò malvivo e scisso,
indarno lunghi dà fuggendo guizzi,
in parte fiero e con pupille acceso
ed alto alzando il sibilante collo,
ma la parte ferita lo ritiene
che s'appoggia su' nodi e in sé si attorce ;
con tal remeggio tarda si moveva
la nave, pur fa vela e a vela piena
la foce imbocca. Enea porge il promesso
dono a Sergesto, pago che salvata
gli abbia la nave e riaddotti i prodi:
Una schiava gli è data, usa a' lavori
di Minerva, per nascita cretese,
Fòloe, che aveva due gemelH al seno.
Da questa gara .il pio Enea si move
a un verde prato che abbracciavan selve
con un arco di colli intomo, e in mezzo
de la valle era un circo di teatro ;
148
ENEIDK
ove l'eroe tra le migliaia giunto
si assise in mezzo del costrutto poggio.
Indi, a quanti talenta gareggiare
ne la rapida corsa, il loro ardire
tenta col pregio e i premi offerti. D'ogni
parte s'affollan Teucri e insiem Sicani:
Niso ed Eurialo primi,
Eurialo insigne di bellezza in fiore,
Niso d'amor gentile al giovinetto;
poi a lor seguitò de la sovrana
stirpe di Priamo il real Diore,
ed a lui Salio e in una anche Patrone,
onde questi acarnane e quei del sangue
arcadico di gente tegeèa;
Èlimo quindi e Pànope, trinacrii
giovani, consueti a le foreste,
seguitatori del vegliardo Aceste;
e molti più che oscura fama asconde.
In mezzo a quelli così disse Enea:
« Questo accoghete in cuore e lietamente
ascoltate. Nessuno di tra voi
mi se n'andrà senza presenti: due
dardi darò di Gnosso in hscio ferro
lustranti e cesellata una bipenne
d'argento: questo egual tributo a tutti.
I primi tre riceveranno i premi
e le corone de la bionda ohva.
Un destrier gualdrappato avrà chi vince;
amazonia il secondo una faretra
piena di frecce tracie, cui s'aggira
una cintura in largo oro e un fermaglio
LIBRO OriNTO 149
l'appunta di pulita gemma ; il terzo
pago ne andrà di questo argolico elmo ».
Detto ch'ebbe cosi, prendono il luogo
ed al segnale ne prorompon via,
pari a nembo che scoppia, ne lo stadio,
e già miran la meta. Primo vola
e balza Niso molto avanti a tutti,
vento e ala di fulmine vincendo:
prossimo a lui, ma prossimo a distanza
grande, vien Salio, e dopo altro intervallo
per terzo Eurialo:
ad Eurialo segue Èhmo, e a lui
ecco a le spalle, e il pie col pie già preme,
Diore: che se più spazio restasse,
il passerebbe o lascerebbe in dubbio.
Erano omai nel tratto ultimo e stanchi
precipitavano a la fine, quando
Niso infelice sdrucciola sul sangue
d'immolati giovenchi a terra sparso
e che avea l'erba verde inumidita.
Già trionfante vincitor non resse
il giovin le turbate orme, ma cadde
bocconi in quella lurida sanguigna
mota del sacrifizio, e non già pure
Eurialo obhando e l'amicizia;
che, tra quel guazzo alzandosi, fé' intoppo
a Salio che sul suol giacque disteso.
Eurialo balza e vincitor per dono
de l'amico si accampa il primo e vola
tra il favorevol fremito de' plausi.
Elimo viene appresso e, terza palma
150 ENEIDE
ornai, Diore.
Allor d'alto scalpore
empie Salio le folte gradinate
ed i prossimi padri, e vuol che a lui
il tolto per inganno onor sia reso.
Copre Eurialo il favore e il pianto vago
e il valor eh' è più grato in belle membra.
L'aiuta e asseverando urla Diore
che seguì nel successo e inutilmente
al premio ultimo giunse, ove sian dati
a Salio i primi onori. Allor pronunzia
il padre Enea : « Son fermi i vostri premi,
o giovani, né alcun l'ordine muta;
a me si lasci compatir la sorte
d'un amico incolpevole ». Ciò detto,
l'enorme spoglia di leon getulo
a Salio dà, vellosa e aurata l'ugne.
Qui Niso esclama : « Se di tali premi
hanno i vinti e tu senti de' caduti
pietà, che doni darai degni a Niso ?
Io meritai col fatto il primo serto,
se me con Salio non cogliea sventura ».
Così dicendo il volto e la persona
mostrava umidi e lordi. Gli sorrise
l'ottimo padre e fé' recar l'usbergo,
opra di Didimàone, che i Danai
sconficcaron dal tempio di Nettuno.
Porge il nobil presente al giovin prode.
Poi, finita la corsa e dati i premi:
e Or, chi ha vigore e saldo cuor, si avanzi
LIBRO QUINTO 15 1
e con le palme armate alzi le braccia » ;
dice, e due de la gara offre compensi,
un toro al vincitor con auree bende
ed una spada per conforto al vinto
con un bell'elmo. Incontanente fiero
di suo gran nerbo accampasi Darete
e tra un diffuso mormorio si leva;
l'unico che uso fu combatter contro
Paride e, presso al tumulo ove il sommo
Ettore posa, a Bute invitto e immane
de la persona, che il bebricio ceppo
d'Amico millantava, il colpo diede
e moribondo sul terren lo stese.
Tale è Darete che solleva il capo
per primo a la tenzone e mostra i larghi
omeri e or l'uno or l'altro braccio innanzi
scaglia e flagella de' suoi colpi il vento.
Cercasi un altro a questo, e non è uno
di sì gran turba che accostarlo ardisca
e mettersi a le mani i cesti. Altero
dunque, che tutti rifuggir h crede,
fermo a' piedi d'Enea, senza più, prende
con la sinistra per un corno il toro
e dice : « FigUo de la Dea, se alcuno
non s'arrischia a la pugna, a che staremo ?
perché debbo aspettar? Dammi il mio premio».
E tutti ad una i Dardani fremeano
che sia tenuta la promessa al forte.
Qui con grave rampogna Aceste parla
ad Entello, sedutosi com'era
152 ENEIDE
ivi presso sul verde letto : « Entello,
invano un dì fortissimo de' forti,
e sì gran posta lascerai sì cheto
senza lotta portar? Dove or ci è ito
quel dio maestro rammentato indarno
Erice? e la tua fama per l'intiera
Sicilia e que' trofei che a le tue case
pendono affissi ? ». L'altro a tal rimbrotto :
« Non l'amor de l'impresa e non la gloria
si ritirò per tema; bensì freddo
tardato da vecchiezza il sangue torpe
e il vigor langue nel corpo stremato.
Se quella avessi ch'ebbi un giorno, e in cui
gonfia e fida cosi quest'indiscreto,
se quella avessi giovinezza ancora,
oh non mosso dal premio e dal torello
sarei venuto, che non guardo a' doni j).
Poi ch'ebbe detto, due gettò nel mezzo
pesantissimi cesti, con cui fu
uso a le prese uscir Erice fiero
e ravvolger le braccia in duro cuoio.
Sbigottirono tutti: di sì grandi
buoi sette vaste pelli turgean piene
di piombo inserto e ferro. Esso Darete
più sbigottisce e tutto si ricusa:
ed il magnanimo Anchisiade al peso
pon mente e smove que' viluppi enormi.
Il vecchio allor tali rendea parole:
« E che sarebbe, se uno avesse visto
quelh d' Ercole stesso e qui su questo
lido l'atroce pugna? Un dì queste armi
LIBRO QLIXTO I53
Erice tuo germano avea; le vedi
di sangue e di cervello ancor macchiate:
stette con queste contro il grande Alcide;
ed io le usai, mentre migliore il sangue
forze mi dava e non per anche in capo
mi biancheggiava T invida vecchiezza.
Ma se ricusa questi nostri arnesi
Dares troiano, e al pio Enea ciò piace,
l'approva Aceste animator, le parti
pareggiamo : a te d'Erice condono,
fa' cuore, i cuoi; tu i teucri cesti spoglia».
Così detto, gettò la doppia veste
da le spalle, e le membra come travi,
l'ossa grandi ed i muscoli scoperse,
e imm.enso in mezzo si piantò del circo.
D'Anchise il figho allor fé' portar fuori
ragionevoH cesti e a l'uno e a l'altro
ebbe armate di pari armi le palme.
Stettero eretti su le punte entrambi
subitamente, sollevando al cielo
impavidi le braccia, e le teste alte
molto indietro ritrassero dal colpo,
e intrecciano le mani al fiero gioco.
Più mobile su' piedi è quegli e forte
di gioventù, di sua gran mole questi,
ma titubano al tremulo i ginocchi
e gli scote le gran membra l'affanno.
Molti indarno tra lor si avventan colpi,
ne addensan molti al cavo fianco, i petti
si fanno risonar, spessa la mano
154 ENEIDE
guizza agli orecchi ed a le tempie intorno,
crosciano a le percosse le mascelle.
Entello grave sta dove s'è fitto,
solo con la persona e i vigili occhi
sfugge le offese: l'altro, qual chi serra
alta città con macchine ed assedia
montani baluardi, or questo or quello
accesso ed ogni parte accorto spia
e invan si stringe a differenti assalti.
Mostra ergendosi Entello alto levata
la destra : quegh il colpo che piombava
veloce vide e lo causò d'un salto;
Entello sparse quello sforzo al vento,
e pesante esso ancor pesantemente
cadde al suol, qual talor diradicato
su r Erimanto o l' Ida un cavo pino.
Balzano ardenti i Teucri ed i Trinacrii:
va il grido al ciel, e primo accorre Aceste
a sollevar commosso il coetaneo
amico. Ma l'eroe non attardato
da la caduta né atterrito torna
più fiero a l'urto, forze aggiunge l'ira,
l'onta e il valor conscio di sé lo infiammano
ed incalza Darete a precipizio
per tutto il campo, raddoppiando i colpi
or con la destra or con la manca, senza
posa né tregua : con quanta su' tetti
grandine si rovescia l'uragano,
di così fitte con due man percosse
l'eroe picchia e perseguita Darete.
LIBRO QUINTO I55
Allora il padre Enea più non sofferse
trascorrer l'ire e incrudelire Entello
in suo furor, ma die fine al duello
e ne strappò Darete stanco, in questa
maniera lusingandolo : « Infelice,
qual ti venne in pensi er follia si grande?
altre forze non senti e fatti avversi
i numi ? cedi al dio « . Disse e dicendo
la lotta separò. Ma i fidi amici
lui strascicante a fatica i ginocchi
e ciondolante il capo, e da la bocca
sangue gettando e misti al sangue i denti,
conducono a le navi, ed in^/itati
ricevono quell'elmo e quella spada,
la palma e il toro lasciano ad Entello.
Vittorioso questi, altero in cuore,
fiero del toro, « O figlio de la Dea,
dice, e voi Teucri, or apprendete quali
ebb'io le forze giovani, e da quale
morte Darete richiamaste ». Disse,
e in faccia al toro, premio suo, si pose,
poi dritto con la destra indietro tratta
gli vibrò tra le corna i duri cesti
ed il cervello misto a l'ossa infranse:
tremebondo morente il bue stramazza.
Indi l'eroe soggiunse ancora: ((Questa
più confacentc vita, Erice, t'offro
in luogo de la morte di Darete :
qui \'incitor depongo i cesti e l'arte «.
156 ENEIDE
Enea subito poi chiama chi voglia
gareggiar con la rapida saetta,
ponendo i premi, e con possente mano
trattolo da la nave di Seresto
l'albero drizza e \d sospende in vetta
implicata di fune agii colomba,
segno a' colpi. Avanzarono i campioni,
ed un elmo di bronzo in/sé raccolse
le sorti. Uscì prima tra plausi quella
d' Ippocoonte d' Irtaco fighuolo ;
Mnesteo gli segue, \dncitor pur ora
nel certame naval, Mnesteo col verde
serto d'olivo; e terzo Euritione,
il tuo. fratello, o Pandaro famoso,
che un dì sospinto a violare il patto
primo traesti un dardo tra gli Achei.
Ultimo in fondo a l'elmo si rimase
Aceste, oso sfidare anch'esso impresa
di braccio giovanil. Ecco que' prodi
con fiero sforzo ognun piegano gli archi
e versan fuor de la faretra i dardi.
Stride il nervo e per prima la saetta
de l'irtàcide sferza l'aure lievi
e va, si ficca a l'albero davanti.
L'albero ne tremò, temè l'alato
e fu rumor de le agitate penne.
Poi fiero Mnesteo s'accampò con l'arco
teso e la mira in su, lanciando insieme
e lo sguardo e lo strai, ma sventurato
non seppe la colomba coglier giusto,
e solo i nodi e i vincoli di lino
LÌBUO QIINTO 157
ruppe, onde avvinta il pie pendea da l'alto
albero : quella spiccò via tra i venti
e le nuvole. Allor rapido, avendo
già la freccia incoccata e pronto l'arco,
Eurition fé' voto al suo fratello ;
lieta in libero ciel battendo l'ali
mirata la colomba, la trafigge
sotto una nera nube: cade giù,
spersa tra gli astri eterei la vita,
e fitta porta cadendo la freccia.
Solo senza più premio rimaneva
Aceste padre e verso l'alto cielo
scagliò pure il suo dardo, dimostrando
l'arte e l'arco sonante. Ed ecco agli occhi
improvviso miracolo si offerse,
di gran presagio; l'alto effetto poi
il chiarì, palesarono il portento
dopo molti a.nni i paventati vati.
Per le limpide nuvole volando
arse lo strale, fé' di fiamma un solco,
poi si consunse e dileguò nel vento;
così spesso nel ciel cadenti stelle
trascorrono chiomate di splendore.
Stetter sospesi in cuor Siculi e Teucri
a' Celesti volgendo la preghiera;
né respinse l'augurio il sommo Enea,
anzi abbraccia il sereno Aceste, il dona
con gran magnificenza e così dice:
«A te, padre; che il gran Re de l'Ohmpo
ben volle te per così fatto segno
I =>8 ENEIDE
a r in fuor de la sorte avere onori :
abbiti questo, che fu già d'Anchise,
cratere cesellato di figure;
un dì Cisseo di Tracia al padre Anchise
Favea donato qual presente insigne,
ricordo e pegno de l'affetto suo ».
Detto così, di verdeggiante alloro
gli corona la fronte e vincitore
primo proclama sopra tutti Aceste.
Né s'adontò de la preposta lode
il buono Eurition, quantunque solo
avea fatto cadere la colomba.
Segue ne' doni quei che ruppe il laccio,
ultimo quegli che trafisse il palo.
Ma il padre Enea durante ancor la gara,
a sé chiamato Epitide, il custode
e compagno di Giulo adolescente,
« Or va, gli dice a le fidate orecchie,
e ad Ascanio, se ha già la puerile
squadra disposta e in ordine la corsa
de' cavalli, dirai che guidi a l'avo
la cavalcata e sé mostri ne l'armi ».
Dice, e l'onda del popolo ritrarre
esso fa dal gran circo e dare il campo.
I giovinetti avanzano e di pari
su' frenati destrieri innanzi agh occhi
splendon de' padri : fremono al passaggio
la teucra gente e sicula ammirando.
Tutti a l'usanza premono la chioma
di tosata ghirlanda: due di corno
LIBRO OLINTO T ^Q
hanno lanciotti con in punta il ferro,
lisce taluni a l'omero faretre;
a sommo il petto va flessibil cerchio
de l'oro che li avvolge intorno al collo.
Cavalcano tre squadre con tre duci,
ed a ciascuno sei e sei garzoni
in due file risplendono seguaci
con due maestri.
Un alacre squadrone
guida il piccolo Priamo, che rende
de l'avo il nome, tuo gentil germoglio,
PoUte, a crescer gì' Itali : lo porta
tracio destrier di due colori, bianco
Tun pie davanti e l'alta fronte bianca.
Ati segue, onde trassero la schiatta
gli Azii latini, Ati fanciullo a Giulo
fanciullo caro. Ultimo Giulo, e bello
su tutti, vien sopra corsier sidonio
che donato gH avea fidente Dido
ricordo e pegno de l'affetto suo.
Su cavalli son gh altri del trinacrio
annoso Aceste.
I Troiani ricevono con plauso
i peritosi e godono a guardarli
ravvisando a' sembianti i padri loro.
Poi che Heti passarono a cavallo
avanti a tutto il popolo e a lor gente,
Epitide lontano agli aspettanti
alto die segno ed ischioccò la frusta.
Quelli eguah discorsero e le file
suddivise a tre sciolsero, e al richiamo
l6o ENEIDE
fecer fronte portando armi contr'armi.
Indi altre corse ed altre volte danno
da opposte parti e intrecciano alternanti
cerchi a cerchi e un'imagin di battaglia
rendono in giostra, e or mostrano fuggendo
le spalle, ostili or voltano le punte,
or di pari cavalcano pacati.
Qual si narra che un dì ne l'alta Creta
il Labirinto tra pareti cieche
ebbe un avvolto andar e il dubbio inganno
di mille vie, dove di via traea
impreveduto e inestricato errore :
non altrimenti i figli de' Troiani
intrecciano lor corse e fughe e pugne
per gioco, simili a' delfini quando
tra l'acque a nuoto solcano il carpazio
o il libio mare e giocano per l'onde.
Questa foggia di corsa e queste gare
primo Ascanio riprese, allor che cinse
Alba Lunga di mura, e fu maestro
degli antichi Latini a praticarle
ne la maniera ch'esso da fanciullo
e la troiana gioventù con lui.
Le insegnaron gli Albani ai loro, e quindi
le ricevè Roma sovrana,, il patrio
rito serbando: Troia i giovinetti
ancor, Troiano il loro stuol si dice.
Finquì le gare a onor del padre santo.
Poi cominciò Fortuna a mutar fede.
Mentre al sepolcro co' diversi ludi
LIBRO QUINTO I'-)!
rendon l'omaggio, la Saturnia Giuno
mandò Iri dal cielo a' teucri legni
e spira l'aure al voi, piena d' intenti
e ancor non sazia del dolore antico.
Giù discese la vergine per l'arco
di color mille rapida e non vista.
Mira il grande concorso e passa i lidi,
deserti vede i porti e abbandonata
la fiotta.
Ma le Troadi in disparte
raccolte su la riva solitaria
piangevano il perduto Anchise e tutte
l'alto mare guardavano piangendo.
Ahi tanto ancor viaggio a lor sì stanche
e tant'acqua restar! voce è di tutte.
Vogliono una città, non più patire
i disagi del pelago.
Tra loro
dunque si mette, destra in recar danno,
e si spoglia di diva e volto e veste.
Bèroe si fa, l'annosa di Doriclo
tmario consorte, tal che illustre sangue
e aveva avuto un dì fama e figliuoli.
E così vien tra le dardanie donne.
« Voi misere, dicea, cui l'armi achee
non ridussero a morte sotto i muri
de la patria ! a che strazio la fortuna,
o gente sventurata, ti riserba?
Sette estati son già da la rovina
di Troia, che per l'acque e per le terre
tutte siam tratte, superando asprezze
Albini - Eneide
IÒ2 ENEIDE
di scogli e di stagioni, in preda a l'onde
sempre cercando una fuggente Italia.
Questo è fraterno suol d' Erice, è nostro
ospite Aceste : chi fondar ci vieta
le mura e farne cittadini? Oh patria
e Penati al nemico invan sottratti!
Dunque nessune più si udranno dire
mura di Troia? non vedrò più al mondo
gh ettorei fiumi, Xanto e Simoenta?
Su! bruciate con me le infauste prore.
Che l'ombra di Cassandra profetessa
porgere in sogno io vidi accese faci:
— Qui cercatevi Troia, è qui la casa
vostra — diceva. L'ora è già di farlo
senza esitare a simili portenti.
Ecco quattro are per Nettuno : è il dio
a prestarci le fiaccole e l'ardire ».
Cosi dicendo dà di piglio prima
al triste fuoco, e con la destra lungi
levata forte l'agita e l'avventa.
Sorprese fur le Iliadi e sgomente;
quando una tra le molte, la più vecchia,
Pirgo, regia nutrice a' tanti nati
di Priamo : « Ella non è Beròe, donne,
non la retea di Dòriclo consorte.
Vedete i segni di beltà divina
e gli occhi fiammeggianti, e com'è altera,
e il suo volto e la voce e il portamento.
Beròe dianzi io stessa l'ho lasciata
inferma, addolorata di mancare
sola agli onori debiti d'Anchise ».
LIBRO QUINTO 103
Cosi disse.
Le donne da principio dubitose
e con occhi sfuggenti a riguardare
i legni, combattute tra l'intenso
amore del presente suolo e i regni
per destino aspettanti: quando in aria
si levò su le aperte ali la dea,
sotto a le nubi un grande arco segnando.
Scosse al portento allor, vinte al furore,
urlano e dagl' interni focolari
strappan tizzoni; parte spoglian l'are,
frasche e virgulti e fiaccole scaghando.
Sbrigliato per le tolde erra Vulcano,
per i remi e le pinte assi d'abete.
Al sepolcro d'Anchise e al gran teatro
va nunzio Eumelo de le navi in fiamme,
ed essi stessi volgonsi a guardare
fosche tra globi scintillar faville.
E primo Ascanio, come reggea lieto
la giostra, così fervido a cavallo
accorre a la rivolta, e trafelati
rattenerlo non possono i maestri.
(( Che furia nova è cotesta ? che fate
deh!, sciagurate cittadine? grida:
non a' nemici o al campo degli Achivi,
voi date fuoco a le speranze vostre.
Guardate il vostro Ascanio ! » Innanzi a' piedi
via si gittò dal capo l'elmo, in cui
quella animava fìnzion di guerra.
Insieme Enea s'affretta, insieme i Teucri.
104 ENEIDE
Ma quelle qua e là per varie parti
smarrite si disperdono, a le selve
traggono quatte e dove faccian grembo
le rupi, incresce lor l'atto e la luce,
i loro riconoscono cangiate
e dal seno si scossero Giunone.
Ma non però le fiamme de l'incendio
poser la foga indomita: sott'esso
l'umido legno ancor la stoppa viva
fumiga pigra e lento il calor strugge
le chiglie e a tutto si propaga il danno,
né vai zelo di prodi o versar d'acque.
Stracciasi allora il pio Enea le vesti
agli omeri e implorò gli Dei clementi
a palme tese : « O Giove onnipotente,
se tutti fino a l'ultimo non prendi
i Teucri in odio, se riguardo alcuno
ha l'antica pietà de' casi umani,
fa' che il naviglio, o padre, al fuoco scampi
e de' Troiani il poco aver preserva ;
o, s'io lo meritai, questo che avanza
tu col nemico fulmine sprofonda
ed annichila qui con la tua destra ».
Aveva detto appena, e rompe il nembo
con un rovescio inusitato; al tuono
tremano le terrestri vette, e viene
da tutto il ciel ne' campi acqua a torrenti,
scura piova al soffiar de la bufera:
i legni ne riboccano, mezzo arse
ne grondan l'assi, fin che il caldo muore
e, tranne quattro, scampano le navi.
LIBRO QUINTO 165
Ma il padre Enea scosso dal caso acerbo
or qua or là mutava in cuor l'ingente
pensiero, se nel siculo paese
dimenticando i fati si posasse
o a l'italiche prode ancor tendesse.
Il vecchio Nante allor, che la tritonia
Pallade amm.aestrò su tutti e insigne
di molt'arte lo fé', tali responsi
dava, e che la minace ira de' Numi
0 richiedesse l'ordine de' fati;
ei riconforta Enea con questo dire:
u O figlio de la Dea, dove il destino
chiama o richiama andiam; che che si sia,
la pazienza vinca la fortuna.
Qui di stirpe divina è il teucro Aceste :
abbilo per compagno ne' disegni
volenteroso, e a lui cedi chi sopra-
vanza perse le navi e ornai rifugge
da l'alta impresa e da le tue vicende.
1 vecchi stanchi e le donne spossate
dal mar scevera, e quanto con te viene
di fiacco e pauroso de' perigli :
abbiano qui la lor città gli stanchi
e lor sia dato nominarla Acesta ».
Tocco a tal dire de l'annoso amico,
viepiù tra pensier vari è combattuto.
E bruna su la biga in ciel saliva
la Notte, ecco da l'alto a l'improvviso
parve la vision del padre Anchise
scendere e favellargh in queste voci :
« O figlio, a me più caro de la vita
l66 ENEIDE
nel tempo che la vita mi durava,
o travagliato dagl'iliaci fati,
vengo al cenno di Giove che la fiamma
stornò da' legni e alfin ti si fé' pio.
Odi i consigli che ti dà sì buoni
Nante longevo : gioventù prescelta,
validissimi cuor, porta in Italia;
dura una gente e ru\dda dovrai
nel Lazio debellar. Ma prima pure
cerca di Dite l'ime case e vieni
per l'alto Averno, o figlio, al mio colloquio.
Me non tien l'empio Tartaro, dolenti
ombre, ma sono tra gli ameni cori
de' buoni ne 1' Elisio. I\i la casta
Sibilla ti addurrà, per molto sangue
di nere agnelle. Allor tutta saprai
tua prole e qual città ti si conceda.
Intanto addio : la Notte umida piega
da mezzo il corso e già crudel mi sfiora
col soffio de' cavalli l'oriente ».
Avea detto e svanì simile a fumo
tra l'aure lievi. Enea '< Dove t'affretti ?
dove t' involi ? esclama ; oh chi tu fuggi ?
chi t'allontana da l'abbraccio mio ? »
Scote tra '1 dire le sopite brage,
ed il Lare di Pergamo e il sacrario
de la canuta Vesta con devoto
farro e pieno incensier supplice adora.
Subito chiama i suoi e primo Aceste :
narra il cenno di Giove ed i comandi
LIBRO gi'INTO 167
del caro padre e quel ch'esso disegni.
Senza indugio è il partito e Aceste assente.
Scrivon le donne a la cittadinanza
e abbandonano il popolo voglioso,
cuori non vaghi d' un' eccelsa gloria.
I banchi essi ristorano, rifanno
le abbrustolate tavole al naviglio,
preparan remi e gomene; a contarli
pochi, ma fiamme di virtù guerriera.
Intanto con l'aratro Enea disegna
le mura e a sorte trae le case : vuole
questo esser Ilio e questi luoghi Troia.
Regna il troiano Aceste e assegna il foro
e dà le leggi a' padri convocati.
Vicino agli astri poi su l'ericina
vetta a Venere idalia un tempio è posto,
e un sacerdote aggiungesi e un ombroso
largo recinto al sepolcro anchiseo.
Già nove giorni banchettò la gente
e compiuto agli altari era ogni rito;
i venti cheti hanno disteso il mare,
e l'austro risusurra e a l'alto invita.
Nasce gran pianto per le curve rive:
abbracciati tra lor la notte e il giorno
stanno. Esse omai le donne, essi cui dianzi
del mar la faccia orrida parve e il nome
intollerabile, or vogliono andare
e patire ogni stento de l'esiglio.
Ma il buono Enea benigno li consola
e lagrimando al consanguineo Aceste
t6.S kxi^ide
li affida. Quindi a Elice immolare
fa tre vitelli e un'agna a le Tempeste
e tiittequante sciogliere le funi:
esso, diritto là su la sua prora,
col capo cinto di tosata oliva,
ha la patera in mano e a' salsi flutti
porge visceri e vin limpido versa.
Sorge da poppa e li accompagna il vento
battono a gara i remi e solcan Tonde.
Venere intanto con l'affanno in cuore
a Nettuno si volge e si querela :
(( La fiera di Giunone ira e gli sdegni
non sazi mai mi sforzano, Nettuno,
a discendere a tutte le preghiere.
Tempo non è, non è che l'addolcisca
pietà nessuna : dal voler di Giove
indomita e da' fati ella non posa.
Dal cuore de la Frigia aver schiantata
co' nefandi odi una città non basta
e trascinata per ogni tormento:
le reliquie di Troia, polve ed ossa
de la morta, perseguita. Le cause
di sì cieco infierire essa le vegga.
Testimonio mi sei, quanta pur ora
levò minaccia ne le libiche onde :
tutto mischiò col cielo il mare, indarno
ne l'eolie procelle confidata,
tanto ardita in tuo regno.
Ecco anche spinte le troiane donne
a scelleraggine, arse indegnamente
i legni e fu cagion, persa la flotta,
di lasciar gente a una straniera terra.
Quei che avanza, t'imploro, oh veleggiarti
possa securo ed il laurente possa
Tebro toccar, se giuste cose io chiedo,
se quelle mura assegnano le Parche ».
Il Saturnio signor del m.ar profondo
allor cosi parlò : « Bene a ragione,
o Citerea, ne' regni miei confidi,
onde hai tu nascimento. E il meritai.
Spesso compressi l' ire e la mina
e del cielo e del mar. Né in terra meno,
ne attesto Xanto e Simoenta, il tuo
Enea m'è a cuor. Quando Achille inseguiva
verso le mura i trafelati Teucri
e spargea i morti a mille, e colmi i fiumi
muggivano né più sapea lo Xanto
trovar la via di correre nel mare,
allora Enea ch'era del gran PeHde
a fronte, disegnai di Numi e nerbo,
sottrassi entro una nube io, pur bramando
le fabbricate con le mani mie
mura atterrar de la spergiura Troia.
Ho quell'animo ancor : lascia i timori.
Securo i porti toccherà d'Averno,
che brami ; un solo smarrirai ne' gorghi,
un per i molti si darà ».
Poi che blandì con questi detti il lieto
cuor de la diva, aggioga in oro il padre
i corsieri, atta gli spumosi freni
e fluenti le redini abbandona.
lyO ENEIDE
Sul ceruleo carro a fior de l'acque
lieve vola: s'abbassan l'onde, e sotto
Tasse tonante ogni boUor si spiana;
fuggon pe' 1 vasto etere i nembi. Ed ecco
il corteggio molteplice, gli enormi
mostri, di Glauco il seguito vetusto
e Palemone d'Ino ed i Tritoni
solleciti e l'esercito di Forco
tuttoquanto ; ecco tengon la sinistra
Teti e Mèlite e Pànope fanciulla,
Nisèa e Spio, Cimodoce e Talia.
Gioioso senso a la sua volta vince
il sospeso pensier del padre Enea :
presto tutti alzar gli alberi, le vele
ordina inalberar. Le scotte ad una
tesero tutti e parimente a manca
or disciolsero e a destra i seni, ad una
drizzan le antenne e volgono. Buon vento
porta la flotta.
Primo avanti a tutti
guidava Palinuro il denso stuolo;
agli altri era dover di seguitarlo.
E già l'umida Notte avea toccato
circa il mezzo del ciel; sottesso i remi
stesi pe' duri scanni i naviganti
allentavano placidi le membra:
quando lieve dagli astri eterei sceso
il Sonno ruppe l'aer tenebroso
e scosse l'ombre, verso te movendo,
I.THRO OiTNTO l'P'r
o Palinuro, e infauste visioni
a te non meritevole recando.
Su l'alta poppa iddio sedè, col volto
di Forbante, e così schiuse le labbra :
« O Palinuro iàside, le navi
da sé le pòrta il mar ; son l'aure amiche :
or si può riposare; adagia il capo
e gli occhi stanchi togli a la fatica.
Io per poco terrò le veci tue ».
E Palinuro a lui levando appena
gU occhi dice : « E vuoi tu eh' io non rammenti
del cheto sale il volto e la bonaccia ?
ch'io creda a questo mostro ? Enea, sì certo,
gH affiderò, da' zefiri fallaci
tante volte io deluso e da l'insidia
del ciel sereno ». Questo rispondendo,
fermo e stretto il timon mai non lasciava
con lo sguardo a le stelle. Ed ecco il dio
un ramo intriso di letea rugiada
e soporoso per influsso stigio
su le tempie gh scote e a l'esitante
le natanti pupille allenta. Appena
il sopor primo invase avea le membra,
che premendo su lui, con parte svelta
de la poppa e col temo, a capo in giù
in mezzo a l'acque lo gittò, più volte
vanamente chiamante i suoi compagni.
Esso su l'ali si levò ne l'aria.
Corre non men sicuro solco in m.are
la fiotta ed imperterrita veleggia
ENEIDE
a la promessa di Nettuno padre.
E già veniva a radere gli scogli
de le Sirene, perigliosi un giorno
e de l'ossa di molti biancheggianti,
allor rochi sonavan lunge i sassi
al battere del flutto, quando Enea
si accorse incerta fiotteggiar la nave
senza piloto e ne' notturni guadi
esso la resse, molto sospirando
per dolor de l'amico: «Ahi! Palinuro
troppo fidato al mar e al ciel sereno,
nudo su ignote arene giacerai ».
LIBRO SESTO
Così dice piangendo e dà le briglie
a la flotta, ed alfìn tocca Teuboiche
spiagge di Clima. Voltano le prore
a l'alto mar, poi l'ancora col dente
tenace assicurava al fondo i legni;
le curve prore fanno siepe a riva.
Balzano ardenti i giovani sul lido
esperio; e chi sprizzar fa la scintilla
ascosa entro la selce, e chi percorre,
folte dimore de le fiere, i boschi
e i corsi addita de' trovati fiumi.
Ma il pio Enea le vette, cui presiede
l'alto Apollo, ricerca ed il riposto
asilo, immensa grotta, de l'augusta
Sibilla, a la qual dona il Delio vate
larghezza e fiamma d'ispirata mente
e le apre l'avvenir. Sono già sotto
a le piante di Trivia e a l'aureo tetto,
174
ENEIDE
Dedalo, è fama, Minos re fuggendo,
oso fidarsi al del su preste penne,
nuotò per novo solco a le fredde Orse
e su l'arce calcidica leggiero
a la fin si librò. Qui reso a terra,
a te de l'ali consacrò il remeggio,
o Febo, e vasto ti costrusse il tempio.
Su la. porta è d'Andrògéo la morte,
i Cecropidi poi sforzati a darne
in pena ohimè ! sette figliuoli ogni anno :
ecco l'urna onde uscirono le sorti.
Di contro alta sul mar la gnossia terra
risponde: ivi il crudele amor del toro;
Pasifàe suppostasi di furto;
mista biforme prole il Minotauro,
ricordo de la venere nefanda;
ivi quel faticoso avvolgimento
di casa; unico Dedalo risolse,
pietoso al grande amor de la regina,
gl'inganni inestricabili, d'un filo
le cieche orme reggendo. E tu gran parte,
permettendo il dolor, Icaro, avresti
nel gran lavoro : per due volte i tuoi
casi tentò di effigiar ne l'oro,
cadder due volte le paterne mani.
A tutto seguitando avrebbe volti
gli sguardi suoi, se il già mandato innanzi
Acate non mostravasi e con lui
di Febo e Trivia la sacerdotessa,
Deìfobe di Glauco. Ella al re dice :
LIBRO SESTO IJ;
« Non vuol tali spettacoli quest'ora.
Meglio sarà sette giovenchi offrire
da intatto armento e tante giusta il rito
scelte bidenti ». Così detto a Enea,
(né tardano essi al sacro cenno) i Teucri
chiama al gran tempio la sacerdotessa.
È l'ampio fianco de l'euboica rupe
cavato in antro, e cento larghe entrate
v'adducon, cento porte, escono a cento,
de la Sibilla oracoli, le voci.
S'era giunti a le soghe, ed essa esclama
la vergine : « Tempo è di domandare
i fati; ecco, ecco il dio! ».
Tra questo dire,
sul limitar, d'un tratto non eguale
né il volto né il color né le rim.ase
composto il crin, ma di furor si gonfia
il petto ansante ed il selvaggio cuore:
par più grande né voce ha di mortale,
tocca dal soffio già dèi dio che \dene.
(( Sei lento a' voti ed a le preci, esclama,
o teucro Enea, sei lento ? E pur non prima
si schiuderan de l'ispirata casa
le grandi bocche ». Così detto, tacque.
Freddo un brivido corse a' Teucri per le
dure ossa, e il re cosi prega dal cuore :
« Febo, pio sempre al gran dolor di Troia,
che il dardano di Paride reggesti
strale contro 1' Eacide e la mano,
IJt' ENEIDE
per tanti mari a grandi terre opposti
entrai, te duce, e ne' profondi seni
de' Massili e al suol cinto da le Sirti :
pure una volta raggiungiam le sponde
de l'Italia fuggente, oh fìnquì noi
la troiana fortuna" abbia seguiti!
Voi pure ornai a la pergàmea gente
vi potete placar. Dei tutti e Dee
cui dispiacque Ilio e la superba gloria
de la Troade. E tu, divina vate,
presaga d'avvenir, dammi (non chiedo
regno indebito a' fati miei) che i Teucri
si posino nel Lazio e le vaganti
perseguitate deità di Troia.
A Febo e a Trivia allor tutto di marmo
un tempio e feste ordinerò dal nome
di Febo. Ampio te pur sacrario aspetta
ne' regni nostri : ivi porrò tue sorti
e gli arcani destini a la mia gente
svelati, e scelti avrai ministri, o santa.
Sol non fidare a foglie i tuoi presagi,
che non vohn confusi in preda al vento:
prego che parli tu )>.
Qui chiuse il labbro.
Ma non di Febo tollerante ancora
la profetessa erra per l'antro a furia,
se possa il grande iddio scoter dal seno:
quello viepiù, l'acerbo cuor domando,
preme la indocil bocca e al fren la piega.
E de la casa ornai le cento grandi
LIBRO SESTO I77
porte si spalancarono spontanee
e diffusero a l'aure il vaticinio :
« O uscito alfin dai gran rischi del mare
- ma restano più gravi in terra -, i Teucri
al regno di Lavinio giungeranno,
sgombra il dubbio dal cuor, - ma vorranno anche
non esser giunti. Guerre, orrende guerre
vedo e il Tebro spumar di molto sangue.
Non Sìmoi né Xanto a te né l'oste
dorica verrà meno : un altro Achille
già nato è al Lazio, anch'ei fìgliuol di dea,
né contro a' Teucri mancherà mai Giuno,
mentre supplice tu ne la strettezza
quali non genti implorerai d' Italia,
quali città? Causa di tanto danno
una sposa di nuovo ospite a' Teucri,
di nuovo uno stranier talamo.
Tu non cedere a' mah, anzi più fiero
li affronta, per la via che tua fortuna
ti darà. Primo t'apparecchia scampo
una città, certo noi pensi, greca w.
Con tah detti la cumea Sibilla
da l'antro sacro fiere ambagi intuona
e rugge, d'ombre ravvolgendo il vero :
così scote le briglie a la fremente
e con gli sproni entro la punge Apollo.
Quando allentò il furore e la schiumosa
bocca fu cheta, prende a dir l'eroe:
« Nuova, o vergine, a me né inaspettata
faccia non è di mali alcuna : tutti
Albini - Eneide !>
i
lyS ENEIDE
li pregustai, li consumai nel cuore.
Prego sol : poi che qui dicon la porta
del rege inferno e la palude buia
cui riversa Acheronte, a me sia dato
a la presenza andar del caro padre:
la via m'insegna, il sacro adito m'apri.
Lui tra le fiamme e l'incalzar de l'armi
sottrassi su questi omeri e salvai
da la mischia: compagno al mio viaggio
tutti i mari con me, tutte durava
le minacce del pelago e del cielo,
pur lasso, oltre le forze e la fortuna
de la vecchiezza. E ben fu desso a farmi
prego e cenno che a te, che a le tue soglie
supplice mi rendessi. Or del figliuolo
e del padre pietà 4eh! abbi, o alma,
che tutto puoi, e non inutilmente
Ecate ti prepose a' boschi^, averni.
Se Orfeo col suono 'de le tracie corde
richiamar potè l'ombra de la sposa, ì
se Polluce il fratel con morte alterna
redense e va e vien per quella via,
debbo il gran Teseo ricordarti o Alcide?,
dal sommo Giove sono anch' io disceso ».
Con tali detti orava e stringea l'are,
quando riprese a dir la profetessa:
(( Divin sangue, Anchisiade troiano,
facile è la discesa de l'Averno;
dì e notte il fosco Dite ha porta schiusa :
ma il pie ritrarre e risalire al sole,
LIBRO SESTO I79
questa è l'impresa e la fatica. Pochi,
cui benigno amò Giove e acceso ardire
a le stelle levò, nati da numi,
il poterono. In mezzo è tutto selve,
e Cocito fluendo le circonda
del grembo cupo. Ma se tanto affetto,
se hai tanto ardore di nuotar due volte
lo stigio lago, di veder due volte
il Tartaro, e a la folle opera inclini,
odi le cose da compirsi avanti.
In un albero ombroso un ramo d'oro /^
di foglie e fronda flessile si cela
a \à Giunone inferna consacrato :
tutta la selva gli fa velo e l'ombre
l'avvolgono nel rezzo de le vaUi.
Ma .vietati i segreti di sotterra
sono a chiunque non ha colto prima
da l'albero l'aurìcomo germoglio.
Questo come tributo suo la bella
Proserpina ordinò che le si rechi.
Spiccato l'un, non manca l'altro, d'oro,
e lo stelo s'infronda del metallo.
Dunque in alto ricercalo con gH occhi
e ritrovato con la man lo spicca:
la seguirà da sé docile e pronto
se i destini ti chiamano, altrimenti
vincerlo non potrai per forza alcuna
né schiantarlo col duro ferro.
Inoltre
ti giace (ah tu noi sai!) morto un amico
e di morte contamina la flotta
l80 ENEIDE
intiera, mentre oracoli domandi
incerto a queste soglie. Al suo riposo
lui rendi avanti e lo raccogli in tomba.
Nere pecore adduci a prima offerta.
Solo allora vedrai di Stige i boschi
e il regno inaccessibile a' viventi )>.
Disse, e le labbra taciturna chiuse.
Enea col volto mesto e fisso il guardo
si parte da la grotta e volge in cuore
gli ascosi eventi. Il fido Acate è seco
tra simili pensier l'orme segnando.
Di tante cose discorrean tra loro,
qual dicesse la vate amico estinto
ed insepolto. E videro Miseno,
come fur presso, su l'asciutto lido,
di morte immeritevole finito,
l'eolide Miseno, onde non altri
più valse a scoter con la tromba i prodi
e ad infiammar squillando la battaglia.
Era stato al grand' Ettore compagno '
e ad Ettore vicino entrava in guerra
segnalato pel lituo e la lancia.
Poscia che Achille vincitor spogliava
quello di vita, del dardanio Enea
il fortissimo eroe si pose a fianco,
seguace a non minor virtù. Ma intanto
che con sua cava conca introna il mare,
folle, e squillando chiama in gara i divi,
un rivale Triton che gU fu sopra,
se credere si vuol, tra le scogliere
LIBRO SESTO l8l
l'avea ne la spumosa onda sommerso.
Dunque tutti fremevano d'intorno
in gran compianto, e il pio Enea su tutti.
Nessuno indugio, affrettano piangendo --^"
de la Sibilla gli ordini e di tronchi
formano a prova l'ara del sepolcro
eretto a ciel. Si va ne la foresta
annosa, antri profondi de le fiere:
precipitan le picee, percosse
suonan da scuri l'elei; fìccan cunei
ne' frassini alti e ne le scisse roveri
e rotolano grandi orni da' monti.
Anch'esso Enea tra tali opere primo
esorta i suoi d'eguah armi fornito.
E col triste cuor suo ragiona intanto
guardando la foresta immensa e viene
augurando così : « Se ora quell'aureo
ramo da l'albero apparisse a noi
in tanta selva! Poi che ver purtroppo
di te parlò, Miseno, la veggente! ».
Appena detto avea che due colombe
sotto gli occhi di lui venian volando
dal cielo e sceser giù sul verde suolo.
Riconosce il sovrano eroe gli alati
materni e heto prega: « Oh siate guide,
se via v'è; dirigetemi per l'aria
ne' boschi ove fa ombra il ricco ramo
al suol ferace. E tu ne l'ora incerta
non mi mancar, di\dna madre ». E stette,
mirando qual dien segno, ove sien volte.
l82 ENEIDE
E quelle ad avanzarsi pascolando
a voli che seguir potesse il guardo.
Giunte a la bocca fetida d'Avemo,
• si sollevano rapide e, calando
per l'aer lieve, al desiato luogo
posan sul duplice albero, dal quale
varia fulse tra' rami un'aura d'oro.
Qual suole ne le selve al freddo tempo
il vischio verdeggiar di fronda nova,
cui non la pianta germina, e de' flavi
germogli circuir gli agili tronchi;
era tale a veder su l'elee bruna
quell'oro frondeggiar, tale il virgulto
al molle vento susurrava. Enea
l'afferra avido e spicca dal suo nodo
e a la veggente vergine lo reca.
Non meno intanto su la riva i Teucri
piangevano Miseno ed a l'infausta
salma rendean l'esequie. Una gran pira
di pingue pino e rovere segata
costrusser prima; d'atre fronde i lati
le intrecciano, le pongono davanti
il cipresso funereo, e di sopra
la fregiano de l'armi luminose.
Parte i caldi lavacri appresta e i rami
gorgoglianti a la vampa, e lui gelato
lavano e ungono. Il compianto sorge:
adagian poi le membra piante e sopra
gettano le purpuree vesti note.
S'accostarono al gran feretro alcuni,
LIBRO SESTO 183
mesto ufficio, e le faci a mo' de padri
vi tenner sotto con la faccia volta.
Insiem s'ardono i doni de l'incenso,
le vivande e versanti olio i crateri.
Cadute poi le ceneri, la fiamma
finita, i resti e le suggenti brage
aspersero di vino e l'ossa accolte
Corineo chiuse in una urna di bronzo.
Esso tre volte va con l'acqua pur^
intorno per gli astanti leggermente
rorandoli d'un ramo del benigno
ulivo e così tutti ebbe lustrati
e disse le novissime parole.
Ma il pio Enea di gran mole un sepolcro
sovrappone a quel prode e l'armi sue
e remo e tromba ne l'aerio monte
che Miseno da quello oggi si chiama
e il nome per i secoli propaga.
Appresso poi sollecito i precetti
compie de la Sibilla. Una spelonca
profonda fu che spaventosa s'apre,
scoghosa ; la difendono il palude
nero e la tenebria de le foreste,
su la qual non potevano gli uccelli
stendere il volo impunemente, tale
fiato si esala da la tetra gola
(onde dissero il lungo A orno i Grai).
Quattro giovenchi da le terga nere
prima vi trae la sacerdote, in fronte
lor versa il vino, tra le coma a sommo
184 ENEIDE
un ciuffo strappa e, ritual primizia,
getta a,' bracieri, alto Ecate invocando
e nel cielo e ne l'Èrebo possente.
Altri i coltelli sottopone e il caldo
sangue riceve ne le tazze. Enea
con la spada un'agnella d'atro vello
immola de l'Eumenidi a la madre
e a la sua gran sorella, ed una vacca
sterile a te, Proserpina. I notturni
riti a lo stigio re quindi principia
e intere ammucchia viscere di tori
sopra le fiamme, le ferventi fibre
di pingue olio spargendo. Ed ecco, presso
al nascente chiaror del primo sole,
muggir la terra sotto i pie, le vette
cominciare a crollarsi de le selve,
e per l'ombra ulular parver le cagne
appressando la dea. « Lungi, profani !
lungi di qui! la profetessa grida,
e tenetevi fuor da tutto il bosco.
E tu invadi la via, snuda la spada:
qui si vuol cuore Enea, qui petto saldo ».
Detto così, si mise furiosa
per l'antro aperto, e a la sua duce mossa
quei con securo pie move di pari.
Dèi che avete de l'anime l'impero,
e ombre mute e Caos e Flegetonte,
luoghi per la notte ampia taciturni,
dir mi sia dato quel che udii, sia dato
LIBKO SESTO 1S5
col voler vostro rivelar le cose
sotterra ne la tenebra sepolte.
Andavan sotto la solinga notte
scuri per l'ombra e per le case vacue
di Dite e i vani regni: era un andare
qual per l'incerta luna a luce scarsa
ne' boschi, quando Giove ha chiuso il cielo
nel buio e l'atra notte il color tolto
a le cose.
Al vestibolo davanti,
su la bocca de l'Orco prima prim^a,
l'Affanno e le vendicatrici Angosce
posero lor covil, v'hanno dimora
pallidi i Morbi e infausta la Vecchiezza
e la Paura e mala consigliera
la Fame e l'Indigenza ontosa, orrori
a vedere, e la x\Iorte e la Miseria,
indi il Sopor fratello de la Morte
ed i Tripudi de la m.ente falsi;
e su la sogha la Guerra omicida
e i ferrei de i'Eumenidi giacigli
e la Discordia pazza avvolta in bende
sanguinose le chiome viperine.
Nel mezzo i rami e le vetuste braccia
un olmo stende fosco, grande, e in quello
si dice esser a frotte i Sogni vani,
sì che più d'un ve n' ha sott'ogni foglia.
Molti altri mostri di diverse fiere,
i Centauri s'installano a le porte
l86 ENEIDE
e le Scille biformi e Briareo
centìmano e la belva sibilante
di Lerna e la Chimera irta di fiamme,
le Gorgoni, le Arpie, Tuom dai tre corpi.
Sobbalzando di subito spavento,
qui stringe Enea la spada ed a' vegnenti
drizza la punta: e se la savia duce
non l'ammonisse che le sono esìli
incorporee vite vagolanti
che paiono persona, irromperebbe
a percotere invan l'ombre col ferro.
