BERKELEY
LIBR-
UNIVERSITY OF
CALIFORNIA
'^'
xs^''--
"*,
■ '^v
LEZIONI DI ANALISI MATEMATICA
Professore ordinario del B. Politecnico di Torino
LEZIONI
DI
ANALISI MATEMATICA
Quarta edizione interamente rifusa.
s -T. e:, m.
SOCIETl TIPOGRAFIGO-EDITRICE NAZIONALE
(già : lloux e Viarengo - Marcello Capra - Angelo Pauizza)
■ Torino, 1920.
Pt(lNTED IN ITALY
TUTTI I DIRITTI
DI RIPRODUZIONE, DI TRADUZIONE, D'ADATTAMENTO E d'eSECUZIONE
SONO RISERVATI PER TUTTI I PAESI
Copyright 1913, 1915, 1920, by the Società Tipografico-Editrice Nazionale (S.T.E.N.) — Tnrln
Comm. M. J. i ontana
Libraiy
(H204)
PREFAZIONE
Ecco in questo libro riassunte le lezioni che svolgo al
Politecnico di Torino. Nel redigerlo sono partito dalla convinzione
che l'insegnamento teorico conserverà l'importanza, che merita,
soltanto quando lo si sfrondi di tutto quanto è formale, oppure
d'importanza soltanto teorica. La tecnica ha bisogno di concetti
matematici, ma non ha per niente bisogno, per es., della concezione
più generale degli enti, che possiamo chìsundive punto o funzione,
0 della teoria delle funzioni a derivata non integrabile.
Ridurre perciò le teorie esposte alla parte essenziale ; sce-
gliere le dimostrazioni piii facili ; dimenticare, per quanto
possibile, ogni considerazione di indole prevalentemente critica ;
dare il massimo sviluppo ai procedimenti induttivi, o di intuizione
a priori; ricordare che il libro è destinato a giovani, per cui
la matematica è mezzo, e non fine ; illustrare pertanto le varie
teorie con esempi suggeriti anche dalla fisica e dalla meccanica :
ecco lo scopo prefissomi : Il lettore dirà se io Tho raggiunto !
Ho ridotto in questa ultima edizione il numero degli esempi
ed esercizi, perchè essi meritavano uno sviluppo maggiore : ad
essi il Prof. Vivanti ed io abbiamo dedicato una pubblicazione
a parte. L'ordine dei capitoli mi è stato suggerito dalle esigenze
del Corso di Meccanica, che richiede svolti al più presto i prin-
cipii del calcolo integrale, e possibilmente della teoria delle
equazioni differenziali. Ma senza alcun danno per la facile lettura
dell'opera si potrebbe mutare ])rofondamente l'ordine dei varii
Capitoli: Così, per es., si potrebbero invertirei Capitoli 12 e 13,
oppure i Capitoli 13, 14, oppure i Capitoli 18, 19, e così via.
Nelle successive edizioni il libro è stato quasi completamente
rifatto. Ho continuato l'opera di semplificare le dimostrazioni in
quasi tutti i Capitoli del libro, di scegliere esempi semplici
548^r53
vili PREFAZIONE
fuori dairamì5ito delle matematiche pure, di illustrare quelle che io
chiamo: locuzioni abbreviate, così comode nelle scienze applicate,
che ricorrono al Calcolo. Ho ridotto ancora piii i Capitoli. dedicati
alle equazioni algebriche, cercando di fondere, per quanto possibile,
le teorie algebriche con le infinitesimali. Nelle ultime due edizioni,
oltre a molti cambiamenti particolari, ho rifatto la trattazione
della teoria dei determinanti ; ho portato nell'Appendice il para-
grafo sulla decomposizione delle frazioni razionali, perchè in
questo libro a tale teoria non si ricorre mai, neanche per la
ricerca degli integrali indefiniti.
Per quanto riluttante a introdurre nella scuola idee che non
siano di primissima importanza, mi sono occupato dei limiti
superiore ed inferiore di una classe di numeri, della teoria gene-
rale delle serie di potenze, e, ciò che può costituire una novità
per un libro elementare, delle funzioni addittive di insieme. Spero
però che i metodi seguiti, nuovi per la massima parte, sieno
trovati così semplici e spontanei da rendere questi nuovi capitoli
utili a una piii facile lettura dell'opera complessiva e all'esatta
intelligenza dei principii fondamentali del calcolo.
In questa 4* edizione sono state intercalate in carattere
piccolo molte osservazioni di indole critica; cosicché la differenza
fra gli argomenti svolti per lunga tradizione nei nostri primi
biennii universitari e quelli di cui qui ci occupiamo sono soltanto
i eguenti :
a) minore estensione data alla teoria delle equazioni
algebriche (a cui l'esperienza dell'insegnamento mi ha provato pre-
feribile sostituire lunghe esercitazioni di matematica elementare);
b) quasi nessun sviluppo alla definizione di integrali di
Riemann (che oramai, dopo gli studii del Lebesgue, ha soltanto
un valore storico anche per il matematico puro);
e) minore sviluppo alla teoria delle equazioni differenziali,
che nei corsi di calcolo assume troppo sovente l'aspetto di un
lungo elenco di artifici.
Possa pertanto questo volume essere ancora giudicato non
difficile dai giovani cui è destinato; ed essere trovato accettabile
anche da un teorico puro !
CAPITOLO I.
NUMERI REALI
§ 1. — Numeri razionali positivi.
L'aritmetica dopo i numeri interi positivi [il cui studio risolve
completamente il problema di contare] considera i numeri fratti
positivi, che insieme ai numeri interi risolvono in qualche caso
il problema della misura C). Se noi, per fissare le idee ci rife-
riamo ai segmenti, e ne scegliamo uno determinato M come
unità di misura (potremo dire come metro) noi diciamo che
un altro segmento N è uguale ad — di M, o anche che N ha
m
n n
per misura — ' o anche che il rapporto di ^ ad If vale —
m "^ ni
(*) Nelle scienze più svariate si presenta il problema della misura delle gran-
dezze di una certa classe G. Affinchè tale problema abbia senso, è necessario che,
date due grandezze a, h distinte o no di 6r, si possa dire sempre quando a > b,
oppure a = &, oppure a < b. E questi simboli >,=,< dovranno essere definiti in
modo che a — a; che, se a > b, sia b < a; che, se a — b, h = c sìa a = c, ecc.
Date due o più grandezze distinte o no di G, si deve poter definire la loro somma
in guisa che a + h = h-\- a; a-h(b-i-c) = a-hh -f-c. Si potranno così definire
i multipli di una qualsiasi grandezza a; e dovrà valere il postulato di Archimede
che, se b è un'altra qualsiasi grandezza di G, esista un multiplo di a che sia
maggiore di h. E dovranno anche esistere tutti i sottomultipli di una grandezza
qualsiasi di (r. La somma di più grandezze di G dovrà essere non minore di ogni
suo addendo, ecc. ecc.
Se una classe G di grandezze gode delle precedenti proprietà, per essa si potrà
porre il problema della misura. Tali, ad esempio, sono la classe delle lunghezze dei
segmenti, la classe delle grandezze degli angoli ; e queste classi sono specialmente
semplici, perchè l'uguaglianza delle lunghezze di due segmenti, o dell'ampiezza di
due angoli si riduce all?i sovrapponibilità di tali segmenti o di tali angoli. Più
complesse sono altre classi di grandezze (aree delle figure piane, volumi o pesi dei
1 — G. FuuiNi, Analisi matematica.
CAPITOLO I — § 1
(dove con n, m sono indicati interi positivi), se N èldù somma
di n segmentini uguali 5, ciascuno dei quali è la m*"'"" parte
di M (cioè if è la somma di m segmenti uguali a B). E la
definizione di uguaglianza di due numeri fratti (si pone — = —
m q
se nq = mp) è scelta appunto in modo tale che, se un segmento N
ha per misura tanto la frazione — ? quanto l'altra "^? allora
n q
le due frazioni siano uguali (*).
A tutti è nota poi quale importanza abbia (specialmente per
i calcoli numerici) la trasformazione di una frazione in un
numero decimale. Quando noi scriviamo, p. es.
1=0,2; ^ = 0,02; f=M
noi intendiamo soltanto di scrivere in altro modo le ugua-
glianze :
5—10' 50 ~" 100' 5 ~" 10'
* 1 1 6
In altre parole noi abbiamo trasformato le frazioni i;r' ^' t"
5 50 5
in altre, il cui denominatore è il numero 10, od una delle sue
potenze 10^ = 100, 10' = 1000, ecc.
corpi solidi, ecc.). Se noi scegliamo, per fissar le idee, il problema della misura delle
lunghezze dei segmenti come problema iniziale, dobbiamo in sostanza definire dei
simboli {numeri) e definire le proprietà di questi simboli in guisa che a segmenti
di ugual lunghezza corrisponda lo stesso numero, che a ogni numero corrisponda
un segmento, che a segmento di lunghezza maggiore corrisponda numero maggiore,
che a un segmento a somma di due segmenti |5, y corrisponda una misura somma
delle misure delle lunghezze di ^ e y, ecc. Il problema analogo per ogni altra classe
di grandezze si propone di definire una corrispondenza, dotata di proprietà analoghe,
tra le grandezze considerate, e i numeri precedentemente definiti. E' noto che tale
problema della misura ammette (se risolubile) infinite soluzioni: una delle quali si
definisce fissando la grandezza unitaria (unità di misura), cioè la grandezza a cui
si farà corrispondere il numero 1.
Per certe grandezze orientate (debiti e crediti, altezza sopra 0 sotto il livello
del mare, ecc.) si pone pure un analogo problema della misura: il quale richiede
però la considerazione dei numeri negativi.
(*) Si dice poi che — < ^ e -^ > — se w ^ < mi9. In tal caso il segmento
m q q ^ m ^^x-
n f)
che ha — per misura è minore del segmento, la cui misura vale — .
NUMERI REALI 3
Sarà però qui opportuno (per analogia con quanto segue)
scrivere ogni numero decimale limitato come un numero decimale
illimitato (con infinite cifre decimali) scrivendo :
— = 0,2000000... ; ^ = 0,020000... ; 4" = 1,200000... ;
5 50 5
ciò che, per note convenzioni, non muta il significato delle pre-
cedenti uguaglianze.
Di significato assai più riposto sono le uguaglianze tra un
numero fratto generico, e il corrispondente numero decimale (che
è 0 periodico, o periodico misto), quali, ad es., le uguaglianze:
4 = 1,3333
o
— = 1,0333
30
che possiamo considerare insieme alle analoghe :
-^ = 1 =0,9999
i-=z: 0,2 = 0,19999
5
4
Per es. la — =1,333 ci dice che il segmento N, la
o
. 4 .
CUI misura e — ? e compreso :
3
a) tra i segmenti aventi per misura 1 o 2 ;
P) tra i segmenti aventi per misura l,3el, 34-0,1 = 1, 4;
Y) tra i segmenti aventi per misura 1,33 e
1,33 -+- 0,01 = 1,34, ecc.
4
In altre parole il segmento N di misura — contiene una
volta, e non due volte il segmento M,
Se da N sottraggo M il massimo numero di volte possibile
(una volta), nel segmento residuo Ni la decima parte di if è
contenuta tre volte e non quattro volte. Se da JS^i sottraggo il
massimo numero di volte possibile (tre volte) la decima parte
di M, nel segmento residuo ^2 la centesima parte di if è con-
tenuta tre volte e non quattro volte, e così via.
CAPITOLO I — S 1
(1)
4
In altre parole la — = 1,333. ... equivale alle seguenti
disuguaglianze
l<|-<2 •
M<|-<i,3+^ = M
1,33 <|< 1,33 + ^=.1,34
1,333 <4-< 1.333 + -i- = 1,334, ecc.
' 3 ' 1000 ' '
Osservazioni perfettamente analoghe valgono per la
^ = 1,0333..., ecc.
Anzi queste osservazioni ci permettono di dare un metodo per
P
sviluppare in numero decimale un numero fratto generico ^^- Se N
è, p. es., il segmento, di cui ^^ è la misura, si sottragga da N
il numero massimo possibile n di volte il metro M, Questo massimo
numero ^ è la parte intera dello sviluppo. Dal segmento residuo ^i
si sottragga il massimo numero possibile Ui di volte la decima
parte di M, Questo intero Ui sarà la prima cifra decimale dello svi-
luppo. Dal segmento residuo N2 si sottragga il massimo numero
possibile ^2 di volte la centesima parte di M. Il numero n^ sarà
la seconda cifra decimale del cercato sviluppo. E così via.
Analogo, ma leggermente distinto, è il significato delle
i- = 0,2000000 ; \ — 0,19999
La prima di queste significa che :
0 ^\-<0 + 1 = 1
5
0,2 ^-g-< 0,2 4-^ = 0,3
0,20^y<0,20 + ^ = 0,21
0,200 ^ -^ < 0,200 + -i- = 0,201, ecc.
5 1000
(2)
NUMERI REALI
La seconda significa che :
0<-^^0-f-l = l
5
0,l<-^^0,H--^ = 0,2
' '' ) (3)
049 < 1-0,19 + ^ = 0,20
0,199 <~ ^ 0,199 4- -i- = 0,200, ecc.
5 1000
E a tutti evidente l'analogia tra le (1), (2), (3). Unica dif-
ferenza è la seguente: In ciascuna delle (1) compare due volte
il segno <. Nelle (2) il primo dei segni < è sostituito da un :^;
nelle (3) il secondo dei segni < è sostituito da ^.
E ciò perchè il numero — è uguale al numero decimale
5
limitato 0,2 = 0,20 = 0,200 = ... ; il quale compare, a partire
da una delle (2) o delle (3) in poi, nei primi membri delle (2),
nei secondi membri delle (3).
Un fatto analogo si presenta per ogni numero, che sia uguale
a un numero decimale limitato. Così, p. es.:
0,52 = 0,520000 = 0,51999
perchè, per nota convenzione aritmetica, si considerano come
uguali due numeri decimali l'uno formato da certe cifre seguite
da infiniti zeri, l'altro formato dalle stesse cifre (tranne l'ultima
cifra non nulla, che viene diminuita di 1) seguite da infiniti 9.
Per tali sviluppi decimali valgono disuguaglianze analoghe alle
(2), (3), mentre per ogni numero decimale, che non sia del tipo
ora studiato, valgono disuguaglianze analoghe alle (1). I primi
numeri si possono scrivere in due modi distinti sotto forma di
numero decimale; i secondi si possono scrivere in un sol modo
come numeri decimali.
Diremo che due numeri a, ^ sono uguali fino alla ^i^'™* cifra
decimale, se la parte intera e le prime n cifre dopo la virgola
nello sviluppo decimale di a (o in uno dei due sviluppi di a,
se a ammette due sviluppi decimali) sono uguali alla parte intera
ed alle prime n cifre dopo la virgola nello sviluppo, o in uno
dei due sviluppi del numero ^.
CAPITOLO I — § 1-2
Così, p. es.:
M = M31313 ; J-|| = 0,131131
sono uguali fino alla terza decimale.
Si noti che, secondo tale convenzione, p. es. :
-i-= 0,1111 e |- = 0,2222
9 9
pure non avendo la prima decimale comune, sono entrambi
uguali fino alla prima cifra decimale con
-^ = 0,1999 = 0,2000
5
Notiamo che:
La lunghezza di un segmento N commensurabile con M
(cioè la cui misura è un numero fratto) ha una misura e una
sola, che si può scrivere sotto forma di numero decimale
(periodico). E viceversa ogni numero decimale periodico è misura
della lunghezza di un segmento N commensurabile con M, e dei
segmenti ad esso sovrapponibili, ma di nessun altro segmento.
Se Ni, N2 S0710 segmenti commensurabili con M, altrettanto
avviene del segmento somma Ni -4- N2 ; il quale, come è noto,
ha per misura la somma delle misure dei segmenti Ni, N2.
Se Ni è il pile grande dei due segmentigli, N|s, la misura
di Ni è maggiore di quella di N2 e viceversa. (È detto per brevità:
misura di ^1 anziché misura della lunghezza di Ni),
§ 2. — Numeri irrazionali.
Come è ben noto, le precedenti considerazioni e i precedenti
risultati sono stati estesi anche ai segmenti N incommensurabili
con M (p. es. alla diagonale del quadrato, il cui lato è M),
Anche per tali segmenti si è definita la misura che è un numero
che ancora gode delle proprietà testé enunciate.
Se ^ é un tale segmento, si sottragga da Nìì massimo numero
possibile p di volte il metro M [cioè p M < N < (p -h 1) M].
Dal segmento residuo Ni si sottragga il massimo numero pos-
sibile ni di volte la decima parte di M. Dal segmento residuo ^2
si sottragga il massimo numero n2 di volte la centesima parte
ài M e così via.
NUMERI REALI
Il simbolo p, 71x712 n^ ottenuto scrivendo dopo l'intero p
successivamente le cifre ni, 712, n^, si chiama numero irra-
zionale, e si assume come misura di iV. Esso è un numero
decimale illimitato non periodico (perchè altrimenti N sarebbe
commensurabile con M),
Ogni segmento N determina così la sua misura; segmenti
uguali hanno misure uguali.
Viceversa due segmenti aventi misure uguali sono uguali.
Infatti, se t^ è un intero qualsiasi, i due segmenti conten-
gono lo stesso numero di volte la (10")'*^"''' parte di If (cioè il
segmento 6 ottenuto dividendo M m IO"" parti uguali). La dif-
ferenza B dei due segmenti dati non può perciò superare 6; e
ciò, qualunque sia n. Ma, se B non è zero, io posso prendere n
così grande che 6 < h {^). Ciò che contraddirebbe al già dimo-
strato. Quindi S = 0, e i due segmenti sono uguali.
Il postulato della continuità della retta ci assicura poi che:
Ogni numero decimale limitato 0 no è misura di un seg-
mento N (e soltanto dei segmenti uguali a questo).
Vi è dunque una corrispondenza biunivoca tra i segmenti N
di una retta ed i numeri razionali 0 no (quando segmenti uguali
si considerino come non distinti).
Tutti i numeri fin qui definiti diconsi positivi.
Di due numeri (razionali 0 irrazionali) positivi disuguali si
dice naturalmente maggiore quello che misura segmento maggiore.
E facile trasformare questa definizione. Se, per semplicità,
escludiamo i numeri le cui cifre decimali sono da un certo punto
in poi tutte uguali a nove, sostituendoli con altri, le cui cifre
decimali sono da un certo punto in poi tutte uguali a zero,
troviamo, come è ben noto:
U numero p è maggiore del numero q se
V la parte intera di p supera la parte intera di q
oppure, se
2* le parti intere di p, q sono uguali, ma la prima cifra
decimale di p supera V omologa di q oppure, se
3^ i numeri p, q, sono legnali fino alle n®^'"** cifra decimale,
ma la (n -h i)®"'"* cifra decimale di p supera l'omologa di q.
Non insistiamo sulle altre ben note proprietà delle disu-
guaglianze.
Secondo le nostre convenzioni, il numero non è che un simbolo per indicare
il rapporto di due grandezze di una stessa classe di grandezze (per cui si può porre
il problema della misura). Cosicché al numero e all'algebra dei numeri potremmo
(*) E ciò in virtù del postulato di Archimede.
8 CAPITOLO I — § 2-3
in fondo sostituire il concetto di un tale rapporto e l'algebra dei rapporti. E come
simbolo per indicare un rapporto, p. es., delle lunghezze di due segmenti potremmo
addirittura assumere una figura composta con due segmenti uguali ai segmenti dati.
Ognuno capisce quanto ciò sarebbe incomodo; e lo studio dei rapporti, così
come ha svolto Euclide, indica già quanta complicazione ne verrebbe alla teoria.
Ma non è detto che i simboli da noi introdotti sieho gli unici possibili. Che
si possano mutare è ben evidente. Basta, p. es., pensare che nel nostro sistema
(decimale) di numerazione il numero 10 (il numero delle dita delle due mani) ha
un posto preponderante. Se noi gli sostituissimo un altro numero (è stato già pro-
posto il numero 12) come base del sistema di scrittura dei numeri, sarebbe già
cambiato il nostro simbolismo.
Osservazione critica. — Il presente modo di esporre la teoria dei numeri
irrazionali, per quanto molto semplice sotto molti riguardi, ha però l'inconveniente
che la definizione pare dipenda appunto dal numero 10 scelto a base del nostro
sistema di numerazione. Bisognerebbe perciò definire l'uguaglianza di due numeri
(che avessero anche infinite cifre dopo la virgola) scritti in due differenti sistemi
di numerazione: ciò che del resto non presenterebbe alcuna difficoltà. Se p. es. si
ammettesse di ricorrere alla misura dei segmenti, due taU numeri si direbbero uguali,
quando sono misura di segmenti uguah. E sarebbe anche molto facile trasformare
questa proprietà in una proprietà equivalente di carattere puramente aritmetico.
§ 3. — Limite superiore e inferiore.
Operazioni sui numeri positivi.
a) Sia G una classe di numeri n positivi. Cerchiamo, se esiste,
il più grande di questi numeri, che noi indicheremo con N,
Evidentemente la parte intera di N dovrebbe essere la più
grande delle parti intere dei numeri ìi. Distinguiamo due casi:
A) Tra le parti intere dei numeri n non ve n'è alcuna
che sia più grande di tutte le altre; cioè, preso ad arbitrio
an intero K, esiste almeno un numero ?^ di G, la cui parte
intera è uguale o maggiore di K. In tal caso diremo che -h oo è
il limite superiore dei numeri n di (r ; frase che è soltanto un
modo di dire e che non vuole introdurre affatto l'infinito come
nuovo ente o numero. Si suole anche dire che -f- co è maggiore
di ogni numero (frase che anch'essa è soltanto un modo di dire).
In questo caso A la classe G non contiene un numero massimo
(maggiore di tutti gli altri). Esempi di questo tipo sono le classi
di tutti gli interi, o di tutti gli interi pari.
B) Tra le parti intere dei numeri n di ^ ve ne è una
massima; esiste cioè un intero m, tale che almeno un numero
n di G abbia m come parte intera, ma nessun numero di G
abbia parte intera maggiore di m. In questo caso sia nii la
massima prima cifra decimale di quei numeri di (/, che hanno m
come parte intera; sia m^ la massima seconda cifra decimale
di quei numeri di (?, che hanno m per parte intera ed mi per
NUMERI REALI
prima cifra decimale; sia m^ la massima terza cifra decimale
di quei numeri di G, che hanno m per parte intera ed mi , m2
rispettivamente come prima e seconda cifra decimale. E così via.
Noi chiameremo limite superiore dei numeri di G il numero
L^=m,mim2m2 , che si ottiene scrivendo dopo m le suc-
cessive cifre decimali mi , m^ , m^ , Evidentemente il numero
cercato N coincide, se esiste, con questo numero L.
Bi) Può avvenire che la classe G contenga tra i suoi
numeri il numei-o L. Ciò avviene evidentemente, p. es., se la
classe G contiene un numero finito di nutneri n. In tal caso
L è proprio il massimo numero di G, che noi cercavamo.
B2) Può invece avvenire che il numero L non appartenga
alla classe G, Ciò avviene, p. es., se (r è la classe dei numeri
minori di 2 ; in tal caso L = 1,9999 =2, che non appar-
tiene a G. In tal caso di nuovo la classe G non possiede un
numero massimo (questo, se esistesse, coinciderebbe con L, che
viceversa non è un numero di G, mentre invece N dovrebbe
essere un numero di G).
Una classe G di numeri possiede in ogni caso un limite
superiore L. Se questo appartiene alla classe G, esso è anche
il massimo numero di G. Se esso non appartiene a G, la classe
G non contiene un numero massimo. Se L non è -4- 00 , allora
L è il minimo numero, che non sia superato da alcun numero
di 6^; se ^ è un intero qualsiasi, esiste in G almeno un nu-
mero che coincide col limite superiore L fino alla ^^''™^ cifra
decimale inclusa H.
Perciò sono possibili tre soli casi:
1"") Non vi è alcun numero maggiore di tutti i numeri
di G (ossia L = 00);
2') Tra i numeri di G ve n'è uno L massimo (L è finito
ed appartiene a G^);
3"") Tra i numeri positivi maggiori di ogni numero di G
ve n'è uno L minimo (L è finito e non appartiene a G).
Un numero decimale illimitato ^ è il limite superiore dei
numeri decimali limitati, che se ne deducono trascurando le cifre
decimali da un certo punto in poi. Così, p. es., 0,3333 è
il limite superiore dei numeri 0,3; 0,33; 0,333; ecc.
Se oe:ni numero m della classe G soddisfa alla m < k, oppure
alla m ^ k, oppure alla m > k, oppure alla m^k (dove k è un
numero prefissato), allora il limite superiore L soddisferà rispet-
(*) Sì dimostra che il limite superiore non varia, se si cambia il numero assunto
come base del sistema di numerazione, servendosi delle proprietà qui enunciate peri.
10 CAPITOLO I — § 3
tivamente nei primi due casi alla L^k, nel terzo alla L> k,
nel quarto alla L^k. Notiamo in particolare che alla disu-
guaglianza m <k per i numeri m di G corrisponde per il limite
superiore L la disuguaglianza attenuata L ^k.
P) Se nelle precedenti considerazioni, anziché scegliere la
massima parte intera, e successivamente le massime cifre deci-
mali, avessimo scelto la minima parte intera, e successivamente le
minime cifre decimali, avremmo definito il limite inferiore l di G.
Nessun numero di G è minore del limite inferiore 1, il
quale è il più grande dei numeri che non superano alcun
numero di G. Se tra i numeri di G ve ne è uno minimo, e
soltanto in tale caso, il mimerò 1 appartiene a G, e coincide
allora con tale numero minimo. Se k è un intero arbitrario,
vi è in G' almeno un numero uguale ad 1 ahneno fino alla k®""^*
cifra decimale. Se i numeri m di G soddisfano alla m > h,
allora 1 ^ h ; ecc. ecc.
Nei casi 2^ e 3° del precedente teorema L (che è finito) è
anche il limite inferiore della classe G' formata dai numeri
positivi maggiori di ogni numero di G. Il numero Jj o è il
massimo dei numeri di G, perchè appartiene a G, oppure è il
minimo dei numeri di G', perchè appartiene a G'.
Y) La somma di due o più numeri positivi n, m, ... è il
limite superiore della classe dei numeri {razionali) ottenuta
sommando i numeri decimali limitati dedotti da n,m, ... tenendo
conto soltanto di un numero finito di cifre decimali.
Questa definizione è la più naturale estensione del teorema:
La somma di due h più numeri decimali limitati n, m, ... è
maggiore del numero ottenuto sommando quei numeri che si
deducono da n, m, ..., trascurando le cifre decimali a partire
da un certo posto in poi.
È ben noto che da questa definizione si deduce: Se il seg-
mento N è somma di più segmenti Ni, N2, ..., la misura di N
è eguale alla somma delle misure dei segmenti Ni, N2, ...
Sono ben note le seguenti proprietà dell'addizione:
n -h m = m -^ n (proprietà commutativa)
n-h{m-^p)=^n-hm-\-p (proprietà associativa).
In modo perfettamente analogo si definisce il prodotto (*)
(*) Ricordo che, se m, n sono le misure della base ed altezza di un rettan-
golo, il prodotto m w è la misura dell'area del rettangolo, quando come unità di
misura delle aree si scelga il quadrato, il cui lato è l'unità M di misura delle
lunghezze.
NUMERI REALI 11
di due 0 più numeri positivi ; e si dimostrano poi le seguenti
proprietà fondamentali della moltiplicazione :
nm=^mn (proprietà commutativa)
nmp =^n{mp) (proprietà associativa)
n (m-h p) =n{m -h p) (proprietà distributiva).
La diiferenza [quoziente] di due numeri n, m si definisce
poi come quel numero n — m [quel numero — che sommato
m J
con in [moltiplicato per m] riproduce il numero n.
Esistono regole di calcolo numerico per eseguire nel modo più rapido, ed
evitando calcoli inutili, le operazioni elementari dell'aritmetica sui numeri decimali
limitati od illimitati, quando sia prefissata l'approssimazione, che si esige dal
risultato finale.
Queste regole possono essere assai utili per chi abbia da eseguire calcoli
numerici. E il loro studio, di cui qui non ci possiamo occupare, perchè estraneo
all'argomento di questo corso, è perciò assai raccomandabile per ogni calco-
latore.
Restando nell'ambito dei numeri positivi o nulli, si può par-
lare della diiferenza n — m, soltanto se n^m.
Non si può parlare del quoziente — se m == 0.
m
Con a;", se a:; è un numero positivo, ed w > 1 è un intero
positivo, si indica il prodotto di n fattori uguali ad x, E si
pone poi a;^ =0; ; e, se ^'4-0, :r^ = 1. Il simbolo 0^ si consi-
dera privo di significato.
Se ?^> 1 è un intero positivo, con y x si indica il numero y
tale che ?/" = x (*). Se x aumenta, aumenta tanto \si ]/ x quanto
VI
la x^'.^^Se m, n sono interi positivi ed n> 1, con x'' si intende
la l/x"' Se poi ^ è un numero positivo qualsiasi, con x^ si
intende il limite superiore delle potenze x'^, quando q sia uno
dei numeri ottenuti da p, tenendo conto soltanto di un numero
finito di cifre decimali (deiresponente p).
E noto Che, se p, q sono numeri positivi o nulli arbitrari,
allora :
(*) Si può dimostrare l'esistenza di ij, definendo y come il limite superiore
della classe formata da quei numeri 2, che soddisfano alla s" ^ x.
12 CAPITOLO I — § 4
§ 4. — Numeri reali.
Insieme ai numeri positivi l'algebra considera, come è noto,
anche i numeri negativi ; i quali con le seguenti convenzioni,
trovano pure applicazione nel problema della misura dei segmenti.
r > a) Una retta r si dice orien-
\ \ tata, se é fissato su di essa un
^ ^ verso che si assume come positivo
(nella figura e in quanto segue da sinistra, a destra). Un segmento
orientato di tale retta AB %\ ritiene percorso nel verso dal
punto A al punto 5, e si ritengono distinti i segmenti (orientati)
AB^ BA i cui versi sono opposti.
Misura algebrica di un segmento AB di r è il rapporto di
tale segmento al segmento unitario, preso col segno -4- o col
segno — , secondo che il verso del segmento (il verso da ^ a 5)
coincide col verso positivo o col verso negativo di r. E se noi
indichiamo con uno stesso simbolo un segQiento e la sua misura,
e per convenzione poniamo in generale a = — ( — a), avremo
AB — — BA,AB-\-BA = ^. Cioè:
La misura di un segmento cambia di segno se ne invertiamo
gli estremi.
I numeri razionali o irrazionali, positivi o negativi, fin qui
definiti, hanno ricevuto complessivamente il nome di numeri reali.
Se a è un numero reale, con | a | ne indichiamo il valore asso-
luto; indichiamo cioè con |a| lo stesso numero a, se a è positivo
e il numero a cambiato di segno, se a è negativo.
P) Due segmenti orientati si diranno uguali, se hanno lo
stesso verso e sono uguali dal punto di vista della geometria
elementare: ossia se hanno misure uguali e dello stesso segno.
Due numeri si diranno uguali se hanno uguale segno e
uguale valore assoluto. I numeri negativi si considerano minori
di zero e dei numeri positivi. Di due numeri negativi si consi-
dera maggiore quello che è minore in valore assoluto.
Siano dati i segmenti e, d; preso un punto qualsiasi A di r,
si consideri il segmento AB uguale (e quindi anche ugualmente
orientato) a e, e quindi il segmento BC uguale (e quindi anche
ugualmente orientato) a d. Il segmento AC (ed ogni segmento
ad esso uguale) si dirà somma dei segmenti e, d. Questa defi-
nizione coincide evidentemente con la solita, quando i segmenti
e, d sono entrambi positivi.
NUMERI REALI 13
Diremo poi somma di due numeri x, y il numero che misura il
segmento somma dei due segmenti che hanno per misura x oppure y.
Si riconosce facilmente che:
V II segno della somma di due numeri è uguale al segno
dell'addendo, il cui valore assoluto è più grande,
2° Il valore assoluto della somma di due numeri è uguale
alla somma o alla differenza dei valori assoluti dei due addendi,
secondo che questi hanno o non hanno lo stesso segno.
Queste proprietà potrebbero servire alla definizione puramente
analitica della somma di due numeri.
Si estendono facilmente queste definizioni alla somma di piii
numeri, e si dimostrano le solite regole del calcolo algebrico.
Se A,B,C, sono tre punti qualsiasi di r, è per definizione:
AB-hBC=^AC= — CA, ossia AB-h BC-hCA = 0.
Così se Al, A2, A^, Ai sono punti qualsiasi di r, è :
Al A. H- A. A-> = Al A^ ; Ai A; -h A-, ^4 -h ^4 ^1 = 0
donde : AiA. -\- A2 A^ -h ^3 ^4 + Ai Ai = 0.
Più in generale, se Ai A2 , An sono punti qualsiasi di r,
è Al A2 -+- A2 A'i -+- An-iAn -H ^n ^1 = 0.
E questa formola vale anche se i punti A non sono tutti distinti.
Y) Si definisce poi il prodotto di due 0 più numeri reali
(fattori) quel numero che ha per valore assoluto il prodotto dei
valori assoluti dei fattori, e il segno -f- 0 il segno — secondo
che vi è numero pari 0 dispari di fattori negativi.
Si definiscono poi la sottrazione e la divisione come le ope-
razioni inverse deiraddizione e della moltiplicazione, estendendo
quindi le solite regole del calcolo algebrico.
Un numero a è minore 0 maggiore di un altro numero 6,
secondochè a — 6 è negativo 0 positivo.
S) E poi evidente che se a, h sono numeri reali qualsiasi
\a±h\^\a\ -f- |ò|
|a±ò|^|a| — 16|
|a±6|^| l\ — \a\
\a . h\^\a\ , \h\.
Se h i^ 0, allora
a
\h
14 CAPITOLO I — § 4
e) Se G è una classe di numeri negativi — m, e se L, l,
sono i limiti superiore e inferiore dei numeri m, allora — Le — l
si dicono rispettivamente il limite inferiore e superiore dei numeri
di G, Queste definizioni appariranno spontanee a chi pensi che
(secondo le proprietà da noi ricordate) di due numeri negativi
si considera come minore quello che è maggiore in valore as-
soluto.
Se G è una classe che contiene sia numeri positivi p, sia
numeri negativi n, si dirà limite superiore (inferiore) di G il
limite superiore (inferiore) dei numeri positivi p (negativi n) che
appartengono a G,
Anche in questo caso generale si può ripetere quanto per
tali limiti si disse al § 3.
Q Se G, r sono due classi di numeri reali tali che il
limite X inferiore di G coincida con il limite superiore di f,
noi diciamo che le classi G, F sono contigue, che G è idi classe
superiore e che X è il numero di separazione delle due classi.
In tal caso nessun numero di G può essere inferiore ad alcun
numero di f; e, preso un intero positivo k arbitrario, esiste
tanto in G che in f almeno un numero che coincide con X
fino alla ^'""'" decimale. I due numeri così scelti in (r e in f
2
diiferiranno al più P^r—— y •
Viceversa, se nessun numero della classe G è inferiore ad
un numero della classe f, e se per ogni numero intero posi-
tivo k esistono un numero di 6^ e un numero di f, la cui dif
2 , -
ferenza non supera — -r- ? è ben evidente che le classi G, \ sono
contigue, e che G^ è la classe superiore.
rf} La teoria delle potenze e delle radici rapidamente
riassunta al § 3 si estende con qualche modificazione ai numeri
negativi. Così, se a: è negativo, ed n intero positivo, la a;" è
positiva se n è pari, negativa se n è dispari. Se ne deduce che,
se w è pari ed a^ è negativo, il simbolo l/x si deve considerare
come sprovvisto di significato nell'attuale campo dei numeri
reali.
E se, pure essendo n pari, la a; è positiva, il simbolo f/x ha
un doppio significato. Perchè se y è un numero positivo tale
che 2/" = X, cosicché y = [/x, anche — y soddisfa alla ana-
loga uguaglianza ( — yy^=x, cosicché anche — ?/ si può con-
NUMERI REALI 15
siderale come radice ^'""*" della x. Salvo però avvertenza con-
traria, col simbolo yx indicheremo sempre la radice positiva.
Se n è dispari, yx ha sempre uno e uno solo significato.
Secondo tali convenzioni non si parlerà mai di uua pò-
tenza x**, quando x è negativo, e dei due numeri interi m, n
il secondo è pari. Né parleremo mai di una potenza x^ se x
è negativo, ^ è irrazionale.
Se n è un numero negativo, poniamo x"" = —zr:^ •
X
Vale anche nel caso attuale la formola
in tutti i casi in cui i simboli a;^, x^ hanno un significato.
0) Se tre numeri a, x^ y sono legati dalla a^ = y, noi diremo
che a; è il logaritmo di y in base a, e scriveremo x = Ioga y-
La base a si suppone positiva e quasi sempre maggiore di 1
(anzi assai spesso uguale a 10). Si dimostra:
1^ Ogni numero positivo ?/ ^ 0 ha un logaritmo e uno
solo, che è uguale a zero per ^ = 1, è uguale ad 1 per y = a,
e che cresce (se a> \) al crescere di y. I numeri negativi
non hanno logaritmo.
2° Se h ^l, allora Ioga y =^ Ioga h log^ y.
3^ Loga (Vi ys) = Ioga yi -H Ioga «/2
Ioga — = Ioga 2/1 — Ioga ?/2 ; loga (y?) = m lOga ^/l-
^2
16 CAPITOLO II — § 5
CAPITOLO IL
APPLICAZIONI GEOMETRICHE
§ 5. — Misura (algebrica) degli angoli.
a) E uso universale misurare gli angoli, assumendo ad unità
di misura il grado: che di solito si definisce come la novan-
tesima parte di un angolo retto (e soltanto da pochissimi come
la centesima parte di un angolo retto). La sessantesima parte
del grado dicesi minuto primo, la sessantesima parte di un
minuto primo dicesi minuto secondo.
Se poi vogliamo parlare di misura algebrica degli angoli
posti nel piano del foglio col vertice in 0, dovremo cominciare
ad assumere come positivo uno dei versi
secondo cui può rotare un raggio di
origine 0 intorno ad 0 mantenendosi
nel piano del foglio \ e in generale as-
sumeremo come verso positivo il verso
Fig. 1. contrario a quello secondo cui si muo-
verebbero gli indici di un orologio posto
nel piano del foglio col quadrante rivolto al lettore ; questo verso
è quello che trasporta (nel caso della fig. 1) il raggio a sul
raggio h attraverso l'angolo acuto. L'angolo descritto da un
raggio (semiretta) a, che ruota attorno alla propria origine 0,
sarà considerato come positivo o come negativo secondo che la
rotazione è avvenuta nel verso scelto come positivo o nel verso
opposto; alla misura (p. es. in gradi) di quest'angolo premet-
teremo nei due casi rispettivamente il segno -4- o il segno — .
L'angolo ab [oppure (a, 6)] di due raggi a, ò, aventi l'origine
comune 0, sarà poi per definizione l'angolo di cui primo raggio a
deve rotare intorno ad 0 per sovrapporsi al secondo raggio ò.
Quest'angolo non è determinato, ma anzi ha infiniti valori :
infatti, se un giro positivo di a gradi porta a in 6, un giro
APPLICAZIONI GEOMETRICHE 17
negativo di 360^ — a porta ancora a in 6; é, poiché un giro
di it ]{; 360^ {k essendo un qualsiasi intero positivo) porta a in a,
anche un giro positivo di k 360° -{- a, oppure un giro negativo
di 360"" — a + ^360° porta a in 6. Quindi, se a è la misura
(algebrica) di (a, 6) in gradi, a -f- /^ 360° sono altrettanti valori
della misura dello stesso angolo, qualunque sia l'intero /^ positivo
0 negativo ; e viceversa, se a è un valore di (a, 6) tutti gli altri
valori di (a, h) differiscono da a per un multiplo di — 360*^.
Noi considereremo naturalmente questi infiniti valori come equi-
valenti, ossia considereremo come equivalenti due angoli a e p,
quando la loro differenza è un multiplo di 360° e scriveremo
in tal caso a ^ p, e anche talvolta a = p.
Se è nota la posizione di un raggio a uscente da 0, la
posizione di ogni altro raggio h uscente da 0 è determinata,
quando si conosca un valore dell'angolo (a, h). E poi evidente
che se a, h sono due raggi aventi la stessa origine 0 e se con
un giro di a gradi intorno ad 0 (essendo a numero positivo o
negativo qualunque) il raggio a si sovrappone a 6, con un giro
uguale ma di segno contrario il raggio h si sovrappone ad a,
cosicché;
A A .
(a, &) ^ — (6, a) ossia ab -^ ba^:^ 0.
Se a, 6, e sono tre raggi posti nello stesso piano ed aventi
la stessa origine 0, se un giro di a gradi porta a nel raggio b,
e un giro di ^ gradi porta b nel raggio e, allora un giro di
a -h ^ gradi porterà a in e: quindi
{a, b) -4- (ò, e) ^ {a, e) ; (a, b) -+• (ò, e) -f- (e, a) ^ 0,
(a, ò) = (e, b) — (e, a) ; (6, a) = (e, a) — (e, è).
In generale se ai, ^2, «3, , «,^ _i, an sono raggi posti nello
stesso piano ed uscenti da 0 si avrà:
(ai, ^2) + (ao, ^3)4- 4- (a„_i, aj -4- (an, ai) = 0.
^) Se A, B sono due punti, per raggio A B intenderemo
sempre il raggio uscente da ^ e contenente B.
Siano ora r, r due rette, su ciascuna delle quali è fissato
il verso positivo, che si incontrino in un punto 0: se i^, R' sono
due punti di r, r tali che i segmenti OR, OR' siano positivi,
Tangolo (r, r) sarà per definizione l'angolo dei raggi OR, OR' .
Se r, r non s'incontrano, e se OR, O'R! sono due segmenti
positivi di r, r, per angolo (rr) s'intende l'angolo del raggio OR
col raggio OS parallelo ad r ed avente la stessa orientazione
2 — G. FUBINI, Analisi matematica.
18 CAPITOLO II — § 5
di / (vale a dire tale che i segmenti 0'R\ OS cadano da una
stessa banda della retta 00').
Se r indica una retta, su cui è fissato un certo verso come
positivo, si suole indicare con — r la stessa retta, in cui si sia
invertito il verso considerato come positivo; sono evidenti allora
le seguenti uguaglianze:
(r, r) -f- (r, — r) = (r, — r) = 180°
ossia (r, r) ^ 180° -4- ( — r, r).
Similmente si trova:
(r, r) ^ 180° -h (r, : — r) ( — r, — /) ^ (r, r').
Y) Come unità di misura degli angoli è però teoricamente
preferibile un'altra unità di misura, che sarà ora definita e che
verrà sempre adottata in questo libro.
Sia a un angolo qualsiasi di vertice C: si descriva una
circonferenza avente il centro C, il raggio R arbitrario, e sia
? la lunghezza dell'arco di circonferenza sotteso dall'angolo (al
S
centro) a. Il rapporto — è uguale alla lunghezza di detto arco,
quando si assuma come unità di misura delle lunghezze il raggio R.
Questo rapporto non varia al variare di R (perchè archi di cerchi
concentrici sottesi da uno stesso angolo al centro hanno lun-
ghezze proporzionali al raggio del cerchio su cui giacciono) ed
è proporzionale all'angolo a. Noi assumeremo questo rapporto
come misura dell'angolo a e chiameremo radiante l'angolo che
in questo sistema di misura ha per misura 1 ; il radiante sarà
quindi Tangolo che sottende un arco di lunghezza uguale al
raggio. Se a =11 360^, l'arco di cerchio corrispondente è uguale
all' intera circonferenza e ha per lunghezza P = 2 tc i^ ; quindi
l'angolo di 360°, misurato in radianti, ha per misura
2nR ^
-^ = ^"-
Due angoli sono equivalenti se le loro misure in gradi dif-
feriscono per un multiplo di 360°. Poiché in radianti l'angolo
di 360° ha per misura 2 n, due angoli saranno equivalenti, se
le loro misure in radianti differiscono per un multiplo di 2 7^.
Un angolo piatto ha in gradi la misura — - = 180; in
radianti esso ha quindi per misura n; l'angolo retto ha per
n n
misura -, l'angolo di, 45° ha per misura — -.
APPLICAZIONI GEOMETRICHE
19
Se x^ y sono le misure di uno stesso angolo rispettivamente
in radianti e in gradi, si avrà:
x_ 2tc
""360
TC
y
180
L'angolo di un radiante vale in gradi 180 :7c = 57,2957795,
cioè vale minuti secondi 206264,8 ; perciò, se 9 è la misura
in radianti di un angolo e a'' la sua misura in minuti secondi
sarà con grande approssimazione cp : a" = 1 : 206265".
5) Se :r è la misura di un angolo acuto in radianti
TU
(quindi 0 < a; < -^) allora si ha
sen X
x<\>^x.
Sia AOB l'angolo x e sia OC la retta sim-
metrica di OB rispetto ad OA ; sarà COB = 2x.
Sia BAC il cerchio di centro 0 e di raggio 1.
Sarà (fig. 2) arco AB = arco CA^=^x;
arco CAB = 2x; segmento AH^= igx] seg-
mento MB=^ CM=^ sena;; segmento CB = 2 sena;.
Poiché : segmento CB < arco CAB , sarà
2 sen X < 2 a:, ossia sen x < x.
D'altra parte: area triangolo OHK^= OA.AH
=^tgx; area settore OC AB =^
OA
—— ' Arco CAB = x.
Poiché: area triangolo OHK> duesi settore OC AB, sarà
tgx> X. Le disuguaglianze così ottenute dimostrano comple-
tamente il nostro teorema.
Se y è l'ampiezza in gradi di un angolo, la cui misura in
-.. . V ^ '^ .V '^
radianti e x, sarà x = ---_-r y ; perciò sen y < — — - y <tg y.
Fig. 2.
180
180
§ 6. — Coordinate di un punto di una retta.
a) Sia r una retta orientata, su cui cioè si é scelto come
positivo, p. es., il verso da sinistra a destra.
-^ "^ Fissiamo sopra la retta un punto 0,
0— < j_ che chiameremo l'origine; la posi-
zione di un punto qualsiasi ^ di r é determinata quando si
conosca la misura del segmento OA in valore assoluto e in segno
20 CAPITOLO II —
(il quale segno sarà -f- oppure — secondo che A si trova a
destra od a sinistra di 0): così, se p. es. OA = -}- 3^ il punto A
è quel punto di r, posto a destra dell'origine 0 che ne dista
il triplo dell'unità di lunghezza; se OA = — 5, ^ è quel punto
di r posto a sinistra di 0, la cui distanza da 0 è il quintuplo
dell'unità di lunghezza.
In generale la misura del segmento OA si chiama la coor-
dinata ài A e si indica di solito con una delle lettere x, y, z ...
L'origine 0 è l'unico punto della retta r che abbia la coor-
dinata nulla; poiché un punto di r ha una coordinata perfet-
tamente individuata, e viceversa ad ogni valore della coordinata
corrisponde uno (e un solo) punto di r, vi è una corrispondenza
biunivoca senza eccezione tra i valori della coordinata ed i
punti di r.
|3) Se A, B sono due punti di r, le cui coordinate sono rispet-
tivamente Xi , Xo sarà :
OA^=Xi, 0B=^X2, A0 = — Xi, B0^= — X2.
Ma AB =^ OB — OA ; quindi la misura del segmento AB,
i cui estremi ^, ^ hanno , rispettivamente le coordinate a^i,.r2,
è X2 — Xi (in valore assoluto e in segno).
Se X2 — Xi è positivo, ossia se X2 > Xi, allora il segmento AB
è positivo, ossia A giace a sinistra di ^; se invece xo — Xi
è negativo, ossia X2<Xi, allora A giace a destra di B; ciò
che è intuitivo per la definizione stessa di coordinata. I punti
del segmento AB sono i punti, le cui coordinate sono comprese
tra Xi ed X2; ^ se p. es. Xi<^X2, essi sono i punti x' per cui
a^i ;^ X ^ 0:^2 .
Se Al, A2,'.. An sono punti di r di coordinate a^i, .T2, ..., ^n,
avrà luogo l'identità:
(x2 — Xi) -f- (x3 — X2) -h (x4 — ^^3) 4- +
4- (Xn Xn-l) -h (Xi Xn) = 0
che equivale alla A1A2 -f- AoA^ -h -H An -lAn -I- AnAi = 0
dimostrata nel § 4, P (pag. 13).
Y) Noi spesso identificheremo un valore della variabile x col
punto di coordinata x; così, p. es., diremo il punto a anziché
dire il numero a; viceversa diremo talvolta il numero a per indi-
care il punto A, tale che il segmento OA abbia per misura a.
La relazione biunivoca, da noi così determinata tra i numeri
dell'aritmetica ed i punti di una retta, permette di trasformare
proprietà geometriche in teoremi aritmetici e viceversa.
APPLICAZIONI GEOMETRICHE
21
/.
Aree e volumi.
Quando si studia in geometria elementare il problema della
misura dell'area o del volume di una figura piana (*) o solida,
si sceglie un poligono o un poliedro come unità di misura ; il
quale (secondo l'uso universale) è il quadrato o il cubo, il cui
lato è l'unità di misura delle lunghezze.
Osservazioni. — Nonostante la scrittura in doppia colonna, il rigore richiede
che la trattazione qui svolta per i volumi segua quella svolta nella prima colonna
per le aree delle figure piane.
Nelle matematiche elemen-
tari è definita Varea di ogni
poligono (**) che è un numero
positivo soddisfacente alle se-
guenti proprietà:
V) Foligoni uguali hanno
aree uguali,
2"") Se il poligono P è
somma dei poligoni Pi, P2, Va-
rea di P è somma delle aree dei
poligoni Pi , P2 . Da cui segue :
3"*) Se il poligono Pi è
contenuto in P, Varea di Pi
non supera Varea di P.
Possiamo noi definire Varea
di figure piane più generali dei
poligoni? Ecco il problema che
vogliamo esaminare. Natural-
mente dobbiamo porre una defi-
nizione che conservi all'area di
figure piane più generali dei
poligoni le proprietà su accen-
nate per le aree dei poligoni :
proprietà del resto comuni alle
Nelle matematiche elemen-
tari è definito il volume di ogni
pluricilindro (***) che è un nu-
mero positivo soddisfacente alle
seguenti proprietà:
1"*) Fluricilindri uguali
hanno volumi uguali.
2**) Se il pluricilindro P
è somma dei pluricilindri Pi,
P2, il volume di P è somma
dei volumi di Pi, P2. Ne segue:
S"*) Se il pluricilindro Pi
è contenuto in P, il volume di
Pi 7ion supera il volume di P.
Possiamo noi definire i vo-
lumi di solidi più generali dei
pluricilindri? Ecco il problema
che vogliamo esaminare. Natu-
ralmente dobbiamo porre una de-
finizione che conservi al volume
delle figure solide più generali
dei pluricilindri le proprietà su
accennate per i volumi dei plu-
ricilindri: proprietà del resto
(*) Qui e nel seguito usiamo la parola figura piana (sarebbe più preciso dire
dominio connesso) (cfr. l'oss. critica in fine del § 7).
Nei casi più comuni delle applicazioni si tratta di figure limitate da tratti di
rette, cerchi, ellissi, ecc.
Osservazioni analoghe valgono per i solidi di cui ci occuperemo.
(**) Vedremo che sovente potremmo parlare soltanto di plurirettàngoli (cioè
poligoni somma di un numero finito di rettangoli parziali). Ciò che rende più evi-
dente ancora l'analogia tra i due problemi : quello della misura delle aree, quello
della misura dei volumi.
(***) Si potrebbe anche parlare di pii-amidi, 0 di poliedri. Ma per noi basta
parlare di pluricilindri (cioè di un solido somma di un numero finito di cilindri).
22
CAPITOLO II
§ 7
misure delle- grandezze di una
specie qualunque.
Osserviamo che, se i^ è
una figura piana, la quale con-
tiene un poligono p ed è sl sua
volta contenuta in un altro
poligono P, e se F possiede
un'area che goda di proprietà
analoghe alle precedenti, biso-
gnerà che tale area di F sia
definita come un numero non
minore dell'area di p, né mag-
giore dell'area di P.
Guidati da questa osserva-
zione noi converremo di parlare
di area di una figura piana F
soltanto se esistono tanto dei
poligoni p tutti contenuti in F,
quanto dei poligoni P conte-
nenti F (*).
E per area di F intende-
remo un numero che non sia
minore delle aree di un p, né
maggiore delle aree di un P.
In altre parole l'area di F
dovrà almeno essere uguale al
limite superiore X delle aree dei
p e al pili essere uguale al
limite inferiore A delle aree
dei P (È evidentemente X^A).
Ma noi vogliamo che l'area
di F sia completamente deter-
minata da F (**). Il caso più
elementare in cui questo avviene
(Peano-Jordan) é il caso che
X r= A, ossia che le aree dei p
e quelle dei P formino due classi
contigue. In questo caso (che
è l'unico considerato in questo
comuni alle misure delle gran-
dezze di una specie qualsiasi.
Osserviamo che, se F è una
figura solida qualsiasi, la quale
contiene un pluricilindro ^ ed é
a sua volta contenuta in un
altro pluricilindro P, e se F
possiede un volume che goda
di proprietà analoghe alle pre-
cedenti, bisogna che tale volume
di F sia definito come un nu-
mero non minore del volume di
p, né maggiore del volume di P.
Guidati da questa osserva-
zione noi converremo di parlare
di volume di una figura solida
F soltanto se esistono tanto
dei pluricilindri p tutti conte-
nuti in F, quanto dei plurici-
lindri P contenenti P(*).
E per volume di F inten-
deremo un numero che non sia
minore del volume di un p, né
maggiore del volume di alcun P
In altre parole il volume di F
dovrà almeno essere uguale al
limite superiore X dei volumi
dei p e al più essere uguale
al limite inferiore A dei volumi
dei P. (È evidentemente X:^ A).
Ma noi vogliamo che il vo-
lume di F sia completamente
determinato da P (**). Il caso
piti elementare in cui questo
avviene (Peano-Jordan) è il caso
che X =: A ossia che i volumi
dei p e quelli dei P formino
due classi contigue. In questo
caso (che è l'unico considerato
(*) Cioè ogni punto interno a ^ è interno ad F, ed ogni punto interno ad F
è interno a P.
(=^*) Naturalmente se è prefissata l'unità di misura.
APPLICAZIONI GEOMETRICHE
23
libro) le precedenti osservazioni
bastano a definire completa-
mente Varea di F come il
numero X = A di separazione
tra la classe delle aree dei p,
e la classe delle aree dei P.
Noi parleremo dunque di
area di una figura F, soltanto se
esistono poligoni p contenuti in
F, e poligoni P contenenti F;
e se inoltre le classi delle loro
aree sono contigue. Il numero
X = A di separazione delle due
classi si dirà Varea di F.
Questa definizione non è che
la naturale estensione della defi-
nizione, che nelle matematiche
elementari si dà per Varea o
di un cerchio 8, Ivi infatti tale
area a viene definita come il
numero che separa le classi con-
tigue formate dalle aree dei poli-
goni p tutti interni a iS^, e dei
poligoni P che comprendono il
cerchio S all'interno (*).
in questo libro) le precedenti
osservazioni bastano a definire
completamente il volume di F
come il numero "k •= A di sepa-
razione tra la classe dei volumi
dei p, e la classe dei volumi dei P.
Noi parleremo dunque di
volume di una figura F, sol-
tanto se esistono pluricilindri p,
contenuti in F, e pluricilindri P
contenenti F; e se inoltre le
classi dei loro volumi sono con-
tigue. Il numero X = A di se-
parazione delle due classi si
dirà il volume di F.
Questa definizione non è che
la naturale estensione della defi-
nizione che nelle matematiche
elementari si dà per il volume o
di una sfera S. Ivi infatti tale
volume a viene definito come il
numero che separa le classi con-
tigue formate dai volumi dei plu-
ricilindri p tutti interni ad S, e
dei pluricilindri P che compren-
dono la sfera S all'interno (**).
(*) Si noti ancora che nel caso del cerchio S ì poligoni p si suppongono
inscritti in S, ì poligoni P circoscritti. E ciò perchè i poligoni inscritti in S sono
interni ad S, ì poligoni circoscritti ad S contengono S all'interno. Nel caso gene-
rale non si può più parlare di poligoni inscritti e circoscritti ; perchè (anche
ammessa l'esistenza di tali poligoni) i poligoni p inscritti possono essere non tutti
interni a ;S^, e i poligoni P circoscritti pos-
sono non contenere S tutto all'interno,
come dimostrano le seguenti figure 3-4.
Fig. 3.
Fig. 4.
(**) Veramente nei trattati elementari ci si limita a considerare generalmente
dei pluricilindri inscritti o circoscritti (cfr. Nota precedente).
24
CAPITOLO II
§7
È poi evidente che Varea
così definita gode delle proprietà
enunciate sopra a pag. 21 (*).
Queste proprietà sono del
resto insite nel fatto, che le
precedenti considerazioni trat-
tano il problema della misura
di una classe particolare di
grandezze.
Se invece fosse A > X, il
numero A si potrebbe chiamare
l'area esterna, il numero a l'area
interna della figura considerata.
Questi due numeri godono, come
è evidente, di alcune, ma non
di tutte le proprietà dell'area
nel senso elementare (sopra de-
finito) della parola. Noi lo prove-
remo nel modo esposto in fine al §.
È poi evidente che il volume
così definito gode delle proprietà
enunciate sopra a pag. 21 (*).
Queste proprietà sono del
resto insite nel fatto, che le
precedenti considerazioni trat-
tano il problema della misura
di una classe particolare di
grandezze.
Se invece fosse A > X, il
numero A si potrebbe chiamare
il volume esterno, il numero X
il volume interno d-ella figura
considerata. Questi due numeri
godono, come è evidente, di
alcune, ma non di tutte le pro-
prietà del volume nel senso ele-
mentare (sopra definito) della
parola.
Sia C un cilindro avente per
base una figura piana F e per
altezza un segmento di misura
^(**). Chiameremo volume di C
un numero maggiore dei volumi
dei prismi di uguale altezza h
aventi per base un poligono p
(prismi che sono contenuti in C)
(*) Infatti sia F, p. es., una figura piana somma di due figure i^, , Fa senza
punti interni comuni. Tra i poligoni p interni ad F vi sono quelli (ad uno o più
pezzi), che sono somma di un poligono p^ relativo ad JP,, e di un poligono p.y
relativo ad F^. Quindi il limite superiore / delle aree dei poligoni i? vale almeno
la somma dei limiti superiori ^, , >.2 delle aree dei poligoni 29,,P2» cioè >-^',-+->2-
Sia P, un poligono che contiene F^ all'interno, e P, un poligono analogo per F^;
sia 7T la parte comune. Il poligono P, + P2 — ^ contiene i^ all'interno, ed è perciò
un poligono P relativo ad F. La sua area non supera la somma delle aree dei
poligoni Pi,P2. Perciò, sommando insieme l'area di un poligono Pf con l'area
di un poligono P^, si trova un numero, che non è inferiore all'area di qualche
poligono P relativo alla figura F. Quindi il limite inferiore A delle aree dei poli-
goni P non può superare la somma a, + a^ dei limiti analoghi per Fi, F^.
Perciò A, -f. A^ ^ A ^ / ^ >, 4- :^2- Poiché >, = a, , /^ == a^ per ipotesi, sarà
A, + Ag = /, H- /2 = A zz: /, come volevasi provare.
(**) È noto che, se 71 è il piano della figura F, allora C è il luogo dei punti
posti da una stessa banda di -, i quali distino da r: non più di Ji, e che abbiano
per proiezione su ^ un punto di F,
APPLICAZIONI GEOMETRICHE 25
e minore dei volumi dei prismi
di uguale altezza h e aventi per
base un poligono P (prismi con-
tenenti C). I volumi di tali
prismi sono dati dal prodotto
di h rispettivamente per l'area
della base p e P. Quindi, con
le notazioni precedenti, il vo-
lume di C sarà non minore
ài "kh e non maggiore di Ah.
Se la base F ha un'area, se
cioè X = A, il volume di C sarà
Xh =2 A /^, cioè sarà dato dal
prodotto delV area della ha se per
la misura dell'altezza. Noi con-
sidereremo nel seguito soltanto
cilindri la cui base ha un'area.
Diremo pluricilindro un solido,
che si possa decomporre in un
numero finito di cilindri, e suo
volume la somma dei volumi
dei cilindri parziali.
Ecco una proprietà delle aree, che vale anche per le aree esterna ed interna.
Se i punti comuni a due figure piane F, , Fg formano un segmento rettilineo r,
ed F, , F2 giacciono da hande opposte rispetto ad r, l'area esterna (interna)
della figura F = Fi -f Fj vale la somma delle aree esterne (interne) delle F, , Fg.
Per l'area interna si osservi che un poligono p tutto interno ad J^ è diviso
da r in due poligoni p,,^^ interni, rispettivamente aJP, , J^2- E viceversala somma
di due tali poligoni ^, , p.^ si può considerare come un poligono p (eventualmente
non connesso) interno ad F. Tanto basta per asserire che il limite superiore del-
l'area dei p (area interna di F) vale la somma dei limiti superiori delle aree
dei Pi , Pi (cioè delle aree interne di F^, F^).
Una dimostrazione analoga vale per le aree esterne. Si osservi a tal fine che
l'area esterna di F, (per i = l,2) si può definire come il limite inferiore delle aree
dei poligoni Pi contenenti Fi all'interno e posti rispetto ad r dalla stessa banda
di Fz. Per tali poligoni P, , P2 e per i poligoni P contenenti F all'interno si pos-
sono svolgere considerazioni analoghe alle precedenti relative Sip,Pi,P2.
Osservazioni critiche.
Il concetto intuitivo di dominio si può precisare nel modo seguente, in cui
per brevità ci riferiremo a domimi piani (cfr. la prima nota a pie di pag. 21).
Sia C una classe di punti. Sia A un punto di questa classe. Noi diremo che
esso è interno a C, se esiste un cerchio di centro A^ i cui punti appartengono
tutti a C; diremo che un punto B non appartenente a C è esterno a C, se esiste
un cerchio di centro B, nessun punto del quale appartiene a C.
Diremo che un punto L del piano appartiene al contorno di C, se in ogni cerchio
di centro L esistono sia punti che appartengono, sia punti che non appartengono a C.
26 CAPITOLO II — § 7 — APPLICAZIONI GEOMETRICHE
Diremo che una classe C di punti del piano è un dominio se :
a) Ogni punto di C o è interno a C, o appartiene al contorno di jC.
f) Ogni punto che non appartiene a (7 è esterno a G.
y) Esiste almeno un punto interno a C.
Diremo che il dominio è -connesso, se, scelti ad arbitrio due suoi punti interni
E, F si può trovare un numero finito di cerchi v, , Vg > •— » >« tali che :
a) Due cerchi consecutivi hanno infiniti punti comuni (cioè le loro periferie
si incontrano in due punti).
^) Il primo cerchio contiene E, l'ultimo contiene F.
y) 1 punti di ogni cerchio sono tutti interni a C.
I poligoni, i cerchi, ecc. della geom. elementare sono dominii connessi ; l'in-
sieme di due cerchi esterni l'uno all'altro è un dominio non connesso. Le prece-
denti definizioni si possono porre per ogni dominio connesso.
I poligoni p saranno quei poligoni, i cui punti (esclusi al più i punti del
perimetro) sono tutti punti interni al dominio considerato. I poligoni P saranno
quei poligoni che contengono ogni punto interno o posto sul contorno del dominio
considerato. La differenza di due poligoni P, p è un poligono (dominio limitato da
segmenti) che contiene tra i suoi punti tutti i punti del contorno del dominio dato.
Il dominio dato avrà un'area, se esisterà almeno un poligono P (ciò che si esprime
dicendo che il dominio dato è finito) e se le aree dei poligoni P, p formeranno due
classi contigue. Ciò avviene soltanto quando i poligoni che contengono tutti i
punti del suo contorno hanno aree, il cui limite inferiore è nullo.
27
CAPITOLO III.
I NUMERI COMPLESSI
§ 8. — Coordinate di un punto nel piano.
Assai spesso avviene che si voglia determinare con numeri
la posizione di un punto sopra una superficie. Così, p. es., la
posizione di un punto M sulla superficie terrestre si- determina
assegnandone la longitudine e la latitudine, che si potranno
chiamare le coordinate di M.
La posizione di un punto M, posto sul pavimento di una
stanza poligonale, si può determinare assegnandone le distanze
da due pareti concorrenti, ecc.
a) Vogliamo vedere come si possa, mediante una coppia di
numeri, determinare la posizione di un punto M su un piano
assegnato.
Molteplici metodi possono servire a tale scopo: il più semplice
è quello delle cosidette coordinate cartesiane.
Siano XX ed yy due rette
distinte (fig. 5) {assi coor-
dinati) concorrenti in un
punto 0 {origine), su cui
sia fissato il verso positivo,
p. es. quello da a:' ad a; e
quello da y ad y. Ad uno
dei due assi, generalmente
all'asse xx, si dà il nome
di asse delle ascisse, al-
l'altro asse y'y il nome di
asse delle ordinate; e si sup-
pone che l'angolo w = {xy)
sia congruo ad un angolo
positivo minore di 180^ Per
determinare la posizione M
di un punto del piano, basterà determinare la posizione dei
punti P, Q, intersezioni degli assi con le parallele agli assi stessi
28 CAPITOLO III — § 8
tirate da M, ossia dare le misure dei segmenti OF, OQ in valore
assoluto e in segno. Queste misure, che si dicono le coordinate
di M, si indicano rispettivamente con x, y ed hanno ricevuto
il nome di ascissa e di ordinata del punto M.
Viceversa è ben chiaro che, scelti due numeri qualunque a, b,
esiste uno ed un solo punto del piano il quale abbia a per ascissa
e b per ordinata. Infatti si costruiscano il punto P ed il punto Q
sui due assi, in guisa che sia in valor assoluto ed in segno
OP z=z a, OQ =: 6 ; il punto M d'incontro delle parallele tirate
da P, Q rispettivamente alla rette Oy, Ox è il punto cercato.
I raggi Ox, Oy, Ox\ Oy dividono
il piano in 4 regioni, che portano
rispettivamente i nomi di I, II, III, IV
quadrante (fìg. 6).. Un punto del I
quadrante ha positive entrambe le
coordinate; un punto del II qua-
drante ha positiva l'ordinata, ne-
gativa l'ascissa; un punto del III
ha negative entrambe le coordinate ;
un punto del IV ha positiva l'ascissa,
Fig. 6. negativa l'ordinata.
I punti della retta xx hanno
nulla l'ordinata, quelli della yy hanno nulla l'ascissa, l'origine 0
ha nulle entrambe le coordinate.
Sono poi vere le proposizioni reciproche.
Se l'angolo w =z(a?, ?/) è retto, come supporremo quasi sempre,
gli assi si dicono cartesiani ortogonali. In tal caso i valori assoluti
delle coordinate di M sono uguali alle distanze diJf dai due assi.
^) Supposti gli assi ortogonali, siano M' ed M" due punti
di coordinate x\ y ed ./ ", y". Siano P', F" le proiezioni di M\ M"
su XX] e Q\ Q" le proiezioni di M\ M" su yy. Il segmento FQ
è evidentemente l'ipotenusa di un triangolo rettangolo, i cui
cateti sono paralleli agli assi, e sono rispettivamente uguali a
F'F" ed a Q'Q". La misura di questi cateti è perciò x' — x'
e y" — y; per il teor. di Pitagora dunque:
FQ'^=^(x-xy-^(y'-yy.
In particolare la distanza OF dall'origine al punto P di
coordinate {x, y) è data dalla OF^'^ = x^ -{- y'^.
y) La posizione di un punto P in un piano si può indivi-
duare anche mediante uh altro sistema di coordinate : il sistema
I NUMERI COMPLESSI
29
delle coordinate polari. Si scelgano ad arbitrio nel piano un punto
0 e un raggio Ox uscente da 0. Si assumano poi come coor-
dinate di un punto P del piano la distanza OP (considerata come
positiva), a cui si dà il nome di raggio vettore, e l'angolo dei
raggi Ox, OP, a cui
si dà il nome di aito-
.malia (fìg. 7). Il pri-
mo s'indica general-
mente con p, la seconda
con 6. Le coordinate
cartesiane x, y di P,
quando si assumano
come assi coordinati
la retta Ox e la retta
normale Oy (tale che
l'angolo xy sia retto)
Oy: cosicché si ha:
X = p cos (x p) = p cos 0 ;
^ = p cos (?/ p) = p cos {yx -^ X ^) ^^ ^ sen (x p) = p sen 6.
Per il punto 0 (origine) si ha p = 0, mentre 0 è indeter-
minato.
Per tutti gli altri punti 0 è determinato a meno di multipli
di 360"^, ossia di 2 tt: radianti.
Dalle precedenti formole si trae anche :
sono le proiezioni di OP sopra Ox ed
p = \/x' +
X
cos 6 =^ —
P
sen 0 =
y
— - ?
p
(dove il radicale si considera come positivo); queste formole
servono a trovare p e 0 quando siano date x, y.
Questi metodi si possono perfezionare ed estendere allo spazio;
è però ufficio della geometria analitica svolgere la teoria delle
coordinate, e dimostrarne le importantissime applicazioni. Noi,
nel seguito di questo libro, supporremo noti al lettore i principi
fondamentali di questa scienza.
S 9.
Definizione di numero complesso e delle operazioni
sui numeri complessi.
3c) Nell'aritmetica e nell'algebra elementare si è^man mano
esteso il concetto di numero, introducendo dopo i numeri interi
positivi i numeri fratti, i numeri irrazionali, i numeri negativi.
30 CAPITOLO III — § 9
Con questi successivi ampliamenti si era risoluto completamente
il problema della misura delle grandezze (cfr. i Gap. Ve 2°),
si era resa possibile ogni sottrazione, ogni divisione per un
numero non nullo, ogni estrazione di radice da un numero
positivo, ecc.
Mentre si è cosi ampliato assai il campo delle operazioni
eseguibili, sono rimaste alcune operazioni che non sono eseguibili,
nonostante l'avvenuto ampliamento del concetto di numero :
l'estrazione di radice di indice pari da un numero negativo, la
determinazione del logaritmo di un numero negativo, ecc. A
questo inconveniente si ripara estendendo ancora il concetto di
numero. I nuovi numeri che noi introdurremo, sono però com-
pletamente inutili per il problema della misura delle grandezze,
il quale è già stato completamente risoluto dai numeri già
noti dalle matematiche elementari e che noi abbiamo chiamato
numeri reali.
Noi diremo numero complesso, ed indicheremo con (a, h) una
coppia di numeri reali a, b, che si seguano nell'ordine ora scritto.
Due numeri complessi (a, b) ed {a, h') si diranno uguali allora
soltanto che a =^ a\ 6 = h\
Il numero complesso {a, 0) s'intenderà come uguale al
numero reale a (*).
Il numero complesso (0, h) si dirà puramente immaginario
e s'indicherà con ib, indicando poi col solo simbolo i il numero
(0, 1), che chiameremo l'unità immaginaria.
Due numeri (a, b) ed (a, — b) si diranno complessi coniugati.
Somma dei numeri complessi (a, b), (a', b') si chiamerà il
numero complesf^o (a -4- a', b -hb'); questa definizione non con-
trasta con quella adottata per i numeri reali. Infatti, se [a, b)
e {a, b') sono reali, ossia se 6 = &' = 0, la loro somma (nel
senso testé definito) è proprio uguale ad {a -4- a, 0), cioè ad a -h a.
Si potrà perciò porre (a, b) -{- (a, b) = (a + a', 6 -4- b) ed in
particolare {a, b) = (a, 0) + (0, è) = a -I- ib. Perciò di solito
il numero complesso (a, b) si indica con a -h ib.
La nostra definizione di somma di due numeri complessi si
può quindi anche enunciare nel modo seguente: la somma dei
numeri a -+- ib, a -\- ib' uguaglia (a -h a) -+ i (b -+- b').
La somma di due numeri a -h ib, a — ib immaginari coniu-
gati è il numero reale 2 a.
(*) Ciò equivale a convenire che un numero reale a si possa indicare col nuovo
simbolo (a, o); convenzione ben lecita, perchè (a, o) è un simbolo affatto nuovo.
I NUMERI COMPLESSI 31
In generale, se ai -4- ih, a2-hih2, , a„ H- ibn sono n numeri
complessi, noi diremo che
(ai -h a2-h .... -4- a„) -h i (&i -h 62 ^- + &»)
è la loro somma.
Così pure si chiamerà differenza dei due numeri complessi
a -4- ib, a -f- ib^ quel numero (a — a) -{- i (b — b') che, sommato
con a -h ib', riproduce il numero a -h ib.
E ben evidente da quanto precede che per la somma e la
sottrazione di uno 0 piti numeri complessi valgono le ordinarie
regole del calcolo algebrico.
Porremo, per definizione, uguale a — L il prodotto di i per i,
ossia il qiiadrato di i ed uguale ad ia il prodotto di i per
il numero reale a (*).
Prodotto di due numeri complessi a -f- ib, e + id si chiamerà
il numero che si ottiene facendo la moltiplicazione con le abi-
tuali regole dell'algebra.
Si avrà così per definizione:
(a -f- ib) (e + id) = ac -4- ibc -f- ida + i%d ;
ossia, poiché per definizione i^ = — 1,
(a + ib) (e -4- id) =■ {ac — bd) -4- i {bc + ad),
■ Se 6 = cZ = 0, il prodotto così definito coincide proprio
con ac, la nostra definizione non è dunque contraddittoria con
la definizione dell'algebra elementare. E, se & = 0, e e + i^ = i
(se è cioè e = 0, 6^ = 1), tale prodotto di i per il numero reale a
si riduce appunto ad ia, come richiede anche la convenzione
preliminare.
Si noti che il prodotto di due numeri a -4- ib, a — ib imma-
ginari coniugati vale a^ -4- ò'^ ed è perciò sempre reale positivo
(nullo soltanto se a = ò = 0).
Prodotto di tre numeri complessi è per definizione il prodotto
che si ottiene moltiplicando il prodotto dei primi due fattori
per il terzo: facilmente si estende la definizione al prodotto-
di n fattori.
Si dimostra facilmente:
V II prodotto di più numeri complessi è indipendente
dall'ordine dei fattori.
(*) Che ciò sia logicamente lecito è ben evidente. Per es. il prodotto di ìper i
è una frase nnoTa, che per la prima volta incontriamo. Siamo padroni di darle
quel significato che più ci piace, così come siamo padroni di introdurre un nuovo
vocabolo nella lingua italiana, dandogli un significato a nostro arbitrio.
32
CAPITOLO III — § 9
2^ Il prodotto di un numero complesso N per la somma S
di più numeri complessi è uguale alla somma dei prodotti di N
per ciascuno degli addendi di S. n
3"^ Se «1, a2, , a^ e pi, P2, , P« sono più numeri com-
plessi, il prodotto ccicc.2 a„, ^i ^o Pn si ottiene moltiplicando
il prodotto CC1OL2 a„, per il prodotto Pipo Pn-
Valgono cioè anche per la moltiplicazione dei numeri com-
plessi le regole del calcolo algebrico elementare.
Quoziente dei numeri a -f- ib, e -h id si dirà quel numero
X -f- iy il cui prodotto con e -f- id riproduce il numero a + ib
quando x -+- i}" esista e sia determinato.
I numeri a; ed ?/ sono perciò definiti dalle equazioni
\ xc — yd^=^ a
] xd -h yc =^ h
le quali determinano x ed y soltanto se
f
c^ -\- d^ è differente da zero ( ), ossia se e e t^ non sono entrambe
nulli, ossia se il divisore e -h id è differente da zero ; questa
limitazione (che il divisore sia jiifferente da zero) è la stessa
che si presenta nel campo dei numeri reali.
P) I numeri reali si rappresentano coi punti di una retta,
i numeri complessi a -h ih si rappresentano assai spesso coi
punti di un piano, ove
sia fissato un sistema di
coordinate x, y cartesiane
ortogonali (figura 8): il
punto^, che haper ascissa a
e per ordinata b, si assume
come immagine del nu-
mero a -4- ib. Se 0 è l'ori-
gine delle coordinate car-
tesiane, se indicansi con p
^ e 6 le coordinate p = OA
e 0 = (a?, p) polari di A,
sarà:
^
-a
Fig.8.
a = p cos 6, ò = p sen 0, p = | j/a
b
a
b'^ , cos 0 =
sen 0 = — ' tg0 = — ; e quindi a-{- ib ^=^ p (cos 0
P
a
P
i sen 0).
(*) Risolvendo, sì trova infatti
ac -h hd
y =
he — ad
c' -^ a^ " e H- d^
Se c^ 4- d^ := 0, ossia se e --- d = 0, allora dovrebbe essere anche a
h = 0.
E in tal caso le x, y sono indeterminate.
I NUMERI COMPLESSI 33
I numeri p e 0 si dicono rispettivamente il modulo e Var-
g omento ài a -\- ih.
Se a -H io = 0, allora soltanto è anche p nz 0 e l'argomento 0
è completamente indeterminato ; il modulo di ogni altro numero
a-¥ ih è positivo e l'argomento è determinato a meno di multipli
di 2 TU. L'argomento di un numero reale vale zero oppure ti, secondo
che il numero è positivo, o negativo. Il suo modulo coincide
col valore assoluto. Pertanto, per ragioni di analogia, se ^ è un
qualsiasi numero anche complesso, con \z\ se ne indica il modulo.
Due numeri immaginari coniugati hanno lo stesso modulo
ed hanno argomenti uguali, ma di segno opposto.
II prodotto di due numeri complessi
p (cos 0 -4- i sen 0), p' (cos 0' -4- i sen 0')
uguaglia :
pp' (cos 0 cos 0' — sen 0 sen 0') -4- i pp' (cos 0 sen 0' -h sen 0 cos 0') =
= pp' i cos (0 -f- 0') -f- i sen (0 + 0') !.
Se ne deduce facilmente che :
U prodotto di due o più numeri complessi ha per modulo il
prodotto dei moduli e per argomento la somma degli argomenti.
Ne segue che : Il quoziente di due numeri complessi (di cui
il divisore sia differente da zero), ha per modulo il quoziente
dei moduli e per argomento la differenza degli argomenti.
Y) Siano ai -h ihi , ai -H Ì62 due numeri complessi, ne siano
Aij A2 i punti immagine, sia .
Ai il quarto vertice del pa- '
rallelogramma di cui Ai, A^
sono vertici opposti e l'ori-
gine 0 è un terzo vertice;
dico che Az è il punto im-
magine del numero somma
dei numeri ai -f- ihi, a2 -\- ih^
(fig. 9) (*). Infatti l'ascissa
di J.3 uguaglia la proiezione >
di OA^ sopra Ox, ossia la
somma delle proiezioni di , pjg 9
{*) Se noi consideriamo un numero complesso come definente la forza rappre-
sentata dal segmento che congiunge l'origine 0 al punto A immagine del numero
complesso, si deduce dall'enunciato del testo che l'operazione di somma di due
numeri complessi corrisponde a trovare la risultante delle due forze corrispondenti.
Come i numeri reali x servono a misurare le forze uscenti da un punto e
3 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
34 CAPITOLO III — § 9
OAi, AiA^. Poiché OA2 ed AiA-^ sono segmenti uguali ed ugual-
mente orientati, la proiezione di AiA-^ è uguale a quella di OA2 ;
e quindi l'ascissa di ^4-5 uguaglia la somma delle proiezioni di
OAi, OA2 sopra Ox, ossia la somma ai -+- «2 delle ascisse ai, a2
di Al, A2 : in modo simile si prova che l'ordinata di ^3 è 6i -h òj.
Il lato OAs del triangolo OAiA^ è minore od uguale alla
somma OAi -h AiA^ (l'uguaglianza avviene solo se il punto ^1
appartiene al segmento O^^). Ma poiché AiA-^ = OA2 ed i
segmenti OAi, OA2, O^-j sono i moduli dei numeri complessi
dati e della loro somma, avremo che : Il modulo della somma
di due (0 inù) numeri non supera la somma dei moduli, non
è inferiore alla differenza dei moduli. Questo teorema é la
generalizzazione di un teorema già dato per i numeri reali.
B) Se n è un intero positivo, con x"^ indicheremo, anche
se :r é complesso, il prodotto di ìi fattori uguali ad cr (ponendo
poi a;^' = 1 se a; ^ 0, ex^ =^ x) e con .r~"il quoziente— (se x'^O).
X
Se m è intero, il modulo di x"' vale \ x j"" (cioè il modulo
della X innalzato alla m^**'""' potenza); e V argomento di x"^ vale
il ])rodotto di m per Vargomento della x.
Sia F{z) un polinomio nella z e precisamente
F{z) = l-{-'b^ z -I- ?)^ ^2 4- 4- ì),/ z'" (le h numeri non tutti nulli).
Sia hh la prima delle h differente da zero. Sarà
F{z) = l-^h,z'' + {h,z'']z{^-^ + ^-^^z^ + 1^.^.-^-1'
z"
Sia A la massima delle
hhA-ìl l 'bh
Ih
. Siano r, 6 modulo e
hi, l'I hk
argomento di ?>/,, e siano f, 0 modulo e argomento della z. Sarà
hhz^'^rp'' ] cos {6 -h Ji ^i) -h i sm {6 -\- h à) \ ,
cosicché hhz'' sarà un numero reale negativo, se d ~\-h'^ = -^, cioè se ò ™ ^^
Sarà in tale ipotesi
\P{z)\^\l-j-ì)uz''\-^\huz^^
\F{z)\^\l~r?'\'\-Ar ^ ^ — ^ .
aventi la direzione dell'asse delle x (in un verso 0 nell'altro), così i numeri com-
plessi x-\-iy possono servire a definire (e potremmo forse dire, ampliando il
significato della parola, a misurare) le forze uscenti da un punto 0 e poste nel
piano xy, in guisa che alla forza risultante di due 0 più forze date corrisponda
il numero complesso somma dei numeri complessi corrispondenti alle singole forze
componenti. I numeri complessi trovano importantissime applicazioni nello studio
delle correnti alternate : p. es. alle estensioni delle leggi di Ohm e di KirchhofF.
I NUMERI COMPLESSI 35
Supponiamo p così piccolo che
r e'' < 1 cosicché 1 — r o^' è positivo
p <1 cosicché i—p"'-^' è minore di 1
Ap p/' + i
:; < 1 cosicché r p'' > Ar •
Da'(l) si dedurrà
P(2)^l-r o'' -f Ar ^ ^ — ^ ^ < 1 _ r/»^' 4- Ar ^ < 1.
1 — P 1 — p ^
Possiamo dunque dare alla z un valore tale che |P(;er) i <1.
Moltiplicando P {2) per un numero Jc z^O, e mutando ^ in ^ — a si trova :
Se un polinomio P (z) ha per z = a. un valore k 7^ 0, esiste qualche valore
di z per cui il polinomio assume un valore, che in modulo è minore di ] P(a)i.
Senza parlare delle potenze più generali (ad esponente fratto,
irrazionale 0 anche complesso) noi parleremo ancora soltanto
j.
di x"" = IX per n > 1 intero positivo. Con tale simbolo noi
indicheremo ogni numero complesso, la cui n'*'"'* potenza sia
uguale ad x.
Siano p, 9 il modulo e l'argomento della x ; cosicché x =
= p (cos 0 -i- ^ sen 9). Siano analogamente r, B modulo e argomento
di jT/^ Per definizione
I r (cos § -h i sen 5) j"* = p (cos ^ -\- i sen 9)
ossia :
r"" (cos n S + 2 sen n ^) = p (cos 9 H- ^" sen 9).
Cosicché /' = p, ed n 5 differisce da 9 per un multiplo di 2 tt.
Cioè il modulo r di f/x uguaglia il valore (aritmetico) della
radice n^""* del modulo p della x. E l'argomento B tZi y x vale
— 4- 5 dove 9 é V anomalia della x e k è un intero.
n n
Còsi avremo :
|/^ = ^p|cos(--f-— j-^^sen(-+— jj = i/p
dove si è posto :
9 2kTz\] .,,-( 9 . . 9)
cos — l-2sen— }£fc
n n)
27t7c 2hTz
Si = cos h i sen
w n
Ora al variare di k (k = intero) quanti valori può ricevere
la quantità St qui definita ?
36 CAPITOLO III — § 9
Si osservi che, se /^ e k sono due numeri interi, sarà Sj. =i S;,
allora ed allora soltanto che :
2/i^Tu 2^71: 2/^:1: Iki^ .
cos = cos 5 sen = sen ?
n n n n
2 z- 7^ o Ji 'ji
il che accade solo quando — — e differiscono per un
n n
multiplo di 2 7^,
/2kn 2h7z ^^. , ,. ^ \
I = multiplo di 2 7^ I '
\ n n /
ossia quando :
k — /^ =: multiplo di n ;
e però, dando a k gli n valori 0, 1, 2, , n — 2, n — 1, si
otterranno radici distinte, mentre i valori n, 7i-\-l, , 2 n — 1 di/t
riprodurranno le stesse radici nello stesso ordine, e così via
periodicamente. Del pari, dando a k i valori — 1, — 2, , — w,
si riprodurranno le stesse radici in ordine inverso, e cosi via
periodicamente.
Dunque : Un numero reale 0 complesso ha n radici n^^'"'^ fra
reali e complesse, che si ottengono moltiplicando una di esse
per ciascuno dei numeri s^, ossia per ciascuna delle radici
n^''"'® di 1. Infatti supponendo x^=l, cioè p = l e 0 = 0,
1
— •
x" si riduce ad Si.
La formola che ci dà i numeri s^., ossia le n radici n^**""
dell'unità, è
2kT: . 2 ^ TU
Si- = cos f- i sen ?
n n
dove basta dare a k gli n valori 0, 1, 2, , w — 1.
Questa formola mostra ,che i punti corrispondenti alle n
radici ^'*''''' dell'unità sono distribuiti sulla circonferenza avente
l'origine per centro e per raggio l'unità, e dividono la circon-
ferenza in n parti eguali ; vale a dire tali punti sono i vertici
di un poligono regolare di n lati inscritto in essa.
Basta infatti osservare che i numeri Sq = s,,, £1, £2, , ^n-i
hanno tutti per modulo l'unità, e che l'argomento di uno qua-
lunque di essi differisce dall'argomento del suo successivo per
2 TX
un angolo uguale a — - radianti, cioè air?/"'"''' parte di 360"^
n
(2 TU radianti).
I NUMERI COMPLESSI 37
Per esempio, i valori di j/l sono :
1,
2n
e — cos -+■
o
2n
1
1/3,
2
471
•^ = cos -- -1-
4 n
1
2
È
evidente che y] è
immaginario
coniugato
di s e
che
1
— ^ — ^ -
1
s
E si può anche provare geometricamente che il punto di
1 1/3
ascissa x =^ 1 e ordinata y = 0, il punto a; = — , y =z ^ —
1 1/3
e il punto X =^ 7^^^ V '^^ — "^T" ^^^^ ^ ^^^ vertici di un
triangolo equilatero inscritto nel cerchio col centro nell'origine
e raggio 1.
Negli esercizi calcoleremo per via puramente algebrica le £
per i casi n = 3, 4, 5 (es. 33 a pag. 61).
Oss. E appena necessario ricordare che da tutto questo si
deduce in particolare che, nel campo dei numeri complessi, si
può estrarre la radice quadrata anche da un numero negativo
n = — \n\ e che tale radice quadrata ha i valori ± ^ ]/ | w |.
Non ci occuperemo per ora delle potenze il cui esponente
è un numero complesso, né della estensione della teoria dei
logaritmi ai numeri negativi 0 complessi.
§ 10. — Equazioni di 1% 3" e 4" grado.
Le formole (equivalenti) ben note
— ò ± \ì)^ — 4 ac
^-=— ~ -\l ~ Q x =
2 a
che danno le radici di un'equazione di secondo grado
ax^ + èo: + e = 0
x: -\- pd^ -\- qz=i 0
{a 7t 0)
acquistano significato generale (anche se ^^- q o ir — 4 ac
ax^ 4- hx-\- e — a{x — Xi) (x -
-x-ù
b
Xl 4- X2 —
a
e
Xl Xo =
a
38 CAPITOLO III — § 10
sono negativi) nel campo dei numeri complessi. Se Xi, x^ sono
tali radici è noto che valgono le identità :
x^ -^ px -\- q ^=^ {x — Xl) {x — x'2)
Xl -h X2^=^ — p
XiX2=^ q
La teoria dei numeri complessi permette di risolvere in
generale anche le equazioni di terzo e quarto grado. Noi, come
esempio e più che altro a titolo di utile esercitazione, ci occu-
peremo qui delle equazioni di terzo grado, riassumendo nel modo
più rapido uno dei metodi di risoluzione delle equazioni di
quarto grado.
Sia data l'equazione di terzo grado
x"^ -h ai x^^ -^ ao X -\- «•> = 0.
Posto X = y ~ ' l'equazione si trasforma in un' equa-
o
zione del tipo :
y^ -h py -\- q = 0:
la quale, posto y =2 u -\- v, diventa
u^ -h v^ -i- (3 uv -h p)iu -{- v) -h q^' 0,
-i /'Hi''
UlllillllU IIIUIUC ft"
si riduce alla
cosicché, se poniamo inoltre uv = — -^i*), la nostra equazione
o
ic^ -}- v^ = — q.
Ma è pure u^ if^ = — -^ ; e quindi u^, v^ sono le radici del-
l'equazione :
ossia :
z' -\- qz —
f _
27
u' = -
2 K 4 27
v'=-
(*) Ciò è lecito ; perchè dei numeri w, v è finora soltanto prefissata la somma y\
e quindi si può anche scegliere ad arbitrio il valore del prodotto u v.
I NUMERI COMPLESSI 39
y
Estraendo Te radici cubiche, si traggono i valori di ic, v e
si trova :
Ciascuna di queste radici cubiche ha tre valori; scelto, p. es.,
per la prima uno di essi arbitrariamente tra i tre possibili, il
valore da darsi alla seconda radice cubica è completamente
determinato da ciò che il prodotto delle due radici cubiche
p
(ossia uv) deve uguagliare — ~ -
ó
Siano a, h due valori dei nostri radicali, il cui prodotto
P
uguaglia — • Se £ =4= 1 è una radice cubica di -h 1 , la terza
, , 1 o
radice cubica di 1 sarà (come si è visto al § 9) — = £^. I tre
valori del primo radicale saranno : a, sa, £"a ; i valori corri-
spondenti del secondo saranno b, s^ò, £&, quindi la nostra equa-
zione avrà le tre radici a-hb, sa 4- s"ò, s^^a -h^b generalmente
2 3
Q P
distinte. Se — - -H — - = 0, allora posso supporre chiaramente (*)
a^= b, e delle tre radici almeno le seconde due sono uguali
tra loro.
2 3
n V
Siano p, q reali ; se "^ — h — > 0 posso supporre a, b reali ;
delle tre radici, una è quindi reale, le altre due immaginarie
2 3 3
coniugate. Invece, se — -f-|^ < 0 [per il che è necessario che^
sia minore di — —- ? e quindi che p sia negativo ( j? = — \p |)],
/■~2 IT
/ Q P
le radici sono tutte e tre reali, nonostante che 1/ — — h^^— sia
immaginario, come ora proveremo. Posto :
2 8
3- -Jr- ^= — r- {r reale),
la nostra formola diventa :
27
= ]/-|+^>+]/-
- - rr.
(*) Almeno, se p, ci sono reali. Il lettore esamini il caso generale.
40 CAPITOLO III — § 10
Si scriva ciascuno dei due radicandi sotto forma trigono-
metrica, ponendo :
D :=: — \- V' — — ^ — pnc fì — — ^— oati fì ,
4 27' ^°^^ = -2p' ««•ie=p
si avrà :
y = l/'p (cos 0 H- i sen 9J 4- j/p (cos 9 — i sen 0).
I tre valori della prima radice cubica sono :
0 . 0 1 3,- ( 0+2:1 . 0H-27C
- ' 1/ P cos f-
0-Ì-4TC . 0-+-47I:
]/ P ) cos "^ + ^ sen ~" ( ' 1/ P cos f- ^ sen
^1
1/P ! cos h i sen — \ •
I tre valori della seconda radice cubica sono :
3/-( 0 . 0 1 :v-i 0 + 271: . 9 + 271)
yplcos- ^ sen — p |/p cos i sen j ^
3/-j 0+4TC . 0+471)
1/ P cos ^ sen •
Si osservi che ogni valore di y si ottiene sommando un valore
del primo radicale con un valore del secondo, scelti in guisa
che il loro prodotto sia reale. Si avranno dunque le tre radici :
3/-!) / , 0 . e \ ^/ 0 . 0 \ I ^ 3/-
- ì/P ) \ cos ^ + i sen — 1 ~+" l cos — t sen — - I == 2 ]/ p cos,
[\ 3 3/\ 3 3/)
^ :>,,- 0+271. 3.- 9 + 4n
y-2 = 2 1/ p cos ' 2/:> — 2 1/P cos
dove :
^p = V/ — J— =1 '1/ -^— (perchè^ dev'essere negativo).
Queste formole si possono dedurre per via elementare.
V 1/3 y
Infatti, posto z = , - = — ; ,- — ' l'equazione diventa:
. 2Ì/p 2 j/_^
_ 4 P y _P / ^ 2p ,--^ ^ -}- tì' = 0 ossia :
sys ^1/3
2 ^ J/' — p
I NUMERI COMPLESSI 41
(fì f) fi \
4- _^ 1 gj deduce :
3 3 3 /
ù n
cos 0 ■= 4 cos^ — 3 cos — •
o o
Mutando 0 in B -h 2kn (dove ^ è un intero), si trova :
,0-f- 2kn ^ e-h 2kn
4 cos^ — i— 3 cos cos 0 = 0
ó ó
che si riduce alla precedente equazione quando si ponga :
^-h 2k'K '3l/3g 3l/3g q
- cos ; cos 0 = , = .-±— = ^
3 2py—p '^\v\V\p\ 2P
E facile riconoscere che, se Xi, X2, x-^ sono le tre radici della
nostra equazione, valgono le identità :
x'^ -h ai x^ 4- ao :r -f- «a = (2: — Xi) (x — 0^2) (x — x^)
«1 = (0:1 -f- Xo -f- X:ì)
^2 '=^ XxX^-^ Xo X-i + X-^ Xi
a.i = — a^i a::2 ^3,
forinole che sono affatto analoghe a quelle testé ricordate rela-
tive alle equazioni di secondo grado (Cfr. anche il § 14).
Equazioni di quarto grado C^)-
Per risolvere l'equazione di quarto grado
ic* -h a^ x-* -\- a2 x^ -h a^ X -h «4 = 0,
si indichino con c,,C2, C3, C4 le quattro radici (Cfr. il § 14), e si ponga:
^', = e, C2 4- C3 C4 ; ^2 = c, C3 + C2C4 ; ^3 = e, C4 -h e, C3.
Sia .^^ -f- a ^' 4- (3 5^ -h '/ — 0 l'equazione di terzo grado, che ha le radici ^„ ^2, ^z-
I coefficienti di questa equazione non cambiano, come è facile verificare, permu-
tando le e ossia sono funzioni simmetriche delle e, che si possono subito calcolare
quando sono date le a (Cfr. il seg. § 14).
Risolvendo tale equazione di terzo grado, si troveranno i valori delle 0.
Poiché (e, Co) (C3 c^) = «4 e e, C2 + c^ c^ = ^,, delie e, e, e c^ c^ si conoscono somma
e prodotto, e quindi si possono calcolare, risolvendo un'equazione di secondo grado,
sia e, C2 che c^ c^. Dalle equazioni (Cfr. il § 14)
e, C2 (C3 H- C4) + C3 C4 (e, -h C2) = — a,
(C3 4- C4) -h (e, 4- C2) = — a,
si possono poi generalmente ricavare Cj-hC; e e, 4-C2. Delle c,,C2 (come anche
delle C3, C4) si conosceranno così somma e prodotto ; e pertanto si possono dedurre
i valori di tutte le e.
(*) Le righe seguenti si potranno studiare soltanto dopo letto il § 14 a pag. 48
e seg.; lo studio delle equazioni di 4** grado trova però ben scarse applicazioni.
42 CAPITOLO IV — § 11
CAPITOLO IV.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE
§ 11. — Calcolo combinatorio.
Prodotti di binomii e formola del binomio.
a) Ricordiamo rapidamente una ben nota formola di calcolo
combinatorio.
Sia ( 7^ ) il numero delle combinazioni di n oggetti ad h
ad il, cioè il numero dei modi possibili, in cui possiamo sce-
gliere un gruppo di h elementi tra n ^ li elementi prefìssati.
Per /^ = 1 è evidentemente ( J = n. Se poi (7/i_i è un gruppo
di h — 1 elementi scelti tra i dati, noi potremo dedurne un
gruppo Gh di h elementi, aggiungendo a Gu-i uno dei residui
n — {h — 1) elementi; otteniamo così da ogni Gk-i proprio
n — ih — 1) gruppi Gh. Operando però in tal modo sui vari
Gh-i, otteniamo ogni Gh precisamente h volte, perchè ogni Gh
contiene h gruppi Gh - 1 Perciò il numero / , ì dei Gh è uguale
fi ' — (Ji — lì / n \
al prodotto di ~ per il numero (7 -,) dei Gh-i.
Quindi
(n\ n /n\ n — 1 /n\ n (n — 1)
(n\ n — 2 /n\ n {n — l) (n — 2)
ecc.
0=
1.2.3
n(n — l)(n — 2) [n — Qi — 1)] . .
\h. ^
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 43
(n\ I ^
7 j = ■ ■,' — — • Ne risulta in parti-
co..™ (:) = (,.^ „)..).
Il numeratore n(n — l)(n — 2) (n — h-hl) della (1) dà il numero delle
disposizioni di n oggetti ad /^ ad /i cioè il numero dei modi con cui si possono
scegliere ed ordinare h oggetti tra n oggetti dati, quando si considerino come
distinti due gruppi, anche se differiscono soltanto per l'ordine in cui si susseguono
i dati oggetti. Infatti il primo oggetto di una di tali disposizioni si può scegliere
ad arbitrio tra gli n oggetti dati ; il secondo si potrà poi scegliere tra i residui
n — 1 ; scelti i primi due oggetti, il terzo si può scegliere tra i residui n — 2 ; e
cosi via ; lo /i"''"» ultimo oggetto della disposizione si può scegliere tra n — h-\-l
oggetti.
Così il denominatore | h — h (k — l)(h — 2) (h — h-j-1) è il numero delle
disposizioni di h oggetti ad li ad h, cioè è il numero delle permutazioni di h
oggetti.
La formola precedente dimostra dunque che, come si può dimostrare diretta-
mente nel modo più semplice, il numero IVA delle combinazioni di n oggetti adh
ad h è uguale al quoziente ottenuto dividendo il numero delle disposizioni di n
ogg'etti ad h ad h per il numero delle permutazioni di h oggetti (**).
P) Siano X, cii, ao, an numeri qualsiasi. Consideriamo il
prodotto : (^ _^ ^^) ^^ _^ ^^) (^ ^ ^^)^
L'algebra elementare insegna che questo prodotto è uguale
alla somma di tutti i prodotti P ottenuti moltiplicando tra di
loro un addendo del binomio x -h a^ un addendo del binomio
a; 4- «2, , un addendo del binomio x -\- a„. Tra questi pro-
dotti P ve ne saranno alcuni che non contengono la x (o, come
si dice, che contengono il solo fattore x^), altri che contengono
il fattore x e non il fattore r^, altri che contengono il fattore x"^
e non il fattore x^, ecc., altri che contengono il fattore x'^. Per
formare quelli dei prodotti P, che contengono il fattore x^
e non il fattore x^~^^ (0 ^h ^n), si dovrà scegliere in h dei
binomii x -f- ai, x -h ^2, , x -f- a^ il primo addendo x, e negli
altri n — h binomii si dovrà scegliere il secondo addendo, per
fare poi il prodotto degli n addendi così scelti. Ognuno di questi
prodotti P sarà dunque il prodotto di x^ per un prodotto di
n — h fattori scelti tra le n quantità ai, a2, , a„. La somma
di questi prodotti P sarà dunque il prodotto di x^ per la
(*) Questa uguaglianza diventa intuitiva per chi consideri che ogni gruppo di h
elementi, determina un gruppo ài n — h elementi : quello formato con gli n — h
elementi residui. E viceversa. Dunque tanti sono i gruppi di h elementi, quanti i
gruppi ài n — h elementi.
(**) Infatti, permutando nei | h modi possibili gli h oggetti di ogni combina-
zione, si ottengono tutte le disposizioni.
44 CAPITOLO IV — § 11-12
somma hn-h di tutti i possibili prodotti ad n — li ad n — h
delle n quantità «i, «2, , a^.
Si avrà così :
{x + ai) {x -\- as) {x -H aj = x"-f- òix''"^ -h &o^''~'-4-
-}- 6„ _ 1 a; -+- &n
dove il coefficiente hu di a;''~^' (^ = 1,2. , h) è la somma
degli (^)=(w — 1\ prodotti, che si ottengono moltiplicando a ^ a ^ in
tutti i modi possibili le ai, a2, , a^. Se ai = a2 = = a„ = a,
questi prodotti sono tutti uguali ad a'. E perciò :
(x4-ar=x^^+(^)ax^-^ + (^)aV-' + +(„!!- 1)^"''^+(^)«^
Come si riconosce dal teor. di questo § 11 a pag. 43, i coeffi-
cienti del 2° membro equidistanti dagli estremi sono uguali tra di
loro, ciò che si poteva prevedere a priori, osservando che il l"" e
quindi anche il 2^^ membro non mutano scambiando x con a.
Se nella formola iniziale poniamo — a^ al posto di a,- troviamo,
indicando ancora con hh la somma degli (^j = |^ ^ ^^ prodotti
ad h ad li delle n quantità ai, a2, , a^ :
(:r - ai) (:r - a2) ...... (a: - a„) =
x'' - h a;"-' -f- h x"-' + -+- (- 1)'^ h a^""' + -+- (- D" ò„.
§ 12. — Divisione di due polinomii.
Siano M(x), Nix) due polinomii della variabile x, i cui gradi
sieno rispettivamente m, n. Sarà :
Mix) = Uà x''' -+- ai oc""^ 4- -h a,;,_i x 4- a^,
]Sf(x) = bo x'" -h òi ic''"^ -+- -f- ì)n-ix 4- ò^,
(dove a, ò sono costanti).
Dividendo iltf (a:;) per N {x) con le regole dell'algebra elemen-
tare si troverà un quoziente Q {x) ed un resto R {x), entrambi
polinomii nella x.
Il grado di R{x) è inferiore a quello del divisore N (x).
E si ha identicamente :
Mix) = N Cr) Q{x)-\- R [x) (*).
(*) Il problema di determinare Q {x) ed B {x) è per definizione quello di deter-
minare i due polinomii in guisa che questa uguaglianza sia una identità, e che il
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 45
Se m^n, Q è un polinomio di grado m — n; se m<7i,
allora Q è identicamente nullo ed R ^= M, In particolare, se
m =^ n, allora Q è di grado nullo, cioè non dipende da x, o,
come si suol dire, è una costante.
Viceversa, se p. es. m ^ w, e se Q ed R sono due poli-
nomii, che soddisfano identicamente alla precedente uguaglianza,
se il grado di R non supera quello di N, allora Q è di grado
m — 71 ed i due polinomii Q ed R sono precisamente il quo-
ziente ed il resto che si ottengono dividendo M per N.
(Tutti questi risultati sono una facile estensione dei teoremi
analoghi per i numeri intieri).
Se R{x) = 0, il polinomio N{x) si dice essere un divisore
di M{x). In tale caso, se k è una costante qualsiasi non nulla,
anche kNix) è un divisore di M perchè si ha:
M{x) = kN{x)
[\qì:o]
Ogni polinomio di grado zero si riduce ad una costante k
ed è un divisore di M{x), perchè dividendo M{x) per k si
ottiene il quoziente -r- if (a:) ed un resto nullo. I polinomii di
k
grado zero (le costanti) hanno quindi nell'attuale teoria un
ufficio analogo a quello che il numero 1 ha nella teoria dei
divisori dei numeri intieri.
Se noi applichiamo gli stessi metodi che si adoprano nella
aritmetica nello studio dei divisori dei numeri intieri tro-
viamo :
Un polinomio, che sia divisore comune dei due polinomii
M (x) e N (x) è un divisore anche del resto ottenuto dividendo
M per N ; e viceversa un polinomio che è divisore di questo resto,
e divide il polinomio N (x), divide anche V altro polinomio M (x).
grado di B(x) non superi quello del divisore N{x). Quest'ultima convenzione è
necessaria per rendere univocamente determinato il problema.
Si noti che altre sono le convenzioni dell'aritmetica. Nell'aritmetica dei numeri
fratti (come nell'algebra delle frazioni) non si parla del resto (che si suppone nullo).
Nell'aritmetica dei numeri interi positivi si rende univocamente determinata la divi-
sione, imponendo al resto di non superare il divisore (così che non si dice mai
p. es. che, dividendo 22 per 7, si ha 2 per quoziente, 8 per resto). Così che il risul-
tato ottenuto nella divisione algebrica di due pohnomii può contrastare con tale
convenzione aritmetica, quando ai coefficienti e alla x si diano particolari valori
interi positivi. Il lettore lo può riconoscere, osservando che il quoziente e il resto
ottenuti dividendo a?^ -h (b — a^} per ic — a sono rispettivamente x + a e b; e
ponendo p. es. a? = 5, a = 4, h = 3.
46 CAPITOLO IV — § 12-13
Dividiamo M(x) per il polinomio Nix), sia R (x) il resto della div.
N{x) " " « R (x), sìsi Eiix) ^ " " 2* "
« R (x) " " " Ri{x), sia i?2(a;) " » " 3* "
» Ri{x) " " '' -^2(3;), sia Rsix) il resto ;
così continuiamo fino a che si trovi un resto nullo; si dimostra
(come si dimostra in aritmetica per i numeri intieri) che l'ul-
timo resto ottenuto differente da zero (lo stesso polinomio N (x)
se R (x) = 0) è un divisore comune di M{x), N{x) ed è anzi
il M. C. D. (*) di questi polinomii, perchè ogni divisore comune di
M, N è Mìì divisore anche di quest'ultimo resto e viceversa.
Se questo massimo comune divisore è di grado zero (è
costante), i due polinomii M, N si dicono primi tra loro.
Se si vogliono cercare i divisori mx -f- n di primo grado di
un polinomio P (x), si osserva che, se Ix — ( — — m = x — a
(essendo a = ) è un divisore di P (x), anche mx -h n è un
m /
divisore di P(x) e viceversa.
La ricerca dei divisori di primo grado equivale alla ricerca
dei divisori del tipo x — a, di cui parleremo nei seguenti
paragrafi.
»
§ 13. — Regola di Ruffini.
Vogliamo dividere il polinomio
P{x) =z afix"" -h ai:r""^ H- ... -f- an-ix -h a^
per x — a. Il quoziente sarà un polinomio
Q(a;) = go^"~'H-gx""' + ... -^-gn-i
di grado n — 1 ; il resto sarà un polinomio di grado zero, cioè
un numero R indipendente da x. Calcoliamo quoziente e resto.
Sarà identicamente
P{x) = {x — oL) Q{x)-^-R.
Cioè, confrontando i coefficienti delle varie potenze della x:
ao = qo;ai = qi—c(.qQ;a2 = q2 — ^qù"'',<^n-i'=qn-i--^qn~2;cin--R — ^qn-i'
(*) Tale massimo comun divisore è determinato a meno di un fattore costante.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 47
Le quali forinole equivalgono alle seguenti che consentono
il più semplice e rapido calcolo dei coefficienti g,: e del resto R:
lo
«0
2i
ai
-+-a go
<l2
«2
-f-agi
q
as
+ ag,_
-i
q,,
— 1
Cl)i
_i-^a
qn-2
R
an
-+-ag„
— !•
Cioè: / primi coefficienti ao, qo sono uguali; e per s^l
o^/2Ì qs è uguale al coefficiente omologo as aumentato dal pro-
dotto di a ^er /7 precedente coefficiente qs_i. Pos^o R=^qn,
questa proposizione è vera anche per s = n.
Le precedenti formole dimostrano che :
go = «0 ; gì rr= ao a 4- ai ; g2 = ao a- 4- «i a -f- ^2
g, = ao a' -h ai a'~^ -f- -h a,_i a 4- a,
E ^=1 q^ zrz ao cC" -f-aia^'"^ 4- a^-i a 4- a„.
L'ultima delle quali si enuncia così:
Il resto ottenuto nella divisione di un polinomio P (x)
per X — a si ottiene scrivendo a al posto della x in P (x).
Cosicché: Il polinomio P (x) è divisibile per x — a allora e
allora soltanto che a soddisfa alla P (a) = 0, aoè c/?e a è
radice dell'equazione P (x) = 0.
Caso particolare di queste formole sono le identità :
-a" {x — a){x'' ^-^ax'' ' 4- a' a;" ' 4- ... 4- a" 'x4-a'^-
-■)
per 72 intero positivo
e per m intero dispari
r£- 4- a'- = (^ 4- a) {x'''-^ — ax'''-' 4- a' x'''-' —
— a"^-'.T4-a"-').
Se nella penultima formola poniamo x- — 1, a — g, troviamo
l+q + q' + + q-'-\ ^,
che è una formola ben nota nella teoria delle progressioni geo-
metriche.
48 CAPITOLO IV — § 14
§ 14. — Relazioni tra coefficienti e radici
di un'equazione algebrica.
a) Dedurremo più tardi dalla teoria delle funzioni continue
in più variabili il teorema fondamentale dell'algebra (teorema
di Gauss).
Ogiii polinomio P (x) = ao x"" -f- ai x"" ~ ^ -H ... -H an_i x 4- an
di grado n nella x è decomponibile in uno e in un
solo modo nel prodotto di ao e di n fattori di primo grado
X — 0^1, X — «2, X- — cCn dove le a sono numeri distinti o
no, reali o complessi.
P{x) = ao^::"' 4- aix""^ + ... -f- «n-i x -4- a,, =
— ao (x — aO (x — as) ... {x — aj. (1)
[Ricordo che, dicendo che P (x) è di grado n, si è detto
anche che ao ^ O].
Questa decomposizione in fattori ha qualche analogia con
la decomposizione di un numero intero in fattori primi. Nel-
l'algebra dei polinomii, che noi studiamo, i polinomii di primo
grado hanno così un ufficio analogo a quello che i numeri
primi hanno nell'aritmetica dei numeri interi.
Gli n numeri a^.a^, ^nC) sono tutte e sole le radici
dell'equazione P (x) = 0 (perchè P (x) può essere nullo soltanto
se uno dei fattori x — a è nullo).
Ciò che rende intuitivo il teor. del RUFFINI relativo al caso
in cui il polinomio P{x) è divisibile per un binomio x — a.
Le formole del § 11 (pag. 44) ci dicono allora che:
La somma delle radici a vale — •
ao
La somma dei prodotti ottenuti moltiplicarldo a due a due le
radici a vale — ^ •
La somma dei prodotti ottenuti moltiplicando ad h ad h
h ^i>
(se h^n) le radici a vale ( — 1)
Il prodotto delle n radici a vale ( — 1)" — ^ •
ao
Questi teoremi sono la generalizzazione di quelli ricordati
nel § 10 per le equazioni di secondo e terzo grado.
(*) Ricordo che le ce possono anche essere non tutte distinte.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 49
P) Dal teorema sopra enunciato si deduce anche che, se P (x)
è un polinomio di (apparente) grado n, e se l'equazione F{x)=^0
ammette più di n radici, allora F (x) è identicamente nullo, e
ogni mimerò è radice della P (x) = 0 (in altre parole tutti i
coefficienti di P (x) sono nulli).
Se due polinomii F {x), Q (x) sono uguali per 'tutti i valori
della X, allora l'equazione F(x) — Q {x) = 0 ammette infinite
radici (perchè ogni numero ne è radice). Quindi il polinomio
F {x) — Q {x) ha nulli tutti i suoi coefficienti ; cioè il grado
di P (x) è uguale al grado di Q (x) ; ed ogni potenza della x
ha coefficienti uguali in F {x) e in Q {x) : in una parola i poli-
nomii F {x), Q (x) sono identicamente uguali.
Più precisamente due polinomii Fi (x), Po (x) di grado n — 1
sono uguali identicamente, se assumono gli stessi valori in n
punti distinti ai,a2, , a^. Cioè è completamente determinato
un polinomio F (x) di grado n — 1, quando sieno dati i valori
P(ai), P(a2), ,P(aJ, che esso assume in n punti distinti
ai, ^2, , a^. Ed è facile intuire e verificare che un tale poli-
nomio è dato dalla
Pix)
-Pia)^"" ■
- «2) (x -
-a,)..
. (x - aj
- ^2) (ai -
- ai) {x
-a,) ..
- a,) ..
. (ai - a J
.. (x -aj ^
^^^''''{a,
-+-...
- ai) (a.
-as) ..
.. (a2 — aj
^pr. ^(^
- ai) {x
-as) .
.. (x -an_i)
{an — ai) (a„ — ao) ... (an — a„_i)
y p. . {x —ai) {x — a2)...(a; -a.-i) {x — a^+Q {x — a.-^s) "-{x — aj
(a,: — ai) (a/ — ao) ... {at — ai-i) (ai — a^_f_i) (a,— ai+2) ... {ca-ct^^ò
= 1
7) Alle forinole di § 14, a, possiamo dare un altro aspetto notevole (Newton).
Se noi nel secondo e terzo membro di (1) poniamo x + h al posto della x, i
coefficienti di h nelle espressioni che se ne deducono saranno uguali. Si trova così
con facile calcolo che:
na^x"-'^ -j-(w— 1) a, a;"-~H- -h a«_i =
= «0 (a? — a,) {X — OL^) (X — OLn-ì) (X — OL,,) +
"h 0^0 (^ — °^i) (^ —^3) (^ — ^'t-d (^ — ^«) 4-
-}- «0 (ic — o'i) (ic — 0^2) (^ — ^'^-'ù (^ — ^«) H-
-f «0 (ic — a,) (a; — «2) (x — ccn-2) {x — a„_.i) =
.^Zi^4.ZM+ , P(^) . (2)
a? — 3Ci ic — a, X — oL„
G. Tubini, Analisi matematica.
50 CAPITOLO IV — § 14
Se noi calcoliamo i quozienti dell'ultimo membro di (2) con le regole del § 13
troviamo :
na^x"-'^ -i- {n — 1) «, a;" -^ -h -\-2a„-zx + a„-i =
«0 ^" ~ ^ H- ( «0 ^2 + «i) ^" ~ '^ -i- K«2^ + a,cc2+ «2) ic« --'^ H-..;4- («oOCj"-^ 4- a,«2«-
a^x"-^ ^- {a^(^n-V a^x''-^'\'{affLù-^ a.cLn-^-a^x'' -■''\-...-^r{a^
dove con Sh ho indicato la somma a/* + «2^' + ... + a/ delle /i''"'*^ potenze delle
radici oc. Se ne deduce, confrontando primo e terzo membro:
«0 s, + a, — 0
«0 S2 + «, s, H- 2 «2 = 0
a,, s«-i -ha, s« _ 2 + ...-+-««- 2 s, -l-(w — 1) a;i_i = 0.
Le quali formole permettono di calcolare successivamente le s, , So, S3, , s«_i.
Moltiplicando P(a:) per a;^'(/i = 0, 1,2, ), sostituendo nel prodotto una delle a al
posto di X (col che tale prodotto si annulla) e sommando tali prodotti si trova:
(posto m = n-hh = n,n~j-l,n-h2, )
ae Sm + «, s./_i + + «,/-! Sw_« -1-1 + Un s,. -» = 0 (?n ^ n)
che permette di calcolare successivamente s«, s«4-i, s»-|-2,
Cosicché : Si possono calcolare le s/. appena sono noti i coefficienti sa del-
l'equazione P (x) = 0.
ò) Si calcoli la somma Sa , ^ dei prodotti ottenuti moltiplicando la potenza
a' """ di una radice di una data equazione per la potenza ■i''^'"'" di un'altra radice.
Basta osservare che il prodotto s, s^ — s^ , 5 4- s^-j-^ se a 7^ |S, e che
SaS^ = Sj,^4-2Sa, ^.
Cosicché Sa,s^=Sy_ s^ — Sa -f 3 , se ol :^ '-i, e s^^x = -k- (Sx Sa — S.y^).
Le formole di Newton permettono così di esprimere in ogni caso s^ , ? per mezzo
dei coefficienti dell'equazione. In modo analogo si deduce all'esame del prodotto
Sa Sq sy che: La somma s^, ^, y dei prodotti ottenuti moltiplicando la x''^""" potenza
d'una radice di una equazione per la p'^^""" potenza d'una seconda radice, e la
yesima potcnza d'uìia terza radice è espriììiihile razionalmente (*) mediante i
coefficienti dell'equazione stessa.
In modo simile si definiscono e si insegnano a calcolare le s^,^, 7, ^, ecc., ecc.
Tanto le Sa che le Sa, 5, Sa, 3, 7, ecc., sono funzioni simmetriche delle radici
d'una equazione (cioè non cambiano di valore quando tali radici si permutino tra
di loro in un modo qualsiasi). Ed é facile persuadersi che ogni polinomio sim-
metrico delle radici di un'equazione si ottiene come combinazione lineare delle
somme Sa, s, y^ Sa, ?, v testé calcolate, ed é quindi esso stesso calcolàbile ra-
zionalmente mediante i coefficienti dell'equazione (senza che sia necessario
risolverla).
Così, p. es., se oc, , a,, otj, a^ sono le quattro radici di una equazione di quarto
grado, l'espressione:
5 oc, («2* ^3^ -h c^,' Ci,' -+- oc,2 oc,^) + 5 ct2 K' ^' 4- «r ^.' -+- ^' ^z"") +
+ 5 0C3 (a,2 a,2 + oc,2 ^^^ 4. a,^ oc,^) -f 5 a, (a,^ a^^ + a,^ x,^ + «3^ a,^) -^-
-f- 4 oc, 2 (a, -f- oc. 4- ot;) 4- 4 cl^^ (0C3 + a^ + a,) + 4 a.^' (a^ + oc, -h a.^) -h
+ 4 0C42 (a, + 0C2 -+- 0C3) rr- 5 s, , 2 , 2 -+- 4 So , , = 5 (s, S2 , 2 — S2 , 3) + 4 S2 , , —
^ 5 (^s, ^' ~^' — [so S3 - s,~jj -h 4 ^S2 s, — S3J.
(*) Yale a dire con sole addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 51
Il suo calcolo è ridotto a quello di 51,52,83,84,85, che noi sappiamo eseguire
per mezzo delle formole di Newton. Ma, naturalmente, speciali artifici potrebbero
abbreviarlo di gran lunga.
§ 15. — Radici razionali di un'equazione
a coefficienti razionali.
Data un'equazione di grado superiore al quarto, è general-
mente impossibile ridurne la risoluzione alla estrazione di radici,
come avviene per le equazioni di 2**, di 3*", ed anche di 4"" grado.
Svariatissimi metodi sono stati trovati per calcolare con appros-
simazione tali radici ; ma questi metodi hanno ben scarsa impor-
tanza' per l'ingegnere. Per noi tale ricerca rientrerà nello studio
più generale della risoluzione approssimata di un'equazione anche
non algebrica (*).
Cionostante vogliamo aggiungere un'osservazione specialmente semplice.
Poniamo che i coefficienti deirequazione :
f (^■) = ao 5'^ + a, ^"-1 4- + a,-ì z-\-au = 0 (1)
siano numeri razionali (cioè numeri interi 0 fratti). Senza diminuire la generalità
possiamo supporli interi, perchè, qualora fra di essi ve ne fossero dei fratti, baste-
rebbe moltiplicare ambo i membri dell'equazione per il minimo multiplo comune
dei denominatori dei coefficienti fratti, per ottenere un'altra equazione (avente le
stesse radici della prima) ed a coefficienti tutti interi.
Supposto adunque che le a siano numeri interi, noi dimostreremo che, se la
nostra equazione possiede una radice razionale — (a, j? interi primi tra di loro)
allora a è un divisore di an, ^ un divisore di a,. Infatti in tali ipotesi si ha:
•■(^;
l"+
Mtr
-1
+ ...
..-+-«.-
-1 — -h a-.
==0,
che si
può scri^
cando
per
r):
'
a.
. a*' + a,
a«-^8
-^a,^''
-^s'^-...
.. -h a.
-loc,'.''-
■^-^aa^
ossia :
ao a" -
= — ?
; «.^"-
-'+a,cL-
--|5 +
+ a
>r,-^ \
oppure
an e-'" -
.-a;
! ao^"^
' ^acL—
^^^4-.
.... 4- au
-1 r-^ !
= 0,
Poiché le a/,a, j3 sono numeri interi, le quantità tra j j nei secondi membri
di queste equazioni sono numeri interi ; e perciò questi secondi membri sono rispet-
tivamente divisibili per ce e per p. Altrettanto avverrà quindi dei primi membri ;
ossia ao cf." è divisibile per ^, a« ,5« per oc.
(*) Rinvio ai trattati di algebra complementare chi volesse approfondire tali
studii (di cui noi daremo un breve cenno in un venturo paragrafo).
Nel trattato di Nomograpìiie del D'Ocagne lo studioso troverà molti metodi
grafici per eseguire tali calcoli ; metodi, che ricorrono all'uso di una bilancia 0
del galvanometro, si trovano svolti in Ghersi, Matematica dilettevole e curiosa
(edita da Hoepli).
52 CAPITOLO IV — § 15-16
Ma, poiché oc e |3 sono primi tra loro, a^' è primo con /5, /i» con a. Se ne deduce
tosto che a,, :è divisibile per (5, a„ divisibile per a. e. d. d.
Ponendo i^ = 1 in questo teorema si ha :
CoROLL. Le radici intere della nostra equazione a coefficienti a interi sono
tutte divisori del termine noto a.,,.
Se a,) = 1 dal precedente teorema si trae :
CoROLL. Se a^ = 1, la nostra equazione non può avere radici fratte, ma
soltanto al pia radici intere.
Questi teoremi riducono a pochi tentativi la ricerca delle radici intere o fratte
di una equazione algebrica. E si potrebbero aggiungere altri teoremi dello stesso
tipo, che abbrevierebbero ancora la ricerca.
§ 16. — Polinomii a coefficienti reali.
Supponiamo che i coefficienti Uo, ai, , a„ del polinomio
P{x) = ao os" -f- ai x^^'^-h -+- an-i x -h an
sieno numeri reali. Cionostante le radici a possono essere numeri
complessi (come è ben noto già dalla teoria delle equazioni di
secondo grado). Sia ^ H- ^Y una tale radice. Sarà
Il numero complesso coniugato sarà pure nullo.
Tale numero si deduce dal precedente cambiando i in — i.
Ma questo cambiamento non muta i coefficienti ao, ai, ..., che
sono reali. Dunque questo numero immaginario coniugato, che
è ancora nullo, vale:
E questa uguaglianza dimostra che anche ^ — iy è radice
dell'equazione P(x) = 0.
Tra i fattori lineari x — a, in cui è decomposto P{x) figurano
perciò entrambi i fattori [x — (P -h i^)] e [x — (P — iy)] : il cui
prodotto è il fattore reale di secondo grado pi{x) = (x — ?>f-^^'^ =
= 0;^ — 2?>x-\- (P^ -H Y^). E il polinomio P(x) è divisibile per
questo fattore. Il quoziente Pi (x) sarà ancora polinomio a coef-
ficienti reali. E, se la equazione Pi (x) = 0 possiede qualche
radice immaginaria (che sarà pure radice di P(a;) = 0), allora
Pi{x) sarà ancora divisibile per un polinomio p2Ìx) di secondo
grado a coefficienti reali. Sarà perciò Pi (a;) = 2^2 W P2 (^),
e quindi Pix) =^pi{x) p2(x) P2{x), dove P2 (a;) è ancora un
polinomio. E così via. Se ne deduce:
Ogni polinomio P (x) a coefficienti reali si può scomj^orre
nel prodotto di polinomii di primo 0 di secondo grado a coeffi-
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 53
denti reali. I fattori di primo grado corrispondono alle radici
reali della P (x) = 0.1 fattori di secondo grado corrispondono
alle radici complesse. Anzi ognuno di questi fattori individua
una coppia di radici immaginarie coniugate.
Se il polinomio è di grado dispari, evidentemente esso non
può essere prodotto di soli fattori di secondo grado. Quindi:
Ogni equazione di grado dispari a coefficienti reali possiede
almeno ima radice reale.
Sarà bene enunciare esplicitamente la osservazione iniziale:
Se P (x) = 0 è un'equazione a coefficienti reali che possiede
una radice complessa, essa possiede anche la radice immaginaria
coniugata. Essa si può, per quanto abbiamo qui dimostrato,
generalizzare così : Se un'equazione P (x) a coefficienti reali pos-
siede r radici complesse uguali a un numero a -4- i p. essa possiede
anche r radici uguali al numero complesso coniugato a — i p.
' In tal caso tra i precedenti fattori v« ne sono r uguali ad
{x — a)^ + p^
§ 17. — Sistemi di equazioni algebriche.
a) Se f{x) = 0, ^ Ce) = 0 sono due equazioni algebriche,
che hanno comune la radice a, allora x — a è divisore sia di
f{x) che di g (x) e quindi anche del loro massimo comun divi-
sore; cioè a è radice dell'equazione ottenuta uguagliando a zero
tale M. C. D. E reciprocamente, una radice di questa ultima
equazione è radice comune delle f{x) = 0, ^ (x) = 0. Se tale
M. C. D. è una costante (diiferente da zero), se cioè f(x),
g(x) sono primi tra di loro, le equazioni f{x) = 0, ^(x) = 0
non avranno radici comuni.
