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Full text of "Matteo Bandello, o, Vita italiana in un novelliere del cinquecento"

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Proprietà  letteraria. 


ERNESTO   MASI 


MATTEO  RANDELLO 


VITA   ITALIANA 


IN  UN  NOVELLIERE  DEL  CINQUECENTO 


BOLOGNA 

DITTA    NICOLA   ZANI 
iqOO. 


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CAPITOLO  I 


Dal  Boccaccio  al  Bandello. 

Di  tutta  la  varia  e  vasta  opera  letteraria  del 
Boccaccio  quella  che  diede  frutti  più  numerosi  e 
più  duraturi  fu,  scrive  il  Symonds,  il  Decamerone  ('). 
Di  fatto,  se  durante  il  secolo  XV  i  novellatori  non 
furono  numerosissimi,  perchè  ad  altro,  com'è  noto, 
era  principalmente  rivolta  ogni  attività  letteraria, 
non  furono  però  poco  importanti,  il  Sermini,  il 
Manetti,  Sabadino  degli  Arienti,  Masuccio  Salerni- 
tano, Poggio  Bracciolini,  Lorenzo  il  Magnifico.  Per 
compenso,  in  pieno  Rinascimento,  e  cioè    nel   se- 

(')  Renaissance  in  Italy  —  Italian  Literatnre  —  Part 
II,  Chapter  X.  «  Of  Boccaccio's  legaci/  the  »ios(  conside- 
rahle  portion  and  the  one  ihat  bore  the  richest  frtfif,  iras 
the  Decameron  ». 

Masi.  1 


—  2  — 

colo  seguente,  la  nota  fondamentale  (^),  per  così  dire, 
è  data  dalla  novella  ed  i  novellatori  sono  una  fa- 
lange, dei  quali  lungo  sarebbe  ricordare  i  nomi 
soltanto. 

Basti  che  ogni  regione  italiana,  quasi  ogni  città 
contribuisce  a  questa  fioritura:  Toscana  col  Firen- 
zuola, il  Lasca,  il  Machiavelli,  e  coi  Senesi  For- 
tini, Nelli,  e  fino  al  Bargagli,  che  tocca  il  secolo 
XVII,  Roma  col  Decamerone  del  Molza  modenese, 
ma  romano  d'  elezione  e  di  dimora,  Ferrara  cogli 
Ecatommiti  del  Giraldi,  Venezia  colle  Piacevoli  notti 
dello  Straparola,  i  Diporti  del  Parabosco,  le  Gior- 
nate dell' Erizzo;  Lodi  col  Gadamosto,  Vicenza  col 
Da  Porto,  Gastelnovo  di  Scrivia  con  Matteo  Ran- 
dello, il  maggiore  senza  alcun  dubbio  di  tutti  i 
novellatori  del  Ginquecento  e  quello  che  più  e 
meglio  d'ogni  altro  afferma  l' assoluta  prevalenza, 
specie  nella  novella  romanzesca,  dell'Italia  supe- 
riore. 

Perchè  questa  prevalenza?  L'ha   detto    il    Ca- 

(1)  «  The  kei/noie  of  the  Renaissance  u-as  striick  b;/  the 
Norella,  ns  in  England  by  the  Drama  »  —  Svmonds  —  Op. 
cit,  Ice.  cit. 


—  3  — 

nello  in  quel  suo  paradossale  e  sistematico,  ma 
pur  tanto  ingegnoso  libro  sul  Cinquecento.  «  No- 
tevole è,  scrive  il  Ganello,  che  come  i  sommi  tra 
i  nostri  poeti  epici  del  Cinquecento  appartengono 
air  Italia  superiore,  alla  slessa  regione  appartengano 
anche  i  più  notevoli  tra  i  novellieri.  La  regione 
del  Po  fu  la  più  disputata  dalle  armi  e  dalle  am- 
bizioni dei  potenti  d'allora;  qui  ci  fu  più  sviluppo 
di  vita  reale  pubblica  e  privata;  e  qui  ci  furono 
più  poemi,  romanzi  e  novelle,  che  la  rappresen- 
tarono (')  ». 

Ma  come  e  quanto  le  novelle  rappresentarono 
quella  vita  pubblica  e  privata?  E  la  rappresenta- 
rono esse,  tutte  in  egual  grado?  11  Settembrini, 
fermandosi  ai  tre  novellatoi'i,  che  veramente  pri- 
meggiano sui  moltissimi  del  secolo  XVJ,  al  Ran- 
dello, al  Lasca,  al  Giraldi,    dice    che    «    il    primo 

(')  Il  Carducci  in  vari  luoghi  delle  suo  opere  applica 
a  questo  fatto  non  solo  la  ragione  storica,  ma,  comjiiendo 
la  teorica  Herderiana  dell'azione,  che  su  determinati 
svolg'inìonti  storici  esercitano  i  luoghi,  il  clima  e  l'etno- 
grafia, studia  il  fatto,  di  cui  parla  il  Canello,  anche  in 
relaziono  alla  configurazione  del  suolo  e  ad  altre  simili 
condizioni  fisiche. 


—  4  — 

ritrae  1'  nomo  in  Italia,  il  secondo  1'  uomo  in  Fi- 
renze, il  terzo  l'uomo  nel  mondo  »  (^);  troppo 
gran  frase  da  essere  del  tutto  vera  ed  esatta.  Più 
giusto  è  dire  collo  stesso  Settembrini,  che  «  la 
novella  più  che  la  commedia  ci  ritrae  la  vita  ita- 
liana del  Cinquecento  »,  forse  perchè  meno  di 
essa  vincolata  e  trattenuta  dall'imitazione  dei  mo- 
delli classici. 

Ciò  non  significa  che  anche  la  commedia,  con 
tutti  i  suoi  travestimenti  classici,  non  tagli  spesso 
nel  vivo,  ed  il  Gaspary  adduce  un  esempio  fra 
tanti,  in  cui  la  realtà  è  messa  a  nudo  con  una 
franchezza  e  profondità  così  rapida,  che  certo  non 
fu  mai  conseguita  dalla  novella  con  tutte  le  sue 
prolissità  di  chiacchierona  interminabile.  Trattasi 
nella  Mandragola  del  Machiavelli  d' indurre  al  male 
Lucrezia,  la  giovane  sposa,  onesta,  pura,  devota. 
Chi  lo  potrà?  —  Il  confessore,   risponde    Ligurio. 

—  «  Chi  disporrà  il  confessore  ?  chiede  Callimaco. 

—  Tu,  io,  i  danari,  la  cattività  nostra,  la  loro.  — 
Io  dubito,  obbietta   Nicla,   che    per  mio   detto   la 

(')  Settemubtni,  Lezioni  di  Ictt.  ital.  Voi.  II. 


—  5  — 

non  voglia  ire  a  parlare  al  confessore.  —  Ed 
anche  a  cotesto  è  rimedio.  —  Dimmi.  —  Farvela 
condurre  alla  madre  »  (').  È  un  lampo  orrendo, 
che  striscia  e  getta  un  bagliore  istantaneo  su  un 
buio  ancora  più  orrendo.  Se  non  che,  noia  acuta- 
mente il  Gaspary  ('),  la  novella,  con  minore  po- 
tenza artistica  bensì,  ma  con  più  vivo  senso  di 
realtà  e  modernità,  è  dessa  appunto  quella  che 
appresta  alla  commedia  del  Cinquecento,  specie 
quando  capita  alle  mani  del  Machiavelli,  siffatti 
ardimenti  di  rappresentazione. 

Al  teatro  la  novella  fornisce  in  genere  gli  ele- 
menti di  maggior  realtà  e  modernità,  sicché  il 
Lasca  slesso,  volendo  vantare  un  tale  come  buon 
commediografo  moderno,  disse  ch'egli  imitò  non 
già  Menandru  e  Terenzio,  sibbene  il  Boccaccio;  e 
l'azione  della  novella  procaccia  ancora  [)iù  ampia 
parte  nella  commedia  alla  donna  e  all'intrigo 
d'amore.  La  novella  però  dà  alla  commedia  il  suo 
proprio  bene  e  male,  e  la  tessitura  sua,  ammassando, 

(1)  Mandragola.  Atto  li.  Scena  VI. 

(-)  G.^SPARY,  Storia  della  Leti.  Hai.  —  Voi.  II,  Tarte  II, 
pag.  231,  262,  263. 


sovrapponendo,  avviluppando  circostanze  su  circo- 
stanze, senza  per  questo  comporre  un  vero  intreccio, 
che  abbia  la  perspicuità  necessaria  al  teatro,  fa  sì 
che  la  commedia  del  Cinquecento  (se  si  eccettua 
la  Mandragola  del  Machiavelli)  riesca  così  intri- 
cata e  faticosa,  da  essere  facilissimo  perderne  il 
filo  e  quasi  impossibile  stringerne  in  poche  parole 
l'argomento  ('). 

Ciò  che  nota  il  Symonds  (^)  della  prevalenza 
tirannica  della  novella  nei  secoli  XV  e  XVI  è 
dunque  innegabile,  e  non  solo  si  vede  nel  teatro, 
ma  può  vedersi  altresì  nella  poesia  e  nelle  arti 
belle.  Leggende  di  santi  pigliano,  non  volendo, 
l'andare  della  novella;  le  Sacre  Rappresentazioni 
sono  in  gran  parte  novelle  drammatizzate;  i  poemi 
romanzeschi,  lo  stesso  Orlando  Furioso,  talvolta  in- 
terrompono l'azione  per  dar  luogo  a  novelle;  i 
poemi  popolari  del  tipo  di  Ginevra  degli  Almieri 
sono  novelle  in  versi;  gli  stessi  Umanisti  scrivono 
novelle  in  latino;  e,  quanto  alle  arti  belle,  mol- 
tissime pitture,  la  leggenda,  ad  esempio  di  S.  Ago- 

(1)  Gaspary,  Op.  cit.,  loc.  cit. 

(2)  Op.  cit..  loc.  cit. 


sLino  del  Gozzoli  a  San  Gimignano,  qiiella  di  S.  Or- 
sola del  Carpaccio  a  Venezia,  quella  di  S.  Bene- 
detto del  Sodoma  a  Monte  Olivato,  quella  di  S.  Gio- 
vanni del  Lippi  a  Prato,  e  via  dicendo,  altro 
non  sono  in  realtà  se  non  novelle  dipinte,  le  quali 
svolgono  i  loro  incidenti  sulle  pareti  d'  una  chiesa, 
d'  un  claustro  o  d'  un  oratorio. 

Che  cosa  indurre  da  questo  fatto?  La  conse- 
guenza pili  logica  e  più  semplice  parrebbe  questa 
vale  a  dire,  la  novella  essere  stata  molto  nel  gusto 
di  quel  tempo  e  le  belle  arti  essere  state  allora,  e 
con  grande  loro  vantaggio,  molto  più  strettamente 
congiunte  alla  letteratura  che  in  ogni  altro  tempo, 
quantunque  la  novella,  massime  quella  del  Cin- 
quecento, sia  già  assai  meno  opera  artistica  di 
quello  che  nelle  mani  del  Boccaccio,  ed  abbia  in- 
vece molte  delle  parti  che  certa  critica,  special- 
mente straniera,  le  contesta;  tant'è  vero  che  uno 
dei  maggiori  poeti  del  mondo,  lo  Shakespeare, 
non  ha  talvolta,  che  da  gravare  la  mano  sulla  de- 
bole trama  della  novella  italiana  per  farne  sbalzar 
fuori  il  dramma  umano  in  tutta  la  sua  molteplice 
verità  e  varietà. 


—  8 

Tati' altro  invece  e  ben  più  ampie  e  ben  più 
singolari  sono  le  conseguenze,  che  se  ne  vollero 
derivare,  e  possiamo  vederle  raccolte  appunto  nel 
Symonds,  che,  sebbene  sia  scrittore  pieno  d' equa- 
nimità, di  dottrina  e  di  affetto  all'  Italia,  pure  non 
potè  trattenersi  dal  fare  anch'esso  della  novella 
(  dopo  d' averla  proclamata  moralmente  turpe,  in- 
differente al  bene  od  al  male,  destituita  d' ogni 
alta  idealità,  d'ogni  profondità  psicologica,  d'ogni 
passione  e  d' ogni  poesia  )  una  specie  di  fatalità 
storica  del  nostro  temperamento  nazionale,  per  cui 
soprattutto  nel  Cinquecento,  il  popolo  italiano 
avrebbe  avuto  nella  novella  la  letteratura  e  1'  o- 
pera  d'  arte  che  meritava. 

Che  monta,  se  il  fatto,  per  verità  notevolissimo, 
di  quella  grande  quantità  di  novellieri  e  di  novelle 
spicciolate,  che  dal  Boccaccio  a  tutto  il  secolo  XYI 
apparisce  nella  storia  della  letteratura  italiana  si 
può  e  si  deve  spiegare  in  altra  guisa  ;  se  ri- 
montando la  tradizione  puramente  letteraria,  si 
vede  a  occhio,  che  tutte  quante  le  forme  di 
letteratura  simbolica  medievale,  comuni  alle  razze 
neolatine,  (Moralizzazioni,  Bestiari)  sono  piene    di 


—  9  — 

racconti,  non  di  rado  inzeppati  di  lubriche  san- 
toccherie;  che  allo  scomporsi  della  vecchia  società 
feudale,  già  inspiralrice  delle  canzoni  di  gesta  e  dei 
romanzi  d'avventura,  il  fableau  scettico,  mordace, 
irriverente  s'impossessa  della  materia  di  quei  rac- 
conti e  ne  trasforma  lo  spirito,  precorrendo  la  no- 
vella, quale  poi,  in  uno  stadio  di  più  avanzata 
coltura,  la  troviamo  bella,  ornata,  pomposa,  in  Gio- 
vanni Boccaccio?  (^)  Che  monta,  se  anche  uscendo 
dalla  tradizione  puramente  letteraria,  la  novella  si 
può  in  gran  parte  considerare  quale  un  risulta- 
mento  necessario  della  trasformazione  sociale,  com- 
pientesi  lungo  il  secolo  XIV,  mercè  l'avvenimento 
di  quella  che  Dante  chiama  la  gente  nuova,  la  quale 
sopraffa  ovunque  «  le  vecchie  famiglie,  direbbe  il 
Carducci,  custodi  della  tradizione  eroica  »  e  attornia 
le  signorie,  livellanti  «  sotto  la  lor  dittatura  Guelfi 
e  Ghibellini,  grandi  e  plebe  »1  (■)  Che  monta, 
se  questa  mescolanza  di  elemento  signorile  e  bor- 
ii) Bartoli,  /  Precursori  del  Boccaccio  —  Storia  della 
Letteratura  Italiana,  Voi.  3;  Cahudcci,  Oj)ere  —  Discor;>i 
Leti,  e  Storici. 

(2)  Carducci,  Opere  —  Discorsi  Lett.  e  Storici. 


—  10  — 

ghese  è  dessa  appunto  che  produce  il  Decameroìie, 
affermctzione  non  solo  di  un  fatto  storico,  ma  af- 
fermazione altresì  d' un  uomo  di  genio,  più  che 
bastevole  quindi  a  determinare  da  per  sé  il  prin- 
cipio d*  una  intiera  tradizione  letteraria?  (')  Le  con- 
dizioni sociali  susseguenti,  la  coltura  umanistica, 
che  separa  la  società  nuova  dal  popolo,  la  neces- 
sità d'assecondare  il  gusto  d'una  società  mista  di 
borghesi  e  signori  afforzano  quella  tradizione 
sempre  piiì,  finché  in  pieno  Rinascimento  la  no- 
vella, senza  neppure  quel  tanto  d' idealità  artistica, 
che  eleva  la  pittura,  il  poema  cavalleresco,  la  li- 
rica amorosa,  e  che  nel  tramonto  d'ogni  ideale 
concentra  almeno  nell'ideale  supremo  dell'arte 
quasi  tutta  la  coscienza  morale  del  Cinquecento, 
la  novella  diviene  in  Italia  il  frutto  più  spontaneo 
di  tutta  la  letteratura  del  secolo,  e  avvolta,  com'è, 
continuamente  fra  gli  accidenti  della  vita  quoti- 
diana, ne  manifesta  meglio  e  più  largamente 
d'  ogni  altro  la  corruzione,  le  brutture,  le  contrad- 

(1)  È  quello  che  mancò  al  dramma  in  Italia.  Vedi  in 
proposito  le  giuste  considerazioni  del  Gaspart,  Op.  cit. 
Voi.  2. 


—  11 

dizioni,  che  ninna  apologia  potrebbe  negare.  Ve- 
rissimo; ma  che  monta,  ripeto,  tutto  questo?  Si 
preferisce  dimostrare  che  la  novella  non  è  per  noi 
che  una  conseguenza  di  natura  ed  una  giusta  con- 
danna della  storia. 

Curioso  è  poi  che  mentre  la  novella  ci  è  im- 
putata a  colpa,  0  per  lo  meno  a  cronica  infermità 
nazionale,  le  si  contesti  dai  critici  stranieri,  con 
tanto  studio  d'indagini,  e  di  comparazioni,  ogni 
originalità  di  contenuto.  A  sentirli,  tutto  o  quasi 
tutto  l'immenso  materiale,  che  i  nostri  novellatori 
hanno  messo  in  opera  è  derivato  dal  fableau.  Lo 
stesso  Boccaccio  non  ha  nulla  di  suo,  salvo  le  e- 
leganze  ciceroniane  (che  snervano  anzi,  si  dice,  la 
giovine  e  sana  vigoria  del  fableau)  la  lubricità  dei 
particolari  e  la  irreligiosità.  E  nessuno  dei  nostri  no- 
vellatori si  salva,  neppure  il  Sacchetti,  che  indub- 
biamente atteggia  nelle  sue  novelle  aneddoti  e  per- 
sonaggi contemporanei,  neppure  il  Bandello,  così 
lontano  in  ordine  di  tempo  dalla  letteratura  dei  Irò- 
veri  e  così  pienamente  tuffato  nel  suo  Cinquecento  (^). 

{*)  Vedi:  Landau,  Die  Quellen  des  Decamerone  —  Bei- 
tràge  zur  Geschichte  der  Italienischen  Novelle  —  Dunlop-Lie- 


—  12 

Anche  di  queste  esagerazioni  la  critica  discreta, 
e  che  non  procede  per  via  di  sistemi,  ha  fatto 
giustizia.  Certo,  neppure  il  Boccaccio  è  venuto  su 
come  un  fungo,  perchè  nulla  nella  storia  del  pen- 
siero umano  e  quindi  nella  storia  della  letteratura 
si  genera  così,  ed  anche  come  forma  di  componi- 
mento il  Novellino^  i  Conti  d'antichi  Cavalieri^  e  via 
dicendo,  hanno  aperta  la  strada  al  Decamerone, 
come  le  visioni  e  le  leggende,  largamente  diffuse 
prima  di  Dante  nella  coscienza  delle  plebi  cristiane, 
avevano  aperta  la  strada  alla  Divina  Coìnmedia.  Ma 
a  parlar  di  fonti^  dalle  quali  direttamente  derivi 
la  novella  italiana  fino  a  tutto  il  Cinquecento,  è 
più  presto  detto  che  dimostrato,  tanto  son  varie 
quelle,  dalle  quali  essa  attinge,  tanto  è  grande  il 
lavoro  di  rimaneggiamento,  che  fa  delle  infinite 
tradizioni  letterarie  ed  orali,  colate  e  ribollite  da 
secoli  in    quell'immenso  crogiuolo,    che    è  la  co- 


BUECUT-G eschichle  der  Prosadichtungen.  Vedi  principal- 
mente: Histoire  Littèraire  de  France  —  Fin  du  XIII  Siede 
—  Trouvères  x^ag.  80,  83,  J51  —  E  per  V  opposto  vedi  : 
Bartoli,  Storia  della  Letter.  Hai.  Voi.  3.  Cap.  X  e  i  Pre- 
cursori del  Buccaccio,  ecc.  ecc. 


—  13  — 

scienza  popolare,  tanto  si  vale  di  fatti  e  di  ca- 
ratteri contemporanei  e  in  essi  traveste  i  tradizio- 
nali, tanto  si  giova  e  mescola  insieme  ciò  che  è 
ricordo  erudito  e  ciò  che  è  sua  osservazione  im- 
mediata. E  anzi  appunto  per  questo  che  essa  pure 
rispecchia  non  in  tutto,  ma  in  gran  parte,  la  storia 
e  la  vita  sociale  del  tempo. 


CAPITOLO  li 


La  cornice  del  quadro. 

Dovrebbe  quindi  bastare  quello  che  fu  ed  è 
sempre  vero,  nulla  esservi  mai  d' intieramente 
nuovo  sotto  il  sole,  notando  in  puri  tenipo  che 
quau'l'  anche,  poniamo,  si  dimostri  la  stessa  cornice 
esteriore,  con  cui  il  Boccaccio  cerca  di  dare  un 
unità  organica  alle  sue  novelle,  la  peste,  che  de- 
sola Firenze,  la  chiesa,  in  cui  le  sette  donne  e  i 
tre  giovani  s'incontrano,  la  villa  sul  colle  Fieso- 
lano,  ove  si  recano  a  novellare,  non  essere  in- 
venzione tutta  sua,  ma  potere  in  ombra  prove- 
nirgli dal  Libro  dei  Sette  Savi,  gli  si  sarà  tolto  ben 
poco;  così  grande  è  la  vaghezza  e  l'originalità, 
con  cui  l'arte  del  Boccaccio  trasfigura  quella 
vecchia  forma,  e  tanto  1'  ha  esso  riempiuta  di  per- 


16 


sooaggi  e  di  vita  del  tempo  suo  (').  Non  si  può 
del  resto  considerare  il  Boccaccio  nelle  ridicolag- 
gini de' suoi  pretesi  imitatori.  L'arte  sua  è  di  or- 
dine composito,  se  altra  fu  mai.  Quello  stesso 
suo  stile,  che.  nelle  ampie  e  lente  volute  del 
periodo,  a  noi  gente,  che  ha  il  diavolo  dietro, 
fa  quasi  sgomento,  in  lui,  in  Giovanni  della  tran- 
quillità, com'  era  detto  dai  suoi  contemporanei,  era 
arte  squisita,  che  idoleggia  sé  stessa,  e  eh'  egli 
varia  d'ombre,  di  luci,  e  accarezza  e  raffina  con 
vera  delizia  interiore.  Ad  ogni  modo  ciò  è  ben 
secondario  in  un'  opera  letteraria  cosi  vasta,  come 
quella  del  Boccaccio,  che  novellatore,  poeta,  eru- 
dito, artista  sovrano,  ha  una  azione  che  dilaga  per 
mille  rivoli  e  alimenta  tanti  generi  diversi  in 
tanti  tempi  diversi,  e  non  nella  sola  letteratura 
Italiana,  ma  in  quella  di  tutta  Europa.  Se  non  che 
appena,  ripeto,  la  novella  si  discosta  da  lui,  nel 
Sacchetti  stesso,  che  gli  è  così  vicino,  la  novella 
è  già  altra  cosa.  Scarta  cioè  sempre  più  l'elemento 
d'arte,  e  acquista  un'altra  originalità,  quella    che 

(1)  Gaspary,  Op.  cit.  Voi.  II,  P.  I,  pag.  42. 


17 


le  viene  da  un  sentimento  più  prossimo  alla  realtà 
contemporanea,  con  sempre  minore  inlerposizione 
di  preoccupazioni  artistiche,  finché  si  giunge  a 
Matteo  Bandelle  nel  secolo  XVI,  che  schiettamente 
dichiara  non  aver  arto,  non  stile,  non  lingua,  e 
narrar  per  narrare.  «  Non  voglio  dire,  scriv'  esso, 
che  queste  mie  Novelle  siano  scritte  in  Fiorenlin 
volgare,  perchè  direi  manifesta  bugia.  E  se  bene 
io  non  ho  stile  (che  il  confesso)  mi  sono  assicu- 
rato a  scriver  esse  Novelle,  dandomi  a  credere  che 
l'Historia  e  cotesta  sorte  di  Novelle  possa  dilettare 
in  qualunque  lingua  essa  sia  scritta  »  (^).  E  al- 
trove: «  Io  son  Lombardo  e  in  Lombardia  a  li  con- 
fini de  la  Liguria  nato....  e  come  io  parlo,  cosi 
ho  scritto,  non  per  iiìsegnar  altrui,  né  accrescer 
ornamento  a  la  lingua  Volgare;  ma  solo  per  tener 
memoria  de  le  cose  che  degne  mi  sono  parse 
d'  essere  scritte  »  (■). 


(1)  La  prima  ]);ute  delle  Novelle  del  Bandelle  (Lucca, 
Hnsdrago,  1551,  e  di  nuovo  in  Londra  per  S.  Harding-, 
1710).  Il  Bandello  ai  lettori. 

(•)  Baxdello,  Novelle.  Parte  prima.  —  Dedica  ad  Ip- 
piilita  Sforza  Bentivo^lio. 

Ma-^i.  2 


—  18  — 

L' ideale  artistico  del  Boccaccio  è  raccolto  nel- 
r  età  del  Rinascimento,  di  cui  egli  è  il  più  im- 
mediato profeta,  dai  grandi  maestri  delle  arti  pla- 
stiche e  dall'Ariosto,  non  dalla  novella,  quantunque 
essa  si  professi  sempre  imitatrice  del  Boccaccio  e 
cerchi  sempre  parodiarne  lo  stile,  rifarne,  varian- 
dolo, l'organismo,  in  cui  egli  ha  incorniciato  il 
suo  novelliere,  e  certi  suoi  temi  li  rimaneggi  a 
sazietà,  il  motto,  l'arguzia,  la  burla,  l'accidentalità 
inaspettata,  che  si  fa  giuoco  d'ogni  previdenza 
umana,  l'amore  finalmente,  che  nel  Boccaccio  è 
ribellione  dei  tempi  nuovi  contro  il  medio  evo, 
della  carne  contro  Io  spirilo,  dell'istinto  umano 
contro  la  tirannia  dell'  ascetismo,  e  nei  novellatori 
susseguenti  si  materializza,  si  sfrena  sempre  piij, 
senza  neppure  che  quell'ideale  di  religione  ne 
redima  alquanto  le  irresistibili  fatalità,  finche  nel 
secolo  XVI  riapparisce  nel  Bandelle  qualche  pre- 
occupazione di  leggi  morali  e  nel  Giraldi  quel 
maggior  rispetto  a  certe  convenienze,  che  il  Con- 
cilio di  Trento  aveva  insegnato  e  che,  se  si  guarda 
puramente,  poniamo,  alla  disciplina  ecclesiastica, 
principale  bersaglio  di    tutti    i    nostri    novellatori, 


—  19  — 

non  si  può  dire,  come  il  Ganello,  che  fosse  tuUo 
e  solo  un'apparenza,  un'intonaco,  un' ipocrisia  (^). 

Quanto  alla  forma,  la  novella  del  Cinquecento 
non  ha  modelli  classici.  Ha  un  solo  modello  o, 
por  lo  meno,  pretende  averlo,  il  Boccaccio.  Pre- 
tende, dico,  perchè  la  grande  composizione  arti- 
stica della  novella  comincia  e  finisce  con  lui  e 
l'imitazione  si  riduce  ad  esteriorità  inconcludenti, 
salvo  nei  Fiorentini  e  Senesi  le  grazie,  il  lepore, 
la  ricchezza,  il  colorito  della  lingua,  mentre  pei- 
gli  altri  lutto  sta  nei  complicati  avvolgimenti  del 
periodo  e  delle  cadenze  boccaccesche. 

Prevale  fra  le  imitazioni  la  ricerca  d' una  qual- 
siasi cornice,  in  cui  inquadrare  il  novelliere;  imi- 
tazione quasi  costante,  dal  misterioso  autore  del 
Pecorone,  (')  al  Lasca  e  al  Giraldi. 


(1)  Canello.  Op.  cit.  Cap.  V.  In  altro  luogo  del  suo 
libro  il  Canello  stesso  espressamente  ne  conviene.  Vedi 
Cap.  ir,  pag.  19. 

(•)  Più  lo  si  cerca  e  più  si  ostina  a  celarsi.  Vedi 
Gorra,  in  Giornale  Storico  della  Lelterafitra  Haliana. 
Voi.  XV,  ed  ora  in  Studi  di  Critica  Letteraria.  —  I.  Della 
Giovanna.  —  Il  Pecorone  di  Ser  Giovanni  Fiorentino  in 
Bihliot.  delle  Scuole   Iteti.  Ili,  n.  15. 


20 


Oggi,  che  tanto  si  predilige  l'arte  del  Quattro- 
cento e  del  primo  Cinquecento,  perchè  mai  si 
dimenticano  non  solo  le  Novelle,  ma  ancora  queste 
rappresentazioni  immediate  della  vita  d' allora, 
fatte  con  vera  intenzione  d'arte,  d'un' arte,  che 
può  bensi  avere  qualche  esteriorità  ornamentale 
alquanto  invecchiata,  ma  è  sorella  carnale  per 
ingenua  originalità  di  forme,  per  forza  d'espres- 
sione, per  schiettezza  e  sobrietà  di  movenze  e  per 
profonda  idealità,  di  quella,  che  tanto  s'ammira 
nei  quadri,  nelle  statue  e  nelT  architettura  sacra 
e  civile?  Sia  chi  si  vuole  l'autore  del  Proemio  al 
Pecorone^  il  proemio  é  certo  una  delle  più  graziose 
pagine  di  questo  novelliere,  un' anticipazione  pros- 
simissima  del  più  puro  Quattrocento;  eppure  chi 
sa  a  quanti  giungerà  nuovo  del  tutto!  Il  Pecorone 
comincia  dunque  cosi:  «  Per  dare  alcuna  scintilla 
di  refrigerio  e  di  consolazione  a  chi  sente  nella 
mente  quello  che  nel  passato  tempo  ho  già  sen- 
tito io,  mi  si  muove  zelo  di  caritatevole  amore  a, 
principiare  questo  libro,  nel  quale  trattaremo  d'  un 
giovine  uomo  e  d' una  fanciulla,  i  quali  furono 
ferventissimamente     innamorati    1'  un     dell'  altro, 


—  -21  — 

come  per  lo  presenle  polreie  udire;  e  seppersi  sì 
segreta  me  lite  mantenere  e  si  sepper  portare  il 
giogo  dello  sfavillante  amore,  che  a  me  dieder 
materia  di  seguire  il  presente  libro,  udendo  la 
leggiadra  inventiva,  la  vaga  maniera  e  gli  inna- 
morati ragionamenti  che  insieme  tenevano  per 
mitigar  la  fiamma  dello  ardente  amore,  del  quale 
smisuratamente  ardevano.  Perchè  ritrovandomi  io 
a  Dovadola,  sfolgorato  e  caccialo  dalla  fortuna, 
come  nel  presente  libro  leggendo  potrete  vedere, 
e  avendo  inventiva  e  cagione  da  poter  dire,  co- 
minciai questo  negli  anni  di  Cristo  1378,  essendo 
eletto  per  vero  e  sommo  Pontefice  per  la  divina 
grazia  Papa  Urbano  VI,  nostro  Italiano;  regnando 
il  serenissimo  Carlo  IV,  per  la  Dio  grazia  re  di 
Boemia,  e  imperadore  e  re  dei  Romani. 

«  Egli  ebbe  in  Romagna  nella  città  di  Forlì  un 
munistero,  dov'  era  una  priora  con  più  suore,  le 
quali  erano  tutte  di  santa  e  buona  e  perfetta  vita» 
fra  le  quali  ve  n'aveva  una  ch'aveva  nome  la 
suora  Saturnina,  la  quale  era  giovine,  costumala, 
savia  e  bella,  quanto  la  natura  l'avesse  potuta 
fare  pifi;  ed  era  di  tanto  onesta   e   angelica    vita» 


—  22  — 

che  la  priora  e  l'altre  suore  le  portavano  singo- 
larissimo amore  e  riverenza.  E  la  fama  delle  bel- 
lezze e  onestà  sua  risplendeva  per  tutto  il  paese; 
tant'era  compiutamente  dalla  natura  ben  dotata. 
Per  che  ritrovandosi  in  Fiorenza  un  giovane,  il 
qual  aveva  nome  Auretto,  savio,  sentito,  costumato 
e  ben  pratico  in  ogni  cosa,  il  qual  aveva  speso 
in  cortesia  gran  parte  di  quello  che  aveva,  e 
udendo  la  nobil  fan) a  di  questa  graziosa  Satur- 
nina, subito  se  ne  innamorò,  non  l'avendo  mai 
veduta,  e  pensò  di  farsi  frate,  e  di  venire  a  P'orli 
e  porsi  per  cappellano  di  questa  priora,  per  avere 
più  agio  di  veder  costei,  sì  fortemente  era  inna- 
morato di  lei.  E  così  prese  per  partito  e  accon- 
ciò i  fatti  suoi  e  fecesi  frate  e  vennesene  a  Forlì 
e  quindi,  come  molto  intendente,  per  interposita 
persona  venne  a  stare  per  cappellano  a  questo 
inunistero;  e  seppe  sì  tenere  savi  e  prudenti  modi, 
che  in  picciol  tempo  e' venne  in  grazia  e  in  amore 
della  priora  e  di  tutte  l'altre  suore,  e  massima- 
mente della  suora  Saturnina,  a  cui  egli  voleva 
meglio  che  a  sé  medesimo.  Ora  avvenne  che  il 
detto  frate  Auretto  risguardando  onestamente    più 


2:5  — 

volte  la  detta  suor  Saturnina,  ed  ella  lui,  e  gli 
occhi  più  volte  riscontrandosi.  Amor,  che  a  cor 
gentil  ratto  s'apprende,  legò  costoro  insieme  per 
modo,  che  da  lungi  sorridendo  s'inchinavano;  e 
così  seguendo  Amore,  più  e  più  volte  si  presero 
per  mano,  e  scrissonsi  e  favellavansi  insieme  molte 
volte.  E  moltiplicò  tanto  queslo  amore,  ch'eglino 
presero  per  partito  d'essere  a  una  certa  ora  in- 
sieme al  parlatorio,  il  quale  era  in  luogo  assai 
ri  moto  e  soletario:  ed  essendo  quivi  venuti,  e  ra- 
gionaTido,  ordinarono  di  venirci  ogni  di  una  volta 
per  potere  distesamente  ragionar  insieme.  E  pre- 
son  questa  regola,  che  ogniuno  di  lor  due  devesse 
dire  una  novella  ogni  dì,  a  loro  consolazione  e 
piacere,  e  così  fecero  ». 

La  novella  è  in  questo  caso  il  gergo  nù- 
sterioso,  in  cui  due  cuori  d'innamorati  sfogano 
il  loro  ardore  segreto,  e  se  ci  s'immagina  queste 
due  figurine,  staccantisi  su  un  interno  di  convento 
della  fine  del  secolo  XIV,  queste  due  figurine 
così  fortemente  disegnate  e  poste  a  riscontro  1' una 
dell'altra  in  condizione  d'animo  così  intensa  e 
insieme  cosi  rattenuta,    la    più    mediocre    fantasia 


•24 


ricompone  e  colorisce  il  quadro  più  suggeslloo,  di- 
nanzi al  quale  sia  dato  fantasticare  con  maggior 
delizia  estetica  e  umana  ad  un  tempo. 

Più  largo  abbozzo  di  case,  personaggi  e  vita 
fiorentina  del  Cinquecento  è  la  IiUroduzionc  al 
novellare  nelle  Cene  del  Lasca,  di  cui  si  vuole  che 
abbia  presa  l' idea  da  un  sonetto  di  Folgore  di 
S.  Gimigniano  (^).  «  Avevano  già  gli  anni  della 
fruttifera  incarnazione  dell'altissimo  Figliuol  di 
Maria  Vergine  (  scrive  il  Lasca  )  il  termine  passato 
del  1540,  né  sì  erano  ancora  al  cinquanta  condotti. 
Nel  tempo  dunque  che  per  vicario  di  Cristo  e 
per  successore  di  Pietro,  Pagolo  terzo  governava 
la  santa  Madre  Chiesa,  e  Carlo  Quinto  Cesare 
con  eterna  gloria  allentava  e  stringeva  il  freno 
allo  antico  Impero  dell'invitto  popolo  di  Marte, 
e  i  Galli  erano  custoditi  e  retti  allora  da  France- 
sco Primo,  Serenissimo  re  di  Francia;  quando 
nella  generosa  e  bellissima  città  di  Fii'enze,  là 
neir  ultimo  di  Gennaio  un  giorno  di  festa  dopo 
desinare,  si  trovarono  in  casa  una  non  meno    va- 

(1)  Sonetto  del  mese  di  Gennaio. 


—  25  — 

lorosa  e  nobile  che  ricca  e  bella  donna  vedova 
quattro  giovani  de' primi  e  pii!i  gentili  della  terra 
per  passar  tempo  e  trattenersi  con  un  suo  carnai 
fratello,  che  per  lettere  e  cortesia  aveva  pochi  pari, 
non  solo  in  Firenze,  ma  in  tutta  Toscana;  per- 
ciocché oltre  l'altre  sue  virtù  era  musico  perfetto, 
e  una  camera  teneva  fornita  di  canzonieri  scelti, 
e  d'ogni  sorta  di  slrumenti  lodevoli,  sapendo  tutti 
que' giovani,  chi  più  e  chi  meno,  cantare  e  sonare. 
«  Ora  mentre  che  essi  e  colle  voci  e  co' suoni 
attendevano  a  darsi  piacere,  si  chiuse  il  tempo 
e  cominciò  per  sorte  a  mettere  una  neve  si  folta, 
che  in  poco  di  ore  alzò  per  tutto  un  braccio  som- 
messo, di  maniera  che  i  giovani  ciò  veggendo^ 
lasciato  il  sonare  e  il  cantare,  di  camera  si  usci- 
rono ed  in  un  bellissimo  cortile  venuti,  si  diedero 
a  trastullarsi  colla  neve.  La  qual  cosa  sentendo  la 
padrona  di  casa,  la  quale  era  awenevole  e  ma- 
nierosa, le  cadde  nell'animo  di  fare  al  fratello  e 
agli  altri  giovani  un  assalto  piacevole;  e  presta- 
mente chiamò  quattro  giovani  donne,  due  siu; 
lìgliastre,  una  sua  nipote  e  una  sua  vicina,  tuu'e 
quattro  maritate,  che  per  varie  cagioni  e    per   di- 


—  26  — 


versi  rispelli  si  trovavano  allora  in  casa  seco;  no- 
bili e  belle  Lulle,  leggiadre  e  graziose  a  meravi- 
glia. Le  fìgliasire  avevano  i  marili  loro,  per  negozi 
della  mercatura,  uno  a  Roma  e  l'altro  aVinegia: 
quel  della  nipote  era  in  uGzio  e  quel  della  vicina 
in  villa.  E  disse:  io  ho  pensalo,  fanciulle  mie  care, 
che  noi  spacciatamente  ce  n'andiamo  in  sul  tetto,  e 
facciamo  in  un  tratto  con  tutte  le  fantesche  insieme, 
un  numero  grandissimo  di  palle  di  neve,  e  dipoi 
alle  finestre  della  corte  ce  n'andiamo,  e  facciamo 
con  esse  a  que' giovani,  che  fra  loro  combattono, 
una  guerra  terribile.  Essi  si  vorranno  rivolgere  e 
risponderci;  ma  sendo  di  sotlo,  ne  toccheranno 
tante,  che  per  una  volta  si  troveranno  malconci. 
«  Piacque  il  parlar  suo  a  tulle  quante,  sì  che  di 
fallo  si  misero  in  assetto,  e  colle  fanti,  andatesene 
sul  terrazzo  e  indi  sopra  il  tetto,  con  prestezza 
grandissima  tre  vassoi  e  due  gran  paniere  empi- 
rono di  ben  fatte  e  sode  palle;  e  chetamente  ne 
vennero  alle  finestre,  che  rispondevano  sopra  il 
cortile,  dove  i  giovani  mal  governi  tra  loro  com- 
battevano ancora,  e  posalo  a'  pie  di  ogni  iìnestra 
il  suo  vassoio  o  la  sua  paniera,  si    affacciarono    a 


—  27  — 

un  tratto  succinte  e  sbracciate,  e  cominciarono  di 
qua  e  di  ià  a  trarre  confusamente  a' giovani,  i 
quali,  quanto  meno  se  lo  aspettavano,  tanto  piìi 
parve  loro  il  caso  strano  e  meraviglioso.  E  culti 
^ir  iuipiovviso,  in  quel  subito,  alzando  il  c^po  in 
su,  non  sapendo  risolversi,  stavano  fermi  e  guar- 
davano; sicché  di  buone  pallate  toccarono  nelle 
tempia,  nel  viso,  per  lo  petto  e  per  tutta  la  per- 
sona. Pur  poi  veggendo  che  le  donne  facevano 
daddovero,  gridando  e  ridendo  si  rivolsero,  e  co- 
minciarono insieme  una  scaramuccia  la  più  sollaz- 
zevole del  mondo  ;  ma  i  giovani  ne  andavano  col 
peggio,  perchè  nel  chinarsi  erano  colti  sconcia- 
mente, 0  nello  schifare  una  palla,  l'altra  gli  ve- 
niva a  investire;  e  spesse  volte  avvenne  che  alcuni 
di  loro,  sdrucciolando,  caddero;  onde  otto  o  diece 
paliate  toccavano  a  un  tratto;  di  che  le  donne 
facevano  meravigliosa  festa,  e  per  un  terzo  d'ora 
quanto  bastò  loro  la  neve,  ebbero  un  piacere  in- 
comparabile. E  di  fatto,  quella  mancala,  serralo 
le  finestre,  se  ne  andarono  a  scaldarsi  e  a  mutarsi, 
lasciando  i  giovani  nella  corte  a  grido,  tutti  quanti 
imbrodolati  e  molli. 


—  28  — 

«  I  giovani  veggendo  sparite  le  donne  e  le  fi- 
nestre serrate,  lasciato  la  impresa  se  ne  tornarono 
in  camera,  dove  trovato  acceso  un  buon  fuoco,  chi 
attese  a  rasciugarsi,  chi  a  farsi  scalzare  e  furonvi 
di  quelli  che  si  ebbero  a  mutare  per  infino  alla 
camicia.  Ma  poiché  essi  furono  rasciulti  e  riscal- 
dati, non  si  potendo  dar  pace  dello  essere  stati 
dalle  donne  così  mal  conci,  pensarono  di  vendi- 
carsene, e  di  concordia  tornatisene  chetamente  nel 
cortile  s'empierono  tutte  le  mani  e  il  seno  di 
neve,  e  credendosi  trovar  le  donne  sprovvedute 
intorno  al  fuoco,  s'avviarono  pian  piano  per  assal- 
tarle, e  fare  le  loro  vendette;  ma  nel  salir  la  scala 
non  poterono  tanto  celarsi  che  da  quelle  non  fos- 
sero e  sentiti  e  veduti;  sì  che  corse  in  uno  stante, 
serrarono  l'uscio  delia  sala;  onde  i  giovani,  rima- 
sti scherniti,  se  ne  ritornarono  in  camera.  E  per- 
chè egli  era  già  restato  di  nevicare,  ragionavano 
d'andare  in  qualche  lato  a  spasso;  e  mentre  che 
tra  loro  si  disputava  del  luogo,  cominciò  per  sorte, 
come  spesse  volte  veggiamo,  che  la  neve  si  con- 
verte in  acqua,  a  piovere  rovinosamente,  di  modo 
che  si  risolverono  di  starsi   quivi    per   la   sera,    e 


—  29  — 

fatto  portar  de'  lumi,  perchè  di  già  s' era  rabbuiato, 
e  raccendere  il  fuoco,  si  diedero  a  cantare  certi 
madrigali  a  cinque  voci  di  Verdelotto  e  d'  Arca- 
delte. 

«  Le  donne,  poiché  elle  ebbero  scampato  la 
mala  ventura,  attendendosi  a  scaldare,  si  ridevano 
di  coloro;  e  nel  ragionare  insieme  di  cose  piacevoli 
e  allegre,  udirono  per  ventura  i  giovani  cantare, 
ma  non  discernevano  altro  che  un  poco  d'armonia; 
onde  desiderose  d*  intender  le  parole,  e  massima- 
mente alcune  di  loro,  che  se  ne  intendevano  e  se 
ne  dilettavano,  deliberarono  per  consentimento  di 
tutte  e  d'accordo,  che  i  giovani  si  chiamassero, 
perciocché  tutti  quanti,  o  per  parentado  o  per  vi- 
cinanza 0  per  amicizia,  erano  domesticamente  so- 
liti praticare  insieme.  E  così  la  padrona  fu  fatta 
messaggiera:  la  qual  cosa  i  giovani  accettarono 
più  che  volentieri,  e  colla  donna  prestamente  ne 
vennero  contentissimi  in  sala,  dove  dalle  altre 
donne  furono  onoratamente  e  con  grandissima  alle- 
grezza e  onestà  ricevuti.  E  poi  che  essi  ebbero 
cantati  sei  od  otto  madrigali,  con  sodisfacimento  e 
piacere  non  piccolo  di. tutta  la  brigata,    si    misero 


30 


a  sedere  al  fuoco,  dove  un  di  que' giovani,  avendo 
arrecato  di  camera  un  GenLo  Novelle,  e  tenendolo 
così  sotto  il  braccio,  fu  domandato  da  una  di 
quelle  donne  che  libro  egli  fosse.  Alla  quale  co- 
lui rispose  essere  il  più  utile,  che  fosse  mai  stato 
coniposto;  queste,  disse,  sono  le  favole  di  messer 
Giovanni  Boccaccio,  anzi  di  San  Giovanni  Bocca- 
doro. E  bene,  rispose  un'altro  di  loro,  Santo  mi 
piacque  e  sogghignò.  E  perchè  il  giovane  aveva 
bella  voce  e  buona  grazia  nel  leggere,  fu  d'intorno 
pregalo  che  qualcuna  ne  volesse  dire  a  sua  scelta; 
ma  egli,  ricusando,  voleva  che  altri  leggesse 
prima,  quando  un'altra  delle  donne,  ripigliando 
le  parole,  disse  che  torre  si  dovesse  una  giornata; 
e  ciascuno  leggendo  la  sua,  atteso  che  essi  erano 
diectì,  verrebbe  a  fornirsi,  che  a  ogni  uno  tocche- 
rebbe la  sua  volta. 

«  Piacque  assai  la  proposta  di  costei  e  cosi  men- 
tre che  si  contendea  delle  giornate,  che  chi  voleva 
la  quinta,  chi  la  terza,  altri  la  sesta,  altri  la  quarta, 
e  chi  la  settima,  venne  voglia  alla  donna  princi- 
pale di  mettere  ad  effetto  un  pensiero,  che  allora 
allora  le  era  venuto  nella    fantasia,    e    senza    dire 


—  31  — 

altro,  levatasi  dal  fuoco,  ne  andò  in  camera,  e 
fattosi  chiamare  il  servitore  di  casa  e  il  famiglio, 
impose  loro  ordinatamente  quel  tanto,  che  ella  vo- 
leva che  essi  facessero,  e  tornatasene  al  suo  luogo, 
là  dove  ancora,  tra  la  compagnia,  della  giornata 
si  disputava,  con  bella  maniera,  e  tutta  festevole, 
così  prese  a  dire.  Poiché  la  necessità,  più  che  il 
nostro  senno  o  il  nostro  avvedimento,  valorosi  gio- 
vani e  voi  leggiadre  fanciulle,  ci  ha  qui  insieme 
per  la  non  pensata  a  ragionare  stasera  intorno  a 
questo  fuoco  condotti,  io  sono  forzata  chiedervi  e 
pregarvi  che  mi  facciate  una  grazia:  voi  uomini, 
dico,  perciocché  le  mie  donne,  tanta  fidanza  ho 
nella  benignità  e  cortesia  loro,  so  che  non  man- 
cheranno di  fare  quel  tanto  che  mi  piacerà. 

«  Per  la  qual  cosa  i  giovani  promettendo  tutti 
e  giurando  di  fare  ogni  cosa  che  per  loro  si  po- 
tesse, e  che  le  tornasse  comodo,  ella  seguitando 
disse.  Voi  udite  come  non  pur  piove,  anzi  diluvia 
il  cielo  e  però  la  grazia  che  fiir  n;i  dovete,  sarà 
che  senza  partirvi  di  qui  altrimenti,  vi  degnate 
questa  sera  di  cenar  meco  domesticamente,  e  col 
mio  fratello  e  amicissimo  vostro  insieme.    Intanto 


32  - 


la  pioggia  dovrà  fermarsi,  e  quando  bene  ella  se- 
guitasse, giù  a  terreno  sono  tante  camere  fornite, 
che  molli  più  che  voi  non  sete,  vi  alloggerebbero 
agiatamente.  Ma  intanto  che  l'ora  ne  venga  del 
cenare,  ho  io  pensato,  quando  vi  piaccia,  come 
passare  allegramente  il  tempo,  e  questo  sarà  non 
leggendo  le  favole  scritte  del  Boccaccio,  ancora 
che  né  più  belle  né  più  gioconde  né  più  senten- 
ziose se  ne  possano  ritrovare;  ma  trovandone  e 
dicendone  da  noi,  seguili  ognuno  la  sua;  le  quali, 
se  non  saranno  nò  tanto  belle  né  tanto  buone,  non 
saranno  neanche  né  tanto  viste  né  tanto  udite,  e 
per  la  novità  e  varietà  ne  dovranno  porgere,  per 
una  volta,  con  qualche  utilità  non  poco  piacere  e 
contento;  sendo  tra  noi  delle  persone  ingegnose, 
soffistiche,  astratte  e  capricciose.  E  voi,  giovani, 
avete  tutti  buone  lettere  d'  umanità,  siete  pratichi 
coi  poeti,  non  solamente  Latini  o  Toscani,  ma 
Greci  altresì,  da  non  dover  mancarvi  invenzione 
0  materia  di  dire.  E  le  mie  donne  ancora  s'in- 
gegneranno di  farsi  onore;  e  per  dirne  la  verità,  noi 
semo  ora  per  carnevale,  nel  qual  tempo  é  lecito 
ai  Religiosi  di  rallegrarsi;  e  i  frali  tra  loro  fanno 


—  33  — 

al  pallone,  recitano  commedie  e  travestili  suonano, 
ballano  e  cantano;  e  alle  monache  ancora  non  si 
disdice,  nel  rappresentare  le  feste,  questi  giorni 
vestirsi  da  uomini,  colle  berrette  di  velluto  in  te- 
sta, colle  calze  chiuse  in  gamba  e  colla  spada  al 
fianco.  Perchè  dunque  a  noi  sarà  sconvenevole  e 
disonesto  il  darci  piacere  novellando?  Chi  ce  ne 
potrà  con  ragione  riprendere?  Stasera  è  giovedì, 
e  come  voi  sapete,  non  quest'altro  che  verrà,  ma 
quell'altro  di  poi  è  Berlingaccio,  e  però  voglio  e 
chieggovi  di  grazia  che  questi  altri  due  giovedì 
sera  vegnenti,  vi  degniate  di  venire  a  cenare  simil- 
mente con  mio  fratello  e  meco,  perciocché  stasera, 
non  avendo  tempo  a  pensare  le  vostre  favole  sa- 
ranno piccole;  ma  quest'altre  due  sere,  avendo 
una  settimana  di  tempo  mi  parrebbe  che  nell' una 
si  dovessero  dir  mezzane,  e  nell'altro,  che  sarà  la 
sera  di  Berlingaccio,  grandi.  E  così  ciascuno  di  noi, 
dicendone  una  piccola,  una  mezzana  e  una  grande, 
farà  di  sé  prova  nelle  tre  guise,  oltre  che  il  nun)ero 
ternario  è  tra  gli  altri  perfettissimo,  richiudendo 
in  sé  principio,  mezzo  e  fine  ». 

Questa  la  gentile  invenzione  del  Lasca;  in  cui 

Masi.  3 


—  34 

tanto  ha  messo  dei  costa  mi,  dei  sentimenti  e  della 
civiiia  del  tempo  in  Firenze,  e  ad  essa  fa  riscontro 
importante,  non  fosse  che  pel  contrasto,  il  pream- 
bolo degli  HecatommUl  oouero  Cento  Novelle  di  Gio- 
vanni Battista  Giraìdi  Cinzio,  che  addirittura  si 
vale  dei  fatti  storici  del  suo  tempo  g  fìnge  una 
brigata  di  geniilnomini  e  gentildonne,  che  scara- 
pati  al  sacco  di  Roma  del  1527  s'imbarcano  a 
Civitavecchia  per  Marsiglia,  e  ingannano,  raccon- 
tandosi novelle,  gli  ozi  della  lunga  navigazione. 

11  Gira!di  non  è  un  burlone  come  il  Lasca, 
non  un  giovane  passionato  e  agitato,  come  1'  autore 
del  Pecorone,  uè  un  vagabondo  avventuroso  come 
il  Bandello.  È  un  professorone  accigliato  e  severo, 
che  sotto  finti  nomi  osa  di  mettere  in  novella 
anche  Papa  Borgia,  il  Duca  Valentino  e  le  loro 
amenità  di  famiglia,  e  che  se  scrive  novelle  lu- 
briche non  meno  degli  altri,  professa  però  di 
farlo,  «  a  castigo  del  vizio,  a  coi'rezione  dei 
costumi,  ad  onore  anzi  dell'autorità  pontifìcia  e 
della  S.inta  Chiesa  Romana  (')  »  ;  il  tutto  condito 


1^1)  A,  D'Ancoxa,  Varietà  Storielle  e  Letterarie,  Serie  2, 
pag.  -239  e  sgg. 


—  35  — 

d'un  dottrinarismo  platonico,  alquanto  gravoccio  e 
ravviluppato  in  uno  stile  d'imitazione  boccaccesca, 
che  di  vigore  non  manca,  ma  che  non  ha  nulla  da 
fare  colla  pittoresca  semplicità  ed  evidenza  del  Pe- 
corone e  colla  grazia  ed  il  brio  delle  Cene  del  Lasca. 

Le  solenni  ed  ansiose  sollecitudini  del  Giraldi 
scompaiono  quasi  nel  Bai^idello,  il  quale  fa  a  meno 
altresì  della  piccola  macchina  da  aggrupparvi  at- 
torno le  novelle,  quale  abbiamo  vista  nel  Pecorone, 
nelle  Cene,  e  negli  Hecatommiti,  e  invece  d' imitare 
in  ciò  il  Boccaccio,  ripiglia  ed  amplia  il  sistema 
di  Masuccio  Salernitano  e  ad  ogni  sua  novella 
premette  una  dedica  ad  un  gentiluomo  o  ad  una 
gentildonna  della  più  alta  società  del  suo  tempo, 
spesso  accennando  alle  qualità,  agli  uffici,  alle 
amicizie,  alle  parentele  dei  personaggi,  ai  quali 
la  novella  è  dedicata;  sempre  poi  alle  circostanze, 
ai  luoghi,  alle  occasioni,  nelle  quali  la  novella  fu 
raccontata,  non  attribuendo  a  sé  altro  merito,  se 
non  quello  d'averla  tenuta  a    mente    e    trascritta. 