Di qui la via che mena a le tartaree
acque de l'Acheronte. Pien di melma
bolle con vasto vortice quel flutto
e la molta in Cocito arena erutta.
Spaventoso nocchier tien la riviera
"fronte, d'un'orrenda squallidezza,
cui larga invade irta canizie il mento,
s'apron gli occhi di fiamma, e da le spalle
pende annodato lurido mantello. ^~~^
Esso regge a la barca e remo e vela;
su la ferrigna chigha i corpi porta,
vecchio, ma cruda ha il dio verde vecchiezza. ^
Quivi a riva una gran folla correva,
donne e uomini, e corpi senza vita
di magnanimi eroi, e giovinetti
e vergini, e recati sotto gU occhi
de' genitori adolescenti al rogo ;
quante col primo freddo de l'autunno
si spiccano ne' boschi e cadon foghe.
LIBRO SESTO 187
o quanta da l'oceano a le spiagge
va nuvola d'uccelli, allor che il gelo
oltre mare li caccia a terre apriche.
Stavan, pregando di passare i primi,
e tendevan le mani per amore
de l'altra sponda, ma il nocchiero arcigno
ora questi ora quei riceve e gli altri
allontana e ricaccia da la riva.
Enea, sospeso e scosso a quel tumulto,
« Dimmi, o vergine, dice, a che tal ressa
al fiimie ? quale han l'anime desio ?
per che divario queste son respinte,
quelle solcan la livida palude ? ».
E breve a lui l'annosa profetessa :
(( Nato d'Anchise, manifesta prole
degU Dei, l'alto stagno di Oocito
tu vedi e la palude stigia, nome
cui temono gli Dei giurare invano.
Tutta questa che miri è la meschina
turba insepolta, quel nocchier Caronte,
quelli i sepolti che trasporta l'onda.
Né prima è dato il buio greto e il roco
flutto passar che abbian riposo l'ossa.
Erran cento anni vohtando intorno
a questi lidi, e finalmente ammessi
rivedono gli stagni desiati ».
Stette il fìghuol d'Anchise e tenne il passo,
tutto pensoso e in cuor pietoso a quella
sorte gravosa.
Quivi scorge mesti
l88 ENEIDE
e privi de l'estremo onor Leucaspi
e Oronte duce de la licia flotta,
che insiem da Troia pe' velatosi mari
portati l'austro sopraffece, d'acqua
avvolgendo la nave e i naviganti.
Ed ecco che il pilota Palinuro
veniva, il qua] nel libico passaggio
pur ora, mentre guarda gli astri, in mezzo
a l'onde da la poppa era caduto.
Come a stento tra tanta ombra lui mesto
vide, primo gh parla : « O Palinuro,
qual degli Dei ti tolse a noi e in mezzo
a la marina ti sommerse? Dimmi,
che, non trovato mai fallace innnanzi,
solo in questo responso mi deluse
Apollo, il qual te presagiva immune
dal pelago dover giungere a' lidi
d'Ausonia. Or questa è la promessa fede ? ».
E quegli : « Né di Febo la cortina
t'ingannò, Anchisiade condottiero,
né mi sommerse il dio ne la marina :
che per sorte il timon schiantato a forza,
ch'io stringeva custode e regolava,
precipitando trascinai con me.
Per le tempeste giuro che non ebbi
di me timor, ma che la nave tua,
spogha de l'armi sue, scossa del duce,
venisse meno in quel gonfiar de l'onde. —
Tre tempestose notti per l'immenso
mar mi spinse tra' flutti un fiero vento :
LIBRO SESTO 189
solo al quarto mattin vidi lontano,
su la cresta di un'onda alto, Y Italia.
Io mi traea nuotando verso lei,
e già terra toccavo, se una gente
crudel me grave con le vesti pregne,
e che i ronchi ghermia con mani adunche,
non assaliva armata, in me pensando,
stolta! una preda. Ora mi tiene il flutto
e i venti mi percotono sul Udo.
Dunque pe 1 ciel ti prego e l'aure azzurre,
per il tuo genitor, per le speranze
del tuo fiorente Giulo, a questo danno
strappami, o invitto: o coprimi di terra,
che il puoi, ed il velin porto ritrova;
ovvero, se via v' è, se te ne mostra
la diva madre (senza numi, credo,
già non prendi a varcar tal fiume e Stige),
porgi la destra al misero e mi porta
oltre l'acqua con te, sì che in tranquilla
sede almeno da morto io mi riposi ».
Avea detto così, così riprese
la profetessa : « Donde, o Palinuro,
cotesta in te sì folle brama? l'acque
stigie vedrai tu non sepolto e il fiume
severo de l' Eumenidi e a la riva
senza cenno verrai? Non isperare
che i fati degli Dei pieghino a prego.
Ma odi e nota, per conforto al danno :
mossi i vicini da celesti segni
per le città tutto a l'intorno, Tossa
tue placheranno, le porranno in tomba,
IQO ENEIDE
a la tomba faranno i riti, e il luogo
eterno avrà di Palinuro il nome ».
A questi detti si temprò l'angoscia
e il duolo un tratto usci dal mesto cuore :
di quella terra col suo nome gode.
Seguono dunque l'intrapresa via
accostandosi a l'acqua, onde il nocchiero
infernal non appena li ebbe scorti
movere verso il greto per la muta
selva il piede, si volge ad assalirli
ed a rimproverar cosi : « Chiunque
sia tu che armato scendi al nostro fiume,
dimmi di costì, dimmi a che ne vieni,
e t'arresta. De l'ombre il luogo è questo,
del sonno e de la notte soporosa:
non può vivi portar la stigia barca.
Né davver mi allegrai di avere accolto
Alcide al passo, e non Teseo e Pirìtoo,
benché figli di numi e forti eroi: y^
gettò quegU il guinzaglio al guardiano
tartareo,, il trasse tremante dal soglio
stesso del re; rapir tentaron questi
dal talamo di Dite la regina ».
Breve rispose a ciò l'anf risia vate:
« Non tali insidie qui, lascia gli sdegni,
né fanno forza l'armi. Il gran portiere
latri eterno da l'antro ed atterrisca
l'ombre esangui; Proserpina le soglie
inviolata de lo zio possegga.
Enea troiano, il valoroso e pio,
LIBRO SESTO IQI
scende a veder tra l'ombre ultime il padre.
Se di simil pietà poco è la vista,
e tu conosci questo ramo !» E il trae
da la veste. Quel cuor gonfio da l'ira
si posa allor; non più parole: ei guata
il sacro dono del fatai virgulto,
qual gli apparia dopo gran tempo, e volge
verso la riva la sua bruna prora.
Poi l'altre anime caccia che sedeano
pe' lunghi banchi, libera la tolda,
e ne la chìglia il grande Enea riceve:
cigolò sotto il peso la contesta
carena e molto bevve del padule
per gli spiragU : al fin di là dal fiume
sicuri espone la veggente e il prode
su lo squallido fango e l'ulva bigia.
Cerbero immane questi regni introna
col trifauce latrato, in un covile
sdraiandosi di faccia. Or lui vedendo
tutto arruffar già di serpenti il collo,
getta la vate im'offa soporosa
per miele e lavorate farine. Esso
tre gole aprendo con rabbiosa fame
l'acceffa in aria e l'ampio dorso allenta
distendendosi enorme in tutto l'antro.
Sepolto il guardiano, occupa Enea
le soglie e passa rapido la sponda
di quell'acqua che più non si rivarca.
Quivi si udiron voci e un gran vagire__
e degl'infanti l'anime piangenti
iqZ ENEIDE
SU l'entrar primo, cui nuovi a la dolce
vita strappò da la mammella il nero
giorno ed in morte acerba li sommerse.
Presso a loro i dannati per ingiusta
accusa e spenti. Né già sono i luoghi
senza sorteggio e giudice assegnati:
indagator Minosse l'urna move,
esso la turba de' tacenti aduna
e vite e colpe apprende. Indi vicine
i mesti hanno lor sedi che ilhbati
si diedero la morte e fecer getto
de l'anima per odio de la luce.
Come or vorrian ne l'aere superno
la povertà soffrire ed i travagli!
I decreti si oppongono e con l'onda
li lega l'inamabile palude
e nove volte li ravvolge Stige.
Né lontano di lì s'aprono in ogni
parte i campi del pianto: han questo nome.
I riposti sentieri accolgono ivi
quei che struggea miseramente amore
e una selva di mirti H protegge:
li accompagna l'affanno ancora in morte.
Quivi discerne Fedra e Procri e mesta
Erìfìle che mostra le ferite
del crudel figlio ed Evadne e Pasifae;
e va con lor Laodamia, va Cèneo,
un dì garzone, or femmina e di nuovo
resa per fato ne la forma prima.
LIBRO SESTO IQ3
Fresca de la ferita in mezzo a quelle
la fenicia Bidone errava per la
gran selva. Come prima il teucro eroe
le fu presso e per l'ombre la conobbe
oscura, quale alcun vede la luna
o si crede vederla al novo mese
sorger tra nubi, non contenne il pianto
e con tenero amor le si rivolse:
« Infelice Bidone, annunzio vero
dunque mi giunse ch'eri morta e corsa
di tua mano a la fine! Ah fui cagione
de la tua morte ! Per le stelle giuro,
per i Celesti, o se altro giuramento
nel cupo mondo vale, io di mal cuore,
o regina, dal tuo Udo partii.
Ma i voleri de' Numi ed i lor cenni
mi sospinsero, come or per quest'ombre
e lo squallore de la notte immensa :
né credere io potea col mio partire
darti tanto dolore. iVrresta il passo,
e non sottrarti al guardo mio. Chi fuggi?
l'ultima volta che ti parlo è questa «.
Con taU detti Enea l'ardente cuore
leniva e bieco riguardante, e al pianto
l'inteneriva: quella a terra fìssi
gli occhi teneva in altra parte volta,
né più si muta a quel parlar nel viso
che se aspra selce o sia marpesia punta.
Alfìn via si spiccò, sparve nemica
tra l'ombrifera selva ove lo sposo
primo a l'affetto suo Sicheo risponde
Alsim - Eneide j-
194 ENEIDE
e la eguaglia d'amor.
Ma pur pensoso
del duro caso Enea lungi la segue
col pianto e la commisera fuggente.
Indi segue il fatai viaggio. E ornai
ne' campi erano estremi ove appartati
gl'incliti in guerra si radunano. Ivi
Tideo gli viene incontro e il prode in armi
Partenopeo, la pallida sembianza
di Adrasto insiem, ivi i compianti al mondo
Dardanidi caduti ne la guerra.
Sospirò nel guardarli in lunga schiera
tutti, Glauco e Tersiloco e Medonte,
i tre figli d'Antenore ed il sacro a
Cerere Polifete, e Ideo che ancora
il carro, ancor l'armi tenea. Frequenti
gU son l'anime intorno a destra e a manca,
né averlo \dsto è assai, piace indugiare
e andar di pari e chiedere a che venga.
Ma i principi de' Danai e le falangi
agamennonie come \ider prima
l'eroe per l'ombra e l'armi luminose,
a smarrirsi di subita paura,
chi volto in fuga come un dì a le navi
e chi levando una voce sottile,
ma il grido manca tra le labbra schiuse.
E vide là con la persona a brani
Deifobo di Priamo, crudelmente
mutilo il viso, il viso e le due mani.
LIBRO SESTO I95
devastate le tempie senza orecchi
e tronco il naso con deforme piaga.
Sì che a stento il conobbe vergognoso
che tentava celar suo reo supplizio,
e gli si volse con la nota voce :
(f Valoroso Deifobo, progenie
del gran sangue di Teucro, e chi mai volle,
chi potè far di te simile strazio?
La fama mi recò che ne l'estrema
notte tu stanco de' Pelasghi uccisi
cadevi in mucchio di confusa strage.
Su la proda retea tumulo vuoto
allor ti eressi ed a gran voce i Mani
chiamai tre volte ; là son Tarmi e il nome :
ma te, amico, non potei vedere
né in terren patrio sul partir comporre ».
Il Priàmide a ciò : « Tu non lasciasti,
amico, nulla, tu rendesti tutto
a Deifobo e a l'om.bra del suo frale.
Ma i fati miei ed il delitto atroce
de la Spartana m'han ridotto a questo
orrore, questi segni ella m'im_presse.
Come l'ultima notte in falsa gioia
passamm_o, sai; ben ricordarlo è forza.
Quando il fatai cavallo col suo salto
fu di Pergamo in vetta e pregno espose
gii armati fanti, ella fingendo un coro
chiamò le frigie a l'evoé de l'orgia;
teneva essa nel mezzo una gran fiamma
e i Danài da l'arce alta chiamava.
Da le fatiche me vinto e dal sonno
196 ENEIDE
ebbe T infausto talamo e m'avvolse
abbandonato una dolce quiete,
a la placida morte somigliante.
L'egregia moglie tutte l'armi intanto
leva di casa, e avea dal capezzale
sottratta la fedel mia spada; e chiama
Menelao spalancandogli l'entrare,
sicura già che ciò sarebbe pegno
prezioso a l'amante e avrebbe forse
spento il ricordo de l'oltraggio antico.
A che m' indugio ? Invadono la stanza ;
gli vien compagno, consigher d'infamia,
l'Eolide. Innovate, o Dei, lo scempio
per i Grai! se con pia bocca il richiedo,
^vla quali casi te, dimmi a vicenda,
qui vivo abbiano addotto. Per errori
vieni del mare o per divin consiglio?
e in quale angustia sei, da visitare
le tristi senza sol pallide case ? «.
Tra gh alterni parlari avea l'Aurora
de l'etereo sentier varcato il mezzo
con le rosee quadrighe, e forse tutta
spendevano cosi l'ora concessa,
ma la duce ammonì, ma la Sibilla
breve parlò : « La notte appressa, Enea,
e noi passiamo lagrimando il tempo.
Il luogo è qui che in due la via si parte
la destra che del gran Dite s'affretta
a la città, per questa è il nostro elisio
viaggio ; la sinistra de' malvagi
LIBRO SESTO IQ7
le pene adempie e al reo Tartaro adduce ».
Deifobo a Y incontro : « Sii pietosa,
o gran sacerdotessa; andrò, la schiera
rifarò piena e tornerò nel buio.
Va', gloria nostra, va', con miglior fato ».
Tanto disse, e tra '1 dir si volse indietro.
TEnea riguarda e d'improvviso vede
/ gran • città sotto una rupe a sinistra,
I cerchiata di tre mura, e intomo fiume
^fiammeggiante il tartareo Flegetonte
e travolgente romorosi massi.
In faccia è una gian porta e tutto acciaio
colonne cui schiantar non forza d'uomo
né potrebbe de' Superi la guerra.
Ferrea una torre sorge in aito, e assisa ^^
Tisifone con manto sanguinoso
al vestibolo veglia e notte e giorno.
Indi sospiri e suon d'aspre percosse
e strider ferro e strascicar catene
s'udia. Ristette sbigottito Enea
in orecchi a lo strepito. « Che colpe
sono? o vergine, parla: e di che pene
soffrono ? qual tumulto è che si leva ? ».
E cosi prese a dir la profetessa:
« Duce incHto de' Teucri, a nessun pio
dato è calcar la scellerata soglia:
pur, quando mi prepose a' boschi avemi,
Ecate stessa mi mostrò le pene
divine e le mi fé' percorrer tutte.
198 ENEIDE
Radamanto di Gnosso ha questi regni
durissimi: ei condanna, ode le colpe,
e sforza a quelle rivelar che, lieto
altri d'un vano eludere, produsse
a l'ora de la morte inespiate.
Subitamente armata di flagello
balza a ghermire i rei la punitrice
Tisifone e, protesi con la manca
i torvi serpi, chiama le sorelle.
Allor su l'aspro cardine stridenti
s'apron le porte m.aledette. Vedi
qual guardia è su l'entrare e in quale aspetto. /
Dentro dimora più crudele, enorme
con le cinquanta nere gole, l' Idra.
Viene il Tartaro alftn che si sprofonda
tanto due volte, quanto sale il guardo
fino a la faccia del celeste Olimpo.
Là, de la Terra antico parto, a l'imo
son gettati i Titani fulminati ;
i due Aloidi là vidi giganti
che alzar le mani a lacerare il cielo,
a cacciar Giove da' superni regni.
Anche Salmoneo vidi che l'acerba
pena pagò, mentre di Giove i fuochi
iva imitando e i fremiti d'Olimpo.
Ei con quattro cavalli ed isquassando
una fiaccola via pe '1 suol de' Grai
e la città ch'è a l'Elide nel mezzo
trionfava e adorato esser voleva:
stolto, che i nembi contraffare e il fulmine
osò non imitabile con bronzo
LIBRO SESTO IQQ
e lo sfrenato scalpito sonante.
Ma il Padre onnipotente di tra i folti
nuvoli il dardo gli avventò, non faci
già né baglior di fumiganti tede,
e lo travolse vorticoso a l'imo.
Tizio del pari si vedeva, figlio
de la Terra comun madre, disteso
per nove interi iugeri le membra:
grande avvoltoio con l'adunco rostro
morsecchiandogli il fegato immortale
e le viscere fertili a le pene
adocchia il pasto e gli abita entro il petto,
né a le fibre rinate è mai riposo, y^
A che parlar de' Làpiti, d' Issìone
e di Pirìtoo, sopra i quali penzola
un macigno caduco e par che cada ?
Risplendono aurei pie di geniali
alti letti e imbandite avanti agli occhi
vivande con regal magnificenza, — — -
ma la Furia maggior s'acquatta presso
e le mani accostar vieta a le mense
e con la face levasi e con l'urlo.
Quivi color che in vita ebbero in odio
i lor fratelli o percossero il padre
o frode ordirono al cliente o soli
il tesoro abbracciarono adunato
senza a' suoi farne parte (e più son questi)
o furon morti in adulterio od armi
seguitarono ingiuste e de' signori
la fede violarono, prigioni
aspettano la pena. Oh ! non cercare
200 ENEIDE
saper qual pena, o qual norma e fortuna
sommerse in pianto le misere genti.
Voltano altri un gran sasso, o stretti a' raggi
pendon di ruote: siede l'infelice
Teseo e in eterno sederà; per l'ombre
Flegia sventuratissimo a gran voce
grida a tutti: — Imparate da l'esempio
seguir giustizia e non spregiar gli Dei — .
Vendè per oro altri la patria e fiero
signor le impose, fé' leggi e disfece
a prezzo; il letto de la figlia assalse
altri e vietate nozze; ardiron tutti
nefanda colpa e fu Tardi r compiuto.
Se cento lingue in cento bocche avessi
e ferrea voce, non potrei le forme
tutte abbracciare de' misfatti, tutte
ad una ad una nominar le pene ».
Poi che di Febo la ministra annosa
ebbe detto così, « Su via, soggiunge,
il cam.mino e il proposito compisci.
Affrettiam. Fatte a' fuochi de' Ciclopi
veggo le mura e l'arco de la porta
ov'è prescritto a noi di porre il donow.
Aveva detto e pe' sentieri opachi
superano di pari l'intervallo
fino a la soglia. Vi s'accosta Enea,
ad un'acqua corrente si deterge
e davanti a la porta il ramo affigge.
Ciò fatto alfin, resa a la Dea l'offerta,
giunsero a' luoghi lieti ed agli ameni
LIBRO SESTO 201
verzieri de le selve fortunate
e a le sedi felici. Un ciel più largo
qui veste i campi di purpurea luce;
mirano un loro sole e loro stelle.
Ne l'erbose palestre esercitarsi /^
parte gode e lottare in fulva arena,
parte co' pie batte le danze e canta.
Anch'esso il Tracio sacerdote in lunga
veste a la melodia tempera il vario
suon de le sette voci, or con le dita
toccandole or col pettine d'avorio.
Quivi è di Teucro la progenie antica,
splendidi figli, generosi eroi,
a miglior tempo nati, e Ilo e Assàraco
e Bardano progenitor di Troia.
L'arme in disparte e i vuoti carri mira;
l'arme son fitte a terra, e sciolti e vaghi
pascolano i cavalli per il prato.
L'amor ch'ebbero vivi a' carri e a l'armi,
l'uso di pascer fulgidi cavalh,
li accompagna cosi dopo il sepolcro.
Ecco a destra e a sinistra ne discerne
a banchettar tra '1 verde altri o cantare
in coro giocondissimo peana
tra l'odorosa selva degli allori,
onde di sopra immenso in mezzo a selve
il fiume de 1' Eridano si volve.
Ivi la schiera che patì ferite
pugnando per la patria, e i sacerdoti
che vissero illibati, e i vati buoni
202 ENEIDE
che parole dicean degne di Febo,
o quelli che abbellirono la vita
trovando l'arti e quei che per ben fare
lasciarono di sé memori gli altri,
tutti una nivea benda hanno a la fronte.
A loro intorno sparsi la Sibilla
così si volse ed a Museo su tutti
(che intorno a lui è un popolo e il sogguarda
emergente con gli alti omeri) : « Dite,
fehci anime, dinne, ottimo vate:
Anchise ov'è? Qual region l'accoglie?
Per lui venimmo e traversammo i fiumi
paurosi de Y Èrebo ». L'eroe
breve così le rese la risposta :
« Nessuno ha luogo certo ; abitiam l'ombre
de' boschi e per i grembi de le rive
andiamo e i prati freschi di ruscelli.
Ma voi, se così porta in cuor l'affetto,
questo giogo varcate, e dopo questo
vi porrò per agevole sentiero ».
Disse e davanti mosse il piede, e i campi
luminosi da l'alto addita : quindi
abbandonano i vertici del colle.
Ma il padre Anchise in seno a la convalle
verde le raccolte anime che al sole
dovean salire con attenta cura
mirava e tutte andava rassegnando
de' suoi le schiere ed i nipoti cari,
lor fati e lor fortune, indoh e imprese.
LIBRO SESTO 203
Com'egli vide per i prati Enea
venirgl' incontro, coralmente stese
le due palme e gli corser per le guance
le lagrime e dal labbro le parole :
« Venisti aliìn, e la pietà che il padre
da te si attese vinse il cammin duro :
m'è concesso veder, figlio, il tuo viso
e rinnovare i soliti colloqui.
Questo io credeva, questo ebbi per certo
contando l'ore, né il mio cuor m'illuse.
Per quante io terre te, per quanti mari
corso ricevo ! tra perigli quanti
sbattuto, o figlio! come fui sgomento
che ti nocesse il regno de la Libia! •».
E quegli : « O padre, l'ombra tua, la tua
ombra dolente col mostrarsi spesso
mi sforzò di venire a queste sedi.
.Nel Tirreno è su l'ancore la flotta.
Porgi deh padre, porgimi la mano
e non sottrarti da l'amplesso mio ».
Così diceva e l'inondava il pianto.
Tre volte allor tentò de le sue braccia ,
cingergli il collo, tre l'ombra invan cinta
sfuggi le mani, pari a lievi venti
e similissima a un alato sogno.
Intanto Enea ne la riposta valle
vede in disparte un bosco e susurranti
selvatici virgulti e il leteo fiume
nuotare avanti a le placide case :
e come quando a la serena estate
204 ENEIDE
ne' prati in varii fior posano Tapi
od a candidi gigli errano intorno,
sembra tutta un ronzio quella campagna.
A la subita vista trasalisce
e le cose ricerca inconscio Enea,
quale fiume sia dunque e quali genti
colmino si molteplici le rive.
Il padre Anchise allor : « L'anime a cui
novelli corpi spettano per fato
a la corrente bevono di Lete
tranquille linfe e lunghe oblivioni.
Ben queste a te narrar e offrirti al guardo,
questa de' miei progenie annoverarti
da gran tempo desio, sì che tu meglio
goda con me de la raggiunta Italia ».
« O padre, e si dee credere che alcuna
anima fuor di qui risalga a l'aure
e torni a' lenti corpi ? oh le infelici
qual provano del dì si fiera brama? ».
« Io tei dirò, né ti terrò sospeso,
o fi„glio mio ».
Così riprende Anchise
e rivela per ordine le cose.
« Primieramente il ciel le terre i campi
fluidi e il lucente globo de la luna
e il titanio astro entro uno spirto nutre
e una mente pe' membri sparsa avviva
tutta la mole e al gran corpo si mesce.
La stirpe indi è degli uomini e de' bruti,
le vite degli alati e quanti mostri
LIBRO SESTO 205
sotto il marmoreo piano il mar produce.
Vivida una scintilla, una celeste
origine que' germi hanno, per quanto
nocivo non li grava il corpo e ottunde
terreno frale e moriture membra.
Di qui tema e desio, dolore e gioia
in lor, né sanno più scernere il cielo
chiusi ne l'ombra di carcere cieco.
E allora pur che con l'estremo raggio
la vita h lasciò, non tutto il male
per i miseri e non dileguan tutti
i corporei vizi, che profonda-
mente in copia ed a lungo concresciuti
forza è che abbian mirabile rigoglio.
Dunque sono da pene esercitati
e soddisfanno de' peccati antichi.
Sospese a la balia de' lie\à venti
s'espongono talune anime, ad altre
sotto ad un vasto vortice l'impressa
colpa si lava o la si brucia al fuoco :
soffriam ciascuno l'ombra sua.
Siam, quindi
avviati per l'ampio Elisio, e pochi
ne' Heti campi dimoriam_, se prima
un lungo dì, pieno del tem^po il giro,
non tolse la contratta macchia e puro
lascia il senso celeste e la favilla
di quel semplice soffio. Tutte queste,
poi che volser di mille anni la ruota,
presso al fiume di Lete evoca Iddio,
così che, fatte imimemori, di nuovo
206 ENEIDE
escan del cielo a riveder la volta
e rientrar s'invogKno ne' corpi ^>.
Poi ch'ebbe detto, iVnchise il suo figliuolo
e la Sibilla insiem conduce in mezzo
de l'adunata risonante turba,
e sale un balzo, onde potesse tutte
vedersi avanti quelle folte schiere
e de' vegnenti ravvisare i volti.
« Su via, qual gloria a la dardania stirpe
s'aspetti in avyenir, quali nepoti
da l'italico ceppo, anime chiare
che fioriranno un dì nel nostro nome,
dirò, te de' tuoi fati ammaestrando.
Quegli, il vedi, che giovine si appoggia
a un'asta pura, tien per sorte il luogo
più prossim_o a la luce e primo a l'aure
misto uscirà d'italo sangue, Silvio,
albano nome e tua tardiva prole,
che in selve a te longevo la consorte
Lavinia produrrà, re di re padre,
onde la nostra schiatta su la Lunga
Alba dominerà. Quel suo vicino
è Proca fregio de la teucra gente,
e Capi e Numitor e Silvio Enea
che nel nome ed insiem pietoso e prode
rinnovellerà te, come riceva
lo scettro d'Alba. Quali giovinezze!
e quanto, guarda, raggiano di forza !
ombrati di civil quercia le tempie.
LIBRO SESTO 207
Questi Xomento e Gabi e di Fidene
la città, questi Tarci collatine
ti porranno su' vertici e Pomerio
ed il Castello d' Inuo e Boia e Cora,
allora nomi, or terre senza nome.
Indi si aggiungerà compagno a Favo
Romolo di Mavorte, e a lui del sangue
di Assaraco Ilia sarà madre. Vedi
come sul capo eretti ha due cimieri
e il padre già di deità lo impronta ?
Ecco, figliuol, che per gli auspici suoi
adeguerà quella famosa Roma
l'impero al mondo e l'animo a l'Olimpo,
unica sette colli in sé cerchiando,
fiera di forti genitrice : quale
innanzi vien la berecintia madre
per le frigie città turrita in cocchio,
lieta del parto degli Dei, ben cento
abbracciando nepoti e tuttiquanti
dominatori etemi de le sfere.
Or qua piega gli sguardi, a questa gente
de' tuoi Romani. È qui Cesare e tutta
la prosapia di Giulo destinata
sotto l'ampia ad uscir volta del cielo.
£ questi, è l'uorn che a te pronietterg_p_di
sì spesso, Augusto Cesare, germoglio
del Divo, che l'età de l'oro al Lazio
rifarà per le terre_ un dì regnate
da Saturno, e dilaterà l'impero
sui Garamanti e gì' Indi : oltre le stelle
208 ENEIDE
giace la terra, oltre le vie de Tanno
e del sol, ove regge aerio Atlante
su gli omeri il girar degli astri ardenti.
Per l'avvento di lui fin d'ora il caspio
regno trema e il meotico paese
di responsi divini, e perturbate
del settemplice Nilo erran le bocche.
Né Alcide in vero tanto mondo corse, ^
benché ferì la cerva pie -di bronzo
e tranquillò le selve d'Erimanto
e fé' tutta tremar Lerna con l'arco,
né il trionfante Libero che volge
le redini di pampino guidando
da Nisa giù le apparighate tigri,
E dubitiamo ancor di propagare
il valor con le imprese, o v' è paura
che ci vieti posare in suol d'Ausonia?
Ma là presso chi è, cinto de' rami
de l'olivo, che porta i sacri arredi?
Conosco il crine ed il canuto mento
del re romano che la città prima
con leggi fonderà, mandato al sogho
da la piccola sua povera Curi.
Gli sottentrerà Tulio, e la quiete
scoterà de la patria, gli allentati
cuori a l'armi movendo e le falangi
già da' trionfi disavvezze. Il segue
Anco più baldanzoso e che già troppo
mostra goder de l'aure popolari.
I re Tarquini e l'anima superba
LIBRO SESTO 2O9
vuoi pur vedere e del vendicatore
Bruto i recuperati fasci ? Ei primo
di console V impero e le severe
scuri riceverà; padre i figliuoli,
a nuova guerra intesi, per la bella
libertà chiamerà sotto la pena.
Infelice ! per quanto i discendenti
l'ammireranno : vincerà l'amore
di patria e l'infinito ardor di gloria.
I Deci e i Drusi ancor discosto guarda
e Torquato severo per la scure
e Camillo tornante co' vessilK.,^^^
Quelle due poi che in eguali arme vedi
splendere ora concordi anime a l'ombra,
oh qual tra loro dolorosa guerra,
sorte che siano al lume de la vita,
quante susciteranno e schiere e stragi/^
da' varchi alpini il suocero e da l'arci
di Moneco scendendo, e fatto forte
il genero d'opposti orientaU!
No, figli, il cuor non avvezzate a guerre
sì fiere, e non volgete il bel vigore
contro il sen de la patria. E tu deh! primo
cessa, che da l'Olimpo origin prendi,
tu getta l'armi sangue mio.
Quei spingerà su l'alto Campidoglio
vincitor di Corinto la quadriga,
insigne per gli spenti Achivi. Quegli
Argo e Micene agamennonia ed esso
abbatterà l' Eacide disceso
210 ENEIDE
dal fortissimo Achille, vendicando
gli avi di Troia e il tempio di Minerva.
E in silenzio chi te, grande Catone,
o lascierebbe te, Cosso ? o di Gracco
la prole, o i due, due fulmini di guerra,
Scipìadi, strage de la Libia, o il forte
in povertà Fabrizio, o te, Serrano,
che semini il tuo solco? Ove me stanco,
Fabii, traete? Il Massimo tu sei,
solo che salvi a noi tardando Roma. /
Altri più molle getteranno il bronzo
spirante, il credo io ben, vivi trarranno
dal marmo i volti; a perorar le cause
migliori, a disegnar con verga il corso
degli astri, a dire il sorger de le stelle:
tu con l'impero i popoli governa.
Romano, queste saran l'arti tue,
ed a la pace norma dà, clemenza
verso i sommessi e debellar gli alteri ».
Così diceva Anchise, e agli ammiranti
soggiunge : « Vedi come vien Marcello
superbo de le spoglie opime e a tutti
vincitore sovrasta. In gran fortuna
ei terrà salde le romane cose,
prostrerà cavalcando i Peni e il Gallo
ribelle, ed a Quirino padre il terzo
da' suoi nemici appenderà trofeo ».
Allora Enea (che gli vedeva insieme
un giovin bello di sembianza e d'armi,
LIBRO SESTO 211
ma con la fronte scura e gli occhi bassi) :
« Padre, e quegli chi è che sì accompagna
l'eroe ? suo figlio o alcun de l'alta gesta
de' nipoti ? Qual premer di seguaci
intorno gh è ! quanta grandezza in lui !
Ma triste notte gli ra\'\''olge il capo ».
Il padre Anchise allor con lagrimose
cigha « Oh, dice, fighuol, non domandare
un immenso rammarico de' tuoi.
I fati al mondo il mostreranno solo
e più noi patiranno \t.vo. Troppo
forte a voi parve la romana stirpe,
o Celesti, se fermo avea tal dono.
Quanti sospiri d'uomini quel Campo
spargerà ne la gran città di Marte !
e quale funeral, Tebro, vedrai
oltre scorrendo al tumulo recente!
Non giovinetto de l'iUaca gente
a sì alto sperar leverà gh avi
latini, né già mai d'altro germogUo
avrà tal vanto la romulea terra.
Oh sua pietà ! sua fede antica ! e invitta
destra a la guerra! Impunemente a lui
armato non sarebbe occorso alcuno,
sia che pedone entrasse in campo, o sia
che a spumoso destrier pungesse i fianchi.
Ahi! misero fanciullo, ove tu possa
sforzare i fati, tu sarai Marcello.
Lasciatemi che gigli a piene mani,
purpurei fiori, sparga, e ahnen di questo
nembo l'anima avvolga del nipote,
212
ENEIDE
con inane tributo ». Così vanno
per quella . intorno region ne' vasti
campi de l'aria e passano ogni cosa.
Poi che Anchise per tutto addusse il figlio
e l'animo gli accese de l'amore
de la sorgente fama, indi le guerre
che avrà gli narra, il popolo laurente
e la città gli mostra di Latino,
e come ogni cimento o sfugga o sfidi.
Sono del Sonno due le porte, l'una
è, dicono, di corno, onde si dona
agevole a le vere ombre l'uscita,
lucida l'altra e candida di avorio,
ma falsi al ciel ne invia sogni l'Averno.
Poi ch'ebbe allor tali discorsi Anchise
al figho volti e a la Sibilla, e fuori
messiU per l'eburnea porta, quegli
a le navi s'affretta e a' suoi si rende.
Poi costeggiando al porto di Gaeta
dirige il solco: l'ancora da prora
si getta in mar; stanno le poppe a riva.
LIBRO SETTIMO
Tu pure a' lidi nostri eterna fama,
o nutrice d'Enea, desti morendo,
Gaeta: Tonor tuo tien queUa spiaggia
ancora, e Tossa, se v'è gloria in questo,
segnano un nome ne la grande Esperia.
Ma il pio Enea, fatte le giuste esequie
ed innalzato il tumolo, che l'onda
posava, apre le vele e lascia il porto.
Spirano l'aure al veleggiar notturno,
bianca la luna lo seconda, e splende
sotto il tremolo lume la marina.
Radono prima il litoral circeo,
ove del Sol la ricca figlia i boschi
inaccessi sonar fa de l'assiduo
canto ed accende a rischiarar la notte
ne le stanze superbe l'odoroso
cedro, mentr'ella le sottih tele
col risonante pettine percorre.
Indi un iroso fremer di leoni
214 ENEIDE
ribelli a' ceppi e tra '1 buio ruggenti
de l'alta notte, un furiar ne' chiusi
di setolosi porci e d'orsi, e lungo
di spaventosi lupi un ululare:
cui da l'aspetto d'uomini la dea
Circe crudele co' possenti succhi
in ceffi e schiene tramutò di belve.
Perché non offendesse i pii Troiani
simil portento ivi approdando, ed essi
non toccasser la rea terra, Nettuno
le vele empì d'amico vento e lievi
oltre le addusse i ribollenti guadi.
E già s'imporporava il mar di raggi
e da l'alto fulgea bionda l'Aurora
su la biga di rose, allor che l'aure
posarono ed ogni ahto ad un tratto
die giù, stentando in lento marmo i remi.
Ed ecco Enea dal mare un'ampia selva
discerne. Ameno in mezzo a quella il Tebro
biondo di sabbia co' rapaci gorghi
in mar prorompe. Molti intorno e sopra
ucceUi, usi del fiume al greto e al letto,
l'aer di canti e i rami empiean di voh.
Egh comanda a' suoi di piegar via
e a la terra voltar le prore, e lieto
entra nel fiume sotto il verde rezzo.
Orsù ch'io narri de l'antico Lazio
i regi, Èrato, i tempi ed il suo stato,
come prima l'esercito straniero
approdò con la flotta a' lidi ausonii
LIBRO SETTIMO 215
e quel primo richiami ardor di guerra.
Tu, dea, tu ispira il vate. Orride guerre
dirò, dirò le schiere e gli animati
principi a strage e la falange etrusca
e tutta accolta sotto l'armi Esperia.
Maggior di cose un ordine mi nasce,
maggiore opera avvio.
Placide in lunga
pace le terre e le città reggea
grave omai d'anni il re Latino : nato
lui di Fauno sappiamo e di Marica
laurente ninfa; Pico a Fauno padre,
ed ei te vanta genitor. Saturno;
l'ultimo autor tu de la gente sei.
Per divin fato non avea Latino
prole virile, in sul primo fiorire
mancatagli. Restava a sì gran casa
sola una figlia, già matura a nozze,
in piena età di sposa. Molti a lei
dal gran Lazio aspiravano e da tutta
l'Ausonia: ma davanti a tutti gli altri
il bellissimo Turno, illustre d'avi,
e lui genero farsi la regina
sollecitava con ardente amore :
ma è contro il ciel con paurosi segni.
Era nel mezzo a l'alta reggia un lauro,
di santa fronda, e molti anni con tema
serbato, cui dicean Latino padre
trovato aver e sacro a Febo, in porre
fondamento a la rocca, e aver da quello
2l6 ENEIDE
dato agli abitator nome Laurent! .
La vetta de l'alloro, oh maraviglia!,
per il sereno stridule giungendo
cinsero l'api e, i pie tra lor connessi,
lo sciame si fé' grappolo ad un ramo.
Subito l'indovino « Uno straniero,
grida, vediam venir, da quelle parti
a questa parte, e dominar la rocca ».
Inoltre, in quella che con pure faci
ravviva l'are, e al genitor da canto
sta la vergin Lavinia, ecco, ella parve
a' lunghi crini, orrori, prendersi fuoco
e bruciar crepitando ogni ornamento,
accesa le regali chiome, accesa
la corona di perle preziosa;
poi fumigante e avvolta in fulva luce
sparger l'incendio per la reggia tutta.
Ciò valse a gran miracolo e terrore,
come presagio che verrebbe insigne
e di fama e di fati essa, ma grande
apparecchiava al popolo una guerra.
Pensoso de' portenti il re ricorre
a l'oracol di Fauno genitore
fatidico, e consulta i luchi sotto
l'alta Albunea, il maggior fonte de' boschi
che in sacro suono scaturisce e spira
di tra l'ombra mefitici vapori.
Di qui r Itale genti e tutta Enotria
ne le dubbiezze lor chiedon responsi;
qui poi che addusse offerte il sacerdote
LIBRO SETTIMO 217
e SU le pelli de T uccise agnelle
per la notte silente si distese
desiando dormir, mirabilmente
a torme vede vagolar fantasmi
e varie voci ascolta e del colloquio
degli Dei gode e volge la parola
a TAcheronte del profondo Averno.
E quivi allor esso Latino padre
cento per un responso offria di rito
lanigere bidenti e si giacca
su' velli de le lor terga. Ad un tratto
dal cuor del bosco voce gli rispose :
« Non voler la figliuola ad uom latino
sposare, o mia progenie, e non fidarti
a' talami di qui: da fuor verranno
generi, che per nozze il nostro nome
portino in cielo, e di tal ceppo scesi
i nepoti, per quanto stende il corso
tra i due Oceani il Sol, sotto i lor piedi
tutto volgersi e reggersi vedranno ».
Questo responso ammonitor che il padre
Fauno gli die per la silente notte
segreto in sé no '1 chiude esso Latino,
ma intorno intorno la volante Fama
per l'ausonie città l'avea diffuso,
quando la gente laom.edontea
al verde littoral legò sue navi.
Enea co' primi duci e il vago Giulo
postisi sotto un verde albero grande
dan mano a le vivande, a cui su l'erba
2l8 ENEIDE
sottopongo!! focacce di fnimento
(Giove ciò suggeriva) ed hanno colmo
il desco cereal di frutti agresti.
Or quando, consumate l'altre cose,
li fece la penuria del mangiare
volgere a la sottil cerere i denti
e con la mano e le mascelle audaci
il rotondo spezzar pane fatale
e non ne risparmiare i larghi quarti,
a Oh, mangiam fin le mense » esclama Giulo
scherzando, e nulla più. Quella parola
fu la fin de' travagh; in su le labbra
il padre glie la colse e nel suo cuore,
tutto compreso de l'iddio, la chiuse.
« Salve, o da' fati a me dovuta terra,
subito esclama, e voi fidi salvete
o Penati di Troia: è qui la casa,
questa è la patria. Or lo rammento : il padre
Anchise mi lasciò tal detto arcano:
— Quando te, figho, a ignoto suol portato
la fame sforzerà, senza più cibi,
a divorar le mense, allora spera
ivi stanco le case, ivi pon mano
a fabbricare ed a guernir la cerchia — .
Questa era quella fame; era l'estremo
che terminasse i nostri danni.
Alacri dunque col novello sole,
per varie vie dal porto, investighiamo
quali i luoghi e la gente, ove le mura.
Or libate le tazze a Giove, il padre
Anchise supphchevoU invocate,
LIBRO SETTIMO 219
e riponete su le mense il vdno ».
Detto ch'egli ebbe, d'un frondente ramo
si corona le tempie e prega il genio
del luogo e, prima tra gli Dei, la Terra,
le Ninfe, i fiumi non per anche noti,
poi la Notte e i suoi segni omai nascenti,
e l'idèo Giove in ordine e la Frigia
madre invoca ed entrambi i genitori
suoi nel Cielo e ne l'Èrebo. Tre volte
allora il Padre onnipotente chiaro
tuonò da l'alto e fé' vedere un nimbo
scosso per l'aria di sua mano acceso
tutto di raggi luminosi e d'oro.
La voce va per le troiane schiere
che venne il giorno di fondar le mura
destinate. Gareggiano a riporre
le mense e lieti de l'eccelso augurio
collocano e coronano le tazze.
Quando l'altra mattina illuminava
del primo sole il mondo, in varie vanno
parti esplorando la città, il paese,
il popolo : quest' è il ruscel Numico
e quello il fiume Tevere, qui stanza
hanno i forti Latini. Allora il figho
d'Anchise, di ciascun grado trascelti
cento oratori, a la città regale
li avvia, tutti velandosi de' rami
di Pallade, a recare al re presenti
e per i Teucri chiedere alleanza.
Senza indugio si partono al suo cenno
220 ENEIDE
e camminano rapidi. Esso in terra
segna un solco di mnra, e fonda e innalza,
ed a le prime fabbriche sul lido,
come ad un campo, merli e vallo cinge.
Già, percorsa la \da, quelli scorgevano
alte le torri de' Latini e i tetti
e a le mura appressavano - là fuori
fanciulli e gioventù nel primo fiore
s'addestrano a domar cavalli e carri
nel campo, tendon con le braccia i forti
archi e vibran le flessili saette,
gareggiando nel correre e nel colpo -,
quando a cavallo un messagger precorre
a riportare al vecchio re l'arrivo
d'uomini in veste sconosciuta grandi.
Egli comanda entro le sogHe addurli
e in mezzo si sede sul trono avito.
Sopra cento colonne augusto ed ampio
sorse, già reggia del laurente Pico,
a sommo la città cinto il palagio
di selva e de la sacra ombra degli avi.
Quivi assumer lo scettro e alzar le verghe
inizio era de' re, fu quel recinto
la loro curia, qui la sede a' sacri
banchetti, ove, l'a-riete immolato,
solean sedersi a lunghe mense i padri.
V'erano ancor d'antico cedro sculti
in ordine i prischi avi, in pie ne l'atrio.
Italo e Sabin padre, de la vigna
LIBRO SETTIMO 221
cultor, che anco in figura ha la sua ronca,
Saturno vecchio ed il bifronte Giano,
e gli altri originari re che in guerra
per la patria soffersero ferite.
Molte inoltre pendeano armi da' sacri
stipiti, cocchi in campo presi ed azze,
pennacchi d'elmi, ben sbarrate porte,
e frecce e scudi e rostri svelti a navi.
Esso, col quirinal lituo, di breve
tràbéa mantellato, e con l'ancile
ne la sinistra, si sedeva Pico,
domxator di cavalli. Lui la sposa
vinta di vogha Circe con la verga
d'oro percosse e il tramutò con l'erbe,
uccello il fé' di colorite piume.
Nel cuor di tale degli Dei recinto
Latino assiso e nel paterno seggio
chiama i Troiani entro le soglie e a loro
così si volge con benigno labbro :
« Dardani, dite (già non siamo ignari
de la città né de la stirpe e udimmo
del vostro navigar), che domandate?
Qual cagion, qual bisogno al lido ausonio
portò per tanto azzurro i vostri legni?
Se per error di via, se per burrasche,
soHti casi a chi veleggia in alto,
entraste il fiume e vi posate in porto,
non vi spiaccia esserne ospiti e i Latini
conoscere, la gente di Saturno,
non per leggi ma giusta per amore,
222 ENEIDE
e fida a l'uso de l'antico iddio.
Oh! mi rammento (oscuran gli anni il fatto)
narrar così gli Aurunci vecchi: nato
in questa terra Bardano si spinse
insino a le città frigie de V Ida
ed a la tracia Samo, or Samotracia.
Di qui partito, da l'etrusca sede
di Còrito, ora lui l'aurata reggia
accoglie e bea de lo stellato cielo
e sugH altari un nume a' numi aggiunge )>.
Aveva detto ; IHoneo rispose :
« 0 re, di Fauno egregia stirpe, avverso
nembo per mar non ci sospinse a' vostri
hdi né stella ci sviò né sponda :
pensier, desio tutti ci porta a questa
città, da un regno espulsi onde il più grande
già non si offriva a l'oriente sole.
Da Giove è il ceppo, lui progenitore
vantano i Dardani, ed il re, che anch'esso
da la schiatta suprema esce di Giove,
Enea troiano a' lari tuoi ne invia.
Quanta tempesta la cnidel Micene
rovesciasse a infierir ne' campi idèi,
per che fati cozzassero i due mondi
d' Europa e d'Asia insiem, il sa fin quegli
cui sul cerchiante Oceano la terra
ultima apparta o a l'altre quattro in mezzo
la plaga tiene del soverchio sole.
Tratti da tal diluvio a tanto mare,
una piccola sede agli Dei patrii
LIBKO SETTIMO 223
imploriamo ed un lido senza danno
con libera per tutti e l'acqua e l'aria.
Disdoro al regno non sarem, né poco
avrete onor né breve del gran fatto
riconoscenza; mai dolersi Ausonia
dovrà che accolse Troia in grembo: il giuro
per i fati d'Enea, per la sua destra
luminosa di fede e di prodezza.
Molti popoli già, molte noi genti
(non ispregiarne, se rechiam spontanei
bende tra mano e supplici parole)
chiedean, voleano unire a sé; ma noi
spinse a cercar le vostre terre il cielo.
Di qui Dardano nacque e qui ritorna;
e col cenno sovrano Apollo il preme
verso il tirreno Tevere e la sacra
sorgente del Numico. Inoltre queste
poche reliquie del primiero stato
t'offre, sottratte da l'ardente Troia.
In quest'oro hbava il padre Anchise
a l'are; la real pompa di Priamo
questa era, quando a' popoli adunati
dava legge, e lo scettro e la tiara
ed opra de le Ilìadi il manto ».
Tra questo dir d'Ilioneo, Latino
tien fisso il volto immobilmente al suolo
gl'intenti occhi girando, e non lo tocca
la ricamata porpora e lo scettro
così di Priamo, come il fa pensoso
la sorte maritai de la figliuola;
224 ENEIDE
e medita in suo cuor del vecchio Fauno
i presagi: questo essere il promesso
dai fati, di stranier suolo partito,
genero e al regno con eguali auspici
chiamato; a questo nascitura prole
esser concessa, di valore egregia,
che si assoggetti vigorosa il mondo.
Lieto prorompe al fin : « Compian gh Dei
la vostra impresa ed i responsi loro :
avrai, Troiano, quel che brama. E i doni
ho in pregio. Non a voi, Latin regnante,
Tubertà de la florida campagna
né l'opulenza mancherà di Troia.
Sol ch'esso Enea, se ha tal desìo di noi,
se ospite nostro e socio esser gh tarda,
venga né sfugga la presenza amica;
segno avrò d'amistà toccar sua destra.
Or voi tornate al re co' miei mandati.
Una figliuola ho io, che ad uom di nostra
gente sposare non consenton voci
fuor dal paterno santuario uscite
e portenti moltissimi dal cielo.
Di suol straniero generi verranno
- tanto predicono aspettarsi al Lazio -,
per il cui sangue il nostro nome agh astri
voU. Or questo l'atteso esser de' fati
penso e, se vero il cuor favella, bramo ».
Si dice il padre, e tra i cavalli sceglie:
splendidi se n'ergeano trecento
ne' presepi alti : per ciascun de' Teucri
LIBRO SETTIM© 225
sùbito vuol si adducano i corsieri
di porpora guerniti e di ricami ;
aurei collari pendono sui petti ;
coperti d' oro, e fulgid' oro in bocca
mordono; e per Enea eh' è lungi un cocchio
e d'etereo sangue una pariglia
che soffia fuoco da le nari, scesi
di quella^ razza che, di furto al padre,
spuria si procurò la scaltra 'Circe
sottoponendo una mortai polledra.
