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Full text of "Lezioni di analisi matematica"

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BERKELEY 

LIBR- 

UNIVERSITY  OF 
CALIFORNIA 


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LEZIONI  DI  ANALISI  MATEMATICA 


Professore  ordinario  del  B.  Politecnico  di  Torino 


LEZIONI 


DI 


ANALISI  MATEMATICA 


Quarta  edizione  interamente  rifusa. 


s  -T.  e:,  m. 

SOCIETl    TIPOGRAFIGO-EDITRICE    NAZIONALE 
(già  :  lloux  e  Viarengo  -  Marcello  Capra  -  Angelo  Pauizza) 
■  Torino,  1920. 

Pt(lNTED  IN  ITALY 


TUTTI    I    DIRITTI 

DI    RIPRODUZIONE,  DI   TRADUZIONE,  D'ADATTAMENTO  E    d'eSECUZIONE 

SONO    RISERVATI    PER   TUTTI    I    PAESI 


Copyright  1913,  1915,  1920,  by  the  Società  Tipografico-Editrice  Nazionale  (S.T.E.N.)  —  Tnrln 

Comm.  M.  J.  i  ontana 
Libraiy 


(H204) 


PREFAZIONE 


Ecco  in  questo  libro  riassunte  le  lezioni  che  svolgo  al 
Politecnico  di  Torino.  Nel  redigerlo  sono  partito  dalla  convinzione 
che  l'insegnamento  teorico  conserverà  l'importanza,  che  merita, 
soltanto  quando  lo  si  sfrondi  di  tutto  quanto  è  formale,  oppure 
d'importanza  soltanto  teorica.  La  tecnica  ha  bisogno  di  concetti 
matematici,  ma  non  ha  per  niente  bisogno,  per  es.,  della  concezione 
più  generale  degli  enti,  che  possiamo  chìsundive  punto  o  funzione, 
0  della  teoria  delle  funzioni  a  derivata  non  integrabile. 

Ridurre  perciò  le  teorie  esposte  alla  parte  essenziale  ;  sce- 
gliere le  dimostrazioni  piii  facili  ;  dimenticare,  per  quanto 
possibile,  ogni  considerazione  di  indole  prevalentemente  critica  ; 
dare  il  massimo  sviluppo  ai  procedimenti  induttivi,  o  di  intuizione 
a  priori;  ricordare  che  il  libro  è  destinato  a  giovani,  per  cui 
la  matematica  è  mezzo,  e  non  fine  ;  illustrare  pertanto  le  varie 
teorie  con  esempi  suggeriti  anche  dalla  fisica  e  dalla  meccanica  : 
ecco  lo  scopo  prefissomi  :  Il  lettore  dirà  se  io  Tho  raggiunto  ! 

Ho  ridotto  in  questa  ultima  edizione  il  numero  degli  esempi 
ed  esercizi,  perchè  essi  meritavano  uno  sviluppo  maggiore  :  ad 
essi  il  Prof.  Vivanti  ed  io  abbiamo  dedicato  una  pubblicazione 
a  parte.  L'ordine  dei  capitoli  mi  è  stato  suggerito  dalle  esigenze 
del  Corso  di  Meccanica,  che  richiede  svolti  al  più  presto  i  prin- 
cipii  del  calcolo  integrale,  e  possibilmente  della  teoria  delle 
equazioni  differenziali.  Ma  senza  alcun  danno  per  la  facile  lettura 
dell'opera  si  potrebbe  mutare  ])rofondamente  l'ordine  dei  varii 
Capitoli:  Così,  per  es.,  si  potrebbero  invertirei  Capitoli  12 e  13, 
oppure  i  Capitoli   13,   14,  oppure  i  Capitoli  18,   19,  e  così  via. 

Nelle  successive  edizioni  il  libro  è  stato  quasi  completamente 
rifatto.  Ho  continuato  l'opera  di  semplificare  le  dimostrazioni  in 
quasi   tutti   i    Capitoli   del    libro,    di    scegliere    esempi   semplici 


548^r53 


vili  PREFAZIONE 


fuori  dairamì5ito  delle  matematiche  pure,  di  illustrare  quelle  che  io 
chiamo:  locuzioni  abbreviate,  così  comode  nelle  scienze  applicate, 
che  ricorrono  al  Calcolo.  Ho  ridotto  ancora  piii  i  Capitoli. dedicati 
alle  equazioni  algebriche,  cercando  di  fondere,  per  quanto  possibile, 
le  teorie  algebriche  con  le  infinitesimali.  Nelle  ultime  due  edizioni, 
oltre  a  molti  cambiamenti  particolari,  ho  rifatto  la  trattazione 
della  teoria  dei  determinanti  ;  ho  portato  nell'Appendice  il  para- 
grafo sulla  decomposizione  delle  frazioni  razionali,  perchè  in 
questo  libro  a  tale  teoria  non  si  ricorre  mai,  neanche  per  la 
ricerca  degli  integrali  indefiniti. 

Per  quanto  riluttante  a  introdurre  nella  scuola  idee  che  non 
siano  di  primissima  importanza,  mi  sono  occupato  dei  limiti 
superiore  ed  inferiore  di  una  classe  di  numeri,  della  teoria  gene- 
rale delle  serie  di  potenze,  e,  ciò  che  può  costituire  una  novità 
per  un  libro  elementare,  delle  funzioni  addittive  di  insieme.  Spero 
però  che  i  metodi  seguiti,  nuovi  per  la  massima  parte,  sieno 
trovati  così  semplici  e  spontanei  da  rendere  questi  nuovi  capitoli 
utili  a  una  piii  facile  lettura  dell'opera  complessiva  e  all'esatta 
intelligenza  dei  principii  fondamentali  del  calcolo. 

In  questa  4*  edizione  sono  state  intercalate  in  carattere 
piccolo  molte  osservazioni  di  indole  critica;  cosicché  la  differenza 
fra  gli  argomenti  svolti  per  lunga  tradizione  nei  nostri  primi 
biennii  universitari  e  quelli  di  cui  qui  ci  occupiamo  sono  soltanto 
i     eguenti  : 

a)  minore  estensione  data  alla  teoria  delle  equazioni 
algebriche  (a  cui  l'esperienza  dell'insegnamento  mi  ha  provato  pre- 
feribile sostituire  lunghe  esercitazioni  di  matematica  elementare); 

b)  quasi  nessun  sviluppo  alla  definizione  di  integrali  di 
Riemann  (che  oramai,  dopo  gli  studii  del  Lebesgue,  ha  soltanto 
un  valore  storico  anche  per  il  matematico  puro); 

e)  minore  sviluppo  alla  teoria  delle  equazioni  differenziali, 
che  nei  corsi  di  calcolo  assume  troppo  sovente  l'aspetto  di  un 
lungo  elenco  di  artifici. 

Possa  pertanto  questo  volume  essere  ancora  giudicato  non 
difficile  dai  giovani  cui  è  destinato;  ed  essere  trovato  accettabile 
anche  da  un  teorico  puro  ! 


CAPITOLO  I. 
NUMERI   REALI 


§  1.  —  Numeri  razionali  positivi. 

L'aritmetica  dopo  i  numeri  interi  positivi  [il  cui  studio  risolve 
completamente  il  problema  di  contare]  considera  i  numeri  fratti 
positivi,  che  insieme  ai  numeri  interi  risolvono  in  qualche  caso 
il  problema  della  misura  C).  Se  noi,  per  fissare  le  idee  ci  rife- 
riamo ai  segmenti,  e  ne  scegliamo  uno  determinato  M  come 
unità    di    misura   (potremo   dire    come   metro)  noi  diciamo  che 

un  altro  segmento  N  è  uguale  ad  —  di  M,  o  anche  che  N  ha 

m 

n  n 

per  misura  —  '  o  anche  che  il  rapporto  di  ^  ad  If  vale  — 
m  "^  ni 


(*)  Nelle  scienze  più  svariate  si  presenta  il  problema  della  misura  delle  gran- 
dezze di  una  certa  classe  G.  Affinchè  tale  problema  abbia  senso,  è  necessario  che, 
date  due  grandezze  a,  h  distinte  o  no  di  6r,  si  possa  dire  sempre  quando  a  >  b, 
oppure  a  =  &,  oppure  a  <  b.  E  questi  simboli  >,=,<  dovranno  essere  definiti  in 
modo  che  a  —  a;  che,  se  a  >  b,  sia  b  <  a;  che,  se  a  —  b,  h  =  c  sìa  a  =  c,  ecc. 

Date  due  o  più  grandezze  distinte  o  no  di  G,  si  deve  poter  definire  la  loro  somma 
in  guisa  che  a  +  h  =  h-\- a;  a-h(b-i-c)  =  a-hh -f-c.  Si  potranno  così  definire 
i  multipli  di  una  qualsiasi  grandezza  a;  e  dovrà  valere  il  postulato  di  Archimede 
che,  se  b  è  un'altra  qualsiasi  grandezza  di  G,  esista  un  multiplo  di  a  che  sia 
maggiore  di  h.  E  dovranno  anche  esistere  tutti  i  sottomultipli  di  una  grandezza 
qualsiasi  di  (r.  La  somma  di  più  grandezze  di  G  dovrà  essere  non  minore  di  ogni 
suo  addendo,  ecc.  ecc. 

Se  una  classe  G  di  grandezze  gode  delle  precedenti  proprietà,  per  essa  si  potrà 
porre  il  problema  della  misura.  Tali,  ad  esempio,  sono  la  classe  delle  lunghezze  dei 
segmenti,  la  classe  delle  grandezze  degli  angoli  ;  e  queste  classi  sono  specialmente 
semplici,  perchè  l'uguaglianza  delle  lunghezze  di  due  segmenti,  o  dell'ampiezza  di 
due  angoli  si  riduce  all?i  sovrapponibilità  di  tali  segmenti  o  di  tali  angoli.  Più 
complesse  sono  altre  classi  di  grandezze  (aree  delle  figure  piane,  volumi  o  pesi  dei 

1  —  G.  FuuiNi,  Analisi  matematica. 


CAPITOLO   I   —   §    1 


(dove  con  n,  m  sono  indicati  interi  positivi),  se  N  èldù  somma 
di  n  segmentini  uguali  5,  ciascuno  dei  quali  è  la  m*"'""  parte 
di  M  (cioè   if  è   la   somma  di  m  segmenti  uguali  a  B).  E  la 

definizione  di  uguaglianza  di  due  numeri  fratti  (si  pone  —  =  — 

m         q 

se  nq  =  mp)  è  scelta  appunto  in  modo  tale  che,  se  un  segmento  N 

ha  per  misura  tanto  la  frazione  — ?  quanto  l'altra  "^?  allora 

n  q 

le  due  frazioni  siano  uguali  (*). 

A  tutti  è  nota  poi  quale  importanza  abbia  (specialmente  per 

i   calcoli   numerici)   la   trasformazione   di   una   frazione   in  un 

numero  decimale.  Quando  noi  scriviamo,  p.  es. 

1=0,2;  ^  =  0,02;  f=M 

noi  intendiamo  soltanto  di  scrivere  in  altro  modo  le  ugua- 
glianze : 

5—10'  50  ~"  100'  5  ~"  10' 

*  1      1      6 
In  altre  parole  noi  abbiamo  trasformato  le  frazioni  i;r'  ^'  t" 

5     50     5 

in  altre,  il  cui  denominatore  è  il  numero  10,  od  una  delle  sue 
potenze  10^  =  100,   10'  =  1000,  ecc. 


corpi  solidi,  ecc.).  Se  noi  scegliamo,  per  fissar  le  idee,  il  problema  della  misura  delle 
lunghezze  dei  segmenti  come  problema  iniziale,  dobbiamo  in  sostanza  definire  dei 
simboli  {numeri)  e  definire  le  proprietà  di  questi  simboli  in  guisa  che  a  segmenti 
di  ugual  lunghezza  corrisponda  lo  stesso  numero,  che  a  ogni  numero  corrisponda 
un  segmento,  che  a  segmento  di  lunghezza  maggiore  corrisponda  numero  maggiore, 
che  a  un  segmento  a  somma  di  due  segmenti  |5,  y  corrisponda  una  misura  somma 
delle  misure  delle  lunghezze  di  ^  e  y,  ecc.  Il  problema  analogo  per  ogni  altra  classe 
di  grandezze  si  propone  di  definire  una  corrispondenza,  dotata  di  proprietà  analoghe, 
tra  le  grandezze  considerate,  e  i  numeri  precedentemente  definiti.  E'  noto  che  tale 
problema  della  misura  ammette  (se  risolubile)  infinite  soluzioni:  una  delle  quali  si 
definisce  fissando  la  grandezza  unitaria  (unità  di  misura),  cioè  la  grandezza  a  cui 
si  farà  corrispondere  il  numero  1. 

Per  certe  grandezze  orientate  (debiti  e  crediti,  altezza  sopra  0  sotto  il  livello 
del  mare,  ecc.)  si  pone  pure  un  analogo  problema  della  misura:  il  quale  richiede 
però  la  considerazione  dei  numeri  negativi. 

(*)  Si  dice  poi  che  —  <  ^  e  -^  >  —  se  w  ^  <  mi9.  In  tal  caso  il  segmento 
m         q        q  ^    m  ^^x- 

n  f) 

che  ha  —  per  misura  è  minore  del  segmento,  la  cui  misura  vale  — . 


NUMERI   REALI  3 

Sarà  però  qui  opportuno  (per  analogia  con  quanto  segue) 
scrivere  ogni  numero  decimale  limitato  come  un  numero  decimale 
illimitato  (con  infinite  cifre  decimali)  scrivendo  : 

—  =  0,2000000...  ;     ^  =  0,020000...  ;     4"  =  1,200000...  ; 
5  50  5 

ciò  che,  per  note  convenzioni,  non  muta  il  significato  delle  pre- 
cedenti uguaglianze. 

Di  significato  assai  più  riposto  sono  le  uguaglianze  tra  un 
numero  fratto  generico,  e  il  corrispondente  numero  decimale  (che 
è  0  periodico,  o  periodico  misto),  quali,  ad  es.,  le  uguaglianze: 

4  =  1,3333 

o 

—  =  1,0333 

30 

che  possiamo  considerare  insieme  alle  analoghe  : 
-^  =  1  =0,9999 

i-=z:  0,2  =  0,19999 

5 

4 

Per  es.  la  — =1,333 ci   dice   che  il  segmento  N,  la 

o 

.   4      . 

CUI  misura  e  — ?  e  compreso  : 

3 

a)  tra  i  segmenti  aventi  per  misura  1  o  2  ; 

P)  tra  i  segmenti  aventi  per  misura  l,3el, 34-0,1  =  1, 4; 

Y)  tra  i  segmenti  aventi  per  misura  1,33  e 

1,33  -+-  0,01  =  1,34,  ecc. 

4 
In   altre  parole  il  segmento  N  di  misura  —  contiene  una 

volta,  e  non  due  volte  il  segmento  M, 

Se  da  N  sottraggo  M  il  massimo  numero  di  volte  possibile 
(una  volta),  nel  segmento  residuo  Ni  la  decima  parte  di  if  è 
contenuta  tre  volte  e  non  quattro  volte.  Se  da  JS^i  sottraggo  il 
massimo  numero  di  volte  possibile  (tre  volte)  la  decima  parte 
di  M,  nel  segmento  residuo  ^2  la  centesima  parte  di  if  è  con- 
tenuta tre  volte  e  non  quattro  volte,  e  così  via. 


CAPITOLO   I   —    S    1 


(1) 


4 
In    altre    parole    la  —  =  1,333.  ...    equivale  alle   seguenti 

disuguaglianze 

l<|-<2    • 

M<|-<i,3+^  =  M 

1,33  <|<  1,33 +  ^=.1,34 

1,333  <4-<  1.333  +  -i-  =  1,334,  ecc. 
'  3         '  1000  '        ' 

Osservazioni  perfettamente  analoghe  valgono  per  la 
^  =  1,0333...,   ecc. 

Anzi  queste  osservazioni  ci  permettono  di  dare  un  metodo  per 

P 
sviluppare  in  numero  decimale  un  numero  fratto  generico  ^^-  Se  N 

è,  p.  es.,  il  segmento,  di  cui  ^^  è  la   misura,  si  sottragga  da  N 

il  numero  massimo  possibile  n  di  volte  il  metro  M,  Questo  massimo 
numero  ^  è  la  parte  intera  dello  sviluppo.  Dal  segmento  residuo  ^i 
si  sottragga  il  massimo  numero  possibile  Ui  di  volte  la  decima 
parte  di  M,  Questo  intero  Ui  sarà  la  prima  cifra  decimale  dello  svi- 
luppo. Dal  segmento  residuo  N2  si  sottragga  il  massimo  numero 
possibile  ^2  di  volte  la  centesima  parte  di  M.  Il  numero  n^  sarà 
la  seconda  cifra  decimale  del  cercato  sviluppo.  E  così  via. 
Analogo,  ma  leggermente  distinto,  è  il  significato  delle 

i-  =  0,2000000 ;  \  —  0,19999 

La  prima  di  queste  significa  che  : 

0  ^\-<0  +  1  =  1 
5 

0,2  ^-g-<  0,2  4-^  =  0,3 

0,20^y<0,20  +  ^  =  0,21 

0,200  ^  -^  <  0,200  +  -i-  =  0,201,  ecc. 
5  1000 


(2) 


NUMERI   REALI 


La  seconda  significa  che  : 

0<-^^0-f-l  =  l 
5 

0,l<-^^0,H--^  =  0,2 

'  ''  )   (3) 

049  <  1-0,19 +  ^  =  0,20 

0,199  <~  ^  0,199  4-  -i-  =  0,200,  ecc. 
5  1000 

E  a  tutti  evidente  l'analogia  tra  le  (1),  (2),  (3).  Unica  dif- 
ferenza è  la  seguente:  In  ciascuna  delle  (1)  compare  due  volte 
il  segno  <.  Nelle  (2)  il  primo  dei  segni  <  è  sostituito  da  un  :^; 
nelle  (3)  il  secondo  dei  segni  <  è  sostituito  da  ^. 

E   ciò   perchè  il   numero  —  è  uguale    al   numero  decimale 

5 

limitato  0,2  =  0,20  =  0,200  =  ...  ;  il  quale  compare,  a  partire 

da  una  delle  (2)  o  delle  (3)  in  poi,  nei  primi  membri  delle  (2), 

nei  secondi  membri  delle  (3). 

Un  fatto  analogo  si  presenta  per  ogni  numero,  che  sia  uguale 

a  un  numero  decimale  limitato.  Così,  p.  es.: 

0,52  =  0,520000 =  0,51999 


perchè,  per  nota  convenzione  aritmetica,  si  considerano  come 
uguali  due  numeri  decimali  l'uno  formato  da  certe  cifre  seguite 
da  infiniti  zeri,  l'altro  formato  dalle  stesse  cifre  (tranne  l'ultima 
cifra  non  nulla,  che  viene  diminuita  di  1)  seguite  da  infiniti  9. 
Per  tali  sviluppi  decimali  valgono  disuguaglianze  analoghe  alle 
(2),  (3),  mentre  per  ogni  numero  decimale,  che  non  sia  del  tipo 
ora  studiato,  valgono  disuguaglianze  analoghe  alle  (1).  I  primi 
numeri  si  possono  scrivere  in  due  modi  distinti  sotto  forma  di 
numero  decimale;  i  secondi  si  possono  scrivere  in  un  sol  modo 
come  numeri  decimali. 

Diremo  che  due  numeri  a,  ^  sono  uguali  fino  alla  ^i^'™*  cifra 
decimale,  se  la  parte  intera  e  le  prime  n  cifre  dopo  la  virgola 
nello  sviluppo  decimale  di  a  (o  in  uno  dei  due  sviluppi  di  a, 
se  a  ammette  due  sviluppi  decimali)  sono  uguali  alla  parte  intera 
ed  alle  prime  n  cifre  dopo  la  virgola  nello  sviluppo,  o  in  uno 
dei  due  sviluppi  del  numero  ^. 


CAPITOLO   I   —    §    1-2 


Così,  p.  es.: 

M  =  M31313 ;  J-||  =  0,131131 

sono  uguali  fino  alla  terza  decimale. 

Si  noti  che,  secondo  tale  convenzione,  p.  es.  : 

-i-=  0,1111 e  |-  =  0,2222 

9  9 


pure   non   avendo   la   prima  decimale    comune,    sono    entrambi 
uguali  fino  alla  prima  cifra  decimale  con 

-^  =  0,1999 =  0,2000 

5 

Notiamo  che: 

La  lunghezza  di  un  segmento  N  commensurabile  con  M 
(cioè  la  cui  misura  è  un  numero  fratto)  ha  una  misura  e  una 
sola,  che  si  può  scrivere  sotto  forma  di  numero  decimale 
(periodico).  E  viceversa  ogni  numero  decimale  periodico  è  misura 
della  lunghezza  di  un  segmento  N  commensurabile  con  M,  e  dei 
segmenti  ad  esso  sovrapponibili,  ma  di  nessun  altro  segmento. 

Se  Ni,  N2  S0710  segmenti  commensurabili  con  M,  altrettanto 
avviene  del  segmento  somma  Ni  -4-  N2  ;  il  quale,  come  è  noto, 
ha  per  misura  la  somma  delle  misure  dei  segmenti  Ni,  N2. 

Se  Ni  è  il  pile  grande  dei  due  segmentigli,  N|s,  la  misura 
di  Ni  è  maggiore  di  quella  di  N2  e  viceversa.  (È  detto  per  brevità: 
misura  di  ^1  anziché  misura  della  lunghezza  di  Ni), 

§  2.  —  Numeri  irrazionali. 

Come  è  ben  noto,  le  precedenti  considerazioni  e  i  precedenti 
risultati  sono  stati  estesi  anche  ai  segmenti  N  incommensurabili 
con  M  (p.  es.  alla  diagonale  del  quadrato,  il  cui  lato  è  M), 
Anche  per  tali  segmenti  si  è  definita  la  misura  che  è  un  numero 
che  ancora  gode  delle  proprietà  testé  enunciate. 

Se  ^  é  un  tale  segmento,  si  sottragga  da  Nìì  massimo  numero 
possibile  p  di  volte  il  metro  M  [cioè  p  M  <  N  <  (p  -h  1)  M]. 
Dal  segmento  residuo  Ni  si  sottragga  il  massimo  numero  pos- 
sibile ni  di  volte  la  decima  parte  di  M.  Dal  segmento  residuo  ^2 
si  sottragga  il  massimo  numero  n2  di  volte  la  centesima  parte 
ài  M  e  così  via. 


NUMERI   REALI 


Il  simbolo  p,  71x712  n^ ottenuto  scrivendo  dopo  l'intero  p 

successivamente  le  cifre  ni,  712,  n^, si  chiama  numero  irra- 
zionale, e  si  assume  come  misura  di  iV.  Esso  è  un  numero 
decimale  illimitato  non  periodico  (perchè  altrimenti  N  sarebbe 
commensurabile  con  M), 

Ogni  segmento  N  determina  così  la  sua  misura;  segmenti 
uguali  hanno  misure  uguali. 

Viceversa  due  segmenti  aventi  misure  uguali  sono  uguali. 

Infatti,  se  t^  è  un  intero  qualsiasi,  i  due  segmenti  conten- 
gono lo  stesso  numero  di  volte  la  (10")'*^"'''  parte  di  If  (cioè  il 
segmento  6  ottenuto  dividendo  M  m  IO""  parti  uguali).  La  dif- 
ferenza B  dei  due  segmenti  dati  non  può  perciò  superare  6;  e 
ciò,  qualunque  sia  n.  Ma,  se  B  non  è  zero,  io  posso  prendere  n 
così  grande  che  6  <  h  {^).  Ciò  che  contraddirebbe  al  già  dimo- 
strato. Quindi  S  =  0,  e  i  due  segmenti  sono  uguali. 

Il  postulato  della  continuità  della  retta  ci  assicura  poi  che: 

Ogni  numero  decimale  limitato  0  no  è  misura  di  un  seg- 
mento N  (e  soltanto  dei  segmenti  uguali  a  questo). 

Vi  è  dunque  una  corrispondenza  biunivoca  tra  i  segmenti  N 
di  una  retta  ed  i  numeri  razionali  0  no  (quando  segmenti  uguali 
si  considerino  come  non  distinti). 

Tutti  i  numeri  fin  qui  definiti  diconsi  positivi. 

Di  due  numeri  (razionali  0  irrazionali)  positivi  disuguali  si 
dice  naturalmente  maggiore  quello  che  misura  segmento  maggiore. 
E  facile  trasformare  questa  definizione.  Se,  per  semplicità, 
escludiamo  i  numeri  le  cui  cifre  decimali  sono  da  un  certo  punto 
in  poi  tutte  uguali  a  nove,  sostituendoli  con  altri,  le  cui  cifre 
decimali  sono  da  un  certo  punto  in  poi  tutte  uguali  a  zero, 
troviamo,  come  è  ben  noto: 

U  numero  p  è  maggiore  del  numero  q  se 

V  la  parte   intera  di  p  supera    la  parte    intera    di  q 
oppure,   se 

2*  le  parti  intere  di  p,  q  sono  uguali,  ma  la  prima  cifra 
decimale  di  p  supera  V omologa  di  q  oppure,  se 

3^  i  numeri  p,  q,  sono  legnali  fino  alle  n®^'"**  cifra  decimale, 
ma  la  (n  -h  i)®"'"*  cifra  decimale  di  p  supera  l'omologa  di  q. 

Non  insistiamo  sulle  altre  ben  note  proprietà  delle  disu- 
guaglianze. 

Secondo  le  nostre  convenzioni,  il  numero  non  è  che  un  simbolo  per  indicare 
il  rapporto  di  due  grandezze  di  una  stessa  classe  di  grandezze  (per  cui  si  può  porre 
il  problema  della  misura).  Cosicché  al  numero  e  all'algebra  dei  numeri  potremmo 


(*)  E  ciò  in  virtù  del  postulato  di  Archimede. 


8  CAPITOLO   I    —    §    2-3 

in  fondo  sostituire  il  concetto  di  un  tale  rapporto  e  l'algebra  dei  rapporti.  E  come 
simbolo  per  indicare  un  rapporto,  p.  es.,  delle  lunghezze  di  due  segmenti  potremmo 
addirittura  assumere  una  figura  composta  con  due  segmenti  uguali  ai  segmenti  dati. 

Ognuno  capisce  quanto  ciò  sarebbe  incomodo;  e  lo  studio  dei  rapporti,  così 
come  ha  svolto  Euclide,  indica  già  quanta  complicazione  ne  verrebbe  alla  teoria. 

Ma  non  è  detto  che  i  simboli  da  noi  introdotti  sieho  gli  unici  possibili.  Che 
si  possano  mutare  è  ben  evidente.  Basta,  p.  es.,  pensare  che  nel  nostro  sistema 
(decimale)  di  numerazione  il  numero  10  (il  numero  delle  dita  delle  due  mani)  ha 
un  posto  preponderante.  Se  noi  gli  sostituissimo  un  altro  numero  (è  stato  già  pro- 
posto il  numero  12)  come  base  del  sistema  di  scrittura  dei  numeri,  sarebbe  già 
cambiato  il  nostro  simbolismo. 

Osservazione  critica.  —  Il  presente  modo  di  esporre  la  teoria  dei  numeri 
irrazionali,  per  quanto  molto  semplice  sotto  molti  riguardi,  ha  però  l'inconveniente 
che  la  definizione  pare  dipenda  appunto  dal  numero  10  scelto  a  base  del  nostro 
sistema  di  numerazione.  Bisognerebbe  perciò  definire  l'uguaglianza  di  due  numeri 
(che  avessero  anche  infinite  cifre  dopo  la  virgola)  scritti  in  due  differenti  sistemi 
di  numerazione:  ciò  che  del  resto  non  presenterebbe  alcuna  difficoltà.  Se  p.  es.  si 
ammettesse  di  ricorrere  alla  misura  dei  segmenti,  due  taU  numeri  si  direbbero  uguali, 
quando  sono  misura  di  segmenti  uguah.  E  sarebbe  anche  molto  facile  trasformare 
questa  proprietà  in  una  proprietà  equivalente  di  carattere  puramente  aritmetico. 


§  3.  —  Limite  superiore  e   inferiore. 
Operazioni  sui  numeri  positivi. 

a)  Sia  G  una  classe  di  numeri  n  positivi.  Cerchiamo,  se  esiste, 
il  più  grande  di  questi  numeri,  che  noi  indicheremo  con  N, 
Evidentemente  la  parte  intera  di  N  dovrebbe  essere  la  più 
grande  delle  parti  intere  dei  numeri  ìi.  Distinguiamo  due  casi: 

A)  Tra  le  parti  intere  dei  numeri  n  non  ve  n'è  alcuna 
che  sia  più  grande  di  tutte  le  altre;  cioè,  preso  ad  arbitrio 
an  intero  K,  esiste  almeno  un  numero  ?^  di  G,  la  cui  parte 
intera  è  uguale  o  maggiore  di  K.  In  tal  caso  diremo  che  -h  oo  è 
il  limite  superiore  dei  numeri  n  di  (r  ;  frase  che  è  soltanto  un 
modo  di  dire  e  che  non  vuole  introdurre  affatto  l'infinito  come 
nuovo  ente  o  numero.  Si  suole  anche  dire  che  -f-  co  è  maggiore 
di  ogni  numero  (frase  che  anch'essa  è  soltanto  un  modo  di  dire). 
In  questo  caso  A  la  classe  G  non  contiene  un  numero  massimo 
(maggiore  di  tutti  gli  altri).  Esempi  di  questo  tipo  sono  le  classi 
di  tutti  gli  interi,  o  di  tutti  gli  interi  pari. 

B)  Tra  le  parti  intere  dei  numeri  n  di  ^  ve  ne  è  una 
massima;  esiste  cioè  un  intero  m,  tale  che  almeno  un  numero 
n  di  G  abbia  m  come  parte  intera,  ma  nessun  numero  di  G 
abbia  parte  intera  maggiore  di  m.  In  questo  caso  sia  nii  la 
massima  prima  cifra  decimale  di  quei  numeri  di  (/,  che  hanno  m 
come  parte  intera;  sia  m^  la  massima  seconda  cifra  decimale 
di  quei  numeri  di   (?,  che  hanno  m  per  parte  intera  ed  mi  per 


NUMERI    REALI 


prima  cifra  decimale;  sia  m^  la  massima  terza  cifra  decimale 
di  quei  numeri  di  G,  che  hanno  m  per  parte  intera  ed  mi  ,  m2 
rispettivamente  come  prima  e  seconda  cifra  decimale.  E  così  via. 
Noi  chiameremo  limite  superiore  dei  numeri  di  G  il  numero 
L^=m,mim2m2 ,  che  si  ottiene  scrivendo  dopo  m  le  suc- 
cessive cifre  decimali  mi ,  m^ ,  m^ , Evidentemente  il  numero 

cercato  N  coincide,  se  esiste,  con  questo  numero  L. 

Bi)  Può  avvenire  che  la  classe  G  contenga  tra  i  suoi 
numeri  il  numei-o  L.  Ciò  avviene  evidentemente,  p.  es.,  se  la 
classe  G  contiene  un  numero  finito  di  nutneri  n.  In  tal  caso 
L  è  proprio  il  massimo  numero  di  G,  che  noi  cercavamo. 

B2)  Può  invece  avvenire  che  il  numero  L  non  appartenga 
alla  classe  G,  Ciò  avviene,  p.  es.,  se  (r  è  la  classe  dei  numeri 
minori  di  2  ;  in  tal  caso  L  =  1,9999 =2,  che  non  appar- 
tiene a  G.  In  tal  caso  di  nuovo  la  classe  G  non  possiede  un 
numero  massimo  (questo,  se  esistesse,  coinciderebbe  con  L,  che 
viceversa  non  è  un  numero  di  G,  mentre  invece  N  dovrebbe 
essere  un  numero  di   G). 

Una  classe  G  di  numeri  possiede  in  ogni  caso  un  limite 
superiore  L.  Se  questo  appartiene  alla  classe  G,  esso  è  anche 
il  massimo  numero  di  G.  Se  esso  non  appartiene  a  G,  la  classe 
G  non  contiene  un  numero  massimo.  Se  L  non  è  -4-  00 ,  allora 
L  è  il  minimo  numero,  che  non  sia  superato  da  alcun  numero 
di  6^;  se  ^  è  un  intero  qualsiasi,  esiste  in  G  almeno  un  nu- 
mero che  coincide  col  limite  superiore  L  fino  alla  ^^''™^  cifra 
decimale  inclusa  H. 

Perciò  sono  possibili  tre  soli  casi: 

1"")  Non  vi  è  alcun  numero  maggiore  di  tutti  i  numeri 
di   G  (ossia  L  =  00); 

2')  Tra  i  numeri  di  G  ve  n'è  uno  L  massimo  (L  è  finito 
ed  appartiene  a  G^); 

3"")  Tra  i  numeri  positivi  maggiori  di  ogni  numero  di  G 
ve  n'è  uno  L  minimo  (L  è  finito  e  non  appartiene  a  G). 

Un  numero  decimale  illimitato  ^  è  il  limite  superiore  dei 
numeri  decimali  limitati,  che  se  ne  deducono  trascurando  le  cifre 

decimali  da  un  certo  punto  in  poi.    Così,  p.  es.,  0,3333 è 

il  limite  superiore  dei  numeri  0,3;  0,33;  0,333;  ecc. 

Se  oe:ni  numero  m  della  classe  G  soddisfa  alla  m  <  k,  oppure 
alla  m  ^  k,  oppure  alla  m  >  k,  oppure  alla  m^k  (dove  k  è  un 
numero  prefissato),  allora  il  limite  superiore  L  soddisferà  rispet- 

(*)  Sì  dimostra  che  il  limite  superiore  non  varia,  se  si  cambia  il  numero  assunto 
come  base  del  sistema  di  numerazione,  servendosi  delle  proprietà  qui  enunciate  peri. 


10  CAPITOLO   I   —   §    3 


tivamente  nei  primi  due  casi  alla  L^k,  nel  terzo  alla  L>  k, 
nel  quarto  alla  L^k.  Notiamo  in  particolare  che  alla  disu- 
guaglianza m  <k  per  i  numeri  m  di  G  corrisponde  per  il  limite 
superiore  L  la  disuguaglianza  attenuata  L  ^k. 

P)  Se  nelle  precedenti  considerazioni,  anziché  scegliere  la 
massima  parte  intera,  e  successivamente  le  massime  cifre  deci- 
mali, avessimo  scelto  la  minima  parte  intera,  e  successivamente  le 
minime  cifre  decimali,  avremmo  definito  il  limite  inferiore  l  di  G. 

Nessun  numero  di  G  è  minore  del  limite  inferiore  1,  il 
quale  è  il  più  grande  dei  numeri  che  non  superano  alcun 
numero  di  G.  Se  tra  i  numeri  di  G  ve  ne  è  uno  minimo,  e 
soltanto  in  tale  caso,  il  mimerò  1  appartiene  a  G,  e  coincide 
allora  con  tale  numero  minimo.  Se  k  è  un  intero  arbitrario, 
vi  è  in  G'  almeno  un  numero  uguale  ad  1  ahneno  fino  alla  k®""^* 
cifra  decimale.  Se  i  numeri  m  di  G  soddisfano  alla  m  >  h, 
allora  1  ^  h  ;  ecc.  ecc. 

Nei  casi  2^  e  3°  del  precedente  teorema  L  (che  è  finito)  è 
anche  il  limite  inferiore  della  classe  G'  formata  dai  numeri 
positivi  maggiori  di  ogni  numero  di  G.  Il  numero  Jj  o  è  il 
massimo  dei  numeri  di  G,  perchè  appartiene  a  G,  oppure  è  il 
minimo   dei  numeri  di  G',  perchè  appartiene  a  G'. 

Y)  La  somma  di  due  o  più  numeri  positivi  n,  m,  ...  è  il 
limite  superiore  della  classe  dei  numeri  {razionali)  ottenuta 
sommando  i  numeri  decimali  limitati  dedotti  da  n,m,  ...  tenendo 
conto  soltanto  di  un  numero  finito  di  cifre  decimali. 

Questa  definizione  è  la  più  naturale  estensione  del  teorema: 
La  somma  di  due  h  più  numeri  decimali  limitati  n,  m,  ...  è 
maggiore  del  numero  ottenuto  sommando  quei  numeri  che  si 
deducono  da  n,  m,  ...,  trascurando  le  cifre  decimali  a  partire 
da  un  certo  posto  in  poi. 

È  ben  noto  che  da  questa  definizione  si  deduce:  Se  il  seg- 
mento N  è  somma  di  più  segmenti  Ni,  N2,  ...,  la  misura  di  N 
è  eguale  alla  somma  delle  misure  dei  segmenti  Ni,  N2, ... 

Sono  ben  note  le  seguenti  proprietà  dell'addizione: 

n  -h  m  =  m  -^  n  (proprietà  commutativa) 

n-h{m-^p)=^n-hm-\-p  (proprietà  associativa). 

In  modo    perfettamente   analogo  si  definisce  il  prodotto  (*) 


(*)  Ricordo  che,  se  m,  n  sono  le  misure  della  base  ed  altezza  di  un  rettan- 
golo, il  prodotto  m  w  è  la  misura  dell'area  del  rettangolo,  quando  come  unità  di 
misura  delle  aree  si  scelga  il  quadrato,  il  cui  lato  è  l'unità  M  di  misura  delle 
lunghezze. 


NUMERI   REALI  11 


di  due  0  più  numeri  positivi  ;  e  si  dimostrano  poi  le  seguenti 
proprietà  fondamentali  della  moltiplicazione  : 

nm=^mn  (proprietà  commutativa) 

nmp  =^n{mp)  (proprietà  associativa) 

n  (m-h  p)  =n{m  -h  p)  (proprietà  distributiva). 

La  diiferenza  [quoziente]    di   due  numeri  n,  m  si  definisce 

poi  come  quel  numero  n  —  m  [quel  numero  —     che    sommato 

m  J 

con  in  [moltiplicato  per  m]  riproduce  il  numero  n. 

Esistono  regole  di  calcolo  numerico  per  eseguire  nel  modo  più  rapido,  ed 
evitando  calcoli  inutili,  le  operazioni  elementari  dell'aritmetica  sui  numeri  decimali 
limitati  od  illimitati,  quando  sia  prefissata  l'approssimazione,  che  si  esige  dal 
risultato  finale. 

Queste  regole  possono  essere  assai  utili  per  chi  abbia  da  eseguire  calcoli 
numerici.  E  il  loro  studio,  di  cui  qui  non  ci  possiamo  occupare,  perchè  estraneo 
all'argomento  di  questo  corso,  è  perciò  assai  raccomandabile  per  ogni  calco- 
latore. 

Restando  nell'ambito  dei  numeri  positivi  o  nulli,  si  può  par- 
lare della  diiferenza  n  —  m,  soltanto  se  n^m. 

Non  si  può  parlare  del  quoziente  —  se  m  ==  0. 

m 

Con  a;",  se  a:;  è  un  numero  positivo,  ed  w  >  1  è  un  intero 
positivo,  si  indica  il  prodotto  di  n  fattori  uguali  ad  x,  E  si 
pone  poi  a;^  =0;  ;  e,  se  ^'4-0,  :r^  =  1.  Il  simbolo  0^  si  consi- 
dera privo  di  significato. 

Se  ?^>  1  è  un  intero  positivo,  con  y x  si  indica  il  numero  y 
tale  che  ?/"  =  x  (*).  Se  x  aumenta,  aumenta  tanto  \si  ]/  x  quanto 

VI 

la  x^'.^^Se  m,  n  sono  interi  positivi  ed  n>  1,  con  x''  si  intende 
la  l/x"'  Se  poi  ^  è  un  numero  positivo  qualsiasi,  con  x^  si 
intende  il  limite  superiore  delle  potenze  x'^,  quando  q  sia  uno 
dei  numeri  ottenuti  da  p,  tenendo  conto  soltanto  di  un  numero 
finito  di  cifre  decimali  (deiresponente  p). 

E  noto  Che,  se  p,  q  sono  numeri  positivi  o  nulli  arbitrari, 
allora  : 


(*)  Si  può   dimostrare   l'esistenza   di  ij,   definendo  y  come  il  limite  superiore 
della  classe  formata  da  quei  numeri  2,  che  soddisfano  alla  s"  ^  x. 


12  CAPITOLO    I    —    §    4 


§  4.  —  Numeri  reali. 

Insieme  ai  numeri  positivi  l'algebra  considera,  come  è  noto, 
anche  i  numeri  negativi  ;  i  quali  con  le  seguenti  convenzioni, 
trovano  pure  applicazione  nel  problema  della  misura  dei  segmenti. 

r  >  a)  Una  retta  r  si  dice  orien- 

\  \  tata,  se  é  fissato   su   di  essa    un 

^  ^  verso  che  si  assume  come  positivo 

(nella  figura  e  in  quanto  segue  da  sinistra,  a  destra).  Un  segmento 
orientato  di  tale  retta  AB  %\  ritiene  percorso  nel  verso  dal 
punto  A  al  punto  5,  e  si  ritengono  distinti  i  segmenti  (orientati) 
AB^  BA  i  cui  versi  sono  opposti. 

Misura  algebrica  di  un  segmento  AB  di  r  è  il  rapporto  di 
tale  segmento  al  segmento  unitario,  preso  col  segno  -4-  o  col 
segno  — ,  secondo  che  il  verso  del  segmento  (il  verso  da  ^  a  5) 
coincide  col  verso  positivo  o  col  verso  negativo  di  r.  E  se  noi 
indichiamo  con  uno  stesso  simbolo  un  segQiento  e  la  sua  misura, 
e  per  convenzione  poniamo  in  generale  a  =  —  ( — a),  avremo 
AB  —  —  BA,AB-\-BA  =  ^.  Cioè: 

La  misura  di  un  segmento  cambia  di  segno  se  ne  invertiamo 
gli  estremi. 

I  numeri  razionali  o  irrazionali,  positivi  o  negativi,  fin  qui 
definiti,  hanno  ricevuto  complessivamente  il  nome  di  numeri  reali. 
Se  a  è  un  numero  reale,  con  |  a  |  ne  indichiamo  il  valore  asso- 
luto; indichiamo  cioè  con  |a|  lo  stesso  numero  a,  se  a  è  positivo 
e  il  numero  a  cambiato  di  segno,  se  a  è  negativo. 

P)  Due  segmenti  orientati  si  diranno  uguali,  se  hanno  lo 
stesso  verso  e  sono  uguali  dal  punto  di  vista  della  geometria 
elementare:  ossia  se  hanno  misure  uguali  e  dello  stesso  segno. 

Due  numeri  si  diranno  uguali  se  hanno  uguale  segno  e 
uguale  valore  assoluto.  I  numeri  negativi  si  considerano  minori 
di  zero  e  dei  numeri  positivi.  Di  due  numeri  negativi  si  consi- 
dera maggiore  quello  che  è  minore  in  valore  assoluto. 

Siano  dati  i  segmenti  e,  d;  preso  un  punto  qualsiasi  A  di  r, 
si  consideri  il  segmento  AB  uguale  (e  quindi  anche  ugualmente 
orientato)  a  e,  e  quindi  il  segmento  BC  uguale  (e  quindi  anche 
ugualmente  orientato)  a  d.  Il  segmento  AC  (ed  ogni  segmento 
ad  esso  uguale)  si  dirà  somma  dei  segmenti  e,  d.  Questa  defi- 
nizione coincide  evidentemente  con  la  solita,  quando  i  segmenti 
e,  d  sono  entrambi  positivi. 


NUMERI   REALI  13 


Diremo  poi  somma  di  due  numeri  x,  y  il  numero  che  misura  il 
segmento  somma  dei  due  segmenti  che  hanno  per  misura  x  oppure  y. 

Si  riconosce  facilmente  che: 

V  II  segno  della  somma  di  due  numeri  è  uguale  al  segno 
dell'addendo,  il  cui  valore  assoluto  è  più  grande, 

2°  Il  valore  assoluto  della  somma  di  due  numeri  è  uguale 
alla  somma  o  alla  differenza  dei  valori  assoluti  dei  due  addendi, 
secondo  che  questi  hanno  o  non  hanno  lo  stesso  segno. 

Queste  proprietà  potrebbero  servire  alla  definizione  puramente 
analitica  della  somma  di  due  numeri. 

Si  estendono  facilmente  queste  definizioni  alla  somma  di  piii 
numeri,  e  si  dimostrano  le  solite  regole  del  calcolo  algebrico. 

Se  A,B,C,  sono  tre  punti  qualsiasi  di  r,  è  per  definizione: 

AB-hBC=^AC=  —  CA,  ossia  AB-h  BC-hCA  =  0. 
Così  se  Al,  A2,  A^,  Ai  sono  punti  qualsiasi  di  r,  è  : 

Al  A.  H-  A.  A->  =  Al  A^  ;     Ai  A;  -h  A-,  ^4  -h  ^4  ^1  =  0 

donde  :  AiA.  -\-  A2  A^  -h  ^3  ^4  +  Ai  Ai  =  0. 

Più  in  generale,  se  Ai  A2 ,  An  sono  punti  qualsiasi  di  r, 

è  Al  A2  -+-  A2  A'i  -+- An-iAn  -H  ^n  ^1  =  0. 

E  questa  formola  vale  anche  se  i  punti  A  non  sono  tutti  distinti. 

Y)  Si  definisce  poi  il  prodotto  di  due  0  più  numeri  reali 
(fattori)  quel  numero  che  ha  per  valore  assoluto  il  prodotto  dei 
valori  assoluti  dei  fattori,  e  il  segno  -f-  0  il  segno  —  secondo 
che  vi  è  numero  pari  0  dispari  di  fattori  negativi. 

Si  definiscono  poi  la  sottrazione  e  la  divisione  come  le  ope- 
razioni inverse  deiraddizione  e  della  moltiplicazione,  estendendo 
quindi  le  solite  regole  del  calcolo  algebrico. 

Un  numero  a  è  minore  0  maggiore  di  un  altro  numero  6, 
secondochè  a  —  6  è  negativo  0  positivo. 

S)  E   poi  evidente  che   se  a,  h  sono  numeri   reali   qualsiasi 

\a±h\^\a\  -f-  |ò| 
|a±ò|^|a|  — 16| 
|a±6|^|  l\  —  \a\ 
\a  .  h\^\a\    ,    \h\. 


Se  h  i^  0,  allora 


a 


\h 


14  CAPITOLO   I   —   §    4 


e)  Se  G  è  una  classe  di  numeri  negativi  —  m,  e  se  L,  l, 
sono  i  limiti  superiore  e  inferiore  dei  numeri  m,  allora  —  Le  —  l 
si  dicono  rispettivamente  il  limite  inferiore  e  superiore  dei  numeri 
di  G,  Queste  definizioni  appariranno  spontanee  a  chi  pensi  che 
(secondo  le  proprietà  da  noi  ricordate)  di  due  numeri  negativi 
si  considera  come  minore  quello  che  è  maggiore  in  valore  as- 
soluto. 

Se  G  è  una  classe  che  contiene  sia  numeri  positivi  p,  sia 
numeri  negativi  n,  si  dirà  limite  superiore  (inferiore)  di  G  il 
limite  superiore  (inferiore)  dei  numeri  positivi  p  (negativi  n)  che 
appartengono  a  G, 

Anche  in  questo  caso  generale  si  può  ripetere  quanto  per 
tali  limiti  si  disse  al  §  3. 

Q  Se  G,  r  sono  due    classi   di   numeri    reali    tali    che   il 

limite  X  inferiore  di  G   coincida   con  il  limite  superiore  di  f, 

noi  diciamo  che  le  classi  G,  F  sono  contigue,  che  G  è  idi  classe 

superiore  e  che  X  è  il  numero  di  separazione  delle  due  classi. 

In  tal  caso  nessun  numero  di  G  può  essere  inferiore  ad  alcun 

numero  di  f;    e,  preso   un  intero    positivo  k  arbitrario,   esiste 

tanto  in   G   che  in   f  almeno  un  numero   che    coincide   con  X 

fino  alla  ^'""'"  decimale.  I  due  numeri  così  scelti  in  (r  e  in  f 

2 
diiferiranno  al  più  P^r—— y  • 

Viceversa,  se  nessun  numero  della  classe  G  è  inferiore  ad 
un  numero  della  classe  f,  e  se  per  ogni  numero  intero  posi- 
tivo k  esistono  un  numero  di  6^  e  un  numero  di  f,  la  cui  dif 

2        ,  - 

ferenza  non  supera  — -r-  ?  è  ben  evidente  che  le  classi  G,  \  sono 

contigue,  e  che  G^  è  la  classe  superiore. 

rf}  La  teoria  delle  potenze  e  delle  radici  rapidamente 
riassunta  al  §  3  si  estende  con  qualche  modificazione  ai  numeri 
negativi.  Così,  se  a:  è  negativo,  ed  n  intero  positivo,  la  a;"  è 
positiva  se  n  è  pari,  negativa  se  n  è  dispari.  Se  ne  deduce  che, 
se  w  è  pari  ed  a^  è  negativo,  il  simbolo  l/x  si  deve  considerare 
come  sprovvisto  di  significato  nell'attuale  campo  dei  numeri 
reali. 

E  se,  pure  essendo  n  pari,  la  a;  è  positiva,  il  simbolo  f/x  ha 
un  doppio  significato.  Perchè  se  y  è  un  numero  positivo  tale 
che  2/"  =  X,  cosicché  y  =  [/x,  anche  —  y  soddisfa  alla  ana- 
loga uguaglianza  ( — yy^=x,  cosicché  anche  — ?/ si  può  con- 


NUMERI   REALI  15 


siderale  come  radice  ^'""*"  della  x.  Salvo  però  avvertenza  con- 
traria,  col   simbolo  yx  indicheremo   sempre  la  radice  positiva. 

Se  n  è  dispari,  yx  ha  sempre  uno  e  uno  solo   significato. 
Secondo   tali   convenzioni   non    si    parlerà   mai  di  uua  pò- 

tenza  x**,  quando  x  è  negativo,  e  dei  due  numeri  interi  m,  n 
il  secondo  è  pari.  Né  parleremo  mai  di  una  potenza  x^  se  x 
è  negativo,  ^  è  irrazionale. 

Se  n  è  un  numero  negativo,  poniamo  x""  =  —zr:^  • 

X 

Vale  anche  nel  caso  attuale  la  formola 

in  tutti  i  casi  in  cui  i  simboli  a;^,  x^  hanno  un  significato. 

0)  Se  tre  numeri  a,  x^  y  sono  legati  dalla  a^  =  y,  noi  diremo 
che  a;  è  il  logaritmo  di  y  in  base  a,  e  scriveremo  x  =  Ioga  y- 
La  base  a  si  suppone  positiva  e  quasi  sempre  maggiore  di  1 
(anzi  assai  spesso  uguale  a  10).  Si  dimostra: 

1^  Ogni  numero  positivo  ?/  ^  0  ha  un  logaritmo  e  uno 
solo,  che  è  uguale  a  zero  per  ^  =  1,  è  uguale  ad  1  per  y  =  a, 
e  che  cresce  (se  a>  \)  al  crescere  di  y.  I  numeri  negativi 
non  hanno  logaritmo. 

2°  Se  h  ^l,  allora  Ioga  y  =^  Ioga  h  log^  y. 

3^    Loga  (Vi  ys)  =  Ioga  yi  -H  Ioga  «/2 

Ioga  —  =  Ioga  2/1  —  Ioga  ?/2  ;  loga  (y?)  =  m  lOga  ^/l- 

^2 


16  CAPITOLO    II    —    §    5 


CAPITOLO  IL 
APPLICAZIONI  GEOMETRICHE 


§  5.  —  Misura  (algebrica)  degli  angoli. 

a)  E  uso  universale  misurare  gli  angoli,  assumendo  ad  unità 
di  misura  il  grado:  che  di  solito  si  definisce  come  la  novan- 
tesima parte  di  un  angolo  retto  (e  soltanto  da  pochissimi  come 
la  centesima  parte  di  un  angolo  retto).  La  sessantesima  parte 
del  grado  dicesi  minuto  primo,  la  sessantesima  parte  di  un 
minuto  primo  dicesi  minuto  secondo. 

Se  poi  vogliamo  parlare  di  misura  algebrica  degli  angoli 
posti  nel  piano  del  foglio  col  vertice  in  0,  dovremo  cominciare 

ad  assumere  come  positivo  uno  dei  versi 
secondo  cui  può  rotare  un  raggio  di 
origine  0  intorno  ad  0  mantenendosi 
nel  piano  del  foglio  \  e  in  generale  as- 
sumeremo come  verso  positivo  il  verso 
Fig.  1.  contrario  a  quello  secondo  cui  si  muo- 

verebbero gli  indici  di  un  orologio  posto 
nel  piano  del  foglio  col  quadrante  rivolto  al  lettore  ;  questo  verso 
è  quello  che  trasporta  (nel  caso  della  fig.  1)  il  raggio  a  sul 
raggio  h  attraverso  l'angolo  acuto.  L'angolo  descritto  da  un 
raggio  (semiretta)  a,  che  ruota  attorno  alla  propria  origine  0, 
sarà  considerato  come  positivo  o  come  negativo  secondo  che  la 
rotazione  è  avvenuta  nel  verso  scelto  come  positivo  o  nel  verso 
opposto;  alla  misura  (p.  es.  in  gradi)  di  quest'angolo  premet- 
teremo nei  due  casi  rispettivamente  il  segno  -4-  o  il  segno  — . 
L'angolo  ab  [oppure  (a,  6)]  di  due  raggi  a,  ò,  aventi  l'origine 
comune  0,  sarà  poi  per  definizione  l'angolo  di  cui  primo  raggio  a 
deve  rotare  intorno  ad  0  per  sovrapporsi  al  secondo  raggio  ò. 
Quest'angolo  non  è  determinato,  ma  anzi  ha  infiniti  valori  : 
infatti,    se  un   giro   positivo   di  a  gradi  porta  a  in  6,  un  giro 


APPLICAZIONI    GEOMETRICHE  17 

negativo  di  360^  —  a  porta  ancora  a  in  6;  é,  poiché  un  giro 
di  it  ]{;  360^  {k  essendo  un  qualsiasi  intero  positivo)  porta  a  in  a, 
anche  un  giro  positivo  di  k  360°  -{-  a,  oppure  un  giro  negativo 
di  360""  —  a +  ^360°  porta  a  in  6.  Quindi,  se  a  è  la  misura 
(algebrica)  di  (a,  6)  in  gradi,  a  -f-  /^  360°  sono  altrettanti  valori 
della  misura  dello  stesso  angolo,  qualunque  sia  l'intero  /^  positivo 
0  negativo  ;  e  viceversa,  se  a  è  un  valore  di  (a,  6)  tutti  gli  altri 
valori  di  (a,  h)  differiscono  da  a  per  un  multiplo  di  —  360*^. 
Noi  considereremo  naturalmente  questi  infiniti  valori  come  equi- 
valenti, ossia  considereremo  come  equivalenti  due  angoli  a  e  p, 
quando  la  loro  differenza  è  un  multiplo  di  360°  e  scriveremo 
in  tal  caso  a  ^  p,  e  anche  talvolta  a  =  p. 

Se  è  nota  la  posizione  di  un  raggio  a  uscente  da  0,  la 
posizione  di  ogni  altro  raggio  h  uscente  da  0  è  determinata, 
quando  si  conosca  un  valore  dell'angolo  (a,  h).  E  poi  evidente 
che  se  a,  h  sono  due  raggi  aventi  la  stessa  origine  0  e  se  con 
un  giro  di  a  gradi  intorno  ad  0  (essendo  a  numero  positivo  o 
negativo  qualunque)  il  raggio  a  si  sovrappone  a  6,  con  un  giro 
uguale  ma  di  segno  contrario  il  raggio  h  si  sovrappone  ad  a, 
cosicché; 

A  A      . 

(a,  &)  ^  —  (6,  a)  ossia  ab  -^  ba^:^  0. 

Se  a,  6,  e  sono  tre  raggi  posti  nello  stesso  piano  ed  aventi 
la  stessa  origine  0,  se  un  giro  di  a  gradi  porta  a  nel  raggio  b, 
e  un  giro  di  ^  gradi  porta  b  nel  raggio  e,  allora  un  giro  di 
a  -h  ^  gradi  porterà  a  in  e:  quindi 

{a,  b)  -4-  (ò,  e)  ^  {a,  e)  ;  (a,  b)  -+•  (ò,  e)  -f-  (e,  a)  ^  0, 
(a,  ò)  =  (e,  b)  —  (e,  a)  ;  (6,  a)  =  (e,  a)  —  (e,  è). 

In  generale  se  ai,  ^2,  «3, ,  «,^  _i,  an  sono  raggi  posti  nello 

stesso  piano  ed  uscenti  da   0  si  avrà: 

(ai,  ^2)  +  (ao,  ^3)4- 4-  (a„_i,  aj  -4-  (an,  ai)  =  0. 

^)  Se  A,  B  sono  due  punti,  per  raggio  A  B  intenderemo 
sempre  il  raggio  uscente  da  ^  e  contenente  B. 

Siano  ora  r,  r  due  rette,  su  ciascuna  delle  quali  è  fissato 
il  verso  positivo,  che  si  incontrino  in  un  punto  0:  se  i^,  R'  sono 
due  punti  di  r,  r  tali  che  i  segmenti  OR,  OR'  siano  positivi, 
Tangolo  (r,  r)  sarà  per  definizione  l'angolo  dei  raggi  OR,  OR' . 

Se  r,  r  non  s'incontrano,  e  se  OR,  O'R!  sono  due  segmenti 
positivi  di  r,  r,  per  angolo  (rr)  s'intende  l'angolo  del  raggio  OR 
col  raggio   OS  parallelo  ad  r   ed  avente  la  stessa  orientazione 

2  —  G.  FUBINI,  Analisi  matematica. 


18  CAPITOLO    II    —    §    5 


di  /  (vale  a  dire  tale  che  i  segmenti  0'R\  OS  cadano  da  una 
stessa  banda  della  retta  00'). 

Se  r  indica  una  retta,  su  cui  è  fissato  un  certo  verso  come 
positivo,  si  suole  indicare  con  —  r  la  stessa  retta,  in  cui  si  sia 
invertito  il  verso  considerato  come  positivo;  sono  evidenti  allora 
le  seguenti  uguaglianze: 

(r,  r)  -f-  (r,  —  r)  =  (r,  —  r)  =  180° 
ossia  (r,  r)  ^  180°  -4-  ( —  r,  r). 
Similmente  si  trova: 
(r,  r)  ^  180°  -h  (r,  : —  r)         ( —  r,  —  /)  ^  (r,  r'). 

Y)  Come  unità  di  misura  degli  angoli  è  però  teoricamente 
preferibile  un'altra  unità  di  misura,  che  sarà  ora  definita  e  che 
verrà  sempre  adottata  in  questo  libro. 

Sia  a  un  angolo  qualsiasi  di  vertice  C:  si  descriva  una 
circonferenza  avente  il  centro  C,  il  raggio  R  arbitrario,  e  sia 
?  la  lunghezza  dell'arco  di  circonferenza  sotteso  dall'angolo  (al 

S 
centro)  a.  Il  rapporto  —  è  uguale  alla  lunghezza  di  detto  arco, 

quando  si  assuma  come  unità  di  misura  delle  lunghezze  il  raggio  R. 
Questo  rapporto  non  varia  al  variare  di  R  (perchè  archi  di  cerchi 
concentrici  sottesi  da  uno  stesso  angolo  al  centro  hanno  lun- 
ghezze proporzionali  al  raggio  del  cerchio  su  cui  giacciono)  ed 
è  proporzionale  all'angolo  a.  Noi  assumeremo  questo  rapporto 
come  misura  dell'angolo  a  e  chiameremo  radiante  l'angolo  che 
in  questo  sistema  di  misura  ha  per  misura  1  ;  il  radiante  sarà 
quindi  Tangolo  che  sottende  un  arco  di  lunghezza  uguale  al 
raggio.  Se  a  =11  360^,  l'arco  di  cerchio  corrispondente  è  uguale 
all'  intera  circonferenza  e  ha  per  lunghezza  P  =  2  tc  i^  ;  quindi 
l'angolo  di  360°,  misurato  in  radianti,  ha  per  misura 

2nR       ^ 

-^  =  ^"- 
Due  angoli  sono  equivalenti  se  le  loro  misure  in  gradi  dif- 
feriscono per  un  multiplo  di  360°.    Poiché  in  radianti  l'angolo 
di  360°  ha  per  misura  2  n,  due  angoli  saranno  equivalenti,  se 
le  loro  misure  in  radianti   differiscono  per  un    multiplo  di  2  7^. 

Un   angolo    piatto    ha    in  gradi  la  misura  — -  =  180;  in 

radianti    esso   ha    quindi   per   misura  n;  l'angolo  retto  ha  per 

n  n 

misura  -,  l'angolo  di, 45°  ha  per  misura  — -. 


APPLICAZIONI    GEOMETRICHE 


19 


Se  x^  y  sono  le  misure  di  uno  stesso  angolo  rispettivamente 
in  radianti  e  in  gradi,  si  avrà: 

x_ 2tc 

""360 


TC 


y 


180 


L'angolo  di  un  radiante  vale  in  gradi  180 :7c  =  57,2957795, 

cioè  vale  minuti  secondi  206264,8 ;  perciò,  se  9  è  la  misura 

in  radianti  di  un  angolo  e  a''  la  sua  misura  in  minuti  secondi 
sarà  con  grande  approssimazione  cp  :  a"  =  1 :  206265". 

5)    Se   :r    è    la    misura    di    un    angolo    acuto    in    radianti 


TU 


(quindi  0  <  a;  <  -^)  allora  si  ha 


sen  X 


x<\>^x. 

Sia  AOB  l'angolo  x  e  sia  OC  la  retta  sim- 
metrica di  OB  rispetto  ad  OA  ;  sarà  COB  =  2x. 
Sia  BAC  il  cerchio  di  centro  0  e  di  raggio  1. 
Sarà  (fig.  2)  arco  AB  =  arco  CA^=^x; 

arco  CAB  =  2x;  segmento  AH^=  igx]  seg- 
mento MB=^  CM=^  sena;;  segmento  CB  =  2 sena;. 

Poiché  :  segmento  CB  <  arco  CAB ,  sarà 
2  sen  X  <  2  a:,  ossia  sen  x  <  x. 

D'altra  parte:  area  triangolo  OHK^=  OA.AH 

=^tgx;  area  settore  OC  AB  =^ 

OA 

——  '    Arco  CAB  =  x. 

Poiché:  area  triangolo  OHK>  duesi  settore  OC  AB,  sarà 
tgx>  X.  Le  disuguaglianze  così  ottenute  dimostrano  comple- 
tamente il  nostro  teorema. 

Se  y  è  l'ampiezza  in  gradi  di  un  angolo,  la  cui  misura  in 

-..  .        V  ^  '^  .V  '^ 

radianti  e  x,  sarà  x  =  ---_-r  y  ;  perciò  sen  y  <  — — -  y  <tg  y. 


Fig.  2. 


180 


180 


§  6.  —  Coordinate  di  un  punto  di  una  retta. 

a)  Sia  r  una  retta  orientata,  su  cui  cioè  si  é  scelto  come 
positivo,  p.  es.,  il  verso  da  sinistra  a  destra. 

-^  "^  Fissiamo  sopra  la  retta  un  punto  0, 

0— < j_  che  chiameremo  l'origine;  la  posi- 
zione di  un  punto  qualsiasi  ^  di  r  é  determinata  quando  si 
conosca  la  misura  del  segmento  OA  in  valore  assoluto  e  in  segno 


20  CAPITOLO   II   — 


(il  quale  segno  sarà  -f-  oppure  —  secondo  che  A  si  trova  a 
destra  od  a  sinistra  di  0):  così,  se  p.  es.  OA  =  -}-  3^  il  punto  A 
è  quel  punto  di  r,  posto  a  destra  dell'origine  0  che  ne  dista 
il  triplo  dell'unità  di  lunghezza;  se  OA  =  —  5,  ^  è  quel  punto 
di  r  posto  a  sinistra  di  0,  la  cui  distanza  da  0  è  il  quintuplo 
dell'unità  di  lunghezza. 

In  generale  la  misura  del  segmento  OA  si  chiama  la  coor- 
dinata ài  A  e  si  indica  di  solito  con  una  delle  lettere  x,  y,  z  ... 

L'origine  0  è  l'unico  punto  della  retta  r  che  abbia  la  coor- 
dinata nulla;  poiché  un  punto  di  r  ha  una  coordinata  perfet- 
tamente individuata,  e  viceversa  ad  ogni  valore  della  coordinata 
corrisponde  uno  (e  un  solo)  punto  di  r,  vi  è  una  corrispondenza 
biunivoca  senza  eccezione  tra  i  valori  della  coordinata  ed  i 
punti  di  r. 

|3)  Se  A,  B  sono  due  punti  di  r,  le  cui  coordinate  sono  rispet- 
tivamente Xi ,  Xo  sarà  : 

OA^=Xi,    0B=^X2,    A0  =  —  Xi,    B0^=  —  X2. 

Ma  AB  =^  OB  —  OA  ;  quindi  la  misura  del  segmento  AB, 
i  cui  estremi  ^,  ^  hanno ,  rispettivamente  le  coordinate  a^i,.r2, 
è  X2  —  Xi  (in  valore  assoluto  e  in  segno). 

Se  X2 —  Xi  è  positivo,  ossia  se  X2  >  Xi,  allora  il  segmento  AB 
è  positivo,  ossia  A  giace  a  sinistra  di  ^;  se  invece  xo — Xi 
è  negativo,  ossia  X2<Xi,  allora  A  giace  a  destra  di  B;  ciò 
che  è  intuitivo  per  la  definizione  stessa  di  coordinata.  I  punti 
del  segmento  AB  sono  i  punti,  le  cui  coordinate  sono  comprese 
tra  Xi  ed  X2;  ^  se  p.  es.  Xi<^X2,  essi  sono  i  punti  x'  per  cui 
a^i  ;^  X  ^  0:^2 . 

Se  Al,  A2,'..  An  sono  punti  di  r  di  coordinate  a^i,  .T2,  ...,  ^n, 
avrà  luogo  l'identità: 

(x2  —  Xi)  -f-  (x3  —  X2)  -h  (x4  —  ^^3)  4-  + 

4-   (Xn  Xn-l)  -h  (Xi  Xn)  =  0 

che  equivale  alla  A1A2  -f-  AoA^  -h -H  An  -lAn  -I-  AnAi  =  0 

dimostrata  nel  §  4,  P  (pag.  13). 

Y)  Noi  spesso  identificheremo  un  valore  della  variabile  x  col 
punto  di  coordinata  x;  così,  p.  es.,  diremo  il  punto  a  anziché 
dire  il  numero  a;  viceversa  diremo  talvolta  il  numero  a  per  indi- 
care il  punto  A,  tale  che  il  segmento  OA  abbia  per  misura  a. 

La  relazione  biunivoca,  da  noi  così  determinata  tra  i  numeri 
dell'aritmetica  ed  i  punti  di  una  retta,  permette  di  trasformare 
proprietà  geometriche  in  teoremi  aritmetici  e  viceversa. 


APPLICAZIONI    GEOMETRICHE 


21 


/. 


Aree  e  volumi. 


Quando  si  studia  in  geometria  elementare  il  problema  della 

misura  dell'area  o  del  volume  di  una  figura  piana  (*)  o  solida, 

si  sceglie  un  poligono  o  un  poliedro  come  unità   di  misura  ;    il 

quale  (secondo  l'uso  universale)  è  il  quadrato  o  il  cubo,  il  cui 

lato  è  l'unità  di  misura  delle  lunghezze. 

Osservazioni.  —  Nonostante  la  scrittura  in  doppia  colonna,  il  rigore  richiede 
che  la  trattazione  qui  svolta  per  i  volumi  segua  quella  svolta  nella  prima  colonna 
per  le  aree  delle  figure  piane. 


Nelle  matematiche  elemen- 
tari è  definita  Varea  di  ogni 
poligono  (**)  che  è  un  numero 
positivo  soddisfacente  alle  se- 
guenti proprietà: 

V)  Foligoni  uguali  hanno 
aree  uguali, 

2"")  Se  il  poligono  P  è 
somma  dei  poligoni  Pi,  P2,  Va- 
rea di  P  è  somma  delle  aree  dei 
poligoni  Pi ,  P2 .  Da  cui  segue  : 

3"*)  Se  il  poligono  Pi  è 
contenuto  in  P,  Varea  di  Pi 
non  supera  Varea  di  P. 

Possiamo  noi  definire  Varea 
di  figure  piane  più  generali  dei 
poligoni?  Ecco  il  problema  che 
vogliamo  esaminare.  Natural- 
mente dobbiamo  porre  una  defi- 
nizione che  conservi  all'area  di 
figure  piane  più  generali  dei 
poligoni  le  proprietà  su  accen- 
nate per  le  aree  dei  poligoni  : 
proprietà  del  resto  comuni  alle 


Nelle  matematiche  elemen- 
tari è  definito  il  volume  di  ogni 
pluricilindro  (***)  che  è  un  nu- 
mero positivo  soddisfacente  alle 
seguenti  proprietà: 

1"*)  Fluricilindri  uguali 
hanno  volumi  uguali. 

2**)  Se  il  pluricilindro  P 
è  somma  dei  pluricilindri  Pi, 
P2,  il  volume  di  P  è  somma 
dei  volumi  di  Pi,  P2.  Ne  segue: 

S"*)  Se  il  pluricilindro  Pi 
è  contenuto  in  P,  il  volume  di 
Pi  7ion  supera  il  volume  di  P. 
Possiamo  noi  definire  i  vo- 
lumi di  solidi  più  generali  dei 
pluricilindri?  Ecco  il  problema 
che  vogliamo  esaminare.  Natu- 
ralmente dobbiamo  porre  una  de- 
finizione che  conservi  al  volume 
delle  figure  solide  più  generali 
dei  pluricilindri  le  proprietà  su 
accennate  per  i  volumi  dei  plu- 
ricilindri:   proprietà   del    resto 


(*)  Qui  e  nel  seguito  usiamo  la  parola  figura  piana  (sarebbe  più  preciso  dire 
dominio  connesso)  (cfr.  l'oss.  critica  in  fine  del  §  7). 

Nei  casi  più  comuni  delle  applicazioni  si  tratta  di  figure  limitate  da  tratti  di 
rette,  cerchi,  ellissi,  ecc. 

Osservazioni  analoghe  valgono  per  i  solidi  di  cui  ci  occuperemo. 

(**)  Vedremo  che  sovente  potremmo  parlare  soltanto  di  plurirettàngoli  (cioè 
poligoni  somma  di  un  numero  finito  di  rettangoli  parziali).  Ciò  che  rende  più  evi- 
dente ancora  l'analogia  tra  i  due  problemi  :  quello  della  misura  delle  aree,  quello 
della  misura  dei  volumi. 

(***)  Si  potrebbe  anche  parlare  di  pii-amidi,  0  di  poliedri.  Ma  per  noi  basta 
parlare  di  pluricilindri  (cioè  di  un  solido  somma  di  un  numero  finito  di  cilindri). 


22 


CAPITOLO   II 


§   7 


misure  delle-  grandezze  di  una 
specie  qualunque. 

Osserviamo  che,  se  i^  è 
una  figura  piana,  la  quale  con- 
tiene un  poligono  p  ed  è  sl  sua 
volta  contenuta  in  un  altro 
poligono  P,  e  se  F  possiede 
un'area  che  goda  di  proprietà 
analoghe  alle  precedenti,  biso- 
gnerà che  tale  area  di  F  sia 
definita  come  un  numero  non 
minore  dell'area  di  p,  né  mag- 
giore dell'area  di  P. 

Guidati  da  questa  osserva- 
zione noi  converremo  di  parlare 
di  area  di  una  figura  piana  F 
soltanto  se  esistono  tanto  dei 
poligoni  p  tutti  contenuti  in  F, 
quanto  dei  poligoni  P  conte- 
nenti F  (*). 

E  per  area  di  F  intende- 
remo un  numero  che  non  sia 
minore  delle  aree  di  un  p,  né 
maggiore  delle  aree  di  un  P. 
In  altre  parole  l'area  di  F 
dovrà  almeno  essere  uguale  al 
limite  superiore  X  delle  aree  dei 
p  e  al  pili  essere  uguale  al 
limite  inferiore  A  delle  aree 
dei  P  (È  evidentemente  X^A). 

Ma  noi  vogliamo  che  l'area 
di  F  sia  completamente  deter- 
minata da  F  (**).  Il  caso  più 
elementare  in  cui  questo  avviene 
(Peano-Jordan)  é  il  caso  che 
X  r=  A,  ossia  che  le  aree  dei  p 
e  quelle  dei  P  formino  due  classi 
contigue.  In  questo  caso  (che 
è  l'unico  considerato  in  questo 


comuni  alle  misure  delle  gran- 
dezze di  una  specie   qualsiasi. 

Osserviamo  che,  se  F  è  una 
figura  solida  qualsiasi,  la  quale 
contiene  un  pluricilindro  ^  ed  é 
a  sua  volta  contenuta  in  un 
altro  pluricilindro  P,  e  se  F 
possiede  un  volume  che  goda 
di  proprietà  analoghe  alle  pre- 
cedenti, bisogna  che  tale  volume 
di  F  sia  definito  come  un  nu- 
mero non  minore  del  volume  di 
p,  né  maggiore  del  volume  di  P. 

Guidati  da  questa  osserva- 
zione noi  converremo  di  parlare 
di  volume  di  una  figura  solida 
F  soltanto  se  esistono  tanto 
dei  pluricilindri  p  tutti  conte- 
nuti in  F,  quanto  dei  plurici- 
lindri P  contenenti  P(*). 

E  per  volume  di  F  inten- 
deremo un  numero  che  non  sia 
minore  del  volume  di  un  p,  né 
maggiore  del  volume  di  alcun  P 
In  altre  parole  il  volume  di  F 
dovrà  almeno  essere  uguale  al 
limite  superiore  X  dei  volumi 
dei  p  e  al  più  essere  uguale 
al  limite  inferiore  A  dei  volumi 
dei  P.  (È  evidentemente  X:^  A). 

Ma  noi  vogliamo  che  il  vo- 
lume di  F  sia  completamente 
determinato  da  P  (**).  Il  caso 
piti  elementare  in  cui  questo 
avviene  (Peano-Jordan)  è  il  caso 
che  X  =:  A  ossia  che  i  volumi 
dei  p  e  quelli  dei  P  formino 
due  classi  contigue.  In  questo 
caso  (che  è  l'unico  considerato 


(*)  Cioè  ogni  punto  interno  a  ^  è  interno  ad  F,  ed  ogni  punto  interno  ad  F 
è  interno  a  P. 

(=^*)  Naturalmente  se  è  prefissata  l'unità  di  misura. 


APPLICAZIONI   GEOMETRICHE 


23 


libro)  le  precedenti  osservazioni 
bastano  a  definire  completa- 
mente Varea  di  F  come  il 
numero  X  =  A  di  separazione 
tra  la  classe  delle  aree  dei  p, 
e  la  classe  delle  aree  dei  P. 

Noi  parleremo  dunque  di 
area  di  una  figura  F,  soltanto  se 
esistono  poligoni  p  contenuti  in 
F,  e  poligoni  P  contenenti  F; 
e  se  inoltre  le  classi  delle  loro 
aree  sono  contigue.  Il  numero 
X  =  A  di  separazione  delle  due 
classi  si  dirà  Varea  di  F. 

Questa  definizione  non  è  che 
la  naturale  estensione  della  defi- 
nizione, che  nelle  matematiche 
elementari  si  dà  per  Varea  o 
di  un  cerchio  8,  Ivi  infatti  tale 
area  a  viene  definita  come  il 
numero  che  separa  le  classi  con- 
tigue formate  dalle  aree  dei  poli- 
goni p  tutti  interni  a  iS^,  e  dei 
poligoni  P  che  comprendono  il 
cerchio  S  all'interno  (*). 


in  questo  libro)  le  precedenti 
osservazioni  bastano  a  definire 
completamente  il  volume  di  F 
come  il  numero  "k  •=  A  di  sepa- 
razione tra  la  classe  dei  volumi 
dei  p,  e  la  classe  dei  volumi  dei  P. 

Noi  parleremo  dunque  di 
volume  di  una  figura  F,  sol- 
tanto se  esistono  pluricilindri  p, 
contenuti  in  F,  e  pluricilindri  P 
contenenti  F;  e  se  inoltre  le 
classi  dei  loro  volumi  sono  con- 
tigue. Il  numero  X  =  A  di  se- 
parazione delle  due  classi  si 
dirà  il  volume  di  F. 

Questa  definizione  non  è  che 
la  naturale  estensione  della  defi- 
nizione che  nelle  matematiche 
elementari  si  dà  per  il  volume  o 
di  una  sfera  S.  Ivi  infatti  tale 
volume  a  viene  definito  come  il 
numero  che  separa  le  classi  con- 
tigue formate  dai  volumi  dei  plu- 
ricilindri p  tutti  interni  ad  S,  e 
dei  pluricilindri  P  che  compren- 
dono la  sfera  S  all'interno  (**). 


(*)  Si  noti  ancora  che  nel  caso  del  cerchio  S  ì  poligoni  p  si  suppongono 
inscritti  in  S,  ì  poligoni  P  circoscritti.  E  ciò  perchè  i  poligoni  inscritti  in  S  sono 
interni  ad  S,  ì  poligoni  circoscritti  ad  S  contengono  S  all'interno.  Nel  caso  gene- 
rale non  si  può  più  parlare  di  poligoni  inscritti  e  circoscritti  ;  perchè  (anche 
ammessa  l'esistenza  di  tali  poligoni)  i  poligoni  p  inscritti  possono  essere  non  tutti 

interni  a  ;S^,  e  i  poligoni  P  circoscritti  pos- 
sono non  contenere  S  tutto  all'interno, 
come  dimostrano  le  seguenti  figure  3-4. 


Fig.  3. 


Fig.  4. 


(**)  Veramente  nei  trattati  elementari  ci  si  limita  a  considerare  generalmente 
dei  pluricilindri  inscritti  o  circoscritti  (cfr.  Nota  precedente). 


24 


CAPITOLO    II 


§7 


È  poi  evidente  che  Varea 
così  definita  gode  delle  proprietà 
enunciate  sopra  a  pag.  21  (*). 

Queste  proprietà  sono  del 
resto  insite  nel  fatto,  che  le 
precedenti  considerazioni  trat- 
tano il  problema  della  misura 
di  una  classe  particolare  di 
grandezze. 

Se  invece  fosse  A  >  X,  il 
numero  A  si  potrebbe  chiamare 
l'area  esterna,  il  numero  a  l'area 
interna  della  figura  considerata. 
Questi  due  numeri  godono,  come 
è  evidente,  di  alcune,  ma  non 
di  tutte  le  proprietà  dell'area 
nel  senso  elementare  (sopra  de- 
finito) della  parola.  Noi  lo  prove- 
remo nel  modo  esposto  in  fine  al  §. 


È  poi  evidente  che  il  volume 
così  definito  gode  delle  proprietà 
enunciate  sopra  a  pag.  21  (*). 

Queste  proprietà  sono  del 
resto  insite  nel  fatto,  che  le 
precedenti  considerazioni  trat- 
tano il  problema  della  misura 
di  una  classe  particolare  di 
grandezze. 

Se  invece  fosse  A  >  X,  il 
numero  A  si  potrebbe  chiamare 
il  volume  esterno,  il  numero  X 
il  volume  interno  d-ella  figura 
considerata.  Questi  due  numeri 
godono,  come  è  evidente,  di 
alcune,  ma  non  di  tutte  le  pro- 
prietà del  volume  nel  senso  ele- 
mentare (sopra  definito)  della 
parola. 


Sia  C  un  cilindro  avente  per 
base  una  figura  piana  F  e  per 
altezza  un  segmento  di  misura 
^(**).  Chiameremo  volume  di  C 
un  numero  maggiore  dei  volumi 
dei  prismi  di  uguale  altezza  h 
aventi  per  base  un  poligono  p 
(prismi  che  sono  contenuti  in  C) 


(*)  Infatti  sia  F,  p.  es.,  una  figura  piana  somma  di  due  figure  i^, ,  Fa  senza 
punti  interni  comuni.  Tra  i  poligoni  p  interni  ad  F  vi  sono  quelli  (ad  uno  o  più 
pezzi),  che  sono  somma  di  un  poligono  p^  relativo  ad  JP,,  e  di  un  poligono  p.y 
relativo  ad  F^.  Quindi  il  limite  superiore  /  delle  aree  dei  poligoni  i?  vale  almeno 
la  somma  dei  limiti  superiori  ^, ,  >.2  delle  aree  dei  poligoni  29,,P2»  cioè  >-^',-+->2- 
Sia  P,  un  poligono  che  contiene  F^  all'interno,  e  P,  un  poligono  analogo  per  F^; 
sia  7T  la  parte  comune.  Il  poligono  P,  +  P2  —  ^  contiene  i^  all'interno,  ed  è  perciò 
un  poligono  P  relativo  ad  F.  La  sua  area  non  supera  la  somma  delle  aree  dei 
poligoni  Pi,P2.  Perciò,  sommando  insieme  l'area  di  un  poligono  Pf  con  l'area 
di  un  poligono  P^,  si  trova  un  numero,  che  non  è  inferiore  all'area  di  qualche 
poligono  P  relativo  alla  figura  F.  Quindi  il  limite  inferiore  A  delle  aree  dei  poli- 
goni P  non  può  superare  la  somma  a,  +  a^  dei  limiti  analoghi  per  Fi,  F^. 
Perciò  A,  -f.  A^  ^  A  ^  /  ^  >,  4-  :^2-  Poiché  >,  =  a,  ,  /^  ==  a^  per  ipotesi,  sarà 
A,  +  Ag  =  /,  H-  /2  =  A  zz:  /,  come  volevasi  provare. 

(**)  È  noto  che,  se  71  è  il  piano  della  figura  F,  allora  C  è  il  luogo  dei  punti 
posti  da  una  stessa  banda  di  -,  i  quali  distino  da  r:  non  più  di  Ji,  e  che  abbiano 
per  proiezione  su  ^  un  punto  di  F, 


APPLICAZIONI   GEOMETRICHE  25 


e  minore  dei  volumi  dei  prismi 
di  uguale  altezza  h  e  aventi  per 
base  un  poligono  P  (prismi  con- 
tenenti C).  I  volumi  di  tali 
prismi  sono  dati  dal  prodotto 
di  h  rispettivamente  per  l'area 
della  base  p  e  P.  Quindi,  con 
le  notazioni  precedenti,  il  vo- 
lume di  C  sarà  non  minore 
ài  "kh  e  non  maggiore  di  Ah. 
Se  la  base  F  ha  un'area,  se 
cioè  X  =  A,  il  volume  di  C  sarà 
Xh  =2  A /^,  cioè  sarà  dato  dal 
prodotto  delV area  della  ha  se  per 
la  misura  dell'altezza.  Noi  con- 
sidereremo nel  seguito  soltanto 
cilindri  la  cui  base  ha  un'area. 
Diremo  pluricilindro  un  solido, 
che  si  possa  decomporre  in  un 
numero  finito  di  cilindri,  e  suo 
volume  la  somma  dei  volumi 
dei  cilindri  parziali. 

Ecco  una  proprietà  delle  aree,  che  vale  anche  per  le  aree  esterna  ed  interna. 

Se  i  punti  comuni  a  due  figure  piane  F, ,  Fg  formano  un  segmento  rettilineo  r, 
ed  F, ,  F2  giacciono  da  hande  opposte  rispetto  ad  r,  l'area  esterna  (interna) 
della  figura  F  =  Fi  -f  Fj  vale  la  somma  delle  aree  esterne  (interne)  delle  F, ,  Fg. 

Per  l'area  interna  si  osservi  che  un  poligono  p  tutto  interno  ad  J^  è  diviso 
da  r  in  due  poligoni  p,,^^  interni,  rispettivamente  aJP, ,  J^2-  E  viceversala  somma 
di  due  tali  poligoni  ^, ,  p.^  si  può  considerare  come  un  poligono  p  (eventualmente 
non  connesso)  interno  ad  F.  Tanto  basta  per  asserire  che  il  limite  superiore  del- 
l'area dei  p  (area  interna  di  F)  vale  la  somma  dei  limiti  superiori  delle  aree 
dei  Pi ,  Pi  (cioè  delle  aree  interne  di  F^,  F^). 

Una  dimostrazione  analoga  vale  per  le  aree  esterne.  Si  osservi  a  tal  fine  che 
l'area  esterna  di  F,  (per  i  =  l,2)  si  può  definire  come  il  limite  inferiore  delle  aree 
dei  poligoni  Pi  contenenti  Fi  all'interno  e  posti  rispetto  ad  r  dalla  stessa  banda 
di  Fz.  Per  tali  poligoni  P, ,  P2  e  per  i  poligoni  P  contenenti  F  all'interno  si  pos- 
sono svolgere  considerazioni  analoghe  alle  precedenti  relative  Sip,Pi,P2. 

Osservazioni  critiche. 

Il  concetto  intuitivo  di  dominio  si  può  precisare  nel  modo  seguente,  in  cui 
per  brevità  ci  riferiremo  a  domimi  piani  (cfr.  la  prima  nota  a  pie  di  pag.  21). 

Sia  C  una  classe  di  punti.  Sia  A  un  punto  di  questa  classe.  Noi  diremo  che 
esso  è  interno  a  C,  se  esiste  un  cerchio  di  centro  A^  i  cui  punti  appartengono 
tutti  a  C;  diremo  che  un  punto  B  non  appartenente  a  C  è  esterno  a  C,  se  esiste 
un  cerchio  di  centro  B,  nessun  punto  del  quale  appartiene  a  C. 

Diremo  che  un  punto  L  del  piano  appartiene  al  contorno  di  C,  se  in  ogni  cerchio 
di  centro  L  esistono  sia  punti  che  appartengono,  sia  punti  che  non  appartengono  a  C. 


26  CAPITOLO   II  —  §  7  —  APPLICAZIONI   GEOMETRICHE 

Diremo  che  una  classe  C  di  punti  del  piano  è  un  dominio  se  : 

a)  Ogni  punto  di  C  o  è  interno  a  C,  o  appartiene  al  contorno  di  jC. 
f)  Ogni  punto  che  non  appartiene  a  (7  è  esterno  a  G. 
y)  Esiste  almeno  un  punto  interno  a  C. 

Diremo  che  il  dominio  è  -connesso,  se,  scelti  ad  arbitrio  due  suoi  punti  interni 
E,  F  si  può  trovare  un  numero  finito  di  cerchi  v, ,  Vg  >  •—  »  >«  tali  che  : 

a)  Due  cerchi  consecutivi  hanno  infiniti  punti  comuni  (cioè  le  loro  periferie 
si  incontrano  in  due  punti). 

^)  Il  primo  cerchio  contiene  E,  l'ultimo  contiene  F. 
y)  1  punti  di  ogni  cerchio  sono  tutti  interni  a  C. 

I  poligoni,  i  cerchi,  ecc.  della  geom.  elementare  sono  dominii  connessi  ;  l'in- 
sieme di  due  cerchi  esterni  l'uno  all'altro  è  un  dominio  non  connesso.  Le  prece- 
denti definizioni  si  possono  porre  per  ogni  dominio  connesso. 

I  poligoni  p  saranno  quei  poligoni,  i  cui  punti  (esclusi  al  più  i  punti  del 
perimetro)  sono  tutti  punti  interni  al  dominio  considerato.  I  poligoni  P  saranno 
quei  poligoni  che  contengono  ogni  punto  interno  o  posto  sul  contorno  del  dominio 
considerato.  La  differenza  di  due  poligoni  P,  p  è  un  poligono  (dominio  limitato  da 
segmenti)  che  contiene  tra  i  suoi  punti  tutti  i  punti  del  contorno  del  dominio  dato. 
Il  dominio  dato  avrà  un'area,  se  esisterà  almeno  un  poligono  P  (ciò  che  si  esprime 
dicendo  che  il  dominio  dato  è  finito)  e  se  le  aree  dei  poligoni  P,  p  formeranno  due 
classi  contigue.  Ciò  avviene  soltanto  quando  i  poligoni  che  contengono  tutti  i 
punti  del  suo  contorno  hanno  aree,  il  cui  limite  inferiore  è  nullo. 


27 


CAPITOLO  III. 
I  NUMERI  COMPLESSI 


§  8.  —  Coordinate  di  un  punto  nel  piano. 

Assai  spesso  avviene  che  si  voglia  determinare  con  numeri 
la  posizione  di  un  punto  sopra  una  superficie.  Così,  p.  es.,  la 
posizione  di  un  punto  M  sulla  superficie  terrestre  si-  determina 
assegnandone  la  longitudine  e  la  latitudine,  che  si  potranno 
chiamare  le  coordinate  di  M. 

La  posizione  di  un  punto  M,  posto  sul  pavimento  di  una 
stanza  poligonale,  si  può  determinare  assegnandone  le  distanze 
da  due  pareti  concorrenti,  ecc. 

a)  Vogliamo  vedere  come  si  possa,  mediante  una  coppia  di 
numeri,  determinare  la  posizione  di  un  punto  M  su  un  piano 
assegnato. 

Molteplici  metodi  possono  servire  a  tale  scopo:  il  più  semplice 
è  quello  delle  cosidette  coordinate  cartesiane. 

Siano  XX  ed  yy  due  rette 
distinte  (fig.  5)  {assi  coor- 
dinati) concorrenti  in  un 
punto  0  {origine),  su  cui 
sia  fissato  il  verso  positivo, 
p.  es.  quello  da  a:'  ad  a;  e 
quello  da  y  ad  y.  Ad  uno 
dei  due  assi,  generalmente 
all'asse  xx,  si  dà  il  nome 
di  asse  delle  ascisse,  al- 
l'altro asse  y'y  il  nome  di 
asse  delle  ordinate;  e  si  sup- 
pone che  l'angolo  w  =  {xy) 
sia  congruo  ad  un  angolo 
positivo  minore  di  180^  Per 
determinare  la  posizione  M 
di  un  punto  del  piano,  basterà  determinare  la  posizione  dei 
punti  P,  Q,  intersezioni  degli  assi  con  le  parallele  agli  assi  stessi 


28  CAPITOLO   III   —   §    8 


tirate  da  M,  ossia  dare  le  misure  dei  segmenti  OF,  OQ  in  valore 
assoluto  e  in  segno.  Queste  misure,  che  si  dicono  le  coordinate 
di  M,  si  indicano  rispettivamente  con  x,  y  ed  hanno  ricevuto 
il  nome  di  ascissa  e  di  ordinata  del  punto  M. 

Viceversa  è  ben  chiaro  che,  scelti  due  numeri  qualunque  a,  b, 
esiste  uno  ed  un  solo  punto  del  piano  il  quale  abbia  a  per  ascissa 
e  b  per  ordinata.  Infatti  si  costruiscano  il  punto  P  ed  il  punto  Q 
sui  due  assi,  in  guisa  che  sia  in  valor  assoluto  ed  in  segno 
OP  z=z  a,  OQ  =:  6  ;  il  punto  M  d'incontro  delle  parallele  tirate 
da  P,  Q  rispettivamente  alla  rette  Oy,   Ox  è  il  punto  cercato. 

I  raggi  Ox,  Oy,  Ox\  Oy  dividono 
il  piano  in  4  regioni,  che  portano 
rispettivamente  i  nomi  di  I,  II,  III,  IV 
quadrante  (fìg.  6)..  Un  punto  del  I 
quadrante  ha  positive  entrambe  le 
coordinate;  un  punto  del  II  qua- 
drante ha  positiva  l'ordinata,  ne- 
gativa l'ascissa;  un  punto  del  III 
ha  negative  entrambe  le  coordinate  ; 
un  punto  del  IV  ha  positiva  l'ascissa, 
Fig.  6.  negativa  l'ordinata. 

I  punti  della  retta  xx  hanno 
nulla  l'ordinata,  quelli  della  yy  hanno  nulla  l'ascissa,  l'origine  0 
ha  nulle  entrambe  le  coordinate. 

Sono  poi  vere  le  proposizioni  reciproche. 
Se  l'angolo  w  =z(a?,  ?/)  è  retto,  come  supporremo  quasi  sempre, 
gli  assi  si  dicono  cartesiani  ortogonali.  In  tal  caso  i  valori  assoluti 
delle  coordinate  di  M  sono  uguali  alle  distanze  diJf  dai  due  assi. 

^)  Supposti  gli  assi  ortogonali,  siano  M'  ed  M"  due  punti 
di  coordinate  x\  y  ed  ./  ",  y".  Siano  P',  F"  le  proiezioni  di  M\  M" 
su  XX]  e  Q\  Q"  le  proiezioni  di  M\  M"  su  yy.  Il  segmento  FQ 
è  evidentemente  l'ipotenusa  di  un  triangolo  rettangolo,  i  cui 
cateti  sono  paralleli  agli  assi,  e  sono  rispettivamente  uguali  a 
F'F"  ed  a  Q'Q".  La  misura  di  questi  cateti  è  perciò  x'  —  x' 
e  y"  —  y;  per  il  teor.  di  Pitagora  dunque: 

FQ'^=^(x-xy-^(y'-yy. 

In  particolare  la  distanza  OF  dall'origine  al  punto  P  di 
coordinate  {x,  y)  è  data  dalla   OF^'^  =  x^  -{-  y'^. 

y)  La  posizione  di  un  punto  P  in  un  piano  si  può  indivi- 
duare anche  mediante  uh  altro  sistema  di  coordinate  :  il  sistema 


I   NUMERI    COMPLESSI 


29 


delle  coordinate  polari.  Si  scelgano  ad  arbitrio  nel  piano  un  punto 
0  e  un  raggio  Ox  uscente  da  0.  Si  assumano  poi  come  coor- 
dinate di  un  punto  P  del  piano  la  distanza  OP  (considerata  come 
positiva),  a  cui  si  dà  il  nome  di  raggio  vettore,  e  l'angolo  dei 
raggi  Ox,  OP,  a  cui 
si  dà  il  nome  di  aito- 
.malia  (fìg.  7).  Il  pri- 
mo s'indica  general- 
mente con  p,  la  seconda 
con  6.  Le  coordinate 
cartesiane  x,  y  di  P, 
quando  si  assumano 
come  assi  coordinati 
la  retta  Ox  e  la  retta 
normale  Oy  (tale  che 
l'angolo  xy  sia  retto) 
Oy:  cosicché  si  ha: 

X  =  p  cos  (x  p)  =  p  cos  0  ; 
^  =  p  cos  (?/  p)  =  p  cos  {yx  -^  X  ^)  ^^  ^  sen  (x  p)  =  p  sen  6. 

Per  il  punto  0  (origine)  si  ha  p  =  0,  mentre  0  è  indeter- 
minato. 

Per  tutti  gli  altri  punti  0  è  determinato  a  meno  di  multipli 
di  360"^,  ossia  di  2  tt:  radianti. 

Dalle  precedenti  formole  si  trae  anche  : 


sono   le   proiezioni  di  OP  sopra   Ox  ed 


p  =  \/x'  + 


X 


cos  6  =^  — 

P 


sen  0  = 


y 

— -  ? 

p 

(dove  il  radicale    si    considera    come   positivo);    queste    formole 
servono  a  trovare  p  e  0  quando  siano  date  x,  y. 

Questi  metodi  si  possono  perfezionare  ed  estendere  allo  spazio; 
è  però  ufficio  della  geometria  analitica  svolgere  la  teoria  delle 
coordinate,  e  dimostrarne  le  importantissime  applicazioni.  Noi, 
nel  seguito  di  questo  libro,  supporremo  noti  al  lettore  i  principi 
fondamentali  di  questa  scienza. 


S  9. 


Definizione  di  numero  complesso  e  delle  operazioni 
sui  numeri  complessi. 


3c)  Nell'aritmetica  e  nell'algebra  elementare  si  è^man  mano 
esteso  il  concetto  di  numero,  introducendo  dopo  i  numeri  interi 
positivi  i  numeri  fratti,  i  numeri  irrazionali,  i  numeri  negativi. 


30  CAPITOLO   III    —    §    9 


Con  questi  successivi  ampliamenti  si  era  risoluto  completamente 
il  problema  della  misura  delle  grandezze  (cfr.  i  Gap.  Ve  2°), 
si  era  resa  possibile  ogni  sottrazione,  ogni  divisione  per  un 
numero  non  nullo,  ogni  estrazione  di  radice  da  un  numero 
positivo,  ecc. 

Mentre  si  è  cosi  ampliato  assai  il  campo  delle  operazioni 
eseguibili,  sono  rimaste  alcune  operazioni  che  non  sono  eseguibili, 
nonostante  l'avvenuto  ampliamento  del  concetto  di  numero  : 
l'estrazione  di  radice  di  indice  pari  da  un  numero  negativo,  la 
determinazione  del  logaritmo  di  un  numero  negativo,  ecc.  A 
questo  inconveniente  si  ripara  estendendo  ancora  il  concetto  di 
numero.  I  nuovi  numeri  che  noi  introdurremo,  sono  però  com- 
pletamente inutili  per  il  problema  della  misura  delle  grandezze, 
il  quale  è  già  stato  completamente  risoluto  dai  numeri  già 
noti  dalle  matematiche  elementari  e  che  noi  abbiamo  chiamato 
numeri  reali. 

Noi  diremo  numero  complesso,  ed  indicheremo  con  (a,  h)  una 
coppia  di  numeri  reali  a,  b,  che  si  seguano  nell'ordine  ora  scritto. 

Due  numeri  complessi  (a,  b)  ed  {a, h')  si  diranno  uguali  allora 
soltanto  che  a  =^  a\  6  =  h\ 

Il  numero  complesso  {a,  0)  s'intenderà  come  uguale  al 
numero  reale  a  (*). 

Il  numero  complesso  (0,  h)  si  dirà  puramente  immaginario 
e  s'indicherà  con  ib,  indicando  poi  col  solo  simbolo  i  il  numero 
(0,  1),  che  chiameremo  l'unità  immaginaria. 

Due  numeri  (a,  b)  ed  (a,  —  b)  si  diranno  complessi  coniugati. 

Somma  dei  numeri  complessi  (a,  b),  (a',  b')  si  chiamerà  il 
numero  complesf^o  (a  -4-  a',  b  -hb');  questa  definizione  non  con- 
trasta con  quella  adottata  per  i  numeri  reali.  Infatti,  se  [a,  b) 
e  {a,  b')  sono  reali,  ossia  se  6  =  &'  =  0,  la  loro  somma  (nel 
senso  testé  definito)  è  proprio  uguale  ad  {a  -4- a, 0),  cioè  ad  a  -h a. 
Si  potrà  perciò  porre  (a,  b)  -{-  (a,  b)  =  (a  +  a',  6  -4-  b)  ed  in 
particolare  {a,  b)  =  (a,  0)  +  (0,  è)  =  a  -I-  ib.  Perciò  di  solito 
il  numero  complesso  (a,  b)  si  indica  con  a  -h  ib. 

La  nostra  definizione  di  somma  di  due  numeri  complessi  si 
può  quindi  anche  enunciare  nel  modo  seguente:  la  somma  dei 
numeri  a  -+-  ib,  a  -\-  ib'  uguaglia  (a  -h  a)  -+  i  (b  -+-  b'). 

La  somma  di  due  numeri  a  -h  ib,  a  —  ib  immaginari  coniu- 
gati è  il  numero  reale  2  a. 


(*)  Ciò  equivale  a  convenire  che  un  numero  reale  a  si  possa  indicare  col  nuovo 
simbolo  (a,  o);  convenzione  ben  lecita,  perchè  (a,  o)  è  un  simbolo  affatto  nuovo. 


I   NUMERI    COMPLESSI  31 


In  generale,  se  ai  -4-  ih,  a2-hih2, ,  a„  H-  ibn  sono  n  numeri 

complessi,  noi  diremo  che 

(ai  -h  a2-h  ....  -4-  a„)  -h  i  (&i  -h  62  ^- +  &») 

è  la  loro  somma. 

Così  pure  si  chiamerà  differenza  dei  due  numeri  complessi 
a  -4-  ib,  a  -f-  ib^  quel  numero  (a  —  a)  -{-  i  (b  —  b')  che,  sommato 
con  a  -h  ib',  riproduce  il  numero  a  -h  ib. 

E  ben  evidente  da  quanto  precede  che  per  la  somma  e  la 
sottrazione  di  uno  0  piti  numeri  complessi  valgono  le  ordinarie 
regole  del  calcolo  algebrico. 

Porremo,  per  definizione,  uguale  a  —  L  il  prodotto  di  i  per  i, 
ossia  il  qiiadrato  di  i  ed  uguale  ad  ia  il  prodotto  di  i  per 
il  numero  reale  a  (*). 

Prodotto  di  due  numeri  complessi  a  -f-  ib,  e  +  id  si  chiamerà 
il  numero  che  si  ottiene  facendo  la  moltiplicazione  con  le  abi- 
tuali regole  dell'algebra. 

Si  avrà  così  per  definizione: 

(a  -f-  ib)  (e  +  id)  =  ac  -4-  ibc  -f-  ida  +  i%d  ; 

ossia,  poiché  per  definizione  i^  =  —  1, 

(a  +  ib)  (e  -4-  id)  =■  {ac  —  bd)  -4-  i  {bc  +  ad), 

■  Se  6  =  cZ  =  0,  il  prodotto  così  definito  coincide  proprio 
con  ac,  la  nostra  definizione  non  è  dunque  contraddittoria  con 
la  definizione  dell'algebra  elementare.  E,  se  &  =  0,  e  e  +  i^  =  i 
(se  è  cioè  e  =  0,  6^  =  1),  tale  prodotto  di  i  per  il  numero  reale  a 
si  riduce  appunto  ad  ia,  come  richiede  anche  la  convenzione 
preliminare. 

Si  noti  che  il  prodotto  di  due  numeri  a  -4-  ib,  a  —  ib  imma- 
ginari coniugati  vale  a^  -4-  ò'^  ed  è  perciò  sempre  reale  positivo 
(nullo  soltanto  se  a  =  ò  =  0). 

Prodotto  di  tre  numeri  complessi  è  per  definizione  il  prodotto 
che  si  ottiene  moltiplicando  il  prodotto  dei  primi  due  fattori 
per  il  terzo:  facilmente  si  estende  la  definizione  al  prodotto- 
di  n  fattori. 

Si  dimostra  facilmente: 

V  II  prodotto   di   più   numeri    complessi   è   indipendente 
dall'ordine  dei  fattori. 


(*)  Che  ciò  sia  logicamente  lecito  è  ben  evidente.  Per  es.  il  prodotto  di  ìper  i 
è  una  frase  nnoTa,  che  per  la  prima  volta  incontriamo.  Siamo  padroni  di  darle 
quel  significato  che  più  ci  piace,  così  come  siamo  padroni  di  introdurre  un  nuovo 
vocabolo  nella  lingua  italiana,  dandogli  un  significato  a  nostro  arbitrio. 


32 


CAPITOLO   III    —    §    9 


2^  Il  prodotto  di  un  numero  complesso  N  per  la  somma  S 
di  più  numeri  complessi  è  uguale  alla  somma  dei  prodotti  di  N 
per  ciascuno  degli  addendi  di  S.  n 

3"^  Se  «1,  a2, ,  a^  e  pi,  P2,  ,  P«  sono  più  numeri  com- 
plessi, il  prodotto  ccicc.2 a„,  ^i  ^o Pn  si  ottiene  moltiplicando 

il  prodotto  CC1OL2 a„,  per  il  prodotto  Pipo Pn- 

Valgono  cioè  anche  per  la  moltiplicazione  dei  numeri  com- 
plessi le  regole  del  calcolo  algebrico  elementare. 

Quoziente  dei  numeri  a  -f-  ib,  e  -h  id  si  dirà  quel  numero 
X  -f-  iy  il  cui  prodotto  con  e  -f-  id  riproduce  il  numero  a  +  ib 
quando  x  -+-  i}"  esista  e  sia  determinato. 

I    numeri    a;    ed    ?/    sono    perciò    definiti    dalle    equazioni 
\  xc  —  yd^=^  a 
]  xd  -h  yc  =^  h 


le    quali    determinano   x   ed    y    soltanto    se 


f 


c^  -\-  d^  è  differente  da  zero  (  ),  ossia  se  e  e  t^  non  sono  entrambe 
nulli,  ossia  se  il  divisore  e  -h  id  è  differente  da  zero  ;  questa 
limitazione  (che  il  divisore  sia  jiifferente  da  zero)  è  la  stessa 
che  si  presenta  nel  campo  dei  numeri  reali. 

P)  I  numeri  reali  si  rappresentano  coi  punti  di  una    retta, 
i  numeri  complessi   a  -h  ih    si  rappresentano    assai    spesso    coi 

punti  di  un  piano,  ove 
sia  fissato  un  sistema  di 
coordinate  x,  y  cartesiane 
ortogonali  (figura  8):  il 
punto^,  che  haper ascissa  a 
e  per  ordinata  b,  si  assume 
come  immagine  del  nu- 
mero a  -4-  ib.  Se  0  è  l'ori- 
gine delle  coordinate  car- 
tesiane, se  indicansi  con  p 

^    e  6  le  coordinate  p  =  OA 

e  0  =  (a?,  p)  polari  di  A, 
sarà: 


^ 


-a 


Fig.8. 

a  =  p  cos  6,  ò  =  p  sen  0,  p  =  |  j/a 

b 
a 


b'^   ,  cos  0  = 


sen  0  =  —  '   tg0  =  —  ;  e  quindi  a-{-  ib  ^=^  p  (cos  0 

P 


a 

P 
i  sen  0). 


(*)  Risolvendo,  sì  trova  infatti 
ac  -h  hd 


y  = 


he  —  ad 


c'  -^  a^  "         e  H-  d^ 

Se  c^  4-  d^  :=  0,  ossia  se  e  ---  d  =  0,  allora  dovrebbe  essere  anche  a 


h  =  0. 


E  in  tal  caso  le  x,  y  sono  indeterminate. 


I    NUMERI    COMPLESSI  33 


I  numeri  p  e  0  si  dicono  rispettivamente  il  modulo  e  Var- 
g omento  ài  a  -\-  ih. 

Se  a  -H  io  =  0,  allora  soltanto  è  anche  p  nz  0  e  l'argomento  0 
è  completamente  indeterminato  ;  il  modulo  di  ogni  altro  numero 
a-¥  ih  è  positivo  e  l'argomento  è  determinato  a  meno  di  multipli 
di  2  TU.  L'argomento  di  un  numero  reale  vale  zero  oppure  ti,  secondo 
che  il  numero  è  positivo,  o  negativo.  Il  suo  modulo  coincide 
col  valore  assoluto.  Pertanto,  per  ragioni  di  analogia,  se  ^  è  un 
qualsiasi  numero  anche  complesso,  con  \z\  se  ne  indica  il  modulo. 

Due  numeri  immaginari  coniugati  hanno  lo  stesso  modulo 
ed  hanno  argomenti  uguali,  ma  di  segno  opposto. 

II  prodotto  di  due  numeri  complessi 

p  (cos  0  -4-  i  sen  0),     p'  (cos  0'  -4-  i  sen  0') 
uguaglia  : 

pp'  (cos  0  cos  0'  —  sen  0  sen  0')  -4-  i  pp'  (cos  0  sen  0'  -h  sen  0  cos  0')  = 
=  pp'  i  cos  (0  -f-  0')  -f-  i  sen  (0  +  0')  !. 

Se  ne  deduce  facilmente  che  : 

U  prodotto  di  due  o  più  numeri  complessi  ha  per  modulo  il 
prodotto  dei  moduli  e  per  argomento  la  somma  degli  argomenti. 

Ne  segue  che  :  Il  quoziente  di  due  numeri  complessi  (di  cui 
il  divisore  sia  differente  da  zero),  ha  per  modulo  il  quoziente 
dei  moduli  e  per  argomento  la  differenza  degli  argomenti. 

Y)  Siano  ai  -h  ihi ,  ai  -H  Ì62  due  numeri  complessi,  ne  siano 
Aij  A2  i  punti  immagine,  sia   . 


Ai  il  quarto  vertice  del  pa-  ' 
rallelogramma  di  cui  Ai,  A^ 
sono  vertici  opposti  e  l'ori- 
gine 0  è  un  terzo  vertice; 
dico  che  Az  è  il  punto  im- 
magine del  numero  somma 
dei  numeri  ai  -f-  ihi,  a2  -\-  ih^ 
(fig.  9)  (*).  Infatti  l'ascissa 
di  J.3  uguaglia  la  proiezione  > 
di  OA^  sopra  Ox,  ossia  la 
somma    delle    proiezioni    di       ,  pjg  9 


{*)  Se  noi  consideriamo  un  numero  complesso  come  definente  la  forza  rappre- 
sentata dal  segmento  che  congiunge  l'origine  0  al  punto  A  immagine  del  numero 
complesso,  si  deduce  dall'enunciato  del  testo  che  l'operazione  di  somma  di  due 
numeri  complessi  corrisponde  a  trovare  la  risultante  delle  due  forze  corrispondenti. 
Come  i   numeri  reali  x  servono   a   misurare    le   forze   uscenti   da   un    punto   e 


3  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


34  CAPITOLO    III   —    §    9 


OAi,  AiA^.  Poiché  OA2  ed  AiA-^  sono  segmenti  uguali  ed  ugual- 
mente orientati,  la  proiezione  di  AiA-^  è  uguale  a  quella  di  OA2  ; 
e  quindi  l'ascissa  di  ^4-5  uguaglia  la  somma  delle  proiezioni  di 
OAi,  OA2  sopra  Ox,  ossia  la  somma  ai  -+-  «2  delle  ascisse  ai,  a2 
di  Al,  A2  :  in  modo  simile  si  prova  che  l'ordinata  di  ^3  è  6i  -h  òj. 
Il  lato  OAs  del  triangolo  OAiA^  è  minore  od  uguale  alla 
somma  OAi -h  AiA^  (l'uguaglianza  avviene  solo  se  il  punto  ^1 
appartiene  al  segmento  O^^).  Ma  poiché  AiA-^  =  OA2  ed  i 
segmenti  OAi,  OA2,  O^-j  sono  i  moduli  dei  numeri  complessi 
dati  e  della  loro  somma,  avremo  che  :  Il  modulo  della  somma 
di  due  (0  inù)  numeri  non  supera  la  somma  dei  moduli,  non 
è  inferiore  alla  differenza  dei  moduli.  Questo  teorema  é  la 
generalizzazione  di  un  teorema  già  dato  per  i  numeri  reali. 

B)  Se  n  è   un   intero   positivo,    con   x"^  indicheremo,    anche 
se  :r  é  complesso,  il  prodotto  di  ìi  fattori  uguali  ad  cr  (ponendo 

poi  a;^'  =  1  se  a;  ^  0,  ex^  =^  x)  e  con  .r~"il  quoziente— (se  x'^O). 

X 

Se  m  è  intero,  il  modulo  di  x"'  vale  \  x  j""  (cioè  il  modulo 
della  X  innalzato  alla  m^**'""'  potenza);  e  V argomento  di  x"^  vale 
il  ])rodotto  di  m  per  Vargomento  della  x. 

Sia  F{z)  un  polinomio  nella  z  e  precisamente 

F{z)  =  l-{-'b^  z -I- ?)^ ^2 4- 4- ì),/ z'"  (le  h  numeri  non  tutti  nulli). 

Sia  hh  la  prima  delle  h  differente  da  zero.  Sarà 

F{z)  =  l-^h,z''  +  {h,z'']z{^-^  +  ^-^^z^ +  1^.^.-^-1' 


z" 


Sia  A  la  massima  delle 


hhA-ìl     l 'bh 


Ih 


.  Siano  r,  6  modulo  e 


hi,    l'I    hk 
argomento  di  ?>/,,  e  siano  f,  0  modulo  e  argomento  della  z.  Sarà 

hhz^'^rp''  ]  cos  {6 -h  Ji  ^i) -h  i  sm  {6 -\- h  à)  \  , 
cosicché  hhz''  sarà  un  numero  reale  negativo,  se  d  ~\-h'^  =  -^,   cioè  se  ò  ™  ^^ 
Sarà  in  tale  ipotesi 
\P{z)\^\l-j-ì)uz''\-^\huz^^ 


\F{z)\^\l~r?'\'\-Ar  ^ ^ — ^ . 


aventi  la  direzione  dell'asse  delle  x  (in  un  verso  0  nell'altro),  così  i  numeri  com- 
plessi x-\-iy  possono  servire  a  definire  (e  potremmo  forse  dire,  ampliando  il 
significato  della  parola,  a  misurare)  le  forze  uscenti  da  un  punto  0  e  poste  nel 
piano  xy,  in  guisa  che  alla  forza  risultante  di  due  0  più  forze  date  corrisponda 
il  numero  complesso  somma  dei  numeri  complessi  corrispondenti  alle  singole  forze 
componenti.  I  numeri  complessi  trovano  importantissime  applicazioni  nello  studio 
delle  correnti  alternate  :  p.  es.  alle  estensioni  delle  leggi  di  Ohm  e  di  KirchhofF. 


I   NUMERI    COMPLESSI  35 


Supponiamo  p  così  piccolo  che 

r  e''  <  1  cosicché  1  —  r  o^'      è  positivo 

p  <1  cosicché  i—p"'-^'  è  minore  di  1 

Ap                                                     p/'  +  i 
:; <  1  cosicché  r  p''  >  Ar • 

Da'(l)  si  dedurrà 

P(2)^l-r  o''  -f  Ar  ^ ^ — ^ ^  <  1  _  r/»^'  4-  Ar  ^ <  1. 

1  — P  1  —  p  ^ 

Possiamo  dunque  dare  alla  z  un  valore  tale  che  |P(;er)  i  <1. 
Moltiplicando  P  {2)  per  un  numero  Jc  z^O,  e  mutando  ^  in  ^  —  a  si  trova  : 
Se  un  polinomio  P  (z)  ha  per  z  =  a.  un  valore  k  7^  0,  esiste  qualche  valore 
di  z  per  cui  il  polinomio  assume  un  valore,  che  in  modulo  è  minore  di  ]  P(a)i. 

Senza  parlare  delle  potenze  più  generali  (ad  esponente  fratto, 

irrazionale   0   anche    complesso)  noi  parleremo  ancora  soltanto 

j.  

di  x""  =  IX  per  n  >  1  intero  positivo.  Con  tale  simbolo  noi 
indicheremo  ogni  numero  complesso,  la  cui  n'*'"'*  potenza  sia 
uguale  ad  x. 

Siano  p,  9  il  modulo  e  l'argomento  della  x  ;  cosicché  x  = 
=  p  (cos  0  -i-  ^  sen  9).  Siano  analogamente  r,  B  modulo  e  argomento 
di  jT/^  Per  definizione 

I  r  (cos  §  -h  i  sen  5)  j"*  =  p  (cos  ^  -\-  i  sen  9) 
ossia  : 

r""  (cos  n  S  +  2  sen  n  ^)  =  p  (cos  9  H-  ^"  sen  9). 

Cosicché  /'  =  p,  ed  n  5  differisce  da  9  per  un  multiplo  di  2  tt. 
Cioè  il  modulo  r  di  f/x  uguaglia  il  valore  (aritmetico)  della 
radice  n^""*  del  modulo  p  della  x.  E  l'argomento  B  tZi  y  x   vale 

—  4- 5  dove  9  é  V anomalia  della  x  e  k  è  un  intero. 

n  n 


Còsi  avremo  : 


|/^  =  ^p|cos(--f-— j-^^sen(-+— jj  =  i/p 
dove  si  è  posto  : 


9      2kTz\]       .,,-(        9   .   .       9) 
cos — l-2sen— }£fc 
n  n) 


27t7c  2hTz 

Si  =  cos h  i  sen 

w  n 


Ora  al  variare  di  k  (k  =  intero)  quanti  valori  può  ricevere 
la  quantità  St  qui  definita  ? 


36  CAPITOLO   III   —   §    9 


Si  osservi  che,  se  /^  e  k  sono  due  numeri  interi,  sarà  Sj.  =i  S;, 
allora  ed  allora  soltanto  che  : 

2/i^Tu              2^71:                  2/^:1:              Iki^  . 
cos =  cos 5  sen =  sen ? 

n  n  n  n 

2  z-  7^     o  Ji  'ji 

il    che    accade    solo    quando  — —  e differiscono    per    un 

n  n 


multiplo  di  2  7^, 

/2kn       2h7z  ^^.  ,     ,.   ^    \ 

I =  multiplo  di  2  7^  I  ' 

\    n  n  / 

ossia  quando  : 

k  —  /^  =:  multiplo  di  n  ; 

e  però,  dando  a  k  gli  n  valori  0,  1,  2, ,  n  —  2,  n  —  1,  si 

otterranno  radici  distinte,  mentre  i  valori  n,  7i-\-l, ,  2  n  —  1  di/t 

riprodurranno   le    stesse   radici  nello    stesso    ordine,   e  così   via 

periodicamente.  Del  pari,  dando  a  k  i  valori  —  1,  —  2, ,  —  w, 

si  riprodurranno  le  stesse  radici  in  ordine  inverso,  e  cosi  via 
periodicamente. 

Dunque  :  Un  numero  reale  0  complesso  ha  n  radici  n^^'"'^  fra 
reali  e  complesse,  che  si  ottengono  moltiplicando  una  di  esse 
per    ciascuno    dei   numeri   s^,    ossia  per   ciascuna  delle  radici 

n^''"'®   di  1.    Infatti  supponendo    x^=l,  cioè   p  =  l    e   0  =  0, 

1 

—  • 

x"  si  riduce  ad  Si. 

La  formola  che  ci  dà  i  numeri  s^.,  ossia  le  n   radici   n^**"" 

dell'unità,  è 

2kT:        .         2  ^  TU 
Si-  =  cos f-  i  sen ? 

n  n 

dove  basta  dare  a  k  gli  n  valori  0,   1,  2, ,  w  —  1. 

Questa  formola  mostra  ,che  i  punti  corrispondenti  alle  n 
radici  ^'*'''''  dell'unità  sono  distribuiti  sulla  circonferenza  avente 
l'origine  per  centro  e  per  raggio  l'unità,  e  dividono  la  circon- 
ferenza in  n  parti  eguali  ;  vale  a  dire  tali  punti  sono  i  vertici 
di  un  poligono  regolare  di  n  lati  inscritto  in  essa. 

Basta  infatti  osservare  che  i  numeri  Sq  =  s,,,  £1,  £2, ,  ^n-i 

hanno  tutti  per  modulo  l'unità,  e  che  l'argomento  di  uno  qua- 
lunque di  essi  differisce  dall'argomento  del  suo   successivo   per 

2  TX 

un  angolo  uguale  a  — -  radianti,    cioè    air?/"'"'''  parte    di    360"^ 

n 

(2  TU  radianti). 


I   NUMERI    COMPLESSI  37 


Per  esempio,  i  valori  di  j/l   sono  : 

1, 

2n 
e  —  cos         -+■ 

o 

2n 

1 

1/3, 
2 

471 

•^  =  cos  --  -1- 

4  n 

1 

2 

È 

evidente  che  y]  è 

immaginario 

coniugato 

di  s  e 

che 

1 

—  ^  —  ^  - 

1 

s 

E    si   può    anche    provare    geometricamente  che  il  punto  di 

1  1/3 

ascissa  x  =^  1  e  ordinata  y  =  0,  il  punto  a;  = —  ,  y  =z  ^ — 

1  1/3 

e  il  punto  X  =^ 7^^^  V  '^^  —  "^T"  ^^^^  ^    ^^^  vertici  di   un 

triangolo  equilatero  inscritto  nel  cerchio  col  centro  nell'origine 
e  raggio  1. 

Negli  esercizi  calcoleremo  per  via  puramente  algebrica  le  £ 
per  i  casi  n  =  3,  4,  5  (es.   33  a  pag.   61). 

Oss.  E  appena  necessario  ricordare  che  da  tutto  questo  si 
deduce  in  particolare  che,  nel  campo  dei  numeri  complessi,  si 
può  estrarre  la  radice  quadrata  anche  da  un  numero  negativo 
n  =  —  \n\  e  che  tale  radice  quadrata  ha  i  valori  ±  ^  ]/  |  w  |. 

Non  ci  occuperemo  per  ora  delle  potenze  il  cui  esponente 
è  un  numero  complesso,  né  della  estensione  della  teoria  dei 
logaritmi  ai  numeri  negativi  0  complessi. 


§  10.  —  Equazioni  di  1%  3"  e  4"  grado. 

Le  formole  (equivalenti)  ben  note 


—  ò  ±  \ì)^  —  4  ac 
^-=—  ~  -\l  ~ Q  x  = 


2  a 
che  danno  le  radici  di  un'equazione  di  secondo  grado 

ax^  +  èo:  +  e  =  0 


x:  -\-  pd^  -\-  qz=i  0 


{a  7t  0) 


acquistano  significato  generale   (anche  se  ^^- q  o  ir  —  4  ac 


ax^  4-  hx-\-  e  —  a{x  —  Xi)  (x  - 

-x-ù 

b 

Xl  4-  X2  — 

a 

e 

Xl   Xo    =   

a 

38  CAPITOLO   III   —   §    10 

sono  negativi)  nel  campo  dei  numeri  complessi.  Se  Xi,  x^    sono 
tali  radici  è  noto  che  valgono  le  identità  : 

x^  -^  px -\-  q  ^=^  {x  —  Xl)  {x  —  x'2) 

Xl  -h  X2^=^  — p 

XiX2=^  q 

La  teoria  dei  numeri  complessi  permette  di  risolvere  in 
generale  anche  le  equazioni  di  terzo  e  quarto  grado.  Noi,  come 
esempio  e  più  che  altro  a  titolo  di  utile  esercitazione,  ci  occu- 
peremo qui  delle  equazioni  di  terzo  grado,  riassumendo  nel  modo 
più  rapido  uno  dei  metodi  di  risoluzione  delle  equazioni  di 
quarto  grado. 

Sia  data  l'equazione  di  terzo  grado 

x"^  -h  ai  x^^  -^  ao  X  -\-  «•>  =  0. 

Posto  X  =  y ~  '    l'equazione  si  trasforma  in  un'  equa- 

o 

zione  del  tipo  : 

y^  -h  py  -\-  q  =  0: 

la  quale,  posto  y  =2  u  -\-  v,  diventa 

u^  -h  v^  -i-  (3  uv  -h  p)iu  -{-  v)  -h  q^'  0, 


-i      /'Hi'' 
UlllillllU     IIIUIUC     ft" 

si  riduce  alla 


cosicché,  se  poniamo  inoltre  uv  =  —  -^i*),  la  nostra  equazione 

o 


ic^  -}-  v^  =  —  q. 


Ma  è  pure  u^  if^  =  —  -^  ;  e  quindi  u^,  v^  sono  le  radici  del- 
l'equazione  : 


ossia  : 

z'  -\-  qz  — 

f    _ 
27 

u'  =  - 

2         K     4          27 

v'=- 

(*)  Ciò  è  lecito  ;  perchè  dei  numeri  w,  v  è  finora  soltanto  prefissata  la  somma  y\ 
e  quindi  si  può  anche  scegliere  ad  arbitrio  il  valore  del  prodotto  u  v. 


I    NUMERI    COMPLESSI  39 


y 


Estraendo  Te  radici  cubiche,  si  traggono  i  valori  di  ic,  v  e 
si  trova  : 

Ciascuna  di  queste  radici  cubiche  ha  tre  valori;  scelto,  p.  es., 

per  la  prima  uno  di  essi  arbitrariamente  tra  i  tre  possibili,  il 

valore    da    darsi   alla    seconda    radice  cubica  è   completamente 

determinato    da   ciò    che   il    prodotto    delle   due    radici  cubiche 

p 
(ossia  uv)  deve  uguagliare  —  ~  - 

ó 

Siano   a,  h   due    valori   dei    nostri    radicali,    il  cui  prodotto 

P 
uguaglia —  •  Se  £  =4=  1   è  una  radice  cubica  di  -h  1 ,  la  terza 

,  ,  1  o 

radice  cubica  di  1   sarà  (come  si  è  visto  al  §  9)  —  =  £^.  I  tre 

valori  del  primo  radicale  saranno  :  a,  sa,  £"a  ;  i  valori  corri- 
spondenti del  secondo  saranno  b,  s^ò,  £&,  quindi  la  nostra  equa- 
zione avrà  le  tre  radici  a-hb,  sa  4-  s"ò,  s^^a  -h^b  generalmente 

2  3 

Q         P 
distinte.  Se  — -  -H  — -  =  0,  allora  posso  supporre  chiaramente  (*) 

a^=  b,  e  delle  tre  radici  almeno  le  seconde  due  sono  uguali 
tra  loro. 

2  3 

n        V 
Siano  p,  q  reali  ;  se  "^ — h  —  >  0  posso  supporre  a,  b  reali  ; 

delle  tre  radici,  una  è  quindi  reale,   le    altre   due   immaginarie 

2  3  3 

coniugate.  Invece,  se  — -f-|^  <  0  [per  il  che  è  necessario  che^ 
sia  minore  di  —  —-  ?  e  quindi  che  p  sia  negativo  ( j?  =  —  \p  |)], 

/■~2 IT 

/  Q  P 

le  radici  sono  tutte  e  tre  reali,  nonostante  che  1/  — — h^^— sia 


immaginario,  come  ora  proveremo.  Posto  : 

2  8 

3-  -Jr-  ^=  —  r-         {r  reale), 
la  nostra  formola  diventa  : 


27 


=  ]/-|+^>+]/- 


-  -  rr. 


(*)  Almeno,  se  p,  ci  sono  reali.  Il  lettore  esamini  il  caso  generale. 


40  CAPITOLO   III   —    §    10 

Si   scriva  ciascuno    dei   due  radicandi  sotto  forma  trigono- 
metrica, ponendo  : 

D    :=:  — \-  V'  — —  ^ —  pnc  fì  — — ^—  oati  fì  , 


4  27'       ^°^^  =  -2p'       ««•ie=p 


si  avrà  : 


y  =  l/'p  (cos  0  H-  i  sen  9J  4-  j/p  (cos  9  —  i  sen  0). 

I  tre  valori  della  prima  radice  cubica  sono  : 

0          .          0  1         3,-  (         0+2:1        .        0H-27C 
-    '     1/  P     cos f- 

0-Ì-4TC        .         0-+-47I: 


]/  P  )  cos  "^  +  ^  sen  ~"  (  '     1/  P     cos f-  ^  sen 


^1 


1/P  !  cos h  i  sen —  \  • 

I  tre  valori  della  seconda  radice  cubica  sono  : 

3/-(          0         .          0  1        :v-i        0  +  271:        .        9  +  271) 
yplcos- ^  sen  —  p    |/p    cos i  sen j  ^ 

3/-j  0+4TC  .  0+471) 

1/  P    cos ^  sen • 

Si  osservi  che  ogni  valore  di  y  si  ottiene  sommando  un  valore 
del  primo  radicale  con  un  valore  del  secondo,  scelti  in  guisa 
che  il  loro  prodotto  sia  reale.  Si  avranno  dunque  le  tre  radici  : 

3/-!)  /  ,   0      .       e  \  ^/      0      .       0  \  I     ^  3/- 

-  ì/P  )  \  cos  ^     +  i  sen  —  1  ~+"  l  cos  — t  sen  — -  I     ==  2  ]/ p  cos, 

[\         3  3/\         3  3/) 


^  :>,,-        0+271.                       3.-        9  +  4n 
y-2  =  2  1/  p  cos '        2/:>  —  2  1/P  cos 


dove  : 


^p  =  V/  —  J—  =1  '1/  -^—  (perchè^  dev'essere  negativo). 

Queste  formole  si  possono  dedurre  per  via  elementare. 

V         1/3      y 
Infatti,  posto  z  =       ,  -  =  — ; ,- —  '  l'equazione  diventa: 

.  2Ì/p  2    j/_^ 

_  4    P  y    _P  /  ^  2p       ,--^  ^  -}-  tì'  =  0  ossia  : 

sys  ^1/3 

2  ^  J/'  —  p 


I   NUMERI   COMPLESSI  41 


(fì  f)  fi  \ 

4-        _^        1  gj  deduce  : 
3  3  3  / 

ù  n 

cos  0  ■=  4  cos^  — 3  cos  —  • 

o  o 

Mutando  0  in  B  -h  2kn  (dove  ^  è  un  intero),  si  trova  : 

,0-f-  2kn        ^        e-h  2kn 
4  cos^  — i— 3  cos cos  0  =  0 

ó  ó 

che  si  riduce  alla  precedente  equazione  quando  si  ponga  : 

^-h  2k'K  '3l/3g  3l/3g  q 

-  cos ;    cos  0  = ,         = .-±—  = ^ 

3  2py—p         '^\v\V\p\  2P 

E  facile  riconoscere  che,  se  Xi,  X2,  x-^  sono  le  tre  radici  della 
nostra  equazione,  valgono  le  identità  : 

x'^  -h  ai  x^  4-  ao  :r  -f-  «a  =  (2:  —  Xi)  (x  —  0^2)  (x  —  x^) 

«1  = (0:1  -f-  Xo  -f-  X:ì) 

^2  '=^  XxX^-^  Xo  X-i  +  X-^  Xi 

a.i  =  —  a^i  a::2  ^3, 

forinole  che  sono  affatto  analoghe  a  quelle  testé  ricordate  rela- 
tive alle  equazioni  di  secondo  grado  (Cfr.  anche  il  §  14). 

Equazioni  di  quarto  grado  C^)- 

Per  risolvere  l'equazione  di  quarto  grado 

ic*  -h  a^  x-*  -\-  a2  x^  -h  a^  X  -h  «4  =  0, 
si  indichino  con  c,,C2,  C3,  C4  le  quattro  radici  (Cfr.  il  §  14),  e  si  ponga: 
^',  =  e,  C2  4- C3  C4      ;  ^2  =  c,  C3  +  C2C4      ;  ^3  =  e,  C4 -h  e,  C3. 

Sia  .^^  -f-  a  ^'  4-  (3  5^  -h  '/  —  0  l'equazione  di  terzo  grado,  che  ha  le  radici  ^„  ^2,  ^z- 
I  coefficienti  di  questa  equazione  non  cambiano,  come  è  facile  verificare,  permu- 
tando le  e  ossia  sono  funzioni  simmetriche  delle  e,  che  si  possono  subito  calcolare 
quando  sono  date  le  a  (Cfr.  il  seg.  §  14). 

Risolvendo  tale  equazione  di  terzo  grado,  si  troveranno  i  valori  delle  0. 
Poiché  (e,  Co)  (C3  c^)  =  «4  e  e,  C2  +  c^  c^  =  ^,,  delie  e,  e,  e  c^  c^  si  conoscono  somma 
e  prodotto,  e  quindi  si  possono  calcolare,  risolvendo  un'equazione  di  secondo  grado, 
sia  e,  C2  che  c^  c^.  Dalle  equazioni  (Cfr.  il  §  14) 

e,  C2  (C3  H-  C4)  +  C3  C4  (e,  -h  C2)  =  —  a, 
(C3  4-  C4)  -h         (e,  4-  C2)  =  —  a, 

si  possono  poi  generalmente  ricavare  Cj-hC;  e  e,  4-C2.  Delle  c,,C2  (come  anche 
delle  C3,  C4)  si  conosceranno  così  somma  e  prodotto  ;  e  pertanto  si  possono  dedurre 
i  valori  di  tutte  le  e. 


(*)  Le  righe  seguenti  si  potranno  studiare  soltanto  dopo  letto  il  §  14  a  pag.  48 
e  seg.;  lo  studio  delle  equazioni  di  4**  grado  trova  però  ben  scarse  applicazioni. 


42  CAPITOLO    IV   —    §    11 


CAPITOLO  IV. 
POLINOMII  ED  EQUAZIONI  ALGEBRICHE 


§  11.  —  Calcolo  combinatorio. 
Prodotti  di  binomii  e  formola  del  binomio. 

a)  Ricordiamo  rapidamente  una  ben  nota  formola  di  calcolo 
combinatorio. 

Sia  (  7^  )   il   numero   delle   combinazioni  di  n  oggetti  ad  h 

ad  il,  cioè  il  numero  dei  modi  possibili,  in  cui  possiamo  sce- 
gliere  un   gruppo  di   h   elementi   tra  n  ^  li  elementi  prefìssati. 

Per  /^  =  1   è  evidentemente  (     J  =  n.  Se  poi  (7/i_i  è  un  gruppo 

di  h  —  1  elementi  scelti  tra  i  dati,  noi  potremo  dedurne  un 
gruppo  Gh  di  h  elementi,  aggiungendo  a  Gu-i  uno  dei  residui 
n  —  {h  —  1)  elementi;  otteniamo  così  da  ogni  Gk-i  proprio 
n  —  ih — 1)  gruppi  Gh.  Operando  però  in  tal  modo  sui  vari 
Gh-i,  otteniamo  ogni  Gh  precisamente  h  volte,  perchè  ogni  Gh 

contiene  h  gruppi   Gh  - 1  Perciò  il  numero  /  ,  ì  dei  Gh  è  uguale 

fi  ' —  (Ji  — lì                          /      n      \ 
al  prodotto  di ~ per  il  numero  (7  -,)  dei   Gh-i. 

Quindi 

(n\  n     /n\       n  —  1  /n\        n  (n  —  1) 

(n\ n  —  2  /n\ n  {n  —  l)  (n  —  2) 


ecc. 


0= 


1.2.3 

n(n  —  l)(n  —  2) [n  —  Qi  —  1)]      .   . 

\h.  ^ 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  43 

(n\  I  ^ 

7  j  =  ■      ■,'     — —  •  Ne  risulta  in  parti- 

co..™  (:)  =  (,.^  „)..). 

Il  numeratore  n(n  —  l)(n  —  2) (n  —  h-hl)  della  (1)  dà  il   numero   delle 

disposizioni  di  n  oggetti  ad  /^  ad  /i  cioè  il  numero  dei  modi  con  cui  si  possono 
scegliere  ed  ordinare  h  oggetti  tra  n  oggetti  dati,  quando  si  considerino  come 
distinti  due  gruppi,  anche  se  differiscono  soltanto  per  l'ordine  in  cui  si  susseguono 
i  dati  oggetti.  Infatti  il  primo  oggetto  di  una  di  tali  disposizioni  si  può  scegliere 
ad  arbitrio  tra  gli  n  oggetti  dati  ;  il  secondo  si  potrà  poi  scegliere  tra  i  residui 
n  —  1  ;  scelti  i  primi  due  oggetti,  il  terzo  si  può  scegliere  tra  i  residui  n  —  2  ;  e 
cosi  via  ;  lo  /i"''"»  ultimo  oggetto  della  disposizione  si  può  scegliere  tra  n  —  h-\-l 
oggetti. 

Così  il  denominatore  |  h  —  h  (k  —  l)(h  —  2) (h  —  h-j-1)  è  il  numero  delle 

disposizioni  di  h  oggetti  ad  li  ad  h,  cioè  è  il  numero  delle  permutazioni  di  h 
oggetti. 

La  formola  precedente  dimostra  dunque  che,  come  si  può  dimostrare  diretta- 
mente nel  modo  più  semplice,  il  numero  IVA  delle  combinazioni  di  n  oggetti  adh 

ad  h  è  uguale  al  quoziente  ottenuto  dividendo  il  numero  delle  disposizioni  di  n 
ogg'etti  ad  h  ad  h  per  il  numero  delle  permutazioni  di  h  oggetti  (**). 

P)  Siano  X,  cii,  ao, an   numeri   qualsiasi.    Consideriamo  il 

prodotto  :  (^  _^  ^^)  ^^  _^  ^^) (^  ^  ^^)^ 

L'algebra  elementare  insegna  che  questo  prodotto  è  uguale 
alla  somma  di  tutti  i  prodotti  P  ottenuti  moltiplicando  tra  di 
loro  un  addendo  del  binomio  x  -h  a^  un  addendo  del  binomio 
a;  4-  «2, ,  un  addendo  del  binomio  x -\-  a„.  Tra  questi  pro- 
dotti P  ve  ne  saranno  alcuni  che  non  contengono  la  x  (o,  come 
si  dice,  che  contengono  il  solo  fattore  x^),  altri  che  contengono 
il  fattore  x  e  non  il  fattore  r^,  altri  che  contengono  il  fattore  x"^ 
e  non  il  fattore  x^,  ecc.,  altri  che  contengono  il  fattore  x'^.  Per 
formare  quelli  dei  prodotti  P,  che  contengono  il  fattore  x^ 
e  non  il  fattore  x^~^^  (0  ^h  ^n),  si  dovrà  scegliere  in  h  dei 

binomii  x  -f-  ai,  x  -h  ^2, ,  x  -f-  a^  il  primo  addendo  x,  e  negli 

altri  n  —  h  binomii  si  dovrà  scegliere  il  secondo  addendo,  per 
fare  poi  il  prodotto  degli  n  addendi  così  scelti.  Ognuno  di  questi 
prodotti  P  sarà    dunque   il   prodotto    di  x^  per  un  prodotto  di 

n  —  h  fattori  scelti  tra  le  n  quantità  ai,  a2, ,  a„.  La  somma 

di    questi   prodotti   P    sarà    dunque    il   prodotto    di   x^   per   la 


(*)  Questa  uguaglianza  diventa  intuitiva  per  chi  consideri  che  ogni  gruppo  di  h 
elementi,  determina  un  gruppo  ài  n  —  h  elementi  :  quello  formato  con  gli  n  —  h 
elementi  residui.  E  viceversa.  Dunque  tanti  sono  i  gruppi  di  h  elementi,  quanti  i 
gruppi  ài  n  —  h  elementi. 

(**)  Infatti,  permutando  nei  |  h  modi  possibili  gli  h  oggetti  di  ogni  combina- 
zione, si  ottengono  tutte  le  disposizioni. 


44  CAPITOLO   IV   —   §    11-12 

somma  hn-h  di  tutti  i  possibili   prodotti   ad   n  —  li   ad  n  —  h 

delle  n  quantità  «i,  «2, ,  a^. 

Si  avrà  così  : 

{x  +  ai)  {x  -\-  as) {x  -H  aj  =  x"-f-  òix''"^  -h  &o^''~'-4- 

-}-  6„  _  1  a;  -+-  &n 

dove    il  coefficiente  hu  di  a;''~^'  (^  =  1,2. ,  h)  è  la  somma 

degli  (^)=(w  — 1\  prodotti,  che  si  ottengono  moltiplicando  a  ^  a  ^  in 

tutti  i  modi  possibili  le  ai,  a2, ,  a^.  Se  ai  =  a2  = =  a„  =  a, 

questi  prodotti  sono  tutti  uguali  ad  a'.  E  perciò  : 

(x4-ar=x^^+(^)ax^-^  +  (^)aV-'  + +(„!!- 1)^"''^+(^)«^ 

Come  si  riconosce  dal  teor.  di  questo  §  11  a  pag.  43,  i  coeffi- 
cienti del  2°  membro  equidistanti  dagli  estremi  sono  uguali  tra  di 
loro,  ciò  che  si  poteva  prevedere  a  priori,  osservando  che  il  l""  e 
quindi  anche  il  2^^  membro  non  mutano  scambiando  x  con  a. 
Se  nella  formola  iniziale  poniamo  —  a^  al  posto  di  a,-  troviamo, 
indicando  ancora  con  hh  la  somma  degli  (^j  =  |^  ^  ^^  prodotti 
ad  h  ad  li  delle  n  quantità  ai,  a2, ,  a^  : 

(:r  -  ai)  (:r  -  a2)  ......  (a:  -  a„)  = 

x''  -  h  a;"-'  -f-  h  x"-'  + -+-  (-  1)'^  h  a^""'  + -+-  (-  D"  ò„. 

§  12.  —  Divisione  di  due  polinomii. 

Siano  M(x),  Nix)  due  polinomii  della  variabile  x,  i  cui  gradi 
sieno  rispettivamente  m,  n.  Sarà  : 

Mix)  =  Uà  x'''  -+-  ai  oc""^  4-  -h  a,;,_i  x  4-  a^, 

]Sf(x)  =  bo  x'"  -h  òi  ic''"^  -+-  -f-  ì)n-ix  4-  ò^, 

(dove  a,  ò  sono  costanti). 

Dividendo  iltf  (a:;)  per  N  {x)  con  le  regole  dell'algebra  elemen- 
tare si  troverà  un  quoziente  Q  {x)  ed  un  resto  R  {x),  entrambi 
polinomii  nella  x. 

Il  grado  di  R{x)  è  inferiore  a  quello  del  divisore  N  (x). 
E  si  ha  identicamente  : 

Mix)  =  N  Cr)   Q{x)-\-  R  [x)  (*). 


(*)  Il  problema  di  determinare  Q  {x)  ed  B  {x)  è  per  definizione  quello  di  deter- 
minare i  due  polinomii  in  guisa  che  questa  uguaglianza  sia  una  identità,  e  che  il 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  45 


Se  m^n,  Q  è  un  polinomio  di  grado  m  —  n;  se  m<7i, 
allora  Q  è  identicamente  nullo  ed  R  ^=  M,  In  particolare,  se 
m  =^  n,  allora  Q  è  di  grado  nullo,  cioè  non  dipende  da  x,  o, 
come  si  suol  dire,  è  una  costante. 

Viceversa,  se  p.  es.  m  ^  w,  e  se  Q  ed  R  sono  due  poli- 
nomii,  che  soddisfano  identicamente  alla  precedente  uguaglianza, 
se  il  grado  di  R  non  supera  quello  di  N,  allora  Q  è  di  grado 
m  —  71  ed  i  due  polinomii  Q  ed  R  sono  precisamente  il  quo- 
ziente ed  il  resto  che  si  ottengono  dividendo  M  per  N. 

(Tutti  questi  risultati  sono  una  facile  estensione  dei  teoremi 
analoghi  per  i  numeri  intieri). 

Se  R{x)  =  0,  il  polinomio  N{x)  si  dice  essere  un  divisore 
di  M{x).  In  tale  caso,  se  k  è  una  costante  qualsiasi  non  nulla, 
anche  kNix)  è  un  divisore  di  M  perchè  si  ha: 


M{x)  =  kN{x) 


[\qì:o] 


Ogni  polinomio  di  grado  zero  si  riduce  ad  una  costante  k 
ed  è  un  divisore  di    M{x),    perchè    dividendo   M{x)    per   k    si 

ottiene  il  quoziente -r- if  (a:)  ed  un  resto  nullo.  I  polinomii   di 

k 

grado  zero  (le  costanti)  hanno  quindi  nell'attuale  teoria  un 
ufficio  analogo  a  quello  che  il  numero  1  ha  nella  teoria  dei 
divisori  dei  numeri  intieri. 

Se  noi  applichiamo  gli  stessi  metodi  che  si  adoprano  nella 
aritmetica  nello  studio  dei  divisori  dei  numeri  intieri  tro- 
viamo : 

Un  polinomio,  che  sia  divisore  comune  dei  due  polinomii 
M  (x)  e  N  (x)  è  un  divisore  anche  del  resto  ottenuto  dividendo 
M  per  N  ;  e  viceversa  un  polinomio  che  è  divisore  di  questo  resto, 
e  divide  il  polinomio  N  (x),  divide  anche  V altro  polinomio  M  (x). 


grado  di  B(x)  non  superi  quello  del   divisore  N{x).   Quest'ultima  convenzione  è 
necessaria  per  rendere  univocamente  determinato  il  problema. 

Si  noti  che  altre  sono  le  convenzioni  dell'aritmetica.  Nell'aritmetica  dei  numeri 
fratti  (come  nell'algebra  delle  frazioni)  non  si  parla  del  resto  (che  si  suppone  nullo). 
Nell'aritmetica  dei  numeri  interi  positivi  si  rende  univocamente  determinata  la  divi- 
sione, imponendo  al  resto  di  non  superare  il  divisore  (così  che  non  si  dice  mai 
p.  es.  che,  dividendo  22  per  7,  si  ha  2  per  quoziente,  8  per  resto).  Così  che  il  risul- 
tato ottenuto  nella  divisione  algebrica  di  due  pohnomii  può  contrastare  con  tale 
convenzione  aritmetica,  quando  ai  coefficienti  e  alla  x  si  diano  particolari  valori 
interi  positivi.  Il  lettore  lo  può  riconoscere,  osservando  che  il  quoziente  e  il  resto 
ottenuti  dividendo  a?^  -h  (b  —  a^}  per  ic  —  a  sono  rispettivamente  x  +  a  e  b;  e 
ponendo  p.  es.  a?  =  5,  a  =  4,  h  =  3. 


46  CAPITOLO  IV   —    §    12-13 

Dividiamo  M(x)  per  il  polinomio  Nix),  sia  R  (x)  il  resto  della  div. 
N{x)    "    "         «         R  (x),  sìsi  Eiix)  ^     "        "    2*  " 
«  R  (x)    "    "         "         Ri{x),  sia  i?2(a;)  "     »        "    3*  " 

»  Ri{x)    "    "         ''         -^2(3;),  sia  Rsix)  il  resto  ; 

così  continuiamo  fino  a  che  si  trovi  un  resto  nullo;  si  dimostra 
(come  si  dimostra  in  aritmetica  per  i  numeri  intieri)  che  l'ul- 
timo resto  ottenuto  differente  da  zero  (lo  stesso  polinomio  N  (x) 
se  R  (x)  =  0)  è  un  divisore  comune  di  M{x),  N{x)  ed  è  anzi 
il  M.  C.  D.  (*)  di  questi  polinomii,  perchè  ogni  divisore  comune  di 
M,  N  è  Mìì  divisore  anche  di  quest'ultimo  resto  e  viceversa. 

Se  questo  massimo  comune  divisore  è  di  grado  zero  (è 
costante),  i  due  polinomii  M,  N  si  dicono  primi  tra  loro. 

Se  si  vogliono  cercare  i  divisori  mx  -f-  n  di  primo  grado  di 

un  polinomio  P  (x),  si  osserva  che,  se  Ix  —  (  —  — m  =  x  —  a 

(essendo  a  = )  è  un  divisore  di  P  (x),  anche  mx  -h  n  è  un 
m  / 

divisore  di  P(x)  e  viceversa. 

La  ricerca  dei  divisori  di  primo  grado  equivale  alla  ricerca 

dei   divisori    del    tipo   x  —  a,    di    cui    parleremo    nei    seguenti 

paragrafi. 

» 

§  13.  —  Regola  di  Ruffini. 

Vogliamo  dividere  il  polinomio 

P{x)  =z  afix""  -h  ai:r""^  H-  ...  -f-  an-ix  -h  a^ 
per  x  —  a.  Il  quoziente  sarà  un  polinomio 

Q(a;)  =  go^"~'H-gx""'  +  ...  -^-gn-i 

di  grado  n  —  1  ;  il  resto  sarà  un  polinomio  di  grado  zero,  cioè 
un  numero  R  indipendente  da  x.  Calcoliamo  quoziente  e  resto. 
Sarà  identicamente 

P{x)  =  {x  —  oL)   Q{x)-^-R. 
Cioè,  confrontando  i  coefficienti  delle  varie  potenze  della  x: 
ao  =  qo;ai  =  qi—c(.qQ;a2  =  q2  —  ^qù"'',<^n-i'=qn-i--^qn~2;cin--R  —  ^qn-i' 


(*)  Tale  massimo  comun  divisore  è  determinato  a  meno  di  un  fattore  costante. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  47 

Le  quali  forinole  equivalgono  alle   seguenti   che  consentono 
il  più  semplice  e  rapido  calcolo  dei  coefficienti  g,:  e  del  resto  R: 


lo 

«0 

2i 



ai 

-+-a  go 

<l2 

«2 

-f-agi 

q 

as 

+  ag,_ 

-i 

q,, 

—  1 

Cl)i 

_i-^a 

qn-2 

R 



an 

-+-ag„ 

—  !• 

Cioè:  /  primi  coefficienti  ao,  qo  sono  uguali;  e  per  s^l 
o^/2Ì  qs  è  uguale  al  coefficiente  omologo  as  aumentato  dal  pro- 
dotto di  a  ^er  /7  precedente  coefficiente  qs_i.  Pos^o  R=^qn, 
questa  proposizione  è  vera  anche  per  s  =  n. 

Le  precedenti  formole  dimostrano  che  : 


go  =  «0     ;      gì  rr=  ao  a  4-  ai     ;      g2  =  ao  a-  4-  «i  a  -f-  ^2 

g,  =  ao  a'  -h  ai  a'~^  -f- -h  a,_i  a  4-  a, 

E  ^=1  q^  zrz  ao  cC"  -f-aia^'"^  4-  a^-i  a  4-  a„. 

L'ultima  delle  quali  si  enuncia  così: 

Il  resto  ottenuto  nella  divisione  di  un  polinomio  P  (x) 
per  X  —  a  si  ottiene  scrivendo  a  al  posto  della  x  in  P  (x). 
Cosicché:  Il  polinomio  P  (x)  è  divisibile  per  x  —  a  allora  e 
allora  soltanto  che  a  soddisfa  alla  P  (a)  =  0,  aoè  c/?e  a  è 
radice  dell'equazione  P  (x)  =  0. 

Caso  particolare  di  queste  formole  sono  le  identità  : 


-a"       {x  —  a){x''    ^-^ax''    '  4- a' a;"    '  4-  ...  4- a"    'x4-a'^- 

-■) 

per  72  intero  positivo 

e  per  m  intero  dispari 

r£-  4-  a'-  =  (^  4-  a)  {x'''-^  —  ax'''-'  4-  a'  x'''-'  — 

—  a"^-'.T4-a"-'). 

Se  nella  penultima  formola  poniamo  x- —  1,  a  —  g,  troviamo 

l+q  +  q'  + +  q-'-\ ^, 

che  è  una  formola  ben  nota  nella  teoria  delle  progressioni  geo- 
metriche. 


48  CAPITOLO   IV   —   §    14 

§  14.  —  Relazioni  tra  coefficienti  e  radici 
di  un'equazione  algebrica. 

a)  Dedurremo  più  tardi  dalla  teoria  delle  funzioni  continue 
in  più  variabili  il  teorema  fondamentale  dell'algebra  (teorema 
di  Gauss). 

Ogiii  polinomio  P  (x)  =  ao  x""  -f-  ai  x"" ~  ^  -H  ...  -H  an_i  x  4-  an 
di  grado  n  nella  x  è  decomponibile  in  uno  e  in  un 
solo  modo  nel  prodotto  di  ao  e   di  n  fattori  di  primo  grado 

X  —  0^1,  X  —  «2, X- — cCn  dove   le  a   sono  numeri  distinti  o 

no,  reali  o  complessi. 

P{x)  =  ao^::"'  4-  aix""^  +  ...  -f-  «n-i  x  -4-  a,,  = 

—  ao  (x  —  aO  (x  —  as) ...  {x  —  aj.  (1) 

[Ricordo  che,  dicendo  che  P  (x)  è  di  grado  n,  si  è  detto 
anche  che  ao  ^  O]. 

Questa  decomposizione  in  fattori  ha  qualche  analogia  con 
la  decomposizione  di  un  numero  intero  in  fattori  primi.  Nel- 
l'algebra dei  polinomii,  che  noi  studiamo,  i  polinomii  di  primo 
grado  hanno  così  un  ufficio  analogo  a  quello  che  i  numeri 
primi  hanno  nell'aritmetica  dei  numeri  interi. 

Gli  n  numeri  a^.a^, ^nC)  sono   tutte  e   sole   le  radici 

dell'equazione  P  (x)  =  0  (perchè  P  (x)  può  essere  nullo  soltanto 
se  uno  dei  fattori  x  —  a  è  nullo). 

Ciò  che  rende  intuitivo  il  teor.  del  RUFFINI  relativo  al  caso 
in   cui  il  polinomio  P{x)   è   divisibile  per  un  binomio   x  —  a. 

Le  formole  del  §  11   (pag.  44)  ci  dicono  allora  che: 

La  somma  delle  radici  a  vale —  • 

ao 

La  somma  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicarldo  a  due  a  due  le 
radici  a  vale  — ^  • 

La  somma  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando  ad  h  ad  h 


h  ^i> 


(se  h^n)  le  radici  a  vale  ( —  1) 

Il  prodotto  delle  n  radici  a  vale  ( —  1)"  — ^  • 

ao 

Questi  teoremi  sono  la  generalizzazione  di  quelli  ricordati 
nel  §  10  per  le  equazioni  di  secondo  e  terzo  grado. 


(*)  Ricordo  che  le  ce  possono  anche  essere  non  tutte  distinte. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  49 

P)  Dal  teorema  sopra  enunciato  si  deduce  anche  che,  se  P  (x) 
è  un  polinomio  di  (apparente)  grado  n,  e  se  l'equazione  F{x)=^0 
ammette  più  di  n  radici,  allora  F  (x)  è  identicamente  nullo,  e 
ogni  mimerò  è  radice  della  P  (x)  =  0  (in  altre  parole  tutti  i 
coefficienti  di  P  (x)  sono  nulli). 

Se  due  polinomii  F  {x),  Q  (x)  sono  uguali  per  'tutti  i  valori 
della  X,  allora  l'equazione  F(x)  —  Q  {x)  =  0  ammette  infinite 
radici  (perchè  ogni  numero  ne  è  radice).  Quindi  il  polinomio 
F  {x)  —  Q  {x)  ha  nulli  tutti  i  suoi  coefficienti  ;  cioè  il  grado 
di  P  (x)  è  uguale  al  grado  di  Q  (x)  ;  ed  ogni  potenza  della  x 
ha  coefficienti  uguali  in  F  {x)  e  in  Q  {x)  :  in  una  parola  i  poli- 
nomii F  {x),   Q  (x)  sono  identicamente  uguali. 

Più  precisamente  due  polinomii  Fi  (x),  Po  (x)  di  grado  n  —  1 
sono  uguali   identicamente,  se   assumono  gli    stessi   valori  in  n 

punti  distinti  ai,a2, ,  a^.   Cioè  è  completamente  determinato 

un  polinomio  F  (x)  di  grado  n  —  1,  quando  sieno  dati  i  valori 

P(ai),  P(a2), ,P(aJ,  che   esso   assume   in   n   punti   distinti 

ai,  ^2, ,  a^.  Ed  è  facile  intuire  e  verificare  che  un  tale  poli- 
nomio è  dato  dalla 

Pix) 


-Pia)^""  ■ 

-  «2)  (x  - 

-a,).. 

.  (x  -  aj 

-  ^2)  (ai  - 

-  ai)  {x 

-a,)  .. 
-  a,)  .. 

.  (ai  -  a  J 
..  (x  -aj  ^ 

^^^''''{a, 

-+-... 

-  ai)  (a. 

-as)  .. 

..  (a2  — aj 

^pr.  ^(^ 

-  ai)  {x 

-as)  . 

..  (x  -an_i) 

{an  —  ai)  (a„  —  ao)  ...  (an  —  a„_i) 

y  p.    .  {x  —ai)  {x  —  a2)...(a;  -a.-i)  {x  —  a^+Q  {x  —  a.-^s)  "-{x  —  aj 
(a,:  —  ai)  (a/  —  ao) ...  {at  —  ai-i)  (ai  — a^_f_i)  (a,— ai+2) ...  {ca-ct^^ò 


=  1 


7)  Alle  forinole  di  §  14,  a,  possiamo  dare  un  altro  aspetto  notevole  (Newton). 
Se  noi  nel  secondo  e  terzo  membro  di  (1)  poniamo  x  +  h  al  posto  della  x,  i 
coefficienti  di  h  nelle  espressioni  che  se  ne  deducono  saranno  uguali.  Si  trova  così 
con  facile  calcolo  che: 

na^x"-'^  -j-(w—  1)  a,  a;"-~H- -h  a«_i  = 

=  «0  (a?  —  a,)  {X  —  OL^) (X  —  OLn-ì)  (X  —  OL,,)  + 

"h  0^0  (^  —  °^i)  (^  —^3) (^  —  ^'t-d  (^  —  ^«)  4- 


-}-  «0  (ic  —  o'i)  (ic  —  0^2) (^  —  ^'^-'ù  (^  —  ^«)  H- 

-f  «0  (ic  —  a,)  (a;  —  «2) (x  —  ccn-2)  {x  —  a„_.i)  = 

.^Zi^4.ZM+         ,    P(^)  .  (2) 

a?  —  3Ci      ic  — a,      X  —  oL„ 

G.  Tubini,  Analisi  matematica. 


50  CAPITOLO   IV   —    §    14 

Se  noi  calcoliamo  i  quozienti  dell'ultimo  membro  di  (2)  con  le  regole  del  §  13 
troviamo  : 

na^x"-'^  -i-  {n  —  1)  «,  a;" -^  -h -\-2a„-zx  +  a„-i  = 

«0 ^" ~ ^  H- ( «0 ^2  +  «i) ^" ~ '^ -i- K«2^  +  a,cc2+ «2) ic« --'^ H-..;4- («oOCj"-^  4- a,«2«- 

a^x"-^  ^- {a^(^n-V a^x''-^'\'{affLù-^ a.cLn-^-a^x'' -■''\-...-^r{a^ 

dove  con  Sh  ho  indicato  la  somma  a/*  +  «2^' + ...  +  a/  delle  /i''"'*^  potenze  delle 
radici  oc.  Se  ne  deduce,  confrontando  primo  e  terzo  membro: 

«0  s,  +  a,  —  0 
«0  S2  +  «,  s,  H-  2  «2  =  0 


a,,  s«-i  -ha,  s«  _  2 +  ...-+-««- 2  s,  -l-(w  —  1)  a;i_i  =  0. 

Le  quali  formole  permettono  di  calcolare  successivamente  le  s, ,  So,  S3, ,  s«_i. 

Moltiplicando  P(a:)  per  a;^'(/i  =  0, 1,2, ),  sostituendo  nel  prodotto  una  delle  a  al 

posto  di  X  (col  che  tale  prodotto  si  annulla)  e  sommando  tali  prodotti  si  trova: 

(posto  m  =  n-hh  =  n,n~j-l,n-h2, ) 

ae  Sm  +  «,  s./_i  + +  «,/-!  Sw_« -1-1  +  Un  s,. -»  =  0 (?n ^ n) 

che  permette  di  calcolare  successivamente  s«,  s«4-i,  s»-|-2, 

Cosicché  :  Si  possono  calcolare  le  s/.  appena  sono  noti  i  coefficienti  sa  del- 
l'equazione  P  (x)  =  0. 

ò)  Si  calcoli  la  somma  Sa ,  ^  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando  la  potenza 
a'  """  di  una  radice  di  una  data  equazione  per  la  potenza  ■i''^'"'"  di  un'altra  radice. 

Basta   osservare   che   il   prodotto   s,  s^  —  s^ ,  5  4- s^-j-^    se  a  7^  |S,   e   che 

SaS^  =  Sj,^4-2Sa,  ^. 

Cosicché  Sa,s^=Sy_  s^  —  Sa -f  3 ,  se  ol  :^  '-i,  e  s^^x  =  -k-  (Sx  Sa  —  S.y^). 

Le  formole  di  Newton  permettono  così  di  esprimere  in  ogni  caso  s^ ,  ?  per  mezzo 
dei  coefficienti  dell'equazione.  In  modo  analogo  si  deduce  all'esame  del  prodotto 
Sa  Sq  sy  che:  La  somma  s^,  ^,  y  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando  la  x''^""" potenza 
d'una  radice  di  una  equazione  per  la  p'^^"""  potenza  d'una  seconda  radice,  e  la 
yesima  potcnza  d'uìia  terza  radice  è  espriììiihile  razionalmente  (*)  mediante  i 
coefficienti  dell'equazione  stessa. 

In  modo  simile  si  definiscono  e  si  insegnano  a  calcolare  le  s^,^,  7,  ^,  ecc.,  ecc. 

Tanto  le  Sa  che  le  Sa,  5,  Sa,  3, 7,  ecc.,  sono  funzioni  simmetriche  delle  radici 
d'una  equazione  (cioè  non  cambiano  di  valore  quando  tali  radici  si  permutino  tra 
di  loro  in  un  modo  qualsiasi).  Ed  é  facile  persuadersi  che  ogni  polinomio  sim- 
metrico delle  radici  di  un'equazione  si  ottiene  come  combinazione  lineare  delle 
somme  Sa,  s,  y^  Sa,  ?,  v testé  calcolate,  ed  é  quindi  esso  stesso  calcolàbile  ra- 
zionalmente mediante  i  coefficienti  dell'equazione  (senza  che  sia  necessario 
risolverla). 

Così,  p.  es.,  se  oc, ,  a,,  otj,  a^  sono  le  quattro  radici  di  una  equazione  di  quarto 
grado,  l'espressione: 

5  oc,  («2*  ^3^  -h  c^,'  Ci,'  -+-  oc,2  oc,^)  +  5  ct2  K'  ^'  4-  «r  ^.'  -+-  ^'  ^z"")  + 

+  5  0C3  (a,2  a,2  +  oc,2  ^^^  4.  a,^  oc,^)  -f  5  a,  (a,^  a^^  +  a,^  x,^  +  «3^  a,^)  -^- 

-f-  4  oc, 2  (a,  -f-  oc.  4-  ot;)  4-  4  cl^^  (0C3  +  a^  +  a,)  +  4  a.^'  (a^  +  oc,  -h  a.^)  -h 

+  4  0C42  (a,  +  0C2  -+-  0C3)  rr-  5  s, ,  2 , 2  -+-  4  So , ,  =  5  (s,  S2 , 2  —  S2 , 3)  +  4  S2 , ,  — 

^  5  (^s,  ^'  ~^'  —  [so  S3  -  s,~jj  -h  4  ^S2  s,  —  S3J. 


(*)  Yale  a  dire  con  sole  addizioni,  sottrazioni,  moltiplicazioni  e  divisioni. 


POLINOMII    ED    EQUAZIONI    ALGEBRICHE  51 

Il  suo  calcolo  è  ridotto  a  quello  di  51,52,83,84,85,  che  noi  sappiamo  eseguire 
per  mezzo  delle  formole  di  Newton.  Ma,  naturalmente,  speciali  artifici  potrebbero 
abbreviarlo  di  gran  lunga. 

§  15.  —  Radici  razionali  di  un'equazione 
a  coefficienti  razionali. 

Data  un'equazione  di  grado  superiore  al  quarto,  è  general- 
mente impossibile  ridurne  la  risoluzione  alla  estrazione  di  radici, 
come  avviene  per  le  equazioni  di  2**,  di  3*",  ed  anche  di  4""  grado. 
Svariatissimi  metodi  sono  stati  trovati  per  calcolare  con  appros- 
simazione tali  radici  ;  ma  questi  metodi  hanno  ben  scarsa  impor- 
tanza' per  l'ingegnere.  Per  noi  tale  ricerca  rientrerà  nello  studio 
più  generale  della  risoluzione  approssimata  di  un'equazione  anche 
non  algebrica  (*). 

Cionostante  vogliamo  aggiungere  un'osservazione  specialmente  semplice. 
Poniamo  che  i  coefficienti  deirequazione  : 

f  (^■)  =  ao  5'^  +  a,  ^"-1  4- +  a,-ì  z-\-au  =  0  (1) 

siano  numeri  razionali  (cioè  numeri  interi  0  fratti).  Senza  diminuire  la  generalità 
possiamo  supporli  interi,  perchè,  qualora  fra  di  essi  ve  ne  fossero  dei  fratti,  baste- 
rebbe moltiplicare  ambo  i  membri  dell'equazione  per  il  minimo  multiplo  comune 
dei  denominatori  dei  coefficienti  fratti,  per  ottenere  un'altra  equazione  (avente  le 
stesse  radici  della  prima)  ed  a  coefficienti  tutti  interi. 

Supposto  adunque  che  le  a  siano  numeri  interi,  noi  dimostreremo  che,  se  la 

nostra  equazione  possiede  una  radice  razionale  —  (a,  j?  interi  primi  tra  di  loro) 

allora  a  è  un  divisore  di  an,  ^  un  divisore  di  a,.   Infatti  in  tali   ipotesi  si  ha: 


•■(^; 

l"+ 

Mtr 

-1 
+  ... 

..-+-«.- 

-1  — -h  a-. 

==0, 

che   si 

può   scri^ 

cando 

per 

r): 

' 

a. 

.  a*'  +  a, 

a«-^8 

-^a,^'' 

-^s'^-... 

..  -h  a. 

-loc,'.''- 

■^-^aa^ 

ossia  : 

ao  a"  - 

=  —  ? 

;  «.^"- 

-'+a,cL- 

--|5  + 

+  a 

>r,-^  \ 

oppure 

an  e-'"  - 

.-a; 

!  ao^"^ 

'  ^acL— 

^^^4-. 

....  4-  au 

-1  r-^  ! 

=  0, 


Poiché  le  a/,a,  j3  sono  numeri  interi,  le  quantità  tra  j  j  nei  secondi  membri 
di  queste  equazioni  sono  numeri  interi  ;  e  perciò  questi  secondi  membri  sono  rispet- 
tivamente divisibili  per  ce  e  per  p.  Altrettanto  avverrà  quindi  dei  primi  membri  ; 
ossia  ao  cf."  è  divisibile  per  ^,  a«  ,5«  per  oc. 


(*)  Rinvio  ai  trattati  di  algebra  complementare  chi  volesse  approfondire  tali 
studii  (di  cui  noi  daremo  un  breve  cenno  in  un  venturo  paragrafo). 

Nel  trattato  di  Nomograpìiie  del  D'Ocagne  lo  studioso  troverà  molti  metodi 
grafici  per  eseguire  tali  calcoli  ;  metodi,  che  ricorrono  all'uso  di  una  bilancia  0 
del  galvanometro,  si  trovano  svolti  in  Ghersi,  Matematica  dilettevole  e  curiosa 
(edita  da  Hoepli). 


52  CAPITOLO  IV    —    §    15-16 

Ma,  poiché  oc  e  |3  sono  primi  tra  loro,  a^'  è  primo  con  /5,  /i»  con  a.  Se  ne  deduce 
tosto  che  a,,  :è  divisibile  per  (5,  a„  divisibile  per  a.  e.  d.  d. 

Ponendo  i^  =  1  in  questo  teorema  si  ha  : 

CoROLL.  Le  radici  intere  della  nostra  equazione  a  coefficienti  a  interi  sono 
tutte  divisori  del  termine  noto  a.,,. 

Se  a,)  =  1  dal  precedente  teorema  si  trae  : 

CoROLL.  Se  a^  =  1,  la  nostra  equazione  non  può  avere  radici  fratte,  ma 
soltanto  al  pia  radici  intere. 

Questi  teoremi  riducono  a  pochi  tentativi  la  ricerca  delle  radici  intere  o  fratte 
di  una  equazione  algebrica.  E  si  potrebbero  aggiungere  altri  teoremi  dello  stesso 
tipo,  che  abbrevierebbero  ancora  la  ricerca. 


§  16.  —  Polinomii  a  coefficienti  reali. 

Supponiamo    che   i  coefficienti    Uo,  ai,  ,  a„  del  polinomio 

P{x)  =  ao  os"  -f-  ai  x^^'^-h -+-  an-i  x  -h  an 

sieno  numeri  reali.  Cionostante  le  radici  a  possono  essere  numeri 
complessi  (come  è  ben  noto  già  dalla  teoria  delle  equazioni  di 
secondo  grado).  Sia  ^  H-  ^Y  una  tale  radice.  Sarà 

Il  numero  complesso  coniugato  sarà  pure  nullo. 

Tale  numero  si  deduce  dal  precedente  cambiando  i  in  —  i. 
Ma  questo  cambiamento  non  muta  i  coefficienti  ao,  ai,  ...,  che 
sono  reali.  Dunque  questo  numero  immaginario  coniugato,  che 
è  ancora  nullo,  vale: 

E  questa  uguaglianza  dimostra  che  anche  ^  —  iy  è  radice 
dell'equazione  P(x)  =  0. 

Tra  i  fattori  lineari  x  —  a,  in  cui  è  decomposto  P{x)  figurano 
perciò  entrambi  i  fattori  [x  —  (P  -h  i^)]  e  [x  —  (P  —  iy)]  :  il  cui 
prodotto  è  il  fattore  reale  di  secondo  grado  pi{x)  =  (x —  ?>f-^^'^  = 
=  0;^  —  2?>x-\-  (P^  -H  Y^).  E  il  polinomio  P(x)  è  divisibile  per 
questo  fattore.  Il  quoziente  Pi  (x)  sarà  ancora  polinomio  a  coef- 
ficienti reali.  E,  se  la  equazione  Pi  (x)  =  0  possiede  qualche 
radice  immaginaria  (che  sarà  pure  radice  di  P(a;)  =  0),  allora 
Pi{x)  sarà  ancora  divisibile  per  un  polinomio  p2Ìx)  di  secondo 
grado  a  coefficienti  reali.  Sarà  perciò  Pi  (a;)  =  2^2  W  P2  (^), 
e  quindi  Pix)  =^pi{x)  p2(x)  P2{x),  dove  P2  (a;)  è  ancora  un 
polinomio.  E  così  via.  Se  ne  deduce: 

Ogni  polinomio  P  (x)  a  coefficienti  reali  si  può  scomj^orre 
nel  prodotto  di  polinomii  di  primo  0  di  secondo  grado  a  coeffi- 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI    ALGEBRICHE  53 

denti  reali.  I  fattori  di  primo  grado  corrispondono  alle  radici 
reali  della  P  (x)  =  0.1  fattori  di  secondo  grado  corrispondono 
alle  radici  complesse.  Anzi  ognuno  di  questi  fattori  individua 
una  coppia  di  radici  immaginarie  coniugate. 

Se  il  polinomio  è  di  grado  dispari,  evidentemente  esso  non 
può  essere  prodotto  di  soli  fattori  di  secondo  grado.  Quindi: 

Ogni  equazione  di  grado  dispari  a  coefficienti  reali  possiede 
almeno  ima  radice  reale. 

