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TIPOGRAFIA GAMBERINI E PARMEGGIANI
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CLASSE DI SCIENZE FISICHE
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TIPOGRAFIA GAMBERINI E PARMEGGIANI
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SULLA POSSIBILITÀ DI TRASMETTERE
LA PELLAGRA ALLA SCIMMIA
INICEIRCRIE SPERMA
DEL
PIvTOITT. GAUNDDO. IEziz©DINAE
letta nella Seduta dell’ 11 Dicembre 1910
(CON UNA TAVOLA)
Oggetto di queste ricerche furono quattro scimmie che avevano precedentemente
servito al Dott. Guyot (1) per alcuni suoi studi sulla emoagglutinazione batterica, e
che egli cedè all Istituto nel lasciare il posto di aiuto che prima vi ricopriva.
Queste scimmie, in rapporto al grado della loro sensibilità per il virus sperimen-
tato, possono dividersi in due gruppi: in un primo gruppo di animali assai recettivi,
nei quali l’ esperimento terminò con la morte, ed in un secondo gruppo di animali più
resistenti in cui la coltura provata determinò solo la comparsa di fenomeni morbosi
transitori.
Al primo gruppo appartengono due soggetti che non furono determinati in vita, e
nemmeno lo poterono con precisione dopo morte, perchè, chi in mia assenza ne praticò
la sezione, dimenticò di conservare la testa.
Il secondo, gruppo comprende pure due soggetti che furono determinati gentilmente
dal Prof. Ghigi e che appartengono, uno al genere Macacus, ed uno al genere
Cercopithecus.
Queste scimmie, come è stato detto, avevano servito in precedenza ad alcuni espe-
rimenti del Doti. Guyot, ma le prove fatte sopra di esse non erano di tal natura da
modificarne profondamente la costituzione e da poter influire in qualche modo su
quelle che sugli stessi soggetti furono fatte successivamente e che sono argomento delle
presenti ricerche.
Infatti i ricordati animali ebbero introdotte per via gastrica o sottocutanea colture
di uno speciale b. appartenente al gruppo del coli, ricavato dal sangue, dalle orine
e dalle feci di una donna affetta da anemia febbrile, consecutiva ad enterite e cistite
ricorrenti; e ciò al fine di vedere se si riescivano a riprodurre nel loro sangue le stesse
(1) Guyot — Ueber die bakterielle Himagglutination (Bakterio-Haemoagglutination). CIb. f. Bakt.
et, I Abt. Originale. Bd. XLVII. H. 5, 1908. — Policlinico. Vol. XV, M. 1908.
A
alterazioni discrasiche del soggetto dal quale derivavano, essendosi i globuli rossi della
scimmia dimostrati in vitro molto sensibili verso il germe in questione, dal. quale
erano rapidamente e fortemente agglutimnati; ma, per quanto si ripetesse più volte la
prova, pure si ottennero costantemente risultati negativi e gli animali sopportarono le
iniezioni del b. agglutinante senza alterazioni apprezzabili.
Nonostante questo, e quasi per eccesso di precauzione, sì lasciò trascorrere qualche
mese prima che tali soggetti fossero adibiti a nuovi esperimenti.
Le quattro scimmie di cui è parola, erano destinate a ricevere il germe della
pellagra per via gastrica mescolato agli alimenti, nei quali il granturco doveva avere
il predominio.
Era questa la sola maniera di avvicinarsi il più possibile collo esperimento a
quello che si ritiene debba avvenire in condizioni naturali.
Ma disgraziatamente ciò non potemmo in alcun modo conseguire; perchè gli animali
che si trovavano a nestra disposizione, forse per essere da lungo tempo abituati ad
una determinata alimentazione, ristretta esclusivamente a pane di grano, latte e frutta
fresche, non vollero sapere per nulla del granturco, in qualunque modo fosse condi-
zionato, cioè in forma di pane, di focaccia o di polenta. Nè ci aspettavamo davvero
questa assoluta resistenza, che la più fine astuzia e la maggiore insistenza non riuscirono
mai a vincere, perchè un’altra scimmia (Cynocephalus porcinus), che disgraziatamente
non ci era dato in alcun modo di adibire a queste ricerche, sì era mostrata in precedenza
molto ghiotta del granturco, e tanto in chicco, quanto utilizzato nelle varie maniere
di cui si servono i nostri contadini per la loro alimentazione maidica.
Così, per la introduzione nello stomaco del virus che volevamo sperimentare, do-
vevamo ricorrere alla sondatura esofagea, con la quale, peraltro, solo di tanto in
tanto si poteva far pervenire nel ventricolo una buona quantità di germi specifici, otte-
nuta con la sospensione in acqua salata di colture in agar vecchie di 18-24 ore; oppure
sì doveva rinunciare a tali prove e sostituire alla via gastrica quella sottocutanea.
In ogni caso si aveva l'inconveniente grave di escludere dallo esperimento il
granturco, il quale, specialmente nelle infezioni per via gastrica, poteva dispiegare
un’ azione molto importante, sia favorendo lo sviluppo del germe come mezzo di nu-
trizione più confacente, sia facilitando il suo attecchinamento sullo intestino mercè i
disturbi digestivi e le conseguenti alterazioni della mucosa intestinale che esso avrebbe
potuto eventualmente provocare.
Nella infezione determinata per via sottocutanea, poi, i difetti erano anche maggiori,
tanto per la possibilità di un mancato richiamo verso l’ intestino del germe specifico,
quanto per la probabilità che tale germe fosse facilmente distrutto nelle vie intermedie.
Perciò poteva darsi benissimo che, per esserci allontanati nei nostri esperimenti
dalle condizioni naturali nelle quali suole avvenire l’infezione, la dimostrazione della
azione patogena sulla scimmia dal germe provato, fosse meno completa, e nei casì di
resistenza individuale abbastanza elevata fallisse completamente.
Ma, nonostante questi difetti, e per quanto dobbiamo riconoscere che 1 risultati
— D —
da noi ottenuti non sono completi, pure, in ragione della loro novità ed importanza,
ci è sembrato opportuno renderli subito di pubblica ragione; anche perchè possano
servire di norma a coloro i quali, disponendo di mezzi assai maggiori dei nostri, sono
in grado di dare a tali studi la necessaria estensione.
Peraltro, anche così incomplete come sono, nessuno potrà negare | importanza
delle presenti ricerche, sia perchè esse rappresentano una conferma di quelle prece-
denti sulla cavia, ed una conferma di molto rilievo riguardando un mammifero supe-
riore assai più vicino all’ uomo dei roditori, sia perchè nella scimmia .possono con
maggior facilità essere rilevati e seguiti i fenomeni della malattia, sia perchè in
questo animale più difficili sono gli errori con malattie spontanee che così spesso
colpiscono invece i piccoli roditori, specialmente la cavia.
A. — PARTE SPERIMENTALE
I. GRUPPO DI ESPERIMENTI
Comprende gli animali più recettivi che terminarono con la morte.
Scimmia I, femmina, del peso di Kg. 2,120; pelame marrone non molto abbondante ;
muso prominente, tipo cinocefalo, con pelle rosea priva di peli; callosità alle natiche
molte pronunziate ; coda appena più lunga delle coscie ; movimenti non molto agili.
3-V-1908. Iniezione sottocutanea di una intera coltura in agar di 24" ripresa con
1,5 cc. di acqua salata, ottenuta a mezzo della Esp.° 1° dalle deiezioni dello stipite
Dall’Olio di cui alla Oss.° I della 2* mia Memoria (1).
la coltura in agar era stata innestata da coltura in sangue di 7 giorni ed a
quell’ epoca tali innesti erano capaci di uccidere la cavia coì fenomeni noti entro
il termine di 40 giorni.
6-V-1908. L'animale presenta gli arti ant. un po’ contratti, dolenti, e non riesce
a servirsene per la presa del cibo che deve fare direttamente con la bocca; anche
gli arti post. sono ratirappiti, tanto da non poterli convenientemente sollevare dal
suolo nel camminare; l appetito si conserva abbastanza buono.
Dato peraltro il breve tempo trascorso dalla procurata infezione, si rimane in
dubbio sulla natura di questi fenomeni, che si è inclinati a ritenere d’ indole reumatica.
Ciò tanto più in quanto i ricordati sintomi furono molto transitori, essendo intiera-
mente scomparsi il giorno 12-V-1908 senza lasciare conseguenza alcuna.
12-V-1908. La scimmia è assai fiacca nel treno post., che trascina come fosse
paretico e sul quale non sì regge troppo bene; inoltre ha la faccia crespata. vecchieg-
giante, la pelle e le mucose molto pallide.
(1) Tizzoni — Intorno alla patogenesi ed etiologia della pellagra. — 25002. del Ministero di
Agricoltura ece., 1909.
ERA
2-VII-1908. Ogni tanto, specie quando comincia a camminare, la scimmia pre-
senta contratture dell’ arto post. sinistro, che facilmente riesce a vincere dopo iniziata
la deambulazione. Pallore della pelle e delle mucose; fiacchezza generale; peso Kg. 2,070.
1-X-1908. Durante tutta l estate sono rimaste invariate le condizioni dell’animale,
che mostrasi sempre fiacco, con forte pallore delle mucose, con faccia vecchieggiante,
raggrinzata, e che di tanto in tanto presenta contratture di uno degli arti e zoppica.
9-X-1908. Senza che l’animale avesse presentato in precedenza fenomeni speciali
che facessero presupporre un prossimo esito letale, alla mattina di questo giorno si
trova morto.
La morte avvenne dopo 5 mesi circa, e più precisamente dopo 115 giorni dalla
praticata iniezione.
Auropsia — Ipostasi polmonare; ispessimento del pericardio che contiene discreta
quantità di liquido sieroso. Fegato duro, di colorito giallognolo, qua e là chiazzato a
carta geografica, con punticini emorragici disseminati nell’ organo. Milza dura, polposa,
friabile al taglio. Pancreas, reni di aspetto normale, Intestino senza lesioni abprezza-
bili, ripieno di feci normali, poltacee nel tenue e consistenti nel crasso. Glandole me-
seraiche grosse, di colorito bianco-grigiastro, di consistenza media. Organi genito-orinari
normali; assenza di emorragie e di altre lesioni nella pelle, nel connettivo sottocutaneo
e nei muscoli. Nulla di speciale alle articolazioni; nulla di rilevabile al cervello ed
al midollo spinale.
Si fanno colture in brodo dal sangue aspirato dal cuore, dal fegato e dalla milza.
Dalla milza si sviluppa sollecitamente una ricca coltura formata da elementi al-
lungati, a fiamma di candela e lanceolati, disposti a coppie ed a corte catene.
Dal fegato si ottiene egualmente una coltura molto ricca, ma gli elementi che la
costituiscono hanno in prevalenza la forma rotonda e sono riuniti a coppie; accanto
a questi si vede qualche forma gonococcica, che sembra data da elementi molto
giovani in via di scissione.
Dal sangue si producono solo scarsi elementi allungati, identici per forma e dispo-
sizione a quelli della milza.
Inoltre, al pari di quanto abbiamo visto avvenire molte volte nella cavia, la sorte
delle colture ottenute dal sangue e dagli organi della scimmia in esame fu assai di-
versa secondo la loro derivazione.
Ed invero, mentre la coltura originale del sangue non era trasportabile in alcun
mezzo di nutrizione, quella della milza lo divenne solamente dopo esser passata at-
traverso il sangue defibrinato di coniglio, quella del fegato fu subito e direttamente
trasportabile in qualunque substrato, tanto in sangue di coniglio quanto in agar ed
in brodo.
Ed a questo differente comportamento colturale corrispose poi un diverso aspetto
della coltura ed un differente modo di aggruppamento del germe.
Così la coltura originale della milza, che era più difficilmente trasportabile e che,
come abbiamo veduto, dava trapianti positivi sui mezzi ordinari di nutrizione sola-
===
mente se passata attraverso sangue defibrinato di coniglio, produceva sull’ agar una
forma di coltura minutissima, costituita da piccole colonie trasparenti, isolate, mai
confluenti, rilevate sulla superficie dell’agar, dello aspetto di gocciolette di rugiada,
del tutto simili a quelle che si hanno nelle colture ricavate direttamente dal sangue
e dagli organi degli ammalati morti in breve tempo col quadro della pellagra acutis-
sima (tifo pellagroso - follia pellagrosa) o dalle deiezioni di forme di pellagra co-
mune ma abbastanza gravi. Di più questa coltura, dopo 5-6 passaggi positivi in sangue
defibrinato di coniglio, si perse e non fu più trasportabile, come avevamo veduto avve-
nire altre volte per colture virulentissime.
Invece l’innesto originale dal fegato, che dava direttamente trapianti positivi
sull’agar, produceva su questo mezzo di nutrizione colture costituite da colonie con-
fluenti, bianchiccie, che formano una patina abbastanza densa, umida, di aspetto mu-
coso, a superficie lucente, identiche a quelle che si ottengono da forme lente di pellagra
o che subirono forte attenuazione nel loro passaggio attraverso l animale (cavia), e
come si osserva anche nelle colture avute direttamente dal granturco.
Tali colture poi, a differenza delle precedenti, erano indefinitamente trasportabili.
Egualmente cambiavano i caratteri microscopici della coltura secondo la loro
provenienza ed il loro aspetto.
Così, mentre nelle colture delicate, a goccie di rugiada, come in quelle provenienti
dalla milza, si osservano al microscopio coppie di elementi a fiamma di candela e
lunghe catene formanti anche dei grossi fiocchi, costituite da germi allungati riuniti
due a due, come si riscontra nelle forme acutissime di pellagra che terminano ra-
pidamente con la morte, invece nelle colture più appariscenti, patinose, quali quelle
ricavate dal fegato, gli elementi hanno prevalentemente la forma rotonda e sono di-
sposti a coppie o riuniti in corte catene ed in cumuli, come si verifica nelle colture
attenuate od in quelle ottenute da forme lente di pellagra (conf. fig. 1, con fig. 7,
12, 13, 16, 18, 20. Tav. VI e VII della Memoria sulla pellagra precedentemente
citata).
Dunque in questo caso il germe ricavato dalle deiezioni di un pellagroso (Osser-
vazione I, ammalaco Dall’ Olio Mario della Memoria più volte ricordata - Intorno alla
patogenesi ed etiologia della pellagra) riescì patogeno per la scimmia, che uccise in
5 mesi circa, e dai cui organi si ricavarono colture perfettamente identiche per caratteri
morfologici e batteriologici a quelle ottenute direttamente dall’ uomo. Di più potemmo
dimostrare per la scimmia, al pari di quanto era stato osservato per laTcavia, | esi-
stenza di tipi batterici diversi in ragione della parte dalla quale la coltura era
Stata ricavata.
Ma per meglio stabilire il diagnostico della coltura isolata dalla scimmia, stimammo
opportuno studiarne anche la sua azione patogena nella cavia; ciò che facemmo coi
seguenti esperimenti.
Esp. 1° — Cavia di gr. 370.
18-X-1908. Iniezione sottocutanea al dorso di 3[4 di coltura in agar di 24" ripresa
)
cor DI =.
con acqua salata, proveniente dalla scimmia I ed ottenuta direttamente da un pas-
saggio in sangue difibrinato di coniglio della coltura originale in brodo avuta dalla
milza; la quale, come è stato detto, era sull’ agar di aspetto delicatissimo e risultava
costituita da piccolissime colonie isolate, dell'aspetto di goccioline di rugiada, che al
microscopio lasciavano vedere esclusivamente delle coppie lanceolate e delle corte
catene. L'animale fu alimentato sempre con semola, fieno ed erba.
18-XI-1908. Meno mobile l arto post. destro; peso 320 er.
20-XI-1908. Forte contrazione dolorosa di tutto il treno post., specie dal lato si-
nistro; andatura dell’ animale caratteristica, a salti; peso 300 gr.
23-XI-1908. Morte dell’ animale, avrenuta dopo 36 giorni dalla praticata iniezione.
AuropsiaA — Fegato bruno, congesto. Milza un po’ ingrossata e dura al taglio.
Reni congesti con segni di nefrite acuta. Capsule surrenali piene di sangue. Glandole
meseraiche emorragiche. Intestino tenue con parete assotigliata e con dilatazioni am-
pollari ripiene di liquido catarrale misto a gas; piccole chiazze emorragiche nel crasso;
cospicue emorragie sottocutanee ed intermuscolari.
Riesce positiva la coltura del fegato, ma è inquinata da un b. banale; riesce
invece negativa quella del sangue. Dalla milza si sviluppa qualche coppia rotonda,
rigonfiata, ma i trapianti di questa coltura, anche se fatti in sangue defibrinato di
coniglio, rimangono costantemente sterili.
Esp. 2° — Cavia del peso di. gr. 350.
30-X-1908. Iniezione sottocutanea al dorso di 1]2 coltura in agar ripresa con
acqua salata, proveniente direttamente dalla coltura originale in brodo avuta dal fegato
della scimmia I.; coltura appariscente, patinosa, avente tutti i caratteri delle colture
attenuate.
Risultato identico a quello dell'esperimento precedente; morte dell’ animale dopo
24 giorni della procurata infezione ; quadro anatomico eguale a quello poco prima
riferito.
La coltura del sangue rimase sterile; dal fegato nacquero solo poche coppie ro-
tonde che presto furono sopraffatte. da una impurità; dalla milza sì ottenne invece con
grande ritardo lo sviluppo di una coltura che nell’ innesto originale in brodo s1 pre-
sentava sotto forma di fiocchetti pesanti, che nei trapianti in agar appariva delicatissima,
sotto forma di goccioline di rugiada, e che aveva tutte le caratteristiche delle colture
molto virulente. Ed invero essa, come quella iniettata alla scimmia, era costituita da
coppie lanceolate e da catene lunghe, circonvolute.
Finalmente mi è parso fosse non del tutto privo d° interesse di esaminare se queste
colture passate attraverso il corpo della scimmia, come quelle avute direttamente
dall’uomo, resistessero alle alte temperature. In altro lavoro, che presto sarà reso di
pubblica ragione, studio la questione in modo più esteso, ed esamino l'influenza che
esercita l'alta temperatura sui varii stipiti da me isolati, e tanto su quelli’ ottenuti
dalle diverse forme di pellagra, quanto su quelli ricavati dal granturco avariato, e ne
confronto i risultati; ma, nell’ attesa di tale pubblicazione, credo opportuno anticipare
PRERONI SE:
ciò che riguarda il caso in esame, anche per l importanza che ha il reperto batte-
riologico ottenuto dai varii organi dell’animale che aveva servito per questa ricerca.
l'sp. 3° — Cavia del peso di 240 gr.
22-VII-1909. Iniezione sottocutanea di 1|2 coltura in agar di 18° ripresa con acqua
salata, proveniente dal fegato della scimmia I. Questa coltura, prima di essere usata,
era stata mantenuta 1|2 ora a 100° a bagno-maria.
Inizio der fenomeni morbosi il 16-IX-1910; il 19 successivo il quadro della pel-
lagra sperimentale era completo e molto grave; il 20-IX-1910 l’animale muore, dopo
trascorsi 60 giorni dalla praticata inoculazione.
Alla autopsia si rinvengono le solite alterazioni più volte descritte.
Dal sangue preso dal cuore, solo dopo molto tempo (15 giorni) si sviluppano germi
specifici, che nei trapianti in agar dànno luogo ad una coltura appariscente, polposa,
simile a quella inoculata e costituita in prevalenza da elementi rotondi, riuniti in coppie
od in grossi cumuli (fig. 2).
Dal fegato si sviluppano coppie lanceolate e corte catene, che presto sono sopra-
fatte da una forma di Db. coli.
Dalla milza si ottiene una coltura che sull’ agar apparisce molto delicata, a forma
di goccie trasparenti, rilevate, simili a goccie di rugiade, data da coppie lanceolate
e da catene caratteristiche, circonvolute, ora moniliformi, ora costituite da elementi
allungati. Le fig. 3, 4 e 5 ottenute da questa coltura dimostrano la sua identità con
quella avuta direttamente dall’ uomo (confronta le figure indicate con le figure 1, 3,
8, }4, 21, Tav. VI e VII della Memoria più volte citata) e provano la sua resistenza
alle alte temperature (1[2 ora a 100°).
Tali colture poi essendo perfettamente identiche a “quelle ricavate direttamente
dalla milza della scimmia di cui è quistione, possono le rispettive figure ottenute
dalle prime servire anche per le seconde, che non fu possibile rappresentare colla fo-
tografia perchè presto si esaurirono e non furono più trasportabili.
Finalmente in questo caso, oltre al diverso aspetto della coltura a seconda della sua
provenienza (confr. in proposito la fig. 2, avuta dal sangue, con la fig. 3, 4 e 5 ricavate
dalla milza), si ebbe ad osservare il fatto interessantissimo, già notato in altra occa-
sione, della graduale trasformazione di un tipo di coltura in un altro.
Così le matrici in sangue avute dalla milza, che dapprima davano solo trapianti
in agar molto delicati, a forma di goccie di rugiada, più tardi determinarono lo
sviluppo di forme miste, cioè costituite per buona parte da colonie minutissime, tra-
sparenti, rilevate e da qualche colonia più grossa, simile nell’ aspetto a quelle di al-
cuni fermenti, od a quelle della coltura di pellagra attenuata.
Scimmia II, maschio di Kg. 2,300; pelame scuro quasi nero, muso prominente,
appuntato, coperto di rada peluria molto scura ; callosità meno pronunziate della pre-
cedente ; coda della lunghezza delle coscie a un dipresso, movimenti non molto agili.
26-XII-1907. Iniezione sottocutanea al dorso di un’intiera coltura in agar di 19"
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. D
SOA
ripresa con acqua salata, proveniente dal sangue raccolto in vivo da un caso di follia
pellagrosa e conservato sempre in sangue di coniglio senza passarlo mai attraverso la
cavia (ammalato Mazzini, Osser. III della 1* Memoria (1)).
La coltura iniettata aveva aspetto molto delicato ed era costituita da piccole co-
lonie trasparenti, rilevate, simili a goccie di rugiada; al microscopio lasciava vedere
qualche coppia lanceolata e molte catene di media lunghezza con disposizione degli
elementi a forma di movile o di tenia.
Una cavia iniettata sotto la pelle con un 1[3 di coltura in agar identica alla
precedente morì in 16 giorni.
12-I1-1908. Si nota che la scimmia presenta incertezza nella deambulazione e che
sì siede volontieri; inoltre quando sale è presa da tremore agli arti posteriori; ha
anche un po’ di diarrea. Nonostante questi fenomeni lo stato generale si mantiene
buono.
20-I-1908. Perdurano i fenomeni ricordati, sempre allo stesso grado a un dipresso;
di più quando l’animale prende cibo ha tremore alle mani. La diarrea non è più con-
tinua, ma si è faita intermittente, verificandosi ad intervalli di giorni. Peso Kg. 2,520.
27-1-1908. 2* Iniezione sottocutanea al dorso di un’intiera coltura in agar iden-
tica alla precedente. Al momento della iniezione l’animale era tornato perfettamente
normale.
1-II-1908. Al punto della iniezione si riscontra una infiltrazione discretamente
dura, con diffusione lungo i vasi linfatici anteriormente a destra, in direzione della
ascella.
6-II-1908. Riassorbita 1’ infiltrazione alla parte.
9-III-1908. L'animale è stato sempre bene. Peso Kg. 2,700.
10-III-1908. 53% Iniezione eguale alla precedente.
12-III-1908. Al punto della iniezione notasi un nodulo d’ infiltrazione della gran-
dezza di una nocciola, un po’ dolente. Tale infiltrazione andò gradatamente riducendosi
ed il giorno 20 poteva dirsi completamente scomparsa.
24-III-1908. Comincia diarrea mucosa che continua fino al 28 successivo.
29-IV-1908. Notasi che la scimmia ha il treno post. contratto, rigido; le gambe
sono flesse con torsione interna dei piedi; l’animale si regge male sugli arti post..,
sta volontieri seduto e camminando deve procedere a salti, trasportando in blocco il
treno post. contratto, semiflesso; ha il pelo un po’ irsuto, le mucose pallide; 1’ aspetto
è triste, corrucciato. Le feci sono poltacee, verdastre. Peso Kg. 2,770.
2-V-1908. La scimmia è triste e si trascina sul treno post.; anche gli arti ant.
sono flosci, cascanti, hanno poca forza nella presa. e tremano al minimo lavoro. Il pelo
della coda si è diradato e qua e là si osservano vere chiazze alopeciche. Peso Kg.
ZA ONIO?
(1) Tizzoni e Fasoli — Saggio di ricerche batteriologiche sulla pellagra. —- Memorie della
R. Accademia dei Lincei. Anno CCCITI, CI. Scienze fisiche-matematiche. Vol. VI., Sed. del 1° Aprile 1906.
1 CS
L'esame del sangue dà il seguente risultato.
cl, = 89% = Go = SSDO000 CV IZ
I globuii rossi sono pallidi con discreta poichilocitosi. Fra i globuli bianchi si ha
la prevalenza dei mononucleati grandi.
6-V-1908. L'animale si è alquanto ristabilito; permane, peraltro, una marcata
debolezza del treno post. e difficoltà nella deambulazione; nonostante questo appare
assai più gaio e mangia di migliore appetito.
10-V-1908. 4* Iniezione simile alle precedenti
12-V-1908. Nel punto della iniezione si sente una piccola bozza d’ infiltrazione
della grandezza di una nocciola e un po’ dolente; infiltrazione che in pochi giornì si
riassorbe. Le condizioni generali rimangono invariate.
18-V-1908. Da un paio di giorni la scimmia è divenuta nuovamente triste, lenta
nei movimenti e nel camminare quasi trascina il posteriore; aumentato il pallore delle
mucose orale e congiuntivali; l’animale ha il pelo brutto, arruffato ed apparisce
dimagrato. Peso Kg. 2,500.
Queste condizioni durarono più o meno invariate fino alla fine di ottobre.
12-XI-1908. L'animale mangia meno del solito, appare triste, cammina stentata-
mente trascinando il treno post. in massa ed a salti; raramente procede muovendo
distintamente gli arti post. Coda ad arco; pallidezza delle mucose; aspetto sofferente.
PesomiKont2,750.
11-XII-1908. 5% Iniezione sotto la pelle del dorso con 2 colture in agar identiche
alle precedenti. Nel punto della iniezione si forma una bozza dura, elastica, dolente,
che impiega circa 15 giorni a riassorbirsì completamente.
17-1-1909. La scimmia appare di nuovo sofferente; mangia poco; presenta le
mani rattrappite e stenta a prendere il cibo (paresi paretico-spastica); anche il treno
post. è flaccido; l’animale cammina a stento, trascinando il corpo a brevi passi ed a
piccoli salti. Peso 3,100.
2-II-1909. L'animale si è nuovamente ristabilito. Peraltro presenta sempre una
marcata flacidezza degli arti post.
9-VIII-1909. Pelo in alcune parti del corpo diradato, come alla coda; neila regioni
dove il pelo è più rado si ha una ricca disquamazione epiteliale in forma di forfora;
continua la paralisi spastica del treno ant., per cui l’animale difficilmente riesce a
prendere gli alimenti posti alla altezza del muso o poco sopra. i
10-XI-1909. Da qualche tempo la scimmia è diventata di carattere strano; grida
senza ragione apprezzabile e gioca macchinalmente abbracciandosi cogli arti ant. il
treno post., come prima non faceva mai; è assai meno festosa che per l' addietro; di
più ha il posteriore validamente contratto; pure gli arti ant. sono contratti e paretici,
per cui l’animale trova difficoltà, tanto a portarsi il cibo alla bocca, quanto a salire.
12-XI-1909. La scimmia, che in due giorni precedenti si era alquanto rimessa
dai disturbi paretico-spastici del treno posteriore, è di nuovo peggiorata; presenta
gli arti post. ratratti, flessi, e li trascina malamente, in blocco, l’ uno attaccato al-
Sne pi
l’altro e senza articolarli; si muove malvolontieri e grida senza ragione; non appetisce il
cibo e mangia poco rifiutando anche la frutta di cui in passato era stata sempre ghiotta.
14-XI-1909. L’ animale va sempre più peggiorando, tanto da essere per la forte
contrattura come raggomitolato su se stesso; più che un grido ha come un lamento
continuo; tirato fuori dalla gabbia grida debolmente e rimane abbandonato sul pavi-
mento senza nemmeno tentare di rialzarsi; la facies dimostrasi stupidita e sofferente;
rifiuta il cibo; la contrazione del treno post. ha raggiunto tal grado da costringere
l’animale a trascinarlo in massa e con molto stento; anche gli arti ant. sono rigidi
e servono male; finalmente si ha un visibile dimagrimento. La temperatura rettale
raggiunge alla sera i 39°2 - 39°4; al mattino è appena 38°.
16-XI-1909. Al mattino la scimmia sì trova morta, dopo quasi due anni dall'inizio
dello esperimento; si giudica che la morte sia avvenuta nelle prime ore del mattino,
essendo al momento della visita ancora calda e senza rigidità.
AuTroPSsIAa — Cute assottigliata, pelo diradato; qua e là si notano alla superficie
del corpo vere chiazze alopeciche; nessuna alterazione apprezzabile nel connetttvo sot-
tocutaneo e nei muscoli; stato generale di nutrizione deperito; cuore grosso, ventri-
colo sinistro contratto, atrii dilatati; poco liquido citrino nel pericardio; normali le
valvole e gli osti cardiaci; normali l’aorta ed i grossi vasi; sistema venoso turgido
di sangue, Polmoni sani. Fegato cianotico con chiazze giallastre disseminate qua e la
alla superficie deli’ organo; al taglio presenta resistenza notevole e stride al coltello;
la superficie del taglio lascia fluire molto sangue; raschiato il quale sì scorge la
stessa chiazzatura notata alla superficie esterna; le zone giallastre però non sono de-
limitate nettamente, ma vanno sfumando alla periferia. Vescica biliare contenente poca
bile col caratteri normali.
Milza piuttosto grossa, bruna e dura; al taglio presenta le trabecole evidenti;
polpa poco ricca e corpuscoli di Malpighi poco appariscenti.
Glandole meseraiche di grandezza e aspetto presso a poco normale.
Intestino: l’ultima porzione del tenue si presenta notevolmente assottigliata con
qualche dilatazione ampolliforme a contenuto liquido, mucoso. I follicoli linfatici e le
placche del Peyer soio ben pronunciati, grigiastri e apparenti anche alla superficie
peritoneale dell’ intestino; il contenuto di tutto l'intestino tenue è fiuido, giallastro e
ricco di muco; qua e là sulia mucosa intestinale si notano delle chiazze emorragiche
di colore tendente: allo ardesiaco. L’intestino crasso non presenta alterazioni apprez-
zabili. Nulla di anormale nella vescica la quale contiene poca orina; nulla nell’ ap-
parecchio genitale; normale lo scheletro.
Si fanno colture con pezzetti di fegato, di milza e col sangue estratto dal ven-
tricolo destro. Dal fegato si ottiene coltura pura del germe specifico; lo stesso dalla
milza. ma ia coltura è resa impura da un b. banale.
Nella coltura del sangue si vedono pure germi specifici, ma, per quanti tentativi
si facciano e si prolunghi l’ osservazione fino al 12-XII, non si riesce a trasportarli
in nessun mezzo di nutrizione e nemmeno nel sangue di coniglio.
Do SIE
La coltura del fegato dapprima nacque sull’ agar in forma appariscente, patinosa,
come nelle colture attenuate, ed allo esame microscopico lasciò vedere cocchi agglu-
tinati in grandi cumuli, (fig. 6); ma in un trapianto fatto in agar il 6-V-1910 con
matrice in sangue del 18-IV-1910 la coltura prese un aspetto delicato, a forma di
goccie di rugiada ed al microscopio dimostrò la presenza di coppie lanceolate, carat-
teristiche e di corte catene, come quelle della fig. 7, che si riferiscono alla stessa
coitura del fegato passata il 5-XII-1909 per il corpo della cavia e ripresa dalla milza,
e che riproducendo le stesse precise immagini dei germi contenuti nella coltura in
questione ne rendono inutile la riproduzione fotografica, la quale non sarebbe che
una ripetizione di quella della figura ricordata.
Anche in questo caso gli esperimenti praticati sulle cavie dimostrarono l’azione
patogena di tali colture ricavate dalla scimmia II., per quanto a grado assai minore
di quelle della scimmia I morta con un quadro morboso molto più acuto, come ri-
sulta dalle prove di cui riportiamo qui i protocolli.
Esp. 4% — Cavia di gr. 400.
5-XII-1909. Iniezione sottocutanea al dorso di 1|2 coltura in agar di 20" ripresa
con acqua salata, innestata da matrice in sangue del 4-XII-1909 proveniente dal
fegato della scimmia II; al microscopio lasciava vedere numerose coppie di elementi
rotondi di media grandezza, più cumuli degli stessi elementi e corte catene.
Il 24-XII-1909 comincia la contrazione dell’arto post. destro, che il 26 si estende
al sinistro; il 28 ha principio la diarrea.
29-XII-1909. Gli arti post. sono tutti contratti, ma nello stesso tempo paretici,
per cui al più piccolo ostacolo rimangono indietro e sono a stento trascinati dall’ ani-
male. Peso gr. 300.
5-I-1910. La cavia è in uno stato compassionavole; il treno post. sembra teta-
nizzato, tanto è valida la sua contrazione; la diarrea è aumentata. Peso gr. 280.
14-I-1910. L’ animale sta meglio dei fenomeni precedentemente ricordati, ma il
peso ‘del corpo non accenna ad aumentare.
20-I-:910. Si ripete l'iniezione con un’intiera coltura in agar di 20", identica
alla precedente. |
22-I-1910. In questo giorno ci si accorge che la pelle del ventre e della parte
interna delle coscie è tutta arrossata, con abbondante desquamazione epidermoidale in
forma di forfora, e che il pelo in corrispondenza delle regioni dove fu notata la lesione
accennata cade a larghe falde.
26-I-1910. L° alopecia ha progredito verso il torace; l’arto post. destro è dive-
nuto nuovamente paretico.
29-I-1910. Sul ventre, sul torace ed al lato interno delle coscie non esiste più
nemmeno un pelo; anche sotto le ascelle comincia ad avvertirsi una desquamazione
in forma di forfora e la caduta del pelo. E° questa una lesione trofica della pelle
che abbiamo ritrovato anche in altri casi, in cui erano state iniettate colture in
parte scomposte dal calore, e nei quali la morte dell’ animale avvenne in modo molto
IR SOS
lento. Tali lesioni saranno particolarmente studiate in altro lavoro che presto vedrà la
luce, al quale rimandiamo anche per le figure che rappresentano il modo di svilup-
parsi di questa dermite esfoliativa e l’ aspetto che prende la parte quando 1’ alterazione
in parola è arrivata al suo massimo.
6-I!-1910. L'animale si trova morto, dopo 72 giorni dallo inizio dell’ esperimento
Peso gr. 230.
AUTOPSIA — Dimostra il solito quadro anatomico più volte riferito.
Si fanno colture dal sangue, dalla milza e dal fegato. Il sangue emolizza rapida-
mente e completamente, ma rimane sterile; dal fegato non nasce che una impurità
(b. subtilis); dalla milza invece si sviluppa una coltura pura del germe specifico che
in brodo originale forma grossi fiocchi. dati da lunghe catene caratteristiche, i quali
sedimentano sollecitamente insieme a brandelli dell’ organo, lasciando il liquido so-
prastante completamente limpido; nei trapianti di questa coltura in sangue defibrinato
di coniglio si producono corte catene ad elementi molto piccoli, disposti a forma di
monile o di tenia, del tutto simili a quelle della coltura che aveva servito per l’ inie-
zione alla scimmia II (Oss. III della 1% Memoria, ammalato Mazzini); finalmente nei
passaggi sull’ agar si sviluppano colture delicatissime, a colonie piccole, staccate, ri-
levate, trasparenti, simili a goccie di rugiada, costituite da coppie lanceolate e da
catene come quelle dell’ammalato sopra ricordato e degli altri casi acuti di pellagra.
La fig. 7 è ritratta dalla coltura originale della milza in brodo comune; le fig. 8-9
provengono dalla 1% generazione in agar innestato dalla 1* in sangue di coniglio e
riproducono intrecci di catene circonvolute, formate da elementi leggermente allungati
quali si trovavano frequentemente, come in questo caso, nel liquido di condensazione
dell’ agar.
Queste figure non sono che la fedele ripetizione di quelle ottenute da materiale preso
direttamente dall’uomo o passato attraverso la cavia, e che furono largamente figurate
nella prima come nella seconda Memoria sopra citata.
Più tardi la stessa coltura isolata dal fegato di questa scimmia si dimostrò anche
meno attiva, provando così di aver perduto molto del suo potere patogeno nella sua lunga
conservazione in sangue defibrinato di coniglio, come si rileva dal seguente esperimento.
Esp. 5° -- Cavia del peso di gr. 380.
8-V-10. Iniezione di una intera coltura in agar di 18" ripresa con acqua salata, innestata
da matrice in sangue del 18-IV-10, proveniente direttamente dal fegato della scimmia Il;
forma della coltura a piccole colonie come goccie di rigiada; al microscopio coppie lanceo-
late e corte catene.
In seguito a questa iniezione si ebbero solo fenomeni transitori, rappresentati da spasmo
del treno post., diarrea e diminuzione di peso.
9-VII-10. Essendo l’animale del tutto ristabilito ed il peso essendo cresciuto fino a gr. 530,
sì pratica una seconda iniezione con una intiera coltura in agar simile alla precedente.
18-IX-10. L’animale non avendo risentito nulla dalla seconda iniezione se ne pratica
una terza come le precedenti, che pure è sopportata benissimo senza recare alcun disturbo
apprezzabile. Al momento in cui scrivo (1 dicembre 10) l’animale si conserva sempre in
ottime condizioni di salute ed il suo peso è di gr. 550.
Qui però è da osservare che la coltura ricavata direttamente dalla milza di questa
scimmia, dopo lunga conservazione in sangue defibrinato di coniglio debitamente rinnovato,
perse l caratteri primitivi e si presentava sull’agar sotto forma di una patina biancastra,
a superficie umida, ed microscopio si dimostrava formata da elementi rotondi, riuniti a
coppie, in cumuli, in catene.
Anche in questo caso adunque fu confermata l’azione patogena sulla scimmia della
coltura ricavata da noi da forme acute di pellagra. Solo la sua azione fu in questa prova
assai più lenta, meno intensa di quella dello esperimento precedente; ciò che può attri-
buirsi ad una minore virulenza del materiale usato, più verosimilmente ad una maggiore
resistenza del soggetto nel quale |’ iniezione fu praticata, tanto da occorrere 5 successive
iniezioni e quasi due anni di tempo per condurre alla morte. E ben vero che ad ogni inie-
zione seguivano fenomeni morbosi che richiamavano alla mente quelli che avvengono spon-
taneamente nell’ uomo (contratture degli arti, fiacchezza generale, umore triste, aspetto
sofferente, fenomeni trofici della pelle, pallore delle mucose, diarrea intermittente), ma
questi fenomeni, che in una forma lenta si aveva meglio agio di seguire, dopo un certo
tempo scomparivano e l’animale riprendeva il suo aspetto normale.
Solo dopo la quinta iniezione i fenomeni accennati si aggravarono in modo progres-
sivo e condussero alla morte dell’ animale.
Di contro alla lentezza dei sintomi osservati nella scimmia, anche le colture ricavate
dagli organi (fegato) dimostrarono in questo caso un’ azione assai più debole di quelle
della osservazione precedente, tanto da occorrere due iniezioni per determinare in primo
tempo la morte della cavia e da non riescire più tardi a produrre sullo stesso animale
altro che fenomeni transitori, i quali nemmeno si ripeterono nelle successive iniezioni.
INEGRURRO
Comprende gli animali più resistenti
nei quali si ebbero solo fenomeni morbosi transitori.
Scimmia III, (Cercopithecus ruber) maschio, del peso di Kg. 1,040.
8-1-08. Introduzione nello stomaco mediante sonda flessibile di gomma di 2 colture in
agar di 24" riprese con acqua salata, provenienti dallo stesso stipite Mazzini che aveva
servito per la scimmia II. Aspetto della coltura delicato, a goccie di rugiada; al micro-
scopio coppie lanceolate e catene moniliformi o coll’aspetto del tenia.
27-1-08. L'animale non avendo risentito nulla della precedente operazione si pratica
una seconda introduzione nello stomaco dello stesso virus alla medesima dose.
8-II-08. L'animale presenta delle contratture accessionali e transitorie agli arti ante-
riori; si nota ancora qualche tremore all’ arto post. destro; non può servirsi delie mani
perchè contratte. In pari tempo si può facilmente riconoscere che l’agilità nel salto è
assai diminuita, e che l’animale si lascia meglio avvicinare, mentre prima era molto sel-
vatico; peso Kg. 1,500.
16-11-03. Nella settimana decorsa i fenomeni nervosi spastici andarono grado a grado
attenuandosi fino a scomparire quasi del tutto. Rimase solo una diminuzione evidente
della agilità dell’animale che forse spiega perchè esso è più mansueto del solito, nonchè
una sua facile stanchezza per poco si faccia correre; apparisce anche dimagrito, avendo la
faccia crespata e gli occhi infossati. Peso Kg. 1,450
26-11-08. L'animale si è fatto più svelto dei giorni precedenti, ma non tanto come lo
era prima.
10-III-08 Terza introduzione nello stomaco di una coltura in agar come sopra, per la
quale l’animale non risente nulla, aumentando anzi di peso fino ad arrivare a Kg. 1,700.
2-V-08. Visto che per lo stomaco non si riesce ad ottenere altro che poco o nulla, si
cambia la via d’introduzione del virus, che viene iniettato questa volta sotto la pelle del
dorso nella quantità di una coltura in agar di 24", eguale per la provenienza ed i caratteri
a tutte le precedenti.
Alla parte si formò una piccola bozza d° infiltrazione, dura e piuttosto dolente, che in
pochi giorni si riassorbì.
L'animale non risentì nulla da questa iniezione, il suo peso crebbe considerevolmente
fino a raggiungere Kg. 2,090.
11-XII-08. Seconda iniezione sottocutanea di due colture in agar eguali alle pre-
cedenti.
Anche in seguito a questa iniezione l’animale non risentì alcun disturbo, e nulla si
ebbe a notare durante tutto l’anno successivo 1909; anche il suo peso crebbe considere-
volmente, raggiungendo ai primi del 1910 Kg. 2,430.
26-I1-10. In questo mese si avverte la perdita del pelo che comincia attorno alla
inserzione della coda e si estende lungo il dorso, specie a destra, spingendosi fino alla
regione lombare; anche la coda ha il pelo diradato, considerevolmenie più corto e come
arruff'ato. In alcune parti del corpo la caduta del pelo ha formato vere chiazze alopeciche,
dalle quali si eliminano abbondanti squame epidermiche in forma di forfora. oltre si os-
serva che nel salto l’animale ricade facilmente indietro, specie a destra, per cui sembra
che gli arti post. siano assai più deboli del consueto.
26-II-10. L’alopecia è ulteriormente salita verso il dorso, invadendo buona parte della
regione dei lombi.
14-IV-10. Visto il debole effetto ottenuto con |’ iniezione della coltura proveniente
dallo stipite Mazzini (follia pellagrosa) che aveva esclusivamente servito per la scim-
mia II, si pensò di cambiare materiale d’ infezione, sostituendolo con quello isolato dalle
deiezioni del malato Dall’Olio che aveva servito per la scimmia I, ed iniettandone sotto la
pelle del dorso due colture in agar riprese con acqua salata (lerza iniezione); erano col-
ture delicate, .a goccie di rugiada, contenenti numerose coppie a fiamma di candela e
catene caratteristiche Peso Kg. 2,400.
19-V-10. L'animale è assai meno vivace del consueto e sì lascia prendere facilmente,
e e ge
perfino nella gabbia; nel salto apparisce molto fiacco ricadendo spesso sul posteriore;
l’alopecia si è diffusa oltre la metà del dorso ed interessa anche le spalle, accompagnan-
dosi a ricca produzione di forfora. Peso Kg. 2,000. i
Si pratica una quarta iniezione sottocutanea eguale alla precedente; con identica col-
tura s'inietta una cavia che presenta fenomeni gravi ma non muore.
30-X-10. Riconosciuto col precedente esperimento che la coltura usata nell’ ultima inie-
zione era attenuata, si dubita che il mancato effetto nella scimmia dipenda dalla sua debole
azione patogena, e si torna allo stipite Mazzini adoperato in primo tempo, iniettandone sotto
la pelle due colture in agar di 18" riprese con acqua salata (quinta iniezione sottocutanea).
Dopo questa iniezione aumentò la caduta del pelo, ricomparve la debolezza del treno
posteriore, che male serviva nel salto, e l’animale dopo breve corsa appariva molto stanco
e facilmente si faceva avvicinare.
Al momento in cui scrivo (1-XII-10) i fenomeni ricordati sono già in regresso; il peso
del corpo è salito a Kg. 2,170.
Così in questo animale furono praticate tre infezioni per via gastrica, tutte con lo
stipite Mazzini, e 5 per via sottocutanea, di cui 3 con lo stesso stipite Mazzini, ,e 2 con
lo stipite Dall’Olio, i quali avevano rispettivamente servito per la scimmia II e I, ossia
complessivamente 5 infezioni con virus raccolto dall'uomo affetto da forme gravi di pel-
lagra; ma, per quanto sì prolungasse l’ esperimento per circa 2 anni, non si ebbero a riscon-
trare che leggieri e transitori fenomeni morbosi, costituiti principalmente da tremori, con-
tratture degli arti, e da manifesta fiacchezza del corpo, nonchè da fatti trofici della pelle,
rilevabili specialmente per la caduta del pelo e per la ricca desquamazione epiteliale (1).
Scimmia IV. (Macacus sinicus), maschio. Peso Kg. 2,390.
3-V-08. Prima iniezione sottocutanea di una intiera coltura in agar ripresa con acqua
salata, proveniente dallo stipite Granturco IV (2).
L'animale non avende risentito nulla da questa iniezione, si teme che ciò derivi dalla
provenienza e dalla qualità della coltura usata, quindi si cambia stipite nelle iniezioni
successive e sì ricorre al materiale avuto direttamente dall'uomo. Si fanno così tre inie-
sioni sottocutanee con lo stipite Dall’ Olio che aveva servito nella scimmia I, rispetti-
vamente 1° 11-XII-08, il 2-V-10, ed il 30-V-10, ma sempre senza nessun risuliato: lo stesso
per una quinta iniezione praticata con lo stipite Mazzini il 80-VII-10.
In tutti questi casì, all’infuori della leggiera e facilmente risolvibile reazione locale,
l’animale non presentò mai nulla di anormale, ed il suo peso, da quello originale di
(1) Questo animale morì il 5-II-11 dopo aver presentato i seguenti sintomi: aspetto malinconico, soffe-
rente; forte debolezza, specie dal treno post., sul quale ricade facilmente e che gli rende più difficile il salto :
diarrea intermittente; pallore della pelle e delle mucose; profondo dimagrimento, essendo sceso il peso
del corpo a Kg. 1,700; indifferenza per tutto quanto lo circonda, così da rimanere intiere giornate im-
mobile nella parte più oscura della gabbia con il muso volto verso il muro o rimpiattato sotto la paglia.
Alla sezione le solite lesioni, fra le quali spiecavano specialmente quelle della milza, del fegato e dei
reni e |’ ispessimento del pericardio ; polmoni normali.
(2) Vedi Memoria citata: Intorno alla patogenesi ed etiologia della pellagra pag. 57.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 3
SERE RE
Kg. 2,390, crebbe gradatamente fino ad un massimo di Kg. 3,850. Oggi dopo l’ultima iniezione
è sceso a Ke. 3,700. Quindi si può dire che in questo caso, nonostante fossero fatte cinque
iniezioni, comprendenti complessivamente 10 colture in agar di varia provenienza (stipite
Granturco IV - Dall’ Olio - Mazzini), l’animale risentì poco o nulla dai praticati
esperimenti (1).
B. PARTE ANATOMICA
Reperto microscopico degli animali terminati colla morte.
Dopo aver dato la descrizione della parte sperimentale e batteriologica, ci sembra
importante richiamare l’attenzione anche sulle alterazioni istologiche riscontrate negli
organi dei due animali morti in seguito alle praticate iniezioni, e di stabilire nelle linee
generali un confronto fra tali alterazioni e quelle che naturalmente avvengono nel-
l’uomo.
Questa del resto non sarà che una piccola anticipazione di quanto in modo più com-
pleto, e col corredo delle relative tavole illustrative, spero presto veder pubblicato sopra
ricerche eseguite in questo stesso Istituto intorno alle alterazioni istologiche che si riscon-
trano nella pellagra sperimentale ed in quella dell’uomo e sul loro reciproco rapporto.
Gli organi nei quali poterono essere rilevate speciali alterazioni microscopiche e sui
quali perciò abbiamo in modo particolare rivolta la nostra attenzione, sono quelli stessi che
alla sezione sì mostrarono alterati, e cioè: intestino, glandole meseraiche, milza, fegato,
reni, pelle.
Data poi l’assoluta costanza del reperto anatomico che si riscontrò in ambedue gli
esperimenti e che è identico a quello che si ritrova nell’ uomo, non è fuori di luogo pen-
sare alla esistenza di uno stretto rapporto fra la sede e natura delle lesioni ricordate ed
il modo col quale il virus ed i rispettivi prodotti tossici aggrediscono | organismo animale
e vi si diffondano, eliminandosi in ultimo per mezzo di alcuni grandi emuntori.
Così le lesioni dello intestino e delle vicine glandole meseraiche possono ritenersi
essere l’effetto della azione locale del virus in parola in corrispondenza della porta d° in-
gresso della infezione, o l’effetto di un’azione elettiva dello stesso virus quando questo,
come nel caso nostro, viene introdotto sotto la pelle; mentre quelle della milza, del fegato
e dei reni meglio possono intendersi come il portato di una intossicazione per un veleno
assorbito il quale tenda ad eliminarsi dal corpo a mezzo dei suoi grandi orgam depura-
tori (fegato-reni).
Quindi l’alterazione dell’intestino dovrebbe esser considerata come la lesione fonda-
mentale, primitiva od elettiva, di natura tossico-infettiva; ciò che troverebbe anche una
(1) Più tardi anche in questa scimmia incominciarono gli stessi fenomeni riscontrati nelle altre,
ed al momento della correzione delle bozze il peso dell'animale era sceso da Kg. 3,900 a Kg. 3,500 :
di più la faccia appariva pallida e crespata; l’arto post. destro era meno mobile: l’animale era assai
meno agile e si faceva più fortemente accostare; chiazze alopeciche si erano manifestate alla parte post.
dal dorso, ai fianchi, alla radice della coda.
pr NONE
conferma nella sua maggiore intensità di fronte alle altre: invece le alterazioni della
milza, del fegato, dei reni sarebbero lesioni secondarie di ordine prevalentemente tossico.
Vedremo come questo concetto trovi un valido appoggio nella stessa natura delle
lesioni microscopiche e sopratutto nella loro istogenesi.
Intestino. — Come abbiamo accennato le lesioni dell’ intestino sono quelle,"di contro
a tutte le altre, che raggiungono un grado più elevato. Dell’intestino la parte più alte-
rata è il tenue e di questo la sua ultima porzione, mentre il crasso conserva presso a
poco il suo aspetto e la sua struttura normale.
L’alterazione interessa prevalentemente la mucosa e la sottomucosa, senza escludere
che lesioni secondarie possano verificarsi anche negli strati sottostanti.
A piccolo ingrandimento (scimmia II) si vede che la parete intestinale è assai più
sottile della normale. apparendo in alcune sezioni come un anello sottilissimo, e che la
sua colorazione non è regolare, essendo in alcuni punti più uniforme, più livida, più
sbiadita.
È possibile poi di stabilire questi fatti in modo preciso e senza equivoco alcuno, perchè
di solito tale alterazione non è uniforme in tutta la circonferenza del tubo intestinale, ma
in una stessa sezione può seguirsi nelle varie sue fasi di sviluppo.
A più forte ingrandimento sì apprezzano meglio i particolari della lesione istologica
della mucosa intestinale; lesione che procede dallo estremo del villo verso la sua base,
interessandolo, nei gradi meno avanzati della malattia, per *, fino a ‘/, della sua altezza,
ed arrivando a distruggerlo per intiero dove il processo è giunto al massimo della sua
evoluzione.
Il carattere di tale lesione è quello della necrosi, per la quale | epitelio di rivesti-
mento è stato distrutto e sostituito da un denso strato di muco, il tessuto fondamentale
del villoapparisce colorato in modo uniforme e diffuso, 1 suoi nuclei prendono poco o nulla il
colore, e goccie di cromatina si trovano diffuse qua e là nella mucosa così alterata.
Inoltre, nelle primissime fasi del processo, verso l'estremo del villo, si trovano specie di
spazi vuoti o di spazi edematosi, in cui alloggiano numerose cellule simili ai macrofagi, con
nucleo rotondo od ovalare fortemente colorabile coll’ ematossilina e con abbondante proto-
plasma finamente granuloso.
Solo rare volte si vede nello estremo del villo o lungo il suo decorso, spesso limitata
ad uno dei suoi lati, una ricca infiltrazione di leucociti.
La parte del villo che più resiste a questo processo distruttivo è data sempre dal
sistema vascolare; per cui, in mezzo alla distruzione generale, si arrivano ancora a distin-
quere i vasi sanguigni, specie i più grossi che lo percorrono longitudinalmente; anzi sì
direbbe che questi vasi nella prima fase della malattia fossero meglio disegnati, per un
maggior numero ed una più intensa colorazione dei loro nuclei.
In un periodo più avanzato il tessuto necrosato cade e nulla rimane più del villo,
restando indicata la mucosa dalla rara esistenza di qualche fondo glandulare.
Questa forma di necrosi della mucosa intestinale si avvicina a quella che si osserva
nel colera; dalla quale peraltro sì può sempre distinguere perchè nel colera, data la rapi-
aio Qi
dità della malattia e la natura del veleno che si produce, la lesione è più superficiale,
interessando quasi esclusivamente 1° epitelio, che cade lasciando il villo allo scoperto
mentre questo sì mostra edematoso, infiltrato di globuli bianchi; invece qui la necrosi
interessa tutti i costituenti del villo che viene ad esser distrutto in una estensione più ©
meno grande.
Di contro a questi fatti distruttivi, dove il processo è meno avanzato, avvengono ten-
tativi di rigenerazione, ì quali si manifestano con aumento dei nuclei negli epiteli dei
fondi glandolari e con la presenza in questa parte di figure cariocinetiche, eguali per
numero, se non superiori, a quelle che vi si osservano nel colera; certo assai più numerose
di quelle che sogliono trovarsi nello intestino in condizioni normali.
Finalmente, fra lepitelio delle glandule tubulari, specie nelle loro parti più basse, si
rinviene alcune volte buon numero di leucociti, i quali infiltrano anche la mucosa vicina,
prolungandosi tale infiltrazione lungo i vasi sanguigni fino al disotto della muscolaris
MUCOSdE.
I follicoli linfatici si presentano tumefatti, infiltrati, spesso con necrosi della loro parte
superficiale e con piccoli focolai emorragici nel loro interno.
Per ultimo dobbiamo accennare che nelle parti dell’intestino nelle quali si hanno
dilatazioni ampollari, dove l'alterazione è a grado maggiore, la mucosa apparisce intiera-
mente distrutta e di essa non si vede più che una sottile impalcatura, senza nessuna strut-
tura cellulare, la quale poggia direttamente sullo strato muscolare, divenuto assai più sot-
tile e con nuclei che non prendono più il colore. In queste parti l'intestino viene ad esser
ridotto ad una foglia sottile e tanto da doversi rompere facilmente perla più lieve pressione.
Nell'uomo ho osservato nel tenue | esatta fedele ripetizione delle lesioni riscontrate
nella scimmia; nell’uno come nell'altra l alterazione riveste i caratteri della necrosi, che
dapprima interessa i villi in una maggiore o minore estensione, ma che in ultimo invade
l’intera mucosa, senza che tale profonda distruzione sia mai accompagnata o seguita da
corrispondente reazione infiammatoria.
Glandole meseraiche. — In ambedue le scimmie si osservano, come nell’ uomo, una
forte congestione vascolare, una tumefazione dei follicoli e delle colonne midollari; inoltre
si trova nei seni una maggiore quantità di cellule contenenti nel loro protoplasma granuli
o zolle di pigmento giallo ottonato o giallo bruno, simili a quelli che si producono nella
distruzione fisiologia dei globuli rossi.
Milza. — La milza dimostra un ispessimento dei setti e delle trabecole, con diminu-
zione corrispondente della polpa splenica. I vasi sanguigni, anche quelli corpuscolari,
hanno la parete fortemente ispessita ed il lume considerevolmente ristretto. Anzi sembra
che l’ ispessimento dei setti e delle trabecole, più che dalla capsula splenica, la quale per
contro non è molto ingrossata, abbia il suo punto di partenza dal contorno della parete
arteriosa, od in altre parole sia l’ effetto di una arterite e di una pariarterite. Perciò in questo
caso non si tratterebbe di un indurimento della milza secondario ad un processo di perisple-
nite, come suole avvenire nella forma comune, bensì di un induramento di origine vasco-
lare determinato da alterazione primitiva della parete dei vasi sanguigni di ordine tossico.
Tali alterazioni erano a grado più avanzato nella scimmia II nella quale la malattia,
ebbe andamento più lento, che nella scimmia I, che morì in seguito a forma acuta. Reperto
identico, anche per riguardo alla istogenesi dello indurimento, io ho potuto riscontrare
nella milza dell’uomo, nei vari casi che mi fu dato esaminare.
Fegato. — Le alterazioni del fegato, dopo quelle dell’intestino, sono certo le più im-
portanti fra le lesioni anatomiche che si rinvengono nella pellagra naturale e sperimen-
tale; anche perchè la loro stessa genesi ci sta a dimostrare che esse sono per la mag-
gior parte una diretta conseguenza dell’azione di prodotti che arrivano a quest’ organo
per mezzo della circolazione sanQuigna.
Queste alterazioni interessano tutti 1 costituenti dell’organo, vale a dire il sistema
vascolare, il parenchima ed il tessuto interstiziale.
Per riguardo al sistema vascolare, anche ad una osservazione superficiale, colpisce nel
fecato dei due animali in questione Ja grandissima congestione dei vasi, che sono turgidi
di sangue fino alle loro più piccole diramazioni, disegnando così in modo mirabile tutta la
rete vascolare intra-acinosa. Tale congestione poi in alcune parti conduce alla rottura
della parete dei vasi ed alla formazione di focolai emorragici multipli disseminati nel
parechima dell’ organo (scimmia I e II). In seguito a questa congestione, e talora coll in-
tervento della conseguente infiltrazione sierosa che si forma al dintorno dei vasi intra-
acinosi, le trabecole del fegato sono assottigliate, a grado maggiore o minore a seconda
della acutezza e della durata del processo.
Quello che più interessa, peraltro, sono le alterazioni che colpiscono il parenchima
dell’ organo.
Indipendentemente dalla morte delle cellule epatiche che avviene in modo secondario
in corrispondenza dei ricordati focolai emorragici, in mezzo ai quali esse formano dei
grandi ammassi protopiasmatici senza nuclei che si colorano intensamente ed uniforme-
mente (necrosi da coagulazione), st verificano nei costituenti di queste cellule delle modi-
ficazioni primitive molto importanti.
Quand» la morte dell'animale è rapida (scimmia 1), allora è il processo di degenera-
zione grassa che predomina e la cellula epatica dimostra nel protoplasma la presenza di
una 0 più goccie di grasso; nell’ ultimo caso il protopiasma che divide le singole goccie
sì colora più uniformemente, più intensamente di quello delie cellule normali, mentre nel
primo la cellula epatica apparisce come un grosso anello che comprende |’ intiera goccia
di grasso, essendo il nucleo ed un sottile strato di protoplasma residuo spostati alla
periferia.
Questa degenerazione grassa non è uniforme, ma è irregolarmente repartita nell’ organo
in modo da formare delle zone che a piccolo ingrandimento risaltono per il diverso tono
della colorazione del fondo e per la quantità più o meno grande di grasso che contengono,
Nelle forme più lente, invece (scimmia II), le modificazioni di costituzione della cellula
epatica avvengono in modo assai differente e senza l'intervento della degenerazione grassa,
o almeno la formazione del grasso si verifica in questo caso in quantità assai minore del
precedente ed acquista perciò una importanza del tutto secondaria.
TATOO)
Per contro quello che predomina in questo caso è l'aspetto più uniforme del proto-
plasma, che apparisce omogeneo, meno granuloso, quasi liscio e che si colora uniforme-
mente ed in tono molto diverso da quello delle cellule normali.
Questa forma di alterazione si presenta a larghe zone, le quali appunto sono quelle
che conferiscono alla sezione del fegato l'aspetto chiazzato.
Peraltro, mentre avvengono queste alterazioni distruttive del protoplasma, i nuclei
delle cellule epatiche in molte parti, anche dove l’alterazione dell’organo è maggiore, pre-
sentano segni manifesti di una eccitazione produttiva, da non confondersi con quanto di
frequente si riscontra anche in condizioni normali relativamente alla presenza di due nuclei
nelle cellule epatiche.
Infatti in ambidue gli animali si vedono frequentemente cellule epatiche con nuclei più
grossi, quasi il doppio della media normale, e assai più intensamente colorati; oppure si
osservano cellule epatiche che hanno nel loro interno fino a quatiro nuclei raccolti in un
gruppo centrale od anche disposti attorno alla goccia di grasso nel poco protoplasma
residuo; né è raro vederne alcuni strozzati nel mezzo o con nucleolo ipertrofico circon-
dato da un grosso spazio chiaro nel quale la sostanza cromatica del nucleo forma un
elegante reticolo che va dalla membrana nucleare al nucleolo. Mai ho potuto osservare
figure che accennino anche lontanamente ad una scissione indiretta, per quanto debba far
rilevare che la fissazione usata poco si prestava a questo scopo, essendo stata fatta in
ogni caso con liquido di Miller e formolo.
Ripeto che questi fatti si osservano ancora dove la disiruzione era maggiore, per cui
il protoplasma a tipo omogeneo era ridotto oramai a ben poca cosa; e perfino in cellule
nelle quali il protoplasma stesso era per la massima parte sostituito dal grasso.
Ova 1 fatti accennati rappresentano indubbiamente movimenti nucleari di ordine pro-
gressivo, e sono con tutta probabilità 1° espressione di una divisione del nucleo.
E poichè nulla in tal caso accenna a fatti rigenerativi della cellula epatica, così
bisogna ammettere che lo stimolo patologico, rappresentato probabilmente da tossine,
mentre determina nel nucleo fenomeni irritativi che conducono al suo ingrandimento ed
alla sua scissione, produce contemporaneamente o successivamente fatti distruttivi del
protoplasma, che nelle forme acute si accompagno da rapida ed estesa degenerazione grassa,
nella forme più lente sì presentano come semplice omogeinizzazione, specie di necrobiosi
del protoplasma.
Questo modo di rispondere delle cellule epatiche ci sembra abbastanza caratteristico,
e, per quanto so, non ha riscontro in alcuna delle forme di alterazioni note, nonostante
molte siano le lesioni del fegato nelle quali si può vedere aumentato il numero dei
nuclei della cellula epatica, ma sempre con protoplasma ben conservato.
In ultimo, per rapporto al connettivo interstiziale, si trova che questo è considerevol.
mente aumentato; aumento che è molto maggiore nelle forme lente che in quelle rapide.
Ma quello che sopratutto è importante a rilevare a questo proposito, è l’ istogenesi
della neoformazione connettiva, la quale anche qui procede manifestamente dalla parete
dei vasi sanguigni grossi e medì; e tanto dalle arterie quanto dai vasi della V. porta.
99
ISTINTI
Ciò sta a dimostrare che )a neoformazione in parola ha origine principalmente da
prodotti che arrivano al fegato a mezzo della circolazione sanguigna, e più specialmente
da prodotti che vi arrivano dallo intestino a mezzo del sistema della V. porta; prodotti
che nel parenchima epatico darebbero il duplice effetto indicato, mentre nei vasi san-
guigni, in particolare in quelli della V. porta, produrrebbero ispessimento della loro parete
ad un conseguente aumento del connettivo interstiziale.
Questo, limitato dapprima al connettivo interacinoso, finisce per invadere più tardi Vin-
terno dell’acino epatico; e la maggiore evidenza delle cellule di Kupfer, come l’esistenza
fra le trabecole, a fianco dei vasi sanguigni, di un buon numero di nuclei allungati in
mezzo ad una sostanza omogenea o molto delicatamente fibrillare, oltre quelli frammen-
tati appartenenti ai leucociti, sarebbero una prova di questo fatto. Nelle fasi più avanzate,
finalmente, si formerebbero più qua e più là dei veri bottoni di tessuto connettivo ricchi di
nuclei, che penetrerebbero nello interno dell’acino allontanando e schiacciando le trabecole
epatiche.
Dunque l’iperplasia del tessuto connettivo, che avrebbe il suo punto di partenza dai
vasi sanguigni, specialmente da quelli della V. porta, dapprima sarebbe interacinosa per
farsi più tardi intraacinosa, assumendo allora le apparenze che hanno alcune forme di sifi-
lide ereditaria del fegato.
Queste lesioni caratteristiche riscontrate nel fegato della scimmia non sono che la
fedele ripetizione di ciò che si osserva nell’uomo, tanto per riguardo alla congestione
vasale ed alla iperplasia del tessuto connettivo, quanto per rapporto alle alterazioni del
parenchima epatico.
Rene. — Importanti sono pure le alterazioni istologiche del rene della scimmia II, il
solo che fu conservato per tale ricerca.
Queste alterazioni interessano tutte le parti costituenti il rene, cioè i glomeruli, i
tubuli contorti ed il connettivo interstiziale.
Riguardo ai glomeruli si osserva la presenza di una neoformazione, la quale risalendo
dal corrispondente tubulo si estende a tutto il foglietto parietale della capsula del
Bowmann, presentandosi, ora come un semplice strato granuloso più o meno grosso, che
sì colora in modo identico al protoplasma degli epiteli dei tubuli contorti, ora contenente
anche dei nuclei, simili per forma, grandezza e colorazione a quelli degli epiteli anzidetti,
più qualche nucleo allungato nella parte sua profonda, appartenente manifestamente agli
endoteli della capsula.
La neoformazione in questione nel suo graduale accrescimento si spinge fra le anse
glomerulari che disgrega e poco a poco distrugge, sostituendosi ad esse, e trasformando in
ultimo il elomerulo in una massa amorfa, finamente granulosa, di un colore rosso sporco,
simile nell’aspetto ad una massa caseosa, alla periferia della quale per qualche tempo
rimangono dei vestigi dell’antico glomerulo ricchi di nuclei,
Anche nelle anse elomerulari in primo tempo si vede considerevolmente aumentato
il numero dei nuclei; segno questo che esse reagiscono allo stimolo patologico prima di
esser colpite dalle fasi distruttive del processo sopra descritto.
OI E
La reazione dei glomeruli poi si continua pure lungo il fascio dei vasi glomerulari
afferenti ed efferenti, che in ogni caso, anche quando il relativo glomerulo è andato
distrutto, mostrano un considerevole aumento dei loro nuciei e di quelli del connettivo
circostante.
Nei tubuli, specialmente nei tubuli contorti, si vedono gli epiteli rigonfiati in modo
da formare una massa uniforme, fortemente granulosa, che riempie tutto il tubulo, mo-
strando talora la parte sua più centrale distinta da tutto il resto, come si trattasse di un
essudato, e presentando generalmente nella parte periferica nuclei ben colorati, di aspetto
normale.
Anche qui, adunque, trovasi lo strano contrasto della esistenza, cioè, di una grave
alterazione dell’ epitelio renale che colpisce principalmente il protoplasma, ed in quella
forma microscopica che riscontrasi precisamente nella nefrite parenchimatosa, e che invece
risparmia il nucleo.
Anzi nel rene, come nel fegato, si trovano di frequente nuclei degli epiteli renali che
manifestano segni di ordine produttivo; cioè si vedono nuclei grossi più del doppio dei
normali, più fortemente colorati, ora strozzati nel mezzo a forma di biscotto, ora riuniti
in gruppetti di 3-5 accosti gli uni agli altri, come fossero il portato di una recente
divisione.
Nelle anse di Henle il tubulo è ripieno di cellule ben conservate, con scarso proto-
plasma finamente granuloso, in modo che i nuclei quasi si toccano fra loro.
Il connettivo interstiziale è considerevolmente aumentato, specie lungo il corso dei
vasi, dove talora forma dei bottoni cellulari, ricchi di nuclei allungati, che sì spingono
fra i tubuli; bottoni di tessuto connettivo che sono assai più grossi e più frequenti a
riscontrarsi nel limite fra la sostanza corticale e la midollare.
In conclusione si osserva nel rene un lento processo infiammatorio generalizzato di
origine vascolare, che nel parenchima si manifesta con fatti irritativi degli epiteli renali,
i cui prodotti invadono la capsula del Bowmann e poco a poco si sostituiscono ai glo-
meruli. mentre nei tubuli si verifica lo strano contrasto fra la rapida degenerazione,
disgregazione dei protoplasma degli epiteli e l’integrità dei loro nuclei, i quali anzi pre-
sentano spesso segni manifesti di un movimento attivo.
Così nella pellagra si avrebbe un veleno che nel rene, come nel fegato, non determi-
nerebbe, al par di altre tossine note, la morte rapida delle cellule epiteliali funzionanti,
bensì la loro irritazione, che nei nuclei avrebbe una persistenza maggiore, manifestandosi
tuttora con segni non dubbi della loro attività moltiplicativa, anche quando nel loro pro-
toplasma sono già susseguiti fatti distruttivi.
Nel tessuto interstiziale la stessa irritazione produrebbe un lento processo indurante,
il quale, come si è visto, trarrebbe la sua origine da forme di angiolite e di periangiolite
specifica.
Nell'uomo si verificano fatti analoghi; ma forse per la più lunga durata della ma-
lattia e per le successive e quasi periodiche sue riacutizzazioni, la sclerosi del rene è mag-
giore che,nella sciminia; egualmente nei tubuli contorti, accanto al rigonfiamento ed alla
LIE
disgregazione degli epiteli renali, solo eccezionalmente i nuclei presentano segni di attività
formativa.
Pelle. — Fu esaminata solo nella scimmia II, perchè nella prima disavvedutamente
non fu conservata.
Essa presentasi atrofica; i vasi del derma sono disegnati per un’ abbondanza di nuclei
nella loro parete e nel loro contorno; i follicoli piliferi per buona parte sono vuoti e in
regresso; sopra lo strato di Malpighi, che pure sembra molto ricco di nuclei, sì trova
un grosso strato corneo formato da squame epidermoidali lassamente aderenti fra loro.
Peraltro, non potendo fare un confronto con la pelle normale di scimmia, non è possibile
dare a questo ultimo fatto il suo giusto valore
Da tutto quanto è stato fin qui detto risulta chiaramente che le alterazioni istologiche
della pellagra non sono di quelle che possono confondersi con altre; esse hanno una fiso-
nomia tutta particolare, costituiscono un ipo, una forma patologica che hanno caratteri
tutti speciali; tipo che si ripete con fedele esattezza tanto negli animali quanto nell’ uomo,
come meglio sarà dimostrato ed illustrato col necessario corredo di figure nel lavoro gene-
rale sopra annunciato.
Nel quadro anatomico della pellagra spicca principalmente la necrosi della mucosa
intestinale del tenue non accompagnata da corrispondente reazione, la sclerosi degli
organi (milza, fegato, rene) di genesi vascolare, con pariicolare risentimento del loro paren-
chima (fegato, rene), nel quale la lesione evolve in modo differente nei nuclei e nel pro-
toplasma
Prima di terminare questa parte debbo una parola di ringraziamento al D." G. Vernoni,
aiuto a questo Istituto di Patologia generale, per la collaborazione che volle accordare
alle presenti ricerche, col provvedere, in modo davvero encomiabile, alle preparazioni
microscopiche che valsero per la descrizione sopra riportata.
CONCLUSIONI
Dalle ricerche sopra riferite si possono irarre senza sforzo alcuno le seguenti con-
clusioni:
Le colture pure dello streptobacillus pellagrae (Vizzoni) ricavate da ammalati di
pellagra, e tanto da forme acutissime e rapidamente mortali (stipite Mazzini, follia pel-
lagrosa) quanto da forme comuni ma abbastanza gravi (stipite Dell’ Olio), riescono pato-
gene per la scimmia per iniezione sottocutanea.
Invece nulla si può stabilire ancora riguardo a colture simili alle precedenti avute
da granturco avariato, ed alla introduzione del virus per via gastrica mediante sondatura
esofagea, non essendo state fatte in proposito prove suflicienti
Operando nel modo dapprima indicato, si riesce a riprodurre nella scimmia una malattia
perfettamente identica per la forma morbosa e per il quadro anatomico alla pellagra de]-
l’uomo.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
SS
AO Gee
In conformità di quanto sappiamo verificarsi per la sifilide, la recettività della scimmia
per il germe della pellagra varia considerevolmente col variare della specie, tanto da
potersi avere a questo riguardo tutta la scala della sensibilità; da soggetti, cioè. che non
risentono nulla, nonostante sì ripetono le iniezioni e si usino colture che riuscirono pato-
gene in altri casì (scimmia IV); a soggetti che ad ogni iniezione presentano fenomeni
morbosi più 0 meno intensi, ma sempre transitori e risolvibili in breve tempo (scimmia II);
a soggetti finalmente che soccombono allo esperimento, e nei quali la morte, ora avviene in
forma acuta e dopo breve malattia (scimmia I), ora in forma molto più lenta che impiega
anni per uccidere.
Le scimmie che nei nostri esperimenti si mostrarono più resistenti sono quelle delle
specie Macacus sinicus, e Cercopithecus ruber; le due che soccombettero allo esperimento,
disgraziatamente non furono determinate in vita e non lo poterono dopo morte, per quante
ricerche si facessero sulla loro provenienza; peraltro dai caratteri esteriori era possibile di-
stinguerle nettamente delle precedenti.
A seconda del grado di sensibilità dell’animale varia pure il numero delle iniezioni
necessarie per determinare la morte (da 1 a 5).
I fenomeni morbosi principali rilevabili nella scimmia, specie nella forma più lenta
di malattia, sono: variazioni dell’umore dell’animale, che perde la sua gaiezza e diviene
triste; aspetto sofferente, corrucciato; faccia crespata, vecchieggiante: contrattura degli
arti, principalmente dei posteriori; fiacchezza generale, più accentuata nel treno poste-
riore; diarrea intermittente; pallore delle mucose; alopecia ed altri fatti trofici della pelle.
Negli animali meno recettivi le ripetute iniezioni, anzi che vaccinare, servono ad
accumulare successivamente nel corpo la quantità di materiali tossici che è necessaria
per determinare la morte; quella che in condizionI normali entra in modo lento ma con-
tinuo dallo intestino; ed in questi casi st osservano nella scimmia alternative di miglio
ramento e di peggioramento le quali richiamano alla mente quelle che in modo quasi
periodico si riscontrano nell’uomo nelle forme di pellagra comune.
Le alterazioni istologiche rinvenute negli animali in cui l’esperimento ebbe esito le-
tale, riguardano l’intestino, la milza, il fegato, i reni e la pelle, costituendo nella scimmia
un tipo istologico speciale che ripete in modo perfettamente identico quello che sì riscontra
nell’ uomo e che non può confondersi in alcun modo con lesioni di altra natura.
Lo stesso quadro anatomico, che da solo cì permette una sicura diagnosi, ci parla
in favore della esistenza di un particolare veleno circolante nel sangue, da cui la sclerosi
degli organi di genesi vascolare e la speciale alterazione di ordine neoplastico — distrut-
tivo che si verifica nel loro parenchima.
Anche nella scimmia, per quanto sia trascorso lungo tempo della ultima iniezione
(5 - 11 mesi), si possono ricavare dal sangue e dagli organi (fegato e milza) colture iden-
tiche per caratteri morfologici e batteriologici a quelle iniettate, e come queste dotate di
azione patogenea per la cavia e resistenti alle alte temperature ('4 ora 100°).
Nel passaggio attraverso la scimmia le colture, che nei casì più lenti sembrano aver
subita una sensibile attenuazione, presentano quelle variazioni nel tipo batterico e nella
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Memorie. Serie VI. Tomo VIl. 1909-1910.
G. Tizzoni - Sulla possibilità di trasmettere la pellagra alla scimmia.
Dott. L. Bombicci-Porta fot.
MOTTA
loro trasportabilità che si verificano per il passaggio nella cavia e che talora avvengono
anche spontaneamente nella stessa matrice in sangue di coniglio.
Per ultimo fu osservato che le colture più difficilmente trasportabili sono sempre
quelle ricavate dal sangue, e che le colture del fegato presentano più facilmente le varia-
zioni di tipo di quelle della milza.
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
Fig. 1. — Scimmia I. Coltura del fegato, in agar, di 20". Colorazione cor fuesina idro-
alcoolica. Ingr. 1:1000.
Fio. 2. — Scimmia I. Coltura come la precedente, tenuta ! ora a 100°, iniettata
In una cavia (Esp. 3°) e ripresa dal sangue. Fucsina idro-alcoolica Ingr. 1:1000.
Fig. 5. — Scimmia I. Coltura eguale a quella della fig. 2, tenuta ‘4 ora a 100°;
ripresa dalla milza di una cavia alla quale era stata iniettata. Da innesto originale in brodo
comune. Metodo Weigert con fucsina idro-alcoolica. Ingr. 1:1000.
Fio. 4. — Scimmia I. Come nella fig. 3. Accanto alla forma elementare data da cocchi
lanceolati, si vedono catene caratteristiche, aleune abbastanza lunghe. Colorazione e ingran-
dimento come nella fig. 3.
Fig. 5. — Scimmia I. — Sempre come nella fig. 3; anche la colorazione e l’ ingrandi-
mento. Fiocco di catene con elementi in buona parte degenerati.
Fio. 6. — Scimmia II. Coltura del fegato, in agar, di 20". Colorazione con fucsina idro-
alcoolica Ingr. 11000,
Fie. 7. — Scimmia I. La stessa coltura precedente passata nel corpo della cavia e
ripresa dalla milza. Da innesto originale in brodo comune. Lunghe catene caratteristiche,
Colorazione col metodo Weigert con fucsina idro-alcoolica. Ingr. 1:1000.
Fig. 8. — Scimmia II. Eguale alla fig. 7 anche per la colorazione e l'ingrandimento;
ma la preparazione fu fatta dal liquido di condensazione di una prima generazione in agar
innestata da una prima generazione in sangue di coniglio. Catene circonvolute, caratte.
ristiche, formanti una rete elegante.
Fig. 9. — Scimmia II. Eguale in tutto alle due figure precedenti. Fiocco di catene:
framezzo forme elementari separate costituite da diplococchi lanceolati.
Tutte le microfotografie che stanno a corredo di questo lavoro furono eseguite dal
D. Luigi Bombicci-Porta, che mi piace ancora una volta ringraziare e designare al
pubblico per la sua bravura nella esecuzione di quanto può aversi di meglio dalla foto»
grafia in servizio della scienza.
3
% TASPANTO
TERRITO
SULLE CURVE A DOPPIA CURVATURA
IN GEOMETRIA IPERBOLICA
MEMORIA
DEL
PROF. AMILCARE RAZZABONI
(letta nella Seduta del 27 Novembre 1910)
In alcune mie precedenti pubblicazioni (*) dimostrai come debbano opportunamente
modificarsi le formole dell’ ordinaria Geometria differenziale quando abbiano per oggetto
lo studio delle proprietà, delle curve considerate negli spazi a curvatura costante (bposi-
tiva o negativa), ponendo a fondamento delie medesime un gruppo di formole che,
presentando la più grande analogia con quelle notissime del Frenet, furono denominate
dal prof. Bianchi, che pel primo le determinò nel caso ellittico, con lo stesso nome.
Sebbene le applicazioni che ne diedi mostrino abbastanza chiaramente la via da
seguirsi in simili ricerche, credo tuttavia opportuno aggiungerne qui qualcun’ altra,
anche perchè mi si offrirà così |’ occasione di fare alcune considerazioni che non mi
sembrano del tutto prive d’ interesse, specialmente quando, come qui si suppone, la
curvatura dello spazio sia negativa.
Riporterò dalla corrispondente mia Memoria, che è la prima delle surricordate, le
formole di cui dovrò far uso nel corso di questa, omettendone però le dimostrazioni,
poichè sì trovano in essa convenientemente sviluppate.
1. Formole generali. — Supponendo per semplicità eguale a — 1 la curvatura del
nostro spazio, ed essendo ,, %,; %,, 4, quattro variabili legate fra loro dalla relazione
2 2 2 DZ,
XXX + X%3 —x,= — 1,
si ha, come è noto, per l’ espressione dell’ elemento lineare dello spazio stesso
ds = da + da$ + daì — daî,
(") Ze formole del Frenet in geometria iperbolica con applicazioni (Bologna, Tipografia Gambe-
rini e Parmeggiani, 1899).
Sulle curve a doppia curvatura in geometria ellittica (R Accademia delle Scienze dell’ Istituto
di Bologna, Serie VI, Tomo V).
La trasformazione di Bdicklund per le curve a torsione costante nello spazio ellittico a tre
dimensioni (Rendiconto della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, 1909).
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. o)
— 30 —
mentre la distanza d di due suoi punti, di coordinate #;, «;, è data dalla formola
3
'
coshd =Y aa, — 4g.
LI
Per ottenere | equazioni differenziali delle geodetiche (rette), basterebbe eguagliare
GIA
a zero la variazione prima dell’ integrale [os e sl troverebbero facilmente l’equazioni :
s
24550)
d°x;
ds”
san Vai 0, (è = 0, I, 2, 3)
‘he, integrate, danno luogo alle altre in termini finiti :
(0) X,=%;coshs + É,senhs
ove le x; sono le coordinate di un punto fisso e le È; i coseni di una direzione per
esso, verificanti perciò 1° identità quadratica
L'equazione di un piano si scrive facilmente osservando che, se con É; denotiamo
le coordinate del suo polo rispetto all’ assoluto
È + Q0È, + IR — 206 = (00,
sì ha identicamente
3
(2) DEI
1
ove le X; esprimono coordinate correnti: indicando poi con d la distanza da esso di
sussiste la formola
3
senhò = » AGI <= NETTE
1 ò
'
un punto x,
LV)
mentre per l’ angolo @ di due piani ha luogo la correlativa
cosp = YI Gb — Eko.
Se ora si considera una curva le coordinate dei cui punti siano funzioni del suo
arco s e si indicano con è; i coseni di direzione positiva della tangente, con 77; quelli
della normale principale e con È; quelli della binormale, le formole surricordate del
Frenet, supponendo sempre lo spazio iperbolico, sono le seguenti :
DET dm; end Vi
== 639 = — + x; = —
do 9 ds RAT) Aida
(8)
O
denotando fg e 7 i raggi di fiessione e di torsione della curva i cui valori sono
espressi dalle formole
P
3 EX? EN?
nes VE() (a):
gp ds ds
2. Superficie sviluppabili. — Se per ogni punto della nostra curva consideriamo le
tre anzidette direzioni, le faccie del triedro da esse formato daranno origine ad al-
trettante sviluppabili, cioè a superficie distendibili sul piano iperbolico, la cui curva-
tura assoluta è eguale « — 1, proposizione, che, come è facile a verificarsi, sussiste
insieme con la sua reciproca.
Ciò premesso, prendiamo in primo luogo a censiderare la superficie inviluppo del
piano osculatore della curva e mostriamo che essa coincide con la superficie luogo
delle sue tangenti.
Osserviamo perciò che, essendo in questo caso
3
D xd Xx, 60 =
1
l'equazione del nostro piano, derivandola rispetto ad s ed utilizzando le (3), avremo
3
DX XM=0
1
che è l’ equazione del piano della tangente e della binormale alla curva. Esso interseca
il precedente secondo la tangente, la quale sarà perciò la caratteristica del piano oscu-
latore considerato, come risulta anche da ciò che l’ equazioni trovate sono identica-
mente soddisfatte dalle coordinate dei punti della retta
X,= «;cosht + È;,senht
che sono precisamente | equazioni della tangente alla curva nel punto ;.
3. Sviluppabile rettificante. — Passando ora a trattare il caso dell’ inviluppo ge-
verato dal piano della tangente e delle binormale, ne determineremo anzitutto lo spigolo
di regresso, il quale, a differenza di quanto avviene nello spazio ordinario, può essere
reale o immaginario.
Cominciamo perciò con lo scrivere l equazione del piano mobile che per la (2) sarà
2
Di
(4) Se ie _0
l
De
sugo
e deriviamola rispetto ad s; avremo per le (3)
Te di 4 ro G
(5) o (© Dr 5) UE T (x ie xt) —0
e questa, derivata una seconda volta, avuto sempre riguardo alle (3), darà luogo al-
]alteale
1 J
lane IZ ARI (00 c
(6) p ( Xii — i) a ds n XiÈ; sr X,b,) suini ds di NG versi xh) =0,
1 7 È 1 > 1
da cui e dalle due precedenti dovremo determinare i valori X; che le soddisfano. La (4)
mostra subito che le X; potranno scriversi sotto la forma
DG — t,%i © (RE: rsa (E
e sostituendo nelle (5) e (6) dovranno sussistere 1° equazioni
l
DIE,
DTA
(7) 1 1
I
p ? ds (0/8
(8) —R+I-B+B&=-1,
la quale esprime che le X; verificano | eguaglianza
| ld ©) (©)
3
72 72]00RO
Val
l
Si soddisfa alla prima delle (7) ponendo
À À
—, L=
e sostituendo nella seconda delle stesse (7), troveremo
1 1
1,=p ( lil,
aio IO CS CRT Ta
essendo 4 un fattore di proporzionalità che potremo subito determinare facendo le re-
lative sostituzioni nella (8) dopo di che si avrà:
(dp _ 31 1
cia lniat+ 7 (Gt
ZIO
e quindi
ns e ci
/ d p 2 p°
ASA TR
Vediamo intanto che, affinchè 4 sia reale e corrispondentemente sia reale lo spi-
golo di regresso della sviluppabile, bisognerà che sia soddisfatta la disuguaglianza
\d(p\} cpr:
(E)5+
in tal caso avremo per le coordinate 4 dello spigolo di regresso
n
(0) 1
den (Oasi
ds T
ovvero, ponendo
Sad
n
(a) COSigaz== —====5; Sea o
e del
q° Tre?
dovranno aver luogo le formule
: - 5, Ae — DI,
CA Ra a i CL) ei
VA D) 1065 V( 1
risulteranno Ì equazioni :
(9) c0 = x; cosht + (E, cost + È, sent) sen ht
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
CSO
nelle quali, per le (a), 7 ha il valore
Le (9) mostrano che 7 non è altro che l’ angolo che la normale principale alla
curva fa con la tangente; mentre, avendosi per le (0),
resterà così determinato il valore # della porzione di generatrice compresa fra la curva
e lo spigolo di regresso della superficie considerata.