Con tali doni e detti di Latino
fanno ritorno eccelsi su' cavalli
gli Eneadi e con pacifico messaggio.
Ed ecco da l' inachia Argo tornando
l'aspra Donna di Giove il ciel col carro
teneva, e lieto Enea, Meta la fiotta
de' Dardani per l'etere lontano
distinse fin dal siculo Pachino.
Già case edificare, assicurarsi
fuor de le navi già li vede a terra;
e s'arrestò trafitta di dolore.
Poi prorompe così scotendo il capo :
« Razza odiosa ! e a' fati miei contrario
fato de' Frigi! Del Sigeo ne' campi
caddero ? o presi fur quando fur presi ?
o Troia in fiamme seco U consunse?
Per mezzo de' nemici e degl'incendi
trovarono la via. Certo il mio nume
stanco d'odio si giace ed io posai
ben soddisfatta ! Anzi implacata volli
Albini - Eneide r-
220 ENEIDE
seguitarli per l'onde anche in esiglio
e i fuggiaschi sfidar per tutte l'acque.
Vane le forze in lor del ciel, del mare.
Le Sirti o Scilla che mi valse e il gorgo
di Cariddi? Entro al desiato letto
già del Tebro s'acquattano, incuranti
del pelago e di me.
Ben potè Marte
de' Làpiti stremar la gente fiera,
esso il Dio padre di Diana a l' ire
concesse la vetusta Calidone;
qual tanto orrore i Làpiti mertando
o Calidone? Ma di Giove io l'alta
consorte, che in furor nulla intentato
seppi lasciar, ch'ebbi ricorso a tutto,
sono vinta da Enea.
Che se il mio nume
assai grande non è, senza esitare
implorerò qual sia dovunque nume :
se il Ciel non posso, moverò l' Inferno.
Non sarà dato, e sia, dal latin regno
respingerlo, e gli è fissa per destino
Lavinia moglie: ma protrarre in lente
dimore ben si può sì grandi eventi,
ma ben si può de' due re logorare
i popoli. A cotal prezzo de' suoi
siano genero e suocero congiunti.
Sangue troiano e rutulo per dote,
vergine, avrai, e a pronuba Bellona.
Non d'una face la Cisseide incinta
partorì sola fiamme nuziali :
i
LIBRO SETTIMO 11"]
tale è il suo nato a Venere, novello
Paride anch'esso e nova infausta teda
al rinascente Pergani^
oi»j detto,
terribile calò verso la terra.
Da la dimora de le crude iddie
tenebrosa d'Averno Alletto chiama
contristante, che l'aspre guerre ha care,
l'ire l'insidie e le nocenti accuse.
Fin Fiuto padre l'odia, odiano il mostro
le tartaree sorelle : in tante ree
forme si cangia, tanti in suo squallore
porta serpenti. Or a costei Giunone
aggiunge sprone di parole tali :
(^ Consacra, o vergin figlia de la. Notte,
una fatica a me, sì che non cada
il nome e l'onor mio, né a parentado
possan gli Eneadi circuir Latino
né si usurpare italo suol. Tu puoi
unanimi fratelli armare in guerra,
e le case turbar d'astio; flagelli
a' tetti e faci funebri avventare;
hai mille nomi, mille arti a rovina.
Scuoti il fecondo sen : la pattuita
rompi amistà, cause di guerra intreccia;
armi la gioventù gridi e le afferri r^.
De' gorgònei veleni Alletto pregna
al Lazio prima e a l'alte case è volta
del sir laurente e invade le silenti
soglie d'Amata, che il venir de' Teucri
228 ENEIDE
e gl'imenei di Turno agitano arsa
di femminile affanno e di rancore.
Da' cernii capelli a lei la dea
un angue scocca per il seno al cuore,
onde la casa ella in furor sconvolga.
Quel tra le vesti e i molli seni lieve
guizza e non tocca, e inavvertito infonde
il viperino spirito a la folle.
Al collo le si fa monile d'oro
il gran serpe, si fa prolissa benda
e lega il crine e per le membra scorre.
Mentre il primo contagio insinuato
del viscido veleno i sensi tenta
e reca a l'ossa l'ardor suo, ma tutta
non anche in petto divampò la fiamma,
ella parlò rimessa e come donna
con molto lagrimar sopra il connubio
frigio de la figliuola. « E si dà sposa
agli esuli Troiani, o re, Lavinia?
né pietà de la figlia e di te stesso,
né de la madre hai tu, che al primo vento
qui lascierà quel perfido ladrone
prendendo il mar con la fanciulla? A Sparta
non entra in questo modo il pastor frigio
ed Elena ledèa portasi a Troia ?
Ove la pia tua fede ? ov'è l'antica
cura de' tuoi ? a che fu tante volte
porta tua destra al consanguineo Turno?
Se un genero a' Teatini si richiede
straniero, e questo hai fermo e t'urge il cenno
di Fauno padre, qual città non serve
i.fHi^) >i-:Tfi\i<) 229
libera a' nostri scettri, io quella estimo
straniera e che cosi dican gli Dei.
Anche Turno, chi cerchi la radice
prima, fu nato da' progenitori
Inaco e Acrisie in grembo di Micene ^>.
Come con tali detti invan tentando
vede Latino immobile, e il serpente
furiai penetrato a le midolle
tutta omai la possiede, oh ! V infelice
allor, a orrende visioni in preda,
per l'immensa città corre invasata.
Qual va sotto a la sferza la fugace
trottola, cui pe' vuoti atri in gran giro
volenterosi cacciano i fanciulU,
vìa. la trottola va sotto a la sferza
in curve scorse ; i giovinetti visi
le pendon sopra curiosi, il bosso
ammirando volubile, e la frusta
ne ravviva il vigor : impetuosa
non men per mezzo le città è rapita
e i popoli feroci. Indi a le selve
fuor, simulando una baccante invasa,
a più d'eccesso tratta e di follia,
vola, e la figlia tra i frondosi monti
cela, per impedir, per indugiare
il talamo e le tede a' Teucri. Freme :
« Evoé, Bacco ! », solo te gridando
de la vergine degno, e per te quella
stringere i molli tirsi, a te danzare
in coro, sacre a te pascer le chiome.
La fama vola, e di furore accese
230 KXlilDK
preme tutte le madri eguale ardore
a nova stanza: lasciano le case;
danno le chiom.e su le spalle al vento,
empiono altre di tremuli ululati
l'aria, cinte di pelli, in man le verghe
pampinose. Essa in mezzo a tutte ardente
regge un brancon di pino in fiamme e canta
di Lavinia e di Turno l'imeneo,
sguardando con sanguigni occhi, e ad un tratto
rauca prorompe : « Udite olà, dovunque,
madri latine; se nel cuor vi resta
affetto pio de l'infelice Am^ata,
se amor vi punge del materno dritto,
sciogliete al crin le bende, e con me fate
l'orgia )\ Così via per le selve e gli ermi
luoghi ferini Alletto la regina
con gli stimoli bacchici travolge.
Poi che le parve il furor primo assai
aver desto ed il senno sovvertito
e di Latin tutta la casa, tosto
indi la triste dea su l'ali fosche
va de l'audace Rutulo a le mura,
città eh' è fama Danae fondasse
per acris'ionèi coloni, addotta
da impetuoso Noto. Àrdea fu detto
il luogo un di dagli avi, ed Ardea serba
ora il gran nome, ma la sua fortuna
fu. Ne la reggia per la nera notte
allor Turno posava a mezzo il sonno.
Spogliasi Alletto l'orror suo di Furia
LIBKO SETTIMO 23 1
e in sembianze senili si trasforma;
solca di rughe la rea fronte, e assume
una canizie con la benda e il ramo
de l'olivo ; vien Càlibe, l'annosa
sacerdotessa al tempio di Giunone,
ed apparisce al giovine dicendo :
<( Turno, tante fatiche sparse al vento
sopporterai e che il tuo scettro sia
trasferito ne' Dardani coloni ?
Le nozze il re, la dote a sangue compra
ti nega ; stranio successor si chiede.
Or va, t'offri, deriso, a steri! rischio;
va, vinci le falangi etrusche, e copri
de la pace i Latini. Essa ciò dirti
chiaro, che in sonno placido giacevi,
m'ingiimse la Saturnia onnipotente.
Comanda or dunque fiero a' prodi armarsi
e prorompere in guerra, e i frigi duci,
che son posati lungo il fiume bello,
e le dipinte chiglie incendia. Il vuole
la forza grande de' Celesti. Ed esso
il re Latino, dove non prometta
di conceder le nozze e stare al detto,
s'avvegga e al fine Turno assaggi in campo ».
Cosi, la profetessa deridendo,
a la sua volta il giovine ripiglia :
*( Che una flotta le foci entrò del Tebro,
non m'è, come tu pensi, annunzio novo.
Non crearmi spaventi : e la dia Giuno
ha memoria di noi.
Ma la vecchiezza squallida e insensata
1:?>,H1UK
te di vani pensieri, o madre, affanna
e tra l'armi de' re di falsa tema
profetessa t' illude. Oh ! cura il tempio
tu e i devoti simulacri: ai prodi
stian guerra e pace, che la guerra è loro ».
A tali detti Alletto arse in furore;
e al giovine tra '1 dir prese improvviso
tremito i membri e si sbarraron gli occhi,
di tante serpi sibila 1' Erinni,
e tal si manifesta in sua figura.
Poi con fiammanti obliqui sguardi lui
così perplesso e che volea più dire
respinse, due rizzò serpi sul crine,
squassò il flagello e fremebonda aggiunse :
« La squallida son io che l'insensata
vecchiezza tra l'armi de' re di falsa
tema illude. Qui guarda : da la casa
de le crude sorelle io vengo, e in mano
ho guerra e morte ^).
Scagliò, ciò detto, al giovine una face
e in cuor gli fìsse la fumosa fiamma.
Rompe il suo sonno gran timor, profuso
gli va sudor per l'ossa e la persona.
Armi freme furente, armi ricerca
presso il letto e per casa ; si disfrena
l'amor del ferro e la demenza atroce
de la guerra, insiem l' ira : così quando
con romoroso strepito s'accosta
vampa di stecchi al gorgogliante rame
e sussultano l'acque, entro è un furore
fumante e sopra un ridondar di spume,
LIBKO SETTIMO
né l'umor si contien, vapora e vola.
Dunque, la pace perturbata, ei manda
i precipui de' prodi al re Latino
volendo Tarmi apparecchiarsi, Italia
difendere, il nemico ricacciarne :
lui a' Teucri venir buono e a' Latini.
Poi che sì disse ed invocò gli Dei
a' voti suoi, s'esortano a vicenda
i Rutuli a la guerra, insiem commossi
da quel fulgor di giovenil bellezza,
dagli avi re, dal ben provato braccio.
Mentre i Rutuli Turno empie d'ardire,
lo stigio voi dirizza Alletto a' Teucri.
Spiato il luogo con malizia nova
dove sul lido il vago Giulo in caccia
le fiere urgea, la vergin di Cocito
sùbita bramosia mette a le cagne
recando loro al fiuto un noto odore,
che d'un cervo balzassero su Forme ;
prima cagion che fu de l'aspre pugne
ed a guerra infiammò gli animi agresti.
Bellissimo era e di gran corna un cervo,
cui di Tirro i figliuoli avean rapito
da la poppa materna e il nutrian essi
e Tirro pur, eh 'è degli armienti regi
e di largo terren capo e custode.
Mansuefatto Silvia la sorella
con ogni cura ornavalo tessendo
a le corna ghirlande e il pettinava
e lavava a la limpida sorgente.
2. U KXEIDE
Quello, dolce a la mano e de' padroni
uso a la mensa, errava per le selve,
poi da sé stesso a la sua nota casa,
quantunque a tarda notte, ritornava.
Lui lungi errante le agognanti cagne
di Giulo impaurirono, nel mentre
che veniva secondo la corrente
a temperar sul verde greto il caldo.
Desso Ascanio, allettato a sì bei colpo,
gli dirizzò dal curvo arco uno strale ;
né il dio non l'assistè, sì che fallisse,
ma sibilando la saetta venne
per il ventre a passarlo e per i fianchi.
Ferito rifuggì dentro il recinto
il Silvestro ed entrò gemendo al chiuso,
e sanguinando tutte di lamento
le case riempia com'un che implora.
Prima Silvia sorella, percotendo
a ie braccia le palme, aiuto chiede
ed alto chiama i duri agricoltori.
Quelli (che la pestifera nemica
cova ne' boschi) accorrono improvvisi ;
chi d'uno spiedo armato arso a la cima,
chi di mazza nodosa ; arme fa l' ira
di ciò che ognun nel primo impeto afferra
Tirro le torme aduna, come in quattro
una quercia co' cunei allor spaccava,
con pigho atroce la bipenne alzando.
La fiera dea, da le vedette il tempo
al nuocer colto, in vetta a le capanne
sobbalza e dal comignolo più alto
L!KR-> SETTI.\rO
squilla il segnale pastoral, nel curvo
corno sforzando la tartarea voce;
onde tosto tremò quant'era il bosco
e le valli echeggiarono dal fondo :
udì lontan di Trivia il lago, bianca
la Nera udì de la sulfurea vena
e i fonti del Velino, e paurose
strinsero al seno i pargoli le madri.
Pronti a la voce allor, dovunque il fiero
segno squillò, concorrono i rubesti
agricoli con l'armi d'ogni parte;
e la troiana gioventù non meno
vien d'aiuto ad Ascanio in campo aperto.
Steser le file. Non agreste mischia
è più di baston duri e pali aguzzi :
col bitagliente ferro è la tenzone,
e atra e ampia e ispida la messe
de le spade; rifulgono i metalli
dal sol percossi e sprizzan lampi in aria :
così quando a imbiancar principia il mare,
a poco a poco si solleva e ondeggia,
e sconvolgesi poi dal fondo al cielo.
Qui su la prima schiera Aimone, il figlio
maggior di Tirro, di stridente dardo
cade; lo colse la ferita in gola
e col sangue gli chiuse de la voce
l'umida strada ed il sottil respiro.
Molti intorno con lui caddero, e il vecchio
Galeso, m.entre s'offre a trattar pace,
giusto che fu per eccellenza e un tempo
ricchissimo d'ausonie terre ; cinque
2^b ENEIDE
gli ritornavan greggi e cinque armenti,
e lavorava il suo con cento aratri.
Mentre ne' campi la battaglia pende,
la dea che in pugno ha sua promessa, intrisa
già di sangue la guerra e così strette
le uccisioni de la prima pugna,
lascia r Esperia e pe' convessi cieli
dice con grido di trionfo a Giuno :
« Eccoti scatenata una discordia
a guerra grande : or di' che in amicizia
si leghino e patteggino alleanze,
poi che d'ausonio sangue i Teucri aspersi.
Altro farò se il tuo voler m'è chiaro :
trarrò nel foco le città vicine
co' parlari, attizzando il folle amore
di Marte ; spargerò l'armi per l'agro ».
Ma Giuno a lei : <* Già di spaventi e inganni
è assai. Di guerra le cagioni stanno;
e si combatte da vicin con l'armi:
un caso le fornì, le intrise il sangue.
Cosi fatti festeggino sponsali
di Venere il gran lìglio e il re Latino.
Che tu più vada per il ciel vagando,
no '1 vorrebbe quel Padre che in Olimpo
regna sovrano. Ti diparti : io stessa
vedrò, se alcuna a provveder vicenda
resti ''. Sì detto la Saturnia avea.
Quella su l'ali stridule di serpi
librasi e lungi dal superno azzurro
volge a' recessi di Cocito. È un luogo
LIBRO SETTIMO 237
nel mezzo a Italia sotto ad alti monti
per larga fama celebre, le valli
d'Amsanto : ai lati il serrano le falde
d'un bosco bruno, e il solca e romoreggia
un torrente tra' sassi vorticoso.
vSi mostrano ivi una spelonca orrenda
e i pertugi del fiero Dite, e vasta
voragine scoscesa a l'Acheronte
le sue fauci pestifere spalanca ;
per esse sprofondando, inviso nume,
l'Erinni terra e cielo alleviava.
L'ultima intanto dà. mano a la guerra
la saturnia regina. Da la pugna
premono a la città tutti i pastori
e ne riportan morti il giovinetto
Aimone e di Galeso il guasto volto,
e implorano gli Dei, chiaman Latino.
V'è Turno e, in mezzo al rinfacciar focoso
di quella strage, lo sgom^ento accresce:
Teucri chiamarsi al regno, mescolarsi
la stirpe frigia, ributtarsi lui.
Quelli poi, le cui m.adri in preda a Bacco
batton le selve inospite ne l'orgia,
(che non lieve d'Amata il nome pesa)
vengono d'ogni parte e incalzan marte.
Universale è il chiedere l'indegna
guerra, contro gli auguri, contro i fati
degli Dei, rovesciando il voler sommo.
Stringon la reggia di Latino a prova,
ENEIDE
Ei sta, come del mare immota rupe,
come rupe del mar che tra l'assalto
d'innumerevoli onde fragoroso
emerge salda; indarno gl'irti scogli
fremono intorno e spumano-, e sbattuta
contro i suoi fianchi ne ripiove l'alga.
Ma poi che alcuna facoltà non resta
a vincere quel cieco impeto e al cenno
de la cruda Giunon vanno le cose,
alto implorando in testimonio i Numi
e l'aure vane esclama il padre :
(( Infranti
ahi! siam dal fato e preda a la procella.
Ben questa pena voi con l'empio sangue
pagherete, o infelici. E a te si serba,
a te, Turno, purtroppo, aspro castigo,
e i Numi implorerai con tarda prece.
Che a me pronto è il riposo, e tutto omai
entrando in porto, sol mi veggo privo
d'una fine felice ».
Ei così disse,
né disse . più : si chiuse ne le stanze,
e abbandonò le redini del regno.
Era un costume ne l'esperio Lazio,
che le albane città retaggio sacro
tennero, il tiene la superba Roma,
quando movono Marte a nuove pugne,
sia che portar la lagrimevol guerra
vogliano a' Oeti o agli Arabi o agi' Ircani,
sia che tender agl'Indi ed a l'aurora
LIEI-: ,1 239
e a ridomandar le insegne ai Parti.
Sono due porte de la guerra (è il nome)
sacre per il devoto orror di Marte :
cento le chiudon bronzee sbarre e tempre
di ferro eterne; de le soglie è assiduo
custode Giano. Queste, quando i padri
hanno fermo il proposito de l'armi,
esso il console, della quirinale
trabea fregiato e del gabino cinto,
cigolanti disserra, e guerra indice :
il seguono gli eserciti, ed i corni
rispondono metallici consensi.
In questa forma si chiedeva allora
che sfidasse gli Eneadi Latino
e dischiudesse le dolenti porte.
Toccarle il padre non volea, si tolse
al triste peso e si celò ne l'ombra.
Ma la regina degli Dei dal cielo
scesa le porte con la man saturnia
spinse indugianti, e da' cardini loro
le ferree imposte de la guerra infrange.
Arde l'Ausonia, cheta e immota avanti.
V è chi s'addestra a ir pedone, in sella
chi tra la polve alto volteggia; tutti
cercano l'armi. I levigati usberghi
lustra taluno e le quadrella ardenti
di pingue grasso e affilano le scuri:
piace i vessilh alzare e udir le trombe.
Ben cinque gran città sopra le incudini
armi foggiano nuove, la possente
Atina e la suuerba Tivoli, Àrdea
240
ENEIDE
e Crustumerio ed Antenna turrita.
Gli schermi altri arrotondano del capo,
piegano il salce a intessere gli usberghi ;
martellano altri bronzee corazze,
Usci schinieri di duttile argento :
ogni onore di vomere e di falce,
ogni amore d'aratri or qui s' è volto ;
fanno a' fuochi le spade de la patria.
E già le trombe squillano, va intorno
la tessera a conoscersi tra l'armi.
Questi trepido spicca a la parete
l'elmo; costringe i frementi cavalli
al giogo quegli, e il clipeo e la lorica
a fili d'oro triplici si veste
e la spada fedel cingesi al fianco.
Aprite or 1' Elicona, o Dive, e i canti
dettate : quali re sorsero in guerra,
quali a ciascun seguaci schiere in campo
stettero, e di che prodi fin d'allora
fiorì r Italia, quale incendio l'arse.
Ben voi lo ricordate, o Dive, e voi
mentovarlo potete: a noi soltanto
una lieve discende aura di fama.
Primo entra in guerra da 1' Etruria fiero
lo sprezzatore degli Dei Mezenzio
e le schiere arma. Il suo figliuolo accanto
Lauso, di cui più bello altri non era
tranne il laurente Turno, di cavalH
domator Lauso e cacciator di belve,
mille adducea da la città di Agilla
LIBRO SETTIMO 24!
guerrieri inutilmente a lui seguaci,
degno di assai miglior paterno impero
e di avere altro padre che Mezenzio.
Dopo questi, figliuol d' Ercole bello,
bello Aventino per il verde ostenta
di palma insigne un cocchio e trionfali
cavalli e porta su lo scudo, insegna
paterna, cinta di cento angui l' idra.
Lui del colle Aventino entro la selva
furtivo in luce die Rea sacerdote,
donna a dio mista, poi che vincitore
de l'estinto Gerìone il Tirintio
ebbe tocchi i laurenzi campi e immerse
nel tosco fiume le giovenche ibere.
Pili portano in guerra e stili acerbi,
tornito stocco e schidion sabello.
Esso a piedi, in gran pelle leonina
ravvolto la persona, e tratto in capo
l'orribil vello da le zanne bianche,
così veniva a' regi tetti, fiero,
con quel mantello erculeo su le spalle.
Fratelli, lascian le tiburti mura,
dal fratello Tiburto nominate,
Catillo e l'aspro Cora, argivo sangue,
che in prima fila corrono a la mischia :
come due nubigeniti Centauri
quando da' monti calano, lasciando
Otri nevoso e Òmole di corsa;
fa luogo la foresta a' minanti
e si ritrae frusciando ogni virgulto.
Albìni • Ene'de U
242 ENEIDE
Fondato!" de le mura prenestine
Cèculo non mancò, figlio a Vulcano,
cui credette ogni età re tra gli armenti
e ritrovato sopra il focolare.
Rustica legione è con lui molta :
quei che l'alta Preneste e il suol gabino
tengon di Giuno e il gelido Aniene
e le fresche di rivi Erniche vette;
quelli cui pasce l'ubertosa Anagni
e quei che tu, padre Amaseno. Tutti
armatura non hanno e scudo e carro :
gettano ghiande di livido piombo
i più, parte hanno due lanciotti in mano,
fulvi galeri di lupina pelle
in capo, e nuda del sinistro piede
l'orma, l'altra ricopre un rozzo cuoio.
Ma di cavalli domator Messapo,
nettunia prole, cui con fuoco o ferro
dato è a nessuno di prostrar, le genti
da tempo lente e i disusati a guerra
ordini a un tratto schiera e il ferro snuda.
Questi le squadre fescennine e sono
gli Equi Falisci, questi abitan l'alto
Soratte e i campi di Flavina e il lago
di Cimino col monte e di Capena
i boschi. Andavano in eguali file
e il loro re cantavano tra via ;
come talor tra '1 chiaro aere i bianchi
cigni che al ritornar da la pastura
rendon concenti per i lunghi colli :
LIBRO SHTIIAIO 243
il fiume ne risuona e largamente
Tasia palude.
Né penserebbe alcun che armate schiere
fosser formate di cotanta turba,
ma che da l'alto mar spinta venisse
una nube di rochi uccelli al lido.
Ecco dal vecchio sangue de' Sabini
Clauso con grande schiera, ed una grande
schiera esso vai, dal quale or si propaga
pe '1 Lazio la tribù Claudia e la gente,
poi che fu Roma de' Sabini in parte.
Amiterna coorte numerosa
v'era e i prischi Curiti e tuttaquanta
Erèto e l'olivifera Mutusca;
v'eran quei che Nomento abitan, quelli
che Rosea dei Velino, e la rupestre
orrida Tètrica e il severo monte,
Casperia, Fòruli e d' Imella il fiume,
quei che il Tevere e il Fàbari disseta,
quei che inviò la fredda Norcia e Orte
e i popoli Latini, quei che bagna
interfluendo l'Alha, infausto nome :
quante son l'onde libiche, calando
fiero Orion nel pelago invernale,
o dense al novo sole ardono spiche
lunghesso 1' Ermo o ne la Licia bionda.
Suonan gli scudi e il suol calpesto trema.
Quindi, nemico del troiano nome,
l'agamennonio Aleso il carro aggioga
e mille a Turno popoli feroci
244 ENEIDE
trae: quelli son che il massico terreno
arano lieto de la vigna, quelli
che i padri Aurunci invian dagli alti colli,
che la pianura Sidicina invia,
quei che lasciano Cale, e il nato in riva
del Volturno guadoso, e di par l'aspro
Satìculo e i manipoli degli Osci.
Àclidi ben tornite hanno a lanciare,
e le usano allacciare a obbediente
briglia : cetra protegge le sinistre,
pugnano da vicin spade falcate.
Né passerai taciuto nel mio canto,
Èbalo, tu, cui procreò, si dice,
da la ninfa Sebètide Telone
già vecchio, mentre de' Telèboi regno
Capri tenea; ma del tener paterno
non più contento il figlio in suo dominio
ampio abbracciava i popoli Sarrasti
e il pian che Sarno riga e gh abitanti
e di Rufra e di Batulo ed i campi
di Celemna e color cui d'alto mira
la pomifera Abella, usi lanciare
a la guisa teutonica cateie :
spiccano per difesa de la testa
la corteccia del sughero ; di bronzo
brillan le targhe, brillano le spade.
E te mandò la montuosa Nersa,
Utente, chiaro e fortunato in armi.
Ben selvaggia è sua gente e avvezza a molto
cacciar boschivo, EquicoH dal duro
LIBRO SETTIMO 245
suolo. Armati lavorano la terra,
e fresche sempre convogliar le prede
è lor piacere e viver di rapina.
E di Marruvia gente sacerdote
col ramo a l'elmo del benigno ulivo
venne, d'Archippo re per cenno, Umbrone
fortissimo. La razza viperina
e l'idre attossicanti egli soleva
cantando e carezzando addormentare,
blandirne l'ire e medicarne il morso.
Pure guarir de la dardania punta
non seppe il colpo, e per la sua ferita
il sonnifero canto non gli valse
e le pe' marsi clivi erbe raccolte.
Te la selva d'Angizia, te gli specchi
pianser molli del Fucino.
Bellissimo a la guerra anche movea
d'Ippolito fìgliuol Virbio che Aricia
madre inclito mandò, cresciuto a l'ombre
di Egeria lungo le fluenti rive,
ove ha Diana aitar florido e pio.
Che d'Ippolito è fama, poi che morto
per l'arti fu de la matrigna e al padre
diede il suo sangue in pena, dagli ombrati
cavalli strascinato, un'altra volta
rivedesse le stelle e il cielo azzurro
per l'erbe di Peone e il cuor di Trivia.
Allora il Padre onnipotente, in ira
avendo che mortale alcun risorga
da l'ombre interne al raggio de la vita,
24t) ENEIDE
il trovator di tale medicina
e maestria benché figliuol di Febo
col fulmine a la stigia onda sospinse.
Ma l'alma Trivia ne' recessi asconde
Ippolito, e a la ninfa Egeria e al bosco
il relega, dov'ei solingo in selva
ignorato dagl' Itali vivesse
e Virbio fosse con mutato nome.
Onde ancora da quel tempio di Trivia
e da l'ombre devote si tien lungi
de' cavalli lo scalpito, che il cocchio
sul lido riversarono ed il sire
dal portento marino impauriti.
Non meno il figlio esercitava al piano
corsieri ardenti e li spronava in guerra.
Esso tra i primi vigoroso Turno
vibrasi in armi e tutto il capo ha sopra.
Il suo di tre criniere elmo crinito
una Chimera inalbera che soffia
fuochi etnei da le fauci e allor più freme
e più lampeggia furiosa quando
aspre le pugne più corrono sangue.
D'oro il suo liscio scudo adornava Io
cornuta e già di peli irta giovenca
(argomento preclaro) e custode Argo
de la fanciulla ed Inaco suo padre
versando acque da l'urna cesellata.
Di fanti un nembo il segue e in ogni campo
si addensan chpeate file, Argivi
giovani e Aurunci, Kutuli e vetusti
LIBRO SETTIMO 247
Sicani, de' Sacrani insiem lo stuolo
e de' Labìci dal dipinto scudo,
quei che aran, Tiberino, i boschi tuoi
e del Numico il terren sacro, o il solco
guidano per le rutule pendici
e pel capo Circeo; le terre che ama
proteggere Giove Ànxuro e Feronia
lieta del verde bosco, e dove imbruna
di Sàtura il palude e il fresco Ufente
cerca la via per F ime valli al mare.
Giunse oltre questi da la Volsca gente
Camilla che uno stuol di cavalieri
conduceva ne l'arme luminosi ;
guerriera, né avvezzò le femminili
mani a' cestelli e al fuso di Minerva,
ma fanciulla sfidar le maschie prove
e superare ne la corsa il vento.
Ben passerebbe a fiore de la messe
senza offesa lasciar pure una spiga ;
alta per mezzo il mar su l'onde gonfie
sorvolerebbe con le piante asciutte.
Lei da le case, lei da' campi accorsa
tutta la gioventù mira e le madri
la guardano passar, tra sé stupiti
de la porpora regia che le spalle
morbide vela, de la fibbia d'oro
che le annoda i capelli, e come venga
essa portando la faretra licia
e il mirto pastoral ferrato in punta.
LIBRO OTTAVO
Poi che da la laurente rocca il segno
levò Turno di guerra e in rauco suono
strepitarono i corni, e poi che scosse
gU animosi cavalli e spinse Tarmi,
subito i cuori s'agitano, tutto
congiura il Lazio impaziente, e freme
fiera la gioventù. Messapo e Utente
e sprezzatore degli Dei Mezenzio
son duci primi a radunar le forze
desolando di braccia i campi intorno.
Vènulo inoltre a la città s'invia
del grande Diomede per ausilio
chiedere ed annunciare esser nel Lazio
i Troiani; che giunto Enea dal mare
porta i Penati vinti e sé dai fati
dice richiesto a re; che al sir dardanio
molte genti s'accostano e il suo nome
frequente per le lazie aure si spande.
A che si accinga, qual successo a l'armi,
se la fortuna lo secondi, agogni,
250 ENEIDE
più manifesto deve a Diomede
che a Turno re parere o a re Latino.
Ciò per il Lazio.
E il laomedonteo
eroe, tutto vedendo, in gran tempesta
ondeggia di pensieri, or qua la mente
or là rapida volge, e in ogni parte
le dà Tali per tutte le vicende:
qual tremulo brillar d'acque ne' bronzei
vasi, dal sol percosso e da la luna
specchiata, Heve si riflette intorno
e balza e il sommo de le stanze irraggia,
Era notte, e per ogni terra stanchi
gli animali che volano e che vanno
alto sonno teneva: il padre Enea
su la riva e sottesso il freddo cielo,
afflitto in cuore da la triste guerra,
diede a le membra sue tardo riposo.
Ed ecco gli sembrò dal fiume ameno
tra le fronde de' pioppi sollevarsi,
del luogo annoso nume, Tiberino ;
tenue lino il cingea di glauco velo,
le canne gli ombreggiavano i capelli ;
e così favellare a suo conforto :
i< O stirpe degli Dei che ne riporti
di tra' nemici Troia e fai perenne
Pergamo, o sospirato ne la terra
laurente e ne' latini campi, è questa
la casa tua, son qui, non ne partire,
i tuoi Penati, né temer minacce
di guerra : tutto si posò il bollore
LIBRO OTfAVO 25I
de r ire degli Dei.
Eccoti gik - che tu non creda un vano
sogno vedere - sotto Felci a riva
grande giacer la scrofa troverai
che si sgravò de' trenta capi, bianca,
per terra, bianchi a le sue poppe i nati.
Di qui tre volte i dieci anni volgendo,
Ascanio fonderà dal chiaro nome
Alba. Non presagisco incerte cose.
Or breve, ascolta, ti dirò la via
che vincitor tu quel che preme adempia.
Gli x\rcadi, scesi da Fallante, in queste
spiagge, seguendo Evandro e i suoi vessilli,
elessero lor sede e sopra il monte
posero la città che dal loro avo
Fallante nominaron Fallanteo.
Questi hanno guerra co' Latini assidua ;
te li associa a l'impresa in alleanza.
Io stesso indietro t'addurrò pel fiume
a vincere co' remi la corrente.
Su, figliuol de la Dea, col declinare
primo degli astri porgi le sue preci
a Giunone e ne supera co' voti
supplichevoli r ira e le minacce.
L'onore a me farai dopo il successo.
Guai tu mi vedi radere le sponde
in piena tra le terre coltivate,
il ceruleo Tevere son io,
fiume al ciel prediletto. È qui la grande
mia casa, il capo a città eccelse nasce ».
Disse, poi si calò ne l'imo gorgo:
252 ENEIDE
se ne va per Enea la notte e il sonno.
Si leva, e vòlto dove sorge il sole
devoto tra le palme acqua dal fiume
attinge e verso il ciel move la voce:
« Ninfe, laurenti Ninfe, onde hanno i rivi
origine, e tu, Tebro genitore
col fiume santo, ricevete Enea
e traetelo alfine da' perigli.
Qualunque il gorgo sia che te raccoglie
che pietà senti de' travagli nostri,
qualunque il suolo onde bellissimo esci,
sempre l'onor, sempre i miei doni avrai,
lunato fiume re de l'acque esperie.
Solo m'assisti e mi confenna il cenno ».
Ei così parla, e da la flotta due
biremi sceglie col remeggio loro,
insieme dà Tarmi a' compagni. Ed ecco,
improvviso mirabile portento,
candida tra le piante e concolore
co' bianchi nati su la verde riva
una scrofa giacersi. A te l'immola
il pio Enea, a te, massima Giuno,
e la fa star con la sua turba a l'ara.
Gonfia per quella notte quanto è lunga
il Tevere abbonì la sua corrente
e sì la rese tacita che a modo
di cheto stagno e placida palude
piana si stende e senza intoppo al remo.
Dunque l'impresa via con rumor lieto
tengono; scorre lo spalmato abete;
LIBRO OTTAVO 253
e ammiran l'onde, ammira la foresta
sorpresa lungi lampeggiar gli scudi
e nuotando venir le pinte prore.
Quei sudano al remeggio notte e giorno
e seguono le lunghe curve; sotto
agli alberi scompaiono solcando
per il placido pian le verdi selve.
Salito in mezzo al cielo il sole ardea,
quando i muri e la rocca di lontano
vedono e rari de le case i tetti :
la romana grandezza or tutto quivi
fece divino, allor tenealo Evandro
povero regno. Volgono le prore
rapide e a la città si fanno presso.
Giusto quel dì rendea solenne rito
a TAnfìtrioniade e agli Dei
l'arcade re fuor la città nel bosco.
Con lui Fallante suo fìgliuol, con lui
i principali e il povero senato
incensi offrian : fumava il sangue a l'are.
Come vider le navi alte e tra '1 folto
quelli appressar curvi su' remi e muti,
sgomenti al subito apparir, da mensa
balzano tutti. Ma Fallante audace
vieta che il rito s'interrompa, e solo,
afferrato uno strai, vola a l' incontro,
e da un'altura lungi grida : « Oh voi,
qual vi spinse cagion pe '1 nuovo solco ?
chi siete ? onde venite ? a pace o guerra ? »
Da l'alta poppa il padre Enea risponde
25-j ENEIDE
porgendo il ramo de la mite oliva:
e Teucri tu vedi ed a' Latini avverse
armi, che quelli con superba guerra
cacciano a ramingar. \'eniamo a Evandro.
Tornate e riferitegli esser giunti
eletti di Dardania condottieri
a domandare un'alleanza d'anni ».
Stupì Fallante al suon di tanto nome :
« Approda, qual tu sia, parla a mio padre ;
entra a' nostri Penati ospite » disse :
e l'accolse e si strinse a la sua destra.
Sotto le piante avanzano dal fiume.
Enea si volge al re con voce amica :
(f Ottimo tu de' Greci, a cui Fortuna
volle eh' io porga preci e stenda i rami
tra le bende, non io certo temei
perché duce d 'Argivi arcade fossi
e consanguineo de' fratelU Atridi ;
anzi la fede mia, del cielo i santi
oracoli, i comuni avi, la tua
fama pe '1 mondo, a te sì m'hanno stretto,
da venir heto per la via de' fati.
Dardano, d' Ilio padre e fondatore,
nato di Elettra atlantide, al narrare
de' Grai, ne viene a' Teucri: il sommo Atlante
Elettra procreò, che su le spalle
del ciel regge, le volte. A voi Mercurio
è padre, cui la bella Maia espose
su la gelida vetta di Gliene :
or Maia, se diam fede al detto. Atlante,
LIBRO OTTAVO
^DD
lo Stesso Atlante genera che regge
gli astri del del. Così d'ambo la schiatta
scende da un sangue e si dirama in due.
Fidato in questo, te provar non volli
prima per arte di legati: io stesso
venni, io mi t'offerisco, io ti scongiuro.
Quella stessa, che te, gente di Daimo
noi guerreggia crudel : cacciati noi,
nulla pensa mancar, che al giogo suo
tutta r Esperia non sommetta e regni
quel mar che sopra e quel che sotto ondeggia.
Prendi e rendi la fede : in guerra forti,
e cuore abbiamo e ben provata gente ■>.
Questo avea detto Enea. Mentr'ei parlava,
pur gli veniva l'altro esaminando
il viso e gli occhi e tutta la persona.
Poi breve esclama : « Oh di che cuor t'accolgo,
fortissimo de' Teucri, e ti ravviso !
come la voce e le parole e il volto
del grande Anchise padre tuo rammento !
Sì, mi sovvien che Priamo sovrano,
per \dsitar de la sorella Esìone
il regno, mosso a Salamina, al freddo
si sospinse paese de l'Arcadia.
Allora fresca mi fioria la gota:
guardavo i teucri duci, esso guardavo
il Laomedontiade, ma sopra
tutti era Anchise. Oh giovami vaghezza
di favellargli e di toccar sua mano !
M'accostai, giubilai con me d'averlo
a Fènéo. Partendo egli mi diede
250 EX FI Dì-:
una bella faretra e licie frecce,
una clamide in oro ricamata,
d'oro due freni che usa il mio Fallante.
Dunque è già stretta, qual chiedete, al patto
la mia destra, e domani a' primi raggi
vi lascierò partir lieti d'aiuto
e giovati di forza. Intanto a l'annuo
rito, che è colpa differire, amici
poi che giungeste, unitevi di cuore
e a le mense de' soci or già v'usate ".
Detto così, fa le vi\ande apporre
di nuovo e i nappi già levati; alluoga
esso i guerrieri in seggio erboso, e a onore
sopra un gran vello leonino Enea
accoghe e al sogho d'acero l' invita.
Recano a prova allor scelti garzoni
e il ministro de l'ara abbrustolate
di tori entragne, colmano canestri
di lavorati cereali doni
e versan bacco. Insiem si ciba Enea
e la troiana gioventù del tergo
d'un gran bove e di viscere lustrali.
Doma la fame ed il desio de' cibi,
soggiunge Evandro : « Questo sacro rito,
questo solenne desco, quest'altare
di sì gran nume, non l'impose a noi
vana e obliosa degU antichi Dei
superstizione: salvi da crudeli
rischi, ospite troian, così facciamo
e meritato rinnoviam l'omaggio.
LIBRO OTTA'.O 2f
Or vedi prima questa rupe m alto
sospesa e come, dissipati i massi.
\iiota del monte sia la casa e vasto
scoscendimento intomo. Una spelonca
qui fu che immensa s'internava addentro,
e il crudo ceffo la tenea di Caco
mezzo bestia, del sol negata ai raggi :
sempre fumava il suol di fresco sangue,
e sempre affissi a le feroci porte
erano volti pallidi e stillanti.
Padre del mostro era \'ulcano ; e i foschi
fuochi di lui di bocca vomitando
enorme esso incedeva. Il tempo alfine
anche al nostro desio portò soccorso
col giungere di un dio. \'endicatore
massimo, de la morte e de le spoghe
del triphce Gerione superbo,
giungeva Alcide e trionfante i grandi
tori davanti a sé per qua spingeva :
tutta la valle e il greto empia l'armento.
Ma in sua foUia la mente empia di Caco.
per non lasciar colpa o malizia senza
osar tentarla, quattro da le stalle
splendidi tori trasse ed altrettante
segnalate gio\-enche : e perché nulla
diretta orma apparisse, per la coda
strascinandoli a l'antro, ed in contrario
volta la spia de la rapina, dentro
la rupe cieca li ascondea : chi cerchi.
no 1 portava vestigio a la spelonca.
Intanto, come riposati e -azi
A^ BINI
25?' n.XEIDE
già l'Antìtrioniade gli armenti
movea presto a partir, su la partita
muggirono le mandre e del muggito
fu piena la foresta e la collina.
Rese de le giovenche una la voce
e mugolò sotto il vasto antro, e chiusa
così di Caco il confidar deluse.
Ecco in Alcide pien d' ira e di bile
si fu desto il dolor: rapidamente
porse la mano a la nodosa clava
e prese a corsa su pe'l monte. Allora
videro i nostri per la prima volta
Caco allibbir tutto smarrito : fugge
subito via più rapido del vento
verso l'antro ; ali a' pie die la paura.
Chiuso che fu, fatto piombar, schiantando
la catena, il gran sasso che pendea
per ferro opra paterna, e di tal mole
rafforzata la porta, ecco furente,
ecco il Tirintio sopraggiunger che ogni
adito tenta e qua e là si volge
stringendo i denti. In suo furor tre volte
tutto il monte Aventin gira, tre volte
crolla i massi a le soglie indarno, e lasso
tre volte ne la valle ebbe a fermarsi.
Sul dorso a la spelonca, in mezzo agli altri
mozzi pietroni, altissima spiccava
a lo sguardo una punta, acconcio luogo
a' nidi degli uccelli di rapina.
Questa, com'era pel declivio prona
a sinistra '^iil fiume. (M* yer^n destra
LIBRO OTTANO 25Q
sforzò, la svelse fin da le radici,
poi d'un tratto la spinse, e tal fu spinta,
che ne rimbomba l'alto ciel, le rive
sobbalzano e atterrito arretra il fiume.
La spelonca, la gran reggia di Caco
scoperchiata apparì con le profonde
tenebrose caverne; e fu si come
se a forza spalancandosi la terra
mostrasse i luoghi inferni e i regni bui,
odiosi agli Dei, e d'alto quello
si discoprisse baratro infinito,
tremando l'ombre a l' inondar del giorno.
Dunque sorpreso lui da l'inatteso
lume nel covo e più che mai ruggente
di su rinveste con gli strah Alcide,
e gli vien buona ogni arma, e di tronconi
e di macigni smisurati il copre.
Colui (che più non è fuga nessuna)
di bocca spira un incredibil fumo
e tutto fa caliginoso intorno,
toglie il vedere e ne lo speco addensa
nebbiosa notte cui lingueggia il fuoco.
Non lo sofferse xiloide e per la vampa
si gittò d'un gran salto, ove più denso
ondeggia il fumo e il fiotto atro de l'antro.
Là Caco ne le tenebre che vani
vomita incendi d'un gran nodo serra,
scoppian gli occhi e la gola senza sangue.
Rotte le porte or la rea casa s'apre,
e i buoi nascosti e i furti spergiurati
mostransi al cielo, e per i pie si trae
26o ENEIDE
fuor l'orrendo cadavere. Non sanno
saziarsi a guardar gli occhi feroci,
il ceffo e tutto setoloso il petto
de l'uom selvaggio e le smorzate fauci.
Da quel tempo la festa è celebrata,
e osservarono il di lieti i figliuoli,
Potizio il primo de l'erculea sagra
ordinator e la Pinaria casa
che n'è custode. Quest'Ara nel bosco
egli innalzò, che noi Massima sempre
diremo e che sarà Massima sempre.
Or, per sì glorioso beneficio,
v'inghirlandate, o giovani; le tazze
levate ne la destra, e il dio comune
invocate libando il vin devoti ».
Disse, ed il pioppo bicolor d'erculea
ombra velò le chiome intesto e lieve
e il sacro scifo empì la destra. Tutti
libano su la mensa orando i Numi.
Ma declinando il ciel Vespro s'accosta,
e i sacerdoti già, Potizio il primo,
venian, cinti le pelli rituali,
con le fiamme. Rinnovano il convito,
recan de la seconda mensa i grati
doni, di colme lanci empiono l'are.
Indi a l'intorno degU accesi altari
s'avanzano a' lor canti i vSalii, cinti
de le frondi populee le tempie,
l'un di giovani coro e l'un di vecchi ;
e inneggiano l'erculee fatiche :
lAÌ'Ali) (>! IA\.<) 2f)I
come de la matrigna i mostri primi
e i due draghi strozzò con la sua mano ;
come abbatté città famose in guerra,
Troia ed Ecalia ; come aspri infiniti
sofferse sotto Euristeo re travagii
pe '1 mal volere di Giunone. ^< O invitto,
tu i figli de la nuvola bimembri,
lièo e Polo, uccidi, tu il portento
eresio e sotto la rupe il gran leone
di Xèmea. Te tremaron l'acque stigie,
te il guardian de l'Orco accovacciato
sopra le rosicchiate ossa cruente.
Né mai te mostro impaurì, non esso
Tifoeo torreggiante in armi ; l' idra
lernèa smarrito non ti fé', d'intorno
rigermogliando gì' infiniti capi.
Salve, vero figliol di Giove, aggiunto
decoro a' Divi, e a noi ed al tuo rito
con piede favorevole discendi > .
Questo ne l'inno celebrano, e sopra
tutto di Caco aggiungon la spelonca
e lui spirante da le fauci il fuoco.
Empie il canto la .selva e l'eco i poggi.
Così compiute le divine cose,
toman tutti a città.
Grave il re d'anni
andava e a lato avea compagno Enea
e il proprio figlio, e più facea gradito
col variato favellar l'andare.
Mira e per tutto i facili occhi move
Enea, de' luoghi preso, e chiede e ode
262 ENEIDE
a una a una le meniorie antiche.
Il fondator de la romana rocca
Evandro re dicea : « Nativi Fauni
teneano e Ninfe questi boschi, e gente
da' tronchi uscita e da la dura quercia,
senza legge né modo : aggiogar tori,
adunar frutti e provvidi riporre
non sapeano; ma gli alberi e la dura
caccia li alimentava. Primo venne
da l'Olimpo Saturno che fuggìa
l'armi di Giove ed esule dal regno.
Questi la gente indomita e dispersa
pe' monti alti raccolse e a lor die legge,
e Lazio volle nominar la terra
ove latente in sicurezza stette.
Il secol d'oro che si narra, lui
regnante fu : de' popoli gran pace :
fin che un'età scaduta e scolorata
a grado a grado ed il furor di guerra
e l'ingordigia de l'aver successe.
Ausonia schiera poi, genti Sicane
vennero, e spesso la Saturnia terra
depose il nome : i re fur quindi e il fiero
Tebro di gran persona, onde noi Tebro
Itali nominammo il nostro fiume,
e il suo vero la vecchia Albula perse.
Me di patria sbandito e corsi i rischi
del mar in questi luoghi la fortuna
onnipotente e l'invincibil fato
posero, e de la mia madre la ninfa
Carmente mi v' indussero i solenni
LIBRO OTTA\0 263
responsi e il dio che l' inspirava Apollo - .
Appena detto avea, s'avanza e mostra
Tara e la porta che il Romano chiama
Carmental, prisco vanto de la ninfa
Gannente, la veridica veggente
che per la prima presagi futuri
gli Eneadi grandi e il nobii Pallanteo.
Indi ampio bosco addita, ch'esser volle
l'acre Romolo Asilo, e sotto il ciglio
di fredda rupe il Lupercal, chiamato
dal parrasio chiamar di Pan licèo.
E del sacro Argileto addita inoltre
la boscagha e designa il luogo e narra
quella de l'ospite Argo uccisione.
Quindi al Tarpeo l'adduce e al Campidoglio,
che d'oro è oggi, allor fu selva e spine.
Allora già un terror sacro del luogo
comprendeva gh agresti abitatori,
venerabondi del selvoso sasso.
<( Questo bosco >) il re dice '( e questa vetta
frondosa, non si sa qual dio, ma un dio
l'abita. Credon gli Arcadi aver visto
esso Giove talor che con la destra
la bruna egida scuote e aduna i nembi.
Qui due dìrute moU altresì vedi
resti e ricordi de' progenitori :
Giano padre quest'arce, e questa pose
Saturno, onde Gianicolo era quella
e quest'altra Saturnia nominata ».
Cosi tra lor parlando a la dimora
già del semplice Evandro eran vicini,
J(>4 ICXHIDK
e vedean sparsi mugolare armenti
per il Romano Foro e le Carine
splendide. Come furono a le soglie,
« Qui » disse « entrò vittorioso Alcide ;
questa reggia il contenne. Osa spregiare,
ospite, le dovizie, e te pur degno
fa del dio ; vieni, e a povertà sorridi ».
Cosi nel tetto angusto il grande Enea
mise e gli die foglie per letto ed una
pelle d' un' orsa libica.