Sarà  bene  enunciare  esplicitamente  la  osservazione  iniziale: 

Se  P  (x)  =  0  è  un'equazione  a  coefficienti  reali  che  possiede 
una  radice  complessa,  essa  possiede  anche  la  radice  immaginaria 
coniugata.  Essa  si  può,  per  quanto  abbiamo  qui  dimostrato, 
generalizzare  così  :  Se  un'equazione  P  (x)  a  coefficienti  reali  pos- 
siede r  radici  complesse  uguali  a  un  numero  a  -4-  i  p.  essa  possiede 
anche  r  radici  uguali  al  numero  complesso  coniugato  a  —  i  p. 
'  In  tal  caso  tra  i  precedenti  fattori  v«  ne  sono  r  uguali  ad 
{x  —  a)^  +  p^ 

§  17.  —  Sistemi  di  equazioni  algebriche. 

a)  Se  f{x)  =  0,  ^  Ce)  =  0  sono  due  equazioni  algebriche, 
che  hanno  comune  la  radice  a,  allora  x  —  a  è  divisore  sia  di 
f{x)  che  di  g  (x)  e  quindi  anche  del  loro  massimo  comun  divi- 
sore; cioè  a  è  radice  dell'equazione  ottenuta  uguagliando  a  zero 
tale  M.  C.  D.  E  reciprocamente,  una  radice  di  questa  ultima 
equazione  è  radice  comune  delle  f{x)  =  0,  ^  (x)  =  0.  Se  tale 
M.  C.  D.  è  una  costante  (diiferente  da  zero),  se  cioè  f(x), 
g(x)  sono  primi  tra  di  loro,  le  equazioni  f{x)  =  0,  ^(x)  =  0 
non  avranno  radici  comuni. 

P)  Si  può  scrivere  in  vari  modi  la  condizione  necessaria  e 
sufficiente  affinchè  le  equazioni  f{x)  =  0,  g  {x)  ^=  0  abbiano 
almeno  una  radice  comune. 

Se  p.  es.  ai,  a2 ...,  a„,  sono  le  radici  della  g  {x)  =  0,  basta 
esprimere  che  è  nulla  una  almeno  delle  /'(ai),  /"(ag),  ...,  f{^m), 
ossia  che  il  loro  prodotto 

/'K)^(a,)  f(aj  =  0. 

Il  primo  membro  di  questa  equazione,  essendo  un  polinomio 
simmetrico  delle  radici  della  g  {x)  =  0,  si  può  calcolare  (§  14,  §) 
senza  risolvere  questa  equazione.  Tale  polinomio  (che  si  può  cal- 
colare anche  in  altri  modi,  p.  es.,  esprimendo   che  almeno  una 


54  CAPITOLO   IV   —    §    17 

delle  radici  di  f{x)  =  0  soddisfa  alla  g  (x)  =  0),  il  cui  amml- 
larsi  è  condizione  necessaria  e  sufficiente  affinchè  le  due  equa- 
zioni abbiano  almeno  una  radice  comune,  si  dice  il  risultante 
delle  due  equazioni  :  esso  è  un  polinomio  formato  coi  coefficienti 
ai  e  bi  delle  due  equazioni. 

Y)  Sistemi  di  due  equazioni  algebriche  intere  a  due  incognite. 
Uguagliando  a  zero  un  polinomio  in  piìi  variabili  si  ha 
un'equazione  algebrica  a  piii  incognite,  ed  i  gruppi  dei  valori 
delle  incognite,  che  soddisfano  l'equazione,  sono  le  soluzioni  di 
essa.  Date  due  equazioni  algebriche  in  due  incognite  x,  y,  consi- 
deriamo il  loro  sistema,  e  cerchiamo  le  loro  soluzioni  comuni. 
Siano  : 

f(x,y)  —  ^        ,       g(x,y)  =  ^ 

le  due  equazioni  ;  la  prima  di  grado  n,  la  seconda  di  grado  m 
nella  x.  Ordinate  secondo  le  potenze  decrescenti  di  x,  esse 
prendono  la  forma 

g(x,y)  ^  ^Ay)  x^''-^^Ay)x'--'-^  ^2(y)^"-^-4-  ...-+-  e]),, (y)  =  0 

dove  le  9  e  le  ^  sono  polinomii  nella  y. 

Se  una  coppia  di  valori  di  x  ed  y,  p.  es.,  a:;  =  a,  ^  =  P, 
soddisfa  entrambe  le  equazioni,  allora,  immaginando  in  esse 
posto  ^  ^=  P,  si  hanno  due  equazioni  nella  sola  x,  che  avranno 
per  radice  comune  il  valore  :z;  =  a  ;  cosicché  per  ?/  =  ?  sarà 
nullo  il  risultante  R  di  queste  due  equazioni  in  x.  Si  noti  che, 
per  calcolare  R,  nelle  due  date  equazioni  si  considera  come 
incognita  la  sola  x  ;  cosicché  questo  loro  risultante  R  sarà  un 
polinomio  R{y)  nella  sola  y,  perché  dipenderà  solo  dalle  9^•  (?/), 
^j  (y),  coefficienti  delle  date  equazioni. 

Se  X  =  a,  ^  =  P  soddisfano  le  due  equazioni,  la  R  (y)  =  0 
ammette  ^  come  radice.  Viceversa  ogni  valore  P  di  ?/  che  annulli 
R  (y),  sostituito  nelle  due  equazioni  date,  le  riduce  a  due  equa- 
zioni in  X  aventi  almeno  una  radice  a  comune,  che  si  calcola 
servendosi  dell'algoritmo  del  M.  C.  D.  Si  trovano  così  tutte  le 
coppie  di  valori  di  y  ed  x  soddisfacenti  alle  due  date  equazioni. 

L'equazione  Riy)  =  0  dicesi  l'equazione  risultante  dalla 
eliminazione  di  x  dalle  due  date  equazioni.  In  generale,  però, 
per  calcolare  R  (y),  o  per  risolvere  il  dato  sistema  di  equazioni, 
è  opportuno  ricorrere  ad  artifici  che  variano  da  caso  a  caso,  e 
che  solo  la  pratica  può  suggerire. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  55 

B)  Vediamo  come  il  problema  di  trovare  le  radici  z=  x-h  iy 
reali  o  complesse  dell'equazione 

f{x)  =  ao^""  -h  aiz^"^  -^  ...  -f-  a„_i  ^  4-  a^  =  0 

a  coefficienti  %  =  hj  -\-  icj  reali  0  coniplessi  (x,  y,  Cj ,  b  numeri 
reali)  si  riduca  al  problema  di  trovare  le  radici  reali  di  un'equa- 
zione a  coefficienti  reali.  La  nostra  equazione  diventa  nelle  attuali 
ipotesi  : 

(60  -4-  ico)  {x  -h  Ì2jT  ■+•  {ài  -4-  iéi)  (x  -h  iyy-'  -h  ...  4- 
-f-  (hn-i  +  iCn-i)  {x  +  iy)  -+-  (6n  +  ìcJ  =  0. 

Sviluppando  ed  eseguendo  tutte  le  operazioni,  il  primo  membro 
si  ridurrà  in  fine  al  tipo 

P{x,y)  +  iQ{x,y), 

ove  F  e  Q  saranno  polinomii  nelle  x,  y  di  coefficienti  reali,  onde 
l'equazione  precedente  diventerà: 

P(x,y)-^iQ(x,tj)  =  0 
e  si  scinderà  nelle  due: 

P(x,y)  =  0       ;        Qix,y)  =  0. 

Siamo  così  ridotti  alla  risoluzione  di  un  sistema  di  due 
equazioni  in  due  incognite,  che  si  potrà  fare  col  metodo  dato 
in  y).  Ogni  soluzione  reale  x=^Xo,  y  ^=  yo  di  questo  sistema 
dà  una  radice  Xo  -h  iyo  dell'equazione  proposta,  e  viceversa. 

Esercizi. 

1"^  Dati  n  punti,  tre  qualunque  dei  quali  non  sono  mai  in 
linea  retta,  quante  sono  le  rette  che  contengono  due  di  tali  punti  ? 

'       2**  Quante    sono  le  estrazioni   possibili    distinte   al  gioco 
del  lotto? 

S""  Quante  sono  le  estrazioni   possibili  al  gioco    del   lotto, 
in  cui  ^  (^  <  5)  dei  numeri  estratti  sono  prefìssati  a  priori? 

RlS.  Dei  5  numeri  estratti,  k  sono  prefìssati;  i  restanti 
6  —  k  devonsi  scegliere  tra  i  residui  90  —  k  numeri.  Il  nu- 
mero   cercato  è  perciò  fs^Z^).    Per  A;  =  2,  3,  4  si   ottiene   il 


56  CAPITOLO   IV   —    §    17 

numero  dei  casi,  in  cui  è  possibile  vincere  un  ambo,  un  terno, 
una  quaterna  secca.  Tale  numero  diviso  per  il  numero  (eserc.  2"^) 
(^5^)  delle  possibili  estrazioni  dà  là  cosiàetidi  probabilità  di  vittoria. 

4^  Dati  n  <  90  numeri  interi  positivi  non  maggiori  di  90, 
in  quante  estrazioni  del  lotto  può  avvenire  che  k  dei  numeri 
estratti,  e  non  più  di  k  siano  tra  gli  n  numeri  dati? 

Poiché  k  dei  numeri  estratti  sono  da  scegliere  tra  gli  n 
numeri  dati  e  gli  altri  5  —  k  tra  i  residui  90  —  n,  il  numero 
cercato  è  f^)  f^^Z^). 

5^  Dati  n  interi  positivi  non  maggiori  di  90,  in  quante 
estrazioni  del  lotto  può  avvenire  che  almeno  /^  <  5  dei  numeri 
estratti  sieno  fra  gli  n  numeri  dati? 

Si  devono  sommare,  se  p.  es.  >2  ^  5,  il  valore  delle  estrazioni 

di  cui  all'esercizio  4°,  relativi  ai  valori  k  =  h,  k  =  /i  -h  1, , 

k  =  ^. 

6«  Dimostrare  che  (-)  =  (-;!) +  (--{). 

Ris.   1^.  Si  verifichi  direttamente. 

Ris.   2^    Si    osservi    che    tra    le   f^j    combinazione    degli   w 

elementi  ai,  ^2, ,  a„  ad  m  ad  vi  ve  ne  sono  (^^  j  che  non 

contengono  ai  ed  (^Z|)  che  lo  contengono. 

r  Dimostrare  che  (:)-(:Zl)  + (^Z?) -^  .....  +  (^Zl); 
(Cfr.  eserc.  6"). 

8'  Sviluppare  (x  -t-  a  -4-  bf. 
Ris.    Si   ponga   e  =  a  -h  ò   e   si    sviluppi,    sostituendo    poi 
alle  singole  potenze  di  e  lo  sviluppo  corrispondente  di  {a  -h  b), 
(a  -4-  bf,  ecc.  Si  trova  che  il  coefficiente  di  x^  a^  V  (p,  q,  r  in- 

I  ^ 
teri   positivi   di    somma  n)    è   ,     ,      , — ,    come   si    può   provare 

anche  direttamente. 

9''  La  somma  dei  coefficienti  dello  sviluppo  di  {x  -+-  aT 
vale  2":  la  somma  dei  coefficienti  dello  sviluppo  di  {x — aT 
vale  5:ero. 

Ris.  Infatti  tali  somme  sono  uguali  ai  valori  di  {x  ±  aT 
per  a;  =  a  =  1 .  ' 

IO''  Sviluppare  {2x±^ay  e  calcolare  la  somma  dei 
coefficienti  dello  sviluppo. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  57 

11*"  Dimostrare  che  i  numeri  contenuti   nelle   orizzontali 
del  quadro 

1 

1.1 

1      2      1 

13     3     1 

14     6     4    1 

1    5   10   10    5    1 


sono  ordinatamente  i  coefficienti  dello  sviluppo  di  (x  H-  aj, 
(x  -h  aY,  (x  -f-  af,  {x  -4-  af,  ecc.  Si  noti  che  il  termine  di 
posto  h  della  riga  di  posto  k  si  ottiene  sommando  i  termini  di 
posto  h  ed  h  —  1   della  riga  precedente  (l  <h  <  k). 

12"*  Calcolare  il  numero  [^]  delle  combinazioni  con  ripe- 
tizione (in  cui  cioè  uno  stesso  elemento  può  essere  ripetuto  una 
0  più  volte)  di  n  elementi  ad  /^  ad  /i? 

Ris.  Quelle  di  tali  combinazioni  che  non  contengono  il  primo 
degli  n  elementi  dati  sono  (se  m>1)  in  numero  di  [^"^  ]• 
Quelle  che  lo  contengono  sono  in  numero  di  [;^!li],  quando  sia 
posto  [o]  =  l-  Dunque  si  ha  R]  =  [^I^]  +  U-i]-  Queste 
proprietà,  insieme  alle  [^]  =  1,  [fj  =  n  bastano  a  definire  [^]- 

Dunque  [f]  =  (♦^  +  ^  "  ^j,  perchè  (''  "^/^  ~  ^)  gode  (esercizio  6*^)  di 
tutte  queste  proprietà. 

13''  Dalla   (cos  d  -\-  i  sen  0)"  =  cos  w  0  -f-  ^  sen  n  0    si    de- 
ducano, sviluppando  il  primo  membro  con  la  formola  del  binomio, 
i  valori  di  cos  n  0  e  sen  n  0. 
Ris. 

cos  n  0  —  cos"  0  —  (2)  cos"-'  0  sen'  0  +  (4)  cos""'  0  sen'  0  — 

sen  n  0  =  sen  0  j  (i)cos"-'  0  —  (sjcos"-' 0 sen' 0  -4- (5)cos"-' 0 sen' 0  — ....  ( 

che    SI   possono    scrivere    anche    in   altro    modo   ricordando  che 
sen'  0  =  1  —  cos'  0  ;  sen'  0  1=  (l  —  cos'  0)',  ecc. 

14""  In  modo  simile  dalla 

(cos  ai  -+-  i  sen  aO  (C0S2  -f-  i  sen  ^2)  ...  (cos  an  -\-  i  sen  aj  = 
=  cos  [ai  -+-  ao  +  ...  aj  -4-  i  sen  [ai  -f-  ao  -f-  ...  -f-  aj 


58  CAPITOLO   IV    —    §    17 


si    possono   dedurre   le   formole    di    addizione   più  generali  per 
calcolare  cos  [ai  4-  a2  -f- -f-  aj  e  sen  [«i  -4-  a^  +  ...  -h  aj. 

15°  "Il  lettore  deduca  in  modo  analogo  dalla 

cos*"  X  sen*  a;  =  ^  j  [cos  a;  4-  i  sen  x\  -+-  [cos  x  —  i  sen  x\  l'". 
.  j  [  cos  a;  -i-  i*  sen  x]  —  [cos  x  —  i  sen  x\  j* 

che  cos""  x  sen*  rr  si  può  esprimere  come  funzione  lineare  di  seni 
e  di  coseni  di  multipli  dell'angolo  x. 

16°  Dimostrare  che 

per  tutti  i  valori  dell'intero  n. 

\T  Calcolare  j/I 

+.       ^  /       ^      .       ^\  ^  .     .     ,/~  "^  ''^ 

Ris.  E  i  =  Il  C0S--4-Ì  sen-  )•  Quindi ±1/  ^  — cos- 4- ^  sen-- 
\       2  2  /  4  4 


18°   Calcolare   per   via   trigonometrica   [/l  -f-  2,  y  i^  yi, 


]/ —  1,  per  ogni  valore  dell'intero  positivo  n, 

19°  Porre  sotto  forma  trigonometrica  i  numeri 

2  4-  3  i 


20°  Calcolare  per  via  trigonometrica  le  radici  ^i**"'"  di  ±  1 
per  w  =  1,  2,  3,  4,  5,  6. 

21°  Semplificare  le  espressioni 

2  4-  5  i  2  —  5i  1  4-i  \—i 

4- 


3  4-  J/—  3        3  —  l/—  3  '    2  4-  l/—  5        2  —  j/—  5  ' 
3  3        ^         1  4-  i  1  4-  i       ^  • 

5  4-  6  i  "^  5  —  67:  '   2  4-  j/^^^  "^  2  —  V'—'^  ' 
1  4-  i  1  —  i  1  4-  i    .     2  4-  3  i    . 

2  4-  [/^^  2  —  1/^=^  '   2  — 3^       I—i 
3  (^  +  w/)'  4-  3  (i^'  —  i?/)'  +  4  z  (a;  4-  ?'?/)'  —  4  ?*  (:r  —  2»'. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI   ALGEBRICHE  59 

22*^  L'  equazione  x'' —  1  =  0  ha  per  radici  Si,  %  ...,  s„, 
cioè  le  radici  n"*'""*  dell'unità.  Queste  radici  soddisfano  dunque 
alle  : 

£i  +  £2  +  ...  -4-  Sn  =  0  ;  Si  £2  -I-  £,  S3  -f-  ....  -h  £„_i  £„  =  0 

^1  ^2  ^3  +  ^~  ^n-2  ^n  — 1  ^n  ^^=^  0  ; ; 

Si  £0  ....  £n-i  -+-  ....  +  £2  £3 ....  £n  =  0  ;  £1  £2  ....  £«  =  '(—  1)""^'. 

23°  Calcolare  i  coefficienti  di  un'equazione  di  4**  grado, 
che  ha  per  radici  0,   1,  —  1,2. 

Ris.  L'equazione  è  x  {x^  —  2  x'^  —  ce  -h  2)  =  0. 

24**  Calcolare  la  somma  delle  prime,  o  delle  seconde,  o 
delle  terze  potenze  delle  radici  dell'equazione 

:r'  —  2  :^'  +  4  a;'  —  1  =  0. 

Rls.Dalle^i  —  2=0,  .^2— 2  5i -+- 8  =  0,  53—2  52  -h  4^1  =  0 

si  trae  5i  =  2,  52  =  —  4,  §3  =  —  16. 

7  7 

25**  Trovare  le  radici  razionali  ài  x^ —  —  a;2-f-— ^~1=0. 

Moltiplicando  per  2  l'equazione  diventa 

2  :z;'  —  7  a;'  -f-  7  a;  —  2  =  0. 

a    ^ 
Se  -Q-  e  una  radice  razionale,  mutando,  caso    mai,    1   segni 

di  a,  p  (ciò  che  non  muta  la  nostra  radice)  possiamo  renderne 
il  denominatore  P  positivo.  Il  numero  ^  è  da  scegliersi  tra  i 
divisori  positivi  di  ao  =  2,  cioè  vale  1  oppure  2  ;  il  numero  a, 
essendo  un  divisore  positivo  0  negativo  di  0^3  =  —  2,  potrà 
avere   uno    dei   valori  ±1,±2.   Le    eventuali   radici  razionali 

sono  dunque  da  cercarsi  tra  i  numeri  ±  1,  ±  —  5  ±  2.  Si  trova 

che  1,   2,  —  sono  effettive  radici. 

26**  Risolvere  l'equazione  z;^  -f-  a;^  -h  2  a;  -h  2  =  0  (cer- 
cando dapprima  le  sue  radici  razionali). 

Una  tale  equazione  (per  cui  a^  =  1)  non  ha  radici  fratte  ; 
si  trova  che  —  1  è  una  radice  intera.  Dividendo  il  primo 
membro  per  x-\-\^  l'equazione  si  riduce  ad  x"-^  2  =  0,  che 
determina  le  altre  due  radici  ±^|/2. 

27**  L'equazione  ':f?  -+-  2  .t^  +  a;  -h  2  =:  0  ha  %  come  ra- 
dice. Risolvere  l'equazione. 


60  CAPITOLO   IV    —    §    17 

Essa  avrà  —  i  come  seconda  radice.  Il  primo  membro  diviso 
per  {x  -4-  i)  {x  —  i)  =^  x~  -h  1  dà  x  4-  2  per  quoziente.  La 
terza  radice  è  —  2. 

28"*  Si  decomponga  in  fattori  reali  il  polinomio 

P(x)  =  x'  —  2  x'  -4-  2  x'  — .x'  -4-  2  X  —  2, 

sapendo  che  l'equazione  F{x)  ^  0  ha  le  radici  1,  —  1,  i,  1  —  ^. 
Si  noti  che  {x  —  i)  (x  -\-  i)  ^=  x^  -h  l  ;  ' 

[x  —  {l—  i)]  [x  —  (1  -f-  i)]  =  x'  —  2  X  4-  2. 

Quindi  : 

p  [x)  =  (x  —  1)  (x  -f  1)  (x'  ■+-  1)  (x'  —  2  X  -I-  2). 

29**  Come  si  cercano  le  radici  comuni  alle  due  equazioni 

f{x)  =  x^  —  2  x'  -h  X  —  2  =  0,  g  (x)  =  x'  —  4:  —  0  ? 

Eis.  Uguagliando  a  zero  il  Massimo  C  Divisore  delle  f{x), 
g  (x)  si  ha  un'equazione,  le  cui  radici  sono  tutte  e  sole  le  radici 
comuni  alle  due  equazioni. 

Le  due  equazioni 

x'— 2x'4-x  —  2  —  0 
x'  —  4        =0 

hanno    dunque    l'unica    radice    comune    2,    perchè    x  —  2   è  il 
Massimo  C.  Divisore  dei  primi  membri. 

30''  Per  un'  equazione  x^  -4-  ai  x^  4-  «2  x  H-  ^3  =  0  sono 
date  le  somme  Si,  S2,  s^  delle  prime,  delle  seconde,  delle  terze 
potenze  delle  radici.  Si  determinano  i  coefficienti  ai,  ^2,  as.  (Basta 
ricordare  le  formole  di  Newton,  in  cui  questi  coefficienti  si 
riguardino  come  incognite). 

31"  Si  calcoli 

ai'^a2a3-4-a2*aia.5-f-a3*aia2-f-3  (ai^aa+as^aiH-afaa-l-a/ai-j-ao^ai-hasai^) 

dove  ai ,  ao ,  (X'^  sono  le  radici  di  x'^  4-  x  -f  1  =  0. 

Si    noti    che   la  somma  54,  1,  1    dei    primi  tre   termini   vale 

^4  Si,  1  5r,,  1, 

32**  Si  risolvano  le  equazioni 

x'  4-  3  x'  4-  x^  —  3  X  —  2  =  0  ,     x'  —  a;'  4-  x^  —  1  =  0 

x^  —  x^  4-  4  X  —  4  =  0, 
cercandone  prima  di  tutto  le  radici  razionali. 


POLINOMII   ED    EQUAZIONI    ALGEBRICHE  61 

3T  Trovare  direttamente  le  radici  quadrate,  cubiche, 
quarte,  quinte,  di  ±  1  ;  cioè  si  risolvano  direttamente  le  equazioni 

:ì;2±1=0        ;;r'±l=0        ;a;'±l=0        ;^'±1=0. 
Basta  osservare  che  - 

x^—l=^(x—l){x+l)     ;  a;'  4-  1  =  x^  —  i'' =^  (x  —  i)  {x  -4-  i) 
x'  —  l—ix—  1)  {x''  -hx-h  1)     ;  x'  -h  l={x  -hl){x^  —  x-^  1) 
x'  —  l=(x^^—  1)  (x^  -f-  1)  —  (x—l)ix-h  1)  (x  —  i){x-{-  i) 
.      x'-i-l=^  ix'  4-  1)'^  —  2  x'  =  (^^  +  D'  —  (l/2  ^)'  = 
=  (x'  —  x]/2-\-l)(x'-^x  1/2  -f-  1) 
ix'  —l)  =  {x  —  l)ix'-i-x''-hx''-hx-h  1) 

e  che  per  x  =^  0  sì  ha.  x^  +  x'^  -\-  x^  -h  x  -hi  =^  x^  \  2^  -h  z  —  Il  ove  ^  =  a;  -H  - 

X 

{o(f  -h  1)  =  (x  -4-  1)  ix'  —  x^-i-x^  —  x-hl) 

echeper  a;-l=Osihaa:;'^  —  af^-hxr  —  x-h  1  =0;^  \^ — z  —  1  |ove^  =  :cH 

'  X 

Si  confrontino  i  risultati  ottenuti  per  questa  via  coi  risultati 
ottenuti  per  via  trigonometrica. 

Sé"*  Quando  avviene  che  le  due  equazioni 

x^-\-px-hq=^0     ,x^  +  òa?+c  =  0 

hanno  una  radice  comune? 

35*"  Analoga  domanda  per  le 

x'^'hpx-hq^=0     ,  x^  -h  a=^  0. 

3  6"*  Trovare  se  esistono  radici  comuni  alle 

:r*  -h  :z;'  +  4  ^'  +  3  X  +  3  =  0  ^'  +  4  :z;'  +  3  =  0. 

37**  Date  le  somme  Si,  So,  s^  di  tre  numeri,  dei  loro  qua- 
-drati,    dei   loro    cubi,    si    trovi   la   somma   54  delle  loro  quarte 
potenze.  Si  cominci  col  calcolare  l'equazione  di    cui   i    tre   nu- 
meri sono  radici. 

38""  Data  un'equazione  algebrica  a  coefficienti  razionali, 
come  se  ne  determinano  le  eventuali  radici  del  tipo  a  ]/ —  1, 
dove  a  è  un  numero  razionale  ?  Si  faccia  poi  tale  ricerca  per 

x'  -h  x^  -h  6  x'  -h  4  X  -h  4  —  0. 


l'equazione         _4  _, .3    ,    k  ^2 


39°  Costruire  un  polinomio  di  terzo  grado,  che  sia  uguale 
ad   1  per  a;  =  1,  2,  3,  4. 


62 


CAPITOLO   V    — 


18 


CAPITOLO  V. 
DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO 


Nel  §  17  abbiamo  dato  un  metodo  generale  per  affrontare 
il  problema  di  risolvere  i  sistemi  di  due  equazioni  algebriche 
in  due  incognite:  metodo  che  è  estendibile  anche  a  casi  più 
generali.  Ma  questi  studi  vanno  rapidamente  complicandosi, 
conservando  un  carattere  di  grande  semplicità  soltanto  per  i 
sistemi  di  equazioni  di  primo  grado.  Questo  caso  (che  del  resto 
si  può  trattare  coi  metodi  più  elementari  dell'algebra)  ha  dato 
origine  a  nuovi  simboli  e  algoritmi,  il  cui  studio  costituisce 
la  teoria  dei  determinanti,  ed  offre  rapidi  metodi  di  calcolo  in 
alcune  ricerche  di  geometria  e  di  meccanica  razionale.  Per  quanto 
si  tratti  di  una  teoria  di  importanza  più  formale,  che  essenziale, 
noi  vogliamo  ora  esporne  i  tratti  salienti. 


§  18.  —  Matrici. 

a)  Si  dice  matrice  ad  m  righe  ed  n  colonne  l'insieme  di 
m  n  numeri  o  simboli,  od  espressioni  algebriche  {elementi)  disposte 
in  m  righe  ed  n  colonne  (*)  racchiuse  tra  due  coppie  di  sbarre 
verticali.  Cosi,  ad  esempio: 

a     h     e     d 


f 


h 
P 


m 

k 


sono  rispettivamente  una  matrice  a  3  righe  e  4  colonne  ed  una 
matrice  a  2  righe  e  5  colonne. 

Nella  prima  matrice  gli  elementi  a,  6,  ^,  6^  costituiscono  la  prima 
riga,  0,  come  si  suol  dire,  la  riga  d'indice  1  ;  gli  elementi  e,  f,  g,  h 
costituiscono  la  seconda  riga  o  la  riga  d'indice  2,  ecc. 

Gli  elementi  a,  e,  l,  costituiscono  la  colonna  d'indice  1  ;  gli 
elementi  b,  f,  m  costituiscono  la  colonna  d'indice  2,  ecc. 


(*)  È  inutile  definire  il  significato  della  frase  :  «  simboli  disposti  in  una  riga 
0  in  ima  colonna  ».  Gli  esempi  seguenti  basteranno  a  renderne   chiaro  il  senso. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         63 

L'elemento  p  della  prima  matrice  è  l'elemento  posto  nella 
riga  d'indice  3  e  nella  colonna  d'indice  4. 

Assai  spesso  gli  m  n  simboli  che  costituiscono  la  matrice 
(gli  elementi  della  matrice),  si  indicano  con  una  stessa  lettera 
dell'alfabeto  (p.  es.,  con  la  lettera  a)  accompagnata  da  due  indici, 
che  variano  da  elemento  ad  elemento  ;  il  primo  è  l'indice  della 
riga,  il  secondo  è  l'indice  della  colonna  alle  quali  appartiene 
l'elemento. 

Così,  p.  es.,  se  si  indicano  gli  elementi  della  prima  matrice 
con  la  lettera  a,  e  si  vuol  seguire  la  convenzione  ora  fissata, 
si  indicheranno  gli  elementi  della  prima  riga  a,  6,  e,  d  rispet- 
tivamente coi  simboli  aii,  a^,  ciu,  ctu',  gli  elementi  e,  f,  g,  h 
rispettivamente  coi  simboli  «21 ,  «22 ,  ^23 ,  «^24  ;  i  quattro  elementi 
della  terza  riga  coi  simboli  «31?  «^32,  «33,  «34. 

In  generale  una  matrice  a  m  righe  ed  n  colonne  s'indicherà: 


«21 

Ch2 

«22 

airi      .    .    . 

«23        •      .      . 

•      •        «l,n— 1 
.     .       a2,n-l 

ain 

(l2n 

a,ni 

<^m2 

a,n3  .   .  . 

•     •       (*m,  n  —  1 

dinn 

Il  simbolo  Urs  indica  l'elemento  di  una  matrice,  che  appar- 
tiene alla  r*"""  riga  (riga  d'indice  r)  ed  alla  s'''''  colonna  (colonna 
d'indice  5).  Queste  convenzioni  si  usano  spesso  per  semplificare 
e  rendere  più  chiare  le  notazioni. 

Se  m  =f=  n,  la  matrice  dicesi  matrice  rettangolare;  se  m  =  n, 
si  usano  due  sbarre  verticali  soltanto  ;  e  la  matiiice  dicesi 
matrice  quadrata  0  determinante  di  ordine  n. 

P)  Sia  k  un  numero  intero  positivo  non  superiore  né  a  m, 
ne  a  n;  scegliamo  a  piacere  k  colonne  e  k  righe  tra  le  n  co- 
lonne e  le  m  righe  della  nostra  matrice  ;  i  k^  elementi  in  cui  si 
incrociano  le  k  righe  e  le  ^  colonne  scelte  si  troveranno  disposti 
in  modo  da  costituire  una  matrice  quadrata  (determinante)  di 
ordine  k,  il  quale  si  chiama  un  minore  della  data  matrice. 

Così,  p.  es.,  se  m  =  4,  n  =  5,  si  scelgano  tre  colonne, 
p.  es.,  la  2\  la  4%  la  5^  e  tre  righe,  p.  es.,  la  2%  la  3^  la  4\ 

I  nove  elementi  determinati  dalle  intersezioni  di  dette  righe 

«22     «24     «25 


e  colonne  formano  il  determinante 


che  è    un 


«32     «34     «35 
«42     «44     «45 

minore  del  terzo  ordine  contenuto  nella  matrice  considerata. 
I  minori  del  V  ordine  sono  gli  stessi  elementi  della  matrice. 


64 


CAPITOLO    V    —    §    18-19 


y)  Tra  gli  elementi  di  una  matrice  quadrata  di  ordine  7i 
sono  specialmente  notevoli  gli  n  elementi  della  diagonale  prin- 
cipale :  cioè  quelli  che  appartengono  a  riga  e  colonna  di  ugual 


indice.  Per  es.,  nel  determinante 


a 

h 

e    d 

a 

P 

T    S 

A 

B 

C  D 

p 

a 

r    s 

di  ordine  4,  la 


diagonale  principale  è  costituita  dai  4  elementi  a,  P,  C,  s. 

Diciamo  che  abbiamo  trasposto  (scambiato)  due  righe,  p.  es. 
la  t'*'"^"  e  la/*""'*  se  scriviamo  la  T"""  riga  al  posto  della/*""" 
e  viceversa.  Altrettanto  dicasi  per  le  colonne.  Così,  p.  es.,  dal 


precedente  determinante  si  ottiene  il  determinante 


trasponendo  la  seconda  e  la  terza  riga. 


a 

h 

e 

d 

A 

B 

C 

D 

a. 

P 

T 

S 

1 

P 

'l 

r 

S    1 

1 

§  19. 


Definizione  di  determinante. 


I  determinanti  si  considerano  come  simboli  comodi  a  scriversi 
per  indicare  certe  quantità  che  ora  definiremo  (*). 

Un  determinante  \a\  del  primo  ordine  si  considera  come 
identico  al  suo  unico  elemento  a.  Tale  notazione  non  è  però 
usata,  perchè  con  |  a  |  si  indica  invece  di  solito  non  un  deter- 
minante, ma  bensì  il  valore  assoluto  o  modulo  di  a.  Molti  dei 
seguenti  teoremi  non  hanno  del  resto  senso  per  determinanti 
del  primo  ordine. 

a  h 


Un  determinante 


e  d 


del   secondo    ordine    si    considera 


come  un  simbolo  equivalente  alla  diiferenza  ad  —  he.  (Ciò 
che,  come  è  facile  a  riconoscere,  è  conforme  alla  seguente  defi- 
nizione). 

Noi  ora,  supposto  noto  il  significato  di  un  determinante  di 
ordine  n  —  1,  definiamo  il  valore  di  un  determinante  di  ordine  n, 
(Abbiamo  così  una  definizione  generale  per  induzione  completa). 
I  determinanti  più  usati  sono  quelli  del  secondo,  del  terzo  e 
del  quarto  ordine. 


(*)  Taluni  usano  due  coppie  di  sbarre  verticali  per  scrivere  un  determinante, 
pensato  come  matrice  quadrata,  usando  poi  due  sole  sbarre  verticali  se  si  vuole 
indicare  il  valore  che  ora  definiremo. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        65 


Un  elemento  di  un  determinante  si  dirà  di  posto  pari  o  di 
posto  dispari  secondochè  è  pari  o  dispari  la  somma  degli  indici 
della  riga  e  colonna  cui  appartiene  l'elemento  secondo  le  con- 
venzioni del  §  18,  a,  pag.  63. 

E  chiaramente  :  Di  due  elementi  consecutivi  di  una  stessa 
linea  (riga  o  colonna)  uno  è  di  posto  pari,  V altro  di  posto  dispari. 

Sia  dato  un  determinante  D  di  ordine  n  e  ne  sia  a  un 
elemento;  sopprimiamo  la  riga  e  la  colonna,  cui  appartiene  a: 
otteniamo  un  determinante  (minore)  D'  di  ordine  n —  1,  di  cui 
per  ipotesi  conosciamo  il  valore.  La  quantità  -4-  D\  se  a  è  di 
posto  pari,  0  la  quantità  —  D\  se  a  é  di  posto  dispari,  diconsi 
il  complemento  algebrico  di  a. 

Se  un  elemento  di  un  determinante  è  indicato  con  una  let- 
tera minuscola  seguita  da  uno  o  più  indici,  e  se  non  vi  è  a  temere 
alcuna  ambiguità,  molto  spesso  il  suo  complemento  algebrico  si 
indica  con  la  corrispondente  maiuscola  seguita  dagli  stessi  indici. 


Cosi, 


(1) 


SI  scrive 


per  esempio,  se 


D  = 


ai     a-z     a-i     ! 
hi      62      h,     \  ' 

Ci  C2  C;ì         1 


Al 

Ci 


h 

h 

e. 

C3 

ai 

^2 

Ci 

C2 

«2 

^3 

h 

h 

=  ^2  C3  —  C2  h, 


—  tì^2  Ci       ai  C2 


==  «2  ^3  —  h  «3,  ecc. 


Teor.  I.  Se  noi  cambiamo  tutti  gli  elementi  di  una  linea, 
i  loro  complementi  algebrici  non  cambiano. 

E  ciò  perchè  per  formare  il  complemento  algebrico  di  un 
elemento  si  sopprimono  proprio  le  due  linee  cui  appartiene 
l'elemento  stesso. 

Osservazione.  Sia  data  una  successione  di  oggetti,  p.  es. 
a,  ò,  e,  d,  e,  /;  g,  li,  k. 

Scegliamone  due,  uno  di  posto  r,  l'altro  di  posto  p  4=  r  ;  p.  es. 
l'elemento  d  di  posto  r  =  4,  e  g  di  posto  p  =  7.  Sia  r  il 
posto  del  primo  elemento,  quando  si  cancelli  il  secondo,  e  p'  il 
posto  del  secondo  quando  si  cancelli  il  primo.  Nell'es.  prece- 
dente r'  =  4  è  il  posto  di  d  nella  successione  a,  b,  e,  d,  e,  f,  h,  k 

5  —  G.  Tubini,  Analisi  matematica. 

\ 


66  CAPITOLO    V    —    §    19 

Ottenuta  dalla  precedente  sopprimendo  ^;  e  p'=  6  è  il  posto  di  g 
nella  successione  a,b,Cje,f,g,h,k  ottenuta  sopprimendo  invece  d. 
Il  posto  di  un  elemento  non  varia  se  si  sopprime  un  ele- 
mento che  lo  segue,  mentre  invece  diminuisce  di  uno,  se  si  .can- 
cella un  elemento  che  lo  precede;  perciò 

r  ^=^  r ,  ^'  ^=^  p  —  1  se  r  <  p, 

r' =  r — l,p'  =  p  se  r  >  p. 

In  ogni  caso  /  4-  p  ed  r  -+-  p'  differiscono  di  una  unità  ; 
cosicché,   se  uno  di  essi  è  pari,  l'altro  è  dispari  ;  cioè 

Analogamente,  se  in  una  matrice  si  cancella  una  linea  di 
indice  r,  allora  le  linee  parallele  che  precedono  la  linea  cancellata 
(di  indice  p<r)  conservano  nella  nuova  matrice  l'indice  p;  le 
linee  parallele,  che  seguivano  la  linea  cancellata,  che  cioè  ave- 
vano un  indice  p  >  r,  avranno  nella  nuova  matrice  l'indice  p  —  1 
(appunto  perchè  la  r"*'"""  linea  precedente  è  stata  cancellata). 
Anche  nel  caso  delle  linee  di  una  matrice  si  possono  pertanto 
applicare  le  precedenti  considerazioni. 

Sia  dato  un  determinante  D  ;  sia  a  un  suo  elemento  posto 
sulla  r'*""""  riga  e  sulla  s'*'"'*  colonna;  esso  è  di  posto  pari  o 
dispari  secondo  che  r  4-  5  è  pari  o  dispari  [nel  primo  caso 
(—  iy+*  =  -H  1,  nel  secondo  (—  1)'+*  =  —  l]. 

Il  complemento  algebrico  J.  di  a  è  il  minore  [a  ottenuto 
cancellando  riga  e  colonna  incrociantisi  in  a  e  preceduto  dal 
segno  (—  If +^ 

Un  elemento  h  di  D,  che  appartiene  a  una  riga  e  una 
colonna  distinte  da  quelle  passanti  per  a,  appartiene  anche  al 
minore  ^.  Se  y  -^  %  è  pari,  cioè  |x  coincide  con  A,  il  comple- 
mento algebrico  di  b  nel  minore  |JL  si  dirà  il  complemento 
algebrico  di  b  nel  complemento  algebrico  A  di  a  (nel  determi- 
nante iniziale).  Se  invece  r  4-  s  e  dispari,  cioè  A  =  —  [a,  allora 
il  complemento  algebrico  di  b  in  ^,  cambiato  di  segno,  si  chia- 
merà il  complemento  algebrico  di  b  nel  complemento  algebrico 
A  di  a.  Cioè  il  complemento  algebrico  di  b  nel  complemento 
algebrico  J.  di  a  vale  il  complemento  di  b  nel  minore  |x  otte- 
nuto sopprimendo  riga  e  colonna  incrociantisi  in  a,  cambiato  o 
non  di  segno  secondo  che  A  coincide  con  |i  o  con  —  fi,  [cioè 
secondo  che  a  ha  posto  pari  o  dispari  in  B,  cioè  secondo  che 
( —  1)  +*  vale   4-  1   oppure  —  l]. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         67 

Siano  p,  S  i  numeri  d'ordine  della  riga  e  colonna  che  h  ha 
in  D  ;  siano  p\  5'  i  numeri  d'ordine  della  riga  e  colonna  che  b 
ha  in  |x  (che  si  è  ottenuto  da  D  cancellando  la  riga  /*'*'''*  e 
colonna  s'''"^").  Il  complemento  algebrico  di  ò  in  [x  vale  il  mi- 
nore M  ottenuto  cancellando  da  [a  la  riga  e  colonna  incrociantisi 
in  b,  preceduto  dal  segno  -Ho  —  secondo  che  p'  -h  B'  è  pari 
0  dispari,  cioè  preceduto  dal  segno  di  ( — 1)'''"^°. 

Quindi  il  complemento  di  b  in  A,  vale  M  preceduto  dal 
segno    del    prodotto    ( — iy+*    ( — lY''^^',  cioè    dal    segno    di 

Ora  M  non  è  che  il  minore  ottenuto  da  D  sopprimendo 
entrambe  le  righe  ed  entrambe  le  colonne  che  si  incrociano  in 
a  ed  in  b. 

Così  pure,  se  /  ed  s'  sono  i  numeri  d'ordine  della  riga  e 
colonna,  cui  appartiene  a  nel  minore  ottenuto  da  D  soppri- 
mendo le  righe  e  colonne  che  si  incrociano  in  b,  il  complemento 
di  a  nel  complemento  di  b  vale 

dove  M  è  ancora  il  minore  ottenuto  sopprimendo  in  D  le  righe 
e  colonne  che  si  incrociavano  in  a  e  in  b. 
Ora  per  Tosservazione  precedente 

(— l)^  +  r>'  =  — (_  if'  +  F. 
Analogamente  è 

(—  iy  +  '''=:  —  (—  1)*'  +  ^ 

Moltiplicando,  se  ne  deduce  : 

r 2^\r  +  ?  +  p'  +  r]'  __   / -j^y'  +  s'-l-p-f-,]^ 

Perciò  : 

Teor.  II.  Se  a,  b  sono  due  elementi  di  un  determinante 
appartenenti  a  righe  e  colonne  distinte,  il  complemento  alge- 
brico di  a  nel  complemento  algebrico  di  b  è  uguale  al  comple- 
mento algebrico  di  b  nel  complemento  algebrico  di  a. 

Def.  Si  dice  valore  di  un  determinante  la  somma  dei  pro- 
dotti ottenuti  moltiplicando  gli  elementi  di  una  linea  qualsiasi 
per  i  loro  complementi  algebrici  C). 


(*)  Applicando  questa  definizione  a  un  determinante  di  ordine  2,  si  ritorna 
al  valore  sopra  definito  di  un  tale  determinante. 

Se  invece  moltiplichiamo  gli  elementi  di  una  linea  per  i  loro  complementi 
algebrici  cambiati  di  segno,  e  poi  sommiamo,  troviamo  il  valore  del  determinante 
cambiato  di  segno. 


68  CAPITOLO   V   —    §    19 

Così,  p.  es.,  nel  caso  precedente  tale  valore  sarebbe  : 

ai  Al  4-  òi  5i  -h  Ci  Ci,  oppure  a,  A2  -H  62  ^2  -^  C2  C2,  oppure 
ai  Al  -\-  a2A2  -^  a-^  A^,  ecc. 

Perchè  tale  definizione  non  sia  contraddittoria  in  termini 
bisogna  però  dimostrare  che,  da  qualunque  linea  si  parta,  si 
giunge  sempre  allo  stesso  valore  (che,  p.  es.,  per  il  determi- 
nante (1)  è  aiAi-^  hi  Bi  -f-  Ci  Ci  =  ai  Ai  H-  ^2  A2  4-  a^  A^  = 
===:  Ci  Ci  -4-  C2  C2  -f-  C3  C3  =  ecc.  ...). 

Poiché  il  teorema  si  verifica  tosto  per  i  determinanti  del 
2""  ordine  noi  potremo  dimostrarlo  col  metodo  di  induzione  com- 
pleta provando  che,  ammesso  il  teorema  per  i  determinanti  di 
ordine  n  —  1,  e  quindi  anche  per  i  complementi  algebrici  (*) 
degli  elementi  di  un  determinante  di  ordine  n,  esso  si  dimostra 
valido  anche  per  i  determinanti  di  ordine  n.  E  così  noi  faremo. 
Per  provare  che,  partendo  da  una  linea  qualunque,  si  giunge 
sempre  allo  stesso  risultato,  basterà  provare  che,  partendo  da 
una  riga  qualsiasi  (p.  es.  la  /""'")  si  giunge  allo  stesso 
risultato,  come  partendo  da  una  colonna  qualsiasi  (p.  es.  la  5'**"*'»). 
E,  poiché  il  teorema  è  stato  ammesso  per  i  determinanti  di 
ordine  >^ — 1,  noi,  per  calcolare  i  complementi  di  un  elemento 
qualsiasi,  potremo  calcolarli  partendo  da  una  loro  linea  qualsiasi. 

Se  noi  sviluppiamo,  come  abbiamo  detto,  il  determinante 
iniziale  prima  secondo  gli  elementi  della  riga  r,  poi  secondo  gli 
elementi  della  colonna  s,  troviamo  due  somme  S,  S'  di  n  pro- 
dotti (di  un  elemento  per  il  suo  complemento)  che  hanno  un 
addendo  comune  :  il  prodotto  dell'elemento  e  in  cui  si  incrociano 
la  riga  r  e  la  colonna  s  per  il  suo  complemento  C.  Basterà, 
provare  che  i  risultati  R,  R'  ottenuti  sopprimendo  dalle  due 
somme  S,  S'  questo  addendo  comune,  risultano  uguali.  Ogni  ad- 
dendo di  i^  è  il  prodotto  di  un  elemento  a  della  riga  r  per  il  suo 
complemento  A]  questo  complemento  si  può,  come  abbiamo  detto, 
calcolare  partendo  da  una  sua  linea  qualsiasi,  p.  es.  da  quella 
sua  colonna,  che  in  D  aveva  il  posto  s  ;  esso  é  uguale  perciò 
alla  somma  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando  ogni  elemento  h 
di  questa  sua  colonna  per  il  complemento  di  tale  elemento  l 
in  A.  Quindi  R  si  ottiene  così  :  Si  moltiplichi  ogni  elemento  a 
della  r^'™*  riga  per  ogni  elemento  b  della  s^"'™^  colonna  {distinti 


(*)  Ciò  è  evidente  se  si  tratta  del  complemento  di  un  elemento  di  posto  pari  (il 
quale  complemento  è  precisamente  un  determinante  di  ordine  n  —  1).  Se  invece  si 
tratta  di  un  elemento  di  posto  dispari,  tale  complemento  è  un  determinante  di  or- 
dine n  —  1  cambiato  di  segno  ;  ma  tale  cambiamento  di  segno  si  ha,  per  definizione, 
anche  nei  complementi  algebrici  dei  suoi  elementi. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        69 

dair  elemento  e  di  incrocio)  e  per  il  complemento  algebrico  di  b 
nel  complemento  algebrico  L  di  di  e  si  sommino  i  risultati  così 
ottenuti. 

R  '  si  otterrebbe  similmente  sommando  i  prodotti  di  ogni  a 
per  ogni  b  e  per  il  complemento  di  a  nel  complemento  B  di  b. 
Per  il  teor.  II  sarà  dunque  E  =  R\  e.  d.  d. 

Osservazione  —  Da  questa  dimostrazione  segue  che  il  valore  di  un  deter- 
minante si  ottiene  sommando  insieme  : 

a)  il  prodotto  di  un  suo  elemento  e  scelto  ad  arbitrio  per  il  suo  complemento 
algebrico  ; 

^)  i  prodotti  ottenuti  moltiplicando  un  elemento  a  posto  sulla  riga  di  e  per 
un  altro  elemento  h  posto  sulla  stessa  colonna  di  e,  per  il  complemento  algebrico 
di  a  nel  complemento  di  h  (o,  ciò  che  è  lo  stesso,  il  complemento  di  h  nel  com- 
plemento di  a). 

Un  risultato  analogo  si  ottiene  se  gli  elementi  a,  h  descrivono  due  linee  paral- 
lele, p.  es.  due  righe,  restando  però  sempre  in  colonne  distinte.  In  tale  caso  natu- 
ralmente non  si  parla  più  di  elemento  di  incrocio. 


§  20.  —  Proprietà  di  un  determinante. 

Teor.  I.  Se  noi  scambiamo  ordinatamente  le  righe  con  le 
colonne,  il  determinante  D  non  muta  (cioè  diventa  un  deter- 
minante D'  uguale  a  D). 


(Per  es. 


ai  bi  Ci 

ai  a^  a-s 

^2  &2  C2 

bi     &2   &3 

(I3  bs   C3 

Ci  C2  C3 

). 


Ciò  si  può  dimostrare  0  notando  che  per  la  stessa  definizione 
le  righe  e  le  colonne  hanno  lo  stesso  ufficio  nel  calcolo  di  D, 
oppure  [ammesso  il  teorema  per  i  determinanti  di  ordine  più 
piccolo  dell'ordine  di  D,  perchè  il  teorema  è  evidente  per 
i  determinanti  di  ordine  1,  2]  osservando  che,  sviluppando  D 
secondo  gli  elementi  della  prima  riga,  si  ha  un  risultato  identico 
come  sviluppando  D'  a  partire  dalla  prima  colonna. 

Teor.  II.  Trasponendo  (scambiando)  due  linee  parallele, 
il  determinante  D  cambia  di  segno  (cioè  si  muta  in  un  determi- 
nante D'  =  —  Z>  ;  anzi  i  termini  di  D'  sono  ordinatamente 
uguali  e  di  segno  opposto  a  quelli  di  D)  C)- 


(*)  Un  determinante  D  di  ordine  n  è  una  somma  di  più  quantità  T,  ciascuna 
delle  quali  è  un  prodotto  di  n  elementi  del  determinante  stesso.  Queste  T  si  dicono 
i  termini  di  D  (cfr.  i  teor.  del  seg.  §  21).  Un  termine  di  D  è  il  prodotto  di  un 
suo  elemento  per  un  termine  del  complemento  algebrico  dell'elemento  stesso. 


70  CAPITOLO    V   —    §    20 


Il  teorema  è  evidente  per  i  determinanti  di  ordine  2.  Am- 
messo il  teorema  per  determinanti  di  ordine  n  —  1,  dimostria- 
molo per  un  determinante  D  di  ordine  n  >  2.  Il  teorema  così 
sarà  completamente  provato  col  metodo  di  induzione  completa. 
Scambiamo  in  D,  p.  es.,  le  righe  r'*''"*  ed  s*''^^  Consideriamo 
la  f'''"'  riga  con  t^r,  t^s.  Scambiando  le  righe  di  posto  r 
ed  5,  si  scambiano  due  righe  nei  complementi  algebrici  degli 
elementi  di  tale  f''^"'  riga,  che  sono  (a  meno  del  segno)  deter- 
minanti di  ordine  n  —  le  per  i  quali  vale  per  ipotesi  il  teorema. 
Basta  ricordare  lo  sviluppo  di  Z)  ottenuto  partendo  dalla  f'"'"' 
riga,  perchè  il  teorema  risulti  provato  anche  per  D. 

Teor.  III.  Se  un  determinante  ha  due  righe  parallele  uguali, 
esso  è  nullo.  Infatti,  scambiando  tali  righe,  D  resta  immutato  ; 
ma,  per  il  teorema  precedente,  esso  cambia  segno.  Dunque 
n  =  —  D,  cioè  Z)  =  0. 

Teor.  IV.  Se  io  moltiplico  i  complementi  degli  elementi  di 

una  linea  di  D  rispettivamente  per  delle  quantità  li,  I2,  I3 

e  sommo ,  il  numero  così  ottenuto  è  uguale  al  determinante  D' 

che  si  deduce  dal  dato,  sostituendo  le  li,  I2,  I3 ordinatamente 

al  posto  degli  elementi  della  linea  considerata. 

Così,  p.  es.,  se 


D  = 


ai  hi  Ci  ì 

a2  62  C2  I  si  ha  p.  es.  k  A2  +  ^2  ^2  -H  h  C2  =     h  k  k    =  T)' 

«3  h  c-\  ! 


«1 

&1 

Ci 

h 

4 

h 

«3 

63 

Cs 

Infatti  i  complementi  delle  612,  &2,  C2  in  Z>  e  quelli  delle  h^U,  h 
in  D'  sono  per  il  teor.  I  di  pag.  65  ordinatamente  uguali.  Ora 
per  definizione  D'  vale  la  somma  dei  prodotti  ottenuti  molti- 
plicando le  li,  U,  k  per  i  loro  complementi  algebrici  in  D',  che 
per  la  precedente  osservazione  valgono  appunto  i  complementi 
algebrici  A2,  B2,  C2  delle  ^2,  Ò2,  C2  in  Z>.  e.  d.  d. 

Teor.  V.  La  somma  dei  prodotti  ottenuta  moltiplicando  gli 
elementi  di  una  linea  ordinatamente  per  i  complementi  algebrici 
degli  elementi  corrispondenti  di  un'altra  linea  parallela  alla 
prima  e  sommando,  è  nulla. 

Così,  p.  es.,  per  il  determinante  D  del  precedente  teor.  IV 
e  ai^2  +  &i^2-f-Ci(72  =  0,  oppure  ai  5i -1-^2  52 -4-^3  ^3=0,  ecc. 
Infatti  la  somma  dei  prodotti  degli  elementi  ai,  h,  Ci  della 
prima  riga  per  i  complementi  degli  elementi  «2,  &2,C2  della  seconda 
riga  vale  (per  il  teor.  IV  ove  si  ponga  Zi  =  ai,  ?2  =  ^1,  k  =  Ci) 
quel  determinante  D'  che  si  ottiene  da  D  scrivendo  ai,  b\,  Ci  al 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         7 1 

posto  di  «2,  1)2,  C2.  Ma  tale  determinante  D'  avrà  uguali  la  prima 
e  la  seconda  riga  e  perciò  (teor.  Ili)  e  nullo.  e.  d.  d. 

Teor.  vi.  Se  moltiplichiamo  gli  elementi  di  una  linea  del 
determinante  D  per  un  numero  K,  il  determinante  resta  molti- 
plicato per  K  (cioè  si  muta  in  un  determinante  D'  =  KD). 
Infatti  i  complementi  algebrici  degli  elementi  di  quella  linea 
restano  invariati  ;  dallo  sviluppo  di  D  secondo  gli  elementi  di 
tale  linea  si  deduce  pertanto  subito  il  nostro  teorema. 

Cor.  oc)  Se  due  linee  parallele  di  un  determinante  sono  pro- 
porzionali, il  determinante  è  nullo  (perchè,  moltiplicando  gli  ele- 
menti di  una  di  queste  linee  per  un  conveniente  fattore,  il  determi- 
nante si  muta  in  un  determinante  con  due  linee  parallele  uguali). 

Teor.  VII.  Se  gli  elementi  di  una  linea  di  un  determinante 
D  sono  ordinatamente  \i-\-  mi,  I2  -+-  m2,  I3  +  ni;{,  ,  il  deter- 
minante D  è  uguale  alla  somma  dei  due  determinanti  ottenuti 

da  D  sostituendo  agli  elementi  di  tale  linea  una  volta  le  li,  I2, , 

un'altra  volta  le  mi,  m2, 

Ciò  risulta  subito  dallo  sviluppo  del  determinante  ottenuto 
partendo  dalla  linea  considerata. 

Teor.  Vili.    Se   agli   elementi  ai,  bi,  d,  di  una  linea 

aggiungiamo  gli  elementi  a,-,  b,,  Cj, di  una  linea  parallela 

moltiplicati  per  un  mimerò  qualsiasi  k  (cioè  scriviamo  ai  -+-  kaj, 
hi-\-khj, al  posto  di  a,-,  ò», ),  il  determinante  resta  im- 
mutato (cioè  si  muta  in  un  determinante  D'  =  D).  Infatti  IJ 
è  (teor.  VII)  somma  del  determinante  che  ha  come  elementi  della 

linea  considerata  le  a»,  hi, ,  e  dell'altro  che  in  tale  linea  ha 

gli  elementi  kaj^khj, Il  primo  è  lo  stesso  determinante!), 

il  secondo  ha  proporzionali  la  riga  degli   elementi   «j,  òj, e 

la  riga  degli  elementi  kaj,kbjj ,  ed  è  perciò  nullo  (Cor.  a 

del  teor.  VI).  Donde  segue  il  teorema  enunciato. 

Teor.  IX.    Un  determinante  D  di  ordine  n  ha  \n  termiìii. 

Ciò  è  evidente  per  n  ==^  2]  ammesso  al  solito  vero  per  i 
determinanti  d'ordine  n  —  1,  si  noti  che  i  complementi  algebrici 
degli  elementi  di  D  hanno  \n  —  1  termini.  Per  ottenere  D  si 
deve  moltiplicare  ognuno  degli  n  elementi  di  una  linea  di  D  per 
il  suo  complemento  e  sommare.  Si  avranno  così  n  \n  —  1  =  h/ 
termini  generalmente  distinti. 

Il  teorema  è  così  provato  per  induzione  completa.  (Si  noti 
che  per  determinanti  particolari  qualcuno  di  tali  termini  può 
essere  nullo,  due  termini  si  possono   elidere;  se  un  elemento  è 


72 


CAPITOLO   V    —    §    20-21 


somma  di  più  quantità,  qualche  termine  si  può  scomporre  nella 
somma  di  parecchi,  ecc.). 

Teor.  X.  Sono  poi  immediate  le  seguenti  ^proposizioni  : 

a)  Se  tutti  gli  elementi  di  una  stessa  linea  sono  nulli, 
il  determinante  è  nullo. 

b)  Se  tutti  gli  elementi  posti  da  una  stessa  banda  della 
diagonale  principale  sono  nulli,  il  determinante  si  riduce  al 
termine  principale, 

e)   Un  determinante  di  ordine  n  si  può   trasformare   in 
un  determinante  uguale  di  ordiate  n  -4-  1,  premettendo  una  riga 
ed  una  colonna,  purché  gli  elementi  delVuna  o  delValtra  siano 
tutti  nulli,  eccettuato  il  primo  che  sia  uguale  alVunità. 
Così,  p.  es. 


1     0    0 

a    0 

■j 

— 

e    a     b 

e    d 

f    e    d 

1  m   n  p 

0  10  0 

0  e    a  h 

0  f    e  d 


ecc. 


§  21.  —  Altre  proprietà  di  un  determinante. 


Teor.  I.  Un  termine  T  di  un  determinante  D  di  ordine  n  è  (a  meno  del  segno) 
prodotto  V  di  ìì  elementi,  due  dei  quali  non  appartengono  né  alla  stessa  riga, 
ne  alla  stessa  colonna. 

Ciò  è  evidente  per  n  =  2;  come  sopra  ammettiamo  il  teor.  per  determinanti 
di  ordine  n  —  1.  Un  termine  T  di  D  è  il  prodotto  di  un  elemento  a  di  D  per  un 
termine  T'  del  complemento  algebrico  A  di  a.  Poiché  il  teor.  è  ammesso  per  i 
termini  T'  di  A  (che  è  un  determinante  d'ordine  n  —  1)  e  poiché  gli  elementi  di  A 
appartengono  a  righe  e  colonne  distinte  dalle  due  linee,  cui  appartiene  a,  il  ter- 
mine T=aT'  di  D  godrà  pure  delle  proprietà  enunciate. 

Teor.  II.  Viceversa  un  prodotto  P  di  n  elementi  di  D,  due  dei  quali  non 
appartengono  né  alla  stessa  riga  né  alla  stessa  colonna,  è,  a  meno,  del  segno, 
un  termine  T  c?i  D. 

(Dimostraz.  analoga  alla  precedente). 

Per  quanto  riguarda  i  segni  si  può  poi  dimostrare  • 

Teor.  III.  Se  gli  elementi  di  P  si  possono  portare  sulla  diagonale  prin- 
cipale con  k  trasposizioni  di  righe  o  di  colonne,  allora  T  =  (—  1)^'  P,  (cioè  T=  P 
se  Jc  è  pari,  T=  —  P  se  Jc  è  dispari). 

a,  I),  e,  I 

«2  b.2  Co    =  D  si  porta  sulla  diagonale  principale  tras- 

a,  1)3  C3 

ponendo,  p.  es.,  dapprima  le  colonne  prima  e  seconda,  e  poi  le  colonne  che  (dopo  la 
precedente  trasposizione)  si  trovano  al  2°  e  3"  posto.  Pertanto  è  k  —  2,  e  -h'byC^  a^ 
è  perciò  un  termine  T  di  D. 

Le  trasposizioni  con  cui  un  termine  si  porta  nella  diagonale  principale  si 
possono  scegliere  in  modo  molteplice  ;  dal  teorema  III  segue  però  che,  se  con  un 
metodo  occorre  un  numero,  p.  es.,  pari  di  trasposizioni,  con  ogni  altro  metodo  il 
numero  delle  trasposizioni  necessarie  sarà  ancora  pari. 


P.  es.  il  termine  ?),  e,  «3  di 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        73 

DiM.  Il  teorema  è  evidente  se  k  =  0.  In  tal  caso  P  è  proprio  il  prodotto  degli 
elementi  della  diagonale  principale,  che  è  un  termine  del  determinante  {il  termine 
principale). 

In  ogni  altro  caso  il  determinante  D'  dedotto  da  D  con  tali  h  trasposizioni 
vale  (—  ly^D  (teor.  II  del  §  20);  ogni  termine  di  D'  vale  il  corrispondente  di  D 
moltiplicato  per  (—  1)^. 

Ora  il  prodotto  P  da  noi  considerato  è  il  termine  principale  di  D',  e  perciò 
P  è  un  termine  di  D'.  Dunque  (—  1)^'  P  è  un  termine  di  D,  e.  d.  d. 

Teor.  TV.  I  termini  di  un  determinante  D,  clie  hanno  come  fattori  h  eie-, 
menti  scelti  dalle  prime  h  righe  e  colonne,  hanno  per  somma  il  prodotto  del 
minore  a  formato  con  tali  righe  e  colonne  per  il  minore  complementare  a' 
(formato  con  le  residue  righe  e  colonne). 

Per  h  —  1  si  trova  un'immediata  conseguenza  della  definiz.  di  determinante. 

DiM.  Uno  di  questi  termini  T  è,  a  meno  del  segno,  il  prodotto  P  di  ??  elementi, 
appartenenti  a  righe  e  colonne  distinte  del  minore  ^,  per  n  —  h  elementi  appar- 
tenenti a  righe  e  colonne  distinte  di  a'. 

Ora  il  prodotto  p  dei  primi  h  elementi  vale,  a  meno  del  segno,  un  termine 
T  di  A;  e  precisamente  t  =  (— l)'-^,  se  con  h  trasposizioni  si  portano  gli  h  ele- 
menti di  p  sulla  diagonale  principale  di  a.  Il  prodotto  p'  degli  altri  n  —  h  elementi 
vale,  a  meno  del  segno,  un  termine  t'  di  a';  e  precisamente  t'  =  (— l)^jp',  se  con 

I  trasposizioni  si  portano  tali  n  —  h  elementi  sulla  diagonale  principale  di  a'. 

Allora  evidentemente,  facendo  tutte  le  citate  p  + 1  trasposizioni,  tutti  gli 
n  elementi  considerati  sono  portati  sulla  diagonale  principale  di  B.  E  perciò 
T={—\y'-^^P.  Poiché  P  =  2?p'  =  (— 1)^t(— 1)^t',  sarà  T=rr',  Cioè  i  termini 
T  considerati  sono  tutti  e  soli  i  prodotti  di  un  termine  ^  di  a  per  un  termine  -'  di  a'. 

e.  d.  d. 

Siano  scelte  h  righe  qualunque  che  abbiano  i  posti  r,  jT^, ,r^^  scritti  in 

ordine  crescente.  Trasponiamo  la  riga  r'"""  con  quella  di  posto  r^  —  1,  poi  con 
quella  di  posto  r,  —  2,  ecc.  ecc.,  poi  con  la  prima  riga;  avremo  così  fatto  r,  —  1 
trasposizioni:  la  riga  di  posto  r,  è  andata  al  primo  posto,  senza  che  ne  resti 
turbato  l'ordine  in  cui  si  seguono  le  altre  righe. 

In  modo  analogo  con  r^  —  2  trasposizioni  porteremo  la  riga  r'^'  al  secondo 
posto,  ecc.,  con  r^^  —  h  trasposizioni  porteremo  la  riga  r'f^"""  al  posto  h,  in  tutto 

con  (r,  +  ^2  + -}-  r^)  —  (l  4-  2  -+- -h  h)  trasposizioni  avremo  portato  le  nostre 

h  righe  ai  primi  posti  senza  cambiare  né  l'ordine  in  cui  si  succedono  tali  righe, 
né  l'ordine  in  cui  si  succedono  le  altre  n  —  h. 

Altrettanto  dicasi  per  h  colonne  di  posti  s^,  s.^, ,  s^ . 

In  tutto  con  (r,  -h  rg  + -f-  r^)  -h  (s,  -h  s^  + +  s,^)  —  2  (1  -h  2  + •+-  h) 

trasposizioni  avremo  portato  sia  le  righe,  che  le  colonne  considerate  ai  primi  h  posti 
.senza  che  sia  mutato  né  l'ordine  in  cui  si  seguono  le  linee  considerate,  né  l'ordine  in 
cui  si  seguono  le  linee  residue.  Poiché  ogni  trasposizione  di  linee  parallele  cambia 
il  determinante  di  segno,  e  poiché  2  (1  -h  2  -+- -\-  h)  ènn  numero  pari,  con  le  traspo- 
sizioni citate  avremo  dedotto  dal  determinante  D  un  determinante  D' —  {— ly D 

se  e  =  (r,  -f-  r^  -h ....  +  r^)  -+■  (s,  -+-  Sa  -+- +  s^).  E  anzi  da  ogni  termine  di  D'  si 

deduce  il  corrispondente  di  D,  moltiplicandolo  per  (—  1)^  Applicando  a  D'  il 
teor.  IV,  avremo  in  conclusione  : 

Teor.  V.  Se  a  è  un  qualsiasi  minore  di  un  determinante  D  di  ordine  n, 
formato  con  h  <  n  righe  e  h  colonne  di  D,  e  a'  è  il  minore  formato  con  le  residue 
n  —  h  righe  e  colonne,  il  prodotto  di  à,  di  ^'  e  di  ( —  1)',  dove  e  uguaglia  la 
somma  degli  indici  delle  righe  e  delle  colonne  di  ^,  è  uguale  alla  somma  di 
tutti  e  soli  quei  termini  di  a,   che   contengono   come   fattori  h  elementi  di  ^. 

II  prodotto  (—  1)^  A'  si  chiama  complemento  di  a  :  è  facile  vedere  che  (—  1)'  a  è 
il  complemento  di  A'.  ^ 


74 


CAPITOLO    V    —    §    21-22 


Così,  per  es.,  nel  determinante 


B  = 


«21 


«li 


«33 


14 


a 

«24 
«34 
«44 


la  somma  di  tutti  i  termini  del  suo  sviluppo,  i  quali  contengono  per  fattori  due 


elementi  del  minore  a  =    ^22«23 


uguaglia  (—  1)'  A  A',  dove  e  —  2-h3-4-2-h4  =  ll 


(perchè  gli  indici  delle  colonne  di  a  sono  2  e  3  e  quelli  delle  righe  sono  2  e  4) 
ottenuto  da  a'  sopprimendovi  le  righe  e  le  colonne  che 


€  dove  A'  è  il 


«H«14 
«31«34 


contribuiscono  a  formare  a.  Si  ha  poi  che  (—  1)'^  a'  e  (—  1)'  a  sono  rispettivamente 
i  complementi  algebrici  di  a  e  di  a'.  Se  ne  deduce  che: 

Scelte  h  linee  parallele  di  D,  la  somma  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando 
i  minori  di  ordine  h  di  D,  formati  con  queste  h  righe,  per  i  minori  comple- 
mentari, uguaglia  D. 

Basta  ricordare  che  ogni  termine  di  D  è  prodotto  di  n  elementi,  h  dei  quali 
appartengono  alle  h  linee  considerate,  ed  anzi  ad  uno  solo  dei  minori  di  ordine  h 
formati  con  queste  h  linee. 

Così,  per  esempio  : 


«22«a3 
«42«43 


«n«i2«i3« 

* 

«21«22«23«24 

__        a,ia,2 

1    «23«24    !      ,      1 
1    «43«44    1    ^    ! 

«.1«13 

«22«44 

1  a„a,; 

«3»«      «33«34 

«31  «32 

«3.  «33 

«42«44 

1    «3l«34 

«41«42«43«44 

a 
a 

'12«13 
'32«33 

«2.«2^ 

'      -f- 

«12«14 
«32«34 

«21«23 
«41«43 

«13«14 
«33«34 

«2. «22 

«4l«42 

§   22, 


Prodotto  di  due  determinanti. 


Siano  dati  due  determinanti 


A  = 


^11     ^12 ^1  n 

a^l     ^22 ^2  n 


(^n\    ^n  2 


.  a. 


B  = 


U21    O22 


hnl    &, 


bln 


di  ordine  n.  Io  dico  che  il  loro  prodotto  è  uguale  al  determi- 
nante C  di  ordine  n, 


C 


Cu     C12 Cin 

621      C22 ^2  n 


Cnl    Cn2 Cnn 

ove  Crg  ^==  ari  b,.i  -4-  a,.2  b,2  + ■+-  Kn  b«n- 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         75 


(1)   AB 


Cosicché,  supposto  per  fissar  le  idee  n  =  3  : 

aiihii-Tai2hY2  +  avdbn  ^11&21"+-<^12&22+^13<^23       ^ll&:a  +  <^12&32  +  ^13&33 

<^21&11  +  ^22^12  +  ^23^13  <^21^21  +  ^^22^22  "+"  <^23&23        ^21^31  +  ^22^32  "+"  ^23^33 

agiÒii  +  «32^12  +  <^33&13  ^31^21  +  ^32^22  •+"  ^33^23       «31^31  +  <^32&32  +  ^33^33 


Il  determinante  del  secondo  membro  è  la  somma  dei  27  determinanti  che  si 
ottengono  conservando  in  ciascuna  colonna  uno  solo  dei  tre  addendi:  il  primo,  il 
secondo  o  il  terzo.  Se  in  due  colonne  conserviamo  addendi  di  egual  posto  (in 
entrambe  le  colonne  il  primo  addendo,  o  in  entrambe  il  secondo,  o  in  entrambe 
il  terzo),  il  determinante  così  ottenuto  avrà  due  colonne  proporzionali  e  quindi 
(teor.  VI,  oc,  §  20,  pag.  71)  sarà  nullo.  [Così,  p.  es.,  conservando  nelle  prime  due  colonne 
il  primo  addendo,  gli  elementi  di  queste  colonne  si  ottengono.moltiplicando  a,,,  «21»  <^%\ 
rispettivamente  per  b,,  e  per  b^,].  Dei  27  determinanti  basta  per  ciò  tener  conto 
dei  soli  sei  differenti  da  zero,  che  si  ottengono  scegliendo  in  una  colonna  il  primo 
addendo,  in  un'altra  il  secondo,  nella  residua  il  terzo.  Consideriamo  uno  di  questi 
sei  determinanti,  p.  es. 


«12^12 

«.3  ^3 

«M  K 

«22^.2 

«23  ^23 

«2.  ^3t 

«32^12 

«33  ?)23 

«31  ^>iX 

ottenuto,  scegliendo   nella  1*  colonna  il  secondo  addendo,  nella  seconda  il  terzo, 
nella  terza  il  primo.  Esso  vale 

«12  «13  «Il 


^^.2  ?>23  ^31 


Ora  con  e  trasposizioni  di  colonne  il  determinante 


a,. 


(2) 


si  muti 


in  A.  Tale  determinante  varrà  (—1)'^;  e  quindi  (2)  vale  ( — lyh^^'b.i^h^^  A.  Ma 
con  le  stesse  e  trasposizioni  di  colonne  eseguite  sul  determinante  B,  il  termine 
^12^23^31  V3,  nel  termine  principale;  perciò  (teor.  Ili  del  §  21)  ( — '^Y^xì^n^u 
vale  un  termine  di  B.  Perciò  (2)  è  il  prodotto  di  A  per  un  termine  di  B.  Ripe- 
tendo questa  considerazione  per  i  sei  determinanti  sopra  citati,  sì  trova  che  il 
secondo  membro  di  (1)  vale  il  prodotto  di  A  per  la  somma  dei  sei  termini  di  B, 
cioè  vale  il  prodotto  AB,  come  dovevasi  provare. 

(9)  Osservazioni.  Notiamo  che,  invertendo  l'ordine  dei  due  determinanti  A 
e  B,  il  loro  prodotto  non  cambia;  ciò  si  verifica  facilmente  osservando  che  questa 
inversione  equivale  a  scambiare  in  C  le  orizzontali  con  le  verticali. 

Il  determinante  C  si  dice  il  prodotto  eseguito  per  orizzontali  dei  due  deter- 
minanti J.  e  5;  e  la  regola  esposta  per  ottenere  questo  prodotto  si  dice  regola  di 
moltiplicazione  per  orizzontali  degli  stessi  A  ^  B. 

Per  moltiplicare  A  per  B  potrei  anche  scambiare  nei  determinanti  ^  e  J5  le 
righe  con  le  colonne,  ciò  che  non  altera  i  valori  dei  due  determinanti,  e  poi  eseguire 
il  prodotto  con  la  regola  precedente.  Ciò  equivale  a  trasporre,  nell'ultima  formola 
del  prodotto  AB,  i  due  indici  di  ogni  elemento  a  e  quelli  di  ogni  elemento  h  od 
anche  a  porre  Cr.v  =  air  ?>i..  H- a2r  ?>2.  4- «ar  bs...  Il  prodotto  così  ottenuto  dicesi 
prodotto  per  verticali. 

Infine  si  potevano  scambiare  le  righe  con  le  colonne  in  uno  solo  dei  due 
fattori  J.,  B. 

Se  i  due  determinanti  A,  B  non  fossero  del  medesimo  ordine,  allora,  per 
eseguire  il  prodotto  col  metodo  precedente,  si  deve  elevare  l'ordine  del  determinante 
di  ordine  minore,  finché  i  due  determinanti  abbiano  lo  stesso  ordine,  ed  applicare 
infine  la  regola  precedente  (§  20,  teor.  Xc,  pag.  72). 

Ricordo  che  il  quadrato  di  A  uguaglia  ^,  J.  e  si  ottiene  dalla  formola  prece- 
dente, ponendo  a,-s  =  &;•>. 


76 


CAPITOLO  V  —  Q   22-23 


Y)  Consideriamo  le  due  matrici: 


Un   (l\2   Ciiz 

(I2I     ^22     ^23 


&11     &12     &13 
^21     O22     ^23 


Se  le  moltiplichiamo  per  orizzontali,  come  se  fossero  deter- 
minanti, otteniamo  il  determinante  di  secondo  ordine 


^13  hd 
Qj2z  hz 


^11  ^11   -H   ^1:  &12  +  ^13  ^13 

<^11  ^21  -+-   ^12  ^22 

tì^21  ^11  -^-   ^22  ^12  +   CÌ2Z  ^13 

tì^21  ^21  -H  ^22  ^22 

c  = 

che  si  verifica  subito  uguale  a 


dll  (112 

(I2I  0^22 

^11  &12 
^21  &22 

+ 

aii  ai3 

^21  ^23 

&11  &13 
^21  &23 

-4- 

ai2  ai3 

^22  ^23 

&12  &13 
&22  &23 

e  che  si  chiamerà  prodotto  delle  due  matrici. 

Se  invece  si  moltiplica  per  verticali,  si  ottiene  un  determinante  di  terzo  ordine 
identicamente  nullo,  perchè  uguale  al  prodotto  per  verticali  dei  determinanti  nulli 


»„ 

K 

6,3 

K 

h„ 

K 

0 

0 

0 

«11  «12  «13 
«21  «22  «23 
0  0  0 

Mentre  le  due  matrici  sono  simboli  privi  di  significato,  il  loro  prodotto  ha 
dunque  un  significato  preciso. 

Queste  osservazioni  si  possono  generalizzare  a  matrici  qualsiasi,  ma  per  tali 
studii  rinvio  ai  trattati  di  algebra. 


§  23.  —  Il  determinante  di  Vandermonde  e  il  discriminante 
di  un'equazione  algebrica.  Separazione  delle  radici  di  una 
tale  equazione. 

Se  aci,  a2,  ...,  a^,  sono  n  numeri  qualsiasi;  si  calcoli  il  deter- 
minante (di  Vandermonde) 


i)  = 


a; 


a 


a?-'  a^-'  aj-' 


.n  — 1 


Sottraendo  successivamente  dalla  n''''''""',  dalla  (n  —  iy«"»«^ ^ 

dalla  2*  orizzontale  la  precedente  moltiplicate  per  a^,  il  deter- 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        77 


minante  D  resta  scritto  nella  forma 


1  11 

0  «2  —  ai  ag  —  cLi 

0      ag  (a2  —  ai)         as  (ag  —  ai) 


^n  (a, 


aO 


0    ar'(a2  — ai)    ar'K  —  ai)   .....   a;r'(a„-ai) 
0    ar'e^.  — ai)    arM^s  — ai) <-'(«„  — aO 


^2  —  ai         a,,  —  ai 

ao(a2  — ai)     a„(a„  — a^ 


a?      (a2  —  ai) 
aj-'(a2  — ai) 


Ma, 

=  K 


ai) 
ai) 


=  (^2  —  ai)  (ag  —  ai)  (a„  —  aj 


1 

as 


n  — 3  «n  — 3 


n  — 2 


a: 


n  — 2 


Ora,  se  71  =  2,  si  trova  che  D  =  aa  —  ai;  servendosi  della 
precedente  identità,  che  riduce  il  calcolo  di  un  determinante  di 
Vandermonde  di  ordine  n  al  calcolo  di  un  determinante  analogo 
di  ordine  n — 1,   si  trova  che: 

Se  ^  =  3,  Z)  =  (a^  —  a^  (ag  —  ai)  (ag  —  (x.^)- 
Se  n  =  4,  D  =  {(x..2  —  ai)  (cx.^  —  aj)  (a^  —  aj). 
.(a3  — aa)  (a^  — a2)  (a^  —  a3). 

Per  n  qualsiasi  D  è  uguale  al  prodotto  delle  -n(n  —  1) 

differenze  delle  quantità  ai,  ag, a„  a  due  a  due,  in  cui  l'indice 

del  minuendo  superi  l'indice  del  sottraendo. 

oc)  Se  noi  innalziamo  al  quadrato  il  determinante  di  Vandermonde  troviamo 


JD'  =  A 


Sn-l 


Su-f-1 


S2U-2 


dove  con  Sh  ho  indicato  la  somma  delle  h"'""^  potenze  delle  a  (per  li  =1,2, ...,  2w  —  2). 
Questo  determinante  A  si  chiama  il  discriminante  degli  n  numeri  dati  ;  esso 
è  nullo  soltanto  se  almeno  due  di  questi  numeri  sono  uguali  tra  di  loro.  Se  le  a  sono 
le  radici  di  una  data  equazione  algebrica,  le  formole  del  §  14  y,  pag.  50,  permettono  di 
calcolare  tale  discriminante  senza  risolvere  l'equazione,  perchè  le  su  si  possono  cai- 


78  CAPITOLO   V   —    §    23 

colare  tosto,  appena  sono  dati  i  coefficienti  dell'equazione.  Abbiamo  così  un  metodo 
per  riconoscere  quando  due  delle  radici  di  una  data  equazione  sono  tra  loro  uguali. 

,'5)  Il  discriminante  può  servire  (almeno»  teoricamente)  a  calcolare  approssima- 
tivamente le  radici  reali  di  una  equazione  a  coefficienti  reali,  che  abbia  radici 
tutte  distinte. 

Se  P  (x)  =  X"  H-  a,  x"-'^  H- -\-  a,i-ì  rr  +  a«  =  0  è  una   tale   equazione, 

esistono  molti  metodi  per  trovare  un  numero  positivo  B  maggiore  del  modulo  di 
ogni  sua  radice  (*)  reale  0  complessa. 

Noi  diremo  che  abbiamo  calcolato  in  prima  approssimazione,  0  anche  che 
abbiamo  separato  le  radici  reali  di  tale  equazione,  se  per  ogni  tale  radice  a  sap- 
piamo assegnare  un  intervallo  dentro  al  quale  sia  contenuta  la  radice  a  e  nessuna 
altra  radice.  Impareremo  più  avanti  come  il  metodo  di  Newton-Fourier  permetta  poi  di 

dedurre  valori  di  oc  approssimati  a  piacere.   Se  ^,,«2, ,ol,-  sono  le  radici  reali 

di  tale  equazione,  è  P  (x)  —  {x  —  «,)  (x  —  a^) (^  —  °^>)  Q  i^),  dove    Q  (x)  è  un 

prodotto  di  fattori  di  secondo  grado  sempre  positivi  per  x  reale.  Cosicché,  se  f,  ■' 
sono  due  numeri  tali  che  P  (:■>■)  e  P(-^)  abbiano  segni  opposti,  certo  nell'intervallo 
(m,  •>)  esiste  un  numero  dispari  di  radici  a,  e  quindi  almeno  una  radice  a. 

Se  À  è  un  numero  positivo  minore  dei  valori  assoluti  di  tutte  le  differenze  tra 
le  radici  reali  combinate  a  due  a  due,  allora,  formando  una  progressione  aritmetica 
indefinita  in  ambo  i  sensi,  in  cui  la  differenza  tra  due  termini  consecutivi  sia  eguale 
a  codesto  numero  X,  tra  due  termini  consecutivi  della  progressione  potrà  essere 
compresa  una  sola  radice  0  nessuna.  E,  per  quanto  si  disse,  sarà  facile  assicurarsi 
se  tra  due  termini  consecutivi  della  progressione  sia  compresa  0  no  una  radice, 
poiché  nel  primo  caso  essi,  sostituiti  all'incognita  x,  faranno  prendere  al  primo 
membro  P  {x)  dell'equazione  segni  opposti,  nel  secondo  caso  lo  stesso  segno  (**). 

Evidentemente  è  inutile  protrarre  la  progressione  indefinitamente:  basta  tener 
conto  solo  di  quei  termini  della  progressione  che  cadono  nell'intervallo  compreso 
tra  —  B  e  -hB.  In  ognuno  degli  intervallini,  ai  cui  estremi  P  (x)  ha  segni  opposti, 
e  in  essi  soli,  cade  una  e  una  sola  radice  di  P(x)  =  0.  Basterà  tener  conto  ditali 
intervallini  e  trascurare  gli  altri  perché  sia  risoluto  il  nostro  problema  di  separare 
le  radici  della  nostra  equazione. 

Il  nostro  problema  è  dunque  ridotto  alla  determinazione  del  numero  A.  Si  noti 
che,  se  oc,,  ed  a^  sono  due  radici   qualunque,  è   \  a,  —  a,^  \  ^  \  a.^  \  -^  \  ol^  \  ^  2 B. 

Sostituendo  nel  valore  (che  sappiamo  calcolare)  di 

A  =  (oc,  —  a.,y  (a,^  -  a,Y (oc,  _  1  —  a.f 

in-  luogo  di  tutti  i  fattori,  eccettuato  (oc,  —  ot^),  il  numero  maggiore  (in  valore  asso- 
luto) \2  B  \  ,  si  avrà  : 

1  Al^loc, -aJ2(2J5)2^     2  ^;  onde  K"^r|^  loc, -«2  I    |2J5i      '' 


(*)  Ecco,  p.  es.,  un  metodo  teoricamente  semplice.  Sia  A  la  massima  delle 

!  a,  i  ,  i  a^  I  , ,  I  a«  I  .  Sarà 

*                P{x)\^\x\"  —  \  \  a,  ic"-i  I  -f-l  a,x'^-^\  -i- ...-{- \  a,  \  \^ 
\x'f'—A  \  I  ^i«-M-  \x  !«-2-h -h  \  x\-\-l\  =  \x  '"  —  A     ^]"~} 

I  Xj\  i 

cioè 

\P{x)\^-^''  '  l^'-^-^<  +  ^.  Se  dunque  |x|^^  +  l,  allora 
I  a;  I  —  1 
sarà  I  P  (x)  \  >  0.  Quindi  se  x  è  radice  di  P  (x)  =  0,  il  suo  modulo  i  x  \  sarà 
inferiore  ad  J.  + 1.  Potremo  dunque  porre  B=  A-\-l.  Per  altri  metodi,  che  permet- 
tono di  assegnare  un  valore  più  piccolo  del  numero  B  rinvio  ai  trattati  di  algebra. 
«.  (**)  ì^on  porta  che  semplificazioni  il  caso  che  uno  dei  termini  della  progressione 
sia  esso  stesso  una  radice. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        79 


ossia 


'(''-1) 


0L,\^}/  \A\:{2B) 


Il  secondo  membro  è  minore  del  modulo  della  differenza  tra  le  due  radici 
reali  oc,,  a^,  che  si  possono  scegliere  ad  arbitrio  tra  le  radici  reali  dell'equazione. 
Possiamo  dunque  assumere: 

X  — ^ 

(:2B)    ' 

Oss.  Supponiamo  in  particolare  che  i  coefficienti  dell'equazione  siano  interi,  ed  il 
primo  a,j  uguagli  l'unità.  Allora  il  discriminante,  essendo  un  polinomio  a  coefficienti 

interi  formato  coi  rapporti  — ,~, ,—  che  sono  numeri  interi,  sarà  un  numero 

0/0    Ciò  do 


intero,  e  quindi  certamente  sarà  V 


1  (*).  Dunque  possiamo  anche  assumere 

1 


(2^)' 


—  1. 


Se  poi  ^0  non  fosse  uguale  ad  1,  si  ponga  ^  =  — , 
gnita.    L'equazione    diventa    Oq  (-— I  +  a,  (— )        + 


assumendo  y  come  inco- 


y 


^"""-'t 


ossia    y"  -+-  a,  2/"~   4-  O'ì  a,)y''~'^ 


4-  a«-i  a''-^  y  +  a«  a] 


a„  =  0, 
0 ,    che    è 


un'equazione  a  coefficienti  interi   col  primo  coefficiente  uguale  all'unità.  E  siamo 
ricondotti  al  caso  precedente. 

Nei  trattati  di  algebra  complementare  sono  dati  molti  altri  metodi  per  separare 
e  per  calcolare  approssimativamente  le  radici  di  una  equazione  algebrica. 


Esempi  (**). 


1^  Se  ai,  Pi,  Yi  ed  «2,  ^2?  T2?  sono  i  coseni  direttori  di  due 
rette,  rispetto  a  una  terna  di  assi  cartesiani  ortogonali,  è  noto 
dalla  geometria  analitica  che  l'angolo  0  delle  due  rette  soddisfa  alla 


Quindi  : 

^1  Pi  Ti 

«2     p2     T2 


cos  9  =  ai  a2  -f-  Pi  P2  -H  Ti  T2. 


1        cos  0 
cos  0         1 


=  1  —  cos"^  0  =  sen^  0. 


donde: 


sen  9  =  ±  ytfl'  =  ±l/'(«ip2-^a,)V(piT,-p2Tx)^+(Ti«2-«xr2)^ 

r        l'^2P2T2 


(*)  Non  può  essere  A=r0  nell'attuale  ipotesi  che  le  radici  della  nostra  equa- 
zione sieno  distinte. 

(**)  I  seguenti  esempi  sono  importanti  specialmente  per  le  applicazioni  che 
se  ne  fanno  nei  corsi  di  geometria  analitica. 


80 


CAPITOLO    V   —   §    23 


2^  Siano    a,-,  p,-,  y^   i    coseni   di   direzione   di   tre  rette  r,, 
a  due  ortogonali  (^  =  1,  2,  3).  Sarà  : 


ai  Pi  Ti 

2 

100 

a2  ^2  T2 



010 

asPsTs 

00  1 

1  ;  e  quindi 


ai  Pi  Ti 
a2  p2  T2 
«3  P^  T3 


±  1 


3*  Determinanti  reciproci. 
ordine  n 


Dato  un  determinante  di 


A  = 


^11    ^12 din 

^21     ^22 d^n 


dnl  dn2 


dr 


con   i   complementi   algebrici   Ar,  dei   suoi  elementi,  in  numero 
di  n",  si  può   formare  un  altro  determinante  pure  di   ordine  n 


A' 


Ali   Ai2    .....    A\n 
-^21   ^22 A2n 

^nl  ^n2 -^nn 


che  dicesi  reciproco  del  primitivo  A. 

Il  determinante  reciproco  di  un  determinante  di  ordine  n  é 
uguale  alla  (n —  1)''''*  potenza  del  primitivo,  ossia  ^'  =  ^'*~\ 

Infatti  moltiplicando  per  orizzontali  i  due  determinanti  A  e  A\ 
l'elemento  generico  Crs  del  determinante  prodotto  sarà  uguale 
ad  A  se  r  =  s,  ed  uguale  a  zero  se  r  =\=  s.  Infatti  : 


^=  drl  Agi  -h   ar2  Ag2  +    " 

Crr  =^  drl  Ari  -+-   dy  2  Ar  2   "+" 


a 


rn  A,n  =  0,   {t  '-^^  S) 


■^rn  -^j 


come  risulta  dalle  formole  di  pag.   70,  §  20,  Teor.  V^.  Quindi  : 


aa:  = 


A  0 
0   A 


0    0 


=  A\ 


Se  A  ^  0,  dividendo  per  A,  si  ha  subito  la  formola  da 
dimostrare.  Se  poi  ^  =  0,  anche  ^'  =  0  e  la  formola  è  ancora 
vera,  come  ora  proveremo. 

Infatti  ciò  è  evidente  se  tutti  gli  elementi  di  A  sono  nulli  ;  se  invece  non 
sono  tutti  nulli,  ed  è,  p.  es.,  a„  =|=  0,  moltiplichiamo  nel  determinante  A'  la  prima 
colonna  per  a„  (il  che  equivale  a  moltiplicare  A'  per  a,,)  e  ad  essa  aggiungiamo 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        81 

tutte  le   altre  colonne  moltiplicate  ordinatamente  per  a,2,  «13, «i^  (il  che  non 

altera  il  valore  del  determinante)  ;  per  le  stesse  formolo  del  teor.  cit.,  avremo 


in^'  = 


f     -A  -^12    -«-13 -A\i/ 

0  J.22    -^23 ^2// 

0  ^32   -4.33 A:;. 

U  jOlu  2  -^^«3 -Atid 


poiché  la  prima  colonna  è  tutta  costituita  di  termini  nulli,  essendo  A 
Dividendo  per  a,,(^F  0),  otteniamo  appunto  A'  =  0. 


§  24.  —  Sistemi  di  equazioni  lineari. 
Teorema  preliminare. 

Per  sistema  di  m  equazioni  di  primo  grado  (0,  come  anche 
si  dice,  lineari)  ad  n  incognite  xi,  X2, ,  Xn,  s'intende  natu- 
ralmente un  sistema  di  m  equazioni,  ciascuna  delle  quali  sia 
della  forma  : 

ccxi  4-  Px2  -^  ^X'i  -f- -+-  "kxn  =i?, 

dove  le  a,  p,  y, X^p  sono  numeri  costanti  dati  (a,  p, ,  X 

coefficienti  dell'equazione  ;  p  termine  noto). 

•Il  problema  della  risoluzione  di  queste  equazioni  consiste 
dunque  nel  cercare  tutti  gli  speciali  sistemi  di  yalori  da  darsi 

alle  Xi^  X2, ,  Xn,  in  modo  che  le  m  equazioni  ne  restino  tutte 

soddisfatte  simultaneamente. 

Indicando  in  generale  con  a^j  il  coefficiente  della  incognita  Xj 
nella  i'''''  equazione  e  con  a,-  il  termine  noto,  che  sta  al  secondo 
membro  di  questa  stessa  equazione,  è  chiaro  che  il  sistema 
delle  m  equazioni  date  fra  le  n  incognite  assumerà  la  forma 
seguente  : 

I    aiiXi  -f-  ai2X-2   -4- -H  ai^n-lXn~\  -+-  ^ln^n  =  0^1 

r-.-]  j    tì^21  ^1  +  tì^22  3^2    -+" -^  (l2,n-lXn-l-^  a2nXn^=^^2 

\    ^ml^l     '     ^m2^2     '      ~»     ^m,n  — 1^'n— 1  "•"  (^m,nXn ^m 

Due  tali  sistemi  di  equazioni  lineari  nelle  stesse  n  incognite 
si  dicono  equivalenti,  se  ogni  sistema  di  valori  delle  x,  che 
soddisfa  all'uno,  soddisfa  anche  all'altro,  e  viceversa. 

Due  sistemi  equivalenti  a  [l]  sono  equivalenti  tra  di  loro. 
E  poi  noto  ed  evidente  : 

Un  sistema  [l]  è  equivalente  ad  un  altro  sistema  che  si 
deduce  da  [l]  moltiplicando  una  delle  date  equazioni  per  un 
numero  differente  da  zero  e  lasciando  invariate  le  altre  equazioni. 

6  —  G.  FuuiNi,  Analièi  matematica. 


82  CAPITOLO    V   ^ —   §   24 

Un  sistema  [l]  è  equivalente  al  sistema  che  se  ne  deduce 
moltiplicando  una  delle  sue  equazioni  per  un  numero  differente 
da  zero,  e  aggiungendo  ad  essa  le  precedenti  equazioni  molti- 
plicate per  un  numero  arbitrario,  mentre  si  lasciano  invariate 
le  altre  equazioni  di  [l]. 

Nell'algebra  elementare  si  insegna  a  risolvere  un  tale  si- 
stema, mostrando  che,  dato  un  sistema  di  più  equazioni  in  più 
incognite,  se  ne  può  generalmente  dedurre  uno  con  un  minor 
numero  di  incognite  eliminando  almeno  una  incognita.  Nelle 
righe  seguenti  ci  occupiamo  in  generale  della  eliminazione 
anche  di  più  incognite  da  un  tale  sistema  di  equazioni. 

Cominciamo  dal  considerare  un  sistema  di  n  +  1  equazioni 
in  n  incognite  ;  e,  per  fissare  le  idee,  supponiamo  >^  =  3.  Ra- 
gionamento e  risultato  valgono  però  in  generale.  Siano 

'  an  .Ti  -+-  ai2  X2  -h  ai3  x-^  =  a^ 


/o\  /  ^^21  xi  -h  a^2  Xi  -h  «2;}  X'^^  =  a2 

'  a-ix  xx  -4-  a:52  X2  -f-  (iz:\X^  =  a.^ 

an  Xi  -f-  a42  X2  -+-  ^43  0^3  =  a^ 

le  date  equazioni. 

Consideriamo  il  determinante 


(3)  D  = 


an  ai2  ai-i  cc^ 

aoi  a22  ^23  ^2 

^31  ^32  ^33  ^3 

au  a^2  «43  «^4 


Con  Ar  indicheremo  il  complemento  algebrico  di   a,. 

(r  =  1  ,  2  ,  3  ,  4). 

Sarà  I)  =  ^1  Al  4-  ol^  A2  -H  a3  ^3  -H  ^4  A^.  Supponiamo  Ax  -p  0. 
4» 
Per  la  precedente  osservazione  il  sistema  (2)  si  muta  in  un 
sistema  equivalente  se  noi,  pure  lasciando  immutate  le  prime 
tre  equazioni,  sostituiamo  alla  quarta  l'equazione  che  si  ottiene 
moltiplicandola  per  ^4  ed  aggiungendo  le  prime  tre  moltiplicate 
rispettivamente  per  Ai,  A2,  A-^.  Vale  a  dire  il  sistema  (2)  si  tras- 
forma in  un  sistema  equivalente  se  ne  conserviamo  le  prime 
tre  equazioni,  e  alla  quarta  sostituiamo  : 

(4)       Al  (an  xi-hai2X2 4-^13X3)  -4-  A2  (a2ia;i-H  a22X2-^ «23^3)  + 
-h.43  feiXi  4-^32^2-1- «33:^3)  -^  Ai  (anXi-^ a42X2-^ ai3X-i)  = 
=r=  ai  ^i  +  a,  .40 -f- a;5  ^3 -h  a4  ^4. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        83 

Il  secondo  membro  di  questa  equazione  vale  D.  Nel  primo 
membro  il  coefficiente  della  Xl  è  ^n^i -{-«21^2+ <^3i^3 -f- «41  J.4, 
cioè  è  la  somma  dei  prodotti  ottenuti  moltiplicando  gli  elementi 
della  prima  colonna  di  (3)  per  i  complementi  algebrici  degli  ele- 
menti della  quarta  colonna,  ed  è  quindi  nullo.  Altrettanto  dicasi 
per  X2  e  per  x-^.  Dunque  alla  quarta  equazione  di  [l]  noi  pos- 
siamo costituire  la  7)  =  0  ;  il  sistema  si  muta  in  un  sistema 
equivalente. 

Se  invece  A,  —  o,  allora  è  ancora  vero  che  l'uguaglianza 
7)  =  0  è  conseguenza  delle  equazioni  date  (4).  Ma  non  è  in 
tale  caso  sempre  vero  che,  sostituendo  alla  quarta  delle  (2)  la 
7)  =  0,  il  sistema  sia  mutato  in  un  sistema  equivalente.  Dunque: 

Se  sono  date  n  -f- 1  equazioni  lineari  in  n  incognite^  è  con- 
seguenza di  tali  equazioni  V uguaglianza  che  si  ottiene  'ponendo 
uguale  a  zero  il  determinante  D  formato  coi  coefficienti  e  coi 
termini  '^noti  (cosicché,  se  D  4=  0,  il  dato  sistema  è  assurdo,  o, 
come  si  suol  dire,  è  incompatibile,  cioè  non  ammette  alcun  si- 
stema di  soluzioni).  Ed  anzi  se  il  determinante  formato  coi 
coefficienti  delle  prime  n  incognite  nelle  prime  n  equazioni  è 
diverso  da  zero,  il  dato  sistema  di  equazioni  si  muta  in  un 
sistema  equivalente,  quando  si  lascino  invariate  le  prime  n  equa- 
zioni, e  si  sostituisca  all'ultima  la  D  =  o, 

§  25.  —  Regola  di  Leibniz-Cramer. 

Siano  date  n  equazioni  in  n  incognite  :  p.  es.  le  seguenti, 
ove  per  semplicità  è  posto  n  =  3. 

(  dn  Xi  -f-  ai2  X2  -4-  ai3  x-i  ■=  oCi 
(1)  ^  Chi  ^'i  -+-  (I22  X2  ^  ao-ì  Xv,  =  0^2 

(    «;u  ^"i  -4-  «32  X2  -+-  a^-s  X:ì  =^  CC^ 

che  possiamo  scrivere,  p.  es.,  nella  forma 

«12  X2  -H  «13  x^  =  0(i anXi 

«22  X2    -h   «23  Xz  =  «2  ^21  Xl 

«32  X2    -h   «33  ^^3  =  «3  a31  Xi 

Se  noi  per  un  momento  consideriamo  Xi  come  noto,  questo 
è  un  sistema  di  tre  equazioni  nelle  due  incognite  X2,  x^. 
Per  il  risultato  del  §  24  ne  verrà  : 


==:  0. 


ce, 

«uXi 

«12 

«13 

a. 

«21  Xl 

«22 

«23 

ce. 

—   «31  Xl 

«32 

«33 

84 


CAPITOLO    V    —    §    25 


Posto 


(2) 


A  = 


(III  ^12  ^13 
CI21  ^22  ^23 
^31         ^32         ^33 


otterremo,  sviluppando  secondo  gli  elementi  della  prima  colonna 

àxi  = 


di     ai2     ai3 

0^2         ^22         ^23 
^3         ^32         ^33 


E,  se  A  =4=0,  e  se  indichiamo  con  Ars  il  complemento  alge- 
brico di  ar,  in  A  : 


(3)       xi  =  -r 


1 

«1 

tì^l2 

tì^l3 

A 

a^ 

^22 

^23 

«3 

«^32 

^33 

.ai^4ii  4- «2  ^21  +  a.?^; 


In  modo  analogo  si  prova  : 


\0)ijis      Xi  —    ^ 


(3)ter        Xz  =^ 


(I2I  ''^2  ^23 

Cidi  ^3  ^33 

aii  ai2  0^1 

(I21  <^22  ^2 

(I31  (Z32  ^3 


ai 

■^12 

-f-  (X2  A22 

4- a, 

^32 

A 

ai 

4i. 

~1~*  ao  ^23 

+  «3 

-Aga 

Se  esistono  quindi  dei  valori  di  x  che  soddisfano  a  (1),  tali 
valori  debbono  essere  quelli  dati  da  (3),  se  A  -p  0.  Verifichiamo 
ora  che,  se  A  -p  0,  i  valori  da4;i  dalle  (3)  soddisfano  eifettivamente 
ad  (1),  p.  es.  alla  prima  delle  (1).  Infatti,  sostituendo  alle  x  i 
valori  dati  dalle  (3)  nel  primo  membro  della  (1),  si  trova  : 


du 


ai  Ali  +  aa  ^21  +  a3  ^31 


ai  ^12  4-  o(.2  A22  ■+"  as  ^32 
ai2 r- H 


A       ■  '  ^''  A 

ai^i3  +  a2^23^a3^33 
-f-  ai3 ^- = 

^11  ^11  -t-  ^12  ^12  •+-  ^13  ^13      .  ^11  ^21   -^    «12    ^22   ■+■    <^13  ^23 

a, r^ h  ao T 


«11  ^31  +  «12  -^32  -+"  «13  A 


33 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        85 

Ora,  per  i  teoremi  fondamentali  sui  complementi  algebrici, 
il  coefficiente  di  ai  in  questa  equazione  vale  1,  mentre  i  coeffi- 
cienti di  a2,  ag  sono  nulli.  Dunque  tutta  questa  espressione  è 
proprio  uguale  ad  a^  ;  e  la  prima  delle  (1)  è  soddisfatta  dalle  (3). 
Altrettanto  si  può  ripetere  per  le  altre  equazioni  (1). 

Esaminando  le  (3)  si  vede  che  il  nostro  risultato  si  può 
enunciare  così  : 

Dato  un  sistema  di  n  equazioni  di  primo  grado  ad  n  in- 
cognite col  determinante  dei  coefficienti  diverso  da  zero  tutte 
le  incognite  risultano  determinate,  E  precisamente  ogni  inco- 
gnita è  uguale  alla  frazione  che  ha  per  denominatore  il  deter- 
minante dei  coefficienti  e  per  numeratore  il  determinante  che  si 
ottiene  sostituendo  nel  determinante  dei  coefficienti  alla  colonna 
dei  coefficienti  deirincognita  stessa  la  colonna  dei  termini  noti. 

Così,  p.  es.,  il  determinante  dei  coefficienti  del  sistema 


e  : 


9^-1-2?/ 4-3^  =  1 


3  2  5 
1  —  7  4 
9        2      3 


=  304. 


Il  sistema  dato  è  quindi  soddisfatto  soltanto  dalle  : 


X 


2  2  5 
0-7  4 
12  3 


304 


15 


304 


\y 


3  2  5 
1  04 
9  13 

304 


59 
304 


3  22 
1-7  0 
9   2  1 

304 


107 
304 


Un  caso  particolare  notevole. 

Siano  oc/,  ^/,  v/,   i   coseni   di   direzione  di  tre  rette  r«  a  due  a  due  ortogonali. 
Risolviamo  le  equazioni 


(1) 


a,  j?  4-  ,3,  y  +  y,  z  =  1 


a,  X 


^  -+-  Va  ^ 


0. 


Il  determinante  del  sistema  è  (pag.  80,  esempio  2°) 


(2) 


h       V2 


f, 


dove  a  indica  il  numero  +  1,  o  il  numero  —  1. 


86 


CAPITOLO   V   —   §    25-26 


1  ìH  V. 

a,  1  •/, 

a,  f.,  1 

x  —  s 

0   15,  V, 

;y  =  ^ 

CL,0   7, 

',Z  = 

X,   |5,   0 

0  ^x'/i 

CL,    0    73 

^a   IH  0 

Dunque  il  sistema  dato  ammette  una  e  una  sola  soluzione,  data  dalla  regola 
di  Cramer 


(3) 


Ma  ora  il  nostro  sistema  (1)  è  per  le  nostre  ipotesi  soddisfatto,  quando  sì 
ponga  x  —  oL^,  ^  =  jS, ,  z  —  y^,  Quindi  dalle  (3)  si  ricava  che  oc,,  /5,,  y^  sono  uguali 
al  prodotto  di  £  per  i  loro  complementi  algebrici  nel  determinante  (2)  del  sistema  (1). 

Queste  proprietà  del  determinante  (2)  trovano  svariate  applicazioni  nella  geo- 
metria analitica  e  nella  meccanica  razionale. 


§  26.  —  Regola  di  Rouché. 


(2) 


Ritorniamo  al  sistema  più  generale  [l]  del  §  24.  Scegliamo 
tra  le  [l]  un  certo  namero  h  di  equazioni,  e  in  queste  equa- 
zioni diamo  valori  arbitrarli  ad  ìt  —  h  incognite  (con  h  indi- 
chiamo un  intero  non  maggiore  né  di  n,  né  di  m).  Otterremo 
così  un  sistema  di  h  equazioni  in  h  incognite.  Senz'altro  sup- 
porremo che  le  equazioni  scelte  sieno  le  prime  h,  e  che  le  in- 
cognite a  cui  sono  stati  dati  valori  arbitrarli  sieno  le  ultime 
n  —  h,  cioè  le  Xn^i,  ./'a  +  2. -.•  ,  ^«.  Né  ciò  del  resto  diminuisce 
la  generalità,  perchè  possiamo  sempre  ridurci  a  questo  caso, 
mutando  l'ordine  delle  equazioni  e  quello  delle  incognite.  In 
questo  modo  avremo  ottenuto  un  sistema  di  Ji  equazioni  in  h 
incognite  Xi,  Xi,  >..  Xn 


[  an  xi  -i-  au  x-y  -^  '"  -h  aih  Xh  —  [^i  —  cti,  k-\.i  xu^i 

«21  ^1   +    «22  X-j   H-    ...    -H    a2h  Xh  =   [(^2  «2,   //-{-l  X/i  +  l 


din  Xn\ 
d'In  «^nj 


ai 


\i  Xi -^  ah2X2  -\~  '.'  -^  (ihh Xh  —  [^h  —  ah,  h-\-iXh^i 


ahn  ''  n\ 


dove  le  x^  +  i,'...  ,a;,,  sono  da  riguardarsi  come  note,  perchè  ad 
esse  diamo  valori  arbitrarli,  che  ancora  indichiamo  con  a:/,4.i , ... ,  Xn- 
Queste  equazioni  si  potranno  risolvere  con  la  regola  di  Leibniz- 
Cramer  del  §  25,  se  il  determinante  dei  coefficienti 


(3) 


«11         «12   «1/i. 

«21         «22   «2ft 

«ftl      «/i2 ahh 


è  differente  da  zero.  Greneralmente  potremo  in  modi  molteplici 
scegliere  le  h  equazioni  ed  h  incognite  in  guisa  che  sia  sod- 
disfatta quest'ultima  condizione.  E  noi  anzi  cercheremo  di  fare 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         87 


tale  scelta  in  guisa  che  l'intero  li  riceva  il  massimo  valore 
possibile  (massimo  valore,  che  chiameremo  la  caratteristica  del 
dato  sistema  di  equazioni).  Dire  che  h  è  scelto  in  questo  modo 
(così  da  ricevere  il  massimo  valore  possibile)  è  come  dire  che 
i  determinanti  di  ordine  k  >  h  formati  coi  coefficienti  di  k  in- 
cognite in  k  delle  nostre  equazioni  sono  tutti  nulli  (ammesso 
che  di  tali  determinanti  ce  ne  siano,  cioè  che  h  <m,  e  che  h  <  n), 
mentre  almeno  un  minore  di  ordine  h  (che,  come  dicemmo, 
possiamo  supporre  sia  il  minore  (3)  )  è  differente  da  zero. 

In    virtù    dei   risultati    del  §  24    alla  r'*'"""    delle    residue 
m  —  h  equazioni  (r  =  /^  -f-  1,  h  -4-  2,  ... ,  n)  possiamo  sostituire  la 


«21  «22   •••  Cl^h     ^2   [«2,/».  +  !   OCh-\-l   +    ...    -+-   a2n  ^n] 

ahi  cihi  "•  cihh  ^ìi       yau^uj^x  Xì,j^\  -\-  ...  -f-  aun  ^nj 

«ri  ar2  ...  arh     ^r    [«r, /.  +  1   •'5:^/* -f- 1    +    •  •  •   +   «r«  X,^         j 


=  0 


Cloe 


«11  «12  ...  «l/i  ^1 

«21  «22  .  • .   ^27i  ^2 

«M  «/i2  •••  (^hh  ^h 

ari  ar2  •  • .  ^rh  ^r 


Xr 


Xh+^ 


«11  «12    ...    «1/,   «1,/i-f  1 
«21  «22   ...   «2/i  ^2,  ft-f-  1 

^M  «ft2  . . .   ahh  ^/i,  /i  4-  1 
«ri  «r2   ••.  a,-},  «r, //-f-i 


«11  «12   ...  «1/,  «i„ 
«21  ^22   .•*  ^2ft  ^2// 

«/il  «;.2  ...   «/(/i  «Aw 
«ri  «r2  • .  •  afh  am 


=  0. 


In  questa  equazione  i  coefficienti  di  Xh-\-i,  Xk^2,  -"  ,  ocn  sono 
tutti  nulli,  per  quanto  abbiamo  detto  poco  sopra  circa  la  carat- 
teristica h. 

Quindi  questa  equazione  si  può  scrivere  : 


(4) 


«11     «12     .....      «i/i      OCi 
«21     «22 ^2h      ^2 


^ftl     «/i2 (^hh     ^h 

«ri     «r2 «rft      ^r 


nzO  {r=^h-hl,  /^-f-  2, ,  m). 


Se  h  é  ^«  caratteristica  del  sistema  [l]  ^eZ  §  24,  66?  è  ^Zi/- 
ferente  da  zero  il  determinante  (3),  noi  possiamo  alle  m  —  h 


88  CAPITOLO  V  —  §  26-27 

equazioni  dopo  la  h^^'™*^  sostituire  le  uguaglianze  (4)  che  si 
ottengono  uguagliando  a  zero  gli  m  —  h  determinanti  (4)  de- 
dotti da  (3)  ORLANDO  con  una  riga  di  coefficienti  di  una  di 
queste  m  —  h  equazioni,  e  con  una  colonna  dei  corrispondenti 
termiìii  noti. 

Distinguiamo  ora  due  casi  : 

1°)  Uno  di  questi  m  —  /?  determinanti  orlati  è  differente 
da  zero.  In  tal  caso  le  (4)  sono  contraddittorie  ;  e  quindi  il 
dato  sistema  [l]  non  è  risolubile  (non  ammette  alcun  sistema 
di  risoluzioni). 

2^)  I  determinanti  orlati  sono  tutti  nulli  ;  allora  iì  dato 
sistema  [l]  si  riduce  a  (2).  Scelti  arbitrariamente  i   valori   di 

Xhj^i,Xnj^2', ,  ^n,  si  dedurranno  da  (2)  con  la  regola  di  Leibniz- 

Cramer  i  valori  di  o^i,  :r'2, ,  %•  E  otteniamo  così,  se  li  =  n, 

un  solo  sistema  di  soluzioni  di  (l)  e,  se  h<n,  infiniti  sistemi 
di  soluzioni,  ciascuno  dei  quali  è  determinato  dagli  n  —  h  va- 
lori dati  arbitrariamente  a  ciascuna  delle   Xhj^i^XhJr^^ ?  ^n- 


§  27.  —  Sistemi  di  equazioni  lineari  omogenee. 

Se  le  «i  sono  nulle,  le  nostre  equazioni  [l]  del  §  24  si  di- 
cono, come  è  noto,  omogenee.  I  deteminanti  orlati  (4)  sono  tutti 
nulli,  perchè  l'ultima  colonna  è  tutta  formata  di  elementi  nulli. 
E  il  nostro  sistema  è  dunque  sempre  risolubile:  cosa,  del  resto, 
evidente  a  priori,  perchè  ognuna  delle  sue  equazioni  è  soddi- 
sfatta, ponendo  uguale  a  zero  ognuna  delle  x-  Se  la  caratteri- 
stica h  del  sistema  è  proprio  uguale  al  numero  n  delle  incognite, 
allora,  come  sappiamo  dal  §  26,  il  sistema  di  equazioni  [l] 
ammette  un  unico  sistema  di  soluzioni  :  quello  che  si  ottiene 
uguagliando  ogni  incognita  a  zero.  Quindi  : 

Un  sistema  di  m  equazioni  lineari  omogenee  in  n  incognite 
ammette  sempre  un  sistema  di  soluzioni,  almeno  quello  formato 
imponendo  il  valore  zero  ad  ogni  incognita.  Esso  ammette  ulte- 
riormente altre  soluzioni  soltanto  se  la  caratteristica  h  del  si- 
stema è  inferiore  al  numero  n  delle  incognite,  perchè  in  tal  caso 
si  possono  scegliere  n  —  h  incognite  a  cui  si  possono  dare  valori 
arbitrari  (restando  poi  univocamente  determinati  i  valori  delle 
residue  h  incognite). 

In  particolare  un  sistema  di  n  equazioni  lineari  omogenee  ìnn 
incognite  ammette  uno  e  quindi  infiniti  sistemi  di  soluzioni  non 
tutte  nulle  soltanto  se  il  determinante  del  sistema  è  nullo. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        89 

Sia,  per  esempio  : 

(1)  ari  OCi   -4-  ar2  OL'2   -h   +  Urn  ^„  =  0 

{r=l,2, ,n) 

il  dato  sistema  di  equazioni,  che  supponiamo  di  caratteristica 
h  =:n  —  1 .  Il  determinante  D  di  ordine  n  formato  con  tutti 
i  loro  coefficienti  sarà  nullo  ;  e  noi  potremo  supporre  che  sia 
differente  da  zero  il  seguente  minore  di  ordine  n  —  1 

^11  ^12  ^1,  n  -  1 

(t21  ^22  .      .      .      .     •     tì^2    n 1 


dn  — 1,1       (ln—1,2 (ln  —  l,n—l 

che  è  il  complemento    algebrico  Ann  <ii  cinn  nel  determinante  D. 

Noi  sappiamo  in  tal  caso  che,  scelto  ad  arbitrio  il  valore  [i  di 

ne  risulteranno  determinati  i  valori  delle  altre  x. 

Il 
Posto  A  ==  — —  (ricordo   che  Ann  =^0),  il   valore  dato  ad  x 

sarà  y^Ann,  dove  X  è  una  quantità  arbitraria.  Con  questo  valore 

della  x'n,  restano  fissati  i  valori  di  xi,  X2, ,  Xn-i,  e  senza 

nessun  calcolo  si  può  verificare  che  questi  valori  sono 

A  An  1 ,     A  An  2  j   5    A  An,  n  —  1  • 

Infatti  se  si  pone  : 

(2)         A  =  ^^ni  (^'  =  1  ,  2  , n)  (X  =  cost.  arbitraria)  nella 

,^e8ima  ^y. -— i    2  ^ n)  dclle  nostre  equazioni,  il  suo  primo  membro 

diventa  ')<  {Uri  Ani-^  «r2  ^n2  -f- -h  arn  ^nn),  chc    è   zcro  se 

r  #=  n  (pag.  70,  §  20,    teor.    V°),    ed    è  pure  nullo  se  r  =  n, 
perchè  per  r  ^=^n  esso  diventa  XZ),  che  è  nullo  per  ipotesi. 

Le  (2)  danno  dunque  nel  caso  attuale  la  più  generale  solu- 
zione di  (1). 

Esempi. 

lo  Se  A,  A'  A"  sono  i  discriminanti  delle  equazioni 
f{x)  =  0;  gix)  =  0;f{x)  g{x)=0, 

allora,  se  a  rrp  o,  A'  ==N  0,  si  ha  che  ——7  è  il  quadrato  del  risultante  delle 

f{x)  =  0,g{x)  =  0. 

2"  Dimostrare  direttamente  che  un  polinomio  P  (x)  di  grado  w  —  1  è  uni- 
vocamente determinato,  quando  se  ne  conoscano  i  valori  P(a,),  ^(«2)» r-P(^") 

che  esso  assume  in  n  punti  distinti  a„  «2, ,  an;  e  calcolare  tale  polinomio. 


90 


CAPITOLO    V 


§  27 


Posto 


P{x)~hoor"-'^+h^x"-'  -h -f  b. -2 ic +  ?>.-! 


sarà 


P(ai)  =  bo  «1      -hh^a^    ~  + +  ?>«  -  >  a,  -+-?>«_ 


P  (a^)  —  ho  al      -4- 


-f  b,,  _2ao +  ?>..- 


(1) 


(2) 


P{an)=-hca'      +?>,  a 


4- 1),,  _  2  a^  H-  ^" 


Le   (2)  costituiscono   un   sistema   di  n   equazioni   lineari   nelle  n  incognite 

Òq,  hi, ,  1,-2,  h,  _  1,  (i  coefficienti  di  P  {x)  ).  Il  determinante  dei  coefficienti  di  tali 

incognite   è   il   determinante  di   Vandermonde  dei  numeri  a, ,  a^ ,«;,_!,««;  il 

quale  è  differente  da  zero,  perchè  tali  numeri  sono  distinti.  Il  teorema  di  Leibniz- 
Cramer  ci  assicura  che  le  b  e  quindi  anche  P  {x)  sono  univocamente  determinati. 
Si  potrebbe  così  dalle  (2)  dedurre  i  valori  delle  b,  e  sostituire  in  (1).  Ma  più  di- 
rettamente, considerando  le  (1),  (2)  come  un  sistema  di  w  +  l  equazioni  nelle  n 
incognite  i)Q,'b^, ,  hi  -  i,  si  trae  : 


X" 


P{x)  r'-i 
P{a,)a:-'  a".. 


1  =:0 


p  («„)«;    »;; 


1  I 


Sviluppando   secondo   gli   elementi    della   prima   colonna  ed   indicando    con 
F(a,b, ,  e)  il  determinante  di  Vandermonde  delle  quantità  a,  b, ,  e,  si  ottiene 


0——P (a,)  Y{a,,  «3, , an,  x)  -f- P {a^  Fa,, a.^, ,  a.,  x)  4- 

4-  (—  1)"  P {a,)  F(a,,  a^, ,  a.  _i,  x)  4-  (—  1)''  -^'  P (a?)  V{a„  a^ ,  a,) 


donde 


P{x) 


P{a,){-1)" 


V  {ai,az, a«,  0?) 


\,x 


+^^^^^^-^>  tk;^;;:^::^)-^ ^^^^"^  (F(a.,a„ ,a«) 

Sopprimendo  in  ogni  frazione  del  secondo  membro  i  fattori  comuni  al  nume- 
ratore e  al  denominatore  si  ritrova  la  formola  del  §  14  (pag.  49). 

Esercizi. 

1^  Calcolare    e    moltiplicare   fra   di   loro   a   due  a  due  i 
determinanti 


D, 


1  1  1 

1  2  3 

2  3  4 


A 


D,= 


12  3  4 
0  0  15 
0  16  7 
0  10  1 


12  3  4 
0  12  3 
0  0  12 
0  0  0  1 


A== 


D, 


6  3  2  1 
1111 
3  2  10 
12  3  4 


4  2  2  2 
1111 
12  3  4 
3  5  7  9 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO         91 


Calcolare  i  determinanti  reciproci,  verificando  il  teorema  di 
pag.  80-81. 

Ris.  Lo  studioso  farà  bene  a  calcolare  i  precedenti  deter- 
minanti anche  con  lo  sviluppo  secondo  gli  elementi  di  una 
qualche  linea.  Più  rapidamente  si  può  osservare  che  A  =  0, 
perchè  la  terza  riga  è  somma  delle  prime  due:  che  D,  =  1, 
perchè  !>_.  si  riduce  al  termine  principale  ;  che  A  =  —  1, 
perchè,  scambiando  la  seconda  e  la  terza  riga  di  D4,  se  ne 
deduce  un  determinante  il  cui  sviluppo  è  ridotto  al  suo  termine 
principale. 

Il  determinante  D-t  si  può  semplificare,  p.  es.,  sottraendo 
dalla  prima  riga  la  seconda  e  la  terza  ;  il  determinante  D-.  si 
semplifica  sottraendo  dalla  prima  riga  il  doppio  della    seconda. 

T  Calcolare 


D  = 


l   a   h  d  t 

Ime  e  s 

l  m  n  f  r 

l  m  n  g  k 

l  m  ri  g  q 


X 

a 

a 

a 

a 

a 

X 

a 

a 

a 

a 

a 

X 

a 

a 

a 

a 

a 

X 

a 

a 

a 

a 

a 

X 

Ris.    Con    opportune    sottrazioni    di    righe  0    di    colonne    si 
trova: 


I) 


ì 


\  l  a  b           d          t 

I  0  m  —  a  e  —  he  —  d  s  —  t 

0  0  n  —  e  f  —  e  r  —  s 

0  0  0       g  —  fk  —  r 

0  0  0           0       q—k 


=  l  (m  —a)  (n  —  e)  (g  —f)  {q—k), 


donde  in  particolare 


^  = 


l  a  h 

e  d 

l   l  a 

h   e 

l   l    l 

a  b 

l   l    l 

l  a 

l   l    l 

l    l 

=^l(l  —  a)\ 


X  —  a  0             0            0       a 

a  —  X  X  —  a       0            0       a 

0  a  —  XX  —  a       0       a 

0  0        a  —  XX  —  a  a 

0  0            0        a—xx 


=^  (x  —  aY 


1       0       0       0  a 

-11       0       0  a 

0—11       0  a 

0       0    —  1     1  a 

0       0       0  —  1  .T 


92 


CAPITOLO   V    —    §    27 


E  con  opportune  addizioni  di  righe,  si  trova  : 


A  =  (x—  aY 


10  0  0 
0  10  0 
0  0  10 
0  0  0  1 


a 
2a 

3  a 

4  a 


0000a;-h4a 


{x  —  aY  {x  -\-  4:  a). 


3**  Risolvere  i  sistemi  di  equazioni  seguenti  : 


X   -]r    y  -f-    z   ^=^  a 

X   -^  2tj  -^  ^  z—  b 

2x-h3y-^4z=^c 


X    -\-    y    -\-    z    ^=  a 

X   -i-  2y-\-  3  z—b 

2x-h3^-f  5^=c 

Ris.  Per  il  secondo  sistema  basta  applicare  la  regola  di 
Cramer;  per  il  primo  si  noti  che  il  determinante  del  sistema 
è  nullo,  che  esso  è  risolubile  soltanto  se  c  =  a  -\-  b,  nel  qual 
caso  si  può  dare  un  valore  arbitrario  alla  z^  tenendo  poi  conto 
delle  sole  prime  due  equazioni. 

4**  Discutere  i  seguenti   sistemi  di  equazioni  per  tutti  i 
valori  dei  coefficienti  a,  a,  p,  y,  p^  q^  r,  l,  m,  n: 

X    -hy-hz-ht^=0 

4x-^5y-^6z-hat  =  0 

2x-h  3y  -h  4:Z  -\-  5t  =  S 

X  -h    y   —   ^    -j-    t   ^=^  0 

z    =  l 


x-\-y-hz-ht=l 
4  X  -h  ò  y  -\-  Q  z  -^  a  t  =  2 
2x  -i-Sy-h  4:Z  -h  òt=  3 


X  -\-    y  —   z    -h 


0         — 


y 
^y 


^(Z 


-H  py  4-  y^z  =  n 


X 

ccx 
a  X 


y  -+-  ^ 

^'y  -^r  ^  z 


ax4-p^-l-Y  =  0 
px-^r  qy-hr  =  0 
l  x-hmy  H-w  =  0 


t   — 

X    -i- 

C(.  X  -i- 

3^=1 

(a  4-  P  4-Y  )  1^  =  2 

X  -{-  y  -i-  z  =^1 
2x-\-3y-\-4:Z  =  2 
3x-h4y-h6z=3 
Qx,-hSy-\-pz:=& 


m 


aa:;-f-p2/  +  Y  =  0 
p  X  -^  qy  -h  r  =  0 

X  +  y  -h  z  =1 
2x-^  Sy  -4-  Az  =2 
4x4-  dy  4-16^=3 
7a;4-13^V4-j9^  =6 


5°   Risolvere   il   seguente    sistema   di   5    equazioni   nelle 
5  incognite  x^  y,  z,  t,  v. 

Ix  -hay  -hb  z  -h  ct-\-dv=^0 
Ix  -hly  4-a  <^4-ò^4-c^  =  0 
Ix-hly-^lz  -hat  -hbv==^0 
Ix-^ly  -^  Iz  -hit  -{-av  =  0 
lx-\-ly-\-lz-hlt-hlv  =  0. 


DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO        93 


Ris.  Il  determinante  D  dei  coefficienti  è  (es.  2"*  a  pag.  91) 
uguale  du  l{l  —  a)*. 

V  Se  l{l  —  aY  =i=  0,  sarà  x^=^y  =  ^^=^t^v=0. 

2**  Se  ?  =  Ò,  a  =}=  0,  la  caratteristica  di  D  è  4,  perchè  è  dif- 
ferente da  zero  il  minore  formato  dalle  prime  4  righe  ed  ultime  4 
colonne.  Si  dà  allora  alla  x  un  valore  arbitrario  e  si  tien  conto  delle 
prime  4  equazioni,  che,  essendo  l  =  0,  risultano  omogenee  nelle 
y,  z,t,v  dù  determinante  non  nullo,  cosicché  y=.z^=^t^=^v^=^0. 

3<*  Se  ^  r=  a  =  0,  alle  x,  y  si  possono  dare  valori  arbi- 
trari; e  il  nostro  sistema  si  riduce  al  sistema: 

bz  -^  ct-\-  dv  =  0 
bt-h  e?;  =  0 
bv  =^0 
che  si  discute  senza  difficoltà. 

4°  Se  ?  =  a  =!=  0,  il  minore  formato  dalle  prime  quattro 
righ     e  ultime  quattro  colonne  è 

a  —  b  b  —  e  e  —  d  d 

0  a  —  b  b  —  ce 

0  0  a  —  b   b 

0  0  0       a 


a  b  e   d 

a  a  b   e 
a  a  a  b 

— 

a  a  a  a 

a  (a  —  bf 


Se  a  =#  6,  questo  minore  è  differente  da  zero  ;  dato  alla  x 
un  valore  arbitrario ,  si  ricavino  i  valori  di  y,  z,  t,  v,  dalle 
prime  quattro  equazioni. 

5**  Resta  ad  esaminare  il  caso  che  Z  =  a  =  6=!-0,  ecc.  ecc» 
6°  Calcolare  il  discriminante  della  equazióne 

x^-\-px-hq=^0 

e  quello  della  x^  -h  p  x  -i-  q  =^  0,  confrontando  poi  coi  risultati 
già.  noti  relativi  a  queste  equazioni. 

Ris.  Per  Tequaz.  a;^-+-^a;-Hg  =  0  1a  somma  dei  quadrati  ^2 
delle  due  radici  vale  p"  —  2  q.  Quindi  il  discriminante  vale 

2  —p 

— 2)    p~  —  2  p 

Ed  è  ben  noto  che  le    due  radici   di  tale   equazione   sono 


P' 


4,  =  4(1-,) 


Uguali  soltanto  se  ^  =  g,  ecc.  ecc. 

7*^  Per  quali  valori  di  a  può  avvenire  che  l'equazione 
.^"^ -h  a  =  0  abbia  due  radici  uguali? 

8°  Per  quali  valori  delle  p,  q  l'equazione  x^  -\- p x -^  q^=^  0 
ha  due  radici  uguali? 


94  CAPITOLO   VI   —   §    28 


CAPITOLO  VI. 
FUNZIONI,   LIMITI 


§  28.  —  Intervalli,  intornì. 

L'insieme  dei  numeri  reali  compresi  tra  due  numeri  dati  a,  h 
si  chiama  intervallo  finito  e  si  indica  con  {a,  b).  Nella  corri- 
spondenza tra  numeri  e  punti  di  una  retta  r  tale  intervallo  ha 
per  immagine  un  segmento  finito.  Dei  due  estremi  a,  h  il  minore  si 
chiama  estremo  inferiore,  o  sinistro;  il  maggiore  si  chiama  estremo 
superiore  o  destro.  Il  valore  assoluto  \b  —  a  |  dicesi  grandezza 
0  ampiezza  dell'intervallo.  Gli  estremi  a,  h  si  considerano,  salvo 
avvertenza  contraria,  come  appartenenti  all'intervallo  {a,  h). 

L'insieme  dei  numeri  non  minori  di  un  numero  a  si  indica 
con  (a,  -!-  00  )  e  si  dice  costituire  Vintervallo  infinito,  che  ha  a 
per  estremo  sinistro  o  inferiore  e  +  oo  come  estremo  destro  o 
superiore  (notando  al  solito  che  questa  frase  si  deve  considerare 
soltanto  come  un  modo  di  dire  e  niente  più).  Il  punto  a  si  può 
talvolta  (purché  si  avverta  esplicitamente)  escludere  dall'inter- 
vallo (a,  +  00  ).  Questo  intervallo  ha  sulla  retta  r  per  immagine 
la  semiretta  (il  raggio)  posta  a  destra  del  punto  a  (cioè  del 
punto  che  ha  per  ascissa  a). 

Osservazioni  analoghe  per  i  numeri  non  maggiori  di  a,  che 
formeranno  un  intervallo  (—  oo  ,  a).  Per  intervallo  ( —  co  ,  -f-  ce  ) 
intenderemo  la  classe  di  tutti  i  numeri  reali,  che  hanno  per 
immagine  tutti  i  punti  della  retta  r. 

Assai  spesso  diremo  intervallo  in 'luogo  di  segmento  o  vice- 
versa, così  come  diciamo  punto  invece  che  numero,  o  viceversa. 

Se  e  è  un  punto  deirintervallo  (a,  h),  questo  intervallo  si 
dice  intorno  di  e.  Se  e  è  l'estremo  destro  di  (a,  ò),  cioè  se  p.  es. 
e  ^=^  b  >  a,  e  quindi  il  segmento  (a,  b)  cade  a  sinistra  di  e,  si 
suol  dire  che  (a,  b)  è  un  intorno  sinistro  di  e.  Se  e  coincide 
invece  con  l'estremo  sinistro  di  (a,  b)  si  suol  dire  che  (a,  b)  è 
un  intorno  destro  di  e. 

Gli  intervalli  (a, -H  oo  ),  ( — oo  ,  ò)  si  dicono  poi  rispettiva- 
mente essere  un  intorno  sinistro  o  destro  di  oo  . 


FUNZIONI,    LIMITI  95 


§  29.  —  Funzioni;  funzioni  di  funzioni. 

a)  Assai  spesso  avviene  di  dover  considerare  nei  calcoli  un 
simbolo  (lettera),  a  cui  nel  ragionamento  si  danno  valori  distinti: 
Un  tale  simbolo  si  dirà  essere  una  variabile:  i  simboli,  a  cui 
conserviamo  in  tutto  il  discorso  lo  stesso  valore,  si  diranno 
essere  una  costante.  Uno  stesso  simbolo  potrà  in  un  certo 
ragionamento  essere  costante,  in  un  ragionamento  successivo 
variabile  (*). 

Molto  spesso  avviene  pure  che  di  due  variabili  reali  x,  y, 
una,  p.  es.  la  ?/,  sia  determinata,  appena  sia  dato  il  valore 
della  X.  Così,  per  esempio: 

V  Se  non  varia  la  temperatura,  il  volume^,  che  occupa 
un  grammo  di  ossigeno,  è  completamente  determinato  dal  valore  x 
della  pressione,  a  cui  é  sottoposto  ; 

2^  La  lunghezza  y  di  una  data  sbarra  di  ferro  è  com- 
pletamente determinata  dalla  temperatura  x  (se  si  trascurano 
le  variazioni  dovute  alla  pressione,  cui  è  assoggettata  la  sbarra, 
0  se  si  opera  a  pressione  o  tensione  costante)  ; 

3°  Lo  spazio  y  percorso  nel  vuoto  da  un  grave  che  cade 
senza  velocità  iniziale  in  un  certo  luogo,  è  completamente  deter- 
minato dal  numero  x  dei  secondi  impiegati  nella  caduta  ; 

4°  L'area  y  di  un  poligono  regolare  inscritto  in  un  dato 
cerchio  è  perfettamente  determinata  dal  numero  r  dei  lati; 

5®  Il  logaritmo  decimale  y  di  un  numero  positivo  x  è 
determinato  dal  valore  di  x,  ecc. 

Noi  diciamo  in  questi  casi  che  y  è  funzione  della  x.  Non 
è  però  detto  che  la  x  possa  ricevere  valori  arbitrari.  Nel 
l*"  esempio  x  non  può  avere  che  valori  positivi  (perchè  non  ha 
senso  parlare  di  un  gas  sottoposto  a  una  pressione  negativa); 
nel  4''  esempio  x  non  può  che  ricevere  valori  interi  maggiori 
di  2  ;  nel  S""  esempio  la  x  non  può  ricevere  valori  negativi, 
perchè  non  esistono  (nel  campo  dei  numeri  reali)  i  logaritmi 
decimali  dei  numeri  negativi. 

L'insieme  G  dei  valori  della  x,  per  cui  esiste  il  corrispondente 
valore  della  ;y,  si  dirà  il  campo  di   esistenza  della  funzione  y. 


(*)  Se  noi  studiamo,  p.  es.,  come  variano  il  volume  v,  la  pressione  p,  la  tem- 
peratura t  di  una  certa  massa  di  gas,  allora  in  una  serie  di  esperienze,  in  cui  non 
si  faccia  variare  la  temperatura,  si  considereranno  p  ^  v  come  variabili;  e  in  una 
successiva  serie  di  esperienze,  in  cui  non  facciamo  variare  v,  considereremo  t  ^  p 
come  variabili. 


96  CAPITOLO   VI   —   §    29 

Def.  Una  variabile  (reale)  y  si  dice  funzione  della  variabile 
(reale)  x  per  i  valori  di  x  che  appartengono  a  un  certo  insieme  G 
(campo  di  esistenza  della  y)  se  ad  ogni  valore  dato  alla  x 
neirinsieme  G  corrisponde  uno  e  un  solo  valore  della  y  C), 

Se  poi  ^  e  ^  sono  due  tali  funzioni  della  x,  definite  nello 
stesso  insieme  G,  allora  y  -\-  i  z  si  dirà  funzione  complessa  della 
variabile  reale  x  definita  nel  campo   G. 

Salvo  avvertenza  contraria,  noi  parleremo  soltanto  di  fun- 
zioni reali. 

P)  Si  hanno  spessissimo  funzioni  definite  analiticamente.  Così 
p.  es.  :  y  =zmx  -^  n  (m,  n  costanti  arbitrarie)  rappresenta  una 
variabile  y  che  ha  un  valore  determinato,  qualunque  sia  il  valore 
dato  allo  x  [cioè  il  campo  di  esistenza  della  y  è  formato  da  tutto 
l'intervallo  (^—00,-1-00)].  Altrettanto  avviene  della  y  =  serìx. 

La  y  =  -f-  ]/x  —  3  definisce  una  funzione  (reale)  y  della  x 
nell'intervallo  (3,  4-  00  ). 

La  ?/  =  -h  ]/x  —  3  -f-  j/4  —  X  definisce  una  funzione 
(reale)  della  x  nell'intervallo  (3,  4). 

Invece  la  ?/  =  -I-  \/x  —  3  -I-  j/2  —  x  non  definisce  nessuna 
funzione  (reale)  della  x.  Infatti,  qualunque  sia  il  valore  dato 
alla  X,  uno  almeno  dei  binomii  x  —  3,  2 — x  è  negativo,  così 
che  non  esiste  (nel  campo  dei  numeri  reali)  la  sua  radice 
quadrata. 

Ij2ì  y  =.  —  definisce  una  funzione  della  x  nel  campo  formato 

X 

da  tutti  i  valori  della  x  differenti  da  zero. 

Per  indicare  che  y  è  una  funzione  della  x  si  suole  scrivere 
y  =  f(x).  Se  poi  si  considera  x  come  un  numero  dato,  lo  stesso 
simbolo  indica  il  valore  corrispondente  della  funzione  ;  in  altri 
termini  si  fa  la  convenzione  di  rappresentare  con  f(a)  il  valore 
che  la  funzione  assume  per  il  valore  particolare  a  della  varia- 

bile  :    così    sen  —  è   il   valore ,   che   la   funzione   ^en  x   assume 

n 
per  x=  Y' 

L'uguaglianza  y^=zf(x)  esprime  dunque  semplicemente  che  y 


(*)  In  sostanza  dunque  l'idea  di  funzione  non  è  che  l'idea  di  corrispondensa 
tra  due  classi  di  numeri  x,y  (univoca  in  un  senso),  ossia  coincide  con  l'idea  di 
classe  di  coppie  di  numeri  ix,y)  tale  che  per  ogni  a;  di  6r  esista  una  e  una  sola 
coppia  che  lo  contenga. 


FUNZIONI,    LIMITI  97 


é  una  funzione  di  x,  ossia  che  y  per  ciascun  valore  x  =  a  di  :r 
(almeno  compreso  in  un  certo  gruppo  G)  assume  un  valore  deter- 
minato che  si  indicherà  con  f{a).  Si  può  benissimo  adoperare 
anche  un'altra  lettera  diversa  da  f,  scrivere  p.  es.  : 

F(x\  ^{x\  ^{x\  W(^),  g{x\  ; 

e  l'uso  di  questi  diversi  simboli  è  conveniente,  quando  si  deve 
parlare  di  piti  funzioni  distinte. 

Si  suole  anche  considerare  una  classe  estremamente  parti- 
colare di  funzioni  y  della  x:  quelle  funzioni  cioè  che  conservano 
uno  stesso  valore  (sono  costanti),  qualunque  sia  il  valore  dato 
alla  X.  Così,  p.  es.,  il  volume  y  di  un  prisma  di  data  base  ed 
altezza  conserva  uno  stesso  valore  al  variare  dell'angolo  x,  che 
gli  spigoli  del  prisma  formano  con  la  base  (o,  come  si  dice 
anche,  è  indipendente  da  x). 

Y)  Talvolta  si  presentano  quantità  y,  funzioni  di  una  varia- 
bile z,  la  quale  è  a  sua  volta  funzione  di  una  terza  variabile  x. 
Cosi  p.  es.,  il  volume  y  di  un  kg.  di  una  certa  sostanza  è  una 
funzione  della  densità  z,  la  quale  è  funzione  della  temperatura  x. 
E  spesso  avviene,  come  risulta  chiaro  da  questo  esempio,  che 
si  possa  senz'altro  considerare  la  y  come  funzione  della  stessa  x. 
Così,  p.  es.,  ?/  =  log  z  è  una  funzione  della  z]  e,  se  -s^  =  sen  rr, 
è  ?/  =  log  sen  x  una  funzione  della  x.  Ma  si  osservi  che,  mentre 
z  è  definita  per  ogni  valore  della  x,  la  y  è  definita  soltanto 
per  i  valori  positivi  di  z.  E  quindi  la  y,  come  funzione  della  x, 
è  definita  solo  per  gli  angoli  x  dei  primi  due  quadranti.  In 
generale,  se  y  =  f{x),  -2^  =  9  ix),  potrà  darsi  che  la  y  si  possa 
considerare  come  funzione  /'[^(a:)]  della  a;.  E  una  tal  funzione 
esisterà  per  quei  valori  della  x,  tali  che  il  corrispondente  valore 
della  ^  =  cp  (ce)  appartenga  al  campo  ove  è  definita  la  f{z).  Una 
tal  funzione  /"[cp  {x)\  si  suol  anche  chiamare  una  funzione  di  fun- 
zione della  X.  Se  fosse,  p.  es.,  f{z)  =  jA,  ^  =  cp  (a;)  =  —  a? — 1 
non  esisterebbe  la  f\_^(z)\  perchè,  essendo  sempre  — x^ — 1 
negativo ,  il  simbolo  \/ —  x^  —  le  privo  di  significato  (nel 
campo  dei  numeri  reali). 

§  30.  —  Rappresentazione  grafica  delle  funzioni. 

Si  voglia  rappresentare  una  data  funzione  f(:x)]  si  voglia 
cioè  dare  un  mezzo  0  per  studiare  come  varia  f{x)  al  variare 
di  X',  0  senz'altro  per  calcolare  i  valori  che   assume  f{x)  per 

7  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


98  CAPITOLO    VI   —    §    30 

ogni  valore  dato  alla  x  (nel  campo  G).  Tra  i  metodi  che  possono 
servire  a  tale  scopo,  uno,  il  metodo  delle  tavole  numeriche,  è 
ormai  famigliare  al  lettore,  che  ben  conosce  gli  esempi  delle 
tavole  logaritmiche  e  trigonometriche,  tanto  utili  per  il  calcolo 
rapido  e  sufficientemente  approssimato  delle  funzioni: 

y  =  log  x^  y  =  sen  x,  y=^  cos  x,  y  =^  log  sen  x,  ecc. 

Naturalmente  si  possono,  almeno  teoricamente,  costruire 
tabelle  numeriche  per  ogni  funzione.  La  fisica  ne  porge  nume- 
rosi esempi.  Ricorderò,  p.  es.,  le  tavole  che  danno  la  densità  y 
dell'acqua  alle  varie  temperature  x,  la  temperatura  y  di  ebol- 
lizione dell'acqua  alle  varie  pressioni  x,  ecc. 

Ma  talvolta  si  suole  ricorrere  a  procedimenti  grafici,  i  quali, 
sebbene  generalmente  meno  precisi,  hanno  il  vantaggio  di  per- 
mettere di  abbracciare  con  un  solo  colpo  d'occhio  l'andamento 
di  una  funzione  y  =  f{x),  e  talvolta  persino  di  risolvere  con 
rapidità  questioni  che  analiticamente  porterebbero  a  lunghi  svi- 
luppi di  calcolo.  Ciò  che  è  specialmente  utile,  se  il  campo  G 
dei  valori,  per  cui  è  definita  la  y,  è  formato  da  tutti  i  punti 
di  un  intervallo;  caso,  al  quale  soltanto  sono  dedicate  le  con- 
siderazioni seguenti. 

Su  un  foglio  di  carta  si  scelgono  due  rette  normali  Ox,  Oy 
come  assi  cartesiani  ortogonali. 

Sulla  prima  si  portino  dei  segmenti  DA  uscenti  da  0,  aventi 
lunghezze  x  =  OA  arbitrarie,  ma  appartenenti  al  campo  G,  ove 
Idi  y  è  definita. 

Si  innalzino  dagli  estremi  A  di  questi  segmenti  delle  per- 
pendicolari uguali  in  lunghezza  e  segno  al  valore  della  y  cor- 
rispondente al  valore  OA  della  x.  Otteniamo  così  vari  punti; 
e  tanti  più  ne  otterremo,  e  (nei  casi  comuni)  tanto  più  vicini, 
quanto  sarà  maggiore  il  numero  dei  valori  della  x  che  si  con- 
siderano, e  quanto  meno  distano  l'uno  dall'altro  questi  valori. 
Se  noi  immaginiamo  eseguite  queste  operazioni  per  tutti  i  va- 
lori della  X,  gli  estremi  delle  perpendicolari  innalzate  si  trovano 
su  una  curva,  che  diremo  immagine  della  funzione  f{x),  e  che 
la  Geometria  Analitica  chiamerebbe  la  curva  che  ha  per  equa- 
zione y=:f(x).  Dobbiamo  anzitutto  fare  alcune  osservazioni: 
l''  11  disegno  resta  molto  facilitato  se  la  carta  è  millime- 
trata, perchè  così  più  facilmente  si  misurano  i  segmenti  paralleli 
0  normali  ad  Ox  (purché  Ox  sia  una  delle  righe  tracciate  sulla 
carta).  Il  Regnault,  per  maggiore  precisione,  in  taluni  suoi  studi 
ricorse  a  curve  tracciate  su  tavole  di  rame. 


FUNZIONI,    LIMITI  99 


2"*  È  impossibile  disegnare  eifettivamente  tutti  i  segmenti 
normali  ad  Ox,  di  cui  si  ha  bisogno.  Generalmente  se  ne  traccia 
soltanto  un  numero  sufficientemente  grande,  congiungendo  poi  gli 
estremi  con  una  linea  possibilmente  regolare.  Questo  è  sufficiente 
nei  casi  più  comuni.  (La  frase  linea  regolare  non  ha  un  preciso 
significato  matematico,  ma  un  ben  chiaro  significato  intuitivo). 
3**  Talvolta  però  si  usano  speciali  disposizioni  pratiche, 
che  permettono  di  ottenere  senz'altro  la  nostra  curva,  o,  come 
si  suol  anche  dire,  il  nostro  diagramma. 

Immaginiamo,  p.  es.,  che  il  nostro  foglio  di  carta  strisci  su 
se  stesso,  in  modo  che  la  retta  Ox  strisci  su  sé  stessa.  La  velo- 
cità di  tale  strisciamento  sia  uniforme  e  tale  da  far  percorrere 
verso  sinistra  l'unità  di  lunghezza  (p.  es.  1  cm.)  nell'unità 
di  tempo  (p.  es.  l')  ;  in  altre  parole,  il  punto  posto  a  destra 
di  0  su  Ox,  alla  distanza  di  x  cm.  dal  punto  0,  sia  dopo  x 
minuti  primi  venuto  proprio  in  0.  Il  punto  M  sia  mobile  sulla 
retta  che  è  la  posizione  iniziale  di  Oy,  parta  dal  punto  0, 
percorra  lo  spazio  f(x)  in  x  minuti  secondi  (*),  e  porti  una 
punta  scrivente  sul  foglio  di  carta.  La  traccia  lasciata  da  esso 
sarà  precisamente  la  y  ^=.f{x). 

In  pratica  il  foglio  di  carta  è  avvolto  su  un  cilindro  (che 
un  movimento  d'orologeria  fa  rotare  di  velocità  uniforme)  e  viene 
poi  svolto  su  un  piano  ;  la  punta  scrivente  congiunta  ad  ilf  è 
da  una  m,olla  premuta  su  tale  cilindro.  Se  il  punto  mobile  M 
fosse,  p.  es.,  un  punto  invariabilmente  congiunto  all'estremità 
superiore  di  una  colonna  termometrica  o  barometrica,  l'appa- 
recchio diverrebbe  un  registratore 
automatico  della  temperatura  (ter- 
mografo), 0  della  pressione  atmosfe- 
rica (barografo). 

4**  E  inutile  avvertire  che  ge- 
neralmente i  punti  della  retta  Ox 
a  sinistra  di  0  corrispondono  a  valori 
negativi  della  x,  i  punti  della  Oy 
posti  al  di  sotto  di   0  a  valori  negativi  della  y. 

Dall'esame  della  curva  y=:f(x)  si  possono  dedurre  molte 
proprietà  della  f{x).  Così,  per  esempio,  se  noi  ritorniamo  al 
punto  mobile  M,  e  alla  figura  qui  sopra  disegnata,  noi  vediamo 
tosto    da    essa   che  y  cresce    fino   a   che  x   assume    un    valore 


(*)  Lo  spazio  Oilf  percorso  da  M  su  Oj/  è  evidentemente  una  funzione  del 
tempo  X  impiegato  a  percorrerlo. 


100  CAPITOLO   VI   —    §    30 

7 
X  =:oc  dì  poco  inferiore  a  —-  per  poi  diminuire.   Ciò  vuol  dire 

4 

che  nei  primi  a  minuti  il  punto  M  si  allontana  da  0  per  poi 

di  nuovo  avvicinarsi  ad  0.  Essendo,  diremo  cosi,  più  ripida  la 

curva  per  xy  cc^  che  per  x  <  a,  ne  deduciamo  che  la  velocità 

con  cui  M  ritorna  verso  0  è  maggiore  di  quella  con  cui  se  ne 

era  allontanato,  ecc. 

Se  ci  proponiamo  di  vedere  in  quali  istanti  la  distanza  0  M 

era,  p.  es.,  uguale  a  1,  basta  cercare  i  punti  della  nostra  curva, 

la  cui  distanza  da  0  ^  vale  1  ;  si  trovano  facilmente  i  punti  B,  C, 

le  cui    ascisse   la    nostra    figura   dimostra   approssimativamente 

5         21  5         21 

uguali    a  ^    6    ~^-    Quindi    dopo    circa    —  o    —     minuti    la 

8  8  8  8 

distanza   0  If  vale  1,  ecc.,  ecc. 

Anche  solo  queste  prime  e  semplicissime  applicazioni  baste- 
ranno a  dare  un'idea  di  alcuni  dei  vantaggi  che  presenta  il 
metodo  grafico  di  rappresentare  una  funzione.  E  oramai  negli 
studi  più  svariati  di  fisica,  di  economia,  ecc.,  si  ricorre  ad  esso. 
Ricorderò  qui  soltanto  i  così  utili  orari  grafici  delle  strade 
ferrate,  che  sono  appunto  costruiti  per  rappresentare  il  movi- 
mento su  una  linea  Ox  di  un  treno  M  secondo  i  principii 
sopra  svolti. 

Voglio  citare  ancora  un  esempio  di  rappresentazione  gra- 
fica (*).  Sia  data  dell'anidride  carbonica  che  alla  temperatura  0^ 
e  alla  pressione  di  un'atmosfera  ha  il  volume  0.9936.  Tenendo 
costante  la  temperatura,  la  pressione  y,  misurata  in  atmosfere, 
a  cui  si  assoggetta  il  gas,  è  funzione  del  volume  x  occupato 
dallo  stesso  gas.  E  si  ha  precisamente  l'equazione  di  Van  Der 
Waals  : 

(,  +  M087i)   (,_  0,0023)  =  1 

che  permette,  per  ogni  valore  della  x,  di  calcolare  il  corrispon- 
dente valore  della  y. 

In  questa  equazione  sono  contenute  tutte  le  leggi  di  dipen- 
denza della  y  dalla  x.  Ma  queste  diventano  ben  più  intuitive, 
se  ricorriamo  alla  rappresentazione  grafica.  Calcolando  per  mezzo 


(*)  Tolgo  questo  esempio  dal  libro  di  Nernst  u.  Schònfliess:  Emfiihrung 
in  die  mathem.  Behandhmg  der  Natunvissenschaften. 


FUNZIONI,    LIMITI 


101 


di  questa  equazione  i  valori  di  y  corrispondenti  a  un  dato  valore 
della  x^  costruiamo  facilmente  la  seguente  tabella: 


X 

y 

• 

X 

y 

0,1 

9,4 

0,008 

38,8 

0,05 

17,5 

0,005 

20,9 

0,015 

39,9 

0,004 

42,0 

0,01 

42,6 

0,003 

45,7 

Coi        001     0.0/J    ooz 


E.  la  rappresentazione  grafica  dà  la  curva  qui  disegnata,  in 
cui  però  per  misurare  i  segmenti  dell'asse  delle  x  e  quelli  dell'asse 
delle  y  si  sono  scelte  distinte 
unità  di  lunghezza. 

Ne  deduciamo,  p.  es.,  che: 
1^  Data  la  distanza  y  di 
un  punto  della  curva  dall'asse 
delle  x^  il  punto  è  determinato, 
e  ne  è  quindi  determinata  l' a- 
scissa  ;r,  se  p.  es.  y  >  a  o  i/  <  P, 
essendo  a  un  numero  che  la  fi- 
gura dimostra  compreso  tra  40 
e  50,  e  p  prossimamente  uguale 
a  20.  Vale  a  dire:  Se  la  pressione  è  minore  di  \^  atmosfere  o 
maggiore  di  a,  il  volume  del  gas  è  completamente  determinato 
dalla  pressione  a  cui  si  assoggetta.  Invece  si  vede  tosto  che  a 
ogni  valore  della  pressione  y  compreso  tra  a  e  [B  corrispondono 
tre  possibili  valori  del  volume  x', 

2*"  Si  vede  pure  che  mentre  il  volume  cresce  da  0,01  in 
poi,  la  pressione  va  diminuendo  dapprima  con  una  certa  rapidità, 
poi  con  una  certa  lentezza.  E,  mentre  il  volume  diminuisce 
da  0,005  in  poi,  la  pressione  va  rapidamente  aumentando,  ecc. 

Esercizi. 

V  Una  funzione  y  =  cost.  è  rappresentata  da  una  retta 
parallela  all'asse  delle  x. 

2°  Rappresentare  le  funzioni  ?/  =  3  a;  -h  4,  y  =  3  a;  -4-  5, 

yz=:i4:X-hQ,    y=^4:X-h7. 

Risp.  Si  deve  verificare  col  disegno  :  a)  che  le  curve  corri- 
spondenti sono  rette  :  P)  che  le  prime  due  sono  tra  loro  parallele, 
perchè  hanno  lo  stesso  coefficiente  angolare  3  ;  y)  che  anche  le 
ultime  due  sono  parallele. 


102  CAPITOLO   VI  —   §    30-31 

3**  Rappresentare  graficamente  la  legge  di  Boyle-Ma- 
riotte.  (Se  a;  è  il  volume  d'un  gas  perfetto  alla  pressione  y,  è 
xy  =  costante;  si  supponga  questa  costante,  p.  es.,  uguale  al). 
E  dedurne  come  varia  y  al  variare  della  x.  (La  curva  imma- 
gine è  un'iperbole  equilatera). 

4°  Rappresentare  la  curva  ?/  =  +  j/l  — x'^. 
RiSP.  Si  deve  trovare  un  semicerchio. 

5°  Si  rappresenti  graficamente  qualche  fenomeno  fisico, 
partendo  o  da  una  legge  fisica  o  da  tavole   numeriche. 

Così,  p.  es.,  si  può  rappresentare  come  varia  la  intensità 
luminosa  y  al  variare  della  distanza  x  dalla  sorgente  luminosa 
(y  x'^  =  cost.),  oppure  come  varia  la  densità  y  di  un  corpo, 
l'acqua,  p.  es.,  col  variare  della  temperatura  x,  ecc. 


§  31.  —  Esempi  preliminari  di  limiti. 

ce)  Sia  OF  un  pendolo  mobile  attorno  ad  un  punto  0;  e 
ne  sia  OV  la  posizione  di  equilibrio  stabile.  Supponiamo  che 
il  pendolo  si  muova  in  un  mezzo  così  viscoso,  che  la  resistenza 
del  mezzo  impedisca  al  pendolo  OF  di  lisalire  dopo  che  sia 
disceso  in  OV.  L'angolo  y  che  OP  forma  con  OFva  diminuendo, 
e  diminuisce  indefinitamente  fino  a  diventare  tanto  piccolo  quanto 
si  vuole,  e,  quando  è  diventato  minore  di  un  qualsiasi  angolo  £, 
non  cresce  più,  ma  resta  minore  di  £.  Ora  y  è  una  funzione 
del  tempo  x  impiegato  dal  pendolo  nel  suo  movimento.  Quanto 
più  X  aumenta,  tanto  più  piccolo  y  diventa  e  resta.  Cioè  che 
esprimeremo  dicendo,  che  y  tende  a  zero,  (ha  per  limite  zero, 
diventa  infinitesimo)  se  x  cresce  indefinitamente  (per  a:;=  +  oo) 
e  scrivendo  lim  ?/  =  0. 

P)  Sia  ancora  OP  un  pendolo  oscillante  attorno  ad  un  punto  0; 
e  ne  sia  OF  la  posizione  di  equilibrio  stabile.  Per  fissare  le  idee, 
supponiamo  che  gli  attriti,  la  resistenza  del  mezzo  siano  tali 
che,  se  il  pendolo  parte  da  una  posizione  OF  che  con  OF  fa 
un  angolo  a,  esso,  oscillando,  giunga   dall'altra    parte   di    OV 

fino  alla  posizione  OPi  che  con  OV  fa  angolo — .  Cosicché, 

tenendo  conto  dei  segni,  possiamo  dire  che,  se  l'angolo  y  di  OF 
con  OF  ha  il  valore  a  al  principio  di  una  oscillazione,  il  valore 
di  y  varia  durante  l'oscillazione  e,  partendo  da  ce,  e  passando 

oc 
per  lo  zero,  giunge  fino  al  valore — .  Naturalmente  poi   il 


FUNZIONI,    LIMITI  103 


pendolo  retrocede  fino  a  che  il  valore  di  y,  ripassando   per  lo 

1   /       ^  ^ 

zero,  giunge  al  valore —  ( .   )  =  —  ^  per  poi  retrocedere 

di  A  ^ 

a 

di  nuovo  giungendo  al  valore ^  ?  ^  così  via. 

8 

E  resta  evidente  che,  se  si  prende  il  numero  delle  oscil- 
lazioni compiute  dal  pendolo  abbastanza  grande,  si  rendono 
piccoli  a  piacere  i  valori  che  può  poi  assumere  y:  ciò  che 
esprimeremo  scrivendo  lim  y  ^=  0. 

Infatti,  se  £  è  un  numero  positivo  piccolo  a  piacere,   sia  n 

così  grande  che  2"  > .  Per  x  ^  n  sarà    2""  > -,  -^—~  <  s. 

S  £     '     2 

E  quindi  per  x>  ìi  l'angolo  ?/  è  a  fortiori  minore  di  s. 

y)  Tra  i  due  precedenti  esempi  passa  una  certa  differenza 
di  comportamento.  Mentre  nel  l""  la  y  varia  al  crescere  della  x 
sempre  in  un  verso,  e,  senza  mai  essere  nulla,  finisce  col  diven- 
tare e  restare  piccola  a  piacere,  la  quantità  y  del  secondo 
esempio  tende  pure  a  zero.  Ma  essa  non  varia  sempre  in  un 
verso  :  il  suo  valore  assoluto  prima  diminuisce  fino  ad  annullarsi, 
poi  aumenta  di  nuovo, 4;orna  a  diminuire,  e  così  via.  I  massimi 
valori  che  \y\  raggiunge  in  ogni  oscillazione  vanno  diventando 
però  sempre  più  piccoli;  cosichè  anche  la  y  del  secondo  esempio, 
come  la  y  del  primo^  finisce  da  un  certo  momento  in  poi  con 
l'essere  diventata  e  restare  piccola  a  piacere  in  valore  assoluto. 

^  o)  Se  un  punto  M  si  muove  di 

__^ r— T ^^^^  uniforme  su  una  retta  OX, 

0  M       N         X      psii'tendo  da  0,  e  movendosi  p.  es. 

verso  destra,  la  distanza  y  =  OM 
cresce  sempre,  anzi  da  un  certo  istante  in  poi  diventa  e  resta 
maggiore  di  una  qualsiasi  lunghezza  L  assegnata.  Se,  per  es., 
misuriamo  il  tempo  (in  minuti,  o  in  secondi,  o  ecc.)  a  partire 
dairistante  iniziale  del  movimento,  e  se  v  è  la  velocità  (sup- 
posta   costante)    del   movimento,    dopo  x>  —  unità   di   tempo. 

V 

si  ha  0M^=^  y  =^  x  v>  L.  Ciò  che  noi  esprimeremo  scrivendo 
lim  ^  =  00  (quando  x  cresce  indefinitamente),  o  anche  senza 
altro  lim  ^  =  co  . 

Sia  ora  N  un  punto  che  oscilli  rapidamente  intorno  al  pre- 
cedente punto  mobile  M,  e  supponiamo  che  l'ampiezza  di  tali 
oscillazioni  sia  costantemente  di   1    cm.    La   distanza   y  =  ON 


104  CAPITOLO   VI   —    §    31 

potrà  anche  in  certi  intervalli  di  tempo  diminuire  (quando  N 
si  muove  oscillando  in  direzione  opposta  al  movimento  di  M). 
Ma  ciononostante  i  valori  minimi  che  successivamente  acquista 
X  =  ON  vanno  crescendo  sempre,  vanno  diventando  grandi  ad 
arbitrio,  cosicché  ad  un  certo  istante  x  in  poi  anche  y  =  ON 
diventa  e  resta  maggiore  di  una  qualsiasi  lunghezza  assegnata. 
Perciò  noi  diciamo  ancora  che  lim  y  :=:  co  . 

s)  Consideriamo  la  quantità  y  = —  ;  essa  è  una  funzione 

X  ~~~'  ó 

della  X  nel  campo  formato  da  tutti  i  possibili  valori  della  x^ 
eccettuato  il  valore  x=^3. 

Si  noti  che  per  a?  =  3,  1  ;  3,01  ;  3,  001  ;  si  ha  rispettiva- 
mente ?/=10;  ?/=100;  y  =^  1000,  ecc.  E  si  riconoscerà  tosto 
che,  man  mano  che  la  x  si  avvicina  a  3,  il  numero  x  —  3  diventa 

e  resta   piccolissimo,   il   numero grandissimo   (in  valore 

X  —  3 

assoluto)  ;   ciò  che  noi  indichiamo  scrivendo  lim  y  :=:  oo , 

Il  lettore  costruisca  il  diagramma  (la  curva  immagine)  della 
nostra  funzione  (che  si  trova  essere  un'iperbole  equilatera)  e 
cerchi  di  illustrare  col  disegno  i  fatti  qui  enunciati. 

Si  noti  che,  per  assegnare  il  lim   ?/,  si    sono    considerati    i 

a;«=3 

valori  delle  x  prossimi  al  valore  3,  e  non  il  valore  3,  per  il 
quale  anzi  la  y  non  è  neppur  definita. 

Q  Consideriamo  infine  un  pendolo  OF  che  oscilla  senza 
smorzamento  attorno  al  punto  0.  L'angolo  y  di  OF  con  la 
posizione  OV  di  equilibrio  stabile  varierà  da  un  certo  valore 
a  fino  a  —  a,  per  poi  tornare  al  valore  a^  e  così  via.  In  ogni 
oscillazione  esistono  valori  di  y  vicinissimi  ed  anzi  coincidenti 
con  ogni  numero  y  scelto  nell'intervallo  ( —  a,  a).  Ma  y,  dopo 
essersi  avvicinato  al  valore  y,  se  ne  allontana;  e  la  misura 
\y  —  Y  I  di  questo  avvicinamento,  pur  raggiungendo  ad  ogni 
oscillazione  addirittura  il  valore  zero,  continua  pure  a  rag- 
giungere i  valori  [oc  —  y  |  e  1  —  a  —  y  |  ;  cosicché,  pur  diven- 
tando minore  di  un  numero  £  piccolo  a  piacere,  non  resta,  da 
nessun  istante  in  poi,  minore  di  un  tal  numero  £.  Noi  diremo 
perciò  che  lim  y  non  esiste,  o  che  y  non  tende  ad  alcun  limite, 
quando  il  numero  delle  oscillazioni  tende  all'infinito. 


FUNZIONI,    LIMITI 


105 


§   32. 


Limiti. 


Cerchiamo  di  dare  una  definizione  di  limite,  che  corri- 
sponda alla  nozione  intuitiva  messa  in  evidenza  dagli  esempi 
del  §  31. 

A)  In  generale  sia  y  una  funzione  della  x  definita  in  un 
certo  campo   G. 

Noi  scriviamo  lim  y:=^'b{a,h        Noi  scriviamo    lim    y  ^=  h  {b 

numeri  finiti),  se,  preso  un  nu-  numero  finito)  se,  preso  un  nu- 
mero positivo  s  piccolo  a  pia-  mero  positivo  e  piccolo  a  pia- 
cere (*),  la  differenza  y  —  he  cere,  la  «differenza  y  —  he  mi- 
minore  in  valore  assoluto  di  s  nore  in  valore  assoluto  di  £ 
(  I  ^  —  h\^s),  per  tutti  ina-  {\  y  —  ò  |  ^  £  )  per  tutti  i  va- 
meri  x  di  G  abbastanza  vicini  lori  x  di  G  abbastanza  grandi 
ad  a,  ma  differenti  da  a.  in  valore  assoluto. 

Per  precisare  tale  definizione,  osserviamo  che  sono  equiva- 
lenti le  frasi  seguenti: 


a')  Il  numero  x  è  abbastanza 
grande  in  valore  assoluto. 
1 


^')    Il    numero 


abba- 


ca 


stanza  piccolo  in  valore  assoluto. 
y')  Il  punto  X  appartiene  ad 


a)  u  II  numero  x  è  abba- 
stanza vicino  al  numero  a  ». 

P)  "  La  differenza  x  —  a  è 
abbastanza  piccola  in  valore 
assoluto  » . 

Y)  Il  punto  X  appartiene  ad 
un  certo  intorno  del  numero  a    un  certo  intorno  di  oo . 
(o  anche  ad  un    intorno   abba- 
stanza piccolo  di  a). 

Se  poi  vogliamo  precisare  il  significato  delle  parole  "  ab- 
bastanza", "  un  certo  ",  che  compaiono  nelle  frasi  precedenti, 
e  che  possono  avere  un  significato  più  o  meno  ampio  a  seconda 
del  problema  trattato,  possiamo  dire  : 

B)  La  differenza  x — a  non         B')   Il    numero    x    supera    in 


supera    in    valore    assoluto   un 
certo  numero  o  (  |  r  —  a  |  <a)  (**). 

s)  Il  punto  X  appartiene  ad 
un  intorno  {a  —  o.  a -\-  a)  del 
numero  a. 


valore    assoluto    un    certo    nu- 


mero m. 


£j  II  punto  X  appartiene  ad 
un  certo  intorno  (m,  -h  oo  )  o 
( — co,  m)  del  punto  oo  . 


(*)  La  definizione  non  cambierebbe  di  significato  se  io  dicessi  solamente: 
«  un  numero  e  arbitrario  ". 

(**)  L'  «  abbastanza  piccolo  "  acquista  così  il  significato  preciso  di  «  minore 
di  7  in  valore  assoluto  «. 


106  CAPITOLO   VI   —   §    32 

Con  queste  osservazioni  le  definizioni  precedenti  si  possono 
enunciare  anche  così: 

Noi  scriviamo  lim  y  =ih  (a,h         Noi   scriviamo  lim   y  ^=zh  {h 

a;  =  a  •  .e  =  x 

numeri  finiti)  se,  comunque  si  numero  finito)  se,  comunque  si 
scelga  un  numero  positivo  e  pie-  scelga  un  numero  positivo  £  pic- 
colo a  piacere,  esiste  un  numero  o  colo  a  piacere,  esiste  un  un- 
tale che,  se  x  appartiene  a  G,  mero  m  tale  che,  se  x  appartiene 
se  a;  4=  a,  ed  j  x  —  a\  <  a,  i  va-  a  G,  e  se  |  a^  |  >  |  m  | ,  i  valori 
lori  corrispondenti  della  y  sono  corrispondenti  della  y  sono  tali 
tali  che  la  differenza  y  —  h  non  che  la  diiferenza  y  —  h  non  su- 
superi  £  in  valore  assoluto.  peri  £  in  valore  assoluto.        ' 

Ed  infine  si  possono  dare  le  precedenti  definizioni  nella  forma 

seguente,  valida  in  entrambi  i  casi,  aifatto   completa  e  precisa  : 

Si  dice  che  lim  y=^h  {a  finito  o   infinito,   6  finito),  se, 

preso  ad  arbitrio  un  numero  £  positivo  (piccolo  a  piacere), 
esiste  un  intorno  y  di  a,  tale  che  in  tutti  i  punti  di  questo 
intorno  (il  punto  a  escluso),  che  appartengono  al  campo  G, 
ove  la  ^  è  definita,  la  y  assume  O  valori,  che  differiscono 
da  h  per  non  più  di  £,  ossia  che  soddisfano  alla 

\y  —  h\^z. 

Questa  disuguaglianza  non  varrà  per  tutti  i  valori  di  ?/, 
ma  soltanto  per  quelli  che  corrispondono  a  punti  di  y.  Si  noti 
che  y  varia  in  generale,  quando  £  varia.  Perchè,  se  y  non 
variasse,  tale  disuguaglianza  varrebbe,  qualunque  fosse  £,  per 
tutti  i  valori  di  y  corrispondenti  ai  punti  dell'intorno  fisso  y. 
Perciò  ognuna  delle  corrispondenti  differenze  \y  —  &  |,  essendo 
minore  di  un  numero  £  >  0  arbitrario,  sarebbe  nulla.  Pertanto 
questi  valori  di  y  sarebbero  tutti  uguali  a  l.  Cioè  esisterebbe 
un  intorno  y  di  a,  in  cui  la  y  avrebbe  sempre  lo  stesso  valore  h. 

Notiamo  che  porre  la  disuguaglianza 

\y-h\^z  (1) 

equivale  a  dire  che  entrambe  le  differenze  y  —  6,  l  —  y  sono 
algebricamente  minori  di  £.  Infatti,  quella  di  queste  differenze, 
che  è  positiva,  è  uguale  a  |  ?/  —  &  |  ,  ed  è  quindi  per  ipotesi 
non  maggiore  di  £  ;  e  quella  delle  due  precedenti  differenze,  che 
è  negativa,  è  certamente  minore  di  £,  perchè  £  è  positivo. 


(*)  Eicordo  che  si  dice  valore  assunto  dalla  y  in  un  punto,  p.  es.,  nel  punto 
x  —  c,  il  valore  di  y  corrispondente  al  valore  e  della  x. 


FUNZIONI,    LIMITI  107 


Alla  precedente  disuguaglianza  si  possono  sostituire  le  se- 
guenti due: 

y  —  h^^  ;  b~zj^e  (2) 

che  si  possono  scrivere 

b—B^y^b-hs.  (3) 

La  (3)  dice  che  y  è  compreso  tra  b  —  £  e  ò  -h  £. 

I  valori  che  la  y  assume  per  i  citati  valori  di  x  formano 
dunque  una  classe  di  numeri,  il  cui  limite  inferiore  l  non  è  infe- 
riore a  ò  —  £,  e  il  cui  limite  superiore  L  non  è  superiore  a  &  4-  £. 

Osservazione  critica. 

Questa  ultima  osservazione  permette  di  presentare  sotto  nuova  luce  la  defini- 
zione di  limite,  e  di  vederne  le  possibili  generalizzazioni.  E  forse  per  qualche  lettore 
la  seguente  trattazione  potrà  apparire  più  facile  della  precedente.  Premettiamo  una 
osservazione. 

Siano  V,,  72  ^**6  intorni  del  punto  a;  e  sia  Vi  una  parte  di  /,  (cioè  i  punti 
di  •/,  appartengano  a  y.^).  Tra  i  valori  clie  y  assume  per  i  valori  di  x  (distinti  da  a 
€  che  appartengano  a  G)  appartenenti  a  V2  saranno  compresi  anche  i  valori  as- 
sunti da  y,  quando  x  (sempre  appartenendo  (r  ed  essendo  distinto  da  a)  si  muove 
entro  7,  (e  ciò  perchè,  per  ipotesi,  7,  è  interno  a  y^).  Quindi  evidentemente:  I  li- 
miti L,,  1,  superiore  e  inferiore  dei  valori  assunti  da  j  quando  x  varia  in  v, 
(colle  solite  restrizioni)  e  i  limiti  analoghi  L2,  U  relativi  a  y,  soddisfano  alle 
Lj^Li^lj^l,  (*).  Cioè,  mentre  un  intorno  7  di  a  impicciolisce,  il  limite  supe- 
riore L  dei  valori  corrispondenti  di  y  non  aumenta,  il  limite  inferiore  1  non 
diminuisce,  pure  essendo  sempre  i^L  Dunque  il  limite  inferiore  v  degli  L,  e 
il  limite  superiore  >•  degli  1  soddisfano  alle  a  ^  ;,. 