4. Sviluppabile polare e sfera osculatrice. —- Rimane finalmente da considerare
l’ inviluppo del piano normale alla curva, caso questo che, essendo ampiamente svilup-
pato nella mia predetta Memoria, riassumerò brevemente.
Scrivendo | equazione del piano generatore
3
DX I 0
1
e quella che si ottiene derivandola rispetto ad s
d
Ù Xi (È - x) = di (2 + %) 10%
ATO p
esse ci rappresenteranno la caratteristica del piano stesso che si dimostra essere la
perpendicolare al piano osculatore nel centro di curvatura, intendendo con questo il
punto che è determinato dall’estremità del segmento + misurato sulla normale prin-
cipale alla curva nel suo verso positivo a.partire dalla curva stessa, il cui valore è
dato dall’ equazione
= 000,
Indicando poi con x le coordinate del centro della sfera osculatrice, per ia quale
vengono conservate le ordinarie definizioni, sì trovano facilmente le formole :
È d
(10) 0 ieoshik (2 + poni T ALA. 3
ds
essendo A il raggio della sfera stessa, il cui valore è espresso dalla equazione
AD Fa, 2 dp s *
(DÌ) ugo =D +(1°0). (5)
(*) Questa formola ci mostra che affinchè la sfera osculatrice abbia centro reale, bisogna che sia
Jo\?
PSI
Volendo ora esaminare in quali casì il raggio di questa sfera è costante, dovremo
derivare la (11) ed otterremo così l’ equazione
n°) 224 (r90)|=o
ds ds ds
dalla quale, non potendo 7° essere zero, seguiranno le due
dp p d dp
12 == _ — (| 2 ==)
de, ds Do m Fa ds ( sa) o
Supponendo verificato il primo caso, che cioè la curva sia a flessione costante,
l’equazioni (10) della linea dei centri delle sfere osculatrici si ridurranno alle
(13) ci) = x;coshR + 7; senhR,
giacchè si ha per la (11)
OZZIONOAR.
e le (13) essendo anche l’ equazioni della linea dei centri di curvatura della curva, ne
concludiamo che le due linee coincideranno.
Per vedere in quale relazione stanno fra loro la curva data l e la curva luogo ©,
dei suoi centri di curvatura, derivando le (18) avremo
senAhR
di) 2 ò; Cds,
da cui
sen Ah R
(14) ds =E = ds
IR:
avendo indicato con ds, l'arco elementare della C,. Distinguendo in modo consimile gli
altri elementi della curva, avremo intanto
(15) Siena 8
se al contrario sarà
la sfera osculatrice esisterà sempre, ma sarà a centro ideale; nel caso intermedio in cui
n) 2
p+(7° = |
ds
o sarà o=l ovvero la sfera osculatrice sarà costantemente un’ orisfera,
-- 36 —
ma poichè segue subito di qui
(16) Li
) ===
ds, de
e si ha per le formole del Frenet
dr.
,(0)
— t xi
ds Pa
e per le stesse formole e per la (14)
eo
dei -_W
ds, senAR
sostituendo, avrà luogo | eguaglianza
(0)
< + go) = — a 5
x sen Rf
da fcueperlala (i)
(0)
OZ gb (c; + 2.
P, p
Da queste equazioni segue facilmente
1 l
ni
Pò p
cioè
Po sar p ;
e ne concludiamo che le due curve € e C, sono di egual flessione avendo nel tempo .
stesso luogo le altre equazioni
(17) Ni) = — x;senhR — p;coshR .
v
Derivando le (17) e avendo riguardo alla (14) e alle (3), troveremo poi
300000) i.
onialela = r&9(0+2),
DO p\p
ossia per la (15)
(0) I
(18) ci =*r(1-.,) É,
IE, p
da cui
Il A Tx
0-3)
Ti P
od anche
Il I
(19) SAT
TE.
COTE.
la quale formola mostra che il prodotto delle torsioni delle due curve nei punti cor-
rispondenti è costante ed eguale al quadrato della flessione diminuita dell’ unità, 0, se
vogliamo, aumentata del valore della curvatura nello spazio, analogamente a ciò che
abbiamo trovato in geometria ellittica; mentre in geometria ordinaria si ha, come è noto,
non comparendo l’espressione della curvatura che è zero.
Possiamo ancora notare la formola
du.
che segue dalle (18) e (19), rimanendo così completato il quadro delle relazioni che
passano fra-gli elementi delle due curve C e C,.
Osserveremo inoltre che come la €, è la linea dei centri di curvatura della C, così
questa è la linea dei centri di curvatura di quella; giacchè se le (13) e la (17) eli-
miniamo le 7;, otterremo subito
ci = 2 coshR + N° senhR.
Passando al secondo caso, che sia cioè soddisfatta la seconda delle (12), siccome
si ha, differenziando le (13),
| a/ d
dai — — coshk O A +. (7 L ) {;ds,
(0)
i
dovrà essere dx, = 0, vale a dire «!" = cost.° e allora le (10) mostrano subito che
si avrà identicamente
3
ES, Ù 00 + GIO) = (GONO
1
per tutti i punti x; della curva e quest’ equazione esprimendo che i detti punti sono
ad egual distanza dal punto fisso #5, ne segue che la curva stessa sarà sferica e la
seconda delle (12) ne sarà quindi | equazione caratteristica (*).
5. Evolute ed evolventi. — Mantenendo immutate le ordinarie definizioni, suppo-
niamo di avere una curva € di cui indicheremo con «x; le coordinate di un puuto .M
mobile in essa: indicando con #; quelle del punto corrispondente M' di una sua evol-
vente l', avremo evidentemente le equazioni :
(20) x; = 2%; coshs — È; senhs
esprimendo s | arco della C contato nel senso degli archi crescenti. Derivando le (20)
(*) Questo ragionamento vale quando è reale il centro della sfera osculatrice, ma non sarebbe dif-
ficile provare che esso regge egualmente se questo è ideate ovvero all’ infinito.
IMRE
ed osservando le (3) troveremo
'
doi :
o LL gog 08)
ds
da cui per l’ elemento d’ arco ds' della €' seguirà subito
3 sens
ds = ds
e quindi
Ù
IVES dex,
(21) È;
= Ni -
aids:
Queste equazioni ci mostrano subito che tutte le evalventi, di cui le (20) sono le equa-
zioni, della curva © e che costituiscono una semplice infinità sono tutte trajettorie
ortogonali delle generatrici della sviluppabile che ha la © per spigolo di regresso.
Calcoliamo infatti i coseni di direzione della MM' in M': basterà per ciò consi-
derare le (20) come le equazioni della MM' supponendo x; e É; quantità fisse e de-
rivare rispetto ad s: otterremo pei coseni richiesti
dx!
î
ds
x;senhs — E; coshs
e quindi per le (21)
ve&- La
- ds ds
la quale equazione esprime che effettivamente le evolventi stesse sono tutte trajettorie
ortogonali delle generatrici della sviluppabile considerata.
Risolviamo ora la questione inversa, cercando cioè di determinare tutte le evolute
C' di una curva data €. Essendo M, M' due punti corrispondenti delle due curve,
dovremo perciò esprimere che la MM' è al tempo stesso normale alla € in M e
tangente alla C' in 2'. Chiamando 7 la lunghezza del segmento MM' e a i’ angolo
che il segmento stesso forma con la direzione positiva della normale principale alla C,
avremo evidentemente le equazioni
(AS)
(£
2) vi = 2; C0ShT + (76084 + È; sena) senht
nelle quali dovremo determinare le due incognite « e T.
A tale oggetto, derivando le (22) rispetto ad s ed ordinandole, avremo le equazioni :
dx; dt cosa sen ht
(23) = (F sent) Xi + (cost — SEINLe) E +
ds ds p
dT
COSA COSAT
Mit
l da
+ (7 a sena senhT +
S
1 da dr \
ui — (F — — | cosasenhT +=- sena coshe | G;
1a. ds ds
e derivando le (22) rispetto a T avremo
(24) —! _.a;senht + (7;cosa + ;sena) cosht
che esprimeranno i valori dei coseni di direzione della MM' in M'.
Ora, poichè, indicando con 4 un fattore di proporzionalità, deve sussistere | egna-
glianza
Li Ù
dx; dx;
SR ETA E
ds dr È
LU '
ì È CHE 0%, ; 0
sostituendo in questa a —- i loro valori (23), (24), dovranno essere soddisfatte
ds’ dr
le equazioni lineari ed omogenee
dt COS SeNAT\
sent (7 cs à) Li + (costr — e Gi +
8
| Î da dT
+. (G — — | sena senhT + (F — |) cosa coshT 335
IP ds ds
Co=0
|
|
\ I da dt n
+ | F —_ =) cosa sen ht + (5 33 à) sena cos ht
| TTI ds
nelle quali osserveremo che il determinante dei coefficienti è |’ unità positiva. Segui-
ranno quindi l’ equazioni :
dT cosa sen kT
sen n _ 2) = 0, coohT — —_——_ =" 0,
ds p
1 da dt
( — 2) sena SenRT + (— = à) COSIRICOS /uTi—10]
ID ds ds
l da dt
— 7 — dl cosa Sen ht + (a à) sena coshT = 0
TP ds \ ds
da cui
p ds
25 ov = de || =
di 5 cosa’ SICA
e poichè allora
COSA
COSÙT = Nisen/ezi= È
sostituendo nelle (22) avremo finalmente
al —_—_ l
do, == 5 =
Vcosa - pP°
(2; + PR) cosa + pÈ;sena
per le equazioni delle evolute richieste; sicchè il problema sì risolve con una qua-
dratura (la determinazione dell’ angolo a).
Possiamo anche mostrare facilmente che tutte le ce' evolute di una curva giac-
ciono sulla sviluppabile polare della curva stessa; giacchè se nelle (26) sostituiscono
a f il suo valore tg/hw, avremo
i 1
= = 3 = (2; c08%A10 + 77; Senhio) cosa + È; sen a sen uo i
Vv cosa cos kw — sen kw |
ossia, posto
COSA sena sen wo
(c) COS/a== MS IA
OE DJ 2)
V costa cosh"“0 — sen kw
Vcosa cos'hiv —- sent
risulteranno subito le equazioni :
(250) xv = (2;c0sh10 + g;sentuo) cosht + É;senht,
Ù
e le (c) mostrano inoltre che le singole evolute incontrano una stessa generatrice a
una distanza 7 dal centro di curvatura dell’ evolvente data dalla formola
(28) toht = tgasenhw.
Nel caso che 1° evolvente sia piana, dovendo allora essere = 0, ne segue per le
(25) che a dovrà avere un valore costante e le corrispondenti evolute saranno rap-
presentate tutte dalle (27). Fra queste vi sarà l’ evoluta piana che corrisponderà al
valore zero di a, e poichè in tal caso la sviluppabile polare è il luogo delle normali
al piano dell’ evolvente lungo la sua evoluta piana, per quanto abbiamo veduto, pos- .
siamo concludere che tutte le altre evolute saranno trajettorie delle generatrici di questa
sviluppabile.
Per determinare l’ angolo sotto il quale le diverse evolute incontrano queste gene-
ratrici, deriviamo le (27) rispetto a « ed otterremo :
2 dg dt
(29) dor ti sen/w cosht + cosi sen ht =)
t dl
sen/tw sent) + È; DI coshét,
dw
+ i (coste cosht +
dw
da cui, indicando con ds' l'arco elementare delle evolute, ponendo cioè
2 12 IR 12 12
ds' = da, +dx,+dx,— da,
seguirà subito
DI
.
ds'‘ dt
—@OS/MA= Ta :
du du
ge
ma si ha dalla (28)
dt toa cos fw 1
£ = 5 5 COSA =
0) _ dw 1— te°asenl'w VI — to°n senh'w
sostituendo quindi nella precedente avremo
ds! cosa
dw —— (cosa — sen’asen hw)
e finalmente
È cosadw
(39) ds =-— = = è
costa — sen“a senlt"w
Se indichiamo ora con A, B, C i coefficienti delle «;, 7;, &; nelle (29) ed elimi-
niamo la # per mezzo delle (c) e (30), troveremo facilmente
cosa sen /ruw
A = 9 D) D) È b)
(cosa — sen°a sent") °
cosa cos hi
B =_= 3
Papa 2 2 2 22
(costa — sen'a senk'w)
È sena cosa coshw ,
z 2 2
(cos — sen'a senkw)
e dividendo per la (31), avremo pei coseni di direzione della tangente alle singole
evolute
l 2
dx, sen/uo cosa cos w
DA == 3 3 = Li + = 3 = 5) i +
s Vcosa — sen°a senk"0 Vcos'a — sen a senk°w0
sena cosa cos/uw È
Gi.
DI 9 D
V cosa — sen°a senA“wo
Invece, per determinare i coseni di direzione delle generatrici della sviluppabile,
basterà derivare le (27) rispetto alla #; eliminando poi questa variabile per mezzo
delle (c), avremo i valori dei coseni richiesti nei punti ove esse generatrici incontrano
le evolute considerate espressi dalle formole
dx; sena cos /uw sen/ue sena sen/"w -
== Li == Ma
dt Vcosa coshf0 — senh%w
ma >? 9 D)
Vcosa cos hw — sen kw
cosa
li
A
D) D) >
Voosa cosh"v — sen hw
e quindi, detto @ l’angolo secondo cui le evolute tagliano le generatrici della svilup-
pabile, posto cioè
3 ! SL J I
pe y da; dx; e dae, dg
mi CSI dsl dii
SMAIAZIA
avremo, sostituendo e riducendo
cosp = sena cosWw .
6. Le curve del Bertrand. — Denoteremo con questo nome le curve che hanno
le normali principali comuni e mostrarono, come applicazione delle formole precedenti,
che esse soddisfano a condizioni consimili a quelle cui verificano le curve dello spazio
ordinario.
Siano perciò C e C' due tali curve ed M, M' due loro punti corrispondenti : in-
dicando con # la porzione di normale principale comnne compresa fra le curve anzi-
dette, avremo le equazioni
(32) x; = 2;00Sht + 1; sen ht,
(7
da cui, derivando rispetto all’ arco s della €,
A, aa
= KSennt è — ji COSI?
dA
di E. 0
+ gp; cosht:- — ( - ) senti,
ds p sl
ovvero
dx; dt sen ht
(33) = x;senht.— + È, (cosn _ ) +
ds ds p
dt sen lt
+ 7;c0sht ra Gi wa
ma se con À;
indichiamo i coseni di direzione della MM' nel punto M' troviamo subito
À; = w;senht + p7;cosht,
ed esprimendo che la MM' è normale alla 0', dovrà essere soddisfatta la condizione
d’ ortogonalità
3 ' '
x» rd, oli 0
as ° dS ds ;
1
ossia # = cost.° (*). Le (33) intanto si semplificano nelle
dex; i senht sen ht
34 SAASTERENCOSNA E Reel (ta.
(34) n= di (così ee
e poichè da queste segue subito
SA SenRA\FNisentA |
(35) disi= (cost _ ) POR 3 [as
| p A0E;
(*) Osservando che le C, C' sono due trajettorie ortogonali della rigata di cui MM' sono le gene-
ratrici, il risultato è una conseguenza immediata di noti teoremi.
SIMONA
posto
sent sen ht
cosht — - ds;
(36) Cosgie= 1 = =; fo == -
senht\® sen senht\® sen
V (cost eni ) e \ cosht — ) uu
p ee p T?
avremo le formole
RENE 1207
(37) E = gg E;coso + G;seno
S
pei valori dei coseni di direzione della tangente alla €'. Se ora poniamo la condizione
che la normale principale di questa carva in M' abbia la stessa direzione della M'M,
dovranno aver luogo ie equazioni
(38) n, =fÀ; = f(c;senht + 7; cosht)
ove f indica un fattore di proporzionalità, e poichè si ha evidentemente
essendo f, un secondo fattore di proporzionalità, sostituendo ad 4, 2; i loro valori
(32) e (38), avremo
e, ,
= =f,j —(x,senht + 7; cosht) + 2, c0sht + 7; senht
p
od anche
n= fi (2;coshé 4 n; sent) + f, (2; senht + n; cos ht)
avendo posto
ma se deriviamo le (37) troviamo
dé; SA do th coso _ seno) e do
è = — Esseno = Si ; COST —
ds i i mr p Ti ) x ds’
confrontando quindi con la precedente dovrà essere
do
— =00
ds
vale a dire o = cost.° Introducendo questa ipotesi nelle (36), ne deduclamo l’equazione
coso seno
i + seno co/ght = 0
1 p
che è della forma
(89) i n
( $ 3 dis
essendo A, 5, C tre costanti.
Supponiamo inversamente di avere una curva € i cui raggi di 1.° e 2.% curva-
tura soddisfino la (39); potremo determinare la 7 dall’ equazione
D)
C
cotght == — —
B
ove dovrà supporsì pi > l se vogliamo avere valori reali per #, e ‘allora le (32)
o)
rappresenteranno una curva C€' che avrà a comnne con la © la normale principale.
Ma se 0 e T sono costanti, cioè se la curva C' gode nello spazio iperbolico della pro-
prietà stessa che caratterizza nello spazio ordinario le eliche circolari, facilmente ve-
diamo che potrà prendersi per # qualsiasi valore, per ognuno dei quali le curve cor-
rispondenti C€' avranno come la © costanti la flessione e la torsione.
Posto infatti
Ro; senki\? sen
le — V (cost — ) + 5
p Tai
sarà H costante e 1° espressione (35) dell’ elemento lineare della corrispondente C' sarà
ds' = Hds
e seguirà subito dalle (37) per le formole di Frenet
der: TOMNTA COSO 7; Seno
È +2) GOD n°
da cui, avuto riguardo alle (32),
ni 76 (E coshi) = DI (Cee = e) si
on IR ——> f . 5 eb Ì 7
p Ù Di Vi | H p qT | ’
ovvero, posto
COSO 1 /coso seno
= a = (COS ii p Sa T ) senz,
v
pai == ea N,
Questa formola ci dà il valore della flessione
(40) go VaR
e quindi pei coseni di direzione della normale principale alla C'
k M N
9 iene
Wi;
ma, se indichiamo con 4; i coseni di direzione della normale principale alla © nei
punto ove essa incontra la C', si ha per le (32)
(42) Ai = x;senht + 17; cosht
ove, come si verifica facilmente,
senht =
di guisa che le (41) e (42) coincideranno, vale a dire le €, C' avranno a comune la
normale principale. Calcoliamo immediatamente la torsione della nostra curva derivando
le (41) e troveremo subito per essa i’ espressione
l I VI Da) cosht ue cosh'7
— = senht — 3
IE H p ) Tea
. I
un valore costante, mentre la flessione —- è pure costante come lo
Ì
che dà per m
mostra la (40).
Nella relazione (39) supponendo zero |’ una o. l’altra delle costanti A e 5 abbiamo
come caso particolare delle curve del Bertrand quelle a flessione o a torsione co-
stante; ma la costruzione geometrica relativa non sarà evidentemente più applicabile.
ei =
tl!
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
pas
SUL CONTEGNO
DI
ALGUNH SOSTANZE ORGANICHE NEI VEGETALI
IV. MEMORIA
DI
GIACOMO CIAMICIAN E CIRO RAVENNA
(letta nell'adunanza ordinaria del 26 Marzo 1911).
Nella nostra III Memoria (1) abbiamo descritto alcune esperienze dalle quali risulta
che inoculando nelle piante di tabacco e di datura certe sostanze azotate, si ottiene, segna-
tamente colla piridina, un notevole aumento nella quantità totale dei rispettivi alcaloidi.
Simile fatto si prestava alla interpretazione che la piridina potesse prender parte diretta
alla sintesi della nicotina e degli alcaloidi della datura; ma una simile conclusione doveva
apparire tutt’ altro che probabile, massime tenendo conto delle vedute che attualmente
prevalgono intorno alla formazione degli alcaloidi nelle piante. Era però necessario speri-
mentare il contegno di altre sostanze azotate ed a tal fine vennero impiegate l’ asparagina,
il tartarato ammonico e fu ripetuta l’esperienza col tartarato di piridina.
Inoltre, come avevamo del pari rilevato ultimamente, è noto che in certe piante lesioni
traumatiche possono avere influenza sul metabolismo (2) e però abbiamo ricercato se nel
nostro caso, la ferita fatta nel fusto per introdurvi la sostanza in esame, determinasse per
se stessa variazioni notevoli sui contenuto in alcaloidi. Siccome poi é stato notato che la
presenza di un eccesso di materia zuccherina fa aumentare l’acido cianidrico nelle piante
cianogenetiche (3), abbiamo per ultimo sperimentato il comportamento di sostanze non
azotate inoculando il glucosio e, per confronto, una sostanza aromatica dal pari molto
ossigenata: l’ acido ftalico.
Tutte queste esperienze furono eseguite sul tabacco.
Le prime operazioni per l’estrazione degli alcaloidi, data la troppo grande quantità di
materiale, furono eseguite gentilmente presso la Ditta Carlo Erba di Milano. Alla Ditta
Erba, al Procuratore della Casa Dott. Giovanni Morselli ed al Dott. Raffaele Pajetta, che
(1) Queste Memorie, serie 6, tomo 7, pag. 143 (1909-910).
(2) C. Ravenna e M. Zamorani: Le stazioni sperimentali agrarie italiane, 42, 389 (1909).
(3) M. Treub: Annales du Jardin botanique de Buitenzorg, 13, 1 (1896); bid. 4, serie 2.*,
86 (1904); C. Ravenna e A. Peli: Gazzetta chimica italiana 37, 2, 586 (1907).
ARIE
con grande cura e perizia diresse le operazioni che gli avevamo affidate, esprimiamo qui
la nostra più viva riconoscenza ed i nostri sentiti ringraziamenti.
Dalle piante che subirono i diversi trattamenti venne preparato a Milano anzitutto
l'estratto cloridrico, il quale, per evitare che durante la concentrazione 1’ acido danneg-
giasse il lambicco di rame, fu poi neutralizzato con soda ed il liquido ottenuto, acidificato
con acido tartarico Questi diversi estratti, concentrati nel vuoto a piccolo volume, furono
presi in lavorazione da noi.
Inoltre venne fatto da un certo numero di piante che non subirono alcun trattamento,
un’estratto acquoso che fu esaminato per ultimo.
Esame degli estratti cloridrici.
SOSTANZE AZOTATE. — a) Asparagina. — Furono prescelte cinque piante di tabacco
alle quali venne inoculata l asparagina col metodo altre volte descritto nei giorni 10,
20, 30 agosto e 9 settembre nella quantità totale di gr. 29. Le piante si raccolsero il 17 set-
tembre e pesavano complessivamente Kg. 15,0. Per conoscere il peso totale delle basi
contenute nell’estratto giuntoci da Milano, lo abbiamo reso fortemente alcalino con potassa
e distillato in corrente di vapore su acido cloridrico; il liquido raccolto venne evaporato
nel vuoto e dal residuo secco fu eliminato il cloruro ammonico mediante estrazione con
alcool assoluto. L'estratto alcoolico seccato a 100° pesava gr. 88,2, corrispondenti a 2,50
per mille di piante. Dai cloridrati così ottenuti si misero in libertà le basi rendendone la solu-
zione fortemente alcalina con potassa ed estraendo con etere. Evaporato lentamente |’ etere,
sì frazionarono gli alcaloidi e sì ottennero due frazioni: la prima, bollente fra 80° e 110°,
era assai esigua (circa gr. 0,3); la seconda bollente a 240° pesava gr. 20,5. La parte più
volatile era costituita da isoamilamina: infaiti ne preparammo il cloroaurato che cristal
lizzava nelle caratteristiche tavole le quali, deacquificate, fondevano a 151°; la seconda
frazione era costituita naturalmente da nicotina.
b) Piridina. — Si adoperò questa base allo stato di tartarato e le inoculazioni fu-
rono fatte contemporaneamente alle altre. La quantità totale introdotta nelle cinque piante
sperimentate fu di gr. 60. Queste, al momento della raccolta, pesavano Kg. 17,1 Da esse
si ottennero gr. 31,0 di cloridrati corrispondenti a 1,81 per mille di piante.
c) Ammoniaca. — Anche questa sostanza fu somministrata allo stato di tartarato
a cinque piante negli stessi giorni delle esperienze precedenti, nella quantità totale di
gr. 36. Le piante, raccolte il 17 settembre, pesavano Kg. 15,2. Procedendo col metodo già
descritto, si ottennero gr. 29,4 di cloridrati, corrispondenti a 1,93 per mille di piante.
PIANTE LESIONATE. — Nella corteccia di cinque piante di tabacco, venne praticata
un’ apertura rettangolare lunga da otto a dieci centimetri e larga tre, in modo da lasciare
la parte tagliata attaccata al rimanente per uno dei lati minori del rettangolo. Mentre
nelle esperienze di inoculazione in una simile apertura si introduceva la sostanza da spe-
rimentare, in questo caso si rimise semplicemente in posto la parte staccata e si chiusero
le commessure con paraffina: tutto ciò allo scopo di studiare le eventuali variazioni pro-
AGE
dotte dalla lesione. Le piante, raccolte il 17 settembre, pesavano Kg 17,9 e si ottennero
da esse, col solito metodo di estrazione, gr. 34,0 di cloridrati corrispondenti a 1,90 per
mille di piante.
SOSTANZE NON AZOTATE. — «) Glucosio. —— Anche per queste esperienze si prescelsero
cinque piante alle quali vennero introdotti complessivamente 40 gr. di glucosio negli stessi
giorni in cui furono fatte le inoculazioni delle sostanze azotate. Le piante, al momento
della raccolta, pesavano Kg. 16,0 e fornirono gr. 34,5 di cloridrati corrispondenti a 2,15
per mille di piante verdi.
6) Acido ftalico. -- Fu somministrato allo stato di ftalato potassico inoculato negli
stessi giorni, in totale, gr. 40 del sale a cinque piante del peso, al momento della raccolta,
di Kg. 18,1. Da esse si ottennero gr. 20 di cloridrati, corrispondenti a 1,52 per mille.
PIANTE TESTIMONI. — Per avere un termine di confronto, abbiamo dosato gli alcaloidi
di altre cinque piante che non subirono alcun trattamento. Anch’esse furono raccolte il
17 settembre e pesavano Kg. 15,4. Esse dettero complessivamente er. 23 di cloridrati
corrispondenti a 1,49 per mille. Le basi vennero messe in libertà con potassa concentrata
e si estrassero con etere. Per distillazione frazionata si ottenne, oltre alla nicotina, una
piccola quantità di isoamilamina identificata per mezzo del cloroaurato
RIASSUNTO.
I risultati delle esperienze ora eseguite sono riuniti nel seguente quadro in cui si tro-
vano riportati i numeri che abbiamo precedentemente indicato. Questi numeri, per quanto
riguarda l’effetto dell’asparagina, della piridina e deil’ammoniaca sono comparabili fra
loro, perchè le quantità di sostanze azotate si equivalgono rispetto all’ azoto.
Peso delle piante Peso dei cloridvati | Cloridrati per mille
Asparagina Kg. 15,3 SEMI 2,50
Piridina | » II o » 31,0 1,81
Ammoniaca » 5,2 » 29,4 1,93
Lesionate » 17,9 » 834,0 1,90
Glucosio » 16,0 » 34,5 Zali
Acido ftalico di Sl > 2070 | 1,52
‘l’estimoni >» bd >» 23,0 1, 49
Dal precedente quadro risulta, in conformità a quanto venne accennato nella introdu-
zione, che la piridina non ha un’influenza specifica sull’aumento degli alcaloidi del tabacco;
l’ammoniaca produce lo stesso effetto e ciò sta in buona relazione col fatto noto che una
concimazione azotata abbondante produce un aumento di nicotina. Più rimarchevole è 1° in-
finenza cdell’asparagina la quale nelle nostre esperienze ha determinato la maggior produ-
Se) e
zione di alcaloidi. Come pure era stato indicato nell’ introduzione, la lesione stessa produsse
l'effetto da noi previsto e però non è improbabile che in genere un trauma accresca il
contenuto in alcaloidi nelle piante alcaloidiche, come fa aumentare l acido cianidrico nelle
piante cianogenetiche. Anche il glucosio determinò un forte aumento di nicotina quindi
pure da questo lato, le esperienze relative alla formazione dell'acido prussico diventano
comparabili colle attuali. Infine è rimarchevole che la inoculazione dell’acido ftalico abbia
condotto al minor per mille di alcaloidi tanto da differire di poco da quello delle piante
testimoni. Tenendo conto dell’ influenza della lesione, se si può il suo effetto rite-
nere costante in tutti i casi da noi studiati, sì potrebbe addirittura dedurre che | acido
ftalico ha fatto diminuire la quantità di nicotina. Sarà perciò utile continuare lo studio
dell'influenza che esercitano le sostanze aromatiche nelle piante alcaloidiche.
L’isoamilamina.
Rimaneva ancora da risolvere la questione, che già ci eravamo proposta nella Me-
moria precedente, cioè se l’isoamilamina, che abbiamo sempre trovato fra gli alcaloidi del
tabacco, preesistesse nelle piante o se prendesse origine da qualche altro composto durante
la lavorazione in laboratorio.
L’isoamilamina sta senza dubbio in relazione colla leucina da cui può prendere. ori-
gine per eliminazione di anidride carbonica, ciò che realmente avviene per distillazione
secca:
mo Qi Oi ci CO dh Va CEL CLINT,
L’isoamilamina poi si forma anche per distillazione a secco con potassa di alcune
sostanze proteiche, come ad esempio della materia cornea (1). Però appariva possibile che
nelie nostre ricerche questa base prendesse origine o da leucina presente nelle piante o
eventualmente da qualche materia proteica. Abbiamo voluto quindi sottoporre al trattamento
da noi seguito per l’ estrazione degli alcaloidi del tabacco, una pianta contenente notoria-
mente molta leucina, poi !a materia cornea e finalmente la leucina stessa.
Quale vegetale contenente leucina abbiamo prescelto le piantine germinanti di veccia
così verdi, come eziolate. Si partì in entrambi i casi da due chilogrammi di semi e si
operò, sulle piantine verdi, dopo un periodo germinativo di tre settimane; su quelle ezio-
late, dopo un periodo di sei. Le prime avevano il peso di sette chilogrammi e le seconde
di dieci. Il materiale triturato venne rispettivamente estratto con acido cloridrico diluito:
l’estratto svaporato a secco nel vuoto e la soluzione acquosa del residuo, trattata con
potassa concentrata e distillata col vapore su acido cloridrico. Svaporando a secco la solu-
zione cloridrica si ebbe un cloridrato da cui, mediante estrazione con alcool assoluto si
separò il cloruro ammonico: ma il prodotto ottenuto dimostrò non contenere l’isoami-
lamina.
(1) H. Limpricht: Amnalen der Chemie und Pharmacie 101, 296 (1857).
Sciolto in acqua diede in entrambi i casì, per trattamento con cloruro d’oro, dei cri-
stalli fondenti intorno a 230° in forma di aghi ricurvi simili a quelli da noì ottenuti l’ anno
scorso dalle dature e che ritenemmo probabilmente identici al cloroaurato di putrescina.
Inoltre il cloroaurato proveniente dalle vecce, trasformato in picrato, si presentò in forma
di laminette, molto simili al picrato di putrescina, che erano del pari poco solubili e che
col riscaldamento annerivano senza fondere. Ma l’analisi tanto del cloroaurato, che del
picrato, non diede risultati soddisfacenti.
Per esaminare il contegno della materie cornea, ci siamo serviti di 500 gr. di raschia-
tura di corno. Questi furono trattati con soluzione di potassa caustica (2:1) e dopo che
la massa s'era convertita in una densa poltiglia, venne distillata col vapore acqueo su
acido cloridrico. Eliminato il cloruro ammonico, rimase il sale di una base, che trattato
con cloruro d’oro diede un cloroaurato fusibile a 210°. Neppure in questo caso sì tratta
dunque di isoamilamina il cui cloroaurato, come già si disse fonde a 151°.
La prova colla leucina sì fece svaporando a secco nel vuoto la soluzione cloridrica
di 5 gr. di sostanza e distillando poi col vapore su acido cloridrico il residuo trattato con
eccesso di soluzione concentrata di potassa caustica. Per evaporazione del liquido raccolto
e successivo trattamento con cloruro d’oro, non si ebbe nessun precipitato neppure a forte
concentrazione.
Queste esperienze rendevano assai probabile la supposizione che l’isoamilamina da noi
costantemente ritrovata nel tabacco, non potesse provenire nè dalla leucina, nè dalle so-
stanze proteiche. Per risolvere in modo definitivo la questione, ci sembrò tuttavia neces-
sario eseguire sopra il tabacco stesso alcune esperienze modificando il metodo di estrazione
degli degli alcaloidi in maniera da evitare l’azione degli acidi e delle basi forti. Abbiamo
operato sopra 64 piante del peso complessivo di Kg. 147. Di esse facemmo preparare allo
Stabilimento Erba l’ estratto acquoso, il quale, dopo concentrazione nel vuoto, fu da noi
preso in esame per ricercarvi l’ isoamilamina.
Una parte aliquota dell’ estratto (i venne svaporato a secco ed il residuo fu fatto
bollire a ricadere con alcool assoluto per seperare la maggior parte delle sostanze pro-
teiche dagli alcaloidi. Evaporato l’ alcool, sì sciolse ii residuo in acqua e si distillò col
vapore, in presenza di potassa, su acido cloridrico. I cloridrati ottenuti. separati dal clo-
ruro ammonico, pesavano gr. 16,5. Questi furono sciolti in poca acqua, si rese fortemente
alcalino il liquido con potassa concentrata e le basi liberate si estrassero con etere. L'estratto
etereo venne distillato frazionatamente raccogliendo una prima porzione fino a 110° ed una
seconda bollente a 240° (nicotina), nella quantità di er. 9 La prima frazione contenente
l'etere, venne agitata con acido cloridrico diluito e il liquido acido si trattò con cloruro
d’oro. Si ottenne un precipitato che, purificato dall’acido cloridrico diluito, diede le ca-
ratteristiche tavole del cloroaurato di isoamilamina che fondevano, dopo deacquificazione
nel vuoto, a 151°.
Sopra un’altra parte aliquota ( 5 ) dell'estratto acquoso si ripetè la stessa. opera-
Lo
zione ora descritta, ma sostituendo, nella distillazione col vapore, alla potassa, l’idrato di
AE DANA
magnesio. Anche con questo metodo si ottennero i cristalli tabulari di cloroaurato di isoa-
milamina, fondenti a 151°.
Rimane così dimostrato che l’isoamilamina che abbiamo ritrovato in piccola quantità
fra gli alcaloidi del tabacco non proviene nè dalle sostanze proteiche, nè dalla leucina.
Non possiamo però accertare se questa base si trovi nelle piante allo stato di sale o in
forma di qualche suo derivato facilmente scindibile dagli alcali caustici ed anche dalla
magnesia.
Conclusioni.
Dalle esperienze descritte in questa e nella precedente nostra Memoria, risulta che
l’inoculazione di sostanze azotate di svariata natura chimica nel tabacco, produce un au-
mento nella quantità totale di alcaloidi e che questo aumento si accentua impiegando
l’asparagina, anche introducendo nelle piante quantità di materie proporzionali al loro
contenuto in azoto. Ma anche dopo le esperienze di quest’ anno, le osservazioni raccolte
non permettono di trarre conclusioni sufficientemente sicure relative alla genesi ed al
significato degli alcaloidi nelle piante. Ci sembra però si possa affermare, che le nostre
esperienze parlino piuttosto in favore di quelle vedute secondo le quali gli alcaloidi vege-
tali provengono dagli acidi amidati. In favore di questa tesi ci sembra anche che possa
essere interpretato il fatto della presenza da noi riscontrata dell’ isoamilamina e si potrebbe
supporre, come fa recentemente il Winterstein nella sua interessante monografia sugli
alcaloidi (1), che basi provenienti da acidi amidati, quali la lisina e l’ornitina, vengano
dalle piante utilizzate nella formazione degli alcaloidi.
Ci è grato infine esprimere i nostri sentiti ringraziamenti al Dott. Vincenzo Babini
per l’efficacissimo aiuto che ci prestò in queste esperienze.
(1) E. Winterstein e G. Trier: Die Alkaloide, Berlin, 1910, pag. 263, e segg.
La Flora delle isole Pelagose
MEMORIA
DEL
PROF. ANTONIO BALDACCI
Letta nella Sessione del 12 Febbraio 1911
Il copioso materiale fioristico raccolto dal dott. Augusto Ginzberger del-
l’Istituto botanico dell’ Università di Vienna nelle sue due escursioni del 1895 e
del 1901 nel gruppo delle Pelagose (1), mi offre l’ occasione della seguente enumera-
zione sistematica di piante di quel minuscolo, ma interessante arcipelago (2). Invero,
quando due anni or sono l’ egregio botanico mi trasmise per lo studio, con tanta
liberalità, il frutto delle sue diligenti ricerche, io aveva stabilito di fare un lavoro
fitogeografico che riguardasse, oltre le Pelagose, anche le isole perigarganiche nei loro
rapporti con |’ Italia e con la Dalmazia. Senonchè, mentre mi ero accinto all’ opera,
essendo stato preceduto nel mio intento dal prof. Augusto Béguinot (3), viene
ora a mancare ogni ragione di ripetere quanto è già stato scritto dal collega ed
amico con grande interesse per la scienza.
C. Petter è, a mia cognizione, il primo botanico che abbia raccolto piante nelle
Pelagose (4). M. Botteri esplorò più tardi quel gruppo di isolette e le sue scoperte
trovansi menzionate nella « Fiora dalmatica » di R. de Visiani (5), in parte come
(1) Il dott. A. Ginzberger visitò, durante i suoi viaggi in Dalmazia, Pelagosa grande e Pelagosa
piccola dal 30 maggio al 3 giugno 1895 e dal 5 al 9 giugno 1901. Egli ha pubblicato: Botanische
Skizzen aus Dalmatien, in n. 3 d. Mitth. d. Section fir Naturkunde d. ò. T.-C., 1896, e: Aus « halb-
vergessenem Lande » in n. 8 u. 9 d. ò. Tour. Zeit. 1896, nei quali si parla anche delle Pelagose. Io
esprimo qui all’ egregio collega i più vivi e cordiali ringraziamenti per l’ incarico gentile che egli mi
ha dato di studiare le due importanti collezioni da lui formate nelle Pelagose.
(2) Cfr. A. Baldacci: Intorno alle Pelagose, in L’ Italia all’ Estero, pag. 1175, 1909.
(3) A. Béguinot: La vegetazione delle Tremiti e dell’ isola di Pelagosa : studio fitogeografico, in
Memorie della Società italiana delle Scienze (detta dei XL), serie 3, Tomo XVI, pag. 155, con una
carta fitogeografica. i
(4) C. Petter: Inselflora von Dalmatien, in Oesterr. bot. Zeitschr., pag. 18, 1852. — Carlo Petter,
impiegato a Vienna, fu autore di due contributi alla flora delle isole del Quarnero, l’ uno pubblicato
nel 1852 e il secondo, riproduzione del primo con qualche omissione, nelle « Verh. zool. bot. Ges. XII,
1862. »
(5) R. de Visiani: Flora dalmatica, 1842-1852, cum supplementis. — Matteo Botteri, nato
a Lesina e fiorito attorno al 1845 (cfr. Saccardo: Bot. in It., 1895, pag. 36), si ignora quando morì.
Fu attivo corrispondente del De Visiani cui inviò da Lesina e dalle vicine isole un gran numero di
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. S
raccolte da lui e in parte da L. Stalio (1). La bibliografia vera e propria sulle
Pelagose comincia molto più tardi con M. Stossich, il quale, insieme al Tom -
masini, erborizzò e si occupò di zoologia e geologia in quelle isole nel 1874 (2).
Due anni più tardi il Marchesetti compiva il suo primo viaggio nelle Pelagose (3), le
quali, sotto l’ aspetto geologico, erano già state esplorate da Stur e da G. Stache (4),
compagno, quest’ultimo, dello Stossich. Il Marchesetti fece un altro viaggio
l’anno seguente nel piccolo arcipelago (5) e così, in seguito, vi intraprese nuove
escursioni, senza, tuttavia, presentare altre pubblicazioni speciali. Sulla fine del
giugno 1904 il generale Robert v. Sterneck raccoglieva una piccola serie di
piante a Pelagosa grande e Pelagosa piccola che io ho ricevuto in esame, col mezzo
del dott. Ginzberger, dal nipote del generale suddetto dott. Jakob v. Sterneck
e che pubblico in questo mio elenco.
Le Pelagose vennero anche studiate da altri viaggiatori e naturalisti, tra cui i
principali sono il console inglese R. F. Burton (6), M. Groller von Mildensee (7),
C. A. Ulrichs (8) e da altri che hanno pubblicato in periodici e riviste le notizie
loro pervenute (9).
piante che si conservano in parecchi Erbari con etichette di pugno dell’ Autore, laddove quelle inviate
all’ Erbario Dalmatico hanno di solito etichette di pugno del De Visiani. Questo botanico cita nella
Flora Dalmatica il Botteri fra i suoi collaboratori e di lui si ricordò colla dedica di una specie
(Brassica Botteri) e come vaccoglitore delle più rare, ma il suo contributo alla Flora Dalmatica è, senza
confronto, più poderoso di quello che il Visiani si studiò apparisse ai posteri attraverso il suo Erbario
e la sua opera.
(1) Cfr. A. Béguinot, op. cit. pag. 10. — Luigi Stalio, nacque a Cittavecchia (Dalmazia) il
22 Giugno 1799 e morì a Venezia il 1° Settembre 1882. Fu professore di nautica nella Scuola mercan-
tile in Venezia e raccolse piante ed animali dalmati. Scrisse parecchi lavori zoologici.
(2) M. Stossich: Escursione sull’ isola di Pelagosa, in Boll d Soc. Adr. di Sc. Nat., pag. 217,
1875. — Idem: Sulla geologia e zoologia dell’ isola di Pelagosa, ibid., pag. 184, 1877.
(3) C. Marchesetti: Descrizione dell’ isola di Pelagosa, in Boll. d. Soc. Adr. di Sc. Nat., pag.
283, 1876.
(4) Stur: Tertiàrpetrefacten von der Insel Pelagosa in Dalmatien ete.. in Verhandl. d k. k. geolog.
Reichsanstalt, pag. 391, 1874. — G. Stache: Geologische Notizien tber die Insel Pelagosa, in Verbandl.
d. k. k. Reichsanstalt, pag. 123, 1876.
(5) C. Marchesetti: Reisebericht, in Oest. bot. Zeitschr., pag. 36, 1877.
(6) R. F. Barton: A visit to Lissa and Pelagosa, in Journ. of the roy. Geograph. Soc XLTX,
pag. 151, 1379.
(7) M. Groller von Mildensee: Topographisch-geologisch Skizze der Inselgruppe Pelagosa im
Adriatique Meere, in Mitth. Jahvb. d. k. ungar. geolog. Anstalt, VII, pag. 7, 1885. — Idem: Die In-
selgruppe Pelagosa im Adriatischen Meere, in Deutsche Rundschau fiir Geographie und Statistik, XVIII,
pag. 159, 1896.
(8) C. A. Ulrichs: Die Inselgruppe Pelagosa, in Deutsche Rundschau fir Geographie und Statistik,
XV, pag. 211, 1893.
(9) R. Haenisch: Wirkungen eines Blitzschlages auf der Insel Pelagosa, in Boll. d. Soc. Adr.
d. Sc. Nat., pag. 229, 1876. — A. Gadéz: Beobachtungen, uber d. Vogelzug auf der Insel Pelagosa etc.,
in Die Schwalbe, Neue Folge, pag. 115, 1898-99; ibidem, pag. 63, 1900-01. — C. Marchesetti:
Due nuove specie di Muscari, in Boll. d. Soc. Adr. d. Sc. Nat., 1882. -— E. Galvagni: Beitràge zur
Kenntniss d. Fauna einig. dalmat. Inseln, in Verhandl. d. k. k zool. bot. Gesellsch. Wien, pag. 362,
Riguardo alla parte geografica e geologica delle Pelagose rimando all’ ottimo lavoro
del Marchesetti, sembrandomi inutile qui ripetere cose vecchie e già note.
Io scrivo Pelagose invece di Pelagosa perchè si tratta di un gruppo di isole, e
non di un’ isola sola. Infatti, le Pelagose sono rappresentate da circa 16 scogli, grandi
e piccoli, distribuiti in due gruppi principali: Pelagosa grande è l° isolotto più grande
con una superficie di 29 Ettari, 14 are, 64 metri®; Pelagosa piccola viene imme-
diatamente dopo con una superficie di 3 Ettari, 73 are, e 90 m.°. La Pelagosa grande
misura in lunghezza da S. E. a N. O. 1390 metri, e in larghezza 270, restringen-
dosi in alcuni luoghi a 60 e 70 metri; arriva ad un’altezza massima di m. 91:
si può quindi paragonare ad una rupe colossale. A queste due isolette principali tiene
dietro per grandezza lo scoglio di Cajola.
Le Pelagose hanno una vegetazione assai povera. « La loro flora è povera, se la
confrontiamo a quella di altre isole della Dalmazia; però questa povertà è inegual-
mente divisa nelle diverse famiglie che la compongono. Povera sopratutto è dessa in
piante annue, mentre relativamente in copia ci appaiono le piante bulbose. Nè sola-
mente in numero di specie predominano queste, che del pari per frequenza d° individui
a lor si deve il primato, Ovunque il terriccio è soffice e fecondo, stanno i loro bulbi
l’ uno appressato all’altro, per guisa che difflciimente un’ altra pianta vi si potrebbe
frammettere » (1).
La formazione fitogeografica principale di queste isole a scogliere è naturalmente
la rupestre. Anche le specie che in altri territori appartengono a formazioni diverse,
in quel solitario arcipelago dell’ Adriatico si adattano con facilità alle roccie appena
riescano a trovare un po’ di terreno. Così la Mat{hiola incana, il Lotus cytisoides, il
Daucus mauritanicus etc. sembraùo colà piante di rupe piuttosto che delle sabbie.
Il paesaggio botanico della Pelagosa grande e della Pelagosa piccola manca di alberi
e di arbusti gregari, se si eccettua qualche raro cespuglio di olivo selvatico e di lauro
e qualche albero di olivo coltivato e di pero : il resto è dato da taluni gruppi di
Pistacia Lentiscus che, tra i frutici, è l’unica specie diffusa tanto nella Pelagosa
grande quanto nella piccola.
La stazione rupestre con le sue associazioni rnpestri-alofile e rupestri-xerofile è la
dominante : tuttavia nella parte a Nord della Pelagosa grande si ha, in alcuni piccoli
spazi, una vegetazione rigogliosa di prato secco con Aula bdracteosa, Smyrniun Olu-
satrum, Asphodelus ramosus, Asphodeline lutea, Allium Ampeloprasum, Bromus matri-
tensis; questa stazione non risente minimamente dell’ influenza dell’ uomo.
Il Ginzberger scrive in litt. di Pelagosa piccola: « Auf Pelagosa piccola fand
ich drei sehr auffallende Pflanzenarten, die auf Pelagosa grande fehlen: Centaurea
1902. —- A. Zahlbruckner: Vorarbeiten zu einer Flechtenflora Dalmatien, in Oesterr. bot. Zeitschr.
1903. — V. v. Haardt: Eine Adriafahrt, in Neue Freie Presso, N. 14389, pag. 19, 15 sept 1904 —
J. Hann: Ergebnisse meteorologischer-Beobachtungen auf der Insel Pelagosa, in Met. Zeit., 1908. —
Idem: Zur Meteorologie der Adria, in Sitz. Ber. d. k. k. Akad. d. Wissensch. Math. Nat Klasse, Wien, 1908
(1) C. Marchesetti: Descrizione dell’ isola di Pelagosa, pag. 17.
— 56 —
Friderici, Anthyllis Barba Jovis und Convoleulus Cneorum. Auch hier gibt es stellen
mit sehr iippiger Vegetation. »
« Ferner auf Pelagosa piccola : Artemisia arborescens, Alyssum leucadevim, Daucus
mauritanicus, Crithmun maritimum, Statice cancellata, Koeleria phleoides, Centaurea
ragusina, Matthiola incana, Lotus creticus, Seduwm rubens, Euphorbia dendroides, Co-
ronilla valentina, Asparagus acutifolius, Parietaria ramiflora, Ruta bracteosa, Coty-
ledon Umbilicus. »
Riguardo alle crittogame il Ginzberger dà queste indicazioni; 1) per la Pela-
gosa grande: « Flechten sind sehr haufig (vergl. ZahIbruckner 1. c.); Moose fand ich nur
in zwei feuchten Felslochten von denen das eine unweit des òstlichen ruder der Insel,
dans andere am Weg zum Leuchtturm liegt. » 2) per la Peiagosa piccola: « Die Fle-
chten sind physiognomisch noch wichtiger als auf Pelagosa grande. »
Con l’ elenco del Béguinot per le Pelagose e con ) esplorazione del Ginzber-
ger e del v. Sterneck conosciamo oggi 160 specie di questo interessante gruppo
di pinnacoli dell’ antica Adria.
ENUMERAZIONE DELLE PIANTE DELLE ISOLE PELAGOSE (!)
1. (*) Papaver dubium L. Sp. pl. II, pag. 1196 (1758). Pelagosa grande.
2. * .P. setigerum D. C. FI. fr. VI Suppl., pag. 585 (1815). Pelagosa grande.
DÌ Fumarta capreolata L. Sp. pl. II, pag. 701 (1753). Pelagosa.
4. * F. flabellata Gasp. in Rend. Accad. nap. I, pag. 51 (1842). Pelagosa grande.
5. * Matthiola incana (L. Sp. pl. II, pag. 662 sub Che:ranto | 1753]) R. Br. in Aiton Hort.
Kew. IV, pag. 119 (1812). Pelagosa srande e Pelagosa piccola.
6. * Brassica Botteri Vis. FI. dalm. III, pag. 135, tab. 52 (1852). Pelagosa srande e Pe-
lagosa piccola.
7. (*) Simapis alba L. Sp. pl. II, pag. 668 (1753). Pelagosa grande.
8. Raphanus sativus L. sp. pl. II, pag. 669 (1753). Pelagose.
9. Cakile marittima (L. Sp. pl. II, pag. 670 sub Bunias [1753]) Scop. FI. carn. pag. 35
(1760). Pelagose.
10. = Al/yssum marttimwn (L. Sp. pl. II, pag. 652 sub Clypeola [1753]) Lamk. Encycl. I,
pag. 98 (1788). Pelagosa grande e Pelagosa piccola.
11. * A. leucadeum Guss. PI. rar. pag. 268 (1826). Pelagosa grande.
12. (* Calepina Corvini (All. Fl. ped. I, pag. 255 sub Crambde [1785]) Desv. in Journ.
bot. III, pag. 158 (1814). Pelagosa grande.
13. **, * Capparis rupestris Sibth. et Sm. Prodr. FI. gr. I, pag. 355 (1806). Pelagosa grande.
t. Arcangeli, Flora italiana, ‘l'ovino 1882.
Le specie non contrassegnate da alcun asterisco rappresentano quelle riportate dagli Autori che si
sono occupati delle isole Pelagose, ma che io non ho veduto. Le specie contrassegnate da un * o da
un (*) sono quelle delle collezioni del dott Ginzberger. Le seconde non furono mai indicate per le
Pelagose. Le specie raccolte dal generale Robert v. Sterneck sono rappresentate da due * *.
(1) Ho seguito in questa enumerazione : (
28.
20.
29.
SS.
45.
46.
48.
49.
(0)
*
DOSI E
Sylene inflata Sm. FI. brit. II, pag. 467 (1800) var. vesicaria Schrad. ex Reich. FI.
germ. excurs. pag. 822 (1830). Pelagose.
S. infilata Sm. var. angustifolia Vis. FI. dalm. II pag. 168 (1852). Pelagosa grande.
Ss. maritima With. Bot. arrang. pag. 414, non Host nec Kit. sec. Rohrbach Mon. d.
Cerastium semidecandrum L. Sp. pl. I, pag. 488 (1753). Pelagosa grande.
Stellaria media (L. Sp. pl. I, pag. 272 sub A/s/ne [1753]) Cyr. Char. Comm. pag. 36
(1784) var. apetala Ucria apud Roem. Archiv. I, pag. 68 pro specie (1796).
dalm. Pelagosa grande. i
Arenaria serpyllifolia L. Sp. pl. I, pag. 423 (1753) var. viseida Vis. Stirp.
sp. pag. 26 (1826). Pelagosa grande.
Alsine verna Bartl. Beitr. II, pag. 65 (1825) var. caespitosa Guss. FI. sic. I,
pag. 512 (1842). Pelagosa grande.
Sagina maritima Don. Engl. Bot. XXXI (1810). Pelagosa grande.
Spergularia rubra Pers. Syn. I, pag. 504 (1805. Pelagosa grande.
Polycarpon tetraphyllum L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 131 (1762). Pelagosa grande.
Malva parviflora L. Dem. pl. nov. in Am. Acad. II, pag. 416 (1756) var. miî-
crocarpa Desf. Cat. pag. 144 (1804). Pelagosa grande.
Lavatera arborea L. Sp. pl. IL pag. 690 (1753). Pelagosa grande.
Geranium molle L. Sp. pl. II, pag. 682 (1753). Pelagosa grande.
G. Robertianun L Sp. pl. II pag. 681 (1753). Pelagosa grande.
Erodium cicutariwm L' Hérit. Geran. 5, n. 12 (1787). Pelagosa srande.
E. malacoides L’ Hérit. Geran. 9, n. 22 (1787). Pelagosa grande.
Ruta bracteosa D. C. Prodr. I, pag. 710 (1824). Pelagosa grande.
Pistacia Lentiscus L. Sp. pl. Il, pag. 1026 (1753). Pelagosa srande e Pelagosa piccola.
Rhamnus Alaternus L. Sp. pl. I, pag. 193 (1753). Pelagosa grande.
Vitis vinifera L. Sp. pl. I, pas. 202 (1753). Pelagosa erande.
Medicago tribuloides Desr. ap. Lamk. Eneyel. II, pag. 635 (1789). Pelagosa grande.
M. hispida Gaertn. Fruct. II, pag. 849 (1792) var. denticulata Willd. Sp. pl. III,
pag. 1424 (1800). Pelagosa grande.
Melilotus indica AU. Fl. ped. I, pag. 308 (1785). Pelagosa erande e Pelagosa piccola.
M. elegans Salz. in D C. Prodr. II, pag. 188 (1825). Pelagosa erande.
M. officinalis Desr. in Lamk. Dict IV, pag. 63 (1797). Pelagosa grande.
Anthyllis Barba Jovis L. Sp. pl. II, pag. 720 (1753). Pelagosa piccola, della quale
sembra esclusiva in tutto il gruppo.
Lotus cytisoides L. Sp. pl. II, pag. 775 (1753). Pelagosa grande.
L. edulis L. Sp. pl. II, pag. 775 (1753). Pelagosa grande.
Coronilla valentina L. Sp. pl. II, pag. 742 (1753). Pelagosa grande.
C. Emerus L. Sp. pl. II, pag. 742 (1758). Pelagosa grande.
Vicia angustifolia AI. FI. ped. I, pag. 825 (1785). Pelagosa grande.
V. sativa L. Sp. pl. II, pag. 736 (1758). Pelagosa grande.
V. bithyrica L. Sp. pl. ed. 2°, II, pag. 1088 (1763). Pelagosa girande.
V. leucantha Biv. Stirp. rar. I, pag. 9 (1818). Pelagosa grande.
Rubus ulmifolius Schott in Iris, pag. 821 (1818). Pelagosa grande.
R. ulmifolius Schott var. dalmatinus Tratt. Mon. ros. III, pag. 38 ut var. £. fru-
ticosi (1823). Pelagosa grande.
50.
Ut dt I Ut
© 0 d S CI
n
DO =
Pyrus communis L. Sp. pl. I, pag. 479 (1753). Pelagosa grande. Il Witasek ri-
tiene questa pianta un ibrido fra il P. communis e il P. amygdaliformis. L'e-
semplare del Ginzbherger è soltanto foglifero.
Cotyledon horizontalis Guss. Ind. sem. hort. Boccad. pag. 4 (1826). Pelagosa
grande.
C. Umbilicus L. Sp. pl. I, pag. 429 (1753). Pelagosa grande.
Sedum hispanicum L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 618 (1762:. Pelagosa grande.
S. glauewm Wald. et Kit. PI. rar. Hung. II, pag. 198 (1805) var. eriocarpum
S. et S. FI. gr. prodr. I, pag. 310 (1806). Pelagosa grande.
S. album L. Sp. pl. I, pag. 432 (1753). Pelagosa grande.
S. rubens L. Sp. pl. I, pag. 482 (1753). Pelagosa grande.
Mesembryunthemum nodifior um L. Sp. pl. I, pag. 480 (1753). Pelagosa grande.
Smyrnium Olusatrum L. Sp. pl. I, pag. 262 (1753). Pelagosa grande.
Foeniculum officinale AM. FI. ped. II, pag. 25 (1785). Pelagosa grande e Pelagosa
piccola.
Crithmum maritimum L. Sp. pl. IL pag. 246 (1753). Pelagosa srande,
Ferula glauca L. Sp. pl. I, pag. 247 (1753). Pelagosa grande.
Daucus Gingidium L. Sp. pl. I, pag. 242 (1753). Pelagosa grande.
- (**)(*) D. mauritanicus L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 348 (1762). Pelagosa grande.
(*) Caucalis nodosa (L. Sp. pl. I, pag. 240 sub Tordylio [1753]) Scop. FI. carn. ed. 2°,
pag. 192 (1772). Pelagosa grande.
Rubia peregrina L. Sp. pl. I, pag. 108 (1753). Pelagosa grande.
Galium Aparine L. Sp. pl. I, pag. 108 (1753). Pelagosa grande.
Vaillantia muralis L. Sp. pl. II, pag. 1052 (1753). Pelagosa grande.
Valerianella microcarpa Loisl. Not. pl. fr. pag. 150 (1810). Pelagosa grande.
V. eriocarpa Desv. Journ. Bot., II, pag. 314 (1809). Pelagosa grande.
Senecio leucanthemifolius Poir. Voy. Bab. II, pag. 288 (1789) var. Reichenbachii
Fiori in Fi. e Bég. FI. An. d’It. III, pag. 211 (1903-04). Pelagosa grande e Pe-
lagosa piccola.
Chrysanthemum coronarium L. Sp. pl. II, pag. 890 (1753). Pelagosa grande.
Artemisia arborescens L. Sp. pl. ed. 2°, II, pag. 1188 (1763). Pelagosa grande.
Uentaurea Friderici Vis. FI. dalm. IL pag. 40, tab. 48 (1848). Pelagosa piccola, della
quale sembra esclusiva in tutto il gruppo.
C. ragusina L. Sp. pl. II, pag. 1290 (1763). Pelagosa grande e Pelagosa piccola.
Urospermum picroides (L. Sp. pl. II, pag. 790 sub 7ragopogon [1753)) F. W.
Schmidt Samml. phys. 6kon. Aufs. I, pag. 275 (1795). Pelagosa grande. Nella stessa
località si trovano insieme la var. laciniatum Vis. con la var. indivisum Vis.
Sonchus tenerrimus LI. Sp. pl. II, pag. 794 (1753). Pelagosa grande.
S. oleraceus L. Sp. pl. II, pag. 794 (1753). Pelagosa grande.
Reichardia picroides (L. Sp. pl. II, pag. 799 sub Scorzonera [1753]) Roth Bot. Abth.
pag. 35 (1785). Pelagosa grande.
Crepis bulbosa Vausch in Flora XI, I, Ergh. 78 (1818). Pelagosa grande.
Olea europaca L. Sp. pl. I, pag. 8 (1753). Pelagosa grande.
O. europaea L. var. sativa Hoffm. et Lk. Fl. port. L pag. 387 (1809-1840) pro specie.
Pelagosa grande. Coltivata ed inselvatichita.
SSIS O e
82. **, * Convolvulus Cneorum L. Sp. pl. I pag. 157 (1753). Pelagosa piccola della quale sembra
83.
Sd.
esclusiva in tutto 1l gruppo.
C. arvensis L. Sp. pl. I, pag. 157 (1753). Pelagosa grande.
Erythraea Centaurium (L. Sp. pl. I, pag. 229 sub Gentiana [1753]) Pers. Syn. I,
pag. 283 (1805). Pelagosa grande.
Cerinthe aspera Roth. Cat. I, pag. 85 (1797). Pelagosa grande.
Echium parviflorum Moench. Meth. pag. 423 (1794), Pelagosa grande.
Myosotis hispida Schl. in Ges. Naturf. Fr. Ber. Mag. VIII, pag. 230 (1814). Pe-
lagosa grande.
Heliotropium europaeum L. Sp. pl. I, pag. 130 (1753). Pelagosa srande e Pelagosa
piccola.
Hyosciamus albus L. Sp. pl. I, pag. 180 (1753). Pelagosa grande.
Lycium europaevin L. Sp. pl. I, pag. 192 (1753). Pelagosa grande.
Plantago Psyilium L. Sp. pi. IL pag. 115 (1758). Pelagosa piccola.
| RP. Coronopus L. Sp. pl. I, pag. 115 (1753) var. commutata Guss. Suppl. fl. sic.
prodr., pag. 46 (1832-34). Pelagosa grande.
Linaria commutata Bernh. ex Reich. FI. germ. exc. pag. 373 (1830). Pelagosa grande.
2 Orobanche loricata Rehb. PI. er. VII, pag. 41 (1829). Pelagosa grande.
‘2 O. Picridis F. Schultz in Ann. Gew. Regensb. pag. 504 (1830). Pelagosa grande.
O. minor Sutt. in Trans. Linn. Soc. IV, pag. 179 (1798). Pelagosa grande e Pelagosa
piccola.
Marrubium vulgare L. Sp. pl. II, pag. 583 (1758) var. apulum Ten. Prodr. FI.
nap. pag. 34 (1811). Pelagosa grande.
Prasium majus L. Sp. pl. II, pag. 601 (1758). Pelagosa grande.
Teucrium flavum L. Sp. pl. IL, pag, 565 (1753). Pelagosa grande.
T. Poliwum L. Sp. pl. II, pag. 566 (1753). Pelagosa grande.
Anagallis arvensis L. Sp. pl. I, pag. 148 (1753) var. caerulea Boiss. FI. or. IV, pag. 6
(1879). Pelagosa grande.
Statice cancellata Bernh. in exsicc. Bert. FI. it. III, pag. 525 (1837). Pelagosa grande
e Pelagosa piccola.
Obione portulacoides (L. Sp. pl, II, pag. 1033 sub Atrplex [1753]) Moq. Chen. enum.
pag. 75 (1840). Pelagosa piccola dove forma intere macchie.
Atriplex hastata L. Sp. pl. II, pag. 1053 (1753). Pelagosa grande.
Chenopodium rubrum L. Sp. pl. I, pag. 218 (1758). Pelagosa grande.
C. murale L. Sp. pl. I, pag. 219 (1753). Pelagosa grande.
C. urbicum L. Sp. pl. I, pag. 218 (1753). Pelagosa grande.
Suaeda fruticosa (L. Sp. pl. ed 2°, II, pag. 324 sub Sal/sola [ 1763]) Forsk. Fl. aesypt.
arab. pae. 70 (1775). Pelagosa grande e Pelagosa piccola.
Rumex sp. Pelagosa grande. Indeterminabile non trovandosi ancora fiorita.
Parietaria officinalis L. Sp. pl. II, pag. 1052 (1753). Forma mediterranea. Pe-
lagosa grande.
P. officinalis L. var. ramiflora Moench. Meth. pag. 327 (1794). Pelagosa grande.
Ficus carica L. Sp. pl. II, pag. 1059 (1753). Pelagosa srande.
Laurus nobilis L. Sp pl. I, pag. 869 (1753). Pelagosa grande.
Osyris alba L. Sp. pl. II, pag. 1022 (1753). Pelagosa grande.
115.
116.
JA7E
113.
119.
120.
121
la
125.
124.
125.
126.
lex
128.
129.
150.
TSE
132:
55!
134.
155.
156.
197.
158.
139:
140.
14l.
142.
143.
144.
145.
146.
147.
148.
149.
150.
— 60 —
Euphorbia Chamaesyce L. Sp. pl. L. Sp. pl. L pag. 455 (1753. Pelagosa grande.
E. spinosa L. Sp. pl. I, pag. 457 (1758). Pelagosa grande.
E. peplotdes Gouan FI. monsp. pag. 174 (1765). Pelagosa grande.
E. helioscopia L. Sp. pl. I, pag. 459 (1753). Pelagosa grande.
E. falcata L. Sp. pl. I. pag. 456 (1753). Pelagosa grande.
. Pinea L. Syst. ed. 12°, pag. 333 (1767). Pelagosa grande.
E. biglandulosa Desf. in Ann. Mus. par. XII, pag. 114 (1808). Pelagosa grande.
E. dendroides L. Sp. pl. I, pag. 462 (1753). Pelagosa grande.
Tamus communis L. Sp. pl. II, pag. 1028 (1753). Pelagosa grande.
Ruscus aculeatus L. Sp. pl. II, pag. 1041 (1753). Pelagosa grande.
Asparagus acutifoltus L. Sp. pl. I, pag. 314 (1753). Pelagosa grande.
A. officinalis L. Sp. pl. I, pag. 313 (1753) var. maritimus L. |. c. Pelagosa grande
e Pelagosa piccola.
Smilax aspera L. Sp. pl. II, pag. 1028 (1758). Pelagosa grande.
Ornithogalum Visianianum Tomm. ex Vis. in Mem. Ist. Ven. XX, pag. 76 (1876).
Pelagosa grande.
Urginea maritima (L. Sp. pl. I, pag. 308 sub .Sezlla [1753]) Baker in Journ. Linn.
Soc. XIII, pag. 221 (1873:. Pelagosa grande.
Muscari neglectum Guss. ex Ten. FL. neap. Syll. App. V, pag. 13 (1842). Pelagosa
srande.
SD
T
Allium Porrum L. Sp. pl. I, pag. 295 (1753. Pelagosa grande.
A. Ampeloprasum L. Sp. pl. I, pag. 294 (1753). Pelagosa grande.
A. Ampeloprasum L. var. atroviolaceum (Boiss.) Regel. All. Monogr. pag.
54 (1875). Pelagosa grande.
A. subhirsutum L. Sp. pl. I, pag. 295 (1753). Pelagosa grande.
Asphodeline lutea (L. Sp. pl. I, pag. 309 sub Asphodelo | 1753]) Reich. FI. germ. exc.
pag. 116 (1830). Pelagosa grande.
Asphodelus fistulosus L. Sp. pl. I, pag. 309 (1753). Pelagosa grande.
A. ramosus L. Sp. pl. I, pag. 310 (1753). Pelagosa grande.
Arum ttalicum Mill. Gard. Dict. ed. 8°, I, n. 2 (1768). Pelagosa grande.
Arisarum vulgare Varg. Tozz. in Ann. Mus. fl. II, pag. 617 (1810). Pelagosa grande.
Setaria viridis (L. Sp. pl. ed. 2°, I, pag. 83 sub Panico [1762]) P. B. Agrost. pag. 51
(1812). Pelagosa grande.
Oryzopsis miliacea Benth. et Hook. ex Asch. u. Schweinf. in Mém. Inst. éeypt. pag.
169 (1887). Pelagosa grande.
Lagurus ovatus L. Sp. pl. I, pag. 81 (1753). Pelagosa grande.
Melica Magnolii Gren. et Godr. FI. fr. HI, pag. 550 (1856). Pelagosa grande.
Schlerocloa rigida P. B. Asrost. 97 (1812). Pelagosa grande.
Briza maxima L. Sp. pl. I, pag. 70 (1753) Pelagosa grande.
Koeleria phleoides (L. Sp. pl. I, pag. 76 sub Nestuca [1753]) Pers. Syn. I, pag. 97
(1803). Pelagosa grande.
Dactylis glomerata L. Sp. pl. I, pag. 71 (1753). Pelagosa grande.
D. hispanica Roth Catal. bot. I, pag. 8 (1797). Pelagosa grande.
Vulpia ciliata Link Hort. Ber. I, pag. 147 (1822). Pelagosa grande.
Bromus matritensis L. Amoen. Acad. IV, pag. 265 (1759). Pelagosa grande.
151.
152.
153.
154.
155.
156.
157.
158.
159.
160.
(0)
SASA] pg Ca
B. villosus Forsk. FI. Aesypt. Arab. pag. 283 (1775). Pelagosa grande.
B. maximus Desf FI. Atl. I. pag. 95 (1800). Pelagosa erande.
Lolium rigidum Gaud. Agrost. Helv. I, pag. 354 (1811). Pelagosa grande.
L. siculum Par]. FI. Palerm. I, pag. 252 (1845). Pelagosa erande.
Catapodium loliaceum Link. Hort. Ber. I, pag. 45 (1822). Pelagosa grande.
Brachypodium ramosum R. et S. Syst. II pag. 788 (1817). Pelagosa grande.
B. distachywn R. et S. Syst. veg. II, pae. 741 (1817). Pelagosa grande.
Agropyrum pungens (Pers. Syn. pl. I, pag. 109 sub 7r/tco [1808]) R. et S.
Syst. veg. II, pag. 753 (1817). Pelagosa piccola.
Hordeum muripum L. Sp. pl. I, pag. 85 (1753). Pelagosa grande.
H, murinum L. var. leporinum Link. in Linnaea IX, pag. 133 (1835). Pela-
gosa grande.
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Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 9
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NUOVE RICERCHE
SUL
POTENZIALE DI SCARICA NEL CAMPO MAGNETICO
MEMORIA
DEL
PROF. SEN. AUGUSTO RIGHI
letta nella seduta del 26 Marzo 1911
(con 14 FIGURE).
1. Complementi alle esperienze relative alle rarefazioni medie.
In una precedente pubblicazione (1) ho studiato l’influenza del campo magnetico sulla
differenza di potenziale necessaria perchè abbia luogo la scarica nell’aria a rarefazione
media (pressione di qualche decimo di millimetro), e con elettrodi in forma di dischi pa-
ralleli fra loro. I risultati delle mie numerosissime misure furono rappresentati mediante
certe curve, aventi per ascisse le intensità del campo magnetico e per ordinate i valori
del potenziale di scarica.
Queste curve danno una chiara idea degli effetti dovuti al campo, ed in particolare
mostrano in quali circostanze la creazione del campo magnetico faccia comparire la sca-
rica, se prima non esisteva, o la faccia cessare se prima aveva luogo. Le curve stesse
mostrano pure l’esistenza di un campo optimum. cioè di un valore particolare di esso a
cui corrisponde il minimo potenziale di scarica; fatto questo non privo d’importanza, e che
il Sig. Bloch (2) ha pienamente confermato.
Nel citato lavoro mì limitai, oltre che ad un certo ordine di grandezza della rarefa-
zione, anche a valori piccoli della distanza fra un elettrodo e l’ altro. Alcune delle nuove
esperienze, e precisamente quelle di cui rendo conto in questo primo paragrafo, si riferi-
scono particolarmente al caso in cui la distanza fra gli elettrodi supera la distanza cri-
tica. La disposizione sperimentale addottata è quella stessa delle prime esperienze, salvo
qualche modificazione di dettaglio.
Poichè le esperienze precedenti avevano mostrato, che in certi casi il campo deter-
mina un aumento del potenziale di scarica anzichè una diminuzione, ho pensato che, se
(1) Rend. della R. Ace. di Bologna, 29 maggio 1910.
(2) Le Radium, Février 1911, pag. 52,
Sg n
con elettrodi a distanza reciproca maggiore della distanza critica non avevo constatato
nessun fenomeno degno di nota, ciò poteva provenire dal fatto, che per le distanzi grandi
mi ero limitato a ricercare, se il campo magnetico determinasse una diminuzione del poten-
ziale di scarica.
Rimaneva quindi da investigare, se per le grandi distanze fra gii elettrodi si verifi-
casse invece un aumento di potenziale di scarica per opera del magnetismo.
Le esperienze eseguite in proposito hanno dimostrato, che in realtà così realmente
accade.
Ho impiegato all’ uopo quello stesso tubo, con elettrodi aventi la forma di dischi pa-
ralleli, uno dei quali mobile a piacere, con cui furono fatte le più antiche mie esperienze,
ed ho misurato il potenziale di scarica per vari valori della distanza fra gli elettrodi e,
per ciascuna distanza, sotto l’ azione di campi più o meno intensi; e tutto ciò nei due casì
in cui i due dischi sono o perpendicolari o paralleli alla forza magnetica.
La pressione dell’ aria nel tubo, che conservo chiuso da tempo, è di 0,68 mm.
A
5
3
——S
mi
500 1000 1909 2009 2500
300 1000 i500
2000
Fig. 2.
I seguenti risultati numerici, raccolti con varie serie abbastanza complete di misure,
mostrano l’andamento dei fenomeni, che meglio ancora si rileva osservando le fig. 1 e 2.
In queste tabelle le colonne C contengono i valori del campo magnetico in gauss;
quelle segnate P danno in volta i valori del potenziale di scarica.
Alcuni schiarimenti sono necessari relativamente al tracciato delle curve. Queste sono
distinte in ciascuna delle fig. 1 e 2 colle lettere da A ad £, corrispondentemente ai cinque
DISCHI PERPENDICOLARI
TRA e
AL CAMPO MAGNETICO.
Dist. in mm.
fra gli elet. = =8 = Hb
=108
E PROC IEP CINVPAESO?T p Cl SE
0 | 450 0 | 400 0 | 350 0|370 0 | 430
384|400| 38|396| 346|346| 307|366| 346 |428|
500/392] 192|390| 576|345|1640|370|1200|432
1023|400| 346 386|1200|352|2535|380]|2010|436
1680|428| 884|385|2400|370 2585 | 440
2460 | 480 | 2386 | 390
a ui |
DISCHI PARALLELI AL CAMPO MAGNETICO.
Dist. in mm.
fra gli elet. =|l = 10= =
05
GERE CP CIA IZ RO 2 GP
0 | 450 0 | 400 0 | 350 0|370 0 | 430
26440) 102|360| 225|352| 225374] 153|454
50|420| 883 |276| 714|440| 476|470| 422|640
102 |585|1023|270]|1330|540| 861|580| 570|740
450 | 270|1545|250]|1730|660|1253|680
524 |392|2440|236|1972!740]|1545|780
714420 |
861 | 440 |
1600 | 490 |
e TORE
ralori da 0,3 mm. a 15 mm. dati alla distanza fra gli elettrodi. Le curve A e B si rife-
riscono dunque a casi di distanze minori della distanza critica, giacchè questa era di circa
6 mm. Sono dunque soltanto le curve C, D, £ che corrispondono ailo scopo delle espe-
rienze, cui il presente paragrafo è dedicato.
Molte altre serie di misure sono state fatte nelle medesime condizioni con risultati
molto concordanti, ed ho tenuto sott'occhio le relative curve quando ho tracciato quelle
delle fig. 1 e 2. Ciò mi è stato assai utile, ogni volta che i punti determinati sperimen-
talmente riescivano in una data curva troppo lontani l’ uno dall’ altro.
Dall'esame delle curve C, D, E si vede subito, come l’effetto dominante del campo
è un aumento del potenziale di scarica. Tale effetto è particolarmente marcato nel caso
della fig. 2, cioè nel caso in cui il tubo è collocato in modo, che gli elettrodi siano pa-
ralleli alle linee di forze magnetiche.
È evidente la difficoltà che s’incontrerebbe, qualora sì volesse render conto in dettaglio
di questi fenomeni colla teoria generalmente ammessa.
2. La spiegazione finora ammessa, e la nuova spiegazione proposta.
Si è finora cercato di dar ragione dell’influenza del campo magnetico sul potenziale
di scarica ricorrendo al cambiamento di forma delle traiettorie percorse dagli elettroni.
Tale spiegazione a me sembra insufflciente per varie ragioni.
In primo luogo, nei casi di debole rarefazione essendo assai piccolo il libero cammino
medio degli elettroni, l’azione del campo tendente a modificare il loro movimento fra un
urto e l’altro deve verosimilmente produrre effetti poco marcati; ed in ogni modo non si
vede come si possa arrivare a rendere conto degli effetti constatati, e particolarmente
delle diminuzioni e degli aumenti del potenziale di scarica, che si manifestano spesso qua-
lungque sia l'inclinazione reciproca fra le linee di forza elettrica e quelle del campo ma-
gnetico.
Infine è da osservare, che per render conto dei casi nei quali con una differenza di
potenziale inferiore a quella necessaria per la scarica, questa si manifesta non appena si
crea il campo magnetico, l’ordinaria teoria presuppone che anche prima della creazione del
campo esista un passaggio inosservato di elettricità nel tubo di scarica. Ora, non solo ciò
non è molto verosimile, ma tutti quelli che hanno voluto mettere in chiaro l’esisienza di
tale corrente preesistente all’azione del campo, hanno ottenuto risultati negativi, come
rilevai già nel precedente lavoro.
Essendo questo fatto di capitale importanza ho voluto esaminarlo io pure sino dal-
l’inizio deile nuove ricerche, ed ho effettuato per ciò |’ esperienza seguente.
Messo uno degli elettrodi del tubo in comunicazione con un sensibilissimo elettrometro
a quadranti (e momentaneamente col suolo), ho fatto comunicare l’altro elettrodo attra-
verso la solita resistenza liquida (destinata ad evitare i danni di correnti troppo intense)
con uno dei poli della batteria di piccoli accumulatori, della quale l’altro polo era in co-
municazione col suolo. Togliendo la comunicazione dell’elettrometro colla terra non ho mai
osservata la più piccola deviazione, ben inteso essendo il potenziale della batteria minore
gia
del potenziale di scarica. Volendo rimanere nel campo dei fatti bisogna quindi convenire,
che non v'è nel tubo nessun sensibile passaggio di elettricità.
Questa constatazione, da me fatta più e più volte in condizioni svariatissime, e che
si accorda con analoghe precedenti osservazioni d'altri fisici, mette nell’ alternativa, o di
completare, se non abbandonare, l’ ordinaria teoria, oppure di ostinarsi ad ammettere un
passaggio di elettricità anche prima dell’azione del magnetismo, benchè di tale passaggio
non si riesca a dare la dimostrazione sperimentale.
Non bisogna però dimenticare ciò che ho asserito nel precedente lavoro, e cioè che nel-
l’atto in cui il tubo viene incluso nel circuito si ha una corrente di breve durata, che è
rivelata dal galvanometro, se questo istrumento è inserito in una delle comunicazioni fra
il tubo e la batteria, e che ha per effetto, a quanto penso, di produrre un accumulo di
ioni positivi presso il catodo e di ioni negativi presso l’anodo. Mentre dunque non esiste
ancora una corrente durevole nel tubo, ai cui elettrodi è applicata una differenza di po-
tenziale inferiore a quella necessaria per la scarica, il tubo stesso si trova nondimeno in
condizioni diverse da quelle in cui si trovava prima d’essere messo in circuito. Tornerò
più avanti su questo fatto, che mi sembra intimamente connesso cogli effetti prodotti dal
magnetismo.
Non avendo fede nell’ ordinaria teoria ho voluto esaminare se l’ipotesi, già messa
avanti nella precedente Nota, secondo la quale il campo magnetico sarebbe in certe cir-
costanze causa di ionizzazione, si prestasse abbastanza bene alla spiegazione dei fenomeni.
Una tale ipotesi non mi sembra priva di fondamento. Infatti, nello stesso modo che
il campo magnetico sotto certe condizioni aumenta o diminuisce la stabilità delle coppie
neutre elettrone-ione positivo, da me ideate per rendere conto dei fenomeni presentati dai
raggi magnetici (o magneto-catodici), esso modificherà in modo analogo le traiettorie per-
corse dagli elettroni che fanno parte della struttura degli atomi, allargandole se il campo
agisce in direzione opportuna. Un esempio gioverà alla chiarezza.
Si consideri in un atomo un elettrone che si muova circolarmente, e si crei un campo
magnetico perpendicolare al piano della traiettoria e diretto in modo, che la forza elet-
tromagnetica agente sull’elettrone in moto risulti diretta dal centro della traiettoria stessa
verso l’esterno. Tale torza tenderà evidentemente ad allontanare l’ elettrone, e se avrà
intensità sufficiente potrà, se non liberarlo, almeno permettergli di separarsi alla più lieve
perturbazione esterna. Un campo elettrico, che esista simultaneamente al campo magnetico,
potrà agevolare questo risultato, a meno che non si verifichi il caso particolare che la
forza elettrica tenda a spingere l’ elettrone verso l’ atomo.
Non ho affatto la pretesa di ritenere, che i fatti già noti, e quelli che qui andrò de-
scrivendo, forniscano la dimostrazione della verità contenuta in quell’ipotesi; ma credo
che essì presentino un soddisfacente accordo colle conseguenze da essa tratte. In ogni
modo l’ipotesi stessa è stata per me l’ispiratrice delle nuove ricerche.
Poichè l’accumularsi di ioni presso gli elettrodi, di cui ho fatto cenno più sopra, crea
in vicinanza della loro superficie un campo elettrico, mentre nelle altre regioni del tubo
il campo stesso è piccolissimo o nullo, mi sembra verosimile che là appunto il campo ma-
EER VALI
gnetico debba principalmente manifestare la sua azione ionizzatrice. Ma è sopratutto presso
il catodo che la supposta magnetoionizzazione tende a provocare la scarica durevole nel
tubo Infatti gli elettroni creati in tal modo, o almeno quelli di essi che sfuggono ad una
immediata neutralizzazione per l’incontro d’un ione positivo, acquisteranno presto una ve-
locità considerevole; quelli invece che si creano per magnetoionizzazione presso l’ anodo sa-
ranno tosto da questo assorbiti, senza cooperare ad iniziare la scarica.
Avendo adottato in via di tentativo questo punto di vista, diveniva necessario assicu-
rarsi anche meglio dell’esistenza di quegli strati di ioni, e rendersi conto per quanto è
possibile del modo con cui si producono e degli effetti ai quali possono dar luogo
3. Corrente 0 scarica di polarizzazione.
La produzione di ioni, che permangono nel tubo finchè esista fra gli elettrodi una
differenza di potenziale minore del potenziale di scarica, fu da me desunta dalla constata-
zione della corrente di breve durata, che si manifesta nell’atto di stabilire le comunica-
zioni fra tubo e accumulatori, non che dai caratteri che tale corrente presenta.
Tali caratteri sono i seguenti. Interrotto il circuito per un istante brevissimo e chiu-
dendolo di nuovo quella corrente non si riproduce; ma essa si ottiene di nuovo se la du
rata dell’interruzione non fu molto breve, e tanto più intensa quanto più durò 1’ interru-
zione stessa. Infine, invertendo le comunicazioni fra tubo e sorgente elettrica si ha una
corrente assai più intensa che colla semplice chiusura del circuito.
Mi pare, che per spiegare questi fenomeni si debba ragionare nel modo seguente. I
pochissimi elettroni liberi eventualmente contenuti nel gas e quelli che possono essere
emessi spontaneamente dal catodo iniziano, allorchè il circuito vien chiuso, il noto pro-
cesso della scarica ionizzando per urto le molecole. Quelli fra i ioni positivi in tal modo
creati, che non si neutralizzano con elettroni, sì portano verso il catodo, mentre gli elet-
troni, ed i ioni negativi (prodotti dall’upirsi di elettroni ad atomi neutri) si portano al-
l’anodo. Con ciò il campo elettrico, mentre cresce presso gli elettrodi, diminuisce nel gas
e finisce coll’ annullarsi, con sospensione d’ ogni ulteriore fenomeno, se la differenza di
potenziale fra gli elettrodi è abbastanza piccola. Il passaggio della corrente rimane dunque
prontamente sospeso.
Le condizioni degli elettrodi del tubo sono allora, sotto un certo aspetto, analoghe a
quelle di elettrodi immersi in un elettrolita e polarizzati da una corrente. Bisogna aspet-
tarsi dunque, che il tubo dia una corrente di polarizzazione quando, avendo tolto le co-
municazioni fra la batteria d’ accumulatori e gli elettrodi, si fanno questi ultimi comuni-
care con un sensibile galvanometro. Ciò infatti si osserva.
Questa corrente o, forse meglio, scarica di popolarizzazione ha una brevissima durata,
e la sua intensità integrale, cioè la quantità d’elettricità che la costituisce, dipende natu-
ralmente: 1° dal tempo 4, durante il quale il tubo rimase in comunicazione colla batteria,
2° dal tempo £ durante il quale il tubo rimase isolato prima di essere messo in comuni-
cazione col galvanometro.
Conservando a Z un valore costante la deviazione galvanometrica è risultata quasi
indipendentemente da #.
DIAGOE
Per esempio in un caso, per £, eguale a
1-15 — 60
secondi, la deviazione fu rispettivamente:
24 — 25 — 25,8
millimetri della scala galvanometrica (1).
Si vede così quanto sia rapida la formazione degli strati di ioni sugli elettrodi, e si può
praticamente ammettere che con &= 30 secondi la polarizzazione degli elettroni sia completa.
D'altra parte lo sparire della polarizzazione dopo aver isolati gli elettrodi è invece
lenta e graduale, mentre è praticamente istantanea, se si stabilisce una comunicazione
metallica fra gli elettrodi.