P) Si può scrivere in vari modi la condizione necessaria e
sufficiente affinchè le equazioni f{x) = 0, g {x) ^= 0 abbiano
almeno una radice comune.
Se p. es. ai, a2 ..., a„, sono le radici della g {x) = 0, basta
esprimere che è nulla una almeno delle /'(ai), /"(ag), ..., f{^m),
ossia che il loro prodotto
/'K)^(a,) f(aj = 0.
Il primo membro di questa equazione, essendo un polinomio
simmetrico delle radici della g {x) = 0, si può calcolare (§ 14, §)
senza risolvere questa equazione. Tale polinomio (che si può cal-
colare anche in altri modi, p. es., esprimendo che almeno una
54 CAPITOLO IV — § 17
delle radici di f{x) = 0 soddisfa alla g (x) = 0), il cui amml-
larsi è condizione necessaria e sufficiente affinchè le due equa-
zioni abbiano almeno una radice comune, si dice il risultante
delle due equazioni : esso è un polinomio formato coi coefficienti
ai e bi delle due equazioni.
Y) Sistemi di due equazioni algebriche intere a due incognite.
Uguagliando a zero un polinomio in piìi variabili si ha
un'equazione algebrica a piii incognite, ed i gruppi dei valori
delle incognite, che soddisfano l'equazione, sono le soluzioni di
essa. Date due equazioni algebriche in due incognite x, y, consi-
deriamo il loro sistema, e cerchiamo le loro soluzioni comuni.
Siano :
f(x,y) — ^ , g(x,y) = ^
le due equazioni ; la prima di grado n, la seconda di grado m
nella x. Ordinate secondo le potenze decrescenti di x, esse
prendono la forma
g(x,y) ^ ^Ay) x^''-^^Ay)x'--'-^ ^2(y)^"-^-4- ...-+- e]),, (y) = 0
dove le 9 e le ^ sono polinomii nella y.
Se una coppia di valori di x ed y, p. es., a:; = a, ^ = P,
soddisfa entrambe le equazioni, allora, immaginando in esse
posto ^ ^= P, si hanno due equazioni nella sola x, che avranno
per radice comune il valore :z; = a ; cosicché per ?/ = ? sarà
nullo il risultante R di queste due equazioni in x. Si noti che,
per calcolare R, nelle due date equazioni si considera come
incognita la sola x ; cosicché questo loro risultante R sarà un
polinomio R{y) nella sola y, perché dipenderà solo dalle 9^• (?/),
^j (y), coefficienti delle date equazioni.
Se X = a, ^ = P soddisfano le due equazioni, la R (y) = 0
ammette ^ come radice. Viceversa ogni valore P di ?/ che annulli
R (y), sostituito nelle due equazioni date, le riduce a due equa-
zioni in X aventi almeno una radice a comune, che si calcola
servendosi dell'algoritmo del M. C. D. Si trovano così tutte le
coppie di valori di y ed x soddisfacenti alle due date equazioni.
L'equazione Riy) = 0 dicesi l'equazione risultante dalla
eliminazione di x dalle due date equazioni. In generale, però,
per calcolare R (y), o per risolvere il dato sistema di equazioni,
è opportuno ricorrere ad artifici che variano da caso a caso, e
che solo la pratica può suggerire.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 55
B) Vediamo come il problema di trovare le radici z= x-h iy
reali o complesse dell'equazione
f{x) = ao^"" -h aiz^"^ -^ ... -f- a„_i ^ 4- a^ = 0
a coefficienti % = hj -\- icj reali 0 coniplessi (x, y, Cj , b numeri
reali) si riduca al problema di trovare le radici reali di un'equa-
zione a coefficienti reali. La nostra equazione diventa nelle attuali
ipotesi :
(60 -4- ico) {x -h Ì2jT ■+• {ài -4- iéi) (x -h iyy-' -h ... 4-
-f- (hn-i + iCn-i) {x + iy) -+- (6n + ìcJ = 0.
Sviluppando ed eseguendo tutte le operazioni, il primo membro
si ridurrà in fine al tipo
P{x,y) + iQ{x,y),
ove F e Q saranno polinomii nelle x, y di coefficienti reali, onde
l'equazione precedente diventerà:
P(x,y)-^iQ(x,tj) = 0
e si scinderà nelle due:
P(x,y) = 0 ; Qix,y) = 0.
Siamo così ridotti alla risoluzione di un sistema di due
equazioni in due incognite, che si potrà fare col metodo dato
in y). Ogni soluzione reale x=^Xo, y ^= yo di questo sistema
dà una radice Xo -h iyo dell'equazione proposta, e viceversa.
Esercizi.
1"^ Dati n punti, tre qualunque dei quali non sono mai in
linea retta, quante sono le rette che contengono due di tali punti ?
' 2** Quante sono le estrazioni possibili distinte al gioco
del lotto?
S"" Quante sono le estrazioni possibili al gioco del lotto,
in cui ^ (^ < 5) dei numeri estratti sono prefìssati a priori?
RlS. Dei 5 numeri estratti, k sono prefìssati; i restanti
6 — k devonsi scegliere tra i residui 90 — k numeri. Il nu-
mero cercato è perciò fs^Z^). Per A; = 2, 3, 4 si ottiene il
56 CAPITOLO IV — § 17
numero dei casi, in cui è possibile vincere un ambo, un terno,
una quaterna secca. Tale numero diviso per il numero (eserc. 2"^)
(^5^) delle possibili estrazioni dà là cosiàetidi probabilità di vittoria.
4^ Dati n < 90 numeri interi positivi non maggiori di 90,
in quante estrazioni del lotto può avvenire che k dei numeri
estratti, e non più di k siano tra gli n numeri dati?
Poiché k dei numeri estratti sono da scegliere tra gli n
numeri dati e gli altri 5 — k tra i residui 90 — n, il numero
cercato è f^) f^^Z^).
5^ Dati n interi positivi non maggiori di 90, in quante
estrazioni del lotto può avvenire che almeno /^ < 5 dei numeri
estratti sieno fra gli n numeri dati?
Si devono sommare, se p. es. >2 ^ 5, il valore delle estrazioni
di cui all'esercizio 4°, relativi ai valori k = h, k = /i -h 1, ,
k = ^.
6« Dimostrare che (-) = (-;!) + (--{).
Ris. 1^. Si verifichi direttamente.
Ris. 2^ Si osservi che tra le f^j combinazione degli w
elementi ai, ^2, , a„ ad m ad vi ve ne sono (^^ j che non
contengono ai ed (^Z|) che lo contengono.
r Dimostrare che (:)-(:Zl) + (^Z?) -^ ..... + (^Zl);
(Cfr. eserc. 6").
8' Sviluppare (x -t- a -4- bf.
Ris. Si ponga e = a -h ò e si sviluppi, sostituendo poi
alle singole potenze di e lo sviluppo corrispondente di {a -h b),
(a -4- bf, ecc. Si trova che il coefficiente di x^ a^ V (p, q, r in-
I ^
teri positivi di somma n) è , , , — , come si può provare
anche direttamente.
9'' La somma dei coefficienti dello sviluppo di {x -+- aT
vale 2": la somma dei coefficienti dello sviluppo di {x — aT
vale 5:ero.
Ris. Infatti tali somme sono uguali ai valori di {x ± aT
per a; = a = 1 . '
IO'' Sviluppare {2x±^ay e calcolare la somma dei
coefficienti dello sviluppo.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 57
11*" Dimostrare che i numeri contenuti nelle orizzontali
del quadro
1
1.1
1 2 1
13 3 1
14 6 4 1
1 5 10 10 5 1
sono ordinatamente i coefficienti dello sviluppo di (x H- aj,
(x -h aY, (x -f- af, {x -4- af, ecc. Si noti che il termine di
posto h della riga di posto k si ottiene sommando i termini di
posto h ed h — 1 della riga precedente (l <h < k).
12"* Calcolare il numero [^] delle combinazioni con ripe-
tizione (in cui cioè uno stesso elemento può essere ripetuto una
0 più volte) di n elementi ad /^ ad /i?
Ris. Quelle di tali combinazioni che non contengono il primo
degli n elementi dati sono (se m>1) in numero di [^"^ ]•
Quelle che lo contengono sono in numero di [;^!li], quando sia
posto [o] = l- Dunque si ha R] = [^I^] + U-i]- Queste
proprietà, insieme alle [^] = 1, [fj = n bastano a definire [^]-
Dunque [f] = (♦^ + ^ " ^j, perchè ('' "^/^ ~ ^) gode (esercizio 6*^) di
tutte queste proprietà.
13'' Dalla (cos d -\- i sen 0)" = cos w 0 -f- ^ sen n 0 si de-
ducano, sviluppando il primo membro con la formola del binomio,
i valori di cos n 0 e sen n 0.
Ris.
cos n 0 — cos" 0 — (2) cos"-' 0 sen' 0 + (4) cos""' 0 sen' 0 —
sen n 0 = sen 0 j (i)cos"-' 0 — (sjcos"-' 0 sen' 0 -4- (5)cos"-' 0 sen' 0 — .... (
che SI possono scrivere anche in altro modo ricordando che
sen' 0 = 1 — cos' 0 ; sen' 0 1= (l — cos' 0)', ecc.
14"" In modo simile dalla
(cos ai -+- i sen aO (C0S2 -f- i sen ^2) ... (cos an -\- i sen aj =
= cos [ai -+- ao + ... aj -4- i sen [ai -f- ao -f- ... -f- aj
58 CAPITOLO IV — § 17
si possono dedurre le formole di addizione più generali per
calcolare cos [ai 4- a2 -f- -f- aj e sen [«i -4- a^ + ... -h aj.
15° "Il lettore deduca in modo analogo dalla
cos*" X sen* a; = ^ j [cos a; 4- i sen x\ -+- [cos x — i sen x\ l'".
. j [ cos a; -i- i* sen x] — [cos x — i sen x\ j*
che cos"" x sen* rr si può esprimere come funzione lineare di seni
e di coseni di multipli dell'angolo x.
16° Dimostrare che
per tutti i valori dell'intero n.
\T Calcolare j/I
+. ^ / ^ . ^\ ^ . . ,/~ "^ ''^
Ris. E i = Il C0S--4-Ì sen- )• Quindi ±1/ ^ — cos- 4- ^ sen--
\ 2 2 / 4 4
18° Calcolare per via trigonometrica [/l -f- 2, y i^ yi,
]/ — 1, per ogni valore dell'intero positivo n,
19° Porre sotto forma trigonometrica i numeri
2 4- 3 i
20° Calcolare per via trigonometrica le radici ^i**"'" di ± 1
per w = 1, 2, 3, 4, 5, 6.
21° Semplificare le espressioni
2 4- 5 i 2 — 5i 1 4-i \—i
4-
3 4- J/— 3 3 — l/— 3 ' 2 4- l/— 5 2 — j/— 5 '
3 3 ^ 1 4- i 1 4- i ^ •
5 4- 6 i "^ 5 — 67: ' 2 4- j/^^^ "^ 2 — V'—'^ '
1 4- i 1 — i 1 4- i . 2 4- 3 i .
2 4- [/^^ 2 — 1/^=^ ' 2 — 3^ I—i
3 (^ + w/)' 4- 3 (i^' — i?/)' + 4 z (a; 4- ?'?/)' — 4 ?* (:r — 2»'.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 59
22*^ L' equazione x'' — 1 = 0 ha per radici Si, % ..., s„,
cioè le radici n"*'""* dell'unità. Queste radici soddisfano dunque
alle :
£i + £2 + ... -4- Sn = 0 ; Si £2 -I- £, S3 -f- .... -h £„_i £„ = 0
^1 ^2 ^3 + ^~ ^n-2 ^n — 1 ^n ^^=^ 0 ; ;
Si £0 .... £n-i -+- .... + £2 £3 .... £n = 0 ; £1 £2 .... £« = '(— 1)""^'.
23° Calcolare i coefficienti di un'equazione di 4** grado,
che ha per radici 0, 1, — 1,2.
Ris. L'equazione è x {x^ — 2 x'^ — ce -h 2) = 0.
24** Calcolare la somma delle prime, o delle seconde, o
delle terze potenze delle radici dell'equazione
:r' — 2 :^' + 4 a;' — 1 = 0.
Rls.Dalle^i — 2=0, .^2— 2 5i -+- 8 = 0, 53—2 52 -h 4^1 = 0
si trae 5i = 2, 52 = — 4, §3 = — 16.
7 7
25** Trovare le radici razionali ài x^ — — a;2-f-— ^~1=0.
Moltiplicando per 2 l'equazione diventa
2 :z;' — 7 a;' -f- 7 a; — 2 = 0.
a ^
Se -Q- e una radice razionale, mutando, caso mai, 1 segni
di a, p (ciò che non muta la nostra radice) possiamo renderne
il denominatore P positivo. Il numero ^ è da scegliersi tra i
divisori positivi di ao = 2, cioè vale 1 oppure 2 ; il numero a,
essendo un divisore positivo 0 negativo di 0^3 = — 2, potrà
avere uno dei valori ±1,±2. Le eventuali radici razionali
sono dunque da cercarsi tra i numeri ± 1, ± — 5 ± 2. Si trova
che 1, 2, — sono effettive radici.
26** Risolvere l'equazione z;^ -f- a;^ -h 2 a; -h 2 = 0 (cer-
cando dapprima le sue radici razionali).
Una tale equazione (per cui a^ = 1) non ha radici fratte ;
si trova che — 1 è una radice intera. Dividendo il primo
membro per x-\-\^ l'equazione si riduce ad x"-^ 2 = 0, che
determina le altre due radici ±^|/2.
27** L'equazione ':f? -+- 2 .t^ + a; -h 2 =: 0 ha % come ra-
dice. Risolvere l'equazione.
60 CAPITOLO IV — § 17
Essa avrà — i come seconda radice. Il primo membro diviso
per {x -4- i) {x — i) =^ x~ -h 1 dà x 4- 2 per quoziente. La
terza radice è — 2.
28"* Si decomponga in fattori reali il polinomio
P(x) = x' — 2 x' -4- 2 x' — .x' -4- 2 X — 2,
sapendo che l'equazione F{x) ^ 0 ha le radici 1, — 1, i, 1 — ^.
Si noti che {x — i) (x -\- i) ^= x^ -h l ; '
[x — {l— i)] [x — (1 -f- i)] = x' — 2 X 4- 2.
Quindi :
p [x) = (x — 1) (x -f 1) (x' ■+- 1) (x' — 2 X -I- 2).
29** Come si cercano le radici comuni alle due equazioni
f{x) = x^ — 2 x' -h X — 2 = 0, g (x) = x' — 4: — 0 ?
Eis. Uguagliando a zero il Massimo C Divisore delle f{x),
g (x) si ha un'equazione, le cui radici sono tutte e sole le radici
comuni alle due equazioni.
Le due equazioni
x'— 2x'4-x — 2 — 0
x' — 4 =0
hanno dunque l'unica radice comune 2, perchè x — 2 è il
Massimo C. Divisore dei primi membri.
30'' Per un' equazione x^ -4- ai x^ 4- «2 x H- ^3 = 0 sono
date le somme Si, S2, s^ delle prime, delle seconde, delle terze
potenze delle radici. Si determinano i coefficienti ai, ^2, as. (Basta
ricordare le formole di Newton, in cui questi coefficienti si
riguardino come incognite).
31" Si calcoli
ai'^a2a3-4-a2*aia.5-f-a3*aia2-f-3 (ai^aa+as^aiH-afaa-l-a/ai-j-ao^ai-hasai^)
dove ai , ao , (X'^ sono le radici di x'^ 4- x -f 1 = 0.
Si noti che la somma 54, 1, 1 dei primi tre termini vale
^4 Si, 1 5r,, 1,
32** Si risolvano le equazioni
x' 4- 3 x' 4- x^ — 3 X — 2 = 0 , x' — a;' 4- x^ — 1 = 0
x^ — x^ 4- 4 X — 4 = 0,
cercandone prima di tutto le radici razionali.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE 61
3T Trovare direttamente le radici quadrate, cubiche,
quarte, quinte, di ± 1 ; cioè si risolvano direttamente le equazioni
:ì;2±1=0 ;;r'±l=0 ;a;'±l=0 ;^'±1=0.
Basta osservare che -
x^—l=^(x—l){x+l) ; a;' 4- 1 = x^ — i'' =^ (x — i) {x -4- i)
x' — l—ix— 1) {x'' -hx-h 1) ; x' -h l={x -hl){x^ — x-^ 1)
x' — l=(x^^— 1) (x^ -f- 1) — (x—l)ix-h 1) (x — i){x-{- i)
. x'-i-l=^ ix' 4- 1)'^ — 2 x' = (^^ + D' — (l/2 ^)' =
= (x' — x]/2-\-l)(x'-^x 1/2 -f- 1)
ix' —l) = {x — l)ix'-i-x''-hx''-hx-h 1)
e che per x =^ 0 sì ha. x^ + x'^ -\- x^ -h x -hi =^ x^ \ 2^ -h z — Il ove ^ = a; -H -
X
{o(f -h 1) = (x -4- 1) ix' — x^-i-x^ — x-hl)
echeper a;-l=Osihaa:;'^ — af^-hxr — x-h 1 =0;^ \^ — z — 1 |ove^ = :cH
' X
Si confrontino i risultati ottenuti per questa via coi risultati
ottenuti per via trigonometrica.
Sé"* Quando avviene che le due equazioni
x^-\-px-hq=^0 ,x^ + òa?+c = 0
hanno una radice comune?
35*" Analoga domanda per le
x'^'hpx-hq^=0 , x^ -h a=^ 0.
3 6"* Trovare se esistono radici comuni alle
:r* -h :z;' + 4 ^' + 3 X + 3 = 0 ^' + 4 :z;' + 3 = 0.
37** Date le somme Si, So, s^ di tre numeri, dei loro qua-
-drati, dei loro cubi, si trovi la somma 54 delle loro quarte
potenze. Si cominci col calcolare l'equazione di cui i tre nu-
meri sono radici.
38"" Data un'equazione algebrica a coefficienti razionali,
come se ne determinano le eventuali radici del tipo a ]/ — 1,
dove a è un numero razionale ? Si faccia poi tale ricerca per
x' -h x^ -h 6 x' -h 4 X -h 4 — 0.
l'equazione _4 _, .3 , k ^2
39° Costruire un polinomio di terzo grado, che sia uguale
ad 1 per a; = 1, 2, 3, 4.
62
CAPITOLO V —
18
CAPITOLO V.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO
Nel § 17 abbiamo dato un metodo generale per affrontare
il problema di risolvere i sistemi di due equazioni algebriche
in due incognite: metodo che è estendibile anche a casi più
generali. Ma questi studi vanno rapidamente complicandosi,
conservando un carattere di grande semplicità soltanto per i
sistemi di equazioni di primo grado. Questo caso (che del resto
si può trattare coi metodi più elementari dell'algebra) ha dato
origine a nuovi simboli e algoritmi, il cui studio costituisce
la teoria dei determinanti, ed offre rapidi metodi di calcolo in
alcune ricerche di geometria e di meccanica razionale. Per quanto
si tratti di una teoria di importanza più formale, che essenziale,
noi vogliamo ora esporne i tratti salienti.
§ 18. — Matrici.
a) Si dice matrice ad m righe ed n colonne l'insieme di
m n numeri o simboli, od espressioni algebriche {elementi) disposte
in m righe ed n colonne (*) racchiuse tra due coppie di sbarre
verticali. Cosi, ad esempio:
a h e d
f
h
P
m
k
sono rispettivamente una matrice a 3 righe e 4 colonne ed una
matrice a 2 righe e 5 colonne.
Nella prima matrice gli elementi a, 6, ^, 6^ costituiscono la prima
riga, 0, come si suol dire, la riga d'indice 1 ; gli elementi e, f, g, h
costituiscono la seconda riga o la riga d'indice 2, ecc.
Gli elementi a, e, l, costituiscono la colonna d'indice 1 ; gli
elementi b, f, m costituiscono la colonna d'indice 2, ecc.
(*) È inutile definire il significato della frase : « simboli disposti in una riga
0 in ima colonna ». Gli esempi seguenti basteranno a renderne chiaro il senso.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 63
L'elemento p della prima matrice è l'elemento posto nella
riga d'indice 3 e nella colonna d'indice 4.
Assai spesso gli m n simboli che costituiscono la matrice
(gli elementi della matrice), si indicano con una stessa lettera
dell'alfabeto (p. es., con la lettera a) accompagnata da due indici,
che variano da elemento ad elemento ; il primo è l'indice della
riga, il secondo è l'indice della colonna alle quali appartiene
l'elemento.
Così, p. es., se si indicano gli elementi della prima matrice
con la lettera a, e si vuol seguire la convenzione ora fissata,
si indicheranno gli elementi della prima riga a, 6, e, d rispet-
tivamente coi simboli aii, a^, ciu, ctu', gli elementi e, f, g, h
rispettivamente coi simboli «21 , «22 , ^23 , «^24 ; i quattro elementi
della terza riga coi simboli «31? «^32, «33, «34.
In generale una matrice a m righe ed n colonne s'indicherà:
«21
Ch2
«22
airi . . .
«23 • . .
• • «l,n— 1
. . a2,n-l
ain
(l2n
a,ni
<^m2
a,n3 . . .
• • (*m, n — 1
dinn
Il simbolo Urs indica l'elemento di una matrice, che appar-
tiene alla r*""" riga (riga d'indice r) ed alla s''''' colonna (colonna
d'indice 5). Queste convenzioni si usano spesso per semplificare
e rendere più chiare le notazioni.
Se m =f= n, la matrice dicesi matrice rettangolare; se m = n,
si usano due sbarre verticali soltanto ; e la matiiice dicesi
matrice quadrata 0 determinante di ordine n.
P) Sia k un numero intero positivo non superiore né a m,
ne a n; scegliamo a piacere k colonne e k righe tra le n co-
lonne e le m righe della nostra matrice ; i k^ elementi in cui si
incrociano le k righe e le ^ colonne scelte si troveranno disposti
in modo da costituire una matrice quadrata (determinante) di
ordine k, il quale si chiama un minore della data matrice.
Così, p. es., se m = 4, n = 5, si scelgano tre colonne,
p. es., la 2\ la 4% la 5^ e tre righe, p. es., la 2% la 3^ la 4\
I nove elementi determinati dalle intersezioni di dette righe
«22 «24 «25
e colonne formano il determinante
che è un
«32 «34 «35
«42 «44 «45
minore del terzo ordine contenuto nella matrice considerata.
I minori del V ordine sono gli stessi elementi della matrice.
64
CAPITOLO V — § 18-19
y) Tra gli elementi di una matrice quadrata di ordine 7i
sono specialmente notevoli gli n elementi della diagonale prin-
cipale : cioè quelli che appartengono a riga e colonna di ugual
indice. Per es., nel determinante
a
h
e d
a
P
T S
A
B
C D
p
a
r s
di ordine 4, la
diagonale principale è costituita dai 4 elementi a, P, C, s.
Diciamo che abbiamo trasposto (scambiato) due righe, p. es.
la t'*'"^" e la/*""'* se scriviamo la T""" riga al posto della/*"""
e viceversa. Altrettanto dicasi per le colonne. Così, p. es., dal
precedente determinante si ottiene il determinante
trasponendo la seconda e la terza riga.
a
h
e
d
A
B
C
D
a.
P
T
S
1
P
'l
r
S 1
1
§ 19.
Definizione di determinante.
I determinanti si considerano come simboli comodi a scriversi
per indicare certe quantità che ora definiremo (*).
Un determinante \a\ del primo ordine si considera come
identico al suo unico elemento a. Tale notazione non è però
usata, perchè con | a | si indica invece di solito non un deter-
minante, ma bensì il valore assoluto o modulo di a. Molti dei
seguenti teoremi non hanno del resto senso per determinanti
del primo ordine.
a h
Un determinante
e d
del secondo ordine si considera
come un simbolo equivalente alla diiferenza ad — he. (Ciò
che, come è facile a riconoscere, è conforme alla seguente defi-
nizione).
Noi ora, supposto noto il significato di un determinante di
ordine n — 1, definiamo il valore di un determinante di ordine n,
(Abbiamo così una definizione generale per induzione completa).
I determinanti più usati sono quelli del secondo, del terzo e
del quarto ordine.
(*) Taluni usano due coppie di sbarre verticali per scrivere un determinante,
pensato come matrice quadrata, usando poi due sole sbarre verticali se si vuole
indicare il valore che ora definiremo.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 65
Un elemento di un determinante si dirà di posto pari o di
posto dispari secondochè è pari o dispari la somma degli indici
della riga e colonna cui appartiene l'elemento secondo le con-
venzioni del § 18, a, pag. 63.
E chiaramente : Di due elementi consecutivi di una stessa
linea (riga o colonna) uno è di posto pari, V altro di posto dispari.
Sia dato un determinante D di ordine n e ne sia a un
elemento; sopprimiamo la riga e la colonna, cui appartiene a:
otteniamo un determinante (minore) D' di ordine n — 1, di cui
per ipotesi conosciamo il valore. La quantità -4- D\ se a è di
posto pari, 0 la quantità — D\ se a é di posto dispari, diconsi
il complemento algebrico di a.
Se un elemento di un determinante è indicato con una let-
tera minuscola seguita da uno o più indici, e se non vi è a temere
alcuna ambiguità, molto spesso il suo complemento algebrico si
indica con la corrispondente maiuscola seguita dagli stessi indici.
Cosi,
(1)
SI scrive
per esempio, se
D =
ai a-z a-i !
hi 62 h, \ '
Ci C2 C;ì 1
Al
Ci
h
h
e.
C3
ai
^2
Ci
C2
«2
^3
h
h
= ^2 C3 — C2 h,
— tì^2 Ci ai C2
== «2 ^3 — h «3, ecc.
Teor. I. Se noi cambiamo tutti gli elementi di una linea,
i loro complementi algebrici non cambiano.
E ciò perchè per formare il complemento algebrico di un
elemento si sopprimono proprio le due linee cui appartiene
l'elemento stesso.
Osservazione. Sia data una successione di oggetti, p. es.
a, ò, e, d, e, /; g, li, k.
Scegliamone due, uno di posto r, l'altro di posto p 4= r ; p. es.
l'elemento d di posto r = 4, e g di posto p = 7. Sia r il
posto del primo elemento, quando si cancelli il secondo, e p' il
posto del secondo quando si cancelli il primo. Nell'es. prece-
dente r' = 4 è il posto di d nella successione a, b, e, d, e, f, h, k
5 — G. Tubini, Analisi matematica.
\
66 CAPITOLO V — § 19
Ottenuta dalla precedente sopprimendo ^; e p'= 6 è il posto di g
nella successione a,b,Cje,f,g,h,k ottenuta sopprimendo invece d.
Il posto di un elemento non varia se si sopprime un ele-
mento che lo segue, mentre invece diminuisce di uno, se si .can-
cella un elemento che lo precede; perciò
r ^=^ r , ^' ^=^ p — 1 se r < p,
r' = r — l,p' = p se r > p.
In ogni caso / 4- p ed r -+- p' differiscono di una unità ;
cosicché, se uno di essi è pari, l'altro è dispari ; cioè
Analogamente, se in una matrice si cancella una linea di
indice r, allora le linee parallele che precedono la linea cancellata
(di indice p<r) conservano nella nuova matrice l'indice p; le
linee parallele, che seguivano la linea cancellata, che cioè ave-
vano un indice p > r, avranno nella nuova matrice l'indice p — 1
(appunto perchè la r"*'""" linea precedente è stata cancellata).
Anche nel caso delle linee di una matrice si possono pertanto
applicare le precedenti considerazioni.
Sia dato un determinante D ; sia a un suo elemento posto
sulla r'*"""" riga e sulla s'*'"'* colonna; esso è di posto pari o
dispari secondo che r 4- 5 è pari o dispari [nel primo caso
(— iy+* = -H 1, nel secondo (— 1)'+* = — l].
Il complemento algebrico J. di a è il minore [a ottenuto
cancellando riga e colonna incrociantisi in a e preceduto dal
segno (— If +^
Un elemento h di D, che appartiene a una riga e una
colonna distinte da quelle passanti per a, appartiene anche al
minore ^. Se y -^ % è pari, cioè |x coincide con A, il comple-
mento algebrico di b nel minore |JL si dirà il complemento
algebrico di b nel complemento algebrico A di a (nel determi-
nante iniziale). Se invece r 4- s e dispari, cioè A = — [a, allora
il complemento algebrico di b in ^, cambiato di segno, si chia-
merà il complemento algebrico di b nel complemento algebrico
A di a. Cioè il complemento algebrico di b nel complemento
algebrico J. di a vale il complemento di b nel minore |x otte-
nuto sopprimendo riga e colonna incrociantisi in a, cambiato o
non di segno secondo che A coincide con |i o con — fi, [cioè
secondo che a ha posto pari o dispari in B, cioè secondo che
( — 1) +* vale 4- 1 oppure — l].
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 67
Siano p, S i numeri d'ordine della riga e colonna che h ha
in D ; siano p\ 5' i numeri d'ordine della riga e colonna che b
ha in |x (che si è ottenuto da D cancellando la riga /*'*'''* e
colonna s'''"^"). Il complemento algebrico di ò in [x vale il mi-
nore M ottenuto cancellando da [a la riga e colonna incrociantisi
in b, preceduto dal segno -Ho — secondo che p' -h B' è pari
0 dispari, cioè preceduto dal segno di ( — 1)'''"^°.
Quindi il complemento di b in A, vale M preceduto dal
segno del prodotto ( — iy+* ( — lY''^^', cioè dal segno di
Ora M non è che il minore ottenuto da D sopprimendo
entrambe le righe ed entrambe le colonne che si incrociano in
a ed in b.
Così pure, se / ed s' sono i numeri d'ordine della riga e
colonna, cui appartiene a nel minore ottenuto da D soppri-
mendo le righe e colonne che si incrociano in b, il complemento
di a nel complemento di b vale
dove M è ancora il minore ottenuto sopprimendo in D le righe
e colonne che si incrociavano in a e in b.
Ora per Tosservazione precedente
(— l)^ + r>' = — (_ if' + F.
Analogamente è
(— iy + '''=: — (— 1)*' + ^
Moltiplicando, se ne deduce :
r 2^\r + ? + p' + r]' __ / -j^y' + s'-l-p-f-,]^
Perciò :
Teor. II. Se a, b sono due elementi di un determinante
appartenenti a righe e colonne distinte, il complemento alge-
brico di a nel complemento algebrico di b è uguale al comple-
mento algebrico di b nel complemento algebrico di a.
Def. Si dice valore di un determinante la somma dei pro-
dotti ottenuti moltiplicando gli elementi di una linea qualsiasi
per i loro complementi algebrici C).
(*) Applicando questa definizione a un determinante di ordine 2, si ritorna
al valore sopra definito di un tale determinante.
Se invece moltiplichiamo gli elementi di una linea per i loro complementi
algebrici cambiati di segno, e poi sommiamo, troviamo il valore del determinante
cambiato di segno.
68 CAPITOLO V — § 19
Così, p. es., nel caso precedente tale valore sarebbe :
ai Al 4- òi 5i -h Ci Ci, oppure a, A2 -H 62 ^2 -^ C2 C2, oppure
ai Al -\- a2A2 -^ a-^ A^, ecc.
Perchè tale definizione non sia contraddittoria in termini
bisogna però dimostrare che, da qualunque linea si parta, si
giunge sempre allo stesso valore (che, p. es., per il determi-
nante (1) è aiAi-^ hi Bi -f- Ci Ci = ai Ai H- ^2 A2 4- a^ A^ =
===: Ci Ci -4- C2 C2 -f- C3 C3 = ecc. ...).
Poiché il teorema si verifica tosto per i determinanti del
2"" ordine noi potremo dimostrarlo col metodo di induzione com-
pleta provando che, ammesso il teorema per i determinanti di
ordine n — 1, e quindi anche per i complementi algebrici (*)
degli elementi di un determinante di ordine n, esso si dimostra
valido anche per i determinanti di ordine n. E così noi faremo.
Per provare che, partendo da una linea qualunque, si giunge
sempre allo stesso risultato, basterà provare che, partendo da
una riga qualsiasi (p. es. la /""'") si giunge allo stesso
risultato, come partendo da una colonna qualsiasi (p. es. la 5'**"*'»).
E, poiché il teorema è stato ammesso per i determinanti di
ordine >^ — 1, noi, per calcolare i complementi di un elemento
qualsiasi, potremo calcolarli partendo da una loro linea qualsiasi.
Se noi sviluppiamo, come abbiamo detto, il determinante
iniziale prima secondo gli elementi della riga r, poi secondo gli
elementi della colonna s, troviamo due somme S, S' di n pro-
dotti (di un elemento per il suo complemento) che hanno un
addendo comune : il prodotto dell'elemento e in cui si incrociano
la riga r e la colonna s per il suo complemento C. Basterà,
provare che i risultati R, R' ottenuti sopprimendo dalle due
somme S, S' questo addendo comune, risultano uguali. Ogni ad-
dendo di i^ è il prodotto di un elemento a della riga r per il suo
complemento A] questo complemento si può, come abbiamo detto,
calcolare partendo da una sua linea qualsiasi, p. es. da quella
sua colonna, che in D aveva il posto s ; esso é uguale perciò
alla somma dei prodotti ottenuti moltiplicando ogni elemento h
di questa sua colonna per il complemento di tale elemento l
in A. Quindi R si ottiene così : Si moltiplichi ogni elemento a
della r^'™* riga per ogni elemento b della s^"'™^ colonna {distinti
(*) Ciò è evidente se si tratta del complemento di un elemento di posto pari (il
quale complemento è precisamente un determinante di ordine n — 1). Se invece si
tratta di un elemento di posto dispari, tale complemento è un determinante di or-
dine n — 1 cambiato di segno ; ma tale cambiamento di segno si ha, per definizione,
anche nei complementi algebrici dei suoi elementi.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 69
dair elemento e di incrocio) e per il complemento algebrico di b
nel complemento algebrico L di di e si sommino i risultati così
ottenuti.
R ' si otterrebbe similmente sommando i prodotti di ogni a
per ogni b e per il complemento di a nel complemento B di b.
Per il teor. II sarà dunque E = R\ e. d. d.
Osservazione — Da questa dimostrazione segue che il valore di un deter-
minante si ottiene sommando insieme :
a) il prodotto di un suo elemento e scelto ad arbitrio per il suo complemento
algebrico ;
^) i prodotti ottenuti moltiplicando un elemento a posto sulla riga di e per
un altro elemento h posto sulla stessa colonna di e, per il complemento algebrico
di a nel complemento di h (o, ciò che è lo stesso, il complemento di h nel com-
plemento di a).
Un risultato analogo si ottiene se gli elementi a, h descrivono due linee paral-
lele, p. es. due righe, restando però sempre in colonne distinte. In tale caso natu-
ralmente non si parla più di elemento di incrocio.
§ 20. — Proprietà di un determinante.
Teor. I. Se noi scambiamo ordinatamente le righe con le
colonne, il determinante D non muta (cioè diventa un deter-
minante D' uguale a D).
(Per es.
ai bi Ci
ai a^ a-s
^2 &2 C2
bi &2 &3
(I3 bs C3
Ci C2 C3
).
Ciò si può dimostrare 0 notando che per la stessa definizione
le righe e le colonne hanno lo stesso ufficio nel calcolo di D,
oppure [ammesso il teorema per i determinanti di ordine più
piccolo dell'ordine di D, perchè il teorema è evidente per
i determinanti di ordine 1, 2] osservando che, sviluppando D
secondo gli elementi della prima riga, si ha un risultato identico
come sviluppando D' a partire dalla prima colonna.
Teor. II. Trasponendo (scambiando) due linee parallele,
il determinante D cambia di segno (cioè si muta in un determi-
nante D' = — Z> ; anzi i termini di D' sono ordinatamente
uguali e di segno opposto a quelli di D) C)-
(*) Un determinante D di ordine n è una somma di più quantità T, ciascuna
delle quali è un prodotto di n elementi del determinante stesso. Queste T si dicono
i termini di D (cfr. i teor. del seg. § 21). Un termine di D è il prodotto di un
suo elemento per un termine del complemento algebrico dell'elemento stesso.
70 CAPITOLO V — § 20
Il teorema è evidente per i determinanti di ordine 2. Am-
messo il teorema per determinanti di ordine n — 1, dimostria-
molo per un determinante D di ordine n > 2. Il teorema così
sarà completamente provato col metodo di induzione completa.
Scambiamo in D, p. es., le righe r'*''"* ed s*''^^ Consideriamo
la f'''"' riga con t^r, t^s. Scambiando le righe di posto r
ed 5, si scambiano due righe nei complementi algebrici degli
elementi di tale f''^"' riga, che sono (a meno del segno) deter-
minanti di ordine n — le per i quali vale per ipotesi il teorema.
Basta ricordare lo sviluppo di Z) ottenuto partendo dalla f'"'"'
riga, perchè il teorema risulti provato anche per D.
Teor. III. Se un determinante ha due righe parallele uguali,
esso è nullo. Infatti, scambiando tali righe, D resta immutato ;
ma, per il teorema precedente, esso cambia segno. Dunque
n = — D, cioè Z) = 0.
Teor. IV. Se io moltiplico i complementi degli elementi di
una linea di D rispettivamente per delle quantità li, I2, I3
e sommo , il numero così ottenuto è uguale al determinante D'
che si deduce dal dato, sostituendo le li, I2, I3 ordinatamente
al posto degli elementi della linea considerata.
Così, p. es., se
D =
ai hi Ci ì
a2 62 C2 I si ha p. es. k A2 + ^2 ^2 -H h C2 = h k k = T)'
«3 h c-\ !
«1
&1
Ci
h
4
h
«3
63
Cs
Infatti i complementi delle 612, &2, C2 in Z> e quelli delle h^U, h
in D' sono per il teor. I di pag. 65 ordinatamente uguali. Ora
per definizione D' vale la somma dei prodotti ottenuti molti-
plicando le li, U, k per i loro complementi algebrici in D', che
per la precedente osservazione valgono appunto i complementi
algebrici A2, B2, C2 delle ^2, Ò2, C2 in Z>. e. d. d.
Teor. V. La somma dei prodotti ottenuta moltiplicando gli
elementi di una linea ordinatamente per i complementi algebrici
degli elementi corrispondenti di un'altra linea parallela alla
prima e sommando, è nulla.
Così, p. es., per il determinante D del precedente teor. IV
e ai^2 + &i^2-f-Ci(72 = 0, oppure ai 5i -1-^2 52 -4-^3 ^3=0, ecc.
Infatti la somma dei prodotti degli elementi ai, h, Ci della
prima riga per i complementi degli elementi «2, &2,C2 della seconda
riga vale (per il teor. IV ove si ponga Zi = ai, ?2 = ^1, k = Ci)
quel determinante D' che si ottiene da D scrivendo ai, b\, Ci al
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 7 1
posto di «2, 1)2, C2. Ma tale determinante D' avrà uguali la prima
e la seconda riga e perciò (teor. Ili) e nullo. e. d. d.
Teor. vi. Se moltiplichiamo gli elementi di una linea del
determinante D per un numero K, il determinante resta molti-
plicato per K (cioè si muta in un determinante D' = KD).
Infatti i complementi algebrici degli elementi di quella linea
restano invariati ; dallo sviluppo di D secondo gli elementi di
tale linea si deduce pertanto subito il nostro teorema.
Cor. oc) Se due linee parallele di un determinante sono pro-
porzionali, il determinante è nullo (perchè, moltiplicando gli ele-
menti di una di queste linee per un conveniente fattore, il determi-
nante si muta in un determinante con due linee parallele uguali).
Teor. VII. Se gli elementi di una linea di un determinante
D sono ordinatamente \i-\- mi, I2 -+- m2, I3 + ni;{, , il deter-
minante D è uguale alla somma dei due determinanti ottenuti
da D sostituendo agli elementi di tale linea una volta le li, I2, ,
un'altra volta le mi, m2,
Ciò risulta subito dallo sviluppo del determinante ottenuto
partendo dalla linea considerata.
Teor. Vili. Se agli elementi ai, bi, d, di una linea
aggiungiamo gli elementi a,-, b,, Cj, di una linea parallela
moltiplicati per un mimerò qualsiasi k (cioè scriviamo ai -+- kaj,
hi-\-khj, al posto di a,-, ò», ), il determinante resta im-
mutato (cioè si muta in un determinante D' = D). Infatti IJ
è (teor. VII) somma del determinante che ha come elementi della
linea considerata le a», hi, , e dell'altro che in tale linea ha
gli elementi kaj^khj, Il primo è lo stesso determinante!),
il secondo ha proporzionali la riga degli elementi «j, òj, e
la riga degli elementi kaj,kbjj , ed è perciò nullo (Cor. a
del teor. VI). Donde segue il teorema enunciato.
Teor. IX. Un determinante D di ordine n ha \n termiìii.
Ciò è evidente per n ==^ 2] ammesso al solito vero per i
determinanti d'ordine n — 1, si noti che i complementi algebrici
degli elementi di D hanno \n — 1 termini. Per ottenere D si
deve moltiplicare ognuno degli n elementi di una linea di D per
il suo complemento e sommare. Si avranno così n \n — 1 = h/
termini generalmente distinti.
Il teorema è così provato per induzione completa. (Si noti
che per determinanti particolari qualcuno di tali termini può
essere nullo, due termini si possono elidere; se un elemento è
72
CAPITOLO V — § 20-21
somma di più quantità, qualche termine si può scomporre nella
somma di parecchi, ecc.).
Teor. X. Sono poi immediate le seguenti ^proposizioni :
a) Se tutti gli elementi di una stessa linea sono nulli,
il determinante è nullo.
b) Se tutti gli elementi posti da una stessa banda della
diagonale principale sono nulli, il determinante si riduce al
termine principale,
e) Un determinante di ordine n si può trasformare in
un determinante uguale di ordiate n -4- 1, premettendo una riga
ed una colonna, purché gli elementi delVuna o delValtra siano
tutti nulli, eccettuato il primo che sia uguale alVunità.
Così, p. es.
1 0 0
a 0
■j
—
e a b
e d
f e d
1 m n p
0 10 0
0 e a h
0 f e d
ecc.
§ 21. — Altre proprietà di un determinante.
Teor. I. Un termine T di un determinante D di ordine n è (a meno del segno)
prodotto V di ìì elementi, due dei quali non appartengono né alla stessa riga,
ne alla stessa colonna.
Ciò è evidente per n = 2; come sopra ammettiamo il teor. per determinanti
di ordine n — 1. Un termine T di D è il prodotto di un elemento a di D per un
termine T' del complemento algebrico A di a. Poiché il teor. è ammesso per i
termini T' di A (che è un determinante d'ordine n — 1) e poiché gli elementi di A
appartengono a righe e colonne distinte dalle due linee, cui appartiene a, il ter-
mine T=aT' di D godrà pure delle proprietà enunciate.
Teor. II. Viceversa un prodotto P di n elementi di D, due dei quali non
appartengono né alla stessa riga né alla stessa colonna, è, a meno, del segno,
un termine T c?i D.
(Dimostraz. analoga alla precedente).
Per quanto riguarda i segni si può poi dimostrare •
Teor. III. Se gli elementi di P si possono portare sulla diagonale prin-
cipale con k trasposizioni di righe o di colonne, allora T = (— 1)^' P, (cioè T= P
se Jc è pari, T= — P se Jc è dispari).
a, I), e, I
«2 b.2 Co = D si porta sulla diagonale principale tras-
a, 1)3 C3
ponendo, p. es., dapprima le colonne prima e seconda, e poi le colonne che (dopo la
precedente trasposizione) si trovano al 2° e 3" posto. Pertanto è k — 2, e -h'byC^ a^
è perciò un termine T di D.
Le trasposizioni con cui un termine si porta nella diagonale principale si
possono scegliere in modo molteplice ; dal teorema III segue però che, se con un
metodo occorre un numero, p. es., pari di trasposizioni, con ogni altro metodo il
numero delle trasposizioni necessarie sarà ancora pari.
P. es. il termine ?), e, «3 di
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 73
DiM. Il teorema è evidente se k = 0. In tal caso P è proprio il prodotto degli
elementi della diagonale principale, che è un termine del determinante {il termine
principale).
In ogni altro caso il determinante D' dedotto da D con tali h trasposizioni
vale (— ly^D (teor. II del § 20); ogni termine di D' vale il corrispondente di D
moltiplicato per (— 1)^.
Ora il prodotto P da noi considerato è il termine principale di D', e perciò
P è un termine di D'. Dunque (— 1)^' P è un termine di D, e. d. d.
Teor. TV. I termini di un determinante D, clie hanno come fattori h eie-,
menti scelti dalle prime h righe e colonne, hanno per somma il prodotto del
minore a formato con tali righe e colonne per il minore complementare a'
(formato con le residue righe e colonne).
Per h — 1 si trova un'immediata conseguenza della definiz. di determinante.
DiM. Uno di questi termini T è, a meno del segno, il prodotto P di ?? elementi,
appartenenti a righe e colonne distinte del minore ^, per n — h elementi appar-
tenenti a righe e colonne distinte di a'.
Ora il prodotto p dei primi h elementi vale, a meno del segno, un termine
T di A; e precisamente t = (— l)'-^, se con h trasposizioni si portano gli h ele-
menti di p sulla diagonale principale di a. Il prodotto p' degli altri n — h elementi
vale, a meno del segno, un termine t' di a'; e precisamente t' = (— l)^jp', se con
I trasposizioni si portano tali n — h elementi sulla diagonale principale di a'.
Allora evidentemente, facendo tutte le citate p + 1 trasposizioni, tutti gli
n elementi considerati sono portati sulla diagonale principale di B. E perciò
T={—\y'-^^P. Poiché P = 2?p' = (— 1)^t(— 1)^t', sarà T=rr', Cioè i termini
T considerati sono tutti e soli i prodotti di un termine ^ di a per un termine -' di a'.
e. d. d.
Siano scelte h righe qualunque che abbiano i posti r, jT^, ,r^^ scritti in
ordine crescente. Trasponiamo la riga r'""" con quella di posto r^ — 1, poi con
quella di posto r, — 2, ecc. ecc., poi con la prima riga; avremo così fatto r, — 1
trasposizioni: la riga di posto r, è andata al primo posto, senza che ne resti
turbato l'ordine in cui si seguono le altre righe.
In modo analogo con r^ — 2 trasposizioni porteremo la riga r'^' al secondo
posto, ecc., con r^^ — h trasposizioni porteremo la riga r'f^""" al posto h, in tutto
con (r, + ^2 + -}- r^) — (l 4- 2 -+- -h h) trasposizioni avremo portato le nostre
h righe ai primi posti senza cambiare né l'ordine in cui si succedono tali righe,
né l'ordine in cui si succedono le altre n — h.
Altrettanto dicasi per h colonne di posti s^, s.^, , s^ .
In tutto con (r, -h rg + -f- r^) -h (s, -h s^ + + s,^) — 2 (1 -h 2 + •+- h)
trasposizioni avremo portato sia le righe, che le colonne considerate ai primi h posti
.senza che sia mutato né l'ordine in cui si seguono le linee considerate, né l'ordine in
cui si seguono le linee residue. Poiché ogni trasposizione di linee parallele cambia
il determinante di segno, e poiché 2 (1 -h 2 -+- -\- h) ènn numero pari, con le traspo-
sizioni citate avremo dedotto dal determinante D un determinante D' — {— ly D
se e = (r, -f- r^ -h .... + r^) -+■ (s, -+- Sa -+- + s^). E anzi da ogni termine di D' si
deduce il corrispondente di D, moltiplicandolo per (— 1)^ Applicando a D' il
teor. IV, avremo in conclusione :
Teor. V. Se a è un qualsiasi minore di un determinante D di ordine n,
formato con h < n righe e h colonne di D, e a' è il minore formato con le residue
n — h righe e colonne, il prodotto di à, di ^' e di ( — 1)', dove e uguaglia la
somma degli indici delle righe e delle colonne di ^, è uguale alla somma di
tutti e soli quei termini di a, che contengono come fattori h elementi di ^.
II prodotto (— 1)^ A' si chiama complemento di a : è facile vedere che (— 1)' a è
il complemento di A'. ^
74
CAPITOLO V — § 21-22
Così, per es., nel determinante
B =
«21
«li
«33
14
a
«24
«34
«44
la somma di tutti i termini del suo sviluppo, i quali contengono per fattori due
elementi del minore a = ^22«23
uguaglia (— 1)' A A', dove e — 2-h3-4-2-h4 = ll
(perchè gli indici delle colonne di a sono 2 e 3 e quelli delle righe sono 2 e 4)
ottenuto da a' sopprimendovi le righe e le colonne che
€ dove A' è il
«H«14
«31«34
contribuiscono a formare a. Si ha poi che (— 1)'^ a' e (— 1)' a sono rispettivamente
i complementi algebrici di a e di a'. Se ne deduce che:
Scelte h linee parallele di D, la somma dei prodotti ottenuti moltiplicando
i minori di ordine h di D, formati con queste h righe, per i minori comple-
mentari, uguaglia D.
Basta ricordare che ogni termine di D è prodotto di n elementi, h dei quali
appartengono alle h linee considerate, ed anzi ad uno solo dei minori di ordine h
formati con queste h linee.
Così, per esempio :
«22«a3
«42«43
«n«i2«i3«
*
«21«22«23«24
__ a,ia,2
1 «23«24 ! , 1
1 «43«44 1 ^ !
«.1«13
«22«44
1 a„a,;
«3»« «33«34
«31 «32
«3. «33
«42«44
1 «3l«34
«41«42«43«44
a
a
'12«13
'32«33
«2.«2^
' -f-
«12«14
«32«34
«21«23
«41«43
«13«14
«33«34
«2. «22
«4l«42
§ 22,
Prodotto di due determinanti.
Siano dati due determinanti
A =
^11 ^12 ^1 n
a^l ^22 ^2 n
(^n\ ^n 2
. a.
B =
U21 O22
hnl &,
bln
di ordine n. Io dico che il loro prodotto è uguale al determi-
nante C di ordine n,
C
Cu C12 Cin
621 C22 ^2 n
Cnl Cn2 Cnn
ove Crg ^== ari b,.i -4- a,.2 b,2 + ■+- Kn b«n-
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 75
(1) AB
Cosicché, supposto per fissar le idee n = 3 :
aiihii-Tai2hY2 + avdbn ^11&21"+-<^12&22+^13<^23 ^ll&:a + <^12&32 + ^13&33
<^21&11 + ^22^12 + ^23^13 <^21^21 + ^^22^22 "+" <^23&23 ^21^31 + ^22^32 "+" ^23^33
agiÒii + «32^12 + <^33&13 ^31^21 + ^32^22 •+" ^33^23 «31^31 + <^32&32 + ^33^33
Il determinante del secondo membro è la somma dei 27 determinanti che si
ottengono conservando in ciascuna colonna uno solo dei tre addendi: il primo, il
secondo o il terzo. Se in due colonne conserviamo addendi di egual posto (in
entrambe le colonne il primo addendo, o in entrambe il secondo, o in entrambe
il terzo), il determinante così ottenuto avrà due colonne proporzionali e quindi
(teor. VI, oc, § 20, pag. 71) sarà nullo. [Così, p. es., conservando nelle prime due colonne
il primo addendo, gli elementi di queste colonne si ottengono.moltiplicando a,,, «21» <^%\
rispettivamente per b,, e per b^,]. Dei 27 determinanti basta per ciò tener conto
dei soli sei differenti da zero, che si ottengono scegliendo in una colonna il primo
addendo, in un'altra il secondo, nella residua il terzo. Consideriamo uno di questi
sei determinanti, p. es.
«12^12
«.3 ^3
«M K
«22^.2
«23 ^23
«2. ^3t
«32^12
«33 ?)23
«31 ^>iX
ottenuto, scegliendo nella 1* colonna il secondo addendo, nella seconda il terzo,
nella terza il primo. Esso vale
«12 «13 «Il
^^.2 ?>23 ^31
Ora con e trasposizioni di colonne il determinante
a,.
(2)
si muti
in A. Tale determinante varrà (—1)'^; e quindi (2) vale ( — lyh^^'b.i^h^^ A. Ma
con le stesse e trasposizioni di colonne eseguite sul determinante B, il termine
^12^23^31 V3, nel termine principale; perciò (teor. Ili del § 21) ( — '^Y^xì^n^u
vale un termine di B. Perciò (2) è il prodotto di A per un termine di B. Ripe-
tendo questa considerazione per i sei determinanti sopra citati, sì trova che il
secondo membro di (1) vale il prodotto di A per la somma dei sei termini di B,
cioè vale il prodotto AB, come dovevasi provare.
(9) Osservazioni. Notiamo che, invertendo l'ordine dei due determinanti A
e B, il loro prodotto non cambia; ciò si verifica facilmente osservando che questa
inversione equivale a scambiare in C le orizzontali con le verticali.
Il determinante C si dice il prodotto eseguito per orizzontali dei due deter-
minanti J. e 5; e la regola esposta per ottenere questo prodotto si dice regola di
moltiplicazione per orizzontali degli stessi A ^ B.
Per moltiplicare A per B potrei anche scambiare nei determinanti ^ e J5 le
righe con le colonne, ciò che non altera i valori dei due determinanti, e poi eseguire
il prodotto con la regola precedente. Ciò equivale a trasporre, nell'ultima formola
del prodotto AB, i due indici di ogni elemento a e quelli di ogni elemento h od
anche a porre Cr.v = air ?>i.. H- a2r ?>2. 4- «ar bs... Il prodotto così ottenuto dicesi
prodotto per verticali.
Infine si potevano scambiare le righe con le colonne in uno solo dei due
fattori J., B.
Se i due determinanti A, B non fossero del medesimo ordine, allora, per
eseguire il prodotto col metodo precedente, si deve elevare l'ordine del determinante
di ordine minore, finché i due determinanti abbiano lo stesso ordine, ed applicare
infine la regola precedente (§ 20, teor. Xc, pag. 72).
Ricordo che il quadrato di A uguaglia ^, J. e si ottiene dalla formola prece-
dente, ponendo a,-s = &;•>.
76
CAPITOLO V — Q 22-23
Y) Consideriamo le due matrici:
Un (l\2 Ciiz
(I2I ^22 ^23
&11 &12 &13
^21 O22 ^23
Se le moltiplichiamo per orizzontali, come se fossero deter-
minanti, otteniamo il determinante di secondo ordine
^13 hd
Qj2z hz
^11 ^11 -H ^1: &12 + ^13 ^13
<^11 ^21 -+- ^12 ^22
tì^21 ^11 -^- ^22 ^12 + CÌ2Z ^13
tì^21 ^21 -H ^22 ^22
c =
che si verifica subito uguale a
dll (112
(I2I 0^22
^11 &12
^21 &22
+
aii ai3
^21 ^23
&11 &13
^21 &23
-4-
ai2 ai3
^22 ^23
&12 &13
&22 &23
e che si chiamerà prodotto delle due matrici.
Se invece si moltiplica per verticali, si ottiene un determinante di terzo ordine
identicamente nullo, perchè uguale al prodotto per verticali dei determinanti nulli
»„
K
6,3
K
h„
K
0
0
0
«11 «12 «13
«21 «22 «23
0 0 0
Mentre le due matrici sono simboli privi di significato, il loro prodotto ha
dunque un significato preciso.
Queste osservazioni si possono generalizzare a matrici qualsiasi, ma per tali
studii rinvio ai trattati di algebra.
§ 23. — Il determinante di Vandermonde e il discriminante
di un'equazione algebrica. Separazione delle radici di una
tale equazione.
Se aci, a2, ..., a^, sono n numeri qualsiasi; si calcoli il deter-
minante (di Vandermonde)
i) =
a;
a
a?-' a^-' aj-'
.n — 1
Sottraendo successivamente dalla n''''''""', dalla (n — iy«"»«^ ^
dalla 2* orizzontale la precedente moltiplicate per a^, il deter-
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 77
minante D resta scritto nella forma
1 11
0 «2 — ai ag — cLi
0 ag (a2 — ai) as (ag — ai)
^n (a,
aO
0 ar'(a2 — ai) ar'K — ai) ..... a;r'(a„-ai)
0 ar'e^. — ai) arM^s — ai) <-'(«„ — aO
^2 — ai a,, — ai
ao(a2 — ai) a„(a„ — a^
a? (a2 — ai)
aj-'(a2 — ai)
Ma,
= K
ai)
ai)
= (^2 — ai) (ag — ai) (a„ — aj
1
as
n — 3 «n — 3
n — 2
a:
n — 2
Ora, se 71 = 2, si trova che D = aa — ai; servendosi della
precedente identità, che riduce il calcolo di un determinante di
Vandermonde di ordine n al calcolo di un determinante analogo
di ordine n — 1, si trova che:
Se ^ = 3, Z) = (a^ — a^ (ag — ai) (ag — (x.^)-
Se n = 4, D = {(x..2 — ai) (cx.^ — aj) (a^ — aj).
.(a3 — aa) (a^ — a2) (a^ — a3).
Per n qualsiasi D è uguale al prodotto delle -n(n — 1)
differenze delle quantità ai, ag, a„ a due a due, in cui l'indice
del minuendo superi l'indice del sottraendo.
oc) Se noi innalziamo al quadrato il determinante di Vandermonde troviamo
JD' = A
Sn-l
Su-f-1
S2U-2
dove con Sh ho indicato la somma delle h"'""^ potenze delle a (per li =1,2, ..., 2w — 2).
Questo determinante A si chiama il discriminante degli n numeri dati ; esso
è nullo soltanto se almeno due di questi numeri sono uguali tra di loro. Se le a sono
le radici di una data equazione algebrica, le formole del § 14 y, pag. 50, permettono di
calcolare tale discriminante senza risolvere l'equazione, perchè le su si possono cai-
78 CAPITOLO V — § 23
colare tosto, appena sono dati i coefficienti dell'equazione. Abbiamo così un metodo
per riconoscere quando due delle radici di una data equazione sono tra loro uguali.
,'5) Il discriminante può servire (almeno» teoricamente) a calcolare approssima-
tivamente le radici reali di una equazione a coefficienti reali, che abbia radici
tutte distinte.
Se P (x) = X" H- a, x"-'^ H- -\- a,i-ì rr + a« = 0 è una tale equazione,
esistono molti metodi per trovare un numero positivo B maggiore del modulo di
ogni sua radice (*) reale 0 complessa.
Noi diremo che abbiamo calcolato in prima approssimazione, 0 anche che
abbiamo separato le radici reali di tale equazione, se per ogni tale radice a sap-
piamo assegnare un intervallo dentro al quale sia contenuta la radice a e nessuna
altra radice. Impareremo più avanti come il metodo di Newton-Fourier permetta poi di
dedurre valori di oc approssimati a piacere. Se ^,,«2, ,ol,- sono le radici reali
di tale equazione, è P (x) — {x — «,) (x — a^) (^ — °^>) Q i^), dove Q (x) è un
prodotto di fattori di secondo grado sempre positivi per x reale. Cosicché, se f, ■'
sono due numeri tali che P (:■>■) e P(-^) abbiano segni opposti, certo nell'intervallo
(m, •>) esiste un numero dispari di radici a, e quindi almeno una radice a.
Se À è un numero positivo minore dei valori assoluti di tutte le differenze tra
le radici reali combinate a due a due, allora, formando una progressione aritmetica
indefinita in ambo i sensi, in cui la differenza tra due termini consecutivi sia eguale
a codesto numero X, tra due termini consecutivi della progressione potrà essere
compresa una sola radice 0 nessuna. E, per quanto si disse, sarà facile assicurarsi
se tra due termini consecutivi della progressione sia compresa 0 no una radice,
poiché nel primo caso essi, sostituiti all'incognita x, faranno prendere al primo
membro P {x) dell'equazione segni opposti, nel secondo caso lo stesso segno (**).
Evidentemente è inutile protrarre la progressione indefinitamente: basta tener
conto solo di quei termini della progressione che cadono nell'intervallo compreso
tra — B e -hB. In ognuno degli intervallini, ai cui estremi P (x) ha segni opposti,
e in essi soli, cade una e una sola radice di P(x) = 0. Basterà tener conto ditali
intervallini e trascurare gli altri perché sia risoluto il nostro problema di separare
le radici della nostra equazione.
Il nostro problema è dunque ridotto alla determinazione del numero A. Si noti
che, se oc,, ed a^ sono due radici qualunque, è \ a, — a,^ \ ^ \ a.^ \ -^ \ ol^ \ ^ 2 B.
Sostituendo nel valore (che sappiamo calcolare) di
A = (oc, — a.,y (a,^ - a,Y (oc, _ 1 — a.f
in- luogo di tutti i fattori, eccettuato (oc, — ot^), il numero maggiore (in valore asso-
luto) \2 B \ , si avrà :
1 Al^loc, -aJ2(2J5)2^ 2 ^; onde K"^r|^ loc, -«2 I |2J5i ''
(*) Ecco, p. es., un metodo teoricamente semplice. Sia A la massima delle
! a, i , i a^ I , , I a« I . Sarà
* P{x)\^\x\" — \ \ a, ic"-i I -f-l a,x'^-^\ -i- ...-{- \ a, \ \^
\x'f'—A \ I ^i«-M- \x !«-2-h -h \ x\-\-l\ = \x '" — A ^]"~}
I Xj\ i
cioè
\P{x)\^-^'' ' l^'-^-^< + ^. Se dunque |x|^^ + l, allora
I a; I — 1
sarà I P (x) \ > 0. Quindi se x è radice di P (x) = 0, il suo modulo i x \ sarà
inferiore ad J. + 1. Potremo dunque porre B= A-\-l. Per altri metodi, che permet-
tono di assegnare un valore più piccolo del numero B rinvio ai trattati di algebra.
«. (**) ì^on porta che semplificazioni il caso che uno dei termini della progressione
sia esso stesso una radice.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 79
ossia
'(''-1)
0L,\^}/ \A\:{2B)
Il secondo membro è minore del modulo della differenza tra le due radici
reali oc,, a^, che si possono scegliere ad arbitrio tra le radici reali dell'equazione.
Possiamo dunque assumere:
X — ^
(:2B) '
Oss. Supponiamo in particolare che i coefficienti dell'equazione siano interi, ed il
primo a,j uguagli l'unità. Allora il discriminante, essendo un polinomio a coefficienti
interi formato coi rapporti — ,~, ,— che sono numeri interi, sarà un numero
0/0 Ciò do
intero, e quindi certamente sarà V
1 (*). Dunque possiamo anche assumere
1
(2^)'
— 1.
Se poi ^0 non fosse uguale ad 1, si ponga ^ = — ,
gnita. L'equazione diventa Oq (-— I + a, (— ) +
assumendo y come inco-
y
^"""-'t
ossia y" -+- a, 2/"~ 4- O'ì a,)y''~'^
4- a«-i a''-^ y + a« a]
a„ = 0,
0 , che è
un'equazione a coefficienti interi col primo coefficiente uguale all'unità. E siamo
ricondotti al caso precedente.
Nei trattati di algebra complementare sono dati molti altri metodi per separare
e per calcolare approssimativamente le radici di una equazione algebrica.
Esempi (**).
1^ Se ai, Pi, Yi ed «2, ^2? T2? sono i coseni direttori di due
rette, rispetto a una terna di assi cartesiani ortogonali, è noto
dalla geometria analitica che l'angolo 0 delle due rette soddisfa alla
Quindi :
^1 Pi Ti
«2 p2 T2
cos 9 = ai a2 -f- Pi P2 -H Ti T2.
1 cos 0
cos 0 1
= 1 — cos"^ 0 = sen^ 0.
donde:
sen 9 = ± ytfl' = ±l/'(«ip2-^a,)V(piT,-p2Tx)^+(Ti«2-«xr2)^
r l'^2P2T2
(*) Non può essere A=r0 nell'attuale ipotesi che le radici della nostra equa-
zione sieno distinte.
(**) I seguenti esempi sono importanti specialmente per le applicazioni che
se ne fanno nei corsi di geometria analitica.
80
CAPITOLO V — § 23
2^ Siano a,-, p,-, y^ i coseni di direzione di tre rette r,,
a due ortogonali (^ = 1, 2, 3). Sarà :
ai Pi Ti
2
100
a2 ^2 T2
010
asPsTs
00 1
1 ; e quindi
ai Pi Ti
a2 p2 T2
«3 P^ T3
± 1
3* Determinanti reciproci.
ordine n
Dato un determinante di
A =
^11 ^12 din
^21 ^22 d^n
dnl dn2
dr
con i complementi algebrici Ar, dei suoi elementi, in numero
di n", si può formare un altro determinante pure di ordine n
A'
Ali Ai2 ..... A\n
-^21 ^22 A2n
^nl ^n2 -^nn
che dicesi reciproco del primitivo A.
Il determinante reciproco di un determinante di ordine n é
uguale alla (n — 1)''''* potenza del primitivo, ossia ^' = ^'*~\
Infatti moltiplicando per orizzontali i due determinanti A e A\
l'elemento generico Crs del determinante prodotto sarà uguale
ad A se r = s, ed uguale a zero se r =\= s. Infatti :
^= drl Agi -h ar2 Ag2 + "
Crr =^ drl Ari -+- dy 2 Ar 2 "+"
a
rn A,n = 0, {t '-^^ S)
■^rn -^j
come risulta dalle formole di pag. 70, § 20, Teor. V^. Quindi :
aa: =
A 0
0 A
0 0
= A\
Se A ^ 0, dividendo per A, si ha subito la formola da
dimostrare. Se poi ^ = 0, anche ^' = 0 e la formola è ancora
vera, come ora proveremo.
Infatti ciò è evidente se tutti gli elementi di A sono nulli ; se invece non
sono tutti nulli, ed è, p. es., a„ =|= 0, moltiplichiamo nel determinante A' la prima
colonna per a„ (il che equivale a moltiplicare A' per a,,) e ad essa aggiungiamo
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 81
tutte le altre colonne moltiplicate ordinatamente per a,2, «13, «i^ (il che non
altera il valore del determinante) ; per le stesse formolo del teor. cit., avremo
in^' =
f -A -^12 -«-13 -A\i/
0 J.22 -^23 ^2//
0 ^32 -4.33 A:;.
U jOlu 2 -^^«3 -Atid
poiché la prima colonna è tutta costituita di termini nulli, essendo A
Dividendo per a,,(^F 0), otteniamo appunto A' = 0.
§ 24. — Sistemi di equazioni lineari.
Teorema preliminare.
Per sistema di m equazioni di primo grado (0, come anche
si dice, lineari) ad n incognite xi, X2, , Xn, s'intende natu-
ralmente un sistema di m equazioni, ciascuna delle quali sia
della forma :
ccxi 4- Px2 -^ ^X'i -f- -+- "kxn =i?,
dove le a, p, y, X^p sono numeri costanti dati (a, p, , X
coefficienti dell'equazione ; p termine noto).
•Il problema della risoluzione di queste equazioni consiste
dunque nel cercare tutti gli speciali sistemi di yalori da darsi
alle Xi^ X2, , Xn, in modo che le m equazioni ne restino tutte
soddisfatte simultaneamente.
Indicando in generale con a^j il coefficiente della incognita Xj
nella i''''' equazione e con a,- il termine noto, che sta al secondo
membro di questa stessa equazione, è chiaro che il sistema
delle m equazioni date fra le n incognite assumerà la forma
seguente :
I aiiXi -f- ai2X-2 -4- -H ai^n-lXn~\ -+- ^ln^n = 0^1
r-.-] j tì^21 ^1 + tì^22 3^2 -+" -^ (l2,n-lXn-l-^ a2nXn^=^^2
\ ^ml^l ' ^m2^2 ' ~» ^m,n — 1^'n— 1 "•" (^m,nXn ^m
Due tali sistemi di equazioni lineari nelle stesse n incognite
si dicono equivalenti, se ogni sistema di valori delle x, che
soddisfa all'uno, soddisfa anche all'altro, e viceversa.
Due sistemi equivalenti a [l] sono equivalenti tra di loro.
E poi noto ed evidente :
Un sistema [l] è equivalente ad un altro sistema che si
deduce da [l] moltiplicando una delle date equazioni per un
numero differente da zero e lasciando invariate le altre equazioni.
6 — G. FuuiNi, Analièi matematica.
82 CAPITOLO V ^ — § 24
Un sistema [l] è equivalente al sistema che se ne deduce
moltiplicando una delle sue equazioni per un numero differente
da zero, e aggiungendo ad essa le precedenti equazioni molti-
plicate per un numero arbitrario, mentre si lasciano invariate
le altre equazioni di [l].
Nell'algebra elementare si insegna a risolvere un tale si-
stema, mostrando che, dato un sistema di più equazioni in più
incognite, se ne può generalmente dedurre uno con un minor
numero di incognite eliminando almeno una incognita. Nelle
righe seguenti ci occupiamo in generale della eliminazione
anche di più incognite da un tale sistema di equazioni.
Cominciamo dal considerare un sistema di n + 1 equazioni
in n incognite ; e, per fissare le idee, supponiamo >^ = 3. Ra-
gionamento e risultato valgono però in generale. Siano
' an .Ti -+- ai2 X2 -h ai3 x-^ = a^
/o\ / ^^21 xi -h a^2 Xi -h «2;} X'^^ = a2
' a-ix xx -4- a:52 X2 -f- (iz:\X^ = a.^
an Xi -f- a42 X2 -+- ^43 0^3 = a^
le date equazioni.
Consideriamo il determinante
(3) D =
an ai2 ai-i cc^
aoi a22 ^23 ^2
^31 ^32 ^33 ^3
au a^2 «43 «^4
Con Ar indicheremo il complemento algebrico di a,.
(r = 1 , 2 , 3 , 4).
Sarà I) = ^1 Al 4- ol^ A2 -H a3 ^3 -H ^4 A^. Supponiamo Ax -p 0.
4»
Per la precedente osservazione il sistema (2) si muta in un
sistema equivalente se noi, pure lasciando immutate le prime
tre equazioni, sostituiamo alla quarta l'equazione che si ottiene
moltiplicandola per ^4 ed aggiungendo le prime tre moltiplicate
rispettivamente per Ai, A2, A-^. Vale a dire il sistema (2) si tras-
forma in un sistema equivalente se ne conserviamo le prime
tre equazioni, e alla quarta sostituiamo :
(4) Al (an xi-hai2X2 4-^13X3) -4- A2 (a2ia;i-H a22X2-^ «23^3) +
-h.43 feiXi 4-^32^2-1- «33:^3) -^ Ai (anXi-^ a42X2-^ ai3X-i) =
=r= ai ^i + a, .40 -f- a;5 ^3 -h a4 ^4.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 83
Il secondo membro di questa equazione vale D. Nel primo
membro il coefficiente della Xl è ^n^i -{-«21^2+ <^3i^3 -f- «41 J.4,
cioè è la somma dei prodotti ottenuti moltiplicando gli elementi
della prima colonna di (3) per i complementi algebrici degli ele-
menti della quarta colonna, ed è quindi nullo. Altrettanto dicasi
per X2 e per x-^. Dunque alla quarta equazione di [l] noi pos-
siamo costituire la 7) = 0 ; il sistema si muta in un sistema
equivalente.
Se invece A, — o, allora è ancora vero che l'uguaglianza
7) = 0 è conseguenza delle equazioni date (4). Ma non è in
tale caso sempre vero che, sostituendo alla quarta delle (2) la
7) = 0, il sistema sia mutato in un sistema equivalente. Dunque:
Se sono date n -f- 1 equazioni lineari in n incognite^ è con-
seguenza di tali equazioni V uguaglianza che si ottiene 'ponendo
uguale a zero il determinante D formato coi coefficienti e coi
termini '^noti (cosicché, se D 4= 0, il dato sistema è assurdo, o,
come si suol dire, è incompatibile, cioè non ammette alcun si-
stema di soluzioni). Ed anzi se il determinante formato coi
coefficienti delle prime n incognite nelle prime n equazioni è
diverso da zero, il dato sistema di equazioni si muta in un
sistema equivalente, quando si lascino invariate le prime n equa-
zioni, e si sostituisca all'ultima la D = o,
§ 25. — Regola di Leibniz-Cramer.
Siano date n equazioni in n incognite : p. es. le seguenti,
ove per semplicità è posto n = 3.
( dn Xi -f- ai2 X2 -4- ai3 x-i ■= oCi
(1) ^ Chi ^'i -+- (I22 X2 ^ ao-ì Xv, = 0^2
( «;u ^"i -4- «32 X2 -+- a^-s X:ì =^ CC^
che possiamo scrivere, p. es., nella forma
«12 X2 -H «13 x^ = 0(i anXi
«22 X2 -h «23 Xz = «2 ^21 Xl
«32 X2 -h «33 ^^3 = «3 a31 Xi
Se noi per un momento consideriamo Xi come noto, questo
è un sistema di tre equazioni nelle due incognite X2, x^.
Per il risultato del § 24 ne verrà :
==: 0.
ce,
«uXi
«12
«13
a.
«21 Xl
«22
«23
ce.
— «31 Xl
«32
«33
84
CAPITOLO V — § 25
Posto
(2)
A =
(III ^12 ^13
CI21 ^22 ^23
^31 ^32 ^33
otterremo, sviluppando secondo gli elementi della prima colonna
àxi =
di ai2 ai3
0^2 ^22 ^23
^3 ^32 ^33
E, se A =4=0, e se indichiamo con Ars il complemento alge-
brico di ar, in A :
(3) xi = -r
1
«1
tì^l2
tì^l3
A
a^
^22
^23
«3
«^32
^33
.ai^4ii 4- «2 ^21 + a.?^;
In modo analogo si prova :
\0)ijis Xi — ^
(3)ter Xz =^
(I2I ''^2 ^23
Cidi ^3 ^33
aii ai2 0^1
(I21 <^22 ^2
(I31 (Z32 ^3
ai
■^12
-f- (X2 A22
4- a,
^32
A
ai
4i.
~1~* ao ^23
+ «3
-Aga
Se esistono quindi dei valori di x che soddisfano a (1), tali
valori debbono essere quelli dati da (3), se A -p 0. Verifichiamo
ora che, se A -p 0, i valori da4;i dalle (3) soddisfano eifettivamente
ad (1), p. es. alla prima delle (1). Infatti, sostituendo alle x i
valori dati dalle (3) nel primo membro della (1), si trova :
du
ai Ali + aa ^21 + a3 ^31
ai ^12 4- o(.2 A22 ■+" as ^32
ai2 r- H
A ■ ' ^'' A
ai^i3 + a2^23^a3^33
-f- ai3 ^- =
^11 ^11 -t- ^12 ^12 •+- ^13 ^13 . ^11 ^21 -^ «12 ^22 ■+■ <^13 ^23
a, r^ h ao T
«11 ^31 + «12 -^32 -+" «13 A
33
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 85
Ora, per i teoremi fondamentali sui complementi algebrici,
il coefficiente di ai in questa equazione vale 1, mentre i coeffi-
cienti di a2, ag sono nulli. Dunque tutta questa espressione è
proprio uguale ad a^ ; e la prima delle (1) è soddisfatta dalle (3).
Altrettanto si può ripetere per le altre equazioni (1).
Esaminando le (3) si vede che il nostro risultato si può
enunciare così :
Dato un sistema di n equazioni di primo grado ad n in-
cognite col determinante dei coefficienti diverso da zero tutte
le incognite risultano determinate, E precisamente ogni inco-
gnita è uguale alla frazione che ha per denominatore il deter-
minante dei coefficienti e per numeratore il determinante che si
ottiene sostituendo nel determinante dei coefficienti alla colonna
dei coefficienti deirincognita stessa la colonna dei termini noti.
Così, p. es., il determinante dei coefficienti del sistema
e :
9^-1-2?/ 4-3^ = 1
3 2 5
1 — 7 4
9 2 3
= 304.
Il sistema dato è quindi soddisfatto soltanto dalle :
X
2 2 5
0-7 4
12 3
304
15
304
\y
3 2 5
1 04
9 13
304
59
304
3 22
1-7 0
9 2 1
304
107
304
Un caso particolare notevole.
Siano oc/, ^/, v/, i coseni di direzione di tre rette r« a due a due ortogonali.
Risolviamo le equazioni
(1)
a, j? 4- ,3, y + y, z = 1
a, X
^ -+- Va ^
0.
Il determinante del sistema è (pag. 80, esempio 2°)
(2)
h V2
f,
dove a indica il numero + 1, o il numero — 1.
86
CAPITOLO V — § 25-26
1 ìH V.
a, 1 •/,
a, f., 1
x — s
0 15, V,
;y = ^
CL,0 7,
',Z =
X, |5, 0
0 ^x'/i
CL, 0 73
^a IH 0
Dunque il sistema dato ammette una e una sola soluzione, data dalla regola
di Cramer
(3)
Ma ora il nostro sistema (1) è per le nostre ipotesi soddisfatto, quando sì
ponga x — oL^, ^ = jS, , z — y^, Quindi dalle (3) si ricava che oc,, /5,, y^ sono uguali
al prodotto di £ per i loro complementi algebrici nel determinante (2) del sistema (1).
Queste proprietà del determinante (2) trovano svariate applicazioni nella geo-
metria analitica e nella meccanica razionale.
§ 26. — Regola di Rouché.
(2)
Ritorniamo al sistema più generale [l] del § 24. Scegliamo
tra le [l] un certo namero h di equazioni, e in queste equa-
zioni diamo valori arbitrarli ad ìt — h incognite (con h indi-
chiamo un intero non maggiore né di n, né di m). Otterremo
così un sistema di h equazioni in h incognite. Senz'altro sup-
porremo che le equazioni scelte sieno le prime h, e che le in-
cognite a cui sono stati dati valori arbitrarli sieno le ultime
n — h, cioè le Xn^i, ./'a + 2. -.• , ^«. Né ciò del resto diminuisce
la generalità, perchè possiamo sempre ridurci a questo caso,
mutando l'ordine delle equazioni e quello delle incognite. In
questo modo avremo ottenuto un sistema di Ji equazioni in h
incognite Xi, Xi, >.. Xn
[ an xi -i- au x-y -^ '" -h aih Xh — [^i — cti, k-\.i xu^i
«21 ^1 + «22 X-j H- ... -H a2h Xh = [(^2 «2, //-{-l X/i + l
din Xn\
d'In «^nj
ai
\i Xi -^ ah2X2 -\~ '.' -^ (ihh Xh — [^h — ah, h-\-iXh^i
ahn '' n\
dove le x^ + i,'... ,a;,, sono da riguardarsi come note, perchè ad
esse diamo valori arbitrarli, che ancora indichiamo con a:/,4.i , ... , Xn-
Queste equazioni si potranno risolvere con la regola di Leibniz-
Cramer del § 25, se il determinante dei coefficienti
(3)
«11 «12 «1/i.
«21 «22 «2ft
«ftl «/i2 ahh
è differente da zero. Greneralmente potremo in modi molteplici
scegliere le h equazioni ed h incognite in guisa che sia sod-
disfatta quest'ultima condizione. E noi anzi cercheremo di fare
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 87
tale scelta in guisa che l'intero li riceva il massimo valore
possibile (massimo valore, che chiameremo la caratteristica del
dato sistema di equazioni). Dire che h è scelto in questo modo
(così da ricevere il massimo valore possibile) è come dire che
i determinanti di ordine k > h formati coi coefficienti di k in-
cognite in k delle nostre equazioni sono tutti nulli (ammesso
che di tali determinanti ce ne siano, cioè che h <m, e che h < n),
mentre almeno un minore di ordine h (che, come dicemmo,
possiamo supporre sia il minore (3) ) è differente da zero.
In virtù dei risultati del § 24 alla r'*'""" delle residue
m — h equazioni (r = /^ -f- 1, h -4- 2, ... , n) possiamo sostituire la
«21 «22 ••• Cl^h ^2 [«2,/». + ! OCh-\-l + ... -+- a2n ^n]
ahi cihi "• cihh ^ìi yau^uj^x Xì,j^\ -\- ... -f- aun ^nj
«ri ar2 ... arh ^r [«r, /. + 1 •'5:^/* -f- 1 + • • • + «r« X,^ j
= 0
Cloe
«11 «12 ... «l/i ^1
«21 «22 . • . ^27i ^2
«M «/i2 ••• (^hh ^h
ari ar2 • • . ^rh ^r
Xr
Xh+^
«11 «12 ... «1/, «1,/i-f 1
«21 «22 ... «2/i ^2, ft-f- 1
^M «ft2 . . . ahh ^/i, /i 4- 1
«ri «r2 ••. a,-}, «r, //-f-i
«11 «12 ... «1/, «i„
«21 ^22 .•* ^2ft ^2//
«/il «;.2 ... «/(/i «Aw
«ri «r2 • . • afh am
= 0.
In questa equazione i coefficienti di Xh-\-i, Xk^2, -" , ocn sono
tutti nulli, per quanto abbiamo detto poco sopra circa la carat-
teristica h.
Quindi questa equazione si può scrivere :
(4)
«11 «12 ..... «i/i OCi
«21 «22 ^2h ^2
^ftl «/i2 (^hh ^h
«ri «r2 «rft ^r
nzO {r=^h-hl, /^-f- 2, , m).
Se h é ^« caratteristica del sistema [l] ^eZ § 24, 66? è ^Zi/-
ferente da zero il determinante (3), noi possiamo alle m — h
88 CAPITOLO V — § 26-27
equazioni dopo la h^^'™*^ sostituire le uguaglianze (4) che si
ottengono uguagliando a zero gli m — h determinanti (4) de-
dotti da (3) ORLANDO con una riga di coefficienti di una di
queste m — h equazioni, e con una colonna dei corrispondenti
termiìii noti.
Distinguiamo ora due casi :
1°) Uno di questi m — /? determinanti orlati è differente
da zero. In tal caso le (4) sono contraddittorie ; e quindi il
dato sistema [l] non è risolubile (non ammette alcun sistema
di risoluzioni).
2^) I determinanti orlati sono tutti nulli ; allora iì dato
sistema [l] si riduce a (2). Scelti arbitrariamente i valori di
Xhj^i,Xnj^2', , ^n, si dedurranno da (2) con la regola di Leibniz-
Cramer i valori di o^i, :r'2, , %• E otteniamo così, se li = n,
un solo sistema di soluzioni di (l) e, se h<n, infiniti sistemi
di soluzioni, ciascuno dei quali è determinato dagli n — h va-
lori dati arbitrariamente a ciascuna delle Xhj^i^XhJr^^ ? ^n-
§ 27. — Sistemi di equazioni lineari omogenee.
Se le «i sono nulle, le nostre equazioni [l] del § 24 si di-
cono, come è noto, omogenee. I deteminanti orlati (4) sono tutti
nulli, perchè l'ultima colonna è tutta formata di elementi nulli.
E il nostro sistema è dunque sempre risolubile: cosa, del resto,
evidente a priori, perchè ognuna delle sue equazioni è soddi-
sfatta, ponendo uguale a zero ognuna delle x- Se la caratteri-
stica h del sistema è proprio uguale al numero n delle incognite,
allora, come sappiamo dal § 26, il sistema di equazioni [l]
ammette un unico sistema di soluzioni : quello che si ottiene
uguagliando ogni incognita a zero. Quindi :
Un sistema di m equazioni lineari omogenee in n incognite
ammette sempre un sistema di soluzioni, almeno quello formato
imponendo il valore zero ad ogni incognita. Esso ammette ulte-
riormente altre soluzioni soltanto se la caratteristica h del si-
stema è inferiore al numero n delle incognite, perchè in tal caso
si possono scegliere n — h incognite a cui si possono dare valori
arbitrari (restando poi univocamente determinati i valori delle
residue h incognite).
In particolare un sistema di n equazioni lineari omogenee ìnn
incognite ammette uno e quindi infiniti sistemi di soluzioni non
tutte nulle soltanto se il determinante del sistema è nullo.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 89
Sia, per esempio :
(1) ari OCi -4- ar2 OL'2 -h + Urn ^„ = 0
{r=l,2, ,n)
il dato sistema di equazioni, che supponiamo di caratteristica
h =:n — 1 . Il determinante D di ordine n formato con tutti
i loro coefficienti sarà nullo ; e noi potremo supporre che sia
differente da zero il seguente minore di ordine n — 1
^11 ^12 ^1, n - 1
(t21 ^22 . . . . • tì^2 n 1
dn — 1,1 (ln—1,2 (ln — l,n—l
che è il complemento algebrico Ann <ii cinn nel determinante D.
Noi sappiamo in tal caso che, scelto ad arbitrio il valore [i di
ne risulteranno determinati i valori delle altre x.
Il
Posto A == — — (ricordo che Ann =^0), il valore dato ad x
sarà y^Ann, dove X è una quantità arbitraria. Con questo valore
della x'n, restano fissati i valori di xi, X2, , Xn-i, e senza
nessun calcolo si può verificare che questi valori sono
A An 1 , A An 2 j 5 A An, n — 1 •
Infatti se si pone :
(2) A = ^^ni (^' = 1 , 2 , n) (X = cost. arbitraria) nella
,^e8ima ^y. -— i 2 ^ n) dclle nostre equazioni, il suo primo membro
diventa ')< {Uri Ani-^ «r2 ^n2 -f- -h arn ^nn), chc è zcro se
r #= n (pag. 70, § 20, teor. V°), ed è pure nullo se r = n,
perchè per r ^=^n esso diventa XZ), che è nullo per ipotesi.
Le (2) danno dunque nel caso attuale la più generale solu-
zione di (1).
Esempi.
lo Se A, A' A" sono i discriminanti delle equazioni
f{x) = 0; gix) = 0;f{x) g{x)=0,
allora, se a rrp o, A' ==N 0, si ha che ——7 è il quadrato del risultante delle
f{x) = 0,g{x) = 0.
2" Dimostrare direttamente che un polinomio P (x) di grado w — 1 è uni-
vocamente determinato, quando se ne conoscano i valori P(a,), ^(«2)» r-P(^")
che esso assume in n punti distinti a„ «2, , an; e calcolare tale polinomio.
90
CAPITOLO V
§ 27
Posto
P{x)~hoor"-'^+h^x"-' -h -f b. -2 ic + ?>.-!
sarà
P(ai) = bo «1 -hh^a^ ~ + + ?>« - > a, -+-?>«_
P (a^) — ho al -4-
-f b,, _2ao + ?>..-
(1)
(2)
P{an)=-hca' +?>, a
4- 1),, _ 2 a^ H- ^"
Le (2) costituiscono un sistema di n equazioni lineari nelle n incognite
Òq, hi, , 1,-2, h, _ 1, (i coefficienti di P {x) ). Il determinante dei coefficienti di tali
incognite è il determinante di Vandermonde dei numeri a, , a^ ,«;,_!,««; il
quale è differente da zero, perchè tali numeri sono distinti. Il teorema di Leibniz-
Cramer ci assicura che le b e quindi anche P {x) sono univocamente determinati.
Si potrebbe così dalle (2) dedurre i valori delle b, e sostituire in (1). Ma più di-
rettamente, considerando le (1), (2) come un sistema di w + l equazioni nelle n
incognite i)Q,'b^, , hi - i, si trae :
X"
P{x) r'-i
P{a,)a:-' a"..
1 =:0
p («„)«; »;;
1 I
Sviluppando secondo gli elementi della prima colonna ed indicando con
F(a,b, , e) il determinante di Vandermonde delle quantità a, b, , e, si ottiene
0——P (a,) Y{a,, «3, , an, x) -f- P {a^ Fa,, a.^, , a., x) 4-
4- (— 1)" P {a,) F(a,, a^, , a. _i, x) 4- (— 1)'' -^' P (a?) V{a„ a^ , a,)
donde
P{x)
P{a,){-1)"
V {ai,az, a«, 0?)
\,x
+^^^^^^-^> tk;^;;:^::^)-^ ^^^^"^ (F(a.,a„ ,a«)
Sopprimendo in ogni frazione del secondo membro i fattori comuni al nume-
ratore e al denominatore si ritrova la formola del § 14 (pag. 49).
Esercizi.
1^ Calcolare e moltiplicare fra di loro a due a due i
determinanti
D,
1 1 1
1 2 3
2 3 4
A
D,=
12 3 4
0 0 15
0 16 7
0 10 1
12 3 4
0 12 3
0 0 12
0 0 0 1
A==
D,
6 3 2 1
1111
3 2 10
12 3 4
4 2 2 2
1111
12 3 4
3 5 7 9
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 91
Calcolare i determinanti reciproci, verificando il teorema di
pag. 80-81.
Ris. Lo studioso farà bene a calcolare i precedenti deter-
minanti anche con lo sviluppo secondo gli elementi di una
qualche linea. Più rapidamente si può osservare che A = 0,
perchè la terza riga è somma delle prime due: che D, = 1,
perchè !>_. si riduce al termine principale ; che A = — 1,
perchè, scambiando la seconda e la terza riga di D4, se ne
deduce un determinante il cui sviluppo è ridotto al suo termine
principale.
Il determinante D-t si può semplificare, p. es., sottraendo
dalla prima riga la seconda e la terza ; il determinante D-. si
semplifica sottraendo dalla prima riga il doppio della seconda.
T Calcolare
D =
l a h d t
Ime e s
l m n f r
l m n g k
l m ri g q
X
a
a
a
a
a
X
a
a
a
a
a
X
a
a
a
a
a
X
a
a
a
a
a
X
Ris. Con opportune sottrazioni di righe 0 di colonne si
trova:
I)
ì
\ l a b d t
I 0 m — a e — he — d s — t
0 0 n — e f — e r — s
0 0 0 g — fk — r
0 0 0 0 q—k
= l (m —a) (n — e) (g —f) {q—k),
donde in particolare
^ =
l a h
e d
l l a
h e
l l l
a b
l l l
l a
l l l
l l
=^l(l — a)\
X — a 0 0 0 a
a — X X — a 0 0 a
0 a — XX — a 0 a
0 0 a — XX — a a
0 0 0 a—xx
=^ (x — aY
1 0 0 0 a
-11 0 0 a
0—11 0 a
0 0 — 1 1 a
0 0 0 — 1 .T
92
CAPITOLO V — § 27
E con opportune addizioni di righe, si trova :
A = (x— aY
10 0 0
0 10 0
0 0 10
0 0 0 1
a
2a
3 a
4 a
0000a;-h4a
{x — aY {x -\- 4: a).
3** Risolvere i sistemi di equazioni seguenti :
X -]r y -f- z ^=^ a
X -^ 2tj -^ ^ z— b
2x-h3y-^4z=^c
X -\- y -\- z ^= a
X -i- 2y-\- 3 z—b
2x-h3^-f 5^=c
Ris. Per il secondo sistema basta applicare la regola di
Cramer; per il primo si noti che il determinante del sistema
è nullo, che esso è risolubile soltanto se c = a -\- b, nel qual
caso si può dare un valore arbitrario alla z^ tenendo poi conto
delle sole prime due equazioni.
4** Discutere i seguenti sistemi di equazioni per tutti i
valori dei coefficienti a, a, p, y, p^ q^ r, l, m, n:
X -hy-hz-ht^=0
4x-^5y-^6z-hat = 0
2x-h 3y -h 4:Z -\- 5t = S
X -h y — ^ -j- t ^=^ 0
z = l
x-\-y-hz-ht=l
4 X -h ò y -\- Q z -^ a t = 2
2x -i-Sy-h 4:Z -h òt= 3
X -\- y — z -h
0 —
y
^y
^(Z
-H py 4- y^z = n
X
ccx
a X
y -+- ^
^'y -^r ^ z
ax4-p^-l-Y = 0
px-^r qy-hr = 0
l x-hmy H-w = 0
t —
X -i-
C(. X -i-
3^=1
(a 4- P 4-Y ) 1^ = 2
X -{- y -i- z =^1
2x-\-3y-\-4:Z = 2
3x-h4y-h6z=3
Qx,-hSy-\-pz:=&
m
aa:;-f-p2/ + Y = 0
p X -^ qy -h r = 0
X + y -h z =1
2x-^ Sy -4- Az =2
4x4- dy 4-16^=3
7a;4-13^V4-j9^ =6
5° Risolvere il seguente sistema di 5 equazioni nelle
5 incognite x^ y, z, t, v.
Ix -hay -hb z -h ct-\-dv=^0
Ix -hly 4-a <^4-ò^4-c^ = 0
Ix-hly-^lz -hat -hbv==^0
Ix-^ly -^ Iz -hit -{-av = 0
lx-\-ly-\-lz-hlt-hlv = 0.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO 93
Ris. Il determinante D dei coefficienti è (es. 2"* a pag. 91)
uguale du l{l — a)*.
V Se l{l — aY =i= 0, sarà x^=^y = ^^=^t^v=0.
2** Se ? = Ò, a =}= 0, la caratteristica di D è 4, perchè è dif-
ferente da zero il minore formato dalle prime 4 righe ed ultime 4
colonne. Si dà allora alla x un valore arbitrario e si tien conto delle
prime 4 equazioni, che, essendo l = 0, risultano omogenee nelle
y, z,t,v dù determinante non nullo, cosicché y=.z^=^t^=^v^=^0.
3<* Se ^ r= a = 0, alle x, y si possono dare valori arbi-
trari; e il nostro sistema si riduce al sistema:
bz -^ ct-\- dv = 0
bt-h e?; = 0
bv =^0
che si discute senza difficoltà.
4° Se ? = a =!= 0, il minore formato dalle prime quattro
righ e ultime quattro colonne è
a — b b — e e — d d
0 a — b b — ce
0 0 a — b b
0 0 0 a
a b e d
a a b e
a a a b
—
a a a a
a (a — bf
Se a =# 6, questo minore è differente da zero ; dato alla x
un valore arbitrario , si ricavino i valori di y, z, t, v, dalle
prime quattro equazioni.
5** Resta ad esaminare il caso che Z = a = 6=!-0, ecc. ecc»
6° Calcolare il discriminante della equazióne
x^-\-px-hq=^0
e quello della x^ -h p x -i- q =^ 0, confrontando poi coi risultati
già. noti relativi a queste equazioni.
Ris. Per Tequaz. a;^-+-^a;-Hg = 0 1a somma dei quadrati ^2
delle due radici vale p" — 2 q. Quindi il discriminante vale
2 —p
— 2) p~ — 2 p
Ed è ben noto che le due radici di tale equazione sono
P'
4, = 4(1-,)
Uguali soltanto se ^ = g, ecc. ecc.
7*^ Per quali valori di a può avvenire che l'equazione
.^"^ -h a = 0 abbia due radici uguali?
8° Per quali valori delle p, q l'equazione x^ -\- p x -^ q^=^ 0
ha due radici uguali?
94 CAPITOLO VI — § 28
CAPITOLO VI.
FUNZIONI, LIMITI
§ 28. — Intervalli, intornì.
L'insieme dei numeri reali compresi tra due numeri dati a, h
si chiama intervallo finito e si indica con {a, b). Nella corri-
spondenza tra numeri e punti di una retta r tale intervallo ha
per immagine un segmento finito. Dei due estremi a, h il minore si
chiama estremo inferiore, o sinistro; il maggiore si chiama estremo
superiore o destro. Il valore assoluto \b — a | dicesi grandezza
0 ampiezza dell'intervallo. Gli estremi a, h si considerano, salvo
avvertenza contraria, come appartenenti all'intervallo {a, h).
L'insieme dei numeri non minori di un numero a si indica
con (a, -!- 00 ) e si dice costituire Vintervallo infinito, che ha a
per estremo sinistro o inferiore e + oo come estremo destro o
superiore (notando al solito che questa frase si deve considerare
soltanto come un modo di dire e niente più). Il punto a si può
talvolta (purché si avverta esplicitamente) escludere dall'inter-
vallo (a, + 00 ). Questo intervallo ha sulla retta r per immagine
la semiretta (il raggio) posta a destra del punto a (cioè del
punto che ha per ascissa a).
Osservazioni analoghe per i numeri non maggiori di a, che
formeranno un intervallo (— oo , a). Per intervallo ( — co , -f- ce )
intenderemo la classe di tutti i numeri reali, che hanno per
immagine tutti i punti della retta r.
Assai spesso diremo intervallo in 'luogo di segmento o vice-
versa, così come diciamo punto invece che numero, o viceversa.
Se e è un punto deirintervallo (a, h), questo intervallo si
dice intorno di e. Se e è l'estremo destro di (a, ò), cioè se p. es.
e ^=^ b > a, e quindi il segmento (a, b) cade a sinistra di e, si
suol dire che (a, b) è un intorno sinistro di e. Se e coincide
invece con l'estremo sinistro di (a, b) si suol dire che (a, b) è
un intorno destro di e.
Gli intervalli (a, -H oo ), ( — oo , ò) si dicono poi rispettiva-
mente essere un intorno sinistro o destro di oo .
FUNZIONI, LIMITI 95
§ 29. — Funzioni; funzioni di funzioni.
a) Assai spesso avviene di dover considerare nei calcoli un
simbolo (lettera), a cui nel ragionamento si danno valori distinti:
Un tale simbolo si dirà essere una variabile: i simboli, a cui
conserviamo in tutto il discorso lo stesso valore, si diranno
essere una costante. Uno stesso simbolo potrà in un certo
ragionamento essere costante, in un ragionamento successivo
variabile (*).
Molto spesso avviene pure che di due variabili reali x, y,
una, p. es. la ?/, sia determinata, appena sia dato il valore
della X. Così, per esempio:
V Se non varia la temperatura, il volume^, che occupa
un grammo di ossigeno, è completamente determinato dal valore x
della pressione, a cui é sottoposto ;
2^ La lunghezza y di una data sbarra di ferro è com-
pletamente determinata dalla temperatura x (se si trascurano
le variazioni dovute alla pressione, cui è assoggettata la sbarra,
0 se si opera a pressione o tensione costante) ;
3° Lo spazio y percorso nel vuoto da un grave che cade
senza velocità iniziale in un certo luogo, è completamente deter-
minato dal numero x dei secondi impiegati nella caduta ;
4° L'area y di un poligono regolare inscritto in un dato
cerchio è perfettamente determinata dal numero r dei lati;
5® Il logaritmo decimale y di un numero positivo x è
determinato dal valore di x, ecc.
Noi diciamo in questi casi che y è funzione della x. Non
è però detto che la x possa ricevere valori arbitrari. Nel
l*" esempio x non può avere che valori positivi (perchè non ha
senso parlare di un gas sottoposto a una pressione negativa);
nel 4'' esempio x non può che ricevere valori interi maggiori
di 2 ; nel S"" esempio la x non può ricevere valori negativi,
perchè non esistono (nel campo dei numeri reali) i logaritmi
decimali dei numeri negativi.
L'insieme G dei valori della x, per cui esiste il corrispondente
valore della ;y, si dirà il campo di esistenza della funzione y.
(*) Se noi studiamo, p. es., come variano il volume v, la pressione p, la tem-
peratura t di una certa massa di gas, allora in una serie di esperienze, in cui non
si faccia variare la temperatura, si considereranno p ^ v come variabili; e in una
successiva serie di esperienze, in cui non facciamo variare v, considereremo t ^ p
come variabili.
96 CAPITOLO VI — § 29
Def. Una variabile (reale) y si dice funzione della variabile
(reale) x per i valori di x che appartengono a un certo insieme G
(campo di esistenza della y) se ad ogni valore dato alla x
neirinsieme G corrisponde uno e un solo valore della y C),
Se poi ^ e ^ sono due tali funzioni della x, definite nello
stesso insieme G, allora y -\- i z si dirà funzione complessa della
variabile reale x definita nel campo G.
Salvo avvertenza contraria, noi parleremo soltanto di fun-
zioni reali.
P) Si hanno spessissimo funzioni definite analiticamente. Così
p. es. : y =zmx -^ n (m, n costanti arbitrarie) rappresenta una
variabile y che ha un valore determinato, qualunque sia il valore
dato allo x [cioè il campo di esistenza della y è formato da tutto
l'intervallo (^—00,-1-00)]. Altrettanto avviene della y = serìx.
La y = -f- ]/x — 3 definisce una funzione (reale) y della x
nell'intervallo (3, 4- 00 ).
La ?/ = -h ]/x — 3 -f- j/4 — X definisce una funzione
(reale) della x nell'intervallo (3, 4).
Invece la ?/ = -I- \/x — 3 -I- j/2 — x non definisce nessuna
funzione (reale) della x. Infatti, qualunque sia il valore dato
alla X, uno almeno dei binomii x — 3, 2 — x è negativo, così
che non esiste (nel campo dei numeri reali) la sua radice
quadrata.
Ij2ì y =. — definisce una funzione della x nel campo formato
X
da tutti i valori della x differenti da zero.
Per indicare che y è una funzione della x si suole scrivere
y = f(x). Se poi si considera x come un numero dato, lo stesso
simbolo indica il valore corrispondente della funzione ; in altri
termini si fa la convenzione di rappresentare con f(a) il valore
che la funzione assume per il valore particolare a della varia-
bile : così sen — è il valore , che la funzione ^en x assume
n
per x= Y'
L'uguaglianza y^=zf(x) esprime dunque semplicemente che y
(*) In sostanza dunque l'idea di funzione non è che l'idea di corrispondensa
tra due classi di numeri x,y (univoca in un senso), ossia coincide con l'idea di
classe di coppie di numeri ix,y) tale che per ogni a; di 6r esista una e una sola
coppia che lo contenga.
FUNZIONI, LIMITI 97
é una funzione di x, ossia che y per ciascun valore x = a di :r
(almeno compreso in un certo gruppo G) assume un valore deter-
minato che si indicherà con f{a). Si può benissimo adoperare
anche un'altra lettera diversa da f, scrivere p. es. :
F(x\ ^{x\ ^{x\ W(^), g{x\ ;
e l'uso di questi diversi simboli è conveniente, quando si deve
parlare di piti funzioni distinte.
Si suole anche considerare una classe estremamente parti-
colare di funzioni y della x: quelle funzioni cioè che conservano
uno stesso valore (sono costanti), qualunque sia il valore dato
alla X. Così, p. es., il volume y di un prisma di data base ed
altezza conserva uno stesso valore al variare dell'angolo x, che
gli spigoli del prisma formano con la base (o, come si dice
anche, è indipendente da x).
Y) Talvolta si presentano quantità y, funzioni di una varia-
bile z, la quale è a sua volta funzione di una terza variabile x.
Cosi p. es., il volume y di un kg. di una certa sostanza è una
funzione della densità z, la quale è funzione della temperatura x.
E spesso avviene, come risulta chiaro da questo esempio, che
si possa senz'altro considerare la y come funzione della stessa x.
Così, p. es., ?/ = log z è una funzione della z] e, se -s^ = sen rr,
è ?/ = log sen x una funzione della x. Ma si osservi che, mentre
z è definita per ogni valore della x, la y è definita soltanto
per i valori positivi di z. E quindi la y, come funzione della x,
è definita solo per gli angoli x dei primi due quadranti. In
generale, se y = f{x), -2^ = 9 ix), potrà darsi che la y si possa
considerare come funzione /'[^(a:)] della a;. E una tal funzione
esisterà per quei valori della x, tali che il corrispondente valore
della ^ = cp (ce) appartenga al campo ove è definita la f{z). Una
tal funzione /"[cp {x)\ si suol anche chiamare una funzione di fun-
zione della X. Se fosse, p. es., f{z) = jA, ^ = cp (a;) = — a? — 1
non esisterebbe la f\_^(z)\ perchè, essendo sempre — x^ — 1
negativo , il simbolo \/ — x^ — le privo di significato (nel
campo dei numeri reali).
§ 30. — Rappresentazione grafica delle funzioni.
Si voglia rappresentare una data funzione f(:x)] si voglia
cioè dare un mezzo 0 per studiare come varia f{x) al variare
di X', 0 senz'altro per calcolare i valori che assume f{x) per
7 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
98 CAPITOLO VI — § 30
ogni valore dato alla x (nel campo G). Tra i metodi che possono
servire a tale scopo, uno, il metodo delle tavole numeriche, è
ormai famigliare al lettore, che ben conosce gli esempi delle
tavole logaritmiche e trigonometriche, tanto utili per il calcolo
rapido e sufficientemente approssimato delle funzioni:
y = log x^ y = sen x, y=^ cos x, y =^ log sen x, ecc.
Naturalmente si possono, almeno teoricamente, costruire
tabelle numeriche per ogni funzione. La fisica ne porge nume-
rosi esempi. Ricorderò, p. es., le tavole che danno la densità y
dell'acqua alle varie temperature x, la temperatura y di ebol-
lizione dell'acqua alle varie pressioni x, ecc.
Ma talvolta si suole ricorrere a procedimenti grafici, i quali,
sebbene generalmente meno precisi, hanno il vantaggio di per-
mettere di abbracciare con un solo colpo d'occhio l'andamento
di una funzione y = f{x), e talvolta persino di risolvere con
rapidità questioni che analiticamente porterebbero a lunghi svi-
luppi di calcolo. Ciò che è specialmente utile, se il campo G
dei valori, per cui è definita la y, è formato da tutti i punti
di un intervallo; caso, al quale soltanto sono dedicate le con-
siderazioni seguenti.
Su un foglio di carta si scelgono due rette normali Ox, Oy
come assi cartesiani ortogonali.
Sulla prima si portino dei segmenti DA uscenti da 0, aventi
lunghezze x = OA arbitrarie, ma appartenenti al campo G, ove
Idi y è definita.
Si innalzino dagli estremi A di questi segmenti delle per-
pendicolari uguali in lunghezza e segno al valore della y cor-
rispondente al valore OA della x. Otteniamo così vari punti;
e tanti più ne otterremo, e (nei casi comuni) tanto più vicini,
quanto sarà maggiore il numero dei valori della x che si con-
siderano, e quanto meno distano l'uno dall'altro questi valori.
Se noi immaginiamo eseguite queste operazioni per tutti i va-
lori della X, gli estremi delle perpendicolari innalzate si trovano
su una curva, che diremo immagine della funzione f{x), e che
la Geometria Analitica chiamerebbe la curva che ha per equa-
zione y=:f(x). Dobbiamo anzitutto fare alcune osservazioni:
l'' 11 disegno resta molto facilitato se la carta è millime-
trata, perchè così più facilmente si misurano i segmenti paralleli
0 normali ad Ox (purché Ox sia una delle righe tracciate sulla
carta). Il Regnault, per maggiore precisione, in taluni suoi studi
ricorse a curve tracciate su tavole di rame.
FUNZIONI, LIMITI 99
2"* È impossibile disegnare eifettivamente tutti i segmenti
normali ad Ox, di cui si ha bisogno. Generalmente se ne traccia
soltanto un numero sufficientemente grande, congiungendo poi gli
estremi con una linea possibilmente regolare. Questo è sufficiente
nei casi più comuni. (La frase linea regolare non ha un preciso
significato matematico, ma un ben chiaro significato intuitivo).
3** Talvolta però si usano speciali disposizioni pratiche,
che permettono di ottenere senz'altro la nostra curva, o, come
si suol anche dire, il nostro diagramma.
Immaginiamo, p. es., che il nostro foglio di carta strisci su
se stesso, in modo che la retta Ox strisci su sé stessa. La velo-
cità di tale strisciamento sia uniforme e tale da far percorrere
verso sinistra l'unità di lunghezza (p. es. 1 cm.) nell'unità
di tempo (p. es. l') ; in altre parole, il punto posto a destra
di 0 su Ox, alla distanza di x cm. dal punto 0, sia dopo x
minuti primi venuto proprio in 0. Il punto M sia mobile sulla
retta che è la posizione iniziale di Oy, parta dal punto 0,
percorra lo spazio f(x) in x minuti secondi (*), e porti una
punta scrivente sul foglio di carta. La traccia lasciata da esso
sarà precisamente la y ^=.f{x).
In pratica il foglio di carta è avvolto su un cilindro (che
un movimento d'orologeria fa rotare di velocità uniforme) e viene
poi svolto su un piano ; la punta scrivente congiunta ad ilf è
da una m,olla premuta su tale cilindro. Se il punto mobile M
fosse, p. es., un punto invariabilmente congiunto all'estremità
superiore di una colonna termometrica o barometrica, l'appa-
recchio diverrebbe un registratore
automatico della temperatura (ter-
mografo), 0 della pressione atmosfe-
rica (barografo).
4** E inutile avvertire che ge-
neralmente i punti della retta Ox
a sinistra di 0 corrispondono a valori
negativi della x, i punti della Oy
posti al di sotto di 0 a valori negativi della y.
Dall'esame della curva y=:f(x) si possono dedurre molte
proprietà della f{x). Così, per esempio, se noi ritorniamo al
punto mobile M, e alla figura qui sopra disegnata, noi vediamo
tosto da essa che y cresce fino a che x assume un valore
(*) Lo spazio Oilf percorso da M su Oj/ è evidentemente una funzione del
tempo X impiegato a percorrerlo.
100 CAPITOLO VI — § 30
7
X =:oc dì poco inferiore a —- per poi diminuire. Ciò vuol dire
4
che nei primi a minuti il punto M si allontana da 0 per poi
di nuovo avvicinarsi ad 0. Essendo, diremo cosi, più ripida la
curva per xy cc^ che per x < a, ne deduciamo che la velocità
con cui M ritorna verso 0 è maggiore di quella con cui se ne
era allontanato, ecc.
Se ci proponiamo di vedere in quali istanti la distanza 0 M
era, p. es., uguale a 1, basta cercare i punti della nostra curva,
la cui distanza da 0 ^ vale 1 ; si trovano facilmente i punti B, C,
le cui ascisse la nostra figura dimostra approssimativamente
5 21 5 21
uguali a ^ 6 ~^- Quindi dopo circa — o — minuti la
8 8 8 8
distanza 0 If vale 1, ecc., ecc.
Anche solo queste prime e semplicissime applicazioni baste-
ranno a dare un'idea di alcuni dei vantaggi che presenta il
metodo grafico di rappresentare una funzione. E oramai negli
studi più svariati di fisica, di economia, ecc., si ricorre ad esso.
Ricorderò qui soltanto i così utili orari grafici delle strade
ferrate, che sono appunto costruiti per rappresentare il movi-
mento su una linea Ox di un treno M secondo i principii
sopra svolti.
Voglio citare ancora un esempio di rappresentazione gra-
fica (*). Sia data dell'anidride carbonica che alla temperatura 0^
e alla pressione di un'atmosfera ha il volume 0.9936. Tenendo
costante la temperatura, la pressione y, misurata in atmosfere,
a cui si assoggetta il gas, è funzione del volume x occupato
dallo stesso gas. E si ha precisamente l'equazione di Van Der
Waals :
(, + M087i) (,_ 0,0023) = 1
che permette, per ogni valore della x, di calcolare il corrispon-
dente valore della y.
In questa equazione sono contenute tutte le leggi di dipen-
denza della y dalla x. Ma queste diventano ben più intuitive,
se ricorriamo alla rappresentazione grafica. Calcolando per mezzo
(*) Tolgo questo esempio dal libro di Nernst u. Schònfliess: Emfiihrung
in die mathem. Behandhmg der Natunvissenschaften.
FUNZIONI, LIMITI
101
di questa equazione i valori di y corrispondenti a un dato valore
della x^ costruiamo facilmente la seguente tabella:
X
y
•
X
y
0,1
9,4
0,008
38,8
0,05
17,5
0,005
20,9
0,015
39,9
0,004
42,0
0,01
42,6
0,003
45,7
Coi 001 0.0/J ooz
E. la rappresentazione grafica dà la curva qui disegnata, in
cui però per misurare i segmenti dell'asse delle x e quelli dell'asse
delle y si sono scelte distinte
unità di lunghezza.
Ne deduciamo, p. es., che:
1^ Data la distanza y di
un punto della curva dall'asse
delle x^ il punto è determinato,
e ne è quindi determinata l' a-
scissa ;r, se p. es. y > a o i/ < P,
essendo a un numero che la fi-
gura dimostra compreso tra 40
e 50, e p prossimamente uguale
a 20. Vale a dire: Se la pressione è minore di \^ atmosfere o
maggiore di a, il volume del gas è completamente determinato
dalla pressione a cui si assoggetta. Invece si vede tosto che a
ogni valore della pressione y compreso tra a e [B corrispondono
tre possibili valori del volume x',
2*" Si vede pure che mentre il volume cresce da 0,01 in
poi, la pressione va diminuendo dapprima con una certa rapidità,
poi con una certa lentezza. E, mentre il volume diminuisce
da 0,005 in poi, la pressione va rapidamente aumentando, ecc.
Esercizi.
V Una funzione y = cost. è rappresentata da una retta
parallela all'asse delle x.
2° Rappresentare le funzioni ?/ = 3 a; -h 4, y = 3 a; -4- 5,
yz=:i4:X-hQ, y=^4:X-h7.
Risp. Si deve verificare col disegno : a) che le curve corri-
spondenti sono rette : P) che le prime due sono tra loro parallele,
perchè hanno lo stesso coefficiente angolare 3 ; y) che anche le
ultime due sono parallele.
102 CAPITOLO VI — § 30-31
3** Rappresentare graficamente la legge di Boyle-Ma-
riotte. (Se a; è il volume d'un gas perfetto alla pressione y, è
xy = costante; si supponga questa costante, p. es., uguale al).
E dedurne come varia y al variare della x. (La curva imma-
gine è un'iperbole equilatera).
4° Rappresentare la curva ?/ = + j/l — x'^.
RiSP. Si deve trovare un semicerchio.
5° Si rappresenti graficamente qualche fenomeno fisico,
partendo o da una legge fisica o da tavole numeriche.
Così, p. es., si può rappresentare come varia la intensità
luminosa y al variare della distanza x dalla sorgente luminosa
(y x'^ = cost.), oppure come varia la densità y di un corpo,
l'acqua, p. es., col variare della temperatura x, ecc.
§ 31. — Esempi preliminari di limiti.
ce) Sia OF un pendolo mobile attorno ad un punto 0; e
ne sia OV la posizione di equilibrio stabile. Supponiamo che
il pendolo si muova in un mezzo così viscoso, che la resistenza
del mezzo impedisca al pendolo OF di lisalire dopo che sia
disceso in OV. L'angolo y che OP forma con OFva diminuendo,
e diminuisce indefinitamente fino a diventare tanto piccolo quanto
si vuole, e, quando è diventato minore di un qualsiasi angolo £,
non cresce più, ma resta minore di £. Ora y è una funzione
del tempo x impiegato dal pendolo nel suo movimento. Quanto
più X aumenta, tanto più piccolo y diventa e resta. Cioè che
esprimeremo dicendo, che y tende a zero, (ha per limite zero,
diventa infinitesimo) se x cresce indefinitamente (per a:;= + oo)
e scrivendo lim ?/ = 0.
P) Sia ancora OP un pendolo oscillante attorno ad un punto 0;
e ne sia OF la posizione di equilibrio stabile. Per fissare le idee,
supponiamo che gli attriti, la resistenza del mezzo siano tali
che, se il pendolo parte da una posizione OF che con OF fa
un angolo a, esso, oscillando, giunga dall'altra parte di OV
fino alla posizione OPi che con OV fa angolo — . Cosicché,
tenendo conto dei segni, possiamo dire che, se l'angolo y di OF
con OF ha il valore a al principio di una oscillazione, il valore
di y varia durante l'oscillazione e, partendo da ce, e passando
oc
per lo zero, giunge fino al valore — . Naturalmente poi il
FUNZIONI, LIMITI 103
pendolo retrocede fino a che il valore di y, ripassando per lo
1 / ^ ^
zero, giunge al valore — ( . ) = — ^ per poi retrocedere
di A ^
a
di nuovo giungendo al valore ^ ? ^ così via.
8
E resta evidente che, se si prende il numero delle oscil-
lazioni compiute dal pendolo abbastanza grande, si rendono
piccoli a piacere i valori che può poi assumere y: ciò che
esprimeremo scrivendo lim y ^= 0.
Infatti, se £ è un numero positivo piccolo a piacere, sia n
così grande che 2" > . Per x ^ n sarà 2"" > -, -^—~ < s.
S £ ' 2
E quindi per x> ìi l'angolo ?/ è a fortiori minore di s.
y) Tra i due precedenti esempi passa una certa differenza
di comportamento. Mentre nel l"" la y varia al crescere della x
sempre in un verso, e, senza mai essere nulla, finisce col diven-
tare e restare piccola a piacere, la quantità y del secondo
esempio tende pure a zero. Ma essa non varia sempre in un
verso : il suo valore assoluto prima diminuisce fino ad annullarsi,
poi aumenta di nuovo, 4;orna a diminuire, e così via. I massimi
valori che \y\ raggiunge in ogni oscillazione vanno diventando
però sempre più piccoli; cosichè anche la y del secondo esempio,
come la y del primo^ finisce da un certo momento in poi con
l'essere diventata e restare piccola a piacere in valore assoluto.
^ o) Se un punto M si muove di
__^ r— T ^^^^ uniforme su una retta OX,
0 M N X psii'tendo da 0, e movendosi p. es.
verso destra, la distanza y = OM
cresce sempre, anzi da un certo istante in poi diventa e resta
maggiore di una qualsiasi lunghezza L assegnata. Se, per es.,
misuriamo il tempo (in minuti, o in secondi, o ecc.) a partire
dairistante iniziale del movimento, e se v è la velocità (sup-
posta costante) del movimento, dopo x> — unità di tempo.
V
si ha 0M^=^ y =^ x v> L. Ciò che noi esprimeremo scrivendo
lim ^ = 00 (quando x cresce indefinitamente), o anche senza
altro lim ^ = co .
Sia ora N un punto che oscilli rapidamente intorno al pre-
cedente punto mobile M, e supponiamo che l'ampiezza di tali
oscillazioni sia costantemente di 1 cm. La distanza y = ON
104 CAPITOLO VI — § 31
potrà anche in certi intervalli di tempo diminuire (quando N
si muove oscillando in direzione opposta al movimento di M).
Ma ciononostante i valori minimi che successivamente acquista
X = ON vanno crescendo sempre, vanno diventando grandi ad
arbitrio, cosicché ad un certo istante x in poi anche y = ON
diventa e resta maggiore di una qualsiasi lunghezza assegnata.
Perciò noi diciamo ancora che lim y :=: co .
s) Consideriamo la quantità y = — ; essa è una funzione
X ~~~' ó
della X nel campo formato da tutti i possibili valori della x^
eccettuato il valore x=^3.
Si noti che per a? = 3, 1 ; 3,01 ; 3, 001 ; si ha rispettiva-
mente ?/=10; ?/=100; y =^ 1000, ecc. E si riconoscerà tosto
che, man mano che la x si avvicina a 3, il numero x — 3 diventa
e resta piccolissimo, il numero grandissimo (in valore
X — 3
assoluto) ; ciò che noi indichiamo scrivendo lim y :=: oo ,
Il lettore costruisca il diagramma (la curva immagine) della
nostra funzione (che si trova essere un'iperbole equilatera) e
cerchi di illustrare col disegno i fatti qui enunciati.
Si noti che, per assegnare il lim ?/, si sono considerati i
a;«=3
valori delle x prossimi al valore 3, e non il valore 3, per il
quale anzi la y non è neppur definita.
Q Consideriamo infine un pendolo OF che oscilla senza
smorzamento attorno al punto 0. L'angolo y di OF con la
posizione OV di equilibrio stabile varierà da un certo valore
a fino a — a, per poi tornare al valore a^ e così via. In ogni
oscillazione esistono valori di y vicinissimi ed anzi coincidenti
con ogni numero y scelto nell'intervallo ( — a, a). Ma y, dopo
essersi avvicinato al valore y, se ne allontana; e la misura
\y — Y I di questo avvicinamento, pur raggiungendo ad ogni
oscillazione addirittura il valore zero, continua pure a rag-
giungere i valori [oc — y | e 1 — a — y | ; cosicché, pur diven-
tando minore di un numero £ piccolo a piacere, non resta, da
nessun istante in poi, minore di un tal numero £. Noi diremo
perciò che lim y non esiste, o che y non tende ad alcun limite,
quando il numero delle oscillazioni tende all'infinito.
FUNZIONI, LIMITI
105
§ 32.
Limiti.
Cerchiamo di dare una definizione di limite, che corri-
sponda alla nozione intuitiva messa in evidenza dagli esempi
del § 31.
A) In generale sia y una funzione della x definita in un
certo campo G.
Noi scriviamo lim y:=^'b{a,h Noi scriviamo lim y ^= h {b
numeri finiti), se, preso un nu- numero finito) se, preso un nu-
mero positivo s piccolo a pia- mero positivo e piccolo a pia-
cere (*), la differenza y — he cere, la «differenza y — he mi-
minore in valore assoluto di s nore in valore assoluto di £
( I ^ — h\^s), per tutti ina- {\ y — ò | ^ £ ) per tutti i va-
meri x di G abbastanza vicini lori x di G abbastanza grandi
ad a, ma differenti da a. in valore assoluto.
Per precisare tale definizione, osserviamo che sono equiva-
lenti le frasi seguenti:
a') Il numero x è abbastanza
grande in valore assoluto.
1
^') Il numero
abba-
ca
stanza piccolo in valore assoluto.
y') Il punto X appartiene ad
a) u II numero x è abba-
stanza vicino al numero a ».
P) " La differenza x — a è
abbastanza piccola in valore
assoluto » .
Y) Il punto X appartiene ad
un certo intorno del numero a un certo intorno di oo .
(o anche ad un intorno abba-
stanza piccolo di a).
Se poi vogliamo precisare il significato delle parole " ab-
bastanza", " un certo ", che compaiono nelle frasi precedenti,
e che possono avere un significato più o meno ampio a seconda
del problema trattato, possiamo dire :
B) La differenza x — a non B') Il numero x supera in
supera in valore assoluto un
certo numero o ( | r — a | <a) (**).
s) Il punto X appartiene ad
un intorno {a — o. a -\- a) del
numero a.
valore assoluto un certo nu-
mero m.
£j II punto X appartiene ad
un certo intorno (m, -h oo ) o
( — co, m) del punto oo .
(*) La definizione non cambierebbe di significato se io dicessi solamente:
« un numero e arbitrario ".
(**) L' « abbastanza piccolo " acquista così il significato preciso di « minore
di 7 in valore assoluto «.
106 CAPITOLO VI — § 32
Con queste osservazioni le definizioni precedenti si possono
enunciare anche così:
Noi scriviamo lim y =ih (a,h Noi scriviamo lim y ^=zh {h
a; = a • .e = x
numeri finiti) se, comunque si numero finito) se, comunque si
scelga un numero positivo e pie- scelga un numero positivo £ pic-
colo a piacere, esiste un numero o colo a piacere, esiste un un-
tale che, se x appartiene a G, mero m tale che, se x appartiene
se a; 4= a, ed j x — a\ < a, i va- a G, e se | a^ | > | m | , i valori
lori corrispondenti della y sono corrispondenti della y sono tali
tali che la differenza y — h non che la diiferenza y — h non su-
superi £ in valore assoluto. peri £ in valore assoluto. '
Ed infine si possono dare le precedenti definizioni nella forma
seguente, valida in entrambi i casi, aifatto completa e precisa :
Si dice che lim y=^h {a finito o infinito, 6 finito), se,
preso ad arbitrio un numero £ positivo (piccolo a piacere),
esiste un intorno y di a, tale che in tutti i punti di questo
intorno (il punto a escluso), che appartengono al campo G,
ove la ^ è definita, la y assume O valori, che differiscono
da h per non più di £, ossia che soddisfano alla
\y — h\^z.
Questa disuguaglianza non varrà per tutti i valori di ?/,
ma soltanto per quelli che corrispondono a punti di y. Si noti
che y varia in generale, quando £ varia. Perchè, se y non
variasse, tale disuguaglianza varrebbe, qualunque fosse £, per
tutti i valori di y corrispondenti ai punti dell'intorno fisso y.
Perciò ognuna delle corrispondenti differenze \y — & |, essendo
minore di un numero £ > 0 arbitrario, sarebbe nulla. Pertanto
questi valori di y sarebbero tutti uguali a l. Cioè esisterebbe
un intorno y di a, in cui la y avrebbe sempre lo stesso valore h.
Notiamo che porre la disuguaglianza
\y-h\^z (1)
equivale a dire che entrambe le differenze y — 6, l — y sono
algebricamente minori di £. Infatti, quella di queste differenze,
che è positiva, è uguale a | ?/ — & | , ed è quindi per ipotesi
non maggiore di £ ; e quella delle due precedenti differenze, che
è negativa, è certamente minore di £, perchè £ è positivo.
(*) Eicordo che si dice valore assunto dalla y in un punto, p. es., nel punto
x — c, il valore di y corrispondente al valore e della x.
FUNZIONI, LIMITI 107
Alla precedente disuguaglianza si possono sostituire le se-
guenti due:
y — h^^ ; b~zj^e (2)
che si possono scrivere
b—B^y^b-hs. (3)
La (3) dice che y è compreso tra b — £ e ò -h £.
I valori che la y assume per i citati valori di x formano
dunque una classe di numeri, il cui limite inferiore l non è infe-
riore a ò — £, e il cui limite superiore L non è superiore a & 4- £.
Osservazione critica.
Questa ultima osservazione permette di presentare sotto nuova luce la defini-
zione di limite, e di vederne le possibili generalizzazioni. E forse per qualche lettore
la seguente trattazione potrà apparire più facile della precedente. Premettiamo una
osservazione.
Siano V,, 72 ^**6 intorni del punto a; e sia Vi una parte di /, (cioè i punti
di •/, appartengano a y.^). Tra i valori clie y assume per i valori di x (distinti da a
€ che appartengano a G) appartenenti a V2 saranno compresi anche i valori as-
sunti da y, quando x (sempre appartenendo (r ed essendo distinto da a) si muove
entro 7, (e ciò perchè, per ipotesi, 7, è interno a y^). Quindi evidentemente: I li-
miti L,, 1, superiore e inferiore dei valori assunti da j quando x varia in v,
(colle solite restrizioni) e i limiti analoghi L2, U relativi a y, soddisfano alle
Lj^Li^lj^l, (*). Cioè, mentre un intorno 7 di a impicciolisce, il limite supe-
riore L dei valori corrispondenti di y non aumenta, il limite inferiore 1 non
diminuisce, pure essendo sempre i^L Dunque il limite inferiore v degli L, e
il limite superiore >• degli 1 soddisfano alle a ^ ;,.