Nel  nostro  caso  (il  caso  elementare)  in  cui  lim  y  =  h,  preso  un  2  piccolo  a 

piacere,  esiste,  come  abbiamo  veduto,  un  intorno  v  di  a  per  cui  il  limite  superiore  X 
non  supera  b  +  £,  l'inferiore  l  non  è  minore  di  h  ~s,  per  cui  cioè  L  —  l  non  su- 
pera 2  £.  In  tale  caso  dunque  la  classe  degli  L  è  contigua  alla  classe  degli  l: 
cioè  A  —  /.  E  questo  numero  v  =  /  di  separazione  delle  due  classi  coincide  appunto 
col  limite  ì)  dì  y  per  x  —  a.  Potremmo  dunque  anche  dire: 

Si  dice  che  il  limite  di  j  per  x— a  esiste,  se  la  classe  degli  L  è  contigua 
alla  classe  degli  1;  come  valore  lim  y  di  questo  limite  s'intende  in  tal  caso  il 

numero  di  separatone  delle  due  classi. 

Questa  definizione  è  molto  analoga  a  quella  data  per  le  aree  e  i  volumi  delle 
figure  piane  0  solide.  Si  capisce  che  dalle  nostre  ricerche  elementari  resta  escluso 
il  caso  A>  Aj  in  cui  secondo  le  attuali  definizioni,  non  esiste  il  limite  di  y  per  x=  a; 
A  e  ^  sono  nel  caso  generale  i  cosidetti  massimo  e  minimo  limite  di  y  per  x  =  a. 
Si  possono  poi  distinguere  i  limiti  per  x  =  a+  da  quelli  per  x^=a  — . 

Oss.  1*.  Affinchè  queste  definizioni  abbiano  senso,  si  deve 
però  ammettere  che  in  ogni  intorno  di  a  esistano  punti  x  ap- 
partenenti a  G,  ma  distinti  da  a.  Vale  a  dire,  se  «^   è    finito 


(*)  Ciò  è  una  facile  estensione  del  teorema  evidente: 

Se  a,i  «2?  »  ^n  sono  dei  numeri,  e  a„  a.,, ,  am  (con  m^n)  sono  una  parte 

dei  precedenti,  il  massimo  (minimo)  dei  primi  non  è  inferiore  (superiore)  al  mas- 
simo (minimo)  di  questi  ultimi. 


108  CAPITOLO   VI   —   §    32 

si  deve  per  ogni  numero  o  ammettere  l'esistenza  di  punti  a, 
differenti  da  a,  in  cni  la.  y  è  definita  e  che  soddisfano  alla 
\x  —  a|<o;  se  a=c3o^  si  deve  per  ogni  numero  m  ammet- 
tere l'esistenza  di    numeri  x,   per  cui   la  ^  è  definita,   e   tali 

che  I  X  I  >  ■  m,|  (*).  

Così,   p.  es.,   non   avrebbe   senso  parlare   del  lini   ]/x  —  2, 

perchè  ìsl  y  è  definita  soltanto  nel  campo  G  formato  dai  valori 
della  X,  che   non   sono  inferiori   a  2.  Ed  evidentemente  vicino 


ad  1 


p.   es.,    nell'intorno   (1  —  ^,    1  H-  o)    ove   ^  =  "tt     non 


=i]"° 


esistono  valori  di   G. 

Oss.  2^  Se  i  valori  della  x,  di  cui  si  parla  nelle  prece- 
denti definizioni,  sono  scelti^  tutti  in  intorni  a  sinistra  del  punto  a, 
allora,   anziché  scrivere   lim  y,   si    scrive   spesso    lim    y  (se   a 

«  =  a  a;=>o  —  0 

è    finito)    oppure    lim    y   (se   a   è    infinito).    Si   scrive    lim    op- 

a;  =  -t--x.  a;  =  a-|-0 

pure   lim,    se  i  valori  considerati  della  x  sono  scelti  in  intorni 

a;  =.  —  OD 

destri    del   punto    a.    Le    notazioni    lim,    lim    sono    però   usate 

a;  c=a      a;  =  ce 

anche  in  tali  casi,  se  non  vi  è  possibilità  di  un  equivoco. 
Si  scrive  anche   lim    e   lim,    anziché    lim    e   lim. 

;rn=a—        xn=  a-\-  X  •=  a  —  o      a;  =  a-4-0 

\x  —  il 
Così,  p.  es.,  la  y  :=i  x -h ~è  una  funzione  definita 

x  —  1 

per    tutti    i   valori    della  x,   il  punto   x  ^=^  1    eccettuato.   Ed   é 
lim    y  ==:  0.  Infatti,  se  £  é  un  numero  piccolo  a  piacere,  per 

a;  =  1-0* 

i    valori    della    x    dell'intorno    1  —  £  <  x  <  1    del    punto    1    è 

2 X 

0  y\z=i\y\:=:^\x  -^ i  =  |  ^  1  |  <  £.    In    modo    SÌ- 

X  ~"~"  j. 

mile  si  prova  che    lim    ^  =  2. 

a;  =  l-|-0 

(Si  ricordi  che  per  x  <  1   é  \x  —  1  j  =  |  1  —  o^  |  =  1  —  x, 

r^-"i|-      -I     i.       -1  A  i^~ l'I  _  1^ 

~  =  —  le  che  per  x>  1  e ;, —  —  1  j. 

X—  1  X—  1 

Oss.  3".  È  essenziale  notare   che,  pure   esistendo   il   lim  //, 

può  darsi  benissimo  che  per  x  =  a  la  y  non   sia   definita,  od 
anche  che  vi  abbia  un  valore  affatto  distinto  da  lim  y,  perchè, 


(*)  Questa  proprietà  si  suole  anche  enunciare  dicendo:  Il  punto  a  è  punto 
limite  di  G 


FUNZIONI,    LimTI  109 


per  la  stessa  definizione,  per  calcolare  il  lim  y  si  devono  esa- 

minare  i  valori  che  y  assume  in  punti  distinti  dal  punto  a:  =  a. 

Oss.  4''.  Se  in  un  intorno  di  x=^  a  la  y  riceve  costante- 
mente uno  stesso  valore  b,  evidentemente  lim  y  =^  h. 

Oss.  5'\  La  lim  y  =^h  si  legge  :  Il  limite  di  y  per  x  =  « 
è  b  ;  oppure  y  tende  al  limite  b,  o  anche  tende  a  b  per  a;  =  a, 
oppure  per  a;  =  a  la  y  —  b  tende  a  zero,  diventa  infinitesima, 
è  infinitesima. 

Sarà  un  utile  esercizio  al  lettore  illustrare  le  precedenti 
definizioni  con  gli  esempi  del  §  31. 

Oss.  6^.  Supponiamo  che  esista  il  lim  ^  =  ?,  e  che,  quando 

X  ^  a,  si  abbia  y>  k  oppure  y^k. 

Dovranno  esistere  dei  valori  di  y  tali  che  \y  —  l  \  <^, 
e  in  particolare  che  l^y  —  £.  Poiché  ogni  valore  della  y  non 
e  inferiore  a  k,  sarà  l^k  —  £  ;  ma  £  è  un  numero  piccolo  a 
piacere.  Dovrà  dunque  essere  l  ^  k. 

Così  pure,  se  per  x  --  a  è  y  <kj  oppure  y  ^k,  è  l  ^k. 

Come  si  vede,  le  disuguaglianze  precedenti  relative  alla  y 
si  conservano  attenuate  (mi  sia  lecita  la  frase)  per  un  limite  di  y. 
Dico  attenuate,  'perchè  se,  p.  es.,  y>k,  dalla  ^  =:  lim  y  posso 
non  già  dedurre'  che  l  >  k,  ma  soltanto  che  l  ^  k.  Un  fatto 
analogo  ci  è  già  noto  (pag.  10)  per  i  limiti  superiore  ed  inferiore. 

Oss.  7*.  Viceversa,  se,  p.  es.,  lim  y^=^l<^k,  esiste  per  ogni 
£  >  0  arbitrario  un  intorno  y  di  a  tale  che  in  questo  intorno 
y  ^  /  4-  £.  Scelto  ^  <k  —  Z,  sarà  dunque  in  tale  intorno  y  <^  k. 
Un  risultato  analogo  si  ottiene  se  l>  k. 

Dalla  disuguaglianza  lim  ^  <  ^  [oppure  lim  y  >  k]  si  deduce 
quindi  una  disuguaglianza  y<k  [oppure  y>k]  per  i  valori 
della  y:  la  quale  però  (si  noti)  è  valida  non  già  per  tutti  i 
valori  della  y:  ma  soltanto  per  quei  valori  che  la?/  riceve  in 
un  CONVENIENTE  iutomo  dol  punto  a. 

Invece  dalla  y<k  [oppure  y>k]  si  ricava  soltanto  lim y^k 
[oppure  lìm?/^A:],  se  questi  limiti  esistono  e  sono  finiti.  Anche 
dalia  ?/^^  [oppure  ?/^Z:]  si  ricava  la  stessa  disuguaglianza. 

B)  Converremo  di  scrivere  lim  ?/=^    se  lim  —  =  0. 

x=a  «—a     y 

Scelto  ad  arbitrio  un  numero  £  positivo,  e,  posto  k  =^  —  ? 
dovrà  dunque  esistere  un  intorno  y  di  a  tale  che  per   tutti  i 


110  CAPITOLO   VI   —   §    32 

punti  di   questo   intorno  (il  punto  a  escluso)  che  appartengono 


1 


£,  ossia  \y\'^k,  cioè 
lianze:  y^k  oppure  ?/^ 


al  campo  G  ove  y  è  definita,  sia 

valga  l'una  o  l'altra  delle  disuguagl 
Possiamo  dunque  dire: 
È  lim  y  ^=^  00  j  se,  scelto  ad  arbitrio  un  numero  k  positiva 

x  =  a 

(arbitrariamente  grande),  esiste  un  intorno  y  di  a,  tale  che  nei 
punti  di  y,  ove  la  y  è  definita,  e  che  sono  distinti  da  a,  valga 
la  I  y  I  ^  k,  cioè  valga  la  : 

y^k  oppure  la  y  ^  —  k. 

Se  vale  sempre  in  y  la  prima  di  queste  ultime  due  disu- 
guagliante, se  cioè  y  è  positiva  in  tutto  un  intorno  di  a,  si  dirà 
che  il  limite  di  j  è  -h  co . 

Se  vale  in  y  la  seconda,  si  dirà  che  lim  y  =  —  oo . 

Se  in  ogni  intorno  di  a  la  y  assume  valori  tanto  positivi 
che  negativi,  essa,  pur  tendendo  a  oo ,  non  tende  né  a  -f-  oo  ^ 
né  a  —  co  . 

Anche  qui  potremo  distinguere  il  limite  per  x  =  a  -\-  0, 
e  il  limite  per  x  =  a  —  0. 

Dunque  lim  y  ===  b,  (essendo  anche  a  =  oo  oppure  b  =~oo  ) 

X  =  a 

allora  e  allora  soltanto  che,  dato  a  piacere  un  intorno  p  di  b^ 
si  pud  trovare  un  intorno  oc  di  a  tale  che  quando  x  =-4^  a  varia 
in  ce  assumendo  valori  per  cui  y  è  definita,  i  corrispondenti 
valori  di  y  appartengono  a  p. 

Il  lettore  veda  come  si  modifica  questa  proposizione,  se, 
p.  es.,  ò  =  -i-  00 ,  oppure  ò  =  —  oo ,  o  se  si  tratta  del  limite 
per  X  =  a  --H   oppure  per  x  ^=  a  — . 

C)  Come  abbiamo  visto  in  un  esempio  precedente,  può  bene 
avvenire  che    lim    y,    lim    y  esistano   entrambi,  e   siano   diffe- 

X  •=  a  —  O        a;  =  a-fO 

renti  l'uno  dall'altro;  né  ciò  può   stupire,  perché  per  il  primo 
limite  si  considerano  i  valori  di  y  per  x  posto  a  sinistra  di  a; 
e  per  il  secondo  limite  si  considerano  tutt'altri  valori  della  yi 
quelli  corrispondenti  a  valori  di  x  posti  a  destra  di  a. 
Vogliamo  dimostrare  però  il  seguente: 

Teorema  di  unicità.  La  y  non  può  avere  due  limiti  di- 
stinti, p.  es.,  per  x  =  a  4-  0  ;  cosicché  il    lim    y  o  non  esiste,. 

a;  =  a-4-0 

Oppure  ha  un  unico  valore  ben  determinato. 


FUNZIONI,    LIMITI  111 


Supponiamo,  p.  es.,  che  la  y  abbia  per  a;  =  a  4-  0  due 
limiti  finiti  li,  k.  Io  dico  che  h  -"=  k. 

Sia  £  un  numero   piccolo  a  piacere.  Esiste  un   intorno  a  a 

destra  di  x  =  u,  in  cui  \y  —  /i  |  <  — - ,  ed  esiste  un  intorno  P  a 

destra  di  x  =  (X,  in  cui  |  ?/  —  ^^  I  ^  ~^  •  ^i^  ^  ^^  punto  (del  solito 

campo   G   e    distinto   da  a),  che    appartiene   al   pili   piccolo    di 

questi  intorni;  esso  apparterrà  ad  entrambi  gli  intorni. 

Il  valore  ?/a,  che  y  assume  in  tal  punto,  soddisferà  perciò 

s                            s 
ad  entrambe  le  disuguaglianze  \y^  —  ^^  I  ^  "o"  ?  I  ^^  —  k\< 

I  numeri  h,  k  avendo  da  uno  stesso  numero  y^  una  distanza 

s 
minore  di  ~— ,  disteranno   l'uno   dall  altro   per  meno  di  s,  ossia 

!  Il  —  k  l<  £. 

Ciò  che  si  può  anche  dimostrare  osservando  che 

\li  —  k\  =  \{h  —  y.ò-^{y.  —  k)\é.\h  —  y,\-\-\k  —  y,\=^ 

=  I  ?/.  —  /^  I  4-  I  ?/,  —  A:  I  <  y  -h.  y  rr=  £. 

La  differenza  li  —  k,  essendo  in  valore  assoluto  minore  di 
ogni  numero  positivo  s,  è  quindi  nulla.  e.  d.  d. 

Un  utile  esercizio  sarà  quello  di  completare  la  dimostrazione 
del  precedente  teorema  per  il  caso  che  sia,  p.  es.,  /i  =  H-  oo . 

§  33.  —  Funzioni  complesse  e  loro  limiti. 

Se  u  (.t),  V  {x)  sono  funzioni  reali  della  x  definite  in  uno 
stesso  insieme  G,  la  u  {x)  -\-  iv  (x)  è  (§  29,  a,  pag.  96)  una  fun- 
zione (complessa)  della  variabile  (reale)  x  definita  nel  campo  G. 

Se  lini  u  (x^  =^  m,  se  lim  v  (x)  =  w,  si  suol  dire  che 

lim  [u  (x)  -h  tv  (x)]  =  m  -f-  i  n.  (1) 

S 

Poiché,  scelto  un  —  piccolo  a  piacere,  esistono  un  intorno  yi, 

e  un    intorno   Y2  di   a,   tale   che   nei   punti    di    G   (il   punto   a 
escluso)  che  appartengono  a  tali  intorni,  valgano  le 

\u(x)  —  m\^^  ,  \v{x)  —  n\é.^.     (2) 


112  CAPITOLO  VI   —   §    33-34 

in  un  intorno  y  interno  a  Yi  e  a  Y2  varranno  entrambe  le  (2). 
Varrà  anche  la 

\\u{x)  -i-iv  (x)  1  —  \m-h  Ì7i\\^  £,  (3) 

perchè  il  primo  membro  di  (3)  non  può  superare 

\  u  (x)  —  m\  +  1  V  (x)  —  n  |. 

Viceversa,  se,  per  ogni  £  >  0,  esiste  un  intorno  y  V^^  il 
quale  valga  la  (3),  allora  è  vera  la  (1).  E  così  trovata  una 
stretta  analogia  tra  le  definizioni  di  limite  di  una  funzione 
reale  0  complessa.  È  evidente  che  dalla  (1)  segue 


lim  l/[u  (x)  f  -f-  [v  (x)  Y  =  m^  -f-  n^,  cioè: 

lim  I  il  (x)  -h  iv  {x)\  =^\  m  -]-  in\ 
(limite  del  modulo  =  modulo  del  limite). 

Una  formola  analoga  non  si  può  scrivere  per  gli  argomenti 
perchè  l'argomento  di  un  numero  complesso  non  è  univocamente 
determinato. 

Se  però  u  (x)  -\-  iv  {x)  è  una  funzione  complessa,  il  cui 
modulo  per  x  =  a  ha  per  limite  r,  mentre  l'argomento  (0,  per 
meglio  dire,  uno  degli  argomenti)  ha  per  limite  0,  allora 
Il  {x)  -h  iv  (x)  ha  per  limite  proprio  r  (cos  0  -}-  t  sen  0). 

Se  anche  una  sola  delle  funzioni  u  (x),  v  (x)  ha  per  limite  00 , 
ossia  se  \u  -h  iv  \  =  ]/ u'  4-  v^  ha  per  limite  l'infinito,  ossia  se 

—  ha  per  limite  zero,  diremo  che  ^^  -l-  ^'  t;  ha  00  per  limite. 

u  -\-  tv 


§  34.  —  Ricerca  del  lim  p\ 

x=-oo 

Se  p  è  negativo,  oppure  complesso,  supporremo  senz'altro 
X  intero.  Distinguiamo  parecchi  casi: 

l''  Sia  |2)|>  1,  xyo. 

I  lo^io  k 

Si  osservi  che    »*  |  ^  ^  se  x  ^  ~ , — -  ossia   se  x   appar- 

logiolpl 

tiene  all'intorno  (  ,  ^^^\ — r,  +  00  )  di  +  qo  . 
\logio|i)|  ^ 

Quindi  :  lim   j>*  =  ao  se  |  ^^  |  >  1 . 

a;  «=  -j-  X 


FUNZIONI,    LIMITI  ^       .  113 


r  Sia  li?  I  <  1,  X  <  0.  In  tal  caso  -—  >!,?/  =  —  .,•  >  o, 
lim    7/  =1=    lim     (  —  )    =  00  . 

3**  Sia  !j?|<l;  :r>0;  sarà,   posto  q  =^ — • 

g  I  >  1   e  quindi    lim    r/*  =oo  .  donde    lim    ^  =  o, 

X  =•  -\-y.  X  =  -j-  j:      ([ 

ossia    lim    p*  =  0. 

4**  Sia  \p\>  l:  X  <0:  posto  g  =  — - ,   sarà    |  g  |  <  1    e 

quindi  perii  2**  caso  lim  (/  =  oo,  donde  lim    -^.=  lim  ^"'^nO. 

5"  Per  />  ==  1   è    lim   j/ =  1    (perchè  j/ =  1    per   ogni 
valore  di  a;). 

6"  Per  ^  =  —  1   ed  ce  intero,  j^^   assume   i   valori   -4-  1 
0  —  1 ,  secondo  che  x  è  pari  o  dispari  :  e  quindi    lim   ^*  non 

esiste.  Altrettanto  avviene  se  \p\=^l,  e  j)  è  un  numero  com- 
plesso. 


§  35.  —  Primi  teoremi  sui  limiti. 

Enuncieremo  e  dimostreremo  questi  teoremi  per  le  funzioni 
reali. 

Tali  teoremi  valgono  però,  come  apparirà  evidente,  anche 
per  funzioni  complesse. 

È  ben  evidente  che,  se  due  quantità  i^i,  ?/..  si  avvicinano  indefini- 
tamente a  (hanno  per  limite)  due  numeri  finiti  h,  U,  la  loro  somma, 
la  loro  diiferenza,  il  loro  prodotto  e  il  loro  quoziente  (se  ^2  "^  0)  si 

avvicinano  indefinitamente  a  ?i  -4-  U,  h  —  k,  h  K  -j-  (nell'ultimo 

caso  si  suppone  L  =^- 0).  Questa  semplice  osservazione  si 'enuncia 
rigorosamente,  e  in  modo  più  generale,  coi  seguenti  teoremi: 

a)  Se  ji,  jo,  jn  sono  funzioni  della  x  definite   in  tino 

stesso  gruppo  G,  e  se,  p.  es.,  per  x  =  a  -4-  0  esse  hanno  dei  limiti 
li,  I2,  ...  1„  finiti,  allora  per  x  =  a  -+-  0.  la  somma  ji  -f-  3^2  -4- ...  -hjn 
ha  per  limite  la  .wmma  li  -f-  lo  -f-  +1,,  dei  limiti. 

8  —  G.  Fi'BiNi,  Analifii  matematica. 


114  ,  CAPITOLO   VI    —    §    35 


Dimostreremo  il  teorema  nel  caso  n  =  2  :  il  caso  generale 
si  tratta,  o  con  metodo  analogo,  oppure  col  metodo  di  induzione 
completa,  osservando  che: 

(yi  -+-  ^2  + -4-  yj  =  {yi  -H  y-i  -+- -\-  Vn-x)  -H  Vu' 

Sia  7]  un  numero  arbitrario  :  esisterà  un  intorno  destro  aj  di  a, 
in  cui  \yi  —  ^1 1  <  "yj,  ed  un  intorno  cl^  di  a,  in  cui  \y2  —  ?2 1  <  tQ. 
Se  a  è  un  intorno  interno  tanto  ad  ai  che  ad  a2,  allora  in  a 
valgono  entrambe  le  precedenti  disuguaglianze  ;  donde  si  deduce  : 

I  (^1  +  ^2)  —  (^1  +  ^2)  1  ^  b  —  ?i  I  +  I  ^2  —  ^2 1  <  TQ  +  -y]  =  2  Y). 

Quindi,  dato  un  numero  £  piccolo  a  piacere  e   positivo,  se 

£ 

ne  deduce,  posto  t]  =  -— ,  che  esiste  un  intorno  a  di  a,  in  cui 

{y\  +  2/2)  —  {^1  ■+"  ^2)   è  minore  di   2  y]  =  £  in   valore    assoluto. 

e.  d.  d. 

Oss.  Per  stabilire  la  precedente  disuguaglianza  sono  partito 
dalla  I  a  -h  ò  I  ^  I  a  I  -+- 1  &  I  del  §  4,  B,  pag.   13. 

P)  Nelle  stesse  ipotesi  di  a)  iZ  Zmi^e  cZeZ  'prodotto  ji  72 y„ 

ms^e  ed  è  uguale  al  prodotto  li  I2 In  dei  limiti. 

Supponiamo,  come  sopra,  n  =  2.  Come  sopra  si  dimostra  che, 
dato  un  numero  positivo  y]  qualsiasi,  esiste  un  intorno  a  di  a, 
in  cui  valgono  entrambe  le  \  y^  —  ?i  |  ^  y],  |  ?/2  —  Z2  |  ^  y]. 
E  quindi  in  a  sarà  |  yi  |  <  |  /i  |  -4-  y]. 

Si  avrà  in  tale  intorno: 

\y1y2  —  ^1  U  I  = 

=  I  Vi  (2/2 —  ^2)  +  I2{yi  —  lò\^\yi\\y2  —  l2\-+-\i2\\vi  —  li\ 

^  j  I  Zi  i  -f-  Y]  :  Y)  H-  I  ^2!  Yj  ^  Yj  j  I  ?i  I  ^- 1  Zs  I  +  'yj  |. 

Sia  ora  £  un  numero  piccolo  a  piacere;  scelto  y]  tale  che  y]  <  1. 

£  .        ^  .  ,.  .         . 

Y]  < r— I TTT?    esisterà    un    intorno    a   di   a,  in  cui: 

1  4-  I  /i  I  -f-  I  /a  I 

1,^/1^2— ?i?2M>l!Ui|4-|Z2kYlj<    ■^_^|^^^|_^|^^|iUl|  +  U2|4-l!^£ 

ossia:   1^1 2/2 — Zi/2|<s-.  e.  d.  d. 

Y)  Se  lim  yi^=li  e  se  k  è   un   numero   finito   diverso   da 


zero,  esiste  un  intorno  a  di  a,  in  cui  \yi  —  h 


h 


,  e  quindi 


FUNZIONI,    LIMITI 


115 


yx\> 


L  yi  =i=  0.  In  tale  intorno  a  ha   dunque  significato    il 


rapporto  -^.  Analoga  considerazione  vale  se  lx^=  co . 

yi 

Teorema.  Se  lim  ji  =  li,  e  se  li  è  un  numero  finito  non 

x  =  a 

nullo,  allora  lim  —  =  -— .  ^e  invece  li  =  oo    allora  lim  —  =  0. 

.c=.aji      11  yi 

Se  ji  è  differente  da  ^ero  nei  punti  di  un  intorno  a  di  a 
(distinti  da  a)  e  se  lim  ji  =  0,  allora  lim  —  =  oo . 

a;  =  o  «  =»  o   jl 

1 


Se  ?i  =  00  ,  lim 


yi 


0  e  viceversa  (§  32,  B,  pag.  109).  Sup- 


poniamo che  II  =F  0  sia  un  numero  finito.  Se  s  è  un  numero  piccolo 

a  piacere,  esiste  un  intorno  ^  di    a,    in   cui  |  ^i  —  ?i  |  <  £  — . 

Se  Y  è  un  intorno  comune  a  ^  e  all'intorno  a,  di  cui  parla  la 
precedente  osservazione,  in  tale  intorno  y  sarà: 


donde 


=  £. 


1^1  > 

2  1' 

yi     h 

<.';. 

1       1 
yi       h 

yi     h 
yih 

72 

h 


Per  ogni  numero  £  esiste  quindi  un  intorno  y,  dove 
da  ciò  segue  tosto  il  nostro  teorema. 


<e; 


Corollario.  Se  due  funzioni  ?/2,  yi  sono  definite  nello  stesso 
gruppo  G  ed  hanno  per  x  =^  a  limiti  finiti  k,  h,  e  se  il  limite 

di  Vi  è  differente  da  zero,  allora  la  frazione  —  ha  significato  (se 

yi 

il  denominatore  non  è  nullo)  in  un  intorno  a  di  a,   ed   il   suo 

limite  per  x  =  a  è  uguale  al  quoziente  -^  dei  limiti  di  J2  eji. 

Il 

V>  1 

Ciò  si  dimostra  osservando  che  -^^  è  il  prodotto  di  y-^  per  —  . 

yi  ^'       yi 


116  CAPITOLO    VI    —    §    35 

Oss.  Esistano  ancora  per  x  =^  a   ì   limiti   delle  yi,    y-,.    Se 

ni 

Km  ?/o  =  00  ,  lim  ^1  -;-  00  ^  allora  -^  ha  per  limite  oo  . 

Vi 

Se  lim  ?/2  =p  0,  lim  i/i  =  0,  e  se  il  rapporto  ^-  ha  significato, 

allora  lim  ^^  i=  oo  . 

Se  lim  :^i  =  00  ,  lim  t/o  -i-  oo  ^  allora  lim  -^^  =0. 
Se  dunque  esistono    i    limiti   di    y^   e   di    ?/i,    noi    sappiamo 
trovare  il  limite  del  quoziente  — ^  in  tutti  i  casi,  esclusi  quelli 

yy 

che  entrambe  le  ?/i,  ?/j  tendano  a  zero,  o  che  entrambe  tendano 
all'infinito.  Questi  casi  particolari  saranno  da  noi  studiati  più 
tardi  per  altra  via.  È   naturalmente  inteso  [nel  caso  che  il  lim  ?/i 

y-i 
sia  nullo]  che  si   possa  parlare  del   rapporto  -^■-  e   che  cioè  nei 

ih 

punti  di  un  intorno  cl  ài  a  (il  punto  a  escluso)  sia  y^  =t=  0  (*). 

h)  Sia  y  =  fi^)^  ^  =  ?  (^)  ;  sia  lim  ^  =  ò,  lim  y  =■  e.  La  ?/ 

si  possa  considerare  come  funzione  /'[cp  {x)  ]  della  x  in  un  in- 
torno di  a,  È  intuitivo  che  sarà  anche  lim  ;/  =  e.         , 

Se  però  in  ogni  intorno  del  punto  a  esistono  punti  x  ^  a, 
in  cui  la  z  assume  il  valore  ò,  bisogna  in  più    ammettere  che 

Infatti,  preso  un  numero  i  piccolo  a  piacere,  della  lim  2/  =  e,  si  deduce  che  esiste 

un  numero  '>  tale  che  per  z  ^'.^h  e  1  ^;  —  />  1  <  «^  è  [  7/  —  e  1  <  s.  Dalia  lim  z  ^=h 

si  deduce  che  esiste  un  numero  ^  tale  che,  se  ic  ^  -  a  e  se  j  a;  —  a  |  <  ^  sia  [  ^?  —  />  I<  -ì. 
Sarà  quindi  anche,  per  quanto  trovammo,  \  y  —  c\  <  ^  se  ^;  =#=  ^.  La  disuguaglianza 
1 2/  —  e  !  <  s  vale  però  anche  se  ^  =  ò  per  il  valore  considerato  della  x,  perchè  per 
ipotesi  in  tal  caso  y  =  f(b)  =  c.  Dunque,  dato  un  numero  i  piccolo  a  piacere, 
esiste  un  numero  ^  tale  che  par  \  x  —  a  \  <^  ^  è  |;?/  —  c!<;.  Donde,  per  defi- 
nizione di  limite,  hm  y  —  e.  e.  d.  d. 

In  modo  simile  si  tratta  il  caso  che  e  —  co ,  oppure  b  —  co ,  ecc. 

(*)  Se  fosse  l^  ^-  0,   questa   ultima   condizione   è   sempre   soddisfatta,   come 
abbiamo  già  osservato. 


FUNZIONI,    LIMITI 


117 


§  36.  —  Funzioni  continue. 

a)  Sia  y  =z  f(x)  una  funzione  reale  della  r  definita  in  un  certo 
intervallo.  Hanno  speciale  importanza  tra  così  fatte  funzioni  (*j 
quelle  funzioni  che  si  sogliono  chiamare  continue,  perchè  variano 
con  continuità  al  variare  della  x,  cosicché  se  la  x  varia  di 
pochissimo,  anche  la  y  varia  di  pochissimo.  Prima  di  dare  una 
definizione  precisa  di  tali  funzioni,  osserviamo  che  la  fisica  ci 
dà  esempio  non  soltanto  di  funzioni  continue,  ma  anche  di  fun- 
zioni non  continue  (discontinue). 

Sia,  p.  es.,  data  una  certa  quantità  di  ghiaccio  alla  tempe- 
ratura di  —  10^.  Noi  indicheremo  con  y  la  minima  quantità  di 
calore  necessaria  per  elevare  la  temperatura  del  ghiaccio  da 
—  10°  a  X  gradi.  La  y  sarà  una  quantità  definita  per  tutti  i 
valori  di  x,  che  corrispondono  a  temperature  sperimental- 
mente raggiungibili;  sarà  cioè  una  funzione  di  x  (positiva  per 
x>  —  10,  negativa  per  x  <  —  10,  nulla  per  ./  =  —  10). 
Consideriamo  la  ?/  come  funzione  della  x  nell'intervallo  ( —  10,0). 
In  questo  intervallo  la  ^  è  continua,  perchè  varia  con  conti- 
nuità al  variare  continuo  di  x,  in  quanto  che  per  piccolissimi 
innalzamenti  di  temperatura  occorrono  piccolissime  quantità  di 
calore.  Anzi,  se  noi  ricorriamo  ad  una  rappresentazione  grafica, 
la  curva  immagine  è,  come  insegna  la  fisica,  prossimamente 
coincidente  con  un  segmento  rettilineo  MG  (**)  (fig.  10). 

Ma  consideriamo  ìsl   y  in 
tutto  l'intervallo  (—  10,  -h  2). 

Ricordiamo  che,  se  si  som- 
ministra a  poco  a  poco  del  ca- 
lore al  ghiaccio  per  innalzarne 
la  temperatura,  si  osserva  che, 
giunto  a  0,  il  termometro  per  _ 
un  po'  di  tempo  non  segna 
aumento  di  temperatura,  perchè 


Fig.  10. 


il  calore  fornito  viene  assorbito  dalla  liquefazione  del  ghiaccio. 

Quando  questo  è  tutto  liquefatto,  la  temperatura  ricomincia 

a  salire  man  mano.  Per  100>^>0    la   nostra   funzione  ?/    è 


(*)  Restano  cosi  escluse  dalle  seguenti  considerazioni  le  funzioni  definite  in  un 
gruppo  6r  di  punti,  che  non  sia  un  intervallo. 

(**)  Avverto  che  la  figura  rappresenta  soltanto  qualitativamente,  e  non  quan- 
titativamente, il  fenomeno  fisico. 


118  CAPITOLO   VI   —    §    36 

rappresentata  sensibilmente  da  un  altro  segmento  Z)  TV',  che  non 
è  però  il  prolungamento  dì  MC. 

Il  segmento  CD  rappresenta  il  salto,  la  discontinuità  che 
ha  la  y  per  a;  =  0,  ed  ha  per  misura  proprio  la  misura  della 
quantità  di  calore  che  la  liquefazione  del  ghiaccio  ha  assorbito. 
Come  si  vede,  per  far  variare  di  pochissimo  la  temperatura,  si 
richiede  generalmente  pochissimo  calore  ;  ma,  se  si  tratta  invece 
di  passare  da  una  temperatura  negativa  di  —  s  alla  temperatura 
positiva  di  -h  £,  dove  e  è  un  numero  positivo,  la  quantità  di 
calore  necessaria  non  è  piccolissima,  anche  se  £  è  piccolissimo, 
ed  è  sempre  maggiore  della  quantità  di  calore  necessaria  alla 
fusione  del  ghiaccio. 

In  altre  parole,  il  valore  di  y  per  a;  =  0  è  rappresentato 
dal  segmento  OC,  mentre  i  valori  di  y  nei  punti  di  un  intorno 
destro  di  0,  per  quanto  piccolo,  non  sono  già  assai  prossimi 
alla  misura  di  0  C,  ma  sono  rappresentati  da  segmenti  che  diffe- 
riscono da  00  per  non  meno  che  CD,  cosicché  il  lim  y  per 
:2;  =  0  -f-  0  (cioè  quando  x  tende  a  zero  venendo  da  destra)  è 
uguale  ad  OD,  e  non  al  valore  OC,  che  y  ha  nel  punto  x  =  0. 
Perciò  si  dice  che  la  ?/  è  discontinua  nel  punto  x=^0. 

Si  pone  anzi  la  seguente  definizione  generale: 

Sia  y  =  f  (x)  una  funzione  definita  in  un  intervallo  (a,  b). 
Sia  e  un  punto  interno  a  questo  intervallo.  Se  lim  f  (x)  =  f  (e) 

a;  =  c-|-0 

ed  anche  lim  f  (x)  =  f  (e)  noi  diremo  che  f  (x)  è  continua  nel 

2)unto  e. 

Se  e  coincide  con  V estremo  sinistro  (destro)  di  (a,  b)  la 
funzione    f  (x)    si   dirà  continua   in   e,    se   lim  f  (x)  =  f  (e) 

[se  lim  f(x)  =  f(c)].    In    tal   caso    infatti   non  avrebbe  signi- 

a;  =  c  — 0 

ficato  parlare  del    lim    f  (x)    [del    lim   f  (x)]  perchè   f  (x)   non 

a;  =  c  —  0  xt=c-|-0 

è  definita  a  sinistra  (a  destra)  di  e. 

La  formola  lim  f  (x)  =  f  (e)  si  può    anche   scrivere   nella 

ce  =  e  ±  0 

forma  lim  f  (e  -4-  h)  =  f  (e). 

/t  =  ±  0 

Affinchè  dunque  f{x)  sia  continua,  p.  es.,  in  un  punto  e 
interno   air  intervallo   {a,    b),   i    due    limiti   lim  f(x),   lim  f{x) 

devono  esistere  entrambi  ed  essere  uguali  ad  f{c).  Nell'es.  pre- 
cedente il  lim  y  esisteva,  ma  non  era   uguale    al   valore   di  y 

«  =  04- 

per  X  =  0.  In  altri  casi  di  funzioni  discontinue  (non  continue). 


FUNZIONI,    LIMITI  119 


mancano  l'uno  o  l'altro  dei  limiti  precedenti,  o  mancano  tutti 
e  due. 

Se  una  funzione  f  {x)  è  continua  in  ogni  punto  e  del- 
l'intervallo (a,  h)  la  f  {x)  si  dice  continua  nell'intervallo  (a,  b). 

Una  funzione  complessa  u  {x)  -\-i  v  {x)  si  dirà  continua 
per  a;  =  a,  se  n  (x),  v  (x)  sono  continue  per  x  ^=  a. 

P)  Dalla  definizione  stessa  e  dai  teoremi  del  §  35  segue  che: 
La  somma  ed  il  prodotto  di  piit  funzioni  continue  in    un 

punto  e  [o  nell'intervallo  (a,  b)]  sono  continui  nello  stesso  punto 

(nello  stesso  intervallo). 

Se  f  (x),  9  (x)  sono  continue  vn  e,  e  ^  (e)  H-  0,    allora   il 

f(x)        . 
rapporto  — -r-r-  esiste  in  un  intorno  di  questo  punto  ed  è  con- 
tinuo per  X  =  e. 

Esempi  di  funzioni  continue. 

V  La  funzione  sen  x  è  continua  dappertutto.  Basta  far 
vedere  che  lim  sen  {x  -hh)  =  sen  x,  ossia  che  : 

lim  [sen  (x  -h  /^)  —  sen  x]  =  0. 


Ora  ì  sen  (x-hh)  —  sen  x\  =  2 


sen  ycos  y.t -^r-—^\é.\h\, 
perche  |  cos  (  x  +  —  I  non  può  superare  1  unita  e  |  sen  ir  h^  Hr    ' 

\  2i    '  \  2i    \      \   À   \ 

Quindi,  se  £  è  un  numero  positivo  piccolo  a  piacere,   in  tutto 
l'intorno  ( —  £,  s)  del  punto  h  =  0,    ossia   per   \h\  <^,   si   ha 

I  sen  (x  -{- h)  —  sen  x\ <^. 

2^  La  funzione  a""  (a  >  0)  è  continua. 
3^  La  funzione  \ogax(a>0)  è  continua. 

4°    La    funzione    y  =  tang  x    è    continua  per  x  #=  ±— 

ili 

poiché  è  quoziente  delle  funzioni  continue  sen  ^,  cos  x^  di   cui 
la  seconda  è  nulla  solo  per  a?  =  ±  -—  (a  meno  di  multipli  di  2  ti). 

tu 

Y)  Talvolta  avviene  che  una  funzione  è  continua  in  tutti  i 
punti  di  un  intervallo,  eccetto  che  in  uno  o  più  punti,  in  cui 
la  funzione  può  anche  non  essere  definita.  Tali  punti  si  diranno 
i  punti  singolari  della  funzione  in  tale  intervallo. 


120  CAPITOLO   VI    —   §    36 

Cosi,  p.  es.,  la  funzione  y  = è  continua  dappertutto, 

X  —  a 

eccetto  che  nel  punto  ./  =  a,  dove  essa  non  è  definita.  Il  punto 

x*  =  a  è  il    punto    singolare  di   questa   funzione   nell'intervallo 

( — 00,    H-Qo).    In    questo    caso   però    esiste   il    lini  y  e    si   ha 

lim  y  ■=:  co  .  ''^"' 

Ogni  qualvolta  una  funzione  continua  fix)  ha  il  punto  x  =  a 
come  punto  singolare,  ed  è  lim  f{x)  =  oo ,  noi  diremo  che  x  =  a 

è  un  punto  d'infinito  di  f{j),  o  anche  che  f{x)  ivi  diventa  infinita. 
A  meno  di  esplicita  dichiarazione  in  contrario,  noi,  quando 
parleremo   di    funzioni    continue    in    un   intervallo,    escluderemo 
sempre  che  posseggano  punti  singolari  in  tale  intervallo. 

S)  Sia  y  =  f{z),  ^=9  (x)  e  sia  lim  cp  (,r)  =  h.  Sia  la  y  con- 

x  =  a 

tinua  per  ^=6;  e  si  possa  considerare  la  yz=zf[(p{x)]  come 
funzione  della  x  in  un  intorno  del  punto  x  =  a.  Dico  che 

lim  f[^{x)]  =  f[\ìm^ix)]  =  f{bl 

X  -^  a  x  =  a 

ossia  che  il  simbolo  f  di  funzione  continua  si  piiò  permutare 
col  simbolo  di  limite.  Infatti,  poiché  f{z)  è  continua  per  z  ^=^b, 
è  lim  ?/  =  lim  f{,z)  =  f{b).  E  quindi  (§  35,  5,  pag.  116)  anche 

lim  y  :=z  lim  /'[cp  {x)]  =  f{b),  e.  d.  d. 

X  =  a  X  =  a 

Così,  p.  es.,  lim. log  f{x)  =  log  [lim  f{x)\  se  il  lim  f{j)  è 

X  =  «  x  =  a  a;  =  a 

finito  e  positivo,  cioè  brevemente,  ma  incompletamente:  Il  limite 
del  logaritmo  è  uguale  al  logaritmo  del  limite. 

Se  lim  f{x)  esiste  ed  è  uguale  ad  un  numero  b  finito 

x  =  a 

lim  /i/*^>  =  h'  (supposto  h  >  0). 

X  =  o 

Se  lim  f{x)  =  ò  si  ha  lim  sen  f{x)  =  sen  b,  ecc. 

X  =  a  X  «="  « 

s)  ^S'e  2  =  9  (y).  y  =  f  (x)  sono  funzioni  continue,  e  se  z 
si  può  considerare  come  funzione  di  x  in  tutto  un  intervallo 
(a,  b),   la  z  è  in  tale  intervallo  funzione  continua  della  x. 

p]SEMPI. 

1"*  Si  dimostri  che  a;'' (e  ==:  cost.,  x>  0)  è  continua. 
Ris.  Infatti  x"  =  a:',  dove  y  =  log^  {x'')  ==  e  log«  x.  Poiché 
oF  è  continua,  ?/ = /'(a;)  =^  e  Ioga  :r  é  pure  continua,  anche   x 
è  continua. 


FUNZIONI,    LIMITI  121 


Oss.  Questo  teorema,  se  a;  <  0,  e  e  è,  p.  es..  un  intero  posi- 
tivo, è  ancora  vero;  lo  si  dimostra  osservando  che  x""  è  il  pro- 
dotto di  e  funzioni  tutte  uguali  a  a:  e  quindi  continue. 

2*  La  funzione  y^=::\o^f(x)  è  continua  per  quei  valori 
della  X,  per  cui  f  (x)  è  continua  e  positiva. 


§  37.  —  Un  limite  fondamentale. 

a)  E  ben  evidente  che,  se  due  punti  .4i,  A2  si  avvicinano 
indefinitamenle  nello  stesso  tempo  ad  uno  stesso  punto  L,  un 
punto  A,  il  quale  sia  sempre  compreso  nell'intervallo  Ai  A.>, 
dovrà  pure  tendere  ad  L.  Questa  osservazione  rende  intuitivo  il 

Teor.  Se  y,  ji,  y_.  sono  tre  fiindoni  reali  della  x  definite  in  tino 
stesso  gruppo  G,  se  per  ogni  valore  di  x  in  G  la  j  è  compresa 
tra  ji  ed  y-i  {ji^j  ^  y..  oppure  yi  ^  y  ^  yo),  e  se  lim  ji  = 
=  lim  j2j  anche  lim  y  =  lim  ji  =  lim  y2. 

Supponiamo,  p.  es.,  lim  yi  =  lim  y.,  =  A  =  numero  finito. 

«  -=•  a  X'=a 

Come  al  §  35  si  dimostra  che,  dato  un  numero  £>0  piccolo 
a  piacere,  esiste  un  intorno  a  di  a,  in    cui   valgono   entrambe 

le  \  yi  —  J  I  <  £,  \y2  —  A\  <  £.  Poiché  y  è  compreso  tra  yi 
ed  yo,  sarà  in  a  anche  \y  —  ^4  |  <  £.  Ne  segue  quindi  che, 
dato  £  piccolo  a  piacere,  esiste  un  intorno  a  di  a,  in  cui  vale 
la  \y  —  ^  !  <  £.  Perciò  sarà  lim  y  :=  A, 

X'=a 

Il  lettore  troverà  un  utile  esercizio,  completando  questa 
dimostrazione  per  il  caso  x4  =  00 . 

P)  Applicheremo  ora  questo  teorema  alla  dimostrazione  della 

sen  X 
lim  :==  1. 

«==0        X 

Per  una  retta  interpretazione  di  questa  formola  si  ricordi 
che  l'angolo  x  deve  essere  misurato  in  radianti.  Lo  studente 
farà    bene    a   rendersi    intuitiva    detta    formola   costruendo    un 

diagramma  della  curva  y  = • 

Noi  ci  accontenteremo  di  scrivere  varii  valori  approssimati 

di  detta  funzione  :  ciò  che  basterà  a  rendere  sensibile  il  fatto 

sen  X    . 
che,  quanto  più  x  si   avvicina  a  zero,  tanto  più  y  =  — —  si 

avvicina  ad  1. 


122  CAPITOLO   VI   —   §    37 

Per  .  =  ±  I- ,  ,  =  1  =  ^^^  =  0,63662... 

Per  ..  =  ±^,,=  3-11^  =0,90032... 

Per  x  =  ±^,  y  —  0,99995... 
J  oO 

'   Per  x  =  ±-^^^,  y  =  0,99999.... 

Se    con   z   indichiamo   la    misura  in  gradi  dell'angolo  di  x 

180  ir            .-,.,.     sen  .2'         n    ,.     sen  .r 
radianti,  sarà  :  z  = ;  e  quindi  lim =  — -—  lim 

^jrc^^  3,14159...^- 

180  180  '  ^  ^ 

La  misura  in  radianti  è  appunto  per  ciò  fondamentale, 
perchè,  se  misurassimo  gli  angoli  in  gradi,  dovremmo  conti- 
nuamente  nelle    corrispondenti  formole  di  calcolo  introdurre  la 

costante  - — --      testé  determinata. 

La  dimostrazione  della  nostra  formola  si  compie  facilmente. 
Per  0<:r<  — è  sen  a:;  <  a;  <  tg  a;  (§  5,  B,  pag.   19). 

Dividendo  per  sen  x  (positivo)  si  ha  : 


i<-^<  ' 


sen  X      òos  x 
Poiché  lim  cosir  =  l,  anche  lim  =  1.  Poiché  la  fun- 

«  =  0  x^o  COS  X 

zione    ^=1    ha    pure    per    limite    1,    il    teorema    precedente 
dimostra  che 

X                   ,.     seno; 
hm  =  1  z=z  hm  • 

ce  — 0  sen  X  x  =  o     X 


(*)  Questo  numero  è  la  misura  in  radianti  dell'angolo  di  un  grado.  Se  si  mi- 
surasse invece  l'angolo  in  gradì  centesimali,   il  valore  di  questo  limite  sarebbo 

2^  =.0,01570 


123 

E  il  limite  non  muta,  supponendo  x  negativo  ;  perchè,  se  si 

cambia  il  segno  di  x,  anche  sen  x  cambia  di  segno,    e   quindi 

sen:z'   .  .        .  ^ 
rimane  invariato. 

X 

1    — ^  POS  ^ 

Es.  Trovare  lim .  Si  ha,  posto  a;  =  2  v, 

x=0  X 

1  —  cos  a;       2  sen^  y       sen  y 

'     =  -- — ^  = ^  sen  y, 

X  2y  y 

sen  V 
Per  a;  =  0,  ossia  per  y  ^=0,  è  lim  sen  ?/  =  0,  lim =  1 . 

Quindi  lim  ^  ~  ^^i^  =  1.0  =  0. 

§  38.  —  Un  altro  limite  fondamentale. 

a)  Se  un  punto  A  si  muove  sopra  una  retta  sempre   nello 
— ►  stesso  verso,  p.  es.,  verso  destra, 

ì  i  i  è  ben  chiaro  che   possono   pre- 

^  AL         sentarsi  due  soli  casi  : 

l*"  Il   punto   A  finisce  con   l'allontanarsi  indefinitamente 
a  destra. 
Oppure 

2"*  Esiste  un  punto  L,  che  il  punto  A  non  supera,  pure 
avvicinandosi  ad  esso  indefinitamente.  Così,  p.  es.,  se  il  punto  A 
ha  una  velocità  costante,  si  presenterà  evidentemente  il  primo 
caso.  Se  invece  A  nel  primo  minuto  percorre  cm.  1,  nel  secondo 

cm.  — ,  nel  terzo  cm.  — -  ,  nel  quarto  cm. -— , nello   n^"''^'' 

minuto  cm.    „_i,  esso  dopo  n  minuti  avrà  percorso 

I-i- 
11  1      \  9**  1 

cm.  (  1  H-  4-  -+-—  -f-  -f-  — ^  1= ^=2  — 


■O-i-i- -5^.)  =  -^ 


n— 1 


Il  punto  A  non  sarà  perciò  mai  riuscito  ad  allontanarsi  al 
di  là  di  quel  punto  L,  che  ha  una  distanza  di  cm.  2  dal  punto 
di  partenza,  pure  diventando  (al  crescere  di  w)  la  distanza  AL 


(  che  è  -;^:ri  )  piccola  a  piacere. 


124        '  CAPITOLO   VI   —    §    38 

Questa  osservazione  rende  intuitivo  il  teorema  che  dobbiamo 
ora  esporre. 

Si  dice  che  una  funzione  reale  y  =^  f{x)  è  crescente,  se 
essa  cresce  al  crescere  della  x,  o  più  precisamente,  se,  indicati 
con  Xi,  x->  due  punti  qualsiasi  del  gruppo  G  ove  la  f  (x)  è 
definita  tali  che  xi>  Xo,  si  ha  /'fe)  > /*fe). 

La  y  si  dice  decrescente,  se  invece  dalla  Xi  >  X2  segue 
f{xi)<f(x-^,  ossia  se  la  y  decresce  al  crescere  della  a:;  (come, 
p.  es.,  avviene  se  y  è  inversamente  proporzionale  ad  a;  >  0). 
La  y=zf{x)  si  dice  non  crescente,  oppure  non  decrescente,  se 
dalla  Ti^a:.  segue  f{x^)^f{x^^,  oppure  f{xi)^f{xi). 

Se  una  funzione  non  è  crescente,  0  non  è  decrescente  in  un 
dato  gruppo  G  di  punti,  si  dice  che  la  funzione  varia  sempre 
nello  stesso  verso  (senso)  nel  gruppo   G. 

Teor.  Se  f  (x)  è  una  funzione  definita  nel  gruppo  G,  che  varia 
sempre  nello  stesso  verso  e  se  in  ogni  intorno  (p.  es.  sinistro)  del 
punto  X  =  a  esistono  punti  di  G  distinti  da  a,  esiste  il  lim  f  (x). 

X  t=  a  —  0 

Supponiamo  per  fissar  le  idee  che  f{x)  non  sia  decrescente 
a  sinistra  del  punto  a,  e  che  si  voglia  dimostrare  l'esistenza 
del  lim  f(x).  Noi  dimostreremo  che  tale  limite  è  precisamente 

x  =  a  —  0 

il  limite  superiore  L    dei  valori   che   f  (x)    assume,    quando   x 
assume  i  valori  di  G  pili  piccoli  (a  sinistra)  di  a. 
Distinguiamo  due  casi  : 

V  L  è  finito.   Sia  n  un  intero  così  grande  che  sia 

minore  di  un  b  prefissato.  Tra  i  citati  valori  di  y  ne  esisterà 
almeno  uno  (p.  es.  quello  f{c)  assunto  da  y  nel  punto  x  ^=^  e  <a) 
che  è  uguale  ad  L  fino  alla  n****^'*  decimale  (e  ciò  per  la  stessa 
definizione  di  limite  superiore).  I  valori  che  y  assume  nei  punti 
di  G  dell'intervallo  (e,  a)  non  possono  né  superare  il  limite  su- 
periore L,  né  essere  inferiori  a  f(c)  (perché  y  è  per  ipotesi 
funzione  non  decrescente). 

Dunque  tali  valori  (compresi  tra  f{c)  ed  L)  dovranno  pure 
coincidere  con  L  fino  alla  n'**""'  decimale. 

In  altre  parole  nei  punti  x  dì  G  dell'intervallo  (e,  a)  vale  la: 

|/-(x)-LM^„<3. 

Per  definizione  di  limite  é  dunque 
lim  f{x)  =  L. 


FUNZIONI,    LIMITI  125 


T  L  k  infinito.  Questo  caso,  assai  meno  importante,  si 
potrebbe  ricondurre  al  caso  precedente  con  lo  studio  della  fun- 
zione —  — -T .  Per  studiarlo  direttamente  si  osservi  che,  se  k  è 

f{x) 

un  numero  arbitrario,  esiste  un  punto  a;  =  e  <  a,  ove  f{c)>k  (*). 
In  tutto  rintervallo  (e,  a)  sarà  dunque  f{x)^f{c)>k,  perchè 
f{x)  non  è  decrescente.  Pertanto 

lim  f(x)  =  H-  00  . 

a;  =  o  — 

Così,  p.  es.,  l'area  del  poligono  regolare  di  n  lati  inscritto 
in  un  cerchio  C  è  una  funzione  crescente  di  n,  che  ha  per 
limite  per  n  =  qo    proprio  l'area  di  C. 

^)  Applicheremo  questo  teorema  allo  studio  di  un  limite 
fondamentale.  Dalla  formola  del  binomio  si  trae  che,  se  m  è 
un  intero  positivo,  allora  : 

^  I  _n     ^1     m(m— 1)  1  m(m-l)(w— 2)...0w  — [m— l])  1  _ 

1  w         1.2       m'  \m  m™ 


\       m/ 


m     \      m/  \      m/  \      m/  \      m/      \  m    / 


1-hl-h-^— --t- r— h...-+ 


m 


donde,    osservando    che    i    numeratori    degli     addendi    terzo, 
quarto,  ecc.,  non  superano  l'unità,  e  che  i    denominatori    sono 

1^  =2,    |_3^  =  2.3  >  2.2  =  2\    \_4>  2',    ecc.,    si    trae    che 
per  m  >  1   è  : 

D'altra  parte  il  ^'"^^  i2<k^m-^  1)  termine  del  terzo 
membro   della    penultima   formola   cresce   al    crescere   della    m 

(al  diminuire  di  —  )  ;  di  più  il  numero  stesso  dei  termini  (che 
m  / 

è  m  4-  1)  cresce  con  m. 

/  IX"" 

Quindi  (IH —  1  cresce  al  crescere  di  m  ;  e  perciò,  per  il  pre- 
cedente teorema,  tende  per  m  =  oo  a  un  limite  e>  0  ;  e,  poiché 
per  l'ultima  delle  precedenti  formole,  è  (per  ogni  valore  dell'intero 

(*)  Questa  affermazione  è  conseguenza  dell'ipotesi  L  =  ao. 
D  Infatti  ^+~  + +  ^  =  l-  ^  <  1.. 


126  CAPITOLO    VI   —   §    38 

/        1  \''' 
m>l)  2<(1H ì  <3,  sarà  pure  2  <  e  ^  3  ;  donde  in  parti- 
colare si  trae  che  e  è  un  numero  finito  positivo.    Io    dico    che 

/  1  \  "' 

hm    lì  -h-ì  =e, 

anche    se   m   non   è    intero.    Infatti,    se    m  è   compreso  tra  gli 
interi  n,  n  -\-  1,  è 

V  n  -h  1  '       \         m/        \  n/ 

E,  poiché  il  limite  del  primo  e  terzo  membro    sono    rispet- 
tivamente 

«  + 1 


lim  (  1  -f- )  =     lini 


1+  1       1 


e    


lim 


1  \"  +  ^ 


im  (l  -4-  — )   =  lim  (l  -h  — )  lim  (l  -f-  i  W  e.   1  =  e, 

ossia  sono  uguali  ad  e,  anche  (§  37,  a  p.  121)  il  lim  (  IH —  )  —e, 

w=.oo\        m/ 

Io  dico  infine  che  e  anche     lim     l  1  -I-  —  1  =  e. 

Infatti,  posto  m  =  —  (^  -h  1),  è  : 

(-„^)=(-."Ìt)""=(.4t)-'="(¥)=(-I)'(-I) 

E  perciò  : 

lim    (1  +  —  )=  lim   (I-+-7)    lim   (l  +  -)  =  e.   l=e.     c.d.d. 

m  =  -aA       m/       it  =  -|-^\       A:/  jfc  =  4.-xA       k/ 

/          1  \"' 
y)  Dalla  lim  (1  H )=■  e,  che  vale  dunque,  sia  m  positivo 

IH,  =  00   \  III  / 

0  negativo,  razionale  0  irrazionale,  si  trae  (*),  supposto  a>  0^ 
lim  m  Ioga  (IH )  =  Ioga  e, 


1            logjl  +  x)  _^_ 
ossia,  posto  m  =  —  ,  lim —  ioga  e. 

X        a;  =  0  X 


(*)  Basta  ricordare  che  log,,  x  è  funzione  continua  nei  punti  a;  >  0. 


FUNZIONI,    LIMITI  127 


Se  si  pone   log«  (1  -h  x)  =  2;,  e  quindi  x  =^  a"  —  1,  se  ne 
deduce 

lim  — =  Ioga  e,  donde  lim  —  =  , =  log^  a. 

a;  =  oa     1  x  =  ()  ^  Ioga  6 

Se  esponiamo  a  =  e  si  trova  : 

lij^ =  1  ;  lim =  1 . 

a;  — 0  X  x  =  0  X 

Dalla    prima    di    queste    formole    si   vede    quanto    semplice 
diventi  il  lim ,  appena  si  assuma  il  numero  e  come 

«=.0  X 

base  di  un  sistema  di  logaritmi.  Poiché  questo  limite  si  pre- 
senta continuamente  nel  calcolo,  noi  adotteremo  d'ora  in  poi 
(salvo  esplicita  dichiarazione  in  contrario)  questo  numero  e  come 
base  del  sistema  di  logaritmi.  I  logaritmi  così  ottenuti  si  diranno 
neperiani,  iperbolici,  naturali. 

Per   uno    studio   geometrico  dei  limiti  precedenti    si   vegga 
l'esempio  terzo. 

Esempi. 

(X  y 
1  -H  -^  )  =  e"". 
m  / 

yn 
Ris.  Posto  —  ^=  n,  si  noti  che 

X 

2°  Se  il  capitale  e  è  impiegato  al  tasso  r  (rapporto  del- 
l'interesse al  capitale),  esso,  dopo  un  anno,  diventa  e  (1  -H  r). 
Ma  se  il  tasso  é  pagato  per  metà  ad  ogni  semestre,  il  capitale 

dopo  il  l"*  semestre  è  diventato  c(l^-— ì;ese  tutta  questa 

somma  viene  impiegata  allo  stesso  tasso  per  il  2°  semestre,  si 

avrà  alla  fine  dell'anno  una  somma  e  (  1  H )  .  In  generale  se 

ad  ogni  n""''""  parte  dell'anno  viene  pagata  la  n'**"'"  parte  del- 
l'interesse, che  viene  anch'essa  impiegata  allo  stesso  tasso  per 
la  residua  parte  dell'anno,  il  capitale  e,  dopo  un  anno,  è  diven- 


128 


CAPITOLO   VI    —    §    38 


tato  eli  -\ -)  (*).  Quando  n  diventa  grandissimo  (per  n  =  oo  )^ 

questa  espressione  tende  a  ce\  Si  suol  dire  che    un    capitale  e 
impiegato  ad  interesse  continuo  al  tasso  r  diventa  ce"  dopo  un 

anno.  Così,  p.  es.,  si  calcola  che  e^'^'*  =  1,05127 Impiegare 

per  un  anno  un  capitale  all'interesse  continuo  del  5  7o  equivale 

a  impiegarlo  all'interesse  del   5,127 7o. 

Dunque  e  rappresenta  la  somma   ottenuta  impiegando  per 
un  anno  un  capitale  1   all'interesse  continuo  del  100  Vo-  Che, 


se  ^  è  piccolo. 


OA. 


—  sia  prossimo  ad  1,  è  evidente,  perché, 
se  il  tasso  è  piccolo,  interesse 
semplice  r  e  continuo  e'  —  1 
quasi  si  equivalgono,  ecc. 

3"  Consideriamo  un'iper- 
bole equilatera  xy^=^l  (fig.l  1  ). 
Siano  .4,  B  due  punti  dell'asse 
delle  ascisse  di  ascisse  a,  h 
(0  <  a  <  h).  Dividiamo  l'inter- 
vallo AB  m  n  parti  coi  punti 

J-i,  An^ An-\\n  guisa  che  i 

segmenti  OA.   OAi,   OA^ 

OB  siano  in  progressione  geometrica.  Questi  segmenti 

,    aq""-'. 

dei    punti 
saranno 


saranno  così  uguali  ordinatamente  ad  a,  aq,  aq~. 

«g"  =  ò,  dove  ^1^^  \/        ^^  (  ~~  )  '  '   ^^    ordinate 
corrispondenti  dell'iperbole  lxy=^l,  donde  ?/ =  — \ 


J_     Jl_  Jl___L. 

a      aq  aq""         h 

Quindi  le  aree  dei  rettangoli  aventi  per  basi  i  segmenti 
AAi,  AiA2,...,An-iB  e  per  altezza  le  ordinate  dell'estremo 
sinistro  corrispondente  saranno 


(^aq  —  «)  -^  '    («^'  ~^V^' '  (^^"  ~"  ^^"     ) 


aq 


(*)  Resta  perciò  intuitivo  il  teorema  dimostrato  nel  testo  clie  per  r  —  1  (anzi 

per  ogni  r>0),  il  numero  li-\ 1  cresce  al  crescere  di  «;  infatti  un  impiega 

di  capitale  è  tanto  più  redditizio,  quanto  maggiore  è  il  numero  n  delle  volte  che 
in  un  anno  (a  ugual  intervallo  l'una  dall'altra)  si  pagano  gli  interessi  maturati. 


FUNZIONI,    LIMITI  129 


cioè  saranno  tutte  uguali  a  {q  —  1).  La  loro  somma  S„  è  perciò 
n  (g  —  1). 

In  modo   simile   si   prova   che   la   somma  a„  delle   aree   dei 
rettangoli   aventi   per  base    gli    stessi    segmenti    e    per   altezza 

l'ordinata  del  corrispondente  estremo  destro  è  n  {q  —  1) 

g. 

Si  ha  così,  posto  v  =  —  ? 


^1        ■  Q 

—  )   —  1    donde  lim  S„  =  lìm =  log,  - 


'        i 


— ^  donde  lim  o^  =  log,-  lim.  1/  -  =  loge  - 

q  n^-r.  a  n  =  r^.  ff    0  a 


Il  limite  inferiore  delle  2h  e  il  limite  superiore  delle  o^  coin- 
cidono dunque,  e  sono  uguali  a  log,  - .    Dunque    la    figura    a 

CI 

racchiusa  tra  il  segmento  AB,  le  ordinate  ài  A,  B  e  la  porzione 

corrispondente    di    iperbole    equilatera    ha    un'  area    che    vale 

b  ..^. 
precisamente  loge-('). 
a 

Se  noi  rappresentiamo  la  nostra  figura  in  scala  un  po'  grande 

su  carta  millimetrata  divisa  in  quadratini  molto  piccoli,  si  può 

avere  un   metodo  approssimato  per  calcolare  log,  - ,  misurando 

cv 

l'area  a:  cioè   contando  quanti    dei   quadratini   in   cui   è  diviso 
il  nostro  foglio  millimetrato  sono  contenuti  in  a. 

4"^  Sia  f{x)  una  funzione  di  x,  che  tende  ad  un  limite 
finito  L,  p.  es.,  per  a;  =  oo .  Come  si  può  calcolare  approssi- 
mativamente questo  limite?  E  ben  evidente  che  f{x)  si  può 
considerare  come  un  valore  approssimato  di  L,  e  che  l'appros- 
simazione sarà  generalmente  tanto  migliore,  quanto  piii  grande 
si  suppone  x',  o  meglio,  e  piii  precisamente,  che,  prendendo  x 
abbastanza  grande,  si  potrà  rendere  piccolo  a  piacere  l'errore 
che  si  commette  quando  si  supponga  f(x)  =  L. 

Ma  simile  considerazione  ha  un  valore  scarso,  se  per  ogni 
valore  della  x  non  si   può  dare  una   misura   del   grado   di   ap- 


(*)  Infatti  i  rettangoli  considerati,  le  cui  aree  hanno  per  somma  ^^  {^,>)  formano 
un  poligono,  che  contiene  la  figura  a  all'interno  (clie  è  interno  alla  figura  oc)  (cfr.  §  7). 


G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


130  CAPITOLO  VI  —   §  38-39 

prossimazione  raggiunto.  Ora  questo   è   possibile  in  molti   casi. 
Per  es.,  dall'esercizio  3°  si  deduce,  posto  -  =  >^,  che  la  quantità 

(1)  \ogek—  lim  7i{]/k—  l) 

il  =   X 

è  compresa,  per  ogni  valore  di  n,  tra 

nii/k-l)         e  ^'(Ì/~^r^y 

y'h 

Cosicché,  se  si  pone  log,  k  ^=-n  \yk  —  l),  Terrore  commesso 
non  supera 


n 


•^■'"-■><-p)|- 


La  (1)  può  così  servire  al  calcolo  approssimativo  dei  loga- 
ritmi iperbolici.   Se  ne  ricava,   per  es.,   posto  /i:  =  2,  7^=1=  16 

che   loge  2  =  0,70,    con    un    errore    non    superiore    a   0,03  

Poiché  però  calcolare  la  1/2  equivale  a  estrarre  successivamente 
quattro  radici  quadrate,  questo  metodo  di  calcolare  i  logaritmi 
neperiani  é  troppo  poco  rapido. 

§  39.  —  Alcune  applicazioni. 

Se  a  è  un  numero  reale,  z^=^  x  -\-  iy  è  un  numero  com- 
plesso, il  simbolo  a^  =  a''"*''^  è  un  simbolo,  a  cui  finora  non 
abbiamo  attribuito  aleuti  senso.  I  matematici  si  servono  però 
di  tale  simbolo  specialmente  quando  a  =  e,  ponendo  con  Eulero 
la  seguente  definizione: 

È  questa  definizione  accettabile?  é  essa  opportuna? 

Essa  è  accettabile  perchè  priva  di  contraddizioni,  e  perchè, 
se  ?/  =  0,  cioè  se  z  z=:  x  -\-  iy  è  reale,  essa  non  contraddice 
all'ordinario  significato  di  tale  simbolo. 

Molte  poi  sono  le  ragioni,  che  rendono  opportuna  tale  de- 
finizione e  che  noi  stessi  incontreremo  in  questo  libro.  Qui  ne 
accenneremo  due  specialmente  importanti. 

1°  Se  z-=^x  -\-  iy,  z  ^=^x  -\-  iy[,  allora,  per  la  definizione 
di  Eulero,  il  teorema: 

è  vero  anche  se  z,  z   sono  numeri  complessi.        $ 


FUNZIONI,    LIMITI  131 


Infatti  : 

e'^'  =  e-+-'  +  ':(.  +  .)  ^  ,-  +  -'  ;  cos  (y  +  y)  +  i  sen  {y  4-  ?/')  1  = 
=^  é'i  cos  ?/  -f-  i  sen  ^y)  e""'  (cos  y  -f-  i  sen  j^)  =:  e^  e^ . 
2o  Sappiamo  già  che,  se  ^  è  reale,  allora 

e' =  lìm  (l-f-— V". 

Ebbene  in  virtù  della  definizione  di  Eulero,  questa  stessa  formola  vale  anche 
se  <?  è  complesso. 

Infatti:  (n-^^-)  =  [(l  +  ^)  +  i^]  = -.(cos -J  +  JBens), 

1 

dove  .z=S(n--±y  4-1^1  -    ige  =  —^ — J^K  -.  (*) 
Sarà  :  (  1  +  -"- 1   =  r-"'  !  cos  mO-\-i  sen  »i  ^  j . 

Ora,  posto  —  = -—- ,  e  : 

ìli  III 

Ossia,  poiché  lini   — -  =  a^,  si  ha   lim   ^"'  =  e-^  . 

Ili  =  oo  iù  W  m  ■=s.'x> 

D'altra  parte   lim   9  —  0,  perchè  lim  Z^'  »  -  lim  — ^ —  =  o  e  1 0 1  <  -^  ;  e 

..    lim  m  6  =  lim  mts'O  - —  =  lim  ^—  lim   - — -  —  w.  l  r=  ^/. 

/«=eo  ,«=oo       ^     tge      „._...  re +  wt  0  =  0    tgo      -^         -^ 

E  quindi   lim   (cos me  +  i sen m o)  ~cosy-hi sen y. 
Perciò 

lim  jlH 1   =  e^(cos?/-hisen//)  =  e^  +  '^  —  e'.  e.  d.  d. 

Di  tale  definizione  possiamo  servirci  per  estendere  anche  a 
numeri  negativi  o  complessi  la  teoria  dei  logaritmi  neperiani. 
Sia  tv=^  p  (cos  0  -H  i  sen  0)  un  numero  comple3so.  Io  dirò  che 
^  "=  X  -h  iy  ne  è  un  logaritmo  a  base  e,  se 

e""  =  é^  (cos  y  -^  i  sen  y)  ^=:  tv  =^  p  (cos  0  4-  i  sen  0) 
cioè  se 

e*  n=  p       ^       cos  y  ==  cos  0       ,       sen  y  =  sen  0. 

Dunque  a;  è  il  logaritmo  aritmetico  del  modulo  p  di  iv. 
Ed  ,^  0  è  l'argomento  0  ài  w,  o  differisce  da  0  per  un  multiplo 


ce 
(*)  Per  m  molto  grande  il  segno  di  cos  e,  cioè  il  segno  di  IH è  positivo, 

anche  se  x  <  5;  e  posso  supporre  o  compreso  tra  —  -^  e  -^  • 


132  CAPITOLO    VI   —   §    39 

2  Z:  71  di  2  71  (A'  intero).  Ciò  che  è  ben  naturale,  appunto  perchè 
Tanomalia  di  un  numero  complesso  è  definita  a  meno  di  multipli 
di  2  71. 

Nel  campo  dei  numeri  complessi  ogni  numero 

w  ^=^  p  (cos  6  +  i  sen  6) 
ha  infiniti  logaritmi 

log,  p  -h  id  -^  2k'iz  i. 

Di  questi  logaritmi  ve  ne  è  uno  (e  uno  solo)  reale,  se 
esiste  un  intero  k  tale  che  0  -h  2  ^  7i:  t=  o,  ossia  se  6  è  un 
multiplo  di  2  tt;,  cioè  se  si  può  supporre  0  =  0,  cioè  se  io 
coincide  col  suo  modulo  p,  ossia  se  ^  è  reale  positivo. 

/  soli  numeri  reali  positivi  posseggono  un  logaritmo  reale 
(quello  di  cui  si  occupa  T algebra  elementare).  Gli  altri  loga- 
ritmi se  ne  deducono  aggiungendo  un  multiplo  qualsiasi  di  2  tc  i^ 
e  sono  complessi. 

I  numeri  reali  negativi  m;  =  —  p  hanno  gli  infiniti  loga- 
ritmi (tutti  complessi) 

log  p  -f-  i  71  4-  2  71  Z:  i. 

In  particolare  —  1   ha  tra  i  suoi  logaritmi  il  numero  i  ti. 

II  teorema  fondamentale  della  teoria  dei  logaritmi  reali 
diventa  ora:  Sommando  insieme  un  logaritmo  di  ciascuno  dei 
fattori  di  tin  prodotto,  si  trova  uno  dei  logaritmi  del  prodotto  (*). 
Il  lettore  ne  deduca  i  teoremi  analoghi  per  i  quozienti,  le 
potenze,  ecc. 

Così,  p.  es.,  dalla  2  log  ( —  1)  =  log  ( —  1)^  =  log  1  non  si 
può  già  dedurre  che,  essendo  log  1  ==  0,  anche  log  ( —  1)  =  0, 
ma  soltanto  che  il  doppio  di  uno  dei  logaritmi  di  —  1  vale  uno 
dei  logaritmi  di  1;  infatti  i  logaritmi  di  —  1  sono  (2  >^  -h  1)  i  71,  il 
cui  doppio  è  un  multiplo  di  2ni^  che  è  un  logaritmo  di  1  (**). 

Dalla  e-'""  ^=^  cosxztisenx  si  deduce 

cos  a;  = sen  a:  = -— .      (1) 

2  2  ^ 

Posto  x=^  i  z  {z  reale)  il  primo  membro  non  ha  significato  ; 
noi   porremo  per   definizione  cos  i  z^    sen  i  z   uguali    ai    valori 

(*)  Così  anzi  si  possono  trovare  tutti  i  logaritmi  del  prodotto. 

(**)  Il  logaritmo  0  del  numero  1  si  trova,  p.  es.,  sommando  insieme  i'  e  —  i  tt, 
che  sono  entrambi  logaritmi  di  —  1,  e  non  già  facendo  il  doppio  di  uno  dei  loga- 
ritmi di  —  1. 


FUNZIONI,    LIMITI  133 


che  si   ottengono  dai   secondi  membri  di  (1)  per  x  ^=  i  ^.  Cioè 

porremo  : 

e'-{-e-'  .          .e'  — e" 

cos  t  z  ^=  — sen  i  ^  =  ^ 


Perciò  cos  i  ^  e  — : —  sono  reali  per  z  reale  :  noi    li  chia- 
t 

meremo   rispettivamente    il   coseno   iperbolico    di  ^,    e    il    seno 

iperbolico   di  z.    E    le    indicheremo    con    cosh  z   e    senh  z    (più 

brevemente  eh  z,  sh  z).  È  dunque  : 

e^ -h  e~'  .  ,  e'  —  e~'       seniz 

eh  ^  = =  cos  i  z       ;       sh  ^  =^ =  — : — 

2  2  t 

Si  verifica  tosto  che  ch^  ^  —  sh"  ^  =  1  ;  posto  cioè 
a;  =  eh  ^,  ?/  =  sh  z,  il  punto  x,  y  descrive  al  variare  di  z  una 
iperbole  (donde  il  nome  di  funzioni  iperboliche),  mentre  invece  le 
equazioni  x  =  cos  z,  y  =  sen  ^  definiscono  il  cerchio  x^-^-y^  -=^\ 
(donde  il  nome  di  funzioni  circolari). 

Si  prova  facilmente  che  eh  {x  zh  y)  =  eh  x  eh  y  zh  sh  x  sh  y, 
che  sh  {x  =t  y)  =  sh  x  eh  ?/  it  sh  2/  eh  a:;,  che  eh  ( —  x)  =  eh  x, 
che  sh  ( — x)  =  —  shx.  Adottando  le  (1)  per  definiz.  di  co&x, 
sen  X  per  ogni   valore  della  x  =  y  -\-  i  z,  si  trova  ancora  che 

cos  (y  -\-  i  z)  =  cos  y  cos  i  z  —  sen  y  sen  i  z  =^  cos  x  eh  z  — 

—  i  sen  y  sh  z 
e   che 

sen  (y -hi  z)=^  sen y  cos  i  z  -h  cos y  sen  iz=^ 
=  sen  y  eh  z  -h  i  cos  y  sh  z. 

Anche  se  x,  y  sono  numeri  complessi  continuano  a  valere 
le    formole    fondamentali  della   goniometria 

cos  {x  ±  y)  =  cos  X  cos  y  z:;z  sen  x  sei)  y  ; 
sen  (x  ±  y)  =  sen  x  cos  y  ±  cos  x  sen  y. 

sh  z 
Posto  per  z  reale  th  ^  =  — — ^  (tangente   iperbolica   di  z)   è 
1  eh  ^ 

1  —  th-  ^  =  -TT-  • 

Per  ogni  z  reale  si  può  perciò  trovare  un  angolo  9  del 
primo   0   quarto   quadrante  (che   sarà   funzione  di  z)   tale   che  : 

1                     .1.                       th^  ^  ,* 

=  cos  9  ;  th  ^  =  sen  cp  ; =  tang  cp  =  sh  -a-. 


ch^ 


\ehz) 


134  CAPITOLO  VI  —  §  39-40 

Ricordando  la  definizione  di  ch^,  si  consideri  la  prima  di 
queste  forinole  come  un*equazione  in  e  :  se  ne  trae  : 


=  ±logtg(f-|) 


§  40.  —   Proprietà  fondamentali  delle  funzioni  continue. 

a)  I  teoremi,  di  cui  ci  occuperemo  nel  seguente  paragrafo, 
possono  sembrare  intuitivi  ;  e  del  resto  per  molto  tempo  furono 
ammessi  come  evidenti.  Una  critica  accurata  dimostrò  però  la 
necessità  di  una  precisa  dimostrazione;  chi  poco  si  occupi  di 
questioni  teoriche  può  forse,  appena  abbia  ben  compreso  l'enun- 
ciato di  tali  teoremi,  non  approfondire  lo  studio  delle  dimostra- 
zioni; le  quali  però  costituiscono  un  utile  esempio  di  deduzione 
logica. 

Il  primo  dei  teoremi,  di  cui  qui  ci  occuperemo,  risponde  alle 
seguenti  domande:  Tra  i  valori  che  una  funzione  continua  f(x) 
assume  un  intervallo  finito  (a,  6),  estremi  inclusi,  esiste  un 
valore  M  massimo  [che  non  sia  minore  di  alcun  altro  valore 
di  f{x)  in  (a,  6)]?  esiste  un  valore  minimo  m? 

A  queste  domande  si  deve  rispondere  affermativamente.  Ciò 
ammesso,  si  deve  ancora  domandare:  Se  |x  è  un  numero  com- 
preso tra  m  ed  if,  vi  è  qualche  valore  della  nostra  funzione, 
che  sia  uguale  a  |i?  E  anche  a  questa  domanda  si  deve 
rispondere  affermativamente. 

Né  i  teoremi  qui  accennati  si  debbono  ritenere  come  intui- 
tivi a  priori,  I  valori  di  una  funzione  continua  f{x)  in  (a,  h) 
sono  (se  la  f{x)  #=  cost.)  in  numero  infinito.  Ora,  se  abbiamo 
infiniti  numeri,  può  darsi  benissimo,  come  sappiamo,  che  nes- 
suno di  essi  sia  un  numero  più  grande  di  tutti  gli  altri,  cioè 
che  il  limite  superiore  non  sia  un  massimo.  Il  nostro  teorema 
ci  assicura  che  questo  non  può  avvenire  per  i  valori  assunti 
da  una  funzione  continua;  cosicché,  p.  es.,  se  ne  dedurrà  in 
particolare  che  una  funzione  f{,r)  continua  in  {a,  h)  (estremi 
inclusi)  é  limitata;  che  cioè  si  può  trovare  una  costante 
(positiva)  H,  che  f  {x)  non  supera  mai  in  valore  assoluto  in 
tale  intervallo.  Basta,  p.  es.,  porre  H  uguale  al  pili  grande  dei 
due  numeri  |  ilf  |,  |  m  |. 

La  risposta  affermativa  all'ultima  domanda  può  essere  giu- 
stificata intuitivamente.  Un  disegnatore  di  curve  e  di  diagrammi 
troverebbe  forse  superfluo  il  dimostrare  che,  muovendoci  su  una 


FUNZIONI,    LIMITI  135 


curva  continua  y  =  f{x)^  la  distanza  y  dall'asse  delle  x  non 
possa  passare  da  ilf  a  7/^  senza  ricevere  tutti  i  valori  intermedi. 
Ma,  appena  si  ricordi  che  esistono  curve  continue  y=^f(x) 
che  in  {a,  b)  fanno  infinite  oscillazioni,  e  non  sono  quindi  dise- 
gnabili,  si  vedrà  quanto  sia  insufficiente  per  i  nostri  studi  una 
intuizione,  che  assume  a  punto  di  partenza  i  diagrammi  e  le 
curve  continue  disegnabili. 

Ecco  qui  gli  enunciati  dei  teoremi  in  discorso  : 

Sia  y  una  funzione  continua  f  (x)  nelV intervallo  finito 
(a,  b),  estremi  inclusi.  {Sia,  p.  es.  a  <  b).  Io  dico  che  : 

V  II  limite  superiore  M  dei  valori  assunti  da  f  (x) 
nell'intervallo  (a,  b)  è  un  massimo.  Cioè  esiste  nell'intervallo 
(a,  b)  almeno  un  punto  ove  la  funzione  riceve  il  massimo  va- 
lore M,  ossia  un  valore  M  non  minore  dei  valori  assunti 
negli  altri  punti  dello  stesso  intervallo. 

2°  Il  limite  inferiore  m  dei  valori  assunti  da  f(x)  in 
(a,  b)  è  un  minimo;  cioè  esiste  nell intervallo  (a,  h)  almeno  un 
punto,  ove  f(x)  riceve  il  minimo  valore  m,  ossia  ìin  valore  m 
non  maggiore  di  quello  assunto  negli  altri  punti  dello  stesso 
intervallo  (teoremi  di  Weierstrass). 

3°  Se  'k  è  un  numero  intermedio  tra  m  ed  M.  (m  <  X  <  M), 
esiste  almeno  un  punto  di  (a,  b),  in  cui  f  (x)  assume  il  valore'^  (*). 

La  differenza  M  —  m  si  dice  l oscillazione  D  di  f  (x)  in 
(a,  b).  Essa  è  generalmente  positiva,  ed  è  nulla  soltanto  se 
M=m,  ossia  se  il  più  grande  ed  il  piìi  piccolo  valore  di  f(x) 
coincidono,  ossia  se  f{x)  è  costante  nell'intervallo  (a,  b). 

Ricordiamo  anche  il  seguente  importante  teorema  di  Heine, 
a  cui  non  ricorreremo  mai  in  questo  libro  (e  che  dimostreremo 
anche  con  altri  e  piti  semplici  metodi  in  casi  particolari). 

40  Dato  un  numero  (positivo)  ^  piccolo  a  piacere,  si  può  dividere  l'inter- 
vallo (a,  b)  in  un  numero  finito  di  intervalli  parziali  j,  in  ciascuno  dei  quali 
V oscillazione  di  f  (x)  è  uguale  0  minore  di  j- 

Dimostriamo  ora  i  primi  tre  dei  precedenti  teoremi.  E  per  brevità  indichiamo, 
se  a,  ^  sono  due  punti  dell'intervallo  (a,  h)  con  l  (a,  i^),  e  con  L  (a,  ^)  i  limiti  in- 
feriore e  superiore  dei  valori  assunti  da  f  (x)  nell'intervallo  (a,  /?).  È  iìf  =  X  (a,  h) 
od  è  m  =  l  (oL,  (ì).  I  nostri  teoremi  saranno  provati,  quando  sia  dimostrato  che, 
scelto  comunque  un  numero  J  tale  che  m^/^Jf  (non  escluso  /  =  w,  >— ilf) 
esiste  un  punto  e  soddisfacente  alla  /  (e)  =  >.  Se  già  /  (a)  —  >,  il  teorema  è 
provato.  Sia  dunque  /"(«)<>  (in  modo  analogo  si  studia  il  caso  f(a)  >  /).  Sia 
e  il  limite  superiore  dei  punti  x  dell'intervallo  {a,  h)  tali  che  Z  (a,  x)  <  >.  Sarà 
«  <  e  ^  b.  Preso  un  numero  t  arbitrario  positivo,  esistono  (poiché  /  (x)  è  continua) 


(*)  Questi  teoremi  ci  dicono  che  i  valori  assunti  da  una  funzione  y  --  f  {x) 
continua  in  un  intervallo  finito  (a,  />)  (estremi  inclusi)  riempiono  tutto  un  segmento 
finito  {m,  M),  compresi  gli  estremi. 


136  CAPITOLO   VI   —   §    40 

due  numeri  5,,  ^^  non  negativi  tali  che  i  valori  assunti  da  f  {x)  nell'intervallo 
(e  —  7„  e  -+-  7.2)  e  quindi  anche  Z  (e  —  7,,  e  -}-  ^2)  siano  compresi  tra  /  (e)  —  s  ed 
/  (e)  -h  £.  E  anzi  cr,  >  0,  ed  è  pure  ^j  ^  0,  essendo  ^^  —  0  soltanto  se  e  ~  5. 
Per  la  stessa  definizione  di  e  è 

X  (a,  e  -  7,)<  i  i  (a,  e  4-  ^2)  ^  >.  (*) 

Ora  L(a,  e  -h  ^2)  è  uguale  al  massimo  dei  due  numeri  L{a,  e  —  »,)  e 
L  (e  —  ^,,  e  -h  7^)  corrispondenti  ai  due  intervalU  parziali  in  cui  si  può  dividere 
l'intervallo  (a,  e  -+-  cr^).  E  non  potendo  essere  per  le  precedenti  disuguaglianze 
L  {a,  e  —  e?,)  ^  i  (a,  e  -+-  ^2),  sarà  i  (e  —  7,,  e  +  ^j)  =  L  (a,  e  -\-  ^2)-  Dunque 
X  (a,  e  -h  cTj)  ^  /  è  compreso  tra  f  (e)  -\-  0  ed  f  (e)  —  s.  Cosicché  >  ^  /"  (e)  +  e, 
qualunque  sia  j.  Dunque  >  ^  /"(e).  D'altra  parte  f  (e  —  c^,)  <  >.  Quindi 
/  (e)  =  lim  /"(e  —  !f,)  ^  >.  Unendo  queste  disuguaglianze  si  deduce  che  /  (e)  =  /, 
,=0 

come  si  doveva  dimostrare. 

Dimostrazione  del  4»  teorema  e  osservazioni  crìtiche. 

Supponiamo  che  il  teorema  non  sìa  vero  ;  che  cioè  l'intervallo  (a,  h)  non  sìa 
divisìbile  in  un  numero  finito  di  tali  intervalli  j.  Se  a  è  un  punto  di  (a,  !>)  cosi 
vicino  ad  a  che  in  {a,  /5)  l'oscillazione  di  f  {x)  sia  minore  di  s  l'intervallo  {a,  ^) 
è  divisibile  in  un  numero  finito  di  intervalli  j,  perchè  esso  stesso  ed  ogni  sua 
parte  è  un  intervallino  j.  [Che  un  tale  punto  j?  esista  è  conseguenza  del  fatto 
che  f  {x)  è  continua  per  ic  =:  a].  Se  /s  è  un  punto  qualsiasi  di  (a,  b)  tale  che  (a,  f) 
sia  divisibile  nel  modo  voluto,  altrettanto  avverrà  a  fortiori  di  ogni  intervallo  (a,  f), 
se  a  <  [i  <C  l^.  E  quindi,  se  y  è  un  punto  di  (a,  h)  tale  che  {a,  y)  non  sia  divisibile 
in  un  numero  finito  di  intervalli  j,  allora  neanche  (a,  ■/)  sarà  divisibile  in  tal 
modo  se  I)  ^  y  >  7.  Dividiamo  i  punti  di  (a,  h)  in  due  classi  :  ponendo  in  una 
classe  i  punti  ^  tali  che  (a,  f)  sia  divisibile  nel  modo  voluto,  e  nell'altra  classe  i 
punti  y  tali  che  (a,  y)  non  sia  così  divisibile.  Sia  e  il  punto  di  divisione  di  tali  due 
classi  (e  ^  ì)).  Costruiamo  se  e  <  ?>  un  intorno  (e  —  0,  c-k-  5)  del  punto  e,  in  cui 
la  oscillazione  à\f{x)  non  superi  j;  se  fosse  e  =  b  ci  limiteremo  ad  un  intorno  (e  —  s  e). 
Il  punto  e  —  "5  sarà  un  punto  ^,  e  perciò  l'intervallo  (a,  e  —  ^)  è  divisibile  in 
numero  finito  di  intervallini  j  ;  aggiungendo  a  questi  l'intervallo  (e  —  0,  e  -j-  0) 
oppure  (e  —  '^  e)  secondo  che  p  <ih  oppure  e  —  b  vediamo  che  anche  l'intervallo 
{a,c  +  0)  se  e  <  b  oppure  l'intervallo  (a,  e)  se  e  —  b  è  divisibile  nel  modo  voluto. 
Il  primo  caso  è  assurdo  perchè  e  -h  0  è  un  punto  y  ;  il  secondo  contrasta  con 
l'ipotesi  iniziale.  Dunque  il  teorema  è  dimostrato  (per  assurdo). 

Sia  ò  la  minima  lunghezza  di  uno  di  questi  intervallini  parziali  j.  Se  e  è  un 
punto  qualsiasi  di  (a,  h),  quella  parte  del  segmento  (e  —  ^,  e  +  ^)  che  è  interna 
ad  (a,  b)  sarà  uguale  0  minore  della  somma  di  tre  intervallini  j  consecutivi.  In 
tale  intorno  di  e  dunque  l'oscillazione  di  f  (x)  sarà  minore  di  3  -:  (il  quale  è  un 
numero  prefissato  ad  arbitrio).  Che  per  ogni  punto  e  di  {a,  t)  esista  un  tale  nu- 
mero ò  è  conseguenza  della  stessa  definizione  di  continuità;  ora  abbiamo  in  più 
dimostrato  che  si  può  scegliere  un  numero  s,  che  convenga  a  tutti  ì  punti  e 
dell'intervallo  {a,  h).  Si  poteva  sospettare  che  al  variare  di  e  in  (a,  h)  si  fosse 
costretti  a  far  variare  i  o  in  modo  che  avessero  lo  zero  per  limite  inferiore,  e  che 
perciò  nessun  numero  0  andasse  bene  contemporaneamente  per  tutti  i  punti  e. 
Il  fatto  che  si  può  scegliere  uno  stesso  0  per  tutti  i  punti  e  si  chiama  anche  il 
teorema  della  continuità  uniforme  e  si  enuncia  dicendo  che  u^a  funzione  con- 
tinua in  un  intervallo  finito,  estremi  inclusi,  è  uniformemente  continua. 


(*)  Questa  disuguaglianza  vale   anche  quando  'j  —  0,  ossia  quando  e  =  b.  In 
tal  caso  L{a,  e  +  ^2)  =  ^-  («>  b)  3=  iHf  ^  /. 


FUNZIONI,    LIMITI  137 


1  teoremi  di  Weierstrass  si  estendono  alle  funzioni  discontinue  col  seguente 
enunciato,  che  mi  accontenterò  di  citare. 

Se  f  (x)  è  una  funzione  definita  nell'intervallo  (a,  b),  estremi  inclusi,  esiste 
almeno  un  punto  di  questo  intervallo  tale  che  in  ogni  suo  intorno  la  funzione 
assuma  valori^  il  cui  limite  superiore  coincida  col  limite  superiore  dei  valori 
che  f  (x)  ha  in  (a,  b). 

OssERV.  Se  f{x)  è  una  funzione  qualsiasi  definita  in  un  intorno  del  punto  a, 
potremo  considerarne  il  massimo  limite  e  il  minimo  limite  (§  32,  osserv.  critica 
a  pag.  107)  per  x  =  a -h  e  quelli  per  ic  ~  a  — .  Tutti  questi  limiti  coincidono 
con  /  (a)  se  f  (x)  è  continua  in  a.  Si  sono  studiate  anche  le  funzioni  (semicontinue) 
per  cui  /  (a)  coincide  non  con  tutti,  ma  soltanto  con  alcuni  dei  limiti  precedenti  ; 
e  si  è  in  particolare  studiato  per  esse  un  teorema  analogo  al  teorema  di  Weierstrass. 


§  41.  —  Funzioni  di  più  variabili. 

Si  dice  che  ^  è  una  funzione  di  n  variabili  Xi,  X2 Xn,  se 

per  qualche  sistema  di  valori  dati  alle  Xi,  X2,  x„,  la  z  ha 

un  valore  determinato. 

L'insieme  di  questi  sistemi  di  valori  si  chiama  il  campo  di 
esistenza  della  funzione  z. 

Si  scrive  in  tal  caso   z  ■=  f  (xi,  x^ Xn);    in   luogo   della 

lettera  f  si  può  scrivere  un'altra  lettera  F,  cp,  X,  ecc. 

Cosi,  p.  es.,  dalla  fisica  sappiamo  che  il  volume  z  di  una  certa 
massa  di  gas  perfetto  è  funzione  della  temperatura  Xi  e  della 
pressione  X2.  Il  campo  G  dei  valori  che  possiamo  dare  alle  Xi,  Xi  è 
formato  in  questo  caso  dai  valori  jpositivi  delle  Xi,  x^  (se  adottiamo 
la  scala  termometrica  assoluta)  e  non  superiori  a  certi  limiti 
dipendenti  dai  mezzi  sperimentali. 

Se  n  ■=^  2,  si  suole  indicare  la  Xi  con  x,  la  X2  con  y;  e  in 
questo  caso  si  adottano  le  x,  y  come  coordinate  cartesiane  in 
un  piano  tu.  Ogni  sistema  di  valori  per  le  a;i  =  ;r,  X2'=^  y 
individua  un  punto  di  ti,  e  viceversa.  Il  caso  più  importante  è 
quello  in  cui  i  punti  di  tu,  a  cui  corrispondono  valori  delle  x,  y, 
per  cui  esiste  la  z,  riempia  tutta  un'area  connessa  di  tc  (ret- 
tangolare 0  circolare,  ecc.)  (*).  Se  noi  consideriamo  x,  ?/,  z  come 
coordinate  cartesiane  ortogonali  nello  spazio,  la  ^  =  /*  {x,  y)  è 
in  tal  caso  l'equazione  di  una  superficie,  che  si  può  considerare 
come  l'immagine  geometrica  della  funzione  f. 

Nel  caso  di  n  >  2  cessa  la  possibilità  di  una  simile  rappre- 
sentazione geometrica  (se  non  si  vuole  adottare  il  linguaggio 
iperspaziale). 

(*)  Non  insistiamo  di  più  (cfr.  §  T)  sul  significato  della  parola:  «  area  con- 
nessa »  (area  di  un  sol  pezzo). 


138  CAPITOLO   VI   —   §    41 

Noi,  perciò;  studiererao  specialmente  il  caso  n^=  2:  metodi 
e  risultati  sono  però  generali. 

Intorno  di  un  punto  di  ascissa  a  ed  ordinata  b  si  dice  il 
quadrato  lungo  dei  punti  {x,  y),  per  cui  |  a;  —  a\^o^\y  — b\  ^o, 
dove  G  è  una  qualsiasi  costante  positiva. 

Le  definizioni  di  limite,  di  funzione  continua,  date  nei  para- 
grafi 32,  33,  35,  36;  e  i  teoremi  relativi  si  estendono  quasi 
parola  per  parola  al  caso  attuale. 

Basta  soltanto  parlare  di  area  piana  connessa  (area  ret- 
tangolare, circolare,  ellittica,  ecc.)  invece  che  di  intervallo. 

Noteremo  che,  se  -s-  è  una  funzione  f  (x,  y)  delle  variabili  x,  y 
in  un'area  piana  S,  allora  se  poniamo  x  =  Xo  dove  Xo  è  una 
costante,  la  f{x,  y)  diventa  una  funzione  f{xo,  y)  della  sola 
variabile  y,  che  esiste  per  tutti  e  soli  i  valori  di  y,  tali  che  i 
punti  (xo,  y)  della  retta  x  -=^  Xo  appartengano  a  S  (*)  ;  un  fatto 
perfettamente  analogo  si  presenta  se  si  pone  y  ^=^  y^  {y^  =:  cost.). 

Ciò  si  suol  esprimere  dicendo  che  la  f  (x,  y),  se  si  consi- 
dera la  X  oppure  la  y  come  costante,  diventa  una  funzione 
della  sola  y,  o  della  sola  x. 

Per  le  funzioni  continue  di  due  o  più  variabili  si  possono 
pure  estendere  i  teoremi  dell'ultimo  §  40. 

Si  può  daciò  dedurre  una  dim.  del  teor.  di  Gauss  già  enunciato  al  §  14,  a.  Cominciamo 
a  dimostrare  che  ogni  equazione  algebrica  P  {z)  =  z"  4-  «t  z"  "  '  -4- ...  4-  ««  -i  ^  + 
-f- a;^  =r 0 ammette  ahneno  una  radice.  Posto  z  =  x-\-ìy,  il  modulo  i  P(^)  i  è  una 
funzione  continua  di  x  ed  y.  Di  più  notiamo  che 

iP(^)|-.i«Mi  +  f-  +  ^-  +  ...+  -ff|. 

Potremo  evidentemente  scegliere  una  costante  ^  così  grande  che 
a)        p  >  1  cioè  che  il  punto  z  ■=^\  sia  interno  al  cerchio  C  di  equazione 


12  ^.2  _.     ^/2 


fO  Per  U  I  >  p  sia  i  z  \"  >  2  |  P  (1)  1  . 

v)  Per  i  ^  I  >  P  sia  !  1  -+-  ^  -+-  ...  -h  ^  1  >  -|  . 

Dunque,  se  \  z  \^  p,  cioè  se  ^  è  esterno  a  (7,  è  I  P  (^)  j  >  i  P  (1)  I  . 

Per  il  teor.  di  Weierstrass  esiste  dentro,  o  sulla  periferia  di  C  (**)  almeno  un 
punto  a, ,  ove  [  P  (z)  \  è  minimo,  cioè  assume  un  valore  I  P  (a,)  [,  che  non  è  supe- 
riore al  valore  di  \  P  {z)  \  in  ogni  altro  punto  interno  a  0  o  posto  sulla  periferia 
di  C;  cosicché  in  particolare  l  P  (a,)  1  non  potrà  superare  l  P  (1)  i,  e  quindi  neanche 
alcuno  dei  valori  assunti  da  i  P  (^)  l,  quando  z  è  fuori  di  C.  Perciò  P  (a,)  I  è  il 
minimo  di  tutti  i  possibili  valori  che  assume  \  P  (z)  l,  quando  z  si  muove  co- 
munque nel  piano.  Dunque  P  (a,)  =  0,  perchè  altrimenti  (§  9,  pag.  34-35)  esisterebbe 
un  valore  di  z  tale  che  ivi  \  P  (z)  I  ha  un  valore  minore  di  I  P  (a,)  ì  . 


(*)  Naturalmente  se   la  retta  x  —  Xo  non  avesse   punti  comuni   con    5,   non 
avrebbe  senso  parlare  della  funzione  /"  {xo,  y). 

(**)  Perchè  la  regione  interna  a  (7  è  finita  :  il  teor.  cit.  non  vale  per  regioni 
illimitate. 


FUNZIONI,    LIMITI  139 


Per  il  teor.  di  Ruffini  (essendo  a,  radice  di  P  (z)  =  0)  il  polinomio  P  (^)  è 
divisibile  per  2^  —  a, ,  cosicché  P  (-^)  -—  (^  —  a,)  P^  {0)  ove  P,  (0)  è  un  polinomio 
di  grado  n  —  1,  il  quale  a  sua  volta  ammetterà  almeno  una  radice  oc^.  Sarà  perciò 
P,  {z)  =  {z-  a.,)  P^  {z)  e  P{z)  =  (z-  a.)  {z  -  a,)  P,{z)  dove  P,(z)  è  un  poli- 
nomio di  grado  n  —  2  che  possiederà  almeno  una  radice  oCj ,  ecc.,  ecc.  Si  trova 
così  in  conclusione  che  P  {0)  ={0  —  a,)  {0  —  a^)  ...  (0  —  a„).  Questa  decomposi- 
zione in  fattori  è  unica.  Se  infatti  per  altra  via  si  trovasse  anche 

P(z)  =  {0-^.,){0-i^,)   ...   (^-,5.). 

allora  sarebbe 

{0  —  oc,)  (>■  -  a^)  ...  (0  —  a.)  =  {0  —  i^.,)  (^  -  f.2)  ...  (^  —  f^,,). 

Dividendo,  caso  mai,  i  due  membri  per  i  fattori  di  primo  grado  comuni  ad 
entrambi,  ne  dedurremmo  un'uguaglianza  del  medesimo  tipo,  in  cui  però  nessuna 
delle  oc  è  uguale  ad  una  delle  i^.  Passando  allora  al  limite  per  ^  =  a,  ,  il  primo 
membro  avrebbe  limite  nullo,  il  secondo  membro  avrebbe  limite  differente  da  zero  ; 
ciò  che  è  assurdo.  Dunque  i  fattori  0  —  a  del  primo  membro  devono  (tutt'al  più 
in  altro  ordine)  coincidere  ciascuno  con  uno  dei  fattori  0  —  ^.  del  secondo  membro; 
€  viceversa.  Il  teorema  di  Gauss  è  così  completamente  provato. 


140  CAPITOLO   VII   —    §    42 


CAPITOLO    VII. 
SERIE 


§  42.  —  Definizioni  e  primi  teoremi. 

a)  Siano  date  infinite  quantità  Wi,  ih,  ih,  ,  Un,  deter- 
minate dal  valore  dell'indice  supposto  intero  positivo.  Conside- 
riamo la  somma  Sn  delle  prime  n  tra  esse;  poniamo  cioè 

Sn  =  Wi   -\-  U2    -^    -^^  Un  -   i-\-  Un- 

Se  esiste  ed  è  finito  il 

lim  Sn, 

Il  =  x 

la  serie  ui  -^  U2'^ -4-  ttn  -^ 


si  dice  convergente;  e  il  valore  s  di  questo  limite  si  chiama 
somma  della  serie.  E  si  scrive: 

5  =  1^1   -4-  ^2    -h  ^^3   -4-    -+-   Un   +    

Se  lim  Sn  esiste,  ma  è  infinito,  la  serie 

Hi  -h  Ho   -\-  Uz  -\-  -h  Un  -+-   .... 

si  dice  divergente.  Se  il  lim  Sn  non  esiste,  la  serie  dicesi  inde- 

terminata.  Una  serie  non  convergente  è  dunque  un  simbolo 
privo  di  significato;  e  (come,  p.  es.,  le  frazioni  a  denominatore 
nullo)  si  deve  escludere  dai  nostri  calcoli  (*). 

Se  moltiplichiamo  i  termini  di  una  serie  convergente,  per 
una  stessa  costante  k,  la  serie  resta  ancora  convergente;  e  la 
sua  somma  resta  moltiplicata  per  k. 


(*)  Si  potrebbe  chiamare  valore  s  di  una  serie,  anziché  il  lini  s,/,  qualche  altro 

■il  =  -'jì 

limite,  p.  es.,  il  lim    '        ^      .  Con  questa  nuova  definizione  alcune  serie 

«  =  co  W 

non  convergenti  acquistano  significato  e  si  possono  introdurre  nel  calcolo.  (Le  serie 
convergenti  non  mutano  di  valore  con  la  nuova  definizione).  Con  la  nuova  defini- 
zione, p.  es.,  la  serie  indeterminata  1  —  1-fl  —  l-f-l  —  14- ha  il  valore  - .  Esi- 
stono molte  definizioni  di  tale  tipo:  il  significato  della  frase:  valore  di  una  serie 
varia  con  la  definizione  scelta.  Noi  ci  atterremo  a  quella  classica  data  nel  testo. 


SERIE  141 


Se  le  Un  sono  numeri  complessi,  se,  p.  es.,  Un^=^Vn  -\-  iwn 
{Vn,  Wn  reali),  dire  che  la  serie  delle  Wn  converge  ed  ha  per 
somma  a  -4-  ib  equivale  a  dire  che  la  serie  delle  Vn  converge 
ed  ha  per  somma  a  e  che  la  serie  delle  Wn  converge  ed  ha 
per  somma  b. 

Il  lettore  cerchi  gli  errori  della  seguente  dimostrazione  che  conduce  ad  erronei 
risultati.  È 

^HH-Ì^Ì^ =(^^i+i- )+(i+i+ÌH- .....); 

de 

(-<H-a-iXi-l)- — l-f- 


Donde 


cioè 

-UÌ-  +  A-  + =  i  +  i  +  |  + 

2         4         6  o         0 

Poiché   o  >  -r  '  ^  ^  "^  '  ^^^'J  ^^  "^  deduce 

l  +  T  +  ¥  + >Ì+T  +  Ì  + ==1  +  1  +  -^  + 

cioè  -~  >  1,  ciò  che  è  assurdo. 

P)  Se  a,   q  sono  numeri  qualsiasi,   la  serie 

a  -h  aq  -\r  a(f  -h  ag'"  -h 

é  convergente  se  |  q  |  <  1,  perchè  in  tal  caso  la  somma    s,,   dei 
primi  n  termini  è  data  dalla 

_       1  —  q'' 

ed   ha  per  n  ^=  co    il  limite  •  ;  cosicché 

1— g 

a  o 

-— =  a  -^  aq  -\-  aq"  + 

l  —  q 

Una  tal  serie  si  dice  una  progressione  geometrica  decrescente. 

Se  I  g  I  >  1   (e  a  #=  0)  la  nostra  serie   diverge,    perchè   la 

1  —q"" 

Sn=^  a    _ ha  per  ?i  =  oo  il  limite  oo  . 

1  —q 

Se  a  -F=  0,  g  =  1,  la  serie  è  divergente,  perchè  la  somma 
Sn  =  na  dei  primi  n  termini  ha  ancora  per  ^  =  oo  il  limite  infinito. 

Se  a  #=  0,  g  =  —  1  la  serie  è  indeterminata,  perchè  la 
somma  Sn  è  uguale  a  -f-  a  per  n  dispari,  a  zero  per  n  pari, 
e  quindi  non  tende  ad  alcun  limite  per  ?z  =  oo .  Altrettanto 
avviene  (come  si  potrebbe  provare)  se  |  g  |  =  1,  e  gè  complesso. 

Se  (X  =  0,  la  nostra  serie  è  convergente,  ed  ha  somma  nulla. 


142  CAPITOLO   VII   —   §    42 

Y)  Se  la  serie  S  =  ai  -h  a2  -4-  a;?  -f- è  convergente,  e  se 

bi,  bo  ,  b,^  sono  costanti  qualsiasi,   la  serie 

(1)        bi  -4-  &2  -^  4-  ^„,  -h  ai-h  a-i  -h  a->,  -\-  

{essendo  m  =  intero  positivo  finito)  converge  ed  ha  per  somma 
>Sf' =  >S'  -4-  6i  -h  Ò2  -h K,. 

Se  S  diverge  od  è  indeterminata,  altrettanto  avviene  di  (1)^ 
0  viceversa. 

Per  definizione  di  serie  la  prima  parte  del  nostro  teorema 
equivale  alla 


n  =■  -X 


Ma  questa  formola    è   evidente,   perchè,    essendo   per   defini- 
zione /S'^lim  (ai  -f-  ^2  -h +  aj,  si  ha: 


n  <=  X 


lim  (6i  -f-  Ò2  -h -h  ò,,,  -h  ai  -f-  a2  -h aj  = 

71= 00 

=  61  H-  Ò2  -I- h^  -f-  lim  (ai  +  ao  H- -4-  a J  =  ^ 

=  61  -f-  60  + -4-  6„,  -I-  >S. 

La  seconda  parte  del  nostro  teorema  se  ne  deduce  pure 
immediatamente. 

B)  Se  le  serie  Ui  +  U2  +  Ua  -4-  ....,  Vi  -4-  V2  +  v^ convergono- 

ed  hanno  per  somma  U  e  V,  anche  la  serie 

(Ui  -h  Vi)  -4-  (U2  -4-  V2)  H-  (Ua-I-  V3)  -h  

converge  ed  ha  per  somma  U  4-  V. 
Infatti  : 

(ui  -h  Vi)  -h  {u.>  -4-  V2)  4-  = 

=  lim  [{ui  -4-  Vi)  -f-  {ìi2  -f-  V2)  -4- -h  (t^n  -4-  Vn)]  = 

n  =--  X 

=  lim  [(wi  +  ^^2  +  -4-  Un)  -f-  {vi  -4-  ^2  4- -+-  ^JJ  = 

71=  X 

=  lim  (Wi  -h  1^2  -4- -4-  ^«)  +  liai  (^1  +  ^2  +  -4-  Vn)  = 

71  =1  ce  ri  =  ce 

=  Z7+  F. 
s)  Se  ^a  serie  ai  +  a2  +  a-,  -t- converge,  allora  lim  a„  =  0. 

n=  X 

Infatti  la  somma  S  della  serie  si  può  definire  con  l'una    a 
l'altra  delle 
/S'  =  lim(ai  -4-  a-2  -4- 4-  «^J  ;   ^  =  lim  (ai  -4-  aa  -4- a«_i). 

n  =  X  ,  n  =  X 

Sottraendo  membro  a  membro  si  deduce  appunto  0  =  lim  an^ 

71=  00 

La  lim  an  =  0  è  dunque  una  condizione  necessaria  (ma  wo>^ 

71  «=  X 

sufficiente)  per  la  convergenza  della  nostra  serie. 


SERIE  143 


;)  Se  le  u„  sono  reali  e  positive,  se  u«  -(- 1  <  Uu,  se  lini  u„  =  0,  la  serie 
«I  ~.^2  -+-  U3  —  U4  -i-  Ug  — converge.  "  =  '^ 

È  facile  infatti  riconoscere  che  la  somma  S2m  dei  primi  2m  termini  aumenta 
con  ni,  che  la  somma  S2m-\-i  dei  primi  2  m  -h  l  termini  diminuisce  con  m,  che  le 
prime  somme  sono  minori  delle  seconde,  che  la  classe  formata  dalle  prime  è 
contigua  alla  classe  formata  dalle  seconde,  e  che  il  numero  di  separazione  delle 
due  classi  è  la  somma  delle  serie. 


§  43.  —  Serie  a  termini  positivi. 

a)  E  specialmente  importante  lo  studio  delle  serie,  i  cui  ter- 
mini sono  reali  ed  hanno  tutti  lo  stesso  segno,  sono  cioè  0  tutti 
positivi  0  tutti  negativi. 

A  noi  basterà  studiare,  p.  es.,  le  serie  i  cui  termini  sono 
tatti  positivi,  perchè  le  proprietà  delle  serie,  i  cui  termini  sono 
tutti  negativi,    se   ne   dedurranno   immediatamente.  È  evidente 

infatti  che  la  serie  ki-hh  -4- e  la  serie  ( — ki)  -+-( — ^^2)+...., 

che  si  ottiene  cambiando  i  segni  a  tutti  i  termini  della  prece- 
dente, sono  contemporaneamente  convergenti,  0  divergenti,  od 
indeterminate.  Ed  anzi,  se  la  prima  converge  ed  ha  per  somma  S, 
la  seconda  converge  ed  ha  per  somma  —  S. 

Lo  studio  dunque  delle  serie  di  termini  tutti  negativi  è 
equivalente  allo  studio  della  serie  con  tutti  i   termini   positivi. 

Se  i  termini  della  serie  Ui  -+-  a> sono   tutti   positivi,    la 

somma  Sn  =  ai-i-  a2-\- -f- «„  dei  primi  n  termini  è  una  funzione 

crescente  di  n,  e  quindi  (pag.  124,  §  38)  tende  ad  un  limite  per 
n  =  ao  . 

Una  serie  a  termini  positivi  non  è  mai  indeterminata. 

?)  Se 

(1)  ai  +  ^2  -f-  a-?  -4-  

(2)  òi  -h  62  -f-  63  -1-  

sono  due  serie  a  termini  positivi^  e  se  per  tutti  i  valori  di  n  si  ha 

(3)  an^hn, 

allora^  se  la  serie  (2)  converge,  anche  la  serie  (1)  converge; 
e  la  somma  s  di  (1)  non  può  superare  la  somma  o  di  (2). 
E  quindi,  se  la  serie  (1)  diverge,  diverge  anche  la  (2). 

Infatti,  se  5„,  o,,  sono  rispettivamente  la  somma  dei  primi  n 
termini  della  (1)  e  della  (2),  allora  dalla  (3)  segue 

(4)  Sn  ^  On. 

Se  la  (2)  converge,  allora  a  =  lim  a„  è  finito;  dalla  (4)  segue 
che  in  tal  caso  5„  non  può  tendere  all'infinito,  ossia  che  la  (1) 


144  CAPITOLO    VII    —    §    43 


non  può  divergere.  Quindi,  per  il  teorema  precedente,  la  (1)  con- 
verge (perchè  né  diverge,  né  è  indeterminata)-  Di  più  dalla  (4) 
segue  che  s  =  lim  5„  ^  e. 

n  =  00 

Y)  In  particolare  se  6„  =  bq",  dove  0  <q  <ì,h  >  0,  ossia 
se  la  (2)  è  una  progressione  geometrica  decrescente  (che  noi 
sappiamo  già  convergente),  si.  ha: 

Se  i  teoremi  della  serie 


ai  -f-  ai  -h  a-i 


sono  positivi,    ed    esistono    due   numeri  positivi  b,  q.  tali  che 
q  <  1   e  che 

allora  la  nostra  serie  converge. 

E  in  modo  analogo  si  vede  che,  se  fosse 

an  ^  &^^ 

dove  •      (/^1,&>0, 

la  serie  ai-H  a^i  -\-  a^  -\- 

sarebbe  divergente. 

S)  Supponiamo  ora  che  esista  un   numero   ^'  <  1,    tale   che 
per  tutti  i  valori  di  n  sia 

^-^^^'^/:<1      (*). 

Ciò  equivale  a  supporre  che  il  limite  superiore  dei  rapporti 

— -'—  Sia  un  numero  minore  di  1. 
an 


(*)  Da  questo  segue  che  i  rapporti      "  "^  ^    sono  minori  di  1.  Non  è  però  vero 

viceversa  che,  se  tutti  questi  rapporti  sono  minori  di  1,  allora   esista  necessaria- 
mente un  tale  numero  Jc  minore  di  1,   e   non   minore  dei   nostri   rapporti  (come 

avverrebbe  se  i  rapporti     "  "^  ^   fossero  in  numero  finito)  ;  e  ciò  perchè  potrebbe 

avvenire  che  il  limite  superiore  di  tali  rapporti  fosse  proprio  uguale  ad  1. 
Infatti,   per   esempio,   nella   serie   divergente 

Tutti  questi  rapporti  sono  minori  di  1. 

Ciò  nonostante,  se  A:  è  un  qualsiasi  numero  positivo  minore  di  1,  si  può  trovare 

un  intero  h  così  grande  che  per  w>  Ti  sia  1  ^  - — r—  >  k. 

Dunque,  pure  essendo  tutti  i  nostri  rapporti  minori  di  1,  ciò  nonostante,  preso 
un  qualsiasi  numero  A;  <  1,  infiniti  dei  nostri  rapporti  sono  maggiori  di  k,  perchè 
il  loro  limite  superiore  è  proprio  uguale  ad  1. 


w   '      u„     ~  w  -h  1  ~~  L  w  +  1 J 


SERIE  145 


Allora  sarebbe 

^^k,  ^^k ,  "^^^k; 

«1  a-,  rt„ 

donde,  moltiplicando  membro  a  membro: 


Cln-\-l 


ai 

ossia:  «^«4-1  ^  rt]  kn. 

I  termini  della  nostra  serie 

di  ~^  (1-2  -4-  <X3  -f-  a4  4- 

sarebbero  ordinatamente  minori  o  uguali  dei  termini  della  pro- 
gressione geometrica  decrescente 

ai  -\-  aik  -^  ai  k'  -i-  

Quindi  la  nostra  serie  sarebbe  convergente. 

In   modo   analogo    si    prova  che,  se  per  tutti  i  valori  di  n 


^n+l 


^  1,  la  nostra  serie  è  divergente. 


a^i 
Per  il  primo  caso,  p.  es.,  invece  di  ammettere  che  fosse 

(5)  '^^^^k<l 

a.n 

per  tutti  i  valori  di  n,  basterebbe  ammettere  che  questa   disu- 
guaglianza  valesse    a    partire  da  un  certo  valore  di  n  in  poi, 

p.  es.,  per  n'^m.  La  serie  ai  +  ao  -f-  a-^-\- sarebbe  ancora 

convergente. 

Infatti,  essendo  soddisfatta  la  (5)  per  n  ^  m,  è  convergente 
la  serie 

e  quindi  anche  (§  42,  y,  pag.   142)  la  serie 


ai  -f-  «2  -t-  -t-  a,n-  1  -T~  a,,,  -f-  a,,,^  i 


Considerazioni  analoghe  valgono  pel  secondo  caso. 
Concludendo  si  ha  il  teorema  :   Se  in  una  serie    a  termini 
positivi 

ai  -h  a>  -h  a->  -f- 

il  rapporto    ""'"^  di  un  termine  al  precedente,  da  un  certo  punto 
an 

in  poi  (ossia  per  n  maggiore  o  uguale  ad  un  certo  m),  è  uguale 
0  minore  di  un  numero  fisso  k  minore  di  1,   la   serie   è   con- 
io —  G.  Frmxi,  Analisi  matematica. 


146  CAPITOLO   VII   —   §   43 

vergente  ;  se  detto  rapporto  è  maggiore  od  uguale  adi,  la  serie 
è  diì^er gente. 

Se  ne  deduce  facilmente  il  seguente  corollario,  molto  utile 
in  pratica  :  Se  in  una  serie  a  termini  tutti  positivi  (o  tutti 
negativi)  il  rapporto  di  un  termine  al  precedente  ha  un  limite 
minore  di  1  (*)j  la  serie  è  convergente  ;  se  ha  un  limite  mag- 
giore di  1,  la^serie  è  divergente.  Sia  lim    "^^  =  a<i.  Sia/r 

n  =  ce       an 

un  numero  compreso  tra  ce  ed  1.  Poniamo  ^=k  —  a.  Esisterà 
per  definizione  di  limite  un  intero  m  tale  che  per  n  ^  m  (cioè 
quando  n  è  nell'intorno  (m,  -+-  oo  )  di  -h  oc  )j  valgano  le 

a^i  a-fi 

e  in  particolare  quindi  la  -^^-  <a-}-szr:^<l.   Quindi  per 

(In 

il  teorema  precedente  la  serie  ai  4-  «2  -+-  a^  -4- sarà  con- 
vergente. 

Se  invece  lim  — ^ti_  y  j^    allora    ""       finirà    per    diventare 

n  =  X     a-ti  an 

e  restare  maggiore  od  uguale  a  1  ;  e,  pel  teorema  precedente, 
la  serie  sarà  divergente  (**). 

Se  lim    '"^^  non   esiste,    o   vale  1,  nulla  si  può  affermare 
an 

in  generale. 

Un  altro  criterio  di  convergenza  sarà  dato  al  §  63,  5. 

Es.  La  serie  1  -h  —  H-  — -—  -f-  ~7~^r:r  + ^  convergente. 


(*)  Si  potrebbe  dire  anche:  minore  di  un  numero  h  minore  di  1.  Ma  questa 
frase  più  complicata  sarebbe  nel  caso  attuale  equivalente  a  quella  più  semplice 
del  testo. 

(**)  La  convergenza  di  a,  +  a^  -h  ^3  + J^el   caso  che  lim   -^^^  <  1  si 

n  ==  00       Cln 

può  anche  in  modo  meno  completo,  ma  più  intuitivo,  esporre  così.  Se  -^^  tende 
ad  a  <  1,  esso  finisce  col  diventare  e  restare  tanto  vicino  quanto  si  vuole  ad  a  : 
cioè,  se  ife  è  un  numero  compreso  tra  oc  ed  1,  il  rapporto  -^-=tl,  da  un  certo  va- 
lore di  n  in  poi,  sarà  minore  di  A:  <  1.  E  quindi  la  serie  converge.  Del  resto 
(oss.  B,  pag.  109)  sappiamo  già  che  dalla  lim      "'^^  ~cl  <^Jc  sì  deduce  che  da  un 

W   =»  GC  CI  // 

certo  valore  di  n  in  poi  il  rapporto  -!L±1  <^  ^. 


SERIE  147 


Infatti  in  questo  caso 

1            a«  +  i          1 

1               1 

^^«-  j^_i   '     a^            n     ' 

n  —  1          n 

e  quindi 

lim  — ^^— —  0. 

11  =  -ji      Ctn 

Vedremo  in  seguito  che  la  somma  di  questa  serie  è  proprio 
il  numero  e. 

Si  voglia  calcolare  la  somma  S  di    questa    serie    con   Tap- 

prossimazione  di  .    Si    osservi    che   la    somma    di   tutti   i 

^  4000 

termini  dopo  lo  n"'"  termine  uguaglia 

^i        ìt-hl      (n-f•l)(>^^-2)      '"[      n_l       ^  +  1      (n-hlf 
_JL 1  _n  -+-  1 

I  :^        1  n\n 

~~  n-^-  1 

Se  dunque  scegliamo  n  così  grande  che  — , <  -rrrr ,   la 

^  ^  ^  n\_n_       4000' 

somma   dei    primi   n   termini    della   nostra   serie    differisce   dal 
valore  vero  della  serie  per  meno  di— -— .  Ora  questa  disugua- 
glianza è  soddisfatta  per  n  =  7.  Quindi  si  può  scrivere  : 
o       .         1  1  1  1.1.1 

errore  (in  difetto)  minore  di .  Con  tre  cifre  decimali  esatte 

4000 

è  quindi  S=  2,718. 

Oss.  In  generale  la  somma  Sn  dei  primi  n  termini  di  una  serie 
convergente  rappresenta  la  somma  S  della  serie  con  un  errore 
che  si  può  rendere  piccolo  a  piacere  scegliendo  n  abbastanza 
grande.  Una  serie  è  tanto  più  conveniente  al  calcolo  effettivo 
(converge  tanto  più  rapidamente)  quanto  maggiore  è  l'appros- 
simazione che  si  ottiene  dando  ad  n  valori  non  troppo  grandi. 
Così,  p.  es.,  se  i  termini  di  a^  di  una  serie  ai  -H  «2  -+-  a^  -^  

....  ^»i"^   1        ^     7       /     -,  1 

sono  positivi,  e  se ^  A:  <  1,    la    sene,    come    sappiamo, 

(In 


148  CAPITOLO  VII  —  §  43-44 

è  convergente  ;  ed  essa  sarà  generalmente  tanto  più  comoda  al 
calcolo  numerico,  quanto  più  piccolo  si  può  scegliere  k  in  modo 
da  soddisfare  alle  precedenti  disuguaglianze.  Lo  studioso  può 
illustrare  questo  fatto  con  esempi  numerici,  e  anche  ricorrendo 
soltanto  a  progressioni  geometriche  decrescenti. 

§  44.  —  Cambiamento  neirordine  dei  termini  di  una  serie 
a  termini  positivi. 

Se  ai  -\-  a-r  -f-  «s  -+- 

é  una  serie,  i  cui  termini  appartengono  anche  alla  serie 

hi  -+-  h  H-  h  -^ , 

se  i  termini  di  entrambe  le  serie  sono  positivi,  se  la  seconda 
serie  converge,  anche  la  prima  serie  converge,  ed  ha  una  somma 
che  non  supera  la  somma  della  seconda. 

Infatti  se  n  è  un  intero  qualsiasi,  potremo  trovare  un  altro 
intero  m  ^  n  tale  che  nei  primi  m  termini  della  seconda  serie 
siano  contenuti  tutti  i  primi  n  termini  della  prima. 

Sarà    ■ 

(ai  +(12+  +  aj  ^  (bi  +  òo  + +  bj  (1). 

Il  limite  del  2""  membro  per  m  ^=  ce  e  quindi  anche  per 
n  =  00  uguaglia  la  somma  S  della  seconda  serie,  che  per  ipo- 
tesi è  un  numero  finito  :  quindi  il  primo  membro  di  (1)  non  può 
tendere  all'infinito,  e  perciò  la  prima  serie  converge  ed  ha 
una  somma  finita  S.  Passando  poi  al  limite  per  w=qo,  la  (1) 
dimostra  che  S ^^. 

Se 

[l]  ai  +  do  +  an  +  

è  una  serie  convergente  a  termini  tutti  positivi  (o  tutti  nega- 
tivi), e  se 

[2]  bi  +  b2  +  h,  +  

è  una  serie  dedotta  da  [l],  cambiando  V ordine  dei  termini,  anche 
la\2\è  conveVgente,  e  le  due  serie  [l]  e  [2]  hanno  la  stessa  somma. 

Infatti,  poiché  i  termini  della  [2]  appartengono  tutti  alla 
[l],  per  il  lemma  precedente  la  serie  [2]  converge  ;  e  se  >S,  S 
sono  le  somme  di  [l]  e  [2],  è  S  ^  >S.  Ma,  poiché  viceversa  anche 
tutti  i  termini  di  [l]  sono  termini  di  [2],  é  anche  S^^.  Quindi 
necessariamente  aS'=S. 

Questo  teorema  vale  naturalmente,  anche  se  la  serie  é  a 
termini  tutti  negativi.  e.  d.  d. 


SERIE  149 


§  45.  —  Serie  a  termini  negativi  e  positivi. 
Serie  a  termini  complessi. 

Cominciamo  dalla  considerazione  di  una  serie  a  termini  reali 

[l]  Hi  4-  ?^2  -+-  u^  -+-  

Sul  segno  dei  termini  non  facciamo  alcuna  ipotesi.  Siano  Ui,  ^2,  ... 
quei  termini  di  questa  serie  che  sono  positivi,  —  h,  —  òo,  —  h,  ... 
quei  termini  della  nostra  serie  che  sono  negativi.  Tra  i  primi  n 
termini  della  [l]  ce  ne  saranno,  per  es.,  m  positivi,  j;  negativi: 
ni  -i-pzzi7i.  E  sarà  quindi 

Ui  -hìin  -h  ...  -h  Un  =  {ai  -f-  ao  -h  ...  -h  a,J  —  (&i  -h  Ò2  -f-  ...  -f-  bp). 
Supponiamo  che  sieno  convergenti  le  due  serie 

[2]  ^1  -4-  ao  -h  «3  -1- 

[3]  hi  4-  h  -f-  Ò3  -f-  (*) 

e  ne  siano  S,  s  le  somme.  Allora 

lim  (ui  -h  U2  -h ...  -f-  Un)  =  lim  (ai  -h  ag  +  ...  -h  a^)  — 

—  lim  {hi  -h  Ò2  + -h  òp)  =  .S —  s. 

Quindi:  la  [l]   è  convergente  ed  ha  per  somma  S — s. 
Con  le  notazioni  precedenti  si  ha  evidentemente 

I  I61 1  -4- 1  ^2 1  -+-  I  'W3  I  -4-  ...  -h\  ^(n  i  =  (ai  -h  «2 4-  ...  -h  a^)  -f- 
4- (&i  4-02-4-...  M 
donde,  come  sopra,  si  deduce  che  la  serie 

[4j  !wi|  4-  li/sl  4-  |i/3  I  4-  

è  convergente,  ed  ha  per  somma  *S^  4-  5. 

Supponiamo  ora  viceversa  che  la  [4]  sia  convergente,  ed 
abbia  quindi  una  somma  finita  T. 

Siccome  ognuna  delle  quantità  ai  è  un  termine  di  [4],  per  il 
lemma  del  precedente  paragrafo,  la  [2]  è  convergente.  In  modo 
analogo  si  dimostra  che  la  [3]  converge,  e  che  quindi,  per 
quantx)  si  è  visto,  converge  anche  la  [l]. 

Dunque: 

Una  serie  [l]  converge,  quando  converge  la  serie  [4]  dedotta 
dalla  [1],  sostituendo  a  ogni  termine  il   suo   valore   assoluto. 

Si  avverta  che  il  teorema  reciproco  non  è  vero. 


(*)  I  risultati  seguenti  valgono  anche  se  di  termini  positivi,  0  di  termini 
negativi  nella  [1]  ve  n'è  solo  un  numero  finito,  se  cioè  una  delle  serie  [2],  [3]  si 
riduce  a  una  somma.  Questi  risultati  valgono  anche  se  la  [1]  ha  dei  termini  nulli. 


150  CAPITOLO    VII    —    §    45 


U 


n-\-l 


Cosi,  p.  es.,  se  ne  trae  che  [l]  converge  se  il  lim 
esiste,  ed  è  minore  di  1.  '"^'-^ 

Una  serie  [l],  tale  che  converga  la  serie  [4]  formata  coi  valori 
assoluti  dei  suoi  termini,  si  dice   assolutamente   convergente. 

Teorema.  Una  serie  [l]  assolutamente  convergente  rimane 
tale,  e  non  muta  di  valore,  comunque  si  cambi  V  ordine  dei 
suoi  termini. 

Infatti  il  cambiare  l'ordine  dei  termini  della  [l]  equivale 
a  mutare  al  piii  l'ordine  dei  termini  delle  [2],  [3].  Ma  come 
sappiamo,  comunque  si  muti  quest'ordine,  le  serie  [2],  [3]  a 
termini  positivi  restano  convergenti,  e  le  loro  somme  continuano 
ad  essere  rispettivamente  uguali  a  S,  s.  Per  le  considerazioni 
precedenti  la  [l]  resterà  ancora  convergente,  e  la  sua  somma 
sarà  ancora  S  —  s. 

Si  può  invece  dimostrare  che  in  una  serie  convergente,  ma 
non  assolutamente  convergente,  si  può  mutare  l'ordine  dei  termini 
in  guisa  che  la  serie  diventi  o  divergente,  o  indeterminata,  o 
abbia  quella  somma  che  più  ci  piace.  Naturalmente  è  necessario 
cambiar  l'ordine  di  un  numero  infinito  di  termini  per  ottenere 
una  tale  variazione. 

Questi  teoremi  si  estendono  subito  a  una  serie  a  termini 
complessi 

(1)  -  tVi  -{-  W2  -h  Ws  -\-  

(^n  =  Un   +  iVn) 

col  teorema: 

Condizione  necessaria  e  sufficiente  affinchè  siano  assoluta- 
mente convergenti  tanto  le  serie  Ui  -4-  U2  + formata  con  le 

parti  reali  dei  termini  di  (1)  quanto  la  serie   Vi  -+-  V2  -+- 

formata  coi  coefficienti  di  i  nei  termini  di  (1)  è  che  sia  conver- 
gente la  serie  |  Wi  i  -f-  |  W2 1  -h...  dei  moduli  dei  termini  di{l). 
(Ricordo  che  \iVn\  ^=  \/ul  -h  vi). 

Infatti  I  Wn  I  ^  I  w„  I  -h  I  Vn  |.  Se  le  serie  delle  |  Un  \  e  delle  |  ?;„  | 
convergono,  converge  anche  la  serie  somma,  ed  a  fortiori  con- 
verge la  serie  delle  \wn\.  Viceversa,  se  converge  quest'ultima 
serie,  convergono  le  serie  delle  i  Un  \  e  quella  delle  \vn\y  perchè 

\Un\^  I  tV„\         ,         I  Vn  \^\Wn\   . 

Tali  serie  si  dicono  ancora  assolutamente  convergenti.  Anche 
per  una  serie  iVi-hW2-h a  termini  complessi  vale  il  teorema 

che,  se  lim     1 — ^^^^^;  <  1,  la  serie  è  assolutamente  convergente, 

ed  ha  una  somma  indipendente  dall'ordine  dei  suoi  termini. 


SERIE 


151 


La  serie  tvi  -4-  W2 


Esempi. 

,  dove  Wi  =  1,  w„ 


X 


n-  1 


n  —  1 


con- 


verge assolutamente  per  ogni  valore  (anche  complesso)  della 
perchè  il  rapporto 


x" 

: 

\n 

X 


n—l 


tende  a  zero  per  ?^  =  ao .  Dal  teor.  £)  del  §  42  segue  in  par- 


jjt 


=  0. 


ticolare  che  lim 

n^+r.         \n_ 

2*  Studiamo  ora  la  serie    1    -\-  Ui  -{-  Ui  -h  ove  si  è 


posto  :  Un  = 


m  (m  —  1)  (m 


n 


1)  x'' 


ossia  la  serie 


n 


m 
1   -f-— -  X 


m  (m —  1)   o       m{m — 1)  (m  —  2)    o 

1.2    ^'+ — r:2T^ — ^ 


dove  m  è  una  qualsiasi  costante. 

Se  m  è  un  intero  positivo,  tutti  i  termini  dopo  lo  (m  -\-  l )'*''"'' 
sono  nulli  e  la  serie  si  riduce  ad  un  polinomio  uguale  (§11, 
pag.  44)  ad  (1  -h  xT". 

Se  m  non  è  un  intiero  positivo,  allora  si  noti  che: 


Un  -j- 
Un 


m 

(m 

-1) 

.(m  — n-Hl)(m  — 

n) 

h^  -h  1 

m 

(m- 

1) 

(m- 

-n  -hi) 

x 


n  fi 


X 


I  n 


\x\ 


m  —  n 


n-i-l 


x 


m 
n 


e   quindi 


lim 

TJ.  =  -e 


W 


n-f  1 


u. 


X 


Se  dunque  |a;|  <  1,  la  nostra  serie  converge  assolutamente. 
E  in  particolare  ne  consegue  che,  se  \x\  <^1,  allora 

m(m — 1)  (m  —  2) (m — n-hl)     ^ 

lim   . X   ^=^  0. 


152  CAPITOLO   VII    —    §    46 

§  46.  —  Serie  di  funzioni. 

Siano  fiix),  fìix),  fii{x),  infinite  funzioni  determinate  in 

un  campo  T.  Siano  Mi,  M2,  Ms,  rispettivamente  i  limiti  su- 
periori dei  loro  moduli  |  /i  (x)  \,   \  fo  {x)  j,   j  f^  {x)  |,  ecc. 

Se  la  serie  di  questi  limiti  superiori 

[1]  i¥i  -h  ilfs  -4-  M,  -h 

converge,  allora  è  convergente  assolutamente  anche  la  serie 

n{x)-\'fAx)-^u{x)-\- 

in  ogni  punto  del  campo   T  {^'). 

Una  tale  sèrie  /l  {x)  -4-  f>  (:x)  -\-  fAx)  -\- si  dirà  totalmente 

convergente. 

Se  la  costante  Ln  non   è  inferiore    ad    alcuno    dei    valori 

delle  !  fn  (x)  I,  e  se  la  serie  Li  -f-  L2  -f-  L3  -4- converge,  la 

serie  f  1  -4-  f2  -f-  fa  4- è  totalmente  convergente. 

Infatti  dalle  Ln^\fn  (x)  \  si  deduce  L,,  ^  Mn-  Dalla  con- 
vergenza della  serie  delle  L  si  deduce  quindi  la  convergenza 
della  serie  delle  M,  e  quindi  per  definizione,  la  totale  conver- 
genza della  serie  delle  fn  (x). 

Una  serie  totalmente  convergente  è  (come  abbiamo  già  osser- 
vato) anche  assolutamente  convergente.  Il  teorema  reciproco  non 
è  generalmente  vero. 

Supponiamo  che  esista  il  lim  f  (x),  che  noi  indicheremo 
con  kC%  ^      '^'^ 

È  chiaramente  |  ?,,  |^i¥„;   e  quindi  la  serie 

[2]  k-h  k-i-  k  -h 

converge  assolutamente.  Sia  M  la  somma  di  [l],  e  sia  £  un 
numero  piccolo  a  piacere.  Esisterà  un  intero  n  cosi  grande  che 

M—  (Mi  -hM,-{- -+-  Mn)  <  y 

cioè  £ 

(*)  Infatti  dalle  \  fn  \  t^  Mu  si  deduce  che  per  ogni  valore  di  x  nel  campo  T 
la  serie 

I  A  I  -+-  I  A  1+  1  /3  I  +  

converge,  e  quindi  (§  45)  la  serie 

A  H-  f2  +  f,  + 

converge  assolutamente. 

(**)  È  inclusa  l'ipotesi  che  la  x  varii  in  T,  e  quindi  anche  che  in  ogni  intorno 
destro  di  a  esistano  punti  di  T,  distinti  da  a. 


SERIE  153 


Poiché     fn  I  ^  Mn,   \ln\^  ^n,  Sarà  pure 


[3]         ^-fa^)  +  A  +  2(.r)-4-/;  +  B(^)+ |<  y, 

[4]  In  +  l-^lnJr^-^^n^^-^ '^T' 

D'altra  parte  poiché  (§  35,  a,   pag..  113) 

lim  (/;  -4-  /;  -4- +  fn)  =  ili  +  li  ^  .....  -h  U, 

si  potrà  trovare  un  intorno  di  a,  in  cui 

[5]  I  {f,-\-t\^ 4- A)  —  (^1 -4- ?2  + +  U  I  <-|-. 

Cosicché,  in  virtù  delle  [3],  [4],  [5],  in  questo  intorno,   sarà 

(/;-4-/'2+.-....+/;4-/;.+i-+- )— (^i+Zo-h +  z„-h^._^i-4- )|^ 

^  ì  (/;  -4-  /;.  4- 4-  /;,)  —  (?i  -^u-^- +  u  I  -+- 

-f-  |/;,4_i  4-  /;,+2  -4- ;  -4- 1  ^nfi-4-^«+2  + 1  ^£. 

Dunque,  dato  un  s  piccolo  a  piacere,  esiste  un  intorno  di  a 
in  cui  vale  questa  disuguaglianza. 

Per  la  definizione  di  limite  avremo  pertanto: 

»S'e  una  serie  di  funzioni  {reali  o  complesse)  è  totalmente 
convergente  in  un  intorno  del  punto  a,  e  se  per  x  =  a  ^  suoi 
termini  ammettono  un  limite  (certo  finito),  il  limite  della  serie 
per  X  =  a  è  uguale  alla  serie  dei  limiti. 

Ne  segue  tosto  che:  Se  i  termini  di  una  serie  totalmente 
convergente  sono  funzioni  continue,  la  somma  della  serie  è  una 
funzione  continua. 

I  precedenti  teoremi  valgono  anche  per  le  serie  uniformemente  convergenti, 
di  cui  le  serie  totalmente   convergenti  sono  un  caso   particolare.   Si   dice   che   la 

serie  f,  {x)  +  f^  (x)  -+- converge  ed  ha  per  somma  f{x),  se,  prefissato  un  :  >  o 

piccolo  a  piacere,  per  ogni  valore  di  x  nell'intervallo  considerato  esiste  un  intero  m 
tale  che  per  w  >  m  siaj  f  (x)  —  [f^  (x)  f^  {x)  -f- H-  fn  {x)]  \  <  i. 

Questo  valore  di  m  varia  generalmente  con  x\  ma  se  (comunque  sia  stato 
scelto  e)  si  può  trovare  un  valore  di  m,  tale  che  la  precedente  disuguaglianza 
valga  per  tutti  i  valori  della  x,  la  serie  si  dice  uniformemente  convergente. 
In  altre  parole  per  una  serie  convergente  il  numero  m  è  generalmente  funzione 
di  vC  e  di  i  (che,  al  variare  di  x,  può  anche  avere  -f-  co  per  limite  superiore)  ;  per 
una  serie  uniformemente  (in  ugual  grado)  convergente  si  deve  poter  scegliere 
un  m,  che  sia  funzione  della  sola  z. 

Questi  teoremi  si  estendono  senz'altro  alle  serie,  i  cui  ter- 
mini sono  funzioni  di  più  variabili;  essi,  si  noti,  sono  affatto 
analoghi  ai  teoremi  corrispondenti  per  le  somme  di  un  numero 
finito  di  funzioni. 


154  CAPITOLO    VII    —    §    46    —    SERIE 


Osservazione. 

Accanto  alle  serie  i  matematici  hanno  studiato  altri  algoritmi 
analoghi  che  hanno  grande  importanza  per  il  teorico,  e  ben  poca 
per  l'ingegnere.  Voglio  alludere  ai  prodotti  infiniti,  alle  frazioni 
continue  illimitate,  ai  determinanti  infiniti. 

Così,  p.  es.,  dati  infiniti  numeri  Ui,  U2,  u^,  ,  ecc.  si  dice 

che  il  prodotto  infinito  ih  Uo  u-^ converge  ed  ha  il  valore  p 

se  il  limite  per  w  =00  del  prodotto  ^«  =  ^1 1^2 Un  dei  primi  n 

numeri  u  esiste,  è  finito,  ed  è  uguale  a^.  Lo  studio  di  un  tale 
prodotto  si  può  ridurre  a  quello  di  una  serie,  osservando  che  in 
particolare  sarà  log  |^  i  =  log  [  t^i  |  -f-  log  |  ^^2  j  +  log  ;  ih  I  + 


155 


CAPITOLO  Vili. 
DERIVATE,    DIFFERENZIALI 


§  47.  —  Velocità  ad  un  istante,  velocità  di  reazione,  intensità 
di  corrente,   coefficiente  di  dilatazione,   calore  specifico. 

a)  Studiamo  un  fenomeno  dei  più  semplici  :  la  caduta  di  un 
grave  che  parte  senza  velocità  iniziale.  L'esperienza  insegna 
che  il  numero  y  dei  metri  percorsi  in  x  minuti  secondi  di  libera 

caduta    vale  —-  gx^  —  4,905  x^  (g  =  9,81). 

Da  tale  formola  resta  analiticamente  individuata  la  funzione  ?/ 
della  X,  così  da  poterne  calcolare  il  valore  per  ogni  valore  posi- 
tivo della  X.  E  si  trova  che  dopo 
3"  il  gravOa  percorso  metri   g  =  4,905.  (3)^         =  44,145 
3,1       .....     ?/  =  4,905.  (3,1)'      =44,145-4-2,992 

3,01 y  =  4,905.  (3,01)'    :=  44,145 -4-0,295 

3,001.      ....     ?/  =  4,905.  (3,001)'=  44,145-4-0,0294 

Ora  è  ben  noto  che  la  velocità  media  in  un  intervallo  di 
tempo  è  data  ^al  quoziente  tra  la  lunghezza  del  segmento  per- 
corso in  tale  intervallo  e  il  tempo  impiegato  a  percorrerlo. 

Siccome  nell'intervallo  (3";  3",1)  si  sono  percorsi  m.  2,992, 

la  velocità  media  in  questo  intervallo  di  tempo  (77.  di  minuto 

2,992 
secondo)   vale =  29,92. 

a) 

Nell'intervallo  (3';  3  ,01)  la  velocità  media  varrà  analoga- 

0  295 
mente  -~ —  =  29,5;  la  velocità  media  nell'intervallo (3";  3,001) 

V 100"/ 

.    0,0294 
sarà  — ^— — ^  =  29,4. 

VlÒOO/ 
Noi  potremo  continuare  il  calcolo   per   intervalli   di    tempo 
ancor  più    piccoli:  ciò    che    naturalmente    non    avrebbe    alcun 


156  CAPITOLO   Vili   —   §   47 

significato  fisico,  sia  perchè  4,905  è  un  numero  solamente  ap- 
prossimato, sia  perchè  non  sono  sperimentalmente  apprezzabili 
frazioni  di  secondo  tanto  piccole.  Checché  sia  di  ciò,  noi  trove- 
remmo che  la  velocità  media  in  un  intervallo  di  tempo  che 
comincia  dopo  il  terzo  secondo,  diminuisce  con  l'ampiezza  del- 
l'intervallo e  finisce,  per  intervalli  di  tempo  inferiori  p.  es.  al 

millesimo  di  secondo,  con  Tessere  sensibilmente  uguale  a  29,4 

Ma  si  suole  parlare,  tanto  in  fìsica  che  nel  linguaggio  comune, 
della  velocità  che  ha  il  grave  p.  es.  all'istante  ./;  =  3  (dopo  3" 
di  libera  caduta)  ;  si  suole  dire  anche  volgarmente  :  il  grave 
dopo  3"  aveva  la  velocità  di  tanti  metri  al  minuto  secondo. 
È  ben  chiaro  il  significato  che  uno  sperimentatore  darebbe  a 
una  simile  frase  :  velocità  del  grave  alVistante  x  =  3".  Supposto, 
per  fissare  le  idee,  che  il  millesimo  di  secondo  sia  il  minimo 
intervallo  di  tempo,  che  egli  sappia  apprezzare  e  misurare  coi 
mezzi  sperimentali  che  ha  a  sua  disposizione,  egli  chiamerebbe 
la  velocità  media  del  grave  nell'intervallo  (3";  3",  001)  la  velo- 
cità all'istante  .t  =  3. 

Così  un  macchinista  di  un  treno,  che  difficilmente  può  ap- 
prezzare intervalli  di  tempo  inferiori  al  minuto  secondo,  potrà 
dire  che,  p.  es.,  alle  ore  4  egli  aveva  raggiunto  la  velocità  di 

100  km.  all'ora  (cioè  m.  =  m.  27,77  al  minuto  secondo) 

se  nell'intervallo  di  tempo  trascorso  dalle  ore  4  alle  ore  4  più 
un  minuto  secondo  egli  ha  percorso  m.  27,77.  Questa  definizione 
diremo  cosi,  sperimentale  della  frase  :  velocità  alVistante  x  è 
sufficiente  in  pratica. 

Dal  punto  di  vista  della  teoria  essa  darebbe  origine  a  gravi 
difficoltà,  p.  es.,  per  il  fatto  che  il  minimo  intervallo  di  tempo 
apprezzabile  varia  da  caso  a  caso,  può  variare  col  perfezionarsi 
dei  metodi  di  misura  ;  mentre  invece  noi  vogliamo  una  defini- 
zione che,  pur  trascendendo  i  bisogni  della  pratica,  sia  adot- 
tabile in  ogni  caso.  Riprendendo  lo  studio  della  caduta  di  un 
grave,    notiamo   che    lo    spazio    ?j    percorso    in    x  secondi  vale 

—  gx^,  mentre  lo  spazio  /y  H-  k  percorso  nei  primi  x  -h  h  secondi 

\3i\e --g{x-hhf.  Lo  spazio  k  percorso  nell'intervallo  di  tempo 
(a:,  X  -h  1%)  vale  dunque  : 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI  157 

Cosicché   la   velocità    media   in   tale   intervallo  di  tempo  è 
k  1     , 

J=ffX+jC,h. 

Quanto  più  perfetto  è  il  metodo  di  misura,  tanto  più  piccoli 
sono  gli  intervalli  di  tempo,  che  si  sanno  apprezzare. 

Ora,  quanto  più  piccolo  è  l'intervallo  di   tempo    {x,  x  -\-  ìi) 

ossia  quanto  più  piccolo  è  //,  tanto  più  piccolo  è  il  termine  -—  gii. 

Anzi  questo  termine  è  sperimentalmente  trascurabile  se  h  è  molto 
piccolo.  Per  questa  ragione  diciamo  che  la  velocità  all'istante  x 
vale  gx  :  cioè    poniamo    per   definizione  tale  velocità  uguale  al 

k        ,.     -Y  Q  (x  -^  hf  — -o-  V7X'"" 
km  —  —-  lim  — '- — —  =  qx. 

h^o  h        /,==()  h 

Così  p.  es.  la  velocità  all'istante  x-3  vale  3  //  =  3.9,81  —  29,4..:.. 
(che  è  in  perfetto  accordo  coi  valori  sopra  determinati). 

Come  si  vede,  questa  velocità  gx  varia  con  x,  è  una  nuova 
funzione  della  x.  E  da  questo  risultato  deduciamo  anzi  il  ben 
noto  teorema  di  Galileo  che  le  velocità  sono  proporzionali  al 
tempo  x  di  libera  caduta. 

p)  Applichiamo  le  considerazioni  precedenti  al  caso  generale. 
Sia  M  un  punto  mobile  con  legge  qualsivoglia,  p.  es.  su  una 
retta  orientata  OX.  Dopo  un  certo  numero  x  di  minuti  secondi 
la  distanza  7j  =  OiUf  sia  uguale  a  un  certo  numero  f(x)  di  metri 
(y  funzione  di  x).  Quale  significato  avrà  la  frase  :  velocità  di  M 
all'istante  x  =  a? 

Usiamo  un  procedimento  analogo  al  precedente. 

Dopo  a  secondi  la  distanza   OM  è  f{a)  ; 

^^      a  -\-  h  «  f{a-i-h). 

Dunque  nell'intervallo  (a,  a  -4-  h)  di  h  minuti  secondi  lo  spazio 
percorso  è  k:=^f{a-{'h)  —  f(ci).  La  velocità  media  in  tale 
intervallo  di  tempo  è  quindi 

k  __  f(a-hh)  —  f{a) 
/^   "~  h 

Noi  chiameremo  velocità  di  M  all'istante  a  il  limite  (se  un 
tal  limite  esiste)  del  precedente  rapporto  per  h  =  0.  Questo 
limite  varierà  generalmente  al  variare  dell'istante  a  considerato. 
E  per  indicare  che  a  può  ricevere  uno  qualsiasi  dei  valori  dati 
alla  X,  noi  indicheremo  a  con  la  stessa  lettera  x,  dicendo  così 


158  CAPITOLO    Vili   —    §    47 

che   la   velocità    all'istante    a;   è  quella  funzione  Fix)  della  x, 
che  è  definita  dalla 

F  (:x)  =  lim ' ' 

se  un  tale  limite  esiste. 

Y)  Se  noi  immaginiamo  noto  a  priori  il  significato  della 
frase:  *' velocità  alV istante  x  " ,  possiamo  usare  un'altra  forma 
di  ragionamento,  che  ci  servirà  anzi  come  modello  per  altri 
problemi  analoghi. 

Se  la  velocità  F{x)  si  mantenesse  costante  neirintervallo 
(x,  X  -I-  h),  lo  spazio  f(x-i-h)  —  f{x)  percorso  in  tale  intervallo 
di  tempo  sarebbe  proprio  uguale  al  prodotto  h  F  (x)  della  velo- 
cità F{x)  per  il  tempo  h  impiegato  a  percorrerlo.  Ma  F(x)  può 
variare  (se,  come  capita  in  pratica,  F{x)  è  funzione  continua) 
nel  dato  intervallo  da  un  valore  minimo  m  ad  un  valore  mas- 
simo M.  Lo  spazio  percorso  sarà  quindi  compreso  tra  km  ed  JiM, 
che  misurano  rispettivamente  gli  spazi  percorsi  nel  caso  che  la 
velocità  abbia  costantemente  il  valore  minimo  m  o  il  valore 
massimo  M  (*).  Quindi  f{x  -h  h)  —  /'(a:)  =  7i  |ji,  dove  \i  è  un 
valore  compreso  tra  m  ed  M,  ossia  è  il  valore  i^  (a:  4-  X)  che  F 
assume  in  un  certo  punto  a:;  4-  X  (a  noi  generalmente  ignoto) 
dell'intervallo  (x,  x  -+-  /^)  (  |  >^  |  ^  |  /^  |  ).  Dalla  f{x-^  h)  —  fix)  = 
hF  ix  -f-  X)  si  trae  : 

n 

donde,  passando  al  limite  per  /^  =  0,  e  ricordando  che  X  tende 
a  zero  per  /^  =  0,  si  ha  appunto  : 

h  =  o  II 

S)  In  generale,  se  y  è  una  grandezza  variabile  col  tempo  x, 
che  è  una  funzione  y  =  fix)  di  x,  il  limite  precedente  si  chiama 
la  velocità  di  variazione  di  y.  Così,  se  ?/  è  la  quantità  di  una 
certa  sostanza  che  si  è  formata  o  si  è  decomposta  in  una  certa 
reazione  chimica,  tale  limite  ha  il  nome  di  velocità  di  reazione. 
Se  ?/  è  la  quantità  di  elettricità  passata  in  un  dato  circuito 
all'istante   x,    tale   limite   ha   il  nome  di  intensità  di  corrente. 


(*)  Che  a  velocità  maggiore  corrisponda  spazio  percorso  maggiore  è  un  postulato 
direttamente  suggerito  dalla  intuizione. 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI 


159 


Se  X  indica  invece  la  temperatura,  ed  y  è,  p.  es.,  la  lun- 
ghezza di  una  certa  sbarra  alla  temperatura  x,  tale  limite  si 
chiama  il  coefficiente  di  dilatazione  (della  sbarra). 

Se  ?/  è  la  quantità  di  calore  necessaria  per  portare  alla 
temperatura  x  la  massa  1  di  un  certo  corpo,  quel  limite  si 
chiama  il  calore  specifico  di  quel  corpo. 

Insomma  quasi  tutte  le  scienze,  che  si  propongono  problemi 
di  misura,  conducono  alla  considerazione  di  quel  limite  per  i 
problemi  piii  svariati. 

§  48.  —  Retta  tangente  a  una  curva. 

Come  possiamo  definire  la  retta  tangente  a  una  curva  in 
un  punto  A  in  modo  conforme  alla  nostra  intuizione  ? 

Le  seguenti  figure  dimostrano  che  non  si  può  definire  tale 
tangente,  dicendo  che  essa  è  la  retta  che  ha  il  solo  punto  A 
comune  con  la  curva,  oppure  che  essa  è  la  retta  che  ha  con  la 
curva  a  comune  il  punto  A,  ma  che  non  attraversa  la  curva 
in  A  (figure  12-13). 


Fig.  12. 


Fig.  13. 


Noi  partiremo  dall'osservazione  che  la  retta  che  congiunge 
due  punti  A,  B  molto  vicini  di  una  curva  si  confonde  sensibil- 
mente con  la  retta,  che.  la  nostra  intuizione 
dice  tangente  alla  curva  nel  punto  A.  Cosi  che 
un  abile  disegnatore  potrebbe  chiamare  retta 
tangente  a  una  curva  in  un  suo  punto  A  la 
retta  AB  (fig.  14),  essendo  B  il  punto  della 
nostra  curva  più  vicino  al  punto  A,  tale  che 
la  retta  A  B  possa  venire  da  lui  tracciata  con 
l'approssimazione  richiesta  (se  il  punto  B  fosse 
troppo  vicino  al  punto  A,  il  tracciare  con  la 
precisione  voluta  la  retta  A  B  gli  presenterebbe 
difficoltà  insormontabili).  Una  tale  definizione 
non  è  però  accettabile  da  un-  matematico,  il 
quale  prescinde  da  ogni  possibile  disegno,  e  non  può  tener  conto 
della  maggiore  o  minore  abilità  di  un  disegnatore. 


Fig.  14. 


160 


CAPITOLO    Vili    -—    §   48 


Fig.  15. 


Noi,  assumendo  come  punto  di  partenza  i  fatti  intuitivi  ora 
accennati,  porremo  la  definizione  seguente  : 

Tangente  à  una  curva  nel  punto  L  è  la  posizione  limite 
(se  questa  posizione  esiste)  di  una  secante  AB  congiungente  il 
punto  A  con  un  altro  punto  B  della  curva,  quando  il  punto  B 

tende  ad  A  (*). 

Bisogna  dimostrare  che  questa  defini- 
zione coincide  nel  caso  del  cerchio  con  la 
definizione  data  dalla  geometria  elementare. 
Sia  dato  un  punto  A  su  un  cerchio  di 
centro  0.  Preso  un  altro  punto  B  su  tale 
cerchio,  tiriamo  la  retta  AB  ;  essa  sarà  la 
perpendicolare  tirata  da^  alla  bisettrice  OH 
dell'angolo  A{0)B  (fig.  15). 
Facciamo  avvicinare  il  punto  B  al  punto  A  ;  allora  V  an- 
golo BOA  tende  a  zero,  e  la  bisettrice  OH  dì  questo  angolo 
tende  al  raggio  OA.  La  retta  AB,  che  è  sempre  perpendicolare 
alla  bisettrice  OH,  si  avvicinerà  alla  perpendicolare  alla  retta  OA 
nel  punto  A,  e  si  ha  così  che  la  posizione  limite  della  retta  AB, 
ossia  la  tangente  al  cerchio  nel  punto  A,  nel  senso  ora  definito, 
e  la  perpendicolare  al  raggio  del  cerchio  che  ha  l'estremo  in 
quel  punto  A,  e  coincide  quindi  con  la  retta  che  in  geometria 
elementare  si  chiama  «  tangente  al 
cerchio  nel  punto  A  " . 

Sia  la  curva  data  dall'equazione 
y  =  f{x).  Il  coefficiente  angolare 
della  retta  AB  è  Ir  tangente  del- 
l'angolo 0)  che  la  direzione  positiva 
dell'asse  delle  x  fa  con  un  raggio 
di  essa,  p.  es.,  col  raggio  AB.  Sia 
A  C  parallela  all'asse  delle  x.  Dal 
triangolo  ABC  (fig.  16)  si  ha  che 
questo  coefficiente  angolare  vale  in  grandezza  e  segno 

GB        B'B  —  B'C       B'B  —  AA 


AC 


OH 


OA'        OB'—OA' 


dove  B' B  e  A!  A,   OB'  ed  OA'  sono  rispettivamente  le  ordinate 
e  le  ascisse  dei  punti  B,  A. 


(*)  Qui  si  tratta  di  una  facile  estensione  del  concetto  di  limite.  Noi  diciamo 
che  la  retta  AB  tende  a  una  posizione  AP,  se  l'angolo  di  AB  ed  AP  tende  a 
zero.  Dicendo  poi  che  B  si  avvicina  ad  A^  vogliamo  dire  che,  se  la  curva  è  rap- 
presentata da  una  equazione  y  =f (x),  noi  cerchiamo  la  posizione  limite  dì  AB 
per  X.2  =  07,  (essendo  a:, ,  a-,  le  ascisse  di  ^  e  di  B). 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI  161 

Siano  Xo  ed  Xo-hh  le  ascisse  0A\  0 B'  dei  punti  A,  B. 
Le  corrispondenti  ordinate  A!  A,  B' B  saranno /"fe), /"(^To  + /O, 
cosicché  il  coefficiente  angolare  della  nostra  retta  è 

f{Xo  -^h)  —  fiXo)   ^  f(Xo  -hh)—  fiXo) 

(xo  -h  h)  —  Xo  h 

come  del  resto  si  poteva  trarre  direttamente  da  note  formole 
di  Geometria  analitica. 

E  per  la  definizione  precedente  avremo  che  il  coefficiente 
angolare  della  retta  tangente  in  A  esiste  ed  è  uguale  a 

.      fjxo  -h  h)  —  fixo)  ^ 
h^o  h 

se  questo  limite  esiste.  Se  noi  vogliamo  tener  conto  che  Xo  può 
avere  un  valore  qualsiasi  dell'intervallo  che  si  considera,  pos- 
siamo scrivere  x  al  posto  di  Xo,  e  dire  cosi  : 

La  retta  tangente  alla  curva  y  =  f  (x)  nel  punto  di  ascissa  x 

ha  per  coefficiente  angolare  il  lim • 

h  =  0  h 


§  49.  —  Derivata. 

a)  Sia  f{x)  una  funzione  reale. 

Nei  due  precedenti  §§  si  è  presentato  il  rapporto 

f(x  -^h)  —  f{x)  ^  fix  ^h)  —  f{x) 
{x  -\-  h)  —  X  h 

Il  denominatore  e  il  numeratore  sono  il  primo  la  diiferenza  di 
due  valori  della  variabile  indipendente  x,  l'altro  la  differenza  dei 
due  valori  corrispondenti  della  funzione  f{x).  Perciò  si  suol  anche 
porre  (ricordando  la  lettera  iniziale  della  parola  :  differenza) 

h  =  (x  -\-  h)  —  X  =  àx, 
f{x-hh)  —  f(x)  =  àf. 

Il  primo  sarà  detto  incremento  della  x.  l'altro  incremento 
della  f(x).  Il  rapporto 

^f^fix-^h)  —  f(x) 

Ax  h 

viene  perciò  anche  chiamato  rapporto  incrementale. 

11  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


162  CAPITOLO   Vili   —   §   49 

In  entrambi  i  problemi  precedentemente  trattati,  si  è  trovato 
necessario  di  calcolare  il 

Questo  limite,  se  esiste  ed  è  finito,  ha  ricevuto  il  nome  di 
derivata  della  funzione  f{x)  nel  punto  x  ;  esso  è  una  funzione 
di  X,  che  si  suole  indicare  con  f  (x). 

Se  è  posto  y  =  f(x),  questo  limite,  se  esiste,  si  indica  bre- 
vemente anche  con  j/  senz'altro,  o  con  y^,  se  si  vuol  mettere 
in  evidenza  la  variabile  x  rispetto  alla  quale  si  deriva  (*). 

Se  il  punto  X  che  si  esamina  è  all'estremo  sinistro  (destro) 

dell'intervallo,  in  cui  f{x)  è  definita,  è  sottinteso  che  h  tende 

a  zero  per  valori  positivi  (negativi)  ;  se    invece  il    punto   x    è 

interno    a  tale   intervallo,    si    dice    che  la  funzione  f(x)  ha  in 

A  f 
tal   punto   la   derivata  f  (x)   soltanto  se  il  lim   — —  esiste,  ed 

àx  =  0     àx 

è  sempre  lo  stesso,  sia  che  h  tenda  a  zero  per  valori  positivi, 
sia  che  h  tenda  a  zero  per  valori  negativi. 

Di  più,  quando  diremo  che  esiste  la  derivata  f'  (x),  noi 
supporremo  sempre  che  il  nostro  limite  abbia  valore  finito  (seb- 
bene si  parli  talvolta  anche  di  derivate  infinite).  I  risultati  dei 
precedenti  paragrafi  si  possono  perciò  anche  enunciare  così  : 

l**  Se  ^  ^=  f(x)  è  lo  spazio  percorso  da  un  punto  Jf  mobile 
su  una  retta  in  x  unità  di  tempo,  allora  la  derivata  y  =  f  (x) 
di  f{x)  ci  dà  la  velocità  del  punto  M  all'istante  x  (dopo  che 
sono  trascorse  x  unità  di  tempo). 

2**  La  retta  tangente  alla  curva  y  =  f{x)  nel  punto  di 
ascissa  x  ha  per  coefficiente  angolare  y'  =  f  (x). 

Così,  p.  es.,  la  derivata  di  y  '=^  a  x'  (a  =  cost.)  è 

,.     a(x-ì-hy^  —  ax^^       ,.     2  axh  -h  ah' 
hm  -^ r— =  lim — —  = 

ft,  =  o  fi  h  =  {)  ri 

=^\ìm{2  ax  -i-  ah)  ^=^  2  ax. 

Quindi  :  Se  un  punto  in  x  minuti  secondi  percorre  ax^^  metri, 
la  sua  velocità  (misurata  in   metri    secondi)    dopo  x   secondi  è 


(♦)  Cioè  la  variabile,  alla  quale  si  è  dato  l'incremento  arbitrario  h,  che  si  fa 
tendere  a  zero.  L'arbitrarietà  di  /i  è  naturalmente  limitata  dalla  sola  condizione 
che  i  punti  x^x-^ìi  appartengono  al  campo,  in  cui  la  f{x)  è  definita. 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI  163 

2  ax.  (Da    ciò   si    deduce    il   risultato    del  penultimo  paragrafo 

ponendo  ci^=^  -^  g  =^  4,905). 

La  retta  tangente  alla  parabola  y^=zax^  nel  punto  di  ascissa  x, 
ha  per  coefficiente  angolare  2  ax. 

,5)  Un  teorema  di  importanza  specialmente  teorica  è  il  seguente: 
Se  una  funzione  f(x)  ha  in  un  punto  Xq  derivata  {finita),   essa  è  continua 
in  tale  punto. 


Infatti  dalla 


si  trae 


ossia 


lim  [  /  (X.  +  h)  -f(x,)  ]  =  lìm  h  ^"=-  +  ^1     f^''") 

^  i™  ,,  ii„,  r(^.+fe)-fw^o.r(x.)=o 

A  =  0      A  =  0  n 


lim  /(fl?„  -I-  h)==f(x^).  e.  d.  d. 

//  =0 


Il  teorema  reciproco  non  è  vero  ;  esistono  funzioni  continue  senza  derivata, 
per  quanto  tutte  le  funzioni,  che  può  incontrare  il  tecnico  nei  suoi  studi,  sieno 
derivabili  nei  punti  non  singolari  (*). 

7)  Chiuderemo  questo  paragrafo  con  alcune  osservazioni  sulla  equazione  della 
retta  tangente  ad  una  curva.  Si  tratta  di  osservazioni  evidenti,  sebbene  talvolta 
io  mi  sia  accorto  della  difficoltà  incontrata  da  m.olti  studenti  a  scrivere  tale  equa- 
zione in  modo  corretto. 

Il  punto  di  ascissa  Xo  sulla  curva  y=f{x)  ha  per  ordinata  ?/„  — /(iCo).  [Con 
f{x^  si  indica,  come  è  noto,  il  valore  di  f  {x)  quando  alla  variabile  x  si  dà  il 
valore  x^.  Il  coefficiente  angolare  della  tangente  corrispondente  è  f  {x^  (**). 
Ora,  affinchè  la  retta  passante  per  il  punto  {Xq  ,  2/©)  e  tin  altro  punto  {x,  y)  abbia 
il  coefficiente  angolare  f'{x^  è  condizione  necessaria  e  sufficiente  che  y  —  2/0  — 
=z(^x  —  oo^f'iXo).  Questa  è  dunque  l'equazione  della  retta  tangente  alla  curva 
y=if{x)  in  quello  dei  suoi  punti,  che  ha  per  ascissa  Xq.  Si  noti: 

1"  La  y  che  figura  in  questa  equazione  è  l'ordinata  di  un  punto  mobile 
sulla  tangente  ed  è  perciò  completamente  distinta  dalla  y^f  (x),  ordinata  di  un 
punto  mobile  sulla  data  curva. 

2o  Siccome  il  punto  {Xq  ,  1/0)  appartiene  per  ipotesi  alla  nostra  curva,  la  y^ 
è  precisamente  il  valore  assunto  dalla  f(x),  quando  alla  variabile  x  si  dà  il  valore  j,,. 
Così  pure  /'  (Xq)  è  il  valore  di  f  {x)  nel  punto  x  =  Xq. 

Così,  p.  es.,  l'equazione  della  tangente  alla  curva  y  ■^-  ax^  nel  punto  di  ascissa 
^0  è  {y  —  yo)  —  '2ax^{x-~XQ),  ossia  (poiché  y^^^^ax^)  è  1/ -f- 7/^  =  2  arr^ic. 


(*)  È  facile  riconoscere  che  una  funzione  può  essere  continua  in  un  punto  y  =  «, 
senza  essere  derivabile  in  tale  punto.  Basti  pensare  alle  funzioni  f{x)  tali  che  la 
curva  y  =zf  {x)  abbia  per  x  =  a  \m  punto  angolare. 

Ma  sono  stati  dati  esempi  di  funzioni  continue  in  tutto  un  intervallo,  sprov- 
viste di  derivata  in  ogni  punto  di  tale  intervallo. 

(**)  E  non  già  f  {x).  Si  osservi  del  resto  che  la  y  —  yo=={x  — x^)  f  {x) 
non  è  generalmente  l'equazione  di  una  retta,  e  tanto  meno  della  retta  tangente, 
perchè  non  è  neanche  lineare  (di  primo  grado)  nelle  x,  y. 


164  CAPITOLO   Vili   —   §   49 

5)  Sia  data  una  curva  y  ^=  f{x)  definita  in  un  intorno  destro 
0  sinistro  di  oo  ;  poniamo,  p.  es.,  nell'intorno  (a, -I- cx)  )  di  oo . 
La  retta  tangente  nel  punto   di   ascissa  Xo  ha   per   equazione 

y  —  ^0  =  (x — Xo)  f  {xo)  ossia  y=^xf  fe)  -4-  \f(x^  —  Xo  f  fc)  ]. 

Se  per  a;„  =  oo  le  f  {xo)  e  f{xo) — Xof{Xo)  hanno  limiti 
finiti  m,  n  la  retta  che  ha  per  equazione  y  ^=  mx-hn  si  dirà 
asintoto  della  curva,  nel  punto  di  ascissa  infinita  (e  si  consi- 
dererà come  la  posizione  limite  della  tangente  considerata   per 

Xo=^). 

Così  pure,  se  f{x)  è  definita  per  cc-Na,  e  se,  quando  Xo  è 
in  un  intorno  di  a,  si  ha  f  (xo)  =#=  0,  allora  l'equazione  della 
tangente  nel  punto  di  ascissa  Xo  si  può  scrivere: 

y  fM  _    _ 


f    {Xo)  f  (Xo) 

Se  è  lim  f{xo)  =  00  ,  lim  f  fe)  =  oo  ,  lim   -f^  =  0  (*), 

allora  la  retta  che  ha  l'equazione  x  —  a  =  0  [che  si  deduce 
dalla  precedente  passando  al  limite  per  x^  =  a]  si  chiama  an- 
cora un  asintoto  della  nostra  curva  nel  punto  di  ascissa  a. 

Così,  p.  es.,  la  curva  xy=^l  ha  per  tangente  nel  punto 
di  ascissa  Xo  la  retta 

y = 72  (^  —  ^o)^ 

Xq  Xo 

Passando  al  limite  per  Xo^=0  e  per  a:^  =  oo  si  trova  che 
asintoti  di  tali  curve  sono  le  rette  x  =  0,  y  =^  0,  ossia  gli 
assi  coordinati. 

Esempi. 

l*'  Sia  y=^f{x)  una  funzione  continua  e  non  negativa 
per  a^x^h.  Consideriamo  la  figura  piana  (fig.  17)  racchiusa 
tra  l'asse  delle  x,  la  curva  y  =  fix),  e  le  perpendicolari  all'asse 
delle  ascisse  innalzate  dal  punto  A  di  ascissa  a  e  dal  punto  B  di 
ascissa  variabile  x>  a. 

Ad  una  tale  figura  daremo  il  nome  di  rettangoloide. 


(*)  Si  potrebbe  dare  a  queste  condizioni  (non  tutte  tra  loro  indipendenti)  una 
forma  che  almeno  apparentemente  fosse  meno  restrittiva. 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI 


165 


y 

.ty 

^ 

1 

/.. 

Ah    \ 

>:'i 

./ 

'■■A 

B      ; 

0       a                 ■< 

^ 

rrf' 

X 

Fig.  17. 


Dimostreremo  'altrove  che  questa  figura  possiede  un'area 
(che  cioè  le  sue  aree  esterna  ed  interna  sono  uguali). 

Ed  anche  senza  ammettere  tale 
teorema,  il  lettore  noti  che  le  seguenti 
considerazioni  (da  noi  svolte  per  l'area 
di  tale  rettangoloide)  valgono  del  resto 
tanto  per  Varea  esterna  che  per  Varea 
interna  (cfr.  §  7,  pag.   25). 