La notte
cade e abbraccia con fosche ali la terra.
Ma V^enere, sgomenta non indarno
nel cuor materno a le minacce e a' moti
de' Laurenti, rivolgesi a Vulcano
entro il talamo d'oro, ed incomincia,
divino amor spirando a le parole :
« Mentre gli argivi re Pergamo a loro
dovuta desolavano di guerra
e con incendio ostil l'arci caduche,
non aita pe' miseri, non chiesi
armi di tua maestra man, né volli
te, diletto marito, esercitare
inutilmente a l'opera, quantunque
fossi di Priamo a' figli debitrice
e d' Enea mi accorasse il duro affanno.
Or per voler di Giove egli s' è fermo
ne la terra de' Rutuli : quell' io
dunque supplice vengo e l'armi chiedo
madre pe '1 figho al nume che m'è sacro.
LIBKO OTT.WO 205
Te di Nereo la figlia e te col pianto
piegar seppe la donna di Titono.
Mira che genti adunansi, ed il ferro
quali affilan città, chiuse le porte,
a offesa mia, per distruzion de' miei ».
Avea detto, e le bianche braccia aprendo
cinge di molle amplesso il dubitoso.
Sùbito ei risentì l'usata fiamma,
ed il noto calor fino al midollo
per le trepide corse ossa struggenti;
come qualor tra l'abbagliante schianto
per le nuvole guizza un'ignea lista.
Lieta il sentì de le lusinghe e conscia
di sua beltà la moglie ; esso, conquiso
da l'eterno amor suo, così rispose :
H E perché movi da sì alto ? e come
la fede in me smarristi, o dea ? Se tale
avevi brama, ben potemmo i Teucri
anche allora afforzar, né già vietava
il Padre onnipotente né il destino
Troia e Priamo durare altri dieci anni.
Ed or se a guerra t'apparecchi e intendi,
quanto prometter so ne l'arte mia
di zelo, quanto si può far con ferro
e con liquido elettro, o per vigore
di mantici e di fiamme, oh ! non pregare,
quasi dubbio.sa de la tua potenza ».
Le die, ciò detto, il desiato amplesso,
e abbandonato a la consorte in grembo
si riposò di placido sopore.
266 ENEIDE
Poi che il primo riposo a mezzo il corso
già de l'ombra che fugge avea cacciato
il sonno, ed in quell'ora che la donna
che dee col fuso e i piccoli lavori
campar la vita, le sopite brage
riscote da la cenere, aggiungendo
la notte a la fatica, e in opra lunga
a la fiaccola esercita le fanti,
per serbare del talamo l'onore
ed allevare i piccoli figliuoli;
non altrimenti quel signor del foco,
né ad ora men sollecita, si leva
dal molle letto a l'opere di fabbro.
Sta lungo il fianco siculo e l'eolia
Lipari un'alta isola che fuma:
sotto quella riarsi da' camini
de' Ciclopi rimbombano antri etnèi,
i fieri colpi su l'incudini hanno
echi ululanti, rugghiano le rudi
masse de' Càlibi entro le caverne,
ne le fornaci il fuoco anela; è casa
di Vulcano e Vulcania terra il nome.
Quivi scese dal cielo il dio del fuoco.
Ferro battean nel vasto antro i Ciclopi,
Bronte e Sterope e nudo Piracmone.
Da lor foggiato e già brunito in parte
era un fulmine, quali a>'venta il Padre
da tutto il cielo in su la terra tanti,
ed una parte rimaneva a fare.
Tre di grandine raggi e tre di piova
LIBRO OTTAVO 267
intrudi \ ' hanno, tre di roggio fuoco
e d'alato austro : ora l'orribil lampo
vi mescono e il fragore e lo spavento
e secondata da le fiamme l'ira.
In altro lato un carro e le correnti
rote per ]\Iarte affrettano, su cui
esso i guerrieri e le città commuove ;
ed un'egida orribile, armatura
de la turbata Pallade, di scaglie
serpentine finiano a gara e d'oro,
e serpi a gruppi, e sul divino seno
il capo de la Gòrgóne, che torce,
dispiccato dal busto, le pupille.
« Lasciate, grida, interrompete tutto
Etnei Ciclopi, e m'ascoltate intenti :
l'armatura dee farsi ad un eroe.
Or bisognano forze, or m^ani pronte,
tutta or l'arte maestra. E senza indugio »
Non disse più ; ma quei s'accinser tutti
subito e sorteggiar on la fatica.
Eluisce a rivi il bronzo e l'oro, il ferro
micidiale in gran forno si squaglia.
Foggiano immenso scudo, un contro tutte
l'anni latine, e sette cerchi insieme
commettono. Ne' mantici ventosi
l'aure altri aduna e le respinge, attuffa
altri ne l'acque lo stridente ferro.
L'antro rintrona de le incudini. Essi
a tempo con gran forza alzan le braccia,
voltan la massa con tenace morsa.
»68 K.NKIUK
.Mentre il dio lemnio ne l'eolie sponde
l'opre affretta così, da l'umil tetto
svegliano Evandro l'alma luce e il canto
mattutino sul tetto degli uccelli.
Sorge il vecchio, la tunica si veste,
i tirreni calzari a' pie s'allaccia,
poi al fianco ed a l'omero sospende
la spada tegeèa, da manca il vello
pendulo di pantera ritorcendo.
E due guardie precedono da l'alta
soglia l'andare del signor, due cani.
Va de l'ospite Enea verso la stanza
appartata l'eroe, de' lor discorsi
memore e del promesso aiuto ; Enea
non meno usci\^a mattiniero : il figlio
Fallante a l'un, compagno a l'altro Acate.
Incontrati congiungono le destre
e assidendosi al mezzo de la casa
godono alfin di libero colloquio.
Fu primo il re :
' Sommo duce troian, che mentre vivi,
non mai vinta dirò Troia e il suo regno,
a sovvenir la tua grandezza in guerra
scarse abbiam forze : da una parte il tosco
fiume ci chiude, i Rutuli da l'altra
fin sotto a' muri rom.oreggian d'armi.
Pure a te grandi popoli e falangi
di possenti reami unire intendo,
salvezza offerta da impensata sorte :
a domanda de' fati or tu se' giunto.
J
LIBRO OTTANO . 269
Di qui non lungi su vetusto sasso
fondata una città s'abita, Agilla,
dove un dì lidia gente in guerra illustre
si collocò su' vertici d' Etruria.
Florida per molt'anni, indi la tenne
con grave imperio e con armi crudeli
Mezenzio re. Perche narrar le stragi
spietate e gli atti del tiranno infami ?
In capo a lui e a' suoi le torni il cielo.
Fin per tormento a' morti corpi i vivi
congiungea, mani a mani e bocca a bocca,
e colanti putredine nel triste
abbraccio li uccidea di lunga morte.
Stanchi a la fine i cittadini il mostro
accerchiano con l'armi e la sua casa,
trucidano i seguaci e gettan fuoco
a' tetti. Tra l'eccidio egli sfuggito,
a riparar de' Rutuli nel regno
e da l'ospite Turno esser difeso.
Dunque tutta levò ne l'ira giusta
r Etruria, ed a la pena, offrendo guerra,
ridomandano il re.
Te capitano
io vogho dare a questi mille e mille.
Che in tutto il Hdo premono le navi
dense e chiedon battaglia ; le trattiene
vaticinando aruspice longevo :
— o scelta gio\'entù de la Meonia,
fiore e valor de' vecchi padri, mossi
da sdegno pio contro il nemico, e accesi
da Mezenzio in legittimo furore,
70 ENEIDE
non è concesso a un Italo imperarvi:
stranieri duci v'augurate — . Stette
nel campo allor l'etrusca forza, al cenno
atterrita del ciel. Esso Tarcone
legati a me inviò con la regale
corona, con lo scettro e con le insegne,
che al campo io vada e il regno etrusco assuma.
Ma vieta a me l'imperio la vecchiezza
fredda e stremata e le mie forze tarde
a fieri gesti. Esorterei mio figlio,
se, di madre sabina, ei non traesse
da qui la patria in parte. Enea, che i fati
per gli anni favoriscono e pe '1 sangue,
che chiamano gli Dei, muovi tu, duce
fortissimo degl'Itali e de' Teucri.
Questo a te pur, speme e conforto mio.
Fallante aggiungerò : che la milizia
s'avvezzi e il peso a tollerar di Marte
avendo te maestro e l'alto esempio,
e te dagli anni giovinetti ammiri.
Arcadi cavalieri a lui dugento
darò, fior di valore, ed altrettanti
in nome suo te ne darà Fallante >.
Questo avea detto appena, e fiso il guardo
teneano Enea d'Anchise e il fido Acate,
molti volgendo in cuor tristi pensieri,
se dato non avesse a ciel sereno
un segno Citerea. Che d'improvviso
d'alto vibrato un fulmine sonoro
viene, e sembrò precipitare il mondo
LIBRO OTTA\0 '2/1
e ne l'aria sonar tirrena tromba.
Guardano in su; più volte il suon rintona.
Armi tra un nimbo in un'azzurra plaga
veggon raggiare e urtate insiem tinnire.
Sbigottirono gli altri, ma il troiano
eroe conobbe il suono e de la diva
sua madre le promesse, e così parla :
«. Ospite, no, non domandar qual caso
rechi il portento: me l'Olimpo chiede.
Mi presagì la diva genitrice
tal segno, se la guerra s'addensasse,
e di Vulcan recarmi un'armatura
in aiuto dal ciel. Oh quante stragi
s'apparecchiano a' miseri Laurenti !
Qual fio mi pagherai, Turno! Tra Tonde,
Tevere padre, quanti scudi ed elmi
e valorosi volgerai guerrieri!
Gridino a l'armi e rompano alleanze ! )>
Detto ch'ebbe cosi, da l'alto seggio
si leva, e prima con l'erculeo fuoco
desta i sopiti altari, e al focolare,
come il dì avanti, e a' piccoli Penati
sereno appressa: due pecore scelte
offrono, com'è il rito, Evandro insieme
e la troiana gioventù. Poi move
quindi a le navi e a rivedere i suoi.
Tra loro elegge a seguitarlo in guerra
i segnalati di valore ; gli altri
si lasciano portare a la corrente
del fiume in givi, per essere ad Ascanio
ENEIDE
degli eventi e del padre messaggeri.
A' Teucri che son mossi al suol tirreno
si assegnano cavalli : uno prescelto
per Enea ne conducono, guernito
d'un vello di leon con l'unghie d'oro.
La Fama vola e subito riempie
la piccola città, che i cavalieri
vanno a la volta de l'etrusco sire. •
Trepide i voti addoppiano le madri,
che l'affanno al pericolo si adegua
e rimagin di Marte appar maggiore.
Allora Evandro del figliuol che parte
la destra tien con infinito pianto
e dice : < Oh se a me Giove i trascorsi anni
rendesse, quale io era allor che sotto
essa Preneste urtai la prima schiera
e bruciai vincitor monti di scudi
e di mia mano Erulo re mandai
ai Tartaro, cui dato avea tre vite
(mostruoso a narrar) Feronia madre
— tre armi si volean, tre volte a morte
prostrarlo, e pur tutte quel dì le vite
questa destra gli tolse e d'altrettante
armature il spogliò , non or sarei
dal dolce amplesso tuo, figlio, strappato.
né con insulto a me vicino avrebbe
Mezenzio mai tante di ferro morti
commesse né di tanti cittadini
vedova fatta la città. Ma voi,
deh ! voi Celesti e tu nume de' numi
LIBKO OTTA\0 2/3
Giove, a l'arcadio re, suppKco, abbiate
pietà, ne udite la paterna prece.
Se il voler vostro, se mi serba il fato
incolume Fallante, e se avrò vita
per rivederlo ed essere con lui,
viver chiedo, a patire ogni travaglio
son presto. Ma se caso alcuno atroce,
o Fortuna, minacci, or mi sia dato,
deh! or troncare la vita crudele,
mentre vago è il pensier, la speme incerta
de l'avvenir, e te, caro fanciullo,
mia unica, mia ultima dolcezza,
ho tra le braccia; né un dolor gU orecchi
ferisca... »
Queste nel congedo estremo
voci spargeva il genitor, poi venne
meno, ed i ser\'i lo rendeano a casa.
E da le aperte porte i cavalieri
prorompevano già, tra i primi Enea
e il fido Acate, poi di Troia gh altri
duci, e in mezzo a la schiera esso Fallante
ne la clamide bello e l'armi adorne;
Lucifero è così, cui predihge
Venere a tutti i fuochi de le stelle,
quando de le marine onde stillante
si leva in cielo e dissipa la notte.
Stanno su' muri pavide le madri,
seguon con gli occhi il polveroso nembo
e gii squadroni fulgidi di bronzo.
Quelli prendono armati per le fratte
Albini - Eneide iS
274 ENEIDE
che van prime a la meta ; il grido sale,
e in fitto stuolo l'unghia il suol che fuma
di quadruplice scalpito per cote.
Grande, presso di Cere al freddo fiume,
è un bosco, per devozion de' padri
tutto scuro; lo serrano colline,
bruni abeti lo cingono. A Silvano,
dio de' campi e del gregge, il bosco e un giorno
è fama dedicassero gli antichi
Pelasghi che già tennero per primi
il paese latino. Indi non lunge
Tarcone ed i Tirreni aveano il campo
in sicurezza, e si potea già tutta
la legion veder da l'alto clivo
largamente attendata a la campagna.
Ivi si fanno presso il padre Enea
ed i suoi scelti prodi, e affaticati
de' cavalli e di sé prendono cura.
Ma tra i veh del ciel Venere bella
venia co' doni, e al figlio in una valle
riposta, appena che appartato il vide
dal freddo fiume, con parole tali
si offerse : « Ecco i promessi doni a l'arte
del mio sposo dovuti, onde potrai
senz'altro, figliuol mio, chiamare a prova
i Laurenti superbi e il fiero Turno».
Disse, e a l'abbraccio ella volò del figlio,
e dinanzi a una quercia le raggianti
armi depose.
Ki del divino dono
LIBRO OTTAVO 275
senza fine godendo il guardo volge
per ciascun 'arme e mira, e tra le mani
e le braccia il terribile piumato
elmo agita e la spada ond' esce fiamma
e morte, la lorica in saldo bronzo
vasta, sanguigna, come glauca nube
che si accende di sole e lungi splende ;
indi i lisci schinieri di purgato
oro e d'elettro, e l'asta e de lo scudo
l'ultima inenarrabil meraviglia.
Ivi l'itala storia ed i trionfi
romani fatti avea, conscio de' vati,
de l'avvenir presago, il Dio del fuoco;
la lunga ivi d'Ascanio discendenza
e in ordine le guerre combattute.
Anche aveva nel verde antro di Marte
a giacer posta una sgravata lupa,
e a le poppe due pargoli gemelli
erti scherzare e suggere la madre
impavidi; ella, molle la cervice
ripiegando, a vicenda tutti e due
li lambia con la lingua e lì lisciava.
Aggiunta avea quindi non lungi Roma
e rapite ad arbitrio le Sabine
dal teatro gremito a' gran Circensi ;
onde nova a' Romulidi era guerra
col vecchio Tazio e la severa Curi.
Ma poi gli stessi re, poste le offese,
diritti in armi con le tazze in mano
stavan di Giove avanti l'ara e, un verro
276 r-:M:i!>i-:
immolato, stringevano alleanza.
Quivi presso le rapide quadrighe
tratto in due parti avean Metto (e tu fede
dovevi, Albano, a la parola!), e Tulio
lacerava le viscere del falso;
roridi sanguinavano i virgulti.
E Porsenna ricevere ingiungeva
lo scacciato Tarquinio e d'aspro assedio
stringeva la città; ma pronti a l'armi
gli Eneadi per la libertà correano.
Irato lui vedevi e minaccioso
perché il ponte tagliar Coclite osasse
e, rotti i ceppi, nuotar Clelia il fiume.
A sommo stava de la tarpèa rocca
Manlio custode avanti al tempio e l'alto
Campidoglio tenea; parea la reggia
iTivida ancor de la romulea paglia.
Pur quivi argentea starnazzando l'oca
per i portici aurati denunciava
i Galli apparsi al limitare : i Galli
su per i pruni afferravan la rocca,
tra l'ombre e il dono de la notte opaca.
Oro i capelli ed oro eran le vesti,
screziati lucevano i mantelli,
auree cingean collane i bianchi colli;
vibrava ognun due giavellotti alpini,
di lunghi scudi la persona ombrando.
Saltanti i Salii e nudi ivi i Luperci
aveva sculti ed i lanosi pilei
e gli ancili che piovono dal cielo:
le pie matrone su gli agiati cocchi
LIBRO OTTAVO 2/7
movean per la città devoti riti.
Anche aggiunge da un lato le tartaree
sedi, cupi vestiboli di Dite,
ed i castighi de le colpe e te,
Catihna, pendente a ruinoso
scoglio e tremante i ceffi de le Furie :
in parte, i buoni, e sopra lor Catone.
Ampia in mezzo l'imagine correa
del gonfio mare in oro, ma l'azzurro
ispumeggiava di canuto flutto :
a cerchio intorno nitidi d'argento
con le code radevano l'ampiezza
i delfini e solcavano i m.arosi.
Visto avresti in quel mar flotte di bronzo,
l'aziaca guerra, e tutto di battaglia
ferver Leucàte e lustrar d'oro i flutti.
Da l'una parte Augusto Cesare, alto
su l'alta poppa, gl'Itali a le pugne
guida, co' padri e il popolo e i Penati
e i grandi Iddìi: da le superbe tempie
gli raggia ilo due fiamme e sul suo capo
si disasconde la patema stella.
Discosto Agrippa col favor de' venti
e degli Dei che guida eccelso i suoi:
rostrata a lui, di guerra altera insegna,
splende la fronte di naval corona.
Da l'altra parte Antonio con la possa
barbarica e le varie armi, tornante
vincitor da l'Aurora e il Rosso lido,
porta con sé l'Egitto e d'oriente
2/0 ENEIDE
lo sforzo e la remota Battra ; lui
l'onta accompagna de l'egizia moglie.
Tutti a l'urto precipitano, tutto
solcato spuma da' ritratti al petto
remi e da' rostri tridentati il mare.
Tendono a l'alto, e ben nuotar per l'alto
crederesti le Cicladi divelte
e contro monti urtar gran monti, tanta
mole si avanza di turrite prore.
GÌ' infiammati malleoli con mano
e con le frombole il volante ferro
spargesi: già la faccia di Nettuno
vien rossa. In mezzo la regina appare
che le torme col patrio sistro chiama
né ancor si vede i due serpenti a tergo.
E gli dei d'ogni gente mostruosi
ed il latrante Anubi in armi stanno
contro a Nettuno a Venere a Minerva.
Nel cuore infuria de la mischia Marte
sbalzato in ferro, e le sinistre Dire
per l'aria e gavazzante la Discordia
con lo squarciato manto erra, e la segue
col sanguinoso suo flagel Bellona.
Fiso a guardar tendeva Tazio Apollo
l'arco da l'alto: tutto a tal terrore
r Egitto e gì' Indi, ogni Arabo, le spalle
tuttiquanti voltavano i Sabei.
Essa vedeasi la regina a' venti
invocati distendere le vele
e le gómene lente abbandonare.
Pallida lei de la futura morte
LIBRO OTTAVO 27Q
tra le stragi avea fatta il dio del fuoco
da l'onde e da l' làpige portata,
e gigantesco di rincontro il Nilo
addolorato tutti aprire i seni
de l'ampia veste, a sé chiamando i vinti
nel glauco grembo e ne' celati gorghi.
Ma Cesare, con tripHce trionfo
entrando le romane mura, a' Numi
italici, immortai voto, sacrava
grandi per la città trecento templi.
Di tripudio le vie, di festa e plauso
fremevano : le madri a schiera in ogni
tempio, ed are in ognuno, avanti a l'are
d'immolati giovenchi il suol coperto.
Esso, sedendo su la nivea soglia
del biondo Febo, i doni de le genti
rassegna e appende a le superbe porte :
vanno i popoU vinti in lunga fila,
come di lingue, sì di vesti e d'arme
diversi. Qui de' Nùmidi la stirpe
e i discinti Afri il divo fabbro pose,
quivi i Lèlegi e i Cari e i saettanti
Geloni: omai con più sommesso flutto
iva r Eufrate, e i Mòrini remoti
ed il Reno bicorne e gl'indomati
Dai e l'Arasse ch'ebbe a sdegno il ponte.
Questo sul clipeo di Vulcan, materno
dono, ei contempla e, de le cose ignaro,
de l'imagine gode, :^n su la spalla
la fama e il fato de' nepoti alzando.
LIBRO NONO
E mentre questo in altra parte avviene,
mandò dal cielo la saturnia Giuno
Iri a l'audace Turno. Allor nel bosco
de l'avo suo Pilumno in sacra valle
si stava assiso; e a lui col roseo labbro
disse la lìglia di Taumante : « Turno,
quel che non oserebbe al tuo desio
prometter nume, ecco per sé t'offerse
l'ora che volge. La città i compagni
la flotta abbandonando, Enea s' è mosso
a la reggia d'Evandro palatino :
né basta; s'addentrò fino a le mura
di Còrito riposte, e aduna ed arma
lide schiere di villici. Che stai ?
or di cavalli, ora di carri è il tempo ;
schierali orsù, rompi ogn' indugio, e piomba
sopra il turbato accampamento ».
Disse,
ed al ciel si levò con l'ali tese,
sotto le nubi un grande arco segnando.
282 ENEIDE
La riconobbe il giovine, le palme
alzò, seguì con queste voci il volo :
a In, fregio del ciel, chi ti mandava
da le nuvole a me? Donde ad un tratto
questa chiara meteora? dischiuso
il ciel nel mezzo, errar vedo le stelle.
Chiunque sei che chiami a l'armi, seguo
sì gran presagio >».
S'appressò ciò detto
al fiume, e l'acqua a fior ne attinse, molto
gli Dei pregando, e il ciel colmò di voti.
E già tutto l'esercito era mosso
via per l'aperto, ricco di cavalh,
ricco di vesti screziate e d'oro ;
le prime file regola Messapo,
di Tirro i figli l'ultime, nel mezzo
è Turno duce ; qual di sette fiumi
in sé pacati il Gange va profondo
e taciturno o con pingui acque il Nilo
quando da' campi si raccoglie al letto.
Ecco addensar di nera polve un nembo
lontano i Teucri mirano e salire
l'ombra dal suol. Primo Caìco grida
da l'eccelsa vedetta : « Cittadini,
qual sorge nube di caligin fosca ?
A l'armi! a l'armi! ed occupate i muri:
presto! Il nemico è qui o.
Per tuttequante
le porte con rumor grande i Troiani
rientrano e gremiscono gli spaldi.
LIBRO NONO 283
Perché così prescritto avea partendo
il guerrier sommo Enea: se alcun cimento
frattanto si offerisse, non rischiare
di schierarsi né uscir, ma solamente
tenere il campo e i ben cerchiati muri.
Dunque, benché l'onore e Tira accenni
la mischia, ubbidienti tuttavia
fanno barriera de le porte e armati
entro le torri aspettano il nemico.
Turno, che a volo la più tarda schiera
con venti scelti cavalier precorre,
giunge improvviso a la città : lo porta
tracio destriero a macchie bianche ; in capo
ha l'elmo d'oro col cimier vemiigUo.
a Chi sarà meco, o giovani, chi primo
contro il nemico?, grida; Ecco! )• e uno strale
vibra e scaglia per l'aere, principio
di battaglia, ed eccelso avanza in campo.
Risponde l'alto fremito al suo grido
de' suoi, stupiti a la viltà de' Teucri,
non accamparsi a fronteggiarli in armi,
ma pur covar gh attendamenti. Ei torvo
or qua cavalca or là dintorno a' muri,
la via, per dove non è \'ia, cercando.
Come quando appostato a un pieno ovile
mugola il lupo agh steccati, dopo
la mezzanotte, al vento ed a la pioggia ;
sotto le madri belano gh agnelli
securi, e quello impaziente e iroso
già li divora con la lunga rabbia
284 ENEIDE
del pasto e le fauci aride di sangue :
1)011 altrimenti al Rutulo che scruta
i muri e il campo accendesi il furore
e penetra le dura ossa il tormento,
in che guisa l'accesso tenti, e quale
arte i Troiani rinserrati sforzi
a uscir del vallo e spargersi nel piano.
La flotta, ch'era presso al campo in ombra,
d'aggere cinta e dal corrente fiume,
investe, ed a' compagni trionfanti
incendio chiede ed esso furibondo
d'un avvampato pino empie la destra.
iVllor tutti s'affannano (gl'^incalza
la presenza di Turno), s'arman tutti
di nereggianti faci : han saccheggiato
i focolari; le fumose tede
luce di pece spandono, e Vulcano
miste di fumo al ciel sprizza scintille.
Muse, qual dio da sì crudele incendio
i Troiani salvò ? qual da le navi
sì grandi fuochi allontanò ? Narrate.
Antico è il fatto ma la fama eterna.
Nel primo tempo che foggiava Enea
sul frigio Ida la fiotta, apparecchiato
a veleggiar per l'alto, è voce ch'essa
la berecintia madre degli Dei
così parlasse al sommo Giove : « Figlio,
concedi al prego quel che la tua cara
genitrice desia, domo l'Olimpo.
Una pineta, per molti anni cara,
ebbi, recinto in vetta al monte, dove
traea la gente a' sacrifizi, oscuro
di brune picee e d'aceri solenni.
Questo al dardano eroe lieta donai
necessitoso d'una fiotta, ed ora
di quelle navi gran pensier m'affanna.
Liberami da pena, e fa' che ta.nto
valga il pregar materno : non sien rotte
da' viaggi né vinte a le bufere ;
giovi esser nate a lor su' nostri monti ».
E ii figlio a lei , che volge gli astri in cielo :
« Madre, a che sforzi il fato ? e che domandi
per quelle? Chiglie di mortai fattura
avranno sorte d'immortali, e certo
gl'incerti rischi passerebbe Enea?
quale ha tra i Numi potestà si grande ?
Ma pure, uscite al fin del corso e presi
gl'itali porti un dì, qual sia scampata
da le burrasche ed a' laurenzi Hdi
abbia recato il teucro duce, tutte
le spogherò de la caduca forma
e farò viver dive oceanine,
qual è Doto di Xèreo e Galatea
che rompono col petto il mar spumoso ».
Disse, e pel nume del fratello stigio,
da' tetri gorghi torridi di pece,
ratificò cennando le parole
e tutto al cenno fé' tremar l'Olimpo.
Era il promesso dì, compiuto il tempo
debito avean le Parche, allor che mosse
2S6 KNKIDK
quell'assalto di Turno la gran Madre
a stornar da le navi sacre il fuoco.
Nova una luce balenò da prima
agli occhi e vasto parve da l'aurora
correr per l'aria un nimbo e i cori idei;
indi piove da l'alto una gran voce
ch'empie de' Teucri e RutuU le schiere :
« Non v'affannate, o Teucri, a la difesa
de le mie navi, e non v'armate: Turno
brucerà prima il mar che i sacri pini.
E voi, itene sciolte, itene dee
del mar ; così la genitrice impone ».
Ruppero allor le poppe ad una ad una
da la sponda i legami, e giù co' rostri
s'attuffarono a modo di delfini;
poi dal fondo, mirabile prodigio,
in altrettanti visi di fanciulle
tornano fuori ed errano sul mare.
Colpito è il cuor de' RutuU, Messapo
anch' esso adombra come i suoi cavaUi,
ed il corso del Tevere muggendo
par che s'arresti e si rivolga al fonte.
Ma Turno ardito non perde fiducia,
anzi co'detti i cuori eccita e sprona :
« Contro a' Troiani son questi portenti ;
Giove stesso rapì loro l'usato
scampo, senza che attendano le nostre
saette e fiamme. Così chiuso è a' Teucri
il mar, di fuga non è più speranza.
L' una parte hanno persa, ed è la terra
LIBRO NONO 2&/
in nostre mani, tante son migliaia
d'itale genti in arme. Io non pavento
i responsi fatali degli Dei,
di che vantansi i Frigi. A' fati assai
si concesse ed a Venere, che i Teucri
han tocco il suol de la ferace Ausonia.
Bene ho i miei fati anch'io, la scellerata
gente col ferro sterminar che venne
la mia sposa a rapir : questo dolore
non punge sol gh Atridi, e il prender l'armi
solo a Micene non si dà. — Ma basta
sian periti una volta — : oh dovea prima
il peccare bastar, per poco in odio
non tutto avendo il ceto femminile,
costor cui fa coraggio l'interposto
vallo e gl'indugi de le forze, breve
intervallo da morte ! O non le han viste
fabbricate per mano di Nettuno
le mura d'IHo minare in brage?
Ma voi, o eletti, chi squarciar si attenta
il vallo e meco invade il trepidante
accampamento ? L'armi di Vulcano
non ho mestieri né le mille navi
contro a' Troiani, e a lor s'aggiungan pure
tutti gli Etruschi. L'ombre e il furto imbelle
del Palladio, uccidendo i guardiani
de la rocca, non temano, né in grembo
ci acquatteremo del cavallo : al sole
vogliam le mura circondar di fiamma.
Farò che non si credano a le prese
con Danai o con Pelasghi, che aspettare
2-*^8 KM-:iI>K
Ettore fece lino al decim'anno.
Ma or eh' è ito il più del di, nel resto
pensate, o prodi, a voi, del buon principio
lieti, e attendete la battaglia pronta ».
A Messapo il pensier si affida intanto
di assicurar con le notturne scolte
le porte e accender tutto intorno i fuochi.
Sette Rutuli e sette a guernir d'armi
i muri si trascelgono, e a ciascuno
di quelli cento giovani van dietro,
rossi il cimiero e lustreggianti d'oro.
Si spargono, e avvicendano ne' posti,
o adagiati ne l'erba da' crateri
di bronzo mescono a diletto il vino.
Brillano i fuochi, e trae la guardia in gioco
la notte insonne.
Ciò dal vallo rimirano i Troiani
che armati tengon l'alto, e premurosi
di sospetto non men guardan le porte
e con ponti collegano le torri
avanzate ed arrecano armi. Mnèsteo
e l'ardente Seresto instano, i due
cui volle il padre Enea, se rischio stringa,
duci de' prodi e arbitri de' fatti.
Tutta la legion veglia pe' muri,
tratti a sorte i cimenti, e fa sue parti,
giusta quel che a ciascuno è dato in cura.
Era a la guardia d'una porta Niso
d' Irtaco figlio, acerrimo guerriero
LIBRO XOXO 289
e destro gittator d'alati strali
— lui mandò con Enea la cacciatrice
Ida — ; ed Eurialo gli era presso, bello
che niun più tra gli Eneadi o tra quanti
cinsero armi troiane ; gli fioriva
la prima gioventù le intonse gote.
Eran uno d'affetto, uniti insieme
volavano a la guerra, ed anche allora
in custodia comune avean la porta.
« Eurialo — disse Niso — , e son gli Dei
che questo incendio spirano ne' cuori?
o a ciascun si fa dio sua fiera brama?
Una battaglia, o non so che di grande,
da tem_po agogno, né lo star mi appaga.
Vedi quale hanno i RutuK fidanza!
Rari splendono i lumi: il sonno e il vino
tutti fi ha stesi al suol; tutto è silenzio.
Odi senz'altro tu quel che mi affanna,
odi pensiero che m' è nato in mente.
Che si richiami Enea, popolo e padri
chieggono tutti, e a lui vadan messaggi
degli eventi. Se quel che per te chiedo
mi promettono (a me la fama è assai
del fatto), io credo sotto a quell'altura
la via trovare a' muri pallantei ».
Stette, pervaso da un ardor di gloria,
Eurialo, e dice a l'animoso amico :
(( Me dunque teco a le più belle imprese,
Niso, non vuoi? e a tal perigUo ir solo
ti lascierò? Non m'istruì né crebbe
così mio padre, Ofelte uso a le guerre,
Albim - F.neide la
290 ENEIDE
tra lo spavento argolico e il travaglio
di Troia; né così parvi al tuo fianco,
Enea seguendo agli ultimi cimenti:
ho cuore, ho cuor che tien la vita a vile,
e sa che ben si compra con la vita
l'onor cui tendi )). Gli soggiunse Niso :
« Certo non temeva io simili cose
di te, che noi potrei, no; trionfante
così mi ti riporti il sommo Padre
e qualunque a ciò volge amico sguardo.
Ma se — tu vedi la rischiosa impresa — ,
se mi tragga in rovina un caso o un dio,
io ti vorrei superstite; per gU anni
sei più degno di vivere. Vi sia
chi mi raccolga o mi ricompri, a pormi
sotto la terra sohta, o, se tanto
qualche fortuna vieterà, mi renda,
anche disperso, inferie e onor di tomba ;
e ch'io non sia di sì gran duol cagione
a la tua madre misera che, sola
di tante madri, è ardita seguitarti
e sdegna la città del grande Aceste ».
Ma l'altro : « Invano scuse vane intessi,
che già più non si muta il mio pensiero.
Affrettiamoci » dice. E così, deste
le scolte che sottentrino, dal posto
move compagno a Niso, e al re ne vanno.
Gli altri animali per le terre tutte
allentavan nel sonno lor fatiche,
obliavan gli affanni: i primi duci
LIBRO XOXO 291
de' Teucri, eletta gioventù, consiglio
de le somme tenean cose del regno,
che fare, e chi mandar nunzio ad Enea.
Poggiati a le lunghe aste e con gli scudi
son ritti in mezzo degli accampamenti.
Ecco Niso, ecco Eurialo con lui
premurosi domandano udienza :
esser gran fatto, e prezzo de l'indugio.
Primo gl'impazienti accolse Giulo
e disse a Niso che parlasse. .E Niso:
« Benignamente, Eneadi, ascoltate,
né si guardi da' nostri anni l'offerta.
Vinti dal sonno i Rutuli e dal vino
tacquero : un luogo per l' insidie buono
noi esplorammo, al bivio de la porta
eh' è presso al mar: son interrotti i fuochi,
e nereggiano al ciel buffi di fumo.
Se ci lasciate usar de la fortuna,
Enea cercando e i muri pallantei,
qui ci vedrete reduci tra breve
con le spoglie di molta uccisione.
La via non ignoriamo de l'andare :
dal cupo de le valh ne le cacce
assidue la città già travedemmo
e tuttoquanto percorremmo il greto ».
Qui grave d'anni e di consiglio Alete :
« O patrii Dei sotto il cui mrnie è sempre
Troia, non dunque sperdere i Troiani
volete al tutto, quando anime tah
di generosi giovani creaste ».
Così dicendo gli omeri e le miani
292 ENEIDE
stringea d'entrambi e sparso era di pianto.
« Che premi a voi degni di voi per questa
gloria, o prodi, trovar? Prima il più bello
gli Dei vi renderanno e i cuori vostri,
e gli altri poi ve li darà tra breve
il pio Enea ed il fiorente Ascanio
non immemore mai di sì gran merto ».
'f x\nzi, Ascanio soggiunge, io che ho salvezza
solo se torni il genitor, vi giuro,
Niso, pei gran Penati e per il lare
di Assaraco e il sacrario de la bianca
Vesta: ogni mia fortuna, ogni fiducia
è in voi; fate ch'ei torni e ch'io lo veda,
nulla m'è triste riavuto il padre.
Due vi darò nappi d'argento a fregi
ch'esso ebbe presi da la vinta Arisba,
e due tripodi, due talenti d'oro
gravi, e un cratere antico che mi dona
Dido Sidonia. Che se poi m'avvenga
di prendere l' Italia q vincitore
tener lo scettro aggiudicando a sorte
le prede, hai tu veduto quel cavallo
sul quale andava Turno aureo ne l'armi ?
quello e lo scudo ed il cimier vermiglio
non sorteggerò, Niso, e sono tuoi.
Dodici inoltre vi darà mio padre
trascelte donne e dodici captivi
con l'armi sue ciascuno, in fine i campi
ch'esso per qui possiede il re Latino.
Te poi, ch'io seguo più vicino d'anni,
adorabil fancinllr», accolgo in cuore
I.IHR! ) XOXd
■93
e t'abbraccio compagno ad ogni evento,
(jloria per me non cercherò nessuna
senza di te : che in pace o in guerra io viva,
mi sarai primo a' fatti ed a' consigli y>.
Eurialo gli risponde : « Nessun giorno
me diverso vedrà da questo ardire;
solo non torni la fortuna lieta
in luttuosa. Ma su tutti i doni
d'una cosa ti prego : ho la madre io,
de la gente di Priamo vetusta,
cui non fermò che non partisse meco
né d'Ilio il suol ne la città di Aceste.
Or lascio io lei, che nulla sa di questo
qualsiasi rischio, e senza dirle addio
(testimonio la notte e la tua destra)
perché non saprei reggere al suo pianto.
Deh! tu consola quella poveretta,
assisti la deserta. Fa' ch'io pprti
questa speme di te : n'andrò più fiero
ad ogni evento •>.
Piansero commossi
i Teucri, più che tutti il vago Giulo
e vide l'ombra de l'amor paterno.
Poi così dice :
'i Pari a F impresa cui ti accingi tutto
ti riprometti: avrò per madre lei,
le mancherà sol di Creusa il nome ;
poco non merta chi di te s' incinse.
Segua \dcenda qual vorrà, ti giuro
pel capo mio per cui giurava il padre,
tutto che a te prometto e al tuo ritorno
294 ENEIDE
avventuroso, a la tua madre tutto
sarà serbato ed a la vostra gente ».
Si dice lagrimando, e da le spalle
toglie l'aurata spada che Licàone
di Gnosso fé' mirabilmente e pose
agevole in un fodero d'avorio.
A Niso l'irto vello d'un leone
Mnèsteo dà, gli muta elmo il fido Alete.
Armati già si avviano: a le porte
i precipui de' giovani e de' vecchi
a schiera li accompagnano co' voti.
Ed esso il vago Giulo che ha pensiero
avanti gli anni e cuor d'uomo, commette
assai cose pel padre suo, ma il vento
le dissipa tra il volo de le nubi.
Escono e i fossi varcano, avviati
tra la notte agl'infausti alloggiamenti,
pur per essere prima a molti morte.
E dal sonno e dal vin gettati a terra
veggon molti qua e là, veggono carri
co' lor timoni a l'aria, e tra le briglie
e le ruote giacer guerrieri ed armi
e vino insiem. L' Irtacide per primo,
« Eurialo, dice, or deve il braccio osare ;
essa la cosa invita, il vaico è questo.
Tu, che non ci si levi alcuno a tergo,
guarda e specula lungi; io darò il guasto
e spaziosa ti farò la strada ».
Cosi detto si tace, e con la spada
al superbo Ramnete insiem s'avventa
LIBRO NONO 295
che alto sopra un monte di tappeti
soffiava il sonno dal profondo petto.
re ed a Turno re caro profeta,
ma pur lui non campò sua profezia.
Sorprende accanto, stesi a la ventura
in mezzo l'armi, tre servi di Remo
e l'armigero giù sotto i cavalli
auriga, e taglia quelle gole prone :
poi mozza il capo al sire, e lascia il busto
singhiozzante di sangue; il suolo e il letto
s'impregnan bruni de la calda vena.
Làmiro e Lamo ancor e il giovinetto
Serrano che giocato quella notte
aveva tanto, bello di sembianze,
e che domo giacca dal molto iddio;
felice, se traea lungo il suo gioco
quanto la notte insino a' primi raggi!
Tal digiuno leone a' pieni ovili
spaventoso (crudel fame lo spinge)
il molle armento muto di paura
trae, sbrana, arrossa la fremente bocca.
Né minore d'Eurialo è la strage :
acceso anch'esso infuria, e molta plebe
senza nome nel mezzo, e Fado, Erbeso,
Reto ed Abari assale, incoscienti,
ma Reto sveglio e che vedeva tutto
e dopo un gran cratere si celava:
s'accosta, e in petto a lui mentre si leva
tutta immerse la SDada e la ritrasse
piena di morte. L'anima purpurea
!QÒ ENEIDE
rende quegli ed il vin mischiato al sangue
questi imperversa negli assalti.
E ornai
tendeva a' soci di Messapo ; quivi
mancar vedeva i fuochi e a l'uso sciolti
pascolare i cavalli; allor che Niso,
che troppo il vide inebriar di strage,
disse : <( Cessiamo, che la luce infausta
s'avvàcina; infliggemmo assai di pene
ed aperto il passaggio è tra' nemici ».
Lasciano molte di massiccio argento
armi e crateri e fulgidi tappeti.
Eurialo la gualdrappa di Ramnete
prende e la bandoliera a borchie d'oro,
che a Remolo di Tivoli una volta
il ricchissimo Ccdico, stringendo
lungi ospitalità, mandava in dono ;
ei l'assegna morendo al suo nipote,
e morto lui signori guerreggiando
se ne fecero i RutuU: la prende
ed agli omeri forti invan l'appende.
Poi la celata di Messapo lieve
e di pennacchi splendida si adatta.
Escon dal campo a più sicura via.
Intanto cavalier mandati avanti
da la città latina, mentre indugia
la legione armata a la campagna,
ivano a Turno re con un messaggio ;
trecento, tutti con lo scudo, duce
Volcente : e già si facean presso e sotto
LIBRO NONO 297
a la cerchia campale, ecco in disparte
scorgono i due che piegano a sinistra,
e per l'ombra chiarita de la notte
l'elmo Eurialo tradì che non pensava,
illuminato dal diretto raggio.
Non fu vano veder. Grida Volcente :
« Fermi ! chi siete ? qual cagion vi mosse ?
e dove andate ? >' Quelli invece muti,
dileggiando tra gli alberi e la notte.
PigUano i cavalieri i noti sbocchi
e tutti li coronano di guardia.
Irto di pruni il bosco e d'elei nere
s'allargava selvatico e sterposo :
raro lucea sentier pe' calli ascosi.
L'ombra de' rami e il peso de la preda
impediscono Eurialo, e lo trae
Io sgomento di via. Niso precorre :
e già senza pensare oltre i nemici
passava e i luoghi che dal nome d'Alba
furono poi chiamati Albani, allora
li possedea selvaggi il re Latino ;
quando ristette a riguardare invano
l'amico che non v'era . <' Ah dove, o mio
povero Eurialo, ti lasciai? per dove
ti cercherò, tra le sue spire indietro
ripercorrendo la fallace selva ? >
E s'è rivolto già su l'orme sue
e tra* pruneti taciti s'aggira.
Lo scalpito e lo strepito ed i segni
ode de l'inseguir: né molto indugia
che a l'orecchio gH giungono le grida
298 ENEIDE
e vede Eurialo cui la torma intiera
impetuosa dal notturno agguato
• ha sopraffatto ed ei rilutta indarno.
Che far ? quale a salvarlo ardire o forza ?
o deve tra' nemici esso gettarsi
affrettando per Tarmi un bel morire?
Di sùbito incoccato un giavellotto,
riguarda l'alta Luna e così prega :
« Tu dea, deh ! tu benigna ci soccorri
nel bisogno, ornamento de le stelle
e de' boschi latonia protettrice.
Se mai doni per me ti offerse a l'are
Irtaco padre, e s' io da le mie cacce
pur te li accrebbi ed a la volta e a' sacri
pinnacoH ne appesi, or fa' eh' io sperda
questa masnada e il dardo in aria reggi ».
Disse, e con tutta la persona imprime
forza a lo strale che sferzando l'ombra
coglie in petto Sulmone e gli trascorre
al dorso, infranto ne l'infranto cuore.
Trabocca quegli vomitando un fiume
caldo dal seno, e batte i fianchi in lunghi
singulti freddo. D'ogni parte intorno
riguardano. Più fiero esso vibrava
di su l'orecchio la seconda freccia.
Tra gli affannati per le tempie a Tago
passa la sibilante asta e si stette
nel trafitto cervello intepidita.
Furioso Volcente non iscopre
l'autor del colpo in cui possa avventarsi.
LIBRO XONO 299
« Ma pure intanto tu col caldo sangue
mi pagherai per ambedue », prorompe,
e con la spada sguainata andava
contro Eurialo. Allora esterrefatto,
folle Niso dà un urlo, e ascoso in ombra
più star non sa né sì gran duol patire.
« Me, me ! qui sono, io fui : contro me l'armi,
Rutuli ! tutta questa trama è mia :
nulla osò questi e no '1 potea, lo giuro
a questo cielo e a le veggenti stelle;
sol che amò troppo l'infelice amico».
Così diceva; ma il fendente sceso
passò le coste e il bianco petto ruppe.
Cade Eurialo morente, e per le belle
membra va il sangue, e su l'omero cade
abbandonata la cervice : come
purpureo fior eh' è raso da l'aratro
languido smuore, o sopra il collo stanco
i papaveri piegano la testa,
quando li preme il peso de la pioggia.
Ma Niso sbalza in mezzo a tutti, e solo
vuol fra tutti Volcente e in lui s'appunta
D' ogn' intorno lo serrano i nemxici
intesi a ributtarlo. Egli non meno
incalza e ruota la fulminea spada,
fin che in bocca del Rutulo gridante
la mise ed a lui die miorendo morte.
Poi pien di colpi si lasciò cadere
su l'esanime amico, e finalmente
ne la mortai quiete ivi si posa.
Felici entrambi! se il mio canto vale,
>00 KNEIOE
nessun tempo farà da le memorie
voi tramontar, fin che d'Enea la stirpe
terrà del Campidoglio il sasso immoto
ed i padri romani a^•ranno impero.
Con la preda e le spoglie vincitori
i Rutuli portavano piangendo
Volcente morto ne l'accampamento.
Né minor lutto è quivi, di Ramnete
trovato esangue e tanti in una strage
principi spenti, e di Serrano e Numa.
Gran calca è presso a' morti e a' morienti
ne' luoghi caldi del recente eccidio
tra '1 sangue che tuttor gorgogha e geme.
Vanno le spoglie insiem riconoscendo
e l'elmo luminoso di Messapo
e i fregi a gran sudor ricuperati.
E già spargea di nova luce il mondo
la prima aurora fuor del croceo letto
di Titone ; balzate già dal buio
nel sol si coloravano le cose :
Turno a l'arme i guerrieri, anch'esso in arme,
chiama ; ordina ciascuno e schiera i suoi,
e co' vani racconti attizzan l'ire.
Inoltre in punta a le diritte lance
configgono, e accompagnano gridando,
spettacol miserabile, le teste
d'Eurialo e di Niso.
GH Eneadi fieri a la sinistra parte
de le mura fronteggiano accampati
LIBRO XOXO 301
(che la destra dal fiume è cinta), e l'ampie
fosse difendono, o su l'alte torri
si stanno mesti: i capi degli eroi
confitti crescon la mestizia, ahi! troppo
noti e stillanti di grommato sangue.
Intanto a voi per la città sgomenta
messaggera la Fam_a erra e agli orecchi
de la madre d' Eurialo perviene.
Gelo improvviso fino a l'ossa corse
de r infelice : le cadder di mano
la spola ed i gomitoli correnti :
esce fuor, con femmineo ululato
stracciandosi le chiome; forsennata
corre su' muri e ne le file prime,
immemore degli uomini e del rischio
de l'armi, ed empie il ciel del suo lamento.
<( Tal ti rivedo, Eurialo ? conforto
de la vecchiezza mia, lasciarmi sola,
crudel, potesti ? A l'ultimo cimento
movevi, e favellarti anche una volta
non fu dato a la povera tua madre?
Ahi ! su straniera terra in preda giaci
a le cagne latine ed agli uccelli,
né a te, a la salma tua, madre fui presso,
né chiusi gli occhi o tersi le tue piaghe,
de la veste coprendoti che il giorno
e la notte io sollecita tessea
a consolar la tenerezza estrema.
Dove seguirti ? in qual mai terra sono
le membra sparse de la tua persona ?
302 ENEIDE
Di te sol questo mi riporti, o figlio?
questo io seguiva per la terra e il mare?
Me trafiggete, se pietà vi resta;
tutte, o Rutuli, mie sian le saette;
per prima annichilatemi con l'armi.
Ovvero tu, gran Padre degli Dei,
m'abbi misericordia e col tuo lampo
sprofondami a l'Avemo, se altrimenti
romper non posso questa orribil vita ».
Son tocchi i cuori da quel pianto, e il triste
gemito a tutti si propaga: torpe
illanguidito ogni vigor di guerra.
Attore e Ideo lei che movea dolore
raccolgono per cenno d' Ilioneo,
non che di Giulo che piangea dirotto,
e riportano a casa in su le braccia.
Ma la tromba col suo bronzo canoro
lungi squillò terribilmente : segue
clamor e il ciel rimugghia. I Volsci ad una,
serrata la testuggine, s'avventano
a empir le fosse ed a schiantare il vallo.
Parte un'entrata cercano e salire
scalando i muri, ove la guardia è meno
e la corona de' guerrier traluce
d' intervalli. I Troiani di rincontro
a gradinar d'ogni maniera strali
e a ributtar con pertiche robuste,
avvezzi a tal difesa in lunga guerra. •
Sassi ancor travolgevan ponderosi,
per pur tentare la coperta schiera
LIBRO NONO 30
d'infrangere, mentr'ella pur sopporta
sotto lo schermo suo tutto che cade.
Ma non reggono più. Che dove preme
denso lo sforzo, i Teucri un masso immane
rotolano e ruinano, che molti
fiaccò nemici e il tetto insiem de l'armi.