Nel nostro caso (il caso elementare) in cui lim y = h, preso un 2 piccolo a
piacere, esiste, come abbiamo veduto, un intorno v di a per cui il limite superiore X
non supera b + £, l'inferiore l non è minore di h ~s, per cui cioè L — l non su-
pera 2 £. In tale caso dunque la classe degli L è contigua alla classe degli l:
cioè A — /. E questo numero v = / di separazione delle due classi coincide appunto
col limite ì) dì y per x — a. Potremmo dunque anche dire:
Si dice che il limite di j per x— a esiste, se la classe degli L è contigua
alla classe degli 1; come valore lim y di questo limite s'intende in tal caso il
numero di separatone delle due classi.
Questa definizione è molto analoga a quella data per le aree e i volumi delle
figure piane 0 solide. Si capisce che dalle nostre ricerche elementari resta escluso
il caso A> Aj in cui secondo le attuali definizioni, non esiste il limite di y per x= a;
A e ^ sono nel caso generale i cosidetti massimo e minimo limite di y per x = a.
Si possono poi distinguere i limiti per x = a+ da quelli per x^=a — .
Oss. 1*. Affinchè queste definizioni abbiano senso, si deve
però ammettere che in ogni intorno di a esistano punti x ap-
partenenti a G, ma distinti da a. Vale a dire, se «^ è finito
(*) Ciò è una facile estensione del teorema evidente:
Se a,i «2? » ^n sono dei numeri, e a„ a.,, , am (con m^n) sono una parte
dei precedenti, il massimo (minimo) dei primi non è inferiore (superiore) al mas-
simo (minimo) di questi ultimi.
108 CAPITOLO VI — § 32
si deve per ogni numero o ammettere l'esistenza di punti a,
differenti da a, in cni la. y è definita e che soddisfano alla
\x — a|<o; se a=c3o^ si deve per ogni numero m ammet-
tere l'esistenza di numeri x, per cui la ^ è definita, e tali
che I X I > ■ m,| (*).
Così, p. es., non avrebbe senso parlare del lini ]/x — 2,
perchè ìsl y è definita soltanto nel campo G formato dai valori
della X, che non sono inferiori a 2. Ed evidentemente vicino
ad 1
p. es., nell'intorno (1 — ^, 1 H- o) ove ^ = "tt non
=i]"°
esistono valori di G.
Oss. 2^ Se i valori della x, di cui si parla nelle prece-
denti definizioni, sono scelti^ tutti in intorni a sinistra del punto a,
allora, anziché scrivere lim y, si scrive spesso lim y (se a
« = a a;=>o — 0
è finito) oppure lim y (se a è infinito). Si scrive lim op-
a; = -t--x. a; = a-|-0
pure lim, se i valori considerati della x sono scelti in intorni
a; =. — OD
destri del punto a. Le notazioni lim, lim sono però usate
a; c=a a; = ce
anche in tali casi, se non vi è possibilità di un equivoco.
Si scrive anche lim e lim, anziché lim e lim.
;rn=a— xn= a-\- X •= a — o a; = a-4-0
\x — il
Così, p. es., la y :=i x -h ~è una funzione definita
x — 1
per tutti i valori della x, il punto x ^=^ 1 eccettuato. Ed é
lim y ==: 0. Infatti, se £ é un numero piccolo a piacere, per
a; = 1-0*
i valori della x dell'intorno 1 — £ < x < 1 del punto 1 è
2 X
0 y\z=i\y\:=:^\x -^ i = | ^ 1 | < £. In modo SÌ-
X ~"~" j.
mile si prova che lim ^ = 2.
a; = l-|-0
(Si ricordi che per x < 1 é \x — 1 j = | 1 — o^ | = 1 — x,
r^-"i|- -I i. -1 A i^~ l'I _ 1^
~ = — le che per x> 1 e ;, — — 1 j.
X— 1 X— 1
Oss. 3". È essenziale notare che, pure esistendo il lim //,
può darsi benissimo che per x = a la y non sia definita, od
anche che vi abbia un valore affatto distinto da lim y, perchè,
(*) Questa proprietà si suole anche enunciare dicendo: Il punto a è punto
limite di G
FUNZIONI, LimTI 109
per la stessa definizione, per calcolare il lim y si devono esa-
minare i valori che y assume in punti distinti dal punto a: = a.
Oss. 4''. Se in un intorno di x=^ a la y riceve costante-
mente uno stesso valore b, evidentemente lim y =^ h.
Oss. 5'\ La lim y =^h si legge : Il limite di y per x = «
è b ; oppure y tende al limite b, o anche tende a b per a; = a,
oppure per a; = a la y — b tende a zero, diventa infinitesima,
è infinitesima.
Sarà un utile esercizio al lettore illustrare le precedenti
definizioni con gli esempi del § 31.
Oss. 6^. Supponiamo che esista il lim ^ = ?, e che, quando
X ^ a, si abbia y> k oppure y^k.
Dovranno esistere dei valori di y tali che \y — l \ <^,
e in particolare che l^y — £. Poiché ogni valore della y non
e inferiore a k, sarà l^k — £ ; ma £ è un numero piccolo a
piacere. Dovrà dunque essere l ^ k.
Così pure, se per x -- a è y <kj oppure y ^k, è l ^k.
Come si vede, le disuguaglianze precedenti relative alla y
si conservano attenuate (mi sia lecita la frase) per un limite di y.
Dico attenuate, 'perchè se, p. es., y>k, dalla ^ =: lim y posso
non già dedurre' che l > k, ma soltanto che l ^ k. Un fatto
analogo ci è già noto (pag. 10) per i limiti superiore ed inferiore.
Oss. 7*. Viceversa, se, p. es., lim y^=^l<^k, esiste per ogni
£ > 0 arbitrario un intorno y di a tale che in questo intorno
y ^ / 4- £. Scelto ^ <k — Z, sarà dunque in tale intorno y <^ k.
Un risultato analogo si ottiene se l> k.
Dalla disuguaglianza lim ^ < ^ [oppure lim y > k] si deduce
quindi una disuguaglianza y<k [oppure y>k] per i valori
della y: la quale però (si noti) è valida non già per tutti i
valori della y: ma soltanto per quei valori che la?/ riceve in
un CONVENIENTE iutomo dol punto a.
Invece dalla y<k [oppure y>k] si ricava soltanto lim y^k
[oppure lìm?/^A:], se questi limiti esistono e sono finiti. Anche
dalia ?/^^ [oppure ?/^Z:] si ricava la stessa disuguaglianza.
B) Converremo di scrivere lim ?/=^ se lim — = 0.
x=a «—a y
Scelto ad arbitrio un numero £ positivo, e, posto k =^ — ?
dovrà dunque esistere un intorno y di a tale che per tutti i
110 CAPITOLO VI — § 32
punti di questo intorno (il punto a escluso) che appartengono
1
£, ossia \y\'^k, cioè
lianze: y^k oppure ?/^
al campo G ove y è definita, sia
valga l'una o l'altra delle disuguagl
Possiamo dunque dire:
È lim y ^=^ 00 j se, scelto ad arbitrio un numero k positiva
x = a
(arbitrariamente grande), esiste un intorno y di a, tale che nei
punti di y, ove la y è definita, e che sono distinti da a, valga
la I y I ^ k, cioè valga la :
y^k oppure la y ^ — k.
Se vale sempre in y la prima di queste ultime due disu-
guagliante, se cioè y è positiva in tutto un intorno di a, si dirà
che il limite di j è -h co .
Se vale in y la seconda, si dirà che lim y = — oo .
Se in ogni intorno di a la y assume valori tanto positivi
che negativi, essa, pur tendendo a oo , non tende né a -f- oo ^
né a — co .
Anche qui potremo distinguere il limite per x = a -\- 0,
e il limite per x = a — 0.
Dunque lim y === b, (essendo anche a = oo oppure b =~oo )
X = a
allora e allora soltanto che, dato a piacere un intorno p di b^
si pud trovare un intorno oc di a tale che quando x =-4^ a varia
in ce assumendo valori per cui y è definita, i corrispondenti
valori di y appartengono a p.
Il lettore veda come si modifica questa proposizione, se,
p. es., ò = -i- 00 , oppure ò = — oo , o se si tratta del limite
per X = a --H oppure per x ^= a — .
C) Come abbiamo visto in un esempio precedente, può bene
avvenire che lim y, lim y esistano entrambi, e siano diffe-
X •= a — O a; = a-fO
renti l'uno dall'altro; né ciò può stupire, perché per il primo
limite si considerano i valori di y per x posto a sinistra di a;
e per il secondo limite si considerano tutt'altri valori della yi
quelli corrispondenti a valori di x posti a destra di a.
Vogliamo dimostrare però il seguente:
Teorema di unicità. La y non può avere due limiti di-
stinti, p. es., per x = a 4- 0 ; cosicché il lim y o non esiste,.
a; = a-4-0
Oppure ha un unico valore ben determinato.
FUNZIONI, LIMITI 111
Supponiamo, p. es., che la y abbia per a; = a 4- 0 due
limiti finiti li, k. Io dico che h -"= k.
Sia £ un numero piccolo a piacere. Esiste un intorno a a
destra di x = u, in cui \y — /i | < — - , ed esiste un intorno P a
destra di x = (X, in cui | ?/ — ^^ I ^ ~^ • ^i^ ^ ^^ punto (del solito
campo G e distinto da a), che appartiene al pili piccolo di
questi intorni; esso apparterrà ad entrambi gli intorni.
Il valore ?/a, che y assume in tal punto, soddisferà perciò
s s
ad entrambe le disuguaglianze \y^ — ^^ I ^ "o" ? I ^^ — k\<
I numeri h, k avendo da uno stesso numero y^ una distanza
s
minore di ~— , disteranno l'uno dall altro per meno di s, ossia
! Il — k l< £.
Ciò che si può anche dimostrare osservando che
\li — k\ = \{h — y.ò-^{y. — k)\é.\h — y,\-\-\k — y,\=^
= I ?/. — /^ I 4- I ?/, — A: I < y -h. y rr= £.
La differenza li — k, essendo in valore assoluto minore di
ogni numero positivo s, è quindi nulla. e. d. d.
Un utile esercizio sarà quello di completare la dimostrazione
del precedente teorema per il caso che sia, p. es., /i = H- oo .
§ 33. — Funzioni complesse e loro limiti.
Se u (.t), V {x) sono funzioni reali della x definite in uno
stesso insieme G, la u {x) -\- iv (x) è (§ 29, a, pag. 96) una fun-
zione (complessa) della variabile (reale) x definita nel campo G.
Se lini u (x^ =^ m, se lim v (x) = w, si suol dire che
lim [u (x) -h tv (x)] = m -f- i n. (1)
S
Poiché, scelto un — piccolo a piacere, esistono un intorno yi,
e un intorno Y2 di a, tale che nei punti di G (il punto a
escluso) che appartengono a tali intorni, valgano le
\u(x) — m\^^ , \v{x) — n\é.^. (2)
112 CAPITOLO VI — § 33-34
in un intorno y interno a Yi e a Y2 varranno entrambe le (2).
Varrà anche la
\\u{x) -i-iv (x) 1 — \m-h Ì7i\\^ £, (3)
perchè il primo membro di (3) non può superare
\ u (x) — m\ + 1 V (x) — n |.
Viceversa, se, per ogni £ > 0, esiste un intorno y V^^ il
quale valga la (3), allora è vera la (1). E così trovata una
stretta analogia tra le definizioni di limite di una funzione
reale 0 complessa. È evidente che dalla (1) segue
lim l/[u (x) f -f- [v (x) Y = m^ -f- n^, cioè:
lim I il (x) -h iv {x)\ =^\ m -]- in\
(limite del modulo = modulo del limite).
Una formola analoga non si può scrivere per gli argomenti
perchè l'argomento di un numero complesso non è univocamente
determinato.
Se però u (x) -\- iv {x) è una funzione complessa, il cui
modulo per x = a ha per limite r, mentre l'argomento (0, per
meglio dire, uno degli argomenti) ha per limite 0, allora
Il {x) -h iv (x) ha per limite proprio r (cos 0 -}- t sen 0).
Se anche una sola delle funzioni u (x), v (x) ha per limite 00 ,
ossia se \u -h iv \ = ]/ u' 4- v^ ha per limite l'infinito, ossia se
— ha per limite zero, diremo che ^^ -l- ^' t; ha 00 per limite.
u -\- tv
§ 34. — Ricerca del lim p\
x=-oo
Se p è negativo, oppure complesso, supporremo senz'altro
X intero. Distinguiamo parecchi casi:
l'' Sia |2)|> 1, xyo.
I lo^io k
Si osservi che »* | ^ ^ se x ^ ~ , — - ossia se x appar-
logiolpl
tiene all'intorno ( , ^^^\ — r, + 00 ) di + qo .
\logio|i)| ^
Quindi : lim j>* = ao se | ^^ | > 1 .
a; «= -j- X
FUNZIONI, LIMITI ^ . 113
r Sia li? I < 1, X < 0. In tal caso -— >!,?/ = — .,• > o,
lim 7/ =1= lim ( — ) = 00 .
3** Sia !j?|<l; :r>0; sarà, posto q =^ — •
g I > 1 e quindi lim r/* =oo . donde lim ^ = o,
X =• -\-y. X = -j- j: ([
ossia lim p* = 0.
4** Sia \p\> l: X <0: posto g = — - , sarà | g | < 1 e
quindi perii 2** caso lim (/ = oo, donde lim -^.= lim ^"'^nO.
5" Per /> == 1 è lim j/ = 1 (perchè j/ = 1 per ogni
valore di a;).
6" Per ^ = — 1 ed ce intero, j^^ assume i valori -4- 1
0 — 1 , secondo che x è pari o dispari : e quindi lim ^* non
esiste. Altrettanto avviene se \p\=^l, e j) è un numero com-
plesso.
§ 35. — Primi teoremi sui limiti.
Enuncieremo e dimostreremo questi teoremi per le funzioni
reali.
Tali teoremi valgono però, come apparirà evidente, anche
per funzioni complesse.
È ben evidente che, se due quantità i^i, ?/.. si avvicinano indefini-
tamente a (hanno per limite) due numeri finiti h, U, la loro somma,
la loro diiferenza, il loro prodotto e il loro quoziente (se ^2 "^ 0) si
avvicinano indefinitamente a ?i -4- U, h — k, h K -j- (nell'ultimo
caso si suppone L =^- 0). Questa semplice osservazione si 'enuncia
rigorosamente, e in modo più generale, coi seguenti teoremi:
a) Se ji, jo, jn sono funzioni della x definite in tino
stesso gruppo G, e se, p. es., per x = a -4- 0 esse hanno dei limiti
li, I2, ... 1„ finiti, allora per x = a -+- 0. la somma ji -f- 3^2 -4- ... -hjn
ha per limite la .wmma li -f- lo -f- +1,, dei limiti.
8 — G. Fi'BiNi, Analifii matematica.
114 , CAPITOLO VI — § 35
Dimostreremo il teorema nel caso n = 2 : il caso generale
si tratta, o con metodo analogo, oppure col metodo di induzione
completa, osservando che:
(yi -+- ^2 + -4- yj = {yi -H y-i -+- -\- Vn-x) -H Vu'
Sia 7] un numero arbitrario : esisterà un intorno destro aj di a,
in cui \yi — ^1 1 < "yj, ed un intorno cl^ di a, in cui \y2 — ?2 1 < tQ.
Se a è un intorno interno tanto ad ai che ad a2, allora in a
valgono entrambe le precedenti disuguaglianze ; donde si deduce :
I (^1 + ^2) — (^1 + ^2) 1 ^ b — ?i I + I ^2 — ^2 1 < TQ + -y] = 2 Y).
Quindi, dato un numero £ piccolo a piacere e positivo, se
£
ne deduce, posto t] = -— , che esiste un intorno a di a, in cui
{y\ + 2/2) — {^1 ■+" ^2) è minore di 2 y] = £ in valore assoluto.
e. d. d.
Oss. Per stabilire la precedente disuguaglianza sono partito
dalla I a -h ò I ^ I a I -+- 1 & I del § 4, B, pag. 13.
P) Nelle stesse ipotesi di a) iZ Zmi^e cZeZ 'prodotto ji 72 y„
ms^e ed è uguale al prodotto li I2 In dei limiti.
Supponiamo, come sopra, n = 2. Come sopra si dimostra che,
dato un numero positivo y] qualsiasi, esiste un intorno a di a,
in cui valgono entrambe le \ y^ — ?i | ^ y], | ?/2 — Z2 | ^ y].
E quindi in a sarà | yi | < | /i | -4- y].
Si avrà in tale intorno:
\y1y2 — ^1 U I =
= I Vi (2/2 — ^2) + I2{yi — lò\^\yi\\y2 — l2\-+-\i2\\vi — li\
^ j I Zi i -f- Y] : Y) H- I ^2! Yj ^ Yj j I ?i I ^- 1 Zs I + 'yj |.
Sia ora £ un numero piccolo a piacere; scelto y] tale che y] < 1.
£ . ^ . ,. . .
Y] < r— I TTT? esisterà un intorno a di a, in cui:
1 4- I /i I -f- I /a I
1,^/1^2— ?i?2M>l!Ui|4-|Z2kYlj< ■^_^|^^^|_^|^^|iUl| + U2|4-l!^£
ossia: 1^1 2/2 — Zi/2|<s-. e. d. d.
Y) Se lim yi^=li e se k è un numero finito diverso da
zero, esiste un intorno a di a, in cui \yi — h
h
, e quindi
FUNZIONI, LIMITI
115
yx\>
L yi =i= 0. In tale intorno a ha dunque significato il
rapporto -^. Analoga considerazione vale se lx^= co .
yi
Teorema. Se lim ji = li, e se li è un numero finito non
x = a
nullo, allora lim — = -— . ^e invece li = oo allora lim — = 0.
.c=.aji 11 yi
Se ji è differente da ^ero nei punti di un intorno a di a
(distinti da a) e se lim ji = 0, allora lim — = oo .
a; = o « =» o jl
1
Se ?i = 00 , lim
yi
0 e viceversa (§ 32, B, pag. 109). Sup-
poniamo che II =F 0 sia un numero finito. Se s è un numero piccolo
a piacere, esiste un intorno ^ di a, in cui | ^i — ?i | < £ — .
Se Y è un intorno comune a ^ e all'intorno a, di cui parla la
precedente osservazione, in tale intorno y sarà:
donde
= £.
1^1 >
2 1'
yi h
<.';.
1 1
yi h
yi h
yih
72
h
Per ogni numero £ esiste quindi un intorno y, dove
da ciò segue tosto il nostro teorema.
<e;
Corollario. Se due funzioni ?/2, yi sono definite nello stesso
gruppo G ed hanno per x =^ a limiti finiti k, h, e se il limite
di Vi è differente da zero, allora la frazione — ha significato (se
yi
il denominatore non è nullo) in un intorno a di a, ed il suo
limite per x = a è uguale al quoziente -^ dei limiti di J2 eji.
Il
V> 1
Ciò si dimostra osservando che -^^ è il prodotto di y-^ per — .
yi ^' yi
116 CAPITOLO VI — § 35
Oss. Esistano ancora per x =^ a ì limiti delle yi, y-,. Se
ni
Km ?/o = 00 , lim ^1 -;- 00 ^ allora -^ ha per limite oo .
Vi
Se lim ?/2 =p 0, lim i/i = 0, e se il rapporto ^- ha significato,
allora lim ^^ i= oo .
Se lim :^i = 00 , lim t/o -i- oo ^ allora lim -^^ =0.
Se dunque esistono i limiti di y^ e di ?/i, noi sappiamo
trovare il limite del quoziente — ^ in tutti i casi, esclusi quelli
yy
che entrambe le ?/i, ?/j tendano a zero, o che entrambe tendano
all'infinito. Questi casi particolari saranno da noi studiati più
tardi per altra via. È naturalmente inteso [nel caso che il lim ?/i
y-i
sia nullo] che si possa parlare del rapporto -^■- e che cioè nei
ih
punti di un intorno cl ài a (il punto a escluso) sia y^ =t= 0 (*).
h) Sia y = fi^)^ ^ = ? (^) ; sia lim ^ = ò, lim y =■ e. La ?/
si possa considerare come funzione /'[cp {x) ] della x in un in-
torno di a, È intuitivo che sarà anche lim ;/ = e. ,
Se però in ogni intorno del punto a esistono punti x ^ a,
in cui la z assume il valore ò, bisogna in più ammettere che
Infatti, preso un numero i piccolo a piacere, della lim 2/ = e, si deduce che esiste
un numero '> tale che per z ^'.^h e 1 ^; — /> 1 < «^ è [ 7/ — e 1 < s. Dalia lim z ^=h
si deduce che esiste un numero ^ tale che, se ic ^ - a e se j a; — a | < ^ sia [ ^? — /> I< -ì.
Sarà quindi anche, per quanto trovammo, \ y — c\ < ^ se ^; =#= ^. La disuguaglianza
1 2/ — e ! < s vale però anche se ^ = ò per il valore considerato della x, perchè per
ipotesi in tal caso y = f(b) = c. Dunque, dato un numero i piccolo a piacere,
esiste un numero ^ tale che par \ x — a \ <^ ^ è |;?/ — c!<;. Donde, per defi-
nizione di limite, hm y — e. e. d. d.
In modo simile si tratta il caso che e — co , oppure b — co , ecc.
(*) Se fosse l^ ^- 0, questa ultima condizione è sempre soddisfatta, come
abbiamo già osservato.
FUNZIONI, LIMITI
117
§ 36. — Funzioni continue.
a) Sia y =z f(x) una funzione reale della r definita in un certo
intervallo. Hanno speciale importanza tra così fatte funzioni (*j
quelle funzioni che si sogliono chiamare continue, perchè variano
con continuità al variare della x, cosicché se la x varia di
pochissimo, anche la y varia di pochissimo. Prima di dare una
definizione precisa di tali funzioni, osserviamo che la fisica ci
dà esempio non soltanto di funzioni continue, ma anche di fun-
zioni non continue (discontinue).
Sia, p. es., data una certa quantità di ghiaccio alla tempe-
ratura di — 10^. Noi indicheremo con y la minima quantità di
calore necessaria per elevare la temperatura del ghiaccio da
— 10° a X gradi. La y sarà una quantità definita per tutti i
valori di x, che corrispondono a temperature sperimental-
mente raggiungibili; sarà cioè una funzione di x (positiva per
x> — 10, negativa per x < — 10, nulla per ./ = — 10).
Consideriamo la ?/ come funzione della x nell'intervallo ( — 10,0).
In questo intervallo la ^ è continua, perchè varia con conti-
nuità al variare continuo di x, in quanto che per piccolissimi
innalzamenti di temperatura occorrono piccolissime quantità di
calore. Anzi, se noi ricorriamo ad una rappresentazione grafica,
la curva immagine è, come insegna la fisica, prossimamente
coincidente con un segmento rettilineo MG (**) (fig. 10).
Ma consideriamo ìsl y in
tutto l'intervallo (— 10, -h 2).
Ricordiamo che, se si som-
ministra a poco a poco del ca-
lore al ghiaccio per innalzarne
la temperatura, si osserva che,
giunto a 0, il termometro per _
un po' di tempo non segna
aumento di temperatura, perchè
Fig. 10.
il calore fornito viene assorbito dalla liquefazione del ghiaccio.
Quando questo è tutto liquefatto, la temperatura ricomincia
a salire man mano. Per 100>^>0 la nostra funzione ?/ è
(*) Restano cosi escluse dalle seguenti considerazioni le funzioni definite in un
gruppo 6r di punti, che non sia un intervallo.
(**) Avverto che la figura rappresenta soltanto qualitativamente, e non quan-
titativamente, il fenomeno fisico.
118 CAPITOLO VI — § 36
rappresentata sensibilmente da un altro segmento Z) TV', che non
è però il prolungamento dì MC.
Il segmento CD rappresenta il salto, la discontinuità che
ha la y per a; = 0, ed ha per misura proprio la misura della
quantità di calore che la liquefazione del ghiaccio ha assorbito.
Come si vede, per far variare di pochissimo la temperatura, si
richiede generalmente pochissimo calore ; ma, se si tratta invece
di passare da una temperatura negativa di — s alla temperatura
positiva di -h £, dove e è un numero positivo, la quantità di
calore necessaria non è piccolissima, anche se £ è piccolissimo,
ed è sempre maggiore della quantità di calore necessaria alla
fusione del ghiaccio.
In altre parole, il valore di y per a; = 0 è rappresentato
dal segmento OC, mentre i valori di y nei punti di un intorno
destro di 0, per quanto piccolo, non sono già assai prossimi
alla misura di 0 C, ma sono rappresentati da segmenti che diffe-
riscono da 00 per non meno che CD, cosicché il lim y per
:2; = 0 -f- 0 (cioè quando x tende a zero venendo da destra) è
uguale ad OD, e non al valore OC, che y ha nel punto x = 0.
Perciò si dice che la ?/ è discontinua nel punto x=^0.
Si pone anzi la seguente definizione generale:
Sia y = f (x) una funzione definita in un intervallo (a, b).
Sia e un punto interno a questo intervallo. Se lim f (x) = f (e)
a; = c-|-0
ed anche lim f (x) = f (e) noi diremo che f (x) è continua nel
2)unto e.
Se e coincide con V estremo sinistro (destro) di (a, b) la
funzione f (x) si dirà continua in e, se lim f (x) = f (e)
[se lim f(x) = f(c)]. In tal caso infatti non avrebbe signi-
a; = c — 0
ficato parlare del lim f (x) [del lim f (x)] perchè f (x) non
a; = c — 0 xt=c-|-0
è definita a sinistra (a destra) di e.
La formola lim f (x) = f (e) si può anche scrivere nella
ce = e ± 0
forma lim f (e -4- h) = f (e).
/t = ± 0
Affinchè dunque f{x) sia continua, p. es., in un punto e
interno air intervallo {a, b), i due limiti lim f(x), lim f{x)
devono esistere entrambi ed essere uguali ad f{c). Nell'es. pre-
cedente il lim y esisteva, ma non era uguale al valore di y
« = 04-
per X = 0. In altri casi di funzioni discontinue (non continue).
FUNZIONI, LIMITI 119
mancano l'uno o l'altro dei limiti precedenti, o mancano tutti
e due.
Se una funzione f {x) è continua in ogni punto e del-
l'intervallo (a, h) la f {x) si dice continua nell'intervallo (a, b).
Una funzione complessa u {x) -\-i v {x) si dirà continua
per a; = a, se n (x), v (x) sono continue per x ^= a.
P) Dalla definizione stessa e dai teoremi del § 35 segue che:
La somma ed il prodotto di piit funzioni continue in un
punto e [o nell'intervallo (a, b)] sono continui nello stesso punto
(nello stesso intervallo).
Se f (x), 9 (x) sono continue vn e, e ^ (e) H- 0, allora il
f(x) .
rapporto — -r-r- esiste in un intorno di questo punto ed è con-
tinuo per X = e.
Esempi di funzioni continue.
V La funzione sen x è continua dappertutto. Basta far
vedere che lim sen {x -hh) = sen x, ossia che :
lim [sen (x -h /^) — sen x] = 0.
Ora ì sen (x-hh) — sen x\ = 2
sen ycos y.t -^r-—^\é.\h\,
perche | cos ( x + — I non può superare 1 unita e | sen ir h^ Hr '
\ 2i ' \ 2i \ \ À \
Quindi, se £ è un numero positivo piccolo a piacere, in tutto
l'intorno ( — £, s) del punto h = 0, ossia per \h\ <^, si ha
I sen (x -{- h) — sen x\ <^.
2^ La funzione a"" (a > 0) è continua.
3^ La funzione \ogax(a>0) è continua.
4° La funzione y = tang x è continua per x #= ±—
ili
poiché è quoziente delle funzioni continue sen ^, cos x^ di cui
la seconda è nulla solo per a? = ± -— (a meno di multipli di 2 ti).
tu
Y) Talvolta avviene che una funzione è continua in tutti i
punti di un intervallo, eccetto che in uno o più punti, in cui
la funzione può anche non essere definita. Tali punti si diranno
i punti singolari della funzione in tale intervallo.
120 CAPITOLO VI — § 36
Cosi, p. es., la funzione y = è continua dappertutto,
X — a
eccetto che nel punto ./ = a, dove essa non è definita. Il punto
x* = a è il punto singolare di questa funzione nell'intervallo
( — 00, H-Qo). In questo caso però esiste il lini y e si ha
lim y ■=: co . ''^"'
Ogni qualvolta una funzione continua fix) ha il punto x = a
come punto singolare, ed è lim f{x) = oo , noi diremo che x = a
è un punto d'infinito di f{j), o anche che f{x) ivi diventa infinita.
A meno di esplicita dichiarazione in contrario, noi, quando
parleremo di funzioni continue in un intervallo, escluderemo
sempre che posseggano punti singolari in tale intervallo.
S) Sia y = f{z), ^=9 (x) e sia lim cp (,r) = h. Sia la y con-
x = a
tinua per ^=6; e si possa considerare la yz=zf[(p{x)] come
funzione della x in un intorno del punto x = a. Dico che
lim f[^{x)] = f[\ìm^ix)] = f{bl
X -^ a x = a
ossia che il simbolo f di funzione continua si piiò permutare
col simbolo di limite. Infatti, poiché f{z) è continua per z ^=^b,
è lim ?/ = lim f{,z) = f{b). E quindi (§ 35, 5, pag. 116) anche
lim y :=z lim /'[cp {x)] = f{b), e. d. d.
X = a X = a
Così, p. es., lim. log f{x) = log [lim f{x)\ se il lim f{j) è
X = « x = a a; = a
finito e positivo, cioè brevemente, ma incompletamente: Il limite
del logaritmo è uguale al logaritmo del limite.
Se lim f{x) esiste ed è uguale ad un numero b finito
x = a
lim /i/*^> = h' (supposto h > 0).
X = o
Se lim f{x) = ò si ha lim sen f{x) = sen b, ecc.
X = a X «=" «
s) ^S'e 2 = 9 (y). y = f (x) sono funzioni continue, e se z
si può considerare come funzione di x in tutto un intervallo
(a, b), la z è in tale intervallo funzione continua della x.
p]SEMPI.
1"* Si dimostri che a;'' (e ==: cost., x> 0) è continua.
Ris. Infatti x" = a:', dove y = log^ {x'') == e log« x. Poiché
oF è continua, ?/ = /'(a;) =^ e Ioga :r é pure continua, anche x
è continua.
FUNZIONI, LIMITI 121
Oss. Questo teorema, se a; < 0, e e è, p. es.. un intero posi-
tivo, è ancora vero; lo si dimostra osservando che x"" è il pro-
dotto di e funzioni tutte uguali a a: e quindi continue.
2* La funzione y^=::\o^f(x) è continua per quei valori
della X, per cui f (x) è continua e positiva.
§ 37. — Un limite fondamentale.
a) E ben evidente che, se due punti .4i, A2 si avvicinano
indefinitamenle nello stesso tempo ad uno stesso punto L, un
punto A, il quale sia sempre compreso nell'intervallo Ai A.>,
dovrà pure tendere ad L. Questa osservazione rende intuitivo il
Teor. Se y, ji, y_. sono tre fiindoni reali della x definite in tino
stesso gruppo G, se per ogni valore di x in G la j è compresa
tra ji ed y-i {ji^j ^ y.. oppure yi ^ y ^ yo), e se lim ji =
= lim j2j anche lim y = lim ji = lim y2.
Supponiamo, p. es., lim yi = lim y., = A = numero finito.
« -=• a X'=a
Come al § 35 si dimostra che, dato un numero £>0 piccolo
a piacere, esiste un intorno a di a, in cui valgono entrambe
le \ yi — J I < £, \y2 — A\ < £. Poiché y è compreso tra yi
ed yo, sarà in a anche \y — ^4 | < £. Ne segue quindi che,
dato £ piccolo a piacere, esiste un intorno a di a, in cui vale
la \y — ^ ! < £. Perciò sarà lim y := A,
X'=a
Il lettore troverà un utile esercizio, completando questa
dimostrazione per il caso x4 = 00 .
P) Applicheremo ora questo teorema alla dimostrazione della
sen X
lim :== 1.
«==0 X
Per una retta interpretazione di questa formola si ricordi
che l'angolo x deve essere misurato in radianti. Lo studente
farà bene a rendersi intuitiva detta formola costruendo un
diagramma della curva y = •
Noi ci accontenteremo di scrivere varii valori approssimati
di detta funzione : ciò che basterà a rendere sensibile il fatto
sen X .
che, quanto più x si avvicina a zero, tanto più y = — — si
avvicina ad 1.
122 CAPITOLO VI — § 37
Per . = ± I- , , = 1 = ^^^ = 0,63662...
Per .. = ±^,,= 3-11^ =0,90032...
Per x = ±^, y — 0,99995...
J oO
' Per x = ±-^^^, y = 0,99999....
Se con z indichiamo la misura in gradi dell'angolo di x
180 ir .-,.,. sen .2' n ,. sen .r
radianti, sarà : z = ; e quindi lim = — -— lim
^jrc^^ 3,14159...^-
180 180 ' ^ ^
La misura in radianti è appunto per ciò fondamentale,
perchè, se misurassimo gli angoli in gradi, dovremmo conti-
nuamente nelle corrispondenti formole di calcolo introdurre la
costante - — -- testé determinata.
La dimostrazione della nostra formola si compie facilmente.
Per 0<:r< — è sen a:; < a; < tg a; (§ 5, B, pag. 19).
Dividendo per sen x (positivo) si ha :
i<-^< '
sen X òos x
Poiché lim cosir = l, anche lim = 1. Poiché la fun-
« = 0 x^o COS X
zione ^=1 ha pure per limite 1, il teorema precedente
dimostra che
X ,. seno;
hm = 1 z=z hm •
ce — 0 sen X x = o X
(*) Questo numero è la misura in radianti dell'angolo di un grado. Se si mi-
surasse invece l'angolo in gradì centesimali, il valore di questo limite sarebbo
2^ =.0,01570
123
E il limite non muta, supponendo x negativo ; perchè, se si
cambia il segno di x, anche sen x cambia di segno, e quindi
sen:z' . . . ^
rimane invariato.
X
1 — ^ POS ^
Es. Trovare lim . Si ha, posto a; = 2 v,
x=0 X
1 — cos a; 2 sen^ y sen y
' = -- — ^ = ^ sen y,
X 2y y
sen V
Per a; = 0, ossia per y ^=0, è lim sen ?/ = 0, lim = 1 .
Quindi lim ^ ~ ^^i^ = 1.0 = 0.
§ 38. — Un altro limite fondamentale.
a) Se un punto A si muove sopra una retta sempre nello
— ► stesso verso, p. es., verso destra,
ì i i è ben chiaro che possono pre-
^ AL sentarsi due soli casi :
l*" Il punto A finisce con l'allontanarsi indefinitamente
a destra.
Oppure
2"* Esiste un punto L, che il punto A non supera, pure
avvicinandosi ad esso indefinitamente. Così, p. es., se il punto A
ha una velocità costante, si presenterà evidentemente il primo
caso. Se invece A nel primo minuto percorre cm. 1, nel secondo
cm. — , nel terzo cm. — - , nel quarto cm. -— , nello n^"''^''
minuto cm. „_i, esso dopo n minuti avrà percorso
I-i-
11 1 \ 9** 1
cm. ( 1 H- 4- -+-— -f- -f- — ^ 1= ^=2 —
■O-i-i- -5^.) = -^
n— 1
Il punto A non sarà perciò mai riuscito ad allontanarsi al
di là di quel punto L, che ha una distanza di cm. 2 dal punto
di partenza, pure diventando (al crescere di w) la distanza AL
( che è -;^:ri ) piccola a piacere.
124 ' CAPITOLO VI — § 38
Questa osservazione rende intuitivo il teorema che dobbiamo
ora esporre.
Si dice che una funzione reale y =^ f{x) è crescente, se
essa cresce al crescere della x, o più precisamente, se, indicati
con Xi, x-> due punti qualsiasi del gruppo G ove la f (x) è
definita tali che xi> Xo, si ha /'fe) > /*fe).
La y si dice decrescente, se invece dalla Xi > X2 segue
f{xi)<f(x-^, ossia se la y decresce al crescere della a:; (come,
p. es., avviene se y è inversamente proporzionale ad a; > 0).
La y=zf{x) si dice non crescente, oppure non decrescente, se
dalla Ti^a:. segue f{x^)^f{x^^, oppure f{xi)^f{xi).
Se una funzione non è crescente, 0 non è decrescente in un
dato gruppo G di punti, si dice che la funzione varia sempre
nello stesso verso (senso) nel gruppo G.
Teor. Se f (x) è una funzione definita nel gruppo G, che varia
sempre nello stesso verso e se in ogni intorno (p. es. sinistro) del
punto X = a esistono punti di G distinti da a, esiste il lim f (x).
X t= a — 0
Supponiamo per fissar le idee che f{x) non sia decrescente
a sinistra del punto a, e che si voglia dimostrare l'esistenza
del lim f(x). Noi dimostreremo che tale limite è precisamente
x = a — 0
il limite superiore L dei valori che f (x) assume, quando x
assume i valori di G pili piccoli (a sinistra) di a.
Distinguiamo due casi :
V L è finito. Sia n un intero così grande che sia
minore di un b prefissato. Tra i citati valori di y ne esisterà
almeno uno (p. es. quello f{c) assunto da y nel punto x ^=^ e <a)
che è uguale ad L fino alla n****^'* decimale (e ciò per la stessa
definizione di limite superiore). I valori che y assume nei punti
di G dell'intervallo (e, a) non possono né superare il limite su-
periore L, né essere inferiori a f(c) (perché y è per ipotesi
funzione non decrescente).
Dunque tali valori (compresi tra f{c) ed L) dovranno pure
coincidere con L fino alla n'**""' decimale.
In altre parole nei punti x dì G dell'intervallo (e, a) vale la:
|/-(x)-LM^„<3.
Per definizione di limite é dunque
lim f{x) = L.
FUNZIONI, LIMITI 125
T L k infinito. Questo caso, assai meno importante, si
potrebbe ricondurre al caso precedente con lo studio della fun-
zione — — -T . Per studiarlo direttamente si osservi che, se k è
f{x)
un numero arbitrario, esiste un punto a; = e < a, ove f{c)>k (*).
In tutto rintervallo (e, a) sarà dunque f{x)^f{c)>k, perchè
f{x) non è decrescente. Pertanto
lim f(x) = H- 00 .
a; = o —
Così, p. es., l'area del poligono regolare di n lati inscritto
in un cerchio C è una funzione crescente di n, che ha per
limite per n = qo proprio l'area di C.
^) Applicheremo questo teorema allo studio di un limite
fondamentale. Dalla formola del binomio si trae che, se m è
un intero positivo, allora :
^ I _n ^1 m(m— 1) 1 m(m-l)(w— 2)...0w — [m— l]) 1 _
1 w 1.2 m' \m m™
\ m/
m \ m/ \ m/ \ m/ \ m/ \ m /
1-hl-h-^— --t- r— h...-+
m
donde, osservando che i numeratori degli addendi terzo,
quarto, ecc., non superano l'unità, e che i denominatori sono
1^ =2, |_3^ = 2.3 > 2.2 = 2\ \_4> 2', ecc., si trae che
per m > 1 è :
D'altra parte il ^'"^^ i2<k^m-^ 1) termine del terzo
membro della penultima formola cresce al crescere della m
(al diminuire di — ) ; di più il numero stesso dei termini (che
m /
è m 4- 1) cresce con m.
/ IX""
Quindi (IH — 1 cresce al crescere di m ; e perciò, per il pre-
cedente teorema, tende per m = oo a un limite e> 0 ; e, poiché
per l'ultima delle precedenti formole, è (per ogni valore dell'intero
(*) Questa affermazione è conseguenza dell'ipotesi L = ao.
D Infatti ^+~ + + ^ = l- ^ < 1..
126 CAPITOLO VI — § 38
/ 1 \'''
m>l) 2<(1H ì <3, sarà pure 2 < e ^ 3 ; donde in parti-
colare si trae che e è un numero finito positivo. Io dico che
/ 1 \ "'
hm lì -h-ì =e,
anche se m non è intero. Infatti, se m è compreso tra gli
interi n, n -\- 1, è
V n -h 1 ' \ m/ \ n/
E, poiché il limite del primo e terzo membro sono rispet-
tivamente
« + 1
lim ( 1 -f- ) = lini
1+ 1 1
e
lim
1 \" + ^
im (l -4- — ) = lim (l -h — ) lim (l -f- i W e. 1 = e,
ossia sono uguali ad e, anche (§ 37, a p. 121) il lim ( IH — ) —e,
w=.oo\ m/
Io dico infine che e anche lim l 1 -I- — 1 = e.
Infatti, posto m = — (^ -h 1), è :
(-„^)=(-."Ìt)""=(.4t)-'="(¥)=(-I)'(-I)
E perciò :
lim (1 + — )= lim (I-+-7) lim (l + -) = e. l=e. c.d.d.
m = -aA m/ it = -|-^\ A:/ jfc = 4.-xA k/
/ 1 \"'
y) Dalla lim (1 H )=■ e, che vale dunque, sia m positivo
IH, = 00 \ III /
0 negativo, razionale 0 irrazionale, si trae (*), supposto a> 0^
lim m Ioga (IH ) = Ioga e,
1 logjl + x) _^_
ossia, posto m = — , lim — ioga e.
X a; = 0 X
(*) Basta ricordare che log,, x è funzione continua nei punti a; > 0.
FUNZIONI, LIMITI 127
Se si pone log« (1 -h x) = 2;, e quindi x =^ a" — 1, se ne
deduce
lim — = Ioga e, donde lim — = , = log^ a.
a; = oa 1 x = () ^ Ioga 6
Se esponiamo a = e si trova :
lij^ = 1 ; lim = 1 .
a; — 0 X x = 0 X
Dalla prima di queste formole si vede quanto semplice
diventi il lim , appena si assuma il numero e come
«=.0 X
base di un sistema di logaritmi. Poiché questo limite si pre-
senta continuamente nel calcolo, noi adotteremo d'ora in poi
(salvo esplicita dichiarazione in contrario) questo numero e come
base del sistema di logaritmi. I logaritmi così ottenuti si diranno
neperiani, iperbolici, naturali.
Per uno studio geometrico dei limiti precedenti si vegga
l'esempio terzo.
Esempi.
(X y
1 -H -^ ) = e"".
m /
yn
Ris. Posto — ^= n, si noti che
X
2° Se il capitale e è impiegato al tasso r (rapporto del-
l'interesse al capitale), esso, dopo un anno, diventa e (1 -H r).
Ma se il tasso é pagato per metà ad ogni semestre, il capitale
dopo il l"* semestre è diventato c(l^-— ì;ese tutta questa
somma viene impiegata allo stesso tasso per il 2° semestre, si
avrà alla fine dell'anno una somma e ( 1 H ) . In generale se
ad ogni n""''"" parte dell'anno viene pagata la n'**"'" parte del-
l'interesse, che viene anch'essa impiegata allo stesso tasso per
la residua parte dell'anno, il capitale e, dopo un anno, è diven-
128
CAPITOLO VI — § 38
tato eli -\ -) (*). Quando n diventa grandissimo (per n = oo )^
questa espressione tende a ce\ Si suol dire che un capitale e
impiegato ad interesse continuo al tasso r diventa ce" dopo un
anno. Così, p. es., si calcola che e^'^'* = 1,05127 Impiegare
per un anno un capitale all'interesse continuo del 5 7o equivale
a impiegarlo all'interesse del 5,127 7o.
Dunque e rappresenta la somma ottenuta impiegando per
un anno un capitale 1 all'interesse continuo del 100 Vo- Che,
se ^ è piccolo.
OA.
— sia prossimo ad 1, è evidente, perché,
se il tasso è piccolo, interesse
semplice r e continuo e' — 1
quasi si equivalgono, ecc.
3" Consideriamo un'iper-
bole equilatera xy^=^l (fig.l 1 ).
Siano .4, B due punti dell'asse
delle ascisse di ascisse a, h
(0 < a < h). Dividiamo l'inter-
vallo AB m n parti coi punti
J-i, An^ An-\\n guisa che i
segmenti OA. OAi, OA^
OB siano in progressione geometrica. Questi segmenti
, aq""-'.
dei punti
saranno
saranno così uguali ordinatamente ad a, aq, aq~.
«g" = ò, dove ^1^^ \/ ^^ ( ~~ ) ' ' ^^ ordinate
corrispondenti dell'iperbole lxy=^l, donde ?/ = — \
J_ Jl_ Jl___L.
a aq aq"" h
Quindi le aree dei rettangoli aventi per basi i segmenti
AAi, AiA2,...,An-iB e per altezza le ordinate dell'estremo
sinistro corrispondente saranno
(^aq — «) -^ ' («^' ~^V^' ' (^^" ~" ^^" )
aq
(*) Resta perciò intuitivo il teorema dimostrato nel testo clie per r — 1 (anzi
per ogni r>0), il numero li-\ 1 cresce al crescere di «; infatti un impiega
di capitale è tanto più redditizio, quanto maggiore è il numero n delle volte che
in un anno (a ugual intervallo l'una dall'altra) si pagano gli interessi maturati.
FUNZIONI, LIMITI 129
cioè saranno tutte uguali a {q — 1). La loro somma S„ è perciò
n (g — 1).
In modo simile si prova che la somma a„ delle aree dei
rettangoli aventi per base gli stessi segmenti e per altezza
l'ordinata del corrispondente estremo destro è n {q — 1)
g.
Si ha così, posto v = — ?
^1 ■ Q
— ) — 1 donde lim S„ = lìm = log, -
' i
— ^ donde lim o^ = log,- lim. 1/ - = loge -
q n^-r. a n = r^. ff 0 a
Il limite inferiore delle 2h e il limite superiore delle o^ coin-
cidono dunque, e sono uguali a log, - . Dunque la figura a
CI
racchiusa tra il segmento AB, le ordinate ài A, B e la porzione
corrispondente di iperbole equilatera ha un' area che vale
b ..^.
precisamente loge-(').
a
Se noi rappresentiamo la nostra figura in scala un po' grande
su carta millimetrata divisa in quadratini molto piccoli, si può
avere un metodo approssimato per calcolare log, - , misurando
cv
l'area a: cioè contando quanti dei quadratini in cui è diviso
il nostro foglio millimetrato sono contenuti in a.
4"^ Sia f{x) una funzione di x, che tende ad un limite
finito L, p. es., per a; = oo . Come si può calcolare approssi-
mativamente questo limite? E ben evidente che f{x) si può
considerare come un valore approssimato di L, e che l'appros-
simazione sarà generalmente tanto migliore, quanto piii grande
si suppone x', o meglio, e piii precisamente, che, prendendo x
abbastanza grande, si potrà rendere piccolo a piacere l'errore
che si commette quando si supponga f(x) = L.
Ma simile considerazione ha un valore scarso, se per ogni
valore della x non si può dare una misura del grado di ap-
(*) Infatti i rettangoli considerati, le cui aree hanno per somma ^^ {^,>) formano
un poligono, che contiene la figura a all'interno (clie è interno alla figura oc) (cfr. § 7).
G. FuBiNi, Analisi matematica.
130 CAPITOLO VI — § 38-39
prossimazione raggiunto. Ora questo è possibile in molti casi.
Per es., dall'esercizio 3° si deduce, posto - = >^, che la quantità
(1) \ogek— lim 7i{]/k— l)
il = X
è compresa, per ogni valore di n, tra
nii/k-l) e ^'(Ì/~^r^y
y'h
Cosicché, se si pone log, k ^=-n \yk — l), Terrore commesso
non supera
n
•^■'"-■><-p)|-
La (1) può così servire al calcolo approssimativo dei loga-
ritmi iperbolici. Se ne ricava, per es., posto /i: = 2, 7^=1= 16
che loge 2 = 0,70, con un errore non superiore a 0,03
Poiché però calcolare la 1/2 equivale a estrarre successivamente
quattro radici quadrate, questo metodo di calcolare i logaritmi
neperiani é troppo poco rapido.
§ 39. — Alcune applicazioni.
Se a è un numero reale, z^=^ x -\- iy è un numero com-
plesso, il simbolo a^ = a''"*''^ è un simbolo, a cui finora non
abbiamo attribuito aleuti senso. I matematici si servono però
di tale simbolo specialmente quando a = e, ponendo con Eulero
la seguente definizione:
È questa definizione accettabile? é essa opportuna?
Essa è accettabile perchè priva di contraddizioni, e perchè,
se ?/ = 0, cioè se z z=: x -\- iy è reale, essa non contraddice
all'ordinario significato di tale simbolo.
Molte poi sono le ragioni, che rendono opportuna tale de-
finizione e che noi stessi incontreremo in questo libro. Qui ne
accenneremo due specialmente importanti.
1° Se z-=^x -\- iy, z ^=^x -\- iy[, allora, per la definizione
di Eulero, il teorema:
è vero anche se z, z sono numeri complessi. $
FUNZIONI, LIMITI 131
Infatti :
e'^' = e-+-' + ':(. + .) ^ ,- + -' ; cos (y + y) + i sen {y 4- ?/') 1 =
=^ é'i cos ?/ -f- i sen ^y) e""' (cos y -f- i sen j^) =: e^ e^ .
2o Sappiamo già che, se ^ è reale, allora
e' = lìm (l-f-— V".
Ebbene in virtù della definizione di Eulero, questa stessa formola vale anche
se <? è complesso.
Infatti: (n-^^-) = [(l + ^) + i^] = -.(cos -J + JBens),
1
dove .z=S(n--±y 4-1^1 - ige = —^ — J^K -. (*)
Sarà : ( 1 + -"- 1 = r-"' ! cos mO-\-i sen »i ^ j .
Ora, posto — = -—- , e :
ìli III
Ossia, poiché lini — - = a^, si ha lim ^"' = e-^ .
Ili = oo iù W m ■=s.'x>
D'altra parte lim 9 — 0, perchè lim Z^' » - lim — ^ — = o e 1 0 1 < -^ ; e
.. lim m 6 = lim mts'O - — = lim ^— lim - — - — w. l r= ^/.
/«=eo ,«=oo ^ tge „._... re + wt 0 = 0 tgo -^ -^
E quindi lim (cos me + i sen m o) ~cosy-hi sen y.
Perciò
lim jlH 1 = e^(cos?/-hisen//) = e^ + '^ — e'. e. d. d.
Di tale definizione possiamo servirci per estendere anche a
numeri negativi o complessi la teoria dei logaritmi neperiani.
Sia tv=^ p (cos 0 -H i sen 0) un numero comple3so. Io dirò che
^ "= X -h iy ne è un logaritmo a base e, se
e"" = é^ (cos y -^ i sen y) ^=: tv =^ p (cos 0 4- i sen 0)
cioè se
e* n= p ^ cos y == cos 0 , sen y = sen 0.
Dunque a; è il logaritmo aritmetico del modulo p di iv.
Ed ,^ 0 è l'argomento 0 ài w, o differisce da 0 per un multiplo
ce
(*) Per m molto grande il segno di cos e, cioè il segno di IH è positivo,
anche se x < 5; e posso supporre o compreso tra — -^ e -^ •
132 CAPITOLO VI — § 39
2 Z: 71 di 2 71 (A' intero). Ciò che è ben naturale, appunto perchè
Tanomalia di un numero complesso è definita a meno di multipli
di 2 71.
Nel campo dei numeri complessi ogni numero
w ^=^ p (cos 6 + i sen 6)
ha infiniti logaritmi
log, p -h id -^ 2k'iz i.
Di questi logaritmi ve ne è uno (e uno solo) reale, se
esiste un intero k tale che 0 -h 2 ^ 7i: t= o, ossia se 6 è un
multiplo di 2 tt;, cioè se si può supporre 0 = 0, cioè se io
coincide col suo modulo p, ossia se ^ è reale positivo.
/ soli numeri reali positivi posseggono un logaritmo reale
(quello di cui si occupa T algebra elementare). Gli altri loga-
ritmi se ne deducono aggiungendo un multiplo qualsiasi di 2 tc i^
e sono complessi.
I numeri reali negativi m; = — p hanno gli infiniti loga-
ritmi (tutti complessi)
log p -f- i 71 4- 2 71 Z: i.
In particolare — 1 ha tra i suoi logaritmi il numero i ti.
II teorema fondamentale della teoria dei logaritmi reali
diventa ora: Sommando insieme un logaritmo di ciascuno dei
fattori di tin prodotto, si trova uno dei logaritmi del prodotto (*).
Il lettore ne deduca i teoremi analoghi per i quozienti, le
potenze, ecc.
Così, p. es., dalla 2 log ( — 1) = log ( — 1)^ = log 1 non si
può già dedurre che, essendo log 1 == 0, anche log ( — 1) = 0,
ma soltanto che il doppio di uno dei logaritmi di — 1 vale uno
dei logaritmi di 1; infatti i logaritmi di — 1 sono (2 >^ -h 1) i 71, il
cui doppio è un multiplo di 2ni^ che è un logaritmo di 1 (**).
Dalla e-'"" ^=^ cosxztisenx si deduce
cos a; = sen a: = -— . (1)
2 2 ^
Posto x=^ i z {z reale) il primo membro non ha significato ;
noi porremo per definizione cos i z^ sen i z uguali ai valori
(*) Così anzi si possono trovare tutti i logaritmi del prodotto.
(**) Il logaritmo 0 del numero 1 si trova, p. es., sommando insieme i' e — i tt,
che sono entrambi logaritmi di — 1, e non già facendo il doppio di uno dei loga-
ritmi di — 1.
FUNZIONI, LIMITI 133
che si ottengono dai secondi membri di (1) per x ^= i ^. Cioè
porremo :
e'-{-e-' . .e' — e"
cos t z ^= — sen i ^ = ^
Perciò cos i ^ e — : — sono reali per z reale : noi li chia-
t
meremo rispettivamente il coseno iperbolico di ^, e il seno
iperbolico di z. E le indicheremo con cosh z e senh z (più
brevemente eh z, sh z). È dunque :
e^ -h e~' . , e' — e~' seniz
eh ^ = = cos i z ; sh ^ =^ = — : —
2 2 t
Si verifica tosto che ch^ ^ — sh" ^ = 1 ; posto cioè
a; = eh ^, ?/ = sh z, il punto x, y descrive al variare di z una
iperbole (donde il nome di funzioni iperboliche), mentre invece le
equazioni x = cos z, y = sen ^ definiscono il cerchio x^-^-y^ -=^\
(donde il nome di funzioni circolari).
Si prova facilmente che eh {x zh y) = eh x eh y zh sh x sh y,
che sh {x =t y) = sh x eh ?/ it sh 2/ eh a:;, che eh ( — x) = eh x,
che sh ( — x) = — shx. Adottando le (1) per definiz. di co&x,
sen X per ogni valore della x = y -\- i z, si trova ancora che
cos (y -\- i z) = cos y cos i z — sen y sen i z =^ cos x eh z —
— i sen y sh z
e che
sen (y -hi z)=^ sen y cos i z -h cos y sen iz=^
= sen y eh z -h i cos y sh z.
Anche se x, y sono numeri complessi continuano a valere
le formole fondamentali della goniometria
cos {x ± y) = cos X cos y z:;z sen x sei) y ;
sen (x ± y) = sen x cos y ± cos x sen y.
sh z
Posto per z reale th ^ = — — ^ (tangente iperbolica di z) è
1 eh ^
1 — th- ^ = -TT- •
Per ogni z reale si può perciò trovare un angolo 9 del
primo 0 quarto quadrante (che sarà funzione di z) tale che :
1 .1. th^ ^ ,*
= cos 9 ; th ^ = sen cp ; = tang cp = sh -a-.
ch^
\ehz)
134 CAPITOLO VI — § 39-40
Ricordando la definizione di ch^, si consideri la prima di
queste forinole come un*equazione in e : se ne trae :
= ±logtg(f-|)
§ 40. — Proprietà fondamentali delle funzioni continue.
a) I teoremi, di cui ci occuperemo nel seguente paragrafo,
possono sembrare intuitivi ; e del resto per molto tempo furono
ammessi come evidenti. Una critica accurata dimostrò però la
necessità di una precisa dimostrazione; chi poco si occupi di
questioni teoriche può forse, appena abbia ben compreso l'enun-
ciato di tali teoremi, non approfondire lo studio delle dimostra-
zioni; le quali però costituiscono un utile esempio di deduzione
logica.
Il primo dei teoremi, di cui qui ci occuperemo, risponde alle
seguenti domande: Tra i valori che una funzione continua f(x)
assume un intervallo finito (a, 6), estremi inclusi, esiste un
valore M massimo [che non sia minore di alcun altro valore
di f{x) in (a, 6)]? esiste un valore minimo m?
A queste domande si deve rispondere affermativamente. Ciò
ammesso, si deve ancora domandare: Se |x è un numero com-
preso tra m ed if, vi è qualche valore della nostra funzione,
che sia uguale a |i? E anche a questa domanda si deve
rispondere affermativamente.
Né i teoremi qui accennati si debbono ritenere come intui-
tivi a priori, I valori di una funzione continua f{x) in (a, h)
sono (se la f{x) #= cost.) in numero infinito. Ora, se abbiamo
infiniti numeri, può darsi benissimo, come sappiamo, che nes-
suno di essi sia un numero più grande di tutti gli altri, cioè
che il limite superiore non sia un massimo. Il nostro teorema
ci assicura che questo non può avvenire per i valori assunti
da una funzione continua; cosicché, p. es., se ne dedurrà in
particolare che una funzione f{,r) continua in {a, h) (estremi
inclusi) é limitata; che cioè si può trovare una costante
(positiva) H, che f {x) non supera mai in valore assoluto in
tale intervallo. Basta, p. es., porre H uguale al pili grande dei
due numeri | ilf |, | m |.
La risposta affermativa all'ultima domanda può essere giu-
stificata intuitivamente. Un disegnatore di curve e di diagrammi
troverebbe forse superfluo il dimostrare che, muovendoci su una
FUNZIONI, LIMITI 135
curva continua y = f{x)^ la distanza y dall'asse delle x non
possa passare da ilf a 7/^ senza ricevere tutti i valori intermedi.
Ma, appena si ricordi che esistono curve continue y=^f(x)
che in {a, b) fanno infinite oscillazioni, e non sono quindi dise-
gnabili, si vedrà quanto sia insufficiente per i nostri studi una
intuizione, che assume a punto di partenza i diagrammi e le
curve continue disegnabili.
Ecco qui gli enunciati dei teoremi in discorso :
Sia y una funzione continua f (x) nelV intervallo finito
(a, b), estremi inclusi. {Sia, p. es. a < b). Io dico che :
V II limite superiore M dei valori assunti da f (x)
nell'intervallo (a, b) è un massimo. Cioè esiste nell'intervallo
(a, b) almeno un punto ove la funzione riceve il massimo va-
lore M, ossia un valore M non minore dei valori assunti
negli altri punti dello stesso intervallo.
2° Il limite inferiore m dei valori assunti da f(x) in
(a, b) è un minimo; cioè esiste nell intervallo (a, h) almeno un
punto, ove f(x) riceve il minimo valore m, ossia ìin valore m
non maggiore di quello assunto negli altri punti dello stesso
intervallo (teoremi di Weierstrass).
3° Se 'k è un numero intermedio tra m ed M. (m < X < M),
esiste almeno un punto di (a, b), in cui f (x) assume il valore'^ (*).
La differenza M — m si dice l oscillazione D di f (x) in
(a, b). Essa è generalmente positiva, ed è nulla soltanto se
M=m, ossia se il più grande ed il piìi piccolo valore di f(x)
coincidono, ossia se f{x) è costante nell'intervallo (a, b).
Ricordiamo anche il seguente importante teorema di Heine,
a cui non ricorreremo mai in questo libro (e che dimostreremo
anche con altri e piti semplici metodi in casi particolari).
40 Dato un numero (positivo) ^ piccolo a piacere, si può dividere l'inter-
vallo (a, b) in un numero finito di intervalli parziali j, in ciascuno dei quali
V oscillazione di f (x) è uguale 0 minore di j-
Dimostriamo ora i primi tre dei precedenti teoremi. E per brevità indichiamo,
se a, ^ sono due punti dell'intervallo (a, h) con l (a, i^), e con L (a, ^) i limiti in-
feriore e superiore dei valori assunti da f (x) nell'intervallo (a, /?). È iìf = X (a, h)
od è m = l (oL, (ì). I nostri teoremi saranno provati, quando sia dimostrato che,
scelto comunque un numero J tale che m^/^Jf (non escluso / = w, >— ilf)
esiste un punto e soddisfacente alla / (e) = >. Se già / (a) — >, il teorema è
provato. Sia dunque /"(«)<> (in modo analogo si studia il caso f(a) > /). Sia
e il limite superiore dei punti x dell'intervallo {a, h) tali che Z (a, x) < >. Sarà
« < e ^ b. Preso un numero t arbitrario positivo, esistono (poiché / (x) è continua)
(*) Questi teoremi ci dicono che i valori assunti da una funzione y -- f {x)
continua in un intervallo finito (a, />) (estremi inclusi) riempiono tutto un segmento
finito {m, M), compresi gli estremi.
136 CAPITOLO VI — § 40
due numeri 5,, ^^ non negativi tali che i valori assunti da f {x) nell'intervallo
(e — 7„ e -+- 7.2) e quindi anche Z (e — 7,, e -}- ^2) siano compresi tra / (e) — s ed
/ (e) -h £. E anzi cr, > 0, ed è pure ^j ^ 0, essendo ^^ — 0 soltanto se e ~ 5.
Per la stessa definizione di e è
X (a, e - 7,)< i i (a, e 4- ^2) ^ >. (*)
Ora L(a, e -h ^2) è uguale al massimo dei due numeri L{a, e — »,) e
L (e — ^,, e -h 7^) corrispondenti ai due intervalU parziali in cui si può dividere
l'intervallo (a, e -+- cr^). E non potendo essere per le precedenti disuguaglianze
L {a, e — e?,) ^ i (a, e -+- ^2), sarà i (e — 7,, e + ^j) = L (a, e -\- ^2)- Dunque
X (a, e -h cTj) ^ / è compreso tra f (e) -\- 0 ed f (e) — s. Cosicché > ^ /" (e) + e,
qualunque sia j. Dunque > ^ /"(e). D'altra parte f (e — c^,) < >. Quindi
/ (e) = lim /"(e — !f,) ^ >. Unendo queste disuguaglianze si deduce che / (e) = /,
,=0
come si doveva dimostrare.
Dimostrazione del 4» teorema e osservazioni crìtiche.
Supponiamo che il teorema non sìa vero ; che cioè l'intervallo (a, h) non sìa
divisìbile in un numero finito di tali intervalli j. Se a è un punto di (a, !>) cosi
vicino ad a che in {a, /5) l'oscillazione di f {x) sia minore di s l'intervallo {a, ^)
è divisibile in un numero finito di intervalli j, perchè esso stesso ed ogni sua
parte è un intervallino j. [Che un tale punto j? esista è conseguenza del fatto
che f {x) è continua per ic =: a]. Se /s è un punto qualsiasi di (a, b) tale che (a, f)
sia divisibile nel modo voluto, altrettanto avverrà a fortiori di ogni intervallo (a, f),
se a < [i <C l^. E quindi, se y è un punto di (a, h) tale che {a, y) non sia divisibile
in un numero finito di intervalli j, allora neanche (a, ■/) sarà divisibile in tal
modo se I) ^ y > 7. Dividiamo i punti di (a, h) in due classi : ponendo in una
classe i punti ^ tali che (a, f) sia divisibile nel modo voluto, e nell'altra classe i
punti y tali che (a, y) non sia così divisibile. Sia e il punto di divisione di tali due
classi (e ^ ì)). Costruiamo se e < ?> un intorno (e — 0, c-k- 5) del punto e, in cui
la oscillazione à\f{x) non superi j; se fosse e = b ci limiteremo ad un intorno (e — s e).
Il punto e — "5 sarà un punto ^, e perciò l'intervallo (a, e — ^) è divisibile in
numero finito di intervallini j ; aggiungendo a questi l'intervallo (e — 0, e -j- 0)
oppure (e — '^ e) secondo che p <ih oppure e — b vediamo che anche l'intervallo
{a,c + 0) se e < b oppure l'intervallo (a, e) se e — b è divisibile nel modo voluto.
Il primo caso è assurdo perchè e -h 0 è un punto y ; il secondo contrasta con
l'ipotesi iniziale. Dunque il teorema è dimostrato (per assurdo).
Sia ò la minima lunghezza di uno di questi intervallini parziali j. Se e è un
punto qualsiasi di (a, h), quella parte del segmento (e — ^, e + ^) che è interna
ad (a, b) sarà uguale 0 minore della somma di tre intervallini j consecutivi. In
tale intorno di e dunque l'oscillazione di f (x) sarà minore di 3 -: (il quale è un
numero prefissato ad arbitrio). Che per ogni punto e di {a, t) esista un tale nu-
mero ò è conseguenza della stessa definizione di continuità; ora abbiamo in più
dimostrato che si può scegliere un numero s, che convenga a tutti ì punti e
dell'intervallo {a, h). Si poteva sospettare che al variare di e in (a, h) si fosse
costretti a far variare i o in modo che avessero lo zero per limite inferiore, e che
perciò nessun numero 0 andasse bene contemporaneamente per tutti i punti e.
Il fatto che si può scegliere uno stesso 0 per tutti i punti e si chiama anche il
teorema della continuità uniforme e si enuncia dicendo che u^a funzione con-
tinua in un intervallo finito, estremi inclusi, è uniformemente continua.
(*) Questa disuguaglianza vale anche quando 'j — 0, ossia quando e = b. In
tal caso L{a, e + ^2) = ^- («> b) 3= iHf ^ /.
FUNZIONI, LIMITI 137
1 teoremi di Weierstrass si estendono alle funzioni discontinue col seguente
enunciato, che mi accontenterò di citare.
Se f (x) è una funzione definita nell'intervallo (a, b), estremi inclusi, esiste
almeno un punto di questo intervallo tale che in ogni suo intorno la funzione
assuma valori^ il cui limite superiore coincida col limite superiore dei valori
che f (x) ha in (a, b).
OssERV. Se f{x) è una funzione qualsiasi definita in un intorno del punto a,
potremo considerarne il massimo limite e il minimo limite (§ 32, osserv. critica
a pag. 107) per x = a -h e quelli per ic ~ a — . Tutti questi limiti coincidono
con / (a) se f (x) è continua in a. Si sono studiate anche le funzioni (semicontinue)
per cui / (a) coincide non con tutti, ma soltanto con alcuni dei limiti precedenti ;
e si è in particolare studiato per esse un teorema analogo al teorema di Weierstrass.
§ 41. — Funzioni di più variabili.
Si dice che ^ è una funzione di n variabili Xi, X2 Xn, se
per qualche sistema di valori dati alle Xi, X2, x„, la z ha
un valore determinato.
L'insieme di questi sistemi di valori si chiama il campo di
esistenza della funzione z.
Si scrive in tal caso z ■= f (xi, x^ Xn); in luogo della
lettera f si può scrivere un'altra lettera F, cp, X, ecc.
Cosi, p. es., dalla fisica sappiamo che il volume z di una certa
massa di gas perfetto è funzione della temperatura Xi e della
pressione X2. Il campo G dei valori che possiamo dare alle Xi, Xi è
formato in questo caso dai valori jpositivi delle Xi, x^ (se adottiamo
la scala termometrica assoluta) e non superiori a certi limiti
dipendenti dai mezzi sperimentali.
Se n ■=^ 2, si suole indicare la Xi con x, la X2 con y; e in
questo caso si adottano le x, y come coordinate cartesiane in
un piano tu. Ogni sistema di valori per le a;i = ;r, X2'=^ y
individua un punto di ti, e viceversa. Il caso più importante è
quello in cui i punti di tu, a cui corrispondono valori delle x, y,
per cui esiste la z, riempia tutta un'area connessa di tc (ret-
tangolare 0 circolare, ecc.) (*). Se noi consideriamo x, ?/, z come
coordinate cartesiane ortogonali nello spazio, la ^ = /* {x, y) è
in tal caso l'equazione di una superficie, che si può considerare
come l'immagine geometrica della funzione f.
Nel caso di n > 2 cessa la possibilità di una simile rappre-
sentazione geometrica (se non si vuole adottare il linguaggio
iperspaziale).
(*) Non insistiamo di più (cfr. § T) sul significato della parola: « area con-
nessa » (area di un sol pezzo).
138 CAPITOLO VI — § 41
Noi, perciò; studiererao specialmente il caso n^= 2: metodi
e risultati sono però generali.
Intorno di un punto di ascissa a ed ordinata b si dice il
quadrato lungo dei punti {x, y), per cui | a; — a\^o^\y — b\ ^o,
dove G è una qualsiasi costante positiva.
Le definizioni di limite, di funzione continua, date nei para-
grafi 32, 33, 35, 36; e i teoremi relativi si estendono quasi
parola per parola al caso attuale.
Basta soltanto parlare di area piana connessa (area ret-
tangolare, circolare, ellittica, ecc.) invece che di intervallo.
Noteremo che, se -s- è una funzione f (x, y) delle variabili x, y
in un'area piana S, allora se poniamo x = Xo dove Xo è una
costante, la f{x, y) diventa una funzione f{xo, y) della sola
variabile y, che esiste per tutti e soli i valori di y, tali che i
punti (xo, y) della retta x -=^ Xo appartengano a S (*) ; un fatto
perfettamente analogo si presenta se si pone y ^=^ y^ {y^ =: cost.).
Ciò si suol esprimere dicendo che la f (x, y), se si consi-
dera la X oppure la y come costante, diventa una funzione
della sola y, o della sola x.
Per le funzioni continue di due o più variabili si possono
pure estendere i teoremi dell'ultimo § 40.
Si può daciò dedurre una dim. del teor. di Gauss già enunciato al § 14, a. Cominciamo
a dimostrare che ogni equazione algebrica P {z) = z" 4- «t z" " ' -4- ... 4- «« -i ^ +
-f- a;^ =r 0 ammette ahneno una radice. Posto z = x-\-ìy, il modulo i P(^) i è una
funzione continua di x ed y. Di più notiamo che
iP(^)|-.i«Mi + f- + ^- + ...+ -ff|.
Potremo evidentemente scegliere una costante ^ così grande che
a) p > 1 cioè che il punto z ■=^\ sia interno al cerchio C di equazione
12 ^.2 _. ^/2
fO Per U I > p sia i z \" > 2 | P (1) 1 .
v) Per i ^ I > P sia ! 1 -+- ^ -+- ... -h ^ 1 > -| .
Dunque, se \ z \^ p, cioè se ^ è esterno a (7, è I P (^) j > i P (1) I .
Per il teor. di Weierstrass esiste dentro, o sulla periferia di C (**) almeno un
punto a, , ove [ P (z) \ è minimo, cioè assume un valore I P (a,) [, che non è supe-
riore al valore di \ P {z) \ in ogni altro punto interno a 0 o posto sulla periferia
di C; cosicché in particolare l P (a,) 1 non potrà superare l P (1) i, e quindi neanche
alcuno dei valori assunti da i P (^) l, quando z è fuori di C. Perciò P (a,) I è il
minimo di tutti i possibili valori che assume \ P (z) l, quando z si muove co-
munque nel piano. Dunque P (a,) = 0, perchè altrimenti (§ 9, pag. 34-35) esisterebbe
un valore di z tale che ivi \ P (z) I ha un valore minore di I P (a,) ì .
(*) Naturalmente se la retta x — Xo non avesse punti comuni con 5, non
avrebbe senso parlare della funzione /" {xo, y).
(**) Perchè la regione interna a (7 è finita : il teor. cit. non vale per regioni
illimitate.
FUNZIONI, LIMITI 139
Per il teor. di Ruffini (essendo a, radice di P (z) = 0) il polinomio P (^) è
divisibile per 2^ — a, , cosicché P (-^) -— (^ — a,) P^ {0) ove P, (0) è un polinomio
di grado n — 1, il quale a sua volta ammetterà almeno una radice oc^. Sarà perciò
P, {z) = {z- a.,) P^ {z) e P{z) = (z- a.) {z - a,) P,{z) dove P,(z) è un poli-
nomio di grado n — 2 che possiederà almeno una radice oCj , ecc., ecc. Si trova
così in conclusione che P {0) ={0 — a,) {0 — a^) ... (0 — a„). Questa decomposi-
zione in fattori è unica. Se infatti per altra via si trovasse anche
P(z) = {0-^.,){0-i^,) ... (^-,5.).
allora sarebbe
{0 — oc,) (>■ - a^) ... (0 — a.) = {0 — i^.,) (^ - f.2) ... (^ — f^,,).
Dividendo, caso mai, i due membri per i fattori di primo grado comuni ad
entrambi, ne dedurremmo un'uguaglianza del medesimo tipo, in cui però nessuna
delle oc è uguale ad una delle i^. Passando allora al limite per ^ = a, , il primo
membro avrebbe limite nullo, il secondo membro avrebbe limite differente da zero ;
ciò che è assurdo. Dunque i fattori 0 — a del primo membro devono (tutt'al più
in altro ordine) coincidere ciascuno con uno dei fattori 0 — ^. del secondo membro;
€ viceversa. Il teorema di Gauss è così completamente provato.
140 CAPITOLO VII — § 42
CAPITOLO VII.
SERIE
§ 42. — Definizioni e primi teoremi.
a) Siano date infinite quantità Wi, ih, ih, , Un, deter-
minate dal valore dell'indice supposto intero positivo. Conside-
riamo la somma Sn delle prime n tra esse; poniamo cioè
Sn = Wi -\- U2 -^ -^^ Un - i-\- Un-
Se esiste ed è finito il
lim Sn,
Il = x
la serie ui -^ U2'^ -4- ttn -^
si dice convergente; e il valore s di questo limite si chiama
somma della serie. E si scrive:
5 = 1^1 -4- ^2 -h ^^3 -4- -+- Un +
Se lim Sn esiste, ma è infinito, la serie
Hi -h Ho -\- Uz -\- -h Un -+- ....
si dice divergente. Se il lim Sn non esiste, la serie dicesi inde-
terminata. Una serie non convergente è dunque un simbolo
privo di significato; e (come, p. es., le frazioni a denominatore
nullo) si deve escludere dai nostri calcoli (*).
Se moltiplichiamo i termini di una serie convergente, per
una stessa costante k, la serie resta ancora convergente; e la
sua somma resta moltiplicata per k.
(*) Si potrebbe chiamare valore s di una serie, anziché il lini s,/, qualche altro
■il = -'jì
limite, p. es., il lim ' ^ . Con questa nuova definizione alcune serie
« = co W
non convergenti acquistano significato e si possono introdurre nel calcolo. (Le serie
convergenti non mutano di valore con la nuova definizione). Con la nuova defini-
zione, p. es., la serie indeterminata 1 — 1-fl — l-f-l — 14- ha il valore - . Esi-
stono molte definizioni di tale tipo: il significato della frase: valore di una serie
varia con la definizione scelta. Noi ci atterremo a quella classica data nel testo.
SERIE 141
Se le Un sono numeri complessi, se, p. es., Un^=^Vn -\- iwn
{Vn, Wn reali), dire che la serie delle Wn converge ed ha per
somma a -4- ib equivale a dire che la serie delle Vn converge
ed ha per somma a e che la serie delle Wn converge ed ha
per somma b.
Il lettore cerchi gli errori della seguente dimostrazione che conduce ad erronei
risultati. È
^HH-Ì^Ì^ =(^^i+i- )+(i+i+ÌH- .....);
de
(-<H-a-iXi-l)- — l-f-
Donde
cioè
-UÌ- + A- + = i + i + | +
2 4 6 o 0
Poiché o > -r ' ^ ^ "^ ' ^^^'J ^^ "^ deduce
l + T + ¥ + >Ì+T + Ì + ==1 + 1 + -^ +
cioè -~ > 1, ciò che è assurdo.
P) Se a, q sono numeri qualsiasi, la serie
a -h aq -\r a(f -h ag'" -h
é convergente se | q | < 1, perchè in tal caso la somma s,, dei
primi n termini è data dalla
_ 1 — q''
ed ha per n ^= co il limite • ; cosicché
1— g
a o
-— = a -^ aq -\- aq" +
l — q
Una tal serie si dice una progressione geometrica decrescente.
Se I g I > 1 (e a #= 0) la nostra serie diverge, perchè la
1 —q""
Sn=^ a _ ha per ?i = oo il limite oo .
1 —q
Se a -F= 0, g = 1, la serie è divergente, perchè la somma
Sn = na dei primi n termini ha ancora per ^ = oo il limite infinito.
Se a #= 0, g = — 1 la serie è indeterminata, perchè la
somma Sn è uguale a -f- a per n dispari, a zero per n pari,
e quindi non tende ad alcun limite per ?z = oo . Altrettanto
avviene (come si potrebbe provare) se | g | = 1, e gè complesso.
Se (X = 0, la nostra serie è convergente, ed ha somma nulla.
142 CAPITOLO VII — § 42
Y) Se la serie S = ai -h a2 -4- a;? -f- è convergente, e se
bi, bo , b,^ sono costanti qualsiasi, la serie
(1) bi -4- &2 -^ 4- ^„, -h ai-h a-i -h a->, -\-
{essendo m = intero positivo finito) converge ed ha per somma
>Sf' = >S' -4- 6i -h Ò2 -h K,.
Se S diverge od è indeterminata, altrettanto avviene di (1)^
0 viceversa.
Per definizione di serie la prima parte del nostro teorema
equivale alla
n =■ -X
Ma questa formola è evidente, perchè, essendo per defini-
zione /S'^lim (ai -f- ^2 -h + aj, si ha:
n <= X
lim (6i -f- Ò2 -h -h ò,,, -h ai -f- a2 -h aj =
71= 00
= 61 H- Ò2 -I- h^ -f- lim (ai + ao H- -4- a J = ^
= 61 -f- 60 + -4- 6„, -I- >S.
La seconda parte del nostro teorema se ne deduce pure
immediatamente.
B) Se le serie Ui + U2 + Ua -4- ...., Vi -4- V2 + v^ convergono-
ed hanno per somma U e V, anche la serie
(Ui -h Vi) -4- (U2 -4- V2) H- (Ua-I- V3) -h
converge ed ha per somma U 4- V.
Infatti :
(ui -h Vi) -h {u.> -4- V2) 4- =
= lim [{ui -4- Vi) -f- {ìi2 -f- V2) -4- -h (t^n -4- Vn)] =
n =-- X
= lim [(wi + ^^2 + -4- Un) -f- {vi -4- ^2 4- -+- ^JJ =
71= X
= lim (Wi -h 1^2 -4- -4- ^«) + liai (^1 + ^2 + -4- Vn) =
71 =1 ce ri = ce
= Z7+ F.
s) Se ^a serie ai + a2 + a-, -t- converge, allora lim a„ = 0.
n= X
Infatti la somma S della serie si può definire con l'una a
l'altra delle
/S' = lim(ai -4- a-2 -4- 4- «^J ; ^ = lim (ai -4- aa -4- a«_i).
n = X , n = X
Sottraendo membro a membro si deduce appunto 0 = lim an^
71= 00
La lim an = 0 è dunque una condizione necessaria (ma wo>^
71 «= X
sufficiente) per la convergenza della nostra serie.
SERIE 143
;) Se le u„ sono reali e positive, se u« -(- 1 < Uu, se lini u„ = 0, la serie
«I ~.^2 -+- U3 — U4 -i- Ug — converge. " = '^
È facile infatti riconoscere che la somma S2m dei primi 2m termini aumenta
con ni, che la somma S2m-\-i dei primi 2 m -h l termini diminuisce con m, che le
prime somme sono minori delle seconde, che la classe formata dalle prime è
contigua alla classe formata dalle seconde, e che il numero di separazione delle
due classi è la somma delle serie.
§ 43. — Serie a termini positivi.
a) E specialmente importante lo studio delle serie, i cui ter-
mini sono reali ed hanno tutti lo stesso segno, sono cioè 0 tutti
positivi 0 tutti negativi.
A noi basterà studiare, p. es., le serie i cui termini sono
tatti positivi, perchè le proprietà delle serie, i cui termini sono
tutti negativi, se ne dedurranno immediatamente. È evidente
infatti che la serie ki-hh -4- e la serie ( — ki) -+-( — ^^2)+....,
che si ottiene cambiando i segni a tutti i termini della prece-
dente, sono contemporaneamente convergenti, 0 divergenti, od
indeterminate. Ed anzi, se la prima converge ed ha per somma S,
la seconda converge ed ha per somma — S.
Lo studio dunque delle serie di termini tutti negativi è
equivalente allo studio della serie con tutti i termini positivi.
Se i termini della serie Ui -+- a> sono tutti positivi, la
somma Sn = ai-i- a2-\- -f- «„ dei primi n termini è una funzione
crescente di n, e quindi (pag. 124, § 38) tende ad un limite per
n = ao .
Una serie a termini positivi non è mai indeterminata.
?) Se
(1) ai + ^2 -f- a-? -4-
(2) òi -h 62 -f- 63 -1-
sono due serie a termini positivi^ e se per tutti i valori di n si ha
(3) an^hn,
allora^ se la serie (2) converge, anche la serie (1) converge;
e la somma s di (1) non può superare la somma o di (2).
E quindi, se la serie (1) diverge, diverge anche la (2).
Infatti, se 5„, o,, sono rispettivamente la somma dei primi n
termini della (1) e della (2), allora dalla (3) segue
(4) Sn ^ On.
Se la (2) converge, allora a = lim a„ è finito; dalla (4) segue
che in tal caso 5„ non può tendere all'infinito, ossia che la (1)
144 CAPITOLO VII — § 43
non può divergere. Quindi, per il teorema precedente, la (1) con-
verge (perchè né diverge, né è indeterminata)- Di più dalla (4)
segue che s = lim 5„ ^ e.
n = 00
Y) In particolare se 6„ = bq", dove 0 <q <ì,h > 0, ossia
se la (2) è una progressione geometrica decrescente (che noi
sappiamo già convergente), si. ha:
Se i teoremi della serie
ai -f- ai -h a-i
sono positivi, ed esistono due numeri positivi b, q. tali che
q < 1 e che
allora la nostra serie converge.
E in modo analogo si vede che, se fosse
an ^ &^^
dove • (/^1,&>0,
la serie ai-H a^i -\- a^ -\-
sarebbe divergente.
S) Supponiamo ora che esista un numero ^' < 1, tale che
per tutti i valori di n sia
^-^^^'^/:<1 (*).
Ciò equivale a supporre che il limite superiore dei rapporti
— -'— Sia un numero minore di 1.
an
(*) Da questo segue che i rapporti " "^ ^ sono minori di 1. Non è però vero
viceversa che, se tutti questi rapporti sono minori di 1, allora esista necessaria-
mente un tale numero Jc minore di 1, e non minore dei nostri rapporti (come
avverrebbe se i rapporti " "^ ^ fossero in numero finito) ; e ciò perchè potrebbe
avvenire che il limite superiore di tali rapporti fosse proprio uguale ad 1.
Infatti, per esempio, nella serie divergente
Tutti questi rapporti sono minori di 1.
Ciò nonostante, se A: è un qualsiasi numero positivo minore di 1, si può trovare
un intero h così grande che per w> Ti sia 1 ^ - — r— > k.
Dunque, pure essendo tutti i nostri rapporti minori di 1, ciò nonostante, preso
un qualsiasi numero A; < 1, infiniti dei nostri rapporti sono maggiori di k, perchè
il loro limite superiore è proprio uguale ad 1.
w ' u„ ~ w -h 1 ~~ L w + 1 J
SERIE 145
Allora sarebbe
^^k, ^^k , "^^^k;
«1 a-, rt„
donde, moltiplicando membro a membro:
Cln-\-l
ai
ossia: «^«4-1 ^ rt] kn.
I termini della nostra serie
di ~^ (1-2 -4- <X3 -f- a4 4-
sarebbero ordinatamente minori o uguali dei termini della pro-
gressione geometrica decrescente
ai -\- aik -^ ai k' -i-
Quindi la nostra serie sarebbe convergente.
In modo analogo si prova che, se per tutti i valori di n
^n+l
^ 1, la nostra serie è divergente.
a^i
Per il primo caso, p. es., invece di ammettere che fosse
(5) '^^^^k<l
a.n
per tutti i valori di n, basterebbe ammettere che questa disu-
guaglianza valesse a partire da un certo valore di n in poi,
p. es., per n'^m. La serie ai + ao -f- a-^-\- sarebbe ancora
convergente.
Infatti, essendo soddisfatta la (5) per n ^ m, è convergente
la serie
e quindi anche (§ 42, y, pag. 142) la serie
ai -f- «2 -t- -t- a,n- 1 -T~ a,,, -f- a,,,^ i
Considerazioni analoghe valgono pel secondo caso.
Concludendo si ha il teorema : Se in una serie a termini
positivi
ai -h a> -h a-> -f-
il rapporto ""'"^ di un termine al precedente, da un certo punto
an
in poi (ossia per n maggiore o uguale ad un certo m), è uguale
0 minore di un numero fisso k minore di 1, la serie è con-
io — G. Frmxi, Analisi matematica.
146 CAPITOLO VII — § 43
vergente ; se detto rapporto è maggiore od uguale adi, la serie
è diì^er gente.
Se ne deduce facilmente il seguente corollario, molto utile
in pratica : Se in una serie a termini tutti positivi (o tutti
negativi) il rapporto di un termine al precedente ha un limite
minore di 1 (*)j la serie è convergente ; se ha un limite mag-
giore di 1, la^serie è divergente. Sia lim "^^ = a<i. Sia/r
n = ce an
un numero compreso tra ce ed 1. Poniamo ^=k — a. Esisterà
per definizione di limite un intero m tale che per n ^ m (cioè
quando n è nell'intorno (m, -+- oo ) di -h oc )j valgano le
a^i a-fi
e in particolare quindi la -^^- <a-}-szr:^<l. Quindi per
(In
il teorema precedente la serie ai 4- «2 -+- a^ -4- sarà con-
vergente.
Se invece lim — ^ti_ y j^ allora "" finirà per diventare
n = X a-ti an
e restare maggiore od uguale a 1 ; e, pel teorema precedente,
la serie sarà divergente (**).
Se lim '"^^ non esiste, o vale 1, nulla si può affermare
an
in generale.
Un altro criterio di convergenza sarà dato al § 63, 5.
Es. La serie 1 -h — H- — -— -f- ~7~^r:r + ^ convergente.
(*) Si potrebbe dire anche: minore di un numero h minore di 1. Ma questa
frase più complicata sarebbe nel caso attuale equivalente a quella più semplice
del testo.
(**) La convergenza di a, + a^ -h ^3 + J^el caso che lim -^^^ < 1 si
n == 00 Cln
può anche in modo meno completo, ma più intuitivo, esporre così. Se -^^ tende
ad a < 1, esso finisce col diventare e restare tanto vicino quanto si vuole ad a :
cioè, se ife è un numero compreso tra oc ed 1, il rapporto -^-=tl, da un certo va-
lore di n in poi, sarà minore di A: < 1. E quindi la serie converge. Del resto
(oss. B, pag. 109) sappiamo già che dalla lim "'^^ ~cl <^Jc sì deduce che da un
W =» GC CI //
certo valore di n in poi il rapporto -!L±1 <^ ^.
SERIE 147
Infatti in questo caso
1 a« + i 1
1 1
^^«- j^_i ' a^ n '
n — 1 n
e quindi
lim — ^^— — 0.
11 = -ji Ctn
Vedremo in seguito che la somma di questa serie è proprio
il numero e.
Si voglia calcolare la somma S di questa serie con Tap-
prossimazione di . Si osservi che la somma di tutti i
^ 4000
termini dopo lo n"'" termine uguaglia
^i ìt-hl (n-f•l)(>^^-2) '"[ n_l ^ + 1 (n-hlf
_JL 1 _n -+- 1
I :^ 1 n\n
~~ n-^- 1
Se dunque scegliamo n così grande che — , < -rrrr , la
^ ^ ^ n\_n_ 4000'
somma dei primi n termini della nostra serie differisce dal
valore vero della serie per meno di— -— . Ora questa disugua-
glianza è soddisfatta per n = 7. Quindi si può scrivere :
o . 1 1 1 1.1.1
errore (in difetto) minore di . Con tre cifre decimali esatte
4000
è quindi S= 2,718.
Oss. In generale la somma Sn dei primi n termini di una serie
convergente rappresenta la somma S della serie con un errore
che si può rendere piccolo a piacere scegliendo n abbastanza
grande. Una serie è tanto più conveniente al calcolo effettivo
(converge tanto più rapidamente) quanto maggiore è l'appros-
simazione che si ottiene dando ad n valori non troppo grandi.
Così, p. es., se i termini di a^ di una serie ai -H «2 -+- a^ -^
.... ^»i"^ 1 ^ 7 / -, 1
sono positivi, e se ^ A: < 1, la sene, come sappiamo,
(In
148 CAPITOLO VII — § 43-44
è convergente ; ed essa sarà generalmente tanto più comoda al
calcolo numerico, quanto più piccolo si può scegliere k in modo
da soddisfare alle precedenti disuguaglianze. Lo studioso può
illustrare questo fatto con esempi numerici, e anche ricorrendo
soltanto a progressioni geometriche decrescenti.
§ 44. — Cambiamento neirordine dei termini di una serie
a termini positivi.
Se ai -\- a-r -f- «s -+-
é una serie, i cui termini appartengono anche alla serie
hi -+- h H- h -^ ,
se i termini di entrambe le serie sono positivi, se la seconda
serie converge, anche la prima serie converge, ed ha una somma
che non supera la somma della seconda.
Infatti se n è un intero qualsiasi, potremo trovare un altro
intero m ^ n tale che nei primi m termini della seconda serie
siano contenuti tutti i primi n termini della prima.
Sarà ■
(ai +(12+ + aj ^ (bi + òo + + bj (1).
Il limite del 2"" membro per m ^= ce e quindi anche per
n = 00 uguaglia la somma S della seconda serie, che per ipo-
tesi è un numero finito : quindi il primo membro di (1) non può
tendere all'infinito, e perciò la prima serie converge ed ha
una somma finita S. Passando poi al limite per w=qo, la (1)
dimostra che S ^^.
Se
[l] ai + do + an +
è una serie convergente a termini tutti positivi (o tutti nega-
tivi), e se
[2] bi + b2 + h, +
è una serie dedotta da [l], cambiando V ordine dei termini, anche
la\2\è conveVgente, e le due serie [l] e [2] hanno la stessa somma.
Infatti, poiché i termini della [2] appartengono tutti alla
[l], per il lemma precedente la serie [2] converge ; e se >S, S
sono le somme di [l] e [2], è S ^ >S. Ma, poiché viceversa anche
tutti i termini di [l] sono termini di [2], é anche S^^. Quindi
necessariamente aS'=S.
Questo teorema vale naturalmente, anche se la serie é a
termini tutti negativi. e. d. d.
SERIE 149
§ 45. — Serie a termini negativi e positivi.
Serie a termini complessi.
Cominciamo dalla considerazione di una serie a termini reali
[l] Hi 4- ?^2 -+- u^ -+-
Sul segno dei termini non facciamo alcuna ipotesi. Siano Ui, ^2, ...
quei termini di questa serie che sono positivi, — h, — òo, — h, ...
quei termini della nostra serie che sono negativi. Tra i primi n
termini della [l] ce ne saranno, per es., m positivi, j; negativi:
ni -i-pzzi7i. E sarà quindi
Ui -hìin -h ... -h Un = {ai -f- ao -h ... -h a,J — (&i -h Ò2 -f- ... -f- bp).
Supponiamo che sieno convergenti le due serie
[2] ^1 -4- ao -h «3 -1-
[3] hi 4- h -f- Ò3 -f- (*)
e ne siano S, s le somme. Allora
lim (ui -h U2 -h ... -f- Un) = lim (ai -h ag + ... -h a^) —
— lim {hi -h Ò2 + -h òp) = .S — s.
Quindi: la [l] è convergente ed ha per somma S — s.
Con le notazioni precedenti si ha evidentemente
I I61 1 -4- 1 ^2 1 -+- I 'W3 I -4- ... -h\ ^(n i = (ai -h «2 4- ... -h a^) -f-
4- (&i 4-02-4-... M
donde, come sopra, si deduce che la serie
[4j !wi| 4- li/sl 4- |i/3 I 4-
è convergente, ed ha per somma *S^ 4- 5.
Supponiamo ora viceversa che la [4] sia convergente, ed
abbia quindi una somma finita T.
Siccome ognuna delle quantità ai è un termine di [4], per il
lemma del precedente paragrafo, la [2] è convergente. In modo
analogo si dimostra che la [3] converge, e che quindi, per
quantx) si è visto, converge anche la [l].
Dunque:
Una serie [l] converge, quando converge la serie [4] dedotta
dalla [1], sostituendo a ogni termine il suo valore assoluto.
Si avverta che il teorema reciproco non è vero.
(*) I risultati seguenti valgono anche se di termini positivi, 0 di termini
negativi nella [1] ve n'è solo un numero finito, se cioè una delle serie [2], [3] si
riduce a una somma. Questi risultati valgono anche se la [1] ha dei termini nulli.
150 CAPITOLO VII — § 45
U
n-\-l
Cosi, p. es., se ne trae che [l] converge se il lim
esiste, ed è minore di 1. '"^'-^
Una serie [l], tale che converga la serie [4] formata coi valori
assoluti dei suoi termini, si dice assolutamente convergente.
Teorema. Una serie [l] assolutamente convergente rimane
tale, e non muta di valore, comunque si cambi V ordine dei
suoi termini.
Infatti il cambiare l'ordine dei termini della [l] equivale
a mutare al piii l'ordine dei termini delle [2], [3]. Ma come
sappiamo, comunque si muti quest'ordine, le serie [2], [3] a
termini positivi restano convergenti, e le loro somme continuano
ad essere rispettivamente uguali a S, s. Per le considerazioni
precedenti la [l] resterà ancora convergente, e la sua somma
sarà ancora S — s.
Si può invece dimostrare che in una serie convergente, ma
non assolutamente convergente, si può mutare l'ordine dei termini
in guisa che la serie diventi o divergente, o indeterminata, o
abbia quella somma che più ci piace. Naturalmente è necessario
cambiar l'ordine di un numero infinito di termini per ottenere
una tale variazione.
Questi teoremi si estendono subito a una serie a termini
complessi
(1) - tVi -{- W2 -h Ws -\-
(^n = Un + iVn)
col teorema:
Condizione necessaria e sufficiente affinchè siano assoluta-
mente convergenti tanto le serie Ui -4- U2 + formata con le
parti reali dei termini di (1) quanto la serie Vi -+- V2 -+-
formata coi coefficienti di i nei termini di (1) è che sia conver-
gente la serie | Wi i -f- | W2 1 -h... dei moduli dei termini di{l).
(Ricordo che \iVn\ ^= \/ul -h vi).
Infatti I Wn I ^ I w„ I -h I Vn |. Se le serie delle | Un \ e delle | ?;„ |
convergono, converge anche la serie somma, ed a fortiori con-
verge la serie delle \wn\. Viceversa, se converge quest'ultima
serie, convergono le serie delle i Un \ e quella delle \vn\y perchè
\Un\^ I tV„\ , I Vn \^\Wn\ .
Tali serie si dicono ancora assolutamente convergenti. Anche
per una serie iVi-hW2-h a termini complessi vale il teorema
che, se lim 1 — ^^^^^; < 1, la serie è assolutamente convergente,
ed ha una somma indipendente dall'ordine dei suoi termini.
SERIE
151
La serie tvi -4- W2
Esempi.
, dove Wi = 1, w„
X
n- 1
n — 1
con-
verge assolutamente per ogni valore (anche complesso) della
perchè il rapporto
x"
:
\n
X
n—l
tende a zero per ?^ = ao . Dal teor. £) del § 42 segue in par-
jjt
= 0.
ticolare che lim
n^+r. \n_
2* Studiamo ora la serie 1 -\- Ui -{- Ui -h ove si è
posto : Un =
m (m — 1) (m
n
1) x''
ossia la serie
n
m
1 -f-— - X
m (m — 1) o m{m — 1) (m — 2) o
1.2 ^'+ — r:2T^ — ^
dove m è una qualsiasi costante.
Se m è un intero positivo, tutti i termini dopo lo (m -\- l )'*''"''
sono nulli e la serie si riduce ad un polinomio uguale (§11,
pag. 44) ad (1 -h xT".
Se m non è un intiero positivo, allora si noti che:
Un -j-
Un
m
(m
-1)
.(m — n-Hl)(m —
n)
h^ -h 1
m
(m-
1)
(m-
-n -hi)
x
n fi
X
I n
\x\
m — n
n-i-l
x
m
n
e quindi
lim
TJ. = -e
W
n-f 1
u.
X
Se dunque |a;| < 1, la nostra serie converge assolutamente.
E in particolare ne consegue che, se \x\ <^1, allora
m(m — 1) (m — 2) (m — n-hl) ^
lim . X ^=^ 0.
152 CAPITOLO VII — § 46
§ 46. — Serie di funzioni.
Siano fiix), fìix), fii{x), infinite funzioni determinate in
un campo T. Siano Mi, M2, Ms, rispettivamente i limiti su-
periori dei loro moduli | /i (x) \, \ fo {x) j, j f^ {x) |, ecc.
Se la serie di questi limiti superiori
[1] i¥i -h ilfs -4- M, -h
converge, allora è convergente assolutamente anche la serie
n{x)-\'fAx)-^u{x)-\-
in ogni punto del campo T {^').
Una tale sèrie /l {x) -4- f> (:x) -\- fAx) -\- si dirà totalmente
convergente.
Se la costante Ln non è inferiore ad alcuno dei valori
delle ! fn (x) I, e se la serie Li -f- L2 -f- L3 -4- converge, la
serie f 1 -4- f2 -f- fa 4- è totalmente convergente.
Infatti dalle Ln^\fn (x) \ si deduce L,, ^ Mn- Dalla con-
vergenza della serie delle L si deduce quindi la convergenza
della serie delle M, e quindi per definizione, la totale conver-
genza della serie delle fn (x).
Una serie totalmente convergente è (come abbiamo già osser-
vato) anche assolutamente convergente. Il teorema reciproco non
è generalmente vero.
Supponiamo che esista il lim f (x), che noi indicheremo
con kC% ^ '^'^
È chiaramente | ?,, |^i¥„; e quindi la serie
[2] k-h k-i- k -h
converge assolutamente. Sia M la somma di [l], e sia £ un
numero piccolo a piacere. Esisterà un intero n cosi grande che
M— (Mi -hM,-{- -+- Mn) < y
cioè £
(*) Infatti dalle \ fn \ t^ Mu si deduce che per ogni valore di x nel campo T
la serie
I A I -+- I A 1+ 1 /3 I +
converge, e quindi (§ 45) la serie
A H- f2 + f, +
converge assolutamente.
(**) È inclusa l'ipotesi che la x varii in T, e quindi anche che in ogni intorno
destro di a esistano punti di T, distinti da a.
SERIE 153
Poiché fn I ^ Mn, \ln\^ ^n, Sarà pure
[3] ^-fa^) + A + 2(.r)-4-/; + B(^)+ |< y,
[4] In + l-^lnJr^-^^n^^-^ '^T'
D'altra parte poiché (§ 35, a, pag.. 113)
lim (/; -4- /; -4- + fn) = ili + li ^ ..... -h U,
si potrà trovare un intorno di a, in cui
[5] I {f,-\-t\^ 4- A) — (^1 -4- ?2 + + U I <-|-.
Cosicché, in virtù delle [3], [4], [5], in questo intorno, sarà
(/;-4-/'2+.-....+/;4-/;.+i-+- )— (^i+Zo-h + z„-h^._^i-4- )|^
^ ì (/; -4- /;. 4- 4- /;,) — (?i -^u-^- + u I -+-
-f- |/;,4_i 4- /;,+2 -4- ; -4- 1 ^nfi-4-^«+2 + 1 ^£.
Dunque, dato un s piccolo a piacere, esiste un intorno di a
in cui vale questa disuguaglianza.
Per la definizione di limite avremo pertanto:
»S'e una serie di funzioni {reali o complesse) è totalmente
convergente in un intorno del punto a, e se per x = a ^ suoi
termini ammettono un limite (certo finito), il limite della serie
per X = a è uguale alla serie dei limiti.
Ne segue tosto che: Se i termini di una serie totalmente
convergente sono funzioni continue, la somma della serie è una
funzione continua.
I precedenti teoremi valgono anche per le serie uniformemente convergenti,
di cui le serie totalmente convergenti sono un caso particolare. Si dice che la
serie f, {x) + f^ (x) -+- converge ed ha per somma f{x), se, prefissato un : > o
piccolo a piacere, per ogni valore di x nell'intervallo considerato esiste un intero m
tale che per w > m siaj f (x) — [f^ (x) f^ {x) -f- H- fn {x)] \ < i.
Questo valore di m varia generalmente con x\ ma se (comunque sia stato
scelto e) si può trovare un valore di m, tale che la precedente disuguaglianza
valga per tutti i valori della x, la serie si dice uniformemente convergente.
In altre parole per una serie convergente il numero m è generalmente funzione
di vC e di i (che, al variare di x, può anche avere -f- co per limite superiore) ; per
una serie uniformemente (in ugual grado) convergente si deve poter scegliere
un m, che sia funzione della sola z.
Questi teoremi si estendono senz'altro alle serie, i cui ter-
mini sono funzioni di più variabili; essi, si noti, sono affatto
analoghi ai teoremi corrispondenti per le somme di un numero
finito di funzioni.
154 CAPITOLO VII — § 46 — SERIE
Osservazione.
Accanto alle serie i matematici hanno studiato altri algoritmi
analoghi che hanno grande importanza per il teorico, e ben poca
per l'ingegnere. Voglio alludere ai prodotti infiniti, alle frazioni
continue illimitate, ai determinanti infiniti.
Così, p. es., dati infiniti numeri Ui, U2, u^, , ecc. si dice
che il prodotto infinito ih Uo u-^ converge ed ha il valore p
se il limite per w =00 del prodotto ^« = ^1 1^2 Un dei primi n
numeri u esiste, è finito, ed è uguale a^. Lo studio di un tale
prodotto si può ridurre a quello di una serie, osservando che in
particolare sarà log |^ i = log [ t^i | -f- log | ^^2 j + log ; ih I +
155
CAPITOLO Vili.
DERIVATE, DIFFERENZIALI
§ 47. — Velocità ad un istante, velocità di reazione, intensità
di corrente, coefficiente di dilatazione, calore specifico.
a) Studiamo un fenomeno dei più semplici : la caduta di un
grave che parte senza velocità iniziale. L'esperienza insegna
che il numero y dei metri percorsi in x minuti secondi di libera
caduta vale —- gx^ — 4,905 x^ (g = 9,81).
Da tale formola resta analiticamente individuata la funzione ?/
della X, così da poterne calcolare il valore per ogni valore posi-
tivo della X. E si trova che dopo
3" il gravOa percorso metri g = 4,905. (3)^ = 44,145
3,1 ..... ?/ = 4,905. (3,1)' =44,145-4-2,992
3,01 y = 4,905. (3,01)' := 44,145 -4-0,295
3,001. .... ?/ = 4,905. (3,001)'= 44,145-4-0,0294
Ora è ben noto che la velocità media in un intervallo di
tempo è data ^al quoziente tra la lunghezza del segmento per-
corso in tale intervallo e il tempo impiegato a percorrerlo.
Siccome nell'intervallo (3"; 3",1) si sono percorsi m. 2,992,
la velocità media in questo intervallo di tempo (77. di minuto
2,992
secondo) vale = 29,92.
a)
Nell'intervallo (3'; 3 ,01) la velocità media varrà analoga-
0 295
mente -~ — = 29,5; la velocità media nell'intervallo (3"; 3,001)
V 100"/
. 0,0294
sarà — ^— — ^ = 29,4.
VlÒOO/
Noi potremo continuare il calcolo per intervalli di tempo
ancor più piccoli: ciò che naturalmente non avrebbe alcun
156 CAPITOLO Vili — § 47
significato fisico, sia perchè 4,905 è un numero solamente ap-
prossimato, sia perchè non sono sperimentalmente apprezzabili
frazioni di secondo tanto piccole. Checché sia di ciò, noi trove-
remmo che la velocità media in un intervallo di tempo che
comincia dopo il terzo secondo, diminuisce con l'ampiezza del-
l'intervallo e finisce, per intervalli di tempo inferiori p. es. al
millesimo di secondo, con Tessere sensibilmente uguale a 29,4
Ma si suole parlare, tanto in fìsica che nel linguaggio comune,
della velocità che ha il grave p. es. all'istante ./; = 3 (dopo 3"
di libera caduta) ; si suole dire anche volgarmente : il grave
dopo 3" aveva la velocità di tanti metri al minuto secondo.
È ben chiaro il significato che uno sperimentatore darebbe a
una simile frase : velocità del grave alVistante x = 3". Supposto,
per fissare le idee, che il millesimo di secondo sia il minimo
intervallo di tempo, che egli sappia apprezzare e misurare coi
mezzi sperimentali che ha a sua disposizione, egli chiamerebbe
la velocità media del grave nell'intervallo (3"; 3", 001) la velo-
cità all'istante .t = 3.
Così un macchinista di un treno, che difficilmente può ap-
prezzare intervalli di tempo inferiori al minuto secondo, potrà
dire che, p. es., alle ore 4 egli aveva raggiunto la velocità di
100 km. all'ora (cioè m. = m. 27,77 al minuto secondo)
se nell'intervallo di tempo trascorso dalle ore 4 alle ore 4 più
un minuto secondo egli ha percorso m. 27,77. Questa definizione
diremo cosi, sperimentale della frase : velocità alVistante x è
sufficiente in pratica.
Dal punto di vista della teoria essa darebbe origine a gravi
difficoltà, p. es., per il fatto che il minimo intervallo di tempo
apprezzabile varia da caso a caso, può variare col perfezionarsi
dei metodi di misura ; mentre invece noi vogliamo una defini-
zione che, pur trascendendo i bisogni della pratica, sia adot-
tabile in ogni caso. Riprendendo lo studio della caduta di un
grave, notiamo che lo spazio ?j percorso in x secondi vale
— gx^, mentre lo spazio /y H- k percorso nei primi x -h h secondi
\3i\e --g{x-hhf. Lo spazio k percorso nell'intervallo di tempo
(a:, X -h 1%) vale dunque :
DERIVATE, DIFFERENZIALI 157
Cosicché la velocità media in tale intervallo di tempo è
k 1 ,
J=ffX+jC,h.
Quanto più perfetto è il metodo di misura, tanto più piccoli
sono gli intervalli di tempo, che si sanno apprezzare.
Ora, quanto più piccolo è l'intervallo di tempo {x, x -\- ìi)
ossia quanto più piccolo è //, tanto più piccolo è il termine -— gii.
Anzi questo termine è sperimentalmente trascurabile se h è molto
piccolo. Per questa ragione diciamo che la velocità all'istante x
vale gx : cioè poniamo per definizione tale velocità uguale al
k ,. -Y Q (x -^ hf — -o- V7X'""
km — —- lim — '- — — = qx.
h^o h /,==() h
Così p. es. la velocità all'istante x-3 vale 3 // = 3.9,81 — 29,4..:..
(che è in perfetto accordo coi valori sopra determinati).
Come si vede, questa velocità gx varia con x, è una nuova
funzione della x. E da questo risultato deduciamo anzi il ben
noto teorema di Galileo che le velocità sono proporzionali al
tempo x di libera caduta.
p) Applichiamo le considerazioni precedenti al caso generale.
Sia M un punto mobile con legge qualsivoglia, p. es. su una
retta orientata OX. Dopo un certo numero x di minuti secondi
la distanza 7j = OiUf sia uguale a un certo numero f(x) di metri
(y funzione di x). Quale significato avrà la frase : velocità di M
all'istante x = a?
Usiamo un procedimento analogo al precedente.
Dopo a secondi la distanza OM è f{a) ;
^^ a -\- h « f{a-i-h).
Dunque nell'intervallo (a, a -4- h) di h minuti secondi lo spazio
percorso è k:=^f{a-{'h) — f(ci). La velocità media in tale
intervallo di tempo è quindi
k __ f(a-hh) — f{a)
/^ "~ h
Noi chiameremo velocità di M all'istante a il limite (se un
tal limite esiste) del precedente rapporto per h = 0. Questo
limite varierà generalmente al variare dell'istante a considerato.
E per indicare che a può ricevere uno qualsiasi dei valori dati
alla X, noi indicheremo a con la stessa lettera x, dicendo così
158 CAPITOLO Vili — § 47
che la velocità all'istante a; è quella funzione Fix) della x,
che è definita dalla
F (:x) = lim ' '
se un tale limite esiste.
Y) Se noi immaginiamo noto a priori il significato della
frase: *' velocità alV istante x " , possiamo usare un'altra forma
di ragionamento, che ci servirà anzi come modello per altri
problemi analoghi.
Se la velocità F{x) si mantenesse costante neirintervallo
(x, X -I- h), lo spazio f(x-i-h) — f{x) percorso in tale intervallo
di tempo sarebbe proprio uguale al prodotto h F (x) della velo-
cità F{x) per il tempo h impiegato a percorrerlo. Ma F(x) può
variare (se, come capita in pratica, F{x) è funzione continua)
nel dato intervallo da un valore minimo m ad un valore mas-
simo M. Lo spazio percorso sarà quindi compreso tra km ed JiM,
che misurano rispettivamente gli spazi percorsi nel caso che la
velocità abbia costantemente il valore minimo m o il valore
massimo M (*). Quindi f{x -h h) — /'(a:) = 7i |ji, dove \i è un
valore compreso tra m ed M, ossia è il valore i^ (a: 4- X) che F
assume in un certo punto a:; 4- X (a noi generalmente ignoto)
dell'intervallo (x, x -+- /^) ( | >^ | ^ | /^ | ). Dalla f{x-^ h) — fix) =
hF ix -f- X) si trae :
n
donde, passando al limite per /^ = 0, e ricordando che X tende
a zero per /^ = 0, si ha appunto :
h = o II
S) In generale, se y è una grandezza variabile col tempo x,
che è una funzione y = fix) di x, il limite precedente si chiama
la velocità di variazione di y. Così, se ?/ è la quantità di una
certa sostanza che si è formata o si è decomposta in una certa
reazione chimica, tale limite ha il nome di velocità di reazione.
Se ?/ è la quantità di elettricità passata in un dato circuito
all'istante x, tale limite ha il nome di intensità di corrente.
(*) Che a velocità maggiore corrisponda spazio percorso maggiore è un postulato
direttamente suggerito dalla intuizione.
DERIVATE, DIFFERENZIALI
159
Se X indica invece la temperatura, ed y è, p. es., la lun-
ghezza di una certa sbarra alla temperatura x, tale limite si
chiama il coefficiente di dilatazione (della sbarra).
Se ?/ è la quantità di calore necessaria per portare alla
temperatura x la massa 1 di un certo corpo, quel limite si
chiama il calore specifico di quel corpo.
Insomma quasi tutte le scienze, che si propongono problemi
di misura, conducono alla considerazione di quel limite per i
problemi piii svariati.
§ 48. — Retta tangente a una curva.
Come possiamo definire la retta tangente a una curva in
un punto A in modo conforme alla nostra intuizione ?
Le seguenti figure dimostrano che non si può definire tale
tangente, dicendo che essa è la retta che ha il solo punto A
comune con la curva, oppure che essa è la retta che ha con la
curva a comune il punto A, ma che non attraversa la curva
in A (figure 12-13).
Fig. 12.
Fig. 13.
Noi partiremo dall'osservazione che la retta che congiunge
due punti A, B molto vicini di una curva si confonde sensibil-
mente con la retta, che. la nostra intuizione
dice tangente alla curva nel punto A. Cosi che
un abile disegnatore potrebbe chiamare retta
tangente a una curva in un suo punto A la
retta AB (fig. 14), essendo B il punto della
nostra curva più vicino al punto A, tale che
la retta A B possa venire da lui tracciata con
l'approssimazione richiesta (se il punto B fosse
troppo vicino al punto A, il tracciare con la
precisione voluta la retta A B gli presenterebbe
difficoltà insormontabili). Una tale definizione
non è però accettabile da un- matematico, il
quale prescinde da ogni possibile disegno, e non può tener conto
della maggiore o minore abilità di un disegnatore.
Fig. 14.
160
CAPITOLO Vili -— § 48
Fig. 15.
Noi, assumendo come punto di partenza i fatti intuitivi ora
accennati, porremo la definizione seguente :
Tangente à una curva nel punto L è la posizione limite
(se questa posizione esiste) di una secante AB congiungente il
punto A con un altro punto B della curva, quando il punto B
tende ad A (*).
Bisogna dimostrare che questa defini-
zione coincide nel caso del cerchio con la
definizione data dalla geometria elementare.
Sia dato un punto A su un cerchio di
centro 0. Preso un altro punto B su tale
cerchio, tiriamo la retta AB ; essa sarà la
perpendicolare tirata da^ alla bisettrice OH
dell'angolo A{0)B (fig. 15).
Facciamo avvicinare il punto B al punto A ; allora V an-
golo BOA tende a zero, e la bisettrice OH dì questo angolo
tende al raggio OA. La retta AB, che è sempre perpendicolare
alla bisettrice OH, si avvicinerà alla perpendicolare alla retta OA
nel punto A, e si ha così che la posizione limite della retta AB,
ossia la tangente al cerchio nel punto A, nel senso ora definito,
e la perpendicolare al raggio del cerchio che ha l'estremo in
quel punto A, e coincide quindi con la retta che in geometria
elementare si chiama « tangente al
cerchio nel punto A " .
Sia la curva data dall'equazione
y = f{x). Il coefficiente angolare
della retta AB è Ir tangente del-
l'angolo 0) che la direzione positiva
dell'asse delle x fa con un raggio
di essa, p. es., col raggio AB. Sia
A C parallela all'asse delle x. Dal
triangolo ABC (fig. 16) si ha che
questo coefficiente angolare vale in grandezza e segno
GB B'B — B'C B'B — AA
AC
OH
OA' OB'—OA'
dove B' B e A! A, OB' ed OA' sono rispettivamente le ordinate
e le ascisse dei punti B, A.
(*) Qui si tratta di una facile estensione del concetto di limite. Noi diciamo
che la retta AB tende a una posizione AP, se l'angolo di AB ed AP tende a
zero. Dicendo poi che B si avvicina ad A^ vogliamo dire che, se la curva è rap-
presentata da una equazione y =f (x), noi cerchiamo la posizione limite dì AB
per X.2 = 07, (essendo a:, , a-, le ascisse di ^ e di B).
DERIVATE, DIFFERENZIALI 161
Siano Xo ed Xo-hh le ascisse 0A\ 0 B' dei punti A, B.
Le corrispondenti ordinate A! A, B' B saranno /"fe), /"(^To + /O,
cosicché il coefficiente angolare della nostra retta è
f{Xo -^h) — fiXo) ^ f(Xo -hh)— fiXo)
(xo -h h) — Xo h
come del resto si poteva trarre direttamente da note formole
di Geometria analitica.
E per la definizione precedente avremo che il coefficiente
angolare della retta tangente in A esiste ed è uguale a
. fjxo -h h) — fixo) ^
h^o h
se questo limite esiste. Se noi vogliamo tener conto che Xo può
avere un valore qualsiasi dell'intervallo che si considera, pos-
siamo scrivere x al posto di Xo, e dire cosi :
La retta tangente alla curva y = f (x) nel punto di ascissa x
ha per coefficiente angolare il lim •
h = 0 h
§ 49. — Derivata.
a) Sia f{x) una funzione reale.
Nei due precedenti §§ si è presentato il rapporto
f(x -^h) — f{x) ^ fix ^h) — f{x)
{x -\- h) — X h
Il denominatore e il numeratore sono il primo la diiferenza di
due valori della variabile indipendente x, l'altro la differenza dei
due valori corrispondenti della funzione f{x). Perciò si suol anche
porre (ricordando la lettera iniziale della parola : differenza)
h = (x -\- h) — X = àx,
f{x-hh) — f(x) = àf.
Il primo sarà detto incremento della x. l'altro incremento
della f(x). Il rapporto
^f^fix-^h) — f(x)
Ax h
viene perciò anche chiamato rapporto incrementale.
11 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
162 CAPITOLO Vili — § 49
In entrambi i problemi precedentemente trattati, si è trovato
necessario di calcolare il
Questo limite, se esiste ed è finito, ha ricevuto il nome di
derivata della funzione f{x) nel punto x ; esso è una funzione
di X, che si suole indicare con f (x).
Se è posto y = f(x), questo limite, se esiste, si indica bre-
vemente anche con j/ senz'altro, o con y^, se si vuol mettere
in evidenza la variabile x rispetto alla quale si deriva (*).
Se il punto X che si esamina è all'estremo sinistro (destro)
dell'intervallo, in cui f{x) è definita, è sottinteso che h tende
a zero per valori positivi (negativi) ; se invece il punto x è
interno a tale intervallo, si dice che la funzione f(x) ha in
A f
tal punto la derivata f (x) soltanto se il lim — — esiste, ed
àx = 0 àx
è sempre lo stesso, sia che h tenda a zero per valori positivi,
sia che h tenda a zero per valori negativi.
Di più, quando diremo che esiste la derivata f' (x), noi
supporremo sempre che il nostro limite abbia valore finito (seb-
bene si parli talvolta anche di derivate infinite). I risultati dei
precedenti paragrafi si possono perciò anche enunciare così :
l** Se ^ ^= f(x) è lo spazio percorso da un punto Jf mobile
su una retta in x unità di tempo, allora la derivata y = f (x)
di f{x) ci dà la velocità del punto M all'istante x (dopo che
sono trascorse x unità di tempo).
2** La retta tangente alla curva y = f{x) nel punto di
ascissa x ha per coefficiente angolare y' = f (x).
Così, p. es., la derivata di y '=^ a x' (a = cost.) è
,. a(x-ì-hy^ — ax^^ ,. 2 axh -h ah'
hm -^ r— = lim — — =
ft, = o fi h = {) ri
=^\ìm{2 ax -i- ah) ^=^ 2 ax.
Quindi : Se un punto in x minuti secondi percorre ax^^ metri,
la sua velocità (misurata in metri secondi) dopo x secondi è
(♦) Cioè la variabile, alla quale si è dato l'incremento arbitrario h, che si fa
tendere a zero. L'arbitrarietà di /i è naturalmente limitata dalla sola condizione
che i punti x^x-^ìi appartengono al campo, in cui la f{x) è definita.
DERIVATE, DIFFERENZIALI 163
2 ax. (Da ciò si deduce il risultato del penultimo paragrafo
ponendo ci^=^ -^ g =^ 4,905).
La retta tangente alla parabola y^=zax^ nel punto di ascissa x,
ha per coefficiente angolare 2 ax.
,5) Un teorema di importanza specialmente teorica è il seguente:
Se una funzione f(x) ha in un punto Xq derivata {finita), essa è continua
in tale punto.
Infatti dalla
si trae
ossia
lim [ / (X. + h) -f(x,) ] = lìm h ^"=- + ^1 f^''")
^ i™ ,, ii„, r(^.+fe)-fw^o.r(x.)=o
A = 0 A = 0 n
lim /(fl?„ -I- h)==f(x^). e. d. d.
// =0
Il teorema reciproco non è vero ; esistono funzioni continue senza derivata,
per quanto tutte le funzioni, che può incontrare il tecnico nei suoi studi, sieno
derivabili nei punti non singolari (*).
7) Chiuderemo questo paragrafo con alcune osservazioni sulla equazione della
retta tangente ad una curva. Si tratta di osservazioni evidenti, sebbene talvolta
io mi sia accorto della difficoltà incontrata da m.olti studenti a scrivere tale equa-
zione in modo corretto.
Il punto di ascissa Xo sulla curva y=f{x) ha per ordinata ?/„ — /(iCo). [Con
f{x^ si indica, come è noto, il valore di f {x) quando alla variabile x si dà il
valore x^. Il coefficiente angolare della tangente corrispondente è f {x^ (**).
Ora, affinchè la retta passante per il punto {Xq , 2/©) e tin altro punto {x, y) abbia
il coefficiente angolare f'{x^ è condizione necessaria e sufficiente che y — 2/0 —
=z(^x — oo^f'iXo). Questa è dunque l'equazione della retta tangente alla curva
y=if{x) in quello dei suoi punti, che ha per ascissa Xq. Si noti:
1" La y che figura in questa equazione è l'ordinata di un punto mobile
sulla tangente ed è perciò completamente distinta dalla y^f (x), ordinata di un
punto mobile sulla data curva.
2o Siccome il punto {Xq , 1/0) appartiene per ipotesi alla nostra curva, la y^
è precisamente il valore assunto dalla f(x), quando alla variabile x si dà il valore j,,.
Così pure /' (Xq) è il valore di f {x) nel punto x = Xq.
Così, p. es., l'equazione della tangente alla curva y ■^- ax^ nel punto di ascissa
^0 è {y — yo) — '2ax^{x-~XQ), ossia (poiché y^^^^ax^) è 1/ -f- 7/^ = 2 arr^ic.
(*) È facile riconoscere che una funzione può essere continua in un punto y = «,
senza essere derivabile in tale punto. Basti pensare alle funzioni f{x) tali che la
curva y =zf {x) abbia per x = a \m punto angolare.
Ma sono stati dati esempi di funzioni continue in tutto un intervallo, sprov-
viste di derivata in ogni punto di tale intervallo.
(**) E non già f {x). Si osservi del resto che la y — yo=={x — x^) f {x)
non è generalmente l'equazione di una retta, e tanto meno della retta tangente,
perchè non è neanche lineare (di primo grado) nelle x, y.
164 CAPITOLO Vili — § 49
5) Sia data una curva y ^= f{x) definita in un intorno destro
0 sinistro di oo ; poniamo, p. es., nell'intorno (a, -I- cx) ) di oo .
La retta tangente nel punto di ascissa Xo ha per equazione
y — ^0 = (x — Xo) f {xo) ossia y=^xf fe) -4- \f(x^ — Xo f fc) ].
Se per a;„ = oo le f {xo) e f{xo) — Xof{Xo) hanno limiti
finiti m, n la retta che ha per equazione y ^= mx-hn si dirà
asintoto della curva, nel punto di ascissa infinita (e si consi-
dererà come la posizione limite della tangente considerata per
Xo=^).
Così pure, se f{x) è definita per cc-Na, e se, quando Xo è
in un intorno di a, si ha f (xo) =#= 0, allora l'equazione della
tangente nel punto di ascissa Xo si può scrivere:
y fM _ _
f {Xo) f (Xo)
Se è lim f{xo) = 00 , lim f fe) = oo , lim -f^ = 0 (*),
allora la retta che ha l'equazione x — a = 0 [che si deduce
dalla precedente passando al limite per x^ = a] si chiama an-
cora un asintoto della nostra curva nel punto di ascissa a.
Così, p. es., la curva xy=^l ha per tangente nel punto
di ascissa Xo la retta
y = 72 (^ — ^o)^
Xq Xo
Passando al limite per Xo^=0 e per a:^ = oo si trova che
asintoti di tali curve sono le rette x = 0, y =^ 0, ossia gli
assi coordinati.
Esempi.
l*' Sia y=^f{x) una funzione continua e non negativa
per a^x^h. Consideriamo la figura piana (fig. 17) racchiusa
tra l'asse delle x, la curva y = fix), e le perpendicolari all'asse
delle ascisse innalzate dal punto A di ascissa a e dal punto B di
ascissa variabile x> a.
Ad una tale figura daremo il nome di rettangoloide.
(*) Si potrebbe dare a queste condizioni (non tutte tra loro indipendenti) una
forma che almeno apparentemente fosse meno restrittiva.
DERIVATE, DIFFERENZIALI
165
y
.ty
^
1
/..
Ah \
>:'i
./
'■■A
B ;
0 a ■<
^
rrf'
X
Fig. 17.
Dimostreremo 'altrove che questa figura possiede un'area
(che cioè le sue aree esterna ed interna sono uguali).
Ed anche senza ammettere tale
teorema, il lettore noti che le seguenti
considerazioni (da noi svolte per l'area
di tale rettangoloide) valgono del resto
tanto per Varea esterna che per Varea
interna (cfr. § 7, pag. 25).
Tale area sarà una funzione A {x)
dell'ascissa variabile x- Noi non sap-
piamo per ora calcolare tale area,
qualunque sia la funzione f{x), ma,
come ora vedremo, sappiamo in ogni caso calcolarne la deri-
vata a! {x).
Per calcolare tale derivata, diamo alla x un incremento
positivo h (ad identico risultato si giunge con ragionamenti
analoghi se h < 0).
L'incremento ^ A ^^ A {x -\- li) — A {x) ricevuto dalla nostra
area sarà l'area del rettangoloide limitato dall'asse delle x,
dalla nostra curva, e dalle ordinate dei punti jB e C di ascisse
X ^di x-{-h. Se in questo intervallo la f{x) conservasse un valore
costante, la curva y = f{x), sarebbe in questo intervallo un seg-
mento parallelo all'asse della x] la nostra figura sarebbe un ret-
tangolo di base A e di altezza y = f{x), cosicché la sua area A A
sarebbe uguale ad hf{x). Ma f{x) può variare nel nostro inter-
vallo da un minimo m ad un massimo M\ cosicché la nostra
figura contiene all'interno il rettangolo di base h ed altezza m,
ed è contenuta nel rettangolo di base /^ ed altezza M. La sua
area A A è perciò compresa tra i numeri hm ed hM, ossia sarà
uguale ad h^, essendo [x il valore assunto dalla f{x) in un
punto x -^"k dell'intervallo {x, x -4- h). Dalla
abbiamo
cosicché
a:{x)
AA = hf{x-{''k)
AA
h
fix-^}^)
lim ^ = lim f(x -h X) = lim f(x + X) r=r f(x).