Tale  area  sarà  una  funzione  A  {x) 
dell'ascissa  variabile  x-  Noi  non  sap- 
piamo per  ora  calcolare  tale  area, 
qualunque  sia  la  funzione  f{x),  ma, 
come  ora  vedremo,  sappiamo  in  ogni  caso  calcolarne  la  deri- 
vata a!  {x). 

Per  calcolare  tale  derivata,  diamo  alla  x  un  incremento 
positivo  h  (ad  identico  risultato  si  giunge  con  ragionamenti 
analoghi  se  h  <  0). 

L'incremento  ^  A  ^^  A  {x -\- li)  —  A  {x)  ricevuto  dalla  nostra 
area  sarà  l'area  del  rettangoloide  limitato  dall'asse  delle  x, 
dalla  nostra  curva,  e  dalle  ordinate  dei  punti  jB  e  C  di  ascisse 
X  ^di  x-{-h.  Se  in  questo  intervallo  la  f{x)  conservasse  un  valore 
costante,  la  curva  y  =  f{x),  sarebbe  in  questo  intervallo  un  seg- 
mento parallelo  all'asse  della  x]  la  nostra  figura  sarebbe  un  ret- 
tangolo di  base  A  e  di  altezza  y  =  f{x),  cosicché  la  sua  area  A  A 
sarebbe  uguale  ad  hf{x).  Ma  f{x)  può  variare  nel  nostro  inter- 
vallo da  un  minimo  m  ad  un  massimo  M\  cosicché  la  nostra 
figura  contiene  all'interno  il  rettangolo  di  base  h  ed  altezza  m, 
ed  è  contenuta  nel  rettangolo  di  base  /^  ed  altezza  M.  La  sua 
area  A  A  è  perciò  compresa  tra  i  numeri  hm  ed  hM,  ossia  sarà 
uguale  ad  h^,  essendo  [x  il  valore  assunto  dalla  f{x)  in  un 
punto  x  -^"k  dell'intervallo  {x,  x  -4-  h).  Dalla 


abbiamo 
cosicché 

a:{x) 


AA  =  hf{x-{''k) 
AA 


h 


fix-^}^) 


lim  ^  =  lim  f(x  -h  X)  =  lim  f(x  +  X)  r=r  f(x). 


166 


CAPITOLO    Vili   —   §    49 


''           ..-^^^^^^ 

,^^^... i 

i\              \ 

-fi^) 

0              <z-                              X 

'X. 

Fig.  18. 

&+/•( 

-li.- 

a)Sia,p.  es,,  la  curva  ^  = /'(a;)  (fig.  18) 
la  retta  uscente  del  punto  di  ascissa  a 
ed  ordinata  6  col  coefficiente  angolare  m; 
sia  cioè  f  (x)  ^=^  ì)  -\-  m  {x  —  a)  dove 
m  =  tg  (D,  essendo  w  il  solito  angolo  della 
retta  con  l'asse  delle  x.  L'area  della 
nostra  figura  (un  trapezio)  è 

(x  —  oì)-=^h{x  —  a)  -\-  -—■  (x  —  df. 


Ne  deduciamo  che  la  derivata  di 


hix 


m 


a)  ^  --{x  —  ay 


è  h-^-mix  —  a):  ciò  che  si   può    dimostrare   direttamente   col 
metodo  di  pag.   162. 

P)  Sia  ora  la  curva  y  ^=:f{x)  un  arco  di  cerchio  col  centro 
nelPorigine  e  raggio  R,  Dalla  equazione  a;-4-^^=i^"  di  questo 
cerchio  si  trae  y  =  f(x)  =-4-  j/  i?^  —  x~  (fig.  19).  L'area  rac- 
chiusa tra  r  asse  delle  x,  il  cerchio,  Tordi- 
nata  (di  lunghezza  nulla)  di  ascissa  —  R 
e  l'ordinata  di  ascissa  variabile  x  è  data  da 


(71  —  a)  i? 


R       xy 


,  dove  a  (cfr.  fig.  19) 


x 


è  Tarco  minore  di  tl  che  ha  per  coseno  —  > 

K 


Fig.  19. 


x 


0,  come  si  suol  dire,  a  =  arccos  -^  ed  ?/  =  y  R^ 
Quindi  la  derivata  di 


x~ 


arccos 


('- ._ 

uguale  a  ?/  =  ]/ R 


1 X  \/R^  —  x^  (0  ^  are  cos  x  ^t^)  ^ 


X 


Y)  Infine,  se  /"(a:)  =  —  e  quindi  la  curva  ?/  =  —  è  un'iper- 

X  X 

bole  equilatera  con  gli  assi  coordinati  per  asintoti,  noi  sappiamo 

(8  38,  es.  3",  pag.  128)che^(a;)  =  loge- .  Quindi   la    derivata 

a 

X  1 

di  loge  —  e  in  particolare  di   log,  x  vale  —  . 
a  X 


167 

2^  Sia  dato  un  solido  S.  Esista  e  sia  yz=^f{x)  il  volume 
di  quella  porzione  di  ^S  che  è  racchiusa  tra  un  certo  piano 
fisso  Tc,  e  un  piano  parallelo  t^'  posto  alla  distanza  x  dal  pre- 
cedente, lu'area  della  sezione  s  fatta  da  t^'  in  S  esista,  e  sia 
una  funzione  F  {x)  continua  della  x.  Dimostreremo  che 
f{x)  =  F{x). 

Oss.  Ammettiamo  il  teorema  che  il  volume  dello  strato  di  8, 
che  è  compreso  tra  due  piani  tz^  e  ti.,  qualsiasi  paralleli  a  tc^ 
sia  compreso  tra  i  prodotti  della  distanza  di  questi  due  piani 
per  i  valori  massimo  e  minimo  dell'area  d'una  sezione  fatta 
in  S  da  un  piano  parallelo  a  tCi  od  a  7^2-  Questo  teorema, 
che  troveremo  più  tardi  dimostrato  in  generale,  è  evidente  se, 
p.  es.,  ^S"  è  una  sfera,  o  un  ellissoide  avente  tt  per  piano  di  due 
assi,  0  una  piramide  avente  la  base  parallela  a  ti:  e  tale  che  il 
piede  dell'altezza  sia  interno  alla  base,  ecc.  A  tutti  questi  solidi 
il  nostro  ragionamento  è  quindi  applicabile  senza  necessità  di 
ammettere  alcun  teorema  non  dimostrato. 

Ris.  Se  7i',  Tz"  sono  due  piani  paralleli  a  tt,  il  volume 
f{x-hh)  —  f(x)  dello  strato  limitato  in  S  da  n'  e  da  n"  è,  per 
Tosservazione  precedente,  compreso  tra  hM  ed  hm,  se  con  M 
e  con  m  indichiamo  rispettivamente  il  massimo  ed  il  minimo 
valore  di  F(x)  nell'intervallo  (x,  x -h  h). 

E  col  metodo  tante  volte  usato  si  deduce 

f  (x)  =  lim — —  =  F  (x). 

h=^Q  fi 

L'allievo  controlli  questo  risultato  nei  casi  su  citati  che  8 
sia  una  sfera,  od  una  piramide,  calcolando  effettivamente  f(x) 
e  F(x). 

Varie  e  molteplici  sono  le  applicazioni  della  definizione  di 
derivata  di  una  funzione  f{x)  e  in  moltissimi  problemi  la  con- 
siderazione di  f  (x)  si  presenta  spontanea.  Perciò  assai  impor- 
tanti sono  i  problemi  fondamentali  del  calcolo  : 

1"  Trovare  la  derivata  di  una  funzione  data. 

2°  Trovare  le  funzioni,  che  hanno  una  derivata  assegnata. 

Del  primo  si  occupa  il  calcolo  differenziale,  del  secondo  il 
calcolo  integrale. 


168  CAPITOLO    Vili   —    §    50 


§  50.  —  Estensione  alle  funzioni  complesse. 

a)  Se  y  =::  f{x)  ^=^  u  (x)  -\-  iv  {x)  è  una  funzione  complessa 
della  variabile  reale  x,  chiameremo  derivata  di  a;  e  indicheremo 
con  y  =  f  (x)  ancora  il 

lini  /'(^  +  h)  —  f{x)^ 
h  =  0  h 

quando  questo  limite  esiste  ed  è  finito.  Ciò  che  avviene  allora 
e  allora  soltanto  che  esistono  e  sono  finite  le  u  (x),  v  (x)  ;  ed 
è  in  tal  caso 

f  {x)=-u  {x)  -\-  iv  (x). 

P)  In  casi  estremamente  particolari  si  conviene  talvolta  di 
considerare  delle  variabili  coniiplesse  Z  come  funzioni  di  un'altra 
variabile  pure  complessa  z  ;  tale  convenzione  si  pone  per  una  Z 
che  sia  uguale  a  una  serie  convergente,  di  cui  lo  (^^-f-l  )''**"'''  termine 

sia  il  prodotto  di  una  costante  k^  per  z^  o  per  -^  (o  più  gene- 

z 

ralmente  per  [^  —  a]"^  dove  a  è  una  costante).  Di  ciò  parleremo 
più  a  lungo  in  altro  capitolo.  Qui  ci  basterà  considerare  il  caso 
particolare  che  i  termini  di  tale  serie  dopo  lo  (n-hl)'"'™"  siano 
nulli,  ossia  brevemente  che  Z  sia  un  polinomio  : 

(1)     Z^=^an-^  an-iZ-\-an-iZ~  + ^-  cioz'^  =  P{z)' 

Anche  nel  campo  delle  variabili  complesse  chiameremo  derivata 
e  indicheremo  con  Z'  il  limite  del  rapporto  incrementale  (se 
esiste).  Per  la  funzione  (1)  tale  derivata  esiste  e  si  calcola^  come 
se  si  trattasse  di  variabili  reali.  Infatti 

^,       ^.     Piz-^h)  —  F(z)        ^       ..     (z-i-hy-z^ 
Z  =  lim =  2^  aj  lim  = 

h'=0  fi  j^i  h  =  0  II 

Si  noti  che  h  si  deve  considerare  come  un  numero  complesso 
m  -i-  in.  Il  limite  per  /i  =  0  significa  il  limite  per  m  =  n  =  0. 
Si  noti  che 

{z  +  hy  —  z^     (z  +  hy  —  z^     ,       -,..    1       .       7No_o       o,       7x,-_3    •    ,    , 

•^^ — r — =-^ — -\ — ={z+jiy-^-^z{z+hy  "-\-z"{z-^iiy  '+...-+-,5'^ 

h  {z-hh)  —  z 

E  per  /i  =  0  questa  espressione  ha  per  limite  proprio  j,e^~^ 
(tanto    se   le  a  e  le  ^   sono   reali,   quanto  se  sono   complesse). 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  169 

cosicché  in  ogni  caso 

Salvo  avvertenza  contraria  in  quanto  segue  ci  riferiremo  esclu- 
sivamente a  variabili  reali. 


§  51.  —  Derivate  fondamentali. 

a)  Sia  y  =  cost.  (p.  es.  j^  =  3,  oppure  t/  =  5).  Vale  a  dire 

la  y  non  varii  al  variare  della  x.  Gli  incrementi   Ay   della   y 

A  y 
saranno  sempre  nulli  ;  è  quindi  costantemente  7-^  =  0,  e  perciò 

A  X 

,  Ay 

anche  y  =  lim  - —  =  0. 

Aa;  =  0  àX 

Ciò  che  del  resto  è  geometricamente  intuitivo,  poiché  y  =  cost. 
é  una  retta  parallela  all'asse  delle  x. 

Le  sue  tangenti  coincidono  quindi  con  essa,  e  perciò  hanno 
coefficiente  angolare  y   nullo. 

P)  Si  trovi  la  derivata  di  ^  =  sen  x. 

-r,  ,      .  ,      ,  sen  (x  -h  h)  —  sen  x 

Il   rapporto   incrementale   e  1 ;    e  perciò 

n 

,.    sen(ic4-/^)  —  sen:r      ,.    sena;cos/j-hsen/^cosa:-sena; 
y  =  lim =  lim = 

7i  =  o  h  h=.o  h 

,.     cos  /z  —  1  ,.     sen  h 

=  sen  X  lim f-  cos  x  hm  — - —  = 

7(  =  0  II  h  =  0        h 

=  0.  sen  X  -h  1.  cos  x  =  cos  x. 

sen  Jz 
Si  ricordi  che  Si]  ^37,1^.  122-123,  si  é  dimostrato  lim-^— =-1, 

h^O      fi 

1  —  cos  h 
lim  — — =  0. 

h^o         h 

Y)  Si  trovi  la  derivata  di  ^  =  cos  x. 
In  modo  analogo  al  precedente  si  trova  : 

,.     cos(x-i-h)  —  coso;      ,.     cos  a::  cos /^  —  senxseiìh — cosa:; 
y  =  hm —  =  hm = 

/i=o  h  h=o  II 


cos  h  —  1  ,.     sen  h 

=  cos  X  lim —  sen  x  hm  — —  =  —  sen  x. 

ft  =  0  II  h=()     h 


170  CAPITOLO    Vili   §    51 

S)  Si  trovi  la  derivata  di  y  =i  a""  {a>  0). 
Si  ha 

a"  +  '^  — a^       ^.     a'ia"'  —  !)         ,,.     a' —  1 
?/  =  lim  7 =  lim  = =  a  lim  — 

/ic=o  ri  /t  =  o  h  h=  0         h 

=  aMog,  a  (cfr.  §  38,  pag.   127). 

In  particolare  la  derivata  di  y  =  é^  è  uguale  a 

y  =1  é^  ìoge  e  =  e*. 
s)  Si  trovi  la  derivata  di  t/  =  Ioga  x{a>  0)  {x>  0). 

Q.    ,  '  y        Ioga  (X  -\-  h)  —Ioga  X 

Si  ha  y  =  lim  — ^ ; 

Posto  h  =  —  ,  ossia  posto  m^=^  -- ,  se  ne  deduce  : 
m  h 


ioga  Ix-^ )  —  log«  X        .  X 


X 


/  ,.  V  ,/.    ^  ivi  ^ 

7/  =  lim  =  -  lim  m  log« 


X  .  lih  X  in  'XB  ce  X 


1  /  1    \"' 

=  -  lim  log«  (IH j    =  log, 

X  m  =ac  V  m  / 


In  particolare,  se  a  =  e,  si  ha  che  la  derivata  di  y  =  log«  x 
èy  =-:  ciò   che   del   resto   avevamo   già  trovato  (pag.   166, 

X 

es.   1°,  y)  per  via  geometrica. 

X)  Derivare  y  =^  x''  (n  intero  positivo). 
Ris.  Si  noti  che 

(^  -+-  hT  =  x''  -+-  nhx''-'  4-  ''^''-'^^  h'  X--'  4-  

Si  troverà  2/'  =  nx""  ~  \ 
7])  Derivare  y  =  i/o?. 
Si  ha 

,.    ^/x-^-h — ^/x     ,.        (x-^ìi)  —  x 

y  m:  hm =  lim  — ; — ,  — ;^,  ' 

^     ^=0        /i  h\vx-^}i-^yx\ 

Si  trova  ?/  = 7=^  • 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  171 


0)  Derivare  y  ^=  tg  x. 

Ris.  Il  rapporto  incrementale  è 

tg(x  -{-  h)  —  tgx 1  sen  h 


h 

COS  X  COS  (x  -H  h) 

h 

Si  trova  y  —  — 2~  * 

^            COS    X 

Derivare  x  —  cotg  x. 

Si  trova  v  = r-  ' 

sen"  X 

La   derivata  di  y  ■=^  sh  x  vale  eh  x]  e  quella  ài  y  ^=^  chx 
vale  s/io;  (e  non  — sh  x)  (cfr.  pag.   133). 


§  52.  —  Infinitesimi  e  infiniti. 

a)    Se    a    ed    h   sono    numeri  piccoli,  allora  secondo  che  il 

a 
rapporto  -  : 
h 

Ve  piccolissimo  ; 

2°  è  estremamente  grande  ; 

3*"  non  è  né  piccolissimo,  né  grandissimo  ; 

noi  diciamo  rispettivamente  che  : 

1**  a  é  di  un  ordine  di  piccolezza  maggiore  di  quello  di  h  ; 
2"*  a  é  di  un  ordine  di  piccolezza  minore  di  quello  di  h  ; 
3"  a  ed  h  sono  di  uno  stesso  ordine  di  piccolezza. 

Così,  p.  es.,  per  chi  si  occupa  di  lunghezze  di  qualche  chilo- 
metro, tanto  un  millimetro,  che  la  lunghezza  d'onda  della  luce 
rossa,  sono  lunghezze  piccole.  La  seconda  é  però  molto  pili  pic- 
cola della  prima,  e  perciò  diciamo  che  essa  é  di  un  ordine  di 
piccolezza  maggiore. 

Così,  p.  es.,  quando  diciamo  che  le  lunghezze  d'onda  di  un 
raggio  verde  e  di  un  raggio  azzurro  sono  dello  stesso  ordine 
di  piccolezza,  vogliamo  dire  che  il  loro  rapporto  non  é  né  un 
numero  enorme,  né  un  numero  piccolissimo. 

Tutte  queste  locuzioni  hanno  naturalmente  un  significato 
poco  preciso,  perché  poco  preciso  é  il  significato  delle  parole  : 
«  piccolissimo  »,  «  grandissimo  ".  Noi,  però,  partendo  dalle  idee 
intuitive  contenute  in  dette  frasi,  poniamo  le  seguenti  definizioni 
precise. 


172  CAPITOLO   Vili   —    §    52 

Sia  11  un  infinitesimo,  cioè  una  variabile  che  tenda  a  zero, 
e  supponiamo  che  non  assuma  il  valore  zero  (*). 

Sia    poi  P  un   altro   infinitesimo    che   tenda  a  zero  con  h, 

B 
Consideriamo  il  rapporto  —  e  poi  il 

lim  -f  1 

se  h  è  la  variabile  indipendente,  e  p  funzione  di  h. 

Se  invece  x  fosse  la  variabile  indipendente,  e  P  ed  cc  =  h 
fossero  funzioni  della  x  infinitesime  per  x=^  h,  alla  considera- 
zione di  questo  limite  si  sostituerebbe  quella  del 

lim'  f-  =:  lim  -^  • 

Secondo  che  questo  limite 

1^  non  esiste; 

2°  esiste  ed  è  una  quantità  finita  e  diversa  da  zero  ; 

3^  esiste  ed  è  zero; 

4^  esiste  ed  è  infinito; 

noi  diremo  rispettivamente  che: 

Vi  due  infinitesimi  P  6  h  non  sono  paragonabili  ; 
2''  ^  ed  \i  sono  infinitesimi  dello  stesso  ordine; 
V  ^  è  un  infinitesimo  d'ordine  superiore  ad  h; 
A""  ^  è  un  infinitesimo  d'ordine  inferiore  ad  h. 

Esempi. 

1^  li  e  P  = /i  sen  —-sono   (per  /i  =  0)  infinitesimi  non 
h 

B  1        '       ;  .     . 

paragonabili,  perchè  lim  —  =  lim  sen  —  non  esiste,   poiché, 

mentre  h  tende  a  zero,  sen  -y-  oscilla  sempre  da  -f-  1  a  —  le 

/^ 

da  —  1  a  -4-  1  : 


(*)  Può  darsi  che  li  sia  la  variabile  indipendente,  od  anche  che  h  sia  funzione 
di  un'altra  variabile  x,  che  tenda  a  zero,  p.  es.,  per  x  =  'b.  In  questo  secondo  caso 

non  potrebbe  però  essere,  p.  es.,  }i  =  (x  —  h)  sen  y  ,  perchè   h  assumerebbe 

X  —  0 

injfinite   volte   il  valore  zero,  mentre  x  si  avvicina  a  h  (cioè  in  ogni  intorno  del 

punto  'X  =  h). 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  173 

2^  /j  e  ^  =  sen  h  sono  per  /i  =  0  infinitesimi  dello  stesso 
ordine,  perchè  lim  — -  =  lim  — - —   =  1  ; 

h  =  0      h  7t  =  0  fi 

3^  Se  ^=zh^^  è  lim  -7-  =    lim    h  ^=  0;    cosicché    (per 

/i  =  0)  P  è  un  infinitesimo  d'ordine  superiore  ad  h; 

4«  Se  P  =  \/h,  P  per  /i  =  -I-  0  è   infinitesimo    d'ordine 

inferiore  ad  h,  perchè  lim  -j-  =  lim  ^—  =  lim  —y=  =  00 . 

Zi  =  4-0/1  7i  =  0      h  h^-\-0\/}i 

Evidentemente  se  a  è  un  infinitesimo  d'ordine  superiore  a  p, 

e  P  è  di  ordine  superiore  a  y,  allora  a  è  di   ordine    superiore 

a  y,  perchè 

a  a  3 

lim  —  =  lim  -3-  lim  —  =  0. 

T  ?  T, 

*Se  esiste  un  numero  positivo  k  tale  che  il  rapporto  jj   abbia 

un  limite  finito  e  diverso  da  zero,  allora  a  è  infinitesimo  dello 
stesso  ordine  di  h^.  Si  suol  dire  allora  che  a  è  un  infinitesimo 
di  ordine  k  (rispetto  ad  h).  Per  esempio,  sen  /^  è  un  infinite- 
simo di  l**  ordine  per  Tes.  2°;  h!' {k>0)  è  un  infinitesimo  di 
ordine  k]   1 — cos /t  è  un  infinitesimo  di  T  ordine,  perchè: 

o        2^  2  ^ 

„              ,               2  sen  -  ,           sen  - 

,.      1  — cos/i        ^.                2  1,.             2 

lim 7^^ =  lim  — — —  =  — -  lim 

7i  =  0 


K^         r=o    K^         2  r^To  //z^  ^ 


(I) 


h 

1 ,  ri 

lim 


2     7t=0Ì      /l 


/l 


\2 


2  K^fJ      1  2   ■  2 


Quest'ultima  definizione  non  è  contraddittoria  con  le  pre- 
<jedenti. 

P)  Considerazioni  aifatto  simili  valgono  per  gli  infiniti,  ossia 
per  le  quantità  che  tendono  a  qo  . 

Se  a,  p  sono  quantità  che  tendono  contemporaneamente  a  qo  , 
si  dirà  che: 

1°  a  e  p  non  sono  paragonabili  ; 

2^  oi  e  ^  sono  infiniti  dello  stesso  ordine; 


174  CAPITOLO   Vili   —   §    52 

3"  a  è  infinito  di  ordine  superiore  a  P; 

4**  a  è  infinito  di  ordine  inferiore  a  ^  secondo  che: 

oc 
1^)   lim  -Q-  non  esiste, 

2^)    lim  -Q-  è  finito  e  diverso  da  zero, 

3^)    limy  =  oo, 

4')    lim  4—0. 

Le  considerazioni  precedenti  hanno  un  grande  interesse, 
perchè  in  molti  problemi  è  lecito  trascurare  gli  infinitesimi  di 
ordine  superiore.  Eccone  qui  un  primo  esempio.  Un  altro  esempio 
assai  piti  importante  sarà  dato  più  avanti. 

Se  a,  p,  Y,  S  sono  funzioni  della  x  infinitesime  per  x  =^  b, 
56  Y,  S  sono  rispettivamente  di  ordine  superiore  ad  a  e  p,  al- 
lora per  trovare  il 

si  possono  trascurare  questi  infinitesimi  Y?  ^  di  ordine    siepe- 


(*) 


riore,  ossia 

r       f^  +  T 

a 
hm    p  . 

Infatti 

a  +  Y_ 

a            a 

Y                0                                   a 
Poiché  lim  -^  =  lim  -^  =  0,  e  lim  ^  =1,       e.  d.  d. 

1+  p 


(*)  Si  potrebbe  anche  supporre  che  v  e  ò  fossero  entrambi  di  ordine  superiore 
rispetto  ad  a  oppure  a  |5. 


-r^     .                          ,     a  +  v          3         i3                   Dt 
Basta  osservare  che  — ^-^  = r  = r  >  ^c<^- 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI  175 


§  53.  —  Differenziali. 

a)     Poiché    f  {x)  =  lim  _ ^-^-^,  si   avrà,    posto 

f(x-hh)  —  f{x)        .,  ,  ,      ,.  ^    .         . 

^— 1 ^-^  — /*(a;)=s,  che   lim  s  =  0.   Cioè    £    è   infi- 

nitesimo  per  h  =  0.  La  £  è  stata  definita  per  tutti  i  valori  di 
h  =^  0  (perchè  h  figura  al  denominatore  delle  precedenti  for- 
mole)  (*).  Noi  converremo  di  porre  £  =  0  quando  h  =^  0. 
E  la  £  resterà  così  definita  per  ogni  valore  possibile  di  h.  Si  ha 
per  definizione 

Af=f{x-^h)—f{x);  Ax:=h:  Af=f(x^Ax)  —  f{x). 

I)ondeAf=^^''^^^^~^^''hx=[fix)-^B]Ax=^Axf'{xHsAx. 
E,  posto  £Aa;  =  a,  si  ha 

àf:==:f(x)Ax-+-OL  (l) 

dove  a  è  un  infinitesimo  di  ordine  superiore  rispetto  ad  h,  perchè 

a  bAx 

lim  7  —  lim  -—  =r:  lim  £  =  0.  Invece  f  (x)  Ax  (se  f  (x)=\=  0). 

è  un  infinitesimo  dello  stesso  ordine  di  h. 

Allora  si  potrà  dire,  per  l'uguaglianza  (1),  che  l'incremento  A/" 
ricevuto  dalla  funzione  fix)  è  uguale  al  prodotto  della  derivata 
della  funzione  f{x)  per  l'incremento  Ax  della  variabile,  più  un 
infinitesimo  oc  di  ordine  superiore  (rispetto  ad  h^=^Ax). 

La  prima  parte  del  secondo  membro  della  (1),  cioè  f\x)  Ax, 
si  suole  indicare  col  simbolo  df  e  si  chiama  il  differenziale  della 
funzione  f(x);  cioè  il  differenziale  di  una  funzione  f  (x)  è  uguale 
alla  derivata  della  funzione  moltiplicata  per  Vincremento  della 
variabile. 

Il  differenziale  dipende  dunque  non  solo  dalla  x,  ma  anche 
dall'incremento  h=^Ax  della  variabile  x  e,  se  fix)  #=  0,  è 
un  infinitesimo  dello  stesso  ordine  di  h. 

La  (1),  che  può  anche  scriversi  Af^=df-hc(.,  sdoppia  A/" 
nella  somma  dfe  dì  oc:  i  quali  (se  f'  #=  0),  sono  rispettivamente 
di  ordine  uguale  e  superiore  a  Ax.  Essa  vale  anche  per  Ao:  =  0, 
poiché  per  Aa;  =  0  è  a  =  sA2;  =  0. 


(*)  Supposto  naturalmente  in   più   che   x-^-h  appartenga   all'intervallo,   ove 
esiste  la  f  (x). 


176  CAPITOLO   Vili   —   §    53 

P)  Vediamo  che  cosa  rappresenta   geometricamente   il   diffe- 
renziale. Sia  data  una  curva  di  equazione 

Siano  NM,   QS  le  ordinate  dei  punti  M  e  S  della  curva  che 
corrispondono  ai  valori  x  e  x-hh  della  variabile  (fig.  20). 

Sia  Pil  punto  d'incontro  della  SQ  con 
la  parallela  per  M  alFaSse  delle  x;  sia 
poi  R  il  punto  d'incontro  della  SQ  con  la 
tangente  alla  curva  nel  punto  M,  ed  co  sia 
l'angolo  formato  da  questa  tangente  con 
la  MP,  ossia  con  Tasse  x.  L'incremento  h 
che  riceve    la   variabile   indipendente   x 


-^      sarà 


Fig.  20.  ^x  =  NQ  =  MP. 

Abbiamo  visto  che  la  derivata  f  (x)  della  funzione  f{x)  è 
uguale  al  coefficiente  angolare  della  tangente  alla  curva,  ossia  che 

f  (x)  =  tang  w  ; 
ma  il  differenziale  è 

df=f(x)Ax; 
quindi 

df=^^x  tang  w. 

Ora  A  a;  misura  il  cateto  MP  del  triangolo  rettangolo  MPE, 
quindi  df  =^  Ax  tang  w  =  PR.  Dunque  il  differenziale  è  rapjjre- 
sentato  dal  segmento  PR  compreso  tra  la  parallela  condotta  per 
il  punto  M  all'asse  delle  x  e  la  tangente  alla  curva  nel  punto  M. 

L'incremento  Af  che  riceve  la  funzione  quando  alla  varia- 
bile X  si  dà  l'incremento  /^,  sarà  dato  dalla  differenza  tra  il 
valore  della  funzione  nel  punto  x  -h  /^,  valore  che  nella  figura 
è  rappresentato  dal  segmento  QS  e  il  valore  della  funzione  nel 
punto  X  (valore  che  nella  figura  è  rappresentato  dal  segmento 
NM);  dunque 

A/*=  QS  —  NM—  QS—QP—PS\ 

cioè  rincremento  A  f  che  riceve  la  funzione  f  (x),  quando  si  dà 
alla  variabile  x  V incremento  Ax,  è  rappresentato  dal  segmento 
PS  compreso  tra  la  parallela  alVasse  delle  x  condotta  per  il 
punto  M  di  ascissa  x  e  la  curva  y  =  f(x). 

Se  f(x)=^x,  la  derivata  di  x  è  1  ;  e  quindi 

df=^dx=^l.  Ax  =  Ax, 

cioè  il  differenziale  di  x  è  uguale  all'incremento  di  x. 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  177 

Si  potrà  COSÌ  scrivere  in  generale: 

df^=^  f  {x)  dx, 

cioè  il  differenziale  della  funzione  f  (x)  è  uguale  alla  sua  deri- 
vata moltiplicata  per  il  differenziale  della  variabile  indipen- 
dente X. 

Se  ne  deduce  f  (x)  =  -7^  , 

dx 

cioè  la  derivata  di  una  funzione  f  (x)  è  uguale  al  rapporto 
tra  il  differenziale  della  funzione  e  quello  della  variabile 
indipendente  x. 

§  54.  —  Metodi  abbreviati  di  esposizione. 

In  molti  trattati  (specialmente  di  scienze  applicate)  si  scrive 
spesso  df  Sii  posto  di  àf  Rigorosamente  ciò  è  lecito,  soltanto  se 
df=àf  cioè  (§  53,  pag.  176)  se  la  curva  coincide  con  la  sua 
tangente,  ossia  è  una  retta  ed  fé  quindi  una  funzione  lineare  di  r. 

Il  sostituire  dfsi  Af  equivale  così  a  sostituire  nell'intervallo 
(x,  x-hdx)  alla  curva  y=:zf{x)  la  sua  tangente  nel  suo  punto 
di  ascissa  x,  ossia  a  considerare  la  fix)  come  una  funzione 
lineare  mx  +  n  della  x  in  tale  intervallo,  in  altre  parole  a 
considerare  in  un   tale   intervallo  f'  ix)    come   una  costante  m. 

Il  sostituire  df  a,  Af  equivale  a  trascurare  un  infinitesimo 
di  ordine  superiore  rispetto  a  dx:  e  già  abbiamo  detto  che  in 
qualche  studio  il  trascurare  siffatti  infinitesimi  non  conduce  ad 
errori. 

Il  procedere  in  questo  modo  permette  di  esporre  molti  ragio- 
namenti in  modo  specialmente  semplice  e  rapido;  così  si  può 
procedere  senza  tema  d'errori,  quando  si  riguardino  tali  esposi- 
zioni soltanto  come  procedimenti  abbreviati,  che  hanno  signi- 
ficato logico  solo  quando  si  può  dar  loro  quella  forma  precisa, 
a  cui  conducono  le  nostre  definizioni. 

Il  modo  più  semplice  di  chiarire  questi  metodi  abbreviati  di 
locuzione  sarà  quello  di  trattare  con  essi  alcuni  degli  esempi  svolti 
ai  §§  47,  49.  Sia  (§  47,  pag.  158),  p.  es.,  ?/  =  f{x)  lo  spazio 
percorso  da  un  punto  mobile  all'istante  x.  Se  ne  determini  la 
velocità  F(x)  allo  stesso  istante.  Nell'intervallo  infinitesimo 
{x,  x-{-dx)  si  ^uò 'Considerare  come  costante  la  velocità  F  (x) 
cosicché  lo  spazio  f(x-h  dx)  —  f(x)-=  df  percorso  in  detto  in- 
tervallo  sarà  uguale  al  prodotto  F  (x)  dx   della    velocità  F  (x) 

12  —  G.  FuBiNi,  Analigi  matematica. 


178  CAPITOLO  Vili  —  §  54-55 

per  il  tempo  a.  impiegato  a  percorrerlo;  cosicché  f^  =  i.(.), 
ossia  la  velocità  F {x)  vale  la  derivata  di  f(x).  ^ 

A  chi  volesse  considerare  questo  procedimento  come  un  ragio- 
namento vero  e  proprio,  si  obietterebbe  che  due  sono  gli  errori 
commessi  : 

a)    quello    di    considerare    F {x)    costante    nell'intervallo 
{x,  X  -4-  dx)  ; 

^)  quello  di  porre  f{x-\-  dx)  —  f^x)  =  df,  anziché 

^  f{xA-dx)  —  f{x)~^f• 

ossia  di  confondere  il  differenziale  df  con  l'incremento  A/I 

Il  ragionamento  rigoroso  fatto  al  §  47  dimostra  che  questi 
due  errori  si  compensano,  almeno  nel  caso  che  F  {x)  sia  fun- 
zione continua.  Si  noti  che  considerare  F{x)  come  costante,  o 
supporre  ^fz=df  equivale  a  scambiare  la  curva  7j  :=  f(x)  con 
la  sua  tangente  nel  punto  x  ;  cosicché  in  quanto  precede  si  è 
scambiata  due  volte  la  curva  con  la  sua  tangente  :  ciò  che 
rende  intuitivo  il  perchè  i  due  errori  si  siano  compensati. 
Es.  Sia  A{x)  l'area  del  rettangoloide  racchiuso  dalla  curva 

y  =  f(x)[f{x)-^Ol 

dall'ordinata  di  ascissa  a,  dall'ordinata  variabile  di  ascissa  x, 
e  dall'asse  delle  x. 

Si  voglia  trovare  A'  (x)  =  — ;—  • 

dx 

Nell'intervallo  infinitesimo  {x,  x  4-  dx)  la  f'ix)  si  può  consi- 
derare come  costante  ;  cosicché  Vincremento 

dA  =■  A{x  -{-  dx)  —  .4  {x), 

che  riceve  l'area  A  nel  passare  dall'ordinata  di  ascissa  x  all'or- 
dinata di  ascissa  x  -+-  dx,  si  può  considerare  come  un  rettan- 
golo di  base  dx  ed  altezza  f{x).  È  quindi 

dA 

dA  =  f{x)  dx,  A'  (x)  =  -r-  =  f{x). 

ax 

Valgono  anche  per  questo  esempio  osservazioni  analoghe  a 
quelle  fatte  per  il  precedente. 

§  55.  —  Derivazione  di  una  somma. 

a)  La  funzione  f{x)  sia  uguale  alla  somma 

?1  (X)   -+-  Cp,  (x)   -h   -f-   ^n  (X) 

delle  n  funzioni  cp,,  che  supponiamo  derivabili. 


DERIVATE,    DIFFERENZIALI  179 

Cerchiamo  la  derivata  della  f{x).    Supporremo    n^==^2.   La 
dimostrazione  vale  però  affatto  analoga  in  generale. 
Si  ha  per  definizione 

A  =  0  h  ft  =  0  (  Il 

h^o\  h  h    ^  ) 

Donde  : 

La  derivata  della  somma  di  due  o  più  funzioni,  che  pos- 
seggono derivata  (finita),  esiste  ed  è  uguale  alla  somma  delle 
derivate  di  queste  funzioni. 

Questo  teorema  vale  anche  per  funzioni  complesse  (cfr.  §  50). 

P)  Oss.  l^  Un  caso  particolare  del  precedente  teorema  è 
evidentemente  il  seguente  : 

Le  derivate  di  y  =  ^  (x)  e  dì  y  =^  (f>  (x)  -f-  cost.  sono  uguali 
(poiché  la  derivata  di  ?/  ==  cost.  è  nulla)  (naturalmente,  se  esistono). 

Si  propone  al  lettore  di  illustrare  geometricamente  questo 
teorem^fe,  osservando  che  dalla  curva  y  =  f{x)  si  passa  alla 
y  =^  f(x)  -h  cost.  mediante  una  traslazione. 

Nel  caso  che  y  sia  lo  spazio  percorso  da  un  punto  mobile 
all'istante  x,  quale  significato  assume  quest'osservazione  ? 

Oss.  2"".  Un  teorema  affatto  analogo  al  precedente  vale  per 
la  differenza  di  due  funzioni  ;  in  particolare  la  derivata  di  —  fix) 
è  -  f  ix). 


§  56.  —  Derivata  del  prodotto  di  due  o  più  funzioni. 

Siano  ^  (x)  e  ^  (x)  due  funzioni  derivabili  (e  quindi  continue). 
Vogliamo  trovare  la  derivata  della  funzione  prodotto 

f{x)  =  :p(x)^(x). 

Essa  sarà  uguale  al  limite  per  /i  =  0  del  rapporto  incrementale 

f(x  -f-  h)  —  fjx) cp  (x  -+-  h)  <^  (x  -h  h)  —  y  jx)  ^  (x)  ^ 

h  ~  h  ~" 


180  CAPITOLO   Vili    —   §    56 

Aggiungendo  e  togliendo  al  numeratore  cp  (x)  ^  {x  -^  h),  tale 
rapporto  diventa 

<^{x-hh)^{x-\-h) — ^{x)^{x-hh)  -h'^{x)^(x  -i-h)  —  ^{x)^(x) 

_ 

che  si  può  scrivere  sotto  la  forma  : 

Il  primo  addendo  è  il  prodotto  di  due  fattori.  Per  lì  =  0, 
il  primo  fattore  tende  a  ^  (x),  perchè  ^  (x)  è  funzione  continua  ;  il 
secondo  è  il  rapporto  incrementale  della  funzione  cp  {x),  e  quindi 
il  suo  limite  per  /^  =  0  è  la  derivata  ^'  (x)  (che  per  ipotesi 
esiste  ed  è  finita).  Dunque  il  limite  del  primo  addendo  è 
^  (a;)  9'  (x).  Analogamente  si  trova  che  il  limite  del  secondo 
addendo  è  cp  (x)  ^'  (x).  Cosicché  il  limite  di  tutta  l'espressione, 
cioè  la  derivata  della  funzione  fix),  sarà 

f  (x)  —  cp'  (x)  ^{x)'-\-^  (x)  ^'  (x)  ; 
da  cui  il 

Teorema.  La  derivata  della  funzione  f  (x)  prodotto  di  due 
•altre  funzioni  9  (x)  e  cj^  (x)  che  hanno  la  derivata  finita,  esiste 
e  si  ottiene  moltiplicando  la  funzione  '^  (x)  per  la  derivata 
della  funzione  cp  (x),  poi  moltiplicando  cp  (x)  per  la  derivata 
della  funzione  ^  (x)  e  sommando  i  prodotti  così  ottenuti. 

Se  uno  dei  fattori  è  costante,  se  p.  es.  cp  (a;)  =  m.  essendo  m 
una  costante  qualsiasi,  allora  cp'(x)  =  0  ;  e  la  derivata  ài  m^  {x), 
si  riconosce  uguale  a  m  ^'  {x). 

Cioè  :   la  derivata  del  prodotto  m  cj^  (r)  {ni  =  cost.)  è  m  ^'  {x). 

Questo  teorema  vale  anche  per  funzioni  complesse. 

Osservazione. 

Se  f{x)^=^^i(x)^2{x)^z{.x),  dove  cpi,  cp,,  cpg  sono  funzioni 
derivabili,  si  ha  : 

f{x)z=z^  {x)  cp3  {x)  dove  si  è  posto  ^  {x)  =  9i  {x)  cps  {x). 

Quindi  : 

4^'  {x)  =  cp'i  {x\  cp,  {x)  -f-  cpi  {x)  cp'2  {x) 
f  {x)  =  ^'  {x)  cp3  {x)  H-  4>  {x)  ^'3  {x). 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  181 

Sostituendo  a  ^  (x),  ^'  (x)  i  valori  dedotti  dalle  precedenti 
formole,  si  ha  infine  : 

f'  (x)  =  cp'i  (x)  cp^  (x)  cp3  (x)  H-  cpi  (x)  cp'2  (^)  Ts  (^)  +  Ti  (^)  92  fo)  cp'3  (^). 

Studiando  in  modo  simile  i  prodotti  di  n  funzioni  derivabili, 
si  ha  : 

La  derivata  del  prodotto  di  n  funzioni  derivabili  esiste  ed 
è  la  somma  degli  n  prodotti  ottenuti  moltiplicando  la  derivata 
di  uno  dei  fattori  per  gli  altri  n  —  1   fattori. 

Questo  teorema  vale  anche  per  funzioni  complesse. 


§  57.  —  Derivata  del  quoziente  di  due  funzioni. 

Ora   cerchiamo    la   derivata  di  ^  =  .        ,  supponendo    che 

^  (x)  sia  una  funzione  differente  da  zero  avente  derivata  finita. 
Avremo 

1  1 


,.     ^{x-h  h)       4^  (x)        ,.     ^{x)  —  ^{x  -h  h) 

y  =  lim =  lim    ,.,.,,.,.    = 

^.==0  h  /i  =  o   li^{x)^{x -\-ìi) 

—  l               ^{x-^li)  —  ^{x) 
=  lim  ,  ,  ,  , ^TT ' 

A  =  0  4;  (.9;)  cp  (x  -\-  il)  h 

che  è  il  limite  del  prodotto  di  due  fattori. 

La  ^  (x)  è  continua,  perchè  la  sua  derivata  esiste  (ed  è  finita)  ; 
quindi  ^  (x~\-  li)  tende  a  ^  {x)  per  /i  =  0,  e  perciò  ^  {x)  ^  (x-^  h) 

tende  a  [^  {x)f  ;  dunque  il  limite  del  primo  fattore  è  —  r.  .  .-.o  * 

Il  secondo  fattore  è  il  rapporto  incrementale  della  funzione 
^  (x)  e  il  suo  limite  per  A  =  0  è  la  derivata  ^'  (x)  (che  esiste 
ed  è  finita)  ;  quindi  : 

cioè  per  derivare  la  funzione  -r^-^  si   divide  la  derivata  della 

'  4>(x) 

funzione  ^  (x)  per  il  quadrato  della  funzione  stessa  e  si  cambia 

segno  al  qtioziente. 


182  CAPITOLO  Vili  —  §  57-58 

Ora,  per  il  teorema  sulla  derivazione  del  prodotto  di  due  fun- 
zioni, se  f{x)  e  ^  (x)  sono  due  funzioni  continue  aventi  derivata 

f(x)  1 

finita,  se  ^  (x)  4-  0,  e  si  pone  y  =  rT~\  ^^  fi^)  T~r~:  ?  si  ha  : 


ossia 


^~  [^ix)Y 

cioè  si  ha  il 

.        f  (x)      . 
Teorema.  La  derivata  del  quoziente  .  .  .    di   due  funzioni 

continue  (^  (x)  =N  0)  che  hanno  derivata  finita  è  una  frazione 
il  cui  denominatore  è  il  quadrato  della  funzione  denominatore 
4>  (x),  e  il  cui  numeratore  si  ottiene  sottraendo  dal  prodotto 
della  derivata  f'(x)  del  numeratore  f(x)  per  il  denominatore 
^  (x)  il  prodotto  della  derivata  ^'  (x)  del  denominatore  per  il 
numeratore  f(x). 

Questo  teorema  vale  anche  per  funzioni  complesse. 

Esempi. 

,    .            ,.                 sen  X  ,  cos^  a;  -4- sen^  rr       .   , 
1    La   derivata    di   tg  a;  =  — —  e ^ ,    cioè 

^  cos  X  COS"^  X 


COS"  X 

2°    Nello    stesso    modo    si    prova    che    la    derivata    di 

cos  a:;      ,  1 

cotff  X  = vale ^—  • 

sen  X  sen^  x 

Questa   formola    si   può    anche    dimostrare    ricordando    che 

cotg  j;  = ,  e  usando  poi  del  primo  risultato  di  questo  paragrafo. 

tgx 

§  58.  —  Regola  di  derivazione  delle  funzioni  inverse. 

a)  Tra  le  due  variabili  a;  ed  ?/  esista  una  corrispondenza 
biunivoca,  in  guisa  cioè  che  ad  ogni  valore  della  x  in  un  certo 
intervallo  a  corrisponda  uno  ed  un  solo  valore  della  y  di  un 
certo  altro  intervallo  P,  e  viceversa.  Vale  a  dire  la  y  si  possa 
considerare  come  funzione  f{x)  della  x  (per  x  appartenente 
all'intervallo  a)  e  viceversa  la  x  si  possa  considerare  come  fun- 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  183 

zione  cp  {y)  della  y  (per  y  appartenente  all'intervallo  P).  In  altre 
parole  in  tali  intervalli  le 

y  =  f{x)         ,         x  =  (p(y) 

definiscano  una  stessa  curva.  Queste  funzioni  si  diranno  inverse 
runa  dell'altra.  Così,  p.  es.,  avviene  della  coppia  di  funzioni 

y  =  Ioga  ^       ,       X  =  a^       (a  >  0  ;  a  =^  1  ) 
[intervallo  a  =  (0,  4-  oo  )]  [intervallo  P  =  ( —  oo ,  -h  qo  )] 

y  nz:  ^x  x^==-y^ (n intero  positivo  dispari) 

[intervallo  a  =  ( —  ao  ,  -f-  oo  )]         [intervallo  P  =  ( —  qo  ,  +  co  )] 

y  =  ^J X  X  =  y'^  (n  intero  positivo  pari) 

[intervallo  a  =  (0,  oo  )]  [intervallo  p  1=  (O,  -f-  oo  )]. 

(In  questi  intervalli  si  debbono  trascurare  gli  estremi,  eccetto 
l'estremo  0  dell'ultimo  esempio). 

Nell'ultimo  esempio  si  suppone  a;  >  0,  affinchè  il  simbolo 
'\/ X  non  sia  privo  di  significato  ;  e  si  suppone  y  =  i/x  >  0, 
perchè  altrimenti  a  un  valore  della  x  corrisponderebbero  due 
valori  distinti  per  la  y. 

Supposte  continue  entrambe  le  f{x)^  ^iy),  e  supposto  che 
f  {x)  esista  e  sia  differente  da  zero,  si  vuol  calcolare  9'  {y). 
Evidentemente  per  ipotesi  l'incremento  ^  x  dato  alla  x  indi- 
vidua l'incremento  Ay  dato  alla  y  ]  e  viceversa.  Di  più  (per 
la  supposta  continuità  delle  f,  ^)  gli  incrementi  Aa;,  At/  tendono 
contemporaneamente  a  zero  (^'').  Ora  : 


>,  .        ,.       Arr        ,.           1                   1 
cp  {y)  =  hm  -r —  r=  lim   — 7 — -  = T — 


lim    . 

Aa;  =  oA  X 


Ly 


Poiché  lim   -~  esiste  ed  è  uguale  a  f  {x)  -!=  0,  se  ne  deduce  : 

Cioè,    nelle   nostre    ipotesi,    la   derivata  cp'  (y)  è  il  numero 
reciproco  di  f'  (x)  ;  e  viceversa.  Così,  p.  es.,  si    verifica,    posto 


(*)  Le  ipotesi  si  possono  ridurre.  Così,  p.  es.,  nel  Capitolo  dedicato  alla  teoria 
delle  funzioni  implicite  si  vedrà  che,  se  yzi=f(x)  possiede  una  derivata  f  (x)  dif- 
ferente da  zero   per  a;  —  a,  e  se  h  =  f{a).  allora  esiste  una  funzione  x  della  y, 

uguale  3ià  a  per  y  ~h  iche  ha  in  tale  punto  per  derivata  proprio  ,..  .  .  I,  eh 

quindi  continua  per  t/  =  b  e  soddisfa  alla  y=zf{x).  Si  noti  che:  Se  j  è  funHone 
continua  della  x  nell'intervallo  oc,  se  essa  è  sempre  crescente  0  sempre  decre- 
scente, allora  la  x  è  funzione  continua  della  y  nell'intervallo  [■>  corrispondente. 


e  e 


184 


CAPITOLO    Vili   —   §    58 


y  ^=  Ioga  X,    X  ^  cC\    che   le    due    derivate   y\  =  —  log,,  e    e 
Xy  =  a}'  loge  a  sono  reciproche,  perchè  cu'  =  x,  ioga  e  loge  a  =  1. 

Esercizi. 

1*"  Si  derivi  y  =  i/~x. 

RlS.     Si    ha^=:y',     :r;  =  n?/"-\     y\=  -j  =  -—^-^ 
1 


tz  i7x 


(^^^j) ,  cosicché  la  derivata  di  y  =  x'    vale  : 


1     ^  ~^ 
^'  =  —  a:''       (^=#0). 

7^ 


2"  Si  derivi  y  —  x^ ' 

1 

Ris.  E  ?/ =  (  ir  j,  dondei/'=:w(  ^  j        — x      = 


»ji  —  1 


— X 
ti 


3'  Si  derivi  y 


X 


Ris.  E  ^  =  -^  ,  donde  ?/  =  — ^ 


—  1  m 


m 


a; 


a:; 


r^ 


ce 


X 


4°  (Da  tutte  queste  forinole  si  trae  che)  la  derivata  di 
y  z=z  x"^  per  ogni  valore  razionale  di  n  vale  y  =.nx'^~^ .  Piìi 
avanti  estenderemo  questa  importante  formola  anche  al  caso  di 
n  irrazionale.  (Il  lettore  esamini  il  caso  x^  0). 

p)  Sia  y  =  sen  x.  La  curva  immagine  è  la  cosidetta  sinu- 
soide. Se  ne  ricava  che  x  =  arcsen  ?/  (a;  =  arco,  che  ha  il  seno 
uguale  ad  y).  Osserviamo  però  che,  dato  il  valore  y  {\y\^l) 
del  seno,  l'arco  x  corrispondente  non  è  univocamente  determinato, 
ma  ha  infiniti  valori,  come  è  ben  noto,  e  come  si  può  verificare 


dalla  figura  21.  Questa  rende  ben  evidente  che,  p.  es.,  al  valore 
?/  =   —  del   seno   corrispondono  infiniti  valori  dell'arco  x.  La 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  185 


corrispondenza  si  rende  biunivoca,  se  noi  ci  limitiamo  a  consi- 
derare,  p.  es.,  i  valori  della  x  compresi  tra ^  ^'  V  ^^  ^^"^ 

valore  possibile  y  di  sen  x  (cioè  ad  ogni  valore  y  dell'intervallo 
[ — 1, -h  l]  corrisponderà  allora  un  solo  valore  di  ^  ;  e  vice- 
versa. Sarà  allora 

,       ,,,111  1  1 

^  ^  =  (arcsen  y)  „ 


y\     (sena?)',,     cosa;     i/l— sen'a;     Vl^^^ 

per  1^1=^1. 

L'ambiguità  di  segno  dovuta  al  radicale  Vi  —  ^/^  è  dovuta 
all'arbitrarietà  con  cui  possiamo  scegliere  l'arco  di  sinusoide 
che  rende  biunivoca  la  corrispondenza  tra  x^y.  Se  adottiamo 
la  convenzione  fatta  più  sopra,    siccome  \/\  —  y^  è  scritto   al 

posto  cos  X,  e  cos  x  per  \x\<.—  è  positivo,  si  dovrà  dare  al 
radicale  il  segno  -H .  Scambiando  il  significato  delle  lettere  x,  y, 
si  ha:  Se  ?/  =  arcsen  x^\y\\<.  —  ,  è  ?/'  =  h —  • 

Y)  In  modo  simile  si  prova  che,  se  y  =  arccos  x-,  e  quindi 

X  =  cos  y,  e  se  0  <y  <tz,  allora  y^  = .  •    Ciò   che 

Vi  —  x^ 

si   può   controllare,    osservando    che    nelle    attuali    convenzioni 

arccos  x  H-  arcsen  a;  =  —  ==  cost.  e  quindi   arccos  x  =  cost  — 

—  arcsen  :r,  cosicché  arccos  x  ed  arcsen  x  devono  avere  deri- 
vate uguali  e  di  segno  opposto. 

B)  Vogliamo  derivare  la  funzione  y  =  arctg  x  inversa  della 
X  =  tg  ?/.  Anche  qui,  se  si  vuole  rendere  determinata  la  y  e  biuni- 
voca la  corrispondenza  tra  le  x,  ?/,  si  deve  limitare  in  qualche  modo 

la  variabilità  della  ?/,  p.  es.,  supponendo t:  ^V  ^~^  -  -^^^ 

resto  le  varie  possibili  determinazioni  della  y  si  ottengono  aggiun- 
gendo a  una  di  esse  un  multiplo  di  tc,  cioè  una  costante,  e  perciò 
hanno  la  stessa  derivata.  Si  ha  poi 

^"^       Xy        /     1     \        1  -f-  tang'  y       l  -^  x^ 
Vcos^  y) 


186  CAPITOLO  Vili   —   §  58-59 

Osservazione. 
Si  può  dimostrare  direttamente  che  (arcsen  x)' 

(arccos  x)' ^  = /  ,    (arctg  a;)'^.  = 


1/1=^=' 


Ris.  Dimostriamo,  p.  es.,  l'ultima  formola.  Ricordo  clie  : 

a  —  B 

tg  (arctg  a  —  arctg  P)  = 5  ?  ossia  : 

1  ~\~  ^  p 

arctg  a  —  arctg  p  =  arctg 5  • 

Se  ne  deduce: 

(arctg  x)^  ^= 

arctg 


,.     arctg  (x  -\-  il)  —  arctg  x       ,.               \  -\-  x  {x  -\-  h) 
=  lim =  lim = 

ft  =  o  II  /i=o  h 

.                1                    arctg  ^      .         7  /^ 

—  lim  - — —7 — —77  lim --. —  ,  dove  k  = 


h^o  1  -h  x{x  -\-  h)  t  =  o        k       '  1  -h  a;  (a:  4-  /^) 

Se  ne  deduce  :  (arctg  x)'»  ^=  - — ; 2  •   1  ^= 


1  +  a:""  1  -h  x~ 


§  59.  —  Derivazione  delle  funzioni  di  funzioni. 

Sia   y   una   funzione    di   una   funzione  ^   della  x.  Sia  cioè 

Vale  a  dire,  quando  la  x  varia  in  un  certo  intervallo,  sia 
individuato  il  valore  della  variabile  z  ;  e  questo  valore  della  z 
individui  alla  sua  volta  il  valore  di  y  (§  29,  y.  pag.  97). 

Supponiamo  che  esistano  le  derivate  y^  =^  f  (^)  e  z',,  :=  cp'  (a:) 
della  y  rispetto  alla  z,  e  della  z  rispetto  alla  x.  Si  vuol  tro- 
vare la  derivata  y^  della  y  (considerata  come  funzione  della  x) 
rispetto  alla  x. 

L'incremento  Ax  dato  alla  x  individua  il  corrispondente 
incremento  A^  ricevuto  dalla  z  ;  e  questo  individua  l'incremento 
\y  della  y. 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  187 

Sarà  (ricordando  che  lim  A-^  =  0) 

,        ,.      Ay       ,.      Av  A^       ,.      A?/  i^z 

V  a;  =  lim  — ^  =:  lim  -^  -—  1=  hm   -f-   lim   -—  = 

^a;  =  oAa;       Aa;=aA<2'Arr       a«  =  o  A^  ax  =  o  Aa; 

=  rWT'(^)==^'.^'..      (*) 

Cioè  :  Se  y  é  funzione  derivabile  della  z,  e  la  z  è  funzione 
derivabile  della  x,  la  derivata  y  ^  della  y  rispetto  alla  x  uguaglia 
il  prodotto  della  derivata  di  y  rispetto  alla  z  ^er  /a  derivata 
della  z  rispetto  alla  x. 

OssERV.  Sia  2/  =  Z'C^),  ^  =  cp  (a;)  ;  e  tanto  la  7j  che  la  z  si 
possano  considerare  come  funzioni  della  x.  Sarà  quindi  per 
definizione  in  tale  ipotesi 

d7j  =  y^  dr  (1)  ;  dz-=  z^dx  •     (2) 

Ma  è  y^  =  2/'^  -a''^;.  Quindi  la  (1)  equivale  alla  dy  =  y\  z'^c  dx, 
che  per  (2)  si  può  scrivere  : 

dy=^y\dz,         .  (3) 

Questa  formola,  vera  per  definizione  se  «s-  è  la  variabile 
indipendente,  é  vera  dunque  anche  se  z  noìi  è  la  variabile 
indipendente  (ma  invece  le  y,  z  sono  pensate  funzioni  di  i.na 
terza  variabile  x). 

Si  noti  che,  per  il  teorema  di  derivazione  delle  funzioni 
inverse,  essa  è  vera  anche  se  la  stessa  y  si  assume  a  variabile 
indipendente,  e  si  considera  z  come  funzione  di  y. 

In  tal  caso  infatti,  essendo  y\-=^-j-^  tale  formola  si  riduce 

^  y 

alla  dz  =  z'y  dy. 

Applicazione. 

Siano  X  ^=  X  (0,  y  =^  y  (t)  le  coordinate  di  un  punto,  che  al  va- 
riare della  t  descrive  una  curva.  Siano  x  (t),  y  (t)  funzioni  con 
derivata  finita  ;  e  si  possa  in  un  certo  intorno  del  punto  t  =^  oc  con- 


(*)  Questa  dimostrazione  cessa  di  essere  valida,  se  per  valori  di  A  a;  -i-  0  è 
A^  =  0.  Ma  si  osservi  che  Ay  =  y'z.  A^  -f  f  A^,  dove  lim  f  —  0.  Quindi  in  ogni  caso 

y'^  z=z  hm    -—  =  lim  y  r  -: h  hm  f  t-  =  V .-  z  -r  - 


\ 


188  CAPITOLO  Vili  —  §  59-60 


Siderale  r)  y  come  funzione  di  x.  Sara  ^  ^  =  -^  =  , ,,.  ^^  =  '■^tttt- 
L'equazione  della  retta  tangente  sarà 

ossia  [y  —  y  (a)]  :  y  (a)  =  [a;  —  x  (a)]  :  a;'  (a)  ;  questa  equa- 
zione si  può  dimostrare  direttamente,  anche  senza  ammettere 
chje  y  si  possa  considerare  come  funzione  della  x,  e  senza 
usare  il  linguaggio  differenziale.  L'allievo  applichi  tale  formola 
p.  es.  alla    curva  x  =  a  cos  t,  y  ^=^  b  sen  t   (che   coincide    con 

2  2 

l'ellisse  -2-^^-2=  1).  (Cfr.  Gap.   19,  §  117). 

oc  0 

« 

§  60.  —  Derivata  logaritmica. 

Sia  ?/  =  log /"(a;),  dove /"(a;)  è  una  funzione  positiva  deri- 
vabile. Posto  ^  =  fix),  è  7/  =  log  ^,  dove  ^  =  f{x).  Sarà 

^  f{x)' 

Cioè  : 

La  derivata  del  logaritmo  di  una  furinone  derivabile  f  (x)  >  0 
0,  come  si  suol  dire,  la  derivata  logaritmica  di  f  (x)  si  ottiene 
dividendo  la  derivata  f'(x)  di  f  (x)  j^er  la  stessa  funzione  f(x). 

Viceversa  sia  * 

y  =  e^  ''''\  ossia  9  (x)  =  log  y. 

Sarà  y  ^  e^  dove  z  ^=^  (x);  e  quindi  y^  =  ^v'^  z'^  =^  e^  cp'  (a;) 
ossia  y':c  =  ^  ?'  (^)- 

('i^e  il  logaritmo  di  una  funzione  è  derivabile),  la  derivata 
della  funzione  è  uguale  alla  derivata  del  suo  logaritmo  mol- 
tiplicata per  la  funzione  stessa. 

Quest'ultimo  teorema  è  spesso  molto  utile,  perchè  è  talvolta 
pili  facile  derivare  il  logaritmo  di  una  funzione  che  la  funzione 
stessa. 

Se  ne  deduce  che  la  derivata  di  e'""  vale  ce'''.  Questa  for- 
mola vale  anche  se  la  costante  e  è  complessa  (così  che  risulta 


(*)  Cioè  si  possa  considerare  t  come  funzione  della  x  [inversa  della  x-=^x  {t)]. 
La  y  sarà  funzione  di  t,  funzione  della  a?,  che  si  considererà  come  funzione  della  x. 


DERIVATE,  DIFFERENZIALI  189 

ancora    una    volta   l' opportunità    della    definizione    di    Eulero). 
Infatti,  se 

e  =  a  4-  20 
allora 

Derivando  con  le  regole  abituali  si  prova  facilmente  l'asserto. 

Esempi. 
1^  Si  derivi  y  ^=.x'', 
RlS.  log  y  =  n  log  x,  (log  y)'^  ^=^-,  y\^=^x''-^=-  nx"'~^. 

Jb  Jb 

Questo  risultato  fondamentale  era  stato  già  da  noi  dimo- 
strato per  n  razionale  (pag.  184  del  §  58,  eserc.  4"*).  Il  lettore 
esamini  il  caso  di  x  ^0. 

2'  Si  derivi  y  —  [f{x)f. 

f  ix) 
Rls.  log  y  =  n  log  f  {x)  ;  (log  y)'^  =  n  [log  f  {x)]^=  n  'j-- , 

donde  y^  =  ny  -rrr  =  >^  Ff  (a^)!""^  f  {x).  Si  esamini   il    caso 
^    f{x) 

di  f{x)^0. 

Con  altro  e  più  semplice  metodo  si  ponga  z^=^f{x).  Sarà 
y  =  z'\  z  =  f{x)  donde  y.  =  nz''-'z',  =  n[f(x)y-'f(x). 

Anche  questa  formola  fondamentale  ci  era  già  nota  per  il 
caso  di  n  intero  positivo  (eserc.   2°  del  §  56,  pag.   181). 

3*^  Si  derivi  y —  [f{x)Y^''^• 
Sì  ha  log  y  =  ^  (x)  log  f(x);  e  perciò 

yx = r  [t  (^)  log  fix)]'. =r\9  j~  +?'  (x)  log  f(x)  j. 

Riassunto. 
Si  possono  riassumere  così  i  precedenti  risultati: 

Teorema. 

Se  ^  è  una  funzione  della  x,  che  si  può  calcolare  con  somme, 
sottrazioni,  moltiplicazioni,  divisioni,  innalzamenti  a  potenza, 
consultazioni  di  tavole  logaritmiche  e  trigonometriche,  altret- 
tanto avviene  generalmente  per  y\ 


190 


CAPITOLO   Vili   —    §    60 


Il  calcolo  di  y   si  esegue  con  le  regole  riassunte  dai  quadri 
seguenti  : 

QUADRO  DELLE  REGOLE  DI  DEBITAZIONE. 


FUNZIONE 


2/  =  ?(«)±t(a!) 


y  =  f{x),x=z^{y) 
y=zf{0),0='^^x) 

(1)  y  =  \oge0',i2)y  =  eT) 

y  —  f{x)'^^''^ 


DERIVATA 


y'  ~  o'{x)±.f{x} 
y'=zf'(x)'^{x)-\-  f{x)Vix) 

''(30) 


y  = 


[?(^)P 


'  -  '^'  (^)y  ix) -^  ^  {x)  ^'  {x) 

f'{x)'r'{y)  =  l 

y'.r  =  f'{^)?'(x)  =  y':0'.v 


(1)2/' 


0'  ',{2)y'  =  e-'z'.T=^y2\T 


y  =  .(x)^  (-)  [.y  (x)  log  .  (a,-)  4-  ^  (^)  ^^~] 


QUADRO   DELLE   DERIVATE    DELLE   FUNZIONI   ELEMENTAEL 


FUNZIONE 

DERIVATA 

y  =  costante 

y'  =  0 

y  =  X'" 

y'  =  mx"'  -  ^ 

y^^Vx 

,__    1 

'    -  2  l'I 

2/  =  sen  a; 

y'  =  cos  X 

y  =  COSX 

y'  =  ^  sen  x 

y  —  tang  x 

,_      1 

^   ~"  COS^  X 

2/  =  cot  ic 

^  ~~      sen^  X 

1 

2/  =  log  ic 

1 

y  —  log.  X 

2/'  =  -^  log.  e           .' 

y  =  a'' 

i 

i!                      sen 
j          2/  ~  are        X 
cos 

y  =z  are  tang  ic 

y'  —  a^  ]oge  a 
y'  =  e- 

1 

2/-^^!-^. 

1 

y-x+^ 

(*)  Cioè  ^  t=  log  y. 


191 


ALTRE  DERIVATE  NOTEVOLI  (a  =  C08t). 


yz=  cosi;  y'=^0 

.    X        ,  a 

y  ~  arctg  -  ;  y  —  —r-, — 5 

-^  °  a'  *^       x-  +  a^ 


y  =  arcsen  -  ;  1/'  =r 


Va'-. 


=  a  1^(0?);       y'  =  a'/{x) 


y=  Vx; 
y=  Vx] 


y  = 


n  "1/  x"-^ 
1 


y=Vf{x)]      y' 


2  Vx 

f  (x) 


n'Vfixy-^ 
. 1 

y-z=z   J/fix);        y'  =  9    yf(x)^'^^^ 


§  61.  —  Derivate  successive. 

a)  Sia  V  (x)  la  velocità  di  un  punto  mobile  M  all'istante  x. 
Il  movimento  si  dice  uniformemente  accelerato,  se  la  velocità 
riceve  incrementi  uguali  in  tempi  uguali;  e  in  tal  caso  il  rap- 

porto—-'    dove  àv  e  l'incremento  ricevuto  dalla  velocita  in  un 

Ax 

intervallo  di  tempo  di  ampiezza  Air,  si  dice  V accelerazione  del 
movimento. 

Nel  caso  generale  tale  rapporto  assume  il  nome  di  acce- 
lerazione media  nell'intervallo  (x,  x  H-  àx)  di  tempo  conside- 
rato. E,  per  ragioni  analoghe  a  quelle    svolte    negli  esempi  di 

Av 
pag.  157  e  seg.,  il  suo  limite  per  Ax  =  0,  ossia  1/  (x)  =  lim  — - 

Aa;  =  oAx 

si  dice  accelerazione  all'istante  x.  L'accelerazione  si  presenta 
così  come  la  derivata   della  velocità  v  (x)  rispetto  al  tempo  x. 

Ora,  se  y=^f(x)  è  lo  spazio  percorso  dal  nostro  punto  M 
all'istante  x,  è  v  (x)  =  f  (x).  Quindi  l'accelerazione  è  data 
dalla  derivata  della  derivata  f  {x)  di  f  (x). 

P)  In  generale  la  derivata  della  derivata  f  di  una  fun- 
zione y  ^=  f  {x)  si  indica  con  y"  0  con  f"  (x)  e  si  chiama  deri- 
vata seconda  di  y  =^  f  (x).  Questa  é  una  nuova  funzione  di  x, 
che  a*  sua  volta  può  ammettere  una  derivata  che  si  chiama 
derivata  terza  di  ?/  e  si  indica  con  y'"  0  con  /*'"  (x).  E  così  via. 

In  generale  y  può  ammettere  una  derivata  n'"'^"'^  0  dell'or- 
dine n  che  si  indica  con  y^  0  con  /'^"^  (x). 

La  y^  =  f  (x)  si  chiama  anche  prima  derivata  di  y. 

Con  <f  y  si  indica  il  prodotto  di  /""  (x)  per  dx'^. 

Con  d''y  ^  «  "    f '^^  {x)     »    dx"". 

Il  simbolo  d""  y,  testé  definito,  riceve  il  titolo  di  differen- 
ziale yi"'"'". 


192        CAPITOLO  Vili  —  §  61  —  DERIVATE,  DIFFERENZIALI 

Osserviamo  che  cT  y  ^^  j/"^  dx"  è  il  differenziale  di 

quando  per  un  momento  si  consideri  dx  come  costante  (*).  Infatti 
in  questa  ipotesi  la  derivata  di  d^''  ~  ^-^  y,  ossia  di  y''''  ~  ^^  dx^  ~~  ^ 
è  y^  c?x"~\  e  il  suo  differenziale  è  y^''^  dx"". 

Con  queste  convenzioni,  la  derivata  y^''^  si  può  scrivere  nella 

forma— ^-  * 

dx 

Y)  Abbiamo  detto  (§  59,  pag.  187)  che,  se  y=^f{x),  allora 
dy  =  f  (x)  dx, 

anche  se  x  non  è  la  variabile  indipendente. 

Un  teorema  analogo  non  vale  per  i  differenziali  di  ordine 
superiore  al  primo  ;  tutte  le  volte  che  si  introducono  nel 
calcolo  tali  differenziali,  hìsognai  prefissare  quale  è  la  variabile 
indipendente  scelta,  e  non   più   mutarla  nel  resto  del  calcolo. 

Basti  ricordare  che  il  differenziale  secondo  d^  x  della  varia- 
bile indipendente  x  è  nullo,  perchè  la  derivata  seconda  della  x 
rispetto  alla  x  è  nulla. 

Esempio. 
Calcolare  le  derivate  successive  del  polinomio: 

p  (x)  =  ao  +  ai  {x  —  a)  -f-  612  (x  —  a)-  -+-  -f-  On  t^  —  a)". 

Si  trova: 

p' (x)  =  ai  +  2  ^2 Ct  —  a)  4-  3  ^3  {x  —  a)^  -h 4-  na«  {x  —  ccT'^ 

p''{x)  —  \  2a-2  4-  3.2  a-,  (a;  —  a)  4- -f-  n  {n  —  1)  a^fx  — a)"-' 


p^^(x)=\^ai-h2.3A (i -H  1)^^+1^  — a)  -f- 

3.4....(i4-2)a,+  2(x  — a)'-f-....-h(w  — 7+l)(n  — ^-h2)....na,(a;  — a)" 

y^-i)  (x)  =  \n  —  lan-i  H-  2.3.4 (n  —  1)  nà,,  (x  —  a). 

^y^^  {x)  =  \n_an. 
E  le  derivate  successive,  dalla  {n  +  IT™  in  poi,  sono  nulle. 


(*)  Cioè  si  considera  dx  come  indipendente  dalla  ic,   ossia   come   avente  uno 
stesso  valore  in  ogni  punto  x,  e  perciò  come  avente  derivata  nulla  rispetto  alla  x. 


193 


CAPITOLO  IX. 

TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERITATE 
E  LORO  PRIME  APPLICAZIONI 


§  62.  —  Proprietà  fondamentali  delle  derivate. 

Sia  f  (x)  una  funzione  continua  nell'intervallo  {a,  b).  Sia  e 
un  punto  interno  a  tale  intervallo. 

a)  Depin.  Si  dice  che  la  funzione  f  (x)  è  crescente  nel  punto  e, 
se  esiste  un  numero  positivo  k  tale  che,  per  ogni  numero  h 
positivo  minore  di  k,  valga  la: 

f(c  —  h)  <f{c)  <f{c-i-h). 

[Oss.  Altri  impongono  soltanto  che 

f(c  —  h)^f(c)^f(c-i-hrì. 

Con  notazioni  analoghe  la  f  (x)  si  dice  decrescente  nel  punto  e, 
se:  f{c  —  h>  f(c)  >  f(c-hh), 

[Altri  impongono  soltanto  f{c  —  h)  ^  f{c)  ^  f{c  -h  h)^. 

Oss.  Se  nel  punto  e  la  funzione  riceve  il  suo  massimo  o 
il  suo  minimo  valore,  ivi  la  funzione  non  è  né  crescente  né 
decrescente  (quando  però  si  addotti  la  nostra  prima  definizione). 

Lemma.  Se  V  (e)  esiste  ed  è  positivo,  la  f  (x)  é  crescente 
nel  punto  e.  Se  V  (e)  <  0,  la  funzione  é  decrescente  nel  punto  e. 
Quindi,  se  nel  punto  e  la  f  (x)  raggiunge  il  suo  massimo,  o  il 
suo  minimo  valore,  e  se  V  (e)  esiste  ed  è  finita,  allora  V  (e)  =  0. 

Dimostriamo,  p.  es.,  la  prima  parte. 

T..uw,r^         r      f{c^h)  —  f{c)        ..      f{c  —  h)  —  f{c) 
Poiché  /'  (e)  =  lim  ' — — =    lim — — , 

7i  =  +  o  h  /i  =  -l-o  —  h 

dalla  f  (e)  >  0  segue  (§  32,  oss.   6,  pag.   109)   che   esiste  un 
numero  k  tale  che,  per  0  <h  <k,  i  rapporti 

f{c-\-h)  —  f{c)      f{c  —  h)  —  f{c) 
h  ^  —  h 

lii  —  G.  Fumxi,  Analisi  matematica. 


194 


CAPITOLO   IX   —   §    62 


sono  positivi  (*).  Cioè  f{c  -\-h)  —  f{c)  è  positivo  ;  /"(e  —  h)  —  f{() 
è  negativo:   cioè  f  {e  —  /^)  <  f(c)  <  f{c  •+■  h),  e.  d.  d. 

P)  Il  teorema  fondamentale  del  calcolo,  di  cui,  si  può  dire, 
tutti  gli  altri    sono  conseguenza,   è  un  teorema  intuitivo.   Sia 

y  ^=-  f{x)  una  curva  (7 
dotata  di  tangente  in 
ogni  punto  interno  alFin- 
tervallo  (a,  6).  La  sola 
ispezione  della  figura  22 
dimostra  l'esistenza  su  C 
di  un  punto  (nella  figura 
quello  di  ascissa  e)  in- 
terno all'intervallo,  in 
cui  la  tangente  alla  curva 
è  parallela  alla  corda 
congiungente  i  punti 
della  curva  di  ascissa 
a,  h.   Queste  due  rette 


Fig.  22. 


formeranno  perciò  angoli   uguali  con  l'asse  delle  x,  e  avranno 
quindi  ugual  coefficiente  angolare;  sarà  cioè: 


f{h)  —  f{a) 


f  (e). 


Posto    h  =^  a  -\-  h,    e  =  a  -\-  k,    i    numeri  k,    h    hanno    lo 

stesso  segno,  e  il  valore  assoluto  di  ^  è  minore  di  quello  di  h. 

k 
Posto  dunque  --  =  0.   ossia  k  =  h  Q,  è  O<0<1:  e  la  nostra 
h  ^ 

formola  si  scrive:  • 

f{a-hh) 


fio) 


h 


=zf'(a-hQh),    (0<e<l). 


Cioè  un  rapporto  incrementale  per  la  funzione  f  (x)  è  uguale 
alla  derivata  in  un  punto  intermedio.  Al  limite  (per  h  =  0)  esso 
diventa  poi  proprio  la  derivata  nel  punto  x  =^  a. 

Questo  importantissimo  teorema  si  deve  considerare  intuitivo 
e  in  parte  a  noi  già  noto  anche  per  le  seguenti  ragioni. 

Noi   sappiamo  infatti  che,  se  f(x)  è  lo  spazio  percorso  da 


un  mobile  all'istante  j\  allora 


fia-hh)  —  f{a) 
h 


rappresenta   la 


(*)  Prefissato  un  f  >  0  arbitrario,  esiste  un  h  tale  che  per  0  <  ^  <  /^  tali 
rapporti  sono  compresi  (pag.  107)  tra  /  '  (c)  —  £ef'  (e)  -f  £  ;  cioè  [se  è  stato  scelto 
^  <  r  (e)]  tra  due  quantità  positive,  e  quindi  sono  essi  stessi  positivi. 


TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE,  ECC.  195 

velocità  media  neirintervallo  (a,  a  -h  h),  mentre  f'  (a  -f-  0  lì)  rap- 
presenta la  velocità  all'istante  intermedio  a  -{-  ^h.  La  formola 
precedente  dice  dunque  soltanto  che  la  velocità  media  in  un 
certo  intervallo  di  tempo  è  uguale  alla  velocità  in  un  qualche 
istante  intermedio.  E  ciò  è  ben  chiaro:  Se,  p.  es.,  un  treno 
percorre  300  km.  in  cinque  ore,  cioè  con  una  velocità  media 
di  60  km.  all'ora,  potrà  darsi  benissimo  che  in  qualche  istante 
il  treno  sia  fermo,  in  qualche  altro  abbia  velocità  di  80,  di 
100  km.  all'ora;  ma  esiste  certamente  almeno  un  istante  del 
viaggio,  in  cui  la  velocità  del  treno  è  proprio  uguale  alla  velo- 
cità media  di  60  km.  all'ora  (almeno  se  ammettiamo  che  la 
velocità  varii  in  modo  continuo,  cioè  sia  una  funzione  continua 
del  tempo  x.  La  dimostrazione,  che  daremo,  prova  però  che  il 
nostro  teorema  vale  anche  in  casi  più  generali). 

Anzi,  se  ricordiamo  quanto  abbiamo  detto  al  §  47,  troviamo 
che  la  penultima  formola  di  esso  (pag.  158)  coincide  proprio  con 
quella  che  abbiamo  ora  scritta;  appena  si  pongano  a  e  A:  al  posto 
di  a;  e  di  X,  e  si  ricordi  che  F  è  uguale  alla  derivata  della  f{x). 
Si  può  dire  dunque  che  noi  abbiamo  enunciato  il  teorema  di 
cui  qui  ci  occupiamo,  ancora  prima  di  definire  la  derivata  di 
una  funzione  (almeno  nel  caso  particolare  che  questa  deri- 
vata sia  continua). 

Y)  Si  voglia  ora  dimostrare  il  nostro  teorema  in  modo  generale 
e  rigoroso.  E  cominciamo  a  supporre  f(a)  =  f{h).  In  questo 
caso  la  nostra  proposizione  assume  la  seguente  forma  precisa 
(teorema  di  Eolle). 

Se  f(x)  è  una  funzione  continua  definita  neirintervallo 
(a,  b)  tale  che  f  (a)  =  f  (b),  e  se  possiede  derivata  (finita)  in 
tutti  i  punti  interni  a  questo  intervallo,  esiste  in  esso  almeno 
un  punto  e,  per  cui  f  '  (e)  =  0. 

Nell'enunciato  di  questo  teorema  non  si  ammette  né  che  /*'  (x) 
sia  continua,  né  che  f  (x)  esista  agli  estremi  dell'intervallo  {a,  b). 
Si  potrebbe  anche  ammettere  che  nei  punti  interni  a  questo 
intervallo  la  f  (x)  fosse  infinita,  purché  di  segno  determinato. 

Per  il  teorema  di  Weierstrass  la  f{x)  assume  almeno  in  un 
punto  A  di  questo  intervallo  il  valore  massimo  M,  e  almeno  in 
un  punto  B  il  valore  minimo  m.  Se  questi  due  punti  sono  en- 
trambi agli  estremi  a,  h,  allora,  siccome  f(a)^=f{b),  sarà 
M=^m.  Essendo  uguali  i  valori  massimo  e  minimo  della  f{x), 
la  f{x)  avrà  in  tutto  l'intervallo  valore  costante,  e  quindi  in 
qualsiasi  punto  e  interno  all'intervallo  stesso  sarà  f  (e)  =  0. 

Rimane  ora  a  studiare  Taltro  caso  che  la  funzione  acquisti 


196  CAPITOLO   IX   —   §    62 

il  suo  valore  massimo  o  minimo  in  un  punto  e  interno  ad 
(a.  b)\  ma  in  tal  caso  il  lemma  precedente  dimostra  che  ivi 
fio)  =  0. 

Poiché  e  è  interno  ad  (a,  b),  potremo  scrivere  : 

c  =  a-l-e(&  — a)     (0  <e<i) 

dove  0  è  compreso  tra  0  ed  1   (i  numeri  0  ed  1   esclusi). 
Se  si  pone  h  =^  a  -^  h,  sarà  e  =  a  4-  6  /^  O- 

Generalizzazioni. 

Siano  f{x),  9  (.x)  due  funzioni  derivabili  nell'intervallo  (a,  h). 
E  sia  9(a)=i=9(6);  in  altre  parole  la  cp  (x)  assuma  valori  dif- 
ferenti agli  estremi  dell'intervallo  {a,  6). 

Costruiamo  la  funzione 

dove  k  è  una  costante,  che  noi  sceglieremo  in  guisa  che 
F{a)  =  F{b),  ossia  che 

da  cui  SI  trae  k  =^ t-— '——-  ;  tormola  che  e  lecito  scrivere, 

cp  (a)  —  9  (ò) 

perchè  per  ipotesi  il  denominatore  9  (a)  —  9  (ò)  =#  0. 
Quindi  la  funzione 

è  una  funzione  derivabile  (perchè  f{x)  e  ^  ix)  sono  derivabili) 
e  assume  valori  uguali  per  a:;  =  a  e  per  x  ^=^b. 

Perciò,  per  il  teorema  di  RoUe,  esiste  almeno  un  punto  del- 
l'intervallo (a,  b)  in  cui  la  derivata  F'  {x)  è  zero;  questo  punto 


(*)  Il  teorema  può  non  essere  vero  se  non  sono  soddisfatte  le  ipotesi  enun- 
ciate, cioè  se  la  f{x)  ha  in  qualche  punto  interno  ad  (a,  b)  derivata  infinita  non 
determinata  di  segno  0  indeterminata. 

Il  lettore  se  ne  convincerà  facilmente  pensando  a  una  linea  y  =  f{x)  composta 
di  due  segmenti  di  rette  concorrenti  in  un  punto  di  ascissa  e,  nel  quale  la  f{x) 
raggiunga,  p.  es.,  il  suo  massimo  valore;  oppure  pensando  a  una  linea  y  =  f{x) 
composta  di  due  archi  di  cerchi  concorrenti  in  un  punto  di  ascissa  e,  nel  quale 
posseggano  una  stessa  tangente  perpendicolare  all'asse  delle  x,  nel  caso  che  in 
tale  punto  la  y  raggiunga,  p.  es.,  il  suo  massimo  valore.  Nel  primo  caso  la  y'  non 
è  per  .X  =  e  determinata,  nel  secondo  la  y'  non  è  finita.  In  tali  casi,  secondo  le 
nostre  convenzioni,  noi  diciamo  che  y'  non  esiste. 

Un'osservazione  analoga  si  presenterà  nel  paragrafo  70,  ove  studieremo  i  punti 
di  massimo  0  di  minimo  di  una  funzione  f{x). 


TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE,  ECC.  197 

sarà  un  punto 

e  =  a  -h  0  (6  —  a),  (1) 

dove  0  <e<  1. 

Il  punto  e  soddisferà  quindi  alla: 

J"(c)  =  0     ossia     r(c)-^{|E{i^'W  =  0, 
per  cui  si  avrà  : 

Questa  forinola  fondamentale  costituisce  il  teorema  di  Cauchy. 

Se  9  (x)  =  ir,  cp'  (e)  =  1,  la  (2)  diventa 

0  —  a 
e  se  h=^  a  -\r  h,  diventa 

ossia,  essendo  per  (1)  c  =  a-t-dh: 

f'ia+^K)^^^''-^^]-^^''^  (3) 

lì/ 

Questa  formola  costituisce  appunto  il  teorema  della  media 
di  Lagrange,  da  cui  siamo  partiti,  e  che  nel  caso  f{a-i-h)  =  f{a) 
si  riduce  al  teorema  di  Rolle. 


§  63.  —  Prime  applicazioni  del  teorema  della  media. 

a)  Si  può  dimostrare  semplicemente  il  teorema  di  Heine  (pag.  135)  per  una  fun- 
zione f{x)  definita  in  un  intervallo  {a,h)  nel  caso  che  la  sua  derivata  f{x)  sia  limi- 
tata, che  cioè  esista  una  costante  É  tale  che  \f'{x)\<C,H.  Se  f  >  0  è  un  numero 

arbitrario,  sia  a  un  qualsiasi  intervallo  parziale  di  ampiezza  non  superiore  ad  ^^r . 

Siano  V,,  72  <lii6  punti  di  ot,  ove  la  f{x)   assume  il  massimo  e  il 'minimo  dei  valori, 
che  f{x)  assume  in  oc.  L'oscillazione  /"(y,)  — /'(72)  di  f{x)  in  oc  vale  (7,  —  Vj^  f  (v), 

dove  V  è  un  punto  intermedio  tra  v,  e  y,.  Poiché  |  -/,  —  v,  I  ^  -rr  e  \  f  (y)  1  <  H, 

tale  oscillazione  non  supera  e.  e.  d.  d. 

?)  La  formola  f  (e)  =  ^j^}~^!?!  T'  (e)  diventa  (se  ?'  (e)  ^=  0) 

9  (a)  —  T  (&) 
fib)—f{a)^f'{c) 

9  (6)  —  if  (a)       9'  (e)  ' 


198  CAPITOLO   IX   —   §    63 

Se  si  suppone  senz'altro  ?'  (x)  =4=  0  nei  punti  interni  all'intervallo  (a,  b),  allora 
non  soltanto  nel  punto  (incognito)  e  sarà  f '  (e)  =i=  0,  ma  sarà  anche  soddisfatta 
l'altra  ipotesi  iniziale  »  (a)  =<=  ^  (b).  Infatti,  se  fosse  e.  (a)  ==  »  (h),  esisterebbe,  per  il 
teorema  di  RoUe,  almeno  un  punto  x^  interno  all'intervallo,  ove  si  avrebbe  ^' (a,)  =  0. 

Se  f(a)  =  cp  (a)  ^=^  0,  allora,  posto  ò  =  a;,  e  =  a?i,  se  ne  deduce: 

[a^i  appartenente  all'intervallo  (a,  a:)]. 

Cioè  : 

8e  le  funzioni  contimie  e  derivabili  f  (x),  cp  (x)  sono  nulle 

per  X  =  a,  e  nei  punti  interni  alV intervallo   (a,  x)  la  cp'  (x)  è 

f  (x) 
differente  da  zero,  allora  il  rapporto  — r— .  é  uguale  al  rapporto 

delle  derivate  prime  in  un  punto  Xi  interno  all'intervallo  (a,  x). 

Al  variare  della  x  in  un  intorno  a  di  a,  la  Xi  percorrerà  un 

certo  insieme  y  di  valori  dello  stesso  intorno  (cfr.  Nota  a  pag.  200). 

Se  esiste  il  lim     , ,  , ,  esisterà  anche  il  lim    ,  ,  \ ,  e  quindi 

a;  =  aCp    (a;)'  x,-^a^   fe)' 

per  la  (1)  esisterà  anche  il  lim  ^—r\\  cioè  il  /miYe  t/e^  rapporto 

delle  f  (x),    9  (x)  ^er  x  =  a    esisterà,  e  sarà  uguale  al  limite 
del  rapporto  delle  loro  derivate  prime  i'  (x),  «p'  (x). 

Se  anche  le  derivate  prime  di  /",  9  sono  nulle  nel  punto  a, 
e  se  cp"  =!»  0  quando  x  =^  a,  potremo,  applicando  di  nuovo  lo 
stesso  teorema,  scrivere  l'uguaglianza 

dove  X2   è   un    punto   intermedio    tra   a  tà  xi    e    quindi   anche 
intermedio  tra  a  ^à  x- 

Così  continuando  troviamo  infine  che,  se  esistono  le  derivate 
delle  f,  cp  fino  a  quelle  di  ordine  n  -f- 1 ,  se  le   f ,  9  e  le  prime 

loro  n  derivate   sono   nulle  per  x  =  a  (mentre  le  9,9",  , 

^(n)^  ^(«+1;  ^^^^  differenti  da  zero  per  x  =¥'  a),  allora 

fix)  _r'-^'Hi) 

dove  E,  è  un  punto  intermedio  tra  a  eeZ  x. 

Se  ne  deduce  una  celebre  formola  dovuta  pure  a  Lagrange  con- 
servando le  ipotesi  fatte  per  f{x)  e  ponendo  cp  (x)  =  (x  —  a)""^^ 
col  che  le  ipotesi  fatte  per  cp  (x)    risultano    soddisfatte.   Poiché 


199 

^^'''^^^  (x)  =^  \n -\-ì  si  deduce  il  seguente  teorema  d'importanza 

fondamentale  : 

Se  f  (x)  possiede  le  prime  n  -f-  1  derivate,  e  se  f  (x)  insieme 
alle  prime  n  derivate  è  nulla  nel  punto  a,  allora 


1 


dove  E,  è  un  punto  intermedio  tra  bì  ed  x. 
Osservazione.  Se  ne  deduce  in  tal  caso 


^         ^•(«4-l)(n:=  tJ^ 


\n-hl  (x  —  a)"  -  ^ 

Poiché  lim  %=ia  sarà,  se  f^"+^Ux)   è  continua  nel  punto  a,  e  se  f(a)  = 

=  f' (a)==...1f(^Ka)=rG: 

Questa  formola  vale  anche  nella  ipotesi  che  esista  la  (n  4-  i)^sima  derivata  di 
f  (x)  nel  punto  a  e  sia  determinata  e  finita  (senza  che  sia  necessario  ammetterne 
la  continuità).  Infatti  si  trova,  come  sopra, 

7 —     /  _^,  = ,  ,  }     — -,  (x,  intermedio  tra  a  ed  x). 

(x  —  ay-^^      I  w_-f-J. (ic,  —  a)  ^  '  ^ 

Poiché  /■("'  (a)  —  0,  sarà,  posto  x^  —  a  =  h, 

f{x)       ^ ì_  f(^Ha-^h)  —  p-Ha) 

(^3C  —  ay-^^'~~\n-\-l  h 

Da  cui,  passando  al  limite  per  h  =  0,  si  trae  subito  il  teorema  enunciato. 

1        ,  f{x) 

In  particolare,  poiché  . — — — r  è  positivo,  e  poiché  - — - — r^^^ 

n   1    x  \X       a) 

ha,  per  x  abbastanza    prossimo    ad    a,  il  segno   del  suo  limite 

f{x) 
per  x  =  a,  se  ne  deduce  che,  per  x  prossimo  ad  a,  la  - — - — r^^qn 

ha  il  segno  di  f'''^^^  (a),  se  questa  derivata  è  determinata  e  finita 
e  se  f{a)  =  f  {a)  =  ...  =  f  "^  (^0  =  0. 

Posto   x^=^  a  -h  h,  si  vede  che,  per  h   abbastanza  piccolo, 

nelle  nostre  ipotesi  coincidono  i  segni  di  — T^r+l — ®  ^i  f'^'^^UO, 

cioè  coincidono  i  segni  di  f(a-^h)  e  di  h'"'^^  f'^^^  (a). 

Noi  abbiamo  dato  in  questo  paragrafo  un  procedimento  per 
calcolare  il  limite  di  un  quoziente  in  qualche  caso,  in  cui  non 
sono  applicabili  i  teoremi  del  §  35,  pag.  115-116.  Ad  altri 
casi  analoghi  sono  applicabili  le  seguenti  osservazioni. 


200  CAPITOLO   IX    —   8    63 


OSSERVAZIONI. 

■y  (oc) 
V  Si  è  dimostrato  che   se  lim  f(x)  =  lim  -^  (x)  =r  0,  e  se  esiste  il  lim  ì-rr-;! 

.'•=(7  .lc=    ^  x='tit       {•'') 

f  (x) 
esiste  anche  il  lim  — — ^ ,  ed  è  uguale  al  precedente  (*).  Un  teorema  analogo  vale 

^  =»  ^  »  [X) 

se  lim  f(x)  =  lim  f  (x)  =  co .  Lasciando  ai  trattati  di  calcolo  la  dimostrazione  com- 
pleta (piuttosto  delicata)  di  tale  teorema,  noi  la  esporremo  nell'ipotesi  che 
lim    — — (  esista,   sia   finito   e   diverso   da   zero.   Poiché   nelle   nostre    ipotesi    è 

.'■  =  a    ?  {X) 


lim    -jr-—  =  lim    — T  =  0,  sarà  lim    '-^^  —  lim     Y  ]'"^(  =    lim 

:r=.„    f  (or)  .r^a    ?  (ir)  .v^„    ^(X) 


\W))    '^~\m)) 


X  r=a.    a 


=  iÌM    JVtt  I  —y-i  I  =  l'ni   rrr4  1   lim  —r4   '     Moltiplicando   primo   e   ultimo 

'-'  (x)  ì^  f  (x)  f  (x) 

membro  per  j   lim  ■—-     si  ottiene  appunto  lim    '-^  ~  lim  -77-^  • 

2»  Questi  teoremi  valgono  anche  per  a— ce,  cioè  se  i  termini  della  frazione 
tendono  per  x  =  ce  entrambi  a  0,  oppui:^  ad  00.  Posto  infatti  x  ^=  —  ,  si  ha  : 

,   m   ,  fij)  ,  mi  ,  ^(7)(-^)      rti)  ,  r., 

lim  '-^  —  hm  -^—{  =  lim  ^    .V  '    ,— lim     '     '  . — ~  ~  lim  —rri  =  1™   77-I 

30  Talvolta  con  questi  teoremi  si  riesce  a  calcolare  il  limite  di  un  prodotto 
che  si  presenta  nella  forma  O.co,  ossia  il  limite  del  prodotto  di  due  fattori 
/  (x),  'i  {x)   di   cui   uno  tende  a   zero,  l'altro  a  co .  Basterà  scrivere  il  prodotto 

f{x)<f(x)   nella   forma       ;-■      —  ^y  ^       e  poi  applicare  a   questi  quozienti   il 


\'r{x))       \fix)) 


metodo  precedente. 

4°  Si  deve  talvolta  trovare  il  limite  di  una  potenza,  che  si  presenta  nella 
forma  1^ ,  oppure  0°,  oppure  H-oo»,  ecc.,  vale  a  dire  di  una  potenza,  la  cui  base  tende 
ad  1,  e  l'esponente  ad  oc,  oppure  di  cui  base  ed  esponente  tendono  entrambi  a  zero,  ecc. 
In  tal  caso  si  cerca  dapprima  col  metodo  dell'esercizio  3°  il  limite  L  del  loga- 
ritmo di  una  tale  potenza.  Il  limite  della  potenza  sarà  e^-. 

5"  Si  deve  talvolta  cercare  il  limite  di  una  differenza  f(x)  —  *  (ic),  che  si 
presenta  nella  forma  co  —  co,  perchè  entrambi  i  termini  tendono  ad  co.  In  tal  caso 

si  scrive  f{x)  —  ^  (x)  nella  forma  di  un  prodotto  f(x)   l  —  j-~    =  ?  (x)    '—^—1    , 

cercando  poi  di  applicare  i  metodi  precedenti. 


(*)  Il  teor.  reciproco  non  è  generalmente  vero.  Infatti  noi  abbiamo  dimostrato 

/  (x)      f  (x  ) 
che  ^-7-T  =    ,    .  ove  x.  è  un  certo  punto  intermedio  tra  a  ed  x.  Non  è  detto  però 

<r'(x)        o{Xi)  '  ^ 

che,  al  variare  di  x,  la  ic,  assuma  Mti  ì  valori  di  un  intorno  di  a  e  che  non  ne 

salti  qualcuno:  cosicché  studiando  i  valori  di  ^— ,  si  studierebbero  alcuni,  ma  non 

?{sc) 

tutti  i  valori  che  il  rapporto  delle  loro  derivate  assume  in  un  intorno  del  punto  a. 
E  quindi  nulla  si  può  concludere  per  il  limite  di  tale  rapporto  senza  studi  più 
minuti. 


TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE,  ECC.  201 

'/)  Interpolazione. 

Capita  molte  volte  di  dover  trovare  un  numero  -  (x)  approssimato  del  valore 
che  f{x)  assume  nei  punti  x  di  un  intervallo  (a,ì)),  quando  si  conoscano  i  valori 
f'(a)  ed  f{h)  che  la  f(x)  assume  nei  punti  a,  h.  Ciò  capita  in  pratica  specialmente 
per  il  calcolo  delle  tunzioni  logaritmiche  e  trigonometriche:  così,  p.  es.,  se  f{x)  = 
=  log  X,  se  dalle  tavole  logaritmiche  sono  dati  i  valori  di  log  1000  e  di  log  1001, 
e  sì  deve  scrivere  un  valore  approssimato  del  logaritmo  di  1000,5. 

La  formola,  p.  es.,  che  si  usa,  come  è  ben  noto,  è  la  seguente  : 

.  (^)  =  f  (a) -ff-^  [/■(?>)-/(«)] 

(dove,  nel  caso  che  si  ricorra  a  tavole  numeriche,  la  /"(?>)  —  f{a)  dicesi  la  differenza 
tavolare). 

Quale  errore  si  commette  usando  tale  formola,  cioè  scrivendo  ^  {x)  al  posto 
di  f{x)? 

Si  noti  che  in  virtù  del  teorema  della  media, 

.  (X)  =  f  (a)  +  ^^  [/•(&)-  /  (a)]  =  f  (a)  -^ix-a)  f  (e)  -- 

=  f  (^)  -+-  ^  if  («)  -  f  (^)]  =  f  ^^)  -^-  (^  -  ^)  /"  io) 
dove  e  è  un  punto  intermedio  tra  a  e  h.  Così  pure  in  virtù  del  teorema  della  media 
— { _         =  f  (0?  cosicché  f{x)  =  f{a)  -\-{x  —  a)  f"  (?)  ;  e  similmente 

f{x)=f{l)  +  {X-l)f'{r) 

dove  l  è  un  punto  intermedio  tra  a  ed  ic  e  quindi  anche  tra  a  e  ?),  ed  v;  è  un  altro 
punto  dell'intervallo  (a,  b). 

Quindi  l'errore  |  f  {x)  —  ?  (ic)  |  commesso  scrivendo  ©  {x)  al  posto  di  f  (x) 
vale  \x  —  a\\  f  (c)  —  f{^)\  =  \x  —  'b\\  f  (c)  —  f'  (vj)  ì.  E,  se  f(x)  possiede  derivata 
seconda,  tale  '  errore  vale  \{x  —  a)  (e  —  ?)  f"  (?,)  \  =  \(x  —  h)  (e  —  v?)  /"  Ci,)  1 
dove,  secondo  il  teorema  della  media,  ?,  è  intermedio  tra  ce?,  mentre  /;,  è  inter- 
medio tra  e  ed  n.  Cosicché  ?,  ed  >?,  sono  punti  di  («,  h).  Se  dunque  ì  /'"  (x)  \  in  (a,  h) 
non  supera  la  costante  Jf,  allora,  poiché  |c  —  ?!<|?>  —  aje|(c—  ';)i<I?)  —  a|, 
tale  errore  non  supererà  \(x  —  a)  (h  —  a)  M\,  r\è  \(x —  h)  (h  —  a)  M  \  e  quindi 

neanche  il  più  piccolo  di  questi  due,  che  è  certo  non  superiore  a  —^  (h  —  af  M. 

Il  lettore  appHchi  questo  risultato  alle  usuali  tavole  logaritmiche. 

Oss.  Si  noti  che,  sostituendo  la  y  (ic)  alla  f{x),  si  è  sostituito  alla  f{x)  un 
polinomio  di  primo  grado  che  in  due  punti  (nei  punti  x  —  a,  x  =  h)  assume  lo 
stesso  valore  di  fioc).  Si  potrebbe  generalizzare  il  metodo,  sostituendo,  p.  es.,  ad  /  {x) 
un  polinomio  di  grado  n  —  1,  che  in  n  punti  assumesse  lo  stesso  valore  che  la  f{x). 
Per  la  determinazione  di  tale  polinomio  cfr.  i  §§  14  pag.  49,  27  pag.  90. 

l)  Criterio  di  convergenza  di  Cauchy. 

Sia  /  (a?)  una  funzione  definita  nell'intervallo  (1,  -+-  od),  che  ha  la  derivata  f  {x) 
sempre  positiva  ;  al  crescere  di  ic  la  /'  {x)  diminuisca.  Se  a,  h  sono  due  valori  di  x, 

se  a  <  1),  allora  - — ,  _  — ~  é  uguale  al  valore  di  /"  {x)  in  un  punto  dell'intervallo. 

(a,?));  tale  frazione  è  dunque  positiva  minore  di/'  (a),  maggiore  di  f  (b).  In  par- 
ticolare f{h)  —  f(a)  è  positivo,  f(b)yf'(a).  Cosicché  f{x)  cresce  quando  cresce 
il  valore  dato  ad  x,  e  tende  quindi  a  un  limite  per  ìp  =  +oo.  Di  più,  ponendo 
a  =  m,  b  =  )n -j- 1,  oppure  a  —  m  —  1,  l>  —  w,  si  trova: 

f(m  +  1)  -  f(m)  <  /"  (m)  < /(m)  -  f{m  -  1). 

Scrivendo  queste  disuguaglianze  per  m  ~  2,3,4, ,  n,  e  sommando  si  trova  : 

f{n  -f- 1)  ~f(2)  <  /'  (2)  4-  /'  (3)  + +  /  '  (w)<  f(n)  -  f  (1). 


202  CAPITOLO  IX  —  8  63 


Quindi  la  serie 

r(i)-i-r(2)-+-r(3)-h 


converge   o   diverge   secondo  che   lim  f(x)  è  finito  o  infinito,  perchè  la  somma 
dei  suoi  primi  n  termini  è  compresa  tra 

f(n  +  1)  +  [f  (1)  -  f  (2)1  e  fin)  +  [/'  (1)  -  /XD], 
e  tende  per  w  =  oo   a  un   limite   finito   soltanto  quando  altrettanto  avviene  per 
fin),  nn  +  l). 

Ponendo  /  {x)  =  log  x,  oppure  f(x)  ---  log  log  x,  oppure  /  {x)  =  log  log  log  x 
si  dimostra  subito,  p.  es.,  che  le  serie 


+-  "i— j ;:  H- ,  ecc. 


2  log  2      3  log  3  '  4  log  4 

sono  divergenti.  Nella  seconda  si  è  cominciato  dal  termine  corrispondente  ad  x  —  2 
perchè  per  x  =  l  la  /'  {x)  =  log  log  x  non  ha  derivata  finita. 

s)  Funzioni  a  derivata  nulla. 

Ricordiamo  il  teorema  : 

Una  funzione  costante  ha  derivata  identicamente  nulla. 

Dimostriamo  il  teorema  reciproco,  d'importanza  fondamen- 
tale :  Una  funzione  f  (x),  la  cui  derivata  è  identicamente  nulla, 
è  costante. 

Infatti  siano  a  e  h  =^  a  -^  h  due  punti  qualsiasi  dell'inter- 
vallo, ove  la  fix)  è  definita.  Per  il  teorema  della  media  di 
Lagrange,  il  rapporto 

nb)-f{a) 
b  —  a 
è  uguale  alla  derivata  f  (x)  in  un  punto  intermedio,  ed  è  quindi 
nullo,  perchè  f  (x)  è  nulla  dappertutto.  Il  suo  numeratore  è 
quindi  nullo;  cioè  f  (a)  =^  f  (b).  La  funzione  f(x),  riprendendo 
lo  stesso  valore  in  due  punti  qualsiasi  a,  b,  è  quindi  una 
costante.  e.  d.  d. 

Questo  teorema  è  geometricamente  intuitivo.  Dire  ch^  f  (x) 
è  sempre  nullo  è  asserire  chele  tangenti  alla  curva  ?/ =  f(x) 
sono  tutte  parallele  all'asse  delle  x.  Dire  che  fix)  è  costante 
equivale  ad  asserire  che  la  curva  y  =^  f{x)  è  una  retta  o  un 
segmento,  i  cui  punti  distano  ugualmente  dall'asse  delle  x,  ossia 
che  tale  curva  è  un  segmento  parallelo  all'asse  delle  x.  Il  teo- 
rema geometricamente  significa  dunque  : 

,  Se  le  tangenti  della  curva  y  r=:  f  (x)  sono  tutte  parallele 
all'asse  delle  x,  tale  curva  è  una  retta  o  un  segmento  paral- 
lelo alVasse  delle  x. 

Meccanicamente  questo  teorema  è  pure  evidente,  e  ci  dice 
che  uìi  punto  il  quale  si  muove  su  una  retta  (ed  ha  all'istante 


TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE,  ECC.  203 

X  una  distanza  y  =  f{x)  da  un  punto  fisso  M  della  rete  stessa) 
ed  ha  la  velocità  f  '  (x)  sempre  nulla,  sta  fermo  (perchè  resta 
ad  una  distanza  y  costante  dal  punto  M).  Ciò  non  è  una  os- 
servazione banale  ;  essa  è  piuttosto  un*osservazione  che  conferma 
l'accordo  tra  l'idea  intuitiva  di  velocità  e  la  definizione  mate- 
matica da  noi  datane. 

Se  due  funzioni  f{x),<:pix)  hanno  in  ogni  punto  di  un  certo 
intervallo  ugual  derivata  finita,  esse  differiscono  in  esso  di  una 
costante.  La  loro  differenza  ha  infatti  per  derivata  la  differenza 
delle  derivate  che  è  nulla,  ed  è  quindi  'costante  (Cfr.  §  74,  y). 

§  64.  —  Radici  multiple  di  un'equazione. 

Sia  a  una  radice  dell'equazione  algebrica,  o  non   algebrica 

f(x)^=0.  Nei  casi  più  comuni  esiste  una  costante  positiva  h 

tale    che   f(x)  sia    infinitesimo  di   ordine  h  rispetto  ad  x  —  a, 

f{x) 

ossia    che,    posto  7— -j,  =  9  {x),  la  9  {x)    abbia    per   .r  =  a 

[x  —  a) 

un  limite,  che  indicheremo  con  9  (a),  finito  e  diverso  da   zero. 

In  tal  caso  diremo  che  x^=  a  k   una   radice    di    ordine  h  per 

l'equazione  f{x)  =  0. 

Se  /^  ==  1.  la  radice  si  dirà  semplice:  se  /t  >  1  è  un  intero 
positivo,  la  radice  a  si  dirà  multipla. 

>S^e  h>  1,  se  f(x)  e  <p  (x)  sono  derivabili  anche  nel  punto 
X  :=:  a  (*),  dalla  f{x)  =^  (x  —  af  cp  (x)  si  deduce  deprivando  che 
f  (x)  =  {x  —  af  -  '  e  W  dove  9  (x*)  =  h  9  (x)  -h  (x  —  a)  9'  (x) 
ha  per  x  =  a  un  limite  finito  e  diverso  da  zero.  Quindi  : 

Nelle  nostre  ipotesi  per  la  f  (x),  una  radice  di  ordine  h  >  1 
per  la  equazione  f  (x)  =  0  è  radice  di  ordine  h  —  1  per 
V equazione  i'  (x)  =  0. 

Viceversa,  se  a  é  radice  della  f  (x)  =  0,  ed  è  anche  radice 
di  ordine  h  —  1  >  0  per  la  f'  (x),  sarà: 

fjx)     ^f{x)-f{a)^        f'{x,) 
{x  —  af  {x  —  af  h  {xr  —  af-^ 

(dove  Xi  è  un  punto  intermedio  tra  a  ed  x). 

Per  ipotesi  esiste  il  limite  per  0:1  =  a  del  terzo  membro 
(finito  e  diverso  da  zero).  Altrettanto  avverrà  del  primo;  cioè 
f{x)  =  0  avrà  a  come  radice  di  ordine  h. 


(*)  La  o  [x)  vale  per  definizione  r-^-^^ — -?  per  a?  4=  a,  e  vale  lim  j-^ r^^  nel 

punto  x^=a.  L'ipotesi  del  testo  è  soddisfatta  se  p.  es.  f  {x)  è  razionale,  oppure 
è  una  serie  di  potenze. 


204  CAPITOLO   IX    —    §    64 

In  particolare: 

Condizione  necessaria  e  sufficiente  affì))cM  a  sia  radice 
della  f  (x)  =  0  di  ordine  maggiore  di  1  è  che  a  sia  radice 
della  f  (x)  =  0,  e  sia  radice  (di  ordine  positivo)  della  f'  (x)  =  0. 

Questo  teorema  ha  particolare  importanza  nel  caso  dei  poli- 
nomi P  {x).    Se  P(x)  =::  «0  (a;  —  ai)  {x  —  «2) (x  —  aj,  uno 

dei  numeri  ai,  a^^  ....,  a,,,  p.  es.  «i,  sarà  radice  della  P(:z?)  =  0  di 
ordine  h,  soltanto  se  /i  è  un  intero. positivo,  e  se  tra  i  numeii 

ai,  a2, ,  a„  ve  ne  sono  li  uguali  ad  aj.  Il  fattore  corrispondente 

X  —  cLi  compare  h  —  1  volte  in  P' {x),  h  —  2  volte  in  P"  (x), , 

una  volta  in  P^^~^Hx),  nessuna  volta  in  P^^^(x).  È  facile  dedurne: 

Condizione  necessaria  e  sufficiente  affinchè  ai  sia  radice  di 
ordine  h  per  un'equazione  algebrica  p{x)=^0  è  che /i  sia  un 

intero,  e  che  ai  sia  radice  delle  P(x):=^o,  p'(x)=^o, 

p<''-i)(^)zzzo  e  non  sia  radice  della  P^^'^ix)  =  o. 

Questo  ultimo  teorema  vale  anche  se  ai  è  un  numero  com- 
plesso ed  anche  se  i  coefficienti  di  P{x)  sono  complessi. 

Se  ne  deduce  anche: 

Il  massimo  comun  divisore  di  P  (x)  e  P'(x)  contiene  tutti  e  soli 
i  fattori  multipli  del  polinomio  P  (x)  ;  e  precisamente  contiene 
h  —  1  volte  un  fattore  multiplo  di  ordine  h.  Se  Q  (x)  è  il  quoziente 
di  P  (x)  per  tale  massimo  comun  divisore,  V equazione  Q  (x)  =  0 
ha  per  radici  semplici  tutte  e  sole  le  radici  di  P  (x)  =  0. 

Si  può,  del  resto,  dedurre  da  quanto  precede  un  metodo  più  completo  per 
approfondire  l'esame  di  una  equazione  algebrica  dotata  di  radici  multiple.  E  noi, 
per  semplicità,  lo  esporremo  in  un  caso  particolare. 

Consideriamo  un'equazione  dotata  di  radici  multiple,  p.  es.,  la  : 

Il  massimo  comune  divisore  »  {z)  tra  la  f{z)  e  la  sua  prima  derivata  /'  {z)  è: 

.  {z)  =={z-c)  (z  -  d)  (z  -  ef  {z  -  f)\ 
Del  pari  il  massimo  comune  divisore  tra  ^(z)  e  o' (z)  è:  , 

.^i^)  =  (^0-e){z-f)\ 
Così  il  massimo  comune  divisore  tra  »,(^)  e  f\{z)  è: 

?2{^)  =  {^-f); 

infine  il  M.  C.  D.  tra  »2  (^)  ^  'i  %  (^)  è  : 
Ciò  posto,  si  formino  i  quozienti: 

^    (^)^/M=:,(^_flf)  (^_5)   (^_c)  (^_d)   (^_e)(^-/); 

^^{^-^'7^.-^ir.-c){z-d){z-e)  {z-n- 


^^'^^^->3(.) 


TEOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE,  ECC.  205 


Indi  si  for 

mino  i 

quozienti  : 

X{z)  = 

=  {z-a)  (z- 

-?>);■ 

X,{z)  = 

--(z 

-c){z- 

-d); 

XM^.- 

=  z  —  e; 

X,{^)  = 

1 

-  z- 

-/. 

Uguagliando  a  zero  questi  quattro  quozienti  si  hanno  quattro  equazioni  :  la 
prima  ha  per  radici  le  radici  semplici  della  proposta  f{z)  =  0,  la  seconda  ha  per 
radici  le  radici  doppie,  la  terza  ha  per  radici  le  triple  e  la  quarta  ha  per  radici  le 
radici  quadruple  di  f(z),  ma  tutte  come  radici  semplici. 

Il  metodo  qui  applicato  vale  in  generale;  e,  generalmente,  si  ottiene  il  risul- 
tato seguente. 

Sia  data  un'equazione  intera  ad  un'incognita  : 

f{z)  =  rt„  z"  -h  a,  ^«-^  -h -^  an-ìZ-\-an~  0. 

Della  f{z)  e  della  sua  prima  derivata  f'{z)  si  calcoli  il  massimo  comune  divi- 
sore; indi  di  questo  e  della  sua  prima  derivata  si  calcoli  M.  C.  D.  e  così  si  pro- 
segua fino  ad  ottenere  una  costante.  Ciò  fatto  si  divida  f{z)  per  il  primo  massimo 
comune  divisore  trovato,  indi  si  divida  questo  primo  M.  C.  D.  per  il  secondo  mas- 
simo comune  divisore  e  così  via  fino  a  dividere  il  penultimo  M.  C.  D.  trovato  per 
l'ultimo.  Finalmente  si  divida  il  primo  quoziente  per  il  secondo,  il  secondo  per  il 
terzo  e  così  via  fino  a  dividere  l'ultimo  per  l'unità.  I  quozienti  ottenuti  uguagliati 
a  zero  avranno  per  radici  le  radici  semplici,  doppie,  ecc.  dell'equazione  data,  tutte 
come  radici  semplici. 

Esempio. 

Consideriamo  l'equazione  : 

f{z)  =  z'  ~  z'  —  1  z'  -^d  z^  -h  10  z""  —  20  z  -h  S  =  0. 

Cercando  il  massimo  comune  divisore  tra  f{z)  ed  f  (z)  =  6  z-'  —  5  ^*  —  28  z^  4- 
-h  27  ;?2  -h  20  z  —  20,  si  trova  : 

■j{;z)  =  z-'  —  3z-h  2. 
Ora  v'(^r)zzz3^>-2,  il  M.  C.  D.  tra  -/(z)  e  r  (^)  è: 

f,(z)  =  z  —  l 
e  il  M.  C.  D.  tra  -^^iz)  e  f\{z)  è: 

Ora,  dividendo  ciascuna  delle  funzioni  f(z),  ?  {z),  v,  {z)  per  la  seguente,  si 
hanno  le  funzioni  : 

Infine  eseguendo  le  divisioni  -P  {z)  l  'i-,  {z);  i,  (z)  l  ^^  i^)ì  'h  {^)  •  1  si  ottengono 
rispettivamente  i  quozienti  : 

z  —  2,        z-{-2,        z  —  1, 
i  quali,  posti  uguali  a  zero,  danno  le  equazioni  : 

5-2-0,        ^-h2  =  0,        5  —  1  =  0, 

che  hanno  per  radici  rispettivamente  le  radici  semplici,  doppie,  triple  della  proposta 
(ma  tutte  come  semplici).  Dunque  l'equazione  proposta  ha  una  radice  semplice  2, 
una  radice  doppia  —  2,  una  radice  tripla  1. 

Osservazione.  —  L'equazione  f(z)  =  0  avrà  radici  tutte  semplici,  soltanto  se 
il  primo  massimo  comun  divisore  (quello  tra  f{z)  e  f'{z))  è  una  costante:  questa 
osservazione  dà,  come  già  dicemmo,  il  più  semplice  modo  per  riconoscere  se  una 
equazione  ha  radici  multiple,  senza  ricorrere  al  discriminante. 


206       CAPITOLO  IX  —  §  64-65  —  TEOREMI  FONDAMENTALI,  ECC. 

Esercizi. 

1»  Riconoscere   coi   metodi   precedenti  se  e  quando   avviene   che   una   delle 
seguenti  equazioni  ha  una  radice  doppia,  o  tripla,  o  ecc. 

x'^  -i-  tti  x^  -h  a^  X  -h  a^  =  0 
x^-hp  x^  +  qx-hr  =  0 
cosic  —  p  —  0 
e^  —  p  =  0 
\ogx  —  p  =  0 
dove  le  ai,  p,  q,  r  sono  costanti. 

2°  Risolvere  le  seguenti  equazioni,  tutte  dotate  di  radici  multiple. 

x'  -j-  'òx' +  5  x'^-i-lx^-^- 1  x^-h  0X^-^3  x-\-i  —  0 

(radici  ±:  i  doppie  e  —  1  tripla)  ; 

a-*  —  2  ic'  —  3  icM-  4  ic  +  4  =  0 

(radici  2  e  —  1  doppie). 

§  65.  —  Derivazione  per  serie. 

Teor.  Se  la  serie 

(1)  Ui  (x)  -\-  U2  (x)  -h 

è  convergente  nell'intervallo  a  ^  x  ^  b,  se  esiste  la  derivata  di 
ogni  suo  termine,  se  la  serie  delle  derivate 

(2)  ii\  {x)  -4-  U2  (x)  -h  u\  (x)  -h 

è  totalmente  convergente  in  (a,  b),  allora  (2)  rappresenta  pro- 
prio la  derivata  di  (1).  Cioè  la  derivata  di  (1)  si  può  ottenere 
derivando  termine  a  termine. 

Sia  Ln  il  limite  superiore  dei  valori  di  |  Un  {x)  \ .  Per  ipotesi 

la   serie    Li  -h  L2  -f-  L3  -4- è  convergente.    Consideriamo   i 

valori  assoluti  dei  rapporti  incrementali 

(3)  ^- 

quando  x  ^à.  x  -\-  h  variano  nell'intervallo  {a,  b).  Per  il  teorema 
della  media,  la  quantità  (3)  vale  \un{x  -h  Bh)  \^  Ln-  Quindi 
(3)  non  può  superare  Ln.  E  quindi  la  serie 

. ,.       Uiix  -h  h)  —  Ui  (x)       U2  (x  -\-  h)  —  U2  {x) 

(4)        ^ __H _ +  ^ 

Uz  {x  -\-  h)  —  u^  {x) 


h 
è  totalmente  convergente.    Il   suo    limite   per   /i  =  0  è  dunque 
uguale  alla  serie  ottenuta  passando  al  limite  termine  a  termine. 
Perciò  il  limite  di  (4)  per  /i  =  0  vale 

(2)  111  (x)  -h  U2  (x)  -f-  U^  (x)  -h  .    .     ... 

^  /^^^  ^w-.^    1     /..^        1     U{x-^h)  —  u(x) 

Ora,  se  u  {x)  e  la  somma  di  (1),  la  (4)  vale 

T^  1  •      /c.^     >     -1    1-       uix-^-h)  Uix)     ,    .         .        ,.    . 

Dunque  la  sene  (2)  e  il  lim ~ cioè  vale  u  (x). 

h  =  o  ri 


CAPITOLO  X. 
SERIE  DI  POTENZE 


207 


§  66.  —  Cerchio  di  convergenza. 

Diciamo  serie  di  potente  una  serie  del  tipo 
(1)     (Co  -h  fiiX  -^  Ciò  x^  -h  (h  x^  -+- -H  ctn  x""  H-  

dove  le  an  sono  costanti,  x  si  considera  variabile. 

Non  escludiamo  che  le  a,  x  possano  anche  essere  numeri 
complessi.  Tali  serie  sono  la  pili  naturale  generalizzazione  dei 
polinomi. 

Teor.  Se  (1)  converge  per  x  =  a  #=  0,  e  se  P  è  un  numero 
positivo  minore  di  |a|,  allora  la  serie  (1)  converge  totalmente 
nel  campo  definito  dalla  : 

Se  (1)  non  converge  per  x  =  A,    essa  non  può  convergere  per 
nessun  valore  di  x,  di  modulo  superiore  ad  A. 

Dm.  Se  (1)  converge  per  a::  =  a,  allora  (§42,  £,  pag.  142) 

lim  I  ttn  a*'  I  =  0. 

Si   potrà   trovare  un  numero  positivo  k  maggiore  di  tutte 

le  I  «n  a"  I  (*).  Ora  per  1  a;  |  ^  P  si  ha 


a,,  a;"  I  =  I  <'n  «"  ^n 


=    <U  a' 


OC 


p 


p 


Poiché    —    <  1,  i  termini  di  (1)  hanno  nel  campo  |  a;  1 1^  ^ 

I 

dei  valori,  il  cui  limite  superiore  non  può  superare  rispettiva- 

S 
mente  k,  k  —   ,  k    ~  , ;    le    quali  costanti  non  sono  che  i 


(*)  Infatti,  preso  un  numero  f  >  0  ad  arbitrio,  si  troverà  un  m  tale  che  per 
«  >  m  sia  I  ttn  ac'  1  <  £.  Sarà  soddisfatta  la  condizione  del  testo,  se  si  assume 
come  numero  li  un  numero  maggiore  della  più  grande  tra  le  seguenti  quantità  : 

I  ao  1  , 1  a,  a  I  ,  I  «2  «M  > ,  I  o.ra  a'"  \ ,  e. 


208  CAPITOLO   X   —   §    66 

termini  di  una  progressione  geometrica  convergente.  Quindi  è 
dimostrata  la  prima  parte  del  teorema. 

E  la  seconda  parte  se  ne  deduce  immediatamente.  Se  in- 
fatti (1)  convergesse  per  un  valore  in  modulo  più  grande 
di  A,  allora  (1)  sarebbe  assolutamente  convergente  per  x^=^A 
(secondo  quanto  abbiamo  ora  dimostrato).  Ciò  che  è  contro 
l'ipotesi. 

Sia  R  il  limite  superiore  dei  moduli  di  quei  valori  di  x  per 
cui  la  serie  (1)  converge.  Sarà  R  =  0  soltanto  se  (1)  converge 
solo  per  il  valore  x  =  0.  Sarà  JS=qo  se  esistono  valori  della 
X  di  modulo  grande  a  piacere,  per  cui  la  (1)  converge. 

Supponiamo  jK  =f-  0,  qo  . 

Sia  k  un  qualsiasi  numero  positivo  minore  di  R.  Esisterà 
un  valore  Xq  di  x  tale  che  k  <  \xo\  ,  che  \xo\  <  R,  e  che  per 
;r  =  a;o  la  (1)  sia  convergente.  Per  il  nostro  teorema  la  serie 
sarà  totalmente  convergente  nel  campo  definito  dalla  \x\  ^  k. 
.  In  modo  analogo  si  prova  che  per  un  valore  Xi  della  x 
tale  che  \xi\>  R  la  serie  (1)  non  converge. 

Osserviamo  che  il  luogo  dei  punti  x  per  cui  \x\i^k  k  un 
cerchio  che  ha  per  centro  Torigine  e  per  raggio  k. 

Riassumendo,  concludiamo  : 

Per  ogni  serie  (1)  esiste  un  numero  positivo  E.  tale  che, 
se  X  varia  dentro  un  qualsiasi  cerchio,  che  ha  per  centro  l'ori- 
gine e  per  raggio  un  numero  k  minore  di  R,  ivi  la,  serie  è 
totalmente  convergente 

Invece  la  (1)  non  può  convergere  per  i  valori  di  x  tali  che 
il  punto  immagine  sia  esterno  al  cerchio  che  ha  per  centro 
V  origine  e  raggio  R. 

Questo  cerchio  (che  ha  per  centro  l'origine  e  per  raggio  R) 
si  dirà  il  cerchio  di  convergenza  di  (1). 

Nei  punti  interni  la  (1)  converge,  nei  punti  esterni  non 
converge. 

Naturalmente,  se  i^  =  0,  non  si  può  parlare  di  cerchi  in- 
terni al  cerchio  di  convergenza  (clie  è  ridotto  al  solo  centro). 
E,  se  i?  =  00 ,  non  si  può  parlare  di  punti  esterni  al  cerchio 
di  convergenza.  Salvo  questa  limitazione,  il  precedente  teorema 
è  vero  in  ogni  caso. 

Nìilla  si  può  dire  in  generale  per  il  comportamento  di  (1) 
sìdla  periferia  del  cerchio  di  convergenza. 

Poiché  2  ^n  x""  converge  e  quindi  ha  uno  e  un  solo  valore 
per  ogni  numero  x  reale  o  complesso,  interno  al  cerchio  di  con- 


SERIE    DI    POTENZE 


209 


vergenza,  noi  potremo  dire  e  diremo  che,  dentro  tale  cerchio, 
tale  serie  è  funzione  della  variabile  x  reale  o  complessa  (*). 
Poiché  le  nostre  serie  sono  la  più  naturale  estensione  dei 
polinomi,  la  precedente  definizione  è  la  più  naturale  generaliz- 
zazione delle  definizioni  date  al  §  50,  pag.   168. 

§  67.  —  Derivate  di  una  serie  di  potenze. 

Consideriamo  la  serie 

(2)     ai-+-2  a2X-h  S  a,^  x'  -f- .....  -\-  n  anx''~^  -\- ., 

che  si  deduce  derivando  (1)  termine  a  termine.  Io  dico  che  anche 
la  (2)  converge  totalmente  in  ogni  regione  tutta  interna  al  cerchio 
di  convergenza  della  (1).  Infatti  sia  y  il  massimo  valore  della 
I  a;  I  in  tale  regione.  Sia  a  un  numero  per  cui  !  a  j  >  y  ed  |  a  |  <  i?. 
La  (1)  convergerà  per  rr  ==  a.  Esisterà  quindi,  come  dicemmo, 
una  costante  k  tale  che  k  ^  |  a„  a"  |  per  tutti  i  valori  di  yi. 

Quindi,  quando  x  si  muove  in  guisa  tale  che  |  x  |  ;^  y  • 


nanX 


k 

a 

La  serie 

2 

n 

k 
a 

nq 

n  — 1 

nq 


(3) 


converge,  perchè  il  rapporto 

nf-'     - 
^  a 


—  1 

=  nanOt 

-Hi)" 

-1 

k 
a 

n 

V 

a 

"    \   dove  è  posto  q         -^ 

<1. 

k 
a 

4-  2 

k 
a 

q-i-  3 

k 
a 

q^-^ 

4 

k 
a 

2' 

n  — 1 


+ 


{n—l)q 


n  —2 


=  (-.7^.) 


di  un  termine  al  precedente  tende  per  n=oo  a  q<l. 


(*)  Per  dare  almeno  un  cenno  del  perchè  si  considerino  come  funzioni  di  una 
variabile  complessa  x  soltanto  i  polinomi  e  le  serie  di  potenze,  ricorderò  l'enunciato 
di  un  celebre  e  meraviglioso  teorema  di  Cauchy  : 

Se  j  è  un  numero  (reale  o  complesso)  che  ha  un  valore  determinato  per 
ogni  valore  reale  o  complesso  di  una  variabile  x,  quando  il  punto  immagine 
di  X  è  interno  ad  una  regione  E,  se  cioè  la  y  è  in  R  funzione  della  i,  e  se 
esiste  ed  è  continua  la  sua  derivata  prima  y\  allora,  se  a.  è  un  qualsiasi  punto 
di  U,  la  j  è  sviluppabile  in  serie  di  potenze  di  x  —  a.  E  tale  sviluppdbilità  vale 
in  tutti  i  punti  interni  al  massimo  cerchio  che  ha  per  centro  il  punto  a.  e  non 
contiene  punti  esterni  ad  R. 

Il  lettore,  che  si  diletta  di  questioni  teoriche,  confronti  questo  semplice  teorema 
coi  teoremi  ben  più  complicati  che  troveremo  più  avanti  per  la  sviluppabilità  in 
serie  di  potenze  di  una  funzione  di  variabile  reale  x. 

14  —  G.  FuBlNl,  Analisi  matematica. 


210  CAPITOLO  X  —  §  67-68 

Dunque,  poiché,  per  quanto  si  è  dimostrato,  i  termini  di  (2) 
non  superano  nelle  nostre  ipotesi  {\x\^y)  i  corrispondenti 
di  (3),  la  (2)  convergerà  totalmente. 

In  virtìi  del  teorema  dato  al  §  65  di  derivazione  per  serie 
se  ne  deduce  quindi  (almeno  se  le  cii  e  la  a:  sono  reali)  che  : 

La  derivata  di  una  serie  (1)  di  potenze  nei  punti  interni 
al  cerchio  di  convergenza  è  uguale  alla,  serie  ottenuta  deri- 
vando (1)  termine  a  termine, 

E  questo  teorema  vale  anche  se  i  coefficienti  della  serie  sono 
complessi  e  se  consideriamo  valori  complessi  della  x  (corri- 
spondenti a  punti  interni  al  cerchio  di  convergenza)  (cfr.  §  50,  P, 
pag.   168). 

Infatti  un  rapporto  incrementale  di  un  termine  a.,  x"  della  (1)  vale,  anche  se 
X  ed  a„  sono  numeri  complessi  : 

an^^'^Z"^"  -=  ^"  \  (^  +  '*)"■"'  -+-  (^  +  hy-^x  +  ...+  (^  4-  h)  a^"-2  +  a;— i  j. 
{X  -n  fi)      X 

Il  suo  modulo  non  supera  in  nessun  caso  pertanto  {na^X''-'^  |,  se  X  è  il 
maggiore  dei  due  moduli  \x\  ed  \x-i-h\.  Poiché,  anche  per  a«  ed  x  complessi, 
la  nanX'"-'^  è  la  derivata  di  anX''  (§50),  si  trova  che  il  modulo  del  rapporto 
incrementale,  anche  in  questo  caso  generale,  non  può  superare  il  massimo  modulo 
della  derivata  prima.  Possiamo  dunque  per  le  nostre  serie  di  potente  ripetere  nel 
caso  più  generale  le  considerazioni  svolte  al  §  65  per  le  funzioni  reali  di  varia- 
bile reale.  « 

Applicando  il  teorema  or  ora  citato  alla  serie  (2),  e  così 
continuando,  si  prova  facilmente  : 

Tutte  le  derivate  della  funzione  definita  da  una  serie  (1) 
di  potenze  esistono  entro  il  cerchio  di  convergenza  ;  e  si  otten- 
gono semplicemente  derivando  termine  a  termine, 

§  68.  —  Formole  di  Mac-Laurin  e  di  Taylor. 

Se  dunque  poniamo  entro  il  cerchio  di  convergenza 

f    (x)  =  ao  -I-  fti  a:  -f-  a-2  x'  -4-  

sarà 

f   {x)  ^=^  ai -^  2  a^  X -\-  

f  (x)  =  [2  ^2  4-  3  .  2  a,  ;r  H- 

f"  (:r)  =  I  3  ^3  -+-  4  .  3  .  2  a4  a;  -h 


f<^>{x)  =  I  n  a„  -f-  (n  H-  1)  n  {n  —  1) 3  .  2  a„_^  i  .t  -h 


SERIE   DI    POTENZE  211 


Ponendo  a;  =  0.  ne  deduciamo 
fiO)  =  ao;    f'(0)  =  a,;    f\0)  =  \2_a2',    r{0)  =  \d^a,', 

/-<")  (0)  =  l^a,  ;  ecc. 

ossia 

_r(o).    _r(o).     .    _rno). 


n 


ao  =  /*(0);    ai  = -pj — ;   ^2=-?^— ;  ;  a,, 

Quindi  : 

+  (^K-  + 

Cioè  : 

Se  f(x)  è  una  funzione  definita  da  una  serie  di  potenze 
della  X,  tale  serie  di  potenze  è  la  serie  (4). 

Questo  celebre  teorema  si  chiama  teorema  di  Mac-Laurin. 
Esso  costituisce,  tra  l'altro,  il  punto  di  partenza  del  calcolo 
infinitesimale  per  le  funzioni  di  variabile  complessa.  (Cfr.  il  teo- 
rema citato  in  nota  al  §  66,  pag.  209). 

Una  prima  conseguenza  molto  importante  è  che,  se  una 
funzione  f{x)  è  sviluppabile  in  serie  di  potenze,  questa  serie 
è  certo  il  secondo  membro  di  (4);  cioè  due  serie  differenti  di 
potenze  della  x  non  possono  avere  la  stessa  somma  fix). 

Uno  studio  aifatto  analogo  si  può  compiere  per  le  funzioni  fix) 
definite  da  una  serie  di  potenze  della  variabile  x  —  oc  (a  =  cost.), 
cioè  da  una  serie 

(5)       fix)  z=zao-h  aiix  —  (x.)  -\-  a.,  ix  —  a)-  -+- 

Si  troverebbe  anche  qui  un  cerchio  di  convergenza,  il  quale 
però  ha  per  centro  il  punto  x  =  a,  anziché  il  punto  x  =  0. 
Sì  troverebbe  pure  che  la  (5)  è  derivabile  termine  a  termine, 
cosicché  la  (5)  coincide  con 

(6)    fiOL)-^f^ix-OL)  +  f^(x~Oif-^.,.+^^ 

1  i  ^  t  ^ 

La  (6)  ha  il  nome  di  serie  di  Taylor.  Del  resto  la  (6)  si 
deduce  dalla  (4),  ponendo  x  —  a  al  posto  della  x. 

Come  caso  estremamente  particolare  delle  serie  di  potenze 
noi  abbiamo  i  polinomi  P„  ix)  di  grado  n.  Ad  essi  è  dunque 
applicabile  il  nostro  risultato:  essi  sono,  cioè,  sviluppabili  in 
serie  (6)  :  anzi  in  tal  serie  saranno  naturalmente  nulli  i  coeffi- 


\ 


212  CAPITOLO  X  —  §  68-69 

cienti  dei  termini  di  grado  superiore  ad  71.  Ciò  che  si  può  veri- 
ficare, osservando  che  un  polinomio  di  grado  n  ha  nulle  tutt'e  le 
derivate  di  ordine  superiore  ad  7i.  Pei*  ogni  polinomio  P^  (x) 
di  grado  n  vale  dunque  (posto  P  =  P„)  la  : 

(7)     PAx)=P  (a)  -f-  ^^  (^  -  a)  +  ^^  (x-ccf-i- 

{x  —  (xy\ 


n 


Il  lettore  verifichi  direttamente  che  (7)  è  una  identità,  svi- 
luppando i  singoli  termini  del  secondo  membro  con  la  formola 
del  binomio. 


§  69.  —  Sviluppabilità  di  una  funzione  in  serie  di  potenze. 

Ci  proponiamo   ora    un    problema   intimamente    connesso   al 
precedente  risultato,  cioè  il  problema  seguente  : 

Se  i  (x)  è  una  funzione  reale  prefissata  della  variabile  reale 
X,  data  in  un  intorno  del  punto  a:  =  a,  come  si  può  riconoscere 
se  essa  è   sviluppabile  in   serie   (di   Taylor)   di  potenze   della  ^ 
variabile  x  —  a  ? 

Se  tale  sviluppo  è  lecito,  allora  in  un  intórno  di  a  dovrebbe, 
come  sappiamo,  valere  la: 

/•(x)  =  /■(«)  +  ^  /■'  (a) + +  ^i^^"  r  («) + 


che  equivale  (per  definizione  di  serie)  alla 
Hm  [fix)  -  }  /•(«)  +  ^  r  (a)  +  ^-■^  f"  (oc) 


(x  —  a)»  ^,„,  ^ 


n 


«)|]=0. 


La   quantità   tra  [  ]   si  chiama  resto,  e  si  indica  con  i?„ 
È  dunque 

(8)    R„  (x)  =  f{x) -  P„ (x)  dove  P„ (x)  =  f{<x)  +  ^  f  («)  +  .... 

4- ^£ZIil" /•(")  (a). 

n 


SERIE    DI    POTENZE  213 


Condizione  necessaria  e  sufficiente  affinchè  f(x)  sia  svilup- 
pabile in  un  certo  intervallo  in  serie  di  potenze  è  che  la  f  (x) 
possegga  ivi  tutte  le  derivate  e  che  il  limite  del  resto  Rn  per 
n  =  00  sia  nullo  (*). 

Esistono  formole  notevoli,  che  permettono  di  scrivere  i?„ 
sotto  forma  più  semplice.  La  più  importante  per  il  teorico  è  la 
formola  di  Cauchy.  La  più  semplice,  che  basta  per  noi,  è  dovuta 
a  Lagrange.  Di  essa  ora  ci  occuperemo,  facendo  la  sola  ipotesi 
che  f{x)  in  un  intorno  di  a  possegga  le  prime  n  -\- 1  derivate. 

Se  noi  confrontiamo  la  (7)  valida  per  ogni  polinomio  P„  (j) 
col  polinomio  Pn  (x)  definito  in  (8),  troviamo  che  per  questo 
polinomio  valgono  le  : 

P«(a)=.Y(a);   P\ia)=f\^):P\{<x).--f"(a);  . . . ;  P<"> (a)  =:. /-<") (a)  ; 

cosicché  : 

P„(a)  =  0;    R\A^)  =  0;  R\{a)  =  0;   ;    P^  W  =  0  : 

d'altra  parte  la  {n  -+-  ly'"'^"'  derivata  di  Pn(x)  è  dappertutto  nulla, 
perchè  Pn  (x)  è  di  grado  n.  E  quindi  si  ha  : 

Applicando  alla  Rnix)  il  teorema  di  Lagrange  del  §  63, 
pag.   199,  troviamo  così: 

(8  bi«)     R„  ix)  =  ^^      J   ---  R^:  +  ■>  (D  -  ^  "^       r  +  •'  (5), 

n  -h  1  n  -hi 


dove  5  è  un  punto  intermedio  tra  a  ed  x. 

Notiamo  le  seguenti  due  forme,  che  si  possono  dare  alle  (8), 
(8  ^^^),  ponendo,  a  =  0,  oppure  x  ^=^  ce  -+■  h: 

f{x)  =  f(0)-h^f\0)-h~f\0)-h.,,-h^f''\0)^'^ 


/-(a  -hh)^  f{a)  -4-  hf  (a)  -4-  -^  f  (a)  +  .. 

+  r^  f-'  (a)  4-  ^^  r^'^  (a  -^  e  h), 

\n  «  +  1 


Formole  tutte  che  valgono,  purché  ìtelV intervallo  considerato 
esistano  e  siano  finite  le  prime  n -4- 1   derivate  di  f(x). 


(*^  Il  teorema  di  Cauchy,  citato  in  nota  al  §  66,  ci  dice  che  queste  condizioni 
sarebbero  certamente  soddisfatte  in  un  certo  cerchio,  se  f(x)  /osse  funzione  della 
variabile  complessa  x  con  derivata  prima  finita  e  continua  !  ! 


214  CAPITOLO   X   —   §    69 


Ponendo  n  ^=1,  2,  3, si  trova 

[f{oi-i-h)-rf{oi)  +  hfi<x  +  Qh)  =  f{oi)  +  hf'ia)  +  ~f{cc  +  ()h) 

I       =  /•(«)  +  ¥'(«)  + 1^  /•"(«)  +  r^  /■'"(«  +  e/»)  = 

La  prima  fòrmola  coincide  col  teorema  della  media  di  La- 
grange.  Si  avverta  che  i  numeri  0,  che  compaiono  nel  2"*,  nel  3**, 

nel  4° membro,  sono  generalmente    distinti   Tuno   dall'altro 

(pure  essendo  tutti  compresi  tra  0  ed  1). 

Se  f{(x)  =  /"(a)  = =  f^^  (a)  =  0,  tale  formola  si  riduce 

al  citato  teorema  di  Lagrange  del  §  63. 

Esempi. 

1»  Per  ottenere  la  forma,  sotto  cui  Cauchy  scrisse  il  resto  JR,  poniamo  in  (8) 
ì)  al  posto  di  a;  ed  X  al  posto  di  a.  Otterremo  : 

f(h) = f{^) + ^  r  (^) + ^-^li^  r  (^) + '^^^'  f""  w + n.. 


donde  : 


B.  =  fQ>)  -  [f{x)  -+-  ^-^  r  (x)  -h +  ^-^  ff")  (X)  ]. 


Consideriamo  -K«  come  funzione  B>^{x)  della  x.  Si  ha: 

R,  (b)  =  0,  R.  (x)  =  Rn  {X)  —  R,,  (b)  =  (x-h)  R'u  (y), 

dove  y  è  (per  il  teorema  della  media)  un  punto  interno  all'intervallo  (b,  x).  Quindi, 
poiché  (come  dimostra  un  facile  calcolo) 

si  ha: 

R„  {X)  =  -(x-h)  ^—^^  f  <«  +  ^>  (yy 

Questa  formola  è  dovuta  a  Cauchy.  Se  poniamo  ì)  =  x-^h,9  quindi  y=x  +  6h 
(0  <  e  <  1)  si  otterrà  : 

nX  +  h)=f  (X)  -+-  y  r  (X)  +  j^  f"  (X)  +  +  r^  P"^  (X)  H-  Rn  , 

ove 

R„  =  h"-^'  ^^  ~  ^^"-  fi"  +^)  (X  -+-  e  h) 

dove  naturalmente  figura  un  o  affatto  distinto  da  quello  che  compare  nella  formola 
di  Lagrange. 

Teorema  2°  JL  (di  Bernstein).  Condizione  necessaria  affinchè  { (x)  sia  svilup- 
pabile in  serie  di  Taylor  nell'intervallo  0  ^  x  <  R  è  che  f  (x)  sia  in  tale  inter- 
vallo differenza  di  due  funzioni  &,  (x)  e  ^^00^  ^^^  *^*  *^^*^  ^^^^  negative  insieme 
a  tutte  le  loro  derivate. 

Infatti,  se  f(x)  =  ^anX",  si  può  indicare  con  »,  (ic)  [con   -^2(^)1  rispetti- 


SERIE   DI    POTENZE  215 


vamente  la  somma  di  quei  termini  della  nostra  serie,  che  hanno  coefficiente  positivo 
[negativo]  ;  oppure  porre 

^1  {^)  -  S  1  ««  I  x'%        V2  («^)  =  S  (  !  ««  I  —  ««)  ^'"' 

Teorema  2"  JB  (di  Bernstein).  La  precedente  condizione  necessaria  è  anche 
sufficiente. 

Sia  infatti  i-  (x)  una  funzione  positiva  in  0  ^  ic  <  J?  con  tutte  le  sue  derivate. 
Se  0  <  /i  < i?,  nell'intervallo  h^x  ^R  si  avrà 

C.W  {x)^  s.(«)  (/O         (psrchè  o("+i)  ^  q), 
donde,  integrando 

c;(«-i)  {x)  ^  ?(»-i)  (ic)  —  «-("  - 1>  (/i)  ^  (a;  —  h)  «>(«)  (/*,) 

il. 


Cioè,  posto  7-  =  e,  dove  0  è  compreso  tra  0  ed  1,  sarà  : 

Posto  : 

(1 d>»  - 1 

«|.«  (9,  X)  =  X"  ^~. ^——  f^''^  {6  X)  , 

n  —  1 

si  ha  (Cauchy)  che  (per  un  valore,  generalmente  ignoto,  di  e)  la  *«(''^ic)  rappre- 
senta il  resto  della  serie  di  Taylor  relativa  alla  funzione  v  (x).  Ora,  per  il  nostro 
risultato, 

>h,,(ù^x)^x''^"(x)^—^ 

e  tende  per  w  =  co  a  zero  (ciò  che  basta  ad  assicurare  la  sviluppabilità  di  ^  (x) 
in  serie  di  Taylor).  Essendo  o^  (x),  »2  (^)  sviluppabili  in  serie  di  Taylor,  altrettanto 
avverrà  di 

f{x)-=  ?,  (a?)  —  ^2  (a?). 

Anzi  il  resto  della  corrispondente  serie   di   Taylor,   scritto   nella   forma   di 
Cauchy,  sarà  uguale  alla  differenza  tra  le  '^,i{OyX)  corrispondenti  a  'r,  (x)  ed  a  ^r^i^)- 
Tale  resto  di  Cauchy  sarà  dunque  minore  di 

^ -^  (1  -  ») [?,"  (r)  +  ?,"  (r)]      (se  x^r< R), 
n  —  1 

e  perciò,  prendendo  n  abbastanza  grande,  si   può  rendere  minore  di  un  numero  e 

piccolo  a  piacere.  Basta  prendere  w  —  1  ^     '•^'       -2  \  n  ^  jy  secondo  membro 

di  questa  disuguaglianza  non  dipende  da  0  ;  cioè  l'espressione  del  resto  di  Cauchy 
si  può  rendere,  scegliendo  n  abbastanza  grande,  minore  di  un  numero  f  prefissato 
(piccolo  a  piacere)  co»<cmporaweawew*c  per  tutti  i  valori  di  0  compresi  tra  0  ed  1. 

Teorema  3"  (di  Pringsheim).  L'espressione  trovata  del  resto  di  Cauchy 
converge  pertanto  uniformemeiite  a  zero,  quando  x  varia  in  un  qualsiasi  inter- 
vallo 0  ^  X  ^  r,  dove  r  <  E,  e  B  varia  arbitrariamente  nell'intervallo  (0, 1). 

Un  risultato  analogo  non  vale  per  il  resto  di  Lagrange;  il  quale  perciò 
presenta  nelle  applicazioni  il  difetto  che  talvolta  non  si  può  affermare  esser  nullo 
il  suo  limite,  perchè  non  si  conosce  il  valore  esatto  di  9.  L'ignorare  tale  valore 
non  ha  invece  importanza  per  il  resto  di  Cauchy. 


216  CAPITOLO  X   —   §   69 

3"  Dimostrare  che: 

f  [X)  =  /-(O)  -h  xf  {x)  -  .....  -h  (-  ly-^  1  ^  fin)  (^)  4.  ji^^ 

I  n 

ove  : 

E  scrivere  J?„  sotto  una  forma  analoga  a  quella  di  Cauchy. 
Ris.  Si  ponga  f{(i)  —  f{x  —  x). 
4*  Dimostrare  che  : 

/U-^a.;~n^j    i  +  ^rw-f +  (1^^).    1^   ^^ 

(  1  -1-  xf+^      \n^_\  '  V        1-hx) 


n     , 


ove  : 


X 

Ris.  Si  ponga  .-,  —  =  x  +  /^,  ossia  Ji  = 


1-j-x  '     '  1-hx 

4°  Applicheremo  quanto  abbiamo  detto  allo  sviluppo  in  serie 
(li  qualche  funzione.  Vediamo,  p.  es.,  di  sviluppare  in  serie  di 
Taylor  la  funzione  sen  x. 

Occorre  anzitutto  cercare  le  successive  derivate  Aìf{x)=^sen  x 
e  calcolarne  il  valore  per  a;  =  0.   Si  ha  : 

f    {x)  ^=^       cos  X,  per  cui  f    (0)  =        1 

f"   {x)  =^  —  sen  X,  per  cui  f"  (0)  =       0 

f"  {x)  =  —  cos  X,  per  cui  /*'"  (0)  =  —  1 

f"  ix)  =       sen  X,  per  cui  f""  (0)  =       0 


Essendo  f^^  {x)  =  f{x)  sarà  f''^  {x)  =  f  {x) ;  cosicché  le  de- 
rivate di  /'(x)  =  sena;  si  riproducono  periodicamente  a  quattro 
a  quattro,  ed  in  particolare  si  riproduranno  a  quattro  a  quattro 
i  valori  che  le  successive  derivate  assumono  per  a;  =  0  e  che 
noi  abbiamo  precedentemente  calcolati.  Per  la  formola  di  Mac- 
Laurin,  supposto  n  =  2  m,  cioè  n  pari,  abbiamo  : 

1      H       1      ->        1      ^         -       1 


sen  x  =  x  — —-  o[f^  +  n^—  x''  — r^r-  a;'  +  ...  -4-  ~z r  x'^'"'    ^  +  Bn  (x) 


2m  — 1 


^2..  +  i 


dove    Rn  (x)  =  ±  — — -   cos  (dx)  soddisfa   certamente 

2  m  H-  1 


x"'^-^' 


alla  \En\^  \—T- L  poiché  !  cos  (0  x)\^l.  Per  passare  dalla 

2  m  -f-  1 


formola   di   Mac-Laurin    alla   serie,  basterà  dimostrare  che  Bn 
tende  a  zero  quando  n  =  2  m  tende  airinfinito  ;  ciò  é  evidente 


SERIE    DI   POTENZE  217 


perchè  già  abbiamo  visto  (esempio  1*  di  pag.   151)  che 

lim  I —  =  0. 


Si  ha  dunque  : 


:^        x"         x!         :^ 
sen  X  =  a:  —  v^  -^  rz Tir  -4-  r— - 

3  5  7  9 


In  modo  analogo  si  dimostra  che  : 

x^    ^  ^         x' 


Il    resto    della    serie    di    Taylor   per   la   funzione    e*    vale 
, —  e^"",  ove  e^"  è  compreso  tra  e"  =  1  ed  e'*'  (perchè  0  è  compreso 

tra  0  ed  1,  e  di  due  potenze  di  e  è  maggiore  quella  con  espo- 
nente maggiore).  Quindi  e^*  non  supera  il  piii  grande  dei   due 

numeri  1  ed  é"  (*)  (che   non  varia  con  n).  D'altra  parte  -, — 

I  n 

tende  a  zero  per  n  =  oD .  Quindi  é^  è   sviluppabile  in   serie  di 
Taylor,  perchè  il  resto  R^  tende  a  zero  per  n^=:^^ ,  Si  trova  : 

^  ,  X  X"  X? 

Quest'ultima  serie  si  dice  esponenziale,  e  serve  a  calcolare 
un  numero  y  =  e"',  di  cui  sia  dato  il  logaritmo  neperiano  x. 
5°  Si  sviluppi  in  serie  di  Taylor  ^  =  (1  +  .t)"'.  Poiché 

2/^")  =  m  (m  —  1)  ...  (m  —  n  -f-  1)  (1  -f-  xT~'\ 
sarà 

^    ,  ^   m{m — 1)    ^    ^    m{m  —  1)  (m  —  2)    3    , 

y  =i\  -\-  mx  A ^— ^x  H ^ T-^ -x^  -f-  


quando  il  limite  del  resto  sia  nullo.  Se  m  è  intero  positivo, 
allora,  per  ogni  valore  della  x,  la  precedente  serie  si  riduce  a 
un  polinomio,  perchè  y^"^  =  0  per  n  >  m,  ed  il  resto  stesso  è 
nullo  già  per  t^  =  m-+-l.  Si  ritorna  in  tal  caso  alla  nota  for- 


(*)  Se  a?  >  0,  e*  è  più  grande  di  1  ;  invece,  se  a;  <  0,  è  e*  <  1. 


218  CAPITOLO   X   —   §    69 


mola  del  binomio  di  Newton.  Se  m  non  è  intero  positivo^  si 
dimostra  che  il  resto  tende  a  zero,  e  che  il  precedente  sviluppo 
in  serie  è  legittimo  se  |  a:;  |  <  1  (e  non  se  |  rr  |  >  1  ;  il  caso  |  a;  |  =  1 
non  ci  interessa)  (*). 

Tale  serie  dicesi  binomiale. 

Questo  risultato  si  può  provare  direttamente  nel  seguente  modo.  Dal  §  45, 
pag.  151,  sappiamo  che  la  serie  precedente  converge  per  1  ic  !  <  1.  Sia  f  {x)  il 
suo  valore.  Sarà  : 

^r  /  X           i  -.    ,   »w  —  1      .  (m  —  1)  (m  —2)    2  ,  ì     ,       11^-,, 

f'{x)=^m\  I-i ^  X  -h  ^^ j^ x^  4- j     (per  \x\<  1). 

Cosicché  si  trova  facilmente  che  : 

/^   .     X  X.  /  N         ^  /  X        •    f  i^)  ^  .     ^  log  I  fi        d  log  1 14-  i»^  1  '" 

(1  +  x)  f  (x)  =  mf  (x),  ossia.  '^-^  — -  -- — ,   ossia       ^"  '  —        ^  ' 


Quindi  log  I  /  1  -  log  1 1  +  0)  1  "^  =  log  |  ^^  ^  ^^ ,, 
stante.  Dunque  '     ' 


f{x)        l  +  a?'  dx  dx 

f 


ha  derivata  nulla,  cioè  è  co- 


è  costante,  ossia  (poiché   è   uguale  ad   1  per  x  =  0) 

vale  1.  Dunque  f(x)  non  é  mai  nullo;  e,  poiché  è  positivo  per  x  =  0,  sarà  posi- 
tivo in  tutto  il  campo  \  x  \  <il,  ove  f(x)  è  definito.  Dunque  \  f  {x)  |  =  f  (x).  Per 


\x\<l  anche  (1  -+-  x)"^  >  0.  Quindi  ^/^ly, 


(1  -♦-  xy> 


1,  cioè 


f(x)  =  {l  +  x)'".  e.  d.  d. 

6*  Per  sviluppare  in  serie  y  =  log  (1  -h  x)   si  noti  che 

^'  =  (1  -f-  x)~\  y"  ■=  —  (1  -+-  x)~%  ecc., 

yin,  ^  (_   j^n+l   [^_X    (1    4-  Xr'\ 

Lo  sviluppo  in  serie  sarà  : 

(1)  log    (l+^)  =  X-y  4-y-|^  +  , 

purché  il  resto  tenda  a  zero.  Senza  studiare  il  resto  possiamo 
provare  direttamente  la  (1)  per  |  a:*  i  <  1.  [Nel  caso  \x\'>  l  si 
può  dimostrare  similmente  che  la  serie  precedente  non  converge  ; 
il  caso  di  ;r  =  ±  1  non  ci  interessa].  Se  |  a;  |  <  1,  il  valore  asso- 


(*)  Questo  sviluppo  in  serie  può  essere  talvolta  utile  per  calcolo  di  V  N, 

N 
se   JV  >  0.   Detto   h  un  intero  positivo  tale  che  -^.  sia  compreso   tra   0   e   2, 

N  '/— 

si  ponga  —^=1  4-  x,  dove   sarà  1  ic  l  <  1.   Sarà  y  N=  W  (1  4-  oc)»',   dove   è 

posto  m  —  — .  Si  può  allora  applicare  la  formola  precedente.  Il  calcolo  è  special- 
mente rapido,  se  \x\  è  piccolo. 

E'  forse  inutile  avvertire  che  è  sempre  sottinteso  di  dare  alla  x  valori  tali 
che  esista  un  valore  reale  di  {l-\-xy"  (ciò  che  avviene  se  l  ic  i  <  1)  e  che  tra 
i  valori,  di  cui  (1  4-^)"'  può  essere  suscettibile,  si  scéglie  quello  reale  e  positivo. 


SERIE    DI    POTENZE  219 


luto  del   rapporto  di  un  termine  al  precedente  nella  serie  (1), 


Cloe 


X 


tende  per  n  =  oo 


n         n  —  1  I         I  V  n  / 

ad  |a;|<l.  Cosicché  la  serie  del  secondo  membro  di  (1)  con- 
verge. Se  9  (x)  ne  è  la  somma,  si  trova  derivando  : 

cp'  (.r)  =  1  —  X  -h  x^  —  a;''  -H  x'' ; 

il   secondo  membro  è  una  progressione  geometrica  decrescente, 

il  cui  rapporto  è  —  x,  e  la  cui  somma  vale  dunque = 

=  -r—  [log  (1  -\-  x)\.  Dunque  cp  {x)  —  log  (1  H-  a:)  ha  derivata 

dX 

nulla,  ed  é  quindi  costante.  Ma  per  x  =  0  tale  differenza  é 
nulla.  Dunque  9  {x)  —  log  {\  -\-  x)  è  sempre  nulla.  E,  come  si 
doveva  provare,  9  {x)  '==■  log  (1  -\-  x). 

Questa  serie  serve  al  calcolo  diretto  dei  logaritmi  dei  numeri 
1  4-  a;,  ove  \x\<\,  ossia  dei  numeri  minori  di  2.  Ora,  preso  un 

qualsiasi  numero  positivo  A:,  almeno  uno  dei  due  numeri  ^,  — 

n, 

è  minore   di   2.  E   quindi   per   mezzo  della  serie  precedente  si 

può  calcolare  uno  dei  numeri  log  ^,  log  — -  e  quindi  anche  l'altro, 

perchè  questi  due  numeri  sono  uguali  e  di  segno  contrario, 
cosicché,  se  uno  di  essi  é  noto,  é  noto  anche  Taltro.  Ma  si 
possono  trovare  serie  assai  più  comode  per  il  calcolo  numerico. 
Posto  in  (1)  —  x  al  posto  di  x^  si  trae: 

log(l-x)  =  -a;-^--|-^- {k|<l); 

la  quale,  sottratta  dalla  (1),  dà  : 

^^^f^|=^^^(l-^^)-l^^(l-^)^2|x  +  |'  +  ^4....|(|a;|<l). 

Posto =  z,  ossia  X  = ,  sarà  \x\<.\  per  ^  >  0, 

1  —  X  z  -\-  \ 

cosicché  per  ogni  numero  positivo  z  si  avrà  : 

(2)log.=  2|~~+-(^^)+-(^-:^)+ |. 

Così,  p.  es.,  se  si  pone  z  =  2,  si  trova  : 


220  CAPITOLO   X    —    §    69 


Se,  tenendo  conto,  p.  es.,  dei  soli  primi  8  termini,  poniamo: 

commettiamo  Terrore  (in  difetto) 

21  1   /1\'      1   /1\'  )        2    \  1        11        11 


17  \9/  "^19  \9/ 


+  —  -  +  —  -.  + 


3(17X9/       19X9/      (      3.9'Ì17      19  9      219'      ••- p 

— ,  —    1  -f-i  +  —  4- ....  i  = ^- = =0,000000001 

3.9'17(         9      9'         \     3.17.9'        1      975725676       ' 

9 

Un  tale  errore  è  già  dunque  estremamente  piccolo  ;  e  ancor 
minore  lo  si  renderebbe,  se  aumentassimo  il  numero  dei  termini 
di  cui  si  tien  conto. 

Si  calcoli  log  5.  Si  trova 

5  5 

log  5  =  log  4  -4-  log  -—  =  2  log  2  -f-  log  -—  • 

Essendo  noto  log  2,  basterà  calcolare 

■»^4  =  .liH(i)Vi(i)V t 


4(9 

ancor  più  comoda  della  precedente  al  calcolo  numerico,  come 
il  lettore  può  verificare  con  metodo  simile.  I  logaritmi  fin  qui 
calcolati    sono    in   base   e.    Per  trovare  i  logaritmi  decimali  si 

ricordi  che  log„  .  =  M  log. .,  ove  M=  ^^  =  log,  2  l  log.  5 

si  trova  facilmente,  in  virtù  dei  precedenti  calcoli  numerici, 
uguale  a  0,434294481 e  si  dice  modulo  dei  logaritmi  de- 
cimali. 

Si  ha  cosilog.o.-2ifj^-^-^-(^-:^)  4.(^-^)4- y 

Il   calcolo    delle    tavole  logaritmiche  viene  poi  facilitato  da 

altri  artifìci:  p.  es.,  dall'osservazione  che  logio  10"  =  >2,  che  il 

logaritmo  di  un  prodotto  è  uguale  alla  somma  dei  logaritmi  dei 

w  -f-  1 
fattori,  che  log  (n  -h  1)  =  log  n  -f-  log ;  cosicché,   noto 

^  ,      *^  H-  1  . 

log  w,  si  calcola  tosto  log  (n  4-  1)  quando  si  conosca  log  — —  ' 

11 

il  quale  ultimo  logaritmo  viene  espresso  da  (2)  sotto  forma  di 

serie  rapidamente  convergente,  specialmente  se  ti  è  un  numero 


SERIE    DI   POTENZE  221 


non  troppo  piccolo,  ed  è  la  cosidetta  differenza  tavolare,  il  cui 
ufficio  è  così  noto  a  chi  abbia  consultato  tavole  di  logaritmi 
(pag.   201,  §  63,  Y). 

7^  In  modo  affatto  analogo  si  prova  che   per 

U|<i,--<y<-. 


vale  la: 


y  —  arctg  x  =  x  —  ~ -i- -^  — -j  -^ 


Basta  osservare  che  per  |  r  |  <  1  la  serie  al  secondo  membro 

converge  ed  ha  :, ^  per  derivata,  e  che  per  x  =  0  essa  si 

1  -h  ^^ 

annulla  come  arctg  a;.  Da  tale  serie  si  deducono  formole  notevoli 

per  il  calcolo  di  tt;. 

71  1  1 

Cosi   osservando    che  -,-  =  artg  —^  e  che  -7=<  1,  si  trova, 

6  V  3  1/3 

ponendo  x  =^ 


l/3 


Un  metodo  ancor  più  comodo  per  il  calcolo  numerico  di  -x  è  il  seguente. 
Sia-  oc  l'angolo,  la  cui  tangente  è  -_-  .  Sarà  / 

j.    „  2tg«  5 

<.    A  2tg2«  ,    ^      1 

Essendo  tg  4  oc  >  1,  sarà  4  a  >  -^  .  Esisterà  un  angolo  positivo  ^^  tale  che 

|2=r4a-^- 


tgi5  =  tg^4a-^^ 


tg4a  — tg-^  ^ 

1  4-  tg  4  oc  tg  -j 
Sarà  allora: 


2:22  CAPITOLO  X  —  §  69  —  serie  di  potenze 

2  1 

donde,  ponendo  nella  nostra  serie  successivamente  x  =  ^,  jc--  ^^  si  trova  : 

4  UO       3  1000  "*"  5  100.000      \ 

'  239       3  V239y        5  ^39/       i 

la  quale  formola  ha  servito  al  calcolo  di  tt  fino  alla  704'^'^'"'*  cifra  decimale.  Come 
esercizio,  il  lettore  ne  deduca  il  valore  di  -^  con  due  cifre  decimali  esatte. 

8**  Analogamente  si  osservi  che: 

1  ,  -  - 

(arcsen  xY  =     .  ,  =  (1  —  x')     -  ; 

Vi  —  x^ 

che  per  |  a;  !  <  1  si  può  sviluppare  in  serie  binomiaìe  : 


(-i)(-i->) 


(1  _  xT  i=i-j(—  x')-^- — ^W^ — -  {-  x'y 

x^         1.3.       1.3.5, 

H- =z  1  -f-  —  +  -o-n-  x"  -h    ^o ,  ^    x"" 

2         2M  2  2'    3 


Si  trova  per  |  a;  |  <  1  con  metodo  analogo  al  precedente  che  : 


3 


X 


1  .  3   :r'       1.3.  Sa;'      1.3.5.7x' 


arcsen x  =  a: -h- — -  -f- ^^  i  ^ 1 — o ,  ^     ~~\ — TrT~; —  7r+---- 

2.3      2'    2    5        2'    3     7  2'    4       9 


223 


CAPITOLO  XI. 

MASSIMI,  MINIMI,  FLESSI 

Osservazione.  Lo  studente,  che  segua  contemporaneamente  il  corso  di  meccanica 
razionale,  potrà  dopo  questo  Capitolo  studiare  i  paragrafi  dedicati  alle  rette 
tangenti,  ai  cerchi  osculatori,  ecc.  di  una  sghemba. 


§  70.  —  Massimi  e  minimi  (relativi). 

a)  Una  prima  applicazione  della  teoria  delle  derivate  è  quella 
della  ricerca  dei  massimi  o  minimi  di  una  funzione. 

Per  un  tale  studio  è  opportuno  però  precisare  un  po'  il  signi- 
ficato della  frase:  punto  di  massimo  o  di  minimo,  con  le  seguenti 
definizioni.  Diremo  che  (cfr.  le  definizioni  del  §  62,  pag.  193)  : 

Una  funzione  f  (x)  ha  nel  punto  a,  interno  alV intervallo 
ove  è  definita  la  funzione,  un  massimo  relativo,  se  esiste  un 
numero  k  tale  che  in  tutto  V intervallo  (a  —  k,  a  -f-k)  la  funzione 
assume  valori  non  maggiori  di  f(a),  ossia  se  la  differenza 
f  (a  -4-  h)  —  f  (a)  è  negativa  o  nulla  per  |  h  |  ^  k. 

Analogamente  si  dice  che  nel  punto  a  la  funzione  ha  un  minimo 
relativo,  se  esiste  un  numero  k  tale  che  nell'intervallo  (a  —  k, 
a  -f-  k)  la  funzione  assume  valori  non  minori  di  f  (a),  ossia  se 
la  differenza  f  (a  -H  h)  —  f  (a)  è  positiva  o  nulla  per  |  h  |  ^  k. 

La  funzione  f  (x)  si  dice  crescente  nel  punto  a,  se  esiste  un 
numero  k  >  0  tale  che  la  funzione  assume  in  (a,  a  -4-  k)  valori 
maggiori  che  in  a  ed  in  (a  —  k,  a)  valori  minori  che  in  a.  ossia 
se  f  (a  -4-  h)  —  f  (a)  ha  il  segno  di  h  per  |  h  |  i^  k. 

La  funzione  f  (x)  si  dice  decrescente  nel  punto  a,  se  esiste 
un  numero  k  >  0  tale  che  la  funzione  assume  in  (a,  a  -f-  k) 
valori  minori  che  in  ^  ed  in  (a  —  k,  a)  valori  maggiori  che 
in  a,  ossia  se  f(a-hh) — f(a)  ha  segato  opposto  al  segno 
di  h  per  |  h  |  <  k. 

Talvolta  si  dice  senz'altro  che  un  punto  di  massimo  o  di 

minimo  relativo  è  un  punto  di  massimo  o  di  minimo  (*). 

È  interessante  osservare  che  esistono  funzioni  continue  f{x),  le  quali  in  un 
punto  x-~a  non  hanno  né  un  massimo,  né  un  minimo  relativo,  pure  non  essendo 


(*)  Taluni  chiamano  un  punto  di  a  punto  di  massimo  soltanto  sef{a-hh)  ~  f{a) 
è  positiva;  punto  di  minimo  se  fia-i-h)  —  f(a)  è  negativa  (cfr.  l'oss.  al  §  62, 
pag.  193). 


224 


CAPITOLO   XI    — 


70 


in  tale  punto  né  crescenti  né  decrescenti  ;  e  ciò,  perchè  in  ogni  intorno  di  a  esse 
assumono  tanto  valori  maggiori,  che  valori  minori  di  f  (a).  Tale  è,  p.  es.,  la  funzione 

/  (x)  che  è  nulla  per  a?  =  a  ed  é  uguale  ad  {x  —  a)  sen  ;— —  per  x  ^  a. 

Tali  funzioni  non  hanno  quasi  importanza  nelle  scienze  applicate. 

Da  queste  definizioni  segue  che  una  funzione  f{x)  può  in 
un  dato  intervallo  avere  parecchi  massimi  o  minimi  (relativi). 
Cosi,  p.  es.,  la  funzione  rappresentata  dalla  curva  della  nostra 
figura  23  ha  punti  di  massimo  relativo  in  A,  B,  C,  D,  E  e  punti 

di  minimo  relativo  in  A\  B\  C\  D  Essa  è  crescente,  p.  es., 

in  ^  e  decrescente,  p.  es.,  in  K. 


Fig.  23. 

E  utile  anche  osservare  che  può  succedere  che  il  valore  di  una 
funzione  in  un  punto,  cui  corrisponde  un  massimo  relativo,  sia 
uguale  od  anche  minore  del  valore,  che  la  funzione  ha  in  un  altro 
punto,  in  cui  la  funzione  possiede  un  minimo  relativo.  Così,  p.  es., 
nel  caso  della  figura,  il  valore  della  funzione  nel  punto  E,  che  è  un 
punto  di  massimo,  è  minore  del  valore  della  funzione  nel  punto  A 
che  è  un  punto  di  minimo.  Ne  ciò  deve  stupire,  perché  l'essere  un 
punto  yl  (a;  =  a)  un  punto  di  massimo  o  di  minimo  relativo  per 
f{x)  dipende  soltanto  dai  valori  che  f{x)  ha  in  un  intorno 

(a  —  Z:,  a  4-  k) 
del   punto   a,   e    non    dai  valori  che  f{x)  ha  nei  punti  lontani 
dal  punto  A  (*). 

Molte  volte  si  presenta  il  problema  di  cercare  in  quali 
punti  A  una  data  funzione  f{x)  riceve  il  suo  più  grande,  o  il 
suo  pili  piccolo  valore.  E  che  tali  punti  A  esistano  viene  spesso 


(*)  Così  una  catena  di  monti  può  avere  parecchie  cime  (massimi)  e  parecchi 
colli  (minimi)  ;  e  possono  esistere  delle  cime  più  basse  di  qualche  colle.  . 


MASSIMI,    MINIMI,   FLESSI 


225 


,  oppure  sono 
elementari  lecito 


dedotto  0  dallo  stesso  problema  che  si  studia,  o  dal  fatto  che 
si  esamina  una  funzione  f{x)  continua  in  un  ìntery alio  finito: 
cosicché  in  tal  caso  il  teorema  di  Weierstrass  ci  assicura  del- 
l'esistenza di  tali  punti  A.  Notiamo  che  : 

Un  punto  A,  dove  f(x)  riceve  il  suo  massimo,  o  il  suo 
minimo  valore,  o  è  un  punto  di  massimo  o  di  minimo  (relativo) 
secondo  le  precedenti  definizioni,  oppure  cade  agli  estremi  del- 
l'intervallo I  ove  f  (x)  è  definito  (perchè  le  precedenti  definizioni 
si  riferiscono  soltanto  ai  punti  interni  airintervallo,  ove  f{x) 
è  definita).  Cosicché  tali  punti  A  sono  da  ricercarsi  tra  i  punti 
che  0  sono  punti  di  massimo  o  minimo  relativo 
estremi  dell' intervallo  I.  Anzi  è  nei  casi  più 
trascurare  gli  estremi  di  I. 

Da  ciò  risalta  quanta  importanza  abbia,  anche  per  la  ricerca  di 
tali  punti  A,  cioè  dei  punti  di  massimo  o  minimo  assoluto,  la  ricerca 
dei  punti  di  massimo  o  minimo  relativo,  di  cui  ora  ci  occupiamo. 

Dalla  figura  25  appare  intuitivo  che  in  un  punto  di  mas- 
simo 0  di  minimo  relativo  la  tangente  alla  curva  y=zf(x)  è 
parallela  all'asse  delle  x,  ossia  piìi  precisamente  che  in  un  tale 
punto  f  (x)  (ammesso  che  f  (x)  esista  e  sia  finita)  è  nulla. 
Non  è  però  vera  la  proposizione  reciproca. 

In  un  punto  x=^  a  (fig.  24)  tale  tangente  può  essere  parallela 
all'asse  delle   x,    senza 
che  il  punto  x^=  a  sia 
un  punto  né  di  massimo, 
né  di  minimo. 

^)  Sia  a  un  punto  in- 
terno airintervallo,  ove 
f(x)  è  definita.  Esista  e 
sia  finito /"'(a).  Sappiamo 
già  (§62,  pag.  193)che: 
1"  Sef'{?i)>0  la 
dif[erenza  f  (a  -f-  h)  —  f  (a) 
ha  per  h  abbastanza 
piccolo,  il  segno  di  h, 
cosicché  f  (x)  è  crescente 
nel  punto  a. 

2*"  ^S'e  f'  (a)  <  0,  la  differenza  f  (a  -+-  h)  —  f  (a)  ha,  per  h 
abbastanza  piccolo,  segno  opposto  a  quello  di  h,  cosicché  f  (x) 
é  decrescente  nel  punto  a. 