Risuscita  per  tal  guisa  sotto  ai  nostri  occhi 
tutto  intiero  un  mondo  di  gente,  atteggiala,  sullo 
sfondo  storico  del  tempo,  nella  sua  vita  quotidiana 


—  36  — 

e,  per  quanto  in  tuttociò  possa  essere  d'artefatto 
e  rifatto,  bisogna  pur  riconoscere  che  questo  sforzo 
di  collocare  un'opera  letteraria  in  tanta  pienezza 
di  realtà,  oltre  a  dischiiudere  alla  storia  una  ric- 
chissima miniera  di  notizie  preziose,  segna  pel 
tempo,  in  cui  fu  tentato,  un  progresso  artistico 
immenso,  di  cui  purtroppo  si  sou  giovate  pili  le 
altre  letterature  che  la  nostra,  ma  che  non  perde 
nulla  della  sua  importanza,  anche  se,  come  ab- 
biamo veduto,  la  gratitudine  non  fu  pari  al  ser- 
vizio reso  (^j. 

Questa  risurrezione,  della  vita  contemporanea, 
che,  senza  alcuna  possibilità  di  paragone  con  tutti 
gli  altri  novellieri  del  Cinquecento,  si  riscontra 
massimamente  nel  novelliere  del  Randello,  com- 
posto di  ben  dugento  diciannove  novelle  e  altret- 
tante lettere  di  dedica,  trae  un  valore  tutto  suo 
da  queste  quattro  cagioni  principali:  dal  tempo, 
in  quanto  il  Cinquecento  è  non  solo  il  colmo  della 
civiltà  italiana  del  Rinascimento,  ma  il  momento 
storico  altresì,  in  cui   la   libertà    italiana    precipita 

(1)  Cf.  Vir.LARi,  Arte^  storia  e  filosufia.  Sagf^i  critici, 
pagg.  289-90. 


—  37  — 

a  mina  e  con  la  Riforma  Protestante  si  sposta 
anche  il  centro  di  quella  civiltà;  dai  luoghi,  in 
quanto  il  Bandello  vive  proprio  colà  dove  quella 
catastrofe  si  compie  e  tutti  i  particolari  di  essa  si 
svolgono,  si  può  dire,  sotto  i  suoi  occhi;  dalla 
qualità  delle  persone,  con  le  quali  è  in  contatto 
immediato  e  continuo,  in  quanto  sono  i  prota- 
gonisti di  tutto  il  gran  dramma,  od  i  loio  inspi- 
ratori 0  i  loro  amici,  o  i  loro  confidenti  più 
prossimi;  dalla  durata  finalmente,  in  quanto,  se- 
condo ogni  più.  probabile  congettura,  il  Bandello. 
è  nato  verso  il  1480,  ha  vissuto  in  Italia  fino  al 
1542  ed  è  morto  pili  che  ottuagenario  in  Francia 
dopo  il  1560  (•}. 

(1)  JBandello,  Novelle^  Parte  I,  Novella  ó8.  Dedica  a 
Ginevra  Rang-oiia  Gonzaga.  Dice  clie  era  già  nel  Convento 
delle  Grazio  in  Milano,  (jiiando  nel  1497  Leonardo  vi  di- 
pingeva il  Cenacolo.  Dalla  prefazione  poi  alla  Parte  UE 
delle  novelle,  edizione  di  Lucca  per  Vincenzo  Busdrago, 
ir)54,  apparisce  clie  in  questo  tempo  era  vivo  ancora  e 
scriveva  ancora  novelle.  Vedi  pure:  Ecuard- Quetif, 
Scriptores  Ordinis  Praerlicatoruni,  Toni.  II.  (  Lutetiae  Pa- 
risiornm  1721).  Mazzucchei.li,  Seritlori  d' Italia.  Voi.  II, 
Part.  I.  Galeani  Napione  di  Cocconato,  P/eniontesi  Il- 
lustri, Tom,  V,  Torino,  Briolo,  1787. 


38  — 

Maggior  materiale  storico  conteiìgono  quindi 
le  sue  dediche,  che  non  le  sue  stesse  novelle  ('). 
Ad  ogni  modo  tra  dediche  e  novelle  racconta 
assai  più  che  non  inventi  ed  in  questo  senso  il 
Gian,  studiando  nell'archivio  Gonzaga  di  Mantova 
!e  relazioni  tra  Pietro  Bembo  ed  Isabel'a  Gonzaga, 
ebbe  a  dire  apparirgli  il  Randello  molto  più  scrit- 
tore di  storie  che  di  novelle  (-J.  Vediamo  di  fatto 
scegliendo  meglio,  che  si  possa,  fra  tanta  congerie 
di  racconti  e  tanta  folla  di  personaggi. 

(1)  Symonds,  Op,  cit.,  loc.  cit. 

(2)  Giornale  storico  della  letteratura  italiana.  Vittorio 
Ciak,  Pietro  Bembo  e  Isabella  Gonzaga^  Tom.  IX. 


CAPITOLO  III 


Uomini,  donne  e  tempi 
nelle  novelle  del  Bandello. 

Tra  il  1497  e  98  Leonardo  da  Vinci,  scilo  la 
pressura  delle  continue  sollecilazioni  di  Lodovico 
il  Moro,  compiva  il  grande  affresco  del  Cenacolo 
nei  Convento  delle  Grazie  in  Milano  (\).  Matleo 
Bandello,  giovinelto  di  circa  diciaseile  anni  era 
alunno  ('-),  in  queslo  convento  di  Domenicani    (^), 

(')  ArcJi/v.  Stor.  Lombardo.  —  Anno  I.  Cantù.  —  Aiied- 
dot.  di  Lod.  il  Moro.,  —  Una  lettera  a  Marchosino  Stanga, 
suo  segretario,  in  data  del  penultimo  di  giugno  1407. 
«  Item  de  solicitare  Leonardo  Fiorentino  perché  finisca 
l'opera  del  refetorio  delle  Gratie  principiata....  » 

{')  Co.sì  lo  chiamano  Echard  e  Quktif.  —  Scriptoves  cit. 

(3)  Neil' vlrf7//('/o  di  Stato  in  Milano  sono  tre  volumi 
Mss.  del  Padre  Vincenzo  Monti  sugli  scrittori,  i  supe- 
riori, i  maestri  di  teologia  del  Convento  dolio  Grazie. 
Fra  gli  scrittori  è  una  breve  vita    di    Matteo,    del  qualo 


40 


ove,  già  da  oltre  due  anni,  era  Priore  suo  zio, 
Vincenzo  Bandello,  quel  medesimo,  cui  si  riferisce 
la  nota  froitola,  raccontala  dal  Giraldi  nei  Romanzi 
e  dal  Vasari  nelle  Vite,  secondo  la  quale  Leo- 
nardo per  vendicarsi  delle  importunila  del  Priore 
lo  avrebbe  ritratto  nella  faccia  del  Giuda.  Il  gio- 
vine Bandello  riferisce  una  novella  raccontata  dal 
grande  artista  in  una  delle  tante  pause,  che  solea 
mettere  al  suo  lavoro,  e  ce  lo  descrive  cosi:  «  Più 

il  Monti  pure  dice  che  «  adolescens  Inter  alìtninos  ad- 
scriptus  fuit  ».  E  soggiunge  in  nota:  «  Forte  it  contigit, 
quum  ejus  patruus  Fr.  Vinceutius  anno  1495  Coenobii 
nostri  Priorem  agere  coepit.  Veruni  (juia  Mattliaeus  eju- 
sdem  Avunculi  laborum  partes  in  totiusordinis  regimine 
a  primis  sequeiitis  anni  sustinuisse  constet,  ejus  ad  or- 
dinem  ingressus  per  aiinos  aliquos  praecessisse  suspica- 
mur  ».  Nella  bicgrafia  di  Vincenzo  Bandello  il  Monti 
riporta  una  propria  lettera  scritta  agli  editori  romani  del 
Vasari  nel  1759,  in  cui  smentisce  con  buoni  argomenti  il 
preteso  aneddoto  Leonardesco.  Vincenzo  Bandello  era  fa- 
miliarissiino  del  Principe,  era  già  celebre  per  le  sue  di- 
spute su]V  Ini lìiacolala  Coucezione,  elio  i  Domenicani  op- 
pugnavano, e  per  di  piìi  era  bellissimo  e  venerando  di 
aspetto.  Ciò  è  confermato  da  Leandro  Alberti:  —  De 
viris  Illustribus  Ordinis  Praed.  —  clie,  intrinseco  di 
Matteo,  scrivo  nel  1517  —  Lib.  I,  fol.  47  —  che  Vincenzo 
«  erat  facie  ningsia  et  venusta  ». 


—  41  — 

volte  r  ho  veduto  e  considerato,  andar  la  mattina 
a  buon  bora  e  montar  su  '1  ponte,  percbò  il  Ce- 
nacolo è  alquanto  da  terra  alto:  soleva  dal  nascente 
sole  fino  a  l'imbrunila  sera  non  levarsi  mai  il 
pennello  di  mano,  ma  scordatosi  il  mangiare  ed  il 
bere,  di  conlinovo  dipingere.  Se  ne  sarebbe  poi 
stato  dui,  tre  e  quatro  dì,  che  non  v'  haverebbe 
messo  mano,  e  tutta  via  dimorava  tal  bora  una  e 
due  bore  del  giorno,  e  solamente  contemplava,  con- 
siderava ed  esaminando  tra  se,  le  sue  figure  giu- 
dicava. L'  ho  anco  veduto  (  secondo  che  il  capriccio 
0  ghiribizzo  lo  toccava  )  partirsi  da  mezzo  giorno, 
quando  il  Sole  è  in  Lione,  da  Corte  vecchia,  ove 
quel  stupendo  Cavallo  di  terra  componeva,  e  ve- 
nirsene dritto  a  le  Gratie,  ed  asceso  su  '1  ponte 
pigliar  il  pennello  ed  una  o  due  pennellate  dar 
ad  una  di  quelle  figure  e  di  subito  partirsi  ed 
andar  altrove.  Era  in  quei  di  alloggiato  ne  le 
Gratie  il  Cardinal  Gurcense  il  vecchio,  il  quale  si 
abbattè  ad  entrar  nel  refettorio  per  veder  il  detto 
Cenacolo....  »  C).  Mal  per  lui!    Giacché   parlando 

(1)  Basdello,  Novelle.  Parte  I.  Nov.  58.  Dedica  a  Gi- 
nevra Kaiiofona  Gonzaga. 


—  42  — 

con  Leonardo  ed  informandosi  di  quello  gli  pa- 
gnsse  il  Duca,  i  compensi  parvero  soverchi  al 
taccagno  Cardinale  e  Leonardo  se  ne  vendicò, 
narrando  poi  una  novellelta  a  disdoro  della  sua 
ignoranza.  Ora  dai  Diari  di  Marin  Sauudo  sap- 
piamo appunto  che  il  Cardinale  Gurgense  era 
alloggiato  al  convento  delle  Grazie  nel  1497  (')  e 
ciò  conferma  tutta  la  realtcà  del  racconto  del  Ban- 
dello,  il  quale  ci  fa  vedere  quasi  cogli  occhi  nostri 
il  divino  artista  nella  febbre  del  lavoro  e  della 
creazione  e  nelle  lunghe  soste,  durante  le  quali 
vagheggiava  i  fantasmi  della  sua  mente  o  le  ar- 
cane armonie  della  simmetria  prisca;  quelle  ideali 
perfezioni,  che  furono  la  ricerca  ed  il  tormento  di 
tutta  la  sua  vita. 

Quando  Leonardo  compie  il  Cenacolo,  tre  anni 
sono  passati  dal  fatale  1494,  principio  delle  mag- 
giori colpe  e  dei  maggiori  errori  di  Lodovico  il 
Moro,  e  1'  espiazione,  già  cominciatagli  colla  morte 


(1)  Citaz.  dell' UziELLi    in    Leonardo    da     Vinci    e    tre 
Gentildonne  Milanesi^  pag.  5  in  Nota. 


—  43 

della  moglie,  quella  Beatrice  d'Este,  di  cui  canta 
r  A  li  osto: 

Ch'essa  moii  sol  del  ben   che  quaggiìi  lice, 
Per  quel  che  viver/i,  toccherà  il  punto, 
Ma  avrà  forza  di  far  seco  felice 
Fra  tutti  i  ricchi  duci  il  suo  congiunto, 
Il  qual,  coni' ella  poi  lascerà  il  mondo, 
Cosi  degli   infelici  andrà  nel  fondo,    (') 

e  l'espiazione,  dico,  si  compirà  fra  circa  altri  tre 
anni  colla  battaglia  di  Novara,  che  lo  manda  a 
finire  i  suoi  giorni  in  una  prigione  francese.  Vera 
e  giusta  espiazione  per  jioi,  che  colle  idee  nostre 
consideriamo  nel  Moro  il  chiamalor  di  stranieri; 
non  altrettale  pei  contemporanei,  ai  quali  il  Moi'o 
(  poiché  è  assai  dubbio  se  abbia  avvelenato  il  ni- 
pote Gian  Galeazzo)  (^)  parve  un  principe  buono, 
liberale,  munifico,  straricco  in  una  capitale  ric- 
chissima e  più  popolata  allora  di  Parigi  e  di 
Londra,  gran  mecenate  di  artisti  e  di  letterati,  con 
una  corte  splendida  da  gareggiare  con    la    fioien- 

(')    Ariosto,  Orlando  l un'oso.  Canto  XIII,  Stanza  ()'2. 

(')  Ne  dubitò  già  il  Giovio,  Jlisloria  del  suo  teixpo. 
Traduz.  Doiuenichi.  Ora  altri  conferma  quei  dubbi.  Vedi: 
Magenta,  /  Visconti  e  gli  Sforza  nel  castello  di  Paria. 


—  44 

tina  di  Lorenzo  il  Magnifico  (')  e  che  si  man- 
tenne tale,  finché  visse  il  suo  buon  genio,  Bea- 
trice d'Este  (-),  bella  e  ingegnosa,  non  quanto  la 
sorella  Isabella,  marchesa  di  Mantova,  ma  forse 
più  energica  e  ambiziosa,  e  amata  dal  marito, 
nonostante  la  rivalità  di  favorite,  Lucrezia  Crivelli, 
/  Cecilia  Gallerani,  quest'ultima  una  delle  eroine 
Bandelliane,  lodata  pe'suoi  versi  nel  Novelliere 
come  una  nuova  Saffo,  e  come  gran  lume  della 
lingua  italiana  (^). 

Del  rimanente,  i  contemporanei,  che  avevano 
conosciuto  il  Moro,  mentre  con  arti  bieche  s'aiu- 
ta\a  a  ghermire  il  trono,  ma    che,    a    cominciare 


(1)  Archivio  Storico  Lombardo^  Tom.  VI.  —  CaxtÙ,  Il 
Coiìtenfo  e  la  Chiesa  delie  Grafie.  Ibid.  Tom.  XVII.  — 
Ljjzio  e  Reniek,  Delle  relazioni  d'  Isabella  d'  Este  Gonzaga 
con   Ludovico  e  Beatrice  Sforza. 

(^)  Muri  il  2  gennaio  1497.  Alla  sua  morte,  dice  Vin- 
cenzo Calmela  nell'elogio  di  Serafino  Aquilano:  «  de 
lieto  paradiso  in  tenebroso  inferno  la  corte  se  conver.se  » 
Menghini  —  Le  rime  di  Serafino  de'  Ciminelli  dall'  Aquila 
Tom.  I,  Bologna,  1894,  pag.  12.  E  pure  nel  Renier:  (ia- 
■ymro   Visconti  —  Ardi.  Stor.  Lombardo  Serie  II  Tomo  3. 

(3)  Bandello,  Novelle.  Parte  I,  Nov.  3.  Dedica  a  1j. 
Scipione  Atellano. 


45 


dal  Randello,  non  lo  consideravano  per  nulla  af- 
fatto un  usurpatore  (^),  mai  più  gli  avrebbero  rim- 
proverato di  muover  cielo  e  terra  per  mantener- 
visi.  Egli  stesso  avrebbe  capito  che  lo  si  tacciasse 
di  poco  accorto,  allorché  confidò  la  custodia  del 
castello  di  Milano  a  Bernardino  da  Corte,  un  tra- 
ditore, che  lo  vendette  ai  Francesi  nel  1499,  o 
allorché  s'abbandonò  agli  Svizzeri,  che  lo  lascia- 
rono in  asso  a  Novara  nel  1500,  ma  di  tutti  gli 
altri  rimproveri,  che   di    presente   gli    si    sogliono 

(1)  «  Lodovicus  Sfortia  paiermtm  siiorum  proditione 
amisit  imperiuni  ».  Cosi  il  Bandello  nella:  Parentalis 
Ornilo  prò  clarisfu'mo  Imperatore  Francisco  Gonzaga  M'ir- 
chione  Mantnae  Quarto.  Di  questo  prezioso  e  raro  opuscolo 
esiste  un  esemplare  nella  Biblioteca  comunale  di  Bologna, 
mancante  di  frontispizio.  Vedi:  Estratto  in  Appendice  V^ 
di  questo  volume.  Vedi  in  Giornale  storico  della  Lettera- 
tura Italiana^  Voi.  34,  Fase.  100  101  —  Luzio  e  Kenier  — 
La  coltura  e  le  relazioni  letterarie  d' Isabella  d'  Este  Gon- 
zaga. —  A  pag.  83  pubblicano  la  lettera  di  condoglianza, 
che  il  Bandello  scrive  da  Milano  il  4  Aprile  1519  per  la 
morte  del  Marchese  Francesco.  Quella  al  Marche.se  Fe- 
derico suo  successore  era  già  nota.  Nell'estate  del  1519 
il  Bandello  era  in  Mantova  raccomandato  da  una  let- 
tera di  Cecilia  Gallerani,  Marchesa  Bergamina.  Per 
r  anniversario  della  morte  di  Francesco  recitù  la  Pa- 
rentalis OrOitio, 


46 


fare,  probabilmente  non  avrebbe  capito  verbo  (\ì. 
Ed  il  Bandello  stesso,  Sforzesco  nell' anima,  lo  dice 
più  e  più  volte  principe  sventurato  e  tradito  e 
tuti'al  più  gli  rimprovera  esso  pure  di  essersi  fi- 
dato a  Bernardino  da  Corte  (-). 

Ma  vediamo  il  nostro  novellatore  fuor  del 
Convento.  Fra  il  1506  e  il  1512,  cioè  fra  la  prima 
e  la  seconda  e  definitiva  cacciala  dei  Bentivoglio  da 
Bologna  per  opera  di  Giulio  11,  Alessandro  Benti- 
voglio, figlio  di  Giovanni  II  e  marito  in  seconde 
nozze  d'Ippolita  Sforza,  pronipote  essa  di  Lodo- 
vico il  Moro  (^],  si  stabilì  in  Milano,  ove  la  moglie 
aveva  grandi  possedimenti.  La  loro  casa  divenne 
ben  presto  una  corte  principesca;  Alessandro  ed 
Ippolita  specialmente,  donna  di  grande  ingegno  e 

(1)  Burckhardt,  La  civiltà  Itnl.  del  secolo  del  Tiina- 
sciinen/o.  Part.  I,  pag.  54  —  Archiv.  Storie.  Lo-ulardo. 
Tom.  XVII,  Luzio  e  Eknier,  Delle  relazioni  d'Isabella 
d' Este  Gonzaga  con  Lodovico  e  Beatrice  Sforza. 

(2)  Vedi;  Parentalis  Oratio  cit.  Dice  clie  Francesco 
Gonzaga  aveva  chiesto  al  Moro  di  affidare  a  lai  il  Ca- 
stello di  Milano,  (  arx  mediolanensis  ).  «  Qnae  si  tradita 
fuisset,  nemo  Bernardinum  Curtium  prodictionis  omnium 
nefandissimae  crimine  sugillaret  ». 

(3)  LiTTA,  Bentivoglio  di  Bologna.  Tavola  Y. 


—  47  — 

cultura,  la  mecenalessa  vera  del  Bandello,  alla 
quale  tulio  il  novelliere  è  dedicato,  e  le  cui  sem- 
bianze, con  quelle  del  marito,  veggonsi  ancora  ri- 
tratte dal  Luini  nell'antica  chiesa  di  S.  Mau- 
rizio (^).  Il  Bandello  era  famigliarissiaio  in  casa 
loro  0  cosi  caro  ad  Ippolita,  che  la  maldicenza 
(ma  parmi  con  nessun  fondamento)  ne  mor- 
morò. 

Certo  il  Bandella,  quantunque  frale,  non  è 
uno  stinco  di  sanlo  e  a  più  ripreso  s'accusa  egli 
stesso  ed  in  vecchiaia  si  mostra  pentito  dei  suoi 
trascorsi  galanti,  ma  anche  pel  tempo  suo,  così 
corrivo  in  fatto  di  costumi,  se  v'  ha  scandalo  nelle 
sue  novelle,  non  mi  risulta  che  ve  n'abbia  nella 
sua  vita,  non  mai  tale  ad  ogni  modo,  che  storica- 
nìenle  licenzii  anche  un  poeta  a  rappresentarlo 
come  ha  fatto  il  Giacosa  nel  suo  dramma:  La  Si- 
gnora di  Cliallant  (^). 

(')  Symonds,  Sketches  and  Sludies  in  Itali/. 

[■)  Cos'i  dicendo,  mi  pareva  d'aver  trattato  con  gin- 
stizi.i  il  Bandello.  Non  cos'i  parve  al  signor  Prof.  Vin- 
cenzo Sjjampanato,  che  gentilmente  mi  accnsa  di  severità 
verso  il  frate  novellatore.  Ciò  non  toglie  nnlla  alla  mia 
riconoscenza  per  le  molte  cortesie,  che  il  Prof,  Spanipa- 


—  48 

Or  ecco  il  Bandello  in  casa  dei  Bentivoglio  di 
ritorno  da  un  importante  missione  presso  Barbara 
Gonzaga,  contessa  di  Caiazzo,  a  cui  era  stato  spe- 
dito per  trattare  un  matrimonio  (negoziatore  di 
matrimoni  è  spesso,  e  bisogna  dire  che  ci  ha 
garbo  e  fortuna)  fra  una  figlia  dei  Bentivoglio  ed 
un  figlio  di  Barbara,  il  conte  Roberto  Sanseverino. 
Il  Bandello  riferisce  in  disparte  ai  Bentivoglio  il 
risultamento  della  sua  ambasceria,  ma  in  quel 
momento  appunto  è  radunata  in  sala  tutta  la  bri- 
gata d'amici,  gentiluomini,  letterati,  artisti,  soldati, 
diplomatici,  che  giornalmente  frequenta  la  casa 
dei  Bentivoglio,  ed  essi  vogliono  mettergli  a  parte 
di  questo  segreto  di  famiglia  ed  averne  consiglio. 
La  questione  è  questa:  devesi  continuare  il  nego- 
ziato, ora  che  si  è  saputo  che  1' arcivescovo  Sanse- 
verino,  zio  di  Roberto,  vuol  maritarlo  alla  sorella 
del  Cardinal  Cibo  e  che  il  Papa  Leon  X  fa- 
vorisce questo  parentado?  Tutti  concordano  che 
per  riguardo  al  Papa,  specie  tratlandosi  di  fuoru- 

iiato  mi  ha  dette  nel  suo  lavoro  assai  pregevole:  Matteo 
Baitdelìo  e  le  sue  Xovelìe  nel  Cinquecento.  —  Kola  —  Ru- 
bino e  Scala,  1896. 


49 


scili,  quali  i  Benlivoglio,.  è  prudente  desistere,  ed 
a  conforto  di  tale  conclusione,  Lodovico  Alamanni, 
ambasciatore  di  Firenze,  narra  la  vecchia  storia 
dei  Buondelmonti  e  degli  Amedei,  cagione  a  Fi- 
renze di  tante  sciagure  (').  Questa  narrazione  non 
ha  importanza;  ne  ha  bensì  e  molta  esser  data 
come  conclusione  d' una  pratica  così  grave,  che 
interrompe  i  trattenimenti  soliti  del  salotto  dei 
Benlivoglio,  in  cui  per  lo  più  si  parla  d'arti,  di 
feste,  di  lettere  e  di  politica;  ne  ha  bensì  molta 
vedere  dai  Benlivoglio  messi  a  parte  i  loro  amici 
degli  affari  di  famiglia  per  averne  consiglio.  Il 
salotto  è  per  tal  guisa  espressione  non  solo  di 
formalità  eleganti,  di  elevata  coltura  e  di  piaceri 
gentili,  ma  di  socievolezza  intima  e  cordiale,  ed  è 
nato  qui  prima  di  passare  in  Francia,  dove  con 
altri  beni  e  mali  della  civiltà  cinquecentista  l'hanno 
appunto  recato  per  primi  il  Bandello  e  gli  altri 
fuorusciti  italiani  (-). 

(1)  Bandkllo,  Novelle.  Parte  I,    Novella    I.    Dedica    a 
Ippolita  Sforza  Bentivoglio. 

(2)  Bandello,  Novelle.  Parto  li,  Novella  37.  Dedica  a 
monsignor  del  Carretto.  Parto  II,  Nov.  40.  Dedica  a  Ma- 

Masi.  4 


-  50 

Cambiamo  scena.  Siamo  tra  il  1525  e  26  a 
Lambrate  nel  campo  della  Lega  contro  l' Impera- 
tore Carlo  V,  mentre  si  assedia  Milano  (^).  Al  se- 
guito d'un  Gonzaga  troviamo  il  Bandello,  che  si 
stenta  a  riconoscere,  perchè  dice  egli  stesso  aver 
mutato  habito  e  costami^  il  che  non  significa  già 
che  siasi  sfratato,  ma  che,  ad  esempio  di  tanti  al- 
tri, cela  la  tonaca  di  frate  sotto  1'  assisa  di  guer- 
riero (-).  Ivi   egli    s' incontra  con   Giovanni  dalle 

dama  Anna  di  Polignac.  Parte  III,  novella  GÌ.  Dedica  a 
Rodolfo  Gonzaga.  Parte  IV,  nov.  10.  Dedica  a  Margherita 
regina  di  Navarra.  Molte  altre  novelle  in  proposilo  si 
potrebbero  citare.  Cf.  pure:  Ferrai,  Loremino  de'' Medici 
e  la  Società  cortigiana  del  Cinquecento. 

(1)  Bandello,  Novelle.  Parte  I,  Nov.  41.  Dedica  a  Ki- 
nuccio  Farnese. 

(2)  Vedi  in  Giornale  Storico  della  Lett.  Ital.  —  Lezio 
e  Kexier  —  La  coltura  e  le  relazioni  lett.  di  Isabella  d' Este 
Gonzaga.  Pubblicano  una  lettera  dell'oratore  Mantovano 
a  Koiiia,  Francesco  Gonzaga,  del  26  Maggio  1526,  diretta 
al  Marchese  Federico,  che  anch'  esso  protegge  il  Ban- 
dello. Da  fjuesta  apparirebbe  che  se  il  Bandello  non  s"  ò 
.sfratato,  è  però  rimasto  frate  per  forza.  Alla  sua  dimanda 
di  essere  liberato  dell'abito  e  dalla  disciplina  dell'Or- 
dine il  Papa  non  si  porge  favorevole.  Federico  insiste  il 
1"  Giugno  Ì526.  Il  4  l'oratore  a  Roma  manda  un  preven- 
tivo delle  spese  occorrenti  per  condurre  innanzi  la  pra- 


51 


Bande  Nere  e  con  Niccolò  Machiavelli,  rimesso 
ora  in  opera,  dopo  il  lungo  e  forzalo  ozio,  e  più 
volte  spedito  al  campo  degli  alleati. 

K  impossibile  accordare  con  precisione  le  dale 
della  presenza  contemporanea  di  Giovanni  dalle 
Bande  Nere  e  di  Niccolò  Machiavelli,  ma  ciò  ha 
poca  importanza,  perchè  mi  par  certo  che  il  Ban- 
dello,  il  quale  ebbe  allora  occasione  di  trovarsi 
con  ambedue,  acconciò  i  fatti  a  suo  modo,  non 
d'altro  preoccupato  che  di  mettere  a  fronte  questi 
due  uomini,  l'uno,  l'ultimo  dei  grandi  condottieri 
Italiani,  l'altro  il  politico,  che  fra  i  tanti  ideali 
vagheggiava  r  ordinamento  d'una  milizia  nazio- 
nale, con  a  capo  possibilmente  il  signor  Giovan- 
nino, ed  ora  tanto  più  era  infervorato  nel  suo  con- 
cetto per  la  speranza  d' indurvi  Papa  Clemente  VII, 
se  un  tentennone  di  quella  fatta  si  fosse  mai  po- 
tuto tirare  ad  una  risoluzione  e  tenervelo  fermo  ('). 

tica.  Pare  che  (|uesta  riuiauesse  interrotta.  Forse  per  il 
sacco  di  Koiiia  del  1527,  in  cui  laut' altre  cose,  grandi  e 
])iccole,  andarono  travolte.  Cosi  alineno  congetturano  il 
Liizio  ed  il  Kenier. 

(')  Cf.  Vir.LAKi,  Xiccolò  Machiavelli  e  i  suoi  Icinpi  — 
Voi    I,  Lib.  I,  Cap.  Vili.  Voi.  Ili,  Lil).  II,  Gap.  XVI. 


Il  Machiavelli,  invitato  da  Giovanni  dalle  Bande 
Nere,  svolge  egregiamente  a  parole  la  sua  ordi- 
nanza della  milizia,  qaale  l'aveva  già  divisala  nel 
suo  libro  dell'Arte  della  Guerra,  ma  quando  Gio- 
vanni, radunali  un  (remila  uomini,  glieli  dà  da 
disporre  secondo  le  sue  teorie,  «  ci  tenne  al  sole 
più  di  due  bore  a  bada  (scrive  il  Randello  allo 
stesso  Giovanni  dalle  Bande  Nere,  ricordandogli 
il  caso)  e  mai  non  gli  venne  fatlo  di  potergli  or- 
dinare. Tuttavia  egli  ne  parlava  sì  bene  e  sì  chia- 
ramente e  con  le  parole  sue  mostrava  la  cosa  esser 
fuor  di  modo  sì  facile,  che  io  che  nulla  ne  so, 
mi  credeva  di  leggero,  le    sue    ragioni    e    discorsi 

udendo,  haver  potuto  quella   fanteria    ordinare 

Hora  veggendo  voi  che  M.  Niccolò  non  era  per 
fornirla  così  tosto,  mi  diceste:  Bandello,  io  voglio 
cavar  tutti  noi  di  fastidio,  e  che  andiamo  a  desi- 
nare. E  detto  air  hora  al  Machiavelli  che  si  riti- 
rasse e  lasciasse  far  a  voi,  in  un  batter  d'occhio 
con  l'aita  dei  tamburini  ordinaste  quella  gente 
in  vari  modi  e  forme,  con  ammiratone  grandis- 
sima di  chi  vi  si  ritrovò.  Voleste  poi  che  io  ve- 
nissi a  desinar  con  voi  e  vi  menaste  anco  il   Ma- 


58 


chiavelli.  Come  si  fu  desinato,  voi  rivoltato  a 
M.  Niccolò,  lo  pregaste  che  con  una  de  le  sue  pia- 
cevoli novelle  ci  volesse  ricreare.  Egli  che  è  huomo 
discreto  e  cortese,  disse  di  farlo.  Onde  narrò  una 
piacevol  novella,  che  non  poco  vi  piacque  ed  a 
me  commetteste  che  io  volessi  scriverla  »  (').  La 
novella  è  delle  più  grassocce,  e  si  capisce  che  al 
signor  Giovanni,  gran  dilettante  di  belle  donne, 
piacesse  assai,  tanto  più  che  il  Machiavelli,  da 
buon  cortigiano,  mostrò  d'aver  preso  in  buona 
parte  la  sua  disgrazietta  dell'  ordinanza  e  senza 
altro  incominciò:  «  Io,  signor  mio,  porto  ferma 
opinione,  che  se  questa  mattina  voi  non  mi  leva- 
vate d'impaccio,  che  noi  ancora  ci  troveremmo 
in  campagna  al  sole.  E  non  è  perciò  questo  il 
primo  piacere  che  da  voi  (la  vostra  mercè)  ho 
rii:evuto,  e  spero  tutta  via,  che  non  debbia  esser 
l'ultimo  »  (-).  A  noi  poco  imporla  il  seguito,  e  sa- 
pere la  subita  astuzia,  con  cui  la  scaltrita  e  piace- 
vole Domicilia  Raineri  ingannò  suo  marito,  Cocco 

(1)  Bandello,  Norelle.  P.nrte  I,  ^Novella  40     Dedica    ;ì. 
Giovanni  De  Medici. 

(«ì  Ibid.  Parte  I    >;ovella  JO. 


-  54 

Bernardozzo.  Ciò  che  più  vale  è  aver  qui  sotto 
gli  occhi  non  solo  lo  spettacolo  del  campo  della 
Lega,  ma  Giovanni  dalle  Bande  Nere  e  Niccolò 
Machiavelli,  due  delle  più  grandi  fìgui-e  del 
tempo,  e  nel  Bandelle  medesimo  il  frate  guerriero 
al  seguito  e  in  compagnia  di  guerrieri  e  amba- 
sciatori e  sentir  l'eco  dei  giudizi  contemporanei 
sul  più  grande  pensatore  del  Cinquecento.  Altrove 
il  Bandelle  espone,  per  bocca  di  Desiderio  Scaglia, 
e  insieme  col  Berni  ed  altri  letterati  e  gentiluo- 
mini, nei  giardini  di  un'amenissima  villa  dei 
Fregoso  sul  lago  di  Garda,  alcune  massime  dei 
Discorsi  del  Machiavelli,  e  ne  assale,  lui,  lo  scrit- 
tore di  tante  immonde  novelle,  la  profonda  im- 
moralità, aggiungendo  che  divulgar  tali  massime 
«  è  ufficio  diabolico,  meritevole  d'eterno  biasimo 
e  di  vituperio  immortale  »  (').  Unendo  questo  giu- 
dizio all'aneddoto  di  prima,  si  vede  chiaro  che 
gli  scritti  del  Machiavelli  lo  facevano  già  passare, 
parte  per  tristo  e  parte  per  visionario  in  un 
tempo,  com'era  il  suo.  Uomini,  che  dal  Papa  al- 

(1)  Ibid.  Parte  III,  Novella  55,  Dedica  al  Conte  Bar- 
tolomeo Canossa. 


—  55 

r  aUimo  fratacchiolo  viveano  tuffali  nella  più  fla- 
graiile  contraddizione  morale  e  religiosa,  come  nel 
proprio  elemento,  che  cosa  potevano  intendere  di 
chi  li  pigliava  com'erano  e  profondamente  di- 
sprezzandoli  osava  dir  loro:  «  siale  pure  quello 
che  siete  (  e  d'esser  tali  avete  il  maggior  obbligo 
ai  preti  )  ma  indirizzate  almeno  ad  un  alto  fine 
tutta  questa  vostra  corruzione  ?  »  che  cosa  pote- 
vano intendere  d'uno  scrittore,  a  cui  l'amor  del 
vero  e  il  rigore  del  metodo  non  consentivano 
d'arretrarsi  dinanzi  a  nessuna  delle  spaventose 
illazioni,  che  l'esame  della  nuda  realtà  gli  sugge- 
riva? La  forma  di  governo  fino  ad  un  certo  segno 
gli  è  indifferente,  pur  d'elevarsi  all'ideale  d'una 
patria  rigenerata  per  opera  d'un  legislatore  so- 
vrumano, superiore  ad  ogni  vincolo  morale,  tiran- 
nico, se  vuole,  purché  distrugga  i  tiranni  e  fondi 
una  nuova  Italia  (').  Prescindendo  da  questo  ideale, 
il  Machiavelli  resta  un  enigma  indecifrabile  e  tale 
fu  per  la  maggior  parte  de' suoi  contemporanei, 
come  vediamo  anche  dal  Novelliere  del  Bandello, 

(1)  Vedi  in  proposito  un  notevole   .'irticolo    di    L.    A. 
Ferrai  in  Archivio  storieo  ilalianOy  Tom.  Vili,  Serie  V. 


50 


ili  cui  il  Machiavelli  apparisce  sotto  le  due  forme 
Jel  visionario  impotente  e  del  freddo  teorico  del- 
l' iniquità. 

Ma  se  il  fondo  della  società  del  Cinquecento  è 
quello  che  il  Machiavelli  ha  visto  ed  accettato 
per  dato  e  fatto  delle  sue  teorie,  la  superficie  è 
tult' altra,  e  nessun  documento  può  farne  più.  ampia 
testimonianza  del  novelliere  del  Bandello,  in  cui 
sono  descritti  e  ridescritti  il  lusso,  lo  splendore, 
la  magnificenza,  la  culla  eleganza  della  vita  so- 
ciale di  Roma  (\\  Milano  (^),  Ferrara  p),  Man- 
tova ('),  Verona  ('),  Napoli  {''%  Venezia  ("),  e  che 
vissuto  nell'intimità  delle  più  grandi  famiglie  di 
Milano  e  della  Corte  dei  Gonzaga  di  Mantova, 
quando  Firenze  non  era  già  più  l'unico  centro 
d'irradiazione  della  coltura  del    Rinascimento,    ci 


(1)  Bandello.  Novelle,  Parte  II,  Novella  51.  Parte  ITI. 
Nov.  4-2. 

(2)  Ibid.  Parte  I,  Nov.  9. 

(3)  Ibid.  Parte  I,  Nov.  45. 
(')  Ibifi.  Parte  I,  Nov.  30. 
("•)  Ibid.  Parte  II,  Nov.  50. 
(«)  Ibid.  Parto  II,  Nov.  7. 
(~)  Ibid.  Parte  III,  Nov.  Z\. 


57 


rappresenta,  per  esempio,  fra  le  pareli  domesliche 
le  grandi  dame  del  lempo,  cuUissime  e  in  Uilto 
io  sviluppo  d' individualilà  e  d'azione  anche  ci- 
vile, che  il  medio  evo  aveva  loro  interdetto. 

Di  quelle  suo  descrizioni  delle  principali  città 
italiane  tra  la  line  del  Quattrocento  e  il  principio 
del  Cinqueceato  cito  alcune,  per  saggio  di  quel 
suo  stile  ondeggiante  fra  il  convenzionale  della 
rettorica  e  la  realtà  di  chi  ha  visto  cogli  occhi 
proprii  e  rende  un'  impressione  immediata  e  cólta 
sul  vivo.  Per  Roma  introduce  il  discorso  cosi  : 
«  Quali  donne  praticano  più  diversità  di  cervelli 
delle  cortigiane  della  Corte  di  Roma?  Quivi  co- 
munemente concorrono  tutti  i  belli  e  più  elevati 
ingegni  dei  mondo,  essendo  Roma  comune  patria 
di  tutti:  (juivi  d'ogni  sorta  le  buone  lettei'e  fiori- 
scono, così  latine,  come  greche  e  volgari:  quivi 
sono  jnreconsulti  eccellenti,  filosofi  e  naturali  e 
morali  consumatissimi:  quivi  pittori  si  veggiono 
miracolosi.  Ci  sono  scultori,  che  nel  marmo  ca- 
vano i  volti  vivi,  e  i  conflatori  col  metallo  gittano 
ciò  che  vogliono.  Ma  per  non  raccontar  d'una  in 
una  l'arti,  elle  in  perfezione  tutte  ci  sono,  di  ma- 


—  58  — 

niera  che  in  ogni  specie  di  virtù,  chi  vuol  farsi 
eccellente,  vada  ad  imparar  a  Roma.  E  per  ciò 
che  (come  dice  ringejinoso  Sulmonese)  avviene 
assai  spesso  che  un  medesimo  terreno  produce  la 
rosa  e  l'oitica,  così  anco  a  Roma  ci  sono  uomini 
buoni  e  tristi.  Ma  lasciando  il  resto,  parlerò  delle 
cortigiane,  che  per  dar  qualche  titolo  d'onestà  al- 
l'esercizio loro,  s' hanno  usurpato  questo  nome  di 

cortigiane »  (').  E  qui    il    discorso    divaga, 

ma  la  figura  di  preterizione,  in  cui  finisce,  non  è 
meno  significante. 

In  ben  diverso  modo  descrive  Milano,  e  da 
contentarne  anche  oggi  ogni  più  altiero  chaitvinismc 
ambrosiano.  «  Milano,  die' egli,  come  lutti  sapete, 
e  ogni  dì  si  può  vedere,  è  una  di  quelle  città  che 
in  Italia  ha  pochissime  pari  in  qualsivoglia  cosa, 
che  a  rendere  nobile,  popolosa  e  grassa  una  città 
si  ricerchi,  perocché  dove  la  natura  è  man- 
cata, l'industria  degli  uon)ini  ha  supplito,  che  non 
lascia  che  di  tutto  ciò  che  alla  vita  dell'uomo  è 
necessario,  cosa   alcuna  si    desideri  ;    anzi    di    più 

(')  Loc.  cit. 


—  59  — 

V*  ha  aggiunto  la  insaziabile  natura  dei  mortali 
tutte  le  delicature  e  morbidezze  orientali,  con  le 
meravigliose  e  prezzate  cose  che  la  nostra  età,  nel- 
r  incognito  agli  altri  secoli  mondo,  ha  con  inesii- 
mabil  fatica  e  pericoli  gravissimi  investigato.  Per 
questo  i  nostri  Milanesi  nell'abbondanza  e  delica- 
tezza dei  cibi  sono  singolarissimi  e  splendidissimi 
in  tutti  i  lor  conviti,  e  par  loro  di  non  saper  vi- 
vere, se  non  vivono  e  mangiano  sempre  in  com- 
pagnia. Che  diremo  della  pompa  delle  donne  nei 
loro  abbigliamenti,  con  tanti  ori  battuti,  tanti 
fregi,  ricami,  trapunti  e  gioie  preziosissime?  che 
quando  una  gentildonna  viene  talora  in  porta,  par 
che  si  veggia  1' Ascensa  nella  città  di  Vinegia  (')? 
E  in  qual  città  si  sa  che  oggidì  siano  tante  su- 
perbe carrette,  tutte  innorate  d'oro  finissimo,  con 
tanti  ricchi  intagli,  tirate  da  quattro  bravissimi 
corsieri,  come  in  Milano  ognora  si  vede?  ove  più 
di  sessanta  da  quattro  cavalli,  e  da  due  infinite  se 
ne  troveranno,  con  le  ricchissime  coperte  di    seta 

(')  La  fiera  ([oAV  A  scensa  ^  in  cui  le  Veneziane  sfoggia- 
vani)  il  maggior  lusso.  Ma  l'eccezione  di  Venezia,  vuol 
(lire,  a  Milano  era  la  regola. 


—  60  — 

e  d'  ot'O  frastagliate  e  di  tanta  varietà  distinte,  che 
quando  le  donne  carreggiano  per  le  contrade,  par 
che  si  meni  un  trionfo  per  la  città,  come  già  fu 
costume  de*  Romani,  quando  con  vittoria  dalle 
domite  provincie  e  regi  debellati  e  vinti  a  Roma 
tornavano.  Sovienmi  ora  ciò  che  l'anno  passato  io 
vidi  (')  in  Borgo  Nuovo  dire  all'  illustrissima  si- 
gnora Isabella  da  Este  Marchesana  di  Mantova,  la 
quale  andava  in  Monferrato,  essendo  allora  morto 
il  Marchese  Guglielmo,  per  condolersi  con  quella 
•Marchesana.  Ella  fu  onoratamente  visitala  dalle 
nostre  gentildonne,  come  è  sempre  stata  tutte  le 
volte  che  ella  è  venuta  a  Milano.  E  reggendo  in- 
sieme tante  ricche  carrette  cosi  pomposamente 
adornate,  disse  a  quelle  signore  che  le  erano  ve- 
nute a  far  riverenza,  che  non  ciedeva  che  nel 
resto  di  tutta  Italia  fossero  altrettante  sì  belle  car- 
rette. (■)  In  queste  adunque  delicatezze,  in  queste 
pompe  e  in  tanti  piaceri  e  domestichezze  essendo 

(•)    ^''edere  è  qui  usato  pei'  seii/ir  dire  ininiediatainente 

(')  Vedi:  Luzio  llenier.  La  coltura  e  la  Itelaz,  ìett.  ecc. 

Op.  cit.,  loc.  cit.  Isabella,  che  avea  vedute  le  carrette  di 

Milano,  introdusse  1"  uso  delle    carrozze    iu    Koiua.  —  li» 

nota  :  pag.  80. 


—  61  — 

le  donne  di  Milano  avvezze,  sono  ordinariamente 
domestiche,  umane,  piacevoli,  e  naturalmente  in- 
clinate ad  amare  e  ad  essere  amate,  e  star  di 
continovo  sull'amorosa  vita.  E  a  me,  per  dirne 
ciò  che  io  ne  sento,  pare  che  niente  manchi  loro 
a  farle  del  tutto  compite,  se  non  che  la  natura 
gli  ha  negato  un  idioma  conveniente  alla  beltà, 
ai  costumi  e  alle  gentilezze  loro;  che  in  effetto  il 
parlar  milanese  ha  una  certa  pronunzia,  che  mi- 
rabilmente gli  orecchi  degli  stranieri  offende.  Tut- 
tavia elle  non  mancano  con  l' industria  al  natu- 
rale difetto  supplire,  perciocché  poche  ce  ne  sono 
che  non  si  sforzino  con  la  lezione  de' buoni  libri 
volgari  e  con  il  praticare  con  buoni  parlatori, 
farsi  dotte  e  limando  la  lingua,  apparare  uno  ac- 
comodaLO  e  piacevole  linguaggio,  il  che  molto 
più  amabili  le  rende  a  chi  pratica  con  loro  »  ('). 
Più  concedendo  a  semplici  esteriorità  pittoresche 
descrive  Napoli.  «  Deve  oggimai  a  tutti  voi  (  dice 
per  bocca  d'altri  e  parlando  a  una  «  grata  e  di- 
lettevole compagnia  »,  radunata    in    una    villa    di 

(1)   r>AM>i;r,Lu,  Novelle,  lue.  cit. 


—  62  — 

Ippolita  Sforza  Bentivoglio  presso  all'Adda)  deve 
oggimai  a  tutti  voi,  o  per  veduta  o  per  udita  esser 
chiaro,  quanto  la  citta  di  Napoli,  che  fu  sul  lilo 
del  mare  Tirreno  fondata,  sia  dilettevole  ed  amena, 
che  per  il  vero  in  questa  nosLra  Italia  poche  ci 
sono,  ove  1'  uomo  possa  quei  piaceri  e  diporti  pi- 
gliarsi, che  a  Napoli  assai  agiatamente  in  ogni 
stagione  dell'anno  si  pigliano,  sì  per  la  delicatezza 
del  paese  come  anco  per  1'  amenissimo  sito  della 
bella  e  piacevole  città.  Quivi  a  chi  diletta  una 
spaziosa  e  ben  coltivata  campagna,  leggermente  ai 
suoi  diporti  può  allargar  la  mano.  Altri  che  bra- 
masse per  aprichi  e  da  natura  e  dall'arte  maestre- 
volmente adornati  monlicelli,  colli  di  aranci,  cedri, 
limoni  e  d'ogni  altra  sorte  di  soavissimi  e  odori- 
feri frutti  pieni,  valli  fruttifere  e  di  cristallini 
ruscelli  abbondevole  e  di  mille  varietà  di  colori 
pomposamente  vestite,  trastullarsi,  in  tanta  copia 
ne  troverà,  che  quasi  di  sé  fuori  tutto  il  leggiadro 
paese  di  Pomona,  di  Flora,  di  Bacco,  di  Cerere, 
di  Pallade,  di  tepidi  favonii  e  di  freschissimi  e 
salutiferi  zefTiri  esser  sempre  nido  ed  albergo 
giudicherà.  Ma  chi  poi  dei  piaceri  di  terra  ferma 


—  63  — 

fosse  fastidito;  ed  amasse  con  spalmate  barche  per 
il  tranquillo  pelago  o  cupo  mare  or  quindi  or 
quinci  discorrere,  e  per  non  perigliosi  scogli,  per 
fertili  e  gratissime  isolette  diportarsi,  e  quei  tra- 
stulli e  ricreamenti  prendere,  che  Glauco  con  le 
sue  marine  gregt];e  ai  suoi  seguaci  prestar  con 
l'amo  e  con  le  reti  suole,  qual  luogo  meglio  della 
mia  patria  (')  glielo  potrà  dare?  E  chi  poi  si  di- 
lettasse veder  tanti  miracoli  di  natura,  quanti 
Pozzuolo  produce,  ove  fìnse  il  padre  de' poeti  esser 
la  via  che  all'  inferno  conduce,  se  in  quelle  bande 
si  vorrà  diportare,  vedrà  gli  effetti  più  che  mira- 
bili che  la  zolfatara  produce,  vedrà  il  fumoso 
asciugatoio,  tanti  salubri  bagni,  l'orrenda  ed  in- 
tricata spelonca  della  sibilla  Cumea,  l'artificioso 
laherinto  di  Dedalo,  le  piscine  Luculliane,  le  ro- 
vine mirabilissime  del  suo  grande  e  finestrato  pa- 
lazzo, le  case  e  chiese  di  Pozzuolo  per  terremoto 
nel  mare  sommerse,  e  tante  meravigliose  caverne 
che  la  natura  ha   fabbricate,    che    quanto    più    in 


(')  Finge  cliG  parli  Annibale  Macedonio,  gentiluomo 
napoletano. 


—  G4  — 

quei  luoghi  dimorerà,  più  le  varie  cose  mirabili 
bramerà  di  vedere.  Essendo  dunque  Napoli  della 
maniera  che  io  vi  vo  divisando,  la  maggior  parie 
dei  baroni  e  principi  del  reame  usa  la  più  parte 
del  tempo  quivi  dimorare,  sì  per  i  già  detti  pia- 
ceri, ed  altresì  per  essere  la  famosissima  città 
piena  d'uomini  letterati  e  di  prodi  cavalieri  »  ('). 
Dalle  ritmiche  cadenze  di  questa  prosa  poetica, 
che  nella  sua  preziosità  alquanto  goffa  vorrebbe, 
si  vede,  arieggiare  la  maniera  dal  Boccaccio  e  del 
Sannazzaro,  torna  a  più  umile  stile  e  più  breve, 
toccando  con  pochi  cenni  di  Venezia:  «  Vinegia, 
come  ciascuno  può  sapere,  che  vi  sia  qualche 
tempo  dimorato,  è  città  mirabile  per  lo  sito  ove 
si  trova,  tra  quelli  stagni  marini  fondata,  e  bellis- 
sima per  i  molti  magnifici  e  ricchi  palagi  che  si 
veggiono  edificati.  K  poi,  a  mio  giudicio,  città 
molto  libera,  ove  ciascuno,  sia  di  che  stato  si  vo- 
glia, può  andar  e  star  solo  od  accompagnato, 
come  più  gli  aggrada,  che  non  v' è  nessuno  che 
lo  riprenda,  o  che  ne  mormori,  come   qui   si    fa, 

(1)  Baxdello,  loc,  cit. 


—  es- 
che se  un  gentiluomo  nou  mena  una  squadra  di 
servidori  seco,  dicono  che  egli  è  un  avaro,  e  se 
con  Iroppa  coda,  diranno  che  egli  è  prodigo,  e  che 
in  quindici  di  vuol  logorare  le  sue  facoltà.  V  è 
poi  un'altra  cosa  in  Venezia,  che  ci  è  un  infinito 
numero  di  cortigiane  »  Q). 

Non  lo  seguiremo  nell'illustrazione  dello  sca- 
broso argomento,  preferendo  assai  tornare,  dopo 
questi  saggi  di  impressioni  contemporanee  su 
Roma,  Milano,  Napoli,  Venezia,  alle  grandi  dame 
del  tempo,  tanta  parte  anch'esse  del  novelliere  e 
della  vita  del  Bandello.  Sono  molte  e  delle  prin- 
cipalis*ime  in  Italia,  le  quali  si  potrebbero  altresì 
chiamare,  come  fa  Giulio  Cesare  Scaligero  nei 
suoi  versi,  le  eroine  Bandelliane  (-).  Or  bene,  qua- 
lunque sia  il  fondo  di  questa  società  italiana  del 
Cinquecento,  e  sia  pure  che  quelle  signore  ne 
rappresentino  la  superficie  soltanto,  o,  meglio,  un 
lato  soltanto,  che  cosa  si  può  immaginare,  quanto 
a  figure  femminili,  di  più  alto,  di  più  spiccato,  di 

(1)  Bandello,  loc.  cit. 

(')  I.  C.  Scaligeri,  Poemata.  Heroinao  ad  Mattheum 
Bandoli  um. 

Masi.  5 


—  66 

più  energico,  e  insieme  di  più  culto,  di  più  ag- 
graziato, di  più  elegante  e  gentile  delle  eroine 
Bandfìlliane? 

Di  alcune  bastano  i  nomi  a  chi  abbia  la  più 
scarsa  notizia  della  storia  politica  e  letteraria  di 
questo  tempo:  Isabella  d' Esle  Gonzaga,  Giulia 
Gonzaga  Colonna,  Ippolita  Sforza  Bentivoglio,  Co- 
stanza Rangone  Fregoso,  Ginevra  Rangone  Gon- 
zaga, Lucrezia  Gonzaga  Manfrone,  Ippolita  Torelli 
Castiglione.  S'è  detto  molto  male  di  queste  ed 
altre  che  non  nomino,  argomentando  appunto 
dalla  libertà  di  linguaggio,  che  usavano  e  tollera- 
vano, e  a  quest'accusa  ha  contribuito  non  poco  il 
novelliere  del  Randello  con  certe  novelle  narrate 
in  loro  presenza  e  a  loro  dedicate.  Ma  prima  di 
tulio  è  da  notare  che  non  sono  le  peggiori  le  no- 
velle dedicate  a  tali  gran  dame  o  in  loro  presenza 
narrale.  Di  certi  argomenti  ripugnanti  il  Randello 
nota  anzi  che  si  parla,  quando  si  resta  fra  uomini. 
Per  darne  esempio,  citerò  la  novella  unrraia  alla 
corte  d'Isabella  d' Este  Gonzaga  e  che  incomincia: 

<^'  Poi  che  ci  manca  la  compagnia  delle  donne 

possiamo    più    liberamente    parlare,    che    quando 


—  67  — 

siamo  a  la  presenza  loro,  »  e  finisce:  «  qual- 
ch' altro  bel  fioretto  volendo  alcuno  della  com- 
pagnia dire,  si  sentirono  i  cagnoletti  abbaiare, 
segno  che  Madama  (  Isabella  d'  Este  Gonzaga  )  era 
venuta  fuori.  Onde  lutti  levali  ce  n'andammo 
colà,  ov'  ella  già  s'  era  sotto  la  loggetta  del  giar- 
dino assisa  e  quivi  con  lei  si  cominciò  di  varie 
cose  a  ragionare  »  ('). 