166
CAPITOLO Vili — § 49
'' ..-^^^^^^
,^^^... i
i\ \
-fi^)
0 <z- X
'X.
Fig. 18.
&+/•(
-li.-
a)Sia,p. es,, la curva ^ = /'(a;) (fig. 18)
la retta uscente del punto di ascissa a
ed ordinata 6 col coefficiente angolare m;
sia cioè f (x) ^=^ ì) -\- m {x — a) dove
m = tg (D, essendo w il solito angolo della
retta con l'asse delle x. L'area della
nostra figura (un trapezio) è
(x — oì)-=^h{x — a) -\- -—■ (x — df.
Ne deduciamo che la derivata di
hix
m
a) ^ --{x — ay
è h-^-mix — a): ciò che si può dimostrare direttamente col
metodo di pag. 162.
P) Sia ora la curva y ^=:f{x) un arco di cerchio col centro
nelPorigine e raggio R, Dalla equazione a;-4-^^=i^" di questo
cerchio si trae y = f(x) =-4- j/ i?^ — x~ (fig. 19). L'area rac-
chiusa tra r asse delle x, il cerchio, Tordi-
nata (di lunghezza nulla) di ascissa — R
e l'ordinata di ascissa variabile x è data da
(71 — a) i?
R xy
, dove a (cfr. fig. 19)
x
è Tarco minore di tl che ha per coseno — >
K
Fig. 19.
x
0, come si suol dire, a = arccos -^ ed ?/ = y R^
Quindi la derivata di
x~
arccos
('- ._
uguale a ?/ = ]/ R
1 X \/R^ — x^ (0 ^ are cos x ^t^) ^
X
Y) Infine, se /"(a:) = — e quindi la curva ?/ = — è un'iper-
X X
bole equilatera con gli assi coordinati per asintoti, noi sappiamo
(8 38, es. 3", pag. 128)che^(a;) = loge- . Quindi la derivata
a
X 1
di loge — e in particolare di log, x vale — .
a X
167
2^ Sia dato un solido S. Esista e sia yz=^f{x) il volume
di quella porzione di ^S che è racchiusa tra un certo piano
fisso Tc, e un piano parallelo t^' posto alla distanza x dal pre-
cedente, lu'area della sezione s fatta da t^' in S esista, e sia
una funzione F {x) continua della x. Dimostreremo che
f{x) = F{x).
Oss. Ammettiamo il teorema che il volume dello strato di 8,
che è compreso tra due piani tz^ e ti., qualsiasi paralleli a tc^
sia compreso tra i prodotti della distanza di questi due piani
per i valori massimo e minimo dell'area d'una sezione fatta
in S da un piano parallelo a tCi od a 7^2- Questo teorema,
che troveremo più tardi dimostrato in generale, è evidente se,
p. es., ^S" è una sfera, o un ellissoide avente tt per piano di due
assi, 0 una piramide avente la base parallela a ti: e tale che il
piede dell'altezza sia interno alla base, ecc. A tutti questi solidi
il nostro ragionamento è quindi applicabile senza necessità di
ammettere alcun teorema non dimostrato.
Ris. Se 7i', Tz" sono due piani paralleli a tt, il volume
f{x-hh) — f(x) dello strato limitato in S da n' e da n" è, per
Tosservazione precedente, compreso tra hM ed hm, se con M
e con m indichiamo rispettivamente il massimo ed il minimo
valore di F(x) nell'intervallo (x, x -h h).
E col metodo tante volte usato si deduce
f (x) = lim — — = F (x).
h=^Q fi
L'allievo controlli questo risultato nei casi su citati che 8
sia una sfera, od una piramide, calcolando effettivamente f(x)
e F(x).
Varie e molteplici sono le applicazioni della definizione di
derivata di una funzione f{x) e in moltissimi problemi la con-
siderazione di f (x) si presenta spontanea. Perciò assai impor-
tanti sono i problemi fondamentali del calcolo :
1" Trovare la derivata di una funzione data.
2° Trovare le funzioni, che hanno una derivata assegnata.
Del primo si occupa il calcolo differenziale, del secondo il
calcolo integrale.
168 CAPITOLO Vili — § 50
§ 50. — Estensione alle funzioni complesse.
a) Se y =:: f{x) ^=^ u (x) -\- iv {x) è una funzione complessa
della variabile reale x, chiameremo derivata di a; e indicheremo
con y = f (x) ancora il
lini /'(^ + h) — f{x)^
h = 0 h
quando questo limite esiste ed è finito. Ciò che avviene allora
e allora soltanto che esistono e sono finite le u (x), v (x) ; ed
è in tal caso
f {x)=-u {x) -\- iv (x).
P) In casi estremamente particolari si conviene talvolta di
considerare delle variabili coniiplesse Z come funzioni di un'altra
variabile pure complessa z ; tale convenzione si pone per una Z
che sia uguale a una serie convergente, di cui lo (^^-f-l )''**"''' termine
sia il prodotto di una costante k^ per z^ o per -^ (o più gene-
z
ralmente per [^ — a]"^ dove a è una costante). Di ciò parleremo
più a lungo in altro capitolo. Qui ci basterà considerare il caso
particolare che i termini di tale serie dopo lo (n-hl)'"'™" siano
nulli, ossia brevemente che Z sia un polinomio :
(1) Z^=^an-^ an-iZ-\-an-iZ~ + ^- cioz'^ = P{z)'
Anche nel campo delle variabili complesse chiameremo derivata
e indicheremo con Z' il limite del rapporto incrementale (se
esiste). Per la funzione (1) tale derivata esiste e si calcola^ come
se si trattasse di variabili reali. Infatti
^, ^. Piz-^h) — F(z) ^ .. (z-i-hy-z^
Z = lim = 2^ aj lim =
h'=0 fi j^i h = 0 II
Si noti che h si deve considerare come un numero complesso
m -i- in. Il limite per /i = 0 significa il limite per m = n = 0.
Si noti che
{z + hy — z^ (z + hy — z^ , -,.. 1 . 7No_o o, 7x,-_3 • , ,
•^^ — r — =-^ — -\ — ={z+jiy-^-^z{z+hy "-\-z"{z-^iiy '+...-+-,5'^
h {z-hh) — z
E per /i = 0 questa espressione ha per limite proprio j,e^~^
(tanto se le a e le ^ sono reali, quanto se sono complesse).
DERIVATE, DIFFERENZIALI 169
cosicché in ogni caso
Salvo avvertenza contraria in quanto segue ci riferiremo esclu-
sivamente a variabili reali.
§ 51. — Derivate fondamentali.
a) Sia y = cost. (p. es. j^ = 3, oppure t/ = 5). Vale a dire
la y non varii al variare della x. Gli incrementi Ay della y
A y
saranno sempre nulli ; è quindi costantemente 7-^ = 0, e perciò
A X
, Ay
anche y = lim - — = 0.
Aa; = 0 àX
Ciò che del resto è geometricamente intuitivo, poiché y = cost.
é una retta parallela all'asse delle x.
Le sue tangenti coincidono quindi con essa, e perciò hanno
coefficiente angolare y nullo.
P) Si trovi la derivata di ^ = sen x.
-r, , . , , sen (x -h h) — sen x
Il rapporto incrementale e 1 ; e perciò
n
,. sen(ic4-/^) — sen:r ,. sena;cos/j-hsen/^cosa:-sena;
y = lim = lim =
7i = o h h=.o h
,. cos /z — 1 ,. sen h
= sen X lim f- cos x hm — - — =
7( = 0 II h = 0 h
= 0. sen X -h 1. cos x = cos x.
sen Jz
Si ricordi che Si] ^37,1^. 122-123, si é dimostrato lim-^— =-1,
h^O fi
1 — cos h
lim — — = 0.
h^o h
Y) Si trovi la derivata di ^ = cos x.
In modo analogo al precedente si trova :
,. cos(x-i-h) — coso; ,. cos a:: cos /^ — senxseiìh — cosa:;
y = hm — = hm =
/i=o h h=o II
cos h — 1 ,. sen h
= cos X lim — sen x hm — — = — sen x.
ft = 0 II h=() h
170 CAPITOLO Vili § 51
S) Si trovi la derivata di y =i a"" {a> 0).
Si ha
a" + '^ — a^ ^. a'ia"' — !) ,,. a' — 1
?/ = lim 7 = lim = = a lim —
/ic=o ri /t = o h h= 0 h
= aMog, a (cfr. § 38, pag. 127).
In particolare la derivata di y = é^ è uguale a
y =1 é^ ìoge e = e*.
s) Si trovi la derivata di t/ = Ioga x{a> 0) {x> 0).
Q. , ' y Ioga (X -\- h) —Ioga X
Si ha y = lim — ^ ;
Posto h = — , ossia posto m^=^ -- , se ne deduce :
m h
ioga Ix-^ ) — log« X . X
X
/ ,. V ,/. ^ ivi ^
7/ = lim = - lim m log«
X . lih X in 'XB ce X
1 / 1 \"'
= - lim log« (IH j = log,
X m =ac V m /
In particolare, se a = e, si ha che la derivata di y = log« x
èy =-: ciò che del resto avevamo già trovato (pag. 166,
X
es. 1°, y) per via geometrica.
X) Derivare y =^ x'' (n intero positivo).
Ris. Si noti che
(^ -+- hT = x'' -+- nhx''-' 4- ''^''-'^^ h' X--' 4-
Si troverà 2/' = nx"" ~ \
7]) Derivare y = i/o?.
Si ha
,. ^/x-^-h — ^/x ,. (x-^ìi) — x
y m: hm = lim — ; — , — ;^, '
^ ^=0 /i h\vx-^}i-^yx\
Si trova ?/ = 7=^ •
DERIVATE, DIFFERENZIALI 171
0) Derivare y ^= tg x.
Ris. Il rapporto incrementale è
tg(x -{- h) — tgx 1 sen h
h
COS X COS (x -H h)
h
Si trova y — — 2~ *
^ COS X
Derivare x — cotg x.
Si trova v = r- '
sen" X
La derivata di y ■=^ sh x vale eh x] e quella ài y ^=^ chx
vale s/io; (e non — sh x) (cfr. pag. 133).
§ 52. — Infinitesimi e infiniti.
a) Se a ed h sono numeri piccoli, allora secondo che il
a
rapporto - :
h
Ve piccolissimo ;
2° è estremamente grande ;
3*" non è né piccolissimo, né grandissimo ;
noi diciamo rispettivamente che :
1** a é di un ordine di piccolezza maggiore di quello di h ;
2"* a é di un ordine di piccolezza minore di quello di h ;
3" a ed h sono di uno stesso ordine di piccolezza.
Così, p. es., per chi si occupa di lunghezze di qualche chilo-
metro, tanto un millimetro, che la lunghezza d'onda della luce
rossa, sono lunghezze piccole. La seconda é però molto pili pic-
cola della prima, e perciò diciamo che essa é di un ordine di
piccolezza maggiore.
Così, p. es., quando diciamo che le lunghezze d'onda di un
raggio verde e di un raggio azzurro sono dello stesso ordine
di piccolezza, vogliamo dire che il loro rapporto non é né un
numero enorme, né un numero piccolissimo.
Tutte queste locuzioni hanno naturalmente un significato
poco preciso, perché poco preciso é il significato delle parole :
« piccolissimo », « grandissimo ". Noi, però, partendo dalle idee
intuitive contenute in dette frasi, poniamo le seguenti definizioni
precise.
172 CAPITOLO Vili — § 52
Sia 11 un infinitesimo, cioè una variabile che tenda a zero,
e supponiamo che non assuma il valore zero (*).
Sia poi P un altro infinitesimo che tenda a zero con h,
B
Consideriamo il rapporto — e poi il
lim -f 1
se h è la variabile indipendente, e p funzione di h.
Se invece x fosse la variabile indipendente, e P ed cc = h
fossero funzioni della x infinitesime per x=^ h, alla considera-
zione di questo limite si sostituerebbe quella del
lim' f- =: lim -^ •
Secondo che questo limite
1^ non esiste;
2° esiste ed è una quantità finita e diversa da zero ;
3^ esiste ed è zero;
4^ esiste ed è infinito;
noi diremo rispettivamente che:
Vi due infinitesimi P 6 h non sono paragonabili ;
2'' ^ ed \i sono infinitesimi dello stesso ordine;
V ^ è un infinitesimo d'ordine superiore ad h;
A"" ^ è un infinitesimo d'ordine inferiore ad h.
Esempi.
1^ li e P = /i sen —-sono (per /i = 0) infinitesimi non
h
B 1 ' ; . .
paragonabili, perchè lim — = lim sen — non esiste, poiché,
mentre h tende a zero, sen -y- oscilla sempre da -f- 1 a — le
/^
da — 1 a -4- 1 :
(*) Può darsi che li sia la variabile indipendente, od anche che h sia funzione
di un'altra variabile x, che tenda a zero, p. es., per x = 'b. In questo secondo caso
non potrebbe però essere, p. es., }i = (x — h) sen y , perchè h assumerebbe
X — 0
injfinite volte il valore zero, mentre x si avvicina a h (cioè in ogni intorno del
punto 'X = h).
DERIVATE, DIFFERENZIALI 173
2^ /j e ^ = sen h sono per /i = 0 infinitesimi dello stesso
ordine, perchè lim — - = lim — - — = 1 ;
h = 0 h 7t = 0 fi
3^ Se ^=zh^^ è lim -7- = lim h ^= 0; cosicché (per
/i = 0) P è un infinitesimo d'ordine superiore ad h;
4« Se P = \/h, P per /i = -I- 0 è infinitesimo d'ordine
inferiore ad h, perchè lim -j- = lim ^— = lim —y= = 00 .
Zi = 4-0/1 7i = 0 h h^-\-0\/}i
Evidentemente se a è un infinitesimo d'ordine superiore a p,
e P è di ordine superiore a y, allora a è di ordine superiore
a y, perchè
a a 3
lim — = lim -3- lim — = 0.
T ? T,
*Se esiste un numero positivo k tale che il rapporto jj abbia
un limite finito e diverso da zero, allora a è infinitesimo dello
stesso ordine di h^. Si suol dire allora che a è un infinitesimo
di ordine k (rispetto ad h). Per esempio, sen /^ è un infinite-
simo di l** ordine per Tes. 2°; h!' {k>0) è un infinitesimo di
ordine k] 1 — cos /t è un infinitesimo di T ordine, perchè:
o 2^ 2 ^
„ , 2 sen - , sen -
,. 1 — cos/i ^. 2 1,. 2
lim 7^^ = lim — — — = — - lim
7i = 0
K^ r=o K^ 2 r^To //z^ ^
(I)
h
1 , ri
lim
2 7t=0Ì /l
/l
\2
2 K^fJ 1 2 ■ 2
Quest'ultima definizione non è contraddittoria con le pre-
<jedenti.
P) Considerazioni aifatto simili valgono per gli infiniti, ossia
per le quantità che tendono a qo .
Se a, p sono quantità che tendono contemporaneamente a qo ,
si dirà che:
1° a e p non sono paragonabili ;
2^ oi e ^ sono infiniti dello stesso ordine;
174 CAPITOLO Vili — § 52
3" a è infinito di ordine superiore a P;
4** a è infinito di ordine inferiore a ^ secondo che:
oc
1^) lim -Q- non esiste,
2^) lim -Q- è finito e diverso da zero,
3^) limy = oo,
4') lim 4—0.
Le considerazioni precedenti hanno un grande interesse,
perchè in molti problemi è lecito trascurare gli infinitesimi di
ordine superiore. Eccone qui un primo esempio. Un altro esempio
assai piti importante sarà dato più avanti.
Se a, p, Y, S sono funzioni della x infinitesime per x =^ b,
56 Y, S sono rispettivamente di ordine superiore ad a e p, al-
lora per trovare il
si possono trascurare questi infinitesimi Y? ^ di ordine siepe-
(*)
riore, ossia
r f^ + T
a
hm p .
Infatti
a + Y_
a a
Y 0 a
Poiché lim -^ = lim -^ = 0, e lim ^ =1, e. d. d.
1+ p
(*) Si potrebbe anche supporre che v e ò fossero entrambi di ordine superiore
rispetto ad a oppure a |5.
-r^ . , a + v 3 i3 Dt
Basta osservare che — ^-^ = r = r > ^c<^-
DERIVATE, DIFFERENZIALI 175
§ 53. — Differenziali.
a) Poiché f {x) = lim _ ^-^-^, si avrà, posto
f(x-hh) — f{x) ., , , ,. ^ . .
^— 1 ^-^ — /*(a;)=s, che lim s = 0. Cioè £ è infi-
nitesimo per h = 0. La £ è stata definita per tutti i valori di
h =^ 0 (perchè h figura al denominatore delle precedenti for-
mole) (*). Noi converremo di porre £ = 0 quando h =^ 0.
E la £ resterà così definita per ogni valore possibile di h. Si ha
per definizione
Af=f{x-^h)—f{x); Ax:=h: Af=f(x^Ax) — f{x).
I)ondeAf=^^''^^^^~^^''hx=[fix)-^B]Ax=^Axf'{xHsAx.
E, posto £Aa; = a, si ha
àf:==:f(x)Ax-+-OL (l)
dove a è un infinitesimo di ordine superiore rispetto ad h, perchè
a bAx
lim 7 — lim -— =r: lim £ = 0. Invece f (x) Ax (se f (x)=\= 0).
è un infinitesimo dello stesso ordine di h.
Allora si potrà dire, per l'uguaglianza (1), che l'incremento A/"
ricevuto dalla funzione fix) è uguale al prodotto della derivata
della funzione f{x) per l'incremento Ax della variabile, più un
infinitesimo oc di ordine superiore (rispetto ad h^=^Ax).
La prima parte del secondo membro della (1), cioè f\x) Ax,
si suole indicare col simbolo df e si chiama il differenziale della
funzione f(x); cioè il differenziale di una funzione f (x) è uguale
alla derivata della funzione moltiplicata per Vincremento della
variabile.
Il differenziale dipende dunque non solo dalla x, ma anche
dall'incremento h=^Ax della variabile x e, se fix) #= 0, è
un infinitesimo dello stesso ordine di h.
La (1), che può anche scriversi Af^=df-hc(., sdoppia A/"
nella somma dfe dì oc: i quali (se f' #= 0), sono rispettivamente
di ordine uguale e superiore a Ax. Essa vale anche per Ao: = 0,
poiché per Aa; = 0 è a = sA2; = 0.
(*) Supposto naturalmente in più che x-^-h appartenga all'intervallo, ove
esiste la f (x).
176 CAPITOLO Vili — § 53
P) Vediamo che cosa rappresenta geometricamente il diffe-
renziale. Sia data una curva di equazione
Siano NM, QS le ordinate dei punti M e S della curva che
corrispondono ai valori x e x-hh della variabile (fig. 20).
Sia Pil punto d'incontro della SQ con
la parallela per M alFaSse delle x; sia
poi R il punto d'incontro della SQ con la
tangente alla curva nel punto M, ed co sia
l'angolo formato da questa tangente con
la MP, ossia con Tasse x. L'incremento h
che riceve la variabile indipendente x
-^ sarà
Fig. 20. ^x = NQ = MP.
Abbiamo visto che la derivata f (x) della funzione f{x) è
uguale al coefficiente angolare della tangente alla curva, ossia che
f (x) = tang w ;
ma il differenziale è
df=f(x)Ax;
quindi
df=^^x tang w.
Ora A a; misura il cateto MP del triangolo rettangolo MPE,
quindi df =^ Ax tang w = PR. Dunque il differenziale è rapjjre-
sentato dal segmento PR compreso tra la parallela condotta per
il punto M all'asse delle x e la tangente alla curva nel punto M.
L'incremento Af che riceve la funzione quando alla varia-
bile X si dà l'incremento /^, sarà dato dalla differenza tra il
valore della funzione nel punto x -h /^, valore che nella figura
è rappresentato dal segmento QS e il valore della funzione nel
punto X (valore che nella figura è rappresentato dal segmento
NM); dunque
A/*= QS — NM— QS—QP—PS\
cioè rincremento A f che riceve la funzione f (x), quando si dà
alla variabile x V incremento Ax, è rappresentato dal segmento
PS compreso tra la parallela alVasse delle x condotta per il
punto M di ascissa x e la curva y = f(x).
Se f(x)=^x, la derivata di x è 1 ; e quindi
df=^dx=^l. Ax = Ax,
cioè il differenziale di x è uguale all'incremento di x.
DERIVATE, DIFFERENZIALI 177
Si potrà COSÌ scrivere in generale:
df^=^ f {x) dx,
cioè il differenziale della funzione f (x) è uguale alla sua deri-
vata moltiplicata per il differenziale della variabile indipen-
dente X.
Se ne deduce f (x) = -7^ ,
dx
cioè la derivata di una funzione f (x) è uguale al rapporto
tra il differenziale della funzione e quello della variabile
indipendente x.
§ 54. — Metodi abbreviati di esposizione.
In molti trattati (specialmente di scienze applicate) si scrive
spesso df Sii posto di àf Rigorosamente ciò è lecito, soltanto se
df=àf cioè (§ 53, pag. 176) se la curva coincide con la sua
tangente, ossia è una retta ed fé quindi una funzione lineare di r.
Il sostituire dfsi Af equivale così a sostituire nell'intervallo
(x, x-hdx) alla curva y=:zf{x) la sua tangente nel suo punto
di ascissa x, ossia a considerare la fix) come una funzione
lineare mx + n della x in tale intervallo, in altre parole a
considerare in un tale intervallo f' ix) come una costante m.
Il sostituire df a, Af equivale a trascurare un infinitesimo
di ordine superiore rispetto a dx: e già abbiamo detto che in
qualche studio il trascurare siffatti infinitesimi non conduce ad
errori.
Il procedere in questo modo permette di esporre molti ragio-
namenti in modo specialmente semplice e rapido; così si può
procedere senza tema d'errori, quando si riguardino tali esposi-
zioni soltanto come procedimenti abbreviati, che hanno signi-
ficato logico solo quando si può dar loro quella forma precisa,
a cui conducono le nostre definizioni.
Il modo più semplice di chiarire questi metodi abbreviati di
locuzione sarà quello di trattare con essi alcuni degli esempi svolti
ai §§ 47, 49. Sia (§ 47, pag. 158), p. es., ?/ = f{x) lo spazio
percorso da un punto mobile all'istante x. Se ne determini la
velocità F(x) allo stesso istante. Nell'intervallo infinitesimo
{x, x-{-dx) si ^uò 'Considerare come costante la velocità F (x)
cosicché lo spazio f(x-h dx) — f(x)-= df percorso in detto in-
tervallo sarà uguale al prodotto F (x) dx della velocità F (x)
12 — G. FuBiNi, Analigi matematica.
178 CAPITOLO Vili — § 54-55
per il tempo a. impiegato a percorrerlo; cosicché f^ = i.(.),
ossia la velocità F {x) vale la derivata di f(x). ^
A chi volesse considerare questo procedimento come un ragio-
namento vero e proprio, si obietterebbe che due sono gli errori
commessi :
a) quello di considerare F {x) costante nell'intervallo
{x, X -4- dx) ;
^) quello di porre f{x-\- dx) — f^x) = df, anziché
^ f{xA-dx) — f{x)~^f•
ossia di confondere il differenziale df con l'incremento A/I
Il ragionamento rigoroso fatto al § 47 dimostra che questi
due errori si compensano, almeno nel caso che F {x) sia fun-
zione continua. Si noti che considerare F{x) come costante, o
supporre ^fz=df equivale a scambiare la curva 7j := f(x) con
la sua tangente nel punto x ; cosicché in quanto precede si è
scambiata due volte la curva con la sua tangente : ciò che
rende intuitivo il perchè i due errori si siano compensati.
Es. Sia A{x) l'area del rettangoloide racchiuso dalla curva
y = f(x)[f{x)-^Ol
dall'ordinata di ascissa a, dall'ordinata variabile di ascissa x,
e dall'asse delle x.
Si voglia trovare A' (x) = — ;— •
dx
Nell'intervallo infinitesimo {x, x 4- dx) la f'ix) si può consi-
derare come costante ; cosicché Vincremento
dA =■ A{x -{- dx) — .4 {x),
che riceve l'area A nel passare dall'ordinata di ascissa x all'or-
dinata di ascissa x -+- dx, si può considerare come un rettan-
golo di base dx ed altezza f{x). È quindi
dA
dA = f{x) dx, A' (x) = -r- = f{x).
ax
Valgono anche per questo esempio osservazioni analoghe a
quelle fatte per il precedente.
§ 55. — Derivazione di una somma.
a) La funzione f{x) sia uguale alla somma
?1 (X) -+- Cp, (x) -h -f- ^n (X)
delle n funzioni cp,, che supponiamo derivabili.
DERIVATE, DIFFERENZIALI 179
Cerchiamo la derivata della f{x). Supporremo n^==^2. La
dimostrazione vale però affatto analoga in generale.
Si ha per definizione
A = 0 h ft = 0 ( Il
h^o\ h h ^ )
Donde :
La derivata della somma di due o più funzioni, che pos-
seggono derivata (finita), esiste ed è uguale alla somma delle
derivate di queste funzioni.
Questo teorema vale anche per funzioni complesse (cfr. § 50).
P) Oss. l^ Un caso particolare del precedente teorema è
evidentemente il seguente :
Le derivate di y = ^ (x) e dì y =^ (f> (x) -f- cost. sono uguali
(poiché la derivata di ?/ == cost. è nulla) (naturalmente, se esistono).
Si propone al lettore di illustrare geometricamente questo
teorem^fe, osservando che dalla curva y = f{x) si passa alla
y =^ f(x) -h cost. mediante una traslazione.
Nel caso che y sia lo spazio percorso da un punto mobile
all'istante x, quale significato assume quest'osservazione ?
Oss. 2"". Un teorema affatto analogo al precedente vale per
la differenza di due funzioni ; in particolare la derivata di — fix)
è - f ix).
§ 56. — Derivata del prodotto di due o più funzioni.
Siano ^ (x) e ^ (x) due funzioni derivabili (e quindi continue).
Vogliamo trovare la derivata della funzione prodotto
f{x) = :p(x)^(x).
Essa sarà uguale al limite per /i = 0 del rapporto incrementale
f(x -f- h) — fjx) cp (x -+- h) <^ (x -h h) — y jx) ^ (x) ^
h ~ h ~"
180 CAPITOLO Vili — § 56
Aggiungendo e togliendo al numeratore cp (x) ^ {x -^ h), tale
rapporto diventa
<^{x-hh)^{x-\-h) — ^{x)^{x-hh) -h'^{x)^(x -i-h) — ^{x)^(x)
_
che si può scrivere sotto la forma :
Il primo addendo è il prodotto di due fattori. Per lì = 0,
il primo fattore tende a ^ (x), perchè ^ (x) è funzione continua ; il
secondo è il rapporto incrementale della funzione cp {x), e quindi
il suo limite per /^ = 0 è la derivata ^' (x) (che per ipotesi
esiste ed è finita). Dunque il limite del primo addendo è
^ (a;) 9' (x). Analogamente si trova che il limite del secondo
addendo è cp (x) ^' (x). Cosicché il limite di tutta l'espressione,
cioè la derivata della funzione fix), sarà
f (x) — cp' (x) ^{x)'-\-^ (x) ^' (x) ;
da cui il
Teorema. La derivata della funzione f (x) prodotto di due
•altre funzioni 9 (x) e cj^ (x) che hanno la derivata finita, esiste
e si ottiene moltiplicando la funzione '^ (x) per la derivata
della funzione cp (x), poi moltiplicando cp (x) per la derivata
della funzione ^ (x) e sommando i prodotti così ottenuti.
Se uno dei fattori è costante, se p. es. cp (a;) = m. essendo m
una costante qualsiasi, allora cp'(x) = 0 ; e la derivata ài m^ {x),
si riconosce uguale a m ^' {x).
Cioè : la derivata del prodotto m cj^ (r) {ni = cost.) è m ^' {x).
Questo teorema vale anche per funzioni complesse.
Osservazione.
Se f{x)^=^^i(x)^2{x)^z{.x), dove cpi, cp,, cpg sono funzioni
derivabili, si ha :
f{x)z=z^ {x) cp3 {x) dove si è posto ^ {x) = 9i {x) cps {x).
Quindi :
4^' {x) = cp'i {x\ cp, {x) -f- cpi {x) cp'2 {x)
f {x) = ^' {x) cp3 {x) H- 4> {x) ^'3 {x).
DERIVATE, DIFFERENZIALI 181
Sostituendo a ^ (x), ^' (x) i valori dedotti dalle precedenti
formole, si ha infine :
f' (x) = cp'i (x) cp^ (x) cp3 (x) H- cpi (x) cp'2 (^) Ts (^) + Ti (^) 92 fo) cp'3 (^).
Studiando in modo simile i prodotti di n funzioni derivabili,
si ha :
La derivata del prodotto di n funzioni derivabili esiste ed
è la somma degli n prodotti ottenuti moltiplicando la derivata
di uno dei fattori per gli altri n — 1 fattori.
Questo teorema vale anche per funzioni complesse.
§ 57. — Derivata del quoziente di due funzioni.
Ora cerchiamo la derivata di ^ = . , supponendo che
^ (x) sia una funzione differente da zero avente derivata finita.
Avremo
1 1
,. ^{x-h h) 4^ (x) ,. ^{x) — ^{x -h h)
y = lim = lim ,.,.,,.,. =
^.==0 h /i = o li^{x)^{x -\-ìi)
— l ^{x-^li) — ^{x)
= lim , , , , ^TT '
A = 0 4; (.9;) cp (x -\- il) h
che è il limite del prodotto di due fattori.
La ^ (x) è continua, perchè la sua derivata esiste (ed è finita) ;
quindi ^ (x~\- li) tende a ^ {x) per /i = 0, e perciò ^ {x) ^ (x-^ h)
tende a [^ {x)f ; dunque il limite del primo fattore è — r. . .-.o *
Il secondo fattore è il rapporto incrementale della funzione
^ (x) e il suo limite per A = 0 è la derivata ^' (x) (che esiste
ed è finita) ; quindi :
cioè per derivare la funzione -r^-^ si divide la derivata della
' 4>(x)
funzione ^ (x) per il quadrato della funzione stessa e si cambia
segno al qtioziente.
182 CAPITOLO Vili — § 57-58
Ora, per il teorema sulla derivazione del prodotto di due fun-
zioni, se f{x) e ^ (x) sono due funzioni continue aventi derivata
f(x) 1
finita, se ^ (x) 4- 0, e si pone y = rT~\ ^^ fi^) T~r~: ? si ha :
ossia
^~ [^ix)Y
cioè si ha il
. f (x) .
Teorema. La derivata del quoziente . . . di due funzioni
continue (^ (x) =N 0) che hanno derivata finita è una frazione
il cui denominatore è il quadrato della funzione denominatore
4> (x), e il cui numeratore si ottiene sottraendo dal prodotto
della derivata f'(x) del numeratore f(x) per il denominatore
^ (x) il prodotto della derivata ^' (x) del denominatore per il
numeratore f(x).
Questo teorema vale anche per funzioni complesse.
Esempi.
, . ,. sen X , cos^ a; -4- sen^ rr . ,
1 La derivata di tg a; = — — e ^ , cioè
^ cos X COS"^ X
COS" X
2° Nello stesso modo si prova che la derivata di
cos a:; , 1
cotff X = vale ^— •
sen X sen^ x
Questa formola si può anche dimostrare ricordando che
cotg j; = , e usando poi del primo risultato di questo paragrafo.
tgx
§ 58. — Regola di derivazione delle funzioni inverse.
a) Tra le due variabili a; ed ?/ esista una corrispondenza
biunivoca, in guisa cioè che ad ogni valore della x in un certo
intervallo a corrisponda uno ed un solo valore della y di un
certo altro intervallo P, e viceversa. Vale a dire la y si possa
considerare come funzione f{x) della x (per x appartenente
all'intervallo a) e viceversa la x si possa considerare come fun-
DERIVATE, DIFFERENZIALI 183
zione cp {y) della y (per y appartenente all'intervallo P). In altre
parole in tali intervalli le
y = f{x) , x = (p(y)
definiscano una stessa curva. Queste funzioni si diranno inverse
runa dell'altra. Così, p. es., avviene della coppia di funzioni
y = Ioga ^ , X = a^ (a > 0 ; a =^ 1 )
[intervallo a = (0, 4- oo )] [intervallo P = ( — oo , -h qo )]
y nz: ^x x^==-y^ (n intero positivo dispari)
[intervallo a = ( — ao , -f- oo )] [intervallo P = ( — qo , + co )]
y = ^J X X = y'^ (n intero positivo pari)
[intervallo a = (0, oo )] [intervallo p 1= (O, -f- oo )].
(In questi intervalli si debbono trascurare gli estremi, eccetto
l'estremo 0 dell'ultimo esempio).
Nell'ultimo esempio si suppone a; > 0, affinchè il simbolo
'\/ X non sia privo di significato ; e si suppone y = i/x > 0,
perchè altrimenti a un valore della x corrisponderebbero due
valori distinti per la y.
Supposte continue entrambe le f{x)^ ^iy), e supposto che
f {x) esista e sia differente da zero, si vuol calcolare 9' {y).
Evidentemente per ipotesi l'incremento ^ x dato alla x indi-
vidua l'incremento Ay dato alla y ] e viceversa. Di più (per
la supposta continuità delle f, ^) gli incrementi Aa;, At/ tendono
contemporaneamente a zero (^''). Ora :
>, . ,. Arr ,. 1 1
cp {y) = hm -r — r= lim — 7 — - = T —
lim .
Aa; = oA X
Ly
Poiché lim -~ esiste ed è uguale a f {x) -!= 0, se ne deduce :
Cioè, nelle nostre ipotesi, la derivata cp' (y) è il numero
reciproco di f' (x) ; e viceversa. Così, p. es., si verifica, posto
(*) Le ipotesi si possono ridurre. Così, p. es., nel Capitolo dedicato alla teoria
delle funzioni implicite si vedrà che, se yzi=f(x) possiede una derivata f (x) dif-
ferente da zero per a; — a, e se h = f{a). allora esiste una funzione x della y,
uguale 3ià a per y ~h iche ha in tale punto per derivata proprio ,.. . . I, eh
quindi continua per t/ = b e soddisfa alla y=zf{x). Si noti che: Se j è funHone
continua della x nell'intervallo oc, se essa è sempre crescente 0 sempre decre-
scente, allora la x è funzione continua della y nell'intervallo [■> corrispondente.
e e
184
CAPITOLO Vili — § 58
y ^= Ioga X, X ^ cC\ che le due derivate y\ = — log,, e e
Xy = a}' loge a sono reciproche, perchè cu' = x, ioga e loge a = 1.
Esercizi.
1*" Si derivi y = i/~x.
RlS. Si ha^=:y', :r; = n?/"-\ y\= -j = -—^-^
1
tz i7x
(^^^j) , cosicché la derivata di y = x' vale :
1 ^ ~^
^' = — a:'' (^=#0).
7^
2" Si derivi y — x^ '
1
Ris. E ?/ = ( ir j, dondei/'=:w( ^ j — x =
»ji — 1
— X
ti
3' Si derivi y
X
Ris. E ^ = -^ , donde ?/ = — ^
— 1 m
m
a;
a:;
r^
ce
X
4° (Da tutte queste forinole si trae che) la derivata di
y z=z x"^ per ogni valore razionale di n vale y =.nx'^~^ . Piìi
avanti estenderemo questa importante formola anche al caso di
n irrazionale. (Il lettore esamini il caso x^ 0).
p) Sia y = sen x. La curva immagine è la cosidetta sinu-
soide. Se ne ricava che x = arcsen ?/ (a; = arco, che ha il seno
uguale ad y). Osserviamo però che, dato il valore y {\y\^l)
del seno, l'arco x corrispondente non è univocamente determinato,
ma ha infiniti valori, come è ben noto, e come si può verificare
dalla figura 21. Questa rende ben evidente che, p. es., al valore
?/ = — del seno corrispondono infiniti valori dell'arco x. La
DERIVATE, DIFFERENZIALI 185
corrispondenza si rende biunivoca, se noi ci limitiamo a consi-
derare, p. es., i valori della x compresi tra ^ ^' V ^^ ^^"^
valore possibile y di sen x (cioè ad ogni valore y dell'intervallo
[ — 1, -h l] corrisponderà allora un solo valore di ^ ; e vice-
versa. Sarà allora
, ,,,111 1 1
^ ^ = (arcsen y) „
y\ (sena?)',, cosa; i/l— sen'a; Vl^^^
per 1^1=^1.
L'ambiguità di segno dovuta al radicale Vi — ^/^ è dovuta
all'arbitrarietà con cui possiamo scegliere l'arco di sinusoide
che rende biunivoca la corrispondenza tra x^y. Se adottiamo
la convenzione fatta più sopra, siccome \/\ — y^ è scritto al
posto cos X, e cos x per \x\<.— è positivo, si dovrà dare al
radicale il segno -H . Scambiando il significato delle lettere x, y,
si ha: Se ?/ = arcsen x^\y\\<. — , è ?/' = h — •
Y) In modo simile si prova che, se y = arccos x-, e quindi
X = cos y, e se 0 <y <tz, allora y^ = . • Ciò che
Vi — x^
si può controllare, osservando che nelle attuali convenzioni
arccos x H- arcsen a; = — == cost. e quindi arccos x = cost —
— arcsen :r, cosicché arccos x ed arcsen x devono avere deri-
vate uguali e di segno opposto.
B) Vogliamo derivare la funzione y = arctg x inversa della
X = tg ?/. Anche qui, se si vuole rendere determinata la y e biuni-
voca la corrispondenza tra le x, ?/, si deve limitare in qualche modo
la variabilità della ?/, p. es., supponendo t: ^V ^~^ - -^^^
resto le varie possibili determinazioni della y si ottengono aggiun-
gendo a una di esse un multiplo di tc, cioè una costante, e perciò
hanno la stessa derivata. Si ha poi
^"^ Xy / 1 \ 1 -f- tang' y l -^ x^
Vcos^ y)
186 CAPITOLO Vili — § 58-59
Osservazione.
Si può dimostrare direttamente che (arcsen x)'
(arccos x)' ^ = / , (arctg a;)'^. =
1/1=^='
Ris. Dimostriamo, p. es., l'ultima formola. Ricordo clie :
a — B
tg (arctg a — arctg P) = 5 ? ossia :
1 ~\~ ^ p
arctg a — arctg p = arctg 5 •
Se ne deduce:
(arctg x)^ ^=
arctg
,. arctg (x -\- il) — arctg x ,. \ -\- x {x -\- h)
= lim = lim =
ft = o II /i=o h
. 1 arctg ^ . 7 /^
— lim - — —7 — —77 lim --. — , dove k =
h^o 1 -h x{x -\- h) t = o k ' 1 -h a; (a: 4- /^)
Se ne deduce : (arctg x)'» ^= - — ; 2 • 1 ^=
1 + a:"" 1 -h x~
§ 59. — Derivazione delle funzioni di funzioni.
Sia y una funzione di una funzione ^ della x. Sia cioè
Vale a dire, quando la x varia in un certo intervallo, sia
individuato il valore della variabile z ; e questo valore della z
individui alla sua volta il valore di y (§ 29, y. pag. 97).
Supponiamo che esistano le derivate y^ =^ f (^) e z',, := cp' (a:)
della y rispetto alla z, e della z rispetto alla x. Si vuol tro-
vare la derivata y^ della y (considerata come funzione della x)
rispetto alla x.
L'incremento Ax dato alla x individua il corrispondente
incremento A^ ricevuto dalla z ; e questo individua l'incremento
\y della y.
DERIVATE, DIFFERENZIALI 187
Sarà (ricordando che lim A-^ = 0)
, ,. Ay ,. Av A^ ,. A?/ i^z
V a; = lim — ^ =: lim -^ -— 1= hm -f- lim -— =
^a; = oAa; Aa;=aA<2'Arr a« = o A^ ax = o Aa;
= rWT'(^)==^'.^'.. (*)
Cioè : Se y é funzione derivabile della z, e la z è funzione
derivabile della x, la derivata y ^ della y rispetto alla x uguaglia
il prodotto della derivata di y rispetto alla z ^er /a derivata
della z rispetto alla x.
OssERV. Sia 2/ = Z'C^), ^ = cp (a;) ; e tanto la 7j che la z si
possano considerare come funzioni della x. Sarà quindi per
definizione in tale ipotesi
d7j = y^ dr (1) ; dz-= z^dx • (2)
Ma è y^ = 2/'^ -a''^;. Quindi la (1) equivale alla dy = y\ z'^c dx,
che per (2) si può scrivere :
dy=^y\dz, . (3)
Questa formola, vera per definizione se «s- è la variabile
indipendente, é vera dunque anche se z noìi è la variabile
indipendente (ma invece le y, z sono pensate funzioni di i.na
terza variabile x).
Si noti che, per il teorema di derivazione delle funzioni
inverse, essa è vera anche se la stessa y si assume a variabile
indipendente, e si considera z come funzione di y.
In tal caso infatti, essendo y\-=^-j-^ tale formola si riduce
^ y
alla dz = z'y dy.
Applicazione.
Siano X ^= X (0, y =^ y (t) le coordinate di un punto, che al va-
riare della t descrive una curva. Siano x (t), y (t) funzioni con
derivata finita ; e si possa in un certo intorno del punto t =^ oc con-
(*) Questa dimostrazione cessa di essere valida, se per valori di A a; -i- 0 è
A^ = 0. Ma si osservi che Ay = y'z. A^ -f f A^, dove lim f — 0. Quindi in ogni caso
y'^ z=z hm -— = lim y r -: h hm f t- = V .- z -r -
\
188 CAPITOLO Vili — § 59-60
Siderale r) y come funzione di x. Sara ^ ^ = -^ = , ,,. ^^ = '■^tttt-
L'equazione della retta tangente sarà
ossia [y — y (a)] : y (a) = [a; — x (a)] : a;' (a) ; questa equa-
zione si può dimostrare direttamente, anche senza ammettere
chje y si possa considerare come funzione della x, e senza
usare il linguaggio differenziale. L'allievo applichi tale formola
p. es. alla curva x = a cos t, y ^=^ b sen t (che coincide con
2 2
l'ellisse -2-^^-2= 1). (Cfr. Gap. 19, § 117).
oc 0
«
§ 60. — Derivata logaritmica.
Sia ?/ = log /"(a;), dove /"(a;) è una funzione positiva deri-
vabile. Posto ^ = fix), è 7/ = log ^, dove ^ = f{x). Sarà
^ f{x)'
Cioè :
La derivata del logaritmo di una furinone derivabile f (x) > 0
0, come si suol dire, la derivata logaritmica di f (x) si ottiene
dividendo la derivata f'(x) di f (x) j^er la stessa funzione f(x).
Viceversa sia *
y = e^ ''''\ ossia 9 (x) = log y.
Sarà y ^ e^ dove z ^=^ (x); e quindi y^ = ^v'^ z'^ =^ e^ cp' (a;)
ossia y':c = ^ ?' (^)-
('i^e il logaritmo di una funzione è derivabile), la derivata
della funzione è uguale alla derivata del suo logaritmo mol-
tiplicata per la funzione stessa.
Quest'ultimo teorema è spesso molto utile, perchè è talvolta
pili facile derivare il logaritmo di una funzione che la funzione
stessa.
Se ne deduce che la derivata di e'"" vale ce'''. Questa for-
mola vale anche se la costante e è complessa (così che risulta
(*) Cioè si possa considerare t come funzione della x [inversa della x-=^x {t)].
La y sarà funzione di t, funzione della a?, che si considererà come funzione della x.
DERIVATE, DIFFERENZIALI 189
ancora una volta l' opportunità della definizione di Eulero).
Infatti, se
e = a 4- 20
allora
Derivando con le regole abituali si prova facilmente l'asserto.
Esempi.
1^ Si derivi y ^=.x'',
RlS. log y = n log x, (log y)'^ ^=^-, y\^=^x''-^=- nx"'~^.
Jb Jb
Questo risultato fondamentale era stato già da noi dimo-
strato per n razionale (pag. 184 del § 58, eserc. 4"*). Il lettore
esamini il caso di x ^0.
2' Si derivi y — [f{x)f.
f ix)
Rls. log y = n log f {x) ; (log y)'^ = n [log f {x)]^= n 'j-- ,
donde y^ = ny -rrr = >^ Ff (a^)!""^ f {x). Si esamini il caso
^ f{x)
di f{x)^0.
Con altro e più semplice metodo si ponga z^=^f{x). Sarà
y = z'\ z = f{x) donde y. = nz''-'z', = n[f(x)y-'f(x).
Anche questa formola fondamentale ci era già nota per il
caso di n intero positivo (eserc. 2° del § 56, pag. 181).
3*^ Si derivi y — [f{x)Y^''^•
Sì ha log y = ^ (x) log f(x); e perciò
yx = r [t (^) log fix)]'. =r\9 j~ +?' (x) log f(x) j.
Riassunto.
Si possono riassumere così i precedenti risultati:
Teorema.
Se ^ è una funzione della x, che si può calcolare con somme,
sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni, innalzamenti a potenza,
consultazioni di tavole logaritmiche e trigonometriche, altret-
tanto avviene generalmente per y\
190
CAPITOLO Vili — § 60
Il calcolo di y si esegue con le regole riassunte dai quadri
seguenti :
QUADRO DELLE REGOLE DI DEBITAZIONE.
FUNZIONE
2/ = ?(«)±t(a!)
y = f{x),x=z^{y)
y=zf{0),0='^^x)
(1) y = \oge0',i2)y = eT)
y — f{x)'^^''^
DERIVATA
y' ~ o'{x)±.f{x}
y'=zf'(x)'^{x)-\- f{x)Vix)
''(30)
y =
[?(^)P
' - '^' (^)y ix) -^ ^ {x) ^' {x)
f'{x)'r'{y) = l
y'.r = f'{^)?'(x) = y':0'.v
(1)2/'
0' ',{2)y' = e-'z'.T=^y2\T
y = .(x)^ (-) [.y (x) log . (a,-) 4- ^ (^) ^^~]
QUADRO DELLE DERIVATE DELLE FUNZIONI ELEMENTAEL
FUNZIONE
DERIVATA
y = costante
y' = 0
y = X'"
y' = mx"' - ^
y^^Vx
,__ 1
' - 2 l'I
2/ = sen a;
y' = cos X
y = COSX
y' = ^ sen x
y — tang x
,_ 1
^ ~" COS^ X
2/ = cot ic
^ ~~ sen^ X
1
2/ = log ic
1
y — log. X
2/' = -^ log. e .'
y = a''
i
i! sen
j 2/ ~ are X
cos
y =z are tang ic
y' — a^ ]oge a
y' = e-
1
2/-^^!-^.
1
y-x+^
(*) Cioè ^ t= log y.
191
ALTRE DERIVATE NOTEVOLI (a = C08t).
yz= cosi; y'=^0
. X , a
y ~ arctg - ; y — —r-, — 5
-^ ° a' *^ x- + a^
y = arcsen - ; 1/' =r
Va'-.
= a 1^(0?); y' = a'/{x)
y= Vx;
y= Vx]
y =
n "1/ x"-^
1
y=Vf{x)] y'
2 Vx
f (x)
n'Vfixy-^
. 1
y-z=z J/fix); y' = 9 yf(x)^'^^^
§ 61. — Derivate successive.
a) Sia V (x) la velocità di un punto mobile M all'istante x.
Il movimento si dice uniformemente accelerato, se la velocità
riceve incrementi uguali in tempi uguali; e in tal caso il rap-
porto—-' dove àv e l'incremento ricevuto dalla velocita in un
Ax
intervallo di tempo di ampiezza Air, si dice V accelerazione del
movimento.
Nel caso generale tale rapporto assume il nome di acce-
lerazione media nell'intervallo (x, x H- àx) di tempo conside-
rato. E, per ragioni analoghe a quelle svolte negli esempi di
Av
pag. 157 e seg., il suo limite per Ax = 0, ossia 1/ (x) = lim — -
Aa; = oAx
si dice accelerazione all'istante x. L'accelerazione si presenta
così come la derivata della velocità v (x) rispetto al tempo x.
Ora, se y=^f(x) è lo spazio percorso dal nostro punto M
all'istante x, è v (x) = f (x). Quindi l'accelerazione è data
dalla derivata della derivata f {x) di f (x).
P) In generale la derivata della derivata f di una fun-
zione y ^= f {x) si indica con y" 0 con f" (x) e si chiama deri-
vata seconda di y =^ f (x). Questa é una nuova funzione di x,
che a* sua volta può ammettere una derivata che si chiama
derivata terza di ?/ e si indica con y'" 0 con /*'" (x). E così via.
In generale y può ammettere una derivata n'"'^"'^ 0 dell'or-
dine n che si indica con y^ 0 con /'^"^ (x).
La y^ = f (x) si chiama anche prima derivata di y.
Con <f y si indica il prodotto di /"" (x) per dx'^.
Con d''y ^ « " f '^^ {x) » dx"".
Il simbolo d"" y, testé definito, riceve il titolo di differen-
ziale yi"'"'".
192 CAPITOLO Vili — § 61 — DERIVATE, DIFFERENZIALI
Osserviamo che cT y ^^ j/"^ dx" è il differenziale di
quando per un momento si consideri dx come costante (*). Infatti
in questa ipotesi la derivata di d^'' ~ ^-^ y, ossia di y'''' ~ ^^ dx^ ~~ ^
è y^ c?x"~\ e il suo differenziale è y^''^ dx"".
Con queste convenzioni, la derivata y^''^ si può scrivere nella
forma— ^- *
dx
Y) Abbiamo detto (§ 59, pag. 187) che, se y=^f{x), allora
dy = f (x) dx,
anche se x non è la variabile indipendente.
Un teorema analogo non vale per i differenziali di ordine
superiore al primo ; tutte le volte che si introducono nel
calcolo tali differenziali, hìsognai prefissare quale è la variabile
indipendente scelta, e non più mutarla nel resto del calcolo.
Basti ricordare che il differenziale secondo d^ x della varia-
bile indipendente x è nullo, perchè la derivata seconda della x
rispetto alla x è nulla.
Esempio.
Calcolare le derivate successive del polinomio:
p (x) = ao + ai {x — a) -f- 612 (x — a)- -+- -f- On t^ — a)".
Si trova:
p' (x) = ai + 2 ^2 Ct — a) 4- 3 ^3 {x — a)^ -h 4- na« {x — ccT'^
p''{x) — \ 2a-2 4- 3.2 a-, (a; — a) 4- -f- n {n — 1) a^fx — a)"-'
p^^(x)=\^ai-h2.3A (i -H 1)^^+1^ — a) -f-
3.4....(i4-2)a,+ 2(x — a)'-f-....-h(w — 7+l)(n — ^-h2)....na,(a; — a)"
y^-i) (x) = \n — lan-i H- 2.3.4 (n — 1) nà,, (x — a).
^y^^ {x) = \n_an.
E le derivate successive, dalla {n + IT™ in poi, sono nulle.
(*) Cioè si considera dx come indipendente dalla ic, ossia come avente uno
stesso valore in ogni punto x, e perciò come avente derivata nulla rispetto alla x.
193
CAPITOLO IX.
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERITATE
E LORO PRIME APPLICAZIONI
§ 62. — Proprietà fondamentali delle derivate.
Sia f (x) una funzione continua nell'intervallo {a, b). Sia e
un punto interno a tale intervallo.
a) Depin. Si dice che la funzione f (x) è crescente nel punto e,
se esiste un numero positivo k tale che, per ogni numero h
positivo minore di k, valga la:
f(c — h) <f{c) <f{c-i-h).
[Oss. Altri impongono soltanto che
f(c — h)^f(c)^f(c-i-hrì.
Con notazioni analoghe la f (x) si dice decrescente nel punto e,
se: f{c — h> f(c) > f(c-hh),
[Altri impongono soltanto f{c — h) ^ f{c) ^ f{c -h h)^.
Oss. Se nel punto e la funzione riceve il suo massimo o
il suo minimo valore, ivi la funzione non è né crescente né
decrescente (quando però si addotti la nostra prima definizione).
Lemma. Se V (e) esiste ed è positivo, la f (x) é crescente
nel punto e. Se V (e) < 0, la funzione é decrescente nel punto e.
Quindi, se nel punto e la f (x) raggiunge il suo massimo, o il
suo minimo valore, e se V (e) esiste ed è finita, allora V (e) = 0.
Dimostriamo, p. es., la prima parte.
T..uw,r^ r f{c^h) — f{c) .. f{c — h) — f{c)
Poiché /' (e) = lim ' — — = lim — — ,
7i = + o h /i = -l-o — h
dalla f (e) > 0 segue (§ 32, oss. 6, pag. 109) che esiste un
numero k tale che, per 0 <h <k, i rapporti
f{c-\-h) — f{c) f{c — h) — f{c)
h ^ — h
lii — G. Fumxi, Analisi matematica.
194
CAPITOLO IX — § 62
sono positivi (*). Cioè f{c -\-h) — f{c) è positivo ; /"(e — h) — f{()
è negativo: cioè f {e — /^) < f(c) < f{c •+■ h), e. d. d.
P) Il teorema fondamentale del calcolo, di cui, si può dire,
tutti gli altri sono conseguenza, è un teorema intuitivo. Sia
y ^=- f{x) una curva (7
dotata di tangente in
ogni punto interno alFin-
tervallo (a, 6). La sola
ispezione della figura 22
dimostra l'esistenza su C
di un punto (nella figura
quello di ascissa e) in-
terno all'intervallo, in
cui la tangente alla curva
è parallela alla corda
congiungente i punti
della curva di ascissa
a, h. Queste due rette
Fig. 22.
formeranno perciò angoli uguali con l'asse delle x, e avranno
quindi ugual coefficiente angolare; sarà cioè:
f{h) — f{a)
f (e).
Posto h =^ a -\- h, e = a -\- k, i numeri k, h hanno lo
stesso segno, e il valore assoluto di ^ è minore di quello di h.
k
Posto dunque -- = 0. ossia k = h Q, è O<0<1: e la nostra
h ^
formola si scrive: •
f{a-hh)
fio)
h
=zf'(a-hQh), (0<e<l).
Cioè un rapporto incrementale per la funzione f (x) è uguale
alla derivata in un punto intermedio. Al limite (per h = 0) esso
diventa poi proprio la derivata nel punto x =^ a.
Questo importantissimo teorema si deve considerare intuitivo
e in parte a noi già noto anche per le seguenti ragioni.
Noi sappiamo infatti che, se f(x) è lo spazio percorso da
un mobile all'istante j\ allora
fia-hh) — f{a)
h
rappresenta la
(*) Prefissato un f > 0 arbitrario, esiste un h tale che per 0 < ^ < /^ tali
rapporti sono compresi (pag. 107) tra / ' (c) — £ef' (e) -f £ ; cioè [se è stato scelto
^ < r (e)] tra due quantità positive, e quindi sono essi stessi positivi.
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE, ECC. 195
velocità media neirintervallo (a, a -h h), mentre f' (a -f- 0 lì) rap-
presenta la velocità all'istante intermedio a -{- ^h. La formola
precedente dice dunque soltanto che la velocità media in un
certo intervallo di tempo è uguale alla velocità in un qualche
istante intermedio. E ciò è ben chiaro: Se, p. es., un treno
percorre 300 km. in cinque ore, cioè con una velocità media
di 60 km. all'ora, potrà darsi benissimo che in qualche istante
il treno sia fermo, in qualche altro abbia velocità di 80, di
100 km. all'ora; ma esiste certamente almeno un istante del
viaggio, in cui la velocità del treno è proprio uguale alla velo-
cità media di 60 km. all'ora (almeno se ammettiamo che la
velocità varii in modo continuo, cioè sia una funzione continua
del tempo x. La dimostrazione, che daremo, prova però che il
nostro teorema vale anche in casi più generali).
Anzi, se ricordiamo quanto abbiamo detto al § 47, troviamo
che la penultima formola di esso (pag. 158) coincide proprio con
quella che abbiamo ora scritta; appena si pongano a e A: al posto
di a; e di X, e si ricordi che F è uguale alla derivata della f{x).
Si può dire dunque che noi abbiamo enunciato il teorema di
cui qui ci occupiamo, ancora prima di definire la derivata di
una funzione (almeno nel caso particolare che questa deri-
vata sia continua).
Y) Si voglia ora dimostrare il nostro teorema in modo generale
e rigoroso. E cominciamo a supporre f(a) = f{h). In questo
caso la nostra proposizione assume la seguente forma precisa
(teorema di Eolle).
Se f(x) è una funzione continua definita neirintervallo
(a, b) tale che f (a) = f (b), e se possiede derivata (finita) in
tutti i punti interni a questo intervallo, esiste in esso almeno
un punto e, per cui f ' (e) = 0.
Nell'enunciato di questo teorema non si ammette né che /*' (x)
sia continua, né che f (x) esista agli estremi dell'intervallo {a, b).
Si potrebbe anche ammettere che nei punti interni a questo
intervallo la f (x) fosse infinita, purché di segno determinato.
Per il teorema di Weierstrass la f{x) assume almeno in un
punto A di questo intervallo il valore massimo M, e almeno in
un punto B il valore minimo m. Se questi due punti sono en-
trambi agli estremi a, h, allora, siccome f(a)^=f{b), sarà
M=^m. Essendo uguali i valori massimo e minimo della f{x),
la f{x) avrà in tutto l'intervallo valore costante, e quindi in
qualsiasi punto e interno all'intervallo stesso sarà f (e) = 0.
Rimane ora a studiare Taltro caso che la funzione acquisti
196 CAPITOLO IX — § 62
il suo valore massimo o minimo in un punto e interno ad
(a. b)\ ma in tal caso il lemma precedente dimostra che ivi
fio) = 0.
Poiché e è interno ad (a, b), potremo scrivere :
c = a-l-e(& — a) (0 <e<i)
dove 0 è compreso tra 0 ed 1 (i numeri 0 ed 1 esclusi).
Se si pone h =^ a -^ h, sarà e = a 4- 6 /^ O-
Generalizzazioni.
Siano f{x), 9 (.x) due funzioni derivabili nell'intervallo (a, h).
E sia 9(a)=i=9(6); in altre parole la cp (x) assuma valori dif-
ferenti agli estremi dell'intervallo {a, 6).
Costruiamo la funzione
dove k è una costante, che noi sceglieremo in guisa che
F{a) = F{b), ossia che
da cui SI trae k =^ t-— '——- ; tormola che e lecito scrivere,
cp (a) — 9 (ò)
perchè per ipotesi il denominatore 9 (a) — 9 (ò) =# 0.
Quindi la funzione
è una funzione derivabile (perchè f{x) e ^ ix) sono derivabili)
e assume valori uguali per a:; = a e per x ^=^b.
Perciò, per il teorema di RoUe, esiste almeno un punto del-
l'intervallo (a, b) in cui la derivata F' {x) è zero; questo punto
(*) Il teorema può non essere vero se non sono soddisfatte le ipotesi enun-
ciate, cioè se la f{x) ha in qualche punto interno ad (a, b) derivata infinita non
determinata di segno 0 indeterminata.
Il lettore se ne convincerà facilmente pensando a una linea y = f{x) composta
di due segmenti di rette concorrenti in un punto di ascissa e, nel quale la f{x)
raggiunga, p. es., il suo massimo valore; oppure pensando a una linea y = f{x)
composta di due archi di cerchi concorrenti in un punto di ascissa e, nel quale
posseggano una stessa tangente perpendicolare all'asse delle x, nel caso che in
tale punto la y raggiunga, p. es., il suo massimo valore. Nel primo caso la y' non
è per .X = e determinata, nel secondo la y' non è finita. In tali casi, secondo le
nostre convenzioni, noi diciamo che y' non esiste.
Un'osservazione analoga si presenterà nel paragrafo 70, ove studieremo i punti
di massimo 0 di minimo di una funzione f{x).
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE, ECC. 197
sarà un punto
e = a -h 0 (6 — a), (1)
dove 0 <e< 1.
Il punto e soddisferà quindi alla:
J"(c) = 0 ossia r(c)-^{|E{i^'W = 0,
per cui si avrà :
Questa forinola fondamentale costituisce il teorema di Cauchy.
Se 9 (x) = ir, cp' (e) = 1, la (2) diventa
0 — a
e se h=^ a -\r h, diventa
ossia, essendo per (1) c = a-t-dh:
f'ia+^K)^^^''-^^]-^^''^ (3)
lì/
Questa formola costituisce appunto il teorema della media
di Lagrange, da cui siamo partiti, e che nel caso f{a-i-h) = f{a)
si riduce al teorema di Rolle.
§ 63. — Prime applicazioni del teorema della media.
a) Si può dimostrare semplicemente il teorema di Heine (pag. 135) per una fun-
zione f{x) definita in un intervallo {a,h) nel caso che la sua derivata f{x) sia limi-
tata, che cioè esista una costante É tale che \f'{x)\<C,H. Se f > 0 è un numero
arbitrario, sia a un qualsiasi intervallo parziale di ampiezza non superiore ad ^^r .
Siano V,, 72 <lii6 punti di ot, ove la f{x) assume il massimo e il 'minimo dei valori,
che f{x) assume in oc. L'oscillazione /"(y,) — /'(72) di f{x) in oc vale (7, — Vj^ f (v),
dove V è un punto intermedio tra v, e y,. Poiché | -/, — v, I ^ -rr e \ f (y) 1 < H,
tale oscillazione non supera e. e. d. d.
?) La formola f (e) = ^j^}~^!?! T' (e) diventa (se ?' (e) ^= 0)
9 (a) — T (&)
fib)—f{a)^f'{c)
9 (6) — if (a) 9' (e) '
198 CAPITOLO IX — § 63
Se si suppone senz'altro ?' (x) =4= 0 nei punti interni all'intervallo (a, b), allora
non soltanto nel punto (incognito) e sarà f ' (e) =i= 0, ma sarà anche soddisfatta
l'altra ipotesi iniziale » (a) =<= ^ (b). Infatti, se fosse e. (a) == » (h), esisterebbe, per il
teorema di RoUe, almeno un punto x^ interno all'intervallo, ove si avrebbe ^' (a,) = 0.
Se f(a) = cp (a) ^=^ 0, allora, posto ò = a;, e = a?i, se ne deduce:
[a^i appartenente all'intervallo (a, a:)].
Cioè :
8e le funzioni contimie e derivabili f (x), cp (x) sono nulle
per X = a, e nei punti interni alV intervallo (a, x) la cp' (x) è
f (x)
differente da zero, allora il rapporto — r— . é uguale al rapporto
delle derivate prime in un punto Xi interno all'intervallo (a, x).
Al variare della x in un intorno a di a, la Xi percorrerà un
certo insieme y di valori dello stesso intorno (cfr. Nota a pag. 200).
Se esiste il lim , , , , esisterà anche il lim , , \ , e quindi
a; = aCp (a;)' x,-^a^ fe)'
per la (1) esisterà anche il lim ^—r\\ cioè il /miYe t/e^ rapporto
delle f (x), 9 (x) ^er x = a esisterà, e sarà uguale al limite
del rapporto delle loro derivate prime i' (x), «p' (x).
Se anche le derivate prime di /", 9 sono nulle nel punto a,
e se cp" =!» 0 quando x =^ a, potremo, applicando di nuovo lo
stesso teorema, scrivere l'uguaglianza
dove X2 è un punto intermedio tra a tà xi e quindi anche
intermedio tra a ^à x-
Così continuando troviamo infine che, se esistono le derivate
delle f, cp fino a quelle di ordine n -f- 1 , se le f , 9 e le prime
loro n derivate sono nulle per x = a (mentre le 9,9", ,
^(n)^ ^(«+1; ^^^^ differenti da zero per x =¥' a), allora
fix) _r'-^'Hi)
dove E, è un punto intermedio tra a eeZ x.
Se ne deduce una celebre formola dovuta pure a Lagrange con-
servando le ipotesi fatte per f{x) e ponendo cp (x) = (x — a)""^^
col che le ipotesi fatte per cp (x) risultano soddisfatte. Poiché
199
^^'''^^^ (x) =^ \n -\-ì si deduce il seguente teorema d'importanza
fondamentale :
Se f (x) possiede le prime n -f- 1 derivate, e se f (x) insieme
alle prime n derivate è nulla nel punto a, allora
1
dove E, è un punto intermedio tra bì ed x.
Osservazione. Se ne deduce in tal caso
^ ^•(«4-l)(n:= tJ^
\n-hl (x — a)" - ^
Poiché lim %=ia sarà, se f^"+^Ux) è continua nel punto a, e se f(a) =
= f' (a)==...1f(^Ka)=rG:
Questa formola vale anche nella ipotesi che esista la (n 4- i)^sima derivata di
f (x) nel punto a e sia determinata e finita (senza che sia necessario ammetterne
la continuità). Infatti si trova, come sopra,
7 — / _^, = , , } — -, (x, intermedio tra a ed x).
(x — ay-^^ I w_-f-J. (ic, — a) ^ ' ^
Poiché /■("' (a) — 0, sarà, posto x^ — a = h,
f{x) ^ ì_ f(^Ha-^h) — p-Ha)
(^3C — ay-^^'~~\n-\-l h
Da cui, passando al limite per h = 0, si trae subito il teorema enunciato.
1 , f{x)
In particolare, poiché . — — — r è positivo, e poiché - — - — r^^^
n 1 x \X a)
ha, per x abbastanza prossimo ad a, il segno del suo limite
f{x)
per x = a, se ne deduce che, per x prossimo ad a, la - — - — r^^qn
ha il segno di f'''^^^ (a), se questa derivata è determinata e finita
e se f{a) = f {a) = ... = f "^ (^0 = 0.
Posto x^=^ a -h h, si vede che, per h abbastanza piccolo,
nelle nostre ipotesi coincidono i segni di — T^r+l — ® ^i f'^'^^UO,
cioè coincidono i segni di f(a-^h) e di h'"'^^ f'^^^ (a).
Noi abbiamo dato in questo paragrafo un procedimento per
calcolare il limite di un quoziente in qualche caso, in cui non
sono applicabili i teoremi del § 35, pag. 115-116. Ad altri
casi analoghi sono applicabili le seguenti osservazioni.
200 CAPITOLO IX — 8 63
OSSERVAZIONI.
■y (oc)
V Si è dimostrato che se lim f(x) = lim -^ (x) =r 0, e se esiste il lim ì-rr-;!
.'•=(7 .lc= ^ x='tit {•'')
f (x)
esiste anche il lim — — ^ , ed è uguale al precedente (*). Un teorema analogo vale
^ =» ^ » [X)
se lim f(x) = lim f (x) = co . Lasciando ai trattati di calcolo la dimostrazione com-
pleta (piuttosto delicata) di tale teorema, noi la esporremo nell'ipotesi che
lim — — ( esista, sia finito e diverso da zero. Poiché nelle nostre ipotesi è
.'■ = a ? {X)
lim -jr-— = lim — T = 0, sarà lim '-^^ — lim Y ]'"^( = lim
:r=.„ f (or) .r^a ? (ir) .v^„ ^(X)
\W)) '^~\m))
X r=a. a
= iÌM JVtt I —y-i I = l'ni rrr4 1 lim —r4 ' Moltiplicando primo e ultimo
'-' (x) ì^ f (x) f (x)
membro per j lim ■—- si ottiene appunto lim '-^ ~ lim -77-^ •
2» Questi teoremi valgono anche per a— ce, cioè se i termini della frazione
tendono per x = ce entrambi a 0, oppui:^ ad 00. Posto infatti x ^= — , si ha :
, m , fij) , mi , ^(7)(-^) rti) , r.,
lim '-^ — hm -^—{ = lim ^ .V ' ,— lim ' ' . — ~ ~ lim —rri = 1™ 77-I
30 Talvolta con questi teoremi si riesce a calcolare il limite di un prodotto
che si presenta nella forma O.co, ossia il limite del prodotto di due fattori
/ (x), 'i {x) di cui uno tende a zero, l'altro a co . Basterà scrivere il prodotto
f{x)<f(x) nella forma ;-■ — ^y ^ e poi applicare a questi quozienti il
\'r{x)) \fix))
metodo precedente.
4° Si deve talvolta trovare il limite di una potenza, che si presenta nella
forma 1^ , oppure 0°, oppure H-oo», ecc., vale a dire di una potenza, la cui base tende
ad 1, e l'esponente ad oc, oppure di cui base ed esponente tendono entrambi a zero, ecc.
In tal caso si cerca dapprima col metodo dell'esercizio 3° il limite L del loga-
ritmo di una tale potenza. Il limite della potenza sarà e^-.
5" Si deve talvolta cercare il limite di una differenza f(x) — * (ic), che si
presenta nella forma co — co, perchè entrambi i termini tendono ad co. In tal caso
si scrive f{x) — ^ (x) nella forma di un prodotto f(x) l — j-~ = ? (x) '—^—1 ,
cercando poi di applicare i metodi precedenti.
(*) Il teor. reciproco non è generalmente vero. Infatti noi abbiamo dimostrato
/ (x) f (x )
che ^-7-T = , . ove x. è un certo punto intermedio tra a ed x. Non è detto però
<r'(x) o{Xi) ' ^
che, al variare di x, la ic, assuma Mti ì valori di un intorno di a e che non ne
salti qualcuno: cosicché studiando i valori di ^— , si studierebbero alcuni, ma non
?{sc)
tutti i valori che il rapporto delle loro derivate assume in un intorno del punto a.
E quindi nulla si può concludere per il limite di tale rapporto senza studi più
minuti.
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE, ECC. 201
'/) Interpolazione.
Capita molte volte di dover trovare un numero - (x) approssimato del valore
che f{x) assume nei punti x di un intervallo (a,ì)), quando si conoscano i valori
f'(a) ed f{h) che la f(x) assume nei punti a, h. Ciò capita in pratica specialmente
per il calcolo delle tunzioni logaritmiche e trigonometriche: così, p. es., se f{x) =
= log X, se dalle tavole logaritmiche sono dati i valori di log 1000 e di log 1001,
e sì deve scrivere un valore approssimato del logaritmo di 1000,5.
La formola, p. es., che si usa, come è ben noto, è la seguente :
. (^) = f (a) -ff-^ [/■(?>)-/(«)]
(dove, nel caso che si ricorra a tavole numeriche, la /"(?>) — f{a) dicesi la differenza
tavolare).
Quale errore si commette usando tale formola, cioè scrivendo ^ {x) al posto
di f{x)?
Si noti che in virtù del teorema della media,
. (X) = f (a) + ^^ [/•(&)- / (a)] = f (a) -^ix-a) f (e) --
= f (^) -+- ^ if («) - f (^)] = f ^^) -^- (^ - ^) /" io)
dove e è un punto intermedio tra a e h. Così pure in virtù del teorema della media
— { _ = f (0? cosicché f{x) = f{a) -\-{x — a) f" (?) ; e similmente
f{x)=f{l) + {X-l)f'{r)
dove l è un punto intermedio tra a ed ic e quindi anche tra a e ?), ed v; è un altro
punto dell'intervallo (a, b).
Quindi l'errore | f {x) — ? (ic) | commesso scrivendo © {x) al posto di f (x)
vale \x — a\\ f (c) — f{^)\ = \x — 'b\\ f (c) — f' (vj) ì. E, se f(x) possiede derivata
seconda, tale ' errore vale \{x — a) (e — ?) f" (?,) \ = \(x — h) (e — v?) /" Ci,) 1
dove, secondo il teorema della media, ?, è intermedio tra ce?, mentre /;, è inter-
medio tra e ed n. Cosicché ?, ed >?, sono punti di («, h). Se dunque ì /'" (x) \ in (a, h)
non supera la costante Jf, allora, poiché |c — ?!<|?> — aje|(c— ';)i<I?) — a|,
tale errore non supererà \(x — a) (h — a) M\, r\è \(x — h) (h — a) M \ e quindi
neanche il più piccolo di questi due, che è certo non superiore a —^ (h — af M.
Il lettore appHchi questo risultato alle usuali tavole logaritmiche.
Oss. Si noti che, sostituendo la y (ic) alla f{x), si è sostituito alla f{x) un
polinomio di primo grado che in due punti (nei punti x — a, x = h) assume lo
stesso valore di fioc). Si potrebbe generalizzare il metodo, sostituendo, p. es., ad / {x)
un polinomio di grado n — 1, che in n punti assumesse lo stesso valore che la f{x).
Per la determinazione di tale polinomio cfr. i §§ 14 pag. 49, 27 pag. 90.
l) Criterio di convergenza di Cauchy.
Sia / (a?) una funzione definita nell'intervallo (1, -+- od), che ha la derivata f {x)
sempre positiva ; al crescere di ic la /' {x) diminuisca. Se a, h sono due valori di x,
se a < 1), allora - — , _ — ~ é uguale al valore di /" {x) in un punto dell'intervallo.
(a,?)); tale frazione è dunque positiva minore di/' (a), maggiore di f (b). In par-
ticolare f{h) — f(a) è positivo, f(b)yf'(a). Cosicché f{x) cresce quando cresce
il valore dato ad x, e tende quindi a un limite per ìp = +oo. Di più, ponendo
a = m, b = )n -j- 1, oppure a — m — 1, l> — w, si trova:
f(m + 1) - f(m) < /" (m) < /(m) - f{m - 1).
Scrivendo queste disuguaglianze per m ~ 2,3,4, , n, e sommando si trova :
f{n -f- 1) ~f(2) < /' (2) 4- /' (3) + + / ' (w)< f(n) - f (1).
202 CAPITOLO IX — 8 63
Quindi la serie
r(i)-i-r(2)-+-r(3)-h
converge o diverge secondo che lim f(x) è finito o infinito, perchè la somma
dei suoi primi n termini è compresa tra
f(n + 1) + [f (1) - f (2)1 e fin) + [/' (1) - /XD],
e tende per w = oo a un limite finito soltanto quando altrettanto avviene per
fin), nn + l).
Ponendo / {x) = log x, oppure f(x) --- log log x, oppure / {x) = log log log x
si dimostra subito, p. es., che le serie
+- "i— j ;: H- , ecc.
2 log 2 3 log 3 ' 4 log 4
sono divergenti. Nella seconda si è cominciato dal termine corrispondente ad x — 2
perchè per x = l la /' {x) = log log x non ha derivata finita.
s) Funzioni a derivata nulla.
Ricordiamo il teorema :
Una funzione costante ha derivata identicamente nulla.
Dimostriamo il teorema reciproco, d'importanza fondamen-
tale : Una funzione f (x), la cui derivata è identicamente nulla,
è costante.
Infatti siano a e h =^ a -^ h due punti qualsiasi dell'inter-
vallo, ove la fix) è definita. Per il teorema della media di
Lagrange, il rapporto
nb)-f{a)
b — a
è uguale alla derivata f (x) in un punto intermedio, ed è quindi
nullo, perchè f (x) è nulla dappertutto. Il suo numeratore è
quindi nullo; cioè f (a) =^ f (b). La funzione f(x), riprendendo
lo stesso valore in due punti qualsiasi a, b, è quindi una
costante. e. d. d.
Questo teorema è geometricamente intuitivo. Dire ch^ f (x)
è sempre nullo è asserire chele tangenti alla curva ?/ = f(x)
sono tutte parallele all'asse delle x. Dire che fix) è costante
equivale ad asserire che la curva y =^ f{x) è una retta o un
segmento, i cui punti distano ugualmente dall'asse delle x, ossia
che tale curva è un segmento parallelo all'asse delle x. Il teo-
rema geometricamente significa dunque :
, Se le tangenti della curva y r=: f (x) sono tutte parallele
all'asse delle x, tale curva è una retta o un segmento paral-
lelo alVasse delle x.
Meccanicamente questo teorema è pure evidente, e ci dice
che uìi punto il quale si muove su una retta (ed ha all'istante
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE, ECC. 203
X una distanza y = f{x) da un punto fisso M della rete stessa)
ed ha la velocità f ' (x) sempre nulla, sta fermo (perchè resta
ad una distanza y costante dal punto M). Ciò non è una os-
servazione banale ; essa è piuttosto un*osservazione che conferma
l'accordo tra l'idea intuitiva di velocità e la definizione mate-
matica da noi datane.
Se due funzioni f{x),<:pix) hanno in ogni punto di un certo
intervallo ugual derivata finita, esse differiscono in esso di una
costante. La loro differenza ha infatti per derivata la differenza
delle derivate che è nulla, ed è quindi 'costante (Cfr. § 74, y).
§ 64. — Radici multiple di un'equazione.
Sia a una radice dell'equazione algebrica, o non algebrica
f(x)^=0. Nei casi più comuni esiste una costante positiva h
tale che f(x) sia infinitesimo di ordine h rispetto ad x — a,
f{x)
ossia che, posto 7— -j, = 9 {x), la 9 {x) abbia per .r = a
[x — a)
un limite, che indicheremo con 9 (a), finito e diverso da zero.
In tal caso diremo che x^= a k una radice di ordine h per
l'equazione f{x) = 0.
Se /^ == 1. la radice si dirà semplice: se /t > 1 è un intero
positivo, la radice a si dirà multipla.
>S^e h> 1, se f(x) e <p (x) sono derivabili anche nel punto
X :=: a (*), dalla f{x) =^ (x — af cp (x) si deduce deprivando che
f (x) = {x — af - ' e W dove 9 (x*) = h 9 (x) -h (x — a) 9' (x)
ha per x = a un limite finito e diverso da zero. Quindi :
Nelle nostre ipotesi per la f (x), una radice di ordine h > 1
per la equazione f (x) = 0 è radice di ordine h — 1 per
V equazione i' (x) = 0.
Viceversa, se a é radice della f (x) = 0, ed è anche radice
di ordine h — 1 > 0 per la f' (x), sarà:
fjx) ^f{x)-f{a)^ f'{x,)
{x — af {x — af h {xr — af-^
(dove Xi è un punto intermedio tra a ed x).
Per ipotesi esiste il limite per 0:1 = a del terzo membro
(finito e diverso da zero). Altrettanto avverrà del primo; cioè
f{x) = 0 avrà a come radice di ordine h.
(*) La o [x) vale per definizione r-^-^^ — -? per a? 4= a, e vale lim j-^ r^^ nel
punto x^=a. L'ipotesi del testo è soddisfatta se p. es. f {x) è razionale, oppure
è una serie di potenze.
204 CAPITOLO IX — § 64
In particolare:
Condizione necessaria e sufficiente affì))cM a sia radice
della f (x) = 0 di ordine maggiore di 1 è che a sia radice
della f (x) = 0, e sia radice (di ordine positivo) della f' (x) = 0.
Questo teorema ha particolare importanza nel caso dei poli-
nomi P {x). Se P(x) =:: «0 (a; — ai) {x — «2) (x — aj, uno
dei numeri ai, a^^ ...., a,,, p. es. «i, sarà radice della P(:z?) = 0 di
ordine h, soltanto se /i è un intero. positivo, e se tra i numeii
ai, a2, , a„ ve ne sono li uguali ad aj. Il fattore corrispondente
X — cLi compare h — 1 volte in P' {x), h — 2 volte in P" (x), ,
una volta in P^^~^Hx), nessuna volta in P^^^(x). È facile dedurne:
Condizione necessaria e sufficiente affinchè ai sia radice di
ordine h per un'equazione algebrica p{x)=^0 è che /i sia un
intero, e che ai sia radice delle P(x):=^o, p'(x)=^o,
p<''-i)(^)zzzo e non sia radice della P^^'^ix) = o.
Questo ultimo teorema vale anche se ai è un numero com-
plesso ed anche se i coefficienti di P{x) sono complessi.
Se ne deduce anche:
Il massimo comun divisore di P (x) e P'(x) contiene tutti e soli
i fattori multipli del polinomio P (x) ; e precisamente contiene
h — 1 volte un fattore multiplo di ordine h. Se Q (x) è il quoziente
di P (x) per tale massimo comun divisore, V equazione Q (x) = 0
ha per radici semplici tutte e sole le radici di P (x) = 0.
Si può, del resto, dedurre da quanto precede un metodo più completo per
approfondire l'esame di una equazione algebrica dotata di radici multiple. E noi,
per semplicità, lo esporremo in un caso particolare.
Consideriamo un'equazione dotata di radici multiple, p. es., la :
Il massimo comune divisore » {z) tra la f{z) e la sua prima derivata /' {z) è:
. {z) =={z-c) (z - d) (z - ef {z - f)\
Del pari il massimo comune divisore tra ^(z) e o' (z) è: ,
.^i^) = (^0-e){z-f)\
Così il massimo comune divisore tra »,(^) e f\{z) è:
?2{^) = {^-f);
infine il M. C. D. tra »2 (^) ^ 'i % (^) è :
Ciò posto, si formino i quozienti:
^ (^)^/M=:,(^_flf) (^_5) (^_c) (^_d) (^_e)(^-/);
^^{^-^'7^.-^ir.-c){z-d){z-e) {z-n-
^^'^^^->3(.)
TEOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE, ECC. 205
Indi si for
mino i
quozienti :
X{z) =
= {z-a) (z-
-?>);■
X,{z) =
--(z
-c){z-
-d);
XM^.-
= z — e;
X,{^) =
1
- z-
-/.
Uguagliando a zero questi quattro quozienti si hanno quattro equazioni : la
prima ha per radici le radici semplici della proposta f{z) = 0, la seconda ha per
radici le radici doppie, la terza ha per radici le triple e la quarta ha per radici le
radici quadruple di f(z), ma tutte come radici semplici.
Il metodo qui applicato vale in generale; e, generalmente, si ottiene il risul-
tato seguente.
Sia data un'equazione intera ad un'incognita :
f{z) = rt„ z" -h a, ^«-^ -h -^ an-ìZ-\-an~ 0.
Della f{z) e della sua prima derivata f'{z) si calcoli il massimo comune divi-
sore; indi di questo e della sua prima derivata si calcoli M. C. D. e così si pro-
segua fino ad ottenere una costante. Ciò fatto si divida f{z) per il primo massimo
comune divisore trovato, indi si divida questo primo M. C. D. per il secondo mas-
simo comune divisore e così via fino a dividere il penultimo M. C. D. trovato per
l'ultimo. Finalmente si divida il primo quoziente per il secondo, il secondo per il
terzo e così via fino a dividere l'ultimo per l'unità. I quozienti ottenuti uguagliati
a zero avranno per radici le radici semplici, doppie, ecc. dell'equazione data, tutte
come radici semplici.
Esempio.
Consideriamo l'equazione :
f{z) = z' ~ z' — 1 z' -^d z^ -h 10 z"" — 20 z -h S = 0.
Cercando il massimo comune divisore tra f{z) ed f (z) = 6 z-' — 5 ^* — 28 z^ 4-
-h 27 ;?2 -h 20 z — 20, si trova :
■j{;z) = z-' — 3z-h 2.
Ora v'(^r)zzz3^>-2, il M. C. D. tra -/(z) e r (^) è:
f,(z) = z — l
e il M. C. D. tra -^^iz) e f\{z) è:
Ora, dividendo ciascuna delle funzioni f(z), ? {z), v, {z) per la seguente, si
hanno le funzioni :
Infine eseguendo le divisioni -P {z) l 'i-, {z); i, (z) l ^^ i^)ì 'h {^) • 1 si ottengono
rispettivamente i quozienti :
z — 2, z-{-2, z — 1,
i quali, posti uguali a zero, danno le equazioni :
5-2-0, ^-h2 = 0, 5 — 1 = 0,
che hanno per radici rispettivamente le radici semplici, doppie, triple della proposta
(ma tutte come semplici). Dunque l'equazione proposta ha una radice semplice 2,
una radice doppia — 2, una radice tripla 1.
Osservazione. — L'equazione f(z) = 0 avrà radici tutte semplici, soltanto se
il primo massimo comun divisore (quello tra f{z) e f'{z)) è una costante: questa
osservazione dà, come già dicemmo, il più semplice modo per riconoscere se una
equazione ha radici multiple, senza ricorrere al discriminante.
206 CAPITOLO IX — § 64-65 — TEOREMI FONDAMENTALI, ECC.
Esercizi.
1» Riconoscere coi metodi precedenti se e quando avviene che una delle
seguenti equazioni ha una radice doppia, o tripla, o ecc.
x'^ -i- tti x^ -h a^ X -h a^ = 0
x^-hp x^ + qx-hr = 0
cosic — p — 0
e^ — p = 0
\ogx — p = 0
dove le ai, p, q, r sono costanti.
2° Risolvere le seguenti equazioni, tutte dotate di radici multiple.
x' -j- 'òx' + 5 x'^-i-lx^-^- 1 x^-h 0X^-^3 x-\-i — 0
(radici ±: i doppie e — 1 tripla) ;
a-* — 2 ic' — 3 icM- 4 ic + 4 = 0
(radici 2 e — 1 doppie).
§ 65. — Derivazione per serie.
Teor. Se la serie
(1) Ui (x) -\- U2 (x) -h
è convergente nell'intervallo a ^ x ^ b, se esiste la derivata di
ogni suo termine, se la serie delle derivate
(2) ii\ {x) -4- U2 (x) -h u\ (x) -h
è totalmente convergente in (a, b), allora (2) rappresenta pro-
prio la derivata di (1). Cioè la derivata di (1) si può ottenere
derivando termine a termine.
Sia Ln il limite superiore dei valori di | Un {x) \ . Per ipotesi
la serie Li -h L2 -f- L3 -4- è convergente. Consideriamo i
valori assoluti dei rapporti incrementali
(3) ^-
quando x ^à. x -\- h variano nell'intervallo {a, b). Per il teorema
della media, la quantità (3) vale \un{x -h Bh) \^ Ln- Quindi
(3) non può superare Ln. E quindi la serie
. ,. Uiix -h h) — Ui (x) U2 (x -\- h) — U2 {x)
(4) ^ __H _ + ^
Uz {x -\- h) — u^ {x)
h
è totalmente convergente. Il suo limite per /i = 0 è dunque
uguale alla serie ottenuta passando al limite termine a termine.
Perciò il limite di (4) per /i = 0 vale
(2) 111 (x) -h U2 (x) -f- U^ (x) -h . . ...
^ /^^^ ^w-.^ 1 /..^ 1 U{x-^h) — u(x)
Ora, se u {x) e la somma di (1), la (4) vale
T^ 1 • /c.^ > -1 1- uix-^-h) Uix) , . . ,. .
Dunque la sene (2) e il lim ~ cioè vale u (x).
h = o ri
CAPITOLO X.
SERIE DI POTENZE
207
§ 66. — Cerchio di convergenza.
Diciamo serie di potente una serie del tipo
(1) (Co -h fiiX -^ Ciò x^ -h (h x^ -+- -H ctn x"" H-
dove le an sono costanti, x si considera variabile.
Non escludiamo che le a, x possano anche essere numeri
complessi. Tali serie sono la pili naturale generalizzazione dei
polinomi.
Teor. Se (1) converge per x = a #= 0, e se P è un numero
positivo minore di |a|, allora la serie (1) converge totalmente
nel campo definito dalla :
Se (1) non converge per x = A, essa non può convergere per
nessun valore di x, di modulo superiore ad A.
Dm. Se (1) converge per a:: = a, allora (§42, £, pag. 142)
lim I ttn a*' I = 0.
Si potrà trovare un numero positivo k maggiore di tutte
le I «n a" I (*). Ora per 1 a; | ^ P si ha
a,, a;" I = I <'n «" ^n
= <U a'
OC
p
p
Poiché — < 1, i termini di (1) hanno nel campo | a; 1 1^ ^
I
dei valori, il cui limite superiore non può superare rispettiva-
S
mente k, k — , k ~ , ; le quali costanti non sono che i
(*) Infatti, preso un numero f > 0 ad arbitrio, si troverà un m tale che per
« > m sia I ttn ac' 1 < £. Sarà soddisfatta la condizione del testo, se si assume
come numero li un numero maggiore della più grande tra le seguenti quantità :
I ao 1 , 1 a, a I , I «2 «M > , I o.ra a'" \ , e.
208 CAPITOLO X — § 66
termini di una progressione geometrica convergente. Quindi è
dimostrata la prima parte del teorema.
E la seconda parte se ne deduce immediatamente. Se in-
fatti (1) convergesse per un valore in modulo più grande
di A, allora (1) sarebbe assolutamente convergente per x^=^A
(secondo quanto abbiamo ora dimostrato). Ciò che è contro
l'ipotesi.
Sia R il limite superiore dei moduli di quei valori di x per
cui la serie (1) converge. Sarà R = 0 soltanto se (1) converge
solo per il valore x = 0. Sarà JS=qo se esistono valori della
X di modulo grande a piacere, per cui la (1) converge.
Supponiamo jK =f- 0, qo .
Sia k un qualsiasi numero positivo minore di R. Esisterà
un valore Xq di x tale che k < \xo\ , che \xo\ < R, e che per
;r = a;o la (1) sia convergente. Per il nostro teorema la serie
sarà totalmente convergente nel campo definito dalla \x\ ^ k.
. In modo analogo si prova che per un valore Xi della x
tale che \xi\> R la serie (1) non converge.
Osserviamo che il luogo dei punti x per cui \x\i^k k un
cerchio che ha per centro Torigine e per raggio k.
Riassumendo, concludiamo :
Per ogni serie (1) esiste un numero positivo E. tale che,
se X varia dentro un qualsiasi cerchio, che ha per centro l'ori-
gine e per raggio un numero k minore di R, ivi la, serie è
totalmente convergente
Invece la (1) non può convergere per i valori di x tali che
il punto immagine sia esterno al cerchio che ha per centro
V origine e raggio R.
Questo cerchio (che ha per centro l'origine e per raggio R)
si dirà il cerchio di convergenza di (1).
Nei punti interni la (1) converge, nei punti esterni non
converge.
Naturalmente, se i^ = 0, non si può parlare di cerchi in-
terni al cerchio di convergenza (clie è ridotto al solo centro).
E, se i? = 00 , non si può parlare di punti esterni al cerchio
di convergenza. Salvo questa limitazione, il precedente teorema
è vero in ogni caso.
Nìilla si può dire in generale per il comportamento di (1)
sìdla periferia del cerchio di convergenza.
Poiché 2 ^n x"" converge e quindi ha uno e un solo valore
per ogni numero x reale o complesso, interno al cerchio di con-
SERIE DI POTENZE
209
vergenza, noi potremo dire e diremo che, dentro tale cerchio,
tale serie è funzione della variabile x reale o complessa (*).
Poiché le nostre serie sono la più naturale estensione dei
polinomi, la precedente definizione è la più naturale generaliz-
zazione delle definizioni date al § 50, pag. 168.
§ 67. — Derivate di una serie di potenze.
Consideriamo la serie
(2) ai-+-2 a2X-h S a,^ x' -f- ..... -\- n anx''~^ -\- .,
che si deduce derivando (1) termine a termine. Io dico che anche
la (2) converge totalmente in ogni regione tutta interna al cerchio
di convergenza della (1). Infatti sia y il massimo valore della
I a; I in tale regione. Sia a un numero per cui ! a j > y ed | a | < i?.
La (1) convergerà per rr == a. Esisterà quindi, come dicemmo,
una costante k tale che k ^ | a„ a" | per tutti i valori di yi.
Quindi, quando x si muove in guisa tale che | x | ;^ y •
nanX
k
a
La serie
2
n
k
a
nq
n — 1
nq
(3)
converge, perchè il rapporto
nf-' -
^ a
— 1
= nanOt
-Hi)"
-1
k
a
n
V
a
" \ dove è posto q -^
<1.
k
a
4- 2
k
a
q-i- 3
k
a
q^-^
4
k
a
2'
n — 1
+
{n—l)q
n —2
= (-.7^.)
di un termine al precedente tende per n=oo a q<l.
(*) Per dare almeno un cenno del perchè si considerino come funzioni di una
variabile complessa x soltanto i polinomi e le serie di potenze, ricorderò l'enunciato
di un celebre e meraviglioso teorema di Cauchy :
Se j è un numero (reale o complesso) che ha un valore determinato per
ogni valore reale o complesso di una variabile x, quando il punto immagine
di X è interno ad una regione E, se cioè la y è in R funzione della i, e se
esiste ed è continua la sua derivata prima y\ allora, se a. è un qualsiasi punto
di U, la j è sviluppabile in serie di potenze di x — a. E tale sviluppdbilità vale
in tutti i punti interni al massimo cerchio che ha per centro il punto a. e non
contiene punti esterni ad R.
Il lettore, che si diletta di questioni teoriche, confronti questo semplice teorema
coi teoremi ben più complicati che troveremo più avanti per la sviluppabilità in
serie di potenze di una funzione di variabile reale x.
14 — G. FuBlNl, Analisi matematica.
210 CAPITOLO X — § 67-68
Dunque, poiché, per quanto si è dimostrato, i termini di (2)
non superano nelle nostre ipotesi {\x\^y) i corrispondenti
di (3), la (2) convergerà totalmente.
In virtìi del teorema dato al § 65 di derivazione per serie
se ne deduce quindi (almeno se le cii e la a: sono reali) che :
La derivata di una serie (1) di potenze nei punti interni
al cerchio di convergenza è uguale alla, serie ottenuta deri-
vando (1) termine a termine,
E questo teorema vale anche se i coefficienti della serie sono
complessi e se consideriamo valori complessi della x (corri-
spondenti a punti interni al cerchio di convergenza) (cfr. § 50, P,
pag. 168).
Infatti un rapporto incrementale di un termine a., x" della (1) vale, anche se
X ed a„ sono numeri complessi :
an^^'^Z"^" -= ^" \ (^ + '*)"■"' -+- (^ + hy-^x + ...+ (^ 4- h) a^"-2 + a;— i j.
{X -n fi) X
Il suo modulo non supera in nessun caso pertanto {na^X''-'^ |, se X è il
maggiore dei due moduli \x\ ed \x-i-h\. Poiché, anche per a« ed x complessi,
la nanX'"-'^ è la derivata di anX'' (§50), si trova che il modulo del rapporto
incrementale, anche in questo caso generale, non può superare il massimo modulo
della derivata prima. Possiamo dunque per le nostre serie di potente ripetere nel
caso più generale le considerazioni svolte al § 65 per le funzioni reali di varia-
bile reale. «
Applicando il teorema or ora citato alla serie (2), e così
continuando, si prova facilmente :
Tutte le derivate della funzione definita da una serie (1)
di potenze esistono entro il cerchio di convergenza ; e si otten-
gono semplicemente derivando termine a termine,
§ 68. — Formole di Mac-Laurin e di Taylor.
Se dunque poniamo entro il cerchio di convergenza
f (x) = ao -I- fti a: -f- a-2 x' -4-
sarà
f {x) ^=^ ai -^ 2 a^ X -\-
f (x) = [2 ^2 4- 3 . 2 a, ;r H-
f" (:r) = I 3 ^3 -+- 4 . 3 . 2 a4 a; -h
f<^>{x) = I n a„ -f- (n H- 1) n {n — 1) 3 . 2 a„_^ i .t -h
SERIE DI POTENZE 211
Ponendo a; = 0. ne deduciamo
fiO) = ao; f'(0) = a,; f\0) = \2_a2', r{0) = \d^a,',
/-<") (0) = l^a, ; ecc.
ossia
_r(o). _r(o). . _rno).
n
ao = /*(0); ai = -pj — ; ^2=-?^— ; ; a,,
Quindi :
+ (^K- +
Cioè :
Se f(x) è una funzione definita da una serie di potenze
della X, tale serie di potenze è la serie (4).
Questo celebre teorema si chiama teorema di Mac-Laurin.
Esso costituisce, tra l'altro, il punto di partenza del calcolo
infinitesimale per le funzioni di variabile complessa. (Cfr. il teo-
rema citato in nota al § 66, pag. 209).
Una prima conseguenza molto importante è che, se una
funzione f{x) è sviluppabile in serie di potenze, questa serie
è certo il secondo membro di (4); cioè due serie differenti di
potenze della x non possono avere la stessa somma fix).
Uno studio aifatto analogo si può compiere per le funzioni fix)
definite da una serie di potenze della variabile x — oc (a = cost.),
cioè da una serie
(5) fix) z=zao-h aiix — (x.) -\- a., ix — a)- -+-
Si troverebbe anche qui un cerchio di convergenza, il quale
però ha per centro il punto x = a, anziché il punto x = 0.
Sì troverebbe pure che la (5) è derivabile termine a termine,
cosicché la (5) coincide con
(6) fiOL)-^f^ix-OL) + f^(x~Oif-^.,.+^^
1 i ^ t ^
La (6) ha il nome di serie di Taylor. Del resto la (6) si
deduce dalla (4), ponendo x — a al posto della x.
Come caso estremamente particolare delle serie di potenze
noi abbiamo i polinomi P„ ix) di grado n. Ad essi è dunque
applicabile il nostro risultato: essi sono, cioè, sviluppabili in
serie (6) : anzi in tal serie saranno naturalmente nulli i coeffi-
\
212 CAPITOLO X — § 68-69
cienti dei termini di grado superiore ad 71. Ciò che si può veri-
ficare, osservando che un polinomio di grado n ha nulle tutt'e le
derivate di ordine superiore ad 7i. Pei* ogni polinomio P^ (x)
di grado n vale dunque (posto P = P„) la :
(7) PAx)=P (a) -f- ^^ (^ - a) + ^^ (x-ccf-i-
{x — (xy\
n
Il lettore verifichi direttamente che (7) è una identità, svi-
luppando i singoli termini del secondo membro con la formola
del binomio.
§ 69. — Sviluppabilità di una funzione in serie di potenze.
Ci proponiamo ora un problema intimamente connesso al
precedente risultato, cioè il problema seguente :
Se i (x) è una funzione reale prefissata della variabile reale
X, data in un intorno del punto a: = a, come si può riconoscere
se essa è sviluppabile in serie (di Taylor) di potenze della ^
variabile x — a ?
Se tale sviluppo è lecito, allora in un intórno di a dovrebbe,
come sappiamo, valere la:
/•(x) = /■(«) + ^ /■' (a) + + ^i^^" r («) +
che equivale (per definizione di serie) alla
Hm [fix) - } /•(«) + ^ r (a) + ^-■^ f" (oc)
(x — a)» ^,„, ^
n
«)|]=0.
La quantità tra [ ] si chiama resto, e si indica con i?„
È dunque
(8) R„ (x) = f{x) - P„ (x) dove P„ (x) = f{<x) + ^ f («) + ....
4- ^£ZIil" /•(") (a).
n
SERIE DI POTENZE 213
Condizione necessaria e sufficiente affinchè f(x) sia svilup-
pabile in un certo intervallo in serie di potenze è che la f (x)
possegga ivi tutte le derivate e che il limite del resto Rn per
n = 00 sia nullo (*).
Esistono formole notevoli, che permettono di scrivere i?„
sotto forma più semplice. La più importante per il teorico è la
formola di Cauchy. La più semplice, che basta per noi, è dovuta
a Lagrange. Di essa ora ci occuperemo, facendo la sola ipotesi
che f{x) in un intorno di a possegga le prime n -\- 1 derivate.
Se noi confrontiamo la (7) valida per ogni polinomio P„ (j)
col polinomio Pn (x) definito in (8), troviamo che per questo
polinomio valgono le :
P«(a)=.Y(a); P\ia)=f\^):P\{<x).--f"(a); . . . ; P<"> (a) =:. /-<") (a) ;
cosicché :
P„(a) = 0; R\A^) = 0; R\{a) = 0; ; P^ W = 0 :
d'altra parte la {n -+- ly'"'^"' derivata di Pn(x) è dappertutto nulla,
perchè Pn (x) è di grado n. E quindi si ha :
Applicando alla Rnix) il teorema di Lagrange del § 63,
pag. 199, troviamo così:
(8 bi«) R„ ix) = ^^ J --- R^: + ■> (D - ^ "^ r + •' (5),
n -h 1 n -hi
dove 5 è un punto intermedio tra a ed x.
Notiamo le seguenti due forme, che si possono dare alle (8),
(8 ^^^), ponendo, a = 0, oppure x ^=^ ce -+■ h:
f{x) = f(0)-h^f\0)-h~f\0)-h.,,-h^f''\0)^'^
/-(a -hh)^ f{a) -4- hf (a) -4- -^ f (a) + ..
+ r^ f-' (a) 4- ^^ r^'^ (a -^ e h),
\n « + 1
Formole tutte che valgono, purché ìtelV intervallo considerato
esistano e siano finite le prime n -4- 1 derivate di f(x).
(*^ Il teorema di Cauchy, citato in nota al § 66, ci dice che queste condizioni
sarebbero certamente soddisfatte in un certo cerchio, se f(x) /osse funzione della
variabile complessa x con derivata prima finita e continua ! !
214 CAPITOLO X — § 69
Ponendo n ^=1, 2, 3, si trova
[f{oi-i-h)-rf{oi) + hfi<x + Qh) = f{oi) + hf'ia) + ~f{cc + ()h)
I = /•(«) + ¥'(«) + 1^ /•"(«) + r^ /■'"(« + e/») =
La prima fòrmola coincide col teorema della media di La-
grange. Si avverta che i numeri 0, che compaiono nel 2"*, nel 3**,
nel 4° membro, sono generalmente distinti Tuno dall'altro
(pure essendo tutti compresi tra 0 ed 1).
Se f{(x) = /"(a) = = f^^ (a) = 0, tale formola si riduce
al citato teorema di Lagrange del § 63.
Esempi.
1» Per ottenere la forma, sotto cui Cauchy scrisse il resto JR, poniamo in (8)
ì) al posto di a; ed X al posto di a. Otterremo :
f(h) = f{^) + ^ r (^) + ^-^li^ r (^) + '^^^' f"" w + n..
donde :
B. = fQ>) - [f{x) -+- ^-^ r (x) -h + ^-^ ff") (X) ].
Consideriamo -K« come funzione B>^{x) della x. Si ha:
R, (b) = 0, R. (x) = Rn {X) — R,, (b) = (x-h) R'u (y),
dove y è (per il teorema della media) un punto interno all'intervallo (b, x). Quindi,
poiché (come dimostra un facile calcolo)
si ha:
R„ {X) = -(x-h) ^—^^ f <« + ^> (yy
Questa formola è dovuta a Cauchy. Se poniamo ì) = x-^h,9 quindi y=x + 6h
(0 < e < 1) si otterrà :
nX + h)=f (X) -+- y r (X) + j^ f" (X) + + r^ P"^ (X) H- Rn ,
ove
R„ = h"-^' ^^ ~ ^^"- fi" +^) (X -+- e h)
dove naturalmente figura un o affatto distinto da quello che compare nella formola
di Lagrange.
Teorema 2° JL (di Bernstein). Condizione necessaria affinchè { (x) sia svilup-
pabile in serie di Taylor nell'intervallo 0 ^ x < R è che f (x) sia in tale inter-
vallo differenza di due funzioni &, (x) e ^^00^ ^^^ *^* *^^*^ ^^^^ negative insieme
a tutte le loro derivate.
Infatti, se f(x) = ^anX", si può indicare con », (ic) [con -^2(^)1 rispetti-
SERIE DI POTENZE 215
vamente la somma di quei termini della nostra serie, che hanno coefficiente positivo
[negativo] ; oppure porre
^1 {^) - S 1 «« I x'% V2 («^) = S ( ! «« I — ««) ^'"'
Teorema 2" JB (di Bernstein). La precedente condizione necessaria è anche
sufficiente.
Sia infatti i- (x) una funzione positiva in 0 ^ ic < J? con tutte le sue derivate.
Se 0 < /i < i?, nell'intervallo h^x ^R si avrà
C.W {x)^ s.(«) (/O (psrchè o("+i) ^ q),
donde, integrando
c;(«-i) {x) ^ ?(»-i) (ic) — «-(" - 1> (/i) ^ (a; — h) «>(«) (/*,)
il.
Cioè, posto 7- = e, dove 0 è compreso tra 0 ed 1, sarà :
Posto :
(1 d>» - 1
«|.« (9, X) = X" ^~. ^—— f^''^ {6 X) ,
n — 1
si ha (Cauchy) che (per un valore, generalmente ignoto, di e) la *«(''^ic) rappre-
senta il resto della serie di Taylor relativa alla funzione v (x). Ora, per il nostro
risultato,
>h,,(ù^x)^x''^"(x)^—^
e tende per w = co a zero (ciò che basta ad assicurare la sviluppabilità di ^ (x)
in serie di Taylor). Essendo o^ (x), »2 (^) sviluppabili in serie di Taylor, altrettanto
avverrà di
f{x)-= ?, (a?) — ^2 (a?).
Anzi il resto della corrispondente serie di Taylor, scritto nella forma di
Cauchy, sarà uguale alla differenza tra le '^,i{OyX) corrispondenti a 'r, (x) ed a ^r^i^)-
Tale resto di Cauchy sarà dunque minore di
^ -^ (1 - ») [?," (r) + ?," (r)] (se x^r< R),
n — 1
e perciò, prendendo n abbastanza grande, si può rendere minore di un numero e
piccolo a piacere. Basta prendere w — 1 ^ '•^' -2 \ n ^ jy secondo membro
di questa disuguaglianza non dipende da 0 ; cioè l'espressione del resto di Cauchy
si può rendere, scegliendo n abbastanza grande, minore di un numero f prefissato
(piccolo a piacere) co»<cmporaweawew*c per tutti i valori di 0 compresi tra 0 ed 1.
Teorema 3" (di Pringsheim). L'espressione trovata del resto di Cauchy
converge pertanto uniformemeiite a zero, quando x varia in un qualsiasi inter-
vallo 0 ^ X ^ r, dove r < E, e B varia arbitrariamente nell'intervallo (0, 1).
Un risultato analogo non vale per il resto di Lagrange; il quale perciò
presenta nelle applicazioni il difetto che talvolta non si può affermare esser nullo
il suo limite, perchè non si conosce il valore esatto di 9. L'ignorare tale valore
non ha invece importanza per il resto di Cauchy.
216 CAPITOLO X — § 69
3" Dimostrare che:
f [X) = /-(O) -h xf {x) - ..... -h (- ly-^ 1 ^ fin) (^) 4. ji^^
I n
ove :
E scrivere J?„ sotto una forma analoga a quella di Cauchy.
Ris. Si ponga f{(i) — f{x — x).
4* Dimostrare che :
/U-^a.;~n^j i + ^rw-f + (1^^). 1^ ^^
( 1 -1- xf+^ \n^_\ ' V 1-hx)
n ,
ove :
X
Ris. Si ponga .-, — = x + /^, ossia Ji =
1-j-x ' ' 1-hx
4° Applicheremo quanto abbiamo detto allo sviluppo in serie
(li qualche funzione. Vediamo, p. es., di sviluppare in serie di
Taylor la funzione sen x.
Occorre anzitutto cercare le successive derivate Aìf{x)=^sen x
e calcolarne il valore per a; = 0. Si ha :
f {x) ^=^ cos X, per cui f (0) = 1
f" {x) =^ — sen X, per cui f" (0) = 0
f" {x) = — cos X, per cui /*'" (0) = — 1
f" ix) = sen X, per cui f"" (0) = 0
Essendo f^^ {x) = f{x) sarà f''^ {x) = f {x) ; cosicché le de-
rivate di /'(x) = sena; si riproducono periodicamente a quattro
a quattro, ed in particolare si riproduranno a quattro a quattro
i valori che le successive derivate assumono per a; = 0 e che
noi abbiamo precedentemente calcolati. Per la formola di Mac-
Laurin, supposto n = 2 m, cioè n pari, abbiamo :
1 H 1 -> 1 ^ - 1
sen x = x — —- o[f^ + n^— x'' — r^r- a;' + ... -4- ~z r x'^'"' ^ + Bn (x)
2m — 1
^2.. + i
dove Rn (x) = ± — — - cos (dx) soddisfa certamente
2 m H- 1
x"'^-^'
alla \En\^ \—T- L poiché ! cos (0 x)\^l. Per passare dalla
2 m -f- 1
formola di Mac-Laurin alla serie, basterà dimostrare che Bn
tende a zero quando n = 2 m tende airinfinito ; ciò é evidente
SERIE DI POTENZE 217
perchè già abbiamo visto (esempio 1* di pag. 151) che
lim I — = 0.
Si ha dunque :
:^ x" x! :^
sen X = a: — v^ -^ rz Tir -4- r— -
3 5 7 9
In modo analogo si dimostra che :
x^ ^ ^ x'
Il resto della serie di Taylor per la funzione e* vale
, — e^"", ove e^" è compreso tra e" = 1 ed e'*' (perchè 0 è compreso
tra 0 ed 1, e di due potenze di e è maggiore quella con espo-
nente maggiore). Quindi e^* non supera il piii grande dei due
numeri 1 ed é" (*) (che non varia con n). D'altra parte -, —
I n
tende a zero per n = oD . Quindi é^ è sviluppabile in serie di
Taylor, perchè il resto R^ tende a zero per n^=:^^ , Si trova :
^ , X X" X?
Quest'ultima serie si dice esponenziale, e serve a calcolare
un numero y = e"', di cui sia dato il logaritmo neperiano x.
5° Si sviluppi in serie di Taylor ^ = (1 + .t)"'. Poiché
2/^") = m (m — 1) ... (m — n -f- 1) (1 -f- xT~'\
sarà
^ , ^ m{m — 1) ^ ^ m{m — 1) (m — 2) 3 ,
y =i\ -\- mx A ^— ^x H ^ T-^ -x^ -f-
quando il limite del resto sia nullo. Se m è intero positivo,
allora, per ogni valore della x, la precedente serie si riduce a
un polinomio, perchè y^"^ = 0 per n > m, ed il resto stesso è
nullo già per t^ = m-+-l. Si ritorna in tal caso alla nota for-
(*) Se a? > 0, e* è più grande di 1 ; invece, se a; < 0, è e* < 1.
218 CAPITOLO X — § 69
mola del binomio di Newton. Se m non è intero positivo^ si
dimostra che il resto tende a zero, e che il precedente sviluppo
in serie è legittimo se | a:; | < 1 (e non se | rr | > 1 ; il caso | a; | = 1
non ci interessa) (*).
Tale serie dicesi binomiale.
Questo risultato si può provare direttamente nel seguente modo. Dal § 45,
pag. 151, sappiamo che la serie precedente converge per 1 ic ! < 1. Sia f {x) il
suo valore. Sarà :
^r / X i -. , »w — 1 . (m — 1) (m —2) 2 , ì , 11^-,,
f'{x)=^m\ I-i ^ X -h ^^ j^ x^ 4- j (per \x\< 1).
Cosicché si trova facilmente che :
/^ . X X. / N ^ / X • f i^) ^ . ^ log I fi d log 1 14- i»^ 1 '"
(1 + x) f (x) = mf (x), ossia. '^-^ — - -- — , ossia ^" ' — ^ '
Quindi log I / 1 - log 1 1 + 0) 1 "^ = log | ^^ ^ ^^ ,,
stante. Dunque ' '
f{x) l + a?' dx dx
f
ha derivata nulla, cioè è co-
è costante, ossia (poiché è uguale ad 1 per x = 0)
vale 1. Dunque f(x) non é mai nullo; e, poiché è positivo per x = 0, sarà posi-
tivo in tutto il campo \ x \ <il, ove f(x) è definito. Dunque \ f {x) | = f (x). Per
\x\<l anche (1 -+- x)"^ > 0. Quindi ^/^ly,
(1 -♦- xy>
1, cioè
f(x) = {l + x)'". e. d. d.
6* Per sviluppare in serie y = log (1 -h x) si noti che
^' = (1 -f- x)~\ y" ■= — (1 -+- x)~% ecc.,
yin, ^ (_ j^n+l [^_X (1 4- Xr'\
Lo sviluppo in serie sarà :
(1) log (l+^) = X-y 4-y-|^ + ,
purché il resto tenda a zero. Senza studiare il resto possiamo
provare direttamente la (1) per | a:* i < 1. [Nel caso \x\'> l si
può dimostrare similmente che la serie precedente non converge ;
il caso di ;r = ± 1 non ci interessa]. Se | a; | < 1, il valore asso-
(*) Questo sviluppo in serie può essere talvolta utile per calcolo di V N,
N
se JV > 0. Detto h un intero positivo tale che -^. sia compreso tra 0 e 2,
N '/—
si ponga —^=1 4- x, dove sarà 1 ic l < 1. Sarà y N= W (1 4- oc)»', dove è
posto m — — . Si può allora applicare la formola precedente. Il calcolo è special-
mente rapido, se \x\ è piccolo.
E' forse inutile avvertire che è sempre sottinteso di dare alla x valori tali
che esista un valore reale di {l-\-xy" (ciò che avviene se l ic i < 1) e che tra
i valori, di cui (1 4-^)"' può essere suscettibile, si scéglie quello reale e positivo.
SERIE DI POTENZE 219
luto del rapporto di un termine al precedente nella serie (1),
Cloe
X
tende per n = oo
n n — 1 I I V n /
ad |a;|<l. Cosicché la serie del secondo membro di (1) con-
verge. Se 9 (x) ne è la somma, si trova derivando :
cp' (.r) = 1 — X -h x^ — a;'' -H x'' ;
il secondo membro è una progressione geometrica decrescente,
il cui rapporto è — x, e la cui somma vale dunque =
= -r— [log (1 -\- x)\. Dunque cp {x) — log (1 H- a:) ha derivata
dX
nulla, ed é quindi costante. Ma per x = 0 tale differenza é
nulla. Dunque 9 {x) — log {\ -\- x) è sempre nulla. E, come si
doveva provare, 9 {x) '==■ log (1 -\- x).
Questa serie serve al calcolo diretto dei logaritmi dei numeri
1 4- a;, ove \x\<\, ossia dei numeri minori di 2. Ora, preso un
qualsiasi numero positivo A:, almeno uno dei due numeri ^, —
n,
è minore di 2. E quindi per mezzo della serie precedente si
può calcolare uno dei numeri log ^, log — - e quindi anche l'altro,
perchè questi due numeri sono uguali e di segno contrario,
cosicché, se uno di essi é noto, é noto anche Taltro. Ma si
possono trovare serie assai più comode per il calcolo numerico.
Posto in (1) — x al posto di x^ si trae:
log(l-x) = -a;-^--|-^- {k|<l);
la quale, sottratta dalla (1), dà :
^^^f^|=^^^(l-^^)-l^^(l-^)^2|x + |' + ^4....|(|a;|<l).
Posto = z, ossia X = , sarà \x\<.\ per ^ > 0,
1 — X z -\- \
cosicché per ogni numero positivo z si avrà :
(2)log.= 2|~~+-(^^)+-(^-:^)+ |.
Così, p. es., se si pone z = 2, si trova :
220 CAPITOLO X — § 69
Se, tenendo conto, p. es., dei soli primi 8 termini, poniamo:
commettiamo Terrore (in difetto)
21 1 /1\' 1 /1\' ) 2 \ 1 11 11
17 \9/ "^19 \9/
+ — - + — -. +
3(17X9/ 19X9/ ( 3.9'Ì17 19 9 219' ••- p
— , — 1 -f-i + — 4- .... i = ^- = =0,000000001
3.9'17( 9 9' \ 3.17.9' 1 975725676 '
9
Un tale errore è già dunque estremamente piccolo ; e ancor
minore lo si renderebbe, se aumentassimo il numero dei termini
di cui si tien conto.
Si calcoli log 5. Si trova
5 5
log 5 = log 4 -4- log -— = 2 log 2 -f- log -— •
Essendo noto log 2, basterà calcolare
■»^4 = .liH(i)Vi(i)V t
4(9
ancor più comoda della precedente al calcolo numerico, come
il lettore può verificare con metodo simile. I logaritmi fin qui
calcolati sono in base e. Per trovare i logaritmi decimali si
ricordi che log„ . = M log. ., ove M= ^^ = log, 2 l log. 5
si trova facilmente, in virtù dei precedenti calcoli numerici,
uguale a 0,434294481 e si dice modulo dei logaritmi de-
cimali.
Si ha cosilog.o.-2ifj^-^-^-(^-:^) 4.(^-^)4- y
Il calcolo delle tavole logaritmiche viene poi facilitato da
altri artifìci: p. es., dall'osservazione che logio 10" = >2, che il
logaritmo di un prodotto è uguale alla somma dei logaritmi dei
w -f- 1
fattori, che log (n -h 1) = log n -f- log ; cosicché, noto
^ , *^ H- 1 .
log w, si calcola tosto log (n 4- 1) quando si conosca log — — '
11
il quale ultimo logaritmo viene espresso da (2) sotto forma di
serie rapidamente convergente, specialmente se ti è un numero
SERIE DI POTENZE 221
non troppo piccolo, ed è la cosidetta differenza tavolare, il cui
ufficio è così noto a chi abbia consultato tavole di logaritmi
(pag. 201, § 63, Y).
7^ In modo affatto analogo si prova che per
U|<i,--<y<-.
vale la:
y — arctg x = x — ~ -i- -^ — -j -^
Basta osservare che per | r | < 1 la serie al secondo membro
converge ed ha :, ^ per derivata, e che per x = 0 essa si
1 -h ^^
annulla come arctg a;. Da tale serie si deducono formole notevoli
per il calcolo di tt;.
71 1 1
Cosi osservando che -,- = artg —^ e che -7=< 1, si trova,
6 V 3 1/3
ponendo x =^
l/3
Un metodo ancor più comodo per il calcolo numerico di -x è il seguente.
Sia- oc l'angolo, la cui tangente è -_- . Sarà /
j. „ 2tg« 5
<. A 2tg2« , ^ 1
Essendo tg 4 oc > 1, sarà 4 a > -^ . Esisterà un angolo positivo ^^ tale che
|2=r4a-^-
tgi5 = tg^4a-^^
tg4a — tg-^ ^
1 4- tg 4 oc tg -j
Sarà allora:
2:22 CAPITOLO X — § 69 — serie di potenze
2 1
donde, ponendo nella nostra serie successivamente x = ^, jc-- ^^ si trova :
4 UO 3 1000 "*" 5 100.000 \
' 239 3 V239y 5 ^39/ i
la quale formola ha servito al calcolo di tt fino alla 704'^'^'"'* cifra decimale. Come
esercizio, il lettore ne deduca il valore di -^ con due cifre decimali esatte.
8** Analogamente si osservi che:
1 , - -
(arcsen xY = . , = (1 — x') - ;
Vi — x^
che per | a; ! < 1 si può sviluppare in serie binomiaìe :
(-i)(-i->)
(1 _ xT i=i-j(— x')-^- — ^W^ — - {- x'y
x^ 1.3. 1.3.5,
H- =z 1 -f- — + -o-n- x" -h ^o , ^ x""
2 2M 2 2' 3
Si trova per | a; | < 1 con metodo analogo al precedente che :
3
X
1 . 3 :r' 1.3. Sa;' 1.3.5.7x'
arcsen x = a: -h- — - -f- ^^ i ^ 1 — o , ^ ~~\ — TrT~; — 7r+----
2.3 2' 2 5 2' 3 7 2' 4 9
223
CAPITOLO XI.
MASSIMI, MINIMI, FLESSI
Osservazione. Lo studente, che segua contemporaneamente il corso di meccanica
razionale, potrà dopo questo Capitolo studiare i paragrafi dedicati alle rette
tangenti, ai cerchi osculatori, ecc. di una sghemba.
§ 70. — Massimi e minimi (relativi).
a) Una prima applicazione della teoria delle derivate è quella
della ricerca dei massimi o minimi di una funzione.
Per un tale studio è opportuno però precisare un po' il signi-
ficato della frase: punto di massimo o di minimo, con le seguenti
definizioni. Diremo che (cfr. le definizioni del § 62, pag. 193) :
Una funzione f (x) ha nel punto a, interno alV intervallo
ove è definita la funzione, un massimo relativo, se esiste un
numero k tale che in tutto V intervallo (a — k, a -f-k) la funzione
assume valori non maggiori di f(a), ossia se la differenza
f (a -4- h) — f (a) è negativa o nulla per | h | ^ k.
Analogamente si dice che nel punto a la funzione ha un minimo
relativo, se esiste un numero k tale che nell'intervallo (a — k,
a -f- k) la funzione assume valori non minori di f (a), ossia se
la differenza f (a -H h) — f (a) è positiva o nulla per | h | ^ k.
La funzione f (x) si dice crescente nel punto a, se esiste un
numero k > 0 tale che la funzione assume in (a, a -4- k) valori
maggiori che in a ed in (a — k, a) valori minori che in a. ossia
se f (a -4- h) — f (a) ha il segno di h per | h | i^ k.
La funzione f (x) si dice decrescente nel punto a, se esiste
un numero k > 0 tale che la funzione assume in (a, a -f- k)
valori minori che in ^ ed in (a — k, a) valori maggiori che
in a, ossia se f(a-hh) — f(a) ha segato opposto al segno
di h per | h | < k.
Talvolta si dice senz'altro che un punto di massimo o di
minimo relativo è un punto di massimo o di minimo (*).
È interessante osservare che esistono funzioni continue f{x), le quali in un
punto x-~a non hanno né un massimo, né un minimo relativo, pure non essendo
(*) Taluni chiamano un punto di a punto di massimo soltanto sef{a-hh) ~ f{a)
è positiva; punto di minimo se fia-i-h) — f(a) è negativa (cfr. l'oss. al § 62,
pag. 193).
224
CAPITOLO XI —
70
in tale punto né crescenti né decrescenti ; e ciò, perchè in ogni intorno di a esse
assumono tanto valori maggiori, che valori minori di f (a). Tale è, p. es., la funzione
/ (x) che è nulla per a? = a ed é uguale ad {x — a) sen ;— — per x ^ a.
Tali funzioni non hanno quasi importanza nelle scienze applicate.
Da queste definizioni segue che una funzione f{x) può in
un dato intervallo avere parecchi massimi o minimi (relativi).
Cosi, p. es., la funzione rappresentata dalla curva della nostra
figura 23 ha punti di massimo relativo in A, B, C, D, E e punti
di minimo relativo in A\ B\ C\ D Essa è crescente, p. es.,
in ^ e decrescente, p. es., in K.
Fig. 23.
E utile anche osservare che può succedere che il valore di una
funzione in un punto, cui corrisponde un massimo relativo, sia
uguale od anche minore del valore, che la funzione ha in un altro
punto, in cui la funzione possiede un minimo relativo. Così, p. es.,
nel caso della figura, il valore della funzione nel punto E, che è un
punto di massimo, è minore del valore della funzione nel punto A
che è un punto di minimo. Ne ciò deve stupire, perché l'essere un
punto yl (a; = a) un punto di massimo o di minimo relativo per
f{x) dipende soltanto dai valori che f{x) ha in un intorno
(a — Z:, a 4- k)
del punto a, e non dai valori che f{x) ha nei punti lontani
dal punto A (*).
Molte volte si presenta il problema di cercare in quali
punti A una data funzione f{x) riceve il suo più grande, o il
suo pili piccolo valore. E che tali punti A esistano viene spesso
(*) Così una catena di monti può avere parecchie cime (massimi) e parecchi
colli (minimi) ; e possono esistere delle cime più basse di qualche colle. .
MASSIMI, MINIMI, FLESSI
225
, oppure sono
elementari lecito
dedotto 0 dallo stesso problema che si studia, o dal fatto che
si esamina una funzione f{x) continua in un ìntery alio finito:
cosicché in tal caso il teorema di Weierstrass ci assicura del-
l'esistenza di tali punti A. Notiamo che :
Un punto A, dove f(x) riceve il suo massimo, o il suo
minimo valore, o è un punto di massimo o di minimo (relativo)
secondo le precedenti definizioni, oppure cade agli estremi del-
l'intervallo I ove f (x) è definito (perchè le precedenti definizioni
si riferiscono soltanto ai punti interni airintervallo, ove f{x)
è definita). Cosicché tali punti A sono da ricercarsi tra i punti
che 0 sono punti di massimo o minimo relativo
estremi dell' intervallo I. Anzi è nei casi più
trascurare gli estremi di I.
Da ciò risalta quanta importanza abbia, anche per la ricerca di
tali punti A, cioè dei punti di massimo o minimo assoluto, la ricerca
dei punti di massimo o minimo relativo, di cui ora ci occupiamo.
Dalla figura 25 appare intuitivo che in un punto di mas-
simo 0 di minimo relativo la tangente alla curva y=zf(x) è
parallela all'asse delle x, ossia piìi precisamente che in un tale
punto f (x) (ammesso che f (x) esista e sia finita) è nulla.
Non è però vera la proposizione reciproca.
In un punto x=^ a (fig. 24) tale tangente può essere parallela
all'asse delle x, senza
che il punto x^= a sia
un punto né di massimo,
né di minimo.
^) Sia a un punto in-
terno airintervallo, ove
f(x) è definita. Esista e
sia finito /"'(a). Sappiamo
già (§62, pag. 193)che:
1" Sef'{?i)>0 la
dif[erenza f (a -f- h) — f (a)
ha per h abbastanza
piccolo, il segno di h,
cosicché f (x) è crescente
nel punto a.
2*" ^S'e f' (a) < 0, la differenza f (a -+- h) — f (a) ha, per h
abbastanza piccolo, segno opposto a quello di h, cosicché f (x)
é decrescente nel punto a.
Quindi, se f ' (a) 4= 0, la funzione in a non ha né un mas-
simo né un minimo.
15 — G. FuBiM, Analisi matematica.
^
<ib
Fig. 24.
226
CAPITOLO XI — § 70
y
o
Se quindi per x = a la funzione ha un massimo o un
minimo, è f' (a) = 0. (Il teor. reciproco, come già vedemmo,
e come proveremo più
avanti, non è sempre vero).
Oss. Già qui si vede
come sia essenziale l'ipo-
tesi che il punto a sia in-
terno, e non agli estremi
dell'intervallo, ove f{x) è
definita.
Per es., nel caso della
figura 25, il valor minimo
di f(x) è all'estremo si-
nistro, ove f (a;) 4= 0,
^ perchè la tangente non vi
è parallela all'asse delle x.
r
Fig. 25,
Questi teoremi sono dimostrati senza ricorrere all'ipotesi che f {x) sia con-
tinua per iP = a ; e sono generalizzabili al caso che f {x) sia infinita per ic = a,
purché di segno determinato. Si osservi ancora che il precedente risultato si può
enunciare così:
. In un ptmto x = a (interno all'intervallo ove f(x) è definita) che sia un
punto di massimo o di minimo per la f(x), o la f (x) non possiede derivata
determinata e finita, oppure f (x) =- 0.