Quindi,  se  f  '  (a)  4=  0,  la  funzione  in  a  non  ha  né  un  mas- 
simo né  un  minimo. 

15  —  G.  FuBiM,  Analisi  matematica. 


^ 


<ib 


Fig.  24. 


226 


CAPITOLO   XI   —    §    70 


y 


o 


Se    quindi  per  x  =  a    la   funzione   ha  un  massimo  o  un 
minimo,  è  f'  (a)  =  0.  (Il  teor.  reciproco,    come   già   vedemmo, 

e  come  proveremo  più 
avanti,  non  è  sempre  vero). 
Oss.  Già  qui  si  vede 
come  sia  essenziale  l'ipo- 
tesi che  il  punto  a  sia  in- 
terno, e  non  agli  estremi 
dell'intervallo,  ove  f{x)  è 
definita. 

Per  es.,  nel  caso  della 
figura  25,  il  valor  minimo 
di   f(x)  è   all'estremo  si- 

nistro,    ove    f  (a;)  4=  0, 

^     perchè  la  tangente  non  vi 
è  parallela  all'asse  delle  x. 


r 


Fig.  25, 


Questi  teoremi  sono  dimostrati  senza  ricorrere  all'ipotesi  che  f  {x)  sia  con- 
tinua per  iP  =  a  ;  e  sono  generalizzabili  al  caso  che  f  {x)  sia  infinita  per  ic  =  a, 
purché  di  segno  determinato.  Si  osservi  ancora  che  il  precedente  risultato  si  può 
enunciare  così: 

.  In  un  ptmto  x  =  a  (interno  all'intervallo  ove  f(x)  è  definita)  che  sia  un 
punto  di  massimo  o  di  minimo  per  la  f(x),  o  la  f  (x)  non  possiede  derivata 
determinata  e  finita,  oppure  f  (x)  =-  0. 

Il  lettore  può  illustrare  il  primo  di  questi  due  casi  ricorrendo,  p.  es.,  ad  una 
curva  y  =  f{x)  formata  di  due  segmenti  concorrenti  in  un  punto,  ove  la  y  ha  il 
massimo  valore,  oppure  ad  una  curva  y  =  f{x)  formata  di  due  archi  di  cerchio 
che  si  toccano  in  un  punto,  ove  la  tangente  comune  è  normale  all'asse  delle  x. 
(Cfr.  l'ultima  Nota  al  §  62,  pag.  196). 

Con  metodi  analoghi  si  dimostra  : 

Se  h  è  l'estremo  sinistro  dell'intervallo  ove  è  definita,  o  dove  si  studia 
la  f(x),  allora,  se  1"  (b)>0,  il  valore  f(b)  assunto  da  f(x)  per  x  =  b  e  minore 
dei  valori  assunti  in  un  intorno  (naturalmente  destro)  abbastanza  piccolo  del 
punto  x  =  b.  E,  se,  f  '  (b)  <0,  il  valore  f  (b)  è  maggiore  dei  valori  assunti  in  un 
tale  intorno.  Viceversa,  se  h  è  l'estremo  destro  dell'intervallo  ove  f  (x)  è  definita. 

Il  caso  che  in  un  tale  estremo  sia  f'(b)  =  0  si  può  trattare  in  modo  simile 
a  quello  che  noi  useremo  nelle  seguenti  pagine.  Al  lettore  è  lasciato  un  simile 
studio,  che  ha  pure  una  qualche  importanza. 

2"*  caso.  Esaurito  il  caso  f  (a)  =\=  0,  studiamo  ciò  che 
avviene  se  f  (a)  =  0  (supposto  naturalmente  che  a  sia  interno 
all'intervallo,  ove  f{x)  è  definita).  E  supponiamo  dapprima 
che  f"  (a)  =4=  0.  La  seconda  delle  formole  di  Taylor-Lagrange 
(cfr.  la  (9)  di  pag.  214)  ci  dice  che  sarà: 


fia-hh)-fia) 


1± 
2 


f"(a-hU). 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI  227 

Se  f"  {x)  è  continua  per  x  ^  a,  potremo  trovare  un  inter- 
vallo a  —  k,  a  -h  k  tale  che  in  ogni  punto  di  questo  intervallo 
la  f  (x)  abbia  lo  stesso  segno  che  /""  (a).  Se  \h\<k,  allora, 
poiché  O<0<1,  il  punto  a-hdh  apparterrà  all'intervallo 
(a  —  k,  a-+-  k)  ed  f  (a  -H  0  /^)  avrà  il  segno  di  f"  (a).  Quindi 

f{a-\-h)  —  f{a)  avrà  il  segno  di  —  f  (a),  ossia,  poiché  — -  é 

positivo,  il  segno  di  /*"  (a).  Perciò  : 

>S^e  f"  (x)  è  continua  per  x  =  a,  se  f '  (a)  =  0,  f  "  (a)  >  0, 
la  differenza  f  (a  -1-  h)  —  f  (a)  ha,  per  \  h  |  minore  di  un  certo 
numero  k,  segno  positivo,  e  quindi  f  (x)  ha  in  a  un  minimo. 
Se  invece  f  '  (a)  :=  0,  f"(a)<0,  la  f(x)  ha  nel  punto  x  =  a 
un  massimo. 

Rimane  da  esaminare  il  caso  f  (a)  =  f"  {a)  =  0.  Per  mag- 
giore generalità  supponiamo 

f  (a)  =  r  {a)  = =  r^"-''  {a)  =  0  ;  f  ^^  (a)  ^  0. 

E  sia  Z*^"^  (x)  continua  per  x  =  a.  Esisterà  un  numero  k  tale 
che  nell'intorno  (a  —  k,  a-h  k)  la  f^""^  (x)  conserva  lo  stesso 
segno  che  ha  nel  punto  a.   La  formola  di  Lagrange  dice  che: 

fia  -h  h)  —  f{a)  =  ~  f""^  {a  4-  0/i). 

Se  \h\<k  (ossia  se  /i  é  abbastanza  piccolo)  allora,  essendo 
0  <  0  <  1,  anche  il  punto  a  -{-  Bh  appartiene  all'  intervallo 
(a  —  k,  a-^k):  e  quindi  f""^  (a-^dh)  ha  il  segno  di  f"^  (a). 
E  quindi,  per  la  formola  citata,  f{a-hh)  —  f{a)   ha  il  segno 

/," 

di  1—  f"^  (a),    ossia,   poiché  \n_>  0,   ha  il  segno  di  F  f^""^  (a), 
n 

Ora  h""  è  sempre  positiva  se  w  é  pari,  ed  ha  il  segno  di  h,  se 
n  è  dispari. 

Quindi  h'^  /"^"^  (a)  ha  il  segno  di  f""^  (a),  se  w  é  pari  ;  e, 
se  n  è  dispari,  esso  ha  il  segno  di  h  se  /"^"^  (a)  >  0,  ed  ha 
segno  contrario  a  quello  di  h  se  f""^  (a)  <  0.  Se  ne  deduce 
tosto  il  seguente  teorema  che  comprende  i  precedenti  come  casi 
particolari. 

Se  la  derivata  n®""*  di  f  (x)  è  continua  e  differente  da  zero 
per  X  =  a,  mentre  le  precedenti  derivate  vi  sono  nulle,  allora  : 

Se  n  è  pari,  Za  f  (a  -f-  h)  —  f  (a)  ha  il  segno  di  f^°^  (a)  per  h 
abbastanza  piccolo  ;  e  quindi  f  (x)  ha  per  x  =  a  un  minimo 
se  f°^  (a)  >  0,  un  massimo  se  f^"^  (a)  <  0. 


228  CAPITOLO   XI  —   §    70 

Se  ìì  è  dispari,  e  f"^  (a)  >  0,  ?a  f  (a  -f-  h)  —  f  (a)  ha  il 
segno  di  h,  per  h  abbastanza  piccolo  ;  e  quindi  f  (x)  è  crescente 
nel  punto  x  =  a. 

Se  n  è  dispari  e  f '"^  (a)  <  0,  la  f  (x)  è  decrescente  nel 
punto  a  (*). 

L'ipotesi  della  continuità  di  /  ('''  {x)  per  a:  =  a  si  potrebbe  rendere  meno  restrit- 
tiva, come  abbiamo  già  visto  nel  primo  caso  di  w  =  1. 

Infatti  se  f  <«)  {a)  è  determinato  e  finito,  allora  (cfr.  oss.  a  §  63  /S  pag.  199  ove  è 
scritto  w-f  1  al  posto  diw),  poiché  la  funzione  f{x)  —  f{a)  ha  nel  punto  a  nulle 
le  prime  n  —  1  derivate,  f  (6f -+- Z^) —  / (c^)  ha  il  segno  di  k'f^'''>{a). 

Della  derivata  n^^"'"'  basta  dunque  supporre  che  essa  è  determinata  e  finita 
nel  punto  a. 

Si  può  dire  che  la  curva  y^=^f(x)  e  la  retta  parallela 
all'asse  delle  x  definita  dall'equazione  y=^f{a),  che  con  la 
curva  precedente  ha  comune  il  punto  di  ascissa  a;  =  a,  si  attra- 
versano in  un  punto  ove  f{x)  è  crescente  o  decrescente,  mentre 
si  toccano  senza  attraversarsi  in  un  punto,  ove  f(x)  ha  un 
massimo  o  un  minimo. 

I  risultati  precedenti  si  possono  provare  anche  così  :  Se  /'  (a)  =^  0  ed  [  f  "  (^)  1 

ammette  un  limite  superiore  finito,  la  /  (a  -f-  7^  —  /  (a)  =^  h  f  (a) -{- -^  h^  f"  (a -{-eh) 

prova  che  f{a-hh)  —  f  (a)  ha  per  |  h  \  abbastanza  piccolo  il  segno  di  h  f  (a),  perchè 
h^  f"  {a -\- oh)  è  infinitesimo  d'ordine  superiore  e  che  quindi  in  a  la  f{x)  è  cre- 
scente 0  decrescente   secondo   che  f  {a)   è  positivo  o  negativo.  Se  /''(a)  =  0,  se 

h^ 
f"  (a)  4=  0,  e  se  1  /" "  (x)  ]  ha  limite  superiore  finito,  \a.f{a-\-h)  —  f{a)  =  -^  f"  (a)  -h 

-h  -^  /  '"  (a  +  6/i)  prova  che  per  |  h  \  abbastanza  piccolo  il  segno  di  f{a-\-h)  —  f  (a) 
è  quello  di -^  f"  (a)  [perchè  j^  f"'{a-hQh)  è  infinitesimo  d'ordine  superiore]  ecc. 

Esempi. 

!<>  Trovare  il  massimo  e  il  minimo  della  somma   x  -{-  y 
di  due  numeri,  di  cui  è  dato  il  prodotto  xy^=l. 

Ris.  Si  ha  y  ^=^  —  ;  per  cui 

1 

X 

Perchè  tale  funzione  ammetta  un  massimo  o  un  minimo,  la 


(*)  Cosi,  p.  es.,  se  f  (a)  =  f"  {a)  =  0,  f"  (a)  #=  0,  la  funzione  f(x)  è  cre- 
scente in  x  =  a  se  /""'(a)>0,  decrescente  se  /"'"(«)< 0. 

Se  f  {a)  =  f"{a)  =  f"'{a)  =  0,f^^^(a)  -j=  0,  la  funzione  ha  nel  punto  x  =  a 
un'  minimo  se  /  (*>  (a)  >  0,  un  massimo  se  p^  («)  <  0  ;  e  così  via.  Nulla  ci  dice 
il  nostro  teorema,  se  nel  punto  x  =  a  sono  nulle  tutte  le  derivate  della  /"  (x). 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI 


229 


sua   prima   derivata    deve   essere   nulla.    La  derivata  prima  di 

X  -\-  —  è  1 ^  ;  deve  dunque  essere  : 

X  x" 


da  cui 


X 

x'—  1, 


0, 


ossia  : 


a;  =  1 ,  oppure 
x  =  —  1. 


La  derivata  seconda  della  funzione  x 


X 


X 


Per  x^=l 


questa  derivata  è  uguale  a  2  ;  perciò,  essendo  la  prima  derivata 
diversa  da  zero  d'ordine  (2)  pari  e  positiva,  la  funzione  data 
per  a;  =  1    ammette  un   minimo    che    è    2.    Per   x^=^  —  1   la 

1 


seconda  derivata  della  funzione 


X 


diventa  —  2  ;  essendo 


X 


dunque  la  prima  derivata  diversa  da  zero  per  a;  =  —  1  di  ordine 
pari  e  negativa,  la  funzione  data  ammette  nel  punto  a;  =  —  1 
un  massimo  che  è  —  2.  L'allievo  illustri  col  disegno. 

La  somma  a;  +  ^  ha  dunque  un  solo  massimo  che  è  —  2 
(per  a;  =  —  1)  e  un  solo  minimo  che  è  2  (pera;=l).  Questo 
risultato  può  sembrare  a  prima  vista  paradossale,  perchè  il 
massimo  è  minore  del  minimo.  Ciò  si  spiega  notando  che  la  fun- 
zione X  H non  è  continua  in  tutto  l'intervallo  da  —  lai,  essen- 

X 

dovi  in  questo  intervallo  il  punto  0, 
in  cui  la  funzione  non    è    neanche 

dej&nita.  La  funzione  data  x  -f-  — 

X 

si  sdoppia  per  così  dire  in  due  altre  : 
l'una  definita  per  x<0,  che  ha  il 
massimo  in  rr  =  —  1  ;  l'altra  definita 
per  a;  >  0,  che  ha  minimo  per  a;  =  1. 

2°  Un  raggio  di  luce  va  da  un 
punto  A  al  punto  B  attraverso  una 
retta  r  complanare  con  AB  (fig.  26). 
Prima  di  giungere  ad  r  ha  la  velo- 
cità V  ;  poi  acquista  la  velocità  w. 
Cercare  il  punto  C  ove  il  raggio 
incontra  la  retta  r,  in  guisa  che  il  tempo  y 
correre  complessivamente  i  segmenti  AC,   CB  sia  minimo. 


Fig.  26. 

impiegato  a  per- 


230 


CAPITOLO   XI   —    §    70-71 


Ris.  Dette  ìi,  k  la  distanza  da  ^,  5  ad  r  (in  valore  asso- 
luto), detta  l  la  distanza  delle  due  proiezioni  A',  B*  dei  punti  A,  B 
su  r,  con  x  la  distanza  A'  C,  si  avrà 

\/h'  4-  x\  BC=  V'H  —  xf-hk' 


AC 


AC 


y  = 


X  , 

BC  _\/h' 

tv 


X 


V  tv  V 

Affinchè  y  sia  minimo,  dev'essere  y'^ 
1  X  1  l- 


—  xY  -h  t 

w 
0,  ossia  : 


X 


V  Vh' 


ossia 


-  x'     ^0  V(i  —  xy 

1  A'C       J_  BC^ 

tjo  BC 


AC 


Indicati  con  i,  r  (cfr.  fig.  26)  gli  angoli  (di  incidenza  e  rifra- 
zione) di  AC^   CB  con  la  normale  r,  se  ne  deduce 


sen  % 


sen  Y 


.    sen  t 
ossia = 


V 

tu 


V  tv  sen  r 

che  è  la  nota  legge  della  rifrazione  della  luce. 

Lo  studente  verifichi  che  il  punto  C  cosi  determinato  rende 
y  effettivamente  minimo. 

§  71.  —  Concavità,  convessità,  flessi. 

Sia   y  =  f(jx)    definita  in  un  intervallo,  a  cui  è  interno  il 
punto  a  ;  e  possegga  la  fix)  finite  e  continue  tutte  le  derivate 


Fig.  27. 

di   cui    avremo   bisogno    (fig.  27   e   28).    (Basterebbe    suppoiie 
finite  e  determinate). 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI 


231 


Consideriamo  i  punti  A,  B  della  curva,  aventi  per  ascissa  a 
ed  a  -H  li,  e  la  retta  A  C  tangente  in  A.  Sia  C  il  punto  di  tale 
retta  tangente,  che  ha  a  -\-  h  per  ascissa.  L'ordinata  di  A  sarà 
f\a)  ;  quella  di  B  sarà  fia-h  li),  perchè  i  punti  A^  B  giacciono 
sulla  curva  y  =  f{x). 


Fig.  28. 

Se  7]  è  l'ordinata  di  C,  il  coefficiente  angolare  della  retta  ^ Ce 

ordinata  di  (7 —  ordinata  di  A v]  —  f{ci) 

ascissa  di  C — ascissa  di  ^  li 

Ma  AC  è  tangente  in  A  alla  y^=f{x)',  il   suo  coefficiente 
angolare  è  perciò  f  (a).  E  si  ha  quindi 

-n  —  fia) 


h 


ria). 


Donde,  risolvendo  rispetto  ad  v],  si  ha  che  l'ordinata  f]  dì  C 
vale  f{a)  -i- hf  (a).  Quindi  la  differenza 

(ordinata  di  B)  —  (ordinata  di  C)  = 

=  f(a  -h  11)  —  [f{a)  -+-  hf  (a)]  =  [f{a  -^h)—  f{a)\  —  hf  (a)  = 
=  /^f  (a-h0/^)  — /if  (a)  =  /^|  /"'(a-^e/^)— r(a)  |,     (1) 

O<0<1, 

come   si    riconosce   tosto   in   virtù   del   teorema  della  media  di 
Lagrange. 

Distinguiamo  ora  parecchi  casi  : 

1°  La  f  {x)  sia  in  a;  =  a  crescente.  In  tal  caso 
f{a-h^h)  —  f  {a) 


232  CAPITOLO   XI   —   §    71 

ha   (per   h   sufficientemente    piccolo)    il   segno   di    9/^,   ossia  il 
segno  di  /^.  E  la  (1)  è  perciò  positiva.  Quindi  : 

Se  {'  (x)  è  crescente  per  x  =  a,  la  curva  y  =  f  (x)  in  un 
intorno  abbastanza  piccolo  di  x  =  a  rimane  al  disopra  della 
sua  tangente  nel  punto  x  =  a  ;  ciò  che  si  enuncia  dicendo  che 
volge  la  concavità  verso  Vallo. 

2°  In  modo  simile  si  prova  che 

Se  f'  (x)  è  decrescente  per  x  =  a,  la  curva  y  ^=  f  (x)  in  un 
intorno  abbastanza  piccolo  di  x  =  a  rimane  al  disotto  della 
sua  tangente  nel  punto  x  =  a  ;  ciò  che  si  enuncia  dicendo  che 
essa  volge  la  concavità  verso  il  basso. 

3"^  Se  f\x)  ha  per  x  =  a  un  massimo  o  un  minimo, 
f'  (a-\-  Bh)  —  f  (a)  ha  per  h  sufficientemente  piccolo  un  segno 
costante,  che  non  varia  cambiando  il  segno  di  h.  Quindi  la  (1) 
ha  un  segno  che  cambia,  mutando  il  segno  di  h. 

Se  f'  (x)  ha  per  x  =^  2i  un  massimo  o  un  minimo,  la  curva 
y  =  f  (x)  attraversa  la  sua  tangente  nel  punto  x  =  a  ;  ciò  che 
si.  enuncia  dicendo  che  il  punto  x  =  sl  è  un  punto  di  flesso 
per  la  curva  y  =  f  (x).  (Cfr.,  p.  es.,  la  fìg.  13,  a  pag.  159). 

Ne  segue  che  in  un  punto  di  flesso  x  =  a  l'angolo  w  che  l'asse  delle  x 
forma  con  la  tangente  alla  curva  y  =  f{x)  ha  un  valore  massimo  o  minimo.  Se 
dunque  andiamo  da  un  punto  posto  a  sinistra  ad  un  punto  posto  a  destra  del  flesso, 
l'angolo  w,  nei  casi  più  comuni,  o  diminuisce  per  poi  aumentare,  oppure  aumenta 
per  poi  diminuire.  In  una  parola,  quando  si  cammina,  attraversando  il  flesso, 
l'angolo  w  da  crescente  diventa  decrascente,  o  viceversa.  In  una  parola  cambia  il 
verso  in  cui  gira  la  direzione  della  retta  tangente. 

Ricordo  che  negli  enunciati  precedenti  la  frase  :  «  verso  l'alto  »  [basso]  è 
scritta  invece  della:  «  verso  la  direzione  positiva  [negativa]  dell'asse  delle  yy>. 

Se,  p.  es.,  f'  (a)  >  0,  allora  f  {x)  è  crescente  per  x  =  a. 
Se  /*"  (a)  <  0,  allora  f'  (x)  è  decrescente  per  x  ^=^a;  se  f  (a)  =  0, 
f"  (a)  =1=  0,  allora  f  (x)  ha  un  massimo  o  un  minimo  per  x  =  a. 

Dal  precedente  teorema  si  deduce  quindi  in  particolare  : 

Se  f"  (a)  >  0,  la  curva  y  =  f  (x)  volge  m  x  ==  a  la  conca- 
vità verso  Vallo  ;  se  f"  (a)  <  0  essa  volge  in  x  =  a  la;  concavità 
verso  il  basso;  infine,  se  f  "  (a)  =  0,  f'"  (a)  =1=  0,  la  curva  ha 
un  flesso  nel  punto  x  =  a. 

Oss.  Ricordiamo  che,  mentre  in  un  punto  x  =  a  di  flesso 
è  f  "  (a)  =  0,  può  darsi  benissimo  che  f  "  (a)  =  0,  sen^a  che 
X  3=1  a  sia  un  punto  di  flesso  ;  e  ciò  perchè,  come  già  osser- 
vammo, può  in  un  punto  x  =  a  essere  nulla  la  derivata  di  f  (x), 
senza  che  in  tale  punto  f  (x)  abbia  un  massimo  o  un  minimo. 

In  un  punto  della  curva  di  ordinata  ^  >  0,  anziché  dire  che 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI  233 

la  concavità  (o  la  convessità)  sono  volte  verso  il  basso,  si  suol 
dire  che  in  tale  punto  la  curva  volge  la  concavità  o  conves- 
sità) verso  Tasse  delle  x.  La  stessa  locuzione  si  usa  in  un  punto 
di  ordinata  negativa  per  dire  che  la  concavità  (o  convessità) 
sono  volte  verso  l'alto.  Dunque  :  Tina  curva  volge  in  un  suo 
punto  (di  ordinata  differente  da  zero)  la  concavità  (conves- 
sità) verso  Vasse  delle  ^  se  j  ed  y"  hanno  ivi  segno  contrario 
(ugual  segno),  ossia  se  y  y"  è  negativo  (positivo). 

ESEMPJO. 

Si  studii  l'andamento  della  curva  : 

y  =  x^  -{-  ax^  -\-  bx  -\-  e. 

Ris.  Posto   Y=  y,  X^=  X  -^  ~^^^^^  ^^^  equivale,  quando  si 

considerino  X,  Y  come  nuove  coordinate,  a  fare  una  traslazione 
parallela  all'asse  delle  x),  si  avrà 

r=(x-|)V.(x-A)V,(.,-|).,. 

ossia  Y=^  X^  -^pX-h  q,  dove^,  q  sono  costanti  facili  a  deter- 
minarsi, dipendenti  soltanto  dalle  a,  b,  e.  I  massimi  e  minimi 
di  Y  si  ottengono  risolvendo  la 

r  =  3  X' -4-i?  =  0  donde  X=  ±  ]/_  Z_ . 

Se  ^  >  0  non  vi  sono  né  massimi  né  minimi  e  la  Y 
è  sempre  crescente  (perché  F'  >  0  dappertutto).  Se  invece 
p  ^0,    sostituendo   il   valore   trovato   di   X  in    Y"  =  6  X,    si 

ottiene ±61/  —  — -.  Sep=^  0,  questa  derivata  é  nulla,  e  poiché 

Y"'  =  6  =4=  0,  il  punto  trovato  non  é  un  punto  né  di  massimo, 
né  di  minimo. 

Rimane  dunque  il  solo  caso  di  ^  <  0.  In  tal  caso 

Y'yO  per  X=  +1/  — ò-  Questo  punto  é  un  punto  di  minimo. 

Y"  <  0  per  X=  —  1/  —  - .  Questo  punto  é  un  punto  di  massimo. 

A  sinistra   del   punto  di  massimo  la  funzione  Y  (che  per 
X=  —  00  tende  a  — oo)  é  crescente  (come  si  riconosce  veri- 


234  CAPITOLO   XI   —   §    71-72 

ficando  Y'  >  0)  ;  poi  Y  decresce  fino  al  punto  di  minimo,  per 
poi  crescere  di  nuovo  tendendo  a  -hoo    per  X=  +00. 

Per  trovare  i  flessi  si  deve  risolvere  la  F"=6X=0. 

Se  ne  deduce  X=0,  il  quale  è  certo  un  flesso,  perchè 
r'"  =  6  -^  0. 

Con  la  X  =^  X — a  si  ritorna  all'antica  variabile  x. 

L'allievo  illustri  col  disegno  l'andamento  della  curva  in  tutti 
i  casi  {p>  0,  p  =^  0,  p  <0)  anche  per  qualche  valore  numerico 
particolare  delle  a,  ò,  e. 

Il  lettore  veda  in  quanti  punti  nei  varii  casi  la  nostra 
curva  incontra  l'asse  delle  X:  punti,  che  saranno  le  radici  reali 
dell'equazione  X^  -H  j;X  -H  g  =  0  (*).  E  confronti  coi  risultati 
del  §  10,  esaminando  a  quali  disuguaglianze  le  p,  q  soddisfano 
nei  varii  casi. 

Applicazione. 

Sia  y^=f{x)  lo  spazio  percorso  da  un  punto  If  mobile  su 
una  retta  r  all'istante  x.  Come  si  può,  dall'esame  della  curva 
y  =1  f{x)  (che  viene  spesso  tracciata  automaticamente  in  casi 
pratici,  come  ad  esempio  nel  varo  di  una  nave)  determinare 
in  quali  istanti  la  velocità  di  M  raggiunge  il  massimo  0  il 
minimo  valore  ? 

Bis.  Basta  determinare  quei  valori  di  x,  a  cui  corrisponde 
un  flesso  della  nostra  curva. 

.    §  72.  —  Metodo  di  Newton-Fourier. 

a)  Lemma.  Se  AB  è  un  arco  di  curva  y  =  f  (x)  e  se  i"  (x) 
è  finita,  non  è  mai  nulla  e  conserva  lo  stèsso  segno  nelVarco 
considerato,    allora    Varco    AB    é    tutto    interno    al    triangolo 


(*)  Se  il  valore  massimo  (per  X  =  — 1/- -|j  della  Tè  negativo,  la  nostra 

curva  incontra  in  un  solo  punto  (a  destra  del  punto  di  minimo  X  =  -hV ^-| 

l'asse  delle  x. 

Un  risultato  simile  si  ha  se  il  valore  minimo  della  Y  è  positivo.  In  tali  casi 
la  nostra  equazione  ha  una  sola  radice  reale. 

Se  il  valore  minimo  di  F  è  negativo,  quello  massimo  è  positivo,  vi  sono  tre 
radici  reah  poste  rispettivamente  negli  intervalli 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI 


235 


Fig.  29. 


rettilineo  ABD  formato  dalla  corda  AB  e  dalle  tangenti  in  A 
e  in  B  (fig.   29). 

Questo  teorema  è  geometricamente  intuitivo,  perchè  nelle 
attuali  ipotesi  Tarco  y  =  f{x)  volge  la  sua  concavità  sempre  da 
una  stessa  parte.  Essa  si  dimostra 
rigorosamente  così. 

In  due  punti  distinti  dell'arco  AB  le 
tangenti  all'arco  non  possono  essere  paral- 
lele, perchè  i  valori  corrispondenti  di  f  (x) 
sarebbero  uguali  ;  e,  per  il  teorema  di  Eolie, 
in  un  punto  intermedio  sarebbe  f"  =  0  contro 
l'ipotesi. 

L'arco  AB  non  ha  con  la  corda  AB 
comune  (oltre  ai  punti  A,  B)  alcun  altro 
punto  C;  perchè  altrimenti  per  il  teorema 
della  media  esisterebbe  nell'arco  JL  C  un 
punto  jFJ,  e  nell'arco  CB  un  punto  F,  in  cui 
le  tangenti  all'arco  sarebbero  parallele  ad 
AB  ^  quindi  parallele  tra  di  loro. 

Così  pure  l'arco  AB  non  può  avere,  oltre  al  punto  A,  comune  alcun  altro 
punto  C  con  la  tangente  in  A\  altrimenti  nell'arconte  vi  sarebbe  un  punto  in- 
termedio E,  ove  la  tangente  all'arco  sarebbe  parallela  alla  tangente  in  A. 

E  altrettanto  dicasi  per  la  tangente  in  B.  Quindi  il  nostro  arco,  o  è  tutto  interno 
al  triangolo  ADB,  oppure,  pure  essendo  interno  all'angolo  A{B)B,  è  posto  rispetto 
ad  AB,  dall'altra  parte  di  Z>.  Quest'ultimo  caso  è  pe^ò  da  escludersi,  perchè  il  nostro 
arco  deve  essere  interno  alla  striscia  limitata  dalle  normali  tirate  dai  punti  A,  B  al- 
l'asse delle  oc  :  e  perciò  l'intersezione  Z)  delle  due  tangenti  in  ^  e  in  5  è  interna  a  tale 
striscia  e  cade  rispetto  alla  corda  AB  dalla  stessa  banda  dell'arco  AB.        e.  d.  d. 

P)  Sia  f{x)  una  funzione  finita  e  continua  nell'intervallo  da 
noi  considerato  con  derivate  prime  e  seconde  finite  e  continue. 

I  punti  x^=-a  che  la  curva 
y  =z  f{x)  ha  comuni  con  l'asse 
delle  X  sono  impunti  a  per  cui 
f(a)  =  0,  0,  come  si  suol 
dire,  sono  le  radici  dell'equa- 
zione f{x)  =  0  (*)  (fig.  30). 
Se  per  x  =  b,  eà.  x=^  e 
la  funzione  f(x)  assume  va- 
lori di  segno  opposto,  essa 
assumerà  (teor.  3*",  pag.  135) 
nell'intervallo  (ò,  e)  ogni  va- 
lore intermedio  e  quindi  anche 
il  valore  zero. 

Se  cioè  f  (b)  e  f  (e)  sono  di  segno  opposto,  nell'intervallo  (b,  e) 
esiste   almeno    una   radice  a  delV equazione  f  (x)  =  0.  Questo 

(*)  Qui  si  parla  delle  radici  della  equazione  f  (x)  =  0  e  della  curva  di  equa- 
zione y  ==  f  (x).  Il  lettore  inesperto  noti  che  non  si  parla  della  linea  di  equazione 
f  (x)  =  0  che  si  scompone  in  rette  x  =  cost.  ! 


Fig.  30. 


236  CAPITOLO  XI  —  §   72 

teorema  è  geometricamente  intuitivo  ;  dall'ipotesi  scende  infatti 
che  i  punti  della  curva  y  =^  f(x)  di  ascissa  b,  o  di  ascissa  e  sono 
da  banda  opposta  dell'asse  delle  x.  La  curva  y  =^  f{x)  quindi  deve 
incontrare  almeno  in  un  punto  dell'intervallo  (6,  e)  l'asse  delle  x. 
Y)  Supponiamo  :  1"^  che  nell'intervallo  (&,  e)  la  f"  {x)  con- 
servi un  segno  invariabile,  che  quindi  la  curva  y=^f{x)  volga 
la  concavità  sempre  da  una  stessa  parte  in  tale  intervallo  ; 
2"*  che  f(b)  ed  flc)  siano  di  segno  opposto  ;  3*"  che  nell'inter- 
vallo (b,  e)  esista  una  sola  radice  a  dell'equazione /'(a;)  =  0. 

I  numeri  6,  e  si  possono  considerare  come  valori  approssi- 
mati (l'uno  per  difetto,  l'altro  per  eccesso)  dalla  radice  a. 
Vogliamo  trovarne  dei  valori  più  approssimati.  Ricordiamo  che  per 
il  precedente  lemma  la  curva  y  =  f(x)  è  tutta  interna  al  trian- 
golo BCD  formato  dalle  tangenti  DB,  CD  nei  punti  B,  C  di 
ascissa  b,  e,  e  dalla  corda  BC, 

II  punto  a  cercato  è  dunque  compreso  tra  i  punti  ove  l'asse 
delle  X  incontra  la  corda  5(7  e  la  spezzata  BD  4-  DC  Tali 
punti  6i,  Ci  sono  due  valori  più  approssimati  che  6,  e  al  valore 
cercato  a.  Ripetendo  per  tali  punti  quanto  si  è  detto  per  i 
punti  b,  e,  troveremo  due  valori  62,  C2  ancor  più  approssimati. 

E  si  può  dimostrare  che,  cosi  continuando,  si  può  ottenere 
il  valore  di  a  con  qualsiasi  approssimazione  prefissata. 

5)  Il  nostro  procedimento  geometrico  si  può  facilmente 
tradurre    in    formole    analitiche.    L'equazione    della  corda  B  C 

è -^r-  = —  ;    l'ascissa    della    sua    intersezione 

X  —  b  e  —  b 

con     l'asse     delle     x     si     ottiene     ponendo    t/  =  0,    cosicché 

^bf{c)  —  cf{b) 

""         f{c)-nb) 

Le  tangenti  in  B  t  C  hanno  per  equazione 

X  —  0  X  —  e 

ed  incontrano  l'asse  delle  x  rispettivamente  nei  punti 
_;._/(^  _  fic) 

''-^     f'{b)'  ^-'     f(0' 

Quale  di  questi  punti  è  l'intersezione  dell'asse  delle  x  con 
la  spezzata  BD  -f-  DC?  Evidentemente  quello  che  appartiene  al- 
l'intervallo (6,  e)  ;  e  se  entrambi  appartengono  a  tale  intervallo, 
quello  che  è  più  vicino  al  punto  già  determinato  ove  la  retta  BC 
incontra  l'asse  delle  x. 


MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI  237 

Se  non  si  vogliono  calcolare  entrambi  questi  punti,  si  può  limitarci  a  consi- 
derare l'intersezione  con  l'asse  della  x  della  tangente  in  quello  dei  punti  B,  C,  in 
cui  la  curva  volge  la  convessità  all'asse  delle  x,  ossia  in  cui  f"(x)  ed  f{x)  hanno 
Io  stesso  segno.  Con  un  tal  procedimento  però  spesso  si  ottiene  un'approssima- 
zione minore  di  quella  ottenuta  col  nostro  metodo. 

T        ..hfic)  —  cf{b)  ....        ^.  ,         f{b)  f{c) 

I  punti  ~7T TTI^^  ^^^11^  ^^1  punti  6  —  ^777^,  e  —  Vtt' 

fic)  —  f{b)  f  (b)'         f  (e) 

che  noi  scegliamo  secondo  i  principii  sopra  esposti,  costituiscono 
i  due  valori  più  approssimati  della  radice  a  cercata. 

Per  es.  noi  sappiamo  che  l'equazione  af^  =  2  ha  una,  e  una 
sola  radice  nell'intervallo  (1,  2),  in  cui  la  derivata  seconda 
20  x^  di  f(x)  =x^  —  2  ha  segno  costante. 

Poiché  (posto  0  =  1,  e  =  2) 

bf{c)  —  cfib)^  1_ 

f{c)-f{b)  31' 

e  di  questi  ultimi  due  punti  il  punto  1  4-  —  è  il  più  vicino  a^ 

1  r  ,  1  1     ' 

1  -h  — - ,  la  radice  di  x^  =^  2  è  compresa  tra  1  -I-  —-  e  1   H-  —  • 
31  31  5 

Riapplicando  a  questi  due  numeri  il  nostro  procedimento,  si 
ha  un'approssimazione  maggiore  ;  e,  cosi  continuando,  si  può  di- 
mostrare che  si  ottiene  una  approssimazione  grande  a  piacere. 

§  73.  —  Alcune  osservazioni 
relative  alla  risoluzione  approssimata  delle  equazioni  algebriche. 

II  metodo  di  Newton-Fourier  serve  naturalmente  a  calcolare 
con  UQ'approssimazione  grande  a  piacere  le  radici  reali  di  un'equa- 
zione algebrica  a  coefficienti  reali.  Delle  radici  complesse,  o  delle 
equazioni  a  coefficienti  complessi  qui  non  ci  occupiamo,  perchè  ab- 
biamo già  visto  (§  17,  ^,  pag.  55)  essere  il  loro  studio  riducibile 
alla  ricerca  delle  radici  reali  di  un'equazione  a  coefficienti  reali. 

Sia  dunque    f{x)  =  a^  a;"  +  ai  a;"""^  -f-  ...  -4-  a„  =  0     (1) 
un'equazione  algebrica  a  coefficienti  reali.  La  ricerca  delle  sue 
radici  reali  equivale  alla  ricerca  delle  intersezioni  della  curva 
reale  C  definita  dall'equazione 

y  =  f(x)  (2) 

con  Tasse  delle  x  {*).  Si  può  senz'altro  supporre  che  la  (1)  non 


(*)  Noto  che  il  metodo  di  Newton-Fourier  sarebbe  applicabile  al  problema  più 
generale  di  calcolare  le  intersezioni  di  due  curve  qualsiasi. 


238  CAPITOLO  XI  —  §  73  —  MASSIMI,  MINIMI,  FLESSI 


abbia  radici  multiple  (a  questo  caso  ci  possiamo  ridurre  coi 
metodi  del  §  64)  ;  cosicché  (2)  non  sarà  in  alcun  punto  tan- 
gente all'asse  delle  x.  Possiamo  anche  supporre  che  le  f{x)  =  0, 
f"  {x)  =  0  non  abbiano  radici  comuni  ;  perchè  la  ricerca  di 
queste  radici  equivale  a  risolvere  l'equazione  ottenuta  ugua- 
gliando a  zero  il  massimo  comun  divisore  9  {x)  delle  f{x),  f"  {x}] 
e,  ammesso  anche  che  9  {x)  non  sia  una  costante,  che  cioè  tale 
equazione  9  (a;)  =  0  possegga  radici  (caso  che  si  presenterà 
soltanto  per  equazioni  di  tipo  molto  particolare),  ne  verrà  che 
alcune  delle  radici  della  /'(a;)  =  0  si  ottengono  risolvendo  la 
equazione  più  semplice  (perchè  di  grado  inferiore)  9  {x)  =  0. 
Le  altre  radici  poi  saranno  le  radici  dell'altra  più  semplice 
equazione  che  si  ottiene  uguagliando  a  zero  il  polinomio  quo- 
ziente della  divisione  di  f{x)  per  cp  {x). 

Supposto  dunque  che  f{x)  =  0,  f"  {x)  =  0  non  abbiano 
radici  comuni,  ogni  radice  della  /"(ce)  =  0  apparterrà  a  un 
intorno  dove  f"  {x)  conserva  sempre  lo  stesso  segno,  cioè  dove 
la  (2)  volge  la  convessità,  0  la  concavità  da  una  stessa  parte. 
E  ad  un  tale  intorno  sarà  dunque  applicabile  il  metodo  di 
Newton-Fourier. 

La  più  grave  difficoltà  consiste  dunque  di  determinare  due 
valori  approssimati  (uno  per  eccesso,  uno  per  difetto)  per  ogni 
radice.  Al  §  23,  p,  pag.  78,  abbiamo  esposto  un  metodo  sem- 
plice in  teoria  (ma  che  in  pratica  richiede  calcoli  troppo  lunghi) 
per  una  simile  determinazione.  Altri  svariatissimi  metodi  furono 
inventati  a  tale  scopo.  Ma  al  tecnico  basteranno  le  seguenti 
due  osservazioni  : 

1°  Valori  approssimati  di  ogni  radice  sono  nei  casi  pra- 
tici suggeriti  dallo  stesso  problema  che  si  deve  risolvere. 

2''  Valori  approssimati  si  possono  dedurre  disegnando 
effettivamente  la  (2)  e  trovandone  le  intersezioni  con  l'asse 
delle  X.  Anzi  le  teorie  fin  qui  svolte  agevolano  di  molto  tale 
disegno  e  possono  dare  indicazioni  preziose  (cfr.  l'esempio  della 
curva  F=  Z'  4-  pX-\-  q  studiato  all'esempio  10°  del  §  71).  Del 
resto  esistono  strumenti  che  possono  disegnare  tali  curve.  L'inte- 
grafo di  Abdank-Abakanowicz  (cfr.  l'ultimo  Capitolo)  permette, 
per  es.,  di  passare  dal  disegno  della  linea  y  =  f^  (x)  =  a^  |_^ 
(che  è  una  retta  parallela  all'asse  delle  x)  successivamente 
alle  curve 

y  =  f--^>  (x)  ;  y  =  f-'^  (x)  ; :  y  =  f  (x)  ;  y  =  fix). 

(Cfr.  la  nota  a  pag.  51,  §  15,  per  indicazioni  bibliografiche  rela- 
tive al  problema  qui  esaminato). 


239 


CAPITOLO  XII. 

INTEGRALI 

(Il  lettore,  a  cui  non  importa  affrettare  la  conoscenza  del  calcolo  integrale,  potrà 
far  precedere  la  lettura  del  Gap.  13»  a  quella  del  presente  Capitolo). 


§  74.  —  Primi  teoremi. 

a)  Proponiamoci  le  seguenti  domande  fondamentali  : 

VE  ogni  funzione  continua  F  (x)  la  derivata  di  un'altra 
funzione  f  (x)  ? 

2°  Tale  funzione  f  (x)  è  determinata  dall'ipotesi  che  la 
sua  derivata  f  (x)  valga  F  (x)  ?  E,  se  non  è  tale,  quale  è  la 
sua  indeterminazione  ? 

L'intuizione  permette  di  prevedere  le  risposte  che  si  dovranno 
dare  a  tali  domande. 

Consideriamo  la  funzione  (da  determinarsi)  f{x)  come  il 
valore  che  la  distanza  OM  da  un  punto  M  mobile  su  una  retta 
r  ad  una  origine  fìssa  0  ha  all'istante  x.  Se  noi  ammettiamo 
lecita  questa  supposizione,  le  nostre  domande  si  riducono  (§  47) 
semplicemente  a  queste  :  Può  una  qualsiasi  funzione  continua 
F{x)  essere  pensata  come  misura  della  velocità  che  un  punto 
M  mobile  su  una  retta  r  possiede  all'istante  x  ?  Data  tale  velo- 
cità F(x),  la  distanza  OM=^f{x)  di  M  dall'origine  0  resta 
essa  completamente  determinata  ?  oppure  quale  indeterminazione 
possiede  ? 

A  noi  appare  come  intuitivo  che  alla  prima  domanda  si 
debba  rispondere  aifermativamente  ;  e  appare  pure  evidente  che, 
per  dare  la  posizione  ài  M  su  r  all'istante  x,  non  basti  dare 
la  velocità  F{x),  ma  si  debba  anche  assegnare  la  posizione  di 
If  in  un  istante  almeno,  p.  es.,  per  x=^a.  E,  se  anche  una 
tale  posizione  è  nota,  sembra  intuitivo  che  ne  resti  individuata 
la  posizione  di  M  ad  ogni  altro  istante. 

Così  di  un  treno  M  che  si  muova  su  una  linea  nota  r  noi 
sappiamo  assegnare  la  posizione  ad  ogni  istante,  se  conosciamo 
per  ogni  istante  la  velocità  del  treno  M,  e  conosciamo  o  l'ora 
e  il  punto  di  partenza,  o  anche,  se  si  vuole,  la  posizione  del 
treno  su  r  ad  un'ora  prefissata  x  =^  a. 


240  CAPITOLO   XII   —   §    74 


Se  invece  non  conosciamo  per  nessun  istante  la  posizione 
di  M  (non  sappiamo  donde  e  a  che  ora  è  partito  il  treno  M), 
allora,  pur  conoscendone  la  velocità  F{x)  ad  ogni  istante  x, 
non  possiamo  dire  dove  si  trovi  M  all'istante  x.  Ma  possiamo 
ciononostante  sapere  quale  spazio  abbia  percorso  il  punto  M  tra 
due  dati  istanti  a,  b  ;  in  altre  parole  tale  spazio  è  perfetta- 
mente determinato,  quando  è  nota  ad  ogni  istante  x  la  velocità 
del  punto  M, 

Se  -Mi,  M2  sono  due  punti  mobili  sulla  stessa  retta  r,  e  se 
essi  posseggono  ugual  velocità  F(:x)  all'istante  x,  la  distanza 
Mi  Mi  non  varia  col  tempo  (è  costante)  ;  cosicché  le  distanze 
f^  [x)  =  Oifi,  fo  (x)  =  OM2  hanno  una  differenza  costante,  ossia 
differiscono  solo  per  una  costante  additiva. 

Analiticamente  ciò  significa  : 

Teorema  di  esistenza. 

l""  Esiste  almeno  una  funzione  f(x)  che  possiede  una 
derivata  continua  F(x)  prefissata. 

2""  Data  F  (x),  per  determinare  completamente  f  (x),  si 
deve  dare  in  piti  il  valore  di  f  (x)  per  un  qualche  valore  della 
X,  p.  es.,  per  x  =  a. 

3**  Data  F  (x),  pure  non  essendo  f  (x)  completamente 
determinata,  è  però  univocamente  determinata  la  differenza 
f  (a)  —  f  (b)  dei  valori  che  i  (x)  assume  in  due  punti  x  =  a,  x  =  b 
prefissati  arbitrariamente  nell'intervallo,  ove  F  (x)    è  definita, 

4**  Se  fi  (x),  Ì2  (x)  sono  due  funzioni  che  hanno  la  stessa 
derivata  F  (x),  la  differenza  fi  (x)  —  {2  (x)  è  una  costante. 
Cosicché,  per  trovare  tutte  le  funzioni  che  hanno  per  derivata 
F  (x),  basta  trovarne  una  sola  f  (x)  e  aggiungere  poi  ad  essa 
una  costante  arbitraria  ;  la  f  (x)  -h  cost.  sarà  la  pili  generale 
funzione  che  ha  F  (x)  per  derivata. 

P)  Dimostriamo  il  primo  di  questi  teoremi.  Se  F  {x)  ^  0, 
l'area  A  del  rettangoloide  considerato  a  pagina  165  (ove  si 
scriva  F  al  posto  di  f)  (oppure  se  tale  area  non  è  determinata, 
la  sua  area  esterna  od  interna)  è  proprio  (pag.  165)  una  fun- 
zione f{x),  la  cui  derivata  vale  F{x). 

Se  poi  F{x)  assume  anche  valori  negativi,  consideriamola 
in  un  intervallo  finito.  Sia  —  k  W  suo  valore  minimo.  Allora 
^  {x)^=  F  {x)  -\-  k  non  è  mai  negativa,  e,  per  quanto  si  è  dimo- 
strato, è  perciò  la  derivata  di  una  qualche  funzione  cp  {x).  Anche 
F  {x)  è  quindi  una  derivata  ;  è  precisamente  la  derivata  di 

f{x)  =  cp  {x)  —  kx. 


INTEGRALI  241 


y)  Per  dimostrare  le  2*,  3^,  4^  precedenti  proposizioni,  ri- 
cordiamo il  teorema  : 

Una  funzione  costante  ha  derivata  sempre  nulla  e  il  teo- 
rema reciproco  (§  63,  pag.   202)  : 

Una  funzione,  la  cui  derivata  è  identicamente  fiulla,  è  una 
costante. 

Ne  deduciamo  come  al  1.  cit.  (§  63,  s)  : 

Se  fi  (x),  Ì2  (x)  sono  due  funzioni  aventi  la  stessa  derivata 
(determinata  e  finita)  F(x),  la  loro  differenza  è  una  costante. 

Infatti  la  differenza  f  (x)  —  /^2  (^)  ha  per  derivata 

f\{x)  —  f2Ìx)  =  F{x)  —  F{x)  =  0. 

Essa,  per  il  teorema  citato  più  sopra,  è  dunque  costante. 

Geometricamente  questo  teor.  si  enuncia  così:  Se  le  tan- 
genti alla  curva  y  =  fi  (x),  y  =  f 2  (x)  in  punti  di  uguali  ascissa 
sono  parallele,  le  due  curve  si  deducono  Vuna  dall'altra  con 
una  traslazione  parallela  alVasse  delle  y. 

Si  ha  dunque  : 

/;  (x)  =  f2  (x)  -^k{k  —  cost)  (teor.  4'). 
Ponendo  a;  =  a,  e  quindi  a?  =  6  si  ha  : 
A  {a)  ^  f,  {a)  4-  k 
f,(h)^f{b)^k. 
Sottraendo,  se  ne  deduce  : 

f,  (a)  —  A  (6)  =  f  (a)  —  f,  (6). 

Data  cioè  la  funzione  F(x),  è  completamente  individuata 
la  differenza  dei  valori  che  in  due  punti  a,  b  assume  una  fun- 
zione fix),  che  abbia  F{x)  per  derivata  (teor.  3^). 

Una  funzione  f{x)  che  abbia  F(x)  per  derivata,  sarà  data 
(teor.  4°)  della  formola 

f(x)  =  f^{x)-h  C, 

dove  C  è  una  costante  indeterminata.  Se  noi  vogliamo  che  per 
X  =  a  sia  f{x)  =  A,  sarà 

A  =  f(a)  ^=  fi  (a)  H-  C,  ossia  C  =  J.  —  fia) 

e  quindi  f(x)  =  f  (x)  —  f  (a)  4-  A, 

La  funzione  f(x)  è  perciò  completamente  determinata  (teor.  2**). 

Sono  cosi  completamente  dimostrate  tutte  le  proposizioni 
enunciate  più  sopra. 

5)  Una  conseguenza  molto  importante  si  trae  da  quanto 
abbiamo  dimostrato. 

IC  —  G.  FUBINI,  Analùi  matematica. 


242  CAPITOLO  XII  —  §  74 

Se  F  {x)  ^  0,  consideriamo  il  rettangoloide,  di  cui  ci  siamo  già 
serviti  per  dimostrare  il  primo  teorema  del  presente  paragrafo. 
Le  sue  aree  esterna  ed  interna,  avendo  entrambe  la  stessa 
derivata  F(x),  differiscono  per  una  costante.  Ma  questa  co- 
stante è  nulla,  perchè  tutte  e  due  queste  aree  sono  nulle 
per  x^=^  a.  Cosicché  la  loro  differenza  è  nulla  per  rr  =  a  ;  ed, 
essendo  costante,  è  nulla  per  ogni  valore  della  x.  Quelle  due 
aree  sono  perciò  uguali. 

Se  dunque  ?/  =  i^(x)^o  è  una  funzione  continua,  il  ret- 
tangoloide  racchiuso  tra  l'asse  delle  x^  la  curva  e  le  due 
ordinate  ha  uguali  Tarea  esterna  ed  interna,  cioè  possiede 
un'area  nel  senso  più  elementare  della  parola  :  area  (cfr.  §  7). 

s)  Una  funzione  f(x),  che  abbia  F  (x)  per  derivata  si  in- 
dica con    1  Fdx^  e  si  chiama  integrale   indefinito  della  F(x). 

Questo  nome  è  dovuto  a  ciò  che  un  tale  integrale  non  è 
completamente  definito,  ma  è  definito  soltanto  a  meno  di  una 
costante  additiva.  Così,  poiché  cos  a:;  é  la  derivata  di  sen  x, 
noi  scriveremo. 

j  cos  xdx  =  sen  x  -h  C  (C  =  costante  arbitraria).  La  diffe- 
renza f{b) — 'f(a)  si  dice  integrale  definito  di  i^  (a;)  nell'inter- 
vallo (a,  6),  perché  non  varia  qualunque   costante  si  aggiunga 

ad  f{x),  e  si  indica  con  1    F{x)dx.  I  numeri  a  e  6  si  dicono 

rispettivamente  i  limiti  di  integrazione  (il  limite  inferiore,  ed 
il  superiore). 

Un  tale  integrale  è  completamente  definito  dalla  funzione  F, 
e  dai  limiti  a,  b.  Il  suo  valore  non  dipende  perciò  dal  nome 
dato  dalla  variabile  di  integrazione.  Cosi,  p.  es. 

I    COS  xdx  =  I    cos  zdz  =  sen  b  —  sen  a. 

La  differenza  f(b)  —  f(a)  si  indica  anche  con  [f{x)]a. 
Cosicché,  se 

f  Fix)dx  =  f(x), 

sarà       F(x)dx  =  f{b)  —  f{a)  =  [f(x)]l 

^  a 

E  poi  evidente  che  : 
(1)  {   F  (x)  dx  =  —  f  jP  (x)  dx. 

.  (2)    f  F(x) dx  4-  Cfìx) dx  =  f  F(x)  dx;\  F (x)  dx  =  0. 


INTEGRALI  243 


Le  (1),  (2)  equivalgono  infatti  alle  identità 

f(h)  —  f{a)=  —  [f{a)]  —  f{h)] 

[f{h)-f[a)]-^[f{c)-f{l>)]=f{c)-f{a) 

f{a)-f{a)^0. 

Inoltre  per  il  teor.  della  media  : 

F  (x)  d  X  =  f  (b)  —  f  (a)  =  (b  —  a)  f  (e)  =  (b  —  a)  F  (e), 


I 


dove  e  è  un  punto  intermedio   tra  a  e  b.   Quindi  : 
Se  M  è  il  massimo  di  |  F  (x)  |  ,  sarà  : 

(3)  I       F  (x)  dx  I  ^  M  I  b  —  a  I . 

Se,  p.  es.,  F{x)  indica  la  velocità  di  un  mobile  all'istante  x, 
la  seconda  e  la  terza  di  queste  uguaglianze  (se  a  <h  <  e), 
dicono  che  la  somma  degli  spazi  percorsi  nell'  intervallo  (a,  h) 
e  neirintervallo  (b,  e)  è  uguale  allo  spazio  percorso  nelFinter- 
vallo  {a,  e)  ;  e  che  lo  spazio  percorso  in  un  istante  (se  pure  è 
lecito  dire  una  tale  frase)  è  nullo.  La  prima  delle  precedenti 
uguaglianze  ci  dice  che  lo  spazio  percorso  nell'intervallo  (&,  a) 
si  deve  riguardare  come  uguale  in  valore  assoluto  e  di  segno 
opposto  a  quello  percorso  nell'intervallo  (a,  6)  ;  cosicché  la  pre- 
cedente osservazione  assume  un  significato  generale. 

È  evidente  che  :  L'area  del  rettangoloide  limitato  dalla  curva 

y  zzz:  F  (x)  ^  0,  dalV asse  delle  x  e  dalle  ordinate  x  =  a,  x  =  b 

r^ 
vale     F  (x)  dx,  se  a  <  b. 

Se  gli  assi  fossero  obliqui  e  formassero  un  angolo  to,  il 
prodotto  di  questo  integrale  per  sen  w  varrebbe  Varea  della 
figura  analoga  0  ^  y  ^  F  (x)  ;  a  ^  x  :^  b.   Questo  teorema  coin- 

cide  col  precedente  per  (a  =z-—  - 

Se  nell'integrale  definito  I    F{x)dx=^  \    F(z)dz  conside- 

riamo  l'estremo  superiore  b  come  variabile,  e  per  fissar  le  idee, 
poniamo  ò  =  x,  otteniamo 


\'  F{x)dx^   f  F(2)dz 


che  è  uguale  ad  f{x)  —  f(a)  e  quindi  differisce  da  f(x)  sol- 
tanto per  una  costante  additiva.  Esso  è  pure  un  integrale  inde- 
finito della  Fix). 


244  CAPITOLO   XII   —   §    74 

Quindi  anche 

^  a  J  a 

{A  =  costante  arbitraria) 

è  un  integrale  indefinito  di  F  {x).  Esso  è  anzi  proprio  quelV in- 
tegrale indefinito  che  per  x  =  a  assume  il  valore  A. 

E  lo   \  f(x)dx  è  quell'integrale  indefinito  che  si  annulla 

per  X  =  a. 
Q  Quindi  : 
Da  un  integrale  indefinito  f{x)  =  l  i^  (x)  6^x  si  ottiene  l'in- 

tegrale  definito      i^  (x)  ^x  eseguendo  la  differenza  fih)  —  f(a), 

*'  a 

Dall'integrale  definito  I   F(x)dx  si  deducono    gli   integrali 

indefiniti,   ponendo   b  ^=  x,   ed  aggiungendo    una    costante   ar- 
bitraria. 

Vi  è  uno  e  un  solo  integrale  indefinito  che  per  a;  =  a  as- 
suma il  valore  A  ;  precisamente  lo 

f(x)=^   CF{x)dx-\-A. 

La   seguente  tabella,   dedotta   dal  quadro  di  pag.  190,  dà 
gli  integrali  indefiniti  fondamentali. 

Integrali  fondamentali. 

/  senx  dx=^  —  cos  x  -H  C  ;  /  cos  a:;  dx  =  sen  a;  4-  C 

\    ,  =  arcsen  x -h  C  ;       .- -^ — ,  =  arcsen h  C 

JVl  —  x'  J\/a'  —  x'  « 

/,    ^  .  —  arctga:^+C;  /  o   .^    .  =  —  arctg h  C 

J  1-hx^  J  X  -\-  a^       a  a 

r^  =  logU|H-C;  r-^  =  logh-haKC     (*) 
J    X  J  x-\-a 


1  . ,    ^1       r^^ 

(*)  Se  ic  >  0,  esiste  log  x  ;  e  dalla  (log  x)'  =  —  si  trae  C-\-\o^x  ~  j   - 
Se  ic  <  0,  esiste  log  (-  if  )  ;  e  dalia  [^log  (  -  a?) J   =  —  si  trae  C  -+-  log  (—  x)  =  /  — 


X 

dx 


INTEGRALI  245 


/< 


(x  -h  aT  dx  = ; h  e  {yn  intero  positivo  =p  —  1)  (*) 

m  4-  1 


(m  intero  positivo). 

y\)  Se  f(x)=^  j  cp  (a:;)  6?;r,  ossia  Z'' (x)  =  cp  (x),  e  Z;  è  una 
costante,  è  [kf(x)Y  =  ^/^  (x)  =  ^  9  (x)  e  quindi  /i:  cp  (x)  dx  = 
=:  k  f{x)  =k  9  (x)  tZx  (a  meno  della  solita  costante  additiva 
arbitraria). 

Se  fi  (x)  =  j  cpi  (x)  dx,  fi  {x)  =  j  cp2  (x)  ^x,  allora  [fi  {x)  -f-  /^  (a;)]'= 
=  fi  {x)  -\-  f 2  fe)  =  cpi  (x)  +  92  (x)  ;  quindi  |  cpi  c?:^-  +  J  T2  ^a;  = 
=  fi  (x)  -f-  /2  {x)  =   j   [cpi  (x)  +  cp,  (ce)]  e?x  -h  cost. 

Si  hanno  così  le  formole  (se  cp,  cpi  cp.,  sono  continue)  : 

k^{x)  dx^=^k       ^{x)  dx  -h  C  (k  =  cost.), 
J  [?i  (^)  ■+■  T2  (^)]  (?a;  =:   j   cpi  (a;)  dx  -^    i   cp.  (a;)  cZx  -f-  C, 
che  sono  di  uso  assai  frequente. 


(*)  Così    ^  ^, ^ è   quell'integrale  indefinito   che   si  an- 

^  m-\-l 

nulla   per   x=l.   Se  noi  ne  cerchiamo  il  limite  per  m  4-1  =  0  (p.  es.  ponendo 

m  -h  1  =  ^,  derivando  num.  e  den.  rispetto  2,  e  quindi  ponendo  ^  --  0  secondo  la 

regola  del  §  63,  ^)  si  trova  {x  4-  ay  log  (a:  +  a)  —  (1  +  a)^"  log  (1  -f  a),  che  per 

/^  dx 
2  =  0  diventa  log  (x  +  à)-—  log (1  +  a),  cioè  precisamente  quell'integrale  / 

che  si  annulla  per  x  -•!. 

(**)  Dalla   quarta  riga   di   questo   quadro   si  trae  il  valore 


r__dx__ 

J  {x^  4-  a^)*^ 


quando  m  =  1.  Ponendo  nell'ultima  riga  successivamente  w  =  l,2, 3, ,   se  ne 

deduce  successivamente  il  valore  del  nostro  integrale  per  ogni  valore  intero  positivo 
della  m.  Questa  formola  si  dimostra  osservando  che: 

/        X        V_       2ma^  1 

\{x'  4-  a^r)  ~  {x^  +  a'r  +  '  (^'  +  «0'^'  ' 


246  CAPITOLO  XII  —  §  75 

§  75.  —  Regole  generali  di  integrazione. 

Ci  si  potrebbe  proporre  di  trovare  per  Tintegrazione  metodi 
analoghi  a  quelli  svolti  nei  §§  55-60  per  la  derivazione.  Ma 
per  l'integrazione  non  esistono  metodi  cosi  perfetti,  come  quelli 
dati  per  calcolare  le  derivate.  Si  può  dimostrare  che  al  teorema 
di  pag.  189  si  può  opporre  il  seguente: 

Esistono  delle  funzioni  F(x)  calcolabili  con  un  numero  finito 
di  operazioni  elementari  (*),  il  cui  integrale  non  è  calcolabile 
con  un  numero  finito  di  tali  operazioni  (ciò  che  avviene,  p.  es., 
per  la  radice  quadrata  di  un  polinomio  generico  di  grado  supe- 
riore al  secondo  ;  che  pure  è  una  funzione  tanto  semplice). 

I  pochi  metodi  che  esporremo  e  che  servono  nei  casi  pili 
semplici  non  sono  in  fondo  che  l'enunciato,  con  altre  parole,  di 
teoremi  a  noi  già  noti. 

a)  Abbiamo  già  detto  al  §  74,  v],  pag.  245,  che  se  noi 
conosciamo 

j  f{x)  dx  e   \^{x)  dx, 
noi  possiamo  subito  calcolare 

J[A^)  -+-  9  (^)]  d^  =J/'(^)  ^^  -^  f*^  (^)  dx-hC 
^^kfix)  =  kjf{x)-hC    (^  =  cost.). 

Forraole  affatto  analoghe  valgono  per  gli  integrali  definiti. 
Si  ha  cioè: 

[f{x)  -f-  9  ix)]  dx=     f(x)  dx-h  h>  (oo)  dx 

a  Uà  */ a 

kf{x)  dx-=k  l  f(x)  dx. 

a  *J  a 

Così,  per  esempio  : 
j  (senx --1- cosa;) dx  =    sena; dx  -h  j  cosa; dx=^  —  cosa; ~{- sena;  +  C 

/  (sena;-hcosa;)c?a;  =/  sena;  dx  -h     cosa;  t^a;  =  1  -h  1  =  2. 


(*)  Cioè  somme,  sottrazioni,  moltiplicazioni,  divisioni,  innalzamento  a  potenza, 
consultazioni  di  tavole  logaritmiche  o  trigonometriche. 


INTEGRALI  247 


J 


P)  Teorema  di  integrazione  per  sostituzione.  Sia  y  =  j  F{x)  dx 
donde  y^  =  F{x),  Sia  x  =  G  (z)  (*)  una  funzione  di  una  nuova 
variabile  z  con  derivata  G'  (z)  continua.  Per  la  regola  di  deri- 
vazione di  funzione  di  funzione  sarà: 

y\  =  y.  x\  =  F  {x)  G'{z)  =  F[a  {z)]  G'  {z)  ; 

donde,  per  la  stessa  definizione  d'integrale  : 

^F{x)  dx  =  y  =^F[G  {z)]  G' {z)  dz. 

Questa  forinola  costituisce  il  cosidetto  teorema  d'integra- 
zione per  sostituzione;  dal  primo  si  passa  al  terzo  membro, 
sostituendo   alla  x  ed   alla   dx   i    loro   valori  G  (z),  G'  (z)  dz. 

Questa   regola   dimostra   che    il    simbolo   dx,    che  figura  in 
f{x)  dx,  è  scelto  COSÌ  opportunamente,  che  nel  calcolo  lo  si 

può  trattare  come  un  differenziale  (**). 

'    Da  quanto  precede  si  scorge  che  così  l'integrazione  del  diff'e- 
renziale  F  (x)  dx  è  ridotta  a  quella  del  differenziale 

F[G{z)]G'{z)dz, 

l'integrale  del  quale,  presa  convenientemente  la  funzione  x^=Giz) 
potrà  talvolta  riuscire  più  agevolmente  calcolabile  che  quello  del 
differenziale 

F(x)dx. 

Naturalmente  non  possono  stabilirsi  regole  per  riconoscere 
in  ogni  caso  quale  sia  la  sostituzione  da  farsi,  ed  il  successo 
dipenderà  anche  dalla  maggiore  o  minore  pratica  che  si  ha  in 
calcoli  di  tal  genere. 

Talvolta  è  invece  più  comodo  calcolare  l'integrale  [  F(x)  dx, 
anziché  lo  i  F{G)  G'  {z)  dz.  E  in  questo  caso  la  nostra  dimo- 
strazione serve  a  ridurre  al  primo  questo  secondo  integrale. 

Osserviamo  ancora  che  se,  p.  es.,  col  nostro  metodo  ridu- 
ciamo il  calcolo  di  I  F(x)  dx  al  calcolo  di  \F{G)  G' {z)  dz,  allora 

noi  otteniamo  l'integrale  espresso  come  funzione  non  più  di  x, 
ma  della  variabile  ausiliaria  z. 


(*)  È  sottinteso  che,  mentre  la  z  varia  in  un  certo  intervallo,  la  x  varii 
nell'intervallo  ove  è  definito  il  nostro  integrale. 

(**)  Noi  lo  avevamo  introdotto  soltanto  come  un  modo  per  indicare  un  inte- 
grale. Così,  p.  es.,  avremo  potuto  introdurre  altro  modo  di  scrittura,  p.  es.  scrivere 

I  f{x)  anziché  l  f{x)  dx.  Già  di  qui  vediamo  come  sia  felice  il  simbolismo  adottato 

(cfr.  anche  il  Gap.  15). 


248  CAPITOLO   XII   —   §    75 

Perchè  la  sostituzione  riesca  utile,  e  cioè  si  possa  avere  y 
espresso  come  funzione  della  x,  occorrerà  che  Tequazione 

x—G{z) 

sia  risolubile  rispetto  a  ^  in  modo  univoco,  cioè  che  se  ne  possa 
dedurre 

2  =  H{x), 

ove  H  è  funzione  di  x. 

In    tal    caso    l' integrale    definito    \  F  {x)  dx    è    uguale    a 

l    F[G{z)\  G  {z)  d;^,    dove  a  e  ^  sono   i  valori    assunti    dalla 
z  rispettivamente  per  a;  =  a,  o  ce  =  ò. 

Così,  p.  es.,  l  {x  -4-  dr\dx^  posto  x'^-\-  a^=z  %  quindi  dx  =  dz, 

diventa  l  z'"'  dz  che  è,  come  sappiamo +  C  o  log  1  -^  1  -4-  C 

J  m  -\-\ 

secondo  che  m  -f- 1  H=  0  oppure  m  -f- 1  =  0.   Quindi  ritroviamo 

la  formola  nota  (ponendo  z=^  x  -\-  a). 

^  (a;4-ar  +  ^ 


Cix  -^aT  dx=  {   m  -f- 1 
f  logia; - 


-f-Csèm-f-l=i=0 

log  \x-^  a\-^  C  se  m  =  —  1. 


X 

Così,  se  a-hO,  posto  a;  =  a^,  dx  =  adz,  z  =: — ,  si  ha: 

r    dx             r      adz               1         ,         ,   ^        1        X     ^    ,    ,^ 
/  -^ ■"  =  /  -2-7-2 7\  ==  —  2irctg  z-hC  ^=  —  arctg h  (7. 

/»     dx            r      adz              r    dz                         ^  ^                  x 
=  /    ,  =  /  — =  =  arcsen<^-4-  (7  =  arcsen 

Va'—x'     J\/a\l—z)     JVl—z'  CI 

Così,  posto  ^  =  cp  (a:),  dz  =  cp'  (x),  dx,  si  trova 

r?^  ^x =r- = log  M 1 4- c= log  19(^)1+0, 

J    ^  {x)  J     z 

formolo  tutte,  che  noi  già  conoscevamo. 

Ben  presto  troveremo  nuove  importanti  applicazioni  di  questo 
metodo. 

Y)  Teorema  di  integrazione  per  parti.  —  Il  teorema  di  inte- 
grazione per  parti  non  è  altro  che  una  differente  enunciazione 
della  regola  di  derivazione  del  prodotto  di  due  funzioni. 


INTEGRALI  249 


Supponiamo  che  u  e  v  siano  due  funzioni  continue  insieme 
alle  loro  derivate  prime.  Poiché 

(iiv)'  =^  uv  +  tiv\ 

per  definizione  di  integrale  otteniamo: 

uv  =^  ¥  {uv  -4-  uv)  dx. 

Ed  essendo  l'integrale  di  una  somma  uguale  alla  somma 
degli  integrali,  è 

uv  =:  i  uv  dx  -h  I  uv  dx. 

Donde  ricaviamo  : 

I  li  vdx  =^  uv  —  1  uv  dx. 

Posto  V  ^=^,  u  ^=^,  sarà  u  =  i  c^  dx.  E  si  ha  il  : 

Teorema.  —  Se  ^  è  una  funzione  continua  che  ha  per 
integrale  u,  e  ^  è  ima  funzione  continua  che  ha  per  derivata 
la  funzione  ^'  pure  continua,  allora  V integrale  del  prodotto  ^^ 
è  uguale  al  prodotto  del  secondo  fattore  ^  per  l'integrale  u  del 
primo  diminuito  dell'integrale  del  prodotto  che  si  ottiene  molti- 
plicando V integrale  trovato  u  del  primo  fattore  per  la  derivata  ^' 
del  secondo  fattore. 

Esempi  : 
1**  Trovare  : 

log  X  dx. 
Si  può  scrivere  : 

1  log  xdx=  \  1.  log  X  dx  ; 
e,  ponendo 

cp  =  1,  donde  te  =^  i  1.  dx  =^  i  dx  =^  x, 

cj;  =  log  a;,  ò'  =:  —  ? 

X 

si  ottiene: 

j  1 .  log  a;  cZa;  =  a;  log  a:  —  /  x—  dx  =  x  (log  x  —  1)  -f-  C 
2**  Così  pure  si  trova: 
f{a)-f{0)=ri.  f\x)dx=[(x-a)fix)J~  C  (x  -  a)  f'\x)  dx^- 


250  CAPITOLO  XII  —  §  75-76 

Si  ritrova  così  la  forinola  di  Taylor,  col  resto  sotto  forma 
di  integrale  (cfr.  la  (9)  del  §  69  a  pag.  214,  dove  si  ponga 
h  =  a,  a  =  0). 

3**  Trovare:  j\Yctg  x  dx. 

Possiamo  scrivere  : 


I  arctg  xdx  ^=  j  1 .  arctg  x  dx  ; 


posto 


dx 


9=:  1,  \^    U=^X, 

t^  nz  arctg  x,       \  1  -h  x^ 

Quindi  : 

I  1 .  arctg  X  dx  =  X  arctg  x  —  1  x  ~ 2 

=  X  arctg  x  —  — -  /  2  dx 

=  X  arctg  X r-  log  (1  -4-  x~)  -+-  C. 

§  76.  —  Integrazione  delle  frazioni  razionali. 

1**  Ci  occupiamo  naturalmente  soltanto  delle  frazioni  reali 
(quozienti  di  polinomi  a  coefficienti  reali).  Diremo  semplice  ogni 

frazione  del  tipo  ,  cioè  ogni  quoziente  di  una  costante  A 

per  un  polinomio  di  primo  grado  a;  -4-  a,  ed  ogni  frazione  del  tipo 

Mx-h  N 
X   -{-  px  -h  q 

cioè   ogni    quoziente  di  un  polinomio  Mx  -+-  ^  di  primo  grado 

per  un  trinomio  x^  -h  px  -h  g  di  secondo  grado,  purché 

2  2 

p  p 

~-  —  q<0  ossia  q  —  ^  >  0, 
4  4 

cioè  purché  l'equazione  x^  -h-  px -h  q  ^=  0  abbia  radici  complesse. 

^     .   .      .        F{x)  , 
Teor.   Ugm  frazione  e  somma 

1   \X) 

a)  di  un  polinomio  Q  (x)  (il  quoziente  ottenuto  dividendo 
P  (x)  per  T  (x)  ;  esso  è  nullo  soltanto  se  il  grado  ^  di  P  (x)  è 
inferiore  al  grado  t  di  T  {x)  )  ; 


INTEGRALI  251 


P)  di  frazioni  semplici^  ciascuna  delle  quali  ha  per  deno- 
minatore uno  dei  fattori  di  primo  o  di  secondo  grado,  in  cui, 
secondo  il  teorema  del  §  16,  pag.  52-53,  si  può  decomporre  il 
denominatore  T  (x)  ; 

Y)  della  derivata  di  una  frazione 

V{x) 

il  cui  denominatore  W  (x)  è  il  massimo  comun  divisore  di 
T  (x)  e  T'  (x),  ossia  è  il  polinomio  che  si  deduce  da  T  (x) 
diminuendo  di  un'unità  V esponente  di  ognuno  dei  suoi  fattori 
precedentemente  citati,  mentre  V  (x)  è  un  polinomio  di  grado  infe- 
riore al  grado  di  W  (x).  Cosicché,  se  T  (x)  è  privo  di  fattori 
multipli,  W(x)  è  una  costante  (polinomio  di  grado  zero),  V{x)  è 

V 
quindi  nullo  ;  e  questa  frazione  —  è  nulla. 

W 

Oss.  Notiamo  che  in  y)  abbiamo  dato  due  modi  per  calcolare 

W  (x).  Secondo  il  caso,  sarà  più  utile  l'uno  o  Taltro  procedimento. 

Cosi,  p.  es.,  se 

T(x)=^k(x-hai)  {x-haof  (a;^-4- ^x  + g)M  ^  —  g  <  oV 

P(x) 
dal  teorema  precedente   risulta  che  ogni  frazione  si  può 

decomporre  nella  somma:  ^^^ 

a)  del  polinomio   Q  (x)  ottenuto  dividendo  F  (x)  per  T{x); 

P)  di  tre  frazioni  semplici 

Al  Ao  Mx  +  N 

,      ,      ^ ^  j 

X  -\-  ai  x  -f-  «2  (x  -^  px  -^  q) 

Y)  e  infine  di  una  derivata 

d  \h-^hix -^ho^x^ -\-hx^ -^h^x^ 


1 


dx\_       {x  -\-  a^)  \x^  -\-'  px  -\-  qf 

E  noi,  anziché  dimostrare  il  teorema  in  generale,  ci  rife- 
riremo per  semplicità  a  questo  esempio.  La  dimostrazione  si 
estende  però  al  caso  piiì  generale  soltanto  con  qualche  compli- 
cazione di  notazioni. 

Dm.  Siano  Q  {x),  R  (x)  quoziente  e  resto  ottenuti  dividendo 
P(x)  per  T{x).  Tale  resto  R  (x)  sarà  di  grado  inferiore  al 
grado  di  T{x),  che  nel  caso  attuale  vale  9.  Potremo  porre 

P(X)  .w^_^i^(^)  .l^ 


252  CAPITOLO   XII   —   §    76 

dove  R  (x)  è  al  massimo  di  ottavo  grado.  Basterà  provare  che 

R{x) 

^  .  .  si  può  decomporre  nella  somma  di  addendi  P)  e  y)  ;  ossia 

^  (x) 

che  si  possono  trovare  delle  costanti  Ai,  Ao,  -M,  N,  òo,  ^i,  h,  h,  &4 

cosicché  sia 


R{x)        Al  A2  Mx  +  N         d 

T{x)     x-\-ai     x-\-a2     x^-hxp-hq     dx 


L  {x~¥a^^{x^+px-^qf    J* 


Il  metodo  migliore  per  calcolare  Vidtimo  termine  (da  se- 
guirsi anche  negli  esercizi  numerici)  è  quello  di  derivare  ap- 
plicando la  regola  di  derivazione  di  un  prodotto,  considerando 
p.  es.  nel  caso  attuale  la  frazione  da  derivare  come  il  prodotto 
di  60-+-  hix-\-h2X^ -^ ...-\-ì)^x^ per  {x 4-  «2)" ^  e  per {x- -^px-\-q)'' \ 
Si  trova  allora  che  la  nostra  uguaglianza  diventa  : 

R{x)         Al  Ao  Mx-hN       bi-^2b2X-^.^.-h4hx'' 


T{x)      x-^ai      x-{-a2      x"  -\-px  -+-  g       (x  +  a^  {0?  -\-px-^  qf 

ì)^■^■llX-^ì)2X^^^,..^-ì)^x''        (6o  +  6ia;4-...+  l^x'')  (2:r4-;j)  ^^j^ 

{x  -f-  a^f  {x^  +px  +  qf  (x  +  ^2)  (x^  -^px  +  qf 

Moltiplicando  per  —  T{x)  =  (rr  -h  aO  {x-\-  a^  {x^-^px+qf, 

rC 

tutti    i    denominatori    svaniscono  ;    e    l'uguaglianza    precedente 
diventa  : 

—  R{x)-=^  Al  {x  -H  a^y-  {o(?  -hpx  H-  qf  -h  A2{x -h  ai)  (x-ha.d  (x^-^px-^qf 

rC 


+  {Mx  -h  N){x-\-  ai)  {x  -f-  aaf  {x" '\- px  -f-  qf 

-\-(x-\-  ai)  {x  -h  «2)  {x^  -^px  -4-  q)  (h  +  2  h.x  -+-...  +  4  hx^) 

—  (h-^hx-h  ...'ì-hx^)ix-i-ai)  {x^  -^-px-hq) 

—  2  (òo  -H  òi  a;  -I-  ...  4-  &4  x')  (2  X  -i-p)  (x  +  ai)  (x  -+-  ^2), 

dove  il  secondo  membro  è  ancora  al  massimo  di  ottavo  grado, 

perchè  ogni  suo  termine  è  stato  ottenuto  moltiplicando  — -  T  (x) 

(di  grado  nove)  per  una  frazione  il  cui  numeratore  è  di  grado 
inferiore  al  denominatore. 

Se  noi  sviluppiamo  il  secondo  membro,  otterremo  un'espres- 
sione del  tipo  : 

Co  -^  CiX  -h  CoX'  -h -h  CiX'  -\-  C^X^j 


INTEGRALI  253 


dove  evidentemente  le  d  sono  polinomii  omogenei  di  primo  grado 
nelle  9  costanti  da  determinarsi -4i,  ^2,  ^,  ^",  &o,  &i...  &4.  Se 

—  i^  ( jj)  =  To  4-  ri  a;  4-  ...  -I-  rs  x^, 
k 


la  nostra  uguaglianza  diventa  : 

( 


Co  —  ^0 


(3) 


C8  =  r8 


Le    (3)    sono    eifettivaraente   un    sistema  di  nove   equazioni 

lineari    nelle  nove   incognite  Ai,  A2, ,&4;    le  quali  come  ora 

proveremo,  si  possono  risolvere  con  la  regola  di  Cramer. 

Infatti,  se  la  regola  di  Cramer  non  fosse  applicabile  alle  (3),  il  determinante 
dei  coefiìcienti  delle  nove  incognite  in  tali  equazioni  sarebbe  nullo.  E  in  tal  caso 
per  il  teorema  del  §  27  alle  equazioni  omogenee  che  si  deducono  dalle  prece- 
denti (3)  sostituendo  lo  zero  al  posto  delle  r,  si  potrebbe  soddisfare  con  valori 
non  tutti  nulli  delle  incognite.  Se  le  r  sono  nulle,  anche  It{x)  sarebbe  nullo. 
Quindi,  poiché  le  (3)  sono  equivalenti  alle  (2)  e  {2)in,,  si  potrebbe  soddisfare  iden- 
ticamente alla  (2)  supponendo  E  (a?)  identicamente  nullo,  e  le  J.,,  A^^- h^  nno 

tutte  nulle.  Dimostreremo  che  ciò  è  assurdo. 

Infatti,  se  così  fosse,  da  (2)  si  dedurrebbe  in  tali  ipotesi  : 

d   r      bo4- -\-h,x'      1  __         Ay  A, Mx -+- N        • 

dx\_{x-haj)(x^-f-px-h  qfj~'      ii?  +  a,      x-\-a2      x^-\~px  -\-  q' 

Se  passiamo  al  limite  per  x  —  —  a^,ì\  primo  membro  tende  a  un  limite  finito  ; 
altrettanto  dovrà  accadere  del  secondo  membro.  E  quindi  è  A^  =  0. 

Il  secondo  membro  diventa  per  x  =  —  a.^  infinito  del  primo  (e  non  del  secondo) 

ordine  (*)  ;  altrettanto  dovrà  avvenire  del  primo  membro.  E  quindi  b^-f- -j-h^  x^  è 

divisibile  per  x  -H  a^.  Ma  in  tal  caso  il  primo  membro  è  finito  per  x  =  —  «j.  Al- 
trettanto deve  avvenire  del  secondo  membro.  E  quindi  ^,:=:0. 

Il  secondo  membro  è  infinito  del  primo  (e  non  del  terzo)  ordine  nei  punti  (com- 
plessi) che  annullano  x^  -hpx-\-q.  Come  sopra  se  ne  dedurrà  che  ho  -h +  h^  x^ 

è  divisibile  per  {x^ -^  px -}- q}^  e  quindi  che  illf=^::_0. 

D'altra  parte  il  polinomio  ho-\-hiX-h +  h^x^  di  quarto  grado  può  essere 

divisibile  per  {x  -h  a^)  e  per  {x^  -{■  px  -^  qy\  soltanto  se  è  divisibile  per  il  loro  pro- 
dotto, che  è  un  polinomio  di  quinto  grado  ;  cioè  soltanto  se  tutte  le  h  sono  nulle. 

È  dunque  impossibile  che  R  (x)  =  0,  se  qualcuna  delle  nostre  incognite 
Ai,A^, ?>4  è  differente  da  zero. 

Il  nostro  teorema  risulta  cosi  dimostrato  ;  e  si  vede  in  più 
che  gli  addendi  cercati  sono  determinati  in  modo  univoco- 

2°  Noi  dunque  sapremo  integrare    ogni  frazione,  se  sap- 
piamo integrare 

oc)  ogni  polinomio  Q  (x)  ^=  ko -h  ki  x  -\-  k^i  x"  -\- -h  k,x'  ;  ^ 


(*)  Quando  naturalmente  si  assuma  — — —  come  infinito  principale. 


254  CAPITOLO   XII    —    §    76 

p)  ogni  frazione  semplice  del  tipo 

A      . 
X  -i-  a 
P')  ogni  frazione  semplice  del  tipo 

Mx  -^  N 


(£-,<o) 


X'  -\-  px  -h  q 

.  .  .  d      Vx 

y)  ogni  espressione        -r-  T777-T  • 

dx  W(x) 

Ora  gli  integrali  di  (a),  (P),  (y)  sono  rispettivamente 

ko  X  -h  Ici  -—  -i-  lu  -—  4-  +  k, — -—  -+-  cost. 

2  o  s  -t-  1 

A  log  I  a;  4-  a  I  -f-  cost. 

-=r7-r  -f-  cost. 

W  \x) 
Basterà  saper  calcolare  l'integrale  di  p'),  cioè  : 


A 


Mx-^  N     ^ 
dx 


x^  -\-  px  ■+■  q 
Ora: 


y  cioè  k  —  y  q  —^  reale  / 


M  /  M\ 

Mx  -f-  N=--{2x  +2?)  4-  (-^— i^"^)  • 

Cosicché  : 

Jx^-hpx  -h  q  'ilJ  X"  '^px-\-  q  \  2  / ^  x^+px-^  q 

Ora  : 

r     2  ;r  4-  2?        ,  ,       /  2    .  ^ 

/  — —  dx  =  log  (x'   4-  VX  4-  g). 

7  x^  4-  ^it;  4-  q 

E,  poiché 

a;'  +  i9a:  +  g  =  (  X-  4-  ^  )  -^  k\ 
sarà  :  ^  ^        V  2  / 

» 


^(-f)   . 


(^a;  1     "'    V^    ■     2/  1.^2 


,  ._,  =  -7-  artg 

x'  -^  px  -\-  q        I   /      ,    P  \        72        ^  ^^ 


(-1) 


+  A:' 


INTEGRALI  255 


Dunque  : 
J^2^^^^^^^  =  ^log(a^--i-i?a:-hj))-h-y==artg     ^ -^  +  cost. 


/-f  i/^-f 


2/  nostro  problema  è  completamente  risoluto. 
Così,  p.  es.,  per  integrare 

x^  -i-  2x^  -t  5x^  -{-x  -hi 
x'(x'-hlf 
si  ponga  : 

x'-h2cc^  -hòx^-i-x-hl  _A      Mx-hN      d  /bo-^hx -h  b2X-\ 
xHx'-hlf  "~^"^"^^T      dx\      x{x'-+-l)      /' 

dove  manca  al  secondo  membro  ogni  polinomio,  perchè  nel  primo 
membro  il  grado  del  numeratore  è  inferiore  a  quello  del  deno- 
minatore. Si  trova  : 

A  =  l,     M=0,     N=l,     62  =  1,     bi  =  0,     60  =  — 1. 

E  quindi  l'integrale  cercato  vale: 

x-'—  1 

log  I  ^  I  4-  artg  X  H -r^ —  -4-  cost. 

^  '  ^  xix^  -h  1) 


§  77.  —  Integrazione  di  alcune  funzioni  trascendenti  o  irrazionali. 

a)  Sia  f  una  funzione  razionale  (quoziente  di  polinomi)  nella 
variabile  e".  Si  voglia  calcolarne  l'integrale  1  /'(e'")  dx.  Posto 
e*  =:  z,  zdx  =^  dz    questo    integrale    si     riduce    all'  integrale 

/ dz  (che    noi   sappiamo    calcolare)    della   funzione  razio- 

z 
P)  Sia  F  una  funzione  razionale  delle  funzioni  goniometriche 

sen  X,  cos  x.  tg  x,  cotg  x,  ecc.  della  x.  Le  formole  ig  x=^ > 

cos  X 

cos  X 

cotg  X  = ,  ecc.  ci  permettono  di  trasformarla  in  una  fun- 

sen-T 

zione  razionale  f  delle  sole  variabili  sen  x,  cos  x.  Per  calcolare 


256  CAPITOLO   XII   —   §    77 

l'integrale      f  (sen  x,   cos  x)  dx  di  una  tale  funzione,  si  ponga 

a;  =  tg  — -  ,  cosicché  j 

2  ^         _      ciz 

dx  - 


1  -\-  z- 


2  z  1  —  z 

sen  X  = 5  ;  cos  a:  =  — — — - 

1  -\-  z^  \  -)r  z 

Il  nostro  integrale  diventerà  : 

2  z        1  —  z^\       dz 


J     ^\l-^z''    1  +//  1 


H-  ^' 


-h  z- 
Oss.    Se   la   /*  è   una   funzione   razionale  delle  sole  sen^o?, 


e  si  ridurrà  cosi  all'integrale,  che  sappiamo  eseguire,  della  fun- 
zione razionale 

.(     2z        l—z\       1 

Oss.    Se   la 
cos^  X,  tg  :r,  il  calcolo    diventa   pili  rapido  ponendo  z  =  tg  x,  e 

quindi  aa;  = ? ,  sen*^  x  = ^ ,  cos  x  ==-■  - — ; — ^  • 

1  -\-  z  \  '\-  z"  1  -f-  ^" 

Y)  Si  voglia  calcolare  : 

(1)  \  f  \x,  ]/ax^  '\-  hx  -\-  e)  dx  (a,  b,  e  =  cost.) 

dove  f  è  una  funzione  razionale  di  a::  e  yax^  -h  bx  -{-  e,  e  quindi 
irrazionale  nella  x.  Distingueremo  varii  casi  : 

Y^)  Supposto  a  >  0,  porremo  a  =  k'^,  k  =  va,  e 

(2)  Vax^  4-  6rr  4-  c=  k  {x  ■+■  z), 

dove  ^  è  una  nuova  variabile.  Quadrando  e  risolvendo  rispetto 
alla  X,  si  trova  : 

(3)  a;  = -—  ;       (a  =  7r 

&  —  2  a^ 

e  quindi  : 

—  2  a:  /  -h  2  aò-2f  —  2  ac  ^ 

(3)i  c^o;  = TT — 72 dz, 

\b  —  2  az) 

e,  per  (2)  : 

,.        / — i^ ^  ,  .  / az^  -\-bz  —  e 

(3)2     V  ax^  -\-  bx  -\-  e  ^=^k  (x  -^  z)  =.  V  a 


b  —  2  az 

In  virtù  delle  (3)  e  della  regola  di  integrazione  per  sosti- 
tuzione, rintegrale  (1)  diventa 

e        / az^  -h  bz  —  c\  {az^  —  bz  -\r  e)    ^ 

V  a  — -— — )  —77 — r^—  dz] 


M?= 


2az'  b  —  2az      7      (b  —  2  azf 


INTEGRALI  257 


cioè  diventa  l'integrale  di  una  funzione  razionale  della  z^  che 
noi  sappiamo  calcolare. 

Y^)  Si  calcoli  ora  (1)  nell'ipotesi  a  <  0.  Se  a,  p  sono  le  radici 
di  ao^  4-  òa;  -h  e  =  0,  è  (posto  a  =  —  ^^)  : 
ax"  -\-lx-\-  c^=^a(x  —  a)  (a;  —  P)  =  —  Iz^  {x  —  a)  (x  —  P). 

Questo  polinomio  dovendo  essere  positivo,  affinchè  (1)  abbia 
significato  reale,  dovrà  essere: 

(4)  {x  —  a)   (x  —  ^)<  0, 

cosicché  le  a,  p  non  potranno  essere  complesse  coniugate,  né  uguali 
e  reali  (*).  Le  a  e  P  saranno  quindi  reali  e  distinte.  Dalla  (4) 
si  deduce  che  x  —  a  e  a;  —  P  sono  di  segno  contrario,  e  quindi 
che  x  —  a  e  P  —  x  hanno  lo  stesso  segno,  ossia  che  si  può  porre 

X  —  a -^ 

f^^x"'^' 

dove  z  è  un'altra  variabile  reale.  Risolvendo  rispetto  ad  x  si  ha  : 

a  -4-  B  ^^  •  zdz 

x  =  2   ;       donde  :        ^Zo;  =  2  (p  —  a)  — — — ^, , 

1  +  ^  (1  +  z) 

Vax^-h  hx-h  c  =  \/a{x — a)  (^  —  P)  =  V —  a{x  —  (x.){^  —  x)  = 


f 


*»  Lr^  (P  -  ^)' = ''^^  (P  -  ^)  = '^^  1^ 

^  X  L     I     Z 


cosicché  l'integrale  (1)  diventa  : 

P  /         ,     ,n  ^  ^  \  ^dZ 


^^^-^^f^T^'^^p-^^rb) 


(1  -H  ^y 

che  è  un  integrale  di  una  funzione  razionale  delle  z,  e  che  noi 
quindi  sappiamo  calcolare  (**). 

B)  Il  caso  a  =  0  è  (per  m  =  2)  un  caso  particolare  dell'in- 
tegrale 

j  /  (a;,  vhx  -H  e)  dx         (m  =  intero  positivo)  ;   (6  =!-  0). 


Questo     integrale,     posto     V^  hx  -^  e  =^  z,     x 


z'^'  —  c 


b 
dz 


dx=-z'^-^dz,  diventa  l'integrale^  j  f  (  — t"^,  ^U'"-' 

(*)  Se  a  =  a  -{-  ih,  [i—a  —  ih  con  6  =  0,  o  5  ='f  0,  allora  {x  —  a)  {x~^)  = 
=  (aj  — a)2  +  b2^0. 

(**)  In  7')  e  7^)  l'in  determinazione  del  segno  per  Vax^  -hhx  -\-  e  corrisponde 
all'indeterminazione  del  segno  per  k. 

17  —  G.  PuBiNT,  AnalUi  matematica. 


258  CAPITOLO   XII   —   §    77 

di  una  funzione  razionale  della  z\  integrale  che  quindi  sap- 
piamo calcolare. 

Oss.  Il  caso  di  una  funzione /"  razionale  nella  x^  \/bx -h  e, 

vhx  +  e,  vhx  -f-  e, {p,  g,  r, interi  positivi)  si  riduce  subito 

al  precedente,  assumendo  per  m  il  minimo  comune  multiplo  di 
i>r  (1,  r,  ^ 

s)    Calcoliamo    Tintegrale      f  (x,  \/ax-hb,  Vcx  -\- d)  dx 

(a,6,  e,  6?  =  cost.)  (a-i-0)  di  una  funzione  razionale /"di  x,  vax  -¥h, 

/ / — ■ — -  z^  —  h  2 

V  ex  -h  d.  Posto  z  =  \/ax  -f-  ò  e  quindi  x  = ,  dx  ^=  -  zdz, 

a  a 

,    '^        ^    A-      .    2f./-2r'  — 6      l/c   o      ida-cì))\   - 

questo  integrale  diventa  -  |  /  1 ,  z,  1/  -  r  H ìzdz, 

a  -^     \     a  fa  a       / 

che  è  l'integrale  di  una  funzione  razionale  divedi  |/~'^^+(^ — )  ? 

cioè  un  integrale  del  tipo  che  noi  abbiamo  già  imparato  a 
calcolare  in  y). 

?)  Integrali  binomi!.  —  Si  voglia  calcolare   l'integrale    l    x'"  (ax" -h  hy  dx 
ove  a,  h  sono  costanti  ed  m,  n,  p  numeri  razionali.  *^ 

A)  Se  -p  è  intero^  si  ponga  x  =  z%  indicando  con  s  il  minimo  comune  mul- 
tiplo dei  denominatori  di  m,  n,  che  per  ipotesi  sono  numeri  fratti  (cfr.  ò),  e  ci  si 
riduce  al  solito  caso  dell'integrale  di  una  funzione  razionale. 


T 

J5)  Se  p  è  una  frazione  —  (con  r,  s  interi),  posto 


.=(«..+!,)  s.=('V):<«-=4(V)"    ' 


'dt 


il  nostro  integrale  diventa  : 


s         r*  "'■  -^  ^  _  1 

£^,       r+^-+-^  (t-h)-^        dt, 

Il     *j 


1  + 
na 

che  è  l'integrale  di  una  funzione  razionale,  e  noi   sappiamo  calcolare,  se  — — - 
è  intero. 

Possiamo  trovare  un  altro  caso,  in  cui  possiamo  calcolare  il  nostro  integrale. 

Basti  osservare  che,  posto  x  =  ~  ,  esso  diventa 

—  1  ijy  {a  -f  hyy  dy  con  /*  =  —  (m  -f  2  +  wp) 

che,   per  quanto   dicemmo  in  B)   sappiamo   calcolare   se  ' è  intero  cioè  se 

e  intero,  cioè  se  -\-p  e  intero. 

n  '  n  ^ 

In  conclusione  sappiamo   calcolare  il  precedente  integrale,  riducendolo   al 

calcolo    di   una   funzione   razionale,    quando    è   intero   uno    dei   tre  numeri 

m  +  l               m-hl 
p,  oppure  — Y~'  oppure—^ h  p. 

Oltre  al  quadro  del  §  74,  C.  pag.   244,  noi  ne  daremo  qui 
un  altro  che  riassume  i  più  importanti  risultati  ottenuti  fin  qui. 


INTEGRALI 


259 


QUADRO  DEI  METODI  DI  INTEGRAZIONE  (cfr.  pag.  244  e  190). 

j  (u  -hv)  dx  ^^  i  udx  -+-  j  vdx  -h  cost.  (integrazione  per  somma) 

f{x)  dx  =    f[x  {z)\  X  {z)  dz  +  cost.  (integrazione  per  sostituzione) 

I  uvdx  =  lev  —  j  ì{vdx  -+-  cost.  (integrazione  per  parti). 

Se  f  indica  nei  singoli  casi  una   funzione    razionale   della 
variabile,  o  delle  variabili  da  cui  dipende 


/  (x)  ^x 


Si  calcola 
scomponendo 
/  (x)  nella 
somma  di  fra- 
zioni semplici, 
di  un  polino- 
mio, e  di  una 
derivata. 


/■(sen  X,  cos  x)  dx 


Si  calcola 
introducendo 
come  nuova 
variabile  di 
integrazione 


X 

3  =  tg  ~.  Si    può    anche  porre 

0  =  tg  ic,  se  in /"entrano  solo  tgx 
e  potenze  ad  esponente  pari  di 

sen  X,  cos  x. 


f'(x,  "yax  +  h)  dx; 

a, b  — cost.;  a^^-O, 
(m  intero  positivo) 


Si    calcola 

introducendo 

come    nuova 

variabile  di 

integrazione 


0  r=  Vax  -h  h     (*). 


I  f{x,  v^ax^  -h  hx-^c)  dx 
a,h,c 


cost. 


Si  calcola, 
assumendo  a 
variabile  0  di 
integrazione 
quella  defi- 
nita dalla 


i^ax^  -j-hx-hc^  i/a{x  -\-  z) 
se  a>  0 


se  a 


0,  ed  oc,  ,3 


^  -  X 
sono  le  radici  di  ax^-\-'bx^-  c=0, 


J  /  (oc,  yax 


Si  riduce  al  | 

_      caso    prece- 

h,i^cx-\-d)dx    dente    assu- 

,        ,  ,  ,  ^       I  mendo    a   va- 

a,6,o,d  =  cost.;a,c=r-0      l^-^^^^  ^^   ;„. 

i  tegrazione 


z  =  i/ax  -+-  ì) 


/■(e')  dx 


Integrali  binomii 


Si  calcola 
assumendo  a 
variabile'di 
integrazione 


cfr.  pag.  258. 


(*)  Se  capitano  parecchi  radicali  z  =  'i^ax  -\-  b,   z  =  Vax  -H  h,    ecc.  si 
porrà  z  =  "l/ax  -h  &,  dove  m  è  il  minimo  comune  multiplo  degli  indici  //,  v,  ecc. 


260  CAPITOLO   XII    —    §    78 


§  78.  —  Integrali  singolari. 

a)  Finora  ci  siamo  limitati  ad  integrali  di  funzioni  continue 
neirintervallo  considerato.  Vogliamo  ora  definire  gli  integrali  di 
una  funzione  f{x)  che  neirintervallo  (a,  6)  che  si  considera  è 
dappertutto  continua,  eccettuato  un  numero  finito  di  punti 
singolari. 

Ciò,    per  es.,   avviene    se   volessimo    studiare    l'espressione 

r^  l  1 

/    —7=dx,   poiché  —j=  è    singolare    per  ic  =  0.    Osserveremo 

J Q   VX  VX 

che,  se  s  è  un  numero   positivo   piccolo  a  piacere,  -7=  è  con- 

Vx 

tinua  nell'intervallo  £ 1;  cosicché  ha  un  significato  perfet- 

r'  1 

tamente  determinato  lo  /    —7=  dx,  che,  calcolato  coi  soliti  metodi, 

Je    VX 

si  riconosce  uguale  a  (2  —  21/s). 
Calcoliamo  ora  il 

—^dx=^ì\m{2  —  2-\/^). 

a     VX  f=o 

Tale  limite  esiste  ed  é  uguale  a  2. 
E  noi  porremo  per  definizione 

/—-=.  dx  =  lim  /    -7=  dx  =  2. 
„  VX  £  =  oj£   yx 

Più  in  generale,   se  nello  /    f{x)dx  è,  per  esempio,  a<b 

.y  a 

e   la   f{x)    è   singolare    in   a,    ma    é    continua    nell'intervallo 
'a-f-£, b,    dove  £  é   un   numero    positivo   piccolo   a   piacere 

(e  <  6  —  a),  allora  noi  cercheremo  il  lim    /     f{x)  dx.  Se  questo 

£  ^0  J  a  -f-  t 

limite  esiste  ed  è  finito,  porremo  per  definizione 
I    f{x)dx=^  lim   I       f(x)dx. 

Se  invece  tal  limite  non  esiste  0  non  è  finito  (come,  p.  es., 

r^      dx   \ 
avviene  di  lim  /       ),  tale  integrale  sarà  per  noi  un  simbolo 

f«=o  ^ a-[-a  X  —  a/ 

privo  di  significato. 


INTEGRALI  261 


Analogamente  si  procederebbe,  se  f{x)  fosse  singolare  in  h. 
Se  f{x)  diventa  singolare  in  un  punto  e  (*)  interno  ad  (a,  6). 
allora  se  esistono,  secondo  le  definizioni  ora  poste,  gli  integrali 

j   /"(a;)  e^o:  e       f{x)  dx,  si  pone  per  definizione 

r  f(x)  dx  =  C  f{x)  dx  +  f  f{x)  dx. 


P)  Può  esistere  una  funzione  f{x)  che  è  singolare  in  e,  pure 
essendo  finita:  p.  es.  una  funzione  discontinua  nel  punto  e.  11 
caso  più  notevole  è  che  siano  finiti  il    lim    f(x)  ed  il    lim    f(x), 

a5  =  c  — 0  x==c-j-0 

ma  che  tali  limiti  sieno  differenti  l'uno   dall'altro.   Ciò,  p.  es., 

IT  ""■"  C 

avviene  per  la  funzione  sen  x  -+-  -r~ r-  In  tal  caso  la  nostra 

\x  —  c\ 

definizione  si  può  esporre  in  forma  piii  semplice.  Se,  p.  es.,  a  <  6, 
consideriamo  in  (a,  e)  una  funzione  fi  (x)  che,  per  x  =^.^  e  sia 
uguale  ad  f{x)  e  nel  punto  e  sia  uguale  al    lim    f{x)  ed  in  (e,  6) 

una  funzione  ^  (;r)   che   nel    punto  e  sia  uguale  al    lim    f(x), 

aj  =  c  -j-O 

e  nei  punti  x  =h  e  sia  uguale  ad  f(x).  Sarà: 

j    f{x)dx=\    fi  (x)  dx  -h  1    f2  (x)  dx. 

Per  l'esempio  ora  citato  sarà  se  a  <c  <b 

I    \senx-i-- r\dx  =  I    i~'l  +  senx)dx-{-  1    (~hl-hsenx)dx: 

Y)  Se  f-(x)  è  definita  nell'intervallo  (a,  H-  oo  )  e  se  esiste  ed 
è  finito  il    lim      /    f{x)dx,  noi  porremo  per  definizione: 

1     f{x)dx=^\\m   j    f{x)dx. 

Analogamente,  se  f{x)  è  definita  i^er  x^a,  porremo  per 
definizione 


f(x)  dx  =    lim      /    f(x)  dx^ 

00  k  =  —  v:  \J  k 


(*)  Si  può  porre  una  definizione  analoga  nel  caso  che  vi  sia  un  numero  finito 
di  punti  singolari. 


262  CAPITOLO   XII   —   §    78 

se  il  limite  del  secondo  membro  esiste  ed  è  finito.  Infine  porremo, 
se  f(x)  è  definita  per  ogni  valore  della  x, 

fix)dx^=    lim      /    f{x)dx, 

■<X  ft  =    OD     %/    Ti. 

i  =.  -I-   X 

se  il  limite  del  2"*  membro  esiste  ed  è  finito. 
Così,  p.  es.,  essendo 

r*  1  ri  T 

lim      /    —^dx=  lim =1, 

k^-\-»>  J 1    x  t-x  |_        :c  Ji 


e  : 


/ 


-j  dx  ^=  l. 

1     x 


Così,  poiché  lim   l    cos  x  dx  =  lim  (sen  k)  non   esiste,  non 

fc  =  co   «^0  À;  =  OD 

ha  alcun  significato  l'espressione        cos  x  dx  (*). 


Agli  integrali  di  questo  paragrafo  si  possono  in  molti  casi 
estendere  le  regole  di  integrazione  per  somma,  per  sostituzione, 
per  parti. 

Così     /     7 ^  dx  esiste,  se  esiste  ed  è  finito  il  lim     /        t- -r-^  dx 

(ove  £  abbia  il  segno  dìh  —  a)  cioè  il  lim  1  ^^  7  ^  '  —  T — ;;  I  se  n  4=1,  oppure 
^  °  £==0  L     1  —  ^  i  —  nj 

il  lim  f  log  i  b  —  a  I  —  log  1  £  I     se  w  =  1.  Questo  limite  è  infinito  per  w^  1,  finito 

£•=0  L  J  M  i.  1      •• 

per  w  <  1.  Sia  f{x)  una  funzione  continua  nell'intervallo  (a,  ì)\  il  punto  a  al  pm 
escluso  ;  esista  un  intorno  (a,  e)  di  a  [e  compreso  fra  a  e  h],  tale  che  in  esso 

I  fix)  l  <  ^  7 — ^— T-  con  A:,  n  costanti,  ed  n  <  1.  Definiamo  due  funzioni  ?  (a?)  e 
'  '  ^  ^    ^     {x  —  af  ' 

•i(a;)  ponendo  o{x)  =  f{x)  ^  ^{x)  =  Q  nei  punti  ove  f(ic)>0;  ponendo  ^(a;)  = 
__^(ic)^  ^{x)  =  0  nei  punti  ove  f(x)^0.  Le  ^(a;),  t(a;)  saranno  funzioni  con- 
tinue positive  0  nulle  (escluso  al  più  il  punto  x  —  a\  non  superiori  ad  I  f(x)  1 . 

Ora  sia   /    f  (x)  dx  che   /    ^  (x)  dx  variano  nello  stesso  verso  quando  £  (che  ha 

il  segno  di  h  —  a)  tende  a  zero,  e  perciò  tendono  per  £  =  0  ad  un  limite.  Poiché 

p.  es.  f  f{x)dx=  f  f{x)dx-\-  I    f  (x)  dx,  e  ?  (x)  nell'intervallo  («4-  h  e)  non 


(*)  Si  lascia  al  lettore  di  completare  le  precedenti  definizioni,  per  il  caso  che 
neirintervallo  (a,  -f-  oo)  o  (-  oo,  a)  o  (—  <x,  oo)  vi  fosse  un  numero  finito  di  punti 
singolari  per  f{x). 


INTEGRALI  263 


supera  |  /  (ic)  1  ^  -^ -:^^^  Ise  |  s  i  <  i  e  —  a  1  ],  lo  /     ^{x)dx  non  supera  in  valore 

»y  a  - 


(^-«)"  -/.+  e 


assoluto  l'integrale  di  -, — _    .   ,  che  tende  per  -:  =  0  a  un   limite  finito.  Perciò 
)  dx  tende  per  e  =  0  a  un  limite  finito,  che  sarà  il  valore  di  /     ^  (^)  ^^  ; 


/v  (a:)  dx  tende  per  e  =  0  a  un  limite  /iwifo,  che  sarà  il  valore  di  / 

altrettanto  dicasi  di  /    ^  (x)  dx.  Poiché  f{x)  =  e  (a?)  —  4-  (x),  lo  integrale  /    f{x)  dx 
esisterà  dunque,  se  in  un  intorno  di  a  vale  la 

I  f(x)  \  ^  ^^  _  ^y  (/^,  w  costanti  ;  w  <  1) 

ossia,  come  si  suol  dire,  se  f  (x)  e  per  x  —  a  =  0  infinito  di  ordine  non  maggiore 
di  n  <1. 

In  modo  analogo  si  prova  che  se,  per  x  abbastanza  grande,  la  funzione  con- 
tinua f{x)  soddisfa  alla  i /(ic)l  ^^— ^  (A;, «  cost.;  n>  1),  ossia  se  f(x)per  x  =  qo 

X 


diventa  infinitesima  di  ordine  non  minore  di  n>  1,  allora  esiste  Io 


Osservazione. 


r  fij)àx. 


Certe  frazioni  razionali  si  possono  integrare  in  modo   sem- 
plice e  diretto. 


jTuiiiauiu,  p.  e: 

».,    JL„   - 

-J    (:r^  +  ir""^^ 

n     e      un    Ili  tei  U       pU!»l- 

tivo.  Integrando 

per  parti  si  trova: 

T               ""          IO 

'fr 

J  (x 

x^  dx                 X 

ra+x^)dx 

"    ix'  +  ir  '  ' 

„  r    dx 

'Vix^  +  D 

71+  1  — 

^        f   9  11  r 

—  2  w  7„  +  i  +  cost. 

■(X^  +   l)n    '      2»/.. 

donde  : 

/«  ^_  1  = 

1          X             2 w— 1 

I„  +  cost.  . 

Ora,  essendo  Ji  =  arctg a;,  la  formola precedente pern  =  l,  2,  3,  ecc. 
permette  di  calcolare  successivamente  J2,  J3,  ecc.  (cfr.  la  seconda 
formola  di  pag.  245. 


264  CAPITOLO  XII  —  §  79 


§  79.  —  Integrazione  per  serie. 

a)  Nel  paragrafo  precedente  abbiamo  dato,  partendo  da 
alcune  formole  di  calcolo  differenziale,  metodi  che  in  qualche 
caso  particolare  servono  a  calcolare  gli  integrali  di  una  fun- 
zione continua.  Ma  poiché  ogni  funzione  continua  possiede  inte- 
grali, sorge  spontanea  la  domanda:  Come  si  calcolano,  almeno 
approssimativamente,  gli  integrali  di  una  funzione  continua,  al 
calcolo  dei  quali  non  bastino  i  metodi  esposti  nei  precedenti 
paragrafi?  L'importanza  di  questa  domanda  si  rileva  tosto, 
appena  j^i  ricordi  che  anche  l'integrazione  di  una  funzione  razio- 
nale richiede  la  risoluzione  di  un'equazione  algebrica:  che  noi 
sappiamo  costituire  un  calcolo  spesso  ben  lungo,  anche  se  si 
vuole  soltanto  una  piccola  approssimazione.  Di  più  si  noti  che 

quando,  per  es.,  diciamo  che  /  —  c^x  =  log  |  .t  |  4-  Ce  asseriamo 

perciò  che  sappiamo  integrare  — ,  ciò  è  dovuto  soltanto  al  fatto 
che  nelle  tavole  logaritmiche  abbiamo  un   mezzo    per  calcolare 


/> 


con  sufficiente  approssimazione  i  valori  di   /  -^  dx.    Si    tratta 

dunque  di  trovare  un  mezzo  per  calcolare  approssimativamente 
un  dato  integrale  o,  se  si  vuole,  di  costruire  per  ogni  dato 
integrale  delle  tavole  numeriche,  che  compiano  per  esso  l'ufficio 

che  le  tavole  logaritmiche  hanno  per  l'integrale  /  —  dx. 

J    X 

Varii  sono  i  metodi  a  tal  fine,  e  di  essi  noi  parleremo  anche 
in  altri  capitoli.  Per  ora  parleremo  soltanto  del  metodo  che 
ricorre  agli  sviluppi  in  serie.  Il  teorema  su  cui  si  basa  tale  pro- 
cedimento, è  il  seguente: 

P)  Se  nell'intervallo  finito  (a,  b)  la  serie  di  funzioni  con- 
tinue 

f{x)  =  Ui  {x)  -\-  u.  ix)  -4-  1^3  {x)  -H  =  2  Un  .    (1) 

è  totalmente  convergente,  allora  (per  a  ^  x  ^  b)  Zo  J  f  (x)  dx 
esiste  ed  è  uguale  proprio  alla  serie  degli  integrali 

Jx                                      ,^x                                       ,  a; 
Ui  {x)  dx  +        u-i  {x)  dx  -^  \    u-s  (x)  dx  H- (2) 


INTEGRALI  265 


Divideremo  la  dimostrazione  in  3  parti: 

V  La  serie  (2)  converge.  Infatti,  se  Mn  è  il  massimo 
di  \unix)  i,  la  nostra  ipotesi  equivale  a  questa  che  la  serie  S„  ilf„ 
converge.  Dalla  |  Un  (x)  \  ^  Mn  segue  (§  74,  pag.  243)  che 

I  'I    Unix)  dx\^Mn\x  —  a\; 

dunque  la  serie  (2)  converge  assolutamente,  perchè  così  av- 
viene della  S  Mn  \x  —  a  j,  ottenuta  moltiplicando  per  \  x  —  a\ 
la  serie  convergente  S  Mn- 

2^  La  serie  (2)  è  un  integrale  indefinito  di  f(x).  Infatti 
la  serie  (1),  ottenuta  derivando  (2)  termine  a  termine,  è  total- 
mente convergente,  e  pertanto  (§  65,  pag.  206)  è  la  derivata 
di  (2);  cioè  (2)  è  un  integrale  indefinito  di  f{x), 

3°  La  (2)  vale  proprio  |    f  (x)  dx.  Essendo 

F{x)  =jf{x)  dx,  èffix)  dx  =  F(x)  —  Fia). 

Ora,  ponendo  x  =  a  in  (2),  i  termini  di  (2)  si  annullano. 

Pertanto  F{a)=:0;  e  quindi  f    f(x)dx  =  F(x).    ed.  d.  (*) 

Si  deduce  tosto  la  seguente  osservazione  notevolissima.  Se 
una  funzione  f(x)  non  si  sa  integrare  coi  metodi  da  noi  svolti, 
ma  se  si  sa  sviluppare  f(x)  in  una  serie  totalmente  conver- 
gente, i  cui  termini  hanno  integrali  noti  o  facilmente  calcola- 
re 
bili,  allora  si  può  avere  un  valore  approssimato  di   I    f(x)dx, 

J  a 

calcolando  la  somma  degli  integrali  dei  primi  n  termini  della 
serie  considerata,  se  n  è  abbastanza  grande.  Nei  casi  più  co- 
muni basta  lo  sviluppo  in  serie  di  Taylor.  E  si  noti  che  a 
pag.  218  e  seg.  proprio  con  questo  metodo  abbiamo  trovato  le 
serie  così  comode  per  calcolare  numericamente  le  funzioni 

log  (1  +  X)  ^l  ^^dx;  artg  .:  =f^    ^^_ 

dx 


-2*,  arcsena;  = 


=/ 


Vl—x" 


(*)  Non  vale  un  teorema  analogo  per  integrali  indefiniti  ;  '  e  ciò,  perchè  le 
costanti  arbitrarie  che  figurano  nell'integrale  indefinito  di  ogni  termine  di  (1)  po- 
trebbero esser  scelte  in  modo  che  la  serie 

r    fu,  {x)  dx  +  C_>~|  -f  r    ìu^  {x)  dx  +  C.l  -h  .... 

sia  divergente. 


V 


266 


CAPITOLO   XII 


§  79 


Esempio. 

Voglio  calcolare  il  tempo  T  impiegato  da  un  pendolo  OP  che 
oscilla  attorno  0  nel  passare  dalla  posizione  OF  alla  posizione 

OQ  simmetrica  di  OF  rispetto  alla 
verticale  OV,  Detto  0  l'angolo  di 
una  retta  Oilf  con  OV^  questo  an- 
golo durante  Toscillazione  varierà 
da  un  minimo  —  a  ad  un  massimo 
a=F(0)e(fig.31).PostoOP=Z 
la  forza  viva  del  pendolo,  quando 
esso  si  trova  in   Oi¥,    è    data   da 

— -mr— -5,  se   la  massa   vale   m, 
2         dv 

e  t  indica  il  tempo.  Questa  forza 

viva  è  uguale  al  lavoro 

mgl  (cos  0  —  cos  a) 

eseguito  dal  pendolo  nel  passare  dal 

piano  orizzontale  a  cui  appartiene  F  al  piano    orizzontale   cui 

appartiene  M  {g  =  costante  di  gravità).   Quindi  : 


Fisr.  31, 


m  ,0  tZ0^  .       ^  \  7  j     j    a 

—  r  --f2~'^9  (cos0  — cos  a)/,  donde  t  = 

e  quindi  T=l/ 


dB 


^9       j/cos0-cos 


0  a  .        . 

Posto  sen  —  =  sen  —  sen  cp,  si  ottiene 
2  2 


r    9      ^\/l—K'  ser  ^ 


dove  si  è  posto  h  =  sen  --  .  E  quindi  \h\<  1 


|/l  — /l'sercp 


(1  —  h^  sen-  cp) 


=  1  -^^  h'  sen'cp+  ^i^  h'sen'^-i-  ^^  h'  sen'  9 


2^12 


2^13 


INTEGRALI  267 


donde 


T=|/: 


J  ]  I       ^  ^  "^  2  ^^'  '        ^^^'  "^  ^  ^ 


1    •    3      ,4     /     "  4         ^  1.3.    5     T'  6  .  , 

/i'  /       sen>  c? 9 -4- ^^  /       sen'^d^-¥- 


Se  a  è  cosi  piccolo   da  poter   tener   conto   del    solo   primo 
termine,  si  trova  la  formola  classica  T=n\/  —. 

r   9 

Nel  caso  generale  invece  è: 

r=,|/I|.*J,*-.(i^p...(Vtl)''.--..-| 

Qual  è  p.  es.  l'errore  commesso   se  oc   non    supera  l'angolo 
di  10  gradi,  quando  si  tenga  conto  del  solo  primo  termine? 


268  CAPITOLO   XIII   —    §    80 


CAPITOLO  XIII. 

CALCOLO  DIFFEREiNZIALE 
PER  LE   FUNZIONI  DI  PIÙ  YARIABILI 


§  80.  —  Continuità.  Derivate  parziali. 

a)  Al  §  41,  pag.  137,  abbiamo  già  visto  che  alle  funzioni  di  più  variabili  si 
può  estendere  sia  la  definiz.  di  limite,  che  quella  di  continuità,  ecc.  Vogliamo  qui 
aggiungere  un'osservazione,  che  per  maggior  chiarezza  esporremo  p«T  una  funzione 
di  due  sole  variabili  f{x,y).  Sia  essa  definita  in  un  intorno  j  del  punto  ic  =  a, 
y=h  ;  e  siano  x  =  a-\-M,  y  ~l)-\-kt{]i,Jc  cost.)  le  equazioni  parametriche  di 
una  retta  generica  r  uscente  da  tale  punto.  La  f  diventerà  funzione  del  solo  para- 
metro t,  se  ci  limitiamo  a  considerare  i  punti  di  r  interni  ad  j,  e  i  valori  ivi 
assunti  da  f.  Questa  funzione  di  t  sarà  continua  per  t  ^=  0  (qualunque  siano  h,  7c, 
cioè  qualunque  sia  la  r  considerata  uscente  dal  punto  [a,!)])  se  la  f(x, y)  è  con- 
tinua nel  punto  (a,  b). 

Il  teorema  reciproco  non  è  vero,  cioè:  Se  f(a-i-ht,  b-f- kt)  è  funzione 
continua  per  t.— 0,  qualung^ue  siano  h,  k,  la  f(x, y)  può  non  essere  continua 
nel  punto  (a,  b).  Infatti  da  tale  ipotesi  segue  che,  scelto  un  f  >  0  arbitrario,  su  ogni 
retta  r  uscente  da  (a,  h)  esiste  un  intorno  B,  tale  che  per  i  punti  (x,  y)  di  questo 
intorno  vale  la  \f{x,y)  —  f{a,'b)\<,£.  Ma  al  variare  di  r,  può  variare  la  lun- 
ghezza di  questi  intorni  B  ;  se  anzi  questa  lunghezza  ha  limite  inferiore  nullo,  tutti 
questi  intorni  (uno  su  ogni  retta  uscente  dal  punto  [a,  b])  non  riempiono  alcun 
intorno  j  del  punto  (a,  h)  nel  piano  ;  cioè  non  esiste  alcun  numero  o  >  0  tale  che 
ogni  punto  soddisfacente  alle  \x  —  a\  <C^,  \y  —  ^\  <^^  appartenga  ad  almeno 
uno  di  questi  intorni  B. 

Sia  f{x,y,z, ,    t)   una  funzione   di   più   variabili   x,  y, 

z,  ....,  t..  Se  diamo  alla  y,  z,  ....,  t  valori  determinati  6,  e,  ....,6?, 
la  f  si  ridurrà  una  funzione  della  sola  x.  Se  tale  funzione  è 
derivabile  (rispetto  alla  x)  nel  punto  x=^a^  noi  chiameremo 
tale  derivata  la  derivata  parziale  di  /"rispetto  alla  x  nel  punto 
x=^a,  y  =  b, ,  t  =^  d  ;  e  la  indicheremo  con  f^  (a,  b, ,  d) 

0  con   (  ^  )  .  Se  poi  questa  derivata  esiste  non 

solo  in  un  punto,  ma  in  tutto  il  campo  ottenuto,  p.  es.,  facendo 

variare  x,  y, ,  t  in  certi  intervalli,  questa  derivata  sarà  una 

funzione  delle  x,  y, ,  t  in  tali  intervalli  ;  e  si  indicherà  pili 

semplicemente  con  f'^  o  con  ^^  •  E,  se  si  vuol  ricordare,  come 

talvolta  è  opportuno,  che  per  calcolare  tale  derivata  si  è  comin- 


CALCOLO    DIFFERENZIALE    PER   LE    FUNZIONI,  ECC.  269 

eiato  col  dare  alle  y^z^ ,  ^  valori  determinati,  si  suol  indi- 
care tale  derivata  col  simbolo  : 

if  ^y^z^ ,<  =  co8f.  0  Iv:) 

\VX/   y^z,  ,t  =  C08t. 

E  ancora  da  ricordare  che  nei  casi  piti  comuni  si  può  cal- 
colare f^  in  un  dato  punto,  derivando  la  f  rispetto  alla   x   e 

considerando  y,  z, ,  t   come   costanti,  e,  soltanto   dopo   aver 

eseguito  la  derivazione,  sostituire  alle  x,  y,  z, ,  t  le  coordi- 
nate del  punto  che  si  considera. 

Altrettanto  dicasi  per  le  derivate  parziali  della  f  rispetto 
alla  y,  o  alla  z, ,  od  alla  t. 

Queste  derivate  f'^c,  f'y possono  a  loro  volta  essere  fun- 
zioni derivabili  e  possedere  derivate  parziali.  E  noi  con 

.'  -IL   f  -IL    f  -li.  . 

indicheremo  rispettivamente  le  derivate  di  /"',;  rispetto  x,  y,  z,  ecc. 

indichiamo  le  derivate  di  fy  rispetto  x,  y,  ecc. 

Queste  nuove  derivate  si  diranno  derivate  parziali  (del 
secondo  ordine)  della  f. 

Le  derivate  di  queste,  se  esistono,  si  diranno  derivate  par- 
ziali del  terz' ordine  e  così  via.  Così,  p.  es.  : 


f 


(5) 
xyxzy 


n 


'òx  'òy  "òx  ^z  ^y 

sarà  quella  derivata  del  5°  ordine,  che  si  ottiene  derivando  f 
rispetto  alla  x,  la  derivata  f^;  così  ottenuta  rispetto  alla  y, 
la  derivata  f'^y  così  ottenuta  rispetto  alla  x,  la  f'xyx  così  cal- 
colata rispetto  a  ^,  e  infine  la  f'xyxz  così  ottenuta  rispetto  alla  y. 
Così,  p.  es.,  se 

f  tr,  y,  z)  =^  x^  -^  y'^  -\-  z^^  -^  xy  -\-  2  yz  -^r  ^  zx, 

per  ottenere  f^  si  deve  derivare  rispetto  alla  x  considerando 
le  y,  z  come  costanti  (espressioni  aventi  derivata  nulla  rispetto 
alla  x).  Si  ha  così  che  ?/'\  /,  yz  hanno  derivata  nulla,  xy  ha 
per  derivata  y,  ecc.  ;  cosicché  : 

e  X 


270  CAPITOLO   XIII    —   §    80 

Analogamente  si  troverebbe  : 

3  f 

j-^  =  /"v  =  2y+x+  2z, 

Ciascuna  di  queste  tre  derivate  è  a  sua  volta  una  funzione 
delle  X,  y,  z,  che  si  può  derivare  rispetto  alla  x,  o  alla  y,  o 
alla^.  Si  hanno  così  3.  3  =  9  derivate  del  secondo  ordine  della 

Cosi,  p.  es.,  derivando  y~  ^==  fx   rispetto   alla   x,  o  alla  z/, 

VX 

0  alla  z,  si  ottengono  le  tre  derivate  che  indichiamo  rispettiva- 
mente con 


ì)x'~'  '''''òx:)y~'  ''''òx'òz~' 


XZ    J 


e  che,  nel  nostro  caso,  sono  ordinatamente  uguali  a   2,    1,    3 
In  modo  simile  si  trovano  le  altre  6  derivate  del  2""  ordine 


yz 


^y-òx^'  '""'^y'"'  '''lìylìz~'  ^ 

^y  _  /."    ^y  _  />"  ^—  f" 

Dalle  derivate  di  second'ordine  si  giunge  facilmente  alle 
derivate  di  terz'ordine  e  di  ordine  superiore  mediante  nuove 
derivazioni  rispetto  alle  variabili  x,y,  z  ]  tutte  queste  derivate 
sono  nell'esempio  precedente  uguali  a  zero. 

P)  Non  tutte  le  derivate  successive  definite  in  a)  sono  però 
distinte,  almeno  finché  restiamo  nel  caso  più  comune  ed  im- 
portante di  funzioni  aventi  finite  e  continue  tutte  le  derivate 
che  consideriamo  e  finché  consideriamo  soltanto  punti  interni  alla 
regione,  ove  sono  soddisfatte  queste  condizioni.  Noi  dimostreremo 
infatti  che  per  tali  funzioni  Tordine  in  cui  più  derivazioni  si 
eseguono  non  ha  alcuna  influenza  sul  risultato  finale  :  che  p.  es., 
se  f  è  funzione  delle  x,  y,  z,  valgono  nelle  nostre  ipotesi  le 
uguaglianze  : 

/       x,x,y,z  /       x,y,z,x  /       x,z,y,x  /       y,x,z,x  cv/iy. 

perchè  tutte  queste  derivate  sono  state  ottenute  derivando  due 
volte  rispetto  alla  x,  una  volta  rispetto  ad  y,  una  volta  rispetto 


CALCOLO   DIFFERENZIALE    PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  271 

a  z.  In  altre  parole,  le  operazioni  di  derivazione  parziale  godono 
della  proprietà  commutativa^  così  come  ne  godono  i  fattori  di 
un  prodotto. 

E,  come,  per  dimostrare  questa  proprietà  per  i  fattori  di  un 
prodotto,  basta  dimostrarla  per  i  prodotti  di  due  soli  fattori, 
così  a  noi  basterà  provare  che  : 

iSe  la  funzione  f  (x  y)  possiede  in  un  punto  {*)  finite  e 
continue  sia  le  f  x,  f  V  che  la  derivata  f  %  ottenuta  derivando 
prima  rispetto  ad  x  e  poi  rispetto  ad  y,  essa  possiede  in  tale 
punto  anche  la  f  "yx  ;  ed  è  in  tal  punto  f"xy  =^  f  "yx- 

La  f"y3,  è  definita  come  il  lim  -ri  fyi^-^^yl/)  —  f'yi^^y) 

h=o  n  [_  J* 

Si  deve  dimostrare  che  questo  limite  esiste  ed  è  uguale  a  f'^ 
Poiché  fyil  tj)  =  lim  f^^^y-^^'^  —  f^i^y)  ^  il  lij^ite  da  esa- 
minare  è 
lini  \  \  lim  fi^-^^^y-^^^^-fi^-^Ky)  _  lij^  fix,y-hk)-f{x,y)  j 

cioè  è  il  limite  di 

1  i  fix  -\-h,  y-\-  k)  —  f(x  +  h,  y)       f{x,y-^  k)  —  f{x,  y) 


k 


(1) 


quando  si  passi  al  limite  prima  per  ^  =  0,  e  poi  per  h  ^=  0. 

Posto  9  (a;)  = z—^ — ^^,la  (1)  diventa y ' 

cioè  per  irteorema  della  media  ^^xix  -^^h),  dove  0  <  9  <  1,  ossia 

(h   (y    _|_  y^)  ci)    {^y\ 

la  (1)  diventa  dunque  ^—^— * — '—  ,    cioè  per  il  teorema 

rC 

della  media  4>'  {y  -\-  o'  k)  ossia  f'^y  {x  -\-  ^  h,  y -^  ^'  h),   dove 
ancora  0  <  0'  <  1. 

La  fxy  nel  punto  che  si  considera  è  continua  ;  il  limite  di 
fcy  {x-\-^h,  y  -\-  ^'k)  per  /i  =  0,  k  =  0  è  perciò  (in  qualunque 
modo  si  faccia  il  passaggio  al  limite)  f'xy  {x,  y).  Il  limite  che 
noi  cercavamo,  cioè  il  valore  di  f'y^,  esiste  dunque  ed  è  uguale 
a  f'xy,  come  volevamo  provare. 


(*)  Suppongo   tale   punto  interno  alla  regione  ove  f{x,y)  è  definita  ed  ove, 
per  le  stesse  ipotesi  del  nostro  teorema,  esistono  le  /'^r,  f'y,  f'xy. 


272 


CAPITOLO   XIII    —    §    80-81 


B; 


Notiamo  un  semplice  corollario,  che  è  una  generalizzazione  del  teorema  della 
media.  Il  rapporto 

1  l  f{x^h,y-^h)-f{x^h,y)  __  f(x,y  +  Tc)-f{x,y)  )  _ 
li  )  Jc  ìc  )  ~ 

_f{x  +  h,y  +  1c)-~f(x-hh,y)  —  fix,tj-h1c)'+-t{x,y) 
~  hk 

ha  per  h  =  k  — -  0  per  limite  la  derivata  mista  nel  punto  (x,  y)  ;  esso  stesso, 
prima  di  passare  al  limite,  vale  la  derivata  mista  in  un  punto  (diciamo  così) 

intermedio  x  -|-  o  h,  y  -|-  ^'  k.  [Precisamente  come  ^-^^ ^ '^—^  ha  per  h  =  0 

il  limite  f'  (x)  e  prima  di  passare  al  limite  vale  «-'  {x-\-o  h),  se  *'  (x)  è  nell'inter- 
vallo {x,  X  4-  /<)  determinato  e  finito].  Nel  caso  attuale  si  suppone  che  la  derivata 
mista  sia  anche  continua. 


§  81.  —  Teorema  della  media  per  funzioni  di  due  o  più  variabili. 

Se  9  (x)  è  una  funzione  derivabile    della   x    nell'  intervallo 
(a,  a -f- /^)  il  teorema  della  media  si  enuncia  con  la  formola  : 

cp  (a  -H  /^)  —  9  (a)  =  /i  ^'  {a  4-  0/^),  dove  0  <  0  <  1. 

Troveremo  una  formola  analoga  per  le  funzioni  di  più  variabili. 

Sia  f{x,  y)  una  funzione  di  due  variabili  x  q  y  definita  in 

un   campo   R   e   derivabile   in  tutto  R  sia  rispetto  alla  x  che 

rispetto  alla  y.  Sia  A  un 
punto  di  R  di  coordinate 
f  X  Qy:  Q  B  (fig.  32)  un 

altro  punto  del  campo  di 
coordinate  x-\-h,7j-\-k. 
Per  passare  dal  punto  ^ 
al  punto  B  si  può,  p.  es., 
seguire  una  spezzata,  di 
cui  un  segmento  è  pa- 
rallelo all'asse  delle  x  e 
i  l'altro  segmento  è  paral- 

:  lelo  all'asse  delle  y.   Se 

:  questi  due  segmenti  sono 

j ■ -^  interni  al  campo  i?,  e  C 

p-     32  è  il  loro  punto  comune, 

il  punto  C  avrà  per 
ascissa  l'ascissa  di  5  e  per  ordinata  la  ordinata  di  A  (*). 
Allora  la  differenza  f(x-^h,y-^rk)  —  f{x,y)    si   può  porre, 


0 


(*)  Supponiamo  dunque  i  segmentile,  CT  interni  al  campo  che  esaminiamo  ; 
nel  precedente  §  80  non  si  è  fatta  analoga  ipotesi,  perchè  superflua,  in  quanto 
che  h,  Jc  si  supponevano  tendere  a  zero,  ed  il  punto  (x,y)  si  supponeva  interno 
al  campo  R. 


CALCOLO    DIFFERENZIALE   PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  273 

aggiungendo  e  togliendo  il  valore  della  funzione  nel   punto  C, 
uguale  a 

[f{x  -¥h,y-^k)—  fix  +  h,  y)]  +  [fix  +  /^,  y)  —  fix,  y)] 

che  è  la  somma  di  due  diiferenze. 

Se  considero  x  ed  h  come  costanti,  la  f(x-+-  h,  y)  si  può 
considerare  funzione  della  sola  y,  ponendo  f{x-[-  /^,  ?/)  =  9  (y). 

Sarà  allora  : 

f{x'th,y-^k)  =  ^{y-i-k), 
cosicché  : 

fix  -¥-  h,y  -h  k)  —  fix  -4-  h,  y)  =  ^  iy  -hk)  —  ^  iij), 

che    per    il    teorema    della    media    (per    le    funzioni    di    una 
sola  variabile)  è  uguale  a 

k^'yiy-{-^k)     (0<G<1); 
cioè,  essendo 

^'yiy  -^  U)  ^  fyix  -^  h,y  -^  U\ 
sarà  : 

[fix  -^h,y-hk)  —  fix  -h  h,  y)]  =  kfy  ix  -hh,y  -\-Q  k). 

Analogamente  si  dimostrerebbe  : 

[fix  -\-%  y)  -  fix,  y)]  =  hf,  ix  -4-  0'/^  y)     (0  <  G'  <  1). 

Sommando  membro  a  membro  queste  due  ultime  uguaglianze 
si  ottiene  : 

fix  -\-}i,y-^k)  —  fix,  y)  =  hf,  ix  +  ^'h,  y)  -h 
H-  kfy  ix  -\-h,y  -^  ^  k). 

Quest'ultima  formola  estende  il  teorema  della  media  sl  fun- 
zioni di  due  variabili.  Essa  ci  dice  che  la  differenza  dei  valori 
della  funzione  f  (x,  y)  in  due  punti  (x-{-  h,  y-4-  k)  e  (x,  y)  è  uguale 
alla  somma  del  prodotto  di  h  per  la  derivata  parziale  della 
funzione  data,  rispetto  alla  x,  calcolata  in  un  punto  intermedio 
del  segmento  (x,  y),  (x  4-  h,  y)  e  del  prodotto  di  k  per  la  deri- 
vata parziale  rispetto  a  y  della  funzione  data,  calcolata  in  un 
punto  intermedio  del  segmento  (x  +  h,  y),  (x  -I-  h,  y  -h  k). 

Qui  si  suppone  soltanto  che  le  f^,  f'y  esistano  (e  siano  quindi 
finite). 

Scambiando  gli  assi  delle  x,  y  si  ottiene  una  nuova  for- 
mola della  media. 

Altre  formole  si  potrebbero  ottenere  variando  la  linea  che 
congiunge  il  punto  A  al  punto  B. 

18  —  G.  Tubini,  Analisi  matematica. 


274  CAPITOLO  XIII  —  §  81-82 

Più  avanti,  p.  es.,  daremo  un'altra  formola  ottenuta  con- 
giungendo A  con  B  col  segmento  rettilineo  AB,  imponendo  però 
alle  fa:,  fy  1^  Ulteriore  condizione  di  essere  funzioni    continue. 

Il  teorema  della  media  si  può  estendere  in  generale  alle  fun- 
zioni di  n  variabili  con  metodi  e  ragionamenti  affatto  analoghi 
a  quelli  da  noi  adoperati  nel  caso  di  funzioni  di  due  variabili. 

Se  f(x,  y, z,  t)  è  una  funzione  di  n  variabili,  si  trova  la 

formola  generale  : 

f{x  -^  h,  y  -^  k z  -[-  l,  t  -\-  m)  —  f{x,  y z,  t)= 

^=  hf'^  (x  -^  (jh,  y z,  t)  4- 

-f-  kfy  {x-i-  h,y  -h  ^'k, ,  z,t)-^ 


-4-  Ifz  (x  -+■  h,y-\-  k ,  z  4-  0"  l,  t)  -+- 

-h  mft  {x  -{-  h,y  -\-  k, ,  z  -\-  l,  t  -h  6'"  w). 

§  82.  —  Differenziali. 

Supponiamo  che  f^  e  fy  siano  tutte  e  due  continue.  Allora 
sarà  : 

lim  fa,  {x  -h^h,y)=^  /"«  {x,  y) 

e  lim  If^  {x-h  ^h,y)  —  f„  {x,  y)]  =  0. 

Ponendo  : 

f,  (x  4-  0  h,  y)  —  f,  {x,  y)  ==  a, 

si  ha  :  f,  {x  +  0  h,  y)  =  f^  {x,  y)  -4-  a.  (1) 

Con  le  stesse  considerazioni  si  trova  che  : 

fy  {x-\'Ky-^^'k)  =  fy  (x,  y)  +  P,  (2) 

dove  a  e  p  sono  delle  quantità  che  tendono  a  zero  con  h  e  k. 
Dalla  formola  che  esprime  il  teorema  della  media,  ricordando 
la  (1)  e  la  (2),  si  deduce  '- 

f{x  ^h,y^k)-  f{x,  y)  =  h  [f.  (x,  y)-hcc]-h 
4-  k  [f  (x,  y)  4-  ?>]  =  [hf,  (x,  y)  4-  kfy  ix,  y)]  + 

4-  [a/^4-  ^k].  (3) 

Questa  formola  dice  che  la  differenza  f{x-\-h,y-hk)  — 
—  f(x,  y),  incremento  che  la  funzione  f  subisce  nel  passare  dal 
punto  A  =  (x,  y)  al  punto  ^  =  (x  4-  h,  y  4-  k)  è  la  somma 
di  due  quantità  :  la  prima  :  hf^  4-  kfy  che  è  nota,  la  seconda 
oLh-^^k  che  è  una  quantità  incognita,  infinitesima   di   ordine 


CALCOLO    DIFFERENZIALE    PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  275 


superiore  rispetto  a  yh^  -h  /r,  perchè  a,  p,  come  sappiamo,  ten- 
dono a  zero  per  /z  =  0,  k  =  0.  La  prima  quantità  kf^^  H-  kf'y  sarà 
detta  differenziale  della  funzione  e  sarà  indicata  brevemente  col 
simbolo  df. 

Possiamo  dunque  scrivere,  quando  l'incremento 

f{x  4-  h,7/-^k)  —  f(oc,y) 

della  funzione  si  indichi  con  A  f 

Af=df-hioLh-h?>k). 

Osserviamo  che,  se  f(x,  y)  =^  x,  è  f'^,  ^=  1,  f'y  =  0  ;  e  quindi 

dx  =  h  .1  -h  k  .0  =  h. 

Analogamente  il  diiferenziale  dy  vale  k. 

Il  differenziale  della  funzione  generale  f{x,  y)  sarà  dunque 

df=^  fa  dx  -h  fy  dy  =^  ~-  dx  -\-  Y~  ^y- 

Ne  risulta  confermato  che  ^—  e  c-^  non  sono  (almeno  secondo 

dx      oy 

le  definizioni  qui  poste)  (*)  quozienti  di  differenziali,  ma  veri  e 

proprii  simboli. 

In  modo  analogo  si  pone  per  una  funzione  di  pili  variabili 

f{x,y, ,  ^,  0  13.  quale  possegga  derivate  prime  continue: 

df=^  f^  dx  -h  fy  dy  -4- -4-  f\  dz  4-  ft  dt. 

E  evidente  l'analogia  di  questi  ragionamenti  e  di  queste 
definizioni  con  le  corrispondenti  proposizioni  relative  alle  fun- 
zioni di  una  sola  variabile.  Nel  caso  "attuale  si  è  dovuto  soltanto 
ammettere  in  piii  la  continuità  delle  derivate  prime  della  f. 

§  83.  —  Derivate  delle  funzioni  di  funzioni. 
(Funzioni  composte). 

a)  Sia  z  una  funzione  f{x,  y)  di  due  variabili  x,  y,  le  quali 
sieno  funzioni  di  una  variabile  t.  Quando  t  varia  in  un  certo 
intervallo  y?  il  punto  {x,  y)  varii  nel  campo  ove  è  definita  la  z, 
cosicché  la  z  sia  funzione  della  t  nell'intervallo  y. 

Siano  fx,  f'y  finite  e  continue,  Xt  e  y't  finite.  Quando  la  t 
riceve  un  incremento  A^,  siano  ^x,  A?/  i  corrispondenti  incre- 


(*)  Si  potrebbero  definire  dei  differenziali  parziali  e) .r /  =  / 'r  c^^  ;  à„f  =  f',/dij. 
e  interpretare  allora  y- e  y^  come  quozienti,  i  cui  numeratori  fossero  àxf^àvf, 
e  i  denominatori  dx,  dy.  Ma  ciò  porterebbe  soltanto  complicazioni. 


276  CAPITOLO   XIII   —   §    83 


menti  delle  x,y\  e  sia  A  ^  il  corrispondente  incremento  della  2, 
Sarà  per  il  teorema  della  media  : 

A  ^  =  ^(.r  +  A  X, .?/  +  A  ^)  —  f{x,  y)  = 
=  ^xfAx-\-^^x,y)-\-^yfy{x-^  ùix,  y-h^'  Hy) 

(o<e<i)      (o<0'<i). 

Donde 

A  z  A^ 

lim    —  =  lim  f,  (x  4-  9  A  :r,  ?/)  lim  —  -h 

-f-   lim  fy  {x-\-  l^x.y-^^'  ^y)  lim  -^  • 

Poiché  per  ipotesi  x\  e  ^'t  esistono  e  sono  finite,  è  lim  Arr  ^=^ 
=  \ìm  ^y^0. 

Ricordando  che  f^  e  /^',/  sono  finite  e  continue,  se  ne  deduce 

A-^ 
che  z't  =  lim  — -  esiste,  ed  è  dato  dalla  : 
A^ 

1)  z  dx       2zdy 

,',  _  z'.  x\  +  z\,  y\  -  ^  --  -^  Yytt'  (1) 

Sciasi  considera  come  variabile  indipendente  (§  53,  pag.  177),  è: 

dz  =  z'i  di 
dx  =  x\  dì 
dy  —  y\  dt 

u  Z  u  Z 

Cosicché  per  (1)  dz  ^=  z'tdt  =^  :r-  dx  -{-  ^  dy  come  al  prece- 
dente  §  82.  ^^  ^^ 

Riconosciamo  dunque  anche  in  questo  caso  più  generale 
(cfr.  §  59,  pag.  187)  che  il  differenziale  primo  di  ima  funzione 
è  dato  sempre  dalla  stessa  formola,  qualunque  sia  la  variabile 
indipendente. 

E  si  osservi  che,  se  si  scrivessero  le  derivate  parziali  coi  d 
latini,  tale  formola  assumerebbe  l'aspetto 

dz        dz  dx       dz  dy  .  . 

—  ^=z 1 ~  ì  (a) 

dt        dx  dt       dy  dt 

che    taluno   potrebbe    essere    tentato    di   semplificare,  ottenendo 

,    dz       dz        dz      ^  ...         X     •      /  \ 

1  assurdo  ^  =  t"  "+"  "T"  •    Le    notazioni    usate   in    (a)    possono 
dt       dt        dt 

perciò  portare  a  gravi  errori  di  calcolo. 


CALCOLO   DIFFERENZIALE    PER    LE    FUNZIONI,    ECC.  277 

Si  ha  pure  similmente,  ricordando  che  z\,  Zy  sono  funzioni 
di  X,  y,  entrambe  funzioni  della  t,  che  : 

dt  "  Tìx'"''^  ^y^'~~'  ^^^'~^'  ^^y^^ 

dz\, 

se  le  derivate  seconde  di  z  sono  finite  e  continue. 
In  tale  ipotesi  si  deduce,  derivando  (1),  che  : 

d'z 3^^  /^^V-4-  9    ^"'^    dxdy       d~z  /  dy\- 

■^       ix^ydi/  lix'iv  dt  dt       dy~  K'òt  / 


df       "òx^  \dt/  'ix  lìy  dt  dt       dy 

^òz  £''x       3  z  d^y 
'òx  df       l}y  df 


(2) 


P)  Analogamente,  se  fé  funzione  delle  n  variabili  xi,  x->, x^, 

tutte  funzioni  della  t,  e  se  la  /*  stessa  si  può  considerare  come 
funzione  della  t  in  un  certo  campo,  sarà  con  ipotesi  analoghe: 

df ^  ?^   .    _^  ^  ^f  dxn 

dt        "òxi  dt        3x2  dt        ^Xn  dt 

Y)  Sia  ora  f  una  funzione,  p.  es.,  di  tre  variabili  x,  y,  z  \ 
e  siano  y,  z  funzioni  della  x.  Posto  ^  =  a;,  la  /"  diventa  funzione 
di  5,  y,  z,  tutte  e  tre  funzioni  della  x.  Si  ha  quindi  (poiché  S  =  ^ 

e  quindi  —  =  1)  : 

dx       3^  dx       "òy  dx        "òz  dx  "Hìx  (^y  3^ 

Si  noti  anche  qui  quale  differenza  passa  tra  ^^  ®  3?    •   ^^^ 

ottenere  la  prima,  si  deriva  considerando  y  e  z  come  costanti  : 
per  ottenere  la  seconda,  si  deriva  considerando  y  e  z  come  fun- 
zioni di  X,  Per  esempio,  se  f=  x  -^  y  +  z,  y  =  sen  x,  z  =^  cos  x, 

e  ^  =  1 ,  "7^  =  1  -h  cos  a;  —  sen  x. 
dx  dx 

5)   Supponiamo   f  funzione  delle   due  variabili  x,  y  definite 
dalle  : 

X  =^  a  -\-  ht,  y  =^  b  -{-  kt         {a,  h,  /^,  k  =  costanti). 


278  CAPITOLO  xm  —  §  83 

Si  trovino  le  derivate  di  /"rispetto  alla  variabile  indipendente  t. 

Siha:  df^'òfdx       K^=]^^l       j,ÌL] 

dt        'òx  dt        'òy  dt  ì)x  ^y 

i(K\  =,  1  (^^^  ^  + 1  /lÀ ^=.  7,^+  j,  y-f  : 

dt\^x/        ^x\ì)'x/dt       'òy  \'òx/  dt  "òx^  ì)xì)y 

e  analoga  per  |(^^); 

dY^  d    /df\  ^     ±  /  3/-\  d_  /}f\ 

df       dt  \dt)  dt  Klix)  dt  X'òy/ 

\     ùx'  òxoyf  \    oxòy  òy'/ 

ox"  òxòy  òy" 

Una  regola  mnemonica  per  ricordare  queste  formolo  è  di  porre 

e  sviluppando  poi  con  le  regole  dell'algebra  elementare,  proprio  come  se  -y-  ,  -r— 
fossero  frazioni   vere   e   proprie   aventi   per   numeratore  ò  e  per  denominatore  le 

quantità  òx^  cy  (*),   con   l'avvertenza   che   alla  fine   del   calcolo  i  simlDoli  -r—  /, 

ox 

-r-^  /',  f,  ecc.,  non   si   debbono   più  considerare  come  prodotti  (ciò  che  non 

avrebbe  senso),  ma  come  uguali  rispettivamente  alle  derivate  -y^  ,  -—  ,  y— y-  ,  ecc. 
E  con  le  medesime  convenzioni  si  trova  : 

Esempio. 

Sia  f{x,  y)^x\  a;  =  T  (0,  y  =  ^  (0, 

cosicché  /^=  9  (0"^^'^  ;  si  trova  : 

d{^(iY'''\_  di  _d(x^)_       ,  dx  ,  d_y_ 

dt         ~dt~~'    dt    ^^''^'dt'^^^^'dt^ 

=  tJx'-'^\t)  +  x'\OgeX^\t)=Cp(tY^'^ò\t)\Og^(t)-^^(t)'^^^ 

come  ci  è  già  noto  dal  §  60,  es.   3'',  pag.   189. 


(*)  In  tale  calcolo,  dx  e  dy  si  debbono  considerare  ciascuno  come  un  unico 
simbolo  di  una  quantità,  e  non  già  come  prodotto  di  d  per  x  o  per  y.  Così,  p.  es., 
si  scriverà  dx^  e  non  ^^a;■^ 


CALCOLO    DIFFERENZIALE   PEE,   LE   FUNZIONI,    ECC.  279 


§  84.  —  Funzioni  implicite. 

a)  Si  abbia  l'equazione  : 

f{x,y)  =  0.  (1) 

Se  si  può  trovare  una  funzione  ?/ 1=  9  (a;)  della  a;,  che,  sosti- 
tuita in  (1)  al  posto  della  y,  le  soddisfi  identicamente,  noi  diciamo 
che  essa  è  una  funzione  della  x  definita  in  modo  implicito,  0 
più  brevemente  una  funzione  implicita  della  x.  Se  si  riesce  a 
risolvere  la  (1)  rispetto  alla  y,  si  ottiene  così  la  y  come  funzione 
esplicita  della  x. 

Così,  p.  es.,  l'equazione  (di  un  cerchio  riferito  a  due  diametri 
ortogonali  scelti  come  assi)  x"  -\- y^  —  1=0  definisce  in  forma 
implicita  due  funzioni  y  della  x  ( —  \^xé^\)^  le  quali  sotto 
forma  esplicita  si  scrivono:  1/  =  4-  ^1  —  a?^  ?/  =  — ^1  — 0?. 
La  teoria  della  funzione  y  =  /' (x)  che  soddisfa  alla  x  —  cp  (^) z=  0, 
cioè  la  teoria  della  funzione  inversa  (§  58,  pag.  183)  della 
a;  =  (f  (y)  è  un  caso  particolare  dello  studio  attuale. 

La  definizione  testé  posta  si  può  estendere  a  casi  più  ge- 
nerali. Così,  se,  p.  es.,  esiste  una  funzione  ?/  =  9  fe,  x^, ,  Xn) 

che  sostituita  al  posto  della  y  nella 

f(xi,  X2 ,Xn,y)  =  0 

[/*=  funzione  di  Xi^x> ,Xn,  ^]; 

vi  soddisfi  identicamente,  noi  diciamo  che  la  y  =  ^  è  una  fun- 
zione definita  in  modo  implicito  dalla  precedente  equazione. 

Se,    p.    es.,    esistono    due   funzioni    y  =.  (p  {xi,  X2 ,  Xn)    e 

^  =  cj;  (xi^  X2, ,  Xn)  che,  sostituite  nelle 

ffe,  X2, ,  Xn,  y,  z)  =  0,       F{xi,  X2,  ......  Xn,  y,  z)  ==  0, 

vi  soddisfano  identicamente,  noi  diciamo  che  le  y,  z    sono  fun- 
zioni delle  Xi,^;^, ,  Xn  definite  in  modo  implicito  dal  precedente 

sistema    di  equazioni.  E  si  potrebbero  in  modo  simile  studiare 
sistemi  formati  da  più  che  due  equazioni. 

^)  Sia  data  l'equazione  (1) 

Supponiamo  : 
1"  L'equazione  è  soddisfatta  ponendo,  x  ~  ic,„  y  =  yQ  {x^,  y^  =  cost.). 
2'  Per  \  X  —  Xf^  \  .^  h   ed  |  ?/  —  2/0  I  ^  ^   (h.'k  costanti)  la  /  (a:,  y)  esiste 
e  possiede  derivate  prime  finite  continue. 

ÒT ( X  wì 

3°  La  -!-^y^-^  ha  un  valore  h  differente  da  zero  nel  punto  x  =  XQ,y  =  y^' 


280  CAPITOLO   XIII   —    §    84 


E  ci  proponiamo  dapprima  il  problema: 

Esiste  una  funzione  continua  della  x  in  un  intorno  abbastanza  piccolo  del 
punto  Xo,  la  quale  abbia  il  valore  Jq  quando  x=Xo  e  soddisfi  all'equazione  (1)  ? 
E  come  si  può  calcolare  tale  funzione  in  modo  esplicito,  risolvendo  così  la  (1)  ? 

Noi  risponderemo  a  tali  domande  con  un  metodo  di  approssimazione  successiva 
(detto  anche  di  falsa  posizione).  E  trattiamo  questo  problema  appunto  per  dare 
un  esempio  concreto  di  tale  metodo,  che  nei  casi  pratici  costituisce  il  più  usato 
ed  il  più  potente  strumento  per  risolvere  equazioni  complicate  o  per  problemi  di 
analoga  natura. 

Sia  -^  =  a,  -~  =b  nel  punto  {Xq,  y^).  È  b  r:^-  0  per  ipotesi. 

Poniamo  /  {x,  y)  ~[a{x  —  x^)  -\-b{y-  y,)]  =  f  {x,  y). 
Eicordando  che  è  fiXQ,y^)=0,  troviamo  che: 

Per  X  =  Xo, y=:y^  è  Y  (o^,  2/)  =  0,  ^  =-.0,  ^=  0. 

La  nostra  equazione  diventa  :  a (x  —  Xo)  -{-b  {y  —  y^)  -\-  f  {x, y)  =  0,  donde 
(poiché  (?>H=0)  si  trae: 

y  —  yo  =  —  Y  (x  —  X,))  —  -j-  ^{x,  y)  che  scriveremo  : 

(2)  2/=2/0+C(^  — a;o)-hf  (X,?/)  (—   y   :=ZC,-   ^:=^A' 

Dalle  nostre  ipotesi  segue: 

r  Per  a;  —  iCj,  7/  —  I/a  sono  nulle  la  ^P  e  le  sue  derivate  prime. 
2"  Per  \  x  —  Xf^\  ^h,\y  —  y^l  .^h  la  ■]>  esiste,  possiede   derivate   prime 
finite  e  continue. 

Noi  sappiamo  che  y=^yo  per  x  =  x^.  Un  primo  valore  approssimato  della 
funzione  y  cercata  ci  è  dato  dall'ipotesi  che  sia  y  =  yo  anche  quando  x  -i=  Xq. 
Questo  valore  y  =  yo  sarebbe  proprio  la  funzione  cercata,  soltanto  se,  sostituendo  i/a 
al  posto  di  y  in  (2),  la  (2)  risultasse  verificata  ;  cioè  se,  sostituendo  i/c  al  posto  di  y 
nel  secondo  membro  di  (2),  si  ottenesse  come  risultato  proprio  ^/o-  Ciò  non  avverrà 
certamente  in  generale.  E  il  risultato,  che  indicheremo  con  y,,  ottenuto  sosti- 
tuendo 2/o  al  posto  di  y  nel  secondo  membro  di  (2),  sarà  considerato  come  un 
secondo  valore  approssimato  della  funzione  cercata  y.  E  y^  sarà  proprio  il  valore 
della  funzione  cercata  y  soltanto  se,  sostituendo  i/i  al  posto  di  y  nella  (2),  la  (2) 
risulta  soddisfatta,  ossia  se,  sostituendo  2/1  al  posto  di  y  nel  secondo  membro  di*  (2) 
si  ottiene  come  risultato  proprio  ^/i-  Ma  questo  non  avverrà  generalmente;  e  noi 
assumeremo  come  terzo  valore  approssimato  della  funzione  y  che  si  cerca  preci- 
samente il  risultato  y^,  che  si  ottiene  sostituendo  2/1  al  posto  di  y  nel  secondo 
membro  di  (2).  Cosi  continuando,  troviamo  i  successivi  'approssimati  ; 

/  2/0      =^  2/0 

l  Vi      — 2/0-+-C  (x-x„)  +  'P{x,yo) 
,^.  2/2      =yo-^c  (x-Xo)-i-'Hoo,yò 


/  yn-\^yQ-\-c  {X  —  Xt)-h^{X,ya-2) 

\  yn      =y(,-hc  (x  —  Xq)-^'^  (x,  yu-i)  {n  intero  positivo). 

Ora  ci  domandiamo:  Quando  n  è  abbastanza  grande,  rappresenta  effetti- 
vamente la  y»  così  definita  il  valore  approssimato  di  una  soluzione  dell'equa- 
zione (1)  almeno  in  un  certo  intorno  del  punto  x  =  X(,  ?  In  altre  parole  ci  chie- 
diamo :   Esiste,   almeno  in  un  intorno   del  punto  x  =  x^,  il  lim  y«  ?  E  questo 

limite  è  una  funzione  y  della  x  che  soddisfi  alle  imposte  condizioni  e  in  parti- 
colare risolva  la  (1)? 


CALCOLO   DIFFERENZIALE   PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  281 

Noi  risponderemo  afifermativamente  a  queste  domande:  ciò  che  basta  per  la 
parte  teorica  di  simile  studio.  Nei  casi  pratici  bisognerà  di  più,  se  si  vogliono 
evitare  troppo  lunghi  calcoli  numerici,  che  |  yn  —  y  I  sia  già  piccolo,  quando  n  non 
è  molto  grande,  ossia  che  le  y»  tendano  abbastanza  rapidamente  al  loro  limite  y. 

E  cominciano  anzitutto    ad   osservare  che,  affinchè  sia  lecito  scrivere  le  (3), 

bisogna  che   ^(ic,  i/,)   '^{oc,y-^, ,  'H^»2/«)> siano   espressioni    non    prive    di 

significato,  ossia  che  i  punti  {x,y^)  {x,y^), ,{x,y„), appartengano  al  campo 

ove  è  definita  la  f ,  che  sia  cioè  : 

\x  —  Xo\^h,\y^~yf,\^k,\y.^  —  yQ\^Jc, ,  \y,  —  y^\^  k. 

Osserviamo,  che  essendo  'Hic,  2/)  =  0» '^'v  (ic,  2/)  =  0  per  ic  —  ìCq,  2/ =  ^o»  "oi 
potremo,  per  la  supposta  continuità  di  queste  funzioni,  scegliere  due  numeri  /«,  ^  //, 
kii^k  cosi  piccoli  che  per  \x  —  x,^  I  ^  /i„  I  2/  —  2/o  i  ^  ^«  il  massimo  H  di 
I  •fy(x,y)  I  sia  minore  di  1,  e  impicciolire  poi  il  numero  /^,  in  guisa  che  il  mas- 
simo Jf  di  I  2/,  —  2/o  i  =  I  e  (x  —  Xf,)  -\-  d>  {x,  2/„)  I  soddisfi  alla  M  ^  ^r  ^  /^'i- 
Sarà  cioè,  riassumendo: 

l  (per  \x-Xo\^\^h;\y-y,\^k,^k), 

\  massimo   di  i  ^'y  (a:,  y)\  —  H,  massimo   di   \  y^  —  yQ\=  M 

ì  H^  1        ,  M    _  j^  ^ki    e    quindi   a    fortiori   M  ^k^ 

Indicheremo  con  5  il   campo   definito  dalle  \  x  —  Xf,\  ^li^,\y  —  yQ\  ^k^. 

Dimostreremo  che,  s%\  x  —  Xn\  ^hx  tutti  i   punti  {x.y^),  {x,  y^, ,  (a?,  2/«), 

appartengono  a  ò.  Intanto  dalle  (4)  segue  \y^  —  yo\  ■^M^ky\  cosicché  il  punto 
(flj,  2/,)  appartiene  certo  a  ^  ;  dimostriamo  che  altrettanto  avviene  del  punto 
(ic,  yn).  Usando  il  metodo  di  induzione  completa,  basterà  dimostrare  che  {x,  y») 
appartiene  a  ò,  supponendo  già  dimostrato  che  i  precedenti  punti  {x,ym)  per 
l^m^n  —  1  appartengono  a  o. 

In  tal  caso  dalle  (3)  segue  : 

l  ym  —  ym-ì  I  =  \^  (X,  yu-i)  —  4-  {x,  ym-z  r        (2  ^  m  ^  w) 
che  per  il  teorema  della  media  è  il  valore  assoluto  del  prodotto  di  {ym-\  —ym-i) 
per  un  valore  intermedio  ^\h'y{x,y).    Questo    valore    intermedio,    per  le  (4),  non 
supera  H,  cosicché  |  y,u  —  y,,, -i  |  ^H\  ym-\  —  ym-2 1. 

Ed  essendo  |  2/i  —  2/o  I  ^  -^»  se  ne  deduce  successivamente  |  y.^  —  ?/,  |  ^  HM, 
yi--y%\^S\y.^  —  y,  I  ^  H'M,  ed  in  generale 

(»)  \lfm  —  ym-l\:^H"'-^M  {1  ^  m  ^  fi). 

Ora: 

(6)  yn  ==  2/0  4-  (2/1  -  2/0)  +  (2/2  —  2/1)  -+- +  («/'^  —  2/»  - 1) 

donde  : 
(1)  \  yn—yo\^M+  HM  +  H' M-^.^-h H"-' M=  M{i-i- H-^ ...  +  H--'')  = 

Da  cui  segue  tosto  che  anche  (x,y,>)  apparfene  a  ^.  Per  dimostrare  che  esiste 
ed  è  finito  y  =  lim  2/«,  basterà  per  la  (6)  provare  che  esiste  ed  è  finita  la  somma  y 

n  —  ao 

della  serie 

(8)  2/0  +  (2/1  -  yo)  -+-  (2/2  -  2/1)  ■+ -+-  iy»  -  2/«-i)  + 

Ciò  che  è  evidente,  perchè  questa  serie  è  totalmente  convergente  per 
\  X  —  Xq\  ^  h^,  poiché  da  (5)  segue  che  i  valori  assoluti  dei  suoi  termini  sono 
(a  partire  dal  secondo)  ordinatamente  minori  dei  termini  della  serie 

M+MH-JrMm  + 

che  è  una  progressione  geometrica  decrescente  (si  ricordi  che  if  <  1)  a  termini 
costanti. 


282  CAPITOLO   XIII   —    §    84 

Anzi,  poiché  ?/  è  la  somma'  di  (8),  ne  segue  che  : 

1 2/  -  2/0 1<  ^i'+  ^H+  MH'  -4- =  ^^jj  ^  k„ 

cosicché  anche  il  punto  (x,  y)  appartiene  a  ^.  E,  poiché  la  (8)  ha  termini  che 
per  \  X  —  Xq\  ^h^  sono  funzioni  continue,  anche  la  y,  che  ne  è  la  somma,  è  una 
funzione  continua  della  x  per  |  x  —  Xg  [  ^  h,. 

Eicordando  che  i'  é  funzione  continua  di  ic,  y,  si  ha  poi,  passando  al  limite 
per  n  =  cD  nell'ultima  delle  (3)  : 

lim  y„  --  yo-h  e  {x  —  x^)  4-  'I  {x,  lim  ?//  -i),  ossia 

'     y  -=  y<ì+  c(x  —  Xo)  4-  ■!  (x,  ìj),  ossia 

f{x,y)  =  0,  e.  d.  d. 

Alle  domande  da  noi  poste  in  principio  del  capoverso  /3  si  deve  dunque 
rispondere  affermativamente.  È  bene  evidente  che  y  =  t/^  per  x  =  Xq.  Dalle  (3)  si 

deduce  subito  infatti   (ricordando  che  -i  (Xq,  y„)  =  0)  :  i/i  =  2/o»  2/2  =  Vo^ >  2/ "  =  ?Jo 

per  X  =  Xq.  Quindi  anche  y  =  lim  y„  =  y^  per  x  =  Xq  (*). 

Ora  dimostreremo  che  in  un  intorno  abbastanza  piccolo  di  x  —  x^  non  esiste 
altra  funzione  continua  y  della  x,  che  per  x  =  Xo  si  riduca  ad  Vo,  la  quale 
soddisfi  alla  f(x,  y)  =0.  Se  infatti  vi  fosse  un'altra  tale  funzione,  e  noi  la  indicas- 
simo con  z,  sarebbe 

^  =  2/0  -f-  e  (iC  —  XJ  -H  'l  (x,  z) 
z  —  2/v  =  '1  (ic,  z)  —  'i  ix.  yi-\) 

che  è  uguale  a  z  —  yH-\  moltiplicato  per  un  valore  intermedio  di -f ,/. 

Ora  in  un  intorno  abbastanza  piccolo  àìx=^X(.,  la  yn-\  e  la  -e  diiferiscono 
da  ?/„  per  meno  di  A:,  ;  e  un  tale  valore  intermedio  non  supera  quindi  JET;  cosicché 

\  ^  —  yA  -^  H  \  z  —  y u -\  \ .  Sarà  pure  j  z  —  yn-i  \^  È\  z  —  yn-2\,  ecc.  ;  e 
se  ne  deduce  \  z  —  yn  \  ^  H''-'^  \  z  ~  yi  \  .  Poiché  lim  W-^  =  0,  se  ne  deduce, 

passando  al  limite  per  n=cc,  che  lim  (z  —  yn)  ~  0,  ossia  che  z=:^y    e.  d.  d.  (**) 

Vogliamo  provare  l'esistenza  di  J^  per  x  =  x^^,  e  calcolare  tale   derivata.  È 

f(^o,yo)~^-  E  sia  ^y  l'incremento  che  riceve  la  y,  quando  la  x  riceve  l'incre- 
mento A  ic.  Sarà  f{Xg  -\-  ^  x,  y^  -\~  à  y)  =z  0  ;  e  quindi  anche,  sottraendo, 

f(Xn-+-^x,yo-i-^y)  —  f{Xo,yo)  =  0, 


(*)  Se  si  volesse  soltanto  dimostrare  l'esistenza  della  funzione  y  della  x,  senza 
insegnare  a  calcolarla,  si  potrebbe  procedere  così.  Essendo  /"',/  ^^  0  per  x  =  x,, 
y  =  yo^  la  curva  Y—-f{XQ,  X)  tracciata  nel  piano  (X,  Y),  che  incontra  l'asse 
delle  X  nel  punto  X  =  1/0,  attraversa  in  tale  punto  tale  asse,  cosicché  /  (ìCq,  «/o  4- ^) 
6  f(^(i,y<ì  —  k)  sono  di  segno  contrario,  se  k  è  abbastanza  piccolo.  Quindi,  se  x 
é  abbastanza  prossimo  ad  a?,,,  anche  f(x,yo-\-k)  e  f(x,yQ  —  k)  sono  di  segno 
opposto  ;  ed  esiste  perciò  un  punto  y  compreso  tra  2/0  +  ^  e  2/o  ~  ^  tale  che 
f{x,y)  =  0.  Esiste  perciò  un  tale  valore  di  y  per  ogni  valore  di  x  abbastanza 
prossimo  ad  x^^. 

(**)  Si  potrebbe  dimostrare  questa  asserzione  anche  così.  Se  f{x,  y)  —  f{x,z)  =  0, 
per  il  teorema  della  media  é  /' ,,  [y  —  z]^=  0,  dove  con  / ',/  indico  un  valore  inter- 
medio àìf'y.  SQy=4=z  se  ne  deduce  che  questo  valore  intermedio  f'j,è  nullo.  Ciò 
che  é  assurdo,  perché  per  x  abbastanza  prossimo  a  ic,„  \e  y  e  z  sono  prossime  ad 
2/0,  e  (poiché  f\j  (iCo.  2/0)  -^  0,  ed  f'y  è  continua)  la  f'y  é  differente  da  zero  in  tutto 
un  intorno  del  punto  (a?„,2/(i). 


CALCOLO   DIFFERENZIALE    PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  283 

ossia,  per  il  teorema  della  media  : 

^ y  f'>,  (^'o  -f-  ^  ^,  Vo  -\-  o^i/)-h^xf  ^ (Xo -4-  0-  A  X,  y,)  =:  0 

(0<0<1),  (0<^/<l)     (*). 

Poiché  y  è  funzione  continua  della  x,  è  lim  àyz=zO.  Dividendola  precedente 

formola  per  a  rr  /  ^  (x^  +  a  ;r,  y/,,  +  e  a  ìj),  e  passando  al  limite  per  a  ./  ^  0,  ossia  Ax  ~ 
—  A  1/  —  0,  si  trova  : 

lim         (      f'.Ax,-^e'  àx,yo)       ,   ^y  ^  _^ 

Poiché  il  limite  del  primo  addendo  esìste  ed  è  finito  (è  us^uale  a  .tS  "'        il 

f  yiXo,y^y 
cui  denominatore  é  per  ipotesi  differente  da  zero),  sarà 

lini    ^y  _,,'  _  #  _.       f'-^i'Xo^yo) 

lini       //  .i  — -—    —  7-7     ;;  — ;  ? 

^.v^Q^x       "^         dx  /  ?/ (^0, 2/o) 

formola  che  ora  ritroveremo  per  altra  via,  ammettendo  a  priori  l'esistenza 
di  7/  e  di  y . 

Oss.  Tutti  questi  risultati  potrebbero  essere  falsi,  se  f'y(X(f,yn)  =  0. 

Così,  p.  es.  si  osservi  che  l'equazione  f  =  {x  ~  Xq)'^  -j~  (y  —  v/^)*  =  0,  pure  es- 
sendo soddisfatta  per  x  —  Xq,  y  —  2/0»  ^^^  ammette  soluzioni  reali  per  a?  —  0-0=4=0. 

E  si  noti  che  è  appunto  y^  =^  2  (y  —  y^)  -^  0  per  y  =  y^^.  Così  pure  l'equazione 

f  ~  X-  —  y'^  =  0  è  soddisfatta  per  x  =  y  —  0',  ed  esistono  due  (non  una)  funzioni 
y  =L  x,y  =  —  X  continue  e  nulle  per  x  ~0  che  ad  essa  soddisfano.  E  di  nuovo 
si  verifica  che  /  ',,  =  2  ?/  —  0  per  2/  —  0. 

Infine  si  noti  che  l'ultima  formola  si  scrive  di  solito 

^^^  y-^dx-      i',{x,y) 

perchè  essa  ci  dà  il  valore  di  ^-  non  nel  solo  punto  x^,  y^,  ma  in  tutti  i  punti  (a',  y) 
di  un  suo  intorno,  che  soddisfano  alla  f(x,y)  =  0. 

Y)  Se  noi  ammettiamo  V esistenza  e  la  derivabilità  della 
funzione  ^  =  9  (x)  delle  x  che  soddisfa  alla  f{x,  y)  =  0,  pos- 
siamo in  altro  modo  pili  semplice  determinare  la  derivata   y^. 

Ponendo  ^  =  9  W  in  f{x,  y),  si  ottiene  una  funzione 
f\x,^{x)]  identicamente  nulla  della  sola  x  (cioè  nulla  per 
ogni  valore  della  x). 

[Si  noti  che  invece  la  f(x,  y)  non  è  identicamente  nulla  per 
tutti  i  valori  delle  x,  y.  Altrimenti  sarebbe,  contro  l'ipotesi  fatta, 
non  solo  f^  f=  0,  ma  anche  fy  =  O]. 