Né omai gli audaci RutuH han pensiero
d'oprar coperti, m.a sguernir gh spaldi
saettando si studiano.
x\ltrove, orribile a veder, Mezenzio
squassava etrusco pino e con fumosa
vampa ne vien: Messapo, di cavalli
domator, prole di Nettuno, scrolla
gli steccati e a salir scale domanda.
Voi m' ispirate, deh ! Calliope, il canto,
quale ivi allor col ferro strage, quali
morti Turno spargesse, e che guerrieri
ciascun precipitasse a l'Orco; e meco
il gran libro spiegate de la guerra.
V'era una torre a riguardar superba,
con alti ponti, in opportuno luogo:
ogni forza, ogni sforzo ad espugnarla
tutti volgevan gì' Itali, e i Troiani
con le pietre a difenderla e coi dardi
fitti scagliati per le feritoie.
Turno primiO gittò fiaccola e fiamma
che da un lato si apprese e crebbe al vento
e corse per le tavole e le porte.
Dentro sgomenti trepidar, cercare
304 ENEIDE
invan lo scampo dal periglio. E in quella
che addensati s'arretrano a la parte
dal danno immune, a l'improvviso peso
giù ruina la torre e scroscia un rombo.
Semivivi al terren vengono, sotto
la gran caduta, infitti ne le loro
armi o passati il sen da duro legno.
Solo Elènore e Lieo furon salvi:
de' quali il fresco Elenore, che al lidio
re di furto allevò Licimnia schiava
ed il mandò con vietate armi a Troia,
ha nuda spada e scudo senza fregio.
Quando tra i mille e mille egli di Turno
si vide e d'ogni parte armi latine,
come la fiera che, da un cerchio stretta
di cacciatori, le minacce affronta
e non ignara gittasi a la morte
spiccando sopra de le picche il salto,
non altrimenti il giovine si scaglia
tra i nemici a morir, dove più densi.
Ben più ratto di pie Lieo fuggendo
tra gli uomini e tra l'armi a' muri giunge,
e già si studia d'afferrare i merH
e de* compagni suoi prender le destre.
Ma Turno, insiem di corsa e di saetta
seguendolo, urla trionfante: « pazzo !
e sperasti campar da le mie mani ? » ;
e il ghermisce a mezz'aria e via lo svelle
con gran part'^. di muro: qual di Giove
l'augello allor che tra gli artigU al cielo
si porta un lepre od un nitente cigno,
LIBRO NOVO 305
o il marzio lupo che rapi l'agnello,
e la madre lo cerca e a lungo bela.
Levasi intorno il grido : innanzi vanno
ed i fossati colmano, mentre altri
scagliano ardenti fiaccole a la cima.
Ilioneo d'un gran pezzo di monte
Lucezio atterra che col foco in mano
a la porta venia; Lìgere prostra
Ematione, Asila Corineo,
quei buono al getto, questi a l' improvviso
da lungi saettar: Cèneo ad Ortigio,
a Ceneo vincitor dà morte Turno,
Turno a Iti ed a Gonio, a Diossippo
e a Promolo, ed a Sàgari e a quell' Ida
che difendea le torri alte; a Privemo,
Capi. Costui sfiorato avea da prima
lieve la lancia di Temiila: ei folle,
avanzando lo scudo, a la ferita
pose la mano, ed ecco una saetta
che la man gh confisse al manco lato
e penetrata addentro di mortale
piaga le vie gli ruppe del respiro.
D*Arcente il figlio in belle armi si stava,
ricamato la clamide e lucente
d'ostro iberico, nobile d'aspetto,
che il genitore Arcente avea mandato,
cresciutolo nel bosco di Cibele
in riva del Simeto, ove fiorisce
incruento l'altare di Palico :
posate l'aste, una stridente fionda
esso Mezenzio si girò tre volte
Ai.a:x: - Eneide zm
306 ENEIDE
intorno al capo e a lui che gli era in faccia
col liquefatto piombo apri le tempie
e lungo lo distese in su l'arena.
Fama è che allor la prima volta in guerra
vibrasse Ascanio l'agile saetta,
uso innanzi atterrir fiere fugaci,
e del colpo prostrò Numano forte,
soprannomato Remolo, pur dianzi
sposo di Turno a la minor sorella.
Questi avanti le file a dritto e a torto
vociferando, e tumido nel cuore
de la regahtà nova, perverso
si pompeggiava rumorosamente.
« Non v' è rossor, due volte presi Frigi,
un altro assedio? e opporre a morte un muro?
Ecco chi a forza vuol le nostre spose !
Quale Iddio, qual follia spinse in Itaha
voi? qui non son gli Atridi e non Ulisse
maestro a dire. Fin dal ceppo forti
noi giù portiamo i nostri figli a' fiumi;
al gelo e a l'onde li tempriam : fanciulli
vegliano in caccia e battono le selve,
domar cavalli e scoccar dardi è gioco.
Paziente de l'opra e al poco avvezza,
la gioventù rompe co' rastri il suolo,
crolla con l'armi le città. Tra '1 ferro
si consuma ogni età: l'asta rovescia
è pungolo a le terga de' gio\'enchi.
Né la tarda vecchiezza indebolisce
i vigorosi spiriti o li muta :
• LIBRO xnxo 307
l'elmo calchiam su la canizie, e sempre
fresche amiani prede e \iver di rapina.
A voi le vesti piacciono di croco
e di fulgida porpora dipinte,
e l'ozio molle e i dilettosi baUi.
le maniche e le mitre co' fermagli.
O Frigie veramente, e non già Frigi,
ite per Talto Dindimo, ove il flauto
canta sua nota duphce a' devoti;
i tamburelli e il bosso berecinzio
de l'idèa Madre chiaman voi : lasciate
a' guerrieri la guerra e fate largo >.
Non sofferì l'insultator protervo
Ascanio, e vòlto a lui pose la freccia
sul nervo equino e con distratte braccia
stette, invocando pria Giove co' voti:
« L'ardire, o Giove onnipotente, aiuta.
E porterò solenni doni a' templi ;
davanti a l'are con dorate corna
bianco torello ti addurrò, che ormai
erga la testa al pari de la madre,
e già cozzi e co' pie sparga l'arena ».
L'udì, tonò dal ciel sereno a manca
il Padre, iìschia insieme il fatale arco :
vola stridendo l'avventato strale
e le tempie di Remolo trafigge.
«Va', motteggia il valor co' detti impronti!
Questa i due volte presi Frigi fanno
a' Rutuli risposta ». E tacque a tanto.
Il grido segue de' Troiani e un fremito
308 KNKIDK
di gioia e un vampo di cresciuto ardire.
Sta vasi allora da un 'eteri a plaga
Apolline chiomato a riguardare
l'ausonie schiere e la città, sopra una
nuvola assiso, e tal saluto volge
a Giulo vincitori «Viva, o fanciullo,
il valor novo! Così al ciel si sale,
figlio e futuro genitor di numi.
A ragion, quante ha l'avvenir fatah
guerre, sotto d'Assaraco la gente
poseranno, né te Troia contiene ».
Così dicendo giii dal ciel si cala
e vien per le lievi aure verso Ascanio.
Allor muta l'aspetto in quel del vecchio
Bute, che fu del dardanio x\nchise
scudiero prima e famigliar fedele,
poi diello il padre a compagnia d' Ascanio.
Apollo in tutto simile al vegliardo,
a la voce a le carni al bianco crine
e a l'armi dal terribile tinnire,
così favella a l'animoso Giulo:
« Or basti, Enide, che Numano cadde
del colpo tuo senza tuo danno : prima-
ti assente il grande Apollo questa lode
e non invidia a l'armi uguali: omai
astienti, o figlio, da la guerra ». Disse,
e a mezzo il dir lasciò l'uman sembiante
e dal guardo disparve in sottil aura.
Riconobbero i dardani guerrieri
il dio, le divine armi, e ben fuggente
sentirono sonar la sua faretra.
LIBRO NOXO 309
Dunque pe' detti e pe '1 voler di Febo
frenano Ascanio di pugnar bramoso,
ed essi fan ritorno a la battaglia
e agli aperti cimenti offron la vita.
Va per tutte le mura e per le torri
il clamor; tendono i fieri archi, a l'aste
scoton la brigKa ; tutto il suolo è strali ;
gli scudi e gli elmi cavi a le percosse
rimbombano ; la mischia aspra si leva :
tal da ponente vien sotto i piovosi
Capretti su la terra un gran rovescio,
e così fitto grandina sul mare,
qualor con gli austri Giove tenebroso
rotola l'uragano e squarcia i nembi.
Pandaro e Bizia, figli de l'idèo
Alcànore, che in quel bosco di Giove
allevò la silvestre lèra, giovani
alti come gli abeti a' patrii m_onti,
la porta che dal duce è a lor commessa
spalancano fidandosi ne l'armi
ed invitano dentro essi il nemico.
Essi di dentro comie torri stanno
a destra e a manca tutti aspri di ferro
e col cimier su' capi alti fremente :
così lunghesso i fiumi, o sian le rive
del Po, sian de l'ameno /\dige, due
quercie si vedon sorgere chiomate
ed accennare con le somme vette.
Vi s'avventano i Rutuli, veduto
schiuso l'entrar: ma sùbito Quercente,
'XO ENEIDE
da le belle armi Aquicolo, il focoso
Tmaro e il bellico Emon con tutti i loro,
o percossi voltarono le spalle
o là sul varco resero la vita.
Più cresce allor ne' cuori avversi l' ira :
e già quivi s'addensano i Troiani
d'azzuffarsi e avanzare inanimati.
A Turno re che altrove infuria e incalza
l'annunzio va che l'avversario è sorto
a strage nova e dà le porte aperte.
Lascia l'impresa e pien d'ira feroce
vola a la porta e a' due portier superbi.
Primo Antifate (primo egli venia),
spurio del gran Sarpèdone di madre
tebana, atterra d'uno strai: ne l'aria
fugge l'itala penna e per la gola
si profonda nel petto, una caverna
v'apre che sgorga fuor spumoso fiotto,
e ferve il ferro nel polmon trafìtto.
Indi Merope atterra ed Erimante,
indi Afìdno, indi Bizia igneo negh occhi
e fremebondo in cuor, ma non di freccia
(che certo ei non cadea per una freccia),
si venne come un fulmine fischiando
una falàrica : i due cuoi taurini
non ressero né resse la lorica
fedel a doppia lastra d'oro; piomba
il gran corpo sul suol che ne risuona,
e romba sul caduto il grande scudo.
LIBRO NONO 311
Tale di Baia su Feuboico lido
cade talor pilone di macigno,
che su gran massi preparato avanti
gettano in mare; così giù rovina
e percosso rista ne l'imo fondo :
s'agitan l'acque e bruna si solleva
la sabbia; al tonfo Procida alta trema
e ne trema Ischia per voler di Giove
imposta a Tifoèo duro giaciglio.
Qui Marte armipotente animo e forza
crebbe a' Latini e li toccò di sprone,
mandò la Fuga e il reo Timor fra' Teucri.
Concorron quelli, poi che il campo è dato
e il dio pugnace move i cuori.
Pandaro, a terra il suo fratel veduto
e il volger de le cose e la vicenda,
la porta a tutta forza risospinge
puntando con le larghe spalle, e molti
chiude fuori de' suoi tra la battaglia,
ma seco altri rinserra e li rattiene
precipitanti; folle, che non vide
esso il rutulo Re tra la sua schiera
prorompere, ma dentro lo rinchiuse,
come tra imbelle armento atroce tigre.
Nova una luce balenò dagli occhi
e orribilmente gli sonaron l'armi :
fremon le punte del cimier sanguigno
ed è guizzi di folgori lo scudo.
Ben riconoscon l'odiata faccia
312 ENEIDE
e il gran corpo gli Eneadi d'un tratto
sgomenti.
Balza allor Pandaro enorme
e grida, iroso del fraterno scempio :
« Non questa è la dotai reggia di Amata,
non Àrdea già tra le native mura
abbraccia Turno: quel che vedi è il campo
avverso ; uscir di qui non è potere ì\
E con un riso a lui placido Turno :
« Comincia, se hai virtù : vieni. Dirai
a Priamo che anche qui s' è visto Achille ».
Avea detto. Colui rozza e nodosa,
di cruda scorza, a tutta possa un'asta
scaglia: fu al vento; la saturnia Giuno
sviò la piaga che veniva, e Fasta
piantasi ne la porta. « Ma non questa
arme, che tratta la mia destra forte,
tu sfuggirai ; eh' è il feritor diverso r,.
Disse, e si eresse con la spada in alto
e di ferita orribile gli aperse
la fronte in mezzo e le mascelle imberbi.
Fu fracasso e tremor di sì gran peso :
batte a terra le membra ei moribondo
e del cervello sparse Tarmi: il capo
penzola dimezzato a le due spalle.
Costernati si sbandano i Troiani:
e se in pensiero al vincitor veniva
franger le sbarre e chiamar dentro i suoi,
ultimo de la guerra e de la gente
era quel dì : ma cieco amor di strage
via lo rapì contro a' nemici.
LIBKO XONO 313
Primo s'abbatte a Fàleri ed a Gige
recidendogli il poplite ; ritratte
l'aste le scaglia de' fuggenti a tergo
(animo e forza gli ministra Giuno);
Ali compagno aggiunge e Fègeo, cui
passò la parma; ignari su le mura
appresso e provocanti Alcandro e Alio
e Noèmone e Pritani. Poi Linceo,
che gli si spinge contro e chiama i soci,
col vivo brando da lo spaldo a destra
soprafià (lì spiccatogli d'un colpo
giacque con Telmo il capo suo lontano),
Amico poscia distruttor di belve,
che a unger dardi e avvelenar la punta
ben sapea far meglio che tutti, e Clizio
eolide, e a le Muse amico Crèteo,
Creteo compagno de le Muse, ch'ebbe
sempre i carmi e la cetra a cuore e il canto
a le corde sposato, e cantò sempre
cavalli ed armi e battagliar d'eroi.
I teucri duci alfine, udito il danno,
convengon, Mnèsteo e il fìer Seresto, e in rotta
veggono i loro ed il nemico in casa.
E Mnèsteo grida: a A che fuggire ? e dove ?
qual città più, quah altre mura avete?
Un uomo solo, o cittadini, e stretto
entro i vostri steccati, impunemente
la città riempita avrà di stragi
e i più forti guerrier piombati a l'ombre ?
Non de la patria sventurata, o lenti.
314 ENEIDE
de' vecchi Dei, del grande Enea vi tocca
pietà, riguardo ? )) Rincorati a questo
serransi tutti e fanno fronte.
Turno
a grado a grado uscìa da la battaglia
verso il fiume e la parte che n'è cinta.
Però più aspri con immenso grido
s'agglomerano i Teucri ad incalzarlo.
Come quando una turba saettante
caccia un crudo leon, che sopraffatto,
truce, con torve occhiate, si ritrae,
né per l'ira e il valor soffre fuggire,
e non può pur bramoso in mezzo a l'armi
e la gente balzar; non altrimenti
dubbioso arretra Turno, e non s'affretta,
con l'incendio nel cuor. Anzi due volte
tornò a scagliarsi tra' nemici, e due
empì gli spalti di confusa fuga :
ma tutto il campo contro lui si accoghe;
né forze ardisce la saturnia Giuno
prestargli, che d'Olimpo a la sorella
Giove spedita aveva Iri celeste
con sua non He ve ingiunzion, se Turno
la troiana città non abbandoni.
Col braccio dunque e con l'usbergo solo
regger non può, tra il nembo che l'opprime
de le saette. È un crepitìo continuo
l'elmo intorno a le tempie, il buon metallo
si fende a' sassi, volan via dal capo
le creste, a' colpi smagliasi lo scudo.
I Troiani imperversano con l'aste
LIBRO NONO
e anch'esso Mnesteo fulminante. Tutta
il sudore gli corre la persona
in rivoli nerastri, e respirare
non può; scote l'affanno il corpo stanco.
Alfine allor d'un salto giù nel fiume
con tutte l'armi si lasciò : l'accolse
al suo venire la corrente bionda,
mansueta lo resse, e trionfante
deterso da la strage a' suoi lo rese.
315
LIBRO DECIMO
S'apre intanto la casa de l'Olimpo
onnipotente, e il Padre degli Dei
e degli uomini Re concilio aduna
ne la stellata sede, onde alto mira
le terre tutte e il campo de' Troiani
e i popoli Latini. Ne la stanza
siedono bipatente : esso incomincia :
u Grandi Celesti, onde il pensier vi muta
e sì lottate con avversi cuori?
Vietai che Italia guerreggiasse i Teucri.
Contro il divieto qual discordia ? quale
trepidanza suase o questi o quelli
a cercar l'armi e rompere in battaglia ?
Verrà, non l'affrettate, il giusto tempo
di guerra, quando un di l'aspra Cartago
moverà contro le romane rocche
un estenninio grande e l'Alpi aperte.
Allor gareggiar d'odii, allor fia bello
sovvertire ogni cosa : ora lasciate
e riposate in un concorde patto »,
3l8 ENEIDE
Giove in breve così, ma non già breve
risponde l'aurea Venere :
« Padre, eterno signor d'uomini e cose
(e a chi potremmo avere omai ricorso?),
vedi tu come i Rutuli son baldi
e Turno corre tra la mischia e vola
alto sul carro e gonfio de' successi ?
Non bastano a difendere i Troiani
le chiuse mura : entro le porte, in cima
agh spaldi già vengono a le prese,
e le fosse ridondano di sangue.
È lungi e ignaro Enea.
Non mai d'assedio
li francherai ? De la nascente Troia
stringe il nemico un'altra volta i muri
e un esercito novo; un'altra volta
sorgerà contro a' Teucri da l'etola
Arpi il Tidide. Più non manca, credo,
che le ferite mie : la tua figliuola
attendendo si sta dardi mortali.
Se contro il tuo piacer, senza l'assenso
i Troiani salparono a l'Italia,
paghin la colpa e privali d'aiuto :
ma se dietro gli oracoli fur mossi
che sì spessi rendean Superi e Mani,
perché v'ha chi rimuta oggi il tuo cenno
e presume crear novi destini ?
Dirò le navi al Udo d' Erice arse ?
o il re de le tempeste suscitato
e da l'Eolia i venti furibondi?
o da le nuvole Iride mandata ?
LIBRO DECIMO 319
Ora move fin l'ombre (l'universo
serbava intatta quella parte), e Alletto
eruppe d'improvviso sotto il sole,
per l'itale città pazza scorrendo.
Non m'affanno d' impero : io lo sperai
a' lieti giorni : vinca, chi tu vuoi.
Se non è region che la tua dura
consorte a' Teucri dia, padre, ti prego
per le fumanti ceneri di Troia,
che si possa campar da l'armi Ascanio
incolume, superstite nipote.
Vada per onde ignote Enea sbattuto ;
qual via Fortuna assegnerà, la corra :
ma questo, ch'io lo salvi e lo sottragga
a l'empia guerra. Ho Amatunta, ho l'alta
Paf o e Citerà con l' idahe case :
qui\d senz'armi viva e senza gloria.
Fa' che in fiero dominio signoreggi
Cartagine l'Ausonia : indi nessuna
a le tirìe città verrà molestia.
Che valse uscir dal vortice di guerra
e per mezzo sfuggir le argive fiamme
e tanti in terra e in mar rischi patire,
cercando i Teucri il Lazio e una risorta
Pergamo? Deh, non era meglio stare
su le reUquie de la patria estreme,
là dove Troia fu ? Padre, oh ! tu rendi
agl'infeUci Xanto e Simoenta
e fa' che la vicenda si rinnovi
d'Ilio a' Troiani ».
La regal Giunone
[20 i-:neti)K
allor, accesa di furor profondo:
a L'alta silenzio a che romper mi sforzi
e in parole svelar l'intimo sdegno?
Enea qual uom, qual dio l'astrinse a guerra
e lo mosse nemico al re Latino ?
Venne in Italia per i fati, e sia,
stimolato dagli estri di Cassandra :
forse che a uscir dal campo l'esortammo
e commettersi a' venti ? a dare in mano
e le mura e la guerra ad un fanciullo?
l'etrusca fede e i popoli quieti
turbar ? Qual dio lo spinse al mal, qual nostra
mai prepotenza ? dov'è qui Giunone
o da le nuvole Iride mandata?
Indegna cosa a la nascente Troia
gì' Itali porre intorno il fuoco, indegna
stanziar Turno ne la patria terra,
cui fu avo Pilumno e cui fu madre
la dea Venilia : ed i Troiani contro
a' Latini venir con tetra face ?
campi altrui soggiogar, portarne prede?
i suoceri trascegliersi e rapire
lor di grembo le spose? con la mano
pace implorare, armar le poppe a guerra?
Tu Enea puoi trarre da le man de' Grai
e porre in luogo suo la nebbia e il vento,
puoi de le navi tu far tante ninfe :
s'io giovo in nulla i Rutuli, è delitto?
È lungi e ignaro Enea. Sia lungi e ignaro.
Hai Pafo e Idalio, hai tu l'alta Citerà ;
una città eh' è gravida di guerre
LIBRO DECn.IO 321
e fieri cuori perché tenti? Forse
ci sforziam noi di rovesciarti il frale
stato de' Frigi ? noi, o chi di fronte
pose agli Achivi i poveri Troiani ?
Qual fu cagione a sollevarsi in armi
l'Europa e l'Asia e dissipar la pace
con un ratto? L'adultero troiano
forse da me condotto espugnò Sparta?
il dardo io diedi e in voluttà la guerra
scaldai ? Dovevi allor pe' tuoi temere :
tarda or ti levi a lamentele ingiuste
e vai spargendo inutili corrucci ».
Così Giunone perorava e tutti
i Celesti fremean con vario assenso,
come quando i primi ahti nascosi
metton tra '1 bosco un murmurc indistinto,
indizio al marinar che viene il vento.
Allora il Padre onnipotente, primo
de le cose signor, parla (al suo dire
ammutisce la casa alta de' Numi
e giù la terra trepida, si tace
il som^mo ciel, gli zefiri son cheti,
e l'oceano placido si spiana) :
« M'udite dunque e in cuor figgete il detto.
Poi che stringere accordo Ausoni i e Teucri
non fu concesso, e la discordia vostra
dura infinita, qual che abbia ciascuno
oggi fortuna, qual solchi speranza,
Teucro o Rutulo, io non farò divario,
o per fati degl'Itah sia stretto
Albini - Eneide ai
322 ENEIDE
d'assedio il campo o per infausto errore
di Troia e per oracoli sinistri.
Né i Rutuli prosciolgo. Avrà ciascuno
il danno e la fortuna de la propria
impresa. Giove è re per tutti eguale.
I fati troveran la via ».
Pe '1 fiume
indi accennò del suo fratello stigio
dai tetri gorghi torridi di pece,
e tutto al cenno fé' tremar l'Olimpo.
Qui finir le parole. Allor si leva
Giove da l'aureo trono, ed i Celesti
in cerchio l'accompagnano a le soglie.
I Rutuli frattanto ad ogni- porta
premono a studio di atterrar guerrieri
e le mura cerchiar d' incendio. Stretta
ne* valH sta la legion d'Enea,
né speranza è di fuga. Su le torri
alte i miseri stanno inutilm.ente,
e rari coronarono gli spaldi.
Asio Imbratide appar, l' Icetaonio
Timete ne la prima schiera, e i due
Assaraci e con Castore il provetto
Timbri : compagni vengono di questi
entrambi di Sarpèdone i germani
Claro e Temone da l'alpestre Licia.
Con isforzo di tutta la persona
un gran sasso, una falda anzi di monte,
porta il lirnesio Acmon, né a Lizio padre
né al fratello Menèsteo inferiore.
LIBRO DECIMO
Questi col getto, quei volgendo pietre
studiano a la difesa e avventar fuoco
ed incoccare le saette al nervo.
Esso nel mezzo, degno amor di Venere,
è il dardanio fanciullo a capo ignudo;
quale brilla tra' 1 biondo oro una gemma
di fregio al collo o al crine, e qual per arte
commesso avorio luccica tra '1 bosso
o il terebinto d'Orico : i capelli
gii piovon su la candida cervice,
li annoda un cerchio di pieghe voi oro.
Te pur r inclita gente, Ismaro, vide
diriger colpi e attossicar saette,
di nobil casa di Meonia, dove
esercitano gli uomini le zolle
feraci, dal Fattolo aureo irrigate.
Anche Mnesteo vi fu, cui leva a cielo
la prima gloria del cacciato Turno
da la cerchia de' muri, e vi fu Capi,
onde ha suo nome la città campana.
Quelli tra lor le gare aspre di guerra
fecero : Enea nel cuore de la notte
solcava il mar. Poiché, come da Evandro
entrato al campo etrusco al re ne viene
e al re dice il suo nome e la sua gente,
quel che domanda e quel che offre, ed espone
quali Mezenzio si procacci aiuti,
quanta di Turno sia la violenza,
e gli rammenta le vicende umane
pregandolo; Tarcone senza indugio
324 ENEIDE
le forze unisce e stringe l'alleanza.
Libera allor dal fato, i legni sale
la lidia gente, per divin volere
commessa al cenno di straniero duce.
D'Enea la nave innanzi va, con due
frigi leoni sotto al rostro, e sopra,
rida, diletto a' profughi Troiani.
Qui siede il grande Enea tra sé volgendo
gli eventi vari! de la guerra, e a manca
gli si stringe Fallante, ora chiedendo
degli astri, guide de l'opaca notte,
or di quanto sofferse in terra e in mare.
Aprite or l'Elicona, o Dive, e il canto
dettate, quale da le tosche prode
stuolo accompagni intanto Enea, venendo
per la marina su le armate navi.
Primo il mar solca su la bronzea Tigre
Massico, sotto a cui mille da Chiusi
e da Cosa si mossero : saette
son l'armi loro e a l'omero leggieri
geriti ed infallibile arco.
Insieme
dal fiero piglio Abante : i suoi drappelH
tutti in bello fulgean guerresco arnese
e di dorato Apolhne la poppa.
Seicento gli avea dati Populonia
di suoi figli agguerriti, Elba trecento
isola inesauribile miniera
LIBRO DECIMO 325
de' Càlibi.
Veniva terzo Asila,
quel degli uomini interprete e de' numi,
cui le fibre del gregge, cui son chiari
gii astri del ciel, le lingue degli uccelli
e i guizzi de la folgore presaghi,
con mille in campo densi orridi astati.
Ghe H sommette alfea d'origin Pisa,
città etrusca di suol.
Bellissimo Astir
seguita, Astir fidente nel destriero
e ne le variegate armi. Trecento,
con im unico cuor di seguitarlo,
gli aggiungon quei di Cere e quei che sono
del Minion ne' campi e Pirgo antica
e da le non leggiere aure Gravisca.
Non io già te, de' Liguri sì prode
condottier, leggermente passerei,
da pochi accompagnato Cupavone,
cui penne in fronte sorgono di cigno :
amore è vostra colpa ed è l'insegna
de la foiTna paterna. Il grido narra
che nel rimpianto di Fetonte amato,
tra le pioppe e l'ombria de le sorelle,
mentre canta e cantando si consola,
incanuti di molle piimia Cigno,
con la voce dal suol mosso a le stelle.
Il figlio, in nave il coetaneo stuolo
accompagnando, avanti fa co' remi
un gran Centauro : quel sovrasta a l'acqua
320
ENEIDE
e ingente sasso a Fonde alto minaccia,
fendendo i flutti con la lunga chiglia.
Quell'Odio ancor dal terren patrio a l'armi
guerrieri trae, de V indo^dna Manto
figlio e del tosco fiume, ei che co' muri
de la madre ti die, Mantova, il nome;
Mantova, ricca d'avi, ma non d'una
radice tutti : tre le genti, quattro
sott'ogni gente i popoh; essa capo
de' popoh, dal tosco sangue il nerbo.
Mezenzio n'arma contro sé pur quindi
cinquecento : fighuolo del Benaco,
velato il I\Iincio de le canne verdi
traeah al mare su l'infesto abete.
Va grave Auleste ed al maneggio insorge
di cento remi che percoton l'onde.
Gran Tritone h porta e i flutti assorda
con l'azzurra conchiglia : insino a' fianchi
nuotando offre sembianza ispida d' uomo,
termina il ventre in mostro ; spumeggiante
sotto al selvaggio sen mormora il mare.
Tanti scelti guerrier su trenta navi
in aiuto movevano di Troia
e solcavan co' rostri i campi salsi.
E già dal cielo il di s' era partito,
e l'alma Febe col notturno carro
batteva il mezzo de l' Olimpo : Enea,
cui non lascia il pensier posar le membra,
esso siede al timone, esso a le vele.
LIBRO DECIMO 3
Ed ecco tra il ^ias'gio in lui s'incontra
il coro de le sue compagne : quelle,
che di navi esser ninfe in mar di^Hne
l'alma Cibele avea voluto, a scMera
nuotavano i\*i, quante erano state
rigide un giorno bronzee prore a riva.
Riconoscono il re da limgi, e intomo
gli danzano. E di lor la più faconda,
Cimodocea, dietro seguendo, pone
a la poppa la destra e, fuori emersa
col dorso, cheta remiga sott'acqua
con la sinistra ed a l' inconscio dice :
«Sei svegho, Enea, figlio di nun:i' ^>glia,
ed a le vele Kbera le sarte.
Siam noi, i pini siam del sacro monte
Ida, or rinfe del n:2.r, 5Ìam la tua fiotta.
Come il p:-rndo Ku:u1j v:l;:\-a
con ferro e fiamma a furia ina::^-?.::i,
rompemm.o contro voglia i ::. :: .i^arai
e per il :a:.: :: iviaaii^ai. La :::3.dre
ci die pietosa questa nova fonna
e in grembo a l'acque \'iver come dee.
Ma il gio\inetto A^ ' ::: r:;-.;:: e l'assi
è costretto da l'arnii e da' Latini
spiranti guerra. A' comandati luog:hi
già sono insiem col valoroso E:ra=a3
l'Arcade cavaher: fra^-"-'---^ irld
le sue torme, che al a.iiiirsi
non possano, è il proa :: di Turno.
Or sorgi e primo su I\aa. :a i tuoi
fa' si chiamino a l'anni e prendi il cHpeo
328 ENEIDE
che invitto esso ti diede il Dio del fuoco
e il cinse d'oro. Il sole di domani,
se vane non terrai le mie parole,
de' Rutuli vedrà sanguigno mucchio ».
Avea detto, e spiccandosi sospinse,
dotta del modo, con la man la poppa:
questa va più che strai che va col vento;
e così r altre affrettano la corsa.
Il troiano Anchisiade stupisce
ignaro, pur si esalta del presagio
e breve prega riguardando in alto :
« Alma de' Numi genitrice Idea,
che Dindimo ami e le città turrite
e i leoni a pariglia, or tu m'avvii
a la battaglia, e tu l'augurio adempi
e i Frigi, o dea, benignamente assisti ».
Così detto, che già tornando in volta
il dì chiariva e avea cacc^'ate l'ombre,
da prima ordina a' suoi che dietro a' segni
s' animino e preparino a la pugna.
Esso diritto poi su l'alta poppa,
già in vista avendo i Teucri ed il suo campo,
con la sinistra sollevò lo scudo
fiammante.
Un grido alzano al ciel da' muri
i Teucri, nova speme attizza l'ire,
e lancian dardi : quali sotto al nembo
si fanno le strimonie gru sentire
che r aere traversano rombando
e con lieto clamor fuggono i Noti.
LIBRO DECIMO 329
Quella al rutulo re fu maraviglia
e a' duci ausonii, insin che riguardando
vedon le poppe al lido volte e tutto
venire a riva con la flotta il mare.
Arde Telmo a la cima e da le piume
fiamma si sparge e il rilevato centro
de l'aureo scudo un vasto incendio spira;
non altrimenti se per chiara notte
luttuose rosseggiano comete,
o il Sirio ardore, quel forier di sete
e di morbi a' mortali egri, si leva
e del sinistro lume il ciel contrista.
Non però la fidanza a Turno audace
venne rnen di preoccupare il lido
e i venienti ributtar da terra;
anzi co' detti i cuori eccita e sprona :
u Quel che bramaste, or franger con la destra
potete ; in pugno de' guerrieri è Marte.
Or la sua donna ognuno e la sua casa
rammenti, or si rinnovino le glorie
de' padri. Riceviamoli a la sponda,
trepidi ancor ne' primi incerti passi.
Ride agli arditi la fortuna ».
Dice, e divisa chi a lo scontro meni,
a chi confidi l'accerchiate mura.
Intanto Enea da l'alte poppe i suoi
coi ponti sbarca. Colgono l' istante
molti che si ritrae languida l'onda
e balzan su l'arena, altri pe' remi.
330 ENEIDE
Esplorando Tarcone ov'è profondo,
ove non frange mormorando il flutto
ma gonfio arriva e senz'intoppo il mare,
là dirige la prora e i soci esorta :
« Ora, miei prodi, date forte a' remi,
via levate in un volo i legni, e in questa
sponda nemica a noi piantate i rostri,
che la chiglia da sé si faccia il solco.
Presa terra una volta, a me non cale
romper la nave ne l'approdo ».
Tanto
disse Tarcone, e quelli erti al remeggio
tra le schiume a lanciar nel suol latino
le navi : i rostri mordono l'asciutto,
e posaron le chiglie ; illese tutte,
non, Tarcone, la tua, che urtata, mentre
sopra la secca disegnai vacilla
aiutandosi a lungo e dibattendo,
sfasciasi ed i guerrieri in acqua versa.
Impaccio sono a lor le galleggianti
tavole e gli spezzati remi, insieme
l'onda nel rifluir ne porta il piede.
Né Turno inerte si rista, ma fiero
tutti trascina contro i Teucri e pianta
in su la riva i suoi. Squillano i segni.
Primo assalì le torme agresti Enea,
augurio de la pugna, e mise in terra
i Latini uccidendo quel Terone
che su tutti veniva Enea sfidando:
per le maglie di bronzo e per le scaglie
LIBRO DECIMO 331
de la tunica d'oro il iìanco nudo
gli colpì con la spada. Indi colpisce
Lica, spiccato un dì da la già morta
madre e a te, Febo, consacrato : i rischi
del ferro ei seppe vincer piccolino.
Lì presso a morte die Cisseo feroce
e il vasto Già da l'omicida clava :
d'Ercole l'arma né il possente polso
non li salvò né il genitor Melampo,
com.pagno fido ognor d'Alcide, mentre
gravi la terra gli offerì fatiche.
Ecco, a Farone che sclamava al vento,
gH confìgge mentre urla un dardo in bocca.
Tu pur, Cidone, che mal segui Clizio,
nova delizia con la gota bionda
del primo pelo, per la man troiana,
guarito de l'amor che sempre avevi
di giovinetti, misero cadresti,
se incontro non venian stretti a coorte
sette fratelli, a Forco figli, e sette
scoccano strali, che una parte vani
rimbalzano da l'elmo e da lo scudo,
una parte radenti la persona
li sviò l'alma Venere.
Si volge
al fido Acate Enea : << Dammi de l'armi,
né sia che a vuoto io n'abbia una scagliata
contro i Rutuli, quando a' campi d'Ilio
così bene colpivano ne' Greci ».
Afferra allor una grande asta e avventa,
che a voi trapassa il bronzo de l'usbergo
332 ENEIDE
di Mèone e squarcia la corazza e il petto.
Alcànore sottentra al suo fratello
che trabocca, e lo regge con la destra :
un'asta vien che gli trafigge il braccio,
indi continua sanguinosa il volo,
e penzolò da l'omero la destra
co' morti nervi. Dal fraterno corpo
tratta la lancia, Numitor si volse
contro ad Enea, né già potè ferirlo
e la coscia sfiorò del grande Acate.
Clauso da Curi del suo fresco fiore
baldo sen viene e con la rigid'asta
coglie di Innge Drìope affondata
di sotto al mento, e per la rotta gola
parola e vita insiem gli toglie : quello
dà de la fronte al suol e denso versa
di bocca il sangue. Con diverse morti
prostra altri tre de la suprema gente
del tracio Borea, e ancora tre che invia
Ida padre e la patria Ismara. Accorre
Aleso con l'aurunco stuol, sottentra
nettunia prole il cavalier Messapo.
Di ricacciarsi tentano a vicenda :
su le soglie d'Italia è la tenzone.
Come per l'ampio ciel discordi venti
s'azzuffano con furia e forze uguali ;
non cedon essi, non le nubi e il mare,
de' cozzanti elementi è lunga lotta :
non altrimenti le troiane schiere
e le schiere latine a fronte stanno;
piede a piede si serra ed uomo ad uomo.
LIBRO DECIMO 333
Ma in altra parte, che il torrente aveva
ingombra tutta di travolti sassi
e d'alberi a le sponde sradicati,
come Fallante gli Arcadi, non usi
pugnar pedoni, dar vide le spalle
al Lazio inseguitor (li avea l'asprezza
del luogo fatti scendere di sella),
solo rimedio al misero momento,
or con prece li avviva or con rampogne :
« Compagni, ove fuggite ? Per voi stessi
e i vostri vanti, per il regio nome
d' Evandro e sue vittorie, per me novo
emulatore del valor paterno,
non fidate ne' pie. La via col ferro
s' ha da far tra' nemici. Ove minaccia
quel più denso manipolo guerriero,
là voi con me la nobil patria chiama.
Non ci assalgon già Dei; siam combattuti
mortali da mortali, ed abbiam noi
una vita e due mani al par di loro.
Ecco, una gran barriera il mar ci oppone;
manca terra al fuggir : ci volgeremo
al mare o a Troia ? ->
Così dice, e in mezzo
al folto de l'avversa oste prorom.pe.
Primo gli si offre per suo triste fato
Lago: lui, mentre spicca un ponderoso
sasso, trafigge d'aggiustato dardo,
ove in mezzo a le costole è la spina,
e ritrae l'asta penetrata a l'ossa.
Né lo sorprende, e lo sperava, Isbone;
334 ENEIDE
anzi, precipitante forsennato
per l'aspra morte del compagno, lui
Fallante accoglie subito e la spada
gli profonda nel tumido polmone.
Poi Stènio assale e Anchèmolo, di Reto
da la gente vetusta, oso incestare
de la matrigna il talamo. Gemelli,
voi pur ne' campi rutuli cadeste,
Larìde e Timbro, figli a Dauco; tanto
simiglianti tra lor, che a' lor parenti
eran cagione di gradito errore:
or fece in voi Fallante aspro divano,
che a te. Timbro, spiccò l' evandrìa spada
il capo, e te, Larìde, la tua destra,
te tronca cerca, e palpitano in terra
le moribonde dita a stringer l'elsa.
Gli Arcadi, accesi a le parole e a l'alta
vista di sue prodezze, a la battaglia
arma un misto di sdegno e di rossore.
Ecco, Falla trapassa Rèteo via
su la biga fuggente. E fu per Ilo
quel breve attimo assai; che di lontano
contro Ilo la grande asta avea diretta,
e a riceverla Rèteo si frappose,
mentre da te scampava, ottimo Teutra,
e da Tire f ratei. Giù da la biga,
dà su rutulo suol gli ultimi guizzi.
Come d'estate al desiato vento
mette il pastor d'intorno al bosco il fuoco,
ma corre al mezzo rapida e tutt'una
si fa la veemenza di Vulcano;
LIBRO DECIMO 335
quei pago siede e guarda giù le fiamme
che trionfano : in simil guisa tutto
de' compagni il valore in un s'accoglie,
e tu godi, Fallante. Ma il pugnace
Aleso vien, stretto ne Tarmi sue,
e uccide di tra lor Ladon, Perete,
Demodoco; a Strimonio d'un fendente
de la fulgida spada via la destra
strappa levata a la sua gola; un masso
gitta in viso a Toante, e gli sfragella
l'ossa e il cervello in misero miscuglio.
Vate de' fati, il padre avea nascosto
ne' boschi Aleso ; ma com'ebbe il vecchio
ne la morte i canuti occhi sopiti,
l'afferraron le Parche e lo dier segno
agli strali d'Evandro. A lui Fallante
mira, prima pregando : « Or tu concedi,
Tebro padre, a lo strai che ho qui su l'ale
felice volo al duro cuor di Aleso.
Tua querce avrà quest'arma e le sue spoglie )>.
Il dio l'udì: mentre fa scudo Aleso
a Imàone, offerisce l'infehce
a l'arcadica freccia il petto inerme.
Ma dal cader di un tant'uomo sgomenti
Lauso, cuor de la guerra, i suoi non lascia :
previene e prostra, che il fronteggia, Abante,
de la battaglia groppo e indugio.
Cade
Arcade gioventù, cadono Etruschi
e voi da' Greci inviolati Teucri.
Cozzan pari le parti in duci e in forze.
336 ENEIDE
Gli ultimi urgon le file, né la ressa
lascia Tanni e le man libere.
Incalza
di qua Fallante e là di contro Lauso.
Poco diversa è loro età; son belli:
ma la Fortuna a entrambi avea negato
tornare in patria. Il Re del grande Olimpo
pur non vuol che si affrontino : li attende
il fato lor sotto maggior nemico.
L'alma sorella intanto anima Turno,
che per le file va con l'agii carro,
di sottentrare a Lauso. I suoi veduti,
« È tempo di lasciar la pugna : io solo
Fallante assalgo, solo a me Fallante
si dee ; vorrei qui spettatore il padre « ;
disse, e cessero i suoi dal pian vietato.
Al ritrarsi de' Rutuli, al comando
superbo il giovinetto è fiso in, Turno
e move gli occhi per la gran persona,
osa fiero guardar tanta minaccia
e questo rende al grido del tiranno :
« Ora o il vanto avrò io di tue rapite
opime spoglie o d'una morte degna:
a questo e a quel mio padre è pronto ; lascia
di minacciar ». E in mezzo al campo avanza.
Freddo agli Arcadi in cuor s'accoglie il sangue.
Turno balzò giù da la biga, e a piedi
si fa vicino: qual vola il leone,
se da l'alta vedetta un toro ha scorto
LIBRO DECIMO 337
lungi nel campo meditar battaglia,
non dissimile appar Turno che viene.
Come al tiro de Tasta il crede giunto,
ecco primo ir Fallante, se a l'ardito
oltre sue forze alcuna sorte arrida,
e riguardando l'ampio cielo esclama :
« Per l'ospitalità nostra e la mensa
cui venisti tra via ti prego, Alcide,
aiuta l'alta im^presa. Moribondo
le sue rapir mù vegga armi cruente,
e vincitor mi specchino languenti
le pupille di Turno «.
Udì la prece
Alcide; immenso in fondo al cuor si preme
un rammarico e versa inutil pianto.
Allor benigno il Padre al figho dice :
« Fisso a ognuno è il suo dì ; breve è la vita
per tutti e irrevocabile, ma il nome
è opra di virtù rendere eterno.
Tanti di Troia sotto l'alte mura
cadder fìgh di Dei; cadde con gli altri
Sarpèdone mia prole. Ed anche Turno
chiama il suo fato, e omai tocca la meta ».
Disse, e gli occhi ritorce dal paese
de' Rutuh.
Fallante a tutta forza
scagha l'asta e dal fodero la spada
strappa fuori fulgente. A volo quella
coglie ove il pettoral tocca le spalle
e per gU orli del cHpeo insinuata
giunge a sfiorar le gran membra di Turno.
Albini - Eneide 22
338 ENEIDE
Turno allor bilanciatala buon tratto
lancia la trave sua ferrata in punta
contro Fallante e così dice : « Or vedi
se l'arme mia più penetrabil fosse ».
Avea detto, e lo scudo a tante coti
e di ferro e di bronzo, e cui rafforza
cuoio taurino tante volte in giro,
la cuspide col suo terribil colpo
l'attraversa per mezzo, e le difese
fora de la lorica e il petto grande.
Quegli si strappa indamo il caldo ferro
escon per una via la vita e il sangue.
Cade su la ferita, sopra lui
sonaron l'armi, e la nemica terra
batte morente con bocca sanguigna.
Turno standogli sopra :
« Arcadi, a Evandro riportate fidi :
Fallante, qual si meritò, gli rendo.
Ogni fregio di tomba, ogni conforto
di sepoltura, lo concedo. Foco
a lui non costerà l'ospite Enea ».
Disse, e calcò del pie sinistro il morto,
il gran peso strappandogli del balteo
e r impresso delitto : in una stessa
nuzial notte indegnamente spenta
una schiera di giovani e cruenti
i talami, che in molt'oro avea sculto
Clono Eurìtide; e Turno de la spoglia
gode e d'impadronirsene trionfa.
O mente umana del destino inconscia
LIBRO DECIMO 339
e del futuro, e di serbar misura,
inorgoglita de l'evento lieto !
Tempo a Turno verrà che ad ogni prezzo
vorrebbe non aver tocco Fallante,
queste spoglie odiando e questo giorno.
Ma i compagni con lagrime e lamento
su lo scudo riportano Fallante
numerosi. Oh dolore ed onor grande
che al padre tornerai! Questo dì primo
a la guerra ti die, questo ti toglie,
pur gran mucchio di Rutuli lasciando.
Né solo il grido omai di si gran danno,
ma più certo messaggio accorre a Enea,
essere a un filo da la morte i suoi,
stringer l'aiuto agli sconvolti Teucri.
Miete davanti a sé con la sua spada
impetuoso e si fa larga via,
te de la fresca uccision superbo,
Turno, cercando. Egli ha Fallante, Evandro,
ogni cosa negh occhi, e le lor mense
cui prima venne e le congiunte destre.
Quattro giovani usciti di Sulmona,
altrettanti cresciuti su l'Ufente
viventi afferra, da immolare inferie
a l'ombra e sparger del captivo sangue
l'accesa pira. Avea poi tratta a Mago
l'infesta asta lontan: quel si fa sotto
accorto, l'asta il ventilò passando,
e supplice gli abbraccia le ginocchia :
« Fer l'anima paterna e le speranze
340 ENEIDE
io ti scongiuro del crescente Giulo,
che tu vivo mi lasci al figUo e al padre.
Ho un'alta casa, v' è talenti ascosi
di cesellato argento e pesi d'oro
scolpito e grezzo. Non di qui dipende
la vittoria de' Teucri ed una vita |
peserà poco a tanto ». Aveva detto. |
Enea gli fa questa risposta : « I molti
che tu dici d'argento e d'or talenti
serbali a' figli tuoi. Fu Turno il primo
a togher via taU commerci in guerra,
quando uccise Fallante. Così l'ombra
d'Anchise padre, così sente Giulo )).
Indi gli pone la sinistra a l'elmo
e, la cervice al supplice piegando,
v'immerge il ferro fino a l'elsa.
Presso
l'Emònide si stava, sacerdote
di Febo e Trivi a, cui cingea di sacre
bende le tempie l'infula, e lustrava
tutto a le vesti e a le belle armi. Lui
assalisce e persegue e sul caduto
soprastando l' immola e de la grande
ombra il copre : le scelte armi Seresto
si accolla, a te, Gradivo re, trofeo.
Cèculo da Vulcano generato ^|
e da' monti de' Marsi Umbron disceso
ristorano le file. Le sbaraglia
il Dardanide. Ad Ànxure recisa
avea la manca d'un fendente e tutto
il cerchio de lo scudo: avea costui
i
LIBRO DECIMO 341
fatto qualche bravata e la parola
s'era creduto riuscir possente,
e s'esaltava forse promettendo
la canizie a sé stesso ed anni lunghi.
Tàrquito baldo e luminoso in armi,
cui al silvestre Fauno procreava
Drìope ninfa, si fé' contro al fiero:
ei ritrae l'asta e avventa, e gli conficca
la lorica e l'usbergo ponderoso;
poi, mentre prega indarno e vuol pur dire,
gli getta il capo per le terre e, il tronco
tepido rotolando, anche soggiunge
con inimico cuore : « Or costì giaci,
o tremendo. Non te l'ottima madre
porrà sotterra e nel sepolcro avito:
rimarrai preda de' rapaci uccelli,
o in mar gittato, andrai con l'onda e i pesci
ti lambiranno ingordi le ferite )>.
Senza respiro Anteo persegue e Luca,
prime file di Turno, e il forte Numa
e il nato dal magnanimo Volcente
fulvo Camerte, tra la gente ausonia
ricchissimo che fu di campi e tenne
il regno de la taciturna Amicla.
Quale Egeon, cui cento braccia e cento
mani, e in cinquanta bocche e petti il fuoco
narran che ardesse, allor che contro a Giove
fulminante altrettanti fragorosi
scudi squassava e tante stringea spade;
così per tutto il piano infuria Enea
invitto, da che prima il ferro tinse.
342 ENEIDE
Or la quadriga affronta di Nifeo:
come i cavalli videro i gran passi
e il piglio orrendo, paurosi indietro
precipitando rovesciano il duce
ed il carro strascinano a la riva. |
Frattanto in bianca biga entra nel mezzo
Lùcago col fratel Ligere : questi
regge le briglie, quei ruota la spada.
Spiacque ad Enea lor fervido furore,
e grande si attraversa a lancia tesa.
Ligere a lui:
« Non i cavalli di Diomede o il carro
vedi d'Achille o de la Frigia i campi :
or qui per te avran fine e l'armi e gli anni ».
Volan del folle Ligere gli accenti:
ma non rende parole il teucro eroe,
sì scagHa il colpo a l'avversario. Chino
Lùcago avanti a stimolar col brando
la pariglia, ne l'attimo che avanza
il pie sinistro e s'apparecchia a l'urto,
per gì' imi bordi del fulgente clipeo
sottentra l'asta e il manco inguine fora.