Il lettore può illustrare il primo di questi due casi ricorrendo, p. es., ad una
curva y = f{x) formata di due segmenti concorrenti in un punto, ove la y ha il
massimo valore, oppure ad una curva y = f{x) formata di due archi di cerchio
che si toccano in un punto, ove la tangente comune è normale all'asse delle x.
(Cfr. l'ultima Nota al § 62, pag. 196).
Con metodi analoghi si dimostra :
Se h è l'estremo sinistro dell'intervallo ove è definita, o dove si studia
la f(x), allora, se 1" (b)>0, il valore f(b) assunto da f(x) per x = b e minore
dei valori assunti in un intorno (naturalmente destro) abbastanza piccolo del
punto x = b. E, se, f ' (b) <0, il valore f (b) è maggiore dei valori assunti in un
tale intorno. Viceversa, se h è l'estremo destro dell'intervallo ove f (x) è definita.
Il caso che in un tale estremo sia f'(b) = 0 si può trattare in modo simile
a quello che noi useremo nelle seguenti pagine. Al lettore è lasciato un simile
studio, che ha pure una qualche importanza.
2"* caso. Esaurito il caso f (a) =\= 0, studiamo ciò che
avviene se f (a) = 0 (supposto naturalmente che a sia interno
all'intervallo, ove f{x) è definita). E supponiamo dapprima
che f" (a) =4= 0. La seconda delle formole di Taylor-Lagrange
(cfr. la (9) di pag. 214) ci dice che sarà:
fia-hh)-fia)
1±
2
f"(a-hU).
MASSIMI, MINIMI, FLESSI 227
Se f" {x) è continua per x ^ a, potremo trovare un inter-
vallo a — k, a -h k tale che in ogni punto di questo intervallo
la f (x) abbia lo stesso segno che /"" (a). Se \h\<k, allora,
poiché O<0<1, il punto a-hdh apparterrà all'intervallo
(a — k, a-+- k) ed f (a -H 0 /^) avrà il segno di f" (a). Quindi
f{a-\-h) — f{a) avrà il segno di — f (a), ossia, poiché — - é
positivo, il segno di /*" (a). Perciò :
>S^e f" (x) è continua per x = a, se f ' (a) = 0, f " (a) > 0,
la differenza f (a -1- h) — f (a) ha, per \ h | minore di un certo
numero k, segno positivo, e quindi f (x) ha in a un minimo.
Se invece f ' (a) := 0, f"(a)<0, la f(x) ha nel punto x = a
un massimo.
Rimane da esaminare il caso f (a) = f" {a) = 0. Per mag-
giore generalità supponiamo
f (a) = r {a) = = r^"-'' {a) = 0 ; f ^^ (a) ^ 0.
E sia Z*^"^ (x) continua per x = a. Esisterà un numero k tale
che nell'intorno (a — k, a-h k) la f^""^ (x) conserva lo stesso
segno che ha nel punto a. La formola di Lagrange dice che:
fia -h h) — f{a) = ~ f""^ {a 4- 0/i).
Se \h\<k (ossia se /i é abbastanza piccolo) allora, essendo
0 < 0 < 1, anche il punto a -{- Bh appartiene all' intervallo
(a — k, a-^k): e quindi f""^ (a-^dh) ha il segno di f"^ (a).
E quindi, per la formola citata, f{a-hh) — f{a) ha il segno
/,"
di 1— f"^ (a), ossia, poiché \n_> 0, ha il segno di F f^""^ (a),
n
Ora h"" è sempre positiva se w é pari, ed ha il segno di h, se
n è dispari.
Quindi h'^ /"^"^ (a) ha il segno di f""^ (a), se w é pari ; e,
se n è dispari, esso ha il segno di h se /"^"^ (a) > 0, ed ha
segno contrario a quello di h se f""^ (a) < 0. Se ne deduce
tosto il seguente teorema che comprende i precedenti come casi
particolari.
Se la derivata n®""* di f (x) è continua e differente da zero
per X = a, mentre le precedenti derivate vi sono nulle, allora :
Se n è pari, Za f (a -f- h) — f (a) ha il segno di f^°^ (a) per h
abbastanza piccolo ; e quindi f (x) ha per x = a un minimo
se f°^ (a) > 0, un massimo se f^"^ (a) < 0.
228 CAPITOLO XI — § 70
Se ìì è dispari, e f"^ (a) > 0, ?a f (a -f- h) — f (a) ha il
segno di h, per h abbastanza piccolo ; e quindi f (x) è crescente
nel punto x = a.
Se n è dispari e f '"^ (a) < 0, la f (x) è decrescente nel
punto a (*).
L'ipotesi della continuità di / (''' {x) per a: = a si potrebbe rendere meno restrit-
tiva, come abbiamo già visto nel primo caso di w = 1.
Infatti se f <«) {a) è determinato e finito, allora (cfr. oss. a § 63 /S pag. 199 ove è
scritto w-f 1 al posto diw), poiché la funzione f{x) — f{a) ha nel punto a nulle
le prime n — 1 derivate, f (6f -+- Z^) — / (c^) ha il segno di k'f^'''>{a).
Della derivata n^^"'"' basta dunque supporre che essa è determinata e finita
nel punto a.
Si può dire che la curva y^=^f(x) e la retta parallela
all'asse delle x definita dall'equazione y=^f{a), che con la
curva precedente ha comune il punto di ascissa a; = a, si attra-
versano in un punto ove f{x) è crescente o decrescente, mentre
si toccano senza attraversarsi in un punto, ove f(x) ha un
massimo o un minimo.
I risultati precedenti si possono provare anche così : Se /' (a) =^ 0 ed [ f " (^) 1
ammette un limite superiore finito, la / (a -f- 7^ — / (a) =^ h f (a) -{- -^ h^ f" (a -{-eh)
prova che f{a-hh) — f (a) ha per | h \ abbastanza piccolo il segno di h f (a), perchè
h^ f" {a -\- oh) è infinitesimo d'ordine superiore e che quindi in a la f{x) è cre-
scente 0 decrescente secondo che f {a) è positivo o negativo. Se /''(a) = 0, se
h^
f" (a) 4= 0, e se 1 /" " (x) ] ha limite superiore finito, \a.f{a-\-h) — f{a) = -^ f" (a) -h
-h -^ / '" (a + 6/i) prova che per | h \ abbastanza piccolo il segno di f{a-\-h) — f (a)
è quello di -^ f" (a) [perchè j^ f"'{a-hQh) è infinitesimo d'ordine superiore] ecc.
Esempi.
!<> Trovare il massimo e il minimo della somma x -{- y
di due numeri, di cui è dato il prodotto xy^=l.
Ris. Si ha y ^=^ — ; per cui
1
X
Perchè tale funzione ammetta un massimo o un minimo, la
(*) Cosi, p. es., se f (a) = f" {a) = 0, f" (a) #= 0, la funzione f(x) è cre-
scente in x = a se /""'(a)>0, decrescente se /"'"(«)< 0.
Se f {a) = f"{a) = f"'{a) = 0,f^^^(a) -j= 0, la funzione ha nel punto x = a
un' minimo se / (*> (a) > 0, un massimo se p^ («) < 0 ; e così via. Nulla ci dice
il nostro teorema, se nel punto x = a sono nulle tutte le derivate della /" (x).
MASSIMI, MINIMI, FLESSI
229
sua prima derivata deve essere nulla. La derivata prima di
X -\- — è 1 ^ ; deve dunque essere :
X x"
da cui
X
x'— 1,
0,
ossia :
a; = 1 , oppure
x = — 1.
La derivata seconda della funzione x
X
X
Per x^=l
questa derivata è uguale a 2 ; perciò, essendo la prima derivata
diversa da zero d'ordine (2) pari e positiva, la funzione data
per a; = 1 ammette un minimo che è 2. Per x^=^ — 1 la
1
seconda derivata della funzione
X
diventa — 2 ; essendo
X
dunque la prima derivata diversa da zero per a; = — 1 di ordine
pari e negativa, la funzione data ammette nel punto a; = — 1
un massimo che è — 2. L'allievo illustri col disegno.
La somma a; + ^ ha dunque un solo massimo che è — 2
(per a; = — 1) e un solo minimo che è 2 (pera;=l). Questo
risultato può sembrare a prima vista paradossale, perchè il
massimo è minore del minimo. Ciò si spiega notando che la fun-
zione X H non è continua in tutto l'intervallo da — lai, essen-
X
dovi in questo intervallo il punto 0,
in cui la funzione non è neanche
dej&nita. La funzione data x -f- —
X
si sdoppia per così dire in due altre :
l'una definita per x<0, che ha il
massimo in rr = — 1 ; l'altra definita
per a; > 0, che ha minimo per a; = 1.
2° Un raggio di luce va da un
punto A al punto B attraverso una
retta r complanare con AB (fig. 26).
Prima di giungere ad r ha la velo-
cità V ; poi acquista la velocità w.
Cercare il punto C ove il raggio
incontra la retta r, in guisa che il tempo y
correre complessivamente i segmenti AC, CB sia minimo.
Fig. 26.
impiegato a per-
230
CAPITOLO XI — § 70-71
Ris. Dette ìi, k la distanza da ^, 5 ad r (in valore asso-
luto), detta l la distanza delle due proiezioni A', B* dei punti A, B
su r, con x la distanza A' C, si avrà
\/h' 4- x\ BC= V'H — xf-hk'
AC
AC
y =
X ,
BC _\/h'
tv
X
V tv V
Affinchè y sia minimo, dev'essere y'^
1 X 1 l-
— xY -h t
w
0, ossia :
X
V Vh'
ossia
- x' ^0 V(i — xy
1 A'C J_ BC^
tjo BC
AC
Indicati con i, r (cfr. fig. 26) gli angoli (di incidenza e rifra-
zione) di AC^ CB con la normale r, se ne deduce
sen %
sen Y
. sen t
ossia =
V
tu
V tv sen r
che è la nota legge della rifrazione della luce.
Lo studente verifichi che il punto C cosi determinato rende
y effettivamente minimo.
§ 71. — Concavità, convessità, flessi.
Sia y = f(jx) definita in un intervallo, a cui è interno il
punto a ; e possegga la fix) finite e continue tutte le derivate
Fig. 27.
di cui avremo bisogno (fig. 27 e 28). (Basterebbe suppoiie
finite e determinate).
MASSIMI, MINIMI, FLESSI
231
Consideriamo i punti A, B della curva, aventi per ascissa a
ed a -H li, e la retta A C tangente in A. Sia C il punto di tale
retta tangente, che ha a -\- h per ascissa. L'ordinata di A sarà
f\a) ; quella di B sarà fia-h li), perchè i punti A^ B giacciono
sulla curva y = f{x).
Fig. 28.
Se 7] è l'ordinata di C, il coefficiente angolare della retta ^ Ce
ordinata di (7 — ordinata di A v] — f{ci)
ascissa di C — ascissa di ^ li
Ma AC è tangente in A alla y^=f{x)', il suo coefficiente
angolare è perciò f (a). E si ha quindi
-n — fia)
h
ria).
Donde, risolvendo rispetto ad v], si ha che l'ordinata f] dì C
vale f{a) -i- hf (a). Quindi la differenza
(ordinata di B) — (ordinata di C) =
= f(a -h 11) — [f{a) -+- hf (a)] = [f{a -^h)— f{a)\ — hf (a) =
= /^f (a-h0/^) — /if (a) = /^| /"'(a-^e/^)— r(a) |, (1)
O<0<1,
come si riconosce tosto in virtù del teorema della media di
Lagrange.
Distinguiamo ora parecchi casi :
1° La f {x) sia in a; = a crescente. In tal caso
f{a-h^h) — f {a)
232 CAPITOLO XI — § 71
ha (per h sufficientemente piccolo) il segno di 9/^, ossia il
segno di /^. E la (1) è perciò positiva. Quindi :
Se {' (x) è crescente per x = a, la curva y = f (x) in un
intorno abbastanza piccolo di x = a rimane al disopra della
sua tangente nel punto x = a ; ciò che si enuncia dicendo che
volge la concavità verso Vallo.
2° In modo simile si prova che
Se f' (x) è decrescente per x = a, la curva y ^= f (x) in un
intorno abbastanza piccolo di x = a rimane al disotto della
sua tangente nel punto x = a ; ciò che si enuncia dicendo che
essa volge la concavità verso il basso.
3"^ Se f\x) ha per x = a un massimo o un minimo,
f' (a-\- Bh) — f (a) ha per h sufficientemente piccolo un segno
costante, che non varia cambiando il segno di h. Quindi la (1)
ha un segno che cambia, mutando il segno di h.
Se f' (x) ha per x =^ 2i un massimo o un minimo, la curva
y = f (x) attraversa la sua tangente nel punto x = a ; ciò che
si. enuncia dicendo che il punto x = sl è un punto di flesso
per la curva y = f (x). (Cfr., p. es., la fìg. 13, a pag. 159).
Ne segue che in un punto di flesso x = a l'angolo w che l'asse delle x
forma con la tangente alla curva y = f{x) ha un valore massimo o minimo. Se
dunque andiamo da un punto posto a sinistra ad un punto posto a destra del flesso,
l'angolo w, nei casi più comuni, o diminuisce per poi aumentare, oppure aumenta
per poi diminuire. In una parola, quando si cammina, attraversando il flesso,
l'angolo w da crescente diventa decrascente, o viceversa. In una parola cambia il
verso in cui gira la direzione della retta tangente.
Ricordo che negli enunciati precedenti la frase : « verso l'alto » [basso] è
scritta invece della: « verso la direzione positiva [negativa] dell'asse delle yy>.
Se, p. es., f' (a) > 0, allora f {x) è crescente per x = a.
Se /*" (a) < 0, allora f' (x) è decrescente per x ^=^a; se f (a) = 0,
f" (a) =1= 0, allora f (x) ha un massimo o un minimo per x = a.
Dal precedente teorema si deduce quindi in particolare :
Se f" (a) > 0, la curva y = f (x) volge m x == a la conca-
vità verso Vallo ; se f" (a) < 0 essa volge in x = a la; concavità
verso il basso; infine, se f " (a) = 0, f'" (a) =1= 0, la curva ha
un flesso nel punto x = a.
Oss. Ricordiamo che, mentre in un punto x = a di flesso
è f " (a) = 0, può darsi benissimo che f " (a) = 0, sen^a che
X 3=1 a sia un punto di flesso ; e ciò perchè, come già osser-
vammo, può in un punto x = a essere nulla la derivata di f (x),
senza che in tale punto f (x) abbia un massimo o un minimo.
In un punto della curva di ordinata ^ > 0, anziché dire che
MASSIMI, MINIMI, FLESSI 233
la concavità (o la convessità) sono volte verso il basso, si suol
dire che in tale punto la curva volge la concavità o conves-
sità) verso Tasse delle x. La stessa locuzione si usa in un punto
di ordinata negativa per dire che la concavità (o convessità)
sono volte verso l'alto. Dunque : Tina curva volge in un suo
punto (di ordinata differente da zero) la concavità (conves-
sità) verso Vasse delle ^ se j ed y" hanno ivi segno contrario
(ugual segno), ossia se y y" è negativo (positivo).
ESEMPJO.
Si studii l'andamento della curva :
y = x^ -{- ax^ -\- bx -\- e.
Ris. Posto Y= y, X^= X -^ ~^^^^^ ^^^ equivale, quando si
considerino X, Y come nuove coordinate, a fare una traslazione
parallela all'asse delle x), si avrà
r=(x-|)V.(x-A)V,(.,-|).,.
ossia Y=^ X^ -^pX-h q, dove^, q sono costanti facili a deter-
minarsi, dipendenti soltanto dalle a, b, e. I massimi e minimi
di Y si ottengono risolvendo la
r = 3 X' -4-i? = 0 donde X= ± ]/_ Z_ .
Se ^ > 0 non vi sono né massimi né minimi e la Y
è sempre crescente (perché F' > 0 dappertutto). Se invece
p ^0, sostituendo il valore trovato di X in Y" = 6 X, si
ottiene ±61/ — — -. Sep=^ 0, questa derivata é nulla, e poiché
Y"' = 6 =4= 0, il punto trovato non é un punto né di massimo,
né di minimo.
Rimane dunque il solo caso di ^ < 0. In tal caso
Y'yO per X= +1/ — ò- Questo punto é un punto di minimo.
Y" < 0 per X= — 1/ — - . Questo punto é un punto di massimo.
A sinistra del punto di massimo la funzione Y (che per
X= — 00 tende a — oo) é crescente (come si riconosce veri-
234 CAPITOLO XI — § 71-72
ficando Y' > 0) ; poi Y decresce fino al punto di minimo, per
poi crescere di nuovo tendendo a -hoo per X= +00.
Per trovare i flessi si deve risolvere la F"=6X=0.
Se ne deduce X=0, il quale è certo un flesso, perchè
r'" = 6 -^ 0.
Con la X =^ X — a si ritorna all'antica variabile x.
L'allievo illustri col disegno l'andamento della curva in tutti
i casi {p> 0, p =^ 0, p <0) anche per qualche valore numerico
particolare delle a, ò, e.
Il lettore veda in quanti punti nei varii casi la nostra
curva incontra l'asse delle X: punti, che saranno le radici reali
dell'equazione X^ -H j;X -H g = 0 (*). E confronti coi risultati
del § 10, esaminando a quali disuguaglianze le p, q soddisfano
nei varii casi.
Applicazione.
Sia y^=f{x) lo spazio percorso da un punto If mobile su
una retta r all'istante x. Come si può, dall'esame della curva
y =1 f{x) (che viene spesso tracciata automaticamente in casi
pratici, come ad esempio nel varo di una nave) determinare
in quali istanti la velocità di M raggiunge il massimo 0 il
minimo valore ?
Bis. Basta determinare quei valori di x, a cui corrisponde
un flesso della nostra curva.
. § 72. — Metodo di Newton-Fourier.
a) Lemma. Se AB è un arco di curva y = f (x) e se i" (x)
è finita, non è mai nulla e conserva lo stèsso segno nelVarco
considerato, allora Varco AB é tutto interno al triangolo
(*) Se il valore massimo (per X = — 1/- -|j della Tè negativo, la nostra
curva incontra in un solo punto (a destra del punto di minimo X = -hV ^-|
l'asse delle x.
Un risultato simile si ha se il valore minimo della Y è positivo. In tali casi
la nostra equazione ha una sola radice reale.
Se il valore minimo di F è negativo, quello massimo è positivo, vi sono tre
radici reah poste rispettivamente negli intervalli
MASSIMI, MINIMI, FLESSI
235
Fig. 29.
rettilineo ABD formato dalla corda AB e dalle tangenti in A
e in B (fig. 29).
Questo teorema è geometricamente intuitivo, perchè nelle
attuali ipotesi Tarco y = f{x) volge la sua concavità sempre da
una stessa parte. Essa si dimostra
rigorosamente così.
In due punti distinti dell'arco AB le
tangenti all'arco non possono essere paral-
lele, perchè i valori corrispondenti di f (x)
sarebbero uguali ; e, per il teorema di Eolie,
in un punto intermedio sarebbe f" = 0 contro
l'ipotesi.
L'arco AB non ha con la corda AB
comune (oltre ai punti A, B) alcun altro
punto C; perchè altrimenti per il teorema
della media esisterebbe nell'arco JL C un
punto jFJ, e nell'arco CB un punto F, in cui
le tangenti all'arco sarebbero parallele ad
AB ^ quindi parallele tra di loro.
Così pure l'arco AB non può avere, oltre al punto A, comune alcun altro
punto C con la tangente in A\ altrimenti nell'arconte vi sarebbe un punto in-
termedio E, ove la tangente all'arco sarebbe parallela alla tangente in A.
E altrettanto dicasi per la tangente in B. Quindi il nostro arco, o è tutto interno
al triangolo ADB, oppure, pure essendo interno all'angolo A{B)B, è posto rispetto
ad AB, dall'altra parte di Z>. Quest'ultimo caso è pe^ò da escludersi, perchè il nostro
arco deve essere interno alla striscia limitata dalle normali tirate dai punti A, B al-
l'asse delle oc : e perciò l'intersezione Z) delle due tangenti in ^ e in 5 è interna a tale
striscia e cade rispetto alla corda AB dalla stessa banda dell'arco AB. e. d. d.
P) Sia f{x) una funzione finita e continua nell'intervallo da
noi considerato con derivate prime e seconde finite e continue.
I punti x^=-a che la curva
y =z f{x) ha comuni con l'asse
delle X sono impunti a per cui
f(a) = 0, 0, come si suol
dire, sono le radici dell'equa-
zione f{x) = 0 (*) (fig. 30).
Se per x = b, eà. x=^ e
la funzione f(x) assume va-
lori di segno opposto, essa
assumerà (teor. 3*", pag. 135)
nell'intervallo (ò, e) ogni va-
lore intermedio e quindi anche
il valore zero.
Se cioè f (b) e f (e) sono di segno opposto, nell'intervallo (b, e)
esiste almeno una radice a delV equazione f (x) = 0. Questo
(*) Qui si parla delle radici della equazione f (x) = 0 e della curva di equa-
zione y == f (x). Il lettore inesperto noti che non si parla della linea di equazione
f (x) = 0 che si scompone in rette x = cost. !
Fig. 30.
236 CAPITOLO XI — § 72
teorema è geometricamente intuitivo ; dall'ipotesi scende infatti
che i punti della curva y =^ f(x) di ascissa b, o di ascissa e sono
da banda opposta dell'asse delle x. La curva y =^ f{x) quindi deve
incontrare almeno in un punto dell'intervallo (6, e) l'asse delle x.
Y) Supponiamo : 1"^ che nell'intervallo (&, e) la f" {x) con-
servi un segno invariabile, che quindi la curva y=^f{x) volga
la concavità sempre da una stessa parte in tale intervallo ;
2"* che f(b) ed flc) siano di segno opposto ; 3*" che nell'inter-
vallo (b, e) esista una sola radice a dell'equazione /'(a;) = 0.
I numeri 6, e si possono considerare come valori approssi-
mati (l'uno per difetto, l'altro per eccesso) dalla radice a.
Vogliamo trovarne dei valori più approssimati. Ricordiamo che per
il precedente lemma la curva y = f(x) è tutta interna al trian-
golo BCD formato dalle tangenti DB, CD nei punti B, C di
ascissa b, e, e dalla corda BC,
II punto a cercato è dunque compreso tra i punti ove l'asse
delle X incontra la corda 5(7 e la spezzata BD 4- DC Tali
punti 6i, Ci sono due valori più approssimati che 6, e al valore
cercato a. Ripetendo per tali punti quanto si è detto per i
punti b, e, troveremo due valori 62, C2 ancor più approssimati.
E si può dimostrare che, cosi continuando, si può ottenere
il valore di a con qualsiasi approssimazione prefissata.
5) Il nostro procedimento geometrico si può facilmente
tradurre in formole analitiche. L'equazione della corda B C
è -^r- = — ; l'ascissa della sua intersezione
X — b e — b
con l'asse delle x si ottiene ponendo t/ = 0, cosicché
^bf{c) — cf{b)
"" f{c)-nb)
Le tangenti in B t C hanno per equazione
X — 0 X — e
ed incontrano l'asse delle x rispettivamente nei punti
_;._/(^ _ fic)
''-^ f'{b)' ^-' f(0'
Quale di questi punti è l'intersezione dell'asse delle x con
la spezzata BD -f- DC? Evidentemente quello che appartiene al-
l'intervallo (6, e) ; e se entrambi appartengono a tale intervallo,
quello che è più vicino al punto già determinato ove la retta BC
incontra l'asse delle x.
MASSIMI, MINIMI, FLESSI 237
Se non si vogliono calcolare entrambi questi punti, si può limitarci a consi-
derare l'intersezione con l'asse della x della tangente in quello dei punti B, C, in
cui la curva volge la convessità all'asse delle x, ossia in cui f"(x) ed f{x) hanno
Io stesso segno. Con un tal procedimento però spesso si ottiene un'approssima-
zione minore di quella ottenuta col nostro metodo.
T ..hfic) — cf{b) .... ^. , f{b) f{c)
I punti ~7T TTI^^ ^^^11^ ^^1 punti 6 — ^777^, e — Vtt'
fic) — f{b) f (b)' f (e)
che noi scegliamo secondo i principii sopra esposti, costituiscono
i due valori più approssimati della radice a cercata.
Per es. noi sappiamo che l'equazione af^ = 2 ha una, e una
sola radice nell'intervallo (1, 2), in cui la derivata seconda
20 x^ di f(x) =x^ — 2 ha segno costante.
Poiché (posto 0 = 1, e = 2)
bf{c) — cfib)^ 1_
f{c)-f{b) 31'
e di questi ultimi due punti il punto 1 4- — è il più vicino a^
1 r , 1 1 '
1 -h — - , la radice di x^ =^ 2 è compresa tra 1 -I- —- e 1 H- — •
31 31 5
Riapplicando a questi due numeri il nostro procedimento, si
ha un'approssimazione maggiore ; e, cosi continuando, si può di-
mostrare che si ottiene una approssimazione grande a piacere.
§ 73. — Alcune osservazioni
relative alla risoluzione approssimata delle equazioni algebriche.
II metodo di Newton-Fourier serve naturalmente a calcolare
con UQ'approssimazione grande a piacere le radici reali di un'equa-
zione algebrica a coefficienti reali. Delle radici complesse, o delle
equazioni a coefficienti complessi qui non ci occupiamo, perchè ab-
biamo già visto (§ 17, ^, pag. 55) essere il loro studio riducibile
alla ricerca delle radici reali di un'equazione a coefficienti reali.
Sia dunque f{x) = a^ a;" + ai a;"""^ -f- ... -4- a„ = 0 (1)
un'equazione algebrica a coefficienti reali. La ricerca delle sue
radici reali equivale alla ricerca delle intersezioni della curva
reale C definita dall'equazione
y = f(x) (2)
con Tasse delle x {*). Si può senz'altro supporre che la (1) non
(*) Noto che il metodo di Newton-Fourier sarebbe applicabile al problema più
generale di calcolare le intersezioni di due curve qualsiasi.
238 CAPITOLO XI — § 73 — MASSIMI, MINIMI, FLESSI
abbia radici multiple (a questo caso ci possiamo ridurre coi
metodi del § 64) ; cosicché (2) non sarà in alcun punto tan-
gente all'asse delle x. Possiamo anche supporre che le f{x) = 0,
f" {x) = 0 non abbiano radici comuni ; perchè la ricerca di
queste radici equivale a risolvere l'equazione ottenuta ugua-
gliando a zero il massimo comun divisore 9 {x) delle f{x), f" {x}]
e, ammesso anche che 9 {x) non sia una costante, che cioè tale
equazione 9 (a;) = 0 possegga radici (caso che si presenterà
soltanto per equazioni di tipo molto particolare), ne verrà che
alcune delle radici della /'(a;) = 0 si ottengono risolvendo la
equazione più semplice (perchè di grado inferiore) 9 {x) = 0.
Le altre radici poi saranno le radici dell'altra più semplice
equazione che si ottiene uguagliando a zero il polinomio quo-
ziente della divisione di f{x) per cp {x).
Supposto dunque che f{x) = 0, f" {x) = 0 non abbiano
radici comuni, ogni radice della /"(ce) = 0 apparterrà a un
intorno dove f" {x) conserva sempre lo stesso segno, cioè dove
la (2) volge la convessità, 0 la concavità da una stessa parte.
E ad un tale intorno sarà dunque applicabile il metodo di
Newton-Fourier.
La più grave difficoltà consiste dunque di determinare due
valori approssimati (uno per eccesso, uno per difetto) per ogni
radice. Al § 23, p, pag. 78, abbiamo esposto un metodo sem-
plice in teoria (ma che in pratica richiede calcoli troppo lunghi)
per una simile determinazione. Altri svariatissimi metodi furono
inventati a tale scopo. Ma al tecnico basteranno le seguenti
due osservazioni :
1° Valori approssimati di ogni radice sono nei casi pra-
tici suggeriti dallo stesso problema che si deve risolvere.
2'' Valori approssimati si possono dedurre disegnando
effettivamente la (2) e trovandone le intersezioni con l'asse
delle X. Anzi le teorie fin qui svolte agevolano di molto tale
disegno e possono dare indicazioni preziose (cfr. l'esempio della
curva F= Z' 4- pX-\- q studiato all'esempio 10° del § 71). Del
resto esistono strumenti che possono disegnare tali curve. L'inte-
grafo di Abdank-Abakanowicz (cfr. l'ultimo Capitolo) permette,
per es., di passare dal disegno della linea y = f^ (x) = a^ |_^
(che è una retta parallela all'asse delle x) successivamente
alle curve
y = f--^> (x) ; y = f-'^ (x) ; : y = f (x) ; y = fix).
(Cfr. la nota a pag. 51, § 15, per indicazioni bibliografiche rela-
tive al problema qui esaminato).
239
CAPITOLO XII.
INTEGRALI
(Il lettore, a cui non importa affrettare la conoscenza del calcolo integrale, potrà
far precedere la lettura del Gap. 13» a quella del presente Capitolo).
§ 74. — Primi teoremi.
a) Proponiamoci le seguenti domande fondamentali :
VE ogni funzione continua F (x) la derivata di un'altra
funzione f (x) ?
2° Tale funzione f (x) è determinata dall'ipotesi che la
sua derivata f (x) valga F (x) ? E, se non è tale, quale è la
sua indeterminazione ?
L'intuizione permette di prevedere le risposte che si dovranno
dare a tali domande.
Consideriamo la funzione (da determinarsi) f{x) come il
valore che la distanza OM da un punto M mobile su una retta
r ad una origine fìssa 0 ha all'istante x. Se noi ammettiamo
lecita questa supposizione, le nostre domande si riducono (§ 47)
semplicemente a queste : Può una qualsiasi funzione continua
F{x) essere pensata come misura della velocità che un punto
M mobile su una retta r possiede all'istante x ? Data tale velo-
cità F(x), la distanza OM=^f{x) di M dall'origine 0 resta
essa completamente determinata ? oppure quale indeterminazione
possiede ?
A noi appare come intuitivo che alla prima domanda si
debba rispondere aifermativamente ; e appare pure evidente che,
per dare la posizione ài M su r all'istante x, non basti dare
la velocità F{x), ma si debba anche assegnare la posizione di
If in un istante almeno, p. es., per x=^a. E, se anche una
tale posizione è nota, sembra intuitivo che ne resti individuata
la posizione di M ad ogni altro istante.
Così di un treno M che si muova su una linea nota r noi
sappiamo assegnare la posizione ad ogni istante, se conosciamo
per ogni istante la velocità del treno M, e conosciamo o l'ora
e il punto di partenza, o anche, se si vuole, la posizione del
treno su r ad un'ora prefissata x =^ a.
240 CAPITOLO XII — § 74
Se invece non conosciamo per nessun istante la posizione
di M (non sappiamo donde e a che ora è partito il treno M),
allora, pur conoscendone la velocità F{x) ad ogni istante x,
non possiamo dire dove si trovi M all'istante x. Ma possiamo
ciononostante sapere quale spazio abbia percorso il punto M tra
due dati istanti a, b ; in altre parole tale spazio è perfetta-
mente determinato, quando è nota ad ogni istante x la velocità
del punto M,
Se -Mi, M2 sono due punti mobili sulla stessa retta r, e se
essi posseggono ugual velocità F(:x) all'istante x, la distanza
Mi Mi non varia col tempo (è costante) ; cosicché le distanze
f^ [x) = Oifi, fo (x) = OM2 hanno una differenza costante, ossia
differiscono solo per una costante additiva.
Analiticamente ciò significa :
Teorema di esistenza.
l"" Esiste almeno una funzione f(x) che possiede una
derivata continua F(x) prefissata.
2"" Data F (x), per determinare completamente f (x), si
deve dare in piti il valore di f (x) per un qualche valore della
X, p. es., per x = a.
3** Data F (x), pure non essendo f (x) completamente
determinata, è però univocamente determinata la differenza
f (a) — f (b) dei valori che i (x) assume in due punti x = a, x = b
prefissati arbitrariamente nell'intervallo, ove F (x) è definita,
4** Se fi (x), Ì2 (x) sono due funzioni che hanno la stessa
derivata F (x), la differenza fi (x) — {2 (x) è una costante.
Cosicché, per trovare tutte le funzioni che hanno per derivata
F (x), basta trovarne una sola f (x) e aggiungere poi ad essa
una costante arbitraria ; la f (x) -h cost. sarà la pili generale
funzione che ha F (x) per derivata.
P) Dimostriamo il primo di questi teoremi. Se F {x) ^ 0,
l'area A del rettangoloide considerato a pagina 165 (ove si
scriva F al posto di f) (oppure se tale area non è determinata,
la sua area esterna od interna) è proprio (pag. 165) una fun-
zione f{x), la cui derivata vale F{x).
Se poi F{x) assume anche valori negativi, consideriamola
in un intervallo finito. Sia — k W suo valore minimo. Allora
^ {x)^= F {x) -\- k non è mai negativa, e, per quanto si è dimo-
strato, è perciò la derivata di una qualche funzione cp {x). Anche
F {x) è quindi una derivata ; è precisamente la derivata di
f{x) = cp {x) — kx.
INTEGRALI 241
y) Per dimostrare le 2*, 3^, 4^ precedenti proposizioni, ri-
cordiamo il teorema :
Una funzione costante ha derivata sempre nulla e il teo-
rema reciproco (§ 63, pag. 202) :
Una funzione, la cui derivata è identicamente fiulla, è una
costante.
Ne deduciamo come al 1. cit. (§ 63, s) :
Se fi (x), Ì2 (x) sono due funzioni aventi la stessa derivata
(determinata e finita) F(x), la loro differenza è una costante.
Infatti la differenza f (x) — /^2 (^) ha per derivata
f\{x) — f2Ìx) = F{x) — F{x) = 0.
Essa, per il teorema citato più sopra, è dunque costante.
Geometricamente questo teor. si enuncia così: Se le tan-
genti alla curva y = fi (x), y = f 2 (x) in punti di uguali ascissa
sono parallele, le due curve si deducono Vuna dall'altra con
una traslazione parallela alVasse delle y.
Si ha dunque :
/; (x) = f2 (x) -^k{k — cost) (teor. 4').
Ponendo a; = a, e quindi a? = 6 si ha :
A {a) ^ f, {a) 4- k
f,(h)^f{b)^k.
Sottraendo, se ne deduce :
f, (a) — A (6) = f (a) — f, (6).
Data cioè la funzione F(x), è completamente individuata
la differenza dei valori che in due punti a, b assume una fun-
zione fix), che abbia F{x) per derivata (teor. 3^).
Una funzione f{x) che abbia F(x) per derivata, sarà data
(teor. 4°) della formola
f(x) = f^{x)-h C,
dove C è una costante indeterminata. Se noi vogliamo che per
X = a sia f{x) = A, sarà
A = f(a) ^= fi (a) H- C, ossia C = J. — fia)
e quindi f(x) = f (x) — f (a) 4- A,
La funzione f(x) è perciò completamente determinata (teor. 2**).
Sono cosi completamente dimostrate tutte le proposizioni
enunciate più sopra.
5) Una conseguenza molto importante si trae da quanto
abbiamo dimostrato.
IC — G. FUBINI, Analùi matematica.
242 CAPITOLO XII — § 74
Se F {x) ^ 0, consideriamo il rettangoloide, di cui ci siamo già
serviti per dimostrare il primo teorema del presente paragrafo.
Le sue aree esterna ed interna, avendo entrambe la stessa
derivata F(x), differiscono per una costante. Ma questa co-
stante è nulla, perchè tutte e due queste aree sono nulle
per x^=^ a. Cosicché la loro differenza è nulla per rr = a ; ed,
essendo costante, è nulla per ogni valore della x. Quelle due
aree sono perciò uguali.
Se dunque ?/ = i^(x)^o è una funzione continua, il ret-
tangoloide racchiuso tra l'asse delle x^ la curva e le due
ordinate ha uguali Tarea esterna ed interna, cioè possiede
un'area nel senso più elementare della parola : area (cfr. § 7).
s) Una funzione f(x), che abbia F (x) per derivata si in-
dica con 1 Fdx^ e si chiama integrale indefinito della F(x).
Questo nome è dovuto a ciò che un tale integrale non è
completamente definito, ma è definito soltanto a meno di una
costante additiva. Così, poiché cos a:; é la derivata di sen x,
noi scriveremo.
j cos xdx = sen x -h C (C = costante arbitraria). La diffe-
renza f{b) — 'f(a) si dice integrale definito di i^ (a;) nell'inter-
vallo (a, 6), perché non varia qualunque costante si aggiunga
ad f{x), e si indica con 1 F{x)dx. I numeri a e 6 si dicono
rispettivamente i limiti di integrazione (il limite inferiore, ed
il superiore).
Un tale integrale è completamente definito dalla funzione F,
e dai limiti a, b. Il suo valore non dipende perciò dal nome
dato dalla variabile di integrazione. Cosi, p. es.
I COS xdx = I cos zdz = sen b — sen a.
La differenza f(b) — f(a) si indica anche con [f{x)]a.
Cosicché, se
f Fix)dx = f(x),
sarà F(x)dx = f{b) — f{a) = [f(x)]l
^ a
E poi evidente che :
(1) { F (x) dx = — f jP (x) dx.
. (2) f F(x) dx 4- Cfìx) dx = f F(x) dx;\ F (x) dx = 0.
INTEGRALI 243
Le (1), (2) equivalgono infatti alle identità
f(h) — f{a)= — [f{a)] — f{h)]
[f{h)-f[a)]-^[f{c)-f{l>)]=f{c)-f{a)
f{a)-f{a)^0.
Inoltre per il teor. della media :
F (x) d X = f (b) — f (a) = (b — a) f (e) = (b — a) F (e),
I
dove e è un punto intermedio tra a e b. Quindi :
Se M è il massimo di | F (x) | , sarà :
(3) I F (x) dx I ^ M I b — a I .
Se, p. es., F{x) indica la velocità di un mobile all'istante x,
la seconda e la terza di queste uguaglianze (se a <h < e),
dicono che la somma degli spazi percorsi nell' intervallo (a, h)
e neirintervallo (b, e) è uguale allo spazio percorso nelFinter-
vallo {a, e) ; e che lo spazio percorso in un istante (se pure è
lecito dire una tale frase) è nullo. La prima delle precedenti
uguaglianze ci dice che lo spazio percorso nell'intervallo (&, a)
si deve riguardare come uguale in valore assoluto e di segno
opposto a quello percorso nell'intervallo (a, 6) ; cosicché la pre-
cedente osservazione assume un significato generale.
È evidente che : L'area del rettangoloide limitato dalla curva
y zzz: F (x) ^ 0, dalV asse delle x e dalle ordinate x = a, x = b
r^
vale F (x) dx, se a < b.
Se gli assi fossero obliqui e formassero un angolo to, il
prodotto di questo integrale per sen w varrebbe Varea della
figura analoga 0 ^ y ^ F (x) ; a ^ x :^ b. Questo teorema coin-
cide col precedente per (a =z-— -
Se nell'integrale definito I F{x)dx=^ \ F(z)dz conside-
riamo l'estremo superiore b come variabile, e per fissar le idee,
poniamo ò = x, otteniamo
\' F{x)dx^ f F(2)dz
che è uguale ad f{x) — f(a) e quindi differisce da f(x) sol-
tanto per una costante additiva. Esso è pure un integrale inde-
finito della Fix).
244 CAPITOLO XII — § 74
Quindi anche
^ a J a
{A = costante arbitraria)
è un integrale indefinito di F {x). Esso è anzi proprio quelV in-
tegrale indefinito che per x = a assume il valore A.
E lo \ f(x)dx è quell'integrale indefinito che si annulla
per X = a.
Q Quindi :
Da un integrale indefinito f{x) = l i^ (x) 6^x si ottiene l'in-
tegrale definito i^ (x) ^x eseguendo la differenza fih) — f(a),
*' a
Dall'integrale definito I F(x)dx si deducono gli integrali
indefiniti, ponendo b ^= x, ed aggiungendo una costante ar-
bitraria.
Vi è uno e un solo integrale indefinito che per a; = a as-
suma il valore A ; precisamente lo
f(x)=^ CF{x)dx-\-A.
La seguente tabella, dedotta dal quadro di pag. 190, dà
gli integrali indefiniti fondamentali.
Integrali fondamentali.
/ senx dx=^ — cos x -H C ; / cos a:; dx = sen a; 4- C
\ , = arcsen x -h C ; .- -^ — , = arcsen h C
JVl — x' J\/a' — x' «
/, ^ . — arctga:^+C; / o .^ . = — arctg h C
J 1-hx^ J X -\- a^ a a
r^ = logU|H-C; r-^ = logh-haKC (*)
J X J x-\-a
1 . , ^1 r^^
(*) Se ic > 0, esiste log x ; e dalla (log x)' = — si trae C-\-\o^x ~ j -
Se ic < 0, esiste log (- if ) ; e dalia [^log ( - a?) J = — si trae C -+- log (— x) = / —
X
dx
INTEGRALI 245
/<
(x -h aT dx = ; h e {yn intero positivo =p — 1) (*)
m 4- 1
(m intero positivo).
y\) Se f(x)=^ j cp (a:;) 6?;r, ossia Z'' (x) = cp (x), e Z; è una
costante, è [kf(x)Y = ^/^ (x) = ^ 9 (x) e quindi /i: cp (x) dx =
=: k f{x) =k 9 (x) tZx (a meno della solita costante additiva
arbitraria).
Se fi (x) = j cpi (x) dx, fi {x) = j cp2 (x) ^x, allora [fi {x) -f- /^ (a;)]'=
= fi {x) -\- f 2 fe) = cpi (x) + 92 (x) ; quindi | cpi c?:^- + J T2 ^a; =
= fi (x) -f- /2 {x) = j [cpi (x) + cp, (ce)] e?x -h cost.
Si hanno così le formole (se cp, cpi cp., sono continue) :
k^{x) dx^=^k ^{x) dx -h C (k = cost.),
J [?i (^) ■+■ T2 (^)] (?a; =: j cpi (a;) dx -^ i cp. (a;) cZx -f- C,
che sono di uso assai frequente.
(*) Così ^ ^, ^ è quell'integrale indefinito che si an-
^ m-\-l
nulla per x=l. Se noi ne cerchiamo il limite per m 4-1 = 0 (p. es. ponendo
m -h 1 = ^, derivando num. e den. rispetto 2, e quindi ponendo ^ -- 0 secondo la
regola del § 63, ^) si trova {x 4- ay log (a: + a) — (1 + a)^" log (1 -f a), che per
/^ dx
2 = 0 diventa log (x + à)-— log (1 + a), cioè precisamente quell'integrale /
che si annulla per x -•!.
(**) Dalla quarta riga di questo quadro si trae il valore
r__dx__
J {x^ 4- a^)*^
quando m = 1. Ponendo nell'ultima riga successivamente w = l,2, 3, , se ne
deduce successivamente il valore del nostro integrale per ogni valore intero positivo
della m. Questa formola si dimostra osservando che:
/ X V_ 2ma^ 1
\{x' 4- a^r) ~ {x^ + a'r + ' (^' + «0'^' '
246 CAPITOLO XII — § 75
§ 75. — Regole generali di integrazione.
Ci si potrebbe proporre di trovare per Tintegrazione metodi
analoghi a quelli svolti nei §§ 55-60 per la derivazione. Ma
per l'integrazione non esistono metodi cosi perfetti, come quelli
dati per calcolare le derivate. Si può dimostrare che al teorema
di pag. 189 si può opporre il seguente:
Esistono delle funzioni F(x) calcolabili con un numero finito
di operazioni elementari (*), il cui integrale non è calcolabile
con un numero finito di tali operazioni (ciò che avviene, p. es.,
per la radice quadrata di un polinomio generico di grado supe-
riore al secondo ; che pure è una funzione tanto semplice).
I pochi metodi che esporremo e che servono nei casi pili
semplici non sono in fondo che l'enunciato, con altre parole, di
teoremi a noi già noti.
a) Abbiamo già detto al § 74, v], pag. 245, che se noi
conosciamo
j f{x) dx e \^{x) dx,
noi possiamo subito calcolare
J[A^) -+- 9 (^)] d^ =J/'(^) ^^ -^ f*^ (^) dx-hC
^^kfix) = kjf{x)-hC (^ = cost.).
Forraole affatto analoghe valgono per gli integrali definiti.
Si ha cioè:
[f{x) -f- 9 ix)] dx= f(x) dx-h h> (oo) dx
a Uà */ a
kf{x) dx-=k l f(x) dx.
a *J a
Così, per esempio :
j (senx --1- cosa;) dx = sena; dx -h j cosa; dx=^ — cosa; ~{- sena; + C
/ (sena;-hcosa;)c?a; =/ sena; dx -h cosa; t^a; = 1 -h 1 = 2.
(*) Cioè somme, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni, innalzamento a potenza,
consultazioni di tavole logaritmiche o trigonometriche.
INTEGRALI 247
J
P) Teorema di integrazione per sostituzione. Sia y = j F{x) dx
donde y^ = F{x), Sia x = G (z) (*) una funzione di una nuova
variabile z con derivata G' (z) continua. Per la regola di deri-
vazione di funzione di funzione sarà:
y\ = y. x\ = F {x) G'{z) = F[a {z)] G' {z) ;
donde, per la stessa definizione d'integrale :
^F{x) dx = y =^F[G {z)] G' {z) dz.
Questa forinola costituisce il cosidetto teorema d'integra-
zione per sostituzione; dal primo si passa al terzo membro,
sostituendo alla x ed alla dx i loro valori G (z), G' (z) dz.
Questa regola dimostra che il simbolo dx, che figura in
f{x) dx, è scelto COSÌ opportunamente, che nel calcolo lo si
può trattare come un differenziale (**).
' Da quanto precede si scorge che così l'integrazione del diff'e-
renziale F (x) dx è ridotta a quella del differenziale
F[G{z)]G'{z)dz,
l'integrale del quale, presa convenientemente la funzione x^=Giz)
potrà talvolta riuscire più agevolmente calcolabile che quello del
differenziale
F(x)dx.
Naturalmente non possono stabilirsi regole per riconoscere
in ogni caso quale sia la sostituzione da farsi, ed il successo
dipenderà anche dalla maggiore o minore pratica che si ha in
calcoli di tal genere.
Talvolta è invece più comodo calcolare l'integrale [ F(x) dx,
anziché lo i F{G) G' {z) dz. E in questo caso la nostra dimo-
strazione serve a ridurre al primo questo secondo integrale.
Osserviamo ancora che se, p. es., col nostro metodo ridu-
ciamo il calcolo di I F(x) dx al calcolo di \F{G) G' {z) dz, allora
noi otteniamo l'integrale espresso come funzione non più di x,
ma della variabile ausiliaria z.
(*) È sottinteso che, mentre la z varia in un certo intervallo, la x varii
nell'intervallo ove è definito il nostro integrale.
(**) Noi lo avevamo introdotto soltanto come un modo per indicare un inte-
grale. Così, p. es., avremo potuto introdurre altro modo di scrittura, p. es. scrivere
I f{x) anziché l f{x) dx. Già di qui vediamo come sia felice il simbolismo adottato
(cfr. anche il Gap. 15).
248 CAPITOLO XII — § 75
Perchè la sostituzione riesca utile, e cioè si possa avere y
espresso come funzione della x, occorrerà che Tequazione
x—G{z)
sia risolubile rispetto a ^ in modo univoco, cioè che se ne possa
dedurre
2 = H{x),
ove H è funzione di x.
In tal caso l' integrale definito \ F {x) dx è uguale a
l F[G{z)\ G {z) d;^, dove a e ^ sono i valori assunti dalla
z rispettivamente per a; = a, o ce = ò.
Così, p. es., l {x -4- dr\dx^ posto x'^-\- a^=z % quindi dx = dz,
diventa l z'"' dz che è, come sappiamo + C o log 1 -^ 1 -4- C
J m -\-\
secondo che m -f- 1 H= 0 oppure m -f- 1 = 0. Quindi ritroviamo
la formola nota (ponendo z=^ x -\- a).
^ (a;4-ar + ^
Cix -^aT dx= { m -f- 1
f logia; -
-f-Csèm-f-l=i=0
log \x-^ a\-^ C se m = — 1.
X
Così, se a-hO, posto a; = a^, dx = adz, z =: — , si ha:
r dx r adz 1 , , ^ 1 X ^ , ,^
/ -^ ■" = / -2-7-2 7\ == — 2irctg z-hC ^= — arctg h (7.
/» dx r adz r dz ^ ^ x
= / , = / — = = arcsen<^-4- (7 = arcsen
Va'—x' J\/a\l—z) JVl—z' CI
Così, posto ^ = cp (a:), dz = cp' (x), dx, si trova
r?^ ^x =r- = log M 1 4- c= log 19(^)1+0,
J ^ {x) J z
formolo tutte, che noi già conoscevamo.
Ben presto troveremo nuove importanti applicazioni di questo
metodo.
Y) Teorema di integrazione per parti. — Il teorema di inte-
grazione per parti non è altro che una differente enunciazione
della regola di derivazione del prodotto di due funzioni.
INTEGRALI 249
Supponiamo che u e v siano due funzioni continue insieme
alle loro derivate prime. Poiché
(iiv)' =^ uv + tiv\
per definizione di integrale otteniamo:
uv =^ ¥ {uv -4- uv) dx.
Ed essendo l'integrale di una somma uguale alla somma
degli integrali, è
uv =: i uv dx -h I uv dx.
Donde ricaviamo :
I li vdx =^ uv — 1 uv dx.
Posto V ^=^, u ^=^, sarà u = i c^ dx. E si ha il :
Teorema. — Se ^ è una funzione continua che ha per
integrale u, e ^ è ima funzione continua che ha per derivata
la funzione ^' pure continua, allora V integrale del prodotto ^^
è uguale al prodotto del secondo fattore ^ per l'integrale u del
primo diminuito dell'integrale del prodotto che si ottiene molti-
plicando V integrale trovato u del primo fattore per la derivata ^'
del secondo fattore.
Esempi :
1** Trovare :
log X dx.
Si può scrivere :
1 log xdx= \ 1. log X dx ;
e, ponendo
cp = 1, donde te =^ i 1. dx =^ i dx =^ x,
cj; = log a;, ò' =: — ?
X
si ottiene:
j 1 . log a; cZa; = a; log a: — / x— dx = x (log x — 1) -f- C
2** Così pure si trova:
f{a)-f{0)=ri. f\x)dx=[(x-a)fix)J~ C (x - a) f'\x) dx^-
250 CAPITOLO XII — § 75-76
Si ritrova così la forinola di Taylor, col resto sotto forma
di integrale (cfr. la (9) del § 69 a pag. 214, dove si ponga
h = a, a = 0).
3** Trovare: j\Yctg x dx.
Possiamo scrivere :
I arctg xdx ^= j 1 . arctg x dx ;
posto
dx
9=: 1, \^ U=^X,
t^ nz arctg x, \ 1 -h x^
Quindi :
I 1 . arctg X dx = X arctg x — 1 x ~ 2
= X arctg x — — - / 2 dx
= X arctg X r- log (1 -4- x~) -+- C.
§ 76. — Integrazione delle frazioni razionali.
1** Ci occupiamo naturalmente soltanto delle frazioni reali
(quozienti di polinomi a coefficienti reali). Diremo semplice ogni
frazione del tipo , cioè ogni quoziente di una costante A
per un polinomio di primo grado a; -4- a, ed ogni frazione del tipo
Mx-h N
X -{- px -h q
cioè ogni quoziente di un polinomio Mx -+- ^ di primo grado
per un trinomio x^ -h px -h g di secondo grado, purché
2 2
p p
~- — q<0 ossia q — ^ > 0,
4 4
cioè purché l'equazione x^ -h- px -h q ^= 0 abbia radici complesse.
^ . . . F{x) ,
Teor. Ugm frazione e somma
1 \X)
a) di un polinomio Q (x) (il quoziente ottenuto dividendo
P (x) per T (x) ; esso è nullo soltanto se il grado ^ di P (x) è
inferiore al grado t di T {x) ) ;
INTEGRALI 251
P) di frazioni semplici^ ciascuna delle quali ha per deno-
minatore uno dei fattori di primo o di secondo grado, in cui,
secondo il teorema del § 16, pag. 52-53, si può decomporre il
denominatore T (x) ;
Y) della derivata di una frazione
V{x)
il cui denominatore W (x) è il massimo comun divisore di
T (x) e T' (x), ossia è il polinomio che si deduce da T (x)
diminuendo di un'unità V esponente di ognuno dei suoi fattori
precedentemente citati, mentre V (x) è un polinomio di grado infe-
riore al grado di W (x). Cosicché, se T (x) è privo di fattori
multipli, W(x) è una costante (polinomio di grado zero), V{x) è
V
quindi nullo ; e questa frazione — è nulla.
W
Oss. Notiamo che in y) abbiamo dato due modi per calcolare
W (x). Secondo il caso, sarà più utile l'uno o Taltro procedimento.
Cosi, p. es., se
T(x)=^k(x-hai) {x-haof (a;^-4- ^x + g)M ^ — g < oV
P(x)
dal teorema precedente risulta che ogni frazione si può
decomporre nella somma: ^^^
a) del polinomio Q (x) ottenuto dividendo F (x) per T{x);
P) di tre frazioni semplici
Al Ao Mx + N
, , ^ ^ j
X -\- ai x -f- «2 (x -^ px -^ q)
Y) e infine di una derivata
d \h-^hix -^ho^x^ -\-hx^ -^h^x^
1
dx\_ {x -\- a^) \x^ -\-' px -\- qf
E noi, anziché dimostrare il teorema in generale, ci rife-
riremo per semplicità a questo esempio. La dimostrazione si
estende però al caso piiì generale soltanto con qualche compli-
cazione di notazioni.
Dm. Siano Q {x), R (x) quoziente e resto ottenuti dividendo
P(x) per T{x). Tale resto R (x) sarà di grado inferiore al
grado di T{x), che nel caso attuale vale 9. Potremo porre
P(X) .w^_^i^(^) .l^
252 CAPITOLO XII — § 76
dove R (x) è al massimo di ottavo grado. Basterà provare che
R{x)
^ . . si può decomporre nella somma di addendi P) e y) ; ossia
^ (x)
che si possono trovare delle costanti Ai, Ao, -M, N, òo, ^i, h, h, &4
cosicché sia
R{x) Al A2 Mx + N d
T{x) x-\-ai x-\-a2 x^-hxp-hq dx
L {x~¥a^^{x^+px-^qf J*
Il metodo migliore per calcolare Vidtimo termine (da se-
guirsi anche negli esercizi numerici) è quello di derivare ap-
plicando la regola di derivazione di un prodotto, considerando
p. es. nel caso attuale la frazione da derivare come il prodotto
di 60-+- hix-\-h2X^ -^ ...-\-ì)^x^ per {x 4- «2)" ^ e per {x- -^px-\-q)'' \
Si trova allora che la nostra uguaglianza diventa :
R{x) Al Ao Mx-hN bi-^2b2X-^.^.-h4hx''
T{x) x-^ai x-{-a2 x" -\-px -+- g (x + a^ {0? -\-px-^ qf
ì)^■^■llX-^ì)2X^^^,..^-ì)^x'' (6o + 6ia;4-...+ l^x'') (2:r4-;j) ^^j^
{x -f- a^f {x^ +px + qf (x + ^2) (x^ -^px + qf
Moltiplicando per — T{x) = (rr -h aO {x-\- a^ {x^-^px+qf,
rC
tutti i denominatori svaniscono ; e l'uguaglianza precedente
diventa :
— R{x)-=^ Al {x -H a^y- {o(? -hpx H- qf -h A2{x -h ai) (x-ha.d (x^-^px-^qf
rC
+ {Mx -h N){x-\- ai) {x -f- aaf {x" '\- px -f- qf
-\-(x-\- ai) {x -h «2) {x^ -^px -4- q) (h + 2 h.x -+-... + 4 hx^)
— (h-^hx-h ...'ì-hx^)ix-i-ai) {x^ -^-px-hq)
— 2 (òo -H òi a; -I- ... 4- &4 x') (2 X -i-p) (x + ai) (x -+- ^2),
dove il secondo membro è ancora al massimo di ottavo grado,
perchè ogni suo termine è stato ottenuto moltiplicando — - T (x)
(di grado nove) per una frazione il cui numeratore è di grado
inferiore al denominatore.
Se noi sviluppiamo il secondo membro, otterremo un'espres-
sione del tipo :
Co -^ CiX -h CoX' -h -h CiX' -\- C^X^j
INTEGRALI 253
dove evidentemente le d sono polinomii omogenei di primo grado
nelle 9 costanti da determinarsi -4i, ^2, ^, ^", &o, &i... &4. Se
— i^ ( jj) = To 4- ri a; 4- ... -I- rs x^,
k
la nostra uguaglianza diventa :
(
Co — ^0
(3)
C8 = r8
Le (3) sono eifettivaraente un sistema di nove equazioni
lineari nelle nove incognite Ai, A2, ,&4; le quali come ora
proveremo, si possono risolvere con la regola di Cramer.
Infatti, se la regola di Cramer non fosse applicabile alle (3), il determinante
dei coefiìcienti delle nove incognite in tali equazioni sarebbe nullo. E in tal caso
per il teorema del § 27 alle equazioni omogenee che si deducono dalle prece-
denti (3) sostituendo lo zero al posto delle r, si potrebbe soddisfare con valori
non tutti nulli delle incognite. Se le r sono nulle, anche It{x) sarebbe nullo.
Quindi, poiché le (3) sono equivalenti alle (2) e {2)in,, si potrebbe soddisfare iden-
ticamente alla (2) supponendo E (a?) identicamente nullo, e le J.,, A^^- h^ nno
tutte nulle. Dimostreremo che ciò è assurdo.
Infatti, se così fosse, da (2) si dedurrebbe in tali ipotesi :
d r bo4- -\-h,x' 1 __ Ay A, Mx -+- N •
dx\_{x-haj)(x^-f-px-h qfj~' ii? + a, x-\-a2 x^-\~px -\- q'
Se passiamo al limite per x — — a^,ì\ primo membro tende a un limite finito ;
altrettanto dovrà accadere del secondo membro. E quindi è A^ = 0.
Il secondo membro diventa per x = — a.^ infinito del primo (e non del secondo)
ordine (*) ; altrettanto dovrà avvenire del primo membro. E quindi b^-f- -j-h^ x^ è
divisibile per x -H a^. Ma in tal caso il primo membro è finito per x = — «j. Al-
trettanto deve avvenire del secondo membro. E quindi ^,:=:0.
Il secondo membro è infinito del primo (e non del terzo) ordine nei punti (com-
plessi) che annullano x^ -hpx-\-q. Come sopra se ne dedurrà che ho -h + h^ x^
è divisibile per {x^ -^ px -}- q}^ e quindi che illf=^::_0.
D'altra parte il polinomio ho-\-hiX-h + h^x^ di quarto grado può essere
divisibile per {x -h a^) e per {x^ -{■ px -^ qy\ soltanto se è divisibile per il loro pro-
dotto, che è un polinomio di quinto grado ; cioè soltanto se tutte le h sono nulle.
È dunque impossibile che R (x) = 0, se qualcuna delle nostre incognite
Ai,A^, ?>4 è differente da zero.
Il nostro teorema risulta cosi dimostrato ; e si vede in più
che gli addendi cercati sono determinati in modo univoco-
2° Noi dunque sapremo integrare ogni frazione, se sap-
piamo integrare
oc) ogni polinomio Q (x) ^= ko -h ki x -\- k^i x" -\- -h k,x' ; ^
(*) Quando naturalmente si assuma — — — come infinito principale.
254 CAPITOLO XII — § 76
p) ogni frazione semplice del tipo
A .
X -i- a
P') ogni frazione semplice del tipo
Mx -^ N
(£-,<o)
X' -\- px -h q
. . . d Vx
y) ogni espressione -r- T777-T •
dx W(x)
Ora gli integrali di (a), (P), (y) sono rispettivamente
ko X -h Ici -— -i- lu -— 4- + k, — -— -+- cost.
2 o s -t- 1
A log I a; 4- a I -f- cost.
-=r7-r -f- cost.
W \x)
Basterà saper calcolare l'integrale di p'), cioè :
A
Mx-^ N ^
dx
x^ -\- px ■+■ q
Ora:
y cioè k — y q —^ reale /
M / M\
Mx -f- N=--{2x +2?) 4- (-^— i^"^) •
Cosicché :
Jx^-hpx -h q 'ilJ X" '^px-\- q \ 2 / ^ x^+px-^ q
Ora :
r 2 ;r 4- 2? , , / 2 . ^
/ — — dx = log (x' 4- VX 4- g).
7 x^ 4- ^it; 4- q
E, poiché
a;' + i9a: + g = ( X- 4- ^ ) -^ k\
sarà : ^ ^ V 2 /
»
^(-f) .
(^a; 1 "' V^ ■ 2/ 1.^2
, ._, = -7- artg
x' -^ px -\- q I / , P \ 72 ^ ^^
(-1)
+ A:'
INTEGRALI 255
Dunque :
J^2^^^^^^^ = ^log(a^--i-i?a:-hj))-h-y==artg ^ -^ + cost.
/-f i/^-f
2/ nostro problema è completamente risoluto.
Così, p. es., per integrare
x^ -i- 2x^ -t 5x^ -{-x -hi
x'(x'-hlf
si ponga :
x'-h2cc^ -hòx^-i-x-hl _A Mx-hN d /bo-^hx -h b2X-\
xHx'-hlf "~^"^"^^T dx\ x{x'-+-l) /'
dove manca al secondo membro ogni polinomio, perchè nel primo
membro il grado del numeratore è inferiore a quello del deno-
minatore. Si trova :
A = l, M=0, N=l, 62 = 1, bi = 0, 60 = — 1.
E quindi l'integrale cercato vale:
x-'— 1
log I ^ I 4- artg X H -r^ — -4- cost.
^ ' ^ xix^ -h 1)
§ 77. — Integrazione di alcune funzioni trascendenti o irrazionali.
a) Sia f una funzione razionale (quoziente di polinomi) nella
variabile e". Si voglia calcolarne l'integrale 1 /'(e'") dx. Posto
e* =: z, zdx =^ dz questo integrale si riduce all' integrale
/ dz (che noi sappiamo calcolare) della funzione razio-
z
P) Sia F una funzione razionale delle funzioni goniometriche
sen X, cos x. tg x, cotg x, ecc. della x. Le formole ig x=^ >
cos X
cos X
cotg X = , ecc. ci permettono di trasformarla in una fun-
sen-T
zione razionale f delle sole variabili sen x, cos x. Per calcolare
256 CAPITOLO XII — § 77
l'integrale f (sen x, cos x) dx di una tale funzione, si ponga
a; = tg — - , cosicché j
2 ^ _ ciz
dx -
1 -\- z-
2 z 1 — z
sen X = 5 ; cos a: = — — — -
1 -\- z^ \ -)r z
Il nostro integrale diventerà :
2 z 1 — z^\ dz
J ^\l-^z'' 1 +// 1
H- ^'
-h z-
Oss. Se la /* è una funzione razionale delle sole sen^o?,
e si ridurrà cosi all'integrale, che sappiamo eseguire, della fun-
zione razionale
.( 2z l—z\ 1
Oss. Se la
cos^ X, tg :r, il calcolo diventa pili rapido ponendo z = tg x, e
quindi aa; = ? , sen*^ x = ^ , cos x ==-■ - — ; — ^ •
1 -\- z \ '\- z" 1 -f- ^"
Y) Si voglia calcolare :
(1) \ f \x, ]/ax^ '\- hx -\- e) dx (a, b, e = cost.)
dove f è una funzione razionale di a:: e yax^ -h bx -{- e, e quindi
irrazionale nella x. Distingueremo varii casi :
Y^) Supposto a > 0, porremo a = k'^, k = va, e
(2) Vax^ 4- 6rr 4- c= k {x ■+■ z),
dove ^ è una nuova variabile. Quadrando e risolvendo rispetto
alla X, si trova :
(3) a; = -— ; (a = 7r
& — 2 a^
e quindi :
— 2 a: / -h 2 aò-2f — 2 ac ^
(3)i c^o; = TT — 72 dz,
\b — 2 az)
e, per (2) :
,. / — i^ ^ , . / az^ -\-bz — e
(3)2 V ax^ -\- bx -\- e ^=^k (x -^ z) =. V a
b — 2 az
In virtù delle (3) e della regola di integrazione per sosti-
tuzione, rintegrale (1) diventa
e / az^ -h bz — c\ {az^ — bz -\r e) ^
V a — -— — ) —77 — r^— dz]
M?=
2az' b — 2az 7 (b — 2 azf
INTEGRALI 257
cioè diventa l'integrale di una funzione razionale della z^ che
noi sappiamo calcolare.
Y^) Si calcoli ora (1) nell'ipotesi a < 0. Se a, p sono le radici
di ao^ 4- òa; -h e = 0, è (posto a = — ^^) :
ax" -\-lx-\- c^=^a(x — a) (a; — P) = — Iz^ {x — a) (x — P).
Questo polinomio dovendo essere positivo, affinchè (1) abbia
significato reale, dovrà essere:
(4) {x — a) (x — ^)< 0,
cosicché le a, p non potranno essere complesse coniugate, né uguali
e reali (*). Le a e P saranno quindi reali e distinte. Dalla (4)
si deduce che x — a e a; — P sono di segno contrario, e quindi
che x — a e P — x hanno lo stesso segno, ossia che si può porre
X — a -^
f^^x"'^'
dove z è un'altra variabile reale. Risolvendo rispetto ad x si ha :
a -4- B ^^ • zdz
x = 2 ; donde : ^Zo; = 2 (p — a) — — — ^, ,
1 + ^ (1 + z)
Vax^-h hx-h c = \/a{x — a) (^ — P) = V — a{x — (x.){^ — x) =
f
*» Lr^ (P - ^)' = ''^^ (P - ^) = '^^ 1^
^ X L I Z
cosicché l'integrale (1) diventa :
P / , ,n ^ ^ \ ^dZ
^^^-^^f^T^'^^p-^^rb)
(1 -H ^y
che è un integrale di una funzione razionale delle z, e che noi
quindi sappiamo calcolare (**).
B) Il caso a = 0 è (per m = 2) un caso particolare dell'in-
tegrale
j / (a;, vhx -H e) dx (m = intero positivo) ; (6 =!- 0).
Questo integrale, posto V^ hx -^ e =^ z, x
z'^' — c
b
dz
dx=-z'^-^dz, diventa l'integrale^ j f ( — t"^, ^U'"-'
(*) Se a = a -{- ih, [i—a — ih con 6 = 0, o 5 ='f 0, allora {x — a) {x~^) =
= (aj — a)2 + b2^0.
(**) In 7') e 7^) l'in determinazione del segno per Vax^ -hhx -\- e corrisponde
all'indeterminazione del segno per k.
17 — G. PuBiNT, AnalUi matematica.
258 CAPITOLO XII — § 77
di una funzione razionale della z\ integrale che quindi sap-
piamo calcolare.
Oss. Il caso di una funzione /" razionale nella x^ \/bx -h e,
vhx + e, vhx -f- e, {p, g, r, interi positivi) si riduce subito
al precedente, assumendo per m il minimo comune multiplo di
i>r (1, r, ^
s) Calcoliamo Tintegrale f (x, \/ax-hb, Vcx -\- d) dx
(a,6, e, 6? = cost.) (a-i-0) di una funzione razionale /"di x, vax -¥h,
/ / — ■ — - z^ — h 2
V ex -h d. Posto z = \/ax -f- ò e quindi x = , dx ^= - zdz,
a a
, '^ ^ A- . 2f./-2r' — 6 l/c o ida-cì))\ -
questo integrale diventa - | / 1 , z, 1/ - r H ìzdz,
a -^ \ a fa a /
che è l'integrale di una funzione razionale divedi |/~'^^+(^ — ) ?
cioè un integrale del tipo che noi abbiamo già imparato a
calcolare in y).
?) Integrali binomi!. — Si voglia calcolare l'integrale l x'" (ax" -h hy dx
ove a, h sono costanti ed m, n, p numeri razionali. *^
A) Se -p è intero^ si ponga x = z% indicando con s il minimo comune mul-
tiplo dei denominatori di m, n, che per ipotesi sono numeri fratti (cfr. ò), e ci si
riduce al solito caso dell'integrale di una funzione razionale.
T
J5) Se p è una frazione — (con r, s interi), posto
.=(«..+!,) s.=('V):<«-=4(V)" '
'dt
il nostro integrale diventa :
s r* "'■ -^ ^ _ 1
£^, r+^-+-^ (t-h)-^ dt,
Il *j
1 +
na
che è l'integrale di una funzione razionale, e noi sappiamo calcolare, se — — -
è intero.
Possiamo trovare un altro caso, in cui possiamo calcolare il nostro integrale.
Basti osservare che, posto x = ~ , esso diventa
— 1 ijy {a -f hyy dy con /* = — (m -f 2 + wp)
che, per quanto dicemmo in B) sappiamo calcolare se ' è intero cioè se
e intero, cioè se -\-p e intero.
n ' n ^
In conclusione sappiamo calcolare il precedente integrale, riducendolo al
calcolo di una funzione razionale, quando è intero uno dei tre numeri
m + l m-hl
p, oppure — Y~' oppure—^ h p.
Oltre al quadro del § 74, C. pag. 244, noi ne daremo qui
un altro che riassume i più importanti risultati ottenuti fin qui.
INTEGRALI
259
QUADRO DEI METODI DI INTEGRAZIONE (cfr. pag. 244 e 190).
j (u -hv) dx ^^ i udx -+- j vdx -h cost. (integrazione per somma)
f{x) dx = f[x {z)\ X {z) dz + cost. (integrazione per sostituzione)
I uvdx = lev — j ì{vdx -+- cost. (integrazione per parti).
Se f indica nei singoli casi una funzione razionale della
variabile, o delle variabili da cui dipende
/ (x) ^x
Si calcola
scomponendo
/ (x) nella
somma di fra-
zioni semplici,
di un polino-
mio, e di una
derivata.
/■(sen X, cos x) dx
Si calcola
introducendo
come nuova
variabile di
integrazione
X
3 = tg ~. Si può anche porre
0 = tg ic, se in /"entrano solo tgx
e potenze ad esponente pari di
sen X, cos x.
f'(x, "yax + h) dx;
a, b — cost.; a^^-O,
(m intero positivo)
Si calcola
introducendo
come nuova
variabile di
integrazione
0 r= Vax -h h (*).
I f{x, v^ax^ -h hx-^c) dx
a,h,c
cost.
Si calcola,
assumendo a
variabile 0 di
integrazione
quella defi-
nita dalla
i^ax^ -j-hx-hc^ i/a{x -\- z)
se a> 0
se a
0, ed oc, ,3
^ - X
sono le radici di ax^-\-'bx^- c=0,
J / (oc, yax
Si riduce al |
_ caso prece-
h,i^cx-\-d)dx dente assu-
, , , , ^ I mendo a va-
a,6,o,d = cost.;a,c=r-0 l^-^^^^ ^^ ;„.
i tegrazione
z = i/ax -+- ì)
/■(e') dx
Integrali binomii
Si calcola
assumendo a
variabile'di
integrazione
cfr. pag. 258.
(*) Se capitano parecchi radicali z = 'i^ax -\- b, z = Vax -H h, ecc. si
porrà z = "l/ax -h &, dove m è il minimo comune multiplo degli indici //, v, ecc.
260 CAPITOLO XII — § 78
§ 78. — Integrali singolari.
a) Finora ci siamo limitati ad integrali di funzioni continue
neirintervallo considerato. Vogliamo ora definire gli integrali di
una funzione f{x) che neirintervallo (a, 6) che si considera è
dappertutto continua, eccettuato un numero finito di punti
singolari.
Ciò, per es., avviene se volessimo studiare l'espressione
r^ l 1
/ —7=dx, poiché —j= è singolare per ic = 0. Osserveremo
J Q VX VX
che, se s è un numero positivo piccolo a piacere, -7= è con-
Vx
tinua nell'intervallo £ 1; cosicché ha un significato perfet-
r' 1
tamente determinato lo / —7= dx, che, calcolato coi soliti metodi,
Je VX
si riconosce uguale a (2 — 21/s).
Calcoliamo ora il
—^dx=^ì\m{2 — 2-\/^).
a VX f=o
Tale limite esiste ed é uguale a 2.
E noi porremo per definizione
/—-=. dx = lim / -7= dx = 2.
„ VX £ = oj£ yx
Più in generale, se nello / f{x)dx è, per esempio, a<b
.y a
e la f{x) è singolare in a, ma é continua nell'intervallo
'a-f-£, b, dove £ é un numero positivo piccolo a piacere
(e < 6 — a), allora noi cercheremo il lim / f{x) dx. Se questo
£ ^0 J a -f- t
limite esiste ed è finito, porremo per definizione
I f{x)dx=^ lim I f(x)dx.
Se invece tal limite non esiste 0 non è finito (come, p. es.,
r^ dx \
avviene di lim / ), tale integrale sarà per noi un simbolo
f«=o ^ a-[-a X — a/
privo di significato.
INTEGRALI 261
Analogamente si procederebbe, se f{x) fosse singolare in h.
Se f{x) diventa singolare in un punto e (*) interno ad (a, 6).
allora se esistono, secondo le definizioni ora poste, gli integrali
j /"(a;) e^o: e f{x) dx, si pone per definizione
r f(x) dx = C f{x) dx + f f{x) dx.
P) Può esistere una funzione f{x) che è singolare in e, pure
essendo finita: p. es. una funzione discontinua nel punto e. 11
caso più notevole è che siano finiti il lim f(x) ed il lim f(x),
a5 = c — 0 x==c-j-0
ma che tali limiti sieno differenti l'uno dall'altro. Ciò, p. es.,
IT ""■" C
avviene per la funzione sen x -+- -r~ r- In tal caso la nostra
\x — c\
definizione si può esporre in forma piii semplice. Se, p. es., a < 6,
consideriamo in (a, e) una funzione fi (x) che, per x =^.^ e sia
uguale ad f{x) e nel punto e sia uguale al lim f{x) ed in (e, 6)
una funzione ^ (;r) che nel punto e sia uguale al lim f(x),
aj = c -j-O
e nei punti x =h e sia uguale ad f(x). Sarà:
j f{x)dx=\ fi (x) dx -h 1 f2 (x) dx.
Per l'esempio ora citato sarà se a <c <b
I \senx-i-- r\dx = I i~'l + senx)dx-{- 1 (~hl-hsenx)dx:
Y) Se f-(x) è definita nell'intervallo (a, H- oo ) e se esiste ed
è finito il lim / f{x)dx, noi porremo per definizione:
1 f{x)dx=^\\m j f{x)dx.
Analogamente, se f{x) è definita i^er x^a, porremo per
definizione
f(x) dx = lim / f(x) dx^
00 k = — v: \J k
(*) Si può porre una definizione analoga nel caso che vi sia un numero finito
di punti singolari.
262 CAPITOLO XII — § 78
se il limite del secondo membro esiste ed è finito. Infine porremo,
se f(x) è definita per ogni valore della x,
fix)dx^= lim / f{x)dx,
■<X ft = OD %/ Ti.
i =. -I- X
se il limite del 2"* membro esiste ed è finito.
Così, p. es., essendo
r* 1 ri T
lim / —^dx= lim =1,
k^-\-»> J 1 x t-x |_ :c Ji
e :
/
-j dx ^= l.
1 x
Così, poiché lim l cos x dx = lim (sen k) non esiste, non
fc = co «^0 À; = OD
ha alcun significato l'espressione cos x dx (*).
Agli integrali di questo paragrafo si possono in molti casi
estendere le regole di integrazione per somma, per sostituzione,
per parti.
Così / 7 ^ dx esiste, se esiste ed è finito il lim / t- -r-^ dx
(ove £ abbia il segno dìh — a) cioè il lim 1 ^^ 7 ^ ' — T — ;; I se n 4=1, oppure
^ ° £==0 L 1 — ^ i — nj
il lim f log i b — a I — log 1 £ I se w = 1. Questo limite è infinito per w^ 1, finito
£•=0 L J M i. 1 ••
per w < 1. Sia f{x) una funzione continua nell'intervallo (a, ì)\ il punto a al pm
escluso ; esista un intorno (a, e) di a [e compreso fra a e h], tale che in esso
I fix) l < ^ 7 — ^— T- con A:, n costanti, ed n < 1. Definiamo due funzioni ? (a?) e
' ' ^ ^ ^ {x — af '
•i(a;) ponendo o{x) = f{x) ^ ^{x) = Q nei punti ove f(ic)>0; ponendo ^(a;) =
__^(ic)^ ^{x) = 0 nei punti ove f(x)^0. Le ^(a;), t(a;) saranno funzioni con-
tinue positive 0 nulle (escluso al più il punto x — a\ non superiori ad I f(x) 1 .
Ora sia / f (x) dx che / ^ (x) dx variano nello stesso verso quando £ (che ha
il segno di h — a) tende a zero, e perciò tendono per £ = 0 ad un limite. Poiché
p. es. f f{x)dx= f f{x)dx-\- I f (x) dx, e ? (x) nell'intervallo («4- h e) non
(*) Si lascia al lettore di completare le precedenti definizioni, per il caso che
neirintervallo (a, -f- oo) o (- oo, a) o (— <x, oo) vi fosse un numero finito di punti
singolari per f{x).
INTEGRALI 263
supera | / (ic) 1 ^ -^ -:^^^ Ise | s i < i e — a 1 ], lo / ^{x)dx non supera in valore
»y a -
(^-«)" -/.+ e
assoluto l'integrale di -, — _ . , che tende per -: = 0 a un limite finito. Perciò
) dx tende per e = 0 a un limite finito, che sarà il valore di / ^ (^) ^^ ;
/v (a:) dx tende per e = 0 a un limite /iwifo, che sarà il valore di /
altrettanto dicasi di / ^ (x) dx. Poiché f{x) = e (a?) — 4- (x), lo integrale / f{x) dx
esisterà dunque, se in un intorno di a vale la
I f(x) \ ^ ^^ _ ^y (/^, w costanti ; w < 1)
ossia, come si suol dire, se f (x) e per x — a = 0 infinito di ordine non maggiore
di n <1.
In modo analogo si prova che se, per x abbastanza grande, la funzione con-
tinua f{x) soddisfa alla i /(ic)l ^^— ^ (A;, « cost.; n> 1), ossia se f(x)per x = qo
X
diventa infinitesima di ordine non minore di n> 1, allora esiste Io
Osservazione.
r fij)àx.
Certe frazioni razionali si possono integrare in modo sem-
plice e diretto.
jTuiiiauiu, p. e:
»., JL„ -
-J (:r^ + ir""^^
n e un Ili tei U pU!»l-
tivo. Integrando
per parti si trova:
T "" IO
'fr
J (x
x^ dx X
ra+x^)dx
" ix' + ir ' '
„ r dx
'Vix^ + D
71+ 1 —
^ f 9 11 r
— 2 w 7„ + i + cost.
■(X^ + l)n ' 2»/..
donde :
/« ^_ 1 =
1 X 2 w— 1
I„ + cost. .
Ora, essendo Ji = arctg a;, la formola precedente pern = l, 2, 3, ecc.
permette di calcolare successivamente J2, J3, ecc. (cfr. la seconda
formola di pag. 245.
264 CAPITOLO XII — § 79
§ 79. — Integrazione per serie.
a) Nel paragrafo precedente abbiamo dato, partendo da
alcune formole di calcolo differenziale, metodi che in qualche
caso particolare servono a calcolare gli integrali di una fun-
zione continua. Ma poiché ogni funzione continua possiede inte-
grali, sorge spontanea la domanda: Come si calcolano, almeno
approssimativamente, gli integrali di una funzione continua, al
calcolo dei quali non bastino i metodi esposti nei precedenti
paragrafi? L'importanza di questa domanda si rileva tosto,
appena j^i ricordi che anche l'integrazione di una funzione razio-
nale richiede la risoluzione di un'equazione algebrica: che noi
sappiamo costituire un calcolo spesso ben lungo, anche se si
vuole soltanto una piccola approssimazione. Di più si noti che
quando, per es., diciamo che / — c^x = log | .t | 4- Ce asseriamo
perciò che sappiamo integrare — , ciò è dovuto soltanto al fatto
che nelle tavole logaritmiche abbiamo un mezzo per calcolare
/>
con sufficiente approssimazione i valori di / -^ dx. Si tratta
dunque di trovare un mezzo per calcolare approssimativamente
un dato integrale o, se si vuole, di costruire per ogni dato
integrale delle tavole numeriche, che compiano per esso l'ufficio
che le tavole logaritmiche hanno per l'integrale / — dx.
J X
Varii sono i metodi a tal fine, e di essi noi parleremo anche
in altri capitoli. Per ora parleremo soltanto del metodo che
ricorre agli sviluppi in serie. Il teorema su cui si basa tale pro-
cedimento, è il seguente:
P) Se nell'intervallo finito (a, b) la serie di funzioni con-
tinue
f{x) = Ui {x) -\- u. ix) -4- 1^3 {x) -H = 2 Un . (1)
è totalmente convergente, allora (per a ^ x ^ b) Zo J f (x) dx
esiste ed è uguale proprio alla serie degli integrali
Jx ,^x , a;
Ui {x) dx + u-i {x) dx -^ \ u-s (x) dx H- (2)
INTEGRALI 265
Divideremo la dimostrazione in 3 parti:
V La serie (2) converge. Infatti, se Mn è il massimo
di \unix) i, la nostra ipotesi equivale a questa che la serie S„ ilf„
converge. Dalla | Un (x) \ ^ Mn segue (§ 74, pag. 243) che
I 'I Unix) dx\^Mn\x — a\;
dunque la serie (2) converge assolutamente, perchè così av-
viene della S Mn \x — a j, ottenuta moltiplicando per \ x — a\
la serie convergente S Mn-
2^ La serie (2) è un integrale indefinito di f(x). Infatti
la serie (1), ottenuta derivando (2) termine a termine, è total-
mente convergente, e pertanto (§ 65, pag. 206) è la derivata
di (2); cioè (2) è un integrale indefinito di f{x),
3° La (2) vale proprio | f (x) dx. Essendo
F{x) =jf{x) dx, èffix) dx = F(x) — Fia).
Ora, ponendo x = a in (2), i termini di (2) si annullano.
Pertanto F{a)=:0; e quindi f f(x)dx = F(x). ed. d. (*)
Si deduce tosto la seguente osservazione notevolissima. Se
una funzione f(x) non si sa integrare coi metodi da noi svolti,
ma se si sa sviluppare f(x) in una serie totalmente conver-
gente, i cui termini hanno integrali noti o facilmente calcola-
re
bili, allora si può avere un valore approssimato di I f(x)dx,
J a
calcolando la somma degli integrali dei primi n termini della
serie considerata, se n è abbastanza grande. Nei casi più co-
muni basta lo sviluppo in serie di Taylor. E si noti che a
pag. 218 e seg. proprio con questo metodo abbiamo trovato le
serie così comode per calcolare numericamente le funzioni
log (1 + X) ^l ^^dx; artg .: =f^ ^^_
dx
-2*, arcsena; =
=/
Vl—x"
(*) Non vale un teorema analogo per integrali indefiniti ; ' e ciò, perchè le
costanti arbitrarie che figurano nell'integrale indefinito di ogni termine di (1) po-
trebbero esser scelte in modo che la serie
r fu, {x) dx + C_>~| -f r ìu^ {x) dx + C.l -h ....
sia divergente.
V
266
CAPITOLO XII
§ 79
Esempio.
Voglio calcolare il tempo T impiegato da un pendolo OP che
oscilla attorno 0 nel passare dalla posizione OF alla posizione
OQ simmetrica di OF rispetto alla
verticale OV, Detto 0 l'angolo di
una retta Oilf con OV^ questo an-
golo durante Toscillazione varierà
da un minimo — a ad un massimo
a=F(0)e(fig.31).PostoOP=Z
la forza viva del pendolo, quando
esso si trova in Oi¥, è data da
— -mr— -5, se la massa vale m,
2 dv
e t indica il tempo. Questa forza
viva è uguale al lavoro
mgl (cos 0 — cos a)
eseguito dal pendolo nel passare dal
piano orizzontale a cui appartiene F al piano orizzontale cui
appartiene M {g = costante di gravità). Quindi :
Fisr. 31,
m ,0 tZ0^ . ^ \ 7 j j a
— r --f2~'^9 (cos0 — cos a)/, donde t =
e quindi T=l/
dB
^9 j/cos0-cos
0 a . .
Posto sen — = sen — sen cp, si ottiene
2 2
r 9 ^\/l—K' ser ^
dove si è posto h = sen -- . E quindi \h\< 1
|/l — /l'sercp
(1 — h^ sen- cp)
= 1 -^^ h' sen'cp+ ^i^ h'sen'^-i- ^^ h' sen' 9
2^12
2^13
INTEGRALI 267
donde
T=|/:
J ] I ^ ^ "^ 2 ^^' ' ^^^' "^ ^ ^
1 • 3 ,4 / " 4 ^ 1.3. 5 T' 6 . ,
/i' / sen> c? 9 -4- ^^ / sen'^d^-¥-
Se a è cosi piccolo da poter tener conto del solo primo
termine, si trova la formola classica T=n\/ —.
r 9
Nel caso generale invece è:
r=,|/I|.*J,*-.(i^p...(Vtl)''.--..-|
Qual è p. es. l'errore commesso se oc non supera l'angolo
di 10 gradi, quando si tenga conto del solo primo termine?
268 CAPITOLO XIII — § 80
CAPITOLO XIII.
CALCOLO DIFFEREiNZIALE
PER LE FUNZIONI DI PIÙ YARIABILI
§ 80. — Continuità. Derivate parziali.
a) Al § 41, pag. 137, abbiamo già visto che alle funzioni di più variabili si
può estendere sia la definiz. di limite, che quella di continuità, ecc. Vogliamo qui
aggiungere un'osservazione, che per maggior chiarezza esporremo p«T una funzione
di due sole variabili f{x,y). Sia essa definita in un intorno j del punto ic = a,
y=h ; e siano x = a-\-M, y ~l)-\-kt{]i,Jc cost.) le equazioni parametriche di
una retta generica r uscente da tale punto. La f diventerà funzione del solo para-
metro t, se ci limitiamo a considerare i punti di r interni ad j, e i valori ivi
assunti da f. Questa funzione di t sarà continua per t ^= 0 (qualunque siano h, 7c,
cioè qualunque sia la r considerata uscente dal punto [a,!)]) se la f(x, y) è con-
tinua nel punto (a, b).
Il teorema reciproco non è vero, cioè: Se f(a-i-ht, b-f- kt) è funzione
continua per t.— 0, qualung^ue siano h, k, la f(x, y) può non essere continua
nel punto (a, b). Infatti da tale ipotesi segue che, scelto un f > 0 arbitrario, su ogni
retta r uscente da (a, h) esiste un intorno B, tale che per i punti (x, y) di questo
intorno vale la \f{x,y) — f{a,'b)\<,£. Ma al variare di r, può variare la lun-
ghezza di questi intorni B ; se anzi questa lunghezza ha limite inferiore nullo, tutti
questi intorni (uno su ogni retta uscente dal punto [a, b]) non riempiono alcun
intorno j del punto (a, h) nel piano ; cioè non esiste alcun numero o > 0 tale che
ogni punto soddisfacente alle \x — a\ <C^, \y — ^\ <^^ appartenga ad almeno
uno di questi intorni B.
Sia f{x,y,z, , t) una funzione di più variabili x, y,
z, ...., t.. Se diamo alla y, z, ...., t valori determinati 6, e, ....,6?,
la f si ridurrà una funzione della sola x. Se tale funzione è
derivabile (rispetto alla x) nel punto x=^a^ noi chiameremo
tale derivata la derivata parziale di /"rispetto alla x nel punto
x=^a, y = b, , t =^ d ; e la indicheremo con f^ (a, b, , d)
0 con ( ^ ) . Se poi questa derivata esiste non
solo in un punto, ma in tutto il campo ottenuto, p. es., facendo
variare x, y, , t in certi intervalli, questa derivata sarà una
funzione delle x, y, , t in tali intervalli ; e si indicherà pili
semplicemente con f'^ o con ^^ • E, se si vuol ricordare, come
talvolta è opportuno, che per calcolare tale derivata si è comin-
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 269
eiato col dare alle y^z^ , ^ valori determinati, si suol indi-
care tale derivata col simbolo :
if ^y^z^ ,< = co8f. 0 Iv:)
\VX/ y^z, ,t = C08t.
E ancora da ricordare che nei casi piti comuni si può cal-
colare f^ in un dato punto, derivando la f rispetto alla x e
considerando y, z, , t come costanti, e, soltanto dopo aver
eseguito la derivazione, sostituire alle x, y, z, , t le coordi-
nate del punto che si considera.
Altrettanto dicasi per le derivate parziali della f rispetto
alla y, o alla z, , od alla t.
Queste derivate f'^c, f'y possono a loro volta essere fun-
zioni derivabili e possedere derivate parziali. E noi con
.' -IL f -IL f -li. .
indicheremo rispettivamente le derivate di /"',; rispetto x, y, z, ecc.
indichiamo le derivate di fy rispetto x, y, ecc.
Queste nuove derivate si diranno derivate parziali (del
secondo ordine) della f.
Le derivate di queste, se esistono, si diranno derivate par-
ziali del terz' ordine e così via. Così, p. es. :
f
(5)
xyxzy
n
'òx 'òy "òx ^z ^y
sarà quella derivata del 5° ordine, che si ottiene derivando f
rispetto alla x, la derivata f^; così ottenuta rispetto alla y,
la derivata f'^y così ottenuta rispetto alla x, la f'xyx così cal-
colata rispetto a ^, e infine la f'xyxz così ottenuta rispetto alla y.
Così, p. es., se
f tr, y, z) =^ x^ -^ y'^ -\- z^^ -^ xy -\- 2 yz -^r ^ zx,
per ottenere f^ si deve derivare rispetto alla x considerando
le y, z come costanti (espressioni aventi derivata nulla rispetto
alla x). Si ha così che ?/'\ /, yz hanno derivata nulla, xy ha
per derivata y, ecc. ; cosicché :
e X
270 CAPITOLO XIII — § 80
Analogamente si troverebbe :
3 f
j-^ = /"v = 2y+x+ 2z,
Ciascuna di queste tre derivate è a sua volta una funzione
delle X, y, z, che si può derivare rispetto alla x, o alla y, o
alla^. Si hanno così 3. 3 = 9 derivate del secondo ordine della
Cosi, p. es., derivando y~ ^== fx rispetto alla x, o alla z/,
VX
0 alla z, si ottengono le tre derivate che indichiamo rispettiva-
mente con
ì)x'~' '''''òx:)y~' ''''òx'òz~'
XZ J
e che, nel nostro caso, sono ordinatamente uguali a 2, 1, 3
In modo simile si trovano le altre 6 derivate del 2"" ordine
yz
^y-òx^' '""'^y'"' '''lìylìz~' ^
^y _ /." ^y _ />" ^— f"
Dalle derivate di second'ordine si giunge facilmente alle
derivate di terz'ordine e di ordine superiore mediante nuove
derivazioni rispetto alle variabili x,y, z ] tutte queste derivate
sono nell'esempio precedente uguali a zero.
P) Non tutte le derivate successive definite in a) sono però
distinte, almeno finché restiamo nel caso più comune ed im-
portante di funzioni aventi finite e continue tutte le derivate
che consideriamo e finché consideriamo soltanto punti interni alla
regione, ove sono soddisfatte queste condizioni. Noi dimostreremo
infatti che per tali funzioni Tordine in cui più derivazioni si
eseguono non ha alcuna influenza sul risultato finale : che p. es.,
se f è funzione delle x, y, z, valgono nelle nostre ipotesi le
uguaglianze :
/ x,x,y,z / x,y,z,x / x,z,y,x / y,x,z,x cv/iy.
perchè tutte queste derivate sono state ottenute derivando due
volte rispetto alla x, una volta rispetto ad y, una volta rispetto
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 271
a z. In altre parole, le operazioni di derivazione parziale godono
della proprietà commutativa^ così come ne godono i fattori di
un prodotto.
E, come, per dimostrare questa proprietà per i fattori di un
prodotto, basta dimostrarla per i prodotti di due soli fattori,
così a noi basterà provare che :
iSe la funzione f (x y) possiede in un punto {*) finite e
continue sia le f x, f V che la derivata f % ottenuta derivando
prima rispetto ad x e poi rispetto ad y, essa possiede in tale
punto anche la f "yx ; ed è in tal punto f"xy =^ f "yx-
La f"y3, è definita come il lim -ri fyi^-^^yl/) — f'yi^^y)
h=o n [_ J*
Si deve dimostrare che questo limite esiste ed è uguale a f'^
Poiché fyil tj) = lim f^^^y-^^'^ — f^i^y) ^ il lij^ite da esa-
minare è
lini \ \ lim fi^-^^^y-^^^^-fi^-^Ky) _ lij^ fix,y-hk)-f{x,y) j
cioè è il limite di
1 i fix -\-h, y-\- k) — f(x + h, y) f{x,y-^ k) — f{x, y)
k
(1)
quando si passi al limite prima per ^ = 0, e poi per h ^= 0.
Posto 9 (a;) = z—^ — ^^,la (1) diventa y '
cioè per irteorema della media ^^xix -^^h), dove 0 < 9 < 1, ossia
(h (y _|_ y^) ci) {^y\
la (1) diventa dunque ^—^— * — '— , cioè per il teorema
rC
della media 4>' {y -\- o' k) ossia f'^y {x -\- ^ h, y -^ ^' h), dove
ancora 0 < 0' < 1.
La fxy nel punto che si considera è continua ; il limite di
fcy {x-\-^h, y -\- ^'k) per /i = 0, k = 0 è perciò (in qualunque
modo si faccia il passaggio al limite) f'xy {x, y). Il limite che
noi cercavamo, cioè il valore di f'y^, esiste dunque ed è uguale
a f'xy, come volevamo provare.
(*) Suppongo tale punto interno alla regione ove f{x,y) è definita ed ove,
per le stesse ipotesi del nostro teorema, esistono le /'^r, f'y, f'xy.
272
CAPITOLO XIII — § 80-81
B;
Notiamo un semplice corollario, che è una generalizzazione del teorema della
media. Il rapporto
1 l f{x^h,y-^h)-f{x^h,y) __ f(x,y + Tc)-f{x,y) ) _
li ) Jc ìc ) ~
_f{x + h,y + 1c)-~f(x-hh,y) — fix,tj-h1c)'+-t{x,y)
~ hk
ha per h = k — - 0 per limite la derivata mista nel punto (x, y) ; esso stesso,
prima di passare al limite, vale la derivata mista in un punto (diciamo così)
intermedio x -|- o h, y -|- ^' k. [Precisamente come ^-^^ ^ '^—^ ha per h = 0
il limite f' (x) e prima di passare al limite vale «-' {x-\-o h), se *' (x) è nell'inter-
vallo {x, X 4- /<) determinato e finito]. Nel caso attuale si suppone che la derivata
mista sia anche continua.
§ 81. — Teorema della media per funzioni di due o più variabili.
Se 9 (x) è una funzione derivabile della x nell' intervallo
(a, a -f- /^) il teorema della media si enuncia con la formola :
cp (a -H /^) — 9 (a) = /i ^' {a 4- 0/^), dove 0 < 0 < 1.
Troveremo una formola analoga per le funzioni di più variabili.
Sia f{x, y) una funzione di due variabili x q y definita in
un campo R e derivabile in tutto R sia rispetto alla x che
rispetto alla y. Sia A un
punto di R di coordinate
f X Qy: Q B (fig. 32) un
altro punto del campo di
coordinate x-\-h,7j-\-k.
Per passare dal punto ^
al punto B si può, p. es.,
seguire una spezzata, di
cui un segmento è pa-
rallelo all'asse delle x e
i l'altro segmento è paral-
: lelo all'asse delle y. Se
: questi due segmenti sono
j ■ -^ interni al campo i?, e C
p- 32 è il loro punto comune,
il punto C avrà per
ascissa l'ascissa di 5 e per ordinata la ordinata di A (*).
Allora la differenza f(x-^h,y-^rk) — f{x,y) si può porre,
0
(*) Supponiamo dunque i segmentile, CT interni al campo che esaminiamo ;
nel precedente § 80 non si è fatta analoga ipotesi, perchè superflua, in quanto
che h, Jc si supponevano tendere a zero, ed il punto (x,y) si supponeva interno
al campo R.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 273
aggiungendo e togliendo il valore della funzione nel punto C,
uguale a
[f{x -¥h,y-^k)— fix + h, y)] + [fix + /^, y) — fix, y)]
che è la somma di due diiferenze.
Se considero x ed h come costanti, la f(x-+- h, y) si può
considerare funzione della sola y, ponendo f{x-[- /^, ?/) = 9 (y).
Sarà allora :
f{x'th,y-^k) = ^{y-i-k),
cosicché :
fix -¥- h,y -h k) — fix -4- h, y) = ^ iy -hk) — ^ iij),
che per il teorema della media (per le funzioni di una
sola variabile) è uguale a
k^'yiy-{-^k) (0<G<1);
cioè, essendo
^'yiy -^ U) ^ fyix -^ h,y -^ U\
sarà :
[fix -^h,y-hk) — fix -h h, y)] = kfy ix -hh,y -\-Q k).
Analogamente si dimostrerebbe :
[fix -\-% y) - fix, y)] = hf, ix -4- 0'/^ y) (0 < G' < 1).
Sommando membro a membro queste due ultime uguaglianze
si ottiene :
fix -\-}i,y-^k) — fix, y) = hf, ix + ^'h, y) -h
H- kfy ix -\-h,y -^ ^ k).
Quest'ultima formola estende il teorema della media sl fun-
zioni di due variabili. Essa ci dice che la differenza dei valori
della funzione f (x, y) in due punti (x-{- h, y-4- k) e (x, y) è uguale
alla somma del prodotto di h per la derivata parziale della
funzione data, rispetto alla x, calcolata in un punto intermedio
del segmento (x, y), (x 4- h, y) e del prodotto di k per la deri-
vata parziale rispetto a y della funzione data, calcolata in un
punto intermedio del segmento (x + h, y), (x -I- h, y -h k).
Qui si suppone soltanto che le f^, f'y esistano (e siano quindi
finite).
Scambiando gli assi delle x, y si ottiene una nuova for-
mola della media.
Altre formole si potrebbero ottenere variando la linea che
congiunge il punto A al punto B.
18 — G. Tubini, Analisi matematica.
274 CAPITOLO XIII — § 81-82
Più avanti, p. es., daremo un'altra formola ottenuta con-
giungendo A con B col segmento rettilineo AB, imponendo però
alle fa:, fy 1^ Ulteriore condizione di essere funzioni continue.
Il teorema della media si può estendere in generale alle fun-
zioni di n variabili con metodi e ragionamenti affatto analoghi
a quelli da noi adoperati nel caso di funzioni di due variabili.
Se f(x, y, z, t) è una funzione di n variabili, si trova la
formola generale :
f{x -^ h, y -^ k z -[- l, t -\- m) — f{x, y z, t)=
^= hf'^ (x -^ (jh, y z, t) 4-
-f- kfy {x-i- h,y -h ^'k, , z,t)-^
-4- Ifz (x -+■ h,y-\- k , z 4- 0" l, t) -+-
-h mft {x -{- h,y -\- k, , z -\- l, t -h 6'" w).
§ 82. — Differenziali.
Supponiamo che f^ e fy siano tutte e due continue. Allora
sarà :
lim fa, {x -h^h,y)=^ /"« {x, y)
e lim If^ {x-h ^h,y) — f„ {x, y)] = 0.
Ponendo :
f, (x 4- 0 h, y) — f, {x, y) == a,
si ha : f, {x + 0 h, y) = f^ {x, y) -4- a. (1)
Con le stesse considerazioni si trova che :
fy {x-\'Ky-^^'k) = fy (x, y) + P, (2)
dove a e p sono delle quantità che tendono a zero con h e k.
Dalla formola che esprime il teorema della media, ricordando
la (1) e la (2), si deduce '-
f{x ^h,y^k)- f{x, y) = h [f. (x, y)-hcc]-h
4- k [f (x, y) 4- ?>] = [hf, (x, y) 4- kfy ix, y)] +
4- [a/^4- ^k]. (3)
Questa formola dice che la differenza f{x-\-h,y-hk) —
— f(x, y), incremento che la funzione f subisce nel passare dal
punto A = (x, y) al punto ^ = (x 4- h, y 4- k) è la somma
di due quantità : la prima : hf^ 4- kfy che è nota, la seconda
oLh-^^k che è una quantità incognita, infinitesima di ordine
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 275
superiore rispetto a yh^ -h /r, perchè a, p, come sappiamo, ten-
dono a zero per /z = 0, k = 0. La prima quantità kf^^ H- kf'y sarà
detta differenziale della funzione e sarà indicata brevemente col
simbolo df.
Possiamo dunque scrivere, quando l'incremento
f{x 4- h,7/-^k) — f(oc,y)
della funzione si indichi con A f
Af=df-hioLh-h?>k).
Osserviamo che, se f(x, y) =^ x, è f'^, ^= 1, f'y = 0 ; e quindi
dx = h .1 -h k .0 = h.
Analogamente il diiferenziale dy vale k.
Il differenziale della funzione generale f{x, y) sarà dunque
df=^ fa dx -h fy dy =^ ~- dx -\- Y~ ^y-
Ne risulta confermato che ^— e c-^ non sono (almeno secondo
dx oy
le definizioni qui poste) (*) quozienti di differenziali, ma veri e
proprii simboli.
In modo analogo si pone per una funzione di pili variabili
f{x,y, , ^, 0 13. quale possegga derivate prime continue:
df=^ f^ dx -h fy dy -4- -4- f\ dz 4- ft dt.
E evidente l'analogia di questi ragionamenti e di queste
definizioni con le corrispondenti proposizioni relative alle fun-
zioni di una sola variabile. Nel caso "attuale si è dovuto soltanto
ammettere in piii la continuità delle derivate prime della f.
§ 83. — Derivate delle funzioni di funzioni.
(Funzioni composte).
a) Sia z una funzione f{x, y) di due variabili x, y, le quali
sieno funzioni di una variabile t. Quando t varia in un certo
intervallo y? il punto {x, y) varii nel campo ove è definita la z,
cosicché la z sia funzione della t nell'intervallo y.
Siano fx, f'y finite e continue, Xt e y't finite. Quando la t
riceve un incremento A^, siano ^x, A?/ i corrispondenti incre-
(*) Si potrebbero definire dei differenziali parziali e) .r / = / 'r c^^ ; à„f = f',/dij.
e interpretare allora y- e y^ come quozienti, i cui numeratori fossero àxf^àvf,
e i denominatori dx, dy. Ma ciò porterebbe soltanto complicazioni.
276 CAPITOLO XIII — § 83
menti delle x,y\ e sia A ^ il corrispondente incremento della 2,
Sarà per il teorema della media :
A ^ = ^(.r + A X, .?/ + A ^) — f{x, y) =
= ^xfAx-\-^^x,y)-\-^yfy{x-^ ùix, y-h^' Hy)
(o<e<i) (o<0'<i).
Donde
A z A^
lim — = lim f, (x 4- 9 A :r, ?/) lim — -h
-f- lim fy {x-\- l^x.y-^^' ^y) lim -^ •
Poiché per ipotesi x\ e ^'t esistono e sono finite, è lim Arr ^=^
= \ìm ^y^0.
Ricordando che f^ e /^',/ sono finite e continue, se ne deduce
A-^
che z't = lim — - esiste, ed è dato dalla :
A^
1) z dx 2zdy
,', _ z'. x\ + z\, y\ - ^ -- -^ Yytt' (1)
Sciasi considera come variabile indipendente (§ 53, pag. 177), è:
dz = z'i di
dx = x\ dì
dy — y\ dt
u Z u Z
Cosicché per (1) dz ^= z'tdt =^ :r- dx -{- ^ dy come al prece-
dente § 82. ^^ ^^
Riconosciamo dunque anche in questo caso più generale
(cfr. § 59, pag. 187) che il differenziale primo di ima funzione
è dato sempre dalla stessa formola, qualunque sia la variabile
indipendente.
E si osservi che, se si scrivessero le derivate parziali coi d
latini, tale formola assumerebbe l'aspetto
dz dz dx dz dy . .
— ^=z 1 ~ ì (a)
dt dx dt dy dt
che taluno potrebbe essere tentato di semplificare, ottenendo
, dz dz dz ^ ... X • / \
1 assurdo ^ = t" "+" "T" • Le notazioni usate in (a) possono
dt dt dt
perciò portare a gravi errori di calcolo.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 277
Si ha pure similmente, ricordando che z\, Zy sono funzioni
di X, y, entrambe funzioni della t, che :
dt " Tìx'"''^ ^y^'~~' ^^^'~^' ^^y^^
dz\,
se le derivate seconde di z sono finite e continue.
In tale ipotesi si deduce, derivando (1), che :
d'z 3^^ /^^V-4- 9 ^"'^ dxdy d~z / dy\-
■^ ix^ydi/ lix'iv dt dt dy~ K'òt /
df "òx^ \dt/ 'ix lìy dt dt dy
^òz £''x 3 z d^y
'òx df l}y df
(2)
P) Analogamente, se fé funzione delle n variabili xi, x->, x^,
tutte funzioni della t, e se la /* stessa si può considerare come
funzione della t in un certo campo, sarà con ipotesi analoghe:
df ^ ?^ . _^ ^ ^f dxn
dt "òxi dt 3x2 dt ^Xn dt
Y) Sia ora f una funzione, p. es., di tre variabili x, y, z \
e siano y, z funzioni della x. Posto ^ = a;, la /" diventa funzione
di 5, y, z, tutte e tre funzioni della x. Si ha quindi (poiché S = ^
e quindi — = 1) :
dx 3^ dx "òy dx "òz dx "Hìx (^y 3^
Si noti anche qui quale differenza passa tra ^^ ® 3? • ^^^
ottenere la prima, si deriva considerando y e z come costanti :
per ottenere la seconda, si deriva considerando y e z come fun-
zioni di X, Per esempio, se f= x -^ y + z, y = sen x, z =^ cos x,
e ^ = 1 , "7^ = 1 -h cos a; — sen x.
dx dx
5) Supponiamo f funzione delle due variabili x, y definite
dalle :
X =^ a -\- ht, y =^ b -{- kt {a, h, /^, k = costanti).
278 CAPITOLO xm — § 83
Si trovino le derivate di /"rispetto alla variabile indipendente t.
Siha: df^'òfdx K^=]^^l j,ÌL]
dt 'òx dt 'òy dt ì)x ^y
i(K\ =, 1 (^^^ ^ + 1 /lÀ ^=. 7,^+ j, y-f :
dt\^x/ ^x\ì)'x/dt 'òy \'òx/ dt "òx^ ì)xì)y
e analoga per |(^^);
dY^ d /df\ ^ ± / 3/-\ d_ /}f\
df dt \dt) dt Klix) dt X'òy/
\ ùx' òxoyf \ oxòy òy'/
ox" òxòy òy"
Una regola mnemonica per ricordare queste formolo è di porre
e sviluppando poi con le regole dell'algebra elementare, proprio come se -y- , -r—
fossero frazioni vere e proprie aventi per numeratore ò e per denominatore le
quantità òx^ cy (*), con l'avvertenza che alla fine del calcolo i simlDoli -r— /,
ox
-r-^ /', f, ecc., non si debbono più considerare come prodotti (ciò che non
avrebbe senso), ma come uguali rispettivamente alle derivate -y^ , -— , y— y- , ecc.
E con le medesime convenzioni si trova :
Esempio.
Sia f{x, y)^x\ a; = T (0, y = ^ (0,
cosicché /^= 9 (0"^^'^ ; si trova :
d{^(iY'''\_ di _d(x^)_ , dx , d_y_
dt ~dt~~' dt ^^''^'dt'^^^^'dt^
= tJx'-'^\t) + x'\OgeX^\t)=Cp(tY^'^ò\t)\Og^(t)-^^(t)'^^^
come ci è già noto dal § 60, es. 3'', pag. 189.
(*) In tale calcolo, dx e dy si debbono considerare ciascuno come un unico
simbolo di una quantità, e non già come prodotto di d per x o per y. Così, p. es.,
si scriverà dx^ e non ^^a;■^
CALCOLO DIFFERENZIALE PEE, LE FUNZIONI, ECC. 279
§ 84. — Funzioni implicite.
a) Si abbia l'equazione :
f{x,y) = 0. (1)
Se si può trovare una funzione ?/ 1= 9 (a;) della a;, che, sosti-
tuita in (1) al posto della y, le soddisfi identicamente, noi diciamo
che essa è una funzione della x definita in modo implicito, 0
più brevemente una funzione implicita della x. Se si riesce a
risolvere la (1) rispetto alla y, si ottiene così la y come funzione
esplicita della x.
Così, p. es., l'equazione (di un cerchio riferito a due diametri
ortogonali scelti come assi) x" -\- y^ — 1=0 definisce in forma
implicita due funzioni y della x ( — \^xé^\)^ le quali sotto
forma esplicita si scrivono: 1/ = 4- ^1 — a?^ ?/ = — ^1 — 0?.
La teoria della funzione y = /' (x) che soddisfa alla x — cp (^) z= 0,
cioè la teoria della funzione inversa (§ 58, pag. 183) della
a; = (f (y) è un caso particolare dello studio attuale.
La definizione testé posta si può estendere a casi più ge-
nerali. Così, se, p. es., esiste una funzione ?/ = 9 fe, x^, , Xn)
che sostituita al posto della y nella
f(xi, X2 ,Xn,y) = 0
[/*= funzione di Xi^x> ,Xn, ^];
vi soddisfi identicamente, noi diciamo che la y = ^ è una fun-
zione definita in modo implicito dalla precedente equazione.
Se, p. es., esistono due funzioni y =. (p {xi, X2 , Xn) e
^ = cj; (xi^ X2, , Xn) che, sostituite nelle
ffe, X2, , Xn, y, z) = 0, F{xi, X2, ...... Xn, y, z) == 0,
vi soddisfano identicamente, noi diciamo che le y, z sono fun-
zioni delle Xi,^;^, , Xn definite in modo implicito dal precedente
sistema di equazioni. E si potrebbero in modo simile studiare
sistemi formati da più che due equazioni.
^) Sia data l'equazione (1)
Supponiamo :
1" L'equazione è soddisfatta ponendo, x ~ ic,„ y = yQ {x^, y^ = cost.).
2' Per \ X — Xf^ \ .^ h ed | ?/ — 2/0 I ^ ^ (h.'k costanti) la / (a:, y) esiste
e possiede derivate prime finite continue.
ÒT ( X wì
3° La -!-^y^-^ ha un valore h differente da zero nel punto x = XQ,y = y^'
280 CAPITOLO XIII — § 84
E ci proponiamo dapprima il problema:
Esiste una funzione continua della x in un intorno abbastanza piccolo del
punto Xo, la quale abbia il valore Jq quando x=Xo e soddisfi all'equazione (1) ?
E come si può calcolare tale funzione in modo esplicito, risolvendo così la (1) ?
Noi risponderemo a tali domande con un metodo di approssimazione successiva
(detto anche di falsa posizione). E trattiamo questo problema appunto per dare
un esempio concreto di tale metodo, che nei casi pratici costituisce il più usato
ed il più potente strumento per risolvere equazioni complicate o per problemi di
analoga natura.
Sia -^ = a, -~ =b nel punto {Xq, y^). È b r:^- 0 per ipotesi.
Poniamo / {x, y) ~[a{x — x^) -\-b{y- y,)] = f {x, y).
Eicordando che è fiXQ,y^)=0, troviamo che:
Per X = Xo, y=:y^ è Y (o^, 2/) = 0, ^ =-.0, ^= 0.
La nostra equazione diventa : a (x — Xo) -{-b {y — y^) -\- f {x, y) = 0, donde
(poiché (?>H=0) si trae:
y — yo = — Y (x — X,)) — -j- ^{x, y) che scriveremo :
(2) 2/=2/0+C(^ — a;o)-hf (X,?/) (— y :=ZC,- ^:=^A'
Dalle nostre ipotesi segue:
r Per a; — iCj, 7/ — I/a sono nulle la ^P e le sue derivate prime.
2" Per \ x — Xf^\ ^h,\y — y^l .^h la ■]> esiste, possiede derivate prime
finite e continue.
Noi sappiamo che y=^yo per x = x^. Un primo valore approssimato della
funzione y cercata ci è dato dall'ipotesi che sia y = yo anche quando x -i= Xq.
Questo valore y = yo sarebbe proprio la funzione cercata, soltanto se, sostituendo i/a
al posto di y in (2), la (2) risultasse verificata ; cioè se, sostituendo i/c al posto di y
nel secondo membro di (2), si ottenesse come risultato proprio ^/o- Ciò non avverrà
certamente in generale. E il risultato, che indicheremo con y,, ottenuto sosti-
tuendo 2/o al posto di y nel secondo membro di (2), sarà considerato come un
secondo valore approssimato della funzione cercata y. E y^ sarà proprio il valore
della funzione cercata y soltanto se, sostituendo i/i al posto di y nella (2), la (2)
risulta soddisfatta, ossia se, sostituendo 2/1 al posto di y nel secondo membro di* (2)
si ottiene come risultato proprio ^/i- Ma questo non avverrà generalmente; e noi
assumeremo come terzo valore approssimato della funzione y che si cerca preci-
samente il risultato y^, che si ottiene sostituendo 2/1 al posto di y nel secondo
membro di (2). Cosi continuando, troviamo i successivi 'approssimati ;
/ 2/0 =^ 2/0
l Vi — 2/0-+-C (x-x„) + 'P{x,yo)
,^. 2/2 =yo-^c (x-Xo)-i-'Hoo,yò
/ yn-\^yQ-\-c {X — Xt)-h^{X,ya-2)
\ yn =y(,-hc (x — Xq)-^'^ (x, yu-i) {n intero positivo).
Ora ci domandiamo: Quando n è abbastanza grande, rappresenta effetti-
vamente la y» così definita il valore approssimato di una soluzione dell'equa-
zione (1) almeno in un certo intorno del punto x = X(, ? In altre parole ci chie-
diamo : Esiste, almeno in un intorno del punto x = x^, il lim y« ? E questo
limite è una funzione y della x che soddisfi alle imposte condizioni e in parti-
colare risolva la (1)?
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 281
Noi risponderemo afifermativamente a queste domande: ciò che basta per la
parte teorica di simile studio. Nei casi pratici bisognerà di più, se si vogliono
evitare troppo lunghi calcoli numerici, che | yn — y I sia già piccolo, quando n non
è molto grande, ossia che le y» tendano abbastanza rapidamente al loro limite y.
E cominciano anzitutto ad osservare che, affinchè sia lecito scrivere le (3),
bisogna che ^(ic, i/,) '^{oc,y-^, , 'H^»2/«)> siano espressioni non prive di
significato, ossia che i punti {x,y^) {x,y^), ,{x,y„), appartengano al campo
ove è definita la f , che sia cioè :
\x — Xo\^h,\y^~yf,\^k,\y.^ — yQ\^Jc, , \y, — y^\^ k.
Osserviamo, che essendo 'Hic, 2/) = 0» '^'v (ic, 2/) = 0 per ic — ìCq, 2/ = ^o» "oi
potremo, per la supposta continuità di queste funzioni, scegliere due numeri /«, ^ //,
kii^k cosi piccoli che per \x — x,^ I ^ /i„ I 2/ — 2/o i ^ ^« il massimo H di
I •fy(x,y) I sia minore di 1, e impicciolire poi il numero /^, in guisa che il mas-
simo Jf di I 2/, — 2/o i = I e (x — Xf,) -\- d> {x, 2/„) I soddisfi alla M ^ ^r ^ /^'i-
Sarà cioè, riassumendo:
l (per \x-Xo\^\^h;\y-y,\^k,^k),
\ massimo di i ^'y (a:, y)\ — H, massimo di \ y^ — yQ\= M
ì H^ 1 , M _ j^ ^ki e quindi a fortiori M ^k^
Indicheremo con 5 il campo definito dalle \ x — Xf,\ ^li^,\y — yQ\ ^k^.
Dimostreremo che, s%\ x — Xn\ ^hx tutti i punti {x.y^), {x, y^, , (a?, 2/«),
appartengono a ò. Intanto dalle (4) segue \y^ — yo\ ■^M^ky\ cosicché il punto
(flj, 2/,) appartiene certo a ^ ; dimostriamo che altrettanto avviene del punto
(ic, yn). Usando il metodo di induzione completa, basterà dimostrare che {x, y»)
appartiene a ò, supponendo già dimostrato che i precedenti punti {x,ym) per
l^m^n — 1 appartengono a o.
In tal caso dalle (3) segue :
l ym — ym-ì I = \^ (X, yu-i) — 4- {x, ym-z r (2 ^ m ^ w)
che per il teorema della media è il valore assoluto del prodotto di {ym-\ —ym-i)
per un valore intermedio ^\h'y{x,y). Questo valore intermedio, per le (4), non
supera H, cosicché | y,u — y,,, -i | ^H\ ym-\ — ym-2 1.
Ed essendo | 2/i — 2/o I ^ -^» se ne deduce successivamente | y.^ — ?/, | ^ HM,
yi--y%\^S\y.^ — y, I ^ H'M, ed in generale
(») \lfm — ym-l\:^H"'-^M {1 ^ m ^ fi).
Ora:
(6) yn == 2/0 4- (2/1 - 2/0) + (2/2 — 2/1) -+- + («/'^ — 2/» - 1)
donde :
(1) \ yn—yo\^M+ HM + H' M-^.^-h H"-' M= M{i-i- H-^ ... + H--'') =
Da cui segue tosto che anche (x,y,>) apparfene a ^. Per dimostrare che esiste
ed è finito y = lim 2/«, basterà per la (6) provare che esiste ed è finita la somma y
n — ao
della serie
(8) 2/0 + (2/1 - yo) -+- (2/2 - 2/1) ■+ -+- iy» - 2/«-i) +
Ciò che è evidente, perchè questa serie è totalmente convergente per
\ X — Xq\ ^ h^, poiché da (5) segue che i valori assoluti dei suoi termini sono
(a partire dal secondo) ordinatamente minori dei termini della serie
M+MH-JrMm +
che è una progressione geometrica decrescente (si ricordi che if < 1) a termini
costanti.
282 CAPITOLO XIII — § 84
Anzi, poiché ?/ è la somma' di (8), ne segue che :
1 2/ - 2/0 1< ^i'+ ^H+ MH' -4- = ^^jj ^ k„
cosicché anche il punto (x, y) appartiene a ^. E, poiché la (8) ha termini che
per \ X — Xq\ ^h^ sono funzioni continue, anche la y, che ne è la somma, è una
funzione continua della x per | x — Xg [ ^ h,.
Eicordando che i' é funzione continua di ic, y, si ha poi, passando al limite
per n = cD nell'ultima delle (3) :
lim y„ -- yo-h e {x — x^) 4- 'I {x, lim ?// -i), ossia
' y -= y<ì+ c(x — Xo) 4- ■! (x, ìj), ossia
f{x,y) = 0, e. d. d.
Alle domande da noi poste in principio del capoverso /3 si deve dunque
rispondere affermativamente. È bene evidente che y = t/^ per x = Xq. Dalle (3) si
deduce subito infatti (ricordando che -i (Xq, y„) = 0) : i/i = 2/o» 2/2 = Vo^ > 2/ " = ?Jo
per X = Xq. Quindi anche y = lim y„ = y^ per x = Xq (*).
Ora dimostreremo che in un intorno abbastanza piccolo di x — x^ non esiste
altra funzione continua y della x, che per x = Xo si riduca ad Vo, la quale
soddisfi alla f(x, y) =0. Se infatti vi fosse un'altra tale funzione, e noi la indicas-
simo con z, sarebbe
^ = 2/0 -f- e (iC — XJ -H 'l (x, z)
z — 2/v = '1 (ic, z) — 'i ix. yi-\)
che è uguale a z — yH-\ moltiplicato per un valore intermedio di -f ,/.
Ora in un intorno abbastanza piccolo àìx=^X(., la yn-\ e la -e diiferiscono
da ?/„ per meno di A:, ; e un tale valore intermedio non supera quindi JET; cosicché
\ ^ — yA -^ H \ z — y u -\ \ . Sarà pure j z — yn-i \^ È\ z — yn-2\, ecc. ; e
se ne deduce \ z — yn \ ^ H''-'^ \ z ~ yi \ . Poiché lim W-^ = 0, se ne deduce,
passando al limite per n=cc, che lim (z — yn) ~ 0, ossia che z=:^y e. d. d. (**)
Vogliamo provare l'esistenza di J^ per x = x^^, e calcolare tale derivata. È
f(^o,yo)~^- E sia ^y l'incremento che riceve la y, quando la x riceve l'incre-
mento A ic. Sarà f{Xg -\- ^ x, y^ -\~ à y) =z 0 ; e quindi anche, sottraendo,
f(Xn-+-^x,yo-i-^y) — f{Xo,yo) = 0,
(*) Se si volesse soltanto dimostrare l'esistenza della funzione y della x, senza
insegnare a calcolarla, si potrebbe procedere così. Essendo /"',/ ^^ 0 per x = x,,
y = yo^ la curva Y—-f{XQ, X) tracciata nel piano (X, Y), che incontra l'asse
delle X nel punto X = 1/0, attraversa in tale punto tale asse, cosicché / (ìCq, «/o 4- ^)
6 f(^(i,y<ì — k) sono di segno contrario, se k è abbastanza piccolo. Quindi, se x
é abbastanza prossimo ad a?,,, anche f(x,yo-\-k) e f(x,yQ — k) sono di segno
opposto ; ed esiste perciò un punto y compreso tra 2/0 + ^ e 2/o ~ ^ tale che
f{x,y) = 0. Esiste perciò un tale valore di y per ogni valore di x abbastanza
prossimo ad x^^.
(**) Si potrebbe dimostrare questa asserzione anche così. Se f{x, y) — f{x,z) = 0,
per il teorema della media é /' ,, [y — z]^= 0, dove con / ',/ indico un valore inter-
medio àìf'y. SQy=4=z se ne deduce che questo valore intermedio f'j,è nullo. Ciò
che é assurdo, perché per x abbastanza prossimo a ic,„ \e y e z sono prossime ad
2/0, e (poiché f\j (iCo. 2/0) -^ 0, ed f'y è continua) la f'y é differente da zero in tutto
un intorno del punto (a?„,2/(i).
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 283
ossia, per il teorema della media :
^ y f'>, (^'o -f- ^ ^, Vo -\- o^i/)-h^xf ^ (Xo -4- 0- A X, y,) =: 0
(0<0<1), (0<^/<l) (*).
Poiché y è funzione continua della x, è lim àyz=zO. Dividendola precedente
formola per a rr / ^ (x^ + a ;r, y/,, + e a ìj), e passando al limite per a ./ ^ 0, ossia Ax ~
— A 1/ — 0, si trova :
lim ( f'.Ax,-^e' àx,yo) , ^y ^ _^
Poiché il limite del primo addendo esìste ed è finito (è us^uale a .tS "' il
f yiXo,y^y
cui denominatore é per ipotesi differente da zero), sarà
lini ^y _,,' _ # _. f'-^i'Xo^yo)
lini // .i — -— — 7-7 ;; — ; ?
^.v^Q^x "^ dx / ?/ (^0, 2/o)
formola che ora ritroveremo per altra via, ammettendo a priori l'esistenza
di 7/ e di y .
Oss. Tutti questi risultati potrebbero essere falsi, se f'y(X(f,yn) = 0.
Così, p. es. si osservi che l'equazione f = {x ~ Xq)'^ -j~ (y — v/^)* = 0, pure es-
sendo soddisfatta per x — Xq, y — 2/0» ^^^ ammette soluzioni reali per a? — 0-0=4=0.
E si noti che è appunto y^ =^ 2 (y — y^) -^ 0 per y = y^^. Così pure l'equazione
f ~ X- — y'^ = 0 è soddisfatta per x = y — 0', ed esistono due (non una) funzioni
y =L x,y = — X continue e nulle per x ~0 che ad essa soddisfano. E di nuovo
si verifica che / ',, = 2 ?/ — 0 per 2/ — 0.
Infine si noti che l'ultima formola si scrive di solito
^^^ y-^dx- i',{x,y)
perchè essa ci dà il valore di ^- non nel solo punto x^, y^, ma in tutti i punti (a', y)
di un suo intorno, che soddisfano alla f(x,y) = 0.
Y) Se noi ammettiamo V esistenza e la derivabilità della
funzione ^ = 9 (x) delle x che soddisfa alla f{x, y) = 0, pos-
siamo in altro modo pili semplice determinare la derivata y^.
Ponendo ^ = 9 W in f{x, y), si ottiene una funzione
f\x,^{x)] identicamente nulla della sola x (cioè nulla per
ogni valore della x).
[Si noti che invece la f(x, y) non è identicamente nulla per
tutti i valori delle x, y. Altrimenti sarebbe, contro l'ipotesi fatta,
non solo f^ f= 0, ma anche fy = O].
(*) Da questa formola si potrebbe dedurre in altro modo che la ?/ è funzione
continua della x, p. es. nel punto {x^, y^) ossia che lim a i/ = o. Infatti, essendo
Aa;"™0
Ì':v continuo e quindi inferiore in valore assoluto ad una costante finita, è
lim A xi\ {Xq 4- 6' ^ ic, I/o) = 0.
A^ = 0
Dalla formola precedente segue che anche lim a yf'yix^ -\- a x,yQ-i-d ^y) = 0.