(*)  Da  questa  formola  si  potrebbe  dedurre  in  altro  modo  che  la  ?/  è  funzione 
continua  della  x,  p.  es.  nel  punto  {x^,  y^)  ossia  che  lim  a  i/  =  o.   Infatti,   essendo 

Aa;"™0 

Ì':v  continuo  e  quindi  inferiore  in  valore  assoluto  ad  una  costante  finita,  è 
lim  A  xi\  {Xq  4-  6'  ^  ic,  I/o)  =  0. 

A^  =  0 

Dalla  formola  precedente  segue  che  anche  lim  a  yf'yix^  -\- a  x,yQ-i-d  ^y)  =  0. 

Ajr=0 

Poiché  il  limite  del  secondo  fattore  è  differente  da  zero,  sarà  lim  à  y  ^^  o.         e.  d.  d. 

Ai  —  o 


284  CAPITOLO   XIII   —   §   84 

Quindi  sarà  pure  identicamente  nulla  la  derivata  prima  della 
Sarà  cioè  per  il  teorema  del  §  83,  a  : 

df[x,^(x)]  ^  nf(x, y)     m^.y)  '  1  _  ^ 

dx       L  ^x  ^   jy^^^J.T,?;) 

f 
Se  ne  deduce  y^  =  —  '—  (supposto  fy  =p  0). 

/  y 

Questa  formola  non  è  che  la  (9)  scritta  più  sopra  :  essa 
(se  f  =i=  0)  permette  di  esprimere  y'^  per  mezzo  delle  x,  y, 
senza  che  vi  sia  bisogno  di  dare  y  proprio  sotto  forma  di  fun- 
zione esplicita  della  x. 

Analogamente  la  y'^  si  calcolerebbe  dalla  (cfr.  la  (2)  del 
§  83,  a,  pag.   277,  ove  si  ponga  x=^t) 

^2 =  f  <c^-^2f  ,yy  -^  f  yyy--\-fyy   =0 

se  le  derivate  seconde  di  f  sono  finite  e  continue.  (È  facile 
verificare  che  in  tal  caso  y"  esiste,  e  che  quindi  si  può  scrivere 
la  formola  precedente). 

3)  Sia,    p.    es.,    da   trovare  l'equazione   della   tangente  nel 

2  2 

X         V 

punto  (xo,yo)  della  ellisse  o  iperbole  -  ±7^  =  1.  Questa  equa- 

a^      o 

zione  sarà  : 

iy  —  2/0)  —  iyx\  {x  —  xo)  '=  0, 

dove  con  {y^\  indico  il  valore  di  y'^  nel  punto  {xo,  yo).  Si  voglia 
calcolare  tale  valore  della  derivata  senza  risolvere  l'equazione 
della  curva  ;  dalla  (9)  si  ottiene  tosto  : 

L^^  ^^      ^  ^     3?/ Va      b  /Jo         yoa- 

Cosicchè  l'equazione  della  tangente  è  : 

—  (y  —  yo)  +  -^  (x  —  xo)  =  0,  ossia  : 
2/0  a 

ab  ab 

perchè  il  punto  {xq,  yo)  appartiene  alla  nostra  curva. 


CALCOLO   DIFFERENZIALE   PER   LE    FUNZIONI,    ECC.  285 

In  generale  l'equazione  della  tangente  alla  curva  f{x,  ?/)  =0 
nel  suo  punto  fe,  2/0)  è  nelle  nostre  ipotesi  : 

iy  —  yo)  —  iyxìo  (x  —  xo)  —  0, 

ossia  per  la  (9) 

dove  con  {^)   '    (  ^  )   indico  i  valori  delle  —  ?  ^  nel  punto 

\dx/o     \oy/o  dx     òy 

a;  =  iTo,  ^  ==  2/0. 

Così,  ^  es.,  per  la  conica   C  di  equazione 

ctn  x^  -\-  2  avi  xy  -4-  a^n  y'  -4-  2  av.\  x  -\-  2  a^^  y  +  «sh  =  0 
l'equazione  della  tangente  nel  punto  fe,  y^)  vale 
(aii^^o  -i-  «12^0  -+-  «13)  {x  —  x^)  4-  («21 3^0-4-  ^22^0  -4-  a-j-j)  (?/  — t/o)  =  0. 

Ricordando  che  fe,  ^o)  appartiene  a  0,  e  che  perciò 

(aii  Xo  -H  a.i  ?/o  H-  «^in)  Xq  -h  («21  Xo  4-  «22  ^0  "+-  «^2:0  ,Vo  + 

-f-    («31  Xo    +     tì^32  ?/0    +    «33)   =   0, 

si  trova  che  l'equazione  di  tale  retta  tangente  può  assumere  la 
forma  classica 

(«11  Xo  +  ai2  ^0  H-  ^i:0  X  +  («21  iCo  4-  «22  «/(,  4-  ^23)  y  4- 

4-    («31  Xo  4-    «32  ^0   +   «^33)  =^  0. 

Il  primo  membro  evidentemente  è  una  funzione  simmetrica 
nelle  (x,  y)  ed  (xo,  t/o),  cioè  non  muta  scambiando  {x,  y)  con  (xo,  ^0). 
È  questa  l'osservazione  più  semplice,  da  cui  possa  dedursi  il 
principio  delle  polari  reciproche. 

§  85.  —  Generalizzazioni, 

a)  Si  abbia  ora  l'equazione 

f{x,y,z)  =  0.  (1) 

Supponiamo  che  esista  una  funzione  continua  z^=^^(:x,y) 
che  soddisfi  identicamente  alla  (1),  ossia  che,  sostituita  in  (1), 
dia  origine  a  una  funzione  nulla  per  tutti  i  valori  delle  x,  ?/, 
che  noi  consideriamo. 


286  CAPITOLO  XIII  —  §  85 

Dal  §  84,  P,  segue  facilmente  che  esiste  una  tale  funzione 
(e  che  noi  la  sappiamo  anzi  dare  sotto  forma  di  serie)  se  la  (1) 
è  soddisfatta  per 

x=ixq,  y  =  i/o,  ^^=  ^0  (ooq,  Po,  Zq  =  cost.) 

e  se  in  un  intorno  di  tale  punto  le  derivate  prime   di   f  sono 

finite  e  continue,  e  ^  è  differente  da  zero. 

La  ^  =  cp  {x,  y)  è  una  funzione  definita  da  (1)  in  modo 
implicito  ;  e  noi  ci  proponiamo  di  calcolarne  le  derivate,  senza 
scriverla  sotto  forma  esplicita  (senza  risolvere  la  (1)  ). 

Per  trovare  la  derivata  parziale  ^-  ,    bisogna    considerare 

ex  ^ 

la  y  come  una  costante,  per  cui  la  z  si  potrà  considerare  come 
una  funzione  della  sola  x,  e  la  /*=  0  come  un'equazione  tra 
le  sole  variabili  x,  z.  Applicando  i  risultati  precedenti  si  tro- 
verà quindi  senz'altro  :;r~  =^  —  "^r  * 

ÒX  f  z 

f 

Analogamente  Zy  =  — V  • 

P)  Si  abbiano  ora  due  equazioni  in  tre  variabili 

f{x,y,z)  =  0, 
F{x,y,z)=^0. 

Supponiamo  che  f,  F  abbiano  derivate  prime  finite  e  continue, 
che  le  equazioni  siano  soddisfatte  per 

X  =  Xo,  y  =^yo,  z=^  Zq, 

e  che  nel  punto  {xo,  yo,  Zq)  sia 

!  F\         F\ 

Almeno  uno  degli  elementi  di  questo  determinante  sarà  dif- 
ferente da  zero.  Se,  p.  es.,  fy  ^^  0  in  fe,  ^/o, -^o),  dalla  /"=  0 
potrò  ottenere,  risolvendo,  y^=^^  (x,  z),  dove  la  ^  è  una  fun- 
zione derivabile  che  diventa  uguale  a  yo  per  x  =  a;,,,  z  =  zq. 
Sostituendo  nella  i^  =-  o  si  trova  : 

F[x,^{x,zlz]  =  0.  (2) 

La  derivata  del  primo  membro  rispetto  a  2^  è  : 


0. 


X^4,'^.-+-iy^;  =  -ir;/i-f.i.^' 


fy  '"f. 


F'  F 


ECC.         287 

che  è  differente  da  zero  per  x  =  a:o,  ^  =  ^o.  Se  ne  ricaverà  che 
dalla  (2)  si  potrà  dedurre,  risolvendo,  z  come  funzione  ^  ix) 
della  x  derivabile  ed  uguale  a  Zq  per  x  =  Xq. 

Sostituendo  questo  valore  in  ^  (x,  z)  se  ne  deduce  il  valore 
di  y  come  funzione  derivabile  9  (x)  della  x^  che  per  x  =  x^^  sì 
riduce  ad  y. 

Esistono  cioè  due  funzioni  j  =  ^  (x),  z  =  ^  (x)  derivabili, 
soddisfacenti  alle  equazioni  date  e  che,  per  x  =  Xo,  diventano 
rispettivamente  uguali  ad  jo  e  Zq. 

Ciò  che  si  poteva  del  resto  dimostrare,  estendendo  ai  sistemi 
di  equazioni  il  metodo  con  cui  abbiamo  studiato  il  caso  di  una 
equazione  sola.  E  vale  anche  il  teorema  di  unicità,  che  cioè  in 
un  intorno  di  a;  =  r^o  non  esistono  altre  funzioni  soddisfacenti 
alle  proprietà  enunciate.  Il  calcolo  di  9 a;,  ^'^  si  effettua  nel 
modo  più  rapido  osservando  che,  se  nelle  f,  F  sostituiamo  al 
posto  di  ^  ed  ^  i  loro  valori  ^  {x),  9  (x)  in  funzione  della  x, 
otteniamo  due  funzioni  f{x,^,^)  e  F{x,^,^)  della  sola  x 
identicamente  nulle,  le  cui  derivate  {totali)  rispetto  alla  x 
saranno  quindi  anch'esse  nulle.  Quindi,  deiivando 

f{x,y,z)  e  F{x,y,z) 

rispetto  alla  x,  quando  vi  si  considerino  y  ^  z  come  funzioni 
della  X  ed  applicando  quindi  il  teorema  del  §  84,  P,  si  ottiene: 


=  0, 
=  0. 


Queste  due  uguaglianze  si  possono  considerare  come  due 
equazioni  di  primo  grado  nelle  y^^,  z^,  che  saranno  risolubili 
con  la  regola  di  Kramer,  se,  come  abbiamo  appunto   supposto, 

_^     K 

"òy  "òz 

^F         'ÒF 

dy  "òz 

ci  determineranno  in  tal  caso  le  derivate  cercate. 
Y)  Si  abbia  ora  il  sistema  delle  due  equazioni 

f  (x,  y,  z,  t)  =  0, 
F{x,y,z,t)  =  0. 


ox 

3/-    - 

dz 

Ox 

_^:)F  , 

■^-  ^    z, 

dz 

^0; 


288  CAPITOLO   XIII   —   §    85 

E  supponiamo  senz'altro  che  esistano  due  funzioni  deriya- 
bili  ^  =  cp  {x,  y),t^=^^  (x,  y)  che   soddisfino    a    tali    equazioni. 

Vogliamo  determinarne  le  derivate.  Se  noi  sostituiamo  nelle 
due  equazioni  precedenti  al  posto  delle  z,  t  rispettivamente  le 
funzioni  z  :=^  ^  {x^y),t-=-^  {x,  y)  si  ottengono  due  funzioni 
ài  X  ^  ài  y  1  f{x,  y,  cp,  <&)  e  F{x,  y,  9,  ^)  identicamente  nulle. 
Le  loro  derivate  parziali  tanto  rapporto  a  x  quanto  rapporto 
a  y  saranno  quindi  nulle.  Se  allora  deriviamo  la  f{x,  y,  z^  t) 
rapporto  a  x  considerandola  come  funzione  delle  x,  z,  t,  tutte 
e  tre  funzioni  della  x,  questa  derivata,  che,  per  non  creare  equi- 
voci, dovremo  indicare  col  simbolo  (*) 


Ux\ 


y  ==  cost., 


per  il  teorema  di  derivazione  delle  funzioni  di  funzioni  (funzioni 
composte)  è  : 

\m    =m.:  +m/.  *m(. 


Ma  questa  derivata,  per  quanto  abbiamo  osservato,  è  nulla. 
Sarà  quindi  (poiché  x^  =  1)  : 

|_  JCCjy,  z,  t  =  cost.         l_OZ_\    x,XJ,t=.liO»t.         \_Oljx,y,Z-='CO»t. 

Ragionando  sulla  funzione  F(x,y,z,t)    si   otterrebbe    ana- 


logamente : 


|_da;  Jy,  2,  t  =  cost.       [,  OZ  J  x,y,t^  Gost,     \_  01  J  x,y,z=-cost. 

Quest'ultima  equazione  con  la  precedente  costituisce  un 
sistema  di  due  equazioni  lineari  nelle  due  incognite  z'^  e  t'x, 
che  sono  appunto  (essendosi  considerato  y  costante)  rispettiva- 
mente le  derivate  parziali  rispetto  a  a;  di  9  (a:,  t/)  e  ^  (x,  y). 


(*)  Questa  derivata  è  una  derivata  parziale,  perchè  y  si  considera   costante  ; 
ma  non  si  può  indicare  con  ^. 

Con  tal  simbolo  si  indica  (-J-\  ;  si  indica  cioè  la  derivata  che  si 

\axfy,z,  <  =  co8t. 

ottiene  considerando  costante  non  solo  la  y,  ma  anche  le  z,t. 


CALCOLO   DIFFERENZIALE   PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  289 

Il    sistema   è   risolubile    con   la   regola  di  Kramer  e  quindi 
ammetterà  una  sola  soluzione  se  : 


t^^  Jx,y,t  =  coBt.  L^i  Jx,y,z^ 

"  -1 

[_  à  2  Jx,  y^t^  cast.  \_^^Jx,y,z=' 


Ragionamenti  e  risultati  analoghi  valgono  per  /y,  t'y.  Questo 
esempio  di  derivazione  è  interessante,  perchè  abbiamo  avuto 
occasione  di  osservare  quale  complicazione  di  notazioni  s'abbia 
quando,  per  non  creare  equivoci  che  potrebbero  condurre  a  gravi 
errori,  si  vuole  un  simbolo  di  derivazione  parziale  che  dica 
esplicitamente  tutto  e  non  possa  prestarsi  a  varie  interpretazioni. 

L'allievo  farà  un'utile  esercitazione,  cercando  di  calcolare 
le  derivate  seconde. 

B)  Siano  f{x,  y)  e  F  {x,  y)  due  funzioni  continue  con  le  loro 
prime  derivate  in  un  campo  C,  nel  quale  esista  una  curva  T 
luogo  dei  punti  per  cui 

Fix,y)  =  k  (^  =  cost.).  (3) 

Voglio  trovare  qualche  condizione  necessaria  affinchè  il 
valore  assunto  dalla  fin  un  punto  ^  di  f  sia  massimo  o  minimo 
rispetto  agli  altri  valori  assunti  dalla  f  in  T  (in  un  intorno  di 
A).  Più  brevemente  cerco  i  massimi  ed  i  minimi  di  f(x,  y), 
quando  le  x,  y  sono  legate  dalla  (3).  Lungo  f  si  può  con- 
siderare   la    y    come   una   funzione   della   x    soddisfacente  alla 

y'x  =  —  -^  (se  F'y  ={=  0)  ;  e  la  /*  si  potrà  perciò  anche  consi- 

derare  come  una  funzione  della  sola  x. 

In  uno  dei  punti  A  cercati  dovrà  dunque  esser  nulla  la 
derivata  totale  della  f  rispetto  alla  x 


df 

dx 

"ifdx        'òfdy 
"òx  dx       2)y  dx 

^f 

Dx 

DfF'^ 

^1/F'y 

Dovrà  dunque 

essere  in  A 

f,    F'y     —     f'y    F', 

-0, 

ossia  dovranno  essere  in  A  compatibili  le   equazioni 
gnita  X  (elle  supponiamo  essere  una  costante) 

neir 

inco 

f.  +  X  F'^  = 

f'y  +^F'y  = 

=  0, 
=  0. 

19  —  6.  FUBINI,  Analisi  matematica. 


290  CAPITOLO  XIII  —  §  85-86 

Ad  identico  risultato  si  giunge  se  F'x  =^  0.  Se  dunque  in  f 
non  è  mai  contemporaneamente  F'^  =  0,  F'y  =  0,  allora  per 
trovare  i  cercati  punti  A  si  cercano  i  punti  ove  sono  nulle  le 
derivate  prime  di  /*-!-  Xi<^  rispetto  2^  x^y  :  si  procede  cioè  come 
se  si  cercassero  i  massimi  e  i  minimi  di  f-h'^F.  Le  tre  equazioni 

(f^XFyx  =  o 
(f-hiFyy  =  o 

F{x,y)    =k. 

sono  tre  equazioni  nelle  tre  incognite  (la  costante  X,  e  le  due 
coordinate  di  A),  che  servono  a  determinarci  quei  punti  A  di  C, 
tra  i  quali  soltanto  si  dovranno  poi  cercare  i  nostri  punti  di 
massimo  o  minimo. 

Questo  metodo  del  moltiplicatore  indeterminato  X  è  suscetti- 
bile di  molte  e  svariate  generalizzazioni  e  applicazioni. 

§  86.  —  Formola  di  Taylor-Lagrange 
per  le  funzioni  di  due  variabili. 

Ricordiamo  le  formole  di  Taylor-Lagrange  per  le  funzioni 
di  una  sola  variabile 

cp  (a  -h  h)  ==  cp  (a)  -4-  /^  cp  (a  -f-  e  /^)  =  9  (a)  -\-  h  cp'  (a)  -|- 

dove  0  <  0  <  1,  e  0  può  variare  dal  secondo  al  terzo  membro. 
Vogliamo  estendere  queste  formole  al  caso  di  una  funzione  f{x,  y) 
di  due  variabili.  Consideriamo  a  tale  oggetto  la  fia  -4-  ht,  b  -hkt): 
la  quale,  se  a  e  b,  h  e  k  sì  considerano  come  costanti,  è  una 
funzione  cp  (t)  della  sola  t.  Potremo  quindi  scrivere 

^(t)  =  f{a  -\-ht,b-^kt),  (1) 

Posto  successivamente  ^=0  e  ^=1,  si  trae 

cp  (0)  =  /-(a,  b)  T  (1)  =  /'(^  -^lhb-\-  k).      (ir 

Applicheremo  alla  <p  (t)  la  precedente  formola  di  Taylor,  la 
quale,  posto  C^)  a  =  0,  /^=1,  diventa: 

cp  (1)  =  cp  (0)  -I-  cp'  (0)  =  9  (0)  -f-  ^'  (0)  4-  Y  r  (e).  (2) 


(*)  È  necessario  supporre  a  tal  fine  che  i  punti  di  coordinate  x  =  a  +  ht  e 
y  =  'b-\-]ct  siano,  per  O^t^l,  tutti  interni  al  campo  ove  sono  definite  la /e  le 
sue  derivate.  Tali  punti  non  sono  che  i  punti  del  segmento  rettilineo  congiun- 
gente il  punto  (a, h)  al  punto  (a -f-h,!)  -\-  J:). 


CALCOLO    DIFFERENZIALE    PER   LE   FUNZIONI,    ECC.  291 


Vogliamo  ora  trasformare  queste  formole  in  altre,  in  cui 
compaiano  esclusivamente  la  f{x,  y)  e  le  sue  derivate.  A  tal 
fine  si  osservi  che  le  successive  derivate  della  9  {t)  si  calcolano 
coi  metodi  del  §  83,  5,  pag.  278,  dove  è  posto  x  =  a -{- ht, 
y  =z  h  -^  kt.  Ricordando  poi  che  il  porre  t^=^  0  equivale  a 
porre  x-=-  a^  y  ^=^ì)  e  che  il  porre  ^  =  0  equivale  a  scrivere 
a-1-  /^0  e  ì)  -\-'k^  al  posto  di  x^y^  si  ottiene  da  (2)  in  virtù 
delle  (1),  (1)"^^ 


=  f(a,  h)  +  [h  f\  (a,  h)  +  k  /•'„  (a,  h)]  + 

2   L  ^^  òxòy  oy  MJ^XU 

(0  <  0  <  1)  0  varia  generalmente  dal  secondo  al  terzo  membro. 

La  prima  di  queste  uguaglianze  è  un'altra  forma  del  teorema 
della  media.  Ma  mentre  la  formola  del  §  81  è  ottenuta  pas- 
sando dal  punto  {x,  y)  al  punto  {x  -\-  li,  y  -\-  k)  mediante  una 
spezzata  coi  lati  paralleli  agli  assi  (e  senza  supporre  la  con- 
tinuità delle  f'g,  fy),  questa  è  ottenuta  eseguendo  tale  passaggio 
con  un  segmento  rettilineo  (e  supponendo  f^,,  fy  continue). 

Utile  esercizio  sarà  di  generalizzare  in  modo  analogo  le 
precedenti  formole  sia  a  funzioni  di  più  che  due  variabili,  sia 
alla  formola  e  alla  serie  di  Taylor,  quando  non  ci  si  fermi  già 
ai  termini  contenenti  derivate  seconde. 


§  87.  —  Massimi  e  minimi  delle  funzioni  di  due  0  più  variabili. 

a)  Lemma.  Un  trinomio  omogeneo  di  2^  grado  in  due  va- 
riabili h,  k,  mai  contemporaneamente  nulle 

ah'-h2bhk4-ck' 

è  sempre   differente    da   zero    ed  ha   costantemente  il  segno  di 
a,  0,  ciò  che  è  lo  stesso,  quello  di  e,  se  a  e  —  b^  >  0. 

Può  invece  assumere  valori  di  segno  arhitrario  se  b.c —  h^  <^0;  ed  infine, 
se  il  trinomio  non  è  identicamente  nullo,  esso  ha  costantemente  il  segno  di  a, 
0  di  e,  ma  può  annullarsi,  quando  a  e  —  b"^  =  0. 

Infatti  sea  =  c  =  0eb=T=0  allora  a  e  —  b'^  <  0  e  al  trinomio,  che  vale 
2ì)hk  può  farsi  assumere  un  segno  qualunque,  scegliendo  per  h,  k  valori  di  segno 
opportuno. 


292  CAPITOLO   XITI   —    §    87 

Se  invece  p.  es.  a  =4^  0,  allora,  se  a,  p  sono  le  radici  di  a  ^^  -+-  2  b  ^^  -f  e  =  0, 
il  nostro  trinomio  vale  identicamente  a{h  —  a k)  (h  —  t^  k).  Se  ac  —  h"^  =  0, allora 
a  =  (3  e  quindi  il  trinomio  vale  il  prodotto  di  a  per  un  quadrato  perfetto,  ha  quindi 
il  segno  di  a,  a  meno  che  Ti  =  oc  k,  nel  qual  caso  il  trinomio  si  annulla.  Se  ac  —  h^<^  0, 
e  quindi  a,  ^  sono  numeri  reali  distinti  (p.  es.  a  <  /s),  allora  {h  —  cl  k)  {h  —  [i  k)  è 

positivo  se  -v;  è  minore  di  oc  o  maggiore  di  f>,  ed  è  negativo  se  y  è  compreso  tra 

a.  e  (5.  Il  trinomio  può  dunque  assumere  un  valore  di  segno  arbitrario. 

Infine  se  a  e  —  &"  >  0  [e  perciò  a  e  >  ò"  ^  0  e  quindi  a  e  e 
differenti  da  zero  e  dello  stesso  segno]  -le  radici  a,  ^  della 
a/-h26-e-f-c  =  0  sono  numeri  complessi  coniugati  [x  ±  t  v 
con  V  =#  0.  Ora  il  nostro  trinomio  a  /^^  4-  2  ft  /^  /»;  4-  e  //  è  uguale 
identicamente  al  prodotto  di  a  per 

(/^  —  a  ^)  (/i  _  p  y^)  =:  (A  —  X  A:-)  H-  v-  y^-, 

che  è  sempre  positivo  (e  che  potrebbe  essere  nullo  soltanto  se 
^  Jc  =z]i  —  X  Z;  =  0  ;  ossia,  essendo  v  =;=  0^  soltanto  se  ^  =  0, 
/^  =  0  :  valori  che  abbiamo  escluso).  Quindi  il  nostro  trinomio  ha 
il  segno  di  a.  Ciò  che  si  può  verificare  osservando  anche  che  : 

ah^-^  2hlik-\-ce=^\{ah-{-h  kf  -h  (a  e  —  b')  le' 

P)  Si  suol  dire  che  una  funzione  f{x,  y)  di  due  variabili  ha 
in  un  punto  A,  interno  al  campo  ove  f{x,  y)  è  definita,  un 
massimo  od  un  minimo  (relativo)  se  esiste  un  intorno  di  A^ 
nei  punti  del  quale  la  funzione  assume  rispettivamente  valori 
tutti  non  maggiori,  o  tutti  non  minori  che  nel  punto  A  (cfr.  la 
defin.  analoga  di  pag.  223).  Se  fe,  y^)  sono  le  coordinate  di  A, 
dovrà  cioè  esistere  un  numero  positivo  ?,  tale  che  per  \h\<  l, 
I  ^  I  <  ^  sia  rispettivamente 

fixo-h  h,  7/o  -+-  k)  —  f{xo,  yo)  ^0  (se  ^  è  un  massimo), 

f{xo  -\-  hy  yo-\-  k)  —  fixo,  yo)  ^0  (se  A  è  un  minimo). 

In  tal  caso  la  funzione  f{xo,  y)  che  si  ottiene  ponendo  x^=^xq 
ha  un  massimo  od  un  minimo  per  y:=^yQ,  e  quindi,  se  pos- 
siede derivata  prima  fy  finita  e  determinata,  questa  derivata 
è  nulla  (§  70,  pag.  226)  nel  punto  A.  Risultato  analogo  si 
prova  per  f'y. 

Condizioni  necessarie  (ma  non  sufficienti)  affinchè  f  (x,  y) 
ahhia  nel  i^unto  A  interno  al  campo  ove  la  i  ha  derivate  prime 
determinate  e  finite,  abbia  un  massimo  o  un  minimo  è  che  ivi 
queste  derivate  i\  ed  f'y  siano  nulle. 


CALCOLO   DIFFERENZIALE    PER   LE    FUNZIONI,    ECC.  293 

Le  condizioni  necessarie  si  possono  meglio  studiare  così:  Su  ogni  retta 

x=^  Xf,-\-mt  y  =  ijq  -{-  n  t  (m,  n  —  cost.) 

uscente  dal  punto  {Xq,ij„)  cioè  dal  punto  A,  la  funzione  f{x,y)  ha  nelle  nostre 
ipotesi  un  massimo  o  un  minimo  per  ^  =  0. 

[Viceversa  non  si  può  dire  che,  se  A  è  punto  di  massimo  odi  minimo  su  ogni 
retta  uscente  da  A,  esso  sia  un  punto  di  massimo  o  minimo,  come  si  vede  con 
metodo  analogo  a  quello  svolto  al  §  80,  a,  pag.  268]. 

Cioè  f{xQ-tìnt,  yQ-hnt)  ha  un  massimo  o  minimo  per  <  =  0.  Se  dunque  /' 
ha  derivate  prime  e  seconde  finite  e  continue,  sarà  per  t  =  0  e  per  valori  qualsiasi 
(non  nulli  contemporaneamente)  di  m,  n  : 

cVf 

^^2  ^  ^'^^ / "^^ (^0^  Vo)  -h2mn  f",y  {x„ ij^)  +  n^  f  "yy  (x^^, 2/0) 

\  ^0  (se  si  tratta  di  punto  di  massimo) 
)  ^0  (se  si  tratta  di  punto  di  minimo). 

Ora,  affinchè -1^  =  0,  qualunque  siano  m,n,  non  contemporaneamente  nulle 

dovrà  essere  f'x{X(^,yo)  —  f'y(XQ,yo)  =  0.  Affinchè -r.-^  abbia  segno  costante,  qua- 
lunque siano  m,n,  dovrà  essere  f"jxf"yy  —  f'"^xy^.O  nel  punto  iXo,y„).  Queste 
sono  dunque  altre  condizioni  necessarie,  affinchè  la  /  {x,  y)  abbia  nel  punto  {Xq,  y^) 
un  massimo  0  minimo,  almeno  se  le  derivate  prime  e  seconde  di  /  sono  continue. 
Noi  proveremo  che: 

Condizioni  sufficienti  sono  le  : 

I    X  /   y  'J  j     I     XX  J    yìj  I     xy  ^  ^  ]     /    x^    /   y-    f    xxj    /     xy^    /     yy    1111116 

e  continue  (nel  punto  Xo,  yo).  (Si  noti  che  f'xxf'yy  —  f'%  —  0 
e  condiz.  necessaria,  mentre  f'xxf'yy  —  f%>0  e  condizione 
sufficiente). 

E,  se  tali  condizioni  sufficienti  sono  soddisfatte,  il  punto 
(xo,  jo)  è  punto  di  massimo  se  f  "xx,  f  "yy  ^^^^  ^^^^  punto  consi- 
derato negative;  esso  è  un  punto  di  minimo,  se  f "xx,  f "yy  ^^^^^ 
positive.  (Dalla  f'^cx  f'yy  —  f'iy  >  0  segue  che  f'^^,  f'yy  hanno 
lo  stesso  segno).  Infatti,  supposto  che  in  ^  =  {xq,  yo)  sia 
fx  =  f'y  =  0,  la  formola  di  Taylor-Lagrange  dà 

(  1  )  f{xo  -^h,yo-hk)  —  f{xo,yo)  —  -^\  Jr  f\,  -^-2hk  f\y  +  le'  f'yy  \ 

ove  il  soprassegno  indica  che  le  derivate  seconde  sono  calcolate 
in  un  punto  o^o  -4-  0  h,  .Vo  -h  9>^  con  0  <  6  <  1. 

Ora,  essendo  tali  derivate  seconde  continue,  basterà  scegliere 
I  11  I  ,\J<:  I  abbastanza  piccolo  perchè  f'^^  abbia  il  segno  di  f'^x  e 

f'xx  f'yy  —  f'iy  abbia  il  segno  di  f',x  f'yy  —  f'iy,  cioè  sia  posi- 
tivo.   Il   trinomio    posto    al    2°    membro  di  (1),  e  quindi  anche 


294       CAPITOLO  Xm  —  §  87  —  CALCOLO  DIFFERENZIALE,  ECC, 

il  primo  membro  di  (1),  avraijno  pertanto  (cfr.  il  lemma)  il 
segno  di  f"^^,  cioè  di  f"^^^  e.  d,  d. 

Se  f^  =  fy:=0,  ma  f"^^  f'yy  —  f'iy  <  0,  il  punto  consi- 
derato non  è  di  massimo^  ne  di  minimo» 

Nulla  si  può  aifermare  senza  studii  più  minuti  per  un  punto, 

in     cui    f^  =  fy=  f'xx  f'yy  —  f'ly^=0. 

Il  teorema  relativo  alle  condizioni  sufficienti  sì  dimostra  anche  osservando 
che  (1)  si  può  scrivere  nella  forma 

f{x^  4-  h,  yo  +  h)  —  f{Xo,  y,)=  —  \f  ",^  {x^,  y,)  h^  +  2  T  Vv  /«  ^  +  f'yv  ^'  j  4- 

ove  £,  y,  0  tendono  a  zero  per  Ji  —  Jc  —  O.  Posto  h  =  pcosd,  k^=  p  sen  6,  il  secondo 
membro  diventa  la  somma  di  . 

(2)  -i-  P^  }  cos*  6  f".rx  -+-  2  sen  6  cos  e  f%y  sen=»  e  fyy  \+ 

-f  f^  \  f  cos^  (9  4-  2  y  sen  «5  cos  a  +  ^  sen''  6  \ . 

Il  coefficiente  di  p^  nel  primo  addendo  ha  il  segno  di  f'xx  e  il  suo  minimo 
valore  assoluto  è  maggiore  di  zero.  Il  coefficiente  di  p^  nel  secondo  membro  è 
invece  infinitesimo  (per  Ti  =:A;  =  0).  Dunque  per  I  /^  j ,  !  A;  |  abbastanza  piccoli  la  (2) 
ha  il  segno  del  primo  addendo,  cioè  ha  il  segno  di  f'^x. 


295 


CAPITOLO  XIV. 

PRIMA  ESTENSIONE  DEL  CALCOLO  INTEGRALE 
ALLE    FUNZIONI    DI    PIÙ    TARIARILI 


§  88.  —  Considerazioni  preliminari. 

Sia  f{xy  y)  una  funzione  continua  nei  punti  di  un  campo, 
che,  per  fissar  le  idee,  supponiamo  essere  un  rettangolo  R  coi 
lati  paralleli  agli  assi  coordinati.  Tale  rettangolo  R  contenga 
all'interno  il  segmento  (parallelo  all'asse  delle  y)  che  è  definito 
dalle  formolo  : 

y  zr^k  ^=  cost.  a  ^  a;  ^  p.  (a,  p  =  cost.). 

I  valori  che  f{x^  y)  assume  nei  punti  di  tale  segmento 
(lungo  cui  y  =  cost.)  dipendono  dalla  sola  x  ;  e  costituiscono 
appunto  una  funzione  della  sola  x.  Io  dico  che  Vintegrale 


^f(x,y)dx  (1) 


di  tale  funzione  è  una  funzione  continua  della  y  (per  quei 
valori  ài  y  =^  k  corrispondenti  a  punti  interni  ad  R). 

Il  lettore  noti  l'analogia  tra  la  definizione  degli  integrali  (1) 
di  f{x,  y)  e  quella  delle  derivate  parziali  della  f{x,  y)  ;  come 
per  calcolare  f^  si  considera  la  y  come  una  costante,  così  (1) 
si  calcola  appunto,  considerando  la  y  come  costante,  cioè  la 
f{x,  y)  come  funzione  della  sola  x  (*). 

Si  tratta  di  provare  che  lim  B  =  0,  ove  è  posto 


7i  =  0 


B^[\  f(x,y-¥h)dx—Cf{x,y)dx].         (2) 

Il  lettore  troverà  più    avanti    una   dimostrazione   completa. 
Qui   ci   accontentiamo   di   provare  tale  formola  nell'ipotesi  che 


(*)  In  altre  parole,  se  F{x,  y)  è  una  funzione  delle  x,y  tale  che  F\v  =  f\  sarà 
f(x,y)dx  =  F{^,y)"F(cL,y). 


J 


296  CAPITOLO  XIV  —  §  88-89 

1  fy  I  sia  in  R  sempre  minore  di  una  costante  H.  Questo  sup- 
posto, si  ha  per  il  teorema  della  media  : 

^  I  =        f{x,y-r-h)dx  —      f{x,y)dx    =        hfy {x,y-i-d h)  dx 

^\h  CHdx\=^\H{?  —  (x.)h\  . 
Quindi,  per  /^  =  0,  è  lim  B  =^  0  come  dovevasi  provare. 

Se  noi  conserviamo  l'ipotesi  che  i  punti  del  segmento  y  —  cost.  lungo  il  quale 
si  fa  l'integrazione  appartengano  al  campo  ove  f{x,y)  è  finita  e  continua,  si  po- 
trebbe dimostrare  che  lo  1    f(x,y)dx  è  una  funzione  continua  di  y,  anche  se  a, 

*   a  ' 

,5,  anziché  costanti,  sono  funzioni  continue  di  y. 

Per  dimostrare  tali  teoremi  nella  sola  ipotesi  della  continuità  della  f  (x,  y), 
basta,  esteso  il  teor.  della  continuità  uniforme  alle  funzioni  di  due  variabili,  ricordare 
che  \f{Xyy-\-li)  —  f(x,y)\  si  può  rendere  minore  di  s  per  tutti  i  punti  {x,  y), 
prendendo  h  abbastanza  piccolo. 

§  89.  —  Derivazione  sotto  il  segno  d'integrale. 

Supponiamo  che  a  e  p  siano  costanti,  e  che  siano  continue 
tanto  la  f(x,  y)  quanto    la  f  y  (x,  y).  Noi    diciamo  che    in    tal 

f  (x,  y)  dx  rispetto  ad  y  vale  ]   f  y  (x,  y)  ; 

che  cioè  la  derivata  del  nostro  integrale  è  uguale  all'integrale 
della  derivata  e  si  ottiene  per  ciò  derivando  la  funzione  che 
compare  sotto  il  segno  di  integrale. 

Oss.  Per  la  dim.  completa  basta  ricordare  che,  essendo  f',,  continua,  essa  è 
anche  uniformemente  continua. 

Qui  consideriamo  il  solo  caso  che  |  f"yy  \  sia  nel  campo  con- 
siderato sempre  minore  di  una  costante  H. 
Noi  dobbiamo  calcolare: 

,             J  f(x,y-hh)dx—  j  f(x,y)dx 
(Jyfe^)^a;)=lim-^^ k ' ^  = 


lim    r^^^^^^- ^^^^^^dx. 

h  =  Q   J  ^  fi 


''nx,y-^h)  —  fix,y) 
Per  la  formola  di  Taylor  è 

7  ^ 

fix,y-h  h)  —  f{x,  y)  =  Il  fy  {x,  2/)  -+-  Y  fyy  (^,  y  +  ^  ^0 

(o<e<i). 


297 


Quindi 
(  J  f{x,y)dxj  —  ^lim  [J  ì  fy(^,y)-^  -^fw^^^V^^^^)  \dx'\ 

=  1  fy  (^,  y)  dx  +  lim  -^  f  fyy  {x,y-^^  h)  dx. 
Poiché 
f'yy  \<H  e  quindi  1  Cf'yy  (x,  y-^^h)dx\<\H  Cdx  U  1  il  (?  —  a)  |, 


sarà: 

\  h    r^ ...     . 

=  0. 


lim    -— /    f\jy(x,y-^^h)dx 
E  la  nostra  formola  diventa  appunto: 
(  J  f{x,  y)  dx  )  =  J/'i/  fe  y)  dx  K  P  =  cost.). 

Ge^jesalizzazionb. 

Si  può  estendere  la  formola  precedente  al  caso  che  oc  e  jS  siano  funzioni  della  y, 
purché  cL'y  e  f,j  esistano  e  siano  finite. 
Premetteremo  alcune  osservazioni. 
Si  voglia  derivare  rispetto  al  limite  superiore  x  l'integrale 


(^)  dz         {cf.  =  cost.). 


Ricordando  che  un  integrale  definito  è  indipendente  dal  nome  della  variabile 
di  integrazione  avremo  : 


[ù'''''\Af:'^''^]r 


?(^); 


cioè  la  derivata  rispetto  al  limite  superiore  di  un  integrale  di  una  funzione  di  una 
variabile  è  uguale  alla  funzione  che  è  sotto  il  segno  di  integrale,  dove  al  posto 
della  variabile  di  integrazione  si  scriva  il  limite  superiore. 
Analogamente,  dovendosi  calcolare  la 


L  »  a;  J 


potremo  serivere  : 


cioè  la  derivata  rispetto  al  limite  inferiore  di  un  intjégrale  di  una  funzione  di  una 
variabile  è  uguale  alla  funzione  che  è  sotto  il  segno  di  integrale  cambiata  di  segno, 
dove  al  posto  della  variabile  di  integrazione  si  scriva  il  limite  inferiore. 
Ci  varremo  di  questi  risultati  per  eseguire  il  calcolo  della 


j  J  /(ic,//)cZa;j 


298      •  CAPITOLO  XIV  —  §  89-90 


Nello 


J 


/  («,  y)  dx 


abbiamo  supposto  oc  e  ^^  dipendenti  da  y  ;  indicheremo  questo  fatto  sostituendo  z  e  t 
(supposte  funzioni  di  y)  ai  limiti  di  integrazione.  Otterremo  lo 


1  f(x,y)dx 


che  indicheremo  con  F.  Il  nostro  integrale  allora  che  è  funzione  delle  y,z,t,  tutte 
funzioni  di  y,  sarà  funzione  composta  di  y.  Avremo  dunque  (§  84,  ex) 

dF^^dF\    ^  /a^\    ^.  _^    /dF\     ^. 

dy  \clyf   JiL'tsi.    \C>  2)  y^l  L  cost.    \ài)  y,  ,  Jc.st. 

Se  però  le  z,t  fossero  funzioni  anche  della  x,  questa  formola  si  scriverebbe 
più  correttamente  nel  modo  seguente  : 

(^^\  =  (f) ,.  +  {^\  ,V4-  m  f, 

\0  yf  a.  =  cost.     \0  yf  X,  :,  t  =  cost.  \0  Z  f   x,y,t  =  cost.  \  C^  /  z.  y.  z  =  cost. 

Ora  per  trovare  l^-i  si  devono  considerare  z,  t  come  costanti,  ossia 

\dyf  .v,:,/^ cosi. 

come  indipendenti  dalla  y.   Questa   derivata   si   calcola  dunque  col  metodo  svolto 
più  sopra.  Si  ha  cioè 

dF 
Così  sappiamo  che,  essendo  z  il  limite  inferiore  dell'integrale,  è  y-  =  —  f(z,y); 

r)F 

e  che,  essendo  t  il  limite  superiore, -^  =  /"(<, 2/).   Essendo  ^QÌy'y—\,    dalle  pre- 
cedenti formole  dedurremo  infine,  posto  di  nuovo  ^  —  a,  ^  —  |5, 

[/(rr,2/)t?a;  j  =  1    f'y^x,y)dx  +  fi^,y)fy  —  f{c*.,y)oi.'y. 

Anche  qui  è  ammesso,  p.  es.,  che  le  i\f'y,f"y»i  sieno  finite  e  continue. 
Questa   formola   si  riduce  a  quella  trovata  più  sopra,  se  a'„  =  ^'y  —  0,  ossia 
se  le  a,  ^  sono  indipendenti  dalla  y  ;  ciò  che  era  prevedibile  a  priori. 

§  90.  —  Differenziali  esatti  in  due  variabili. 

a)  Il  problema  fondamentale  del  calcolo  integrale  per  le 
funzioni  di  una  sola  variabile  consiste  nel  determinare  una  fun- 
zione, di  cui  è  data  la  derivata  F{x),  0,  ciò  che  è  lo  stesso, 
il  differenziale  F  (x)  dx. 

Il  problema  analogo  per  le  funzioni  di  due  variabili  consiste 
nel  determinare  una  funzione  f{x^  y)  di  due  variabili  x,  y,  di 
cui  sono  date  le  due  derivate  parziali  del  primo  ordine,  ossia 
di  trovare  una  funzione  f(x,y)  soddisfacente  alle: 

^=Mix,y),         ^~  =  N(x,y),  (1) 

dx  Oy 


PRIMA   ESTENSIONE   DEL    CALCOLO   INTEGRALE,    ECC.         299 

0,  ciò  che  è  lo  stesso,  una  funzione  il  cui  differenziale  df  è 
uguale  a 

Mdx-hNdy,  (2) 

dove  M,  N  sono  funzioni  prefissate.  Abbiamo  visto  che  il  pro- 
blema citato  per  le  funzioni  di  una  sola  variabile  è  sempre  riso- 
lubile se  F{x)  è  continua,  p.  es.,  nell'intervallo  Xo^x^b;  e 
che  la  f  è  determinata  a  meno  di  una  costante  additiva  k.  Si 
può,  p.  es.,  porre 


f(x)  =  [  F{x)dx  -f-  k, 


dove  ^  è  il  valore  (scelto  ad  arbitrio)  di  f(x)  per  x  ^=^  Xo. 

Nel  caso  delle  funzioni  di  due  variabili  noi  proveremo  invece 
che  non  sempre  esiste  una  funzione  f{x,  y)  soddisfacente  alle  (1) 
(anche  supposto  che  le  M,  N  siano  continue  insieme  alle  loro 
derivate),  ossia  che  non  sempre  (2)  è  il  differenziale  di  una 
funzione  f{x,y),  o,  come  si  suol  dire  più  brevemente,  che  non 
sempre  (2)  è  un  differenziale  esatto. 

Se  infatti  le  derivate  prime  delle  M,  Nsono  continue,  dalle  (1) 
si  deduce,  derivando  la  prima  rispetto  ad  ?/  e  la  seconda  rispetto 
ad  X,  che  :  ^ 

"ix  'òy       'òy  Dy  'òx        3x 

Essendo,  per  ipotesi,  i  secondi  membri  funzioni  continue,  per 
il  teorema  (§  80,  pag.  271)  dell'invertibilità  dell'ordine  delle 
derivazioni,  essi  sono  uguali  ;  cioè  è 

dy        ox 

La  (3)  e  dunque  una  condizione  ìiecessaria  affinchè  il  si- 
stema delle  (1)  sia  risolubile,  ossia  affinchè  (2)  sia  un  diffe- 
renziale esatto  [sia  il  differenziale  di  una  funzione  fix,  y)], 
(naturalmente  se  M,  JSf,  M'y,  N'^  sono  continue). 

Dimostreremo  viceversa  che  in  casi  generalissimi  tale  con- 
dizione è  anche  sufficiente.  Se  la  (3)  è  soddisfatta,  anche  nel 
caso  attuale  di  funzioni  fix,y)  di  due  variabili,  la  f{x,y)  è 
determinata  a  meno  di  una  costante  additiva  k  :  p.  es.,  il  valore 
della  fix,y)  in  un  punto  A  =  iXo,yo)  prefissato. 

P)  Comincieremo  da  un  caso  particolare  :  il  caso  cioè  che  le 
variabili  sieno  separate.  Con  questa  frase  si  indica  il  caso  che 


300  CAPITOLO   XIV   —   §    90 

nella  (2)  la  M  sia  funzione  della   sola  x,  la  N  funzione   della 
sola  y  ;  in  tal  caso  la  (3)   è  evidentemente  soddisfatta,  perchè 

3?/       'òx 

Supponiamo  M{x)  continua  per  Xq^x^I^    ed    N{y).  con- 
tinua per  y^'^y  ^^. 
Sarà  evidentemente  : 

fix.y)  =  Cmìx)  dx  -^  fV(^)  dy  +  k. 


Il  primo  addendo  j   M(x)dx  è  una  funzione   della   sola 


X, 


la  cui  derivata  rispetto  ad  x  vale  M{x)  e  la  cui  derivata  rispetto 
ad  ?/  è  nulla.  Il  secondo  addendo  similmente  è  una  funzione 
della  sola  y,  la  cui  derivata  rispetto  ad  x  è  nulla,  la  cui  derivata 
rispetto  ad  y  è  Niy).  Il  terzo  addendo  k  è  una  costante  effet- 
tiva, le  cui  derivate  sono  entrambe  nulle.  Esso  è  il  valore  della 
f(x,  y)  nel  punto  di  ascissa  x^  e  di  ordinata  y^. 

y)  Passiamo  ora  al  caso  generale.  Vogliamo  calcolare  f{x,  y) 
nel  punto  (a;,  y^  supponendo  che  ilf,  JV"  ed  'M^y  =  ìi^\  siano  finite 
e  continue  nei  punti  la  cui  ascissa  è  compresa  tra  Xo  ed  x,  e  la 
cui  ordinata  è  compresa  tra  jo  ed  y.  Ciò  naturalmente  limita 
il  campo  ove  facciamo  variare  il  punto  {x,y)  cioè  il  campo  R,  ove 
dimostriamo  il  nostro  teorema.  Supporremo,  p.  es.,  senz'altro  E 
essere  un  rettangolo  coi  lati  paralleli  agli  assi,  e  dentro  di  esso 
supporremo  cadere  entrambi  i  punti  (xo,  yo)  ed  {x,  y). 
Poiché  fy  =  N,  sarà 

f^CN{x,y)dy-\-^,  (4) 

dove  nell'eseguire  l'integrazione  la  x  si  considera  come  costante, 
e  la  9  (la  costante  additiva)  potrà  quindi  essere  funzione  della 
sola  X  (com'è  evidente,  perchè  9  deve  essere  la  funzione  a  cui 
si  riduce  la  f  per  y  =  ,yo,  cioè  la  f{x,  y^)  ). 

Dovremo  poi  determinare  la  9  =  9(0;)  in  guisa  che  la  deri- 
vata rispetto  ad  x  della  f{x,y)  definita  da  (4)  valga  M;  che 
cioè 

Mix,  y)=\    {  Nix,  y)dy  +  ^  ix)    =  9'  (x)  -4-  f  N'^  ix,  y)  dy 
L  *^y«  Ax  •^2/0 


PRIMA   ESTENSIONE   DEL    CALCOLO    INTEGRALE,    ECC.         301 

ossia  che  : 

cp'  (x)  =  M{x,  y)  —  fV;  Gt,  y)  dy.  ,  (5) 

Il  secondo  membro  è  finito  e  continuo.  Sarà  dunque  neces- 
sario e  sufficiente  che  esso  sia  funzione  della  sola  x\  in  tal  caso, 
con  una  integrazione  si  ricaverà  il  valore  di  cp  {x).  La  condizione 
necessaria  e  sufficiente  per  la  risolubilità  del  nostro  problema 
è  che  la  derivata  M'y  —  N'^  del  secondo  membro  di  (5)  rispetto 
ad  y  sia  nulla  ;  cioè  la  condizione,  già  tiovata  necessaria,  è 
anche  sufficiente.  In  tal  caso  la  (5)  dà 

^{x)—\     \  Mix,  ?/)  —  f  N'^  (x,  y)dy      dx  -{- '^p  (xo) 

dove  9  (x'o)  è  il  valore  di  cp  {x)  per  x  =  Xo,  cioè  il  valore  di 
/'pera^^a^o,  ed  y  z=  y^^  cioè  il  valore  f{xo,yo)  prefissato  ad 
arbitrio.  E  la  (4)  dà  pertanto  : 

f{x,y)=\  N{x,y)dy-^\    \M(x,y) —  \  N'^{x,tj)\dx-^f{x^,y^). 


yo  ^  Xo[  ^  VO 


Ricordando  che  nelle  attuali  ipotesi  il  secondo  addendo, 
come  già  abbiamo  osservato,  è  indipendente  dalla  y,  possiamo 
per  calcolarlo,  supporvi  y  =  ?/o.  Cosicché  tale  formola  diventa 
piti  semplicemente 

f{x,y)=  \   Mix,yo)dx  -1-      N  (x,  y)  dy -^  f{xo,-yo)     (6) 

•'  «0  ^  yo 

la  quale  dimostra  il  nostro  teorema  che  nelle  nostre  ipotesi 
esiste  una  funzione  f,  il  cui  differenziale  è  Mdx  4-  Ndy,  e  ci 
insegna  a  calcolare  tale  funzione  f  yiel  campo  R  sopra  definito. 

La  (6)  si  può  ottenere  direttamente  nel  seguente  modo,  se  si  ammette  giù 
provata  la  esistenza  della  f;  basta  osservare  che: 

f(x,  II)  —  f{Xo,  Vo)  =  [f(^,  y)  —  f{^,  Vo)]  +  [fix,  Vo)  —  f(^o,  Po)  ] 
/•y  r*X 

=  \    N'{x,y)  dij -\-  I    M{x,y^)dx, 
che  coincide  appunto  coYi  (6). 

Indichiamo  con  A,  C,  B  ì  punti  {xq,  yo),  (x,  yo)  ed  (x,  y).  La 
somma  dei  primi  due  addendi  del  secondo  membro  di  (6)  si 
chiamerà  l'integrale  di  Mdx  -t-  Ndy  esteso  alla  spezzata  ACB, 


302  CAPITOLO  XIV  —  §   90-91 

od  anche  la  somma  dell'integrale  di  Mdx  -h  Ndy  esteso  ad  AC, 
e  dell'integrale  analogo  esteso  a  CB.  Naturalmente  bisogna  defi- 
nire il.  significato  di  queste  nuove  frasi  :  integrale  di  Mdx  -\-  Ndy 
esteso  ad  AC  od  a  CB.  Noi  intendiamo  con  integrale  di 
Mdx  -f-  Ndy  esteso,  p.  es.,  ad  AC  l'integrale  delV espressione 
che  si  deduce  da  Mdx  -H  Ndy  ponendo  al  pfosto  della  y  e  della  dy 
i  valori  che  si  deducono  dalla  equazione  y  z=  yo  =  cost.  di  AC, 
cioè  y  =  I/o,  dy  =  0,  ed  estendendo  l'integrazione  dall'ascissa  Xo 
di  A  all'ascissa  x  di  C.  Cioè  l'integrale  di  Mdx  H-  Ndy  esteso 
ad  AC  vale  il  primo  addendo  del  secondo  membro  di  (6)  ;  mentre 
invece  il  secondo  addendo  si  trova,  con  definizione  analoga, 
uguale  all'integrale  di  Mdx  -\-  Ndy  esteso  a  CB. 

La  (6)  si  può  dunque  interpretare  così  : 

La  differenza  tra  il  valore  f  nel  punto  (x,  y)  ed  il  valore 
della  f  nel  punto  (xo,  yo)  vale  V integrale  di  df  esteso  ad  una 
spezzata  di  due  lati  paralleli  agli  assi  coordinati  congiungente 
il  punto  (xo,  yo)  al  punto  (x,  y)  (se  f\-c,  fy  sono  continue). 

Questo  teorema  è  la  generalizzazione  della  forinola 

p  X  ^x 

cp  {x)  —  cp  (:ro)  =      ^9  =      i  (^)  àx 

'^  Xo  *    .To 

valida  per  le  funzioni  cp  (x)  di  una  sola  variabile  (a  derivata 
continua). 

§  91.  —  Integrali  curvilinei  {*). 

I  precedenti  risultati  appaiono  incompleti.  Infatti  : 

V  Perchè  dare  tanta  importanza  alla  spezzata  ACB 
unente  i  punti  A,  B  piuttosto  che  a  un'altra  curva  congiungente 
i  punti  stessi  ?  Già,  scambiando  nelle  precedenti  considerazioni 
le  X,  y,  giungeremmo  a  teoremi  analoghi,  in  cui  alla  ACB  è 
sostituita  un'altra  spezzata  ADB,  il  cui  primo  lato  AD  è  paral- 
lelo all'asse  delle  y,  il  secondo  lato  DB  all'asse  delle  x. 

2""  Il  secondo  membro  di  (6)  ha  un  significato,  anche  se 
non  è  soddisfatta  la  M'y  =  N'^.  Quale  ne  è  il  senso  in  tali  casi 
più  generali  ? 

II  modo  migliore  di  dare  un'esauriente  risposta  a  tali  domande 
è  di  porre  la  seguente  definizione.  Sia  AB  un  arco  f  di  curva 
pensato  descritto  nel  verso  àa.  A  3.  B  e  rappresentato  dalle  equa- 
zioni x  =  x(t)         y  =  y  (t)         per  X  ^  ^  ^  [1,         (1) 


(*)  Il  lettore  può  rinviare  la  lettura  di  questo  §  al  momento  in  cui  studierà 
la  teoria  generale  delle  funzioni  additive  e  degli  integrali  multipli. 


PRIMA    ESTENSIONE    DEL    CALCOLO   INTEGRALE,    ECC.         303 

dove  \  \i  sono  i  valori  della  t  corrispondenti  ai  punti  A,  B  di  f, 
e  dove  x  (t),  y  {t)  sono  finite  e  continue  nell'intervallo  (X,  fi),  e 
le  X  {t),  y  (t)  sono  continue  od  hanno  un  numero  finito  di  punti 
di  discontinuità  (§  78,  pag.  261). 

Noi  chiameremo  integrale  di  Mdx  -+-  Ndy  esteso  a  tale  arco 
di  curva  lo  : 

f;  M[x{t\y(t)]x\t)-Ì-N[x{t\y(t)]  y\t)  \  dt,     (2) 

il  cui  integrando  si  deduce  da  Mdx  -\-  Ndy,  sostituendovi  alle 
X,  y,  dx,  dy  i  valori  che  si  deducono  da  (1).  E  così  generaliz- 
zata nel  modo  più  semplice  la  definizione  sopra  data  di  integrali 
estesi  a  segmenti. 

È  appena  necessario  avvertire  che,  essendo  dx,  dy  indipen- 
denti dalla  scelta  della  variabile  indipendente,  il  valore  di  (2)  non 
cambia  se  cambiamo  il  parametro  t  scelto  per  individuare  i 
punti  di  r  ;  e  ciò  in  virtù  del  teorema  di  integrazione  per  sosti- 
tuzione (cfr.  anche  il  penultimo  capitolo  del  libro).  Tale  inte- 
grale '  dipende  dunque  soltanto  dal  differenziale  Mdx  -l- Ndy  e 
dall'arco  f  dato  a  priori  (e  cambia  di  segno,  invertendo  il  verso 
in  cui  r  si  immagina  percorso,  cioè  scambiando  i  punti  A,  B). 

Ci  poniamo  ora  la  seguente  domanda  fondamentale  : 

Che  valore  ha  il  nostro  integrale,  se  esiste  una  funzione 
f  (x,  y),  il  cui  differenziale  df  è  M  (x,  y)  dx  -H  N  (x,  y)  dy  ? 

Evidentemente  lungo  f  la  /*  è  funzione  di  x,  y,  entrambe 
funzioni  della  t,  e  perciò  la  f  è  una  funzione  di  t,  la  cui  deri- 
vata vale 

M  [x  it),  y  (t)]  x'  (t)  -hN[x  (t),  y  (t)]  y'  (t),      (*) 

perchè  dalle 

f=  fix.  y);  x  —  x  (t),  y  =  y(t) 


Wf 


si 

deduce 

df 
dt 

^f  ,    ^'^f  ' 

=3  Mx\ 

Quindi 

il  nostro  integrale  (2) 

diventa 

rdf 

Ji     dt  ' 

it, 

(*)  Le  M[x(t),y{t)]  ed  N[x,(t),ìi(t)]  sono  i  valori  assunti  dalle  31,  N  nei 
punti  del  nostro  arco  f.  Ammetto  qui  la  continuità  delle  x'  (f),  y'  (t).  Il  lettore  potrà 
facilmente  studiare  le  lievi  modificazioni  da  apportarsi  alla  seguente  dimostrazione 
nel  caso  che  x'  {t),  y'  (t)  abbiano  qualche  punto  di  discontinuità. 


304  CAPITOLO   XIV    —    §    91 

ed  è  perciò  uguale  alla  differenza  dei  valori  che  la  f  (x,  y) 
assume  negli  (stremi  B,  A  delVarco  V  di  curva  considerato. 

Vale  a  dire  tale  integrale  ha  in  tale  ipotesi  un  valore  che 
dipende  soltanto  dagli  estremi  A,  B  del  nostro  arco,  e  non 
varia  quindi,  se  cambiamo  l'arco  (1)  che  congiunge  i  punti  A,  B, 
e  gli  sostituiamo  p.  es.,  come  al  §  90,  la  spezzata  ACB.  Vice- 
versa si  può  dimostrare  (cfr.  anche  il  penultimo  cap.  del  libro)  : 

Se  questo  integrale  'non  dipende  dalla  particolare  scelta 
delVarco  AB,  ma  soltanto  dai  suoi  estremi  A,  B,  esso  definisce 
proprio  il  valore  che  nel  punto  B  assume  la  funzione  f  (x,  y) 
che  è  nulla  nel  punto  A,  e  il  cui  differenziale  vale  Mdx  -\-  Ndy. 

Infatti  tenuto  fìsso  il  punto  A,  e  considerato  il  punto  B 
come  variabile,  tale  integrale  sarà  una  funzione  f  delle  coor- 
dinate {x,  y)  di  B.  Vogliamo  provare  che  f'^=^  M  e  che  f'y^=N. 
Proviamo  p.  es.  che  f'^  =  M.  Sia  B'  il  punto  {x  4-  h,  y).  Sarà  : 

f^  (^,  y)  =  „^  n^  +  h,y)-  fix,  y)  ^ 
7i=o  n 

\\Mdx  +  Ndy)  —  f  {Mdx  -)-  Ndy) 

=  lim  ^ '-y^ (3) 

Ti  =  0  ri 

Poiché  tali  integrali  non  dipendono  dalla  scelta  delle  linee 
AB,  AB\  potremo  supporre  che  la  linea  AB'  risulti  dalla  linea 
AB  e  dal  segmento  BB\  lungo  cui  dy  =  0. 

La  (3)  diventerà 

j    {Mdx -^  Ndy)  ^      .4.7, 

f'x  {x,  y)  =  lim  ^^ =  lim  —      M{x,  ij)  dx, 

/i  =  o  a  h  =  ^   il   •^  X 

Ricordando  che  per  il  teorema  della  media 

M{x,  y)  dx  =  h  M{x  -h  m,  y),  (0  <  0  <  1) 

»  a; 

e  che  M  è  continua,   avremo  : 

f^  =  lim  M{x  -^  e/^  y)  =  M(x,  y).  e  d.  d. 

Cosicché  il  problema  di  riconoscere  quando  esiste  una  funzione 
f{x,  y)  che  abbia  un  dato  differenziale  Mdx  -h  Ndy,  e  quello 
di  calcolare  tale  funzione,  si  riducono  al  problema  di  ricono- 
scere   quando    l'integrale    curvilineo    di    Mdx  -+-  Ndy    dipende 


PRIMA   ESTENSIONE   DEL    CALCOLO    INTEGRALE,    ECC.         305 

soltanto  dagli  estremi  della  curva,  a  cui  è  estesa  l'integrazione 
e  non  dalla  curva  scelta.  Nel  capitolo  citato  dimostreremo  che 
ciò  avviene  in  ogni  campo  R  ad  un  solo  contorno  (p.  es.  un 
campo  circolare,  o  ellittico,  e  p.  es.  non  una  corona  circolare), 
in  cui  M,  N,  M\j,  N'.,  sieno  finite  e  continue,  e  M'y  =  N'^c- 
Eesterà  così  dimostrata  non  solo  per  i  campi  R  del  §  90, 
ma  anche  per  questi  campi  più  generali  che  nelle  nostre  ipo- 
tesi esiste  ima  funzione  f  (x,  y)  tale  che  df  =  Mdx  +  Ndy. 
Nel  capitolo  citato  troveremo  anche  gli  stretti  rapporti  che 
passano  tra  le  attuali  proposizioni  e  le  definizioni  di  potenziale 
e  di  lavoro  di  una  forza. 

§  92.  —  Differenziali  in  tre  variabili. 

Il  problema  analogo  per  funzioni  di  tre  variabili  x,  y,  z  è 
quello  di  determinare  una  funzione  f{x,  y,  2),  di  cui  sono  pre- 
fissate le  tre  derivate  prime  M=^fa,,  N=^fy,  P^=^fz,  0  in 
altre  parole  è  prefissato  il  diiferenziale 

df=  Mdx  -+-  Ndy  +  Pdz, 
(M,  N,  P  funzioni  di  x,  y,  z). 

Questo  problema  non  è  sempre  risolubile  ;  se  supponiamo 
infatti  che  le  derivate  parziali  del  primo  ordine  delle  M,  N,  P 
esistano,  siano  finite  e  continue,  esisteranno  e  saranno  finite  e 
continue  le 

ay   _  IM     2f_  __  'ÒM 
'òxiy       "òy     ^x^z       ^òz 

'òy'òx        "òx  '  'iy'òz        "òz 

'òz'òx        lix  '  'òz'òy        'iy 

Donde,  per  il  teorema  sull'invertibilità  dell'ordine  delle  deri- 
vazioni, si  trova  che  condizioni  necessarie  affinchè  il  nostro 
problema  sia  risolubile,  0,  come  si  suol  dire,  aftinché 

Mdx  -h  Ndy  -h  Pdz 

sia  un  differenziale  esatto,  sono  le  : 

'ÒM_lm    ^M_'ÒJP^  'ÒN^_'ÒP 

??/         'òx  '    Ì!iz         'òx  ^    'òz         ()?/ 

20  —  G.  FuKiNi,  Amdisi  matematica.  , 


306  CAPITOLO  XIV  —  §  92-93 

Come  nel  problema  precedente  si  dimostra  che  queste  condi- 
zioni sono  sufficienti  almeno  per  il  caso  che  il  campo  di  variabilità 
per  le  M,  N,  P  sia  un  parallelopipedo  con  gli  spigoli  paralleli 
agli  assi  coordinati,  ed  anche  in  casi  assai  più  generali. 

§  93.  —  Cenno  di  un  problema  analogo  ai  precedenti. 

Un  problema  analogo  è  quello  di  determinare  una  funzione 

z  (x,  y)  che  soddisfi  alla  ^  ^    =:  P(x,  y),  dove    P  {x,  y)  è  una 

oxoy 

funzione  data  a  priori  finita  e  continua  in  un  rettangolo,  avente 
i  lati  paralleli  agli  assi  coordinati  ;  e  siano  a,  b,  p.  es.,  le  coor- 
dinate di  quel  vertice,  che  ha  la  minima  ascissa  e  la  minima 
ordinata. 

La  nostra  equazione  si  può  scrivere  : 

donde 


...  .      .  •       f^ 

i  ? 


—  ì  P{x,  y)  dx 


^y 

dove  Y  è  una  costante  rispetto  alla  x,  ed  è  quindi  una    qual- 
siasi funzione  della  y  {continua,  perchè  in  questi  stadi  ci  occu- 
piamo solamente  di  funzioni  continue). 
Sarà  perciò  : 

^  =  f'\fp{x,y)clx^dy-^^{y)-^f{x)         (1) 

dove  9  {y)  è  l'integrale  di  y  ;  cioè,  essendo  y  una  funzione  arbi- 
traria, 9  {y)  è  una  funzione  arbitraria  della  y  (a  derivata 
continua).  Nella  (1)  compare  anche  f{x),  funzione  arbitraria  di  x, 
perchè  si  è  integrato  rispetto  a  y,  e  quindi  l'integrale  resta 
determinato  a  meno  d'una  costante  (rispetto  ad  y)  che  può 
essere  una  funzione  aifatto  qualunque  di  x,  ma  che  supporremo 
derivabile,  volendo  che  esista  z\. 

Se  nella  (1)  poniamo  ora  l'ipotesi  che  P  {x,  y)  sia  costantemente  zero,  e  quindi 


P(x,ij)dx 


troviamo  che  la  funzione  più  generale  ^  (x,  y),  che  ha  la  derivata  mista  di  secondo 
ordine  uguale  a  zero,  è  somma  di  due  funzioni,  l'una  di  a;  e  l'altra  di  y  affatto 
arbitrarie  (ma  derivabili),  e  cioè: 

^  =  9{y)-\-f(^\  (2) 


PRIMA    ESTENSIONE    DEL    CALCOLO    INTEGRALE,  ECC.  307 

Si  può  verificare  facilmente  il  nostro  risultato  derivando  la  z  — 'r  (y) -h  f  (x) 
prima  rispetto  a  ic  e  poi  rispetto  a  y.  Si  avrebbe  : 

àz       ,.,  ,  . 

e  derivando  quindi  la  f'{x)  rispetto  &  y  sì  ottiene  lo  zero. 
Facciamo  un  cambiamento  di  variabili  ;  poniamo  cioè  : 

u  -  X  +  y,  V  =  x  —  y  ; 

da  cui 

U-\-V  II  —  V 

La  z  funzione  di  ic  e  ^  può  dunque  considerarsi  come  funzione  ài  u  ^  di  v, 
a  loro  volta  funzioni  di  x  e  y. 

Derivando  allora  la  z  rispetto  alla  x  tenendo  y  costante,  e  applicando  il 
teorema  di  derivazione  di  funzione  di  funzione,  si  ottiene 

dz       dz    .        dz    , 
dx      du  dv       ' 

ossia,  essendo  u\-  =4-1  e  v'.^  =  +  1, 

dz  _  ^i_d^ 
dx  ~  du      àv' 

Derivando  rispetto  alla  y,  si  trova 

òxòy  -  \dy}  "*  '  "^  dndv  ""  ■  V  "^  \àv^  "" ''^ 'à^v'"' ) ' 

Poiché  u'y  =  1,  v',j^=  —  1,  si  trova 

d^z  _  d'^z      d^z 
dxòy  ~  du^      dv*'        ' 

Cosicché  la  (2),  ove  si  ponga  z  =  ,  y  =  — ^r —  ,    dà   tutte   le    funzioni 

che  soddisfano  alla: 

risultato  importante,  perchè  riceve  applicazioni  in  molte  questioni  di  fisica. 

Oss.  Scambiando  gli  assi  delle  x  e  delle  y  si  trova  che  la  (1) 
si  può  scrivere  nella  forma 

^  {x,  y)  =J       J  F(x,  y)  dy\dx-]rf{x)-{-^  (tj). 

E  se  ne  potrebbe  dedurre  che  : 

£  [fjp(^,  y)  <v]  dx  =£  [X'^^^'  '^^  H  ^y- 

Questa  formola  sarà  ritrovata  in  forma  assai  più  generale 
in  altro  capitolo. 


308  CAPITOLO   XV   —   §    94 


CAPITOLO  XV. 

OLI  INTEGRALI  DEFINITI 
E    LE    FUNZIONI   ADDITIVE    DI   INTERVALLO 


§  94.  —  Funzioni  additive  d'intervallo  e  loro  derivate. 

a)  Sia  9  (x)  una  funzione  prefissata  della  x  in  un  intervallo  I. 
Siano  a,  h  due  punti  di  J;  la  differenza  (incremento)  cp  (h)  —  cp(a) 
è  un  numero  determinato,  quando  siano  dati  i  punti  a,  h,  o, 
ciò  che  è  lo  stesso,  l'intervallo  (a,  6).  Prefissata  dunque  la  fun- 
zione cp  (x),  noi  potremo  dire  che  tale  differenza,  che  indicheremo 
con  S{a,h)  è  una  funzione  dell'intervallo  (a,  ò)  (*).  Essa  gode 
di  una  proprietà  molto  notevole  ;  cioè  che,  se  Tintervallo  (a,  e)  è 
somma  degli  intervalli  (a,  b)  e  (6,  e),  allora  il  valore  8  (a,  e)  rela- 
tivo a  tutto  l'intervallo,  cioè  cp  (e)  —  cp  (a),  è  uguale  alla  somma 
dei  valori  S  (a,  6)  z=  cp  (6)  —  cp  (a)  e  S{b,c)  =  ^  (e)  —  cp  (b), 
che  essa  assume  nei  due  intervalli  parziali  (a,  b)  e  (6,  e).  Noi 
enuncieremo  questa  proprietà  dicendo  che  S  (a,  b)  è  funzione 
additiva  dell'intervallo  (a,  b). 

Viceversa  sia  ^S'  (a,  b)  una  funzione  dell'intervallo  (a,  b)  ;  sia 
essa  cioè  un  numero,  che  ha  un  valore  determinato,  appena  sia 
dato  l'intervallo  (a,  b)  di  L 

Essa  goda  della  proprietà  additiva:  sia  cioè  identicamente 
8  {a,  b)  -4-  8(b^  e)  =  8  {a,  e).  Ne  seguirà  supponendo  c^=^b,  che 
8  (b,  b)  =  0,  cioè  che  una  funzione  additiva  d'intervallo  si  an- 
nulla, se  Vintervallo  è  nullo.  E  quindi,  ponendo  poi  e  =  a,  e 
osservando  che  8  {a,  a)  =  0,  ne  seguirà  : 

S{a,b)  =  —  8{b,a). 

Sia  C  una  costante  arbitraria  ;  e  sia  e  un  punto  fisso  qual- 
siasi (di  /),  sia  X  un  punto  variabile  in  7.  Si  ponga  : 

C-\-  8  (e,  x)  =  cp  {x\ 

(*)  Diciamo  così  per  analogia  col  linguaggio  abituale  :  Si  dice  che  y  è  funzione 
di  a?,  se  2/  è  determinato,  appena  sia  nota  la  x. 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       309 

Poiché  l'intervallo  (e,  b)  è  somma  degli  intervalli  (e,  a)  ed 
(a,  h),   sarà  : 

S  (e,  h)  =  S  {e,  a)  -\-  S  (a,  b) 
ossia  : 

S  (a,  b)  =  Sic,  b)  —  ^(c,  a)  =  cp  (6)  —  cp  (a). 

Ogni  funzione  S  (a,  b)  additiva  di  intervallo  (a,  b)  coincide 
con  V incremento  'i  (b)  —  cp  (a)  di  una  funzione  cp  (x)  della 
variabile  x. 

Data  S  (a,  b),  la  cp  (x)  ha  chiaramente  soltanto  l'indetermi- 
nazione dovuta  all'arbitrarietà  con  cui  si  può  scegliere  la 
costante  C.  Infatti  due  funzioni  cp  (x),  ^  (x)  che  abbiano  uguali 
incrementi  nello  stesso  intervallo,  soddisfano  per  ogni  valore 
di  X  alla  : 

^(x)  —  cp  (a)  =  ^(x)  —  ^  (a),   ossia  : 
cp  (x)  —  ^{x)^^ia)  —  ^  (a). 

Esse  hanno  cioè  una  differenza  costante. 

In  molti  problemi  si  presenta  più  spontaneo  lo  studio  di 
una  funzione  S  additiva  d'intervallo  piuttosto  che  lo  studio  di 
una  funzione  cp,  di  cui  la  S  rappresenti  gli  incrementi.  Così 
p.  es.,  se  un  punto  si  muove  su  una  retta  e  la  sua  velocità 
F{x)  è  nota  in  funzione  del  tempo,  si  presenta  più  spontanea 
la  domanda  :  Che  spazio  S  (a,  b)  ha  percorso  il  punto  dalle  ore  a 
alle  ore  b  ?  piuttosto  che  l'altra  domanda  :  A  che  distanza  9  (x) 
si  trova  il  punto  all'ora  x  dairorigine  ?  Infatti  questa  seconda 
domanda  presuppone  la  scelta  di  un  elemento  sovente  estraneo 
alla  questione  :  V origine. 

Di  funzioni  additive  di  intervallo  possiamo  dare  numerosi 
esempi. 

Data  una  sbarra  materiale  posta  sull'asse  delle  x,  il  peso 
di  quella  sua  parte  che  ha  per  estremi  i  punti  di  ascissa  a,  b 
è  una  funzione  additiva  di  tale  parte  di  sbarra,  cioè  dell'inter- 
vallo (a,  il).  E  ciò  perchè  il  peso  di  un  tratto  {a,  e)  di  sbarra 
somma  dei  tratti  (a,  b)  e  (ò,  e)  è  evidentemente  la  somma  dei 
pesi  dei  tratti  parziali  («,  b)  e  (ò,  e)  :  proprietà  che  vale,  qua- 
lunque sia  la  posizione  dei  punti  a,  ò,  e,  se  si  conviene  di  consi- 
derare come  uguali,  e  di  segno  opposto  i  pesi  dei  tratti  (a,  6) 
e  (6,  a). 

Se  un  punto  materiale  si  muove  in  un  dato  campo  di  forze 
percorrendo  un  segmento  (a,  b)  dell'asse  delle  x,  il  lavoro  com- 
piuto è  una  funzione  additiva  di  (a,  b). 


310  CAPITOLO   XV    —    §    94 

P)  Consideriamo  ora  il  caso  particolare  (che  basta  ai  nostri 
studii  elementari)  di  una  funzione  ^  (x)  a  derivata  F{x)  con- 
tinua.  Il  teorema  della  media  dice  che  : 

SJMO^,(b)-cp(a)^^^^^^  (1) 

D       a  b  —  a 

ove  e  è  un  punto  opportunamente  scelto  interno  alV  intervallo 
(a,  b). 

Se  dunque  a,  h  tendono  ad  uno  stesso  punto  a^  sarà  anche 
lim  e  =  a,  ed,  essendo  F  {x)  continua,  anche  lim  F  (e)  =^  F {(x.) . 
Cioè  : 

Se  V intervallo  (a,  b)  tende  ad  un  unico  punto  a^  allora  il 
limite  di 

S  (a,  b) 
b  —  a 
vale  F  (x).  Perciò  : 

Se  F  (x)  =  lim    - — ^ —  è  funzione   continua,  noi   la   chia- 

a,  b  =  X    D  a 

meremo  derivata  della  funzione  additiva  S  (a,  b)  rispetto  alVin- 
tervallo  (a,  b).  Tale  derivata  è  funzione  della  sola  variabile  x, 
e  non  è  più  funzione  di  un  intervallo.  Evidentemente  poi 

S  (a,  6)  =  9  (è)  —  cp  {a)  =  f  F  {x)  dx. 

Cioè    una    funzione   additiva    S  (a,  b)    con    derivata    F  (x) 

(continua)  coincide  con  Vintegrale  definito  f    F  (x)  dx   di   tale 

derivata. 

Il  teorema  della  media,  che  abbiamo  scritto  nella  forma  (1), 
si  può  anche  scrivere  così  : 

S{a,ì))=^{h  —  a)F{c). 

Se  ne  deduce  : 

Siano  M  ed  m  il  massimo  ed  il  minimo  valóre  nelVinter- 
vallo  (a,  b)  della  derivata  (continua)  F  (x)/  della  funzione  S  (a,  b) 
additiva  d'intervallo;  allora  S  (a,  b)  è  compreso  tra  i prodotti 
di  (b  —  a)  per  M  o  per  m. 

Viceversa,  se  il  valore  della  funzione  additiva  S  (a,  b)  è 
compreso  tra  (b  —  a)  M  e  (b  —  a)  m,  dove  M,  m  sono  il  mas- 
simo e  il  minimo  della  funzione  continua  F  (x),  allora  F  (x) 
è  la  derivata  di  S  (a,  b). 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       311 

Infatti  \ — - —  è  in  tal  caso   compreso   tra    M  ed    m  ;    cioè 
b  —  a 

vale  F{c),  ove  e  è  un  conveniente  punto  dell'intervallo  (a,  h). 
Perciò,  se  a,b  tendono  ad  x,  allora^- — - — tende  ad  F{x), 


§  95.  —  Illustrazioni  varie. 

Abbiamo  riconosciuto  che  la  funzione  additiva  S  (a,  b),  che 
ha  la  derivata  continua  F  (x),  coincide  con       F  (x)  dx.  Questo 

teorema  si  può  illustrare  in  molti  modi: 

a)  Se  p.  es.  F{x)^0,  l'area  S  (a,  b)  del  rettangoloide  defi- 
nito dall'asse  delle  x,  dalla  curva  y  ^=^  F  {x)  e  dalle  rette  a:  =  a, 
x^=b  è  evidentemente  funzione  additiva  dell'  intervallo  (a,  b) 
(almeno  se  l'area  si  considera  positiva  se  a  <b  e  negativa  se 
a  >  ò).  Tale  rettangoloide  è  contenuto  nel  rettangolo  che  ha  per 
base  l'intervallo  (a,  b)  dell'asse  delle  x  e  per  altezza  il  massimo 
valore  M  di  F  {x)  in  tale  intervallo,  e  contiene  il  rettangolo 
di  ugual  base,  avente  per  altezza  il  minimo  valore  m  di  F{x). 
Perciò  S  (a,  b)  è  compreso  tra   {b  —  a)  M  ^  {b  —  a)  m,  ed  ha 

quindi  F  {x)  per  derivata.  Esso  vale  pertanto      F  (x)  dx.  Questo 

ragionamento  è,  in  altre  parole,  la  ripetizione  di  considerazioni* 
svolte,  da  noi  altrove  (pag.   165). 

p)  Se  F(x)  indica  la  velocità  che  un  punto  mobile  N  su 
una  retta  r  ha  all'istante  x,  ^  '^  {x)  indica  lo  spazio  percorso 
da  N,  0  anche  la  distanza  ON,  che  N  ha  all'istante  x  da  un'ori- 


gine fissa  0,  si  riconosce  immediatamente  che  ^  {x)  ^==^  \F  {x)  dx 

e  che  quindi  ^  (b)  —  9  (a)  (spazio  percorso  dall'istante  a  all'i- 
stante b)  è  la  funzione  additiva,  che  ha  F{x)  per  derivata,  e  perciò 
vale  precisamente  l'integrale  definito  di  F (x)  esteso  all'inter- 
vallo (a,  6).  Basta  osservare  che  lo  spazio  percorso  cp  (6)  —  9  (a) 
gode  delle  due  seguenti  proprietà: 

1)  Se  a  è  un  intervallo  di  tempo,  somma  di  due  intervallini 
ocj,  ag,  lo  spazio  percorso  in  a  è  uguale  alla  somma  degli  spazi 
percorsi  in  a^  e  in  ag;  cioè  lo  spazio  percorso  è  funzione  addi- 
tiva degli  intervalli  di  tempo. 

2)  Lo  spazio  cp  (&)  —  cp  (a)  percorso  da  N  nell'intervallo 
di  tempo  (a,b)  è  compreso  tra  gli  spazi,  che  sarebbero  percorsi 


312  CAPITOLO   XV    —    §    95 

da  iV^,  quando  esso  fosse  in  tale  intervallo  dotato  sempre  della 
velocità  minima  m  o  massima  M,  che  raggiunge  in  tale  inter- 
vallo, ossia  è  compreso  tra  (6  —  a)  m  e  (ò  —  a)  M. 

y)  Se  F{x)  indica  il  valore  della  forza  agente  su  un  punto  ]Sf 
mobile  su  una  retta  r,  quando  JV  dista  x  dall'origine,  e  se  F  ix) 
è  diretto  secondo  r,  il  lavoro  corrispondente  al  passaggio  di  N 
dal  punto  a;  =  a  al  punto  x  =  b  è  l'integrale  definito  di  F  (x) 
esteso  all'intervallo  (a,  ò).  Infatti  esso  gode  delle  due  seguenti 
proprietà  : 

1)  Se  un  intervallo  a  è  somma  di  due  intervallini  oc^,  a..,  il 
lavoro  corrispondente  all'intervallo  a  è  somma  dei  lavori  corri- 
spondenti agli  intervalli  cci,  cc^,  cioè  tale  lavoro  è  funzione 
additiva  degli  intervalli  a. 

2)  Tale  lavoro  è  compreso  tra  i  valori  {b  —  a)  m  e  (b  —  a)M 
corrispondenti  al  caso  che  la  forza  F (x)  nell'intervallo  (a.  b) 
conservasse  costantemente  il  valore  minimo  m  o  massimo  M,  che 
raggiunge  in  tale  intervallo. 

5)  Indichiamo  con  p,  0  coordinate  polari;  si  voglia  calco- 
lare l'area  A  della  figura  racchiusa  tra  i  raggi  0  =  a,  0  =  ?> 
{0^a<b^2Ti)  e  una  curva  p  =  i^(0).  È  evidente  che  A  è 
funzione  additiva  dell'intervallo  (a,  b).  Si  osservi  che,  se  M,  m 
sono  il  massimo  e  il  minimo  di  -F(0)  nell'intervallo  (a,  &),  la 
nostra  figura  comprende  all'interno  il  settore  circolare  che  ha 
per  raggio  m,  che  è  limitato  dalle  semirette  0  =  «  e  0  =  6,  e 

che   quindi    ha   per   area    t:  m^  ■ — z^  — -  (6  —  a)  m^   E  la 

2  71  2 

nostra  figura  è  compresa  nel  settore  limitato  dalle  stesse  semirette^ 
che  ha   per  raggio  M,  ed  ha  quindi   per  area  —  (&  —  ci)  M\ 

L'area  cercata  è  dunque  compresa  tra  —  m^  A  0  e  — -  M~  A  0^ 

quando  si  indichi  con  A  0  =  &  —  «  l'incremento  ricevuto  da  0 
nell'intervallo  (a,  6).  E  se  ne  deduce  facilmente  che  l'area  A  in 

discorso  ha  per  derivata  —  P^  ossia  che  essa  è  data  dalla: 

dA         1 
Il  lettore  dimostri  direttamente  che  -—-  = -—[F(d)Y. 

u  0  2 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       313 

Si  può  dedurne  poi,  p.  es,,  che  :  se  un  punto  N  si  muove  in  un  piano  in 
modo  che  il  raggio  ON  descriva  un'area  A  proporzionale  al  tempo  t  impiegato, 
allora  la  forza  agente  su  N  è  diretta  verso  0,  (Teorema  importante,  p.  es.,  per 
dedurre  dalle  le^gi  di  Keplero  la  legge  di  gravitazione  universale  di  Newton). 

T  fi  ,,'■     .  y  .  dA      ,  .,  ,  .        .    dAde      ,         .     \    ^do 

Infatti  in  tal  caso  %  -^j  =k(k  =  cost.),  ossia  -,—  -,-7  =  h,  ossia  —  /s^  —  ==  A'. 
dt  d^i  dt         '  2      dt 

Poiché  p'  —  'X^  H-  ?/^  9  ==  arctg  ^  ,  questa  equazione  diventa  : 


donde,  derivando 


dì}         ^^  __  o  7 
^ti~'^di~^^'' 


d-ìj         d-x      ^        .    d^x    dhj 


che  prova  il  nostro  teorema,  perchè  (come  insegna  la  Meccanica)  le  componenti 
della  forza  agente  su  JV  sono  proporzionali  alle 

d'X     à~y_ 


§  96.  —  Alcune  somme  fondamentali, 

a)  Abbiamo  dunque  riconosciuto  l'identità  del  concetto  di 
funzione  S  (a,  b)  additiva  avente  per  derivata  la  funzione  con- 

tinua  F  (x)  e  di   \    F  (x)  dx. 

Cosicché  se,  p.  es.,  F{x)^0,  ed  a<b,  la  S(a,b)  si  può 
pensare  identica  all'area  del  rettangoloide  limitato  dall'arco  di 
curva  y=zF{x)  per  a^x^b,  dalle  rette  che  ne  proiettano 
gli  estremi  sull'asse  delle  x,  e  dallo  stesso  asse  delle  x. 

Ci  serviremo  tosto  di  questo  fatto  per  illustrare  geometri- 
camente alcune  considerazioni. 

Diviso  l'intervallo  (a,  b)  in  n  intervallini  parziali  Si,  %,  ...  B„, 
allora  il  valore  ^S"  {a,  b)  della  nostra  funzione  additiva  vale  la 
somma  dei  valori  di  8  corrispondenti  ai  nostri  intervallini  5^: 
ciascuno  dei  quali  è,  per  il  teorema  della  media,  compreso 
tra  '^iMi  e  B^W/,  se  Mi,  mi  sono  il  massimo  e  il  minimo  ài  F(x) 

in  li,  e  vale  ^ìFì  ove  Fi  è  un  conveniente  valore  della  F{x)  in  B^. 
Perciò  : 

La  S  (a,  b)  =     F{x)dx  è  compresa  tra  S  Mi  8,  =  Mi^i-^ 

*J  a 

-\-M2l2-^ -hM.rK^  untili.  Esistono  dunque  dei  conve- 

menti  numeri  Fi  compresi  tra  m^  ed  Mi  tali  che     F{x)  dx  — 

=  SP.8... 


314 


CAPITOLO   XV 


§  96 


Perciò  :  La  S  (a,  b)  è  compresa  tra  il  limite  inferiore  delle 
2  MB,  e  il  limite  superiore  delle  S  m  B. 


Fig;  33. 

P)  Sarà  bene  illustrare  questo  procedimento  per  le  funzioni 
F  {x)^0    ricorrendo    all'  interpretazione    citata    di   1   F  (x)  dx 

come  area  della  figura  piana  (rettangoloide)  compresa  tra  l'asse 

delle  X,  la  curva  y  =  F  (re), 
e  le  parallele  all'asse  delle  y, 
i  cui  punti  hanno  per  ascissa 
rispettivamente  a  oppure  h. 
Nella  fìg.  33  sono  dise- 
gnati per  l'intervallino  par- 
ziale ^i  il  minimo  mi  e  il 
massimo  Mi  di  F(x). 

Nella  successiva  fig.  34 
(in  cui  per  chiarezza  si  è  di- 
segnata una  curva  y  =  F(x) 
di  più  semplice  andamento) 
è  reso  ben  evidente  che  un 
prodotto  B,  mi  è  l'area  di  un 
rettangolo  avente  per  base  B,; 

e    tutto     interno    alla    nostra     figura    (i    rettangoli    APA\A', 

AiPiA'2A\,  ecc.);  cosicché  2  m^  B^  misura  l'area  di  un  poligono 
xche  è  tutto   contenuto    nel    nostro   rettangoloide    ed    ha    perciò 

un'area  non  maggiore  di  quella  del  nostro  rettangoloide. 


Fig.  34. 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       315 

Invece  i  numeri  Mi^i,  M^2,  ecc.  sono  l'area  dei  rettangoli 
QAiA\A\  QìA2A'2A\,  ecc.,  la  cui  somma  è  un  poligono,  che  con- 
tiene il  nostro  rettangoloide,  e  la  cui  area  è  perciò  non  minore 
dell'area  del  rettangolo  stesso. 

Riesce  così  resa  intuitiva  la  nostra  affermazione. 

Del  resto  tutti  gli  altri  esempi  del  paragrafo  precedente 
potrebbero  servire  altrettanto  bene  ad  illustrare  la  nostra  affer- 
mazione. 

Y)  Ricordiamo  la  precedente  formola  :      F  (x)  dx  =  S  Fi  S^. 

La  lunghezza  \  di  un  intervallo  parziale  non  è  che  l'incre- 
mento dx  subito  dalla  x  nel  passare  da  un  estremo  all'altro. 
Se  noi  scriviamo  dx  al  posto  di  5,-,  e  sostituiamo  al  S  greco 
un  S  maiuscolo  latino,  che  la  scrittura  corrente  può  aver  defor- 
mato nel  segno  j  ,  intendiamo  il  perchè  della  notazione  usata 
per  indicare  gli  integrali  definiti. 

§  96  bis.  —  Il  metodo  dei  rettangoli 
per  il  calcolo  approssimato  degli  integrali  definiti. 

a)  Abbiamo  riconosciuto  al  §  96  che,  diviso  l'intervallo  (a,  h) 
in  un  numero  finito  di  intervallini  parziali  B,-,  si  ha: 


i 


ove  Fi  è  uno  dei  valori  assunti  da  F  {x)  in  S^-,  scelto  in  modo 
conveniente.  Cosicché,  se  noi,  data  F{x),  e  scelti  i  B^-,  sapes- 
simo scegliere  tali  valori  Fi,  il  calcolo  dell'integrale  sarebbe 
ridotto  a  operazioni  elementari  (somma  di  prodotti).  Ma  poiché 
invece  in  generale  non  sappiamo  scegliere  tali  Fi,  sostituiamo 
ad  Fi  uno  qualsiasi  Fi  dei  valori  che  F  (x)  assume  in  B^,  as- 
sumendo poi  la  somma  SJ^^S^,  come  valore  approssimato  del 
nostro  integrale.  È  questo  un  procedimento  molto  usato;  la 
teoria,  d'accordo  con  l'intuizione,  lo  giustifica,  come  vedremo 
in  P),  provando  che  l'approssimazione  raggiunta  si  potrà  render 

grande  a   piacere,    cioè    che    la    differenza      F{x)dx  —  ^F-h^ 

si  può  rendere  piccola  a  piacere  in  valore  assoluto,  prendendo 
tutti  i  Sf  abbastanza  piccoli  (e  ciò  indipendentemente  dal  modo 
con  cui  si  é  scelto  il  valore  Fi  di  F{x)  in  5,). 


316  CAPITOLO  XV   —   §   dQbis 

Ciò,  che  con  una  facile  estensione  del  concetto  di  limite  si 
scrive  (  F(x)dx  =  lim  S  F^hi.  L'errore  commesso  sostituendo  Fi 

*^a  '        0^  =  0 

ad  Fi  viene  cioè  eliminato  passando  al  limite  per  B,;  =  0. 

Tale  metodo  di  calcolo  approssimato  si  può  chiamare  metodo 
dei  rettangoli. 

Infatti  il  calcolo  del  nostro  integrale  equivale  a  quello  del- 
l'area del  rettangoloide  definito  dalla  curva  y  =  F{x),  che  ha 
per  base  il  segmento  (a,  b).  Diviso  (a,  b)  in  segmentini  B^,  il 
rettangoloide  resta  diviso  in  rettangoloidi  parziali  ;  all'area  di 
uno  di  questi  noi  sostituiamo  il  prodotto  ^i  Fi,  cioè  Tarea  di  un 
rettangolo  che  ha  ancora  B^  per  base,  e  che  ha  per  altezza  F,-, 
essendo  Fi  uno  qualsiasi  dei  valori  che  F  (x)  ha  in  B^. 

Per  Fi  possiamo  assumere  p.  es.  il  valore  di  F{x)  ad  uno 
degli  estremi  di  B^,  oppure  il  massimo  valore  Mi  od  il  minimo 
valore  ìHì  di  F (x)  in  5^-,  oppure  un  numero  qualsiasi  compreso 
tra  i/i  ed  m,. 

P)  Con.  gli  stessi  metodi  con  cui  si  è  provato  che  l'area 
esterna  di  un  rettangoloide  è  uguale  all'interna,  si  può  dimo- 
strare intanto  che  il  limite  inferiore  di  SMB  è  ugnale  al  limite 
superiore  ^i  S  mS;  e  che  quindi  entrambi  sono  uguali  al  numero 

S  (a,  b)  =      F  (x)  dx,  che  è  compreso  tra  le  due  somme  citate, 

•'a 

Resta  così  jjrovato  che  questo  integrale  si  può  perciò  definire 
come  il  numero  che  separa  le  classi  contigue  descritte  rispetti- 
vamente dalle  2MBj  SmS. 

È  intuitivo  poi  (come  il  lettore  può  riconoscere  pensando 
all'area  di  un  rettangoloide,  e  ricordando  la  trattazione  elemen- 
tare per  l'area  del  cerchio)  e  si  può  facilmente  provare  (*)  che 


(*)  Ciò  si  può  dedurre  dal  teorema  di  Heine  (§  40  e  §  63,  pagina  197), 
perchè,  in  virtù  di  questo  teorema,  si  possono  scegliere  i  «»  così  piccoli  che  tutte 

le   corrispondenti   oscillazioni   Mi  —  mi   risultino   minori   di  t .   Allora  sarà 

0  —  CI 

e 

I  iM  Si  —  imiòt  I  <  ,  ^     s  òi  =  £,  come  volevasi  provare. 

Allo  stesso  risultato  si  giunge  direttamente  così  :  Dato  un  sistema  di  inter- 
vallini  S  e  un  altro  sistema  di  intervallini  ò',  ottenuto  dal  precedente  intercalando 
nuovi  punti  di  divisione,  le  somme  corrispondenti  soddisfano  alle  iMò'^iM'ò' 
e  Imo  ^^m'ò',  E  ciò,  perchè  il  massimo  Ìf(il  minimo  »«)  di  F{x)  in  un  ò  non  è 
inferiore  ad  alcuno  dei  massimi  M'  (non  supera  alcuno  dei  minimi  m')  che  Fix) 
ha  negli  intervallini  ò\  in  cui  è  stato  suddiviso  l'intervallo  ò  considerato,  mentre 
la  lunghezza  -^  vale  la  somma  delle  lunghezze  di  questi  ò'. 

Sia  £>0  un  numero  piccolo  a  piacere;  e  consideriamo,  p.  es.,  le  ^mò.  Esi- 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       317 

si  può  rendere  piccola  a  piacere  (minore  di  un  £  >  0  piccolo  a 
piacere)  la  differenza  SMS  —  SmS,  considerando  degli  inter- 
vallini  ^  abbastanza  piccoli  [che  tale  differenza  (con  conveniente 
scelta  dei  S)  si  possa  rendere  piccola,  segue  dal  precedente 
teorema;  la  presente  osservazione  precisa  che  i  S  saranno  scelti 
convenientemente,  se  saranno  scelti  abbastanza  piccoli].^  fortiori, 
se  indichiamo  con  F  uno  qualunque  dei  valori  assunti  da  F{x) 


sterà  un  sistema  di  intervallini  parziali  Oj/j^, ,^n  tali  che,  se  «  è  il  minimo    di 

F{x)  in  e,  sia 

F{oc)  f?a'^i>9  ^      F{x)dx  -  —  ■ 


E  ciò  perchè    i  F{x)dx  è  proprio  il  limite  superiore  delle  Smò  (o  delle  S/^^j). 

Consideriamo  un  altro  qualsiasi  sistema  di  intervalli  ò,  ciascuno  dei  quali  sia 

più  piccolo  del  minimo  tra  gli  intervalli  9  e  sia  più  piccolo  anche  di^^-^^-^y,  sei? 

è  il  massimo  di  |/'(a;)iin  (a,  fe).  Sia  ò'  quel  sistema  di  intervallini  che  si  ottiene 
dividendo  (a,  b)  in  parti  sia  coi  punti  estremi  dei  6,  sia  coi  punti  estremi  dei  ^. 
Poiché  i  ^'  sono  ottenuti  sia  dai  o  che  dai  ^,  intercalando  nuovi  punti  di  divisione, 


sarà  :      s  w'  ò'  ^  x  /*  e  ;  ì:  w'  ò'  ^  v  ^  5,        mentre  è  |  F(x)dx^^  m' ò'. 


.Jfo 


Ora  nel  passare  dai  ò  agli  intervallini  ò',  al  più  n  degli  intervalli  ò  sono  stati 
divisi  in  (due)  parti  (perchè  un  ò  non  può  contenere  tutto  un  e  per  l'ipotesi  fatta) 
e  gli  intervallini  ò',  che  si  ottengono  dividendo  in  due  parti  al  più  n  intervalh  ò 

hanno  complessivamente  una  lunghezza  che  non  può  superare  n     '     (perchè  ogni  ò 
non  supera  ^-^^j.   Il   contributo   che  essi  danno  nella  somma  ^m'S'  non  può  su- 
perare wJT  =-^-75— -  ^  . 
^  2nH      2 

Poiché  gli  altri  intervalli  ò  sono  contemporaneamente  intervalli  0',  la  somma 
^  m' ò'  supererà  ^m  S  al  più  di  —  ;  cosicché  2  m  ó:^im  0' 


già 


Poiché  2  to'  c'  ^  ly.o  ^  j   F{x)dx  —  ^,  sarà  :  to  5  ^  j   F  {x)  dx  —  t.   È    gi 

noto  che  I   F(x)dx'^^mò.  Cosicché,  se  i  0  sono  scelti  abbastanza  piccoli  (nel 

modo  sopra  precisato),  la  ^mS  differisce  da  I  F{x)  dx  per  meno  di  h. 

In  modo  analogo  si  prova  che,  se  i  0  sono  abbastanza  piccoli,  ìMó  differisce 

da  I  F{x)dx  per  meno  di  j.  Quindi,  preso  un  numero  2^0  piccolo  a  piacere, 

possiamo   scegliere   un   numero  »  tale  che,   se   tutti  i  0  sono   minori  di  ^,  allora 
[iMò  —  Imo]  sia  minore  di  2=.  e.  d.  d. 


318  CAPITOLO   XV   —   §    96  bis 

in  B,  cosicché  m^F^M,  allora,  poiché     i^(a;)^a:  e  Si^S  sono 

entrambi  compresi  tra  Sm5  e  2ilf8,  avremo  che: 

Dato  un  numero  £  piccolo  a  piacere,  posso  scegliere  i  5  così 

piccoli  che  ,  „  „         r'' 

|Si^S—      F{x)dx\<^. 

Cosicché  con  facile  estensione  della  definizione  di  limite, 
possiamo  enunciare  il  seguente  teorema  : 

Lo  \  F  (x)  dx    non   solo   è   il    numero  che  separa  le  classi 

•'a 

contigue  descritte  dalle  S  m  S^  SMS,  ma  è  anche  il  limite 
di  SFS  quando  tutti  i  B  tendono  a  zero,  se  ¥  è  un  qualsiasi 
numero  compreso  tra  ÌA  ed  m  (od  eventualmente  uguale  anche 
ad  ilf  od  a  m).  ,& 

Se  noi  confrontiamo  quest'ultimo  teorema     F{x)dx-\\ml^Fh 

col  teorema  dato  in  (a),  pag.   315,  cioè  l  Fix)dx=^  HFZ^  ve- 

diamo  che  tanto  F  che  F  rappresentano  una  quantità  compresa 
tra  m  ed  M.  Ma  mentre  F  è  una  quantità  arbitrariamente 
scelta  tra  me  M,  la  i^  é  un  numero  convenientemente  scelto 
tra  ni  ed  M.  Cosicché  nella 

f  Fix)  dx  =  lim  (F,hi  -4-  F.h-,  -f- 4-  Fnhn) 

-'«  0^  =  0 

si  potrebbe  quasi  dire  che  il  passaggio  al  limite  (quando  tutti 
i  S  tendono  a  zero)  corregge  V errore  commesso  scegliendo  i 
valori  intermedi  F^  in  modo  arbitrario  tra  m^  ed  Mj. 

Y)  Un  caso  particolare  della  nostra  formola  si  ottiene  nel 
modo  seguente  : 

Si  divida  l'intervallo  (a,  b)  in  n  intervallini  parziali  S,,  i  cui 

estremi  ai,  =  a,  a^,  a^, ,  «n  +  i  =  ^  formino    una  progressione 

aritmetica  ;  tutti  questi  intervallini  saranno  uguali  tra  di   loro 

ed  avranno come  lunghezza  comune. 

n 

Se  come  Fr  scegliamo  il  valore  di  F  {x),  p.  es.,  nell'estremo 

destro  a  4-  r del  corrispondente  intervallo  S,.,  otterremo  che  : 

n 

(I)  Cf{x)  dx  =  lim  ^^^^  ÌFia-^  ì^l^\  -+- 

-'a  n  =  a.      n      \       \  n     / 

-hjP(a-+-2— j-hi^(a+3 )-+- -\-Fia  -\-  n )    . 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       319 


-n 


Similmente,    supposto    b  >  a,    e    posto  A:  =1/  — ,  i  punti  a 

ak,  ak^, ,  ak'^~^ ,  ah""  =  b  formano  una  progressione  geome- 
trica e  dividono  l'intervallo  (a,  b)  in  intervallini  che  tendono 
a  zero  per  n  =^  co ,  ossia  per  ^  =  1. 

Si  ritrova  (ricordando  che  ^  ^=  | /  —  )  : 
(II)        r  f{x)  clx  =:  lim  a  (A:  —  1)  S  f{a)  4-  kf{ak)  -4- 

4-Z;Y(a/r)-f- +  k""'  fiak""-')  j. 

Questa  è  in  fondo  la  formola  applicata  a  pag.  128,  es.  3^, 
quando  si  è  calcolata  un'area,  il  cui  valore  è,  come  ora  sap- 
piamo, l'integrale  definito  di  —  tra  a  e  b. 

X 

Esempio. 
1**  Si  calcoli  j  xdx  col  metodo  precedente  della  (I). 


Si  trova 

'^  b  —  a 

n  =  3c        Yl  \ 


xax^=^  lim > 


b  —  a 
a  -h  r 

n 


r      ^  —  ^\         ,    n{n-+-l)b—aì        ,.      i     .,  x    ^ 

^=  lim  — na  H : /  =  lim  {a{b  —  a)  H- 

«==  ^       n  2  n  »i=oo 


+  |(l  +i)(6-af|  =  a(6-a)  +i(6  — «)= 


"  —  a' 


§  97.  —  Generalizzazioni  del  concetto  di  integrale. 
L'integrale  di  Riemann. 

Negli  ultimi  venti  anni  si  è  generalizzata  la  definizione  di  integrale.  Noi  non 
possiamo  dare  neanche  un'idea  di  questi  studi  recenti  e  teoricamente  importantis- 
simi. Vogliamo  soltanto  dare  un  brevissimo  cenno  della  definizione  di  integrali  di 
Riemann,  che  è  più  generale  di  quella  da  noi  posta  e  che,  dopo  aver  occupato  un 
posto  perspicuo  nell'analisi,  ha  ora,  più  che  altro,  un  valore  storico. 

Sia  F  una  funzione  definita  in  un  campo  I.  Non  supporremo  i^  continua,  ma 
la  supporremo  soltanto  limitata  (supporremo  cioè  finito  non  soltanto  ogni  valore 
di  F,  ma  anche  finito  il  limite  superiore  dei  valori  assoluti  di  F).  Diviso  I  in  un 
numero  finito  r  di  pezzi  ò,,  o^, ... ,  v,  non  potremo  più  dire  che  in  uno  di  questi  la 
F  ha  un  massimo  o  un  minimo,  ma  soltanto  che  essa  in  ogni  5.  (per  s  =  1,  2, ...,  r) 
ha  un  limite  superiore  L.  e  un  limite  inferiore  l  finiti.  Indicando  con  ò,  anche  la 
misura  di  ò^,  costruiamo  le  somme  : 

S  iv  h        (1)  S  h  h .  (2) 


320 


CAPITOLO  XV   —   §  97-98 


Si  può  dimostrare,  che,  se,  p.  es.,  0  >  0,  ogni  somma  (1)  supera  ogni  somma  (2). 
Se  le  classi  descritte  da  queste  due  somme  sono  contigue,  il  numero  di  separazione 
delle  due  classi  riceve  il  nome  di  integrale  secondo  Éiemann  della  F  esteso  al 
campo  I. 

§  98.  —  Il  metodo  dei  trapezi 
per  il  calcolo  approssimato  degli  integrali  definiti. 

a)  Tra  le  tante  forinole  approssimate  per  il  calcolo  degli 
integrali  definiti,  ricorderemo  ancora  la  seguente,  specialmente 
semplice. 

Supponiamo  di  voler  calcolare  1   f{x)dx{Q,o\ìa<h). 
Supponiamo  dapprima  f(x)^0. 


2n^t 


'2n*/ 


O     «/ 


Fig.  35. 


Rappresentiamo  questo  integrale  con  l'area  del  rettangoloide 
compreso  tra  l'asse  delle  x^  la  curva  y^=if(x)  e   le    ordinate 

Supponiamo  che  la  curva  y  ^=^f(x)  presenti  la  concavità  (*) 
verso  l'asse  delle  a;;  nella  fig.  35  è  indicato  con 

(*)  Supponiamo  così  che  esistano  le  tangenti  alla  curva,  che  esse  siano  esterne 
al  rettangoloide  di  cui  si  calcola  l'area  ;  in  una  parola  che  sia  f"  {x)  <  0. 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       321 

il  rettangoloide,  di  cui  vogliamo  calcolare  l'area.  Dividiamo  la 
base  del  rettangoloide  in  2  n  parti  uguali  ;  indichiamo  i  punti 

di    divisione   con   «i  =  a,  a-2,  a^, ,  ao„_|.i  =  ò    e    conduciamo 

per  tali  punti   le  ordinate   yi,  1/2,  y^,  ,Vjn-fi.    Se    traccio    i 

segmenti 

Al  A2,  A2  A's,   ,  A2n  A2n-{-l, 

Ottengo  tanti  trapezi  Ai  A2  ai  ai,  -A_.  J.3  a_>  <x.. ,  la  cui  somma 

ci  dà  un  poligono  tutto  interno  al  rettangoloide  Ai  ^2n+i  «1  «2n+i  ; 
quindi  la  somma  delle  aree  di  detti  trapezi  ci  darà  un  valore 
approssimato  per  difetto  dell'area  del  rettangoloide  e  quindi  un 

valore  approssimato  per  difetto  di  |   f{x)  dx. 

^^  ,    J5 

Ora,  se  con  B  indico  il  segmento  ah  =^  aia-^n4-\     sarà -— 

2n 

il  valore  di  ognuna^  delle  2  n  parti  uguali  in  cui  esso  è  stato 

diviso,  ossia  l'altezza  di  ognuno  dei  trapezi  ottenuti  ;   le  basi  di 

questi  essendo  poi  rispettivamente  le  ordinate  ?/i,  ^2, ,^2n-fi, 

sarà  : 

A     A  B    yi-\-  v-o 

area  Ai  A^,  ai  a->  = —^ 

2  n        2 

a'    A'  jB      ?/o  H-  ?/:{ 

area  A2  ^3  «-  «3  =  -;; —  - — tt^ 
2n        2 


.  .  B      y.n    -f-  ^2n  +  l 

area  A2n  ^2^4-1  ^2n  <^2n+i  —  ~      ■        ~  * 

2n  2 

E  l'area  totale  del  poligono  interno  al  rettangoloide  sarà  la 
somma  delle  aree  precedenti 

J^  \  yi  -^  Vi  .  y-i  +  y^  _^  y^m  +  ^2»+i  ( . 

2n\       2  2  2  i 

Osservando  che  tutte  le  ordinate  y  compaiono  ciascuna  due 
volte  nella  formula  precedente  tranne  yi  e  ?/2«4-i,  potremo  anche 
scrivere  : 

^  )  yi  -^  ytn^i  _^      ,       ,  I  /.x 

¥7zì      2      -^y^-^y^-^ ^-j        (1) 

come  un  valore  approssimato  per  difetto  di  l  f{x). 

«^« 

Cerchiamo  analogamente  un  valore  approssimato  per  eccesso 
dell'area  della  nostra  figura  ;    cerchiamo    cioè   un  poligono  che 

21  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


322  CAPITOLO   XV  —   §   98 

comprenda  all'interno  tutta  la  figura  data.  A  tale  scopo  per 
i  punti 

(a2,  ^2),  (tì^4,  yò, fen,  yi^ 

tracciamo  le  tangenti  alla  curva  (nella  figura  sono  disegnate 
soltanto  le  prime  due).  Consideriamo  poi  il  trapezio  limitato 
dalla  tangente  nel  punto  {a^,  ^2)  dalle  ordinate  di  ascissa  a^  a^ 
e  dall'asse  delle  x.  Consideriamo  il  trapezio  limitato  dalla  tan- 
gente nel  punto  (^4,  y^,  dalle  ordinate  di  ascissa  a^  e  a-,  e  dal- 
l'asse delle  X  ;  e  così  via  fino  all'ultimo  trapezio  limitato  dalla 
tangente  nel  punto  {aon,  y-in),  dalle  ordinate  di  ascissa  a-2n-\, 
«jn-fi  e  dall'asse  delle  x.  La  somma  di  tutti  questi  trapezi 
costituisce  appunto  un  poligono  che  comprende  all'interno  il 
nostro  rettangoloide. 

Cerchiamone  l'area  :  essa  è  la  somma  delle  aree  di  tutti 
i  trapezi  citati.  Nel  primo  di  essi  l'ordinata  ?/2  è  la  parallela 
alle  basi  condotta  dal  punto  di  mezzo  dell'altezza  ai  ch,  ed  è 
uguale  perciò  alla  semisomma  delle  basi.  Poiché  l'altezza  ai  a^ 

7^  7?  7? 

vale  2- —  =  — ,  l'area  di  detto  trapezio  sarà  —  y^.  In  modo 
2nn  n  ^' 

simile  le  aree  degli  altri  trapezi  valgono  ordinatamente 
B        B  B 

^7^4,— -^6, ^—-ym\ 

n  n  n 

e  l'area  totale  del  nostro  poligono  varrà 
B 


n 


(y2  +    ^4   -4-   ?/G   +    y2n),  (2) 


che  è  quindi  un  valore  approssimato  per  eccesso  di  1   f{x)dx. 

Al  crescere  di  w,  cresce  generalmente  l'approssimazione  che 
le  formole  (1),  (2)  danno  per  il  valore  di  questo  integrale  ;  la 
differenza  tra  (1)  e  (2)  tende  anzi  a  zero  per  n  =  00  (Cfr.  questo 
§  98,  C,  pag.   324). 

P)  Se  la  curva  y  =  f(x)  volgesse  la  convessità  verso  l'asse 
delle  X,  e  quindi  la  tangente  in  ogni  suo  punto  penetrasse  nel 
rettangoloide,  il  ragionamento  si  invertirebbe,  in  quanto  che  il 
poligono  avente  per  lati  il  segmento  aia2n-fi  dell'asse  delle  x,  le 

ordinate  yi,  y2n-\-i  degli  estremi  a,  6  e  le  corde  Ai  A2,  ^2  ^3, , 

che  nel  primo  caso  era  contenuto  nel  rettangoloide,  contiene 
ora  invece  il  rettangoloide  all'interno  ;  e  il  suo  valore  (1)  rap- 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.        323 

presenta  quindi  un  valore  approssimato   in   eccesso    del   nostro 
integrale. 

Laddove  invece  il  poligono  avente  per  lati  il  segmento 
fti  a2n-\-i,  le  ordinate  degli  estremi,  ai,  «on+i,  e  le  tangenti 
nei  punti 

è  tutto  interno  al  nostro  rettangoloide,  e  la  sua  area  (2)  rap- 
presenta un  valore  approssimato  in  difetto  del  nostro  integrale. 


2n*f 


y)  Se  la  f{x)  fosse  negativa  nell'intervallo  che  si  considera, 
si  possono  ripetere  le  considerazioni  precedenti  con  poche  modi- 
ficazioni, purché  si  considerino  negative  le  aree  dei  poligoni 
considerati.  In  altre  parole,  il  nostro  integrale  è  negativo  ;  e 
per  il  suo  valore  assoluto  si  possono  ripetere  le  precedenti  con- 
siderazioni. 

5)  Se  l'intervallo,  a  cui  è  esteso     f{x)  dx,  fosse  un  intervallo, 

in  parte  del  quale  la  f(x)  è  positiva,  e  in  parte  del  quale  la 
f{x)  è  negativa,  o  anche  se  in  una  parte  deirintervallo  la 
y  =  f(x)  volge  la  concavità  all'asse  delle  x,  mentre  nell'altra 
parte  volge  la  convessità,  allora  supporremo  (come  avviene  sempre 
nei  casi  comuni)  che  l'intervallo  si  possa  dividere  in  un  numero 
finito  di  intervalli  parziali,  in  ciascuno  dei  quali  la  fix)  ha 
un  segno  costante,  e  la  y=:if{x)  volge  la  concavità  sempre  da 
una   stessa   parte,    cioè  p.  es.,  anche  f"  {x)  ha  segno  costante 


324  CAPITOLO   XV   —   §    98 

(potendo  esser  nulla  agli  estremi  delFintervallo  parziale  consi- 
derato). Si  applicano  a  ciascuno  di  questi  intervalli  parziali  i 
metodi  precedenti.  La  somma  dei  valori  approssimati  in  difetto 
così  ottenuti,  e  la  somma  dei  valori  approssimati  per  eccesso 
costituiranno  un  valore  approssimato  in  difetto,  e  un  valore 
approssimato  per  eccesso  del  nostro  integrale. 

e)  Il  metodo  precedente  si  può  generalizzare,  dividendo  (a,  6) 

in  2  n  parti  c^i,  dr,  d?„ ,  6?2n-i,  à-in  non  tutte  uguali  tra  di  loro, 

ma    soltanto   tali    che   di  =  d^,  d's  =  di, ,  djn-i  =  ^2«.  Detti 

ancora  ^2,  a-^, ,  a2n  i  punti  di  divisione,  si  possono  ripetere  le 

precedenti  considerazioni,  purché  alle  (1),  (2)  si  sostituiscano  le: 

,^  ^.V^.  ^  rj^.^  ^  ,^  ^^.  ^  ^,^  ^  

-i-i.^-.f-'^^-'  +  ^^^^^^y^-);      (D- 

2  {di  y.>   -f-  d;  ìji   -f-   C?2n-1  ^2n).  (2)  1>i« 

Queste  formole,  più  incomode  al  calcolo  numerico  delle  (1), 
(2),  danno  però  approssimazioni  migliori,  quando  si  abbia  cura 
di  disegnare  molti  intervallini  parziali  in  corrispondenza  ai  tratti, 
ove  la  nostra  curva  si  allontana  rapidamente  dalla  sua  tangente. 

Q  Si  può  usare  anche  una  sola  di  queste  formole,  quando 
però  si  sappia  apprezzare  l'errore  commesso.  Indicati  ancora 
con  a«  i  punti  di  divisione  (cosicché  aii±.\^=- c^^i  —  d^^,  posto 
^^  =  f(a^  e  y\  =  f  (a,),  sarà  per  la  formola  di  Taylor-Lagrange 

y2i±zi  =  fiali  ±  d2i)  =  y-2i  ±  d2i  y2i  -+-  —  ^'2.-  hi±\  dove   le  ^ 

sono  valori  intermedii  di  y" .  Poiché  d2i^==d>i-i,  il  valore  asso- 
luto della  differenza  tra  (l)i,is  e  (2)bis  (a  cui  tale  errore  non 
può  essere  superiore)  non  supera  (supposto  finito  il  limite  supe- 
riore IT  di  \y"  \)  -^  H{d^  4-  di'  -f-  .....  +  d2n)'  Se,  p.  es.,  i  d 

2  IR     ' 

sono   tutti    uguali    tra   loro,    e    quindi   a  -—  ,    tale  errore  non 
TT-Di  2  n 

supera— — ,  che  tende  a  zero  joer  n  =  00  (cfr.  questo  §  98,  a, 
8  n 

pag.   322). 

Y])  Le  (1),  (2)  si  prestano  bene  ad  un  calcolo  meccanico  ; 
le  (l)bi8,  (2)bis,  oltre  alle  più  semplici  (1),  (2)  si  prestano  anche 
a  un  calcolo  grafico. 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.        325 

Si  giunge  a  un  procedimento  meccanico,  osservando  che  le 
somme  y.  -+-  ^a  + +  y.n  e  y.  +  ?/4  +  y%  + 4-  y.^n,  che  com- 
paiono nelle  (1),  (2)  si  calcolano  facilmente  così  :  Una  rotella  R 
munita  di  un  contagiri  sia  fatta  rotare  senza  strisciare  sul 
foglio  F  del  disegno  in  guisa  che  il  punto  di  contatto  descriva 

successivamente   uno  o   più   segmenti   (p.   es.,    i/o,  y-^,  ,  y-in)- 

Il  numero  N  dei  giri  compiuti  da  R  (che  si  legge  sul  contagiri) 
sarà   uguale   ad   una  certa    costante   k   (dipendente    dalla  data 

rotella  ;  è  k  =^  - —  ,  se  r  è  il  raggio  di  i^  ed  è  ^^  =  1  se  r  =  —  ) 

moltiplicata  per  la  somma  delle  lunghezze  dei  segmenti  descritti  ; 
cosicché  questa  somma  (p.  es.  nel  caso  citato  la  y-2  -hy^  -\-  ...-4-;/2n) 

varrà  -r-  JV^;  e  si  otterrà  con  una  semplice  lettura  di  N  (anzi  una 
k 

opportuna  graduazione  può  permettere  di  leggere  sullo  strumento 

addirittura  il  numero  -j-  N).  E  il  calcolo  dei  valori  approssimati 

del  nostro  integrale  si  compie  allora  con  la  massima  rapidità. 
Si  giunge  a  un  metodo  grafico,  osservando  che  il  prodotto  e 
dei  numeri  a,  b  (che  siano  misura  di  certi  segmenti,  che  indi- 
cheremo pure  con  a,  h)  è  la  misura  di  quel  segmento  e  tale 
che  e  l  a^=^h  \  \,  dove  con  1  indico  anche  il  segmento  scelto 
come  unità  di  misura.  La  teoria  dei  triangoli  simili  insegna 
subito  a  disegnare'  il  segmento  e  Ora,  p.  es.,  la  (2)bis  è  somma 
di  più  termini,  ciascuno  dei  quali  è  prodotto  delle  misure  di  due 
segmenti,  e  per  cui  è  quindi  applicabile  il  metodo  precedente  (*). 


(*)  Riferendoci  alla  fig.  3G  di  questo  §  98,  j?,  pag.  323,  si  indicheranno  con  P 

il  punto  dell'asse  delle  x,  che  ha   per  ascissa  —  1,  con  B^,^  B^, le  proiezioni  di 

A^,A^,  sull'asse  delle  y,  con  c^,,  d.^,  d^,  i  segmenti  a,  a.,,  a.,  «3,  «3^4,  

E  si  supponga  soltanto  di  ~  d.^,  ^3=  ^4,  ecc.  (anche  se  e?,,  d^,  sono  differenti 

tra  loro).  Indichiamo  con  a\  il  punto  ove  la  parallela  tirata  da  a,  a  PB^  incontra 

«3  A^  ;  con  a's  il  punto  ove  la  parallela  tirata  da  a\  a  PJ?4  incontra  cir,  A^, :  con 

a'u  +  i  il  punto  ove  la  parallela  tirata  da  a'zn-ì  alla  PB>n  incontra  aon+ì  A2,!-\-ì  • 
Dico  che  il  segmento  ^^«-f  1  a'2u-i-i  vale  la  somma  (2)bis. 

Infatti,  posto  «',  —  «,,  si  tirino  da  a'2,-1  una  parallela  all'asse  delle  x,  da 
a'ìt^i  la  parallela  all'asse  delle  y  (nella  figura  è  i~2).  Queste  rette  insieme  alla 

a'2/-i  «'2/4-1  formano  un  triangolo  simile  al  triangolo  POJ52/ (per  i=:l,2, ,n). 

E  se  ne  deduce  che  la  differenza  tra  le  ordinate  di  «'2^-1-]  e  a'^i-  1  sta  a  d2i-i  •+■  da 
Come  OB2i  =  t/2c  sta  a  P0  =  1,  ossia  che  tale  differenza  vale  2y2id2c-ì,  che  è  un 
termine  di  (2)ihs. 

La  somma  di  tutte  queste  differenze,  cioè 

{a2H  +  i  a'-2H-^ì  —  ao,i--[  a'2n-ì)  -+-  («2,^-1  a'2.^-1  —  a2«-3  a'>n-:ì)  -+- 

-f  («5  «^'5  —  «3  «'3)  +  (^:J  ^^'3  —   «.   «'l)» 

cioè  a2H-\-\  a'2>i-\-ì  (il  lettore  ricordi  che  a^  a\  =.0)  vale  dunque  la  somma  (2)bis, 
come  dovevasi  provare. 


326  CAPITOLO  XV  —  §  98-99 

o)  Esistono  altri  metodi  di  calcolo  approssimato  di  tipo 
analogo  :  uno  di  essi  consiste  nel  sostituire  alla  funzione  y  =  f{x) 
la  funzione  y  ^=:p(x),  àoye  p{x)  è  un  polinomio  di  grado  m  —  1, 
che  in  m  punti  dell'intervallo  (a,  b)  assume  lo  stesso  valore  che 
fix),  (per  il  calcolo  di  tale  polinomio  cfr.  §  27,  pag.  90  e 
pag.  48)  e  dove  m  è  un  intero  abbastanza  grande. 

Oppure  si  può  dividere  Fintervallo  totale  (a,  h)  in  r  inter- 

vallini    parziali    li,  U,  ?,,    applicare    a    ciascuno    di    questi 

intervallini  il  nostro  metodo,  sostituendo  in  li  alla  f{x)  un 
conveniente  polinomio  pi{x)  di  grado  nii  —  1,  che  in  m»  punti 
di  li  coincida  con  f(x),  e  infine  calcolare  l'integrale  di  pi{x) 
esteso  ad  l,  e  sommare  gli  integrali  così  trovati. 

Il  metodo  dei  rettangoli  coincide  con  questo,  quando  si  sup- 
ponga m»  =  1 . 

Il  metodo  dei  trapezi  si  ottiene  supponendo  mi  =  2. 

Il  metodo  dei  trapezi  inscritti,  da  noi  svolto  più  sopra,  coincide  con  questo, 
quando  suppongo  r  =  2n,mi  —  2,  e  ogni  polinomio  (di  primo  grado)  p/  {x)  sia 
supposto  uguale  ad  f{x)  agli  estremi  del  corrispondente  intervallino.  Il  metodo  dei 
trapezi  circoscritti  si  deduce  dall'attuale,  supponendo  r  —  w,  m/ —  2,  e  facendo 
tendere  al  punto  di  mezzo  di  h  =  2  dn  =-  2  die  _  i  i  due  punti  di  li,  ove  si  suppone 
f{x)—pi{x).  In  entrambi  i  casi  le  linee  y  —  p,  (x)  sono  rette  (corde  o  tangenti). 
Se  invece  m,-  =  3,  le  if=p,{x)  sono  parabole.  Supposti,  p.  es.,  gli  Z^  tutti  uguali 

a  —  ,  posto  r  =  n,  supposto  f{x)—-pt{x)  agli  estremi  a2i-\,  «2/4.1   di  h  ed  al 

punto  di  mezzo  azi  di  l,  posto  y,=  f{as),  il  contributo  portato  da  li  (cioè  l'in- 
tegrale   di  pc{x)   tra   i    limiti    «-«-i,    a^i-^i)    si   calcola    facilmente   uguale    a 

x> 

- —  (2/2/- 1  +  y^i-k- 1  -f-  4V2?].  La  somma  di  questi  contributi  per  i  =  1, 2, ,  w  è  un 

o  n 

nuovo  valore  approssimato  del  nostro  integrale.  Anche  questo  metodo  si  può  va- 
riare nei  modi  più  molteplici. 

Il  lettore  applichi  quanto  precede  a  qualche  esempio  nume- 
rico. Per  altri  metodi  meccanici  cfr.  gli  ultimi  §§  di  questo  libro. 

§  99.  —  Metodi  e  locuzioni  abbreviate. 

a)  Di  locuzioni  non  precise,  ma  comode,  e  che  si  possono 
intendere  soltanto  come  modi  abbreviati  di  enunciare  conside- 
razioni precise  ma  più  lunghe,  abbiamo  già  discorso  altrove 
(§  54,  pag.  177).  Tali  modi  di  esposizione  si  applicano  pure 
nel  calcolo  integrale. 

Per  i  teoremi  dei  paragrafi  96  e  96^^*  si  può  definire  1  F{x)  dx 

nel  modo  seguente  : 

Si  divida  l'intervallo  (a,  h)  in  più  intervallini  parziali  B^  (la 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.        327 


cui  misura  si  prenderebbe  negativa  se  a  >  ò)  e  la  cui  ampiezza 
faremo  poi  tendere  a  zero  (*). 

In  uno  di  questi  intervallini  la  F  (x)  avrà  generalmente 
infiniti  valori.  Moltiplichiamo  .5^  per  uno  di  questi  valori  Fi 
scelto  ad  arbitrio. 

Il  lim  S  5,  Fi  è  integrale  cercato. 

Ecco  invece  come  confronto  le  locuzioni  a  cui  si  è  accennato 
più  sopra. 

Dividiamo  l'intervallo  {a,  b)  in  infiniti  intervallini  parziali 
infinitesimi  §,  (la  cui  misura  si  prenderà  positiva,  se,  come 
supponiamo,  ò  >  a).  In  ciascuno  di  questi  intervallini  infinite- 
simi la  F{x)  si  potrà  considerare  come  costante.  La  somma  ^ì^ìFì 
degli  infiniti  prodotti  ottenuti  moltiplicando  l'ampiezza  di  uno  di 
questi  intervalli  per  il  corrispondente  valore  di  i^  è  l'integrale 
di  Fix)  da  a  a  b. 

Per  dedurne  che,  se  si  considera  b  come  variabile,  la  derivata 
di  questo  integrale  rispetto  alla  b  è  proprio  uguale  a  F(b),  si 
procede  nel  seguente  modo,  che  noi  considereremo  al  solito 
soltanto  come  una  esposizione  abbreviata.  Si  dia  alla  b  un  incre- 
mento infinitesimo  db,  che,  per  fissar  le  idee,  supporremo  positivo 
(come  supponiamo  positiva  la  differenza  b. —  a).  L'intervallo 

(a,  b-h  db)  —  {a,  b)  -h  (6,  b  -f-  db) 

e  uguale  alla  somma  degli  intervallini  B^-  e  dì  db  ;  perciò  l'inte- 
grale relativo  ad  esso  è  uguale  a  S  8,-  Fi  -f-  F  (b)  db  [poiché  in 
{b,b-{-db)  la  F  (x)  si 
può  pensare  conservi  il 
valore  costante  F  {b)\ 
L'incremento  ricevuto 
dal  nostro  integrale 
e  così  F  (b)  db,  e  la 
sua  derivata  è  quindi 
F{b).  e.  d.  d. 

Per  dimostrare  poi, 
p.  es.,  che  l'area  del 
rettangoloide  ABB'A' 
(fig.  37)  è  uguale  al 
solito  integrale  defi- 
nito, si  osservi  che  la  divisione  di  AB'  =  (a,  b)  in  infiniti  inter- 
vallini infinitesimi  B  definisce  la  divisione  del  nostro  rettangoloide 


/!'/-»' a J. 


J5'At^^^ 


Fig.  37. 


(^0   Con   ciò   s'intende   che  il  più  lungo  degli  intervallini  parziali  abbia  una 
misura,  che  facciamo  tendere  a  zero,  variando  il  sistema  di  divisioni. 


328 


CAPITOLO   XV 


§  99 


in  infiniti  rettangoloidi  parziali  infinitesimi.  In  ciascuno  di  essi 
la  y  si  può  considerare  come  costante  ;  cosicché  il  lato  opposto 
all'asse  delle  x  si  può  considerare  come  un  segmento  parallelo  ai- 
Tasse  delle  X.  L'area  di  tale  rettangoloide  parziale  è  perciò  S,  Fi  ; 
e  il  rettangoloide  totale  ha  quindi  per  area  ^ì^ìFì,         c.  d.  d. 

P)  Ma  osserviamo  un  po'  più  precisamente  le  locuzioni  sopra 
esposte.  La  frase  Dividiamo  (a,  b)  in  infiniti  intervallini  infini- 
tesimi traduce  proprio  la  stessa  idea  che  noi  enunciamo  dicendo  : 
Dividiamo  {a,  h)  in  intervallini  ^i,  che  facciamo  tendere  a  zero 
ossia  che  rendiamo  infinitesimi  (facendone  contemporaneamente 
crescere  il  numero  all'infinito). 

Più  istruttivo  è  invece  l'esame  della  seconda  parte  delle 
precedenti  definizioni  e  dimostrazioni.  Vi  si  dice:  In  ciascuno 

degli  intervalli  infini- 
tesimi ^i  la  F  (x)  si 
può  considerante  come  co- 
stante. Da  un  punto  di 
vista  empirico  questa  as- 
serzione si  potrebbe  giu- 
stificare così  (fig.  38). 
Se,  p.  es.,  i  segmentini 
^i  sono  i  più  piccoli  seg- 
menti che  noi  riusciamo 
a  disegnare,  e  se  noi  al 

^'/  j^/ -^7 pezzo    CD   della   curva 

yz=iF(x),  che  si  prò- 
^'     '  ietta  in  uno  di  tali  seg- 

mentini ^i  =  C'D\  sostituiamo  il  segmento  CP  parallelo  all'asse 
delle  X  tirato  da  G,  e  che  è  rappresentato  da  un'equazione 

y  r=  COSt., 

seguito,  se  vogliamo,  dal  segmentino  PD,  la  spezzata  così  otte- 
nuta coincide  quasi  con  la  nostra  curva,  in  quanto  che  il  nostro 
occhio  può  forse  appena  distinguere  la  curva  dalla  spezzata. 

Ma  d'altra  parte,  quando  si  considera  in  5^  la  y  come  co- 
stante, si  sostituisce,  il  rettangolo,  che  ha  per  base^t  e  per  lato 
opposto  il  segmento  CP,  al  rettangoloide  parziale  che  ha  per 
base  Si',  e  si  trascura  così  il  triangoletto  curvilineo  DPC.  Vediamo 
come  si  può  prevedere  in  modo  diretto  che  il  trascurare  tali 
triangolini  non  conduce  ad  errori.  Supponiamo  per  semplicità  che 
la  F{x)  abbia  nell'intervallo  (a,  6)  un  minimo  m  =1- 0.  Il  trian- 
golino DPC  è  evidentemente  interno  al  rettangolo,  che  ha  per 


GLI  INTEGRALI  DEFINITI  E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC.       329 

base  CP  e  per  altezza  la  differenza  Mi  —  mi  tra  il  massimo  e 
il  minimo  di  F {x)  in  B^;  ed  ha  quindi  un'area  ai  inferiore  a 
{Mi  —  Mij^i.  Il  rettangolo  che  ha  per  base  B^  e  per  lato  op- 
posto  CP  ha  un'area  Ai  non  inferiore  a  m  S^.    Il  rapporto   — ^ 

Ai 

dell'area  di  uno  dei  nostri  triangolini  al  corrispondente  rettan- 

M^- TYl' 

golo  non  supera  quindi  — ^ ^• 

m 

Ora,  scegliendo  i  \  abbastanza  piccoli,  noi  sappiamo  (§  40, 
pag.  135,  e  §  63,  pag.  197)  che  si  possono  rendere  tutte  le 
Mi  —  mi  e  perciò  anche  tutti  questi  rapporti  minori  di  un  nu- 
mero £  prefissato  ad  arbitrio.  Dunque  non  solo  le  a^  sono  infini- 
tesimi di  ordine  superiore  rispetto  alle  Ai,  ma  an^i  si  possono 

rendere  i  rapporti  —^contemporaneamente  minori  di  un  nu- 
mero £  prefissato  ad  arbitrio. 

È  facile  dimostrare  in  tale  ipotesi  che 

lim  [S  A- —  S  U, -f- aO]  =  0. 

Infatti,    scelti  i  B^  così   piccoli  che 

S  ai 

^Ai 

quindi,  supposto,  come  nel  caso  nostro,  che  le  2  A,-  siano  numeri  limi- 
tati, inferiori  cioè  ad  una  costante  finita,  lim  [S  (^^-f-  a^)  — S  ^  J  =  0 
come  dovevasi  dimostrare. 

È  trovato  così  un  nuovo  caso  (§  52,  pag.  172),  in  cui  è 
lecito  trascurare  gli  infinitesimi  di  ordine  superiore. 


£,    sarà   anche 


Ai 


330  CAPITOLO   XVI    —   8    100 


CAPITOLO  XVI. 
FUNZIONI  ADDITIVE   GENERALI  E  INTEGRALI   MULTIPLI 


§  100.  —  Funzioni  additive  e  loro  derivate. 

a)  Se  J  è  un  intervallo,  o  una  figura  piana  (*),  o  un  so- 
lido, noi  diremo  che  S  {'z)  è  una  funzione  additiva  dei  pezzi  t  (**) 
di  I,  se  i^er  ogni  pezzo  i  di  I  esiste  uno  e  un  solo  valore 
di  S;  e  se  in  jnii,  quando  x  è  somma  di  due  punti  i\  x\  è 
S  (T)  zm  S  (t')  +  S  (x '). 

Così,  se  I  è  un^  sbarra,  o  una  lamina  piana,  o  un  solido 
pesante,  il  peso  m  di  un  pezzo  t  di  7  è  funzione  additiva  di  t. 

Così,  se  I  è  una  lamina,  o  un  corpo  elettrizzato,  la  com- 
ponente, p.  es.,  sull'asse  delle  x,  dell'attrazione  che  un  pezzo  x 
di  I  esercita  su  un  punto  elettrizzato  M  è  una  funzione  addi- 
tiva di  T. 

Dall'esame  della  figura  composta  di  due  soli  punti  materiali, 
la  Meccanica  induce  il  seguente  teorema:  Se  1  è  una  lamina 
0  un  corpo  ^esayite,  il  peso  m  di  un  suo  pezzo  i  moltiplicato 
per  una  coordinata,  p.  es.  V ascissa  x,  del  centro  di  gravità  di  x 
è  una  funzione  additiva  X  (t)  della  t.  Cosicché  V ascissa  x  del 
centro  di  gravità  appare  come  quoziente  delle  X,  m  :  entrambe 
funzioni  additive  di  x. 

Più  avanti  vedremo  che  la  ricerca  della  lunghezza  di  una 
curva  e  dell'area  di  una  superficie  sghemba  si  riducono  al  cal- 
colo di  speciali  funzioni  additive.  Bastino  questi  esempi  ad 
illustrare  l'importanza  di  tali  funzioni  ! 


(*)  Si  potrebbero  anche  considerare  degli  I  che  fossero  un  pezzo  di  una  linea, 
0  di  una  superficie  qualsiasi,  p.  es.,  un  arco  I  di  cerchio,  o  un  poligono  sferico  I. 

(**)  Ci  limiteremo  a  considerare  quei  pezzi  z  di  7,  che  posseggono  una  misura 
(p.es.,  lunghezza,  area,  volume).  Per  il  significato  delle  parole:  figura  piana,  suo 
contorno,  ecc.,  cfr.  l'osservazione  a  pag.  25.  Noi  ci  limiteremo  sempre  a  figure  piane 
0  solide,  il  cui  contorno  è  formato  da  un  numero  finito  di  linee  b  superficie,  rap- 
presentabili con  equazioni,  i  cui  membri  sono  finiti  e  continui  con  le  loro  derivate. 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI        331 

3)  Il  seguente  esempio  ha  per  noi  una  specialissima  impor- 
tanza. Sia  z^=^  F{x,  y)  l'equazione  di  un  pezzo  K ^ì  superficie; 
sia  i^^O;  sia  I  la  proiezione  di  K  sul  piano  xy. 

Sia  F(x,y)  continua.  Chiamiamo  cilindroide  la  figura  so- 
lida limitata  da  K,  da  I  (base  del  cilindroide)  e  dal  cilindro 
proiettante  il  contorno  di  K  sul  contorno  di  L 

Ogni  pezzo  t  di  7  sarà  base  di  un  cilindroide  parziale:  luogo  di 
quei  punti  del  cilindroide  iniziale,  che  si  proiettano  sul  piano  x  y 
in  punti  di  t.  Il  volume  S  (t)  di  tale  cilindroide  parziale  (o,  se 
tal  volume  non  fosse  definito,  il  volume  interno  oppure  il  volume 
esterno  di  tale  cilindroide)  è  una  funzione  additiva  di  x. 

Infatti  se  T  è  somma  dei  due  pezzi  Xi,  T2,  allora  il  cilindroide 
parziale  di  base  x  è  somma  di  cilindroidi  aventi  per  base  Xi, 
oppure  X2.  (Per  i  volumi  interni  od  esterni  cfr.  quanto  si  disse 
per  l'area  esterna  od  interna  di  un  rettangoloide  a  pag.  25). 

Y)  Se  iS(x)  è  una  funzione  additiva  dei  pezzi  x  di  J,  e 
se  X  è  la  misura  (*)  (p.  es.,  lunghezza,  area,  volume,  ecc.)  del 

pezzo  X,    allora    può    darsi   che   il   rapporto tenda   ad  un 

limite  finito,  quando  tutti  i  punti  di  x  si  avvicinano  a  un 
punto  ^  di  7.  Se  tale  limite  esiste  per  tutti  i  'punti  A  di  J,  esso 
é  una  funzione  F  delle  coordinate  del  punto  A.  (Cioè  esso  non  é 
più,  come  S  (x),  una  funzione  del  campo  x,  ma  soltanto  una 
funzione  delle  una,  due  o  tre  coordinate  del  punto  A).  Se  questa 
funzione  F  è  continua,  noi  la  chiameremo  derivata  di  S  (rispetto 
a  x)  e  scriveremo  S'r  =  F.  Se,  p.  es.,  I  è  una  figura  pesante,  e 
se  S  (x)  è  il  peso  del  pezzo  x,  allora  F  è  la  densità  nel  punto  A. 

Es.  I.  Se  aS'(x)  è  il  volume  del  precedente  cilindroide  par- 
ziale, si  dimostra  (analogamente  a  quanto  si  è  fatto  a  pag.  311 
per  i  rettangoloidi)  che  la  sua  derivata  in  un  punto  A  vale 
precisamente  il  valore  in  questo  punto  di  z  =  F{x,y). 

Es.  II.  Così  sia  I  una  lamina  o  un  corpo  pesante;  assu- 
miamo come  misura  x  di  un  suo  pezzo  x  non  già  l'area  o  il 
volume  di  x,  ma  precisamente  il  peso  x  di  x  (**).  Sia  X(x)  quella 
funzione  additiva  di  x,  che  è  uguale  al  prodotto  del  peso  x  di  x 
per  l'ascissa  Xg  del  suo   centro    di   gravità.   La  X(x)  =  xxv  è 


(*)  Indicheremo  quasi  sempre  con  la  stessa  lettera  un  campo,  e  la  sua  misura. 

(**)  Anche  comunemente  è  molteplice  il  modo  di  definire  la  misura  di  un  corpo 
(p.  es.,  il  volume,  il  peso,  il  prezzo  di  esso).  In  generale  si  può  assumere  comò  mi- 
sura di  T  ogni  funzione  additiva  e  positiva  di  t. 


332  CAPITOLO  XVI  —   §    100-101 

una   funzione    additiva   di  t.    Notiamo  che   — ^  :=  x,,  è  com- 

presa   tra   il   massimo  e  il   minimo   valore    che   ha   l'ascissa  x 

di  un  punto  di  x.  Quindi,  se  tutti  i  punti  di  t  tendono  ad  uno 

X(i) 
stesso   punto  A  di  t,  il  lim vale  precisamente  l'ascissa   r 

del  punto  A.  Cioè  a;  è  la  derivata  della  'nostra  funzione  X(t). 
Es.  III.  Sia  I  una  parete  piana  verticale  di  una  vasca 
piena  di  acqua  (un  bacino  di  carenaggio,  p.  es.).  La  pressione 
che  tale  acqua  esercita  su  un  pezzo  t  di  /  è  quella  funzione 
additiva  di  i,  la  cui  derivata  in  un  punto  A  ài  I  vale  la 
distanza  da  A  al  pelo  libero  dell'acqua  stessa. 

Es.  IV.  Sia  I  una  curva  del  piano  xy:  supponiamo  che 
i  punti  di  I  siano  in  corrispondenza  biunivoca  con  la  loro 
proiezione  sull'asse  delle  x.  Assumiamo  come  misura  t  di  un 
pezzo  T  di  I  la  lunghezza  della  sua  proiezione  sull'asse  delle  x. 
Se  M{x,7/)  è  una   funzione    continua    delle  x,  y  in   tutta   una 

regione    contenente  I  all'interno,    allora  lo  |  M(x,  y)  dx  esteso 

a   un   pezzo  t  di  J  è    quella    funzione    additiva    di   i,    che    nei 
punti  di  I  ha  M{x,  y)  per  derivata. 

Oss.  È  perfettamente  lecito  definire  nel  modo  qui  enunciato 
la  misura  t  di  un  pezzo  i  di  I,  perchè  vengono  rispettate  le 
proprietà  essenziali  di  una  misura  (che  un  pezzo  t  di  i  somma 
di  due  pezzi  i' ,  t"  ha  per  misura  la  somma  delle  misure 
di  i\  t",  ecc.).  (Cfr.  la  precedente  nota  a  pie  di  pagina). 


§  101.  —  Estensione  dei  principali  teoremi 
del  calcolo  differenziale. 

oc)  Per  queste  derivate  si  possono   estendere   molti   teoremi 

di  calcolo.  Bisognerebbe,  per  restare  nel   campo   piii   generale, 

limitare  un  po'  il  tipo  di  campi  t,    per  i  quali  si  costruiscono 

S  dì 
i  rapporti  ,  che  compaiono   nella   definizione  di   derivata. 

Questa  generalità  è  però  inutile  a  noi  che  supponiamo  la  deri- 
vata F  continua.  Noi  estenderemo  il  teorema  della  media. 
Se  S  (t)  possiede   derivata  F  continua  in  ogni  punto  di  I 

S  (t) 
(inclusi  i  punti  del  contorno  di  7),  allora  è  compreso  tra 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI         333 

il  limite  superiore  L  e  Vinferiore  I  dei  valori  della  derivata  F 
nei  punti  di  x  (*). 

Se,  p.  es.,  Sij.)  è  il  peso  del  pezzo  t,  allora è  la  densità 

T 

media  di  t  ;  e  tale  teorema  ci  dice  (precisamente  come  nel  caso 
delle  sbarre)  che  la  densità  media  di  un  pezzo  t  non  può  supe- 
rare il  massimo  (o  il  limite  superiore),  né  essere  inferiore  al 
minimo  (o  limite  inferiore)  della  densità  nei  varii  punti  del  pezzo 
considerato. 

Dimostriamo,  p.  es.,  che  non  può  essere  — f^  =  Z  -+-  s  con  t  >  0.  Diviso  infatti 
'  in  due  campi  parziali  r,  e  -\ ,  sarebbe  S(')  =  S  (-,)  +  S  (t',)  ;  cosicché 

'  'l  ■+■  '  1 

Poiché  _,     . —    iion  può  superare  la  più  grande  delle  — ^-^  »  — V-'-  ' 

S  ('  ) 
una  di  queste  frazioni,  p.  es.  la     ^''   ,  sarà  non  minore  dì  L-ht.  In  ^j  esisterà, 

come  si  dimostra  in  modo  analogo,  un  campo  -^2  ^^^^  che  — -^  =iL-h-.  E  così  via. 

E  facile  dare  una  legge  di  divisione  dei  successivi  campi  -,  t,,  t^,  ecc.,  in  campi 
parziali  così  che  esista  uno  e  un  solo  punto  A  interno  a  tutti  i  campi  r,  t,,  r^,  ecc. 

S(r  ) 

La  derivata  di  S{-)  in  A,  cioè  lim  ^  '  non  potrà  dunque  essere  inferiore  ad  i  -h  ^  : 
ciò  che  è  assurdo,  perchè  i  è  il  limite  superiore  dei  valori  di  tale  derivata  in  tutto  t. 

^)  Possiamo    anche    estendere    la    nozione   di   differenziale. 

S  ('z) 
Se  i^  è  la  derivata  di  S,  il  lim ,  quando  tutti  i  punti  di  x 

tendono  a  un  punto  A,  0,  come  diremo,  per  'z  =  A,  vale  il  valore 

F{A)  della  F  nel  punto  A.  Cosicché  lim  f"^  —  FU)]  =  0. 

Potremo  dunque  scrivere: 

dove  £  tende  a  zero  per  z  =  A,  ossia 

•   S(z)=F(A)'z  -f-£x. 


(*)  Si  potrebbe  provare  che  — ^  è  proprio  uguale  al  valore  di  F  in  un  punto  A 

di  T,  se  il  valore  di  S  corrispondente  a  uno  strato  (pezzo  limitato  da  due  rette  0 
piani  paralleli)  di  I  tendesse  a  zero  col  tendere  a  zero  dello  spessore  dello  strato. 
Ma  queste  considerazioni  hanno  importanza  soltanto  per  quegli  studii  più  generali, 
a  cui  abbiamo  accennato,  che  riguardano  funzioni  F  non  continue. 


334  CAPITOLO   XVI   —   §   101 

Il  primo  addendo  ì^(^)tsì  dirà  il  differenziale  della  S,  e 
si  indicherà  con  dS.  Noi  porremo  perciò  per  definizione 

dS=F{A)i. 

Se  >S'  =  Tj  se  cioè  ^S'  coincide  addirittura  con  la  misura  di  t, 
la  sua  derivata  sarà  sempre  uguale  ad  1.  Cosicché  il  suo  diffe- 
renziale sarà  dato  dalla  : 

(Zt  =  T. 

E  la  precedente  equazione  diventa  : 

dS  =  FU)  di    ,     ossia  FU)  =  §^'  * 

Anche  in  questo  caso  la  derivata  si  può  considerare  come 
un  quoziente  di  differenziali. 

Y)  è  appena  necessario  avvertire  che  alle  derivate  delle  fun- 
zioni additive  si  possono  generalizzare  i  teoremi  relativi  alla 
derivazione  di  una  somma,  di  una  differenza  (*).  Noi  ci  limite- 
remo qui  a  dare  un  cenno  della  generalizzazione  del  teorema 
di  derivazione  di  una  funzione  di  funzione. 

Siano  I  ed  H  due  campi,  i  cui  punti  sono  in  corrispondenza 
biunivoca  ;  con  t  indichiamo  sia  i  pezzi  di  J,  che  la  loro  misura  ; 
con  k  sia  i  pezzi  di  H  che  la  loro  misura.  Sia  8(1)  una  ftm- 
zione  additiva  dei  pezzi  t  di  I;  poiché  ad  ogni  pezzo  k  dì  H 
corrisponde  un  pezzo  t  di  7,  ad  ogni  pezzo  di  k  di  Tf  corrisponde 
un  valore  di  S(i).  Cioè  S  si  potrà  considerare  anche  come 
funzione  additiva  dei  pezzi  k  di  H. 

La  misura  t  di  quel  pezzo  t  di  Z,  che  corrisponde  ad  un 
pezzo  k  di  H  è  anch'essa  una  funzione  additiva  di  k.  Suppor- 

remo  che  esista  la  sua  derivata  —  • 

d  S     dS 
Che  relazione  passa  tra  le  derivate  —  '  —  della  S,  pensata 

come  funzione  dei  t  0  dei  k  ? 

Come  per  le  funzioni  di  una  sola  variabile,  si  dimostra  che  : 

db       do  di        .  .       ,       .         •      ix  1  \  cif        ^'   ci' 

—-:=-——-.  0  (come  SI  può  scrivere  in  altro  modo)  b k^=^ k  o^. 
dk       (f  T  dk  ^ 

ossia  che  anche  nel  caso  attuale    i  calcoli   coi  differenziali   di^ 

dS,  ecc.  si  effettuano  con  le  stesse  regole  usate  pei  differenziali 

di  una  variabile,  e  si  possono  ripetere  considerazioni  analoghe 

a  quelle  del  §  59,  pag.   187. 


(*)  È   appena   da  avvertire  che  prodotto  0  quoziente  di  due  funzioni  additive 
può  non  essere  una  funzione  additiva. 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI         335 

S)  Diamo  un'applicazione  specialmente  importante  dell'ultima 
formola.  I  campi  I  eà  H  sieno  addirittura  sovrapposti  ;  e  noi 
conveniamo  di  considerarli  distinti,  perchè  conveniamo  di  definire 
in  modo  diiferente  la  misura  di  un  loro  pezzo,  secondo  che 
questo  pezzo  è  considerato  come  parte  di  t  di  /,  o  come  parte  k 
di  H.  Se,  p.  es.,  1=^11  è  un  corpo  o  una  lamina  pesante, 
come  misura  t  di  un  suo  pezzo  potremo  assumere  la  sua  misura 
geometrica  (area  o  volume),  come  misura  k  il  suo  peso. 

Se,  p.  es.,  X(k)  è  quella  funzione  additiva  di  un  suo  pezzo  ^, 

che  è  uguale  al  prodotto  del  peso  k  del  pezzo  considerato  per 

l'ascissa  x  del  suo  centro  di  gravità,  la  derivata  X'j,  in  un  punto  A 

vale  precisamente  l'ascissa  x  di  tale  punto  (pag.  332).  D'altra 

dk 
parte  la  derivata  -—  in   ^   è    uguale   alla   densità    p   in  questo 
al 

punto.  Quindi,  se  noi  consideriamo  X  come  funzione  di  t,  si  ha: 

k\  =  p;  X\  =  k\X\  =  px, 

Quindi  :    L'ascissa   x    del  centro  di  gravità  di  un  ^lezzo  x 

X  (t) 
di  I  vale  il  quoziente  di  - — r  ,  cioè  di  due  funzioni   additive 

la  cui  derivata  vale  rispettivamente  px  e  p  (se  p  è  la  densità). 

Esempio.  . 

Sia  I  una  massa  attraente  con  la  legge  di  Newton.  Il  poten- 
ziale dovuto  a  un  suo  pezzo  i  in  un  punto  esterno  M  è  quella 
funzione  additiva  di  t,  la  cui  derivata  in  un  punto  A  ^\  1  vale 

p 

-,  se  p  è  la  densità,  r  la  distanza  AM. 


§  102.  —  Generalizzazione  dei  teoremi  fondamentali 
del  calcolo  integrale. 

Sia  /  un  campo  ad  una  o  pili  dimensioni.  Sia  F  una  funzione 
continua  delle  coordinate  di  un  suo  punto.  Con  considerazioni  ana- 
loghe a  quelle  dei  §§  96  e  96^^^*  (in  cui  si  sostituisca  alla  consi- 
derazione dell'area  di  un  rettangoloide  quella  del  volume  di  un 
cilindroide,  oppure  quella  del  peso  di  un  corpo  o  di  una  lamina 
pesante  o  un  altro  esempio  di  tipo  analogo)  si  dimostra  che  : 

I.  Esiste   una    e  una   sola   funzione   additiva   S  (x)    dei 
pezzi  T  di  /,  che  ha  per  derivata  la  data  funzione  continua  F. 


336  CAPITOLO   XVI   —   §    102 

IL  II  valore  S  (x)  eli  tale  fundone  corrispondente  a  un 
pezzo  x   di   I  si  può    definire    nel   seguente   modo.    Scomposto 

il  campo  T  in  campi  parziali  Ti,  1^2,  Xg, ,  t^,  detti  Mr  ed  nir 

il  valor  massimo  e  il  valor  minimo  della  F  nel  campo  t,. 
e  detto  Fi  un  qualsiasi  numero  compreso  tra  m^  ed  Mr,  il 
numero  S  (x) 

a)  è  il  numero  che  separa  le  classi  contigue  generate  dalle 

due  somme  SMt  =  MiXi  -+-  M2T2-+- -f-  M^t,  e  Smx  =  iriiTi-H 

-4-102X2-+- nirXr,  (Xj.  è  la  misura  del  campo  ^^ama^e  x^  nelle 

convenzioni  addottate)  ; 

P)  è  il  limite  di  S  F^x^  =  FiXi  4-  FsXo  4- -H  F^.x^,  quando 

tende  a  zero  la  massima  corda  di  ciascun  pezzo  x^.  ; 

y)  è  proprio  uguale  a  S  F^x,.,  se  Fr  è  un  numero  oppor- 
tunamente scelto  tra  tcl^  ed  M^.. 

Si  può  anche  nel  caso  attuale  estendere  la  definizione  di 
integrale  di  Riemann  per  funzioni  limitate. 

III.  Se  I  è  una  regione  del  piano  xy  ed  F  (x,  y)  ^  0, 
allora  S  (x)  è  il  volume  del  cilindroide  di  base  x,  luogo  dei 
punti  (x,  y,  z)  per  cui  0  :^  z  ^  F,  e  la  cui  proiezione  sul  piano 
xy  appartiene  a  x. 

Questa  funzione  additiva  S  {x)  si  chiama  l'integrale  di  F 
esteso  al  campo  x  ;  il  suo  valore  relativo  al  campo  /  0  al  campo  x 

si  indica  con      Fdi  0  con  |   Fdi,  estendendo  cosi  la  definizione 

e  la  notazione  usate  per  gli  integrali  definiti. 

Se  il  campo  /  è  a  due  sole  dimensioni  si  suole  usare  la 
lettera  a  oppure  la  s  (iniziale  della  parola  superficie)  al  posto 
della  X,  se  si  assume  come  misura  di  un  campo  la  sua  area. 

Osservazione. 

Per  calcolare  un  integrale  si  può  sempre  ridurci  al  caso, 
che  come  misura  di  questo  si  addotti  la  misura  geometrica  (lun- 
ghezza, area  0  superficie).  Se  k  fosse  la  misura  adottata,  e  x 

la    misura    geometrica,    si    osservi    che  v  Fdk^=^  \^d'^   se    è 

posto  0  =  i^  (  —  j  cioè  uguale  al  prodotto  di  F  per-p  ,  e.  d.  d. 

Se  k  fosse  il  peso,  questo  fattore  —  sarebbe  la  densità. 
Cominceremo  dal  caso  di  campi  x  a  due  dimensioni. 


funzioni  additive  generali  e  integrali  multipli     337 

Esempio. 

Così,  come  abbiamo  già  osservato  a  pag.  335,  se  I  è  una 
lamina  o  un  corpo  pesante,  t  è  l'area  o  il  volume  di  un  suo 
pezzo,  p  ne  è  la  densità  in  un  punto,  allora  Tascissa  del   suo 

centro  di  gravità  vale 


j 


pdz 


§  103.  —  Calcolo  di  un  Integrale  superficiale. 

Se  F  (x,  y)  è  una  funzione  continua  in  una  regione  o  del 

piano  xy,  come  si  calcola  lo  j  F(x,  y)da?  o  meglio  :  Contese 

ne  può  ridurre  il  calcolo  a  quello  di  integrali  definiti  ?  Per 
vederlo  comincieremo  ad  usare  metodi  poco  rigorosi  salvo  a  veri- 
ficare poi  i  risultati  ottenuti  nel  modo  più  preciso. 

Se  noi  dividiamo  l'area  a  in  pezzetti  con  rette  parallele  agli 
assi  delle  x  e  delle  y,  l'area  a  verrà  scomposta  in  rettangoli, 
e  in  altri  pezzetti,  il  cui  contorno  contiene  dei  pezzi  del  con- 
torno di  a.  Se  noi  supponiamo  (cfr.  §  99,  pag.  328)  che  questi 
ultimi  pezzetti  siano  trascurabili  (che  diano  cioè  un  contributo 
infinitesimo),  basterà  che  consideriamo  i  rettangolini  tutti  interni 
a  a,  la  cui  area  è  Ax  ày,  se  A:r  e  ày  sono  rispettivamente  le 
distanze  di  due  delle  rette  da  noi  tirate  parallelamente  all'asse 
delle  X,  0  all'asse  delle  y.  Considerando  dapprima  i  rettangoli 
posti  p.  es.  in  una  stessa  striscia  parallela  all'asse  delle  x,  e 
poi  le  varie  strisele,  la  sómma  ^Fì^ì  dell'ultimo  paragrafo 
diventa  : 

^FAxAy  =  J,Ay  2-^A^, 

dove  la  Si^A.f  è  relativa  ai  rettangoli  di  una  stessa  striscia, 
mentre  l'altro  simbolo  S  di  somma  si  riferisce  alle  varie  strisele. 
Possiamo  scegliere  gli  estremi  di  una  retta  (*)  y  =  cost.  nel 
contorno  di  y,  e  poi  i  valori  i^(**)  intermedii  in  guisa  tale  che 


(*)  Suppongo  gli  estremi  di  una  retta  y  =  cost.  sul  contorno  di  y  :  ciò  che  è 
un  errore  perchè  avendo  trascurato  i  pezzetti  posti  sul  contorno  di  v,  potrebbe 
darsi  che  gli  estremi  da  considerare  fossero  interni  a  y.  Un'osservazione  analoga 
si  può  ripetere  più  sotto.  Noi  ammettiamo  provvisoriamente  che  l'errore  commesso 
tenda  a  zero  e  sia  quindi  trascurabile. 

(**)  Suppongo  che  F  sia  il  valore  assunto  da  F{x,y)  su  uno  dei  lati  del 
nostro  rettangolo  paralleli  all'asse  delle  x. 

22  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


338 


CAPITOLO   XVI   —   §    103 


2i^Aa;=  1  F  dx.  L'integrale  così  ottenuto  dipende  dal  valore 
dato  alla  y  ;  è  cioè  una  funzione  cp  {y)  della  y.  Se  essa  è  con- 
tinua, allora  lim  S  9  (?/)  A  ?/  =  1  cp  {y)  dy,  cosicché  si  avrà  fìnal- 
mente  : 

f  F{x,y)d<3^\\m^FLx^y=  f[  [f  {x,  y)  dx]  dy, 

0  come  si  suol  scrivere  : 
Jf{x,  y)do  =  Jdy  j  F{x,  y)  dx  =  jj  F(x,  y)  dx  dy. 

Nel  cambiamento  di  variabili  coordinate  non  si  può  però 
(come  nel  caso  di  funzioni  di  una  sola  variabile)  applicare  ai 
simboli  dx,  dy  la  regola  per  il  calcolo  dei  differenziali  (cfr. 
ross.   1^  del  seg.  §  108  a  pag.  352). 

Prima  di  dimostrare  con  rigore  questa  formola,  dobbiamo  inten- 
dere con  precisione  il  suo  significato.  Quando  noi  abbiamo  scritto 

f  Fix,y)dx~\ìm  ^FAx, 

noi  tenendo  costante  la  y,  cioè  muovendoci  su  una  retta  AB 
parallela  all'asse  delle  x  (cfr.  fig.  39)  abbiamo  trovato  (a  meno 

del  fattore  A?/)  la  somma  dei 
contributi  portati  dai  rettango- 
lini  contenuti  nella  striscia  com- 
presa tra  la  retta  AB  e  la  retta 
parallela  consecutiva,  su  cui  l'or- 
dinata ha  il  valore  y  -f-  A?/. 
Perciò  la  nostra  integrazione  è 
eseguita  rispetto  alla  x  (quando 
si  considera  la  y  come  costante) 
in  un  intervallo  che,  al  limite, 
coincide  con  AB  (fig.  39).  Co- 
sicché i  limiti  inferiore  e  supe- 
riore, tra  cui  si  deve  calcolare 

l'integrale  J  F(x,  y)  dx,  sono  le 

ascisse  di  A  e  di  B,  Che  se  invece  avessimo  dato  alla  y  il 
valore  corrispondente  alla  retta  A' B'  (cfr.  fig.  39),  il  simbolo 


Fig.  39. 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI        33  9 


j  F  {x,  y)  dx  significherebbe  la  somma  degli  integrali  (eseguiti 

considerando  y  come  costante)  estesi  ai  due  intervalli  A'C\  DB' 
che  la  retta  A!B'  possiede  interni  all'area  a. 

Il  valore  di  j  F  {x^  y)  dx  dipende  perciò  dal  valore  dato  alla  y; 

e  cioè  una  funzione  cp(?/)  della  y.  E  la  nostra  formola  ci  dice 
che  noi  dobbiamo  integrare  questa  funzione  rapporto  ad  y.  Tra 
quali  limiti  si  deve  fare  questa  seconda  integrazione  ?  Poiché 
si  deve  tener  conto  di  tutto  il  campo  o,  essa  dovrà  quindi 
essere  eseguita  nell'intervallo  (n,  N),  se  n  ed  N  sono  i  valori 
minimo  e  massimo  della  y  in  a. 

Se  noi  per  fissare  le  idee  supponiamo  che  il  contorno  di  a  sia 
incontrato  in  due  punti  al  più  da  una  parallela  a  uno  degli  assi  coor- 
dinati, le  ascisse  dei  punti  A,  B  dei  punti  ove  una  retta  y  =  cost. 
incontra  il  contorno  di  a  saranno  due  funzioni  a  (^)  e  P  {y) 
della  y,  E  le  ordinate  dei  punti  C,  Z),  ove  una  retta  x  =  cost. 
incontra  il  contorno  di  o,  saranno  due  funzioni  y  (x)  e  5  (x) 
della  X. 

Se  dunque  diciamo  n,  N  eà  Z,  Lì  valori  minimi  e  massimi 
rispettivamente  della  y  e  della  x  in  a,  troveremo  : 


^  /,JV  ,,,5  (y) 

(1)  \  FdG=   {  dy   \      F{x,y)dx  (*). 

E,  scambiando  i  due  assi,  coordinati,  troveremo  ] 
Fdo=    \   dx  F{x,y)dy. 


Come  si  vede,  confrontando  queste  formole  è  lecito  cam- 
biare l'ordine  delle  integrazioni,  purché  si  cambino  convenien- 
temente i  limiti  dei  corrispondenti  integrali.  È  evidente  che  i 
limiti  non  dovrebbero  essere  cambiati  nel  caso  che  a  fosse  un 
rettangolo  coi  lati  paralleli  agli  assi  coordinati  (**),  come  il 
lettore  può  facilmente  verificare  facendo  la  figura. 


(*)  Si  ricordi  (§  88)  che  se  F{x,  y),  oc  {y),  ^  (y)  sono  funzioni  continue,  anche 

r*5  (y) 

I        F(Xf  y)  dx  è  funzione  continna  della  i/  e  si  può  quindi  integrare  rispetto  alla  y. 
-'  «  (y) 

(**)  Si  applichi  questo  risultato  all'ultima  formola  del  §  93,  pag.  307.  In  questa 
formola  i  limiti  d'integrazione  sono  uguali  nei  due  membri,  perchè  siamo  nel  caso 
particolarissimo  di  un  integrale  doppio  esteso  a  quel  rettangolo  coi  lati  paralleli 
agli  assi  coordinati,  di  cui  l'origine  e  il  punto  {x^y)  sono  vertici  opposti. 


340 


CAPITOLO    XVI 


§   104 


§  104.  —  Interpretazione  geometrica. 


f 


1" 


Supposto  F^O,  consideriamo  il  cilindroide  limitato  da  quel 
pezzo  della  superficie  z  ^=^  F  (x,  y),  di  cui  a  è  la  proiezione 
sul  piano  xy,  dal  cilindro  che  ne  proietta  il  contorno  e  da  a 
(base  del  cilindroide).  Le  formole  precedenti  hanno  una  notevole 
interpretazione  geometrica.  Consideriamo,  p.  es.,  la  (1).  Io  dico 

che   j   F{x,  y)  dx  misera  Varea  della  sezione  fatta  nel  nostro 

cilindroide  con  un  piano  ^  =  cost. 
Infatti,  se  la  retta  y  =  cost.  del 
piano  xy  interseca  il  contorno  di  a 
in  due  soli  punti  A,  B,  questa  se- 
zione è  evidentemente  un  rettan- 
goloide  limitato  (fig.  40)  : 

1**  Dalla  retta  r  =  AB  paral- 
lela alFasse  delle  x  in  cui  il  piano 
secante  interseca  il  piano  xy,  su 
cui  giace  la  base  del  nostro  cilin- 

droide  : 

^         2®  Dalle  due  rette  p,  p'  ortogo- 
nali alla  precedente,  in  cui  il  piano 
secante  interseca  il  cilindro,  super- 
ficie laterale  del  nostro  cilindroide  :  rette  che  sono  evidentemente 
generatrici  di  questo  cilindro,  e  parallele  all'asse  delle  z. 

S'*    Dalla    curva    C  in    cui    il    nostro    paiano  interseca  la 
superficie  z  =  F{x,  y). 

Se  noi  assumiamo  nel  piano  secante  la  retta  r  come  asse 
delle  X,  e  la  retta  in  cui  esso  interseca  il  piano  yz  come  asse 
delle  z,  la  curva  C  avrà  per  equazione  z  =  F  {x,  y),  dove  alla  y 
si  attribuisca  il  valore  costante  corrispondente  al  nostro  piano 
secante  ;  e  l'area  del    nostro   rettangoloide    sezione  sarà  perciò 

appunto]   F{x,y)dx,  che  coincide  con  l'integrale    considerato. 

E  altrettanto  si  trova  se  una  retta  y  =  cost.  del  piano  xy  inter- 
seca il  contorno  di  o  in  più  di  due  punti,  e  quindi  la  sezione  del 
nostro  cilindroide  col  piano  y  =  cost.  è  la  somma  di  due  o  più 
rettangoloidi. 

La   formola   (1)   del   §  103    ci  dà  dunque  il  seguente  teo- 


^ 


Fi?.  40. 


FUxNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI        341 

rema,  che  avevamo  già  dimostrato  in  casi  particolari,  usando 
però  del  linguaggio  del  calcolo  differenziale  (o  calcolo  delle 
derivate)  (pag.  167)  : 

Teor.  V.  Il  volume  del  nostro  cilindroide  si  ottiene  inte- 
grando rapporto  alla  y  Varca  della  sezione  fattavi  con  un 
piano  y  =  cost. 

E  questo  teorema  si  può  estendere  a  solidi  qualunque  (de- 
componibili in  cilindroidi). 

Teor.  2^.  Scelta  una  retta  come  asse  delle  y,  il  volume  di 
un  tale  solido  è  uguale  all'integrale  rispetto  alla  y  dell'area  della 
sezione  fatta  con  un  piano  y  =  cost. 

Il  precedente  teor.  1^  si  può  considerare  come  l'enunciato 
geometrico  del  teorema  contenuto  nella  (1)  del  §  103,  anche 
quando  F  (x,  y)  non  sia  sempre  positivo,  purché  si  considerino 
come  negativi  i  volumi  delle  porzioni  di  un  solido  poste  al 
disotto  del  piano  xy  e  le  aree  delle  corrispondenti  sezioni  con 
un  piano  y  =  cost. 

§  105.  —  Dimostrazione  rigorosa  dei  risultati  precedenti. 

Per  dimostrare  (*),  p.  es.,  che 

^  Fd(s  =  ^  dx  ^  F(x,y)  dy, 

basta  provare  che  il  secondo  membro  è  una  funzione  additiva 
di  a  la  cui  derivata  vale  F.  ^ 

Notiamo  che  l'integrale   j  F{x,y)dy  del  secondo  membro  è 

esteso  all'intervallo  \  o  alla  somma  X  degli  intervalli  che  su  una 
retta  r  (luogo  dei  punti  aventi  l'ascissa  x  =  cost.)  sono  deter- 
minati da  a.  E,  se  a  è  somma  di  due  campi  parziali  a^,  e,  e 
indichiamo  con  \  e  X..  gli  intervalli  determinati  sulla  r  da  Oj  e 
da  0.2 ,  sarà  X  =  X^  -i-  X2  e  quindi  : 

(1)      Cf  (x,  y)dy=  f  F  {x,  y)  dy  -^  f  F  (x,  y)  dy. 

È  da  avvertire  che  può  darsi  benissimo  che  Tuna  0  l'altra 
delle  Xj,   Xo   si   annulli,  cioè  che  r  non  abbia  intervalli  interni 


(*)  Nel  corso  di  questa  dimostrazione  faremo,  com.e  si  vedrà,  alcune  ipotesi 
sul  campo  ',  e  suj  suo  contorno,  che  sono  del  resto  pochissimo  restrittive  in  pra- 
tica. Appunto  perciò  alcune  di  esse  sono  enunciate  soltanto  a  pie  di  pagina.  Questo 
teorema  vale  del  resto  in  casi  estremamente  più  generali  di  quelli  qui  considerati. 


342  CAPITOLO   XVI   —   §    105 


a  Oj  od  a  Oo.  In  tal  caso  l'integrale  corrispondente  del  secondo 
membro  di  (1)  si  deve  naturalmente  considerare  come  nullo. 
Se  ne  deduce  facilmente  che  : 

fdx   Cfìx,  y)  dy  =   f  dx   lF(x,  y)  dy  -^  /  dx  f  F  {x,  y)  dy, 

J  J  a)  J  J  (n)  ^  J  O2) 

ossia  che  il  valore  di 

(2)  fdxfF{x,y)dy 

corrispondente  ad  un'area  o  somma  delle  aree  parziali  Oi,  0.2  è 
uguale  alla  somma  dei  valori  di  (2)  corrispondenti  alle  aree 
Oi,  Q.2.  Quindi  (2)  è  funzione  additiva  di  a. 

Si  noti  ora  che,  se  M  ed  m  sono  il  massimo  ed  il  minimo 
della  F{x,  y)  nel  campo  a,  il  valore  di  (2)  per  il  campo  a  è 
compreso  tra 

j  dx  j  Mdy  ^=  M  I  dx       dy, 
I  dx       mdy  =^  m    1  dx   /  dy. 


Dimostriamo  ora  che  : 
Il  valore  di  • 


fdx  fdy  (3) 

esteso  a  un  campo  0  vale  Varea  di  a. 