L'  educazione  delle  donne,  nell'  età  del  Rina- 
scimenlo,  era  nelle  classi  elevate  pari  per  esten- 
sione a  quella  dell'  uomo,  e  se  una  donna 
eroicamente  guerriera,  come  Caterina  Sforza,  era 
un'eccezione  anche  allora,  la  lode  però,  a  cui  la 
donna  ambiva  di  più,  era  d'aver  mente  ed  animo 
virile.  «  Donne  simili,  scrive  il  Burckhardt,  potevano 
benissimo  lasciar  raccontare  nei  loro  circoli  no- 
velle anche  del  colore  di  quelle  del  Randello,  senza 
che  per  questo  la  loro  fama  ne  restasse  pregiudi- 
cala. 11  genio  predominante  in  tali  riunioni  non  è 
l'effeminatezza  moderna,  vale  a  dire  quei  riguardi 
delicati  per  certe  supposizioni,  per  certe  suscettibi- 

(')  Bandello.  Nocelle,  Part.  I,  Nov.  30. 


—  68 

lità,  per  certi  misteri,  ....  ma  la  coscienza  della 
propria  forza,  della  propria  bellezza  e  di  condizioni 
sociali  piene  di  pericoli  e  di  minacele.  Perciò  ac- 
canto al  formalismo  più  compassato,  scorgesi  qual- 
che cosa,  che  nel  nostro  secolo  avrebbe  1'  aspetto 
d'inverecondia,  mentre  noi  non  siamo  più  in  grado 
di  farci  un'  idea  di  ciò  che  contrabbilancia  tutti 
questi  svantaggi,  la  potente  personalità  delle  donne 
dominanti  allora  in  Italia  »  (^).  Allo  stesso  propo- 
sito il  Burckhardt  adopera  l' argomento  che,  in 
prò  della  religione  cattolica,  il  buon  Muratori  so- 
leva addurre,  dovendo  narrare  gli  scandali,  per 
esempio,  di  Papa  Borgia,  cioè  che  se  con  tal  razza 
di  Papi  la  religione  non  era  andata  in  fondo,  bi- 
sognava proprio  che  il  braccio  di  Dio  la  tenesse 
ritta.  Ed  il  Burckhardt:  «  ben  solide  dovevano 
essere  le  basi  di  società,  che  ad  onta  di  tali  rac- 
conti non  uscivano  dalle  convenute  formalità,  non 
andavano  a  soqquadi'o,  e  potevano  persino  occuparsi 
di  serie  discussioni  sugli  argomenti  più  gravi  (^). 

(1)  Burckhardt.  Op.  cit,  Parte  V,  Cap.  VI. 
C-)  Ibid,  Parte  V,  Cap.  IV. 


CAPITOLO  IV 


Segue  lo  stesso  argomento. 

E  forse  esagerato  porre  come  a  riscontro  delle 
gentildonne,  e  quasi  a  significare  un  lato  opposto 
della  società  cinquecentista  in  Italia,  le  cortigiane, 
perchè  tale  antitesi  si  ritroverebbe  nella  società 
d'ogni  tempo  e  non  avrebbe  nulla  né  di  caratte- 
ristico, uè  di  speciale.  Peggio  ancora  che  esagerato, 
parmi  afl'ermare  come  fa  il  Ganello,  che  la  corti- 
giana significhi  nel  Cinquecento  una  progressiva 
ricostituzione  della  famiglia  (').  Ad  ogni  modo  è 
vero  che  fra  la  sciolta  democrazia  del  vizio  si  va 
tra  il  secolo  XV  e  XVI,  costituendo  una  specie 
d'aristocrazia  galante  di  donne,  le  quali  per  eleganza, 
lusso,  coltura  e  gentilezza  di  modi  si    distinguono 

(')  Canello.  Op.  cit.  Capo.  II. 


—  70  — 

dalle  loro  compagne.  Già  il  diarista  Burcardo, 
narrando  gli  spassi  vaticaneschi  dei  Borgia,  di- 
stingueva dalle  altre  le  cortesanae  fionestae.  Ma 
questo  nuovo  culto  ha  i  suoi  scettici,  il  Bandelle, 
ad  esempio,  che  non  vuol  sapere  di  queste  sottili 
distinzioni  ed  in  un  luogo  dice  che  questo  nome 
di  Corlegiana  è  una  lustra  ed  un' usurpazione  (/),  e 
in  altro  luogo  dice  anche  più  chiaramente  che 
quelle  donne  son  quel  che  sono,  ma  i  Veneziani 
«  come  anco  si  fa  a  Roma  ed  altrove,  (le)  chia- 
mano con  onesto  vocabolo  Gortegiane  »  P).  Ad 
ogni  modo  non  si  ol trapassano  così  le  Lorelles 
parigine  dei  tempi  romantici,  il  che  non  basterebbe 
a  dar  carattere  e  singolarità  alle  Gortigiane  del 
Rinascimento. 

Finora  esse  non  furono  conosciute  che  per  le 
rime  d'amore,  le  commedie,  i  novellieri.  Oggi  si 
hanno  pure  in  buon  numero  le  loro  lettere  ad 
amici,  amanti  ed  ammiratori,  «  documento  diretto 
(come  scrive  il  Ferrai,  che  fu  il  primo  a  pubbli- 
fi)  Baxdello,  XoL-eUe,  Parte  li.  Nov.  51.  Dedica  a  Mi- 
i'iiele  Bandelle 

n  Ibid.  Parte  III,  Nov.  31. 


—  71  — 

carie)  ("')  del  modo  di  pensare,  di  sentire  e  della 
CLiltLira  di  queste  donne  >.  Da  queste  lettere  sem- 
pre pifi  le  Cortigiane  del  Cinquecento  «  fippari- 
scono,  scrive  ancora  il  Ferrai,  frutto  di  quella 
società  politico-letteraria,  dove  l'altitudine  a  conce- 
pire e  a  gustare  la  bellezza  artistica  nelle  più 
svariate  forme  non  fu  meno  polente  dell'  inclina- 
zione a  spezzare  ogni  legame  di  lunga  tradizione 
e  di  severo  costume  ».  Non  è  qui  luogo  di  va- 
lermi delle  molte,  belle  e  curiose  n(),tizie  raccolte 
su  questo  scabroso  argomento  nei  lavori  del  Ferrai, 
del  Biagi  ('),  del  Luzio  O,  del  Graf  (^),  del  Bongi  (=). 
Basti  che  da  tali  lavori  è  confermata  e  dimostrata 
nei  suoi  particolari  la  più  o    men    giusta    preten- 

(1)  Lettere  di  Cortigiane  del  secolo  XVI —  Firenze,  Li- 
breria Dante,  n.  9,  1884.  Fu  criticata  l'edizione  del 
Ferrai  come  inesatta  ed  oggi  i  signori  Matini  e  Orlando 
hanno  ripubblicato  per  intiero  il  Codice,  da  cui  sono 
tratte,  nella  loro  Bibìiotechina  Grassoccia. 

["}  Un'Etera  lioniaua  (Tullia  d'Aragona),  Firenze 
-  Paggi  -  1897. 

(3)  Pietro  Aretino  e  la  Corte  dei  Gonzaga. 

{■*)  Attraverso   il  Cinquecento. 

(■'■')  Tullia  d'Aragona,  in  illustrazione  degli  Annali  di 
Gabriel  Giolito  De  Ferrari,  anno  1547. 


sione  in  coleste  donne  a  rinnovare,  in  tanto  ri- 
sorgimento di  classica  antichità,  non  solo  le  gio- 
conde amiche  dei  poeti  latini,  ma  le  Aspasie  eie 
Diotime  dei  tempi  di  Pericle  e  di  Alcibiade;  ciò 
che  indica  il  bisogno  di  cercare  nelle  stesse  irre- 
golarità dell'amore  una  certa  soddisfazione  intel- 
lettuale e  morale,  ed  è  pur  qualche  cosa. 

11  Bandello,  a  cui  non  isfugge  alcun  lato  della 
vita  del  Cinquecento,  parla  parecchie  volte  di 
queste  donne,  ma  se  è  mite  all'Imperia,  la  corti- 
giana famosa,  che,  morta  giovine  nel  1511,  quasi 
non  appartiene  al  suo  tempo,  ne  vitupera  altre, 
Isabella  de  Luna,  ad  esempio,  avanzo  di  quella 
cortigiania  Spagnuola,  che  aveva  afQuito  a  Roma  a 
tempo  dei  Borgia  (^).  Pare,  ripeto,  che  egli  poco 
creda  a  tutta  quella  vernice  letteraria  e  artistica 
delle  nuove  etère.  Comunque,  quando  descrive 
l'Imperia  e  la  sua  dimora,  (^)  è  veramente  l'etèra 
e  il  suo  tempio,  ch'egli  descrive,  e  l'Imperia  ap- 
parisce ben  più  alta  d'Isabella  de  Luna  e  da 
poter    rivaleggiare    con    Tullia    d'Aragona,    astro 


(')  Bandello.  Novelle.  Parte  li,  Nov.  51. 
(2)  Bandello    Xovelle.  Parte  III.  Nov.  42. 


73 


maggiore  di  quel  torbido  firmamento,  ma  di  cui 
il  Bandelio  non  parla.  Da  prima  una  sciiiera  di 
servitori,  uomini  e  donne,  che  s' inchinano  al  vi- 
sitatore e  lo  scortano  con  grandi  inchini,  poi  sale, 
stanze,  gabinetti  addobbati  con  sontuosità  princi- 
pesca; dappertutto  velluti,  broccati,  tappeti  finis- 
simi. Nel  gabinetto  della  dea  le  mura  coperte  di 
drappi  d'  oro  riccio  sovra  riccio,  una  cornice 
d'oro  e  azzurro  uitramarino,  con  entro  vasi  d'ala- 
bastro, di  porfido,  di  serpentino,  e  cofani,  forzieri 
intagliati,  un  tavolino  coperto  di  velluto  verde  e 
sopra  un  liuto,  una  cetra  e  carte  di  musica  e  vo 
lumi  di  poesie  volgari  e  latine,  perchè  la  signora 
ha  studiato  belle  lettere  con  lo  Strascino  di  Siena 
e  compone  non  insoavemente  sonetti  e  madrigali. 
Essa  è  seduta  in  tutto  lo  spendore  della  sua  fio- 
rente bellezza  e  dinanzi  a  lei  è  1' Ambasciatore  di 
Spagna,  il  quale,  stupito  di  tanto  lusso  e  senten- 
dosi bisogno  di  sputare,  sputa  nel  viso  ad  un  ser- 
vitore, dicendo:  «  non  ti  dispaccia,  perciocché  qui 
non  è  più  brutta  cosa  del  tuo  viso  ». 

Notevole  è  pure  che  il  Bandelio,  come  s'è  vi- 
sto, descriva  la  vita  delle  cortigiane  a    Roma    e  a 


—  74  — 

Venezia  principalmente,  perchè  a  Roma,  in  quella 
società  di  preti,  e  finiti  i  papati  dei  Cibo  e  dei 
Borgia,  la  gran  dama  non  c'è.  Di  veder  apparire 
a  corte,  durante  il  papato  di  Leon  X,  la  moglie 
di  Gialiano  de'  Medici  il  Bibbiena  si  rallegra  come 
di  rara  fortuna  (J).  Vittoria  Colonna  sta  in  un 
convento.  Bianca  Rangone,  la  benefattrice  di 
Leon  X  (-),  vive  appartata.  Qualche  apparizione 
fa  Isabella  Gonzaga,  *ma  insomma  la  gentildonna 
delle  corti  di  Mantova,  Urbino,  Ferrara,  non  c'è  (^). 
Così  è  a  Venezia,  rna  per  altra  cagione.  Qui  pure 
l'etèra  è  prominente,  e  la  gentildonna  non  si 
vede,  perchè  il  costume  e  le  institnzioni  politiche 
la  tengono,  a  cominciare  dalla  Dogaressa,  lontana 
e  nascosta  (•*). 

A  Milano    invece    il    Bandello    ci    parla   bensì 

(')    Lettere  di  Principi^  ecc.  I,  16. 

(-)  Bandello,  Novelle.  Parte  II,  nov.  34.  Dedica  al 
conte  Lodovico  tlangone. 

(3)  Gregoeovius,  Storia  di  Roma  nei  M.  E,  Voi.  Vili, 
Cap.  4. 

('')  Cf.  MoLMEXTi,  La  Dogaressa  di  Veiiesia.  L.  A.  Feu- 
i!Ai,  Loren^ino  de' Medici  e  la  Società  cortigiana  del  Cinque- 
cento. 


della  bt^llissima  Caterina  di  S.  Gelso  (')  che  piac- 
que a  Luigi  XII;  ci  parla  bensì  di  Clara  Vi- 
sconti, (^)  che  ben  può  essere  quella  slessa,  le  cui 
grazie  state  descritte  a  Fi'ancesco  I  dal  Bonnivet 
furono,  secondo  il  Branlóme,  la  ragione  decisiva 
(o  filosofìa  della  storia,  dove  l'ascondi?)  della 
sua  seconda  discesa  in  Ilalia,  quella  slessa  che 
prima  e  dopo  la  battaglia  di  Pavia  visitò  al  campo 
imperiali  e  francesi,  su  tulli  esperimentaudo  le 
sue  irresistibili  seduzioni  (■')  ;  ci  parla  bensì  della 
conlessa  di  Cellant  (^),  che  armava  la  mano  omi- 
cida ai  piopri  amami;  ma  la  prima  si  rimpan- 
nuccia in  un  matrimonio  ;  la  seconda  è  un'intii- 
gante  politica;  la  terza  una  mostruosità  criminosa  ; 
tutte  e  tre  insomma  donnette  eccezionali,  ma  non 
le  caratteristiche  etère  del  Cinquecento. 

(1)  Bandello,  Novelle^  Parte  IV,  Nov.  8.  Dedica  a  Paolo 
Pansa. 

(')  Ibid.  Parte  IV,  Nnv.  15.  Dedica  a  Clara    Visconti. 

(3)  Viii<iiLi,  Dopo  la  hatlar/lia  di  Pavia,  in  Archivio 
Storico  Italiaìio.  Serie  V,  tomo  VI,  1890.  Verri,  Storia  di 
Milfìiio,  tomo  III.  Il  Brantnnie  la  cliiania  Clat  ice^  il  che 
la  fa  confondere  al  Verri  con  nna  Cicrici. 

(1)  Bandki.lo,  Xovelìe.  Parte  I,  Nov.  4. 


-  76  — 

L'azione  delle  quali  sulla  moralità  del  costume, 
se  non  è  forse  valutabile  fra  tanta  generale  corru- 
zione, lo  è  bensì  nelle  lettere  e  nelle  arti.  Nelle 
lettere,  dalle  quintessenze  del  petrarchismo  e  del- 
l'amor platonico,  alle  quali  pretendono  anche  le 
cortigiane,  e  sottilmente  sono  discusse  nel  Corte- 
giano  di  Baldassar  Castiglione,  negli  Asolani  del 
Bembo,  nei  Dialoghi  di  Speron  Speroni  e  di  Tul- 
lia d'Aragona,  si  discende  ai  capitoli  dei  Bernie- 
schi,  e  alle  novelle,  documenti  di  ben  più  terre- 
stri amori  (^).  Nell'arte,  la  procacità  di  certe  figure 
di  donna  parla  da  sé  e  nelle  opere  dei  grandi 
maestri  Veneziani  non  v'  ha  quadro  di  santi,  in 
cui,  fra  le  colonne  e  sui  gradini  d' un  tempio 
classico,  non  appariscano  figure  di  donne  dagli 
abiti  spendidi,  dalle  forn)e  opulenti,  dagli  occhi 
neri  e  i  capelli  d'oro,  raccolti  dietro  la  nuca  e 
ornati  di  più  fila  di  perle  ('),  le  etère  insomma 
del  Cinquecento,  le  cortigiane  del  Bandello;  il 
quale  discute  altresì  col  Molza  il  problema,  ri- 
messo   di    moda    ai    giorni    nostri    da    Alessandro 

(1)  A.   GUAF,   Op.  cit. 

(2)  L.  A.  Fkurai,   Lorenziiio   de'  Medici  ecc.,  già  citata. 


77  — 

Dumas  figlio  con  la  Signora  delle  Camelie,  e  lo  ri- 
solvo in  favore  della  cortigiana,  prudentemente 
aggiungendo  però,  che  «  una  rondinella  non  fa 
primavera  (')  ». 

Non  meno  importanti  e  rappresentative  dei  co- 
stumi, delle  idee,  dei  costumi,  dei  pregiudizi  e  dei 
sentimenti  del  tempo  sono  le  opinioni  che  il 
Randello  ed  altri  esprimono  a  più  riprese  nel  suo 
Novelliere  sul  fanatismo  per  le  scienze  occulte, 
che  dominerà  tutto  il  secolo  seguente  e  finirà  du- 
rante il  secolo  XVIII  nelle  ciurmerle  dei  Mesmer 
e  del  Cagliostro,  e  sul  moto  Protestante,  che  fin 
dal  primo  quarto  del  secolo  XVI  era  scoppiato  in 
Germania. 

Del  fanatismo  per  le  scienze  occulte  parla  con 
superiorità  beffarda  e  con  profonda  osservazione 
psicologica  cosi:  «  Tra  le  infinite  qualità  di  pazzie 
che  travagliano,  affliggono  e  spesso  rovinano  del- 
l'anima e  del  corpo  l'uomo,  credo  io  che  l'alchi- 
mia e  l'incantesimo  siano  delle  principali;  per- 
ciocché a  me  pare  che  in  queste  due,  quanto  più 

(1)  Bandello,  Novelle.  Parte  I,  Nov.  50.  Dedica  a  Fran- 
cesco Maria  Molza. 


—  78 

la  persona  s' esercita,  quanto  più  vi  s'invecchia, 
tanto  più  vi  s'affatichi  e  desideri  d'esercitarle. 
Che  di  molte  altre  specie  di  pazzia  non  pare  che 
avvenga,  veggiendosi  che  mille  occasioni  e  massi- 
mamente l'invecchiare  fa  che  1' nomo  ad  altro  ri- 
volge l'animo  e  di  sé  slesso  seco  sovente  si  ver- 
gogna. Il  che  dell'alchimista  non  avviene;  il  quale 
quante  più  prove,  quanti  [)iù  esperimenti  fa, 
quanto  più  sofistici  vede  i  suoi  ingegni  riuscire, 
più  s'anima  a  seguir  l'impresa,  e  spera  o  ritro- 
vare la  quinta  essenza,  che  io  per  me  non  so  che 
cosa  sia,  o  vero  tiene  per  fermo  aver  cangiato  il 
rame  in  buon  oro,  o  almeno  in  purgalissimo  ar- 
gento. E  nondimeno,  non  seguendo  l'effetto,  su- 
bito scusa  l'arte,  e  dirà  la  tintura  non  esser  ben 
fatta,  il  fuoco  esser  slato  di  tristo  carbone,  o  di 
troppo  forte;  di  modo  che  con  mille  altri  inganni 
ingannando  sé  stesso,  consuma  la  roba  e  la  vita, 
ed  insieme  con  la  Luna,  con  Mercurio  e  con  que- 
ste lor  ciancie  si  risolve  in  fumo.  Quell'altro  con 
la  Clavicola  di  Salomone  (se  egli  la  fece)  e  con 
mille  altri  libri  d' incantagioni  spera  ritrovare  gli 
occultati  tesori  nel  seno  della  terra,  indurre  la  sua 


—  79  — 

donna  al  suo  volere,  saper  i  segreti  dei  principi, 
andar  da  Milano  a  Roma  in  un  allomo,  e  far 
moki  altri  effetti  mirabili.  E  quanto  più  l'incan- 
tatore si  trova  ingannato,  più  nel  fare  incantagioni 
persevera,  accompagnato  sempre  dalla  speranza  di 
trovar  ciò  che  cerca  (^)  ». 

Quanto  al  moto  Protestante  di  Germania,  an- 
che a  questo  il  Bandelle  è  avversissimo,  non  sì 
però  che  non  l'attribuisca  alla  mala  vita  e  alla 
ignoranza  dei  preti,  alle  stolte  superstizioni,  che 
van  predicando,  all'ingorda  avarizia  della  Curia, 
al  traffico  delle  indulgenze,  all'  inerte  indifferenza 
del  gi(ìcondo  Leon  X.  Crede  impossibile  ormai 
frenare  quel  moto  e  ristabilire  1'  uniuà  della  Chiesa 
ma  invoca  una  riforma  nel  seno  e  per  opera  della 
Chiesa  stessa  (^);  il  tradizionale  concetto  dei  rifor- 

(1)  Banpello,  Novelle.  Parte  III,  Nov.  S9.  Dedica  al 
.sig.  Carlo  Atellano. 

(-)  Randello,  Novelle.  Parte  I,  Nov.  14.  Dedica  a  Fra 
Leandro  Alberti.  Parte  III,  nov.  10,  Dedica  a  Fra  Cri- 
stoforo Bandelle.  Parte  III,  nov.  25.  Dedica  a  Girolamo 
Cittadini.  Su  questa  incuria,  come  su  altro  pecche  di 
Leone  X.  s'è  molto  esagerato.  Vedi  ora  il  liliro  del  Nitti 
Leone  X  e  la  sita  politica. 


80 


misti  italiani,  che  nel  secolo  XVI  dà  luogo  a 
quell'agitazione  novatrice,  ma  entro  i  limili  del- 
l'ortodossia, che  è  il  solo  moto  originalmente  ita- 
liano di  riforma  religiosa,  precedente  il  Concilio 
di  Trento.  È  capitanato  dal  Gonlarini,  dal  Polo, 
dal  Sadoleto,  da  Vittoria  Colonna,  anime  religio- 
sissime, ma  vi  si  associano,  per  timore  d' ecces- 
sive reazioni,  coloro  stessi,  nei  quali  all'intorpi- 
dita fede,  che  dura  per  forza  d' inerzia,  la  cultura 
umanistica  ha  sovrapposto  un  buono  strato  d'indif- 
ferenza, come,  ad  esempio,  Pietro  Bembo,  e  direi 
anche  il  Bandello,  giacché,  nonostante  certe  sue 
uscite  devote,  non  mi  so  figurare  tante  disinvol- 
ture morali,  unite  ad  un  vero  e  profondo  senti- 
mento religioso  (^). 

Comunque  sia,  da  questi  pochi  tratti  spigolati 
qua  e  là  nel  novelliere  del  Bandello  e  mercè  i 
quali  ho,  se  non  altro  per  accenno,  toccato  varii 
importanti  argomenti:  l'arte,  la  politica,  la  vita  di 
corte  e  della  società  signorile,  la  guerra,  i  pensa- 
tori, le  gran    dame,   le   cortigiane,   la   letteratura 


(U  V.  CiAN,   Un  decennio  della  vifct  di  Pietro  Bembo. 


81 


dell'amore,  i  pregiudizi  e  deliri  correnti,  e  l'at- 
teggiamento della  coscienza  italiana  di  fronte  alla 
riforma  Protestante,  s' intende  già  con  quanta  ra- 
gione il  Dunlop  abbia  chiamato  il  novelliere  del 
Randello  uno  specchio  magico,  nel  quale  il  suo 
secolo  si  riflette  e  vi  proietta  tutta  quella  folla  di 
particolarità  e  di  figure  caratteristiche,  principali 
e  secondarie,  che  inutilmente  sì  cercherebbe  nei 
grandi  storici  contemporanei  {'). 

m   DuXLOP-LlEBRECHT,   Op,    cit. 


Masi. 


CAPITOLO  V 


Segue  lo  stesso  arg-omento. 

Per  intendere  anche  meglio  la  verità  di  ciò 
che  scrive  il  Dunlop,  bisognerebbe  penetrare,  ag- 
girarsi fra  tutto  quell'ammasso  di  casi  e  quella 
folla  di  personaggi,  che  il  novellatore  cinquecen- 
tista atteggia  su  quel  suo  immenso  teatro  e  illu- 
strar gli  uni  e  gli  altri,  riscontrando  i  primi  coi 
documenti  e  la  storia,  e  dei  secondi  cercare,  cono- 
scere, discernere  i  nomi,  1  volti,  la  vita,  le  vicen- 
devoli relazioni  (').  Si  vedrebbe  allora  che  non 
solo  i  fatti  più  generali  della  storia,  ma  i  più 
minuti,  e  non  solo  i  personaggi  più  prominenti, 
ma    ogni    classe    della    società,   ogni    professione, 

(f)  Un  buon  esempio  per  questo  >]renere  d'  illustra- 
zione si  ha  per  la  novella  famosa  di  V;/o  e  Parisina  in 
Angelo  Solerti,  Nuova  Antologia,  t'ascio.  1  luglio  1893. 


—  84  — 

Ogni  mestiere,  ogni  vizio,  e,  direi,  ogni  virtù,  se 
troppo  spesso  nel  Cinquecento  questa  parola  non 
avesse  il  signiQcato  di  abilità  (^),  hanno  nel  no- 
velliere del  Bandello  i  loro  rappresentanti. 

Il  Symonds,  che  s'è  provato  ad  enumerarli, 
n'  ha  riempiuta  una  pagina  sana  e  non  son  tutti. 
È  vero  forse  ciò  ch'egli  dice:  questa  rappresen- 
tazione sterminata  essere  fatta  a  tocchi  leggieri, 
le  più  paurose  profondità  dell'anima  umana  ri- 
manere inesplorate  e  per  lo  più  tutta  quella  gente 


(1)  A.  Graf,  Attraverso  al  Cinquecento.  Op.  cit.  Cfr.  in 
proposito  le  opportune  e  satiriche  considerazioni  di  Raf- 
faele Mariano  nella  sua  Memoria  su  Francesco  D'Assisi  e 
aJcitni  dei  suoi  pia  recenti  biof/rafi  (In  Nota,  pagg.  66  e 
sogg.)  Ivi  il  Prof.  Mariano  osserva  che  questa  virfà  in 
istile  Rinascenza  fu  rimessa  di  moda  da  David  Strauss, 
poi  da  Riccardo  Wagner  (che  pei  Wagneristi  autentici 
non  è  soltanto  un  musicista,  bensì  un  rivelatore  religioso) 
e  finalmente  dal  Nietzsche  (che  è  il  filosofo  della  com- 
])agnia)  e  condusse  alla  riproduzione  recente  del  super- 
uomo, a  cui  esclusivo  beneficio  e  godimento  devono  ser- 
vire il  mondo  della  cultura  e  dello  spirito  e  le  sue  gioie 
delicate  e  squisite,  perchè  egli  solo,  il  superuomo  {der 
Uebermensch)  rappresenta  T  eccellenza,  l'abilità,  la  forza 
individuale,  tuttociò,  vale  a  dire,  che  in  istile  Rinascenza 
si  chiama  virtù. 


—  85  — 

ballare  una  ridda  confusa,  urtandosi,  mescolandosi, 
come  maschere  di  carnevale,  nella  scapigliata  de- 
mocrazia del  vizio  (').  Ma  non  si  può,  a  mio  cre- 
dere, esigere  analisi  psicologiche  molto  profonde 
da  chi  dipinge  in  un  novelliere  un  popolo  e 
un'età  intiera;  non  si  può  esigerle  dalla  novella, 
componimento  breve,  che  per  lo  più  si  suppone 
raccontato  a  viva  voce  e  ascollato,  massime  nel 
novelliere  del  Bandello,  da  gente,  che  per  uno 
spasso  di  corta  durata  interrompe  l'azione  ordinaria 
della  propria  vita.  Quello  che  il  Bandello  perde 
in  intensità,  riguadagna,  parmi,neir  ampiezza  della 
rappresentazione,  e  d'altra  parte  un  Richardson, 
un  Dickens,  un  Balzac,  un  Zola,  un  Dostojewski, 
in  pieno  Cinquecento  italiano,  sarebbero  davvero 
un  fenomeno  inesplicabile. 

V  ha  di  più  che,  nonostante  certe  goffaggini 
di  stile  e  scorrettezze  di  lingua,  11  Bandello  ha 
più  di  tutti  i  nostri  novellatori  il  genio  ed  il  gu- 
sto del  romanzesco,  svolgentesi  di  preferenza  nella 
gran  valle    del    Po   e    nell'Italia   superiore,  e   al 

{*)  Symonds,  Jìenaìtisaitce  in  Jlali/.  —  Italiaii  Lilerature. 
—  Parte  II.  Cliap.  X. 


86 


tempo,  In  cui  il  Bandello  scrive,  già  uscito  dai 
cicli  cavallereschi  e  modificato  nelle  forme  e  nel 
contenuto  da  una  civiltà  già  pili  che  matura,  e 
già  accennante  in  bene  ed  in  male  a  fenomeni  di 
decadenza  ed  a  mutazioni. 

Se  come  lirico  d'amore  non  oserei  quindi  pro- 
clamare il  Bandello  un  Petrarca  redivivo,  secondo 
che  scrive  il  suo  amico,  Leandro  Alberti  (^);  e  se 
l'orse  è  troppo  dirlo  col  Symonds  per  il  suo  no- 
velliere un  Ariosto  in  prosa,  certo  è  però  che, 
mentre  rappresenta  da  solo  la  novella  italiana  in 
tutte  le  sue  varietà,  gradazioni  e  intonazioni,  le 
dà  altresì  tale  intreccio  e  svolgimento  da  riescite 
talvolta  alle  complicazioni  e  alle  proporzioni  del 
romanzo.  Non  sempre  s'  innalza  al  tragico  o  troppo 
spesso  lo  confonde  coli' orribile  ripugnante.  Non 
sempre  consegue  il  comico  o  troppo  spesso  lo 
confonde,  non  solo  coli'  osceno,  ma    più    del    Ra- 


(1)  De  v'n's  Illnstribus  Ordinis  Praedicaforiim.  —  Libri 
sex  in  unum  congesti  auctore  Leandro  Alberti  Bononiensi. 
—  Bonouiae,  1Ó17.  «  Carmina  vernacula  composita  ut 
Franciscnm  Petrarcliam  protinus  revixisse  omnes  testari 
et  affirmare  possunt.  » 


—  87  — 

belais  e  dello  Swift,  col  sudicio  stomachevole. 
Talvolta  la  sua  novella  non  è  che  invereconda, 
tal' altra  pare  uno  dei  fatti  diversi  dei  nostri  gior- 
nali od  una  cronicaccia  d'  una  delle  nostre  Corti 
d'Assise;  piacevolissima  letteratura,  che  noi,  così 
severi  ai  novellatori  del  Rinascimento,  diffondiamo 
a  migliaia  di  copie,  possibilmente  illustrate  colle 
figurine,  nei  casti  seni  delle  famiglie,  e  a  cui  per 
antidoto  contrapponiamo  tutt'al  più  un  soporifero 
libro  di  lettura  popolare  o  le  massime  eroiche, 
scritte  in  testa  agli  esemplari  di  calligrafia. 

Ma  se  il  Bandelle  non  sa  essere  né  altamente 
tragico,  né  schiettamente  comico,  nondimeno  in 
quello  spazio  intermedio,  che  sta  fra  la  tragedia 
e  la  commedia  (^),  e  in  cui  si  mescolano  roman- 
zesche avventure  e  fortunosi  intrecci  di  casi,  te- 
naci amori  e  resistenti  ad  ogni  disastro,  nei  quali 
il  patos  sentimentale  si  sfoga,  eccitando  la  più 
tenera  pietà,  o  condizioni  disperate,  nelle  quali 
è  in  giuoco  la  vita,  e  che  schiacciano  i  loro  eroi 
e  le  loro  eroine,  o    quasi    per    prodigio    fanno    sì 

(1)  Symoxds,  Op.  cit.,  loc.  cit. 


—  88  — 

che  pervengano  a  salvamento,  il  Bandello  si  ri- 
vela veramente  un  grande  artista  e  un  grande 
maestro  ;  si  rivela  non  solo  pel  suo  genio,  ma  per 
forza  delle  stesse  vicende  della  sua  vita,  piij  pros- 
simo al  sentimento  dell'arte  moderna,  romantica 
e  naturalista,  di  tutti  i  prosatori  e  poeti  del  Cin- 
quecento. 

Quanto  alla  storia,  chi  crederebbe  trovare  in 
questo  novellatore  un  quadro  di  storia  non  Ita- 
liana soltanto,  ma  Europea?  Nel  Cinquecento  son 
rare  queste  sintesi  e  questi  aggruppamenti  di  fatti 
negli  stessi  storici  di  professione.  Saggi  di  filoso- 
fìa della  storia,  indagini  delle  leggi,  che  la  gover- 
nano, non  mancano  di  certo,  e  basta  ricordare  i 
grandi  nomi  del  Machiavelli  e  del  Guicciardini. 
Ma,  nel  primo  specialmente,  i  fatti  sono  un'anima 
vilis,  coi  quali  si  fa  sperimento  e  riprova  delle 
dottrine  e  come  siano  racconciati  ad  arbitrio,  Dio 
lo  sa.  Una  sintesi  di  semplici  fatti  contemporanei, 
che  non  esca  dalle  loro  conseguenze  dirette  e  im- 
mediate, non  è  frequente  nel  Cinquecento  e  indica 
non  solo  l'uomo,  che  ha  avuto  sempre  alle  mani 
grosse  faccende  e  che  è  bene  addentro    nella   pò- 


—  89  — 

litica  del  suo  tempo,  ma  anche  qui  un  presenti- 
mento di  modernità,  che  è  segno  non  dubbio 
della  tendenza  particolare    d' un   grande    ingegno. 

«  Se  mai  fu  età  (scriveva  il  Bandelio,  quando 
già  s' era  stabilito  in  Francia,  e  certo  verso  il 
1550)  ove  si  vedessero  di  mirabili  e  differenti 
cose,  credo  io  che  la  nostra  età  sia  una  di  quelle, 
ne  la  quale,  molto  più  che  in  nessun  altra,  cose 
degne  di  stupore,  di  compassione  e  di  biasimo 
accadono  (').  S'è  veduto  a  nostri  dì  ne  le  cose 
pertinenti  al  culto  divino  e  de  i  santi  e  circa  la 
fede  cattolica,  quante  sette,  dopo  che  Martino  Lu- 
tero ha  contro  la  Chiesa  alzate  le  corna,  sono 
uasciute  ;  e  quante  città  e  provincie,  spezzato  il 
vivere  de  i  Padri  loro,  da  tanti  Dottori  antichi  e 
santi  huomini  approvato,  e  generalmente  dal  pub- 
blico consenso  de  i  buoni,  dal  nascimento  di  Cristo 
in  qua  osservato,  variamente  vivono;  di  maniera 
che  hoggi  di  in  quelle  genti,   che    da    la    Chiesa 

(1)  Le  due  edizioni  di  Lucca  e  di  Londra  stampano 
questo  periodo  in  forma,  che  non  dà  nessun  senso.  Ki- 
tengo  elle  deblia  legg'orsi  cosi. 


—  90  — 

separate  si  sono,  per  vivere  non  ne  la  libertà  de 
lo  spirito  buono,  ma  ne  la  libertà  de  le  affettioni 
loro,  sono  altrettante  le  sette,  quanti  sono  quelli 
che  giudicano,  sforzandosi  ciascuno  in  particolare 
di  trovare  qualche  error  nuovo  e  tutti  insieme 
esser  differenti —  Ne  le  cose  poi  mondane  ha 
questa  nostra  età  veduto  i  Turchi  haver  pigliato 
tutta  la  Soria  e  disfatto  il  Soldano  con  la  setta  de 
i  Mammalucchi,  vinto  Belgrado,  debellato  Rodi, 
soggiogata  la  più  parte  de  1'  Ongaria,  ed  haver 
assediata  Vienna  d'Austria  e  fatto  in  quelle  con- 
trade di  grandissimi  danni,  aspettandosi  ogni  dì 
peggio  con  vituperio  indicibile  di  tutta  Ghristia- 
nità,  che  hoggimai  è  stata  ridotta  in  un  cantone 
de  l'Europa,  mercè  de  le  discordie  che  tra  i 
Principi  christiani  si  fanno  ogn'  bora  maggiori. 
Quelli  che  doveriano  opporre  il  petto  a  le  forze 
e  crudeltà  Turchesche,  tanto  sangue  Ghristiano 
hanno  sparso,  che  saria  stato  bastante  a  ricu- 
perare l'imperio  di  Costantinopoli  e  il  reame 
di   Gerusalemme  (').  Tra  gli  Angioini  ed    Arago- 

(•)  Mi  permetto  di  rabberciare  il  periodo   anche  qui, 
che  nelle  edizioni  di  Lucca  e  di  Londra  resta  in  aria. 


-  91  — 

nesi  quaiHi  fatti  d'  arme  nel  regno  di  Napoli  fatti 
si  sono?  di  modo  che  bene  spesso  Napoli  in  poco 
tempo  ha  tre  e  qnattro  signori  cambiati.  Milano 
bora  da  gli  Sforzeschi  ed  ora  da  Francesi  ed  ora 
da  Spagnnoli  s'è  veduto  comandare.  In  Hlspagna 
i  popoli  hanno  preso  l'arme  contro  i  suoi  gover- 
natori; parte  di  Navarra  da  la  casa  d'  Albret  è 
passata  ne  le  mani  degli  Aragonesi  e  tutta  Spagna 
ai  Tedeschi  è  soggetta.  Il  sangue  proprio  de  la 
casa  reale  al  re  suo  di  Francia  è  stato  rubello  ed 
il  Duca  di  Borbone  fuggito  dal  Re  a  l' Impera- 
dore  s'  è  accostato.  Habbiamo  veduto  il  gran  Pa- 
stor  di  Roma  di  Tedeschi  e  di  Spagnnoli  prigione, 
haver  la  libertà  comprata  da  Carlo  Imperadore  e 
Roma  crudelissimamente  essere  stata  saccheggiata, 
spogliate  le  Chiese,  violate  la  monache,  e  tutte 
quelle  crudeltà  essercitate  che  si  possano  imma- 
ginare, di  modo  che  i  Goti  altre  volte  furono  più 
pietosi.  L' Alemagna  tra  sé  divisa  si  va  consu- 
manilo  con  le  sue  diete.  L'  Imperadore  e  il  Re 
di  Francia  bora  sono  in  guerra  ed  bora  in  tregua, 
e  pure  accordo  non  si  vede.  I  Veneziani  sono 
stati  sforzati  a  comprar  la  pace  dal  Turco   e    dar- 


—  92  — 

gli  parte  de  le  terre  che  in  Lavante  s'  havevano 
acquistate.  Il  Re  d' Inghilterra,  tributario  de  la 
Chiesa,  e  che  cosi  dotta  e  cattolicamente  ha  scritto 
contra  gli  errori  a'  nostri  di  nati,  da  le  proprie 
passioni  e  disordinati  appetiti  vinto,  s'  è  alla  Chiesa 
ribellato  e  fattosi  capo  di  nuova  heresia,  suscitando 
ne  l'Isola  una  nuova  setta  ed  un  nuovo  modo  di 
vivere  non  più  visto  o  udito.  E  certo  noi  possiamo 
dire  che  pochissime  età  hanno  veduto  cosi  subite 
mutationi,  come  noi  veggiamo  tutto  il  di,  né  so 
a  che  fine  le  cose  debbiano  terminare,  perchè  mi 
pare  che  andiamo  di  male  in  peggio  e  che  tra 
Christiani  sia  più  discordia  che  mai  (')  ». 

La  conclusione  è  di  tutti  i  tempi,  perchè  tutti 
nel  tempo,  in  cui  si  vive,  s'  ha  il  sentimento  che 
nulla  di  peggio  sia  mai  avvenuto  prima  o  possa 
avvenire  di  poi  e  che  qualche  definitiva  catastrofe 
debba  essere  imminente;  il  che  dimostra  che  la 
leggenda  del  finimondo  è  perpetua  ed  ha  la  sua 
radice  nell'  animo  umano,  non  in  profezie  o  pau- 


(1)  Bandello,  Novelle.  Parte  III,    Nov.    62.   Dedica   a 
Domenico  Gavazza. 


93  — 

rosi  segni  esteriori.  Ma  il  compendio  storico  non 
potrebbe  essere  più  pieno  e  tien  conto  di  casi 
anche  d'un  ordine  diverso  dallo  strettamente  po- 
litico, il  che  di  rado  interviene  agli  storici  del 
Cinquecento. 

Parecchie  delle  novelle  del  Bandello  sono  pu- 
ramence  disquisizioni  storiche,  rifatte  di  seconda 
mano,  come  la  vendetta  di  Rosmunda  e  la  morte 
del  re  Longobardo  Alboino  ('),  le  origini  della 
casa  di  Savoia  (^),  quelle  dei  marchesi  di  Monfer- 
rato (%  V  uccisione  di  Buondelmonte  e  il  prin- 
cipio delle  parti  Guelfa  e  (rhibellina  in  Firenze  {*), 
la  Pia  de'  Tolomei  (''),  la  virtù  della  buona  Guai- 
drada  e  le  origini  dei  conti  Guidi  e  dei  conti  di 
Poppi  C').  Ezzelino  da  Romano  (^),  il  Vespro  Si- 
ciliano {%  Lorenzo  il  Magnifico  alla    corte  di  Na- 

(1)  Bandello  Novelle,  Parte  III,  Nov.  18. 

(2)  Ibid.  Parte  IV,  Nov.  19. 

(3)  Ibid.  Parte  II,  Nov.  27. 
(•<)  Ibid.  Parte  I,  Nov.  I. 

(5)  Ibid.  Parte  I,  Nov.  12. 

(6)  Ibid,  Parte  I,  Nov.  18. 
(•)  Ibid.  Parte  II,  Nov.  11. 
(**)  Ibid.  Parte  I,  Nov.  22. 


—  94  — 

poli  C),  Cesare  Borgia  in  Romagna  (^)  e  via  di- 
cendo, molli  altri  accenni  e  ricordi  storici,  ma 
tutti  di  poca  0  nessuna  importanza.  Meno  ancora 
ne  hanno  i  rifacimenti  d'antichi  e  celebri  episodi 
di  storia  orientale,  greca  e  romana,  Giro,  ad 
esempio  O,  Seleuco  (^),  Sofonisba  (^),  Lucrezia 
Romana  {%  il  cui  oltraggio,  quantunque  fatto 
narrare  da  Baldassarre  Castiglione  e  dedicato  a 
Lucrezia  Gonzaga,  V  ideale  platonico  e  petrar- 
chesco del  Randello,  è  esposto  in  guisa,  che  se 
già  non  sapessimo  quello  che  si  poteva  osare  in 
coteste  conversazioni  cinquecenliste,  ci  sarebbe  da 
meravigliarsi  che  al  nobile  narratore  non  sia  toc- 
cato quello  che  nella  Secchia  Rapila  del  Tassoni 
tocca  col  medesimo  racconto  a  Scarpinello  canta- 
storie, a  cui  la  regina  Renoppia  per  poco  non 
iscagliò  in  testa  una  ciabatta  per  farlo  tacere  ('). 

(1)  Ihid.  Parte  II,  Nov.  52. 
(8)  Ibid.  Parte  IV,  Nov.  11, 
(3)  Ibid.  Parte  III,  Nov.  9. 
(■<)  Ibid.  Parte  II,  Nov.  uf). 

(5)  Ibid.  Paite  I,  Nov.  41. 

(6)  Ibid.  Parte  II,  Nov.  21. 

(')  Secchia  Bajnla.    Canto  Vili.    —    Cf.    Napione,  Pie- 
montesi Illustri,  Tom.  V. 


—  es- 
se non  che  l' importanza  storica  del  Novelliere 
del  Randello  non  consiste  già  in  queste  rifritture, 
bensì,  com'ebbi  a  notare,  nell'uditorio  delle  sue 
novelle  e  nelle  notizie  che  un  po' per  natura,  un 
po'  per  la  cortigianeria,  che  è  attaccata  alle  de- 
diche, un  po'  per  esercizio  di  rettorica  il  Baudello 
soleva  accumulare  nelle  sue  dediche  laudatorie. 
Soniiglierebbero  parecchio  in  questo  alle  dediche 
del  Goldoni,  ma  il  Goldoni  non  fa  che  lodare  i 
Mecenati  per  propiziarseli,  e  solo  pel  tono  troppo 
umile  delle  sue  dediche  il  rigido  Tommaseo  ne 
chiamava  infelice  la  povertà.  Il  Bandello  invece, 
quantunque  per  certo  di  meno  facile  contentatura 
del  Goldoni,  parla  in  tono  amichevole,  con  frasi 
bensì  da  cortigiano  consumato,  che  sa  il  viver  del 
mando  ed  in  che  forme  vuoisi  tiattare  coi  gran 
signori,  ma  si  mette  quasi  alla  pari  con  essi  ed 
anzi  adopera  il  tono  di  chi  loda,  perchè  vuol  es- 
sere lodato.  Su  dugentodiciannove  lettere  di  de- 
dica, poco  più  di  una  ventina  sono  dirette  ai  per- 
sonaggi delle  case  Gonzaga  e  Fregoso,  suoi  me- 
cenati e  padroni,  e  va  pur  notato  che  or  con  gli 
uni  or  con  gli  altri  di  costoro  il  Bandello  ha  con- 


—  96  — 

vissuto  quasi  tutta  la  vita.  Le  altre  sono  ad  amici, 
dai  quali  non  poteva  aspettarsi  che  ricambio  d'af- 
fetto e  di  cortesie. 


\ 


CAPITOLO  VI 


Segue  lo  stesso  argomento. 

Nelle  dediche,  nei  preamboli,  nelle  circostanze 
locali  od  occasionali  del  racconto,  ma  spesso  estrin- 
seche ad  esso;  in  tutta  questa  parte  del  novelliere 
del  Bandello,  c'imbattiamo,  non  solo  in  perso- 
naggi, quali  Leonardo  da  Vinci,  Alessandro  ed 
Ippolita  Bentivoglio,  Niccolò  Machiavelli,  Gio- 
vanni dalle  Bande  Nere,  nelle  più  gran  dame  del 
tempo,  nelle  cortigiane  più  in  voga,  ma  pene- 
triamo quasi  nella  intimità,  per  esempio,  della 
vita  giornaliera  di  Isabella  Gonzaga,  ora  nelle  sue 
villeggiature  di  Porto,  di  Marmirolo,  di  Rocca 
della  Cavriana,  ora  nel  suo  palazzo  di  Mantova; 
e  qua  e  là  in  compagnia  sempre  de' suoi  più  in- 
timi, r  Equicola,  il  Calandra,  il  Ceresaro,  il  Negro, 
l'Agnello,  il  Castiglione,  il  Capilupi  e   tanti  altri. 

Masi.  7 


che  il  Bandelle  va  nominando,  allorché  ricorda  i 
bei  giorni  passati  a  Mantova,  durante  la  splendida 
gioventù  d' Isabella,  il  più  compiuto  e  perfetto 
tipo  di  principessa  italiana  nel  Rinascimento.  «  Era 
mio  costume,  scrive  il  Randello,  andar  due  o  tre 
volte  la  settimana  a  farle  riverenza  e  quivi  tutto 
il  giorno  me  ne  stava...  ove  sempre  erano  signori 
e  gentilhuomini,  che  di  varie  cose  ragionavano, 
bora  in  presenza  di  quella  ed  bora  tra  loro  se- 
condo le  occasioni  (')  ».  Nel  suo  palazzo  di  Man- 
tova Isabella  andava  già  raccogliendo  (^)  col  più 
intelligente  buon  gusto'  e  colla  più  viva  solleci- 
tudine capilavori  d'arte  moderna  e  geniali  imita- 
zioni d'arte  antica  (^).  Altrettanto  nelle  villeggia- 
tnre  ove  si  recava  1'  estate  «  per  fuggir  gii  intensi 
caldi,  scrive  ancora  il  Bandello,  che  in  Mantova 
a  si  fatta   stagione  per   lo    stagnar   de    l' acque  si 

(')  Randello,  Novelle,  Parte  I,  Nov.  30.  Dedica  al 
marchese  Pirro  Gonzaga. 

(2)  Non  dovette  essere  compiuto  che  verso  il  1527. 
Vedi  M.  Minghetti  nelle  sue  Donne  italiane  nelle  Belle 
Arti  al  secolo  XV  e  XVI.  —   N.  Antologia^  giugno,  1877. 

(3)  Gian,  Pietro  Bembo  e  Isabella  Gonzaga  in  Gior.  Sto- 
rico della  Leti.  Ital.  Voi.  IX. 


—  99  — 

sentono,..,  diportandosi  (come  è  suo  costume) 
bora  leggendo,  bora  disputando,  bora  sentendo 
dolcissimi  musici  cantar  e  sonare,  ed  bora  altri 
piacevoli  ed  bonesti  giuocbi  facendo  »  (^).  Nes- 
sun'arte  gentile,  nessuna  forma  di  cultura  è  estra- 
nea a  questa  gran  donna,  amantissima  pure  di 
lettere  latine  e  volgari  e  di  romanzi  di  cavalleria, 
dei  cui  eroi  discute  appassionatamente  con  lette- 
rati, col  Visconti,  col  Boiardo  (").  Alle  lettere  at- 
tende a  sbalzi,  com'è  il  solito  delle  gran  signore, 
e  delle  più  ingegnose,  cbe,  fra  mille  diversi  pro- 
positi di  studi,  hanno  sempre  mille  diversi  motivi 
d'interruzione  (^).  Pure  anche  novellare  elegante- 

(1)  Bandello,  Novelle.  Parte  II,  Nov.  5.  Dedica  a 
Giov,  Giacomo  Calandra. 

(2)  Archivio  Sloi:  Lombardo.  Voi.  XVII.  Lezio  e  Ke- 
NIEK,  Delle  Relazioni  d' Isabella  d''  Este  Gonzaga  con  Ludo- 
vico e  Beatrice  Sforza.  Si  provvedeva  di  libri  a  Venezia. 
In  una  sua  lettera  a  G.  Brognolo  del  17  settembre  1491, 
lo  incarica  di  cercarle  libri:  «  tanto  iu  rima  quanto  in 
prosa,  che  contengano  batalie,  Instorio  et  fabule,  cussi 
de  moderni,  come  de  antiqui  et  maxime  de  li  jìaladini 
di  Franza  »,  Vedila  nel  Lezio,  /  Precettori  d' tabella 
d'  Este. 

(3)  /  Precettori  d'  Isabella.^  op.  cit. 


—  100  — 

mente  le  gradisce  e  sentendo  narrare  qualche  bella 
0  strana  avventura,  non  è  raro  che  il  Randello 
abbia  a  scrivere:  «  Madama  a  me  rivolta  mi  disse: 
Randello,  questa  historia  è  una  di  quelle  che  non 
istarà  male  fra  cotante  che  tu  a  la  giornata  scrivi. 
—  Il  perchè  io  le  promisi  di  scriverla  (^)  ».  E  le 
troppo  scurrili,  ripeto,  si  narrano,  quand'  essa  non 
è  presente,  o  si  troncano  quando  essa  ritorna,  per- 
chè Isabella  non  si  dà  arie  di  casta  Penelope,  ma 
è  pur  quella  che  nelle  feste  Ferraresi  per  le  nozze 
di  Lucrezia  Borgia,  in  presenzi  di  tutta  la  Corte, 
avea  palesemente  mostrato  il  suo  disgusto  per  la 
triviale  oscenità  d' una  commedia  Plautina,  che 
si  rappresentava,  e  n'era  stata  lodata  da  amba- 
sciatori e  signori,  che  assistevano  (*]. 

Molti  altri    di  questi    centri    di    colta   socievo- 
lezza descrive  il  Randello  :  fra  i  piìi  curiosi  quello 


(1)  Bandello,  Novelle.  P.  IV.  Nov.  2.  Dedica  a  Luigi 
Gonzaga. 

(")  Archivio  Stor.  Ital.  Voi.  2,  Serie  1."  Append.  D'Arco 
Notizie  su  Isabella  Estense.  Luzio,  /  Precettori.,  ecc.,  cit , 
dove  riporta  una  lettera  9  gennaio  1502  del  Capilupi,  che 
accompagnava  la  Marchesa. 


—  101  — 

di  Cecilia  Gallerani,  che  il  Bandello  magnifica 
col  titolo  di  moderna  Saffo  ('),  ma  che  altro  non 
era,  se  non  la  favorita  di  Lodovico  il  Moro.  Essa 
pure,  fosse  in  Milano  o  in  villa  o  ai  bagni  d'Acqua- 
rio «  per  fortificar  la  debolezza  dello  stomaco,  era 
di  continno  da  molti  gentilhuomini  e  gentildonne 
visitata  sì  per  esser  quella  piacevole  e  verluosa 
signora  che  è,  come  altresì  che  tutto  il  dì  i  più 
elevati  e  belli  ingegni  di  Milano  e  di  stréuneri, 
che  in  Milano  si  ritruovano,  sono  in  sua  com- 
pagnia. Quivi  gli  huomini  militari  do  l'arte  del 
soldo  (')  ragionano,  i  musici  cantano,  gli  archi- 
tetti ed  i  pittori  disegnano,  i  filosofi  de  le  cose 
naturali  questionano,  ed  i  poeti  le  loro  e  d'altrui 
compositioni  recitano;  di  modo  che  ciascuno  che 
di  verlù  [qui  pure  la  parola  è  adoperata  nel  senso 
d' ab  il  uà  ingegnosa)  che  di  verlù  o  ragionare  od 
udir  disputar  si  diletti,  truov;i  cibo  convenevole 
al  suo  appetito,  perciò    che    sempre  a  la  presenza 


(1)  Bandello,  Novelle.  P.  IV,  Nov.  18. 

(2)  Dell'  assoldare. 


—  102  -. 

di    qaesta   Heroina   di   cose    piacevoli,  vertuose  o 
gentili  si  ragiona  »  ('). 

Alle  «  honorate  e  sontuose  nozze  »  della  Ca- 
milla Gonzaga  col  Marchese  della  Tripalda,  alle 
quali  convennero  «  di  Lombardia,  del  Regno  e 
di  altri  luoghi  d'Italia  segnalati  Gentilhuomini, 
Baroni  e  gran  personaggi  »,  oltre  a' soliti  tratte- 
nimenti letterari  e  musicali,  si  trovarono  «  gioco- 
latori  e  buffoni,  li  quali  assai  fecero  gli  spettatori 
ridere  »  (').  Questi  piacevoli  personaggi  spesso  fi- 
gurano nella  vit;i  di  società,  rappresentata  nelle 
novelle  del  Bandello,  e  di  parecchi  dei  più  celebri 
dice  il  nome:  del  Calcagnino  giocolatore,  che  bef- 
fava tutti  e  non  poteva  sopportar  esso  la  più  pic- 
cola beffa  (^),  del  Gualfenera,  del  Gonnella  (pro- 
nipote di  quello  del  Boccaccio)  che  morì  per  la 
paura  di  un'  atroce  burla  fattagli  dal  suo  signore  {*], 


(1)  Baxdello,  Novelle.  P,  I,  '^ov.  21.  Dedica  allo  Sforza 
Bentivoglio. 

(2)  Ibid    P.  IV,   Nov.   5.    Dedica    ad    Antonia  Bauzia, 
Marchesa  di  Gonzaga. 

(3)  Ibid    P.  I,  Nov.  3.  Dedica  a  Scipione  Attellano. 
(•<)  Ibid.  P.  IV,  Nov.  17,  26. 