Ajr=0
Poiché il limite del secondo fattore è differente da zero, sarà lim à y ^^ o. e. d. d.
Ai — o
284 CAPITOLO XIII — § 84
Quindi sarà pure identicamente nulla la derivata prima della
Sarà cioè per il teorema del § 83, a :
df[x,^(x)] ^ nf(x, y) m^.y) ' 1 _ ^
dx L ^x ^ jy^^^J.T,?;)
f
Se ne deduce y^ = — '— (supposto fy =p 0).
/ y
Questa formola non è che la (9) scritta più sopra : essa
(se f =i= 0) permette di esprimere y'^ per mezzo delle x, y,
senza che vi sia bisogno di dare y proprio sotto forma di fun-
zione esplicita della x.
Analogamente la y'^ si calcolerebbe dalla (cfr. la (2) del
§ 83, a, pag. 277, ove si ponga x=^t)
^2 = f <c^-^2f ,yy -^ f yyy--\-fyy =0
se le derivate seconde di f sono finite e continue. (È facile
verificare che in tal caso y" esiste, e che quindi si può scrivere
la formola precedente).
3) Sia, p. es., da trovare l'equazione della tangente nel
2 2
X V
punto (xo,yo) della ellisse o iperbole - ±7^ = 1. Questa equa-
a^ o
zione sarà :
iy — 2/0) — iyx\ {x — xo) '= 0,
dove con {y^\ indico il valore di y'^ nel punto {xo, yo). Si voglia
calcolare tale valore della derivata senza risolvere l'equazione
della curva ; dalla (9) si ottiene tosto :
L^^ ^^ ^ ^ 3?/ Va b /Jo yoa-
Cosicchè l'equazione della tangente è :
— (y — yo) + -^ (x — xo) = 0, ossia :
2/0 a
ab ab
perchè il punto {xq, yo) appartiene alla nostra curva.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 285
In generale l'equazione della tangente alla curva f{x, ?/) =0
nel suo punto fe, 2/0) è nelle nostre ipotesi :
iy — yo) — iyxìo (x — xo) — 0,
ossia per la (9)
dove con {^) ' ( ^ ) indico i valori delle — ? ^ nel punto
\dx/o \oy/o dx òy
a; = iTo, ^ == 2/0.
Così, ^ es., per la conica C di equazione
ctn x^ -\- 2 avi xy -4- a^n y' -4- 2 av.\ x -\- 2 a^^ y + «sh = 0
l'equazione della tangente nel punto fe, y^) vale
(aii^^o -i- «12^0 -+- «13) {x — x^) 4- («21 3^0-4- ^22^0 -4- a-j-j) (?/ — t/o) = 0.
Ricordando che fe, ^o) appartiene a 0, e che perciò
(aii Xo -H a.i ?/o H- «^in) Xq -h («21 Xo 4- «22 ^0 "+- «^2:0 ,Vo +
-f- («31 Xo + tì^32 ?/0 + «33) = 0,
si trova che l'equazione di tale retta tangente può assumere la
forma classica
(«11 Xo + ai2 ^0 H- ^i:0 X + («21 iCo 4- «22 «/(, 4- ^23) y 4-
4- («31 Xo 4- «32 ^0 + «^33) =^ 0.
Il primo membro evidentemente è una funzione simmetrica
nelle (x, y) ed (xo, t/o), cioè non muta scambiando {x, y) con (xo, ^0).
È questa l'osservazione più semplice, da cui possa dedursi il
principio delle polari reciproche.
§ 85. — Generalizzazioni,
a) Si abbia ora l'equazione
f{x,y,z) = 0. (1)
Supponiamo che esista una funzione continua z^=^^(:x,y)
che soddisfi identicamente alla (1), ossia che, sostituita in (1),
dia origine a una funzione nulla per tutti i valori delle x, ?/,
che noi consideriamo.
286 CAPITOLO XIII — § 85
Dal § 84, P, segue facilmente che esiste una tale funzione
(e che noi la sappiamo anzi dare sotto forma di serie) se la (1)
è soddisfatta per
x=ixq, y = i/o, ^^= ^0 (ooq, Po, Zq = cost.)
e se in un intorno di tale punto le derivate prime di f sono
finite e continue, e ^ è differente da zero.
La ^ = cp {x, y) è una funzione definita da (1) in modo
implicito ; e noi ci proponiamo di calcolarne le derivate, senza
scriverla sotto forma esplicita (senza risolvere la (1) ).
Per trovare la derivata parziale ^- , bisogna considerare
ex ^
la y come una costante, per cui la z si potrà considerare come
una funzione della sola x, e la /*= 0 come un'equazione tra
le sole variabili x, z. Applicando i risultati precedenti si tro-
verà quindi senz'altro :;r~ =^ — "^r *
ÒX f z
f
Analogamente Zy = — V •
P) Si abbiano ora due equazioni in tre variabili
f{x,y,z) = 0,
F{x,y,z)=^0.
Supponiamo che f, F abbiano derivate prime finite e continue,
che le equazioni siano soddisfatte per
X = Xo, y =^yo, z=^ Zq,
e che nel punto {xo, yo, Zq) sia
! F\ F\
Almeno uno degli elementi di questo determinante sarà dif-
ferente da zero. Se, p. es., fy ^^ 0 in fe, ^/o, -^o), dalla /"= 0
potrò ottenere, risolvendo, y^=^^ (x, z), dove la ^ è una fun-
zione derivabile che diventa uguale a yo per x = a;,,, z = zq.
Sostituendo nella i^ =- o si trova :
F[x,^{x,zlz] = 0. (2)
La derivata del primo membro rispetto a 2^ è :
0.
X^4,'^.-+-iy^; = -ir;/i-f.i.^'
fy '"f.
F' F
ECC. 287
che è differente da zero per x = a:o, ^ = ^o. Se ne ricaverà che
dalla (2) si potrà dedurre, risolvendo, z come funzione ^ ix)
della x derivabile ed uguale a Zq per x = Xq.
Sostituendo questo valore in ^ (x, z) se ne deduce il valore
di y come funzione derivabile 9 (x) della x^ che per x = x^^ sì
riduce ad y.
Esistono cioè due funzioni j = ^ (x), z = ^ (x) derivabili,
soddisfacenti alle equazioni date e che, per x = Xo, diventano
rispettivamente uguali ad jo e Zq.
Ciò che si poteva del resto dimostrare, estendendo ai sistemi
di equazioni il metodo con cui abbiamo studiato il caso di una
equazione sola. E vale anche il teorema di unicità, che cioè in
un intorno di a; = r^o non esistono altre funzioni soddisfacenti
alle proprietà enunciate. Il calcolo di 9 a;, ^'^ si effettua nel
modo più rapido osservando che, se nelle f, F sostituiamo al
posto di ^ ed ^ i loro valori ^ {x), 9 (x) in funzione della x,
otteniamo due funzioni f{x,^,^) e F{x,^,^) della sola x
identicamente nulle, le cui derivate {totali) rispetto alla x
saranno quindi anch'esse nulle. Quindi, deiivando
f{x,y,z) e F{x,y,z)
rispetto alla x, quando vi si considerino y ^ z come funzioni
della X ed applicando quindi il teorema del § 84, P, si ottiene:
= 0,
= 0.
Queste due uguaglianze si possono considerare come due
equazioni di primo grado nelle y^^, z^, che saranno risolubili
con la regola di Kramer, se, come abbiamo appunto supposto,
_^ K
"òy "òz
^F 'ÒF
dy "òz
ci determineranno in tal caso le derivate cercate.
Y) Si abbia ora il sistema delle due equazioni
f (x, y, z, t) = 0,
F{x,y,z,t) = 0.
ox
3/- -
dz
Ox
_^:)F ,
■^- ^ z,
dz
^0;
288 CAPITOLO XIII — § 85
E supponiamo senz'altro che esistano due funzioni deriya-
bili ^ = cp {x, y),t^=^^ (x, y) che soddisfino a tali equazioni.
Vogliamo determinarne le derivate. Se noi sostituiamo nelle
due equazioni precedenti al posto delle z, t rispettivamente le
funzioni z :=^ ^ {x^y),t-=-^ {x, y) si ottengono due funzioni
ài X ^ ài y 1 f{x, y, cp, <&) e F{x, y, 9, ^) identicamente nulle.
Le loro derivate parziali tanto rapporto a x quanto rapporto
a y saranno quindi nulle. Se allora deriviamo la f{x, y, z^ t)
rapporto a x considerandola come funzione delle x, z, t, tutte
e tre funzioni della x, questa derivata, che, per non creare equi-
voci, dovremo indicare col simbolo (*)
Ux\
y == cost.,
per il teorema di derivazione delle funzioni di funzioni (funzioni
composte) è :
\m =m.: +m/. *m(.
Ma questa derivata, per quanto abbiamo osservato, è nulla.
Sarà quindi (poiché x^ = 1) :
|_ JCCjy, z, t = cost. l_OZ_\ x,XJ,t=.liO»t. \_Oljx,y,Z-='CO»t.
Ragionando sulla funzione F(x,y,z,t) si otterrebbe ana-
logamente :
|_da; Jy, 2, t = cost. [, OZ J x,y,t^ Gost, \_ 01 J x,y,z=-cost.
Quest'ultima equazione con la precedente costituisce un
sistema di due equazioni lineari nelle due incognite z'^ e t'x,
che sono appunto (essendosi considerato y costante) rispettiva-
mente le derivate parziali rispetto a a; di 9 (a:, t/) e ^ (x, y).
(*) Questa derivata è una derivata parziale, perchè y si considera costante ;
ma non si può indicare con ^.
Con tal simbolo si indica (-J-\ ; si indica cioè la derivata che si
\axfy,z, < = co8t.
ottiene considerando costante non solo la y, ma anche le z,t.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 289
Il sistema è risolubile con la regola di Kramer e quindi
ammetterà una sola soluzione se :
t^^ Jx,y,t = coBt. L^i Jx,y,z^
" -1
[_ à 2 Jx, y^t^ cast. \_^^Jx,y,z='
Ragionamenti e risultati analoghi valgono per /y, t'y. Questo
esempio di derivazione è interessante, perchè abbiamo avuto
occasione di osservare quale complicazione di notazioni s'abbia
quando, per non creare equivoci che potrebbero condurre a gravi
errori, si vuole un simbolo di derivazione parziale che dica
esplicitamente tutto e non possa prestarsi a varie interpretazioni.
L'allievo farà un'utile esercitazione, cercando di calcolare
le derivate seconde.
B) Siano f{x, y) e F {x, y) due funzioni continue con le loro
prime derivate in un campo C, nel quale esista una curva T
luogo dei punti per cui
Fix,y) = k (^ = cost.). (3)
Voglio trovare qualche condizione necessaria affinchè il
valore assunto dalla fin un punto ^ di f sia massimo o minimo
rispetto agli altri valori assunti dalla f in T (in un intorno di
A). Più brevemente cerco i massimi ed i minimi di f(x, y),
quando le x, y sono legate dalla (3). Lungo f si può con-
siderare la y come una funzione della x soddisfacente alla
y'x = — -^ (se F'y ={= 0) ; e la /* si potrà perciò anche consi-
derare come una funzione della sola x.
In uno dei punti A cercati dovrà dunque esser nulla la
derivata totale della f rispetto alla x
df
dx
"ifdx 'òfdy
"òx dx 2)y dx
^f
Dx
DfF'^
^1/F'y
Dovrà dunque
essere in A
f, F'y — f'y F',
-0,
ossia dovranno essere in A compatibili le equazioni
gnita X (elle supponiamo essere una costante)
neir
inco
f. + X F'^ =
f'y +^F'y =
= 0,
= 0.
19 — 6. FUBINI, Analisi matematica.
290 CAPITOLO XIII — § 85-86
Ad identico risultato si giunge se F'x =^ 0. Se dunque in f
non è mai contemporaneamente F'^ = 0, F'y = 0, allora per
trovare i cercati punti A si cercano i punti ove sono nulle le
derivate prime di /*-!- Xi<^ rispetto 2^ x^y : si procede cioè come
se si cercassero i massimi e i minimi di f-h'^F. Le tre equazioni
(f^XFyx = o
(f-hiFyy = o
F{x,y) =k.
sono tre equazioni nelle tre incognite (la costante X, e le due
coordinate di A), che servono a determinarci quei punti A di C,
tra i quali soltanto si dovranno poi cercare i nostri punti di
massimo o minimo.
Questo metodo del moltiplicatore indeterminato X è suscetti-
bile di molte e svariate generalizzazioni e applicazioni.
§ 86. — Formola di Taylor-Lagrange
per le funzioni di due variabili.
Ricordiamo le formole di Taylor-Lagrange per le funzioni
di una sola variabile
cp (a -h h) == cp (a) -4- /^ cp (a -f- e /^) = 9 (a) -\- h cp' (a) -|-
dove 0 < 0 < 1, e 0 può variare dal secondo al terzo membro.
Vogliamo estendere queste formole al caso di una funzione f{x, y)
di due variabili. Consideriamo a tale oggetto la fia -4- ht, b -hkt):
la quale, se a e b, h e k sì considerano come costanti, è una
funzione cp (t) della sola t. Potremo quindi scrivere
^(t) = f{a -\-ht,b-^kt), (1)
Posto successivamente ^=0 e ^=1, si trae
cp (0) = /-(a, b) T (1) = /'(^ -^lhb-\- k). (ir
Applicheremo alla <p (t) la precedente formola di Taylor, la
quale, posto C^) a = 0, /^=1, diventa:
cp (1) = cp (0) -I- cp' (0) = 9 (0) -f- ^' (0) 4- Y r (e). (2)
(*) È necessario supporre a tal fine che i punti di coordinate x = a + ht e
y = 'b-\-]ct siano, per O^t^l, tutti interni al campo ove sono definite la /e le
sue derivate. Tali punti non sono che i punti del segmento rettilineo congiun-
gente il punto (a, h) al punto (a -f-h,!) -\- J:).
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 291
Vogliamo ora trasformare queste formole in altre, in cui
compaiano esclusivamente la f{x, y) e le sue derivate. A tal
fine si osservi che le successive derivate della 9 {t) si calcolano
coi metodi del § 83, 5, pag. 278, dove è posto x = a -{- ht,
y =z h -^ kt. Ricordando poi che il porre t^=^ 0 equivale a
porre x-=- a^ y ^=^ì) e che il porre ^ = 0 equivale a scrivere
a-1- /^0 e ì) -\-'k^ al posto di x^y^ si ottiene da (2) in virtù
delle (1), (1)"^^
= f(a, h) + [h f\ (a, h) + k /•'„ (a, h)] +
2 L ^^ òxòy oy MJ^XU
(0 < 0 < 1) 0 varia generalmente dal secondo al terzo membro.
La prima di queste uguaglianze è un'altra forma del teorema
della media. Ma mentre la formola del § 81 è ottenuta pas-
sando dal punto {x, y) al punto {x -\- li, y -\- k) mediante una
spezzata coi lati paralleli agli assi (e senza supporre la con-
tinuità delle f'g, fy), questa è ottenuta eseguendo tale passaggio
con un segmento rettilineo (e supponendo f^,, fy continue).
Utile esercizio sarà di generalizzare in modo analogo le
precedenti formole sia a funzioni di più che due variabili, sia
alla formola e alla serie di Taylor, quando non ci si fermi già
ai termini contenenti derivate seconde.
§ 87. — Massimi e minimi delle funzioni di due 0 più variabili.
a) Lemma. Un trinomio omogeneo di 2^ grado in due va-
riabili h, k, mai contemporaneamente nulle
ah'-h2bhk4-ck'
è sempre differente da zero ed ha costantemente il segno di
a, 0, ciò che è lo stesso, quello di e, se a e — b^ > 0.
Può invece assumere valori di segno arhitrario se b.c — h^ <^0; ed infine,
se il trinomio non è identicamente nullo, esso ha costantemente il segno di a,
0 di e, ma può annullarsi, quando a e — b"^ = 0.
Infatti sea = c = 0eb=T=0 allora a e — b'^ < 0 e al trinomio, che vale
2ì)hk può farsi assumere un segno qualunque, scegliendo per h, k valori di segno
opportuno.
292 CAPITOLO XITI — § 87
Se invece p. es. a =4^ 0, allora, se a, p sono le radici di a ^^ -+- 2 b ^^ -f e = 0,
il nostro trinomio vale identicamente a{h — a k) (h — t^ k). Se ac — h"^ = 0, allora
a = (3 e quindi il trinomio vale il prodotto di a per un quadrato perfetto, ha quindi
il segno di a, a meno che Ti = oc k, nel qual caso il trinomio si annulla. Se ac — h^<^ 0,
e quindi a, ^ sono numeri reali distinti (p. es. a < /s), allora {h — cl k) {h — [i k) è
positivo se -v; è minore di oc o maggiore di f>, ed è negativo se y è compreso tra
a. e (5. Il trinomio può dunque assumere un valore di segno arbitrario.
Infine se a e — &" > 0 [e perciò a e > ò" ^ 0 e quindi a e e
differenti da zero e dello stesso segno] -le radici a, ^ della
a/-h26-e-f-c = 0 sono numeri complessi coniugati [x ± t v
con V =# 0. Ora il nostro trinomio a /^^ 4- 2 ft /^ /»; 4- e // è uguale
identicamente al prodotto di a per
(/^ — a ^) (/i _ p y^) =: (A — X A:-) H- v- y^-,
che è sempre positivo (e che potrebbe essere nullo soltanto se
^ Jc =z]i — X Z; = 0 ; ossia, essendo v =;= 0^ soltanto se ^ = 0,
/^ = 0 : valori che abbiamo escluso). Quindi il nostro trinomio ha
il segno di a. Ciò che si può verificare osservando anche che :
ah^-^ 2hlik-\-ce=^\{ah-{-h kf -h (a e — b') le'
P) Si suol dire che una funzione f{x, y) di due variabili ha
in un punto A, interno al campo ove f{x, y) è definita, un
massimo od un minimo (relativo) se esiste un intorno di A^
nei punti del quale la funzione assume rispettivamente valori
tutti non maggiori, o tutti non minori che nel punto A (cfr. la
defin. analoga di pag. 223). Se fe, y^) sono le coordinate di A,
dovrà cioè esistere un numero positivo ?, tale che per \h\< l,
I ^ I < ^ sia rispettivamente
fixo-h h, 7/o -+- k) — f{xo, yo) ^0 (se ^ è un massimo),
f{xo -\- hy yo-\- k) — fixo, yo) ^0 (se A è un minimo).
In tal caso la funzione f{xo, y) che si ottiene ponendo x^=^xq
ha un massimo od un minimo per y:=^yQ, e quindi, se pos-
siede derivata prima fy finita e determinata, questa derivata
è nulla (§ 70, pag. 226) nel punto A. Risultato analogo si
prova per f'y.
Condizioni necessarie (ma non sufficienti) affinchè f (x, y)
ahhia nel i^unto A interno al campo ove la i ha derivate prime
determinate e finite, abbia un massimo o un minimo è che ivi
queste derivate i\ ed f'y siano nulle.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZIONI, ECC. 293
Le condizioni necessarie si possono meglio studiare così: Su ogni retta
x=^ Xf,-\-mt y = ijq -{- n t (m, n — cost.)
uscente dal punto {Xq,ij„) cioè dal punto A, la funzione f{x,y) ha nelle nostre
ipotesi un massimo o un minimo per ^ = 0.
[Viceversa non si può dire che, se A è punto di massimo odi minimo su ogni
retta uscente da A, esso sia un punto di massimo o minimo, come si vede con
metodo analogo a quello svolto al § 80, a, pag. 268].
Cioè f{xQ-tìnt, yQ-hnt) ha un massimo o minimo per < = 0. Se dunque /'
ha derivate prime e seconde finite e continue, sarà per t = 0 e per valori qualsiasi
(non nulli contemporaneamente) di m, n :
cVf
^^2 ^ ^'^^ / "^^ (^0^ Vo) -h2mn f",y {x„ ij^) + n^ f "yy (x^^, 2/0)
\ ^0 (se si tratta di punto di massimo)
) ^0 (se si tratta di punto di minimo).
Ora, affinchè -1^ = 0, qualunque siano m,n, non contemporaneamente nulle
dovrà essere f'x{X(^,yo) — f'y(XQ,yo) = 0. Affinchè -r.-^ abbia segno costante, qua-
lunque siano m,n, dovrà essere f"jxf"yy — f'"^xy^.O nel punto iXo,y„). Queste
sono dunque altre condizioni necessarie, affinchè la / {x, y) abbia nel punto {Xq, y^)
un massimo 0 minimo, almeno se le derivate prime e seconde di / sono continue.
Noi proveremo che:
Condizioni sufficienti sono le :
I X / y 'J j I XX J yìj I xy ^ ^ ] / x^ / y- f xxj / xy^ / yy 1111116
e continue (nel punto Xo, yo). (Si noti che f'xxf'yy — f'% — 0
e condiz. necessaria, mentre f'xxf'yy — f%>0 e condizione
sufficiente).
E, se tali condizioni sufficienti sono soddisfatte, il punto
(xo, jo) è punto di massimo se f "xx, f "yy ^^^^ ^^^^ punto consi-
derato negative; esso è un punto di minimo, se f "xx, f "yy ^^^^^
positive. (Dalla f'^cx f'yy — f'iy > 0 segue che f'^^, f'yy hanno
lo stesso segno). Infatti, supposto che in ^ = {xq, yo) sia
fx = f'y = 0, la formola di Taylor-Lagrange dà
( 1 ) f{xo -^h,yo-hk) — f{xo,yo) — -^\ Jr f\, -^-2hk f\y + le' f'yy \
ove il soprassegno indica che le derivate seconde sono calcolate
in un punto o^o -4- 0 h, .Vo -h 9>^ con 0 < 6 < 1.
Ora, essendo tali derivate seconde continue, basterà scegliere
I 11 I ,\J<: I abbastanza piccolo perchè f'^^ abbia il segno di f'^x e
f'xx f'yy — f'iy abbia il segno di f',x f'yy — f'iy, cioè sia posi-
tivo. Il trinomio posto al 2° membro di (1), e quindi anche
294 CAPITOLO Xm — § 87 — CALCOLO DIFFERENZIALE, ECC,
il primo membro di (1), avraijno pertanto (cfr. il lemma) il
segno di f"^^, cioè di f"^^^ e. d, d.
Se f^ = fy:=0, ma f"^^ f'yy — f'iy < 0, il punto consi-
derato non è di massimo^ ne di minimo»
Nulla si può aifermare senza studii più minuti per un punto,
in cui f^ = fy= f'xx f'yy — f'ly^=0.
Il teorema relativo alle condizioni sufficienti sì dimostra anche osservando
che (1) si può scrivere nella forma
f{x^ 4- h, yo + h) — f{Xo, y,)= — \f ",^ {x^, y,) h^ + 2 T Vv /« ^ + f'yv ^' j 4-
ove £, y, 0 tendono a zero per Ji — Jc — O. Posto h = pcosd, k^= p sen 6, il secondo
membro diventa la somma di .
(2) -i- P^ } cos* 6 f".rx -+- 2 sen 6 cos e f%y sen=» e fyy \+
-f f^ \ f cos^ (9 4- 2 y sen «5 cos a + ^ sen'' 6 \ .
Il coefficiente di p^ nel primo addendo ha il segno di f'xx e il suo minimo
valore assoluto è maggiore di zero. Il coefficiente di p^ nel secondo membro è
invece infinitesimo (per Ti =:A; = 0). Dunque per I /^ j , ! A; | abbastanza piccoli la (2)
ha il segno del primo addendo, cioè ha il segno di f'^x.
295
CAPITOLO XIV.
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE
ALLE FUNZIONI DI PIÙ TARIARILI
§ 88. — Considerazioni preliminari.
Sia f{xy y) una funzione continua nei punti di un campo,
che, per fissar le idee, supponiamo essere un rettangolo R coi
lati paralleli agli assi coordinati. Tale rettangolo R contenga
all'interno il segmento (parallelo all'asse delle y) che è definito
dalle formolo :
y zr^k ^= cost. a ^ a; ^ p. (a, p = cost.).
I valori che f{x^ y) assume nei punti di tale segmento
(lungo cui y = cost.) dipendono dalla sola x ; e costituiscono
appunto una funzione della sola x. Io dico che Vintegrale
^f(x,y)dx (1)
di tale funzione è una funzione continua della y (per quei
valori ài y =^ k corrispondenti a punti interni ad R).
Il lettore noti l'analogia tra la definizione degli integrali (1)
di f{x, y) e quella delle derivate parziali della f{x, y) ; come
per calcolare f^ si considera la y come una costante, così (1)
si calcola appunto, considerando la y come costante, cioè la
f{x, y) come funzione della sola x (*).
Si tratta di provare che lim B = 0, ove è posto
7i = 0
B^[\ f(x,y-¥h)dx—Cf{x,y)dx]. (2)
Il lettore troverà più avanti una dimostrazione completa.
Qui ci accontentiamo di provare tale formola nell'ipotesi che
(*) In altre parole, se F{x, y) è una funzione delle x,y tale che F\v = f\ sarà
f(x,y)dx = F{^,y)"F(cL,y).
J
296 CAPITOLO XIV — § 88-89
1 fy I sia in R sempre minore di una costante H. Questo sup-
posto, si ha per il teorema della media :
^ I = f{x,y-r-h)dx — f{x,y)dx = hfy {x,y-i-d h) dx
^\h CHdx\=^\H{? — (x.)h\ .
Quindi, per /^ = 0, è lim B =^ 0 come dovevasi provare.
Se noi conserviamo l'ipotesi che i punti del segmento y — cost. lungo il quale
si fa l'integrazione appartengano al campo ove f{x,y) è finita e continua, si po-
trebbe dimostrare che lo 1 f(x,y)dx è una funzione continua di y, anche se a,
* a '
,5, anziché costanti, sono funzioni continue di y.
Per dimostrare tali teoremi nella sola ipotesi della continuità della f (x, y),
basta, esteso il teor. della continuità uniforme alle funzioni di due variabili, ricordare
che \f{Xyy-\-li) — f(x,y)\ si può rendere minore di s per tutti i punti {x, y),
prendendo h abbastanza piccolo.
§ 89. — Derivazione sotto il segno d'integrale.
Supponiamo che a e p siano costanti, e che siano continue
tanto la f(x, y) quanto la f y (x, y). Noi diciamo che in tal
f (x, y) dx rispetto ad y vale ] f y (x, y) ;
che cioè la derivata del nostro integrale è uguale all'integrale
della derivata e si ottiene per ciò derivando la funzione che
compare sotto il segno di integrale.
Oss. Per la dim. completa basta ricordare che, essendo f',, continua, essa è
anche uniformemente continua.
Qui consideriamo il solo caso che | f"yy \ sia nel campo con-
siderato sempre minore di una costante H.
Noi dobbiamo calcolare:
, J f(x,y-hh)dx— j f(x,y)dx
(Jyfe^)^a;)=lim-^^ k ' ^ =
lim r^^^^^^- ^^^^^^dx.
h = Q J ^ fi
''nx,y-^h) — fix,y)
Per la formola di Taylor è
7 ^
fix,y-h h) — f{x, y) = Il fy {x, 2/) -+- Y fyy (^, y + ^ ^0
(o<e<i).
297
Quindi
( J f{x,y)dxj — ^lim [J ì fy(^,y)-^ -^fw^^^V^^^^) \dx'\
= 1 fy (^, y) dx + lim -^ f fyy {x,y-^^ h) dx.
Poiché
f'yy \<H e quindi 1 Cf'yy (x, y-^^h)dx\<\H Cdx U 1 il (? — a) |,
sarà:
\ h r^ ... .
= 0.
lim -— / f\jy(x,y-^^h)dx
E la nostra formola diventa appunto:
( J f{x, y) dx ) = J/'i/ fe y) dx K P = cost.).
Ge^jesalizzazionb.
Si può estendere la formola precedente al caso che oc e jS siano funzioni della y,
purché cL'y e f,j esistano e siano finite.
Premetteremo alcune osservazioni.
Si voglia derivare rispetto al limite superiore x l'integrale
(^) dz {cf. = cost.).
Ricordando che un integrale definito è indipendente dal nome della variabile
di integrazione avremo :
[ù'''''\Af:'^''^]r
?(^);
cioè la derivata rispetto al limite superiore di un integrale di una funzione di una
variabile è uguale alla funzione che è sotto il segno di integrale, dove al posto
della variabile di integrazione si scriva il limite superiore.
Analogamente, dovendosi calcolare la
L » a; J
potremo serivere :
cioè la derivata rispetto al limite inferiore di un intjégrale di una funzione di una
variabile è uguale alla funzione che è sotto il segno di integrale cambiata di segno,
dove al posto della variabile di integrazione si scriva il limite inferiore.
Ci varremo di questi risultati per eseguire il calcolo della
j J /(ic,//)cZa;j
298 • CAPITOLO XIV — § 89-90
Nello
J
/ («, y) dx
abbiamo supposto oc e ^^ dipendenti da y ; indicheremo questo fatto sostituendo z e t
(supposte funzioni di y) ai limiti di integrazione. Otterremo lo
1 f(x,y)dx
che indicheremo con F. Il nostro integrale allora che è funzione delle y,z,t, tutte
funzioni di y, sarà funzione composta di y. Avremo dunque (§ 84, ex)
dF^^dF\ ^ /a^\ ^. _^ /dF\ ^.
dy \clyf JiL'tsi. \C> 2) y^l L cost. \ài) y, , Jc.st.
Se però le z,t fossero funzioni anche della x, questa formola si scriverebbe
più correttamente nel modo seguente :
(^^\ = (f) ,. + {^\ ,V4- m f,
\0 yf a. = cost. \0 yf X, :, t = cost. \0 Z f x,y,t = cost. \ C^ / z. y. z = cost.
Ora per trovare l^-i si devono considerare z, t come costanti, ossia
\dyf .v,:,/^ cosi.
come indipendenti dalla y. Questa derivata si calcola dunque col metodo svolto
più sopra. Si ha cioè
dF
Così sappiamo che, essendo z il limite inferiore dell'integrale, è y- = — f(z,y);
r)F
e che, essendo t il limite superiore, -^ = /"(<, 2/). Essendo ^QÌy'y—\, dalle pre-
cedenti formole dedurremo infine, posto di nuovo ^ — a, ^ — |5,
[/(rr,2/)t?a; j = 1 f'y^x,y)dx + fi^,y)fy — f{c*.,y)oi.'y.
Anche qui è ammesso, p. es., che le i\f'y,f"y»i sieno finite e continue.
Questa formola si riduce a quella trovata più sopra, se a'„ = ^'y — 0, ossia
se le a, ^ sono indipendenti dalla y ; ciò che era prevedibile a priori.
§ 90. — Differenziali esatti in due variabili.
a) Il problema fondamentale del calcolo integrale per le
funzioni di una sola variabile consiste nel determinare una fun-
zione, di cui è data la derivata F{x), 0, ciò che è lo stesso,
il differenziale F (x) dx.
Il problema analogo per le funzioni di due variabili consiste
nel determinare una funzione f{x^ y) di due variabili x, y, di
cui sono date le due derivate parziali del primo ordine, ossia
di trovare una funzione f(x,y) soddisfacente alle:
^=Mix,y), ^~ = N(x,y), (1)
dx Oy
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE, ECC. 299
0, ciò che è lo stesso, una funzione il cui differenziale df è
uguale a
Mdx-hNdy, (2)
dove M, N sono funzioni prefissate. Abbiamo visto che il pro-
blema citato per le funzioni di una sola variabile è sempre riso-
lubile se F{x) è continua, p. es., nell'intervallo Xo^x^b; e
che la f è determinata a meno di una costante additiva k. Si
può, p. es., porre
f(x) = [ F{x)dx -f- k,
dove ^ è il valore (scelto ad arbitrio) di f(x) per x ^=^ Xo.
Nel caso delle funzioni di due variabili noi proveremo invece
che non sempre esiste una funzione f{x, y) soddisfacente alle (1)
(anche supposto che le M, N siano continue insieme alle loro
derivate), ossia che non sempre (2) è il differenziale di una
funzione f{x,y), o, come si suol dire più brevemente, che non
sempre (2) è un differenziale esatto.
Se infatti le derivate prime delle M, Nsono continue, dalle (1)
si deduce, derivando la prima rispetto ad ?/ e la seconda rispetto
ad X, che : ^
"ix 'òy 'òy Dy 'òx 3x
Essendo, per ipotesi, i secondi membri funzioni continue, per
il teorema (§ 80, pag. 271) dell'invertibilità dell'ordine delle
derivazioni, essi sono uguali ; cioè è
dy ox
La (3) e dunque una condizione ìiecessaria affinchè il si-
stema delle (1) sia risolubile, ossia affinchè (2) sia un diffe-
renziale esatto [sia il differenziale di una funzione fix, y)],
(naturalmente se M, JSf, M'y, N'^ sono continue).
Dimostreremo viceversa che in casi generalissimi tale con-
dizione è anche sufficiente. Se la (3) è soddisfatta, anche nel
caso attuale di funzioni fix,y) di due variabili, la f{x,y) è
determinata a meno di una costante additiva k : p. es., il valore
della fix,y) in un punto A = iXo,yo) prefissato.
P) Comincieremo da un caso particolare : il caso cioè che le
variabili sieno separate. Con questa frase si indica il caso che
300 CAPITOLO XIV — § 90
nella (2) la M sia funzione della sola x, la N funzione della
sola y ; in tal caso la (3) è evidentemente soddisfatta, perchè
3?/ 'òx
Supponiamo M{x) continua per Xq^x^I^ ed N{y). con-
tinua per y^'^y ^^.
Sarà evidentemente :
fix.y) = Cmìx) dx -^ fV(^) dy + k.
Il primo addendo j M(x)dx è una funzione della sola
X,
la cui derivata rispetto ad x vale M{x) e la cui derivata rispetto
ad ?/ è nulla. Il secondo addendo similmente è una funzione
della sola y, la cui derivata rispetto ad x è nulla, la cui derivata
rispetto ad y è Niy). Il terzo addendo k è una costante effet-
tiva, le cui derivate sono entrambe nulle. Esso è il valore della
f(x, y) nel punto di ascissa x^ e di ordinata y^.
y) Passiamo ora al caso generale. Vogliamo calcolare f{x, y)
nel punto (a;, y^ supponendo che ilf, JV" ed 'M^y = ìi^\ siano finite
e continue nei punti la cui ascissa è compresa tra Xo ed x, e la
cui ordinata è compresa tra jo ed y. Ciò naturalmente limita
il campo ove facciamo variare il punto {x,y) cioè il campo R, ove
dimostriamo il nostro teorema. Supporremo, p. es., senz'altro E
essere un rettangolo coi lati paralleli agli assi, e dentro di esso
supporremo cadere entrambi i punti (xo, yo) ed {x, y).
Poiché fy = N, sarà
f^CN{x,y)dy-\-^, (4)
dove nell'eseguire l'integrazione la x si considera come costante,
e la 9 (la costante additiva) potrà quindi essere funzione della
sola X (com'è evidente, perchè 9 deve essere la funzione a cui
si riduce la f per y = ,yo, cioè la f{x, y^) ).
Dovremo poi determinare la 9 = 9(0;) in guisa che la deri-
vata rispetto ad x della f{x,y) definita da (4) valga M; che
cioè
Mix, y)=\ { Nix, y)dy + ^ ix) = 9' (x) -4- f N'^ ix, y) dy
L *^y« Ax •^2/0
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE, ECC. 301
ossia che :
cp' (x) = M{x, y) — fV; Gt, y) dy. , (5)
Il secondo membro è finito e continuo. Sarà dunque neces-
sario e sufficiente che esso sia funzione della sola x\ in tal caso,
con una integrazione si ricaverà il valore di cp {x). La condizione
necessaria e sufficiente per la risolubilità del nostro problema
è che la derivata M'y — N'^ del secondo membro di (5) rispetto
ad y sia nulla ; cioè la condizione, già tiovata necessaria, è
anche sufficiente. In tal caso la (5) dà
^{x)—\ \ Mix, ?/) — f N'^ (x, y)dy dx -{- '^p (xo)
dove 9 (x'o) è il valore di cp {x) per x = Xo, cioè il valore di
/'pera^^a^o, ed y z= y^^ cioè il valore f{xo,yo) prefissato ad
arbitrio. E la (4) dà pertanto :
f{x,y)=\ N{x,y)dy-^\ \M(x,y) — \ N'^{x,tj)\dx-^f{x^,y^).
yo ^ Xo[ ^ VO
Ricordando che nelle attuali ipotesi il secondo addendo,
come già abbiamo osservato, è indipendente dalla y, possiamo
per calcolarlo, supporvi y = ?/o. Cosicché tale formola diventa
piti semplicemente
f{x,y)= \ Mix,yo)dx -1- N (x, y) dy -^ f{xo,-yo) (6)
•' «0 ^ yo
la quale dimostra il nostro teorema che nelle nostre ipotesi
esiste una funzione f, il cui differenziale è Mdx 4- Ndy, e ci
insegna a calcolare tale funzione f yiel campo R sopra definito.
La (6) si può ottenere direttamente nel seguente modo, se si ammette giù
provata la esistenza della f; basta osservare che:
f(x, II) — f{Xo, Vo) = [f(^, y) — f{^, Vo)] + [fix, Vo) — f(^o, Po) ]
/•y r*X
= \ N'{x,y) dij -\- I M{x,y^)dx,
che coincide appunto coYi (6).
Indichiamo con A, C, B ì punti {xq, yo), (x, yo) ed (x, y). La
somma dei primi due addendi del secondo membro di (6) si
chiamerà l'integrale di Mdx -t- Ndy esteso alla spezzata ACB,
302 CAPITOLO XIV — § 90-91
od anche la somma dell'integrale di Mdx -h Ndy esteso ad AC,
e dell'integrale analogo esteso a CB. Naturalmente bisogna defi-
nire il. significato di queste nuove frasi : integrale di Mdx -\- Ndy
esteso ad AC od a CB. Noi intendiamo con integrale di
Mdx -f- Ndy esteso, p. es., ad AC l'integrale delV espressione
che si deduce da Mdx -H Ndy ponendo al pfosto della y e della dy
i valori che si deducono dalla equazione y z= yo = cost. di AC,
cioè y = I/o, dy = 0, ed estendendo l'integrazione dall'ascissa Xo
di A all'ascissa x di C. Cioè l'integrale di Mdx H- Ndy esteso
ad AC vale il primo addendo del secondo membro di (6) ; mentre
invece il secondo addendo si trova, con definizione analoga,
uguale all'integrale di Mdx -\- Ndy esteso a CB.
La (6) si può dunque interpretare così :
La differenza tra il valore f nel punto (x, y) ed il valore
della f nel punto (xo, yo) vale V integrale di df esteso ad una
spezzata di due lati paralleli agli assi coordinati congiungente
il punto (xo, yo) al punto (x, y) (se f\-c, fy sono continue).
Questo teorema è la generalizzazione della forinola
p X ^x
cp {x) — cp (:ro) = ^9 = i (^) àx
'^ Xo * .To
valida per le funzioni cp (x) di una sola variabile (a derivata
continua).
§ 91. — Integrali curvilinei {*).
I precedenti risultati appaiono incompleti. Infatti :
V Perchè dare tanta importanza alla spezzata ACB
unente i punti A, B piuttosto che a un'altra curva congiungente
i punti stessi ? Già, scambiando nelle precedenti considerazioni
le X, y, giungeremmo a teoremi analoghi, in cui alla ACB è
sostituita un'altra spezzata ADB, il cui primo lato AD è paral-
lelo all'asse delle y, il secondo lato DB all'asse delle x.
2"" Il secondo membro di (6) ha un significato, anche se
non è soddisfatta la M'y = N'^. Quale ne è il senso in tali casi
più generali ?
II modo migliore di dare un'esauriente risposta a tali domande
è di porre la seguente definizione. Sia AB un arco f di curva
pensato descritto nel verso àa. A 3. B e rappresentato dalle equa-
zioni x = x(t) y = y (t) per X ^ ^ ^ [1, (1)
(*) Il lettore può rinviare la lettura di questo § al momento in cui studierà
la teoria generale delle funzioni additive e degli integrali multipli.
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE, ECC. 303
dove \ \i sono i valori della t corrispondenti ai punti A, B di f,
e dove x (t), y {t) sono finite e continue nell'intervallo (X, fi), e
le X {t), y (t) sono continue od hanno un numero finito di punti
di discontinuità (§ 78, pag. 261).
Noi chiameremo integrale di Mdx -+- Ndy esteso a tale arco
di curva lo :
f; M[x{t\y(t)]x\t)-Ì-N[x{t\y(t)] y\t) \ dt, (2)
il cui integrando si deduce da Mdx -\- Ndy, sostituendovi alle
X, y, dx, dy i valori che si deducono da (1). E così generaliz-
zata nel modo più semplice la definizione sopra data di integrali
estesi a segmenti.
È appena necessario avvertire che, essendo dx, dy indipen-
denti dalla scelta della variabile indipendente, il valore di (2) non
cambia se cambiamo il parametro t scelto per individuare i
punti di r ; e ciò in virtù del teorema di integrazione per sosti-
tuzione (cfr. anche il penultimo capitolo del libro). Tale inte-
grale ' dipende dunque soltanto dal differenziale Mdx -l- Ndy e
dall'arco f dato a priori (e cambia di segno, invertendo il verso
in cui r si immagina percorso, cioè scambiando i punti A, B).
Ci poniamo ora la seguente domanda fondamentale :
Che valore ha il nostro integrale, se esiste una funzione
f (x, y), il cui differenziale df è M (x, y) dx -H N (x, y) dy ?
Evidentemente lungo f la /* è funzione di x, y, entrambe
funzioni della t, e perciò la f è una funzione di t, la cui deri-
vata vale
M [x it), y (t)] x' (t) -hN[x (t), y (t)] y' (t), (*)
perchè dalle
f= fix. y); x — x (t), y = y(t)
Wf
si
deduce
df
dt
^f , ^'^f '
=3 Mx\
Quindi
il nostro integrale (2)
diventa
rdf
Ji dt '
it,
(*) Le M[x(t),y{t)] ed N[x,(t),ìi(t)] sono i valori assunti dalle 31, N nei
punti del nostro arco f. Ammetto qui la continuità delle x' (f), y' (t). Il lettore potrà
facilmente studiare le lievi modificazioni da apportarsi alla seguente dimostrazione
nel caso che x' {t), y' (t) abbiano qualche punto di discontinuità.
304 CAPITOLO XIV — § 91
ed è perciò uguale alla differenza dei valori che la f (x, y)
assume negli (stremi B, A delVarco V di curva considerato.
Vale a dire tale integrale ha in tale ipotesi un valore che
dipende soltanto dagli estremi A, B del nostro arco, e non
varia quindi, se cambiamo l'arco (1) che congiunge i punti A, B,
e gli sostituiamo p. es., come al § 90, la spezzata ACB. Vice-
versa si può dimostrare (cfr. anche il penultimo cap. del libro) :
Se questo integrale 'non dipende dalla particolare scelta
delVarco AB, ma soltanto dai suoi estremi A, B, esso definisce
proprio il valore che nel punto B assume la funzione f (x, y)
che è nulla nel punto A, e il cui differenziale vale Mdx -\- Ndy.
Infatti tenuto fìsso il punto A, e considerato il punto B
come variabile, tale integrale sarà una funzione f delle coor-
dinate {x, y) di B. Vogliamo provare che f'^=^ M e che f'y^=N.
Proviamo p. es. che f'^ = M. Sia B' il punto {x 4- h, y). Sarà :
f^ (^, y) = „^ n^ + h,y)- fix, y) ^
7i=o n
\\Mdx + Ndy) — f {Mdx -)- Ndy)
= lim ^ '-y^ (3)
Ti = 0 ri
Poiché tali integrali non dipendono dalla scelta delle linee
AB, AB\ potremo supporre che la linea AB' risulti dalla linea
AB e dal segmento BB\ lungo cui dy = 0.
La (3) diventerà
j {Mdx -^ Ndy) ^ .4.7,
f'x {x, y) = lim ^^ = lim — M{x, ij) dx,
/i = o a h = ^ il •^ X
Ricordando che per il teorema della media
M{x, y) dx = h M{x -h m, y), (0 < 0 < 1)
» a;
e che M è continua, avremo :
f^ = lim M{x -^ e/^ y) = M(x, y). e d. d.
Cosicché il problema di riconoscere quando esiste una funzione
f{x, y) che abbia un dato differenziale Mdx -h Ndy, e quello
di calcolare tale funzione, si riducono al problema di ricono-
scere quando l'integrale curvilineo di Mdx -+- Ndy dipende
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE, ECC. 305
soltanto dagli estremi della curva, a cui è estesa l'integrazione
e non dalla curva scelta. Nel capitolo citato dimostreremo che
ciò avviene in ogni campo R ad un solo contorno (p. es. un
campo circolare, o ellittico, e p. es. non una corona circolare),
in cui M, N, M\j, N'., sieno finite e continue, e M'y = N'^c-
Eesterà così dimostrata non solo per i campi R del § 90,
ma anche per questi campi più generali che nelle nostre ipo-
tesi esiste ima funzione f (x, y) tale che df = Mdx + Ndy.
Nel capitolo citato troveremo anche gli stretti rapporti che
passano tra le attuali proposizioni e le definizioni di potenziale
e di lavoro di una forza.
§ 92. — Differenziali in tre variabili.
Il problema analogo per funzioni di tre variabili x, y, z è
quello di determinare una funzione f{x, y, 2), di cui sono pre-
fissate le tre derivate prime M=^fa,, N=^fy, P^=^fz, 0 in
altre parole è prefissato il diiferenziale
df= Mdx -+- Ndy + Pdz,
(M, N, P funzioni di x, y, z).
Questo problema non è sempre risolubile ; se supponiamo
infatti che le derivate parziali del primo ordine delle M, N, P
esistano, siano finite e continue, esisteranno e saranno finite e
continue le
ay _ IM 2f_ __ 'ÒM
'òxiy "òy ^x^z ^òz
'òy'òx "òx ' 'iy'òz "òz
'òz'òx lix ' 'òz'òy 'iy
Donde, per il teorema sull'invertibilità dell'ordine delle deri-
vazioni, si trova che condizioni necessarie affinchè il nostro
problema sia risolubile, 0, come si suol dire, aftinché
Mdx -h Ndy -h Pdz
sia un differenziale esatto, sono le :
'ÒM_lm ^M_'ÒJP^ 'ÒN^_'ÒP
??/ 'òx ' Ì!iz 'òx ^ 'òz ()?/
20 — G. FuKiNi, Amdisi matematica. ,
306 CAPITOLO XIV — § 92-93
Come nel problema precedente si dimostra che queste condi-
zioni sono sufficienti almeno per il caso che il campo di variabilità
per le M, N, P sia un parallelopipedo con gli spigoli paralleli
agli assi coordinati, ed anche in casi assai più generali.
§ 93. — Cenno di un problema analogo ai precedenti.
Un problema analogo è quello di determinare una funzione
z (x, y) che soddisfi alla ^ ^ =: P(x, y), dove P {x, y) è una
oxoy
funzione data a priori finita e continua in un rettangolo, avente
i lati paralleli agli assi coordinati ; e siano a, b, p. es., le coor-
dinate di quel vertice, che ha la minima ascissa e la minima
ordinata.
La nostra equazione si può scrivere :
donde
... . . • f^
i ?
— ì P{x, y) dx
^y
dove Y è una costante rispetto alla x, ed è quindi una qual-
siasi funzione della y {continua, perchè in questi stadi ci occu-
piamo solamente di funzioni continue).
Sarà perciò :
^ = f'\fp{x,y)clx^dy-^^{y)-^f{x) (1)
dove 9 {y) è l'integrale di y ; cioè, essendo y una funzione arbi-
traria, 9 {y) è una funzione arbitraria della y (a derivata
continua). Nella (1) compare anche f{x), funzione arbitraria di x,
perchè si è integrato rispetto a y, e quindi l'integrale resta
determinato a meno d'una costante (rispetto ad y) che può
essere una funzione aifatto qualunque di x, ma che supporremo
derivabile, volendo che esista z\.
Se nella (1) poniamo ora l'ipotesi che P {x, y) sia costantemente zero, e quindi
P(x,ij)dx
troviamo che la funzione più generale ^ (x, y), che ha la derivata mista di secondo
ordine uguale a zero, è somma di due funzioni, l'una di a; e l'altra di y affatto
arbitrarie (ma derivabili), e cioè:
^ = 9{y)-\-f(^\ (2)
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE, ECC. 307
Si può verificare facilmente il nostro risultato derivando la z — 'r (y) -h f (x)
prima rispetto a ic e poi rispetto a y. Si avrebbe :
àz ,., , .
e derivando quindi la f'{x) rispetto & y sì ottiene lo zero.
Facciamo un cambiamento di variabili ; poniamo cioè :
u - X + y, V = x — y ;
da cui
U-\-V II — V
La z funzione di ic e ^ può dunque considerarsi come funzione ài u ^ di v,
a loro volta funzioni di x e y.
Derivando allora la z rispetto alla x tenendo y costante, e applicando il
teorema di derivazione di funzione di funzione, si ottiene
dz dz . dz ,
dx du dv '
ossia, essendo u\- =4-1 e v'.^ = + 1,
dz _ ^i_d^
dx ~ du àv'
Derivando rispetto alla y, si trova
òxòy - \dy} "* ' "^ dndv "" ■ V "^ \àv^ "" ''^ 'à^v'"' ) '
Poiché u'y = 1, v',j^= — 1, si trova
d^z _ d'^z d^z
dxòy ~ du^ dv*' '
Cosicché la (2), ove si ponga z = , y = — ^r — , dà tutte le funzioni
che soddisfano alla:
risultato importante, perchè riceve applicazioni in molte questioni di fisica.
Oss. Scambiando gli assi delle x e delle y si trova che la (1)
si può scrivere nella forma
^ {x, y) =J J F(x, y) dy\dx-]rf{x)-{-^ (tj).
E se ne potrebbe dedurre che :
£ [fjp(^, y) <v] dx =£ [X'^^^' '^^ H ^y-
Questa formola sarà ritrovata in forma assai più generale
in altro capitolo.
308 CAPITOLO XV — § 94
CAPITOLO XV.
OLI INTEGRALI DEFINITI
E LE FUNZIONI ADDITIVE DI INTERVALLO
§ 94. — Funzioni additive d'intervallo e loro derivate.
a) Sia 9 (x) una funzione prefissata della x in un intervallo I.
Siano a, h due punti di J; la differenza (incremento) cp (h) — cp(a)
è un numero determinato, quando siano dati i punti a, h, o,
ciò che è lo stesso, l'intervallo (a, 6). Prefissata dunque la fun-
zione cp (x), noi potremo dire che tale differenza, che indicheremo
con S{a,h) è una funzione dell'intervallo (a, ò) (*). Essa gode
di una proprietà molto notevole ; cioè che, se Tintervallo (a, e) è
somma degli intervalli (a, b) e (6, e), allora il valore 8 (a, e) rela-
tivo a tutto l'intervallo, cioè cp (e) — cp (a), è uguale alla somma
dei valori S (a, 6) z= cp (6) — cp (a) e S{b,c) = ^ (e) — cp (b),
che essa assume nei due intervalli parziali (a, b) e (6, e). Noi
enuncieremo questa proprietà dicendo che S (a, b) è funzione
additiva dell'intervallo (a, b).
Viceversa sia ^S' (a, b) una funzione dell'intervallo (a, b) ; sia
essa cioè un numero, che ha un valore determinato, appena sia
dato l'intervallo (a, b) di L
Essa goda della proprietà additiva: sia cioè identicamente
8 {a, b) -4- 8(b^ e) = 8 {a, e). Ne seguirà supponendo c^=^b, che
8 (b, b) = 0, cioè che una funzione additiva d'intervallo si an-
nulla, se Vintervallo è nullo. E quindi, ponendo poi e = a, e
osservando che 8 {a, a) = 0, ne seguirà :
S{a,b) = — 8{b,a).
Sia C una costante arbitraria ; e sia e un punto fisso qual-
siasi (di /), sia X un punto variabile in 7. Si ponga :
C-\- 8 (e, x) = cp {x\
(*) Diciamo così per analogia col linguaggio abituale : Si dice che y è funzione
di a?, se 2/ è determinato, appena sia nota la x.
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 309
Poiché l'intervallo (e, b) è somma degli intervalli (e, a) ed
(a, h), sarà :
S (e, h) = S {e, a) -\- S (a, b)
ossia :
S (a, b) = Sic, b) — ^(c, a) = cp (6) — cp (a).
Ogni funzione S (a, b) additiva di intervallo (a, b) coincide
con V incremento 'i (b) — cp (a) di una funzione cp (x) della
variabile x.
Data S (a, b), la cp (x) ha chiaramente soltanto l'indetermi-
nazione dovuta all'arbitrarietà con cui si può scegliere la
costante C. Infatti due funzioni cp (x), ^ (x) che abbiano uguali
incrementi nello stesso intervallo, soddisfano per ogni valore
di X alla :
^(x) — cp (a) = ^(x) — ^ (a), ossia :
cp (x) — ^{x)^^ia) — ^ (a).
Esse hanno cioè una differenza costante.
In molti problemi si presenta più spontaneo lo studio di
una funzione S additiva d'intervallo piuttosto che lo studio di
una funzione cp, di cui la S rappresenti gli incrementi. Così
p. es., se un punto si muove su una retta e la sua velocità
F{x) è nota in funzione del tempo, si presenta più spontanea
la domanda : Che spazio S (a, b) ha percorso il punto dalle ore a
alle ore b ? piuttosto che l'altra domanda : A che distanza 9 (x)
si trova il punto all'ora x dairorigine ? Infatti questa seconda
domanda presuppone la scelta di un elemento sovente estraneo
alla questione : V origine.
Di funzioni additive di intervallo possiamo dare numerosi
esempi.
Data una sbarra materiale posta sull'asse delle x, il peso
di quella sua parte che ha per estremi i punti di ascissa a, b
è una funzione additiva di tale parte di sbarra, cioè dell'inter-
vallo (a, il). E ciò perchè il peso di un tratto {a, e) di sbarra
somma dei tratti (a, b) e (ò, e) è evidentemente la somma dei
pesi dei tratti parziali («, b) e (ò, e) : proprietà che vale, qua-
lunque sia la posizione dei punti a, ò, e, se si conviene di consi-
derare come uguali, e di segno opposto i pesi dei tratti (a, 6)
e (6, a).
Se un punto materiale si muove in un dato campo di forze
percorrendo un segmento (a, b) dell'asse delle x, il lavoro com-
piuto è una funzione additiva di (a, b).
310 CAPITOLO XV — § 94
P) Consideriamo ora il caso particolare (che basta ai nostri
studii elementari) di una funzione ^ (x) a derivata F{x) con-
tinua. Il teorema della media dice che :
SJMO^,(b)-cp(a)^^^^^^ (1)
D a b — a
ove e è un punto opportunamente scelto interno alV intervallo
(a, b).
Se dunque a, h tendono ad uno stesso punto a^ sarà anche
lim e = a, ed, essendo F {x) continua, anche lim F (e) =^ F {(x.) .
Cioè :
Se V intervallo (a, b) tende ad un unico punto a^ allora il
limite di
S (a, b)
b — a
vale F (x). Perciò :
Se F (x) = lim - — ^ — è funzione continua, noi la chia-
a, b = X D a
meremo derivata della funzione additiva S (a, b) rispetto alVin-
tervallo (a, b). Tale derivata è funzione della sola variabile x,
e non è più funzione di un intervallo. Evidentemente poi
S (a, 6) = 9 (è) — cp {a) = f F {x) dx.
Cioè una funzione additiva S (a, b) con derivata F (x)
(continua) coincide con Vintegrale definito f F (x) dx di tale
derivata.
Il teorema della media, che abbiamo scritto nella forma (1),
si può anche scrivere così :
S{a,ì))=^{h — a)F{c).
Se ne deduce :
Siano M ed m il massimo ed il minimo valóre nelVinter-
vallo (a, b) della derivata (continua) F (x)/ della funzione S (a, b)
additiva d'intervallo; allora S (a, b) è compreso tra i prodotti
di (b — a) per M o per m.
Viceversa, se il valore della funzione additiva S (a, b) è
compreso tra (b — a) M e (b — a) m, dove M, m sono il mas-
simo e il minimo della funzione continua F (x), allora F (x)
è la derivata di S (a, b).
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 311
Infatti \ — - — è in tal caso compreso tra M ed m ; cioè
b — a
vale F{c), ove e è un conveniente punto dell'intervallo (a, h).
Perciò, se a,b tendono ad x, allora^- — - — tende ad F{x),
§ 95. — Illustrazioni varie.
Abbiamo riconosciuto che la funzione additiva S (a, b), che
ha la derivata continua F (x), coincide con F (x) dx. Questo
teorema si può illustrare in molti modi:
a) Se p. es. F{x)^0, l'area S (a, b) del rettangoloide defi-
nito dall'asse delle x, dalla curva y ^=^ F {x) e dalle rette a: = a,
x^=b è evidentemente funzione additiva dell' intervallo (a, b)
(almeno se l'area si considera positiva se a <b e negativa se
a > ò). Tale rettangoloide è contenuto nel rettangolo che ha per
base l'intervallo (a, b) dell'asse delle x e per altezza il massimo
valore M di F {x) in tale intervallo, e contiene il rettangolo
di ugual base, avente per altezza il minimo valore m di F{x).
Perciò S (a, b) è compreso tra {b — a) M ^ {b — a) m, ed ha
quindi F {x) per derivata. Esso vale pertanto F (x) dx. Questo
ragionamento è, in altre parole, la ripetizione di considerazioni*
svolte, da noi altrove (pag. 165).
p) Se F(x) indica la velocità che un punto mobile N su
una retta r ha all'istante x, ^ '^ {x) indica lo spazio percorso
da N, 0 anche la distanza ON, che N ha all'istante x da un'ori-
gine fissa 0, si riconosce immediatamente che ^ {x) ^==^ \F {x) dx
e che quindi ^ (b) — 9 (a) (spazio percorso dall'istante a all'i-
stante b) è la funzione additiva, che ha F{x) per derivata, e perciò
vale precisamente l'integrale definito di F (x) esteso all'inter-
vallo (a, 6). Basta osservare che lo spazio percorso cp (6) — 9 (a)
gode delle due seguenti proprietà:
1) Se a è un intervallo di tempo, somma di due intervallini
ocj, ag, lo spazio percorso in a è uguale alla somma degli spazi
percorsi in a^ e in ag; cioè lo spazio percorso è funzione addi-
tiva degli intervalli di tempo.
2) Lo spazio cp (&) — cp (a) percorso da N nell'intervallo
di tempo (a,b) è compreso tra gli spazi, che sarebbero percorsi
312 CAPITOLO XV — § 95
da iV^, quando esso fosse in tale intervallo dotato sempre della
velocità minima m o massima M, che raggiunge in tale inter-
vallo, ossia è compreso tra (6 — a) m e (ò — a) M.
y) Se F{x) indica il valore della forza agente su un punto ]Sf
mobile su una retta r, quando JV dista x dall'origine, e se F ix)
è diretto secondo r, il lavoro corrispondente al passaggio di N
dal punto a; = a al punto x = b è l'integrale definito di F (x)
esteso all'intervallo (a, ò). Infatti esso gode delle due seguenti
proprietà :
1) Se un intervallo a è somma di due intervallini oc^, a.., il
lavoro corrispondente all'intervallo a è somma dei lavori corri-
spondenti agli intervalli cci, cc^, cioè tale lavoro è funzione
additiva degli intervalli a.
2) Tale lavoro è compreso tra i valori {b — a) m e (b — a)M
corrispondenti al caso che la forza F (x) nell'intervallo (a. b)
conservasse costantemente il valore minimo m o massimo M, che
raggiunge in tale intervallo.
5) Indichiamo con p, 0 coordinate polari; si voglia calco-
lare l'area A della figura racchiusa tra i raggi 0 = a, 0 = ?>
{0^a<b^2Ti) e una curva p = i^(0). È evidente che A è
funzione additiva dell'intervallo (a, b). Si osservi che, se M, m
sono il massimo e il minimo di -F(0) nell'intervallo (a, &), la
nostra figura comprende all'interno il settore circolare che ha
per raggio m, che è limitato dalle semirette 0 = « e 0 = 6, e
che quindi ha per area t: m^ ■ — z^ — - (6 — a) m^ E la
2 71 2
nostra figura è compresa nel settore limitato dalle stesse semirette^
che ha per raggio M, ed ha quindi per area — (& — ci) M\
L'area cercata è dunque compresa tra — m^ A 0 e — - M~ A 0^
quando si indichi con A 0 = & — « l'incremento ricevuto da 0
nell'intervallo (a, 6). E se ne deduce facilmente che l'area A in
discorso ha per derivata — P^ ossia che essa è data dalla:
dA 1
Il lettore dimostri direttamente che -—- = -—[F(d)Y.
u 0 2
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 313
Si può dedurne poi, p. es,, che : se un punto N si muove in un piano in
modo che il raggio ON descriva un'area A proporzionale al tempo t impiegato,
allora la forza agente su N è diretta verso 0, (Teorema importante, p. es., per
dedurre dalle le^gi di Keplero la legge di gravitazione universale di Newton).
T fi ,,'■ . y . dA , ., , . . dAde , . \ ^do
Infatti in tal caso % -^j =k(k = cost.), ossia -,— -,-7 = h, ossia — /s^ — == A'.
dt d^i dt ' 2 dt
Poiché p' — 'X^ H- ?/^ 9 == arctg ^ , questa equazione diventa :
donde, derivando
dì} ^^ __ o 7
^ti~'^di~^^''
d-ìj d-x ^ . d^x dhj
che prova il nostro teorema, perchè (come insegna la Meccanica) le componenti
della forza agente su JV sono proporzionali alle
d'X à~y_
§ 96. — Alcune somme fondamentali,
a) Abbiamo dunque riconosciuto l'identità del concetto di
funzione S (a, b) additiva avente per derivata la funzione con-
tinua F (x) e di \ F (x) dx.
Cosicché se, p. es., F{x)^0, ed a<b, la S(a,b) si può
pensare identica all'area del rettangoloide limitato dall'arco di
curva y=zF{x) per a^x^b, dalle rette che ne proiettano
gli estremi sull'asse delle x, e dallo stesso asse delle x.
Ci serviremo tosto di questo fatto per illustrare geometri-
camente alcune considerazioni.
Diviso l'intervallo (a, b) in n intervallini parziali Si, %, ... B„,
allora il valore ^S" {a, b) della nostra funzione additiva vale la
somma dei valori di 8 corrispondenti ai nostri intervallini 5^:
ciascuno dei quali è, per il teorema della media, compreso
tra '^iMi e B^W/, se Mi, mi sono il massimo e il minimo ài F(x)
in li, e vale ^ìFì ove Fi è un conveniente valore della F{x) in B^.
Perciò :
La S (a, b) = F{x)dx è compresa tra S Mi 8, = Mi^i-^
*J a
-\-M2l2-^ -hM.rK^ untili. Esistono dunque dei conve-
menti numeri Fi compresi tra m^ ed Mi tali che F{x) dx —
= SP.8...
314
CAPITOLO XV
§ 96
Perciò : La S (a, b) è compresa tra il limite inferiore delle
2 MB, e il limite superiore delle S m B.
Fig; 33.
P) Sarà bene illustrare questo procedimento per le funzioni
F {x)^0 ricorrendo all' interpretazione citata di 1 F (x) dx
come area della figura piana (rettangoloide) compresa tra l'asse
delle X, la curva y = F (re),
e le parallele all'asse delle y,
i cui punti hanno per ascissa
rispettivamente a oppure h.
Nella fìg. 33 sono dise-
gnati per l'intervallino par-
ziale ^i il minimo mi e il
massimo Mi di F(x).
Nella successiva fig. 34
(in cui per chiarezza si è di-
segnata una curva y = F(x)
di più semplice andamento)
è reso ben evidente che un
prodotto B, mi è l'area di un
rettangolo avente per base B,;
e tutto interno alla nostra figura (i rettangoli APA\A',
AiPiA'2A\, ecc.); cosicché 2 m^ B^ misura l'area di un poligono
xche è tutto contenuto nel nostro rettangoloide ed ha perciò
un'area non maggiore di quella del nostro rettangoloide.
Fig. 34.
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 315
Invece i numeri Mi^i, M^2, ecc. sono l'area dei rettangoli
QAiA\A\ QìA2A'2A\, ecc., la cui somma è un poligono, che con-
tiene il nostro rettangoloide, e la cui area è perciò non minore
dell'area del rettangolo stesso.
Riesce così resa intuitiva la nostra affermazione.
Del resto tutti gli altri esempi del paragrafo precedente
potrebbero servire altrettanto bene ad illustrare la nostra affer-
mazione.
Y) Ricordiamo la precedente formola : F (x) dx = S Fi S^.
La lunghezza \ di un intervallo parziale non è che l'incre-
mento dx subito dalla x nel passare da un estremo all'altro.
Se noi scriviamo dx al posto di 5,-, e sostituiamo al S greco
un S maiuscolo latino, che la scrittura corrente può aver defor-
mato nel segno j , intendiamo il perchè della notazione usata
per indicare gli integrali definiti.
§ 96 bis. — Il metodo dei rettangoli
per il calcolo approssimato degli integrali definiti.
a) Abbiamo riconosciuto al § 96 che, diviso l'intervallo (a, h)
in un numero finito di intervallini parziali B,-, si ha:
i
ove Fi è uno dei valori assunti da F {x) in S^-, scelto in modo
conveniente. Cosicché, se noi, data F{x), e scelti i B^-, sapes-
simo scegliere tali valori Fi, il calcolo dell'integrale sarebbe
ridotto a operazioni elementari (somma di prodotti). Ma poiché
invece in generale non sappiamo scegliere tali Fi, sostituiamo
ad Fi uno qualsiasi Fi dei valori che F (x) assume in B^, as-
sumendo poi la somma SJ^^S^, come valore approssimato del
nostro integrale. È questo un procedimento molto usato; la
teoria, d'accordo con l'intuizione, lo giustifica, come vedremo
in P), provando che l'approssimazione raggiunta si potrà render
grande a piacere, cioè che la differenza F{x)dx — ^F-h^
si può rendere piccola a piacere in valore assoluto, prendendo
tutti i Sf abbastanza piccoli (e ciò indipendentemente dal modo
con cui si é scelto il valore Fi di F{x) in 5,).
316 CAPITOLO XV — § dQbis
Ciò, che con una facile estensione del concetto di limite si
scrive ( F(x)dx = lim S F^hi. L'errore commesso sostituendo Fi
*^a ' 0^ = 0
ad Fi viene cioè eliminato passando al limite per B,; = 0.
Tale metodo di calcolo approssimato si può chiamare metodo
dei rettangoli.
Infatti il calcolo del nostro integrale equivale a quello del-
l'area del rettangoloide definito dalla curva y = F{x), che ha
per base il segmento (a, b). Diviso (a, b) in segmentini B^, il
rettangoloide resta diviso in rettangoloidi parziali ; all'area di
uno di questi noi sostituiamo il prodotto ^i Fi, cioè Tarea di un
rettangolo che ha ancora B^ per base, e che ha per altezza F,-,
essendo Fi uno qualsiasi dei valori che F (x) ha in B^.
Per Fi possiamo assumere p. es. il valore di F{x) ad uno
degli estremi di B^, oppure il massimo valore Mi od il minimo
valore ìHì di F (x) in 5^-, oppure un numero qualsiasi compreso
tra i/i ed m,.
P) Con. gli stessi metodi con cui si è provato che l'area
esterna di un rettangoloide è uguale all'interna, si può dimo-
strare intanto che il limite inferiore di SMB è ugnale al limite
superiore ^i S mS; e che quindi entrambi sono uguali al numero
S (a, b) = F (x) dx, che è compreso tra le due somme citate,
•'a
Resta così jjrovato che questo integrale si può perciò definire
come il numero che separa le classi contigue descritte rispetti-
vamente dalle 2MBj SmS.
È intuitivo poi (come il lettore può riconoscere pensando
all'area di un rettangoloide, e ricordando la trattazione elemen-
tare per l'area del cerchio) e si può facilmente provare (*) che
(*) Ciò si può dedurre dal teorema di Heine (§ 40 e § 63, pagina 197),
perchè, in virtù di questo teorema, si possono scegliere i «» così piccoli che tutte
le corrispondenti oscillazioni Mi — mi risultino minori di t . Allora sarà
0 — CI
e
I iM Si — imiòt I < , ^ s òi = £, come volevasi provare.
Allo stesso risultato si giunge direttamente così : Dato un sistema di inter-
vallini S e un altro sistema di intervallini ò', ottenuto dal precedente intercalando
nuovi punti di divisione, le somme corrispondenti soddisfano alle iMò'^iM'ò'
e Imo ^^m'ò', E ciò, perchè il massimo Ìf(il minimo »«) di F{x) in un ò non è
inferiore ad alcuno dei massimi M' (non supera alcuno dei minimi m') che Fix)
ha negli intervallini ò\ in cui è stato suddiviso l'intervallo ò considerato, mentre
la lunghezza -^ vale la somma delle lunghezze di questi ò'.
Sia £>0 un numero piccolo a piacere; e consideriamo, p. es., le ^mò. Esi-
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 317
si può rendere piccola a piacere (minore di un £ > 0 piccolo a
piacere) la differenza SMS — SmS, considerando degli inter-
vallini ^ abbastanza piccoli [che tale differenza (con conveniente
scelta dei S) si possa rendere piccola, segue dal precedente
teorema; la presente osservazione precisa che i S saranno scelti
convenientemente, se saranno scelti abbastanza piccoli].^ fortiori,
se indichiamo con F uno qualunque dei valori assunti da F{x)
sterà un sistema di intervallini parziali Oj/j^, ,^n tali che, se « è il minimo di
F{x) in e, sia
F{oc) f?a'^i>9 ^ F{x)dx - — ■
E ciò perchè i F{x)dx è proprio il limite superiore delle Smò (o delle S/^^j).
Consideriamo un altro qualsiasi sistema di intervalli ò, ciascuno dei quali sia
più piccolo del minimo tra gli intervalli 9 e sia più piccolo anche di^^-^^-^y, sei?
è il massimo di |/'(a;)iin (a, fe). Sia ò' quel sistema di intervallini che si ottiene
dividendo (a, b) in parti sia coi punti estremi dei 6, sia coi punti estremi dei ^.
Poiché i ^' sono ottenuti sia dai o che dai ^, intercalando nuovi punti di divisione,
sarà : s w' ò' ^ x /* e ; ì: w' ò' ^ v ^ 5, mentre è | F(x)dx^^ m' ò'.
.Jfo
Ora nel passare dai ò agli intervallini ò', al più n degli intervalli ò sono stati
divisi in (due) parti (perchè un ò non può contenere tutto un e per l'ipotesi fatta)
e gli intervallini ò', che si ottengono dividendo in due parti al più n intervalh ò
hanno complessivamente una lunghezza che non può superare n ' (perchè ogni ò
non supera ^-^^j. Il contributo che essi danno nella somma ^m'S' non può su-
perare wJT =-^-75— - ^ .
^ 2nH 2
Poiché gli altri intervalli ò sono contemporaneamente intervalli 0', la somma
^ m' ò' supererà ^m S al più di — ; cosicché 2 m ó:^im 0'
già
Poiché 2 to' c' ^ ly.o ^ j F{x)dx — ^, sarà : to 5 ^ j F {x) dx — t. È gi
noto che I F(x)dx'^^mò. Cosicché, se i 0 sono scelti abbastanza piccoli (nel
modo sopra precisato), la ^mS differisce da I F{x) dx per meno di h.
In modo analogo si prova che, se i 0 sono abbastanza piccoli, ìMó differisce
da I F{x)dx per meno di j. Quindi, preso un numero 2^0 piccolo a piacere,
possiamo scegliere un numero » tale che, se tutti i 0 sono minori di ^, allora
[iMò — Imo] sia minore di 2=. e. d. d.
318 CAPITOLO XV — § 96 bis
in B, cosicché m^F^M, allora, poiché i^(a;)^a: e Si^S sono
entrambi compresi tra Sm5 e 2ilf8, avremo che:
Dato un numero £ piccolo a piacere, posso scegliere i 5 così
piccoli che , „ „ r''
|Si^S— F{x)dx\<^.
Cosicché con facile estensione della definizione di limite,
possiamo enunciare il seguente teorema :
Lo \ F (x) dx non solo è il numero che separa le classi
•'a
contigue descritte dalle S m S^ SMS, ma è anche il limite
di SFS quando tutti i B tendono a zero, se ¥ è un qualsiasi
numero compreso tra ÌA ed m (od eventualmente uguale anche
ad ilf od a m). ,&
Se noi confrontiamo quest'ultimo teorema F{x)dx-\\ml^Fh
col teorema dato in (a), pag. 315, cioè l Fix)dx=^ HFZ^ ve-
diamo che tanto F che F rappresentano una quantità compresa
tra m ed M. Ma mentre F è una quantità arbitrariamente
scelta tra me M, la i^ é un numero convenientemente scelto
tra ni ed M. Cosicché nella
f Fix) dx = lim (F,hi -4- F.h-, -f- 4- Fnhn)
-'« 0^ = 0
si potrebbe quasi dire che il passaggio al limite (quando tutti
i S tendono a zero) corregge V errore commesso scegliendo i
valori intermedi F^ in modo arbitrario tra m^ ed Mj.
Y) Un caso particolare della nostra formola si ottiene nel
modo seguente :
Si divida l'intervallo (a, b) in n intervallini parziali S,, i cui
estremi ai, = a, a^, a^, , «n + i = ^ formino una progressione
aritmetica ; tutti questi intervallini saranno uguali tra di loro
ed avranno come lunghezza comune.
n
Se come Fr scegliamo il valore di F {x), p. es., nell'estremo
destro a 4- r del corrispondente intervallo S,., otterremo che :
n
(I) Cf{x) dx = lim ^^^^ ÌFia-^ ì^l^\ -+-
-'a n = a. n \ \ n /
-hjP(a-+-2— j-hi^(a+3 )-+- -\-Fia -\- n ) .
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 319
-n
Similmente, supposto b > a, e posto A: =1/ — , i punti a
ak, ak^, , ak'^~^ , ah"" = b formano una progressione geome-
trica e dividono l'intervallo (a, b) in intervallini che tendono
a zero per n =^ co , ossia per ^ = 1.
Si ritrova (ricordando che ^ ^= | / — ) :
(II) r f{x) clx =: lim a (A: — 1) S f{a) 4- kf{ak) -4-
4-Z;Y(a/r)-f- + k""' fiak""-') j.
Questa è in fondo la formola applicata a pag. 128, es. 3^,
quando si è calcolata un'area, il cui valore è, come ora sap-
piamo, l'integrale definito di — tra a e b.
X
Esempio.
1** Si calcoli j xdx col metodo precedente della (I).
Si trova
'^ b — a
n = 3c Yl \
xax^=^ lim >
b — a
a -h r
n
r ^ — ^\ , n{n-+-l)b—aì ,. i ., x ^
^= lim — na H : / = lim {a{b — a) H-
«== ^ n 2 n »i=oo
+ |(l +i)(6-af| = a(6-a) +i(6 — «)=
" — a'
§ 97. — Generalizzazioni del concetto di integrale.
L'integrale di Riemann.
Negli ultimi venti anni si è generalizzata la definizione di integrale. Noi non
possiamo dare neanche un'idea di questi studi recenti e teoricamente importantis-
simi. Vogliamo soltanto dare un brevissimo cenno della definizione di integrali di
Riemann, che è più generale di quella da noi posta e che, dopo aver occupato un
posto perspicuo nell'analisi, ha ora, più che altro, un valore storico.
Sia F una funzione definita in un campo I. Non supporremo i^ continua, ma
la supporremo soltanto limitata (supporremo cioè finito non soltanto ogni valore
di F, ma anche finito il limite superiore dei valori assoluti di F). Diviso I in un
numero finito r di pezzi ò,, o^, ... , v, non potremo più dire che in uno di questi la
F ha un massimo o un minimo, ma soltanto che essa in ogni 5. (per s = 1, 2, ..., r)
ha un limite superiore L. e un limite inferiore l finiti. Indicando con ò, anche la
misura di ò^, costruiamo le somme :
S iv h (1) S h h . (2)
320
CAPITOLO XV — § 97-98
Si può dimostrare, che, se, p. es., 0 > 0, ogni somma (1) supera ogni somma (2).
Se le classi descritte da queste due somme sono contigue, il numero di separazione
delle due classi riceve il nome di integrale secondo Éiemann della F esteso al
campo I.
§ 98. — Il metodo dei trapezi
per il calcolo approssimato degli integrali definiti.
a) Tra le tante forinole approssimate per il calcolo degli
integrali definiti, ricorderemo ancora la seguente, specialmente
semplice.
Supponiamo di voler calcolare 1 f{x)dx{Q,o\ìa<h).
Supponiamo dapprima f(x)^0.
2n^t
'2n*/
O «/
Fig. 35.
Rappresentiamo questo integrale con l'area del rettangoloide
compreso tra l'asse delle x^ la curva y^=if(x) e le ordinate
Supponiamo che la curva y ^=^f(x) presenti la concavità (*)
verso l'asse delle a;; nella fig. 35 è indicato con
(*) Supponiamo così che esistano le tangenti alla curva, che esse siano esterne
al rettangoloide di cui si calcola l'area ; in una parola che sia f" {x) < 0.
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 321
il rettangoloide, di cui vogliamo calcolare l'area. Dividiamo la
base del rettangoloide in 2 n parti uguali ; indichiamo i punti
di divisione con «i = a, a-2, a^, , ao„_|.i = ò e conduciamo
per tali punti le ordinate yi, 1/2, y^, ,Vjn-fi. Se traccio i
segmenti
Al A2, A2 A's, , A2n A2n-{-l,
Ottengo tanti trapezi Ai A2 ai ai, -A_. J.3 a_> <x.. , la cui somma
ci dà un poligono tutto interno al rettangoloide Ai ^2n+i «1 «2n+i ;
quindi la somma delle aree di detti trapezi ci darà un valore
approssimato per difetto dell'area del rettangoloide e quindi un
valore approssimato per difetto di | f{x) dx.
^^ , J5
Ora, se con B indico il segmento ah =^ aia-^n4-\ sarà -—
2n
il valore di ognuna^ delle 2 n parti uguali in cui esso è stato
diviso, ossia l'altezza di ognuno dei trapezi ottenuti ; le basi di
questi essendo poi rispettivamente le ordinate ?/i, ^2, ,^2n-fi,
sarà :
A A B yi-\- v-o
area Ai A^, ai a-> = —^
2 n 2
a' A' jB ?/o H- ?/:{
area A2 ^3 «- «3 = -;; — - — tt^
2n 2
. . B y.n -f- ^2n + l
area A2n ^2^4-1 ^2n <^2n+i — ~ ■ ~ *
2n 2
E l'area totale del poligono interno al rettangoloide sarà la
somma delle aree precedenti
J^ \ yi -^ Vi . y-i + y^ _^ y^m + ^2»+i ( .
2n\ 2 2 2 i
Osservando che tutte le ordinate y compaiono ciascuna due
volte nella formula precedente tranne yi e ?/2«4-i, potremo anche
scrivere :
^ ) yi -^ ytn^i _^ , , I /.x
¥7zì 2 -^y^-^y^-^ ^-j (1)
come un valore approssimato per difetto di l f{x).
«^«
Cerchiamo analogamente un valore approssimato per eccesso
dell'area della nostra figura ; cerchiamo cioè un poligono che
21 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
322 CAPITOLO XV — § 98
comprenda all'interno tutta la figura data. A tale scopo per
i punti
(a2, ^2), (tì^4, yò, fen, yi^
tracciamo le tangenti alla curva (nella figura sono disegnate
soltanto le prime due). Consideriamo poi il trapezio limitato
dalla tangente nel punto {a^, ^2) dalle ordinate di ascissa a^ a^
e dall'asse delle x. Consideriamo il trapezio limitato dalla tan-
gente nel punto (^4, y^, dalle ordinate di ascissa a^ e a-, e dal-
l'asse delle X ; e così via fino all'ultimo trapezio limitato dalla
tangente nel punto {aon, y-in), dalle ordinate di ascissa a-2n-\,
«jn-fi e dall'asse delle x. La somma di tutti questi trapezi
costituisce appunto un poligono che comprende all'interno il
nostro rettangoloide.
Cerchiamone l'area : essa è la somma delle aree di tutti
i trapezi citati. Nel primo di essi l'ordinata ?/2 è la parallela
alle basi condotta dal punto di mezzo dell'altezza ai ch, ed è
uguale perciò alla semisomma delle basi. Poiché l'altezza ai a^
7^ 7? 7?
vale 2- — = — , l'area di detto trapezio sarà — y^. In modo
2nn n ^'
simile le aree degli altri trapezi valgono ordinatamente
B B B
^7^4,— -^6, ^—-ym\
n n n
e l'area totale del nostro poligono varrà
B
n
(y2 + ^4 -4- ?/G + y2n), (2)
che è quindi un valore approssimato per eccesso di 1 f{x)dx.
Al crescere di w, cresce generalmente l'approssimazione che
le formole (1), (2) danno per il valore di questo integrale ; la
differenza tra (1) e (2) tende anzi a zero per n = 00 (Cfr. questo
§ 98, C, pag. 324).
P) Se la curva y = f(x) volgesse la convessità verso l'asse
delle X, e quindi la tangente in ogni suo punto penetrasse nel
rettangoloide, il ragionamento si invertirebbe, in quanto che il
poligono avente per lati il segmento aia2n-fi dell'asse delle x, le
ordinate yi, y2n-\-i degli estremi a, 6 e le corde Ai A2, ^2 ^3, ,
che nel primo caso era contenuto nel rettangoloide, contiene
ora invece il rettangoloide all'interno ; e il suo valore (1) rap-
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 323
presenta quindi un valore approssimato in eccesso del nostro
integrale.
Laddove invece il poligono avente per lati il segmento
fti a2n-\-i, le ordinate degli estremi, ai, «on+i, e le tangenti
nei punti
è tutto interno al nostro rettangoloide, e la sua area (2) rap-
presenta un valore approssimato in difetto del nostro integrale.
2n*f
y) Se la f{x) fosse negativa nell'intervallo che si considera,
si possono ripetere le considerazioni precedenti con poche modi-
ficazioni, purché si considerino negative le aree dei poligoni
considerati. In altre parole, il nostro integrale è negativo ; e
per il suo valore assoluto si possono ripetere le precedenti con-
siderazioni.
5) Se l'intervallo, a cui è esteso f{x) dx, fosse un intervallo,
in parte del quale la f(x) è positiva, e in parte del quale la
f{x) è negativa, o anche se in una parte deirintervallo la
y = f(x) volge la concavità all'asse delle x, mentre nell'altra
parte volge la convessità, allora supporremo (come avviene sempre
nei casi comuni) che l'intervallo si possa dividere in un numero
finito di intervalli parziali, in ciascuno dei quali la fix) ha
un segno costante, e la y=:if{x) volge la concavità sempre da
una stessa parte, cioè p. es., anche f" {x) ha segno costante
324 CAPITOLO XV — § 98
(potendo esser nulla agli estremi delFintervallo parziale consi-
derato). Si applicano a ciascuno di questi intervalli parziali i
metodi precedenti. La somma dei valori approssimati in difetto
così ottenuti, e la somma dei valori approssimati per eccesso
costituiranno un valore approssimato in difetto, e un valore
approssimato per eccesso del nostro integrale.
e) Il metodo precedente si può generalizzare, dividendo (a, 6)
in 2 n parti c^i, dr, d?„ , 6?2n-i, à-in non tutte uguali tra di loro,
ma soltanto tali che di = d^, d's = di, , djn-i = ^2«. Detti
ancora ^2, a-^, , a2n i punti di divisione, si possono ripetere le
precedenti considerazioni, purché alle (1), (2) si sostituiscano le:
,^ ^.V^. ^ rj^.^ ^ ,^ ^^. ^ ^,^ ^
-i-i.^-.f-'^^-' + ^^^^^^y^-); (D-
2 {di y.> -f- d; ìji -f- C?2n-1 ^2n). (2) 1>i«
Queste formole, più incomode al calcolo numerico delle (1),
(2), danno però approssimazioni migliori, quando si abbia cura
di disegnare molti intervallini parziali in corrispondenza ai tratti,
ove la nostra curva si allontana rapidamente dalla sua tangente.
Q Si può usare anche una sola di queste formole, quando
però si sappia apprezzare l'errore commesso. Indicati ancora
con a« i punti di divisione (cosicché aii±.\^=- c^^i — d^^, posto
^^ = f(a^ e y\ = f (a,), sarà per la formola di Taylor-Lagrange
y2i±zi = fiali ± d2i) = y-2i ± d2i y2i -+- — ^'2.- hi±\ dove le ^
sono valori intermedii di y" . Poiché d2i^==d>i-i, il valore asso-
luto della differenza tra (l)i,is e (2)bis (a cui tale errore non
può essere superiore) non supera (supposto finito il limite supe-
riore IT di \y" \) -^ H{d^ 4- di' -f- ..... + d2n)' Se, p. es., i d
2 IR '
sono tutti uguali tra loro, e quindi a -— , tale errore non
TT-Di 2 n
supera— — , che tende a zero joer n = 00 (cfr. questo § 98, a,
8 n
pag. 322).
Y]) Le (1), (2) si prestano bene ad un calcolo meccanico ;
le (l)bi8, (2)bis, oltre alle più semplici (1), (2) si prestano anche
a un calcolo grafico.
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 325
Si giunge a un procedimento meccanico, osservando che le
somme y. -+- ^a + + y.n e y. + ?/4 + y% + 4- y.^n, che com-
paiono nelle (1), (2) si calcolano facilmente così : Una rotella R
munita di un contagiri sia fatta rotare senza strisciare sul
foglio F del disegno in guisa che il punto di contatto descriva
successivamente uno o più segmenti (p. es., i/o, y-^, , y-in)-
Il numero N dei giri compiuti da R (che si legge sul contagiri)
sarà uguale ad una certa costante k (dipendente dalla data
rotella ; è k =^ - — , se r è il raggio di i^ ed è ^^ = 1 se r = — )
moltiplicata per la somma delle lunghezze dei segmenti descritti ;
cosicché questa somma (p. es. nel caso citato la y-2 -hy^ -\- ...-4-;/2n)
varrà -r- JV^; e si otterrà con una semplice lettura di N (anzi una
k
opportuna graduazione può permettere di leggere sullo strumento
addirittura il numero -j- N). E il calcolo dei valori approssimati
del nostro integrale si compie allora con la massima rapidità.
Si giunge a un metodo grafico, osservando che il prodotto e
dei numeri a, b (che siano misura di certi segmenti, che indi-
cheremo pure con a, h) è la misura di quel segmento e tale
che e l a^=^h \ \, dove con 1 indico anche il segmento scelto
come unità di misura. La teoria dei triangoli simili insegna
subito a disegnare' il segmento e Ora, p. es., la (2)bis è somma
di più termini, ciascuno dei quali è prodotto delle misure di due
segmenti, e per cui è quindi applicabile il metodo precedente (*).
(*) Riferendoci alla fig. 3G di questo § 98, j?, pag. 323, si indicheranno con P
il punto dell'asse delle x, che ha per ascissa — 1, con B^,^ B^, le proiezioni di
A^,A^, sull'asse delle y, con c^,, d.^, d^, i segmenti a, a.,, a., «3, «3^4,
E si supponga soltanto di ~ d.^, ^3= ^4, ecc. (anche se e?,, d^, sono differenti
tra loro). Indichiamo con a\ il punto ove la parallela tirata da a, a PB^ incontra
«3 A^ ; con a's il punto ove la parallela tirata da a\ a PJ?4 incontra cir, A^, : con
a'u + i il punto ove la parallela tirata da a'zn-ì alla PB>n incontra aon+ì A2,!-\-ì •
Dico che il segmento ^^«-f 1 a'2u-i-i vale la somma (2)bis.
Infatti, posto «', — «,, si tirino da a'2,-1 una parallela all'asse delle x, da
a'ìt^i la parallela all'asse delle y (nella figura è i~2). Queste rette insieme alla
a'2/-i «'2/4-1 formano un triangolo simile al triangolo POJ52/ (per i=:l,2, ,n).
E se ne deduce che la differenza tra le ordinate di «'2^-1-] e a'^i- 1 sta a d2i-i •+■ da
Come OB2i = t/2c sta a P0 = 1, ossia che tale differenza vale 2y2id2c-ì, che è un
termine di (2)ihs.
La somma di tutte queste differenze, cioè
{a2H + i a'-2H-^ì — ao,i--[ a'2n-ì) -+- («2,^-1 a'2.^-1 — a2«-3 a'>n-:ì) -+-
-f («5 «^'5 — «3 «'3) + (^:J ^^'3 — «. «'l)»
cioè a2H-\-\ a'2>i-\-ì (il lettore ricordi che a^ a\ =.0) vale dunque la somma (2)bis,
come dovevasi provare.
326 CAPITOLO XV — § 98-99
o) Esistono altri metodi di calcolo approssimato di tipo
analogo : uno di essi consiste nel sostituire alla funzione y = f{x)
la funzione y ^=:p(x), àoye p{x) è un polinomio di grado m — 1,
che in m punti dell'intervallo (a, b) assume lo stesso valore che
fix), (per il calcolo di tale polinomio cfr. § 27, pag. 90 e
pag. 48) e dove m è un intero abbastanza grande.
Oppure si può dividere Fintervallo totale (a, h) in r inter-
vallini parziali li, U, ?,, applicare a ciascuno di questi
intervallini il nostro metodo, sostituendo in li alla f{x) un
conveniente polinomio pi{x) di grado nii — 1, che in m» punti
di li coincida con f(x), e infine calcolare l'integrale di pi{x)
esteso ad l, e sommare gli integrali così trovati.
Il metodo dei rettangoli coincide con questo, quando si sup-
ponga m» = 1 .
Il metodo dei trapezi si ottiene supponendo mi = 2.
Il metodo dei trapezi inscritti, da noi svolto più sopra, coincide con questo,
quando suppongo r = 2n,mi — 2, e ogni polinomio (di primo grado) p/ {x) sia
supposto uguale ad f{x) agli estremi del corrispondente intervallino. Il metodo dei
trapezi circoscritti si deduce dall'attuale, supponendo r — w, m/ — 2, e facendo
tendere al punto di mezzo di h = 2 dn =- 2 die _ i i due punti di li, ove si suppone
f{x)—pi{x). In entrambi i casi le linee y — p, (x) sono rette (corde o tangenti).
Se invece m,- = 3, le if=p,{x) sono parabole. Supposti, p. es., gli Z^ tutti uguali
a — , posto r = n, supposto f{x)—-pt{x) agli estremi a2i-\, «2/4.1 di h ed al
punto di mezzo azi di l, posto y,= f{as), il contributo portato da li (cioè l'in-
tegrale di pc{x) tra i limiti «-«-i, a^i-^i) si calcola facilmente uguale a
x>
- — (2/2/- 1 + y^i-k- 1 -f- 4V2?]. La somma di questi contributi per i = 1, 2, , w è un
o n
nuovo valore approssimato del nostro integrale. Anche questo metodo si può va-
riare nei modi più molteplici.
Il lettore applichi quanto precede a qualche esempio nume-
rico. Per altri metodi meccanici cfr. gli ultimi §§ di questo libro.
§ 99. — Metodi e locuzioni abbreviate.
a) Di locuzioni non precise, ma comode, e che si possono
intendere soltanto come modi abbreviati di enunciare conside-
razioni precise ma più lunghe, abbiamo già discorso altrove
(§ 54, pag. 177). Tali modi di esposizione si applicano pure
nel calcolo integrale.
Per i teoremi dei paragrafi 96 e 96^^* si può definire 1 F{x) dx
nel modo seguente :
Si divida l'intervallo (a, h) in più intervallini parziali B^ (la
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 327
cui misura si prenderebbe negativa se a > ò) e la cui ampiezza
faremo poi tendere a zero (*).
In uno di questi intervallini la F (x) avrà generalmente
infiniti valori. Moltiplichiamo .5^ per uno di questi valori Fi
scelto ad arbitrio.
Il lim S 5, Fi è integrale cercato.
Ecco invece come confronto le locuzioni a cui si è accennato
più sopra.
Dividiamo l'intervallo {a, b) in infiniti intervallini parziali
infinitesimi §, (la cui misura si prenderà positiva, se, come
supponiamo, ò > a). In ciascuno di questi intervallini infinite-
simi la F{x) si potrà considerare come costante. La somma ^ì^ìFì
degli infiniti prodotti ottenuti moltiplicando l'ampiezza di uno di
questi intervalli per il corrispondente valore di i^ è l'integrale
di Fix) da a a b.
Per dedurne che, se si considera b come variabile, la derivata
di questo integrale rispetto alla b è proprio uguale a F(b), si
procede nel seguente modo, che noi considereremo al solito
soltanto come una esposizione abbreviata. Si dia alla b un incre-
mento infinitesimo db, che, per fissar le idee, supporremo positivo
(come supponiamo positiva la differenza b. — a). L'intervallo
(a, b-h db) — {a, b) -h (6, b -f- db)
e uguale alla somma degli intervallini B^- e dì db ; perciò l'inte-
grale relativo ad esso è uguale a S 8,- Fi -f- F (b) db [poiché in
{b,b-{-db) la F (x) si
può pensare conservi il
valore costante F {b)\
L'incremento ricevuto
dal nostro integrale
e così F (b) db, e la
sua derivata è quindi
F{b). e. d. d.
Per dimostrare poi,
p. es., che l'area del
rettangoloide ABB'A'
(fig. 37) è uguale al
solito integrale defi-
nito, si osservi che la divisione di AB' = (a, b) in infiniti inter-
vallini infinitesimi B definisce la divisione del nostro rettangoloide
/!'/-»' a J.
J5'At^^^
Fig. 37.
(^0 Con ciò s'intende che il più lungo degli intervallini parziali abbia una
misura, che facciamo tendere a zero, variando il sistema di divisioni.
328
CAPITOLO XV
§ 99
in infiniti rettangoloidi parziali infinitesimi. In ciascuno di essi
la y si può considerare come costante ; cosicché il lato opposto
all'asse delle x si può considerare come un segmento parallelo ai-
Tasse delle X. L'area di tale rettangoloide parziale è perciò S, Fi ;
e il rettangoloide totale ha quindi per area ^ì^ìFì, c. d. d.
P) Ma osserviamo un po' più precisamente le locuzioni sopra
esposte. La frase Dividiamo (a, b) in infiniti intervallini infini-
tesimi traduce proprio la stessa idea che noi enunciamo dicendo :
Dividiamo {a, h) in intervallini ^i, che facciamo tendere a zero
ossia che rendiamo infinitesimi (facendone contemporaneamente
crescere il numero all'infinito).
Più istruttivo è invece l'esame della seconda parte delle
precedenti definizioni e dimostrazioni. Vi si dice: In ciascuno
degli intervalli infini-
tesimi ^i la F (x) si
può considerante come co-
stante. Da un punto di
vista empirico questa as-
serzione si potrebbe giu-
stificare così (fig. 38).
Se, p. es., i segmentini
^i sono i più piccoli seg-
menti che noi riusciamo
a disegnare, e se noi al
^'/ j^/ -^7 pezzo CD della curva
yz=iF(x), che si prò-
^' ' ietta in uno di tali seg-
mentini ^i = C'D\ sostituiamo il segmento CP parallelo all'asse
delle X tirato da G, e che è rappresentato da un'equazione
y r= COSt.,
seguito, se vogliamo, dal segmentino PD, la spezzata così otte-
nuta coincide quasi con la nostra curva, in quanto che il nostro
occhio può forse appena distinguere la curva dalla spezzata.
Ma d'altra parte, quando si considera in 5^ la y come co-
stante, si sostituisce, il rettangolo, che ha per base^t e per lato
opposto il segmento CP, al rettangoloide parziale che ha per
base Si', e si trascura così il triangoletto curvilineo DPC. Vediamo
come si può prevedere in modo diretto che il trascurare tali
triangolini non conduce ad errori. Supponiamo per semplicità che
la F{x) abbia nell'intervallo (a, 6) un minimo m =1- 0. Il trian-
golino DPC è evidentemente interno al rettangolo, che ha per
GLI INTEGRALI DEFINITI E LE FUNZIONI ADDITIVE, ECC. 329
base CP e per altezza la differenza Mi — mi tra il massimo e
il minimo di F {x) in B^; ed ha quindi un'area ai inferiore a
{Mi — Mij^i. Il rettangolo che ha per base B^ e per lato op-
posto CP ha un'area Ai non inferiore a m S^. Il rapporto — ^
Ai
dell'area di uno dei nostri triangolini al corrispondente rettan-
M^- TYl'
golo non supera quindi — ^ ^•
m
Ora, scegliendo i \ abbastanza piccoli, noi sappiamo (§ 40,
pag. 135, e § 63, pag. 197) che si possono rendere tutte le
Mi — mi e perciò anche tutti questi rapporti minori di un nu-
mero £ prefissato ad arbitrio. Dunque non solo le a^ sono infini-
tesimi di ordine superiore rispetto alle Ai, ma an^i si possono
rendere i rapporti —^contemporaneamente minori di un nu-
mero £ prefissato ad arbitrio.
È facile dimostrare in tale ipotesi che
lim [S A- — S U, -f- aO] = 0.
Infatti, scelti i B^ così piccoli che
S ai
^Ai
quindi, supposto, come nel caso nostro, che le 2 A,- siano numeri limi-
tati, inferiori cioè ad una costante finita, lim [S (^^-f- a^) — S ^ J = 0
come dovevasi dimostrare.
È trovato così un nuovo caso (§ 52, pag. 172), in cui è
lecito trascurare gli infinitesimi di ordine superiore.
£, sarà anche
Ai
330 CAPITOLO XVI — 8 100
CAPITOLO XVI.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI
§ 100. — Funzioni additive e loro derivate.
a) Se J è un intervallo, o una figura piana (*), o un so-
lido, noi diremo che S {'z) è una funzione additiva dei pezzi t (**)
di I, se i^er ogni pezzo i di I esiste uno e un solo valore
di S; e se in jnii, quando x è somma di due punti i\ x\ è
S (T) zm S (t') + S (x ').
Così, se I è un^ sbarra, o una lamina piana, o un solido
pesante, il peso m di un pezzo t di 7 è funzione additiva di t.
Così, se I è una lamina, o un corpo elettrizzato, la com-
ponente, p. es., sull'asse delle x, dell'attrazione che un pezzo x
di I esercita su un punto elettrizzato M è una funzione addi-
tiva di T.
Dall'esame della figura composta di due soli punti materiali,
la Meccanica induce il seguente teorema: Se 1 è una lamina
0 un corpo ^esayite, il peso m di un suo pezzo i moltiplicato
per una coordinata, p. es. V ascissa x, del centro di gravità di x
è una funzione additiva X (t) della t. Cosicché V ascissa x del
centro di gravità appare come quoziente delle X, m : entrambe
funzioni additive di x.
Più avanti vedremo che la ricerca della lunghezza di una
curva e dell'area di una superficie sghemba si riducono al cal-
colo di speciali funzioni additive. Bastino questi esempi ad
illustrare l'importanza di tali funzioni !
(*) Si potrebbero anche considerare degli I che fossero un pezzo di una linea,
0 di una superficie qualsiasi, p. es., un arco I di cerchio, o un poligono sferico I.
(**) Ci limiteremo a considerare quei pezzi z di 7, che posseggono una misura
(p.es., lunghezza, area, volume). Per il significato delle parole: figura piana, suo
contorno, ecc., cfr. l'osservazione a pag. 25. Noi ci limiteremo sempre a figure piane
0 solide, il cui contorno è formato da un numero finito di linee b superficie, rap-
presentabili con equazioni, i cui membri sono finiti e continui con le loro derivate.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 331
3) Il seguente esempio ha per noi una specialissima impor-
tanza. Sia z^=^ F{x, y) l'equazione di un pezzo K ^ì superficie;
sia i^^O; sia I la proiezione di K sul piano xy.
Sia F(x,y) continua. Chiamiamo cilindroide la figura so-
lida limitata da K, da I (base del cilindroide) e dal cilindro
proiettante il contorno di K sul contorno di L
Ogni pezzo t di 7 sarà base di un cilindroide parziale: luogo di
quei punti del cilindroide iniziale, che si proiettano sul piano x y
in punti di t. Il volume S (t) di tale cilindroide parziale (o, se
tal volume non fosse definito, il volume interno oppure il volume
esterno di tale cilindroide) è una funzione additiva di x.
Infatti se T è somma dei due pezzi Xi, T2, allora il cilindroide
parziale di base x è somma di cilindroidi aventi per base Xi,
oppure X2. (Per i volumi interni od esterni cfr. quanto si disse
per l'area esterna od interna di un rettangoloide a pag. 25).
Y) Se iS(x) è una funzione additiva dei pezzi x di J, e
se X è la misura (*) (p. es., lunghezza, area, volume, ecc.) del
pezzo X, allora può darsi che il rapporto tenda ad un
limite finito, quando tutti i punti di x si avvicinano a un
punto ^ di 7. Se tale limite esiste per tutti i 'punti A di J, esso
é una funzione F delle coordinate del punto A. (Cioè esso non é
più, come S (x), una funzione del campo x, ma soltanto una
funzione delle una, due o tre coordinate del punto A). Se questa
funzione F è continua, noi la chiameremo derivata di S (rispetto
a x) e scriveremo S'r = F. Se, p. es., I è una figura pesante, e
se S (x) è il peso del pezzo x, allora F è la densità nel punto A.
Es. I. Se aS'(x) è il volume del precedente cilindroide par-
ziale, si dimostra (analogamente a quanto si è fatto a pag. 311
per i rettangoloidi) che la sua derivata in un punto A vale
precisamente il valore in questo punto di z = F{x,y).
Es. II. Così sia I una lamina o un corpo pesante; assu-
miamo come misura x di un suo pezzo x non già l'area o il
volume di x, ma precisamente il peso x di x (**). Sia X(x) quella
funzione additiva di x, che è uguale al prodotto del peso x di x
per l'ascissa Xg del suo centro di gravità. La X(x) = xxv è
(*) Indicheremo quasi sempre con la stessa lettera un campo, e la sua misura.
(**) Anche comunemente è molteplice il modo di definire la misura di un corpo
(p. es., il volume, il peso, il prezzo di esso). In generale si può assumere comò mi-
sura di T ogni funzione additiva e positiva di t.
332 CAPITOLO XVI — § 100-101
una funzione additiva di t. Notiamo che — ^ := x,, è com-
presa tra il massimo e il minimo valore che ha l'ascissa x
di un punto di x. Quindi, se tutti i punti di t tendono ad uno
X(i)
stesso punto A di t, il lim vale precisamente l'ascissa r
del punto A. Cioè a; è la derivata della 'nostra funzione X(t).
Es. III. Sia I una parete piana verticale di una vasca
piena di acqua (un bacino di carenaggio, p. es.). La pressione
che tale acqua esercita su un pezzo t di / è quella funzione
additiva di i, la cui derivata in un punto A ài I vale la
distanza da A al pelo libero dell'acqua stessa.
Es. IV. Sia I una curva del piano xy: supponiamo che
i punti di I siano in corrispondenza biunivoca con la loro
proiezione sull'asse delle x. Assumiamo come misura t di un
pezzo T di I la lunghezza della sua proiezione sull'asse delle x.
Se M{x,7/) è una funzione continua delle x, y in tutta una
regione contenente I all'interno, allora lo | M(x, y) dx esteso
a un pezzo t di J è quella funzione additiva di i, che nei
punti di I ha M{x, y) per derivata.
Oss. È perfettamente lecito definire nel modo qui enunciato
la misura t di un pezzo i di I, perchè vengono rispettate le
proprietà essenziali di una misura (che un pezzo t di i somma
di due pezzi i' , t" ha per misura la somma delle misure
di i\ t", ecc.). (Cfr. la precedente nota a pie di pagina).
§ 101. — Estensione dei principali teoremi
del calcolo differenziale.
oc) Per queste derivate si possono estendere molti teoremi
di calcolo. Bisognerebbe, per restare nel campo piii generale,
limitare un po' il tipo di campi t, per i quali si costruiscono
S dì
i rapporti , che compaiono nella definizione di derivata.
Questa generalità è però inutile a noi che supponiamo la deri-
vata F continua. Noi estenderemo il teorema della media.
Se S (t) possiede derivata F continua in ogni punto di I
S (t)
(inclusi i punti del contorno di 7), allora è compreso tra
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 333
il limite superiore L e Vinferiore I dei valori della derivata F
nei punti di x (*).
Se, p. es., Sij.) è il peso del pezzo t, allora è la densità
T
media di t ; e tale teorema ci dice (precisamente come nel caso
delle sbarre) che la densità media di un pezzo t non può supe-
rare il massimo (o il limite superiore), né essere inferiore al
minimo (o limite inferiore) della densità nei varii punti del pezzo
considerato.
Dimostriamo, p. es., che non può essere — f^ = Z -+- s con t > 0. Diviso infatti
' in due campi parziali r, e -\ , sarebbe S(') = S (-,) + S (t',) ; cosicché
' 'l ■+■ ' 1
Poiché _, . — iion può superare la più grande delle — ^-^ » — V-'- '
S (' )
una di queste frazioni, p. es. la ^'' , sarà non minore dì L-ht. In ^j esisterà,
come si dimostra in modo analogo, un campo -^2 ^^^^ che — -^ =iL-h-. E così via.
E facile dare una legge di divisione dei successivi campi -, t,, t^, ecc., in campi
parziali così che esista uno e un solo punto A interno a tutti i campi r, t,, r^, ecc.
S(r )
La derivata di S{-) in A, cioè lim ^ ' non potrà dunque essere inferiore ad i -h ^ :
ciò che è assurdo, perchè i è il limite superiore dei valori di tale derivata in tutto t.
^) Possiamo anche estendere la nozione di differenziale.
S ('z)
Se i^ è la derivata di S, il lim , quando tutti i punti di x
tendono a un punto A, 0, come diremo, per 'z = A, vale il valore
F{A) della F nel punto A. Cosicché lim f"^ — FU)] = 0.
Potremo dunque scrivere:
dove £ tende a zero per z = A, ossia
• S(z)=F(A)'z -f-£x.
(*) Si potrebbe provare che — ^ è proprio uguale al valore di F in un punto A
di T, se il valore di S corrispondente a uno strato (pezzo limitato da due rette 0
piani paralleli) di I tendesse a zero col tendere a zero dello spessore dello strato.
Ma queste considerazioni hanno importanza soltanto per quegli studii più generali,
a cui abbiamo accennato, che riguardano funzioni F non continue.
334 CAPITOLO XVI — § 101
Il primo addendo ì^(^)tsì dirà il differenziale della S, e
si indicherà con dS. Noi porremo perciò per definizione
dS=F{A)i.
Se >S' = Tj se cioè ^S' coincide addirittura con la misura di t,
la sua derivata sarà sempre uguale ad 1. Cosicché il suo diffe-
renziale sarà dato dalla :
(Zt = T.
E la precedente equazione diventa :
dS = FU) di , ossia FU) = §^' *
Anche in questo caso la derivata si può considerare come
un quoziente di differenziali.
Y) è appena necessario avvertire che alle derivate delle fun-
zioni additive si possono generalizzare i teoremi relativi alla
derivazione di una somma, di una differenza (*). Noi ci limite-
remo qui a dare un cenno della generalizzazione del teorema
di derivazione di una funzione di funzione.
Siano I ed H due campi, i cui punti sono in corrispondenza
biunivoca ; con t indichiamo sia i pezzi di J, che la loro misura ;
con k sia i pezzi di H che la loro misura. Sia 8(1) una ftm-
zione additiva dei pezzi t di I; poiché ad ogni pezzo k dì H
corrisponde un pezzo t di 7, ad ogni pezzo di k di Tf corrisponde
un valore di S(i). Cioè S si potrà considerare anche come
funzione additiva dei pezzi k di H.
La misura t di quel pezzo t di Z, che corrisponde ad un
pezzo k di H è anch'essa una funzione additiva di k. Suppor-
remo che esista la sua derivata — •
d S dS
Che relazione passa tra le derivate — ' — della S, pensata
come funzione dei t 0 dei k ?
Come per le funzioni di una sola variabile, si dimostra che :
db do di . . , . • ix 1 \ cif ^' ci'
—-:=-——-. 0 (come SI può scrivere in altro modo) b k^=^ k o^.
dk (f T dk ^
ossia che anche nel caso attuale i calcoli coi differenziali di^
dS, ecc. si effettuano con le stesse regole usate pei differenziali
di una variabile, e si possono ripetere considerazioni analoghe
a quelle del § 59, pag. 187.
(*) È appena da avvertire che prodotto 0 quoziente di due funzioni additive
può non essere una funzione additiva.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 335
S) Diamo un'applicazione specialmente importante dell'ultima
formola. I campi I eà H sieno addirittura sovrapposti ; e noi
conveniamo di considerarli distinti, perchè conveniamo di definire
in modo diiferente la misura di un loro pezzo, secondo che
questo pezzo è considerato come parte di t di /, o come parte k
di H. Se, p. es., 1=^11 è un corpo o una lamina pesante,
come misura t di un suo pezzo potremo assumere la sua misura
geometrica (area o volume), come misura k il suo peso.
Se, p. es., X(k) è quella funzione additiva di un suo pezzo ^,
che è uguale al prodotto del peso k del pezzo considerato per
l'ascissa x del suo centro di gravità, la derivata X'j, in un punto A
vale precisamente l'ascissa x di tale punto (pag. 332). D'altra
dk
parte la derivata -— in ^ è uguale alla densità p in questo
al
punto. Quindi, se noi consideriamo X come funzione di t, si ha:
k\ = p; X\ = k\X\ = px,
Quindi : L'ascissa x del centro di gravità di un ^lezzo x
X (t)
di I vale il quoziente di - — r , cioè di due funzioni additive
la cui derivata vale rispettivamente px e p (se p è la densità).
Esempio. .
Sia I una massa attraente con la legge di Newton. Il poten-
ziale dovuto a un suo pezzo i in un punto esterno M è quella
funzione additiva di t, la cui derivata in un punto A ^\ 1 vale
p
-, se p è la densità, r la distanza AM.
§ 102. — Generalizzazione dei teoremi fondamentali
del calcolo integrale.
Sia / un campo ad una o pili dimensioni. Sia F una funzione
continua delle coordinate di un suo punto. Con considerazioni ana-
loghe a quelle dei §§ 96 e 96^^^* (in cui si sostituisca alla consi-
derazione dell'area di un rettangoloide quella del volume di un
cilindroide, oppure quella del peso di un corpo o di una lamina
pesante o un altro esempio di tipo analogo) si dimostra che :
I. Esiste una e una sola funzione additiva S (x) dei
pezzi T di /, che ha per derivata la data funzione continua F.
336 CAPITOLO XVI — § 102
IL II valore S (x) eli tale fundone corrispondente a un
pezzo x di I si può definire nel seguente modo. Scomposto
il campo T in campi parziali Ti, 1^2, Xg, , t^, detti Mr ed nir
il valor massimo e il valor minimo della F nel campo t,.
e detto Fi un qualsiasi numero compreso tra m^ ed Mr, il
numero S (x)
a) è il numero che separa le classi contigue generate dalle
due somme SMt = MiXi -+- M2T2-+- -f- M^t, e Smx = iriiTi-H
-4-102X2-+- nirXr, (Xj. è la misura del campo ^^ama^e x^ nelle
convenzioni addottate) ;
P) è il limite di S F^x^ = FiXi 4- FsXo 4- -H F^.x^, quando
tende a zero la massima corda di ciascun pezzo x^. ;
y) è proprio uguale a S F^x,., se Fr è un numero oppor-
tunamente scelto tra tcl^ ed M^..
Si può anche nel caso attuale estendere la definizione di
integrale di Riemann per funzioni limitate.
III. Se I è una regione del piano xy ed F (x, y) ^ 0,
allora S (x) è il volume del cilindroide di base x, luogo dei
punti (x, y, z) per cui 0 :^ z ^ F, e la cui proiezione sul piano
xy appartiene a x.
Questa funzione additiva S {x) si chiama l'integrale di F
esteso al campo x ; il suo valore relativo al campo / 0 al campo x
si indica con Fdi 0 con | Fdi, estendendo cosi la definizione
e la notazione usate per gli integrali definiti.
Se il campo / è a due sole dimensioni si suole usare la
lettera a oppure la s (iniziale della parola superficie) al posto
della X, se si assume come misura di un campo la sua area.
Osservazione.
Per calcolare un integrale si può sempre ridurci al caso,
che come misura di questo si addotti la misura geometrica (lun-
ghezza, area 0 superficie). Se k fosse la misura adottata, e x
la misura geometrica, si osservi che v Fdk^=^ \^d'^ se è
posto 0 = i^ ( — j cioè uguale al prodotto di F per-p , e. d. d.
Se k fosse il peso, questo fattore — sarebbe la densità.
Cominceremo dal caso di campi x a due dimensioni.
funzioni additive generali e integrali multipli 337
Esempio.
Così, come abbiamo già osservato a pag. 335, se I è una
lamina o un corpo pesante, t è l'area o il volume di un suo
pezzo, p ne è la densità in un punto, allora Tascissa del suo
centro di gravità vale
j
pdz
§ 103. — Calcolo di un Integrale superficiale.
Se F (x, y) è una funzione continua in una regione o del
piano xy, come si calcola lo j F(x, y)da? o meglio : Contese
ne può ridurre il calcolo a quello di integrali definiti ? Per
vederlo comincieremo ad usare metodi poco rigorosi salvo a veri-
ficare poi i risultati ottenuti nel modo più preciso.
Se noi dividiamo l'area a in pezzetti con rette parallele agli
assi delle x e delle y, l'area a verrà scomposta in rettangoli,
e in altri pezzetti, il cui contorno contiene dei pezzi del con-
torno di a. Se noi supponiamo (cfr. § 99, pag. 328) che questi
ultimi pezzetti siano trascurabili (che diano cioè un contributo
infinitesimo), basterà che consideriamo i rettangolini tutti interni
a a, la cui area è Ax ày, se A:r e ày sono rispettivamente le
distanze di due delle rette da noi tirate parallelamente all'asse
delle X, 0 all'asse delle y. Considerando dapprima i rettangoli
posti p. es. in una stessa striscia parallela all'asse delle x, e
poi le varie strisele, la sómma ^Fì^ì dell'ultimo paragrafo
diventa :
^FAxAy = J,Ay 2-^A^,
dove la Si^A.f è relativa ai rettangoli di una stessa striscia,
mentre l'altro simbolo S di somma si riferisce alle varie strisele.
Possiamo scegliere gli estremi di una retta (*) y = cost. nel
contorno di y, e poi i valori i^(**) intermedii in guisa tale che
(*) Suppongo gli estremi di una retta y = cost. sul contorno di y : ciò che è
un errore perchè avendo trascurato i pezzetti posti sul contorno di v, potrebbe
darsi che gli estremi da considerare fossero interni a y. Un'osservazione analoga
si può ripetere più sotto. Noi ammettiamo provvisoriamente che l'errore commesso
tenda a zero e sia quindi trascurabile.
(**) Suppongo che F sia il valore assunto da F{x,y) su uno dei lati del
nostro rettangolo paralleli all'asse delle x.
22 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
338
CAPITOLO XVI — § 103
2i^Aa;= 1 F dx. L'integrale così ottenuto dipende dal valore
dato alla y ; è cioè una funzione cp {y) della y. Se essa è con-
tinua, allora lim S 9 (?/) A ?/ = 1 cp {y) dy, cosicché si avrà fìnal-
mente :
f F{x,y)d<3^\\m^FLx^y= f[ [f {x, y) dx] dy,
0 come si suol scrivere :
Jf{x, y)do = Jdy j F{x, y) dx = jj F(x, y) dx dy.
Nel cambiamento di variabili coordinate non si può però
(come nel caso di funzioni di una sola variabile) applicare ai
simboli dx, dy la regola per il calcolo dei differenziali (cfr.
ross. 1^ del seg. § 108 a pag. 352).
Prima di dimostrare con rigore questa formola, dobbiamo inten-
dere con precisione il suo significato. Quando noi abbiamo scritto
f Fix,y)dx~\ìm ^FAx,
noi tenendo costante la y, cioè muovendoci su una retta AB
parallela all'asse delle x (cfr. fig. 39) abbiamo trovato (a meno
del fattore A?/) la somma dei
contributi portati dai rettango-
lini contenuti nella striscia com-
presa tra la retta AB e la retta
parallela consecutiva, su cui l'or-
dinata ha il valore y -f- A?/.
Perciò la nostra integrazione è
eseguita rispetto alla x (quando
si considera la y come costante)
in un intervallo che, al limite,
coincide con AB (fig. 39). Co-
sicché i limiti inferiore e supe-
riore, tra cui si deve calcolare
l'integrale J F(x, y) dx, sono le
ascisse di A e di B, Che se invece avessimo dato alla y il
valore corrispondente alla retta A' B' (cfr. fig. 39), il simbolo
Fig. 39.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 33 9
j F {x, y) dx significherebbe la somma degli integrali (eseguiti
considerando y come costante) estesi ai due intervalli A'C\ DB'
che la retta A!B' possiede interni all'area a.
Il valore di j F {x^ y) dx dipende perciò dal valore dato alla y;
e cioè una funzione cp(?/) della y. E la nostra formola ci dice
che noi dobbiamo integrare questa funzione rapporto ad y. Tra
quali limiti si deve fare questa seconda integrazione ? Poiché
si deve tener conto di tutto il campo o, essa dovrà quindi
essere eseguita nell'intervallo (n, N), se n ed N sono i valori
minimo e massimo della y in a.
Se noi per fissare le idee supponiamo che il contorno di a sia
incontrato in due punti al più da una parallela a uno degli assi coor-
dinati, le ascisse dei punti A, B dei punti ove una retta y = cost.
incontra il contorno di a saranno due funzioni a (^) e P {y)
della y, E le ordinate dei punti C, Z), ove una retta x = cost.
incontra il contorno di o, saranno due funzioni y (x) e 5 (x)
della X.
Se dunque diciamo n, N eà Z, Lì valori minimi e massimi
rispettivamente della y e della x in a, troveremo :
^ /,JV ,,,5 (y)
(1) \ FdG= { dy \ F{x,y)dx (*).
E, scambiando i due assi, coordinati, troveremo ]
Fdo= \ dx F{x,y)dy.
Come si vede, confrontando queste formole è lecito cam-
biare l'ordine delle integrazioni, purché si cambino convenien-
temente i limiti dei corrispondenti integrali. È evidente che i
limiti non dovrebbero essere cambiati nel caso che a fosse un
rettangolo coi lati paralleli agli assi coordinati (**), come il
lettore può facilmente verificare facendo la figura.
(*) Si ricordi (§ 88) che se F{x, y), oc {y), ^ (y) sono funzioni continue, anche
r*5 (y)
I F(Xf y) dx è funzione continna della i/ e si può quindi integrare rispetto alla y.
-' « (y)
(**) Si applichi questo risultato all'ultima formola del § 93, pag. 307. In questa
formola i limiti d'integrazione sono uguali nei due membri, perchè siamo nel caso
particolarissimo di un integrale doppio esteso a quel rettangolo coi lati paralleli
agli assi coordinati, di cui l'origine e il punto {x^y) sono vertici opposti.
340
CAPITOLO XVI
§ 104
§ 104. — Interpretazione geometrica.
f
1"
Supposto F^O, consideriamo il cilindroide limitato da quel
pezzo della superficie z ^=^ F (x, y), di cui a è la proiezione
sul piano xy, dal cilindro che ne proietta il contorno e da a
(base del cilindroide). Le formole precedenti hanno una notevole
interpretazione geometrica. Consideriamo, p. es., la (1). Io dico
che j F{x, y) dx misera Varea della sezione fatta nel nostro
cilindroide con un piano ^ = cost.
Infatti, se la retta y = cost. del
piano xy interseca il contorno di a
in due soli punti A, B, questa se-
zione è evidentemente un rettan-
goloide limitato (fig. 40) :
1** Dalla retta r = AB paral-
lela alFasse delle x in cui il piano
secante interseca il piano xy, su
cui giace la base del nostro cilin-
droide :
^ 2® Dalle due rette p, p' ortogo-
nali alla precedente, in cui il piano
secante interseca il cilindro, super-
ficie laterale del nostro cilindroide : rette che sono evidentemente
generatrici di questo cilindro, e parallele all'asse delle z.
S'* Dalla curva C in cui il nostro paiano interseca la
superficie z = F{x, y).
Se noi assumiamo nel piano secante la retta r come asse
delle X, e la retta in cui esso interseca il piano yz come asse
delle z, la curva C avrà per equazione z = F {x, y), dove alla y
si attribuisca il valore costante corrispondente al nostro piano
secante ; e l'area del nostro rettangoloide sezione sarà perciò
appunto] F{x,y)dx, che coincide con l'integrale considerato.
E altrettanto si trova se una retta y = cost. del piano xy inter-
seca il contorno di o in più di due punti, e quindi la sezione del
nostro cilindroide col piano y = cost. è la somma di due o più
rettangoloidi.
La formola (1) del § 103 ci dà dunque il seguente teo-
^
Fi?. 40.
FUxNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 341
rema, che avevamo già dimostrato in casi particolari, usando
però del linguaggio del calcolo differenziale (o calcolo delle
derivate) (pag. 167) :
Teor. V. Il volume del nostro cilindroide si ottiene inte-
grando rapporto alla y Varca della sezione fattavi con un
piano y = cost.
E questo teorema si può estendere a solidi qualunque (de-
componibili in cilindroidi).
Teor. 2^. Scelta una retta come asse delle y, il volume di
un tale solido è uguale all'integrale rispetto alla y dell'area della
sezione fatta con un piano y = cost.
Il precedente teor. 1^ si può considerare come l'enunciato
geometrico del teorema contenuto nella (1) del § 103, anche
quando F (x, y) non sia sempre positivo, purché si considerino
come negativi i volumi delle porzioni di un solido poste al
disotto del piano xy e le aree delle corrispondenti sezioni con
un piano y = cost.
§ 105. — Dimostrazione rigorosa dei risultati precedenti.
Per dimostrare (*), p. es., che
^ Fd(s = ^ dx ^ F(x,y) dy,
basta provare che il secondo membro è una funzione additiva
di a la cui derivata vale F. ^
Notiamo che l'integrale j F{x,y)dy del secondo membro è
esteso all'intervallo \ o alla somma X degli intervalli che su una
retta r (luogo dei punti aventi l'ascissa x = cost.) sono deter-
minati da a. E, se a è somma di due campi parziali a^, e, e
indichiamo con \ e X.. gli intervalli determinati sulla r da Oj e
da 0.2 , sarà X = X^ -i- X2 e quindi :
(1) Cf (x, y)dy= f F {x, y) dy -^ f F (x, y) dy.
È da avvertire che può darsi benissimo che Tuna 0 l'altra
delle Xj, Xo si annulli, cioè che r non abbia intervalli interni
(*) Nel corso di questa dimostrazione faremo, com.e si vedrà, alcune ipotesi
sul campo ', e suj suo contorno, che sono del resto pochissimo restrittive in pra-
tica. Appunto perciò alcune di esse sono enunciate soltanto a pie di pagina. Questo
teorema vale del resto in casi estremamente più generali di quelli qui considerati.
342 CAPITOLO XVI — § 105
a Oj od a Oo. In tal caso l'integrale corrispondente del secondo
membro di (1) si deve naturalmente considerare come nullo.
Se ne deduce facilmente che :
fdx Cfìx, y) dy = f dx lF(x, y) dy -^ / dx f F {x, y) dy,
J J a) J J (n) ^ J O2)
ossia che il valore di
(2) fdxfF{x,y)dy
corrispondente ad un'area o somma delle aree parziali Oi, 0.2 è
uguale alla somma dei valori di (2) corrispondenti alle aree
Oi, Q.2. Quindi (2) è funzione additiva di a.
Si noti ora che, se M ed m sono il massimo ed il minimo
della F{x, y) nel campo a, il valore di (2) per il campo a è
compreso tra
j dx j Mdy ^= M I dx dy,
I dx mdy =^ m 1 dx / dy.
Dimostriamo ora che :
Il valore di •
fdx fdy (3)
esteso a un campo 0 vale Varea di a.
Cominciamo col supporre che o sia incontrato in due punti
al pili di ogni parallela all'asse delle y. Lo I dy deve essere
esteso all'intervallo (^1, ^2) determinato da a su una retta
X =: cost., cioè (se 2/1 < y-2) deve essere uguale a y^ — y\ (*).
Cosicché
(4) J dx J dy = J ly.y — y^) dx =J y^ dx— J yi dx.
(*) Si ammette che y, ed i/^ siano funzioni continue della x.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 343
f
riN
V
A
l ;
N
V I
F
\ii7
}
ìn —
y\
1
, 1 „-. .
Fig. 41.
Ora \ 1/2 dx è l'area del rettangoloide limitato dall' asse
delle X, delle due ordinate passanti per J. e per 5 (cfr. fig. 41)
e della curva ACB, mentre j yi dx è l'area del rettangoloide
limitato dalle stesse rette e dalla curva ADB (fig. 41).
La differenza del terzo
membro di (4) vale quindi la
differenza tra le aree dei due
rettangoloidi, cioè l'area di a.
e. d. d.
Se o è decomponibile in
più campi Oi, 0-2, ...., a„, il con-
torno di ciascuno dei quali è
incontrato al più in due punti
da una retta x = cost. (come
avviene nei casi più comuni) ^7 J^
l'integrale (3) esteso a a ha
un valore che, come sappiamo,
è la somma dei valori corrispondenti ai campi Oi, a.,, ..., a,, ed è
quindi ancora uguale all'area di a, e. d. d. (Per semplicità esclu-
diamo le aree a^ che non si possono decomporre rìel modo citato).