Cominciamo  col  supporre  che  o  sia  incontrato  in  due  punti 

al  pili  di  ogni  parallela  all'asse  delle  y.  Lo  I  dy  deve  essere 
esteso  all'intervallo  (^1,  ^2)  determinato  da  a  su  una  retta 
X  =:  cost.,  cioè  (se  2/1  <  y-2)  deve  essere  uguale  a  y^  —  y\  (*). 
Cosicché 

(4)    J  dx  J  dy  =  J  ly.y  —  y^)  dx  =J  y^  dx—  J  yi  dx. 


(*)  Si  ammette  che  y,  ed  i/^  siano  funzioni  continue  della  x. 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI        343 


f 

riN 

V 

A 

l       ; 

N 

V    I 

F 

\ii7 

} 

ìn — 

y\ 

1 

,  1 „-.  . 

Fig.  41. 


Ora  \  1/2  dx  è  l'area  del  rettangoloide  limitato  dall'  asse 
delle  X,  delle  due  ordinate  passanti  per  J.  e  per  5  (cfr.  fig.  41) 
e  della  curva  ACB,  mentre  j    yi  dx  è  l'area  del  rettangoloide 

limitato  dalle  stesse  rette  e  dalla  curva  ADB  (fig.  41). 

La    differenza    del    terzo 

membro  di  (4)  vale  quindi  la 

differenza  tra  le  aree  dei  due 

rettangoloidi,  cioè  l'area  di  a. 

e.  d.  d. 

Se  o  è  decomponibile  in 
più  campi  Oi,  0-2,  ....,  a„,  il  con- 
torno di  ciascuno  dei  quali  è 
incontrato  al  più  in  due  punti 
da  una  retta  x  =  cost.  (come 

avviene  nei   casi  più  comuni)   ^7  J^ 

l'integrale  (3)  esteso  a  a  ha 
un  valore  che,  come  sappiamo, 
è  la  somma  dei  valori  corrispondenti  ai  campi  Oi,  a.,,  ...,  a,,  ed  è 
quindi  ancora  uguale  all'area  di  a,  e.  d.  d.  (Per  semplicità  esclu- 
diamo le  aree  a^  che  non  si  possono  decomporre  rìel  modo  citato). 

Ne  segue  subito  il  nostro  teorema  ;  infatti  il  quoziente  otte- 
nuto dividendo  (2)  per  l'area  a,  cioè  per  (3),  è  compreso,  per 
quanto  già  vedemmo,  tra  ilf  ed  m,  ossia  è  un  valore  che  i^  assume 
in  un  punto  di  a.  Se  dunque  tutti  i  punti  di  a  tendono  a  un 
punto  A,  tale  quoziente  tende  al  valore  di  F  in  A.  Perciò  F  è 
la  derivata  di  (2). 

r  Osservazione. 

In  modo  simile  col  simbolo   l  cZx  j  dJ?/  j  F{x^  y,  z)  dz  esteso 

a  un  solido  x  si  intende,  seF(x,y,z)  è  continua,  quel  numero 
che  si  ottiene  integrando  la  F  {x,  y,  z)  lungo  il  segmento,  o  i 
segmenti  che  su  una  retta  y  =  cost.,  x  =  cost.  sono  determi- 
nati da  T,  e  integrando  poi  l'integrale  così  trovato  nell'area 
proiezione  di  x  sul  piano  xy. 

Se  i^=  1,  tale  integrale  è  il  volume  di  t.  In  generale  esso 
è  quella  funzione  additiva  di  i,  che  ha  per  derivata  F  {x,  y^  z). 

ir  Osservazione. 

La  definizione  di  derivata  di  una  funzione  additiva  ha  pro- 
fonda analogia  con  la  definizione  di  derivate   di   una   funzione 


344  CAPITOLO   XVI  —   §    105 

di  una  o  più  variabili.  Tale  profonda  analogia  si  può  rilevare 
per  altra  via  anche  dalle  considerazioni  seguenti. 

Sia  I  una  figura  piana  ;  e  sia  >S  una  funzione  additiva  dei 
pezzi  T  di  /.  Consideriamo  quei  pezzi  t,  che  sono  rettangoli 
coi  lati  paralleli  agli  assi  coordinati,  di  cui  un  vertice  è  un 
punto  fìsso  di  I  di  coordinate  (a,  ò)  e  il  vertice  opposto  è  un 
punto  mobile  x,  y.  Per  tali  t  si  ha,  detta  F(x,  y)  la  derivata 

di  8,  che  >S(t)=      dx      F  (x,  y)  dy   è   una    funzione   ^{x^y) 

delle  X,  y.  E  la  derivata    F  della  funzione  S  (t)    coincide  con 

y  cp 

la  derivata  mista  ^ — ^t"  àeììsi   cp.    L'osserv.    che    chiude   il  §  80 

(jy  VX 

(pag.  272),    corrisponde   perciò   al    teorema   della  media  per  le 
funzioni  additive. 

Questo  risultato  si  estende  subito  ai  campi  a  tre  dimensioni 
notando,  che  posto 

Xoc         ry         rz  y  m 

dxj    dy  J    F{x,y,z)dz,  si  \ì^^^^^^  —  F{x,  y,  z). 

Esempi. 


"ì    ^ 


z  > 


X  u  Z 

I.  Si  calcoli  il  volume  V  dell'ellissoide  —  H-  i-r, -f-  —  =  1. 

a'^       0^      c~ 

V 
Calcoliamo  il  volume  —  del  semiellissoide  posto  nella  regione 

0.  Tale  semiellissoide  si  può  considerare  come  un  cilindroide 

x"       ?/" 
avente  per  base  a  sul  piano  xy  l'ellisse  -,  -i-  r^  r=  1     e    deter- 

^  '  a-       o~ 

minato  dalla  superfìcie  ^=-+-  cV  1 :>  —  70- 

I  valori  tra  cui  varia  la  y  di  un  punto  di  a  su  una  retta 

/  X''  Ò       / r 

X  =  cost.  sono  chiaramente  ±6  1/   1 5  =  ±  —  '  «-^  —  ^"• 

Quindi  : 


=  —  /      71:6(1 -)  dx=^ 


4  'K  ohe 


FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI         345 


In  modo  simile  si  ha 

,-»-{■»' 

r       .+|j/<7.-r^ 

-1 

1=  * 

Y'  1- 

0^ 

4  TI  ohe 
"~   3      2 

J  -n 

l^   -ly,2-y. 

- 

4 

donde   V — ^  "^  ^^c. 
o 

II.  Se  l'asse  delle  x  è  verticale  volto  in  basso,  e  7  è  una 
parete  piana  verticale  di  una  vasca  piena  d'acqua,  posta  nel 
piano  xy,  e  se  l'asse  delle  y  coincide  col  pelo  libero  dell'acqua, 
la  spinta  idraulica  sostenuta  da  I  vale  (§  100,  y,  es.  IIF) 

j   dy  j   X  dx^=^   j   :r  c?:r  I   dy         esteso  ad  L 

Si  applichi  questa  formola  al  caso  che  I  sia  un  rettangolo 
0  un  semicerchio  col  diametro  sull'asse  delle  y. 


§  106.  —  Volume  di  un  solido  di  rotazione 
e  teorema  di  Guidino. 

Sia  o  un  campo  del  piano  xz  non  intersecante  l'asse  delle  ^  ; 
il  quale  rotando  attorno  a  tale  asse  generi  un  solido  di  rota- 
zione S.  Per  trovarne  il  volume  V  il  procedimento  più  rapido 
è  quello  di  integrare  rispetto  alla  ^  l'area  della  sezione  ottenuta 
segando  S  con  un  piano  ^  =  cost. 

Se  una  retta  ^  =  cost.  del  piano  x^  incontra  il  contorno 
di  0  al  più  in  due  punti  di  ascissa  Xi,  Xo,  (porremo  Xi  <  .To), 
tale  sezione  è  la  corona  circolare  limitata  da  due  cerchi  di 
raggio  xi,  x-2,  ed  ha  per  area  7^  (xi  —  x\)^  dove^  x^  ed  x^_  sono 
funzioni  di  z.  Il  volume  Y  di  S  sarà  perciò  ti  |  {x^-i  —  ^i")  dz. 

Poiché  xT-i  —  Xi  -=^  2  \    X  dx,  tale  volume  si  può  indicare  con 
V=2nidzixdx=:2nixdo  (*) 


(*)  Questa  formola  vale  anche  se  il  contorno  di  &  è  incontrato  in  più  di  due 
punti  da  una  retta  <2rz=:cost,  del  piano  xy.  Al  lettore  la  dimostrazione,  che  si 
ottiene  (nei  casi  più  elementari)  scomponendo  ^  in  convenienti  sue  parti. 


346        CAPITOLO  XVI  —  §   106  —  FUNZIONI  ADDITIVE,  ECC. 

dove  rintegrale  doppio  deve  essere  esteso  al  campo  o  (la  cui  rota- 

r X  do 
zione  genera  S).  Vedemmo  (§§  101-102)  che è  l'ascissa  Xg 

del  centro  di  gravità  di  o  considerato  come  lamina  omogenea, 

il  quale  centro  descrive  nella  rotazione  attorno  all'asse  delle  z  un 

/x  do        V 
cerchio,  la  cui  periferia  vale  2nxg  =  27^  -^ —  =^  —  .    Dunque 

(teor.  di  Guidino)  : 

Il  volume  V  generato  dalla  rotazione  di  un  campo  piano  o 
attorno  a  un  asse  complanare  che  non  V attraversa  vale  il  prodotto 
delVarea  di  o per  la  lunghezza  della  circonferenza  descritta  dal 
suo  centro  di  gravità. 

Esempi. 

1**  Sia,  p.  es.,  dato  un  cerchio  C  nel  piano  xz,  non  inter- 
secante l'asse  delle  z.  Rotando  attorno  a  quest'asse,  esso  genera 
un  toro  di  rivoluzione,  di  cui  si  può  facilmente  col  precedente 
teorema  calcolare  il  volume  V,  Se  r  è  il  raggio  del  cerchio  C,  d 
la  distanza  del  suo  centro  dall'asse  delle  z,  si  trova 

V=2TVr-d, 

perchè   il   centro   di  gravità   di   un'area   circolare  coincide  col 

suo  centro. 

2**  Un  semicerchio  avente  il  diametro  sull'asse  delle  z  e 

raggio  r  ha   per    area  ^/2'^r',  e    genera   rotando    una    sfera  di 

4 
volume  —  Tzr"  ;  la  distanza  X  dal  centro  di   gravità    del    semi- 

à 

cerchio  dall'asse  delle  z  è  dunque  data  dall'equazione 

4       .  4:  r 

-Tzr'=z  72  71  f-.   2  tt:  X     cioè  X  =  ---  • 
3  Stz 

3"  Lo  studioso  generalizzi  questa  formola  ad  una  semi- 
ellisse, ricordando  la  formola  a  noi  nota  del  volume  di  un  ellissoide 
di  rotazione. 


347 


CAPITOLO  XVII. 

CAMBIAMENTO  DI  TARIABILl  NELLE  FORxMOLE 
DEL    CALCOLO    DIFFERENZIALE    E    INTEGRALE 


§  107.  —  Esempi  di  cambiamento  di  variabili  in  formole 
di  calcolo  differenziale. 

Noi,  piuttosto  di  dare  una  teoria  generale,  diamo  alcuni  esempi 
del  come  sia  facile  risolvere  problemi  di  questo  tipo.  E  supporremo 
senz'altro  soddisfatte  tutte  le  condizioni,  che  ci  permetteranno  di 
applicare  i  teoremi  che  invocheremo  (p.  es.,  derivate  finite,  oppure 
finite  e  continue,  denominatori  differenti  da  zero). 

I.  Siano  x^=-x  (t),  y  ^=  y  (t)  due  funzioni  di  t  definite 
nello  stesso  intervallo.  Dalla  prima  di  esse  si  possa  dedurre  t 
come  funzione  t  (x)  della  x.  Cosicché,  sostituendo  nella  seconda, 
si  possa  pensare  y  come  funzione  della  x. 

Si  calcolino  yx,y"xy  •••••»  supponendo  note  a;'t,  ^/'t?  ^'<j  ^"«j 

È: 

.  dy  __  y't  dt  __'ì[t  ^ 

dx       x't  dt       x't 

A  questa  forraola  si  potrebbe  giungere  (senza  usare  i  diiferen- 
ziali)   ricordando  che  per  la  regola  di  derivazione  delle  funzioni 

inverse  t'^,  =  — ,-  e  che  y^,  =  y\  t'x- 

Xt 


E 


y  tXt — ytx  t 


x: 


n  dy^ d^  dt^ \    d^  ( ^\ 

dx         dt  dx        Xt  dt  \  Xt  / 

„,  __  dy"^  ___  dt^  dy"x  JL  È  {^'^^'t  —  ytx'\\ 

dx         dx    dt  Xt  dì  \  x't  ) 

xtvy  tXt  —  ytx  t)  —  ^x  tvy  tXt  —  X  tyt) 

— - —  ,  ecc. 


X? 


348  CAPITOLO   XVII    —   §    107 

II.  Con  le  notazioni  precedenti,  è  ben  evidente  che  non 
si  possono  viceversa  calcolare  le  x't^  y\^  x'\^  y"t^ quando  sol- 
tanto si  conoscano  le  y'^^  y'\^ ,  perchè  tale  questione  è  inde- 
terminata. Il  problema  resta  determinato  se  aggiungiamo  qualche 
condizione  per  la  variabile  t^  se,  p.  es.,  supponiamo  i  scelto  in 
guisa  che  x't  +  y'\  =  1  (*). 
Sarà  : 

dx  ,        ày       ^     .    ,       . 

^t^=^-T.       ,     yt^^~v;,  donde  (per  la  x^t  -f-  ?/'^  =  1,  ossia 

(tv  Clv 

Vdx^'  -f-  dx-  =  dt)  si  trae  : 

dx      . 1  1 

X  t  —      / 


y'^  =  ^^ 


l/-(l)" 

Vi  +  y'! 

dy 

dx 

_       l/'^ 

i/: 

a-  (^y\' 

i/i  +yJ 

X''t=^ 


E: 

dx't        dx  dx't 


y't 


ix\ dx  dxj ,  dxj 1  d^  /         1         \ 

dt         dt  dx  ^  dx        |/i  -\-  yf^  dx  \-|/i  _|-  yf^/ 

■ ^       r_  (1  4-  y'-\  -  Ty,  y"^^ t/j^y^  . 

vi  -4- y'i  u-^ yx) 

„  _dy\__dxdy\  _         1  d^  /       y'x        \  _ 

dt         dt  dx        i/l  H-  y''^  dx  \y^\  -f-  y'^/ 


_    y".  y'iy"^    _      y"^       _ 

- 1  +  y'.'     (1  +  y'ìf  -  (1  +  y-r  '  ^^^- 

III.  Sia  z  una  funzione  ài  x,y;  le  quali  siano  a  loro  volta 
funzioni  di  due  variabili  u,  v  ;  cosicché  -^  si  possa  considerare 
come  funzione  di  u,  v.  Conoscendo  le 

^  x^  '^  y  ■'^   xxj  '^    xyy   j  -^  «j  -^    uuì  «^  «j   ) 


(*)  Ciò  equivale,  come  vedremo,  a  supporre  che  {x,y)  sia  punto  generico  di 
una  curva,  l'arco  della  quale,  misurato  a  partire  da  un  punto  fisso,  abbia  la 
lunghezza  t. 


CAMBIAMENTO    DI    VARIABILI   NELLE    FORMOLE,  ECC.  349 


si 

calcolino 

le 

z" 

ecc.  È  per 

'èz'ix 

__'()z'i)X 

'òx  'i)v 

il  teor. 

^y  ^u 
'òy^v 

del 

§  83  : 

Queste 

forinole  si 

possono  anche  ottenere, 

notando  che: 

^      ^z  ,     ^^z  ^       l)z  [Dx  ^       ^x  ^  1  ,  ()^r3v  ,        ^y  ^  1 
dz  -—  :^—  dx  -\-  ^=r-dy  ~^—\^-dii-i-^r-av\i^—l^du-^^dv\  = 
ex  òy  òx\yu  ov      J     Oy\_òn  òv     J 

(D^c)^;        ^ z^y\  /l)z'òx        3-2' 3^/\ 

'òxl!)ii       dy'òu/  \'òx'()v       'òy^vJ      ' 


e  confrontando  con  : 


^ò  z  "iz 

dz  ^=^  :^  du  +  ^  dv. 
du  ov 


Così  con  metodo  analogo  : 

^,     '(^z'„ D   Q  ^  c)x       'ò  z  D//1 ^  z  'ò'x       3  z  yy 

'òli        ^u  \_^x  ì)it       "òy  2iij        'òx  ^u~        ^y  7^u~ 

^x  D    {^^\        ^U  ^    {^^\ 

\^x/        ì)u  3w  \ì^y/ 


2u  2u  \l)x/        ^u  ^u  \^y 

T^z^x       'òz^y       l!^x\l^^ z'òx    ,      ^z 
'òx  òu'       òy  òu^       ò 


-h 


X  fc^  òx  òi~z    òy  I 

u  \òxr  òli  òx  òy  ò%i\ 

òy  r  ò'z    òx  ò^~ z  òij\           ^ 

òu  \òx  òy  òu  òy'  òit\  ' 


(Si  ponga,  p.  es.,  t^  r=  p,  ^;  =  0,  x  =  p  cos  0,  ?/  =  p  sen  0). 

Oss.  È  facile  anche  calcolare  le  x\,,  xf^,  y'u^  y\  quando  siano 
note  le  ii'^^  ii'y,  v'^^  v'y.  Infatti,  pensate  le  x,  y  come  funzioni 
delle  lu  V  funzioni  delle  .t,  y,  si  ha  : 

X  ».-  X  ~~~~  X  11  ti  X      '      X  ^  ^  X  ì 

U X  y    X  i(,    U/  y        I          X  y    V  y    j 

da  cui,  risolvendo,  si  ricavano  tosto  le  x\i.,  x\.  In  modo  simile 
si  calcolano  le  y„,  y\. 

IV.  Talvolta  si  studia  una  stessa  curva,  usando  in  un 
primo  studio  certe  coordinate  x^  ?/,  in  un  altro  calcolo  altre 
coordinate  %i^  v  [p.  es.,  le  coordinate  polari  w  =  p,  v  =  0,  dove 


350  CAPITOLO   XVII   —   §    107-108 

X  =^  p  cos  Q,  y  =  p  sen  0].  Nel  primo  caso  l'equazione  della  curva 
sia  y=^f{x);  nel  secondo  u  =  ^{v).  Si  calcolino  v/v,  u''v,  ecc., 
conoscendo  le  y^^:,  y"x,  ecc.  Naturalmente  devono  essere  note  le 
formole  che  permettono  di  passare  dall'uno  all'altro  sistema  di 
coordinate  :  u  =^u  (x,  y)  e  v  ^=v  {x,  y). 
Sarà  : 

3w  3it  'òu  2u  dy 

dti Jx  '         2y  ^x  3?/  dx 

dv       3?;  3v^  iv  T^vdy 

'òx  2y  "òx  ^y  dx 

\  _   l   du\  __  1  p^'t,        -òu/^      1 

;        dv  dx        'òv       3?;    ,  L  ^^         ^y     *J 


du 

dv 


dx  dx       òy 


I  valori  di  -^  ?  ^r^  si  ricavano  facilmente  dalla  precedente 
ox       dy 

equazione,  ecc. 

Come  esempio  particolare  studiamo  le  relazioni  che  passano 

tra  le  derivate  delle    ^  == /'C^),  P  =^  9  (6),  supposto  che  queste 

equazioni  rappresentino  la  stessa  curva  in  coordinate  cartesiane 

e  polari.  È  : 

ff{\—  f  —  sen  e  czp  -f-  p  cos  e  (^  e  __  tg  e  ^'  (e)  4-  p . 

/  ^^^  —  y  ^  —  CQ^  Q  cip  —  p  sen  Q  d  d~~  ^'  (6)  —  P  tg  9  ' 

•  ^    ^^^       ^  ^       cos  e  T'  (e)  -  p  sen  0  hp  ^  ^^        30  i 

—  p  9"  -4-  2  9''  -4-  p' 


[cos  0  9'  (0)  —  p  sen  0]' 


§  108.  —  Cambiamento  della  variabile  d'integrazione 
negli  integrali  definiti  o  multipli.  . 
Integrali  superficiali  in  coordinate  polari. 

Per  quanto  riguarda  gli  integrali  definiti  nulla  v'è  da  ag- 
giungere alla  regola  di  integrazione  per  sostituzione  già  esposta 
al  §  75,  P,  pag.   247. 

Si  tratta  di  estendere  questa  regola  agli  integrali  multipli. 


CAMBIAMENTO    DI   VARIABILI   NELLE    FORMOLE,    ECC.         351 

Con  metodo   affatto   analogo    a   quello  dell'ora    citato  §  75,  si 
dimostra  (cfr.  il  §  101,  y,  pag.  334): 

Se  I,  H  sono  due  campi  in  corrispondenza  biunivoca  con- 
tinua, in  modo  che  le  funzioni  additive  dei  pezzi  x  di  I  si 
possano  considerare  come  funzioni  additive  dei  pezzi  k  di  H, 
se  ¥  è  una  funzione  continua  dei  punti  di  J,  e  quindi  anche 
dei  punti  di  H,  allora  : 


/,^'"=/,(^l')«-  o 


Ma  l'importanza  di  questo  teorema  si  potrà  vedere  soltanto 
dalle  applicazioni. 

Sia  /  un  campo  finito  del  piano  x  y  ;  per  fissar  le  idee, 
l'origine  (*)  sia  esterna  al  contorno  od  ai  contorni  di  i  ;  si 
possono  determinare  allora  le  coordinate  polari  p  e  0  di  un  punto 
generico  di  J,  così  che  p  e  0  siano  funzioni  continue  delle  x,  y  e 
viceversa.  Poniamo  p  =  X,  0  =  F,  considerando  le  X,  Y  come 
coordinate  cartesiane  di  un  punto  posto  in  un  altro  piano  P. 
Ad  ogni  punto  di  I  corrisponderà  allora  uno  e  un  solo  punto 
di  questo  piano  P.  E  i  punti  di  P,  che  corrispondono  a  punti 
di  /,  riempiranno  tutta  una  regione  H  dì  P. 

(Notiamo  che  a;  =  p  cos  0  =  Xcos  Y,  y  =  p  sen  0  =  Xsen  Y). 

Una  funzione  F  {x,  y)  continua  delle  x,  y  diverrà  una  fun- 
zione continua  F  (X  cos  F,  X  sen  Y)  delle  X,  Y. 

Se    T   e   ^   sono   due   pezzi  corrispondenti  di  I  e  di  H,  la 

d  T 
derivata  -—  si   trova,    come  ora   vedremo,  uguale   ad    X  =  p. 

(IrC 

Cosicché  la  (1)  diventa: 

f  F{x,  y)dz=  f  i^(Xcos  F,  Xsen  F)  Xdk. 

Per  i  risultati  dei  §§  103-105  questa  formola  si  può  scrivere: 

f  dx  [  F{x,y)dy  =  ^  dX^  P(Xcos  Y,XsenY)XdY  = 

=  {  dY{  F(XcosY,XsenY)XdX 
0  anche  : 

(2)    ^  dx  ^  Fix,  y)dy—^  dp   [  P(p  cos  0,  p  sen  0)  p  cZ  0  = 
=  J  (^  0  j  i^(p  cos  0,  p  sen  0)  p  6?  p. 

(*)  L'origine  è  un  punto  eccezionale  per  il  sistema  delle  coordinate  polari. 


352  CAPITOLO   XVII   —   §    108 

di 
Prima  di  dimostrare  che  -— -  =  p,    vogliamo    fare    alcune 

osservazioni  : 

Oss.  r.  Si  noti  che  non  si  passa  dal  primo  al  secondo  o  terzo 
membro  di  questa  formola  sostituendo  a  dx  ^=  d  {p  cos  0)  ed  a 
dy  ^=  d{p  sen  0)  i  loro  valori  cos  0  c^  p  —  p  sen  0t^0epcos06Z0-+- 
-+-sen0<ip;  come  potrebbe  sembrare  a  un  lettore  inesperto.  In 
questo  caso  il  d^  che  compare  sotto  il  segno  di  integrazione, 
e  non  i  dx,  dy  si  possono  trasformare  come  diiferenziali  veri 
e  proprii  (*). 

Oss.  ir.  Si  possono  calcolare  il  secondo  e  terzo  membro  della 
nostra  formola,  senza  neanche  pensare  al  campo  H,  in  modo 
analogo    a    quello    seguito    nei    §§    103-105    per    calcolare    il 

l""  membro.  Per  es.,  j  d%  \  Fpdp  si  può  calcolare  cosi:  Si 
consideri  una  linea  6  =  cost.  (che  è  una  retta  uscente  dal- 
l'origine).   Su   di   essa   la  F  diventa  funzione  della  sola  p  ;  si 

calcoli  I   Fpdp  esteso  al  segmento,  o  ai  segmenti  che  la  nostra 

figura  /  determina  su  tale  linea.  Tale  integrale  è  una  funzione 
di  0  che  si  integrerà  tra  il  minimo  e  il  massimo  valore  di  0  in  /. 
(Si  noti  che  le  linee  0  =  cost.  e  p  =  cost.  hanno  per  im- 
magine in  H  le  rette  F=:cost.  ed  X  =  cost.  parallele  agli 
assi  coordinati). 

Vogliamo  ora  dimostrare  che  -ry-  1=  X=  p.  Consideriamo  un 

pezzo  k  di  R  limitato  da  due  parallele  all'asse  delle  Y,  e  due 
parallele  all'asse  X.  Siano  X,  X  -h  A  X  e  Y,  Y  -h  AY  ì  corri- 
spondenti valori'  delle  X,  Y.  Tale  pezzo  è  un  rettangolo,  la  cui 
area  7^:  =  A  XA  F. 

L'immagine  di  questo  pezzo  sul  piano  xy  è  un  quadran- 
golo T  limitato  da  due  cerchi  col  centro  nell'origine  e  raggi 
X,  X  -I-  A  X,  e  inoltre  da  due  rette  uscenti  dall'origine  formanti 
con  Tasse  delle  x  rispettivamente  gli  angoli  F,  F-HAFe 
quindi  formanti  tra  loro  l'angolo  A  F.  La  corona  circolare  limi- 
tata dai  citati  due  cerchi  ha  per  area 

71  i  (X  -4-  A  X)'  —  X'  ì  =  ^  [  2  X  A  X  4-  (A  X)']  ; 

l'area  t  di  "c  sarà  dunque  data  dalla  proporzione  : 

X  :  71  [2  X  A  X  -4-  (A  X)']  =  A  F:  2  7r 

(*)  Si  noti  infatti  che,  se  la  prima  integrazione  si  esegue,  p.  es.,  rispetto  alla  rr, 
si  deve  considerare  la  y  come  costante  ;  perciò,  nel  passare  alle  />,  5,  si  dovrebbe  a  dx 
sostituire  il  suo  valore  ottenuto  nell'ipotesi  che  dy  =■  d  (r^  senO)  =  0. 


CAMBIAMENTO    DI   VARIABILI   NELLE    FORMOLÈ".  ECC.         353 


cosicché  : 


[xATH-y  (AX^Ia  r=XAXA  Y-h  yCAXr  A  Y. 


Dunque 


|=X+]-AX=p+|Ap, 


Per  A  p  m  0  tale  rapporto  ha  pure  per  limite  p. 

Si  potrebbe  dire  che  x  vale  XA  A^A  F,  a  meno  di  infinitesimi 
di  ordine  superiore.     * 

Bisognerebbe  completare  questa  dimostrazione,  considerando 
campi  k  di  forma  qualsiasi;  noi  ce  ne  dispensiamo  ricordando 
solo  al  lettore  che  gli  stessi  metodi,  con  cui  nel  §  105  abbiamo 
dimostrato  l'esattezza  di  una  formola  analoga  in  coordinate 
cartesiane  ortogonali,  potrebbero  provare  la  formola  attuale  in 
coordinate  polari  (cfr.  più  avanti  in  questo  stesso  §). 

Osservazione. 

Si  potrebbero  anche  applicare  i  metodi  del  §  103,  in  cui 
il  campo  era  diviso  in  pezzi  con  rette  parallele  agii  assi,  cioè 
con  linee  di  equazione  x  =  cost.,  oppure  y  =  cost.  Si  dovrebbe 
ora  invece  dividere  il  campo  in  pezzetti  con  linee  p  =  cost. 
e  9  =  cost.  (cerchi  col  centro  nell'origine  e  rette  uscenti  dal- 
l'origine). Prescindendo  dai  pezzi  sul  contorno,  gii  altri  sono 
quadrangoli    la    cui    area    vale,    come    vedemmo    più    sopra, 

p  dp  M  -h  —  dp'  d^.    Se  F  è   la   funzione   da  integrare,  il  suo 

integrale  si  trova  coi  metodi  del  §  103  uguale  al  limite  di 

di 

per  6Zp  =  tZ0  =  O.  (Indico   con  F  un  valore  assunto  da  F  in 
un  punto  di  ogni  pezzetto).  Il  primo  addendo  si  prova  (§  105) 

tendere  ad//   FpdpdQ;   il   secondo    addendo   tende  a  zero: 

perchè,  se  H  è    il    massimo    di  \  F\,   ed    £    il   massimo  valore 
di  dp,  allora  : 

.     I  2  Fdp'd^\  <Hb2  dpd^=Hs  2  ^P  2  ^0- 

2;!  —  G.  FfBlxi,  Analisi  matematica. 


354  CAPITOLO   XVII   —   §    108 

Ora  ^dp  tende  alla  differenza  dei  valori  massimo  e  minimo, 
che  p  assume  nel  campo  considerato  ;  S  tZ9  non  supera  2  n. 
Poiché  £  tende  a  zero,  segue  tosto  che  ^Fdfd^  tende  a 
zero.  e.  d.  d.    ' 

D'altra  parte  sia  questo  risultato,  sia  quello  del  prossimo 
paragrafo  saranno  dimostrati  in  futuro  capitolo  con  metodi  meno 
diretti,  ma  di  una  estrema  semplicità. 

Si  può  anche  generalizzare  il  risultato  del  §  104  interpretando  geometricamente 
la  (2)  ne)  seguente  modo  (per  il  caso  F'^O)-. 

Il  volume  di  un  cilindroide,  o  di  un  solido  decomponibile  in  un  numero 
finito  di  cilindroidi  si  ottiene  integrando  rispetto  a  P  l'area  della  sezione  ese- 
guita con  un  cilindro  circolare  retto  di  asse  invariahile  e  di  raggio  variahile  p. 

Sarà  un  esercizio  utilissimo  il  riconoscere  come  si  possa  ottenere  facilmente 
una  dimostrazione  completa  del  nostro  risultato  con  l'applicazione  dello  stesso 
metodo  usato  al  §  105  in  caso  analogo. 

Infatti,  seguendo  questa  via,  si  riconosce  tosto  essere  sufficiente  provare  che 

l'area  di  s  è  data,  p.  es.,  da  1  de  i  p  d  p  esteso  al  campo  u.  Ora  a  pag.  342,  per 

dimostrare  il  teorema  analogo  che  tale  area  vale  |  dx  |  dy,  siamo  partiti  dalla 

formola  che  dà  l'area  di  un  rettangoloide,  cioè  di  una  figura  limitata  dalle  linee 
y  =  0,  x  =  a,  x  =  'b  e  da  una  linea  y  =^  f  {x). 

Per  il  caso  attuale  basterà  similmente  applicare  la  formola  data  al  §  95  ò, 
per  l'area  della  figura  limitata  dal  punto  p  =  0,  dalle  linee  6  =  a,  e  =  h  e  da  una 
curva  p  =  F  (o). 

Forinole  analoghe  si  dimostrano  per  gli  integrali  tripli.  Ricor- 
diamo particolarmente  i  seguenti  sistemi  notevoli  di  coordinate 
nello  spazio. 

V  Coordinate  cilindriche  p,  6,  z  legate  alle  coordinate 
cartesiane  ortogonali  dalle  x  =  p  cos  0  ;  y  =^  p  sen  0  ;  z^=^  z. 
Un  tale  sistema  equivale  ad  addottare  coordinate  polari  p,  0  nel 
piano  xy^  conservando  la  terza  coordinata  z.  Tali  coordinate  si 
chiamano  cilindriche  perchè  p  =  cost.  è  l'equazione  di  un  cilindro 
circolare  retto  con  generatrici  parallele  all'asse  delle  z.  Si  trova 

jjr  F  {x,  y,  z)  dx  dy  dz=^   jj  j   F  (p  cos  0,  p  sen  0,  z)  p  dp  dd  dz. 

2°  Coordinate  polari  p,  0, 9  (nello  spazio)  legate  alle 
coordinate  cartesiane  ortogonali  dalle  • 

X  =  p  sen  0  cos  9     ;     y  =^  p  sen  0  sen  cp     ;     z  ^=^  p  cos  0. 

Il  raggio  vettore  p  =  '\/x'^  -h  y^  -h  z^  è  la  distanza  del  punto 
dall'origine.  L'angolo  0  è  la  colatitudine  (complemento  della 
latitudine,  quando  si  assuma  il  piano  xy-d^  piano  equatoriale). 


CAMBIAMENTO   DI  VARIABILI   NELLE   FORMOLE,  ECC.         355 

L'angolo  cp  è  la  longitudine  (contata  a  partire  dal  piano  xz 
come  meridiano  iniziale).  Si  trova  : 

III   F{x,y,  z)  dx  dy  dz  = 
=  j  ]  j  i^  (p  sen  0  cos  9,  p  sen  0  sen  ^,  p*  cos  0)  p^  sen  0  d0  dp  d^, 

come  si  prova  osservando  che  il  volume  racchiuso  tra  due  sfere  di 
raggio  p  e  p  -h  6Zp,  tra  due  coni  di  colatitudine  0  e  0  -+-  6^0,  e  tra 
due  semipiani  di  longitudine  cp  e  9  -f-  ^9  vale  p^  sen  0  cZ0  dp  d^ 
a  meno  di  infinitesimi  d'ordine  superiore. 

§  108  bis.  —  Integrali  superficiali  in  coordinate  generali. 

I  risultati  di  questo  paragrafo  saranno  dimostrati  più  avanti  in  modo  semplice 
benché  indiretto.  Noi  qui  faremo  invece  delle  ipotesi  analoghe  a  quelle  fatte  ai 
§§  103  e  seg.,  che  del  resto  sarebbe  facile  giustificare  in  modo  diretto.. 

I  risultati  a  cui  giungeremo,  si  debbono  riguardare  come  l'estensione  del  me- 
todo di  integrazione  in  coordinate  polari  a  coordinate  qualsiasi.  Useremo,  p.  es.,  i 
metodi  intuitivi  del  §  103. 

Sia  1  un'area  del  piano  xy]  e  siano  X,  Y  due  variabili:  X=^X{x,  y), 
Y=  T  {x,  y),  funzioni  delle  x,  y  in  I. 

Viceversa  le  x,  y  si  possano  considerare  come  funzioni  x  {X,  T)  ed  y  (X,  Y) 
delle  X,  Y,  così  che  un  punto  di  I  si  possa  determinare  tanto  dando  i  corrispon- 
denti valori  delle  x,  y,  quanto  quelli  delle  X,  Y. 

Dividiamo  T  con  linee  X=  cost.,  Y=  cost.,  indicando  con  dX,  dYglì  incre- 
menti che  subisce  la  X  0  la  Y  per  passare  da  una  tale  linea  alla  successiva  ; 
sostituiamo  poi  a  quelli  dei  quadrangoli  curvilinei  tutti  interni  a  I  limitati  da  due 
linee  consecutive  X  =  cost.,  e  T"  =  cost.  il  quadrangolo  rettilineo  Q  che  ha  gli 
stessi  vertici.  L'area  I  sarà  così  divisa  in 

a)  quadrangoli  Q  rettilinei  tutti  interni  a  I, 
ed  in 

j3)  poligoni  P  curvilinei,  parte  del  contorno  dei  quali  appartiene  al  contorno  di  I. 

Noi  ammetteremo  : . 
1°  Il  contributo   portato   alle   nostre   somme   da   questi   ultimi   poligoni  P 
tende  a  zero,  quando  i  dX,  dY  tendono  contemporaneamente  a  zero. 

2°  Per  calcolare  i  limiti  che  incontreremo  (quando  i  dX,  d  Ytendono  contempo- 
raneamente a  zero)  si  possono  far  tendere  a  zero  prima  i  dX,  poi  i  dYo  viceversa. 

Uno  dei  quadrangoli  rettilinei  Q  ha  i  vertici  posti  sulle  intersezioni  di  una 
linea  X:=  cost.  e  X-\-dX=cost  con  due  linee  Y^cost.  e  Y-\-dY~  cosi. 
I  suoi  vertici  A,  B,  C,  D,  saranno  perciò  i  punti 

A  =  [xiX,Y),y(X,Y)];     ■ 
B=[x{X-^  dX,  Y),  y{X-\-  dX,  Y)]  ; 
C=\x{X,Y-^dY\  y  {X,Y-hdY)]; 
Dz=[x{X-hdX,  Y+dY),  y  {X -i- dX,  Y  +  dY)]. 

E  la  sua  area  sarà  la  somma  delle  aree  dei  triangoli  ABC,  BGD  (*).  L'area 
del  lo  vale  (per  nota  formola  di  Gl-eometria  analitica)  il  valore  assoluto  di 

J. 
2 


x(X,Yy 

y  (X,  Y) 

1 

x{X-f-dX,  Y) 

y  (X,  -4-  dX,  Y) 

1 

x(X,Y-+-dY) 

y(X,Y-i-dY) 

1 

(*)  Suppongo  per  semplicità  Cjhe  A  e  D  sieno  da  bande  opposte  della  retta  BC. 
Come  abbiamo  già  detto,  una  dimostrazione  completa  sarà  data  più  tardi. 


356     GAP.  XVII  —  §  108  bis  —  CAIVIBUMENTO  DI  VARIABILI,  ECC. 


Supposto  che  le  x,  y  abbiano  derivate  prime  e  seconde  finite  e   continue  (*), 
e  ricordando  la  formola  di  Taylor 


x[X-hdX,  Y)  =  x(X,  Y)-hx',{X,  Y)dX+  ~  x",,{X-^-fJdX,  Y)dX' 
ed  analoghe,  si  trova  che  tale  area  vale  il  valore  assoluto  di 


(0 


1). 


l_\  x\.{X,Y)        x'y(X,Y) 
2   1  X',  (X,  Y)         II'.  {X,  Y) 


dXdY-i-^  dX  dY 


dove  oc  è  una  quantità  che  (se  con  K  indichiamo  una  costante  positiva  maggiore 
in  valore  assoluto  di  tutti  i  valori  delle  derivate  prime  e  seconde  delle  x,  y)  soddisfa 
alla 

.      '  \0L\<KHdX-\-dY-tdXdY). 

Altrettanto  trovasi  per   il   triangolo   BCD.   Cosicché  l'area  del   (|uadrangolo 
rettilineo  AB  CD  vale  il  valore  assoluto  di 


,  d  (x,  v) 

dove  con    .,V-^4>- 
d  {X,l) 


(  d  {x,  y) 

\d  (X,  Y) 

indico  il  valore  in  A  del  cosidetto  Jacohiano 


tAdXdY, 


dx 
dX 
dx_ 
dY 


ali 
dX 

Èli 

ÒY. 


e  con  (^  indico  una  quantità  soddisfacente  alla 

i  r^  1<  IO  {dX-^dY+dX  dY).  (1) 

Moltiplicando  tale  area  per  un  valore  F,  che  la  funzione  F(x,  y)  assume   in 
tale  quadrangolo,  e  sommando  tutti  i  prodotti  così  ottenuti,  si  trova 

d  {x,  y) 


HF 


d  (X,  Y) 


dXdY+I,  p  F  dXdY. 


dX  = 


=j  -j 


d  (x,  y) 


d  (X,  Y) 


dY. 


In  virtù  della  (1)  e  con  metodi  analoghi  a  quelli  dell'osserv.  del  §  108  si  trova 
che  il  secondo  addendo  tende  a  zero,  e  che  (cfr.  §  103): 

7/  integrale  I  Fd-  è  uguale  a  : 

Se  X  —  ,s  Y=  0,  X  —  p  cos  o,  y  z=  e  sen  ^,  allora 

d  (x,  y) 

d  (X,  Y) 

E  si  ritorna  alla  formola  del  precedente  §  108. 

Oss.  Se  noi  consideriamo  X,  Y  come  coordinate  cartesiane  ortogonali  in  un 
altro  piano  P,  e  indichiamo  con  H  la  regione  di  P,  che  è  luogo  dei  punti  corri- 
spondenti ai  punti  di  J,  se  t  e  h  indicano  al  solito  le  aree  di  due  pezzi  corrispon- 
denti di  J  e  di  H,  allora  il  valore  assoluto  del  precedente  Jacohiano  vale  natural- 
mente la  derivata  -^  .  Dimostrando  direttamente  questa  proposizione,  si  avrebbe 
un'altra  dimostrazione  dei  risultati  di  questo  §. 


(*)  Queste  condizioni  si  potrebbero  rendere  meno  restrittive. 


357 


CAPITOLO  XVIII. 
EQUAZIONI  DIFFERENZIALI 


§  109.  —  Considerazioni  e  definizioni  fondamentali. 

Il  calcolo  integrale  si  propone  il  seguente  problema  fonda- 
mentale :  Conosciuta  la  derivata  di  una  funzione,  come  si  può 
calcolare  questa  ftinzione  ? 

Ora  possiamo  proporci  il  seguente  problema  più  generale  : 
Sia  y  una  funzione  di  una  o  più  variabili  indipendenti  ;  consi- 
deriamone le  derivate  di  primo,  secondo ennesimo  ordine,  e 

supponiamo  che  sia  nota  soltanto  qualche  relazione  fra  la  y, 
le  variabili  indipendenti  e  queste  sue  derivate.  Ci  domandiamo: 

In  quanto  può  una  tale  relazione  servire  per  ^determinare 
la  funzione  incognita  y  ? 

Una  relazione  di  questo  genere  si  chiama  una  equazione 
differenziale^  e  il  problema  che  vi  si  riferisce,  e  che  noi  abbiamo 
enunciato,  si  chiama:  il  problema  delV integrazione  delle  equa- 
zioni differenziali. 

■  Cominciamo  a  porre  una  distinzione  fondamentale.  Può 
avvenire  che  le  variabili  indipendenti  si  riducano  ad  una  sola 
e  quindi  che  la  relazione  data  sia  una  relazione  fra  la  funzione, 

la  variabile  e  le  derivate  di  ordine  1,  2, ,  n  della  funzione 

rispetto  all'unica  variabile.  Oppure  può  darsi  che  le  variabili 
indipendenti  siano  più  d'una  ;  e  in  tal  caso  le  derivate,  che 
figurano  nella  nostra  equazione,  saranno  deiivate  parziali. 

Nel  primo  caso  l'equazione  differenziale  si  dirà  a  derivate 
ordinarie,  nel  secondo  si  dirà  a  derivate  parziali. 

Nell'uno  e  nell'altro  caso  si  chiamerà  ordine  n  dell'equazione 
quello  della  derivata  di  più  alto  ordine  che  in  essa  comparisce. 

Può  darsi  che  invece  di  una  sola  relazione  tra  le  variabili, 
la  funzione  e  le  sue  derivate  ne  siano  date  più,  da  considerarsi 
come  simultanee  ;  allora  si  ha  ciò  che  si  chiama  sistema  di  equa- 
zioni differenziali.  Può  anche  darsi  che  si   abbiano    sistemi   di 

equazioni  differenziali  con  più  funzioni  incognite. 

r 


358  CAPITOLO    XVIII   —    §    109 

L'analisi  offre  continui  esempi  di  problemi,  la  cui  risoluzione 
dipende  da  equazioni  differenziali.  Del  resto  è  ben  noto  che  anche 
la  fisica,  la  meccanica,  ecc.  offrono  innumerevoli  esempi  di  tali 
problemi,  perchè  un  gran  numero  di  leggi  fìsiche  si  enunciano 
precisamente  mediante  equazioni  differenziali.  La  legge  di  gra- 
vitazione universale,  p.  es.,  ci  dà  un  legame  tra  le  distanze  dei 
centri  dei  corpi  celesti  e  le  rispettive  accelerazioni,  cioè  le  deri- 
vate seconde   rispetto    al   tempo  delle  coordinate  di  tali  centri. 

Q-ià  i  problemi  che  abbiamo  risolto  ai  §§  90,  92,  93  sono 
altrettante  integrazioni  di  particolari  equazioni  o  sistemi  di 
equazioni  differenziali. 

Così  p.  es.,  il  problema  di  ricercare  una  funzione  z  dì  x  e  y 
tale  che  la  sua  derivata  rispetto  a  a;  sia  ilf  {x,  y),  e  la  sua 
derivata  rispetto  a  y  sia  Nix,  y),  consiste  nelFintegrazione  del 
sistema  di  due  equazioni  differenziali  del  primo  ordine  a  deri- 
vate parziali  : 

^f^  =  M{x,y), 
Yy  =  N{x,y). 

La  ricérca  delle  funzioni  z  ài  x  ^  y,  per  cui  la  derivata 
parziale  mista  fatta  prima  rispetto  a  a;  e  pòi  rispetto  a  y  sia 
uguale  a  P  (x,  y),  non  è  altro  che  l'integrazione  deirequazione 
differenziale  del  secondo  ordine  a  derivate  parziali: 

La  ricerca  delle  funzioni  che  hanno  per  derivata  f{x)  si 
riduce  all'integrazione  dell'equazione  differenziale  ordinaria  del 
primo  ordine  : 

%=m.  (1) 

È  chiaro  che  la  (1)  è  l'equazione  differenziale  di  tipo  più 
semplice  :  su  di  essa  ci  siamo  lungamente  trattenuti,  formando 
la  sua  risoluzione  l'oggetto  precipuo  del  calcolo  integrale.  Ma  è 
pure  ben  manifesto  che,  se  per  l'integrazione  della  (1)  ci  tro- 
vavamo assai  spesso  nel  caso  di  non  saperla  eseguire  che  per 
approssimazione,  per  l'integrazione  di  equazioni  differenziali  più 
complesse  avverrà  generalmente  altrettanto.  Noi  ci  limiteremo 
esclusivamente  allo  studio  di  particolari  tipi  di  equazioni. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  359 

Lo  studio  generale  delle  equazioni  differenziali  costituisce  da 
solo  uno  dei  rami  più  estesi  delle  matematiche,  e  riceve  continue 
applicazioni  alle  scienze  fisiche,  e  in  genere  a  tutte  le  scienze 
che  hanno  per  oggetto  enti  suscettibili  di  misura. 


§  110.  —  Equazioni  differenziali,  la  cui  integrazione 
è  ridotta  a  quella  di  un  differenziale  esatto. 

a)  Sia  f  una  funzione  delle  due  variabili  x,  y  ;  trovare  tutte 
le  funzioni  y  della  x  che  soddisfano  a  un'equazione  del  tipo 

/"(a;,  ?/)  =  cost.  (1) 

equivale  a  trovare  tutte  le  funzioni  ?/  definite  implicitamente 
dalla  (1). 

E  chiaro  che  per  tutte  e  sole  le  funzioni  definite  implicita- 
mente dalla  (1)  si  ha  che,  sostituendo  nel  primo  membro  della  (1) 
in  luogo  di  y  il  suo  valore  e  derivando  la  funzione  di  x  che  ne 
risulta,  si  ottiene  lo  zero.  In  altre  parole  la  (*) 

K^ìf^ìf^A^O  (2) 

dx       ^x       ììy  dx 

vale  per  tutte  e  sole  le  funzioni  y  definite  implicitamente 
dalla  (1). 

La  (2)  è  un'equazione  differenziale  ordinaria  del  primo 
ordine  :  tutte  le  funzioni  y  che  la  risolvono  sono  tutte  e  sole 
quelle  che  soddisfano  alla  (1). 

Si  abbia  ora  l'equazione  differenziale  del  tipo: 

M{x,y)-^N{x,y)^^0,  (3) 

la  quale,  moltiplicata  per  dx,  si  può  scrivere  : 

M{x,  y)  dx  -h  Nix,  y)  dy  =  0.  (4) 

Se  il  primo  membro  di  (4)  è  un  differenziale  esatto,  se 
esiste  cioè  una  f(x,  y)  tale  che  : 

^=M{x,y)',     y^  =  N{x,y\ 


(*)  Si  suppongono  qui,  e  nei  seguenti  §§,  finite  e  continue  tutte   le  funzioni, 
e  loro  derivate,  che  si  presentano  nel  calcolo. 


360  CAPITOLO   XVIII    —    §    110 

per  le  considerazioni  precedenti  tutte  e  sole  le  funzioni  y  della  x 
che  risolvono  la  (3)  o  la  (4)  sono  le  funzioni  rappresentate 
implicitamente  dall'equazione 

fix,y)  =  C, 

dove  C  è  una  costante  affatto  arbitraria  (*). 

Esempio. 

Si    voglia,    ad    esempio,    risolvere   l'equazione    differenziale 
ordinaria  del  primo  ordine  : 

_2y  -^  j?  -^(2x  -\-  y-)  y  =0;  (5) 


si  vogliano   cioè    trovare  tutte  e  sole  le  funzioni  y  della  x,  che 
la  soddis 
per  dx  : 


la  soddisfano.  Poiché  y  ^=^-j- ,  la  (5)  si  può  scrivere  moltiplicata 


i2y  -ì-  x^)  dx  -+-  (2  X  -f-  ?/)  dy  =  0. 
Il  primo  membro  è  un  differenziale  esatto,  poiché  : 

r). 


^^(2,+..^)== 

2 

funzioni  f,  per  cui  : 

f=2y  +  .^ 

ox 

ìf       2x 

y~, 

si  ottengono  integrando  2y  -\-  x'*  rapporto  a  a:  e   aggiungendo 
una   funzione  di   y   tale   che  la   funzione  che  ne  risulta  abbia 
per  derivata  rapporto  a  ?/  la  2  x  -I-  ^■. 
Sarà  dunque  : 


f  = 

2  xy 

-t 

+  Y, 

essendo 

F  tale  che 

' 

(2^ 

y-^ 

x' 
4 

-f- 

>■); 

—  2x- 

(*)  Più  precisamente  la  C  deve  soddisfare  a  questa  unica  condizione  che  la 
/  {x,  y)=  C  sia  risolubile  rispetto  alla  .?/.  Così,  p.  es.,  se  per  x  =  a,  1/  =  h  le 
f'.r,f],  sono  finite  e  continue, ed/',/ =n=--0,  si  può  porre  C  =  f  {a,  h).  (Cfr.  §  84,  fi). 


EQUAZIONI    DIFFERENZIALI  361 

Ma: 

/  X  ^   \  , 


(- 

rz/-f- 

1- 

•-); 

— 

2,1 

Dovrà 

dunque 

essere 

.  : 

2  X 

+  r== 

^  2x 

-+- 

Y 

ossia  : 

y'  =  y\ 


cioè  : 


Y=   -^  +  cost. 


Sarà  dunque 


fz=z  2xy  -h  —-  -^  ^  -h  cost. 

E  le  funzioni  y.  dì  x  che  risolvono  la  (5)  sono  le  funzioni 
definite  implicitamente  dall'equazione  : 

dove  C  è  una  costante  arbitraria. 

1^)  Se  nella  (3)  la  if  e  la  ^  sono  rispettivamente  funzioni 
della  sola  x  e  della  sola  y,  il  primo  membro  della  (4)  è  certa- 
mente un  differenziale  esatto  (§  90,  P).  Le  funzioni  f  che  hanno 
per  differenziale  il  primo  membro  della  (4)    sono   espresse  da  : 


J  Mdx  -+-   r  Ndy  -h  cost. 


e  le  funzioni  y  che  soddisfano  l'equazione  diiferenziale  proposta 
sono  quelle  definite  implicitamente  dall'equazione  : 


j   Mdx-h   j   Ndy=^  cost. 


Simili  equazioni  differenziali  si  dicono  a  variabili  separate 
(cfr.  §  90,  ?,  pag.   299). 

Così,  ad  esempio,  si  abbia  da  integrare  l'equazione  diffe- 
renziale ordinaria  del  primo  ordine  : 

—  sen  x  dx  -h  y  dy  =^  0. 

Il  primo  membro  è  un  differenziale  esatto  a  variabili  separate. 


362  CAPITOLO   XVIII   —   §    110 

Le  funzioni  y  che  soddisfano  l'equazione  differenziale  sono  date 
implicitamente  dall'equazione  : 

cos  a:  -h  ^  —  e 
2 

dove  C  è  costante  arbitraria. 

Risolvendo  l'ultima  equazione  rispetto  a  ?/  si  ha  : 

?/  =  ±  1/2  C  —  2  cos  ic. 

Talvolta,  pur  non  essendo  il  primo  membro  della  (4)  un 
differenziale  esatto  a  variabili  separate,  si  può  con  facili  artifìci 
ridurlo  tale. 

Così,  ad  esempio,  si  abbia  da  risolvere  l'equazione  diffe- 
renziale : 

V  xy  dx -\t\  xy  dy^^^ 
ossia  : 

VX  Vy  dx  -I-  VX  vy  dy  =  0. 

•   Dividendo  ambo  i  membri  dell'equazione  peri/ ?/i/x(*)  si  ha: 

\^dx+^dy  =  0.  (6) 

VX  Vy 

Colla  divisione  operata  abbiamo  ricondotto  l'equazione  dif- 
ferenziale proposta  al  tipo  precedentemente  esaminato,  onde, 
integrando  la  (6),  si  ha  che  le  funzioni  y  che  la  risolvono  sono 
date  implicitamente  dall'equazione  : 

fXy^dx^  f^dy  =  C     (0=cost.) 

_  J  VX        -^  vy 


ossia  dalla 


da  cui 


7  5  ^ 


=  (fc-A,70 


(*)  Questa  divisione  è  lecita  (se  x  è  generico)  supposto  2/=t=0.  Bisognerà  poi 
esaminare  a  parte  se  la  «/  =  0  è  (come  avviene  appunto  nel  caso  nostro)  una 
soluzione  della  nostra  equazione. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  363 

Le  funzioni  y  rappresentate  dalla  forinola  precedente  insieme 
con  la  soluzione  y=^0  sono  tutte  e  sole  le  funzioni  che  risol- 
vono Tequazione  differenziale  che  ci  eravamo  proposti  di  studiare. 

In  generale  si  può  dire  che,  se  si  ha  un'equazione  differen- 
ziale del  tipo: 

XYdx-hE,ridy—0,  (7) 

dove  X,  ^,  Y,  f]  sono  funzioni  le  prime  di  a;  e  le  seconde  di  y, 
si  può  facilmente  rendere  il  primo  membro  della  (7)  un  diffe- 
renziale esatto  a  variabili  separate,  dividendo  ambo  i  membri 
della  (7)  per  ^  F.       ' 

Esempio. 

Consideriamo  la  pila  di  un  ponte  ;  ne  sia  So  la  sezione 
superiore  ;  sia  x  la  distanza  di  un  punto  della  pila  da  So,  e 
sia  S(x)  la  sezione  della  pila  posta  alla  distanza  x  da  So.  Si 
richiede  talvolta  nella  tecnica  che  l'incremento  S(x  -^  h)  —  S{x) 
della  sezione  sia  proporzionale  al  volume 


j: 


S  (x)  dx 


di  quella  parte  di  pila,  che  è  racchiusa  tra  le  sezioni  poste  alle 
distanze  x,  x  -^  h  da  So  (*).  Sarà  perciò 


s{x-hh)  —  s(x)     ,  1  r*;t.' 


h 


hj. 


S  (x)  dx 


dove  k  è  una  costante  dipendente  dal  tipo  di  costruzione  adottato. 
Passando  al  limite  per  /^  =  0  si  trova  : 

S'(x)=^kS{x), 

cioè  : 

dS  _ 

7^    A^  dx 

donde  : 

log  S=:  k  X  -+-  cost. 

Poiché  S  ^=^  So  per  x  =  0,  sarà  : 

log  S  =  k  X  -h  log  So 

S=Soe'\ 


(*)  E  ciò,  perchè  generalmente  l'area  di  una  tale  sezione  si  fa  proporzionale 
al  carico  complessivo  (del  ponte  e  della  stessa  pila),  che  gravita  su  tale  sezione. 
Strila  So  gravita,  p.  es.,  soltanto  parte  del  ponte. 


364  CAPITOLO  xvm  —  §  110 

Y)  Altro  tipo  di  equazione  differenziale  ordinaria  del  primo 
ordine,  che  si  può  ridurre  al  tipo  precedente,  è  quello  in  cui 
la  Mix,y)  e  la  N{x,y)  che  figurano  nella  (4)  siano  funzioni 
omogenee  dello  stesso  grado  n. 

Ricordo  che  una  funzione  di  x,  y  si  dice  funzione  omogenea  di 

grado  w  se  è  uguale  al  prodotto  di  x""'  per  una  funzione  di-- 

X 

Cosi,  ad  esempio  :  x  4-  y-  -^  xy  h.  una  funzione  omogenea  di 
grado  2,  perchè  è  uguale  a 


-'  ('  -  (i)  -  f  ) 


È  funzione  omogenea  di  grado  —la 


poiché 

/.- 

+  ?/ 

=  |/:r(l  + 

X  / 

1 

Vx+y- 

=  X' 

Se  nella  (4): 

M{x,  y)  dx  4-  N{x,  y)  dy  =  0, 

\?i  M  ^  N  sono  funzioni  omogenee  dello  stesso  grado  n,  è  facile 
indicare  un  metodo  generale  di  integrazione.  Infatti  introduciamo 
una  nuova  variabile  z  in  luogo  di  y,  ponendo  : 

^=..  (8) 

.      ..  X 

Dividendo  la  (4)  per  x"*,  i  coefficienti  di  dx  e  dy  risultano 
funzioni  del  solo  rapporto-^;  cioè  si  ha  un'equazione  del  tipo: 

X 

(9) 


,{i),.^,{i)„ 

—  ( 

Intanto  da 

: 

X 

ovvero     y  — 

zx, 

differenziando 

si  ottiene: 

ày  = 

■  xdz  -^  zdx. 

(10) 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  365 

Sostituendo  in  (9),  si  ottiene  : 

cp  (^)  dx  H-  ^  {z)  {xdz  -I-  2dx)  =  0, 
donde,  raccogliendo  a  fattori  comuni  dx  e  dz,  si  ha  : 

[?  W  4-  .s'^'  {z)]  dx  -f-  x^  (^)  dz^=^0 
che,  separando  le  variabili,  diventa  : 

a;          ?  ('2')  H-  ^  H'  (5^) 

che  è  a  variabili  separate,  e  noi  sappiamo  quindi  integrare. 
Sia,  p.  es.,  data  l'equazione  : 

-ri.  X  y      \  x~        ^ 

(  a;"  4-  y  ]       X'  -\r  y 


Posto  —  =  ^j  essa  diventa  : 


dx  4-  — r,  (xdz  ■+-  zdx)  =  0 


ossia 


l  -^  z-\  \-\-  z 

dx  dz 


0. 


X         14-^" 

Integrando  si  ottiene  log  |  ^  |  -i-  arctg  z=^C{C^=  cost.).  Donde 

-s-  =  -^  =  tg  [C  —  log  i  ^  I]  e  quindi  y  =  a;  tg  [C  —  log  |  x  |]. 

S)  Noi  abbiamo  visto  che  la 

' Mdx -\- Ndtj  =  0  (12) 

è  risolubile  mediante  quadrature,  se  il  primo  membro  è  un  diffe- 
renziale esatto,  e  in  particolare  se  le  variabili  sono  separate 
(o  si  possono  con  qualche  artijfìcio  separare). 

Se  il  primo  membro  di  (12)  non  è  un  differenziale  esatto, 
ci  si  può  chiedere  se  è  possibile  trovare  una  funzione  p  (r,  y) 
delle  .T,  y,  che,  moltiplicata  per  esso,  lo  renda  un  differenziale 
esatto.  Una  tale  funzione  p  si  dice  essere  un  moltiplicatore 
di  Mdx  -f-  Ndy. 

È  chiaro  che,  se  in  qualche  modo  si  può  giungere  a  tro- 
vare un  tale  moltiplicatore,  allora  la  risoluzione,  o,  come  si 
suol  direj  l'integrazione  della  (12)  è  ricondotta  a  calcolare  degli 
integrali  indefiniti,  cioè  è  ridotta  alle  quadrature. 


366  CAPITOLO   XVIII    —   §    110 

Affinchè  p  sia  un  moltiplicatore,  ossia  affinchè  p  Mdx  -+-  p  Ndy 
sia  un  differenziale  esatto,  deve  essere  : 

;r- (pilf)  =  ^  (piV'),  ossia: 
dy  dx 

'    V  dy        dx  /  dy  dx 

Questa  è  un'equazione  alle  derivate  parziali  per  la  p  ;  e  il  pro- 
blema di  risolvere  le  equazioni  a  derivate  parziali  è  assai  piii  com- 
plicato del  problema  di  risolvere  le  equazioni  a  derivate  ordinarie. 

Il   metodo  di   cercare   un   moltiplicatore   riesce  perciò  utile 

solo  in  casi  particolari. 

V  Esista,  p.  es.,  un  moltiplicatore  p  funzione  della  sola  x. 

Dp 
Essendo  in  tal  caso  ^  =  0,    la    nostra    equazione   diventa 

d\og\p\_  1  3p__  1   /'ÒM      :)N\ 

dx  p  "òx       Nx'òy        'òx / 

E,  affinchè  si  possa  risolvere  quest'equazione  con  una  fun- 
zione p  della  sola  x,  anche  il  secondo  membro  ^(-^ Y~  ) 

deve  essere  funzione  della  sola  x.  ^ 

Se  così  avviene,  il  problema  è  dunque  ridotto  alle  quadrature. 

2°  Così  pure,  se  t-  (  -^^ ^r—  )  è  funzione  della  sola  y. 

M\dx        oy  / 

esiste  un  moltiplicatore  p  funzione  della  sola  ?/  ;  e  il  problema 

è  ancora  ridotto  alle  quadrature. 

Così,  per  esempio,  sia  data  l'equazione  {x  -h  y)  dx  -)r  dy  =  0. 

1    /'ÒM      DNX^ 
^x -h  y  =^  M,  N=l,-z^  l-^ ^  j  =  1    e    costante,    non 

dipende  da  y;  esiste  un  moltiplicatore  p  funzione  della  sola  x 

definito  dalla  ^i^  =  l. 
dx 

Si  può  dunque  porre  p'=^e'';  l'equazione  diventa: 
e'^ix  -i-  y)  dx  -^  e^  dy=-  0. 

Posto  ^  ==  e*  (x  -h  2/),  ^  =  e*,   si   trova  ^  =  ^e^  -+-  cp  (x), 
ex  òy 

dove  cp  è  funzione  di  x,  tale  che  \y  é"  -f-  ^  {x)\ ^^=^  é"  (x  -4- ?/), 

ossia  cp'  {x)  =  a:;  e*,  (f  (x)  =  a;  e*  —  e*  4-  cost.  Le  funzioni  y   che 

soddisfano  alla  nostra  equazione  differenziale  sono  dunque  quelle 

date  dalla  x  e^  -\- y  e""  —  e^  =-(x  -^  y  —  \)  e^  ^=^  cost. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  367 


Esempio. 

La  quantità  di  calore  Q  data  ad  una  massa  di  gas  ne  fa 
variare  o  la  pressione  ^  o  il  volume  v,  o  entrambe  le  p,  v.  Se 
noi,  p.  es.,  teniamo  'v  costante,  varierà  la  pressione  p  ;  il  rap- 
porto — 7  ,   ove  dQ  è  la  quantità   di   calore    necessaria  per  far 

Clv 

aumentare  la  temperatura  t  di  dt,  è  una  costante  e  ;  il  cosidetto 
calore  specifico  a  volume  costante.  Sarà  dunque  dQ  =  cdt  ;  l'in- 
cremento dt  di  temperatura  è  dato  da  ^  dp  ;  cosicché  infine  : 

dQ-=Cy^dp. 

Cosi  pure,  se  con  C  indichiamo  il  calore  specifico  a  pressione 
costante,  sarà  : 

dQ=Cpdv 

dv 

l'incremento  di  calore  che  si  deve  dare,  affinchè  il  volume  del 
gas  (tenuto  a  pressione  costante)  aumenti  di  dv. 
Cosicché  complessivamente 

dQ  =  e  ^--  dp  -^  C  ^  dv 

óp  dv 

é  la  quantità  di  calore  necessaria  per  aumentare  p,  v  rispetti- 
vamente di  dp^  dv. 

Ora  noi  ci  chiediamo  :  Può  Q  essere  una  funzione  di  ^,  i;  : 
ossia  può  una  massa  di  gas,  ritornando  alle  stesse  condizioni 
(di  temperatura  e  di  pressione)  possedere  in  ogni  caso  la  stessa 
quantità  di  calore  ?  Ciò  che  sembra  la  conseguenza  pili  sem- 
plice dell'antica  ipotesi  dell'indistruttibilità  del  calore. 

Se  così  fosse,  l'espressione  sopra  trovata  per  dQ  sarebbe  un 
diiferenziale  esatto.  Si  avrebbe  cioè  : 

^  r  ^t\      3  /^3n     y~t  _ 


^v\    'òp/         ^p\     'òvf  ^p^v 

ciò   che    non    è,    perchè    C  ^  e,    e   t  =  ~  pv,  dove  R    è   una 
costante. 

Se  c^  dp  -h  C  Y~  ^^   ^^^    ^    esatto ,    noi    possiamo    cer- 
care di  renderlo  esatto  moltiplicandolo  per  un  moltiplicatore  p. 


368  CAPITOLO   XVIII   —   §    110 


Dovrà 

essere  : 

•           * 

T.("' 

3<\ 

ossia  p  (e 

ì)p  'òv 

3pD<_ 

ossia 

e    1  - 

La 

soluzione 

più  semplice  si 

ottiene, 

supponendo 

Slogf 

-4-1-0; 

^  ^  >  ; 

^-f-  1        0; 

ossia    supponendo    p    inversamente    proporzionale    a  j:>    e    a    v, 

ponendo,  p.  es.,  p  =  —-  .  Si  ha  così  che  —  è    un    differenziale 

esatto  ;  la  funzione,  di  cui  esso  è  differenziale,  dicesi  entropia. 
E  ne  è  ben  nota  l'importanza  in  termodinamica. 

Dicesi  abiabatica  ogni  trasformazione,  che  non  richiede  né 
assorbimento,  né  dispersione  di  calorico  ;  tali  trasformazioni  sono 
quindi  definite  dalla 

0  z=z  dO  =^  e  :^  dp  -i-  C  .r-  dv  ossia   dalla   e  vdp  -4-  C  pdv  =  0. 
Op  dv  ^  ^ 

1     ,  .  1  •!•     .  dp        ..dv       ^      .   . 

Separando  le  variabili  si  trova  e h  (        =0,  cioè 

p  V 

e  log  j;  -H  C  log  V  =  cost. 

pv''  =  cost.      ,     ^  =  cost.  V    '^  , 
che  ci  dà  in  termini  finiti  l'equazione  di  una  adiabatica. 

Un'applicazione  alV equazione  X  (x,  y)   -  +  Y  (x,  y)  =0. 

Abbiamo  visto  che  l'equazione  ^  =  -^  .  '  '     si  sa  risolvere  se  si  conosce  una 

funzione  f  {x,  y),  le  cui  derivate  f'.v,  f'y  sieno  proporzionali  alle  —  Y{x,y),X{Xjy); 
cioè  una  funzione  f{x,y)  tale  che  Xf'x-h  Yf'y  =  0',  perchè  precisamente  (almeno 
se  sono  soddisfatte  le  condizioni  sopra  enunciate)  le  funzioni  y  (x)  cercate  sono 
quelle  che  soddisfano  all'equazione  /'(^>.'/)  ~cost.  Viceversa  si  conoscano  le  solu- 
zioni dell'equazione  y'  =  =,  e  si  sappia  che  esse  sono  tutte  e  sole  le  funzioni  che 

soddisfano  ad  una  equazione  f  {x,  y)  —  cost.  Poiché  esse  sono  anche  tutte  e  sole 
le  funzioni  che  soddisfano  alla  f{x,y)  —  cost.   quando   f  {x,  y)   è   una   soluzione 

ài  Xy-'h  Y~  —0,  tali  funzioni  f(x,  y),  che  soddisfano  alla  ^  '>z,  ~^  ^ 'fjn  —  ^^ 

saranno  tutte  e  sole  le  funzioni  che  restano  costanti,  quando  v  è  costante,  cioè 
saranno  le  funzioni  di  y.  (Cfr.  l'ultimo  esempio  del  §  117). 


EQUAZIONI    DIFFERENZIALI  369 

Così,  p.  es.,  si  trovino  le  soluzioni  di 

.^+2/f  =0. 

Le   soluzioni   della    -^  =  -  ,   ossia   della  -"     =   —    sono   quelle   tali   che 
dx        X  y  X 

log  y  =  log  X  -\-  cost.,  ossia  tali  che   -  —  cost.  Le  funzioni  f  cercate  sono   tutte 

X 

e  sole  le  funzioni  di  -  ,  come  è  facile  verificare. 

X 

L' equazione  di  Eulero  x  -y  +  2/  y-  =  ^/       (^  =  cost.). 
Posto  »  =  log  I  /'  I  —  w  log  I  a?  I  ,  tale  equazione  diventa  x    -  4-7/  -^    =0. 


I  f  (x  v) 
Perciò  *  {x,  y)  —  log  \f{x,y)\—n\Qg\x^=^  log     '  ^   '  ^ 


X 

porto  -  .  Altrettanto  avverrà  di  i^=  e 


fi^.ll) 


è   funzione   del   rap- 


Perciò  f  {x,  y)  —  a;«  F  (- j  .  In 


x" 

tal  caso  si  dice  che  /  è  funzione  omogenea  di  grado  n,  perchè,  moltiplicando  x 
ed  y  per  una  stessa  costante   h,   la  f  (x,  y)  resta  moltiplicata  per  h".   Più   in 

generale  le  soluzioni  f{x^,  x^, ,  x,)  dell'equazione  ^i  Xi  -J-  =  nf  sono  tutte   e 

sole    le   funzioni    omogenee    di    grado   n    delle    x,    cioè    le    funzioni    del    tipo 

(or       or  ^  \ 

-,   —  , ,  — 'l  .   Infatti   se   consideriamo   f  come   funzioni   delle    varia- 
ci    ^1  ^il 

X  X        ■  X  òf       n 

bili  i,  =r  ic,  ;  ?j  =  -  ;  ?3  =:  —  ; .....  ;  ?«  =  —  ,  la  nostra  equazione  diventa  ^  =  —  / , 

X^  iCj  Xy  C?|  ?  I 

donde  t^^lIA  =  1^  ;  log  1  /•  ì  =  ^  log  ì  ?,  1  -h  •i'  ;  /•  =  i^  .,  [4-  =.  log  1  n  ] 
dove  '!:>  (e  quindi  anche  f)  sono  costanti  rispetto  alla  ?,,  e  cioè  sono  funzioni  delle 
sole  ?2>  Hy  ••••  ^««  ^-  ^-  d- 

§  111.  —  Tipi  particolari  di  equazioni  differenziali. 

a)  Sia  data  l'equazione  lineare  (*)  del   primo   ordine    omo- 
genea (**) 

y^F{x)ij,  (1) 

dove  P{x)  è  una  funzione  continua  della  x.  Dividendo  per  y 
(supposto  per  un  momento  diverso  da  zero)  se  ne  deduce 

V  ci 

^-  =  P (x),  ossia  -z-\og\y\=^P (x). 
y  dx 

È  perciò  log  I  ^  I  =  1  P  {x)dx  -h  C\  e  quindi  |  ?/  !  =  e^+/^(*>'^* 
(C'  =  cost.  arbitraria). 


(*)  Lineare  perchè  di  primo  grado  nella  y  e  derivata  y'. 
(**)  Omogenea  perchè  mancano  termini  di  grado  zero  nelle  ?/,   y'.   Vi   è   in- 
vece un  tale  termine  Q  {x)  nell'equazione  che  trattiamo  in  [-i. 

24  —  G.  FuBiNi,  Analùi  matematica. 


370  CAPITOLO   XVIII   —    §    111 

Notando  che,  essendo  C  una  costante  arbitraria,  e^  è  una 
costante  arbitraria  positivUy  e,  passando  dal  valore  di  \y\  a 
quello  di  y,  se  ne  trae 

y  =  Ce-^p  =^)^*         ossia         y  e-Z^^*)*^*  =  C*, 

dove  C  è  una  costante  arbitraria  che  ha  il  segno  di  y.  E  questa 
formola,  come  si  verifica  facilmente,  dà  proprio  una  soluzione 
di  (1).  Per  quanto  abbiamo  detto  essa  dà  anzi  tutte  le  solu- 
zioni di  (1),  perchè  per  C  =  0  dà  la  soluzione  (finora  esclusa) 
y  =  0. 

P)  Sia  data  l'equazione  lineare  del  primo  ordine 

y  =^  P{x)  y  -h  Q  (x)  (2)  (P,  Q  funzioni  continue  della  x). 

La  2/  =  ^e/^(a5)rf«  soddisfa  alla  (2),  ove  si  supponga  Q{x)  =  0, 
quando  con  ^  si  indichi  una  costante  (questo  §,  a).  Cerchiamo  se 
è  possibile  determinare  la  z  come  funzione  non  costante  della  x 
in  guisa  che  la  ^  =  ^e/^<*^^=^  soddisfi  all'equazione  più  gene- 
rale (2)  (ciò  che  in  sostanza  equivale  ad  assumere  come  fun- 
zione incognita  al  posto  della  y  la  ^  =  e/e-/p(a')^^). 

Questo  metodo,  detto  metodo  della  variazione  delle  costanti 
arbitrarie,  ha  spesso  applicazioni  nell'analisi,  e  sarà  applicato 
anche  da  noi  in  altri  problemi.  Sostituendo  in  (2)  ^e-^^^»)^'  al 
posto  di  y  otteniamo: 

ossia  : 

/ e/p (») ^^  —  Q  (x) ,        cioè  :       ^'=  Q{x)e-f^ (=«) ***. 

Integrando  si  ha  così  : 
2=:  j  Q  (x)  e-fp^''^^''  dx  -+-  C    (C=cost.  arbitraria) 

e  quindi  : 

y  =  e/p(^)dx  ]  (  Q(x)  6-><^)^*  dx  -h  C\. 

Oss.  1*.  Per  Q{x)=^  0  questa  formola  si  riduce  a  quella 
trovata  in  (a)  per  risolvere  (1). 

Oss.  2*.  È  naturalmente  inutile  scrivere  I  Pix)  dx-hk  slÌ  posto 
di  r  P  (x)  dx  (k  =  cost.  arbitraria)  nella  nostra  formola.  Con 
questo  cambiamento  esso  diventa  infatti  : 

^/p(x)dx-{-k  \(  Q{x)  e->(^)^  e-^  dx  -h  C\=^ 
—  e/p(a:)dx  j  J  Q  (x)  e-><^>^*  dx  -f-  Ce"  \ , 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  371 

che  differisce  dalla  precedente  in  modo  non  essenziale  solo  nel 
fatto  che  la  costante  arbitraria  vi  è  indicata  non  con  C,  ma 
con  Ce^. 

Y)  Il  tipo  pili  generale  di  un'equazione  alle  derivate  ordi- 
narie del  secondo  ordine  è 

dove  f  è  funzione  delle  x,  ?/,  y,  y" , 

Supponiamo  che  in  tale  equazione  non  figuri  la  y,  che  cioè 
l'equazione  sia  del  tipo 

/"C^,  y\  y")  =  0. 

Ponendo 

y=^, 

essa  si  trasforma  nell'equazione 

che  è  un'equazione  differenziale  del  primo  ordine.  Se  noi  la  sap- 
piamo risolvere,  conosceremo  la  z  (con  una  costante  arbitraria) 
e  ne  dedurremo: 

y  =    j  zdx  4-  cost. 

con  una  seconda  costante  arbitraria. 

S)  Un  altro  tipo  di  equazione  differenziale  del  second'ordine, 
che  si  può  ridurre  al  primo,  si  ha  quando  nell'equazione  data 
non  compare  la  variabile  indipendente  x  ;  cioè  quando  si  abbia 
un'equazione  del  tipo: 

fiy\y\y)  =  ^' 

Se  questa  equazione  ha  una  soluzione  y  non  costante  (*), 
prendiamo  questa  y  come  variabile  indipendente  e  chiamiamola  ^. 

La  derivata  y  =:  ~  si  indichi  con  z.  Allora  sarà  : 
^        dx 

„ dy' di,  dy  __  dy  dy  __     dz 

dx        dx  d'i        dx  d'i  di 


(*)  Le  soluzioni  y=^h  {k  —  cost.)  si  trovano  immediatamente.  Come  si  vede 
subito,  sostituendo  nell'equazione  proposta,  esse  sono  le  soluzioni  eventuali  dell'equa- 
zione (non  differenziale)  f  (0, 0,  h)  —  0,  Se  poi  y  non  è  costante,  e  quindi  non  è 
identicamente  y'  =  0,  in  un  qualche  intorno,  per  la  teoria  delle  funzioni  implicite, 
si  potrà  considerare  x  come  funzione  di  t/,  e  quindi  anche  y'  (che  è  funzione 
della  x)  come  funzione  della  y. 


372  CAPITOLO    XVIII    —    §    111 

e  la  nostra  equazione  diventerà  : 

dz 


K^Ì'^'0=^' 


che  è  del  primo  ordine  perchè  vi  compare  solo  la  derivata  prima 

dv 
della  funzione  incognita- -^.  Dedottane  la  z  =^  ~  come   funzione 

dx 

9  iy)  della  ?  =  y,  con  una  costante  arbitraria  (7,  si  dovrà  poi 

:he 
dt/ 


/; 


X  =z  cost. 


9iy) 

come  una  nuova  costante  arbitraria. 
Sia  data,  per  esempio,  l'equazione 

y-^y''  =  0. 

Se  y  =  cost.,  è  ?/  =  0  ;  questo  solo  caso  eccettuato,  si  potrà 
porre  y=^^,y=^z:  cosicché  l'equazione  data  si   ridurrà  alla 

^d^  -\-  z  dz  =^0 


e  integrando  : 

—  H cost 

2          2 

e  cioè  : 

0          ,2        /-il 

2       2      2  ' 

da  cui 

i7i/ 

l->0'-,f. 

(C=cost.) 


Separando  le  variabili 

dy 


Vc'^-y' 
e  integrando  : 


=  dx 


I 


arcsen  -—  =  a?  4-  (/,  //  =  C  sen  {x  -^  d), 
C 

dove  d  è  una  nuova  costante  arbitraria.  Dunque  anche  nell'in- 
tegrale generale  di  quest'equazione  del  2**  ordine  compaiono  due 


EQUAZIONI    DIFFERENZIALI  373 


costanti  arbitrarie.  In  quest'ultima  forinola  è  inclusa  anche  la 
soluzione  ?/  =  0,  che  avevamo  finora  escluso  ;  ciò  che  si  rico- 
nosce, ponendo   (7=0. 

Esempi. 

V  Integrare  l'equazione  y  =  xy'  -h  cp  (y)  [cp  funzione  de- 
rivabile]. 

Ris.  Derivando  entrambi  i  membri  si  ottiene: 

y'  =  y'  -^  xy"  -4-  ^  (y)  y"  ossia  y"  [x  -+-  '/  {y')]  =  0. 

Sarà  dunque  y"  :=  0  oppure  a;  =  —  cp'  (y). 

Nel  primo  caso  y  =  mx  -f-  n  (m,  n  costanti)  ;  e,  sostituendo 
nella  data  equazione,  si  trova  mx  -h  n  =  mx  -4-  cp  (m),  ossia 
n=^  '-p  (m)  e  quindi 

y  z=L  mx  -f-  cp  (w)         (w  =  cost.  arbitraria).       (a) 

Se  invece  a;  =  —  cp'  (?/'),  si  ponga  y'  =  f ;  ricordando  la  data 
equazione  si  trova  : 

^  =  —  T  (0;  ^  =  —  ^  T  (0  +  T  (0. 

L'eliminazione  della  i  tra  queste  due  equazioni  darà  una 
nuova  soluzione  della    nostra  equazione,  se   da   esse  si  deduce 

y  z=L  ^  =:  t;  perchè  allora  la  2""  si  riduce  proprio  all'equazione 

U/  X 

data.  E  infatti  se  ne  deduce  (se  cp"  (t)  --  0) 

dy^—^'(t)-t^''{t)-i-^'{t)  ^ 
dx  —  T"(0 

Se  non  eliminiamo  la  t,  le  precedenti  formole  definiscono 
la  soluzione  in  forma  parametrica;  basta  infatti  far  variare  t 
per  dedurne  le  coppie  di  valori  compatibili  delle  x,  y. 

Queste  due  equazioni  si  possono  considerare  come  le  equa- 
zioni parametriche  di  una  curva  f. 

La  retta  tangente  a  f  in  quel  punto  di  f,  che  corrisponde 
al  valore  m  della  t,  ha  per  equazione  (a).  Cioè  la  curva  f  è 
la  curva,  le  cui  tangenti  hanno  per  equazione  (a),  cioè  è  la 
curva  inviluppo  delle  rette  (a). 

Si  noti  che,  se  si  volesse  dalla  data  equazione  dedurre  y' 
come  funzione  delle  x,  y,  la  y  sarebbe  una  funzione  implicita 
delle  X,  y,  a  cui  proprio  lungo  f  non  sono  applicabili  i  teoremi 
del  §  84,  perchè  lungo  f  è  nullo  cp'  (y)  -+-  x,  che  è  appunto 
la  derivata  parziale  del  primo  membro  della  nostra  equazione 
rispetto  ad  /.  Perciò  f  si  dice  la  soluzione  singolare. 


374  CAPITOLO    XVIII   —   §    111 

2°  Integrare  Tequazione  y  ^:^x^  {y)  -\-  cp  {y')  (cp,  ^  funzioni 
derivabili). 

Ris.  Derivando  si  ottiene  : 
Posto  y'  =  t,  se  ne  deduce 

dt    ^^t—i^it)    t—^{ty 

escluso  il  caso  ^  (t)  =  t,  che  abbiamo  già  trattato  all'esempio  1"*. 
Questa  equazione,  in  cui  si  considera  t  come  variabile  indi- 
pendente ed  X  come  funzione  incognita,  è  un'equazione  diffe- 
renziale lineare  del  primo  ordine  che  già  sappiamo  risolvere. 
E  si  trova 


X 


ìM 


^  (t)  dt  -f-  cost.  ) 

L'equazione  differenziale  dà  poi  , 

y  =  x^{t)-^^  (0. 

Restano  cosi  espressi  x,  y  in  funzione  di  un   parametro  t  ; 

e  con  un'eliminazione  si  potrebbe  (volendo)  dedurne  la  y  espressa 

du 
in  funzione  di  x.  Si  verifichi  che  effettivamente  -^  =  ^. 

dx 

3**  Integrare 

{ax  -^-  ly  -\-  e)  dx  -^  (hx  -h  ky  -+-  l)  dy  =^  0 
{a,  b,  e,  II,  k,  l  =  cost.). 

Ris.  Posto  x^=E,'i-m,  y^=fi-^n  (m,  n  costanti),   V  equa- 
zione diventa  : 


ove  : 


(aE,  -h  bf]  -\-  \i)  d^  -h  (hi  -f-  ^Y)  -h  X)  ^Y]  =  0 
|x  =  am  -4-  6n  -h  e,  "k  =  hm  -h  hn  -h  l. 


Se    ak  —  bh  =¥=  0,    si   possono    scegliere   le   m,  n  in  modo 
che  X  =  ji  =  0. 

L'equazione  diventa: 

(ai  H-  ÒY])  d^  -i-  (H  +  ^'n)  dri  =  0, 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  37  5 

che  è  omogenea  di  primo  grado  ;  e  quindi  le  variabili  si  separano 

fi 

tosto  assumendo  t  ^^  ^  come  nuova  variabile  al  posto  di  v],  ecc. 

Sia  invece  ak  —  bh=^  0.  Sea=^h=^h=^k  =  0  l'equa- 
zione si  risolve  immediatamente.  Se  così  non  è,  almeno  una  delle 
due  espressioni  ax  -\-  by  -\-  e  o  hx  -^  ky  -{-  d,  p.  es.  la  prima, 
non  è  identicamente  costante.  Postala  uguale  a  t,  la  nostra  equa- 
zione diventa: 

tdx  -+-  ipt  -^  q)  dy=^0         (p,  Q.  ^=  cost.). 

Posto  al  posto  della  x  o  della  y  i  valori  che  si  traggono 
dalle  ax  -h  bi/  -\-  e  ^=  t,  la  nostra  equazione  diventa  del  tipo: 

(a^  -h  P)  dx  +  (yt  -¥-h)dt  =  0 
oppure  : 

((xt  H-  P)  6^?/  -h  (yt  -+'h)dt  =  0 
(a,  P,  T,  ^  =  cost.) 

che   si   integra   subito,   separando   le    variabili    (dividendo    per 

(xt  -+-  p). 

Altri  Esempi. 
V  Integrare  le  equazioni  : 

y''  =  P{x)y'-^Q(x); 
y^-^  =  F  ix)  y'""-''  +  Q  {xl  (Si  ponga  z  =  f/^"-^>). 

2^  Integrare  il  sistema  di  equazioni  (ove  s   è   la  varia- 
bile indipendente)  : 

x'^  -h  t/'^  =  1         x'^l  -h  2/'1  =-k'         (k  =  cost.). 

Si  potrà  porre  per  la  prima  equazione  x  =  cos  ^,  y'  =  sen  z  ; 
e,  sostituendo  nella  seconda,  si  trova  : 

^'2  :=::^  j^- ^  doudc  /  =  ±  ^,  ^  =  ±  A:5  "H  /^  (/«  =  cost.  arbitraria). 
E  se  ne  trae  :  ^  =  J  cos  (±  ^s  H-  ìì)  ds,y=^  j  sen  (±  ks  -4-  h)  ds, 
dove  è  poi  da  distinguere  il  caso  ^  =  o  da  quello  ^  =4=  0. 

v" 
3°  Risolvere  l'equazione ^-^ — ^  i=  A:  (^  =  cost.). 


376  CAPITOLO  XVIII    —    §   111-112 

Si  può  seguire  il  metodo  dato  in  questo  §,  ^,  ponendo  y'  =  z. 

Più  brevemente  si  procede  ponendo  y'^^  =^  tg  z,  donde  y"  =  — 2~' 
^  cos  z 

1  -4-  v"  =  —^ir-  .  L'equazione  diventa  : 
cos-^^ 

/  cos  2  =  k  ;  (sen  z)'  =^  k;  sen  ^  =  kx  H-  /i  (/i  =  cost.). 

donde: 

kx  -\r  li  j        •    r    {kx  -f-  /^)  óZìi; 


y 


kx  -ì-  fi         ,      •  r   \^^ 

tg  ^  =    ,  —  edy=^      ,— — 

\/l—ikx-^hy  J]/l  — (/i::r-h/^)'^ 


che  si  integra  tosto,  assumendo  1  —  {kx  4-  h)^  (se  ^  =1=  0)  come 
nuova  variabile  di  integrazione.  E  si  trova  che  le  curve  y^=^y  {x) 

cercate  sono  rette  (per  k  =  0),  o  cerchi  di  raggio  — -  (per  k  =!=  0). 

k 

4^,  Risolvere  l'equazione  y  =^  P{x)  y  -h  Q  {x)  y'". 
Si  divida  per  y'"  e  si  assuma  z  =     ^^_^  come  nuova   fun- 
zione incognita.  Saremo  ridotti  al  caso  studiato  in  questo  §,  p. 


§  112.  —  Teorema  di  Cauchy  e  integrazione  per  serie. 

a)  Vogliamo  ora  fermarci  un  momento  a  studiare  più  da 
vicino  il  significato  delle  costanti  arbitrarie  che  figurano  nella 
soluzione  di  un'equazione  differenziale. 

Se  consideriamo,  p.  es.,  l'equazione  differenziale  più  semplice: 

del  primo  ordine,  la  funzione  : 

y  z=z        f{x)  dx  -\-  cost. 

che  la  soddisfa,  contiene  una  costante  arbitraria  ;  ed  è  noto  che, 
se  fissiamo  il  valore  h  che  questa  funzione  y  deve  avere  per  un 
certo  valore  a  della  variabile,  allora  la  costante,  e  in  conseguenza 
la  y,  restano  completamente  determinate.  Si  ha  appunto: 


y=       f{x)  dx 

J  a 


In  altre  parole:  nella  risoluzione  di  questa  equazione  com- 
pare una  costante  arbitraria  ed  esiste  una  ed  una  sola  funzione 
che  le  soddisfi  e  che  per  x  ^=  a  assume  il  valore  b. 


^       "  EQUAZIONI    DIFFERENZIALI  377 

Negli  altri  tipi  di  equazioni  del  primo  ordine  da  noi  consi- 
derati, l'integrale  generale  contiene  pure  una  costante  arbitraria; 
in  quelle  del  secondo  ordine  l'integrale  generale  ne  contiene  due. 

Date  le  equazioni  differenziali  (del  secondo  ordine),  che 
definiscono  i  movimenti  in  un  sistema  di  punti,  le  traiettorie 
sono  univocamente  determinate  quando  di  ogni  punto  siano  date 
la  posizione  e  la  velocità  iniziale  (cioè  sieno  dati  per  un  certo 
istante  i  valori  delle  coordinate  di  ogni  punto  e  delle  loro 
derivate  prime).  Questo  teorema  è  ben  famigliare  a  chi  abbia 
studiati  anche  i  soli  primi  elementi  della  Meccanica  Razionale. 

Queste  osservazioni  sono  caso  particolare  di  un  celebre  teo- 
rema di  Cauchy,  che  si  potrebbe  dimostrare  col  metodo  delle 
approssimazioni  successive,  già  da  noi  usato  al  §  84,  P,  pag.  279, 
e  in  qualche  caso  col  metodo  degli  sviluppi  in  serie  di  potenze, 
come  accenneremo  più  avanti. 

Se  è  data  Vequazione  differenziale 

y""  =  9  (X,  y,  y', ,  y*-''),        ^ 

dove  9  è  {in  qualche  campo)  una  funzione  continua  e  finita  insieme 
alle  sue  derivate  del  primo  ordine  rispetto  alle  x,  y,  y\ ,  y^°~^^: 

1°  Esistono  infinite  funzioni  y  che  le  soddisfano, 

2^  Esiste  (in  un  intorno  abbastanza  piccolo  di  x  =  a)  una 
ed  una  sola  funzione  y  che  le  soddisfa  e  tale  che  per  x  =  a 
essa  e  le  successive  derivate  y'?  y",  ....;,  y^"~^^  assumono  rispet- 
tivamente valori  prefìssati  ho,  bi,  b2 >  bn_i  (*),  dove  le  a  e 

le  b  sono  arbitrarie  e  sottoposte  aW unica  condizione  che  in  un 
intorno  del  punto 

x  =  a,  y==bo,  y'  =  bi,  ,  y^"-^^  z=:  bn_i 

la  ^  e  le  sue  derivate  prime  sono  finite  e  continue. 

E  sottinteso  che,  se  la  cp  non  soddisfacesse  a  questa  ultima 
condizione,  l'affermazione  di  questo  teorema  potrebbe  benissimo 
essere  falsa  (**). 


(*)  Cioè  per  x  =  a  è  y  =  'bo,  ?/=:b„  il"  =  1.2,  ,  ?/(«-^)=:&„,_i). 

(**)  Così,  p.  es.,  per  un  punto  A  =  {a,h)  delia  curva  r  dell'es.  1»  del  §  111, 
pag.  373,  escono  due  curve  (la  F,  e  la  retta  tangente  a  F  in  ^)  che  soddisfano 
all'equaz.  studiata  in  tale  esempio.  Ciò  esistono  due  funzioni-  y  {x)  soddisfacenti 
a  tale  equazione,  le  quali  per  x=^a  assumono  il  valore  b. 

Dunque  nell'intorno  di  x-=a,  ìj  =  b  non  si  può  risolvere  tale  equazione 
rispetto  ad  y',  deduceudone  y'  come  funzione  continua  con  derivate  continue 
delle  X,  y.  Abbiamo  verificato  infatti  che  in  tale  punto  non  si  può  applicare  il 
teorema  delle  funzioni  implicite. 


378  CAPITOLO   XVIII   —   §    112 

Si  noti  che,  nell'enunciato  di  questo  teorema,  F equazione  si 
suppone  risoluta  rispetto  alla  derivata  di  ordine  massimo. 

Questo  teorema  consta  di  due  parti:  una  che  afferma  l'esi- 
stenza, l'altra  che  afferma  la  unicità  di  tale  funzione  y. 

P)  Vediamo  ora  pertanto  un  metodo  abbastanza  generale  di 
integrazione  delle  equazioni  differenziali,  che  può  riuscire  utilis- 
simo quando  non  siano  applicabili  altri  metodi. 

Si  abbia  l'equazione  differenziale: 

y<->  =  ^(x,y,y\y'\  ,  ;/"-^>)  (1) 

dove  il  secondo  membro  possegga  finite  e  continue  tutte  le  de- 
rivate, e  sia  sviluppabile  in  serie  di  potenze  di  x  —  a,  y  —  h, 

y'  —  K ,2/'"-"-6„-.. 

Consideriamo  allora  il  punto  a;  =  a  e  supponiamo  svilup- 
pabile l'integrale  ignoto  y  neirintorno  del  punto  a  mediante 
la  serie  di  Taylor: 

y  =  y,-^(x  —  a)  y\  H- -4-  i^^  y^^>  -4- (2) 

n  % 

dove  2/o,  y\t  ecc.  sono  i  valori  di  y^  y',  ecc.  nel  punto  x  =  a. 

Intanto  della  nostra  equazione  differenziale  (1)  è  facile,  deri- 
vando successivamente,  calcolare  y^''\  y^'^'^^\  y(^+'^) in  fun- 
zione di  x,y^y  y^""'^^- 

Infatti,  derivando  rispetto  alla  x  la  (1),  si  ottengono  equa- 
zioni del  tipo  seguente: 

y'''^''  =  ^Ax,y,y\ ,  ^"0  («) 

y'^^''  =  ^Ax.y,y\ ,^^  +  ^0  (P) 

Ora,  se  poniamo  in  <^i  al  posto  di  y^""^  il  valore  dato  dalla  (1), 
in  epa  al  posto  di  ^/^"^  e  y^'^^^^  i  valori  dati  rispettivamente  dalla  (1) 
e  dalla  (a),  nella  successiva  ^^  al  posto  di  y^''\  ^""^^^  e  ?/^""*"^^ 
i  valori  dati  dalle  (1),  (a),  (P)  e  così  di  seguito,  otteniamo  appunto 

espresse  solo  mediante  y,  y\  y\ ,  y^'^'^K  Dati  quindi  ad  arbitrio 

per    x^=^Xq    i    valori    òo,  6i,  ,  ò^-i    delle    y,  y\  ,  y^''~^\ 

si  potranno  calcolare  i  valori  che  per  a;  =  a  assumono  y"^,  y~^\ 

2/'"+^ 

Sostituendoli  allora  nella  (2)  si  ha  una  funzione  y  data  sotto 
forma  di  una  serie  ordinata  secondo  le  potenze  di  ce  —  a,  e  nella 
quale  compaiono  le  n  costanti  arbitrarie  6o,  ^i, ?  &«-i- 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  379 

Ora  questa  serie  è  convergente  (come  ha  provato  Cauchy) 
in  un  certo  intervallo  comprendente  il  punto  a;  =  a,  si  può 
derivare  per  serie,  e  rappresenta  precisamente  quella  soluzione  y 

della  (1)  tale  che  y,y\ ,  y^''~^^  per  x^=  a  assumano  i  valori 

prescritti  &o,  ^i, ,  ^n-i- 

Se  la  9  non  fosse  sviluppabile  in  serie  di  potenze,  come 
abbiamo  ammesso,  si  potrebbero  ancora  in  casi  generalissimi 
dimostrare  i  teoremi  di  esistenza  e  di  unicità,  p.  es.  col  metodo 
delle  successive  approssimazioni,  di  cui  abbiamo  già  trovato 
una  importante  applicazione  nella  teoria  delle  funzioni  implicite. 

Esercizi. 

1^  Integrare  per  serie  l'equazione  y'  =^  y. 
Ris.  Si  ha  y'  =  ?/,  y"  =  y'  =  y,  y'"  —  y"  —  y'  —  y  ecc. 
in    generale    ?/^"^  =  y.    Posto    che  y  ^=k  per  a;  =  0,  si  trova 

(ce               00  \ 

1  -h  — -  -f-  7^ — ^ )  =/f:e^  come  già  sapevamo. 

2^  Integrare  per  serie  l'equazione  y"  ±y  =  0. 

§  113.  —  Primi  tipi  di  equazioni  lineari 
alle  derivate  ordinarie  a  coefficienti  costanti. 

Oss.  Il  lettore,  a  cui  non  interessi  il  caso  generale,  potrà  omettere  io  studio 
dei  seguenti  tre  paragrafi,  sostituendo  loro  questo  unico  §  113.  Paragrafo  che  invece 
potrà  essere  omesso  da  chi  studii  senz'altro  il  caso  generale.  È  in  ogni  caso  racco- 
mandabile la  lettura  dell'esempio  4*  al  §  117. 

1°  Sia  data  l'equazione  del  primo  ordine 

y'-i-py=0  (p  =  cost).  (1) 

Le  sue  soluzioni  sono  date  dalla 

y  =z  Ce-P"^  {C  =  cost.  arbitraria).  (2) 

Si  noti  che  nell'esponente  —  px  il  coefficiente  della  x  è  —  p,  e  che  —  p  è  la 
radice  dell'equazione  caratteristica 

c-{-p  =  0  (3) 

ottenuta  da  (1)  ponendo  al  posto  di  y'  e  di  y  la  c^  =  e,  e  la  c°  =  1,  essendo  e  la 
incognita. 

2"  Sia  data  l'equazione 

y"  -i-py'  -\-qy  =  o         {p,  q  «ost.).  (4) 

Se  a,  (5  sono  le  radici  dell'equazione  caratteristica 

c^-i-pc-hq  —  O  (5) 

ottenuta,  scrivendo  1,  c,c^  al  posto  di  y,  y',  y"  (e  essendo  l'incognita),  sarà 


l/F 


?=-|-    W-T-i- 


380  CAPITOLO   XVIII   —   §    113 


La  (4)  si  può  scrivere: 

0  ^  7/"  -  (:.  -h  i5)  if'  -h  cL^y  ■ 

=  in'  —  ^y)'  —  f'  Of  —  ^ìi)- 

Cioè,  posto 

Z  =^    }f'   —  OLÌJ, 

(6) 

la  (4)  diventa: 

z'  -^  ■iz  —  O. 

(7) 

Da  (7), si  trae: 

z  =  Jce^''           {k  =  cost.  arb.). 

Da  ((3) 

1/  =  oLy  -f-  l-eA'' 
cosicché: 

y  =  e       \  Tic             dx  +  li  \           (Jc,  h  =  cost.  arb.). 

I.  Se  a  =3 15,  cioè  se  ^   —  q,  se  ne  deduce 

?/  z=  e^-^  {C^x-h  C,)           (0,  —  Jc;  C,=  h  cost.  arbitrarie). 

II.  Se  oc  =!=  f^ 

y  ~  e        e             -h  h] 

7/  =  e,  e  =^-^  4-  C^  e  3.^            (  C,  =  /«;  C^  ==  7-^  cost.  arbitr.V 

Questa  forinola,  se  oc,  ;5  sono  reali,  ci  dà  tutte  le  soluzioni  reali  di  (4)  quando 
vi  si  diano  a  (7,,  Cj  valori  reali  arbitrarli.  Si  noti  però  che  (anche  se,  come  sup- 
poniamo, p  e  q  sono   reali)   le  a,  ^  possono   essere   complesse,   ciò   che    avviene 

p^ 
se  <Z  —  T-  >  0.  L'ultima  formola  continua  però  a  essere   valida  anche  in  questo 

caso,  e  ci  dà,  se  noi  diamo  alle  C^,  C.^  valori  complessi  arbitrarli,  tutte  le  soluzioni 
reali  0  complesse  di  (4). 

Scegliamo  quelle  di  tali  soluzioni  che  sono  reali.  Bisognerà  a  tal  fine  che, 
mutando  i  m  —  %  la  nostra  y  resti   inalterata.   Ma,   se  noi  scambiamo  t  in  —  i, 

le  a,  j5  (che  valgono  —  |  ±  è  l/  g  r\  si  scambianoxtra  loro.  La  nostra  solu- 
zione saràrcaZe  allora  e  allora  soltanto  che  C,  si  ottenga  da  C^  scambiando  i  in  —  i\ 
cioè  allora  e  allora  soltanto  che  C,,  Cj  sono  immaginarie  coniugate. 

Posto  dunque  C^  —  -^  ^1  +  ^r  ?^'i,    C,  ~  —  A-, ih.;,,  dove  A-,,  k^  sono 

costanti  reali  arbitrarie,  la 

=  (  —  A;,  —  —  ikA  e      *"      !  cos  F  g  —  ^-  a;  4-  i  sen  1/  g'  -  ^^  .r 

■\-\-^k^-{r—ik\  e       "     i  cos  1/2  —  ?^  ic  — isen  1/^— -^  a-j 

_2x    r  -| 

—  e  j  A;,  cos  ]/ (2  —  X  ^  +  ^"2  ^^^^  V q  —^  x  \ 

dà  tutte  e  sole  le  soluzioni  reali  della  nostra  equazione. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  381 

§  114.  —  Primi  teoremi  sulle  equazioni  differenziali  lineari 
(alle  derivate  ordinarie). 

Si  dicono  equazioni  lineari  le  equazioni  del  tipo 

tf'^  +  p,  ix)  y" -'^  -hp2  (x)  y^""  -'>  +  .....+ 

-^Pn{x)y  —  f{x),  (1) 

(perchè  di  primo  grado  nelle  y,  y\ ,  ^"0,  dove  con  pi,  p2,  , 

Pn,  /'indichiamo  funzioni  arbitrarie  delle  x.  Se  f{x)  =^  0,  l'equa- 
zione si  dice  omogenea,  perchè  in  tal  caso  manca  il  termine  f  (x) 
di  grado  zero  nella  y  e  derivate.  Noi  abbiamo  al  §  111,  P,  stu- 
diato la  (1)  nel  caso  n=  1,  cioè  nel  caso  di  un'equazione  del 
primo  ordine.  Supponiamo  che  yi,  y^  siano  due  integrali  della  (1) 
non  omogenea.  Sarà  : 

^r^-+-i>i2//"~'"+ ^iOny.  =  f{x)        (2) 

yr  -^P.y^-''  -4- -^Pny.  =  f{x)        (3) 

Sottraendo  (3)  da  (2),  si  verilica  tosto  che  ^  =  ?/2  —  yi 
soddisfa  all'equazione 

z^''^  4-  Pi  /'  -  '^  -4- -\-pn^iz\-\-p^z  =  {)         (4) 

omogenea,  che  si  deduce  da  (1)  ponendovi  f  {x)^=^0.  Se  dunque 
y  è  una  particolare  soluzione  di  (1),  ogni  altra  soluzione  di  (1) 
è  del  tipo  y  -4-  z,  dove  z  è  una  soluzione  di  (4).  E  viceversa, 
se  y  soddisfa  ad  (1)  e  ^  a  (4),  anche  y  -\-  z  soddisfa  ad  (1). 
Dunque  per  cercare  tutte  e  sole  le  soluzioni  della  (1)  non  omo- 
.genea,  basta  conoscerne  una  sola  soluzione  :  tutte  le  altre  si  otten- 
gono sommando  con  essa  tutte  le  soluzioni  della  (4)  omogenea, 

Lagrange  ha  dimostrato,  come  vedremo  meglio  in  seguito, 
che,  se  si  sa  risolvere  la  (4)  omogenea,  è  sempre  possibile  trovare 
una  soluzione  della  (1)  non  omogenea:  e  quindi,  per  quanto 
precede,  che  si  sa  risolvere  pure  la  (1)  sapendo  integrare  la  (4). 

Vediamo  quindi  di  studiare  l'equazione  omogenea: 

yn)   ^_^^y»-l)    ^    -f-^^^y  =  0  (5) 

Se  Zi  è  una  funzione  che  la  risolve,  è  facile  vedere  che  pure 
ki  Zu  dove  ki  è  una  costante  affatto  arbitraria,  è  una  soluzione 
dell'equazione;  e  infatti: 

ki  Zi'""'  -h  Pi  ki  Zi'''  -  ''  + -h  p^  ki  Zi  = 

=  k,  {zr  -4-i>i;?/"-^^+  -^PnZi)  =  0. 

poiché  il  secondo  fattore  compreso  tra  parentesi  è  zero  (essendo 
la  Zi  una  soluzione  dell'equazione). 


382  CAPITOLO  XVIII  —   §   114-115 

Si  ha  ancora  che,  se  ^i  e  ^2  sono  due  soluzioni  dell'equazione, 
l'equazione  sarà  pure  soddisfatta  da  Zj^-\- Zi.  E  infatti: 

(^1  -\-  ^2)^"^  -4-i?i  (^1  -4-  z.T~^^  -^  -4-i?n  (^1  +  ^2)  = 

=  ^/">  +  ^,^'^>+i?l^/"-^>  +^^^.;— 1)+ _^^^^^_^^^^^^ 

poiché  i  due  termini  fra  parentesi  deirultima  somma  sono 
entrambi    nulli,    essendo   Zi    e   ^2   soluzioni   dell'equazione.    Da 

quanto  precede  possiamo  concludere  che,  se  ^1,  k^^  ,  ^n  sono 

costanti    tutt'affatto   arbitrarie,    e  «s-i,  ^2,  ,  z^  sono    soluzioni 

dell'equazione,  sarà  pure: 

yz=k^zx  (x)  -4-  k^  ^2  {x)  -F  -f-  /5:„  ^,,  (x)  (6) 

una  soluzione  di  (4).  Poiché  la  (6)  contiene  proprio  n  costanti 
arbitrarie,  sorge  spontanea  la  domanda  se,  al  variare  delle  k, 
la  (6)  rappresenti  ogni  integrale  della  (5),  0,  in  altre  parole, 
se  la  (6)  con  le  ^  =  cost.  sia  V integrale  generale  di  (5). 

La  (6)  è  una  sola  equazione  lineare  in  n  quantità  k.  Data 
la  y^  essa  si  può  risolvere,  se  n>  1,  in  infiniti  modi.  Si  do- 
manda pertanto:  Se  anche  y  è  una  funzione  che  soddisfa  a  (5), 
vi  è  tra  queste  infinite  soluzioni  una  soluzione,  per  cui  tutte 
le  k  siano  costanti?  Premettiamo  alcune  considerazioni  di  indole 
generale. 

§  115.  —  Un  lemma. 

Siano  y,  Zi,  Z2^  ,  z^  n  -\-  1  funzioni  della  x,  per  le    quali 

ammettiamo  soltanto  che  posseggano  le  prime  n  derivate. 

Noi   vogliamo   determinare   altre   n  funzioni   ki,  ko,  ,  kn 

della  X  tali  che  valga  la  : 

(1)  y  =  ki  Zi  4-  h  Zo  -f- -f-  kn  Zn 

e  valgano  pure  le  : 

y'         =  ki  z'i        -h  k.  z'.         -4- -+-  kn  z'n 

y"  =  ki  Z\  -+-  h  ^"2  + +  K  A 


(2) 


-r 


y»-«=^l^/''-'>+^,^2<"-"+ +^„  «„"•-" 


OsB.  Le  (2)  sarebbero  conseguenza  di  (1),  se  le  Te  fossero  costanti,  cosa  che 
però  in  generale  non  sarà. 

Le    (1),    (2)    formano    un   sistema   di   n   equazioni   lineari 
nelle  n  incognite  k.  La  regola  di  Leibnitz-Cramer   ci   assicura 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI 


383 


della  loro  risolubilità  in  un  modo  e  in  uno  solo,  se  il  determi- 
nante dei  coefficienti  delle  incognite  k 


W  = 


^2 


^« 


/l 

/2 

,  , 

.../„ 

/'l 

/'2 

•• 

...A 

^Z"- 

-^>^/- 

-1) 

...'^„'»-'> 

è  differente  da  zero.  Tale  determinante  si  chiama  il  Wronskiano 
delle  z.  Possiamo  dunque  determinare  le  k  soddisfacenti  ad  (1), 
(2)  se  il  Wronskiano  delle  ^  è  differente  da  zer(^. 

Le  k  così  determinate,  se  y  è  arbitraria,  non  saranno  gene- 
ralmente costanti,  ma  soddrsferanno  ad  alcune  equazioni,  le  quali 
dicono  che  la  y  definita  da  (1)  soddisfa  a  (2). 

Derivando  (1)  e  confrontando  con  la  prima  delle  (2)  si  trova  che 

y'  =  (ki  z\  -4-  ^2  -^'2  -+- -+-  kn  /„)  -4-  (^'1  ^1  -h  k'.  Z2  + 

+    -+-  k'n  ^n)  =  ki  Z\   -\-  k^  Z\   -+-   -\-  kn  z' n- 

Sarà  pertanto 

(3)  k\  Zi  4-  k'^,  z^  -h -h  ìin  ^n  =  0. 

Nello  stesso  modo,  confrontando  la  derivata  di  ciascuna  delle 
equazioni  (2)  (l'ultima  esclusa)  con  la  seguente  equazione  (2), 
si  trova 


(3) 


bis     }    i^  \^   \ 


k'.^z' 

2-^2 


rC  o.  Z 


+ 


~^k  nZ  n  =  0 

-4-  k\  Z\  =  0 


k  1  Zi 


(n  —  2) 


k^n  Zo 


in -2) 


2  "^2 


-h 


^'     ^  (n  -  2) 


0. 


Viceversa,  se  le  k'  soddisfano  alle  (3)  e  (3)bi6  la  y  definita 
da  (1)  soddisfa  alle  (2).  Derivando  l'ultima  della  (2)  si  ha: 


~T"    ti^n.  Z^ 


in) 


(n  -  1) 


^<">  =Z  ki  ^/"^  -f-  k2  Zt'    + 

-K  k\  Zi'""-''  +  k',  W"-  '' H-  Z:V    .. 

Indicando  con  pi,  jp^,  ,  Pn  funzioni  arbitrarie  della  x,  da 

questa  equazione,  dalle  (1)  e  (2)  si  deduce  immediatamente  che: 


y 


in) 


(n-1) 


-^Pty 


{n-2) 


Pn-lV      -^PnV      = 


■=-ki{z^'''         ^PlZ^^-''   -\- -\-pr.-iZ\   -\-pnZi\    -4- 

+^2^"^         -\-piZ^^-''   -\- +i?._i^2     -^Pn^A    4-[ 

-4-  kn  K^"^        -hi?l  Z^''  -^^   ^ -\-p^  _  1  Zn     -\-pn  ^n]    "^   \ 


(4). 


^'l-STi 


(n  —  1) 


(n-1) 


-4- 


fv    yj   ^^ 


(«-1) 


384  CAPITOLO   XVIII   —  §    115-116 

Un  caso  particolare  notevole  è  il  seguente:  Se  T  equazione  : 
z(n)_l-p^z(n-i)  ^  p^z(a-2)  _^ -4-p,_iz'  -|-p,z  =  0, 

è   soddisfatta   dalle   n  funzioni    Zi,  Z2,  ,  Zn    a    Wronskiano 

diverso  da  zero,  allora  per  ogni  funzione  y  derivabile  n  volte 
si  possono  trovare  delle  funzioni  k  di  x  cJie.  soddisfano  alle 
(1),  (2).  Le  loro  derivate  k'  soddisferanno  alle  (3),  (3)bi3  e  alla 
(4),  c/^e  >2e//a  nostì'a  ipotesi  diventa  semplicemente 

y(")   ^_  p^y(n-l)  4-.,p,y<-^>  +  +  p_  ,  y'  -+-  p„  y  =    |. 

=   k\  Z/^  -  ^^    -f-   k',  Z2^^  -  ^^    +    +  k'n    Z„^"  -  ^>  i^^^'^^- 

^e  le  k'  soddisfano  alle  (3),  (3)bis,   la   y    definita    da    (1) 
soddisfa  naturalmente  anche  alle  (2)  e  (4). 

§  116.  —  Nuovi  teoremi 
sulle  equazioni  lineari  alle  derivate  ordinarie. 

Applichiamo   il    lemma   precedente    alla    domanda    posta    al 

§  114.  Le  Zi,  z-i, ,  Zn  siano  n  soluzioni  a  Wronskiano    difte- 

rente  da  zero  della  equazione  omogenea 

Anche  y  soddisfi  a  tale  equazione  ;  sia  cioè 

(Dms    ^^"^  +i>i y^"'^  + -^p^'-'y'  H- Pn y  =  o: 

Si  scriva  la  y  nella  forma  (1)  del  precedente  lemma:  sarà 
per  le  (3),  (3)bi9  del  lemma  stesso 

(2) 


k\zi  4-  k'.  z.  -+- -h  Jc'n  z,,         =^  0 

lìr  z\         +  k'.  /,         -\- -4-  k'„  z\        —  0 


(  k\z,^"-'^-^k',z,'''-''  -^ ^k\,Zn'''-''  =  0 

mentre  la   (4)bis  del    lemma  diventa    nel    nostro  caso  in    virtù 

di  (l)bis 

(3)       /^\.aV"-'^  4-  k',z^}"-''  -4- -4-  //„,e'-^>  =  0. 

Le  (2),  (3)  formano  un  sistema  di  n  equazioni  lineari  omo- 
genee nelle  k\  in  cui  il  determinante  dei  coefficienti  delle  inco- 
gnite è  il  Wronskiano  delle  z  che  per  ipotesi  è  diiferente  da 
zero.  Dunque  (§  27)  le  k'  sono  nulle,  cioè  le  k  costanti.  Pos- 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  385 

siamo  dunque  rispondere  aifermativamente  alla  domanda  che 
chiude  il  §  114  affermando  che: 

Se  sono  note  n  soluzioni  Zi,  Z2 Zn  della  equazione  omo- 
genea (1)  od  (l)bi8,  ^  Wronskiano  differente  da  zero,  tutte  le 
altre  soluzioni  y  sono  le  loro  combinazioni  lineari  ki  Zi  -+- 
H-  k2  Z2  -h -f-  kn  Zn  a  coefficienti  k  costanti. 

Ma  i  nostri  risultati  permettono  di  affermare  di  più.  Sup- 
poniamo che  y  soddisfi  non  all'equazione  omogenea  (l)bis,  nia 
all'equazione  non  omogenea. 

(4)     y-^  -hp.y'^'-''  -4- -hpn-iy'  -^p^y=f{x), 

ferme  restando  le  altre  ipotesi  sulle  2.  In  tal  caso,  come  sopra, 
si  potranno  ancora  scrivere  le  (2),  mentre  la  (4)ins  del  lemma 
diventa: 

(3)ms  k'.z,'''-'^  -4-  7/2^2^"-'^  -^ +  k\,z^'^-'^  =  f{x). 

Le  (2)  e  le  (3)biB  formano  un  sistema  di  n  equazioni  di 
primo  grado  nelle  k\  che  si  possono  risolvere  con  la  regola  di 
Leibnitz-Cramer,  perchè  il  determinante  dei  coefficienti  delle 
incognite  è  il  Wronskiano  delle  z,  differente  da  zero.  Si  possono 
così  determinare  le  k'  e  quindi  con  n  integrazioni  (una  per 
ognuna  delle  k')  dedurne  i  valori  delle  k.  Ognuna  delle  k  porta 
perciò  l'indeterminazione  di  una  costante  additiva  ;  cioè,  se  K  è 
un  integrale  indefinito  della  k',.  testé  determinata,  si  ha  : 

kr  =  hr  -+-  Cr  {Cr  =  costautc  arbitraria). 

Cosicché  sarà  : 

y  :=^kxZi  -^-  /i-o  Z-z  -4-  .....   4-  kn  Zn  = 
=  ihi  Zy    -h  h2  Z2    -h    -f-   hn  Zn)    "H    (Ci  Zi    -+-  C-.  Z-,    4" "f"  Cy  Zy). 

Il  secondo  addendo  del  terzo  membro  è  una  combinazione 
lineare  delle  z,  a  cofficienti  costanti  e,  da  scegliersi  in  modo 
qualsiasi,  cioè  è  una  soluzione  qualsiasi  della  equazione  omo- 
genea (1)  od  (l)bi8.  E  ciò  è  naturale  perchè  al  §  114  abbiamo 
già  visto  che  da  una  soluzione  di  (4)  si  passa  alla  soluzione 
più  generale,  aggiungendo  ad  essa  la  soluzione  più  generale 
della  equazione  omogenea  corrispondente.  Quindi: 

Se  le  Zi-  sono  le  n  soluzioni  a  Wronskiano  differente  da  zero 
dell'equazione  omogenea  (1)  od  (l)bi8,  la  soluzione  più  generale  y 
dell'equazione  (4)  non  omogenea  si  ottiene  ponendo  y  =  ki  Zi  -f- 
4-  ko  Z2  -\r 4-  kn  Zn,  ove  le  k  siano  integrali  di  quelle  fun- 

25  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


386  CAPITOLO  xviii  —  §  116-117 

zioni  k\  che  si  ottengono  risolvendo  le  equazioni  (2)  e  (3)bi6, 
algebriche  lineari  nelle  k'. 

Si  noti,  che,  se  f(x)=^0,  la  (3)bis  si  riduce  alla  (3);  le 
(2)  e  le  (3)bis  dicono  ^'  =  0;  cioè  ^  =  cost.,  come  avevamo 
già  osservato. 

Il  metodo  qui  svolto  di  integrare  la  (trovare  le  soluzioni  della) 
(4)  si  chiama  metodo  della  variazione  delle  costanti  arbitrarie, 
in  quanto  che  alle  k,  costanti  arbitrarie  nella  formola  che 
risolve  (1),  si  sostituiscono  convenienti  funzioni  di  x  nella  for- 
mola che  risolve  (4). 

§  117.  —  Equazioni  lineari  omogenee  a  coefficienti  costanti. 

a)  Supposte  ora  le  pt  costanti,  cerchiamo  se  una  funzione 
y  =  e**  (dove  e  =  cost.)  può  soddisfare  alla  : 

y'''  ^Piy'"-''  -^P2y'^-''  -+- -\-p,y  =  o.     (i) 

Si  osservi  che  dalla  y  =  ce"""  si  deduce  : 

y'  =  ce''';  y"  =  r  e^";  ;  ^"^  =  e"  e'\ 

Sostituendo  in  (1)  si  trova  che  deve  essere: 

e^^(c"  -4-^1  e"-'  -f-jt?2c"-'  -4-  -hpn-ic  -4-^J  =  o^ 

e,  poiché  e"""  non  può  essere  zero,  dovrà  essere  nullo  l'altro 
fattore;  dunque,  affinchè  y  =  e'*  rappresenti  una  soluzione  parti- 
colare dell'equazione,  è  necessario  e  sufficiente  che  e  sia  una 
delle  n  radici  dell'equazione  algebrica  (detta  equazione  carat- 
teristica) : 

e"  4-j9iC"-'  -+-i?oc"-' -4- -hpn-ic-^pn  =  0,    (2) 

la  quale  si  forma  dall'equazione  diiferenziale,  ponendo  in  luogo 
di  ^  e  delle  sue  derivate  successive  le  potenze  successive  delle 
incognite  e.  Si  noti  che  al  posto  di  y  è  posto  c^  =  e,  ed  al 
posto  di^  la  c^  =  1. 

Se  dunque  noi  risolviamo  la  (2)  e  supponiamo  che  le  sue  n 
radici  siano  tutte  reali  e  disuguali, 

le  funzioni:  * 

e'^"",  e^^^■  e'n^ 

rappresentano  altrettante  soluzioni  particolari  distinte  dell'equa- 
zione diiferenziale. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI 


387 


E  perciò,  se  dimostriamo  che  il  loro  Wronskiano,  cioè  il 
determinante  formato  con  queste  soluzioni  e  le  loro  derivate  sino 
a  quelle  di  ordine  yi  —  1,  è  diverso  da  zero,  potremo  affermare, 
giusta  la  teoria  sviluppata  di  sopra,  che  l'integrale  generale 
della  (1)  è: 


y  =  k,  6^' 


Jcn  e'-"" 


(Jki  =  cost.). 


Ora  il  determinante  di  cui  si  parla  è  effettivamente  diverso 
da  zero,  perchè  esso  è: 


jCja; 


yH^ 


e^n 


Ci  e''' 


Co  e 


C-ìX 


Ci"-'  c''^C2"~'  e''^ 


:-'é'-'' 


che  (raccogliendo  a  fattor  comune  le  é"^"^, ,  e''»*'^  che  compaiono 

nelle  singole  colonne)  si  dimostra  uguale  a: 


Ci 

ci 


1 

C2 


1 

Cn 

2 

Cn 


Ci 


U" 


di  cui  il  primo  fattore  è  un  esponenziale,  e  il  secondo  fattore, 
che  è  il  cosi  detto  determinante  di  Vandermonde  o  di  Cauchy, 
è  uguale  (§23,  pag.  76)  al  prodotto- delle  differenze  delle  e  com- 
binate a  due  a  due  fra  loro  in  tutti  i  modi  possibili;  quindi 
esso  non  può  essere  zero,  a  meno  che  due  delle  e  non  siano 
fra  loro  uguali,  ciò  che  noi  abbiamo  escluso  supponendo  le  radici 
della  (2)  tutte  distinte. 


Esercìzio. 

Sia  per  esempio  l'equazione: 

y"  —  ^y'  +  2y  =  0. 
Le  radici  dell'equazione  caratteristica 


3c 


0 


sono  i  numeri  1,  2. 


388  CAPITOLO   XVIII   —    §    117 

Due  integrali  particolari  sono  perciò: 

X         2x 

e,    e, 
e  l'integrale  generale  dell'equazione  è: 


ae'  -}-  be'" 


dove  a,  b  sono  costanti  arbitrarie. 

P)  Immaginiamo  ora  che  le  n  radici  Ci,  Co, ,  c„  (che  ancora 

supponiamo  reali)  non  siano  tutte  distinte.  In  tal  caso,  col  metodo 
precedente  si  ottengono  n  integrali  particolari,  che  non  sono 
distinti  ed  hanno  quindi  un  Wronskiano  nullo.  Non  si  trova 
perciò  più  l'integrale  generale  per  la  via  precedentemente  seguita. 

Ora  si  può  mostrare  che,  se  Ci  =  Co,  allora  è  vero  che  si 
perde  un  integrale  particolare  perchè  e'''"'  diventa  uguale  a  e"'*, 
ma  se  ne  acquista  un  altro,  e  cioè: 

y  =  ^e^.^     (*) 

Infatti  dalla  precedente  uguaglianza  si  deduce 

y'    =  e'^'  -4-  xci  e^^' 

y^^  =        2ci  e^^"  +  xcl  e'''' 
y'"  =        3c'j  e^'"  -h  xci  e^»" 

E,  sostituendo  nell'equazione  diiferenziale  data,  si  trova: 

{xc\  e''""  -h -\-:pn-2c\  xe''""  -^Pn-i  Ci  xe''""  -4-  jpn  xe''"")  -+- 

=  a;e'»''(cr  +  -^pn-^ci  4-jp„_i  Ci +^n) + 

+  e'^'^ncr-' -I- 4- 2i?,,_2Ci -l-i?„_i)  =  0. 

La  quale  relazione  è  effettivamente  verificata  se  Ci  è  radice 
doppia,  perchè  allora  per  e  =  Ci  si  annulla  non  solo  il  primo 
membro  dell'equazione  caratteristica,  ma  anche  (§  64)  la  sua 
prima  derivata  rispetto  alla  e,  cosicché  ciascuna  delle 

Ci"    +i?lCi''~^   -4-    -^  'Pn-lCi   -^  Pn, 

nci''-'  4-  (w— l)i;icr"'  4-  4-i?„_i 

è  nulla. 


(*)  Si  noti  che,  se  c^  =i=  c„  evidentemente   alle   soluzioni  e''»'*,  e^^^*  possiamo 

ituire  la  e^i*  e  la  .  La  i 

c^  —  e, 

tende  precisamente  ad  ic  e  ^i*  per  c.^  =  e,. 


sostituire  la  e^i*  e  la  .  La  seconda,  pensata  come  funzione  di   Cj, 

C^  Ci 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  389 

Così,  in  generale,  si  può  dimostrare  che,  se  Ci  è  radice  mul- 
tipla d'ordine  k, 

pCias  c,.r        2     CiX  k  -  1     c,x 

sono  tutti  integrali  particolari  dell'equazione. 

Riassumendo:  ogni  radice  d'ordine  k  dà  luogo  a  k  integrali 
particolari,  che,  insieme  con  gli  altri  integrali  derivanti  dalle 
altre  radici,  sia  multiple,  sia  semplici,  costituiscono  n  integrali 
particolari  dell'equazione. 

Di  più  si  potrebbe  far  vedere    che   gli   integrali   così    otte- 
nuti hanno  il  Wronskiano  non  nullo:  con  le  loro   combinazion 
lineari  si  ottengono  quindi  tutti  e  soli   gli   integrali   dell'equa- 
zione (*). 

Y)  Dobbiamo  finalmente  considerare  il  caso  che  le  radici 
dell'equazione  caratteristica  non  siano  tutte  reali. 

Se  ci  limitassimo  a  considerare  funzioni  reali,  la  soluzione 
y  =  e""*,  dove  e  ^^  a  -\-  ib  è  una  radice  complessa  dell'equa- 
zione caratteristica,  non  avrebbe  per  noi  alcun  significato. 

Ma  se  teniamo  conto  anche  di  funzioni  complesse,  potremo  di- 
mostrare che  6^"+''^^*  è  ancora  un  integrale  (complesso)  della  nostra 
equazione.  Infatti  tutti  i  nostri  ragionamenti  hanno  usato  sol- 
tanto delle  regole  del  calcolo  algebrico,  delle  regole  di  deriva- 
zione di  una  somma,  di  un  prodotto,  e  dell'esponenziale  e"""  (e  =  cost.), 
che  continuano  a  valere  (cfr.  §§  55-60  e  particolarmente  pag.  188) 
anche  nel  campo  delle  funzioni  complesse  della  x. 

Cosicché,  lanche  nel  caso  di  radici  complesse  dell'equa- 
zione caratteristica  (2)  vale  il  teorema:  Se  Ci,  C2,  ,  c„  sono 

le  radici  tutte  distinte  di  (2),  la  più  generale  funzione  (com- 
plessa) che  soddisfi  alla  (1)  è  ki  e*''''  -4-  k2  e'''^  -4- kn  e^'i»''  dove 

le  k  sono  costanti  arbitrarie  (complesse).  Se  invece  vi  sono 
radici  multiple^  e,  per  es.,  Ci  è  radice  di  ordine  r,  si  debbono 
assìcmere  a  integrali  particolari  corrispondenti 

e^'^xe^'^...x^-'e'''^ 

(*)  Riferiamoci  all'ultima  nota  a  pie  di  pagina,  in  cui  sì  sono  supposte  due 
sole  radici  uguali  e,  =  c.^.  Alle  soluzioni  e''»*,  6*^^*  si  sono  (se  e,  =^  Cj)  sostituite 

le  e  ''i^, .  Il  Wronskiano  delle  nuove  soluzioni  è  uguale   al   quoziente 

Cj        e, 

ottenuto  dividendo  per  e,  —  e,  il  Wronskiano  delle  soluzioni  iniziali.  Questo  valeva 

il  prodotto  di  e^^i +  "2  + —  +  t;„>a;  per  il  prodotto  delle  differenze  a  due  a  due  Ci  ; 

esso  perciò,  diviso  per  e,  —  Ct,  ha  un  quoziente,  che  per  C2  =  c,  tende  a  un  limite 

diverso  da  zero.  Questo  limite  è  il  Wronskiano  delle  e  *^i*,  x  e*^'^,  ecc.        ed.  d. 

Dimostrazione  analoga  vale  nel  caso  generale. 


390  CAPITOLO   XVIII    —    §    117 

Per  questa  via  abbiamo  trovato  tutti  gli  integrali,  anche 
complessi,  di  (1).  Vogliamo  trovare  quelli  di  essi  che  sono  reali, 
supposto  naturalmente  che  le  pi  sieno  costanti  reali.  In  tal  caso, 
se  (2)  ha  una  radice  complessa  semplice  a  -\r  ih,  essa  ha  anche  la 
radice  complessa  coniugata  a  —  ih;  cosicché  insieme  alFintegrale 
g(a+i?>)^  vi  sarà  anche  l'integrale  é^"'^^''.  Si  debbono  ora  sce- 
gliere le  costanti  ^i  =  ^j  -f-  i  mi,  k^  =  Ì2  +  i  ^2  (/,  m  =  cost. 
r^ali)  in  guisa  che  ^1  e^""^"'^* -h  ^2  e^""*''^''  sia  reale,  ossia  non 
muti  mutando  i  in  —  i.  Si  debbono  in  altre  parole  scegliere  le 
costanti  ?,  m  in  guisa  che 

ih  -+-  im,)  6^'^  +  ''^="  H-  (^2  +'  m.)  é'-''^''  =     ■ 
=  (li  —  mO  e^"-'''^"  -f-  ik  —  im.)  e^^^''^\ 

Ciò  avviene  allora  e  allora  soltanto  che  ki  e  ^2  sono  imma- 
ginarie coniugate,  ossia  che  Zi  =  k,  mi  =  —  m^;  nel  qual  caso 

k^  é^-^''^-.-^  k,  é'-''^'  =  2  e""  (Zi  cos  hx  —  m,  sen  hx). 

Posto  2  Zi  =  /^i,  —  2  mi  =  /^2,  questo  integrale  diventa 

hi  e"*  cos  òa;  -+-  /i2  e'""  sen  hx     {hi,  h2,  costanti  reali  arbitrarie). 

In  modo  analogo  si  vede  che,  se  a  -h  ih  fosse  radice  doppia 
di  (2)  e  quindi  altrettanto  avvenisse  di  a  —  i  h,  si  trovano 
anche  gli  integrali 

h^  cce"""  cos  hx  -h  hi  rf*  sen  hx       {h^,  hi  costanti  reali  arbitrarie) 

e  così  via.  In  modo  simile  si  trattano  le  altre  coppie  diradici 
complesse  coniugate;  e  si  vede  facilmente  che  cosi  si  ottengono 
tutti  gli  integrali  reali  di  (1).  In  conclusione  l'integrale  reale 
generale  di  (1)  è  una  combinazione  lineare  a  coefficienti  costanti 
reali  arbitrari  di  integrali  particolari  del  tipo 

x'  e'^,  x''  e''^  cos  hx,  x'  e""  sen  hx. 

Esempi. 

r)  L'equazione  ^  -4-  2  ?/'  -H  3  ?/  ==  0  ha  —  1  ±  ^  1/2  per 
radici  dell'equazione  caratteristica  c"  +  2  e  -4-  3  =  0.  Il  suo  inte- 
grale reale  generale  è  quindi  e"""  {/h  cos  V^x  -4-  h^  sen  1/2  x), 
dove  hi,  hi  sono  costanti  reali  arbitrarie. 

2^)  L'equazione  y"  —  2  ?/'  4-  ?/  =  a;  ha  le  radici  dell'equa- 
zione c^  —  2c-f-l=0  caratteristica  della  corrispondente 
equazione  omogenea 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI 


391 


uguali  entrambe  a  -4-  1,  cosicché  Ci  é"  -\-  c^ix  e*  (ci,  C2  =  cost. 
arbitrarie)  è  l'integrale  generale  di  tale  equazione  omogenea, 
perchè  il  Wronskiano 


e"     xe^ 


xe 


delle    soluzioni   x,  x  é^   è    differente   da   zero.  Quindi  l'integrale 
generale  dell'equazione  proposta  è 

y  ^=  Ci  e""  -\-  C2  X  e", 

dove  le  Ci,  C2  sono  funzioni  della  x  determinate  dalle  : 

c\  é"  -^  c'2xé'  =  0 
c\  é"  -+-  c\  (e"  4-  a;  e^)  =  x 


donde  si  trae  : 


c'i  =  —  x^  e  "",   c'2  =  ^  e  "^ 


e  quindi  : 

Ci  =  —^x-  e-""  dx  —  x^  e-^  -4-  2  a;  e"*  -h  2  e"*  -+-  /^i  ; 

C2  =  —  a;  e"""  —  e"""  H-  fe         (^1,  ^2  =  cost.). 
Sarà  perciò  : 

?/  rzn  (x'  H-  2  X  -f-  2)  -f-  ^1  e''  +  (—  a;^  —  x)  -h  k.  x  é"  — 
^==^  {x  -\-  2)  -\-  ki  é"  -\-  ki  x  é"         (Ari,  ko  =  cost.) 

l'integrale  più  generale  dell'equazione  proposta.  Esso  si  sarebbe 
potuto  scrivere  senz'altro,  appena  fosse  stato  noto  l'integrale 
particolare  a;  -f-  2,  che  si  sarebbe  potuto  ottenere  più  rapida- 
mente coi  metodi  dati  nel  seguente  esempio   2°. 


Altri  Esempi. 

1^  Formare  l'equazione  lineare  omogenea  alle  derivate 
ordinarie  di  w^*'"*'*  ordine,  che  ammette  gli  integrali  particolari 
2/1,^2, ,.y«. 


Ris. 


y  y  y 


fi 


y 


(n) 


yiyiy  i yi 

r        if  in) 

y2y2y  2 y^ 


yny'ny'n yii^^ 


=  0; 


la  quale  non  si  riduce  ad  una  identità,  né  ad  una  equazione  di 
ordine  minore  di  n^  se  il  Wronskiano  delle  yi  è  differente  da  zero. 


392  CAPITOLO   XVIII   —   §    117 

Il  primo  membro  di  questa  equazione  è  il  Wronskiano  delle 
y,yi,y2 ,t/„.  Dunque: 

Se   il    Wronskiano  delle   j,  yi,  yo, ,  yn    è   sempre    nullo, 

ma  il   Wronskiano  delle  yi,  y2 ,  yn  è  differente  da  zero,  laj 

è  una  combinazione  lineare  kiji  -h  k2y2-H  +  Wn  ^  coeffi- 
cienti k  costanti  delle  ji,  y^, ,  Yn- 

2*  Integrare  l'equazione 

y''''^Piy'''-''^P2y'''-''^...-^Pny  =  aox'^^a,x'''-'-h,..-ha,. 
(p^  zziz  cost.  ;  ai  =  cost.  ^  n,  m  interi  positivi). 

Ris.  Anziché  col  metodo  generale,  si  può  ottenere  più  bre- 
vemente un  integrale  particolare  ponendo  : 

?/  =  6o  +  lix  -\- -V-  hrr,  x^     (hi  =  cost.). 

Sostituendo  nella  nostra  equazione,   e   uguagliando  nei  due 
membri  i  coefficienti  di  x''"',x"'~^,  ecc.,  si  trova: 

Pn  bm  =  do;    Pn  kn-l   +  '^ibmPn-l  =  Ci\  ] 
Pn'bm-2  -^   {m  \)Pn-l  K-l  +   m  (w  l)Pn-2  K  ="  do  ', 

Pn  ho   -^Pn-1  h  -4-  2^„_2  &2  -t-.-.+i?!  \n   —   1   &„_i  -f-    ììt  Ò„  =  «,„, 

dove  sono  supposte  nulle  le  hi,  il  cui  indice  i  supera  m. 

Queste  equazioni  permettono  di  determinare  successivamente 

le     hm,    hm  —  l,   ,  Oq, 

Fa  eccezione  il  solo  caso  p,^  =  0  ;  ma  noi  possiamo   sempre 
supporre  pn  =^  0,   purché   si   assuma   una   conveniente  derivata 
della  y  come  funzione  incognita,  ecc.,  ecc. 
3**  Integrare  T equazione 

y^^^  -4-  Pi  y^-'^  + 4-  i9„  ?/  =  A:  e'^     (pi,  h,  k  =  cost.)  {k=^0) 

dove  h  non  é  radice  deirequazione  caratteristica 

r  +  i^iF-'-h +i?„  =  o. 

Ris.  Anziché  col  metodo  generale,  si  può  ottenere  più  bre- 
vemente un  integrale  particolare  ponendo 

tj  =  l  e'-     {l  =  cost.). 
Sostituendo  nella  nostra  equazione  si  trova 

che  determina  la  l,  se  h  non  é  radice  dell'equazione  caratteristica 
relativa  al  primo  membro  della  nostra  equazione   differenziale. 


EQUAZIONI   DIFFERENZIALI  393 

4°  Si  discuta  l'equazione 

y"  -\-  py  -\-  qy—0     (p,  q  =  cost.). 
Ris.  L'equazione  caratteristica  è  c^  -h  ^c  +  g  =  0,  e  ha  per 


2       |/    4 


radici  —  '^  —  |/^^^ ^•^^'X  —  ^  =  0  queste  radici  coin- 
cidono e  l'integrale  generale  della  nostra  equazione  è 

le    -    -h  \ixe    ^  (^,  [J^  =  cost.). 

Escluso  questo  caso  limite  di  scarso  interesse,  trattiamo  gli  altri. 

Se  ^ ^  ^  ^j  l'equazione  ha  due  radici  reali  che  potremo 

indicare  con  a,  P;  l'integrale  generale  è.le^"  H-fAe''*(X,  [i  =  cost.) 
il  quale,  se  a,  p  sono  negativi,  tende  a  zero  per  x=  -f-  oo . 

Se  invece  ^  —  ^  <  0,  si  ponga  q  —  ^  =z  k-  -^  \e  radici 
4  4 

dell'equazione  carattestica  saranno  —  ^^  ±ik  ;   e   gli   integrali 

della  nostra  equazione  saranno 

e    ^    ;  X  cos  ^o;  4-  [1  sen  kx  1     (X,  |i  zzz  cost.). 

Essi  si  ridurranno  a  sole  funzioni  trigonometriche  se  p  =  0, 
è  quindi  q^^k^  (*). 

Questi  risultati  sono  stati  trovati  per  via  diretta  al  §  113. 

Questo  studio  ha  numerosissime  applicazioni  fìsiche. 

In  molti  problemi  (scarica  elettrica  di  un  condensatore, 
vibrazione  di  un  pendolo,  ecc.)  si  presenta  una  quantità  y  (in- 
tensità di  corrente,  angolo  di  un  pendolo  con  la  posizione  di 
equilibrio)  variabile  col  tempo  x,  che  la  fisica  dimostra  soddi- 
sfare a  un'equazione  del  tipo  precedente,  dove  le  costanti  p,  q 

9 

sono  positive.  Allora,  se  ^^ ^  >  0,    le   a,  p   sono  negative,  e 

quindi  ^  =  X  e ^ "^ -4- ji  e""*  ci  definisce  una  y  che  per  a;  =  oo 
tende  a  zero.  Si  tratta  in  tal  caso   di   un   semplice   fenomeno 


(*)  Si  pnò  porre  i  =i:  a  cos  »,  ^  =  a  sen  *,  e,  invece   di   dire   che  >,  /*   sono 
costanti  arbitrarie,  dire  che  a,  -^  sono  costanti  arbitrarie  ;  la  soluzione  della  nostra 

equazione  diventa  a  t    ^    cos  {Jix  +  »),  dove  -i  è  la  cosidetta  fase. 


394  CAPITOLO   XVIII   —   §    117 

smorbato  (p.  es.,  un  pendolo  che  torna  alla  posizione  di  equi- 
librio in  un  mezzo  che  presenta  tale  attrito  da  impedirgli  ogni 
ulteriore  oscillazione). 

Se  ^  =  0,  allora  g  =  ^^  ;  abbiamo  in  questo  caso  un  puro 
fenomeno   vibratorio  ;    quando   kx   è    aumentato   di    2  ti,    ossia 

2  n 
quando  il  tempo  x  e  aumentato  di  — _ —  il  sist&tna  riprende  le 

2  TC 

condizioni  iniziali  ;   cosicché  — ^ —  è   la    durata   di   una  oscilla- 
li: 

zione  completa. 

Se  j?  >  0,  e  se  ^'  è  reale,  allora  abbiamo  ancora  un  fenomeno 

vibratorio.  Però  l'esponenziale  e  %  che  tende  a  zero  al  cre- 
scere di  X,  ci  avverte  che  le  vibrazioni  vanno  diminuendo  di 
ampiezza,  o  come  si  suol  dire,  si  smorzano.  La  durata  di  una 

2  TT 

oscillazione  è  sempre  -y—  .  Per    fissare   le    idee,    il  lettore   può 

pensare  alla  scarica  di  un  condensatore  di  capacità  C  in  un 
filo  di  resistenza  R  il  cui  coefficiente  di  autoinduzione  sia  L. 
Se  t/  è  l'intensità  della  corrente  all'istante  x,  la  fisica  insegna 
che  y'  -\-  py  -f-  g  =  0  dove  sia  posto  : 

R  1 

^=L'  ^  =  LC- 

Per  j?  =  0  si  ha  ^  =  I  /  -— r  • 

Dunque  in  tal  caso  si  ha  con  Thomson  che  2  ti  V LC  è  la 
durata  di  una  vibrazione,  e,  se  e  è  la  velocità  di  propagazione 
delle  onde  elettriche,  che  2  ti:  e  VlC  è  la  lunghezza  d'onda. 

Un  esempio  di  equazioni  a  derivate  parziali. 

Se  abbiamo  una  equazione  alle  derivate  parziali,  cioè  se  la 
funzione  incognita  dipende  da  più  variabili  indipendenti,  allora, 
come  si  può  verificare  sugli  esempi  dei  §§  93  e  110,  una  soluzione 
di  tale  equazione  non  si  può  pììi  definire,  prefissando  un  numero 
finito  di  costanti  (le  6o,  &i,  ...;  &n-i  del  teorema  di  Cauchy  a 
pag.  377),  perchè  la  soluzione  pili  generale  di  tale  equazione 
dipende  da  funzioni  arbitrarie. 

Noi  qui  non  ci  occupiamo  dello  studio  di  tali  equazioni  che 
è  in  generale  molto  difficile.  E   ci   accontentiamo   di  osservare 


EQUAZIONI    DIFFERENZIALI  395 

il  seg.  teorema,  che  si  può  generalizzare  a   tutte  le  equazioni 
alle    derivate   parziali    del  primo   ordine.  Sia   data  l'equazione 

X^  4-  F^-^  =  0,  ove  X  Fsono  funzioni  note  di  x,  y,  e  dove 

ox  òy  '  ^' 

/*  è  la  funzione  incognita.  Sia  X=^0.  Consideriamo  l'equazione 

dy         Y 

~  ^=  —  alle  derivate  ordinarie  ;  e  la  cp  (x^  y)  =  cost.  definisca 

d/X  Jy.  ^ 

3cp  3q? 

la  sua  soluzione  più  generale.  Sarà  X^—  -4-  Y  ~  =0,    perchè 

ox  dy 

—  =  1^  deve  essere  uguale  a  quel  valore  di  y,  che  dalla  ^p  =  cost. 
JL        dx 

si  deduce  in  virtìi  del  teorema  delle  funzioni  implicite.  Poniamo 

X  =  xi,  9  {x^  y)^=iy^  e  assumiamo  xi^  t/i   come   nuove   variabili 

indipendenti,  come  sarà  generalmente  possibile.  Sarà  : 

3f  ^  ^  _^  35  3/;  ^      3/-^  }l  3t 
^x       ^xi       ^x  'òyi  '      ^y       ^yi  ^y 

La  nostra  equazione  diventa  perciò  ^-  =  0.  Cioè  le  funzioni 

0x1 

f  cercate  sono  tutte  e  sole   le   funzioni  della  t/i,  cioè  della  cp. 
(Cfr.  §  110,  pag.   368). 

Così  p.  es.  le  soluzioni  di  ^  +  ^  =  0  (X  =  F=  1)  sono 

VX       dy 

le  funzioni  di  x  —  y,  perchè  le  soluzioni  di  -^  =  1  si  ottengono 

dx 

risolvendo  la  x  —  ?/  =  cost. 


In  modo  simile  (cfr.  il  §  110,  pag.  369)  le  soluzioni  di 

xf+x.,^  +  x.,^  + +x,.|£  =  o, 

ox  dxi  0x2  OXn 

ove    le    X,  Xi,  ...,  X„    sono   funzioni  di  x,  xi,  X2,  ......  a:„,  sono 

tutte   e   sole   le  funzioni   di   91, 92 ,  ^n,   se    le   soluzioni   del 

sistema 

dx dxi dx2 dxn 

si  ottengono  risolvendo  le  ^1  =  cost.,  cpo  =  cost., ,  9,^  =  cost. 

Ma  non  è  nostro  scopo  approfondire  e  precisare  simili  studii. 


396  CAPITOLO   XIX   —   §    118 


CAPITOLO  XIX. 

ALCUNE    APPLICAZIONI    GEOMETRICHE 
DEL  CALCOLO  INFINITESIMALE 


§  118  —  Tangente  ad  una  curva 

Siano 

x  =  x(t);  y  =  y{t);  z  =  z  {t)  (1) 

funzioni  derivabili  di  un  parametro  t.  Al  variare  della  i^  il 
punto  {x^y^z)  definito  da  (1)  descriva  una  curva  C.  Su  questa 
consideriamo  un  punto  A  =  (xo,  y^,  Zq)  corrispondente  al  valore  ^o 
della  t,  e  un  altro  punto  B  corrispondente  al  valore  U  -H  h 
della  t.  Poniamo  x^^  =  x  (to),  y\  =  y'  {Q,  z\  =  z'  {Q,  Per  ana- 
logia con  le  curve  piane  noi  chiameremo  retta  tangente  alla  C 
in  A  la  posizione  limite  della  retta  AB  (per  h  =  0). 
Le  equazioni  della  AB  sono  : 

X  —  x^         y  —  ^0         z  —  ^0  ^ 

X  (to  4-  h)  —  Xo       y  ito  -i-  h)  —  yo       z  (to  -^  h)  —  z^ 

E  i  suoi  coseni  direttori  sono  quindi  proporzionali  alle 

X  (to  -h  h)  —  Xq,  y  (to  -^  h)  —  yo,  z  (to  -+-  h)  —  Zo 

ossia  alle: 

X  (to  ■+-  h)  —  Xq     y  (to  -hh)  —  yo     z  (to  -h  h)  —  z  (to) 
h  h  h 

1  limiti  Xo,  yo,  z'o  di  queste  frazioni  (rapporti  incrementali) 
saranno  dunque  proporzionali  ai  coseni  direttori  della  tangente 
in  A  della  C;  la  quale  avrà  dunque  per  equazione 

X  —  Xo y  —  yo z  —  Zq  ^ 

odo  y\^  z'o 


(*)  Si  suppongono  i  dominatori  non  contemporaneamente  nulli.  Questa  ipotesi 
è  contenuta  (per  h  abbastanza  piccolo)  nell'altra,  che  enunciamo  più  sotto,  che 
almeno  una  delle  x\^]j'f,^z\  sia  differente  da  zero. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       397 

(È  necessario  supporre  che  non  sia  x^  =  y\  r=  /q  ^=  0  ; 
si  esamini  il  caso  che  soltanto  alcune  di  queste  derivate  siano 
nulle). 

I  coseni  direttori  di  tale  tangente  r  saranno  dunque  X^'o 
^y'o,  ^-^'o,  dove  X  è  un  fattore  di  proporzionalità  definito   dalla 

E  perciò  : 

1 


e 

quindi  : 

r\   

±v/rrV 

+  y'o'-+-/o'' 

(*{ 

■)%(xr)  = 

-t- 

Xo 

y\ 

l/x'o^ 

+  2/' 

?+zr 

Vxo" 

+  y'i 

-+-«? 

COS 

(zr). 

h 

Za 

\/^:-  +  y':  +  zi  ' 

dove  il  segno  da  scegliersi  dipenderà  dal  verso  della  tangente  r 
scelto  come  positivo. 

§  119.  —  Piano  tangente  ad  una  superficie. 

Sia  S  una  superficie  f  {x,  y^  z)=^0  ]  e  siano  f^^  fy  fz  con- 
tinue nell'intorno  di  un  punto  A  =  {xq^  ^o,  z^)  di  S,  Siano 

x=^x{t)]  y=:y{t);  z  —  z  {i)  (1) 

(dove  i  secondi  membri  sono  funzioni  derivabili  di  un  parametro  t) 
le  equazioni  di  una  curva  C  posta  su  S  ed  uscente  da  A.  La 
teoria  delle  funzioni  implicite  prova  che  di  tali  curve  C  ne  esi- 
stono infinite,  se  fx,  fy,  fz  non  sono  tutte  nulle  in  A,  Sosti- 
tuendo nella  f{x,  y,  z)  alle  x,y,z  i  valori  dati  da  (1),  si  otterrà 
una  funzione  della  t  identicamente  nulla,  perchè  tutti  i  punti 
di  C  giacciono  sulla  8.  La  derivata  di  questa  funzione  della  t 
sarà  quindi  nulla  in  tutti  i  punti  di  C,  e  in  particolare  nel 
punto  A.  Sarà  cioè  : 

dove  l'indice  0  è  posto  per  indicare  che  le  derivate  sono  calcolate 
nel  punto  A,  La  tangente  in  A  alla  C  ha  per  equazione 

X Xq  y  —  2/0  z  —  ^0  .   . 

Xo  -^0  ^0 


398  CAPITOLO   XIX   —   §    119 

Nel  primo  membro  di  (2),  che  è  un  polinomio  omogeneo 
nelle  x'o,  y\^  z\^  potrò  a  queste  derivate  sostituire  le  a;  —  Xo, 
y  —  2/o,  z  —  ^0,  che  per  le  (3)  sono  ad  esse  proporzionali. 

Ne  deduciamo  che  i  punti  x^  y,  z  della  tangente  in  A  ad  una 
qualsiasi  delle  nostre  curve  C  soddisfano  alla  : 

(èOo^^-^»^-^  (|)>-^-^-^  (L0/--)-o-  ^^) 

La  (4)  non  è  una  identità,  perchè  già  abbiamo  escluso  che 

X,  y,  2,  essa  è  V equazione  di  un  piano  :  il  cosidetto  ])iano  tan- 
gente alla  S  nel  punto  A.  Quindi  : 

Se  f  (x,  y,  z)  =  0  è  l'equazione  di  una  superficie  S,  e  se  in 
un  intorno  di  un  punto  A  di  S  le  f^,  ^'yj  ^'z  sono  finite  e  continue, 
mentre  in  A  queste  derivate  non  sono  tutte  nulle,  si  possono 
tirare  su  S  infinite  curve  (dotate  di  tangente)  uscenti  da  A. 
Le  tangenti  in  A  a  tutte  queste  curve  giacciono  in  uno  stesso 
piano  (4)  :  il  piano  tangente  alla  S  nel  punto  A. 

Se  l'equazione  della  superficie  è  data  sotto  la  forma  : 

z  =  ^{x,  y), 
ossia,  se  f=z^{x,y)  —  z,  l'equazione  del  piano  tangente  diventa: 

(S)y  -  ^")  -^  (|)/^  -  y^^  -  (^  -  ^'^ = '■ 

Adottando  la  notazione  di  Monge  : 
essa  si  ridurrà  a 

J9o  {x Xo)  H-  g,)  {y .Vo)  —  U "S^o)  =  0, 

che  è  l'equazione  cercata. 

Volendo  trovare  i  coseni  direttori  della  normale  n  al  piano, 
basterà  ricordare  che  tali  coefficienti  sono  proporzionali  ai  coef- 
ficienti di  X,  y,  z,  cioè  a  jpo,  ^o,  —  1- 

Essi  saranno  "kp^ ,  X  go ,  —  \  dove  il  fattore  X  di  propor- 
zionalità si  determina  ricordando  che  deve  essere 

[Xp,Y-^[\q.;f-^y^'=\. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       399 


Otterremo  : 

1 

ed  infine  : 

±  i/joo'  -H  go'  +1  ' 

Jpo                                                            Qo 

±Vpo 

— — — —   '          CU»  HU  / ' 

'  +  go'  +  l                        ±T/j9o'-f- go'-f- 1 

—  1 

cos  ni^'  — ;- — : 1 

ove  il  doppio  segno  dipende  dall'arbitrarietà  con  cui  si  può  fissare 
il  verso  positivo  della  normale  considerata. 

È  evidente  l'analogia  della  (4)  con  l'equazione  (10)  trovata 
al  §  84,  pag.   285,    per   la    retta   tangente    alla    curva   piana 

f{x,  y)  =  0  nel  punto  fe,  yo). 


§  120.  —  Lunghezza  di  un  arco  di  curva  sghemba. 

a)  Abbiamo  già  visto  in  parecchi  esempi  in  cui  si  doveva 
cercare  una  funzione  additiva  d'intervallo,  come  fosse  assai 
spesso  facilissimo  definirne  la  derivata.  Così,  'per  es.,  mentre  la 
ricerca  dell'area  racchiusa  tra  l'asse  delle  x,  la  curva  y  =  F{x), 
e  due  ordinate  richiede  una  integrazione,  la  derivata  di  quest'area 
è  semplicemente  l'ordinata  stessa  F{x). 

Così  avviene  nel  problema  di  misurare  la  lunghezza  di  un 
arco  di  curva  C.  Ma  qui  si  presenta  un'altra  difficoltà.  Che 
cosa  vuol  dire  la  frase  :  lunghezza  di  un  arco  di  curva  C?  Noi 
tutti  ne  abbiamo  un'idea  intuitiva,  ma  il  primo  problema  è 
appunto  quello  di  tradurre  nel  modo  più  semplice  questa  idea 
intuitiva  in  una,  diremo  così,  idea  matematica;  così  da  poter 
dare  un  mezzo  per  calcolare  tale  lunghezza  (*). 

Cominciamo  a  limitare  l'insieme  delle  curve  C,  di  cui  ci 
vogliamo  occupare.  Noi  supporremo  di  limitarci  a  curve  C  dotate 
in  ogni  punto  di  tangente  variabile  con  continuità,  le  quali 
siano  in  corrispondenza  biunivoca  con  la  loro  proiezione  su 
una  retta  r  (in  guisa  cioè  che  punti  distinti  di  C  abbiano 
proiezioni  distinte).  Sia  I  la  proiezione  di  C  su    r.    Ogni    seg- 


(*)  Questo  problema  è  di  natura  affatto  analoga  a  quello  che  si  presenta  per 
definire  tutte  le  figure  e  grandezze  geometriche.  Se  si  presume  di  conoscere  già 
l'ente  che  si  vuol  studiare,  si  ammettono  circa  tale  ente  dei  postulati.  Se  si 
suppone  di  non  conoscerlo,  si  assumono  questi  postulati  come  definizione  matema- 
tica dell'ente  stesso. 


400  CAPITOLO   XIX   —   g    120 

mento  (a,  h)  interno  ad  I  determina  quel  pezzo  di  C,  che  si 
proietta  in  {a,  h). 

Supponiamo  di  sapere  che  cosa  é  la  lunghezza  di  C  ed 
anche  la  lunghezza  di  ogni  sua  parte.  Allora  ogni  intervallo  (a,  h) 
di  r  individua  un  pezzo  della  curva  C,  e  la  lunghezza  di  questo. 
Tale  lunghezza  S  (a,  b)  sarà  una  funzione  continua  di  (a,  b) 
che  evidentemente  è  additiva  (*);  perchè  se  (a,  6),  (b,  e)  sono 
due  intervalli  distinti,  evidentemente  la  lunghezza  di  quel  pezzo 
di  C  che  si  proietta  in  (a,  b)  e  la  lunghezza  di  quel  pezzo  di  C 
che  si  proietta  in  (b,  e)  hanno  per  somma  la  lunghezza  di  quel 
pezzo  di  C  che  si  proietta  in  (a,  b)  -h  (b,  e)  =  {a,  e). 

I  nostri  procedimenti  basteranno  a  calcolarla,  se  di  tale 
funzione  additiva  sappiamo  dare  la  derivata.  Tale  derivata  è 
per  definizione  il  limite 

lim  T (1) 

'     b=^a  b  —  a 

del  rapporto  ottenuto  dividendo  la  lunghezza  del  pezzo  di  curva 
che  si  proietta  nell'intervallo  (a.  b)  per  l'ampiezza* 6  —  a  di 
tale  intervallo. 

La  più  semplice  ipotesi  che  noi  possiamo  fare,  ispirandoci 
all'idea  intuitiva,  che  un  tale  pezzetto  di  curva,  quando  la  sua 
proiezione  b  —  a  è  molto  piccola,  si  confonde  quasi  con  un 
pezzetto  della  retta  tangente  alla  curva,    è  la  seguente: 

Tale  derivata  è  identica  a  quella  che  si  otterrebbe  sosti- 
tuendo alla  curva  la  tangente  x  in  quel  suo  punto  che  si 
proietta  nel  punto  x  =  a. 

Questo  secondo  postulato  ci  appare  come  il  più  semplice  anche  per  la  seguente 
considerazione.  Nel  cerchio  il  rapporto  di  una  corda  all'arco  corrispondente  tende 
ad  uno,  quando  l'arco  tende  a  zero.  Appare  spontaneo  di  ammettere  questa  pro- 
prietà per  curve  qualsiasi.  Il  precedente  postulato  ne  è  conseguenza  immediata. 
Infatti  ammettere  tale  proprietà  equivale  ad  ammettere  che,  se  noi  indichiamo  con 
e  (a,  h)  la  lunghezza  della  corda  congiungente  quei  punti  di  C  che  si  proiettano 
nei  punti  x=^a,  x  =  h,  sia 

,.      e  (a,  h) 
lim     ;  \ X  —  1. 

Cosicché  il  limite  (1)  si  può  scrivere  anche 

,.     Sia.h)   ,.      c(a,J))       ,.     c(a,h)     ,  ,„\ 

lim  ,     '   ^   hm  r^\    ,i  -=  lim  -,,     '    ^ .  (2) 


=^a  ìì  —  a   h^aS{a,h)      h^r>  h  —  a 


Ora  poiché  la  retta,  cui  appartiene  la  corda  {a,  h)  tende,  per  h  =  a,  alla  retta 
tangente  t,  il  limite  (2)  coincide  col  limite  (t)  calcolato  nel  modo  dato  dal  prece- 
dente postulato. 


(*)  Naturalmente  questa  affermazione  è  un  primo  postulato. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       401 

Si  è  cosi  in  più  dimostrato  che  ì  postulati  enunciati  sono  concordi  con  le 
definizioni  hlementari  relative  alla  lunghezza  degli  archi  di  cerchio. 

La  definizione,  data  assai  spesso  che  la  lunghezza  di  un  arco  di  una  curva  C 
è  il  limite  superiore  dei  perimetri  delle  poligonali  inscritte  è  più  generale  della 
precedente,  ma  non  contrasta  mai  con  essa.  Non  la  adottiamo  per  le  complicazioni 
che  porterebbe  una  definizione  analoga  di  area  di  una  superficie  sghemba. 

È  bene  evidente  che  i  postulati  da  noi  posti  hanno  un 
significato  indipendente  dalla  scelta  della  particolare  retta  r  su 
cui  si  proietta.  Se  la  retta  su  cui  si  proietta,  è  Tasse  delle  x, 

la  derivata  citata  sarà 7 — r,    dove   zx   è   l'angolo    che    la 

cos  (i  x)  ^ 

tangente  t  forma  con  l'asse  delle  x. 

L'arco  della  curva  compreso  tra  i  punti  di  ascissa  a  e  b 
sarà  dunque  nelle  nostre  ipotesi 


•^     n. 


dx 


a    cos  (t  x) 

Le  nostre  ipotesi  equivalgono  a  dire  che  : 

1*"  Le  equazioni  di  C  si  possano  porre  sotto  la  forma  : 

y  =  f{x)      ,      ^  =  cp(a;), 

perchè  in  tal  caso  il  valore  di  x  (cioè   la  proiezione    sull'asse 
delle  x)  individua  il  punto  della  curva. 

2'  La  -^ —  =  l/l  -h  f"'  (x)  -h  9''  (x)  (§  118)  esiste  ed 

cos  To; 

è  una  funzione  continua  di  x  (le  /*,  9  hanno  derivate  continue). 
In  tal  caso  il  nostro  arco  è  dato  da  : 


/. 


Vi  -H  f  (x) -^  ^'Hx)  dx. 


dii  d  z 

Posto  f  (x)  =  -~  ,  cp'  (x)  =  --  ,    si   ha   che  il  nostro  arco 
dx  dx 


vale 


/(/ 


df-       dz'  , 
dx        dx 


formola  che,  come  è  noto  dalle  regole  di  integrazione  per  sosti- 
tuzione, è  indipendente  dalla  variabile  scelta  come  variabile  di 
integrazione,  e  che  si  suole  scrivere  perciò 


/  Vdx-  -H  di/  -+-  dz^. 


G.  Tubini,  Analisi  matematica. 


402  CAPITOLO   XIX    —   §    120 

Ciò  significa  che,  se  x  ^=  x  (t),  y  =^  y  (t),  z^=^  2{t)  sono  le 
equazioni  parametriche  della  curva,  quel  suo  arco  corrispondente 
a  valori  di  t  dell'intervallo  (a,  P)  vale  : 


jyx'  it) 


y'^{t)^B"{t)dt 


Questa  f or  mola  vale  anche  per  curve,  che  siano  in  corri- 
spondenza biunivoca  con  la  proiezione  sull'asse  delle  y^  o  sul- 
l'asse delle  z;  e  si  estende  tosto  a  curve,  che  si  possano  scomporre 
in  un  numero  finito  di  pezzi,  ognuno  dei  quali  sia  in  corri- 
spondenza biunivoca  con  la  sua  proiezione  su  uno  dei  tre  assi. 

Se  noi  indichiamo  con  s  l'arco  contato  da  un'origine  qualsiasi 
al  punto  t,  è  dunque  s't  =  Vx?  -h  y't'  -\-  z't  ;  cosicché  i  coseni 
direttori  della  tangente  alla  curva  sono  (pag.  397)  : 

x!t dx       y't dy      ■  z't dz 

s't       ds        s't       ds       s't       ds 

Affinchè  il  parametro  t  coincida  con  l'arco  s  misurato  nel- 
l'uno 0  nell'altro  verso  a  partire  da  uno  o  da  un  altro  punto 
è  dunque  necessario  e  sufficiente  che  x^  -h  y't  -4-  z't  =  1 . 

La  nostra  formola  si  può  rendere  intuitiva  anche  per  altra 
via  :  la  nostra  definizione  sarà  cosi  giustificata  anche  con  nuovo 
metodo.  Un  pezzetto  piccolissimo  della  nostra  curva  ha  per 
lunghezza  l'incremento  ds  che  s  subisce  passando  da  un  estremo 
all'altro;  se  noi  lo  consideriamo  come  rettilineo,  avremo  che  ds^ 
è  uguale  alla  somma  dei  quadrati  delle  sue  proiezioni  dr,  dy^  dz 
sui  tre  assi  coordinati.  È  perciò  di'  =  dx^  -4-  dy'^  -^  dz^. 

Esempio. 

2  2 

X  V 

Si  trovi  il  perimetro  dell'ellisse  — j  4-  -v=  1- 

Le  a;  =  a  cosi,  y  ^=h  seni  per  0  t^t  ^2  n  sono  le  equa- 
zioni parametriche  di  tale  ellisse.  Il  suo  perimetro  sarà  : 


—  —  /  2  1,2 

Ap  Va' sen'  t  -h  b' cos"  tdt  =  4a  T  |/ 1  —  ^  T      CQs'  t  dt. 

a^ &^         , 

Posto 7, —  =  e'  (dove  e  <  1)  tale  integrale  si  calcola  iute- 

a^ 

grando  per  serie  come  l'integrale  dell'esempio  al  §  79,  pag.  266. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       403 

P)  Lunghezza  di  una  curva  piana  in  coordinate  polari. 
Posto  X  =  r  cos  ^j  y=^r  sen  6,  dalla  dx^  -h  dy^^^dr"  4-  r"  6^6^ 
si  deduce  che  la  lunghezza  di  una  curva  definita  dalle: 


r{t)  e  =  0  (0 

a^t^ì) 


vale 


r'  r^  dt 


Consideriamo,  p.  es.,  la  curva 

r  =:z  h  -h  k  Q         {h,k=^  cost.), 

che  si  riduce  a  un  cerchio  per  ^^  =  0  e  a  una  spirale  di  Archi- 
mede per  h=^0.  Quel  suo  arco  per  cui  a  ^  0  ^  ò  ha  per 
lunghezza 


j 


come  si  riconosce  ponendo  6  =  ^.  Posto  k  =  0,  a  =  0,  &  =  27c 
se  ne  deduce  che  2nh  è  la  periferia  del  cerchio  di  raggio  h. 
Il  lettore  studii  il  caso  k  ^  0. 


§  121.  —  Area  di  una  superficie  sghemba 
ed  integrali  estesi  ad   una  superficie  sghemba. 

a)  Affatto  analogo  è  lo  studio  dell'area  di  una  superficie  R 
sghemba.  Se  tale  superficie  R  è  in  corrispondenza  biunivoca  con 
la  sua  proiezione  /sul  piano  xy,  ed  è  quindi  rappresentabile 
con  un'equazione  z  ^=  f(x,  y),  Varea  s  di  quel  suo  pezzo  s, 
che  si  proietta  in  un  pezzo  a  di  I  si  definirà  nel  modo  più 
semplice  come  quella  funzione  additiva  di  a,  la  cui  derivata 
in  UH  punto  A  di  I  è  identica  a  quella  che  si  otterrebbe  sosti- 
tuendo alla  R  il  suo  piano  tangente  nel  punto  che  si  proietta 
in  A.  Tale  derivata  (che  supporremo    finita    e   continua)   vale 

dunque ,  se  a  è  l'angolo  del  primo  quadrante  che  tale  piano 

A 

tangente  forma  col  piano  xy^  cioè  è  l'angolo  nz  del  primo  qua- 
drante che  la  normale  ad  R  nel  punto  considerato    forma    con 


404  CAPITOLO   XIX   —    §    121 

l'asse   delle  ^  (*).    Poiché   con   le   notazioni    del   §    119    si    ha 
cos  a  =    ^  ,  Tarea  5  del  pezzo  s  di  E  sarà  : 


/>' 


p'  +  q'  do 


esteso  alla  proiezione  a  di  5  sul  piano  xy. 
Si  noti  che  ciò  equivale  appunto  alla 

ds  1 


do       cos  a 


=  v/i  + 


Ed  è  facile  verificare  direttamente  che  tale  integrale  ha  un 
significato  indipendente  dalla  posizione  degli  assi  coordinati,  ed 
estendere  tale  formola  a  superfici  composte  di  un  numero  finito 
di  pezzi,  ciascuno  dei  quali  sia  in  corrispondenza  biunivoca  con 
la  sua  proiezione  su  un  qualche  piano,  p.  es.,  su  uno  dei  tre 
piani  coordinati. 

Noi,  anziché  occuparci  di  tali  questioni,  vogliamo  aggiungere 
una  sola  importante  osservazione. 

P)  Sia  S  una  funzione  additiva  dei  pezzi  s  di  una  tale  super- 
ficie R.  Se,  com'è  la  convenzione  piii  spontanea,  adottiamo  come 
misura  s  di  un  pezzo  s  l'area  testé  definita,  la  derivata  F  ài  S 

dS 
sarà  -—  .    Se   consideriamo   il   valore  di  S  corrispondente  a  un 

ds 

pezzo  5  di  i^  come  funzione  della  proiezione  a  di  5  sul  piano  xy, 
ossia,  se  adottiamo  come  misura  di  s  l'area  o  di  tale  proie- 
zione, la  derivata  di  S  sarà 

dS       dS  ds         /- ^ r,  _ 

—  =  --  —  =  VI  +/  -f-  g'  i^. 
do       dsdo 

Cosicché  : 

S—  JVl  +/-f-g'  Fdo  =JdxfVl  -H/  +  g'  Fdy. 

Questa  formola  riduce  il  calcolo  di  funzioni  additive  dei  pezzi 
di  una  superficie  S  a  quello  di  un  integrale  piano. 


(*)  Vedremo  che  tale  definizione  concorda  con  la  definizione  elementare  nel 
caso  della  sfera  ;  cfr.  le  osservazioni  del  precedente  §  120.  Noto  che  qui,  analoga- 
mente a  quanto  si  è  fatto  in  altri  paragrafi,  si  indica  con  la  stessa  lettera  s  un 
pezzo  di  Ì2  e  la  sua  area. 


alcune  applicazioni  geometriche  del  calcolo,  ecc.     405 

Esempio. 

Sia  R  una  superficie,  parte  della  parete  di  un  recipiente 
pieno  d'acqua  (un  bacino  di  carenaggio,  p.  es.).  A  pag.  332, 
es.  3^  abbiamo  studiato  il  caso  che  R  fosse  piano  e  verticale  ; 
qui  studiamo  il  caso  generale.  Ricordando  che  la  pressione  subita 
da  jK,  se  R  fosse  un  piano  comunque  inclinato,  sarebbe  normale 
ad  jK  e  avrebbe  per  intensità  il  peso  della  colonna  liquida  che 
gravita  su  R,  si  induce  la  seguente  proposizione  generale. 

Se  l'asse  delle  z  è  verticale,  e  la  ^  rappresenta  proprio  la 
distanza  di  un  punto  del  recipiente  dal  pelo  libero  del  liquido, 
le  componenti  secondo  Tasse  delle  x  o  delle  y  o  delle  z  della 
pressione  subita  da  un  pezzo  s  ài  R  sono  funzioni  additive  di  5, 
la  cui  derivata  vale  rispettivamente  z  cos  {nx),  o  z  cos  {ny\  o 
2  cos  {nz). 

Se  i^  è  in  corrispondenza  biunivoca  con  la  sua  proiezione 
sul  piano  xy,  tali  componenti  valgono  dunque 

/  z  cos  {nx)  V\  -h  p^  -h  q^  do  =1  /  /   zp  dz  dy, 

oppure  /  /  zq  dx  dy,  oppure  /  /  z  dx  dy. 

La  componente  /  /  z  dx  dy  verticale  della  pressione  è  evi- 
dentemente il  volume  del  cilindroide  generato  dai  segmenti  proiet- 
tanti i  punti  di  R  sul  piano  xy  (pelo  libero  del  liquido). 