103  — 

del  Fracassa  da  Bergamo  (^),  del  Gandino  pure  da 
Bergamo  (^),  in  cui  il  Napione  volle  ravvisare  il 
prototipo  della  famosa  maschera  della  commedia 
dell'Arte,  l'Arlecchino,  dando  al  Bandello  il  me- 
rito di  questa  pretesa  invenzione  f);  come  se  un 
tipo  comico  di  tal  fatta  potesse  essere  una  trovata 
letteraria  istantanea,  e  non  una  formazione  lenta 
e  successiva,  da  cui  forse  si  sentì  invece  inspirato 
il  Bandello  a  quell'  aurea  sentenza,  che  ben  po- 
trebbe servir  d'  epigrafe  sintetica  ad  un  gran  tea- 
tro comico  0  ad  un  gran  novelliere,  qual' è  il  suo, 
e  con  cui  comincia  e  finisce  la  novella  di  Ser  Gan- 
dino Bergamasco:  «  Questo  mondo  è  una  gabbia 
piena  d'infinite  e  varie  specie  di  pazzeroiii  e  molti 
di  coloro,  i  quali  si  pensano  essere  i  più  saggi 
sono  i  più  pazzi,  come  a  le  opere  loro  senza  altri 
testimonii  chiaramente  si  vede  ». 

I  mostruosi  banchetti  del  secolo  precedente, 
nei  quali  ogni  portata  è  un  congegno,  d' onde 
scattano  portenti  e  maraviglie,  e  fra  1'  una  e  l'altra 

(1)  Ibid.  P.  IV,  l!Jov.  24. 

(2)  Ibid.  P.  I,  Nov.  34. 

(3)  Piemotifesi  Illustri.  Tom.  V. 


-  104 

s' hanno  per  intermezzo  danze,  musiche,  lotte, 
spettacoli,  cedono  il  luogo  nel  secolo  XVI  a  meno 
affaticanti  magnificenze. 

Bianca  d' Este,  vedova  Sanseverino,  venuta  a 
Milano  per  certe  sue  liti,  è  da  molti  signoroni 
«  accarezzata  e  festeggiata  con  sontuosi  banchetti, 
musiche  ed  altri  honesti  intertenimenti  ».  Fra  gli 
altri,  dal  suo  avvocato.  Benedetto  Tonso,  (povera 
cliente!  «  Questo,  avrà  detto  fra  sé,  so  chi  lo 
paga!  »)  e  da  Scipione  Altellano,  che  le  diede  un 
desinare  ed  una  cena  luculliana.  Il  cibo  non  è 
dunque  più  un  accessorio  e  i  buongustai  se  ne 
ricordano.  Ma  è  notevole  che  d' estate,  in  città, 
con  un  caldo  soffocante,  gl'invitati  stanno  insieme 
tutto  il  giorno  e  a  mezzodì  hanno  già  ballato,  sen- 
tito recitale  una  farsa  e  fatti  molti  piacevoli  giuo- 
chi, dopodiché  si  mettono  a  novellare  ('). 

In  Verona,  Cesare  Fregoso,  generale  della  Se- 
renissima, ospita  magnificamente  i  Veronesi  e  i 
gentiluomini  Veneziani,  che  van  capitando,  ora 
in  città,  ora  a  Garda  presso  il  Lago.  Quivi  i  Fre- 

(1)  Bandello,  Noveìle.  P.  I,  Nov.  44.  Dedica  al  conte 
Baldassarre  Castiglione. 


-  105 

goso  hanno  una  villa  detta  Montorio,  splendidis- 
sima. «  Vi  si  gode  l'amenità  del  pescoso  e  bel- 
lissimo lago,  che  ne  l' una  e  l'altra  sponda  Pomona, 
Bacco  e  Flora  pomposamente  adornano  ».  Il  Ran- 
dello descrive  un  desinare  e  una  cena,  a  cui  in- 
tervengono «  bellissime  dame  Venetiane  con  i 
mariti,  e  gentilhuomini  e  dame  Veronesi  ».  11 
desinare  fu  bellissimo.  «  Oltre  le  carni  domestiche 
vi  si  mangiarono  tutti  quei  selvaggiumi,  così  d'au- 
gelli come  di  quadrupedi,  che  la  stagione  compor- 
tava, mescolando  variamente,  secondo  che  conve- 
nevol  pareva  a  Messer  Antonio  Giovenazzo,  maestro 
di  casa,  di  tutte  quelle  maniere  di  pesci,  che  quelle 
fontane  in  abbondanza  fanno,  con  i  più  delicati,  che 
produce  il  famoso  Benaco  ».  Il  gusto  già  si  raffina, 
—  i  cuochi  non  sono  più  servidorame  anonimo,  e 
spunta  già  un  precursore  dei  Vatel  e  dei  Brillat-Sa- 
varin.  Ma  anche  qui  è  notevole  che  questa  lieta  bri- 
gata a  mezzodì  ha  già  fatto  un'  infinità  di  piacevoli 
giuochi,  ha  ballato  senza  curarsi  del  caldo,  ed 
ha  inghiottito  lutto  quel  po' po' di  grazia  di  Dio  ['). 

(1)  Banbello,  Novelle.  P.  II,  Nov.  10.  Dedica  a  Fran- 
cesco Torre. 


—  106  — 

Alessandro  Bentivoglio  e  sua  moglie  Ippolita 
vanno  in  villa  dai  Rò  al  BorgheUo  e  vi  stanno 
due  giorni  con  gran  comitiva.  «  Il  secondo  dì  dopo 
desinare,  essendo  il  caldo  grandissimo  (che  il  vento 
d'Austro  spirava)  si  ridusse  tutta  la  compagnia 
in  una  gran  sala  di  quei  Palazzi  che  vi  sono,  la 
quale  era  assai  fresca  e  guardava  sopra  un  molto 
grande  ed  ameno  giardino  con  pergolati  tanto 
lunghi,  che  sarebbero  bastanti  al  corso  d'ogni 
buon  cavallo.  In  quella  sala  chi  ragionava,  chi 
giuocava  a  tavoliero,  e  chi  a  scacchi,  chi  sonava, 
chi  cantava,  e  chi  faceva  ciò  che  più  gli  era  a 
grado  ».  Ippolita  chiama  a  sé  quattro  letterati, 
l'Araanio,  il  Cittadino,  il  Castellano  e  il  Bandello 
e  tenendo  in  mano  un  Vergilio,  al  sesto  deìV  Eneida, 
legge  alquanti  versi  e  propone  e  con  quei  quattro 
discute  dubbi  e  qnesiti  (').  È  la  società  del  Rina- 
scimento cólta  sul  vivo.  Pare  che  nulla  manchi  a 
questa  superfìcie  levigata,  elegante,  socievole,  a 
«juesta  intimità  bonaria,  in  cui  si  trovano  accomu- 


(')  Ibid.  P.  II,  Mov.  55.  Dedica  a  Margherita  Pia  San- 
severino. 


—  107  — 

nate  classi  diverse,  perchè  l'arte,  la  ricchezza,  le 
lettere,  l'organismo  dei  governi  signorili  segnano 
r  avvenimento  della  borghesia,  di  cui  1'  umanesimo 
è  già  stato  fin  dal  secolo  antecedente  uno  dei  prin- 
cipali fattori,  ed  è  cosi  che  si  è  composto  quello, 
che  il  Burckhardt  chiama  l'uditorio  dei  novella- 
tori del  Cinquecento. 

Ciò  che  divenga  in  questa  società  il  vecchio 
ideale  cavalleresco  dell'onore  e  dell'amore;  a  che 
mescolanze  e,  per  dir  meglio,  a  che  confusioni  dia 
luogo,  a  che  inaspettate  conclusioni  riesca,  è  im- 
portante conoscere  e  nulla  può  rivelarlo  meglio  di 
certe  novelle  del  Bandello.  Una  duchessa  di  Sa- 
voia s'innamora  per  fama  d'un  cavaliere  Spa- 
gtiuolo.  Per  poterlo  vedere  si  finge  malata,  d'  ac- 
cordo col  medico  di  corte,  e  guarita  per  un  falso 
miracolo  di  S.  Giacomo  di  Gallizia,  ottiene  dal 
marito  di  andare  in  pellegrinaggio  per  ringraziare 
il  santo.  L'amore  e  la  devozione  s'aiutano  e  tutto 
va  a  seconda,  finché  gli  amanti  sono  bruscamente 
separati;  la  Duchessa  di  nuovo  a  Torino;  il  Duca 
poco  di  poi  alla  guerra;  essa  reggente  ed  il  capo 
del  Consiglio  di  reggenza  perdutamente  invaghito 


—  108  — 

di  lei.  Essa  lo  respinge  ed  il  malvagio  per  ven- 
detta fa  trovare  il  proprio  nipote  nella  stanza  della 
Duchessa  e  di  sua  mano  lo  uccide,  a  fine  di  mo- 
strarsi zelante  dell'  onore  del  Duca  e  avvalorare 
l'accusa.  La  misera  donna  dovrà  esser  arsa  come 
adultera,  «  se  fra  un  anno  e  un  dì  non  ritrova 
campione  che  combatta  per  lei  ».  Sta  per  spirare 
il  termine  fatale  e  nessuno  s'è  presentato,  quan- 
d'  ecco  giungere  il  cavaliere  Spagnuolo.  Prima  di 
combattere  per  lei  vuol  però  da  uomo  prudente 
(le  donne!  non  si  sa  mai!...)  accertarsi  della  in- 
nocenza della  Duchessa  e  senza  che  essa  lo  rico- 
nosca, si  fìnge  frate  e  ascolta  la  sua  confessione. 
Fattone  certo,  combatte,  uccide  l' accusatore  e  la 
libera.  Scompare  ignoto,  e  la  Duchessa  non  crede 
a  tanta  fedeltà,  finché  rimasta  vedova  e  tornata  in 
Inghilterra,  di  cui  era  nativa,  il  bel  cavaliere 
viene  alla  corte  con  un  ambasceria  Spagnuola, 
tutto  si  scopre,  e  l' amore  ha  un  felice  fine  nel 
matrimonio  ('). 

E  impossibile,  parmi,  mescolare  maggiormente 

(')  Bandello,  Novelle.  P.  II,  Kov.  44. 


—  109  — 

tempi,  costumi  e  sentimenti  più  disparati:  ideali 
cavallereschi  più  che  medievali  e  più  che  ita- 
liani, e  circostanze,  accorgimenti,  ironie  più  spic- 
catamente cinquecentiste:  il  falso  miracolo,  la  falsa 
devozione  della  Duchessa,  la  sua  equivoca  virtù, 
la  scelleratezza  dell'accusatore,  il  cauto  eroismo 
del  cavaliere,  coli' innamoramento  per  fama  alla 
Giuffrè  Rudel,  col  pellegrinaggio  amoroso,  con  la 
lunga  fedeltà,  con  l'accusa  sventata  mercè  il  giudizio 
di  Dio,  manifestatosi  nella  punitrice  spada  del  pala- 
dino. L'ideale  cavalleresco  non  è  più  che  un  fron- 
zolo, un  ornamento  di  racconto;  il  resto  è  il  vero, 
e  odora  di  moralità  principesca  del  secolo  XVI,  di 
religione  all'  italiana,  di  ribellione  protestante,  che 
strappa  il  velo  a  tante  menzogne,  o  di  Concilio 
di  Trento,  che  ripara  almeno  agli  scandali  più 
prominenti. 

Peggio  è  nel  racconto  di  monsignor  Filiberto 
da  Virle,  che  per  amore  di  Madonna  Zilla  pro- 
mette star  muto  per  tre  anni.  Entrato  in  favore 
del  re  di  Francia,  questi  assegna  per  bando  una 
grossa  somma  a  chi  guarirà  Filiberto,  pena  la 
vita  a  chi  non   riesca.    L' andare    della   novella  è 


—  110 

cavalleresco;  la  donna  è  onesta  e  ritrosa;  il  cava- 
liere ardente  e  pronto  a  tutto  per  amor  di  lei.  Ma 
sarebbe  difficile  sciupacchiare  di  piiì  il  motivo 
poetico,  quando  in  ricompensa  di  tanto  sagrifìcio 
Madonna  Zilia  non  pensa  che  a  guadagnare  la 
grossa  somma  promessa  dal  re,  ed  il  concedersi 
ch'essa  fa  a  Filiberto  per  indurlo  a  parlare  è  un 
vii  mercato  non  punto  in  accordo  colla  ritrosia  di 
prima  e  col  bizzarro  esperimento,  ch'essa  esige. 
Ne  è  punita  bensì,  ma  e'  è  veramente  il  pendio 
morale  del  secolo  in  tale  racconto  e  l' ideale  ca- 
valleresco, che  malamente  svapora  (').  E  dove  fi- 
nisce questo  ideale  nella  novella  di  Don  Giovanni 
Emanuel?  Costui  per  amore  di  una  donna  am- 
mazza sette  mori  ed  entra  in  un  serraglio  di  leoni. 
Trattasi  qui  pure  d'una  donna  fantastica,  che  vuol 
mettere  a  dure  prove  l'amore  d'un  cavaliere, 
prima  imponendogli  di  recargli  la  testa  di  cinque 
mori  ed  egli  le  ne  reca  sette,  poi  di  riportarle  un 
guanto,  ad  arte  o  a  caso,  da  lei  lasciato  cadere 
nella  fossa  dei  leoni.  Il  fondo  della  novella  è  ca- 

(1)  Bandello.  Novelle.  P.  Ili,  Nov.  17. 


—  Ili  — 

valleresco,  se  non  che  alla  seconda  prova  Don  Gio- 
vanni riporta  bensì  il  guanto  alla  crudele,  ma  le 
assesta  in  pari  tempo  un  ceffone,  affinchè  ap- 
prenda a  non  rischiare  per  giuoco  la  preziosa 
vita  dei  cavalieri;  correzione  morale  giustissima, 
ma,  come  pedagogia  amorosa,  più  da  facchino,  che 
da  cavaliere  (^). 

Queste  mescolanze  sono  nei  costumi  del  tempo 
e  per  conseguenza  sono  nella  mente  del  novella- 
tore; mescolanze  e  in  pari  tempo  contrasti,  i  quali 
dall'  un  de'  lati  Io  fanno  ridere  dei  matrimoni  di- 
suguali e  per  dimostrare,  che  non  son  poi  un 
finimondo,  purché  la  sposa  abbia  ricca  dote,  ri- 
cordare i  matrimoni  di  Galeazzo  Calvo  Marescotto 
con  un'  ortolana,  d'  un  Borromeo  con  una  fornaia, 
del  Marchese  di  Saluzzo  con  una  contadina,  d'un 
Bevilacqua  con  una  sei'va  (^);  e  dall'altro  lato  gli 
fanno  dimostrare  nel  caso   delia    Contessa  di  Cel- 


(1)  Ibid.  P.  Ili,  Nov.  39.  Il  Landau  (Beitràge  zar  Ge- 
sfìhichte  der  italienischen  novelle)  ricorda  a  proposito 
di  questa  novella  la  liallata  dello  Schiller,  intitolata:  Der 
Handschuh. 

(2)  Ibid.  P.  Ili,  Nov.  GO.  Dedica  a  Lorenzo  Strozzi. 


112 


lant,  figlia  d'una  Greca  ardente  e  d'un  usuraio 
plebeo,  le  fatalità  dell'  atavismo,  il  quale  deve 
sconsigliare  un  gentiluomo  dall' ammogliarsi  con 
donna  d'altro  sangue  (^);  e  in  quello  della  du- 
chessa d'Amalfi,  che  sposa  il  suo  maggiordomo, 
l'offesa  al  casato  principesco,' vendicata  nel  san- 
gue dei  due  amanti  per  opera  dei  fratelli  della 
duchessa  ('). 

Questi  due  racconti  del  Bandello,  tragici  vera- 
mente, aprono  la  via  a  considerare  altre  contrad- 
dizioni del  tempo,  le  quali  appariscono  nel  suo 
novelliere.  Quanto  al  matrimonio,  ora  vedesi  1'  of- 
fesa alla  fedeltà  coniugale  essere  vendicata  colla 
pili  selvaggia  crudeltà  (^),  ora  vedesi  l' impulso 
della  sensualità  scusare  ogni  offesa  alla  fedeltà 
coniugale  e  fornire  anzi  il  tema  alle  più  allegre 
novelle.  L'  astuzia,  arma  dei  deboli,  in  tal  caso,  se 
usata  dalla  donna,  è  lodata  come  una  giusta  rap- 
presaglia. Ma  questa  del  resto  è  tradizione  di  tutti 

(')  Basdello,  Novelle.  P.  I,  Nov.  4.  Dedica  a  Isabella 
d'  Este,  marchesana  di  Mantova. 

(2)  Ibid.  P.  I,  Nov.  26. 

(3)  Ibid.  P.  II,  Nov,  12. 


113  — 

i  nostri  comici  e  novellatori  e  non  del  Cinque- 
cento soltanto.  A  proposilo  dei  quali  racconti  è 
da  notare  altresì  quanto  sia  lontano  dal  nostro  il 
concetto  che  della  vendetta  pubblica  e  privala 
s' aveva  ancora  nel  Rinascimento  (^),  del  che  il 
novelliere  del  Randello  offre  mollissimi  esempi, 
ma  basteranno  ormai  i  due  accennati  di  sopra, 
quello  della  contessa  di  Geliant,  la  quale,  per 
l'assassinio  dei  propri  ganzi  finisce,  dopo  un  pro- 
cesso, sul  patibolo  ('),  e  quello  degli  uccisori  della 
duchessa  d'  Amalfi  e  del  suo  amante,  i  quali  in- 
vece, a  vista  dello  stesso  Bandello,  (questa  novella 
è  una  delle  poche,  in  cui  mette  in  scena  sé  stesso 
sotto  il  pseudonimo  di  Delio)  a  vista,  dico,  dello 
stesso  Bandello  «  a  lor  beli'  agio  andarono  ove 
più  loro  parve  a  proposito,  non  ci  essendo  chi 
volesse  prendersi  cura  per  via  di  giustizia  di  cac- 
ciargli »  C). 

(1)  Cf.  Fekuai,  Loremino  de'  Medici  e  la    Società  corti- 
giana del  Cinquecento. 

(2)  Vedi  pure  la  INovella  33  della  P.  II. 

(3)  Di  dar  loro  la  caccia.  Novella  cit.  P.  I,  Nov.  20. 

Masi. 


I, 


CAPITOLO  VII. 


La  Novella  degli  AmaDti  Veneziani. 

Le  due  novelle  del  Bandello  clie  sono  dive- 
nute più  celebri  pei  rifacimenti  dello  Shakespeare 
e  del  Byron  sono  quelle  di  Giulietta  e  Romeo  e 
di  Ugo  e  Parisina.  Quest'ultima  il  Bandello  fa 
raccontare  da  Bianca  D'Este  Sanseverino,  nipote 
del  marchese  Niccolò  III  d'Este,  il  tremendo  ma- 
rito di  Paiisina,  mostrando  così  di  attingere  dalla 
tradizione  immediata  e  ancora  vivace  in  casa 
d'Este  (M.  Un  paragone  tra  le  due  narrazioni  del 
Bandello  e  del  Byron  non  è  possibile.  Le  altera- 
zioni del  grande  poeta  inglese  sono  di  ben  poco 
momento.  Egli  ricama,  si  può  dire,  sull'ordito 
della  novella    italiana;,  ma   chi  ricorda    quella  su- 

(')  Eandei.lo,  Novelle.  P.  I,  Nov.  44.  Vi.  Angelo  So- 
lerti. Op.  cit. 


—  116  — 

blime  creazione,  quella  descrizione  del  giardino, 
in  cui  Parisina  tremante,  convulsa,  s' inoltra  ai 
colloqui  d'amore;  quella  notte,  in  cui,  sognando, 
confessa  il  suo  delitto,  ed  il  marito  l'ascolta  e 
quasi  l'uccide  col  solo  fulminar  dello  sguardo, 
che  risplende  nel  buio  della  stanza  nuziale;  quel 
giudizio  solenne,  a  cui  essa  assiste  immota,  smar- 
rita e  cogli  occhi  aperti  e  fermi,  mentre  l'amante 
e  figliastro  s'atteggia  come  un  arcangelo  ribelle, 
scacciato  dal  suo  paradiso;  quel  tramonto  di  sole, 
che  vede  l' estremo  supplizio  di  Ugo,  e  Parisina 
condannata  ad  assistervi  da  una  finestra  del  pa- 
lazzo ducale,  donde  scoppia  un  grido  così  stra- 
ziante, che  chi  l'udì  pregò  Dio  fosse  l'ultimo  per 
il  cuore,  da  cui  era  uscito,  chi  ricorda,  ripeta, 
tutto  quel  piccolo  e  stupendo  dramma,  così  rapido, 
cosi  incalzante  e  così  pieno  di  dolore  e  d'amore, 
deve  convenire  che  non  v' è  possibilità  di  para- 
gone né  col  Bandello,  né  con  chicchessia. 

Comunque,  é  giusto  aggiungere  altresì  che  si 
tratta  nel  presente  caso  di  due  sentimenti  artistici 
affatto  opposti,  d'  uno  dei  quali  dà  piena  ragione 
la  poesia  romantica  byroniana,  e  dell'altro  il  na- 


117  — 

turalismo  prosaico  del  Bandello,  il  quale  ha  pure 
la  sua  grande  potenza  e  come  arte  in  sé  e  come 
suggestione  di  un'arte  diversa.  Una  differenza  so- 
stanziale sta  in  ciò,  che  nella  poesia  del  Byron 
tutta  l'energia  morale  della  passione  è  in  Ugo, 
mentre  nella  novella  del  Bandello  è  per  contrario 
in  Parisina.  Ma  dato  il  fondamento  comune  d'una 
passione  violenta,  che,  tanto  nel  Bandello  quanto 
nel  Byron,  trascina  matrigna  e  figliastro  al  delitto, 
nel  Byron  c'è  il  colpo  di  fulmine  romantico, 
l'amore  che  scoppia  spontaneo,  irresistibile,  reci- 
proco, e  a  cui  è  forza  cedere  come  a  un  destino; 
nel  Bandello  invece  c'è  la  prepotenza  dell'istinto, 
che  in  Parisina  cresce  a  poco  a  poco,  e  avvolge  e 
stringe  nelle  spire  infernali  della  seduzione  un 
giovanetto  sensibile,  a  cui  sottrae  via  via  ogni  li- 
bertà d'arbitrio  e  di  resistenza.  Scelga  ognuno 
quello  che  piìi  gli  piace  di  questi  due  svolgimenti 
d'  un  identico  soggetto.  A  me  basta  dire  che  nel 
Bandello  (e  non  credo  d'esagerare)  è  mirabilmente 
potente  la  gradazione,  per  cui  la  passione,  nata 
nella  donna,  invade  a  poco  a  poco  anche  l'uomo 
e  di  piccola  favilla  divampa  in  incendio  divoratore. 


—  118  — 

Più  largo  campo  a  questioni  di  varia  indole 
offre  la  novella  di  Giulietta  e  Romeo  (').  Le  sue 
origini  si  perdono  nella  notte  dei  tempi  ed  il 
Siinrok  ne  vede  le  prime  traccie  nei  tre  amori 
antichi  di  Ero  e  Leandro,  Piramo  e  Tisbe,  Tri- 
stano ed  Isotta  (^).  Rodolfo  Renier,  che  ne  rias- 
sunse le  vicende  nel  suo  bello  studio  su  Gaspare 
Visconti,  il  poeta  quattrocentista  degli  amori  di 
Paido  e  Darla  Q),  ricorda  che  questo  racconto  di 
due  amanti,  divisi  dal  destino  o  dall'  umana  cru- 
deltà, i  quali  dopo  una  lunga  serie  d'avventure 
soccombono  o  trionfano,  risale  al  romanzo  greco. 
La  morte  apparente  della  donna  per  infermità  na- 
turale 0  per  narcotico  si  diffonde  in  Occidente  per 
mezzo  della  leggenda  Salomonica  della  moglie  del 
savio  re,  fintasi  morta  per  fuggire  coli' amante. 
La  saga  Brettone  se  ne  impossessa  e  trovasi  già 
nel  CUges  di    Cristiano  di  Troyes   nel    secolo  XII. 

(')  IJaxdkllo,  Xovelle.  P.  II,  Nov.  9.  Dedica  a  Giro- 
lamo Fracastoro. 

(-)  SiMROK.  Die  qitellen  des  Shakespeare. 

p)  Archivio  storico  lombardo.  Serie  seconda,  voi.  HI, 
anno  188(3. 


—  119  — 

Passa  in  Italia,  forse  per  inflasso  normanno,  colla 
tradizione  riferita  dall'Alberti  sulle  rovine  di 
Luni  (')  (la  città  che  i  Normanni,  approdando, 
scambiarono  per  Roma:;  poscia  nel  secolo  XV  si 
elabora  sotto  nuova  forma  nella  novella  di  Ma- 
rioUo  e  Giannozza  di  Masiiccio  Salernitano  e  nel 
poemetto  di  Gaspare  Visconti,  donde  trasmigra, 
durante  il  secolo  XVI,  nella  Giulietta  e  Romeo  di 
Luigi  da  Porto  del  1524,  nella  Clizia  di  Gherardo 
Boldiero  del  1553  e  nella  novella  di  Matteo  Ban- 
dello,  scritta  forse  prima,  ma  divulgata  per  le 
stampe  nel  1554  coli' edizione  del  Busdrago. 

Questo  cenno  della  lunga  strada,  che  la  ma- 
teria prima  di  una  novella  ha  percorso  innanzi 
di  giungere  al  Bandello,  ho  riferito  per  una  al- 
meno delle  sue  novelle,  e  può  valere  per  molte 
altre,  ch'egli  non  inventa,  bensì  raccoglie  e  rifa 
dalla  tradizione  novellistica  popolare.  Ma  appunto 
perciò  non  so  spiegarmi  le  furie  del  Milan  e  del 
Todeschini,  due  critici  valenti,  i  quali  per  amore 
della  Giulietta  e  Romeo   del    Da    Porto,    se    la  pi- 

(')  Descrittioiie  di  tutta  Italia. 


—  120  — 

gliano  col  povero  Bandelle,  lo  trattano  di  plagiario 
maligno,  e  Io  colmano  di  letterarie  contumelie  ('). 
O  che  cosa  entra  qui  il  plagio?  Se  a  così  breve 
distanza  di  tempo  tanti  ripigliano  a  tratiare  lo 
stesso  argomento,  ciò  non  altro  significa,  come  ha 
notato  bene  Giuseppe  Chiarini  nel  suo  dotto  la- 
voro sulla  tragedia  dello  Shakespeare,  se  non  che 
nel  secolo  XVI  la  storia  di  Giulietta  e  Romeo 
era  diffusissima  in  Italia,  e  che  i  primi  a  trat- 
tarla letterariamente  furono  gli  Italiani  (-).  Ci  si 
provarono  in  molti,  e  poiché  il  Da  Porto,  e  il 
Randello  erano  non  solo  contemporanei,  ma  amici, 
e  una  novella  del  Randello  è  dedicata  appunto  a 
Luigi  Da  Porto  (^),  un'altra  a  Gherardo  Roldiero  ("), 

(1)  Lettere  storiche  di  Luigi  Da  Porto  e  la  novella  di 
Giulietta  e  Romeo  a  cura  di  B.  Bressan,  premessevi  le  no- 
tizie su  Luigi  da  Porto  di  Giacomo  Milan  e  seguite  da 
due  lettere  critiche  del  prof.  G.  Todeschini.  Firenze, 
Le  Monnier,  1857. 

(')  Chiarini,  Rotiieo  e  Giulietta  in  Xuova  Antologia. 
Serie  III,  voi   X.  1887. 

(3)  La  novella  23  della  parte  III. 

(i)  La  novella  11  della  parte  II.  Nella  dedica  della 
Giulietta  e  Komeo  al  Fracastoro  nomina  un  altro  Bol- 
diero. 


121  — 

e  questi  nel  novelliere  del  Bandelle  è  narratore 
d' una  terza  novella  ('),  la  quale  non  è  se  non  | 
un  altro  aspello  della  medesima  leggenda  (circo- 
stanze, che  né  il  Milan,  uè  il  Todeschini,  nò  altri, 
ch'io  sappia,  hanno  osservato)  cosi  è  evidente 
trattarsi  qui  d'una  specie  di  gara  letteraria  sullo 
slesso  tenia,  e  non  già  di  plagio. 

Non  so  a  chi  spetti  la  palma,  ma  in  favore  del 
Bandelle  sta  il  fatto  che  la  tragedia  dello  Sha- 
kespeare è  più  prossima  alla  sua  novella  che  ad 
ogni  altra  delle  tante  fonti  italiane,  francesi  ed 
inglesi,  adoprale  forse  dallo  Shakespeare,  con  la 
diversità  che,  mentre  nell'opera  del  grandissimo 
poeta  tutto  è  idealità  e  alata  poesia,  nella  no- 
vella del  Bandello  tutto  è  naturalezza  prosaica, 
e  lo  stesso  romanzesco  di  quelle  strane  avventure 
diventa,  come  nell'Ariosto,  una  realtà,  benché 
con  una  tinta  romantica  ed  uno  svolgimento  di 
particolari,  che  la  novella  non  aveva  mai  avuto 
prima  del  Bandello.  Ma  non  basta.  Il  Bandello, 
ripeto,    prende    un    altro    aspetto   della    leggenda 

(1)   Bani^ello,  Novelle.  P.  II,  Nov.  41. 


122 


(tanto  la  studiava  e  n'aveva  occupata  la  fantasia), 
prende  quello  cioè  che  variamente  apparisce  nella 
Catalina  Gaccianemico  del  Boccaccio  (^)  e  nella 
storia  popolare  di  Ginevra  degli  Almieri,  la  donna 
maritata  contro  sua  voglia,  colpita  di  morte  ap- 
parente il  giorno  stesso  della  cerimonia  nuziale  e 
dalla  spaventosa  solitudine  del  sepolcro  risveglia- 
tasi nelle  braccia  dell'amante.  E  la  novella  degli 
amanti  Veneziani,  Elena  e  Gerardo,  in  cui  al  ro- 
manzesco delle  avventure,  alla  sentimentalità,  alla 
veritcà  dei  contrasti  drammatici  si  aggiunge  il  pit- 
toresco dei  luoghi,  Venezia,  i  suoi  palazzi,  le  sue 
chiese,  i  ponti,  i  canali,  il  suo  orizzonte  di  laguna 
e  di  mare,  la  nave  di  Gerardo,  che  dopo  sei  mesi 
di  viaggio  rientra  in  porto,  mentre  annotta,  e  di 
lontano  vedonsi  le  faci  del  funerale  di  Elena, 
portata  al  sepolcro,  tutto  un  insieme,  che  il  Ban- 
dello  sente,  pii!i  che  non  sappia  esprimere,  per 
un  inconsciente  presentimento,  romantico  e  na- 
turalista ad  un  tempo,  che  lo  i-ende  moderno  fra 
gli  antichi. 

(')  Decamerone,  Giorn.  X.  Nov.  4. 


—  123  — 

Qiiesla  novella  degli  Amanti  Veneziani  però 
nonostante  le  parti  potenti  veramente  originali, 
che  la  distinguono  non  solo  fra  le  novelle  in  ge- 
nere, ma  fra  quelle  del  Randello  in  particolare, 
ha  altresì  un  che  di  non  finito,  e  certi  vuoti  e 
certe  inconseguenze  e  contraddizioni,  e  nell'  in- 
sieme un'aria  d'abbozzo,  che  sempre  più  mi  con- 
fermano codesto  trattare  e  ritrattare  sotto  aspetti 
diversi  il  tema  di  GiidicUa  e  Romeo  essere  stata 
una  specie,  come  dissi,  di  gara  letteraria  fra'  no- 
vellatori contemporanei. 

Checché  sia  dì  ciò,  lo  studio  del  leale  e  del 
vero  è  già  persino  nel  colorito  storico,  che,  sino 
da  bel  principio  il  Bandello  pretende  di  dare  al 
suo  racconto. 

«  Nell'inclita  città  di  Venezia,  scriv' esso,  si 
trovarono  due  gentiluomini  (come  per  i  pub- 
blici documenti  del  severo  Magistrato  degli  Av- 
vocatori  del  Comune  fin  oggidì  si  può  vedere)  i 
quali,  dei  beni  della  fortuna  abbondevoli,  avevano 
i  loro  palazzi  sovra  il  Canale  t^rande,  quasi  di- 
rimpetto all' uno  l'altro.  Il  padrone  dell'uno  si 
chiamava  Mes.    Paolo,  il  quale   aveva   moglie  con 


—  124  — 

una  figliuola  ed  un  figliuolo  senza  più,  che  Ge- 
rardo era  detto.  L'  altro  gentiluomo  era  chiamalo 
Mes:  Pietro,  che  d'una  sua  moglie  altri  figliuoli 
non  si  trovava,  eccetto  una  sola  fanciulla  di  tre- 
dici in  quattordici  anni  (  il  cui  nome  fu  Elena  ) 
che  fuor  d'ogni  credenza  era  bellissima,  e  ogni 
dì  crescendo  in  età,  mirabilissimamente  le  sue 
native  bellezze  accresceva.  » 

Gerardo,  giovinotto  di  circa  vent'  anni,  che 
stava  suir  amorosa  vita,  teneva  allora  certa  pra- 
tica galante,  per  cui  «  quasi  ogni  dì  con  il  suo 
fante  montava  in  gondola  e  passava  il  canale,  en- 
trando in  un  canal  piccolo,  che  radeva  la  casa  del 
padre  d' Elena,  e  sotto  le  finestre  d'  essa  casa  se 
ne  passava,  facendo  il  suo  solito  viaggio.  »  In 
questa  muore  la  madre  di  Elena  e  dopo  alcun 
tempo  il  padre  di  lei,  Mes:  Pietro,  impensierito 
della  trista  solitudine,  in  cui  era  rimasta  la  fan- 
ciulla, prega  un  altro  gentiluomo,  che  abitava  vi- 
cino e  avea  quattro  vispe  e  allegre  figliuole  a 
consentire  che  le  domeniche  venissero  a  far  com- 
pagnia alla  sua.  «  Facevano  le  cinque  giovanette, 
quando  erano  insieme,  di  molti   giuochi  convene- 


—  125  — 

voli  al  sesso  e  all'età  loro;  e  tra  gli  altri  giuoca- 
vano  alla  forfelta,  che  intendo  che  era  un  giuoco 
di  palla  che  si  gettavano  1' una  all'altra;  e  chi  la 
lasciava  cader  in  terra  senza  poterla  nell'aria  pi- 
gliare, quella  s'intendeva  aveva  fatto  fallo  e  per- 
nialo il  giuoco.  Erano  le  quattro  sorelle  d'età  di 
diciasette  in  venti  o  ventun  anno,  e  tutte  erano 
d'alcun  giovine  innamorate,  onde  sovente  nel 
giuocar  della  forfetta,  ora  1'  una  ora  l'altra  e  spesso 
tre,  e  tutte  insieme  correvano  ai  balconi  per  veder 
gli  innamorati  loro  ed  altri  che  in  gondola  per  lo 
c.inale  passavano.  Il  che  ad  Elena,  che  semplicis- 
sima era,  né  ancor  provato  aveva  le  fiamme  amo- 
rose, non  mezzanamente  dispiaceva  e  forte  se  ne, 
turbava,  ritirandole  per  le  vestimenta  al  giuoco 
usato.  Elle,  a  cui  molto  più  di  gioia  recava  la 
vista  degli  amanti  loro  che  la  palla,  poco  d' Elena 
curandosi,  stavano  ferme  alle  finestre;  e  talora 
fiori  od  altre  simili  cosette,  secondo  la  stagione, 
gettavano  agli  innamorati  loro,  quando  passavano 
per  di  sotto  ai  balconi.  Avvenne  che  una  festa 
una  delle  quattro  sorelle,  molestata  da  Elena,  per- 
chè non  si  voleva  levar  dal  balcone,  così  le  disse: 


126 


Elena,  se  tu  gustassi  parie  di  questo  nostro  pia- 
cere, che  noi  gustiamo  a  trastullarci  qui  a  queste 
finestre,  alla  croce  di  Dio!  tu  ci  dimoreresti  così 
volentieri  come  vi  stiamo  noi  e  punto  non  ti  cu- 
reresti della  forfetta;  ma  tu  sei  una  semplice  gar- 
zona  e  non  t' intendi  ancora  di  questa  mercanzi?. 
Elena,  non  mettendo  mente  a  parole  che  se  le 
dicessero,  attendeva  pure  a  chiamarle  al  giuoco, 
e  fanciullescamente  molestarle.  Venne  una  festa, 
nel  cui  giorno,  impedite  per  altre  cagioni,  le  quat- 
tro sorelle  non  poterono  venire,  a  diportarsi  con 
Elena.  Del  che  ella  rimasa  trista  e  malinconica 
s'affacciò  ad  una  delle  finestre,  che  era  dirim- 
petto alla  casa  delle  compagne  sovi-a  il  canaletto. 
Quivi  se  ne  stava  tutta  sola  e  dolente  di  non  tro- 
varsi colle  sue  compagne,  com'era  a  quei  tempi 
consueta.  Or  ecco  che  dimorando  la  semplice  fan- 
ciulla di  tal  maniera,  avvenne  che  Gerardo  con 
la  sua  barchetta  passando,  vide  la  fanciulla  alla 
finestra  e  la  guardò  £Osì_a  caso.  Ella,  ciò  veg- 
gendo,  a  quello  si  volse  e  con  allegro  viso,  come 
alle  sue  compagne  più  volte  aveva  veduto  fare 
a' lor  innamorati,  cominciò    a   guardarlo.   Del  che 


—  127 

Gerardo  meravigliatosi  (che  forse  mai  più  a  quella 
non  aveva  posto  mente,  o  non  veduta)  amoro- 
samente guardava  lei;  ed  ella,  pensando  che  così 
fare  fosse  un  giuoco,  quasi  ridendo  riguardava 
lui.  Passò  via  di  lungo  Gerardo,  al  quale,  non 
molto  andato  innanzi,  disse  il  fante  della  barca: 
caro  padrone,  avete  voi  mirala  quella  bella  gio- 
vanelta,  e  postole  fantasia  come  con  lieti  sem- 
bianti e  cortesi  accoglienze  attentamente  vi  vagheg- 
giava?.... Finse  Gerardo  non  le  non  aver  avuto 
considerazione  e  disse  al  fante:  io  vo' veder  chi 
è  costei ....  volta  la  gondola  indietro  e  va  pian 
piano  radendo  quasi  la  casa.  Non  s'  era  Elena  levata 
dal  balcone,  ove  il  giovine  la  vide,  il  quale  na- 
vigando soavemente  con  la  sua  barca  scoperta, 
come  ei  vide  la  bella  Elena,  così  con  lieto  viso 
cominciò  a  riguardarla. 

....  Ella,  che  allora  si  trovava  un  bel  garo- 
fano fiorito  all'orecchio,  quello  levatosi,  come  la 
gondola  fu  sotto  il  balcone,  lievemente  il  bello  ed 
odorifero  fiore,  più  vicino  al  giovine  che  potè, 
lasciò  venir  giù.  Gerardo,  oltra  modo  lieto  di  così 
fatto  avvenimento,    pigliato  il  vago    fiore,   ed   alla 


—  128  — 

giovane  fatta  condecevole  riverenza,  esso  fiore 
più  e  più  volte  allegramente  baciò.  L' odore  del 
vago  fiore  e  la  bellezza  di  Elena  in  così  forte 
punto  entrarono  nel  cuore  del  giovine,  che  ogni 
altro  ardore  che  in  quello  ardesse,  in  un  tratto 
si  smorzò,  e  con  tanta  forza  le  fiamme  della  bella 
Elena  l'accesero,  che  mai  più  non  fu  possibile, 
non  dico  ad  estinguerle,  ma  pure  in  minima  parte 
a  scemarle,  onde  Gerardo  ....  di  sé  stesso  intie- 
ramente alla  vaga  fanciulla  fece  dono.  Ma  ella, 
che  semplicissima  era,  ed  ancora  il  petto  agli 
strali  amorosi  aperto  non  aveva,  quando  Gerardo 
dinanzi  alle  finestre  di  lei  passava,  ancor  che  vo- 
lentieri lo  vedesse,  né  più  né  meno  lo  guardava, 
come  se  il.  mirarsi  insieme  fosse  stato  un  giuoco. 
Frequentava  ogni  dì,  e  quattro  e  sei  volte  il  giorno, 
l'innamorato  giovine  quel  cammino,  né  mai  gli 
veniva  fatto  di  veder  Elena^  se  non  il  dì  della 
jfesta,  perciocché  la  fanciulla,  non  essendo  ancora 
in  lei  destato  amore,  riputava  i  giorni  del  lavo- 
rare non  esser  convenevoli  al  suo  giuoco.  Gerardo, 
che  ardentissimamente  amava,  viveva  in  pessima 
contentezza,  non  ritrovando    via    di   veder  la   sua 


—  129  — 

innamorata  e  meno  di  poterle  con  parole  o  lettere 
manifestar  il  suo  amore:  e  così  ardendo  e  strug- 
gendosi senza  prò,  quando  la  festa  la  vedeva, 
con  quei  migliori  atti  che  poteva  s' ingegnava  di 
scoprirle  quelle  fiamme  che  sì  acerbamente  lo 
struggevano;  ma  ella  poco  di  simili  atti  intendeva. 
Non  di  meno,  a  lungo  andare,  sentiva  nel  cuore 
piacere  non  piccolo,  veggendo  Gerardo,  ed  avria 
voluto  che  egli  venti  volte  l' ora  si  fosse  lasciato 
vedere,  ma  il  di  della  festa  solamente.  Per  que- 
sto, per  non  esser  nei  giorni  festivi  dalle  compa- 
gne disturbata,  e  più  contentandosi  della  vista  di 
Gerardo,  che  del  giuoco  delle  forfette,  cominciò 
or  con  una  scusa,  or  con  altra  a  distorsi  dalla 
compagnia  delle  quattro  sorelle.  Essendo  la  cosa 
in  questi  termini,  avvenne  che  un  dì,  andando 
lo  sconsolato  amante  a  pie  per  la  via  di  terra,  o 
fondamento,  come  a  Venezia  dir  si  costuma,  vide 
la  balia  d' Elena,  che  prima  era  stata  balia  di  lui, 
voler  entrare  in  casa  d' essa  Elena,  e  picchiar 
alla  porta.  Egli,  alquanto  lontano  da  lei,  la  co- 
minciò a  domandare:  balia,  balia;  ma  per  il  pic- 
chiar che  ella  all'uscio  faceva,  nulla  del  chiamare 

Masi.  9 


130  — 

del  giovine  sentiva,  onde  essendo  aperta  la  porta, 
ella  entrò  dentro.  S'affrettava  il  giovine  pur  di 
giunger  la  balia  prima  che  entrasse  in  casa,  e  la 
chiamava  tuttavia.  Ella,  volendo  chiuder  la  porta, 
voltatasi  indietro,  vide  Gerardo,  che  tanto  non 
s'era  saputo  studiare  di  menar  i  piedi,  che  fosse 
giunto  sì  tosto  com' ella  fatto  aveva,  il  perchè  ri- 
tenutasi di  serrar  la  porta,  attese  il  giovine,  il 
quale  subito  vi  giunse.  Come  egli  fu  sul  soglio 
della  porta,  e  quivi  nel  cortile  scorse  Elena,  che 
per  alcuni  servizi  era  scesa  abbasso,  o  fosse  la 
soverchia  allegrezza  che  ebbe  di  vedersele  vicino, 
0  per  isvenimento  che  gli  occupasse  il  cuore,  o 
che  che  se  ne  fosse  la  cagione,  di  tal  maniera 
^veline  e  andò  in  angoscia,  che  tramortito  cadde 
in  terra,  e  così  in  faccia  divenne  pallido,  che  pro- 
prio rassembrava  un  corpo  morto.  A  questo  sì 
insperato  ed  orrido  spettacolo  la  balia  ed  Elena 
smarrite  ed  una  fante  che  con  Elena  era  in  corte, 
cominciarono  piangendo  a  chieder  aita.  Elena, 
tratta  da  non  so  che,  se  gli  gitlò  piangente  ad- 
dosso, ma  la  prudente  balia  tantosto  la  fece  levar 
via   ed    a  mezza  scala  entrar  in  una  camera:  poi, 


—  131  — 

postasi  attorno  a  Gerardo,  e  dimenandolo  e  stro- 
picciandolo, il  chiamava  per  nome,  e  veggendo 
che  nnlla  rispondeva,  dalla  fantesca  aitata,  lo  tirò 
dentro  e  chiuse  l'uscio.  Amava  la  balia  lo  svenuto 
giovine,  come  quella  che  del  proprio  latte  nudrito 
l'aveva  e  per  1'  occorso  caso  sentiva  dolore  mesti- 
mabile:  per  questo  dirottamente  piangeva.  Mes: 
Pietro  che  in  casa  era,  ed  altri  della  famiglia, 
udito  il  sospiroso  pianto  della  dolente  balia,  cor- 
sero giù.  Volle  Mes:  Pietro  intender  che  acci- 
dente fosse  stato  questo,  a  cui  la  balia  puntual- 
mente il  tutto  narrò.  Egli,  che  cortese  e  pietoso 
gentiluomo  era,  fece  soavemente  levare  il  giovane 
e  portar  di  sopra,  ponendolo  sovra  un  ricco  letto: 
ove  usata  ogni  paterna  cura  in  aita  di  quello,  e 
veggendo  che  rimedio  nessuno  non  giovava,  de- 
liberò farlo  condurre  in  casa  di  Mes:  Paolo,  padre 
del  giovine;  e  postolo  in  gondola  e  fatto  passar  il 
canale,  mandò  un  discreto  messo  insieme  con  la 
balia  ad  accompagnare  Gerardo  ed  al  padre  di  lui 
far  intender  il  caso  come  era  occorso.  Mes:  Paolo, 
inteso  l'incidente  e  veduto  il  figliuolo,  che  morto 
pareva,  quasi  che  vinto  dall'estremo  dolore,   poco 


132 


mancò  ch'egli  anche  non  isvenisse.  Ma  qaai  fos- 
sero le  lagrime,  che  sparse,  e  i  pietosi  lamenti 
che  fece,  pensilo  ciascuno  che  un  carissimo  fi- 
gliuolo si  vedesse  a  quel  modo  innanzi  ;  che  an- 
cora che  egli  avesse  una  figliuola  già  maritata, 
non  di  meno  egli  riputava  Gerardo  unico  figliuolo 
e  quello  sommamente  amava.  Con  pianti  adunque 
del  padre,  della  madre  e  di  tutti  quei  di  casa  fu 
l'afflitto  giovine  portato  nella  sua  camera  e  cori- 
cato nel  letto.  Quivi  venuti  alcuni  medici  e  uno 
speziale  ben  pratico,  attesero  con  ogni  diligenza 
con  vari  argomenti  a  rivocar  gli  smarriti  spiriti 
vitali  che  il  giovine  abbandonar  cercavano.  Così 
dopo  molte  fatiche  tanto  fecero,  che  Gerardo  co- 
minciò a  respirare  e  a  poco  a  poco  a  riaversi,  e 
come  potè  la  lingua  snodare,  così  balbettando,  di- 
ceva: balia,  balia.  Ella  che  quivi  era,  gli  rispon- 
deva: flgliuol  mio,  io  son  qui:  che  vuoi?  Il  gio- 
vine, che  in  sé  ancora  in  tutto  rinvenuto  non  era, 
e  nella  immaginazione  aveva  che  dietro  alla  balia 
era  corso,  e  credeva  forse  esser  nel  medesimo 
termine,  tuttavia  la  balia  chiamava,  ma  tornato 
in  sé  e  veduto  dove  era  e  che  padre  e  madre  e 


133 


la  sorella  col  rnarilo,  che  siali  erano  chiamali,  ed 
allri  purenli  ed  amici  il  letto  atlorniavano,  né  sa- 
pendo per  qual  cagione  (come  colui  che  non  si 
ricordava  del  caso  occorso)  ebbe  pure  tanto  di 
conoscimento  che  vide  non  esser  quel  luogo  atto 
a  parlar  con  la  balia  di  quanto  desiderava  sco- 
prirle. Per  questo  in  altri  parlari  entrando  e  di- 
cendo che  più  alcun  male  uè  fastidio  noi  mole- 
stava, empì  tutti  i  suoi  d' incredibil  piacere.  E  do- 
mandalo dal  padre  e  da'  medici  che  cosa  fosse 
stata  quello  che  di  quel  modo  l' aveva  afQitto  e 
fuor  di  sé  cavato,  rispondeva  noi  sapere.  » 

Potè  confidarsi  fìnaliiienle  da  solo  a  solo  alla 
balia,  iuìplorandola  mediatrice  ai  suoi  amori.  Ma 
quale  delle  cinque  giovinette,  da  lui  viste  la  do- 
menica al  balcone  della  casa  di  Mes:  Pietro,  era 
l'amata  da  lui?  Stabilirono  pertanto  colla  balia 
d'accertarsene  la  domenica  seguente.  Ma  a  farlo 
apposta  in  quella  domenica  Elena  con  un  prelesto 
si  scusò  colle  amiche  e  volle  esser  sola.  Temeva 
quindi  la  balia,  che  di  tutte  sospettava  fuor  che 
di  lei,  di  non  poter  scoprire  l' arcano,  ma  Elena 
si  scoperse   da   sé,   che,   appena  vista  spuntare  la 


134  — 

gondola  di  Gerardo,  «  tuLla  s'  allegrò  e  con  certi 
atti  fanciulleschi  pareva  quasi  che  con  lui  della 
recuperata  sanità  si  volesse  rallegrare.  Aveva  ella 
in  mano  un  mazzetto  di  fiori,  e  quello,  nel  pas- 
sarle di  sotto  la  gondola,  con  lieto  riso  al  giovine 
gittò.  Parve  alla  balia,  veduto  qfiest'  atto,  d'  esser 
chiara  che  l' innamorata  di  Gerardo  senza  dubbio 
fosse  Elena:  il  perchè  conoscendo  il  parentado  tra 
lor  due  potersi  molto  onorevolmente  fare,  quando 
fossero  d'animo  di  maritarsi,  subito  entrò  nella 
camera  d' Elena,  che  ancora  se  ne  stava  alla  fì-r 
neslra  vagheggiando  il  suo  amante,  e  le  disse: 
dimmi,  figliuola,  che  cosa  è  quella  che  io  t'  ho 
veduta  fare?  Che  hai  tu  da  partire  con  il  giovine, 
che  ora  è  passato  per  il  canale?  Oh  bella  ed 
onesta  figliuola,  a  star  tutto  il  dì  alle  finestre  e 
gittar  mazzi  di  fiori  a  chi  va  e  chi  viene!  Mi- 
sera te,  se  tuo  padre  lo  risapesse  già  mai  !  io  ti 
ho  a  dire  che  ti  concerebbe  di  maniera,  che  avresti 
invidia  ai  morti.  La  giovine,  per  questa  agra  ri- 
prensione quasi  fuor  di  sé  stessa,  non  sapeva  né 
ardiva  di  far  motto;  tuttavia  veggendo  in  viso  la 
balia,   ancor  che  agramente  garrita  l'avesse,  non 


— .  135  — 

esser  perciò  adirata,  buttatele  le  braccia  al  collo, 
e  quella  fanciullescamente  baciata,  con  parole  soa- 
vissime cosi  le  disse:  Nena,  (che  così  i  Veneziani 
chiamano  le  nutrici)  madre  mia  dolcissima,  io  vi 
chiedo  umilmente  perdono,  se  nel  giuoco  che  ora 
Veduto  m'avete  giocare,  io  abbia  fatto,  che  noi 
credo,  errore.  Ma  se  desiderate  che  io  allegra  me 
ne  viva,  vi  piaccia  un  poco  udir  la  mia  ragione, 
e  di  poi,  se  vi  parrà  che  io  giocando  abbia  fallilo, 
datemene  quel  castigo  che  più  vi  pare  convene- 
vole. Sapete  che  Mes.  mio  padre  faceva  venire  le 
feste  qui  in  casa  le  quattro  sorelle,  che  qui  di- 
rimpetto albergano,  acciò  che  di  brigata  giocando 
insieme  ci  trastullassimo.  Elle  poi  primieramente 
m'insegnarono  il  giuoco  della  forfetta:  poi  mi 
dissero  che  assai  piìi  dilettevol  giuoco  era  andar 
alle  finestre,  e  quando  i  giovini  passano  per  ca- 
nale in  gondola,  trarli  rose,  fiori,  garofani  e  altre 
simili  cosette,  e  a  questo  modo  giocare  con  esso 
loro:  il  che  assai  mi  piacque,  e  tra  gli  altri, 
con  cui  elessi  di  giocare  fu  il  giovine,  con  il 
quale  voi  mi  vedeste  giocare,  lo  per  me  vorrei 
che  ci  passasse  spesso;   sì   che   io  non   so   perchè 


—  136  — 

di  cotal  giuoco  vogliate  ripigliarmi:  tuttavia  se 
c'è  errore,  io  me  ne  asterrò.  Non  potè  con- 
tener il  riso  la  balia,  udendo  quanto  semplice- 
mente e  senza  alcuna  malizia,  la  fanciulla  parlasse 
e  si  deliberò  di  condurre  la  cominciata  impresa^ 
da  scherzo  ad  ottimo  fine;  onde  ad  Elena  in 
questa  maniera  rispose:  carissima  mia  figliuola, 
io  vo' che  tu  sappia,  come  io  del  mio  latte  ho 
lattato  il  giovine  che  ora  è  passato,  e  che  Gerardo 
si  chiama,  il  quale  è  figliuolo  di  Mes:  Paolo,  che 
dall'  altra  banda  del  Canal  grande  ha  il  suo  bello 
ed  agiato  palazzo,  e  dimorai  in  casa  sua  più  di 
due  anni:  per  questo  io  l'amo  come  figliuolo,  e 
sempre  sono  stata  domestica  di  casa  sua,  e  da 
tutti  ben  vista  ed  accarrezzata.  E  perciò  io  non 
meno  desidero  il  bene,  onore  ed  util  suo,  che  io 
mi  faccia  il  mio  proprio:  siccome  anco  desidero 
ogni  tua  contentezza,  e  tanto  per  te  e  per  lui  sem- 
pre m' affaticherei,  quanto  per  persona,  che  oggidì 
conosca.  E  su  questo  ragionamento  la  balia  in 
modo  si  distese,  che  alla  fanciulla  fece  conoscer 
gli  inganni  che  sotto  quel  giuoco  amoroso  si  na 
scendevano,  e  quante  vohe    le  semplici  giovinette 


—  137  — 

ed  altre  donne  restano  dagli  uomini  gabbate.  Fé-  i 
cela  anco  capace,  quanto  ciascuna  donna  di  qua-  I 
lunque  grado  si  sia,  debba  stimar  l' onorale  quello 
con  ogni  diligentissima  cura  conservare.  Ultima-/ 
mente  le  disse,  quando  l'ebbe  altre  cose  assai  di- 
mostrate, per  venir  all'intento  suo,  se  ella  volesse 
con  onesto  modo  terminar  questo  suo  giuoco  amo- 
roso, poiché  giuoco  Io  nomava,  che  le  dava  il 
cuore  di  far  sì  fattamente,  che  ella  diverrebbe 
sposa  del  suo  Gerardo.  La  giovane,  ancor  che  sem- 
plice e  pura  fosse,  non  di  meno,  essendo  di  buona 
natura,  comprese  intieramente  tutto  ciò  che  la 
balia  le  disse;  e  destatosi  in  lei  l'amore  che  a 
Gerardo  portava,  e  preso  vigore,  rispose  alla  balia 
che  era  contenta  prender  quello  per  suo  marito, 
piuttosto  che  qualunque  altro  gentiluomo  che  in 
Venezia  si  fosse.  » 

Recata  al  giovine  dalla  balia  questa  risposta,  i 
anch'esso  si  dichiara  arcicontento  di  sposar  Elena 
e  colla  compiacente  balia  s'accorda  di  veder  Elena 
e  maritarsi  in  segreto.  Il  perchè  di  tutto  questo 
mjstero  non  ò  detto,  e  non  se  ne  vede  alcun  altro, 
se  non  quello  di  non  perder  tempo    in    formalità. 