Per avere una idea della velocità con cui spontaneamente si attenua ad elettrodi iso-
lati la quantità di ioni accumulati basta misurare ripetutamente la corrente di polarizza-
zione, dopo che il tubo è rimasto isolato per un tempo più o meno lungo. Ecco i risultati
20
to” 307 60° 120”
ale x
RT
ottenuti in una fra le molte serie di misure da me eseguite. Adoperai un tubo (che sarà
descritto più avanti) avente un catodo costituito da una lamina di alluminio cilindrica ap-
plicata contro la parete interna del tubo, ed un anodo cilindrico esso pure e concentrico.
Al tempo # si diedero successivamente i valori numerici (in secondi) notati nella prima
linea della seguente tabella; la seconda linea contiene le corrispondenti deviazioni d otte-
nute al galvanometro. Il tempo #, fu costantemente 30”.
La pressione dell’aria nel tubo era un centesimo di millimetro; la batteria dava
2450 volta.
La curva della fig. 3, che fu disegnata prendendo £ come ascissa e d come ordinata,
— 10
(1) Ogni millimetro corrisponde ad una corrente costante di 4,75. 10 ampère.
Serie VI. Tomo .VIII. 1910-11. 10
SIA ATI) PT
mostra a colpo d'occhio come la provvista di ioni nel tubo diminuisca dapprima rapida-
mente, poi in modo di più in più lento. Curve di andamento simile ottenni sempre con
tubi di forme e in condizioni svariate.
Il graduale distruggersi degli strati di ioni avvolgenti gli elettrodi ha luogo verosi-
milmente per via di neutralizzazioni reciproche fra essi, e sopratutto fra essi e gli elet-
irodi. Era dunque da prevedere che un campo magnetico influisse su questo fenomeno, per
esempio, secondo ia teoria ammessa, in causa del mutar di forma delle traiettorie degli
elettroni.
Apposite esperienze all’ uopo istituite confermano la previsione. Per esse adoperai un
inversore a pozzetti di mercurio ben isolati (1), col quale era possibile far comunicare i
due elettrodi del tubo, ora coi poli degli accumulatori, ora coi serrafili del galvanometro.
Generalmente tenevo per mezzo minuto primo il tubo in connessione colla batteria, poi lo
isolavo per 10 secondi prima di farlo comunicare collo strumento di misura, il quale colla
sua deviazione misurava la quantità di ioni ancora esistenti. Durante quell’ intervallo di 10,
ora il campo non esisteva, ora invece era in azione. In questo secondo caso ottenni sempre
una deviazione minore.
Reco come esempio alcune misure fatte con un tubo cilindrico avente come elettrodi
due dischi perpendicolari all’ asse del tubo, ed il cui diametro è poco minore di quello
del tubo stesso. La loro distanza è circa 2 centimetri, e l’aria ha la pressione di circa
un cinquantesimo di millimetro. Un campo di 3540 gauss poteva crearsi al momento op-
portuno.
Orbene, senza campo magnetico la deviazione era 23,9; facendo agire il campo, la
deviazione era invece 6,9.
Esperienze simili furono fatte successivamente con cinque tubi di forme assai differenti
e con svariate pressioni dell’aria interna, ed il risultato, non sempre così accentuato come
nel caso riferito, fu sostanzialmente il medesimo, e cioè constatai sempre che il campo
accelerava la neutralizzazione dei ioni entro il tubo. Anche dopo aver fatto ruotare di 90°
la direzione del campo magnetico constatai la diminuzione della deviazione galvano-
metrica.
Ammesso che un tal risultato sia generale, esso è spesso in disaccordo colla previ-
sione basata sulle deviazioni prodotte dal campo sugli elettroni in moto, giacchè in certi
casi quelle deviazioni dovrebbero ostacolare la neutralizzazione delle cariche. Invece si
spiega bene l’accelerarsi della scomparsa dei ioni per opera del campo magnetico, se si
ammette la nuova ipotesi proposta, e cioè una ionizzazione prodotta dal campo, particolar-
mente efficace in prossimità del catodo.
(1) In tutte le esperienze, in cui s' impiegano molti accumulatori e un sensibile galvanometro o
elettrometro, è indispensabile il più accurato isolamento di quei conduttori, che non devono comunicare
colla terra In particolare è necessario rivestire a caldo con cera lacca la superficie esterna del tubo
all’intorno dei punti da cui escono i conduttori comunicanti coi due: elettrodi.
ADE RS
4. Circostanze che influiscono sul potenziale di scarica.
Volendo istituire le ricerche su tubi a rarefazione piuttosto grande ne ho dapprima
adoperato uno della forma ordinaria, cioè munito di elettrodi paralleli di forma circolare
e più o meno lontani l’ uno dall’ altro, collocato fra i poli dell’ elettro calamita di Ruhmkorff,
ora in modo che i dischi fossero normali alla direzione del campo, ora disponendoli pa-
rallelamente a questa direzione.
Constatai subito che, anche a rarefazioni assai grandi, il campo magnetico in certi
casì fa diminuire il potenziale di scarica e in altri lo fa aumentare; ma pur vincendo le
difficoltà altravolte segnalate, ebbi grande irregolarità nei risultati numerici. Accadeva poi
non di rado ed in modo più pronunciato che colle minori rarefazioni il noto fenomeno, che
una volta iniziata la scarica in determinate condizioni, essa perdurava anche se le condi-
zioni stesse venivano poscia modificate in guisa da richiedersi per l’iniziarsi di essa una
differenza di potenziale di gran lunga maggiore di quella effettivamente applicata. Poi
mi accorsi, che tale fenomeno si modificava spesso toccando per un momento col dito
l’esterno del tubo, o avvicinandovi dei conduttori, o rendendo più o meno buona la pro-
prietà isolatrice della superficie esterna del tubo di vetro. Inoltre constatai, che i fenomeni
mutavano alquanto allorchè, pur non facendo variare la differenza di potenziale, si modi-
HJ 5
Fig. 4.
ficava il valore assoluto del potenziale di ciascun elettrodo, per esempio mettendo in comu-
nicazione col suolo ora l’uno ora l’altro dei poli della batteria di accumulatori. —
Tutto ciò indicava la formazione di cariche elettriche sulla parete del tubo, le quali
cariche subivano naturalmente delle modificazioni per la presenza dei conduttori circostanti.
Avendo infatti resa conduttrice la superficie esterna del tubo coll’incollarvi una foglia di
stagno, che poi tenni in comunicazione col suolo, le irregolarità e le incertezze sparirono,
pur restando l’influenza dei valori assoluti del potenziale. Per studiare questo fenomeno
diedi al tubo di scarica la forma indicata dalla fig. 4.
Il tubo è cilindrico, e porta come elettrodi A, B due dischetti d’ alluminio perpendico-
lari al suo asse e lontani circa 15 centimetri l’ uno dall’ altro. Essendo il diametro esterno
del tubo poco minore di quello del foro praticato nei nuclei di ferro dei due rocchetti,
esso può esservi facilmente introdotto. E siccome l’elettrocalamita è mobile su due guide
parallele all’asse dei rocchetti, sì può far in modo, che uno degli elettrodi si trovi in mezzo
al campo magnetico, mentre l’altro sta allora entro uno dei rocchetti a metà della sua
lunghezza. Con tale disposizione il secondo elettrodo è praticamente sottratto all’azione
dei campo, almeno finchè la corrente magnetizzante non è molto intensa.
Per rendermi esatto conto di questa circostanza ho creduto necessario di misurare
l’intensità del campo magnetico per varie intensità della corrente magnetizzante, sia nel
Ao
punto di mezzo della distanza (circa 5 centimetri) fra le faccie polari dei rocchetti, sia a
metà lunghezza nell'interno d’ ognuno di questi, per mezzo d’ un piccolo rocchetto collegato
ad un galvanometro balistico. Ecco il risultato di queste misure.
Ticdsa Campo magnetico in gauss
pe SE i entro | sai entro
DO A Gel e
1 0 563 0
2 0 1126 —
| 4 — 1931 0
to) cs 3018 —
12 — 4064 Ti
14 48 4450 0
16 IRIS 4829 88
20 394 5478 338
2955) 650 5955 650
La non eguaglianza e l'andamento irregolare dei numeri della 2° e 4° colonna sono
verosimilmente dovuti ad eterogeneità nel ferro dei due nuclei.
Per le esperienze seguenti l’ elettrodo A del tubo si trovava nel mezzo del campo fra
i poli, mentre l'elettrodo 2 si trovava entro il rocchetto di destra. Inoltre per le ragioni
dette, il tubo era esternamente rivestito con foglia metallica comunicante col suolo.
Colla disposizione descritta è facile mettere in evidenza l’ influenza esercitata dal valore
assoluto del potenziale dei due elettrodi, come pure l'influenza del segno della loro ca-
rica, ed ecco una serie di misure, durante le quali la pressione dell’aria nel tubo era di
0,02 mm.
La differenza di potenziale V applicata agli elettrodi, circa 3000 volta, era assai infe-
riore al potenziale di scarica.
Cambiando le comunicazioni e mettendo a terra uno dei poli della batteria, si pote-
vano realizzare i quattro casi seguenti:
l. Potenziale di A= + V; potenziale di B=0.
23 » Di : » » = o.
5)
0Ì » DRIVE: » »_=0.
4. » » AO 3 » È » 2 — V.
Re
Orbene, mentre perchè si stabilisse. nel tubo la corrente (rivelata dalla brusca e per-
manente deviazione del galvanometro incluso nel circuito) nei casi 2, 3 e 4 occorreva un
campo magnetico di oltre 5000 gauss, bastava un campo di 1250 nel caso 1 (1).
Lasciando in disparte i casi 2 e 4, nei quali, per essere a potenziale zero tanto l’ elet-
trodo A che il rivestimento esterno del tubo, il campo elettrico intorno all’ elettrodo A non
può avere che una intensità debolissima, resta rimarchevole la differenza fra 1 casi 1 e 3.
Essa può essere attribuita principalmente a queste due circostanze, e cioè 1° al fatto
che nel caso 1 funziona come catodo la parete intorno ad A, e cioè si ha in certo modo
b)
un catodo che avvolge e circonda | anodo A, mentre nel caso 2 avviene l’ opposto; 2° ad
una diversità di comportamento fra catodi di diverse sostanze.
Contro questa influenza della natura del corpo, su cui vanno a terminare le linee di
forza elettrica, parla l’ esperienza seguente. Un tubo simile a quello della fig. 4, il quale
però in luogo del rivestimento metallico esterno ne ha uno interno, costituito da una la-
minetta d’alluminio piegata a cilindro, applicata contro la parete del tubo e coinunicante
col suolo, dà sostanzialmente gli stessi risultati or ora descritti.
Tuttavia, non parendomi da escludere a priori una qualche influenza della natura del
catodo, o generalmente dei corpi che, ricevendo linee di forza, possono come tali compor-
tarsi entro un tubo di scarica, ho creduto bene istituire ricerche speciali col tubo, di cui
la fig. 5 mostra la sezione trasversale. In questo tubo (diametro circa 4 cent.) il catodo è
costituito da una lamina cilindrica di alluminio © applicata contro la sua parete interna,
mentre l’anodo è una lastra rettangolare A (3 c. per 1,7 c.). Questa lastra è eccentrica,
onde lasciar posto ad un’altra Z ad essa parallela lunga 5 c. e larga 1,2 c. costituita da
due lamine sovrapposte, una d’ alluminio e l’altra di diversa sostanza p. es. di piombo.
Questa doppia lamina Z può girare intorno ad un asse parallelo all’asse del tubo, ed es-
sere disposta in modo da presentare all’anodo A ora la faccia di allumimo ora quella di
piombo, essendo a tal uopo fissata ad un giunto smerigliato.
Nell’ esperienza eseguita 1’ aria nel tubo aveva la pressione di 0,012 mm., la batteria
forniva agli elettrodi una differenza di potenziale di 1780 volta, e al momento opportuno
(1) Questa ed alcune delle esperienze che deseriverò più oltre furono già concisamente descritte
altrove (Comp. Rend. 30 Janvier 1911).
RES Gs
sì creava un campo di circa 2500 gauss diretto come la freccia della fig. 5. Ecco ciò che
ho osservato
Mentre senza campo la corrente non si stabiliva nel tubo, la corrente stessa non si
iniziava neppure col campo, se verso l’ anodo era rivolta la faccia d’ alluminio della doppia
lamina Z. Ma se verso l’anodo era rivolto il piombo la corrente si produceva. Lasciando
poi sussistere il campo e facendo girare la doppia lamina in modo continuo, la corrente
cessava ogni volta che all’anodo si volgeva la faccia d’ alluminio, per ristabilirsi quando
invece era il piombo che riceveva dall’anodo delle linee di forza elettrica.
Col platino al posto del piombo ho avuto un risultato analogo, ma assai meno pro-
nunciato, mentre che con vetro, argento, rame, ottone, zinco e bismuto non ho ottenuto
risultati sicuri.
Mentre dunque la differenza fra i casi 1 e 3 precedenti è principalmente dovuta alla
forma dei due elettrodi, sussiste certamente almeno pel piombo una certa attitudine a fa-
vorire la scarica, quando su di esso vanno a terminare delle linee di forza elettrica. Il
fatto potrebbe ascriversi a traccie di radioattività, o a maggior tendenza ad emettere
elettroni sotto l’azione della forza elettrica. In ogni modo si tratta d'un fenomeno proba-
bilmente estraneo a quelli studiati nel presente lavoro.
Si potrebbe ancora pensare, che il modo leggermente diverso di comportarsi fra catodi
di diversa natura fosse legato ad una diversa facilità di lasciare uscire i gas occlusi.
Questa idea, che forse meriterebbe qualche considerazione, è suggerita dal fatto seguente
da me molte volte constatato. Se si determina il valore del potenziale di scarica per un
dato tubo, e poi coi noti metodi (ulteriore rarefazione accompagnata dal passaggio d’ una
corrente nel tubo) si cerca di sottrarre agli elettrodi i gas aderenti o occlusi, e, ridotta
la pressione al valor primitivo sì rinnova la misura, si trova sempre un notevole aumento
del potenziale di scarica.
Dalle descritte esperienze si trae l’ impressione che, se davvero il campo magnetico
può ionizzare il gas, ciò principalmente avviene presso il catodo, ciò che si accorda con
quanto fu detto nel $ 2. Con ciò non resta escluso, che la magnetoionizzazione si produca
anche altrove, ed è anzi per chiarire questo punto che furono istituite esperienze, che sa-
ranno descritte più avanti.
5. Misure del potenziale di scarica nel campo magnetico in casì di grande rare-
fazione.
Visti gl’ inconvenienti prodotti dal vetro delle pareti del tubo, ho dovuto adottare, per
eseguire una serie sistematica di misure, dei tubi, nei quali uno degli elettrodi è costi-
tuito da una lamina metallica applicata alla parete. La fig. 6 mostra un simile tubo, col
quale ho potuto fare molte e concordanti determinazioni.
Mentre uno degli elettrodi è costituito dalla lamina cilindrica BCDE (altezza del ci-
lindro 10 cent. diametro 3,5), l’altro è una lamina piana A (3 cent. per 1,7). Il tubo può
essere girato intorno al proprio asse, e quindi essere colloccato in guisa, che l’elettrodo A
sia o parallelo o perpendicolare alla direzione, indicata dalle freccie nella figura, del campo
magnetico.
— mae
In causa della differenza di forma fra i due elettrodi, e della circostanza che |’ elet-
trodo A non ha forma di rivoluzione coassiale al tubo, si dovranno esaminare quattro casi
diversi. Infatti, per ciascuna delle due orientazioni principali della lastra A, questa può
essere anodo o catodo. i
L'effetto prodotto dal campo magnetico è differente nei quattro casi. Si hanno cioè
quattro diverse curve rappresentatrici del fenomeno, costruite nel solido modo, cioè pren-
dendo per ascissa il campo e per ordinata il corrispondente potenziale di scarica. In un
Fig. 6.
gruppo di misure coll’aria a 0,056 mm. di pressione ho raccolto i dati della tabella pag. 76.
La disposizione dei numeri in questa tabella è differente da quella delle tabelle ripor-
tate n°l $ 1, e cioè proviene dall'avere alcun poco modificato il metodo delle misure. An-
zichè, come in passato, dare al campo magnetico un determinato valore e poi aumentare
d'una unità per volta il numero degli accumulaiori sino ad avere la scarica, mi sono per- }
suaso che vi è vantaggio a fare l'inverso, e cioè dare un determinato valore al potenziale ‘
fornito dalla batteria, e poi far variare lentamente l'intensità del campo magnetico (per,
mezzo di reostati a corsoio inseriti nel circuito della corrente magnetizzante) sinchè la scarica
sì produca (1).
Così nel caso della prima delle misure registrate in detta tabella, precedente, dopo aver
dato alla differenza di potenziale il valore di 330 volta, feci crescere il campo gradata-
(1) Ho trascurato sempre le scariche momentanee, che qualche volta precedono lo stabilirsi della
scarica permanente.
i
È
E AU
mente a partire da zero sinchè, arrivato a 153 gauss, la corrente bruscamente si produsse.
Siccome però in molti casi ad uno stesso valore del potenziale di scarica possono cor-
rispondere valori diversi (due e qualche volta tre) del campo magnetico così, dopo quella
prima determinazione, occorreva cercare se esistevano altri valori del campo. Perciò diedi
a questo un alto valore, per esempio 2000 gauss, e visto che la corrente non passava, lo
feci gradatamente diminuire. Arrivando a 430 gauss la corrente di nuovo si produsse. E
siccome da 2000 gauss in più non si ebbe corrente, così conclusi, che a 330 volta corrispon-
dono i valori 153 e 480 gauss del campo, come pure che v'è corrente nel tubo solo se il
campo magnetico ha un valore compreso fra questi due limiti.
Se per un certo valore del campo maggiore di 480 gauss si fosse nuovamente stabi-
lito il passaggio della corrente nel tubo, avrei dovuto registrare nel quadro questo terzo
valore. È assai probabile che in qualche caso il non aver trovato un terzo valore si debba
Lastra A + Lastra A_—
perpendic. al campo parallela al campo perpendic. al campo parallela al campo
TO) C JO C JO C de C
153 440 422 \ 76 580 —_
300 380
(430 5388 Î 254 630 0
450
\ IZ 450 38 640 ST
400 500
603 229 © LU 690 1593
350
76 1370 13 695 2474
610 550
1447 216 [ 383 700 5478
590
61 Î 1880 620 396 D
650
1750 152 850 643
660
| 61 2585 1050 947
| 700 |
ea Se 750 IAT 1410 1690
i 840 13 845 Ji0/2: 1720 3307
| 3175 930 (N 1830 5196
A B C |
Di Sar e
a ciò, che per trovarlo sarebbe stato necessario realizzare campi di molto grande in-
tensità.
Alle quattro serie di misure della precedente tabella, distinte colle lettere A, £, C, D,
corrispondono ordinatamente le curve segnate colle stesse lettere nella fig. 7.
I’ andamento delle tre prime somiglia assai a quello di molte delle curve del caso di
media rarefazione, mentre l’ andamento della D (catodo piano perpendicolare al campo) è
assai differente, in quanto che con potenziali minori del potenziale di scarica ordinario (cioè
senza campo) il campo magnetico non produsse effetto sensibile, e fu necessario ricorrere
\o00
ur
1000 2000 zocu
Fig. 7.
a potenziali più elevati per constatare un effetto, e precisamente riconoscere che il campo
fa aumentare il potenziale necessario alla produzione della corrente.
6. Esperienze con tubi aventi elettrodi di forme varie.
Sia secondo l’ ordinaria spiegazione, sia secondo la nuova, che serve a completare la
prima, la forma degli elettrodi deve esercitare una considerevole influenza sull'andamento
cdlei fenomeni.
Infatti, è in tubi diversi necessariamente differente la distribuzione e forma delle linee
di forza come pure l’ intensità del campo elettrico presso i vari punti della superficie del
catodo. Nou era dunque senza interesse l’ istituire misure analoghe a quelle del paragrafo
precedente, con tubi aventi elettrodi di svariate forme e variamente disposti. Mi limiterò
quì a recare tre esempi.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11, Il
POR ce
a) Il tubo di scarica è rappresentato dalla fig. 8, e contiene aria a 0,03 mm. di
pressione. Uno degli elettrodi B consiste in un tubo d'alluminio applicato contro la parete,
mentre l’altro A è un cilindro dello stesso metallo lungo 5 centimetri circa e grosso mezzo
centimetro. Nelle due prime serie di misure il tubo fu introdotto nei nuclei dell’ elettroca-
mita, in modo che il campo magnetico, per tal modo diretto nel senso del suo asse,
agisce quasi esclusivamente sulla porzione del tubo corrispondente all’ elettrodo A Le faccie
polari dell’ elettrocalamita arrivavano infatti in M ed N. Nelle altre due serie di misure il
tubo era collocato trasversalmente al campo, e cioè questo aveva la direzione della
freccia F.
La tabella seguente porge i risultati numerici ottenuti, coì quali ho poi disegnate le
curve della fig. 9 (1).
Campo parallelo al cilindro A Campo perpendicolare al ciliudro A
A positivo A negativo A positivo A negativo
TE O P G PEC P 0;
\ 362 744
200 482 390 Î 660 1030 0
483 2240
450 181 1400 45
560 483
865 180 470 840 1750 80
543 4490
1300 151 2600 180
(362
1760 151 950 2160 39 3300 271
| 1527 Li
2650 150 2880 S92
360
3400 153 1310 | È
2493
4300 51
DOT
ò 1770
3881
DION
1850
4143
B
(1) Per economia di spazio non compaiono nella figura quelle porzioni di curva che corrispondono
ai più grandi valori del campo e del potenziale.
O DE
Per distinguere le curve della fig. 9 ho segnato presso di esse le stesse lettere, che
nella precedente tabella designano le varie serie di misure.
Avrò occasione più avanti di mostrare la curva 8 ottenuta collo stesso tubo con
pressione interna più elevata, e allora si vedrà che la curva stessa, dopo la grande salita
'
'
'
—- +
Ù
2 we.)
di destra, raggiunge una massima altezza per poi ridiscendere. Colla rarefazione più spinta
per giungere fin là sarebbe stato necessario creare campi magnetici assai più intensi di
quelli disponibili.
b) Un secondo esempio l’offre il tubo da scariche rappresentato in sezione dalla
wi
pa
1000 2000
fie. 10. Entro il tubo di vetro sono applicate contro le pareti quattro eguali lastre d’allu-
minio, le quali, salvo il piccolo intervallo che le separa nel senso delle generatrici, costi
tuiscono col loro insieme un cilindro. Due di esse A, A, fra loro comunicanti, costituiscono
— 80 =
uno degli elettrodi, le altre due 5, 5, costituiscono |’ altro. Si hanno dunque due elettrodi
di forma identica, senza, tuttavia, che resti scoperta la parete di vetro (salvo le strette
striscie fra una lastra e l’altra). Il campo magnetico agisce nella direzione della freccia 4
cioè secondo la retta che congiunge i centri delle due lastrine costituenti uno degli elet
trodi AA. Questro elettrodo era anodo nella prima serie delle misure seguenti, e catodo nella
seconda. La pressione nel tubo era 0,04 mm.
Elettrodo AA + Elettrodo AA —
P G P G
229
1570 0 350 O
330
1620 25
160
1830 102 415
Î 632
1980 153 |
127
2190 343 530
Î 1992
2370 512
120
2450 595 590
5674
2830 6240
740 114
930 MOD
1040 102
Le curve della fig. 11 sono disegnate coi precedenti numeri, ed i segni +, —-, servono
a distinguerle. Per non dare alla figura dimensioni soverchie, non solo si sono soppresse
le porzioni relative ai più elevati valori del campo, ma si sono disegnate le due curve una
dentro l’altra in grazia d'un opportuno spostamento degli assi di riferimento. È degna di
nota la grande diversità fra le due curve, diversità che in questo caso speciale è quella
che, in parte almeno, si accorda coll’ ordinaria spiegazione dei fenomeni.
I due esempi precedenti a), 0) mettono in evidenza la varietà dei fenomeni, ma anche
E Re
qualche carattere costante, comune cioè ai vari tubi. Non sarebbe facile servirsi dei dati
precedenti a scopo di verifica qualificativa d’ una qualunque delle spiegazioni, in causa delle
forme speciali degli elettrodi. Ad uno scopo di questo genere sì presterebbe meglio il terzo
esempio che segue.
c) Il tubo adoperato differisce da quello della fig. 8 soltanto in ciò, che l’ elettrodo
2500
A è lungo quanto il tubo. Introdotto quest’ultimo nei rocchetti, le condizioni dell’ espe-
rienza sono sensibilmente quelle di un campo elettrico cilindrico e d'un campo magnetico
uniforme, le cui linee di forza sono perpendicolari alle linee di forza elettrica; ed in questo
caso speciale è possibile determinare la forma delle traiettorie percorse dagli elettroni
emessi dal catodo.
Mi limiterò al caso in cui il cilindro centrale è catodo; ma darò i risultati ottenuti
con due differenti gradi di rarefazione dell’ aria entro il tubo.
da —
Pressione = 0,012 Pressione = 0,1
P C P a
750 5141 259
2100 5231 190 405
563 5200
2860 1126
392 309
(dI
Sd
WI
DO
o)
(i
»
(ee
i
(28)
(00)
TT —_—t_s>— —T i —__ _
w
(AS)
I
| 5310 940 {{ 2800
475 4919
3800 |{ 2800 (220
5419 1480 | 4505
| 4849
La fig. 12 mostra la curva costruita coi numeri relativi alla pressione 0,1. Per la
pressione 0,012 si avrebbe una curva simile a quella della fig. 12, ma limitata ai più bassi
potenziali. La curva sarebbe quindi costituita da due tratti separati fra loro.
La curva fig. 12 sembra essere il tipo più generale rappresentante la relazione fra
intensità di campo magnetico e potenziale di scarica, almeno per i tubi il cui anodo è ci-
lindrico e circonda il catodo (1). Si notano in essa due tratti poco differenti da rette ver-
ticali. Quello relativo a campi di 200 a 300 gauss ha però spesso una tale forma (per es.
nella fig. 14) da dimostrare, che ad un medesimo campo corrispondono due diversi valori
del potenziale di scarica; ma probabilmente ciò si deve a qualche inavvertito errore siste-
(1) Probabilmente se si disponesse di campi assai più intensi di 5000 gauss, e si potesse così ulte-
riormente prolungare la curva, questa, dopo aver raggiunto una nuova ordinata minima, diverrebbe
ancora ascendente. La curva avrebbe allora all'incirca la forma della lettera M capovolta.
— 83 —
matico di poca entità. In rari casi ciò si è verificato anche per il secondo tratto di discesa
della curva, che corrisponde a campi assai intensi.
Quei tratti di curva quasi verticali rappresentano brusche diminuzioni del potenziale
di scarica dovute verosimilmente a due cause distinte, che l'ipotesi della magnetoionizza-
zione spiega agevolmente. E cioè, la prima ripida discesa della curva deve attribuirsi al-
l’azione del campo sul catodo; la seconda invece alla azione sul gas lontano da questo
elettrodo.
7. Esperienze suggerite dall’ ipotesi della nagnetoionizzazione.
Facilmente s’' intuisce la maniera con cui si può sottoporre la precedente interpreta-
00:
1000
300.
1000 2000 3000 4000 3000
Vis, 12.
zione alla prova dell’esperienza. Basterà costruire la curva caratteristica per un tubo del
tipo fig. 8 due volte, e cioè quando l'elettrodo A, adoperato come catodo, si trova fra i
poli della elettrocalamita e poi, dopo avere convenientemente spostata questa, quando il
catodo si trova entro uno dei rocchetti, ove è sensibilmente sottratto all’ azione del campo
magnetico.
La prima delle due curve fu già ottenuta, ed è la. curva 2 della fig. 9. Ma essa
non è completa, mancando della seconda ripida discesa, pel motivo che nelle misure non
si raggiunsero valori abbastanza grandi del campo magnetico. Ho dovuto quindi rifarla
anch’ essa.
Prima però d’esporre i risultati delle nuove misure è bene eliminare un dubbio, che
dir NIE
sorge spontaneo nella mente, e cioè è utile anzitutto verificare, che il campo non dia il
suo effetto sul catodo, anche quando questo sì trova entro uno dei rocchetti.
A questo scopo ho costruito il tubo rappresentato dalla fig. 13, che differisce da
quello della fig. 8 in ciò, che il suo catodo A ha la forma d'un disco perpendicolare al-
l’asse del tubo. Inoltre all’ esterno e in corrispondenza del catodo formai un piccolo roe-
chetto R, A, avvolgendo sul vetro per dieci giri un sottile filo di rame ben isolato, i cui
capi, torti strettamente assieme, furono poi messi in comunicazione con un sensibile gal-
vanometro balistico. Leggendo la deviazione prodotta, quando s' interrompe o si chiude
una corrente di nota intensità nei rocchetti, si può così calcolare facilmente 1° intensità
del campo nel "uogo occupato dal catodo.
Ecco ì risultati d’una esperienza, fra le molte concordanti da me eseguite, mentre
l’aria entro il tubo aveva 0,028 mm. di pressione.
Disposto il tubo entro i rocchetti e collocata l’ eletirocalamita in modo che il catodo
A fosse fra i poli a metà distanza, trovai, che con una differenza di potenziale di 2210
volta applicata agli elettrodi occorreva un campo di almeno 3713 gauss, perchè si deter-
minasse il passaggio della corrente.
Spostata allora l’elettrocalamita sinchè il catodo venisse a trovarsi entro uno dei
rocchetti a metà della Iunghezza di questo, fu necessario portare il campo a 4829 gauss
per avere ancora la scarica. Per decidere se in questo caso si trattava d'un’ azione sul-
l’aria collocata fra i poli, o di una azione sul catodo, era necessario conoscere a quale
intensità di campo si trovava esposto quest’ ultimo.
Col piccolo rocchetto trovai, che mentre il campo aveva fra i due poli l’ intensità di
4829 gauss, l’intensità intorno al catodo era soltanto 276 gauss, cioè circa la quindice-
sima parte del valore (3713) necessario a determinare la scarica. Questa non poteva ascri-
versi dunque all’azione del campo magnetico sul catodo collocato entro il rocchetto.
Con altri gradi di rarefazione, o con altri valori del potenziale applicato al tubo, ot-
tenni sempre un analogo risultato, in modo. più o meno marcato a seconda dei casi.
L'esempio precedente corrisponde a quella fra le varie esperienze in cui il fatto sì mani-
festava nel modo più accentuato.
Fatta questa constatazione, che da sola rende già oltremodo probabile la magnetoio-
nizzazione dell’aria lontana. dal catodo, ho eseguite le misure necessarie per costruire le
due curve, di cui ho parlato più sopra. Ho adoperato il tubo della fig. 8, con. aria. alla
pressione di 0,088 mm. Ecco i risultati ottenuti.
ada II
Catodo fra i poli Gatodo entro il rocchetto
P c P C-
550 SE 500 | 20
563
900 su 20 osi
1593 |
200 1530 | 5190
1050 | 2028
2300 1800 5132
287
1260 RATA 1876 | 4063
5270
\ 338 1900 0
1430 |} 2836
Î 5260
340
1550 | 3583 |
5173 B
\ 338
1630 | 4063
| 5087
ooo TO
n
Le curve A, £ della fig. 14, costruite coi numeri precedenti, mostrano l’ andamento
dei fenomeni, e dal loro confronto si rileva subito, che col sottrarre il catodo all’azione
del campo si sopprime la parte in ripida discesa corrispondente ai valori del campo intorno
a 300 gauss, mentre resta la seconda parte discendente relativa a campi di circa 5000 gauss.
Da ciò mi sembra risultare una buona conferma delle previsioni basate sulla ipotesi della
magnetolonizzazione.
Non sarà superfluo descrivere un’altra esperienza, che in fondo non è che una variante
delle precedenti.
Mì sono servito di un tubo simile a quello della fig. 4, ma senza il rivestimento esterno
Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 12
.
Re
di stagnuola (che, come ho potuto. verificare, non -modificherebbe sostanzialmente il ri-
sultato), il quale tubo ha i suoi elettrodi così lontani l’ uno dall'altro, che, quando uno si
trova entro il nucleo d’un rocchetto a metà della lunghezza di questo, l’ altro va ad oc-
cupare la posizione simmetrica entro l’altro rocchetto Durante le misure iì punto di mezzo
2000
1509
della batteria veniva messo in comunicazione colla terra, in modo che i potenziali dei due elet _
trodi avessero valori eguali e di segno contrario. Ciò tendeva a rendere perfettamente longitu-
dinale il campo elettrico nella parte di tubo, la più lontana dai due elettrodi, che rimaneva
nell’ intervallo fra i poli magnetici. Con pressione di 0,04 mm. nel tubo ebbi questi risultati ©
JO C
450 5090
760 4910
920 4678
SEMO
Non riprodurrò la curva che ne risulta, perchè essa è assai simile alla 2 della fig. 14,
salvo che la parte discendente di essa è meno ripida. A parte ciò mi sembra che, come
la 5, riveli un'azione del campo sull’ aria che si trova fra i poli.
Come spesso accade d'ogni ipotesi suggerita da certi fatti noti, anche l'ipotesi d’ una
azione del magnetismo tendente a favorire la ionizzazione dei gas, ha condotto a trovare
qualche fatto nuovo. Quelli che ho descritto tendono evidentemente a confermare l'ipotesi
assunta. Essa mi parve necessaria per spiegare come un campo possa produrre la scarica
quando la differenza di potenziale impiegata non produce nessun passaggio dimostrabile di
elettricità prima che il campo esista. E poichè le nuove esperienze non contraddicono tale
ipotesi, sarà utile mantenerla.
Essa da sola non vale, almeno per ora, a rendere conto di tutte le particolarità. È
siccome non si può negare la deformazione delle traiettorie degli elettroni per opera del
campo, che è la base della spiegazione ordinaria, così ipotesi della magnetoionizzazione
non devesi sostituire, ma aggiungersi all’ ordinario modo di spiegare lazione del campo
sulle scariche. Colla magnetoionizzazione si arriva a comprendere come e quando prenda
origine un moto apprezzabile di elettroni in un tubo da scarica per opera del campo; ma
bisognerà tener conto del movimento ch'essi assumono sotto l’ influenza del campo stesso
per prevedere ciò che in seguito avviene, e cioè per sapere, se quella messa in moto di
elettroni è destinata ad abortire, oppure ad intensificarsi sino al punto da produrre la
scarica durevole.
La questione d'una probabile magnetoionizzazione, oltre che avere una certa impor-
tanza per la spiegazione dei fenomeni di scarica nel campo magnetico, ne ha una di gran
lunga maggiore dal punto di vista filosofico. Infatti, la constatazione di effetti spiegabili
soltanto in base ad una influenza del magnetismo sopra elettroni muoventisi in orbite
chiuse entro gli atomi, costituirebbe una validissima conferma sperimentale in favore delle
idee, che oggi ì fisici vanno formandosi relativamente alle strutture atomiche.
e ere
MEMORIA
DEL
Prof. SILVIO CANEVAZZI
letta nella Sessione ordinaria del 13 Novembee 1910.
Gli atti dei congressi internazionali degli infortunî del lavoro e delle assi-
curazioni sociali mettono in evidenza che il 63,10%, di infortunî, che hanno pro-
dotto incapacità di lavoro per un periodo superiore a 13 settimane, ha avuto per
causa lesioni oftalmiche provocate da scaglie e frammenti proiettati durante il lavoro
di scalpellatura. Gli atti stessi mostrano come il fatto sia stato oggetto di studio
nell’ intento di arrivare a diminuire la caratteristica proporzionale d’ infortunio e come
siano state consigliate speciali cautele preventive. Queste si riducono, rispetto ai terzi,
a ripari o schermi atti ad arrestare i frammenti lanciati in aria durante il lavoro
di scalpellatura, e, rispetto agli operai scalpellini, all'uso di occhiali speciali, per i
quali per altro gli operai addimostrano ben poca simpatia.
La scalpellatura è opera necessaria nella lavorazione delle pietre ed in quella
dei metalli per ricavare nelle prime la forma che loro spetta, e nei secondi per
togliere le sbavature nei pezzi colati, per asportare eccedenze, per abbattere teste
di chiodi ete. L'operazione di scalpellatura si eseguisce coll’ uso dello scalpello e del
martello: si appoggia la punta od il tagliente dello scalpello contro il frammento
che si vuol togliere e si batte sulla testa dell’ utensile, a seconda dei casi, con una
grossa mazza o con una mazzetta. Se si usa la mazza, di un peso variabile fra cinque
od otto chilogrammi, allora un’operaio tiene in posto uno grosso scalpello (#rancia)
ed un altro vi batte sopra a tutto sbraccio od anche a giro di braccio, facendo quindi
cadere la mazza da un’altezza variabile da uno a due metri. Quando invece si usa la
mazzetta, di un peso variabile e poco diverso da un mezzo chilogramma, l° operaio
tiene lo scalpello nella sinistra e maneggia il martello colla destra, facendo cadere la
mazzetta da un’altezza variabile fra 0." 30 e 0." 60. Le particelle e frammenti
che per effetto di questa lavorazione vengono distaccate dal corpo principale, sono
bene spesso animate da energia cinetica, per cui vengono lanciate a distanze varìa-
bili e qualche volta notevoli, ed incontrando nel loro moto una persona, possono essere
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 13
— 90 —
causa di noja, di dolore ed anche di lesione importante a seconda del punto in cui la per-
sona viéne colpita. I casi che più impressionano sono le lesioni all’ occhio, spesso seguite
dalla perdita del medesimo, per cui riesce interessante, tanto ad intento precauzionale,
quanto per risolvere questioni legali relative ad eventuali responsabilità, istituire una
ricerca sulla distanza, alla quale possono giungere le projezioni di scalpellatura. Dal
punto di vista meccanico una risoluzione precisa della questione riesce impossibile,
non perchè difettino le formule teoriche cui ricorrere, ma per la difficoltà pratica di
assegnare ai varî elementi, che entrano nelle medesime, valori numerici convenienti.
Nei casi particolari, se si può facilmente determinare il peso del martello e dello
scalpello, non si può prevedere quale sarà ii peso del frammento staccato, | energia
assorbita dal lavoro di distacco, Vl altezza di caduta del martello ed il quantitativo di
energia che gli può essere comunicate dalla forza muscolare del braccio, le condizioni
o meno di obbliquità dell’ urto, etc... Fra le innumerevoli combinazioni però è sempre
possibile che si verifichino anche i casì più disgraziati, quindi appare come non del
tutto inopportuno uno studio a criterì lati fatto in via di prima e larga approssima-
zione, diretto a determinare le massitme distanze, alle quali le anzidette proiezioni
possono arrivare.
La questione che ci occupa si connette al problema dell’ urto fra tre corpi A,
B, e €, dei quali due, B e © siano in riposo ed a contatto ed il terzo A venga ad
urtare B con una determinata velocità ©,. Il corpo A corrisponde al martello, il corpo
B allo scalpello e finalmente il corpo C al frammento o scaglia che si vuole staccare.
La differenza essenziale fra ì due casi considerati sta in ciò che mentre nel problema
astratto dell'urto C è completamente libero, nel caso della scalpellatura il frammento
C è attaccato alla massa principale D e prima di staccarsi deve essere stato supe-
rato il lavoro di adesione. La conclusione finale sarà che | energia del frammento
risulterà ridotta in una data proporzione in dipendenza all’effetto di una eventuale
obliquità od eccentricità nell'urto ed all’ assorbimento d’ energia corrispondente al la-
voro di distacco del frammento.
Detta v, la velocità che nell’ urto libero avrebbe assunto il corpo €, la velocità
effettiva w che esso potrà assumere, qualora sotto l’azione dello scalpello il frammento
C si distacchi dal corpo principale, sarà necessariamente una frazione di v,, rappresen-
tabile dalla formula 0 = 680, nella quaie 8 è un coefficiente di correzione. E impos-
sibile determinare il valore di 6 in base a criterî induttivi e con carattere di gene-
ralità; è noto come si valuti 1’ effetto dell’ obbliquità nell’ urto, ma il lavoro assorbito
nel distacco non potrebbe essere apprezzato altrechè quando il frammento saltasse al
primo urto del martello. Sembra quindi più conveniente conglobare le due cause di
perdita di energia in un unico coefficiente cercando di desumerne il valore del con-
fronto con casi effettivamente osservati.
Per le stesse ragioni appare difficile valutare la direzione della velocità w e
sarebbe anche superfluo rispetto all’intento finale, poichè ciò che realmente interessa
è l'ampiezza delle projezioni.
SERGE
Siano
P. il peso del martello o mazza indicato colla lettera A ed ww, la sua massa
P, il peso dello scalpello indicato colla lettera B ed 7, la sua massa
P, il peso del frammento o scaglia indicato colla lettera C' ed wm, la sua massa
h Valtezza di caduta del martello A
g l accelerazione dovuta alla gravità
u=/2gh la velocità teorica del martello al momento dell’ urto, dovuta unicamente
alla sua caduta libera dell’altezza /
u, la velocità effettiva del martello A al momento dell’ urto
V,,0, @ ©, rispettivamente le velocità dei corpi A B e C subito dopo l'urto nell’ ipo-
tesi che questo sia diretto ed il corpo € libero
w la velocità del corpo ( dopo l’ urto nell’ ipotesi che il frammento Cl faccia corpo
colla massa principale e ne sia staccato per effetto del colpo di martello.
Nel lavoro di scalpellatura il martello cade sulla testa dello scalpello da un’al-
tezza A, sviluppando un lavoro PA ed assumendo al momento dell’ urto una velocità
u=|/2gh. Nel suo movimento però il martello è guidato ed assecondato dal braccio
dell’ operaio e 1’ accelerazione del corpo A viene aumentata in una proporzione mal
definibile dall'azione muscolare e che potrà essere simboleggiata, indicando con y
l’ accelerazione totale e con e un coefficiente per ora incognito, colla formula
y=g9(1+ €). In queste condizioni il lavoro sviluppato dal martello sarà dato da
Pkh= myh=wmg(1+e)h e la velocità w, sarà espressa da u = 29h(1+ e)
ossia da u=/ 2gh /1+e=uy1 +Pe=uy/k.
I corpi B e C sono a contatto ed in riposo, quindi il valore di
> indicando
con a un coefficiente di imperfetta elasticità detto anche di semielasticità, sarà dato
dalla nota formula
i: RAP.
o = (la= 2)
od anche
Sag PP, Ac
so == (ll de = dg
3 MEG rio Sy KE
e quindi, per le cose sopra esposte
PP, det PP,
i “
(PRE (PIP5) (0 35/5) (Ea)
esile 08
nella quale 0 =8(1+y/ ak ed a secondo Morin e Weisbach può ritenersi
2
SAI . 3 :
eguale a (3) Il valore di 8 può andare da 0 ad 1, praticamente però avviene
RO
che si riconosce quando il frammento sta per staccarsi ed in tal caso lo si abbatte
d’ ordinario a piccoli colpi, per cui difficilmente 8 avrà un valore superiore a 0,8,
poi può ritenersi variabile fra 1 e 3 e ben difficilmente potrà arrivare a 4.
Il valore di P, varia entro limiti ristretti e d’ordinario è assai piccolo rispetto
a P,, il che vuol dire che il valore di 7, in pratica avrà una assai piccola influenza
sul valore di x, per cui la ricerca che ci occupa, applicata ai piccoli. frammenti
scaglie, teste di chiodi etc... non risente grandi variazioni al variare del peso di
questi elementi, e conseguentemente rispetto ai medesimi acquista carattere di ge-
neralità.
5 2
Supponiamo di ritenere a = (3) e 8 = 0,80: assumendo pel lavoro di scal-
pellatura coll’ uso della mazza come valori medì
P,= 85800 (mazza)
P,= 1*850 (scalpello)
P,= 0508 (frammento)
h=2%00 uy/2gh = 6,26
DI 8 le cai —
le SP u/k= 9197
9 daro) o 10408
perse di= E
ie=#2 w = 12.85
a=9 VOM IS
= vo) = INSZ
Analogamente nel lavoro di scalpellatura a mazzetta assumendo
h=0,30 ‘e quindi u—y/2gh = 3,183
P,=1%800 (mazzetta)
P,= 0" 40. (scalpello)
P,= 001 (frammento o scaglia,
si ricava
D\ TOKIO = 2a
= 0,30( | Las 5 ) eso e V0) VARI RARZ0ONAE
er ae= 1 0.20
DR = DO
NI) COZIONIA
DIR VW=RST40
Di Re VOM]
LNgg re
In conseguenza della velocità iniziale assunta < il frammento P, viene lanciato
nello spazio ed in base a formule note la massima altezza, che può assumere rispetto
w°
al punto di partenza, è teoricamente data da H=3- mentre la massima distanza di proie-
29
zione a livello col punto di partenza a cui può arrivare è data dalla formola teoria
Partendo da queste formule si può comporre il quadro seguente.
Lavoro di scalpellatura a mazza.
li = | gt BIZ dal== ASA. CMS 49
= & IZAIIZIà = @ = IWNGSG
=33 vd = NEITS Jelz= 1260 CA=RZ0
la==4 wi Wl324 Tef== NEDO @ = SS-90
Lavoro di scalpellatura a mazzetta.
=; ll w= 4.20 DET=10%88 CA-=RINIO
[AA US l=="ME30 © = 0
(3 —45) COIMOSZA, ai #2300. ca-=#400)
la: de=19010) Jef == BO @="T80
Ri==20 W 1941 Udi = 490 =
I numeri sopra riportati corrispondono a casi ideali che in generale non si ve-
rificheranno in pratica. Una gran parte dell’ energia d’ ordinario viene assorbita dal
lavoro distacco del frammento, l’urto è spesso obbliquo e non centrale, e sovente le
projezioni sono dirette verso il basso e, se si elevano, ciò avviene per rimbalzo cop
perdita notevole di forza viva. Si comprende però come in un lavoro seguito tutte le
possibilità astratte possano realmente verificarsi, compresa anche quella che un ope-
rajo per uno 0 pifi colpi maneggi la mazza o la mazzetta con vigore notevolmente
superiore all’ usuale. Questi casi di massimo slancio per fortuna avvengono raramente,
perchè difficilmente si verifica contemporaneamente il complesso di circostanze che li
provocano, ma pur si verificano, e gli atti dei congressi su gli infortuni di lavoro lì
registrano. —
Indipendentemente dalle pubblicazioni ufficiali dei congressi, aventi piuttosto forma
statistica, e nell’ intento di assegnare entro limiti lati un valore pratico alla ricerca
superiore ho creduto di dovere eseguire una specie di inchiesta presso grandi stabi-
limenti siderurgici e cantieri di tagliapietre, della quale riporto un sunto atto a
LBRTOZInie
dimostrare che i valori superiori, riguardati come massimi fortunatamente rari, non
presentano alcuna esagerazione.
A Bologna nel 1903, mentre venivano ripulite le fusioni fatte nell’ intento di
saldare fra loro le rotaje della tranvia elettrica, un frammento o grossa scaglia andò
a colpire l’ occhio di una persona che passava a m. 13,00 circa di distanza dal punto,
nel quale avveniva la ripulitura del pezzo di fusione: 1’ occhio fu perduto e la cosa
fu ufficialmente verificata perchè ebbe un seguito giudiziario. Interrogato per lettera
un esimio insegnante, che fu per molti anni direttore di un grande stabilimento di
costruzioni metalliche, se ne ebbe una ampia risposta, della quale trascriviamo il
seguente brano. Nel tagliare ferri, acciai e ghise mediante la trancia 0 gli scalpelli
le scheggie possono essere lanciate ad una distanza al minimo di un metro ed al
massimo di dodici metri. Nel far saltare le teste dei chiodi con la trancia si sono
avuti feriti fino a m. 15 di distanza; le semplici sbavature sono proiettate fra uno
e tre metri: moltissimi casi si sono avuti di operai che così perdettero un occhio.
Nella stessa Impresa molti anni or sono una sbavatura colpì di sbalzo a circa
sei metri di distanza un operaio cagionandogli la perdita dell’occhio.
Informazioni corrispondenti sono state date da altre persone pratiche di lavori
di scalpellatura e dirigenti grandi officine di costruzioni metalliche o cantieri di
costruzioni navaii: nell’ Italia centrale in un grande stabilimento metallurgico la testa
di un chiodo, lanciata in aria sotto l’azione della mazza e dello scalpello, ruppe i
vetri della tettoja, alta ben dodici metri dal suolo, sotto la quale veniva effettuato il
lavoro.
Gli stessi fatti sono confermati dagli scalpellini che }avorano le pietre: per
tacere d’altri riferiremo le risposte avute da due industriali capi di cantieri di
tagliapietre. Uno di questi disse che le scaglie d’ ordinario saltano a due o tre metri
di distanza; avvengono però anche casi straordinari e nel breve tempo rimasti in
cantiere avemmo occasione di verificare projezioni eccedenti il limite ordinario sopra
indicato. L’ altro ha risposto che in determinate circostanze favorevoli le scaglie pos-
sano andare a cadere molto lontano, dipendentemente anche dalla natura delle pietre.
Esso ha affermato che le scaglie di macigno possono arrivare a sei metri e quelle
di granito fino a distanze quasi doppie ed a riprova di questo ha citato il fatto di
essere stato ferito in vicinanza all’ occhio stando ad una distauza di circa nove metri
dall’ operaio scalpellatore.
Questi fatti anpajono sufficienti a dimostrare che i numeri riportati nel quadro
superiore sono praticamente atti a designare la zona ordinariamente pericolosa nel
lavoro di scalpellatura e quella che può diventarlo in condizioni straordinarie e poco
comuni. È sembrato ozioso fermarsi a discutere lungamente sul valore dei coefficienti
8 e k, troppo varie essendo le condizioni possibili di obliquità, di azione muscolare
e di assorbimento di energia al distacco. Sembra sufficiente aver dimostrato che 6
difficilmente è superiore a 0,80 e X a quattro nel lavoro colla mazza ed a 5 col
iavoro a mazzetta. La conclusione pratica di questa analisi è che la teoria e 1’ espe-
rienza si accordano nel designare nel lavoro di scalpellatura intorno ad ogni punto
di lavoro una zona pericolosa; di qui la necessità di prendere speciali precauzioni
tanto in riguardo agli operai quanto rispetto alle persone, che occasionalmente pos-
sano avvicinarsi al cantiere di lavoro. Il non cautelarsi affatto, od il cautelarsi sol-
tanto parzialmente rispetto alle projezioni di scalpellatura, costituisce un atto di ma-
nifesta imprevidenza rispetto ad un fatto teoricamente e sperimentalmente accertato,
quindi ogni infortunio, che in queste circostanze avesse a verificarsi, riveste necessa -
riamente carattere colposo.
e a
VELA LI « 9 POE SS pl
PEIELS
PROCESSO PER LA DETERMINAZIONE DEL MANGANESE
NEI PRODOTTI SIDERURGICI
NOTA
DEL
Prof. ALFREDO CAVAZZI
(letta nella Sessione del 21 Maggio 1911).
I fatti essenziali più o men noti nel loro insieme, ma non tutti tenuti rispetto all’ ana-
lisi nella debita considerazione, dei quali mi sono valso nello studio del processo che
propongo per la determinazione del manganese nel ferro dolce, nell’ acciaio, nelle ghise e
nel ferromanganese sono i seguenti:
1° FaTTo. — Il ferro di questi prodotti siderurgici può essere facilmente trasformato
in solfato ferrico, e questo privato con conveniente riscaldamento di tutto l'acido libero,
pur rimanendo solubile nell’acqua bollente, e atto perciò a fornire una soluzione neutra,
quale non è possibile ottenere in modo altrettanto semplice e completo per aggiunta di
alcali o dei loro carbonati ad una soluzione fortemente acida di un sale ferrico. Simulta-
neamente il manganese in lega col ferro assume la forma di sclfato manganoso
2° Fatto. — Facendo bollire una soluzione concentrata e neutra, in cuì il solfato fer-
rico sia n grande prevalenza rispetto al solfato manganoso, il persolfato potassico ne
separa il manganese in forma di biossido insieme ad una piccola quantità di ossido di
ferro. Se nella soluzione si trovassero ad un tempo piccole quantità o tracce di solfati di
altri elementi i quali possono riscontrarsi nel ferro o nelle sue leghe o nelle scorie inter-
poste, come Ca, Al, Mg, Cu, Ni, Co, essi resterebbero nella soluzione.
La utilità e convenienza di questo modo di precipitazione del manganese col persolfato
potassico viene ancor più manifesta allorchè si consideri che la presenza di alcuni di questi
elementi nelle soluzioni dei prodotti siderurgici non lascia libertà di scelta del reattivo di
cui si voglia far uso per separare dalle soluzioni finali il solo manganese. Non minor van-
taggio è che il biossido di manganese precipitato è accompagnato da una quantità relativa-
mente piccola del ferro esistente nella soluzione, di guisa che, trasformando i due ossidi
in solfati privi di acido solforico libero e sciogliendoli in acqua bollente, la separazione
del ferro dal manganese mediante l’ acetato sodico, specialmente in presenza di un po’ di
nitrato di ammonio, riesce più esatta, e la filtrazione e i lavamenti più facili e spediti.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 14
OR ZE
La sostituzione del persolfato ammonico al potassico, che alcuni consigliano, porte-
rebbe nella precipitazione del manganese perdite notevoli non trascurabili.
Non ho fatto parola del solfo, del fosforo e dell’ arsenico, perchè nella determinazione
del manganese io comincio l’ operazione sciogliendo i diversi prodotti siderurgici nell’acido
cloridrico a caldo, per cui i detti elementi vengono espulsi in forma di composti idrogenati
(H,S, AsH,, PH,). Questo anzi è il motivo pel quale, volendo seguire e praticare il mio
processo, debbo sconsigliare di sciogliere fin dal principio il ferro o le sue leghe con acido
nitrico concentrato o con acqua regia, cioè con reattivi ossidanti che convertirebbero par-
ticolarmente il fosforo e l’ arsenico negli acidi corrispondenti, fosforico ed arsenico.
Quanto poi accade del carbonio e del silicio, cimentando i prodotti siderurgici con
acido cloridrico bollente, sarà detto più innanzi con maggiore opportunità.
3° Fatto. — Se ad una soluzione neutra e fredda di solfato manganoso si aggiunge
acqua ossigenata, poi rapidamente ammoniaca in eccesso, il metallo precipita completa-
mente in forma di fiocchi molto scuri di idrato di biossido, il quale non è minimamente
alterato e disciolto dall’acqua bollente, e raccolto su filtro è permeabilissimo al liquido
stesso. La reazione e la purezza della sostanza ben lavata non cambiano anche quando
nella soluzione del sale manganoso, debitamente allungata, si trovi del solfato e nitrato di
sodio e del nitrato di ammonio.
Dopo ricerche e prove numerose e concludenti sono venuto nella convinzione che questo
modo di precipitazione del manganese sia il migliore e più comodo di tutti e preferibile a
quello particolarmente raccomandato dal Traedwel], il quale consiglia di impiegare come
ossidante l acqua di bromo invece dell’acqua ossigenata; preferibile anche agli altri me-
todi in cui si fa uso al medesimo fine dei carbonati alcalini o del carbonato ammonico 0
del solfuro di ammonio; notando che all’ applicazione del detto metodo non farebbe
ostacolo la presenza nella soluzione del sale manganoso di piccole quantità di Ca, Sr e Ba
ed anche di Mg, purchè la soluzione contenesse un po’ di sali ammonici.
I carbonati di sodio o di potassio, per cause ben note, sono i sali meno aceconci alla
precipitazione del manganese, anche quando la soluzione su cui si opera sia priva di altri
metalli atti a produrre carbonati insolubili.
Nel caso che la soluzione finale contenga soltanto sali di manganese e sali alcalini e
di ammonio, con ragione si dà la preferenza al carbonato ammonico. Secondo il consiglio
del Tamm la soluzione neutra del manganese deve contenere sali ammonici, e dopo l° ag-
giunta di carbonato bisogna riscaldarla moderatamente e a lungo. Il carbonato di manga-
nese si depone lentamente ed essendo finissimo durante la filtrazione il liquido passa tor-
bido, specialmente quando si comincia a lavare il carbonato stesso con sola acqua calda.
Infine, per la presenza di quantità relativamente forti di sali ammonici, la precipitazione
del manganese non è mai completa e la perdita non assolutamente trascurabile.
La precipitazione del manganese in forma di solfuro mediante il solfuro ammonico,
metodo che viene particolarmente seguito allorchè il manganese trovasi in presenza di
Ca, Ba, Sr, Mg, è un processo lungo, incerto causa gl’ inconvenienti che presenta e molesto.
Non di rado nella filtrazione, lenta per se e richiedente in precedenza un lungo riposo, ii
liquido passa torbido e ciò talvolta avviene quando si comincia a lavare il solfuro man-
ganoso con acqua che contiene soltanto piccole quantità di solfuro ammonico. È pur dif-
ficile impedire in modo assoluto che durante la filtrazione il solfuro non venga alterato
dall’aria o dall’ossigeno sciolto nell’acqua di lavamento con produzione di un po’ di ossido
salino idrato e di solfato manganoso. Riuscendo però a poter evitare tutti questi inconve-
nienti, il processo merita la fiducia e considerazione iu cui è tenuto
4° Famto. — La perdita di manganese nelle tre principali e successive operazioni che
comprende il nuovo processo, sia nella prima precipitazione del metallo col persolfato potas-
sico, sia nella separazione cel ferro dal manganese, nel precipitato prodotto da questo sale
ossidante, coll’acetato sodico im presenza di un po’ di nitrato di ammonio, sia nella seconda
ed ultima precipitazione mediante l’ ammoniaca in presenza di acqua ossigenata, è minima
e trascurabile. Di che ho avuto prove ben certe applicando la reazione sensibilissima del
Volhard. Nel primo e nel terzo caso operando sul liquido filtrato dopo averlo ridotto a
piccolo volume; nel secondo trasformando |’ acetato basico in solfato ferrico privo di acido
solforico libero e sciogliendo questo sale in poc’ acqua bollente. Queste singole soluzioni,
trattate a caldo con acido nitrico e biossido di piombo, hanno acquistata la colorazione
dell’acido permanganico, ma in grado lievissimo. In base a parecchi saggi colorimetrici
credo di poter affermare che la perdita totale di manganese che si ha operando sopra
9g. l di un prodotto siderurgico non sia superiore alla quantità di manganese esistente in
1 milligramma di permanganato potassico.
Data poi la preferenza al metodo di separazione del manganese in forma di biossido
idrato per aggiunta di acqua ossigenata e poscia di ammoniaca alla soluzione finale, ho
stimato necessario di provare e di assicurarmi se fosse più esatto di dosare l’ossido stesso
riducendolo per arroventamento in ossido salino Mn,0, o trasformandolo in solfato anidro
MnSO,.
Le ricerche eseguite in proposito da me, e con non minor attenzione e accuratezza
dal mio assistente Dott. l'erni, hanno messo in chiaro che in qualche rarissimo caso le due
forme conducono al medesimo risultato: in generale invece dosando il manganese nella
forma di ossido salino si ottiene più del metallo che realmente esiste nel sale sottoposto
all’analisi, e l’errore è tutt’ altro che trascurabile quando la lega di ferro che si assaggia
è molto ricca di manganese. Del resto il Treadwell ed altri chimici fanno giustamente
rilevare che la composizione della sostanza, che si ottiene per arroventamento di un os-
sido qualunque di manganese in crogiuolo di porcellana, non corrisponde mai esatta-
mente a quello dell’ossido salino Mn,0,: essa talvolta contiene Mn0,, tal’ altra Mn,0, di
guisa che l’effetto finale è sempre incerto e varia secondo la durata e intensità del ri-
scaldamento, non che pel modo con cui la fiamma che serve ad arroventare il crogiuolo
involge e circonda il recipiente. Quasi sempre avviene, che, dopo un certo periodo di forte
riscaldamento colla fiamma del cannello Teclus di un ossido puro più ossigenato dell’ 0s-
sido salino, il peso della sostanza anzichè diminuire o rimanere, come dovrebbe, costante,
aumenta. In conclusione, le esperienze eseguite nel mio laboratorio confermano in certo
modo quelle del Volhard, del Gooch e Austin e dello Schudel, e cioe che la forma
più acconcia e sicura per la esatta determinazione del manganese è quella di solfato.
— 100 —
Premesse. queste notizie, le quali, derivando da fatti ben accertati, danno sufficiente
ragione e garanzia della semplicità e bontà del processo da me studiato, dirò come questo
deve essere eseguito nell’ analisi dei diversi prodotti siderurgici.
I. Determinazione del manganese nel ferro dolce, nell’ acciaio
e nella ghisa bianca ordinaria.
È noto che le ghise bianche ordinarie, ed anche le raggiate, contengono sempre meno
del 5 per 100 di manganese, e che nel ferro dolce e nell’acciaio di uso comune la quan-
tità di questo metallo può variare fra 0,04 e 1,4 per 100. Le operazioni descritte in questo
primo capitolo sono pure applicabili alle ghise specolari o spiegeleisen in cui la dose del
manganese non suneri il 7 o l 8 per 100.
Si introduce g. 1 di uno di questi prodotti in forma di fina polvere entro matraccino
conico dell’ Erlenmeyer con 20 cent. cub. di acido cloridrico fumante; si riscalda a poco
a poco sino all’ ebollizione che sì mantiene il tempo che basta per espellere lo zolfo, il
fosforo e l’arsenico in forma di composti idrogenati e scacciare la maggior parte dell’ acido
cloridrico libero.
Cimentando così il ferro, l’acciaio e le ghise bianche non si ha in generale residuo
di carbone, perchè il carbone di tempra e il carbone del carburo Fe,C nell’acido cloridrico
bollente e in presenza di idrogeno nascente generano carburi gassosi o volatili. La solu-
zione però, operando specialmente sulla ghisa bianca, si fa più o ineno torbida per fioc-
chetti bianchi di silice idrata, che non occorre di separare per filtrazione, non essendo di
ostacolo alle operazioni successive.
La soluzione cloridrica, limpida o no, sì versa entro capsula di porcellana, sì riscalda
sin quasi all’ ebollizione e poscia si stilla in essa a goccia a goccia acido nitrico concen-
trato a fine di trasformare il sale ferroso in sale ferrico; di poi s° aggiunge un eccesso
del medesimo acido e 5 cent. cub. di acido solforico un po’ allungato (mescolanza di vo-
lumi uguali di acido concentrato e di acqua).
Dopo di che si poggia la capsula sopra una rete metallica riscaldata inferiormente
con un fornello a gas fornito di molte fiammelle uscenti da fori disposti in parecchi cir-
coli concentrici e si evapora sino a secchezza: al che si giunge in breve tempo e senza
pericolo di perdite, regolando opportunamente l'altezza delle fiammelle sotto la rete e agi-
tando senza interruzione con bacchettino di vetro la sostanza vischiosa che si forma nel-
l’ultimo periodo della evaporazione che precede il suo prossimo passaggio allo stato solido.
Siccome quasi sempre in questo passaggio la sostanza s'attacca con forza alle pareti della
capsula, così, dopo aver espulsa una parte dell'acido solforico libero, si sospende il riscal-
damento e, cessati che siano 1 fumi bianchi dell’acido stesso, si stacca la sostanza me-
diante spa‘ola di platino per evitare un eccessivo riscaldamento di quella parte di essa
che è in intimo contatto colle pareti del recipiente, ma non occorre ridurla in polvere o
in piccoli granuli, perchè rimettendo la capsula sul fornello nelle condizioni di prima, man
mano che la sostanza perde il resto dell’acido solforico libero, basta battere leggermente
— 101 —
sui pezzetti così staccati con bacchettino di vetro per disgregarli e ridurli in polvere o in
particelle di sufficiente tenuità. La temperatura può essere facilmente regolata in modo
da scacciare interamente l'acido solforico libero senza scomporre il solfato ferrico e tanto
meno il solfato di manganese.
Allorchè cessa lo svolgimento di fumi bianchi, sì toglie la capsula dal fuoco e dopo
raffreddamento si aggiunge alla sostanza rimasta nel recipiente g. 0,2 di solfato manganoso
anidro purissimo, poi 25 a 30 cent. cub. di acqua bollente, la quale, mantenuta che sia
in questo stato pochi minuti, scioglie tanto il solfato ferrico, quanto il solfato di manga-
nese. Più avanti dirò dell’ opportunità di fare quest’aggiunta di solfato manganoso. Tal-
volta la soluzione è limpida, tal’ altra è leggermente torbida, ma tanto nel primo caso
come nel secondo, per essere ben certi di non perdere traccia alcuna di manganese, si
versa il contenuto della capsula entro bicchierino da precipitato insieme ad altri 30 cent.
cub. circa di acqua calda che si impiega per lavare con cura la capsula medesima, e sì
fanno cadere nella soluzione g. 3 di persolfato potassico in polvere fina. Con un tratto di
penna si segna sul bicchierino il livello della soluzione, poi si porta questa rapidamente
all’ ebollizione e così si mantiene per 15 minuti, aggiungendo ogni 3 o 4 minuti un po’ di
acqua bollente a fine di evitare una eccessiva concentrazione della soluzione, il cui volume,
in virtù di queste aggiunte di liquido, deve piuttosto aumentare che diminuire.
In questa maniera il manganese si separa in forma di biossido insieme a piccola quan-
tità del ferro esistente nella soluzione, e il precipitato, oltre i due ossidi, contiene 0 può
contenere un po’ di silice e raramente traccie di solfato di bario e di piombo. La reazione
incomincia soltanto ad una temperatura prossima all’ ebollizione.
Dopo 15 minuti di ebollizione si filtra e si lava la sostanza raccolta sul filtro con
acqua bollente. Nel liquido filtrato passano i solfati di Ca, Mg, Al, Cu, Ni, Co. Seccata
la sostanza entro stufa ad acqua, la si pone in capsula di porcellana insieme alla ceneri
del filtro bruciato a parte, poi su di essa si fanno cadere 10 a 15 cent. cub. di acido clo-
ridrico e 3 o 4 di acido solforico allungato (mescolanza di volumi uguali di acido solfo-
rico concentrato e di acqua), e si riscalda sul fornello ponendo la capsula su rete metallica
come fu detto più sopra.
L’acido cloridrico scioglie subito gli ossidi di ferro e di manganese, e l’acido solforico
converte ì due cloruri in solfati ferrico e manganoso: si evapora sino a secchezza finchè
non si svolgono più fumi bianchi di acido solforico. Nel ripetere questa operazione bi-
sogna condurre il riscaldamento con maggior cura, in modo cioè di giungere al grado di
calore sufficiente per scacciare tutto l’ acido solforico libero senza scomporre minimamente
il solfato ferrico, molto meno stabile del solfato manganoso: condizione del resto che può
essere facilmente conseguita moderando la temperatura e usando le cautele e gli artifizi
che furono indicati nella stessa operazione descritta precedentemente.
Sulla sostanza che rimane nella capsula dopo questa operazione, e che è formata di
solfato ferrico e di solfato manganoso misti a un po’ di silice e raramente a traccie di
solfato di bario e di piombo, si versano 25 a 30 cent. cub. di acqua bollente; si riscalda
ancora 2 0 8 minuti per sciogliere completamente i due solfati, indi si versa la soluzione
CI OLE
e l’acqua di lavaggio entro una grande capsula di porcellana contenente 200 cent. cub. circa
di acqua bollente, gr. 1 di acetato di sodio e gr. 1 di nitrato ammonico. Così il ferro,
com’ è noto, si separa nella forma insolubile di acetato basico, mentre il manganese ri-
mane in soluzione. Dopo 10 minuti di ebollizione si sospende il riscaldamento per lasciare
depor bene il precipitato; si decanta il liquido su grande filtro (diam.° cm. 12) in cui per
ultimo si versa e raccoglie anche l’acetato basico di ferro, che basta lavare 6 volte sol-
tanto con acqua bollente. La quale operazione riesce molto più sollecita quando mediante
spruzzetta si faccia ogni volta arrivare con forza l’acqua bollente di lavaero contro la
sostanza in modo da smuovere particolarmente l’acetato basico che aderisce al fondo e
alle pareti più basse del filtro Con tale artifizio e, ben s'intende, usando un filtro grande,
il precipitato può essere ben lavato in meno di 1 ora e mezza. Insieme all’acetato basico di
ferro resta sul filtro un po’ di silice e tracce, se vi sono, di solfato di bario e di piombo.
Al liquido separato per filtrazione dall’ acetato di ferro e contenente tutto il manga-
nese si aggiungono 4 o 5 cent. cub. di acido nitrico concentrato, poscia sì svapora prima
a fuoco diretto e in ultimo a bagno maria sino a perfetta secchezza all'intento di scacciare
interamente l’ acido nitrico libero, non che I acido acetico proveniente dalla scomposizione
dell’ acetato sodico che fu introdotto in eccesso nella soluzione primitiva.
Il residuo di questa evaporazione, composto essenzialmente di solfati e nitrati di man-
ganese, di sodio e di ammonio, viene sciolto in 25 a 30 cent. cub. di acqua: nella solu-
zione bollente si fa cadere a goccia a goccia dell’ammoniaca diluitissima finchè si produ-
cono dei fiocchi di colore piuttosto scuro, i quali contengono le minime quantità di ferro
che non sono state separate dall’acetato sodico, non che un po’ di idrato di manganese.
Si fa bollire pochi minuti per scacciare dalla soluzione il lieve eccesso di ammoniaca, poi
si raccoglie il tenue precipitato su piccolissimo filtro, ricevendo la soluzione e le acque di
lavaggio entro un bicchiere da precipitato che indicherò con A. Dopo di che si piega su
se stesso il jiccolo filtro e ancor bagnato si pone entro crogiuolo di platino e si incenerisce
colle ben note cautele. Il tenue residuo di questa calcinazione si fa cadere nella grande
capsula di prima; si bagna con 10 o 12 goccie di acìdo cloridrico e 2 o 3 di acido solfo-
rico allungato, indi sì svapora ponendo il recipiente sulla rete metallica del fornello e sì
riscalda finchè cessano i fumi bianchi di acido solforico, e così si ha un po’ di solfato
ferrico e di solfato manganoso. Dopo raffredamento si aggiunge al piccolo residuo 2 deci-
grammi circa di nitrato di ammonio e un po’ d’acqua calda, e sulla soluzione bollente si
ripete come sopra il trattamento con ammoniaca diluitissima. In tal modo si separano
piccolissime quantità di idrato ferrico privo di manganese che rimane disciolto per la pre-
senza del nitrato di ammonio: infine si filtra ricevendo il liquido nella soluzione del bic-
chierino A, in cui si trova finalmente e scevro di ferro tutto il manganese esistente nel
prodotto siderurgico analizzato.
A questa soluzione, dopo completo raffreddamento, si aggiunge acqua ossigenata pri-
ma, poscia tutta ad un tratto ammoniaca in eccesso e agitando con bacchettino di vetro,
perchè operando con lentezza il biossido idrato di manganese che precipita per le prime
gocce dell’alcali scomporrebbe rapidamente pel fatto solo della sua presenza la maggior parte
— 103 —
della rimanente acqua ossigenata. Un centimetro cubico di questo reattivo al 30%, por-
tato con acqua a 10, basta per soluzioni che contengono sino a grammi 0,4 di solfato
manganoso
L’idrato di biossido, che così si separa in forma di fiocchi molto scuri, viene raccolto
subito, senza riscaldare, su filtro di carta purissima, poi lavato 30 o 40 volte con acqua
bollente. Dopo averlo ben seccato in stufa a 100° si introduce in crogiuolo di porcellana
insieme alle ceneri del filtro bruciato a parte e si arroventa per 1 ora circa ed anche
meno sulla fiamma del cannello Teclus a fine di convertire la maggior parte almeno di
MnO, in Mn,0, ed evitare così uno svolgimento troppo forte di ossigeno, quando la so-
stanza sarà cimentata a caldo con acido solforico. E appunto ciò che si fa tosto che l’ os-
sido che rimane sì è raffreddato; sì bagna questo con 10, 12 o più gocce di acido solforico
concentrato, quante cioè possono essere sufficienti a convertire l’ossido in solfato e a
stemprarlo, mediante pressione esercitata con bacchettino di vetro appiattito ad un suo
estremo, in forma di una poltiglia abbastanza fluida e fenuissima senza granuli visibili,
poi si pulisce il bacchettino facendovi cader sopra poche gocce di acqua. In questa ope-
razione, del resto semplicissima, bisogna porre la massima cura. Ciò fatto si scalda il
crogiuolo prima a bagno maria per espellere l’acqua, poi a temperatura grado grado più
elevata per scacciare tutto l’ acido che non ha reagito con l’ossido e rendere infine il sol-
fato manganoso perfettamente anidro. Per quest’ultimo e maggiore riscaldamento mi valgo
di un apparecchio che è una semplice e comoda modificazione di quello descritto dal
Treadwell nel suo trattato di chimica analitica.
L'apparecchio si compone di un crogiuolo di ferro alto cent. 6,5 con diametro di cent.
7, dentro il quale si pone un triangolino di porcellana o di ferro in modo che pogziando
sul triangolo il crogiolino di porcellana, contenente la sostanza da riscaldare, il fondo di
questo disti dal fondo del crogiuolo esterno di ferro 1 cm. o poco più. Si riscalda il cro-
giuolo esterno con un buon cannello Bunsen, prima moderatamente con fiamma corta, e ìn
ultimo a tutta fiamma, tanto che il fondo del crogiuolo di ferro arriva al color rosso scuro.
Si lasciano i due crogiuoli aperti finché si svolgono fumi bianchi di acido solforico, ces-
sati i quali si chiude il minore con coperchio di porcellana o di platino e l’ esterno con
coperchio di ferro, e si continua questo forte riscaldamento 25 a 30 minuti. Così si ottiene
solfato manganoso anidro purissimo senza pericolo alcuno di perdite o di alterazione del
sale. E necessario che l’ acido solforico eccedente sia scacciato con conveniente lentezza
affinchè i suoi fumi non trasportino con se particelle di solfato.
L'aumento di peso del crogiuolo fa conoscere la quantità del manganese, sapendo che
100 parti in peso di solfato manganoso anidro contengono 36,394 di metallo.
Dal peso totale del manganese bisogna poi sottrarre gr. 0,07279, che è la quantità del
metallo esistente nei 2 decierammi di solfato manganoso aggiunti alla sostanza primitiva.
Da una ghisa bianca in forma di grossi cristalli, che ebbi in dono dai fratelli Glisenti,
trovai 5,1 per 100 di manganese.
Qui viene a proposito di dire che l'aggiunta di g. 0,2 di solfato manganoso torna so-
prattutto opportuna quando si analizzano prodotti siderurgici molto scarsi di manganese, e
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tali sono in generale il ferro dolce, gli acciai di uso comune e non poche ghise, e non
reca inoltre alcun inconveniente quand’ anche la quantità del manganese giunge al 7 o 8
per 100. Allorchè è tenuissima, il precipitato che sì produce in virtù dell’azione ossidante
del persolfato potassico non assume la forma più conveniente, le operazioni seguenti rie-
scono men comode per scarsità di sostanza, e pare inoltre che la presenza di una quantità
rilevante di solfato manganoso, similmente al solfato ferroso, faciliti la soluzione del sol-
fato ferrico che sia stato riscaldato a temperatura alquanto elevata.
Evidentemente i piccoli errori inevitabili in qualsiasi analisi non si ripartiscono sul
manganese aggiunto in forma di solfato, in quanto che, a lavoro compiuto, dalla quantità
del manganese trovato e totale bisogna togliere, come dissi poc'anzi, quella esistente in
er. 0,2 del sale aggiunto alla sostanza primitiva.
Nel caso quindi di dover analizzare un prodotto siderurgico poverissimo di manganese,
inferiore ad esempio a 0,5 per 100, si può consigliare per maggior esattezza di operare
non sopra gr. l di ferro o di ghisa, ma sopra gr. 5, sciogliendo da prima il metallo in 20
cent. cub. di acido cloridrico, tenendo ferma la solita aggiunta di gr. 0,2 di solfato anidro,
non che la quantità del persolfato potassico (gr. 3), ed eseguire tutte le operazioni come sono
state descritte precedentemente: soltanto conviene portare ad un centinaio circa di centi-
metri cubici la soluzione in cui deve effettuarsi la precipitazione del manganese in forma
di biossido col persolfato potassico, a cagione della maggior quantità di solfato ferrico che
bisogna sciogliere nell’ acqua bollente.
In un ferro ricevuto da una casa estera come metallo puro ho trovato 0,44 per 100
di manganese operando sopra gr. 1 e 0,46 operando su gr. 5.
II. Determinazione del manganese nelle ghise grigie.
In generale le ghise grigie contengono poco di manganese, elemento che, com’ è noto
si oppone alla separazione del carbone grafitoide, a meno che la lega non sia ad un tempo
ricchissima di silicio. La quantità massima di manganese 3,90 per 100, fu trovata dal
Ledebur in un campione di ghisa grigia, la quale conteneva 2,5 per 100 di silicio.
Quindi alle ghise grigie è esattamente applicabile il metodo descritto al numero L.,
non esclusa l’ aggiunta di gr. 0,2 di solfato manganoso. Soltanto dopo aver sciolto gr. 1 di
lega nell’ acido cloridrico bisogna aggiungere acqua e filtrare per separare il carbone gra-
fitoide.
Residuo di carbone può anche aversi sciogliendo nell’ acido cloridrico l'acciaio conte-
nente molto carbone di ricottura, il quale, similmente al carbone grafitoide, non è alterato
dal detto acido concentrato e bollente.
In una ghisa grigia esistente nella collezione del Laboratorio e ricea di silicio ho tro-
vato 2,01 per 100 di manganese.
— 105 —
III. Determinazione del manganese nel ferromanganese.
Il ferromanganese può contenere dal 20 al 90 e più per 100 di manganese. Se la
dose di questo metallo è compresa fra 20 e 40 per 100 sarà bastevole sottoporre all’ana-
lisi gr. 0,4 di lega senza aggiungere solfato manganoso, e pel resto tenersi in tutto alle
operazioni descritte al numero I.
Quando invece la lega è molto ricca di manganese (40 o 90 o più per 100) basterà ope-
rare sopra gr. 0,2. In questo caso non occorre naturalmente l’ aggiunta di solfato manganoso.
Ma fatta che sia la soluzione della lega nell’acido cloridrico è mecessario aggiungere ad
essa gr. 1 o gr. 1,5 di solfato ferroso puro e privo di manganese, qual’ è in generale il
sale che le buone fabbriche ottengono per precipitazione coli’ alcool. È raro invece di tro-
vare in commercio solfato ferrico privo di solfato manganoso.
Ho detto che quest’ aggiunta di solfato ferroso alla soluzione delle leghe ricchissime
di manganese è necessaria, perchè la precipitazione del metallo in forma di biossido col
persolfato potassico avviene bene e completa sol quando nella soluzione il ferro è in grande
prevalenza sul manzanese, ossia quando predomina il solfato ferrico che deve sommini-
strare la quantità di ossido di ferro che si separa sempre insieme al biossido di manganese.
Una soluzione al volume di 15 cent cub, che conteneva gr 1 persolfato potassico e gr. 1
di solfato ferrico scevro di acido solforico libero e assolutamente privo di solfato manga-
noso, dopo 10 minuti di ebollizione entro tubo d’assaggio era ancor limpida. È adunque
manifesto che nella soluzione concentrata e bollente di solfato ferrico una parte dell’ossido
di ferro si separa, purchè sia presente il manganese. Nella quale condizione pare che. il
precipitato che si forma, più che una mescolanza di due ossidi, sia un manganito ferrico,
ma non ho fatto in proposito tutte le ricerche necessarie per esserne ben certo.
Allorchè si è introdotto nella soluzione cloridrica di gr. 0,2 di lega e gr. 1 a gr. 1,5 di
solfato ferroso, si aggiunge acido nitrico per convertire i sali ferrosi in ferrici, poi acido
solforico, e si continua l’ operazione com'è state detto al numero I.
In un ferromanganese ricco che ebbi pure in dono dai fratelli Glisenti, tanto io che il
Dott. Terni abbiamo trovato 80,5 per 100 di manganese. La lega sì scioglie nell’ acido
cloridrico bollente senza residuo di carbone, quantunque il ferromanganese, che viene pre-
parato nell’ alto forno in andamento caldissimo e con formazione di scorie rieche di calce,
ne contenga più delle ghise ordinarie in causa della dose maggiore del manganese, per
cui il carbonio prende le forme di carbone di tempra o disciolto e di carbone del carburo
eliminabili entrambi coll’ acido cloridrico bollente.
In tutte le analisi considerate nei numeri I, IT e III ho tenuto ferma la quantità del
persolfato potassico, supponendo che quella del prodotto siderurgico messa in prova dia
come ultimo risultato non più di gr. 0,5 di solfato manganoso. In caso diverso bisogne-
rebbe aumentare la dose del sale ossidante, la cui deficienza si rileva quando, facendo
scaldare la soluzione contenente il persolfato potassico, dopo 6 o 7 minuti di ebollizione
Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 15
— 106 —
cessa del tutto lo svolgimento di ossigeno. Allora nulla impedisce, dopo questo periodo di
riscaldamento, di aggiungere alla soluzione la quantità bastevole e mancante di sale ossi-
dante in polvere e continuare di poi il riscaldamento altri 8 o 10 minuti.
In seguito farò ricerche dirette a dimostrare se questo processo, come spero, possa
essere applicato con vantaggio all’ analisi dei minerali di manganese.
Faccio per ultimo a me stesso la domanda più indiscreta. Il nuovo processo è impor-
tante? Rispondo che la modestia e la prudenza mi consigliano di non attribuire mai questa
parola un po’ azzardata e prosuntuosa ai miei lavori sempre modestissimi. Mi sia però le-
cito di aggiungere, senza contradirmi, che è utile per me, perchè, conoscendo minutamente
tutte le condizioni in cui bisogna operare, seguendo il mio processo sono sicuro di giungere
a risultati più esatti di quelli a cui potrei pervenire applicando i processi altrui, dei quali
molto spesso non si ha precisa conoscenza, nè pratica sufficiente. Non per altro ho cercato
di essere minuzioso nella descrizione del nuovo processo che potrà perciò apparire, ciò che
veramente non è, piuttosto lungo e complicato. In due giorni di lavoro ben regolato e as-
siduo si può determinare la quantità del manganese in qualunque prodotto siderurgico.
Nr E5E= vu
TAPIRI FOSSILI BOLOGNESI
NOTA
DEL
Prof. GIOVANNI CAPELLINI
(letta nella Seduta del 26 Marzo 1911).
Il Sasso di Glosina sulla sinistra riva del picciol Reno delimitato in parte dal Rio
Gemese, improvvidamente mal tagliato in data antichissima per la via da Bologna a Por-
retta era pure internamente scavato per rifugi, taluni dei quali probabilmente da riferirsi
ad epoca preistorica. Di altri cunicoli si ha notizia che, da prima servirono per Ospizio e
relativo Santuario e in seguito ingranditi e moltiplicati furono concessi per abituri.
E di buon ora, per opera dell’ uomo, avvenne del Sasso di Glosina quello che accade
delle rupi calcaree e delle scogliere madreporiche bucherellate dai litofagi, sicchè fino
dal 1300 si hanno ricordi di parziali rovine del Sasso delle quali, anche di recente, il
Dott. G. B. Comelli ha reso conto in una pregevole Monografia dal Titolo « Za rupe e
il Santuario del Sasso » (1).
Delle frane o rovine più recenti quella colossale del 1892 riescì più di tutte le prece-
denti veramente disastrosa, poichè dei trentotto abitatori delle tane del Sasso, ben quat-
tordicì vi perirono miseramente sepolti.
Nelle prime ore del mattino 24 giugno, un rumor cupo e un fremito come di onda
sismica destò improvvisamente gli abitatori del vicino Borgo e, per buona fortuna, un can-
toniere della ferrovia immediatamente resosi conto dell’ immane disastro, riescì ad avvisare
e fermare il treno da Bologna a Porretta che a grande velocità arrivava contro la rovina.
Uno dei passeggeri che tranquillamente dormivano in quel treno N. 7, la mattina
dopo sul giornale la Gazzetta dell’ Emilia narrò come il treno era stato fermato a breve
distanza della frana e quanto era apparso a tutti coloro che, destati dal martellare delle
campane della vicina chiesa, furono immediatamente sul posto per apprestare soccorso.
Il volume della massa rocciosa allora precipitata fu valutato in duemila cinquecento
metri cubi; l’ ingegnere Niccoli, in nome di una commissione incaricata di studiare cosa
occorreva fare per prevenire altri disastri, riferì che era necessario di far precipitare altra
roccia e fu allora deliberata la demolizione di altri diecimila metri cubici di quella massa
molassica.
(1) Comelli Dott. G. B. - La Rupe e il Santuario del Sasso (Montagna bolognese) — Bologna
Tip. Ditta A. Garagnani, 1906.
— 108 —
Nell’ agosto 1893 cominciarono i lavori di sostegno per la roccia che doveva essere
prudentemente demolita e due anni dopo fu intrapresa la demolizione sotto la direzione
del sig. Ing. Canonici.
Il Dott. G. B. Comelli mio antico discepolo aveva vivamente raccomandato che si
tenesse conto dei resti fossili che eventualmente fossero stati trovati e la raccomandazione
non riescì vana. i
Il masso da demolire si elevava a ben 22 metri sul livello della strada provinciale e
alla profondità di m. 5,24, ossia quando già era ridotto a soli m. 16,76 sul livello stradale,
fu trovato uno strato ghiaioso che inferiormente passava ad una molassa grossolana ricca
di filliti con avanzi indecifrabili di molluschi ma che facilmente si poteva conguagliare con
la molassa ricca di filliti del non molto lontano Mongardino.
Due metri circa ancora più basso, ossia inferiormente a quella molassa grossolana
furono scoperti avanzi di ossa piatte assai malconce e tra esse un osso lungo passabil-
mente ben conservato ed un frammento di mandibola con due denti.
Quei resti li ebbe subito il Dott. Comelli e da esso mi furono gentilmente comu-
nicati per studio e poscia donati per la collezione dei vertebrati fossili bolognesi.
Essi consistono :
1° Porzione della mandibola sinistra con due bellissimi denti, il 2° e il 3° molari.