Ne segue subito il nostro teorema ; infatti il quoziente otte-
nuto dividendo (2) per l'area a, cioè per (3), è compreso, per
quanto già vedemmo, tra ilf ed m, ossia è un valore che i^ assume
in un punto di a. Se dunque tutti i punti di a tendono a un
punto A, tale quoziente tende al valore di F in A. Perciò F è
la derivata di (2).
r Osservazione.
In modo simile col simbolo l cZx j dJ?/ j F{x^ y, z) dz esteso
a un solido x si intende, seF(x,y,z) è continua, quel numero
che si ottiene integrando la F {x, y, z) lungo il segmento, o i
segmenti che su una retta y = cost., x = cost. sono determi-
nati da T, e integrando poi l'integrale così trovato nell'area
proiezione di x sul piano xy.
Se i^= 1, tale integrale è il volume di t. In generale esso
è quella funzione additiva di i, che ha per derivata F {x, y^ z).
ir Osservazione.
La definizione di derivata di una funzione additiva ha pro-
fonda analogia con la definizione di derivate di una funzione
344 CAPITOLO XVI — § 105
di una o più variabili. Tale profonda analogia si può rilevare
per altra via anche dalle considerazioni seguenti.
Sia I una figura piana ; e sia >S una funzione additiva dei
pezzi T di /. Consideriamo quei pezzi t, che sono rettangoli
coi lati paralleli agli assi coordinati, di cui un vertice è un
punto fìsso di I di coordinate (a, ò) e il vertice opposto è un
punto mobile x, y. Per tali t si ha, detta F(x, y) la derivata
di 8, che >S(t)= dx F (x, y) dy è una funzione ^{x^y)
delle X, y. E la derivata F della funzione S (t) coincide con
y cp
la derivata mista ^ — ^t" àeììsi cp. L'osserv. che chiude il § 80
(jy VX
(pag. 272), corrisponde perciò al teorema della media per le
funzioni additive.
Questo risultato si estende subito ai campi a tre dimensioni
notando, che posto
Xoc ry rz y m
dxj dy J F{x,y,z)dz, si \ì^^^^^^ — F{x, y, z).
Esempi.
"ì ^
z >
X u Z
I. Si calcoli il volume V dell'ellissoide — H- i-r, -f- — = 1.
a'^ 0^ c~
V
Calcoliamo il volume — del semiellissoide posto nella regione
0. Tale semiellissoide si può considerare come un cilindroide
x" ?/"
avente per base a sul piano xy l'ellisse -, -i- r^ r= 1 e deter-
^ ' a- o~
minato dalla superfìcie ^=-+- cV 1 :> — 70-
I valori tra cui varia la y di un punto di a su una retta
/ X'' Ò / r
X = cost. sono chiaramente ±6 1/ 1 5 = ± — ' «-^ — ^"•
Quindi :
= — / 71:6(1 -) dx=^
4 'K ohe
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI 345
In modo simile si ha
,-»-{■»'
r .+|j/<7.-r^
-1
1= *
Y' 1-
0^
4 TI ohe
"~ 3 2
J -n
l^ -ly,2-y.
-
4
donde V — ^ "^ ^^c.
o
II. Se l'asse delle x è verticale volto in basso, e 7 è una
parete piana verticale di una vasca piena d'acqua, posta nel
piano xy, e se l'asse delle y coincide col pelo libero dell'acqua,
la spinta idraulica sostenuta da I vale (§ 100, y, es. IIF)
j dy j X dx^=^ j :r c?:r I dy esteso ad L
Si applichi questa formola al caso che I sia un rettangolo
0 un semicerchio col diametro sull'asse delle y.
§ 106. — Volume di un solido di rotazione
e teorema di Guidino.
Sia o un campo del piano xz non intersecante l'asse delle ^ ;
il quale rotando attorno a tale asse generi un solido di rota-
zione S. Per trovarne il volume V il procedimento più rapido
è quello di integrare rispetto alla ^ l'area della sezione ottenuta
segando S con un piano ^ = cost.
Se una retta ^ = cost. del piano x^ incontra il contorno
di 0 al più in due punti di ascissa Xi, Xo, (porremo Xi < .To),
tale sezione è la corona circolare limitata da due cerchi di
raggio xi, x-2, ed ha per area 7^ (xi — x\)^ dove^ x^ ed x^_ sono
funzioni di z. Il volume Y di S sarà perciò ti | {x^-i — ^i") dz.
Poiché xT-i — Xi -=^ 2 \ X dx, tale volume si può indicare con
V=2nidzixdx=:2nixdo (*)
(*) Questa formola vale anche se il contorno di & è incontrato in più di due
punti da una retta <2rz=:cost, del piano xy. Al lettore la dimostrazione, che si
ottiene (nei casi più elementari) scomponendo ^ in convenienti sue parti.
346 CAPITOLO XVI — § 106 — FUNZIONI ADDITIVE, ECC.
dove rintegrale doppio deve essere esteso al campo o (la cui rota-
r X do
zione genera S). Vedemmo (§§ 101-102) che è l'ascissa Xg
del centro di gravità di o considerato come lamina omogenea,
il quale centro descrive nella rotazione attorno all'asse delle z un
/x do V
cerchio, la cui periferia vale 2nxg = 27^ -^ — =^ — . Dunque
(teor. di Guidino) :
Il volume V generato dalla rotazione di un campo piano o
attorno a un asse complanare che non V attraversa vale il prodotto
delVarea di o per la lunghezza della circonferenza descritta dal
suo centro di gravità.
Esempi.
1** Sia, p. es., dato un cerchio C nel piano xz, non inter-
secante l'asse delle z. Rotando attorno a quest'asse, esso genera
un toro di rivoluzione, di cui si può facilmente col precedente
teorema calcolare il volume V, Se r è il raggio del cerchio C, d
la distanza del suo centro dall'asse delle z, si trova
V=2TVr-d,
perchè il centro di gravità di un'area circolare coincide col
suo centro.
2** Un semicerchio avente il diametro sull'asse delle z e
raggio r ha per area ^/2'^r', e genera rotando una sfera di
4
volume — Tzr" ; la distanza X dal centro di gravità del semi-
à
cerchio dall'asse delle z è dunque data dall'equazione
4 . 4: r
-Tzr'=z 72 71 f-. 2 tt: X cioè X = --- •
3 Stz
3" Lo studioso generalizzi questa formola ad una semi-
ellisse, ricordando la formola a noi nota del volume di un ellissoide
di rotazione.
347
CAPITOLO XVII.
CAMBIAMENTO DI TARIABILl NELLE FORxMOLE
DEL CALCOLO DIFFERENZIALE E INTEGRALE
§ 107. — Esempi di cambiamento di variabili in formole
di calcolo differenziale.
Noi, piuttosto di dare una teoria generale, diamo alcuni esempi
del come sia facile risolvere problemi di questo tipo. E supporremo
senz'altro soddisfatte tutte le condizioni, che ci permetteranno di
applicare i teoremi che invocheremo (p. es., derivate finite, oppure
finite e continue, denominatori differenti da zero).
I. Siano x^=-x (t), y ^= y (t) due funzioni di t definite
nello stesso intervallo. Dalla prima di esse si possa dedurre t
come funzione t (x) della x. Cosicché, sostituendo nella seconda,
si possa pensare y come funzione della x.
Si calcolino yx,y"xy •••••» supponendo note a;'t, ^/'t? ^'<j ^"«j
È:
. dy __ y't dt __'ì[t ^
dx x't dt x't
A questa forraola si potrebbe giungere (senza usare i diiferen-
ziali) ricordando che per la regola di derivazione delle funzioni
inverse t'^, = — ,- e che y^, = y\ t'x-
Xt
E
y tXt — ytx t
x:
n dy^ d^ dt^ \ d^ ( ^\
dx dt dx Xt dt \ Xt /
„, __ dy"^ ___ dt^ dy"x JL È {^'^^'t — ytx'\\
dx dx dt Xt dì \ x't )
xtvy tXt — ytx t) — ^x tvy tXt — X tyt)
— - — , ecc.
X?
348 CAPITOLO XVII — § 107
II. Con le notazioni precedenti, è ben evidente che non
si possono viceversa calcolare le x't^ y\^ x'\^ y"t^ quando sol-
tanto si conoscano le y'^^ y'\^ , perchè tale questione è inde-
terminata. Il problema resta determinato se aggiungiamo qualche
condizione per la variabile t^ se, p. es., supponiamo i scelto in
guisa che x't + y'\ = 1 (*).
Sarà :
dx , ày ^ . , .
^t^=^-T. , yt^^~v;, donde (per la x^t -f- ?/'^ = 1, ossia
(tv Clv
Vdx^' -f- dx- = dt) si trae :
dx . 1 1
X t — /
y'^ = ^^
l/-(l)"
Vi + y'!
dy
dx
_ l/'^
i/:
a- (^y\'
i/i +yJ
X''t=^
E:
dx't dx dx't
y't
ix\ dx dxj , dxj 1 d^ / 1 \
dt dt dx ^ dx |/i -\- yf^ dx \-|/i _|- yf^/
■ ^ r_ (1 4- y'-\ - Ty, y"^^ t/j^y^ .
vi -4- y'i u-^ yx)
„ _dy\__dxdy\ _ 1 d^ / y'x \ _
dt dt dx i/l H- y''^ dx \y^\ -f- y'^/
_ y". y'iy"^ _ y"^ _
- 1 + y'.' (1 + y'ìf - (1 + y-r ' ^^^-
III. Sia z una funzione ài x,y; le quali siano a loro volta
funzioni di due variabili u, v ; cosicché -^ si possa considerare
come funzione di u, v. Conoscendo le
^ x^ '^ y ■'^ xxj '^ xyy j -^ «j -^ uuì «^ «j )
(*) Ciò equivale, come vedremo, a supporre che {x,y) sia punto generico di
una curva, l'arco della quale, misurato a partire da un punto fisso, abbia la
lunghezza t.
CAMBIAMENTO DI VARIABILI NELLE FORMOLE, ECC. 349
si
calcolino
le
z"
ecc. È per
'èz'ix
__'()z'i)X
'òx 'i)v
il teor.
^y ^u
'òy^v
del
§ 83 :
Queste
forinole si
possono anche ottenere,
notando che:
^ ^z , ^^z ^ l)z [Dx ^ ^x ^ 1 , ()^r3v , ^y ^ 1
dz -— :^— dx -\- ^=r-dy ~^—\^-dii-i-^r-av\i^—l^du-^^dv\ =
ex òy òx\yu ov J Oy\_òn òv J
(D^c)^; ^ z^y\ /l)z'òx 3-2' 3^/\
'òxl!)ii dy'òu/ \'òx'()v 'òy^vJ '
e confrontando con :
^ò z "iz
dz ^=^ :^ du + ^ dv.
du ov
Così con metodo analogo :
^, '(^z'„ D Q ^ c)x 'ò z D//1 ^ z 'ò'x 3 z yy
'òli ^u \_^x ì)it "òy 2iij 'òx ^u~ ^y 7^u~
^x D {^^\ ^U ^ {^^\
\^x/ ì)u 3w \ì^y/
2u 2u \l)x/ ^u ^u \^y
T^z^x 'òz^y l!^x\l^^ z'òx , ^z
'òx òu' òy òu^ ò
-h
X fc^ òx òi~z òy I
u \òxr òli òx òy ò%i\
òy r ò'z òx ò^~ z òij\ ^
òu \òx òy òu òy' òit\ '
(Si ponga, p. es., t^ r= p, ^; = 0, x = p cos 0, ?/ = p sen 0).
Oss. È facile anche calcolare le x\,, xf^, y'u^ y\ quando siano
note le ii'^^ ii'y, v'^^ v'y. Infatti, pensate le x, y come funzioni
delle lu V funzioni delle .t, y, si ha :
X ».- X ~~~~ X 11 ti X ' X ^ ^ X ì
U X y X i(, U/ y I X y V y j
da cui, risolvendo, si ricavano tosto le x\i., x\. In modo simile
si calcolano le y„, y\.
IV. Talvolta si studia una stessa curva, usando in un
primo studio certe coordinate x^ ?/, in un altro calcolo altre
coordinate %i^ v [p. es., le coordinate polari w = p, v = 0, dove
350 CAPITOLO XVII — § 107-108
X =^ p cos Q, y = p sen 0]. Nel primo caso l'equazione della curva
sia y=^f{x); nel secondo u = ^{v). Si calcolino v/v, u''v, ecc.,
conoscendo le y^^:, y"x, ecc. Naturalmente devono essere note le
formole che permettono di passare dall'uno all'altro sistema di
coordinate : u =^u (x, y) e v ^=v {x, y).
Sarà :
3w 3it 'òu 2u dy
dti Jx ' 2y ^x 3?/ dx
dv 3?; 3v^ iv T^vdy
'òx 2y "òx ^y dx
\ _ l du\ __ 1 p^'t, -òu/^ 1
; dv dx 'òv 3?; , L ^^ ^y *J
du
dv
dx dx òy
I valori di -^ ? ^r^ si ricavano facilmente dalla precedente
ox dy
equazione, ecc.
Come esempio particolare studiamo le relazioni che passano
tra le derivate delle ^ == /'C^), P =^ 9 (6), supposto che queste
equazioni rappresentino la stessa curva in coordinate cartesiane
e polari. È :
ff{\— f — sen e czp -f- p cos e (^ e __ tg e ^' (e) 4- p .
/ ^^^ — y ^ — CQ^ Q cip — p sen Q d d~~ ^' (6) — P tg 9 '
• ^ ^^^ ^ ^ cos e T' (e) - p sen 0 hp ^ ^^ 30 i
— p 9" -4- 2 9'' -4- p'
[cos 0 9' (0) — p sen 0]'
§ 108. — Cambiamento della variabile d'integrazione
negli integrali definiti o multipli. .
Integrali superficiali in coordinate polari.
Per quanto riguarda gli integrali definiti nulla v'è da ag-
giungere alla regola di integrazione per sostituzione già esposta
al § 75, P, pag. 247.
Si tratta di estendere questa regola agli integrali multipli.
CAMBIAMENTO DI VARIABILI NELLE FORMOLE, ECC. 351
Con metodo affatto analogo a quello dell'ora citato § 75, si
dimostra (cfr. il § 101, y, pag. 334):
Se I, H sono due campi in corrispondenza biunivoca con-
tinua, in modo che le funzioni additive dei pezzi x di I si
possano considerare come funzioni additive dei pezzi k di H,
se ¥ è una funzione continua dei punti di J, e quindi anche
dei punti di H, allora :
/,^'"=/,(^l')«- o
Ma l'importanza di questo teorema si potrà vedere soltanto
dalle applicazioni.
Sia / un campo finito del piano x y ; per fissar le idee,
l'origine (*) sia esterna al contorno od ai contorni di i ; si
possono determinare allora le coordinate polari p e 0 di un punto
generico di J, così che p e 0 siano funzioni continue delle x, y e
viceversa. Poniamo p = X, 0 = F, considerando le X, Y come
coordinate cartesiane di un punto posto in un altro piano P.
Ad ogni punto di I corrisponderà allora uno e un solo punto
di questo piano P. E i punti di P, che corrispondono a punti
di /, riempiranno tutta una regione H dì P.
(Notiamo che a; = p cos 0 = Xcos Y, y = p sen 0 = Xsen Y).
Una funzione F {x, y) continua delle x, y diverrà una fun-
zione continua F (X cos F, X sen Y) delle X, Y.
Se T e ^ sono due pezzi corrispondenti di I e di H, la
d T
derivata -— si trova, come ora vedremo, uguale ad X = p.
(IrC
Cosicché la (1) diventa:
f F{x, y)dz= f i^(Xcos F, Xsen F) Xdk.
Per i risultati dei §§ 103-105 questa formola si può scrivere:
f dx [ F{x,y)dy = ^ dX^ P(Xcos Y,XsenY)XdY =
= { dY{ F(XcosY,XsenY)XdX
0 anche :
(2) ^ dx ^ Fix, y)dy—^ dp [ P(p cos 0, p sen 0) p cZ 0 =
= J (^ 0 j i^(p cos 0, p sen 0) p 6? p.
(*) L'origine è un punto eccezionale per il sistema delle coordinate polari.
352 CAPITOLO XVII — § 108
di
Prima di dimostrare che -— - = p, vogliamo fare alcune
osservazioni :
Oss. r. Si noti che non si passa dal primo al secondo o terzo
membro di questa formola sostituendo a dx ^= d {p cos 0) ed a
dy ^= d{p sen 0) i loro valori cos 0 c^ p — p sen 0t^0epcos06Z0-+-
-+-sen0<ip; come potrebbe sembrare a un lettore inesperto. In
questo caso il d^ che compare sotto il segno di integrazione,
e non i dx, dy si possono trasformare come diiferenziali veri
e proprii (*).
Oss. ir. Si possono calcolare il secondo e terzo membro della
nostra formola, senza neanche pensare al campo H, in modo
analogo a quello seguito nei §§ 103-105 per calcolare il
l"" membro. Per es., j d% \ Fpdp si può calcolare cosi: Si
consideri una linea 6 = cost. (che è una retta uscente dal-
l'origine). Su di essa la F diventa funzione della sola p ; si
calcoli I Fpdp esteso al segmento, o ai segmenti che la nostra
figura / determina su tale linea. Tale integrale è una funzione
di 0 che si integrerà tra il minimo e il massimo valore di 0 in /.
(Si noti che le linee 0 = cost. e p = cost. hanno per im-
magine in H le rette F=:cost. ed X = cost. parallele agli
assi coordinati).
Vogliamo ora dimostrare che -ry- 1= X= p. Consideriamo un
pezzo k di R limitato da due parallele all'asse delle Y, e due
parallele all'asse X. Siano X, X -h A X e Y, Y -h AY ì corri-
spondenti valori' delle X, Y. Tale pezzo è un rettangolo, la cui
area 7^: = A XA F.
L'immagine di questo pezzo sul piano xy è un quadran-
golo T limitato da due cerchi col centro nell'origine e raggi
X, X -I- A X, e inoltre da due rette uscenti dall'origine formanti
con Tasse delle x rispettivamente gli angoli F, F-HAFe
quindi formanti tra loro l'angolo A F. La corona circolare limi-
tata dai citati due cerchi ha per area
71 i (X -4- A X)' — X' ì = ^ [ 2 X A X 4- (A X)'] ;
l'area t di "c sarà dunque data dalla proporzione :
X : 71 [2 X A X -4- (A X)'] = A F: 2 7r
(*) Si noti infatti che, se la prima integrazione si esegue, p. es., rispetto alla rr,
si deve considerare la y come costante ; perciò, nel passare alle />, 5, si dovrebbe a dx
sostituire il suo valore ottenuto nell'ipotesi che dy =■ d (r^ senO) = 0.
CAMBIAMENTO DI VARIABILI NELLE FORMOLÈ". ECC. 353
cosicché :
[xATH-y (AX^Ia r=XAXA Y-h yCAXr A Y.
Dunque
|=X+]-AX=p+|Ap,
Per A p m 0 tale rapporto ha pure per limite p.
Si potrebbe dire che x vale XA A^A F, a meno di infinitesimi
di ordine superiore. *
Bisognerebbe completare questa dimostrazione, considerando
campi k di forma qualsiasi; noi ce ne dispensiamo ricordando
solo al lettore che gli stessi metodi, con cui nel § 105 abbiamo
dimostrato l'esattezza di una formola analoga in coordinate
cartesiane ortogonali, potrebbero provare la formola attuale in
coordinate polari (cfr. più avanti in questo stesso §).
Osservazione.
Si potrebbero anche applicare i metodi del § 103, in cui
il campo era diviso in pezzi con rette parallele agii assi, cioè
con linee di equazione x = cost., oppure y = cost. Si dovrebbe
ora invece dividere il campo in pezzetti con linee p = cost.
e 9 = cost. (cerchi col centro nell'origine e rette uscenti dal-
l'origine). Prescindendo dai pezzi sul contorno, gii altri sono
quadrangoli la cui area vale, come vedemmo più sopra,
p dp M -h — dp' d^. Se F è la funzione da integrare, il suo
integrale si trova coi metodi del § 103 uguale al limite di
di
per 6Zp = tZ0 = O. (Indico con F un valore assunto da F in
un punto di ogni pezzetto). Il primo addendo si prova (§ 105)
tendere ad// FpdpdQ; il secondo addendo tende a zero:
perchè, se H è il massimo di \ F\, ed £ il massimo valore
di dp, allora :
. I 2 Fdp'd^\ <Hb2 dpd^=Hs 2 ^P 2 ^0-
2;! — G. FfBlxi, Analisi matematica.
354 CAPITOLO XVII — § 108
Ora ^dp tende alla differenza dei valori massimo e minimo,
che p assume nel campo considerato ; S tZ9 non supera 2 n.
Poiché £ tende a zero, segue tosto che ^Fdfd^ tende a
zero. e. d. d. '
D'altra parte sia questo risultato, sia quello del prossimo
paragrafo saranno dimostrati in futuro capitolo con metodi meno
diretti, ma di una estrema semplicità.
Si può anche generalizzare il risultato del § 104 interpretando geometricamente
la (2) ne) seguente modo (per il caso F'^O)-.
Il volume di un cilindroide, o di un solido decomponibile in un numero
finito di cilindroidi si ottiene integrando rispetto a P l'area della sezione ese-
guita con un cilindro circolare retto di asse invariahile e di raggio variahile p.
Sarà un esercizio utilissimo il riconoscere come si possa ottenere facilmente
una dimostrazione completa del nostro risultato con l'applicazione dello stesso
metodo usato al § 105 in caso analogo.
Infatti, seguendo questa via, si riconosce tosto essere sufficiente provare che
l'area di s è data, p. es., da 1 de i p d p esteso al campo u. Ora a pag. 342, per
dimostrare il teorema analogo che tale area vale | dx | dy, siamo partiti dalla
formola che dà l'area di un rettangoloide, cioè di una figura limitata dalle linee
y = 0, x = a, x = 'b e da una linea y =^ f {x).
Per il caso attuale basterà similmente applicare la formola data al § 95 ò,
per l'area della figura limitata dal punto p = 0, dalle linee 6 = a, e = h e da una
curva p = F (o).
Forinole analoghe si dimostrano per gli integrali tripli. Ricor-
diamo particolarmente i seguenti sistemi notevoli di coordinate
nello spazio.
V Coordinate cilindriche p, 6, z legate alle coordinate
cartesiane ortogonali dalle x = p cos 0 ; y =^ p sen 0 ; z^=^ z.
Un tale sistema equivale ad addottare coordinate polari p, 0 nel
piano xy^ conservando la terza coordinata z. Tali coordinate si
chiamano cilindriche perchè p = cost. è l'equazione di un cilindro
circolare retto con generatrici parallele all'asse delle z. Si trova
jjr F {x, y, z) dx dy dz=^ jj j F (p cos 0, p sen 0, z) p dp dd dz.
2° Coordinate polari p, 0, 9 (nello spazio) legate alle
coordinate cartesiane ortogonali dalle •
X = p sen 0 cos 9 ; y =^ p sen 0 sen cp ; z ^=^ p cos 0.
Il raggio vettore p = '\/x'^ -h y^ -h z^ è la distanza del punto
dall'origine. L'angolo 0 è la colatitudine (complemento della
latitudine, quando si assuma il piano xy-d^ piano equatoriale).
CAMBIAMENTO DI VARIABILI NELLE FORMOLE, ECC. 355
L'angolo cp è la longitudine (contata a partire dal piano xz
come meridiano iniziale). Si trova :
III F{x,y, z) dx dy dz =
= j ] j i^ (p sen 0 cos 9, p sen 0 sen ^, p* cos 0) p^ sen 0 d0 dp d^,
come si prova osservando che il volume racchiuso tra due sfere di
raggio p e p -h 6Zp, tra due coni di colatitudine 0 e 0 -+- 6^0, e tra
due semipiani di longitudine cp e 9 -f- ^9 vale p^ sen 0 cZ0 dp d^
a meno di infinitesimi d'ordine superiore.
§ 108 bis. — Integrali superficiali in coordinate generali.
I risultati di questo paragrafo saranno dimostrati più avanti in modo semplice
benché indiretto. Noi qui faremo invece delle ipotesi analoghe a quelle fatte ai
§§ 103 e seg., che del resto sarebbe facile giustificare in modo diretto..
I risultati a cui giungeremo, si debbono riguardare come l'estensione del me-
todo di integrazione in coordinate polari a coordinate qualsiasi. Useremo, p. es., i
metodi intuitivi del § 103.
Sia 1 un'area del piano xy] e siano X, Y due variabili: X=^X{x, y),
Y= T {x, y), funzioni delle x, y in I.
Viceversa le x, y si possano considerare come funzioni x {X, T) ed y (X, Y)
delle X, Y, così che un punto di I si possa determinare tanto dando i corrispon-
denti valori delle x, y, quanto quelli delle X, Y.
Dividiamo T con linee X= cost., Y= cost., indicando con dX, dYglì incre-
menti che subisce la X 0 la Y per passare da una tale linea alla successiva ;
sostituiamo poi a quelli dei quadrangoli curvilinei tutti interni a I limitati da due
linee consecutive X = cost., e T" = cost. il quadrangolo rettilineo Q che ha gli
stessi vertici. L'area I sarà così divisa in
a) quadrangoli Q rettilinei tutti interni a I,
ed in
j3) poligoni P curvilinei, parte del contorno dei quali appartiene al contorno di I.
Noi ammetteremo : .
1° Il contributo portato alle nostre somme da questi ultimi poligoni P
tende a zero, quando i dX, dY tendono contemporaneamente a zero.
2° Per calcolare i limiti che incontreremo (quando i dX, d Ytendono contempo-
raneamente a zero) si possono far tendere a zero prima i dX, poi i dYo viceversa.
Uno dei quadrangoli rettilinei Q ha i vertici posti sulle intersezioni di una
linea X:= cost. e X-\-dX=cost con due linee Y^cost. e Y-\-dY~ cosi.
I suoi vertici A, B, C, D, saranno perciò i punti
A = [xiX,Y),y(X,Y)]; ■
B=[x{X-^ dX, Y), y{X-\- dX, Y)] ;
C=\x{X,Y-^dY\ y {X,Y-hdY)];
Dz=[x{X-hdX, Y+dY), y {X -i- dX, Y + dY)].
E la sua area sarà la somma delle aree dei triangoli ABC, BGD (*). L'area
del lo vale (per nota formola di Gl-eometria analitica) il valore assoluto di
J.
2
x(X,Yy
y (X, Y)
1
x{X-f-dX, Y)
y (X, -4- dX, Y)
1
x(X,Y-+-dY)
y(X,Y-i-dY)
1
(*) Suppongo per semplicità Cjhe A e D sieno da bande opposte della retta BC.
Come abbiamo già detto, una dimostrazione completa sarà data più tardi.
356 GAP. XVII — § 108 bis — CAIVIBUMENTO DI VARIABILI, ECC.
Supposto che le x, y abbiano derivate prime e seconde finite e continue (*),
e ricordando la formola di Taylor
x[X-hdX, Y) = x(X, Y)-hx',{X, Y)dX+ ~ x",,{X-^-fJdX, Y)dX'
ed analoghe, si trova che tale area vale il valore assoluto di
(0
1).
l_\ x\.{X,Y) x'y(X,Y)
2 1 X', (X, Y) II'. {X, Y)
dXdY-i-^ dX dY
dove oc è una quantità che (se con K indichiamo una costante positiva maggiore
in valore assoluto di tutti i valori delle derivate prime e seconde delle x, y) soddisfa
alla
. ' \0L\<KHdX-\-dY-tdXdY).
Altrettanto trovasi per il triangolo BCD. Cosicché l'area del (|uadrangolo
rettilineo AB CD vale il valore assoluto di
, d (x, v)
dove con .,V-^4>-
d {X,l)
( d {x, y)
\d (X, Y)
indico il valore in A del cosidetto Jacohiano
tAdXdY,
dx
dX
dx_
dY
ali
dX
Èli
ÒY.
e con (^ indico una quantità soddisfacente alla
i r^ 1< IO {dX-^dY+dX dY). (1)
Moltiplicando tale area per un valore F, che la funzione F(x, y) assume in
tale quadrangolo, e sommando tutti i prodotti così ottenuti, si trova
d {x, y)
HF
d (X, Y)
dXdY+I, p F dXdY.
dX =
=j -j
d (x, y)
d (X, Y)
dY.
In virtù della (1) e con metodi analoghi a quelli dell'osserv. del § 108 si trova
che il secondo addendo tende a zero, e che (cfr. § 103):
7/ integrale I Fd- è uguale a :
Se X — ,s Y= 0, X — p cos o, y z= e sen ^, allora
d (x, y)
d (X, Y)
E si ritorna alla formola del precedente § 108.
Oss. Se noi consideriamo X, Y come coordinate cartesiane ortogonali in un
altro piano P, e indichiamo con H la regione di P, che è luogo dei punti corri-
spondenti ai punti di J, se t e h indicano al solito le aree di due pezzi corrispon-
denti di J e di H, allora il valore assoluto del precedente Jacohiano vale natural-
mente la derivata -^ . Dimostrando direttamente questa proposizione, si avrebbe
un'altra dimostrazione dei risultati di questo §.
(*) Queste condizioni si potrebbero rendere meno restrittive.
357
CAPITOLO XVIII.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI
§ 109. — Considerazioni e definizioni fondamentali.
Il calcolo integrale si propone il seguente problema fonda-
mentale : Conosciuta la derivata di una funzione, come si può
calcolare questa ftinzione ?
Ora possiamo proporci il seguente problema più generale :
Sia y una funzione di una o più variabili indipendenti ; consi-
deriamone le derivate di primo, secondo ennesimo ordine, e
supponiamo che sia nota soltanto qualche relazione fra la y,
le variabili indipendenti e queste sue derivate. Ci domandiamo:
In quanto può una tale relazione servire per ^determinare
la funzione incognita y ?
Una relazione di questo genere si chiama una equazione
differenziale^ e il problema che vi si riferisce, e che noi abbiamo
enunciato, si chiama: il problema delV integrazione delle equa-
zioni differenziali.
■ Cominciamo a porre una distinzione fondamentale. Può
avvenire che le variabili indipendenti si riducano ad una sola
e quindi che la relazione data sia una relazione fra la funzione,
la variabile e le derivate di ordine 1, 2, , n della funzione
rispetto all'unica variabile. Oppure può darsi che le variabili
indipendenti siano più d'una ; e in tal caso le derivate, che
figurano nella nostra equazione, saranno deiivate parziali.
Nel primo caso l'equazione differenziale si dirà a derivate
ordinarie, nel secondo si dirà a derivate parziali.
Nell'uno e nell'altro caso si chiamerà ordine n dell'equazione
quello della derivata di più alto ordine che in essa comparisce.
Può darsi che invece di una sola relazione tra le variabili,
la funzione e le sue derivate ne siano date più, da considerarsi
come simultanee ; allora si ha ciò che si chiama sistema di equa-
zioni differenziali. Può anche darsi che si abbiano sistemi di
equazioni differenziali con più funzioni incognite.
r
358 CAPITOLO XVIII — § 109
L'analisi offre continui esempi di problemi, la cui risoluzione
dipende da equazioni differenziali. Del resto è ben noto che anche
la fisica, la meccanica, ecc. offrono innumerevoli esempi di tali
problemi, perchè un gran numero di leggi fìsiche si enunciano
precisamente mediante equazioni differenziali. La legge di gra-
vitazione universale, p. es., ci dà un legame tra le distanze dei
centri dei corpi celesti e le rispettive accelerazioni, cioè le deri-
vate seconde rispetto al tempo delle coordinate di tali centri.
Q-ià i problemi che abbiamo risolto ai §§ 90, 92, 93 sono
altrettante integrazioni di particolari equazioni o sistemi di
equazioni differenziali.
Così p. es., il problema di ricercare una funzione z dì x e y
tale che la sua derivata rispetto a a; sia ilf {x, y), e la sua
derivata rispetto a y sia Nix, y), consiste nelFintegrazione del
sistema di due equazioni differenziali del primo ordine a deri-
vate parziali :
^f^ = M{x,y),
Yy = N{x,y).
La ricérca delle funzioni z ài x ^ y, per cui la derivata
parziale mista fatta prima rispetto a a; e pòi rispetto a y sia
uguale a P (x, y), non è altro che l'integrazione deirequazione
differenziale del secondo ordine a derivate parziali:
La ricerca delle funzioni che hanno per derivata f{x) si
riduce all'integrazione dell'equazione differenziale ordinaria del
primo ordine :
%=m. (1)
È chiaro che la (1) è l'equazione differenziale di tipo più
semplice : su di essa ci siamo lungamente trattenuti, formando
la sua risoluzione l'oggetto precipuo del calcolo integrale. Ma è
pure ben manifesto che, se per l'integrazione della (1) ci tro-
vavamo assai spesso nel caso di non saperla eseguire che per
approssimazione, per l'integrazione di equazioni differenziali più
complesse avverrà generalmente altrettanto. Noi ci limiteremo
esclusivamente allo studio di particolari tipi di equazioni.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 359
Lo studio generale delle equazioni differenziali costituisce da
solo uno dei rami più estesi delle matematiche, e riceve continue
applicazioni alle scienze fisiche, e in genere a tutte le scienze
che hanno per oggetto enti suscettibili di misura.
§ 110. — Equazioni differenziali, la cui integrazione
è ridotta a quella di un differenziale esatto.
a) Sia f una funzione delle due variabili x, y ; trovare tutte
le funzioni y della x che soddisfano a un'equazione del tipo
/"(a;, ?/) = cost. (1)
equivale a trovare tutte le funzioni ?/ definite implicitamente
dalla (1).
E chiaro che per tutte e sole le funzioni definite implicita-
mente dalla (1) si ha che, sostituendo nel primo membro della (1)
in luogo di y il suo valore e derivando la funzione di x che ne
risulta, si ottiene lo zero. In altre parole la (*)
K^ìf^ìf^A^O (2)
dx ^x ììy dx
vale per tutte e sole le funzioni y definite implicitamente
dalla (1).
La (2) è un'equazione differenziale ordinaria del primo
ordine : tutte le funzioni y che la risolvono sono tutte e sole
quelle che soddisfano alla (1).
Si abbia ora l'equazione differenziale del tipo:
M{x,y)-^N{x,y)^^0, (3)
la quale, moltiplicata per dx, si può scrivere :
M{x, y) dx -h Nix, y) dy = 0. (4)
Se il primo membro di (4) è un differenziale esatto, se
esiste cioè una f(x, y) tale che :
^=M{x,y)', y^ = N{x,y\
(*) Si suppongono qui, e nei seguenti §§, finite e continue tutte le funzioni,
e loro derivate, che si presentano nel calcolo.
360 CAPITOLO XVIII — § 110
per le considerazioni precedenti tutte e sole le funzioni y della x
che risolvono la (3) o la (4) sono le funzioni rappresentate
implicitamente dall'equazione
fix,y) = C,
dove C è una costante affatto arbitraria (*).
Esempio.
Si voglia, ad esempio, risolvere l'equazione differenziale
ordinaria del primo ordine :
_2y -^ j? -^(2x -\- y-) y =0; (5)
si vogliano cioè trovare tutte e sole le funzioni y della x, che
la soddis
per dx :
la soddisfano. Poiché y ^=^-j- , la (5) si può scrivere moltiplicata
i2y -ì- x^) dx -+- (2 X -f- ?/) dy = 0.
Il primo membro è un differenziale esatto, poiché :
r).
^^(2,+..^)==
2
funzioni f, per cui :
f=2y + .^
ox
ìf 2x
y~,
si ottengono integrando 2y -\- x'* rapporto a a: e aggiungendo
una funzione di y tale che la funzione che ne risulta abbia
per derivata rapporto a ?/ la 2 x -I- ^■.
Sarà dunque :
f =
2 xy
-t
+ Y,
essendo
F tale che
'
(2^
y-^
x'
4
-f-
>■);
— 2x-
(*) Più precisamente la C deve soddisfare a questa unica condizione che la
/ {x, y)= C sia risolubile rispetto alla .?/. Così, p. es., se per x = a, 1/ = h le
f'.r,f], sono finite e continue, ed/',/ =n=--0, si può porre C = f {a, h). (Cfr. § 84, fi).
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 361
Ma:
/ X ^ \ ,
(-
rz/-f-
1-
•-);
—
2,1
Dovrà
dunque
essere
. :
2 X
+ r==
^ 2x
-+-
Y
ossia :
y' = y\
cioè :
Y= -^ + cost.
Sarà dunque
fz=z 2xy -h —- -^ ^ -h cost.
E le funzioni y. dì x che risolvono la (5) sono le funzioni
definite implicitamente dall'equazione :
dove C è una costante arbitraria.
1^) Se nella (3) la if e la ^ sono rispettivamente funzioni
della sola x e della sola y, il primo membro della (4) è certa-
mente un differenziale esatto (§ 90, P). Le funzioni f che hanno
per differenziale il primo membro della (4) sono espresse da :
J Mdx -+- r Ndy -h cost.
e le funzioni y che soddisfano l'equazione diiferenziale proposta
sono quelle definite implicitamente dall'equazione :
j Mdx-h j Ndy=^ cost.
Simili equazioni differenziali si dicono a variabili separate
(cfr. § 90, ?, pag. 299).
Così, ad esempio, si abbia da integrare l'equazione diffe-
renziale ordinaria del primo ordine :
— sen x dx -h y dy =^ 0.
Il primo membro è un differenziale esatto a variabili separate.
362 CAPITOLO XVIII — § 110
Le funzioni y che soddisfano l'equazione differenziale sono date
implicitamente dall'equazione :
cos a: -h ^ — e
2
dove C è costante arbitraria.
Risolvendo l'ultima equazione rispetto a ?/ si ha :
?/ = ± 1/2 C — 2 cos ic.
Talvolta, pur non essendo il primo membro della (4) un
differenziale esatto a variabili separate, si può con facili artifìci
ridurlo tale.
Così, ad esempio, si abbia da risolvere l'equazione diffe-
renziale :
V xy dx -\t\ xy dy^^^
ossia :
VX Vy dx -I- VX vy dy = 0.
• Dividendo ambo i membri dell'equazione peri/ ?/i/x(*) si ha:
\^dx+^dy = 0. (6)
VX Vy
Colla divisione operata abbiamo ricondotto l'equazione dif-
ferenziale proposta al tipo precedentemente esaminato, onde,
integrando la (6), si ha che le funzioni y che la risolvono sono
date implicitamente dall'equazione :
fXy^dx^ f^dy = C (0=cost.)
_ J VX -^ vy
ossia dalla
da cui
7 5 ^
= (fc-A,70
(*) Questa divisione è lecita (se x è generico) supposto 2/=t=0. Bisognerà poi
esaminare a parte se la «/ = 0 è (come avviene appunto nel caso nostro) una
soluzione della nostra equazione.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 363
Le funzioni y rappresentate dalla forinola precedente insieme
con la soluzione y=^0 sono tutte e sole le funzioni che risol-
vono Tequazione differenziale che ci eravamo proposti di studiare.
In generale si può dire che, se si ha un'equazione differen-
ziale del tipo:
XYdx-hE,ridy—0, (7)
dove X, ^, Y, f] sono funzioni le prime di a; e le seconde di y,
si può facilmente rendere il primo membro della (7) un diffe-
renziale esatto a variabili separate, dividendo ambo i membri
della (7) per ^ F. '
Esempio.
Consideriamo la pila di un ponte ; ne sia So la sezione
superiore ; sia x la distanza di un punto della pila da So, e
sia S(x) la sezione della pila posta alla distanza x da So. Si
richiede talvolta nella tecnica che l'incremento S(x -^ h) — S{x)
della sezione sia proporzionale al volume
j:
S (x) dx
di quella parte di pila, che è racchiusa tra le sezioni poste alle
distanze x, x -^ h da So (*). Sarà perciò
s{x-hh) — s(x) , 1 r*;t.'
h
hj.
S (x) dx
dove k è una costante dipendente dal tipo di costruzione adottato.
Passando al limite per /^ = 0 si trova :
S'(x)=^kS{x),
cioè :
dS _
7^ A^ dx
donde :
log S=: k X -+- cost.
Poiché S ^=^ So per x = 0, sarà :
log S = k X -h log So
S=Soe'\
(*) E ciò, perchè generalmente l'area di una tale sezione si fa proporzionale
al carico complessivo (del ponte e della stessa pila), che gravita su tale sezione.
Strila So gravita, p. es., soltanto parte del ponte.
364 CAPITOLO xvm — § 110
Y) Altro tipo di equazione differenziale ordinaria del primo
ordine, che si può ridurre al tipo precedente, è quello in cui
la Mix,y) e la N{x,y) che figurano nella (4) siano funzioni
omogenee dello stesso grado n.
Ricordo che una funzione di x, y si dice funzione omogenea di
grado w se è uguale al prodotto di x""' per una funzione di--
X
Cosi, ad esempio : x 4- y- -^ xy h. una funzione omogenea di
grado 2, perchè è uguale a
-' (' - (i) - f )
È funzione omogenea di grado —la
poiché
/.-
+ ?/
= |/:r(l +
X /
1
Vx+y-
= X'
Se nella (4):
M{x, y) dx 4- N{x, y) dy = 0,
\?i M ^ N sono funzioni omogenee dello stesso grado n, è facile
indicare un metodo generale di integrazione. Infatti introduciamo
una nuova variabile z in luogo di y, ponendo :
^=.. (8)
. .. X
Dividendo la (4) per x"*, i coefficienti di dx e dy risultano
funzioni del solo rapporto-^; cioè si ha un'equazione del tipo:
X
(9)
,{i),.^,{i)„
— (
Intanto da
:
X
ovvero y —
zx,
differenziando
si ottiene:
ày =
■ xdz -^ zdx.
(10)
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 365
Sostituendo in (9), si ottiene :
cp (^) dx H- ^ {z) {xdz -I- 2dx) = 0,
donde, raccogliendo a fattori comuni dx e dz, si ha :
[? W 4- .s'^' {z)] dx -f- x^ (^) dz^=^0
che, separando le variabili, diventa :
a; ? ('2') H- ^ H' (5^)
che è a variabili separate, e noi sappiamo quindi integrare.
Sia, p. es., data l'equazione :
-ri. X y \ x~ ^
( a;" 4- y ] X' -\r y
Posto — = ^j essa diventa :
dx 4- — r, (xdz ■+- zdx) = 0
ossia
l -^ z-\ \-\- z
dx dz
0.
X 14-^"
Integrando si ottiene log | ^ | -i- arctg z=^C{C^= cost.). Donde
-s- = -^ = tg [C — log i ^ I] e quindi y = a; tg [C — log | x |].
S) Noi abbiamo visto che la
' Mdx -\- Ndtj = 0 (12)
è risolubile mediante quadrature, se il primo membro è un diffe-
renziale esatto, e in particolare se le variabili sono separate
(o si possono con qualche artijfìcio separare).
Se il primo membro di (12) non è un differenziale esatto,
ci si può chiedere se è possibile trovare una funzione p (r, y)
delle .T, y, che, moltiplicata per esso, lo renda un differenziale
esatto. Una tale funzione p si dice essere un moltiplicatore
di Mdx -f- Ndy.
È chiaro che, se in qualche modo si può giungere a tro-
vare un tale moltiplicatore, allora la risoluzione, o, come si
suol direj l'integrazione della (12) è ricondotta a calcolare degli
integrali indefiniti, cioè è ridotta alle quadrature.
366 CAPITOLO XVIII — § 110
Affinchè p sia un moltiplicatore, ossia affinchè p Mdx -+- p Ndy
sia un differenziale esatto, deve essere :
;r- (pilf) = ^ (piV'), ossia:
dy dx
' V dy dx / dy dx
Questa è un'equazione alle derivate parziali per la p ; e il pro-
blema di risolvere le equazioni a derivate parziali è assai piii com-
plicato del problema di risolvere le equazioni a derivate ordinarie.
Il metodo di cercare un moltiplicatore riesce perciò utile
solo in casi particolari.
V Esista, p. es., un moltiplicatore p funzione della sola x.
Dp
Essendo in tal caso ^ = 0, la nostra equazione diventa
d\og\p\_ 1 3p__ 1 /'ÒM :)N\
dx p "òx Nx'òy 'òx /
E, affinchè si possa risolvere quest'equazione con una fun-
zione p della sola x, anche il secondo membro ^(-^ Y~ )
deve essere funzione della sola x. ^
Se così avviene, il problema è dunque ridotto alle quadrature.
2° Così pure, se t- ( -^^ ^r— ) è funzione della sola y.
M\dx oy /
esiste un moltiplicatore p funzione della sola ?/ ; e il problema
è ancora ridotto alle quadrature.
Così, per esempio, sia data l'equazione {x -h y) dx -)r dy = 0.
1 /'ÒM DNX^
^x -h y =^ M, N=l,-z^ l-^ ^ j = 1 e costante, non
dipende da y; esiste un moltiplicatore p funzione della sola x
definito dalla ^i^ = l.
dx
Si può dunque porre p'=^e''; l'equazione diventa:
e'^ix -i- y) dx -^ e^ dy=- 0.
Posto ^ == e* (x -h 2/), ^ = e*, si trova ^ = ^e^ -+- cp (x),
ex òy
dove cp è funzione di x, tale che \y é" -f- ^ {x)\ ^^=^ é" (x -4- ?/),
ossia cp' {x) = a:; e*, (f (x) = a; e* — e* 4- cost. Le funzioni y che
soddisfano alla nostra equazione differenziale sono dunque quelle
date dalla x e^ -\- y e"" — e^ =-(x -^ y — \) e^ ^=^ cost.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 367
Esempio.
La quantità di calore Q data ad una massa di gas ne fa
variare o la pressione ^ o il volume v, o entrambe le p, v. Se
noi, p. es., teniamo 'v costante, varierà la pressione p ; il rap-
porto — 7 , ove dQ è la quantità di calore necessaria per far
Clv
aumentare la temperatura t di dt, è una costante e ; il cosidetto
calore specifico a volume costante. Sarà dunque dQ = cdt ; l'in-
cremento dt di temperatura è dato da ^ dp ; cosicché infine :
dQ-=Cy^dp.
Cosi pure, se con C indichiamo il calore specifico a pressione
costante, sarà :
dQ=Cpdv
dv
l'incremento di calore che si deve dare, affinchè il volume del
gas (tenuto a pressione costante) aumenti di dv.
Cosicché complessivamente
dQ = e ^-- dp -^ C ^ dv
óp dv
é la quantità di calore necessaria per aumentare p, v rispetti-
vamente di dp^ dv.
Ora noi ci chiediamo : Può Q essere una funzione di ^, i; :
ossia può una massa di gas, ritornando alle stesse condizioni
(di temperatura e di pressione) possedere in ogni caso la stessa
quantità di calore ? Ciò che sembra la conseguenza pili sem-
plice dell'antica ipotesi dell'indistruttibilità del calore.
Se così fosse, l'espressione sopra trovata per dQ sarebbe un
diiferenziale esatto. Si avrebbe cioè :
^ r ^t\ 3 /^3n y~t _
^v\ 'òp/ ^p\ 'òvf ^p^v
ciò che non è, perchè C ^ e, e t = ~ pv, dove R è una
costante.
Se c^ dp -h C Y~ ^^ ^^^ ^ esatto , noi possiamo cer-
care di renderlo esatto moltiplicandolo per un moltiplicatore p.
368 CAPITOLO XVIII — § 110
Dovrà
essere :
• *
T.("'
3<\
ossia p (e
ì)p 'òv
3pD<_
ossia
e 1 -
La
soluzione
più semplice si
ottiene,
supponendo
Slogf
-4-1-0;
^ ^ > ;
^-f- 1 0;
ossia supponendo p inversamente proporzionale a j:> e a v,
ponendo, p. es., p = —- . Si ha così che — è un differenziale
esatto ; la funzione, di cui esso è differenziale, dicesi entropia.
E ne è ben nota l'importanza in termodinamica.
Dicesi abiabatica ogni trasformazione, che non richiede né
assorbimento, né dispersione di calorico ; tali trasformazioni sono
quindi definite dalla
0 z=z dO =^ e :^ dp -i- C .r- dv ossia dalla e vdp -4- C pdv = 0.
Op dv ^ ^
1 , . 1 •!• . dp ..dv ^ . .
Separando le variabili si trova e h ( =0, cioè
p V
e log j; -H C log V = cost.
pv'' = cost. , ^ = cost. V '^ ,
che ci dà in termini finiti l'equazione di una adiabatica.
Un'applicazione alV equazione X (x, y) - + Y (x, y) =0.
Abbiamo visto che l'equazione ^ = -^ . ' ' si sa risolvere se si conosce una
funzione f {x, y), le cui derivate f'.v, f'y sieno proporzionali alle — Y{x,y),X{Xjy);
cioè una funzione f{x,y) tale che Xf'x-h Yf'y = 0', perchè precisamente (almeno
se sono soddisfatte le condizioni sopra enunciate) le funzioni y (x) cercate sono
quelle che soddisfano all'equazione /'(^>.'/) ~cost. Viceversa si conoscano le solu-
zioni dell'equazione y' = =, e si sappia che esse sono tutte e sole le funzioni che
soddisfano ad una equazione f {x, y) — cost. Poiché esse sono anche tutte e sole
le funzioni che soddisfano alla f{x,y) — cost. quando f {x, y) è una soluzione
ài Xy-'h Y~ —0, tali funzioni f(x, y), che soddisfano alla ^ '>z, ~^ ^ 'fjn — ^^
saranno tutte e sole le funzioni che restano costanti, quando v è costante, cioè
saranno le funzioni di y. (Cfr. l'ultimo esempio del § 117).
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 369
Così, p. es., si trovino le soluzioni di
.^+2/f =0.
Le soluzioni della -^ = - , ossia della -" = — sono quelle tali che
dx X y X
log y = log X -\- cost., ossia tali che - — cost. Le funzioni f cercate sono tutte
X
e sole le funzioni di - , come è facile verificare.
X
L' equazione di Eulero x -y + 2/ y- = ^/ (^ = cost.).
Posto » = log I /' I — w log I a? I , tale equazione diventa x - 4-7/ -^ =0.
I f (x v)
Perciò * {x, y) — log \f{x,y)\—n\Qg\x^=^ log ' ^ ' ^
X
porto - . Altrettanto avverrà di i^= e
fi^.ll)
è funzione del rap-
Perciò f {x, y) — a;« F (- j . In
x"
tal caso si dice che / è funzione omogenea di grado n, perchè, moltiplicando x
ed y per una stessa costante h, la f (x, y) resta moltiplicata per h". Più in
generale le soluzioni f{x^, x^, , x,) dell'equazione ^i Xi -J- = nf sono tutte e
sole le funzioni omogenee di grado n delle x, cioè le funzioni del tipo
(or or ^ \
-, — , , — 'l . Infatti se consideriamo f come funzioni delle varia-
ci ^1 ^il
X X ■ X òf n
bili i, =r ic, ; ?j = - ; ?3 =: — ; ..... ; ?« = — , la nostra equazione diventa ^ = — / ,
X^ iCj Xy C?| ? I
donde t^^lIA = 1^ ; log 1 /• ì = ^ log ì ?, 1 -h •i' ; /• = i^ ., [4- =. log 1 n ]
dove '!:> (e quindi anche f) sono costanti rispetto alla ?,, e cioè sono funzioni delle
sole ?2> Hy •••• ^«« ^- ^- d-
§ 111. — Tipi particolari di equazioni differenziali.
a) Sia data l'equazione lineare (*) del primo ordine omo-
genea (**)
y^F{x)ij, (1)
dove P{x) è una funzione continua della x. Dividendo per y
(supposto per un momento diverso da zero) se ne deduce
V ci
^- = P (x), ossia -z-\og\y\=^P (x).
y dx
È perciò log I ^ I = 1 P {x)dx -h C\ e quindi | ?/ ! = e^+/^(*>'^*
(C' = cost. arbitraria).
(*) Lineare perchè di primo grado nella y e derivata y'.
(**) Omogenea perchè mancano termini di grado zero nelle ?/, y'. Vi è in-
vece un tale termine Q {x) nell'equazione che trattiamo in [-i.
24 — G. FuBiNi, Analùi matematica.
370 CAPITOLO XVIII — § 111
Notando che, essendo C una costante arbitraria, e^ è una
costante arbitraria positivUy e, passando dal valore di \y\ a
quello di y, se ne trae
y = Ce-^p =^)^* ossia y e-Z^^*)*^* = C*,
dove C è una costante arbitraria che ha il segno di y. E questa
formola, come si verifica facilmente, dà proprio una soluzione
di (1). Per quanto abbiamo detto essa dà anzi tutte le solu-
zioni di (1), perchè per C = 0 dà la soluzione (finora esclusa)
y = 0.
P) Sia data l'equazione lineare del primo ordine
y =^ P{x) y -h Q (x) (2) (P, Q funzioni continue della x).
La 2/ = ^e/^(a5)rf« soddisfa alla (2), ove si supponga Q{x) = 0,
quando con ^ si indichi una costante (questo §, a). Cerchiamo se
è possibile determinare la z come funzione non costante della x
in guisa che la ^ = ^e/^<*^^=^ soddisfi all'equazione più gene-
rale (2) (ciò che in sostanza equivale ad assumere come fun-
zione incognita al posto della y la ^ = e/e-/p(a')^^).
Questo metodo, detto metodo della variazione delle costanti
arbitrarie, ha spesso applicazioni nell'analisi, e sarà applicato
anche da noi in altri problemi. Sostituendo in (2) ^e-^^^»)^' al
posto di y otteniamo:
ossia :
/ e/p (») ^^ — Q (x) , cioè : ^'= Q{x)e-f^ (=«) ***.
Integrando si ha così :
2=: j Q (x) e-fp^''^^'' dx -+- C (C=cost. arbitraria)
e quindi :
y = e/p(^)dx ] ( Q(x) 6-><^)^* dx -h C\.
Oss. 1*. Per Q{x)=^ 0 questa formola si riduce a quella
trovata in (a) per risolvere (1).
Oss. 2*. È naturalmente inutile scrivere I Pix) dx-hk slÌ posto
di r P (x) dx (k = cost. arbitraria) nella nostra formola. Con
questo cambiamento esso diventa infatti :
^/p(x)dx-{-k \( Q{x) e->(^)^ e-^ dx -h C\=^
— e/p(a:)dx j J Q (x) e-><^>^* dx -f- Ce" \ ,
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 371
che differisce dalla precedente in modo non essenziale solo nel
fatto che la costante arbitraria vi è indicata non con C, ma
con Ce^.
Y) Il tipo pili generale di un'equazione alle derivate ordi-
narie del secondo ordine è
dove f è funzione delle x, ?/, y, y" ,
Supponiamo che in tale equazione non figuri la y, che cioè
l'equazione sia del tipo
/"C^, y\ y") = 0.
Ponendo
y=^,
essa si trasforma nell'equazione
che è un'equazione differenziale del primo ordine. Se noi la sap-
piamo risolvere, conosceremo la z (con una costante arbitraria)
e ne dedurremo:
y = j zdx 4- cost.
con una seconda costante arbitraria.
S) Un altro tipo di equazione differenziale del second'ordine,
che si può ridurre al primo, si ha quando nell'equazione data
non compare la variabile indipendente x ; cioè quando si abbia
un'equazione del tipo:
fiy\y\y) = ^'
Se questa equazione ha una soluzione y non costante (*),
prendiamo questa y come variabile indipendente e chiamiamola ^.
La derivata y =: ~ si indichi con z. Allora sarà :
^ dx
„ dy' di, dy __ dy dy __ dz
dx dx d'i dx d'i di
(*) Le soluzioni y=^h {k — cost.) si trovano immediatamente. Come si vede
subito, sostituendo nell'equazione proposta, esse sono le soluzioni eventuali dell'equa-
zione (non differenziale) f (0, 0, h) — 0, Se poi y non è costante, e quindi non è
identicamente y' = 0, in un qualche intorno, per la teoria delle funzioni implicite,
si potrà considerare x come funzione di t/, e quindi anche y' (che è funzione
della x) come funzione della y.
372 CAPITOLO XVIII — § 111
e la nostra equazione diventerà :
dz
K^Ì'^'0=^'
che è del primo ordine perchè vi compare solo la derivata prima
dv
della funzione incognita- -^. Dedottane la z =^ ~ come funzione
dx
9 iy) della ? = y, con una costante arbitraria (7, si dovrà poi
:he
dt/
/;
X =z cost.
9iy)
come una nuova costante arbitraria.
Sia data, per esempio, l'equazione
y-^y'' = 0.
Se y = cost., è ?/ = 0 ; questo solo caso eccettuato, si potrà
porre y=^^,y=^z: cosicché l'equazione data si ridurrà alla
^d^ -\- z dz =^0
e integrando :
— H cost
2 2
e cioè :
0 ,2 /-il
2 2 2 '
da cui
i7i/
l->0'-,f.
(C=cost.)
Separando le variabili
dy
Vc'^-y'
e integrando :
= dx
I
arcsen -— = a? 4- (/, // = C sen {x -^ d),
C
dove d è una nuova costante arbitraria. Dunque anche nell'in-
tegrale generale di quest'equazione del 2** ordine compaiono due
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 373
costanti arbitrarie. In quest'ultima forinola è inclusa anche la
soluzione ?/ = 0, che avevamo finora escluso ; ciò che si rico-
nosce, ponendo (7=0.
Esempi.
V Integrare l'equazione y = xy' -h cp (y) [cp funzione de-
rivabile].
Ris. Derivando entrambi i membri si ottiene:
y' = y' -^ xy" -4- ^ (y) y" ossia y" [x -+- '/ {y')] = 0.
Sarà dunque y" := 0 oppure a; = — cp' (y).
Nel primo caso y = mx -f- n (m, n costanti) ; e, sostituendo
nella data equazione, si trova mx -h n = mx -4- cp (m), ossia
n=^ '-p (m) e quindi
y z=L mx -f- cp (w) (w = cost. arbitraria). (a)
Se invece a; = — cp' (?/'), si ponga y' = f ; ricordando la data
equazione si trova :
^ = — T (0; ^ = — ^ T (0 + T (0.
L'eliminazione della i tra queste due equazioni darà una
nuova soluzione della nostra equazione, se da esse si deduce
y z=L ^ =: t; perchè allora la 2"" si riduce proprio all'equazione
U/ X
data. E infatti se ne deduce (se cp" (t) -- 0)
dy^—^'(t)-t^''{t)-i-^'{t) ^
dx — T"(0
Se non eliminiamo la t, le precedenti formole definiscono
la soluzione in forma parametrica; basta infatti far variare t
per dedurne le coppie di valori compatibili delle x, y.
Queste due equazioni si possono considerare come le equa-
zioni parametriche di una curva f.
La retta tangente a f in quel punto di f, che corrisponde
al valore m della t, ha per equazione (a). Cioè la curva f è
la curva, le cui tangenti hanno per equazione (a), cioè è la
curva inviluppo delle rette (a).
Si noti che, se si volesse dalla data equazione dedurre y'
come funzione delle x, y, la y sarebbe una funzione implicita
delle X, y, a cui proprio lungo f non sono applicabili i teoremi
del § 84, perchè lungo f è nullo cp' (y) -+- x, che è appunto
la derivata parziale del primo membro della nostra equazione
rispetto ad /. Perciò f si dice la soluzione singolare.
374 CAPITOLO XVIII — § 111
2° Integrare Tequazione y ^:^x^ {y) -\- cp {y') (cp, ^ funzioni
derivabili).
Ris. Derivando si ottiene :
Posto y' = t, se ne deduce
dt ^^t—i^it) t—^{ty
escluso il caso ^ (t) = t, che abbiamo già trattato all'esempio 1"*.
Questa equazione, in cui si considera t come variabile indi-
pendente ed X come funzione incognita, è un'equazione diffe-
renziale lineare del primo ordine che già sappiamo risolvere.
E si trova
X
ìM
^ (t) dt -f- cost. )
L'equazione differenziale dà poi ,
y = x^{t)-^^ (0.
Restano cosi espressi x, y in funzione di un parametro t ;
e con un'eliminazione si potrebbe (volendo) dedurne la y espressa
du
in funzione di x. Si verifichi che effettivamente -^ = ^.
dx
3** Integrare
{ax -^- ly -\- e) dx -^ (hx -h ky -+- l) dy =^ 0
{a, b, e, II, k, l = cost.).
Ris. Posto x^=E,'i-m, y^=fi-^n (m, n costanti), V equa-
zione diventa :
ove :
(aE, -h bf] -\- \i) d^ -h (hi -f- ^Y) -h X) ^Y] = 0
|x = am -4- 6n -h e, "k = hm -h hn -h l.
Se ak — bh =¥= 0, si possono scegliere le m, n in modo
che X = ji = 0.
L'equazione diventa:
(ai H- ÒY]) d^ -i- (H + ^'n) dri = 0,
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 37 5
che è omogenea di primo grado ; e quindi le variabili si separano
fi
tosto assumendo t ^^ ^ come nuova variabile al posto di v], ecc.
Sia invece ak — bh=^ 0. Sea=^h=^h=^k = 0 l'equa-
zione si risolve immediatamente. Se così non è, almeno una delle
due espressioni ax -\- by -\- e o hx -^ ky -{- d, p. es. la prima,
non è identicamente costante. Postala uguale a t, la nostra equa-
zione diventa:
tdx -+- ipt -^ q) dy=^0 (p, Q. ^= cost.).
Posto al posto della x o della y i valori che si traggono
dalle ax -h bi/ -\- e ^= t, la nostra equazione diventa del tipo:
(a^ -h P) dx + (yt -¥-h)dt = 0
oppure :
((xt H- P) 6^?/ -h (yt -+'h)dt = 0
(a, P, T, ^ = cost.)
che si integra subito, separando le variabili (dividendo per
(xt -+- p).
Altri Esempi.
V Integrare le equazioni :
y'' = P{x)y'-^Q(x);
y^-^ = F ix) y'""-'' + Q {xl (Si ponga z = f/^"-^>).
2^ Integrare il sistema di equazioni (ove s è la varia-
bile indipendente) :
x'^ -h t/'^ = 1 x'^l -h 2/'1 =-k' (k = cost.).
Si potrà porre per la prima equazione x = cos ^, y' = sen z ;
e, sostituendo nella seconda, si trova :
^'2 :=::^ j^- ^ doudc / = ± ^, ^ = ± A:5 "H /^ (/« = cost. arbitraria).
E se ne trae : ^ = J cos (± ^s H- ìì) ds,y=^ j sen (± ks -4- h) ds,
dove è poi da distinguere il caso ^ = o da quello ^ =4= 0.
v"
3° Risolvere l'equazione ^-^ — ^ i= A: (^ = cost.).
376 CAPITOLO XVIII — § 111-112
Si può seguire il metodo dato in questo §, ^, ponendo y' = z.
Più brevemente si procede ponendo y'^^ =^ tg z, donde y" = — 2~'
^ cos z
1 -4- v" = —^ir- . L'equazione diventa :
cos-^^
/ cos 2 = k ; (sen z)' =^ k; sen ^ = kx H- /i (/i = cost.).
donde:
kx -\r li j • r {kx -f- /^) óZìi;
y
kx -ì- fi , • r \^^
tg ^ = , — edy=^ ,— —
\/l—ikx-^hy J]/l — (/i::r-h/^)'^
che si integra tosto, assumendo 1 — {kx 4- h)^ (se ^ =1= 0) come
nuova variabile di integrazione. E si trova che le curve y^=^y {x)
cercate sono rette (per k = 0), o cerchi di raggio — - (per k =!= 0).
k
4^, Risolvere l'equazione y =^ P{x) y -h Q {x) y'".
Si divida per y'" e si assuma z = ^^_^ come nuova fun-
zione incognita. Saremo ridotti al caso studiato in questo §, p.
§ 112. — Teorema di Cauchy e integrazione per serie.
a) Vogliamo ora fermarci un momento a studiare più da
vicino il significato delle costanti arbitrarie che figurano nella
soluzione di un'equazione differenziale.
Se consideriamo, p. es., l'equazione differenziale più semplice:
del primo ordine, la funzione :
y z=z f{x) dx -\- cost.
che la soddisfa, contiene una costante arbitraria ; ed è noto che,
se fissiamo il valore h che questa funzione y deve avere per un
certo valore a della variabile, allora la costante, e in conseguenza
la y, restano completamente determinate. Si ha appunto:
y= f{x) dx
J a
In altre parole: nella risoluzione di questa equazione com-
pare una costante arbitraria ed esiste una ed una sola funzione
che le soddisfi e che per x ^= a assume il valore b.
^ " EQUAZIONI DIFFERENZIALI 377
Negli altri tipi di equazioni del primo ordine da noi consi-
derati, l'integrale generale contiene pure una costante arbitraria;
in quelle del secondo ordine l'integrale generale ne contiene due.
Date le equazioni differenziali (del secondo ordine), che
definiscono i movimenti in un sistema di punti, le traiettorie
sono univocamente determinate quando di ogni punto siano date
la posizione e la velocità iniziale (cioè sieno dati per un certo
istante i valori delle coordinate di ogni punto e delle loro
derivate prime). Questo teorema è ben famigliare a chi abbia
studiati anche i soli primi elementi della Meccanica Razionale.
Queste osservazioni sono caso particolare di un celebre teo-
rema di Cauchy, che si potrebbe dimostrare col metodo delle
approssimazioni successive, già da noi usato al § 84, P, pag. 279,
e in qualche caso col metodo degli sviluppi in serie di potenze,
come accenneremo più avanti.
Se è data Vequazione differenziale
y"" = 9 (X, y, y', , y*-''), ^
dove 9 è {in qualche campo) una funzione continua e finita insieme
alle sue derivate del primo ordine rispetto alle x, y, y\ , y^°~^^:
1° Esistono infinite funzioni y che le soddisfano,
2^ Esiste (in un intorno abbastanza piccolo di x = a) una
ed una sola funzione y che le soddisfa e tale che per x = a
essa e le successive derivate y'? y", ....;, y^"~^^ assumono rispet-
tivamente valori prefìssati ho, bi, b2 > bn_i (*), dove le a e
le b sono arbitrarie e sottoposte aW unica condizione che in un
intorno del punto
x = a, y==bo, y' = bi, , y^"-^^ z=: bn_i
la ^ e le sue derivate prime sono finite e continue.
E sottinteso che, se la cp non soddisfacesse a questa ultima
condizione, l'affermazione di questo teorema potrebbe benissimo
essere falsa (**).
(*) Cioè per x = a è y = 'bo, ?/=:b„ il" = 1.2, , ?/(«-^)=:&„,_i).
(**) Così, p. es., per un punto A = {a,h) delia curva r dell'es. 1» del § 111,
pag. 373, escono due curve (la F, e la retta tangente a F in ^) che soddisfano
all'equaz. studiata in tale esempio. Ciò esistono due funzioni- y {x) soddisfacenti
a tale equazione, le quali per x=^a assumono il valore b.
Dunque nell'intorno di x-=a, ìj = b non si può risolvere tale equazione
rispetto ad y', deduceudone y' come funzione continua con derivate continue
delle X, y. Abbiamo verificato infatti che in tale punto non si può applicare il
teorema delle funzioni implicite.
378 CAPITOLO XVIII — § 112
Si noti che, nell'enunciato di questo teorema, F equazione si
suppone risoluta rispetto alla derivata di ordine massimo.
Questo teorema consta di due parti: una che afferma l'esi-
stenza, l'altra che afferma la unicità di tale funzione y.
P) Vediamo ora pertanto un metodo abbastanza generale di
integrazione delle equazioni differenziali, che può riuscire utilis-
simo quando non siano applicabili altri metodi.
Si abbia l'equazione differenziale:
y<-> = ^(x,y,y\y'\ , ;/"-^>) (1)
dove il secondo membro possegga finite e continue tutte le de-
rivate, e sia sviluppabile in serie di potenze di x — a, y — h,
y' — K ,2/'"-"-6„-..
Consideriamo allora il punto a; = a e supponiamo svilup-
pabile l'integrale ignoto y neirintorno del punto a mediante
la serie di Taylor:
y = y,-^(x — a) y\ H- -4- i^^ y^^> -4- (2)
n %
dove 2/o, y\t ecc. sono i valori di y^ y', ecc. nel punto x = a.
Intanto della nostra equazione differenziale (1) è facile, deri-
vando successivamente, calcolare y^''\ y^'^'^^\ y(^+'^) in fun-
zione di x,y^y y^""'^^-
Infatti, derivando rispetto alla x la (1), si ottengono equa-
zioni del tipo seguente:
y'''^'' = ^Ax,y,y\ , ^"0 («)
y'^^'' = ^Ax.y,y\ ,^^ + ^0 (P)
Ora, se poniamo in <^i al posto di y^""^ il valore dato dalla (1),
in epa al posto di ^/^"^ e y^'^^^^ i valori dati rispettivamente dalla (1)
e dalla (a), nella successiva ^^ al posto di y^''\ ^""^^^ e ?/^""*"^^
i valori dati dalle (1), (a), (P) e così di seguito, otteniamo appunto
espresse solo mediante y, y\ y\ , y^'^'^K Dati quindi ad arbitrio
per x^=^Xq i valori òo, 6i, , ò^-i delle y, y\ , y^''~^\
si potranno calcolare i valori che per a; = a assumono y"^, y~^\
2/'"+^
Sostituendoli allora nella (2) si ha una funzione y data sotto
forma di una serie ordinata secondo le potenze di ce — a, e nella
quale compaiono le n costanti arbitrarie 6o, ^i, ? &«-i-
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 379
Ora questa serie è convergente (come ha provato Cauchy)
in un certo intervallo comprendente il punto a; = a, si può
derivare per serie, e rappresenta precisamente quella soluzione y
della (1) tale che y,y\ , y^''~^^ per x^= a assumano i valori
prescritti &o, ^i, , ^n-i-
Se la 9 non fosse sviluppabile in serie di potenze, come
abbiamo ammesso, si potrebbero ancora in casi generalissimi
dimostrare i teoremi di esistenza e di unicità, p. es. col metodo
delle successive approssimazioni, di cui abbiamo già trovato
una importante applicazione nella teoria delle funzioni implicite.
Esercizi.
1^ Integrare per serie l'equazione y' =^ y.
Ris. Si ha y' = ?/, y" = y' = y, y'" — y" — y' — y ecc.
in generale ?/^"^ = y. Posto che y ^=k per a; = 0, si trova
(ce 00 \
1 -h — - -f- 7^ — ^ ) =/f:e^ come già sapevamo.
2^ Integrare per serie l'equazione y" ±y = 0.
§ 113. — Primi tipi di equazioni lineari
alle derivate ordinarie a coefficienti costanti.
Oss. Il lettore, a cui non interessi il caso generale, potrà omettere io studio
dei seguenti tre paragrafi, sostituendo loro questo unico § 113. Paragrafo che invece
potrà essere omesso da chi studii senz'altro il caso generale. È in ogni caso racco-
mandabile la lettura dell'esempio 4* al § 117.
1° Sia data l'equazione del primo ordine
y'-i-py=0 (p = cost). (1)
Le sue soluzioni sono date dalla
y =z Ce-P"^ {C = cost. arbitraria). (2)
Si noti che nell'esponente — px il coefficiente della x è — p, e che — p è la
radice dell'equazione caratteristica
c-{-p = 0 (3)
ottenuta da (1) ponendo al posto di y' e di y la c^ = e, e la c° = 1, essendo e la
incognita.
2" Sia data l'equazione
y" -i-py' -\-qy = o {p, q «ost.). (4)
Se a, (5 sono le radici dell'equazione caratteristica
c^-i-pc-hq — O (5)
ottenuta, scrivendo 1, c,c^ al posto di y, y', y" (e essendo l'incognita), sarà
l/F
?=-|- W-T-i-
380 CAPITOLO XVIII — § 113
La (4) si può scrivere:
0 ^ 7/" - (:. -h i5) if' -h cL^y ■
= in' — ^y)' — f' Of — ^ìi)-
Cioè, posto
Z =^ }f' — OLÌJ,
(6)
la (4) diventa:
z' -^ ■iz — O.
(7)
Da (7), si trae:
z = Jce^'' {k = cost. arb.).
Da ((3)
1/ = oLy -f- l-eA''
cosicché:
y = e \ Tic dx + li \ (Jc, h = cost. arb.).
I. Se a =3 15, cioè se ^ — q, se ne deduce
?/ z= e^-^ {C^x-h C,) (0, — Jc; C,= h cost. arbitrarie).
II. Se oc =!= f^
y ~ e e -h h]
7/ = e, e =^-^ 4- C^ e 3.^ ( C, = /«; C^ == 7-^ cost. arbitr.V
Questa forinola, se oc, ;5 sono reali, ci dà tutte le soluzioni reali di (4) quando
vi si diano a (7,, Cj valori reali arbitrarli. Si noti però che (anche se, come sup-
poniamo, p e q sono reali) le a, ^ possono essere complesse, ciò che avviene
p^
se <Z — T- > 0. L'ultima formola continua però a essere valida anche in questo
caso, e ci dà, se noi diamo alle C^, C.^ valori complessi arbitrarli, tutte le soluzioni
reali 0 complesse di (4).
Scegliamo quelle di tali soluzioni che sono reali. Bisognerà a tal fine che,
mutando i m — % la nostra y resti inalterata. Ma, se noi scambiamo t in — i,
le a, j5 (che valgono — | ± è l/ g r\ si scambianoxtra loro. La nostra solu-
zione saràrcaZe allora e allora soltanto che C, si ottenga da C^ scambiando i in — i\
cioè allora e allora soltanto che C,, Cj sono immaginarie coniugate.
Posto dunque C^ — -^ ^1 + ^r ?^'i, C, ~ — A-, ih.;,, dove A-,, k^ sono
costanti reali arbitrarie, la
= ( — A;, — — ikA e *" ! cos F g — ^- a; 4- i sen 1/ g' - ^^ .r
■\-\-^k^-{r—ik\ e " i cos 1/2 — ?^ ic — isen 1/^— -^ a-j
_2x r -|
— e j A;, cos ]/ (2 — X ^ + ^"2 ^^^^ V q —^ x \
dà tutte e sole le soluzioni reali della nostra equazione.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 381
§ 114. — Primi teoremi sulle equazioni differenziali lineari
(alle derivate ordinarie).
Si dicono equazioni lineari le equazioni del tipo
tf'^ + p, ix) y" -'^ -hp2 (x) y^"" -'> + .....+
-^Pn{x)y — f{x), (1)
(perchè di primo grado nelle y, y\ , ^"0, dove con pi, p2, ,
Pn, /'indichiamo funzioni arbitrarie delle x. Se f{x) =^ 0, l'equa-
zione si dice omogenea, perchè in tal caso manca il termine f (x)
di grado zero nella y e derivate. Noi abbiamo al § 111, P, stu-
diato la (1) nel caso n= 1, cioè nel caso di un'equazione del
primo ordine. Supponiamo che yi, y^ siano due integrali della (1)
non omogenea. Sarà :
^r^-+-i>i2//"~'"+ ^iOny. = f{x) (2)
yr -^P.y^-'' -4- -^Pny. = f{x) (3)
Sottraendo (3) da (2), si verilica tosto che ^ = ?/2 — yi
soddisfa all'equazione
z^''^ 4- Pi /' - '^ -4- -\-pn^iz\-\-p^z = {) (4)
omogenea, che si deduce da (1) ponendovi f {x)^=^0. Se dunque
y è una particolare soluzione di (1), ogni altra soluzione di (1)
è del tipo y -4- z, dove z è una soluzione di (4). E viceversa,
se y soddisfa ad (1) e ^ a (4), anche y -\- z soddisfa ad (1).
Dunque per cercare tutte e sole le soluzioni della (1) non omo-
.genea, basta conoscerne una sola soluzione : tutte le altre si otten-
gono sommando con essa tutte le soluzioni della (4) omogenea,
Lagrange ha dimostrato, come vedremo meglio in seguito,
che, se si sa risolvere la (4) omogenea, è sempre possibile trovare
una soluzione della (1) non omogenea: e quindi, per quanto
precede, che si sa risolvere pure la (1) sapendo integrare la (4).
Vediamo quindi di studiare l'equazione omogenea:
yn) ^_^^y»-l) ^ -f-^^^y = 0 (5)
Se Zi è una funzione che la risolve, è facile vedere che pure
ki Zu dove ki è una costante affatto arbitraria, è una soluzione
dell'equazione; e infatti:
ki Zi'""' -h Pi ki Zi''' - '' + -h p^ ki Zi =
= k, {zr -4-i>i;?/"-^^+ -^PnZi) = 0.
poiché il secondo fattore compreso tra parentesi è zero (essendo
la Zi una soluzione dell'equazione).
382 CAPITOLO XVIII — § 114-115
Si ha ancora che, se ^i e ^2 sono due soluzioni dell'equazione,
l'equazione sarà pure soddisfatta da Zj^-\- Zi. E infatti:
(^1 -\- ^2)^"^ -4-i?i (^1 -4- z.T~^^ -^ -4-i?n (^1 + ^2) =
= ^/"> + ^,^'^>+i?l^/"-^> +^^^.;— 1)+ _^^^^^_^^^^^^
poiché i due termini fra parentesi deirultima somma sono
entrambi nulli, essendo Zi e ^2 soluzioni dell'equazione. Da
quanto precede possiamo concludere che, se ^1, k^^ , ^n sono
costanti tutt'affatto arbitrarie, e «s-i, ^2, , z^ sono soluzioni
dell'equazione, sarà pure:
yz=k^zx (x) -4- k^ ^2 {x) -F -f- /5:„ ^,, (x) (6)
una soluzione di (4). Poiché la (6) contiene proprio n costanti
arbitrarie, sorge spontanea la domanda se, al variare delle k,
la (6) rappresenti ogni integrale della (5), 0, in altre parole,
se la (6) con le ^ = cost. sia V integrale generale di (5).
La (6) è una sola equazione lineare in n quantità k. Data
la y^ essa si può risolvere, se n> 1, in infiniti modi. Si do-
manda pertanto: Se anche y è una funzione che soddisfa a (5),
vi è tra queste infinite soluzioni una soluzione, per cui tutte
le k siano costanti? Premettiamo alcune considerazioni di indole
generale.
§ 115. — Un lemma.
Siano y, Zi, Z2^ , z^ n -\- 1 funzioni della x, per le quali
ammettiamo soltanto che posseggano le prime n derivate.
Noi vogliamo determinare altre n funzioni ki, ko, , kn
della X tali che valga la :
(1) y = ki Zi 4- h Zo -f- -f- kn Zn
e valgano pure le :
y' = ki z'i -h k. z'. -4- -+- kn z'n
y" = ki Z\ -+- h ^"2 + + K A
(2)
-r
y»-«=^l^/''-'>+^,^2<"-"+ +^„ «„"•-"
OsB. Le (2) sarebbero conseguenza di (1), se le Te fossero costanti, cosa che
però in generale non sarà.
Le (1), (2) formano un sistema di n equazioni lineari
nelle n incognite k. La regola di Leibnitz-Cramer ci assicura
EQUAZIONI DIFFERENZIALI
383
della loro risolubilità in un modo e in uno solo, se il determi-
nante dei coefficienti delle incognite k
W =
^2
^«
/l
/2
, ,
.../„
/'l
/'2
••
...A
^Z"-
-^>^/-
-1)
...'^„'»-'>
è differente da zero. Tale determinante si chiama il Wronskiano
delle z. Possiamo dunque determinare le k soddisfacenti ad (1),
(2) se il Wronskiano delle ^ è differente da zer(^.
Le k così determinate, se y è arbitraria, non saranno gene-
ralmente costanti, ma soddrsferanno ad alcune equazioni, le quali
dicono che la y definita da (1) soddisfa a (2).
Derivando (1) e confrontando con la prima delle (2) si trova che
y' = (ki z\ -4- ^2 -^'2 -+- -+- kn /„) -4- (^'1 ^1 -h k'. Z2 +
+ -+- k'n ^n) = ki Z\ -\- k^ Z\ -+- -\- kn z' n-
Sarà pertanto
(3) k\ Zi 4- k'^, z^ -h -h ìin ^n = 0.
Nello stesso modo, confrontando la derivata di ciascuna delle
equazioni (2) (l'ultima esclusa) con la seguente equazione (2),
si trova
(3)
bis } i^ \^ \
k'.^z'
2-^2
rC o. Z
+
~^k nZ n = 0
-4- k\ Z\ = 0
k 1 Zi
(n — 2)
k^n Zo
in -2)
2 "^2
-h
^' ^ (n - 2)
0.
Viceversa, se le k' soddisfano alle (3) e (3)bi6 la y definita
da (1) soddisfa alle (2). Derivando l'ultima della (2) si ha:
~T" ti^n. Z^
in)
(n - 1)
^<"> =Z ki ^/"^ -f- k2 Zt' +
-K k\ Zi'""-'' + k', W"- '' H- Z:V ..
Indicando con pi, jp^, , Pn funzioni arbitrarie della x, da
questa equazione, dalle (1) e (2) si deduce immediatamente che:
y
in)
(n-1)
-^Pty
{n-2)
Pn-lV -^PnV =
■=-ki{z^''' ^PlZ^^-'' -\- -\-pr.-iZ\ -\-pnZi\ -4-
+^2^"^ -\-piZ^^-'' -\- +i?._i^2 -^Pn^A 4-[
-4- kn K^"^ -hi?l Z^'' -^^ ^ -\-p^ _ 1 Zn -\-pn ^n] "^ \
(4).
^'l-STi
(n — 1)
(n-1)
-4-
fv yj ^^
(«-1)
384 CAPITOLO XVIII — § 115-116
Un caso particolare notevole è il seguente: Se T equazione :
z(n)_l-p^z(n-i) ^ p^z(a-2) _^ -4-p,_iz' -|-p,z = 0,
è soddisfatta dalle n funzioni Zi, Z2, , Zn a Wronskiano
diverso da zero, allora per ogni funzione y derivabile n volte
si possono trovare delle funzioni k di x cJie. soddisfano alle
(1), (2). Le loro derivate k' soddisferanno alle (3), (3)bi3 e alla
(4), c/^e >2e//a nostì'a ipotesi diventa semplicemente
y(") ^_ p^y(n-l) 4-.,p,y<-^> + + p_ , y' -+- p„ y = |.
= k\ Z/^ - ^^ -f- k', Z2^^ - ^^ + + k'n Z„^" - ^> i^^^'^^-
^e le k' soddisfano alle (3), (3)bis, la y definita da (1)
soddisfa naturalmente anche alle (2) e (4).
§ 116. — Nuovi teoremi
sulle equazioni lineari alle derivate ordinarie.
Applichiamo il lemma precedente alla domanda posta al
§ 114. Le Zi, z-i, , Zn siano n soluzioni a Wronskiano difte-
rente da zero della equazione omogenea
Anche y soddisfi a tale equazione ; sia cioè
(Dms ^^"^ +i>i y^"'^ + -^p^'-'y' H- Pn y = o:
Si scriva la y nella forma (1) del precedente lemma: sarà
per le (3), (3)bi9 del lemma stesso
(2)
k\zi 4- k'. z. -+- -h Jc'n z,, =^ 0
lìr z\ + k'. /, -\- -4- k'„ z\ — 0
( k\z,^"-'^-^k',z,'''-'' -^ ^k\,Zn'''-'' = 0
mentre la (4)bis del lemma diventa nel nostro caso in virtù
di (l)bis
(3) /^\.aV"-'^ 4- k',z^}"-'' -4- -4- //„,e'-^> = 0.
Le (2), (3) formano un sistema di n equazioni lineari omo-
genee nelle k\ in cui il determinante dei coefficienti delle inco-
gnite è il Wronskiano delle z che per ipotesi è diiferente da
zero. Dunque (§ 27) le k' sono nulle, cioè le k costanti. Pos-
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 385
siamo dunque rispondere aifermativamente alla domanda che
chiude il § 114 affermando che:
Se sono note n soluzioni Zi, Z2 Zn della equazione omo-
genea (1) od (l)bi8, ^ Wronskiano differente da zero, tutte le
altre soluzioni y sono le loro combinazioni lineari ki Zi -+-
H- k2 Z2 -h -f- kn Zn a coefficienti k costanti.
Ma i nostri risultati permettono di affermare di più. Sup-
poniamo che y soddisfi non all'equazione omogenea (l)bis, nia
all'equazione non omogenea.
(4) y-^ -hp.y'^'-'' -4- -hpn-iy' -^p^y=f{x),
ferme restando le altre ipotesi sulle 2. In tal caso, come sopra,
si potranno ancora scrivere le (2), mentre la (4)ins del lemma
diventa:
(3)ms k'.z,'''-'^ -4- 7/2^2^"-'^ -^ + k\,z^'^-'^ = f{x).
Le (2) e le (3)biB formano un sistema di n equazioni di
primo grado nelle k\ che si possono risolvere con la regola di
Leibnitz-Cramer, perchè il determinante dei coefficienti delle
incognite è il Wronskiano delle z, differente da zero. Si possono
così determinare le k' e quindi con n integrazioni (una per
ognuna delle k') dedurne i valori delle k. Ognuna delle k porta
perciò l'indeterminazione di una costante additiva ; cioè, se K è
un integrale indefinito della k',. testé determinata, si ha :
kr = hr -+- Cr {Cr = costautc arbitraria).
Cosicché sarà :
y :=^kxZi -^- /i-o Z-z -4- ..... 4- kn Zn =
= ihi Zy -h h2 Z2 -h -f- hn Zn) "H (Ci Zi -+- C-. Z-, 4" "f" Cy Zy).
Il secondo addendo del terzo membro è una combinazione
lineare delle z, a cofficienti costanti e, da scegliersi in modo
qualsiasi, cioè è una soluzione qualsiasi della equazione omo-
genea (1) od (l)bi8. E ciò è naturale perchè al § 114 abbiamo
già visto che da una soluzione di (4) si passa alla soluzione
più generale, aggiungendo ad essa la soluzione più generale
della equazione omogenea corrispondente. Quindi:
Se le Zi- sono le n soluzioni a Wronskiano differente da zero
dell'equazione omogenea (1) od (l)bi8, la soluzione più generale y
dell'equazione (4) non omogenea si ottiene ponendo y = ki Zi -f-
4- ko Z2 -\r 4- kn Zn, ove le k siano integrali di quelle fun-
25 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
386 CAPITOLO xviii — § 116-117
zioni k\ che si ottengono risolvendo le equazioni (2) e (3)bi6,
algebriche lineari nelle k'.
Si noti, che, se f(x)=^0, la (3)bis si riduce alla (3); le
(2) e le (3)bis dicono ^' = 0; cioè ^ = cost., come avevamo
già osservato.
Il metodo qui svolto di integrare la (trovare le soluzioni della)
(4) si chiama metodo della variazione delle costanti arbitrarie,
in quanto che alle k, costanti arbitrarie nella formola che
risolve (1), si sostituiscono convenienti funzioni di x nella for-
mola che risolve (4).
§ 117. — Equazioni lineari omogenee a coefficienti costanti.
a) Supposte ora le pt costanti, cerchiamo se una funzione
y = e** (dove e = cost.) può soddisfare alla :
y''' ^Piy'"-'' -^P2y'^-'' -+- -\-p,y = o. (i)
Si osservi che dalla y = ce""" si deduce :
y' = ce'''; y" = r e^"; ; ^"^ = e" e'\
Sostituendo in (1) si trova che deve essere:
e^^(c" -4-^1 e"-' -f-jt?2c"-' -4- -hpn-ic -4-^J = o^
e, poiché e""" non può essere zero, dovrà essere nullo l'altro
fattore; dunque, affinchè y = e'* rappresenti una soluzione parti-
colare dell'equazione, è necessario e sufficiente che e sia una
delle n radici dell'equazione algebrica (detta equazione carat-
teristica) :
e" 4-j9iC"-' -+-i?oc"-' -4- -hpn-ic-^pn = 0, (2)
la quale si forma dall'equazione diiferenziale, ponendo in luogo
di ^ e delle sue derivate successive le potenze successive delle
incognite e. Si noti che al posto di y è posto c^ = e, ed al
posto di^ la c^ = 1.
Se dunque noi risolviamo la (2) e supponiamo che le sue n
radici siano tutte reali e disuguali,
le funzioni: *
e'^"", e^^^■ e'n^
rappresentano altrettante soluzioni particolari distinte dell'equa-
zione diiferenziale.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI
387
E perciò, se dimostriamo che il loro Wronskiano, cioè il
determinante formato con queste soluzioni e le loro derivate sino
a quelle di ordine yi — 1, è diverso da zero, potremo affermare,
giusta la teoria sviluppata di sopra, che l'integrale generale
della (1) è:
y = k, 6^'
Jcn e'-""
(Jki = cost.).
Ora il determinante di cui si parla è effettivamente diverso
da zero, perchè esso è:
jCja;
yH^
e^n
Ci e'''
Co e
C-ìX
Ci"-' c''^C2"~' e''^
:-'é'-''
che (raccogliendo a fattor comune le é"^"^, , e''»*'^ che compaiono
nelle singole colonne) si dimostra uguale a:
Ci
ci
1
C2
1
Cn
2
Cn
Ci
U"
di cui il primo fattore è un esponenziale, e il secondo fattore,
che è il cosi detto determinante di Vandermonde o di Cauchy,
è uguale (§23, pag. 76) al prodotto- delle differenze delle e com-
binate a due a due fra loro in tutti i modi possibili; quindi
esso non può essere zero, a meno che due delle e non siano
fra loro uguali, ciò che noi abbiamo escluso supponendo le radici
della (2) tutte distinte.
Esercìzio.
Sia per esempio l'equazione:
y" — ^y' + 2y = 0.
Le radici dell'equazione caratteristica
3c
0
sono i numeri 1, 2.
388 CAPITOLO XVIII — § 117
Due integrali particolari sono perciò:
X 2x
e, e,
e l'integrale generale dell'equazione è:
ae' -}- be'"
dove a, b sono costanti arbitrarie.
P) Immaginiamo ora che le n radici Ci, Co, , c„ (che ancora
supponiamo reali) non siano tutte distinte. In tal caso, col metodo
precedente si ottengono n integrali particolari, che non sono
distinti ed hanno quindi un Wronskiano nullo. Non si trova
perciò più l'integrale generale per la via precedentemente seguita.
Ora si può mostrare che, se Ci = Co, allora è vero che si
perde un integrale particolare perchè e'''"' diventa uguale a e"'*,
ma se ne acquista un altro, e cioè:
y = ^e^.^ (*)
Infatti dalla precedente uguaglianza si deduce
y' = e'^' -4- xci e^^'
y^^ = 2ci e^^" + xcl e''''
y'" = 3c'j e^'" -h xci e^»"
E, sostituendo nell'equazione diiferenziale data, si trova:
{xc\ e''"" -h -\-:pn-2c\ xe''"" -^Pn-i Ci xe''"" -4- jpn xe''"") -+-
= a;e'»''(cr + -^pn-^ci 4-jp„_i Ci +^n) +
+ e'^'^ncr-' -I- 4- 2i?,,_2Ci -l-i?„_i) = 0.
La quale relazione è effettivamente verificata se Ci è radice
doppia, perchè allora per e = Ci si annulla non solo il primo
membro dell'equazione caratteristica, ma anche (§ 64) la sua
prima derivata rispetto alla e, cosicché ciascuna delle
Ci" +i?lCi''~^ -4- -^ 'Pn-lCi -^ Pn,
nci''-' 4- (w— l)i;icr"' 4- 4-i?„_i
è nulla.
(*) Si noti che, se c^ =i= c„ evidentemente alle soluzioni e''»'*, e^^^* possiamo
ituire la e^i* e la . La i
c^ — e,
tende precisamente ad ic e ^i* per c.^ = e,.
sostituire la e^i* e la . La seconda, pensata come funzione di Cj,
C^ Ci
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 389
Così, in generale, si può dimostrare che, se Ci è radice mul-
tipla d'ordine k,
pCias c,.r 2 CiX k - 1 c,x
sono tutti integrali particolari dell'equazione.
Riassumendo: ogni radice d'ordine k dà luogo a k integrali
particolari, che, insieme con gli altri integrali derivanti dalle
altre radici, sia multiple, sia semplici, costituiscono n integrali
particolari dell'equazione.
Di più si potrebbe far vedere che gli integrali così otte-
nuti hanno il Wronskiano non nullo: con le loro combinazion
lineari si ottengono quindi tutti e soli gli integrali dell'equa-
zione (*).
Y) Dobbiamo finalmente considerare il caso che le radici
dell'equazione caratteristica non siano tutte reali.
Se ci limitassimo a considerare funzioni reali, la soluzione
y = e""*, dove e ^^ a -\- ib è una radice complessa dell'equa-
zione caratteristica, non avrebbe per noi alcun significato.
Ma se teniamo conto anche di funzioni complesse, potremo di-
mostrare che 6^"+''^^* è ancora un integrale (complesso) della nostra
equazione. Infatti tutti i nostri ragionamenti hanno usato sol-
tanto delle regole del calcolo algebrico, delle regole di deriva-
zione di una somma, di un prodotto, e dell'esponenziale e""" (e = cost.),
che continuano a valere (cfr. §§ 55-60 e particolarmente pag. 188)
anche nel campo delle funzioni complesse della x.
Cosicché, lanche nel caso di radici complesse dell'equa-
zione caratteristica (2) vale il teorema: Se Ci, C2, , c„ sono
le radici tutte distinte di (2), la più generale funzione (com-
plessa) che soddisfi alla (1) è ki e*'''' -4- k2 e'''^ -4- kn e^'i»'' dove
le k sono costanti arbitrarie (complesse). Se invece vi sono
radici multiple^ e, per es., Ci è radice di ordine r, si debbono
assìcmere a integrali particolari corrispondenti
e^'^xe^'^...x^-'e'''^
(*) Riferiamoci all'ultima nota a pie di pagina, in cui sì sono supposte due
sole radici uguali e, = c.^. Alle soluzioni e''»*, 6*^^* si sono (se e, =^ Cj) sostituite
le e ''i^, . Il Wronskiano delle nuove soluzioni è uguale al quoziente
Cj e,
ottenuto dividendo per e, — e, il Wronskiano delle soluzioni iniziali. Questo valeva
il prodotto di e^^i + "2 + — + t;„>a; per il prodotto delle differenze a due a due Ci ;
esso perciò, diviso per e, — Ct, ha un quoziente, che per C2 = c, tende a un limite
diverso da zero. Questo limite è il Wronskiano delle e *^i*, x e*^'^, ecc. ed. d.
Dimostrazione analoga vale nel caso generale.
390 CAPITOLO XVIII — § 117
Per questa via abbiamo trovato tutti gli integrali, anche
complessi, di (1). Vogliamo trovare quelli di essi che sono reali,
supposto naturalmente che le pi sieno costanti reali. In tal caso,
se (2) ha una radice complessa semplice a -\r ih, essa ha anche la
radice complessa coniugata a — ih; cosicché insieme alFintegrale
g(a+i?>)^ vi sarà anche l'integrale é^"'^^''. Si debbono ora sce-
gliere le costanti ^i = ^j -f- i mi, k^ = Ì2 + i ^2 (/, m = cost.
r^ali) in guisa che ^1 e^""^"'^* -h ^2 e^""*''^'' sia reale, ossia non
muti mutando i in — i. Si debbono in altre parole scegliere le
costanti ?, m in guisa che
ih -+- im,) 6^'^ + ''^=" H- (^2 +' m.) é'-''^'' = ■
= (li — mO e^"-'''^" -f- ik — im.) e^^^''^\
Ciò avviene allora e allora soltanto che ki e ^2 sono imma-
ginarie coniugate, ossia che Zi = k, mi = — m^; nel qual caso
k^ é^-^''^-.-^ k, é'-''^' = 2 e"" (Zi cos hx — m, sen hx).
Posto 2 Zi = /^i, — 2 mi = /^2, questo integrale diventa
hi e"* cos òa; -+- /i2 e'"" sen hx {hi, h2, costanti reali arbitrarie).
In modo analogo si vede che, se a -h ih fosse radice doppia
di (2) e quindi altrettanto avvenisse di a — i h, si trovano
anche gli integrali
h^ cce""" cos hx -h hi rf* sen hx {h^, hi costanti reali arbitrarie)
e così via. In modo simile si trattano le altre coppie diradici
complesse coniugate; e si vede facilmente che cosi si ottengono
tutti gli integrali reali di (1). In conclusione l'integrale reale
generale di (1) è una combinazione lineare a coefficienti costanti
reali arbitrari di integrali particolari del tipo
x' e'^, x'' e''^ cos hx, x' e"" sen hx.
Esempi.
r) L'equazione ^ -4- 2 ?/' -H 3 ?/ == 0 ha — 1 ± ^ 1/2 per
radici dell'equazione caratteristica c" + 2 e -4- 3 = 0. Il suo inte-
grale reale generale è quindi e""" {/h cos V^x -4- h^ sen 1/2 x),
dove hi, hi sono costanti reali arbitrarie.
2^) L'equazione y" — 2 ?/' 4- ?/ = a; ha le radici dell'equa-
zione c^ — 2c-f-l=0 caratteristica della corrispondente
equazione omogenea
EQUAZIONI DIFFERENZIALI
391
uguali entrambe a -4- 1, cosicché Ci é" -\- c^ix e* (ci, C2 = cost.
arbitrarie) è l'integrale generale di tale equazione omogenea,
perchè il Wronskiano
e" xe^
xe
delle soluzioni x, x é^ è differente da zero. Quindi l'integrale
generale dell'equazione proposta è
y ^= Ci e"" -\- C2 X e",
dove le Ci, C2 sono funzioni della x determinate dalle :
c\ é" -^ c'2xé' = 0
c\ é" -+- c\ (e" 4- a; e^) = x
donde si trae :
c'i = — x^ e "", c'2 = ^ e "^
e quindi :
Ci = —^x- e-"" dx — x^ e-^ -4- 2 a; e"* -h 2 e"* -+- /^i ;
C2 = — a; e""" — e""" H- fe (^1, ^2 = cost.).
Sarà perciò :
?/ rzn (x' H- 2 X -f- 2) -f- ^1 e'' + (— a;^ — x) -h k. x é" —
^==^ {x -\- 2) -\- ki é" -\- ki x é" (Ari, ko = cost.)
l'integrale più generale dell'equazione proposta. Esso si sarebbe
potuto scrivere senz'altro, appena fosse stato noto l'integrale
particolare a; -f- 2, che si sarebbe potuto ottenere più rapida-
mente coi metodi dati nel seguente esempio 2°.
Altri Esempi.
1^ Formare l'equazione lineare omogenea alle derivate
ordinarie di w^*'"*'* ordine, che ammette gli integrali particolari
2/1,^2, ,.y«.
Ris.
y y y
fi
y
(n)
yiyiy i yi
r if in)
y2y2y 2 y^
yny'ny'n yii^^
= 0;
la quale non si riduce ad una identità, né ad una equazione di
ordine minore di n^ se il Wronskiano delle yi è differente da zero.
392 CAPITOLO XVIII — § 117
Il primo membro di questa equazione è il Wronskiano delle
y,yi,y2 ,t/„. Dunque:
Se il Wronskiano delle j, yi, yo, , yn è sempre nullo,
ma il Wronskiano delle yi, y2 , yn è differente da zero, laj
è una combinazione lineare kiji -h k2y2-H + Wn ^ coeffi-
cienti k costanti delle ji, y^, , Yn-
2* Integrare l'equazione
y''''^Piy'''-''^P2y'''-''^...-^Pny = aox'^^a,x'''-'-h,..-ha,.
(p^ zziz cost. ; ai = cost. ^ n, m interi positivi).
Ris. Anziché col metodo generale, si può ottenere più bre-
vemente un integrale particolare ponendo :
?/ = 6o + lix -\- -V- hrr, x^ (hi = cost.).
Sostituendo nella nostra equazione, e uguagliando nei due
membri i coefficienti di x''"',x"'~^, ecc., si trova:
Pn bm = do; Pn kn-l + '^ibmPn-l = Ci\ ]
Pn'bm-2 -^ {m \)Pn-l K-l + m (w l)Pn-2 K =" do ',
Pn ho -^Pn-1 h -4- 2^„_2 &2 -t-.-.+i?! \n — 1 &„_i -f- ììt Ò„ = «,„,
dove sono supposte nulle le hi, il cui indice i supera m.
Queste equazioni permettono di determinare successivamente
le hm, hm — l, , Oq,
Fa eccezione il solo caso p,^ = 0 ; ma noi possiamo sempre
supporre pn =^ 0, purché si assuma una conveniente derivata
della y come funzione incognita, ecc., ecc.
3** Integrare T equazione
y^^^ -4- Pi y^-'^ + 4- i9„ ?/ = A: e'^ (pi, h, k = cost.) {k=^0)
dove h non é radice deirequazione caratteristica
r + i^iF-'-h +i?„ = o.
Ris. Anziché col metodo generale, si può ottenere più bre-
vemente un integrale particolare ponendo
tj = l e'- {l = cost.).
Sostituendo nella nostra equazione si trova
che determina la l, se h non é radice dell'equazione caratteristica
relativa al primo membro della nostra equazione differenziale.
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 393
4° Si discuta l'equazione
y" -\- py -\- qy—0 (p, q = cost.).
Ris. L'equazione caratteristica è c^ -h ^c + g = 0, e ha per
2 |/ 4
radici — '^ — |/^^^ ^•^^'X — ^ = 0 queste radici coin-
cidono e l'integrale generale della nostra equazione è
le - -h \ixe ^ (^, [J^ = cost.).
Escluso questo caso limite di scarso interesse, trattiamo gli altri.
Se ^ ^ ^ ^j l'equazione ha due radici reali che potremo
indicare con a, P; l'integrale generale è.le^" H-fAe''*(X, [i = cost.)
il quale, se a, p sono negativi, tende a zero per x= -f- oo .
Se invece ^ — ^ < 0, si ponga q — ^ =z k- -^ \e radici
4 4
dell'equazione carattestica saranno — ^^ ±ik ; e gli integrali
della nostra equazione saranno
e ^ ; X cos ^o; 4- [1 sen kx 1 (X, |i zzz cost.).
Essi si ridurranno a sole funzioni trigonometriche se p = 0,
è quindi q^^k^ (*).
Questi risultati sono stati trovati per via diretta al § 113.
Questo studio ha numerosissime applicazioni fìsiche.
In molti problemi (scarica elettrica di un condensatore,
vibrazione di un pendolo, ecc.) si presenta una quantità y (in-
tensità di corrente, angolo di un pendolo con la posizione di
equilibrio) variabile col tempo x, che la fisica dimostra soddi-
sfare a un'equazione del tipo precedente, dove le costanti p, q
9
sono positive. Allora, se ^^ ^ > 0, le a, p sono negative, e
quindi ^ = X e ^ "^ -4- ji e""* ci definisce una y che per a; = oo
tende a zero. Si tratta in tal caso di un semplice fenomeno
(*) Si pnò porre i =i: a cos », ^ = a sen *, e, invece di dire che >, /* sono
costanti arbitrarie, dire che a, -^ sono costanti arbitrarie ; la soluzione della nostra
equazione diventa a t ^ cos {Jix + »), dove -i è la cosidetta fase.
394 CAPITOLO XVIII — § 117
smorbato (p. es., un pendolo che torna alla posizione di equi-
librio in un mezzo che presenta tale attrito da impedirgli ogni
ulteriore oscillazione).
Se ^ = 0, allora g = ^^ ; abbiamo in questo caso un puro
fenomeno vibratorio ; quando kx è aumentato di 2 ti, ossia
2 n
quando il tempo x e aumentato di — _ — il sist&tna riprende le
2 TC
condizioni iniziali ; cosicché — ^ — è la durata di una oscilla-
li:
zione completa.
Se j? > 0, e se ^' è reale, allora abbiamo ancora un fenomeno
vibratorio. Però l'esponenziale e % che tende a zero al cre-
scere di X, ci avverte che le vibrazioni vanno diminuendo di
ampiezza, o come si suol dire, si smorzano. La durata di una
2 TT
oscillazione è sempre -y— . Per fissare le idee, il lettore può
pensare alla scarica di un condensatore di capacità C in un
filo di resistenza R il cui coefficiente di autoinduzione sia L.
Se t/ è l'intensità della corrente all'istante x, la fisica insegna
che y' -\- py -f- g = 0 dove sia posto :
R 1
^=L' ^ = LC-
Per j? = 0 si ha ^ = I / -— r •
Dunque in tal caso si ha con Thomson che 2 ti V LC è la
durata di una vibrazione, e, se e è la velocità di propagazione
delle onde elettriche, che 2 ti: e VlC è la lunghezza d'onda.
Un esempio di equazioni a derivate parziali.
Se abbiamo una equazione alle derivate parziali, cioè se la
funzione incognita dipende da più variabili indipendenti, allora,
come si può verificare sugli esempi dei §§ 93 e 110, una soluzione
di tale equazione non si può pììi definire, prefissando un numero
finito di costanti (le 6o, &i, ...; &n-i del teorema di Cauchy a
pag. 377), perchè la soluzione pili generale di tale equazione
dipende da funzioni arbitrarie.
Noi qui non ci occupiamo dello studio di tali equazioni che
è in generale molto difficile. E ci accontentiamo di osservare
EQUAZIONI DIFFERENZIALI 395
il seg. teorema, che si può generalizzare a tutte le equazioni
alle derivate parziali del primo ordine. Sia data l'equazione
X^ 4- F^-^ = 0, ove X Fsono funzioni note di x, y, e dove
ox òy ' ^'
/* è la funzione incognita. Sia X=^0. Consideriamo l'equazione
dy Y
~ ^= — alle derivate ordinarie ; e la cp (x^ y) = cost. definisca
d/X Jy. ^
3cp 3q?
la sua soluzione più generale. Sarà X^— -4- Y ~ =0, perchè
ox dy
— = 1^ deve essere uguale a quel valore di y, che dalla ^p = cost.
JL dx
si deduce in virtìi del teorema delle funzioni implicite. Poniamo
X = xi, 9 {x^ y)^=iy^ e assumiamo xi^ t/i come nuove variabili
indipendenti, come sarà generalmente possibile. Sarà :
3f ^ ^ _^ 35 3/; ^ 3/-^ }l 3t
^x ^xi ^x 'òyi ' ^y ^yi ^y
La nostra equazione diventa perciò ^- = 0. Cioè le funzioni
0x1
f cercate sono tutte e sole le funzioni della t/i, cioè della cp.
(Cfr. § 110, pag. 368).
Così p. es. le soluzioni di ^ + ^ = 0 (X = F= 1) sono
VX dy
le funzioni di x — y, perchè le soluzioni di -^ = 1 si ottengono
dx
risolvendo la x — ?/ = cost.
In modo simile (cfr. il § 110, pag. 369) le soluzioni di
xf+x.,^ + x.,^ + +x,.|£ = o,
ox dxi 0x2 OXn
ove le X, Xi, ..., X„ sono funzioni di x, xi, X2, ...... a:„, sono
tutte e sole le funzioni di 91, 92 , ^n, se le soluzioni del
sistema
dx dxi dx2 dxn
si ottengono risolvendo le ^1 = cost., cpo = cost., , 9,^ = cost.
Ma non è nostro scopo approfondire e precisare simili studii.
396 CAPITOLO XIX — § 118
CAPITOLO XIX.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE
DEL CALCOLO INFINITESIMALE
§ 118 — Tangente ad una curva
Siano
x = x(t); y = y{t); z = z {t) (1)
funzioni derivabili di un parametro t. Al variare della i^ il
punto {x^y^z) definito da (1) descriva una curva C. Su questa
consideriamo un punto A = (xo, y^, Zq) corrispondente al valore ^o
della t, e un altro punto B corrispondente al valore U -H h
della t. Poniamo x^^ = x (to), y\ = y' {Q, z\ = z' {Q, Per ana-
logia con le curve piane noi chiameremo retta tangente alla C
in A la posizione limite della retta AB (per h = 0).
Le equazioni della AB sono :
X — x^ y — ^0 z — ^0 ^
X (to 4- h) — Xo y ito -i- h) — yo z (to -^ h) — z^
E i suoi coseni direttori sono quindi proporzionali alle
X (to -h h) — Xq, y (to -^ h) — yo, z (to -+- h) — Zo
ossia alle:
X (to ■+- h) — Xq y (to -hh) — yo z (to -h h) — z (to)
h h h
1 limiti Xo, yo, z'o di queste frazioni (rapporti incrementali)
saranno dunque proporzionali ai coseni direttori della tangente
in A della C; la quale avrà dunque per equazione
X — Xo y — yo z — Zq ^
odo y\^ z'o
(*) Si suppongono i dominatori non contemporaneamente nulli. Questa ipotesi
è contenuta (per h abbastanza piccolo) nell'altra, che enunciamo più sotto, che
almeno una delle x\^]j'f,^z\ sia differente da zero.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 397
(È necessario supporre che non sia x^ = y\ r= /q ^= 0 ;
si esamini il caso che soltanto alcune di queste derivate siano
nulle).
I coseni direttori di tale tangente r saranno dunque X^'o
^y'o, ^-^'o, dove X è un fattore di proporzionalità definito dalla
E perciò :
1
e
quindi :
r\
±v/rrV
+ y'o'-+-/o''
(*{
■)%(xr) =
-t-
Xo
y\
l/x'o^
+ 2/'
?+zr
Vxo"
+ y'i
-+-«?
COS
(zr).
h
Za
\/^:- + y': + zi '
dove il segno da scegliersi dipenderà dal verso della tangente r
scelto come positivo.
§ 119. — Piano tangente ad una superficie.
Sia S una superficie f {x, y^ z)=^0 ] e siano f^^ fy fz con-
tinue nell'intorno di un punto A = {xq^ ^o, z^) di S, Siano
x=^x{t)] y=:y{t); z — z {i) (1)
(dove i secondi membri sono funzioni derivabili di un parametro t)
le equazioni di una curva C posta su S ed uscente da A. La
teoria delle funzioni implicite prova che di tali curve C ne esi-
stono infinite, se fx, fy, fz non sono tutte nulle in A, Sosti-
tuendo nella f{x, y, z) alle x,y,z i valori dati da (1), si otterrà
una funzione della t identicamente nulla, perchè tutti i punti
di C giacciono sulla 8. La derivata di questa funzione della t
sarà quindi nulla in tutti i punti di C, e in particolare nel
punto A. Sarà cioè :
dove l'indice 0 è posto per indicare che le derivate sono calcolate
nel punto A, La tangente in A alla C ha per equazione
X Xq y — 2/0 z — ^0 . .
Xo -^0 ^0
398 CAPITOLO XIX — § 119
Nel primo membro di (2), che è un polinomio omogeneo
nelle x'o, y\^ z\^ potrò a queste derivate sostituire le a; — Xo,
y — 2/o, z — ^0, che per le (3) sono ad esse proporzionali.
Ne deduciamo che i punti x^ y, z della tangente in A ad una
qualsiasi delle nostre curve C soddisfano alla :
(èOo^^-^»^-^ (|)>-^-^-^ (L0/--)-o- ^^)
La (4) non è una identità, perchè già abbiamo escluso che
X, y, 2, essa è V equazione di un piano : il cosidetto ])iano tan-
gente alla S nel punto A. Quindi :
Se f (x, y, z) = 0 è l'equazione di una superficie S, e se in
un intorno di un punto A di S le f^, ^'yj ^'z sono finite e continue,
mentre in A queste derivate non sono tutte nulle, si possono
tirare su S infinite curve (dotate di tangente) uscenti da A.
Le tangenti in A a tutte queste curve giacciono in uno stesso
piano (4) : il piano tangente alla S nel punto A.
Se l'equazione della superficie è data sotto la forma :
z = ^{x, y),
ossia, se f=z^{x,y) — z, l'equazione del piano tangente diventa:
(S)y - ^") -^ (|)/^ - y^^ - (^ - ^'^ = '■
Adottando la notazione di Monge :
essa si ridurrà a
J9o {x Xo) H- g,) {y .Vo) — U "S^o) = 0,
che è l'equazione cercata.
Volendo trovare i coseni direttori della normale n al piano,
basterà ricordare che tali coefficienti sono proporzionali ai coef-
ficienti di X, y, z, cioè a jpo, ^o, — 1-
Essi saranno "kp^ , X go , — \ dove il fattore X di propor-
zionalità si determina ricordando che deve essere
[Xp,Y-^[\q.;f-^y^'=\.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 399
Otterremo :
1
ed infine :
± i/joo' -H go' +1 '
Jpo Qo
±Vpo
— — — — ' CU» HU / '
' + go' + l ±T/j9o'-f- go'-f- 1
— 1
cos ni^' — ;- — : 1
ove il doppio segno dipende dall'arbitrarietà con cui si può fissare
il verso positivo della normale considerata.
È evidente l'analogia della (4) con l'equazione (10) trovata
al § 84, pag. 285, per la retta tangente alla curva piana
f{x, y) = 0 nel punto fe, yo).
§ 120. — Lunghezza di un arco di curva sghemba.
a) Abbiamo già visto in parecchi esempi in cui si doveva
cercare una funzione additiva d'intervallo, come fosse assai
spesso facilissimo definirne la derivata. Così, 'per es., mentre la
ricerca dell'area racchiusa tra l'asse delle x, la curva y = F{x),
e due ordinate richiede una integrazione, la derivata di quest'area
è semplicemente l'ordinata stessa F{x).
Così avviene nel problema di misurare la lunghezza di un
arco di curva C. Ma qui si presenta un'altra difficoltà. Che
cosa vuol dire la frase : lunghezza di un arco di curva C? Noi
tutti ne abbiamo un'idea intuitiva, ma il primo problema è
appunto quello di tradurre nel modo più semplice questa idea
intuitiva in una, diremo così, idea matematica; così da poter
dare un mezzo per calcolare tale lunghezza (*).
Cominciamo a limitare l'insieme delle curve C, di cui ci
vogliamo occupare. Noi supporremo di limitarci a curve C dotate
in ogni punto di tangente variabile con continuità, le quali
siano in corrispondenza biunivoca con la loro proiezione su
una retta r (in guisa cioè che punti distinti di C abbiano
proiezioni distinte). Sia I la proiezione di C su r. Ogni seg-
(*) Questo problema è di natura affatto analoga a quello che si presenta per
definire tutte le figure e grandezze geometriche. Se si presume di conoscere già
l'ente che si vuol studiare, si ammettono circa tale ente dei postulati. Se si
suppone di non conoscerlo, si assumono questi postulati come definizione matema-
tica dell'ente stesso.
400 CAPITOLO XIX — g 120
mento (a, h) interno ad I determina quel pezzo di C, che si
proietta in {a, h).
Supponiamo di sapere che cosa é la lunghezza di C ed
anche la lunghezza di ogni sua parte. Allora ogni intervallo (a, h)
di r individua un pezzo della curva C, e la lunghezza di questo.
Tale lunghezza S (a, b) sarà una funzione continua di (a, b)
che evidentemente è additiva (*); perchè se (a, 6), (b, e) sono
due intervalli distinti, evidentemente la lunghezza di quel pezzo
di C che si proietta in (a, b) e la lunghezza di quel pezzo di C
che si proietta in (b, e) hanno per somma la lunghezza di quel
pezzo di C che si proietta in (a, b) -h (b, e) = {a, e).
I nostri procedimenti basteranno a calcolarla, se di tale
funzione additiva sappiamo dare la derivata. Tale derivata è
per definizione il limite
lim T (1)
' b=^a b — a
del rapporto ottenuto dividendo la lunghezza del pezzo di curva
che si proietta nell'intervallo (a. b) per l'ampiezza* 6 — a di
tale intervallo.
La più semplice ipotesi che noi possiamo fare, ispirandoci
all'idea intuitiva, che un tale pezzetto di curva, quando la sua
proiezione b — a è molto piccola, si confonde quasi con un
pezzetto della retta tangente alla curva, è la seguente:
Tale derivata è identica a quella che si otterrebbe sosti-
tuendo alla curva la tangente x in quel suo punto che si
proietta nel punto x = a.
Questo secondo postulato ci appare come il più semplice anche per la seguente
considerazione. Nel cerchio il rapporto di una corda all'arco corrispondente tende
ad uno, quando l'arco tende a zero. Appare spontaneo di ammettere questa pro-
prietà per curve qualsiasi. Il precedente postulato ne è conseguenza immediata.
Infatti ammettere tale proprietà equivale ad ammettere che, se noi indichiamo con
e (a, h) la lunghezza della corda congiungente quei punti di C che si proiettano
nei punti x=^a, x = h, sia
,. e (a, h)
lim ; \ X — 1.
Cosicché il limite (1) si può scrivere anche
,. Sia.h) ,. c(a,J)) ,. c(a,h) , ,„\
lim , ' ^ hm r^\ ,i -= lim -,, ' ^ . (2)
=^a ìì — a h^aS{a,h) h^r> h — a
Ora poiché la retta, cui appartiene la corda {a, h) tende, per h = a, alla retta
tangente t, il limite (2) coincide col limite (t) calcolato nel modo dato dal prece-
dente postulato.
(*) Naturalmente questa affermazione è un primo postulato.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 401
Si è cosi in più dimostrato che ì postulati enunciati sono concordi con le
definizioni hlementari relative alla lunghezza degli archi di cerchio.
La definizione, data assai spesso che la lunghezza di un arco di una curva C
è il limite superiore dei perimetri delle poligonali inscritte è più generale della
precedente, ma non contrasta mai con essa. Non la adottiamo per le complicazioni
che porterebbe una definizione analoga di area di una superficie sghemba.
È bene evidente che i postulati da noi posti hanno un
significato indipendente dalla scelta della particolare retta r su
cui si proietta. Se la retta su cui si proietta, è Tasse delle x,
la derivata citata sarà 7 — r, dove zx è l'angolo che la
cos (i x) ^
tangente t forma con l'asse delle x.
L'arco della curva compreso tra i punti di ascissa a e b
sarà dunque nelle nostre ipotesi
•^ n.
dx
a cos (t x)
Le nostre ipotesi equivalgono a dire che :
1*" Le equazioni di C si possano porre sotto la forma :
y = f{x) , ^ = cp(a;),
perchè in tal caso il valore di x (cioè la proiezione sull'asse
delle x) individua il punto della curva.
2' La -^ — = l/l -h f"' (x) -h 9'' (x) (§ 118) esiste ed
cos To;
è una funzione continua di x (le /*, 9 hanno derivate continue).
In tal caso il nostro arco è dato da :
/.
Vi -H f (x) -^ ^'Hx) dx.
dii d z
Posto f (x) = -~ , cp' (x) = -- , si ha che il nostro arco
dx dx
vale
/(/
df- dz' ,
dx dx
formola che, come è noto dalle regole di integrazione per sosti-
tuzione, è indipendente dalla variabile scelta come variabile di
integrazione, e che si suole scrivere perciò
/ Vdx- -H di/ -+- dz^.
G. Tubini, Analisi matematica.
402 CAPITOLO XIX — § 120
Ciò significa che, se x ^= x (t), y =^ y (t), z^=^ 2{t) sono le
equazioni parametriche della curva, quel suo arco corrispondente
a valori di t dell'intervallo (a, P) vale :
jyx' it)
y'^{t)^B"{t)dt
Questa f or mola vale anche per curve, che siano in corri-
spondenza biunivoca con la proiezione sull'asse delle y^ o sul-
l'asse delle z; e si estende tosto a curve, che si possano scomporre
in un numero finito di pezzi, ognuno dei quali sia in corri-
spondenza biunivoca con la sua proiezione su uno dei tre assi.
Se noi indichiamo con s l'arco contato da un'origine qualsiasi
al punto t, è dunque s't = Vx? -h y't' -\- z't ; cosicché i coseni
direttori della tangente alla curva sono (pag. 397) :
x!t dx y't dy ■ z't dz
s't ds s't ds s't ds
Affinchè il parametro t coincida con l'arco s misurato nel-
l'uno 0 nell'altro verso a partire da uno o da un altro punto
è dunque necessario e sufficiente che x^ -h y't -4- z't = 1 .
La nostra formola si può rendere intuitiva anche per altra
via : la nostra definizione sarà cosi giustificata anche con nuovo
metodo. Un pezzetto piccolissimo della nostra curva ha per
lunghezza l'incremento ds che s subisce passando da un estremo
all'altro; se noi lo consideriamo come rettilineo, avremo che ds^
è uguale alla somma dei quadrati delle sue proiezioni dr, dy^ dz
sui tre assi coordinati. È perciò di' = dx^ -4- dy'^ -^ dz^.
Esempio.
2 2
X V
Si trovi il perimetro dell'ellisse — j 4- -v= 1-
Le a; = a cosi, y ^=h seni per 0 t^t ^2 n sono le equa-
zioni parametriche di tale ellisse. Il suo perimetro sarà :
— — / 2 1,2
Ap Va' sen' t -h b' cos" tdt = 4a T |/ 1 — ^ T CQs' t dt.
a^ &^ ,
Posto 7, — = e' (dove e < 1) tale integrale si calcola iute-
a^
grando per serie come l'integrale dell'esempio al § 79, pag. 266.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 403
P) Lunghezza di una curva piana in coordinate polari.
Posto X = r cos ^j y=^r sen 6, dalla dx^ -h dy^^^dr" 4- r" 6^6^
si deduce che la lunghezza di una curva definita dalle:
r{t) e = 0 (0
a^t^ì)
vale
r' r^ dt
Consideriamo, p. es., la curva
r =:z h -h k Q {h,k=^ cost.),
che si riduce a un cerchio per ^^ = 0 e a una spirale di Archi-
mede per h=^0. Quel suo arco per cui a ^ 0 ^ ò ha per
lunghezza
j
come si riconosce ponendo 6 = ^. Posto k = 0, a = 0, & = 27c
se ne deduce che 2nh è la periferia del cerchio di raggio h.
Il lettore studii il caso k ^ 0.
§ 121. — Area di una superficie sghemba
ed integrali estesi ad una superficie sghemba.
a) Affatto analogo è lo studio dell'area di una superficie R
sghemba. Se tale superficie R è in corrispondenza biunivoca con
la sua proiezione /sul piano xy, ed è quindi rappresentabile
con un'equazione z ^= f(x, y), Varea s di quel suo pezzo s,
che si proietta in un pezzo a di I si definirà nel modo più
semplice come quella funzione additiva di a, la cui derivata
in UH punto A di I è identica a quella che si otterrebbe sosti-
tuendo alla R il suo piano tangente nel punto che si proietta
in A. Tale derivata (che supporremo finita e continua) vale
dunque , se a è l'angolo del primo quadrante che tale piano
A
tangente forma col piano xy^ cioè è l'angolo nz del primo qua-
drante che la normale ad R nel punto considerato forma con
404 CAPITOLO XIX — § 121
l'asse delle ^ (*). Poiché con le notazioni del § 119 si ha
cos a = ^ , Tarea 5 del pezzo s di E sarà :
/>'
p' + q' do
esteso alla proiezione a di 5 sul piano xy.
Si noti che ciò equivale appunto alla
ds 1
do cos a
= v/i +
Ed è facile verificare direttamente che tale integrale ha un
significato indipendente dalla posizione degli assi coordinati, ed
estendere tale formola a superfici composte di un numero finito
di pezzi, ciascuno dei quali sia in corrispondenza biunivoca con
la sua proiezione su un qualche piano, p. es., su uno dei tre
piani coordinati.
Noi, anziché occuparci di tali questioni, vogliamo aggiungere
una sola importante osservazione.
P) Sia S una funzione additiva dei pezzi s di una tale super-
ficie R. Se, com'è la convenzione piii spontanea, adottiamo come
misura s di un pezzo s l'area testé definita, la derivata F ài S
dS
sarà -— . Se consideriamo il valore di S corrispondente a un
ds
pezzo 5 di i^ come funzione della proiezione a di 5 sul piano xy,
ossia, se adottiamo come misura di s l'area o di tale proie-
zione, la derivata di S sarà
dS dS ds /- ^ r, _
— = -- — = VI +/ -f- g' i^.
do dsdo
Cosicché :
S— JVl +/-f-g' Fdo =JdxfVl -H/ + g' Fdy.
Questa formola riduce il calcolo di funzioni additive dei pezzi
di una superficie S a quello di un integrale piano.
(*) Vedremo che tale definizione concorda con la definizione elementare nel
caso della sfera ; cfr. le osservazioni del precedente § 120. Noto che qui, analoga-
mente a quanto si è fatto in altri paragrafi, si indica con la stessa lettera s un
pezzo di Ì2 e la sua area.
alcune applicazioni geometriche del calcolo, ecc. 405
Esempio.
Sia R una superficie, parte della parete di un recipiente
pieno d'acqua (un bacino di carenaggio, p. es.). A pag. 332,
es. 3^ abbiamo studiato il caso che R fosse piano e verticale ;
qui studiamo il caso generale. Ricordando che la pressione subita
da jK, se R fosse un piano comunque inclinato, sarebbe normale
ad jK e avrebbe per intensità il peso della colonna liquida che
gravita su R, si induce la seguente proposizione generale.
Se l'asse delle z è verticale, e la ^ rappresenta proprio la
distanza di un punto del recipiente dal pelo libero del liquido,
le componenti secondo Tasse delle x o delle y o delle z della
pressione subita da un pezzo s ài R sono funzioni additive di 5,
la cui derivata vale rispettivamente z cos {nx), o z cos {ny\ o
2 cos {nz).
Se i^ è in corrispondenza biunivoca con la sua proiezione
sul piano xy, tali componenti valgono dunque
/ z cos {nx) V\ -h p^ -h q^ do =1 / / zp dz dy,
oppure / / zq dx dy, oppure / / z dx dy.
La componente / / z dx dy verticale della pressione è evi-
dentemente il volume del cilindroide generato dai segmenti proiet-
tanti i punti di R sul piano xy (pelo libero del liquido).
§ 122. — Area di una superficie di rotazione.