—  138  -^ 

Aspettano  quindi  che  Mes:  Pietro,  il  padre  di 
Elena,  sia  in  Consiglio  dei  Pregadi:  allontanano  con 
pretesti  serve  e  famigliari  e  dopo  qualche  ingenuo 
vezzeggiamento  fra  i  due  amanti:  «  eccovi,  esclama 
la  sagace  balia  (come  la  chiama  il  Randello), 
eccovi  qui  al  capo  di  questo  letto  l' immagine  rap- 
presentante la  Gloriosa  Regina  del  Cielo  con  la 
figura  del  suo  figliuolo  nostro  salvatore  in  braccio. 
I  quali  io  prego,  e  voi  altresì  pregar  dovete,  che 
al  matrimonio,  che  insieme  siete,  per  parole  di 
presente,  per  contraere,  diano  buon  principio,  mi- 
glior mezzo  ed  ottimo  fine.  »  Detto  questo,  la  buona 
balia  disse  le  belle  parole,  che  in  simili  sposalizi, 
secondo  la  lodata  consuetudine  della  cattolica  Ro- 
mana Chiesa,  dir  si  sogliono  comunemente:  e 
cosi  Gerardo  alla  sua  cara  Elena  diede  l'anello.  » 
Tuttociò,  se,  quanto  a  regolarità  di  sposalizio 
lascia  non  poco  da  desiderare,  è  di  una  naturalezza 
e  di  una  semplicità  stupefacente,  e  quello  che  nella 
novella  tien  dietro  a  tale  cerimonia,  è  ancora,  se 
possibile,  pila  semplice  e  più  naturale.  La  vita  dei 
due  amanti  e  sposi  passò  così  per  alcun  tempo 
in    una   contentezza   senza   pari    ma   «   la    noiosa 


—  139  — 

fortuna  che  troppo  in  un  tranquillo  stalo  persona 
alcuna,  e  massimamente  gli  amanti, .  non  lascia 
giammai,  nuovo  disturbo  e  impedimento  a  Ge- 
rardo ed  Elena  apparecchiò;  acciò  che,  se  circa 
due  anni  erano  felicissimamente  insieme  vissuti, 
cominciassero  un  poco  a  gustar  l'amarissimo  fele 
della  disavventure,  che  ella  nel  più  bello  della  vita, 
quanto  quella  più  dolce  si  vive,  tanto  più  volen- 
tieri suole  repentinamente  mescolare.  Era  in  Ve- 
nezia consuetudine  ordinaria  che  ogni  anno  i  si- 
gnori Veneziani,  volendo  mandare  alquante  galee 
a  Baruti,  quelle  con  pubbliche  grida  facevaao  ban- 
dire, acciò  che  coloro  che  avevano  piacere  di  far 
cotal  viaggio,  con  ceno  pagamento  che  face\ano 
alla  Repubblica,  ne  potessero  prender  una  che 
più  piacesse  loro.  Mes.  Paolo,  padre  di  Gerardo,  de- 
sideroso, come  generalmente  i  buoni  padri  sono, 
che  il  figliuolo  suo  cominciasse  avvezzarsi  ai  traf- 
fichi della  mercanzia,  e  si  facesse  pratico  nei  ma- 
neggi della  città,  accordatosi  del  prezzo,  a  nome 
di  Gerardo,  senza  avergliene  fatto  motto,  ne  prese 
una.  Si  ritrovava  Mes:  Paolo  in  casa  buona  quan- 
tità di  robe  per  Baruti,  e  quella  voleva  che  il  fi- 


140  — 

gliiiolo  colà  conducesse,  ed  altra  rnercadanzia  re- 
casse per  Venezia,  pensando  con  questo  non  poco 
accrescer  le  sue  facoltà  e  poi  dar  moglie  al  fi- 
gliuolo, e  lasciata  ogni  cura  a  quello  delle  cose 
famigliari,  egli  solamente  attender  ai  maneggi 
della  Signoria.  Ora  avendo,  del  modo  che  s' è 
detto,  accordata  la  galea,  venne  Mes:  Paolo  a 
casa;  e  desinalo  che  si  fu,  essendo  levate  le  ta- 
vole, e  rimasi  soli  il  padre  ed  il  figliuolo,  dopo 
alcuni  ragionamenti  così  disse  Mes:  Paolo:  tu 
sai,  figliuol  mio,  le  robe  che  in  casa  abbiamo  per 
mandar  a  Baruti,  e  in  qua  riportar  di  quelle  mer- 
cadanzie,  delle  quali  abbiamo  bisogno  e  vi  trovano 
buono  spaccio,  per  questo  io  ho  questa  mattina 
accordato  una  galea  a  nome  tuo,  a  fine  che  tu 
yada  a  vedere  del  mondo  ed  onoratamente  co- 
minci oramai  ad  esercitarti  e  flirti  uomo  pratico; 
che  delle  cose  che  più  agevolmente  fa  l' uomo 
avveduto  e  gli  sveglia  l' intelletto,  è  veder  varie 
città,  diverse  provincie  e  coslunii  di  questa  e 
quella  nazione.  Tu  vedi  tutto  il  di  in  questa  no- 
stra città,  che  quelli  che  fuori  hanno  conversato, 
ora  in  Levante,  ora  in  Ponente  e    in   altre   parti, 


-  141  - 

quando  ritornano  poi  a  casa  e  che  hanno  fatto 
bene  i  fatti  loro  e  portano  nome  di  uomini  accorti, 
pratici  e  di  gran  maneggio,  tu  vedi,  dico,  che 
questi  tali  sono  eletti  a  diversi  magistrali  ed  uffici 
della  repubblica.  Il  che  non  avviene  di  quelli 
che  nulla  curano,  se  non  starsene  tutto  il  dì  oziosi 
e  praticar  con  donne  di  cattiva  vita.  Comunemente 
il  viaggio  di  Baruti  dura  sei  mesi  o  sette  al  più. 
Pertanto,  figliuolo  caro,  mettiti  ad  ordine  di  tutto 
quello  che  ti  bisogna  per  cotal  viaggio,  che  io 
del  lutto  li  provvedere.  Quando  poi  sarai  ritornato 
daremo  quello  assetto  ai  casi  nostri,  che  nostro 
Signore  Iddio  ci  spirerà  ». 

A  gran  meraviglia  di  Messer  Paolo,  Gerardo, 
allegando  vani  pretesti,  ricusa,  e  allora  il  padre 
irritato  si  volge  al  genero,  di  nome  Leonardo,  gli 
offre,  lagnandosi  amaramente  del  figlio,  di  far 
esso  in  sua  vece  il  viaggio  e  di  goderne  i  profitti, 
e  Leonardo  accetta  lutto  lieto  la  proposta  del  suo- 
cero. Se  non  che  intanto  Gerardo  ha  confidalo  ad 
Elena  così  la  proposta  del  padre,  come  il  suo  rifiuto 
per  non  scostarsi  da  lei,  ma  essa,  che  non  vuol 
esser  cagione  a  Gerardo  ne  di  dissenso  irrimedia- 


142  - 

bile  col  padre,  né  di  troncare  in  fiore  tutte  le 
speranze  della  sua  gioventù  e  della  sua  fortuna, 
lo  incuora  ad  esser  degno  del  nome,  che  porta,  e 
a  fare  il  dover  suo  verso  sé  stesso  e  verso  il  pa- 
dre. L'amore  ha  fatto  uno  dei  suoi  solili  prodigi; 
della  bambola,  la  quale  lanciava  dalla  finestra  i 
fiori  nella  gondola  dell'innamorato,  ha  fatto  una 
donna  di  alto  e  forte  sentire,  e  Gerardo,  perdo- 
nato dal  padre,  scioltosi  con  grandi  lagrime  dagli 
ajDbracciamenti  della  moglie,  monta  sulla  galèra  e 
parte. 

«  Lasciamolo  andare  al  viaggio  suo,  continua 
il  Bandello,  che  ben  lo  rimeneremo  poi  a  salva- 
mento. Erano  già  circa  sei  mesi  che  Gerardo  era 
partito  da  Venezia,  quando  Elena,  che  annoverava 
r  ore,  i  giorni,  le  settimane  e  i  mesi,  stava  in 
speranza  del  ritorno  del  caro  marito,  e  tutta  ne 
gioiva,  parendole  un'ora  mill'anni  che  tardasse  a 
ritornare,  e  con  la  fedel  balia  diceva:  non  passe- 
ranno quindici  dì  o  venti  alla  più  lunga,  che  il 
mio  desideratissimo  sposo  sarà  in  Venezia.  Egli 
porterà,  oltre  le  niercadanzie,  mille  belle  cosette, 
€  mi  disse  al  suo  partire,  che  a  voi  recar   voleva 


143 


molti  cari  doni.  E  così  l'amorosa  giovane  andava 
sé  stessa  consolando,  non  sapendo  che  una  tela^ 
contro  lei  s'ordiva,  che  d'estremo  dolore  ed  in- 
finita malinconia  cagione  le  sarebbe.  Il  padre  di 
lei,  veggendo  come  la  figliuola  era  oltra  1'  età  di- 
venuta avvenente,  accorta  e  fuor  di  modo  bella, 
e  che  in  casa  non  avea  governo  di  donna  a  pro- 
posito, di  quella  dubitando  che  cosa  non  avve- 
nisse contra  il  suo  volere  (  il  che  già  avvenuto 
era)  deliberò  maritarla.  Né  troppo  tempo  gli  fó' 
bisogno  a  ritrovar  genero  conveniente  a  quella, 
perché  essendo  ricco  e  nobile,  e  la  figliuola  gen- 
tile e  bellissima,  molti  della  qualità  sua,  volentieri 
seco  si  sarebbero  per  parentado  congiunti.  Scelse 
adunque  Mes.  Pietro,  tra  gli  altri,  un  giovine,  il 
quale  di  ricchezza  e  di  nobil  famiglia  più  gli 
piacque,  e  seco  con  il  mezzo  dei  comuni  amici, 
e  parenti  si  convenne  che  il  seguente  sabato  il 
giovine  vedria  Elena,  e    piacendogli,    il    vegnente 

dì  della  domenica   le    darebbe   l'anello Fatta 

questa  deliberazione,  facendosi  l'apparecchio  grande 
per  le  future  nozze,  Mes.  Pietro  disse  alla  figliuola 
quanto  per  maritarla  conchiuso  aveva.  Di    questo 


144  - 

così  iasperato   e    tristo   annunzio    (che   ad    Elena 
I   tanto  doloroso  era,    quanto    dirle:    dimane    la   si- 
gnoria   ti     vuol  'fare    impiccare    sulla    piazza    di 
,  S.  Marco  tra  le  due  alte  colonne)  ella  oltra  modo 
divenuta  dolente,  e  senza  fine  da    fierissima    pas- 
sione trafìtta,  nulla  al  padre    potè   rispondere.    11 
che  egli,  che  più  altro    non    pensava,    pensò    che 
da  vergogna  fanciullesca  procedesse,    né   altro    le 
disse,  ma    andò    ad    ordinare    ciò    che    faceva    di 
mestiero,  acciò  le  nozze  fossero  con  beli'  ordine  e 
delicati  cibi  sontuosamente  celebr.ite,  secondo  che 
alla  nobiltà  ed  alle  ricchezze  di  lui  e    del   genero 
era  condecente.  La  sera   del   sabato,    essendo   già 
stata  dal  giovine  veduta  e  piaciutagli.  Elena  nulla 
0  poco  cercò.  Ritiratasi  poi  alla    sua    camera    con 
la  balia,  cominciò,  a   far    il    più    dirotto    pianto    e 
maggiore,  che  iraaginare  uomo    si  possa;    né    era 
possibile  che  la  balia  a  veruu    modo    consolar   la 
potesse,  non  sapendo  ritrovar  modo  né  via  alcuna 
per  fuggire  che  il  seguente  dì  non  fosse  sposata  — 
I  E  questo,  avvenis.se  ciò  che  si  volesse,   ella   deli- 
I  berava  non  far  già  mai  ;  manifestar  al    padre  che 
'  maritata  era,  non  ardiva,   non  già   per    tema   che 


—  145  — 

quello  in  lei  incrudelisse  che  volentieri  morta. sa- 
rebbe; ma  perchè  dubitava,  palesando  il  matri- 
monio contratto,  di  non  offender  il  suo  Gerardo. 
Fu  quella  notte,  con  aita  della  balia,  per  uscir  di 
casa  e  andarsene  a  trovar  suo  suocero,  e  nelle 
braccia  di  lui  gettandosi,  farlo  consapevole  di 
quanto  fra  Gerardo  e  lei  era  passalo,  ma  non  sa- 
peva se  questo  al  marito  fosse  poi  piaciuto.  Ora 
chi  volesse  di  uno  in  uno  raccontar  i  pensieri 
che  per  la  mente  quella  notte  le  passarono,  po- 
trebbe così  di  leggiero  la  notte,  quando  il  cielo  è 
più  sereno  e  carco  di  stelle,  tutte  quelle  annove- 
rare. Credete  pure  e  persuadetevi  che  la  passione 
sua  era  incredibile  e  inestimabile.  Tutta  la  notte 
la  sconsolata  e  misera  Elena  travagliò,  senza  mai 
prender  riposo.  Venuto  il  nuovo  giorno,  la  balia, 
uscita  di  camera,  attese  a  far  quei  servigi  per  la 
casa  che  a  lei  appartenevano,  tuttavia  farneticando 
e  chimerizzando  sovra  il  caso  della  disperata  gio- 
vane, e  non  si  sapeva  determinare  a  modo  veruno, 
che  fosse  buono  a  liberarla.  E  in  vero  non  era 
minor  la  doglia  sua  di  quella  d' Elena,  la  quale, 
come  vide  che  rimasa  era  sola,  non  s'  essendo  tutta 

Masi.  10 


146  — 

quella  notte  spogliata,  combattuta  da  strani  e  mal- 
vagi pensieri,  serrò  di  dentro  l' uscio  della  ca- 
mera, e  così  vestita  come  era,  suso  il  letto  suo 
salì,  e  quanto  più  onestamente  potè,  s' acconciò  le 
vesti  menta  attorno,  poi  raccolti  tutti  i  suoi  pen- 
sieri in  uno,  e  non  le  sofferendo  il  cuore  di  dover 
sposar  colui,  che  già  il  padre  proposto  le  aveva,  e 
non  sapendo  quando  Gerardo  si  tornasse,  seco 
propose  di  non  voler  più  vivere.  Né  bastandole 
l'animo  con  ferro  sé  stessa  uccidere,  né  strango- 
larsi (non  le  essendo  veleno  alle  mani)  tutta  in 
sé  ristretta,  ritenendo  il  fiato  più  che  seppe  e  potè, 
sì  fattamente,  oppressa  anco  dal  dolore,  svenne, 
che  restò  quasi  morta,  e  non  ci  essendo  persona 
che  le  porgesse  aita,  gli  smarriti  spiriti  a  lor  po- 
sta vagando,  quasi  del  tutto  l' abbandonarono. 
Venuta  1'  ora  del  levare,  andò  la  balia  alla  ca- 
mera per  far  che  Elena  s' abbigliasse,  e  credendo 
trovar  la  porta  aperta,  la  ritrovò  chiavata,  onde 
picchiando  più  e  più  volte  e  forte  battendo,  né 
v'essendo  chi  rispondesse,  Mes.  Pietro,  questo  sen- 
tendo, alla  camera  venne.  Ora,  dopo  il  lungo  bat- 
tere, fu  per    forza    l' uscio    sospinto    a    terra.    En- 


147 


Irato  il  padre  con  altri  in  camera,  e  fatte  aprire 
le  finestre,  tutti  videro  la  povera  Elena  vestita 
sovra  il  suo  letto  starsi  come  morta.  Il  romore 
si  levò  grandissimo,  e  il  misero  padre,  misera- 
mente piangendo,  mandava  le  dolenti  strida  fino 
al  cielo.  La  balia,  gridando  ed  urlando  come  for- 
sennata, addosso  se  le  gittò.  Non  era  persona  in 
casa,  che  acerbamente  non  piangesse.  Fu  mandalo 
per  medici,  per  il  nuovo  sposo  e  parenti.  Assai 
cose  furono  fatte  e  rimedi  infiniti  adoperati  per. 
far  che  Elena  rinvenisse,  ma  il  tutto  indarno  si 
fece.  La  balia  fu  esaminata  diligentemente,  la 
quale  disse  che  la  notte  Elena  assai  travagliato 
aveva,  e  dimenatasi,  come  se  di  gravissima  febbre 
fosse  stala  inferma  e  che  quando  essa  uscì  di  ca- 
mera, la  figliuola  vegghiava;  ma  nel  segreto  ella 
per  fermo  teneva  che  da  infinito  dolore  soffocata  i 
fosse  morta  ed  acerbissimamente  piangendo,  non 
si  poteva  dar  pace.  Lo  sconsolato  padre  lagrimava  1 
dirottamente  e  cose  diceva,  che  avrebbero  mossi  . 
a  pietà  i  sassi,  non  che  gli  uomini.  Ora  dopo  \ 
mille  rimedi  usati,  veggendo  che  nulla  alla  giovine 
giovava,  giudicarono  i    medici    che    da    un    sottil 


148  — 

catarro  distillato  dal  capo  al  cuore  fosse  la  giovane 
della  goccia  pericolata.  Tenuta  adunque  da  tutti 
per  morta  si  pose  ordine  che  quella  sera  fosse 
onorevolmente  da  sua  pari  portata  alia  sepoltura 
a  Castello  in  Patriarcato,  e  posta  in  un  avello  di 
marmo  degli  avoli  suoi,  che  era  fuor  della  chiesa. 
Così  la  sfortunata  giovane,  con  general  pianto  di 
chiunque  la  conobbe,  fu  seppellita.  Ora  vedete 
come  i  casi  fortunevoli  talora  avvengano,  e  consi- 
derate che  mai  non  si  può  aver  una  compiuta 
allegrezza,  che  tra  quella  alcuna  tristezza  non  si 
mescoli,  e  sempre  non  sia  col  dolce  mele  tanto 
dell'amaro  assenzio  distemperato,  che  la  dolcezza 
del  piacere  non  si  può  gustare.  Doveva  quello 
stesso  giorno  Gerardo  arrivare  al  lito  presso  Ve- 
nezia con  la  sua  galera,  il  quale  aveva  compito 
il  suo  viaggio  tanto  felicemente,  che  piiì  non 
avria  potuto  desiderare,  ritornando  ricchissimo. 
È  lodevole  usanz-i)  a  Venezia,  ogni  volta  che  navi 
0  galee  tornano  dai  lor  lunghi  viaggi,  e  massi- 
mamente quando  onoratamente  vengono  spediti, 
che  gli  amici  e  parenti  vanno  loro  in  contro  a 
riceverli,  a  mllegrarsi  che  con    buona   e  prospera 


—  149  — 

fortuna  siano  tornati.  Andarono  adunque  giovini 
ed  altri  cittadini  assai  a  ricever  con  allegrezza  il 
vegnente  Gerardo,  il  quale  sovra  ogni  altro  lieto 
veniva,  non  tanto  perchè  ritornasse  ricco  e  ben 
ispedito,  quanto  che  sperava  riveder  la  sua  ca- 
rissima e  da  lui  sovra  ogni  altra  cosa  amata 
e  desiderata  consorte.  Ma  il  misero  non  sapeva 
che  in  quell'ora  che  egli  al  lito  giungeva,  a 
quella  si  dava  sepoltura.  Così  si  vede  quanto  i 
nostri  pensieri  s'ingannino.  Arrivando  adunque 
al  lito  tra  1'  una  e  la  mezz'  ora  di  notte,  in  quel 
tempo  a  punto  che  le  funebri  esequie  dell' infelice 
Elena  si  terminavano,  videro  da  lunge  il  chiaro 
splendore  che  gli  accesi  torchi  rendevano.  Vi  fur 
di  quelli  che  da  Baruti  tornavano,  i  quali  doman- 
darono a  chi  loro  incontro  erano  venuti,  che  vo- 
lessero dire  tanti  lumi  a  quell'ora.  Erano  tra 
questi  molti  giovani,  i  quali  sapendo  l'infelice 
caso  della  sfortunata  Elena,  dissero  che  dovendosi 
quel  medesimo  dì  maritare,  era  stata  la  mattina 
trovata  nella  sua  camera  morta,  e  che  senza  dub- 
bio allora  le  dovevano  dar  sepoltura.  A  così  do- 
loroso e  pieno  di  pietà  annunzio,  non   ci   fu    per- 


—  150  — 

sona  che  non  si  movesse  a  compassione  della 
i  povera  giovane.  Ma  Gerardo  sovra  tulli  non  sola- 
mente semi  colmarsi  di  pielà,  ma  tanto  n'ebbe 
dolore  e  tanto  si  senti  trafitto,  che  gran  miracolo 
fu  come  potè  contener  le  lagrime  e  con  pietosi 
gridi  non  palesar  l' interna  doglia  che  misera- 
mente lo  struggeva:  tuttavia  tanto  ebbe  di  forza 
che  stette  saldo,  e  quanto  piìi  tosto  potè,  disbri- 
gatosi dai  suoi  della  galera  e  da  quelli  che  incon- 
tra per  onorarlo  gli  erano  andati  (che  a  Venezia 
tornarono)  egli  si  deliberò  a  modo  nessuno  voler 
'^  sopravvivere  alla  sua  amata  Elena.  Portava  egli 
fermissima  opinione  che  la  infelice  giovane  si 
fosse  avvelenata  per  non  sposar  colui,  che  il  pa- 
dre per  marito  voleva  darle.  Ma  prima  che  egli 
s'avvelenasse  o  con  altra  specie  di  morte  desse 
fine  ai  giorni  suoi  (non  avendo  ancofa  determi- 
nato di  che  morte  dovesse  morire)  deliberò  an- 
dare, ed  aprire  la  sepoltura  ove  Elena  giaceva  e 
vederla,  così  morta  come  era,  e  poi  a  canto  a 
quella  restar  morto:  ma  non  sapendo  come  solo 
poter  aprir  l'avello,  pensò  del  Gomito  della  ga- 
lera, che  suo  amicissimo  era,  fidarsi,    e   a    quello 


—  151 

r  istoria  dell'amor  suo  far  palese,  onde  chiamatolo 
da  parte,  quanto  tra  Elena  e  seco  era  occorso  e 
quanto  intendeva  di  fare,  tacendo  il  voler  morire, 
gli  manifestò.  Il  Gomito  sconfortò,  quanto  seppe, 
Gerardo,  che  non  volesse  andar  ad  aprir  sepolcri 
per  gli  scandali  che  ci  potevano  nascere,  ma  veg- 
gendolo  fermato  in  questa  opinione,  si  offerse  pre- 
sto ad  ogni  sua  voglia  e  disposto  non  1'  abbando- 
nare, ma  con  lui  correre  una  medesima  fortuna. 
Presero  poi  essi  due  senza  altra  compagnia  una 
barchetta,  e  lasciata  la  cura  della  galera  a  chi 
più  lor  piacque,  ne  vennero  a  Venezia,  e  smon- 
tati nella  casa  del  Gomito,  si  provvidero  di  ferra- 
menti atti  a  far  quanto  desideravano,  indi  rien- 
trali in  barca,  si  condussero  a  Gastello  al  Patriar- 
cato. Era  circa  la  mezzanotte,  quando  apersero  il 
sepolcro,  e  fermato  il  coperchio,  Gerardo  entrò 
neir  avello,  e  s' abbandonò  sovra  il  corpo  della 
moglie,  di  modo  che  chi  mirati  gli  avesse  tutti 
due,  non  avria  troppo  ben  potuto  discernere  chi 
più  rassembrasse  morto,  o  il  marito  o  la  moglie. 
Rinvenuto  poi  in  sé  Gerardo,  amarissimamente 
piangendo,  lavava  e   baciava    il    viso   e   la    bocca 


—  152  — 

della  sua  donna.  Il  Gomito  che  temeva  d' esser 
in  tal  ufficio  dai  Sergenti  dei  Signori  della  notte 
trovato,  teneva  pur  detto  a  Gerardo  che  uscisse, 
ma  egli  non  si  sapeva  levare.  In  somma  tanto 
era  Gerardo  fuor  di  sé,  che  essendo  sforzato  dal- 
l'amico a  partirsi,  a  mal  grado  di  quello  volle 
seco_portarsene  la  moglie,  e  così  soavemente  le- 
vatala fuori,  chiusero  l'avello  e  in  barca  ne  por- 
tarono la  giovine.  Quivi  di  nuovo  Gerardo  si  mise 
al  lato  della  donna  e  saziar  non  si  poteva  di  ab- 
bracciarla e  baciarla.  Ma  essendo  agramente  dal 
Gomito  ripreso  di  questa  follia,  che  volesse  por- 
tar quel  corpo  e  non  saper  dove,  ajla  fine  cre- 
dendo ai  veri  consigli  d'  esso  Gomito,  deliberò  ri- 
tornarlo dentro  1'  avello.  E  rivolgendo  la  barchetta 
verso  il  Patriarcato,  né  sapendosi  Gerardo  levare 
dagli  abbracciamenti  della  donna,  gli_parve  di 
sentire  in  lei  alcun  movimento,  onde  disse  al 
/Gomito:  amico  mio  caro,  io  sento  non  so  che  in 
costei,  che  mi  fa  sperare  che  ella  ancor  non  sia 
morta.  Entrato  il  Gomito  in  ragionevol  sospetto, 
per  i  fortunosi  casi  che  sovente  avvengono,  acco- 
statosi agli  amanti,  pose  la  mano  sotto   la  sinistra 


—  153  — 

mammella  della  giovane,  e  trovata  la  carne  al- 
quanto lepida  e  sentito  alcuno  picciolo  hallimento 
del  cuore,  disse  a  Gerardo:  Padrone,  tastate  qui 
e  troverete  costei  non  esser  del  tutto  morta.  A  così 
felice  annunzio  Gerardo,  lutto  lieto,  pose  la  mano 
sovra  il  cuore,  che  tuttavia  accresceva  il  suo  mo- 
vimento, volendo  la  natura  rivocar  gli  smarriti 
spiriti  e  disse:  veramente  costei  è  viva:  che  fa- 
remo noi?  Noi  faremo  bene,  soggiunse  il  Gomito, 
fate  pur  buon  animo  e  non  dubitate  che  non  si 
mancherà  di  far  ogni  provvigione  necessaria:  non 
è  costei  da  esser  riportata  nell'  arca  a  verun  modo  : 
andiamo  a  casa  mia  che  non  è  molto  lontana:  io 
ho  mia  madre,  donna  attempata  e  di  buon  avve- 
dimento, e  così  a  casa  del  Gomito  se  n'andarono. 
Gola  giunti  forte  alla  porta  picchiarono,  e  furono 
sentiti  e  conosciuto  il  Gomito,  che  la  prima  volta 
che  arrivò  in  casa,  la  madre  nulla  ne  aveva  sen- 
tito. La  buona  vecchia,  olirà  modo  lieta  del  ritorno 
del  suo  figliuolo,  fatto  dalla  fantesca  accender  il 
lume,  fece  la  porta  aprire.  11  Gomito,  abbracciata 
la  cara  madre,  mandò  la  fantesca  a  far  certi  ser- 
vizi e  senza  esser  da  lei  visti,  egli  e  Gerardo  por- 


—  154  — 

tarono  in  una  agiata  camera  Elena  e  la  posero 
disvestita  in  un  buonissimo  letto.  Poi,  acceso  il 
fuoco  e  scaldati  dei  panni  lini  (avendo  già  del 
tutto  resa  consapevole  la  buona  vecchia)  attesero 
soavemente  a  poco  a  poco  a  riscaldar  la  giovane 
e  quella  stropicciare.  Così  fregandola  e  riscaldan- 
dola, tanto  attorno  vi  si  affaticarono  che  la  gio- 
vane cominciò  a  risentirsi  e  tornare  in  sé  stessa 
e  dir  alcune  mezze  parole  con  balbettante  e  tre- 
mante lingua.  Aprendo  poi  gli  occhi  e  a  poco  a 
poco  ricuperando  il  vedere,  conobbe  il  suo  Ge- 
rardo, ma  ancora  in  sé  appieno  non  rivenuta, 
non  sapeva  se  sognava,  oppure  se  vero  era  ciò 
che  da  lei  si  vedeva.  Gerardo,  con  sì  evidenti  se- 
gni di  vita,  abbracciava  e  dolcissimamente  ba- 
ciava la  cara  moglie  e  di  soverchia  gioia  colmo 
calde  lagrime  spargeva;  ma  ritornata  che  fu  a  sé 
la  giovane  e  inleso  dal  marito  e  dal  Gomito  l'oc- 
corso caso  e  come  era  stata  seppellita  e  tratta 
I  fuor  dall'avello  poco  mancò  che,  tra  la  paura  e 
^  r  allegrezza,  non  isvenisse  un  altra  volta.  Ora  chi 
pensasse  e  credesse  poter  narrar  l'allegrezza  ed 
il  contento    dei    due    amanti,   sarebbe    in   grande 


155 


errore,  perchè  in  effetto  la  millesima   parte   della 
lor   compiuta    gioia    non    si    potrebbe    esprimerei- 


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Gli  Amanti  Veneziani. 

(Jiindro  iiltriliiiiln   :il    Ciopifidiip   ì\o\  Museci   liiioiiarnit  i   ili    Fircnz 
(  I)ii   lina  fotoijrafìa  dei  Fratelli  Alinari). 


156  — 

Essendo  adunque  in  sé  ritornata,  fu  cibata  con 
ova  fresche,  pistacchi,  confetti  e  preziosissima 
malvagia.  E  già  approssimandosi  1'  aurora,  fu  Elena 
da  tutti  pregata  che  riposasse  e  con  soave  sonno 
si  ristorasse  alquanto  ». 

La  novella,  sempre  così  diffusa  e  circostanziala 
com'è,  si  volge  ora  a  narrare  del  ritorno  di  Ge- 
rardo alla  casa  del  padre,  a  cui  dà  conto  del  fe- 
lice viaggio  e  dei  grossi  guadagni,  e  quindi  passa 
a  dire  della  determinazione  di  Gerardo  e  del  Go- 
mito di  collocare  Elena  presso  la  sorella  e  il  co- 
gnato di  Gerardo,  sino  a  che  venga  il  momento 
opportuno  di  palesare  il  matrimonio.  Ciò  fatto, 
ecco  il  padre  di  Gerardo  cominciare  a  parlargli 
della  necessità,  eh'  esso  pure  pensi  ad  accasarsi, 
ed  esso  mostrarsi,  s' intende,  ripugnantissimo  e 
tanto  accendersi  il  contrasto,  che  a  Gerardo  non 
resta  se  non  gettarsi  alle  ginocchia  del  padre  e 
rivelargli  ogni  cosa.  Tolta  un  po'  di  meraviglia 
nel  padre,  non  è  altro;  il  vecchio  si  rassegna  al 
)  jnal  fatto  e  si  riconcilia  poi  del  tutto  coi  due 
^,  /  sposi,  quando  sa  che  Elena  è  di  così  illustre  ca- 
'     sata  e  vede  cogli  occhi  suoi  quel  prodigio  di  bel- 


—  157  — 

lezza.  Come  si  rimeltaiio  in  regola  quelle  nozze 
jilquanto  affrettate,  non  è  detto.  Tutto  si  riduce  a 
portare  a  messa  la  sposa,  che  passa  por  forestiera, 
con  grande  sfarzo  di  vesti  e  gran  seguito  di  gen- 
tildonne, di  parenti  e  d'  amici,  dopodiché  la  no- 
vella potrebbe  esser  finita,  se  non  che,  tratto  da 
curiosità,  trovasi  in  chiesa  anche  il  giovine,  a  cui 
dal  padre  era  slata  Elena  promessa  e  che  poi 
avea  dovuto  piangerla  per  morta.  A  costui  pare 
di  riconoscer  Elena  e  uscito  di  chiesa  corre  tosto 
dal  Patriarca  e  fatto  aprire  l'avello,  lo  trova  vuoto. 
Ne  nasce,  si  può  credere,  un  diavoleto,  che  prima 
minaccia  di  finire  in  un  duello  con  spada  e  targa 
fra  Gerardo  e  lo  sposo  deluso,  poi  finisce  per  or- 
dine del  Consiglio  dei  Dieci  dinanzi  ai  Magistrati, 
i  quali  sentenziano  che  Elena  spetta  per  mille 
buone  ragioni  a  Gerardo. 

Questa  in  sostanza,  come  ognun  vede,  la  no- 
vella di  GiuUetta  e  Romeo  condotta  a  lieto  fine,  ed 
in  tal  senso  è  un  avant-goiU  dei  drammi  lagrimosi, 
venuti  in  moda  verso  la  fine  del  secolo  XVIII, 
nei  quali  i  personaggi  sembrano  sempre  a  un  pelo 
di    finir    stritolati    sotto    il    peso    e   la   complica- 


158  — 

zione  delle  loro  sciagure,  poi  tutto  viene  in  chiaro 
e  tutto  finisce  per  il  meglio  nel  migliore  dei 
mondi  possibili,  secondo  la  filosofìa  pratica  del 
Dott.  Pangloss.  Anche  nel  poema  di  Paulo  e  Daria 
di  (Raspare  Visconti,  a  cui  ho  accennato  pii!i  sopra,  i 
due  amanti  sopravvivono,  e  ciò  è  molto  importante 
a  notare  per  le  fonti,  alle  quali  può  aver  ricorso  il 
Randello  in  coleste  sue  prove  e  riprove  sullo  stesso 
argomento. 

Originalissimo  ad  ogni  modo  per  la  novella 
italiana  è  il  carattere  di  Elena,  la  fanciulla  inno- 
cente, r  ingenua  vera  del  teatro  drammatico  mo- 
derno, tant'  è  che  ha  piìi  d'  una  linea  comune  colla 
Miranda  della  Tempesta  dello  Shakespeare,  con 
questo  di  profondamente  diverso  che  è  collocata  in 
un  ambiente  di  prosaica  realtà  ed  essa  stessa  non 
ha  di  poetico  se  non  il  profumo,  che  natural- 
mente esala  da  una  fresca  e  perfetta  bellezza  di 
donna,  inconsapevole  ancora  della  propria  potenza 
e  che  si  apre  all'amore,  come  un  fiore  sotto  ai 
raggi  del  sole.  La  vecchia  novella  italiana  ha  la 
fanciulla  sciocca,  l'Alibech,  che  diviene  romita, 
ed  è  preda  del  monaco   Rustico,    cioè   del    primo 


—  159  — 

furbo,  che  incontra,  il  quale  tosto  abusa  della  sua 
semplicità;  ma  V  ingenua,  l' innocente  Elena  rompe 
questa  tradizione  della  sensualità  grossolana,  cosi 
frequente  nei  nostri  novellatori  (  nel  Bandello  stesso 
in  particolare)  e  precorre  la  sentimentalità  roman- 
tica, meglio  e  più  ancora,  direi,  di  Giulietta;  della 
Giulietta,  ben  inteso,  del  Bandello,  che  il  genio 
dello  Shakespeare  trasformò,  facendone  l'incar- 
nazione più  ideale  e  compiuta  di  tutta  la  poesia 
dell'amore,  non  senza  però  certa  vampa  di  na- 
turalismo schietto,  che  le  proviene  forse  dalla  no- 
vella Bandelliana.  e  le  dà  con  guest' Elena  non 
poche  affinità  e  somiglianze,  oltre  a  quelle  che 
risultano  necessariamente  dall'andamento  totale 
delia  novella  e  dall' esser  Eleiia  nient' altro*  che. 
una  ripetizione  modificata  di  Giulietta^  Notevolis- 
simo è  altresì,  mi  sembra,  l'analisi  graduale,  con 
cui  è  studiato  il  carattere  di  Elena,  novità  anche 
questa  assai  importante  nella  novella  classica  ila- 
liana,  la  quale  è  per  lo  più  frettolosa  e  fcstinat  ad 
eventum,  cosi  nell'  azione  totale,  come  nella  pit- 
tura dei  caratteri,  di  rado  uscenti  da  tipi  tradi- 
zionali e  comuni.  Tutto  il  carattere  di    Elena    in- 


—  160  — 

vece  è  qui  studiato  con  una  minutezza  e  una 
lentezza  singolare,  dal  contrasto  primitivo  fra  essa 
e  le  quattro  amiche,  già  iniziale  nei  misteri  del- 
l'amore, al  primo  destarsi  in  lei  di  questo  senti- 
mento in  modo  ancora  inconscio  e  quasi  istintivo, 
al  suo  confonderlo  imprudentemente  coi  suoi  giuo- 
chi da  bimba,  ai  primi  turbamenti,  che  le  ne 
rivelano  la  diversità,  e  finalmente  all'abban- 
donarglisi  tutta  e  sentirsene  trasformata  e  nella 
bimba  manifestarsi  la  donna  in  tutta  la  pienezza 
e  la  forza  del  sentimento  e  della  passione,  ma 
in  pari  tempo  con  tutta  la  nobiltà  dell'abnega- 
zione e  del  sagrifìcio,  di  cui  la  donna,  veramente 
amante,  è  capace.  Siamo  già  ben  lontani  dal  tipo 
coraune  della  donna  della  novella  o  della  comme- 
dia classica  italiana,  siccome  col  Gerardo,  l'amante 
di  Elena,  ci  allontaniamo  pure  dal  tipo  comune 
del  giovine,  per  lo  più  ricalcato  sul  Paganino  da 
Monaco  del  Boccaccio  o  sul  Callimaco  della  Man- 
dragora del  Machiavelli,  mentre  in  Gerardo  tro- 
viamo piuttosto  un  precursore  quasi  immediato 
dei  teneri  amanti  dei  romanzi  pastorali  e  mitolo- 
gici del  secolo  XVII  e  degli   amanti  sentimentali, 


—  IGl  — 

lacriniosi  e  subitanei  dei  romanzi  e  della  tragedia 
borghese  del  secolo  XVIII,  compresa  la  sincope  di 
cuore  e  lo  sveiiiineiito;  il  colmo  cioè  della  sensi- 
bilità, di  cui  questi  ultimi  usano  ed  abusano  a 
tutto  pasto. 

Se  a  ciò  si  aggiunga  lo  studio  del  costume,' 
dell*  indole  e  delle  usanze  domestiche  e  sociali 
Veneziane  nel  Cinquecento,  quale  risulta  dalla 
vita  gaia  e  amorosa  dei  giovani,  che  qui  è  per 
molti  accenni  descritta,  e  da  quella  degli  uomini 
maturi  e  dei  vecchi,  divisa  fra  il  banco,  i  traffichi, 
i  viaggi  e  gli  uffici  della  Repubblica,  considerati 
questi  ultimi,  come  i  massimi  degli  onori  e  degli 
oneri,  ai  quali  tutti  hanno  il  dovere  di  aspirare 
e  di  prepararsi  ;  se  si  aggiunga  altresì  il  partite, 
che  il  Bandello  trae  dal  paesaggio  della  meravi- 
gliosa città,  massime  nella  scena  Jìnale,  in  cui 
mentre  già  annotta,  veggonsi,  di  lontano  e  ad  un 
tempo,  da  un  lato  il  funerale  di  Elena,  dall'altro 
la  nave  di  Gerardo,  che  rientra  nella  laguna,  in- 
contrata dalle  gondole  e  dalle  barche  degli  amici, 
bisognerà  concludere,  che  questa  novella  fa  fami- 
glia da  sé  non  solo  nel    novelliere    del   Bandello, 

Masi.  11 


—  162  — 

ma  fra  tutte  le  novelle  del  Cinquecento.  Più  che 
incongruenze  ed  errori  di  condotta  v'  ha,  ripeto, 
qualcosa  d'  abbozzato,  di  non  finito  in  questa  no- 
vella, che  la  rende  difettosissima.  Basti  ricordare  la 
mancanza  d'  ogni  ragione  sufììdente  al  segretume 
del  matrimonio  di  Elena  e  di  Gerardo,  che  è 
qui  pure  il  perno  del  racconto,  e  non  ha  alcuna 
delle  terribili  ragioni,  per  cui  doveva  esser  tenuto 
segreto  l'amore  di  Romeo  Montecchi  per  Giulietta 
Gapuleti.  Basti  ricordare  la  soppressione  del  nar- 
cotico, la  quale  rende  misterioso  e  quasi  inespli- 
cabile (non  so  che  cosa  i  medici  ne  penserebbero) 
il  lungo  svenimento,  resistente  a  lutti  i  rimedi, 
di  Elena,  e  per  cui  essa  è  sepolta  per  morta,  men- 
tre poi  una  boccata  d'aria  fresca  e  alcune  stro- 
picciature  sulla  persona  bastano  a  farla  rinvenire. 
Gonluttociò  la  novella  non  perde  nulla  della  sua 
singolarità  e  de'  suoi  pregi  ed  è  per  questo,  che 
in  tanta  dimenticanza  delle  novelle  del  Bandello, 
volendo  pure  analizzarne  almeno  una  un  po' a  di- 
sleso, ho  creduto  di  doverla  preferire  a  tante  altre, 
sicconìo  quella,  che  più  di  laute  altre  rivela,  a 
mio  credere,  la  tendenza  geniale,  la  piega  artisti- 


—  163  — 

camente  divinatrice,  che  distingue  il  Bandello  da 
tulli  i  novellatori  del  Cinquecento  e  che  mi  pare 
gli  sorga  e  debbagli  essere  slata  fecondata  Del- 
l' ingegno  anche  dalle  vicende  della  sua  vita,  che, 
come  dice  il  Symonds,  è  una  novella  essa  slessa  ('). 

(')  «  Bandello' s  life  was  itself  a  novella  ».  Symonds. 
Op.  cit.  loc.  cit. 


I 


CAPITOLO  Vili. 


La  vita  del  Bandelle. 

L'umile  frate,  che  tra  il  1506  e  il  1512  ab- 
biamo veduto  nella  più  alta  società  cortigiana  di 
Milano,  e  fra  il  1525  e  26  nella  più  amichevole 
fiirailiarità  con  principi,  capi  militari  e  diploma- 
tici nel  campo  della  Lega  contro  Carlo  V,  non 
era  già  un  uomo  nuovo  od  un  avventuriere.  Non  so 
quel  che  valga  la  sua  pretensione  di  discendere  da 
un  Bandechil,  Goto  di  nazione,  molto  appassionato 
dei  bel  sesso,  donde  un'  innata  tendenza  di  razza, 
a  cui  il  Randello  cerca  compenso  ed  equilibrio  in 
un  altro  Randello,  pure  Goto,  e  morto  a  Nimes 
martire  della  fede.  Così  il  santo  bilancia  il  pecca- 
tore e  viceversa;  quello  in  sostanza,  che  si  sa- 
rebbe poi  verificato  in  lui  stesso I  Privilegi  impe- 
riali danno  in  seguito  alla  famiglia  titoli  e   poteri 


—  166  — 

feudali,  perduti  nelle  guerre  civili  dei  Torriani 
e  dei  Visconti,  perchè  una  Bandella  era  entrata 
sposa  in  casa  dei  Torriani  ed  i  Bandelle  ne  se- 
guirono le  parti  (').  Checché  sia  di  ciò,  Matteo 
Bandelle  usciva  dunque  di  nobile  e  ricca  fami- 
glia di  Gastelnuovo  di  Scrivia,  e,  fatti  colà  i  primi 
studi  sotto  la  guida  di  Messer  Gerardo  Ganabo  ('), 
fu  messo  da  giovinetto  in  Milano  presso  lo  zio 
Vincenzo  Bandelle,  priore  dei  Domenicani,  nel 
Gonvento  delle  Grazie,  il  quale,  familiarissimo 
di  Lodovico  il  Moro  e  teologo  celebre  per  le  di- 
spute sostenute  contro  V  Immacolata  Concezione, 
divenne  poi  nel  1501  Generale  di  lutto  l'Ordine 
Domenicano,  gran  personaggio  a  quel  tempo  (^). 
Le  prime  ruine  e  disgrazie  della  famiglia  di  Mat- 
teo Bandelle  furono  a  tempo  della  catastrofe  po- 
litica, in  cui,  nonostante  le  sue  scaltrezze,  preci- 
pitò Lodovico  il  Mero.  Non  rinarrerò  una  storia 
notissima.  Due  volte,  tra  il    1499  e    loOO,  il  Moro 

(1)  Bandello,  Novelle.  P.  I.  Nov.  23. 

(2)  Ibid.  P.  HI.  Nov.  28.  Dedica  a    F.  M.  Trovamala. 

(3)  Alberti,  De  Viris  Illustribus  Ordinis  Praedic.  Op. 
cit.  Concorda  il  Monti  nella  vita  del  Bandello.  Ms.  del 
K.  Archivio  di  Milano,  cit. 


167 


perdette  e  riperdette  il  Ducato;  1' ultima  volta  per 
sempre  e  tutte  e  due  per  opera  di  Gian  Giacomo 
Trivulzio,  suo  personale  nemico,  gran  soldato  ita- 
liano, malauguratamente  al  servizio  di  Francia. 

Sequestrati  i  beni  ai  partigiani  dello  Sforza, 
Luigi  XII  ne  gratificò  il  Trivulzio,  probabilmente 
in  Castelnuovo  di  anche  quelli  dei  Bandello  (').  Fin 
d'allora,  come  attesta  Matteo  Bandello  nel!' Ora- 
orione  in  morte  di  Francesco  Gonzaga,  essi,  scam- 
pati a  Mantova,  presero  quivi  dimora  e  cittadi- 
nanza (■).  Quanto  alio  zio,  appena  eietto  Generale 

0)  Carlo  De'  Kosmini,  Dell'  istoria  intorno  alle  militari 
iiniirese  e  alla  vita  di  G.  G.  Trivulzio,  Voi.  I,  Lib.  Vili, 
pag.  333  e  3G5.  «  Gli  concedette  le  sostanze  confiscate  di 
quei  sudditi  suoi  di  Vigevano,  Gaiate,  Castelnuovo  Tof- 
tonese,  Chiavenna  e  Melzo,  che  per  favorire  la  causa  di 
Lodovico  Sforza  s'  eran  dichiarati  ribelli  alla  Francia  ». 
II  decreto  di  Luigi  XII  ha  la  data  di  Lione  15  l^uglio 
1500.  Voi.  II,  Documenti,  pag.  293.  Bandello,  Canti  XI, 
De  le  lodi  de  la  S.  Lucretia  Gonzar/a  di  Gazitelo  e  del  Vero 
Amore  col  tempio  di  l'udicitia  e  con  altre  cose  per  dentro 
praticamente  descritte;  Agen,  Reboglio.  1545.  Canto  VI, 
l)ag.  96  retro. 

(-)  Bandelli,  Parentalis  Oratio,  ed  cit.  «  Magna  no- 
biliuni  pars,  quae  Sft)rtianis  rebus  favebal,  a  Gallis  pro- 
.scripta,  Mantuatn    petiit;    ubi    sumnia    comitato    oinneis 


—  168  — 

dei  Domenicani,  percorse  rapidamente  la  Fran- 
cia, la  Spagna,  la  Borgogna,  la  Germania  per 
riformare  l'ordine,  che  pare  n'avesse  bisogno  ('). 
Tornò  per  presiedere  un  consiglio  generale  di 
frati  in  Sant' Easlorgio  di  Milano  e  dopo  ri- 
prese la  via  di  Roma,  passando  per  Firenze. 
Questa  volta  Matteo  lo  seguì.  Non  prima,  come 
molti  pretendono,  perchè  prima  del  1505  Matteo 
stette  fra  Milano,  Genova,  e  forse  Pavia  per  ca- 
gione di  studi:  certo  era  a  Genova  nei  1504,  per- 
chè da  Genova  scrive  nell'ottobre  al  suo  confra- 
tello Andrea  Corsi,  mandandogli  la  vita  da  lui 
composta  in  latino  di  Giovan  Battista  Cattaneo» 
morto  colà  di  peste  nel  Convento  stesso,  ov'era 
il  Bandelle  C).  Francherebbe  la  spesa  di  fermarsi 

Gonzaga  exceint.  Ita  iirbs  Mantuaiia  ea  tempestate  novi- 

tateqne    temi)orum    fuit    patria    ejectis llinc  Mantuae 

Suardos,  Strozzios,  Castileoneos,  Malatestas,  Turrianos, 
Malclavellos,  Guerrerios,  Malaspinas,  Orassos,  Bnndellos, 
atque  alias  Italicas  fainilias  civitate    doiiatas  videmus  >. 

(')  Alberti,  Op.  cit. 

(2)  Il  Mazzucchelli,  Scrittori  ecc.  Voi,  II,  in  propo- 
sito di  questa  dimora  di  Genova,  cita  il  Piò,  Voi.  I,  De- 
ijli  uoinini  illustri  di  S.  Domenico.  Col.  478,  ma  questa  ci- 
tazione non  ho  trovata.  Debbo  bensì  all'  amichevole  cor- 


—  169  — 

ad  esaminare  lungamente  questo  lavoro  ancora 
inedito  del  Bandeilo.  Da  novellatore  nato  gli  riu- 
sciva una  novella  anche  ciò  eh'  era  da  lui  com- 
posto con  tutt'  altro  sentimento  e  tutt'  altra  inten- 
zione d'arte.  Ed  una  novella  veramente,  anzi  un 
vero  romanzo  fratesco,  è  codesta  vita  del  Cattaneo 
per  lo  strano  intreccio  di  casi,  pel  quadro  di  co- 
stumi che  offre,  pei  contrasti  psicologici,  rari 
nella  novella  e  che  perciò  l'accostano  di  più  ad 
un  vero  romanzo.  Il  Cattaneo  è  un  giovinetto 
d"  illustre  famiglia  genovese,  d' una  intelligenza 
e  d' una  vitalità  così  precoce,  che  a  quattordici 
anni  trattava  già  i  più  grossi  affari  della  sua  casa 
e  nel  tempo  stesso  s'era  già  buttato  all'amorosa 
vita  con  un  ardore  assai  superiore  all'età  sua. 
Tocco  d'improvviso  dalla  grazia  celeste,  a  nep- 
pure sedici  anni  compiuti,  gli  salta  1'  estro  di  farsi 
frate  Domenicano,  con  gran  disperazione  della 
sua    famiglia,   che    fa   di    tutto   per    distrarlo    da 

tesia  dello  egrej^io  Henedetto  Croce  la  lettura  di  un  l»el 
codicetto,  di  sua  proprietà,  contenente  questa  inedita  vita 
del  Cattaneo,  scritta  dal  Bandeilo,  da  cui  si  rilevano  pure 
importanti  notizie  biografiche  sue.  Vedi:  Apjiendice  I. 


170  — 

qQest' idea.  Ai  frati  stessi  pare  imprudente  e  pre- 
matura e  si  oppongono.  Ma  egli  di  giorno,  di 
notte  accorre  al  convento  e  con  preghiere  e  con 
lagrime  supplica  d'essere  accolto.  Agli  Idi  di 
maggio  del  1504  tornò  da  Milano  il  Priore  del 
convento  con  parecchi  frati,  fra  i  quali  Randello  ('], 
e  poiché  tutti  ravvisarono  nell'improvvisa  voca- 
zione del  giovinetto  e  nella  tenacità  del  suo  pro- 
posito il  dito  di  Dio,  lo  ammisero  e  stabilirono  il 
giorne  delia  sua  vestizione.  Il  dolore  della  fami- 
glia mutossi  in  furore.  Riescite  vane  le  preghiere, 
le  lacrime,  gli  scongiuri,  il  padre  con  parenti, 
amici  e  servi  armati  assale  nottetempo  il  convento, 
piglia  a  ingiurie  e  legnate  il  Priore  ed  i  frati,  com- 
preso il  Randello,  ed  acciuffato  per  le  chiome  il 
figliuolo  lo  strascina  a  forza  fuori  del  convento 
e  se  lo  riporta  a  casa  prigioniero.  Appena  la  vi- 
gilanza del  padre  rallentò,  l' indomito  fraticello 
riprese  la  via  del  convento,  dove  per  disperati  i 
parenti  lo  lasciarono.  In  giugno  del  1504  il  Cat- 
taneo professò  i  voli  solennemente,  e  la  sua   san- 

(1)  Nonnulli  fratres  (Inter  quos  ego  aderam)  Genuam 
adventarunl  ».  J.  B.  Cattanei  vita.  Codice  cit. 


—  171  — 

tilà,  la  sua  devozione  fervenle,  l' ingegno,  l'ala- 
crità negli  studi  erano  la  meraviglia  di  tutti.  Il 
Bandelle,  giovine  esso  pure,  si  strinse  al  Cattaneo 
di  grande  amicizia.  Intanto  scoppia  la  peste;  la 
città  è  desolata;  il  morbo  la  spopola;  niun  rimedio, 
ninna  cautela  possibile.  I  Domenicani  si  riducono 
a  San  Francesco  d' Albaro.  A  uno,  a  uno  muoiono 
quasi  tutti;  il  Cattaneo  profetizza  a  sé  stesso  la 
morte  e  quaranta  giorni  in  punto,  dacché  s*  era 
vestito  frate,  muore  di  peste  ('). 