Questo frammento osseo lungo appena sette centimetri è inferiormente troncato sicchè
dal margine alveolare si hanno appena due o tre centimetri di altezza ; è però meglio
conservato dal lato interno per tutta la lunghezza del 3° mo-
lare. Il terzo molare è perfettamente conservato e mi fu pos-
sibile di istituire principalmente con esso i necessarii con-
fronti per identificarne la specie.
Il secondo molare è assai meno ben conservato ; il tuber-
colo anteriore esterno è rotto e in parte mancante e della
metà anteriore del dente mancano le radici e la corrispon-
dente porzione ossea mandibolare. Tuttavia questo avanzo è
interessante e direi prezioso poichè ci ha permesso di anno-
verare, con sicurezza, anche il genere Tapiro tra i vertebrati
fossili del Bolognese.
E quanto alla specie, sebbene si abbiano soltanto questi
due denti non abbastanza caratteristici per certe minute par-
ticolarità sulle quali i paleontologi insistono per differen-
zare, dopo la bella importantissima memoria del Dott. Del
Campana « Sui Tapiri del Terziario italiano, (1) con tutta
sicurezza riferisco il tapiro del Sasso al T'apirus arver-
nensis di Croizet et Joubert.
2° Omero sinistro, disgraziatamente mal conservato tanto da non poterne cavare
(1) Del Campana D. I Tapiri del terziario italiano — Palaeontographia italiana Vol. XVI,
pag. 147-204 (1-58) Tav. XIX-XXI, Firenze 1910.
— 109 —
particolareggiati termini di confronto come sarebbe stato desiderabile. La lunghezza appros-
simativa di quest’ osso è di m. 0,16 e dico approssimativa perchè la testa o estremità
prossimale è sciupata e non permette di averne misura esattissima. Di essa neppure è il
caso di accennarne le particolarità di struttura essendo schiac-
ciata e deformata. La diafisi è ben conservata nella faccia
laterale esterna, mentre a metà della lunghezza manca l’ osso
per un tratto di venticinque millimetri.
Benissimo conservata è la porzione inferiore dell’ omero,
specialmente per quanto riguarda la sua estremità e la faccia
laterale interna, e mentre la troclea è ben conservata e carat-
terizzata, manca il condilo esterno e anche questa parte è
incompleta. Evidentemente il condilo fu rotto e perduto da
chi tentò di liberare quell’ osso dalla roccia che lo includeva.
Ben conservata è la cavilà coronoide e la fossa olecranica
è ampiamente perforata con foro ovale leggermente piegato
dall’ alto in basso verso 1’ esterno.
Giova notare che questa perforazione olecranica si riscon-
tra molto pronunziata anche nel Tapiro americano col quale
il 7. arvernensis sembra avere stretti rapporti. Ho già accen-
nato a porzioni di ossa piatte delle quali non avevo creduto
di potere tentare alcuna identificazione. Di questi avanzi il
più interessante è un frammento lungo m. 0,20 con una
larghezza media di m. 0,20; l’ osso nelle porzioni fratturate
porta tracce evidenti di subìta pressione e stiramento come si
nota in esse rocce stirate sotto pressione le quali sono indi-
cate col nome «li stiloliti. Tenuto conto della conformazione
di uno dei margini dell’ osso ancora ben conservato, avuto
riguardo alla grossezza e ad altre particolarità ho motivo
di ritenere che si tratti di una porzione di Ileo; per altri
avanzi nulla avrei da notare e non potrei assicurare che tutti
siano da riferirsi al bacino.
Cinque anni, or sono (1906) il professore Tommaso
Mori gentilmente mi favoriva avanzi di un vertebrato fossile,
scoperto nella lignite di Livergnana. Lietamente sorpreso di
riconoscere che quei resti spettavano al genere Tapiro, fin
d’ allora pensai di farli conoscere quando avessi avuto occasione di occuparmi del tapiro
del Sasso. Detti avanzi consistono in porzione di cranio, due denti molari isolati e altri
due frammenti pure di denti.
La porzione di cranio consta del mascellare sinistro e vi si nota la mancanza della
corona del primo premolare di cui restano solamente le radici. Del secondo premolare
— 110 —
restano il tubercolo anteriore interno ed il tubercolo posteriore esterno. Il terzo premolare
è perfettamente conservato e su di esso ho potuto verificare le seguenti misure.
Lunghezza lato esterno. ... mm. 17,5
"% Lunghezza lato interno . ... » 15,0
Larghezza del lobo anteriore » 19,0
Larghezza del lobo posteriore » 19,5
Del quarto premolare restano solamente una piccola porzione del tubercolo anteriore
interno e la metà interna del tubercolo posteriore interno.
Sotto questo dente si vede parzialmente il dente di rimpiazzo.
Mancano completamente il primo e il secondo molare e resta la metà interna del lobo
anteriore del terzo ed ultimo molare.
Evidentemente, questa porzione di cranio quando fu scoperta doveva essere assai
meglio conservata e, dalle fratture fresche, ho ragione di arguire che fosse guernita di
tutti i denti perfettamente conservati. La corona di un terzo molare destro i cui tubercoli
sono molto logorati probabilmente spettava allo stesso individuo e inferiormente vi si nota
la impronta dei tubercoli del dente che doveva rimpiazzarlo. Lunghezza del lato esterno
mm. 20, lunghezza del lato interno mm. 18.
Un secondo molare destro perfettamente conservato e che non aveva ancora funzio-
nato, perchè doveva essere evidentemente ancora protetto dal dente che avrebbe dovuto
rimpiazzare, ha le seguenti dimensioni :
Lato esterno lunghezza . . ... mm. 20
Lato interno lunghezza . ...... >» 18
Questi avanzi lasciano vivamente desiderare che si trovino altri resti e che i cavatori,
avvertendoli, abbiano cura di meglio custodirli, senza darsi premura di liberarli dalla
roccia nella quale si trovano. Dopo la bella Memoria del Dott. Campana Sui Tapiri del
terziario italiano per gli accurati confronti da esso istituiti tra i resti di tapiri del Val
d’Arno, della Valle del Serchio e di Spoleto, è facile di rilevare che anche i resti del
Tapiro di Livergnana si devono riferire alla stessa specie del Tapiro del Sasso :
Tapirus arvernensis, Cr. et Job.
E poichè il Tapiro delle ligniti del Casino presso Siena non può distinguersi, dai pre-
cedentemente notati, altrimenti che quale semplice varietà, si deve concludere che la mag-
gior parte dei resti di tapiri del terziario italiano fin qui scoperti sono da riferire ad una
sola specie, quella che fino dal 1828 fu illustrata da Croizet et Jobert tra i fossili del
Dipartimento del Puy de Dome.
Dissi, la maggior parte, perchè occorre di fare eccezione pei resti di Tapiro di Val di
Magra pei quali, avendone riconosciuta la parentela col Tapirus hungaricus e in parte
— lll —
la somiglianza col Tapirus minor, mi ero limitato a dare una coscienziosa descrizione dei
pochi resti che ne erano stati raccolti, senza affermare a quale specie avrebbero potuto
essere riferiti (1).
Il Dott. Campana, avendo ripreso in esame quanto io avevo osservato a tal propo-
sito, in seguito ad accurati confronti con i tapiri del Casino, di Spoleto e delle altre loca-
lità italiane, ba dimostrato che il Tapiro di Sarzanello poteva essere considerato come
specie nuova che gentilmente volle distinguere col nome di Tapirus Capellinii (2).
I resti di Tapiro del Sasso e di Livergnana costituiscono un importante contributo
non solamente alla fauna paleomammologica del Bolognese ma eziandio alla ricca colle-
zione dei Vertebrati fossili del nostro Museo geologico nel quale finora scarseggiavano
avanzi di tali animali.
Rinnovo pertanto le più sentite grazie agli egregi donatori Dott. G. B. Comelli e
Prof. T. Mori, augurando che dalle cave di lignite di Livergnana si possano avere
ancora altri importanti avanzi di vertebrati ad incremento della collezione paleontologica
bolognese.
(1) Capellini G. Resti di l’apiro nella lignite di Sarzanello: Attî della R. Accad. dei Lincei
Ser. 8 Vol. IX. Roma 1881.
(2) Del Campana. - Mem. cit. pag. 200.
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VIRA ACNE
ZIFIOIDI FOSSILI
NEL MUSEO GEOLOGICO DI BOLOGNA
NOS:
EROFZGIONIANNIMO SEE INI
(letta nella Seduta del 26 Marzo 1911).
La prima notizia di Zifioidi fossili in Italia è dovuta a Roberto Lawley il quale
nel 1875in una Nota « Pesci ed altri Vertebrati fossili del Pliocene toscano » (1) così ricor-
cava il genere Dioplodon: « Dioplodon sp.? Questo Zifioide per la prima volta rinvenuto
in Italia sarà determinato dal prof. Ricchiardi ».
Un anno dopo lo stesso Lawley nei « Nuovi studi sopra ni pesci ed altri vertebrati
fossili delle colline toscane » (Firenze 1876) a pag. 109 descrive il dente di Dioplodon pro-
veniente da Orciano del quale il prof. Riechiardi non si era occupato, e lo intitola al
professore Meneghini (Dioplodon Meneghinii).
l’are che molte altre parti dello scheletro fossero state trovate, ma, essendo male
conservate, non furono curaite e andarono disperse. Il Lawley ricorda che un dente simile
era stato trovato al Ponte della Ficaiola nella via maremmana presso il Gabbro, ma altro
non aggiunge al riguardo; invece descrive un frammento di mascella con dente raccolto,
con frammenti di ossa indeterminabili, nel podere delle Volpaie presso le Saline di
Volterra.
Il Lawley sperava di trovare altri resti di Zifioidi e ancora sperava che | amico
Ricchiardi li avrebbe illustrati.
Fino dal 1884 con una Memoria sul Zifioide proveniente da Fangonero presso Siena (2)
e acquistato dal Dott. D° Ancona pel Museo di Firenze cominciai ad occuparmi di questi
singolari cetacei dei quali rari e molto incompleti avanzi già avevo osservati nel museo
di Siena e altrove e, un anno dopo, con altra Memoria « Resti di Dioplodon e Mesoplo-
don » (3) feci conoscere quauto fino allora sì trovava di avanzi di tali animali in tutti i
musei d’ Italia e più particolarmente in Bologna.
(1) Atti Società toscana Scienze nat. Vol. I, Fasc. I. n. 32 1875.
(2) Capellini G. Del Zifioide fossile (Choneziphius planirotris) scoperto nelle sabbie gialle di
Fangonero presso Siena. Mem. R. Accad. dei Lincei Cl. Sc. Fis. e mat. Vol. I. Roma, 1885.
(3) Capellini G. Resti fossili di Dioplodon e Mesoplodon. Memoria R. Accad. delle Scienze.
Serie IV. l'om. VI. Bologna, 1885.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 16
— ll4 —
Il superbo rostro di Dioplodon scoperto nel 1887 nelle Sabbie marnose plioceniche della
Farnesina presso Roma, avendomi fornito argomento per altra Memoria che ebbi 1’ onore
di presentare a questa Accademia nel febbraio 1891 (1) approfittai di quella circostanze
per far conoscere altro avanzo di Zifioide raccolto presso le Case bianche in Val di Cecina
e più ancora per nuove informazioni intorno alla provenienza del frammento di rostro di
Dioplodon gibbus che si trova nel museo geologico di Roma e fu raccolto nel Catanzarese.
Avrei allora dovuto ricordare che il Dott. A. Neviani, già in una Nota « Sui gia-
cimenti di cetacei fossili di Monteleone con indicazione di altri rinvenuti nelle Cala-
brie » (2) aveva assicurato che il fossile, già donato al Prof. Lavisato dal signor Fra-
gale di Serrastretta, proveniva dalla collinetta Canciello distante un chilometro da Migliuso,
ed era stato raccolto nelle argille turchine plioceniche verso rio Casciara che scorre nel
lato orientale della collina stessa.
Con ciò resta definitivamente rettificato quanto riguarda anche la esatta provenienza
dell’ esemplare di Dioplodon gibbus donato nel 1879 dal Prof. Lovisato al Museo geolo-
gico della R. Università di Roma. >
Tre anni dopo la pubblicazione della Memoria sul Dioplodonte della Farnesina e pre-
cisamente il 28 luglio 1894 trovandomi in Arcevia per studiare il giacimento del Delfinide
di Acquabona, per mezzo del Cav. Anselmi conobbì il Signor Vincenzo Mazzi dal quale
potei avere pel Museo di Bologna altro bel frammento di rostro di Dioplodon che l° egregio
donatore mi disse di aver raccolto nel 1875 in un fosso sotto Piticchio.
Questo frammento lungo circa venti centimetri rappresenta la estremità del rostro del
zifioide abbastanza ben conservata, come del resto si verifica per tutti i resti analoghi di
detti cetacei; anteriormente scheggiato nel lato sinistro (mascellare e intermascellare)
senza doverne fare una sezione trasversale ritengo di poterlo con tutta sicurezza riferire
al Dioplodon tenuirostris, Owen, del quale il Museo già possiede una bella porzione di
rostro proveniente da S.ta Luce presso Orciano pisano.
Il Dioplodonte di Piticchio interessa in modo particolare, perchè è il secondo esempio
di avanzi di tali animali nel pliocene del versante adriatico dell’Apennino.
Terminerò questa breve Nota col catalogo di tutti.i resti di zifioidi che oggi si tro-
vano nel Museo di Bologna o che vi sono rappresentati con buoni modelli.
Genere Dioplodon.
longirostris, Owen. Case bianche in Val di Cecina.
longirostris, (modello) Fangonero, presso Siena.
gibbus, Owen. (modello) Migliuso presso Serrastretta.
tenuirostris, Owen. (Calabria).
tenuirostris, Owen. Piticchio presso Arcevia.
UbbES
(1) Capellini G. Zifioidi fossili e il rostro di Dioplodonte della Farnesina presso Roma. Mem.
R. Accad. delle Scienze. Bologna. Serie T. Tom. I. Bologna, 1891.
(2) Bollettino della Società geol. ital. Vol. V. Roma, 1886.
— 115 —
. tenuirostris, Owen. S.ta Luce, presso Orciano.
bononiensis, Cap. Rio Predone, (Bolognese).
. medilineatus, Owen. Orciano.
. senensis, Cap. (modello) S. Casciano dei Bagni.
Lawley, Cap. Saline di Volterra.
. Meneghinii, Law. (modelli) Orciano.
Farnesinae, Cap. Farnesina presso Roma.
Sp. Orciano.
bbDHIBED
Gen. Mesoplodon, Gew.
M. D'Anconae, Law. (modello) Saline di Volterra.
Mesoplodon sp. cassa timpanica ?
Gen. Choneziphius, Cuv.
Ch. planirostris, Cuv. (modelli) Fangonero.
Ch. planirostris, Cuv. (modello di cranio). Anversa.
Gen. Placoziphius V. Ben.
Modello di cranio di giovane individuo. — Rocca di Volterra.
ci
pepinuidr Calcolo Funzionale
MEMORIA PRIMA
DEL
PROF. SALVATORE PINCHERLE
Letta nella Sessione del 27 Novembre 1910
INTRODUZIONE
Parecchi anni or sono, lo studio di qualche problema d’ inversione d° integrali defi-
niti mi conduceva a considerare ]° espressione
(1) /a(2,y) f(4)dy
come un’ operazione applicabile all’ elemento variabile /(y), nella stessa guisa che una
funzione è applicata alla sua variabile indipendente (*). Questo concetto, analogo a
quello che signoreggia il Calcolo delle variazioni, veniva da me ripreso e svolto in
in una serie di note e poi in un volume (**) pubblicato in collaborazione con un va-
lente mio discepolo, ora mio egregio collega. Secondo codesto concetto, le funzioni di
una determinata classe, più o meno estesa, erano da considerarsi come punti di uno
spazio ad infinite dimensioni, e le operazioni distributive o lineari erano le omografie
operanti su questo spazio. Per meglio delimitare la questione, mi ero trattenuto spe-
cialmente su quello spazio i cui elementi sono le serie di potenze di una variabile; ogni
tale serie sì considerava come un punto di quello spazio, ed i coefficienti ne rappresentavano
le coordinate : anche limitato in questi termini, il concetto di spazio funzionale e di
operazione geometrica sugli elementi di questo spazio sì rivelava fecondo e metteva
in luce inattese analogie fra la teoria delle funzioni analitiche ed il calcolo delle ope-
mazioni (***).
D'altra parte, dopo notevoli ricerche del Volterra, lo studio delle equazioni integrali,
cui ha dato un meraviglioso sviluppo la memoria ormai classica del Fredholm (****),
ha aperto all’ indagine matematica nuovi campi, nei quali si vanno giornalmente racco-
(°) La prima nota in cui abbia accennato a questo concetto è comparsa negli Acta Math, T. VII,
pag. 381 (1885).
(‘*) Le operazioni distributive, Bologna, Zanichelli, 1901.
("‘) Si noti come questo concetto abbia giovato al compianto T. Cazzaniga nei suoi lavori sui
determinanti infiniti secondo H. von Koch; v. in particolare Atti della R. Accad. di Torino, 1. 34
(16 Aprile 1898).
("°) Acta Math., T. XXVII, p. 365 (1908).
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 17
— 118 —
gliendo risultati di grande e di riconosciuta importanza. Fra questi risultati, i più notevoli
ed acquisiti nel modo più completo e definitivo, sono quelli che riguardano le equazioni
integrali lineari: queste, e con esse lo studio, che vi si connette intimamente, delle
operazioni funzionali della forma (1), che si chiameranno operazioni integrali, hanno dato
un’ estensione inattesa alle ricerche sulle operazioni lineari che agiscono in un campo fun-
zionale. In codeste ricerche, lo spazio funzionale è quello delle funzioni continue, o quelli,
più estesi ancora, delle funzioni integrabili nel senso di Riemann o delle funzioni
sommabili nel senso di Lebes@ue; dalle ricerche stesse, le operazioni lineari che un tempo
primeggiavano, come le forme lineari differenziali o alle differenze, vengono in qualche
modo ricacciate in seconda linea. Nei lavori ai quali alludiamo, e fra i quali il posto più
cospicuo è occupato da quelli di Hilbert e della sua scuola, le equazioni integrali e
le operazioni che ad esse si collegano vengono considerate sopratutto da un punto di
vista che in altra occasione ho chiamato quantitativo 3 questo punto di vista è preva-
lente nelle questioni di meccanica e di fisica matematica che hanno data origine a
simili equazioni e ad esso si sono specialmente attenuti i numerosi autori che si sono
occupati della loro risoluzione e dei problemi affini, fra cui principalissimo quello della
sviluppabilità di una funzione arbitraria in serie procedente secondo una successione di
funzioni determinate : problema che a buon diritto sì può considerare come quello della
rappresentazione lineare di un elemento arbitrario di uno spazio funzionale mediante una
data base.
Ma se è grandissima in sè, e per le applicazioni, l’ importanza di questo punto di
vista quantitativo od arifmetico sotto al quale si suole considerare il calcolo funzionale,
non per questo è privo d’ interesse il punto di vista qualitativo, che si potrebbe anche dire
geometrico ; è sotto a questo punto di vista che deve venire tentata la classificazione
delle operazioni lineari ; a questo appartiene lo studio delle proprietà delle operazioni
integrali (1) in corrispondenza alle proprietà analitiche del loro nucleo a(x, y), la na-
tura analitica del risultato di una tale operazione in relazione con quelle dell’ ente su
cui si opera (corrispondenza funzionale), le condizioni che regolano la distribuzione degli
elementi invarianti, ecc. Questo secondo modo di considerare la teoria delle operazioni
integrali starebbe di fronte al primo, all’ incirca in quella relazione in cui la teoria
delle funzioni analitiche sta rispetto alla teoria delle funzioni arbitrarie di variabili
reali; che, per altro, i due modi di considerare la teoria delle operazioni o delle equa-
zioni funzionali lineari abbiano fra di loro stretti legami, è ben naturale a priori, ed è
dimostrato, per esempio, da quei risultati del Poincaré, del Riesz e di altri, che
fanno dipendere la possibilità della risoluzione di un’ equazione funzionale, cioè, una que-
stione di indole morfologica, da un criterio puramente aritmetico, ad esempio dalla con-
vergenza di una data serie.
Il presente lavoro cui, per molte ragioni, non posso dare che il carattere di sem-
plice abbozzo, è il primo di una serie destinata ad illustrare il punto di vista al quale
ho per ultimo accennato. I risultati che esso contiene saranno, senza dubbio, giudicati
incompleti ; mi si permetta solo di ritenere non infondata la speranza che, nella dire-
SENO
zione che vi è indicata, siano da incontrarsi argomenti di interessanti ricerche. Questa
memoria è dedicata allo studio di operazioni lineari per le quali si ammette 1’ esistenza
di una risolvente di Fredholm che sia una funzione analitica di forma determinata del
parametro ; ci si propone di vedere quali conseguenze, per l’ operazione stessa e per la
ripartizione che essa effettua nello spazio funzionale su cui agisce, nascano dall’ ammis-
sione di una risolvente di questa o di quella forma. Codesto studio, premesse nell’ art. I
alcune considerazioni generali sulle operazioni lineari in relazione specialmente colle con-
tinuità e nel II alcune nozioni sulla risolvente, si svolge negli art. III-V, in cui vengono
esaminati tre casi che forniscono altrettanti tipi interessanti ; nel III, il tipo, che si può
dire del Volterra, in cui l’ operazione non ammette nello spazio considerato elementi
invarianti ed è base di un calcolo che procede colle regole del calcolo ordinario ed ha
una validità assai estesa; nel IV, il tipo in cui la risolvente è meromorfa rispetto al
parametro e al quale ha condotto il caso classico studiato dal Fredholm ; infine nel V,
un’ operazione che si distacca dalle precedenti per avere una risolvente, che, come fun-
zione del parametro, ammette una linea di discontinuità e per presentare quindi, secondo
la nomenclatura dell’ Hilbert, uno spettro continuo.
Î. Le considerazioni che seguono si potrebbero riferire a tutte quelle classi di enti
pei quali si immaginano definito il concetto di uguaglianza e disuguaglianza, quello di
addizione, quello di moltiplicazione per un numero, quello di passaggio al limite : ciascuno
di questi concetto essendo caratterizzato dalle sue proprietà elementari. Non sarebbe
necessario di particolarizzare maggiormente tali enti, e la trattazione potrebbe condursi
in modo astratto : però, per meglio fissare le idee, ci pare opportuno di specificarne
la natura, e nella scelta di questa specificazione vi è una notevole arbitrarietà : ad esempio,
sì potrebbero considerare classi di vettori di un numero indeterminato di dimensioni, 0
funzioni di un numero arbitrario di variabili date in un dominio comune di variabilità.
Per brevità di linguaggio, e anche in vista delle applicazioni, ci restringeremo — la re-
strizione non ha nulla di essenziale — al caso in cui gli enti in discorso sono funzioni
di una variabile #, date in un intervallo J; tali funzioni saranno gli elementi di un
insieme, che nei singoli casi verrà definito da un conveniente sistema di proprietà, e che
diremo spazio funzionale S.
2. Gli elementi di ,8° verranno di norma, in ciò che segue, designati con lettere
greche minuscole ; useremo talvolta anche lettere minuscole latine stampatelle. Le lettere
latine minuscole corsive ci serviranno a rappresentare numeri. Un elemento a di ,$ è
dunque una funzione della variabile # data nell’ intervallo Y; non è però escluso che «,
oltre che di , possa essere funzione di altre variabili y, ,.... Se ciò accade, si am-
metterà che & sia elemento di ,8° per ogni sistema di valori dati ad y,,... nei ri-
spettivi loro campi di variabilità.
3. Ammetteremo che lo spazio , sia lineare. Intendiamo con ciò che se a, 8, Y, ....
appartengono ad ,$, vi appartenga anche
aa +58 +cy+....
per ogni sistema di funzioni a, 8, VARE
4. Ammetteremo ancora che lo spazio ,8 sia denso. Intendiamo con ciò che, preso
un numero positivo e arbitrario, esso contenga funzioni che, in tutto l° intervallo J, si
mantengano in valore assoluto inferiori ad e. Questa condizione è pochissimo restrittiva ;
basta infatti che fra gli elementi di ,$° vi sia una funzione & limitata in tutto J, perchè
url ae
a| < m, la funzione =) che ap-
la condizione sopra detta sia verificata, poichè, se è
partiene ad ,$8, è in valore assoluto inferiore ad e. Se è denso, esso contiene, insieme
ad un suo qualunque elemento a, infiniti elementi a' tali che sia |al—- a | "kquesel
sì diranno appartenere all’ intorno (e) di a.
5. Diremo che p è elemento limite di ,S se è possibile di estrarre da ,8' una suc-
cessione @,, A, 93 --- Any... di elementi avente per limite e tale che la convergenza
al limite sia uniforme nell’ intervallo J. Scriveremo in tale caso :
lune, =05
n= 09
con questa scrittura intenderemo dunque, senza che sia necessario di ripeterlo esplici-
tamente, la convergenza uniforme al limite in tutto J. Lo spazio ,8 si dirà chiuso se
contiene i suoi elementi limiti.
@. Le operazioni che si possono applicare agli elementi di ,8 si dicono operazioni
funzionali. Noi ci occuperemo specialmente di quelle, fra codeste operazioni, che am-
mettono le seguenti proprietà : i
a) Applicate ad un elemento di ,$, esse danno origine ad uno, o più, elementi
di ,S medesimo. Considereremo il caso più semplice, in cui 1’ operazione, applicata ad un
elemento di ,$, genera un solo elemento dello spazio medesimo; essa viene detta allora
UNIVOCA.
b) Se A è l'operazione considerata, ed A(a) il risultato che si ottiene applicandola
ad un elemento di a, deve essere per ogni coppia elementi a, 8 e per ogni numero e :
A(a + B8)= A(a) + A(8), A(ca)= cA(a);
l'operazione A ‘è cioè distributiva.
c) Preso un numero e arbitrario positivo, deve esistere in corrispondenza ad e e
all'operazione A un tal numero g, che se 1° elemento a di ,$, in tutto J, soddisfa alla
— 121 —
disuguaglianza
|a] <q
ne consegua
\A@|=<@5
l'operazione A si dice con ciò continua.
Diremo lineare un’ operazione che soddisfa alle tre proprietà precedenti 4), db), c).
Indicheremo le operazioni dello spazio , colle maiuscole latine.
7. Osserviamo subito che se A è un’operazione lineare, da
mama =
n 09
segue immediatamente
lia (0) = 40)
n ZO
In particolare, se la serie
Dn
1
è convergente uniformemente in I, è
AT Cn 3 TACCHI)
cioè l’ operazione A è distributiva ai termini della serie.
8. Come esempi di operazioni lineari si possono citare, fra le più ovvie :
a) la moltiplicazione di qualsiasi elemento di ,8° per un numero costante,
b) l’ integrazione definita
dove gli elementi a di ,$° si suppongono limitati ed integrabili in un intervallo J, con-
tenuto in J, ed a(2, y) è una funzione limitata di x, y data, per la variabile « nel-
l’ intervallo J, per la variabile y nell’ intervallo ,, ed integrabile in questo intervallo.
9. Per le operazioni lineari univoche si definiscono nel modo più immediato 1° ugua-
glianza e la somma. Le operazioni A e B si diranno uguali nello spazio ,S se, per ogni
elemento a di ,S, è A(a) = £(a); l'operazione © si dirà somma di A e B e si porrà:
C=A+5
se per ogni elemento a di ,S' la C(a) è la somma delle funzioni A(a) e 5(a). Le leggi
formali dell’ uguaglianza e dell’ addizione sono manifestamente conservate.
10. Il prodotto di due o più operazioni lineari univoche in ,° verrà definito nel
modo solito. Se A e 5 sono le due operazioni lineari date, si vede subito che A,
Pio
applicata ad un elemento di ,$, dà un elemento di ,8; e che è operazione univoca, distri-
butiva e continua. Pertanto le operazioni lineari in ,8° formano un gruppo, in generale
non commutativo. Ammetteremo, per le operazioni che saranno d’ora in avanti consi-
derate, che la moltiplicazione sia associativa.
Dalla definizione di prodotto si deduce subito quella di potenza di un’ operazione
lineare, e dalla proprietà associativa risulta la legge degl’ indici
myn — qmtn
AMA" — gmtn,
onde la interpretazione dell’ esponente «70, dell’ esponente zero e dell’ esponente intero
negativo : sarà A! = A, A° rappresenta l’operazione identica, AT” è I’ inversa di A”,
11. 4) Sia data in ,$ una successione di operazioni lineari
(1) A
e per un elemento a di ,8, le A,(a) tendano ad un limite 8 pure appartenente ad ,$':
scriveremo
(2) lim A,(0) = 8;
Wie ®)
per quanto è stabilito al S 5, s° intende con ciò che la convergenza al limite 6 sia
uniforme rispetto ad «x in tutto 1° intervalle J. Gli elementi a di , pei quali è soddis-
fatta una relazione della forma (2), cioè per i quali la A,(a) ammette limite, formano
un insieme ,$ contenuto in 8, ed evidentemente lineare ; l'elemento 8, limite di A,(4),
sì può riguardare come ottenuto da a mediante un’ operazione £= lim A,, valida in
$, ed evidentemente distributiva. DAT
b) La successione (1) converge uniformemente per un intorno di a, se preso in numero
positivo arbitrario e, esistono due numeri positivi n, g tali che per ogni n > n 6 per
ogni elemento a' di ,8, soddisfacente alla condizione |a' — a|< g, è
|La') — A,(a')|<e.
12. Le A, si diranno ugualmente continue se, preso e positivo arbitrario, esiste
un numero positivo g tale che per |a|< g, sia, per qualunque x, |4,(a)| LICH
13. « Se ,, è denso, e la (1) converge uniformemente in un intorno di ogni ele-
« mento a di ,$,, £ è un'operazione lineare in S. >»
La £ è operazione distributiva ; basta mostrare che è continua. Ora, la differenza
L(a) — L(a') può scriversi :
L(a) — A,(a) + Ax(a')— L(a')+ A,(a) — Ax(a')
onde
(3) |Z(a) — L(a)| <|Z(a) — A.(a)|+|Z(a') — 4,(0')|+|4,(0) — A,(4')|.
SAN
Si scelga un numero positivo arbitrario e. Preso un elemento a in ,8,, per le ipo-
tesi, esistono due numeri, n, e g, tali che per un a' di ,Sj tale che sia |a — a'|< 9,
1
euper n > n, è
|Z(a)— Ax(A)] << |La)— A(a)|<3.
Fissato il valore x, poichè A, è continua, esiste un intorno (g') di x tale che per ogni
a'' contenuta in quest’ intorno, è
|An(a) — d(a")|<3
Ma $, essendo denso, si può prendere a' di ,$, tale che sia ad un tempo in (9g) ed
in (g), e sarà allora, per la (3):
IG
Con ciò è dimostrato che Z è continua, ed è pertanto un’ operazione lineare.
14. « Se le A, sono ugualmente continue, lo spazio 8) è denso, e la (1) converge
« uniformente in un intorno di ogni «4 di SHE »
Essendo e un numero positivo arbitrario, esiste per l’ eguale continuità, un numero g
2)
) € n
tale che per |a — a'|<g, è | A,(a') — A,(0)| < 2 qualunque sia 2. Sia ora a un
un elemento di ,$,; le A,(a) avendo limite, vi sarà un 7 tale, che per 7 > » e per
ogni intero 7, è in tutto J:
Si consideri un elemento a' di ,$° per il quale sia
(4) |al—a|=<g
e si formi
An4+r(2') — An(a') = An4 (2) A 4;(0) + Ana) — An(0') + 4,4,(0) — A4,(0).
Ne viene :
| An+r(2')Ax(a') | Si AG, er(4)An4,(0) | +| An(a')A,(a) |+ | An+r(0)— An(a) | o
Qui, per la (4), in seguito alla uguale continuità delle A,, i due primi valori as-
c : : Paone . ILLE 3 E
soluti del secondo membro sono entrambi minori di —; per la scelta di 7, è minore di 3
il terzo valore assoluto, onde è, per n > » e per qualunque 7 :
ini
oi
Ne risulta anzitutto che a' appartiene ad ,$, il quale è pertanto denso ; inoltre,
ne viene ancora che la (1) converge uniformemente in tutto l’ intorno (9g) di a.
15. Se le A, sono uniformemente convergenti in un intorno di ogni a di IS e_ se
S si suppone denso, le A sono ugualmente continue.
Vi sia la convergenza uniforme per ogni a. Preso e positivo arbitrario, gli cor-
rispondono dunque due numeri positivi g, 7 tali che per ogni a' di S, tale che sia
r 3 o È
|a—a (a @ JR Oui M> I E
DS
I
°
[A,(a') Apa Aneep(@)| <
O
Ora è
[An 4, (2) — An4+;(0)| <|An(0') — A,4,(0))|]+|A,(0) — 4,4,(0)|+|A,(a) —A4,(a')|.
Ciò posto, si fissi 2 > #1. Essendo A, continua, vi è un numero positivo g' tale che
Ù Ul x ’ n e
per |a—a'|<g', e |A) — A(0)|<3.
Preso dunque a' nel più piccolo dei due intorni (9g) e (9°) di a, si ha pertanto
| AS) fesa A) | =" e
per r = 1, 2,.... Ma, x essendo stato fissato, per ognuna A,, 4,; ..- An_, vi è un in-
torno di a, rispettivamente (9,) (93), --.- (9-1) tale che per & in g;, è
Aia) — A4;(a)|<e (i—-1,2,...n— 1).
Preso pertanto il minimo fra intorni (9g), (9°), (9g) (i= 1, 2, ...# — 1), in questo
intorno minimo è | A,(a')— A4,(a)| <e per tutti i valori di n. Le A,(a) sono dunque
ugualmente continue.
Dalla proposizione del $ 14 e da quella del $ 13 segue che « se le A,, sono ugual-
mente « continue, la Z è una operazione lineare. »
16. « Se le A,, sono ugualmente continue, lo spazio , è chiuso. »
Ciò significa che se una successione
(5) a, A SS
1° PRIGG
di elementi di 6, tende al limite y, esiste in $, il limite di A,(y) per n= co. Per
dimostrare ciò, scelto un numero positivo e, assegniamo il numero positivo g che, per
ORC 3 e x
l’uguale continuità, rende, qualunque sia », |A,(0)| < 388 |o| =g. Nella sue
cessione (5), scegliamo ora una a» tale che sia in tutto 4,
||
Considerata allora la differenza
An SI 00) Wai LAI)
essa si può scrivere :
(2,0) rai RZ) suli (A,(ap) ca A,(Y)) ana (ES) era A,(Ap)).
E ra DE. VELE €
Qui i valori assoluti delle due prime parentesi sono entrambi inferiori ad —, qua-
O
lunque sia 7; si scelga poi n tale che la terza parentesi risulti, per ogni 7, inferiore
CA : Sx nta 1 3
ad 3° il che è possibile poichè a, appartiene ad ,$ ; risulterà
PA) DE An(Y) | =Me7
cioè y appartiene ad $S.
17. Se a appartiene ad ,6, non ne viene in generale che vi appartenga A,(a). Ciò
accade però se le A,, A,,... sono operazioni fra loro permutabili. Infatti, essendo A
un’ operazione qualunque della successione (1), è in tale ipotesi
ATE Ap(a) si AnAp(a) = Ap(4An4r(4) = A,(a));
essendo e un numero positivo arbitrario, sia 4 il numero tale che per |o|<g è
| 4,(0) | <e; basterà fare n tale che perize= sia
| An4+ (2) — An(a) Î <@
perchè ne risulti
|An+rAp(0) — An Ap(0)|<e,
e con ciò si vede che A,(a) appartiene ad $.
Da queste e dal $ 16 risulta che « se le A, sono permutabili ed a è un elemento
« di ,S,, anche Z(a4) è elemento di S
13 Qualora le A, siano ugualmente continue. »
18. Delle cose dette nei $$ precedenti facendo |’ applicazione alle serie di opera-
Mini), si ha che:
o
a) Una serie NA uniformemente convergente in un intorno di ogni elemento
=
di uno spazio denso 8 ($ 11), rappresenta in ,$, ur’ operazione lineare.
b) Se le somme parziali della serie sono ugualmente continue, lo spazio in cui
converge la serie è denso, e la serie vi converge uniformemente in un intorno di ogni
elemento dello spazio stesso.
(*) Dicendo che la serie di operazioni XA, converge per un elemento « di S, si intende, conforme-
mente a quanto si è stabilito al $ 5, che essa converge uniformemente rispetto ad & in tutto l’ inter-
vallo J.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 18
MOR
c) Se la serie ZA, è convergente e B è una operazione lineare, anche ®BA,, è
convergente ed è
BASA
d) Se la serie 2A, converge per l’ elemento a e le A, sono permutabili, la serie
è convergente per ognuno degli elementi A4,(a4), (p = 1, 2,3,...).
II.
19. Sia A un’operazione funzionale lineare data per uno spazio funzionale ,$. La
serie di operazioni
VE n_-lqyn
(1) RN
0A
rappresenta per gli elementi a di ,S pei quali converge, un’operazione distributiva ;
se consideriamo uno spazio denso di elementi « in cui la A converga uniformemente
nell’ intorno di ogni elemento, essa rappresenterà in codesto spazio un’ operazione li-
neare ($ 13). È appena necessario di ricordare che se per un valore k del parametro k
la (1) converge, essa converge (assolutamente, ed uniformemente rispetto a &) per tutti
i valori di & tali che sia |z|<| k |:
Detto ,$, 1’ insieme degli elementi pei quali (1) converge, se a è un elemento di $,,
convergerà anche la
(2) ARIAS ATE
ne risulta che A ed £ sono permutabili, e che A(a), A°(a),... appartengono pure ad
S ($ 18, c, d). Per tali elementi a si ha dunque
R(u)— RAR(a) = A(a).
Ad una operazione £# che soddisfi alla relazione precedente si dà il nome di risol-
vente di Fredholmm dell'operazione A. La ragione di questa denominazione sta in
ciò : che se si ha l’ equazione funzionale
(3) dii
in cui 4 è un elemento dato e @ un elemento incognito (detta equazione di Fredholm
nel caso, maggiormente studiato, in cui A sia un’ operazione integrale) e se a appar-
tiene ad 4 la soluzione ne è data da
12
(4) P=a+kk(a),
come si verifica immediatamente.
20. Non si può dire molto di più sulla natura delle operazioni lineari, sulle ripar-
tizioni che esse producono nello spazio su cui operano e sulla risoluzione delle equa-
zioni funzionali in cui esse figurano, se non sì specificano maggiormente, mediante
opportune limitazioni (*). In questo lavoro vogliamo mostrare, in particolare, come
l'assunzione di speciali ipotesi circa alla natura» della risolvente /, riguardata come
funzione analitica del parametro k, permetta di giungere a notevoli conclusioni circa
alla classificazione delle operazioni lineari.
Fra le ipotesi alle quali accenniamo, ha particolare importanza quella che le sin-
golarità della £, in quanto è funzione analitica di &, siano indipendenti per posizione
e per natura dalla scelta dell’ elemento 4 su cui si opera e dai valori della variabile « :
se, a prima giunta, questa ipotesi può sembrare troppo restrittiva ed arbitraria, la sua
considerazione viene però giustificata dal fatto che esso si è trovata verificata nei casi più
notevoli studiati fin qui e nelle ricerche che ora si proseguono sulle equazioni integrali (**).
TU0E
21. Come primo caso nell’ accennato ordine di idee, ci proponiamo di studiare
quello in cui
L’operazione lineare non degenera A, data in un ,S, ha una risolvente R che, per
ogni a di S':
1°) è trascendente intera rispetto al parametro & ;
2°) come funzione di 2, è convergente uniformemente in .J ;
3°) come operazione, è uniformemente convergente ($ 11, 2) per l’ intorno di ogni
elemento a.
Come si è visto la terza di queste ipotesi significa che, preso il numero posi-
tivo e arbitrario, esistono per ogni « di 8 due numeri positivi 9, ». tali che per tutte
(*) Fondandomi su considerazioni alquanto diverse da quelle che inspirano il presente lavoro, ho già
indicata una di queste limitazioni, che permette di trattare, in modo astratto, un caso particolare compren-
dente le operazioni integrali lineari regolari (o di Fredholm). (V. Mem. dell’Acc. delle Scienze di
Bolosna, S. VI, I IN, 1906, p. 143).
(‘*) Non è però da tacere come in casi, anche assai semplici, di operazioni distributive, non si verifi-
chino tali ipotesi. Ad esempio, l’operazione che consiste nella semplice moltiplicazione dell’ elemento
arbitrarlo x(x) per una funzione fissa n(x), ha per risolvente :
_ a(@)n(e)
ie Za:
le cui singolarità, come funzione analitica di Z, sono indipendenti da x ma dipendono da @; mentre
l'operazione di derivazione, applicata alle funzioni della forma «(@)= e°”, ha per risolvente
le cui singolarità sono indipendenti da «, ma dipendenti da e, cioè dall’elemento funzionale x.
= og
le a tali che sia |a — a|<g (inclusavi a stessa) e per m > m, è
DIA (a) CE
n=)
Ne risulta che preso un numero positivo s arbitrariamente grande, esiste un numero €
tale che per tutti i valori di 1 e per gli elementi 4 tali che |at— a] <g SI hoe
In È
(1) |A) | < gr
ossia, adoperando un termine già altre volte usato, si può dir che per ogni a la suc-
cessione A”) è ologene.
Inversamente, se si suppone che la A verifichi la (1), ne segue che la risolvente È
è trascendente intera in & e che essa converge uniformemente per un intorno di ogni
elemento di ,S.
Le operazioni che soddisfano alle condizioni enunciate in principio di questo $, 0
alla equivalente proprietà (1), si diranno operazioni del tipo di Volterra 0 sempli-
cemente operazioni di tipo V.
Per queste operazioni, lo spazio ,8, indicato al $ 19, coincide con S.
22. Risulta immediatamente dalla (1) che ogni elemento A(a) appartiene ad ,$;
si verifica pure senz'altro che vi appartiene anche (a).
L'equazione funzionale in @ :
(2) P_- kAP)=a
ha, per qualsiasi valore di & e per qualsivoglia elemento a di ,8 una soluzione
espressa da
(3) P_=Aa4- kk(a)
ed appartenente pure ad 8; in questa formula, A essendo la risolvente :
(4) = OA,
n=l1
si ha per l’espressione :
(5) GET)
n=0
Questa soluzione è unica. Se infatti 1’ equazione (2) ammettesse una seconda solu-
zione P', posto P'— P= @, si avrebbe un elemento @ (elemento invariante di A
relativo al numero &) tale che :
®O=RkRA(0),
onde
che è in contraddizione colla (1). Possiamo quindi notare che le operazioni di tipo V
non ammettono elementi invarianti per alcun valore finito del parametro &k.
23. La proprietà (1), che caratterizza le operazioni del tipo V, permette di sta-
bilire, per sistemi di un numero arbitrario di simili operazioni fra loro permutabili,
un calcolo di una singolare semplicità, generalità ed efficacia. Questo calcolo è stato
sviluppato dal Volterra, in alcune recenti note (*), per le operazioni date sotto forma
di « operazioni integrali fra limiti variabili » nel caso delle loro permutabilità. Le pro-
posizioni date dal Volterra per le operazioni integrali, sono qui considerate nel caso
generale astratto di operazioni lineari che abbiano la proprietà (1).
24. Si consideri dapprima una serie di potenze di una variabile 2, soggetta alla
sola condizione di non essere sempre divergente (di avere un raggio di convergenza non
nullo); sia essa
(6) SETTE
n=0
Sl costruisca un simbolo operatorio sostituendo nella (6), al posto di , il simbolo A rap-
presentante un’ operazione di tipo V; si ottiene così :
(7) ESSI
n=0
1°
In forza della (1), la serie (7) risulta assolutamente ed uniformemente convergente
in J, e uniformemente convergente in un intorno di ogni elemento a di ,8; essa rap-
presenta pertanto ($ 13) una operazione lineare applicabile a tutto $, ed è inoltre per-
mutabile con A. Si verifica immediatamente che P(a) appartiene ad ,S.
25. Se nella serie (6) è nullo il coefficiente c,, la operazione P è del tipo V.
Si ponga infatti
Da) = ca) = s(+eg+e2°+...);
facendone la potenza r°"®*, viene
)
3S
x
LP
(I
=—_
(N)
$
9
2.
pù
(a)
4
"(Ch + Cn + Org +...)
convergente nello stesso cerchio di p(z). Sia # un numero positivo inferiore al raggio
di convergenza di p(z), e sia /& il massimo valore assoluto di p(z) per |z | EA
(*) Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, 20 febbraio, 3 e 17 aprile 1910.
— 130 —
Preso un numero s grande a piacere, sì determini un s tale che sia ad un tempo
Ì
(0 0)
(8) L= SIDASE
allora, per le ipotesi fatte su A, preso un @ in ,$, esisterà un numero c tale che per ogni 7
e per ogni a in un intorno di «, sarà
(o) qm DES)
(9) |A (a) | - gi ;
Ciò posto, le regole formali di moltiplicazione delle serie di potenze di P essendo le
stesse di quelle delle serie di potenze di una variabile, si avrà,
P"(a) == CA" + ch AtT'+ Cu AT°+ $
Ora, essendo
h'
| Crn | S a 9
p
avremo per le (9)
I h ne
| Pa) < eh" ( a +...)
\ sh fsi stano
o, tenuto conto delle (8):
È li 1 o Ss
Pal<e(z+t a+.) ir
Esiste dunque un numero
tale che per tutto l’ intorno considerato di a, è
'
YO G °
| JE (a) | < I
s
la P soddisfa dunque alla (1), ed è pertanto del tipo V.
26. Se due operazioni A, B permutabili sono del tipo V, è tale anche il loro prodotto.
Si consideri l’ elemento di ,8° rappresentato da
B=a+sB(a)+<B(a)+....
s essendo un numero positivo grande a piacere. Essendo s' pure positivo arbitrario,
esiste un numero c tale che per ogni 1 è
c
| A7(0) | < gl
-— 131 —
ossia
| A”(0) + sA”a) + s°A”" B°(a) a
gl 3
Ne viene, per una nota proprietà delle serie di potenze
mM 71 Cc
Se in particolare si fa s = s', m = n, viene, poichè A e 58 sono permutabili
(11) (Aa
e questa disuguaglianza valendo in tutto un intorno di a, le 48 verifica la (1) ed è
quindi del tipo V.
27. FEstendendo ora quanto è stato detto al $ 24, consideriamo una serie di po-
tenze di più variabili ,, 2, -. 3g:
(de) DE 0 DIAZITI S0 DC ESSI IO G/0,
la quale non sia sempre divergente : consideriamo poi un sistema di g operazioni del
tipo V, fra loro permutabili : siano esse A,, A,,.. 4
RE Sì costruisca il simbolo operatorio
q*
——, y a 9 (0
(13) RR RIO AA
in forza della proprietà (1), cuì soddisfano le A;, e della proposizione del $ precedente,
la serie del secondo membro di (18) risulta assolutamente ed uniformemente conver-
gente in un intorno di ogni elemento & di 8°; essa rappresenta quindi, in $, un’ ope-
AIA
razione lineare, permutabile con ciascuna delle A,, A,
q°
28. Se nella serie (12) il coefficiente c,y
o è nullo, l’ operazione P è pure del tipo V.
Per semplicità, dimostreremo questa proposizione nel caso di qg = 2 : salvo le mag-
giori complicazioni di scrittura, la dimostrazione sì estende senza difficoltà al caso di q
qualunque. Sia dunque
P( = Cmn ZU (Goo == 0)
Mm,
una serie di potenza non sempre divergente, e sì costruisca, colle operazioni A, B per-
mutabili e di tipo V, |’ operazione
= OE
mi,
— 132 —
La p(z,) non essendo sempre divergente, si possono assegnare (ed in infiniti modi)
due cerchi aventi i centri nell’ origine, 1° uno nel piano z, l’ altro nel piano «, e tali che
la serie converga per ogni coppia (3, «) interna ai cerchi medesimi. Si prenda un nu-
mero positivo #, dove il punto indice £ sia interno ad entrambi i cerchi : la serie sarà
convergente per i valori | 2] <, |u| <%, e sia % il massimo valore assoluto di
p(z, u) per tali valori. Si formi ora la potenza r°"° (» intero positivo) di p(z, %);
ordinando per le potenze di z, w, verrà:
(14) io No
mM,n
e sarà, per una nota proposizione :
= (7) h'
(15) na Spara:
D'altra parte, la potenza ,°"* dell’ operazione P si ottiene colle stesse regole formali
della p”, e si ha:
(16) P°(A, B)= Si Co AE
mn
Si noti infine che nella (14) e nella (16), i coefficienti c%) ,, sono tali che è m+n> r.
Ciò posto, scelto un numero s grande a piacere, sì prenda un s, tale che sia
(7) SSL
indi si prenda s, positivo abbastanza grande perchè sia ad un tempo :
>
fi
(0 ©)
x_—
x
Va
A
E
VA
In virtù della (10), c essendo opportunamente scelto, è per ogni coppia 2, x e per
per un intorno di ogni elemento « :
m pn
|A B |< Mt n?
Sa
onde, per la (15)
Ue
| AS | < (s pene
2
mn
ed essendo w + n > r, si avrà per le (18)
AIR LEE
| Cm,n | matn
SI
Da ciò segue che, poichè lo sviluppo (16) contiene termini omogenei di grado 7», poi
—. 383 =
di grado r + 1, di grado r + 2,.. in A e B, sarà
c Poi Da
Pole)
s
(+ 1)c 2 3 (r+l)c
<—_ |1+-+ e,
SI \ s s : Tape
s(1—.)
$
Posto 5=c', e tenuto conto della (17), viene :
l
ds)
G
(+1)
st CA
| LI, B|< —-<;
a b)
sk?
n)
ei] REC ESA
ma poichè ir tende a zero per » = co, così si può assegnare un numero c'' tale
che per ogni valore di © sia
URI
| PAC BI<4.
La P appartiene dunque al tipo V. Si verifica immediatamente che P”(A, 5), applicata
ad a, dà un elemento di $, e che l’ operazione P è permutabile con A e B.
29. Dato in uno spazio funzionale lineare ,8° un sistema di operazioni di tipo V,
fra loro permutabili, A,, A,, .. Ap, sì possono dunque dedurne infinite espressioni ope-
rative mediante la sostituzione di A,, A,,.. A, in serie di potenze arbitrariamente prese
di p variabili, soggette alla sola condizione di non essere sempre divergenti e di avere
uguale a zero il termine indipendente dalle variabili. Reiterando indefinitamente il pro-
cesso indicato, si ottiene un insieme (V) di operazioni, avente la potenza del continuo :
tutte le operazioni del sistema sono definite, lineari in ,8, appartenenti al tipo V, per-
mutabili colle operazioni A,, A,, .. Ap e permutabili fra loro. Per codesto insieme (V)
valgono le considerazioni fatte dal Volterra per il caso delle operazioni integrali fra
limiti variabili permutabili fra loro (*), considerazioni che permettono la risoluzione di
infinite classi di equazioni integrali. Quando le considerazioni si vogliano estendere al
caso di operazioni lineari qualunque di tipo V per le quali non si presupponga alcuna
rappresentazione integrale, converrà prendere le mosse da un’ equazione
(19) DE, 05
dove il primo membro è una serie di potenze 3,, = 3,3 ; supposto che il punto
9,00
z:=%,=-.-3r = 0 non sia punto critico per la «, definita da (19) come funzione
(°) V. il $ 4 della Nota dei Rendic. della R. Accad. dei Lincei, 20 febbraio 1910.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 19
— 134 —
implicita di z,, 2,,--Zr, Se ne ricaverà nel modo noto
CRE READ ! MR +0, Ù Sa
(20) Le di Cnyng i nrF1389% pio (co...0= 0),
UR)
(>
dove lo sviluppo sarà convergente in un intorno del punto z,,,,.. 3 = 0. Sostituendo
ora nella (19), al posto di z,, 2,,-- 2, le A,, 4, 4r; © ponendo al posto di v un sim-
bolo operativo UV, si avrà un’ equazione
(2419) P(A,, Agg: An, UV) = 0:
QI
equazione che si potrebbe dire operazionale rispetto ad U, poichè è equazione funzionale
solo quando si intenda fissato I° elemento a cui è applicato il sistema delle A. Questa
è risoluta non solo formalmente, ma effettivamente in tutto lo spazio $, dalla
SERA Ù/ 4N n, n
Up x Cra e
che è operazione del tipo V.
30. Come caso particolare, sia un’ operazione di tipo V e permutabile con A,
della forma
P= Ae c3A° no cA°+ Erga
Nell’ ipotesi che sia c, = 0, si calcoli la serie inversa di
io 303 RE; :
uZezt 8 A+ 04 SP. 0000
con uno qualunque dei noti metodi che si hanno per il ritorno delle serie di potenze ;
ne verrà:
AGG IT 353
pertanto, l’ operazione A sarà espressa in funzione di P, da
AP + cPik PELI:
Sui sistemi (V) di operazioni si presentano questioni varie ed interessanti, che però
non è qui il luogo di considerare: accenniamo, fra queste, al problema (che il V ol-
terra dice fondamentale nel suo studio sulle operazioni integrali permutabili (*)) della
ricerca di tutte le operazioni di tipo V permutabili con una data, e alla discussione
della polidromia cui danno luogo le equazioni della forma (21) nel caso che il punto
z,=%=...=2,=0 sia critico per la w definita dalla equazione (19).
(*) Nota citata del 20 febbraio 1910.
31. Considereremo, sempre in astratto, un secondo tipo di operazioni lineari non
degeneri. Esse saranno quelle per le quali « la risolvente , in quanto dipende dal pa-
« rametro &, è funzione meromorfa di questo parametro, a poli fissi, e in quanto è
« operazione sugli elementi 4 di ,8, è tale che lo sviluppo in serie di potenze di & — &,
« che la rappresenta nell’ intorno di un valore &, di & che non sia un polo, converge
« uniformemente nell’ intorno di ogni elemento a di ,8. » Come è avvertito al $ 5,
è sottintesa la convergenza uniforme rispetto ad x in tutto |’ intervallo J.
Le operazioni che ammettono una tale risolvente verranno dette operazioni del tipo
di Fredholm, o, per brevità, operazioni di tipo F.
32. Cominceremo dall'esame di un caso particolare molto semplice, ma altrettanto
istruttivo. L'operazione A, data in 8 e priva di radici, ammetta come risolvente una
operazione X la quale, come funzione del parametro &, sia uniforme con un solo polo
fisso (indipendente da a e da x) di prim’ ordine & = &,, oltre al punto singolare essen-
ziale per & = co. La È può pertanto scriversi :
B(a)
iL) la o IR
+ Ga; k)
dove G(a; k), in quanto dipende dal parametro, è funzione intera, definita da uno svi-
luppo in serie
(2) Giai dI Gn(4)k"
n=0
convergente in tutto il piano &; in quanto sono operazioni applicabili agli elementi
di 8, la 5, la G e le G,, sono distributive, e la serie (2) viene infine supposta uni-
formemente convergente in un intorno di ogni elemento a di ,S
Queste ipotesi permettono di dedurre proprietà notevoli per l’ operazione A.
a) Sappiamo dal $ 19 che per |z|<]|&,|, la R(a) è rappresentata dallo svi-
luppo in serie
(3) OE ETZE
dal confronto con (1), ne segue
B(a
(4) = - ) “5 GO)a
l
e in generale
i B(a
(4) AR (a) (e) Gee 1209 )
-- 1356 —
D'altra parte, essendo per definizione ($ 19)
kR —RAR=4A,
viene per la (1)
B_— KAB— (k — R)(AT_ GA-RAG),
onde, passando al limite per & = &,:
(5) ERA:
Prendendo dunque sui due membri della (4) l’ operazione A”! e tenendo conto della (5),
il confronto colla (4') ci dà :
Coli
e pertanto :
(6) CRESTE)
n=0
La successione A” -!G, è dunque ologene, cioè l’ operazione A applicata sugli ele-
menti G,(a) è del tipo V. Talchè :
« Se l’ operazione A ammette una risolvente della forma (1), gli elementi B(a) sono
« invarianti di A relativi al numero &,, e gli elementi G,(a) sono tali che per essi,
« l’ operazione A è del tipo V. »
b) Vediamo sotto quali condizioni un elemento % di ,$° possa essere invariante
per A. Dovrà essere, se l’ elemento è invariante rispetto al numero # :
n= A);
onde
SSA
A (27) Hani h
e quindi, per || inferiore al più piccolo dei due numeri |&,| ed ||, si ha da (3):
Rm=z lx
Ma dal confronto con (1) risulta, per il principio di identità delle funzioni analitiche :
h==k,, BM)=%, GM;k)=0,
l’ultima delle quali equivale a
(7) GM) = 0.
Se ne conclude che « 1° operazione A non può avere invarianti se non relativi al
numero &,; per questi, l’ operazione B coincide coll’ operazione identica ; infine codesti
invarianti sono radici della operazione G,.
=
c) Vediamo ora sotto quali condizioni l’ operazione A possa essere di tipo V per
un elemento o. Se è tale, A”(0) è successione ologene e quindi la (3) è funzione intera
in R. Dal confronto con (1), e dal citato principio d’ identità, segue dunque :
(8) B(0) = 0, R(0) = G(0; k).
d) Indichiamo con 7 l° insieme degli elementi invarianti di A; con ,Sj I° insieme
degli elementi pei quali A è del tipo V. Evidentemente, tanto 77 quanto ,$, sono spazi
lineari. Dalla conclusione di @), e dalle (7) ed (8), risulta : « che essendo 4a un ele-
« mento qualsiasi di ,$, l’ elemento 2(a) appartiene ad 77, l’ elemento G,(a) appar-
« tiene ad 8; che ZY è spazio di radici (*) per l’operazione G,, e 8, è spazio di
« radici per l’ operazione 5. »
e) « Gli spazi Z7 ed ,S, non hanno elementi comuni. » Infatti, se a appartiene
ad _H, è
A(a)= =;
se a appartiene ad ,S, la successione A”(a) è ologene, e queste due illazioni si con-
traddicono.
f) Tanto lo spazio ZZ quanto lo spazio
dell’ operazione A; infatti è chiaro che se « appartiene ad 77, vi appartiene anche
rimangono invariati dall’ applicazione
A(a), e che se a appartiene ad ,8, vi appartiene anche A(a).
g) « Ogni elemento a di ,8° può, ed in un solo modo, decomporsi nella forma
(9) a= PW
« dove 7 è elemento di Z7 e o elemento di $. »
Si ha infatti, da @), che B(a) è un elemento di 77; sia indicato con 7. Dalla (4)
Sigha::
Ad GARE
onde
A"a—R)=A"-G(a).
Il secondo membro è, per «), una successione ologene e quindi a — 7 è elemento
di 8; lo si ponga uguale a 0, e la (9) è così dimostrata. La decomposizione è poi
possibile in un solo modo, poichè in caso contrario si avrebbero elementi comuni ad Z7
ed 8, contro quanto si è veduto ad e).
Mediante la decomposizione di ,8'° nella forma
ST UH=ISO,
quale risulta da quanto si è ora esposto, si può dire di avere ottenuta /a struttura
dello spazio ,8 rispetto all’ operazione A.
(*) Pincherle e Amaldi: Le operazioni distributive, p. 31, Bologna, Zanichelli, 1901.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-41. 20
34. Veniamo alla risoluzione di alcune equazioni funzionali relative all'operazione A.
a) Per l'equazione lineare di prima specie
(10) A()ii05
dove a è funzione data in ,S e $ funzione incognita, o in altri termini, per la deter-
minazione dell’ operazione A! inversa di A, la risoluzione è subordinata a quella della
stessa equazione nello spazio 8, cioè all’ inversione di una operazione del tipo V.
Se infatti si pone
= PE
viene
A (a)=k% + 470)
; = ,
che dimostra l’ asserto. Non si può aggiungere di più, non potendosi dire nulla di ge-
nerale sull’ inversione delle operazioni di tipo V.
Per l’ equazione di seconda specie
(11) P—- KRA(D) = a,
o equazione di Fredholm, dove a è data in 6 e @ è incognita, la soluzione, come
risulta dal S 19, è data da
q=a+kR(a)=a + LeRO)
+ kG(a; k)
oo
per ogni valore di &, eccettuato & = &,. Per il caso R = #,, la soluzione g@, se esiste
o potrà decomporsi ($ 33, g) in
P==N+0,
7 elemento di Z7, o elemento di ,8, ; ora sostituendo, viene
N+0o-khA4N+0)=0—kA(0)=a;
l'elemento dato «x deve dunque appartenere ad ,8,. E questa condizione necessaria è
anche sufficiente per la possibilità dell’ equazione ; infatti, se a appartiene ad ,$,, una
soluzione è data da
POSI
e da questa soluzione particolare si deduce la soluzione generale D+ 7, dove 7 è un ele-
mento arbitrario di Z7.
35. Le combinazioni per somma e moltiplicazione di operazioni permutabili della
specie definita al S 32 sono soggette alle leggi del calcolo ordinario, e si possono ri-
solvere formalmente quei problemi la cui soluzione sia riconducibile alla costruzione di
una serie di potenze. Il procedimento da seguire è quelio stesso indicato dal Volterra,
nelle note citate, per le operazioni integrali e che abbiamo richiamato per le operazioni
astratte di tipo V al $ 29 di questo lavoro. Ma per la validità degli sviluppi ottenuti,
— 139 —
è da notare una differenza essenziale col caso allora considerato ; in quel caso infatti,
se, partendo da una serie di potenze (per semplicità, di una sola variabile)
33 CnEn
avente un raggio non nullo » di convergenza, se ne deduceva la
(12) Dei
questa godeva della convergenza, uniforme in 7 ed in un intorno di ogni elemento «
di ,$, senza restrizioni ; nel caso attuale invece, lo sviluppo (12) può venire usato con
sicurezza solo quando sia 7 > |&, È A questa osservazione è subordinata la validità
dei risultati ottenuti mediante 1 accennato calcolo funzionale.
36. Lasciando al lettore la facile estensione dei risultati precedenti al caso delle
operazioni A la cui risolvente sia della forma
KAZE
dove F è, rispetto a &, una funzione razionale a poli fissi e G una funzione intera in &,
passiamo ad abbozzare lo studio delle operazioni generali di tipo /, definite al $ 31,
in cui la A} è funzione meromorfa del parametro £. Supporremo, per semplicità, che
i poli della detta funzione meromorfa siano del primo ordine ; la complicazione maggiore
che porterebbe il caso di poli di ordine qualunque dà luogo a difficoltà di forma che
si superano con procedimenti ben noti, e che non toccano all’ essenza della questione,
specie dal punto di vista al quale ci siamo posti.
La risolvente meromorfa £ di A si ponga sotto alla forma nota che le si può dare
in base al classico teorema di Mittag Leffler. Essendo i poli della detta funzione
i punti &,, &,...f,..., ordinati in modo che sia (&, differente da zero) :
| ky | S | Eri cOneglimiNz,i— Con
=
si avrà:
; LITE RS,
(13) “SZ (; — — — Jgi.. 2) +61):
2 ei; m
pe le ky ke, Bg
gl’ interi (non decrescenti) 7, sono scelti in modo che la serie del secondo membro con-
verga uniformemente rispetto a & entro un’ area grande a piacere ma finita, da cui i punti
interni &, siano esclusi con cerchi aventi i centri in questi punti e raggi piccoli a piacere. La
Gia, h) = » Gn()k" è funzione intera di &. Si ammette, come è stabilito, la convergenza
n=V
dello sviluppo in quell’area come uniforme rispetto ad @ in tutto J e uniforme in un
intorno di ogni elemento 4 di ,S. Evidentemente, le 2, e le G,, sono operazioni distribu-
tive in S.
— 140 —
37. a) Per |k|<|&,|, lo sviluppo (13) si può ordinare per le potenze crescenti
di È,
Sor) Bi(0) _._ fo
(14) t= YI k i Ta + e co al)
Mi==21 IL (di
dove qg= g(x) è un intero variabile con » e tale che sia
my <n_- 1, my >n_ 1.
D'altra parte, se la # ammette uno sviluppo convergente in serie di potenze di &,
esso non può differire da
(3) R(a) = YA" (a)
n=1
come sappiamo dal $ 19. Abbiamo dunque
B (a BA Bd
(15) A"(a)= a e. 10) LG, _1(0)
LI 9
b) La È essendo definita da
RT_—-kAR=A,
sostituendovi la (13), moltiplicando per %& — &; e passando al limite per & = &,;, viene
Bi) E) MEZZE)
Onde « l’ operazione B;, applicata agli elementi di ,$, genera elementi invarianti dì A
« rispetto a k;. »
c) Sia y un elemento invariante di A rispetto ad un numero %. Si avrà:
”
hh
(16) ANA) MA)
Dal confronto con (13), segue che /# non può differire da uno dei numeri, ; sia
PEZIARSITS MAI
R() = B;(7) (
] 1 k kn,
= k; hè ARI:
Onde, dal confronto colle (16), viene
(17) Bi =: mpeg
(S
daN / 7,
(18) mae, Gp on Vedi nec
ks kî Ss ki:
Talchè « l operazione A non ha invarianti all’ infuori di quelli riconosciuti a d); per
« gl’ invarianti 7, relativi al polo &,, l’ operazione 8, è l’ operazione identica ; gli ele-
— Rd
« menti 7; sono radici per le operazioni G, di indice non inferiore ad 7, e per le
« operazioni B, dove v è diverso da s. »
d) Indichiamo con Z7 l'insieme degli elementi invarianti di A. Lo spazio 77 si
divide negli spazi 7, Z,,... degli invarianti relativi ai singoli numeri k,, R,, ..;
due spazi Z7;, HI; ron hanno elementi comuni se è è =F j, come risulta subito dalle (17).
Ogni spazio H,, + 4H,, + .. H,,è mutato in sè dalla operazione A.
e) < Se p. è radice delle operazioni B,, B,, -.. Bo, è
(19) AO) AE D.(0)
Jniatersse go ReRtadieetde 82,256) snai dalla (013):
Mm n
1, pm,
Epe->kp,er-==== #56.)
È val È k(ko— k)
‘ ma si ha pure
ed il secondo membro converge per || < oz
ROSE
vel
e ciò dimostra la (19).
38. «) In base alle osservazioni del S precedente, si scorge facilmente che « ogni
« elemento a di ,$° può porsi nella forma
(20) O=YQT Nt Yo + Più
« dove 27; 7, -- Xp sono elementi di Z7, H,,... H, vispettivamente, e p è radice
et, .. B,.>
Si formi infatti 5;(4);.il risultato sarà un elemento 7; di Z7; ($ 37, 0). Consi-
derando allora
pelle pe
Bi(P) Bia} —=Bm)=0.
Verrà, per le (17),
Inoltre la decomposizione di & nella forma (20) è possibile in un sol modo; in
altre parole, una somma
(A? Won e E
non può essere nulla se non ne sono nulli tutti i termini, come si vede applicandole
una qualunque delle operazioni B;(î = 1, 2,...p).
b) Se 8 è radice di B;, è tale anche A(8); infatti, è
+ G(8; k)
(*) La scrittura
n
è stata usata da varì autori per indicare che la serie di potenza Na,3” converge entro il cerchio |— .
el
— 142 —
(i)
dove DI
v
valore © = i. Ma & è permutabile con A, come risulta dalla (3); onde
indica che la sommatoria va estesa ai valori di v da 1 a co, eccettuato il
; pk,
RA(8) = XY" 4B,(6) i
i : AG(O ; k
REI Io) ae 0 ),
e questa mostra che RA(8) non contiene il polo X = &;, cioè che è B;(4(8)) =0.
c) Pertanto, segue da (20), per qualunque 7 :
< ) RE 77 74 Ip n
(21) A” (a) EE E pmi nto III ceo A° (P),
l 2 ‘p
dove A”°(0) è radice di BRDS:
2 De
39. La risoluzione dell’ equazione di Fredholm (11) sì ha immediatamente in base
alla (3) del $ 19, se X ha valore diverso da Ri; Ra, Ro, ... E però anche facile vedere
sotto quale condizione sia possibile 1° equazione
' .
(QI) D_- k;A(P)=a, (dla
In base ai SS precedenti, si può scrivere, se esiste Pins:
P= N +6,
dove 8 è radice di B; ed 7; è un elemento di Z7;. Ne viene
8 Farà k;A(0) — 4,
e quindi ($ 38, 5), anche « deve essere radice di 2;. Questa condizione necessaria di
risoluzione di (11') è anche sufficiente, perchè qualora sia soddisfatta, l'elemento
22) d=a+k;E(a)
soddisfa senz’ altro alla (11'). La soluzione generale di (11') è data da D+ ni, essendo
P la funzione data da (22) e x; un elemento arbitrario di 77;.
40. Riassumendo i risultati ottenuti in ciò che precede circa alla struttura dello
spazio ,8 in relazione ad una operazione di tipo , possiamo dire che
« ad ogni polo k; (numero invariante di A) corrisponde uno spazio invariante Z7;,
<« in cul l'operazione A si riduce alla moltiplicazione per x? ed una operazione B;
ti
« che nello spazio Z7; è 1’ identità, mentre negli spazi 7; (s =|° i) è 1’ operazione nulla.
<« Ogni elemento a di ,8 è decomponibile ed in un sol modo, nella forma (20), o nella
« forma più generale
(23) a=R+ +... + p
SME
« dove 7;, 7j, -- s appartengono rispettivamente agli spazi BRE ASSESSORE
« radice delle corrispondenti operazioni 8;, B;, ... Bs. >»
La #; si può dire la componente di a in Z;.
41. Si ha ancora la seguente importante osservazione. Dato un elemento a, si pos-
sono determinare successivamente le sue componenti 27, 7, -.. in Z7,, £,,...; si ha
allora, dalla (15), che
; 7 ” (7 Na( ) Mi
(24) lim (4 (a) — i Je po, CIMA: a A) EI
n OD 1 2 gn)
dove g="g(n) è definito al $ 37, a); e di più, la successione
% UE Nam)
n 1 2 di
(25) Wai sa:
I MED q(m)
è ologene.
42. I risultati precedenti si presentano in forma assai più semplice quando i nu-
meri 72,, 77 che, in base al noto metodo di Mittag Leffler, si devono sce-
ppnac
gliere in modo da ottenere Ja convergenza al secondo membro della (13), si possono
prendere tutti fra loro uguali. Indichiamo in tale caso con »: il loro valore comune.
La (18) viene allora sostituita da
(26) p=N ao EEA
viene
(27) AC A IG pi = CO
e
i ZIE
(28) sa ni ) SICA (0) Oi
Ora da queste ultime, viene, mediante applicazione dell’ operazione A :
NCAA CIRCO) CIO] 0a TOTI TRAP E
il simbolo operatorio
(1+- BA +RA°+....)Gm
è dunque funzione intera in &, e quindi la G,, trasforma lo spazio ,$' in uno spazio
per il quale la A è operazione del tipo V. In questo caso siamo dunque pervenuti al
seguente risultato :
— l44 —
« Se la A ammette una risolvente meromorfa della forma (26), essendo a un ele-
« mento qualsivoglia di 8° e posto B,(a)==#,, si ha per A”(a) lo sviluppo
(29) A (E Si Lo +p,, (> M)
n
yi
« dove 0, è elemento di uno spazio per il quale A è operazione di tipo V; e lo svi-
luppo (29) è uniformemente convergente rispetto ad w. »
43. Si può riguardare lo spazio ,° come ripartito in una somma degli spazi
H,, H,,... H.,... e di uno spazio S, per modo che preso un elemento 4 in ,S' e posto
B,(a)=n,, ed essendo 7, elemento di £4Z, e p, di SACE
(30) A_N e
quì, uguaglianza (==) ha semplicemente un carattere virtuale, ma essa dà luogo ad
una uguaglianza effettiva in seguito all’applicazione dell’operazione A” (n > m), e pre-
cisamente dà lo sviluppo (29).
44. Nei casi concreti che si sono presentati nello studio delle equazioni integrali
e in cui si possono applicare le considerazioni astratte precedenti, accade di norma
che gli spazi Z7, siano ad una dimensione : ad ognuno dei numeri £, corrisponde un
solo elemento 7, di , (all’ infuori d’un moltiplicatore numerico), talchè ad un elemento
a di ,S corrisponde una costante c,, tale che
I) == Oa
I numeri c, si possono allora dire, in senso esteso, coefficienti di Fourier-Hilbert
di a rispetto all’ operazione A. Si avrà lo sviluppo virtuale :
(30') a = ZyC0M%v + Po
e, per n > ®, lo sviluppo effettivo
GI
(31) Ma (ET pri Mo SD Dal
Come al $ 33, si prova immediatamente che ,8j non può avere elementi comuni
cogli 77, e che le 747, sono spazi di radici per G,,; ne segue che lo sviluppo di A" (@)
nella forma (31) è possibile in un solo modo.
4-5. Nell’ ipotesi del S$ precedente, qualsiasi operazione funzionale rappresentata da
una funzione /(A4) razionale intera o fratta del simbolo A, purchè contenga a fattore
A”( > m) in numeratore e non contenga A a fattore in denominatore, sì può eseguire
sostituendo, nella (31), al coefficiente c, : 2, il coefficiente
— ]45 —
a Pn, il risultato di f(A4(p,)), il quale si ottiene mercè il calcolo funzionale delle
operazioni di tipo V ($ 23-30). Talchè :
1
n
f@)= e (7) No+f(A(P)),
7 ;
sviluppo che ammette la convergenza uniforme in .7. Notevole il caso cui manchi la
funzione intera G, nel quale caso le A”, per n © #, si comportano in , precisamente
come si comportano le omografie in uno spazio ad un numero finito di dimensioni in
cui si siano presi come elementi base gli elementi invarianti dell’ omografia stessa.
V.
46. Considereremo, per ultima, un’ operazione A lineare univoca e non degenere in
uno spazio funzionale ,S, la quale per gli elementi di codesto spazio abbia una risol-
vente /, definita al solito da
(1) R— RAR=A,
colla condizione che questa risolvente, come funzione del parametro, sia della forma :
) e -°P(c; u) du x; u) du
da il mt
Qui s’ intende con @(7; «) un elemento di ,8° (funzione di + data in J) che inoltre è
funzione del parametro reale « dato nell’ intervallo 4 < % < d, con a > 0; questa
funzione dipende da :x medianto un’ operazione 8 :
OI Bia u).
Per ogni a dell’insieme ,S, la (x, v) si supporrà continua in v ed uniformemente
rispetto ad x; essa sì supporrà inoltre limitata per tutti i sistemi di valori di w nel-
l’ intervallo a ...d e di @ in J. La R stessa si indicherà con R(a), con R(k) o con
E(a; k) secondo che si vorrà porre in evidenza o l’ elemento su cui opera, o il para-
metro, o entrambe queste quantità.
Un’ operazione A avente una tale risolvente della forma (2) si dirà del tipo di Hil-
bert o brevemente di tipo H.
La (a), rispetto al parametro k&, è funzione analitica regolare in tutto il piano
eccettuato il taglio a ...d; la (1) permette dunque ($ 19) di risolvere l'equazione di
Fredholm per ogni valore di & non appartenente al taglio, e la soluzione è data da
(3) P=a+kR(a);
sì vedrà più avanti come questa soluzione sia unica.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 21
L'operazione 5 è distributiva. Infatti, è
R(a+l6)= R(0) + R(8),
onde
fa (a+0;)du = fe LL ai
Sa u — k u— k Sa uk
Ne viene, dallo sviluppo in serie di potenze di questa espressione, sviluppo convergente
per |&| <a, che è
Je (a+0;u) — B(a; udu— B(8; u))du _
MD
U
per ogni 7 intero positivo. Per un noto teorema di Lerch (*), e poichè le B(a), 2B(8)
sono funzioni continue di «, ne risulta
Ba+0;u) = B(a;u +B(8;u)
47. Sviluppando la (2) in serie di potenze di &, si ha per |R|<@
VOCE
RZICRO)I
n n
n=0
dove i coefficienti di &” sono, per ogni elemento a di ,S, elementi di ,8. Sostituendo
nella (1), se ne deduce :
(5) Ad) = I}
ed in conseguenza :
D A
(5) a | Bla; O.
per ogni # intero positivo.
Si ha pure per |K|>d:
è B(a; udu
=D
VITA DI = JE (a; u)u"du,
k
n=0 x
dove anche qui i coefficienti delle potenze di & sono elementi di 6; sostituendo in (1),
viene :
D
(6) 4f B(a; u)du= A(a)
at da
ed
II) I)
(7) 4} Bla; u)u"*'du= [ B(a;u)u" du.
(*) Acta Math. T. 27.
— 147 —-—
La (6), poichè A non ha radici in $, dà
db
(8) | BOI)
onde, dalle (7): x
(5) A "(a)= Î B(a;uu"du, M=1,2,...).
L’ ipotesi dell’ esistenza di una risolvente della forma (1) permette dunque di risol-
vere l’ equazione funzionale lineare di prima specie
N35
per la (5'), la soluzione è data da
)
i INC B(a;uudu.
48. L’ unicità della soluzione dell’ equazione di Fredholm, per ogni valore di &
non appartenente al segmento «...d, si può riconoscere come segue. In sostanza, si ha
da dimostrare che per un valore &, di & non appartenente al detto segmento, non può
esistere elemento invariante di A. Sia, se è possibile :
Am=t;
ne viene, da (1),
LIA
{dfn
D'altra parte la (2) permette di scrivere :
B(7;) du È RE
rw= f. ee ei di
n=0
per i valori di % tali che |&R —k,| sia inferiore alla minima distanza di &, dal se-
gmento a ...d. Duna parte dunque (7) avrebbe un polo per & = &,, mentre d’altra
parte sarebbe regolare per quello stesso valore di &: la proprietà dell’ invariante non è
dunque possibile se &, è fuori di @...d, e quindi l'equazione di Fredholm ha l’unica
soluzione (83). Questa soluzione si può esprimere in serie di potenze intere positive
di & se è |R|< @; di potenze intere negative se è | &| 8; di potenze intere posi-
UNCNdnZAZ,
nima distanza di ki CA Aeoo de
se &, è preso comunque fuori di a ...d e |&KT— &, | è minore della mi-
49. Nella AR considerata come funzione di h, si diano a & i due valori :
ER
— 148 —
dove &, è un valore reale compreso fra a e d. Verrà
È; a RTLA)
c SIRIA — 9
(9) R(E')— R&")= 2ir La nn
Sì prenda un numero positivo g arbitrario ; indicata con P(v) la B(a; v), si può, per
le ipotesi del $ 46, determinare un intervallo &, — €, ....k, + € incluso in a...d e
tale che per ogni « di J e ogni punto « di quell’ intervallo sia
RS Sg
(10) P(u = PE) +0, con |o(|< Ti
Sia inoltre m un numero positivo maggiore del massimo valore assoluto di @(v) in
Lutto ra #0 Re fperditutieneva] ordini
L'espressione (9) si può decomporre in
REA
e B(a;u)du db
J,= zir | E a) 35 = 27 7 ,,= ir |
ME +(u—k,) * TaeSe Ù
dove
Peri primo termine ssi
Naso, do)
|\/| Vea | 5 DE
== (0 FA iva
ma è
(utR)}+t> È,
onde
2Tm(k — a)
| J, | S È :
9
gE
—_—_____, o a più forte ragione
Gm(k, — d)°
Se dunque sì prende 7 inferiore a
ge
al TT"
Io) <Gmo=a)
viene
I
| J, | < D S
Analogamente, sotto la condizione (11), è
I
| I, < SI
Il termine J, può scriversi, per la (10),
J, TR J, al J,
con
kl +8 .hi+3
du o (u) du
ASIA ut la È RIT > al
; PA) (u— hat 3 leo»
— 149 —
Per il secondo di questi, si ba per la (10):
kj+€ U
0)
ba
e siccome l’ integrale definito dà qui un arco positivo inferiore a 7,
lol =è
b)
Pertanto, prese € e 7 in modo da soddisfare alle (10), (11), si ha:
(362) | RR) RA')-7|<9.
Ora, passando al limite per t = 0, si ha
lim J,= 2ixp(k);
t=0
P(k,) è un elemento di ,$ che, anche come tale, rappresenteremo con Pi; R(k) — RE)
è pure un elemento di ,° che rappresenteremo con @y,,”. Si ha da (12):
(13) lim Pw=2Ti@,
W', x!!
e poichè A è operazione lineare e nelle (13), per le ipotesi fatte, la convergenza al
limite avviene uniformemente rispetto ad x, così è
lim A(Pw, pu) = 2TiA(P).
(=
Riferendoci ora alla (1), abbiamo, per uno stesso a :
R(k') — R'AR(k')= R(k')—k'AR(k'),
onde
Puri — RA(Gw, 1°) = iTAR(R') + itAR(R").
Passando al limite per &'= &'", o ciò che è lo stesso, per 7 = 0, viene infine :
(14) P_RkA(G)=0.
Siamo giunti così al seguente risultato :
« Per la (2), ad ogni elemento di a corrisponde un elemento B(a; ), funzione di
« e di w. Per ogni valore reale di «, compreso fra a e d, la B(a;«) verifica l’ ugua-
« glianza
(15) B(a;u) — uAb(a;u=0,
« ed è quindi elemento invariante di A relativo al valore u. »
— 150 —
50. Per quanto abbiamo veduto, le operazioni del tipo Z7 non ammettono ($ 48)
elementi invarianti relativi a valori del parametro non appartenenti al segmento a ...d,
che, seguendo la nomenclatura dell’ Hilbert, diremo spettro dell’ operazione. Per i
valori « appartenenti allo spettro, esistono invece elementi invarianti ($ 49), verificanti
l'equazione (15). Ogni tale elemento è funzione di x e di w.
Sia @(2,u) un elemento invariante di A per tutti i valori di vw appartenenti allo
spettro ; sia cioè
(15) o(2,u =uA(0(2,u));
sarà allora elemento invariante anche c(v)0(x,%), essendo c(u) una funzione arbitraria
di u. Più elementi invarianti @,, @,, ...@, saranno linearmente dipendenti se si potranno
determinare » funzioni della sola w, c,(), c.(0), ...c,(v), tali che sia identicamente
rispetto ad
co + Ud + ...+ 6(0)0, = 0;
saranno linearmente indipendenti nel caso contrario. Ogni combinazione lineare, a coeffi-
cienti funzioni arbitrarie di «, di più elementi invarianti, è pure un elemento invariante.
51. Supponiamo che per ogni valore di « compreso fra 4 e d esista un solo ele-
mento invariante per A, all’ infuori di un moltiplicatore arbitrario dipendente dalla sola w.
Fissiamo per ogni « una determinazione di questo moltiplicatore, in modo che 1’ inva-
riante @(2,v), così determinato, risulti continuo in x. Per ogni elemento a di ,S' è allora
B(a;u =0(x,u) au),
dove a(u) è una funzione determinata di « nell’ intervallo @...2; siccome @(@,%) e
B(a;u) sono funzioni continue di «, la prima per la determinazione scelta, la seconda
per l’ ipotesi del $ 46, così anche a(u) è continua. Ma si ha allora, per la (8):
-»
(16) dd) = | oO(d,u) a(u)du;
(4
ne risulta quindi, in base alle ipotesi del $ 46, che « se per A e per i valori di w
« compresi nell’ intervallo a ..., vi è una sola soluzione dell’ equazione
OZUA(0)
« all’ infuori di un moltiplicatore funzione della sola «, gli elementi dello spazio
« ammettono una rappresentazione integrale della forma (16). »
La corrispondenza fra le funzioni a(x) ed «(u) si può esprimere mediante un
simbolo operativo,
dl
dove l’ operazione 7° è manifestamente lineare ; inoltre, essendo da (5):
x du
A(a)= {| 0(2,4) au—,
a U
segue che A è la trasformata mediante 7 dell’ operazione di moltiplicazione per 1 : %.
Da ciò, facili considerazioni, che lasciamo per brevità al lettore, permettono di risol-
vere l’ equazione funzionale
(17) oP+cA(P)t.... + enA4"P)= a,
dove a è un elemento dato di ,8° e $ è un elemento incognito, mediante la formula
(È (e, u) a(u) "du
DI e OE
b)
(18) p=
e di discuterne la soluzione.
52. Come caso particolare della (17), abbiamo l’equazione di Fredholm, la cui
soluzione non dà luogo ad alcuna osservazione se & non è compreso nell’ intervallo a... d.
Se invece è &, un valore di & compreso in quell’ intervallo, si osservi che :
=D du
o—-kA4(a)= | o(r,u au (u —k) a
e siccome fra le ipotesi del $ 46 vi è quella che B(a,u=0@(x,) a(«) sia limitata
nell’intervallo a... (*), così all’elemento a — 4, 4(a) corrisponde, mediante 1’ opera-
zione T-!, una funzione di w che, per «= &,, ha uno zero di prim'ordine almeno.
. Reciprocamente, se a(u) è nullo almeno di prim’ordine per un valore R, di u compreso
nell’ intervallo a... b, la a = 7(a) si può porre sotto la forma 8 — k,A(8), dove 6
è elemento di ,; basta prendere infatti
CERA a(u) du
WU È
dove la funzione sotto il segno soddisfa alle ipotesi del $ 46. Onde, sotto quelle ipotesi,
« la condizione necessaria e sufficiente perchè 1° equazione
D-kA(P)=a, a<k <b
« abbia soluzione in 8, è che 7 '(a) abbia per u— &, uno zero almeno del primo
ordine. »
Soddisfatta questa condizione e trovata una soluzione @, la soluzione generale sarà
data da P+ co(x, kR,) dove c è una costante arbitraria.
(') Da questa ipotesi sarebbe facile prescindere sostituendola con altra più generale, ma abbiamo
ritenuto opportuno di mantenerla per semplicità.
— 152 —
53. Come esempio del tipo di operazioni studiato nel presente art., possiamo citare
le espressioni differenziali lineari. Se A è una tale espressione, e si trova un integrale
@(2,u) dell’ equazione
O—UuA(@Q)=0,
se poi a...b è un tratto dell’ asse reale in cui @(@,), come funzione di «, sia finita
e continua, l’ insieme di funzioni di @, rappresentato da
2977)
a() = | o(e,u)a(udu,
Ja
dove a(u) è un elemento arbitrario nell’ insieme delle funzioni finite e continue nell’ in-
tervallo 4 ...b, è tale che per esso l'operazione A gode delle proprietà riscontrate nel
presente articolo.