Scosso dal carro ei moribondo rotola «
al suol, e amaro il pio Enea gli dice: 1
« Lùcago, lento correr di cavalli
non tradiva il tuo carro, né fantasmi
di tra i nemici l'atterriron vani.
Sei tu che balzi da la biga ». Detto,
dà di piglio a' corsier. Le palme inerti
sdrucciolato dal carro anche il fratello
triste porgea : « Per te, per i parenti
LIBRO DECIMO 343
che tal ti generarono, o Troiano,
odi la prece e lasciami la vita )>.
E ancor prega, ma Enea : « Tu non parlavi
dianzi così. Muori, né abbandonare
fratello il tuo fratel «. Poi d'un fendente
gli schiude, covo de la vita, il petto.
Tale il dardanio condottier menava
strage pe' campi, col furor d'un'acqua
torrente o d'atro turbine.
A la fine
prorompon da l'accampamento Ascanio
giovinetto e i suoi prodi invan cerchiati.
Intanto Giove volgesi a Giunone:
«O mia sorella e insiem dolce consorte,
come pensavi, e il tuo pensier non erra,
è Venere a sorreggere i Troiani,
non la lor destra vivida a la guerra
e il fiero cuore de' perigh amico ».
Sommessa Giuno a lui: «Fulgido sposo,
perché pungi l'afflitta e timorosa
de' severi tuoi detti? Oh! se in amore
la forza avessi ch'ebbi e aver dovrei,
ciò non mi vieteresti, Onnipotente,
ch'io sottraessi a la battaglia Turno
e incolume il serbassi a Danno padre.
Or muoia e paghi del buon sangue i Teucri.
Ei tuttavia da noi deriva il nome,
Pilumno è suo bisavolo, e d'offerte
larghe e frequenti a te colmò gli altari ».
E breve a lei il Re de l'alto Olimpo:
344 ENEIDE
V Se un indugio s' implora de la morte
per il caduco giovine e tu intendi
ch'io questo intenda, fa' che Turno fugga
e lo rapisci agl'incalzanti fati.
Tanto posso assentir. Che se più alta
grazia in cotesto supplicar si cela,
se movere e mutar pensi la somma
de la guerra, speranze nutri vane ».
E Giuno lagrimosa : « Or se in tuo cuore
gH concedessi quel che in voce stenti?
e salda rimanesse a lui la vita?
Senza colpa or l'attende un triste fine,
se ombra di vero io so. Deh m'illudessi
io di falsa paura e, tu che il puoi,
piegassi a miglior sorte il tuo pensiero ! »
Detto ch'ebbe così, da l'alto cielo
subito si calò cinta e precorsa
dal nembo, a ritrovar le schiere d' Ilio
e de' Laurenti il campo. Ivi la dea
di vana nebbia una heve ombra frale
in sembianza d'Enea, mirabil vista,
riveste di dardanie armi, e lo scudo
fìnge e il pennacchio del divino capo;
voci vane le dà, suon senza mente,
ed un andare che somiglia il suo :
tali de' morti è fama errar fantasmi,
o illudon sogni gli assopiti sensi.
L'ombra innanzi a le file imbaldanzisce
e sfida Turno pur con dardi e detti.
Turno la insegue e di lontan le avventa
LIBRO DECIMO 345
l'asta fìschiante : quella in fuga è volta.
E Turno che credeva Enea fuggire,
nel turbato pensier quella accogliendo
speranza inane : « Dove fuggi, Enea ?
non disertare il talamo promesso :
per questa man ti si darà la terra
che cercasti per mar ». Così V insegue
urlando e vibra la snudata spada,
e non vede ch'è vento il suo trionfo.
Fermata al piede d'un eretto scoglio
con le scale calate e il ponte pronto
trovavasi una nave, in che venuto
Osinio re da' lidi era di Chiusi.
L'ombra d'Enea fuggente paurosa
vi sali, sparve giù ne' fondi : Turno
non però meno incalza e sorvolando
gl'impedimenti l'alto ponte varca.
Appena tocca avea la prora, e Giuno
rompe il canape e via spicca la nave
indietro per il mar.
Intanto Enea
va chiamando l'assente a la battaglia
e molti in che s'affronta a morte invia.
Già la He ve ombra più non cerca i fondi,
ma vola in aria e mescesi a le nubi,
mentre naviga Turno al vento buono.
De' fatti ignaro, ingrato de lo scampo,
egli si guarda dietro ed alza al cielo
con la voce le palme : « Onnipotente
Padre; e di macchia tal degno mi credi
346 ENEIDE
e tal castigo m' infliggesti ? Dove
vo, donde mossi? quale ontosa fuga
così m'apparta ? Ancor vedrò le mura
de' Laurenti e le tende? E quelle schiere
a me seguaci ed a' miei segni, e quanti,
oh vergogna ! lasciai preda di morte,
e già vedo i dispersi e de' caduti
odo il lamento ? Che farò ? qual basta
voragine profonda ad inghiottirmi?
Almen deh! voi pietà m'abbiate, o venti:
contro le rupi, il cuor di Turno implora,
contro gh scogli e ne le secche sirti
sbattete il legno, ove a' Rutuli io sfugga
e al grido de l' infamia ». In così dire
ondeggia vario il suo pensier, se debba
per così gran disdoro forsennato
col ferro punitor passarsi il petto,
o gettarsi nel mar, nuotare a riva
e contro l'armi ritornar de' Teucri.
Tentò tre volte l'una e l'altra via,
tre lo ritenne e lo frenò la somma
Giuno di lui tutta pietosa. Ei scorre
per l'alto e addotto vien dal flutto amico
a l'antica città del padre Danno.
Intanto per i moniti di Giove
fiero ne la battaglia entra Mezenzio
ed urta i Teucri trionfanti. Fanno
testa i Tirreni e tutti contro ad uno
tutte appuntano in lui l'ire e le frecce.
Ei, come scoglio che s'avanza in mare
LIBRO DECIMO 347
a fronteggiare le bufere e i flutti
e de l'aria e de l'acque al furor dura
immobilmente, atterra Ebro figliuolo
di Dolicàone, e Làtago con lui
e Palmo fuggitivo, ma la faccia
a Latago d'un gran pezzo di monte
coglie in pieno, col poplite reciso
ir lascia Palmo e strascinarsi lento,
l'armi dà in dono a Lauso, che sen voglia
guemir le spalle ed impennar la fronte.
Evante frigio insiem prostra e Mimante
coetaneo di Paride e compagno:
die questo figlio ad Amico Teano
la stessa notte che, di face incinta,
la regina cissèa Paride espone;
dorme costui ne la città paterna,
copre il laurente suol Mimante oscuro.
E come quel cinghiai giù da le vette
cacciato da' canini cefiì, dopo
molti anni che il pinifero Monviso
e la palude laurentina il cinse,
ne' canneti pasciuto, or chiuso in reti
s'arresta fremebondo e tutto irsuto;
né osando alcuno d'appressar, di lungi
mandano i colpi e le sicure grida:
così quelh che in giusta ira Mezenzio
hanno, hanno orrore di venirgh a fronte;
l'investono lontan di strah e d'urli;
impavido esso e in ogni parte volto
digrigna e scrolla da le schiene i dardi.
Era venuto da l'antica terra
348 ENEIDE
di Còrito Acron greco, interrompendo
profugo gli sponsali. Il vide lungi
le schiere in mezzo scombuiar, vermiglio
di piume e d'ostro che gli die la sposa.
Qual digiuno leon spesso tra' cupi
covili errando (cruda fame il preme),
se rapida camozza o un cervo scorge
da le corna ramose, a spalancate
fauci balza e arruffando la criniera
su le viscere è chino, il sangue imbruna
l'ingorda bocca ;
tal ne' folti nemici urta Mezenzio.
Cade il misero Acron, co' pie percote
ne' moti estremi l'atra terra e arrossa
le infrante armi. Sdegnò colpire invece
Orode in fuga e di scagliata punta
fargli cieca ferita, anzi l'affronta
e 'a petto a petto con lui sta, vincendo
non di sorpresa ma in duello acerbo.
Poi sul caduto posto il piede, e a l'asta
poggiando : « In terra è l'alto Orode, o prodi,
non ispregevol parte de la guerra ».
Levano quelU allor lieto peana.
Ma quel morente : « O tu, chiunque sei,
vittoria non godrai senza vendetta
né a lungo: te pur mira un fato eguale
e su la terra stessa giacerai ».
A ciò Mezenzio tra il sorriso e l'ira:
« Or muori. Di me poi vegga il gran Padre
de' Numi e re degli uomini ». Ritrasse
in così dir la lama da la piaga :
LIBRO DECIMO 349
cade rombra su quello e il ferreo sonno,
si chiudon gli occhi ne la eterna notte.
Cèdico uccide Alcàtoo, Sacràtore
Idaspe; ha morte da Rapon Partenio
e il robustissim'Orse, da Messapo
e Gonio ed Erichète di Licàone,
quegli atterrato per lo stramazzare
del focoso destrier, questi pedone.
Pedone Agide licio anche avanzava;
de l'avito valor Valero erede
l'abbatte : SaHo abbatte Tronio, e lui
Nealce con l'insidie e la saetta
che vien di lunge ed improvvisa coglie.
Già ragguaghava il fiero Marte i lutti
di alterne morti: vincitori e vinti
uccidevan, cadevano del pari;
ignota a questi e a quelh era la fuga.
Quel vano vicendevole furore
e il tanto travagliarsi de' mortali
in Ohmpo commiserano i Numi.
Venere mira e la saturnia Giuno
da opposta parte : in mezzo a le migliaia
la pallida Tisifone imperversa.
Ma crollando la enorme asta Mezenzio
torvo pe '1 campo va. Quale Orione,
quand'a pie fa la via per l'alto mare,
grande a l'onde con l'omero sovrasta,
o da' monti recando un orno annoso
cammina in terra e tra le nubi ha il capo:
350 ENEIDE
tal move con le vaste armi Mezenzio.
Enea che lo spiò tra schiera e schiera
s'appresta ad incontrarlo : e quegh attende
impavido il magnanimo nemico,
e gigantesco sta; poi, misurato
con gli occhi il tratto al gitto de la lancia:
« La destra ch'è il mio dio, l'asta che vibro,
or m'assistano. Cinto de le spoglie
de l'ucciso predone, o Lauso, io voto
te ad Enea trofeo ». Disse, e da lungi
scaghò la sibilante asta, ma il volo
ne ribatté lo scudo, e quella viene
a trapassar tra il fianco e il ventre Antore,
l'ottimo Antore d'Ettore compagno
che partitosi d'Argo appresso Evandro
in itala città s'era posato.
Di ferita non sua quell'infeHce
or cade e cerca con lo sguardo il cielo
e tra il morir la dolce Argo rammenta.
Allor l'asta il pio Enea scaglia : pe '1 curvo
cerchio di bronzo triplice, pe' densi
lini ed i tre taurini cuoi trascorse,
e l'inguine ferì senz'altra forza.
lieto al vedere de l'etrusco il sangue
rapido Enea la spada trae dal fianco
e al vacillante avventasi. Profondo
geme Lauso a tal vista e per l'amore
del padre suo rigò di pianto il volto.
Qui di tua dura morte e del valore,
se alcuna età remota a l'alto fatto
LIBRO DECIMO 35^
fede darà, non tacerò già io
né di te, memorando adolescente.
Quegli arretrando inerte ed impedito
da lo scudo traea l'asta nemica.
Ealzò tra l'arme il giovine; ad Enea
che già levava il braccio a novo colpo
si fé' sotto e la spada e lui rattenne.
Di grida l'assecondano i compagni,
mentre che sotto l'egida del fìgho
il genitor partisse, e di lontano
saettando respingon l'avversario.
Enea ne freme ma si tien coperto.
E come, allor che grandinando i nembi
scoppiano, ogni arator fugge da' campi,
ogni colono, e il viator ripara
lungo il greto del fiume o sotto il cigHo
d'un'alta rupe, mentre intomo scroscia,
per tornar poi tornando il sole a l'opre;
così sotto quel turbine di dardi,
fin che tutto scateni. Enea resiste,
e a Lauso sgrida e Lauso pur minaccia:
« Dove corri a morir con ardimento
oltre le forze ? Il tuo bel cuor t' inganna ».
Persiste quei ne la baldanza folle,
e omai più fiera nel dardanio duce
levasi l'ira, omai l'ultimo stame
filan le Parche a Lauso: Enea la forte
spada in lui attraversa e tutta immerge.
Passò quella e la targa, armi leggiere
de l'audace, e la tunica che a lui
352 ENEIDE
tessuta avea di fine oro la madre,
e sangue il grembo empì: mesta la vita
discese a l'ombre e abbandonò le membra.
Come il figliuol d'Anchise il volto vide,
vide il volto che tutto scolorava,
alta n' ebbe pietà, stese la destra,
e del paterno duol senti la stretta.
« Per valor tanto, o povero fanciullo,
che ti può dare il pio Enea, de l'alta
indole degno? Sieno tue quell'armi
di che godevi, e al cenere ed a' Mani
de' padri tuoi, se a grado l'hai, ti rendo.
Pur ti consoli de l'infausta morte
che per la man del grande Enea tu cadi )>.
Gli esitanti compagni esso ammonisce
e dal suol lo solleva che nel sangue
lorda i capelli al modo usato adorni.
Intanto il genitore al Tebro in riva
tergea con l'acqua le ferite e al piede
respirava d'un albero. In disparte
l'elmo di bronzo sta sospeso a' rami
e posan le pesanti armi sul prato.
Giovani eletti lo circondano : esso
egro anelante appoggia la cervice,
piovendogli la gran barba sul petto.
Molto chiede di Lauso, e manda e manda
a richiamarlo ed a recargli il cenno
de l'affannato padre.
Ma i compagni
Lauso portavan sopra l'armi morto,
LIBRO DECIMO 353
piangendo, grande con la grande piaga.
Ben riconobbe i gemiti da lunge
il cuor presago di sventura : ei tutta
sparge di polve sua canizie, e leva
alto le palme, e su lui s'abbandona.
<( 0 figlio, e tanto amor posi a la vita
che offrir soffersi a la nemica destra
l'unigenito mio per me? Son vivo
ancora io dunque, perché tu sei morto?
Or sì, misero me, duro m' è il fato,
or sì m' è scesa la ferita addentro !
O figlio, e son pur io che il nome tuo
macchiai di colpa, e venni in ira e privo
del sogho e de lo scettro avito. Pena
a la patria ed al popolo che m'odia
io doveva : oh l'avessi a lor pagata
per qual sia morte questa vita rea!
Pur vivo, e ancora gli uomini e la luce
non lascio. Ma li lascierò ».
Dicendo
così si leva su l'infermo fianco
e, affranto pur da la ferita acerba,
non avvinto vuol che gii si adduca
il suo cavallo. Era sua gloria e gioia,
e con quello vincea sempre a la guerra.
Or così parla a quel malinconioso:
« O Rebo, a lungo, se v' è cosa lunga
per i mortali, siam vissuti. O in oggi
riporterai trofeo cruento il capo
d'Enea, con me vendicando lo strazio
di Lauso, o, se non è forza che basti,
Albini - Eneide zx
354 ENEIDE
cadrai con me, che a sdegno hai tu, mio bravo,
cenno straniero e dardani padroni ».
Disse, ed accolto su l'usato dorso
ambe le mani si gravò di dardi,
con l'elmo in capo fulgido e chiomato,
e così corse verso la battaglia
— alto rimorso in cuor gli ferve e insieme
una demenza nata di dolore — ,
e là Enea a gran voce tre volte
chiamò.
Enea che lo conobbe, lieto
esclama : « Così voglia il Re de' Numi,
l'alto Apollo così, che tu incominci
ad offrirti al cimento ».
Ciò solo disse e l'affrontò con l'asta.
E l'altro : e Perché me tenti, o spietato,
impaurir, poi che m'hai tolto il figlio?
Unica via d'uccidermi fu quella.
Morte non temo né ho riguardo a iddio.
Cessa, eh' io vengo per morire e prima
questi doni ti porto ». In così dire
gli avventa un dardo e un altro ancora e un altro,
e in larga ruota gli cavalca intorno
saettando, ma saldo è l'aureo scudo.
Tre volte quei cinse il nemico in cerchi
verso manca e traea dardi; tre volte
il teucro eroe girò con sé la densa
selva crescente sul ferrato usbergo.
Ma poi che il più tardar gli pesa e tante
punte spiccare e l'inegual certame
lo stringe, con sicuro accorgimento
LIBRO DECIMO
355
al fin prorompe e tra le cave tempie
del pugnace destrier scaglia la lancia.
Dritto s'alza il quadrupede agitando
le zampe in aria e sul guerrier caduto
poi anch'esso trabocca in mucchio, prono
sopra il riverso con la spalla. Un grido
divampa al ciel de' Teucri e de' Latini.
Accorre Enea traendo fuor la spada.
«. Or dov' è, dice, quel Mezenzio fiero
e quell'anima impavida ? » L'etrusco,
poi che con gH occhi al ciel bevve la luce
e risentito fu, gii dà risposta :
« Nemico amaro, a che sgridi e minacci ?
Non è orror ne la morte e con tal cuore
al duello non venni, né il mio Lauso
mi pattuì con te sim.ih accordi.
Ti chiedo sol, se co' nemici \^inti
usa indulgenza, lascia questa salma
coprir di terra. So che acerbo intomo
mi sta l'odio de' miei : tu quel furore
allontana, ti prego, e mi concedi
una col figlio mio la sepoltura ».
Cosi detto, riceve ne la gola
non inconscio la spada e sopra l'armi
con tutto il sangue suo versa la vita.
LIBROiUNDECIMO
Su da l'Oceano intanto uscì l'Aurora :
Enea, quantunque sepellir gli tarda
i compagni e da morte ha il cuor turbato,
scioglieva vincitore i voti a' Numi
in sul primo mattino. Una gran quercia
potata d'ogni ramo in un'altura
piantò ritta e vestille armi fulgenti,
le spoglie di Mezenzio re, trofeo
a te, gran Sire de la guerra: innesta
quivi i pennacchi roridi di sangue
e l'aste infrante e la corazza in sei
e sei punti percossa e perforata ;
lega sotto la manca il bronzeo scudo
e la spada d'avorio al collo appende.
Indi a' soci ch'esultano, e già tutti
si stringevano a lui, così favella :
(< Molto è fatto ; lontana ogni paura,
o prodi, omai : queste le spoglie sono
e dal superbo re còlte primizie,
e per la mano mia Mezenzio è questo.
358 ENEIDE
Ora è il nostro cammino a le regali
mura latine : apparecchiate in cuore
e ne l'attesa pregustate Tarmi,
sì che indugio non sia, come il ciel prima
mover conceda i segni e uscir dal campo,
a trattenervi ignari e non pensiero
che men vi renda per temenza pronti.
Or de' compagni le insepolte salme,
a chi passò Acheronte unico onore,
poniam sotterra. Andate, dice, e i forti
che questa patria a noi fecer col sangue
loro, onorate del tributo estremo;
e primo a la città mesta d' Evandro
s'accompagni Fallante, il valoroso
cui rapì l'atro giorno e lo sommerse
in morte acerba ».
Così dice in pianto
e a le stanze rientra, ove a la salma
composta di Fallante il vecchio Acete
vegliava, che al parrasìo Evandro
scudier fu prima, or con men fausti auspizi
era dato compagno al dolce alunno.
Tutta la schiera de' famigli intorno
era e turba di Teucri e giusta il rito
le Iliadi sciolte luttuoso il crine.
Come apparì su l'alta soglia Enea,
grande il compianto levano a le stelle
percotendosi il petto, ed è la reggia
tutta un singulto. Esso, mirando il capo
giacere e il viso di Fallante bianco,
e vasta nel gentil petto la piaga
LIBRO UNDECIMO 359
de la cuspide ausonia, con le ciglia
molli « E te, dice, povero fanciullo,
Fortuna, che venia Keta, mi tolse,
che non vedessi i regni nostri e fossi
trionfante portato al suol paterno?
Non io questo di te promesso aveva
a Evandro padre nel partir, quand'egh
m'abbracciava inviato a grande impero
e pensoso ammonia ch'eran guerrieri
forti e con duro popolo la guerra.
E forse ch'egli in braccio a la speranza
vana fa voti ancor, d'offerte colma
gli altari: noi il giovinetto estinto
e che nulla più deve a nessun dio
mesti seguiamo con inane onore.
Infelice ! la misera vedrai
morte del figho tuo. Questo il ritomo
e gli aspettati son trionfi nostri!
questa la mia gran lealtà! Ma pure
no, Evandro, non vedrai ferite vili
o sì scampato il tuo figliuol che debba
desiargU tu padre un'aspra morte.
Ahim.é, qual mai grande presidio perdi.
Ausonia ! qual presidio perdi, o Giulo ! ».
Poi che così compianse, fa levare
la miserevol salma, e miille scelti
tra tutti vuol che seguano l'estremo
corteo fino a le lagrime paterne,
lieve conforto di cordoglio immenso
ma ben dovuto a l' infelice padre.
360 EXEIDE
Subito gli altri intrecciano una molle
bara con rami d'albatro e traversi
di quercia e fanno al letticciuolo intorno
velo e ombra di fronde. Ivi si pone
su l'agreste giaciglio il giovinetto,
qual da virginea man spiccato fiore,
gentil viola o languido giacinto,
che ancor non perse il raggio e la bellezza
ma non lo nutre più la terra madre.
Allor due drappi d'oro e d'ostro spessi
Enea recò, che lieta operatrice
gli fé' già di sua man Dido sidonia
d'auree fila le tele screziando.
D'uno di questi per suprem.o fregio
l'adolescente avvolge e quelle chiome
vela che il rogo attende. E molti aduna
premi altresì de la laurente pugna
e fa trarre in lungo ordine le prede,
i destrier, l'armi ch'ei strappò al nemico.
Avea le mani dietro il tergo avvinte
a quelh ch'ei voleva inferie a l'ombra
spargendo i fuochi d'immolato sangue,
e fa portare a' duci stessi i tronchi
con l'arme de' nemici e inscritti i nomi.
Sfinito d'anni e di dolor si adduce
Acete che si offende ora co' pugni
il petto ed or con l'unghie il viso, e a terra
tuttoquanto si accascia. Menano anche
carri di sangue rutulo bagnati.
Viene il destrier di guerra Etone dietro,
sguernito, lagrimante a gocce grandi.
LIBRO l.NDECIMO 36
L'asta e l'elmo altri portano, che il resto
ha Turno vincitor. Falange triste
seguono i Teucri ed i Tirreni tutti
e gli Arcadi con l'armi arrovesciate.
Poi che tutta era mossa lontanando
la compagnia seguace, Enea ristette
e con profondo gemito soggiunse :
« Di qui ad altre lagrime noi chiama
lo stesso orrido fato de la guerra:
per sempre ti saluto, o gran Fallante;
e addio per sempre ! «
Senza più si volse
a l'alte mura ed a tornar nel campo.
Già, velati de' rami de T ulivo,
implorando eran quivi am.basciatori
de la città latina: i corpi renda
che il ferro ha seminati a la campagna
e lor consenta il tumulo sotterra;
co' vinti non è lotta e con gh estinti ;
sia propizio a color che ospiti un giorno
e suoceri chiamò. Benigno Enea
corrispondeva a la domanda onesta
e soggiungeva simili parole :
« Qual rea fortuna in tal guerra v' involse.
Latini, da fuggir noi per amici?
Pace pe' morti e pe' caduti in guerra
mi chiedete ? Anche a' \i\'i io volea darla.
Non venni se non dandomi il destino
sede prescritta; e guerra non ho io
col popolo: ma il re \4a ci respinse
362 ENEIDE
ospiti e a l'armi si affidò di Turno.
Più giusto era che Turno si offerisse
a questa morte. Se finir la guerra
in campo, se cacciar medita i Teucri,
con queste armi dovea meco affrontarsi.
Sarebbe visso, cui la vita Iddio
avesse data o il suo valore. Andate,
fate a' com.pianti cittadini il rogo ».
Aveva detto Enea. Stupiti e muti
quelli si riguardavano tra loro.
Poi Drance, il maggior d'anni e sempre acerbo
d'odi e d'accuse contro il giovin Turno,
a vicenda gli fa questa risposta:
« Grande di fama e di virtù più grande
Troiano, con che iodi alzarti a cielo?
Per la giustizia ch'io t'ammiri prima
o pe '1 vanto guerrier ? Grati codesto
a la patria città riferiremo
e, se una via ci mostri la fortuna,
ti accorderemo a re Latino. Turno
alleanze si cerchi. A noi fia bello
d'innalzare le tue mura fatali
e in ispalla recar troiane pietre »,
Avea detto così; tutti concordi
fremevano così. Dodici giorni
pattuirono, e misti impunemente,
per l'interposta pace, in selve e in monti
i Troiani si sparsero e i Latini.
Scroscia sotto la scure il frassino alto,
schiantano i pini eretti al ciel, ficcare
LIBRO UNDECIMO 363
i cunei ne le roveri e ne' cedri
odorosi non cessano e portare
carchi su' plaustri cigolanti gli orni.
E già la Fama a voi di sì gran lutto
apportatrice Evandro e la sua casa
e la città riempie, essa che dianzi
narrò nel Lazio vincitor Fallante.
Gli Arcadi premono a le porte, e al modo
antico han preso funerali faci :
splende la via di fiamme in lunga fila
e riga lontanando la campagna.
Incontro arriva il popolo de' Frigi
congiungendo sua schiera dolorosa.
Come entrati li \idero le dorme,
fanno de la città tutta un lamento.
Ma Evandro non è forza che il trattenga
e in mezzo viene. Posta giù la bara,
cadde sopra Fallante e gh si stringe
con lagrime e con gemiti : sol tardi
a la voce la via diede il dolore.
'< O Fallante, non questa è la promessa
che avevi data al padre, esser prudente
ne' crudeli cimenti. Io lo saueva
A.
quanto potesse la novella gloria
e la vaghezza de le prime prove.
Oh tue primizie infauste e duro saggio
de la guerra avvenire! oh inesaudite
in ciel preghiere e voti miei ! Felice
te, benedetta donna mia, che sei
3^H ENEIDE
morta e non riserbata a questo pianto!
Invere io vinsi il fato mio vivendo,
si da restar superstite a la prole.
Seguendo le alleate anni troiane
mi coprissero i Rutuli di dardi!
data avrei io la vita, e me il corteo
riporterebbe a casa e non Fallante.
Non di voi mi dorrei, Teucri, o del patto
e de le destre ospitalmente unite:
sorte era giusta per la mia vecchiezza.
Pur se attendea morte precoce il figlio,
gloria sarà ch'ei cadde, uccisi prima
de' Volsci a mille, conducendo i Teucri
nel Lazio. Non più degno funerale,
Fallante, io ti farei che il pio Enea
e i grandi Frigi e i duci Etruschi e tutto
degli Etruschi l'esercito, i trofei
di quei recando che tu metti a morte.
Sorgeresti tu pur gran tronco in armi,
se pari era l'età, pari con gli anni
la forza, o Turno. Ma perché trattengo,
misero, lungi da la pugna i Teucri?
Andate e riferite al re feden:
che questa vita io reggo, si odiosa
morto Fallante, n'è cagion tua destra
che al figlio e al padre, il vedi, è debitrice
di Turno. A le tue lodi e a la fortuna
manca ciò solo. Né già chiedo questa
gioia per la mia vita (oh! non potrei),
ma ch'io la rechi giù tra l'ombre al figlio ».
LIBRO LNDECIMO 365
L'Aurora intanto a' miseri mortali
l'opere riportando e le fatiche
avea chiarito il ciel : già il padre Enea
e già Tarcone per il curvo lido
le pire costruirono. Ciascuno
quivi i corpi de' suoi nel modo avito
venne recando, e sotto accesi i fuochi,
l'aere di caligine si vela.
Tre volte intorno agh avvampanti roghi
scorsero ne le fulgide armature,
tre volte il mesto funerale incendio
plorando circuirono a cavallo.
Gronda pianto sul suol, gronda su l'armi;
va di genti clamor, clangor di trombe.
Altri qui getta ne la fiamma spoglie
tratte a' Latini uccisi, e caschi e spade
adorne, freni e turbinose rote ;
altri i doni ben noti, e quei che furono
i loro scudi e l'armi sfortunate.
Molti bovi s'immolano a la Morte
intomo; e setolosi porci e greggi
rapinate da tutta la cam.pagna
sgozzano su la vampa. In tutto il lido
mirano poi bruciare i lor compagni
e assistono devoti a quell'ardore
né si sanno spiccar fin che la notte
umida volge il ciel vivo di stelle.
Mesti da l'altro canto anche i Latini
innumere costrusser pire, e in parte
molte salme sotterrano, ed m parte
366 ENEIDE
via le trasportano a' vicini campi
o a la città rimandano; gran mucchio
d'incerta strage, innumerati e misti
ardono gli altri. D'ogn' intorno è un vasto
lampeggiamento di frequenti fuochi.
Il terzo dì dal cielo avea la fredda
ombra cacciata: il cenere alto e Tossa
confuse micsti riscotean da' roghi
e H coprian de le tepenti zolle.
La città del ricchissimo Latino
ebbe allor per le case il maggior tuono
e la parte maggior del lungo lutto.
Quivi le madri e le deserte nuore,
quivi i soavi cuor de le sorelle
addolorate e gh orfani fanciulli
a la rea guerra e agl'imenei di Turno
imprecano: esso si armi, esso guerreggi,
che vuol d'Itaha il regno e i primi onori.
Ciò il fiero Drance aggrava, e solo giura,
solo sfidato e atteso in campo Turno.
Molti a l'incontro avvisi in vario suono
per Turno stanno, e gU fa. schermo il nome
grande de la regina, e lo sorregge
la giusta fama di trionfi egregi.
Tra questi moti e il fervido tumulto
mesti inoltre i legati ecco da l'alta
città diomedea con la risposta:
nulla ottenuto per sì calda istanza,
nulla i doni né l'oro né le molte
preci esser valse: cerchino i Latini
LIBRO UXDECIMO 367
altre armi; o al teucro re pace si chieda.
S'affanna per gran duolo esso Latino :
che vien fatale Enea per manifesto
nume, ammonisce l'ira degli Dei
e sotto gli occhi i tumuli recenti:
dunque un concilio grande a l'aite soglie
ed i primi de' suoi per cenno aduna.
QuelH a la reggia per le vie gremite
affluiscono insiem.
Siede nel mezzo,
massimo d'anni e per lo scettro il primo.
Latino in fronte mesta. Ai ritornati
da l'etòla città narrare ingiunge
l'ambasciata e per ordin la risposta.
x\llor tacquero tutti, e ubbidiente
Vènulo a favellar così principia:
«Vedemmo, o cittadini, Diomede
e il campo argivo, e dopo misurato
tutto il viaggio e corse sue vicende
la man toccammo per cui giacque Troia.
Quei la città di Argiripa dal nome
de la sua gente vincitor fondava
nel terren de l'iàpige Gargano.
Entrati e avuta del parlar licenza,
i presenti offeriam, diciamo il nome
e la città, chi n'abbia mosso guerra
e qual cagione ci conduca in Arpi.
A' detti nostri con pacato volto
cosi rispose : — O fortunata gente
del regno di Saturno antichi Ausonii,
qual destino voi placidi inquieta
ENEIDE
e v'anima a tentar ignote guerre?
Quanti mettemmo il ferro a' campi d' Ilio
(e lascio ciò che si sofferse in armi
sotto quell'alte mura, e che guerrieri
il Simoi travolga), per il m_ondo
ogni pena tocchiam.o, ogni castigo,
che ci avrebbe a pietà Priamo istesso.
Di Minerva lo sa l'avversa stella,
Feuboico sasso e il vindice Cafèreo.
Sbattuti da quel campo a varie sponde,
esula fin di Proteo a le colonne
TAtride Menelao, gh etnei Ciclopi
Ulisse vide. E debbo dire il regno
di Neottòlemo e i distrutti lari
d'Idomeneo ? posati in Libia i Locri ?
Esso de' grandi Achivi il miceneo
condottiero per man de la nefanda
moglie si giacque nel varcar la sogha:
l'adultero appostò l'Asia sconfìtta.
E avversi a me gli Dei, che non vedessi
a l'are patrie reso la consorte
desiata e la bella Caiidone?
E tuttora mi seguono portenti
spaventosi: i compagni miei perduti
dilesruarono in aria e sono uccelli
vaghi su l'acque (oh ree pene de' miei !)
ch'empiono le scogliere di lamento.
Oh bene io tanto ebbi a temer, da quando
volsi folle la spada in un celeste,
colpevole di Venere ferita!
Non m'invitate a simili battaghe:
LIBRO l'NDECIMO
369
guerra non ho co' Teucri, Ilio distrutta,
né memoria o piacer de' vecchi affanni.
I doni che di patria m'arrecate
trasferiteli a Enea.
Stemmo di fronte
l'aspre lance a gittar, fummo a le prese:
credete a chi '1 provò, come alto ei s'erga
imbracciando lo scudo e come avventi
impetuoso. Se la terra idèa
tali portava un altri due guerrieri,
esso a le città d' Inaco veniva
Bardano, e Grecia per opposti fati
or piangerebbe. A la difhcil Troia
quanta fu sosta, la vittoria greca
stette per virtù d'Ettore e di Enea
e si ritrasse fino al decimo anno.
Ambo di cuor, di braccio ambo preclari;
di pietà questi primo. In alleanza,
comunque è dato, stringansi le destre,
ma di alzar vi guardate armi contr'armi — .
E la risposta insiem del re qual sia,
o re ottimo, udisti e il suo pensiero
su la difhcil guerra ».
Appena detto
i legati così, vario trascorse
per gli agitati Ausonidi un susurro,
come quando trattengono macigni
l'acque correnti, che dal chiuso gorgo
un murmurc si leva e le vicine
fremono rive al fremito de l'onda.
Albini - Eneide ^
370 ENEIDE
Chetati alquanto gli animi e le labbra,
il Re dal trono invoca i Numi e parla:
« Già fermo aver sul capitale oggetto
ben io vorrei, Latini, ed era il meglio,
né radunar consiglio in tal frangente,
col nemico a le mura. Inopportuna
guerra facciamo con divina stirpe,
o cittadini, e con guerrieri invitti
cui non stanca battaglia su battaglia,
e non sanno posar pur vinti l'arme.
Se chiamando gli Etoli ad alleati
qualche speranza fu, la deponete:
speranza è ognuno a sé. Ma qui l'angustie
vedete; e fiacca e franta ogni altra cosa
sott' occhio, sotto man chiaro vi appare.
Nessuno accuso : fu il valore grande,
quanto essere potea; tutto lo sforzo
lottò del regno. Or qual nel turbamento
faccia pensier, dirò, m'udite, in breve.
È mia sul tosco fiume antica terra
che si stende a l'occaso oltre i Sicani:
la seminano Rutuli ed Aurunci,
solcano con l'aratro i duri colli, -
dov'è più aspro pascolano. Tutto
quel tratto con la plaga alta de' pini
ceda de' Teucri a l'amicizia; giusti
patti facciamo d'alleanza, e a parte
chiamiamoH del regno. Abbian qui sede,
se han tanto affetto, e fabbrichino mura.
Che se ad altro paese e ad altra gente
è loro animo volgersi, se sanno
LIBRO UXDECIMO 37^
staccarsi da la nostra terra, dieci
e dieci lavoriam d'italo legno
navi; e se più n'hanno ad empire (tutta
al lido pronta è la materia), dessi
ci prescrivano numero e misura,
diam noi metallo e braccia ed arsenali.
Inoltre, i detti a riferire, i patti
a fermar, cento de la prima gente
Latini inviar penso ambasciatori
co' rami in mano de la pace, e in dono
d'oro e d'avorio portino talenti,
e la sedia e la trabéa che sono
le insegne mie di re. Deliberate
pe '1 ben comune e ristorate i danni ».
Allora Drance sempre avverso, a cui
è di Turno la gloria amaro morso
di bieca invidia, ricco di dovizie
e più di HngTia, ma disutil braccio
ne la guerra, ascoltato ne' consigli,
forte a le fazioni (altera schiatta
di madre avea, paterno sangue oscuro),
sorge con foga di parole e d'ire.
«Cosa che a tutti è chiara e non bisogna
del mio parlar, buon re, poni a consulta:
ognun sa di saper quel che si chiede
al ben comune, ma la voce muore.
Renda del dir la Hbertà, l'altura
spogh colui per cui nefasto auspicio
e protervo costume (io lo vo' dire,
s'ei mi minacci pur d'offesa e morte)
372 ENEIDE
fior di duci vediamo esser caduti
e tutta in lutto la città sommersa,
mentr'ei provoca i Teucri confidato
ne la fuga e bravando assorda il cielo.
Un dono ancora, ottimo re, sui molti
che pensi a' Teucri offrire, un dono aggiungi,
né violenza d'uom sia che ti vinca,
che tu padre la figlia a degne nozze
non dia d'eccelso genero e con patto
eterno ci raffermi questa pace.
Che se un tanto terror le menti e i cuori
lega, lui stesso supplichiam, da lui
grazia chiediamo: ceda, e il lor diritto
al re rassegni ed a la patria.
Al rischio
perché sì spesso i cittadini avventi,
fonte che sei di questi mali al Lazio?
Non è salvezza ne la guerra : pace
tutti da te chiediam, Turno, e di pace
l'unico insieme inviolabil pegno.
Primo io, che tu ti fingi avverso (ed io
non me ne scuso), a supplicarti vengo.
Pietà de' tuoi, giù l'albagia; cacciato
fosti, e va. SbaragUati, assai vedemmo
gran funerali e desolammo i campi.
Che se ami gloria, se tal nerbo aduni,
se la reggia dotale hai tanto a cuore,
osa, esci a fronte del nemico. Oh certo,
perché donna regale a Turno tocchi,
stiamo in campo a morir, noi vite vili,
turba senza sepolcro e senza pianto !
LIBRO UNDECIMO 373
Anche tu, se hai qualche virtù, se nulla
senti il patrio valor, guardalo in \4so
lui che ti sfida >k
Arse a questo parlar la violenza
di Turno e con un fremito prorompe:
(( Ben larga sempre hai di parlar la vena,
Drance, mentre la guerra il braccio chiede
e a' consigh adunati arrivi il primo.
Non giova empir la curia di parole
che ti sgorgan sonore in sicurezza,
fin che le mura reggono il nemico
e di sangue non corrono le fosse.
Tuona dunque facondo a tua maniera
e di paura accusa me tu, Drance,
poi che la destra tua ne ha fatto mucchi
di Teucri e tutto è pien de' tuoi trofei.
Ciò che il vivo valor possa, ti è dato
mostrar: poco di strada, ed i nemici
troviam, che tutte accerchiano le mura.
Andiam lor contro? Indugi? O tu la guerra
con la ventosa lingua e i pie fugaci
sempre farai?
Cacciato io? chi a ragion dirmi cacciato
potrebbe, o impudentissimo, se gonfio
il Tevere vedrà d'ihaco sangue
e la casa d'Evandro minata
con la sua stirpe e gli Arcadi senz'armi?
Non tale Bizia e Pandaro giganti
sperimentaron me né gii altri molti
che alacre a l'Orco in un sol dì mandai.
374 ENEIDE
ne la città tra il vallo ostil rinchiuso.
Non è salvezza ne la guerra. Folle !
cantalo a l'uom troiano e a casa tua.
Seguita, or via, di metter lo spavento,
leva le forze a ciel di un popol vinto
due volte, e abbassa Tarmi di Latino.
Ora anche i duci de' Mirmìdoni hanno
paura de le frigie armi, paura
hanno il Ti di de e il larisseo Achille;
rOfanto arretra da l'adriaco mare !
Così quando si fìnge timoroso
d'impeti miei, malizia è d'impostore
che tremando avvalora la calunnia.
No, t'assicura, un'animuccia tale
non perderai per questa destra mai :
teco dimori ed in cotesto cuore.
Ora, o padre, a te riedo e al grande oggetto.
Se più non hai ne l'armi nostre speme,
se siam sì soli e, rintuzzati appena
una volta, siam già precipitati
né può ritrarre il piede la fortuna,
imploriamo la pace a mani tese.
Quantunque, oh se vivesse una favilla
de l'usato valor! quegli su tutti
fortunato per me ne la distretta
ed egregio di cuor che, non volendo
nulla veder di simile, morente
cadde in campo e il terren morse una volta.
Ma se forze abbiam noi con fior di prodi
ancor non tocchi e ci riman l'ausilio
LIBRO UNDECIMO 375
de le città e de' popoli d'Italia,
se anche a' Troiani questa gloria venne
con molto sangue (hanno i lor morti, e il nembo
corse su tutti), ingloriosamente
perché manchiamo su la sogha prima?
perché tremiamo prima de la tromba?
Molte cose ridusse in meglio il tempo
e l'inquieto volger degU eventi:
varia tornando a molti la Fortuna,
pria li tradì, poi h rimise in sella.
Non avremo con noi T Etolo ed Arpi;
Messapo avrem, Tolumnio fausto, i prodi
da tante genti accorsi, e attende gloria
gh scelti dal laurente agro e dal Lazio:
abbiamo insiem di volsca illustre stirpe
Camilla che uno stuol di cavaheri
ci conduce ne l'arme luminosi.
Che se me solo sfidano a le prove
i Teucri, e ciò vi piace, ed a tal segno
io sono al ben di tutti impedimento,
non la Vittoria è a questa man sì avversa
ch'io niente ricusi a tanto effetto.
Fiero l'affronterò, s'ei pur valesse
il grande Achille e simih si vesta
armi per mano di Vulcano. A voi
e al suocero Latin la vita io Turno,
non secondo in valore a niun degh avi,
ho sacra. Enea te chiama sol. Mi chiami,
si; né Drance piuttosto, se v'è un'ira
qui degh Dei, la plachi con la morte,
o se v' è gloria pe '1 valor, la usurpi )>.
376
ENEIDE
Quelli tra lor così del grave istante
trattavano discordi: Enea moveva
dal campo a la battaglia. Ecco che il grido
corre a rumore per la reggia ed empie
d'alto terrore la città, schierati
dal Tebro i Teucri e la falange etrusca
rovesciarsi da tutta la campagna.
È sconvolto il pensier, gli animi scossi
subito de le turbe e sorgon Tire
così spronate. Cercan l'armi a furia,
armi fremono i giovani; sgomenti
lagrime danno e rotti accenti i padri.
Grande allor d'ogni parte al ciel si leva
de' pareri moltephci il clamore;
non altrimenti che se in seno al bosco
si posi moltitudine d'alati
o rauchi pe' loquaci gorghi i cigni
del pescoso Padusa alzin la voce.
« Su, fate parlamento, o cittadini »,
Turno gridò, colto l'istante, «e assisi
esaltate la pace: in arme quelli
corron rapidi al regno ». Senza più,
precipitoso uscì da l'alte stanze.
«Tu, Vòluso, i manipoH de' Volsci
fa' che s'armino e Rutuh anche mena »
dice : « Messapo la cavalleria
e Cora col fratel sfrenate intorno.
Gli aditi a la città guardi una parte
ed occupi le torri, e con me l'altra
dove comanderò venga a l'assalto».
LIBRO UNDECIMO 377
Già è per la città tutta un diffuso
correre a' muri. Esso Latino padre
il concilio e il proposito suo grande
lascia e rinvia, turbato in tal frangente,
e ben s'accusa che il dardanio Enea
non ricevè volenteroso e strinse
a la città qual genero. Altri scava
anzi le porte, o massi e travi arreca.
Aspra la tromba dà il segnai del sangue.
Ecco che cinti di corona nova
le matrone e i fanciulli ebbero i muri:
tutti a sé vuole l'ultimo cimento.
Al tempio insiem di Pallade su l'arce
tra il grande stuolo de le madri è tratta
la Regina co' doni, e a lato a lei
va compagna la vergine Lavinia,
causa del danno, co' begh occhi bassi.
Entrano, e il tempio odorano d'incenso,
e il mesto grido matronal si leva :
« Donna de l'armi, duce de la guerra,
vergin Tritonia, di tua mano infrangi
tu del frigio ladron la spada, e lui
atterra e stendi sotto l'alte porte ».
Arde in armarsi più che tutti Turno.
Già cinto de la rutula corazza
squamosa, stretti gli schinieri d'oro,
nudo la fronte ancor, s'avea sospesa
la spada al fianco, e rifulgea correndo
aureo da l'alto de la rocca, baldo
e pregustando col desio l'assalto:
378 ENEIDE
tale qualor fuggì, rotti i legami,
da le stalle il destrier libero al fine
e signor de la libera campagna,
o a' pascoli ne va de le cavalle
o a la nota riviera ove si bagna,
e freme con cervice alta superbo,
scherzan sul collo e per le spalle i crini.
Incontro venne a lui tra stuol di Volsci
Camilla e proprio in su le porte lieve
balzò giù dal cavallo, e la coorte
tutta a l'esempio de la sua regina
da le selle fluì. Poi così dice :
« Turno, se in sé può confidare il prode,
oso e prometto fronteggiar da sola
gli Eneadi ed i Tirreni cavalieri.
Lascia cogliere a me questa primizia
del guerresco pericolo : pedone
tu resta a' muri e la città preserva ».
Fissando la terribile fanciulla,
« Vergine, onor d' Italia », esciama Turno,
« quali dirti potrò, qual render grazia ?
Ma poi che va il tuo cuor più su che tutto,
or dividi, con me l'opera. Enea,
come la fama e i nostri esploratori
attestano, mandò maHgno avanti
equestri squadre a scalpitare i campi;
ed esso varca per le abbandonate
alture a la città. Bellica insidia
gli tendo al curvo passo de la selva,
chiudendogh d'armati le due bocche.
Tu i tirreni cavalli in campo aftYonta :
LIBRO UXDECIMO 379
sarà con te Messapo forte e Tali
latine e la tibiirte schiera: tuo
sia di duce il pensier ». Disse, ed esorta
similmente Messapo e gli altri duci,
e va verso il nemico.
Tortuosa
è una valle, agl'inganni atta de l'armi,
cui i due lati suoi serrano bruni
di densa frasca, ed un sentier vi mena,
vi danno brevi aperte adito scarso.
Sopra questa, in vedetta a somm.o il monte,
giace un ignoto piaU; fido ridotto,
se a destra o a manca ami affrontar nemico
o tener l'alto e rotolar macigni.
Là si dirige per le note vie
il giovine e veloce il luogo prese
posando ne la selva insidiosa.
Ne le superne sedi intanto ad Opi,
agii fanciulla de le sue compagne
e de la sacra schiera, mestamente
favellava la figlia di Latona :
« O vergine, a crudel guerra si av\àa
Camilla; cinta invan de l'armi nostre,
prediletta da me. Né già novello
venne a Diana questo amor né il cuore
le toccò d'improvvisa tenerezza.
Dal regno espulso, in odio de l'altera
sua Dotenza, a l'uscir Mètabo fuori
de la città vetusta di Privemo,
380 ENEIDE
pargoletta tra i moti de la guerra
se la portò compagna de l'esiglio
e lei dal nome di Casmilla madre
cangiato in parte nominò Camilla.
Recandosela in grembo camminava
i dorsi lunghi di solinghe selve;
premevan l'armi, ed ogn'intorno i Volsci
a volanti drappelli erano sparsi.
Ecco che a mezzo de la fuga in piena
ispumeggiava l'Amaseno, tanta
era caduta furiosa pioggia.
Sta per gittarsi a nuoto; amor lo tiene
de l'infante, timor pe '1 caro peso.
Tra l'affollarsi de' pensieri in uno
solo d'un tratto si posò. Un lanciotto
grande che aveva ne la man guerriera,
saldo di nocchi e di riarso legno,
a questo, avvolta in buccia di silvestre
sughero, la figliuola raccomanda,
legata in mezzo a la manevole asta;
poi l'asta in alto libra e invoca il cielo:
— Santa de' boschi amica, o vergin figlia
di Latona, a te questa per ancella
io suo padre consacro. A l'armi tue
stretta la prima volta supplicando,
pe '1 ciel fugge il nemico : oh ! la ricevi
questa tua che a l'incerte aure si affida -
Disse ed, il braccio ritraendo, avventa
il giavellotto. Risonavan l'onde :
misera vola sul rapido fiume
ne la saetta stridula Camilla.
LIBRO L SUE- AMO 38 T
E Mètabo, cui più stringea da presso
lo stormo, entra ne l'onda e trionfante
spicca la lancia e insiem la creatura,
dono di Tri via, da un cespuglio verde.
Non casa lui, non tra le mura accolse
città, né arreso si sarebbe il fiero:
visse pastore e ne' solinghi monti.
Quivi tra rovi e ruvidi covili
nutricava la pargola col latte
d'una cavalla de la mandra indoma,
su la boccuccia gli ùveri mungendo.
E come prima ella si resse e l'orme
ebbe preso a segnar, a la bambina
armò le mani di quadrello acuto
e le appese a le spalle i dardi e l'arco.
In vece d'oro ne' capelli, in vece
di ricche vesti, le pendea di testa
per il dosso la pelle d'una tigre.
Con la tenera mano infin d'allora
fé' puerili tratti e intorno al capo
girò con agii redine la fionda;
gru strìmonia colpì, candido cigno.