(')  Sul  suo  sepolcro  il  Banrlello  scrisse  :  «  Invitis  pn- 
reu1,il)us,  ad  Praedicatoruni  Eeligiouem  convolavit,  in 
qua  quadraginta  dumtaxat  diebus  exercitus,  morte  prae- 
seita,  sevissima  pesto  intercmpta  ».  Cod.  cit.  —  Questo 
bel  codicetto  d'  uu  opera  inedita  del  Bandello  merita  una 
breve  descrizione.  È  cartaceo  —  cm,  25  X  36.  Elegante 
scrittura  italica,  che  il  Prof.  Cesare  Paoli,  l'egregio  in- 
sognante di  paleografia  nell' Istit.  di  Studi  Superiori  in 
Firenze,  da  me  consultato,  giudica  del  secolo  XVII.  — 
Carte  '22  numerate,  con  altro  bianche  non  numerate,  in 
pi'incipio  e  in  fine.  Legatura  in  pergamena,  con  filetta- 
tura e  fregi  d"  oro,  C.  1"  —  Frontespizio  con  fregi  a  co- 
lori e  oro  e  con  uno  stemma  toccato  in  penna.  V"  è  questa 
inscrizione  in  caratteri  maiuscoli,  minuscoli  e  corsivi: 
B,  F.  1  coKS  UAPTAE  CATTANE!  |  Gonueusi  |  Ord  :  Praedicat: 
Novitii  I  Vita  edita  a  Fratre  |  Mattueo  dandello  oastuo- 


—  172  — 

Il  Bandello  fu  dei  pochissimi  che  scamparono 
e  r  anno  dopo  segui  Io  zio  a  Roma,  fermandosi, 
lungo  il  viaggio,  a  Firenze  nel  Convento  di 
S.  Maria  Novella.  Si  può  anche  fissare  all' incirca 
il  tempo  di  questa  dimora,  cioè  verso  la  fine 
d'estate  del  1505,  poiché  il    Bandello   scrive  che 

xovENSi  EJUSDE  ord:  I  nomìiiatim  dicata  Ven.°  Patri  F.ri 
Andrene  Corsio  Genuensi  |  amicorum  optimo  |  —  ce.  2', 
3*.  Epistola  di  M.  Bandello  che  fa  da  proemio  alla  vita 
del  Cattaneo.  Com:  «  F.  Matteus  Basdellus  de  Castro- 
novo  Ordinis.  Praedicatorum  Vitae  Regularis  |  F.  An- 
drene Corsio  I  Genuensi  ejusdem  Ordinis  |  S.  P.  D.  Clanstra 
silentii  me  disrunipere  cogit  inimodiciis  amor  ecc.  fin:  » 
Mattile!  peccatoris  esto  memor.  Albarii,  ex  villa  nostra 
S  Lncae,  idibus  Octobris,  A°,  a  Christi  Nat.  quarto  supra 
quingentesimum  atque  millesimum.  —  Explicit  epistola 
in  Vitam  Religiosissimi  |  Adolescentis  |  Fratris  |  Ioanni.s 
B.  Cattane!.  —  C".  4%  dentro  una  cartella  a  colori  «  Reli- 
giosissimi Fratris  |  Ioannis  Baptae  Cattane!  |  Genuensi* 
Vita  per  fratrem  |  Mattlieum  Baudellum  |  Castronovensem 
Ord.  Predicai  ad  Freni  |  Andream  Corsium  |  Genuensem 
eiusdem  Ord,  feliciter  inchoat.  —  C*.  4  13*.  Libro  primi> 
della  Vita  Com.  .J.  B.  Cattane!,  Com:  preclaram  mor- 
tem  »  etc.  Fin  «  ita  ero  firmo  et  constanti  animo  ut  nihil 
omnino  milii  timendiim  sit.  —  Finis  —  Explicit  primus 
liber  vitae  etc.  —  La  e'.  13  è  bianca.  ~  ce.  14*-22''  Lib.  2° 
Com:  lacipit  liber  secundus  —  Fin:  cu!  tam  charus  fuit 
degens  !u  terris  ».  Vedi:  Append. 


na 


alloggiava  in  quei  giorni  nel  Convento  stesso 
Marc' Antonio  Colonna,  reduce  dalla  vittoria  ripor- 
tata suir  Alviano  alla  Torre  di  S.  Vincenzo  e  questo 
fatto  accadde  il  17  d'Agosto  del  1505  ('). 

Data  importante,  perchè  ad  essa  si  collega  il 
primo  amore  di  Matteo  Bandello.  Si  direbbe  che, 
a  cosi  breve  distanza  dalla  tragedia  del  Cattaneo, 
questa  distrazione  amorosa  in  un  frale  accenna 
ad  una  leggerezza  di  costumi  un  po'  troppo  cin- 
quecentista. Ma  bisogna  riflettere.  Fra  tante  estre- 
mità contradditorie  della  vita  morale  del  Cinque- 
cento c'è  l'amor  platonico  ed  il  terrestre,  la  lirica 
petrarchesca  e  la  novella.  Nel  Bandello  stesso  e' è 
il  frale  e  poeta  lirico  (autore  di  Rime  e  di  un 
poema  amoroso)  pel  quale  l'amor  platonico  è 
scala  a  Dio,  e  e' è  il  novellatore,  che,  se  non  altro 
a  parole,  è  luti' altro.  Qui  certo  siamo  in  tema 
d'amor  platonico  e  per  di  più  infelicissimo,  perchè 
la  giovinetta,  che  l'inspirò,  morì  l'anno  dopo. 
Chi  era  dessa?  Dalle  ricerche  fatte  nessuna  iden- 

(1)  Nardx  —  Istoria  della  città  di  Firenze.  Lib.  IV. 
—  Bandello  —  Novelle  —  P.  I.  —  Nod.  18.  Dedica  alla 
Diva  Violante  Borromea  Fiorentina. 


—  174  — 

tifìcazione  assoluta  m' è  riescita.  Ma  nel  poema 
in  lode  di  Lucrezia  Gonzaga  il  Bandelio  la  de- 
signa così; 

Le    Viole  in  1'  Arno   sparte 

Per  guida  il  Ciel  a' tuoi  prim' anni  diede, 
Che  mentre  fresche  furo   in  ogni  parte 
La  ragion  sempre  assisa  stette  in  sede, 
Tal  che  veracemente  allora  fusti 
Da  por  tra  gli  amator  sinceri  e  giusti  (■). 

Con  questa  immagine  delle  Viole  la  designa  in 
altri  luoghi  del  poema  e  delle  Rime  (^).  Trattasi 
dunque  indubbiamente  di  una  donna  che  ha  nome 
Violante  e  che  è  fiorentina.  Ora  di  lai  nome  e 
patria  non  v'  ha  in  tutte  le  dediche  delle  Novelle 
che  un'unica  donna,  specificatamente  nominata: 
Diva  Violante  Borromea  Fiorentina,  e  questo  nome 
ha  riscontro  nei  Poemata  di  Giulio  Cesare  Scali- 
gero, che,  conosciuto  in  Mantova  il  Bandelle,  lo  ri- 

(')  Bandello,  Canti  XI  De  le  lodi  ecc.,  cit.  Canto  VI, 
pag.  95  ret.  e  9G. 

(-)  Rime  di  Matteo  Bandelio,  tratte  da  un  un  Codice 
della  K.  Bildioteca  di  Torino  e  i)ubblicate  [>or  la  prima 
volta  dal  dott.  Lodovico  Cost;i.  Torino,  Pcnnba,  1810,  So- 
netto 3G. 


175 


vide,  molti  anni  dopo,  in  Agen,  ove  dimoravano 
entrambi  ('),e  cantò  in  latino  le  Nymphaeele  Heroi- 
nae  del  Bandello,  nominando  per  prima  tra  le 
Ninfe  la  Diva  Violantilla  Bonromea  ab  Etruria,  (-)  la 
quale  si  lagna  nei  versi  dello  Scaligero,  che  il 
Bandello  troppo  presto  s'è  partito  da  lei  per  correr 
mari  e  terre  lontane;  il  che  è  appunto  un  ricordo 
esatto  di  quello  che  in  realtà  era  accaduto.  L'iden- 
tificazione, se  non  è  dunque  assoluta,  mi  sembra 
per  lo  meno  molto  probabile  e  tre  sarebbero  così 
come  vedremo,  i  platonici  amori  del  Bandello, 
rispondenti  alle  tre  età  della  vita,  giovinezza,  viri- 
lità e  vecchiaia. 

(■')  Vedi:  Joseplii  Scaligeri.  Confutationes  Fabiilae 
Bordonianae,  cit.  dal  Bayle.  Diction.  Historique  et  Crit. 
Art.  Bamlello. 

(^)  .T.  C.  ScALiGERt,  PoeiiinUi.  Nj-mphae  indigenae. 
E  il  Bandello  stesso,  che  suggerisce  allo  Scaligero  questi 
nomi,  eh'  egli  certamente  non  conosceva.  Vedi  nella 
Novella  .30  della  Parte  II  la  dedica  al  conte  Niccolò 
D'  Arco. 


CAPITOLO   IX. 


Amori  e  vicende. 

Era  in  tutto  e  soltanto  una  volata  platonica 
od  una  scalmana  giovanile  quel  primo  amore  del 
Bandello?  Non  parrebbe.  Nell'anno  seguente,  1506, 
seguì  0  raggiunse  lo  zio  a  Roma  (^),  indi  a  Na- 
poli ed  a  Cosenza,  d'onde  stavano  per  passare  in 
Sicilia,  quando 

Sovra  il  Grati  1'  aviso  havesti  amaro  (-), 
Che  ti  converse  in  pianto  il  lieto  gioco, 
Poi  che  trista  ombra  le   TVo/e  oppresse, 
Che  fra  le  stello  il  Ciel  di  porre  elesse. 

(1)  Dico  raggiunse^  perchè  nel  poema  segna  una  data 
dell'innamoramento  ed  è  al  3  d'aprile.  Canti  XI  de  le 
lodi^  ecc.  Canto  I,  p.  9,  retro. 

(-)  Il  Bandello  si  fa  narrare  da  altri  la  propria  storia 
nel  poema.  Per  questo  il  racconto  è  sempre  in  seconda 
persona  singolare  del  verbo. 

Masi.  12 


178  — 

Il  povero  giovine  fa  per  morire  a  tale  inaspet- 
tata notizia,  e  giacque  preso  di  così  strana  infer- 
mità, che  lo  credettero  avvelenato: 

Onde  l'alma  reina.... 

Del  bel  smeraldo  pretioso  e  caro 
La  polve  ber  ti  fé'  con  suco  pieno 
D'altri  rimedi  et  altre  polvi  et  acque, 
Com' a' medici  allhor  curar  ti  piacque. 

Da  quest'ultimo  verso  pare  che  il  Randello  si 
burli  di  questa  cura  fantastica,  ma  la  fede  nel- 
l'occulta virtù  di  certe  pietre  preziose  durava  an- 
cora. Vero  è  che  a  procacciarsi  tal  lusso  di  contrav- 
veleni bisognava  aver  regine  per  amiche!  E  chi 
era  la  pietosa  infermiera? 

Beatrice  questa  fu  che  d'  Aragona 

Nacque  e  fu  moglie  del  gran  re  Corvino  ('). 

Nientemeno!  Rimasta  vedova,  s' era  appunto  allora 
ritirata  alla  Corte  degli  Aragonesi  di  Napoli,  ed 
al  Randello  usò  ogni  sorta  di  amichevoli  cortesie. 
Né  sia  chi  pensi  a  male  o   rimugini    i   ricordi  di 

(1)  Canti  XI  de  le  Lodi^  ecc.  —  Canto  VI. 


—  179  - 

Antonio  e  Cleopatra!  Il  Bandello  stesso  previene 
il  caso,  e  nella  Rime  scrive: 

Se  ricca  perla  Cleopatra  ha  sfatto, 

Per  un  amante  fu;  ma  tu  per  darme 
Contro  '1  velen  aita  fai  donarme 
Ricco  smeraldo  in  polve  a  ber  disfatto. 

Quella  d'amor  lascivo  ardendo  a  tale 
La  perla  die  che  fu  di  lei  signore, 
Con  speme  di  tener  l'antico  regno, 

Tu  mossa  sol  da  generoso  core 

A  me  che  nulla  vaglio  infermo  e  frale 
Di  grandezza  real  davi  tal  pegno  ('). 

Ma  ci  volev' altro  che  polvere  di  smeraldo  pel 
male  del  Bandello!  Fu  dunque  a  un  pelo  di  tirar 
le  cuoia  davvero  e  poiché  le  disgrazie  non  ven- 
gono mai  sole,  gli  morì  appunto  allora  anche  lo 
zio,  il  cui  corpo  dovette  riportare  a  Napoli,  siccome 
gli  avea  ingiunto  morendo  il  vecchio  frate  C). 
E  Matteo  si  fa  dire  nel  poema  : 

(')  lìime  cit.  Sonetto  73.  Vedi  ancora  sonetti  72  e  94. 
Nessuna  delle  novelle  del  Bandello  è  a  lei  delicata. 

(2)  L.  Alberti,  Op.  cit.  «  Quo  factum  est  ut  in  Coe- 
nobio  Montisalti,  in  vigilia  divi  Augustini,  postquam 
paucis  diebus  oegrotavit  anno  domini  150G  functus  sit 
septagenarius  et   suo  jussu   (sic    enim  jussit   antequam 


180  — 


Dopo  si  gran  percossa  e  grave  danno 
Mille  solcasti  mari  e  mille  fiumi. 


L'Italia  e  Pranza  ed  altri  luoghi  il  sanno. 


E  sempre  le    Viole  furon  teco, 

Perchè  il  tuo  cor  se  uè  portaro  seco  (i). 

Dalla  fissità  di  questo  pensiero  valsero  forse  a 
distorlo  alquanto  la  politica  e  gli  studi.  Nel  no- 
vembre del  1508  lo  troviamo  in  Francia  a  Blois 
alla  corte  di  Luigi  XII  (-),  mentre  si  ordiscono  i 
prodromi  della  Lega  di  Cambrai,  che  la  Repub- 
blica di  Venezia,  coli' acquisto  di  città  nelle  Puglie, 
nel  Milanese  e  nelle  Romagne  e  colla  protezione 
della  ribelle  Pisa,  aveva  in  certo  modo  provocata 
e  contro  di  lei  fu  conclusa  nel  dicembre  del  1508  (^). 
Neil'  anno  seguente  il  Bandello  pubblicava  in  Mi- 
lano una  traduzione  latina    della    novella   boccac- 

spiritum  efflaret)  delalum  ejus  corpus  Neapolim  per  Eusta- 
chium  Bonouiensem  et  ilattheum  Bandellum,  ejus  ne- 
potem....  in  tempio  Divi  Dominici  sepelliendum  ». 

(1)  Canti  XI  De  le  lodi\  ecc.  Canto  VI,  loc.  cit. 

(-)  Bandello,  Xovelle.  P.  IV,  Nov.  IG.  Dedica  a  Gero- 
nimo Bandello. 

(3)  De  Leva,  Storia  di  Carlo  V.  Tomo  1",  Capo  III. 


181  — 

cesca  di  Tito  e  Gisippo  ad  inntazione  di  quanto 
aveva  fatto  il  Petrarca  per  la  Griselda  ('),  e  non 
sarei  lontano  dal  credere  a  qualche  altro  suo 
viaggio  in  Francia  in  questi  anni  medesimi,  perchè, 
senza  che  si  possa  distinguerli  gli  uni  dagli  altri, 
egli  ne  parla  più  volte  e  perchè  la  Lega  di 
Gambrai  nel  1510  è  gi<à  sciolta,  altre  leghe  si  co- 
stituiscono e  i  Bentivofjlio,  (dei  quali  era  certo  in 
questi  anni  un  agente  diplomatico  il  Bandelle  ) 
riebbero  Bologna  nell'  11  per  opera  dei  Francesi, 
e  nel  12  la  riperdettero  per  sempre.  Importante  è 
la  descrizione  ch'egli  fa  del  suo  viaggio  nel  1508 
dall'  Alpi  fino  a  Blois.  «  Il  viaggio  nel  vero, 
scriv' esso,  è  stato  assai  lungo,  dalle  Alpi  sino  alla 
corte,  per  essere  il  verno  molto  faticoso  per  cagione 
delle  continue  e    altissime    nevi    e   degli    indurati 


(1)  Titi  Romani  Egesipjìique  Athenieitsis  amicorum  hi- 
storia,  in  latinum  versa  per  F.  Malthenm  Bandellum  Castro- 
novensem,  or.  praed.  noviinatiiìi  dicala  clarissimo  adulescenti 
Philippo  Salilo  Gemiensi  juris  Caesarei  ac  Pontificii  alumno. 
La  dedica  al  Sauli  reca  la  data  del  settembre  1508.  La 
data  della  edizione  è  del  dicembre  1509.  Di  questo  raro 
libretto  un  bell'esemplare  ho  trovato  nella  biblioteca 
comunale  di  Bologna. 


182  — 

ghiacci,  che  cavalcando  di  continovo  forza  è  cal- 
pestare. La  medesima  fatica  si  prova  al  ritorno. 
Questo  bene  ci  è  che  il  cammino  è  sicurissimo,  e 
vi  si  può  cavalcare  di  giorno  e  di  notte  con  l'oro 
in  mano  senza  sospetto  di  trovar  fra  via  cosa  ch'ai 
camminar  fosse  molesta.  Gli  alloggiamenti  poi 
sovra  ogni  credenza  per  la  Savoia  e  Francia  tu 
trovi  tanto  agiati  e  sì  comodamente  sei  d' ogni 
cosa  servito,  che  meglio  essere  non  si  può.  11  che 
è  grandissimo  alleggiamento  alla  fatica  che  si  soffre 
in  camminando,  perchè  i  tuoi  cavalli  sono  abbon- 
devolmente  provveduti  di  tutto  ciò  che  a  quelli 
conviene  (')  ».  Ad  altro  viaggio  posteriore  allude 
in  un'altra  lettera  di  dedica  a  Domenico  Sauli, 
personaggio  anch'  esso  d'  alto  affare,  che  si  occu- 
pava di  commerci,  di  lettere,  di  filosofia  platonica, 
e  s' incontrò  in  Lione  col  Bandello,  il  quale  an- 
dava ancora  a  Blois  alla  corte  di  Luigi  XIL  Un 
mercante  letterato  e  filosofo  ;  un  frate  diplomatico, 
poeta  petrarchesco  e  scrittore  di  novelle  poco  edi- 

(1)  Bandello,  Xovelle.  P.  IV,  Isov.  16. 


—  183 

ficanti;  due  figure  caratteristiche  del  Cinquecento  (^). 
E  il  tempo  del  loro  incontro?  Propenderei  a  cre- 
derlo fra  il  1511  e  12,  durante  le  ultime  fortune 
politiche  dei  Bentivoglio.  Ultime  per  loro,  non 
per  gli  Sforza,  alla  causa  dei  quali  restò  per  sempre 
fido  il  Bandello. 

Nel  1512  la  battaglia  di  Ravenna,  che  toglieva 
definitivamente  la  signoria  di  Bologna  ai  Benti- 
voglio, restituiva  quella  di  Milano  al  figlio  del 
Moro,  Massimiliano  Sforza,  che  malamente  la  tenne 
fino  a  che  Francesco  I,  nuovo  re  di  Francia,  con 
la  vittoria  di  Marignano  gliela  ritolse.  Il  Triulzio 
spinse  il  re  a  bandire  tutti  gli  Sforzeschi  e  fu  tra 
questi  il  Bandello,  che  riparò  a  Mantova  sotto  la 
protezione  di  Francesco  e  di  Isabella  Gonzaga  (-), 
forse  da  lui  conosciuta  alla  corte  del  Moro,  quan- 
d'  essa  spesso  vi  si  recava  a  visitar  la  sorella  (^),  o 

(•)  Bandello,  Novelle.  P.  II,  Nov.  6,  Vedi  intorno  al 
Sauli  nel  Giornale  Ligustico:  Anno  VII  e  Vili.  A.  Neri. 
Alcune  lettere  di  D   Sauli. 

{■')  Ibid.  P.  L  Nov.  28. 

(•')  Luzio  e  Kenier,  Buffoni,  Nani  e  Schiavi  ai  tempi 
d' Isabella  Gonzaga  d' Este  in  Nuova  Antologia,  ÌG  agosto  o 
1"  settembre  1891. 


—  184  — 

nel  1513  alla  Corte  di  Massimiliano  Sforza.  Ora 
sbalestrato  a  Mantova  dagli  eventi  politici,  il  Ran- 
dello, come  già  vedemmo,  diviene  familiarissimo 
di  questa  gran  donna  e  non  soltanto  di  lei,  ma 
ancor  pii!i  delle  altre  corti  secondarie  dei  Gon- 
zaga, i  nomi  dei  quali  riempiono  d'ora  innanzi  il 
novelliere  e  la  vita  del  Bandello,  finché  per  lui 
sottentrano  ai  Gonzaga  i  Fregoso,  prima  in  Italia, 
poi  in  Francia. 

In  questo  tempo  però  egli  non  è  conosciuto 
che  per  dotto  oratore  latino,  per  poeta  petrarchesco 
(di  ciò  soltanto  lo  loda  Leandro  Alberti  nel  1517) 
e  per  uomo  d'alto  affare  nella  vita  cortigiana. 
Del  novellatore  nelle  liete  brigate  (così  si  chia- 
mano) dei  palazzi,  dei  castelli  e  delle  corti,  nes- 
suno parla,  né  biografi,  né  epistolari  del  tempo. 
Sarà  la  sua  celebrità  dì  più  lardi,  ma  basta  che  le 
sue  novelle,  e  le  sue  Rime  d'  amore,  stampate  sol- 
tanto nel  1554  e  nel  181G,  passino  manoscritte  da 
una  ad  altra  dama,  da  uno  ad  altro  letterato  o 
gentiluomo,  nella  forma,  di  cui  s'  ha  ancora  per 
le  novelle  un  saggio  autografo  nella  Biblioteca  di 


—  185  — 

Tolosa,  indirizzato  al  Cardinale  d' Armagnac  (') 
e  per  le  Rime  in  un  codice  della  Biblioteca  di 
Torino,  colà  recato  nel  corredo  di  nozze  da  Mar- 
gherita di  Francia,  allorché  vi  venne  sposa  di 
Emanuele  Filiberto  ('),  basta  questo,  dico,  per  rav- 
visare nel  Randello  uno  dei  più  compiuti  rappre- 
sentanti della  vita  cortigiana  del  secolo  XVI, 
«  presa,  come  ben  dice  il  Graf,  nella  sua  duplice 
e  più.  larga  significazione  di  forma  di  coltura  e 
forma  di  vita  »  ('),  e  della  quale  dettano  i  precetti 
Baldassar  Castiglione  nel  Corlegiano  e  monsignor 
Della  Casa  nel  Galateo. 


(1)  Nella  Bibliotecji  del  Collegio  di  Tolosa  è  un  ele- 
gante codice  autografo  di  una  novella  del  Bandelle  inti- 
tltolata:  \j'  Il  istori  a  di  Odoardo  Re  d' Inghilterra  et  Alice 
sita  innamorata  e  poi  moglie.  Pare  l'esemplare  stesso 
stato  inviato  dal  Bandello  al  D' Armagnac,  cui  la  no- 
vella è  dedicata.  Vedi:  Gazzera,  Notizie  intorno  ai  Codd. 
Mss.  di  cose  italiane  conservati  nelle  Biblioteche  del 
Mezzodì  della  Francia,  premesse  al  Trattato  della  dignità 
ed  altri  inediti  scritti  di  T.  Tasso.  —  Torino,  Stamp.  Keale, 
1838,  pag.  69. 

(-)  Napione,  Pienioììlesi  Illustri.  Op.  cit.  Ri/ne  del  Ban- 
dello   Edizione  citata. 

(^)  Graf,  Attraverso  il  Cinquecento.  Petrarchismo  ed 
Antipetrarchismo. 


—  186  — 

C'era  però  chi  alla  perfetta  cortigianeria  del 
Bandello  trovava  a  ridire,  forse  l' Arcidiacono  di 
Mantova,  contro  cui  si  svelenisce  il  Bandello  con 
una  stizza  personale,  così  insolita  in  lui,  che  non 
.mi  par  dubbio  ch'egli  miri  a  vendicarsi  d'un  ne- 
mico (').  Certo  nel  Novelliere  non  risparmia  ve- 
scovi, preti,  monache,  frati,  e  quelli  stessi  dell'Ordine 
Domenicano,  a  cui  egli  appartiene,  ma  non  prende 
di  mira  persone.  L*  arcidiacono  di  Mantova  od  altri 
doveva  adunque  aver  riferito  male  dei  fatti  del 
Bandello  ai  superiori  dell'  Ordine  Domenicano, 
perchè  fu  presta  Isabella  Gonzaga  a  difendere 
l'amico  suo  con  una  lettera  del  15  aprile  1518, 
pubblicata  da  Alessandro  Luzio,  documento  stu- 
pendo, che  suona  cosi: 

«  Revcrendissimis  Dominis  Vicario  et  diffmitoribiis 
Coìigregationis  Fratrum  Praedicalonim. 


(1)  Bandello,  Novelle.  P.  I,  Nov.  30.  Nella  novella  42 
della  P.  Ili,  chiamandolo  di  nuovo  l' arci/anfano,  dice 
che,  se  costui  vedesse  quella  novella,  lo  metterebbe  in 
mal' aspetto  presso  altre  persone  ed  egli  sarebbe  di  nuovo 
forzato  di  mettergli  alle  spalle  Isabella  e  T  Equicola,  che 
è  forse  lo  scrittore  del  documento  seguente. 


—  187  — 

«  Reverendissimi  in  Christo  paùres,  amici  nostri 
lionor .... 

«  Le  virtù  et  opti  me  qualità  che  havemo 
sempre  conosciuto  nel  Ven.  Frate  Matlheo  Ran- 
dello et  la  religiosa  et  modesta  vita  che  sapemo 
esso  aver  continuamente  tenuto  in  questa  nostra 
città  poi  che  '1  vi  è  dimorato  nel  convento  de  P.P. 
de  Sto  Dominico  sono  state  di  tal  sorte  che  da 
noi  et  da  qualunque  persona  da  bene  et  di  bon 
judicio  non  ponno  se  non  grandemente  essere  lau- 
date et  commendate  per  il  vero.  Però  havendo 
noi  inteso  che  V.  P.  erano  altrimenti  state  infor- 
mate, il  che  conoscemo  essere  falsissimo,  ce  seria 
parso  appresso  noi  stesse  mancar  del  debito  nostro 
se  cun  questa  nostra  non  havessimo  fatto  ampia 
fede  a  quelle  delli  boni  portamenti  del  pre.*"  frate 
Matteo,  quali  veramente  sono  tali  che  da  ogni  da 
bene  et  virtuosa  persona  sono  degni  di  grandis- 
sima commendatione.  Noi  adunque  pregando  V.  P. 
ad  demetter  ogni  sinistra  opinione  havuta  di  esso 
se  per  caso  alcuna  ne  havessero,  il  che  però  non 
credemo,  quanto  più  potemo,  le  pregamo  ad  ha- 
vedo  raccomandato   et   charo,  come    ricercano  le 


—  188  — 

inoumerabili  sue  virtuti,  che  ultra  che  faranno 
cosa  degna  di  sé,  a  noi  faranno  summo  piacere, 
del  quale  li  ne  sentiremo  qualche  obbligo,  offe- 
rendoce  ancor  noi  ad  ogni  lor  piacer  et  comodo 
paratissime. 

«  Mantue,  XV  aprilis  1518  »  (')■ 

Speravano  gli  esuli  Sforzeschi  nell'  imperatore 
Massimiliano  (con  anacronismo  singolare  li  chia- 
mavano ancora  Ghibellini),  ma  quello  spiantato 
venne  fin  sulle  porte  di  Milano  e  tornò  indietro. 
Rimasero  dunque  a  Mantova,  o  andavano  e  veni- 
vano celatamente  (^).  Fatto  è  che,  nonostante  il 
certificato  d'Isabella,  ricorre  in  questo  tempo  un 
altro  amore  del  Bandello.  La  donna,  che  glielo 
inspira,  è  nelle  Rime  e  nel  Poema  nascosta  sotto  il 
pseudonimo  di  Mencia,  derivato  dal  fiume  Manto- 
vano; amore  purissimo  però,  platonico  fin  che  si 
vuole,  quello  anzi  che  in  lingua  povera  oggi  si 
direbbe  un  fiasco  in  tutte  le  regole.  Lo  confessa  con 
tanto  candore,  che  bisogna  credergli!  Direi  chela 

(1)  A.  Lozio,  /  Precettori  d' Isabella  d'  Este.  Appunti  e 
documenti,  pag.  45,  in  nota. 

(2)  Bandello,  Novelle.  P.  I,  Nov.  28. 


—  189  — 

signora  è  maritata  ;  va  e  viene  da  Mantova  ;  ai 
sospiri  del  suo  poeta  non  dà  retta  (^);  piange  un 
cane  perduto  (-),  un  pappagallo  morto  (^),  ma  al 
fedele  amanie  ride  sai  naso  {*).  Buttarsi  nella 
maggior  possibile  idealità  platonica  è  in  tal  caso 
un  modo  di  cavarsela  con  onore  e  nel  Cinquecento 
s'avea  anche  il  vantaggio,  che  era  di  moda.  Con 
tutto  questo  non  voglio  scusare  il  Bandelle.  Ma, 
suo  buono  0  malgrado,  la  sua  vita  è  migliore  delle 
sue  novelle.  E  teniamogli  conto  altresì  d'avere 
occultato  con  tanta  cura  il  nome  dell'eroina;  te- 
niamogli conto  del  silenzio,  obbligo  di  gentiluomo, 
applicazione  della  massima  che  amore  vuol  discre- 
tezza e  mistero,  massima  cara  al  novellatori,  non 
escluso  il  Bandello,  che  rifa  in  novella  il  vecchio 
mito  di  Amore  e  Psiche  (^).  Quanto  al  resto,  perchè 
gettargli  la  pietra?  È  il  tempo  dei  tranquilli  amori 
del  Bembo  per    la    Morosina,    dei    tempestosi    del 


(1)  Rime.  Sonetto  XVII  ed  altri. 
(-)  Ibid,  Sonetto  XXI. 
(■•)  Ibid.  Sonetto  XXVII. 
(')  Ibid.  Sonetto  XXXI. 

(^)  Laxd.vu,  Beitrage  zur  Geschiclite  der  Italianisclien 
Novelle,  p.  lOG.  Banuello,  Nov.  6  della  P.  I. 


—  190  — 

Molza  per  un'  etèra,  a  consolarlo  dei  quali  non 
esita  a  scrivere  un  sonetto  persino  una  quasi  santa, 
Vittoria  Colonna  C). 

U  Bandello  doveva  aver  ottenuto  di  far  ritorno 
a  Milano,  perchè  da  Milano  scrive  a  Federico  Gon- 
zaga, nuovo  marchese  di  Mantova,  il  20  marzo  1520, 
mandandogli  l'orazione  funebre  da  lui  composta 
per  il  primo  amiiversario  della  morte  di  suo 
padre  (*),  1'  eroe,  se  non  vincitore,  non  vinto  al- 
meno, come  dice  il  Tasso,  della  battaglia  di 
Forno vo  (^). 

(1)  Virgili,  Un  sonetto  di  Vittoria  Colonna,  Eassegna 
Seti.,  Xlir,  251.  Vedi  in  Giornale  Storico  della  lett.  Ital. 
Voi.  34.  Fascic.  100-101  :  La  coltura  e  le  relaz.  Lett.  di  Isa- 
bella Gomaga^  pag.  47.  In  nota.  I  sigg.  Luzio  e  Renier 
pensano  che  questa  Mencia  po.ssa  essere  Lucrezia  Gon- 
zaga. Non  credo.  E  se  dovessi  arriscliiare  una  ipotesi, 
direi  che  le  maggiori  probabilità  sono  per  Ippolita  To- 
relli, che  sposò  il  Castiglione.  Era  damigella  di  Isabella. 

('-)  D'Arco,  Notizie  cit.  Archiv.  Star.  Ital.  Voi.  2°,  Ap- 
pend.  II,  Doc,  pag.  318. 

(^)  Cfr.  Ldzio-Eenieb,  Francesco  Gonzaga  alla  bat- 
taglia di  Fornovo  in  Archiv.  Star.  Ital.  Serie  V,  Tomo  VI. 
Nella  Parentnles  Oratio  cit.  il  Bandello  vaota  il  sacco 
delle  lodi  e  delle  comparazioni  rettoriche  di  Francesco 
Gonzaga  coi  più  grandi  capitani  dell'  antichità  e  fa  dire 


—  191  — 

Siamo  al  principio  della  rivalità  fra  Carlo  V 
e  Francesco  I  e  al  principio  altresì  della  vita  mi- 
litare del  Bandelle.  Mercè  le  armi  imperiali  e  pon- 
tificie, Francesco  Sforza,  ultimo  figlio  del  Moro,  è 
fatto  Duca  di  Milano;  la  battaglia  della  Bicocca, 
perduta  dai  Francesi  nel  22,  ve  lo  mantiene.  Ma 
la  lotta  continua  e  nel  25  la  battaglia  di  Pavia,  dà 
tale  prevalenza  agli  imperiali,  che  Francesco  Sforza 
e  Girolamo  Morone  pensano  a  liberarsi,  con  la 
congiura  famosa,  degli  incomodi  protettori.  Trescò 
in  essa  il  Bandello?  Mi  parrebbe  di  sì,  stando  a 
ciò  che  nel  poema  si  fa  dire  da  chi  rammemora 
con  lui  i  casi  passati: 

Elegesti  r  esigilo  per  non  dare 

Esigilo  e  morte  a  tanti,  che  tu  sai, 
Ti  volle  11  Leiva  gran  partiti  fare 
E  fur  le  sue  promesse  larghe  assai, 
Ma  non  ti  puote  il  buon  voler  cangiare 
Che  giusto  si  mantenne  sempre  mai. 
Povero  e  fido  esser  volesti  prima 
Che  restar  ricco  senza  honor  e  stima. 


a  Carlo  Vili:  «  Si  Mantuae  hic  Princeps  prò  Aragoniis 
in  Regno  Napolitano  stetisset,  actura  mehercule  erat  de 
nobis  ».  Append.  II. 


192 


Così  per  non  scoprir  quanto  bramava 
Saper  il.  Leiva,  che  tenevi  in  mano, 
Lasciasti  Insubria,  ma  la  voglia  prava 
Non  s'acquetò  di  quel  Marino  insano, 
Che  s'avisto  non  eri  allhor  ti  dava 
In  poter  de  l'armato  e  crudo  Hispano, 
Ond'habito  cangiasti  e  fusti  astretto 
Lasciar  il  caro  nido  si  diletto. 

Facesti  quanto  a  te  si  convenia, 

Ma  quel  Duca  Sforzesco  che  ti  fece? 
Ov*  iron  le  promesse  tutta  via, 
Che  ti  fé' de  le  volte  piìi  di  diece? 
Non  tenne  a  mente  ch'era  in  tua  bal'ia 
Pagargli  l'opre  così  false  e  biece. 
Ma  cos"i  va  ch'ingrato  prence  serve. 
Il  cui  voler  al  ben  di  rado  serve  (') 

Certo  il  Bandello  fu  tra  le  vittime.  La  sua 
stanza  in  Milano  fu  posta  a  sacco  dagli  Spagnuoli, 
i  suoi  manoscritti  trafugati  e  dispersi  f  ),  il  padre 
costretto  a  rifugiarsi  a  Roma  (^).  esso  nuovamente 
presso  i  Gonzaga  che,  come  abbiamo  veduto,  seguì 
al  campo   della    Lega,   indi   a    Viterbo   nel   1527 

(1)  Canti  XI,  De  le  lodi,  ecc..  Canto  VL 

(2)  Bandello,  Novelle,  P.  II,  Nov.  11.  Dedica  ad  Emilio 
degli  Emilii. 

(3)  Ibid.  P.  I,  Nov.  52.  Dedica  al  Card.  Pompeo 
Colonna. 


—  193  — 

«  non  molto  dopo  il  Sacco  di  Roma  »  ('),  quando 
coir  imprudente  Lega  di  Cognac  Clemente  VII 
avea  attirala  quella  estrema  rovina  sulla  sua  capi- 
tale (').  Tutti  questi  fatti  sono  compendiati  dal 
Bandello  nell'ottava  seguente: 

Che  (piando  il  campo  de  la  lega  Santa, 
Ov'è  d' Insubria  la  città  maggiore, 
Stava  accampato  o  v"  era  gente  tanta, 
Che  poteva  il  nemico  trarne  fore, 
E  quando  poi  Thoscana  tutta  quanta 
Andò  sossopra  con  sì  gran  furore 
E  Roma  saccheggiata  fue,  allhora 
Col  Gonzaga  facesti  ognihor  dimora  (•^). 

Dal  servizio  di  Luigi  Gonzaga,  passò  il  Ban- 
dello a  quello  di  Cesare  Fregoso,  capitano  al  ser- 
vizio dei  Veneziani,  prima  in  Romagna,  poi  in 
Verona,  e  cognato  del  Gonzaga,  perchè  entrambi 
avevano  per  moglie  due  sorelle  Rangoni,  Ginevra 
e  Gostanza;  matrimoni  architettali  dal  Bandello  e 

(')  Ibid.  P.  I,  Nov.  41.  Dedica  :i  Kinuccio  Farnese. 

('^)  Gregorovius,  Storia  di  Roma  nel  M.  L'.,  Voi.  Vili. 
Anche  il  Bandello  descrive  il  Sacco  di  Roma  nelle  No- 
velle e  nel  Poema.  Ma  la  sua  narrazione,  fra  le  tante, 
non  ha  alcuna  speciale  importanza. 

(^)  Canti  XI,  De  le  lodi,  ecc.,  Canto  VI. 

Masi.  13 


—  194  — 

dei  quali  si  compiace  a  ragione,  perchè  al  servizio 
di  Cesare  e  Gostanza  Fregoso  rimase  ormai  per 
tutta  la  vita  ('). 

Cesare  Fregoso,  esule  genovese,  e  della  famiglia 
rivale  agli  Adorno,  tentò  piiì  volte  l' impresa  di 
Genova,  ma  Andrea  Boria  troncò  sempre  in  fiore 
le  sue  speranze  e  dovette  contentarsi  di  rimanere 
un  capitano  al  servizio  prima  dei  Veneziani,  poi 
del  Re  di  Francia.  In  qualità  di  segretario,  il  Ran- 
dello stette  parecchi  anni  coi  Fregoso,  in  Verona, 
vivendo  a  sé  e  alle  Muse,  come  suol  dire,  e  non  oc- 
cupandosi di  politica  se  non  quanto  conveniva  ai 
suoi  signori  ed  apparisce  da  certe  sue  lettere 
del  1532  dirette  ad  Alberto  Serego  C),  nelle  quali 
parla  delle  gravissime  minacele  dei  Turchi  con 
Solimano,  e  di  Carlo  V,  che  fortemente  si  op- 
pose (^),  apprestando  una  resistenza,  per  la   quale 

(^)  Vedi  LiTTA,  Famiglie  Gonzaga  e  Fregoso.  Bandello, 
Canti  XI,   De  le  lodi,  ecc. 

(■-)  Giuseppe  Biadego,  Tre  lettere  inedite  di  M.  Ban- 
delle tolte  dalla  Corrispond.  Serego  della  Bib.  Com.  di 
Verona  e  pubblicate  nel  Preludio  (Ancona)  Anno  VII, 
n.  14  del  30  luglio  1883. 

(*)  De  Leva.  Op.  cit.,  Tom.  III. 


—  195  — 

Solimano  non  osò  muover  sii  Vienna,  come  voleva, 
e  minacciato  lui  stesso  da  Andrea  Doria  sul  mare, 
dopo  poche  fazioni  guerresche,  si  rilirò.  Questo 
farsi  paura  alla  larga,  forse  in  Italia,  ove  s'aspet- 
tavano a  gran  battaglie  e  stragi  di  Turchi,  non 
era  capito,  sicché  il  Bandello  ne  ride,  parendogli, 
«  che  il  Turco  co  l'imperator  giochino  al'ascon- 
darola,  che  hora  siano  vicini  et  hora  siano  lon- 
tani mille  miglia  et  certamente  io  non  vidi  mai 
le  più  belle  bagatelle  ».  Nella  stessa  lettera  però 
conclude  che  il  Turco  si  ritira  «  a  la  volta  di 
Costantinopoli  »  e  questo  fu,  per  allora  almeno,  il 
più  importante  (').  Ma  in  Italia,  morto  Francesco 
Sforza,  che  chiamò  erede  Carlo  V  del  Ducato  di 
Milano,  la  guerra  divampò  di  nuovo  ed  ecco  anche 
il  Bandello  un'altra  volta  fra  arme  ed  armati,  al 
seguito  di  Cesare  Fregoso,  che  i  Veneziani  puni- 
rono severamente,  persino  col  bando,  (che  poi  per 
intercessione  dell'ambasciatore  di  Francia  gli  fu 
condonalo)  per  avere  senza  il  loro  consenso  accet- 
ti) Ibid,  Lett.  del  IG  ott.  153-2.  Una  parto  dell'  Vu- 
gheria  divenne  turca  nel  1540-11  e  rimase  tale  fino 
al  1686. 


—  196  — 

tato  un  comando  nell'esercito  del  Re  (').  Le  im- 
prese di  Cesare  Fregoso,  prode,  dotto  ed  elegante 
soldato  Italiano  (^),  poco  si  conoscerebbero,  se  non 
le  avesse  celebrate  il  Bandello  nel  suo  poema  e 
nelle  sue  novelle. 

Rotta  la  guerra  del  1536,  i  Francesi  invasero 
il  Piemonte,  ma  l' impresa  falliva  in  sul  nascere, 
se  Guido  Rangone,  radunato  un  esercito  alle  Mi- 
randola, in  cui,  dice  il  Bandello,  era  «  il  fior  di 
tutta  la  nobiltà  italiana  »  (^),  non  lo  conduceva  in 
loro  soccorso.  Il  principale  personaggio,  dopo  Guido 
Rangone,  era  Cesare  Fregoso  e  con  lui  stava  il 
Bandello,  che  di  frate  veramente  non  ha  ora  piij 
nulla.  Di  se  non  narra  fatti  di  guerra,  ma,  novel- 
lando, si  vede  ch'egli  passa  da  una  tenda  al- 
l'altra dei  comandanti,  li  segue  sugli  spalti  delle 
fortezze,  fra  le  mischie,  per  tutto,  in  atteggiamento 
continuo  di  guerriero,  che    d'  essere  stato  o  d'  es- 


(1)  Zeller,  La  Diplomane  Fran^aise  vers   le    milieu  du 
XVI  siede,  Chap.  II,  pag.  68. 

(2)  Bandello,  Novelle,  P.  II.  Nov  10.    P.    IV.    Nov.  25. 
Canti  XI,  De  le  lodi,  ecc.  Canto  IV. 

(3)  Ibid.  P.  II,  Nov.  15.  Dedica  a  Luigi  Gonzaga. 


^  197  — 

sere  uom  di  chiesa  non  si  ricorda  neppure  C). 
Quanto  al  Fregoso,  il  Bandello  narra  nel  suo 
poema,  che,  liberalo  Torino  dall'assedio  e  preso 
Carignano,  andò  in  Avignone,  ove  era  il  Re,  il 
quale  gli  conferì  l'ordine  di  S.  Michele  e  colma- 
tolo di  carezze  e  di  onori  lo  rimandò  in  Piemonte. 
Qui  conquistò  Racconigi,  disfece  Barge  e  Briche- 
rasio,  e  poi  si  chiuse  in  Gherasco,  ove,  benché  in- 
fermo, fece  così  ostinata  resistenza,  che  ne  uscì  con 
lutti  gli  onori  di  guerra,  lui  e  la  sua  gente.  Pel  Mon- 
ginevra  ritornò  allora  al  Re  in  Dellìnato,  che  nuo- 
vamente onorò  la  sua  virtù  e  con  parole  umanissime 
(che  il  Bandello  dice  d'aver  stampate  in  cuore, 
perchè  era  presente  al  colloquio)  gli  aggiunse  ufTici 
maggiori  e  maggiori  doni,  fra  i  quali  è  da  notare  il 
seguente,  a  cagione  delle  conseguenze,  che  per  lo 
slesso  Bandello  ne  risultarono.  Al  Fregoso  adunque: 

Il  re  cortesemonte  gli  concieJe 

Uh  vescovato  ricco  e  singulare 

Che  por  mi  de  li  snoi  fij:liuoi  gli  diodo 

Acciò  si  possa  a  chi  vorrà  mostrare 

Ch'appresso  tanto  Re,  stat' è  in  honore 

Una  sincera  fò,  un  saldo  core  (') 

(1)  Ibid.  P.  II,  Nov.  ]5,  IG,  17,  18,  li),  20. 

{•)  Bandello,  Canti  XI,  De  le  lodi,  ecc.  Canto  IV. 


—  198 

La  tregua  di  Nizza  del  1537,  se  non  pose  fine 
alla  lotta  fra  la  Francia  e  l' Impero,  pose  fine 
almeno  alla  vita  militare  del  Bandelle.  Si  ritirò 
col  Fregoso  a  Castelgiuffredo,  ove  le  due  sorelle 
Rangoni  vivevano  insieme  coi  mariti  Gonzaga  e 
Fregoso  e  con  una  giovinetta  bellissima,  di  nome 
Lucrezia,  orfana  di  Pirro  Gonzaga  e  di  Camilla 
Bentivoglio  (altro  matrimonio  fatto  dal  Ban- 
dello)  ('),  che  avevano  presa  ad  educare. 

(1)  Canti  XI  de  le  Lodi,  ecc.  Canto  II,  pag.  24. 


CAPITOLO  X. 


Castelg-iuffredo,  la  dimora  in  Francia 
ed  il  rifugio  finale. 

A  sentire  il  Bandello,  Castelgiuffredo  era  l' al- 
bergo di  tutte  le  virtù,  di  tutti  gli  affetti  e  studi 
gentili.  E  per  parecchi  de'  suoi  abitatori  era  vero. 
Ma  il  sesso  forte  (se  si  toglie  il  Bandello)  era  rap- 
presentato da  personaggi,  abituati  di  lunga  mano 
a  mescolarsi  in  tutte  le  più  torbide  faccende  della 
vita  e  della  politica  cinquecentista  e  nemmanco  la 
solitudine  campestre,  le  occupazioni  letterarie  e  la 
compagnia  di  belle  e  virtuose  donne  pare  li  disto- 
gliessero  del  tutto  dalle  loro  vecchie  abitudini. 

Di  questo  tempo  appunto,  cioè  nel  1538,  Luigi 
Gonzaga  e  Cesare  Fregoso  furono  accusati  d'aver 
fatto  avvelenare,  per  invidie  e  rivalità  militari. 
Francesco  Maria  Della  Rovere,  Duca  di  Urbino. 
11  bruito  affare  fu  abbuiato.  In  una  lettera  di  Ce- 


—  200  — 

sare  Fregoso  al  Doge  di  Venezia  del  5  maggio 
1539,  esso  nega  ogni  partecipazione  al  delitto  e 
chiede  d' esser  messo  a  confronto  dei  suoi  accu- 
satori; confronto  che  poi  non  avvenne  (').  E  sia 
pure,  che  fosse  a  torto  accusato.  Ma  il  cognato 
Luigi  Gonzaga  era  muso  da  queste  imprese,  poi- 
ché si  sa  che  s'  era  offerto  all'  Imperatore  per  li- 
berarlo di  Pietro  Strozzi  e,  che  quando,  mortagli 
la  Ginevra  Rangoni,  passò  a  seconde  nozze  con 
una  Anguissola,  tenne  mano  appunto  al  cognato 
Anguissola  per  assassinare  Pier  Luigi  Farnese  (-). 
Per  fortuna  il  buon  Bandello  non  entra  in  queste 
tregende.  Egli  vive  a  sé  e  alle  Muse,  ed  è  pacifico 
maestro  di  lettere  latine  e  greche  e  di  filosofia 
all'orfana  di  Pirro  e  di  Camilla  Gonzaga,  raccolta 
come  dissi,  dalle  due  sorelle  Rangoni  (^).   Se  non 

(^)  Seeassi,  Ledere  del  Conte  BaJdassar  Castiglione 
(Padova,  Cornino,  17C9)  Voi.  I.  Keca  la  lettera  del  Fre- 
goso al  Doge.  —  Lezio,  Un  Pronostico  Satirico  di  P.  Are- 
tino. Pref.  XXXIII. 

(2)  Vedi  Affò,  Vita  di  Luigi  Gonzaga^  detto  «  Rodo- 
tnonte  ».  Questo  è  un  altro  Gonzaga,  e  V  Affò  narra  i 
fatti  appunto,  perchè  il  cosidetto  liodoinottte  non  sia  con- 
fuso con  r  altro  Luigi  Gonzaga. 

(^)  Vedi   Lettere  della  molto  illustre  signora^  la  signora 


201 


che,  a  farlo  apposta,  questa  giovinetta  di  raro  in- 
gegno e  di  più  rara  bellezza,  somiglia,  come  due 
goccie  d'acqua,  a  quella  Violante,  che  fu  in  Fi- 
renze il  primo  amore  del  Randello.  Se  lo  fa  pre- 
dire dalla  ninfa  Eridania  nel  poema: 

....  come  vedi  questa,  vederai 
De  la  tua  prima  fiaaiina  il  vago  aspetto, 
E  si  simili  i  bei  lucenti  rai. 
Che  ti  parrà  veder  il  viso  schietto. 
Onde  ti  fur  si  dolci  e  amari  i  guai, 
Che  da  prim'anni  a  l'ombra  e  al  chiaro  sole 
iSoffristi  in  ripa  ali"  Arno  tra   Viole  (')• 

Ed  egli  Stesso  nelle  Rime  scrive: 

Di  quelle  prime  mammole  viole, 

Che  fur  si  fresche  e  di  soave  odore, 

Ma  SI  tosto  cangiaro  il  bel  colore 

Al  tramontar  del  lor  nativo  sole, 
Questa  che  fa  di  me  quel  eh'  ella  vole 

L'immagin  m' appreseiita  in  mezzo  al  core. 


Donna  Lucretìa  Gomaga  de  Gazuoìo  con  gran  diligentia 
raccolte  et  a  gloria  del  sesso  femminile  nuovamente  in  luce 
lìoste.  —  Vinegia,  1Ó5'2.  Lett.  X  febbraio  (senza  data  di 
anno);  —  Outensio  Landò.  Sette  libri  de  Cathaloghi.  etc. — 
Vinegia,  Giolito,  15u"2;  Catìiulog.  de  i  più  famosi  j)recet- 
tori,  pag.  5G3. 

(Il  Canti  XI  de  le  Lodi,  ecc.   Canto  7,  pag.  U. 


—  202  ~ 

Veggio  queir  aria  del  bel  viso  santo 
Con  la  tenera  età,  con  quella  grazia, 
Che  la  dolce  memoria  ognor  rinfresca  (i). 

Erano  quelle  stesse  gnancie  di  latte  e  rose, 
quegli  stessi  occhi  e  ben  arcate  ciglia  nere,  quegli 
stessi  capelli  biondi  d'oro  schietto!  (")  Come  re- 
sistere ad  una  simile  trappola  del  destino?  Il  Ban- 
dello  è  troppo  artista  da  non  sentirsene  preso! 
E  l'essere  ormai  vecchio  gli  fa  peggio: 

Che  quanto  secco  legno  e  arso  e  sfatto 
Adesso  sei,  più  tosto  abbruscierai 
E  s'eri  prima  di  cenere  fatto, 
Hor  in  faville  ardenti  volerai  (3). 

È  questo  dunque  l'ultimo  amore  del  Bandelle, 
l'amore  della  vecchiaia,  e  quello  solo,  che  è  da 
lui  pubblicamente  confessato  nelle  Novelle  e  nei 
suoi  versi  (^).  Non  si  può  negare  che  certe  espres- 
sioni del  poema  e  delle  Rime  (e  in  queste  ultime, 

(1)  Rime  cit..  Sonetto  XXXVI. 

(2)  Canti  XI  de  de  Lodi,  ecc.  Canto  II,  pag.  35. 

(3)  Cauti  XI  de  le  Lodi,  ecc.   Canto  I,  pag,  7  retro. 

[*)  Affò,  Memorie  di  tre  celebri  principesse  della  fa- 
miglia Gonzaga.  Memoria  di  Donna  Lucrezia  Gonzaga  Man- 
frone. 


—  203  — 

del  resto,  i  tre  amori  bandelliani  sono  ad  arte 
mescolali  e  confasi)  non  si  può  negare  che  non 
sempre  convengano  ad  un  amore  tutto  idealità  e 
che  non  ha  culto  per  la  bellezza  terrena,  se  non  in 
quanto  adombra  la  verità  e  la  bellezza  di  Dio  ed  è 
scala  per  elevarsi  a  lui.  Non  si  può  negare  altresì 
che  quest'ultima  vicenda  petrarchesca  del  vecchio 
frate  è  alquanto  singolare  e  fa  venir  voglia  di  ri- 
derne. Ma  non  per  questo  se  ne  può  tnirre  argo- 
mento per  denigrare  il  Bandello  come  schiavo 
d' un  eroticismo  senile,  tanto  pili  indegno,  in 
quanto  trattasi  della  nipote  de' suoi  ospiti  e  della 
sua  discepola.  Così  facendo,  e  molti  1'  han  fatto, 
si  dà  segno,  parmi,  di  conoscer  ben  poco  il  Cin- 
quecento e  di  aver  mal  letto  il  poema,  le  Rime  e 
le  Novelle,  nelle  quali  il  Bandello  ha  celebrato 
Lucrezia  Gonzaga.  A  lei  preannuncia  il  poema 
molto  tempo  prima,  còme  l'opera,  in  cui  s'è 
sforzato  di  renderla  immortale  (').  Alla  sorella  di 
lei,  Isabella  Gonzaga  di  Povino,  scrive  pure  an- 
nunziando le  Stanze,   «   che    io,    dice,  in  lode  ho 

(1)  Randello,  Novelle.  P.  II,  Nov,    IX.    Dedica    a   Lu- 
crezia Gonzayra  di  Gazzviolo. 


-^  204  — 

composto  della  vostra'aobilissima  sorella,  dal  mondo 
riverita  e  da  me  santissimamente  amata,  la  siyiiora 
Lucrezia,  le  quali  in  breve  saranno  pubblicale  »  ('). 
Ciò  dimostra  non  solo  essere  una  semplice  gher- 
ininella  da  editore  la  prefazione  posta  al  poema 
jda  Paolo  Battista  Fregoso,  neli'  unica  edizione 
del  1545,  in  cui  pretende  averlo  di  nascosto  sot- 
tratto e  di  nascosto  del  Bandello  dato  alle  stampe, 
-ma -dimostra  insieme  che  il  poema  del  Bandello 
è  un  concetto  del  tempo  suo,  apertamente  confes- 
sato a  gloria  di  chi  loda  e  di  chi  è  lodato,  e  non 
una  ridicola  cantilena  di  vecchio  frale,  imbertonito 
d'  una  bella  ragazza.  Il  petrarchismo  è  un  fatto 
capitale  del  Cinquecento;  tutta  la  vita  sociale  ne 
è  compenetrata  e  tutta  la  letteratura  cortigiana 
egualmente.  L'amore  è  il  tema  e  la  discussione 
perpetua,  e  Arturo  Graf  cita  in  proposito  i  versi 
dèi  Nelli  nelle  Salire:      ' 

L'  amore  ó  definito  cosi  .spesso 

Da  questi  dotti  e  cosi  pesto  e  trito, 

Che  ormai  non  piìi  si  conosce  egli  stessi)  (''). 

(1)  Ibid.  P.  I,  Nov.  57, 

(2)  A.  GitAi'.  Op.  cit. 


—  20Ó  — 

Ora  dal  guai  politici  del  tempo  (della  storia 
dei  quali  il  poema  è  pieno  e  donde  trae  molta 
importanza)  il  Bandello  assorge  alla  contempla- 
zione astratta  dell'idea  dell'amore,  che  avrebbe 
a  riparare  i  danni  dell'odio,  delle  cupidigie  t-.  della 
discordia,  e  questo,  che  è  il  concetto  fondamentale 
del  poema,  è  tntt' altro  che  volgare,  come  non  è 
volgare  impersonarlo  in  una  giovinetta,  miracolo 
di  bellezza,  d' ingegno  e  di  virtù,  e  discendente 
e  imparentata  con  le  due  famiglie  dei  benefattori 
e  mecenati  del  Bindello. 