SULLA RESEZIONE DEL CONDILO DELLA MANDIBOLA NELL’ ARTRITE
PURULENTA TRAUMATICA TEMPORO-MASCELLARE NEL CAVALLO
MEMORIA
DEL
Prof. ANGELO BALDONI
letta nella Sessione del 21 Maggio 1911.
La resezione totale del condilo della mandibola è un’ operazione sconosciuta nella pra-
tica veterinaria, tanto che nei trattati di medicina operatoria, compresi i più recenti ed i
più completi, non se ne fa neppur cenno. Tale resezione fu fatta una sola volta in un ca-
vallo affetto da artrite purulenta temporo-mascellare nel 1883 da Vachetta (1), il quale
nella prima edizione del suo Trattato di chirurgia, dette una descrizione succinta della
tecnica da lui seguita, mentre nella seconda edizione soppresse ogni descrizione e accennò
soltanto al fatto di aver praticata la resezione del condilo con completo successo. Nessun
altro, per quante ricerche abbia fatto, mi risulta abbia eseguita la resezione totale del
condilo del mascellare negli animali domestici.
Fròhner (2) riportò due casi di resezione dell’ articolazione temporo-mascellare. Nel
primo trattavasi di artrite purulenta consecutiva a frattura comminutiva in un cavallo:
aperta l’ articolazione trovò ire sequestri grossi, piatti, mobili, cioè l’ apofisi zigomatica del
temporale, 1’ apofisi temporale dello zigomatico e tutta |’ apofisi orbitale del frontale, seque-
stri che allontanò. Siccome il processo condiloideo era in parte fratturato e in parte necro-
sato, ne esportò una porzione. Nel secondo caso trattavasi parimenti di un cavallo con
artrite purulenta temporo-mascellare consecutiva a ferita penetrante. Qui mise ampiamente
allo scoperto l’ articolazione mediante 1 esportazione di un lembo triangolare di cute e dei
tessuti molli sottostanti, distaccò con lo scalpello la troclea del temporale e l’apofisi arti-
colare del mascellare inferiore a livello della incisura semilunare ed esportò le due super-
ficie articolari. Tanto in un caso quanto nell’altro, Fr6hner non dette una dettagliata
descrizione dell’ operazione; ad ogni modo |’ intervento nel primo consistette nella estrazione
di sequestri e nella resezione soltanto parziale dell’apofisi condiloidea, nel secondo con-
sistette nella resezione completa dell’articolazione, operazione che secondo Blasse (3)
sarebbe stata praticata anche da Eberlein in un cavallo nella policlinica della Scuola
veterinaria di Berlino.
Nella Clinica di Parma nel 1902 in un caso di artrite purulenta in un mulo, del quale
99
22
Serie VI. Tomo VIII. 1910-41.
aloe
feci pubblicare la storia clinica dal Dr. Ghisleni (4), allora mio assistente, praticai la
resezione parziale del processo condiloideo, mi limitai cioè ad esportare, valendomi di uno
scalpello e di una tanaglia osteotomica, la porzione esterna del condilo che era interes-
sata dal processo necrotico.
Réder(5) e Regenbhogen (6) descrissero come resezione dell’ articolazione temporo-
mascellare un’ operazione da loro praticata rispettivamente in un cavallo ed in un cane
affetti da artrite purulenta, consistente nell’ apertura dell’ articolazione, nell’ allontanamento
di sequestri e nel raschiamento del cavo articolare. In questi due casi, come in quelli di
Bosenroth (7) e di Goubaux (8) descritti
in epoca abbastanza remota, non si può par-
lare di resezione.
Avendo avuto lo scorso anno un caso di
artrite purulenta traumatica temporo-mascel-
lare, nel quale praticai la resezione totale del
condilo, credo utile renderlo noto perchè di-
mostra pienamente la bontà del processo ope-
rativo impiegato.
Trattasi di una cavalla di mantello baio-
oscuro, di anni 4, di razza incrociata, alta
m. 1,50, uso tiro leggero, appartenente al
signor Simoni Francesco di Castel d° Argile,
entrata in questa Clinica chirurgica il 2 feb-
braio 1910.
La cavalla un mese prima circa aveva
urtato con l’ articolazione temporo-mascellare
sinistra contro un chiodo sporgente dalla parete
della scuderia e aveva riportato una ferita
penetrante nell’ articolazione. Il veterinario cu-
a ve rante aveva trattato la soluzione di continuo
con irrigazioni con soluzione di lisoformio, con
lavande con alcool acidificato e con protargolo, poi l'aveva chiusa con acido tannico e
collodion e, perdurando dalla soluzione di continuo lo scolo di materiale purulento-icoroso,
aveva applicato sulla parte un forte vescicante. Per tutto il tempo che ebbe l’animale
in cura proscrisse la somministrazione di alimenti solidi allo scopo di evitare i movimenti
dell’ articolazione.
Nel momento che la cavalla entrò in Clinica presentava in corrispondenza dell’ artico-
lazione temporo-mascellare sinistra una tumefazione rotondeggiante come un mezzo aran-
cio, perdentesi gradatamente nei tessuti vicini, calda, dolente, di durezza fibrosa, nel
centro della quale si notava una soluzione di continuo circolare, grande come una mo-
neta di dieci centesimi, coperta da tessuto di granulazione molto sporgente, facilmente
spappolabile e sanguinante (fig. 1°). Lo specillo penetrava in diversi punti di questa massa
di tessuto per 2-3 c.m. e faceva sentire le superficie articolari rugose.
— 55 =
I masseteri, specialmente il sinistro, erano profondamente atrofici. L'animale presen-
tava serramento delle mascelle: con la divaricazione forzata le tavole degli incisivi si po-
tevano allontanare per circa 2 c.m. Durante questi movimenti provocati, che riuscivano
dolorosissimi ed erano possibili soltanto mediante uno specolo e con mezzi di tormento, e
durante i limitatissimi movimenti di masticazione spontanei, dalla soluzione di continuo
usciva dei materiale icoroso che scorreva sulla cute della regione masseterina sottostante,
dove si notavano delle leggiere erosioni cutanee prodotte dallo stesso materiale.
L'animale mostrava grande avidità di mangiare, ma afferrava poco alimento, lo ma-
sticava con estrema lentezza e invece di deglutirlo lo emetteva. Nelle tasche delle guancie,
specialmente in quella sinistra, si trovava del foraggio mal triturato, causa di alito fetido.
I liquidi venivavo presi e deglutiti come allo stato normale. L° animale era estremamente
magro e barcollante.
La diagnosi di artrite purulenta temporo-mascellare sinistra con consecutivo serra-
mento delle mascelle era chiarissima. Il sospetto che a causa della diminuita mobilità si
fossero stabilite delle lesioni anche nell’articolazione destra si poteva facilmente eliminare
in base al risultato negativo dell’esame di ispezione semplice e di palpazione e in base al
fatto che in varii casi simili, trattati con mezzi incruenti e nei quali la guarigione avvenne
dopo mesi di cura, non rimase alcun disturbo funzionale.
Date le gravi condizioni generali dell’animale decisi di ricorrere alla resezione del
condilo allo scopo di combattere il processo suppurativo, convinto che altri metodi di cura,
come l’ esportazione del tessuto neoformato, il raschiamento delle superficie articolari, ecc.
avrebbero fatto perdere inutilmente il tempo ed intanto l’animale sarebbe diventato an-
cora più marasmatico ed anche morto.
Il 3 febbraio coricata la cavalla sul lato destro e messa in contenzione la testa in
estensione, preparal convenientemente la parte. Non credetti necessaria l'anestesia. Sulla
tumefazione praticai un’incisione cutanea verticale, lunga circa 6 c.m., che dalla porzione
superiore dell’arcata zigomatica si esterideva alla porzione superiore della regione masse-
terina, attraversante il centro dell’ ulcerazione, ed un’altra incisione orizzontale, diretta
cioè dall’ avanti all’indietro, lunga quanto la precedente e passante parimenti -nel centro
dell’ ulcerazione. Dissecai quindi i quattro lembi cutanei, che feci tenere divaricati me-
diante uncini. Negli strati sottocutanei, costituiti da connettivo che era infiltrato, ispessito,
da una lamina fibrosa, da porzione della parotide che ricopre la parte più posteriore del-
l'articolazione, dal massetere che ne ricopre la parte più anteriore e dal legamento ca-
psulare, rinforzato dal legamento funicolare esterno, feci una incisione a croce corrispon-
dente a quella cutanea. In questo momento ebbi cura però di non ledere la parotide, che
dissecata per un piccolo tratto mantenni indietro con un uncino, e di non ledere l’ arteria
e la vena trasversali della faccia, che insieme al nervo temporale superficiale corrono al
disotto dell’ articolazione temporo-mascellare a livello del condilo, e che con un uncino feci
tirare in basso, vicino al facciale. Messa in tal modo l'articolazione allo scoperto, con una
sonda curva e col manico del bistori distaccai 1 tessuti molli tutto al dintorno del collo del
condilo, sulla cui faccia anteriore e posteriore applicai le mascelle della tanaglia osteotomica
— 156 —
di Liston, avendo cura di non oltrepassare con queste il piano della superficie mediale
del collo per non ledere l’ arteria mascellare interna ed i tronchi nervosi del 5° e del 7°
paio. Ottenuta la sezione del collo, per la quale fu necessaria una forza notevole, con un
bistori bottonato incisi tutto all’ ingiro il legamento capsulare che, come è noto, aderisce
ai margini del menisco interarticolare formando due cavi articolari con due sinoviali di-
stinte e separate, ed ineisi il legamento funicolare posteriore (o mediale secondo alcuni
anatomisti). Estratto il menisco articolare, che in gran parte era distrutto dal processo
necrotico, afferrai il condilo con una grossa pinza e io portai all’ esterno mediante modica
trazione e distruggendo con una forbici curva ie poche aderenze ancora rimaste. Ri-
sultò un cavo ampio, sulle cui pareti e particolar-
mente sulla superficie articolare del temporale che,
come quella del condilo, era priva in gran parte di
cartilagine ed erosa, feci un profondo raschiamento.
Esportato il tessuto sottocutaneo infiltrato alla faccia
esterna dell’ articolazione, resecai limitatamente i
margini della cute in corrispondenza dell’ ulcera-
zione.
L'emorragia fu insignificante e fu arrestata in
pochi minuti col semplice tamponamento del cavo,
nel quale, ad emostasia quasi completa, introdussi
della garza impregnata di emulsione glicerica di
lodoformio in modo che non esercitasse forte com-
pressione. Per impedire che la garza venisse all’ e-
sterno, praticai due punti di sutura provvisoria
sui margini cutanei, i quali non potevano più com-
baciare a causa della perdita di sostanza dovuta
in parte al processo ulcerativo, in parte all’ espor-
tazione della porzione infiltrata.
m Le medicazioni successive, ripetute una volta
mia 2 al giorno, consistettero nell’ allontanamento del tam-
pone, in abbondanti irrigazioni con soluzione di sublimato e nell’ applicazione di nuova
garza impregnata di emulsione di iodoformio.
Subito dopo l’ operazione il serramento delle mascelle era minore, si poteva ottenere
un allontanamento delle tavole incisive come nelle condizioni normali: l animale cominciò
subito a fare movimenti di masticazione abbastanza estesi. Al 5° giorno la cavalla pren-
deva e masticava il foraggio come un cavallo sano.
Il cavo si riempì gradatamente di tessuto di granulazione e il 5 marzo giorno in cui
l’animale uscì dalla Clinica, la cicatrizzazione era completa (fig. 2°), la masticazione si
effettuava in modo regolarissimo, i masseteri erano meno atrofici e le condizioni generali
molto migliorate.
Dopo 10 mesi dall'operazione abbiamo avuto occasione di rivedere l’animale, il quale
“ alone
era in buonissime condizioni di nutrizione. La regione temporo-mascellare sinistra era
meno prominente della destra (fig. 3°) e in mezzo ad essa sì notava una piccola cicatrice
coperta in parte dal pelo. Il proprietario riferì che la cavalla dal giorno in cui era uscita
dalla Clinica non aveva più presentato disturbi nella presa degli alimenti e nella masti-
cazione ed era stata sempre in ottima salute.
Naturalmente la guarigione è avvenuta con formazione di una pseudo-artrosi. Per ve-
dere i caratteri di questa, in un cavallo senza alcuna lesione alle articolazioni temporo-
mascellari ho fatta la resezione del
condilo della mandibola sinistra. An-
che qui non ho avuto nessun incon-
veniente durante l'operazione ed ho
ottenuta la guarigione completa in 40
giorni. Abbattuto il cavallo dopo 3
mesi circa dall’ operazione, all’ esame
della regione operata ho trovato un
ammasso di tessuto connettivo che
univa l’arcata zigomatica col mon-
cone del collo della mandibola, ade-
riva al margine posteriore dell’ apofisi
coronoide ed era in continuità con
tutti i tessuti vicini (fig. 4°).
Durante l’ operazione si possono
avere degli inconvenienti, alcuni dei
quali molto gravi, ma facilmente evi-
tabili.
Le lesioni del facciale, tanto te-
mute nella resezione del condilo del
mascellare dell’ uomo, per cul sono
stati escogitati varii processi opera-
tori (Tillmanns, Huguier, Ger-
nez e Donai, ecc.) ed è stata rac-
comandata da alcuni la incisione a T
(Kòénig, Langenbeck, Ollier),
da altri quella angolare (Abbe, Zippel, Farabeuf, Chavasse, ecc.), sono presso che
impossibili nei solipedi, perchè in questi il facciale trovasi più in basso dell’ articolazione :
così debbonsi considerare impossibili le lesioni dell’arteria e vena auricolari anteriori e del
nervo temporo-zigomatico che sono alla periferia del campo operatorio
Invece possono esser facilmente ferite la parotide, l'arteria e la vena trasversali della
faccia ed il nervo temporale superficiale, il che si deve evitare facendo tirare indietro
con uncini la parotide dopo averne dissecato il margine anteriore nella parte corrispon-
dente all’articolazione e facendo mantenere un po’ in basso i vasi ed i nervi indicati.
— 158 —
Con la incisione a croce della pelle, per il fatto che essa permette di avere allo sco -
perto un campo abbastanza ampio, sono meno facili queste lesioni. Sotto tale rapporto essa
è preferibile all’incisione a C usata da Vachetta (1) e per tante considerazioni, non
ultima la deformità secondaria, è preferibile all’ esportazione di una porzione triangolare
di cute, praticata da Fròhner (2).
La complicanza più grave è rappresentata dalla ferita dell’ arteria mascellare interna,
la quale corre rasente il lato mediale del collo del mascellare, ferita che può riuscire le-
tale. Non è impossibile anche la ferita di rami del 5° e del 7° paio, fra cui 1’ alveolare
inferiore, il linguale, il temporale
profondo, il masseterino, il buc-
cinatore. la corda del timpano, ecc.
e perfino della tasca gutturale nella
sua porzione superiore.
Questi organi possono facil-
mente venir feriti quando per la
resezione si adopera lo scalpello,
di cui si valsero Vachetta (1) e
Fròhner (2), perchè esso, anche
a mano esercitata, sotto i ripetuti
colpi di martello può sfuggire dal-
l’osso contro le parti molli e pro-
durre lesioni dei varii organi situati
al lato mediale del processo man-
dibolare Anche l’ uso della tanaglia
osteotomica non mette a riparo da
simili accidenti perchè essa taglia
schiacciando, per cui può dar luogo
a formazione di schegge. In un asino
molto vecchio destinato alle eserci-
tazioni chirurgiche, praticai la re-
sezione del condilo a scopo di di-
mostrazione per gli studenti. Non
riuscendo a sezionare il collo del condilo con la tanaglia per la forte consistenza dell’ osso,
dovetti imprimere alla tanaglia stessa dei limitati movimenti di lateralità, il che pro-
dusse frattura all’apofisi coronoide, frattura che credo possa avvenire anche per i colpi
di martello quando si impiega lo scalpello. L’uso di un piccolo trapano a corona, impie-
gato da Bassini (9) per la resezione del processo mandibolare dell’uomo, non è meno
pericoloso dell’uso dello scalpello e della tanaglia. A causa della ristrettezza dello spazio
non è facile applicare attorno al collo del condilo una sega a catena e non è possibile
l’impiego di una sega a lama; invece in operazioni che ho praticato recentemente a titolo
di studio in solipedi morti mi sono sembrati di grande utilità e di applicazione abbastanza
— 159 —
facile la sega embriotomica di Staa, costituita da due fili di bronzo attorcigliati e quella
modificata da Ehlers, fatta da due fili di acciaio. Con la estremità della sega privata
dell’anello terminale e disposta a gancio, sì può circondare il collo del condilo, facendola
passare tra il collo stesso e arteria mascellare interna. La resezione con una di queste
due seghe si compie in un tempo brevissimo e senza scosse.
Eseguita la resezione, non credo necessaria la interposizione muscolare proposta da
Helferich e da Rochet (10) nell’uomo, dove anche recentemente è stata applicata da
Ombrédanne (il), da Demoulin (12) e raccomandata da Giordano (18), da Cec-
cherelli (14) e da tanti altri, perchè la formazione della pseudo-artrosi sembra garantire
un risultato permanente dell’ operazione. E ciò mi risulta dal fatto che nel cavallo ope-
rato a scopo sperimentale e abbattuto dopo 3 mesi dall’ operazione, esisteva tra le super-
ficie ossee un grosso ammasso di tessuto puramente connettivale e che nel caso clinico
dopo 10 mesi dall’operazione i movimenti della mascella erano normalissimi.
In base al risultato ottenuto credo che sia conveniente in tutti i casì di artrite puru-
lenta temporo-mascellare di ricorrere alla resezione del condilo piuttosto che a mezzi me-
dicamentosi o ad interventi chirurgici limitati, perchè non sempre si riesce con questi a
combattere il processo e ad evitare ia morte dell’animale per fame in seguito alla forma-
zione di 'anchilosi. I casi di di Eletti (15), di Verrier (16), di Lucaroni (17) e di
altri parlano in favore di tale affermazione.
La resezione del condilo deve essere assolutamente preferita alla resezione dell’ arti-
colazione intera in casi di artrite purulenta, perchè quella è un’operazione più semplice,
espone a minor pericoli e lascia a secondo tempo una deformità insignificante e perchè
allontanato il condilo ed il menisco, |’ altra superficie articolare interessata dal processo
è accessibile ai mezzi di cui disponiamo, per cui la guarigione è sicura e avviene in un
tempo relativamente breve.
————_—_€<or<---:
ZO
BIBLIOGRAFIA
(1). Vachetta. — Chirurgia speciale degli animali domestici. Ediz. I. Pisa 1887, Vol. I, pag. 330:
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fir praktische Thierheilkunde 1898, Vol. IX, pag. 487. — Ein zweiter Fall von gelungener Kie-
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(3). Blasse. — Untersuchungen liber die Arthritis des Kiefergelenks beim Pferde. Monatshefte fiîr
praktische ‘l'hierheilkunde 1909, Vol. XX, pag. 519.
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chirurgica. Vol. II, pag. 299.
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di origine traumatica in uno stesso soggetto. La Clinica chirurgica 1910, pag. 2471.
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pag. 515.
(13). Giordano. — Manuale di medicina operatoria. l'orino 1894, pag. 164.
(14). Ceccherelli. — Trattato italiano di chirurgia Vol. II, P. 4.° pag. 410.
(15). Eletti. — Piaghe articolari con perdita sinoviale. Giornale di medicina veterinaria pratica
1879, pag. 152.
(16). Verrier. — Citato da Cadiot et Almy, — Traité de therapeutique chirurgicale des ani-
maux domestiques. Paris 1898, Vol. II, pag. 205.
(17). Lucaroni. — Un caso di artrite temporo-mascellare. L’Ercolani 1888, pag. 145.
“eran È
ZONE Ti GERE DIEM
Woktiogeb:l XANKIOGENATE ALCALINI
MEMORIA
DEL
= 059, DITOINII) IAT SG
(Letta nelta Sessione ordinaria del 21 Maggio 1911)
Da qualche tempo ho intrapreso lo studio dei xantogenati delle basi mercurio-
organiche e contemporaneamente ho istituito delle indagini sulle reazioni che hanno
luogo fra gli acetati di mercurio ed i xantogenati alcalini. Il comportamento di ener-
gici ossidanti proprii di questi acetati doveva condurre a reazioni speciali, e ciò
diffatti si verificò.
Verrò esponendo i risultati finora ottenuti.
Esperienze con l’ acetato mercurico.
Facendo reagire l’ acetato mercurico con xantogenato di potassio, adoperando due
decigrammi molecole del primo ed una del secondo e versando la soluzione dello xan-
togenato in quello del sale mercurico, si ebbe la reazione complessa indicata dalla
seguente equazione :
4Hg(0,11,0,), + 24,0 + 2KSCSOG,H, = 40,H,0, + (HgS),Hg(C,H,0), + 2C,KH,0,
acetato solfobasico di mereurio
+ Hg(SC00C,H)),
etiltiocarbonato di mereurio
dalla quale risulta che 1 acetato mercurico ossida lo xantogenato e produce acido
etiltiocarbonico, rispettivamente etiltiocarbonato di mercurio, ed un acetato solfobasico
di mercurio. Queste due sostanze non erano ancora note.
Si sperimentò nel modo seguente. Si sciolsero gr. 31,8 di acetato mercurico puris-
simo in gr. 200 di acqua, d’ altra parte si fece una soluzione di 8 gr. di xantoge-
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 23
— 162 —
nato di potassio in 25C gr. di acqua e si versò questa soluzione, a filetto sottile,
vivamente agitando, nell’ altra.
A tutta prima non si ebbe formazione di precipitato, ma, dopo avere aggiunto
una certa quantità di xantogenato, apparve un intorbidamento al quale, per riposo,
fece seguito un precipitato bianco pesante costituito da prismetti microscopici. Si rac-
colse a parte una certa quantità di questo primo prodotto. Proseguendo nell’ aggiunta
dello xantogenato si ottenne una nuova quantità di precipitato pure cristallizzato, ma
più leggero. Questo secondo precipitato fu pure raccolto.
Il primo prodotto è insolubile nei solventi ordinarii. Per azione del calore non
fonde, ma oltre 200° si scompone annerendo. Trattato con ammoniaca assume una
colorazione rossiccia che passa poi al bruno ed in fine al nero.
Con acido cloridrico diluito dà una colorazione giallo chiara. Il prodotto così
modificato, per azione della luce diviene grigio. Per azione dell’ acido acetico non si
scioglie e, apparentemente, non si altera.
Bollito con acqua annerisce : filtrando sì ottiene un liquido limpido scolorito che
contiene mercurio-jone.
Trattato con soluzione di ioduro di potassio in eccesso assume un coloramento
giallo che poi passa al rosso, al bruno, al nero. Il liquido ha reazione alcalina e trat-
tato con acido acetico svolge abbondantemente idrogeno solforato.
All’ analisi diede i numeri seguenti :
bd
°
lai
gr. 0,1967 di sostanza fornirono gr. 0,0208 di 4,0 e gr. 0,0442 di C0,.
0,
II. gr. 0,1434 di sostanza fornirono gr. 0,1276 di HgS.
Calcolato per Trovato
(HgS), Hg(C,H,0,), IL IDE,
OL GIS 6,10 =
ll 07 1ERiS e
Hg 76,73 - 76,70
Il prodotto giallo che questo composto produce per opera dell’ acido cloridrico è
certamente il cloruro solfobasico (7#g8),HgCt, di Barfoed (1).
Palm (°) descrisse una sostanza della composizione HyS. Hg(C,H,0,), che diffe-
risce dalla precedente oltre che per la composizione anche per il suo comportamento
con l’ ammoniaca.
Il secondo precipitato prodotto dalla soluzione di xantogenato nell’ acetato mer-
(O APRASO3:320)
(®) J. 1862, 220.
— lo =
curico fu raccolto, lavato e seccato sopra il gesso. Trattato con acetone a freddo vi
si scioglie in parte. L’ acetone filtrato ed abbandonato a spontanea evaporazione lasciò
un prodotto ben cristallizzato in sottili aghi setacei scoloriti, solubili nell’ etere nel-
l’ alcol etilico e metilico, nel cloroformio, poco solubile nell’ etere di petrolio a freddo
abbastanza solubile a caldo per poterlo cristallizzare, e così purificare, da questo sol-
vente. Fonde a 62°,5 e si decompone a 105° formando un liquido giallo.
Trattato con acqua bollente ingiallisce ; facendolo lungamente bollire in apparec-
chio a ricadere, si ha alla fine formazione di solfuro di mercurio, Durante questa
decomposizione si svolge idrogeno solforato. Quando la reazione è finita, si può rac-
cogliere il solfuro mercurico e riscontrare che il liquido filtrato per evaporazione non
lascia residuo.
Nell’ acido acetico si scioglie senza decomporsi. Nell’ acido cloridrico si scioglie
con effervescenza. Il gaz che si svolge è combustibile e brucia con fiamma azzurra.
AI” analisi diede i risultati seguenti :
I. gr. 0,3064 di sostanza produssero gr. 0,1720 di HgS.
II. gr. 0,4712 di sostanza produssero gr. 0,2654 di HyS.
II. gr. 0,2481 di sostanza fornirono gr. 0,064 di 47,0 e gr. 0,1551 di CO,
IV. gr. 0,2406 di sostanza fornirono gr. 0,2654 di SBao,.
Calcolato per Trovato
Hg(SCOOC,H,), Ti IN III. IE
Hyg°/, 48,78 48,72 48, 56 —
S duo = = 17, 44 =
H 2,44 — = 2 DE —
S 19,61 = = — 15, 16
Il comportamento di questa sostanza al trattamento con acqua bollente si spiega
con l’ equazione seguente
Hg(SC00C,H)), + 2H,0 = HgS + 2C,H,0H + 2C0,+ SH,.
Ii comportamento poi di fronte all’ acido cloridrico è quello ordinario dei sali
dell’ acido etiltiocarbonico poichè questo acido, quando viene messo in libertà, sì
scompone appunto in alcol ed ossisolfuro di carbonio.
Con le soluzioni di ioduri alcalini adoperate in eccesso si scioglie prontamente
— 164 —
producendo etiltiocarbonato alcalino. Infatti il liquido per aggiunta di acido acetico
spumeggia svolgendo ossisolfuro di carbonio.
Con soluzioni di xantogenati alcalini si produce xantogenato mercurico ed etilteo-
carbonato alcalino.
Quando la reazione tra acetato mercurico e xantogenato di potassio viene prodotta
facendo arrivare la soluzione del sale mercurico nella soluzione dello xantogenato, i
fenomeni che seguono sono alquanto complessi.
In quelle condizioni sì forma bensì solfuro di mercurio, ma questo composto non
sì può combinare all’ acetato mercurico e produrre |’ acetato solfobasico sopra descritto.
Si produce contemporaneamente etiltiocarbonato di mercurio, acido acetico, xantogenato
mercurico : e fra l’ etiltiocarbonato di mercurio ed il xantogenato alcalino, si produce,
come sopra è detto, etiltiocarbonato alcalino che a differenza del corrispondente sale
di mercurio viene decomposto dall’ acido acetico con isvolgimento di ossisolfuro di
carbonio.
Grammi 31,8 di acetato mercurico furono sciolti in 200 gr. di acqua e questa
soluzione fu versata in altra, pure acquosa, composta con gr. 32 di xantogenato di
potassio e 250 gr. di acqua. Le sostanze furono dunque adoperate nel rapporto :
Hg(C,H,0,), + 2KSCSOC,H
n
0)
A tutta prima si formò un precipitato magmoso biancastro che poi, per agitazione,
si fece polveroso, grigio, con notevole spumeggiamento. Il liquido manifestò reazione
fortemente acida e svolse piccola quantità di idrogeno solforato. Lo spumeggiamento
era dovuto a svolgimento di ossisolfuro di carbonio, la qual cosa si potè verificare
raccogliendo il gaz in un azotometro di Schiff riempito con una solozione di solfato
di rame inacidito di acido solforico, constatando che abbruciava con fiamma azzurra
e constatando anche che così depurato dall’ idrogeno solforato, messo a contatto di
una soluzione concentrata di potassa caustica entro campana capovolta sul mercurio esso
veniva lentamonte tutto assorbito con produzione di solfuro alcalino (SCO + ,HOH =
= K,S+CK0,+,H,0).
La piccola quantità di idrogeno solforato riscontrato proveniva indubbiamente da
una parziale decomposizione dell’ ossisolfuro di carbonio per opera dell’ acqua.
Il prodotto così preparato fu lavato con acqua e seccato sul gesso. Trattandolo
poi con solfuro di carbonio in un estrattore di Soxhlet se ne ricavò molto xanto-
genato di mercurio ed anche etiltiocarbonato, ma questo in piccola quantità. L’ etil-
tiocarbonato essendo solubile nel solfuro di carbonio molto più dello xantato, lo si
separò abbastanza bene abbandonando a spontanea evaporazione la soluzione solfocar-
bonica fino a piccolissimo volume, con che quasi tutto lo xantogenato si separò; sì
— 600 —
filtrò ed evaporò a secco. Riprendendo il residuo con poco cioroformio ed evaporando
ancora, sempre alla temperatura ordinaria, sì ebbe il prodotto abbastanza puro; ed
ulteriormente si purificò cristallizzandolo dall’ etere di petrolio.
Ma l’ etiltiocarbonato fu riconosciuto. anche direttamente sulla sostanza grezza
trattandola con soluzione di ioduro di potassio ed acido acetico, con che si svolse
ossisolfuro di carbonio.
Una quantità più rilevante di etiltiocarbonato si forma in questa preparazione
quando il xantogenato di potassio sia adoperato in quantità inferiore al calcolato e si
mescolino rapidamente le due soluzioni dei corpi reagenti. In queste condizioni non
si ha svolgimento nè di idrogeno solforato, nè di ossisolfuro di carbonio, perchè
l’ eteltiocarbonato prodottosi non può reagire con lo xantogenato alcalino e trasfor-
marsi in etiltiocarbonato alcalino che, come sopra è detto, viene decomposto dal-
l’ acido acetico.
Il prodotto grezzo trattato con acqua alla ebollizione in apparecchio a ricadere
svolge ancora idrogeno solforato e contemporaneamente produce una sostanza oleosa
di odore agliaceo che potè essere separata mediante distillazione in corrente di vapor
d’ acqua. Il distillato fu sbattuto con etere e questo abbandonato a spontanea evapo-
razione. Si ebbe per residuo un liquido di color giallo chiaro, dotato di odore agliaceo
disgustosissimo. Bolliva a 193° alla pressione di 754"" (temperatura non corretta),
si mostrò solubile nell’ alcol, solfuro di carbonio, cloroformio.
All analisi dimostrò di avere la composizione C,H._SCSOC,H,, di essere cioè 1° etere
2
etilico dell’ acido xantogenico.
I. gr. 0,1702 di sostanza diedero gr. 0,1128 di 4,0 e gr. 0,248 di CO,.
II. gr. 0,1380 di sostanza diedero gr. 0,0902 di 4,0 e gr. 0,2026 di CO,.
IN. gr. 0,2356 di sostanza diedero gr. 0,7502 di SBa0,.
Calcolato Trovato
I II III
C°/ 40,00 DEL 1a) 40, 04 _
H 6,67 TO SO TRO _
S 42,67 — —_- 43, 78
Per meglio confermare la natura di questo prodotto lo si scaldò per due ore a
:09° in tubo chiuso insieme ad ammoniaca alcolica. Aperto il tubo si avvertì, dal-
l’ odore, la presenza di mercaptano. Si diluì il liquido con grande volume di acqua e
si sbattè con etere. L’ etere evaporato lasciò un bel prodotto bîanco cristallizzato in
tavole a tramoggie, fusibili a 38°.
Questi caratteri sono proprii della «cantogenamide la quale appunto si produce per
— 166 —
azione dell’ ammoniaca sopra l’ etere etilico dell’ acido xantogenico ; nello stesso tempo
si forma mercaptano etilico
C,H.SCSOC,H, + NH, = NH,CSOC,H_ + G.H,SH.
A. Hebert (! ha ottenuto contemporaneamente a me lo xantogenato etilico dallo
xantogenato di mercurio ma con processo assai differente. Egli infatti operò decom-
ponendo lo xantogenato di mercurio a 350° circa.
Volli sperimentare se dal xantogenato di mercurio alla temperatura di ebollizione
dell’ acqua sì avesse eguale decomposizione, ma trovai che questo sale solo dopo lunga
ebollizione con acqua, in apparecchio a ricadere, produrre piccola quantità di quel-
lievene?
Nelle mie esperienze doveva intervenire un agente capace di favorire la formazione
dell’ etere stesso e questo agente non poteva essere se non l’ etiltiocarbonato di mer-
curio. E l’ esperimento dimostrò che veramente così vanno le cose. Provai a scaldare
a confronto al bagnomaria xantogenato puro di mercurio stemperato nell’ acqua e
xantogenato commisto ad eguale quantità di etiltiocarbonato. Dal xantogenato puro,
anche dopo lungo scaldamento, non si svolse 1’ odore caratteristico dell’ etere xanto-
genico; invece della miscela con etiltiocarbonato si manifestò pressochè immediata-
mente e forte.
La reaziene segue evidentemente così :
Hg(C3H,0)), Hg(SOS00H)_20Hls SOR eso a Sì
Quando si distilla in corrente di vapore il prodotto della reazione tra acetato
mercurico e xantogenato di potassio, al principio dell’ operazione 1° etere xantogenico
viene fuori in quantità notevole ; la massa seguita poi assai lungamente a dare piccole
quantità di prodotto. È evidente che 1° etiltiocarbonato essendo, come sopra è detto,
in piccola quantità rispetto allo xantogenato, compiutasi la reazione sopra esposta,
resta di questo ultimo sale una quantità notevole che si decompone poi lentamente
per opera dell’ acqua e del calore nel modo seguente :
Hg (SCSOCHO SRO SESSI 08
5)
Esperienze con l’ acetato mercuroso.
La reazione tra acetato mercuroso e xantogenato di potassio si compie secondo
l’ equazione seguente :
609. H0 RESSE RE sERdaoe
ol, SCO
(*) Compt. Rend. l, 152, N. 13 (27 marzo 1911) pag. 869.
— 167 —
Sì produce cioè etiltiocarbonato di mercurio oltre a mercurio metallico, solfuro di
mercurio, acetato di potassio ed acido acetico.
Grammi 52 di acetato mercuroso vennero macinati con una quantità di acqua
sufficiente a produrre una poltiglia molto fluida, poi, sempre macinando, si aggiunse
una soluzione di gr. 10,5 di xantogenato di potassio in 150 gr. di acqua.. Si pro-
dusse subito annerimento. Si filtro, sì lavò il prodotto raccolto e si seccò sopra gesso
poi si trattò ripetutamente a freddo con acetone che si lasciò poi evaporare sponta-
neamente. Si separò |’ etiltiocarbonato di mercurio ben cristallizzato in aghi splen-
denti che ricristallizzati dall’ etere di petrolio fusero a 62°,5. Esso fu riconosciuto
anche alla proprietà di svolgere ossisolfuro di carbonio per opera del ioduro di potas-
sio ed acido acetico. La quantità di sale che si raccolse fu di circa gr. 11, quan-
tità corrispondente al 23,08 ° di acetato mercuroso impiegato. Per l’° equazione sopra
esposta è ealcolato 26,38%.
Il residuo del trattamento con acetone è nero: coll’ aiuto della Iente vi si scor-
gono globuletti di mercurio metallico.
Trattato con acido nitrico svolge a freddo biossido d’ azoto, e scaldando produce
una polvere bianca che lavata con acqua e stemperata in un eccesso di soluzione di
loduro di potassio produce una sostanza nera, mentre si forma una piccola quantità
di sotfuro alcalino. Questa sostanza è assai verosimilmente il nitrato solfobasico
Hg(NO,),, HgS descritto da Barfoed (') il quale l° ottenne appunto trattando con
acido nitrico la miscela di solfuro mercurico e mercurio metallico che si produce
quando un sale mercuroso viene trattato con idrogeno solforato.
(1) J. B. 1864 pag. 28.
DIOR
ae Aa
SULLA COSTITUZIONE DELLA
== = "MERC CURIOFENILAMINA ==
MEMORIA
DEL
Prof. LEONE PESCI
(Letta nella Sessione ordinaria del 28 Maggio 1911).
Diversi anni or sono (') affermai che alla p. mercuriofenilamina, base da me per
RS
COHEN
CORONE
denominazione paramercuriodifenilenmercuriodiammina. E la ragione per assegnare
primo ottenuta, si dovesse attribuire la formola 7g Hg e dare quindi la
quella costituzione desumevo principalmente dal fatto che da questo composto si poteva
con molta facilità staccare metà del mercurio, per mezzo dei solfuri alcalini, e pas-
CSTNITOEO
. Tale ipotesi veniva poi confortata
(GIEENIEC
successivamente dalle osservazioni di Piccinini (°) il quale trattando 1’ acetato di
sare così alla paramercurioanilina Hg
quella base con un eccesso di iposolfito di sodio ne otteneva pure la paramercurio-
anilina.
Se non che qualche tempo dopo, studiando il solfuro e l’ iposolfito di mercurio-
fenile (*) mi accadde di constatare che questi due composti danno molto facilmente
mercuriodifenile : il primo per opera del calore,
(CHE) ESSE (GEE) Hg,
il secondo per opera degli iposolfiti alcalini i quali formano iposolfiti doppi di mer-
curio e del metallo alcalino
(C,H,Hg),S,0, + rSC.Na, = S,0,Hg,2S,0Na, + (CHEESE
(i) Gazz. chim. XXIII b. 529.
(2) Gazz. chim. XXIV b. 45%.
(3) Gazz. chim. XXIX a 394.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
la°)
==
ATO
In queste reazioni, si vede che i sali di mercuriofenile (C_H,Hg) radicale mono-
nucleare mercuriato possono dunque fornire un composto binucleare quale il mercu-
riodifenile. E fin d° allora esposi il dubbio che la costituzione da me assegnata a
diverse basì mercurioorganiche potesse essere rappresentata dalla formola semplice,
mononucleare, e non dalla doppia, essendo possibile che dei composti binucleari come
la paramercurioanilina possano derivare da composti mononucleari come per esempio
==
(SB
la p mercuriofenilamina C,H,- NH. Hg =
Ho istituito ora alcune esperienze per risolvere il quesito per Ja mercuriofenilamina.
Trattando il mercuriodifenile con acido acetico si ottiene, come è noto, l’ acetato
di mercuriofenile, cioè si passa da un composto binucleare ad un composto mononu-
cleare. Pensai che una consimile reazione sì potesse avere dalla paramercurioanilina.
E diffatti la paramercurivanilina trattata con acido acetico produce un sale che ha
î
PIGRO. nella quale i gruppi
NH ine
2
NH, e HgC,;H,0, sono indubbiamente in posizione para. Ora questo sale corrisponde per-
fettamente ner le sue proprietà e composizione all’ acetato di mercuriofenilamina da
una composizione corrispondente alla formola C,H,
me già descritto. a
Grammi 20 di p.mercurioanilina, furono stemperati in acido acetico al 50 CAR
La massa si riscaldò e si rapprese in poltiglia di piccoli prismi di color giallo
chiaro, che si raccolsero, si lavarono con acqua e si seccarono sopra il gesso.
Il prodotto fu poi sciolto nell’ alcool bollente e decolorato con carbone animale.
Per raffreddamento deli’ alcool filtrato sì ottennero di nuovo i prismetti i quali
erano scolorati e fondevano a 162°.
All’ analisi diede i risultati seguenti :
I. gr. 0,3066 di sostanza fornirono gr. 0,2030 di Hgs.
TTNet. 013972 diNisostanza MornitonogerM 042/03 0MdgSì
Calcolato lrovato
JE II.
Hg °/, 56,98 57,08 57,21
Da questo sale si ricavò la p.mercuriofenilamina dividendolo finamente, sospen-
dendolo nell’ acqua e trattandolo con soluzione molto diluita di potassa caustica, con
Ca
che si sciolse completamente. Aggiungendo poi al liquido limpido una soluzione di
potassa caustica al 30 Se: si separò la p.mercuriofenilamina in belle lamine brillanti.
I. gr. 0,3618 di sostanza diedero gr. 0,2875 di HyS.
II. gr. 0,7712 di sostanza diedero gr. 0,6115 di HgS.
Calcolato per Trovato
C,H,HgNH I, II
Hg%, 68,73 68,50 68,36
La reazione tra la p.mercurioanilina e 1’ acido acetico si compie nel modo
seguente :
CSENIE HgC,H,0
HO 2? + 20,4,0,= C,H
I CH NE, Dir ‘ NH,
“ECH-NA,CH,0;:
La costituzione della p.mercuriofenilamina fu confermata dalle ricerche seguenti.
Preparai il xantogenato della base facendo reagire il suo acetato, stemperato in
acqua, con una soluzione di xantogenato di potassio sperando di potere da questo pro-
dotto ottenere per opera del calore il distacco del mercurio sotto forma di solfuro e
la sua sostituzione per opera dello xantogenile (CSOC,H.) oppure, più probabilmente,
data la natura basica del gruppo NZ4,, di dar luogo alla formazione della xantoge-
nanilide C,H.NHCSOC,H.. Ma la decomposizione che per opera del calore subisce il
xantogenato di mercuriofenilamina è molto complessa ed io mi propongo di studiarla
in seguito.
Riuscii però egualmente all’ intento facendo reagire quella base, la quale ha rea-
zione fortemente alcalina, con alcool e solfuro di carbonio.
La sostanza fu stemperata in alcool assoluto, si aggiunse solfuro di carbonio e si scaldò
al bagnomaria in apparecchio a ricadere fino a che una porzione del liquido filtrato,
per ulteriore riscaldamento, non produsse più solfuro di mercurio. Si filtrò, si svaporò
il filtrato e si ebbe un residuo oleoso che non tardò a rapprendersi in massa cristal-
lina. Si purificò il prodotto sciogliendolo in liscivia di soda caustica, filtrando, sbat-
tendo a freddo un carbone animale filtrando ancora ed inacidendo il filtrato con acido
cloridrico. La sostanza si separò cristallizzata. La si purificò ulteriormente cristalliz-
zandola dall’ etere di petrolio.
Era in forma di prismi scoloriti dotati di odore lievemente mercaptanico, fusibili
a 68°, solubili nei solventi ordinarii fatta eccezione per 1° acqua.
All’ analisi diede i seguenti risultati :
I. gr. 0,1316 di sostanza fornirono gr. 0,0782 di 47,0 e gr. 0,3882 di CO,.
iero (OfdiEsostanza fornivano Neca AS A die 2087/59.
II. gr. 0,1296 di sostanza fornirono gr. 0,1672 di SBa0,.
Line
Questi risultati delle analisi, le proprietà della sostanza corrispondono assai bene
per la 2mantogenanilide.
Calcolato per
Trovato
CH, NHCSOC,H, JE, OL, OL,
CHA - 59,67 DOLTS = i
Jel 6,08 6,60 _ _
O 8,84 cuni AS Di
N UO _ 8,05 —
S 17,68 = — ZA
Nella reazione tra solfuro di carbonio alcol e paramercuriofenilamina si
alcuni prodotti secondarii che saranno oggetto di mie ulteriori ricerche.
La reazione principale si compie evidentemente secondo 1’ equazione :
formano
CH, NH - Hg + CS, + C,H,0H = Hg8 + C,H,NHCS0C,H, .
ANCORA DELL’ EMIPROSTATECTOMIA VERTICALE
NELLE ISCURIE DA IPERTROFIA PROSTATICA
0
MEMORIA
DEL
Prof. Comm. GIUSEPPE RUGGI
DIRETTORE DELLA CLINICA CHIRURGICA DI BOLOGNA
(letta nella Sessione del 15 Gennaio 1911).
Egregi colleghi,
Ritorno sull'argomento perchè fatti nuovi e semplificazioni apportate al tecnicismo
operatorio mi hanno indotto a farlo; e perchè sono più che mai, convinto dell’ utilità e
praticità del metodo curativo, già da tempo proposto (1). Quantunque non sia in tutti i
suoi particolari conosciuta la misteriosa funzione della prostata, egli è certo che oggidì
sì ammette essere questa alla dipendenza degli organi sessuali. Ciò venne principalmente
dimostrato mediante l’operazione del Ra am, dopo la quale essendosi verificata l’ atrofia
della prostata, come conseguenza dell’asportazione dei testicoli, sì dedusse che quella era
strettamente legata alla integrità e conservazione di questi, dei quali racchiude e tutela
i condotti eiaculatori: a sua volta la prostata, messa ridosso del collo della vescica,
colle sue patologiche lesioni in modo sensibile influisce sulla funzione della vescica stessa;
lo che avviene, non solo per le mutate condizioni meccaniche del collo vescicale, bensì
anche per la modificata azione nervosa della prostata.
È tanto vero ciò, che si possono evidentemente migliorare le condizioni del detrusore
mediante una cura razionale eseguita sulla prostata.
Da così intimo legame esistente fra testicoli, prostata e vescica sì comprende | im-
portanza somma che può avere la reciproca influenza di un organo sull’ altro, e la com-
plessa loro azione sull’intero organismo. Non posso quindi accettare |’ asserzione di coloro
i quali, di questi fatti noncuranti, trovano esagerato l'interesse dimostrato da alcuni di
noi per la conservazione delle funzioni sessuali nel maschio. Per essi ciò è trascurabile,
inguantochè le prostatiche ipertrofie, presentandosi in persone generalmente vecchie, o per
lo meno invecchiate prima del tempo, non può tale conservazione delle sessuali funzioni
(1) Ruggi: « Dell’ emiprostatectomia ecc. ». Bollettino Scienze med. di Bologna, Gennaio 1907.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 29
DE gie
interessarli grandemente. Riserbandomi dimostrare coi fatti alla mano la falsità di tale
asserzione, dichiaro senz’ altro non logico un tale ragionamento. Sarà forse sana pratica
quella che sopprime una funzione per soccorrerne un’altra, mentre è possibile, o per lo
meno sperabile, nella grande maggioranza dei casi, di ottenere l’identico effetto senza in-
correre nella sopra accennata mutilazione ?
Gli infermi che per lesione della prostata vedono compromessa una funzione per loro
vitale, quale è appunto quella della orinazione, chiedono insistentemente di essere liberati da
così grave malore. Essi naturalmente, oppressi dalle sofferenze, potranno inconsciamente fare
getto di ciò che è più sacro nell'uomo: la virilità; ma ricordiamoci che nulla è maggior-
mente desiderato di quello che si è definitivamente perduto. La conoscenza dei fatti avve-
nuti e le statistiche relative ad essi, sono la più bella dimostrazione della verità e del-
l’importanza della mia asserzione.
Il Posner al congresso di urologia tenutosi a Parigi nel 1908, parlando della fun-
zione normale e patologica della prostata, ammise in detta glandola un’azione misteriosa
di secrezione interna e giudicò l’ablazione di essa nociva perchè arresta la spermatoge-
nesi, allo stesso modo che |’ atrofia precoce della prostata apporta, l’ aspermatismo (1). Con
un lavoro riassuntivo e sperimentale, presentato allo stesso congresso dall’ Haberen, mise
questi in rilievo le relazioni intime della prostata coll’ attività sessuale, concludendo che,
sebbene modernamente si ammetta, ed egli confermi, l’esistenza nella prostata di una
misteriosa secrezione interna importantissima, la fisiologia attende ancora sull’ argomento
ulteriori dilucidazioni. Ma oltre alle accennate considerazioni d’ordine più che altro funzio
nale, è giovevole conoscere che le lesioni della prostata apportano fenomeni di indole
generale, fra i quali la nevrastenia. Basterebbero a dimostrare ciò le statistiche del
Drobuy (2) il quale sopra 168 blenorragici a localizzazione prostatica trovò 162 nevra-
stenici (96%); mentre che sopra 605 blenorragici, senza localizzazione prostatica, trovò solo
41 nevrastenici (7°).
Ricorderò inoltre, rispetto all'influenza della prostata sulla psiche, che il Rovsing
al 31° congresso chirurgico tenutosi a Berlino nel 1907 parlò della melanconia dei prosta-
tectomizzati; cosa che ripetè l’anno successivo al congresso di Parigi già citato. Anche il
Rumpel si è occupato della malinconia osservata nei prostatectomizzati, narrando per di
più di due suicidi avvenuti in operati di tal genere; il Valchier infine narra di un sui-
cidio di un operato dopo 50 giorni dalla subita mutilazione.
Io pure ho avuto la narrazione di sofferenze morali patite da alcuni che, operati da
altri di prostatectomia, avrebbero desiderato nel loro sconforto un mio efficace consiglio.
Le quali cose tutte stanno a dimostrare quanto sia doveroso in nol l’ essere circospetti di
fronte ad un organo, certo importantissimo, qual’ è la prostata, sebbene di così incerta
funzione e sconosciuta influenza sul sistema nervoso centrale. Rispetto alla prostata può
ripetersi quauto è stato fatto e detto per l’utero asportato a cura dell’ ipertrofia da in-
(1) Posner: « Premier Congres de l’ass. International d* urologie », Paris, 1908.
(2) Sem. Medical., 24 giugno 1907.
— 175 —
completa involuzione o da metrite cronica dolorosa. Io sono stato il primo ad eseguire in
Italia l’isterectomia per simili indicazioni, e fra i primissimi in Europa; però sono ben
guardingo, come lo fui sempre, nel soddisfare le richieste delle inferme. Deplore quindi gli
eccessi che si compiono al giorno d’oggi dai poco esperti nelle pratiche ginecologiche.
Questi troppo spesso assecondano 1 desideri delle malate che, stanche di soffrire, reclamano
insistentemente l'operazione dell’ isterutomia, inconscie delle conseguenze tardive di essa.
In antecedenza a quanto era stato detto e fatto da altri, sorse nell’animo mio il
dubbio, che divenne poi convincimento profondo, sulla razionalità dell’ asportazione totale
della prostata in ciascun caso d’iscuria da ipertrofia prostatica. Dopo avere per primo in
Bologna eseguita la prostatectomia perineale a cura dell’iscuria da ipertrofia prosta-
tica (1902) (1) ho successivamente pensato di ricorrere ad un mezzo assai più semplice e
meno lesivo, sebbene egualmente efficace. Proposi cioè ed eseguii, come ho accennato più
sopra, l’emiprostatectomia verticale che feci conoscere alla Società medico chirurgica in
Bologna nella seduta del 14 dicembre 1906. Con tale metodo dimostrai fino d’ allora assi-
curato il successo senza compromettere premeditatamente la sessuale funzione.
Nell’ ottobre 1909 per |’ annuale nostro Congresso di chirurgia, essendo stato a me affi-
dato l’onorevole incarico di riferire intorno alla prostatectomia, esposi di bel nuovo le mie
vedute sull’argomento, confortando il mio dire coll’esposizione di fatti patologici e di casi
clinici importantissimi (2). Ed ora a quei casi patologici e clinici avendo potuto aggiungere
altri interessantissimi, mi sento per essi autorizzato alla presente relazione.
Le condizioni anatomiche della prostata che possono profondamente modificarla deri-
vano da coeficenti diversi, cioè da fatti di origine flogistica, d’origine distrofica, e d’ ori-
gine neoplastica: questi ultimi distinti in benigni e maligni.
Ora io non ammetto possibile aleuna razionale cura di demolizione nelle forme neo-
plastiche maligne, essendo insufficiente la prostatectomia sub capsulare, ed operazione assai
grave l'asportazione in foto della prostata e sue parti annesse.
Si aggiunga a ciò la difficoltà di una diagnosi precoce, quale sarebbe richiesta, perchè
una efficace demolizione corrisponda allo scopo. Restano pertanto razionalmente curabili
le sole forme infiammatorie e le forme iperplastiche e neoplastiche benigne.
L'idea di eseguire, a preferenza della prostatectomia totale subcapsulare (come ero solito
di fare), una prostatectomia parziale, una camera non è cosa nuova. Ed invero, allo scopo
di salvaguardare i condotti eiaculatori, il Joung ed il Rydiger, operando per via perineale,
seguirono speciali processi. Il primo infatti asporta i due lobi laterali e lascia la parte
mediana, dove risiedono ì condotti eiaculatori; il secondo agisce nel modo analogo al
primo, ma senza aprire l’uretra, che anzi con tutta cura cerca di conservare integra.
(1) Ruggi: « Prostatectomia perineale sub capsulare ». Bollettino Scienze med. di Bologna,
Febbr. 1903.
(2) Ruggi: « Dell’emiprostatectomia verticale eseguita per via perineale ». Comunicazione letta
alla Società Italiana di Chirurgia. Ottobre 1909, Pubb. in Roma, 1910.
— 176 —
Cogli accennati processi, come con la maggioranza dei processi di prostatectomia to-
tale perineale, a guisa di quello del Proust, il perineo viene gravemente compro-
messo, mentre la prostata, specie con quello del Rydiger, viene troppo blandamente
attaccata.
Io invece, volendo agire in senso verticale sulla prostata, e di conseguenza sul collo
vescicale e sulla stessa vescica, conservando, per quanto era possibile, intatta l’anatomica
configurazione del perineo, ho agito seguendo un ben diverso concetto.
Il processo del metodo da me usato ricorda la prostatotomia del Thompson e
dell’Harrison. Il primo praticando la cistotomia mediana, semplicemente incideva la
prostata nel modo che io pur feci in altri tempi (1); ma la pratica di lui, come la mia,
non sortirono risultati favorevoli. Maggiore considerazione ed alcuni segnaci ebbe invece
il processo dell’Harrison. Egli, sempre per via perineale, incisa la prostata in senso ver-
ticale, cercava di canalizzarla mediante |’ applicazione di adatti cannelli di gomma vulca-
nizzati a doppia parete, analoghi alle cannule per tracheotomia.
L'Harrison poneva detti tubi attraverso la praticata apertura prostatica e li con-
servava in posto per parecchie settimane, permettendo contemporaneamente agili infermi
di lasciare dopo dieci giorni il letto.
Ora il processo del mio metodo ricorda più specialmente quello dell’ Harrison, perchè
come lui, ho cercato di canalizzare la prostata, ma in modo oltremodo radicale, ottenendo
ciò coll’asportazione di una parte dell’organo in senso verticale.
Volevo, in poche parole, formare, attraverso la prostata, una specie di fumne! che, arri-
vando in vescica, deprimesse contemporaneamente la diga formata dalla muscolare della
parete vescicale e dalla mucosa, sollevate a mo’ di sbarra trasversale. Detta valvola o
barriera prostatica del Mercier, fu studiata fino dal 1830 dal Guthrie; (2), e successi-
vamente, dal Civiale e dal Thompson (8). Volevo inoltre eseguire un’ operazione rela-
tivamente semplice ed innocua, quale può oggidì considerarsi la cistotomia perineale me-
diana E dico cistotomia perineale mediana, perchè ritengo questa da preferirsi alle tra-
sversali incisioni del perineo, che largamente muscoli, vasi e nervi interessano. Tali incisioni,
a mio credere, possono sinistramente influire sull’erezione del pene, stante le profonde
modificazioni apportate sugli elementi anatomici della regione. Vi ricorderò a tale propo-
sito che il muscolo bulbo-cavernoso in alcuni speciali soggetti si associa al muscolo del-
Houston, condizione anatomica, che rende l’erezione volontaria del pene più facile e
persistente.
Ma i contradittori delle operazioni parziali nei casi di ipertrofia prostatica e specialmente
neoplastica benigna, sostengono a priori che tale trattamento curativo non può essere che
temporaneo perchè, data la lesione totale dell’ organo, e la natura la anatomica della stessa,
(1)
(2) T. G. Guthrie. On the Anatomye and Diseases of. the urinary organs, London, 1834, pag. 23-25.
(3) Thompson: « Traité pratiques des mala maladies des voies urinaires ». Paris. 1874, pag. 512.
De la barre au col de la vessie.
SC
tolta una parte di questa potrà dall’ altra essere rimpiazzata. Il ragionamento pare a dir
vero, logico; ma esso viene anzitutto contradetto dai fatti con serietà studiati e per anni
controllati. Poi debbo dirvi ancora che io non fui condotto all’ applicazione del metodo cura-
tivo, in modo cervellottico e, come si suol dire, tanto per fare. Anzitutto vi farò notare che
io avevo già da tempo osservato che nella iscuria prostatica i fatti anatomici più importanti
risiedevano a preferenza sui lobi laterali della prostata, e ciò in confronto della tanto
temuta ipertrofia del lobo medio. Di più avevo notato che la stessa ipertrofia si svolgeva
a preferenza in senso verticale ed escentrica alla ghiandola stessa, per guisa che l'influenza
meccanica dell’ipertrofia era in special modo determinata dal sollevamento della già no-
tata sbarra prostatica, più ancora che dall’ incontro di un lobo laterale contro l’altro, fat-
tosì voluminoso. Se ciò non avvenisse, quanto più frequente e sollecita non sarebbe la
chiusura dell’orificio interno vescicale, dato il volume assunto dall’ organo trasformato
talvolta in una massa quadrupla del suo stato normale? Ma io pensavo ancora che la
prostata, data la speciale disposizione anatomica delle due masse dalle quali risulta fino
nell’embrione formata, la capsula che le avvolge, e le salde aderenze che ciascuna di
quelle tenacemente conserva con questa, non dovesse per nulla prestarsi alla temuta tra-
sposizione di sede, allorchè una metà di essa fosse stata demolita.
La pratica, come io diceva, mi ha dato perfettamente ragione. l'enete calcolo che io
ho proposto ed eseguito questa cura perineale della prostata nei soli casi d’ipertrofia pro-
statica consecutivi a prostatite cronica ed a neoplasie benigne dell’ organo, quale sareb-
bero ad esempio un fibroma, un adenoma, un mioma. Per le forme maligne, come già io
vi diceva, non vi è cura possibile, perchè nè la diagnostica, nè la tecnica si prestano ad
un razionale trattamento. La statistica che io presentai nel passato anno al Congresso
della nostra Società di Chirurgia, era buona, non però ottima (16 guarigioni su 20 operati).
Nei continui mutamenti relativi alla tecnica operatoria ed alle cure consecutive alle ese-
guite operazioni non sempre i risultati sortirono l'esito desiderato: e furono fatte novelle
prove sino ad ottenere quella tecnica che ora io ritengo definitivamente raggiunta.
Però nell’esporre con tutta sincerità la mia statistica, io facevo fino d'allora notare
che, l’andamento successivo dei casi guariti, era sempre stato permanentemente normale.
Il che posso ripetervi ora dopo un anno di distanza dall’epoca sopra accennata e la pre-
sentazione di altri undici nuovi casi da me operati nel trascorso ultimo periodo, cioè
dopo l’ultimo Congresso Chirurgico di Roma (ottobre 1909). Questi casì sono tutti gua-
riti, senza sofferenze e senza complicazioni, in un periodo di un mese circa, avendo lasciato
il letto dopo 12-15 giorni dalla subita operazione.
Fra questi miei operati uno specialmente merita tutta la vostra considerazione, perchè
rappresenta per me il tipo classico fra i soggetti per i quali il mio metodo di cura deve
essere applicato.
Si trattava di un ricco signore di Verona, di anni 58, persona influente, colta ed atti-
vissima, aitante della persona, padre di numerosa prole, che da tre anni soffriva d’ attacchi
d’iscuria ricorrenti a periodi, associati con febbre ed accessi uremici evidenti, manifestan-
tesi con nausea e vomiti, insonnia e malessere generale.
— 178 —
Stante le ripetute consultazioni fatte presso diversi specialisti della materia era egli
perfettamente a cognizione delle sue condizioni, per guisa che, avendo imparato posse-
dere io un metodo di cura relativamente semplice, destinato alla rapida guarigione, non
compromettente le funzioni sessuati, volle senz’altro affidarsi alle mie mani. Io lo presi in
cura mentre egli si trovava affetto da evidente infezione vescicale, con febbre che gli
perdurava da parecchi giorni (20 circa) La temperatura saliva giornalmente a 39° e mezzo;
le orine erano torbide; la prostata grossa; il ristagno vescicale, dopo i tentativi di ori-
nazione, di circa 500-600 grammi di orina. Date tali condizioni, cominciai coll’ applicargli
una siringa a permanenza in vescica, allo scopo di poter praticare la disinfezione e lo
svuotamento facile di questa. Passato qualche tempo, avendo notato che togliendo il cate-
tere dalla vescica si ripeteva tutto il quadro dei fenomeni dai quali l’infermo era da tanto
tempo travagliato, gli proposi la emiprostatectomia verticale sinistra, dopo di che l’infermo
potè, trascorso un mese dalla subita operazione, tornare al suo paese in perfetta salute.
Come io vi dicevo, questo per me è un caso importantissimo, inquantochè il soggetto
per la sua età, la sua mente aperta e brillante, la sua intrapprendenza negli affari e nella
vita domestica, si trovava nelle condizioni di poter meglio degli altri valutare i vantaggi
della cura subita senza sofferenze e con tanta semplicità di trattamento. Le notizie avute sulle
condizioni attuali del predetto infermo sono le migliori che si possono desiderare sotto
ogni rapporto. (1) Gli altri infermi guariti nel passato anno, nel numero di 10, erano am-
malati della Clinica; dell’età varia da 53 a 81 anno. Essi per certo sono tutti felici della
ricuperata salute, ma alcuni per la loro grave età, gli altri per la mentalità loro e per
la vita di sacrifici alla quale sono condannati, non possono moralmente apprezzare in modo
adeguato i vantaggi della cura loro fatta.
l’er eseguire l’ operazione della emiprostatectomia mi servo degli strumenti seguenti
e cioè:
1.° Di un comune siringone scanalato da cistotomia perineale;
2.° Di un cistotomo di forma triangolare che io avevo imparato ad usare eseguendo
la cistotomia perineale mediana col processo Rizzoli;
3.° Di uno speciale abbassatore prostatico da me ideato e reso di pubblica cono-
scenza fino dal 1903;
4.° Di due valve strette e corte, destinate a tenere beante la praticala incisione pe-
rineale, stirandola in basso e da una parte, a seconda dei casi, per poter dominare il
punto più profondo di essa;
5.° Di una spatola che agevoli il distacco del tratto di prostata che si vuole aspor-
tare dalla corrispondente capsula. È questo uno strumento di somma importanza, la di cui
azione viene coadiuvata da pinze a larga presa, che ne agevolano il distacco;
6.° Di alcune tenaglie incisive di forma diversa destinate talvolta @! morcellement
dell'organo;
(1) Io stesso ho potuto visitare in questi giorni detto Signore; ed, oltre alla soddisfazione sua per
la riacquistata salute ho potuto constatare quanto sia esattamente normale lo stato generale e locale
del suo organismo.
I
7. Di un grosso catetere De - Pezzer.
Infine di pinze emostatiche, aghi, portaghi, catgut e seta.
Ben di rado al presente mi servo del morcellement, usato a preferenza nei primi casi:
ad esso ricorro ora soltanto nel caso di prostata fibrosa e non distaccabile dalla relativa
capsula, cosa del resto abbastanza rara a trovarsi. Eseguita l’ incisione mediana, come è
mia pratica, e messo in vescica l’ abbassatore prostatico, la prostata stessa, viene così sal-
damente fissata, che, riesce assai facile snuclearla; e così allontanare la metà di prostata
che si vuole asportare, servendosi della robusta spatola che adopero a modi leva pode-
rosissima, coadiuvando l’azione con blande trazioni fatte con pinze di presa a larga base.
Operazione. Posto l’infermo nella posizione propria alla cistotomia perineale, pratico
sulla linea mediana un taglio esteso dalla radice della borsa ai contorni dell’ano, che
costeggio a sinistra, collo scopo di ottenere maggiore spazio nella divaricazione successiva
dei bordi della ferita cutanea. Incido di poi gli strati sottostanti nello spazio ischio-bulbare
sinistro, spostando il bulbo verso il destro lato. Metto così allo scoperto | aponeurosi pe-
rineale media nel punto in cui viene attraversata dall’ uretra membranosa, che incido,
mettendo a nudo il catetere scanaiato. Dopo ciò, introdotto l'apice del cistotomo nella
scannellatura del siringone, afferro questo al suo padiglione, togliendolo dalle mani del-
l’aiuto; e, sollevandolo in modo da avvicinare la sua concavità a quella del pube, nello
stesso tempo che introducendolo maggiormente in vescica, faccio seguire ad esso il cisto-
tomo fisso nella scanellatura del siringone. Col doppio movimento combinato della mano
sinistra che abbassa il padiglione del catetere scanalato fra le coscie del paziente e la
destra mano che tiene energicamente fisso il coltello nella scanellatura, questo si avanza
verso l'alto. Aggiungendo a ciò un lieve tratto di percorrenza eseguito dal cistotomo
lungo la scanellatura stessa, completo l’ incisione dell’ uretra membranosa per raggiungere
la prostata al suo apice.
In tale momento al cistotomo sostituisco il dito indice della mano sinistra il quale,
seguendo col suo apice la scanallatura del catetere, raggiunge assai facilmente il collo
vescicale, mentre il catetere stesso viene contemporaneamente ritirato. Infine sulla guida
del dito che si trova in vescica, introduco l’abbassatore prostatico col quale fisso l'organo
che ora voglio parzialmente demolire.
Le modalità successive saranno varie a seconda delle condizioni anatomo-patologiche
proprie ai singoli casi e delle quali ho di già fatto cenno.
Il drenaggio della cavità vescicale completa ed assicura l’atto operatorio, ed è mio
attuale convinzione, che. solo di fronte a casi eccezionali, il successo possa mancare. Egli
è certo che la discussione è aperta ed io conto riprenderla allorchè sarà trascorso molto
tempo per dare con coscienza contezza dei risultati ottenuti. Non pertanto avendo già degli
operati da oltre 5 anni i quali persistono nel mantenersi soddisfatti della praticata cura, è
mio convincimento che il risultato favorevole del metodo si possa ritenere raggiunto.
Nella grande maggioranza dei miei operati non si ha alcun residuo in vescica dopo
l’urinazione, o tale residuo è assai piccolo. Io dico nella grande maggioranza, perchè vi
sono alcuni casi (casi del resto constatati anche dopo la prostatectomia completa tanto
-— 180 —
perineale che transvescicale eseguita da me e da altri) nei quali persistono in vescica dei
residui d’orina più o meno grandi. Però anche in simili soggetti la quantità del residuo in
vescica dopo ]’ urinazione è infinitamente minore che prima dell’operazione stessa e per
di più il soggetto non va incontro ad iscuria. Tali residui sono la conseguenza di fatti
inerenti alle condizioni speciali della vescica, conseguenza, come già dissi delle ripetute
ed inveterate distensioni della medesima e dei mutamenti anatomici grossolani avvenuti
da tempo, che non si possono con alcun metodo nè con alcun processo rimuovere. Rispetto
alla funzionalità sessuale la cosa è molto variata: anche qui non sì può pretendere l’im-
possibile: però deve essere sufficienie l’ aver previsto a che nessuna mutilazione sia stata
da noi operatoriamente compiuta
Questo, a mio avviso, è il nostro dovere.
PFINDICE
d
È
%
._ G. Tizzoni — Sulla possibilità di trasmettere la pellagra alla scimmia (con
È; una tavola).
i A. Razzaboni — Sulle curve a doppia curvatura in geometria iperbolica.
i G. Ciamician e ©. Ravenna — Sw contegno di alcune sostanze organiche nei
| vegetali (IV Memoria) ,
A. Baldacci — La Flora delle isole Pelagose .
(A. Righi — Nuove ricerche sul potenziale di scarica nel campo magnetico (con
n; 14 figure nel testo) .
Do: S. Canevazzi — Proiezioni di scalpellatura
A
CONO A
Gi Capellini -— Tapiri fossili bolognesi (con 2 figure nel testo)
; 6. Capellini —, Zifioidi fossili nel museo geologico di Bologna
d S. Pincherle — Appunti di Calcolo Funzionale
i ; A. Baldoni — Sulla resezione del condilo della mandibola nell’ artrite purulenta
traumatica temporo-mascellare nel cavallo (con 4 figure nel testo).
L. Pesci — Reazioni tra gli acetati di mercurio ed i xantogenati alcalini .
L. Pesci — Sua costituzione della mercuriofenilamina .
G
. Ruggi — Ancora dell’ emiprostatectomia verticale nelle iscurie da ipertrofia
BM CO e A N e,
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Cavazzi — Processo per la determinazione del manganese nei prodotti side-
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ISTITUTO DI BOLOGNA
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TOMO VI.
Terzo e Quarto.
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CLINICA CHIRURGICA DI BOLOGNA
= DIRETTA DAL Prof. GIUSEPPE RUGGI —
ASPORTAZIONE COMPLETA DELLO STERNO
A CURA DI UN TRAPIANTO CARCINOMATOSO
SUCCESSIVO AD AMPUTAZIONE MAMMARIA
NESMEORIE:
DEL
Prof. GIUSEPPE RIGGI
(Letta nella Sessione del 15 Gennaio 1911).
Il caso presente, se non assolutamente nuovo, è certo assai raro; ed io non ne vidi
un altro nel mio esercizio pratico. In Italia non mi consta che sia stato per la stessa
ragione asportato lo sterno. Frequenti furono invece le resezioni più o meno estese di tale
osso a cura di processi infiammatori specialmente di natura specifica. Il dott. Ernst,
citando un caso di asportazione totale dello sterno, per cura di una caverna polmonare,
dice che i casi da lui trovati di asportazione totale dello sterno sono solo 7. Essi appar-
tengono a Rizzoli (1) Koenig, Griffitts e Bardeneheuer. Per lo più si trattava
di lesiori tubercolari dell’ osso, in seconda linea di tumori dello sterno e del mediastino,
o di resezioni temporanee per aggredire il cuore o i grossi vasi. Il nostro caso è assai
interessante anche per la rarità di un trapianto allo sterno di un processo carcinomatoso
mammario. Infatti recentemente Fidelin, esaminando una statistica, di 234 amputazioni
di mammella, raccolta da vari chirurghi, riscontrò solo due casi di recidiva nello sterno
(1) Resezione dello sterno sino alla cartilagine ensiforme e delle cartilagini costali. Guarigione
dell’ Inferma. Riproduzione totale dello sterno e delle cartilagini costali. Relazione fatta alla Società
Medica di Bologna nel 1876.
L’inferma di costituzione linfatica all’ età di 18 anni riportò un trauma al petto, cui segui una
cronica osteoperiostite.
Quattro anni dopo il Rizzoli ebbe ad asportare 4 centimetri di costa in necrosi, di cui era stata
constatata la mobilità attraverso a un seno fistoloso formatosi presso il capezzolo della mammella
destra. Obliteratosi questo seno, dopo poco se ne manifestò un secondo in corrispondenza del lato destro
dello sterno al punto di unione del manubrio con il corpo, e poscia un terzo in corrispondenza al punto
di unione del corpo dello sterno con l’ ipofisi ensiforme.
Trascorsi 12 anni dall’ inizio della malattia, essendosi le condizioni dell’ inferma notevolmente
aggravate, e per la febbre continua e per essersi fatta la suppurazione più abbondante dell’ ordinario,
tanto che con la tosse il pus fuori usciva a spruzzi dai detti seni, il Rizzoli si decise d’ intervenire
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 26
ei see
appartenenti alla statistica di Schwartz. Per tali ragioni non chè per 1° ottimo esito ope-
ratorio, ho creduto interessante pubblicare questo caso.
La storia clinica che segue, è stata redatta dal mio attuale assistente di Clinica
dott. Carlo Santini.
B. T. di anni 47, di Portocivitanova, Bracciante.
L’inferma circa 2 anni e 8 mesi or sono, senza che al manifestarsi di tale malattia
avesse dalo nessuna causa plausibile, notò l° insorgere di una piccola tumefazione della
grandezza di una nocciola di consistenza dura, indolente, in corrispondenza del quadrante
inferiore esterno della mammella sinistra. Tale tumefazione andava abbastanza rapidamente
crescendo, tanto che fu indotta a consultare un medico, il quale le consigliò un atto ope-
rativo, dicendole trattarsi di cancro. Fu infatti operata due anni e mezzo fa di asporta-
zione della mammella sinistra. Dopo tale atto operativo stette bene per un anno; solo
sembra che durante il periodo mestruale sentisse talora delle trafitture in corrispondenza
della cicatrice. Dopo un anno dunque dall’ atto operativo, 1° inferma cominciò a notare
nella regione sternale in corrispondenza del manubrio, una chiazza rosso-violacea della
grandezza di una moneta da 5 franchi. Tale chiazza non era accompagnata da fenomeni
rilevanti, se si eccetua qualche trafittura. Dopo qualche tempo cominciò a notare la for-
mazione in corrispondenza della chiazza di una rilevatezza di consistenza dura, che andava
lentamente ma graduamente estendendosi in basso e lateralmente. Col comparire di tale
rilevatezza, il dolore trafittorio si fece più vivo e più frequente. Esisteva però sempre
un aumento sia nelle proporzioni della tumefazione che in quelle del dolore, durante il
flusso mensile. Impensierita 1’ inferma dal crescere della tumefazione si vecò all’ ospedale
di Ancona dove a suo dire i medici dopo un esame radioscopico, giudicarono trattarsi
sullo sterno, che con la specillazione erasi trovato scoperto dal periostio e )’ osso stesso in preda
a carie.
Anche alcune cartilagini risultavano interessate dal processo specifico.
Atto operativo. — Introdotta una sonda scanalata dal seno fistoloso superiore fa una incisione
longitudinale che va a terminare al seno fistoloso inferiore. Da questo punto tira due tagli laterali in
modo che si forma un taglio a JT, rovesciato con due lembi inferiori che scolla e solleva in modo da
mettere allo scoperto le cartilagini. Essendo il periostio della faccia anteriore dello sterno in parte
distrutto, e quello residuo poco aderente, con facilità fu tutto il corpo dell’ osso messo allo scoperto. In
riguardo al manubrio fu poi rilevato, senza prolungarvi sopra l’ incisione, che la sua sinfisi con il
corpo erasi affatto disgregata, onde introdotta per questa una spatola venne in toto sollevato, essendone
anche il periostio della parete posteriore non aderente. Avendo sostituito alla spatola |’ indice sinistro,
solleva ancora meglio il manubrio e con forbici incide i suoi attacchi articolari e tendinei. Recide
quindi a destra 4 cartilagini costali al punto d’ inserzione con la rispettiva costa. Altrettanto esegue a
sinistra ma più in prossimità al margine sternale. Completa infine il distacco del corpo dello sterno
con l’apofisi ensiforme, di cui la sinfisi, in seguito al lungo processo suppurativo, era pur essa parzial-
mente resa mobile. Il corpo dello sterno avendo il periostio posteriore o distaccato o distaccabile si
poté in breve rimuovere. Il poco sangue cessò con compresse di filacce.
Presenta 1’ Inferma guarita con riproduzione dello sterno e delle cartilagini.
La riproduzione dello sterno, il Rizzoli dice essere stata la ragione principale che lo mosse alla
pubblicazione del caso.
— 183 —
di periostite e le consigliarono una cura esterna locale. Ma vedendo | inferima che non
ne ritraeva alcun giovamento, anzi che il tumore cresceva in modo impressionante, si
decise a recarsi in questa clinica..
Durante il suo evolversi il tumore non le ha dato altri disturbi all’ infuori del dolore
CA
Fig. 1.* Prima dell'Operazione
torio locale irradiantesi solo nella regione mammaria sinistra. Non disturbi della respira-
5 zione e deglutizione. Le condizioni generali si sono mantenute buone. Mai febbre; appetito
buono, alvo e minsione regolari.
Prima d'ora è stata sempre bene. Marito sano da cui ha avuto 3 figli; 2 viventi e
9°
DI
to, a grandezza naturale.
irpa
Il tumore est
— l85 —
sani, uno morto a 19 mesi per malattia intestinale. Si esclude la lue. Nulla di bacillare
nella famiglia.
Esame obbiettivo. -—- Donna di costituzione scheletrica regolare, masse muscolari ben
Fig. 3.8 - Lo sterno cavato.
sviluppate, pannicolo adiposo abbondante. Colorito della pelle e delle mucose roseo, aspetto
dell’ inferma ottimo come di donna sana e forte.
Esaminando la regione anteriore del torace si notano subito due cose; la mancanza
della mammella sinistra, (fig. 1°) e la presenza di una notevole tumefazione in corrispon-
2 MEN
denza di tutta la regione sternale. Nella regione mammaria sinistra si osserva una cica-
trice di aspetto regolare, quasi acronica, costituita da due segnature una più lunga che
con direzione obliqua dal basso all’ alto e dall’ interno verso |’ esterno va dall’ arco costale
fino al margine esterno del gran pettorale, un’ altra della lunghezza di 7 cem. che interseca
perpendicolarmente la prima partendo dalia parasternale sinistra. La pelle nei dintorni di
detta cicatrice è normale. La tumefazione invece che si osserva nella regione sternale, si
presenta in forma d’ una gibbosità assai prominente che ha la sua parte più pronunziata
in corrispondenza del corpo dello sterno e con una certa prevalenza a sinistra. La pelle al
disopra e di colorito rosso bluastro, tesa, ed ematosa, solcata da numerosi tronchi venosi
assai evidenti. Alla palpazione si sente una grossa massa a limiti non ben definiti, a super-
ficie irregolare, di consistenza dura, dolente alla pressione. I suoi limiti aprossimativi sono
questi. In senso verticale invade tutto lo sterno, in senso trasversale col suo massimo dia-
metro in corrispondenza della 3° e 4° costola giunge a destra un dito all’ intuori della
parasternale, a sinistra giunge all’ emiclaveare ; i suoi massimi diametri sono 18 cm. tra-
sversale, 16 cm. verticale. La massa è assolutamente fissa. Non è pulsante. Alla percus-
sione si ha suono ottuso
Non si palpano gangli, nè nelle regioni ascellari, nè in quelle sopraclavicolari.
Gli organi addominali e toracici, sono normali.
Esame di orina. — Quantità esaminata cme. 300. — Colorito giallo chiaro. — Tra-
sparenza limpidissima. — Reazione neutra. — P. S. 1009. — Albumina no. -- Zucchero no.
Esame di sangue. — Esame a fresco-globuli rossi normali. — Corpuscoli rossi 3.600.000.
— Emoglobina 80%. — Corpuscoli bianchi. — N° 7850. -- Formola leucocitaria. — Lin-
fociti 22%. = Neutrofili 74%. — Eosinofili 3%.
Reazione di Wasserman. — Negativa.
Atto operativo. — Il 26 novembre il prof. Ruggi interviene. Circoserive con 3
lunghe incisioni riunite in forma di triangolo rettangolo coll’ angolo retto a destra e l ipo-
tenusa a sinistra, tutto il tumore cadendo sul tessuto sano, e in pochi colpi di bisturi
asporta tutte le parti molli scoprendo lo sterno e le costole sottostanti. Ma apparendo
evidente che anche lo sterno è invaso dal tumore, si accinge ad asportarlo in totalità.
Per far ciò, isolando ad una ad una le estremità costali dai tessuti e dal pericondrio, con
gran circospezione, per non ledere la pleura sottostante, ed iniziando il distacco dalla
parte destra, taglia prima alla distanza di 3 cm. circa dall’ attacco sternale la 1° costola
poi la 2% la 3* la 4* la 5° ed in massa tutte le altre sottostanti. Così fa dall’ altra parte.
In questa manovra viene ferita e subito pinzata la mammaria interna sinistra. Fatto ciò
disarticola, cominciando prima dall’ arto sinistro, il manubrio dello sterno dalle clavicole,
e distaccando a piccoli colpi di bisturi quello, poi il corpo sternale dal mediastino ante-
riore, riesce ad asportare tutte le accennate parti, senza ledere minimamente la pleura.
ximaneva solo in basso 1’ appendice xifoide, che con alcuni colpi di Luer asporta fino a
cadere su posti completamente sane. Vengono infatti mandati ad esaminare alcuni fram-
menti col microtomo congelatore, che rassicura immediatamente sulla completa mancanza
di tessuto neoplastico. Rimaneva ora un’ enorme breccia della grandezza di 2 mani avvi-
— ea =
cinate. Per colmarla il Prof. Ruggi congiunge le incisioni già fatte con una orizzontale
Ghe circoscrive in basso la mammella destra, e scollando questa può con grande facilità
portarla al disopra della superficie cruenta e ricoprirla esattamente. Nei punti declivi
vengono lasciati 3 drenaggi. La disinfezione della cute prima e dopo |’ operazione, viene
fatta colla tiniura di jodio, secondo il metodo di Grossich.
Il decorso fu ottimo. Niente febbre, nè emorragia, nè fenomeni a carico dell’ apparato
respiratorio e circolatorio. Al 3° giorno si cavano i drenaggi, al 7° i punti, ammalata è
goarila per prima. Lascia 1’ ospedale in 18° giornata dall’ operazione.
Per dare la spiegazione patogenetica dell’attuale caso sarà bene ricordare, come fra
Fig. 4.% - same microscopico del tumore.
i diversi prolungamenti della glandola mammaria, oltre a quello costante al lato ascellare
descritto dal Kèrmisson (1) ve ne siano altri, meno costanti, fra i quali uno descritto
dal Rieffel (2) che, portandosi verso l’ interno, si mette appunto in rapporto colla faccia
anteriore dello sterno ad una altezza corrispondente al 4° spazio intercostale. Ora nella
nostra ammalata, ammessa la preesistenza nella mammella sinistra dell’ accennato prolun-
gamento, si potrebbe con questo avere spiegazione del trapianto fattosi dal carcinoma, che
avrebbe poi preso così saldi rapporti collo sterno da determinarmi alla necessaria aspor-
tazione di questo.
(1) Kermisson. Soc. de Chi. 1881 e Soc. Anat. 1882.
(2) Rieffel. Traité d’anat. Poirier. Charpy T. V. p. 679.
— 188 —
CONCLUSIONI
Il caso è assai interessante per queste ragioni :
1. Per la recidiva piuttosto rara del carcinoma dalla mammella nello sterno, mentre
Fig. 5.2 - Dopo l' eseguita plastica mammaria.
non esisteva ingorgo delle ghiandole ascellari e sopra clavicolari.
2. Per essere stata fatta | asporiazione totale dello sterno mettendo quindi com-
È — 189 —
pletamente allo scoperto tutto il mediastino anteriore.
3. Per la plastica eseguita con la mammella destra a riparo delle parti molli ampia-
mente asportate.
Fig. 6.* - Dopo l’ eseguita plastica mammaria.
4. Per l'ottimo decorso postoperatorio, in quanto che in decima giornata, l’ inferma
si alzò guarita, senza aver presentato nessuna complicanza da lato dell’ apparecchio respi-
ratorio 0 cardiaco.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 21
Ricerche sulle modificazioni del sangue in seguito
all’ estirpazione dell’ apparecchio tiroparatiroideo
NOTA
Prof. PIETRO ALBERTONI
(letta nella Seduta del 12 febbraio 1911).
Le modificazioni chimico-fisiologiche che subisce il sangue in seguito all’ estirpazione
delle tiroidi e paratiroidi nel cane sono poco note e ricercate, quantunque tutte le ghian-
dole a secrezione interna versino i loro prodotti (ormoni) nel sangue e, mediante il tramite
del sangue, esercitino il loro meraviglioso ufficio di organi regolatori della circolazione
sanguigna e dello scambio materiale
Soltanto le costanti fisico-chimiche del siero di sangue di cane dopo l’ ablazione del-
l’apparato tiro-paratiroideo furono oggetto di diligenti ricerche da parte di Fano e
Rossi, di Burton-Opitz, di Segale, di Capobianco e recentemente di Eloisa
Gardella (1). La quale crede di poter affermare che quando la sindrome tiroparatireo-
priva insorge acutamente e con carattere grave, la viscosità del siero del sangue aumenta
leggermente, la conducibilità elettrica non subisce modificazioni apprezzabili, benchè mostri
la tendenza a diminuire, e la coagulazione al calore diminuisce in modo considerevole.
In questa prima nota comunico le ricerche che si riferiscono alla quantità o massa
del sangue, alla quantità di fibrina e di proteine del plasma, all’ammoniaca ed allo zuc-
chero del sangue.
I. — MASSA DEL SANGUE.
La massa del sangue venne determinata col metodo colorimetrico (colorimetro Duboscq)
-
* a) SÒ _2 3°
cavando prima un campione di sangue e lavando poi i vasi con soluzione fisiologica di
cloruro di sodio, procedendo con tutte le dovute cautele e trattando il sangue con ossido
di carbonio prima di sottoporlo all’esame col colorimetro Le prime tre esperienze vennero
(1) Eloisa Gardella, Le costanti fisico-chimiche del siero di sangue di cane dopo l’ablazione
dell'apparato tiro-paratiroideo. Arch. di Fisiologia Vol. VIII fase. 5, Luglio 1910.
Vedi anche un lavoro più recente del Dott. Gio. Quadri, Influenza delle alterazioni di secre-
zione delle ghiandole tiroidi e paratiroidi sulla crasi sanguigna e sugli organi della circolazione. Mo-
dena 1911.
— 192 —
pure fatte col colorimetro, ma sostituendo il saggio di sangue cavato con siero di altro
cane, come propone Nelson, così l’animale rimane in vita (i).
I risultati ottenuti, e riassunti nella seguente tabella, dimostrano che la massa del
sangue diminuisce in maniera assoluta, e spesso notevolmente rispetto a cani normali, e
tenuto conto del peso corporeo in limiti quasi eguali a quelli che si osservano in un cane
tenuto a digiuno per un periodo corrispondente di tempo.
Il peso specifico nel sangue defibrinato si approssima alle cifre trovate nel cane di-
giuno con leggiero aumento sulla cifra normale
TapeLra A
Esperienza
N.° del protocollo
Cane nor-
male magro
6 Gennaio
1910
14 Gennaio » stiroidato
1910
II
27 Gennaio Cane nor-
1910 male magro
III
15 Marzo Cane nor-
1910 male robusto
IV
7 Aprile Cane giovane
1910
stiroidato
V
9 Aprile Cane giovane
1910 robusto
stiroidato
VI
29 Aprile Cane robusto
1910
stiroidato
VII
17 Maggio Gane giovane
1910 magro
stiroidato
VIII
30 Maggio Cane giovane
1910 digiuno
(I)
Peso
del cane
in grammi
11,000
10,500
12,400
8,900
peso iniziale
20,900
poi 18,100
peso. iniziale
7,500.
poi 6,000
peso iniziale
17,000
poi 12,100
peso iniziale
9,000
poi 7,000
peso iniziale
6,300
dopo 7 giorni
di digiuno
5, 300
Quantità
totale
di sangue
1250
1250
391,3
601
408, 5
298
Rapporto
col peso
corporeo
1:20, 1
Nelson, Archiv f. exp. Path, und Pharmakol. Bd.