Lei molte invan per la città tirrene
madri a nuora bramarono : contenta
a la sola Diana e intemerata,
ella conserva vivido de l'armi
e de la sua verginità l'amore.
Ben vorrei non si fosse a questo incendio
presa e arrischiata d'assalire i Teucri:
a me cara e sarebbe or del mio coro.
382 ENEIDE
Ma poi che la sospinge il fato acerbo,
cala, o ninfa, dal cielo a le latine
terre, ove triste con sinistro augurio
si fa battaglia. Tieni, punitrice
fuor del turcasso una saetta leva,
onde, chiunque offenda di ferita,
teucro o italo, quella che m' è sacra,
parimenti col suo sangue mi paghi.
Io poi dentro una nube il corpo e Tarmi
de rinfehce recherò non tocche
al sepolcro rendendole a la patria ».
Disse, e quella di turbine ravvolta
scorse sonora giù per l'aure lievi.
Ma la forza troiana intanto a' muri
s'appressa e i toschi duci e i cavaHeri
tuttiquanti, partiti in giuste squadre.
Freme per tutto il pian lo scalpitante
corsiero e tira le tirate briglie
caracollando: orror di ferro è intomo,
la campagna de l'armi alte lampeggia.
Ma di fronte a incontrarli ecco Messapo
e rapidi i Latini e col fratello
Cora e co' suoi la vergine Camilla:
ritraggono e protendono le lance,
appuntano gh strali: è un infiammato
premer di prodi e fremer di destrieri.
De l'armi al tiro gU uni e gU altri giunti,
s'eran fermi : poi gridano e s'avventano
improvvisi co' fervidi cavalli:
spargono insieme d'ogni parte i dardi
LIBRO LXDECI.MO 383
qual bufera di neve, e il ciel si oscura.
Cozzano pronti con le lance in resta
TiiTeno e il fiero Acònteo e danno primi
suon d'un gran tonfo, che a l'urtar de' petti
i destrier si sfragellano : sbalzato
Aconteo a mo' di fulmine o di globo
uscito di balestra va lontano
a cader e la vita in aria sperde.
A ciò sorprese le latine squadre
gettan le targhe e voltano i cavaUi
a la città : gì' incalzano i Troiani,
Asìla è duce de la caccia. E ornai
eran presso a le porte, ecco i Latini
rinnovellano il grido ed agilmente
rifanno testa: or fuggon quelli e indietro
si ritraggono a briglie abbandonate.
Così fa il mar, che con alterno flutto
or corre a riva e supera gli scogli
spumoso e su le sabbie si dispiega,
or si ritira e riassorbe l'onda
rapido e via da le scogliere indietro
lascia con Tacque languide l'arena.
Due volte i Toschi cacciano a le mura
i Rutuli fuggenti, e due respinti
sogguardano coprendosi le spalle.
Al terzo assalto poi, quando a le prese
imimischiarono tutti gli squadroni
e stette uom contro a uom, allor le strida
de' morenti, e nuotare armi ed armati
nel sangue, e tra la strage semivivi
cader cavalli; aspra la pugna sorge.
384 ENEIDE
Orsiloco di Remolo al cavallo,
che assalir lui temea, scaglia e confìgge
sotto l'orecchio l'asta. Impenna al colpo
il corridore e indocile al dolore
diritto guizza con le zampe in aria:
quei precipita al suol. Catillo abbatte
lolla e grande di cuor d'armi e membra
Erminio; flavo la capellatura,
nudi ha la testa e gh omeri, e non teme,
vasto bersaglio a' dardi. Per le larghe
scapole un'asta vibrasi e trafitto
il fa piegar di spasimo. Per tutto
è sangue, è gara di ferir col ferro:
bella tra l'armi sfidano la morte.
Ma ne la strage, x\mazzone scoperta
r un de' seni a la pugna, imbaldanzisce
Camilla faretrata, ed ora a nembi
spande i flessili strah, or con la destra
la robusta bipenne alza indefessa:
tinnisce l'arco d'or caro a Diana.
Che s'ella pur talora ebbe a dar volta,
drizza con l'arco indietro le saette
fuggenti. Attornian lei le predilette
sue compagne, la vergine Larina
e Tulla e de la scure agitatrice
Tarpeia, italiane che a suo fregio
essa la dia Camilla avea prescelte,
in pace buone aiutatrici e in guerra :
quaU le tracie Amazzoni sui ghiacci
del Termodonte battono pugnando
LIBRO l.'N'DECIMO 385
con le pirite armi, a Ippolita o a la marzia
Pentesilea d'intorno che sul carro
riede, e animoso quel donnesco stuolo
ulula e ondeggia co' lunati scudi.
Qual primo tu, quale ultimo col dardo,
fiera vergine, abbatti e quanti a terra
moribondi? Per primo Euneo di Clizio
figliuolo, a cui con un troncon d'abete
apre il petto e trapassa, e quegli cade
gettando sangue e morde il suol sanguigno
e si contorce ne la sua ferita.
Liri e Pàgaso poi : Tun, mentre stringe
la briglia scosso dal destrier squarciato,
l'altro che soccorrendo a quel cadente
porge la destra inerme, a precipizio
vanno del pari. Aggiunge a loro Amastro
Ippòtade, e lontan mira con l'asta
e Tèreo e Arpàlico e Demofoonte
e Cromi: quante la virginea mano
gettò saette, e tanti cadder Frigi.
Con armi strane ed apulo cavallo
Òrnito cacciator move in disparte :
le larghe spalle a lui copre una pelle
di torello pugnace, gli è cappello
la gran bocca d'un lupo spalancata
con le mascelle e i bianchi denti, in mano
ha uno schidione villereccio : a tanti
vibrasi in mezzo e tutto il capo ha sopra.
Colto ella lui (né fu fatica, andando
le schiere in volta), lo trafigge e grida
Albini - Eneide 25
386 ENEIDE
con cuore ostil : « Or ti pensavi, o tosco,
cacciar le fiere? Venne il dì che i vostri
vanti con femminili armi confonde.
Pur con l'ombre de' padri hai buona scusa,
per mano di Camilla esser caduto ».
Indi Orsiloco e Bute, de' più grandi
Teucri; ma Bute lo trafisse a fronte
tra la lorica e l'elmo, ove biancheggia
il collo al cavalier e scende al manco
braccio lo scudo; Orsiloco lo illude
sfuggendogli in gran giro e poi ristretto
sì che r inseguitore ella persegue :
per l'armi allor, per l'ossa del guerriero
che molto prega e supplica, alto eretta
cala e ricala la robusta scure;
fuma il cervello e gronda giù pe' 1 viso.
S'abbatte a lei; vedutala, s'arresta
atterrito il belligero figliuolo
d'Auno de l'Apennino, non postremo
de' Liguri, finché lasciava il fato
luogo a ingannar. Costui, quando si vede
non potere per corsa evitar l'urto
né l'impeto stornar de la regina,
pensa agli accorgimenti e con malizia
principia a dir : « E' non è poi gran vanto !
donna, ma confidata a un buon cavallo.
Smetti la fuga; in terra piana e presso
scendi con me, vieni al duello a piedi :
saprai cui noccia la nomea ventosa ».
Disse : irritata e di dolor trafitta
LIBRO UNDECIMO 387
ella cede il cavallo a una compagna
e gli si pianta in armi eguali a fronte,
con non più che la spada e la rotella.
Ma quei che si pensò vincer d'inganno
or esso fugge subito e di sprone
più sollecita il rapido galoppo.
« Ligure vano e invano inorgoglito,
inutilmente subdolo tentasti
l'arti paterne: la fallacia tua
non ti renderà salvo al fallace Auno ».
Così dice la vergine e sfavilla
su' piedi via, passa il cavallo in corsa,
afferra il fren, stringe l'assalto a fronte
e fa vendetta nel nemico sangue:
non così pronto spiccasi sparviero,
sacro uccel, da la rupe ad inseguire
un'alta tra le nuvole colomba;
la raggiunge l'artiglia la dilania,
e stilla il sangue e piovono le penne.
Ma non senza riguardo a questi eventi
degli uomini il gran Padre e degli Dei
siede a sommo l'Olimpo. Ei move il tosco
Tarcone a la battagha fiera e il punge
a fervid'ira. Tra le stragi adunque
Tarcon cavalca e le cedenti squadre
e le raccende con diverse voci
chiamando a nome ognuno, e i rintuzzati
rifa guerrieri. « Che viltà vi prese,
o non mai risentiti, o sempre inerti
Etruschi ? Ed una femmina vi sbanda
388 ENEIDE
SÌ numerosi? A che vestiam di ferro
e maneggiamo inutili le spade ?
Ben solleciti a Venere voi siete
e a le notturne pugne, o quando chiama
il curvo flauto bacchico a tripudio.
Le vivande attendete e a piena mensa
i caUci (questo è zelo e delizia),
mentre l'augure fausto indice i riti
e la vittima pingue invita a' boschi ».
Cosi detto, a morir disposto anch'esso,
sprona nel folto e tutto annuvolato
con Venulo s'affronta, da l'arcione
strappandolo l'abbranca, e a forza e a furia
via se lo porta in grembo. Al ciel va il grido
e son volti a guardar tutti i Latini.
Va, vola, guizza per il pian Tarcone
con Tarmi e l'uom, da la cui stessa lancia
tronca la ferrea punta e cerca il luogo
libero a dargU la mortai ferita:
quei da la strozza a ricacciar la mano
pur si dibatte e oppone forza a forza.
E come alto volando aquila fulva
stringe il rapito drago entro gli artigli
e ghe li ficca, ma il serpente attorce
le sinuose spire, irto le squame,
sibilante la bocca, erto levato;
quella il ribelle con l'adunco rostro
pur doma e sferza insiem l'aure con l'ali:
non altrimenti dal tiburte stuolo
trionfante Tarcon porta sua preda.
Dietro del duce al fortunato esempio
LIBRO UNDECIMO 3^9
fanno impeto i Meònidi.
Ed Arrunte,
segnato dal destin, con l'arco e l'arte
primo si mette a circuir Camilla,
spiando ove offra il destro la fortuna.
Dovunque s'avanzò quell'animosa,
ecco su l'orme sue tacito Arrunte;
e donde quella da un nemico vinto
retrocede, ei di là volge la briglia.
Or questo accesso tenta, or quell'accesso,
e tutto intorno esamina guardingo,
stretta con bramosia l'asta sicura.
Clòreo al Cibalo sacro, e sacerdote
un dì, lungi splendea ne l'armatura
frigia sopra un magnanimo destriero
copertato d'un vello a bronzee squame
foggiate a penne e co' fermagli d'oro.
Di forestiera porpora ferrigna
esso lustrante dal suo licio nervo
iscoccava gortinie quadrella.
D'oro avea l'arco agli omeri, avea d'oro
il vate l'elmo, e in fulvo aureo legame
il croceo manto raccoglieva e i seni
di lin fruscianti, ricamato tutto
la tunica e le barbare gambiere.
Lui la fanciulla cacciatrice, o a' templi
appendere volesse armi troiane
o sé stessa vestir d'oro captivo,
lui seguitava a tutto il resto cieca
e a traverso la mischia ardeva incauta
39^ ENEIDE
d'un femminile amor di quelle spogKe;
quando, l'istante alfin colto, una freccia
scaglia da l'ombra Arrunte e così prega:
« Sommo de' Numi, protettor del santo
Soratte Apollo, che adoriam noi primi,
e fiamme al rito ti ammucchiam di pino,
e in mezzo al fuoco fermi ne la fede
passiam co' pie sul letto de le brage,
deh! concedimi, padre onnipotente,
che sperda il colpo mio questa vergogna.
Non armi, non trofeo de la cacciata
vergine io chiedo né veruna spoglia;
onoreranno me gh altri miei fatti :
per me si cacci e cada il reo flagello,
e ch'io non ne abbia gloria al mio ritorno ».
L'ascoltò, gh annuì parte del voto
il cuor di Febo, e parte lo disperse.
Che di subita morte egH prostrasse
la stornata Camilla, accolse il prego;
che l'alta patria reduce il vedesse,
negò: fu preda quella voce a' venti.
Come dunque die suon scagHata l'asta
per l'aure, il pensier vigile e gli sguardi
volsero tutti a la regina i Volsci.
Né d'aure né di suon né sa di strale
essa, fino che a voi l'asta giungendo
la cogUe sotto la mammella ignuda
e beve addentro del virgineo sangue.
Corrono trepidanti le compagne
e la signora sorreggon cadente.
LIBRO UNDECIMO 39^
Fugge atterrito più che tutti Arrunte
tra gioia e tema, né già più si affida
a l'asta o contro l'armi di Camilla.
Quale, prima d'aver la caccia dietro,
subito fuor di \ia ripara ai monti,
poi che il pastore uccise o un bel giovenco
conscio del fatto temerario, il lupo,
e, con la coda sotto paurosa
lambendo il ventre, toma a la foresta;
tal si tolse confuso dagU sguardi
Amante e, assai contento de la fuga,
si mescolò tra l'armi.
Moribonda
essa l'asta si trae, ma fino a l'ossa
nel fianco fìtta s'è la ferrea punta.
Languisce esangue, rigide di morte
languono le pupille, e da le gote
il roseo svanì color d'un giorno.
Così spirante allor si volge ad Acca,
la coetanea sua più fida, addentro
nel pensier di Camilla, e sì le dice:
«Son durata fìnquì. Acca sorella;
or la ferita acerba mi consuma
e tutto intorno mi diventa nero.
Scampa, e questo messaggio ultimo reca
a Turno: mi sottentri a la battaglia
e i Troiani respinga da le mura.
E addio )).
Tra il dir le briglie abbandonava
fluendo a terra involontaria. Allora
fredda e languida venne a poco a poco
392 ENEIDE
per ogni membro, reclinò il morente
capo, l'armi le sfuggono, e la vita
con un sospir fugge sdegnosa a, l'ombre.
Immenso il grido fino a l'auree stelle
s'alza: più cruda, or che Camilla giace,
si fa la pugna: accorron densi in una
ogni nerbo de' Teucri ed i Tirreni
duci e d' Evandro gli arcadi squadroni.
Ma la scolta di Trivia Opi da tempo
siede su' monti e senza batter ciglio
guarda le pugne. Come lungi vide
tra il clamore de' giovani pugnaci
colpita di crudel morte Camilla,
mise un sospiro ed esclamò dal cuore:
« Troppo, fanciulla, oh troppo hai grave pena
de l'ardimento d'assalire i Teucri !
Poco ti valse che solinga in selve
adorasti Diana e de le nostre
faretre armasti gh omeri. Ma pure
inonorata te la tua regina
non lasciò . su la morte, e un tal morire
non andrà senza gloria per il mondo
né fama patirai d'invendicata.
Chi si sia che ferì la tua persona,
darà col sangue giusta pena ».
Grande,
sotto alto monte, in ammucchiata terra
di re Dercennio era il sepolcro, antico
laurente, a l'ombra d'elei opache. Quivi
LIBRO UNDECniO 393
posò la dea bellissima d'un balzo,
alta Arrunte a spiar. Come lo vide
festante in cuore e in van tumido, <( Oh, grida,
perché altrove ten vai? qui vieni, vieni
qui morituro, che t'aspetta il premio
di Camilla. E ancor tu mxorrai del dardo
di Diana ? »
Così disse, e da l'aurea
faretra fuor cavò la trace un dardo
alato e irosa l'incoccò, traendo
poi l'arco si da combaciar curvati
i capi e toccar essa a mani pari
la punta de lo strai con la sinistra,
con la destra e col nervo la mammella.
Udì strider la freccia e fischiar l'aure
Arrunte, e insieme gli si fìsse il telo.
Lui spirante negli ultimi singulti
incuriosi lasciano i compagni
sopra l'ignota polvere de' campi.
Opi rivolge a l'alto Ohmpo il volo.
Prima a fuggir, perduta la signora,
di Camilla è la heve ala, sgomenti
fuggono i Rutuli, insiem l'aspro Atina,
e dissipati i condottieri e soh
i manipoH affrettano al sicuro
e a la città rivoltano i cavalli.
Né alcun regger con l'armi o fronteggiare
i Teucri sa prementi e minacciosi:
ma lenti gH archi su le spalle basse
riportano, e di corsa batte l'unghia
394 ENEIDE
de' quadiTipedi il suol che trema e fuma.
Un vortice sinistro e polveroso
s'appressa a la città: su le vedette,
il petto percotendosi, le donne
levano al cielo le femminee strida.
Quelli che a furia per le porte schiuse
irrupper primi, gii urge a tergo mista
l'onda nemica, e non scampano a morte
misera: là sul limitare, dentro
le mura patrie, tra le fide case
son colti e morti. Altri a serrar le porte,
né osa dar la via ch'entrino i loro,
suppHci, e nasce miserevol strage
de' divietanti l'adito con l'armi
e de' precipitanti contro l'armi.
Innanzi a' lacrimosi occhi materni
gli esclusi, parte son da la gran ressa
sospinti e ne' precipiti fossati,
e parte fuor di sé si sbriglia e sprona
a cozzar ne le porte asserragliate.
Esse le madri a l'ultimo cimento
(il vero amor di patria insegna, han visto
Camilla) da gli spaldi a gittar colpi
si affannano, per ferro il duro legno
usando e ceppi acuminati al fuoco,
e si offron per le mura a morir prime.
Intanto ne le selve orribil nuova
investe Turno, dove il gran conflitto
Acca gli reca: annichilati i Volsci,
atterrata Camilla, soverchianti
LIBRO UNDECIMO 395
i nemici e per tutto col furore
di Marte imperversanti, ed essa ornai
la città minacciata. Ei furioso
(e così vuol di Giove il nume avverso)
lascia i preoccupati colli, lascia
le diffìcili selve. Fuor di \àsta
uscito appena procedea nel piano,
allor che il padre Enea pe' varchi aperti
sale l'altura ed attraversa il folto.
Così rapidi entrambi e con lor nerbo
tendono a la città, né v'è tra loro
lungo intervallo. Quando Enea scoperse
pe* campi polverosi andarsi avanti
l'oste laurente, insiem Turno conobbe
il fiero Enea seguirlo e il calpestio
udì de' fanti e il fremer de' cavalH.
Verrebbero a le prese incontanente,
se rosso già ne' flutti iberi Febo
non immergesse i corridori stanchi
e riportasse dileguando notte.
Fanno e afforzano il campo innanzi a' muri.
LIBRO DFXIMOSECONDO
Turno che affranti da l'avversa pugna
ceder vede i Latini, e sua profferta
ora invocarsi e in lui fissi gli sguardi,
implacato più ferve e baldanzoso.
Qual ne le sabbie puniche il leone
che da la caccia ebbe ferito il petto
ben s'arma allora e squassar gode i groppi
de la criniera, la confitta freccia
frange e ruggisce con bocca cruenta;
tale la \àolenza in Turno bolle.
Al Re si volge e torbido favella:
«Turno è pronto: non v'è ragion che il patto
disdicano gli Eneadi codardi.
I riti adempì e le parole, o padre.
O manderò quel dardano a l' A verno,
fuggiasco d'Asia, con la mano mia
(seggano a lo spettacolo i Latini),
vindice io sol de la comune offesa ;
o vinti egli ci domini, gli vada
sposa Lavinia )>.
398 ENEIDE
Placido risponde
a lui Latino : « Giovin d'alto cuore,
quanto primeggi tu di generoso
valor, con tanta più premura è giusto
ch'io vegga e pesi trepido gli eventi.
Possiedi il regno di tuo padre Danno,
prese da te molte città possiedi,
e non manca a Latino oro né onore :
altre fanciulle v' è nel Lazio e in terra
laurentina, e non d'umile radice.
Lascia ch'io dica non piacevol cosa
senz'ombra o velo, e la ricevi in cuore.
Io la figHuola non dovea sposare
a veruno de' vecchi pretendenti,
e l'ammonivan tutti uomini e Dei.
Per amor tuo, per il congiunto sangue,
e per i pianti di mia donna mesta,
vinto ruppi ogni vincolo, la sposa
al genero ritolsi, empie armi strinsi.
Che vicende di poi, che guerre, o Turno,
mi perseguano, il vedi, e che travagli
tu per primo ne soffra. In gran battaglia
vinti due volte, ricovriamo a stento
ne la città le italiche speranze:
tepido ancor del nostro sangue scorre
il Tebro, d'ossa il vasto pian biancheggia.
A che, per qual follia sì mi rimuto?
S'io son disposto a farli soci, spento
Turno, che, lui incolume, piuttosto
non levo le contese ? E che diranno
i consanguinei Rutuli e l' Italia
LIBRO DECIMOSECOXDO 399
tutta, se a morte offerto avrò (Fortuna
disperda il detto) te che mi chiedevi
la mia figliuola ? A le vicende guarda
varie di guerra : abbi pietà del padre
vecchio; cui mesto Àrdea natia lontano
or tien da te ».
Non per suo dir di Turno
la violenza piegasi, ma cresce
e a medicarla s'inasprisce. Quando
potè prima parlar, così proruppe:
« Lo zelo che hai per me, per me il deponi,
ottimo, ti scongiuro, e mù consenti
di pattuire per l'onor la morte.
Dardi di ferro, o padre, avvento anch'io
non fiacchi e spiccia sangue ov'io colpisco.
La madre accanto ei non avrà, che avvolga
di femminea nuvola il fuggente
e si dilegui non veduta insieme ».
Ma la Regina, al novo rischio scossa
del duello, piangeva ed al focoso
genero si stringea disposta a morte.
« Turno, per queste lagrime, pel nome,
se ti preme, d'Amata (or la speranza
unica tu, de la vecchiezza infausta
sei la pace, in te il regno e di Latino
tutta s'appoggia sopra te la casa),
questo ti chiedo : lascia d'azzuffarti
co' Teucri. Oual sia caso che t'aspetti
in questa lotta, anche me. Turno, aspetta:
lascierò insiem quest'odiosa luce.
400 ENEIDE
né captiva vedrò genero Enea ».
Accolse le parole de la madre
Lavinia con le lagrime sul viso,
e un gran rossore l'assalì di fuoco
e si le corse per le guance accese,
come quando si sparga ostro sanguigno
su l'indo avorio, o misti i bianchi gigli
rosseggino di molte rose : tali
la vergine sul volto avea colori.
Lui turba amore, e la riguarda fiso;
viepiù s'infiamma a l'armi, e breve dice
ad Amata : « Non far, madre, non fare
che tal di pianto m'accompagni augurio,
mentre del duro Marte esco a le prove:
né in arbitrio è di Turno indugiar morte
Idmone, al frigio re questo messaggio
reca per me, che gli saprà d'amaro :
Come prima l'aurora di domani
su le purpuree ruote in ciel s'accenda,
contro i Rutuli già non mova i Teucri,
posino Teucri e Rutuli senz'armi,
col nostro sangue decidiam la guerra,
cerchisi in quel terren sposa Lavinia ».
Detto così, ricorso a casa, chiede
i suoi cavalli e a riguardarli gode
frementi: essa Oritìa dielh a Pilumno
per suo decoro, tah da passare
in bianchezza le nevi, al corso l'aure.
Intorno a lor s'adoprano gU aurighi:
picchiano i petti con le palme, i colli
LIBRO DECIMOSECOXDO 4OI
pettinano chiomati. Esso di poi
d'oro ruvida agli omeri si veste
e di bianco oricalco una lorica :
insiem s'adatta agevole la spada
e lo scudo e il cimier da le vermiglie
creste, la spada che avea fatta il dio
del fuoco a Danno genitore e rossa
ne l'acque de lo Stige avea tuffata.
Poi la forte asta che a la casa in mezzo
stava, poggiata ad una gran colonna,
spoglia eh' è de l'aurunco Attore, afferra
e la palleggia tremola gridando :
« Tu che sempre rispondi al mio chiamare,
0 asta, è il tempo : te il sommo Attore, ora
te la destra ha di Turno. Or fa' ch'io prostri
l'imbelle Frige, con la man possente
gli strappi e squarci la lorica, e lordi
ne la polvere il suo crine arricciato
col caldo ferro e madido di mirra ».
Così s'agita in ira, e da la faccia
sprizzan scintille, ne' vivi occhi è fuoco:
come vicino ad avventarsi il toro
mette muggiti orribih ed arrota
contro il tronco d'un albero le corna,
dà di cozzo nel vento, e scalza e sparge,
a la lotta apprestandosi, l'arena.
Non meno intanto fiero a la battaglia
Enea ne le materne armi si accende,
lieto che un patto termini la guerra.
1 compagni rianima e il pensoso
Albinm - Eneide s6
402 ENEIDE
cuore di Giulo, rammentando i fati;
poi sua ferma risposta a re Latino
fa che si rechi e de l'accordo i modi.
Appena l'altro dì spargea di lume
le vette a' monti, quando su dal mare
i cavalli del Sol nascono e luce
soffiano da le alzate nari : il campo
sotto la gran città Rutuli e Teucri
già misuravano al duello, e in mezzo
ponean bracieri ed agli Dei comuni
altari erbosi. Acqua fontana e fuoco
portavano altri, cinti di grembiule
e coronati di verbena il capo.
La legione degli Ausonii a onde
coi pili avanza fuori da le porte;
indi il troiano esercito e il tirreno
con le varie armi tuttoquanto accorre,
non altrimenti armati che al chiamare
aspro di Marte. A' mille e mille in mezzo
passano i duci d'oro e d'ostro adorni,
Mnèsteo di Assàraco ed il forte Asila
e di cavalli domator Messapo
nettunia prole. E Qome dato il segno
a' luoghi suoi ciascun si trasse, a terra
piantano l'aste e incHnano gli scudi.
Le donne desiose e il volgo insieme
escono, i vecchi stanchi a torri e tetti
s'addensano, altri a sommo de le porte.
Ma dal monte Giunon, che oggi è d'Albano,
nome allor non avea né feste o fama,
LIBRO DECI.MOSECON'DO 4O3
lungi davanti a sé guardava il campo,
de' Laurenti e de' Teucri ambe le schiere,
e di Latino la città. D'un tratto,
diva a diva, di Turno a la sorella
disse così, preposta a' fonti e a' fiumi
sonanti (le die questo culto il sommo
Giove per sua verginità rapita) :
« Ninfa, onore de' fiumi ed amor mio,
sai com' io te, tra quante mai latine
vennero del gran Giove al letto ingrato,
dilessi e amica in ciel posi : Giuturna,
sappi — che non mi accusi — il tuo dolore.
Fin che il sembrò patire la Fortuna
e le Parche assentian successi al Lazio,
Turno difesi e le tue mura : or veggo
il giovine affrontar fati ineguah,
e de le Parche il giorno e la nemica
forza s'appressa. Questa pugna, questo
patto io mirar non so. Tu pe '1 fratello
se cosa utile ardisci, ecco, è l' istante.
Forse verrà conforto agi' infelici ».
Disse appena, che in lagrime rompendo
tre volte e quattro si percosse il petto
bello Giuturna. E la saturnia Giuno :
« Tempo non è di pianto : affretta, a morte,
se modo v' è, strappa il fratello, o guerre
fa' nascer tu contro il composto patto.
Consigliera son io de l'ardimento jk
Con tal consiglio la lasciò perplessa,
agitata ne l'animo e ferita.
404 ENEIDE
Intanto i re, con gran pompa Latino
viene su carro a quattro, e reca in fronte
dodici raggi luminosi d'oro
segno de Favo Sole; in bianca biga,
due ferrate quadrella in man recando,
vien Turno : il padre Enea da l'altra parte,
progenitor de la romana stirpe,
per lo stellato scudo e le celesti
armi smagliante, e Ascanio presso lui,
speme seconda de l'augusta Roma,
avanzano nel campo. In veste schietta
il sacerdote addusse il parto d'una
ispida scrofa ed un'intonsa agnella
e li fé' presso a l'are accese. Quelli,
rivolti a l'oriente, il salso farro
spargono e il ciuffo radono a le fronti
de l'ostie con la spada, e da le tazze
liban gli altari.
Quivi così giura,
con la spada impugnata, il padre Enea :
«Sia testimonio a la mia voce- il Sole
e questa terra per la qual potei
sì grandi prove tollerare, e il Padre
onnipotente e tu. Saturnia sposa
(più mite alfìn, più mite, o Dea, ti prego),
e tu, Mavorte glorioso padre,
che sotto il cenno tuo volgi ogni guerra;
e i fonti e i fiumi invoco, e quante sono
religioni nel superno cielo
e quanti numi nel ceruleo mare :
se la vittoria mai tocchi a l'ausonio
LIBRO DECIMOSECONDO 405
Turno, è l'accordo ritornare i vinti
a la città d' Evandro, e Giulo i campi
sgombrerà, né mai più ribelli Eneadi
con l'armi questi regni assaliranno.
Ma se Vittoria Marte arrida a noi
(che meglio credo e meglio piaccia a' Numi),
non io vorrò che sian soggetti a' Teucri
gì' ItaH né per me domando il regno :
con eque leggi le due genti invitte
vadan di eterno vincolo congiunte.
Riti e dèi darò io: l'armi Latino
suocero regga, il suocero Latino
serbi l'impero; a me faranno i Teucri
una città, sarà Lavinia il nome ».
Così per primo Enea. Segue Latino,
con gh occhi al cielo, con la destra al cielo:
<( Giuro a la terra al mare ed a le stelle,
o Enea, lo stesso giuramento, e a' due
latònii figli ed al bifronte Giano
e a la divina inferna possa e al cerchio
del duro Dite : il Genitor lo ascolti,
che i patti col suo fulmine sancisce.
Tocco l'altare, e gl'interposti fuochi
e i Numi attesto: non sarà mai giorno
che per gl'Itali rompa questa pace
e questo patto, qual che segua evento,
né forza alcuna mi farà volere
diverso, no, s'ella confonda in uno
la terra e l'acque ed inabissi il cielo.
Questo scettro cosi — ch'ei lo stringea —
406 ENEIDE
mai non darà con vaga fronda fiori
né ombra, poi che da la pianta svelto
ne la selva una volta è senza madre
e fu schiomato sotto la bipenne :
albero un dì, d'artefice l'ingegno
or lo legò di fulgido metallo
e in man lo pose a' principi latini ».
Fermavano con tali alterni detti
l'accordo in mezzo de' guerrieri astanti :
poi svenano le vittime devote
sul fuoco e a quelle strappano pur vive
i visceri e ne accumulano l'are.
Ma già da prima a' Rutuli era parso
quel duello inegual, e un vario moto
turbava i cuori allora più che in vista
le forze differenti ebber vicine.
Turno a ciò conferisce che s'avanza
muto e adora l'aitar con gli occhi bassi,
e le fiorite guance e quel pallore
in giovinezza. Non appena vide
la sorella Giuturna a farsi spesso
il dir e i sensi fluttuar del volgo,
tra le schiere in sembianza di Camerte
(grandi avi avea, fu di valor famoso
il padre, era esso acerrimo guerriero),
tra le schiere s' insinua sagace
e più parlari intreccia e così dice :
(( Non vergognate, o Rutuli, per tutti
e tali di arrischiar sola una vita?
Pari non siam di numero e di forze ?
LIBRO DECIMOSECONDO 4^7
Ecco i Troiani e gli Arcadi qui tutti,
e fatai forza a Turno ostil l' Etruria :
ed a fatica un uom di fronte avremo,
se un sì e un no scendiamo in campo. Quegli
ai Superi, a le cui are si vota,
andrà subKme e per le bocche vivo;
noi, perduta la patria, noi per forza
a padroni superbi obbediremo,
che ora sedemmo al suolo inerti ». Ai detti
più e più arse il giovenil pensiero,
e un mormorio serpeggia per le file;
cangiano anche i Laurenti, anche i Latini.
Chi già sperò da Tarmi esso posare
e riuscir le cose, or Tanni vuole,
vuol non fatto l'accordo, e per iniqua
la vicenda commisera di Turno.
Aggiunge altro m.aggior caso Giutuma
e da Talto del ciel mostra un portento
di cui nessuno più possente mai
turbò T itale menti e le confuse.
Per Taria rossa il fulvo uccel di Giove
spaventando i pennuti de le rive
e lo stormo sonoro a volo andava;
poi subito calatosi su Tacque
tra gli artigh rapì mirabil cigno.
Sospesi fur gTitah cuori; e tutti
gli alati si rivolgon clamorosi
da la fuga (miracolo a vedere)
e d'ali oscuran Taria e via per Taria,
stretta la nube, incalzano il nemico
408 ENEIDE
che alfin vinto a la forza e insiem dal peso
mancò, cader lasciò la preda al fiume,
e tra l'ultime nuvole disparve.
AUor d'un grido i Rutuii l'augurio
salutano e preparano le mani,
e primo dice l'augure Tolumnio:
. « Ecco, ecco ciò che desiai sì spesso !
Ricevo e riconosco i numi: or l'arme,
duce me, duce me, stringete, o infausti,
cui malvagio stranier turba di guerra
come imbelli pennuti e a furia guasta
le vostre rive: ei fuggirà levando
via per l'ultimo pelago le vele.
Voi concordi stringetevi a battaglia,
a difendere il re che v' è rapito ».
Disse, e a' nemici ch'erano di fronte
lanciò correndo innanzi una saetta
che solcò l'aure stridula e sicura.
Levasi a questo un alto grido, e tutte
son scompiglio le file e fiamma i cuori.
Come nove bellissimi fratelli
stavan contro, che a l'arcade Gilippo
tutti una fida die donna tirrena,
di questi a voi quell'asta uno per mezzo,
splendido di persona e d'armatura,
dove a' fianchi la fibbia i giunti capi
de la contesta cintola addentella,
il passa e abbatte su la fulva arena.
Fiera falange e di dolor trafitta
balzan ciechi i fratelli e con le spade
LIBRO DECniOSECOXDO 4O9
e con le lance subito brandite.
Corron lor contro le laurenti schiere,
e a lor volta i Troiani e gli Agillini
dilagano e le pinte arcadi squadre :
uno in tutti è l'ardor di lotta estrema.
Travolser Tare; va per tutto il cielo
fosca bufera di saette, il ferro
piove e scroscia: crateri e focolari
via riportano; fugge esso Latino
co' Numi offesi de V infranto patto.
Chi carri aggioga, chi si lancia in groppa
a' destrieri, e son pronti a spada nuda.
Messapo, ardendo di turbar l'accordo,
sprona il cavallo nel tirreno Auleste
re con le regie insegne: indietreggiando
questi giù piomba con le spalle e il capo
miseramente tra gli altari a tergo.
Fervido vien Messapo e con la trave
de l'asta da l'arcione alto tempesta
lui supplicante e grida forte : « Ei l'ebbe.
Miglior vittima è questa a' grandi Iddii ».
GÌ' Itali corrono a spogliarlo caldo.
Da l'ara un tizzo Corineo brandisce
e ad Èbuso che vien col colpo in aria
dà nel viso le fiamme: la gran barba
gli risplendette e sparse sito ardendo.
Quegli incalzante con la man(;a afferra
il turbato nemico pe' capelH
e calcandolo a terra col ginocchio
41 0 ENEIDE
la dura spada gli configge al fianco.
Podalirio al pastore Also che armeggia
in prima fila attergasi col brando
e già lo stringe; ma rivolto quegli
con l'azza il fende da la fronte al mento,
e gl'inonda di sangue l'armatura.
Cade l'ombra su quello e il ferreo sonno,
si chiudon gli occhi ne la eterna notte.
Ma il pio Enea, stesa la destra inerme,
ignudo il capo, a' suoi gridava : a Dove,
dove correte? qual discordia è questa
sì repentina? Deh frenate l'ira!
Stretto è l'accordo ed ogni legge è ferma:
solo diritto di battaglia è il mio,
e lasciatelo a me senza paura:
i patti sancirò con la mia mano;
dovuto a me già per il rito è Turno )\
Tra queste voci, a mezzo le parole,
ecco stridulo a voi strale lo colse,
non si sa di qua! man teso e avventato,
qual sì gran lode a' RutuH recasse
o caso o dio: fu m.uta l'alta gloria,
né alcuno si vantò di Enea ferito.
Come Turno mirò ritrarsi Enea
da la battaglia e i principi sgomenti,
sfavilla d'una subita speranza;
chiede i cavalH, l'arme vuol, d'un salto
è già sul carro con in man le briglie.
Molti guerrieri volteggiando uccide.
LIBRO DECIMOSECOXDO 4^^
molti trascina moribondi; intorno
urta le schiere e trae l'aste a fuggenti.
Qual balzando talor lungo il freddo Ermo
batte lo scudo il sanguinoso Marte
e a guerra sfrena i fervidi corsieri
che per l'aperto a Zefiro ed a' Noti
volano avanti ; a l'alto scalpitare
rimbomba fin l'ultima Tracia; intomo
corron le facce ree de lo Spavento,
l'Ire e le Insidie: tal per mezzo l'armi
spinge i cavalU di sudor fumanti
Turno passando sui caduti a furia;
spruzza la rapid'unghia atre rugiade,
e il sangue e il fango son calpesti insieme.
Già Stenelo, già Tàmiro, già Folo
a morte die ; gli ultimi due di fronte,
quello lontan ; gì' Imbràsidi lontano
entrambi, Glauco e Lade, che allevati
in Licia aveva esso Imbraso e fomiti
d'armi opportune a stringersi alle prese
ed a sfidare cavalcando i venti.
Da un altro canto in mezzo a la battagha
spingesi Eumede, chiara prole in guerra
de l'antico Dolone: al nome l'avo
ei rinnovava, al cuore e al braccio il padre,
che un dì, mosso a spiar nel campo acheo,
per sua mercede osò chiedere il carro
del Pehde ; il Tidìde altra m.oneta
gh ripagò per simile ardimento,
e ai cavalU d'Achille ei non aspira.
Come lunge il mirò Turno nel piano.
412 ENEIDE
bersagliatolo pria di alato dardo,
ferma la biga, giù ne balza, piomba
sul caduto morente e, un pie sul collo,
di man gli strappa il brando e lampeggiante
glie lo conficca in gola e pur soggiunge:
« Ecco, Troiano, i campi e quelF Etruria
che cercasti con l'armi, or la misura.
Questi, color che m'osano assaltare,
hanno premi ; così fondan le mura ».
Invia compagni a lui d'un colpo d'asta
Asbìte, Clòreo e Sibari e Darete
e Tersìloco e, giù per la cervice
del traboccato corridor, Timete.
E come quando su per l'alto Egeo
sibila il soffio de l'edonio Borea
ed accompagna i cavalloni a riva,
fuggono al vento i nuvoli del cielo;
così cedono a Turno, ovunque è volto,
le schiere e si ripiegano confuse :
lui porta la sua foga, e a l'incontrano
il fiottante cimier vibrano l'aure.
Non sopportò quell'impeto feroce
Fègeo, il carro affrontò, piegò di forza
con la man destra le spumose bocche
de' lanciati corsieri. Strascinato
e pendulo dai freni, a lo scoperto
fianco la larga lancia il giunse e, rotto
de la lorica il duplice tessuto,
gli sfiora la persona e gusta il sangue.
Pur l'usbergo opponendo egli e rivolto
LIBRO DECIMOSECOXDO 4I3
a rinimico stava e in sua difesa
tratto la spada avea, quando la ruota
de l'asse rapidissimo a rovina
giù lo distende, e Turno secondando,
ove si tocca l'elmo a la corazza,
gli spicca il capo e lascia il tronco a terra.
Mentre va Turno seminando morti
trionfante così, Mnèsteo e il fedele
Acate e Ascanio insiem dentro a la tenda
avean condotto sanguinante Enea
che aiutava l'un pie con l'asta lunga.
Freme e s'ingegna di strappar la punta
del rotto strale e la più pronta chiede
via di rimedio : squarcino la piaga,
scoprano i ripostigli de la freccia
profondamente, e il rendano a la guerra.
Già l'assisteva il prediletto a Febo
làpige iàside, cui volle
spontaneo un dì per molto amore Apollo
donar suoi privilegi, il vaticinio
e la cetra e le celeri saette:
esso per differir l'ora del padre
agonizzante preferì sapere
de l'erbe la virtù, l'arte salubre,
e senza gloria usar muta scienza.
Stava, poggiato a la grande asta, tutto
fremente Enea tra il premere de' prodi
e del piangente Giulo, invitto al pianto.
Il vecchio, al modo di Peone, cinto
di attorta veste, con l'esperta mano
414 ENEIDE
e con quelle efficaci erbe febee
invan si affanna e con la destra preme
lo strale e il prende con tenace morsa.
Non dà via la fortuna, non soccorre
Apollo di consiglio. E viepiù cresce
il fiero orror nel campo e stringe il danno.
Già tutto è il cielo un polveroso nembo,
i cavalli s'accostano, è una pioggia
fitta di dardi ne l'accampamento.
Sinistro sale grido di pugnanti,
di soggiacenti a l'implacato Marte.
Venere allor, dal duolo indegno mossa
del figlio suo, maternamente coglie
da r Ida in Creta un dittamo, chiomato
di pregne foglie e porporino fiore;
cognito stelo a le silvestri capre,
cui siensi fitti al fianco agili strali.
Questo, velata d'una opaca nube.
Venere giù portò; di questo intride,
nascosa medicandole, le linfe
entro le conche lucide, e salubre
mesce ambrosia e odorosa panacea.
Lenì l'annoso lapige con questi
succhi senza saper la piaga, ed ecco
ogni dolore abbandonò le membra
e l'ima fonte si stagnò del sangue;
senza fatica omai dietro la mano
cade la freccia e tornano le forze.
« Dategh l'arme, orsù ! perché tardate ? ))
grida lapige e gh animi raccende
primo contro al nemico. « Non vien questo
LIBRO DECIMOSECONDO 4I5
da forza umana o- umano magistero,
né te risana. Enea, la destra mia:
maggior dio ti ridona a maggiore opra ».
Esso avido di pugna aveasi stretti
gli aurei schinieri e già \àbrava l'asta.
Lo scudo al petto e la lorica indosso,
con tuttequante l'armi abbraccia Ascanio
e per l'elmo sfiorandolo d'un bacio
dice : <'- Apprendi da me, figlio, il valore
e il vero ardir, dagli altri la fortuna.
Or la mia destra ti farà difeso
e ti addurrà tra fulgide conquiste;
ma come prima sian maturi gli anni
tu gli esempi rammentati de' tuoi ;
Enea tuo padre, Ettore zio ti sproni».
Detto ch'egli ebbe, da le porte usciva
grande, scotendo un'asta enorme in mano:
in densa schiera insiem e Anteo e Mnèsteo
prorompono e la turba tutta fuori
dal vallo: abbuia polveroso il campo
e al fitto calpestio la terra trema.
Vide i vegnenti da un opposto balzo
Turno, h vider gì' Itah ed un freddo
brivido a lor per le midolla corse.
La prima fra' Latini udì, conobbe
Giuturna il suono e rifuggì smarrita.
Egli vola e con lui quel nero globo.
Quale il nembo talor squarciando il cielo
va per il mare (oh che i presaghi cuori
lunge ne inorridiscon dei coloni!
4l6 ENEIDE
esterminio sarà d'alberi e solchi,
gran rovina ogn' intorno) ; avanti volano
i venti e l'urlo portano a le rive:
tale il duce reteo contro i nemici
preme sua schiera, e tutti a cunei folti
s'agglomerano. Al grave Osiri cala
un fendente Timbreo, Mnèsteo ad Archètio,
Acate ad Epulon, a Utente Già;
anch'esso cade l'augure Tolumnio
che saettato avea primo i nemici.
Va il grido al ciel, e a la lor volta volti
danno i Rutuli i dorsi polverosi.
Esso non degna di atterrar fuggenti
e né pur bada a chi fermo l'affronti
in armi: solo per quell'aria fosca
di Turno indaga, sfida Turno solo.
Tocca di questa tema il cuor, Giuturna
violenta urta tra le briglie a terra
Metisco, il guidator di Turno, e lungi
caduto il lascia dal timon: sottentra
essa e le ondanti redini governa,
tutta Metisco, al grido a' membri a l'arme.
Come una bruna rondine volando
va d'un ricco signor per l'ampia casa
e l'alte volte, in busca d'alimento
esiguo e grato al susurrante nido,
ed or pe' vuoti portici ed or presso
fruscia a' freschi laghetti ; in simil guisa
erra per mezzo l'oste coi cavalli
Giuturna e spinge l'agii carro in volta,
or qua or là mostrando il suo fratello
LIBRO DECI.MOSECOXDO 4^7
trionfale, ma ch'ei venga a le prese
non soffre e fuor di mano si dilunga.
Non meno Enea per incontrarlo segna
obliqui giri e pur l'esplora e a grande
voce per i turbati ordini il chiama.
Quante volte ficcò lo sguardo in lui
e s'avventò correndo a la sua biga,
tante Giuturna la ritorse via.
Oh che dee far? inutilmente ondeggia
e da pensier diversi è combattuto.
A lui Messapo, che scorrendo Heve
due si trovava aver ne la mancina
pronti lanciotti con in punta il ferro,
uno ne indrizza con sicuro impulso.
Ristette Enea raccoltosi ne l'armi
in sul ginocchio; pur gU rase l'asta
l'alto cimiero e ne portò le piume.
AUor l'ira soverchia, e a tali insidie.
come s'avvide che cavalh e carro
sempre sfuggian, chiamando in testimonio
Giove e l'aitar del violato patto,
balza a la fine in mezzo e, Marte amico,
senza divario mena orrenda strage
e abbandona le redini al furore.
Qual dio mi direbbe ora i tanti orrori,
quale ne' versi la sanguigna guerra
e de' prodi il cader, che in tutto il campo
sparge Turno a vicenda e il teucro eroe?
Stringer ti piacque, o Giove, a simil cozzo
due genti nate a una concordia etema?
Albini - Eneide. *7
4lS ENEIDE
Al rutulo Sucrone (e questo incontro
valse a fermare i trasvolanti Teucri)
che fé* breve difesa Enea colpisce
il fianco e per le costole del petto,
presta di morte via, passa la spada,.
Turno, a pie fronteggiandoli, ferisce
gettato da cavallo Amico e il suo
fratel Diore, l'uno con la lunga
lancia al venir e l'altro d'un fendente:
le due recise teste al carro appende
e se le porta che piovevan sangue.
Quegli, tre in uno scontro, a morte invia
Talone e Tànai e il valido Cetego,
e il mesto Onìte poi, nome echionio,
che partorito fu da Peridìa;
questi, fratelli che venian di Licia
dagli apoUinei campi, e il giovinetto
invan di guerra odiator Menete
arcade, che avea l'arte lungo i rami
de la pescosa Lerna ed umil tetto
né conosceva lo splendor de* grandi ;
seminava suo padre in solchi altrui.
Come fuochi scagliati da diverse
parti tra secca selva o crepitante
fronda di lauro, o giù da le montagne
spumeggianti torrenti ruinosi
romoreggiano e corrono nel mare,
menando strage ognun per la sua china ;
Enea non altrimenti e Turno entrambi
danno per mezzo: or ben dentro ribolle
LIBRO DECIMOSECONDO 419
Tira e ne scoppian gl'indomati cuori,
ora si fa di tutta forza strage.
Quegli a Murrano, che vantava gli a\d
e de' padri gli antichi nomi e il sangue
tutto disceso per i re latini,
con la massiccia frombola d'un sasso
sbatte le tempie al suol : tra i freni e il giogo
l'urtan le rote e lo calpesta il fitto
scalpito degl'immemori cavalli.
Questi a Ilio che infuria e tutto freme
si fa contro e gì' indrizza a la dorata
fronte la lancia che a traverso l'elmo
gh stiè fissa al cervel. Né te la tua
destra, o Crèteo fortissimo de' Greci,
sottrasse a Turno, né al venir d'Enea
i numi suoi protessero Capcneo :
offerse il petto al colpo e non gli valse
l'impedimento del ferrato usbergo.
Te pur mirarono i laurenti campi,
o Eolo, cader, steso per molto
spazio la schiena : cadi, e non potuto
avean prostrarti le falangi argive
né di re Priamo distruttore Achilie :
quivi per te la meta era di morte;
sotto r Ida la gran casa, a Lirneso
la gran casa, in laurente suol la tomba.
Tuttequante impegnate eran le schiere :
Latini e Teucri, Mnesteo e il fier Seresto
e di cavalli domator Messapo
420 ENEIDE
e il forte Asila e la falange etrusca
e Tarcadi d'Evandro squadre, tutti
s'adoprano ciascun di tutta lena :
senza posa o respiro è l'ampia lotta.
Qui la madre bellissima ad Enea
mandò pensier d'ire a le mura e stretto
volger lo sforzo a la città turbando
col subito pericolo i Latini.
Ei, come intorno gli occhi ebbe girati-
investigando per le file Turno,
la città mira fuor de l'onde ancora
di tal tempesta e senza danno cheta.
Arde al fantasma di maggior battaglia:
Mnesteo e Sergesto chiama ed il gagliardo
Seresto duci e prende un balzo, al quale
l'altra de' Teucri legion concorre
densa non deponendo usberghi ed aimi.
Sale nel mezzo su l'altura e dice:
« Non indugiate al cenno mio, sta Giove
con noi, né alcun per l'opera improvvisa
mi si allenti. Oggi la città cagione
de la guerra, oggi il regno di Latino,
se non si porgan docili a obbedire
vinti, distruggerò, fumanti al suolo
adeguerò le torri. Ah certo, io devo
aspettar fin che a Turno piaccia starmi
di fronte e vinto rinnovar gii assalti!