Ma  tutta  questa  intimità  di  vita  colta  e  signo- 
rile in  Gastelgiuffredo,  che  formava  la  delizia  del 
Bandello,  non  durò  molto;  tre  anni  al  più.  E  di- 
sparve per  gradi,  prima  per  cagioni  private,  poi 
per  cagioni  pubbliche  e  politiche,  che  nelle  loro 
tempeste  travolsero  e  sfolgorarono  il  dolce  nido 
del  giocondo  novellatore.  Alcune  lettere  del  Ban- 
dello, parte  in  persona  propria,  e  parte  scritte  di 
suo  pugno,  ma  in  persona  dei  suoi  signori,  ci  in- 
formano di  questa  successiva  mina  e  dispersione 
della  piccola  brigata  di  Gastelgiuffredo  Q).  La  sto- 

(')  Amadio  Konciiini,  Lettere  d'  uomini'  t'ìlitstri  conser- 
vate in  Parma  nel  R.  Archivio  di  Stato.    Voi.    I.    Sono    di- 


—  206 

ria  dice  il  resto.  Sino  alla  fine  del  luglio  1540 
vedasi  l'interna  vita  del  castello  continuare  nel 
suo  tenore  ordinario:  visite  di  piacevoli  gentiluo- 
mini, arrivi  di  belle  signore,  fra  l' altre  di  Co- 
stanza Gonzaga  di  Novellara,  di  Isabella,  sorella 
della  j^iovine  Lucrezia;  discussioni,  quale  delle 
due  sorelle  sia  la  più  bella,  ricerche  di  libri,  dei 
Capitoli  del  Berni,  ad  esempio,  scambio  di  doni, 
frutta,  dolci,  formaggi,  ai  quali  non  è  insensibile 
neppure  il  platonico  Bandello  (^).  A  un  tratto 
Gostanza  Fregoso  deve  andarsene  a  Gastiglione 
per  mutar  aria;  la  segue  Cesare,  suo  marito,  af- 
flitto dalla  terzana;  Ginevra,  moglie  di  Luigi  Gon- 
zaga, muore  in  pochi  giorni  e  non  è  ancora  sot- 
terrata, si  può  dire,  che  Luigi  passa  ad  altre  nozze 
con  Caterina  Anguissola;  le  due  gentili  sorelle, 
Lucrezia  e  Isabella  Gonzaga,  se  ne  vanno  a  Ga- 
zuolo,  lasciando  Castelgiuffredo,  «  colmo  di  te- 
nebre e  di  pianto  »  ej  come  se  non  bastasse,  il 
Bandello,   che    tieii    d'occhio    anche   la   politica, 

rette  al  conte  Agostino  Laudi  di  Piacenza,  il  quale  era 
figlio  di  una  Fregoso.  Poggiali.  Memorie  per  la  Storia 
Lett.  di  Piacenza.  Voi,  2. 

(1)  Lettere  dal  12  maggio  all'ultimo  di  luglio  1540. 


—  207 

accenna  misteriosamente  che  qualche  cosa  di  nuovo 
s'agita  e  rumoreggia  «  da  la  parte  di  Ponente  Q)  ». 
Certo,  e  non  da  quella  parte  soltanto.  La  tre- 
gua, durata  anche  troppo,  fra  Francesco  I  e  Carlo  V, 
stava  per  rompersi  e  Francesco  I  s'apparecchiava 
con  armamenti,  con  alleanze,  (quella  già  stretta 
col  Turco  e  quella  da  lui  tanto  desiderata  con  la 
Repubblica  di  Venezia)  e  chiamando  a  raccolta 
i  suoi  amici.  Cesare  Fregoso  dei  primi.  Questi 
partì  da  Castiglione  il  G  febbraio  1541  (-)  ed  avea 
per  compagno  Antonio  Rincon,  un  avventuriere 
Spagnuolo,  al  servizio  della  Francia,  il  quale  da 
anni  in  qualità  d' agente  francese  andava  e  veniva 
da  Costantinopoli  per  stringere  1'  alleanza  del  Turco 
col  re  Cristianissimo  ai  danni  di  Carlo  V,  ed  ora 
(superando  Francesco  I  tutti  i  pregiudizi  del  suo 
tempo)  c'era  finalmente  riescito.  Il  Rincon,  ve- 
nendo da  Venezia,  dov'  era  stato  a  sollecitar  la 
Repubblica  di  unirsi  al  Re,  raggiunse  il  Fregoso 
ed  insieme    partirono   alla   volta    di    Francia,    pi- 


li) Lettere  13  agosto  1540,  12  marzo  1541. 
(-)  Lettera  di  tal  data  scritta  dal  liandellb  in  persona 
di  Cesare  Fregoso. 


208 


gliando,  come  dice  il  Fregoso  In  una  sua  lettera  (^), 
«  per  la  via  di  Svizari  »  affine  di  sfuggire  alle 
insidie  dell'Imperatore,  che  da  un  pezzo  facea 
dar  la  caccia  a  questo  suo  audace  nemico  (').  Il 
25  erano  a  Lione  e  ripartivano  il  giorno  seguente 
per  la  Corte  (^).  Nel  giugno  già  si  disponevano  a 
tornare,  il  Rincon  per  Costantinopoli  e  il  Fregoso 
come  ambasciatore  di  Francia  a  Venezia,  sempre 
per  indurla  ad  entrar  nella  Lega  (■*).  È  l'ultima 
notizia,  che,  scrivendo  al  cugino  Landi,  la  povera 
Costanza  Frejoso  può  dare  di  suo  marito  e  del 
Rincon,  perchè  tornati  insieme  dal  Cenisio,  affine 
d'imbarcarsi  a  Torino  per  il  Po,  giunti  che  fu- 
rono, poco  distanti  da  Pavia,  al  punto  d'affluenza 
del  Ticino  nel  Po,  gli  sgherri  del  marchese  del 
Vasto,  governatore  di  Milano  per  Carlo  V,  li  tru- 
cidarono entrambi.   Quest'orrenda  e  sfacciata  vio- 

(1)  Quella  sopra  citata. 

(2)  Vedi:  De  Leva,  Op.  cit.  Tomo  2,  pag.  636  per  le 
insidie  antiche,  e  per  quelle  a  cui  acceiino  :  Zeller,  La 
Diplomane  ecc.  Op.  cit.  Chap.  Vili. 

(3)  KoxciiiM,  Lett.  cit.  Lettera  di  Costanza  Fregoso 
di  mano  del  Bandello  17  marzo  1541. 

{*)  Ibid.  Lettera  di  Costanza  Fregoso  di  mano  del 
Bandello  29  giugno  1541. 


—  209  — 

lazione  del  diritto  delle  genti,  di  cui  l'Imperatore, 
per  quanto  s' adoperasse,  non  potè  togliersi  di 
dosso  la  responsabilità,  fu  il  principio  di  una  nuova 
guerra,  e  l'ultimo  colpo  di  fulmine  altresì  su  Ga- 
stelgiuffredo  ed  i  suoi  abitatori  (').  La  sventurata 
vedova  di  Cesare  Fregoso  si  mise  tosto  sotto  la 
protezione  del  re  di  Francia  e  intanto  riparò  a 
Venezia  (-).  Ma  colà  appunto,  mentre  Re  Fran- 
cesco si  apparecchiava  alla  guerra,  assoldando  ca- 
pitani e  milizie  italiane  e  impossessandosi  di  sor- 
presa or  di  questo  ur  di  quel  territorio,  che  po- 
tesse tornargli  utile  durante  una  guerra  da  com- 
battersi in  Italia,  accadde  che  tutte  le  mene  del- 
l' alleanza  franco-turca,  in  cui  si  cercava  fare  en- 
trare anche  la  prudente  Venezia,  ponessero  il  go- 
verno della  Serenissima  sulle  traccio  di  una  spe- 
cie di  vasta  cospirazione,  che  dall'ambasciata  di 
Francia  stendeva  le  fila  fino  nei  piiì  misteriosi 
recessi  del  governo.  Questi  s'accorse  che  i  suoi 
più  gelosi  segreti  erano    rivelati  e  procedette   con 

(1)    Ziu.LKu,  Op.  cit,  Cliap.  Vili. 

{•)  Vedi  in  Zellek,  Op.  cit.,  una   letter.a    dell'Amba- 
sciatore francese  a  Venezia  G  ottobre  1541. 

Masi.  11 


—  210  — 

rapido  rigore  contro  i  traditori.  Non  potè  colpire 
i  più  ;iUi,  ma  cogli  altri  fu  spietato;  tre  ne  mandò 
a  morte;  altri  tre  condannò  iu  contumacia,  e  pro- 
cedendo altresì  contro  le  famiglie  che,  dimoranti 
nel  territorio  della  Repubblica,  aveano  più  intimi 
l'.ipporii  e  familiarità  coli' ambasciatore  francese, 
confiscò  i  beni  «iella  famiglia  Fregoso  e  bandì 
dallo  Stato  Costanza  Fregoso  e  gli  Strozzi,  i  due 
irrequieti  esuli  fiorentini  ('). 

Gostanza  si  rifugiò  in  Francia  con  la  sua  fa- 
miglia e  colà  il  fido  Randello  la  seguitò.  Già, 
come  vedemmo,  Francesco  1  aveva  rimeritati  i 
grandi  servigi  di  Cesare  Fregoso.  Ora  alla  sua 
vedova  ed  ai  suoi  figli  fece,  a  quel  che  pare,  le 
più  onesle  accoglienze,  sicché,  stando  solo  a  quanto 
riferisce  il  Bandello  nelle  sue  novelle,  si  vede  che 
la  vita  di  (juella  signora  in  Francia  era  addiritura 
principesca.  Dimorava  abitualmente  a  B;is3ens,  in 
un  castello  posto  in  vicinanza  di  Agen   (^),   ed  ivi 

(1)  Vedi  ili  Zei.i.kr,  Op.  cit.  Cliap.  X,  XI  e  XII,  pas- 
sim. Ro>rANix.  Sfor/'a  Dociiin.  di  l^enesia.  Tomo  VI.  De  Leva. 
Op.  cit.  Tomo  III. 

(-)  Ora  capoluogo  del  Dipartimento  di  Lot  e  Ga- 
ronne. 


—  211  — 

la  visitavano  i  più  fjrandi  personaggi  della  Corte, 
Margherita,  sorella  di  Francesco  J,  Maria  di  Na- 
varra,  sorella  del  suo  successore  Enrico  II,  e  con 
esse,  ili  tempi  diversi,  la  più  alta  nobiltà  di  Fran- 
cia (').  Alla  corte  (che  tale  era  in  realtcà)  di  Go- 
stanza Fregoso  frequentavano  pure  i  più  cospicui 
gentihiomini  italiani,  che  capitassero  in  Francia  (^). 
Da  quanto  narra  il  Bandello,  la  Fregoso  è,  tra  i 
molti  esuli  Italiani,  quella  che,  per  la  su^  alta 
condizione  e  la  società,  che  raduna  intorno  a  sé, 
contribuisce  maggiormente  a  diffondere  in  Francia 
usi  e  costumanze  italiane,  il  gusto  e  la  moda 
della  nostra  lingua  e  della  nostra  letteratura  (^) 
e  persino  il  taglio  e  la  coltivazione  dei  nostri  giar- 
dini, pei  quali  essa  faceva  venire  ortolani  dalla 
Toscana  ("■).  Spesso  dimorava  nella  villa  di  Bassens 
anche  l' inverno  (').  Talvolta  si   recava    alla   corte 

(1)  Randello,  Novelle.  P.  Il,  Nov.  37-40.  P.  IH,  Mov.  iW. 

{^)  Ibid.  P.  ir,  Nov.  44,  45,  4(5,  47,  48,  49. 

(3)  Ibid.  P.  IL  Nov.  40.  Dedica  alla  conte^isa  Anna 
di  Polig-nac.  P.  II,  nov.  40.  Cf  Fekkai,  L.irexzino  dk' Mk- 
DK'I.  Op.   cit. 

(  ')  Ibid.  P.  II,  Nov.  47. 

(5)  Ibid.  P.  II,  Nov.  49. 


—  212 

in  Parigi  (^).  Tal' altra,  come  quando  nel  1548,  si 
ribellò  la  vicina  città  di  Bordeaux  per  cagione 
delle  gabelle,  e  vi  fu  ucciso  a  furor  di  popolo  il 
luogotenente  generale  del  Re,  signor  di  Moulins  (^), 
Gostanza  «  per  iscbivare  i  perigliosi  tumulti  »  si 
ritirò  a  Saint-Nazaire,  un  castello  della  Badia  di 
Fonlfroid.  «  Quivi  fermatasi,  scrive  il  Bandelle, 
perchè  la  Badia  è  d'  uno  dei  signori  suoi  figliuoli 
et  ha  molte  castella  con  giurisdizione  di  far  san- 
gue e  ci  sono  luoghi  bellissimi  di  caccie....  era 
lutto  il  dì  da  i  circonvicini  signori  e  baroni  vi- 
sitata (^)  ».  La  famiglia  avea  dunque  ricuperato 
tutto  l'antico  splendore,  certamente  per  le  libera- 
lità di  Francesco  I,  le  quali  furono  continuate  da 
Enrico  II,  poiché,  morto  nel  1550  Giovanni  di 
Lorena,  Vescovo  di  Agen,  il  re  propose  al  papa 
di  nominare  Ettore  Fregoso,  secondo  figlio  di 
Gostanza,  e,  poiché  questi  era  ancora  fanciullo, 
il  vescovato  fu  fiduciariamente  assegnato  al  Ban- 
delle, riservata  la  metà  delle  rendite  alla  famiglia 

(1)  Ibid.  P.  Il,  Nov.  39. 

(2)  Martin,  Histoire  de  France.  Tomo  Vili. 

(3)  Bandello,  Novelìe.  P.  II.  Nov.  43. 


-^  213  -- 

Fregoso  (^).  Così  è  che  il  Bandello  è  passato  pei- 
Vescovo,  ma,  checché  aflermino  i  suoi  biografi 
dell'ordine  Domenicano  e  i  Protestanti  confermino 
per  divulgare  lo  scandalo  d'un  Vescovo  Cattolico, 
che  scrive  novelle  oscene,  a  me  pare  assai  dubbio  che 
il  Bandello  sia  sialo  Vescovo  veram.ente.  A  buon 
conto  esso,  che  tante  cose  dice  di  sé,  non  ne  parla 
mai.  Anzi,  scrivendo  ad  Ettore  Fregoso,  gli  dice:  «  da 
qui  a  poco  tempo  saprete  non  vi  poter  mancare 
questo  honorato  vescovato  di  Agen,  che  per  voi 
si  governa  (')  »;  ed  in  altro  luogo  dice  espressa- 
mente: «  Eitore  Fregoso,  dai  re  Cristianissimo  no- 
mato al  sommo  Pontefice  per  Vescovo  di  Agen  (^)  ». 
Il  titolare  del  Vescovato  era  dunque  Ettore,  ed 
il  Bandello  forse  ebbe  prò  forma  titolo  di  vicario 
0  di  gerente,  alcunché  insomma  che  faceva  co- 
modo alla  famiglia  dei  Fregoso,  non  al  Bandello. 
Certo  è  ch'egli  non  amministrò  mai  nessun  Ve- 
scovato, non  si  mosse  mai  dalla  casa  della  signora 
Costanza,  non  sorpassò  mai  la  sua  condizione,  non 

(1)  QUKTIF    et    ECHAHD.    Op.    cit. 

(2)  Bandello,  Novelle.  l\  li,  Nov,  31). 

(3)  Ibid.  P.  Ili,  Nov.  63. 


—  214  — 

dico  di  servitore,  ma  di  cortigiano  di  casa  Fregoso. 
Ripete  in  moltissimi  luoghi  la  solita  frase,  che, 
mercè  l'amicizia  e  la  liberalità  di  Gostanza,  a  sé 
vive  e  alle  muse,  e  si  fa  venire  d' Italia  le  carte 
sopravvanzate  al  saccheggio  degli  Spagnuoli  e  mette 
in  ordine  per  la  stampa  il  poema  e  le  novelle. 
Queste  tutte  le  sue  occupazioni  nel  tempo,  che 
dimorò  in  Francia,  oltre  all'opera,  che  dava,  al- 
l'istruzione e  all'educazione  dei  tre  figli  della 
Fregoso,  dei  quali  Giano,  il  primogenito,  e  non 
Ettore,  divenne  poi  in  realtà  (non  so  per  quale 
ragione)  vescovo  di  Ageu  (^). 

L'argomento,  che  a  conferma  del  vescovato 
del  Bandello  si  vuol  dedurre  dalla  lettera  di  con- 
gratulazione, che  l'eroina  del  poema,  l'ideale 
petrarchesco  del.  Bandello,  Lucrezia  Gonzaga  Man- 
frone,  gli  scrive,  dirigendola:  A  Monsignor   il  Bau- 

(')  Vedi:  Quetif  et  Echaed.  Op.  cit.  Che  contraria- 
mente a  quanto  affermano  i  biografi  domenicani,  Giano 
e  non  Cesare  fosse  il  primogenito,  si  rileva  dai  :  Capì- 
toli III  2\  ni  al  ita  fatti  dal  Bandello  e  chiamatile  Tre  Parche 
ne  la  natività  del  primogenito  del  sir/nor  Cesare  Fregoso, 
stampati  nel  1545  in  calce  al  poema  e  dalla  prefazione 
di  Paolo  Battista  Fregoso  a  tutto  il  volume. 


—  215  -^ 

deUo  ili  Ghienna  (M,  non  ha  alcun  valore,  perchè 
ragionevolmente  nessuno  crede  all'autenticità  delle 
lettere,  che  di  Lucrezia  furono  pubblicate  nel  1552, 
e  tutti  le  hanno  in  conto  d' un' impostura  lette- 
raria di  Ortensio  Laudo,  che  nella  casa  di  lei 
visse  parecchio  tempo  e  fini  poi  fuori  d' Italia, 
bandito  per  sospetto  d' eresia  (■).  Del  resto,  chi 
sa  che  voce  corse  in  Italia  a  proposilo  della  nuova 
dignità  del  Bandello!  Fatto  è,  che  basta  leggere 
quella  lettera  per  vedere  che  trattasi  d'una  satira 
e  non  di  una  congratulazione  in  buona  fede. 

Sconoscenza,  della  quale  non  si  può  gratuita- 
mente sospettare  Lucrezia  Gonzaga,  infelicissima 
donna,  che  in  sua  vita  non  ebbe  altra  fortuna 
(per  quanto  piccola  possa  parere)  se  non  il  poema 
in  sua  lode  di  Matteo  Bandello.  Maritata,  non  si 
sa  se  buono  o  mal  suo  grado,,  a  Giampaolo  Man- 
frone,  condottiere  Veneziano,  si  trovò  unita  ad  un 
ribaldo,  che  di  violenza   in    violenza,  di  delitto  in 

(')  Lettere  di  Lucretìa  Gonzaffa  già  cit. 

(-)  Vedi  Affò,  Memoria  di  Lucrezia  Gonzar/a  cit.  Vedi 
pure:  S.  Bongi,  Annali  di  Gabriel  Giolito  de  Ferrari  e 
Ireneo  Sanksi.  Il  Cinquecentista  Ortensio  Laudo.  Pistoia. 
Bracali,  1893. 


—  216  — 

delitto,  finì  la  sua  vita  nelle  carceri  del  duca  di 
Ferrara,  dopo  essere  scampalo  al  patibolo,  che 
mille  volte  meritava,  ad  intercessione  della  virtuosa 
e  sventurata  sua  moglie,  la  quale  lo  compatì  e 
lo  amò  con  una  rassegnazione  di  santa.  Del  ma- 
trimonio di  lei,  che  forse  disapprovò,  il  Bandelle 
non  parla  mai  né  nel  poema,  né  altrove.  Finge 
anzi  di  finire  il  poema  nel  1538,  benché  sicura- 
mente vi  lavorasse  attorno  fin  verso  il  1545,  per 
non  avere  occasione  di  parlarne. 

Occupato  a  raccogliere  e  a  pubblicare  i  suoi 
scritti  e  nella  opulenta  e  splendida  dimora  di  Go- 
stanza Fregoso,  Matteo  Bandello  finì  vecchissimo, 
probabilmente  circa  al  1560  (^). 

È  una  novella  di  lieto  fine  la  sua  vita,  ma  in 
realtà  una  novella  essa  stessa,  a  cui  non  mancano 
peripezie  d'ogni  sorta. 

Buona  però,  inoffensiva,  morale,  starei  per  dire; 
certo  incomparabilmente  più  morale  del  suo  novel- 
liere, il  quale  fra  parti,  nelle  quali   il   Bandello  è 

(1)  Dalla  Prefazione  all' edizione  dei  primi  tre  vo- 
lumi del  Novelliere  fatta  in  Lucca  dal  Busdrago  appare 
certo  che  al  1554  era  ancor  vivo. 


—  217  — 

scrittore  elevalo,  virtuoso  e  nobilmeiUe  onesto,  ne 
ha  altre,  nelle  quali  è  ignobilmente  e  trivialmente 
licenzioso.  Questa  immoralità  spicca  tanto  piii  su 
quel  fondo  di  morale  cristiana  e  di  uffici  religiosi, 
in  cui  va  di  necessità  collocata.  Se  non  che  il 
Cinquecento  è  fatto  di  tali  contrasti;  non  in  Italia 
soltanto.  Altrove  è  più  scabro;  in  Italia  l'ideale 
artistico  lo  spiana,  lo  pulisce,  lo  raffina  di  più. 
E  dall'accusa  d'immoralità  il  Bandello  si  di- 
fende da  sé  a  più  riprese  ('),  ma  con  fiacchi  so- 
fismi, principale  quello,  rimesso  a  nuovo  ai  nostri 
giorni,  che  il  male  sta  nel  fare  il  male,  non  nel 
narrarlo.  Ma  il  Cinquecento  ha  almeno  questa 
scusa,  che  il  costume,  anche  in  Italia,  è  corrotto, 
ed  è  ad  un  tempo  assai  rozzo,  nonostante  tutti  i 
suoi  raffinamenti  di  cultura  e  le  sue  esteriori 
magnificenze.  Quando  si  vede  in  che  grossolani  e 
brutali  divertimenti  poteva  trovare  sollazzo,  non 
una  Lucrezia  Borgia,  ma  un'  Isabella  Gonzaga  (^), 


(•)  IUndello,  Novelle.  P.  I,  Nov.  17,  19.  P.  II,  Nov. 
II.  P.  III.  Nov.  2. 

(-)  Luzio  G  Eeniku.  Biijf'oiii,  Xaiii,,  ecc.  cit.  Relazioni 
d'Isabella  con  Lndovico  e  Beatrice  Sforza,  citat.  —  Uno 


^  218  — 

quando  si  vede  qual  genere  di  schei'zi  poteva  in 
una  lettera  privata  osar  di  scriverle  il  Bibbiena, 
ed  èssa  non  adontarsene,  ma  riderne  e  continuarli 
nella  risposta,  quando  si  vede  in  che  eleganti 
suburre,  insieme  con  Cardinali  e  Vescovi,  consen- 
tiva fosse  condotto  il  suo  figliuolo  giovinetto  e 
ostaggio  alla  Corte  di  Giulio  li  Q),  come  mera- 
vigliarsi che  le  novelle  del  Cinquecento  siano  li- 
cenziose e  che  un  frale  Domenicano  le  scriva  e 
le  stampi?  Il  Bandello  almeno  ha  la  coscienza 
delle  proprie  colpe. 

Negli  ultimi  tre  canti  del  poema,  dopo  aver 
dimostrata  la  eccellenza  dell'amor  platonico,  la 
sua  virili  redentrice,  donde  scaturiscono  l' inspira- 
zione religiosa  e  la  perfezione  cristiana,  il  poema 
si  muta  in  un  doloroso  inno  di  pentimento  e  la 
donna    amala    si    trasfi;?ura    in    "uida    santa    alla 


sport  ardito  e  innocentissimo  era  per  lei  passare  a  piedi 
il  Po  gelato  insieme  con  le  sue  damigelle.  Vedi:  Luzio 
e  Renier.  CuUiira  e  relazioni  letterarie  d'Isabella  ecc.  ecc., 
già  citata.  —  Bandello.  Novelle,  Parte  I,  nov.  IG. 

(*)  Archiv.  della  Società  Romana  di  Storia  Patria. 
Voi.  IX,  A.  Luzio  Federigo  Gonzaga^  oslngr/io  alla  corte  di 
tìinlio  II. 


—  219  — 

patria  celeste.  La  via  della  redenzione,  per  la 
quale  il  poeta  si  mette,  è  tutta  sparsa  di  tenta- 
zioni, e  la  sua  rappresentazione  poetica  ha  una 
singolare  rassomiglianza  e  quasi  identilii  col  celebre 
Excelsior  del  Longfellow.  11  poeta  deve  giungere 
ad  un  tempio,  che  è  in  cima  ad  un  monte,  ma 
prima  si  confessa,  si  comunica,  si  monda  per  es- 
ser degno  di  salire  alla  mèta,  ed  il  modello  que- 
sta volta  è  il  Purgatorio  Dantesco,  imitazione  rara 
in  un  Cinquecentista.  Finalmente  pentito,  assolto, 
riJDenedetto,  la  divina  misericordia  gli  consente  di 
entrare  (e  non  è  poco  per  l'autore  del  novelliere) 
nell'allegorico  tempio  di  Pudicizia,  insieme  con 
quattro  virtuose  donne,  Beatrice  d'  Aragona,  Eli- 
sabetta Gonzaga  Duchessa  d'Urbino,  Ippolita  Sforza 
Bentivoglio,  Ippolita  Torelli  Castiglione,  e  là  aspet- 
terà quelle  che  ancor  sono  in  vita,  Costanza  Raii- 
gone  Fregoso,  x\rgentina  Doria  Fregoso,  Marghe- 
rita Pio  Sanseverino,  Lucrezia  Gonzaga,  l'eroina 
del  suo  poema  (').  Per  mal  che  vada,  il  Bandelle 

(')  Canto  XI.  Forse  a  maggior  contraddizione  colla 
licenziosità  delle  Novelle  viene  comunemente  attribuito 
al  BandoUo  un  trattato  di  Etica  dedicata    a    Marglierita, 


—  220  — 

s'è  messo,  con  tante  belle  signore,  in  buona  com- 
pagnia! Ma  questa  del  tempio  di  Pudicizia  non 
è  soltanto  una  barocca  invenzione,  bensì  è  la  piiì 
superlativa  burletta,  cui  sia  arrivato,  cred' io,  il 
Petrarchismo  cinquecentista,  del  quale  le  novelle 
nella  loro  impudica  nudità  sono  il  maggior  con- 
trapposto. Così  però  sono  espressi  i  due  lati,  anzi 
i  due  punti  estremi  della  vita  italiana  del  Cinque- 
cento, di  cui  l'opera  e  la  vita  del  Bandello  sono 
uno  dei  documenù  più  significanti  e  compiuti. 

Regina  di  Francia:  ma  è  un  errore  di  copista,  rettificato 
dal  Mazzucchelli,  e  si  tratta  invece  dell'  Ecuba  di  Euri- 
pide, tradotta  dal  Bandello  in  Italiano. 


APPENDICI 


APPENDICE  I. 


Religiosissimi  Fratris  loaunis  Baptae  CaUanei  Ge- 
nuensis  Vita  per  Fratrem  MaLtheunì  Bandellum 
Cislronovensem  Ordinis  Predicatorum  ad  Fra- 
trem Aiidream  Gorsium  Geiiuensem  ejusdem 
Ordijiis,  feliciter  inchoat.  —  (Estratto  da  wi 
codice  inedito,  posseduto  da  Benedetto  Groce). 

Ioannis  Baptistae  Cattanei,  cujus  praeclaram  mortein 
ne  perpetuati!  dixeiim  vitam,  scribere  adorai  sumus, 
genitorein  fuisse  constat  Augustinum  Cattaneum  ex 
nobili  et  patricia  Cattaneoruia  gente  satum...  Natus 
est  nono  Calendas  sextiles  anno  a  salutifero  Christi 
partu  quadringentesimo  octavo  supra  millesimum  et 
octogesiraum.  Ferunt  enim  obducto  membrana  capite 
edituni.  Quod  apud  plurosque,  qui  circa  Deum  et  or- 
thodoxain  fidein  niliil  pensi  habent,  nialuin  et  adver- 
sum  omen  putatur.  {Messo  ben  presto  in  banco  dal 
padre  i  troppi  danari  e  la  precoce  libertà,  di  cui  go- 
deva, fecero  sì,  che:  coepit  vanis  se  immiscere  amo- 
ribus  et  voluptatum  illecebris  oppido  delectari.  Ma 
tocco  dalla  grazia  divina,  cominciò  a  macerarsi  di  di- 
giuni e  di  penitenze  ed  a  volere  farsi  ad  ogni  costo 
Frate  Domenicano).  A  Fratribus  autein  diutissime  est 
repulsus,  non  quia  sua^  aut  aliorum  saluteai  non  tote 
desiderio  flagrarent  amplecti, ...  sed  ne  temere   et  in- 


—  224  — 


consulto  eum  recipieutes,  et  se  apud  majestatem  di- 
vinarli levitatis  macularent  colluvione,  et  adolescentem 
senioris  animadversiouis  reum  facerent,  si  tunc  fa- 
cile susceptuni,  nec  nostrae  piofessionis  pondus  in- 
telligens,  ve)  destitutor  post  modum,  vel  corruptor 
aut  tepidus  extitisset.  Verbis  itaque  et  pollicitationibus 
per  totum  sacraa  quadragesima}  tempus  ejus  animum 
Fratres  detinuere,  ut  ejus  periculo  ipso  in  sancto 
proposito  perseverantia  probaretur. . .  Transacta  deinde 
Resurreetionis  solemnitate  sanctisriima  Fratres  creber- 
rime  pulsat,  petitque,  ne  se  sancto  desiderio  fraudent, 
se  non  inani  cogitatione,  non  levitate,  non  puerili  mota 
hoc  sed  tantum  fine  moveri,  ut  salvare  possit  animam 
suam,  mille  esse  in  mundo  pericula,  seque  satis  su- 
praque  ejus  versutias  caliere,  se  diu  saeculi  strictus 
catena  fallaciisque  deceptus  libertatem  iam  aflPectare. 
Celebrabatur  tunc  temporis  Mediolani  congregationis 
nostrae  senatus  coque  Prior  noster  contulerat.  Verum 
enimvero  quoniam,  absente  Priore,  recipi  inter  nos 
adolescens  minime  poterat,  rei  series  Mediolanum  ad 
Priorum  scribitur  rogaturque  ut  Fratri  Nicolao  Fa- 
biensi  superiori  detur  venia  quo  illum  habitu  ordinis 
induere  valeat.  Venia  exorata  rogatisque  in  Capitulo 
sententiis  omnium  fere  suflFragiis  admissus  est,  etsi 
plerique  obnunciaverint  eum  ita  adolescentulum  non 
debere  recipi  affirmantes.  Sed  quoniam  Prior  in  dies 
expectabatur  (jam  enim  celebratus  fuerat  expletusque 
senatus  noster)  visum  est  Fratribus  ejus  receplionem 
adusque  Prioris  adventum  differri.  Idibus  igitur  Maji 
Prior  et  una  secum  nonnulli  Fratres  (inter  quos  ego 
aderam)  Genuam  adventarunt.  Quod  eum  primuin 
cognovit  Adolescens,  iterum  gravius  instat,  nullamque 
requiem  Fratribus  permittit...  Pi'ior  quum  eum  allo- 
cutus  fuisset  vidissetque  nulla  ipsius  vacillatione 
nutare  nos  qui  eum  eo  veneramus  acciri    jubet  nego- 


tiumqne  proponit.  Re  itaque  agitata,  unaniiniter  ad- 
inissus  est,  statutaque  dies,  qua  io  Conventu  recipi 
debere.  Fiiit  e  vestigio  haec  nota  adolescenti,  qui 
tanto  profuiiis  est  gaudio,  tantaque  anioenatns  letìtia, 
ut  saepissime  de  jucunda  ejus  hilaritate  sit  a  nobis 
habitus  senno.  Erat  raihi  cum  eo  adeo  mediocris  con- 
suetudo,  niultaque  quandoque  sibi  obiectabain,  quasi 
inconsiderate  habitura  Religionis  peteret,  quaa  ita  fir- 
missimus  ipse  (vera  loquor)  destruebat  infirmabatque 
rationibus,  ut  tnusantem  redderet,  non  me  modo,  que 
hoc  unum  scio  quod  nihil  scio,  sed  plures    alios,    qui 

hujus  gratia  cum  eo  sermonem  habuere, Quum 

igitur  optatissimus  et  faustissimus  illusisset  dies,  quo 
devotus  adolescens  in  conventu.  ...  recipi  deberet, 
dum  missarum  sacra  fierent,  pedetentim  versus  con- 
ventum  proficisci  increpit.  Quippe  dom^sticos  ne  id 
scient  pie  sancteque  fallere  summo  ardcbat  studio, 
dictum  non  sibi  a  genitore  suo  fuerat  (intellexerat 
namque  eum  religionis  teneri  desiderio)  ne  pedem 
in    conventu    inferrent,   qui    longo    fatigatus    convicio 

assensum  praebuerat Quartodecimo  igitur  Calend. 

lunias,  qui  dies  erat  solis,  in  conventu  admissus  est 
60  animo  atque  intentione  ut  tres  quatuorumve  diebus 
in  sseculari  veste  detineretur,  quo  re  ipsa  comproba- 
retur  an  verbis  facta  quadrarent  atque  ut  genitori 
ca^terisque  parentibus  si  quid  obiicerent,  libere  respon- 
dere  posset.  Vix  coenobium  adolescens  ingressus  fue- 
rat, cum  ejus  Gcnitor  id  rescivit,  concitoque  gradu, 
una  cum  Hieronismo  et  ipso  etiam  filio  advenit,  ma- 
gnisque  clamoribus  claustri  limina  complet,  Priorem 
alloquitur  conqueriturque:  filium  sibi  eripere  velimus, 
utpote  qui  nondum  (id  atamen  falso  asseruit)  ex 
epbebis  excessisset.  Mirari  se  Fratrum  imprudentia, 
qui  puberes  ad  Religionem  invitent,  quos  satius  esset 
domu  ad   parentum    curam    remittere.  Responsum  sibi 

Masi.  15 


—  •226 


est  Ioannem  Baptistam  ex  ephebis  excessisse  jamque 
adolescere  et  Religioni  fore  quam  aptissimus.  Bene 
quoque  visus  est  de  filio  sperare  Fratresque  adole- 
scentis  bonam  habituros  curam  effecturosque  ut  brevi 
de  ipso  magna  superapturus  gaudia.  Nullis  tamen 
verbis  Augustini  indignatio  sedari  leprimique  potuit, 
etsi  plui-d  in  medio  obducta  sint  quae  facore  debuissent 
satis,  quaì  etiain  cuivis  curioso  et  obstinato  ora  pr*- 
clusissent  dimonuissentquo  animum  a  priori  sententia. 
Abscessit  Augustinus  cuin  Hieronimo  extreina  mina- 
tus,  ni  Ioannes  Baptista  illi  restituatur.  Mox,  ut  ipsi 
abiere,  Cattaneus  et  Stephanus,  duo  ex  Augustini  filiis 
adventarunt,  quibus  eum  visendi  atque  alloquendi 
data  copia,  profluebant  ex  eorum  facie  largiter  et 
abunde  lachryma?,  sed  ita  suis  eos  verbis  adolescens 
est  consolatus,  ut  qui  eum  a  sancto  proposito  dissua- 
suri  veuerant,  ferme  ipsi  suasi  remanserint.  Aderat 
Augustini  gener  Francus  Grimaldus  subagresti  honao 
et  infestivo  ingenio,  qui  eosque  verbis  et   contumeliis 

progressus  est  adeoque  in    maledicta    se  effundit 

Francus  itaque  Grimaldus  ubi  eum  Ioanne  Baptista 
colloquium  habuit,  multaque  nitro  citroque  dieta  fuere 
ferme  e  linguis  redditus  est  et  qui  paulo  ante  vastis 
vociferationibus  omnes  se  terruisse  credebat,  paucis- 
simis  admodum  optimi  adolescentis    rationibus    victus 

est Discedit    Grimaldus    noster,   discedunt    et  duo 

quos  dixi  Ioannis  Baptista^  germani,  secum  tacite  sub- 
murinurantes  ejus  inconcussam    mentem    et    mirantur 

et  estollunt Verura  enim    vero    tyrunculi    Genitor, 

ubi  se  filios  generumque  elusos  videt,  sevius  denuo 
bellum  fìiio  parat,  singulaque  assiduo  cogitatu  medi- 
tatur,  quiii  juvenera  illicere  possint  atque  secum  fer- 
missime deliberat  vel  extrema  pati  potius  vel  eum 
ad  perditionem  trahere.  Revertitur  itaque  ad  Conven- 
tum  et  una  secum  universa    ferme    Cattaueorum  prò- 


—  227 


genies  obsident  invictissinii  animi  adolescentern.  luel- 
litaque  verba  et  super  oleum  mellita,  qu£e  vel  saxa 
emollissent,  unditjue  effundunt.  Respirandi  teiiipus 
scque  colligendi  spatium  tyrunculo  minime  conce- 
ditur,  sed  urgent,  instant,  premunt,  cogunt,  atque  mi- 
nantur;  sed  heu  generosi  viri,  quo  meruit  poenain 
facto?  qua3  gloria  vestra  est,  si  iuvenem  senes,  si 
multis  fallitis  unum?  ^Minime  tamen  eorum  vel  minis, 

vel  pollicitationibus  motus   est  adolescens {Segue 

una  discussione  interminabile  tra  il  padre,  il  figlio,  gli 
aulici^  i  frati^  il  Priore,  inutile  anch'essa  a  smuovere 
il  giovinetto.  Convengono  di  farlo  condurre  da  tre  frati., 
fra  i  quali  il  Bandello.,  in  una  casa  succursale  al  con- 
vento., donde.,  secondo  il  desiderio  del  padre.,  potrà  abboc- 
carsi colla  nonna.,  la  madre  e  la  sorella.  Ma  riesce 
vano  anche  questo  tentativo).  Itaque  inconsideranter 
ut  fit  a  fratre  quodam  sacrari!  liostio  patefacto  Au- 
gustinus  cum  duobus  filiis  et  genero  plurimisque  aliis 
conspirationis  consciis  armata  manu  vi  ingrediuntur 
sicasque  et  graphia  vibrantes  extrema  minantur  ni 
posticum  quodam  in  sacello  D.  Ambrosii  aditum 
praastabat,  eis  patefaciamus.  Erand  apud  me  postici 
claves,  quas  illieo  in  sinu  reposui.  Sed  quid  contra 
tam  validam  annatorum  manum,  inermes  nos  agere 
poterauius?  Mea  certe  arma,  non  venabulum  et  lancea, 
non  et  gladi us,  non  pugìo  et  graphius,  non  ea  denique 
sunt,  quibus  humanis  etfuditur  sanguis,  sed  ea  qua) 
vocantur  spiritualia  arma,  et  in  primis  crux  Chrìsti, 
deinde  stilos  et  pugilares,  calami,  libri,  lucerna,  ca";- 
teraque  hujusmodi  studiosorum  arma....  Tres  eramus 

imbelles    numero,  sine  viribus Ne  n    temperari    fa- 

'cile  nec  reprimi  potest  stricti  ensis  ira....  Francus 
Grimaldo  pugionis  capulo  me  in  occiput  percussit. 
Fratrem  Silvestrum  Cattaneus  et  Hierouimus  ex  An- 
gustino geniti  multis  ictibus  (inaniter  tamen)  cecide- 


OOs 


runt.  Fi-atri  Angelo  de  Pellice  Laico,  qui  ante  ho- 
stium  stabat,  scapulare  a  quodam  ex  coniuratis  sica 
dilaceratus  est.  Sustinuimus  aliquandiu,  egre  tamen, 
eorum  impetum,  sed  tandem  propriis  deturbati  sedibus 
loco  eessinius.  Sed  quid  plura?  Ex  eis  quidam  Ioannem 
Baptistam  per  cassariem  rapiens,  renitentem  eum  et 
magnis  vociferantem  clamoribus,  veluti  gangetica  cer- 
vie lactentem  foetuin  per  silvas  tigres  opacas  abducit, 

sic  ex  sacr;ivio  extrahit Extractum  ex  tempio  ado~ 

lescentem    domum    deferrj    coeperunt Quferitabat 

ingeniosus  adolescens  evadendi  viain....  Itaque  in- 
tentatum  relinquebant  nihil  quod  fugas  obstiteret,  sed 
custodiis  ita  omnia  firmata  erant  ut  ne  fenestris  qui- 
dam tuto  se  committere  posset Postridie a  ge- 
nitore et  germanis  ad  mensarum  forum  ductus  est  il- 
licque  eatenus  detentus  quoad  erogandis  pecuniis  finis 
impositus.. ..  Qaid  faeiat  Ioannes  Baptista,  qui  omnia 
volvebat  animo,  quo  reverti  ad  nos  posset?  Fugam 
custodia  claudit,  sed  grande  doloris  ingenium  est  mi- 
serisque  venit  solertia  rebus.  Contendit  ab  eo  genitor 
ve!  minis  vel  precibus  extorquere  ne  nostrum  amplius 
ad  conventum  veniat,  neve  coeptam  prosequatur  pro- 
vinciam.  Vis  est  itaque  adolescens  haec  non  asper- 
nari,  sed  corde  omnia  meditabatur,  ut  quam  primum 
Ordinis  habìtum  assequeretur.  Pater  ut  filium  segni us 
agere  videt,  magni  gaudi i  plenus  remansit,  atque  cu- 
stodiam  minuere  occepit,  quod  ut  sensu  solers  Christi 
miles,  nactus  opportunum  tempus,  custodibusque  de- 
ceptis,  concito  gradu  venit  ad  Fratres,  rogavitque  eni- 
xissime  ne  se  linquerent,  sed  tamdiu  exoptatum  habi- 
tum  ei  traderent,  se  sua?  constantiae  evidens  dedisse 
periculum.  Verebantiir  nonnulli  ex  senioribus  pra--- 
sertim,  ne  si  tnne  reeeptus  fuisset  ad  majora  novanda 
facinora  ejus  genitor  incitaretur.  Prior  quoque  itidem 
formidabat.  Ea  propter  domum  reverti  illuni    compel- 


—  229 


lunt  et  quem  e  vestigio  Ordinis  habitu  vestire  debue- 
rant,  ut  hanc  rem  in  aliud  differat  tempus  hortantiir. 
Vidisses  tune  adolescentem  deinisso  vultu  pedibus 
domum  ire,  corde  tamen  manere.  Perendie  deiiide  bora 
prandii  denuo  revertitur  eamdernque  rem  identidem 
petit.  Eratit  complures  qui  tunc  euin  recipienduin 
oninino  esse  affirinabant  nulloque  pacto  tam  longa 
conperendinatione  eum  esse  detinendum,  sed  superior 
eoruin    sententia   babita    est    qui    timebant,    ubi    non 

erat  timor Tandem  post  longas   bujus    rei    discus- 

siones  a  Patribus  conscriptis  ut  cum  primum  Ioannes 
Baptista  adveiiisset  in  nostram  reciperetur  societatem 
decretus  est.  Posterà  die,  dun  noctis  occiperet  cre- 
pusculum  rediit  adolescaus,  cui  cum  omnia  ad  vota 
successisse  disesseinus,  supplices  tendens  ad  sidera  pai- 
mas  Deo  Opt;  Max.  immortali  immortales  gratias  suo 
prò  modulo  egit.  Nani  possem  verbis  consequi  quo 
animi  ardore,  qua  devolione,  quo  mentis  affectu  Or- 
dinis babitum  peteret.  Dubitantibus  quibusdam  ne 
denuo  raperetur  eique  dicentibus  an  timeret,  sic  re- 
spondit:  timeo  equidem  quam  diu  pretextam  Lane  gero. 
At  si  me  sacro  habitu  vestro  indutum  videro,  ita  ero 
firmo  et  constanti  animo,  ut  nibil  oiiinino  mibi  ti- 
mendum   sit. 


Incipit  liber  secundns  viiae  fiatris   I.    B.    Cattanei 
Ordinis  Praedicalorum. 

Anno  a  partu  Virginis  quarto  supra  quìngcnte- 

simum  et  milesimum  ad  undenas  Calendas  lunias.  lulio 
Secundo  Pont.  Max  Romana3  Eeelesi;«  Preside  et  Ma- 
ximiliano  babenes  Imperii  Romani  moderante,  Ioannes 
Baptista  nostra  in  sacr;e  roligionis  militia  ascriptus 
est.    [Segue  la  descrizione  dcUa  fuìizione  per    la    vesti- 


230  — 


zione  fatta  da  un  frate,  che  teneva  le  veci  del  Priore 
malato,  un  lunghissimo  discorso  di  quel  frate  sui  vot'\ 
che  il  Cattaneo  sta  per  pronunciare,  la  risposta  di  esso 
e  finalmente  sono  narrati  i  primi  giorni  della  sua  vita 
fratesca.  Quindi  continua:)  Verum  enim  vero  dum  pestis 
afFatim  pullularet  omnìuque  tumultuarie  in  urbe  age- 
rentur,  ad  septimum  Idus  Junias,  qufe  dies  est  Veneris, 
prò  majorum  imperio  devitandaeque  pestilentitc  gratia 
Albarium  me  contuli.  Est  atque  Albarium  Villa  in 
Genuensi  agro  omnium  meo  judieio  amoenissima,  duo- 
bus  minibus  passuum  a  Genua  distans,  ubi  coeli  sa- 
luberrima est  temperies,  situs  amoenissimus,  itemque 
iucundiosimus,  coelum  hyeme  temperatuin,  estate  ge- 
lidum  fleuntibus  semper  lenissimis  auris,  nisi  quando 
hiberno  byberno,  temperies,  flante  interdum  Borea, 
aliquantuluin  frigidior  redditur,  sed  hujus  loci  amoe- 
nitatem  cum  verbis  assequi  minime  valeam,  ne  fiam 
scribendo  riduculus,  praetrermittam.  Albarii  igitur 
quum  plurimae  sint  civium  villae  et  quideni  venu- 
stissimae,  Conventus  nostri  S.  Mariae  de  Castello  Fra- 
tres  locum  et  ipsi  habent  villulaque  non  insuave: 
postridie  ilaque  quam  bue  me  contuli,  Frater  Ioannes 
Baptista  cum  fiatre  Paulino  Maiolo  Genuensi  economo 
advenit,  advenereque  reliqui  fratres  qui  illic  depu- 
tati fuerant;  erauius  duo  de  viginti  capita  duobus 
exceptis  villicis.  Disposueiamus  omnia  ita  recte  et  or- 
dinate, ac  si  in  conventu  fuisseinus,  divinas  laudes, 
inissarum  solemnia,  comunes  orationes  nostro  prò  mo- 
dulo et  prò  loci  angustia  agitabamus.  {Intanto  Fra 
Pifoìiiio  muore  di  peste  e  poiché  sema  nessuna  cautela 
tutti  i  suoi  confratelli,  compreso  il  Cattaneo,  l'avevamo 
assistito  e  ctiruto  e  il  pericolo  dclV  infezione  era  gran- 
dissimo, Girolamo,  uno  dei  fratelli  del  Cattaneo,  accorre 
alla  villa  e  cerca  persuaderlo)  ut,  relictis  Fratribus, 
domum  secum  pergeret,  (juo  peste  vitaret,  cui  non  ab- 


—  231 


nuit  modo,  sed  quod  ampliori  admiratione  dignus  est, 
in  liaec  verba  respondit:  frusta  niteiis,  Hieronirne,  et 
in  cassuin  laboras  arenaeque  semina  mandas.  Decrevi 
omnem  quam  victurus  suin    vitam    cum    Fratribus.  in 

religione  vivere  et  cum  eis  morì {Intanto  nn  aìtro 

Frate  è  colpito  di  peste  ed  il  Priore  aduna  i  princi- 
paìi  per  deliberare  chi  debba  assisterlo).  Eram  ego 
{continua  il  Bandello)  dum  haec  agerentur,  cum  Fra- 
tre  Ioanne  Baptista  in  fructiceto  villae  nostrae,  sede- 
bamusque  ambo  super  quemdam  puteuin  atque  variis 
de  rebus  invicem  eolloquebamur.  At  qui  ubi  haec 
cognovi,  magno  perculsus  timore,  mentis  formidinem, 
vultus  pallore  manifestavi.  Tum  illustris  adolescens: 
«  ne  dubita  (inquit)  mi  Matthee;  nondum  venit  bora 
tua,  bono  esto  animo,  spera  in  Domino  et  fac  boni- 
tate  et  ipse  te  enutriet,  pelle  timorem  e  pectore  verbi- 
sque  meis  erede.  Scio  quid  loquor.  Illacrymans  deinde 
inultisque  einissis  suspiriis:  at  ego  (dixit)  infra  quat- 
triduum,  tetrum  hoc  corpus  relinquam  dignaque  factìs 
praemia  reportabo.  Tu  hoc  anno  peste  non  morieris; 
ego,  uti  spero,  ad  beatorum  regna  proficiscar.  Morien- 
dum  nam  uiihi  omnino  est,  tibi  animain  meam  (etsi 
currenti  equo  non  sunt  adhibenda  calcaria)  commendo 
oroque,  ut  inirificum  tuum  in  me  amorem,  quem  vi- 
venti iiiihi  habes,  mortuo  etiain  serves,  quod  tunc 
fiet,  si  cum  primum  hominem  exuero,  totum  psalte- 
rium mihi  persolveris  funerique  meo  parentari  cura- 
veris,  adhibueris  operam  ut  itidem  ab  aliis  fratri- 
bus. »  Kon  remansit  mea  in  facie  bis  auditis  sanguinis 
gutta,  sed  mortuis  simillimum  videbar.  Quis  scribere, 
quis  cogitare,  quis  referre  posset  mentis  mene  mole- 
stias  et  cordolium  acerbissimum,  nisi  qui  aliquando 
carissimo  socio  privatus  fuit?  Tsunquam  tantam  dul- 
cedinein  in  ejus  conversatione  habui,  quantum  tunc 
moerorem  ex    ejus    verbis    accepi.  Sed  dum    rediissem 


232 


ad  me  atque  animo  ejus  verba  volntassem,  coepi  eum 
reprehendere  ac  arguere,  quia  bis  nugis  animum  adhi- 
beret.  Eum  nam  inconsulto  et  ut  saepe  fit  ex  imagi- 
natione  loqui  aibitrabar.  Quapropter  ejus  verbis  non 
facile  credebam,  sed  ipse  magis  ac  magis  quae  di- 
xerat  asseverabat.  Quaerenti  vero  mìhi  quonam  pacto 
baec  sciret:  «  quid,  inquit,  ad  te?  »  Ncque  mirum 
neque  impossibile  inciedulis  hoc  videatur,  quod  Deus 
Opt.  Max  huic  adolescenti  mortem  revelaverit,  ouum 
potens  sit  ex  lapidibus  suscitare  filios  Abrabmae, 
idque  quamplurimis  saepenumero  manifestaverit.  Cre- 
ditur  ab  omnibus  Fratrem  Ioannem  Baptistam  visionem 
aliquam  habuisset,  quod  ut  credam,  id  quod  scriptu- 
rus  sum  me  cogit.  Celebrabatur  eo  die  Beatissimorum 
Apostolorum  Petri  et  Pauli  vigilia  omnesque  ieiuna- 
bamus.  Dum  ergo  advesperasceret  meque  ini  templum, 
orandi  gratia,  conferrem,  in  vestibilo,  quod  claustrum 
a  sacrario  distermi nat,  eum  multis  foedatum  lacrymis 
atque  de  tempio  egredientem  offendi  quem  eum  sal- 
vare jussisem  beneque  sperare:  Jacta,  inquit,  est  alea. 
Dura;  peregerunt  pensa  sorores,  ha^e  sua  retrofila  re- 
voluunt;  utinam  solus  ego  mori  duntaxat  deferem,  sed 
complures  alii  decedent.  Vidi  nunc  plerosque  ex  fra- 
tribus  nostris  ad  conventum  nostrum  S.  Marite  de  Ca- 
stello pheretro  mortuos  efferri,  quos  omnes  nominatim 
aguoseo;  coeterum  ne  inconsiderater  loqui  me  pntes, 
crastina  die  eum  primum  dilucidabit.  Fratrem  quem- 
dam  peste  infectum  comperies.  His  dictis  ipse  in  celia, 
ego  vero  in  templum  perreximus.  Non  solum  autem 
mihi,  sed  et  aliis  quibusdam  hxa  quie  scripsi  enarravit. 
Postiidie  eum  aurora  totum  jam  jam  ciarere  orbem 
accepisset,  proficiseerque  in  villam,  in  xisto  conve- 
niens  me  Frnter  Joannes  Baptista:  «  lieus,  inquit, 
Frater  Matthee,  tradidisti  ne  oblivione  qua;  esterno 
vespere  tibi  dixi  ?  »  Apprenhendens  deirde   me   manu. 