Osservazioni
Ha presentato tremori, tetania e questa de-
terminazione venne fatta 7 giorni dopo
l'esportazione della tiroide
cane giovane, robusto, muscoloso
venne privato della tiroide il 7 Aprile e
fatta la determinazione della massa il 12
quando l’animale presentava dispnea,
abbattimento e gravi fenomeni
operato il 9 Aprile, determinata la massa
il 15, dispnea, dimagramento, tremori
operato il 29 Aprile, fatta la determinazione
il 9 Maggio, presentava grande dimagra-
mento, rifiuto del cibo e bevanda da due
giorni, dispnea, convulsioni, tremori, rì-
gidità
Pes specifico del sangue defibrinato preso
col picnometro 1063
operato il 17 Maggio, fatta la determina-
zione il 27, dimagramento, dispnea, ab-
battimento
la determinazione venne fatta il 6 Giugno
dopo 7 giorni di digiuno di cibo, non di
bevanda
Peso specifico nel sangue defibrinato 1058
LX pag. 338.
segue TapeLLa A
193
Esperienza
N.° di protocollo
IX
Cane robusto
normale
ll Giugno
1910
Xx
17 Giugno Cane
1910
stiroidato
XI
25 Giugno Cane giovane
1910
XII
Gane nor-
male giovane
6 Luglio
1910
XIII
17 Ottobre
1910
Cane
stiroidato
XIV
25 Ottobre
1910
Gane
stiroidato
XV
11 Novembre Cane
1910
stiroidato
XVI
10 Dicembre Cane digiuno
1910 per 5 giorni
Peso Quantità Rapporto
del cane totale col peso Osservazioni
in grammi | di sangue corporeo
14,000 1304, 6 REgLONZ cane perfettamente normale, esperienza di
confronto
Peso specifico nel sangue defibrinato 1055
peso iniziale
9,900
dopo 5 giorni 714 1e412,5 operato il 17 Giugno, fatta la determina-
8,800 zione il 22, tremori, dimagramento, dis-
pnea
Lista Peso specifico nel sangue defibrinato 1054,5
peso iniziale i
22,400
dopo 6 giorni 1060 N Sal di digiuno di cibo, non di acqua
di digiuno Peso specifico nel sangue defibrinato 1056
18.500
19,000 1387, 6 NE sano, normale, digiuno solo dalla sera pre-
cedente
Peso specifico nel sangue defibrinato 1050,2
peso iniziale
11, 200
dopo 9 giorni 122,9 le 8,5 qualche accesso di tetania, mangia, tre-
9, 800 mori, operato il 17 Ottobre e fatta la
determinazione il 26 Ottobre
peso iniziale
9,000
dopo 7 giorni 120, 6 IL BA accessi di tetania, dispnea, rifiuto del cibo
dall’ operaz. per 3 giorni, operato il 25 Ottobre, fatta
6, 600 la determinazione il 2 Novembre
Peso specifico nel sangue defibrinato 1063
peso iniziale
11,000
dopo 7 giorni 609, 5 1:14,4 convulsioni, abbattimento, per i tre ultimi
8, 800 giorni rifiuto di cibo e di bevande
peso iniziale
9,100
dopo digiuno IL, A 1:16 dopo il digiuno conservava anche molto
ma ancora grasso
molto grasso Peso specifico nel sangue defibrinato 105$
peso 8,200
II. — FIBRINA DEL SANGUE.
La fibrina cresce in proporzioni notevoli nei cani privati di tiroidi e paratiroidi. Essa
veniva separata sbattendo con perle di vetro il sangue uscente dalla carotide, poi lavata
bene con acqua e infine con alcool, seccata a 110°: infine si sottraeva il peso delle ceneri
ottenute coll’ incinerimento.
Si comprende che i risultati positivi hanno soprattutto un grande valore in questo
argomento e che i negativi si spiegano facilmente, perchè noi non sappiamo mai con si-
curezza quale grado di sviluppo e d’intensità possa assumere la sindrome tireopriva, e in
quale grado si sia prodotta la deficienza funzionale.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
28
TapeLLa B
194 —
Esperienza
VII
Cane stiroidato
da 10 giorni
VIII
Cane digiuno
dal 30 Maggio
al 6 Giugno
TX
Cane normale
XxX
Cane stiroidato
XI
Cane digiuno
XII
Cane normale
XIII
Cane stiroidato
XIII D.
Cane stiroidato
XIV
Cane stiroidato
XV
Cane stiroidato
XVI
Cagna stiroidata
XVII
Cane digiuno
XVIII
Gane normale
dopo stiroidato
XXIV
Cane normale
Peso del Cane
peso iniziale
gr. 9,900
poi gr. 7,000
peso iniziale
gr. 6,300
poi gr. 5,300
gr. 14,000
peso iniziale
ao CONO
poi gr. 8,800
peso iniziale
gr. 22, 400
gr. 19,000
peso iniziale
gr. 11,200
poi gr. 9,800
gr. 9,000
poi gr. 6,600
peso iniziale
gr. 11,000
dopo 7 giorni
gr. 8,800
peso iniziale
gr. 12,900
dopo 9 giorni
gr. 10,900
gr. 9,100
gr. 26,000
gr. 18,900
sr. 21,400
Quantità
di fibrina secca
su mille
99
DD
Il
SS
°
S
Creo
CEAIZIO0
gr. 2,02 >»
“gr. 1,91 >
CHIRAIRE
GB LA2 5
gr. 3,80 »
Osservazioni
operato il 17 Maggio 1910, fatta la determinazione della fi-
brina il 27: ha presentato dimagramento, dispnea, abbat-
timento
la determinazione della fibrina venne fatta il 6 Giugno dopo
7 giorni di digiuno di cibo, non dì bevanda
cane sano
operato il 17 Giugno, fatta la determinazione il 22, da
gr. 9,900 era disceso a gr. 8,800 presentava tremori di-
magramento, dispnea
da gr. 22,400 in 6 giorni di digiuno di cibo era sceso a
gr. 18,500
sano, normale
operato il 17 Ottobre e fatta la determinazione il 26, qual-
che accesso di tetania, tremori, mangia
ebbe una grande emorragia e dopo 43 giorni non presentava
affatto fenomeni
operato il 25 Ottobre e fatta la determinazione il 2 Novem-
bre : accessi di tetania, dispnea, rifiuto del cibo per tre
giorni, peso iniziale gr. 9,000 dopo 7 giorni 6,600
convulsioni, abbattimento, rifiuto del cibo per i tre ultimi
giorni
beve, ma non mangia, ha respiro frequente, dispnoico, con-
vulsioni, cammina male
digiuno da 5 giorni, ma conservava ancora molto grasso
esportate le tiroidi in due sedute, ha tardato molto a pre-
sentare fenomeni, i quali non ebbero molta gravezza
La media quantità di fibrina nei cani stiroidati era di gr. 4,69; in cani dig jun
1,57; in cani normali 2,51. Le nostre cifre relative a cani stiroidati sì dovrebbero confron-
tare veramente con quelle dell’animale digiuno, perchè i nostri cani operati erano quasi
sempre digiuni di cibo e bevanda che rifiutavano. Interessante è l’ esperienza XIII b nella
quale venne trovata una bassa quantità di fibrina in un cane che non aveva presentati
fenomeni dopo la tiroparatiredectomia.
Non si può dare una interpretazione sicura del fatto, ma è probabile che questo au-
mento di fibrina possa stare in rapporto col rallentamento dei fenomeni del ricambio e
dell’ ossidazione, ed io mi propongo di ritornare con nuove ricerche sull’ argomento.
Mi piace ricordare che Lussana (1) ha sempre considerato la fibrina come un pro-
dotto catabolico e dopo di lui altri hanno attribuito lo stesso significato alle elobuline.
Intanto queste esperienze appoggiano la dottrina di Vassale (2) che l eclampsia di-
penda da difetto funzionale dell’apparecchio paratiroideo (3). La fibrina infatti venne tro-
vata molto aumentata nel sangue delle eclampsiche da P. Kollmann (4). Il quale in un
0) ro
caso la vide salire al 4 °/,, in altro caso trovò nella madre e nel bambino 7,5% in un
terzo caso 6,7 %,- Risultati simili nell’eclampsia ebbe anche Dienst.
Devo ancora qui ricordare alcune ricerche di Kottmann-Lidsky (5) pubblicate
dopo la mia comunicazione, per il rapporto probabile che possono avere colle mie. Lidsky
ha esaminato come proceda la coagulazione del sangue in varie malattie della tiroide,
servendosi del metodo di Vierordt modificato. Ed ha trovato che nella malattia di Basedow
la coagulazione era rallentata in 29 casi su 37 (= 78%), in due normale, in 6 accele-
rata. In contrapposto era accelerata e aumentata nella cachessia strumipriva e in casì di
gozzo con segni di ipotiroidismo : nel gozzo senza segni di ipotiroidismo mancava questo reperto.
Ho già iniziato esperienze per riconoscere quale parte spetti alle tiroidi e quale alle
paratiroidi nella produzione del fenomeno.
III. — PROTEINE TOTALI DEL SANGUE.
Anche le proteine totali del sangue sembrano un po’ cresciute nei cani privati delle tiroidi
e paratiroidi, quantunque le mie esperienze siano ancora un po’ scarse sull’ argomento.
(1) Filippo Lussana, Fisiologia umana, Vol. II, 2% ediz. Padova 1879.
(2) Vassale e Generali. Sugli effetti dell’estirpazione delle glandole paratiroidee. Rivista di
Pat Nervosa e Mentale, Vol. I, 1896.
Vassale. Eclampsia gravidica e insufficienza paratiroidea. Boll. della Società Medico-chirurgica
di Modena. Anno IX 1905-1906.
Vassale. Le traitement de l’eclampsie gravidique par la parathyrèoidine ecc. Arch. It. de Biol.
MOST, fasc 1, 1905.
(3) A. Massaglia e G. Sparapani, Eclampsia sperimentale e Eclampsia spontanea degli ani-
mali. Gazzetta degli Spedali, 1907.
(4) P. Kollmann, Centralbl f. Gynàkol, 1897, pag. 34.
(5) K. Kottmann, Beitràge zur Physiologie und Pathologie der Schilddrise. I Mitteilung. Ueber
die Beeinflussung der Blutgerinnung durch die Schilddrise. Von Anna Lidsky. Zeit. f. Klin. Med. Bd.
71, pag. 344.
— 196 —
Esse vennero determinate raccogliendo il sangue dalla carotide in vaso contenente la
quantità necessaria di ossalato di potassio in polvere per impedire la coagulazione, e se-
parando il plasma ossalato colla centrifugazione. In detto plasma si precipitavano le pro-
teine coll’ ebollizione e cauta aggiunta di acido acetico diluito, o con 4 volumi di alcool,
il precipitato veniva raccolto su filtro tarato, lavato con acqua e alcool, seccato a 110° e
pesato: dal peso della sostanza si sottraeva poi il peso delle ceneri. Oppure si precipita-
vano le proteine nella maniera predetta e si determinava l'azoto e da esso si deduceva
la loro quantità. La determinazione dell’azoto nel plasma ossalato permetteva poi il con-
fronto fra la quantità di azoto proteico e non proteico.
Ducceschi, Mariotti-Bianchi e Pisenti hanno pubblicato delle esperienze sugli
albuminoidi del siero in cani stiroidati di cui tratterò in altra memoria.
TabeLLa ©
TRA Proteine <
Peso Fibrina RE Sostanze Acqua ;
2-91 A coagulabili SENTO S Ammoniaca
| specifico su 1000 per 100 solide % %
Cane stiroidato . . . 1053, 7 39 5, 967 20, 67 099
Cane digiuno . . .. 1057,9 1,55 5, 43 milligr. 0,63
Va 0, 63
Cane normale... . 1060, 5 ANO 5,46
id. stiroidato . . . 3,07 6, 43
Cane normale. . . . 1,49 ao
È Azoto Differenza
Massa 400 Noale delle proteine| 0 azoto
del plasma coagulate °,|non proteico
Cane stiroidato . . .
Gane digiuno . . . . 1349;4
Cane normale... . | 0,89%
id. stiroidato . . . MORSE 0,875 0, 065
Cane normale . . . UÙIL3% 0,38 0, 048
IV. — AMMONIACA DEL SANGUE.
Già fino dal 1906, partendo dal concetto che i fenomeni tossici susseguenti all’espor-
tazione dell’apparecchio paratiroideo potessero dipendere da avvelenamento per ammoniaca
— 197 —
o per carbonato d’ ammonio, ricercai l’ammoniaca nel sangue di cani così operati e con
risultato negativo. Coronedi fa cenno di quelle mie esperienze, nella sua memoria sui
« Rapporti fra tiroidi e reni », presentata alla Società Medica di Bologna e pubblicata nel
Boll. delle Scienze Mediche di detta Società nel 1909.
Ma Carlson e Clara Jacobson in due pubblicazioni recenti (1) hanno sostenuto
che nel sangue di animali paratiroidati è cresciuta l’ammoniaca e che gli accessi di te-
tania dipendono da accumulo di ammoniaca. Ho ripreso quindi in esame questo argomento,
servendomi per il dosamento dell’ammoniaca nel sangue del procedimento studiato da
Beccari (2) nel mio Laboratorio, il quale dà risultati molto esatti.
Si distilla il sangue nel vuoto, e non tutta insieme la massa voluta, ma a piccolissime
porzioni arrivanti mano mano, per mezzo di un conveniente tubo capillare, nel recipiente
a distillazione in cui si mantengono la temperatura e la pressione richiesta.
Il metodo di Beccari, non è abbastanza noto, per cui ritengo utile riprodurre la
descrizione dell’ autore.
Un matraccio A per distillazione frazionata, tipo Ladenburg, serve da recipiente di-
stillatore; esso viene mantenuto alla temperatura voluta mediante il bagno d’acqua €, e
comunica direttamente, per il suo tubo d’efflusso con i recipienti D collettori del distillato ;
il tubo adduttore 5, a parete spessa ed a lume finamente capillare, è addattato al collo
del matraccio A mediante un buon tappo di caucciù, e giunge col suo estremo alla parte
A - Matraccio Ladenburg (capacità ce. 500-700).
B -‘l'ubo capillare adduttore.
C - Bagno d’' acqua.
D - Recipienti collettori del distiliato.
S - Recipiente contenente il sangue.
M - Manometro.
P - Pompa aspirante ccn bottiglia di sicurezza.
APPARECCHIO PER LA DISTILLAZIONE DEL SANGUE NEL VUOTO.
superiore del pallone, mentre dall’ altro lato è congiunto per mezzo di un robusto tubetto
di caucciù al tubo di aspirazione del sangue dal recipiente ,S. Una morsetta a vite appli-
cata a questo tubo di caucciù permette di chiudere e regolare l’accesso dell’aria e del
sangue nel matraccio distillatore. L'apparecchio è congiunto poi con una buona pompa ad
acqua P e col manometro M mediante un robinetto a tre vie.
(1) A. J. Carlson and Clara Jacobson, American Journal of Physiology 1910, vol. XXV,
pag. 408 e vol. XXVI, pag. 407.
Vedi anche la nota comparsa dopo « Further Studies on the nature of parathyroid tetany. Ameri-
can Journal of Physiology, 1911 vol. XXVIII, pag. 133.
(2) Lodovico Beccari. Sul dosamento dell’ammoniaca nel sangue. Boll. delle Scienze Mediche
di Bologna. Vol. V, Serie VIII, 1905.
— 198 —
Rispetto all’ apparecchio di Nencki, il matraccio A ha ancora il vantaggio di per-
mettere una chiusura ermetica più rapida e semplice, non avendo che un apertura unica
e stretta. Il lungo collo a bolle serve di s curezza per trattenere e rompere la. schiuma
che potesse salire in qualche momento per una distillazione troppo vivace. La distillazione
infatti deve procedere con molta cautela e lentezza. Montato l'apparecchio com’ è disegnato
nella figura, si chiude la morsetta a vite e si fa agire la pompa fino a produrre la rare-
fazione massima (una buona pompa ad acqua raggiunge in breve ora 15-20 mm. di pres-
sione); contemporaneamente si riscalda il bagno d’acqua a C. 38°-40°.
Constatata la perfetta tenuta dell’ apparecchio e posta nel recipiente ,S la quantità di
sangue da distillare, si apre con cautela la morsetta a pressione in modo che il sangue
sia aspirato per il capillare B e pervenga nel matraccio a goccie molto rade; ogni goccia
di sangue, appena raggiunge l’estremo del capillare, svolge ampie bolle di gas e cadendo
sulle pareti del matraccio evapora rapidamente. Regolando l’accesso del sangue con la
rapidità della distillazione si evita ogni pericolo di schiuma: si ottiene così agevolmente
la distillazione di 30-40 gr. di sangue defibrinato all’ ora. In tre ore circa si possono quindi
distillare 100 gr. di sangue fino quasi a !, della massa primitiva cioè con più del 60%
di distillato.
L’ammoniaca viene dosata direttamente, come cloroplatinato, raccogliendo il distillato
in acido cloridrico diluito e purissimo e seguendo con ogni cura il metodo descritto dal
Fresenius per le piccole quantità di cloroplatinato d’ammonio, calcolando cioè V NH,
dal platino metallico ottenuto.
Beccari ha trovato nei cani normali millig. 0,80 —- 0,76 — 0,82 NH, per 100 di
sangue defibrinato ; fino dal 1906 io avevo trovato milligr. 0,37 % di NH, dopo l’ espor-
tazione delle tiroidi e paratiroidi nel cane.
In una nuova serie di esperienze ora eseguite ho trovato per il cane digiuno milli-
grammi 0,63% e dopo l’estirpazione dell’apparecchio tiroparatiroideo in animali con
accessi di tetania milligr. 0,60 — 1,38 — 0,34% di sangue defibrinato, vale a dire nessun
aumento sulla cifra normale. Le oscillazioni non escono dai limiti ordinari.
Bisogna del resto avvertire che il leggiero aumento di ammoniaca nel sangue trovato
da Carlson e Clara Jacobson non può dare accessi tetanici e può dipendere anche
dal digiuno e dalle convulsioni, che produconò acidosi, cioè può essere effetto indiretto della
sospesa funzione tiroidea. Si aggiunga che le funzioni epatiche sono compromesse e con esse
è compromessa la capacità sintetica e formatrice dell’urea dall’ammoniaca in seno al fegato.
Per attribuire la tetania tireopriva all’ammoniaca bisogna che essa esista nel sangue
in quantità sufficiente a produrla ed escludere anche le altre condizioni che all’ infuori
della soppressa funzione tiroidea possono farla aumentare.
V. — GLUCOSIO NEL SANGUE
In una tesì del Dott. Traversa del 1906 ho fatto studiare le modificazioni che su-
biva il sangue nella quantità di glucosio in seguito all’ estirpazione delle tiroidi e parati-
roidi nel cane.
— 199 —
La quantità di zucchero esistente nel sangue del cane normale era ben nota per mol”
teplici esperienze mie e di altri (1); oscilla da 0,80-1,00 su 1000 di sangue.
I cani che abbiano subito estirpazione delle tiroidi e paratiroidi il glucosio si trova
nel sangue nei limiti normali, però di solito al limite minimo di 0,80 per mille. Anche in
questi cani, come nei cani normali, i ripetuti salassi fanno crescere la quantità di glucosio
nel sangue; in un caso saliva da 0,70 ‘/ dopo tre salassi a 1,30%:
Non abbiamo mai trovato glucosio nell’ orina di questi cani, i quali erano quasi sempre
digiuni.
(1) P. Albertoni, Diffusione degli zuccheri nell'organismo animale: Atti della R. Accademia
delle Scienze di Bologna 1905 e Archivio di Farmacologia, Vol. XII, fase. 1, 1906.
Vedi anche gli Atti del VI Congresso Internazionale di Chimica applicata, Roma 1906.
cn
Ha
di
Appunti cristallografici
NOTA
DI
GIOVANNI BOEFERIS
Letta nella Sessione del 28 Maggio 1911.
(CON DUE FIGURE INTERCALATE NEL TESTO)
Forma cristallina del composto di addizione della naftalina colla s-trinitpoanilina,
CH C.H:(N0)) NH,
P, di fus. 168°-169°,
Sistema cristallino : monoclino
CORE CEE 004
È = 810 e
Angoli. Limiti delle osservazioni Medie Cale. N.
(100): (001) GIO 4 9200 S1° ga si 24
(001) :(102) 30 dia Sto 0 Se 30° 53! 14
(102): (101) 203 282 DIN 21143 10
(101): (100) (5 22 co 50 15030 i IO
(001) : (111) CIONI GIONI I
(113) (0) DS 42 2. BONES l
(001): (110) 99 IN = 85 16 Soi 30. 19 10
(100): (110) Sd 12 54 30 54 19 vi 40
(110): (010) Do Sy 950 0 35 48 5 Al 2
MULO): ((00) ee 0 22 rale 2 20
(01/0): (1) 50 —_
(RI) e (00010) 48.10 —
(DI) (10) TORNA —
CORI GC S —
(110): (101) 05 7 06 2 09° 50 05° 5 4
(110): (102) Orta ee 3 76 94 76 50 8
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 29
-_ 202 —
Questa sostanza fu preparata fin dal 1875 da Liebermann e Palm, (!) mesco-
lando le soluzioni alcooliche dei due componenti.
Ne ebbi dei bei cristalli sciogliendola a freddo in acetone e lasciando lentamente
evaporare la soluzione così ottenuta.
Questi cristalli per la massima parte si presentano coll’ aspetto della unita fig. 1,
sono cioè prismatici secondo z. Qualche volta per altro sono più allungati in questo
senso di quanto mostri detta figura, e qualche altra lo sono meno e allora sono come
piuttosto, schiacciati secondo }001|.
Sono forme costanti {100}, 5110} e {001}. Non infrequenti sono }10]} e {102},
però queste due forme hanno sempre facce subordinate a
quelle di {110} e }001}. Quanto alla }100} ha pure sempre
facce subordinate. Rara è la }[]1} e con facce poco estese,
e più rara ancora sembra essere la ;010} che fu riscontrata
in ogni caso con facce meno grandi di quelle della }100|.
Tutte le facce di {010}, {T11{, {110}, j101} e |102} sono
sempre abbastanza piane e molto lucenti, e quelle di }100}
e ;001} in generale sono pure tali, meno qualche caso in
cui sono foggiate a tramoggia.
Fic. |. Si osserva una sfaldatura non del tutto perfetta secondo
1100}.
I cristalli hanno un bellissimo colore aranciato.
Gli assi ottici per la luce rossa (Zi) e per la gialla (/Va) sono in piani normali
a (010); stanno in questo piano quelli per la luce verde (77).
Sulla (110) una direzione di estinzione fa un angolo di circa 12° (Na) collo
spigolo [110 - 110] nell’ angolo piano acuto che questo fa con [110 : 001].
Forma cristallina del composto di addizione del tolano coll’ acido picrico.
Clin 20 ELIO), O
RAT sciiti
Sistema cristallino : monoclino.
aio = WEIL 308 I/O
= I0° 3
(1) Ueber Verbindungen von Kohlenwasserstoffen mit Abkòommlingen der Pikrinsdure. Ber. d. d.
chem. Ges., 3, 377.
— 203 —
Forme osservate: {001}, {110}, {111}, {111}, {112}.
Angoli. Limiti delle osservazioni. Medie. Cale. N.
(001) :(111) Quo alto GI gd GNESNGI * 12
(by (QUO) 15 12.05 Sq co 20 logi 10
(001): (110) SIRIO 82 40 $ 10
(110): (112) 3 ZO 50 BI ‘(Se SO 8
(112): (001) Coma 6018 652 65 41 12
UO) (0000) 16 39 Ta. SI I
(111): (001) 80 30 80 49 1
(110): (110) Sd ge 65 84 50 ian 6
(TIE) EIA G VI D I
(DIE) 0. 2 76 36 1
(9010) 83 14 SSA si
(1001) 3 (Q090)) SION pra
(11010) 8 (00089) 95 (80 0586 95 33 05, SI 9
(O), 86 58 La.
(110); (112) 89 24 SISMIMES ]
(100950009) 99 48 =
Bruni e Tornani (') prepararono questa sostanza mescolando le soluzioni eteree
dei due componenti e lasciando evaporare lentamente a freddo. Ebbero dei grossi
cristalli tubulari assai ben formati.
Ripreparai la sostanza seguendo il modo
indicato da Bruni e Tornani ed ottenni
effettivamente dei bei cristalli che si possono
benissimo ricristallizzare dall’ acetone, nel quale
solvente riescono anche meglio pur conservando
l’ abito tabulare di quelli che si hanno dalle
soluzioni eteree.
Sono forme costantemente presenti la :001} sempre largamente predominante su
le altre, j111{ e }112}. È piuttosto rara ad incontrarsi la {110} ed anche più rara
Mali.
Sfaldatura abbastanza facile secondo }001|.
Il colore dei cristalli è giallo vivo.
(') Sui picrati e su altri prodotti di addizione di composti non saturi. Gazz. chim. ital., 1905,
II, 304.
DOCLA
TA
nici
ni
î
TRASI
AZIONE: DISINTEGRANTE CEREBRALE DEL CLORURO SODICO
IN SOLUZIONI FISIOLOGICHE
STUDIO CRITICO E SPERIMENTALE
DELL’ ACCADEMICO BENEDETTINO
Prof. IVO NOVI
ORDINARIO DI FARMACOLOGIA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
(Memoria letta nella Sessione del 29 Gennaio 1911).
Importanza fisiologica, patologica, farmacologica
del Cloruro sodico secondo le osservazioni più recenti.
Nel mio lavoro (1) pubblicato l’anno scorso nelle memorie di questa Accademia, richia-
mati gli studi eseguiti sopra questo argomento e il contributo personale da me portato,
ho messo in vista che perfusioni di soluzioni al 10% o 2 norm. di NaCl nella carotide pro-
ducevano una perdita di Ca nella sostanza cerebrale fino al 50 “/ del contenuto normale,
o
mentre non valevano a sottrarre nulla o quasi nulla del Mg preesistente. Questa decalci-
ficazione che io ho potuto di nuovo ampiamente dimostrare nell'annata scolastica testè
chiusa, fu ulteriormente provata nel mio laboratorio per i muscoli, per il fegato da alcuni
miei allievi e in varie condizioni sperimentali.
Essa secondo il pensiero del Linguerri (2) sarebbe la ragion d’essere dei fenomeni
di eccitamento che si notano in modo più o meno intenso negli animali di prova, mentre,
come è noto, secondo il concetto del Sabbatani, al fatto della decalcificazione non si
dovrebbe dare la massima importanza, ma sì a quello della scomparsa del Ca{-+, la quale
tuttavia nelle condizioni nostre deve ancora dimostrarsi, laddove la decalcificazione non
ha bisogno di ulteriori prove.
Un fenomeno degno di essere più precisamente studiato nelle sue particolarità e nel
suo meccanismo, mentre riguarda fatti che possono essere facilmente verificati, è quello
(1) Ivo Novi. Azione disintegrante del Cloruro sodico sul cervello. Memorie della R. Accademia
delle Scienze in Bologna, Serie VI XVII 1909-1910, pag. 211-256.
(2) Dom. Linguerri. Azione dei reattivi decalcificanti ete. Archivio di psichiatria, neuropato-
logia e medicina legale, 1904, vol. 656-671.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 30
CEE
scoperto dal Chiari (1) e che si riferisce alla scomparsa, secondo lui, dei Calcio ioni, se-
condo me invece del calcio complessivo, contenuto nella parete intestinale in particolari
condizioni di esperimento.
Isolate diverse anse intestinali della lunghezza di circa 40 cm. ognuna in gatto nar-
cotizzato con uretano, si insinuavano nelle anse stesse soluzioni di purganti salini, o so-
spensioni di calomeiano o infusioni di droghe aventi azioni alcaloidiche purgative.
I purganti salini contenenti anioni atti a precipitare il Ca diedero luogo ad un au-
mento di Ca nella parete intestinale, gli altri purganti compreso il calomelano produssero
un impoverimento di Ca nella parete medesima, in ogni caso afferma il Chiari, una di-
minuzione dei Ca++.
Per quest’ultima affermazione evidentemente sarebbe occorso eseguire non una deter-
minazione totale del Ca nella parete intestinale, ma una tale, che desse veramente i soli
Ca++, senza distruzione della parete, senza fissazione e scomposizione dei materiali che
eventualmente potevano contenere il Ca in ailro stato oltre che in quello di jone.
E quanto alla interpretazione del fenomeno mi sembra che per riguardo all’influenza
dei purganti salini la maggiore abbondanza del calcio nella parete intestinale possa spie-
garsi col fatto dell’ assorbimento del purgante medesimo, che in parte avviene o almeno
sì fa massimamente per l’anione nel caso ad es.: del solfato di magnesio.
Cotesta presenza di anione atto a precipitare il Ca dà luogo ad una fissazione del
catione nella parete, in cui per la iperemia prodotta dal purgante è accorsa una mag-
gior copia di sangue e così la parete medesima contiene alla fine una maggiore quantità
di Ca, probabilmente non jonizzato.
Riguardo poi agli effetti degli altri purganti i quali non vengono assorbiti, come il
calomelano o anche assorbiti non hanno affinità chimiche col Calcio, dobbiamo ricordare
che essi esercitano quell’ azione irritante che dà iperemia, e maggior secrezione intestinale
e tendono quindi ad impoverire la parete dei suoi elementi costitutivi e quindi anche di
Ca, facendo lavorare le cellule secernenti che riversano nel lume dell’intestino i loro pro-
dotti. Il calomelano poi in quanto possa essere reso solubile dai succhi intestinali come fu
dimostrato dal compianto nostro Torsellini per la pepsina, potrà anche combinarsi con
la calce per dare un sale doppio insolubile, ed estrarre quindi del Ca-+-- dalla parete
anche per questo secondo meccanesimo.
E dunque questo un bell’esempio di disintegrazione cellulare complessa, che merita di
essere ulteriormente illustrato.
Ma esperienze riferite nel mio lavoro sopra citato e molte altre eseguite in quest’anno
nel mio laboratorio non dimostrarono per influenza delle perfusioni saline il quadro carat-
teristico dell’eccitamento e precisamente, questo mancò negli animali molto giovani, op-
pure nelle perfusioni o infusioni di soluzioni deboli.
Ebbene, anche in questi casi l’analisi chimica eseguita sul cervello dimostrò che era
(1) Dott. Richard Chiari. AbfuiArmittet und Kalkgehalt des Darmes. Archiv. fir experimen-
telle Pathologie und Pharmakologie, 1910, LXIII, pag 434-440.
— 207 —
avvenuta una forte decalcificazione, anzi una delle più forti si ebbe precisamente in una
cagna cucciola in cui si perfuse nella carotide 1,11 gr. di NaCl in soluzione acquosa al
10 °/. per Kg. d’animale. Evidentemente la interpretazione che potrebbe darsi della man-
canza delle convulsioni negli animali giovani, perchè questi abbiano un cervello più ricco di
Ca, almeno secondo i dati raccolti da Aron (1) e quindi abbiano un cervello meno ecci-
tabile, non può ammettersi dopo le mie esperienze, perchè la determinazione chimica ha
dimostrato precisamente in questi casi un minimo di Ca in seguito alla perfusione e d’ altra
parte nelle mie prove si sono trovati parecchi casi di animali uccisi durante il periodo di
massimo eccitamento dovuto ad una forma di rabbia convulsiva e tuttavia ricchissimi di
Ca nel loro encefalo.
Si obbietterà che in cotesti il Ca poteva essere immobilizzato e non contenuto allo
stato di jone, ma si troverà anche giusto l’osservare che tale obbiezione ha bisogno di
prove sperimentali, che si spera possano essere date da qualche oculato osservatore di
microchimica.
D'altra parte secondo Voit e Dhéré e Grimmé con l'età si avrebbe un progres-
sivo aumento del contenuto di Ca ed appunto data questa contraddizione io ho istituito
alcune ricerche, che mi hanno già condotto a risultati importanti atti a dirimere ogni
controversia, perchè io ho operato sopra parecchi animali (cani) del medesimo parto ed ho
trovato costantemente una diminuzione del Ca cerebrale col crescere dell’età.
E lecito dunque di dubitare che il Ca cerebrale possieda veramente quella funzione
o
Z0)
inibitrice che gli fu attribuita o almeno è lecito il pensare, che buona parte, fino al 50 |
di esso, possa essere allontanato dal cervello senza alterarne la funzione in nessuna ma-
niera dimostrabile, valendosi della speciale influenza esercitata da soluzioni di cloruro
sodico.
Scopo di questa mia pubblicazione è quello di dimostrare se le stesse soluzioni fisio-
logiche di Cloruro sodico perfuse nelle carotidi, o comunque introdotte nell’organismo, pos-
sano nel fatto produrre i fenomeni di disintegrazione causati calle soluzioni concentrate
e se quindi non possa per avventura avvalorarsi il concetto da parecchi sostenuto, di
danni ora più ora meno gravi che si devono attendere dall’uso di soluzioni saline in
terapia.
Sono troppo noti perchè occorra ricordarli i molti casi in cui si ricorre nella pratica
alle introduzioni ipodermiche o endovenose di soluzioni dette isotoriche di NaCl, così dette
più che non sieno dimostrate.
L’illustre e carissimo Kronecher (2) fu tra i primi a sostenere l’importanza di so-
luzioni di cloruro sodico al 0,73%, che chiamò « lebenrettende » appunto perchè atte vera-
mente a rimediare talora a danni gravissimi, a togliere un imminente pericolo di morte.
Egli sconsigliava in quella pubblicazione l'aggiunta di altre sostanze.
(1) Aron ete. Citazioni nel mio lavoro sopra notato.
(2) H. Kronecker. /Mritisches und Experimentelles ueber lebenvettende Infusionen von
Kochsalslosung bei Hunden. Correspondenzblatt fiv Schweiz. Aerzte, XVI, 1886.
— 208 —
Le molte osservazioni che si sono fatte successivamente con riguardo alla isotonia de-
gli elementi del sangue e dei tessuti hanno dimostrato la necessità di regolare in modo
speciale la composizione chimica di queste soluzioni seguendo i concetti esposti dall’Ham-
burger, dal Benecke, dal Thies, da me già citati nel lavoro precedente e fondati
sopra gli effetti prodotti rispettivamente dai diversi sali, che troviamo nell'organismo e
che possono dimostrare azioni diverse a seconda degli anioni e cationi che sono liberi o
possono liberarsi nelle varie contingenze.
Gli è così che si sono adottate formule speciali per la preparazione dei liquidi che
devono essere introdotti nell’ organismo, formule che comprendono l’uso dei sali di Ca, di
K, di Mg oltre a quello del NaCl, formule che dal punto di vista dell’ isotonia compren-
dono anche l’uso di sostanze colloidi, sostenuto dal nostro Albanese. Fra le formule
più note abbiamo quelle dei così detti liquidi del Ringer e del Locke, che corrispondono
benissimo al loro scopo.
Indipendentemente dalle considerazioni che si riferiscono alle idee svolte dall’ Ham -
berger sull’ isotonia specialmente dei globuli sanguigni, e a quelle di Benecke, di
Thies sulla infiuenza dei principi minerali sugli elementi dei tessuti, si sono avute indi-
cazioni per molti dati interessantissime dalle odierne vedute sulla concentrazione moleco-
lare del siero sanguigno.
Abbiamo accennato nel lavoro precedente al concetto del Quinton sull’ importanza
dell’acqua marina per la preparazione dei siero fisiologico ed è certo che se il punto di
partenza del Quinton era un po’ artifizioso, tuttavia dando per risultato la introduzione
di molti corpi minerali che sono necessari alla vita dei tessuti, mentre il cloruro di sodio
non è che uno di essi, doveva ammettersi che ogni indicazione che tendesse alla massima
semplificazione nella composizione dei sieri artificiali non poteva essere esatta.
Bosc e Vedel (1) conchiudevano dai loro studi che la soluzione semplice di NaCl
mentre ha il medesimo valore fisiologico delle soluzioni composte, possiede minori incon-
venienti. Iacoangeli (2) che ha fatto studi interessanti sopra questa questione ha
conchiuso che le soluzioni che contengono verso 0,75%, di NaCl e verso 0,10 % di carbo-
nato sodico, come furono indicate da Maragliano, da Lichtenstein, da Samuel
mentre corrispondono abbastanza bene alla richiesta concentrazione molecolare hanno
anche un buon potere di conservazione degli elementi dei tessuti.
Secondo lo stesso Iacoangeli ia soluzione salina composta preferibile è quella pro-
posta da De Dominicis contenente 0,5 di NaCl, 0,5 di fosfato bisodico e 0,7 di solfato
sodico per 100 di acqua distillata.
Il Coronediì (3) ha trattato chiaramente questa questione nell’ appendice all’ aureo
(1) Bosc et Vedel. Mecherches expérimentales sur les effets des injections intraveineuses
massives de solutions salines simples et composces. (Compt. rend. Acad. Sc., 1896, CXXIII, 63).
(2) T. Iacoangeli. Z2 valore dell’ isotonia e tensione osmotica del sangue nelle iniezioni
endovenose. (Boll. R. Accad. med. Roma, 1900, XXVI, pag. 50 dell’ estratto).
(3) G. Coronedi. Appendice al trattato di Terapeutica e Farmacologia di E. Soulier.
Vallardi, Milano 1903, pag. 36.
— 209 —
libro del Soulier e mentre afferma che un liquido da introdursi liberamente in circolo,
o anche sebbene con minore necessità, da somministrarsi per via ipodermica deve soddi
sfare alle condizioni di molecolarità volute dalla concentrazione molecolare del siero san-
guigno (A = — 0°,560) non accenna, nè in parte lo poteva per ragione di data, alla influenza
degli altri principi minerali come Ca, K, Mg, i quali mentre insieme possono produrre
la concentrazione molecolare richiesta si mostrano importantissimi già nel semplice espe-
rimento biologico anche senza |’ aluto delle cognizioni di chimica-fisica, che in questo caso
son venute come il soccorso leggendario di Pisa. ;
Questi liquidi, queste soluzioni non sono tuttavia sempre usate, come dovrebbero e
noi le vediamo più facilmente usufruite nel Jaboratorio per ricerche biologiche, che non
nella pratica, sicchè giustamente continua la discussione sui danni e sui vantaggi del clo-
ruro sodico.
Cosi mentre von Hoesslin (1) in conferma delle esperienze di Pugliese (2) e di Pu-
gliese e Coggi ammette che dosi di 3 gr. di NaCl vengono eliminate dall’ organismo senza
manifestare influenze di sorta e con risparmio di albumine, egli afferma tuttavia che dosi
maggiori producono una perdita di fosfati, il che certamente può implicare una disinte-
grazione di tessuti importantissimi, di elementi di prima necessità.
Vi è pure chi vuol portare un contributo di recente interpretazione allo studio del
Cloruro sodico come atto ad aumentare la coagulabilità del sangue.
Von den Velden (3) infatti asserisce che l'introduzione di Cloruro sudico per bocca,
sottocute, per via endovenosa valga a rendere più pronta la formazione del coagulo san-
guigno non già per azione di joni, ma egli dice per aumento della concentrazione del siero
e per la idremia che ne consegue. In cotesto modo sarebbe richiamata in circolo una
trombochinasi che sarebbe causa del fenomeno.
E questo noi aggiungiamo può essere un beneficio e un danno a seconda dei casi.
Ma nella pratica non mancano nuovi sostenitori dei danni prodotti anche dalle infu-
sioni di soluzioni saline; così il Lippel (4) sostiene che se reni sani non risentono azioni
deleterie da coteste introduzioni, le risentono molto reni malati, laddove jle somministra-
zioni fatte per bocca o per l'intestino non danneggiano perchè per tal modo è assorbito
solamente quel tanto che corrisponde al ricambio fisiologico !
È veramente un teleologismo, che non ha nè capo nè coda, perchè è noto che introdu-
zioni gastroenteriche possorto produrre danni facili a riscontrarsi e numerosi.
Widerébe (5) mentre espone che molti reputano innocue grandi iniezioni clorosodiche
(1) Heinrich von Hoesslin. Experimentelle Untersuchungen sur Physiologie und Pathologie
des Kocksalz Stoffiwechsel. Zeitscrift fiv Biologie LIII, pag. 29.
(2) A. Pugliese. Azione del cloruro di sodio e di potassio sul ricambio materiale. Arch. di
farmacologia e terapeutica Vol. III fase. 7.
(3) Dott. Reinhard von den Velden. Z?utuntersuchungen nach Verabreichung von Halogen-
salzen. Zeitschrift fiir esp. Path. und Therapie, 1909, Vol. VII, pag. 290.
(4) A. Lippel. Ueder Gefahren der subcutanen Kochsalzinfusion bei Eklampsie. Deuts chemedic.
Woch, 1910, n. 1; Therap. Monatsh. XXIV, pag. 112.
(5) Sofus Widerde. Welche Organvertinderungen bewirken grosse subcutane Kochsalzinfusionen?
Berliner klin. Wochenschrift, 1910, Vol. XLVII, pag. 1275.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. dI
— 210 —
afferma di aver trovato nei conigli degenerazioni miocardiche e parenchimatose in altri
organi, oltre a iperemie capillari e a piccole emorragie.
Hoessli (1) richiama due osservazioni fatte da Roessle in necroscopie, che dimo-
strarono effetti non indifferenti dell’ uso di iniezioni saline. Avendo egli pure trovato un
altro caso simile in occasione di una necroscopia, eseguì iniezioni endoperitoneali in cavie
con soluzioni al 0,9 e 0,92 9, di NaCl alla temperatura di 38° a 40° e nel rapporto di
1a % del peso dell’ animale.
Dopo 6 a 7 ore dalla introduzione sì trovano grassi e lipoidi nelle fibrocellule del cuore
e negli elementi renali.
Dopo 24 ore questo reperto è massimo e dopo 48 non si vede più nulla. Adoperando
liquido del Ringer queste alterazioni sono minime.
Noi notiamo che la introduzione endoperitoneale produce tutt’ altro effetto da quella
endovenosa o parenchimatosa, che nel peritoneo iniettato si vede accumularsi in quantità
del grasso, mentre deve aver luogo un abbondante lavorio dei vasi linfatici locali. E però
il reperto dell’Hoessli andrebbe confrontato con quello che può notarsi in casi di altre
introduzioni parenterali diverse dalla peritoneale.
Altre ricerche nel campo biologico che possono avere connessione con osservazioni nel
campo terapeutico e patologico son quelle della Mengarini e di Scala (2) eseguite
sopra cladofore e spirogire.
Queste soffrono più o meno per immersioni in soluzioni al 7% di NaCl, o in altre
isotoniche di KCl o Mg Cl, o in soluzioni da 2 a 4% di Na CI.
Specialmente le soluzioni ipertoniche di NaCl possono generare intime modificazioni
chimiche sul protoplasma cellulare con formazione di un mezzo avente reazione fortemente
acida atta a far cambiare colore al violetto di metile.
Una grande importanza nella terapia ed un notevole interesse in farmacologia ha il
fatto illustrato già da parecchi pediatri, che somministrazioni gastroenteriche o ipodermiche
di soluzioni saline producono una ipertermia che ha caratteri, intensità e durata molto
diversa nei diversi casi. i
Secondo Nothmann (3) questa febbre si osserva per soli 8 gr. di sale anche in bam-
bini abbastanza avanzati in età e dipende da un cumulo di fattori individuali.
Friberger (4) mentre ammette questo fatto in linea generale, dimostra con espe-
rienze sul ricambio materiale, che l’ eliminazione del Cloro in bambini affetti da eczemi 0
(1) Hans Hoessli. Veber sehidigende Wirkung der physiologischen Salzlòsung. Frankfurt.
Zeitschif. fir Pathologie, 1910, Vol. IV, pag. 258. Therapeutische Monatshefte, XXTV, 1910, pag. 444.
(2) M. Traube Mengarini und H. Scala. Ueber die chemische Durchlissigheit lebender
Algen und Protozoenzellen fiir anorganische Salze und die specifische Wirkuny letseterer. Centralb.
fii» Physiologie XXIV, pag. 114.
(3) A. Nothmann. Zur Frage des Kochsalzfiebers beim Satigling. Zeitschrift fiir Kinderheilkunde.
Centralblatt fiir Physiologie XXIV, pag. 1240.
(4) R. Friberger. Untersuchung ber das sogennante Kochsalzfieber und riber die Clorausschei-
dung bein Sarigling. Arch. fiv Kinderheilkunde LIII 1-3. Zentralbl. fiir Physiol. XXIV, 1240.
La
— 211 —
da malattie del tubo digerente è un po’ minore che nei sani, oltre che normalmente il
cloruro sodico introdotto per via ipodermica si elimina più tardi e più irregolarmente di
quello somministrato per bocca.
Come punto di partenza dei disturbi che conducono alla febbre il Friberger am-
mette una sorta di lesione cellulare.
Heim e John (1) credono che quando artificialmente non si aumenti l° introduzione
di acqua in bambini assoggettati ad una somministrazione salina, la febbre sia dovuta a
ritenzione di acqua e quindi a minore perdita di calorie per evaporazione diminuita e suc-
cessivamente a diminuita « perspiratio insensibilis » in ragione di edemi cutanei.
Se proprio non ci sembra che quest’ultima sia la migliore delle interpretazioni è certo
tuttavia che la febbre da sale ha un'origine multiforme e più o meno indiretta, ma la
lesione protoplasmatica ci pare quella più plausibile e quella meglio dimostrata da tutte
le osservazioni precedenti.
In contrapposizione coi fenomeni legati ad una abbondanza artificiale o naturale di
NaCl nell’organismo potrebbero porsi tutti quei fatti che si osservano per opera delle così
dette diete ipoclorurate o aclorurate, che tuttavia non è qui il caso di richiamare e di
cui ho detto qualche cosa nel mio lavoro-precedente.
Quì invece mi par opportuno il richiamo ad una osservazione recentissima del Kitt-
steiner (2) sulla eliminazione del cloruro sodico mediante il sudore. Sono note le an-
tiche esperienze della scuola del Ludwig e del Ludwig medesimo sui rapporti fra ve-
locità di secrezione e contenuto specifico del secreto.
Io stesso portai un contributo sperimentale per riguardo al Cloro della saliva dopo
introduzioni metodiche di Na CI nel sangue. Non per tutte le secrezioni e non per tutti gli
elementi costitutivi di un secreto può dirsi che la eliminazione sia direttamente proporzionale
alla velocità di secrezione. Ebbene, le esperienze del Kittsteiner sulla secrezione del
sudore hanno dimostrato precisamente, che il contenuto del sudore in cloruro sodico è di-
rettamente proporzionale alla velocità di secrezione, mentre la temperatura, l’ umidità, il
bagno generale, l’attività muscolare, le azioni psichiche non esercitano una infiuenza
propria. D'altra parte l’aumento del NaCl nell’alimentazione produce pure un aumento
nella quantità secreta, ma solamente quando si abbia a che fare con variazioni durature
e non con variazioni rapide e passeggiere.
Io mi sono domandato se promuovendo la diaforesi non si possa raggiungere lo scopo
che ci proponiamo con le diete ipoclorurate o declorurate e se eventualmente un’ abbondante
secrezione di sudore non possa essere anche maggiormente proficua in quanto, come è
noto, essa vale ad allontanare dall’organismo copie notevoli di prodotti tossici, ben più
dannosi del medesimo cloruro sodico.
(1) P. Heim und K. John. Ein Beitrag sur Theorie des Salzfieber. Monatschrift fi Kinderheil-
kunde IX, pag. 516. Zentralblatt fù» Physiologie XXIV, pag. 1241.
(2) C. Kittsteiner. Secretion, Kochsalzgehalt und Reaction der Schweiss. Archiv. fùr Hygiéne
1911, LXXIT, pag. 275.
—.Rl2 =
Metterebbe il conto anche che si cercasse metodicamente se sia più facile e più co-
piosa oltre che più pratica e meno dannosa per il rene, una eliminazione di NaCl ottenuta
mediante abbondante diaforesi, che non mediante abbondante diuresi operata da ingestione
di acqua o da diuretici specifici.
Dai fatti che abbiamo esposto come risultanti dalle osservazioni più recenti è provato
dunque che iniezioni di soluzioni saline possono produrre danni notevoli, ma non bisogna
nascondere che anche recentemente nuovi sostenitori insistono a difenderle strenuamente.
Max Heukei (1) porta alcune sue esperienze dalle quali apparisce come le infusioni sa-
line anche al 10% non danneggiano gli organi e neppure i reni anche se malati! Van-
taggiosissime specialmente esse sarebbero nelle infezioni, nelle quali, soluzioni simili senza
ledere i tessuti danneggerebbero i microrganismi, e soluzioni più deboli potrebbero dimi-
nuire la concentrazione dei veleni microbici e così indebolirne l’azione !
Questi vantaggi che sono a parer nostro molto problematici devono essere messi di
contro al danni che a tutt'oggi sono ben dimostrati e che tutt'al più potranno mancare
in qualche individuo o in qualche contingenza, precisamente come solo in qualche indi-
viduo 0 in qualche contingenza potranno verificarsi i vantaggi messi in vista dal-
P Heukel!
Ma chi direbbe che proprio contro quella malattia nella quale, attratti da un concetto
aprioristico si è creduto di dover saturar l'organismo con sali calcari per averne un sa-
lutare effetto inibitorio, cioè contro l'epilessia, si è invocato di recente il cloruro di sodio
che pure vale certamente a decalcificare il sistema nervoso centrale 2!
Infatti A. Ulrich (2) mentre afferma che la somministrazione del cloruro sodico può
giovare nella epilessia in quanto combatte efficacemente i disturbi del bromismo grave.
afferma ancora che l'astinenza dal cloruro sodico può bastare a sospendere gli accessi
epilettici.
Tuttavia egli dice di aver provocato violenti accessi somministrando ad individui af-
fetti indubbiamente da epilessia Jacksoniana dosi giornaliere di 20 a 30 gr. di cloruro so-
dico e di averne veduti vantaggi successivi. Questi accessi secondo | Ulrich avrebbero
servito a scaricare, come egli dice, il sistema nervoso e ad impedire ulteriori disturbi
oltre che avrebbero potuto avere una speciale importanza diagnostica.
Anche qui veramente lasciamo volontieri all’ Ulrich la responsabilità della sua pro-
posta, perchè non vi è non dico terapista, ma il più umile medico che non sappia come
l’aggravare gli accessi epilettici non possa rappresentar a nessun costo un benefizio, mentre
ogni sforzo della cura è diretto ad attenuarli o a toglierli, giacchè precisamente il ripe-
tersi degli accessi rappresenta spesso la ragion d’essere della loro riproduzione.
(1) Max Heukel., Veber den Einfluss der Kochsalz infusion. Minch.medice. Wochenschrift 1910,
vol. LVII, pag. 48. Schmidt ’s Iahrbich. 191, vol. 309, pagina 28.
(2) A. Ulrich. Ueder die praktische Verwendung des Kochsalzes in der Behandlung der
Epilepsie. Neurologisches Centralblatt 1910 n. 2. ‘T'herapeutische Monatshefte 1910 vol. XXIV, pag. 394.
II.
Contenuto dell'organismo in calcio e rapporto con le varie forme
di tetania e di rachitismo.
Nella determinazione della patogenesi dell’ epilessia e più della rachitide si tien conto
delle cause che impediscono il normale deposito di calcio nei tessuti rispettivamente ma-
lati, cervello e ossa, ma si sa che, potendo questo deposito variare per molti dati, ancora
non possediamo notizie direttive sicure in proposito. Naturalmente la profilassi di queste
malattie o rispettivamente la loro terapia è molto incerta e forsanche solo sintomatica.
Recenti determinazioni del Romacci (1) sul contenuto in calce del latte di donna
hanno dimostrato che sopra 68 campioni, il contenuto in Ca O oscillò fra 0,0291 e 0,2791
variando più ordinariamente intorno ad una media di 0,1024 di Ca O pari a 0,073 di Ca ".
L’età della donna si mostrò senza influenza notevole sul contenuto di calce, il quale
tende a crescere fino al 5° mese dell’ allattamento. Il Romacci dal punto di vista della
patogenesi delle forme di lesione ossea avrebbe osservato che di 9 rachitici e di 9 che
presentavano diatesi neuro-artritica, 6 avevano ricevuto un latte inferiore alla media sopra
citata.
Questo dato di fatto se conferma il rapporto patogenetico relativo all’ assorbimento
cella Calce dall’ alimentazione, non ci permette di valutarlo in modo assoluto, perchè troppi
altri rachitici sono divenuti tali senza che la loro alimentazione fosse povera in Calce.
E tuttavia interessante dal punto di vista igienico e fisiologico l'osservazione eseguita dal
Franck (2), il quale non ha potuto notare differenza di sorta nel contenuto in Calce del
latte di vacche alimentate con solo foraggio di prati irrigati o altrimenti nutrite, sicchè
l'influenza dell’alimento più o meno ricco di Calce non si fece sentire sul contenuto di
Calce del latte.
A questo proposito è assai notevole lo studio eseguito dal Coleschi (3) sull’ assorbi-
mento della calce in forma di carbonato e bicarbonato. Egli ha trovato che la sommini-
strazione di questi sali per bocca dà un assorbimento più cospicuo, se essi sono sciolti in
acqua, che non se sono dati in sostanza; che buona parte del sale assorbito è emessa per
il latte e che l'assorbimento è favorito dalla presenza di CO, nell'acqua di dissoluzione.
Riproduciamo dalle tabelle del Coleschi il seguente quadretto che dimostra i rap-
(1) A. Romacci. Sul quantitativo in Calcio del latte di donna. La Pediatria, settemb. 1910, n. 9.
(2) L. Franck. Ueder den Einfluss kalkarmen Futters auf den Kalkgehalt der Kuhmilch. —
Chemische Zeitung 1910 XXXIV, pag. 978-979. — Centralbl. fiir die gesamm. Physiolog. und Path.
des Stoffwechsel, 1911. Iahrgang VI, pag. 137.
(3) Lorenzo Coleschi. Z2 ricambio del Calcio nelle donne lattanti dietro l’uso delle acque
minerali bicarbonato-calciche. — Archivio di farmacologia sperimentale e scienze affini, 1910, vol. X,
pag. 254-267.
— 214 —
porti di assorbimento ed eliminazione in casi di somministrazione di carbonato in natura,
oppure in soluzione nell'acqua Marcia o in quella delle Ferrarelle.
Ca0 assorbita Cao ; PE
Somministrazione 0 0 eliminata Mem ie Cao
dell’ ingerita col latte con le orine con le fecce ritenuta
Carbonato di Ca . . 1,68 0,6 0,17 8,32 0,90
Ferrarelle. . .... © 2A], (),33 4,89 2,66
Acqua Marcia .. . . 2,64 0,98 0,28 7,36 1,38
Ma naturalmente un organismo può aver penuria di Calce anche perchè ne perda più del
normale.
In una bellissima tesi del Fritsch (1) fra le notizie particolari che riguardano il
ricambio della Calce specialmente nell’arteriosclerosi, che è riputata del tutto indipendente
dalla introduzione di Calce mediante l’alimentazione e quindi del tutto inaccessibile alla
influenza di alimentazioni povere di calce, è affermato il fatto che la Calce sì elimina in
buona parte con le fecce, il che del resto si osserva anche nella tabella sopra riportata.
La eliminazione seguirebbe secondo il Fritsch per la mucosa intestinale come avviene
per il ferro, sicchè si comprende il reperto del Proskauer (2) di un aumento del Ca
nel sangue in 4 casì di disturbi acuti e cronici del tubo digerente, aumento certamente
legato o ad una diminuita eliminazione per il tubo gastro enterico, oppure ad una disinte-
grazione organica, che può benissimo effettuarsi per queste speciali condizioni patologiche
dell’organismo.
La ricchezza del sangue in Calcio può essere causa dei danni che si osservano nel-
l’arteriosclerosi, secondo il Fritsch, solamente come seguito di lesioni molto antecedenti
dell’intima, e può essere causa di danno, come altra volta rappresenta una condizione
fisiologica di prima importanza. Già da molti autori era stata notata l’influenza che il Ca
può esercitare sulla contrattilità dei vasi, oltre che sul cuore e sulla coagulabilità del
sangue. Dice il Barr (3) che il Ca + + insieme ai secreti delle capsule surrenali e del-
l’ipofisi aumenta il tono vasale e rappresenta una condizione importantissima di resistenza
in molte malattie come nella pneumonite.
È certo però che nella ipertensione arteriosa cotesto benefico effetto diventa un danno
e un grave danno.
(1) Alfred Fritsch. Beitrag sum Studium des Kalkes im Organismus besonders in seinen Ver-
hiltnissen zum Pathogenese des Arterio-sklerose. hése de Nancy, 1909. Maly’s Iahresbericht 1909,
Volume XXXIX, pag. 626.
(2) I. Proskauer. Veber den Erdalkaligealt des Sariglingsblutes bei Ernihrungstorungen. Arch.
fir Kinderheilkunde LIV, 1-3. Centralblatt fire Physiologie XXIV, pag. 1243.
(3) I. Barr. Use and abuse of the lime salts in healt and disease. British medical Journal 24,
sept. 1910. Schmidt’s Iahrbùcher 1911, Vol. CCCIX, pag. 185.
AO
Secondo il Rutkewitsch (1) l’infiuenza del calcio sui vasi e sul cuore è esercitata
anche dallo sironzio ed essa può produrre talvolta perfino alterazioni del ritmo cardiaco
per danni diretti portati sul miocardio. Non sarebbe il caso allora di pensare che il clo-
ruro di sodio sottraendo Calcio ai tessuti producesse bensì dapprima un aumento nel
sangue, che è stato osservato già da miei allievi nel mio laboratorio, ma poi a lungo
andare avendo luogo una sicura eliminazione per le urine, o per l'intestino, venisse libe-
rato l'organismo da quell’ eccesso di Calcio che si dimostra realmente dannoso ?
Una comunicazione orale gentilmente fattami dal Dott Bonetti di Genova sugli
effetii delle inalazioni secche col sistema K6rting, per le quali certo si assorbono rapi-
damente grandi quantità di cloruro sodico insieme a quantità forse trascurabili di joduri,
deporrebbe proprio per un risultato benefico del cloruro sodico in casi di ipertensione,
che potrebbe spiegarsi con quello che ho notato più sopra. i
Dunque si possono avere danni dai sali di Calcio ma non per questo si devono dimen-
ticarne i beneficii, come non si possono dimenticare quelli del ferro solamente ponendo
mente ai fenomeni di avvelenamento che questo può produrre.
È certamente con esagerazione che il Berg (2) sostiene essere inutili o dannosi nella
terapia i sali di calcio specialmente i fosfati, perchè non possono servire che come ecci-
tanti, non danno fosforo all’organismo ed anche i più elevati come la lecitina unita al
Calcio o la fitina avrebbero solamente azioni indirette, la prima servendo da afrodisiaco,
la seconda da stimolante per l’appetito.
Che se vogliamo seguire ricerche più profonde e speciali abbiamo un caso molto
istruttivo illustrato dall’Oerì (3) in una donna affetta da sclerosi laterale e sottoposta
ad un regime dietetico adatto allo studio del ricambio del fosforo o del calcio.
L'aggiunta di Calce all’alimentazione produsse una perdita di fosforo in forma di leci-
tina ed acido nucleinico oltre che in forma inorganica. Che se si dava all’ammalata del
fosfato sodico, si aveva una perdita pure di fosforo e di Calcio, ma varia a seconda del
contenuto dei cibi in calce.
Da che risulta che i sali di Calcio possono essere assorbiti da più o meno; essi
secondo il Fritsch non sono atti a produrre di per sè un’arteriosclerosi, ma data un’alte-
razione dell’intima possono permettere depositi calcari, essi possono dare dei vantaggi e
dei danni, essi possono finir col produrre tutt’altra cosa da quella per la quale erano stati
somministrati.
Nè per questo è meno dimostrato che la mancanza di Calce possa rappresentare una
condizione dannosa per l’ organismo, o inversamente che possa l’aggiunta di Calce ad un
menstruo salino togliergli delle azioni dannose, che altrimenti esso avrebbe esercitate.
(1) Rutkewitsch. Die Wirkung der Calcium und Strontium salze auf das Herz und Blutgefcs-
system. Pligers Archiv. CKXIX, pag. 487. Centralblatt fir Physiologie XXIV, pag. 501.
(2) Ragnar Berg. Veber die Ausscheidung von per os eingefihriten Phosphaten besonders der
Calciumphosphate. Biochemisches Zeitschrift 1910, Vol. XXX, pag. 107.
(3) Felix Oeri. Zin Betrag sur Kenntniss des Phosphosctiure und Kalkstofficechsel beim
erwachsenen gesunden Menschen. Zeitschrift fire klinische Medicin LXVII, pag. 288-306.
— 216 —
Così oltre all’azione nota sui centri nervosi o sul cuore è stato dimostrata una influenza
inibitrice, arrestatrice sulla permeabilità dei vasi sanguigni.
Il Meyer (1) avrebbe veduto che l’azione di diversi veleni che agiscono sui vasi può
essere impedita o sospesa da sali di calcio e che questo fenomeno importantissimo si
osserva meglio quando dopo aver somministrato il Ca si dia un veleno atto a produrre
edemi o versamenti in cavità sierose.
Chiari e Januschke (2) hanno più particolarmente sviluppato questo studio riu-
scendo a dimostrare con nuove esperienze su cani e cavie, che raccolte pleuriche dovute
all'introduzione di joduro di sodio, di tiosinamina, di tossine difteriche, edemi flogistici
della congiuntiva prodotti nei conigli da instillazione di olio di senape o di abrina, ven-
gono impediti o arrestati o diminuiti da sufficienti introduzioni ipodermiche o endovenose
di sali di Calcio cioè lattato o meglio ancora cloruro.
Cotesta azione può aversi 3 ore dopo la somministrazione del Calcio e dopo 24 ore è
scomparsa. Se sì vuol impedire la formazione degli edemi, occorre che la introduzione
dei sali di Calcio sia fatta mezz’ ora dopo quella irritante e per quanto riguarda gli effetti
dell’abrina o dell’olio di senape, queste sostanze devono essere applicate dopo l’uso dei
sali di Calcio.
I quali sali calcari secondo Chiari e Januschke dovrebbero agire fondamental-
mente per la loro influenza coagulante o a dir meglio per un aumento di resistenza, che
devono generare negli elementi vasali.
È forse di questo genere l’azione osservata da Lillie (8) nelle asterie e arbacie,
nelle quali l’aggiunta di cloruro di calcio alle soluzioni isotoniche di sali sodici impedisce
la permeabilità cellulare, rallenta 0 impedisce la formazione delle membrane e protrae
l’iniziarsi della divisione cellulare.
Forse appartiene anche alla stessa influenza il fatto notato da Lussana (4) di una
diminuzione o rallentamento della respirazione dei tessuti per opera del cloruro di Calcio.
E ancora un certo antagonismo è stato riscontrato fra cloruro di Calcio e adrenalina,
antagonismo anche questo per certi dati legato ad azioni intime sugli elementi dei tessuti. Fu
lo Schrank (5) che avendo osservato un’ azione antagonistica fra cloruro sodico e clo-
ruro calcico quanto alla peristalsi intestinale ed avendo veduto che il cloruro sodico può
(1) Hans Horst Meyer. Veber die Wirkung des Kalkes, Mùnchener medicinische Wochen-
scrift 1910 LVII, pag. 44.
(2) D.r Richard Chiari und D.r Hans [anuschke. Hemmung von Transsudat und Essudat-
bildung durch Kalziumsalze. Wiener klinische Wochenschrift 1910 n. 12. Archiv. fiir experimentelle
Pathologie und Pharmakologie 1911, Vol. LXV, 120-127.
(3) R. S. Lillie. Zhe phisiology of Cell- Division III, The action of calcium salts in preventing
the initiation of cell division in unfertiliged eggs trough isotonic solutions of sodium salts. 'Vhe
american Journal of Physiology 1911 Vol. XXVII, pag. 289-307.
(4) Filippo Lussana, Zn/luenza degli joni metallici sopra la respirazione dei tessuti. Bul-
lettino delle scienze Mediche 1907, pag. 169-185.
(5) Fr. Schrank. Esperimentelle Beitrage sur antagonistischen Wirkung des Adrenalins und
Chloralcium. Zeitschrift fir klin. medicin. LXVII, pag. 230. Centralbl. fir Physiologie XXIV, pag. 220.
— 217 —
produrre glicosuria come l'adrenalina, volie tentare se il Calcio potesse contrastare con
l’adrenalina come contrastava col sodio e trovò infatti che nella rana la midriasi da adre-
nalina si combatte con iniezione di cloruro calcico e così può combattersi la glicosuria da
adrenalina.
Tuttavia le lesioni vasali dell’ arteriosclerosi non si poterono affatto combattere, noi
riteniamo anzi che l’adrenalina possa preparare il terreno per l’incrostazione successiva di
sali calcari, come abbiamo notato più sopra.
Prima della dimostrazione da me data nel lavoro pubblicato lo scorso anno e più volte
ricordato, si giudicava solamente per induzione o per analogia che certi sali e fra essi il
cloruro sodico potessero esercitare una particolare azione, in quanto precipitassero o estraes-
sero il Calcio contenuto nei tessuti o nei liquidi endo o estra cellulari. Anche recentissi-
mamente un argomento che è probativo solo per verosimiglianza è dato da Chiari e
Frohlich (1). Essi hanno veduto che la sensibilità delle terminazioni nervose dei sistemi
della vita vegetativa (simpatico ed autonomi) per l’adrenalina e la pilocarpina viene aumen-
tata negli avvelenamenti da acido cloridrico e ossalico e da ossalato di sodio.
E gli autori pensano che verisimilmente ciò sia dovuto ad una asportazione di Calcio
per opera dell’acido cloridrico o precipitazione per l’ossalico, per l’ossalato.
Ed è pure un argomento di verisimiglianza quello che raccogliamo da Loew (2) sul
comportamento delle cellule che si trovano in certi vegetali più bassi, in talune alghe, di
fronte all’ acido ossalico. Queste alghe sono prive di Ca e per esse i sali solubili del-
l’acido ossalico non sono venefici. Il calcio secondo 11 Loew sarebbe combinato con nu-
cleoproteidi o almeno sarebbe a loro congiunto e per questo mezzo potrebbe esercitare la
sua azione biologica sur nuclei cellulari e sui corpi clorofillici. Azione complessa certa-
mente e molto più ragguardevole di una semplice influenza inibitrice, che talora può del
tutto mancare o anche essere sostituita da quella opposta.
Le ricerche che nel mio lavoro sopra citato io ho richiamato da Hamburger e
De Haan, da Loeb, da Osterhout, da Benecke, da Thies, da Busquet e
Pachon, da Pouchet e Chabry furono riprese dal Loeb (3) l anno scorso e dimo-
strarono del resto una vera e propria azione antagonistica, che si aggiunge al fatto da
me dimostrato della sostitezione o comunque se si voglia della sottrazione dei Ca + +,
quando ne sia il caso.
Il Loeb, riprendendo lo studio in parte eseguito da Pouchet e Chabry sulle ova
del riccio di mare, ha dimostrato che l’azione tossica esercitata sullo sviluppo di esse da
soluzioni di cloruro sodico neutre o leggermente acide è tolta più dall’ aggiunta di po-
(1) R. Chiari und A. Fròhlich. Erregbarkeitsinderung des vegetativen Nervensystems durch
Kalk-entziehung. Archiv. fur experiment. Pathol. und Pharmak, 1911. Vol. LXIV, pag. 214-227.
(2) Oscar Loew. UVeder die physiologische Rolle der Calciumsalze. Mùnchener medicin. Wochen-
Schrift, 1910. Vol. LVII, pag. 2572.
(3) Jacques Loeb. Veder den Einfluss der concentration der Hydroxyljonen in einer chlorna-
trium-losung auf die relative entgiftende Wirkung von K und Ca. Biochem. Zeitschrift, XXVIII,
pag 176. Schmidt’s Jahrbicher, 1911, CCCIX, pag. 122.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 32
LEONI
tassa che da quella di Calce, se invece le soluzioni sono alcaline agisce meglio il Calcio
che il potassio.
Inoltre se invece di aggiungere potassa o calce sì ricorre ad una mescolanza del-
luna o dell'altra base, si ha maggior effetto che non si potesse desumere dalla somma
degli effetti singoli.
Questi dati nel riguardo del potassio ricordano troppo bene quello che io dicevo ap-
punto confrontando gli effetti chimici di sostituzione prodoiti dal cloruro sodico per il K e
per il Ca.
Affermavo come nessuno avrebbe potuto negare che eventualmente le azioni biologiche
esercitate dal cloruro sodico fossero dovute alla perdita del K, oltre che alla perdita del
Ca, ricordandosi come l’azione paralizzante, protoplasmatica del K, fosse ben chiara e di-
mostrata. Anche se è nota per deboli dosi di potassa e sul principio dell’azione, come è
stato visto da Astolfoni, una certa influenza eccitante, essa è certamente assai piccola,
mentre il Calcio abbiamo veduto che da molti è ritenuto pure atto ad esercitare azione eccitante
e recentemente anche in rapporto con una precedente influenza del Magnesio, si è asse-
rito dal Meltzer (1) che il Ca può eccitare o rialzare la eccitabilità nervosa particolar-
mente se depressa dal Mg, azione quindi tanto più notevole, quando si pensi alla tossicità
di questo elemento.
Ho detto tossicità del Magnesio perchè questa parola corrisponde bene alla intensa
azione biologica che esso può esercitare e deve essere ben ricordata quando si consideri
la così detta azione anestetica che fu dimostrata per i primi da Meltzer ed Auer.
Guthrie e Ryan (2) affermano a questo proposito che i sali di Magnesio non possono
essere riguardati come anestetici nel vero senso della parola.
Secondo le esperienze di questi autori, l’ effetto dell’iniezione ipodermica dei sali di
magnesio è quello di una paralisi degli apparecchi periferici neuro muscolari dei muscoli
volontari, l’ anestesia dipenderebbe dal grado di asfissia generale o anche dell’ asfissia par-
ziale dei tessuti maggiormente lesi.
Ed in prova ulteriore di questo concetto citiamo le esperienze di Hyndman e Mit-
chener (3) le quali furono eseguite in conigli sottoposti ad iniezioni di solfato di Magnesio
e resi così anestetici. Questi animali reagivano alla stimolazione elettrica dei centri cor-
tica:i, che dunque avevano conservato la loro eccitabilità. Questa conchiusione veramente
non è contraria al concetto di un’azione anestetica del solfato di Magnesio, ma ci dice come
questo non abbia ad esempio l’azione della morfina, nè quella del cloroformio, cioè vera
azione centrale, bensì debba ritenersi che agisca alla periferia. Ora, un'azione di contatto
(1) J. Meltzer. Einiges sur Physiologie und Pharmakologie des. Magnesium und Calcium.
Deutsche medic. Wochenschrift, XX XV, pag. 1963. Centralbl. fir Physiologie XXIV, pag. 527.
(2) C. C. Guthrie and. A. H_ Ryan. On. the alleged specific anaestetie properties of Magne-
stum salts. 'l'he American Journal of Physiology 1910, Vol. XXVI, pag. 328-345.
(3) H. F. Hyndman and W. E. Mitchener. he influence of Magnesium sulphate on the motor
cells of the cerebral cortex. The Journal of the American Medical Association LV pag. 281. Central-
blatt fù» Physiologie XXIV, pag. 915.
— 219 —
del solfato di Magnesio sui nervi o apparecchi nervosi periferici, che valga ad esercitare
le influenze che noi chiamiamo anestetiche locali, come quelle del freddo, della cocaina,
non può ammettersi e però resta ancora come la più plausibile, l'opinione di Guthrie
e Ryan di una asfissia periferica.
IL’asportazione del Calcio, oltre che del potassio dai tessuti cervello, muscoli, fegato
è stata dimostrata dalle mie esperienze e da quelle dei miei allievi, la precipitazione del
Calcio per opera di sali decalcificanti come gli ossalati è possibile e potrebbe in ogni
modo dimostrarsi con osservazioni microchimiche, ma noi abbiamo più volte accennato
alle esperienze di molti autori, che hanno veduto sospendersi i disturbi prodotti dall im-
mersione di elementi in soluzioni di cloruro di sodio o simili mediante l'aggiunta di sali
di Calcio alle soluzioni medesime.
Questo Calcio che si può togliere ai tessuti è esso fissato ai nucleoproteidi come vor-
vebbe il Loew o si trova nei liquidi frapposti agli elementi cellulari? Esso evidentemente
è jonizzato, altrimenti delle soluzioni di cloruro sodico anche abbastanza diluite, special-
mente poi le fisiologiche come vedremo nelle mie nuove esperienze, non potrebbero de-
terminarne il distacco. Ma il fenomeno opposto, quello cioè per il quale molti autori hanno
veduto per l'aggiunta di sali di Calcio sospendersi i disturbi prodotti da altre solu-
zioni saline, questo fenomeno come può interpretarsi? Il calcio può farsi entrare ad arte
negli elementi cellulari?
Le nuove esperienze dell’Ha mburger (1) tendono a rispondere affermativamente a
questa questione. :
Minime tracce di cloruro di calcio (5 milligr. per 100 di menstruo) agiscono già sulla
motilità dei fagociti e rendono verisimile l entrata del calcio in essi.
Si può determinare chimicamente questo passaggio, ma si osserva anche che se questi
globuli vengono lavati col loro siero il Ca non si dimostra più.
Secondo Hamburger il Ca deve ritenersi almeno in parte come contenuto nei. li-
quidi endocellulari e può dimostrarsi infatti nel materiale ricavato per compressione dei
globuli medesimi e non è ammissibile che sia semplicemente assorbito dallo stroma. Il
Loeb crede che dai globuli immersi in soluzione di cloruro sodico avvenga il passaggio
del Ca perchè vi può essere scambio fra i Na + ed i joni metallici del contenuto globu-
lare, il che noi pure abbiamo sempre ammesso, ma secondo Hamburger una maggiore
importanza deve essere esercitata dalla pressione osmotica, che può farsi variare anche
con l’aggiunta di zucchero nel liquido ambiente, aggiunta che può far entrare nei globuli
il caleio e aumentarne quindi il contenuto normale. Confessa l’Hamburger che questo
fenomeno ha bisogno di essere studiato ulteriormente.
Evidentemente con qualche fenomeno chimico o chimico fisico degli elementi specifici
deve essere legato il fenomeno importantissimo della fissazione del Ca in tutti i tessuti in
genere, come nei globuli sanguigni ed in taluni in ispecie come nelle ossa.
(1) H.I Hamburger. Veder den Durehtritt vor Ca Ionen durch die Blutkòrperchen und dessen
Bedingungen. Zeitschrift fir physiol. Chemie LXIX, pag. 663. Centraiblatt fiir Physiologie XXIV, 1145.
— 220 —-
Le questioni del rachitismo, dell’ osteomalacia come quella dell’ arteriosclerosi sono
ben lontane dall’ essere risolute; da tutto quello che si sa finora risulta evidente che de-
vono esistere condizioni speciali per cui gli elementi destinati all’assorbimento e al deposito
del Calcio, anche immersi in un menstruo ricchissimo di questo metallo non riescono ad
appropriarselo. È alla ricerca di queste condizioni intime che bisogna muovere e non già
restare al primo o all’ultimo episodio della malattia, alla alimentazione, al difettoso as-
sorbimento, alla affrettata eliminazione.
Intendo in questi pochi cenni bibliografici di accennare solamente alle pubblicazioni
fatte nell’anno testè finito e nella prima metà del presente, avendo riassunto nel lavoro
dell’anno scorso quei dati che più da vicino riguardavano l'argomento delle perdite di
Calcio e quindi anche quelle riferibili al rachitismo, o all’ osteoporosi, all’ osteomalacia.
Determinazioni chimiche eseguite dal Gassmann (1) su ossa normali e ossa rachi
tiche hanno dimostrato che nelle une e nelle altre è costante il rapporto fra il catione Ca
e gli anioni SO, e CO,, è costante, pur mancando nelle ossa rachitiche tanto il Ca quanto
l’acido fosforico e il carbonico. Nelle rachitiche sì trova il 5° di più di sostanze orga-
niche, 1° 1%, di meno di acqua ed è abbondante la Magnesia. Anche i denti che cadono
in carie sono più ricchi in magnesia, sicchè il Gassmann ritiene che il Mg abbondi là
dove vi sono alterazioni del ricambio del Calcio.
Nelle mie esperienze io ho sempre veduto che condizioni che sono atte a staccare dai
tessuti anche copiosamente la calce, la potassa, l’acqua del tessuto nervoso non riescono
a spostarne la Magnesia.
Corrispondenti ai dati del Gassmann sono anche quelli del Mac Crudden (2) in
un caso di osteomalacia. Mentre nell’osso normale egli trovò per cento 28,83 di calce,
0,14 di magnesia, 19,55 di anidride fosforica, 0,14 di solfo, nell’osso osteomalacico trovò
rispettivamente 15,44 di calce, 0,56 di magnesia, 12,01 di anidride fosforica e 6,56 di
solfo.
Adunque anche qui più di sostanze organiche rappresentate dal solfo, più di magnesia
e meno di calce e di anidride fosforica.
Questi nuovi risultati non ci danno veramente indicazioni, che possano illuminarci, ma
ci mostrano però due fatti di una certa importanza l’ abbondanza della magnesia, il rap-
porto costante fra Ca e gli acidi che lo legano.
Wells e Mitchell (3) hanno cercato invece come il Ca giunga alle ossa e dopo
aver dimostrato che saponi di soda e di calce, introdotti nel peritoneo di conigli possono
2
essere assorbiti senza che la calce venga a combinarsi con acido carbonico o fosforico
(1) Th. Gassmann. Chemische Untersuchungen von gesunden und rachitischen Knochen. Zeit-
schrift fiv physiolog. Chemie 1910, vol. LXX, pag. 161. Schmidt’s Tahrbicher fir die ges. med 1911,
CCCIX, pag. 198.
(2) F. H. Mac Crudden. Chemical Analises of Bone from a case of human adolescent osteo-
malacia. Journal biological Chemitry, VII, pag. 200. Centralblatt fùr Physiologie, XXIV, pag. 641.
(3) Gideon Wells and James Mitchell. Studies on calcification and ossification. Journal of
Medical Researces, vol. XXII, pag. 501.
—- 221 —
così da aversi una mineralizzazione del sapone, hanno immerso cartilagini fetali in un
menstruo contenente Ca + + e ve le hanno lasciate per 10 giorni alla temperatura di
37° a 38°, per vedere se gli elementi delle cartilagini che si sa possono a lungo vivere
fuori dell’organismo possedessero un’affinità per i Ca joni. Ciò tuttavia non si è punto
verificato.
Nella rachitide interverrà alcuna delle condizioni negative che si sono verificate nel-
l’esperienza di Wells e Mitchell? Afferma il Lehnerdt (1) che nel rachitismo la calci-
ficazione non è impedita nè da una scarsa introduzione di calce con | alimentazione, nè
da scarsezza di assorbimento in generale, nè perchè anormali processi del ricambio o aì-
terazioni del tubo gastro enterico sottraggano metalli alcalini, ma perchè il tessuto osseo
neoformato non è in caso di fissare normalmente i sali calcari che pure vi arrivano in
copia.
Tuttavia il tessuto osseo nel rachitismo si comporta istologicamente come il sano per
quanto può osservarsi, fuori che per quanto riguarda la fissazione della calce.
Del resto secondo Schabad (2) una alimentazione povera di calce non produce che
una pseudorachitide, che rapidamente sparisce appena si aggiunga calce al cibo sommi-
nistrato.
Sembra adunque che si tratti di un'alterazione intima degli elementi, di un’altera-
zione forse del loro ricambio, che toglie o diminuisce la funzione caratteristica riguardante
la fissazione della calce.
L'influenza che esercita lo stronzio sul tessuto osseo in via di sviluppo è ben inte-
ressante a questo proposito.
Dobbiamo all’Oehme (3) alcune ricerche, che meritano ulteriore esame e che a mio
parere potranno anche render conto dei fenomeni che analogamente si manifestano in si-
mili malattie dell’ osso, come |’ osteomalacia.
Dice l’Oehme, che se si nutre con cibi poveri di Ca un cane in via di sviluppo, si
presenta osteoporosi, perchè il nuovo tessuto osseo si calcifica a spese del preesistente.
Dunque il tessuto osseo normale anche sprovvisto della calce occorrente per la fissazione
fisiologica ha le attitudini sufficienti per togiierlo anche là dove è tenacemente fissato.
Se allora si somministra fosfato di stronzio si produce una forma del tutto simile alla
rachitide, probabilmente secondo l’Oehme, perchè lo Sr eccita gli osteoblasti e stimola
una maggior produzione di osso che porta via la Calce dove già si era deposta.
Tuttavia, se ad un animale in via di sviluppo si somministra insieme ad abbondante
alimentazione calcare una piccola quantità di stronzio non si ha una maggiore produzione
di osso normale, ma piuttosto un riassorbimento di quello già sviluppato.
(1) F. Lehnerdt. Warun dleibt das rachitische Knochengewebe unverkalkt 2 Ergebniss der inn.
med. und kinderheilkunde, VI, pag. 120. Centralbl. fù» Physiol. 1911, vol. XXV, pag. 120.
(2) I. A. Schabad. Der Mineralstoffivechsel bei Rachitis. Jahresber, ueber die Fortschritte der
Medicin XXVIII, pag. 1057. Centralbl. fur Physiologie, vol XXIV, pag. 374.
(3) Curt Oehme. Veder den Einfluss von Strontiumphosphat auf das Knochenwachsthum bei
kalharmen Kost. Beitràge zur path. anat. und allgem. Path. 1910, vol. XLIX 2°, pag. 248. Schmidt's
Tahvbuch. fir die gesamm. Med. 1911, vol. CCCIX, pag. 147.
(AS)
DD,
Da che si deduce a parer mio, che gli osteoblasti hanno bisogno di speciali condizioni
per la loro funzione, come del resto avviene per tutti gli elementi dei tessuti; che essi
sentono influenze speciali come quella dello stronzio, quella del magnesio dimostrata da
Malcolm su cani e topi, da Weiske su conigli, quella forse del cloruro di sodio, che
ancora non è dimostrata, ma che mi sembra sicurissimo debba avvenire, sicchè nella te-
rapia della rachitide si dovrebbe anche aver presente la eventuale importanza di una
dieta aclorurata.
Come il cloruro di sodio agiscono gli acidi, i quali in fuori dell’ ossalico che dà invece
fenomeni di precipitazione producono una dissoluzione dei sali calcari, specialmente dei
carbonati e conseguente eliminazione e perdita per le urine. Precisamente perchè rella
rachitide non si ha copiosa eliminazione di calce per le urine, dove anzi questa base è
scarsissima, ma bensì quasi esclusiva eliminazione per l’intestino, è negata dallo Schabad (1)
ogni fiducia nella teoria dell’acidosi, con la quale si è voluto spiegare il meccanesimo di
produzione delia rachitide.
La quale potrebbe trovare anche una spiegazione per ragioni d’analogia nel fatto os-
servato da Morpurgo e Satta (2) in un caso di osteomalacia.
Ossa di una donna osteomalacica furono sminuzzate e sottoposte a 350 atmosfere sotto
una pressa di Buchner. Se ne estrasse un liquido che fu diviso in due porzioni, l’ una
riscaldata a 66°-70°, l’ altra lasciata a sè come la prima, ma senza essere sottoposta al
riscaldamento. Nel primo liquido riscaldato si trovò 0,0183 di Ca 0, in quello non riscal-
dato se ne trovò 0,0287, il che dimostra la presenza di un fermento termolabile che nelle
ossa malaciche scioglie i sali calcari.
Certamente questa esperienza merita conferma, ma ha una grande importanza e ci fa
pensare che nel rachitismo potrebbe pure esistere nell’organismo o almeno nel tessuto
osseo un elemento finora sfuggito al nostro esame appunto come uno degli innumerevoli
fermenti che troviamo nella vita animale e che esercitasse sugli osteoblasti la inibizione
sufficiente ad impedire la calcificazione.
Ci può essere un fermento simile nelle varie forme di tetania? In malattie di questo
genere si può ammettere un agente qualsivoglia, atto a sciogliere i sali calcari, oppure a
precipitarli, oppure a estrarli dai tessuti e quindi anche dalla sostanza nervosa?
Noi abbiamo già veduto più sopra e io | bo scritto nel mio lavoro precedente che
una importanza assoluta alla mancanza o diminuzione di Ca nel cervello, come produt-
trice di fenomeni di eccitamento, non può darsi più che non possa darsi per esempio al
potassio.
Ma vi sono quegli stati di tetania successiva alle estirpazioni dell’apparecchio tropa-
ratiroideo, che si prestaro assai per ammettere il concetto che ho esposto, che cioè in
(1) I. A. Schabad. Zur Bedeutung des Kalkes in der Pathologie der Rachitis. Avchiv fùr kin-
derhellkunde 1910, vol. LIII, pag. 380.
(2) B._ Morpurgo e G. Satta. Sulla presenza di un fermento attivo sui composti di Ca nelle
ossa malaciche. Giornale della R. Accademia di Medicina di Torino, 1908, Anno LXXI, pag. 9.
— 223 —
queste condizioni sperimentali esista, sia pure, un fermento prosperante dopo | estirpa-
zione della tiroide o un prodotto chimico che l'apparecchio tiroideo distruggeva, e che è
capace di sottrarre calce ai tessuti o impedire che questi la ritengano.
Interessa conoscere a questo proposito una osservazione di Mac Callum €
Voegtlin (1) sulla cessazione dello stato di tetania dovuta a paratiroidectomia me-
diante l’iniezione di sali calcari proprio come si può averla con iniezioni di succo ghian-
dolare di altri animali.