Qui, cittadini, il fonte e qui la foce
de l'empia guerra: su, mano a le faci!
rivendicate con le fiamme il patto ».
LIBRO DECIMOSECOXDO . 42I
Avea detto, e già tutti àlacri fanno
cuneo e ruinan densa massa a' muri.
Improvvise appariscono le scale
e guizza il fuoco. Corrono a le porte
alcuni e uccidon chi rincontran prima,
saettano altri e l'aria ombran di dardi.
Esso tra' primi Enea leva a le mura
la destra e accusa a gran voce Latino,
e protesta agli Dei che un'altra volta
è sforzato a le pugne, e già due volte
gli son nemici gì' ItaH, e il secondo
patto questo è che infrangesi. Discordia
nasce fra' trepidanti cittadini:
si schiuda la città, s'apran le porte
a' Dardani, alcun vuole, ed il Re stesso
traggono su gli spaldi; altri con l'armi
s'affrettano a difesa de le mura:
come se in perforato sasso spia
l'api il pastore e il sasso empie di fumo
spiacente, quelle trepide e smarrite
scorrono per i campi de la cera
e con alti stridori attizzan l'ire;
l'acre odor va per casa, entro un susurro
cieco ronza, vapora il fumo in aria.
Giunge ai lassi Latini altra sventura
che tutta la città scosse di pianto.
La Regina, vedendo da la reggia
il nemico venir, le mura invase,
volar le faci a' tetti, e nessun contro
rutulo nerbo né squadron di Turno,
422 ENEIDE
misera pensa ne la prova spento
il giovine, e in dolor sùbito grida
sé causa e colpa e capo d'ogni male :
folle tra le parole disperate
via per morir si strappa le purpuree
vesti e da l'alto de le travi un nodo
intreccia a sé di sfigurata morte.
Come risepper quest'orror le infauste
Latine, prima di sua man la figlia
Lavinia lacerandosi i fioriti
capelli e le rosate guance, poi
l'altre a l'intorno smaniano di duolo:
tutta è la casa un luttuoso strido.
E riempie le vie l'annunzio triste.
Cadono i cuori. Con squarciate vesti
Latino va, dal fin de la sua donna,
dal rovinar di sua città stordito,
e si cosparge di lurida polve
la canizie e s'accusa senza fine
che non accolse prima il teucro Enea
né spontaneo a genero lo strinse.
Turno pugnace intanto ne l'estrema
pianura segue i rari dissipati
con minor foga, e rispondente meno
sente via via l'ardor de' suoi cavalli.
Ecco che l'aura gli recò quel grido
d'arcano duol ; ferì le tese orecchie
un indistinto murmurc sinistro.
(( Ahimé ! qual sì gran lutto empie le mura ?
LIBRO DECIMOSECONDO 423
qual crudele clamor da tutta viene
la città ? »
Così dice e trae le briglie
fuor di sé soffermandosi. Risponde
pronta, qual'era di Metisco auriga
in figura a guidar carro e cavalli,
la sorella così : « Per qua seguiamo.
Turno, i Troiani, ove la prima si offre
via di vittoria : altri vi son guerrieri
che bastano a difendere le case.
GÌ' Itali stringe ne la mischia Enea ;
ed infliggiamo noi con fiero braccio
morti a' Teucri. Uscirai da la battaglia
non minore di vittime e di vanto >\
Ma Turno allora:
((O sorella,.... e ben prima io ti conobbi
quando turbasti con ingegno il patto
e qui venisti ne la guerra, ed ora
invan dea mi ti celi. Ma chi volle
che scendessi d'Olimpo a tal travaglio?
forse a mirar del misero fratello
la fine acerba ? . . . . Oh che far debbo ? e quale
fortuna omai promette scampo? Io vidi,
vidi sotto a' miei occhi e me chiamando
Murrano, onde più caro un non mi resta,
grande cadere d'una gran ferita.
Cadde Ufente infelice, a non vedere
il nostro scorno; e son padroni i Teucri
del suo corpo e de l'armi. Ora ch'io lasci
distruggere le case (questo estremo
424 ENEIDE
mancava sol) senza mostrar mia destra
Drance bugiardo? volterò le spalle
e vedrà questo suol Turno fuggire?
Fino a tal segno è morte una sventura?
Deh! ombre, a me siate benigne voi,
poi che la vogHa de' Celesti è avversa.
Altera anima e schietta di tal macchia
a voi discenderò, de' grandi padri
mai non indegno
b'
)).
Aveva detto appena,
ed ecco a voi di tra i nemici Sace,
sul cavallo spumante ecco a voi Sace,
ferito in faccia di saetta, e cade.
Turno a nome implorando : « La salvezza
ultima, o Turno, è in te; pietà de' tuoi.
Fulmina in armi Enea, radere al suolo
l'alte rocche degl' Itah minaccia;
a' tetti già volan le faci. Gli occhi
hanno i Latini a cercar te; lo stesso
re Latino vacilla, quali accolga
generi, a qual patto si pieghi. Inoltre
la regina, la tua sempre fedele,
di sua mano finì fuggendo il sole
disperata. Messapo e il fiero Atina
unici reggon su le porte l'urto.
Dense intorno di lor sono falangi,
irta messe di ferree ignude punte.
E tu volteggi per solingo piano ? »
Stette al fantasma di vicende tante
in muta fissità Turno confuso.
LIBRO DECIMOSECOXDO 425
Gli ferve in cuore alto rimorso e insieme
frenesia dolorosa e furioso
amore e consapevole prodezza.
Come diradò l'ombra e al suo pensiero
luce fu resa, a la città le ardenti
ruote degli occhi volge torvo, ed alto
riguardò da la biga a la gran cerchia.
Ecco saliva un vortice di fiamme
di palco in palco e ravvolgea la torre,
la torre ch'esso di compatte travi
aveva eretta, con le ruote sotto
e gli alti ponti su. « Vincono i fati,
sorella, omai: cessa di opporti; andiamo
dove il dio chiama e la fortuna dura.
Vo' pugnar con Enea, patir vo' in morte
quanto è d'acerbo: indegno più, germxana,
non mi vedrai. Deh! lasciami, ti prego,
infuriar de l'ultimo furore ».
Disse e dal carro die ne' campi un salto,
e via per i nemici e via per l'armi,
desolata lasciando la sorella
e rompendo le file impetuoso.
E come allor che da un'alpestre vetta
spicco per vento un sasso si ruina,
cui penetrato avean le torbe piove
o sotto sotto la vecchiezza roso,
a precipizio va la falda enorme
ed urtata sobbalza per la china
alberi e armenti e uomini traendo;
Turno così tra le sgomente schiere
426 ENEIDE
si difìla a le mura, ove più sangue
inonda e più stridon di strali l'aure,
e con man cenna ed a gran voce ingiunge:
(c Fermi, Rutuli, olà ; frenate l'armi,
Latini. Sia qualunque la fortuna,
è mia. Meglio è che per voi tutti io solo
il patto ammendi e termini la guerra )>.
Uscì di mezzo ognuno e fecer luogo.
Ma il padre Enea, di Turno il nome udito,
lascia le mura e lascia l'alta rocca,
rompe ogn'indugio, ogni opera interrompe
trionfante, ed in armi orrendo suona :
sì grande l'Ato, 1' Enee sì grande,
esso il padre Apennin sì grande freme
de l'agitate roveri e superbo
co' vertici nevosi al ciel si leva.
Or bene a prova Rutuli e Troiani
e tutti volser gì' Itali lo sguardo
e quei che in alto difendean le mura
e quei che percotevanle da l'imo,
e deposero l'armi. Esso Latino
si affisa in que' due grandi che, in lontane
parti del mondo nati, or sono a fronte
a definir col ferro.
Essi, sgombrato
che fu loro il terren, presti avanzando,
avventate di lungi l'aste, a l'urto
vengono con fragor de' ferrei scudi.
Mette la terra un gemito, e già spesse
piovono le percosse de le spade :
LIBRO DECIMOSKCOMX) 427
la fortuna e il valor son misti in uno.
E come quando ne la vasta Sila
o in vetta del Taburno a fronti basse
corrono al cozzo orribile due tori ;
pavidi si ritraggono i custodi ;
tutta la mandra sta muta di tema,
e dubbian le giovenche, quale il sire
sarà de' paschi e il duce de l'armento;
quelli tra lor feriscon di gran forza,
puntan, piantan le corna e di copioso
sangue i colli si lavano e le spalle ;
tutta gemendo la foresta echeggia :
non altrimenti il teucro e il daunio eroe
urtan gli usberghi e tutto rombi è il cielo.
Giove stesso solleva una bilancia
hbrata e il fato di que' due vi pesa,
qual condanni la lotta ed in qual parte
traboccar faccia morte.
Ecco fidente
balza Turno e di tutta la persona
levasi eretto con la spada in alto
e ferisce : urlano i Troiani e trepidi
i Latini : sospesi sono i cuori
ne' due campi. Ma perfida la spada
s'infrange e lascia a mezzo colpo il prode,
se col fuggir non s'aiutasse. Fugge
più rapido del vento appena vide
un'elsa ignota e il braccio disarmato.
È fama che precipitoso, al primo
salir la biga pronta a la battaglia,
428 ENEIDE
egli lasciando la paterna spada
tra tanta furia die di piglio a quella
de l'auriga Metisco, e lungamente
gli bastò, fin che davano i Troiani
frettolose le spalle, ma poi quando
s'avvenne a le vulcanie armi divine,
il mortai brando come ghiaccio frale
si ruppe, e ne riluccican le schegge
sul fulvo suol. Dunque folle fuggendo
si volge Turno via, malcerti e obliqui
giri intrecciando, che il chiudeano i Teucri
intorno intorno di corona densa,
e da una parte vasta la palude,
lo serrano da l'altra alte le mura.
Non meno Enea, benché spesso il ginocchio
dal dardo offeso mal risponde al corso,
persegue il trepidante ed animoso
gì' incalza il pie col pie. Così talora
il cane cacciator a un cervo chiuso
dal fiume e cinto da lo spauracchio
di rosse penne dà dietro abbaiando;
e quello tra le insidie e l'alta riva
trepido in mille vie fugge e rifugge;
ma preme il vivace umbro a bocca aperta
e omai l'addenta e come già lo addenti
fa sonar la mascella e il morso è vano.
S'alza allora un clamor : il greto e il fiume
echeggiano d'intorno e tutta l'aria
ne rumoreggia. Quegli tra la fuga
tutti stimola i Rutuli chiamando
LIBRO DECIMOSECOXDO 429
a nome ognuno e chiede la sua spada.
Enea per contro immediata morte
promette a chi s'accosti e i già tementi,
de la città giurando lo sterminio,
atterrisce e ancorché ferito incalza.
Cinque giri misurano .correndo
e tanti ne ritessono in contrario,
che non è lieve né da gioco il premio
ma del viver di Turno è la tenzone.
5gcro a Fauno fu quivi un olivastro
d'amara foglia, venerabil tronco
a' marinari un dì che aveano in uso
dal mar campati appendervi le offerte
al dio laurente e le votate vesti;
ma il fusto sacro avean levato i Teucri
indifferenti, per far netto il campo
agli assalti. Colà stava d' Enea,
venuta a conficcarsi impetuosa,
l'asta e s'abbarbicava a le radici.
Si curvò, con la man volle spiccarla
il dardanide e coglier con la lancia
quello cui non potea giungere a corsa.
Allora Turno a lo sgomento in preda
« Deh pietà, grida. Fauno I e tu tien forte,
ottima Terra, il ferro, s'io fui sempre
devoto a' vostri onori, che al contrario
gli Eneadi di guerra han profanati ».
Disse, e non invocò l'aiuto indarno
del dio, che in lunghi sforzi atteso Enea
a quel tenace legno per nessuna
430 ENEIDE
forza non valse a disserrarne il morso.
Mentre più vi s'industria, in forma sempre
de l'auriga Metisco accorre e rende
la daunia diva al f ratei suo la spada.
Venere, irata che a l'audace ninfa
tanto sia dato, si accostò, la lancia
da la profonda radica divelse.
Ritti, d'animo e d'armi ristorati,
l'uno fidente ne la spada e l'altro
per l'asta ardito e altero, stetter quelli
a fronte in gara di affannoso marte.
Intanto il Sire de l'onnipotente
Olimpo dice a Giuno che guardava
da una cernia nuvola le pugne:
« E quando sarà il fin, consorte ? ancora
che resta? Il sai, e di saper confessi
tu pur, che al ciel si deve e dal destino
è l'indigete Enea portato agli astri.
Or che ardisci? per qual ti stai speranza
tra i freddi nembi? E bello fu che un dio
fosse dal colpo di un mortai ferito,
a Turno resa la rapita spada
(che mai poteva senza te Giuturna?)
e cresciute le forze a' vinti? Oh! alfine
desisti e piega a la preghiera nostra:
né taciturna un tal cruccio ti roda
né amari a me da la tua dolce bocca
suonin sì spesso affanni. È l'ora, è l'ora.
Potesti travagliar per terre e mari
i Troiani, attizzar nefanda guerra,
LIBRO DECIMOSECONDO 43 I
sfigurare una casa e gl'imenei
sparger di lutto : osar di più ti vieto ».
Cosi Giove per primo, e così a lui
la Dea saturnia con sommesso volto :
« Poi eh' io cotesto tuo piacer sapeva,
di mal cuore, gran Giove, e pur lasciai
Turno e la terra : oh ! già non mi vedresti
soHnga in aria degne e indegne cose
ora patir; sarei giù tra le file
cinta di fiamme a trarre ne l'infauste
pugne i Troiani. Al misero fratello
persuasi soccorrere Giuturna,
il confesso, e a sifo scampo arrischiar tutto;
non che i dardi però, non che tendesse
l'arco, lo giuro per l'inesorato
fonte del fiume stigio, eh' è rimasto
solo ritegno de* celesti numi.
Or mi ritraggo, sì, lascio le pugne
e le detesto. Ma da te richiedo,
né vieta ciò legge del fato alcuna,
per il Lazio e la maestà de' tuoi:
quando per un connubio fausto (e sia)
pace faranno alfin, quando alfin patti
stringeran d'alleanza, oh! non imporre
che il vecchio nome cangino i Latini
indigeni, non far che Teucri o Troi
divengano, né mutino linguaggio
né scambin veste. Il Lazio sia, gh Albani
re per secoH siano, fiorisca
la romana prosapia poderosa
d'italico valor; ma cadde, e lascia
432 ENEIDE
che sia caduta col suo nome Troia ».
Ed a lei sorridendo il Creatore
degli uomini e del mondo : « Sei sorella
di Giove e minor figlia di Saturno,
si grandi agiti in cuor tempeste d'ira.
Ma pure or cessa dal furor tuo vano:
do quel che vuoi, vinto e volente cedo.
Serberanno i costumi e la loquela
patria gli Ausonii, il nome che hanno, avranno
sol che misti in un corpo entrino i Teucri,
e aggiungerò religione e riti,
e tutti a un detto li farò Latini.
Quella che ne uscirà d'ausonio sangue
temprata stirpe, di pietà vedrai
sopravanzare gli uomini e gli Dei,
né sarà gente che te megho adori ».
Annuì Giuno e in cuor mutata e lieta
si ritirò da la celeste ntibe.
x\ltro il gran Padre dopo questo in cuore
volge e si accinge a rinviar Giuturna
da l'armi del fratello. Son due mostri.
che si chiamano Dire, e le produsse
insiem con la tartarea Megera
a un parto solo la profonda Notte,
e di simili spire, di serpenti
le recinse e le armò d'ah ventose.
Queste di Giove al sogHo e ne la sede
del sire irato appaiono, e negli egri
mortali crescon lo spavento, ognora
che il Re de' Numi morte orrenda e morbi
LIBRO DECIMOSECONDO 433
destina o turba ree città di guerra.
Una di loro giù da l'aer sommo
presta Giove inviò che qual presagio
si mostrasse a Giuturna : e quella vola
in un rapido turbine a la terra.
Non altrimenti che da nervo freccia
via per le nebbie, cui del fiele intrisa
di crudele velen lanciava un Parto,
Parto o Cidone, immedicabil colpo,
stridula e ascosa l'agih ombre varca ;
tale la figlia de la Notte scese.
Poi che l'iliaco esercito e le schiere
di Turno vede, subito raccolta
ne la piccola forma de l'uccello
che su le tombe o le torri deserte
posandosi talora a tarda notte
ulula per le tenebre lugubre;
tramutata così vola e rivola
strepitando la Furia avanti al volto
di Turno e il clipeo sferzagli con l'ale.
A lui strano un torpore allenta i membri
di smarrimento, il crin d'orror si drizza,
e si serra la voce entro le fauci.
Appena lo strider di lungi e il volo
de la Dira conobbe, l'infelice
Giuturna strappa i suoi capelli sciolti,
con l'ugne il volto e con le palme il seno
si offende. « Or che ti può la tua sorella,
Turno, giovare ? a me crudel che resta ?
quale arte ho io per allungarti il giorno?
Albini • Eneide 28
434 ENEIDE
e come posso a simil mostro oppormi?
Esco dal campo omai. Non m'atterrite
tremante, orridi uccelli: io ben conosco
de Tale il rombo luttuoso e intendo
del magnanimo Giove il fiero cenno.
Per la verginità questo mi rende?
Perché immortai mi fa? perché mi tolse
poter morire? almen sì gran dolore
or finirei scendendo a l'ombre insieme
col misero fratello. Immortale io?
che de le cose mie mi sarà caro
senza, o fratello, te? quale sì cupa
terra mi s'apre ad inghiottir la dea ? »
Detto così, de la cerulea veste
il capo si coperse, e gemebonda
sparve la diva nel profondo gorgo.
Enea preme di contro e l'asta vibra
grande qual tronco ed aspramente dice:
« Or quale indugio ? Turno, a che più stai ?
Non al corso, con fiere armi e da presso
è il gioco. Mutati in qual vuoi figura
e aduna quanto hai di coraggio e d'arte;
brama volar sublime in fino agli astri
o acquattarti nel grembo de la terra...»
L' altro scotendo il capo : « Non la tua
fervida lingua m'atterrisce, o fiero;
m' atterriscono i Numi e Giove avverso ».
Senza più, gira gli occhi e scorge un sasso
antico, immane, che giacca nel campo,
termine posto a dissipar contese.
LIBRO DECIMOSECONDO 435
Dodici r alzerebbero a fatica,
scelti tra quei che oggi la terra crea:
r eroe lo prese con la man convulsa
e lo scagliava a l' avversario, eretto
levandosi e correndo innanzi. E pure
correndo, andando sé non riconosce
né levando o lanciando la gran pietra:
tremano le ginocchia e il sangue gela.
Anche il masso per l' aere scagliato
non percorse la via né tenne il colpo.
E come in sogno, quando a notte gli occhi
languida la quiete ha chiusi, invano
ci sembra voler correre, che a mezzo
de lo sforzo precipitiam sfiniti ;
e la lingua non può, le usate forze
falliscono, né vien voce o parola :
così, qualunque via col valor tenti,
nega la dira dea successo a Turno.
Gli entrano allora in cuor diversi moti:
i RutuH riguarda e la città,
esita e trema l'imminente fato,
né come sfugga o l' avversario assalga
né il carro vede o la sorella auriga.
Contro il perplesso l' asta Enea brandisce
fatale e, colto d' un' occhiata il destro,
le dà con tutta la persona il volo.
Non mai da murai macchina percossi
così crosciano i massi né sì forte
rimbalzano del fulmine i fragori.
Vola qual nero turbine portando
scempio crudele Tasta e rompe i lembi
436 ENEIDE
de la corazza e fin gli ultimi cerchi
de lo scudo settemplice: stridendo
gli trafigge la coscia. Al colpo cade
grande al terren su le ginocchia Turno.
Trasaliscono i Rutuh gemendo,
tutto rimugghia il monte intorno, e larga-
mente d'entro le selve eco risponde.
QuegH da terra suppHce, con gU occhi
e con la destra ad implorar protesa
«L'ho meritato e non mi dolgo, dice:
usa la sorte tua.
Se alcun pensiero
ti può toccar di un infelice padre,
ti prego (anche per te fu tale Anchise),
a la vecchiezza abbi pietà di Danno,
e me rendi o, se vuoi, le morte membra
a* miei. Vincesti, e gì' Itali m' han visto
vinto tender le palme; è tua consorte
Lavinia : non mandar più oltre l'odio ».
Stette fiero ne l'armi Enea, volgendo
gU occhi, e frenò la destra : e dubitoso
già lo venian piegando le parole,
quando gh apparve sul nemico il triste
balteo, rifulse con le note borchie
la cintura del giovine Fallante,
che Turno di ferita avea prostrato
e ne portava agli omeri il trofeo.
Ei, quel ricordo di crudel dolore
come abbracciò col guardo e quelle spoghe,
LIBRO DECIMOSECOXDO
437
infiammato e terribile ne V ira :
« Che tu m'esca di man, così vestito
de le spoglie de' miei ? Desso Fallante,
con questo colpo te Fallante immola
e in pena vuol lo scellerato sangue ».
Così dicendo, in mezzo al cuor gl'immerge
la spada impetuoso. Allor di Turno
fredde le membra allentano, e la vita
con un sospir fugge sdegnosa a l'ombre.
NOTE AL TESTO
PAUCA E MULTIS.
I I (p. i) Arma vtrumque: le due parole si compiono
a vicenda e non si possono staccare. Così tornano altrove.
Al poeta dovettero anche piacere perché sembrano ren-
dere insieme i due inizi omerici a-J^v.v e àv5pa. Quindi i
poemi seguitarono a intonarsi con l'oggetto : Tempora
cum causis . . . , Bella per Emathios . . , Fraternas acies . . . ,
Magnanimum Aeaciden . . .; e cosi fino alla gioiosa e so-
nante proposizione ariostea.
Tuttavia i quattro versi che Servio riferisce come de-
tractos a principio ille ego qui quondam . . .
{Quell'io che un dì su la sottil sampogna
dissi canzoni, e da le selve uscito
i vicini sforzai campi obbedire
al colono pur avido, lavoro
grato agli agricoltori, aspre or di Marte
L'armi e 1' uom canto . . . )
sono probabilmente del poeta. Richiamare i poemi suoi
precedenti piaceva a Virgilio (che non aveva rimorsi) :
insigne è la fine de' Hbri Georgici suggellati col primo
verso dei carmi Bucolici. Ma probabilmente Tucca e
Vario ebbero molta ragione a credere che questi Virgilio
li avrebbe omessi pubblicando l'Eneide. E arma virum
rimase come formula a citare il poema.
442 ENEIDE
II 646 (p. 63) jacilis iactura sepulcri. L' interpretazione
«facile enim conteinnitur quod post exitum vitae non
sentit exanimis» è, come le altre donatiane a questo
verso, poco persuasiva. Troppo è nel poema narrata e
pianta la miseria degl'insepolti per ammettere senza
esitazione che Anchise determini proprio così la sua ras-
segnazione a morire. Forse s'intende una tactura par-
ziale, un sepolcro non quale dovrebb' essere (su tal mo-
tivo insiste Lucano a proposito di Pompeo). O fors'anche
non vuol dire altro se non " piccola perdita è quella
della vita" {lieve perdita fìa perdere il sole), e sarebbe
pensiero legatissimo a quello che segue "da gran tempo
aspetto la morte ", e iaciura sepulcri uno de' soliti scorci
del genitivo classico, a significare i dauni che uno sofire
morendo. In Ovidio {Trist. Ili 2) si seguono come equi-
valenti sepulcri ianua e interitus fores, cioè sepolcro e
morte si equivalgono. Il passo liviano (V 39) facilem
iacturam esse senior um non fa che mostrare una deUe
frasi analoghe alle virgiliane, ma non toglie né aggiunge
a questa interpretazione. Né giova dar nel sottile per
cercarne altre.
III 252 (p. 83) vobis Furiarum ego maxima panda. Il
vero senso in che l' Arpia si chiamò Furiarum maxima,
benché non dubbio, è confermato dal frammento tragico
che abbiamo in Cicerone, de div. I 50:
ludicabit inclitum iudicium inter deas tris aliquis,
quo iudicio Lacedaemonia mulier Furiarum una adveniet.
312 (p. 84) Hector uhi est? " cur non tecum est? "
interpreta Donato. Ed è curioso che tra testo e nota
formano il verso di Dante Mio figlio ov'è e perché non
è teco? Il qual verso rende forse il vero intimo senso
- già inteso dunque in antico - che sia un privilegio a'
morti uscire al mondo, e però debba averlo anche Ettore;
non già soltanto che, se Enea è morto, abbia a sapere
dell'altro..
NOTE 443
340 (p. 86) quem fibi iam Troia . . . Strano che proprio
in un luogo cosi fervido di afietto cada l'unico de' versi
incompiuti che lascia incompiuto anche il senso, dove
tutti gli altri semipieni rimasero a mezzo giust'appunto
perché il senso era, o parve, compiuto. Qui l'incompiu-
tezza è dall'origine? o è lecito credere che la si debba,
per qualsiasi caso o causa, alla tradizione ? Il pensiero
e il costrutto sono in tutto analoghi a quelli di VI 764
sg. ; né si può del tutto escludere che reintegri un esa-
metro virgiliano la lezione seriore (quale conobbe e citò
Dante) quem Ubi tam Troia peperit fumante Creusa.
411 (p. 89) angusti rarescent claustra Pelori. Nota il
Tommaseo al IX del Purgatorio:
« I grandi Poeti sono commento a sé medesimi e
« r uno all'altro così come tutti gì' ingegni e le anime sin-
« golari. Il passo alla prima non chiaro di Virgilio: Ast
« ubi digressum Siculae te admoverit undae Venius, et an-
« gusti rarescent claustra Pelori è illustrato da' versi di
« Dante: Ed eravamo in parte Che là, dove pareayni in
« prima un rotto, Pur com' un fesso che muro diparte,
« Vidi una porta. [In nota soggiunge il v. Vedi Ventrata
« là 've par disgiunto . Questo rotto e questo fesso, e il
« rarescent più elegante e possente, rappresentano il pa-
ce rere che fa di lontano angusta ogni apertura o seno,
<' e il venirsi all'occhio di chi le si approssima dilatando ».
Giusto quel che dice del commentarsi tra loro i poeti,
massime questi nostri due, e naturale l'accostamento di
quei passi, ma non mi pare esatta l' interpretazione di
Vu-giho. Perché vuol dire : quando sarai in luogo da
intravedere la piccola aperta di Peloro, quando te ne
apparirà l'angusto varco. Prima non lo vedeva né largo
né stretto : occorre sia pervenuto, come dice il testo,
alla Sicilia.
684-86 (p. 100) È lecito supporre che Virgilio
avrebbe fatto più chiari questi versi, se non altro per
la sua bontà, se avesse previsto quanta faccenda dovevan
444 ENEIDE
dare agl'interpreti. De' quali i moderni si son lasciati
trarre di via dagli antichi: da tre, sembra, ma forse si
riducono a uno, che anche allora tutto stava che un
primo dicesse. Dissero dunque che qui in ni teneant il
NI sta per ne, " qua particula plenus est Plautus " (a
dirittura). Sapevano che sarebbe la sola volta in tutto
Virgilio, ma non badavano a questo: non avvertivano
neppure che un altro ni teneant è al libro V v. 230, e
vuol dire evidentemente nisi. In verità annaspavano
perché riusci lì per lì difficile a interpretare l'espressione,
tra ellittica e pregnante, cantra iiissa monent, m teneant
cursus: "Eleno ammonisce in contrario, annunzia danno,
ove non sappiano tener bene il solco, il dritto mezzo "
tra i due scogli voraci e mortiferi. In quel monito. III
420-32, si dice praestat. . .: meglio girar largo, perché,
impossibile non è, ma assai difficile, il non incappare in
uno dei due mostri ; onde qui certuni est dare lintea retro.
(Noto che di questi arditi scorci abbiamo parecchi casi
proprio quand'è soggiunta una proposizione col ni onisi:
ess. Vili 523, XI 112, XII 733). Questo è ciò che più
rileva chiarire e correggere nell'interpretazione del passo.
L' Inter spetta a Scyllam atque Charyhdin (tengo la le-
zione del Palatino: se no, forse avremmo Scyllamque
Charybdimque inter, come in Gè. II 344 frigusque calo-
remque inter) : l'apposizione utramque viam dobbiamo in-
tenderla senza assottigliarci a dire che . . . quelle non sono
vie: leti è assurdo staccarlo da discrimine, avendo luoghi
paralleli in IX 143 e X 511 : cursum o cursus tenere così,
e solo così, è veramente proprio.
IV no (p. 108) Si luppiter imam... lungi. K una
ripresa particolare del precedente si modo quod memo-
ras ... : il sed fatis incerta feror sta a sé, ed è erroneo
congiungere incerta feror, si... È di qucgl' incisi propri
del parlar vivo, o quasi famigliare e malizioso come qui
(un " ma io non so " inserito nel discorso), o concitato
come in VI 84.
NOTE 445
308 (p. it6) moritura crudeli funere, dice il vero al
di là di ciò che Didone stessa pensa ; e però efficacis-
simo. Ella per ora sa e sente sol questo, che all'abban-
dono non potrebbe sopravvivere; Enea l'abbandonerebbe
moribundam, come or ora dirà. Il senso è ancora am-
biguo al V. 385. Solo al v. 415 albeggia, se è lecito dire,
r idea del suicidio, che poi diviene intenzione, proposito,
impazienza (436, 451, 475, 604. 606...).
3T3 (p. 117) Troia per undosum peteretur . . . Non è
che una insistente ipotesi coordinata alla precedente. È
vecchio maUnteso farne l' interrogazione principale : " an-
dreste a Troia per l'ondoso mare? " E perché no? po-
teva ben rispondere l'eroe, in procinto com' è di mostrare
che per certe cagioni non si aspetta il mare buono. E
la donna eroica si sarebbe maravigliata non della risposta
di lui ma della propria domanda.
435 sg. (p. 122) Extrema venia vai qui lo stesso che
extremum mumis pochi versi sopra; e "quest'ultima
grazia " la deve concedere Enea, la pietà di Anna con-
siste neir implorarla. Didone ricambierà la grazia "con
la giunta della morte ", cuniulatam morte : schiettissimo
e consueto latino (cumulata morte è una variante che
non varierebbe nulla). S'intende che la morte, la quale
dovrebbe accedere velut cumulus, è invece per sé stessa
tutto il ricambio. Linguaggio di passione : quelli che vi
desiderano la logica, si vede bene che non sono inna-
morati né disperati. Certo la frase è imprudente e rive-
latrice; uno sprazzo di verità tra la dissimulazione con
che Didone illude Anna. La quale davvero è optima e
candida più che Didone non sia, e crede proprio alla
rassegnazione della sorella:
hunc ego si potui tantum sperare dolorem,
et perferre, soror, poterò;
stupende parole nella loro alta semplicità che hanno un
senso per chi le dice e un altro per chi le ascolta. Sarà,
44^ ENEIDE
crede Anna, né più né meno che per la morte di Sicheo
(v. 502) ; povera Anna ! vive per la sorella, e le agevola le
vie della morte,
550 (p. 127) more ferae. Per Quintiliano è emphasts,
nel senso di cosa che prorompe dal fondo dell'animo e
fuori del discorso: "quantunque Didone si lagni del
matrimonio, pure la sua passione scoppiò a dire che la
vita senza nozze le pare non d'uomini ma di bestie".
Fino e profondo ; né, preso il passo da sé, si può spie-
gar meglio. Per altro, ricordando i versi 32 sg. e 38, par
più giusto sentire in questo more ferae un' eco, un com-
pendio vivo e amaro di quelle funeste ragioni di Anna
che per troppo affetto alla sorella, e con animo assai
più devoto che presago, la confortò all'amore e al con-
nubio.
510 (p, 125) ter centum tonai ore deos, vale proprio
trecentos, come in altri luoghi, né il ter va unito a tonat.
Ben inteso che è numero indeterminato iperbolico. E,
del resto, invocare trecento Dei, ovvero cento Dei per
tre volte, in aritmetica e in poesia torna lo stesso.
V 654 (p. 163) oculisque malignis: non sono propria-
mente " occhi cattivi ", che mostrino mali pensieri,
" malas animi cogitationes " (Donato). È il solito ma-
hqnus che vale " scarso ", cfr. XI 525 aditusque maligni.
Qui son proprio "occhiate oblique, sguardi fuggenti";
naturale, e in piena armonia con tutta la rappresenta-
zione. Non benigni certo, ma più che altro incerti : sguar-
dano rapidamente, hmis oculis.
VI 96 (p. 177) qua tua te fortuna sinet. La lezione
vulgata quam è scorrezione nata dal non avere inteso
che il comparativo audentior non aspetta già un termine,
anzi è determmato da quel che precede (tal quale lo
ritroveremo, IX 291, kajic sine me spem ferre iui, au-
NOTE 447
dentioY ibo in casus omnis). E la fortuna di Enea non è
tutt' una con quella che fu de' Troiani finquì, ma è
invece un' alta e privilegiata fortuna : ha le vie difncili,
ma una meta splendida e sicura. Enea stesso, per quei
tratti di pensosa malinconia che ha in comune col suo
poeta, può a certi momenti parlare della sua fortuna
tristemente; non così la veggente Sibilla,
211 (p. 182) refringit cunctantem. E il volens facilisque
sequetuv del v. 146 ? Forse che non è pronto e cedevole
abbastanza per il desiderio di Enea ? Più veramente il
poeta vuol far sentire che è un ramo non posticcio ma
proprio dell'albero; cunctaiur, in quanto vi è connesso;
refringit, non carpii o vellit, perché è metallico. Qualche
altro cunctantem troviamo che va inteso con discerni-
mento. Il più notevole, dopo questo, l' incontrammo già,
IV 133, regmam thalamo cunctantem... Anzi sollecita e
impaziente s' imagmerebbe Bidone. Forse è l'indugio
della bella signora che si adorna ? No, vuol dir solo che
la regina è l'ultima a scendere; giunta lei, si parte
senz' altro aspettare. E così dicono i versi seguenti.
743 (p. 205) Quisque suos patimidr Manes. Seneca che
nel suo Ercole furioso parafrasa tanto del VI dell' Eneide
mi pare che traduca quasi in prosa quest' emistichio
poetico quando dice quod quisque fecit patitur. Risalendo
alla grande poesia, chi sa se non sussista una relazione
tra questa icastica frase e quei terribili corpi appesi
ciascuno al prun dell' ombra sua molesta ?
VII 122-26 (p. 218) Il tratto così vivo e profondo —
Giulo dice uno scherzo ingenuo. Enea sente in esso una
grande rivelazione — è un po' turbato da un dubbio :
come mai attribuita ad Anchise la predizione che fece
la Harpyia Celaeno? Dimentico il poeta non è di certo,
ricorda fin le parole (III 256 sg.). E allora?... L'Arpia
mentitur, nota Servio, per il senso sinistro e tragico che
448 ENEIDE
dà al fatto di mangiare le ■mense. Eleno ha già detto
(III 394) che non sarà cosa sì spaventevole. Ci aspet-
teremmo altro più esplicito dalle labbra di Anchise nel
colloquio agli Elisi, il quale invece si termina con una
specie di eccetera comprensivo. — Ci aspetteremmo, ci
saremm,o aspettati, si sa, sono formule usitate dai critici;
e si starebbe freschi se nei poeti si trovasse solo ciò
che i critici si aspettavano. Ma qui una discreta aspet-
tazione era a luogo; è delle incongruenze o mancanze
che Virgilio avrebbe tolte.
234 sg. (p. 223) Fata per Aeneae iuro... In generale
questo fiero giuramento vien riferito a ciò che segue:
molto più degna di essere nobilmente rincalzata è l'af-
fermazione precedente.
307 (p. 226) Quod scehis . . .? Per il senso poco rileva,
ma il testo riesce meglio compatto nella lezione con gli
accusativi Lapithas e Calydona merentem. Scelus poi già
l'interpretarono poenam sceleris; ma talora è la pena
stessa se sproporzionata o iniqua : qui il linguaggio
virgiliano è conforme a quello dei comici, e dell' uso
vivo. Lo stupendo quod hoc est scehis? di Plauto, Captivi
762, significa proprio: "o che persecuzione è questa?
che infamia ? "
470 (p. 233) se satis ambobus Teucrisque venire Lati-
nisque. A combatter gli uni e gli altri ? parrebbe con-
forme al V. 434. Oppure: per i Teucri a combatterli, e
per i Latini a difenderli ? piace, in quanto Turno, pure
imperioso e irato, non sembra debba correr tanto a
guerreggiare il padre e il popolo di Lavinia. Forse il
modo, baldanzoso e brusco, è e vuol essere ambiguo.
596 (p. 238) Nefas non fa il paio con quel che segue,
triste siipplicium : è un inciso come al v. 73. In armonia
con questo è il v. 41 dell' ultimo libro.
xoTE 449
636 (p. 240) Oppure " rifanno a' fuochi le paterne
spade " ? Ma non sarebbe il recoquimt patrios fornacibus
ensis in chiara relazione con quel che precede. Invece,
erano arnesi campestri, sono rifusi in armi, è chiaris-
simo ed efficace. Intendo patrios da patria, non da pater;
più raro, ma certo : e così pairii enses tornano in Lu-
cano, X 528,
Vili 363 (p. 259) ahiurataeque rapmae. Non si legge
che Caco avesse spergiurato di non aver commesso furto.
Già! e neppure si legge che gli fosse deferito il giura-
mento. Spergiurò col fatto fin da prim.a, versis viarum
iyidiciis, 209-12.
408 (p. 266) cum f emina primum ... È un tratto di
arte finissima. L' imagine della donna laboriosa è intro-
dotta per indicare l'ora, ma poi è cosi svolta che serve
anche a comparazione; e la comparazione che, diretta-
mente, poteva sembrare inadeguata, cosi invece torna
benissimo. E il poeta quando dice haud secus par che
la consideri comparazione ; ma quando soggiunge nec
teìnpore segnior ilio la riconduce al suo punto di par-
tenza.
532 (p. 271) profecto intenderlo participio (cioè, " per
il tuo figUo, partito che sia con me ") può parere affet-
tuoso e di profonda intuizione. Ma come espressione
riesce più insolita e dura dell' avverbio che proprio cosi
in fine di verso si trova non raro anche in altri. Né
occorre intender così questa parola a sentire la trepida-
zione di Evandro : appare assai in ciò che Enea dice
rassicurandolo.
Altro dissenso, già noto a Servio, è nel verso seguente.
Ma ego poscor Olympo è senza dubbio tutta una frase,
e come frase e come senso risponde esattamente a passi
precedenti, v. 12 fatis regern se posai, 503 externos optate
Albini - Eneide 29
450 ENEIDE
duces, 477 fatis hiic te poscentibus adfevs, 512 quem nu-
mina posctmt.
658 (p. 276) defensi tenehris et dono noctis opacae (che
se ne ricordasse Scribe col suo socio — la bella musica
italiana scusi la curiosità — quando scrissero A la faveur
de cette nuit obscure ? e quegli che tradusse Cheti al favor
di notte tenebrosa? Ma sarà a traverso Molière Ampli.:
qui de votre manteau veut la faveur obscure) è un verso ti-
pico di questa quasi endiadi virgiliana. E non lo vince di
eleganza se non forse quello, X 190, populeas inter fron-
des umbramque sororum. Del quale non meno ardito nella
sua grandiosità è l'altro, al principio dello stesso libro,
exitium magnum atque Alpes immittet apertas. E resta
al suo luogo di gloria il sunt lacrimae rerum et mentem
mortalia tangunt, benché la celebrità sia solo della prima
parte, che, così staccata dal resto, die luogo a tali agré-
ments ben lontani dal tema classico, e pur non sempre
brutti. Ho notato che certe frasi di poeti, come le grandi
parole di verità e di salute, hanno questa sorte : anche
non del tutto intese né per il loro verso, restano buone
e belle.
IX 136 (p. 287) Un curioso precetto di retorica pone
Servio qui: è lecito dire il falso quando non v' è chi
possa smentire: "Sunt et mea contra fata mihi hoc
falsum est quod dicit Turnus. Sed in arte rhetorica tamen
nobis conceditur uti mendacio, cum redarguere nuUus
potest, ut hoc loco est: quis enim vere potest scire.
Turno data sint necne responsa?". Lasciando questa
svelta retorica e la sua bonaria esposizione, e' è chi
prende a lettera le parole di Turno ricordando gì' inci-
tamenti di Giunone e le apparizioni; e certi luoghi,
p. es. VII 429-32 {Caelestum vis magna iubet) e qui stesso
al V. 12 sg., possono senza sforzo dar motivo ad affer-
mare che anche Turno ha i suoi fati. Se non che altro
è qui il vero e vigoroso senso e spirito delle parole, e
N'OTE 451
lo spiegano le dichiarative susseguenti. Bene i poeti
intesero il poeta.
214. (p. 290) mandet htimo solita oppure soltta aut siqua
id fortuna vetahit? Servio preferisce la seconda e cita Stazio
Theb. X 384 {invida fata pus et fors ingentibus ausis rara
Comes: vero purtroppo, e di non peregrina osservazione).
Ma — quantunque non ci sarebbe bisogno di vederci
colore troppo pessimistico e solita varrebbe " frequente "
— sta meglio con htmio in significato di " consueta, ri-
tuale " (è tra i insta, vojii^ójisva), contrapposto agli onori
resi absenti. Poi solita... siqua... non persuade.
294 (p. 293) Atqiie animum paiviae strinxit pietatis
imago. È un verso che respira poesia, è un tocco deli-
cato e profondo. Ciò tutti sentono. Eppure, e qui e
quando ritorna con heve variazione in X 824, non è
facile dime tutto e netto il significato : già gU antichi
interpreti esitarono, come Servio, o se scelsero, scelsero
male, come Donato. Certo è che la patria pietas, di cui
l'imagine passa sul cuore di Giulo, e di Enea nel X, è
r afietto del padre per il figlio, non del figlio per il padre.
367 (p. 296) Interea . . . Sensatissima la nota di Servio :
questo non contrasta a quel che è detto nel VII Saepsit
se tectis rerumque reliquit habenas; s'intende che Latino
al rompere della guerra si astenne, ma poi non negò
né forze né consigli, e lo vedremo prender parte ad
alleanze e adunanze. Bella vetabat, ma pur dovè essere
a capo del suo popolo.
Precedendo ex urbe Latina segue responsa senza bi-
sogno di determinazione; e Turno regi sta bene qui,
come al v. 691 ductori Turno : non regis.
547 (P- 3^4) Perché vetitis armis ? " quia servi miUtia
prohibebantur ". Più strettamente: perché non doveva
452 ENEIDE
vivere : la madre lo allevò di furto, poi lo armò. O vie-
tate perché destinate a non giovargli? Di tali anticipa-
zioni è piena 1' Eneide.
X i8i (p. 325) La parola dopo transierim è d'incerta
lezione. Se cumano s' accostasse alla vera, e si accettasse
da Servio che si tratta di un monte (sia pur del Piceno:
il m. Conerò di Ancona?), lezione e spiegazione si
potrebber dire trovate. Ma né questa né le varianti
cinira o cinare che porterebbero a dare a Cupavone un
fratello non desiderato, almeno dal senso, tolgono i dubbi.
Io inclino a credere che il verso debba leggersi transierim
temere, paucis Gomitate Cupavo. Veramente non son d'ac-
cordo coi lessici che segnano lunga la finale : in Lucrezio
Virgiho Orazio Ovidio temere s' incontra sempre con una
vocale {propere non così), e in Seneca apparisce tribraco:
ma qui il ritmo e il senso spiegano l' allungamento ;
cfr. uno splendido esempio in XII 648, nella sua vera
lezione.
188. Crimen amor vesfrum: di Cicno (il poeta viene
a parlar di lui) e, per eredità, del figlio. Non che vostra
colpa, amore è l' insegna della forma di tuo padre (parla
a Cupavone), giacché quella trasformazione fu conse-
guenza, ed è testimonianza, di quel!' amore. Incerta la
lezione del v. 181, ma non V intelligenza del 188.
Ad Agrippa (VIII 683) belli insigne superbum, tempora
navali fulgent rostrata corona : ciò gli è insegna superba di
guerra, vale a dire della sua vittoria. E Aventino (VII
77) ha r insigne paternum.
689 (p. 346) Ai lovis interea monitis Mezentius...
Mezenzio per i moniti di Giove? Proprio allora non si
moverebbe di certo. Né giova sottilizzare cercando dare
alla frase significato diverso da quello che ha in altri
passi: siamo in uno dei tratti che recano segni più
manifesti di lavoro ricco e assai bene sbozzato ma im-
perfetto.
N-OTE 453
774 sgg. (p. 350) Unire il genitivo Aeneae a prae-
donis, quando il poeta li ha così disgiunti, è sforzo. Si
posson citare altri luoghi, ma tali che il distacco vi è
compensato da qualche particolare efficacia: qui si trat-
terebbe di un epcsegetico ozioso. Se si avverta che il
voto di un trofeo ha sempre espresso a chi il trofeo sia
dedicato, si vedrà che qui Aeneae è un dativo. L'empio
Mezenzio, che nell' empiezza sua coinvolge anche la sola
creatura che gli è cara, con perverso sarcasmo del rito
e delle formule votive, vota Lauso vestito delle spoglie di
Enea per trofeo ... ad Enea ! L' irrisione è brutale : la
punizione immensa. Quanto al trofeo, si vedrà al prin-
cipio del seguente canto !
XI 443 sg. (p. 375) Nec Drances... potius. " Sensus
obscure quidem dictus sed facilis . . . ", dice Servio; ma,
oscuro o no (e direi di no), facile non gli è stato. Il
pensiero di Turno è magnanimo: "voglio essere io, e
non un altro, sia che si tratti di sacrificarsi, sia che di
vincere " ; ma invece di dire io e non un altro intreccia
alla magnanimità un atroce sarcasmo e dice io e non
Drance; quasi che la scelta fosse tra lor due!
S37 (p. 392) Spectatque interrita pugnasi '"'quid enim
metueret quae procul aberat et sedebat in summo ?
Ma non è questo: interrita inchiude il senso di "ferma,
non distolta o rimossa " . Così la flotta interrita fertur,
V 863, in quanto non è " sviata " ; Mezenzio nianet im-
perterritus, X 770: il nostro "imperterrito" serba fino
a un certo segno tal senso, se il contesto aiuta. Alla
giustiziera che scdet spectatque interrita è contrapposto
il colpevole che fugit ante omnis exterritus.
857 (p. 393) tune etiam telis moriere DianaeP Si po-
trebbe pensare a un significato riposto: " e ancora an-
cora dovrai tu morire degli strali di Diana ? è già troppo
per te: di tal ferro non merli morir ". Ma il più ovvio
454 ENEIDE
e semplice è il vero, vale a dire " anche tu come già
tanti " . Il pedisequo di Virgilio lo conferma, che fa dire
a Giove prima di fulminar Capaneo :
quaenam spes hominum tumidae post proelia Phlegrae?
tune etiam feriendus ?
XII 12 (p. 397) quae pepigere. Vale come un patto
degli Eneadi la parola di Enea. Anzi, se dal canto de*
Latini è naturale sorgesse la voce Vada Turno, da quel
de' Troiani invece nessuno avrebbe proposto ed esposto
Enea, ove non fosse lui a dirlo e volerlo : e vedremo
che nel movere al duello deve confortare i suoi, v. no.
Ora Enea aveva osservato come unica equa e discreta
condotta di Turno affrontare lui, e di ciò Drance si
fece propalatore, e la promessa che Turno soggiunse, e
che è richiamata in questo principio, non è che accet-
tazione di sfida, cfr. XI 115 sgg., 221, 374 sg., 434 sgg.
197 sgg. (p. 405) Haec eadeni . . . turo, audiat haec
genitor. Il poeta con questa ripresa ha fatto ben chiaro
il senso del primo haec, pur franteso da antico. luro ha
due accusativi, non solo quel de' numi per cui si giura,
ma anche e prima un neutro che comprende l'oggetto del
giuramento. Chi ascolta il giuramento di Enea, special-
mente se niente ricorda nell' Iliade quel di Agamennone
(III 276-91), così fieramente scolpito e minaccioso, sente
come non ha nulla di ostile : pronuncia una sanzione se-
vera per sé stesso nel caso di sconfìtta; nel presagio di
vittoria, nulla si attribuisce di oppressivo. È un patto
che mostra in sé due genti aeterna in pace futuras, e deve
piacere a re Latino che per le rivelazioni e la natura
e la coscienza è ben disposto a intenderlo. Sicché il suo
giuramento non ha un contenuto nuovo e proprio : egli
neir espressione si effonde con calore, nella sostanza
non fa che accettare la parola di Enea e ripeterla o
intenderla ripetuta per sé. Del resto, anche nell' Iliade
NOTE
455
Priamo che non soggiunge conceptis verhis un'altra for-
mula di giuramento, accoglie con ciò la sostanza di
quello di Agamennone.
746 sg. (p. 428) tardata sagitta genua e 762 saucius
instai. Qui è ben da credere che Virgilio avrebbe cor-
retto. L'operazione è andata bene, l' ammalato è morto :
ciò accade al mondo, e si dice, e non e' è da ridere ;
come a certi tempi si risentono ferite e doglie. Ma, dopo
il miracolo conclamato di Venere, Enea dev' esser gua-
rito per sempre del tutto. È delle ridondanze che anda-
vano potate intomo al bel disegno, delle dissonanze
rimaste sospese nella gran sinfonia.
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