—  233 


ducensque  in  claustrum  atque  digito  Fratrem  Paulum 
Vercellensem,  virum  longo  Religionis  jugo  approba- 
tum  demonstrans,  qui  glandulam  ingulnarìam  Andreas 
Ponzonio,  prjBstanti  medico,  ostentabat:  «  disce,  in- 
quit,  jam  verum  esse  quod  locutus  sum.  »  Eo  die, 
omnes  fiatres  sacratissimum  Christi  corpus  cuni  la- 
cryniis  et  maxima  cordis  contritione  sumpserunt.  Post 
prandium  autem  dum  fratres  nonnulli  in  nemore,  quod 
in  Villa  versus  orientem  emìnet,  sub  quadam  castanea 
molti  in  lierba  consedissent,  Fratrer  Joannes  Baptista 
(ut  postmodum  intellexi)  ante  omnium  pedes  humi 
prostratus,  si  aliquid  contra  eos  deliquisset  humi  li  fle- 
bilique  vocula  ab  omnibus  veniam  deprecatus  est.  Ad- 
mirati  sunt  Fratres  singularem  ejus  actum,  sed  cujus 
gratfa  factus  esset  ignorabant.  Exnsculati  os  autem, 
optimum  adolescentis  ingenium  enixe  vere  laudabant 
et  extoliebant  magnifico.  Abscessit  deinde  ab  eis  laito 
et  jucundo  vultu,  seque  in  cella  eontulit  et  quod  pe- 
stileritem  aegrotaret  aegrotationem  illieo  declaravit. 
Advenerat  ea  bora  Hieronimus,  qui  eum  secum  du- 
cere volebat,  ea  adductus  ratione  quod  adolescens 
antea  visus  fuerat  acquiescere,  sed  divino  gestu  Con- 
silio crediinus,  ut  nane  adolescens  adversa  passus  sit 
valetudinem,  quando  a  Fratrum  consortio  dimoveri 
debebat.  Verum  nullus  fratrum  sibi  persuadere  pote- 
rat,  eum  pestis  contagione  focdatum,  quamquam  Fra- 
tres Pantaleo  et  Agapitus  Genuenses  manibus  propriis 
juxta  pubem  glandem  inguinariaiu  umtrectassent,  fun- 
debat  abunde  hlcr^-mis  seque  gravi  cnpitis  afilictari 
dolore,  lamentabat.  .  .  .  Cum  primam  vero  suam  in 
cellam  ductus  est  (descenderat  nam  ex  cella  in  clau- 
strum )  Christo  Op.  Max.  se  commendans  in  lectu  se 
reelinavit.  jamque  iiivaleseebat  et  incrudescebat  mor- 
bus, nnllai  rationes  medicorum,  nulla  j)liarmaca  pro- 
derant,  pestilentia'  vis   lucdullitus  inliaerens,   pedeten- 


—  234  — 


tim  emergebat  in  robur,  virulentuinque  venenum  totum 
per  corpus  diffundebat  febriebatque  ingenuus  atque 
devotus  adolescens  febreni  et  vehementem  et  aeru- 
innosam.  Mirum  est  quarn  cito  a  lachrymis  tempera- 
revit  experitque  gravissimum  morbum  forti  aninoo 
ferre.  Nani  ubi  in  lecto  se  posuit,  visus  est  onmeni 
abiecisse  moerorem  ;  circa  secumdam  vero  noctis  ho- 
raui  cum  Fratre  Agapito  ad  ejus  cellam  me  contuli 
quesiviqee  quam  recte  se  haberet,  tanta  siquidem  sibi 
me  devinxerat  charitate  ut  ad  eum  accedere  minime 
pertimescerera  ;  fidebam  tunc  (ut  ingenue  dicam  quod 
sentio  )  haud  parum  ejus  verbis,  quibus  hoc  anno  me 
pestem  non  perpessurum  affirmavit,  quippe  qui  mihi 
prffidixerat,  commodum  compleri  intuebar.  Videns  au- 
tem  Fratrem  Agapitum  ac  me  ipsum  foedatum  la- 
chrymis: ecquid,  inquit,  illacrymatis  ?  Ridens  vero 
serenaque  nos  intuens  facie:  convalescebo,  inquit, 
brevi  et  quidein  ocius  opinione,  nani  mihi  medicus 
est  Christus.  Quod  ego  audiens,  cum,  transBxus  dolo- 
rìs  iaculo,  coepissem  durius  fiere,  tuia  alt  ille:  quid 
est,  Fratres,  ut  tanto  vos  dolore  conficiatis  ?  Stat  sua 
cuique  dies,  impievi  cursum,  qui  a  Domino  datus  est, 
volentique  plura  loqui,  jam  lingua  balbutiebat  et 
gravior  somnus  sensus  oppresserat  febrisque  in  ar- 
dore aestuabat.  Dimisimus  igitur  illum  et  ad  cellas 
nostras  profecti  sumus.  Postridie,  qui  dies  erat  soli 
summo  mane  ingens  civium  et  matronarum  Genuen- 
sium  ad  nos  factus  est  concursus,  qui  onines  uno  ore 
obsecrare  orareque  nos  coeperunt  ut  separeremus  nos 
ab  iis,  qui  ea  teterrima  lue  infecti  erant,  alioquin 
omnes  nos  e  vestigio  morituros  nullamque  magis  rem 
pestilentia;  mederi  quam  fugam....  Plerique  igitur 
nostrum  piis  matronarum  precibus  acquiescentes  in 
nemore  sub  d'o  sibi  tiguriola  construxere — Postquam 
in  nemus  profectus  sum.  vestes  et  omnia,    qua?    nobis 


235  -- 


erunt  necessaria,  a  pieiitissimis  quibusdain  mationis 
delata,  quie  nostrani  salutem  ita  affectabant  ac  si  nos 

genuissent,  reperi Adeiant  et  nobiles  plerique  egre- 

giique  viri,  qui  proprias  vestes  certatini  offerebant 
nosque  sperare  adhortabantur.  Rebus  in  lume  modum 
compositis  in  tres  partes  divisi  sunius.  Prior  cuin  quin- 
que  fratribus  una  degebat,  infecti  peste,  et  qui  eis 
astabant,  maioreni  loci  partem  occupaverant.  Nos  qiii 
septom  eranms,    nemus    possidebainus.    Villa  omnibus 

communis  erat {Ad  uno  ad  uno  gli  appestati  muoiono 

tutti  e  il  Frate  Cattaneo  con  essi).  Extat  nieum  in 
ipsum  epithapliium,  ejus  sepulcro  affigenduin,  quod  ne 
quis  illud  desideret,  hoc  est:  Viator  pientissime,  tani- 
etsi  properas,  hoc  te  saxum  rogat,  ut  se  aspicias, 
deinde  quod  scriptum  est,  legas.  Adolescenti  specta- 
tissinutì  indolis,  optin>i  amenique  ingenii,  Fratri  Joanni 
Bapt.  Cattaneo  Genuensi  Augustini  Cattanei  Genuen- 
sis  patritìi  fìlio,  qni  duni  vix  quintam  excessisset  trie- 
teridein,  atque  ejus  geuas  nondum  pubescens  lanugo 
vitiasset,  invitis  parentibus,  ad  Prajdicatorum  Religio- 
nem  convolavit,  in  qua  quadraginta  dumtaxat  diebus 
exercitus,  suinmaj  virtutis  et  probitatis  atque  bene  in- 
stituti  animi  inditia  dedit,  morte  prajscita,  divino 
nutu,  infra  quattriduum  sevissima  peste  interrempto, 
Frater  Mattheus  Bandellus  Casti onovensis  socio  bene- 
meriti dcflens  dono  dedit,  dicavit  posuitque  lubentis- 
sime.  Anno  a  salutifero  Marita  Virginis  partu,  quarto 
supra  quintesimum  atque  millesimum  Cai.  Quinti- 
libiis,  qua  die  iniqua  eum  mors  abstniit.  Care  viator, 
abi.  hoc  volebam,  n>scius  ne  esses.  Vale 


APPENDICE   II. 


F.  Malthei  Baudelli  Ord.  Pr?edicalorum  Pareri- 
lalis  Oralio  prò  clariss.  Imperatore  Francisco 
Gonzaga  Marchione  Mantnéie  IV,  —  (Estratto 
da  un  rarissimo  opuscolo,  mancante  di  fronti- 
siìizio,  e  appartenente  alla  Biblioteca  Comunale  di 
Bologna). 

....  Accepto    Fi-anciscus    a    Venetis    tlorentissimo 
exercitu,  in  Parmensi  agro  ad  Tarrum  fluvium  conse- 
dit.   Affuerunt    continuo    a    Lodovico     Batta<*'lia 
Sfortia    validae    militum    copite.    lain         ,   -  Taro 

Carolus  qui  tenebras  et  funus  Cisal- 

pinae  Galli»  minitabatnr  Apenninutn  tenebat:  incen- 
dioque  Pontreinulum  absunipserat:  vi  sibi  viani  fa- 
cturus,  si  qua  ire  vellet  bona  venia  non  liceret.  Insederat 
Italovum  exercitus  sinistram  Tarri  fluminis  ripatn. 
Tum  Gonziacus  Dux  sa;pe  testatus  fore  ut  vel  una 
pugna  qaìe  instare  vidcbatur:  Galli  suaj  vanitatis  ad- 
nioniti  facile  intelligereut  Italicam  vìrtutem  non  esse, 
ut  ipsi  falso  pra3diccrent,  oninino  extinctaui  :  Venetis 
legatisi  quorum  iniussu  prtelium  committere  integrum 
sibi  non  erat,  certain  victoriam  pollicetur.  Ubi  igitur 
eo  Galli  dextero  Tarro  sine  strepitu  et  clamore  pro- 
cessere,  ut  jam  Italiani  exercitum  in  procinctu  stan- 
tem  ex  adverso  intuerentur,  subito  bombardarum  iaetu 
aderti  sunt  quiescentom  incessere.    Gonzaga   ut    ferox 


—  238 


erat  atque  pugn;e  avidus  «  quid  stamus,  in(juit?  In- 
cessentium  sunt  haec:  non  abire  volentium  ».  Erant 
in  Venetis  castris  Legati  Melchior  Trivisanus  et  Lu- 
cas  Pisanus.  Tum  Trivisanus  ad  Gonzagain  conversus  : 
«  age  igitur,  et  quando  aliunde  vis  orta  est,  eatur  quo 
liostium  vocat  iniuria.  Utero  imperio,  et  quod  Deus  be- 
nevertat  pugnain  capesse  ».  Nec  uUa  deinceps  mora 
fuit.  Canentibus  signis  uno  tempore  pluribus  est  locis 
in  hostem  procursum.  Gonzaga  autem  omnium  pri- 
mus  in  adversam  aciem  invectus,  hostem  transfixit 
hasta:  fuitque  circa  eum  prosperrima  pugna.  Ita  au- 
tem equo  sublimis  ferebatur  :  itaque  fortiter  pugnans. 
uunc  sapientissimi  Ducis,  nunc  fortissimi  niilitis  mu- 
uere  fungebatur:  ut  Gallorum  metus  ad  regem  usque, 
qui  in  medio  erat  agmine  persuaserit.  Qua  ille  suo- 
rum  consternatione  perculsus  regia  exivit  insignia,  ut 
in  dubio  pugu£e  eventu  minus  esset  nobilis.  Galli  in 
aperto  discrimine  destituti  ex  metu  et  desperatione 
audentiores  effeoti,  multa  vi  connixi  pugnam  restituunt 
factaque  in  Italos  impressione  eos  pene  terga  dare 
compellunt.  Cecidere  tunc  ex  Gonzagse  exercitu  multi 
viri  illustres:  inter  quos  Rodulphus  Francisci  patruus 
vir  Consilio  et  manu  promptus  eonstantissime  pric- 
liando  magnum  hominibus  documentum  dedit:  quanto 
potior  esse  debeat  probis  viris  dignitas  sine  vita, 
quam  vita  sine  dignitate.  At  Franciscus  quum  rem  ad 
triarios  reddiisse  videret,  magnum  aliquid  audendum 
ratus  traballi  hasta  accepta  et  ad  fortissimos  comrai- 
litones,  qui  eum  freqnentes  cingebant  conversus:  «  eia, 
commilitones  fortissimi,  me  duce,  in  cousertissimum 
agmen  irruite.  »  Tum  in  medios  hostes  ipse  primus 
advolans  obvios  quosque  solotenus  prosternit.  Nec  de- 
fuerunt  commilitones  Duci  dixisses  Eridanus  ruptis 
aggeribus  fata  arbores,  mapalia  armenta  pastoresque 
foeda  colluvione  trahentem.  Ita  acie  restituta  Gallum 


239 


loco  subiiiovet  et  in  fuga  vertit  Borbonio  Xotho,  qucin 
per  se  egit  in  castra  captivo  abducto.  Iinpediinentis 
autem  Gallo  ademptis,  qua  Gonzaga  voluit  coactus 
est  hostis  proficisci.  Quod  si  co  die  Sfortiani  debitarn 
navassent  operam  et  levis  armatura  Venetus  equitatus, 
ut  Franciscus  ordinaverat  Gallum  a  tergo  esset  ador- 
tus,  captivus  profecto  apud  Gonzagam  Carolus  pul- 
cherrimann  illustrasset  victoriam.  Quanta  autem  indole, 
(quanta  fortitudine,  quanto  animi  ardore  Franciscus  eo 
die  pugnam  commiserit,  pugnaverit,  inclinatam  aciem 
solus  restituerit,  hostes  palanteis  egerit,  scio  me  ora- 
tione  consequi  non  posse.  Illud  testatum  coiapertumque 
omnibus  esse  nenio  prudens  inficiabitur  Carolum  re- 
gein  ubi  Gonzaga  inter  Gallos  cruento  ense  maximam 
stragem  edentem  vidit,  ad  eos  qui  circumstabant  di- 
xisse:  «  si  Mantuse  hic  Princeps  prò  Aragoniis  in  regno 
Neapolitano  stetisset,  actum  mehercuie  erat  de  nobis  ». 
Tentavit  autem  Carolus  misso  ad  Franciscum  Argen- 
toni Principe  eum  sibi  conciliare:  promisso  illi  qua- 
tuor  Civitatum  in  Italia  imperio  et  perpetuo  stipendio. 
Sed  Franciscus  nibil  potius  ducens  quam  fidem  ser- 
vare, aures  regiis  promissis  non  adhibuit:  testatus 
nunquam  se  quieturum  nisi  Italia  in  libertateni  as- 
setta. Victus  itaque  Carolus  Ticinum  versus  iter  arri- 
puit.  Quum  apud  Stratellam  agri  Ticineum  oppidum 
consedisset  ])0ssetque  vel  brevi  negocio  capi,  idque 
maxime  Gonziacus  dux  appeterat:  Lodovicus  Sfortia 
ita  tralientibus  fatis  fuit  in  causa  ut  Gallus  Hastam 
incolumis  pervenerit.  Assequutus  est  Gonzaga,  fugato 
regc  omnium  claris3Ìmo  domita([ue  gentium  bellacis- 
simarum  ferocia,  victoriam  amplissimam.  Celebre  ejus 
tota  Italia  nomen  esse;  nullum  illustrius  facinus  pnu- 
dicari.  Quod  si  laudatur  omnium  ore  Annibal  quando 
cum  Romanis  bellaverit;  estque  in  pniecio  Marius 
quando  Cimbris  fuderit  \  et  in  coelum  tollitur  Caesar 


—  240 


quod    ferocissimam     Galiorum    gent,em    subagit;    qua 

laudatioixe,     quibusve    honoinin    titulis    Gonzaga    di- 

gnani  ceusebiinus,  qui  Carolum,  regein  potentissimum 

Belgavum,  Celtamm,  Aquitanoruinque    exercitum    flo- 

rentem,  Italicis  eliam  ductoriljus   et    militibus  instru- 

cturn  atque  ob  devictam    Parthenopem  ingenti  elatum 

superbia,  magnosque  eiBautem    spiritus,    vicit,    debel- 

lavit.  in  fugam  veitit,  Italiaeque  possessionem  decedere 

coegit  ?  ideo  in  Italia,    ubi    dumtaxat,   quemadmoduin 

aiebat    ille    Imperator  AnnibaI  :    vinci    Itali    possunt, 

Gonziacus  Dux  ubi  Tarrensi  pugna    feliciter    est    de- 

functus:    Novariam    cum     victore    exercitu     profectus 

civitatem  obsidione  arctissima    cinxit.    Dutn    Novariae 

Assedio         sederei,    Veneti    ob    rem    ad  Tarrum 

,.    __  strenue  gestam    omnium    suarum  co- 
di  Novara  ^  ,,.    , 
piarum    iuiperium  illi  deerevere,    da- 

turque  ut  summi  imperatoria  titulo  fungerei.  Missa 
sunt  et  publica  signa  cum  argenteo  sceptro  Novariam 
usque,  duobus  ad  id  patritiis  destinatis,  Petro  Mar- 
cello et  Georgio  Hemo.  Erat  prtesidio  Novariensibus 
Ludovìcus  Valesius  A.urelianensis  Dux,  quera  postea 
Francoruni  regem  vidimus,  vir  militari  virtute  et  pru- 
dentia  in  Gallis  ea  tempestate  summus.  Carolus  au- 
tem  valido  circa  Hastam  coacto  exercitu  totis  viribus 
adnixus  est  obsidionem  solvere,  caduceatoribus  saepe 
numero  missis,  qui  brevi  se  liostibus  afFuturus  uun- 
tiarent,  ut  da  summa  rei  cum  bis  deeerneret.  Ad  haec 
dissipandos  rumores  curavit:  fore  ut  brevi  Novariam 
copias  admoueret.  His  enim  vanis  terroribus  persua- 
suni  habuit  posse  fieri,  ut  obsidio  metu  solveretur. 
Sed  ea  fuit  unius  Gonzagse  constantia,  cui  publico 
Ducis  Sfortiani  Venetorumque  decreto  commissus  erat, 
ut  diligentissime  auimadverleret,  ne  quid  Italica  li- 
bertas  detrimenti  caperet,  ut  Galiorum  conatus  cun- 
ctando  represscrit.  Ncque    enim    imperatoris  eam  esse 


—  241 


laudem  soluin  existimabat  pugnandi  scilicet  cupìdum 
esse,  in  quod  duin  plerique  veterum  et  recentium  ni- 
niis  proni  fuerunt.  se  et  alios  facile  pioecipitaiunt: 
sed  Consilio  et  prudentia  rem  bellicani  felicius  admi- 
nistrari  putabat.  Meminerat  IM.  Varroiieni  apud  Cannas 
dum  coliegani  non  audit  infelicissime  pugnasse.  Mi- 
nutiuin  quoque  Magistruni  Equituni,  cui  cum  Fabio 
Max.  Dictatore  ajquatuin  fuerat  imperia m,  pene  ciun 
omni  exercitu  circumventum  legerat.  Domesticas  quo- 
que majorum  laudes  disciplina  militari  partas,  resque 
ab  illis  felicissime  Consilio  semper  administratas 
sciebat.  Et  profecto  pugnam  ubi  semel  commiseris, 
teque  alea3  dederis,  frustra  Fortuna m  rebus  accisis  ac- 
cusabìs.  Ita  sedendo  bellum  Novariense  Gonzaga  con- 
fecit.  Age  vero  qu»  nain  hostium.  strategemata  tanta 
esse  potuerunt,  ut  Gonziaci  imperatoris  militarem 
scientiam  effugerint?  Qui  eonatus,  quos  ille  virtnte 
non  superaverit?  Qua3  seditiones,  quas  summa  aucto- 
ritate  non  compresserit  ?  Quoe  bella,  quie  felicitate 
non  confecerit?  Quid  ejus  laborem  in  negoeiis  com- 
memorem,  in  periculis  fortitudinem,  industriam  in 
agendo,  celeritatem  in  conficicndo,  in  providendo  con- 
silium  ?  Qui\3  tanta  in  hoc  uno  fuerunt,  quanta  in 
reliquis  omnibus  imperatoribus  non  fuerunt.  Erant  in 
ejus  exercitu  Itali,  Epirot;o,  Dalmata;,  Helvetii,  Ger- 
mani, aliique  multi  diversarum  nationum  homines,  quos 
summa  auctoritate  Franciscus  semper  dicto  habuit 
obsequentes  et  inter  se  coniunctos,  adeo  ut  in  illius 
castris  nunquam  sit  tumultuatum.  Nihil,  viri  Man- 
thuani,  aut  fìngo,  aut  amplio.  Video  multos  heic  astare, 
qui  eo  bello  sub  Gonzaga  ordines  duxerunt,  qui  sub 
eo  militarnnt.  Vos  igitur  appello,  qui  in  ea  obsi- 
dione  egregiam  illi  navaslis  operam,  quain  et  rei  ne- 
cessitas  exigebat  et  virtus  vestra  pollicebatur.  Te 
quoque,  Joaunes  Gonzaga,  cur    non    appellem,  qui  eo 

Masi.  16 


OjO    


tempore,  jubente  fratre,  Allobroges,  ne  Gallis  suppe- 
tiam  ferrent,  dornuisti?  Yos  igitur  omnes  testes  cito. 
Ecquem  unquam  Imperatorem  pari  prudentia,  pari 
vìgilantia,  non  dico  videritÌ3,  sed  aut  ipsi  per  voa 
legeritis,  aut  ab  aliis  fando  acceperitis.  Scio  non  de- 
futuros  qui  me  elinguem  frigidumque  judieabunt.  Et 
profecto  non  ea  ego  sum  eloquentia,  non  eo  dicendi 
lepore  prteditus,  ut  tantam  rem  prò  dignitate  tractai-i 
possim.  Adnotabo  proinde  loca  scitu  coramemoratio- 
neque  digna,  eaque  vestros  ante  oculos  ponam.  Alii 
vero,  quibus  Romanae  facundiae  majestas  arridet,  en- 
comia parabunt.  ut  qux  ego  meo  more  epica  lingua 
exasciavi,  ipsi  Romana  quandoque  dolent.  Casterum, 
ut  unde  digressus  sum  redeam,  G alias  spe  retinendaì 
Novarise  frustratus,  urbem  reliquit.  Quam  Gonziacus 
Imperator  statim  Lodovico  Sfortiae  restiluit.  Illud 
vero  praeterire  nullo  modo  possum,  tanta  eo  bello 
fuisse  Francisci  innocentiam,  tantam  temperantiam, 
tantam  fìdem,  tantam  facilitatem,  tantaiDque  humani- 
tatem,  ut  instar  miraculi  habitum  sit,  imperatorem 
pene  adulescentem,  qui  magnis  priwesset  exercitibus, 
juvenile  aut  teuierarium  gessisse  nihil.  Recordamini, 
viri  Mantuani,  quam  supei-ioribus  annis  Maximilianus 
Caesar  Patavium  obsìderet,  quibus  calamitatibus  Vi- 
centinorum  Verouemsiumque  ager  sit  a  sociis  affectus, 
quot  rapinas,  quot  incendia,  quot  funera,  quot  deva- 
stationes  Civitates  illte  pertulerint,  ut  si  liostis  circa 
muros  esset  eaatramentatus,  non  plura  timere  debue- 
rint.  Atqui  Franciscus  ita  Xovariam  suum  diixit  exer- 
citum,  ita  illic  duos  pene  menses  consedit,  ut  non 
modo  rnanus  tam  numerosi  ezercitus,  sed  ne  vesti- 
gium  quidam  cuique  pacato  nocuisse  dicatur.  Reno- 
vavit  Bellisarii  summi  Ducis  inemoriam,  qui  bello 
Gotbico  numerosos  exercitus  per  Italiam  ita  pacate 
diixit,  ut    milites    pendentia    ex    arboribus    poma  tan- 


—  243 


gere  non  auderent.  Jain  vero  ita  faciies  aditus  ad  eutn 
inilituni  omnium  etiam  gregario  tum  seinpcr  futre  ut 
feiimma  liac  linmaoitate  summos  intìmosque  a^que  sibi 
tjljstruxerit.  Fideni  autem  ejus  Inter  sotios  quantam 
existìinari  putatis,  quam  etiam  liostes  saiictissimam 
judicarunt?  Ludovicus  enim  ^urelianensis  Novariam 
derelictnrus  ut  Vereellas  ad.  Carolum  se  conferret, 
Francisci  fide  acceiita  profectus  est.  Sed  nulli  niirum 
«336  deliet  eam  sibi  Franeiscum  pene  adulescentcn» 
ftucthoritatem  comparasse,  quam  ne  veterani  quidam 
Iinperatores  et  multis  bellis  exerciti  vendicarunt.  Cuju8 
€nim  unquam  imperatoris  in  obeundis  negociis  labor 
major?  Cuius  in  agendo  solertia  par^  In  rebus  dubiis 
presentius  consilium?  In  subeiindis  periculis  audacia 
prudentior,  fortitudo  constantior^  Apud  inilites,  apud 
socios,  apud  etiani  ipsos  hosteis  et  den'qie  apud  om- 
neis.  CUJU3  auctoritas  plenior,  gravior,  firmior?  Novaria 
itaque  Franciscus  Sfortiano  Imperio  restituta  et  inter 
Oallos  ae  Insubreis  pace  confocta  Vereellas  ad  Ca- 
lolum  regem  visenduni  proficiscitur.  Carolus  liuma- 
niasime  Franciscum  compie-  Onoranze  e  trionfi 
XU9  multa  de   illius  virtiite,  di  Francesco  Gonzaga 

fide,  fortitudine,  felicitateque    

prajfatus,  iniris  illum  laudibus  decoravit.  Rcdiit  deinde 
Franciscus  Novariam  ad  exercitum,  duobus  a  rege 
nobilissim's  equis  donatus,  (quorum  primus  aureis  mille 
fuerat  a  Carolo  emptus;  dimidio  iniiius  alter.  Ita 
Gonzagti)  virtus  etiam  apud  liostem  acerrimum  fuit  in 
precio.  Profecto  deinde  Venetias  summa  est  omnium 
laetitia  execptu3.  Augustinus  Barbadieus  Dux  Bucen- 
tauro  navi  illum  exei[)i  voluit,  et  triumphanti  simi- 
lem  per  mediani  urbem  ad  aedes  regali  apparatu  pu- 
blice  instructas  develii.  Bucentaurum  vero  purpura  et 
auro  insternere  in  liujusmodi  pompis  Veneti  consue- 
vcrurit,  qua-  nuiic  remo,    nunc  velis.    sae[)iu3   remulco 


—  244 


agitar.  Sedebat  Princeps  in  puppi  auro  stiata.  Assi- 
debat  Patiiciorum  ordo  destra  levaque  majestatis  et 
silentii  plenus.  Tubaj,  tib"teque  atque  alia  id  genus 
instrumenta  circuinsonabant.  Bucentaurum  sub  ur- 
bana precurrebat  navigia.  Haec  publico  sumptu  auleis 
et  festa  fronde  in  Topiarii  operis  modum  inflexa  mi- 
rifice  exornata  visebant.  A  prora  et  puppi  pulpita 
altiuscule  surgebant:  quorum  fastigiis  pueri  puellasque 
eleganti  forma  cnltuque  exquisitissimo  alii  alios  men- 
titi genios  latenti  machina  subnixi  puro  aptoque  aere 
iibrabantur.  Hi  aurea  svstra,  illi  tbyrsos,  aliaque  Deo- 
rum  dearumque  gestabant  insignia.  Inferiore  grndu 
adulescentes  in  tritonum  et  nymi)harum  species  figu- 
rati, suo  qualiscumque  statu  concentu  tantum  uno 
subvebebant.  Aurea  ad  hsea  signa  toto  navigio  defixa 
ventoque  ajritata;  et  in  primis  vietrices  ipsius  Gon- 
zagse  aquiliB  speataeulum  praebebant  tam  voluptuosum, 
ut  nullnm  sit  propemodum  aliu  i  quod  merito  buie  uni 
comparari  possit.  Bucentaurum  tanta  vis  sequebatur 
Cymbarum  offici!  gratia  ac  spectandi  studio,  ut  quam 
longe  lateque  toto  stagno  iert  prospectus  tegerent  aquaj 
fiequenti  eomitatu.  Quam  rei  pompam,  si  quis  vetu- 
st£e  rei  peritus  diligentius  spectet,  haud  multum  di- 
versas  agnoscat  ab  ea,  quam  veteres  scriptores  quon- 
dam in  Quiritium  triumphis  prodidere,  etsi  rei  formai 
diversie.  Habebat,  fateor,  aliquid  ille  currus  et  vieti 
ante  curruni  Reges  ac  duces.  Habebat  per  multum 
tota  pompa,  in  qua  uibium  simulachra,  aurum,  ar- 
gentum  factum  inftctumve  ac  signatura,  clypei,  tela, 
signa  aerea  et  marmorea  hostibus  adempia,  lecti  trì- 
clinares  aurei  atque  statuse  et  alia  eximia?  artis  precii 
permulta.  Trecentos  ac  viginti  triumpbos  Romano  Im- 
perio incolumi  optimi  rerum  scriptores  enumerant. 
Sed  unus  Gonzaga  si  tempora  consideres  antiquitatem 
illam  omnem    admirationis    plenam    pneeelluit    et    ne 


—  245 


verbo  invidia  sit,  omnium  triumplios    oequavit.  Arcus, 
currus,  eleplianti,  tigres,  leones  et  ignota  abditarum  gen- 
tium  animalium  uni  Gonzngoe  majestati  cessenint.  Se- 
quenti  anno  Ferdinandus  Junior  Neapo-         Guerra 
litanum  regnum   magna  ex  parte  eiectis  «elle  Pu^'lie 

Gallis  reeuperaturus  videbat,  nisi  Vergi-  

nius  Ursinus  magni  in  re  militari  nominis  in  Apulia  se 
Gallia  convinxisset.  Nam  tantum  terroris  Ferdinando 
incussit,  ut  quamqne  Neapolitauas  arces  ab  hoste  re- 
cepisset,  de  retinenda  tanien  urbe  soUicitus  ad  exter- 
nas  opes  coactus  sit  confugere.  Veneti  igitur  ad  id 
bellum  Gonziacutn  imperatorem  veluti  belli  Gallici 
fatalem  ducem  mittunt.  Quem  heic  rerum  exitum, 
quemve  cventum  expectatis?  Suscepit  liane  provin- 
ciam  Franciscus  aiacriter:  ratus  quod  evenit  futurum. 
Inter  eundum  vero  Alexandrum  sextum  Pontificem 
maximum  Romce  adoravit,  a  quo  per  summum  Iiono- 
rem  est  reeeptus  atque  de  more  christiano  aurea  rosa 
donatus.  Roma  discedens  quum  in  Regnum  perve- 
nisset,  Paulum  Vitellum,  egregium  Sconfitta 
belli  dueem,  qui  Gallorum  stipen-  jj  Paolo  Vitelli 
dia  faciebat,  a  pud  Venussiam  in  ^^ 
r  •/•,.•  .,•  -,  ^  Venosa 
lugam  vertit  illius  mihtibus  magna  . 

oceidione  oecisis.  Sub  Gonzagaj  accessum  Aragonia? 
res  adeo  aucta'  sunt,  ut  non  multo  post  castra  castris 
sint  utrinque  collata.  Tandem  Galli  nnius  Gonzagaj 
opera  in  Atellanam  urbem  se  recipere  compulsi  sunt. 
Erat  Gaiìorum  prorex  Giibertus  Bompenserius  ex 
Borboniorum  Principum  sanguine  Francisci  sororius. 
Qui  missis  ad  eum  saepenumero  nuntiis,  ningnisque 
illi  propositis    pra^miis  Gonza-  j  Francesi 

gam     ad     Gallorum     stipendia  tentano  corrompere 

traliere     est     adnixus.     Quum  .,    ^ 

il    Gonzag^a 

vero  viderent  Galli    se    d  iitius — 


egni  possessionem  tueri  non  posse  mallent(iuc  omneis 


3> 


24G  "^ 


quam  Aiagonios  in  eo  rerum  potiri,  Campania;  reli-' 
fjuarninque  Regni  provinciarum  iiiiperiuui  Gonzaga» 
Gbtulenmt:  modo  ille  reiictis  Venetis  Ferdinandoque 
destituto,  Caroli  fidem  sequeretur,  ipseque  ac  ejus. 
posteri  Gallorum  stipendia  inererent.  Sed  nullis  Gon- 
zaga poUic'tatioaibns,  nulla  nobilissimi  regni  cupidi- 
tate,  nulla  dominandi  ambitione  ab  incoeptis  dimo- 
veri  potuit.  Firmaverat  enim  sil)i  animo  Ferdinandunv 
regno  paterno  avitoque  ejectum  restituere.  O  magnani 
inauditamque  Gonzagiij  constantiam!  0  fidem  integer- 
riiaam,  o  virum  o'ternis  laudibus  in  coelum  efFeren- 
dum!  Omnia  nimirum  babet  qui  nihil  concupiscit,  e» 
quidem  ceitius  quam  qui  cuncta  possidet.  Solet  enim 
dominium  x'erum  collabi;  honstì  mentis  usurpatio  nul- 
lum  tristioris  fortuna^  recipit  in  cursum.  Cinxit  ita- 
que  Franeiseus  Atellanam  urbem  obsidione  omnium 
maxima  et  ita  cinxit  ac  circumvallavit,  ferro  fameque 
afflixit,  ut  Galli  omnes  in  deditioncm  venerint.  Ita  in- 
columi regno  Ferdinando  restituto  Gonziacus  dux 
Mantuam  triumphans  revertit.  Ca'terum  Veneti  seu 
variti  nimiam  Francisci  autboritatem,  seu  ne  ad  ho- 
steis  dofìceret,  quum  tamen  ille  omni  suspitione  ca- 
reret,  seu  aliam  ob  causam,  qua}  ignoretur,  seu,  quod 
In^ratitudin*»  plerique  asserunt,  in  Frunciscum 
dei  COll€«**ltl  ing'"»ti  illi  iinperium  sintiquarunt. 
Veneziani  ^f>>n  in  omni  republiea  bonos  ma- 

verso  il  Gonzaga  l^^que  Civeis  versari  quis  nescit? 

Quicquid  pi;i}teroa  agimus  in  vita, 

in  lance  sumus  vulgi  semper  diversa  aut  potius  per- 
versa scntientis.  Ubi  igitur  Francisco  nunt  atus  cst^ 
Venetiis  illi  antiquatum  esse  imperiuin,  ut  erat  animo 
generoso  et  ad  omnem  fortuna*  aleam  paratissimo,  id 
modestissime  tulit,  testatus  et  publice  et  privatim  se 
ita  imperium  gessisse,  ut  nibil  unquam  cogitaverit, 
nihil  eflFecerit,  quod  non    ideo  Reipublicio  Venetas  sa- 


—  247  — 


lutare  existimaverit.  Ncque  ultra  de  Venetorum  in- 
gratitudine queri,  tanta  erat  animi  constantia,  substi- 

nuit Gessit  deinde  iinperiiim 

in  Italia  Maximiliani  Caisaris  Francesco  Gonzaga 
jussu,  qui  Franciscum  plurimi  ^^  servizio 

faciebat.     Ludovicus     quoque       dell'Imperatore 
Sfortia  copiaruin   suarum  om-  Massimiliano 

nium    Ducem    illuni    creavit,  g  ^j  Lodovico  Sforza 

magno     adjecto     militia^     sti- 

pendio.  Qui  si  Francisci  Consilio  bello  Gallico  uti 
scivisset  in  hunc  diem  Sfortianum  nomen  durasset. 
Gallorum  enim  mores  institutaque  militarla  nemo  uno 
Gonzaga  meiius  noverat,  qui  ter  cum  eis  conflixerat, 
semperque  victor  extiterat.  Et  profecto  militaris  disci- 
plina tanto  aliarum  humanarunì  rerum  scientiam  an- 
teire  solet,  quanto  in  humano  corpore  pedibus  caput 
prajstantius  habetur:  praisertim  quum  sine  ea  exer- 
citus  ipsi  quamvis  ingentes  sint,  nulli  rei  magis  quam 
obcoecato  Polypliemo  comparar!  possint.  Ostendit  id 
in  Dario  Alexander  Macedo,  Themistocles  centra  Xer- 
sem,  ad  versus  Tigranem  Luculius  et  Pliarnace  Ptolo- 
meoque  devictis  Julius  Cicsar.  Item  contra  Rhadaga- 
sium  Stiiicon  et  sa^pius  superatis  Gotliis  Bellisarius. 
Itaque  duin  Ludovicus  Sfortia,  qui  omni  re  semper 
sapientissimus  est  habitus,  plus  ni  mio  domesticis  qui- 
busdam  induiget,  dum  a  Gonzaga  in  alios  transfert 
imperium,  se  suosque  omneis  perdidit.  Quo  vero  tem- 
pore ad  versus  Gallos  apud  Alexandriam  rSfortiani 
infeliciter  pugnarunt,  cajpitque  Ludovicus  fugam  in 
Gernianiain  raeditari.  (^uod  non  egit  Gonzaga  ut  Arx 
inediolMn^nsis  sibi  crederetur?  Qua?  si  tradita  fuisset^ 
nemo  Bernardinum  Curtiuiu  proditionis  omnium  ne- 
fantissiuKO  crimine  sugillaret.  Postquam  vero  Sfortiani 
paterno  atque  avito  exciderunt  imperio,  venitque  Me- 
diolanum     Lodovicus,    ejus    nominis    XII    Francorunv 


—  248 


rex,    ad    quem    ex    omni    Italia    dinasta;    accesserunt, 

Visita  di  ^^    eum   visendum    Franciscus 

Francesco  Gonzaga  ^^    contulit.   Susceptus   est    a 

al  nuovo  rege  mira  comitate  et  niansue- 

l'e  di  Francia  tudine    ornatusque    annuo    sti- 

IiUÌ'*'i  XII  pendio.    Putavit    enim    rex    ex 

. omnibus  Italia3  principibus,  qui 

officii  gratia  ad  euro  venerant,  rerum  gcstarum  gloria 
neminem  GonzagtB  esse  anteferendum.  Ut  autem  illum 
peculiari  aliquo  munere  demereretur,  divi  Michielis 
milltia  eum  lionestavit.  Rediit  in  Gallias  Lodovicus 
apud  ququem  invidorum  quorundam  delationibus  Fran- 
cìscus  petebatnr.  Profectus  in  Gallias,  ubi  in  con- 
spectum  regis  venit,  quem  non  nihil  a  se  alienatum 
videbat,  oratione  usus  idonea  et  quam  innocentia  illi 
suggerebat,  adeo  eum  placavit,  adeo  obiecta  omnia 
apertissime  diluit,  ut  regis  jussu  sit  illi  auctum  sti- 
pendium.  Potuisset  Franciscus  domi  se  continere.  sed 
in  Gallias,  ut  honorem  suum  tueretur,  proficisci  ma- 
luit.  Quo  tam  pieno  fiducise  bonae  Consilio  non  regis 
modo  animum  propensiorem  sibi  reddidit,  sed  male- 
Tolorum  ora  reterno  clausit  silentio.  Et  sane  ita  se 
gerere  in  adversis  i-ebus,  quid  aliud  est  quam  sse- 
vientem  fortunam  in  adjutorium  sui  pudore  victam 
convertere?  Veneràt  Mediolanum  Lodovicus  rex,  quo 
tempore  Cassar  Borgia,  Alexandri  sexti  Pont.  Max.  fi- 
lius,   Forum    Livii,  Forum    Cornelii,  CaBsenam  Faven- 

laui^i  XII  tiainque  subegerat.  ÌMagnus  prolude 

e  Cesare  Borgia  «^oncursus   Italorum    Principum  ad 

a  Milano  regem  est  factus,  ceu  ad  vindicem 

insieme  malorum  omnium,  quaj  a  Pontifica 

aali  altri  ^^  ^'''^'  ^''^''^  principibus  et  popu- 

principi  italiani  ^'^  imminebant.  Circumstabant  igi- 

tur    regem    viri    plerique    illustres 

italici    nominis    et    in    bis    Hercules   Estensis,   Ferra- 


249  — 


riae  Dux  et  Frauciscus  Gonzaga,  quuin  Valentinus 
dus  ignoto  liabitu  et  a  nullo  expectatus  dictus  est 
adesse.  Defixit  rei  novitas  animos  eorum,  qui  ade- 
rant,  maestoque  silentio  aliu3  alium  intueri,  mussi- 
tare  et  pene  a  se  ipso  abduci.  Quum  vero  Borgia,  ut 
erat  regnandi  cupidissimus  Consilia  in  perniciem  mul- 
torum  agitare  diceretur  atque  iniposturain  multis  fa- 
cere  vellet,  omnesque  suspensi  animo  essent,  unus 
Franciseus  Gonzaga  invicto  princeps  animo  omnium 
causam  egit:  itaque  audiente  rege  BorgiiD  ambitionem 
contudi,  ut  ille  in  melius  Consilia  mutaverit.  Ca^terum 
quum  Hispani  duce  Consale  Ferrando  Agidario,  viro 
fortissimo,  Columnensibus  etiam  maxime  juvantibus 
Neapolitanum  regnum  omni  pene  ex  parte  e  Gallorum 
manibus  cripuissent,  velletque  Lodovicus  Francorum 
rex  tam  nobilem  ignominiam  ulcisci,  novas  contraliit 
copias  summunque  copiarum  omnium  imperatorem 
Franciscum  Gonzagam  deligit.  Venerat  enim  Lodo- 
vicus in  eam  spem,  ut  nihil  tam  difficile,  tam  arduum 
foret,  quod  non  ille  summa  virtute  et  felicitate  con- 
ficeret,  nec  certe  regis  spes  inanes  cassa^que  fuissent, 
nisi  quorundam  Gallorum  superbia,  qui  Italo  parere 
dedignabantur,  eas  illi  inteix'idisset.  Franciseus  vero 
animo  reputans  quam  susciperet  provinciam,  omnia 
bello  necessaria  preparat.  Cum  ea  enim  gente  belli- 
gendarum  sibi  esse  sciebat,  qui:e  sit  nationum  omnium 
gentiumque  consensu  fortissima.  Nam  minime  igno- 
rabat  Romaaos  quo  tempore  rei  militaris  gloria  flore- 
bant,  quum  decem  annis  Gallias  domuissent,  plus 
negocii  cum  Hispanis  liabuisse.  Dncentis  enim  annis 
vix  est  Hispania  in  provincia  formam  reJacta,  si  a 
primis  Scipionibus  ad  Augustum  Casarem  annos  me- 
moremus.  Accepto  itaque  impeiio  Franciseus  ad  exer- 
citum  se  contulit.  Proeesserant  Gallorum  copia  unius 
Gonzaga  ductu  in  Hethruriam   bellum    circa  Caietam 


■jO  — 


reparatUMc  eratque  Italia  universa  ia  novissimi  bujus 
ceitaminis    eventuin    erecta,    quum     repente    assertur 
Alexandrum  sextum    Pont.    Max,    veneno,    quod  alteri 
Morte  di  paraverit,  hausto  mortuum  esse. 

Alessandro  Borgia  Pio^ectus     Romam      Franciscas 

sedulo  dedit  operam  ut  comitia, 

novo  deligendo  pontifici  dieta,  libera  essent.  Creatus 
est  Pontifex  Fianciscus  Pii  II  ex  sorore  nepos,  qui 
et  ipse  in  avuneuli  inemoriam  Plus  est  dictus.  Per 
Pio  III  ^"^  ^'^*  Gonzaga  exercitum    in   Latiuin  tra- 

duxit,    obiitque    Pius    III    sexto    et  vigesiino 

die,  qua  sedere  incoeperat.  Julianus  deinde  Sixti  IV 
Giulio  II  P^^*"-  ^^s^-  nepos  est  suffectus.  Franciscus 

interim  ad  Lirim  castra  habebat  Hispano- 

rum  motus  repressurus.  Verum  ubi  loca  est  speculatus 

Francesco  Gonzaga    ^'i^l'^q"e    adversam    fluminis 

nel  Genovesato        "P'*^^  ^'^  ^^^^^  *^"^"^  "^^^*- 

contro  gli  Spagnuoli  ^^^    "^    consilium    Gallorum 

primoribus   omnibus    ostendit 

nemini  dubium  esse  debere,  si  Lirim  traiciant,  quin 
ea  res  male  verteret  Gallis.  «  Sunt,  inquit  Gonzaga, 
palustria  haec  loca  et  circa  ripas  restagnantis  flu- 
minis alveus  nusquam  fere  se  pra?bet  vadabìlem, 
nisi  qua  Hispani  ex  adverso  insederunt.  Appetit  jam 
hyems,  ut  nulli  non  piane  appareat,  quin  Lfeic  seden- 
tibus  nobis  omnia  t«mpus  sit  iniquiora  facturum. 
Fame  proinde  et  frigore  miles  per  irritos  conatus  con- 
ficietur.  Quod  si  mibi  audientes  eritis,  ego  vobis  nullo 
negocio  uegocium  confectum  dabo.  Tutius  itaque  et 
ad  bellum  reparandum  multo  conducibilius  orit,  si  in 
Marsos  et  Peliginos  exercitum  duserimus,  atque  in 
bis  terris  stativa  adepti  sub  tectis  reliquum  lyemìs 
egerimus.  Mox  sub  vcrnus  tempus  in  Apuliam  digressi 
ex  integro  bellum  reparabimus  ».  At  caeteri  Galloi-um 
duces  dicto  audientes  minime  fiierunt.  Quod  ubi  Fran- 


ibi 


ciseus  intellexit  publicis  tabulis    testatiis    est,   rem  ab 
illis  in  maxime  discrimine  poni.       pgr  contrasti 
Erat  ipse  Gonzaga  tum    febricu-  co""!!  altri 

losu3.  Valetudinem  igitur  causa-  capitani  francesi 
tus,  relieta    Gallis    Gallici   exer-  ^^^^^^  ^  comando 

citus  cura,  in  patriam  iter  deflexit. 

Ostendit  illieo  rei  eventus  Franciscus  recte  Gallis 
consuluisse.  Nam  dum  Liri  assident,  in  mediumque 
Galli  consultant,  qua  vi,  quove  loco  esset  fluvius  su- 
perandus,  fames  primo  sentiri  caepta  est.  Sequutus 
inde  morbus.  Postremo  hyemis  intempcries.  Quibus 
nialis  brevi  Gallici  exercitus  pars  multo  maxima  est 
inntilis  facta.  Conati  deinde  gatta-Ma  del  Liri 
tlumcn    traiicerc,    magno    ab  perduta  dai  Francesi 

Hispanis  vieti  proelio  posses- • 

sione  Regni  exeiderunt,  re(iue  ipsa  est  comprobatum 
invietissimum  Gonz^gam  vera  pra'dixisse.  Post  liaee 
Fiorentini,  quibus  Petrus  Sodcrinus  preerat,  Pisas  ìq 
potestatem  redacturi  cnpiis  Gonzagam  suis  omnibus 
pr*feeerc.  Ivit  iUe  Fiorentiam  Francesco  Gonzaga 
eo  mense,  quo  diva  Osanna  An-  ^j  comando 

dreasiaciV'los  petiit.  Magistratus        ^gj   Fiorentini 
omnes  il  li    obviam    processere,  contro    Fisa 

omni  civitatc  ad  videndum  ef- 

fusa.  Quumque  csset  in  Pisanos  excrcitum  ducturus, 
a  Lodovico  rege  revocatus,  infecta  re  Mantuam  rediit, 
magno  sui  desiderio  Fiorenti nis  relieto.  Sperabant 
enim  eo  duce  Pisanis  leges  dare.  Quod  protVcto  eve- 
nisset,  si  ille  in  provinciam  esset  profcctus.  Designatus 
fuerat  Pont.  Max,  ut  paulo  superius  dixi,  Julius  se- 
cundus  Ligur.  Hic  secum  reputans  quantum  Ecclesim 
reltus  GonzHga;  autboritas  eondueere  posset,  cujns  ea 
tempestate  a])ud  omneis  nomen  maximo  erat  in  precio, 
missis  ad  eum  legatis  Eieonoram,  ejus  filiam,  aitate, 
forma  moribusque  liorentissimam,  uxorem  ])etiit  Fran- 


—  252 


cisco  Mari;t  Urbis  praìfeeto  atqne  Urbini  regulo.  Erat 

Matrimonio  autem  Franciscus  M.  Julii  ex 

d'  Eleonora  Gonzaga  ^''^^^re   nepos.    Celebrataj  sunt 

QQn  nuptioe  singulari  pompa  atque 

Francesco  Maria      appa><itu,  nullo  non   adhibito 

Della  Rovere,  magnificentiie    genere.    Paulo 

Duca  d'  Urbino         '^"^^"^  P^^*^   ^^^"^    Bononiam 

■ •  Julius  esset  ad  officium  revo- 

caturus,  Franciscum  Gonzagaui  imperatorem  decernit, 

cujus  auspitiis    Bononia    iniperiuin    suscipcret.   Potie- 

bantur  in  ea    urbe    rerum    Bentivoli,  qui    unius  Gon- 

zagiB  opera    atque    adbortatione   cedere    fortuna  deli- 

berarunt.  Ita  in  Julii    potestatem  Bononia  rediit.  Nec 

bis  contentus   Pont.    Max.   summus  ea   tempestate    li- 

Francesso  Gonzaga  bertatis    ecclesiastica^    assertor, 

Gonfaloniere  summa    et    perpetua    dignitate, 

della  1"*  inter  Christianos    est  ma- 

S.  Chiesa  Romana    ^^'"^'    Franciscum     bonestavit. 

Eum    eniin    S.    R.    E.    vexilli- 

ferum  instituit,  claveisque,  quibus  ipse  coelum  aperit 
et  claudit    inermis,  armato    ferendas    dedit;    militibus 

sane  salutiferum    felicissiuiumque    signum 

Sequutum  deinde  est  Lygnsticum  bellum   omnium  pe- 

Guerra      riculosissimum.  Cum  eo  enim  hoste  agen- 

di  Genova  ^"'^  erat,  quem    bellacissimum  esse  con- 

stat.    Nam    gens    ista    oliui    Romana    din 

exercuit  arma,  quam  pene  niajus  est  invenire,  quam 
vincere.  Vindicaverant  se  populari  tumultu  Genuenses 
in  libertatem,  nobilitate  omni  ostracismo  notata.  Eie- 
ctos  itaque  Nobileis  Lodovicus  Francorum  rex  natriaj 
restitutinus  simulque  rebellanteis  Lygnres  in  ordinem 
reducturus  omnem  Victoria;  spem  in  uno  Gonza^^a  ita 
visus  est  collocasse,  ut  omnia  illius  arbitrio  fieri  nian- 
daverit,  seque  et  exercitum  omnem  illius  fidei  permi- 
erit.  Qua  ille    provincia  egregie    est    defunctus.  Nam 


—  253  — 


traieeto  Apennino  ìnsinuatusque  in  vallem  Porcoberam, 
quaiii  mine  Poiciferain  dicunt,  iiiontem  Genua3  imini- 
nentem  validissimo  tìrinatiiin  pra'sidio,  primo  congressi! 
coepit.  Fractns  autem  Lygur  nobili  hac  pugna  in  de- 
ditionem  venit.  Quumque  omnes  regi  insignem  hanc 
victoriam  gratularentur,  ipse  ingenue  fateti  unum 
Gonzagam  esse,  cui  tam  nobilis  Victoria  adscribi  de- 
beret.  Fatebatur  enim  clarissimus  rex  Gonzagam  non 
modo  victorirp  participem,  sed  piane  authorem.  Hujus 
ductu  ac  Consilio  Apenninum  superatum.  Hujus  la- 
bore ac  virtute  in  munitiones  liostium  penetratum. 
Hujus  astutia  ac  prudentia  bellum  nullo  pene  labore, 
nulla  pene  occidione  confectum.  Quid  auteni  hoc  te- 
stimonio   certius? 

CiBterutn,  ut  ad  reliqua  progrediatur  oratio,  paren- 
talia  namque    celel)ramu3,  non  con-  Le'^'a 

dimus    historiam,  in  ultimis    Gallina  contro  Venezia 

et  Germania^  finibus  opportuna  Julii  

Pont.  Max.  authoritate,  Margaritiiì  foeminas  rarissimaj 
Maximiliani  Ca!saris  filii«  opera,  simul  et  Britannorum 
regis  vadatione,  Legatorumque  Hispanorum  inter- 
ventu,  bellum  Lodovicus  adversus  Venetos  decrevit. 
Delectus  stati m  est  Gonzaga,  qui  priinus  Venetos 
bello  lacesserer.  Id  impigre  Gonzaga  pncstitit,  ad 
Casale  majus  (est  id  in  agro  Cremonensi  oppidum 
opulentum  et  nobile)  deduetis  copiis.  Quo  expugnato 
et  in  potestatem  redacto  adversus  Bartholomoeum  Al- 
vianum,  qui  celebre  apud  Italos  nomen  liabebat  exer- 
citiim  duxit.  Erat  Alvianus  omnium,  quos  nostra  a;tas 
viderit,  ferocissimus.  Faetiosus  autem  quamque  ma- 
xime. Venetis  vero  ea  tempestate  militabat.  Ubi  igitur 
audivit  Gonzagam  Casale  majns  in  fidem  recepisse, 
fcrox  animi  et  sui  impatiens  in  eum  convitia  iecit 
enormibusque  illum  verbis  praescidit.  Positis  autem 
castris  ad  Pontem  Mollinum   in   agrum  Mantuanum  se 


—  2.'.  4  — 


insinuare  curabat,  ut  Gonzagam  ad  suos  defendendoa 
averterei.  Itaque  Gonzaga  certior  de  omnibus  factua 
belligerandi  non  oblatrandi  teinpus  adesse  ratus,  con- 

Francesco  Gonzaga       ^'^'^    manuque   promptus, 

j    pg  relieto    agro    Crenionensi, 

Bartolommeo  d'Alviano  '-^dversus  Alvianun    aciem 

condottiero  explicuit   et    ita    hominis 

dei  Veneziani  ferociam  repressit,  ut  pa- 

rum     abfuerit,    quin    eum 

captivum  abduserit.  Auxit  pra?3ens  successus  Gallia 
aninios,  contra  res  infeliciter  mota  Venetos  Laud  nie- 
diocriter  fregit.  Ita  hoc  uno  congressu,  quod  de  l'eli- 
quo  omni  Venetorum  exercitu  speranduin  esset  facile 
apparuit.  Paulo  auteni  post  Lodovieus  I»ex'  Abdua  tra- 
jecta  uno  oniaium  memorandissimo  prjelio  cum  Ve- 
netis  debellavit,  eaque  omnia  qure  illi  de  Bri-xianis, 
Cremonensibui,  Bregamensibusque  possidebant,  in  po- 
testatem  recepit.  Sed  quo  die  commissum  est  proe- 
lium  ancipiti  morbo  ex  maximis  laboribus  contracto 
Franciscus  laborabat.  Rem  tamen  Gallicani  astu  con- 
silioque  juvit.  Post  iriemoi'abilem  illam  pugnam  mili- 
tavit  Franciscus  tum  Maximiliano  Caesari,  tum  Lo- 
dovico Regi.  Sed  vi  morbi  incrudescente,  dcbilitatoque 
corpore,  coactus  est  militiam  deserere  et  relictis  armis 
se  toturn  ad    reipublic*  regimen.  ad    su:v    urbis  orna- 

raentum   convertere 

Quum  se  morti  propinquum  sensisset  (Franciscus  Gon- 
Morte  di  saga)  publicis  testamenti  tabu- 

Francesco  Gonzaga  ^'^    eonditis,   sacerdotem,  quem 

a  secretis    conscientia-  babebat 

voeari  ad  se  jussit,  expiatisque  more  Cliristiano  pec- 
catis  omnibus,  divinìssimo  Euebaristiiv  sacramento 
sumpto,  aliisque  rite  peractis,  Inter  coniugis,  fìliorum, 
fratrum,  cognatorumque  ampiexus,  decessit.  Referunt 
inilu  qui  aderant.  vultu    eum    semper  placido,  animo- 


—  255 


que  ilio  invìcto  niortìa  hoiam,  duni  intrepide  pniesto- 
laretur,  jussisse  sacerdotibiis  qui  astabant,  ut  illa 
Evangelicas  historia^  pars  sibi  legeretar,  qua;  Cliristi 
captivitatem,  cruciatus,  flagella,  irrisiones,  mortemque 
continet.  Interim  ipse  signa  multa  bene  instituti  animi 
et  qui  Divin^e  se  voluntati  obsequentetii  oiuni  est 
parte  exhiberet,  ostendit 


'"ì 


INDICE 


Capitolo         I.  —  Dal    Boccaccio    al   Ban- 

dello Pag.       1 

Capitolo        II.  —  La  cornice  del  quadro    .     »         15 
Capitolo      III.  —  Uomini,  donne   e    tempi 
nelle  Novelle  del  Ban- 

dello »         39 

Capitolo      IV.  —  (Segue    lo    stesso    argo- 
mento)   »        69 

Capitolo        V.  —  (Segue    lo    stesso    argo- 
mento)  »        S3 

Capitolo.      VI  —  (Segue    lo    stosso    argo- 
mento)  »        97 

Capitolo     VII.  —  La  novella  de g\\  Amanti 

Venesiani »       115 

Capitolo   Vili.  —  La  vita  del  Bandello.     .     »       165 
Capitolo      IX.  —  Amori  e  vicende     ...»      177 
Capitolo        X.  —  Castelgiuffredo,  la  dimora 
in    Francia   ed    il    ri- 
fugio finale    ....     »       199 

Appendice  I »      223 

Appendice  II »      237 


FINITO    DI    STAMPARE 
IL    DÌ    XV    SETTEMBRE    MDCCCC 
NKl.LA    TIPOGRAFIA    DELLA    DITTA    NICOLA    ZANICHELLI 
IN    BOLOGNA 


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