Se noi poniamo
X = p cos 0, ^ == p sen 0 (donde p = Vx^ -\- y')
l'equazione di una superfìcie si può scrivere nella forma
^ = /'(p,0). (1)
Se essa è di rotazione attorno all'asse delle z^ l'aumentare 0
di una costante a qualsiasi, cioè il far rotare di un angolo a
la nostra superfìcie attorno all'asse delle z trasforma la super-
ficie in sé stessa, cioè non ne muta l'equazione (1); cosicché,
qualunque sia a, sarà /*(p, 0) = /'(p? 0 -4- a). Cioè /"(p, 0) non
varia, qualunque incremento venga dato alla 0, cioè comunque
si cambi il valore della 0. Essa è dunque indipendente dalla 9;
406 CAPITOLO XIX — § 122
cioè è una funzione cp (p) della sola p. E l'equazione della nostra
superficie sarà del tipo:
z — cp{p) cioè <2r = cp (-f- i/:r -+- y-), {l)u.
' La sua intersezione col semipiano (si noti non col piano)
y=0 , x> 0
è un profilo meridiano, la cui equazione (in tale semipiano) sarà :
0 iz^ cp (x) (dove X è positivo). (2)
L'area della nostra superficie vale Tintegrale
/ / l/l -hp^ -h q- dx dy.
Questo integrale si deve naturalmente estendere alla proie-
zione della superfìcie sul piano xy] questa proiezione è la corona
circolare ottenuta facendo rotare attorno all'origine e sul piano xy
la proiezione sull'asse delle x della curva (2) [o del pezzo di
curva (2) considerato].
Ora
i? = V = 9' (P) ^ = T' (P) / ,^ . == T' (p) cos 0
òx òx yx^ -h y-
q = —= — cp (p) sen 0 .
1 +/ H- g'= 1 -Hcp''(p).
Perciò l'area J_ di /S è data da:
A=rrVl -4-/ -h q^ dx dy = / / /l -h cp'- (p) dx dy =
^'ffVl "+- /""(p) p ^ p t^ 0 =fd e^l/l + cp" (P) P ^ P =
= 2^JV\ H-T'Mp")pt?p, (*)
che si può scrivere
^ 1= 2 7c / i/l 4- cp - (a;) .T ^x =
= 2 ^y^ j/ 1 ■+■ (£) ^^^ = 2 ^/^^^5 (3)
(*) Si noti che j j/l + f'-^(p)pdp (i cui limiti sono i raggi della precedente
corona circolare) è indipendente dalla e, e che l'integrazione rispetto a 6 è fatta
nell'intervallo (0, 2tt).
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 407
dove con ds = V dx^ -h dz^ indico ora il differenziale dell'arco
della curva C, e l'integrale si deve estendere all'intervallo, in
cui varia la 5, quando si descrive C,
La (3) costituisce la formoìa fondamentale per il calcolo
dell'area -di una superficie di rotazione.
Essa si può rendere intuitiva, osservando che ogni pezzetto
infinitesimo ds della curva C genera rotando un tronco di cono,
le cui sezioni circolari sono cerchi di raggio x^ e la cui area
e quindi 2Tzxds. Questa osservazione non ha però, cosi esposta,
alcuna pretesa di rigore. Resa rigorosa, essa dimostra che Varca
di una superficie di rotazione è il limite dell'area generata
dalla rotazione di un poligono inscritto nel profilo meridiano,
quando i lati di esso tendono a zero. Lo studioso deduca la (3),
ammettendo questo teorema.
Esercizio.
Si calcoli Tarea della sfera di raggio R.
Se la sfera ha per centro l'origine, essa è generata dalla
rotazione attorno all'asse delle z di un semicerchio C di raggio E
posto nel solito semipiano xz. Se cp è l'angolo che un raggio
generico del semicerchio C forma con l'asse delle x, e assumiamo
come origine degli archi s il punto in cui C incontra Tasse
delle x, si ha : s = R^. D'altra parte x = jR cos 9 ; e il semi-
71; 71:
cerchio si descrive facendo variare 9 da o" ^ "^ "o" *
L'area della sfera vale dunque
■a n
{R cos cp) J?^ cp = 2 7C R^ cos cp fZ cp = 4 TU R^^
che coincide col valore dato dalla geometria elementare.
Teor. di Guldino. La (1) si può interpretare con un teorema
analogo a quello del § 106, pag. 346, osservando che, se J^ è
la lunghezza della curva rotante, d la distanza dell'asse delle z
(cioè l'ascissa) del suo centro di gravità, allora Ld=^ \ x ds.
Se ne deduce: L'area di una superficie di rotazione vale
2 TU Ld, cioè vale il prodotto della lunghezza L di un profilo
meridiano per la lunghezza 2 tu d della circonferenza descritta
nella rotazione del centro di gravità di tale profilo.
408 CAPITOLO XIX — § 122-123
Esempio.
Centro di gravità di una semicirconferenza. Una semicircon-
ferenza di raggio E e lunghezza ti E descrive, rotando attorno
al suo diametro, una sfera di area 4 n E^. La distanza d dal
centro di gravità della semicirconferenza al diametro soddisfa
2 E
perciò alla A t^ E^ ^= ti E. 2 t^ d, e vale dunque d = •
§ 123. — Piano osculatore ad una curva sghemba.
Sia data una curva C definita dalle equazioni :
X = x{t)] y=iy(t); z — 2 {t) ] (1)
i cui secondi membri abbiano derivate prime e seconde continue
in un intorno di ^ = ^o-
Sia A il punto di C corrispondente al valore ^o della t; t
siano B, D i punti corrispondenti ai valori ^o -^ ^, ^o -^ k.
I punti A, B, D giacciano nel piano ti di equazione
ax-^hy -^ cz-\- d^O. (2)
I punti comuni a C ed a ti; soddisferanno all'equazione
ax (t) -4- by (t) -h cz (t) -\- d ^=^ 0, che si ottiene eliminando tra
(1) e (2) le coordinate correnti x, y, z. Ciò avviene in partico-
lare dei punti A, B, D; cosicché la funzione della t
F it) = ax (t) H- hy (t) -f- cz (t) -4- d (3)
sarà nulla per t=^to. t ^= to -\- h, t ^= to -^ k. Per il teorema
di Rolle nel più grande dei segmenti determinati da questi tre
punti esistono almeno due punti ^i, ^2 ove F' (t) è nulla, e quindi
almeno un punto ^3, ove è nulla F" (t). Sarà quindi in parti-
colare [posto xo = ^ (^0) ; 2/0 = ^ (W, ecc.]
aX(i -h byo -h czq -\- d =^ 0
ax (ti) 4- h?/ (t,) 4- cz' (ti) = 0 (4)
ax'' it,) -^ hy' (t,) -h cz'' (t,) =0.
Se le (4) individuano (*) i rapporti a:b:c:d (cioè se nessuna
delle (4) è combinazione lineare delle precedenti), i punti A, B, D
non sono in linea retta; e il piano ABD è determinato dalle
stesse (4). Noi supporremo che così avvenga effettivamente.
(*) Aggiungendo alla (4) la identità 0.a + 0.?>4-0.c-f-0.rf— 0 vi ha un
sistema di 4 equazioni omogenee nelle 4 incognite a, h, e, d ; il quale, se è di carat-
teristica 3, determina, come si è visto al § 27, pag. 89, le a, h, e, d a, meno di
un fattore comune >, 0, ciò che è lo stesso, determina i rapporti a-.h-.c-.d.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 409
Si osservi ora che, quando h e k tendono a zero,
lim ti = lim 4 = fo .
Poiché le derivate prime e seconde delle x, y, z sono finite e
continue, sarà lim x (^i) = o^ (to) ; lim x" (Q = x" (to) ; ecc.
I rapporti a: b : e : d definiti dalle (4) tenderanno al limite
ai rapporti a: b : e: d definiti dalle
axo
axo
(5)
byo -H c^o -+- ^ = 0
by'o -4- cz'o = 0
ax'^o -4- by'o -4- cz'^o = 0 )
(dove si è posto x {Q =^ x'o, x'o{to) =^ x"q, ecc.), se nessuna
delle (5) è combinazione lineare delle precedenti, ossia se la
matrice
' Xo yo Zq 1
x\ y\ z\ 0
x;\y\z\^
(6)
è di caratteristica 3. E, se questo avviene, anche l'ipotesi ana-
loga fatta sopra per le (4) è soddisfatta, se h^ k sono abbastanza
piccole, perchè le x\ x\ ecc. sono continue.
Il piano (2), i cui coefficienti a, 6, e, d soddisfano alle (5),
si dirà il piano osculatore alla curva C m A: ed è facile rico-
noscere che i coseni direttori della sua normale, e la distanza
dall'origine sono i limiti delle quantità analoghe per il piano
ABD ] cosicché tale piano osculatore si può dire il piano limite
del piano che passa per A e per due punti vicini B, D della
curva, qicando B, D 5* avvicinano indefinitivamente ad A.
Eliminando le a, ò, e, d tra le (2), (5) si ha :
X y z
1
Xq yo zo
Xq y\ z\
1
0
0 ossia
X
^0 y — yo z — zo
Xo
x"o
y^
Zo
z"o
= 1
(7)
Xo 3/0
x'o y\ z'o 0
come equazione del piano osculatore in A. Ed é facile ricono-
scere che, nella nostra ipotesi per la matrice (6), la (7) non
può ridursi ad una identità.
Dalla (7) risulta evidente che detto piano osculatore contiene
la retta uscente da ^ = (xo , yo , Zo) coi coseni direttori proporzio-
nali ad Xo, y' 0, z'o, cioè la retta tangente alla curva nej punto A.
Dimostriamo come esercizio, che il piano osculatore è il piano limite di un
piano TT' che passa per A, per J5, per la tangente in A, quando B si avvicina
indefinitamente ad A,
410 CAPITOLO XIX — § 123-124
^e ax -\-hìj -h cs ~\- d = 0 è l'equazione di tt', le a, h, e, d devono soddisfare
alle : ax^ -h hy^ + czQ + d = 0, ax\ 4- Wa H- c^\ = 0 e ax % + ìi) + hy % + 704-
-hcz{tf^ + ìi)-\-d=^0. All'ultima equazione possiamo, in virtù delle prime due,
sostituire la :
^ X {te -hh)~ hxp — Xq , y {te •+'h) — hy'o - y^ z{t^-i-h) — hz\, — z^ _
a - Hf> p -+-C ^, -u
Passando al limite per Ti = 0 e ricordando il risultato del § 63, pag. 199, questa
equazione diventa aa? 'o 4- b^/'o + ^^^''q = 0. Ritroviamo così precisamente le (5). Se
addottassimo la proprietà qui enunciata per definire il piano osculatore, notiamo
che non avremmo dovuto supporre continue le x", y", z", ma che sarebbe ba-
stato supporre determinate e finite le derivate seconde nel punto t := t^,.
Si dice piano normale in A il piano
Xq {x — Xq) -f- y'^ {y — ?/o) -h ^'o (^ — ^o) = 0,
luogo delle normali alla retta tangente in A innalzate dal
punto A, La sua intersezione col piano osculatore dicesi normale
prindimle.
La normale in A al piano osculatore giace sul piano nor-
male, e dicesi hinormale.
La ragione di questo nome sta in ciò che, considerato il
piano osculatore come il piano di tre punti A, B, D infinita-
mente vicini, la binormale è normale alle due rette infini-
tamente vicine AB, BD ; le quali congiungendo punti conse-
cutivi, si debbono considerare entrambe tangenti alla curva C.
§ 124. — Cerchio osculatore.
a) Sia x=^x{t) , yz=y(t) (1)
una curva piana f ; le a? (0, y (t) posseggano derivate prime e
seconde finite e continue in un certo intorno y di t =^ a. Sia
A il punto t =^ a; siano B e C due punti t ^=^ a-hh, t = a-h k
deirintorno y. Supposto che i tre punti ^, jB, C di f non siano
allineati, per essi passerà un cerchio di equazione
(x-^r + iy — yir-R' = 0, (2)
se (?, y]) ne è il centro, R il raggio. I punti comuni alla curva
e al cerchio soddisferanno all'equazione dedotta sostituendo nella
equazione (2) del cerchio i valori delle x, y dati dalle equa-
zioni (1) di r :
[x (0 - lY + [y (0 - y\Y -Br = o.
Il primo membro è una funzione F{t) della t, che dovrà
esser nulla almeno nei punti t =^ a, f =^ a -\- h, t ■=^ a -^ k
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETKICHE DEL CALCOLO, ECC. 411
(perchè i punti A, B, C appartengono alla curva e al cerchio).
I valori a, a -\- h, a -\' k determinano due intervalli, ai cui
estremi F (t) si annulla ; entro ciascuno di essi esisterà almeno
un punto ove F' (t) è nullo (per il teorema di Eolie) ; e dentro
l'intervallo, di cui questi due punti sono gli estremi, esisterà
almeno un punto, ove sarà nulla la derivata F" (t) di F' (t).
Sia t = h uno dei punti citati ove si annulla F (t) e sia ^ = e
uno dei punti ove si annulla F'' (t) (*). [Questi punti, apparte-
nendo agli intervalli, di cui a, a -h h, a -h k sono gli estremi,
hanno (si ricordi) per limite il punto a, quando h, k tendono
a zero].
Sarà :
Fia) = [x (a) - ìY -H [y (a) - rif - R' = 0 (3)
1 r (b) = [x (b). - $] x^ (b) 4- [y (ò) - ri] y' (b) = 0 (4)
i- F" (e) = [x (e) — i] x" (e) + [y (e) — 7]] y" (e) + x'' (e) -h
-+-2/''W = 0. (5)
Supponiamo ora :
X y" — x' ?/' =# 0 per ^ = a (nel punto A). (6)
Sarà anche xl (b) y" (e) — y (b) x!' (e) =4= 0, quando & e e sono
abbastanza vicini ad a, ossia quando | /^ |, j ^ | sono abbastanza
piccoli (come noi ora supporremo).
Supposte note le ò, e, le (4), (5) costituiscono un sistema
di due equazioni lineari nelle due incognite ^, f\ ; che si possono
risolvere perchè il determinante x! (b) y" (e) — y' (ò) x' (e) dei
coefficienti delle incognite è diverso da zero. Determinate così le
g, IT], la (3) ci permette di dedurne tosto il valore di i?. È facile
dedurne che da questa ultima ipotesi (6) segue l'ipotesi iniziale
che A^ B, C non sono in linea retta, che possiamo perciò non
enunciare esplicitamente [perchè inclusa nella (6)].
I limiti di g, Y], Rperh = k = 0 sono evidentemente le
quantità ^, y\, R determinate dalle equazioni che si ottengono
da (3), (4), (5) passando al limite per ]i-=:^k^=^ 0, cioè, per
quanto abbiamo già osservato, ponendo in (3), (4), (5) 6 = c = a;
(*) Di tali punti 5 ce ne sono almeno due ; di punti e almeno uno.
412 CAPITOLO XIX — § 124
tali equazioni (*) sono le
{xo — U' + (y. — -nf — K' = o (7)
(xo — 5) xo -+- (2/0 — y]) y\ = 0 (8)
{x, — S) x\ -4- {y, — '/]) y\ H- xo' + ^o' = 0 (9)
dove, per semplicità, abbiamo indicato con Xo, y^ le coordinate
x{a),y{a) di A, e con x\,x\ i valori corrispondenti (per
t = a) di X {t),x" {t),
Il cerchio che ha il centro (g, f\) e il raggio R definiti da
queste equazioni si considererà come il cerchio limite del cerchio
ABC e si dirà il cerchio osculatore alla nostra curva nel punto A
di coordinate oro, ^o-
Dalle (8), (9) si deducono i valori ^, f] ; donde per (7) si
trae il valore di R. Sarà pertanto, abolendo per brevità Tindice 0,
l^x — T-r, — -iT-,y ; -^ = ^ + -7-7^ — -jr-,x (10)
X y — X y X y — X y .
___ ix- -h y-f _ ix'^ + y4 .^ ....
\x y — X y \ X y — x y
ove s = -f- 1 , oppure £ = — 1 secondo che x y" — x" y è
positivo 0 negativo.
Le (10) si possono scrivere :
f r
u X
Ora la somma dei quadrati di £ — ==^== ed £ / ^„ -,
Vx"' -^ y'-^ Vx^ 4- y'^
vale 1 ; esiste perciò un angolo 6 tale che :
X y'
cos 6 = e , „ , sen 0 = £
donde tge = ^ = ^-
Questo angolo 0 è dunque l'angolo che la direzione positiva
dell'asse delle x forma con la retta tangente : angolo che la
(*) Le seguenti equazioni si esprimono per così dire, che t = a sarà una
radice almeno tripla dell'equazione [x {t) — l]^ -{- [y {f) — -^]'^ = B^ \ ciò che si suol
enunciare dicendo che il cerchio osculatore ad una curva G in un suo punto A
è quel cerchio, che ha con la C almeno un contatto tripurUo nel punto A.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 413
terza delle (12) definisce a meno di multipli di n (com'è natu-
rale, perchè non è data a priori la direzione positiva della
retta tangente) e che invece con le prime due delle (12) noi
abbiamo definito ora completamente (cioè a meno di multipli di
2 71, perchè ne abbiamo dato seno e coseno). È così :
g=a; — irsene ; f] ==^ ]/ -^ R cos ^. (13)
Notiamo che la
ds = s \/x' -h y'dt
definisce Farco s della curva (a meno di una costante additiva)
in grandezza e verso (dipendente dal segno di s) ; le (12) di-
ventano cosi ( posto s' = — ì :
cose=^; = ^ , sen6=< = j-^(*) (U)
s ds s ds
dd
Posto 0' = — , si ottiene derivando l'ultima delle (12)
dt
0 = arctg ^
X
y X — y X
X -^ y
n
(*) L'aver fissato 0 (a meno di multipli di 2 -) corrisponde ad aver fissato
sulla retta tangente il verso t da considerarsi come positivo. Le (14) provano che
il verso fissato come positivo per s concorda al verso t fissato come positivo sulla
retta tangente. Si riconosce dalla (13) che il verso i assunto come positivo sulla
tangente deve rotare (nel verso positivo) di un angolo retto -^ per sovrapporsi a
quella semiretta n (normale) che dal punto (ic, ?/) va al centro (?, fi) del cerchio
osculatore; cioè guardando dal punto {x,\i) la direzione t scelta come positiva
della tangente, si ha a sinistra il centro (?, >i) del cerchio osculatore (che rimane
evidentemente dalla parte, a cui la curva volge la concavità). Infatti i coseni diret-
tori di n sono
p = — sen0 = cos ixì + :^l e ^^ =cos^ — cos \yt-\- -^i
perchè l'angolo ^^ = 0, e l'angolo yt^^yx-^ xi=^— ~ -|-9.
■ Si suppone che, secondo le convenzioni usuah, si abbia: a??/ = -^ ed ?/^ = — y)'
CAPITOLO XIX
—
- ^ 12
m
e'
. ?/' s'
y ^
ds
.9
3 ?
ix'-'
-1-
/2\ 2
y )
m
1
ds
R
414
Quindi
db e' y''s' — y'x"
— = — = £ :r , Cloe :
(.T 4- ?/ )
(15)
Differenziando (13), ricordando (14) e (15), si ha:
dE, = dx — R cos 0cW — sen ddR = — sen ddR
df] = cos bdR,
donde :
df] y — ri , ,
^==-cotge = L^^ (16)
^f H- drf^dR\ (17)
Le (15), (16), (17), hanno interpretazioni notevolissime.
Si noti che l'incremento AG subito dall'angolo 0, quando si passa
da una ad un'altra tangente, vale proprio l'angolo di queste
due tangenti. Il rapporto -^ dicesi curvatura della linea. Quindi
la (15) ci dice :
Afì
La curvatura in un punto A è il limite del raj^porto — —
ottenuto dividendo V angolo A0 formato dalle rette tangenti alla
curva data nel punto A ed in un altro punto B della curva,
per la lunghezza As dell'arco AB, quando il punto B tende al
pUnto A.
Al variare del punto (x, y) sulla curva data, il punto (g, ig)
descrive un'altra curva : la cosidetta evoluta della data curva.
L'evoluta è dunque il luogo dei centri (^, ti) dei cerchi
osculatori.
La tangente all'evoluta in un suo punto (5, 'ff) è la retta
che congiunge (S, f]) al punto (x, y) corrispondente sulla curva
iniziale, cioè è la normale alla curva data.
df]
Infatti il coefficiente angolare di tale tangente — _ è per (16)
uguale a — — — (coefficiente angolare della normale alla curva
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 415
data) od anche a ^ coeificiente angolare della conffiunffente
\ — X
i punti {x^ y) e (^, '(]) ). Cioè in altre parole :
Le rette normali a una curva sono le tangenti della evo-
luta, 0, come si suol dire, inviluppano la evoluta.
Infine si noti che, se o è l'arco della evoluta, è per (17)
d<r = df -f- dyf = dR\
Fissando in modo opportuno il verso di o, sarà dunque
d(5 = dR, donde a = | ^jR , a = i^ 4- cost.
Cioè Varco dell'evoluta è, a meno d'una costante additiva (*),
uguale al corrispondente raggio R : in altre parole Varco di evo-
luta compreso tra due punti di questa è uguale alla differenza
dei corrispondenti raggi dei cerchi osculatori della curva data.
Una curva C si dice l'evolvente della propria evoluta Ci.
Il precedente teorema dà un metodo assai comodo per costruire
le evolventi C di una data curva Ci. Se un filo di lunghezza
costante avvolto attorno Ci si svolge, in modo che la parte
svolta rimanga tesa (lungo la tangente in quel punto di Ci ove
il filo si stacca da Ci), l'estremità libera del filo descriverà
l'evolvente C; anzi ciò rende intuitivo il teorema che una
curva Ci ha infinite evolventi, le quali si ottengono tutte, va-
riando la lunghezza del filo, o il verso in cui è avvolto su Ci.
Ci basti ancora osservare che, se un pendolo M è retto da un
filo flessibile OM^ il quale, mentre M oscilla, deve avvolgersi
su una curva C, allora M descrive durante tale oscillazione una
evolvente di C. Su tale principio è fondato il pendolo cicloidale
il quale è perfettamente isocrono, e impiega tempi uguali a
fare oscillazioni qualsiasi, per quanto ampie.
v) Per dimostrare effettivamente che una curva 0, possiede infinite evolventi C,
si proceda nel modo seguente. Siano ?, v; le coordinate di un punto di (7, e ne sia
5 l'arco, che è individuato a meno del segno, e a meno di una costante additiva.
Per ogni particolare scelta di ^ si otterrà una particolare evolvente. Infatti, fissato ^,
e posto 11=^^, le (^?=: — sen òdi? e dn =^ to'è Q dB individuano un angolo 6, e
le (13) ci danno il punto ix,y). Ed è ben evidente che questo punto {x,y) descrive
una delle evolventi cercate. Esso soddisfa infatti a (16) e perciò esso si trova sulla
retta uscente da (?, fi) col coefficiente angolare — cotg 6 — — , cioè sulla tangente
(*) Che varia, quando si cambia il punto dell'evoluta scelto come origine
degli archi a.
416 CAPITOLO XIX — § 124-125
a C, nel punto (!,>;). Ed è pure facile riconoscere che questa tangente a (74 è
normale alla curva C descritta dal punto x, y. Infatti il coefficiente angolare della
tangente a C nel punto {x,y) è data da -^ , che, in virtù delle equazioni citate,
si riconosce uguale a tgtì. Cosicché si verifica appunto che le tangenti in {x,y)
a C ed in (?,>?) a Cj sono tra loro normali.
Osservazioni.
Supposto che la curva sia definita da. una equazione
y z=z f{x), cioè dalle equazioni y = f(t), x = t, la. (11) diventa,
ricordando che x =^ 1, x" = 0 :
R = — j — ^fj — (y\ y" derivate rispetto alla x).
I ij I
Questa forinola è di uso frequente.
Se invece ^ = s, la (11) diventa
-^ ^=^\x y" — y x" I {x\ X ecc. derivate rispetto ad s).
Come in fine del § 123, avremmo potuto definire il cerchio osculatore in
A come la posizione 'di un cerchio passante per J. e -B, e tangente in A alla
curva r, quando B si avvicina ad A.
§ 125. — Inviluppi di una schiera di curve.
È molte volte comodo individuare una curva f, dando in-
finite linee C, tali che per ogni punto ^1 di f passi una C
tangente in A alla f.
Così, p. es., assai spesso si dà una curva f definendo le
rette C tangenti a F (si ricordi, p. es., l'equazione tangen-
ziale di una conica F). Così assai spesso nelle scienze applicate
a una curva F si sostituisce una curva policentrica \' ; si osserva
cioè che F è tangente a ciascuno dei suoi cerchi osculatori C,
e si sostituisce alla F una curva F' formata con un numero
finito di archetti circolari : ognuno dei quali è un arco di un
cerchio osculatore 0(*). Infine la evoluta F di una curva E
si può definire come la linea a cui sono tangenti le rette C
normali alla E,
Se, p. es., y = f{x) è l'equazione di E, la retta C nor-
male alla E nel punto di ascissa a è definita dall'equazione :
{y — fW)\f {a) -\- {x — a)^^.
(*) Basterebbe ricorrere a cerchi soltanto tangenti.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 417
E ci si può proporre il problema di dedurne direttamente le
coordinate (^, yj) del punto ove tale retta tocca l'evoluta.
Per dare un altro esempio più semplice, i cerchi C di
equazione
{x — a)' H- ^' — 1 = 0
(che hanno il centro in quel punto dell'asse delle x, che ha l'a-
scissa a, e che hanno 1 per raggio) sono tutti (qualunque sia a)
tangenti a ciascuna delle due rette ?/=!,?/ = — 1. Ci si
può porre il problema di dedurre direttamente questo teorema
dalla equazione dei cerchi C.
Noi senz'altro esamineremo generalmente un sistema di
infinite curve C di equazione
f{x,y,a) = ^ (1)
dove a è un parametro costante lungo una curva del sistema,
ma che varia da una all'altra curva.
Nel campo che consideriamo la /* e le sue derivate parziali
del primo ordine sieno finite e continue.
Ricordo che il coefiìciente angolare della retta tangente
fx
alla (1) nel punto {x, y) vale — -~ se, come supporremo, fy =# 0.
/ y
Supponiamo che esista una curva
y = ^(x) (2)
tale che per ogni punto A di tale curva passi una e una sola
curva (1) e che questa curva (1) sia tangente in A alla curva (2).
Cioè per ogni punto A della curva (2) esiste un valore di a
tale che la curva (1) corrispondente a tale valore di a passa
per J. ed è ivi tangente a (2). Questo valore di a varia col
punto A: è cioè una funzione W {x), che supporremo derivabile,
della sua ascissa x.
Dunque ogni punto A di ascissa a; e di ordinata <^ {x)
soddisfa alla (1) ove si ponga a = W(a;); cosicché:
è una identità. Perciò derivando troviamo :
òx òy da
[se 2/ =^9 (a;); a = W (a;)]. Ma il coefiìciente angolare ^' {x)
della retta tangente a (2) nel punto A è uguale al coefficiente
27 — G. FUBiNl, Analisi matematica.
418 CAPITOLO XIX — § 125
angolare — 77- della tangente a (1) nello stesso punto (e ciò
perchè per ipotesi queste due rette tangenti coincidono). La
precedente uguaglianza diventa quindi:
^W'Ct) = 0. (a)
Se in un punto di (2) la V^ è diiferente da zero, la ^ (che
oa da
è per ipotesi continua) sarà diiferente da zero anche nei punti
vicini; e quindi per (a) dovrà ivi essere W(rr) = 0, cioè a = co-
stante. Cioè un pezzo almeno della curva (2) sarà addirittura un
pezzo di una curva (1): caso che considereremo come banale.
Se così non è, avremo:
^^ = 0.
da
Cioè ogni punto A della curva (2) soddisfa contemporaneamente
alle:
f=0 f^=0 (3)
per un qualche valore di a [che può variare con A^ perchè
a = W {x)\. Viceversa, se per ogni punto di una curva (2)
esiste un valore di a così che ne sieno soddisfatte le (3), allora
per ogni A di tale curva (2) esce una curva (1) che è tangente
in A a tale curva (2).
Una curva (2) in tali condizioni si chiama inviluppo
delle (1). Quindi nelle nostre ipotesi:
L'inviluppo (0 uno degli inviluppi) delle (1) è, se esiste,
una curva, per ogni punto della quale esiste un valore di a
tale che siano contemporaneamente soddisfatte le (3). Cosicché,
eliminando a tra le f = f'a = 0, si può dedurre spesso V equa-
zione delV inviluppo.
Così, p. es., un inviluppo dei cerchi
{x — af -{- y' — l= 0 (4)
soddisfa anche alla 2 (x — a) = 0, cioè alla x =^ a; e quindi
(4) si riduce ad if — 1=0; tali cerchi hanno dunque due
inviluppi; la retta y=l e la retta ?/ = — 1.
alcune applicazioni geometriche del calcolo, ecc. 419
Esempi.
a) Così, p. es., la retta C tangente alla y =z f (x) nel
punto [a, f(a)] ha per equazione
y — fio) — {x — a)f'ia) = 0. (5)
Questa retta C dipende da un parametro a; l'equazione
del suo inviluppo si otterrà eliminando a tra la (5) e l'equazione
— f(a) + f (a) — ix — a) f {a) = 0,
ossia
ix — a)f (a) = 0,
che se ne deduce, derivando (5) rispetto ad a. Supposto che
nessun tratto della y:=^f(x) sia un segmento rettilineo (caso
affatto elementare), per un valore generico di a sarà f'^ (a) ^- 0.
E dall'ultima equazione si deduce x — a = 0, ossia a = ir.
Sostituendo in (5) si trova :
che è l'equazione della curva iniziale; il che si poteva preve-
dere pensando che una curva è l'inviluppo delle sue tangenti.
P) L'inviluppo delle rette normali ad una curva yz=:f(x)
è Vevoluta della curva. L'equazione della normale nel punto
di coordinate a,f{a) è:
[y — f(a)]f'{a)-hx — a = 0 (6)
che dipende dal parametro a. Il punto corrispondente dell'evo-
luta sarà il punto (x, y) che soddisfa insieme alla (6) ed alla :
1 + [f {a)Y -[y — fio)] r (a) = 0
che si deduce da (6) derivandola rispetto ad a.
Se nelle (6), (7) poniamo Xq ed yo al posto di a e f{a), e
poniamo ^, t] al posto delle x, y, queste equazioni si riducono
alle (8), (9) del § 124 [ove si supponga x =^ t e quindi :r'o = 1.
a^"o = 0, yQ^=:f'(a) ed y'(i = f" (a)]. Resta così di nuovo
provato che:
E punto dove la normale in A alla curva y = f (x) tocca
revoluta della curva è il centro del cerchio osculatore in A.
E quindi: L'evoluta si può definire sia come inviluppo delle
normali, che come luogo dei centri dei cerchi osculatori.
420 CAPITOLO XIX — § 126
§ 126. — Curvatura e torsione di una linea sghemba.
La teoria del cerchio osculatore, e della curvatura di una
linea piana si può estendere alle curve sghembe. Noi estende-
remo soltanto la definizione di curvatura, trattando anche della
definizione analoga di torsione.
Partiamo dalla formola che dà la curvatura in A come il
limite del rapporto dell'angolo di due tangenti all'arco compreso
tra i punti di contatto. Noi potremo generalizzare ponendo le
seguenti definizioni (Cfr. questo §, y) :
a) Sia C una curva, da ogni punto A della quale esca una
retta r. Le coordinate x, y, z di un punto C e i coseni diret-
tori X, |x, V della retta corrispondente si potranno considerare
come funzioni del relativo arco s della curva, misurato a partire
da un qualsiasi punto iniziale.
Sia 0 l'angolo delle due rette uscenti da due punti JL, B
di C; m A l'arco s abbia il valore 5o, in B il valore So -H ^^.
Ammetteremo che quando B si avvicina ad A, ossia per /^ = 0,
sia lim 0 = 0 (che cioè la direzione della retta r varii con
n
continuità al variare di s). Può darsi che lim — - abbia un valore
/i = o h
determinato. Proviamoci a determinarlo.
,,. ,. 0 sen 0 . , ,
In tale ricerca possiamo moltiphcare — per — - — , poiché
h 0
,. sen0 .
lim--- = l.
6 = 0 0
sen 0
Il limite cercato diventa così il lim •
^ = 0 h
Cerchiamo il limite per /i = 0 di questa espressione. La
retta che esce da A ha per coseni di direzione ^, M-, v ; quella
che esce da B avrà per coseni di direzione:
X-hAX, [ji-f-AjjL, v-4-Av.
Una formula di Geometria Analitica dice che (cfr. es. 1° a
pag. 79)
sen 0 = ^ . ^ . .A
X-hAX [i-f-A[i v-hAv
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 421
Sottraendo la prima della seconda riga (*) avremo
sen" 9 =
sen^ 0 =
X jx V
AX A|i A V
1 XAX+jiAji
XAX-4-|JLAp,-f-vAv AX--4- A[ji^
V A V
Av^
ossia :
sen'0=::AX2-^ Api^-f- Av^ — (XAX-4- [i A jx -f-vAv)
e quindi (poiché /^ = A 5 = incremento delFarco) :
A X^ H- A [Ji^ -1- A v^^ (X A X + |Ji A |i
/seney AX-
vAv)^
às'
A. 9^
e
\
lim
im(^) =X'^^-pi'-^-4-v'^ — (XX'+|jtji'+vvT =
X [ji V 2
X' \i' V'
se X, |ji, V posseggono derivate finite (rispetto a s).
1, derivando avremo:
ossia:
Ricordando che X^ -h |i^ -h v^
2 XX' -I- 2 \i\i -
XX'
[i[X
vv
2 vv z=zO,
0.
Quindi sarà:
lim
sen 0 _^
h
X [1 V
X' li' V
2
1 ^IJ^v
1 X>' V
Questa formula misura, per così dire, la rapidità con cui le
rette, che studiamo, cambiano *di direzione. C'è ambiguità di
segno, ma questo è spiegato dal fatto che non si è determinato
in segno l'angolo delle due rette.
P) Un'applicazione tra le più importanti è quella di misu-
rare (se così ci è lecito esprimerci) la rapidità con cui una curva
sghemba si torce, cioè si allontana dall'essere piana. Se la curva
fosse piana, essa avrebbe per piano osculatore sempre lo stesso
suo piano, e le binormali sarebbero sempre parallele tra loro.
(*) Basta ricordare il valore del quadrato di tale matrice dato al § 22, pag. 76,
per riconoscere che questa sottrazione lo lascia invariato.
422 CAPITOLO XIX — § 126
Misurare la rapidità con cui una curva si torce è come misu-
rare la rapidità con cui le binormali, anziché restar parallele
tra loro, deviano una dall'altra; rapidità che, secondo le prece-
denti convenzioni è misurata da l/X'^ -f- ji'^ -h v''^, in cui per
\ [A, V si pongano i valori dei coseni di direzione della binor-
male. Questo numero si assume per definizione come valore della
torsione della curva.
Le curve piane hanno la torsione nulla; quanto più piccola
è la torsione, tanto più la curva si avvicina ad essere piana.
Y) La curvatura di una curva in un punto è un numero
che, si può dire, serve a misurare quanto rapidamente la curva
si allontana dall'essere una retta.
Anche nel linguaggio comune si dice che un arco dì cerchio
di raggio grande è poco curvo, quello di un cerchio di raggio
piccolo è molto curvo.
Per definire la curvatura basta trovare una quantità che
sia tanto più piccola quanto più, secondo la nostra intuizione,
la curva si avvicina ad essere una retta.
Prendiamo tutte le tangenti a una curva ; se questa è retta,
tutte le tangenti coincideranno, e quanto più la curva è curvata,
tanto maggiore (a parità di arco fra i punti di contatto) sarà
'angolo che le due tangenti formano fra loro.
Dunque si può misurare la curvatura di una curva come
la rapidità di cambiamento di direzione delle tangenti alla curva
stessa. Curvatura di una curva sarà perciò per definizione il
valore di l/X'" H- |ji' ^ 4- v' ^, dove X, jji, v sieno i coseni direttori
della tangente. È evidente che questa è proprio la stessa defi-
nizione data per le curve piane, come del resto verificheremo
più avanti col calcolo eifetttivo.
Se X, y, z sono le coordinate in funzione dell'arco dei punti
della curva, i coseni di direzione delle tangenti saranno x\ y\ z\
e quindi :
curvatura = Vx'" ^ y"' -\- z" = l/f ^1 ^1 '[ || ^ .
Cosi la curvatura è data dalla radice quadrata della somma
dei quadrati delle derivate seconde delle x, y, z, prese rispetto
alVarco come parametro (*).
(*) Si noti che se la curvatura è nulla, allora x" =y" — z" ~-0, e quindi
x,y,z sono funzioni lin(^ari della s. La linea è perciò una retta. Ciò che concorda
con l'idea intuitiva di curvatura, da cui siamo partiti.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 423
Si dimostra che i coseni di direzione della normale princi-
pale sono proporzionali a x", y", z" (*), ossia sono uguali ad
hx*'^ hy", hz'\ dove h si determinerà in modo che :
h \X -h y 4- ^ ^ ! zrr 1 ;
cosicché : h = === -
VX ^ -h y ^ -h z -"
Ma il radicale Vx'^ -hy'' 4- ^"' non è altro che la curva-
tura : quindi :
e i coseni di direzione della normale principale saranno:
;/ /* >>
X y z
curvatura curvatura curvatura
L'inverso della torsione si chiama raggio di torsione, V in-
verso della curvatura si chiama raggio di curvatura.
5) Applichiamo le considerazioni fatte alle curve piane. Per
una curva posta nel piano -^ = 0 avremo
curvatura = l/a^''^ -h v"^ =
^/\x y' op_-i/|^'/
\ \x"y"o\ "~ [/ \xy"
±{x y —yx),
se, ricordiamolo, il parametro, rispetto a cui si deriva, è lo
stesso arco s della curva. Il lettore noti che questa formola
coincide con Tultima del § 124 <pag. 416).
Osservazione. Se x, y, z sono le coordinate di un punto di una curva date
in funzione dell'arco s, abbiamo già visto che
_dx^ , _ày_ _dz^
^^-Ts' ^~ds''^~ds'
d^x d^y d^z
5 = P 5^ , ^ = f 5^ , ? = P ^ (f- =-- raggio curvatura)
sono rispettivamente i coseni direttori della tangente e della normale principale.
Si considerino ora x, y, z come funzioni di un altro parametro t pure individuante
(*) Infatti, dall'equazione stessa del piano osculatore, risulta che una retta r,
i cui coseni di direzione sono proporzionali a x", y", z", è parallela a tale piano.
E, poiché dalla x'^ -\- y'^ + z'^ =1 si deduce derivando x' x" -^ y' y" -\- z' z" = 0,
la retta r è perpendicolare alla tangente. Quindi r è parallela alla normale principale.
S'intende che questo risultato vale soltanto, se si assume l'arco s come variabile
indipendente.
424 CAPITOLO XIX — § 126
i punti della stessa curva. Anche l'arco s sarà funzione della t. E avremo, posto
, ds ,. d^s
^t—di'^t — di/'''
dx d^ , , dif , dz^_
'dt~~ds^t-''^'-dt~^^^t^ dt~"'^^t'
d^x d Idx \ „ dx . , d^x ., , 1 , , ^
dt^ dt\ds 7 i ds i ds^ t^ ^ t.
Le quali formole, fondamentali per la cinematica, ci permettono facilmente
di ricavare i valori di a, ^, •/, ?, >:, ? dai valori delle derivate di x, y, 0, s rispetto
alla t. Si deduce, per esempio : ,
j s'x" — x'^s';
— \=z e analoghe.
Quest'ultima formola si poteva anche ottenere, ricordando che:
9^~ ds''" ds\ds) dA^') s^dìX^y
Note le a, ^, y, — ?, — /j, — ? si ricava tosto p ricordando che :
? ? ?
A
E i coseni direttori della binormale si hanno tosto, osservando che questa
^'=K=T+[f]'+[M-
retta è normale alla tangente e alla normale principale.
Esempi.
l'' Determinare l'equazione della catenaria^ la curva cioè
che soddisfa alla :
-^z=z}is (h = cost. ; s ■=■ arco curva) (h =# 0).
dx
. . . , . , .ds 1/^ . /dy\^
Derivando rispetto x si ha, poiché — = 1/ ^ "^ \^/ *
Per integrare questa equazione si può seguire il metodo
generale. Più brevemente si ponga
z è una nuova funzione incognita. L'equazione diverrà
=^ h\/ i — — ) ossia -—=:h, donde z=:hx-^ k
|/ V 2 / dx
e' -\-e-' dz
2 dx
(k = cost.)
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE DEL CALCOLO, ECC. 425
E dunque -f- = — ; e infine, integrando :
y = 2l + ''
dove l è, come k, una costante arbitraria.
Con una traslazione degli assi si può fare ^ = ? = 0, e
quindi y = — . Con una similitudine (omotetia rispetto
^ ih
all'origine) la curva si trasforma nella y = — — -— =^ cos h x.
Defin. Si dicono sottotangente e sottonormale in un punto A
di una curva y ^=^f{x) i segmenti compresi tra la proiezione
di A sull'asse delle x, e il punto d'intersezione di questo asse
con la tangente o la normale in A alla curva considerata.
2'' Trovare la sottotangente e la sottonormale per una
curva y =: f(x) nel punto di ascissa x.
Ris. L'equazione della tangente e della normale (indicando
con X, Y le coordinate correnti) è rispettivamente:
[f(x) -Y]^f (x) [X— x] = 0;f (x) [ Y- fix)] + [X— x]=0.
Posto F=0, se ne rispettivamente deduce per l'ascissa X
del punto di intersezione con Tasse delle x:
X=x — Pp. =x — K; X = x-^ f{x) f {x) = x-\- yy\
t w y
donde :
V
sottotangente = — -^ ; sottonormale = yy.
3^ Trovare le curve a sottotangente o sottonormale co-
stante h.
Si ha ,^=^h\ ossia — = -^ — ) o vv' =
y \ y k / ^^
Se ne deduce integrando
y =z Ce 0 y^ ^=^ 2 kx -\- CiC=^ costante)
che sono rispettivamente una curva esponenziale, ed una pa-
rabola.
426 CAPITOLO XX — § 127
CAPITOLO XX.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI
§127. — Integrali curvilinei e potenziale - Prime definizioni.
Ricordiamo la definizione già posta al § 91, pag. 302, e
le osservazioni dell'es. 4^ a pag. 332, § 100. Siano :
per a ézi ^h (a, ò = cost).
le equazioni parametri che di un arco C di curva; e siano
x! (0, y' (i), ^' (0 continue nell'intervallo considerato.
I seguenti risultati si estendono facilmente anche al caso di una
curva C con un numero finito di punti angolari (in cui le derivate
a destra delle a;, ?/, z non coincidano con le derivate a sinistra).
Sia X (x^ 2/, z) una funzione continua delle x^ y^ z in un
campo D contenente all'interno la curva C.
La -X [x (0, y (t), z (t)] per a^t ^h ci dà i valori assunti
da X nei punti di C. Secondo le definizioni poste nei citati
paragrafi, con 1 Xdx indichiamo lo :
(1) {\\_x{i),y{t\z{t)\^(t)Ai.
'J ri
Questo integrale rappresenta il valore relativo all'arco C di
una funzione additiva dei pezzi della curva considerata ; e pre-
cisamente di quella funzione additiva^ la cui derivata è X,
quando si assuma come misura di un jyezzo di tale curva la
lunghezza della sua proiezione sull'asse delle x (supposto che
questa proiezione sia in corrispondenza biunivoca coi punti del
pezzo di curva considerato).
Pertanto, se sono dati gli assi coordinati, tale integrale è
perfettamente determinato dalla funzione X e dall'arco C; ed
esso cambia evidentemente di segno, invertendo gli estremi A, B
di tale arco.
Del resto, se x = ^{'\ y~'y{')^ z —1; {-) sono {cL^-^f) altre equazioni
parametriche dell'arco stesso, esìste corrispondenza biunivoca tra i valori di te-,
in guisa che valori corrispondenti delle t, - individuino lo stesso punto della curva.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI
427
Mentre t varia da a a (5, la < varia da a a b. E in tali intervalli te t si possono
considerare funzioni l'una dell'altra tali che x (t) ~ x (-), x' (t) dt = x' {-) dr, e
analoghe per y, z-. La regola di integrazione per sostituzione dimostra che l'integrale (1)
fi5 _ _ _ _
è uguale appunto al f\x (t), y (t), s {-)] x' (r) d-, cioè che l'integrale (1) non
cambia, se cambiamo la rappresentazione parametrica della curva C.
È pure evidente che, se (7 è la somma di due archi C\ C'\
si ha :
f Xdx= f Xdx-^ f X
dx
(che corrisponde al fatto che tale integrale è funzione additiva).
Si noti che, dato un arco, invece di dire quali dei suoi
Fig. 42.
estremi si deve considerare primo, e quale secondo,
si può pon una freccia indicare il verso in cui lo si
intende percorso (fig. 42).
Mutare il verso della freccia farà cambiare il
segno del nostro integrale.
Questa osservazione è specialmente importante
per il caso che l'arco AB sia un arco chiuso, ossia
che gli estremi A ^ B coincidano (fìg. 43).
In tal caso fissato con una freccia il verso in
cui il nostro arco si deve intendere percorso, e, detto
(a, h) l'intervallo in cui deve variare t dal valore a
al valore h, perchè il punto {x, y, z) descriva (da
A in A) l'arco C nel verso prestabilito, si
intende con j Xdx proprio l'integrale
• (x[x{tly{tlz(^t)]x'{t)dt
E naturalmente questo integrale non di-
pende dal punto A=^ B considerato come
iniziale e finale, ma soltanto dall'arco dato e
dal verso della freccia. Mutando questo verso,
Fig. 43. varia il segno dell'integrale.
p) In modo affatto analogo, se Y e Z sono funzioni continue
nel campo Z>, si possono definire gli integrali \ Y dy e \ Z dz
estesi a un arco di curva ; e si può poi definire lo :
J {Xdx -h Ydy -h Z dz)
428 CAPITOLO XX — § 127
esteso a un arco di curva come la somma degli integrali
j Xdx, j Ydy, j Z dz estesi allo stesso arco.
Se noi anche qui volessimo usare locuzioni abbreviate, po-
tremmo definire il precedente integrale nel seguente modo :
Divisa la curva G in infiniti archetti infinitesimi B, si mol-
tiplichino i valori di X, F, Z in uno di questi pezzetti rispet-
tivamente per le sue proiezioni dx^ dy, dz sui tre assi coordi-
nati e si sommino i prodotti così ottenuti. Otteniamo così un
trinomio Xdx -h Ydy -h Tidz per ognuno degli archetti 5; la loro
somma:
2 (Xdx 4- Ydy -4- Zdz^
è il nostro integrale. Queste locuzioni sono però da considerarsi
al solito come locuzioni abbreviate e non rigorose. Sarà utile
esercizio ridurle ad una forma logica e soddisfacente.
Y) Il valore del nostro integrale è, si ricordi, quello di
j.
'l X[x (i\ y (t\ z (0] X (0 -^Y\x {ì\ y {t\ z {t)] y' (t)
Z[x(t),y{tlz{t)]z^{t)\dt,
qualunque sia il parametro t individuante i punti di C. Se,
p. es., si pone t=^s=^ arco della curva C contato da un'ori-
gine scelta a piacere, e se con F=^'\/X' 4- Y' -f- Z^ si indica
la grandezza del vettore che ha X, 7, Z per componenti, con
_X s — — = —
se ne indicano i coseni direttori, il nostro integrale diventa :
r*' / dx ndy , dz\ ,
J so \ ds ^ ds ds/
se 5o, Si sono i valori di 5 per ^ = a e per ^ = b. Poiché
dx du dz
— 5 — ? — sono i coseni direttori della tangente a C, indicando
ds ds ds
con w l'angolo di F con C in un punto qualsiasi di 0, il nostro
Fcosoids. Il nostro integrale appare iden-
tico a quella funzione additiva dei pezzi della nostra curva, la
cui derivata è i^cosoo, se conveniamo di assumere come misura
di un pezzo di curva la sua lunghezza.
l5rTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI 429
5) Se esiste una funzione V{x,y^z) tale che dV ^=^ Xdx -\-
-f- Ydy -h Zdz, si dimostra, come a pag. 303, che il nostro inte-
grale è uguale alla differenza dei valori che la V assume nei
punti A, B estremi della curva, a cui è esteso il nostro inte-
grale, e che esso perciò dipende soltanto dalla posizione dei
punti A, B e non dalla forma della curva C che li congiunge.
Tale funzione V esiste, p. es., in un parallelopipedo (§ 92,
pag. 306) in cui valgano le
X y 1^3.= Y z Z if =^ Z y; X2 = 0.
Esempio.
La teoria degli integrali curvilinei riceve un'importante ap-
plicazione alla misura del lavoro di una forza, le cui componenti
secondo gli assi coordinati sono X, Y, Z, quando il punto di
applicazione M descrive la curva
x = x (0, y — y (t), z = z (0.
Ci chiediamo, usando il linguaggio infinitesimale: Qual è il
lavoro eseguito quando M descrive un archetto di tale curva, le
cui proiezioni sugli assi coordinati sono dx^ dy, dz? Se i^ è la
grandezza della forza, ds è la lunghezza di un tale archetto,
tale lavoro è Fds cos {F, s) dove con cos (F, s) indico il coseno
dell'angolo che F forma con la tangente all'elemento di curva
considerato. Il lavoro eseguito, quando M descrive un certo
pezzo della nostra curva, sarà così:
e i^cos (Fs) ds=^ ^ (Xdx -+- Xdy 4- Zdz)
esteso all'arco di curva considerato (*).
Quando mai un tale lavoro dipende soltanto dalle posizioni
estreme assunte dal punto M e non dalla particolar curva che
le congiunge? Per il risultato precedente si ha che (almeno se
ci muoviamo in parallelopipedo, ecc.), ciò avviene se
3X__3F ^_3Z 3^_3X
• 3?/ 'òx ' 3^ "òy ' 'òx "òz
Nel qual caso esiste una funzione V per cui
(*) Si noti che i^cos {Fs) è la proiezione di F sulla tangente alla curva oppure
che ds cos (Fs) è la proiezione dell'arco infinitesimo ds sulla direzione della forza.
430 CAPITOLO XX — § 127
e il lavoro citato è uguale alla diiferenza dei valori che V ha
nelle posizioni estreme occupate da M.
Una tale funzione V (che è definita a meno di una costante
additiva) si dice la funzione delle forze; essa, cambiata di segno,
è detta anche il potenziale del nostro campo di forze.
Esempii di campi di forze che ammettono potenziale sono
i seguenti:
1® Il campo delle forze di gravità in una regione abba-
stanza piccola attorno a un punto A della superficie terrestre.
Assunto come asse delle z la verticale diretta verso il basso
e quindi come assi x. y due rette orizzontali, la forza di gra-
vità agente su un punto di massa m ha per componenti
X==0, F=0, Z^mg,
Si trova F= m^-^ + cost., p. es., V^=^mgz. Ed il lavoro com-
piuto da M nel passare da un punto (a, p, — h). ad un punto
(a, 6, — k) cioè nel cadere da un punto di altezza /i a un punto
di altezza k è mg {h — ^) ed è indipendente dalla via seguita.
2° I campi Newtoniani: quelli cioè, in cui un punto M.
di massa 1, è attratto da un punto fisso 0 con una forza F
avente per direzione la direzione della retta OM ed una gran-
dezza ->- dove h = cost. ed r è la distanza OM (attrazione
r
universale, attrazione di masse elettriche o magnetiche). La
costante h si supporrà positiva o negativa, secondo che F ha
la direzione OM o la direzione MO.
Scelti infatti come assi x, y, z tre rette a due a due orto-
gonali uscenti da 0, indicate con x, y^ z le coordinate di Jf,
con r = Vx" -+-/-+- z- la distanza OM, con (r, x), (r, ?/), (r, z)
l'angolo di OM coi tre assi, le componenti di F sono
2 = — cos(ra;) = ^, I— -^, Z— ^
Poiché ^( — ) = 3-^-== ìt^ ecc. SI trova facil-
dx\r/ r òx r
mente potersi porre K =
Il lavoro eseguito da un punto di massa 1 nel passare da
una posizione A ad una posizione B è dato dalla diiferenza dei
corrispondenti valori di F, ed è affatto indipendente dalla via
scelta per andare da ^ in ^.
INTEGRALI CURVILINEI SUPERFICIALI 431
§ 128. — Trasformazione di integrali curvilinei nel piano C)-
Se abbiamo un campo piano y limitato da un contorno ad
uno 0 pili pezzi, si dirà j Xdx esteso al contorno di y la somma
degli integrali j Xdx estesi ai singoli pezzi del contorno di y,
percorsi in guisa che un osservatore, camminando sul lato del
foglio volto verso il lettore e percorrendo ogni pezzo di detto
contorno nel verso indicato dalla freccia, lasci a sinistra Farea y.
Fig. 44.
E notiamo che un tale osservatore, che volgesse la faccia verso
la direzione positiva dell'asse delle x, avrebbe pure alla sinistra
la direzione positiva dell'asse delle y. Se noi tiriamo una tan-
gente ^ a un pezzo del contorno di y volta in verso concorde
a quello in cui si percorre detto pezzo del contorno, e tiriamo
quindi la normale n volta verso l'interno di y, il solito osser-
vatore avrà la direzione n a sinistra, se volge la faccia verso
la direzione t {^g. 44) C*"").
Conserveremo sempre le convenzioni qui fatte.
Teorema 1** — Se ^( è la somma di due aree y', y'', Vin-
tegrale 1 X dx esteso al contorno di ^ è uguale alla somma
degli integrali I X dx estesi ai contorni di y', y''. Infatti siano
(*) I teoremi del § 128 e seg. sono importanti al tecnico specialmente per le
applicazioni alla elettrodinamica, ed anche alla idrodinamica teorica.
(**j Al lettore l'enunciato preciso delle condizioni, che si suppongono, sod-
disfatte dal contorno.
Nel primo campo •/ della precedente figura, il contorno esterno di y è, si
noti, percorso in verso discorde al verso in cui procedono le lancette di un oro-
logio, i contorni interni sono invece percorsi in verso concorde. Qui, si noti, ci
riferiamo a campi v limitati. Al lettore l'esame di campi illimitati.
432 CAPITOLO XX — § 128
e, C C" i contorni di y, y', y". Siano C\ e C'-i quei pezzi del
contorno C (fìg. 45), i cui punti rispettivamente appartengono
e non appartengono al contorno C" e
<^^ siano C'\ e €"2 quei pezzi di C" i cui
, , ,/ \ punti rispettivamente appartengono, e
C^ / ^/ \ C2 non appartengono al contorno C .
t II f \ Sarà:
»^0' '^C, »'0'2
r X^x= f XcZx+ r X6^:r.
-^0" -^C", »/C"',
Evidentemente C\ e C'\ sono archi di curve coincidenti,
ma percorsi in verso opposto. Quindi :
f Xdx-f- f Xdx — 0,
e perciò dalle precedenti formole si ottiene, sommando :
r Xdx-^ f Xdx— [ Xdx-\- f X6?x.
Ma C'2 e C''2 formano complessivamente il contorno C di
Y z= y' -4- v''^ e sono percorsi nello stesso verso, sia come appar-
tenenti al contorno di y' 0 y'^, sia come appartenenti al contorno
di y. L'ultima equazione dà dunque :
f Xdx^=^ f Xdx^ r Xdx=^ f Xdx-^ f Xdx.
e. d. d.
Questo teorema si può enunciare dicendo :
Lo integrale 1 X dx esteso al contorno di un campo y è
una funzione additiva di ^.
Ciò rende intuitivo che in molti casi tale integrale curvilineo
si potrà trasformare in un integrale superficiale esteso a y.
Ciò appunto è approvato dal seguente teorema, da cui
risulta precisamente che la derivata di tale funzione additiva
vale comunemente ^— •
ox
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI
433
Teorema 2°. — Se ^ è un'area del piano xy; e X (x, y)
vi è finita e continua insieme alla ^r- , e se C è il contorno
VX
di y, allora :
Supponiamo dapprima che una retta y = cost. incontri C al
più in due piunti.
Si ha:
1 1 s~~ d^ dy =^ \ dy \ ^z— dx,
dove m, M sono il minimo e il massimo di y in y, ed A^ , A^
sono i punti ove una retta y = cost. (compresa tra le ?/ = m
e y =^ M) incontra C (fìg. 46).
Jf.
'f
....
/f
\
j
)
JL
sT
Fig. 46.
Se indichiamo con X> e Xi i* valori di X in A2, Ai, se ne
deduce :
\\'^-^dxdy=\''dyiX,-Xi)=^ X,dy-j X, dy.
Ossia, indicando con Ci e C2 gli archi HAiK e HA2K,
fi ^cZxcZ2/= f X2C/.Z/— f Xi^2/=: rZcZa;+ rXf/:r= [ X dx.
-'•^yVX * *^Ci ' *^ Ci •^ ATG HA2K ^ -ATC KA^n *J e
^*) È sempre sottinteso che il campo v e il suo contorno C sieno tali che
qaesti integrali abbiano significato secondo le nostre definizioni.
38 — G. FuBiNi, Analiii matematica.
434 CAPITOLO XX — § 128
Se invece C fosse incontrata da qualche parallela all'asse
(ielle X in più di due punti, supponiamo y scomponibile in un
numero finito di parti yi, Y2, Tn, i cui contorni Ci, C2, , C„
siano incontrati da tali parallele al più in due punti. Per il
teorema V e per quanto abbiamo ora dimostrato si avrà:
\ 1 -^r- ^^^ ^V =^ 2 \\ ^^- dx dy ^=^^ \ Xdy ^=^ \ Xdy,
dx dy ^=^ 2u j xdy=^ ^ A
e. d. d.
Teorema 3°. — Se in y le Y e ^^^ sono funzioni finite
òy
e continue^
W ^- dx dy ^=^ — \ Ydx.
Questo teorema si dimostra come sopra: il segno — , che
qui compare al secondo membro, dipende da ciò che, mentre
l'asse positivo delle ?/ è a sinistra dell'asse positivo delle x,
l'asse positivo delle a; è a destra dell'asse positivo delle y.
L'uguaglianza che si ottiene sommando 0 sottraendo le for-
mole dei teoremi 2** e 3° si suole scrivere così:
W (S-^) ^""^y^ ^{.Xdy^Ydx), (1)
dove i segni superiori (0 inferiori) sono da adottarsi contempo-
raneamente nei due membri.
Osserviamo che -z— ' -~ sono in valore assoluto e in segno
ds ds
ì coseni di, direzione della tangente t (volta nel verso sopra
definito) quando con s si indichi l'arco del contorno di y, 0 di
un suo pezzo, crescente nel verso in cui tal pezzo di contorno
A A
si deve percorrere. Poiché gli angoli tn e xy (nelle nostre con-
n ^
venzioni) sono uguali a — , sarà :
dx
—- z=z cos (xt) = cos (xy + yn -h nt) = cos (yn)
dv
-f- = cos iyt) = cos (yx-h xn -h nt) = cos (xn — ti) = — cos (xn).
ds
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI 435
Ossia i coseni di direzione della normale n sono rispettivamente
dv doc
— T"? — • E le nostre formole si possono anche scrivere:
ds ds
J J -^ dxdy =^ \ X-^ ds =^ — i Xcosnx ds
Si sf ^^ '^^ =/, ^f ^' = - J ^^°« "^y ^^
1 j l-^-^^)dxdy:=^ — I (Z cos nx -h Fcos ny) ds. (1)^.
Il ds che figura nel secondo membro è positivo, cioè s si
intende crescente dal limite inferiore al superiore di detto
integrale.
§ 129. — Integrali superficiali.
Se a è una superficie sghemba proiettata biunivocamente sul
piano xy (*), definita cioè da un'equazione z ^=- z (x^ y\ e se X
è una funzione di x^ z/, z si dice integrale di Xdx dy esteso a a
rintegrale
Jj X[x,y,z{x,y)\ dxdy,
esteso alla proiezione y di a sul piano xy. Se poi a è somma
di più superficie Oj, 02, , a,,, ciascuna delle quali è rappresen-
tata da una equazione z-=- z(x^ y)^ si dirà integrale di Xdx dy
esteso a 0 la somma degli integrali di X dx dy estesi alla super-
ficie 0. In altre parole tale integrale è per ogni o^ il valore di
quella funzione additiva dei pezzi di % la cui derivata è X,
se come misura di un pezzo di o,- si assume l'area della sua
proiezione sul piano xy.
Si indicherà (cfr. § 121, pag. 404) poi con j Xdo l'integrale
I ? — ridxdy]
-> .' I cos {nz) I
A
ivi nz indica l' angolo che la normale n di 0 forma con
l'asse delle z [cosicché 1 cos {nz) \ = / . dove p = /«,
VI 4-/-+-^^
(*) Si suppongono finite e continue tutte le funzioni, che compaiono nei calcoli
seguenti, salvo esplicita dichiarazione contraria.
436 CAPITOLO XX — § 129
q = Zy]. Questo integrale si può dunque definire come quella
funzione additiva dei pezzi di o, di cui X è la derivata, quando
come misura di un pezzo di a si assume proprio la sua area.
Se T è un campo a tre dimensioni limitato da una super-
ficie a formata da uno o più pezzi, sceglieremo come direzione
positiva della normale n a a in un punto di a quella volta verso
l'interno di t.
Se X, Y, Z sono in t funzioni finite e continue di x, y, z
„ 3X c)F 3Z .
insieme allear—» ^^— ? ^^' si avrà:
ox dy 02
J Y" eZ T = 1 Y' dx dy dz =: — i X cosnxdo
-^r-(ZT= =: — \Ycosnydo
>K dy .'
3Z
r ozj
Jt 'ÒZ
I(
(^ T =: ^ — \ Z cos nz do
Dx ^y 'òz / "■
— j (X cos nx H- Fcos ny -i- Z cos nz) d a.
Queste formole si dimostrano in modo simile alle precedenti
del § 128.
Se X, F, Z sono le componenti di un vettore J, allora
Xcos nx 4- Fcos ny -h Zcos nz è uguale alla sua componente /„
presa secondo la normale n a a volta verso l'interno di t ; la
3X 3F DZ
"òx ììy 'òz
si chiama la divergenza di J e si indica con div I.
Si ha perciò:
1 divlc^x =: — j I,,do,
che è la celebre formola così detta dellla divergenza.
Il secondo membro di questa formola fondamentale nelle
applicazioni (per es., all'idro- od elettrodinamica) si chiama il
flusso di /attraverso a a; che, nelle trattazioni comuni, si suol
rappresentare col numero delle linee di forza attraversanti a.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI 437
§ 130. — Il teorema di Stokes.
Sia 0 una superficie sghemba ; e ne sia C il contorno (a uno
0 più pezzi. Supponiamo che un osservatore posto nel semi-
spazio ^ > 0, coi piedi sul piano xy e la faccia rivolta verso
il semiasse positivo delle x, abbia alla propria sinistra il semiasse
positivo delle y. Fissiamo ad arbitrio il senso positivo per una
normale n a a, e con la legge di continuità per tutte le altre.
Supponiamo che cosi il verso positivo di ogni normale sia deter-
minato in modo univoco. Percorriamo poi ogni pezzo di C in
guisa che il triedro formato dalla tangente t a C (*) in un suo
punto qualunque A volta nel verso in cui si percorre C, la
normale va C in ^ posta nel piano tangente a o in A e volta
verso l'interno dell'area a, e la normale n a o in A formino
un triedro tale che un osservatore, coi piedi sul piano ^ v e con
la testa dalla stessa parte di n volto verso t, abbia alla sua
sinistra la direzione v. Il triedro t^n e xy^ siano cioè congrui
(sovrapponibili). Siano X, F, Z funzioni finite e continue di x, y, z
insieme alle loro derivate in un campo rinchiudente o all'interno.
E supponiamo che o sia definita da una equazione ^ = ^ (a;, 2/).
Sia Y la proiezione di o sul piano xy^ e ne sia f il contorno.
Se la normale n a a f a con l'asse delle z sempre un angolo nz
acuto, mentre un punto A percorre C nel verso sopra definito,
la sua proiezione J.' sul piano xy descrive f in guisa che un
osservatore posto nel semispazio <^ > 0, che cammini in- avanti
con A.^ lascia y alla sua sinistra. Evidentemente :
X (x, y^z)dx^:^\ X \x, y, z (x, y)\ dx =
3X [x,y, z (x, y)]
= -.0:
Hy
dx dy = (**)
^Xix y,z) _^7>X(^ \
^y 3^ M
1 ^/ÒX q ^
(*) Supponiamo dunque che esistano w, v, U che le loro direzioni variino con
continuità.
(**) Supponiamo dunque che un piano a; = cost., 0 ^ = cost., 0 5; = cost. in-
contri C in numero finito di punti.
438 CAPITOLO XX — § 130
T coseni di direzione della normale iz a o sono :
l/l -h/-l-
?'
l/l -f-j9--h q-
i/r
+;)
^ + ri
Ricordando
che
cos
per
l'ipotesi fatta {zn)
1
71
" 2
> e
quindi
^ l/l 4-/ +
2^
(a)
è positivo, vediamo che nelle (a) si devono assumere i segni
inferiori. E quindi la nostra formola diventa:
j Xc^x = Ut- cos {ny) — ^ cos (nz) do.
Questa formola vale anche se ^n>— ? perchè questo caso
si riduce al precedente cambiando il verso di n. E un tale cam-
biamento muta il segno dell'integrando del secondo membro, e,
mutando il verso in cui si percorre (7, cambia anche il segno
del primo membro. Se poi o fosse decomponibile in pezzi, ognuno
dei quali è rappresentato dalla formola z^=^ z {x^ y), la nostra
formola si estende a tal caso coi metodi usuali.
Una formola analoga vale per 1 Y dy^ 1 Zdz. Sommando le
tre formole così ottenute, si trova :
\ {Xdx 4- Ydy H- Zdz^ = L Xi cos nx -h Fi cos ny -H Zi cos nz do
ove :
X = — — ^- Y ^^^^ì? . z = — — ^-^'
Se Z = 0, e a coincide con la sua proiezione y? cosicché
do = dx dy, questa formola, scambiando X con F, si riduce alla
formola (1) già trovata al § 128.
Se X, F, Z sono le componenti di un vettore /, le Xi, Fi, Zi
si considerano come componenti di un altro vettore, che si
chiama il curi I, o rot I. L'integrando del secondo membro della
nostra formola si scrive anche (curi I)„, perchè non è che la
componente del curi I secondo la normale n.
La precedente formola ha il nome di teorema di Stokes.
In molti trattati tutte queste formole sono scritte con segni
differenti: ciò dipende dalle differenti convenzioni adottate per
i versi di w, C, ecc.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI 439
§ 131. — Differenziali esatti e potenziale.
Siano X, Y, Z tre funzioni finite e continue in un campo a
tre dimensioni t limitato da una superfìcie a e tale che, se f
è una qualsiasi linea chiusa tracciata entro i, esista almeno una
(e quindi infinite) superficie appartenente a i, avente f per
unico contorno, e passante per un punto qualsiasi D di t. Ciò
avviene, p. es., se t è un campo sferico, conico, ecc. Resta
escluso invece, p. es., che x sia un toro di rivoluzione.
Siano A, B due punti qualunque di t, che congiungiamo con
una linea C tracciata entro x.
Quando avverrà che
r (Xdx -h Ydy -h Zdz)
non dipenda dalla particolare linea C scelta, ma soltanto dalle
X, Y, Z e dalla posizione dei punti A, B? Sia C' un'altra linea
uscente da J. e terminata a B. Dovrà essere, se con Ci indi-
chiamo la C' percorsa nel verso opposto (da B ad A)
f (Xdx
Ydy
'+ Zds)'-
(Xdx-h
Ydy + Zdz)
- f (Xdx-h
Ydy + Zdg)
L.
{Xdx-^ ì
'''dy+ Zdz)-
-0.
ossia :
Ma C -h C'i costituisce in sostanza un'arbitraria linea chiusa
appartenente al campo t. E quindi, se o è una qualunque super-
ficie posta in T e terminata a (7 = Ci, dovrà essere, con le
notazioni del precedente paragrafo,
I (Xi cos nx H- Fi cos ny -H Zi cos nz) do = 0,
dove a è in sostanza una qualunque superficie appartenente al
campo T. Questa uguaglianza è un'identità soltanto se :
Xi = Fi = Zi = 0,
(1)
ossia se :
iX DF
ì)y 3a; '
Dx yz
'bz ■" Dee '
DF DZ
440 CAPITOLO XX — § 131-132
In tal caso e in tal caso soltanto:
V = ^ (Xdx-^ Ydy -h Z dz)
non dipenderà dal cammino C seguito per andare da ^ e j5.
Teniamo fisso il punto A e facciamo variare B in t. Per ogni
posizione di B avremo uno e un solo valore V {B) di F. Perciò
F sarà una funzione delle coordinate x^ y, z ài B nel campo t.
Come al § 91 a pag. 304 possiamo dimostrare che il diiferenziale
di tale funzione vale proprio Xdx -h Y dy -^ Z dz, cioè che:
Se il campo i soddisfa alle condizioni enunciate, e in esso
le X, Yj Z soddisfano alle (1), esiste una funzione V, le cui
derivate parziali del primo ordine sono X, Y, Z, ossia che ha
per differenziale X dx + Y dy-h Z dz. Tale funzione V é, a
meno del segno, il potenziale del vettore che ha per compo-
nenti X, Y, Z.
Questo teorema ci era già noto (§ 92) in casi particolari.
Nel caso che il campo t non soddisfacesse alle condizioni
enunciate si potrebbe ancora dimostrare desistenza di una tale
funzione F. Ma una tale funzione uscirebbe dal campo delle
funzioni fin qui studiate, perchè in uno stesso punto avrebbe
infiniti valori. Un esempio ben noto è quello del potenziale
dovuto a una corrente elettrica.
Le precedenti considerazioni si applicano senz'altro anche
al caso più semplice dei differenziali Xdx -\- Ydy^ dove X, Y
soddisfino alla ^^^ = ^r— in un'area piana a col contorno di un
òy ex
solo pezzo ; restano cosi estesi a tali aree a i teoremi della teoria
dei differenziali esatti, di cui abbiamo discorso ai §§ 90-91.
§ 132. — Trasformazione degli integrali doppii.
(Cfr. §§ 108-108 6^5).
a) Sia 0 un campo del piano xy, ne sia s il contorno (*); e
sia f{x, y) una funzione continua in o. Siano X, Fdue funzioni
derivabili delle x,y m q
X=X{x,y) Y=Y{x,y) (1)
in guisa che per ogni punto ^ di o siano completamente deter-
minati i valori delle X F, Viceversa, dati questi valori, sia
(*) Si suppone che ?, s soddisfino alle solite condizioni enunciate ai §§ precedenti.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI
441
completamente determinato il punto A; in altre parole si pos-
sano risolvere le (1) rispetto alle x, y :
x = x{X,Y) y=y{X,Y) (2)
Le (2) posseggano derivate prime e seconde finite e continue.
/
Y
X
Assumiamo X, Y come coordinate cartesiane ortogonali in
un altro piano. Ogni punto ^ di a determina i corrispondenti
valori delle X, Y, e quindi anche il punto Ai del piano XY,
che ha questi valori come coordinate; al variare di A in o,
varierà anche il punto Ai, riempiendo un'area S. Ogni punto Ai
di S determinerà a sua volta, per le (2), uno e un solo punto
corrispondente di o. In questa corrispondenza biunivoca tra i
punti di a e di S ai punti del contorno 5 di o corrisponderanno i
punti del contorno /S' di S.
P) Quando avviene che in tale corrispondenza si conservi
il verso (non la grandezza) degli angoli ? Sia ?/ = cp (x) una
dy
curva Y in 0 e sia -^ la tangente dell'angolo w, che la retta
dx
tangente a y in un punto A forma con l'asse delle x. Sia f la
curva luogo dei punti di S, che corrispondono ai punti di y :
dY
e sia Al il punto corrispondente di A. La —^ sarà la tangente
dX
dell'angolo ^, che la retta tangente a f in Ai fa con l'asse
delle X. Il verso degli angoli sarà conservato, allora e allora
soltanto che tg S cresce al crescere di tg w.
442 CAPITOLO XX — § 132
Ma ora:
Q dY__ ìx 3^ _'èx "èy dx _'òx "òy
^ dX'^ÒX^ 3X, ~3X DX'òy'WTv
óx òy "^ ox dy òx ex òy
Affinchè tg ^ cresca con tg w, bisogna dunque che , ove
2)F 3F 3X 3X .
>?i = ^^ , ?^^ = ^;— , ;? = "v" 5 ^ ^^= ^r~ SI considerino come co-
òx òy òx òy
stanti, sia una funzione crescente della i^ ossia che la sua derivata
— —^ sia positiva, ossia che — mq-h np> 0. Se fosse
invece — mq -{-np<0, il verso positivo degli angoli non sarebbe
conservato. ^
Noi chiameremo Jacobiano delle a:-, y rispetto alle X, Y, e
d (x t/ì
indicheremo con ' . il binomio — mq -\- np, ossia il de-
a (a, 1)
erminante
ÌA il
ì)x 'òy
ÒY ÒY
òx òy
che noi supporremo avere costantemente uno stesso segno.
Secondo che questo Jacobiano è positivo o negativo, il verso
0 senso degli angoli è, o non è, conservato, e quindi, mentre si
percorre s in verso positivo {lasciando a a sinistra), il punto
corrispondente percorre S in verso positivo o negativo.
ÒF
Y) Sia ora F{x,y) una funzione tale che y- = /. Sarà:
ox
fdo—\^-^do=^Fdy per il teorema del § 128.
' G * C ÒX
Se indichiamo con F anche la funzione delle X, Y, che si
ottiene sostituendo in F{x, y) alle x, y i valori (2), sarà :
dove con Si indico il contorno /S^ di S percorso nel verso in cui
si muove un punto Ai, il cui punto corrispondente ^ di a per-
corre s nel verso positivo. Se dunque poniamo s =: ± 1 secondo
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI
443
che il precedente Jacobiano è positivo, o negativo, sarà, ricor-
dando i teoremi del § 128, e supponendo S percorso in modo
da lasciare S a sinistra :
=-/tè(^^-)-è-(4l)l«"-=
=x
3F
'òx 'ÒX
'ÒF ^
Dy 'ÒX
]
òy
tx
ÒX ÒY
ÒFÒ
òy ò
y\
dXdY.
dove, nell'ultimo membro, ho di nuovo considerato F funzione
ÒF
delle X, y. Riducendo, e ricordando che -.^ z=: f^ se ne deduce
infine:
(4)
J>*=X-f^^«"-=i>ll^l^
1 d{X,Y)
Le (3), (4) danno:
d (X, Y)
d (x, y)
dXdY.
dXdY.
f{x, y) dx dy=lj [x (X, Z), y (X, Y)] | f^-^^
che costituisce la forraola fondamentale per il cambiamento di
variabili negli integrali doppi. La si confronti con la formola
( fix)dx^( f[x{X)]^dX
dell'integrazione per sostituzione per gli integrali di una sola
variabile, dove con x, X si indichino due variabili, di cui una
funzione dell'altra, e con d, D segmenti corrispondenti sulle
dx
rette delle due variabili. L'analogia risulta evidente ; alla -p^ di
dX
quest'ultima formola corrisponde nella formola sopra scritta lo
d (x ?jì
Jacobiano _ ' ' ; il quale viene preso in valore assoluto.
d (X, 1)
.perche le aree S, a si considerano sempre positive, mentre il
segmento D può essere anche il segno opposto a 5. Se pones-
simo X=p, F=0, a:; r= p cos 0, 2/ = p sen 0, il nostro Jaco-
biano si riduce a p; e si ritorna cosi alla formola del § 108.
(Cfr. ross. a pag. 353).
(5)
444 CAPITOLO XXI — § 133
CAPITOLO XXL
COMPLEMENTI YARII
§ 133. — Le serie di Fourier.
Sia una funzione f{x) che ammette il periodo 2tc, che cioè
assume valori uguali in punti che differiscono per un multiplo
di 2 71. Supponiamo che f{x) sia sviluppabile in una serie (di
Fourier) :
00
/"(a;) = 2 (^« ^^^ ^^^ "^ ^« ^^^ ^^)' (1)
n = 0
dove n assume i valori 0, 1, 2, 3 , e le ^n, hn sono costanti
da determinarsi. Osserviamo che il termine corrispondente ad
>^ z=z 0 si riduce ad ao; cosicché la (1) si può scrivere:
ri
f{x) = ao -h 2 ^^n cos nx -4- K sen nx), (l)bi8
1
Ricordando che, se a è intero, | cos a xdx e nullo, se
a =f= 0, ed è uguale a 2 tt: se a = 0, e osservando che :
,2:t 1 f^" 1 f^""
I cos nx cos mxcZa; = — | cos {n -4- m) xdx + — | cos (n — w) a::(?a:r,
•*o 2 »^o 2 »/o
troviamo, se w, m sono interi positivi o nulli :
i 2 71 se li -^= m = 0
0 se n 4= m.
In modo simile si prova:
I cos nx sen mx dx = 0
l 0 se w = m = 0
I cos nx cos mx c?a; = ^ 7ise?i = m=i=0
j sen wa:: sen mx ^a; = | 0 se w #= m
*^ f 71 se l^ = m ^ 0
COMPLEMENTI VARII 445,
Integrando la (Ijws da 0 a 2 ti:, dopo averla moltiplicata
per 1 0 per cos nix o per sen ìhx, supposto che le serie così
ottenute sieno integrabili termine a termine, si avrà, ricordando
le precedenti identità:
2jt
f{x) dx =^ \ Uodx -{-
2 an I cos nx dx -\-hn\ sen wa; (^a: [ = 2 Ti a© (*)
1 ( *^o ''o J
e per m > 0
,2:t 00 i ^2n
I f(x) cos mx dx ^= ^\an ( cos nx cos mx dx
-+- bn j sen 7tx cos mxdx-{-\=^'K a,,, (**)
^271 oc i 2TZ
I f{x) sen 7nx dx ^^ ^\ an \ cos nx sen mx dx
.271
-f- '
bn 1 sen n:z; sen mxdx i^^nb^ (***)
Se ne deduce dunque nelle nostre ipotesi :
27r
'*" = 2^ I„ ^^"^^ '^'^
.2-
1 r
(m > 0) a,„ = — I f{x) cos mx ^Za; > • (2)
n Jq i
1 f^"^
&m = — I f (x) sen m.T c^a;
Noi ci chiediamo:
Quando avviene che sia vera la (l)bLs, ove alle a», òf si
diano i valori definiti dalla (2)?
Si può dimostrare (Dirichlet, Dini, Lebesgue) che ciò avviene
in casi molto generali. Noi lo dimostreremo nel caso particola-
rissimo che \ef'{x), /'"(a;) esistano e siano continue e quindi limitate
(*) Si riconosce anche direttamente che tutti i membri del secondo membro
sono nulli, il primo eccettuato.
(**) In virtù delle identità scritte più sopra, nel secondo membro il coefficiente
di hn è nullo, qualunque sia m; il coeificiente di a« è differente da zero (ed uguale
a ti) solo se n = m.
(***) Si dimostra con metodo analogo a quello seguito per la formola precedente.
446 CAPITOLO XXI — § 133
(e necessariamente ammettano anch'esse il periodo 2 tc). Dimo-
striamo intanto che in tali ipotesi la(l)bi8 è totalmente convergente.
Sia M una costante maggiore dei valori assoluti delle f'{x),
f"{x). Integrando per parti, si ha per m ^ 1 :
1 fsen mx ^, . , T'' 1 r^"" sen mx ^/ , ^ -,
a,„ = — f\x) dx\ — -- / f \x) dx =
= / sen mx f' {x) dx ^=^ s / cos mx f" (x) dx,
mnj() nm Jo
donde :
M
ossia: ìdmì ^2—2- (m> 1).
m
M
Similmente | 6,, ^ 2 — 3- ; e quindi per n ^ 2
, 4if^ 4Jf _
I a« cos nx -h 6^ sen nx\i^-^< ^^ ^^ __ ^^ —
( n — 1 n \
. ^ / 1 1 \
La serie a termini positivi e costanti 2^ I ~ "" J
2 \ iì' 1 ri /
converge, perchè la somma dei primi suoi k termini vale 1 y '
QO
che tende ad 1 per A: ^ 00 ; quindi sia la 2 (^n cos nx -h 6„ sen nx),
2
che la (l)bi8 sono totalmente convergenti.
Sia (p{x) uguale al secondo membro di {l)u^. Gli integrali
di T (x), cp (x) cos mx, cp (a;) sen m:r si ottengono dalla (Ijbis mol-
tiplicandola rispettivamente per 1, senmx, co^mx, e integrando
poi termine a termine, perchè la (l)bis è convergente totalmente.
Tali integrali sono perciò uguali a quelli di
f{x), f{x) cos mx, f{x) sen mx.
Cosicché, posto ^ (x) = f{x) — ^ [x), sarà :
f ^(x)dx = 0',\ ^{x)(io^mxdx=^^', \ ^ {x) ^Qnmxdx=^ ^. (3)
Jo Jo ^0
COMPLEMENTI VARII 447
Il nostro teorema sarà dimostrato, sa riusciamo a dedurne
che la ^ (x) = 0. Dalle (3) si ha che, qualunque siano le co-
stanti hi, Ci, è:
1 f^ (x) \ bo -^ ^ hr cos TX -^ ^ Cr sen rx\ dx = 0 (4)
•^0 r=l 1
e quindi, per il risultato dell'es. 15°, pag. 58, è:
.2:1
^(x)F{x)dx = 0, (5)
se F(x) è un qualsiasi polinomio nelle sena:;, coso; a coefficienti
costanti. Supponiamo ora che la funzione (continua) ^ (x) sia
differente da zero in un punto A; essa sarà pure differente da
zero in tutto un intorno di A, p. es. nell'intervallo (a, p), dove
sarà, p. es., positiva, ossia avrà un minimo m positivo. Vogliamo
dimostrare che ciò è assurdo. Poniamo :
F(x) = ]l-^ cos \x — °^y^
C0S-— -^ ' (6)
dove w è un qualsiasi intero positivo. La 'espressione tra j j
/a — B\
supererà sempre — cos ( — - — I > — le sarà maggiore di 1
soltanto quando l'angolo x varia nell'intervallo (a, P).
Indicheremo con N il massimo finito della ^ (x). L'inter-
vallo (0, 2 Tc) si può decomporre nei seguenti intervalli parziali :
1" L'intervallo (a, P).
2*" Un intorno di a di lunghezza non superiore ad
3"" Un intorno di ^ dj lunghezza non superiore ad
4"^ La parte residua y di lunghezza
Y^27t; — IP — a| — 2£.
Nell'intervallo (a, P) è ^ix)^m> 0, F(x) > 1 ; quindi l'in-
tegrale di ^ (x) F(x) esteso a tale intervallo supera m i P — a |.
(*) Si suppongono questi intorni essere uno destro, l'altro sinistro, così, da
essere entrambi esterni all'intervallo (oc, ^).
448 CAPITOLO XXI — § 133
Nei due intorni ricordati di a e P è | i^(a;) | ^ 1, | 4^ (a:) | < ^.
Quindi l'integrale di ^{x) F{x) esteso a questi due intorni non
supera 2£ÌV==: — ||3 — a|.
Consideriamo ora la parte residua y. In y è sempre \^{x)\^N.
r a -h Bl a — B
Invece 1 H- cos hr — — - — — cos — - — e sempre minore di 1
in valore assoluto : cioè il suo massimo valore assoluto è un
numero o < 1. Quindi la F(x) definita dalla (6) è minore di o'\
E l'integrale di ^ (ic) i^ (a;) esteso a y non supererà y A^o", e
quindi, poiché o<l, diventa piccolo a piacere, p. es. minore
di — IP — a I , quando n è abbastanza grande.
4
L'integrale di ^(x)F(x) esteso a tutto l'intervallo (0, 27i)
è uguale alla somma degli integrali di ^ (x) F(x) estesi ai citati
intervalli parziali; ed uguale perciò alla somma:
1° di un numero positivo maggiore di w | P — a | ;
2° di un numero che in valore assoluto non supera
3** di un numero che in valore assoluto non supera
Esso è dunque maggiore di | P — a | moltiplicato per
m = ~~ ; CIÒ che e assurdo, perche noi sappiamo
che esso è nullo. E dunque assurdo ammettere che ^^ (x) non sia
identicamente nullo.
Più generalmente si dimostra che: La (l)bi8, * cui coeffi-
cienti siano determinati da (2) in un punto x = a ove f (x)
sia discontinua, ha per somma-— [ lim f(x) 4- lim f(x)], se
questi due limiti esistono e sono finiti [purché esistano e siano
finiti anche i lim f (x) e lim f (x)]. Anche questo risultato
vale del resto in casi estremamente più generali.
COMPLEMENTI VARII 449
§ 134. — Elementi del calcolo delle variazioni.
a) La teoria dei massimi e minimi si propone di trovare il
valore della variabile (o i valori delle Variabili) che rendono
massima o minima una data funzione. Ma talvolta si presentano
problemi di massimo o di minimo di un altro tipo : il problema
di cercare la funzione cp (x) o la curva y = ^ (x) che rendono
minimo qualche integrale, p. es. la curva ?/ = cp (x) che passa per
due punti A, B di ascissa a, h e che ha la minima lunghezza, ossia
che rende minimo i/l H- cp'^ (x) dx, oppure la curva passante
per due punti A, B posti ad altezze differenti, tale che sia mi-
nimo il tempo impiegato da un grave che cade da ^ a 5 lungo
la curva, ecc., ecc.*
Si voglia trovare la funzione y della x, che rende minimo
l'integrale 1 f{x, y, y) dx, e che assume valori dati a priori
per X =^ a, X =^b. Si ammetta che tale funzione possegga deri-
vate prime e seconde finite e continue, che per la /'e derivate
valgano nel campo che esamineremo, tutte le proprietà (conti-
nuità, ecc.) necessarie per la validità dei calcoli seguenti.
Se ^ = cp (a;) è la funzione cercata (supposto che esista e
possegga derivate prime e seconde finite e continue), e se ^ (x)
è una funzione con derivate prima e seconda finite e continue,
nulla per x = a e per x = ò, allora, qualunque sia il valore
della costante t, la funzione cp (x) -h tz {x) assume per x^= a
e per a; = & i valori prefissati ; e il nostro integrale, ove si
ponga cp {x) -f- tz {x) al posto di y^ ossia
f[x,^ (x) -h tz (x), 9' {x) -+- tz {x)] dx
diventa una funzione di t^ che ha un minimo per t = 0.
Sarà dunque (§ 70, pag. 226) :
d r^ r-
3; J /" b, 9 (^) -+- tz {x), 9' {x) -h tz ix)] dx = 0 per ^ = 0
ossia (§ 89, pag. 296)
f^ d
J J^fi^i^ (^) -+- tz {x), cp' {x) H- tz {x)] dx = 0 per ^ = 0
29 — G. FuBiNi, Analisi maUmaiic».
450 CAPITOLO XXI — § 134
che, per il teorema del § 83, si può scrivere :
^«1 (^y j òy [y^-f+tz
E, osservando che per ^ = 0 la cp -H ^^ si riduce alla cp, questa
equazione ci dice che la funzione y^=.^(x) cercata soddisfa alla
^y ^\ 'òy'
dx— 0.
Integrando per parti il secondo di questi due integrali, esso
diventa :
Il primo termine è nullo, perchè ^ (:r) == 0 per x=^ a e
per ^ = 6. La nostra equazione si riduce così alla :
v^^^ 7>y. dx[ V ir'' ^''
che deve valere, qualunque sia la funzione derivabile ^ (x) nulla
per a; = a e per a; = h. Io dico che la quantità tra { ! dovrà
esser nulla, che cioè
^/'(^^ ^, y) _ d_ \'òf{x,y,y)'\ __ ^ ^2^
òy dx\_ òy J
Se infatti così non fosse, ed essa fosse differente da zero,
p. es. positiva in un punto a:; = e, essa sarebbe positiva in
tutto un intorno (a, P) di e. Porremo in tal caso
z {x) = {x — oif {x — P)' nell'intervallo (a, p),
z{x)^=0 in tutti i punti di (a, h) esterni all'intervallo (a, P).
La funzione z {x) così definita soddisfa alle condizioni citate.
Poiché z{x) è nullo fuori dell'in ter vallo (a, p), la (1) si
riduce alla
'^oL ì Òy dx\ òy / [
ciò che è assurdo, perchè nelle attuali ipotesi, tanto z (x) quanto
la quantità tra graffe j | sono positive in ogni punto interno
all'intervallo (a, P) di integrazione, cosicché l'integrale è positivo
e differente da zero. La nostra ipotesi è quindi assurda; vale
COMPLEMENTI VARII 451
cioè identicamente la (2). che si può scrivere esplicitamente
(§ 83) così:
l^fix^y^y) yf^ yf , ^'fy"=o (2),,
'òy 'òx'òy ^y'òy 3?/'
ed è quindi un'equazione differenziale del secondo ordine per la
funzione cercata y della x. L'integrale della (2) o (2)biB conterrà
due costanti arbitrarie, che si possono di solito determinare
imponendo a tale integrale le condizioni di assumere i valori
prefissati per x = a, o per x = h.
Non ci occuperemo delle ulteriori condizioni a cui deve soddi-
sfare la funzione cercata, affinchè renda effettivamente minimo
il nostro integrale.
^) Talvolta ci si propone di cercare la funzione y^ che rende
massimo o minimo l'integrale / ^ (x, y, y) dx, tra le funzioni y
che assumono valori prefissati per x=^ a, e per x = ò, e che
soddisfano a un'equazione / cp (x, y, y) dx = k, dove k è una
costante prefissata a priori. Noi ci accontenteremo di enunciare
che per tali problemi continua a valere il metodo del moltiplica-
tore indicato al § 85, 5, pag. 289. Che cioè si trova una condizione
necessaria, a cui deve soddisfare la funzione y cercata nel modo
seguente. Si indichi con X una costante per ora indeterminata ;
e, posto f{xyy)^=^ -4- X9, si scriva la (2), come se si volesse
cercare la funzione y che rende minimo / f {x, y, y') dx. L'in-
tegrale della (2) conterrà due costanti arbitrarie di integrazione,
oltre alla costante X. Queste tre costanti si determinano di solito,
ricordando che la y per x =^ a 0 per a; = 6 deve assumere i
valori prefissati, e che deve essere / cp {x, y, y) dx = k.
I a
Esempi.
V La teoria delle serie di Fourier si può interpretare
fisicamente nel seguente modo. Se x indica il tempo, la ?/ = f{x),
che ammette il periodo 27t, può servire a misurare qualche feno-
meno periodico (vibrazione di un punto, di una corda, vibra-
zione luminosa, ecc.). Una equazione ?/ = a„ cos nx -f- In sen nx
(n intero positivo, «„, hn costanti) si ritiene, come è noto dalla
452 CAPITOLO XXI ^ § 134
fisica, come misurante un fenomeno periodico elementare. La y
testé definita si riproduce, se l'angolo nx aumenta di 2 Ti, ossia
2 n
se X aumenta di — . In altre parole, in un intervallo di am-
n
piezza 2 tz, tale y si riproduce n volte, misura cioè un fenomeno
oscillatorio, che in un intervallo di ampiezza 2 tc compie n
oscillazioni. Il nostro risultato si può dunque enunciare così:
Ogni fenomeno periodico, che si riproduce cioè dopo 2 ti unità
di tempo si può decomporre nella somma (serie) di infiniti
fenomeni periodici elementari, che nello stesso intervallo di
tempo compiono rispettivamente 1, 2, 3, 4, oscillazioni.
Per questa ragione si decompongono, p. es., i suoni emessi
da uno strumento musicale nella cosidetta nota fondamentale e
nei suoni armonici.
T
Oss. 1'^. Ponendo ^ = - — x, e indicando con z il tempo, si
.2 TI
passa allo studio di fenomeni periodici, che ammettono un qual-
siasi periodo T (anche distinto da 2 t:). Lo stesso scopo si
potrebbe ottenere variando l'unità di misura per il tempo.
2^ Trovare la minima distanza AB dal punto A = (a, a)
a punto {&, P).
Ris. Si deve cercare il minimo di \/l -h y^ dx, ossia
porre nella (2) del § 134 f= Vi -h y'^. La (2) diventa così:
d y r. ' y . , /
, = 0, ossia . = cost., 0 anche y = m,
dx^/i^yr^ Vl^y'' ^
dove m è una costante arbitraria. Quindi y =: mx -^ n, dove n
è un'altra costante arbitraria; la curva cercata è una retta.
Le costanti m, n si determinano scrivendo che essa passa per A
per B.
3^ Dati in un piano verticale n due punti A, B, trovare
la curva passante per A e per B, tale che un grave, cadendo
da ^ a jB lungo questa curva, impieghi il minimo tempo possibile.
Assumiamo in n il punto A come origine, un asse delle x
orizzontale, un asse delle y verticale volto verso il basso.
Supponiamo che la curva cercata abbia un'equazione y = y(x).
Noi sappiamo che la forza viva -— (tt) del grave di massai
con s indico l'arco percorso dal grave) è uguale al lavoro
COMPLEMENTI VARII 453
compiuto dal grave nel cadere dal punto A, cioè è uguale alla
proiezione y sulla verticale dello spazio percorso moltiplicata
per la solita costante g. Ossia:
Cosicché (se 6 =4= 0 é l'ascissa di B) il tempo impiegato dal
nostro grave nella caduta è
2gJo \ y
Posto dunque nella (2) f:=i\/ ^, la (2) diventa:
r y
1 l/l + y"" d \\/ y y\ , . \
-^^ •" T~ 1/ :; — ; — ^2 ~ =^ 0? che si può scrivere
2 yy^y dx\]f \ -\- y"" y
assumendo, com'è lecito, la y a variabile indipendente :
1 1 l/y(l+y'^) ^ d \ y )_^
Posto —=M=^ r=z z^ se ne trae ^— JL _}_ _ :^ q
Vy{\ + .V ') 2y'' z dy
r^ ^ dy
ossia 2-^ ^-e -h -y = 0.
y
Integrando si avrà / = m (m =^ cost.), donde :
y
y /i \ . 1+^ 1 ri/
/._^ '2^ = \--yn) ossia — ^^ = , x=l l/ -
y{\+y ) \y / y -^ l-my Jori
'^^dy.
— my
Nelle nostre ipotesi {B più basso di ^, asse delle y volto
in basso) la y lungo la curva cercata è positiva. Non può
dunque essere m < 0, perchè altrimenti 1 — my > 0, e il radi-
cale sarebbe immaginario.
Dunque m > 0, e si può porre m =^ —-r^ {h = cost.).
454 CAPITOLO XXI — § 134
Di più 1 — my>0 ossia — > m =^ — v^ ; e si può porre
y À ri
1 1 1 r 1 ? T
— = -— ^ "^ V IT ^^ o~ ' ^^^^ 0 ^9 ^7c e una nuova varia-
bile di integrazione. Si ha: .
y ^i^^h" cos" ^ = /r (1 4- cos cp). ' (a)
E quindi, sostituendo nel nostro integrale, e osservando che
1/
my 9
^— = cotg ^
1 — my 2
si trova, osservando che cp = tt: per ?/ = 0,
a; = /i^ TI — /^- (cp -h sen cp). (P)
Le (a), (^) definiscono i punti della curva cercata in fun-
zione del parametro cp. Tale curva è una cicloide.
4*. Tra le curve y ^= y (x) passanti per i punti di ascissa
a e b dell'asse delle x, e di lunghezza prefissata L, trovare
quella che con l'asse delle x racchiude l'area massima.
Ris. In § 134, P, si deve porre (f i= \/l -h ?/'-, ^ =^ y.
La curva cercata deve dunque soddisfare a (2) ove si ponga
fz=iy-^\ Vi -{- y^" (X = cost.), cioè alla
I^XJ- ( , ^ \ , donde:
= ^ X + [X (fi =: cost.).
l/l -+- y' ^
Il primo, e quindi anche il secondo membro, sono minori di 1.
Posto perciò
-— X -h li- =^ seh 9 (t = nuova variabile),
. dy ,
se ne dedurrà t" ^^ V = tg cp.
dx
Quindi 6??/ = tg cp 6?x = X tg 9 cos cp c^ cp = X sen 9 cZ cp ed ?/ =
= — X cos cp -h V (v rzz cost). Eliminando cp dalle due equazioni
trovate, si trova (x -f- X |Ji)^ -^ {y — "^f = cost. La curva cercata
é dunque un cerchio.
COMPLEMENTI VARII 455
§ 135. — Alcune funzioni di variabile complessa.
a) Le funzioni e^, cos z^ sen z sono dejfìnite per tutti i valori
(iella z da una serie di potenze, e si possono considerare perciò
funzioni della 0, anche se ^ è complesso.
P) Dimostriamo che anche una frazione razionale, cioè un
quoziente di polinomi di una variabile z è pure una funzione
della variabile z, cioè è sviluppabile in serie di potenze. Se noi
introduciamo nei calcoli anche numeri complessi, l'enunciato
del teor. a pag. 250-251 si può semplificare provando che ogni
P(z)
frazione ttt-t è somma di un polinomio, di frazioni semplici
A V (2)
del tipo , (*) e della derivata di un'altra frazione ^=777— •
z — a yv(z)
Applicando a quest'ultima lo stesso teorema, e così continuando,
si prova che ogni frazione . è somma di un polinomio, di
.A
frazioni semplici del tipo -^ , e di derivate di tali frazioni
' z — a
semplici.
Basterà dunque provare che , 0, ciò ch'è lo stesso,
z — a
che è sviluppabile in serie di potenze. Se ^o ="^^ a è un
z — a
numero qualsiasi, si ha appunto (per la nota formola delle pro-
gressioni geometriche)
1 111
z — a {z — Z(^) — {a — ^0) -^(t — <^ . ^ — -S'o
a — Zo
1 \ * 1
1 + S^ ^Az-zoY
-e,, — al 1 (a — Zo)
nel cerchio definito dalla : \ z — ^0 | < | ^ — ^o\ , cioè entro il
cerchio di centro Zq, la cui periferia passa per il punto a.
(*) La dimostrazione del § 76 continua a valere, se ad ima frazione del tipo
Mx -f N
(il cui denom., uguagliato a zero, abbia radici complesse h,c) sosti-
Ti C
tuiamo una espressione del tipo ^ H (con B, C costanti),
X — 0 X ~~ e ^
456 CAPITOLO XXI — § 135-136
Se ne deduce facilmente che una frazione razionale data
ad arbitrio è sviluppabile in serie di potenze della z — Zo in
ogni cerchio di centro Zo, il quale non contenga punti ove
la frazione diventa singolare (in cui quindi il denominatore si
annulla). (Cfr. il teorema di Cauchy citato in nota a pie di
pag. 209).
§ 136. — Integrazione meccanica.
E noto che il calcolo dell'integrale di una funzione si può
eseguire per via grafica (nota a pag. 325); con metodo grafico
si possono risolvere le equazioni algebriche. Le scienze appli-
cate danno numerosi e svariati metodi di calcolo grafico.
Accanto ad essi esistono metodi meccanici per i calcoli più
molteplici: ci basti ricordare le macchine così note per eseguire
le operazioni fondamentali dell'aritmetica.
Più semplici assai di esse sono gli strumenti che, pure ri-
correndo al disegno, servono ad eseguire le integrazioni, e che
si dividono in due categorie: gli integrafi, che servono a dare
gli integrali indefiniti, ed i planimetri, che calcolano gli inte-
grali definiti, 0 più ^neralmente le aree delle figure piane. Di
planimetri esistono tipi svariatissimi ; e noi ne studieremo, a
titolo di esempio, soltanto due. Avverto che noi studiamo i tipi
teoricamente più semplici; ma non parliamo del semplicissimo
planimetro di Prytz, perchè non è troppo preciso.
A) Integrafo di Abdank-Abakanowicz.
Al § 73, pag. 238, abbiamo già citato alcune applicazioni
di questo integrafo al calcolo numerico delle radici di una equa-
zione algebrica. Tale apparecchio risolve il problema seguente:
Disegnata una curva y = f (x), tracciare una qualsiasi delle
curve y = 1 f (x) dx. Esso è fondato sul fatto sperimentale che
se una roteila ruota senza strisciare su un foglio di carta ed
è sempre contenuta in un piano perpendicolare al foglio stesso,
allora il punto di contatto della rotella e del foglio descrive
una curva le cui tangenti sono date dall'intersezione del piano
del foglio col piano della rotella. Ecco una descrizione soltanto
schematica di detto integrafo.
Sia y=zf{x) una curva C; e sia C' la curva y=zF(x)
dove F{x)=^f{x), cosicché f(x)=^ l F{x)dx. Sia x^=a\m
punto a! dell'asse delle x e siano Ai, J.2 i punti corrispondenti
COMPLEMENTI VARII 457
delle curve y =^ F{x) =^ f (x) ed y = f{x). Sia B quel punto
dell'asse delle x tale che il segmento BA' = 1 (*).
Il coefficiente angolare della tangente alla curva y = f{x)
per a; = a, ossia nel punto A2, vale f (a) ^=^F{a).
Il coefficiente angolare della retta BAi vale :
A'A_Fia)_
Queste due rette hanno dunque ugual coefficiente angolare,
e sono perciò parallele.
Supponiamo di aver disegnata la curva y =^ Fix) e ài voler
tracciare la curva y = f{x), mentre una punta scrivente Ai de-
scrive la ^ ^= F{x), L'integrafo porta un parallelogrammo arti-
colato, un lato \ del quale coincide sempre con la retta BAi,
ipotenusa del triangolo rettangolo BA'Ai, che ha un cateto BA'
posto sull'asse della x ed eguale a 1. Il lato Xo opposto del paral-
lelogramma sarà costantemente una retta parallela a BAi; esso
porta una rotella A2 tenuta sul prolungamento di A' Ai, e in
un piano- passante per Xo e normale al piano del foglio. Il
punto A2 di contatto di tale rotella descrive dunque una curva
yz=.f{x) che ha in A2 per tangente la retta ^ parallela a \.
Il coefficiente angolare f' {x) di tale tangente è così uguale al
coefficiente angolare F {x) di \, È perciò, come si voleva,
f{x)^=^F{x). La indeterminazione di una costante additiva
per la funzione f{x) corrisponde nell'integrafo all'arbitrarietà
della posizione iniziale della rotella lungo l'ordinata di Ai.
L'integrafo di Abdank è costruito in modo diverso per assi-
curarne il buon funzionamento. Il principio fondamentale è però
quello da noi esposto.
B)i Un primo tipo planimetro.
Noi descriviamo ora un planimetro con un disco. Esso è poco
pratico, e l'ingegnere di solito gli sostituisce il planimetro di
Corradi a sfera e cilindro, senza filo. Ma, poiché la teoria di
quest'ultimo è affatto analoga a quella che qui esporremo, e
che presenta caratteri di speciale semplicità, così resta giustifi-
cata la scelta del planimetro, che qui descriviamo.
Tale planimetro consiste essenzialmente in un disco circo-
lare piano D di centro 0, il quale può essere dotato di due
movimenti; uno di traslazione 'parallelamente all'asse della y,
(*) Il lettore disegni la figura.
458
CAPITOLO XXI
§ 136
e uno di rotazione intorno al suo asse centrale 0. Per poter
scorrere parallelamente all'asse y il disco in questione è guidato
generalmente da tre piccole rotaie. Attorno all'asse centrale del
disco è avvolto un filo l; quando si tende il filo e lo si svolge
dall'asse, il disco acquista un movimento di rotazione e l'angolo
di rotazione è proporzionale all'allungamento del filo. Questo
filo da una speciale disposizione strumentale (un'asta) è tenuto
sempre parallelo all'asse delle x.
Quando l'estremità mobile C del filo ha un movimento pa-
rallelo all'asse delle y, tutto l'apparecchio ad esso solidale riceve
pure un tale movimento; e il disco di asse 0 non ruota.
:/ ^
Fìg. 47.
Quando invece il punto C riceve un movimento parallelo
all'asse delle x^ l'asse 0 del disco rimane fisso, il filo si al-
lunga e si svolge imprimendo un movimento di rotazione al
disco di un angolo proporzionale allo spostamento ricevuto da C.
Al piede della perpendicolare calata dal centro 0 del disco D
all'asse delle x \\ h una rotellina R tangente a D, posta in
quel piano perpendicolare al piano del disco, che passa per Tasse
delle x, e tenuta in contatto col disco stesso. Tale rotellina è
munita di un contagiri. Col suo moto di rotazione il disco D
imprimerà ad R pure un movimento di rotazione ; un contagiri
misura il numero dei giri e frazioni di giro compiuti da R.
Vediamo che cosa avviene quando l'estremità mobile C del
nostro filo (che porta una punta) percorre una curva y = f{x).
Supponiamo, p. es., la f{x) crescente come nel caso della
figura. Man mano che la punta C cammina sulla curva, il filo
si innalza e si allunga verso destra, così che il disco si innalza
e insieme ruota.
COMPLEMENTI VARII 459
Dico che Vintegrale j f (x) dx è proporzionale al numero
di giri, contato dal contagiri^ compiuti dalla rotellina R,
mentre la punta C percorre il pezzo di curva y = f (x) che si
proietta nel segmento (a, b).
Il coefficiente di proporzionalità varierà poi secondo le
dimensioni dell* apparecchio e le unità di misura scelte. Dimo-
streremo il teorema, usando senz'altro locuzioni abbreviate.
Osserviamo anzitutto che, mentre il disco si innalza o si
abbassa parallelamente all'asse delle y, la rotella non gira.
Affinchè la rotella R giri bisogna che:
V II filo OC si svolga dall'asse 0 e faccia rotare il
disco D.
2° La rotella non si trovi sul centro 0 del disco, ma
sia eccentrica.
Ed è anzi ben evidente che, l'angolo di cui gira la rotella
è proporzionale a due quantità:
a) l'allungamento dei fili OC; P) la distanza OR da R al
centro 0 del disco D,
Dividiamo ora Tintervallo {a, h) in infiniti segmentini infi-
nitesimi ; e sia 5 uno di questi intervallini. In esso la y si può
considerare come costante (cfr. § 99); e mentre C percorre il
tratto CD di curva corrispondente, la distanza OR sarà ap-
punto uguale alla y di un punto di questo pezzo di curva.
L'allungamento del filo sarà uguale alla lunghezza dx della
proiezione t del nostro pezzo di curva sull'asse della x; ^
quindi, per quanto dicemmo, l'angolo di cui gira la rotella R
(mentre C percorre il tratto CD di curva che si proietta in 5)
è proporzionale tanto alla y che a dx, e perciò, a meno di un
fattore costante h, che dipende dalle dimensioni dell'apparecchio,
è uguale al prodotto ydx (*). Il numero dei giri compiuto da R,
mentre l'estremità C del filo descrive tutto il pezzo di curva
y :=z f(x) che si proietta nell'intervallo (a, h), è proporzionale
alla somma degli angoli di cui R ruota nei singoli intervallini
parziali B. Tale numero di giri è dunque proporzionale a
I f{x) dXf
e. d. d.
(*) In modo preciso esso è compreso tra i prodotti di hdx per il massimo o il
minimo di .?/ in ^. L'allievo completi questa dimostrazione senza sussidio di locu-
zioni abbreviate.
460 CAPITOLO XXI — § 136
Questo planimetro può in modo aifatto simile servire al calcolo
dell'area non solo di rettangoloidi, ma di figure piane qualsiasi,
come il lettore può facilmente dimostrare.
B)2 Planimetri di Amsler.
Un'asta rettilinea AB porti a un estremo A una rotella E
posta in un piano normale ad AB e girevole intorno al suo
centro A. Un punto 0 della retta AB sia costretto a muo-
versi su una linea prefissata L, mentre il punto B descrive
un cammino chiuso f posto nel piano di L, e l'asta ritorna
alla posizione iniziale. In tale movimento la rotella R sia ap-
poggiata al foglio F del disegno, e compia un certo numero N
di giri. Si vuole, conoscendo N, dedurne l'area racchiusa da f.
A seconda della forma di L, cambia il nome dato al pla-
nimetro : rettilineo, se L è una retta ; polare, se X è un cerchio ;
curvilineo negli altri casi.
Per semplicità occupiamoci del primo caso, supponendo che:
a) Il cammino f non interseca la linea (guida) L;
p) Il punto C sia interno al segmento AB.
Supponiamo dapprima che il cammino f sia composto di
segmenti 5 paralleli alla retta L e di archi y di cerchi col
centro su L, e con raggio uguale al segmento CB. Quando B
descrive un 5, la nostra asta non muta di direzione e il seg-
mento GB descrive un parallelogrammo A; quando B descrive
un Y, la nostra asta gira di un angolo cp, e il segmento CB
1 — "^
descrive un settore di area — CB<^. Ma, poiché alla fine del
«
movimento l'asta è tornata alla posizione iniziale, la somma
degli angoli cp percorsi in un senso è uguale alla somma degli
angoli cp percorsi nel verso opposto, e i giri eseguiti corri-
spondentemente dalla B in un verso elidono quelli eseguiti nel
verso opposto. E così pure i settori descritti da (75, mentre
l'asta mota in un verso, hanno complessivamente un'area uguale
a quella dei settori descritti da CB^ mentre l'asta ruota nel
verso opposto.
Ricordando questo, è facile riconoscere che l'area racchiusa
da r vale la differenza tra le aree dei parallelogrammi descritti
da CB, quando B descrive un segmento B, muovendosi, p. es.,
da sinistra a destra, e quelli descritti da GB, quando B de-
scrive un segmento 5, muovendosi, p. es., da destra a sinistra.
Quando B descrive un S, Tasta AGB si muove parallelamente
COMPLEMENTI VARII 461
a sè stessa, e l'esperienza insegna che il numero dei giri com-
piuti da R vale la distanza d tra la posizione iniziale e finale
della sbarra divisa per la periferia 2 ^ r di i? (se r è il raggio
di R), cioè vale Tarea del parallelogrammo descritto dal seg-
mento CB divisa per la costante 2nr. GB.
L'area racchiusa da f sarà dunque data dal numero N
totale dei giri eseguiti da R (che possiamo leggere col conta-
giri) diviso per la costante strumentale 2nr. CB. Anzi con
opportuna graduazione si può leggere senz'altro il numero
'=N.
2nr . CB
Se poi fi è un cammino chiuso di forma arbitraria, lo si
può pensare come limite di cammini f del tipo precedente. E,
poiché l'esperienza insegna che, se dei cammini f si avvicinano
indefinitamente a un cammino Pi, allora il numero corrispon-
dente N tende al numero -?^i di giri corrispondente a fi, e nei
casi comuni l'area racchiusa da fi ha per limite l'area rac-
chiùsa da r, se ne deduce che il precedente risultato vale per
cammini chiusi F in generale.
FINE.
INDICE
dei riassunti e degli esempi più notevoli.
[I numeri si riferiscono alle pagine ; i numeri aggiunti talvolta come indici danno
il numero che nel testo ha l'esempio citato]
TABELLA
Pagina
delle regole di derivazione e delle derivate delle funzioni elementari 204 e seg.
degli integrali indefiniti fondamentali 244 e seg.
dei metodi di integrazione 259
ESEMPI NOTEVOLI.
Pagina
Combinazioni con ripetizione . 57,2
Formole di addizione, ecc. per le funzioni goniometriche . . 56,3 » «4 ^ ^'^lo
Radici w"^'"'' di ± 1 per w ~ 2, 3, 4, 5 572^ e 6I33
Equazioni di quarto grado 41
Angolo di due rette sghembe 79,
Determinanti ortogonali df^l terz'ordine 8O2
Determinanti reciproci . . . .• 8O3
Risultante di due equazioni 54 e 89,
Formola d'intorpolazione con polinomii 48 e 90
lim -^ 151,
lim (14-— r . 127,
Interesse continuo 127^
Area di un rettangoloide definito da un'iperbole equilatera . . . 128^
Teorema di de l'Hòpital 200
Interpolazione (errore commesso nella — ) 201
Criterio di convergenza di Cauchy 201
Resto di Cauchy e teoremi di Bernstein e di Pringsheim per la serie di
Taylor 214 e seg.
464 INDICE DEI RIASSUNTI E DEGLI ESEMPI, ECC.
Pagina
Sviluppi in serie di C, sen x, cos x, log (1 4- x), (1 + xy% arct x^ tt,
arcsen x . . . 216 e seg.
Principio, di Fermat per la rifrazione della luce 2292
La curva y — a x'^ -^h x^-\-c x ■¥ d e l'equazione di terzo grado . . 233
Istanti in cui un punto mobile ha velocità massima o minima . . . 234
Volume dell'ellissoide 344
Durata dell'oscillazione di un pendolo 266
Integrazione grafica 325
Retta tangente ad una conica 285
Area di un settore di curva in coordinate polari 312 ^
Prima conseguenza delle leggi di Keplero 313
Centro di gravità . . 330
Spinta idrostatica . . 332, 345ii e 405
Volume del toro di rivoluzione 346,
Centro di gravità di un'area semicircolare o semiellitica .... 346, , ,
Sezioni della pila di un ponte 363
Entropia; curve adiabatiche 367
Equazione Xj^-+- r^ = 0 . . . . . . . . . 368
Equazioni di Eulero per le funzioni omogenee 369
Equazioni differenziali notevoli (Clairault, BernouUi, ecc.) . . . 373 e seg.
Le equazioni differenziali delle curve piane a curvatura costante . 375., e 3
Teorema del Wronskiano . 391,
Equazioni differenziali lineari alle derivate ordinarie notevoli . . 392^ e a
Moti vibratorii semplici 0 smorzati (formola del Thomson) . . . 392^
Perimetro dell'ellisse 402
Area della sfera 407
Centro di gravità di una semicirconferenza ....... 408
Fenomeni periodici (loro decomposizione in fenomeni elementari) . . 451
Brachistocrona 452
Curva d'area massima 454
INDICE
CAPITOLO I.
NUMERI REALI.
Pag.
§ 1. — Numeri razionali positivi ......... 1
§ 2. — Numeri irrazionali .......... 6
§ 3. — Lìmite superiore e inferiore. Operazioni sui numeri positivi . . 8
§ 4. — Numeri reali ........... 12
CAPITOLO II.
APPLICAZIONI GEOMETRICHE.
Pag.
§ 5. — Misura (algebrica) degli angoli . * . . . . . , .10
§ ^\ — Coordinate di un p>unto di una retta . . . . . . .19
§ 7. !— Aree e volumi . . . . . . ' . . . . . 21
CAPITOLO III.
I NUMERI COMPLESSI.
Pag.
§ 8. — Coordinate di un punto nel piano ....... 27
§ 9. — Definizione di numero complesso e delle operazioni sui numeri com-
plessi ............ 29
§ 10. — Equazioni di 2", 5*^ e 4o grado . .37
CAPITOLO IV.
POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE.
Pag.
§ IL — Calcolo combinatorio. Prodotti di binomii e formola del binomio . 42
§ 12. — Divisione di due polinomii ......... 44
§ 13. — Regola di Ruffini .......... 46
§ 14.. — Relazioni tra coefficienti e radici di un equazione algebrica . . 48
§ 15. — Radici razionali di un equazione a coefficienti razionali ... 51
§ 16. — Polinomii a coefficienti, reali . 52
§ 17. — Sistemi di equazioni algebriche 53
30 — G. FuBiNi, Analisi matematica.
466
INDICE
CAPITOLO V.
DETERMINANTI, SISTEMI DI EQUAZIONE DI PRIMO GRADO.
Pag.
§ 18. — Matrici . . . . . . . . - . . .62
§ 19. — Definizione di determinante ........ 64
§ 20. — Proprietà di un determinante ........ 69
§ 21. — Altre proprietà di un determinante ...... .72
§ 22. — Prodotto di due determinanti ........ 74
§ 23. — Il determinante di Vandermonde e il discriminante di un'equazione
algebrica. Separazione delle radici di una tale equazione . 76
§ 24. — Sistemi di equazioni lineari. Teorema ^preliminare . . . .81
§ 25. — Regola di Leibniz- Cramer ......... 83
§ 26. — Regola di Rauche . . . . . . . . . .86
§ 27. — Sistemi di equazioni lineari omogenee ...... 88
CAPITOLO VI.
FUNZIONI, LIMITI
§ 28. — Irdervalli, intorni
§ 29. — Funzioni; funzioni di funzioni
§ 30. — Rappresentazione grafica delle funzioni
§ 31. — Esempi preliminari di limiti '
§ 32. — Limiti .....
§ 33. — Funzioni complesse e loro limiti
§ 34. — Ricerca del lim p^
a; «= OD
§ 35. — Primi teoremi sui limiti
§ 36. — Funzioni continue
§ 37. — Un limite fondamentale
§ 38. — Un altro limite fondamentale
§ 39. — Alcune applicazioni
§ 40. - Proprietà fondamentali delle funzioni conti
§41. — Funzioni di più, variabili . . .
Pag.
94
95
97
102
105
111
112
113
117
121
123
130
134
137
CAPITOLO VII.
SERIE.
Pag.
§42. — Definizioni e primi teoremi ........ 140
§ 43. — Serie a termini positivi 143
§ 44. — Cambiamento nell'ordine dei termini di una serie a termini positivi 148
§ 45. — Serie a termini negativi e positivi. Serie a termini complessi . . 149
§ 46. — Serie di funzioni . . 152
INDICE 467
CAPirOLO vili.
DERIVATE, DIFFERENZI ALI.
Pag.
§ 47. — Velocità ad un istante, velocità di reazione, intensità di corrente,
coefficiente di dilatazione, calore specifico ..... 155
§ 48. — Betta tangente a una curva . 159
§ 49. — Derivata 161
§ 50. — Estensione alle funzioni complesse 168
§ 51. — Derivate fondamentali 169
§ 52. — Infinitesimi e infiniti . , . . . . . . . .171
§ 53. — Differenziali 175
§ 54. — Metodi abbreviati di esposizione . . . . . . . . 177
§ 55. — Derivazione di una somma . .178
§ 56. — Derivata del prodotto di due o piii funzioni ..... 179
§ 57. — Derivata del quoziente di due funzioni ...... 181
§ 58. — Regola di derivazione delle funzioni inverse ..... 182
§ 59, — Derivazione delle funzioni di funzioni ...... 186
§ 60. — Derivata logaritmica . . . . . . . . . .188
§61. — Derivate successive . . . . . . . . . . 191
CAPITOLO IX.
EOREMI FONDAMENTALI SULLE DERIVATE
E LORO PRIME APPLICAZIONI.
Pag.
§ 62. — Proprietà fondamentali delle derivate . . . . . . 193
§ 63. — Prime applicazioni del teorema della media ..... 197
§ 64. — Radici multiple di una equazione , 203
§ 65 — Derivazione per serie 2Ó6
CAPITOLO X.
SERIE DI POTENZE.
Pag.
§ 66. — Cerchio di convergenza . . , 207
§ 67. — Derivate di una serie di potenze ....... 209
§ 68. — Formale di Mac-Laurin e di Taylor 210
§ 69. — Sviluppabilità di una funzione in serie di jìotenze .... 212
CAPITOLO XI.
MASSIMI, MINIMI, FLESSI.
Pag.
§ 70. — Massimi e minimi (relativi) . . . , . , . , 223
§ 71. — Concavità, convessità, flessi ......... 230
§ 72. — Metodo di Newton- Fourier 234
§ 73. — Alcune osservazioni relative alla risoluzione approssimata delle
equazioni algebriche 237
468
INDICE
CAPITOLO XII.
INTEGRALI.
Pag.
§ 74. — Primi teoremi . . . . . . . . . . . 239
§ 75. — Regole generali di integrazione ........ 246
§ 76. — Integrazione delle frazioni razionali ....... 250
§ 77. — Integrazione di alcune funzioni trascendenti o irrazionali . . 255
§ 78. — Integrali singolari .......... 260
§ 79. — Integrazione per serie .......... 264
CAPITOLO xm.
CALCOLO DIFFERENZIALE PER LE FUNZlOxM DI PIÙ VARIABILI
Pag.
§ 80. — Continuità. Derivate parziali ........ 268
§ 81. — Teorerìih della inedia per funzioni di due o piti variabili . . 272
§ 82. — Differenziali 274
§ 83. — Derivate delle funzioni di funzioni {Funzioni composte) . . .275
§ 84. — Funzioni implicite . . . . . . . . . .279
§ 85. — Generalizzazioni ........... 285
§ 86. — Formala di Taylor- Lagrange per le funzioni di due variabili . 290
§ 87. — Massimi e minimi delle funzioni di due o più, variabili . . . 291
CAPITOLO XIV.
PRIMA ESTENSIONE DEL CALCOLO INTEGRALE
ALLE FUNZIONI DI PIÙ VARIABILI.
§ 88. — Considerazioni preliminari .
§ 89. — Derivazione sotto il segno dHntegrale
§ 90. — Differenziali esatti in due variabili
§ 91. — Integrali curvilinei
§ 92. — Differenziali in tre variabili
§ 93. — Cenno di un problema analogo ai precedenti
Pag.
295
296
298
302
305
306
§94. -
§ 95. -
§ 96. -
§ 96 bis.
§ .97. -
§98. -
^ 99. —
CAPITOLO XV.
GLI INTEGRALI DEFINITI
E LE FUNZIONI ADDITIVE D'INTERVALLO.
Pag.
Funzioni additive d'intervallo e loro derivate .... 308
Illustrazioni varie . . . . . • . - . .311
Alcune somme fondamentali . . . . ■ .313
— Il metodo dei rettangoli per il calcolo approssimato degli integrali
definiti 313
Generalizzazioni del concetto di integrale. L'integì-ale di liiemann 319
Il metodo dei trapezi per il calcolo approssimato degli iìitegrali definiti 320
Metodi e locuzioni abbreviate ........ 326
INDICE 469
CAPITOLO XVI.
FUNZIONI ADDITIVE GENERALI E INTEGRALI MULTIPLI.
Pag.
§ 100. — Funzioni additive e loro derivate . . . . . . . 330
§ 101. — Estensione dei principali teoremi del calcolo differenziale . . 332
§ 102. — Generalizzazione dei teoremi fondamentali del calcolo integrale . . 335
§ 103. — Calcolo di un iìitegrale superficiale ....... 337
§ 104. — Interpretazione geometrica. ........ 340
§ 105. — Dimostrazione rigorosa dei risultati precedenti . . . .341
§ 106. — Volume di un solido di rotazione e teorema di Guidino . . . 345
CAPITOLO XVII.
CAMBIAMENTO DI VARIABILI NELLE FORMOLE DEL CALCOLO
DIFFERENZIALE E INTEGRALE.
Pag.
§ 107. — Esempi di cambiamento di variabili in formole di calcolo differenziale 347
§ 108. — Cambiamento della variabile d'' integrazione negli integrali degniti
o multipli. Integrali superficiali in coordinate polari . . . 350
§ 108 bis. — Integrali superficiali in coordinate generali . . . .355
CAPITOLO XVIII.
EQUAZIONI differi:nziali.
ag.
§ 109. — Considerazioni e definizioni fondamentali ..... 357
§ 110. — Equazioni differenziali, la cui integrazione è ridotta a quella di
un differenziale esatto 359
§ 111. — ■ 2'ipi particolari di equazioni differenziali ..... 369
§ 112. — Teorema di Cauchy e integrazione per serie . . . . .376
§ 113. — Primi tipi di equazioni lineari alle derivate ordinarie a coeffi-
cienti costanti .......... 379
§ 114. — Primi teoremi sulle equazioni differenziali lineari (alle derivate
ordinarie) . 381
§ 115. — Un lemma 382
§ 116. — Nuovi teoremi sulle equazioni lineari alle derivate ordinarie . . 384
§ 117. — Equazioni lineari omogenee a coefficienti costanti .... 386
CAPITOLO XIX.
ALCUNE APPLICAZIONI GEOMETRICHE
DEL CALCOLO INFINITESIMALE.
Pag.
§ 118. — Tangente ad una curva gobba 396
§ 119, — Piano tangente ad una superficie 397
§ 120. — Lunghezza di un arco di curva sghemba ...... 399
§ 121. — Area di una superficie sghemba ed integrali estesi ad una super-
ficie sghemba ........... 403
§ 122. — Area di una superficie di rotazione . . . . . . • 405
470 INDICE
Pag.
§ 123. — Piano osculatore ad una curva sghemba . . . . . . 408
§ 124. — Cerchio osculatore . . . . . . . , . .410
§ 125. — Inviluppi di una schiera di curve ....... 416
§ 126. — Curvatura e torsione di una linea sgliemba . . . . . 420
CAPITOLO XX.
INTEGRALI CURVILINEI E SUPERFICIALI.
Pag.
§ 127. — Integrali curvilinei e potenziale - Prime definizioni . . , 426
§ 128. — Trasformazione di integrali curvilinei nel piano . . . . 431
§ 129. — Integrali superficiali . . . . 435
§ 130. — Il teorema di Stokes 437
§ 131. — Differenziali esatti e potenziale . . . . . . . 439
§ 132. — Trasformazione degli integrali doppii ...... 440
CAPITOLO XXI.
COMPLEMENTI VARII.
Pag.
§133. — Le serie di Fourier .......... 444
§ 134. — Elementi del calcolo delle variazioni 449
§ 135. — Alcune funzioni di variabile complessa . . . . . 455
§ 136. — Integrazione meccanica 456
Indice dei riassunti e degli esempi più notevoli . . . . 463
■weeccceopt
RETURN Astronomy/Mathematics/Statistics Library
TOi-^ 100 Evans Hall 642-3381
LOAN PERIOD 1
1 MONTH
2
3
4
5
6
ALL BOOKS MAY BE RECALLED AFTER 7 DAYS
DUE AS STAMPED BELOW
FORM NO. DD 19
UNIVERSITY OF CAUFORNIA, BERKELEY
BERKELEY, CA 94720
„V.; e. BERKELEY LIBRARIES
UBRABV