§  122.  —  Area  di  una  superficie  di  rotazione. 

Se  noi  poniamo 

X  =  p  cos  0,     ^  ==  p  sen  0     (donde  p  =  Vx^  -\-  y') 
l'equazione  di  una  superfìcie  si  può  scrivere  nella  forma 

^  =  /'(p,0).  (1) 

Se  essa  è  di  rotazione  attorno  all'asse  delle  z^  l'aumentare  0 
di  una  costante  a  qualsiasi,  cioè  il  far  rotare  di  un  angolo  a 
la  nostra  superfìcie  attorno  all'asse  delle  z  trasforma  la  super- 
ficie in  sé  stessa,  cioè  non  ne  muta  l'equazione  (1);  cosicché, 
qualunque  sia  a,  sarà  /*(p,  0)  =  /'(p?  0  -4-  a).  Cioè  /"(p,  0)  non 
varia,  qualunque  incremento  venga  dato  alla  0,  cioè  comunque 
si  cambi  il  valore  della  0.  Essa  è  dunque  indipendente  dalla  9; 


406  CAPITOLO   XIX   —   §    122 

cioè  è  una  funzione  cp  (p)  della  sola  p.  E  l'equazione  della  nostra 
superficie  sarà  del  tipo: 

z  —  cp{p)     cioè  <2r  =  cp  (-f-  i/:r  -+-  y-),  {l)u. 

'  La  sua  intersezione   col   semipiano  (si  noti  non  col  piano) 

y=0     ,     x> 0 

è  un  profilo  meridiano,  la  cui  equazione  (in  tale  semipiano)  sarà  : 

0  iz^  cp  (x)         (dove  X  è  positivo).  (2) 

L'area  della  nostra  superficie  vale  Tintegrale 


/  /  l/l  -hp^  -h  q-  dx  dy. 


Questo  integrale  si  deve  naturalmente  estendere  alla  proie- 
zione della  superfìcie  sul  piano  xy]  questa  proiezione  è  la  corona 
circolare  ottenuta  facendo  rotare  attorno  all'origine  e  sul  piano  xy 
la  proiezione  sull'asse  delle  x  della  curva  (2)  [o  del  pezzo  di 
curva  (2)  considerato]. 

Ora 

i?  =  V  =  9'  (P)  ^  =  T'  (P)    /  ,^      .  ==  T'  (p)  cos  0 
òx  òx  yx^  -h  y- 

q  =  —=  —  cp  (p)  sen  0    . 

1  +/  H-  g'=  1  -Hcp''(p). 
Perciò  l'area  J_  di  /S  è  data  da: 

A=rrVl  -4-/  -h  q^  dx  dy  =  /  /  /l  -h  cp'-  (p)  dx  dy  = 
^'ffVl  "+-  /""(p)  p  ^  p  t^  0  =fd  e^l/l  +  cp"  (P)  P  ^  P  = 

=  2^JV\  H-T'Mp")pt?p,      (*) 
che  si  può  scrivere 

^  1=  2  7c  /  i/l  4-  cp  -  (a;)  .T  ^x  = 

=  2  ^y^  j/  1  ■+■  (£)  ^^^  =  2  ^/^^^5  (3) 

(*)  Si  noti  che  j  j/l  +  f'-^(p)pdp  (i  cui  limiti  sono  i  raggi  della  precedente 

corona  circolare)  è  indipendente  dalla  e,  e  che  l'integrazione  rispetto  a  6  è  fatta 
nell'intervallo  (0,  2tt). 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       407 


dove  con  ds  =  V  dx^  -h  dz^  indico  ora  il  differenziale  dell'arco 
della  curva  C,  e  l'integrale  si  deve  estendere  all'intervallo,  in 
cui  varia  la  5,  quando  si  descrive   C, 

La  (3)  costituisce  la  formoìa  fondamentale  per  il  calcolo 
dell'area  -di  una  superficie  di  rotazione. 

Essa  si  può  rendere  intuitiva,  osservando  che  ogni  pezzetto 
infinitesimo  ds  della  curva  C  genera  rotando  un  tronco  di  cono, 
le  cui  sezioni  circolari  sono  cerchi  di  raggio  x^  e  la  cui  area 
e  quindi  2Tzxds.  Questa  osservazione  non  ha  però,  cosi  esposta, 
alcuna  pretesa  di  rigore.  Resa  rigorosa,  essa  dimostra  che  Varca 
di  una  superficie  di  rotazione  è  il  limite  dell'area  generata 
dalla  rotazione  di  un  poligono  inscritto  nel  profilo  meridiano, 
quando  i  lati  di  esso  tendono  a  zero.  Lo  studioso  deduca  la  (3), 
ammettendo  questo  teorema. 

Esercizio. 

Si  calcoli  Tarea  della  sfera  di  raggio  R. 

Se  la  sfera  ha  per  centro  l'origine,  essa  è  generata  dalla 
rotazione  attorno  all'asse  delle  z  di  un  semicerchio  C  di  raggio  E 
posto  nel  solito  semipiano  xz.  Se  cp  è  l'angolo  che  un  raggio 
generico  del  semicerchio  C  forma  con  l'asse  delle  x,  e  assumiamo 
come  origine  degli  archi  s  il  punto  in  cui  C  incontra  Tasse 
delle  x,  si  ha  :  s  =  R^.  D'altra  parte  x  =  jR  cos  9  ;  e  il  semi- 

71;  71: 

cerchio  si  descrive  facendo  variare  9  da o"  ^  "^  "o"  * 

L'area  della  sfera  vale  dunque 

■a  n 

{R  cos  cp)  J?^  cp  =  2  7C  R^  cos  cp  fZ  cp  =  4  TU  R^^ 

che  coincide  col  valore  dato  dalla  geometria  elementare. 

Teor.  di  Guldino.  La  (1)  si  può  interpretare  con  un  teorema 
analogo  a  quello  del  §  106,  pag.  346,  osservando  che,  se  J^  è 
la  lunghezza  della  curva  rotante,  d  la  distanza  dell'asse  delle  z 

(cioè  l'ascissa)  del  suo  centro  di  gravità,   allora    Ld=^  \  x  ds. 

Se  ne  deduce:  L'area  di  una  superficie  di  rotazione  vale 
2  TU  Ld,  cioè  vale  il  prodotto  della  lunghezza  L  di  un  profilo 
meridiano  per  la  lunghezza  2  tu  d  della  circonferenza  descritta 
nella  rotazione  del  centro  di  gravità  di  tale  profilo. 


408  CAPITOLO  XIX  —  §  122-123 

Esempio. 

Centro  di  gravità  di  una  semicirconferenza.  Una  semicircon- 
ferenza di  raggio  E  e  lunghezza  ti  E  descrive,  rotando  attorno 
al  suo  diametro,  una  sfera  di  area  4  n  E^.  La  distanza  d  dal 
centro  di  gravità  della  semicirconferenza  al    diametro    soddisfa 

2  E 
perciò  alla  A  t^  E^  ^=  ti  E.  2  t^  d,  e  vale  dunque  d  = • 

§  123.  —  Piano  osculatore  ad  una  curva  sghemba. 
Sia  data  una  curva  C  definita  dalle  equazioni  : 

X  =  x{t)]      y=iy(t);      z  —  2  {t)  ]  (1) 

i  cui  secondi  membri  abbiano  derivate  prime  e  seconde  continue 
in  un  intorno  di  ^  =  ^o- 

Sia  A  il  punto  di  C  corrispondente  al  valore  ^o  della  t;  t 
siano  B,  D  i  punti  corrispondenti  ai  valori  ^o  -^  ^,  ^o  -^  k. 
I  punti  A,  B,  D  giacciano  nel  piano  ti  di  equazione 

ax-^hy  -^  cz-\-  d^O.  (2) 

I  punti  comuni  a  C  ed  a  ti;  soddisferanno  all'equazione 
ax  (t)  -4-  by  (t)  -h  cz  (t)  -\-  d  ^=^  0,  che  si  ottiene  eliminando  tra 
(1)  e  (2)  le  coordinate  correnti  x,  y,  z.  Ciò  avviene  in  partico- 
lare dei  punti  A,  B,  D;  cosicché  la  funzione  della  t 

F  it)  =  ax  (t)  H-  hy  (t)  -f-  cz  (t)  -4-  d  (3) 

sarà  nulla  per  t=^to.  t  ^=  to  -\-  h,  t  ^=  to  -^  k.  Per  il  teorema 
di  Rolle  nel  più  grande  dei  segmenti  determinati  da  questi  tre 
punti  esistono  almeno  due  punti  ^i,  ^2  ove  F'  (t)  è  nulla,  e  quindi 
almeno  un  punto  ^3,  ove  è  nulla  F"  (t).  Sarà  quindi  in  parti- 
colare [posto  xo  =  ^  (^0)  ;  2/0  =  ^  (W,  ecc.] 

aX(i         -h  byo         -h  czq         -\-  d  =^  0 

ax   (ti)  4-  h?/  (t,)  4-  cz'  (ti)  =  0  (4) 

ax'' it,) -^  hy' (t,) -h  cz'' (t,)  =0. 

Se  le  (4)  individuano  (*)  i  rapporti  a:b:c:d  (cioè  se  nessuna 
delle  (4)  è  combinazione  lineare  delle  precedenti),  i  punti  A,  B,  D 
non  sono  in  linea  retta;  e  il  piano  ABD  è  determinato  dalle 
stesse  (4).  Noi  supporremo  che  così  avvenga  effettivamente. 


(*)  Aggiungendo  alla  (4)  la  identità  0.a  +  0.?>4-0.c-f-0.rf— 0  vi  ha  un 
sistema  di  4  equazioni  omogenee  nelle  4  incognite  a,  h,  e,  d  ;  il  quale,  se  è  di  carat- 
teristica 3,  determina,  come  si  è  visto  al  §  27,  pag.  89,  le  a,  h,  e,  d  a,  meno  di 
un  fattore  comune  >,  0,  ciò  che  è  lo  stesso,  determina  i  rapporti  a-.h-.c-.d. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       409 


Si  osservi  ora  che,  quando  h  e  k  tendono  a  zero, 

lim  ti  =  lim  4  =  fo . 

Poiché  le  derivate  prime  e  seconde   delle   x,  y,  z  sono   finite  e 
continue,  sarà  lim  x  (^i)  =  o^  (to)  ;  lim  x"  (Q  =  x"  (to)  ;  ecc. 

I  rapporti  a:  b  :  e  :  d  definiti  dalle  (4)  tenderanno  al  limite 
ai  rapporti  a:  b  :  e:  d  definiti  dalle 


axo 


axo 


(5) 


byo   -H  c^o    -+-  ^  =  0 
by'o  -4-  cz'o  =  0 

ax'^o  -4-  by'o  -4-  cz'^o  =  0  ) 

(dove  si  è  posto  x  {Q  =^  x'o,  x'o{to)  =^  x"q,  ecc.),  se  nessuna 
delle  (5)  è  combinazione  lineare  delle  precedenti,  ossia  se  la 
matrice 

'  Xo  yo  Zq  1 
x\  y\  z\  0 
x;\y\z\^ 


(6) 


è  di  caratteristica  3.  E,  se  questo  avviene,  anche  l'ipotesi  ana- 
loga fatta  sopra  per  le  (4)  è  soddisfatta,  se  h^  k  sono  abbastanza 
piccole,  perchè  le  x\  x\  ecc.  sono  continue. 

Il  piano  (2),  i  cui  coefficienti  a,  6,  e,  d  soddisfano  alle  (5), 
si  dirà  il  piano  osculatore  alla  curva  C  m  A:  ed  è  facile  rico- 
noscere che  i  coseni  direttori  della  sua  normale,  e  la  distanza 
dall'origine  sono  i  limiti  delle  quantità  analoghe  per  il  piano 
ABD  ]  cosicché  tale  piano  osculatore  si  può  dire  il  piano  limite 
del  piano  che  passa  per  A  e  per  due  punti  vicini  B,  D  della 
curva,  qicando  B,  D  5*  avvicinano  indefinitivamente  ad  A. 

Eliminando  le  a,  ò,  e,  d  tra  le  (2),  (5)  si  ha  : 


X    y    z 

1 

Xq   yo   zo 
Xq  y\  z\ 

1 
0 

0     ossia 


X 


^0  y  —  yo  z  —  zo 


Xo 
x"o 


y^ 


Zo 

z"o 


=  1 


(7) 

Xo  3/0 

x'o  y\  z'o  0 

come  equazione  del  piano  osculatore  in  A.  Ed  é  facile  ricono- 
scere che,  nella  nostra  ipotesi  per  la  matrice  (6),  la  (7)  non 
può  ridursi  ad  una  identità. 

Dalla  (7)  risulta  evidente  che  detto  piano  osculatore  contiene 
la  retta  uscente  da  ^  =  (xo ,  yo ,  Zo)  coi  coseni  direttori  proporzio- 
nali ad  Xo,  y' 0,  z'o,  cioè  la  retta  tangente  alla  curva  nej  punto  A. 

Dimostriamo  come  esercizio,  che  il  piano  osculatore  è  il  piano  limite  di  un 
piano  TT'  che  passa  per  A,  per  J5,  per  la  tangente  in  A,  quando  B  si  avvicina 
indefinitamente  ad  A, 


410  CAPITOLO  XIX   —   §    123-124 

^e  ax  -\-hìj -h  cs  ~\-  d  =  0  è  l'equazione  di  tt',  le  a, h,  e,  d  devono  soddisfare 
alle  :  ax^  -h  hy^  +  czQ  +  d  =  0,  ax\  4-  Wa  H-  c^\  =  0  e  ax  %  +  ìi)  +  hy  %  +  704- 
-hcz{tf^  +  ìi)-\-d=^0.  All'ultima  equazione  possiamo,  in  virtù  delle  prime  due, 
sostituire  la  : 

^  X  {te  -hh)~  hxp  —  Xq      ,  y  {te  •+'h)  —  hy'o  -  y^         z{t^-i-h)  —  hz\,  —  z^  _ 
a  -  Hf>  p  -+-C  ^,  -u 

Passando  al  limite  per  Ti  =  0  e  ricordando  il  risultato  del  §  63,  pag.  199,  questa 
equazione  diventa  aa? 'o  4- b^/'o  +  ^^^''q  =  0.  Ritroviamo  così  precisamente  le  (5).  Se 
addottassimo  la  proprietà  qui  enunciata  per  definire  il  piano  osculatore,  notiamo 
che  non  avremmo  dovuto  supporre  continue  le  x",  y",  z",  ma  che  sarebbe  ba- 
stato supporre  determinate  e  finite  le  derivate  seconde  nel  punto  t  :=  t^,. 

Si  dice  piano  normale  in  A  il  piano 

Xq  {x  —  Xq)  -f-  y'^  {y  —  ?/o)  -h  ^'o  (^  —  ^o)  =  0, 

luogo  delle  normali  alla  retta  tangente  in  A  innalzate  dal 
punto  A,  La  sua  intersezione  col  piano  osculatore  dicesi  normale 
prindimle. 

La  normale  in  A  al  piano  osculatore  giace  sul  piano  nor- 
male, e  dicesi  hinormale. 

La  ragione  di  questo  nome  sta  in  ciò  che,  considerato  il 
piano  osculatore  come  il  piano  di  tre  punti  A,  B,  D  infinita- 
mente vicini,  la  binormale  è  normale  alle  due  rette  infini- 
tamente vicine  AB,  BD  ;  le  quali  congiungendo  punti  conse- 
cutivi, si  debbono  considerare  entrambe  tangenti  alla  curva  C. 

§  124.  —  Cerchio  osculatore. 

a)  Sia  x=^x{t)      ,      yz=y(t)  (1) 

una  curva  piana  f  ;  le  a?  (0,  y  (t)  posseggano  derivate  prime  e 
seconde  finite  e  continue  in  un  certo  intorno  y  di  t  =^  a.  Sia 
A  il  punto  t  =^  a;  siano  B  e  C  due  punti  t  ^=^  a-hh,  t  =  a-h  k 
deirintorno  y.  Supposto  che  i  tre  punti  ^,  jB,  C  di  f  non  siano 
allineati,  per  essi  passerà  un  cerchio  di  equazione 

(x-^r  +  iy  —  yir-R'  =  0,  (2) 

se  (?,  y])  ne  è  il  centro,  R  il  raggio.  I  punti  comuni  alla  curva 
e  al  cerchio  soddisferanno  all'equazione  dedotta  sostituendo  nella 
equazione  (2)  del  cerchio  i  valori  delle  x,  y  dati  dalle  equa- 
zioni (1)  di  r  : 

[x  (0  -  lY  +  [y  (0  -  y\Y  -Br  =  o. 

Il  primo  membro  è  una  funzione  F{t)  della  t,  che  dovrà 
esser    nulla   almeno   nei   punti   t  =^  a,  f  =^  a  -\-  h,  t  ■=^  a  -^  k 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETKICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       411 

(perchè  i  punti  A,  B,  C  appartengono  alla  curva  e  al  cerchio). 
I  valori  a,  a  -\-  h,  a  -\'  k  determinano  due  intervalli,  ai  cui 
estremi  F  (t)  si  annulla  ;  entro  ciascuno  di  essi  esisterà  almeno 
un  punto  ove  F'  (t)  è  nullo  (per  il  teorema  di  Eolie)  ;  e  dentro 
l'intervallo,  di  cui  questi  due  punti  sono  gli  estremi,  esisterà 
almeno  un  punto,  ove  sarà  nulla  la  derivata  F"  (t)  di  F'  (t). 
Sia  t  =  h  uno  dei  punti  citati  ove  si  annulla  F  (t)  e  sia  ^  =  e 
uno  dei  punti  ove  si  annulla  F''  (t)  (*).  [Questi  punti,  apparte- 
nendo agli  intervalli,  di  cui  a,  a  -h  h,  a  -h  k  sono  gli  estremi, 
hanno  (si  ricordi)  per  limite  il  punto  a,  quando  h,  k  tendono 
a  zero]. 

Sarà  : 

Fia)  =  [x  (a)  -  ìY  -H  [y  (a)  -  rif  -  R' =  0  (3) 

1  r  (b)  =  [x  (b).  -  $]  x^  (b)  4-  [y  (ò)  -  ri]  y'  (b)  =  0    (4) 

i-  F"  (e)  =  [x  (e)  —  i]  x"  (e)  +  [y  (e)  —  7]]  y"  (e)  +  x''  (e)  -h 

-+-2/''W  =  0.  (5) 

Supponiamo  ora  : 

X  y"  —  x'  ?/'  =#  0         per  ^  =  a  (nel  punto  A).         (6) 

Sarà  anche  xl  (b)  y"  (e)  —  y  (b)  x!'  (e)  =4=  0,  quando  &  e  e  sono 
abbastanza  vicini  ad  a,  ossia  quando  |  /^  |,  j  ^  |  sono  abbastanza 
piccoli  (come  noi  ora  supporremo). 

Supposte  note  le  ò,  e,  le  (4),  (5)  costituiscono  un  sistema 
di  due  equazioni  lineari  nelle  due  incognite  ^,  f\  ;  che  si  possono 
risolvere  perchè  il  determinante  x!  (b)  y"  (e)  —  y'  (ò)  x'  (e)  dei 
coefficienti  delle  incognite  è  diverso  da  zero.  Determinate  così  le 
g,  IT],  la  (3)  ci  permette  di  dedurne  tosto  il  valore  di  i?.  È  facile 
dedurne  che  da  questa  ultima  ipotesi  (6)  segue  l'ipotesi  iniziale 
che  A^  B,  C  non  sono  in  linea  retta,  che  possiamo  perciò  non 
enunciare  esplicitamente  [perchè  inclusa  nella  (6)]. 

I  limiti  di  g,  Y],  Rperh  =  k  =  0  sono  evidentemente  le 
quantità  ^,  y\,  R  determinate  dalle  equazioni  che  si  ottengono 
da  (3),  (4),  (5)  passando  al  limite  per  ]i-=:^k^=^  0,  cioè,  per 
quanto  abbiamo  già  osservato,  ponendo  in  (3),  (4),  (5)  6  =  c  =  a; 


(*)  Di  tali  punti  5  ce  ne  sono  almeno  due  ;  di  punti  e  almeno  uno. 


412  CAPITOLO   XIX  —   §    124 

tali  equazioni  (*)  sono  le 

{xo  —  U'  +  (y.  —  -nf  —  K'  =  o  (7) 

(xo  —  5)  xo  -+-  (2/0  —  y])  y\  =  0  (8) 

{x,  —  S)  x\  -4-  {y,  —  '/])  y\  H-  xo'  +  ^o'  =  0       (9) 

dove,  per  semplicità,  abbiamo  indicato  con  Xo,  y^  le  coordinate 

x{a),y{a)  di  A,  e  con  x\,x\ i  valori  corrispondenti  (per 

t  =  a)  di  X  {t),x"  {t), 

Il  cerchio  che  ha  il  centro  (g,  f\)  e  il  raggio  R  definiti  da 
queste  equazioni  si  considererà  come  il  cerchio  limite  del  cerchio 
ABC  e  si  dirà  il  cerchio  osculatore  alla  nostra  curva  nel  punto  A 
di  coordinate  oro,  ^o- 

Dalle  (8),  (9)  si  deducono  i  valori  ^,  f]  ;  donde  per  (7)  si 
trae  il  valore  di  R.  Sarà  pertanto,  abolendo  per  brevità  Tindice  0, 

l^x — T-r, — -iT-,y    ;    -^  =  ^  +  -7-7^ — -jr-,x  (10) 

X  y    — X   y  X  y   — X  y      . 

___      ix-  -h  y-f     _    ix'^  +  y4  .^  .... 

\x  y    —  X   y  \       X  y   —  x   y 

ove   s  =  -f-  1 ,    oppure   £  =  —  1    secondo   che  x  y"  —  x"  y    è 
positivo  0  negativo. 

Le  (10)  si  possono  scrivere  : 

f  r 

u  X 

Ora  la  somma  dei  quadrati  di  £  — ==^==  ed  £    /  ^„  -, 

Vx"'  -^  y'-^         Vx^  4-  y'^ 

vale  1  ;  esiste  perciò  un  angolo  6  tale  che  : 

X  y' 

cos  6  =  e    ,   „  ,  sen  0  =  £ 


donde  tge  =  ^  =  ^- 

Questo  angolo  0  è  dunque  l'angolo  che  la  direzione  positiva 
dell'asse   delle   x  forma   con   la  retta  tangente  :  angolo  che  la 


(*)  Le  seguenti  equazioni  si  esprimono  per  così  dire,  che  t  =  a  sarà  una 
radice  almeno  tripla  dell'equazione  [x  {t)  —  l]^  -{- [y  {f)  —  -^]'^  =  B^  \  ciò  che  si  suol 
enunciare  dicendo  che  il  cerchio  osculatore  ad  una  curva  G  in  un  suo  punto  A 
è  quel  cerchio,  che  ha  con  la  C  almeno  un  contatto  tripurUo  nel  punto  A. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       413 

terza  delle  (12)  definisce  a  meno  di  multipli  di  n  (com'è  natu- 
rale, perchè  non  è  data  a  priori  la  direzione  positiva  della 
retta  tangente)  e  che  invece  con  le  prime  due  delle  (12)  noi 
abbiamo  definito  ora  completamente  (cioè  a  meno  di  multipli  di 
2  71,  perchè  ne  abbiamo  dato  seno  e  coseno).  È  così  : 

g=a;  —  irsene     ;     f]  ==^  ]/ -^  R  cos  ^.         (13) 

Notiamo  che  la 

ds  =  s  \/x'  -h  y'dt 

definisce  Farco  s  della  curva  (a  meno  di  una  costante  additiva) 
in  grandezza  e  verso  (dipendente  dal  segno  di  s)  ;  le  (12)  di- 
ventano cosi  (  posto  s'  =  —  ì  : 

cose=^;  =  ^      ,      sen6=<  =  j-^(*)       (U) 
s        ds  s        ds 

dd 
Posto  0'  =  —  ,  si  ottiene  derivando  l'ultima  delle  (12) 


dt 


0  =  arctg  ^ 

X 


y   X  — y  X 

X    -^  y 


n 


(*)  L'aver  fissato  0  (a  meno  di  multipli  di  2  -)  corrisponde  ad  aver  fissato 
sulla  retta  tangente  il  verso  t  da  considerarsi  come  positivo.  Le  (14)  provano  che 
il  verso  fissato  come  positivo  per  s  concorda  al  verso  t  fissato  come  positivo  sulla 
retta  tangente.  Si  riconosce  dalla  (13)  che  il  verso  i  assunto  come  positivo  sulla 

tangente  deve  rotare  (nel  verso  positivo)  di  un  angolo  retto  -^  per  sovrapporsi  a 

quella  semiretta  n  (normale)  che  dal  punto  (ic,  ?/)  va  al  centro  (?,  fi)  del  cerchio 
osculatore;  cioè  guardando  dal  punto  {x,\i)  la  direzione  t  scelta  come  positiva 
della  tangente,  si  ha  a  sinistra  il  centro  (?,  >i)  del  cerchio  osculatore  (che  rimane 
evidentemente  dalla  parte,  a  cui  la  curva  volge  la  concavità).  Infatti  i  coseni  diret- 
tori di  n  sono 

p    =  —  sen0  =  cos  ixì  +  :^l  e      ^^  =cos^  — cos  \yt-\-  -^i 

perchè  l'angolo  ^^  =  0,  e  l'angolo  yt^^yx-^  xi=^—  ~  -|-9. 

■  Si  suppone  che,  secondo  le  convenzioni  usuah,  si  abbia:  a??/  =  -^  ed  ?/^  =  —  y)' 


CAPITOLO   XIX 

— 

-  ^  12 

m 

e' 

.  ?/'  s' 

y  ^ 

ds 

.9 

3     ? 

ix'-' 

-1- 

/2\    2 

y  ) 

m 

1 

ds 

R 

414 

Quindi 

db        e'  y''s'  —  y'x" 

—  =  —  =  £ :r  ,  Cloe  : 

(.T    4-  ?/  ) 
(15) 

Differenziando  (13),  ricordando  (14)  e  (15),  si  ha: 

dE,  =  dx  —  R  cos  0cW  —  sen  ddR  =  —  sen  ddR 
df]  =  cos  bdR, 
donde  : 

df]  y  —  ri  ,     , 

^==-cotge  =  L^^  (16) 

^f  H-  drf^dR\  (17) 

Le  (15),  (16),  (17),  hanno  interpretazioni  notevolissime. 
Si  noti  che  l'incremento  AG  subito  dall'angolo  0,  quando  si  passa 
da   una   ad   un'altra   tangente,    vale  proprio  l'angolo  di  queste 

due  tangenti.  Il  rapporto  -^  dicesi  curvatura  della  linea.  Quindi 

la  (15)  ci  dice  : 

Afì 
La  curvatura  in  un  punto  A  è  il  limite  del  raj^porto  — — 

ottenuto  dividendo  V angolo  A0  formato  dalle  rette  tangenti  alla 
curva  data  nel  punto  A  ed  in  un  altro  punto  B  della  curva, 
per  la  lunghezza  As  dell'arco  AB,  quando  il  punto  B  tende  al 
pUnto  A. 

Al  variare  del  punto  (x,  y)  sulla  curva  data,  il  punto  (g,  ig) 
descrive  un'altra  curva  :  la  cosidetta  evoluta  della  data  curva. 

L'evoluta  è  dunque  il  luogo  dei  centri  (^,  ti)  dei  cerchi 
osculatori. 

La  tangente  all'evoluta  in  un  suo  punto  (5,  'ff)  è  la  retta 
che  congiunge  (S,  f])  al  punto  (x,  y)  corrispondente  sulla  curva 
iniziale,  cioè  è  la  normale  alla  curva  data. 

df] 
Infatti  il  coefficiente  angolare  di  tale  tangente  — _  è  per  (16) 

uguale  a  —  — —  (coefficiente   angolare  della  normale  alla  curva 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       415 

data)  od  anche  a  ^ coeificiente  angolare  della  conffiunffente 

\  —  X 

i  punti  {x^  y)  e  (^,  '(])  ).  Cioè  in  altre  parole  : 

Le  rette  normali  a  una  curva  sono  le  tangenti  della  evo- 
luta, 0,  come  si  suol  dire,  inviluppano  la  evoluta. 

Infine  si  noti  che,  se  o  è  l'arco   della   evoluta,    è  per  (17) 

d<r  =  df  -f-  dyf  =  dR\ 
Fissando  in  modo  opportuno  il  verso  di  o,  sarà  dunque 
d(5  =  dR,  donde  a  =  |  ^jR     ,     a  =  i^  4-  cost. 

Cioè  Varco  dell'evoluta  è,  a  meno  d'una  costante  additiva  (*), 
uguale  al  corrispondente  raggio  R  :  in  altre  parole  Varco  di  evo- 
luta compreso  tra  due  punti  di  questa  è  uguale  alla  differenza 
dei  corrispondenti  raggi  dei  cerchi  osculatori  della  curva  data. 

Una  curva  C  si  dice  l'evolvente  della  propria  evoluta  Ci. 
Il  precedente  teorema  dà  un  metodo  assai  comodo  per  costruire 
le  evolventi  C  di  una  data  curva  Ci.  Se  un  filo  di  lunghezza 
costante  avvolto  attorno  Ci  si  svolge,  in  modo  che  la  parte 
svolta  rimanga  tesa  (lungo  la  tangente  in  quel  punto  di  Ci  ove 
il  filo  si  stacca  da  Ci),  l'estremità  libera  del  filo  descriverà 
l'evolvente  C;  anzi  ciò  rende  intuitivo  il  teorema  che  una 
curva  Ci  ha  infinite  evolventi,  le  quali  si  ottengono  tutte,  va- 
riando la  lunghezza  del  filo,  o  il  verso  in  cui  è  avvolto  su  Ci. 
Ci  basti  ancora  osservare  che,  se  un  pendolo  M  è  retto  da  un 
filo  flessibile  OM^  il  quale,  mentre  M  oscilla,  deve  avvolgersi 
su  una  curva  C,  allora  M  descrive  durante  tale  oscillazione  una 
evolvente  di  C.  Su  tale  principio  è  fondato  il  pendolo  cicloidale 
il  quale  è  perfettamente  isocrono,  e  impiega  tempi  uguali  a 
fare  oscillazioni  qualsiasi,  per  quanto  ampie. 

v)  Per  dimostrare  effettivamente  che  una  curva  0,  possiede  infinite  evolventi  C, 
si  proceda  nel  modo  seguente.  Siano  ?,  v;  le  coordinate  di  un  punto  di  (7,  e  ne  sia 
5  l'arco,  che  è  individuato  a  meno  del  segno,  e  a  meno  di  una  costante  additiva. 
Per  ogni  particolare  scelta  di  ^  si  otterrà  una  particolare  evolvente.  Infatti,  fissato  ^, 
e  posto  11=^^,  le  (^?=:  —  sen  òdi?  e  dn  =^  to'è  Q dB  individuano  un  angolo  6,  e 
le  (13)  ci  danno  il  punto  ix,y).  Ed  è  ben  evidente  che  questo  punto  {x,y)  descrive 
una  delle  evolventi  cercate.  Esso  soddisfa  infatti  a  (16)  e  perciò  esso  si  trova  sulla 

retta  uscente  da  (?,  fi)  col  coefficiente  angolare  —  cotg  6  —  —  ,  cioè  sulla  tangente 


(*)  Che  varia,  quando  si  cambia  il  punto  dell'evoluta  scelto  come   origine 
degli  archi  a. 


416  CAPITOLO  XIX  —  §  124-125 

a  C,  nel  punto  (!,>;).  Ed  è  pure  facile  riconoscere  che  questa  tangente  a  (74  è 
normale  alla  curva  C  descritta  dal  punto  x,  y.  Infatti  il  coefficiente  angolare  della 

tangente  a  C  nel  punto  {x,y)  è  data  da  -^  ,  che,  in  virtù  delle  equazioni  citate, 

si  riconosce  uguale  a  tgtì.  Cosicché  si  verifica  appunto  che  le  tangenti  in  {x,y) 
a  C  ed  in  (?,>?)  a  Cj  sono  tra  loro  normali. 

Osservazioni. 

Supposto  che  la  curva  sia  definita  da.  una  equazione 
y  z=z  f{x),  cioè  dalle  equazioni  y  =  f(t),  x  =  t,  la.  (11)  diventa, 
ricordando  che  x  =^  1,  x"  =  0  : 

R  =  — j — ^fj —  (y\  y"  derivate  rispetto  alla  x). 

I     ij  I 

Questa  forinola  è  di  uso  frequente. 
Se  invece  ^  =  s,  la  (11)  diventa 

-^  ^=^\x  y"  —  y  x"  I     {x\  X    ecc.  derivate  rispetto  ad  s). 

Come  in  fine  del  §  123,  avremmo  potuto  definire  il  cerchio  osculatore  in 
A  come  la  posizione  'di  un  cerchio  passante  per  J.  e  -B,  e  tangente  in  A  alla 
curva  r,  quando  B  si  avvicina  ad  A. 

§  125.  —  Inviluppi  di  una  schiera  di  curve. 

È  molte  volte  comodo  individuare  una  curva  f,  dando  in- 
finite linee  C,  tali  che  per  ogni  punto  ^1  di  f  passi  una  C 
tangente  in  A  alla  f. 

Così,  p.  es.,  assai  spesso  si  dà  una  curva  f  definendo  le 
rette  C  tangenti  a  F  (si  ricordi,  p.  es.,  l'equazione  tangen- 
ziale di  una  conica  F).  Così  assai  spesso  nelle  scienze  applicate 
a  una  curva  F  si  sostituisce  una  curva  policentrica  \'  ;  si  osserva 
cioè  che  F  è  tangente  a  ciascuno  dei  suoi  cerchi  osculatori  C, 
e  si  sostituisce  alla  F  una  curva  F'  formata  con  un  numero 
finito  di  archetti  circolari  :  ognuno  dei  quali  è  un  arco  di  un 
cerchio  osculatore  0(*).  Infine  la  evoluta  F  di  una  curva  E 
si  può  definire  come  la  linea  a  cui  sono  tangenti  le  rette  C 
normali  alla  E, 

Se,  p.  es.,  y  =  f{x)  è  l'equazione  di  E,  la  retta  C  nor- 
male alla  E  nel  punto  di  ascissa  a  è   definita  dall'equazione  : 

{y  —  fW)\f  {a)  -\-  {x  —  a)^^. 


(*)  Basterebbe  ricorrere  a  cerchi  soltanto  tangenti. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.      417 

E  ci  si  può  proporre  il  problema  di  dedurne  direttamente  le 
coordinate  (^,  yj)  del  punto  ove  tale  retta  tocca  l'evoluta. 

Per  dare  un  altro  esempio  più  semplice,  i  cerchi  C  di 
equazione 

{x  —  a)'  H-  ^'  —  1  =  0 

(che  hanno  il  centro  in  quel  punto  dell'asse  delle  x,  che  ha  l'a- 
scissa a,  e  che  hanno  1  per  raggio)  sono  tutti  (qualunque  sia  a) 
tangenti  a  ciascuna  delle  due  rette  ?/=!,?/  =  —  1.  Ci  si 
può  porre  il  problema  di  dedurre  direttamente  questo  teorema 
dalla  equazione  dei  cerchi   C. 

Noi  senz'altro  esamineremo  generalmente  un  sistema  di 
infinite  curve  C  di  equazione 

f{x,y,a)  =  ^  (1) 

dove  a  è  un  parametro  costante  lungo  una  curva  del  sistema, 
ma  che  varia  da  una  all'altra  curva. 

Nel  campo  che  consideriamo  la  /*  e  le  sue  derivate  parziali 
del  primo  ordine  sieno  finite  e  continue. 

Ricordo    che   il   coefiìciente    angolare   della    retta    tangente 

fx 

alla  (1)  nel  punto  {x,  y)  vale  —  -~  se,  come  supporremo,  fy  =#  0. 

/  y 

Supponiamo  che  esista  una  curva 

y  =  ^(x)  (2) 

tale  che  per  ogni  punto  A  di  tale  curva  passi  una  e  una  sola 
curva  (1)  e  che  questa  curva  (1)  sia  tangente  in  A  alla  curva  (2). 
Cioè  per  ogni  punto  A  della  curva  (2)  esiste  un  valore  di  a 
tale  che  la  curva  (1)  corrispondente  a  tale  valore  di  a  passa 
per  J.  ed  è  ivi  tangente  a  (2).  Questo  valore  di  a  varia  col 
punto  A:  è  cioè  una  funzione  W  {x),  che  supporremo  derivabile, 
della  sua  ascissa  x. 

Dunque  ogni  punto  A  di  ascissa  a;  e  di  ordinata  <^  {x) 
soddisfa  alla  (1)  ove  si  ponga  a  =  W(a;);  cosicché: 

è  una  identità.  Perciò  derivando  troviamo  : 

òx       òy  da 

[se  2/ =^9  (a;);  a  =  W  (a;)].  Ma  il  coefiìciente  angolare  ^' {x) 
della  retta  tangente  a  (2)  nel  punto  A  è  uguale  al  coefficiente 

27  —  G.  FUBiNl,  Analisi  matematica. 


418  CAPITOLO   XIX    —    §    125 

angolare  —  77-  della  tangente  a  (1)  nello  stesso   punto  (e  ciò 

perchè  per  ipotesi  queste  due  rette  tangenti  coincidono).  La 
precedente  uguaglianza  diventa  quindi: 

^W'Ct)  =  0.  (a) 

Se  in  un  punto  di  (2)  la  V^  è  diiferente  da  zero,  la  ^  (che 

oa  da 

è  per  ipotesi  continua)  sarà  diiferente  da  zero  anche  nei  punti 
vicini;  e  quindi  per  (a)  dovrà  ivi  essere  W(rr)  =  0,  cioè  a  =  co- 
stante. Cioè  un  pezzo  almeno  della  curva  (2)  sarà  addirittura  un 
pezzo  di  una  curva  (1):  caso  che  considereremo  come  banale. 
Se  così  non  è,  avremo: 

^^  =  0. 
da 

Cioè  ogni  punto  A  della  curva  (2)  soddisfa  contemporaneamente 
alle: 

f=0  f^=0  (3) 

per   un    qualche   valore    di  a  [che  può  variare   con  A^  perchè 

a  =  W  {x)\.  Viceversa,  se  per  ogni  punto  di  una  curva  (2) 
esiste  un  valore  di  a  così  che  ne  sieno  soddisfatte  le  (3),  allora 

per  ogni  A  di  tale  curva  (2)  esce  una  curva  (1)  che  è  tangente 
in  A  a  tale  curva  (2). 

Una  curva  (2)  in  tali  condizioni  si  chiama  inviluppo 
delle  (1).  Quindi  nelle  nostre  ipotesi: 

L'inviluppo  (0  uno  degli  inviluppi)  delle  (1)  è,  se  esiste, 
una  curva,  per  ogni  punto  della  quale  esiste  un  valore  di  a 
tale  che  siano  contemporaneamente  soddisfatte  le  (3).  Cosicché, 
eliminando  a  tra  le  f  =  f'a  =  0,  si  può  dedurre  spesso  V equa- 
zione delV  inviluppo. 

Così,  p.  es.,  un  inviluppo  dei  cerchi 

{x  —  af  -{-  y'  —  l=  0  (4) 

soddisfa  anche  alla  2  (x  —  a)  =  0,  cioè  alla  x  =^  a;  e  quindi 
(4)  si  riduce  ad  if  —  1=0;  tali  cerchi  hanno  dunque  due 
inviluppi;  la  retta  y=l   e  la  retta  ?/ =  —  1. 


alcune  applicazioni  geometriche  del  calcolo,  ecc.     419 

Esempi. 

a)  Così,  p.  es.,  la  retta  C  tangente  alla  y  =z  f  (x)  nel 
punto  [a,  f(a)]  ha  per  equazione 

y  —  fio)  —  {x  —  a)f'ia)  =  0.  (5) 

Questa  retta  C  dipende  da  un  parametro  a;  l'equazione 
del  suo  inviluppo  si  otterrà  eliminando  a  tra  la  (5)  e  l'equazione 

—  f(a)  +  f  (a)  —  ix  —  a)  f  {a)  =  0, 
ossia 

ix  —  a)f    (a)  =  0, 

che  se  ne  deduce,  derivando  (5)  rispetto  ad  a.  Supposto  che 
nessun  tratto  della  y:=^f(x)  sia  un  segmento  rettilineo  (caso 
affatto  elementare),  per  un  valore  generico  di  a  sarà  f'^  (a)  ^-  0. 
E  dall'ultima  equazione  si  deduce  x  —  a  =  0,  ossia  a  =  ir. 
Sostituendo  in  (5)  si  trova  : 

che  è  l'equazione  della  curva  iniziale;  il  che  si  poteva  preve- 
dere pensando  che  una  curva  è  l'inviluppo   delle    sue  tangenti. 

P)  L'inviluppo  delle  rette  normali  ad  una  curva  yz=:f(x) 
è  Vevoluta  della  curva.  L'equazione  della  normale  nel  punto 
di  coordinate  a,f{a)  è: 

[y  —  f(a)]f'{a)-hx  —  a  =  0  (6) 

che  dipende  dal  parametro  a.  Il  punto  corrispondente  dell'evo- 
luta sarà  il  punto  (x,  y)  che  soddisfa  insieme  alla  (6)  ed  alla  : 

1  +  [f  {a)Y  -[y  —  fio)]  r  (a)  =  0 

che  si  deduce  da  (6)  derivandola  rispetto  ad  a. 

Se  nelle  (6),  (7)  poniamo  Xq  ed  yo  al  posto  di  a  e  f{a),  e 
poniamo  ^,  t]  al  posto  delle  x,  y,  queste  equazioni  si  riducono 
alle  (8),  (9)  del  §  124  [ove  si  supponga  x  =^  t  e  quindi  :r'o  =  1. 
a^"o  =  0,  yQ^=:f'(a)  ed  y'(i  =  f"  (a)].  Resta  così  di  nuovo 
provato  che: 

E  punto  dove  la  normale  in  A  alla  curva  y  =  f  (x)  tocca 
revoluta  della  curva  è  il  centro  del  cerchio  osculatore  in  A. 
E  quindi:  L'evoluta  si  può  definire  sia  come  inviluppo  delle 
normali,  che  come  luogo  dei  centri  dei  cerchi  osculatori. 


420  CAPITOLO   XIX   —   §    126 


§  126.  —  Curvatura  e  torsione  di  una  linea  sghemba. 

La  teoria  del  cerchio  osculatore,  e  della  curvatura  di  una 
linea  piana  si  può  estendere  alle  curve  sghembe.  Noi  estende- 
remo soltanto  la  definizione  di  curvatura,  trattando  anche  della 
definizione  analoga  di  torsione. 

Partiamo  dalla  formola  che  dà  la  curvatura  in  A  come  il 
limite  del  rapporto  dell'angolo  di  due  tangenti  all'arco  compreso 
tra  i  punti  di  contatto.  Noi  potremo  generalizzare  ponendo  le 
seguenti  definizioni  (Cfr.  questo  §,  y)  : 

a)  Sia  C  una  curva,  da  ogni  punto  A  della  quale  esca  una 
retta  r.  Le  coordinate  x,  y,  z  di  un  punto  C  e  i  coseni  diret- 
tori X,  |x,  V  della  retta  corrispondente  si  potranno  considerare 
come  funzioni  del  relativo  arco  s  della  curva,  misurato  a  partire 
da  un  qualsiasi  punto  iniziale. 

Sia  0  l'angolo  delle  due  rette  uscenti  da  due  punti  JL,  B 
di  C;  m  A  l'arco  s  abbia  il  valore  5o,  in  B  il  valore  So  -H  ^^. 
Ammetteremo  che  quando  B  si  avvicina  ad  A,  ossia  per  /^  =  0, 
sia   lim  0  =  0   (che   cioè   la   direzione   della   retta  r  varii  con 

n 

continuità  al  variare  di  s).  Può  darsi  che  lim  — -  abbia  un  valore 

/i  =  o   h 

determinato.  Proviamoci  a  determinarlo. 

,,.  ,.  0  sen  0        .  ,  , 

In  tale  ricerca  possiamo   moltiphcare  —  per  — - — ,  poiché 

h  0 

,.     sen0        . 
lim---  =  l. 

6  =  0         0 

sen  0 
Il  limite  cercato  diventa  così  il  lim  • 

^  =  0     h 

Cerchiamo  il  limite  per  /i  =  0  di  questa  espressione.  La 
retta  che  esce  da  A  ha  per  coseni  di  direzione  ^,  M-,  v  ;  quella 
che  esce  da  B  avrà  per  coseni  di  direzione: 

X-hAX,    [ji-f-AjjL,    v-4-Av. 

Una  formula  di  Geometria  Analitica  dice  che  (cfr.  es.  1°  a 
pag.  79) 

sen  0  =    ^        .  ^  .  .A 

X-hAX     [i-f-A[i     v-hAv 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       421 


Sottraendo  la  prima  della  seconda  riga  (*)  avremo 


sen"  9  = 


sen^  0  = 


X         jx         V 
AX     A|i     A  V 

1  XAX+jiAji 

XAX-4-|JLAp,-f-vAv        AX--4-    A[ji^ 


V  A  V 
Av^ 


ossia  : 


sen'0=::AX2-^  Api^-f- Av^  — (XAX-4-  [i  A  jx  -f-vAv) 
e  quindi  (poiché  /^  =  A  5  =  incremento  delFarco)  : 
A  X^  H-  A  [Ji^  -1-  A  v^^       (X  A  X  +  |Ji  A  |i 


/seney AX- 


vAv)^ 


às' 


A. 9^ 


e 

\ 
lim 


im(^)  =X'^^-pi'-^-4-v'^  — (XX'+|jtji'+vvT  = 


X  [ji  V    2 
X'  \i'  V' 


se  X,  |ji,  V  posseggono  derivate  finite  (rispetto  a  s). 

1,  derivando  avremo: 


ossia: 


Ricordando  che  X^  -h  |i^  -h  v^ 
2  XX'  -I-  2  \i\i  - 

XX' 


[i[X 


vv 


2  vv  z=zO, 
0. 


Quindi  sarà: 


lim 


sen  0       _^ 


h 


X  [1  V 

X'  li'  V 

2 

1  ^IJ^v 

1     X>'  V 

Questa  formula  misura,  per  così  dire,  la  rapidità  con  cui  le 
rette,  che  studiamo,  cambiano  *di  direzione.  C'è  ambiguità  di 
segno,  ma  questo  è  spiegato  dal  fatto  che  non  si  è  determinato 
in  segno  l'angolo  delle  due  rette. 

P)  Un'applicazione  tra  le  più  importanti  è  quella  di  misu- 
rare (se  così  ci  è  lecito  esprimerci)  la  rapidità  con  cui  una  curva 
sghemba  si  torce,  cioè  si  allontana  dall'essere  piana.  Se  la  curva 
fosse  piana,  essa  avrebbe  per  piano  osculatore  sempre  lo  stesso 
suo  piano,  e  le  binormali  sarebbero  sempre  parallele   tra   loro. 


(*)  Basta  ricordare  il  valore  del  quadrato  di  tale  matrice  dato  al  §  22,  pag.  76, 
per  riconoscere  che  questa  sottrazione  lo  lascia  invariato. 


422  CAPITOLO   XIX   —   §    126 

Misurare  la  rapidità  con  cui  una  curva  si  torce  è  come  misu- 
rare la  rapidità  con  cui  le  binormali,  anziché  restar  parallele 
tra  loro,  deviano  una  dall'altra;  rapidità  che,  secondo  le  prece- 
denti convenzioni  è  misurata  da  l/X'^  -f-  ji'^  -h  v''^,  in  cui  per 
\  [A,  V  si  pongano  i  valori  dei  coseni  di  direzione  della  binor- 
male.  Questo  numero  si  assume  per  definizione  come  valore  della 
torsione  della  curva. 

Le  curve  piane  hanno  la  torsione  nulla;  quanto  più  piccola 
è  la  torsione,  tanto  più  la  curva  si  avvicina  ad  essere    piana. 

Y)  La  curvatura  di  una  curva  in  un  punto  è  un  numero 
che,  si  può  dire,  serve  a  misurare  quanto  rapidamente  la  curva 
si  allontana  dall'essere  una  retta. 

Anche  nel  linguaggio  comune  si  dice  che  un  arco  dì  cerchio 
di  raggio  grande  è  poco  curvo,  quello  di  un  cerchio  di  raggio 
piccolo  è  molto  curvo. 

Per  definire  la  curvatura  basta  trovare  una  quantità  che 
sia  tanto  più  piccola  quanto  più,  secondo  la  nostra  intuizione, 
la  curva  si  avvicina  ad  essere  una  retta. 

Prendiamo  tutte  le  tangenti  a  una  curva  ;  se  questa  è  retta, 
tutte  le  tangenti  coincideranno,  e  quanto  più  la  curva  è  curvata, 
tanto  maggiore  (a  parità  di  arco  fra  i  punti  di  contatto)  sarà 
'angolo  che  le  due  tangenti  formano  fra  loro. 

Dunque  si  può  misurare  la  curvatura  di  una  curva  come 
la  rapidità  di  cambiamento  di  direzione  delle  tangenti  alla  curva 
stessa.  Curvatura  di  una  curva  sarà  perciò  per  definizione  il 
valore  di  l/X'"  H-  |ji' ^  4-  v' ^,  dove  X,  jji,  v  sieno  i  coseni  direttori 
della  tangente.  È  evidente  che  questa  è  proprio  la  stessa  defi- 
nizione data  per  le  curve  piane,  come  del  resto  verificheremo 
più  avanti  col  calcolo  eifetttivo. 

Se  X,  y,  z  sono  le  coordinate  in  funzione  dell'arco  dei  punti 
della  curva,  i  coseni  di  direzione  delle  tangenti  saranno  x\  y\  z\ 
e  quindi  : 

curvatura  =  Vx'"  ^  y"' -\-  z"  =  l/f  ^1  ^1  '[  ||  ^      . 

Cosi  la  curvatura  è  data  dalla  radice  quadrata  della  somma 
dei  quadrati  delle  derivate  seconde  delle  x,  y,  z,  prese  rispetto 
alVarco  come  parametro  (*). 


(*)  Si  noti  che  se  la  curvatura  è  nulla,  allora  x"  =y"  —  z"  ~-0,  e  quindi 
x,y,z  sono  funzioni  lin(^ari  della  s.  La  linea  è  perciò  una  retta.  Ciò  che  concorda 
con  l'idea  intuitiva  di  curvatura,  da  cui  siamo  partiti. 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.      423 

Si  dimostra  che  i  coseni  di  direzione  della  normale  princi- 
pale sono  proporzionali  a  x",  y",  z"  (*),  ossia  sono  uguali  ad 
hx*'^  hy",  hz'\  dove  h  si  determinerà  in  modo  che  : 

h    \X       -h  y       4-  ^    ^  !  zrr  1  ; 

cosicché  :  h  =  ===  - 

VX  ^  -h  y  ^  -h  z  -" 

Ma  il  radicale  Vx'^  -hy''  4-  ^"'  non  è  altro  che  la  curva- 
tura :  quindi  : 

e  i  coseni  di  direzione  della  normale  principale  saranno: 

;/  /*  >> 

X  y  z 

curvatura  curvatura  curvatura 

L'inverso  della  torsione  si  chiama  raggio  di  torsione,  V  in- 
verso della  curvatura  si  chiama  raggio  di  curvatura. 

5)  Applichiamo  le  considerazioni  fatte  alle  curve  piane.  Per 
una  curva  posta  nel  piano  -^  =  0  avremo 

curvatura  =  l/a^''^ -h  v"^  = 


^/\x  y'  op_-i/|^'/ 

\  \x"y"o\    "~  [/  \xy" 


±{x  y  —yx), 


se,  ricordiamolo,  il  parametro,  rispetto  a  cui  si  deriva,  è  lo 
stesso  arco  s  della  curva.  Il  lettore  noti  che  questa  formola 
coincide  con  Tultima  del  §  124  <pag.  416). 

Osservazione.  Se  x,  y,  z  sono  le  coordinate  di  un  punto  di  una  curva  date 
in  funzione  dell'arco  s,  abbiamo  già  visto  che 

_dx^    ,  _ày_      _dz^ 
^^-Ts'  ^~ds''^~ds' 

d^x  d^y  d^z 

5  =  P  5^  ,  ^  =  f  5^  ,  ?  =  P  ^     (f-  =--  raggio  curvatura) 

sono  rispettivamente  i  coseni  direttori  della  tangente  e  della  normale  principale. 
Si  considerino  ora  x,  y,  z  come  funzioni  di  un  altro  parametro  t  pure  individuante 


(*)  Infatti,  dall'equazione  stessa  del  piano  osculatore,  risulta  che  una  retta  r, 
i  cui  coseni  di  direzione  sono  proporzionali  a  x",  y",  z",  è  parallela  a  tale  piano. 
E,  poiché  dalla  x'^ -\- y'^  +  z'^  =1  si  deduce  derivando  x'  x" -^  y'  y" -\- z'  z"  =  0, 
la  retta  r  è  perpendicolare  alla  tangente.  Quindi  r  è  parallela  alla  normale  principale. 
S'intende  che  questo  risultato  vale  soltanto,  se  si  assume  l'arco  s  come  variabile 
indipendente. 


424  CAPITOLO   XIX   —   §    126 

i  punti  della  stessa  curva.  Anche  l'arco  s  sarà  funzione  della  t.  E  avremo,  posto 

, ds      ,. d^s 

^t—di'^t  —  di/''' 

dx d^  , ,    dif ,    dz^_ 

'dt~~ds^t-''^'-dt~^^^t^  dt~"'^^t' 

d^x      d  Idx  \        „  dx  .      ,  d^x  .,  ,    1    , ,  ^ 

dt^      dt\ds  7        i  ds        i  ds^  t^    ^    t. 

Le  quali  formole,  fondamentali  per  la  cinematica,  ci  permettono  facilmente 
di  ricavare  i  valori  di  a,  ^,  •/,  ?,  >:,  ?  dai  valori  delle  derivate  di  x,  y,  0,  s  rispetto 
alla  t.  Si  deduce,  per  esempio  :   , 

j         s'x"  —  x'^s'; 

—  \=z e  analoghe. 

Quest'ultima  formola  si  poteva  anche  ottenere,  ricordando  che: 

9^~  ds''"  ds\ds)      dA^')       s^dìX^y 

Note  le  a,  ^,  y,  —  ?,  —  /j,  —  ?  si  ricava  tosto  p  ricordando  che  : 

?        ?        ? 

A 

E  i  coseni  direttori  della  binormale  si  hanno  tosto,  osservando  che  questa 


^'=K=T+[f]'+[M- 


retta  è  normale  alla  tangente  e  alla  normale  principale. 

Esempi. 

l''  Determinare   l'equazione  della  catenaria^  la  curva  cioè 
che  soddisfa  alla  : 

-^z=z}is     (h  =  cost.  ;  s  ■=■  arco  curva)  (h  =#  0). 

dx  

.      .  .  ,  .  ,  .ds       1/^    .    /dy\^ 

Derivando  rispetto  x  si  ha,  poiché  —  =  1/  ^  "^  \^/  * 

Per  integrare  questa  equazione    si   può    seguire   il  metodo 
generale.  Più  brevemente  si  ponga 

z  è  una  nuova  funzione  incognita.  L'equazione  diverrà 


=^  h\/  i  — — )  ossia  -—=:h,  donde  z=:hx-^  k 

|/    V       2       /  dx 


e'  -\-e-'  dz 
2        dx 

(k  =  cost.) 


ALCUNE  APPLICAZIONI  GEOMETRICHE  DEL  CALCOLO,  ECC.       425 

E  dunque  -f-  = —  ;  e  infine,  integrando  : 

y  = 2l +  '' 

dove  l  è,  come  k,  una  costante  arbitraria. 

Con  una  traslazione  degli  assi  si  può  fare  ^  =  ?  =  0,  e 

quindi  y  = — .  Con  una  similitudine  (omotetia  rispetto 

^    ih 

all'origine)  la  curva  si  trasforma  nella  y  =  — — -—  =^  cos  h  x. 

Defin.  Si  dicono  sottotangente  e  sottonormale  in  un  punto  A 
di  una  curva  y  ^=^f{x)  i  segmenti  compresi  tra  la  proiezione 
di  A  sull'asse  delle  x,  e  il  punto  d'intersezione  di  questo  asse 
con  la  tangente  o  la  normale  in  A  alla  curva  considerata. 

2''  Trovare  la  sottotangente  e  la    sottonormale   per    una 
curva  y  =:  f(x)  nel  punto  di  ascissa  x. 

Ris.  L'equazione  della  tangente  e  della  normale  (indicando 
con  X,   Y  le  coordinate  correnti)  è  rispettivamente: 

[f(x) -Y]^f  (x) [X—  x]  =  0;f  (x)  [ Y-  fix)]  +  [X—  x]=0. 

Posto  F=0,  se  ne  rispettivamente  deduce  per  l'ascissa  X 
del  punto  di  intersezione  con  Tasse  delle  x: 

X=x  —  Pp.  =x  —  K;  X  =  x-^  f{x)  f  {x)  =  x-\-  yy\ 

t  w  y 

donde  : 

V 

sottotangente  =  —  -^  ;  sottonormale  =  yy. 

3^  Trovare  le  curve  a  sottotangente  o  sottonormale  co- 
stante h. 


Si  ha ,^=^h\  ossia  —  =  -^ —  )  o  vv'  = 

y  \  y  k    /       ^^ 

Se  ne  deduce  integrando 


y  =z  Ce        0  y^  ^=^  2  kx  -\-  CiC=^  costante) 

che   sono  rispettivamente  una  curva  esponenziale,   ed   una  pa- 
rabola. 


426  CAPITOLO   XX   —   §    127 


CAPITOLO  XX. 
INTEGRALI  CURVILINEI  E  SUPERFICIALI 


§127.  —  Integrali  curvilinei  e  potenziale  -  Prime  definizioni. 

Ricordiamo  la  definizione  già  posta  al  §  91,  pag.  302,  e 
le  osservazioni  dell'es.  4^  a  pag.  332,  §  100.  Siano  : 

per  a  ézi  ^h  (a,  ò  =  cost). 

le  equazioni  parametri  che  di  un  arco  C  di  curva;  e  siano 
x!  (0,  y'  (i),  ^'  (0  continue  nell'intervallo  considerato. 

I  seguenti  risultati  si  estendono  facilmente  anche  al  caso  di  una 
curva  C  con  un  numero  finito  di  punti  angolari  (in  cui  le  derivate 
a  destra  delle  a;,  ?/,  z  non  coincidano  con  le  derivate  a  sinistra). 

Sia  X  (x^  2/,  z)  una  funzione  continua  delle  x^  y^  z  in  un 
campo  D  contenente  all'interno  la  curva  C. 

La  -X  [x  (0,  y  (t),  z  (t)]  per  a^t  ^h  ci  dà  i  valori  assunti 
da  X  nei  punti  di  C.    Secondo   le    definizioni  poste    nei   citati 

paragrafi,  con  1   Xdx  indichiamo  lo  : 


(1)  {\\_x{i),y{t\z{t)\^(t)Ai. 

'J  ri 


Questo  integrale  rappresenta  il  valore  relativo  all'arco  C  di 
una  funzione  additiva  dei  pezzi  della  curva  considerata  ;  e  pre- 
cisamente di  quella  funzione  additiva^  la  cui  derivata  è  X, 
quando  si  assuma  come  misura  di  un  jyezzo  di  tale  curva  la 
lunghezza  della  sua  proiezione  sull'asse  delle  x  (supposto  che 
questa  proiezione  sia  in  corrispondenza  biunivoca  coi  punti  del 
pezzo  di  curva  considerato). 

Pertanto,  se  sono  dati  gli  assi  coordinati,  tale  integrale  è 
perfettamente  determinato  dalla  funzione  X  e  dall'arco  C;  ed 
esso  cambia  evidentemente  di  segno,  invertendo  gli  estremi  A,  B 
di  tale  arco. 

Del  resto,  se  x  =  ^{'\  y~'y{')^  z —1;  {-)  sono  {cL^-^f)  altre  equazioni 
parametriche  dell'arco  stesso,  esìste  corrispondenza  biunivoca  tra  i  valori  di  te-, 
in  guisa  che  valori  corrispondenti  delle  t,  -  individuino  lo  stesso  punto  della  curva. 


INTEGRALI    CURVILINEI   E   SUPERFICIALI 


427 


Mentre  t  varia  da  a  a  (5,  la  <  varia  da  a  a  b.  E  in  tali  intervalli  te  t  si  possono 
considerare  funzioni  l'una  dell'altra  tali  che  x  (t)  ~  x  (-),  x'  (t)  dt  =  x'  {-)  dr,  e 
analoghe  per  y,  z-.  La  regola  di  integrazione  per  sostituzione  dimostra  che  l'integrale  (1) 

fi5       _  _         _  _ 

è  uguale  appunto  al  f\x  (t),  y  (t),  s  {-)]  x'  (r)  d-,  cioè  che  l'integrale  (1)  non 
cambia,  se  cambiamo  la  rappresentazione  parametrica  della  curva  C. 

È  pure  evidente  che,  se  (7  è  la  somma  di  due  archi  C\  C'\ 
si  ha  : 


f  Xdx=  f  Xdx-^  f  X 


dx 


(che  corrisponde  al  fatto  che  tale  integrale  è  funzione  additiva). 
Si   noti   che,    dato    un    arco,    invece   di   dire  quali  dei  suoi 


Fig.  42. 


estremi  si  deve  considerare  primo,  e  quale  secondo, 
si  può  pon  una  freccia  indicare  il  verso  in  cui  lo  si 
intende  percorso  (fig.  42). 

Mutare  il  verso  della  freccia  farà  cambiare  il 
segno  del  nostro  integrale. 

Questa  osservazione  è  specialmente  importante 
per  il  caso  che  l'arco  AB  sia  un  arco  chiuso,  ossia 
che  gli  estremi  A  ^  B  coincidano  (fìg.  43). 

In  tal  caso  fissato  con  una  freccia  il  verso  in 
cui  il  nostro  arco  si  deve  intendere  percorso,  e,  detto 
(a,  h)  l'intervallo  in  cui  deve  variare  t  dal  valore  a 
al    valore    h,    perchè    il    punto    {x,  y,  z)  descriva  (da 

A  in  A)  l'arco   C  nel   verso    prestabilito,  si 
intende  con  j   Xdx  proprio  l'integrale 

•  (x[x{tly{tlz(^t)]x'{t)dt 

E  naturalmente  questo  integrale  non  di- 
pende dal   punto   A=^  B   considerato    come 
iniziale  e  finale,  ma  soltanto  dall'arco  dato  e 
dal  verso  della  freccia.  Mutando  questo  verso, 
Fig.  43.  varia  il  segno  dell'integrale. 

p)  In  modo  affatto  analogo,  se  Y  e  Z  sono  funzioni  continue 
nel  campo  Z>,  si  possono  definire  gli  integrali  \  Y  dy  e  \  Z  dz 
estesi  a  un  arco  di  curva  ;  e  si  può  poi  definire  lo  : 

J  {Xdx  -h  Ydy  -h  Z dz) 


428  CAPITOLO   XX   —   §    127 


esteso  a  un  arco  di  curva  come  la  somma  degli  integrali 
j   Xdx,  j    Ydy,  j   Z  dz  estesi  allo  stesso  arco. 

Se  noi  anche  qui  volessimo  usare  locuzioni  abbreviate,  po- 
tremmo definire  il  precedente  integrale  nel  seguente  modo  : 

Divisa  la  curva  G  in  infiniti  archetti  infinitesimi  B,  si  mol- 
tiplichino i  valori  di  X,  F,  Z  in  uno  di  questi  pezzetti  rispet- 
tivamente per  le  sue  proiezioni  dx^  dy,  dz  sui  tre  assi  coordi- 
nati e  si  sommino  i  prodotti  così  ottenuti.  Otteniamo  così  un 
trinomio  Xdx  -h  Ydy  -h  Tidz  per  ognuno  degli  archetti  5;  la  loro 
somma: 

2  (Xdx  4-  Ydy  -4-  Zdz^ 

è  il  nostro  integrale.  Queste  locuzioni  sono  però  da  considerarsi 
al  solito  come  locuzioni  abbreviate  e  non  rigorose.  Sarà  utile 
esercizio  ridurle  ad  una  forma  logica  e  soddisfacente. 


Y)  Il  valore  del  nostro  integrale  è,  si  ricordi,  quello  di 


j. 


'l  X[x  (i\  y  (t\  z  (0]  X  (0  -^Y\x  {ì\  y  {t\  z  {t)]  y'  (t) 


Z[x(t),y{tlz{t)]z^{t)\dt, 


qualunque  sia  il  parametro  t  individuante  i  punti  di  C.  Se, 
p.  es.,  si  pone  t=^s=^  arco  della  curva  C  contato  da  un'ori- 
gine scelta  a  piacere,  e  se  con  F=^'\/X'  4-  Y'  -f-  Z^  si  indica 
la  grandezza  del  vettore    che  ha  X,  7,  Z  per  componenti,  con 

_X  s  — —  =  — 

se   ne   indicano  i  coseni  direttori,  il   nostro  integrale  diventa  : 

r*'     /    dx       ndy   ,       dz\    , 
J  so      \    ds       ^  ds  ds/ 

se  5o,  Si  sono   i  valori  di    5   per   ^  =  a   e  per   ^  =  b.  Poiché 

dx    du    dz 

—  5  —  ?  — sono  i  coseni  direttori  della  tangente  a  C,  indicando 

ds    ds    ds 

con  w  l'angolo  di  F  con   C  in  un  punto  qualsiasi  di  0,  il  nostro 

Fcosoids.  Il  nostro  integrale  appare  iden- 

tico  a  quella  funzione  additiva  dei  pezzi  della  nostra  curva,  la 
cui  derivata  è  i^cosoo,  se  conveniamo  di  assumere  come  misura 
di  un  pezzo  di  curva  la  sua  lunghezza. 


l5rTEGRALI    CURVILINEI   E   SUPERFICIALI  429 

5)  Se  esiste  una  funzione  V{x,y^z)  tale  che  dV  ^=^  Xdx  -\- 
-f-  Ydy  -h  Zdz,  si  dimostra,  come  a  pag.  303,  che  il  nostro  inte- 
grale è  uguale  alla  differenza  dei  valori  che  la  V  assume  nei 
punti  A,  B  estremi  della  curva,  a  cui  è  esteso  il  nostro  inte- 
grale, e  che  esso  perciò  dipende  soltanto  dalla  posizione  dei 
punti  A,  B  e  non  dalla  forma  della  curva  C  che  li  congiunge. 

Tale  funzione  V  esiste,  p.  es.,  in  un  parallelopipedo  (§  92, 
pag.   306)  in  cui  valgano  le 

X    y  1^3.=      Y   z  Z    if     =^     Z    y;  X2     =     0. 

Esempio. 

La  teoria  degli  integrali  curvilinei  riceve  un'importante  ap- 
plicazione alla  misura  del  lavoro  di  una  forza,  le  cui  componenti 
secondo  gli  assi  coordinati  sono  X,  Y,  Z,  quando  il  punto  di 
applicazione  M  descrive  la  curva 

x  =  x  (0,    y  —  y  (t),    z  =  z  (0. 

Ci  chiediamo,  usando  il  linguaggio  infinitesimale:  Qual  è  il 
lavoro  eseguito  quando  M  descrive  un  archetto  di  tale  curva,  le 
cui  proiezioni  sugli  assi  coordinati  sono  dx^  dy,  dz?  Se  i^  è  la 
grandezza  della  forza,  ds  è  la  lunghezza  di  un  tale  archetto, 
tale  lavoro  è  Fds  cos  {F,  s)  dove  con  cos  (F,  s)  indico  il  coseno 
dell'angolo  che  F  forma  con  la  tangente  all'elemento  di  curva 
considerato.  Il  lavoro  eseguito,  quando  M  descrive  un  certo 
pezzo  della  nostra  curva,  sarà  così: 

e  i^cos  (Fs)  ds=^  ^  (Xdx  -+-  Xdy  4-  Zdz) 

esteso  all'arco  di  curva  considerato  (*). 

Quando  mai  un  tale  lavoro  dipende  soltanto  dalle  posizioni 
estreme  assunte  dal  punto  M  e  non  dalla  particolar  curva  che 
le  congiunge?  Per  il  risultato  precedente  si  ha  che  (almeno  se 
ci  muoviamo  in  parallelopipedo,  ecc.),  ciò  avviene  se 

3X__3F      ^_3Z      3^_3X 

•  3?/        'òx  '      3^        "òy  '     'òx        "òz 

Nel  qual  caso  esiste  una  funzione   V  per  cui 


(*)  Si  noti  che  i^cos  {Fs)  è  la  proiezione  di  F  sulla  tangente  alla  curva  oppure 
che  ds  cos  (Fs)  è  la  proiezione  dell'arco  infinitesimo  ds  sulla  direzione  della  forza. 


430  CAPITOLO   XX   —   §    127 

e  il  lavoro  citato  è  uguale  alla  diiferenza  dei  valori  che  V  ha 
nelle  posizioni  estreme  occupate  da  M. 

Una  tale  funzione  V  (che  è  definita  a  meno  di  una  costante 
additiva)  si  dice  la  funzione  delle  forze;  essa,  cambiata  di  segno, 
è  detta  anche  il  potenziale  del  nostro  campo  di  forze. 

Esempii  di  campi  di  forze  che  ammettono  potenziale  sono 
i  seguenti: 

1®  Il  campo  delle  forze  di  gravità  in  una  regione  abba- 
stanza piccola  attorno  a  un  punto  A  della  superficie  terrestre. 

Assunto  come  asse  delle  z  la  verticale  diretta  verso  il  basso 
e  quindi  come  assi  x.  y  due  rette  orizzontali,  la  forza  di  gra- 
vità agente  su  un  punto  di  massa  m  ha  per  componenti 

X==0,  F=0,  Z^mg, 

Si  trova  F=  m^-^  +  cost.,  p.  es.,  V^=^mgz.  Ed  il  lavoro  com- 
piuto da  M  nel  passare  da  un  punto  (a,  p,  —  h).  ad  un  punto 
(a,  6,  —  k)  cioè  nel  cadere  da  un  punto  di  altezza  /i  a  un  punto 
di  altezza  k  è  mg  {h  —  ^)  ed  è  indipendente  dalla  via  seguita. 

2°  I  campi  Newtoniani:  quelli  cioè,  in  cui  un  punto  M. 
di  massa  1,  è  attratto  da  un  punto  fisso  0  con  una  forza  F 
avente  per  direzione  la  direzione  della  retta  OM  ed  una  gran- 
dezza ->-  dove   h  =  cost.    ed   r   è   la   distanza    OM  (attrazione 

r 

universale,  attrazione  di  masse  elettriche  o  magnetiche).  La 
costante  h  si  supporrà  positiva  o  negativa,  secondo  che  F  ha 
la  direzione   OM  o  la  direzione  MO. 

Scelti  infatti  come  assi  x,  y,  z  tre  rette  a  due  a  due  orto- 
gonali uscenti  da  0,  indicate  con  x,  y^  z  le  coordinate  di  Jf, 
con  r  =  Vx"  -+-/-+-  z-  la  distanza  OM,  con  (r,  x),  (r,  ?/),  (r,  z) 
l'angolo  di   OM  coi  tre  assi,  le  componenti  di  F  sono 

2  =  — cos(ra;)  =  ^,      I— -^,     Z— ^ 

Poiché  ^(  —  )  = 3-^-== ìt^    ecc.  SI  trova  facil- 

dx\r/  r    òx  r 

mente  potersi  porre    K  = 

Il  lavoro  eseguito  da  un  punto  di  massa  1  nel  passare  da 
una  posizione  A  ad  una  posizione  B  è  dato  dalla  diiferenza  dei 
corrispondenti  valori  di  F,  ed  è  affatto  indipendente  dalla  via 
scelta  per  andare  da  ^  in  ^. 


INTEGRALI    CURVILINEI   SUPERFICIALI  431 


§  128.  —  Trasformazione  di  integrali  curvilinei  nel  piano  C)- 

Se  abbiamo  un  campo  piano  y  limitato  da  un  contorno  ad 

uno  0  pili  pezzi,  si  dirà  j  Xdx  esteso  al  contorno  di  y  la  somma 

degli  integrali  j  Xdx  estesi  ai  singoli  pezzi  del  contorno  di  y, 

percorsi  in  guisa  che  un  osservatore,  camminando  sul  lato  del 
foglio  volto  verso  il  lettore  e  percorrendo  ogni  pezzo  di  detto 
contorno  nel  verso  indicato  dalla  freccia,  lasci  a  sinistra  Farea  y. 


Fig.  44. 

E  notiamo  che  un  tale  osservatore,  che  volgesse  la  faccia  verso 
la  direzione  positiva  dell'asse  delle  x,  avrebbe  pure  alla  sinistra 
la  direzione  positiva  dell'asse  delle  y.  Se  noi  tiriamo  una  tan- 
gente ^  a  un  pezzo  del  contorno  di  y  volta  in  verso  concorde 
a  quello  in  cui  si  percorre  detto  pezzo  del  contorno,  e  tiriamo 
quindi  la  normale  n  volta  verso  l'interno  di  y,  il  solito  osser- 
vatore avrà  la  direzione  n  a  sinistra,  se  volge  la  faccia  verso 
la  direzione  t  {^g.  44)  C*""). 

Conserveremo  sempre  le  convenzioni  qui  fatte. 

Teorema  1**  —  Se  ^(  è  la  somma  di  due  aree  y',  y'',  Vin- 
tegrale  1  X  dx  esteso  al  contorno  di  ^  è  uguale  alla  somma 
degli  integrali  I   X  dx  estesi  ai  contorni  di  y',  y''.  Infatti  siano 


(*)  I  teoremi  del  §  128  e  seg.  sono  importanti  al  tecnico  specialmente  per  le 
applicazioni  alla  elettrodinamica,  ed  anche  alla  idrodinamica  teorica. 

(**j  Al  lettore  l'enunciato  preciso  delle  condizioni,  che  si  suppongono,  sod- 
disfatte dal  contorno. 

Nel  primo  campo  •/  della  precedente  figura,  il  contorno  esterno  di  y  è,  si 
noti,  percorso  in  verso  discorde  al  verso  in  cui  procedono  le  lancette  di  un  oro- 
logio, i  contorni  interni  sono  invece  percorsi  in  verso  concorde.  Qui,  si  noti,  ci 
riferiamo  a  campi  v  limitati.  Al  lettore  l'esame  di  campi  illimitati. 


432  CAPITOLO   XX   —   §    128 

e,  C  C"  i  contorni  di  y,  y',  y".  Siano  C\  e  C'-i  quei  pezzi   del 
contorno  C  (fìg.  45),  i  cui  punti  rispettivamente  appartengono 

e  non  appartengono  al  contorno  C"  e 

<^^  siano  C'\  e  €"2  quei  pezzi  di  C"  i  cui 

,  ,   ,/    \  punti   rispettivamente    appartengono,  e 

C^  /  ^/         \  C2    non  appartengono  al  contorno   C . 

t       II      f    \  Sarà: 


»^0'  '^C,  »'0'2 

r  X^x=    f   XcZx+     r   X6^:r. 

-^0"  -^C",  »/C"', 


Evidentemente  C\  e  C'\  sono  archi  di  curve  coincidenti, 
ma  percorsi  in  verso  opposto.  Quindi  : 

f   Xdx-f-     f   Xdx  —  0, 

e  perciò  dalle  precedenti  formole  si  ottiene,  sommando  : 

r   Xdx-^    f  Xdx—    [   Xdx-\-    f   X6?x. 

Ma  C'2  e  C''2  formano  complessivamente  il  contorno  C  di 
Y  z=  y'  -4-  v''^  e  sono  percorsi  nello  stesso  verso,  sia  come  appar- 
tenenti al  contorno  di  y'  0  y'^,  sia  come  appartenenti  al  contorno 
di  y.  L'ultima  equazione  dà   dunque  : 

f    Xdx^=^    f   Xdx^    r   Xdx=^    f    Xdx-^    f    Xdx. 

e.  d.  d. 
Questo  teorema  si  può  enunciare  dicendo  : 

Lo  integrale  1  X  dx  esteso  al  contorno  di  un  campo  y  è 
una  funzione  additiva  di  ^. 

Ciò  rende  intuitivo  che  in  molti  casi  tale  integrale  curvilineo 
si  potrà  trasformare  in  un  integrale  superficiale  esteso  a  y. 

Ciò  appunto  è  approvato  dal  seguente  teorema,  da  cui 
risulta   precisamente   che   la  derivata  di  tale  funzione  additiva 

vale  comunemente  ^—  • 
ox 


INTEGRALI    CURVILINEI   E   SUPERFICIALI 


433 


Teorema  2°.  —  Se  ^  è  un'area  del  piano  xy;  e  X  (x,  y) 
vi  è  finita  e  continua  insieme  alla  ^r-  ,    e   se  C  è  il  contorno 

VX 

di  y,  allora  : 

Supponiamo  dapprima  che  una  retta  y  =  cost.  incontri  C  al 
più  in  due  piunti. 
Si  ha: 

1 1   s~~  d^  dy  =^  \    dy   \     ^z—  dx, 

dove  m,  M  sono  il  minimo  e  il  massimo  di  y  in  y,  ed  A^ ,  A^ 
sono  i  punti  ove  una  retta  y  =  cost.  (compresa  tra  le  ?/  =  m 
e  y  =^  M)  incontra   C  (fìg.  46). 


Jf. 


'f 

.... 

/f 

\ 

j 

) 

JL 

sT 


Fig.  46. 


Se  indichiamo  con  X>  e  Xi  i*  valori  di  X  in  A2,  Ai,  se  ne 
deduce  : 

\\'^-^dxdy=\''dyiX,-Xi)=^  X,dy-j  X,  dy. 

Ossia,  indicando  con   Ci  e   C2  gli  archi  HAiK  e  HA2K, 

fi  ^cZxcZ2/=  f  X2C/.Z/—  f  Xi^2/=:  rZcZa;+  rXf/:r=  [  X  dx. 

-'•^yVX         *  *^Ci  '  *^  Ci  •^    ATG  HA2K  ^    -ATC  KA^n   *J  e 


^*)  È  sempre   sottinteso  che  il  campo  v  e  il  suo  contorno  C  sieno  tali  che 
qaesti  integrali  abbiano  significato  secondo  le  nostre  definizioni. 


38  —  G.  FuBiNi,  Analiii  matematica. 


434  CAPITOLO   XX   —   §    128 

Se  invece  C  fosse  incontrata  da  qualche   parallela    all'asse 
(ielle  X  in  più  di  due  punti,  supponiamo  y  scomponibile  in  un 

numero  finito  di  parti  yi,  Y2, Tn,  i  cui  contorni  Ci,  C2, ,  C„ 

siano  incontrati  da  tali  parallele  al  più  in    due   punti.    Per   il 
teorema  V  e  per  quanto  abbiamo  ora  dimostrato  si  avrà: 


\  1  -^r-  ^^^  ^V  =^    2    \\  ^^-  dx  dy  ^=^^   \  Xdy  ^=^   \  Xdy, 


dx  dy  ^=^  2u   j  xdy=^  ^  A 

e.  d.  d. 

Teorema  3°.  —  Se  in  y  le  Y  e  ^^^  sono  funzioni   finite 

òy 

e  continue^ 

W  ^-  dx  dy  ^=^  —   \   Ydx. 

Questo  teorema  si  dimostra  come  sopra:  il  segno  —  ,  che 
qui  compare  al  secondo  membro,  dipende  da  ciò  che,  mentre 
l'asse  positivo  delle  ?/  è  a  sinistra  dell'asse  positivo  delle  x, 
l'asse  positivo  delle  a;  è  a  destra  dell'asse  positivo  delle  y. 

L'uguaglianza  che  si  ottiene  sommando  0  sottraendo  le  for- 
mole  dei  teoremi  2**  e  3°  si  suole  scrivere  così: 

W  (S-^)  ^""^y^  ^{.Xdy^Ydx),  (1) 

dove  i  segni  superiori  (0  inferiori)  sono  da  adottarsi  contempo- 
raneamente nei  due  membri. 

Osserviamo  che  -z—  '  -~  sono  in  valore  assoluto  e   in    segno 
ds      ds 

ì  coseni  di, direzione  della    tangente    t    (volta    nel   verso    sopra 

definito)  quando  con  s  si  indichi  l'arco  del  contorno  di  y,  0  di 

un  suo  pezzo,  crescente  nel  verso  in  cui  tal  pezzo  di  contorno 

A         A 

si  deve  percorrere.  Poiché  gli  angoli  tn  e  xy  (nelle  nostre  con- 

n  ^ 

venzioni)  sono  uguali  a  —  ,    sarà  : 

dx 

—-  z=z  cos  (xt)  =  cos  (xy  +  yn  -h  nt)  =  cos  (yn) 

dv 

-f-  =  cos  iyt)  =  cos  (yx-h  xn  -h  nt)  =  cos  (xn  —  ti)  =  —  cos  (xn). 

ds 


INTEGRALI    CURVILINEI    E   SUPERFICIALI  435 


Ossia  i  coseni  di  direzione  della  normale  n  sono  rispettivamente 

dv    doc 
—  T"?  —  •  E  le  nostre  formole  si  possono  anche  scrivere: 
ds    ds 

J  J  -^  dxdy  =^  \   X-^  ds  =^  —  i  Xcosnx  ds 

Si  sf  ^^  '^^  =/,  ^f  ^'  =  -  J  ^^°«  "^y  ^^ 

1  j    l-^-^^)dxdy:=^  —  I  (Z  cos  nx  -h  Fcos  ny)  ds.      (1)^. 

Il  ds  che  figura  nel  secondo  membro  è  positivo,  cioè  s  si 
intende  crescente  dal  limite  inferiore  al  superiore  di  detto 
integrale. 

§  129.  —  Integrali  superficiali. 

Se  a  è  una  superficie  sghemba  proiettata  biunivocamente  sul 
piano  xy  (*),  definita  cioè  da  un'equazione  z  ^=-  z  (x^  y\  e  se  X 
è  una  funzione  di  x^  z/,  z  si  dice  integrale  di  Xdx  dy  esteso  a  a 
rintegrale 

Jj  X[x,y,z{x,y)\  dxdy, 

esteso  alla  proiezione  y  di  a  sul  piano  xy.  Se  poi  a  è  somma 
di  più  superficie  Oj,  02, ,  a,,,  ciascuna  delle  quali  è  rappresen- 
tata da  una  equazione  z-=-  z(x^  y)^  si  dirà  integrale  di  Xdx  dy 
esteso  a  0  la  somma  degli  integrali  di  X  dx  dy  estesi  alla  super- 
ficie 0.  In  altre  parole  tale  integrale  è  per  ogni  o^  il  valore  di 
quella  funzione  additiva  dei  pezzi  di  %  la  cui  derivata  è  X, 
se  come  misura  di  un  pezzo  di  o,-  si  assume  l'area  della  sua 
proiezione  sul  piano  xy. 

Si  indicherà  (cfr.  §  121,  pag.  404)  poi  con  j  Xdo  l'integrale 

I ? — ridxdy] 

-> .'  I  cos  {nz)  I 

A 

ivi   nz    indica    l' angolo    che    la    normale    n    di    0    forma    con 

l'asse  delle  z  [cosicché  1  cos  {nz)  \  =    /  .  dove  p  =  /«, 

VI  4-/-+-^^ 

(*)  Si  suppongono  finite  e  continue  tutte  le  funzioni,  che  compaiono  nei  calcoli 
seguenti,  salvo  esplicita  dichiarazione  contraria. 


436  CAPITOLO   XX   —    §    129 


q  =  Zy].  Questo  integrale  si  può  dunque  definire  come  quella 
funzione  additiva  dei  pezzi  di  o,  di  cui  X  è  la  derivata,  quando 
come  misura  di  un  pezzo  di  a  si  assume  proprio  la  sua   area. 

Se  T  è  un  campo  a  tre  dimensioni  limitato  da  una  super- 
ficie a  formata  da  uno  o  più  pezzi,  sceglieremo  come  direzione 
positiva  della  normale  n  a  a  in  un  punto  di  a  quella  volta  verso 
l'interno  di  t. 

Se  X,  Y,  Z  sono  in  t  funzioni  finite    e    continue    di   x,  y,  z 

„    3X  c)F  3Z      . 
insieme  allear—»  ^^— ?  ^^'  si  avrà: 

ox    dy    02 

J   Y"  eZ  T  =     1     Y'  dx  dy  dz  =:  —  i  X  cosnxdo 

-^r-(ZT=  =:  —  \Ycosnydo 

>K  dy  .' 

3Z 


r  ozj 

Jt    'ÒZ 

I( 


(^  T  =:  ^  —  \  Z  cos  nz  do 

Dx       ^y       'òz  /  "■ 

—  j  (X  cos  nx  H-  Fcos  ny  -i-  Z  cos  nz)  d  a. 

Queste  formole  si  dimostrano  in  modo  simile  alle  precedenti 
del  §  128. 

Se  X,  F,  Z  sono  le  componenti  di  un  vettore  J,  allora 
Xcos  nx  4-  Fcos  ny  -h  Zcos  nz  è  uguale  alla  sua  componente  /„ 
presa  secondo  la  normale  n  a  a  volta  verso  l'interno  di   t  ;    la 

3X      3F      DZ 

"òx        ììy       'òz 

si  chiama  la  divergenza  di  J  e  si  indica  con  div  I. 
Si  ha  perciò: 


1  divlc^x  =:  — j  I,,do, 


che  è  la  celebre  formola  così  detta  dellla  divergenza. 

Il  secondo  membro  di  questa  formola  fondamentale  nelle 
applicazioni  (per  es.,  all'idro-  od  elettrodinamica)  si  chiama  il 
flusso  di /attraverso  a  a;  che,  nelle  trattazioni  comuni,  si  suol 
rappresentare  col  numero  delle  linee  di  forza  attraversanti  a. 


INTEGRALI   CURVILINEI   E   SUPERFICIALI  437 


§  130.  —  Il  teorema  di  Stokes. 

Sia  0  una  superficie  sghemba  ;  e  ne  sia  C  il  contorno  (a  uno 
0  più  pezzi.  Supponiamo  che  un  osservatore  posto  nel  semi- 
spazio ^  >  0,  coi  piedi  sul  piano  xy  e  la  faccia  rivolta  verso 
il  semiasse  positivo  delle  x,  abbia  alla  propria  sinistra  il  semiasse 
positivo  delle  y.  Fissiamo  ad  arbitrio  il  senso  positivo  per  una 
normale  n  a  a,  e  con  la  legge  di  continuità  per  tutte  le  altre. 
Supponiamo  che  cosi  il  verso  positivo  di  ogni  normale  sia  deter- 
minato in  modo  univoco.  Percorriamo  poi  ogni  pezzo  di  C  in 
guisa  che  il  triedro  formato  dalla  tangente  t  a  C  (*)  in  un  suo 
punto  qualunque  A  volta  nel  verso  in  cui  si  percorre  C,  la 
normale  va  C  in  ^  posta  nel  piano  tangente  a  o  in  A  e  volta 
verso  l'interno  dell'area  a,  e  la  normale  n  a  o  in  A  formino 
un  triedro  tale  che  un  osservatore,  coi  piedi  sul  piano  ^  v  e  con 
la  testa  dalla  stessa  parte  di  n  volto  verso  t,  abbia  alla  sua 
sinistra  la  direzione  v.  Il  triedro  t^n  e  xy^  siano  cioè  congrui 
(sovrapponibili).  Siano  X,  F,  Z  funzioni  finite  e  continue  di  x,  y,  z 
insieme  alle  loro  derivate  in  un  campo  rinchiudente  o  all'interno. 
E  supponiamo  che  o  sia  definita  da  una  equazione  ^  =  ^  (a;,  2/). 
Sia  Y  la  proiezione  di  o  sul  piano  xy^  e  ne  sia  f  il  contorno. 
Se  la  normale  n  a  a  f a  con  l'asse  delle  z  sempre  un  angolo  nz 
acuto,  mentre  un  punto  A  percorre  C  nel  verso  sopra  definito, 
la  sua  proiezione  J.'  sul  piano  xy  descrive  f  in  guisa  che  un 
osservatore  posto  nel  semispazio  <^  >  0,  che  cammini  in-  avanti 
con  A.^  lascia  y  alla  sua  sinistra.  Evidentemente  : 


X  (x,  y^z)dx^:^\    X  \x,  y,  z  (x,  y)\  dx  = 
3X  [x,y,  z  (x,  y)] 


= -.0: 


Hy 


dx  dy  =  (**) 


^Xix  y,z)  _^7>X(^       \ 

^y  3^  M 

1 ^/ÒX  q  ^ 


(*)  Supponiamo  dunque  che  esistano  w,  v,  U  che  le  loro  direzioni  variino  con 
continuità. 

(**)  Supponiamo  dunque  che  un  piano  a;  =  cost.,  0  ^  =  cost.,  0  5;  =  cost.  in- 
contri C  in  numero  finito  di  punti. 


438  CAPITOLO   XX   —    §    130 

T  coseni  di  direzione  della  normale  iz  a  o  sono  : 


l/l  -h/-l- 

?' 

l/l  -f-j9--h  q- 

i/r 

+;) 

^  +  ri 

Ricordando 

che 
cos 

per 

l'ipotesi  fatta  {zn) 
1 

71 

"  2 

>  e 

quindi 

^    l/l  4-/  + 

2^ 

(a) 


è  positivo,  vediamo  che  nelle  (a)  si  devono  assumere  i  segni 
inferiori.  E  quindi  la  nostra  formola  diventa: 

j  Xc^x  =      Ut-  cos  {ny)  —  ^  cos  (nz)    do. 

Questa  formola  vale  anche  se  ^n>— ?  perchè  questo  caso 

si  riduce  al  precedente  cambiando  il  verso  di  n.  E  un  tale  cam- 
biamento muta  il  segno  dell'integrando  del  secondo  membro,  e, 
mutando  il  verso  in  cui  si  percorre  (7,  cambia  anche  il  segno 
del  primo  membro.  Se  poi  o  fosse  decomponibile  in  pezzi,  ognuno 
dei  quali  è  rappresentato  dalla  formola  z^=^  z  {x^  y),  la  nostra 
formola  si  estende  a  tal  caso  coi  metodi  usuali. 

Una  formola  analoga  vale  per  1    Y  dy^   1   Zdz.  Sommando  le 

tre  formole  così  ottenute,  si  trova  : 

\  {Xdx  4-  Ydy  H-  Zdz^  =  L  Xi  cos  nx  -h  Fi  cos  ny  -H  Zi  cos  nz    do 

ove  : 

X  =  —  —  ^-    Y  ^^^^ì? .  z  =  —  —  ^-^' 
Se  Z  =  0,  e  a  coincide  con  la    sua    proiezione  y?  cosicché 

do  =  dx  dy,  questa  formola,  scambiando  X  con  F,  si  riduce  alla 

formola  (1)  già  trovata  al  §  128. 

Se  X,  F,  Z  sono  le  componenti  di  un  vettore  /,  le  Xi,  Fi,  Zi 

si  considerano    come   componenti    di    un    altro   vettore,    che    si 

chiama  il  curi  I,  o  rot  I.  L'integrando  del  secondo  membro  della 

nostra  formola  si  scrive  anche  (curi  I)„,  perchè  non  è  che    la 

componente  del  curi  I  secondo  la  normale  n. 

La  precedente  formola  ha  il  nome  di  teorema  di  Stokes. 
In  molti  trattati  tutte  queste  formole  sono  scritte  con  segni 

differenti:   ciò  dipende  dalle  differenti  convenzioni  adottate    per 

i  versi  di  w,   C,  ecc. 


INTEGRALI    CURVILINEI   E    SUPERFICIALI  439 


§  131.  —  Differenziali  esatti  e  potenziale. 

Siano  X,  Y,  Z  tre  funzioni  finite  e  continue  in  un  campo  a 
tre  dimensioni  t  limitato  da  una  superfìcie  a  e  tale  che,  se  f 
è  una  qualsiasi  linea  chiusa  tracciata  entro  i,  esista  almeno  una 
(e  quindi  infinite)  superficie  appartenente  a  i,  avente  f  per 
unico  contorno,  e  passante  per  un  punto  qualsiasi  D  di  t.  Ciò 
avviene,  p.  es.,  se  t  è  un  campo  sferico,  conico,  ecc.  Resta 
escluso  invece,  p.  es.,  che  x  sia  un  toro  di  rivoluzione. 

Siano  A,  B  due  punti  qualunque  di  t,  che  congiungiamo  con 
una  linea   C  tracciata  entro  x. 

Quando  avverrà  che 


r   (Xdx  -h  Ydy  -h  Zdz) 


non  dipenda  dalla  particolare  linea  C  scelta,  ma  soltanto  dalle 
X,  Y,  Z  e  dalla  posizione  dei  punti  A,  B?  Sia  C'  un'altra  linea 
uscente  da  J.  e  terminata  a  B.  Dovrà  essere,  se  con  Ci  indi- 
chiamo la  C'  percorsa  nel  verso  opposto   (da  B  ad  A) 


f  (Xdx 


Ydy 

'+  Zds)'- 

(Xdx-h 

Ydy  +  Zdz) 

-   f  (Xdx-h 

Ydy  +  Zdg) 

L. 

{Xdx-^  ì 

'''dy+  Zdz)- 

-0. 

ossia  : 


Ma  C  -h  C'i  costituisce  in  sostanza  un'arbitraria  linea  chiusa 
appartenente  al  campo  t.  E  quindi,  se  o  è  una  qualunque  super- 
ficie posta  in  T  e  terminata  a  (7  =  Ci,  dovrà  essere,  con  le 
notazioni  del  precedente  paragrafo, 

I  (Xi  cos  nx  H-  Fi  cos  ny  -H  Zi  cos  nz)  do  =  0, 

dove  a  è  in  sostanza  una  qualunque  superficie  appartenente  al 
campo  T.  Questa  uguaglianza  è  un'identità  soltanto  se  : 

Xi  =  Fi  =  Zi  =  0, 

(1) 


ossia  se  : 

iX       DF 

ì)y        3a;  ' 

Dx    yz 

'bz  ■"  Dee  ' 

DF      DZ 

440  CAPITOLO  XX  —  §   131-132 

In  tal  caso  e  in  tal  caso  soltanto: 


V  =  ^  (Xdx-^  Ydy  -h  Z  dz) 


non  dipenderà  dal  cammino  C  seguito  per  andare  da  ^  e  j5. 
Teniamo  fisso  il  punto  A  e  facciamo  variare  B  in  t.  Per  ogni 
posizione  di  B  avremo  uno  e  un  solo  valore  V  {B)  di  F.  Perciò 
F  sarà  una  funzione  delle  coordinate  x^  y,  z  ài  B  nel  campo  t. 
Come  al  §  91  a  pag.  304  possiamo  dimostrare  che  il  diiferenziale 
di  tale  funzione  vale  proprio  Xdx  -h  Y dy  -^  Z dz,  cioè  che: 

Se  il  campo  i  soddisfa  alle  condizioni  enunciate,  e  in  esso 
le  X,  Yj  Z  soddisfano  alle  (1),  esiste  una  funzione  V,  le  cui 
derivate  parziali  del  primo  ordine  sono  X,  Y,  Z,  ossia  che  ha 
per  differenziale  X  dx  +  Y  dy-h  Z  dz.  Tale  funzione  V  é,  a 
meno  del  segno,  il  potenziale  del  vettore  che  ha  per  compo- 
nenti X,  Y,  Z. 

Questo  teorema  ci  era  già  noto  (§  92)  in  casi    particolari. 

Nel  caso  che  il  campo  t  non  soddisfacesse  alle  condizioni 
enunciate  si  potrebbe  ancora  dimostrare  desistenza  di  una  tale 
funzione  F.  Ma  una  tale  funzione  uscirebbe  dal  campo  delle 
funzioni  fin  qui  studiate,  perchè  in  uno  stesso  punto  avrebbe 
infiniti  valori.  Un  esempio  ben  noto  è  quello  del  potenziale 
dovuto  a  una  corrente  elettrica. 

Le  precedenti  considerazioni  si  applicano  senz'altro  anche 
al  caso  più  semplice  dei  differenziali  Xdx  -\-  Ydy^  dove  X,  Y 

soddisfino  alla  ^^^  =  ^r— in  un'area  piana  a  col  contorno  di  un 
òy        ex 

solo  pezzo  ;  restano  cosi  estesi  a  tali  aree  a  i  teoremi  della  teoria 

dei  differenziali  esatti,  di  cui  abbiamo  discorso  ai  §§  90-91. 

§  132.  —  Trasformazione  degli  integrali  doppii. 

(Cfr.  §§  108-108  6^5). 

a)  Sia  0  un  campo  del  piano  xy,  ne  sia  s  il  contorno  (*);  e 
sia  f{x,  y)  una  funzione  continua  in  o.  Siano  X,  Fdue  funzioni 
derivabili  delle  x,y  m  q 

X=X{x,y)  Y=Y{x,y)  (1) 

in  guisa  che  per  ogni  punto  ^  di  o  siano  completamente  deter- 
minati i  valori  delle   X  F,   Viceversa,    dati   questi  valori,    sia 


(*)  Si  suppone  che  ?,  s  soddisfino  alle  solite  condizioni  enunciate  ai  §§  precedenti. 


INTEGRALI    CURVILINEI    E   SUPERFICIALI 


441 


completamente  determinato  il  punto  A;  in  altre  parole  si  pos- 
sano risolvere  le  (1)  rispetto  alle  x,  y  : 

x  =  x{X,Y)         y=y{X,Y)  (2) 

Le  (2)  posseggano  derivate  prime  e  seconde  finite  e  continue. 


/ 


Y 


X 


Assumiamo  X,  Y  come  coordinate  cartesiane  ortogonali  in 
un  altro  piano.  Ogni  punto  ^  di  a  determina  i  corrispondenti 
valori  delle  X,  Y,  e  quindi  anche  il  punto  Ai  del  piano  XY, 
che  ha  questi  valori  come  coordinate;  al  variare  di  A  in  o, 
varierà  anche  il  punto  Ai,  riempiendo  un'area  S.  Ogni  punto  Ai 
di  S  determinerà  a  sua  volta,  per  le  (2),  uno  e  un  solo  punto 
corrispondente  di  o.  In  questa  corrispondenza  biunivoca  tra  i 
punti  di  a  e  di  S  ai  punti  del  contorno  5  di  o  corrisponderanno  i 
punti  del  contorno  /S'  di  S. 

P)  Quando  avviene  che  in  tale    corrispondenza   si    conservi 

il  verso  (non  la  grandezza)  degli    angoli  ?    Sia   ?/  =  cp  (x)    una 

dy 
curva  Y  in  0  e  sia  -^  la   tangente    dell'angolo  w,    che   la  retta 
dx 

tangente  a  y  in  un  punto  A  forma  con  l'asse  delle  x.  Sia  f  la 

curva  luogo  dei  punti  di  S,  che  corrispondono  ai    punti  di  y  : 

dY 
e  sia  Al  il  punto  corrispondente  di  A.  La  —^  sarà  la  tangente 

dX 

dell'angolo  ^,  che  la  retta  tangente  a  f  in  Ai    fa    con    l'asse 

delle  X.  Il  verso  degli  angoli  sarà  conservato,  allora  e    allora 

soltanto  che  tg  S  cresce  al  crescere  di  tg  w. 


442  CAPITOLO   XX   —   §    132 

Ma  ora: 

Q     dY__  ìx 3^       _'èx      "èy  dx  _'òx      "òy 

^        dX'^ÒX^       3X,  ~3X     DX'òy'WTv 

óx  òy    "^      ox      dy  òx      ex      òy 

Affinchè  tg  ^  cresca  con  tg  w,  bisogna  dunque  che ,  ove 

2)F  3F  3X  3X  . 

>?i  =  ^^  ,  ?^^  =  ^;—  ,  ;?  =  "v"  5   ^  ^^=  ^r~  SI  considerino  come  co- 

òx  òy  òx  òy 

stanti,  sia  una  funzione  crescente  della  i^  ossia  che  la  sua  derivata 

— —^  sia  positiva,  ossia  che  —  mq-h  np>  0.    Se  fosse 

invece  —  mq  -{-np<0,  il  verso  positivo  degli  angoli  non  sarebbe 

conservato.  ^ 

Noi  chiameremo  Jacobiano  delle  a:-,  y  rispetto  alle  X,   Y,  e 

d  (x  t/ì 
indicheremo  con  '     .  il    binomio  —  mq  -\-  np,    ossia    il    de- 

a  (a,  1) 

erminante 

ÌA    il 

ì)x      'òy 
ÒY     ÒY 

òx      òy 

che  noi  supporremo  avere  costantemente  uno  stesso  segno. 

Secondo  che  questo  Jacobiano  è  positivo  o  negativo,  il  verso 
0  senso  degli  angoli  è,  o  non  è,  conservato,  e  quindi,  mentre  si 
percorre  s  in  verso  positivo  {lasciando  a  a  sinistra),  il  punto 
corrispondente  percorre  S  in  verso  positivo  o  negativo. 

ÒF 
Y)  Sia   ora    F{x,y)    una   funzione  tale  che  y- = /.  Sarà: 

ox 

fdo—\^-^do=^Fdy     per  il  teorema  del  §  128. 

'  G  *  C  ÒX 

Se  indichiamo  con  F  anche  la  funzione  delle  X,  Y,  che  si 
ottiene  sostituendo  in  F{x,  y)  alle  x,  y  i  valori  (2),  sarà  : 

dove  con  Si  indico  il  contorno  /S^  di  S  percorso  nel  verso  in  cui 
si  muove  un  punto  Ai,  il  cui  punto  corrispondente  ^  di  a  per- 
corre s  nel  verso  positivo.  Se  dunque  poniamo  s  =:  ±  1   secondo 


INTEGRALI    CURVILINEI   E   SUPERFICIALI 


443 


che  il  precedente  Jacobiano  è  positivo,  o  negativo,  sarà,  ricor- 
dando i  teoremi  del  §  128,  e  supponendo  S  percorso  in  modo 
da  lasciare  S  a  sinistra  : 

=-/tè(^^-)-è-(4l)l«"-= 


=x 


3F 


'òx  'ÒX 


'ÒF  ^ 
Dy  'ÒX 


] 


òy 

tx 


ÒX  ÒY 


ÒFÒ 

òy  ò 


y\ 


dXdY. 


dove,  nell'ultimo  membro,  ho  di  nuovo   considerato  F  funzione 

ÒF 
delle  X,  y.   Riducendo,  e  ricordando  che  -.^  z=:  f^  se  ne  deduce 


infine: 


(4) 


J>*=X-f^^«"-=i>ll^l^ 


1       d{X,Y) 
Le  (3),  (4)  danno: 


d  (X,  Y) 

d  (x,  y) 


dXdY. 


dXdY. 


f{x,  y)  dx  dy=lj  [x  (X,  Z),  y  (X,  Y)]  |  f^-^^ 

che  costituisce  la  forraola  fondamentale  per  il  cambiamento  di 
variabili   negli   integrali   doppi.  La  si  confronti  con  la  formola 

(  fix)dx^(  f[x{X)]^dX 

dell'integrazione   per   sostituzione  per  gli   integrali  di  una  sola 

variabile,  dove  con  x,  X  si  indichino  due  variabili,  di  cui   una 

funzione   dell'altra,    e    con    d,  D  segmenti    corrispondenti    sulle 

dx 
rette  delle  due  variabili.  L'analogia  risulta  evidente  ;  alla  -p^  di 

dX 

quest'ultima  formola  corrisponde   nella   formola  sopra  scritta  lo 

d  (x  ?jì 
Jacobiano    _      '  '     ;    il    quale    viene    preso    in   valore    assoluto. 
d  (X,  1) 

.perche  le  aree  S,  a  si  considerano  sempre  positive,  mentre  il 
segmento  D  può  essere  anche  il  segno  opposto  a  5.  Se  pones- 
simo X=p,  F=0,  a:;  r=  p  cos  0,  2/ =  p  sen  0,  il  nostro  Jaco- 
biano si  riduce  a  p;  e  si  ritorna  cosi  alla  formola  del  §  108. 
(Cfr.  ross.  a  pag.   353). 


(5) 


444  CAPITOLO   XXI   —   §    133 


CAPITOLO  XXL 
COMPLEMENTI  YARII 


§  133.  —  Le  serie  di  Fourier. 

Sia  una  funzione  f{x)  che  ammette  il  periodo  2tc,  che  cioè 
assume  valori  uguali  in  punti  che  differiscono  per  un  multiplo 
di  2  71.  Supponiamo  che  f{x)  sia  sviluppabile  in  una  serie  (di 
Fourier)  : 

00 

/"(a;)  =  2  (^«  ^^^  ^^^  "^  ^«  ^^^  ^^)'  (1) 

n  =  0 

dove  n  assume  i  valori  0,  1,  2,  3 ,  e  le  ^n,  hn  sono  costanti 

da  determinarsi.    Osserviamo  che  il  termine    corrispondente    ad 
>^  z=z  0  si  riduce  ad  ao;  cosicché  la  (1)  si  può  scrivere: 

ri 

f{x)  =  ao  -h  2  ^^n  cos  nx  -4-  K  sen  nx),  (l)bi8 

1 

Ricordando  che,  se  a  è  intero,  |  cos  a  xdx  e  nullo,  se 
a  =f=  0,  ed  è  uguale  a  2  tt:  se  a  =  0,  e  osservando  che  : 

,2:t  1      f^"  1      f^"" 

I     cos  nx  cos  mxcZa;  =  —  |     cos  {n  -4-  m)  xdx  +  —  |     cos  (n  —  w)  a::(?a:r, 

•*o  2  »^o  2  »/o 

troviamo,  se  w,  m  sono  interi  positivi  o  nulli  : 

i  2  71  se  li  -^=  m  =  0 

0  se  n  4=  m. 
In  modo  simile  si  prova: 

I     cos  nx  sen  mx  dx  =  0 

l  0     se  w  =  m  =  0 


I     cos  nx  cos  mx  c?a;  =  ^     7ise?i  =  m=i=0 


j     sen  wa::  sen  mx  ^a;  =  |  0     se  w  #=  m 
*^  f  71     se  l^  =  m  ^  0 


COMPLEMENTI   VARII  445, 

Integrando  la  (Ijws  da  0  a  2  ti:,  dopo  averla  moltiplicata 
per  1  0  per  cos  nix  o  per  sen  ìhx,  supposto  che  le  serie  così 
ottenute  sieno  integrabili  termine  a  termine,  si  avrà,  ricordando 
le  precedenti  identità: 

2jt 


f{x)  dx  =^  \     Uodx  -{- 
2    an  I     cos  nx  dx  -\-hn\     sen  wa;  (^a:  [  =  2  Ti  a©     (*) 

1    (        *^o  ''o  J 


e  per  m  >  0 

,2:t  00     i  ^2n 


I     f(x)  cos  mx  dx  ^=  ^\an  (     cos  nx  cos  mx  dx 
-+-  bn  j     sen  7tx  cos  mxdx-{-\=^'K  a,,,         (**) 

^271  oc        i  2TZ 

I     f{x)  sen  7nx  dx  ^^  ^\  an  \     cos  nx  sen  mx  dx 


.271 

-f-    ' 


bn  1     sen  n:z;  sen  mxdx  i^^nb^         (***) 
Se  ne  deduce  dunque  nelle  nostre  ipotesi  : 


27r 


'*"  =  2^  I„    ^^"^^  '^'^ 


.2- 


1   r 

(m  >  0)  a,„  =  —  I     f{x)  cos  mx  ^Za;  >  •  (2) 

n  Jq  i 

1    f^"^ 
&m  =  —  I     f  (x)  sen  m.T  c^a; 

Noi  ci  chiediamo: 

Quando  avviene  che  sia  vera  la  (l)bLs,  ove  alle  a»,  òf  si 
diano  i  valori  definiti  dalla  (2)? 

Si  può  dimostrare  (Dirichlet,  Dini,  Lebesgue)  che  ciò  avviene 
in  casi  molto  generali.  Noi  lo  dimostreremo  nel  caso  particola- 
rissimo che  \ef'{x),  /'"(a;)  esistano  e  siano  continue  e  quindi  limitate 


(*)  Si  riconosce  anche  direttamente  che  tutti  i  membri  del  secondo  membro 
sono  nulli,  il  primo  eccettuato. 

(**)  In  virtù  delle  identità  scritte  più  sopra,  nel  secondo  membro  il  coefficiente 
di  hn  è  nullo,  qualunque  sia  m;  il  coeificiente  di  a«  è  differente  da  zero  (ed  uguale 
a  ti)  solo  se  n  =  m. 

(***)  Si  dimostra  con  metodo  analogo  a  quello  seguito  per  la  formola  precedente. 


446  CAPITOLO   XXI   —   §    133 

(e  necessariamente  ammettano  anch'esse  il  periodo  2  tc).  Dimo- 
striamo intanto  che  in  tali  ipotesi  la(l)bi8  è  totalmente  convergente. 
Sia  M  una  costante  maggiore  dei  valori  assoluti  delle  f'{x), 
f"{x).  Integrando  per  parti,  si  ha  per  m  ^  1  : 

1   fsen  mx  ^,  .  ,  T''        1     r^""  sen  mx  ^/ ,  ^  -, 
a,„  =  — f\x)  dx\    —  --  /       f  \x)  dx  = 

= /      sen  mx  f'  {x)  dx  ^=^ s  /      cos  mx  f"  (x)  dx, 

mnj()  nm  Jo 

donde  : 

M 
ossia:  ìdmì  ^2—2-  (m>  1). 

m 

M 

Similmente  |  6,,  ^  2  — 3-  ;  e  quindi  per  n  ^  2 

,      4if^       4Jf       _ 

I  a«  cos  nx  -h  6^  sen  nx\i^-^<  ^^  ^^  __  ^^  — 

(  n  —  1         n  \ 

.   ^  /       1  1  \ 

La  serie  a  termini    positivi  e  costanti  2^  I ~  ""  J 

2       \  iì'  1  ri  / 

converge,  perchè  la  somma  dei  primi  suoi  k  termini  vale  1 y  ' 

QO 

che  tende  ad  1  per  A:  ^  00  ;  quindi  sia  la  2  (^n  cos  nx  -h  6„  sen  nx), 

2 

che  la  (l)bi8   sono  totalmente  convergenti. 

Sia  (p{x)  uguale  al  secondo  membro  di  {l)u^.  Gli  integrali 
di  T  (x),  cp  (x)  cos  mx,  cp  (a;)  sen  m:r  si  ottengono  dalla  (Ijbis  mol- 
tiplicandola rispettivamente  per  1,  senmx,  co^mx,  e  integrando 
poi  termine  a  termine,  perchè  la  (l)bis  è  convergente  totalmente. 
Tali  integrali  sono  perciò  uguali  a  quelli  di 

f{x),  f{x)  cos  mx,  f{x)  sen  mx. 
Cosicché,  posto  ^  (x)  =  f{x)  —  ^  [x),  sarà  : 
f    ^(x)dx  =  0',\     ^{x)(io^mxdx=^^',  \     ^  {x)  ^Qnmxdx=^  ^.     (3) 

Jo  Jo  ^0 


COMPLEMENTI   VARII  447 


Il  nostro  teorema  sarà  dimostrato,  sa  riusciamo  a  dedurne 
che  la  ^  (x)  =  0.  Dalle  (3)  si  ha  che,  qualunque  siano  le  co- 
stanti hi,  Ci,  è: 

1     f^  (x)  \  bo  -^  ^  hr  cos  TX  -^  ^  Cr  sen  rx\  dx  =  0     (4) 

•^0  r=l  1 

e  quindi,  per  il  risultato  dell'es.   15°,  pag.   58,  è: 

.2:1 

^(x)F{x)dx  =  0,  (5) 

se  F(x)  è  un  qualsiasi  polinomio  nelle  sena:;,  coso;  a  coefficienti 
costanti.  Supponiamo  ora  che  la  funzione  (continua)  ^  (x)  sia 
differente  da  zero  in  un  punto  A;  essa  sarà  pure  differente  da 
zero  in  tutto  un  intorno  di  A,  p.  es.  nell'intervallo  (a,  p),  dove 
sarà,  p.  es.,  positiva,  ossia  avrà  un  minimo  m  positivo.  Vogliamo 
dimostrare  che  ciò  è  assurdo.  Poniamo  : 


F(x)  =  ]l-^  cos  \x  —  °^y^ 


C0S-— -^      '     (6) 


dove  w  è  un  qualsiasi  intero  positivo.  La 'espressione  tra    j      j 

/a  —  B\ 
supererà  sempre  —  cos  (  — - —  I  >  —  le  sarà  maggiore  di  1 

soltanto  quando  l'angolo  x  varia  nell'intervallo  (a,  P). 

Indicheremo  con  N  il   massimo    finito    della   ^  (x).    L'inter- 
vallo (0,  2  Tc)  si  può  decomporre  nei  seguenti  intervalli  parziali  : 

1"  L'intervallo  (a,  P). 

2*"    Un    intorno    di    a    di    lunghezza    non    superiore    ad 

3""   Un    intorno    di    ^    dj    lunghezza    non    superiore    ad 

4"^  La  parte  residua  y  di  lunghezza 

Y^27t;  —  IP  —  a|  —  2£. 

Nell'intervallo  (a,  P)  è  ^ix)^m>  0,  F(x)  >  1  ;  quindi  l'in- 
tegrale di  ^  (x)  F(x)  esteso  a  tale  intervallo  supera  m  i  P  —  a  |. 


(*)   Si   suppongono  questi  intorni  essere  uno  destro,  l'altro  sinistro,  così,  da 
essere  entrambi  esterni  all'intervallo  (oc,  ^). 


448  CAPITOLO   XXI   —   §    133 

Nei  due  intorni  ricordati  di  a  e  P  è  |  i^(a;)  |  ^  1,  |  4^  (a:)  |  <  ^. 
Quindi  l'integrale  di  ^{x)  F{x)  esteso  a  questi  due  intorni  non 

supera  2£ÌV==:  —  ||3  —  a|. 

Consideriamo  ora  la  parte  residua  y.  In  y  è  sempre  \^{x)\^N. 

r         a  -h  Bl  a  — B 

Invece  1  H-  cos  hr  —  — - —     —  cos  — - —  e  sempre  minore  di  1 

in  valore  assoluto  :  cioè  il  suo  massimo  valore  assoluto  è  un 
numero  o  <  1.  Quindi  la  F(x)  definita  dalla  (6)  è  minore  di  o'\ 
E  l'integrale  di  ^  (ic)  i^  (a;)  esteso  a  y  non  supererà  y  A^o",  e 
quindi,  poiché  o<l,  diventa  piccolo  a  piacere,    p.  es.    minore 

di  —  IP  —  a  I ,  quando  n  è  abbastanza  grande. 
4 

L'integrale  di  ^(x)F(x)  esteso  a  tutto  l'intervallo  (0,  27i) 
è  uguale  alla  somma  degli  integrali  di  ^  (x)  F(x)  estesi  ai  citati 
intervalli  parziali;  ed  uguale  perciò  alla  somma: 

1°  di  un  numero  positivo  maggiore  di  w  |  P  —  a  |  ; 

2°    di   un   numero   che   in    valore    assoluto    non    supera 

3**   di   un   numero    che    in    valore    assoluto    non    supera 

Esso   è    dunque    maggiore    di    |  P  —  a  |    moltiplicato    per 

m =  ~~  ;   CIÒ   che    e   assurdo,   perche   noi   sappiamo 

che  esso  è  nullo.  E  dunque  assurdo  ammettere  che  ^^  (x)  non  sia 
identicamente  nullo. 

Più  generalmente  si  dimostra  che:  La  (l)bi8,  *  cui  coeffi- 
cienti  siano   determinati   da  (2)  in  un  punto  x  =  a  ove  f  (x) 

sia  discontinua,  ha  per  somma-—  [  lim  f(x)  4-  lim  f(x)],  se 

questi  due  limiti  esistono  e  sono  finiti  [purché  esistano  e  siano 
finiti  anche  i    lim    f  (x)  e  lim  f  (x)].  Anche  questo  risultato 

vale  del  resto  in  casi  estremamente  più  generali. 


COMPLEMENTI   VARII  449 


§  134.  —  Elementi  del  calcolo  delle  variazioni. 

a)  La  teoria  dei  massimi  e  minimi  si  propone  di  trovare  il 
valore  della  variabile  (o  i  valori  delle  Variabili)  che  rendono 
massima  o  minima  una  data  funzione.  Ma  talvolta  si  presentano 
problemi  di  massimo  o  di  minimo  di  un  altro  tipo  :  il  problema 
di  cercare  la  funzione  cp  (x)  o  la  curva  y  =  ^  (x)  che  rendono 
minimo  qualche  integrale,  p.  es.  la  curva  ?/  =  cp  (x)  che  passa  per 
due  punti  A,  B  di  ascissa  a,  h  e  che  ha  la  minima  lunghezza,  ossia 

che  rende  minimo       i/l  H-  cp'^  (x)  dx,  oppure  la  curva  passante 

per  due  punti  A,  B  posti  ad  altezze  differenti,  tale  che  sia  mi- 
nimo il  tempo  impiegato  da  un  grave  che  cade  da  ^  a  5  lungo 
la  curva,  ecc.,  ecc.* 

Si  voglia  trovare  la  funzione  y  della  x,  che  rende  minimo 


l'integrale  1  f{x,  y,  y)  dx,    e   che    assume  valori  dati  a  priori 

per  X  =^  a,  X  =^b.  Si  ammetta  che  tale  funzione  possegga  deri- 
vate prime  e  seconde  finite  e  continue,  che  per  la  /'e  derivate 
valgano  nel  campo  che  esamineremo,  tutte  le  proprietà  (conti- 
nuità, ecc.)  necessarie  per  la  validità  dei  calcoli  seguenti. 

Se  ^  =  cp  (a;)  è  la  funzione  cercata  (supposto  che  esista  e 
possegga  derivate  prime  e  seconde  finite  e  continue),  e  se  ^  (x) 
è  una  funzione  con  derivate  prima  e  seconda  finite  e  continue, 
nulla  per  x  =  a  e  per  x  =  ò,  allora,  qualunque  sia  il  valore 
della  costante  t,  la  funzione  cp  (x)  -h  tz  {x)  assume  per  x^=  a 
e  per  a;  =  &  i  valori  prefissati  ;  e  il  nostro  integrale,  ove  si 
ponga  cp  {x)  -f-  tz  {x)  al  posto  di  y^  ossia 

f[x,^  (x)  -h  tz  (x),  9'  {x)  -+-  tz  {x)]  dx 

diventa  una  funzione  di  t^  che  ha  un  minimo  per  t  =  0. 
Sarà  dunque  (§  70,  pag.  226)  : 


d   r^   r- 

3;  J  /"  b,  9  (^)  -+-  tz  {x),  9'  {x)  -h  tz  ix)]  dx  =  0  per  ^  =  0 

ossia  (§  89,  pag.  296) 

f^  d 

J   J^fi^i^  (^)  -+-  tz  {x),  cp'  {x)  H-  tz  {x)]  dx  =  0         per  ^  =  0 

29  —  G.  FuBiNi,  Analisi  maUmaiic». 


450  CAPITOLO   XXI   —   §    134 

che,  per  il  teorema  del  §  83,  si  può  scrivere  : 

^«1  (^y  j       òy        [y^-f+tz 

E,  osservando  che  per  ^  =  0  la  cp  -H  ^^  si  riduce  alla  cp,  questa 
equazione  ci  dice  che  la  funzione  y^=.^(x)  cercata  soddisfa  alla 


^y  ^\  'òy' 


dx—  0. 


Integrando  per  parti  il  secondo  di  questi  due  integrali,  esso 
diventa  : 

Il  primo  termine  è  nullo,  perchè  ^  (:r)  ==  0  per  x=^  a  e 
per  ^  =  6.  La  nostra  equazione  si  riduce  così  alla  : 

v^^^    7>y.     dx[   V  ir''      ^'' 

che  deve  valere,  qualunque  sia  la  funzione  derivabile  ^  (x)  nulla 
per  a;  =  a  e  per  a;  =  h.  Io  dico  che  la  quantità  tra  {  !  dovrà 
esser  nulla,  che  cioè 

^/'(^^ ^, y)  _  d_  \'òf{x,y,y)'\  __  ^  ^2^ 

òy  dx\_       òy       J 

Se  infatti  così  non  fosse,  ed  essa  fosse  differente  da  zero, 
p.  es.  positiva  in  un  punto  a:;  =  e,  essa  sarebbe  positiva  in 
tutto  un  intorno  (a,  P)  di  e.  Porremo  in  tal  caso 

z  {x)  =  {x  —  oif  {x  —  P)'  nell'intervallo  (a,  p), 

z{x)^=0  in  tutti  i  punti  di  (a,  h)  esterni  all'intervallo   (a,  P). 

La  funzione  z  {x)  così  definita  soddisfa  alle  condizioni  citate. 

Poiché  z{x)  è  nullo  fuori  dell'in  ter  vallo  (a,  p),  la  (1)  si 
riduce  alla 


'^oL  ì        Òy  dx\       òy        /  [ 

ciò  che  è  assurdo,  perchè  nelle  attuali  ipotesi,  tanto  z  (x)  quanto 
la  quantità  tra  graffe  j  |  sono  positive  in  ogni  punto  interno 
all'intervallo  (a,  P)  di  integrazione,  cosicché  l'integrale  è  positivo 
e  differente  da  zero.  La  nostra  ipotesi  è  quindi  assurda;    vale 


COMPLEMENTI    VARII  451 


cioè  identicamente  la  (2).  che  si  può  scrivere  esplicitamente 
(§  83)  così: 

l^fix^y^y)         yf^         yf     ,       ^'fy"=o       (2),, 
'òy  'òx'òy        ^y'òy  3?/' 

ed  è  quindi  un'equazione  differenziale  del  secondo  ordine  per  la 
funzione  cercata  y  della  x.  L'integrale  della  (2)  o  (2)biB  conterrà 
due  costanti  arbitrarie,  che  si  possono  di  solito  determinare 
imponendo  a  tale  integrale  le  condizioni  di  assumere  i  valori 
prefissati  per  x  =  a,   o  per  x  =  h. 

Non  ci  occuperemo  delle  ulteriori  condizioni  a  cui  deve  soddi- 
sfare la  funzione  cercata,  affinchè  renda  effettivamente  minimo 
il  nostro  integrale. 

^)  Talvolta  ci  si  propone  di  cercare  la  funzione  y^  che  rende 

massimo  o  minimo  l'integrale  /    ^  (x,  y,  y)  dx,  tra  le  funzioni  y 

che  assumono  valori  prefissati  per  x=^  a,   e   per  x  =  ò,  e  che 

soddisfano  a  un'equazione  /   cp  (x,  y,  y)  dx  =  k,   dove  k  è  una 

costante  prefissata  a  priori.  Noi  ci  accontenteremo  di  enunciare 
che  per  tali  problemi  continua  a  valere  il  metodo  del  moltiplica- 
tore indicato  al  §  85,  5,  pag.  289.  Che  cioè  si  trova  una  condizione 
necessaria,  a  cui  deve  soddisfare  la  funzione  y  cercata  nel  modo 
seguente.  Si  indichi  con  X  una  costante  per  ora  indeterminata  ; 
e,  posto  f{xyy)^=^  -4-  X9,  si  scriva  la  (2),  come  se  si  volesse 

cercare  la  funzione  y  che  rende  minimo  /  f  {x,  y,  y')  dx.  L'in- 
tegrale della  (2)  conterrà  due  costanti  arbitrarie  di  integrazione, 
oltre  alla  costante  X.  Queste  tre  costanti  si  determinano  di  solito, 
ricordando  che  la  y  per  x  =^  a  0  per  a;  =  6  deve    assumere    i 

valori  prefissati,  e  che  deve  essere  /    cp  {x,  y,  y)  dx  =  k. 

I    a 

Esempi. 

V  La  teoria  delle  serie  di  Fourier  si  può  interpretare 
fisicamente  nel  seguente  modo.  Se  x  indica  il  tempo,  la  ?/  =  f{x), 
che  ammette  il  periodo  27t,  può  servire  a  misurare  qualche  feno- 
meno periodico  (vibrazione  di  un  punto,  di  una  corda,  vibra- 
zione luminosa,  ecc.).  Una  equazione  ?/  =  a„  cos  nx  -f-  In  sen  nx 
(n  intero  positivo,  «„,  hn  costanti)  si  ritiene,  come  è  noto  dalla 


452  CAPITOLO   XXI   ^   §    134 

fisica,  come  misurante  un  fenomeno  periodico  elementare.  La  y 

testé  definita  si  riproduce,  se  l'angolo  nx  aumenta  di  2  Ti,  ossia 

2  n 
se  X  aumenta  di  — .  In  altre  parole,  in  un  intervallo  di  am- 
n 

piezza  2  tz,  tale  y  si  riproduce  n  volte,  misura  cioè  un  fenomeno 

oscillatorio,  che    in    un   intervallo    di    ampiezza    2  tc    compie    n 

oscillazioni.  Il  nostro  risultato  si  può  dunque  enunciare  così: 

Ogni  fenomeno  periodico,  che  si  riproduce  cioè  dopo  2  ti  unità 

di  tempo  si  può    decomporre   nella    somma   (serie)    di   infiniti 

fenomeni  periodici    elementari,    che   nello   stesso   intervallo   di 

tempo  compiono  rispettivamente  1,  2,  3,  4,  oscillazioni. 

Per  questa  ragione  si  decompongono,  p.  es.,  i  suoni  emessi 

da  uno  strumento  musicale  nella  cosidetta  nota  fondamentale  e 

nei  suoni  armonici. 

T 
Oss.   1'^.  Ponendo  ^  =  - —  x,  e  indicando  con  z  il  tempo,  si 

.2  TI 

passa  allo  studio  di  fenomeni  periodici,  che  ammettono  un  qual- 
siasi periodo  T  (anche  distinto  da  2  t:).  Lo  stesso  scopo  si 
potrebbe  ottenere  variando  l'unità  di  misura  per  il  tempo. 

2^  Trovare  la  minima  distanza  AB  dal  punto  A  =  (a,  a) 
a    punto  {&,  P). 

Ris.  Si  deve  cercare  il  minimo  di        \/l  -h  y^  dx,    ossia 

porre  nella  (2)  del  §  134  f=  Vi  -h  y'^.  La  (2)  diventa  così: 

d         y  r.         '  y  .  ,        / 

,  =  0,  ossia     .  =  cost.,    0    anche  y  =  m, 

dx^/i^yr^  Vl^y''  ^ 

dove  m  è  una  costante  arbitraria.  Quindi  y  =:  mx  -^  n,  dove  n 

è  un'altra  costante  arbitraria;  la  curva    cercata    è    una   retta. 

Le  costanti  m,  n  si  determinano  scrivendo  che  essa  passa  per  A 

per  B. 

3^  Dati  in  un  piano  verticale  n  due  punti  A,  B,  trovare 

la  curva  passante  per  A  e  per  B,  tale  che  un  grave,  cadendo 

da  ^  a  jB  lungo  questa  curva,  impieghi  il  minimo  tempo  possibile. 

Assumiamo  in  n  il  punto  A  come  origine,  un  asse  delle  x 

orizzontale,  un  asse  delle  y  verticale  volto  verso  il  basso. 

Supponiamo  che  la  curva  cercata  abbia  un'equazione  y  =  y(x). 

Noi  sappiamo  che  la  forza  viva  -—  (tt)  del  grave  di  massai 

con    s   indico    l'arco   percorso    dal   grave)    è  uguale  al  lavoro 


COMPLEMENTI   VARII  453 


compiuto  dal  grave  nel  cadere  dal  punto  A,  cioè  è  uguale  alla 
proiezione  y  sulla  verticale  dello  spazio  percorso  moltiplicata 
per  la  solita  costante  g.  Ossia: 

Cosicché  (se  6  =4=  0  é  l'ascissa  di  B)  il  tempo  impiegato  dal 
nostro  grave  nella  caduta  è 


2gJo    \        y 


Posto  dunque  nella  (2)  f:=i\/ ^,  la  (2)  diventa: 

r      y 

1   l/l  +  y""        d  \\/      y       y\  ,        .     \ 

-^^ •"  T~     1/  :; — ; — ^2  ~    =^  0?    che    si    può    scrivere 


2       yy^y  dx\]f    \  -\-  y""  y 

assumendo,  com'è  lecito,  la  y  a  variabile  indipendente  : 
1     1    l/y(l+y'^)    ^     d  \  y  )_^ 

Posto    —=M=^  r=z  z^    se    ne    trae  ^—  JL  _}_  _  :^  q 
Vy{\  +  .V  ')  2y''  z         dy 

r^     ^         dy 
ossia  2-^  ^-e  -h  -y  =  0. 

y 

Integrando  si  avrà  /  = m  (m  =^  cost.),  donde  : 

y 


y         /i      \     .  1+^        1  ri/ 

/._^   '2^  =  \--yn) ossia  — ^^  = ,  x=l     l/  - 

y{\+y  )     \y        /  y -^       l-my        Jori 


'^^dy. 
—  my 

Nelle  nostre  ipotesi  {B  più  basso  di  ^,  asse  delle  y  volto 
in  basso)  la  y  lungo  la  curva  cercata  è  positiva.  Non  può 
dunque  essere  m  <  0,  perchè  altrimenti  1  —  my  >  0,  e  il  radi- 
cale sarebbe  immaginario. 

Dunque  m  >  0,  e  si  può  porre  m  =^  —-r^  {h  =  cost.). 


454  CAPITOLO   XXI   —   §    134 

Di  più  1  —  my>0  ossia  —  >  m  =^  — v^  ;    e   si   può    porre 

y  À  ri 

1      1      1  r  1     ?  T 

—  =  -— ^  "^  V    IT  ^^  o~    '  ^^^^  0  ^9 ^7c  e  una  nuova  varia- 
bile  di  integrazione.  Si  ha:     . 

y  ^i^^h"  cos"  ^  =  /r  (1  4-  cos  cp).    '  (a) 

E  quindi,  sostituendo  nel  nostro  integrale,  e  osservando  che 


1/ 


my  9 

^—  =  cotg  ^ 

1  —  my  2 


si  trova,  osservando  che  cp  =  tt:  per  ?/  =  0, 

a;  =  /i^  TI  —  /^-  (cp  -h  sen  cp).  (P) 

Le  (a),  (^)  definiscono  i  punti  della  curva  cercata  in  fun- 
zione del  parametro  cp.  Tale  curva  è  una  cicloide. 

4*.  Tra  le  curve  y  ^=  y  (x)  passanti  per  i  punti  di  ascissa 
a  e  b  dell'asse  delle  x,  e  di  lunghezza  prefissata  L,  trovare 
quella  che  con  l'asse  delle  x  racchiude  l'area  massima. 

Ris.  In  §  134,  P,  si  deve  porre  (f  i=  \/l -h  ?/'-,  ^  =^  y. 
La  curva  cercata  deve  dunque  soddisfare  a  (2)  ove  si  ponga 
fz=iy-^\  Vi  -{-  y^"  (X  =  cost.),  cioè  alla 

I^XJ-  (  ,    ^         \  ,  donde: 


=  ^     X  +  [X  (fi  =:  cost.). 


l/l  -+-  y'        ^ 

Il  primo,  e  quindi  anche  il  secondo  membro,  sono  minori  di  1. 
Posto  perciò 

-—  X  -h  li-  =^  seh  9  (t  =  nuova  variabile), 

.  dy         , 
se  ne  dedurrà  t"  ^^  V  =  tg  cp. 
dx 

Quindi  6??/  =  tg  cp  6?x  =  X  tg  9  cos  cp  c^  cp  =  X  sen  9  cZ  cp  ed  ?/  = 

=  —  X  cos  cp  -h  V  (v  rzz  cost).    Eliminando  cp  dalle  due  equazioni 

trovate,  si  trova  (x  -f-  X  |Ji)^  -^  {y  —  "^f  =  cost.  La  curva  cercata 

é  dunque  un  cerchio. 


COMPLEMENTI   VARII  455 


§  135.  —  Alcune  funzioni  di  variabile  complessa. 

a)  Le  funzioni  e^,  cos  z^  sen  z  sono  dejfìnite  per  tutti  i  valori 
(iella  z  da  una  serie  di  potenze,  e  si  possono  considerare  perciò 
funzioni  della  0,  anche  se  ^  è  complesso. 

P)  Dimostriamo  che  anche  una  frazione  razionale,  cioè  un 
quoziente  di  polinomi  di  una  variabile  z  è  pure  una  funzione 
della  variabile  z,  cioè  è  sviluppabile  in  serie  di  potenze.  Se  noi 
introduciamo  nei  calcoli  anche  numeri  complessi,  l'enunciato 
del  teor.  a  pag.  250-251   si  può  semplificare  provando  che  ogni 

P(z) 

frazione  ttt-t  è    somma    di    un    polinomio,    di    frazioni    semplici 

A  V  (2) 

del  tipo ,  (*)  e  della  derivata  di  un'altra  frazione  ^=777— • 

z  —  a  yv(z) 

Applicando  a  quest'ultima  lo  stesso  teorema,  e  così  continuando, 
si  prova  che  ogni  frazione        .  è  somma   di  un  polinomio,  di 

.A 

frazioni  semplici  del  tipo  -^ ,  e  di  derivate  di  tali  frazioni 

'  z  —  a 

semplici. 

Basterà  dunque  provare  che ,    0,    ciò  ch'è   lo  stesso, 

z  —  a 

che è  sviluppabile  in   serie  di  potenze.   Se  ^o  ="^^  a  è  un 

z  —  a 

numero  qualsiasi,  si  ha  appunto  (per  la  nota  formola  delle  pro- 
gressioni geometriche) 

1  111 


z  —  a       {z  —  Z(^)  —  {a  —  ^0)        -^(t  —  <^  .        ^  —  -S'o 

a  —  Zo 
1       \  *         1 

1  +  S^         ^Az-zoY 


-e,,  —  al  1  (a  —  Zo) 

nel  cerchio  definito  dalla  :   \  z  —  ^0  |  <  |  ^  —  ^o\  ,    cioè    entro    il 
cerchio  di  centro  Zq,  la  cui  periferia  passa  per  il  punto  a. 


(*)  La  dimostrazione  del  §  76  continua  a  valere,  se  ad  ima  frazione  del  tipo 

Mx  -f  N 

(il  cui  denom.,  uguagliato  a  zero,  abbia  radici  complesse  h,c)  sosti- 


Ti  C 

tuiamo  una  espressione  del  tipo  ^  H (con  B,  C  costanti), 

X  —  0       X  ~~  e  ^ 


456  CAPITOLO  XXI  —  §  135-136 


Se  ne  deduce  facilmente  che  una  frazione  razionale  data 
ad  arbitrio  è  sviluppabile  in  serie  di  potenze  della  z  —  Zo  in 
ogni  cerchio  di  centro  Zo,  il  quale  non  contenga  punti  ove 
la  frazione  diventa  singolare  (in  cui  quindi  il  denominatore  si 
annulla).  (Cfr.  il  teorema  di  Cauchy  citato  in  nota  a  pie  di 
pag.   209). 

§  136.  —  Integrazione  meccanica. 

E  noto  che  il  calcolo  dell'integrale  di  una  funzione  si  può 
eseguire  per  via  grafica  (nota  a  pag.  325);  con  metodo  grafico 
si  possono  risolvere  le  equazioni  algebriche.  Le  scienze  appli- 
cate danno  numerosi  e  svariati  metodi  di  calcolo  grafico. 

Accanto  ad  essi  esistono  metodi  meccanici  per  i  calcoli  più 
molteplici:  ci  basti  ricordare  le  macchine  così  note  per  eseguire 
le  operazioni  fondamentali  dell'aritmetica. 

Più  semplici  assai  di  esse  sono  gli  strumenti  che,  pure  ri- 
correndo al  disegno,  servono  ad  eseguire  le  integrazioni,  e  che 
si  dividono  in  due  categorie:  gli  integrafi,  che  servono  a  dare 
gli  integrali  indefiniti,  ed  i  planimetri,  che  calcolano  gli  inte- 
grali definiti,  0  più  ^neralmente  le  aree  delle  figure  piane.  Di 
planimetri  esistono  tipi  svariatissimi  ;  e  noi  ne  studieremo,  a 
titolo  di  esempio,  soltanto  due.  Avverto  che  noi  studiamo  i  tipi 
teoricamente  più  semplici;  ma  non  parliamo  del  semplicissimo 
planimetro  di  Prytz,  perchè  non  è  troppo  preciso. 

A)  Integrafo  di  Abdank-Abakanowicz. 

Al  §  73,  pag.  238,  abbiamo  già  citato  alcune  applicazioni 
di  questo  integrafo  al  calcolo  numerico  delle  radici  di  una  equa- 
zione algebrica.  Tale  apparecchio  risolve  il  problema  seguente: 
Disegnata  una  curva  y  =  f  (x),  tracciare  una  qualsiasi  delle 

curve  y  =  1  f  (x)  dx.  Esso  è  fondato  sul  fatto  sperimentale  che 

se  una  roteila  ruota  senza  strisciare  su  un  foglio  di  carta  ed 
è  sempre  contenuta  in  un  piano  perpendicolare  al  foglio  stesso, 
allora  il  punto  di  contatto  della  rotella  e  del  foglio  descrive 
una  curva  le  cui  tangenti  sono  date  dall'intersezione  del  piano 
del  foglio  col  piano  della  rotella.  Ecco  una  descrizione  soltanto 
schematica  di  detto  integrafo. 

Sia  y=zf{x)  una  curva  C;  e  sia  C'  la  curva   y=zF(x) 

dove  F{x)=^f{x),  cosicché  f(x)=^  l  F{x)dx.  Sia  x^=a\m 

punto  a!  dell'asse  delle  x  e  siano  Ai,  J.2  i  punti  corrispondenti 


COMPLEMENTI   VARII  457 


delle  curve  y  =^  F{x)  =^  f  (x)  ed  y  =  f{x).  Sia  B  quel  punto 
dell'asse  delle  x  tale  che  il  segmento  BA'  =  1   (*). 

Il  coefficiente  angolare  della  tangente  alla  curva  y  =  f{x) 
per  a;  =  a,  ossia  nel  punto  A2,  vale  f  (a)  ^=^F{a). 

Il  coefficiente  angolare  della  retta  BAi  vale  : 

A'A_Fia)_ 

Queste  due  rette  hanno  dunque  ugual  coefficiente  angolare, 
e  sono  perciò  parallele. 

Supponiamo  di  aver  disegnata  la  curva  y  =^  Fix)  e  ài  voler 
tracciare  la  curva  y  =  f{x),  mentre  una  punta  scrivente  Ai  de- 
scrive la  ^  ^=  F{x),  L'integrafo  porta  un  parallelogrammo  arti- 
colato, un  lato  \  del  quale  coincide  sempre  con  la  retta  BAi, 
ipotenusa  del  triangolo  rettangolo  BA'Ai,  che  ha  un  cateto  BA' 
posto  sull'asse  della  x  ed  eguale  a  1.  Il  lato  Xo  opposto  del  paral- 
lelogramma sarà  costantemente  una  retta  parallela  a  BAi;  esso 
porta  una  rotella  A2  tenuta  sul  prolungamento  di  A' Ai,  e  in 
un  piano-  passante  per  Xo  e  normale  al  piano  del  foglio.  Il 
punto  A2  di  contatto  di  tale  rotella  descrive  dunque  una  curva 
yz=.f{x)  che  ha  in  A2  per  tangente  la  retta  ^  parallela  a  \. 
Il  coefficiente  angolare  f'  {x)  di  tale  tangente  è  così  uguale  al 
coefficiente  angolare  F {x)  di  \,  È  perciò,  come  si  voleva, 
f{x)^=^F{x).  La  indeterminazione  di  una  costante  additiva 
per  la  funzione  f{x)  corrisponde  nell'integrafo  all'arbitrarietà 
della  posizione  iniziale  della  rotella  lungo  l'ordinata  di  Ai. 

L'integrafo  di  Abdank  è  costruito  in  modo  diverso  per  assi- 
curarne il  buon  funzionamento.  Il  principio  fondamentale  è  però 
quello  da  noi  esposto. 

B)i   Un  primo  tipo  planimetro. 

Noi  descriviamo  ora  un  planimetro  con  un  disco.  Esso  è  poco 
pratico,  e  l'ingegnere  di  solito  gli  sostituisce  il  planimetro  di 
Corradi  a  sfera  e  cilindro,  senza  filo.  Ma,  poiché  la  teoria  di 
quest'ultimo  è  affatto  analoga  a  quella  che  qui  esporremo,  e 
che  presenta  caratteri  di  speciale  semplicità,  così  resta  giustifi- 
cata la  scelta  del  planimetro,  che  qui  descriviamo. 

Tale  planimetro  consiste  essenzialmente  in  un  disco  circo- 
lare piano  D  di  centro  0,  il  quale  può  essere  dotato  di  due 
movimenti;    uno  di  traslazione  'parallelamente   all'asse  della  y, 


(*)  Il  lettore  disegni  la  figura. 


458 


CAPITOLO   XXI 


§   136 


e  uno  di  rotazione  intorno  al  suo  asse  centrale  0.  Per  poter 
scorrere  parallelamente  all'asse  y  il  disco  in  questione  è  guidato 
generalmente  da  tre  piccole  rotaie.  Attorno  all'asse  centrale  del 
disco  è  avvolto  un  filo  l;  quando  si  tende  il  filo  e  lo  si  svolge 
dall'asse,  il  disco  acquista  un  movimento  di  rotazione  e  l'angolo 
di  rotazione  è  proporzionale  all'allungamento  del  filo.  Questo 
filo  da  una  speciale  disposizione  strumentale  (un'asta)  è  tenuto 
sempre  parallelo  all'asse  delle  x. 

Quando  l'estremità  mobile  C  del  filo  ha  un  movimento  pa- 
rallelo all'asse  delle  y,  tutto  l'apparecchio  ad  esso  solidale  riceve 
pure  un  tale  movimento;  e  il  disco  di  asse   0  non  ruota. 


:/        ^ 


Fìg.  47. 


Quando  invece  il  punto  C  riceve  un  movimento  parallelo 
all'asse  delle  x^  l'asse  0  del  disco  rimane  fisso,  il  filo  si  al- 
lunga e  si  svolge  imprimendo  un  movimento  di  rotazione  al 
disco  di  un  angolo  proporzionale  allo  spostamento  ricevuto  da  C. 

Al  piede  della  perpendicolare  calata  dal  centro  0  del  disco  D 
all'asse  delle  x  \\  h  una  rotellina  R  tangente  a  D,  posta  in 
quel  piano  perpendicolare  al  piano  del  disco,  che  passa  per  Tasse 
delle  x,  e  tenuta  in  contatto  col  disco  stesso.  Tale  rotellina  è 
munita  di  un  contagiri.  Col  suo  moto  di  rotazione  il  disco  D 
imprimerà  ad  R  pure  un  movimento  di  rotazione  ;  un  contagiri 
misura  il  numero  dei  giri  e  frazioni  di  giro  compiuti  da  R. 

Vediamo  che  cosa  avviene  quando  l'estremità  mobile  C  del 
nostro  filo  (che  porta  una  punta)  percorre  una  curva  y  =  f{x). 

Supponiamo,  p.  es.,  la  f{x)  crescente  come  nel  caso  della 
figura.  Man  mano  che  la  punta  C  cammina  sulla  curva,  il  filo 
si  innalza  e  si  allunga  verso  destra,  così  che  il  disco  si  innalza 
e  insieme  ruota. 


COMPLEMENTI   VARII  459 


Dico  che  Vintegrale  j     f  (x)  dx  è  proporzionale  al  numero 

di  giri,  contato  dal  contagiri^  compiuti  dalla  rotellina  R, 
mentre  la  punta  C  percorre  il  pezzo  di  curva  y  =  f  (x)  che  si 
proietta  nel  segmento  (a,  b). 

Il  coefficiente  di  proporzionalità  varierà  poi  secondo  le 
dimensioni  dell* apparecchio  e  le  unità  di  misura  scelte.  Dimo- 
streremo il  teorema,  usando  senz'altro  locuzioni  abbreviate. 

Osserviamo  anzitutto  che,  mentre  il  disco  si  innalza  o  si 
abbassa  parallelamente  all'asse  delle  y,  la  rotella   non  gira. 

Affinchè  la  rotella  R  giri  bisogna  che: 

V  II  filo   OC  si  svolga    dall'asse    0   e   faccia   rotare   il 
disco  D. 

2°  La  rotella  non  si  trovi  sul  centro    0  del   disco,    ma 
sia  eccentrica. 

Ed  è  anzi  ben  evidente  che,  l'angolo  di  cui  gira  la  rotella 
è  proporzionale  a  due  quantità: 

a)  l'allungamento  dei  fili  OC;  P)  la  distanza  OR  da  R  al 
centro   0  del  disco  D, 

Dividiamo  ora  Tintervallo  {a,  h)  in  infiniti  segmentini  infi- 
nitesimi ;  e  sia  5  uno  di  questi  intervallini.  In  esso  la  y  si  può 
considerare  come  costante  (cfr.  §  99);  e  mentre  C  percorre  il 
tratto  CD  di  curva  corrispondente,  la  distanza  OR  sarà  ap- 
punto uguale  alla  y  di  un  punto  di  questo  pezzo  di  curva. 

L'allungamento  del  filo  sarà  uguale  alla  lunghezza  dx  della 
proiezione  t  del  nostro  pezzo  di  curva  sull'asse  della  x;  ^ 
quindi,  per  quanto  dicemmo,  l'angolo  di  cui  gira  la  rotella  R 
(mentre  C  percorre  il  tratto  CD  di  curva  che  si  proietta  in  5) 
è  proporzionale  tanto  alla  y  che  a  dx,  e  perciò,  a  meno  di  un 
fattore  costante  h,  che  dipende  dalle  dimensioni  dell'apparecchio, 
è  uguale  al  prodotto  ydx  (*).  Il  numero  dei  giri  compiuto  da  R, 
mentre  l'estremità  C  del  filo  descrive  tutto  il  pezzo  di  curva 
y  :=z  f(x)  che  si  proietta  nell'intervallo  (a,  h),  è  proporzionale 
alla  somma  degli  angoli  di  cui  R  ruota  nei  singoli  intervallini 
parziali  B.  Tale  numero  di  giri  è  dunque  proporzionale  a 


I   f{x)  dXf 


e.  d.  d. 


(*)  In  modo  preciso  esso  è  compreso  tra  i  prodotti  di  hdx  per  il  massimo  o  il 
minimo  di  .?/  in  ^.  L'allievo  completi  questa  dimostrazione  senza  sussidio  di  locu- 
zioni abbreviate. 


460  CAPITOLO   XXI   —   §    136 

Questo  planimetro  può  in  modo  aifatto  simile  servire  al  calcolo 
dell'area  non  solo  di  rettangoloidi,  ma  di  figure  piane  qualsiasi, 
come  il  lettore  può  facilmente  dimostrare. 

B)2  Planimetri  di  Amsler. 

Un'asta  rettilinea  AB  porti  a  un  estremo  A  una  rotella  E 
posta  in  un  piano  normale  ad  AB  e  girevole  intorno  al  suo 
centro  A.  Un  punto  0  della  retta  AB  sia  costretto  a  muo- 
versi su  una  linea  prefissata  L,  mentre  il  punto  B  descrive 
un  cammino  chiuso  f  posto  nel  piano  di  L,  e  l'asta  ritorna 
alla  posizione  iniziale.  In  tale  movimento  la  rotella  R  sia  ap- 
poggiata al  foglio  F  del  disegno,  e  compia  un  certo  numero  N 
di  giri.  Si  vuole,  conoscendo  N,  dedurne  l'area  racchiusa  da  f. 

A  seconda  della  forma  di  L,  cambia  il  nome  dato  al  pla- 
nimetro :  rettilineo,  se  L  è  una  retta  ;  polare,  se  X  è  un  cerchio  ; 
curvilineo  negli  altri  casi. 

Per  semplicità  occupiamoci  del  primo  caso,  supponendo  che: 

a)  Il  cammino  f  non  interseca  la  linea  (guida)  L; 

p)  Il  punto  C  sia  interno  al  segmento  AB. 

Supponiamo  dapprima  che  il  cammino  f  sia  composto  di 
segmenti  5  paralleli  alla  retta  L  e  di  archi  y  di  cerchi  col 
centro  su  L,  e  con  raggio  uguale  al  segmento  CB.  Quando  B 
descrive  un  5,  la  nostra  asta  non  muta  di  direzione  e  il  seg- 
mento GB  descrive  un  parallelogrammo  A;  quando  B  descrive 
un  Y,  la  nostra  asta  gira  di  un  angolo  cp,    e  il  segmento    CB 

1  — "^ 
descrive  un  settore  di  area  —  CB<^.  Ma,   poiché    alla    fine    del 

« 

movimento  l'asta  è  tornata  alla  posizione  iniziale,  la  somma 
degli  angoli  cp  percorsi  in  un  senso  è  uguale  alla  somma  degli 
angoli  cp  percorsi  nel  verso  opposto,  e  i  giri  eseguiti  corri- 
spondentemente dalla  B  in  un  verso  elidono  quelli  eseguiti  nel 
verso  opposto.  E  così  pure  i  settori  descritti  da  (75,  mentre 
l'asta  mota  in  un  verso,  hanno  complessivamente  un'area  uguale 
a  quella  dei  settori  descritti  da  CB^  mentre  l'asta  ruota  nel 
verso  opposto. 

Ricordando  questo,  è  facile  riconoscere  che  l'area  racchiusa 
da  r  vale  la  differenza  tra  le  aree  dei  parallelogrammi  descritti 
da  CB,  quando  B  descrive  un  segmento  B,  muovendosi,  p.  es., 
da  sinistra  a  destra,  e  quelli  descritti  da  GB,  quando  B  de- 
scrive un  segmento  5,  muovendosi,  p.  es.,  da  destra  a  sinistra. 
Quando  B  descrive  un  S,  Tasta  AGB  si  muove  parallelamente 


COMPLEMENTI   VARII  461 


a  sè  stessa,  e  l'esperienza  insegna  che  il  numero  dei  giri  com- 
piuti da  R  vale  la  distanza  d  tra  la  posizione  iniziale  e  finale 
della  sbarra  divisa  per  la  periferia  2  ^  r  di  i?  (se  r  è  il  raggio 
di  R),  cioè  vale  Tarea  del  parallelogrammo  descritto  dal  seg- 
mento  CB  divisa  per  la  costante  2nr.  GB. 

L'area  racchiusa  da  f  sarà  dunque  data  dal  numero  N 
totale  dei  giri  eseguiti  da  R  (che  possiamo  leggere  col  conta- 
giri) diviso  per  la  costante  strumentale  2nr.  CB.  Anzi  con 
opportuna  graduazione  si  può  leggere  senz'altro  il  numero 


'=N. 


2nr  .   CB 


Se  poi  fi  è  un  cammino  chiuso  di  forma  arbitraria,  lo  si 
può  pensare  come  limite  di  cammini  f  del  tipo  precedente.  E, 
poiché  l'esperienza  insegna  che,  se  dei  cammini  f  si  avvicinano 
indefinitamente  a  un  cammino  Pi,  allora  il  numero  corrispon- 
dente N  tende  al  numero  -?^i  di  giri  corrispondente  a  fi,  e  nei 
casi  comuni  l'area  racchiusa  da  fi  ha  per  limite  l'area  rac- 
chiùsa da  r,  se  ne  deduce  che  il  precedente  risultato  vale  per 
cammini  chiusi  F  in  generale. 


FINE. 


INDICE 

dei  riassunti  e  degli  esempi  più  notevoli. 

[I  numeri  si  riferiscono  alle  pagine  ;  i  numeri  aggiunti  talvolta  come  indici  danno 
il  numero  che  nel  testo  ha  l'esempio  citato] 


TABELLA 

Pagina 

delle  regole  di  derivazione  e  delle  derivate  delle  funzioni  elementari        204  e  seg. 

degli  integrali  indefiniti  fondamentali  244  e  seg. 

dei  metodi  di  integrazione 259 


ESEMPI  NOTEVOLI. 

Pagina 

Combinazioni  con  ripetizione .        57,2 

Formole  di  addizione,  ecc.  per  le  funzioni  goniometriche     .        .        56,3  »  «4  ^  ^'^lo 

Radici  w"^'"'' di  ±  1  per  w  ~  2,  3,  4,  5 572^  e  6I33 

Equazioni  di  quarto  grado 41 

Angolo  di  due  rette  sghembe 79, 

Determinanti  ortogonali  df^l  terz'ordine 8O2 

Determinanti  reciproci     .        .        .        .• 8O3 

Risultante  di  due  equazioni 54  e  89, 

Formola  d'intorpolazione  con  polinomii 48  e  90 

lim    -^ 151, 

lim    (14-— r     . 127, 

Interesse  continuo 127^ 

Area  di  un  rettangoloide  definito  da  un'iperbole  equilatera         .        .        .  128^ 

Teorema  di  de  l'Hòpital 200 

Interpolazione  (errore  commesso  nella  —  ) 201 

Criterio  di  convergenza  di  Cauchy 201 

Resto  di  Cauchy  e  teoremi  di  Bernstein  e  di  Pringsheim  per  la  serie  di 

Taylor 214  e  seg. 


464  INDICE   DEI   RIASSUNTI   E   DEGLI   ESEMPI,    ECC. 


Pagina 

Sviluppi  in   serie  di  C,  sen  x,  cos  x,  log  (1  4-  x),  (1  +  xy%  arct  x^  tt, 

arcsen  x .        .        .    216  e  seg. 

Principio,  di  Fermat  per  la  rifrazione  della  luce 2292 

La  curva  y  —  a  x'^ -^h  x^-\-c  x  ■¥  d  e  l'equazione  di  terzo  grado     .        .  233 

Istanti  in  cui  un  punto  mobile  ha  velocità  massima  o  minima    .        .        .  234 

Volume  dell'ellissoide 344 

Durata  dell'oscillazione  di  un  pendolo 266 

Integrazione  grafica 325 

Retta  tangente  ad  una  conica 285 

Area  di  un  settore  di  curva  in  coordinate  polari 312  ^ 

Prima  conseguenza  delle  leggi  di  Keplero 313 

Centro  di  gravità     .        . 330 

Spinta  idrostatica .        .  332,  345ii  e  405 

Volume  del  toro  di  rivoluzione 346, 

Centro  di  gravità  di  un'area  semicircolare  o  semiellitica     ....  346, , , 

Sezioni  della  pila  di  un  ponte 363 

Entropia;  curve  adiabatiche 367 

Equazione  Xj^-+- r^  =  0  .        .        .        .        .        .        .        .        .        368 

Equazioni  di  Eulero  per  le  funzioni  omogenee 369 

Equazioni  differenziali  notevoli  (Clairault,  BernouUi,  ecc.)   .        .        .     373  e  seg. 
Le  equazioni  differenziali  delle  curve  piane  a  curvatura  costante       .  375.,  e  3 

Teorema  del  Wronskiano         . 391, 

Equazioni  differenziali  lineari  alle  derivate  ordinarie  notevoli      .        .  392^  e  a 

Moti  vibratorii  semplici  0  smorzati  (formola  del  Thomson)  .        .        .      392^ 

Perimetro  dell'ellisse 402 

Area  della  sfera 407 

Centro  di  gravità  di  una  semicirconferenza   .......       408 

Fenomeni  periodici  (loro  decomposizione  in  fenomeni  elementari)        .        .       451 

Brachistocrona 452 

Curva  d'area  massima 454 


INDICE 


CAPITOLO  I. 
NUMERI    REALI. 

Pag. 
§     1.  —  Numeri  razionali  positivi     .........         1 

§     2.  —  Numeri  irrazionali       ..........         6 

§     3.  —  Lìmite  superiore  e  inferiore.  Operazioni  sui  numeri  positivi    .         .         8 
§     4.    —  Numeri  reali         ...........       12 

CAPITOLO  II. 
APPLICAZIONI  GEOMETRICHE. 

Pag. 
§     5.  —   Misura  (algebrica)  degli  angoli  .    *     .         .         .         .         .         ,         .10 

§     ^\  —  Coordinate  di  un  p>unto  di  una  retta  .         .         .         .         .         .         .19 

§     7.  !—  Aree  e  volumi       .         .         .         .         .         .       '  .         .         .         .         .       21 

CAPITOLO  III. 
I  NUMERI  COMPLESSI. 

Pag. 

§     8.  —   Coordinate  di  un  punto  nel  piano        .......       27 

§     9.  —  Definizione  di  numero  complesso  e  delle  operazioni  sui  numeri  com- 
plessi     ............       29 

§  10.  —  Equazioni  di  2",  5*^  e  4o  grado  . .37 

CAPITOLO  IV. 
POLINOMII  ED  EQUAZIONI  ALGEBRICHE. 

Pag. 

§  IL  —  Calcolo  combinatorio.  Prodotti  di  binomii  e  formola  del  binomio      .  42 

§  12.  —  Divisione  di  due  polinomii .........  44 

§  13.  —  Regola  di  Ruffini         ..........  46 

§  14..  —  Relazioni  tra  coefficienti  e  radici  di  un  equazione  algebrica      .         .  48 

§  15.  —  Radici  razionali  di  un  equazione  a  coefficienti  razionali   ...  51 

§  16.  —   Polinomii  a  coefficienti,  reali .  52 

§  17.  —  Sistemi  di  equazioni  algebriche 53 

30  —  G.  FuBiNi,  Analisi  matematica. 


466 


INDICE 


CAPITOLO  V. 
DETERMINANTI,  SISTEMI  DI  EQUAZIONE  DI  PRIMO  GRADO. 

Pag. 

§  18.  —  Matrici  .         .         .         .         .         .         .         .         -         .         .         .62 

§  19.    —  Definizione  di  determinante  ........       64 

§  20.  —  Proprietà  di  un  determinante      ........       69 

§  21.  —  Altre  proprietà  di  un  determinante     ......  .72 

§  22.  —  Prodotto  di  due  determinanti       ........       74 

§  23.  —  Il  determinante  di  Vandermonde  e  il  discriminante  di  un'equazione 

algebrica.  Separazione  delle  radici  di  una  tale  equazione  .       76 

§  24.  —  Sistemi  di  equazioni  lineari.  Teorema  ^preliminare    .         .         .         .81 

§  25.  —  Regola  di  Leibniz- Cramer   .........       83 

§  26.  —  Regola  di  Rauche         .         .         .         .         .         .         .         .         .         .86 

§  27.  —  Sistemi  di  equazioni  lineari  omogenee         ......       88 


CAPITOLO  VI. 
FUNZIONI,    LIMITI 


§  28.   —  Irdervalli,  intorni 

§  29.    —  Funzioni;  funzioni  di  funzioni 

§  30.  —  Rappresentazione  grafica  delle  funzioni 

§  31.  —  Esempi  preliminari  di  limiti  ' 

§  32.  —  Limiti   ..... 

§  33.  —  Funzioni  complesse  e  loro  limiti 

§  34.  —  Ricerca  del  lim  p^ 
a;  «=  OD 

§  35.  —  Primi  teoremi  sui  limiti 

§  36.  —  Funzioni  continue 

§  37.  —   Un  limite  fondamentale 

§  38.  —   Un  altro  limite  fondamentale 

§  39.  —  Alcune  applicazioni 

§  40.  -  Proprietà  fondamentali  delle  funzioni  conti 

§41.  —  Funzioni  di  più,  variabili     .         .         . 


Pag. 

94 

95 

97 

102 

105 

111 

112 

113 
117 
121 
123 
130 
134 
137 


CAPITOLO  VII. 
SERIE. 


Pag. 
§42.  —  Definizioni  e  primi  teoremi  ........     140 

§  43.  —  Serie  a  termini  positivi 143 

§  44.  —  Cambiamento  nell'ordine  dei  termini  di  una  serie  a  termini  positivi  148 
§  45.  —  Serie  a  termini  negativi  e  positivi.  Serie  a  termini  complessi  .  .  149 
§  46.  —  Serie  di  funzioni . .     152 


INDICE  467 


CAPirOLO  vili. 
DERIVATE,  DIFFERENZI  ALI. 

Pag. 
§  47.  —    Velocità   ad   un    istante,   velocità   di  reazione,   intensità   di  corrente, 

coefficiente  di  dilatazione,  calore  specifico     .....     155 

§  48.  —  Betta  tangente  a  una  curva .     159 

§  49.  —  Derivata 161 

§  50.  —  Estensione  alle  funzioni  complesse 168 

§  51.  —  Derivate  fondamentali 169 

§  52.  —  Infinitesimi  e  infiniti    .         ,         .         .         .         .         .         .         .         .171 

§  53.  —  Differenziali 175 

§  54.  —  Metodi  abbreviati  di  esposizione  .         .         .         .         .         .         .         .     177 

§  55.  —  Derivazione  di  una  somma  . .178 

§  56.  —  Derivata  del  prodotto  di  due  o  piii  funzioni       .....     179 

§  57.  —  Derivata  del  quoziente  di  due  funzioni        ......     181 

§  58.  —  Regola  di  derivazione  delle  funzioni  inverse       .....     182 

§  59,  —  Derivazione  delle  funzioni  di  funzioni         ......     186 

§  60.  —  Derivata  logaritmica    .         .         .         .         .         .         .         .         .         .188 

§61.  —  Derivate  successive       .         .         .         .         .         .         .         .         .         .     191 

CAPITOLO  IX. 

EOREMI  FONDAMENTALI  SULLE  DERIVATE 
E  LORO  PRIME  APPLICAZIONI. 

Pag. 
§  62.  —  Proprietà  fondamentali  delle  derivate  .         .         .         .         .         .     193 

§  63.  —  Prime  applicazioni  del  teorema  della  media       .....     197 

§  64.  —  Radici  multiple  di  una  equazione ,     203 

§  65    —  Derivazione  per  serie 2Ó6 

CAPITOLO  X. 
SERIE   DI    POTENZE. 

Pag. 

§  66.  —  Cerchio  di  convergenza .         .         ,     207 

§  67.  —  Derivate  di  una  serie  di  potenze  .......     209 

§  68.  —  Formale  di  Mac-Laurin  e  di  Taylor 210 

§  69.  —  Sviluppabilità  di  una  funzione  in  serie  di  jìotenze     ....     212 

CAPITOLO  XI. 
MASSIMI,    MINIMI,    FLESSI. 

Pag. 
§  70.  —  Massimi  e  minimi  (relativi)  .  .  .  ,  .  ,  .  ,  223 
§  71.  —  Concavità,  convessità,  flessi .........     230 

§  72.  —  Metodo  di  Newton- Fourier 234 

§  73.  —  Alcune    osservazioni    relative    alla    risoluzione    approssimata    delle 

equazioni  algebriche 237 


468 


INDICE 


CAPITOLO  XII. 
INTEGRALI. 

Pag. 

§  74.  —  Primi  teoremi       .         .         .         .         .         .         .         .         .         .         .  239 

§  75.  —  Regole  generali  di  integrazione    ........  246 

§  76.  —  Integrazione  delle  frazioni  razionali    .......  250 

§  77.  —  Integrazione  di  alcune  funzioni  trascendenti  o  irrazionali          .         .  255 

§  78.  —  Integrali  singolari         ..........  260 

§  79.  —  Integrazione  per  serie  ..........  264 

CAPITOLO  xm. 

CALCOLO  DIFFERENZIALE  PER  LE  FUNZlOxM  DI  PIÙ  VARIABILI 

Pag. 

§  80.  —  Continuità.  Derivate  parziali       ........     268 

§  81.  —  Teorerìih  della  inedia  per  funzioni  di  due  o  piti  variabili         .         .     272 

§  82.  —  Differenziali 274 

§  83.  —  Derivate  delle  funzioni  di  funzioni  {Funzioni  composte)     .         .         .275 

§  84.  —   Funzioni  implicite        .         .         .         .         .         .         .         .         .         .279 

§  85.  —  Generalizzazioni   ...........     285 

§  86.  —  Formala  di  Taylor- Lagrange  per  le  funzioni  di  due  variabili         .     290 

§  87.  —  Massimi  e  minimi  delle  funzioni  di  due  o  più,  variabili  .         .         .     291 


CAPITOLO  XIV. 

PRIMA  ESTENSIONE  DEL  CALCOLO  INTEGRALE 
ALLE  FUNZIONI  DI  PIÙ  VARIABILI. 


§  88.  —  Considerazioni  preliminari  . 

§  89.  —  Derivazione  sotto  il  segno  dHntegrale 

§  90.  —  Differenziali  esatti  in  due  variabili 

§  91.  —  Integrali  curvilinei 

§  92.  —  Differenziali  in  tre  variabili 

§  93.  —  Cenno  di  un  problema  analogo  ai  precedenti 


Pag. 
295 
296 
298 
302 
305 
306 


§94.  - 

§  95.  - 

§  96.  - 
§  96  bis. 

§  .97.  - 

§98.  - 

^  99.  — 


CAPITOLO  XV. 

GLI  INTEGRALI  DEFINITI 
E  LE  FUNZIONI  ADDITIVE  D'INTERVALLO. 

Pag. 
Funzioni  additive  d'intervallo  e  loro  derivate  ....     308 

Illustrazioni  varie  .  .  .  .  .  •  .  -  .  .311 
Alcune  somme  fondamentali  .         .         .         .         ■  .313 

—  Il  metodo  dei  rettangoli  per  il  calcolo  approssimato  degli  integrali 

definiti  313 

Generalizzazioni  del  concetto  di  integrale.  L'integì-ale  di  liiemann  319 
Il  metodo  dei  trapezi  per  il  calcolo  approssimato  degli  iìitegrali  definiti  320 
Metodi  e  locuzioni  abbreviate   ........         326 


INDICE  469 


CAPITOLO  XVI. 
FUNZIONI  ADDITIVE  GENERALI  E  INTEGRALI  MULTIPLI. 

Pag. 
§  100.  —  Funzioni  additive  e  loro  derivate       .         .         .         .         .         .         .     330 

§  101.  —  Estensione  dei  principali  teoremi  del  calcolo  differenziale         .         .     332 
§  102.  —  Generalizzazione  dei  teoremi  fondamentali  del  calcolo  integrale  .     .     335 
§  103.  —  Calcolo  di  un  iìitegrale  superficiale   .......     337 

§  104.  —  Interpretazione  geometrica.         ........     340 

§  105.  —  Dimostrazione  rigorosa  dei  risultati  precedenti  .         .         .         .341 

§  106.  —    Volume  di  un  solido  di  rotazione  e  teorema  di  Guidino  .         .         .     345 

CAPITOLO  XVII. 

CAMBIAMENTO  DI  VARIABILI  NELLE  FORMOLE  DEL  CALCOLO 
DIFFERENZIALE  E  INTEGRALE. 

Pag. 
§  107.  —  Esempi  di  cambiamento  di  variabili  in  formole  di  calcolo  differenziale  347 
§  108.  —  Cambiamento  della   variabile   d'' integrazione  negli  integrali  degniti 

o  multipli.  Integrali  superficiali  in  coordinate  polari  .         .         .     350 
§   108  bis.  —  Integrali  superficiali  in  coordinate  generali        .         .         .         .355 

CAPITOLO  XVIII. 

EQUAZIONI  differi:nziali. 

ag. 

§  109.  —  Considerazioni  e  definizioni  fondamentali          .....  357 
§  110.  —  Equazioni   differenziali,   la  cui   integrazione  è  ridotta  a   quella   di 

un  differenziale  esatto 359 

§  111.  — ■  2'ipi  particolari  di  equazioni  differenziali         .....  369 

§  112.  —  Teorema  di  Cauchy  e  integrazione  per  serie     .         .         .         .         .376 

§  113.  —  Primi   tipi  di  equazioni  lineari   alle   derivate    ordinarie  a   coeffi- 
cienti costanti          ..........  379 

§  114.  —  Primi  teoremi   sulle  equazioni    differenziali    lineari   (alle   derivate 

ordinarie)        . 381 

§  115.  —   Un  lemma 382 

§  116.  —  Nuovi  teoremi  sulle  equazioni  lineari  alle  derivate  ordinarie  .         .  384 

§  117.  —  Equazioni  lineari  omogenee  a  coefficienti  costanti     ....  386 

CAPITOLO  XIX. 

ALCUNE     APPLICAZIONI     GEOMETRICHE 
DEL  CALCOLO  INFINITESIMALE. 

Pag. 

§  118.  —  Tangente  ad  una  curva  gobba 396 

§  119,  —  Piano  tangente  ad  una  superficie 397 

§  120.  —  Lunghezza  di  un  arco  di  curva  sghemba  ......  399 

§  121.  —  Area  di  una  superficie  sghemba  ed  integrali  estesi   ad  una   super- 
ficie sghemba  ...........  403 

§  122.  —  Area  di  una  superficie  di  rotazione   .         .         .         .         .         .         •  405 


470  INDICE 


Pag. 

§  123.  —  Piano  osculatore  ad  una  curva  sghemba   .         .         .         .         .         .     408 

§  124.  —  Cerchio  osculatore       .         .         .         .         .         .         .         ,         .         .410 

§  125.  —  Inviluppi  di  una  schiera  di  curve     .......     416 

§  126.  —  Curvatura  e  torsione  di  una  linea  sgliemba       .         .         .         .         .     420 


CAPITOLO  XX. 

INTEGRALI  CURVILINEI  E  SUPERFICIALI. 

Pag. 

§  127.  —  Integrali  curvilinei  e  potenziale  -  Prime  definizioni         .         .         ,  426 

§  128.  —  Trasformazione  di  integrali  curvilinei  nel  piano      .         .         .         .  431 

§  129.  —  Integrali  superficiali .         .         .         .  435 

§  130.  —  Il  teorema  di  Stokes 437 

§  131.  —  Differenziali  esatti  e  potenziale          .         .         .         .         .         .         .  439 

§  132.  —  Trasformazione  degli  integrali  doppii        ......  440 

CAPITOLO  XXI. 
COMPLEMENTI  VARII. 

Pag. 

§133.  —  Le  serie  di  Fourier  ..........  444 

§  134.  —  Elementi  del  calcolo  delle  variazioni 449 

§  135.  —  Alcune  funzioni  di  variabile  complessa      .         .         .                 .         .  455 

§  136.  —  Integrazione  meccanica 456 

Indice  dei  riassunti  e  degli  esempi  più  notevoli         .        .        .        .  463 


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