Anche sali di Mg possono produrre questo risultato, ma in modo incostante, perchè la
tossicità del Mg non permette un sicuro intervento, ma sali di K o di Na anche alcalini
non hanno azione di sorta.
Di fatto questi stessi autori avrebbero veduto in 3 cani paratiroidectomati una note-
vole diminuzione della Calce in tutti gli organi e specialmente nel sangue e nel cervello.
Mac Callum e Voegtlin pensano che si tratti in questi casi di uno stato di aci-
dosi, dimostrato anche da una abbondante eliminazione di Ammoniaca, ma avvertono che
questa sola condizione non può dare un’ interpretazione sufficiente perchè anche introdu-
zioni abbondanti di bicarbonati non raggiungono affatto lo scopo, che si ottiene invece con
sali di Calcio.
Come non si può affermare che sia proprio l’azione inibitrice del Ca quella che, man-
cando questo elemento, permette lo scoppio della tetania, perchè altro può mancare oltre
il Ca, così la questione si rende anche più difficile a spiegarsi, quando si rifletta che in
casi di teiania tireopriva il Ca può anche abbondare, come risulta dalle esperienze di
Parhon e Dumitrescu (2).
Essi pure non negano importanza al Calcio, ma ammettono che la tetania non può
spiegarsi solamente con la deficienza di questa base, perchè hanno veduto che i centri nervosi
di un animale nel corso della tetania da asportazione dell'apparecchio tiroparatiroideo
possono presentare maggior quantità di Ca, che non quelli di un animale che non mostri
traccia di fenomeni convulsivi.
Se non si voglia ammettere che gli uni o gli altri di questi autori abbiano errato nelle
loro determinazioni, il che non è lecito, si dovrà pur persuadersi che la conclusione più
logica che può trarsi sia quella che nega alla mancanza del Calcio |’ importanza massima
nella produzione della tetania.
Abbiamo altra volta annunziato il concetto dello St6ltzner sul ristagno di Ca nel
sangue e nei liquidi dell’organismo con sottrazione dai centri nervosi per ispiegare la
spasmofilia dei bambini, concetto da porre in fila con tutti gli altri che sì imperniano
sulla importanza del Calcio. II Longo (3) seguendo questo concetio ha eseguito espe-
(1) W. G. Mac Callum and Carl Voegtlin. Ueder die Beziehungen der Tetanie zu den
Nebenschilddriisen und sum Kalkstofftwechsel. Baltimore. Iournal for experim. Medie. Vol. 11, pag. 118-
151. Maly’s Iahresbericht ueber Thier-Chemie, 1909 XXXIX, pag. 628.
(2) D.r C. Parhon und D.r Dumitrescu. Neue Untersuchungen ‘ber den Kalkgehalt des
Blutes und der nervencentren bei experimenteller Tetanie in Folge von Extirpation von Thyreoidra
und Paratyroidea. Schmidt's Jahrbicher 1910 Vol. CCCIX, p. 146.
(3) A. Longo. Calcio e spasmofilia infantile. Policlinico. Sezione medica 1910. Anno XVII, fase. 11.
SIRZZA
rienze sopra 3 spasmofilici confrontandole coi risultati ottenuti in 5 bambini per questo
rispetto normali. Le cifre avute dal sangue e parti molli sono negli spasmofilici 0,171 —
0,166 — 0,252%, e nei normali 0,211 — 0,175 — 0,140 — 0,207 — 0,194 e cioè in media
0,196 negli spasmfilici e 0,185 nei normali e se si voglia come è più giusto guardare ai
massimi e minimi, si sarebbe trovato negli spasmofilici il minimo 0,166 e il massimo 0,252,
e nei normali il minimo di 0,140 e il massimo di 0,211. Comunque si consideri, le prove
del Longo avrebbero dati valori superiori negli spasmofilici, che nei normali.
Si sa che l'esportazione del timo, precisamente come l'alimentazione mediante timo,
non produce nel cane nessun aumento nella eliminazione della Calce, come è stato visto
dal Sinnhuber, il Soli 1) ha estirpato il timo a galline ed ha notato che 15 a 20
giorni dopo l’operazione esse emettevano ova senza guscio, ma ciò avveniva in modo tem-
poraneo.
Il Soli attribuisce il fenomeno a una mancata influenza del timo sull’ovaia, per la
quale mancanza non avveniva più il deposito di Ca, mentre i sali calcari non mancavano
nel sangue.
Ma si potrebbe anche pensare che come talora per influenze varie le galline emet-
tono uova senza guscio, avvenisse lo stesso nel caso del Soli in seguito semplicemente
all’atto operativo.
Un’ ultima osservazione vogliamo aggiungere riguardo a questi fatti così importanti e
cioè quella eseguita dal D.r Canestro (2) su animali in preda a tetania paratireopriva.
Il Canestro ha osservato che i fenomeni convulsivi si possono arrestare rapida-
mente con l’iniezione ipodermica di soluzioni isotoniche di solfato o cloruro di Magnesio
in dosi da 0,50 a 2 gr. per Ke. di animale.
L'azione è prontissima, ma non impedisce che gli animali soccombano all’avvelena-
mento prodotto dall’atto operativo, se non si sono lasciati residui di ghiandola sufficienti
per il ritorno allo stato normale.
Evidentemente in questo fatto non si tratta di un fenomeno di semplice anestesia, ma
sì di quello stato asfittico che secondo Guthrie e Ryan si osserva per azione del Ma-
gnesio e che non ha nulla a che vedere con influenze specifiche quali sono quelle eser-
citate dalle secrezioni interne
III.
Esperienze proprie.
Ho eseguito le esperienze in cani sani tenuti in osservazione in laboratorio, ho adope-
rato il metodo analitico (3) descritto nel mio lavoro precedente e per confronto con i dati
(1) U. Soli. Zr/uenza del timo sul ricambio del calcio nei polli adulti. Pathologica 1911, n. 57.
(2) D.r Corrado Canestro. Contributo al trattamento della tetania paratireopriva mediante
iniezioni ipodermiche di sali di Mg. Policlinico. Sezione Medica 1910, fase. 3°.
(3) L'unica differenza che posso notare nel metodo è quella di aver curato sempre nella precipi-
tazione del pirofosfato magnesiaco, che nel menstruo esistesse una quantità di ammoniaca eguale al 2°
con ciò si evita di concentrare il liquido e di aggiungere troppo fosfato, il che renderebbe più lunga
la lavatura del filtro.
— 20 —
normali ho scelto quelli che risultavano dalle determinazioni istituite da me precisamente
allo scopo di avere termini esatti di paragone. I valori normali che io riscontrai nel cer-
vello dei cani oscillarono fra un minimo di gr. 0,0143 di Ca e un massimo di 0,0588,
osservando tuttavia che quest’ ultimo risultato si ebbe in un cane ucciso nel periodo con-
vulsivo della rabbia, sicchè, io preferisco non computarlo fra i normali, anche perchè nelle
determinazioni successive mie e dei miei allievi non abbiamo mai più trovato un conte-
nuto così alto.
Le determinazioni dunque dalle quali parto per confronto diedero rispettivamente in
Micani 0,0167 — 0,026 — 0,0159 — 0,0143 — 0,0206 — 0,0157 — 0,031 di Ca per 100
di cervello fresco.
Un minimo come dissi di 0,0143 un massimo di 0,031 e un valore medio di 0,0226
fra gli estremi e di 0,01998 complessivamente fra tutti.
Per il Mg. trovai sopra 6 casi rispettivamente 0,0149 — 0,0167 — 0,0152 — 0,0144
— 0,0143 — 0,0156, cioè un minimo di 0,0143 e un massimo di 0,0167 e un valore medio
fra gli estremi di 0,0155 e di 0,0151 complessivamente fra tutti.
Ho detto più sopra che la questione che mi ero proposto riguardava la possibilità che
il cloruro sodico anche introdotto in circolo in tenui quantità ed in soluzioni che ordina-
riamente sono ritenute innocue, desse luogo ad una perdita di Calcio nel tessuto nervoso
centrale. .
Ho ritenuto che una determinazione chimica diretta risolvesse la questione nel modo
più sicuro, mentre le ricerche che ho citato non davano altro che degli argomenti di vero-
simiglianza, ma non facevano presumere affatto una perdìta della calce cerebrale.
In qualche caso ho eseguito la determinazione anche nel sangue prendendo un saggio
normale prima della somministrazione del Cloruro sodico
Questo è stato introdotto in soluzione 0,75 %, alla temperatura di 38° a 40° e per vie
diverse e cioè 3 volte nella carotide, due volte nel peritoneo, una volta in via endovenosa
ed una volta nello stomaco mediante sonda esofagea.
Introduzioni parenterali e gastriche hanno dato il medesimo risultato, quanto a feno-
meni presentati dagli animali, vale a dire nessun fenomeno. Dopo l'introduzione, qualunque
essa fosse, il cane non mostrava disturbi di sorta, solamente le più abbondanti perfusioni
diedero respirazioni un po’ più profonde, ma null’ altro; lasciati a sè gli animali non pre-
sentavano niente di notevole, si potevano far camminare per il laboratorio senza che si
osservassero lesioni funzionali.
Le perfusioni che avevo eseguito precedentemente con soluzioni al 10‘, avevano intro-
dotto da 0,25 a 2,85 di cloruro sodico per ke. di animale, sciolti rispettivamente in 2,5 c. c. e
23 e. c. di menstruo per kg. di cane, invece nelle tre perfusioni eseguite con soluzioni al
0,75% iniettai un minimo di gr. 0,061 di NaCl in gr. 8,21 di liquido per kg. di animale
ed un massimo di gr. 0,10 in 13,3 c. ce. per kg. di animale.
La velocità di iniezione fu la solita, che in un cane di 5 o 6 kg. permette di intro-
durre nella carotide 20 c. c. in un minuto ed in un cane di 25 o 30 kg. lascia entrare nella
carotide 100 c. c. in 2 0 3 minuti. Quanto alla somministrazione per lo stomaco essa fu
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 39
— 226 —
eseguita con soluzione alla temperatura ambiente cioè a 20° circa, ma ia ricerca deve
essere meglio sviluppata, non interessando quì che il fatto speciale che riguarda la disin-
tegrazione del cervello, mentre ho in corso altre prove circa le condizioni peculiari dello
assorbimento.
Il decorso di questa serie di esperienze, quale risulta dal protocollo di laboratorio è
il seguente :
I. 18 Maggio 1910 — Vecchio cane di razza San Bernardo, pesa kg. 36,500. Alle
17,40 si iniettano nella carotide sinistra c. c. 100 di soluzione NaCl al 0,75% alla tempe-
ratura di 37° si ripete l'iniezione alle 17,51 e di nuovo alle 17,55, non si osserva nessun
fenomeno fuori di qualche atto inspiratorio un po’ più profondo del normale. Alle 18 si
uccide l’animale per insuftlazione d’aria nella giugulare, si decapita per lasciar scolare il
sangue dal cervello e sì estrae dopo 15° l’encefalo che pesa er. 85,85.
II. 6 Giugno 1910 — Cagnetto bastardo pomero adulto, pesa kg. 6,500
Alle 17 si iniettano nella carotide sinistra 20 c. c. di soluzione Clotosodica Al075
70
alla temperatura di 40°, alle 17,10 si ripete l’ iniezione e così alle 17,13, non si osserva
nessun fenomeno motorio, solamente un po’ di dispnea di profondità. Slegato tenta di
fuggire.
Alle 17,15 si uccide il cane con insufflazione d’aria nella giugulare, si decapita e si
estrae il cervello alle 17,55. Esso pesa gr. 62,20.
III. 7 Giugno 1910 — Cagnetto giovane pomero bastardo, pesa kg. 6.
Si iniettano alle 16.40 nella carotide sinistra 40 c. c. di soluzione al 0,75% alla tem-
peratura di 38°, si ripete l’ iniezione alle 16,45 e non si osservano spasmi, nè parziali nè
generali. Si uccide alle 16,50 con insufflazione d’aria, l’animale però reagisce con grida
e cloni forse perche | insufflazione non viene eseguita abbastanza rapidamente. Il cervello
estratto dopo 15‘dalla decapitazione pesa gr. 63,10.
IV. 11 Febbraio 1910 — Grossa cagna setter bastarda, in laboratorio da 6 mesi, pesa
ke. 14,900.
Si prende dalla carotide un campione di sangue di er. 64,35 e si iniettano nel peritoneo
500 gr. di soluzione di NaCl al 0,75%, alla temperatura di 40°, dopo 8° sì iniettano altri
500 c. c. L'animale non manifesta disturbi di sorta. Slegato dal tavolo di contenzione si
fa girare nel laboratorio, non emette urina, resta calmissimo.
Dopo 18° dall’ ultima iniezione si prende dalla carotide un secondo saggio di sangue,
55,90, e dopo 40° del termine dell'iniezione eseguita si estraggono dalla medesima carotide
altri gr. 50,30. Poi si uccide il cane con insufflazione d’aria nella giugulare, si decapita
si estrae l’encefalo, che pesa gr. 87,30.
Nel cavo peritoneale si trovano c. c. 795 di un liquido sanguigno che con confronto
colorimetrico eseguito mediante il sangue del secondo saggio, dimostra di contenere circa
53 gr. di sangue. Esso proveniva da una ferita addominale fatta per errore da chi doveva
eseguire una semplice paracentesi. I visceri addominali erano tutti anemici, il liquido del-
l’addome torbido per grasso sospeso e globuli bianchi.
V. 20 Febbraio 1910 — Cane bracco bastardo, pesa k. 23,200
Prelevati gr. 59,87 di sangue dalla carotide alle ore 16 si iniettano con ago cannula
dalle 1(,30 alle 16,45 a 100 c.c. per volta lentamente nel cavo peritoneale c.c. 500 di
soluzione di NaCl a 0, 75 ‘% alla temperatura di 37°.
L'animale slegato, lasciato a sè, non presenta nulla di notevole. Alle 17,40 si estrag-
gono altri gr. 49,52 di sangue «dalla ‘carotide e si uccide il cane per insufflazione di aria
nella giugulare alle 18.
Nel cavo peritoneale si trovano 280 c.c di liquido sanguigno, tutto il peritoneo è
iperemico, la vescica è piena, l’ intestino contiene molte fecce solide.
Da un’ampia breccia cranica si estraggono gr. 35,71 di sostanza cerebrale e lasciata
— 227 —
a sè la carogna si eseguisce per altro scopo una perfusione dopo 20 ore, nella carotide
del lato opposto a quello della breccia praticata.
VI. 21 Aprile 1911 — Cagna barbona bastarda di kg. 15.
Ha partorito il 1 Marzo 1911 dieci feti a termine, ne ha allattati fino ad oggi 2, gli
altri furono uccisi a diverse scadenze. Mangiava molto. Alle ore 15 si prende un sag2io
di sangue dalla carotide, gr. 36,9, e alle 15,15 si iniettano in via ipodermica ai lati dell’ad-
dome in 2 volte c. c. 200 di soluzione NaCl al 0,9%. Nessun fenomeno si osserva, alle
ore 15,40 sì estrae dalla carotide un altro saggio di sangue di gr. 28,20 e si nota che il li-
quido iniettato è stato assorbito per due terzi circa. Alle 16 si estrae un terzo saggio di
sangue carotideo cioè gr. 71 e si uccide l’animale per iniezione d’aria della siueulare.
Incisa la cute nel ‘luogo delle ipodermoclisi si trova come un tessuto edematoso, che
no lascia uscire fra una parte e l’altra un 30 c.c. di liquido. L’encefalo estratto
dopo la decapitazione, pesa gr. 71,80.
VII. 28 Marzo 1910 — Cagnetta adulta bastarda, pesa kr. 5,500 digiuna dal mattino
alle 7
Alle ore 16 dopo avere preso un saggio di 14 gr. di sangue carotideo, si inietta nello
stomaco con sonda esofagea e si introducono così c c. 290 di soluzione di NaCl al MIO
Un'ora dopo si estrae dalla carotide un altro saggio di sangue, gr. 32,34, e si uccide la
ono con insufflazione d’aria. L° encefalo pesa gr. 66,20; nello stomaco si sono trovati
255 c.c. di liquido che per errore andarono perduti.
Esposti così i dati che segnano le condizioni sperimentali da noi prodotte, riuniamo in
una tabella sola tutti i risultati delle determinazioni chimiche, riservandoci poi di illustrare
separatamente i risultati e dividendoli a seconda della via di introduzione che venne scelta-
È Via oi gr. Ca in grammi 9/4 | Mg in grammi 9/9
S di soluzione | di Na C1 9 }
3 cam assorbita per. Ke. nel sangue nel nel sangue nél
z strazione Rel Kg: di cane ; 3 , È
oz di cane prima dopo cervello prima dopo cervello
| I | carotidea 821 | 0,061 == 2 0,0111 i _ 0.0157
II » TREO 0,069 Era a 0,0164 RA — | 0,0146
III » 13,3 0,099 * = 0,0097 — -_ 0,0155
IV ! peritoneale 17,8 0,129 | 0,00426 0,0042 0,032 0,0041 0,00319 | 0,0183
V » 9,48 | 0,071 |0,00538 | 0,00537 | 0,0138 | 0,0038 | 0,0028 | 0,0162
| 1° 00060 1 | 1° 0,00298 ROSE
VI | ipodermica e 0900/0070 sai 0,0129 | 0,0034 I VOSCIISO
2° 0,0065 2° 0,00387 |
VII | gastrica 6,45 | 0,048 | 0,0050 0,0050 | 0,0066 | 0,0062 | 0,0048 | 0,0143
Le prime tre esperienze con introduzione carotidea diedero veramente un risultato
così chiaro e dimostrativo, che richiede poche parole di commento. Il Mg si è compor-
tato in questi casi come in tutti quelli precedenti, in cui si iniettarono soluzioni concen-
trate e cioè rimase nei limiti perfettamente normali cioè medio fra gli estremi 0,0151 e
medio generale 0,0152, essendo come abbiamo scritto il valore medio normale fra gli
— 293
estremi 0,0155 e il medio generale normale 0,015] ed è abbastanza naturale che ciò sia
avvenuto; dato quanto si è notato nel mio lavoro precedente, aggiungo che questa co-
stanza era facilmente prevedibile.
Quanto al calcio si è trovato veramente meglio di quello che potesse pensarsi.
Abbiamo ottenuto infatti con le perfusioni al 10%, un valore massimo di 0,0091 ed uno
minimo di 0,0073 con una media di 0,0082 fra gli estremi ed una media complessiva di
0,00825 cioè sensibilmente la medesima e nei casi presenti con perfusioni appena al 0,75 ‘4,
si è avuto un valore massimo di 0,0164 ed uno minimo di 0,0097, con una media fra gli
estremi di 0,0180 contro una media normale fra gli estremi di 0,0223 ed una media com-
plessiva di 0,0126 contro la .media complessiva normale di g,01998.
La perfusione adunque di soluzioni al 0,75%, nelle carotidi ha portato una decalci-
ficazione del 37 al 41°, a seconda che il calcolo si fa sulla media complessiva 0 su
quella fra gli estremi e non ostante così grande diminuzione della quantità di Ca nel
cervello la funzione di questo non si è mostrata per nulla modificata.
Se cerchiamo di determinare le condizioni sperimentali corrispondenti al massimo
effetto, troviamo che esse si riferiscono alla massima introduzione di cloruro sodico, che
fu in questo caso di 99 milligr. per kg. d’animale, mentre negli altri due fu rispettiva-
mente di 61 e 69.
Nei casi di perfusioni con soluzioni ipertoniche le introduzioni per kg. di cane erano
state molto più abbondanti, poichè la minima fu di 250 milligr. Ma anche in quella di
1110 milligr. non si ebbero tuttavia convulsioni e pure la decalcificazione del cervello fu
massima.
Dai quali risultati apparisce come non vi sia necessità di introdurre forti dosi di clo-
ruro sodico, nè di introdurre questo sale in concentrazioni molto elevate, perchè la decal-
cificazione avvenga e del resto esperienze che ho affidato a due miei allievi di Labora-
torio Biancone e Catterini hanno dimostrato che la decalcificazione stessa avviene
anche per soluzioni poco concentrate e introdotte in minor quantità.
I,e esperienze IV e V riguardano un altro modo di introduzione, la peritoneale, che
come è noto dà luogo ad un assorbimento molto più lento, quando si tratti di notevoli
quantità di materiale, giacchè in buona parte l’ assorbimento medesimo si compie per
mezzo delle vie linfatiche.
In questi due casi la soluzione introdotta per kg. di animale fu nell’ uno il doppio che
nell’altro e del resto presso a poco nei limiti osservati per le perfusioni. Gli animali fu-
rono sacrificati a diversa distanza dall’iniezione e cioè solamente dopo 45° nel caso della
maggior introduzione e ] ora e mezzo dopo nell’altro caso, sicchè è facile il comprendere
come da un soggiorno due volte più lungo abbia potuto originarsi un assorbimento più
abbondante di liquido e di Na Cl. Ciò in fatto si è verificato perfettamente perchè nel
caso del più breve soggiorno (caso IV) scomparve dal cavo peritoneale e fu quindi assor-
bito il 25,8%, del liquido introdotto e invece nel caso V fu assorbito il 44% cioè quasi il
doppio. Naturalmente una più accurata determinazione come quella che ho iniziato sulla
intensità di assorbimento, richiederebbe anche la ricerca quantitativa del Na Cl rimasto nel
SIONE
cavo peritoneale per poterne inferire più precisamente sulla sua influenza decalcificante.
Io ho parlaio qui grossolanamente di assorbimento della massa iniettata, perchè già
una grandissima influenza deve essere esercitata dalla superficie di assorbimento.
Noi vediamo infaiti dalla tabella, che le prove chimiche eseguite sul sangue non di-
mostrarono nessuna variazione nel contenuto in Ca, si è verificata invece una forte dimi-
nuzione del contenuto in Mg, che dalle esperienze dei Dott. Biancone e Catterini
sarà meglio illustrata con ricerche apposite. Nel cervello la decalcificazione fu nulla o
almeno un effetto notevole si ebbe solamente nel caso del lungo soggiorno mentre nel
N. IV si notò uno dei valori massimi osservati nelle esperienze ncermali.
Ed alta pure si riscontrò la cifra del Mg. anzi nel caso IV fu una delle più elevate
che io abbia mai osservato nel cervello.
Tuttavia una perfusione eseguita per altro scopo nella carotide 20 ore dopo la morte
dell'animale produsse una decalcificazione ulteriore, essendosi trovato 0,0102 di Ca e
0,0155 di Mg del quale fatto in esperienze speciali ha trattato un altro allievo di labora-
torio, il Dott. Maimone.
Conchiudendo sugli effetti della somministrazione endoperitoneale di soluzioni deboli di
Na Cl, dobbiamo dire che esse non producono neunche per forti introduzioni quell’ azione
decalcificante intensa, che abbiamo trovato per le perfusioni, giacené nella media fra i
due estremi non si forma che la cifra di 0,0229, che rappresenta presso a poco la media
normale fra gli estrenii determinata in gr. 0,0226.
Per quanto sì riferisce al Mg mentre non è avvenuta nessuna perdita di questo ca-
tione nei cervelli, che anzi dimostrarono un contenuto molto elevato, si è riscontrata una
notevole perdita da parte del sangue in entrambe le esperienze e cioè nell’ una del 22 °/
e nell'altra del 26%; questo fenomeno è stato notato anche nelle altre prove eseguite nel
«mio laboratorio.
Passando ora alla somministrazione per via ipodermica che è rappresentata dall’ espe-
rimento N. VI, osserviamo innanzi tutto, che tanto la dose della soluzione introdotta,
quanto quella del sale somministrato si mantennero nei limiti ordinari delle altre esperienze.
Un pò superiore fu per la quantità di sale, perchè la soluzione che venne adoperata era
del 0,9 e non del 0,75%.
l’intervallo di tempo trascorso fra l’ipodermoclisi e l’ uccisione dell’animale fu di 45,
come nel caso IV, ma come si è detto 1’ assorbimento era seguito così bene che non si
poterono trovare in luogo che 30 cc. dei 200 che si erano introdotti sicché la soluzione
fu assorbita, quanto a massa nell’ 85.
Il sangue estratto 25° dopo l’ipodermoclisi presentava una decalcificazione del 14%,
e poco prima dell’ uccisione del cane cominciava già a rimettersi, perchè in esso la dimi-
nuzione del Ca, desumendola per confronto col valore normale prima della ipodermoclisi,
non raggiungeva che | 8,4.
Così per il Mg, che nel primo saggio di sangue preso 25° dopo l'iniezione diminuì del
24 %, e invece nel secondo saggio preso 45° dopo lipodermoclisi superava la cifra
normale.
2300
Quanto alla disintegrazione del cervello, notiamo che la cifra di 0,0129 rappresenta
una decalcificazione del 35 sulla media normale complessiva di 0,01998 e per rispetto
al Mg il valore trovato fu certamente un po’ più basso avendo raggiunto gr. 0,0139, mentre
la media normale complessiva fu da noi calcolata in gr. 0,0151, avendosi così una perdita
di 7,9% la quale forse rende conto dell’aumento riscontrato nel Me del sangue, notando
che altri tessuti in tali contingenze possono perdere dei loro Mg. il che non è stato veri-
ficato ancora.
L'ultima prova di queste nostre esperienze è quella di una somministrazione per via
gastrica. Certamente molto incostante deve essere l’ assorbimento in queste condizioni e
relativo allo stato del tubo gastro enterico. Nel nostro caso il cane non aveva mangiato
da 9 ore, doveva quindi avere, come si verificò alla necroscopia, lo stomaco vuoto. Il
soggiorno della soluzione salina nel ventricolo fu di un’ ora, l’ animale non presentò feno-
meni di sorta, ma l'assorbimento della massa parve minimo essendosi ritrovati nello sto-
maco 255 ce. di liquido dei 290 introdotti con la sonda esofagea.
Calcolato così come abbiamo fatto per gli altri l'assorbimento, che da osservazioni in
corso ho veduto verificarsi in modo vario nei vari casi, il cane di prova avrebbe assorbito
solamente ce. 6,45 di soluzione per kg. del suo peso e gr. 0,048 di Na Cl, cioè la dose
minima fra tutte quelle delle altre esperienze.
Il sangue non presentò infatti nessuna modificazione del suo contenuto di Ca, bensì
una diminuzione rimarchevole del Mg e cioè del 22% sul normale.
Nel cervello tuttavia si ebbe un fatto del tutto inatteso e sul quale non voglio qui
pronunziarmi, perchè essendo esso troppo probativo non vorrei che non provasse nulla!
L'animale era in laboratorio da poco tempo, esso poteva quindi essere mal nutrito, ma
il fatto sta che non conteneva che 0,0066 di Ca, di sostanza cerebrale cioè avrebbe
presentato una decalcificazione del 66,9%, calcolata sulla cifra media normale complessiva
di gr. 0,01998.
Un valore di questo genere ed anche più basso io ho trovato in giovani cani di 3 0 4
mesi di età, risultato che esporrò in un prossimo lavoro sulla influenza dell’ età, io non posso
aire affatto che nel caso attuale si trattasse di un animale molto giovine, anzi appariva
senz’altro adulto, era di razza piccola e non poteva esserci equivoco di questo genere,
sicchè fino a prova contraria io credo di poter ammettere che una somministrazione di
Na CI nello stomaco in soluzione al 0,75% può produrre una decalcificazione forte nel
cervello nel termine di un’ora, quando sia fatta in dose di 53 ce. di soluz per kg. di
cane e di gr. 9,59 di Na Cl per kg. di animale.
Riguardo al Mg la differenza trovata non è sufficiente per inferirne qualche dato.
Venendo ora a confrontare gli effetti dei diversi modi di somministrazione, se poniamo
da parte il risultato ottenuto con l'introduzione gastrica sul quale mi riserbo di portare
nuovi contributi, noi vediamo che la decalcificazione del cervello si produce in vario grado
a seconda della rapidità con cui il Na Cl viene in contatto con la sostanza cerebrale,
quando le altre circostanze, quantità del sale, concentrazione delle soluzioni sieno le
stesse.
— 231 —
Infatti la introduzione peritoneale, che dà un assorbimento lento, non riesce a togliere
il Ca dal cervello, come non lo toglie dal sangue, l’ ipodermoclisi dà un effetto notevole,
la perfusione produce le azioni più intense e richiamando i risultati del mio lavoro pre-
cedente faccio osservare che la stessa infusione nelle vene richiese una somministrazione
doppia del sale per produrre tuttavia un grado di decalcificazione inferiore a quello ot-
tenuto con le perfusioni.
Le conchiusioni che si possono ricavare dalle mie esperienze sono quelle che seguono :
I. Il cloruro di sodio in soluzioni dal 0,75 al 0,90%, somministrato per bocca, per
ipodermoclisi, per perfusione nelle carotidi, in dosi da 5 a 10 centigr. per kg. di cane ed
in un intervallo di tempo variabile da 10 a 90 minuti, produce una decalcificazione nel
cervello che varia dal 35 fino al 66%, del Calcio contenutovi.
II La somministrazione endoperitoneale anche di dosi superiori alle sopra dette non
produce questo fenomeno.
III. Mentre, qualunque sia la via di somministrazione, il Na Cl non toglie al cervello
il Mg contenutovi, esso sottrae sempre questo catione al sangue in quantità che giunge
fino al 26%.
IV. Coteste sottrazioni di Calcio al cervello, di Magnesio al sangue, così come furono
prodotte nelle nostre esperienze, non sono accompagnate da fenomeni apprezzabili nel
campo della motilità e della sensibilità.
V. Per queste osservazioni io proporrei il Na Cl per via gastrica, intestinale o ipo-
dermica nella cura dell’arteriosclerosi, nel periodo che precede le alterazioni renali e le
diete declorurate nell’osteomalacia e nel rachitismo.
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NOTA
DEL
eos VORO AMADUAZI
(letta neila Sessiene ordinaria del 23 Aprile 1911).
(cOn 4 FIGURE NEL TESTO)
È noto da parecchio tempo il fatto seguente, messo in rilievo e studiato ampia-
mente da Lehmann (1) specialmente, che se due conduttori in forma di sfere sono
congiunti ai poli di una macchina mossa con continuità, sono affacciati |’ uno all’ altro
e se ne può variare la distanza rispettiva col variare la distanza, la scarica fra le
due sfere passa con una certa continuità atiraverso a quattro stadi consecutivi. Pro-
cedendo da una distanza discretamente grande a distanze di più in più piccole si ha
la scarica per bagliore (Glimmentladung) (2) interessante le regioni limitrofe agli
elettrodi; la scarica arboriforme (Bischel-entladung) pure non continua da un elettrodo
all’ altro; la scarica @ striscie (streifenentladung) costituita da striscie azzurre che
partono dall’ elettrodo negativo e da arborescenze che esse raggiungono e che partono
dall’ elettrodo positivo; la scarica per scintille dapprima meno e poi più numerose.
Come ricordai in una precedente Nota (3), molti anni or sono ebbi occasione di
rilevare che se si varia la distanza fra gli elettrodi collegati ad una buona macchina
mossa molto rapidamente, uno dei quali elettrodi sia una punta smussa e l altro un
disco, le vicende della scarica si accrescono e si modificano in modo da aversi, col
diminuire graduale della distanza fra gli elettrodi, dei quali la punta è positiva ed il
disco è negativo :
Aspetto I. - Fiocco violaceo alla punta, che da questa si diparte attraverso ad
un filamento rossigno.
(1) Wied Ann. XI, 4. 1880.
(2) Feddersen - Pogg. Ann. Iubelband 1874.
(3) Rend. Accademia di Bologna. Nuova Serie, Vol. XIII pag. 112.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
DI
— 234 --
Aspetto II. - Abbondante effluvio violaceo che occupa tutto lo spazio interposto
fra gli elettrodi e che dalla parte della punta si inizia con breve filamento rossigno.
Aspetto III. - Scintille lineari bianche verso il disco e gialle verso la punta.
Aspetto IV. - Effluvio violaceo copioso che sembra il più delle volte rimbalzare
sul disco. Manca del filamento rossigno.
Aspetto V. - Scintille lineari per la massima parte bianche.
Aspetto VI. - Scintille lineari apparentemente ingrossate, bianche agli estremi
prossimi agli elettrodi. e di un color violaceo nella rimanente parte centrale. Sl ha
l’ impressione che questo colore violaceo sia determinato da una semplice guaina.
Aspetto VII. - Scintille lineari bianchissime e nutrite.
Di recente i signori P. Villard ed H. Abraham (1) ebbero occasione di rico-
noscere che il potenziale esplosivo V, agli estremi di uno spinterometro a elettrodi
sferici, meglio se il positivo sia. a piccolo diametro ed il negativo a grande diametro
’
od in forma di disco, poteva, per mezzo di alcune precauzioni, venire sorpassato senza
produzione di alcuna scintilla. Questo accrescimento della tensione è tuttavia limitato, e,
per uno spinterometro dato esiste oltre al potenziale esplosivo V,, un secondo poten-
ziale esplosivo V, che può. essere il doppio del primo, caratterizzato da un regime
tutt’ affatto differente di preparazione della scintilla, la produzione di questa essendo
preceduta, non più dalla apparizione di fiocchi ma dalla formazione sull’ anodo di un
bagliore persistente visibile anche in pieno giorno ».
« Si può anche operare a potenziale costante e far variare la distanza degli elet-
trodi. Si trovano allora per ogni potenziale due distanze esplosive, mentre che non sì
ha mai scintilla per le distanze intermediare. Così, per il primo potenziale esplo-
sivo V,, solo osservato in generale, la scintilla è sotto la dipendenza del fiocco pre-
paratorio e costituisce, in qualche guisa, un accidente che è. possibile evitare. Il
secondo potenziale V,, al contrario, sembra corrispondere ad un fenomeno normale a
preparazione regolare. Fra questi due valori, il regime luminescente è perfettamente
stabile ed una scintilla non è possibile che coll’ intervento di una azione esterna ».
Poichè in nota alla loro Comunicazione i Signori Villard ed Abraham ricor-
davano che « varie osservazioni di Nicholson (1787) di Faraday e di diversi
altri fisici, sulle scariche per bagliore (glowdischage, glimmstrom) e su certi ritardi
alla scarica, si riattaccan sia al fenomeno ben definito descritto, sia ad altri modi di
scarica del tutto differenti » mi permisi (2) in una breve comunicazione all’Acca-
demia delle scienze di Parigi di ricordare le mie citate osservazioni, facendo rilevare
che nel caso di elettrodi a punta ed a disco da me osservati e studiati, la luminosità
superficiale od epipolica dell’ anodo, manìifestantesi per le distanze degli elettrodi cor-
rispondenti ai due potenziali di scintille V, eV,, si traduceva in una luminosità con-
tinua fra anodo e catodo (Aspetto IV).
(1) Comptes Rendus T, 150, p. 1286.
(2) Comptes Rendus T, 151, p. 140.
— 235 —
I due fisici francesi mi risposero (1) come avrebbero dovuto se io avessi asserito
d’ aver primo osservato la luminosità epipolica dell’ anodo, dichiarando questa volta
in modo deciso che il fatto da loro preso in esame era già stato descritto dal Fara-
day e dal Lehmann, che non era più da scoprire nel 1904 all’ epoca delle mie
prime osservazioni, è che essi si eran solo proposti di precisarne le caratteristiche.
Non replicai allora, ma giacchè ora mi se ne presenta l° occasione osservo che
io intendevo come risulta dalla mia Nota, segnalare un fatto (quello della luminosità
continua fra gli elettrodi, sostituente, nel caso di elettrodi a punta smussa e disco,
la luminosità epipolica) da me messo in rilievo, che dava ragione di pensare ad una
variazione di aspetto della scarica col variare della distanza esplosiva piuttosto che
alla esistenza di due potenziali esplosivi.
« Ho considerato il fenomeno — concludevo nella mia Nota — in un modo obbiet-
tivo quale una variazione dell’ aspetto della scarica in corrispondenza di una varia-
zione della distanza esplosiva ».
Comunque, a più riprese mi sono occupato dei caratteri più salienti delle varie
forme di scarica che si succedono al graduale accrescersi delle distanze fra gli elet-
trodi. Particolarmente mi son fermato sulla forma di scarica a lungo fiocco violaceo,
(Aspetto II), come quella secondo me più interessante.
Oggetto di questa Nota è il riferimento di esperienze e misure eseguite :
1° Per indagare come varia il potenziale esplosivo al variare della distanza fra
gli elettrodi specialmente in corrispondenza di quell’ intervallo di distanza per cui si
ha quella determinata forma di scarica a fiocco violaceo o come si suol dire ad
effluvio indicato colla denominazione di Aspetto IV. Ciò principalmente perchè sul
conto di questo aspetto non fu possibile eseguire utilmente col mezzo di una sonda
delle misure sulla distribuzione del potenziale, come si potè fare invece per 1° altro
effluvio violaceo chiamato scarica ad aspetto II.
2° Per stabilire come si modificano le vicende varie di scarica col diminuire
graduale della pressione dell’ aria interposta al disotto della pressione atmosferica.
TE
Pel primo dei due suesposti argomenti di ricerca mi sono servito di un volta-
metro per altissimi potenziali costruito dalla Casa Westinghouse (Pittsbrug. U. S. A)
e munito di una graduazione doppia per differenze di potenziale da 0 a 50000 volta
e da 50000 a 100000. L’ ago in forma di rettangolo, terminato ai lati verticali da
bordi arrotondati secondo piccola curvatura, è sospeso verticalmente, è mobile intorno
al proprio asse verticale e porta un indice orizzontale mobile su di un quadrante
graduato. Esso sente l’ azione di due conduttori arcuati muniti di capacità e collegati
con due reofori ben lunghi e ben protetti da materiale isolante alla loro superficie
(1) Comptes Rendus 1°. 151, p. 177.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 34*
— 236 —
salvo che ai loro estremi da collegare coi due punti fra i quali interessa conoscere
le differenze di potenziale.
Ago e conduttori arcuati si trovano entro una ampia cassa ripiena di ottimo olio
isolante.
Per effettuare le misure, credetti prima conveniente confrontare per i potenziali
più bassi le indicazioni dell’ apparecchio con queile fornite da un voltametro ad ago
verticale di Thomson e per potenziali più elevati a quelle della scintilla equivalente
fra sfere di un cm. di diametro.
Posi poi, dopo i confronti indicati che mi dimostrarono sufficientemente buona per
una prima parte la graduazione dell’ apparechio e mi portarono quindi la fiducia
nella bontà dell’ ultima parte, gli estremi liberi di questa in derivazione sui conduttori
a distanza variabile dello spinterometro, e procedetti alle misure.
Riporto qui sotto due serie di misure riferentesi, la prima al succedersi degli
aspetti dal VII° al IV°, e la seconda all’ aspetto IV seguito per breve tratto dall’ aspetto IIl.
a) Distanza fra gli elettrodi Potenziale esplosivo
dello spinterometro. in Volta.
cm.
1
e e 000
2 cea e
ubi A e A 20000
3 doge cile Dion iec ui 6 30000 spelto VM,
po io ea ei 0000 |
4 RCS
4,5 50000
e 0)
DCR ee Ae 900 I Aspetto VI.
6 56000 |
6,5 63000
TI 000 \spello
e 000
8 CA 0000
So ee e SS 00)
9 uil, iileog e fare ST000
Soi Ae 008
TO 0 LI
Re SOZI0O
Il ee E 000
1,5% e 0000
12 i e e OOO
b) Distanza fra gli elettrodi.
9
9,5
10
10, 5
ll
11,5
12
12,5
13
3,5
14
Potenziale esplosivo.
80000
82000
84000
86000
88000
90000
91000.
93000
94000
97000
più di 100000
Aspetto IV.
cessa
l’ effluvio e
si
hanno scariche a scin-
tilla. Aspetto III.
Rappresentando graficamente l’ andamento dei fatti si ottengono le curve delle figure.
70
60
50
Lo
30
20
L{6)
© }------------------+---------------.---
Leo
ga
Distanze
= 038
La curva della figura 1 riguarda dal suo inizio sino ad A l’ aspetto VII, da A a
B |° aspetto VI, da B a € l’ aspetto V, da C a D l'aspetto IV e più oltre, pel bre-
vissimo tratto considerato, l’ aspetto III.
La curva della figura 2 riguarda dall’ inizio sino ad A aspetto IV netto e puro,
da B a C l’ aspetto III e da A a 2 una condizione di passaggio dall’ aspetto IV
all’ aspetto III.
Non sembra privo di interesse il risultato ottenuto, in quanto esso mostra per la
100 mula lotta
90
80
fase dell’ effluvio ad aspetto IV una variazione del potenziale esplosivo proporzionale
alla variazione della distanza.
Ciò fa pensare ad una caduta di potenziale lungo la scarica ad effluvio sensibil-
mente proporzionale alla lunghezza di questo.
La qual cosa merita di essere ravvicinata alla osservazione da me fatta (1) a
(1) Rend. Acc. Bologna Il. c.
= Sggg e
proposito dell’ aspetto IV, che cioè la scarica avente questo aspetto si mostra allo
specchio girante a circa 600 giri al minuto, dotata di una continuità che non si rin-
viene invece per gli altri aspetti della scarica.
O0E,
Per ciò che concerne il secondo degli argomenti di ricerca che formano oggetto
di questa Nota ho dovuto ricorrere al dispositivo sperimentale seguente.
y E B
“@«--:;--«« rr eesosa
Fig. 3.
8S__ Al manometro
i f
Alla pompa
Un pallone di vetro quale è rappresentato dalla fig. 3 è attraversato in corri-
spondenza di tre aperture, chiuse poi a perfetta tenuta d’ aria con mastice fusibile :
1° da un conduttore terminante verso l’ interno con un disco G a contorno
arrotondato e verso l’ esterno con una sferetta metallica.
2° da un tubo di vetro C aperto verso 1’ interno del pailone, chiuso all’ altro
estremo mediante un cappelletto metallico, cui, internamente al tubo, è saldata una
i e
spirale di ottone. Questa spirale si continua entro un altro tubo di vetro £ di dia-
metro un po’ più piccolo del diametro di €, introdotto e mobile in questo, chiuso in
F da una punta smussa di alluminio alla quale è saldato 1 estremo libero della
spirale.
3° da un tubo di vetro I munito di rubinetto a tre vie che ne consente la
comunicazione con un manometro o con una pompa pneumatica
Come è faciie intendere, con piccole scosse date al sistema si possono avvicinare
od allontanare più o meno la punta X ed il disco G che per mezzo degli estremi
metallici D ed M possono collegarsi ai conduttori della macchina elettrostatica. La
distanza fra f e G può misurarsi in ogni caso con riferimento ad una scala milli-
metrata incollata sul tubo © e sulla quale si legge la posizione dell’ estremo N di £.
Si tratta dunque di uno spinterometro a distanza variabile fra i conduttori, col-
locato in un ambiente del quale mediante il tubo ZL può variarsi la rarefazione. La
pressione dell’ aria nell’ ambiente può poi misurarsi facilmente mediante un manometro
a mercurio.
Gli estremi M e D dei conduttori dello spinterometro venivan collegati durante le
esperienze coi conduttori della macchina di Holtz, e mediante un interruttore oppor-
tuno si poteva mettere su di essi in derivazione uno spinterometro a vite micrometrica
con sfere di ottone aventi il diametro di un cm.
Questo per fare, per mezzo della scintilla equivalente, delle misure di differenze
di potenziale.
Il voltametro usato per le scariche nell’ aria alla pressione ordinaria, mostrava di
perturbar troppo il regime delle scariche medesime allorchè queste si producevano in
ambiente rarefatto. Per tale ragione dovè essere abbandonato e sostituito dal vecchio
sistema della scintilla equivalente.
I risultati ottenuti vengono riassunti come segue :
a) Dalla pressione atmosferica sino ad una pressione di circa 45 mm. le
vicende della scarica si mantengono alla stessa maniera come furon già descritte.
b) Alla pressione di 440 mm. sì hanno, a partire dalla distanza. massima fra
gli elettrodi ottenibile nel tubo di scarica, i seguenti aspetti, a proposito dei quali
sì indicano le distanze fra i conduttori.
— 241 —
Distanza fra gli elettrodi i
Aspetto della scarica
mm.
145 effluvio violaceo filiforme debolissimo.
105 ancora cc. S.
(49) effluvio violaceo più intenso.
30 CS
20 effluvio rossigno.
10 ancora eftiuvio rossigno.
19) effluvio rosso violaceo.
c) Alla pressione di 290 mm. si hanno i seguenti aspetti :
Distanza fra gli elettrodi ;
Aspetto della scarica
mm.
145 effluvio violaceo debolissimo e filiforme.
100 effluvio violaceo debole e diffuso.
65 CHASE
45 effluvio rosso violaceo più tendente al rosso.
20 effluvio paonazzo.
To
10 , effluvio violaceo.
d) Alla pressione di 210 mm.
Distanza fra gli elettrodi x
i ica NET Aspetto della scarica
mm. Li
145 efHluvio violaceo.
110 effluvio violaceo diffuso.
85 CS.
T0 effluvio rossastro.
50 effluvio rossastro debole.
40 CHASI
30 fiocco rossastro alla punta.
20 \
10 effluvio violaceo.
6
e) A pressioni variabili da 160 mm. ad 85 mm. si hanno tre fasi principali
almeno sino alla massima distanza fra gli elettrodi sperimentata. Per piccola distanza
d (variabile come diremo colla pressione) fra gli elettrodi si ha una scarica diffusa
rosso violacea. Per distanza maggiore si ha un fiocco rossigno alla punta. Per di-
stanza più grande ancora D (variabile colla pressione) si ha un effluvio pressochè
filiforme rossigno nelle regioni prossime agli elettrodi e di un color viola nella regione
mediana.
Il massimo valore di d ed il minimo di D variano colla pressione per modo che
il primo diminuisce col crescere della pressione e 1’ altro aumenta. Questo aumento
avviene in modo più rapido di quel che non avvenga la diminuzione, come indica il
seguente prospetto.
Pressione CE Gori D min.
85 mm. CMARZIO gu II
110 mm. cm. 2 CM 4,
— 243 —
f) A pressioni comprese fra i 90 mm. ed i 30 mm. sì possono osservare due
sole fasi di scarica, per le distanze possibili fra gli elettrodi. Esse si possono ritenere
le prime due considerate nel paragrafo e). Per piccole distanze d fra gli elettrodi si
ha la scarica diffusa rosso violacea e per distanze maggiori si ha il fiocchetto rossi-
gno alla punta.
Il massimo valore di d diminuisce col crescere della pressione nel modo seguente
Pressione d mass.
30 mm. GIMMINS
45 mm. CM, 9,2
65 mm. CINANO O
Rappresentando graficamente la variazione colla pressione del massimo valore di d
Distanze
(0) to 26 do So 50 60° fo 80 90 itc0 no 120 UREON
si ottiene la curva della fig. 4 se ai valori considerati in questo paragrafo sì aggiun-
gono anche quelli considerati nel paragrafo precedente.
Concludendo, la scarica assume vicende discretamente nette alla pressione ordi-
naria ed a pressioni non molto lontane da questa. Per certi valori più bassi della
pressione essa mostra una variabilità meno precisa.
— 244 —
Finalmente, per valori ancora più bassi essa mostra per le distanze sperimentate,
alcuni aspetti ben definiti e accenna a seguire nella variazione di elementi caratte-
ristici di questi aspetti, delle regole ben determinate.
Si direbbe che fra la pressione di 450 mm. e quelle di circa 200 si sovrappon-
gano e si confondano il regime di scarica alla pressione atmosferica e quella di
scarica a bassa pressione.
Non sembra tuttavia fuor di luogo notare, per le osservazioni fatte alle pressioni
da 440 a 210 mm,, l’ apparizione di una scarica ad effluvio rossastro a distanze di
più in più grandi col crescere della distanza fra gli elettrodi (20 mm. per la pres-
sione di 440 mm; 45 mm. per la pressione di 290 mm.; 70 mm. per la pressione
di 210 mm.).
CONDUCIBILITÀ ED ISTERESI FOTOELETTRICA
DI
MISCELE ISOMORFE SOLEO-SELENIO. È SELEMO-TELLURIO
NOI
LAVORO AMADUZZI e MAURIZIO PADOA
(letta nell’ Adunanza del 21 Maggio 1911)
(CON UNA FIGURA NEL TESTO)
1. Riferiamo brevemente in questa Nota i principali risultati ottenuti da una serie di
ricerche intraprese sul comportamento fotoelettrico, (in ordine alla variazione di conduci-
bilità elettrica per illuminazione) di cristalli misti dei sistemi binari solfo-selenio e selenio-
tellurio. |
Si trattava di vedere se e come lo solfo ed il tellurio rispettivamente, modificassero
le note proprietà del selenio cristallino mescolandosi ad esso con formazione di soluzione
solida. Abbiamo a tal fine studiata la variazione della conducibilità elettrica delle miscele
coila illuminazione, e la variazione nel ritorno all’ oscurità, per rilevare i caratteri di una
eventuale isteresi.
Inoltre abbiamo studiata la variazione col tempo della conducibilità delle miscele
soggette ad una determinata illuminazione, nonchè la variazione col tempo della condu-
cibilità medesima dal momento dell’ oscuramento successivo a tale illuminazione.
Le miscele studiate venivano opportunamente preparate in celle costruite con fili di
rame su steatite, materiale questo di facile lavorazione e di buona resistenza alla tem-
peratura cuì dovevano essere portate le iniscele per provocarne la cristallizzazione.
2. Miscele solfo-selenio. — Dagli studi di Ringer (1) su questo sistema binario
risulta che per un contenuto inferiore al 90 atomi ‘ circa di selenio si hanno dei cristalli misti
in forme diverse da quella del selenio metallico, epperò era da prevedersi che solo entro
questi limiti si sarebbero potute avere miscele sensibili alla luce. Infatti abbiamo constatato
0
che una cella formata con una miscela contenente 80,04 atomi ‘“, di selenio aveva debole
conducibilità ed era assolutamente insensibile.
(1) Misebkrystalle von Lehwefel und Selen, Zeitschrift fir Anorganische Chemie 32, 183.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 35
— 246 —
Abbiamo eseguite misure su miscele della seguente composizione :
a) 1)
Solfo 11,01 atomi % Solfo 4,116 atomi %
Selenio 88,99» >» Selenio 95,884» »
La sensibilità, espressa mediante il rapporto fra la conducibilità al buio e quella im-
mediata per la illuminazione a 81 Lux risultò rispettivamente di 1,20 e 3,6 in relazione
diretta quindi al contenuto in selenio.
La curva di variazione della conducibilità colla illuminazione mostra nettamente come
la miscela 0) abbia ancora una marcata sensibilità alle variazioni nel campo delle luci
forti, mentre la curva corrispondente alla miscela a) mostra molto piccola la sensibiltà
di questa per tali luci.
Notevole, a proposito di queste miscele solfo-selenio, è il fatto che nel ritorno per
gradi alla oscurità dopo una graduale illuminazione appariscono per la miscela @) valori
delle conducibilità inferiori a quelli misurati, nella fase di illuminazione, mentre che per
la miscela 2) si ha comportamento inverso. Il che fa ritenere che una miscela a com-
posizione intermedia potrebbe mostrare valori di conducibilità per la fase di oscuramento
coincidenti con quelli delle fasi di illuminazione. Su questo ci proponiamo di esperimentare
ancora perchè ci sembra che non sarebbe privo di interesse trovar modo, coll’ aggiungere
solfo a selenio, di eliminare quel fatto di isteresi che nel selenio è discretamente pronunciato.
3. Miscele selenio-tellurio. — Secondo le ricerche di Pellini e Vio (1) il selenio
ed il tellurio sono completamente miscibili tanto allo stato liquido quanto allo stato solido.
Per ora noi abbiamo esaminate le miscele sino al contenuto in tellurio di 6,513 atomi %.
Ordiniamo qui le miscele studiate (e denominate secondo |’ ordine di preparazione) in serie
per la decrescente loro sensibilità alla luce.
Si esprime anche per esse tali sensibilità mediante il rapporto fra la conducibilità al
buio e quella immediata per una illuminazione a 81 Lux.
Miscela I Sens, 2,18
Ne ROSS
0,553 atomi %
Miscela III » Ioi®
Re/AMEL9N
0,935 atomi ‘
Miscela IV » 1,31
Me 2409
1,967 atomi %
(1) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei 1906, II. 46.
Miscela II Sens. ; 1,15
l'e 4% 3,899
2,384 atomi %
Miscela V » TATO
Te % 6,008
3,870 atomi %,
Miscela VI » 1,08
L'eR/AAl0:09)1
6,513 atomi %,
Come apparisce chiaramente la sensibilità delle miscele va decrescendo al crescere
del contenuto in “ di tellurio.
La variazione rispettiva della sensibilità e del contenuto in © di tellurio viene bene
rappresentata dal diagramma, sul quale lungo l’ asse delle ascisse si rappresenta il per
cento di tellurio e lungo |’ asse delle ordinate la sensibilità misurata.
I II IV ua VA VI
Gomp. delle VI miscele
Se la sensibilità alla illuminazione debole segue regolarmente la composizione, non
avviene altrettanto per le variazioni di illuminazione nel campo deile luci forti. Ciò porta
a distinguere le varie celle da noi preparate colle indicate miscele, per una differente
durezza, secondo la nota locuzione di Ruhmer. Dalle nostre misure tali celle appariscono
di crescente durezza nel seguente ordine :
IL IV, 08 II, VI, V.
4. Miscele solfo-tellurio. — Data la posizione chimica intermedia del selenio fra
il solfo ed il tellurio tentammo di rinvenire in una miscela solfo-tellurio la proprietà
fotoelettrica del selenio, ma con esito completamente negativo.
5. Le osservazioni relative alle isteresi delle miscele selenio-tellurio e quelle sulla
variazione della conducibilità col tempo non presentano tale interesse che giustifichi la
esposizione loro in questa brevissima Nota preliminare.
Crediamo opportuno dichiarare che in questo lavoro, della parte fisica si è occupato più specialmente
L. amaduzzi e della parte chimica più specialmente M. Padoa.
AVANZI DI “ TURSIOPS., DEL PLIOCENE SENESE
MEMORIA
DEL
Prof. VITTORIO SIMONELLI
(letta nella Sessione del 28 Maggio 1911).
CON UNA "l'AVOLA
In una pubblicazione mia giovanile sopra il territorio di San Quirico d'Orcia in pro-
vincia di Siena (1) decantai l’abbondanza straordinaria di avanzi di vertebrati — di pesci,
la più parte, ma di testuggini anche e di coccodrilli e di delfini — che avevo riscontrati
in una porzioncella limitatissima del Pliocene locale; nei sodi di Selvapiana, situati a
mezza costa della pendice che da San Quirico scende al torrente uoma, subito a
sinistra della strada romana. Mi si consenta di ricordare che giusto nelle argille glau-
conifere a Pecten hystrio e ad Ostrea cochlear di Selvapiana, insieme a migliaia e
migliaia di resti di selaciani, mi capitò di raccogliere il bellissimo dente di Pthyckhodus
che il Meneghini si degnò di presentare in mio nome alla Società Toscana di Scienze
naturali, segnalandolo come il primo e l’unico trovato sino a quel tempo in terreno
dichiaratamente neogenico (2).
Da una località poche centinaia di metri distante da Selva piana, dai sodi del podere
detto « Palazzo » costituiti pur essi di argille glauconifere a Pecten hystrix e ad
Ostrea cochlear, ho avuto in questi ultimi tempi una serie copiosa di ossami e di denti,
trovati tutti lun presso l’altro, che senza difficoltà si davano a riconoscere come spettanti
a un grosso delfinide. Disgraziatamente le ossa eran quasi tutte in miserevolissimo stato;
per colpa, principalmente della marcasite onde un tempo dovettero essere impregnate,
e che alterandosi determinò in seguito la formazione di selenite, a spese soprattutto della parte
calcarea delle ossa medesime; come pur troppo quasi sempre accade per gli avanzi dei
cetacei e dei sirenoidi in questa sorta di crete, immancabilmente cosparse di monete del
diavolo e di rose di gesso. Fu solo possibile, con molta pazienza, ricomporre mercè tali
avanzi buona parte di un teschio e un atlante quasi completo; si dovette rinunziare al
(1) V. Simonelli. I dintorni di S. Quirico d’Orcia. Boll. d. R. Com. Geol. It., 1881.
(2) Proc. verb. d. Soc. ose. di Sc. Nat. residente in Pisa. Adunanza del 14 marzo 1877.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 36
— 250 —
ristauro di numerose altre vertebre, costole ecc., di cui non si avevano che frammenti di
poco conto. Ma già il teschio e l’ atlante eran bastevoli per indicare che sì trattava con
sicurezza di un delfino spettante al genere 7ursiops, non però identificabile con alcuna delle
tre specie di questo genere segnalate per l’ innanzi nel Pliocene (1). Da ciò 1’ opportunità
di darne notizia, come mi provo a fare nelle pagine seguenti.
Abbiamo potuto ricostruire interissimo il rostro e ricomporre soddisfacentemente la
regione supero-anteriore del cranio, compresa fra le apofisi preorbitarie e la sutura fronto-
occipitale: eccetto un’ampia breccia mediana dei premascellari, che ci porta via tutto il
margine anteriore degli orifizi nasali, e un’altra breccia, pure irrimediabile, che cì fa
perdere tutta la porzione postorbitaria del mascellare e del frontale di destra. Oltre i
mascellari e i premascellari, nell’avanzo da noi ristaurato figurano ambo gli jugali, tutto
il frontale sinistro, il mesetmoide, i nasali, una piccolissima parte del parietale sinistro e
una porzioncella anche del palatino pure di sinistra. Salvo queste ossa, non cì resta del
cranio che un mucchio di scheggiuole, fra cui neppur due che tornino bene una all’altra.
In ogni modo, abbiam capisaldi abbastanza per una istruttiva comparazione craniolo-
gica del Tursiops del « Palazzo » con le forme congeneri plioceniche e attuali (2).
Ecco, per cominciare, le principali misure del nostro avanzo:
Lunghezza massima, dall’apice del rostro alla sutura fronto-occipitale, mm. 535
Lunghezza massima del rostro, dall’ apice alla retta tangente i mar-
gininposteriori delle tacche Mpreorbita rie RSA 005
Larghezza massima del rostro, da margine a margine interno delle
racche: preorbitaneni.! Sage Seno
Larghezza fdel#rostro ‘a tmetazdell'afsuaglunoh'ezza eee e e 0
Proporzionatamente al diametro longitudinale del cranio, misurato fra la punta estrema
(1) Nel Catalogus' Mammalium di Trouessart (Berlino, 1898-99, ©. II, pag. 1029) sono
indicate soltanto due specie plioceniche del gen. Z'ursiops: 7. Cortesiù Desmoul., comprendente una
varietà astensis Sacco; e T°. Brocchii Balsamo Crivelli. Conviene aggiungere una terza specie :
T. Capellinii Sacco, di cui non si fa cenno dal Trouessart neppure nel supplemento ultimo del
Catalogus pubblicato nel 1904: specie pur dimostrata validissima, oltrechè dall’ ampia illustrazione
datane dal Sacco stesso, dagli studi posteriori di Alberto Del Prato.
(2) Grazie all’ usata liberalità del Sen. Capellini, mi son potuto valere, pei confronti, del ric-
chissimo materiale cetologico radunato nel Museo di Bologna. Quivi ho avuto a disposizione : pel Z'ursiops
Cortesti, i modelli in gesso del cranio e dell’ atlante del classico esemplare cortesiano della V’orrazza ;
pel 7. Brocchii gli avanzi importantissimi descritti dal Capellini nella sua memoria sui Delfini
fossili del bolognese (Mem. dell’ Acc. d. Sc. d. Istit. Bol., 1. III, Serie II, 1864) più un magnifico
scheletro, non ancora illustrato, proveniente dal Pliocene di Orciano; e infine, pel 7. Z’ursio, un bel
cranio donato al Capellini quasi mezzo secolo addietro dall’ illustre suo collega Calori. — Pel 7.
Capellinii mi son dovuto riferire alle descrizioni e alle figure date dal Sacco (Delfino pliocenico di
Camerano Casasco, Mem. della Soc. It. delle Sc., tomo IV, serie 3%, N. 5. Napoli 1893) e da Del
Prato (Il Tursiops Capellinit Sacco del Pliocene piacentino, Palaeonthographia italica,
VOlSIUNPgeisan 397%
-- 251 —
del rostro e la sutura fronto-occipitale, il rostro viene ad avere circa la stessa lunghezza
che ha nel 7. Brocchii (Bals. Criv.) se mai qualcosa in più che in meno. Risulta invece
sensibilmente più corto che nel 7. Cortesi (Desmoul.) e nel 7. tursio (Fabr.) e, all’ in-
contro, più lungo, ma di molto, che nel 7. Capellinii Sacco.
Considerato il rostro isolatamente, e preso come unità di misura 4» della sua lun-
ghezza, otteniamo, comparatamente alle altre specie già nominate, le cifre seguenti :
Larghezza del rostro alla base Larghezza del rostro nel mezzo
Esemplare di S. Quirico 49 Sil
TCA 5Il DO
UPON. 51 290
LC I 7 43
MB SONE i. . 50 29)
Proporzioni, come si vede, discordanti pìù o meno da quelle di tutte le altre forme
messe a confronto; ma sopratutto marcatissimamente diverse da quelle che si rilevano nel
Tursiops Capellinii.
Veniamo ad esaminare partitamente il nostro esemplare.
Nella porzione rostrale il margine esterno dei mascellari esordisce notevolmente con-
vesso; ma è così per un tratto brevissimo, fino a non più di una cinquantina di millimetri
dal margine posteriore delle tacche preorbitarie. Indi in poi corre quasi rettilineo fino
a pochissima distanza dalla punta del rostro. Solo una trentina di mm. prima di questa,
piega bruscamente verso l’indentro, per andare a battere e a terminare contro il margine
esterno dei premascellari, che spingonsi da soli per circa 10 mm. oltre il confine estremo
dei mascellari predetti, e da soli costituiscono il mucrone terminale del rostro.
Come il margine esterno, si mantiene pure quasi rettilineo, per la massima parte della
sua lunghezza, il margine con che i mascellari confinano coi premascellari nella faccia
superiore del rostro: press’ a poco così come accade nel Tursiops Cortesii, nel T. Brocchii,
nel 7. fursio, e a differenza, aggiungiamo, di quel che si riscontra nel 7. Capellinii. Di
quest’ultima specie sappiamo infatti esser caratteristica la conformazione del rostro 0r-
copsoidea, risultante, oltre che dalla inarcatura verso l’ esterno del margine libero dei ma-
scellari, dall'andamento sinuoso del margine esterno dei premascellari, stretti nella regione
posteriore, dilatati nella mediana, di nuovo tornanti a ristringersi nella regione an-
teriore.
Sempre nella faccia di sopra, i premascellari mantengono per quasi tutto il loro de-
corso, larghezza uguale, o, se mai, un tantino inferiore a quella dei mascellari. Nei due
terzi posteriori del rostro son quasi piatti e si elevano di pochissimo sulla superficie pure
pianeggiante dei mascellari; nel terzo anteriore, invece, i premascellari appaiati offrono, in
senso trasversale, una pronunziata convessità, raccordantesi a dritta e a sinistra con la
superficie pronunziatamente declive dei mascellari contigui.
—iRb2k=
Trattandosi di un avanzo deformato come il nostro, non è il caso d’insistere più oltre
su minuti particolari di questa sorta: particolari del resto, che ben poco significherebbero
anche se rilevati sopra un esemplare perfettissimo. Si sa ormai troppo bene come nei Del-
finidi in generale la forma del rostro e l’andamento della linea di confine tra mascellari e
sopramascellari variino non soltanto da specie a specie, ma da individuo a individuo, se-
condo il sesso e l'età.
Il buono è per noi nella faccia inferiore del rostro. Dirò di volo che la superficie pa-
latale dei singoli mascellari, salvo il terzo posteriore, dov’è il forte rilievo che si raccor-
dava coì palatini, sì mostra uniformemente piana, o appena appena convessa in senso tra-
sversale; senza traccia nessuna di solchi longitudinali, sul genere di quelli che immanca-
bilmente si riscontrano nei veri e propri De/prinus. Quel che più importa è che i mascel-
lari ci lascian vedere completa la serie degli alveoli dentari. Nel mascellare destro, ch? è
il meglio conservato, si contano distintissimi non meno di 21 alveoli, che insieme ai pon-
ticelli ossei frapposti, occupano un tratto lungo all’ipcirca 270 mm ; spingendosi | nltimo
alveolo fino a soli 50 mm. dalla base del rostro, molto più indietro cioè che non sì spinga
l’ultimo alveolo mascellare del 7 Cortesiù e del 7. Brocchii. Nell’ esemplare di 7. Cortesii
del Museo di Milano, che ha il rostro lungo esattamente come quello del 7° di S. Quirico,
l’ultimo alveolo rimane circa 90 mm distante dalla base. Nel 7. Brocchii di Orciano
l’ultimo alveolo è distante dalla base 115 mm., pur essendo la luughezza del rostro solo
di circa !%» più grande che nel Tursiops di Val d° Orcia.
È da ricordare come fra i Tursiops viventi nei mari odierni e i 7ursiops fossili riscontrati
fino ad ora nei sedimenti pliocenici d’Italia, corra una differenza che certo esce fuori dal-
l’orbita delle variazioni individuali dipendenti dal sesso o dalla età. Nel 7. Cortesii, già
disse il Balsamo Crivelli (1) che «il numero dei denti in totale dev’ essere di cinquan-
tasei, ventotto per mascella e quattordici per ogni lato ». Nel 7. Brocchii i denti non
son più di sedici per ciascun ramo della mandibola e non certo più di diciassette per ogni
lato della mascella. Nel 7. Capellinii finalmente, i denti sarebbero, secondo il Sacco, circa
16 nei mascellari superiori e circa 15 nelle mandibole. All’incontro nei 7’wrsiops viventi
i denti vanno, secondo Flower (2) da %, a *4.. Abbiamo dunque nell’avanzo trovato a
San Quirico il primo esempio di 7ursinps pliocenico a denti conformi per numero (e, ve-
dremo in seguito, anche per dimensioni) a quelli delle congeneri specie attuali.
Delle rimanenti parti del teschio poco sapremmo dire oltre quello che dicon da se le
nostre figure. Ci limitiamo a far notare come le tacche o insenature preorbitarie sian qui
considerevolmente più profonde e più anguste ed assai più nitidamente scolpite che nel
Tursiops tursio e nel 7°. aduncus viventi, e piuttosto sì rassomiglino con quelle del 7°. Cor-
tesii e del 7. Brocchii. Notiamo pure come la squama posteriore dei mascellari si spinga
(1) Memoria per servire all’ illustrazione dei grandi mammiferi fossili esistenti nella I. R. Gabi-
netto di S. Teresa in Milano, ece. Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di Se. Lett. ed Arti, Tomo II.
Pag. 130 — Milano 1842.
(2) On the Delphinidae. Proc. Zool. Soc., London, November 1883.
— 253 —
fin vicinissimo al confine anteriore del sopra-occipitale e dei parietali — non tanto vicino
come nel 7. Cortesii, ma certo più assai che nel 7. tursio e nel 7. Capellinii -- deter-
minando così una forte riduzione in larghezza della zona costituita dagli adiacenti fron-
tali: come il margine esterno dei mascellari stessi, circa a metà del suo tratto post-orbi-
tario, offra una brusca, pronunziatissima insenatura, cui sì accompagna una forte conves-
sità della superficie della lamina mascellare: insenatura che non si riscontra nel 7. Ca-
pellinii, dove, a giudicar dalle figure date dal. Sacco, l'arco regolarissimo formato dal
margine esterno dei mascellari nel tratto postorbitario, si raccorda perfettamente con la
curva descritta dalla sutura fronto-mascellare; che neppure si riscontra nel 7. fursio e
nel 7. aduncus, dove anzi ì mascellari, invece di ristringersi come nel caso nostro, pre-
sentano nella regione postorbitaria una sensibile dilatazione; e che solo pare accennata
nel Tursiops Cortesii. Notiamo finalmente che i nasali formano accoppiati una unica emi-
nenza, piuttosto stretta e allungata, fiancheggiata da due fosse profonde, giusto come nel
T. Cortesiù ora detto.
Il ramo sinistro della mandibola si può dire perduto; solo ce ne restano poche, insi-
gnificantissime schegge, che non è possibile riassestare. Del ramo destro ci rimane invece
discretamente conservata una buona metà — l'anteriore — nel troncone rappresentato
dalla fig. 5.
Quel troncone misura mm. 230 di lunghezza, circa mm. 40 di massimo diametro ver-
ticale, e circa mm. 28 di massimo diametro trasverso. La porzione sinfisiaria si estende
dall’avanti all’ indietro pressa poco per 65 mm. e misura in diametro verticale poco più
di 30 mm. Per tre quarti della sua lunghezza — a cominciar dall’ estremo anteriore — il
troncone in discorso si mostra distintamente inarcato verso l’ esterno, ma nel quarto po-
steriore diventa invece convesso verso l’interno. Superiormente offre ben chiari sedici al-
veoli, dei quali i sei primi anteriori vanno gradatamente crescendo in larghezza dall’ avanti
all’indietro, mentre i posteriori, a cominciare dal dodicesimo, dall’avanti all’ indietro sem-
brano andare man mano rimpiccolendo. Vario, ma ragguardevole sempre è lo spessore
dei ponticelli ossei che intercedono tra alveolo ed alveolo; fra quelli in specie della metà
posteriore del troncone ve n° ha che uguagliano e magari che sorpassano il diametro degli
alveoli contigui. I sette alveoli dall’ottavo al quattordicesimo, in media non più larghi di
9 mm. ciascuno, son distribuiti sopra un tratto lungo all’incirca 110 mm.
Lo spessore considerevole dei diaframmi interalveolari raccosta la mandibola del Twr-
siops di San Quirico alle specie fossili già note nel Pliocene italiano, piuttosto che al
T. tursio attuale, dove i detti diaframmi son quasi papiracei: tanto che nell’ individuo del
Museo Capellini i sette alveoli dall’ottavo al quattordicesimo, benchè larghi all’ incirca
come quelli del nostro esemplare, capiscono tutti in un tratto di 8 centimetri appena.
Arguendo dalla situazione dell’apofisi postorbitaria del frontale la situazione che do-
vette avere nel contiguo squamoso la superficie destinata ad articolarsi con la mandibola,
possiamo calcolare che la mandibola stessa raggiungesse una lunghezza di circa 44 centi-
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 36*
— 2504 —
metri. Dato che la regione alveolare raggiungesse nella mandibola circa la stessa lunghezza
che ha nei mascellari. cioè 27-28 cm., e stesse quindi rispetto alla totale lunghezza del-
l’osso nel rapporto di 64:100, ci risulterebbe una differenza notevolissima in confronto
sia del 7. tursio e del 7. Brocchii, dove tale rapporto è rispettivamente di 46: 100 e di
47:100, sia del 7. Capellinii e del T. Cortesii, dove la lunghezza del tratto dentigero
pareggia o quasi la lunghezza del tratto disarmato.
Dei così detti ossi dell'orecchio abbiamo potuto ricuperare, discretamente conservati,
il periotico destro (fig. 6-8) ed ambo i timpanici, destro e sinistro (fig. 9 e 10).
Notoria è l’importanza che a tali ossi viene attribuita nella sistematica dei cetacei;
ma purtroppo difettano pel caso nostro gli opportuni termini di confronto. Nulla infatti
sappiamo dell’apparato uditivo del Tursiops Cortesii e pochissimo di quello del 7. Capel-
linii. Circa quest’ultimo il Sacco (1) ci da soltanto una minuscola fotografia, che a me
sembra rappresenti la cassa timpanica destra, vista dalla faccia inferiore; ad ogni modo
una figura che non sì presta a confronti. Neppure possiamo aiutarci molto con le informa-
zioni che ci fornisce il Del Prato (2) intorno al timpanico e al periotico del bellissimo
esemplare di 7. Capellinii trovato nella valle dello Stramonte; limitandosi il Del Prato
a dare le principali dimensioni della cassa timpanica e a farci sapere che il periotico
« sì accorda perfettamente per forma e per dimensioni con la figura 1 della Tav. LX
del Gervais » (3). Unicamente del 7. Brocchii ci è noto a sufficenza l’apparato in di-
scorso. Oltre la cassa timpanica descritta e figurata dal Capellini, quasi mezzo secolo
addietro, nella già citata memoria sul delfino di San Lorenzo in Collina, ci è dato esami-
nare direttamente il periotico destro completissimo e ragguardevoli avanzi dei due tim-
panici, pertinenti al magnifico scheletro di 7 Brocchii, venuto al Museo Capellini dal
Pliocene di Orciano. Questo per ciò che riguarda le forme fossili. Circa le attuali non
abbiamo altro materiale di confronto che l'apparato uditivo del 7. tursio e quello del
Delphinus delphis, forniti entrambi dalla collezioncina osteologica che pure fa parte dello
stesso Museo.
Nella tabella seguente sono indicate le principali misure dei cetoliti spettanti al del-
finoide del « Palazzo » (I) e di contro quella degli ossi corrispondenti del 7’ursiops Broc-
chii, del T. Capellinii, del T. tursio e del Melphinus delphis -
(1) Z2 Delfino pliocenico di Camerano Casasco. Vav. II, fig. 16.
(2) Op. cit., pag. 5:
(3) Il cetolite rappresentato dalla fig. 1 della Tav. LX dell’Ustéographie des Cétaces, è indicato
nella spiegazione di quella tavola come cassa uditiva destra di Delphinus, trovata a San Frediano in
l'oscana.
Periotico I II III IV \i (VAL
Lunghezza massima fra le estremità
delle due apofisi anteriore e po-
SUCLHIOLC IMMA Ot e Ano) — 38 — 35 2109
Diametro trasversale deila faccia
superiore nella parte mediana . » 15 = 14 = 15 7
Massimo diametro supero-inferiore
della faccia interna, fra il mar-
gine superiore dell’ orificio udi-
tivo interno e il lato interno
della faccia superiore . . . . >» 9 _ 10 = a
Diametro trasversale dell’apofisi an-
fegioregalla@nas ceo 1355 — 13,5 — 13 ll
Diametro massimo della faccia in-
terna dell’apofisi posteriore, de-
stinata a connettersi col timpa-
DIGO I I HE ll = 155 = 14 10
®
Timpanico
Lunghezza massima, fra il colmo
del lobo posteriore esterno e
l'estremo anteriore. < . . . » 34 37,9 = = 39 32
Lunghezza a partire dall’ insenatura
trai lobi posteriori... e. è 31 33 — 4 O 30
Larghezza massima della porzione
Blopata-eneee e rnina l'o;St 201 > —_ 24 21 15
I. Tursiops del Palazzo. — II. 7. Brocchii (S. Lorenzo in Collina). — III. Idem (Orciano). —
IV. 7. Capellinii (Valle dello Stramonte). — V. 7. tursio (Es. adulto del Museo Capellini). —
VI. Delphinus delphis (Es. giovane dello stesso Museo).
Alle immagini e alle misure stimo opportuno di aggiungere queste poche osser-
vazioni.
Noto, anzitutto, nel periotico del delfinide di San Quirico una particolarità che vale da sola
a dimostrarne la pertinenza piuttosto ad un Tursiops che a un vero e proprio Delphinus;
la strettezza di quella parte della faccia interna che rimane compresa fra il margine su-
periore dell’orifizio uditivo e il bordo interno della faccia superiore; strettezza che ha per
compenso una considerevolissima dilatazione deila faccia superiore nel senso trasver-
sale. Per meglio spiegarmi, nell’esemplare di San Quirico, supposto fosse completo, il dia-
— 250 —
metro massimo verticale della faccia interna, compresa la rocca, supererebbe il massimo
diametro trasversale della faccia superiore soltanto di un quarto: pressa poco come nel
Tursiops tursio e nel 7. Brocchii; mentre nel Delphinus delphis quel diametro della faccia
interna misura più che il doppio della larghezza massima della faccia superiore. D'altra
parte qualche differenza si rileva anche nel confronto coi cetoliti dei delfinidi congeneri.
Nel periotico trovato al Palazzo è da segnalare, fra l’altro, la eccezionale robustezza del
collo dell’ apofisi posteriore, non che la specialissima conformazione della faccetta esterna
costulata, mercè cui detta apofisi si doveva connettere col timpanico; faccetta che qui è
limitata inferiormente e superiormente da margini pressochè paralleli, non già divergenti
come nel 7. tursio e nel T. Brocchii, e che proporzionatamente è molto più concava che
nel 7. fursio e molto più stretta che nel 7. fursio e nel 7. Brocchii.
Sia nei mascellari, sia negli avanzi di mandibola descritti più sopra, non è rimasto
infisso un sol dente completo; solo qualche mozzicone di radice in certuni alveoli e nien-
t'altro. Ma ben trentaquattro denti, la più parte interissimi, si son trovati sparsi nell’ ar-
gilla, subito attorno a quer resti. Ho rinunziato, contro mia voglia, a rimetterli schierati
nell'ordine primitivo; a fatica son riuscito a discernere quelli spettanti ai mascellari, da
quelli che dovevano armar la mandibola. Circa la forma loro, mi limito a dire che ri-
sponde in complesso a quella solita a riscontrarsi nei 7ursiops già noti del pliocene d’I-
talia. Se mai, presentano qualche non trascurabile differenza in confronto di quelli del
T. tursio. Ad esempio, i denti più dritti e più grandi, verosimilmente appartenuti al forte
della mandibola, hanno le corone meno pronunziatamente compresse dall’ avanti all’ indietro,
e marcate in una faccia sola — anzichè in ambo le facce anteriore e posteriore — da
segni di sfregamento coi denti dell’opposta fila mascellare. Non solo; ma le radici, specie
verso la base, sono più fortemente compresse in senso trasversale e dilatate secondo un
piano verticale normale o quasi a quello che contiene la curvatura massima della corona.
Quanto a grandezza, per contro, i denti del delfinide di S. Quirico rispondono quasi
esattamente a quelli del 7- sio, vale a dire son parecchio, ma parecchio più piccoli di
quelli delle tre specie fossili tante volte nominate. Nell’esemplare tipo del 7. Cortesii già
il 4° dente mandibolare raggiunge la lunghezza complessiva di mm. 50 e il diametro di
mm. 14,5 a metà della radice (1); ed altri mandibolari raggiungono (secondo Balsamo
Crivelli) la lunghezza di due pollici (= mm. 64,9) e la larghezza di sei linee (= mm.
13,5). Nel 7. Brocchii di San Lorenzo in Collina si hanno denti mandibolari lunghi sino a
53 mm., contro un diametro massimo di 10 mm.; e nell’esemplare di Orciano taluni di
essi denti arrivano a misurare mm. 55 di lunghezza per 13 di diametro. Nel 7°. Capel-
linii della valle dello Stramonte il Del Prato (2) trova l’ undicesimo e il dodicesimo
(1) V. Capellini, Di «n Orca fossile scoperta in Toscana, Mem. dell’Accad. delle Sc. dell’Ist.
di Bologna. Ser. IV. Tom. VI. Tav. I, fig. 9. Bologna, 1883.
(2) Mem. cit., pag. 7.
Tg
mandibolari lunghi rispettivamente mm. 44 e mm 41. Invece fra 1 denti trovati al Palazzo
i più grossi di tutti non superano 36 mm. di lunghezza, per mm. 7 di massimo diametro
alla base della corona e mm. 8,5 circa di massimo diametro nella radice.
Della colonna vertebrale l’unico avanzo istruttivo che ci rimanga è l’ atlante bellissimo,
rappresentato dalle fig. 12 - 14. Saldato con esso atlante trovasi, come di solito nei del-
finoidi, lo epistrofeo, di cui però son conservate soltanto, e molto malamente, le apofisi
trasverse e la porzione superiore dell’arco neurale: alla quale ultima si veggon saldati,
alla lor volta, esigui rimasugli degli archi neurali della 3° e della 4° vertebra cervicale.
Di queste due vertebre abbiamo trovato — ma a parte — anche i corpi, atiaccati uno
all’altro mercè un tenue velo di cemento argilloso-ocraceo; e nelle fig. 13 e 14 son rap-
presentati pur essi, ricongiunti, come abbiamo potuto meglio, al maggiore avanzo già detto.
Le principali misure dell’ atlante e delle cervicali successive son riferite qui sotto.
Larghezza massima dell’ atlante, apofisi trasverse comprese, circa mm. 180
Distanza massima fra i margini esterni delle faccette articolari an-
iononeielienio nre feet ee o on e e i 110
Massimo diametro verticale dell’atlante, fra il margine infero-ante-
Fiore'Mesuli margine ‘basale: dell’apofisi spinosa i. 0. 00» 75
Uaxshezza massima del'canaler neurale 0.00. 0.0.0. 4080 53
Aliezzaimassima: delbeanale; neurale it. Lo. pli DuRdi 32
Diametro verticale delle apofisi trasverse a metà della loro lunghezza » 17
Diametro ant.-post. delle medesime a metà della loro lunghezza . . >» 16,5.
Massima lunghezza delle faccette articolari anteriori dell’atlante . . » 67
Mossimaglareherzza idelletstessetttà i, eni 44
Lunghezza totale approssimativa delle prime quattro vertebre cervicali » 38
Massimo diametro antero posteriore del corpo della 3° cervicale. . » 6,5
Massimo diametro antero-post. della 4° cervicale . . . .. .. > 6,5
Larghezza massima del corpo della 4* cervicale... . . ... » 45
Altezza massima del corpo della 4* cervicale . . . . . . sen 142
Dietro quanto si è detto, avremmo nel Tursiops di San Quirico una sinostosi cervi-
cale rispondente a quella del delfino di Camerano Casasco (7. Capellinii) dove il Sacco
appunto riscontrava esser saldata perfettamente la quarta cervicale con la terza, come la
terza con l’epistrofeo, ma solamente, ben inteso, per la ‘parte superiore dell’arcata neurale;
a differenza dal 7. Cortesii del Colle della Torrazza, dove all’ epistrofeo si salda parzial-
mente soltanto la terza cervicale, e dal 7. Brocchii di Montezago, dove (come nel T. tursio
attuale) la sinostosi comprende solo le prime due vertebre (1).
(1) Dico questo in base ai modelli in gesso venuti da Milano, che si conservano quì nel Museo
Capellini. Veramente altri han detto (il Sacco, per esempio) che nel 7. Cortesii l’atlante è solo
saldato con l’asse e che nel 7. Brocchii si unisce all’asse od epistrofeo anche la terza vertebra cervi-
cale. Certo è che dei due modelli che ho sott’occhio, quello che a parità di dimensioni nel corpo ha
258 —
Poco monta questo, date le variazioni che oggi sappiamo riscontrarsi anche fra in-
dividuo e individuo di una medesima specie di 7w*siops, quanto al numero delle vertebre
partecipanti alla sinostosi cervicale. Forse più interessanti sono altri caratteri che il nostro
fossile ci consente di rilevare.
Le apofisi trasverse dell’atlante -— giudicando da quella di sinistra che ci rimane
completissima — a partir dalla base son decisamente inclinate dall’alto verso il basso. Lo
stesso accade nel 7. tursio; mentre nel 7. Cortesii son press’ a poco orizzontali, e nel
T. Brocchii volgonsi manifestamente verso l’alto. D'altra parte le stesse apofisi nell’atlante
del delfino di S. Quirico hanno su per giù grossezza uguale, tanto secondo il diametro ver-
ticale, quanto secondo il diametro antero-posteriore; sono su per giù cilindroidi; mentre
nel 7. Capellini sono compresse orizzontalmente (1), nel 7. Zursio son fortemente schiac-
ciate dall’avanti in alto all’indietro in basso, e in questo medesimo senso, ma men pro-
nunziatamente, sono schiacciate nel 7° Cortesii, e nel 7. Brocchii son coniche. I pilastri che
reggon la cuspide neurale dell’atlante non sono compressi nel senso antero posteriore come
accade nel 7. tursio; ma pressa poco hanno uguale il maggior diametro trasverso al
maggior diametro longitudinale, in ciò raccostandosi piuttosto a quelli del 7°. Cortesii e del
T. Brocchii. L’apofisi spinosa, pur troppo mutilata della porzion superiore, ha la particola-
rità di essere pochissimo inclinata verso l’ indietro: per la forma generale arieggia a quella
del 7. Brocchii più che ad ogni altra: ha però la cresta assiale anteriore debolissima,
com’ è, secondo il Del Prato, quella del 7. Capellinii. Pure come nel 7. Capellinti il
margine supero-laterale delle faccette articolari anteriori poco si eleva sulla superficie del
corpo, ed appena è accennato il solco che invece scorre largo e profondo, contiguamente
e quasi parallellamente a detto margine, nel 77. tursio e anche nel 7. Cortesti e nel 7.
Brocchii.
Si associano, come si vede, nell’atlante del delfino di San Quirico, caratteri che si
riscontrano isolatamente nelle specie di 7u7siops messe a confronto: più qualche distintivo
suo proprio, come la debole inclinazione del processo spinoso, e un altro che non voglio
dimenticare: la totale mancanza dell’ insenatura mediana che il margine infero-anteriore
dell’atlante offre così pronunziata nel 7. sito, in corrispondenza dell’ intervallo fra le due
faccette articolari; e che più debole, ma sempre ben distinta, si offre anche nel 7°. Capel-
linii e nelle altre due specie di 7ursiops trovate fossili in Italia.
Concludiamo. — Gli avanzi da me ricuperati e ricomposti alla meglio, non bastano
di sicuro per una soddisfacente reintegrazione del delfino sanquirichese. Bastano però
ampiamente per attestarne la pertinenza al genere 7ur:siops: unico genere, nella famiglia
il processo spinoso più lungo, e che quindi dovrebbe spettare al 7. Brocchi, offre nella sinostosi cer-
vicale solo l’atlante e l’epistrofeo: l’altro invece, a processo spinoso brevissimo (quindi da ritenere
spettante al 7. Cortestî) mostra con tutta evidenza saldata all’ epistrofeo la sommità dell’arco neurale
di una terza vertebra.
(1) Del Prato, mem. cit, p. 9:
PEG
a = ‘sal 40 "Mi
(A MEMO (Ten
ideare carenate i
peg”
— 259 —
dei Delphinidae, che presenti associate le caratteristiche — tutte esibite dal fossile del
Palazzo — del rostro nettamente distinto e considerevolmente più lungo della porzione
craniale del teschio; della superficie palatale dei mascellari priva di solchi longitudinali
tra il bordo alveolare e la commessura mediana; della sinfisi mandibolare abbreviatissima,
occupante poco più di ‘4 della lunghezza totale di ciascun ramo; del numero dei denti
non superiore a ®/..
Bastano inoltre quei pochi avanzi per dimostrare che si tratta di una specie di 7ur-
stops chiaramente diversa da tutte le altre segnalate fino ad oggi dai paleontologi; di-
versa, prima di tutto, per la formula dentaria, che raggiunge °/,, mentre è */, nel
Neorte sE 0A mellezi Capellini, 33
mensioni molto minori dei denti; particolarmente distinta dal 7 Capellini per l assai mag-
‘nel 7. Brocchii; diversa in pari tempo per le di-
giore lunghezza e acutezza del rostro, per l'andamento rettilineo del margine esterno dei
mascellari e della linea di confine tra questi-e i premascellari. E non stiamo a ripetere
quanto abbiamo detto via via, nelle pagine innanzi, circa non pochi altri caratteri differen-
ziali del teschio in genere, delle ossa uditive e della prime vertebre cervicali, in confronto
sia delle forme fossili, sia delle odierne.
Ci conviene dunque gravare di una nuova specie l’ elenco dei cetodonti fossili del
Pliocene italiano. Per buona sorte si tratta di una specie che viene opportunamente a
colmare un vuoto spesse volte lamentato dai paleontologi: la lacuna fra i 7ursiops fossili
sino ad ora conosciuti, di cui nessuno ha più di 66 denti, e i Trsiops attuali che ne
han da 84 a 100 « Non sarebbe temerario, scriveva in proposito il Capellini (1) di
dire che sotto questo punto di vista (del numero dei denti) ed anche per la forma che
alcuni di essi (dei delfini fossili riferiti al genere Tursiops) presentano, si riscontra qualche
analogia col genere Orca ». Ed ecco il delfino di San Quirico, che pure accordandosi col
T. Brocchii e col T. Cortesii per la conformazione generale del teschio, si accorda per la
dentatura col 7. tw'sio attuale, e così viene a dileguare ogni dubbio circa la paren-
tela di questo con quelli.
Mi auguro che ulteriori reperti vengan presto a farci conoscere compiutamente i ca-
ratteri della nuova specie, e a chiarir meglio le sue relazioni con le congeneri fossili e
attuali. Intanto propongo di chiamarla 7ursiops Osernnae, dal nome Osenna ch’ ebbe in
antico il territorio dove oggi è San Quirico d’ Orcia (2).
(1) Del Tursiops Cortesii e del delfino di Mombercelli nell’ Astigiano. Mem. dell’ Ace. delle Se.
dell’ Ist. di Bologua, Ser. IV. T. III, pag. 8. Bologna 1882.
(2) Gigli G. - Diario Sanese. P.e I.® p. 483. Siena 1854.
Figura
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4
9
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13
14
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
TPursiops Osennae Sim.
Cranio visto di sopra (circa //,)
Lo stesso, visto dalla faccia inferiore (c. s.)
Lo stesso, visto dalla faccia laterale sinistra (c. s.)
Sezione del rostro, in corrispondenza dell’ XI alveolo (circa ‘/)
Frammento del ramo mandibolare destro, veduto di sopra (circa %)
Periotico destro, visto dalla faccia interna (4)
Lo stesso, visto dalla faccia superiore (c. s.)
Lo stesso, visto dalla faccia inferiore (c. s.)
Timpanico sinistro, visto dalla faccia inferiore (c. s.)
Timpanico destro, visto dalla faccia superiore (c. s.)
Denti diversi. (1)
Atlante, con residui delle successive tre cervicali, visto dalla faccia anteriore
(circa 1/3)
» » » » » » pi posta(c2899)
» » » » » visto dalla faccia laterale
sinistra (c. Ss.)
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RFFETTO HALLWACKHS E FOTOTROPIA
MEMORIA
DI
LAVORO AMADUZZI e MAURIZIO PADOA
(letta nella Sessione del 12 Marzo 1911).
1. Come è noto, da qualche tempo si vanno moltiplicando sostanze dotate della sin-
golare proprietà di cambiare colore per esposizione più o meno prolungata alla luce so-
lare e più specialmente alle radiazioni di breve lunghezza d’onda in essa contenute, o pro-
dotte artificialmente. Queste sostanze, dopo aver subita la variazione di colore, ritornano
in un tempo più o meno lungo allo stato primitivo, quando vengano abbandonate a loro
stesse v assoggettate a riscaldamento o all’azione di radiazioni di lunghezza d’onda più
grande di quella delle eccitatrici.
Uno di noi (1) ebbe a preparare numerosi corpi dotati di tale proprietà in modo spiccato,
appartenenti al gruppo degli idrazoni e degli osazoni, procurando di mettere in relazione
il fatto colla costituzione chimica. Markwald dette al fenomeno il nome di fototropia e
a questo vocabolo generalmente usato si suol ora legare la opinione che il fenomeno si
riduca ad un semplice cambiamento di colore e sia in ogni caso percepibile dall’organo
visivo. Fin da ora ci permettiamo di emettere l'opinione che la fototropia sia fatto della
più larga generalità, tanto per ciò che concerne le radiazioni che la suscitano, come per
le radiazioni che vengono emesse. Con questo modo di vedere il fenomeno di termo-
tropia messo in rilievo da Senier e Shepheard (2) potrebbe essere considerato come
fototropia eccitata da radiazioni di grande lunghezza d’onda.
Ci è parso conveniente iniziare una serie di ricerche per stabilire se altre modifica-
zioni nei caratteri fisici delle sostanze fototrope accompagnano il cambiamento di colore.
Prima fra tutte fu presa da noi in esame la eventuale variazione del potere fotoelettrico,
sulla quale, finora, non venne eseguita alcuna ricerca sistematica. La letteratura ci dice
(1) M. Padoa, Rendiconti della R. Accademia dei Lincei dal 1909 in poi.
(2) Questi autori notarono che certe sostanze organiche di costituzione analoga ad altre che pre-
sentano il fenomeno di fototropia, portate dalla temperatura dell’aria liquida in ambiente alla tempe-
ratura ordinaria, cambiano colore. Chemical News 1909, vol. C, 265. Vedi in proposito anche Stobbe,
Liebigs Annalen 880, 17.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 37
262 —
solo che il pensiero di una tale ricerca interessò Kowalski (1) alcuni anni or sono. Questo
fisico, incidentalmente, durante una discussione riferì di avere eseguita una misura sul
platinocianuro di stronzio nelle condiziori ordinarie e dopo l’azione di raggi Rontgen,
che lo rendono verde. Secondo l’autore, parallelamente al cambiamento di colore si
avrebbe un aumento di potere fotoelettrico. Nella medesima occasione il Prof. Schaum
fece sapere che Elster aveva ottenuto un risultato negativo, cioè non aveva notato va-
riazione di potere fotoelettrico, sperimentando sulla tetraclorodichetodidronaftalina di Zincke
e Markwald, che è fototropa. Da quell'epoca nessuna misura ci consta che sia stata
eseguita da chicchessia. L'importanza della ricerca per noi consisteva specialmente nella
possibilità eventuale di avere nella variazione di potere fotoelettrico, un indice fisico di
modificazioni nel corpo, anche qualora la fototropia non fosse alla maniera usuale ma-
nifesta
2. A questo fine il piano del nostro studio fu di esaminare le sostanze fototrope prima
e dopo la eccitazione della fototropia; e di esaminare poi le medesime sostanze ad una
temperatura che più non permettesse il manifestarsi della fototropia medesima. Come è
noto difatti, la maggior parte delle sostanze fototrope non inanifesta più la fototropia
nel senso ordinario, quando le sostanze stesse siano portate a temperature variabili fra i
60° e 145° C.
Per potere istituire dei confronti st operò in tale maniera anche con sostanze della
stessa classe delle fototrope esaminate; e su sostanze non fototrope in condizioni par-
ticolari, come verrà detto.
Il dispositivo sperimentale da noi usato è molto semplice; ma tale, ci sembra, da for-
nire per un primo esame indicazioni sufficientemente buone. Fu già usato da uno di noi (2) con
esito soddisfacente per lo studio del selenio cristallino. Si riduceva in sostanza a collegare
il materiale da studiare con un elettroscopio, a caricare a potenziale negativo il materiale
medesimo, a fare agire su di esso radiazioni ultra-violette ed a misurare contemporanea-
mente il tempo di scarica. L’elettroscopio usato era a foglia di alluminio e di questa. si
leggevano gli spostamenti con un micrometro oculare. Avendo intenzione di studiare | ef-
fetto delle radiazioni a temperature varie, il corpo soggetto a studio, veniva fissato contro
ad una faccìa di un cubo metallico cavo, che poteva venir riempito con olio caldo per
modo che poteva essere portato a temperature varie a seconda della temperatura dell’olio
immesso. Il cubo, girevole intorno ad un asse verticale, era racchiuso entro una fitta rete
metallica in comunicazione col suolo e munita di una apertura ricoperta di rete a maglie
larghe contro la quale si disponeva la faccia che doveva ricevere la radiazione. La illu-
minazione del corpo da studiare si poteva fare colla luce diretta del sole e con una lam-
pada Heraeus a vapore di mercurio. Le esperienze venivano condotte in modo da valu-
tare il tempo impiegato dalla foglia dell’ elettroscopio a passare dallo zero al cento della
(1) Vedi Zeitschrift fur Elekrochemie 1908, 483.
(2) L. Amaduzzi, Rendiconto della R. Accademia delle Scienze di Bologna, Gennaio 1910.
— 263 —
scala oculare; tali limiti essendo lontani rispettivamente dalla posizione occupata dalla foglia
dell’ elettroscopio carico e da quella occupata dalla foglia dopo la scarica.
3. Le esperienze venivano condotte nel modo seguente: Il materiale veniva deposto
sopra una delle faccie del cubo, facendo uso di un solvente appropriato che era, a seconda
dei casi, alcool o benzolo o cloroformio o etere. Dopo deposizione, il solvente evaporava
completamente e la sostanza da esaminare rimaneva in strato uniforme ed allo stato cri-
stallino aderente alla superficie metallica. Misurato il tempo di scarica sotto l’azione dei
raggi ultra-violetti, prima della variazione di colore, tempo che in ogni caso era incompara-
bilmente minore di quello richiesto, per ottenere la variazione del colore della sostanza per
azione dei medesimi raggi, si assoggettava detta sostanza ad una azione prolungata dei raggi
ultra-violetti quando non si usò la luce solare diretta, sino ad ottenerne la variazione di colore.
Si misurava quindi di nuovo il tempo di scarica del dispersore; e tale misura per vari
corpi si ripetè ad intervalli di tempo successivi di più in più grandi per indagare l’ eventuale
stanchezza del materiale. Simili determinazioni, venivano di poi eseguite sullo stesso ma-
teriale dopo avere riempito il tubo con olio di vasellina bollente, così da portare il tutto
ad una temperatura tale che il fenomeno delia fototropia nel senso ordinario non si ma-
uifestasse più. La temperatura del sistema andava naturalmente decrescendo con conti-
nuità, ma le misure si effettuavano sempre oltre i limiti di temperatura necessaria alla
esclusione della fototropia. L'esposizione del materiale caldo ai raggi ultra-violetti non
portava naturalmente a variazioni di colore per esso, ma noi la eseguivamo alla stessa
maniera e per lo stesso tempo come facevamo per il materiale freddo.
4. Indichiamo qui i risultati ottenuti per alcuni dei corpi assoggettati ad esperienze :
8-naftilidrazone dell’ adeide salicilica (non fototropo)
esperienze a freddo
scarica in 4’)
dopo 3 minuti di luce» SOA
8-naftilidrazone del piperonalio (fototropo)
esperienze a freddo
STRATO I stRATO II
scarica 9” 9)
dopo illumin. sole |» -7 subito illuminaz. ultra-viol. 3‘! subito
8" 3 minuti dopo 6° 5 min. dopo
OTTONE »
Non si potè sperimentare a caldo non potendo raggiungere temperatura abbastanza elevata.
Fenilidrazone della benzaldeide
esperienze a freddo
STRATO I STRATO II
scarica 20” DS
colorato al sole » TSO illuminaz. ultra-viol. 14” subito
17” dopo 5 minuti
— 264 —
Fenilidrazone della benzaldeide
esperienze a caldo STRATO II
scarica 8°
illumin. ultra-viol. » ab
La temperatura era troppo bassa e il corpo si colorò lievemente.
8-naftilosazone del piperile
scarica 3°
a freddo
dopo illuminaz. u. v. DITO
$-naftilosazone del piperile + cloroformio
a freddo scarica 1° !4,
dopo illuminaz. uv. » A
O-tolilosazone del piperile
a freddo
STRATO I STRATO II stRATO III
scarica 4° 0 1
dopo illuminaz. u. v. 2° dopo illum. u. v. 5” dopo 1 min. GLU US 74800,
CONDI 3, dopo 2 min.
Oo dee VIN
a caldo
STRATO II STRATO lI dopo ‘/ ora stRATO III
D 6° dd
scarica 5° 1
dopo illuminaz. u. v. 3° subito Qi di Wo E°
n/! 9 :
5. dopo 2 min.
DO
Ù
di e suolo
6” dopo 5 min.
B- naftilosazone dell’ anisile
a freddo
STRATO I STRATO I dopo ‘,, ora
SCArIcaNz4iA DU
dopo illuminaz. u. v. 1% dopo illuminaz. u. v. 1%
STRATO II STRATO III
4" SI
DI
dopo illuminaz. u. v. 3° dopo illuminaz. u. v.
3° dopo 4 minuti 37 dopo 5 minuti
DO
ge > IO» ;
a caldo
STRATO I STRATO II sTRATO III
SCARicaniziin A 20 SÒ
AA dopo illum. u. v. 1° dopo illum. u. v. 2°
dopo illum. u. v.
1°, dopo 2 min. 3° dopo 5 min.
20 AES
è-naftilosazone dell’ anisile + benzolo
scarica 5
dopo illuminaz. u. v. 3°
— 265 —
Sperimentammo anche su -naftilidrazone dell’aldeide cinnamica, p-tolilidrazone del
piperonalio, 5-naftilidrazone dell’ aldeide p-toluica, f-naftilidrazone della vanillina, e i ri-
sultati ottenuti sono in accordo nelle linee generali con quelli precedentemente indicati I
risultati medesimi si possono indicare come segue:
a) Al cambiamento di colore corrisponde quasi sempre una variazione nel potere
fotoelettrico. Per la maggior parte delle sostanze esaminate si ha un aumento; per al-
cune una diminuzione. Tutte le sostanze esaminate manifestano il noto fenomeno di stan-
chezza.
b) L'esame delle sostanze a caldo ha condotto a rinvenire una variazione nel po-
tere fotoelettrico conseguente ad esposizione ai raggi ultra-violetti, sebbene questi non
operino alcun cambiamento di colore. Anche a caldo le medesime sostanze manifestano il
fenomeno della stanchezza.
Ciò farebbe ritenere che fra la fototopia nel senso ordinario e la variazione di potere
fotoelettrico, non esista alcun legame diretto; ma si tratti, per la esposizione delle so-
stanze a radiazioni ultra-violette di una modificazione strutturaie di natura incognita, la
quale si accompagni o no a seconda dei casi e delle condizioni ambiente, ad una varia-
zione di colore.
Prova ne sia che l’ esame da noi fatto del f-naftilidrazone dell’ aldeide salicilica, non
fototropo sebbene appartenente allo stesso gruppo di sostanze fototrope, ha mostrato a
freddo una variazione di potere fotoelettrico in conseguenza della esposizione per un certo
tempo a radiazioni ultra-violette. La variazione si è tradotta in una diminuzione forte di
potere fotoelettrico.
Inoltre, delle sostanze esaminate ve ne sono due che possono cristallizzare con un
solvente dando così composti di addizione non fototropi, e cioè il f-naftilosazone del pi-
perile con una molecola di cloroformio e il f-naftilosazone dell’ anisile con una molecola
di benzolo. E come risulta dalle cifre riportate, il primo ha un potere fotoelettrico note
vole che più non varia colla illuminazione, e il secondo, meno sensibile, lo diventa di più
dopo la illuminazione.
c) Una cosa che da tutto il complesso delle nostre misure sembra risultare, è un
potere fotoelettrico generalmente elevato per quelle sostanze che mostrano più spiccata-
mente la fototropia.
d) Facciamo rilevare incidentalmente la forte variazione colla temperatura del po-
tere fotoelettrico del fenilidrazone della benzaldeide, che contrasta singolarmente colla pic-
cola variazione presentata dall’o-tolilosazone del piperile e del f-naftilosazone dell’ anisile.
La cosa merita qualche rilievo perchè qualche autore ritiene costante colla temperatura
il potere fotoelettrico dei corpi. Ci si consenta di ricordare qui come uno di noi, in un
lavoro, qui citato, rinvenne una variazione del potere fotoelettrico del selenio cristallino
colla temperatura.
5. Ci sembra che il comportamento delle sostanze da noi esaminate, riferito in questa
nota, sia degno di qualche rilievo che giustifichi il proposito nostro di proseguire la. ri-
— ego
cerca su altri corpi e sui medesimi già sperimentati valendoci di mezzi anche più precisi.
Osserveremo inoltre come l’esame da noi fatto delle varie sostanze, tutte organiche, in-
dicate in questa nota, sotto il punto di vista del loro potere fotoelettrico, ci abbia indotti,
visto il valore discretamente alto di questo, a cercare nella letteratura, se furono molti
i materiali organici studiati sotto questo riguardo. E a dir vero rimanemmo SONPIESI nel
constatare che non troppe furono le determinazioni di potere fotoelettrico dei corpi orga-
nici. Si tratta semplicemente di misure su sostanze luminescenti e fluorescenti, su sostanze
coloranti e su qualche idrocarburo aromatico. Il gran numero di corpi che ancora riman-
gono da esaminare, per un lato; per l’altro il pensiero che l'intensità varia della emis-
sione di elettroni provocata dalle radiazioni, sia legata alla costituzione strutturale varia
della materia; ci hanno indotti alla determinazione di eseguire delle misure numerose di
potere fotoelettrico su delle serie di sostanze organiche.
Crediamo opportuno dichiarare che in questo lavoro, della parte fisica si è occupato più specialmente
L. Amaduzzi e della parte chimica più specialmente M. Padoa.
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
EsURiRE DU RANFTEL'ANNO 1910
NELL’ OSSERVATORIO DELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
INE EMIR AI
DEL
PROF. MICHELE RAJNA
DELL’ ASTRONOMO R. PIRAZZOLI E DELL’ AssIstTENTE DOTT. A. MASINI (1)
(letta nell'adunanza del 23 Aprile 1911).
Avvertenze generali,
Le osservazioni di cui qui si presentano i risultati sono quelle delle ore 9, 15 e 21 di
ciascun giorno (tempo medio civile dell'Europa centrale), prescritte dal R. Ufficio centrale
di Meteorologia e Geodinamica. Non si riportano, invece, i risultati dell’altra osservazione
che si fa ogni mattina alle ore 7 dal 1° aprile al 30 settembre e alle ore 8 dal 1° ottobre
al 31 marzo, e che serve per il telegramma da spedirsi al predetto Ufficio.
L’altezza barometrica si legge sempre a un barometro Fortin, cui si applica la cor-
rezione costante + 0"", 46, determinata anni addietro per cura dell’ Ufficio centrale. Il
pozzetto del barometro si trova a metri 83, 8 di attitudine sul livello del mare (2).
La temperatura dell’aria si legge sul termometro asciutto di un psicrometro di August
e le temperature estreme su termometri a massima e a minima. I termometri sono collo-
cati sopra la banchina di una spaziosa gabbia meteorica formata da persiane di legno ed
esposta al nord. Il piano della banchina si trova all’altezza di metri 38, 39 sul suolo, ossia
a metri 90, 81 sul livello del mare. Le altezze dei bulbi dei termometri sopra il piano
della banchina sono le seguenti: per il termometro a minima metri 0,26; per il termo-
metro a massima metri 0, 41; per il psicrometro metri 0, 33
La quantità delle precipitazioni si ottiene in millimetri d’acqua mediante il pluvio-
metro registratore di Fuess, provvisto di un sistema di riscaldamento ad immersione per
ottenere la fusione della neve A questo sistema di riscaldamento è innestato un termo-
(1) Il dott. Masini prestò servizio fino al 1° novembre 1910.
(2) Da misure dirette prese nell’anno 1904 risulta che il pozzetto del barometro si trova a 28" ,76
di altezza sul capo saldo della liveilazione di precisione situato alla base della torre dell’ Osservatorio,
sulla facciata esposta a sud-ovest. Tale caposaldo è elevato di 2" ,65 sul suolo, ed ha la quota di
55" ,066 sopra il livello medio del mare a Genova, secondo una cortese comunicazione dell’ Istituto
geografico militare. Quindi il pozzetto del barometro ha l’altezza di 55" .07 + 28" ,76= 83" , 83 sul
livello del mare.
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metro il quale permette di verificare che il liquido riscaldato non raggiunga una tempe-
vatura troppo elevata da alterare sensibilmente per evaporazione la quantità di acqua
caduta. Il pluviometro è collocato nel punto più elevato della torre ed ha lapertura libera
superiore a un’altezza di metri 49, 20 sul suolo e di metri 101, 62 sul livello del mare.
La tensione del vapore acqueo e l'umidità relativa si determinano con l’anzidetto psi-
crometro di August provvisto di ventilatore a palette, del solito modello adottato in Italia.
L’apprezzamento della nebulosità si fa stimando ad occhio, in ciascuna osservazione,
quanti decimi di cielo sono ricoperti dalle nubi.
La provenienza del vento si desume dalla direzione della banderuola di un anemoscopio
all’atto dell’osservazione. Per la velocità si prende la media giornaliera dei chilometri in-
dicati da un anemometro di Fuess a registrazione elettrica. Tanto la banderuola dell’a-
nemoscopio, come il mulinello a coppe dell’anemometro sono situati sulla sommità della
torre a 49 metri e ‘,, di altezza sul suolo.
L’evaporazione dell’acqua si misura ogni giorno alla sola osservazione delle ore 15
nell’evaporimetro posto nella gabbia meteorica e quindi protetto dai raegi solari e dalle
precipitazioni.
Il pluviometro e l’anemometro, di cui è fatto cenno, furono collocati per cura del
prof. Bernardo Dessau nel tempo in cui egli diresse interinalmente 1° Osservatorio
(1900-03); a lui sì deve pure l’acquisto di tre strumenti registratori di Richard, un ba-
rografo, un termografo e un igrografo, i quali, con le loro registrazioni continue servono
di complemento alle osservazioni dirette.
Riassunto dei quadri mensili.
Barometro
La media pressìone barometrica dell’anno risultò di mm. 753, 0, cioè 1 millimetro infe-
riore al corrispondente valore normale ed inferiore pure alla media annua ottenuta negli
ultimi anni.
Le singole medie di aprile, maggio, giugno, luglio e novembre risultarono alquanto
più basse della media annua, quelle invece degti altri mesi alquanto superiori, fatta ecce-
zione pe! mese di febbraio che ebbe la media eguale alla annua.
I valori estremi raggiunti dalla pressione atmosferica furono:
Pressione massima mm. 769, 4 il 10 gennaio alle ore 21.
Pressione minima mm. 730, 4 il 25 gennaio alle ore 15.
Così l’intera escursione barometrica di mm. 39 si verificò nel breve intervallo di 15 giorni.
Dopo il minimo principale ora detto, il barometro cominciò a salire di nuovo quasi
regolarmente fino a raggiungere un’altra alta pressione di mm. 764,5 il 22 febbraio alle
ore 21. Passata questa maggiore onda atmosferica, il barometro mantenne un andamento
più prossimo al normale, finchè al 15 di novembre precipitò alla depressione di mm. 734, 6,
minimo secondario dell’annata, per risalire poscia il 22 dicembre al massimo secondario
— 269 —
di mm. 765, 7. Questi squilibri atmoferici non diedero luogo a gravi perturbazioni di sta-
gione; in corrispondenza delle maggiori depressioni non vi furono nè venti impetuosi, nè
abbondanti precipitazioni, e così pure in corrispondenza delle più alte pressioni mancarono
i periodi di giornate serene che di solito le accompagnano.
Temperatura
La temperatura media annua fu uguale a 13,° 4, inferiore di 2 decimi di grado alla
normale corrispondente. Le medie dei mesi invernali risultarono superiori ai corrispondenti
valori normali, mentre quelli degli altri mesi ne rimasero alquanto inferiori. Ciò contribuì
ad avvicinare i limiti dei valori estremi e a rendere il clima più mite del consueto. Non
si ebbero freddi intensi nè duraturi; colla fine di gennaio ebbero termine i minimi sotto
zero e si iniziò la primavera precoce ed il calore temperato si protrasse fino verso il ter-
mine di giugno. L’estate giunse tardivo, giacchè la media mensile più elevata fu quella
di agosto 23,° 7, mentre la media normale più elevata risulta essere per Bologna di 25,° 2
in luglio. L’intera escursione termometrica fu di soli 36,° 3, dal valore minimo — 3,° 9 nel
giorno 9 gennaio al valore massimo 32,° 4 nel 22 agosto; mentre la corrispondente escur-
sione normale risulta di 41,° 9 fra gli estremi valori normali - -- 7,° 1 alla metà circa di
gennaio, e 34,° 8 alla metà circa di luglio.
Precipitazioni
L'acqua caduta durante l’intero anno fu di mm. 721,3. Il numero dei giorni con pre-
cipitazioni, 114, fu ripartito abbastanza regolarmente nei singoli mesi, siechè non si ebbero
lunghi periodi di gran secco, nè di troppa umidità. Il maggior numero mensile di giornate
piovose fu 14, e la maggiore quantità mensile di pioggia fu mm. 113,1, e l’uno e l’altra
accaddero nel mese di ottobre. Il minor numero di giornate con pioggia lo ebbe luglio,
5 giorni; la minor quantità di acqua, agosto, mm. 18, 4. Nel mese di giugno si segnala-
rono per abbondanza di precipitazione le giornate 5 e 13 con mm. 34, 4 e 41,7 di acqua
rispettivamente.
Fra i giorni con precipitazione sono annoverati anche quelli in cui cadde neve, la
quale fu quasi sempre in quantità trascurabile e generalmente mista alla pioggia. Nei soli
due giorni, 25 gennaio e 26 novembre. la neve riuscì a coprire il suolo, la prima volta
per cm. l e la seconda per cm. 8.
I temporali locali, quelli cioè che svolsero la loro attività sopra questa stazione, fu-
rono i 13 seguenti:
1.° Il 23 maggio nel mattino con tuoni deboli, pioggia ordinaria e vento debole.
2° Il 23 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, pioggia incalcolabile a grosse
goccie e vento moderato.
3.° Il 26 maggio sul mezzodì con tuoni deboli, pioggia ordinaria con pochi chicchi
di grandine minuta e vento debole o moderato.
4.° Il 27 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, pioggia ordinaria e vento debole
o moderato.
5.° Il 28 maggio nel pomeriggio con tuoni deboli, poca pioggia e vento debole.
6.° Il 5 giugno nel pomerigio con alcuni tuoni forti, pioggia torrenziale con qualche
chicco di grandine minuta e vento debole o moderato.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 38
— 270 —
7. Il 6 giugno nel pomeriggio con alcuni tuoni forti, pioggia forte e vento debole.
8.° Il 19 giugno nel pomeriggio con alcune potenti scariche elettriche, pioggia tor-
renziale e vento debole.
9.° Il 4 luglio intorno al mezzodì con tuoni deboli, pioggia piuttosto forte e vento
moderato.
10.° Il 15 luglio nel pomeriggio con debole attività elettrica, poca pioggia e vento
debole.
11.° Il 12 agosto nel pomeriggio con poca attività elettrica, debole pioggia e vento
moderato.
12.° Il 23 agosto nel pomeriggio con poca e debole attività elettrica, breve e for-
tissimo acquazzone e vento moderato.
13.° Il 580 ottobre nel pomeriggio con pochi e deboli tuoni, fitta e violentissima gran-
dinata, quasi asciutta, che in pochi minuti ricoprì il suolo di grani di diversa grossezza,
alcuni superiori a una noce; vento moderato.
Tensione del vapore acqueo
La tensione media annua del vapor acqueo, mm. 8,3 fu superiore in generale a quella
degli anni precedenti, e così pure le medie mensili dei primi ed ultimi mesi dell’anno furono
più alte dei corrispondenti valori normali. Nel complesso l’andamento della tensione seguì
quasi regolarmente quello della temperatura, verificandosi analogo ritardo nella media
mensile più alta, che risultò quella di agosto, e nel valore estremo superiore che fu di
mm. 16,9 il 29 dello stesso mese. Una notevole irregolarità avvenne nel mese di luglio
in cui la media fu inferiore di mm. 0,9 a quella di giugno, e così nel mese di novembre
in cui la media risultò inferiore di mm. 1,0 a quella di dicembre.
Umidità relativa
Abbastanza regolari risultarono nella prima metà dell’anno i valori delle medie men-
sili, essendo discesi quasi con continuità dal valore di 81 centesimi, media di gennaio, al
valore minimo di 50 centesimi, media di luglio, che fu pure il mese che ebbe il minor
numero di giornate piovose. Nella seconda metà dell’anno non si verificò, invece, tale re-
golarità, e specialmente se ne scostò il mese di ottobre, che ebbe la media umidità rela-
tiva assai più alta di quella del mese seguente, e ciò in correlazione col maggior numero
di giornate piovose e colla maggior quantità di pioggia caduta, come si è già notato, in
ottobre. Il punto di saturazione dell’aria (umidità relativa 100) si raggiunse 4 giorni in
gennaio, 1 giorno in marzo, 2 giorni in dicembre in coincidenza con nebbie folte, con brine
o con precipitazioni. Il valore minimo dell’umidità relativa nell'intero anno fu di 23 cen-
tesimi ed accadde, come il valore minimo della tensione del vapor acqueo, il 12 novembre
alle ore 21, con vento moderato di ponente e con cielo sereno.
Nebulosità
La media generale della nebulosità, considerata in decimi di cielo coperto da nubi,
risultò eguale a 5. Se, seguendo l’uso stabilito, si chiamano giorni sereni quelli nei quali
la somma della nebulosità delle tre osservazioni giornaliere non fu superiore a 83; giorni
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misti quelli nei quali tale somma rimase compresa fra 4 e 26; giorni coperti quelli nei
quali la somma stessa risultò superiore a 26, i giorni sereni furono 59, i misti 229, i co-
perti 77. Il maggior numero mensile di giornate serene lo ebbero, luglio 11 giorni, e agosto
10 giorni; gli stessi mesi furono i soli dell’anno che non ebbero alcun giorno con cielo
coperto. Dicembre ebbe il maggior numero di giorni coperti, 15. Rappresentando ora per
maggior chiarezza in centesimi il rapporto del nuinero dei giorni sereni, coperti e misti al
numero totale dei giorni dell’anno, si ha rispettivamente 16, 21 e 63, donde risulta che
vi fu scarsità di cielo del tutto sereno e del tutto coperto e notevole prepornderanza di
cielo misto.
Provenienza e velocità del vento
Nelle 1095 osservazioni del vento 78 volte non si notò la provenienza, perchè l’anemo-
metro indicava la calma assoleta. Nelle rimanenti 1017 volte ebbero una enorme prevalenza i
venti intorno a ponente, essendosi osservato per 362 volte il vento di ovest, 256 volte quello
di sud-ovest e 122 volte quello di nord-ovest. Delle altre provenienze la meno frequente di
tutte fu quella di nord che fu osservata solo 26 volte. Se anche qui si esprime in cente-
simi il rapporto del numero delle volte in cui il vento spirò dalle singole provenienze al
numero totale delle volte osservate, si ha:
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da ciò risulta, a colpo d’occhio, la varia proporzione nella frequenza dei venti.
La velocità media generale risultò di Km. 9 all’ora. Le medie mensili furono tutte
poco elevate; la maggiore fu quella di giugno, 13 chilometri all’ora; la minore quella di
ottobre, 4 chilometri all’ora. Non vi furono giornate di uragani, nè di venti impetuosi ec-
cezionali. Vento piuttosto forte soffiò nei giorni: 8 maggio, 26 giugno e 2 novembre, tutti
del terzo quadrante, con una media diurna di chilometri 31, 28 e 29 rispettivamente.
Evaporazione
La totale quantità di acqua evaporata fu di mm. 1048, 2 corrispondente a una media
diurna di mm. 2, 9; questi valori sono sensibilmente inferiori a quelli dell’anno precedente
ed ai rispettivi valori normali. Tale diminuzione fu specialmente dipendente dallo scarso
contributo recato dai mesi estivi a cagione delle poco elevate temperature e della scarsità
di giornate serene che si ebbero in tali mesi.
L'andamento delle medie mensili seguì regolare, cioè, ascendente senza eccezione dalla
media minima di mm. 1,0 di gennaio alla media massima di mm. 5,9 di luglio, e discen-
dente, pure quasi regolarmente, da questa all’altra media minima di mm. 1,0 in dicembre.
Irregolarità si riscontrò nel solo mese di ottobre, nel quale l’evaporazione media fu infe-
riore a quella di novembre, e ciò perchè in tal mese le condizioni atmosferiche furono
sfavorevoli alla evaporazione essendovi nell’aria abbondanza di umidità a cagione del grande
numero di giornate coperte e piovose e della grande quantità di acqua caduta.
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(1) Comprende anche 1° evaporazione dei giorni precedenti in cui l’ evaporimetro rimase gelato.
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» » media 753,0 » media 5,8
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OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIO DELLA R. Università DI BoLocna (alt. 83m, 8)
— 275
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276 —
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pi BoLoona (alt. 83”, 8)
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OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'Osservarorio peLLA R. Università DI BoLoGna (alt. 83”, 8)
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Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 3
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USSERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NkLL'OsservatorIo peLLA R. Università DI BoLogna (alt. 83m, 8)
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£ APRILE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5Oz
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» » minima 745,6 » 9 » minima 20 >» A
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OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università Di BoLogna (alt. 83",8)
APRILE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale
Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza
in millimetri in centesimi in decimi del vento
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— 281 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
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— 282 —
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— 1288. —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
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OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
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» » minima 744,5 » 7 » minima 12,5
» » media 751,7 » media Da Al
Temporale nei giorni 4, 15.
— 285 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL’OsservaToRIO DELLA h. Università pi BoLoona (alt. 83”, 8)
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OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
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288 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
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289
OSsERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL OsservatoRrIO DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8)
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Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
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OUSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
pATTE NELL OsservatoRrIO DELLA R. Università DI BoLoona (alt. 83”, 8)
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| 8 OTTOBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale DIE ;
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5 Barometro ridotto a 0° C. Temperatura centigrada ES delle
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5 | 759,4) 755.7 | 7544) 756,514 d7,0 | 204 | 18,00) 20.6 | d6.1 18,0 0,2 pioggia
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18 | 758.8 | 757.6] 574 | 7079] 1 7 | 12 27 12,0
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207528) 508) 97 002 008 e ee 13,0 2,0 pioggia
2A |ITAT,4A | 746,8 | 746,9 | 747,0 10,4 | 1490 | 16,8 | 13, 8.7 11,0. | 15,3 pioggia
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23 | 754,8 | 754,8 | 753:5 | 7524] 10,0 | 11,6 | 10,2 | 169 92) 103 2,8 pioggia
24 | 754,2 154,4 | 755,2 | 754,5] 10,2 | 122) 11,0 | 123) 97) 1058 2,6 pioggia
25] 757,8 758,6 | 169,8 | 7587] 1006 |a az nz 10,6 | 11,4
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| | |
| Altezza barometrica massima 763,7 o) Temperatura massima 23) 4 3)
» » minima 746,8 » 21 » minima Sl > Qi
» » media 756,9 » media 14,0
Nebbia nei giorni 4, 5, 7, 12, 13, 14, 24, 28, 29, 30.
Temporale nel giorno 30.
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OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservarorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8)
5 OTTOBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale = Sea
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292
USsERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL OsservatorIo DELLA R. Università DI BoLogna (alt. 83”, 8)
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È NOVEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale |S E
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8 | 752,8 | 753,9 | 756,5) 754,4] 14,6 | 1772 | 146 | 176 | 10,2] 142
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13 | 759,5 | 758,6 | 758,4 | 758,8 6,8 9,6 6,8 9,9 5,0 1
14 | 753,4 | 747,7 | 744,9 | 748,7 9, $ 6, 8 3, 8,6 dI 6,7 15,3
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19 | 747,2 | 748,2 |\751,3| 748,9) 33 8,1 6,3 ne ZI9) 5,0 301
20 | 755,9 | 755,8 | 756,2 | 756,0 9, A 59 5,0 8,0 5,0 5 8
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25. | 758,13) 156,3 | 7946) Mo6,4 | 258 DER 33) 4,8 1,8 392
26] 752,2 | 751,6 | 753,5 | n524| 17 ee ec 0 1,2 | 10,0
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290 | 9R00 7582 MSA MoSÒ5 3,0 4,0 4,2 4,3 2093, 3,4 UR
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1903149058 rotta 75000) Rn Sti ir OR 0 7,4 | 94,2
Altezza barometrica massima 759, ) 1 Temperatura massima 18, 4
» » minima 734,6 » 15 » minima — 2,4
» » media 750,0 » media To
Nebbia nei giorni 14, 15, 21, 25, 26, 27, 28, 29, 30.
Brina nei giorni 22, 23, 24.
Forma
delle
precipitazioni
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia
pioggia e neve
pioggia
pioggia
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— 293 —
OssERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservaToRIO DELLA R. Università DI Boroena (alt. 83m, 8)
: NOVEMBRE 1910 -- Tempo medio dell’ Europa centrale “ABC
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+3 |Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza ® 2 E z®
5: in millimetri in centesimi in decimi del vento intara [MIE
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20. 27 2 00 3,3 40 | 40 | 63 48 0 0 0 W W S 9 dol
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ROME Ro 4,3 Lo MIST 69 0 0 0 W W_ | SW 8 1,4
23 | 300 Ro? SI 97 40) 50 49 0 0 0 | NW W SW 6 RI
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LORIESTONI N20 408 4,0 cc OT CE 68 CORO PARINI N 4 2
DO 200 206 4,9 82 76 93 54 10 d 0 | SWY| SW W 4 0,8
RION RR O 3 9678 92 89 10 | 10 FM ASNVAI MONVISO: 5 |gelato
28 | 41|4,5| 4,9 4,4 OR | S| RE 87 10 | 10 | 10 W ? W 1 {gelato
LIO O MONO 50) 93 74 97 88 10 10 10 W W W 3 1,40)
RUE NOT KONSÙ 07 6,6 OG LO DIN 95 95 LORI ZIONI [NICO W ? ? 3 1192
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» d » media 5,4 dei venti nel mese relativa nel mese
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» » media 6S h) l 0 o Si 2 8 d
(I) Comprende anche l’ evaporazione deì giorni precedenti in cui l’ evaporimetr» rimase gelato.
——1—____c———————11———————_—_—_————__j i. ;pone:i Gi _ _—iiGo.acczc a
(SsERVAZIONI METEOROLOGICHE
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Unrversità pi BoLogna (alt. 8308)
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x | 756,0 | 755,2 | 755,3 | 755,5 | DIA ezse 4 7,9 AT 6,4
DLL TITO 2 $,4 8,8 8,8 6,4 7,8 9 pioggia
TOZZI 7500 MIZScO MOLO SHOE U0N5 MT 1250 92 O
7701 ASA 754880 Mo 28 NOZIO 9, $ 10,6 ,0 IRS5 9,4 10,4
SAITORAON Io 1Ron RZ OS0A FS 10,5 13,0 59 13,3 8,4 11,0
9 | 746.1 | 745,7 | 746,4 | 746,4] 12,6 | 10,9 OSO 00 | 6,9 pioggia
10 | 748,7 |.748,4 | 748,4 | 748,5 9,0 O 8,6 10,0 8,3 9,0
i GR OA 92 8 983100 Ab pioggia
12 | 75300 | 753,6 | 755,2 | 753,9 Se CSO Mosa Mo, BS |a pioggia
CÀ NOS 2A Meo Meo 92 8,0 95 9,0 9,6 USI $, 6 :
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24 | 759,7 | 757,04) 755,4 107,4|/- 14,8 sii uo io Rose PIOSSIE
DTT, | TO%, 795,4 d7,4 î, ORIO È 4,0 ZAC È
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26 | 745,7 | 744,6 | 744,7 745,0 1,0 4,1 152 4,3 0 1,6
ST N SRO 73920 739 00 0,6 a ES o 0,2
NRE T VE ao so 00 2,9 | 23,4 pioggia
0) Td 0799 | 795,6 3 7 DU DIF DI DORLI AZ 1695 pioggia
90 ESTA IMboNON ZE 7500 208 Ds 3,9 6,0 236 3, 8
SN 1059 0688 do a 450) 5510 3,2
i |
900 oz] 534 038 9,1 DI | 00 Se 5,0 6,4 94,2
Altezza barometrica massima 769,7 g. 22 Temperatura massima 13,3 g. 8
» » minima 738,9 » 27 » minima —2,9 > 24
» » media 753,9 » media 6, 4
IIIa 4 80109, 0, TI IZ 19 TA, 105 18) 24 2a 28 27, 26, 206
Brina nei giorni 23, 24, 25, 26, 27.
OSssERVAZIONI METEOROLOGICHE
209
FATTE NELL'OsservatorIo DELLA R. Università pr Borocna (alt. 83”, 8)
. DICEMBRE 1910 — Tempo medio dell’ Europa centrale 5 È Lo
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E Tensione del vapore acqueo Umidità relativa Nebulosità relat. Provenienza 3 2 £ Ea
aS) in millimetri in centes!mi in decimi del vento STE Se
S 2365 SE
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» » » DEMRTIITE d. 4 » 31 - -
Pi i media 604 dei venti nel mese relativa nel mese
Umidità relativa mass. 100 g. 5 11 ” i imi
3 SE ST N NE E SE S SW W NW in decimi
» » media 86 | QI Vo Se 13 3 7
(1) Comprende anche l’ evaporazione dei giorni precedenti in cui l’ evaporimetro rimase gelato.
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SOPRA UNTNTEGRAFO POLARE
NOTA
Prof REDERIGORGUARDUCGI
(Letta nella Sessione del 26 Marzo 1911)
CON DUE FIGURE NEL TESTO
Abbiasi una curva € (fig. 1) riferita a un sistema di coordinate polari 7 e 0 avente
per polo o e per asse polare 0%.
Ci possiamo proporre di trovare una disposizione cinematica capace di tracciare mec-
canicamente la curva €, (riferita al medesimo sistema polare ed il cui raggio vettore
indicheremo con ) tale che la differenza p — pf fra due raggi vettori ci misuri l’area
del settore oMN della curva data, in modo cioè che si abbia
P_Pi= area MN.
Indichiamo infatti in generale con » il raggio vettore di C e con dS l’area elementare
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 42
— 298 —
nel sistema di coordinate adottato ; avremo come è noto
per cui l’area del settore oMN sarà
Il "0
s=3 | rdO =p_ pp
do
Avremo perciò
370 = dp
da cui
0
I CO]
Si di
Se ora dal polo o con un raggio oN = p (fig. 2) descriviamo un arco di cerchio,
sì ha, indicando con a l’angolo che la curva €, forma con questo cerchio in N,
dp
paòo
tanga =
@ 1938 la. (01)
(2) tanga = — =
p
— 299 —
ZAN
Se ora per N, conduciamo la N,7° normale alla C,, si vede che anche l’angolo oN,T
è uguale ad a; e se consideriamo il punto È d’intersezione di N,T colla ok perpen-
dicolare al raggio vettore oN della curva data e facciamo in modo che of sia uguale
r° ;
235) sarà
la quale coincide - colla (2).
p
Per realizzare la condizione oR = — basterà prendere sul prolungamento di fo una
D
lunghezza 0Q = 2, congiungere @Q@ con N e condurre da N la NR perpendicolare a QN
2
% ; Rina:
la quale incontrerà of in A alla distanza voluta —, giacchè sì ha
De,
da cui
La normale alla curva €, dovrà dunque concorrere nel punto & risultante dalla
precedente costruzione, la posizione del quale si potrà ottenere meccanicamente mediante
due regoli ad angolo retto di cui l’ uno sia assoggettato a passare pel punto Q@ mentre
il vertice dell’angolo retto percorre la curva data ; l’altro lato dell’ angolo retto in-
contra il prolungamento di @o alla distanza voluta oR = 56
Per costruire un istrumento basato sopra questo principio conviene servirsi delle
medesime parti ausiliarie adoperate da Abdank-Abakonwitz pel suo integrafo or-
togonale (*), cioè di una rotella a bordo semitagliente che si appoggia con questo bordo
sulla carta ed è capace di ruotare sul proprio piano ma non di spostarsi normalmente
ad esso, ed inoltre, di regoli che scorrono sopra carrelli a incassatura convergente posti
nel punti Q, 0, R di un altro regolo QAR girevole attorno al polo 0. — Collocando
infatti in N, la rotella col suo asse di rotazione secondo NR ed imperniata in modo
che possa far scorrere 0 nel senso della sua lunghezza ; ponendo in N una punta ob-
bligata a rimanere sopra oN, e percorrendo con questa punta la curva data C, ver-
1
ranno realizzate le condizioni volute e il punto di contatto della rotella, ossia N,,
descriverà la curva integrale C.
(*) Cfr. Abdank-Abakanowitz — Les ZIntegraphes. Paris. Gauthier Villars 1886.
RS
Prendendo come abbiamo supposto 0@ uguale a due volte |’ unità lineare assunta,
le unità lineari che misurano le variazioni del raggio vettore corrisponderanno alle
unità superficiali delle variazioni dell’ area. — Se per ragioni di spazio e di comodità
vogliamo che queste vengano espresse in una unità diversa, basterà variare secondo
un opportuno rapporto la lunghezza 00.
Bologna, 26 Marzo 1911.
DETERMINAZIONE ASTRONOMICA DI LATITUDINE E DI AZIMUT
== i FANO (ASSE DEL FANALE)
NOA
DEL
PROF. FEDERIGO GUARDUCCI
(Letta nella Sessione del 23 Aprile 1911).
La presente pubblicazione fa seguito ad altre due già presentate a questa On. Acca-
demia (°) destinate a fornire materiale per la determinazione del geoide terrestre nell'Italia
centrale in funzione delle deviazioni locali della verticale. — Essa pubblicazione tende inoltre
a dimostrare, insieme alle altre, che pel conseguimento di visultati convenienti allo scopo
non è affatto necessario, come sì propende generalmente a ritenere, che le osservazioni di
latitudine e di azimut vengano eseguite con istrumenti mastodontici, (che non dappertutto
si possono portare e che in ogni caso richiedono gravi spese di trasporto e d'impianto), e
con esagerate minuziosità che complicano il lavoro e ne prolungano la durata con van-
taggi di precisione molto discutibili. — L’istrumento da me usato è al contrario, anche
questa volta, leggero, facilmente trasportabile ovunque e viene adoperato sopra un robusto
trepiede in piena aria, riparandolo tutt'al più attorno con una semplice tenda allorchè il
vento diviene incomodo.
Rimandando alle pubblicazioni suaccennate per quanto riguarda il metodo tenuto per
la determinazione della latitudine, mi limiterò nella presente a far notare che l’azimut fu
osservato per gruppi di puntamenti « Mira - Polare - Polare - Mira » coll’ istrumento nelle
due posizioni, diretta ed invertita, e per diverse regioni del cerchio, seguendo nel rimanente
la forma generalmente adottata come è sufficientemente posto in evidenza dal relativo
modello riassuntivo delle osservazioni e dei risultati.
Le osservazioni poterono essere eseguite tutte in tre mezze nottate circa; avrebbero
potuto durare anche meno se la nebbia non le avesse ostacolate e, come apparisce dai due
quadri annessi N. I e II, presentano errori medi dell’ ordine degli errori d'osservazione ciò
che le rende completamente accettabili.
Bologna - Aprile 1911.
(*) Determinazioni astronomiche speditive eseguite a Bologna (1908).
Id. id. eseguite a M. Catria e a M. Conero (1909).
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 43
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Valore medio my == 43.51.10.4 + 0,56
Attribuendo rispettivamente pesi 2 e 1 a ciascun valore della 1% e della 2* Serie si ha la media ponderata :
__ 0 n A do,
M G? = 150, 510 94 ae 0° 88
riduzione all’ asse del Fanale . + 0.04
all'infuori della
Valore della latitudine di Fano (asse del Fanale) TR DIO 68 an 028 riduzione al
Polo medio
Bpoca 1910, 736.
(*) Nei valori che compariscono in questa serie una delle stelle è già entrata a far parte delle coppie della Serie 1°
nella quale invece le coppie sono formate tutte da stelle diverse. — Perciò nel formare una media unica è stato attribuito
a ciascun valore della 2* Serie un peso metà di quello attribuito ai valori della Serie 1°.
(S°)
=
0.
42.
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Î |
0°..00 10. 48
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u_uoi. ( converg. dei merid. = — 0.1
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ì ( riduz direz. Pesaro == — 51.2
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Epoca 1910, 742 al Polo medio)
.
Ao) Pesaro sull'orizzonte di Fano (asse Fanale),
Quanro N. 2
Azimut (da N ad E) del Fanale di
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o Lettura sulla | Gollim. I ie Ae LO a Cn ita n° L | Scostam,
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I Epoca 1910, 742 al Polo medio)
SMR tICARITÀ DELLA STADIA
NELLA MISURAZIONE DELLE DISTANZE
IN PLANIMETRIA
MEMORIA
DEL
Prof. FRANCESCO CAVANI
letta nella Sessione del 7 Maggio 1911
(CON DUE FIGURE IN FINE).
Nelle operazioni di rilevamento planimetrico del terreno, specialmente colla Cele-
rimensura e colla Tavoletta pretoriana, si usa come metodo normale per la misura-
zione delle distanze, quello che si suol dire diretto, od anche della stadia, dal nome
che si da all’ asta graduata che, unitamente ad un cannocchiale diastimometrico, serve
per l’ applicazione pratica del metodo stesso.
E qui non è fuori di luogo ricordare come il principio su cui si fonda un tale
metodo di misurazione delle distanze possa giustamente dirsi dovuto a Geminiano
Montanari professore di matematica della nostra Università nel secolo XVII. Il
Montanari fece noto il principio della misurazione indiretta delle distanze nel 1674 (i)
e quindi più di un secolo prima dell’ inglese William Green al quale erroneamente
si attribuisce l’ invenzione del metodo fondato su tale principio, e che solo nel 1778 (2)
propose il metodo stesso perfezionando praticamente, come è doveroso dire, 1° idea del
Montanari.
Il principio esposto per la prima volta dal Montanari comprende in se tanto
quello dei cannocchiali misuratori delle distanze ad angolo diastimometrico variabile,
come | altro dei cannocchiali ad angolo diastimometrico costante e quindi il Mon -
tanari si può giustamente dire precursore del Green.
Ciò si deduce chiaramente dalla esposizione e dalla applicazione che il Monta-
nari stesso ha fatto nei suoi scritti del principio da lui ideato, poichè prescriveva
di misurare direttamente volta per volta l altezza reale di un oggetto qualsiasi a cui
(1) La livella Diottrica del Dott. Geminiano Montanari, Bologna per li Manolesi, 1674.
(2) Description and Use of an Improved Reflecting and Refracting ‘l'elescope and Scales for Sur-
veying by William Green, 1778. Citato dal Jadanza « Per la storia della celerimensura. Rivista di
Topografia e catasto, Roma, Civelli 1894.
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FS
Ho
— 308 —
sì traguardava e poi quella della sua immagine sopra di un micrometro costituito da
più fili equidistanti fra loro e in unità della equidistanza dei fili stessi (1).
La teoria della misurazione delle distanze colla stadia non è che una applicazione
di quella dell’ ottica sui sistemi diottrici centrati, e il micrometro del cannocchiale,
coi fili che danno 1’ angolo diastimometrico, e la faccia graduata della stadia debbono
essere due immagini coniugate della lente obbiettiva del cannocchiale e quindi su
piani diretti perpendicolarmente all’ asse ottico di questa lente.
Coll’ asse ottico della lente obbiettiva, supposto che su di esso si trovi 1 incro-
cicchio dei fili del micrometro, coincide la linea di collimazione del cannocchiale e
quindi stadia e micrometro debbono essere perpendicolari a tale linea.
L’ equazione della stadia
Il
D= —— H+F+C
2 Tang,
w|S
nel caso del cannocchiale comune ad anallattismo esterno, nel fuoco anteriore della
lente obbiettiva, e 1° altra
2a 0;
we
rel caso del cannocchiale anallattico del Porro ad anallattismo centrale, nelie quali
D, è la distanza da misurare,
H, la parte di stadia compresa fra i fili del micrometro,
©, l’ angolo diastimometrico col vertice nel fuoco anteriore dell’ obbiettivo nel primo
caso e nel centro dell’ istrumento nel secondo,
F, la distanza focale della lente obbiettiva
C, Ja distanza dal centro dell’ obbiettivo a quello dell’ istrumento che porta il can-
nocchiale,
suppongono soddisfatta la condizione di perpendicolarità sopra indicata ed anzi nelle
applicazioni pratiche ammettono che la linea di collimazione del cannocchiale sia
orizzontale e il piano del micrometro e quello della faccia graduata della stadia siano
verticali.
(1) Nella Zivella diottrica op. cit. del 1674 scrive il Montanari « Volendo dunque sapere
quanto è lontano qualunque luogo, che io possa vedere con detto cannocchiale, basta osservare |’ al-
tezza d’ una finestra, porta o colonna, torre o altra simil cosa, quanto spazio cioè ella occupi tra li fili
o capeli sudetti posti nel cannocchiale, e fare misurare sul luogo la giusta altezza di detta finestra
o porta ecc.
In altra edizione della Livella diottrica, Venezia, 1680 a pag. 31 scrive: Per esempio voglio
sapere la distanza dalla Piazza di San Marco a San Giorgio Maggiore: mando a misurare qualche
parte conspicua di San Giorgio. v. g. l’ altezza di una finestra e la trovo ecc. di poi stendo alla Piazza
guardo con il cannocchiale a quella finestra, e trovo che ella tiene nella reticola spazi) ecc,
Se
Questa condizione bene spesso in pratica non può essere soddisfatta; la linea di
collimazione del cannocchiale deve inclinarsi o sopra o sotto all’ orizzonte per poter
collimare alla stadia.
In tali casi per applicare le equazioni della stadia si possono seguire due metodi
e cioè:
o inclinare la stadia alla verticale di un angolo eguale a quello di cui si inclina
la linea di collimazione all’ orizzontale, così da rendere quella perpendicolare a questa ;
o tenere la stadia verticale, determinando su di essa la parte H, compresa fra i
fili del micrometro e calcolando poscia quella ZH che vi dovrebbe essere compresa e
dovrebbe servire a risolvere le equazioni della stadia.
Il primo metodo presenta gravi inconvenienti nella pratica, cosichè sovente non è
neppure applicabile; ha il vantaggio che una inclinazione anche sensibile della stadia
alla perpendicolare alla linea di collimazione, non influisce sensibilmente nella misu-
razione della distanza e per questa ragione da alcuni e in alcuni luoghi è il preferito.
Il secondo metodo non presenta inconvenienti nella sua pratica applicazione ; ha
lo svantaggio che una inclinazione anche piccola della stadia alla verticale produce
un errore sensibile, non trascurabile in generale, nella misurazione delle distanze.
Lo studio di questo errore è lo scopo della presente Nota.
TÈ
L’ errore che sì ha, nella misurazione delle distanze inclinate all’ orizzonte, pro-
dotto da una deviazione della stadia dalla verticale, è stato studiato dal Werner (1)
dal Jadanza (2) dal Jordan (3) dal Prevot (4) dal de La Barcena (5) dal
Borletti (6) e da molti altri (7).
(1) C. Werner. Die Tacheometrie und deren Anwendung bei Tracestudien. Lehmann et Wentzel.
Wien 1873.
(2) Jadanza N. Sullo spostamento della lente anallattica e sulla verticalità della stadia. Atti della
R. Accademia delle scienze di ‘l'orino, Vol. XXIII. Torino, Stamperia Reale 1888.
— Jadanza Geometria pratica. Torino, Vincenzo Bona 1909.
(3) Dott. W. Jordan. Handbuch der Vermessungs Kunde. Stuttgard J. B. Metzler, 1893.
(4) Prevot Eugene. Topographie, Paris, Dunod 1898-1900.
(5) De la Bircena. Tratado de l'aquimetria Madrid E Cuesta 1882.
(6) Borletti HF. Celerimensura. Manuale Hoepli, Milano, Hoepli 1893.
(7) Si possono pure citare.
— Orlandi ing. Giuseppe. lacheometria, Corso pratico di ‘l'opografia numerica, Sassari G.
Gallizzi e C. 1894.
— Meyer Jean. Mémoire sur la stadia "l'opographique et son application. Paris, Baudry et C. 1885.
-- Cerri ing. Angelo. Deviazioni della stadia, Politecnico Anno XLII Milano 1894.
— Wagner Carl. Ueber die Hiilfsmittet der l'achymetrie, in besondere iilber die Vorziige der
schiefen Lattenaufstellung. Zeitschrift fir Vermessungswesen, Stuttgart 1886.
— Baggi V. Trattato elementare completo di Geometria pratica. Topografia parte seconda. Torino,
Unione ‘l'ipografica editrice, 1895-1898.
OE
In generale è stato considerato uno solo dei casi che si possono presentare nella
pratica, estendendo alle volte la formola trovata anche agli altri casi, ma spesso in
modo non esatto. Inoltre lo studio è stato fatto per lo più collo scopo di arrivare ad
una formola semplice, spesso teorica e di poco pratica applicazione, ed anche non del
tutto esatta, come nei casi in cui è stato determinato )’ errore in funzione di quan-
tità da misurare sulla stadia inclinata alla verticale e che dipendono esse stesse dal-
l’ errore che si ricerca, e negli altri casi in cui si è presa la lettura mediana della
stadia, che corrisponde al filo di mezzo del micrometro e quindi alla linea di colli-
mazione del cannocchiale, eguale aila semisomma delle letture degli altri due fili che
corrispondono all’ angolo diastimometrico adoperato, lo che non è giusto se non quando
ia detta linea è perpendicolare alla stadia.
Ad una formola semplice si può arrivare, e molto facilmente, ma solo con una
soluzione approssimata del problema.
La ricerca di questo errore non si fa per correggere l’° errore stesso, poichè ciò
non sarebbe possibile, e perchè si deve sempre supporre di non commetterlo. Si fa
per determinarne 1’ influenza nella misurazione indiretta delle distanze, per dedurne la
necessità di evitarlo, e per stabilire quali regole si possano seguire nella pratica per
renderlo minimo in ogni caso e quindi trascurabile.
LOC
Con un cannocchiale diastimometrico da un punto A si collima ad una stadia
disposta verticalmente su di un punto 5, e si determina la parte di stadia ab = 4,
compresa fra i fili del micrometro, che sottendono 1 angolo diastimometrico @, dalla
quale colle note formole si ottiene la distanza 48 = D ridotta all’ orizzonte.
La linea di collimazione del cannocchiale può essere, per le condizioni locali,
diretta o sopra o sotto all’ orizzonte del centro dell’ istrumento che porta il cannoc-
chiale e che è in istazione nel punto A. Quindi 1 angolo @ di inclinazione all’ oriz-
zonte di detta linea di collimazione, può essere un angolo di elevazione, come nel caso
della fig. 1 oppure un angolo di depressione come nel caso della fig. 2.
La stadia invece di avere la direzione verticale, può essere, per errore, inclinata
a tale direzione di un angolo a o indietro allontanando, o avanti avvicinando la parte
superiore di essa al cannocchiale.
Per questa inclinazione della stadia alla verticale si ha un errore in più od in
meno, a seconda dei casi, nella parte ab di stadia compresa fra i fili, che porta di
conseguenza ad un errore nella determinazione della distanza orizzontale D fra i punti
ANCRESI
Nella pratica si possono presentare 4 casi che conviene considerare separatamente ;
due di essi si riferiscono alla linea di collimazione diretta al disopra dell’ orizzonte
ed alla stadia inclinata indietro od avanti, e gli altri due alla linea di collimazione
— 311 —
diretta al disotto dell’ orizzonte ed alla stadia parimente inclinata indietro od avanti.
Le formole che si trovano in questi 4 casi si riuniscono facilmente in una sola
quando si usi di una soluzione approssimata del problema; 1 unione di tali formole
in una sola riesce molto più complicata quando il problema lo si voglia risolvere
esattamente.
Sull’ errore che si vuole determinare influiscono 5 quantità variabili che rendono
il problema molto complesso e che sono gli angoli @, @& ed © sopra indicati, la parte
ab di stadia compresa fra i fili e ]’ altezza verticale sul punto 28, di quello in cui
la linea di collimazione del cannocchiale incontra la stadia o meglio | altezza aB = @
o l’ altra 6B = di uno dei punti estremi del segmento ab sul punto 2 del terreno.
Se si considerano tutte 5 queste quantità variabili si hanno formole esatte per
la determinazione dell’ errore che si cerca; formole che sono complicate e che non
possono convenientemente semplificarsi.
Se si eliminano alcune di quelle 5 variabili si hanno formole approssimate e
abbastanza semplici. La semplificazione più comunemente usata, e giustificabile, si è
quella di trascurare | angolo diastimometrico @, ed allora le formole, che danno l° er-
rore cercato, sono pure indipendenti dal punto in cui la linea di collimazione incontra
la stadia; non dipendono che dalle quantità @: ed a, potendosi eliminare anche il
segmento «0 col considerare 1’ errore riferito all’ unità di distanza.
Le formole, che danno l’ errore che si cerca, ridotte alla loro forma più semplice,
potrebbero ritenersi troppo poco approssimate ed allora si può usare, come vedremo,
di una formola abbastanza semplice di correzione ai risultati ottenuti con esse.
ING
è
Consideriamo il 1° caso, ossia quello in cui la linea di collimazione è sopra all’ o-
rizzonte con un angolo @ di elevazione e la stadia è inclinata indietro di un angolo a.
Facendo uso di tutti i simboli precedenti e indicando con 2' = a'd' (fig. 1) la
parte di stadia inclinata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, si ha che
gli angoli dei due triangoli aBa', bBD' hanno rispettivamente i valori
O
dota di 90+PD+-
0) %
O O
00 See reg
Pigi, d_- a 3
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 45
così che da tali triangoli si ricava
COS (È — .
cos(d+a—3)
COS (1 na 5)
DIBI= —
To)
COS (9 + a 3)
dA Bi=tad
e quindi la parte 7" di stadia compresa fra i fili, affetta dall’ errore di verticalità e
che si determina colla lettura del cannocchiale diastimometrico, è
La l' ha sempre un valore maggiore di quello della Z e quindi 1° errore che si ha in
questo caso è sempre in più. Ciò si può dedurre molto facilmente dalla equazione (1)
trasformata nel modo seguente,
Indicando con X' e X'' rispettivamente i coefficienti di d e di a ed osservando
che
bza+l È
si ottiene
= K'l1+a(K'— K'.
Ciò fatto basta osservare che i due coefficienti X' e X' sono’ entrambi maggiori
dell’ unità, poichè le frazioni che li costituiscono hanno tutte e due il denominatore
minore del numeratore, essendochè gli angoli nei denominatori sono rispettivamente
maggiori di quelli dei numeratori e quindi i coseni minori. Ne consegue subito che il
primo termine X'Z del valore di 7 sarà maggiore di /.
Se poi si riducono i coefficienti frazionari X' e X'' allo stesso denominatore, si
trova che la differenza X' — K' viene espressa dalla formola.
sen a sen Q
IO) _ 2
d
cos — Sen (D+ a).
colonia
Essendo | angolo piccolissimo e l angolo D+ a sempre inferiore ai 45 gradi
(OSS;
si ha che la formola ora trovata avrà sempre davanti a se il segno + e quindi il
secondo termine del valore di /' sarà positivo, lo che contribuisce ad aumentare il
valore di l' in confronto ad /.
Questa conclusione poteva dedursi facilmente in questo caso anche dalla semplice
ispezione della fig. 1.
Considerando il 2° caso, quello cioè in cui la linea di collimazione fa un angolo P
di elevazione coll’ orizzonte e la stadia è inclinata in avanti di un angolo a (fig. 1)
mantenendo gli stessi simboli e indicando con 2" = d' d'' la parte di stadia incli-
nata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, sì ottiene una formola analoga
alla (1) considerando i due triangoli «Ba'', bBb'', gli angoli dei quali banno rispet-
tivamente i valori :
(5) O
CO = = Olga
+3 d—-?
A (0,0
Ig ata
3 (19)
5 Sed
La formola che si ottiene è la seguente :
La determinazione del segno della differenza fra /'"" ed 7 non è in questo caso così
semplice come nel precedente, e come in generale è stata ritenuta, poichè a seconda
ri e quantità variabili che entrano in tale differenza a È re in
dei valori delle quantità variabili che entrano tale differenza, essa può essere
meno od in più.
Indicando, come si è fatto nel caso precedente, con X' e X'' i coefficienti di d e
7 b)
di a sì ottiene qui pure
= Kl+a(K — K').
I coefficenti frazionari £' e X'' della (2) sono minori dell’ unità quando @ —
e K' è pure minore dell’ unità anche quando solo (Mar > a, poichè allora gli an-
goli nei denominatori sono minori di quelli dei rispettivi numeratori, i cosenì dei primi
maggiori di quelli dei secondi e quindi le frazioni minori dell’ unità.
— silld —
Se si verificano le diseguaglianze inverse, allora, nen avendovi influenza i segni,
finchè gli angoli
a-(9+3) ed a-($—$)
sono minori di quelli dei corrispondenti numeratori, rimangono le frazioni minori del-
l’ unità, ma crescendo gli 4 al disopra del doppio degli angoli dei numeratori, i primi
angoli possono diventare maggiori dei secondi e quindi i denominatori minori dei
numeratori e i coefficienti X° e X' maggiori dell’ unità. Ciò evidentemente può suc-
cedere anche solo per il coefficiente X''.
Il caso più comune della pratica è quello in cui i detti coefficienti sono minori
dell’ unità, ma è utile sapere, e conviene alle volte ricordare, che possono essere anche
maggiori dell’ unità,
Quando X' è minore dell’ unità, il primo termine X'! del valore di ?" è minore
di e quindi per questa ragione si avrebbe un errore in meno.
Se ora si riducono i coefficienti frazionari X' e X' allo stesso denominatore, si
ottiene che la loro differenza X' — X' è espressa da
— sen «a sen ®@
CSS 5
xo ny
COS — — sen — a
Le)
; } i 5 5 : o @
ed è sempre negativa per i valori che possono avere in pratica gli angoli 5; Deda.
Ne consegue da ciò che nell’ ultima formola che dà il valore 7, si avrà il secondo
termine del secondo membro che sarà negativo ed il valore di /'' diminuirà così
sempre più, riuscendo iu questo secondo caso in generale Z" < e quindi | errore
in meno.
Se poi crescendo a, come sopra si è detto, i coefficenti X' e X'' diventassero mag-
giori dell’ unità, si può avere un errore in più, quando nel primo termine del valore
di 2'', il coefficiente X' faccia crescere il termine stesso X' di tanto che anche dimi-
nuito del secondo termine, rimanga sempre maggiore di /.
In pratica i valori dell’ angolo @ sono tali in generale da avere in questo secondo
caso quasi sempre un errore in meno. Up errore in più si può avere per piccoli
valori di @ e per valori relativamente grandi di a.
Con una applicazione numerica s1 possono meglio far vedere le deduzioni sopra
esposte.
Supponendo
di collimare col filo inferiore del micrometro ad un punto della stadia alto m. 1
sul terreno, così che sia a = |] i
— 315 —
di avere la parte / di stadia compresa fra i fili del micrometro eguale a m. 2
così che sia db = 3
di fare uso di un angolo diastimometrico eguale a 0°. 34'. 22", 63 che corrisponde
ad uno dei più comuni rapporti diastimometrici, a quello cioè di 1:100, e così di
LAI
ln) IO.
avere 3 = 0°, 17', 1l'" trascurando le frazioni di secondo :
e dando agli angoli $ ed « diversi valori, si può calcolare colla formola (2) la
seguente tabella :
P A | Goefficienti pei Errore
gradi | gradi 1 K' Jie 1° termine | 2° termine | differenza | jin più in meno
sessag.:Se8S25- metri metri metri metri metri metri metri
1 fl 0,99976 0,99994 2490928 0,99994 | 199934 —_ 0,00066
|
I 3 1,00020 1,00072 3,00060 1.00072 1,99988 — 0,00020
I 8 1,00665 1,00806 3,01995 1,00806 | 2,01189 0,011S9 = |
3 Il 0,99916 0,99933 2,99748 0,99933 | 1,99815 _ 0,00185
3 6 0,99948 1,00052 299844 1,00052 199792 = 0,00208
|
3 8 1,00174 1,0031414 3,00522 1,00314 2,00208 2,00208 = |
| |
Crescendo @ gli angoli a per i quali si avrebbero errori in più, dovrebbero essere
sempre maggiori di quelli qui considerati, ma ciò non è ammissibile nella pratica,
dovendosi ritenere esagerato anche 1 angolo d° errore di 8°.
Il 3° caso è quello in cui la linea di collimazione sia diretta sotto all’ orizzonte
con un angolo @ di depressione e la stadia sia inclinata indietro dalla verticale di
un angolo « (fig. 2).
Conservando le solite notazioni, e indicando con l'" = a''D' la parte di stadia
inclinata, compresa fra i fili del micrometro, basta anche in questo caso considerare
i due triangoli «Ba'' bBb''', gli angoli dei quali sono rispettivamente
(09) (0)
90 —-Gd—-- 90— D+:
A a)
5 (6) (0)
OSSA O0igae
e che danno :
(f9) 5 lt)
COS 3 COS P -H=- 3)
==),
O ò)
cos(F_ra— 5) cos (a+ 3)
e,
Anche in questo 3° caso la determinazione del segno dell’ errore non è semplice
come nel primo e non si può, come si fa comunemente, dedurla dal caso stesso senza
considerazioni speciali.
Indicando come nei casi precedenti con X' e X'' i coefficienti frazionari di d e
di a si può avere il valore di '' espresso colla solita formola
‘' — K'1+a(K' — KE").
Confrontando fra loro le equazioni (2) e (3) del 2° e 3° caso. si vede che i coeffi-
cienti di d e di a sono scambiati; il coefficiente di d nella (3) è eguale al coeffi-
ciente di a nella (2) e reciprocamente quello di a delia (3) è eguale al coefficiente
di d della (2).
Ne risulta quindi che per i coefficienti X' e X' di questo 3° caso si debbono
ripetere tutte le osservazioni fatte per i coefficienti del 2° caso precedente, solo
tenendo conto della loro inversione.
Il coefficiente X' è in generale minore dell’ unità e quindi il primo termine X'/
del valore di /''' è minore di / e per questa ragione si avrebbe /'"< e quindi un
errore in meno.
La differenza K' — X' è positiva per |’ inversione dei coefficienti di questo caso
rispetto al 2°, e quindi il secondo termine del valore di 2''' è positivo e non con-
corre così coll’ altro termine a fare diminuire il valore di 7" come nel caso pre-
cedente.
Se la diminuzione del termine X'/ è tale che anche aggiunto ad esso il valore del
secondo termine si abbia una quantità minore di 7, si avrà un errore in meno.
Se il secondo termine ha valore tale che aggiunto a X' dia una quantità supe-
riore ad 7, ed anche se l° angolo a è tale che il coefficiente X' sia superiore all’ u-
nità, si hanno due ipotesi, in ciascuna delle quali ) errore è in più.
In generale dovendo considerare gli angoli $ grandi e gli a piccoli, gli errori
che si avranno saranno in meno.
Una applicazione numerica potrà anche in questo caso far vedere chiaramente i
risultati delle deduzioni sopra esposte.
Con valori numerici, che in parte sono quelli considerati nel caso precedente, sì
ottiene la seguente tabella.
— 317 —
P d Coefficienti pori Errore
gradi | gradi K' Res I° termine | 2° termine | differenza | in più in Lei
sessag.| sessag. meri metri metri metri metri metri metri
1 0,30 0,99993 0.99984 2,99979 099984 1,99995 | — 0,00005
I | 0,99993 0,99976 299979 0,99976 | 2,00003 | 0,00003 —
I 2 1,000L7 0,99982 3,00051 0,99982 2,00069 |._0,00069 | _
1 3 1,00072 1.00019 3,00216 1,00019 | 2.00197 | 0,00197 —
2 { | 0.99963 | 099946 | 299889 | 0,9996 | 199943 | ana
2 3 0,999S1 0,99928 2,99943 0,99928 2,00015 | 0,00015 —
2 4 100035 | 0,99965 | 3,00105 | 0,99965 | ‘200140 | 0,00140 na
2 | 5 | 100120 | 1,00032 | 300360 | 1,00032 | 200328 | 000328 ?
3 | 0,99933 0,99915 2,99799 0,99915 1,99S84 = 0,00116
3 3 0,99889 0,99837 2,99667 0,99837 | 1,99830 = 0,00170
3 Ò 0,99967 0,998S0 2,99901 0,99850 | 2,00021 0,00021 -
3 6 1,00052 0,99947 3,00156 0,99947 2,00209 0,00209 =
a) Ss 1,00313 1,00174 3,00939 1,00174 2,00765 | 0.00765 =
5 1 1,99871 0,99854 2,99613 099854 1,99759 = 0,00241
5 3 0,99707 0,99654 2,99 124 099654 1,99467 si 0,00533
1) 5) 0,99663 0,99576 2,98959 0,99576 1,99413 = 0,00987
5 Ss 0,99826 0,99686 2,99478 0,99686 199792 | — | 0,00208
5) 12 1,00497 1,00260 3,01491 1,00260 2.01231 0,01231 =i
Questa tabella fa vedere giustificate tutte le conciusioni dianzi esposte. Il valore
di « per il quale sì ha il passaggio dall’ errore in meno a quello in più, cresce, come
si era già visto, al crescere di @..Per $@ piccoli si possono verificare nella pratica
errori in meno ed errori in più, poichè sino a 4° o 5° si può supporre che possa
arrivare il valore di a. Per @ superiori ai 5° si avranno sempre errori in meno,
poichè non sono possibili angoli a così grandi da cambiare i segni agli errori stessi.
Il 4° caso si ha quando la linea di collimazione è diretta sotto all’ orizzonte di
— 318 —
un angolo P di depressione e la stadia è inclinata in avanti dalla verticale di un
angolo @ (fig. 2).
Colle solite notazioni, indicando con l = a"“d! la parte di stadia inclinata alla
verticale e compresa fra i fili del micrometro, ed osservando che i due triangoli
aBa' bBb' hanno rispettivamente gli angoli :
O)
90 SED VERO
O a
O ° A)
OOO he I
sì ottiene
O) O)
COS ( —;) COS (È 3)
(4) v=b —7
O
cos (p+a—3) cos (f+0+2)
Indicando come negli altri casi con X' e X' i coefficienti di d e di « 1 equa-
zione (4) sì trasforma nell’ altra
w—=Kl+a(K — K')
Osservando i due coefficienti frazionarii X' e X'' si vede che essi sono eguali a
quelli della formola (1) del 1° caso e sono soltanto scambiati fra di loro, così chè
il coefficiente X' della (4) è eguale al X' della (1) e il X' della prima è eguale
al X' della seconda.
Si può quindi concludere che i due coefficienti frazionari saranno sempre maggiori
dell’ unità, ma che in questo 4° caso si avrà XK' < XK" e quindi la differenza K' — K'
negativa per inversione dei coefficienti di questo caso in confronto al 1°.
Il primo termine X7 del valore di /! sarà quindi sempre maggiore di 7, ma il
secondo termine sarà negativo. i
Riducendo allo stesso denominatore i due coefficienti X' e X' si ha che la loro
differenza, che è il coefficiente di a in tale secondo termine, sarà dato da
— sen a sen
- 20 -2 x
cosg — Sen |Ppta
fa
Questa espressione, per i valori che possono avere in pratica gli angoli @, & e
P fa vedere che il coefficiente di a, dell’ ultima equazione sopra scritta, sarà sempre
— 319 —
espresso da una quantità di molto inferiore all’ unità. Così ad esempio coi seguenti dati
P= 305, @= 5°, @= 340 220 e IO 2 AMO
Se — 000 2.119.
Da tutto ciò ne consegue che in questo 4° caso si può ritenere che sia > / e
che si abbia quindi in generale un errore in più
Dalla (4) però si desume che per D = 0, 0 per $ molio prossimo allo zero, si può
avere (“ <l. Ciò si desume pure dal fatto che per P=0 il 4° caso si confonde
Cola
L’ errore nella misurazione indiretta delle distanze, dovuto alla inclinazione della
stadia alla verticale, sì può determinare con formole approssimate, eliminando alcune
delle 5 variabili dalle quali 1° errore stesso dipende.
Il procedimento più semplice e più ovvio è quello di considerare, parallele fra loro
e alla linea di collimazione del cannocchiale, le due linee di mira determinate dai fili
del micrometro che danno la parte di stadia da cui si deduce la distanza. Con questa
ipotesi si trascura il valore dell’ angolo diastimometrico @ e ne consegue la elimina-
zione della variabile a, dell’ altezza cioè sul piede della stadia, ossia sul terreno, del
punto in cui questa è incontrata dalla linea di mira che corrisponde al filo inferiore
del micrometro, poichè la parte di stadia / = ab compresa fra i fili del micrometro
stesso non varia al variare della sua altezza dal terreno. Rimangono le variabili @,
ARCA. :
Ammessa questa ipotesi, come più volte è stato fatto, se si considerano i 4 casi
(fig. 1 e 2) che si possono presentare nella pratica e se si indicano rispettivamente con
PRG, ed .Z,, le parti stadia ad
NI SQUAT LNgle?
metro e determinate dalle parallele alla linea di collimazione condotte per i punti
a,b,, a,b, ed ab, comprese fra i fili del micro-
a e b e inclinate tutte all’ orizzontale di un angolo @ di elevazione o di depressione,
e se si conducono per i punti a,, @,, 4@,, € a, delle verticali ad incontrare nei punti
Ci ©; ©; € c, le linee di mira del filo superiore del micrometro, si hanno i trian-
goli @,0,c,; (0,6, 4,b,c, ed ad,c, dai quali si ricavano le formole seguenti :
, cos P ; cos D
! cos (P+ a) î cos (P— a)
03 P A cos È
8 cos(d — a) 1 cos(p+a)
Le formole del 1° e 4° caso sono identiche e sono pure identiche fra loro quelle
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 46
o
del 1° e 3°, cosichè le formole sopra scritte si riducono a due sole
cos PD
(5) == A
cos (P+ a)
:0S D
(6) ,=l eni
de
Da queste formole si deduce che nel 1° e 4° caso si può ritenere la parte di
stadia compresa fra i fili del micrometro inversamente proporzionale al coseno del-
l’angolo somma dei due @ ed a e nel 2° e 3° caso inversamente proporzionale al
coseno dell’ angolo differenza fra P ed a.
Si possono pure dedurre, per il segno dell’ errore nei varii casi, regole analoghe
a quelle determinate precedentemente colle formole esatte. Si vede subito che nel 1°
e 4° caso l’ errore sarà in più; nel 2° e 3° in meno quando @ > a, come succede
generalmente, poichè allora 1° angolo del denominatore della (6) sarà minore di quello
del numeratore. Nel 2° e 3° caso sarà pure in meno sino a che a'non superi 29.
quando a > 2P Il errore sarà in più.
Le formole ora trovate non sono sufficientemente approssimate in molti casi e
possono servire a dare un idea degli errori, ma non a valutare sempre l° entità degli
errori stessi.
Infatti l’ angolo diastimometrico @,.che si trascura, ha in generale uno dei due
valori seguenti :
TO 00 22°, 03
INR i Soa l ix
che corrispondono ai rapporti diastimometriciì 50 e 100 più comunemente adoperati
nella pratica.
Alle volte si usa anche | angolo diastimometrico
ZOO
l
corrispondente al rapporto -;-
ZO
, ma in modo apparente e non reale, poichè non vi
sono nel micrometro del. cannocchiale i fili che a tale angolo corrispondano, ma sì
ottiene il rapporto relativo ad esso dalla media di 2 determinazioni della distanza
l l
col rapporto di — 0 di 4 con quello di ——.
50 100
(i
Per i suindicati valori dei più comuni e più grandi angoli diastimometrici, si
vede subito che se @ od anche solo — è trascurabile in confronto all’ angolo 9 che
p)
—- 321 —
può avere in generale, un valore di molti gradi, non lo è in confronto ad a che non
potrà avere un valore se non inferiore ai 2 o 3 gradi.
Le formole approssimate (5) e (6), che sì potevano dedurre anche direttamente dalle (1),
(2), (3) e (4) mettendo in esse - = 0, non possono quindi servire a risolvere con-
2)
venientemente il problema di cui qui si tratta, sia per la poca approssimazione dei
risultati che da esse si ottengono nelle applicazioni numeriche, sia perchè non distin-
guono esattamente i varii casi che si possono presentare nella pratica e non fanno
risaltare le differenze fra i casi stessi. Per il 4° caso, ad esempio, non dimostrano
la possibilità di un errore in meno.
WIL
Per usare le formole approssimate trovate precedentemente e passare da esse, quando
lo si voglia a formole esatte, si possono determinare delle formole speciali di corre-
zione alle prime che ne rettifichino i risultati e li rendano esatti, oppure anche tali
da discostarsi da questi di quantità trascurabili, quando si vogliano semplificare tali
formole di correzione in modo approssimato, ma con approssimazione sufficiente in
ogni caso della pratica.
Considerando il 1° caso (fig. 1) si vede subito quale sia la relazione fra la parte
di stadia a'b' compresa fra i fili del micrometro, quando le linee di mira, determi-
nate da tali fili, fanno fra loro l’ angolo diastimometrico ®@ e la parte di stadia 4,d,,
compresa fra i fili stessi, quando tali linee di mira si suppongono fra loro parallele.
La differenza fra |’ una e l’altra di tali parti di stadia è data dalla somma dei due
segmenti d'a, e d,0', così che chiamandola dZ, si ha
= d'a, ii bb
è
Per determinare i valori dei due segmenti d'a, e bb basta considerare i due
triangoli aa'a,, bb,b' che hanno rispettivamente gli angoli
e dai quali si può ottenere
sen —
9
5 2
00)
l 1 tà)
COS (9 +0 — 3)
2
6)
sen —
s 2
D'oA===100
I U d
COS (9 +a+ 3)
Considerando poi i due triangoli «Ba, bb, che sono simili ed hanno gli angoli
90+g, a, 90—-p—a
si ‘ottiene da essi, ‘colle solite ‘posizioni di Ba —ra e Bb =.
sen sen a
al, si === DÒ, = OR
cos (P+ a) cos (P+ a)
Con tutti i valori ora trovati si può avere
n) (h)
sen a sen sen a sen —
2 Pa
di, =@ +-
cos ($ + a) cos (p+a—3) cos (P + a) 008 (P+a +5)
Questa formola che dà la correzione dl, da fare ad l, per avere l' può essere
semplificata, con sufilcetente approssimazione nella maggior parte dei casì pratici,
Sn ON O
quando si ammetta di trascurare l’ angolo 9 in confronto a D+ a; allora si ottiene :
(09)
sen a sen 5
d,=(a+0) -
cos (D+ a)
Con procedimenti analoghi, osservando la fig. 1 per il 2° caso di un angolo @ di
elevazione e di un angolo 4 d° inclinazione in avanti della stadia, e la fig. 2 per gli
— Yo ==
altri due casi 3° e 4° di un angolo @ di depressione e della stadia inclinata indietro
o in avanti, ed indicando rispettivamente con d/, dl, e dl, le correzioni da farsi alle
Cmc Uni
quantità /,, Z, ed 2, per avere le / /
URALI
ed l'", si otterranno le formole seguenti
(19) (1)
sen a sen — sen a sen —
9 DI)
9, &
gia x + d
008 ($ — a) cos (Ga —5) c0s (B — a) cos (G— a+ 5)
O
O)
sen 0. sen — sen a sen —
2 9
ded To + d
Ò)
a ser 2A De Sir aa
cos (DB — a) cos (dî a + 3) cos (D — a) cos (9 A 3)
Tn) To)
sen a sen — sen a sen —
2 2
dl, =a gir?
7 O
D Di, di O l 30
COS (P + a) cos (9 +a+ 3) cos (PD + a) cos ($ 2 W o)
Anche per questi casì sì può ammettere con una approssimazione sufficiente che 1° an-
0 TORA: iti Ù so:
golo 3 sia trascurabile di fronte a P—a per il 2° e 3° caso ed a G+ a per il 4°.
Con questa ipotesi si ottengono le formole di correzione così semplificate.
(19)
sen a sen 5
di, =(a +5) —
cos (D — ad)
O
sen a sen —
di, = (a+)
3 — 2
cos (D — a)
O
sen a sen —
2
di, =" (&4+#- D) “È
cos (P+ a)
Osservando le quattro formole approssimate delle correzioni si vede subito che la
1° e la 4° sono eguali fra loro e così pure sono eguali fra loro la 2* e la 3*. La
semplice ispezione poi delle figure 1 e 2 fa vedere che le correzioni del 1° e 3° caso
sono positive e quelle del 2° e 4° negative.
ge
Con queste considerazioni le formole di correzione si riducono alle due seguenti :
(0)
sen & sen 5
(0) d,=d,=t(a+b0)
cos (P+ 4)
(19)
sen a sen —
8) s
( degl san
cos (P — a)
nelle quali i segni superiori sono da usarsi rispettivamente per il 1° e 2* caso e gli
inferiori per il 4° e per il 3°.
Per i segni degli errori si potrebbero anche considerare gli a ed i @ di diverso
segno nei varii casì, ma le regole relative al loro uso riescirebbero più complicate,
poichè in altre formole anche l angolo ora entra col segno positivo ed ora col
we
negativo.
Le correzioni (7) ed (8) sono sempre espresse da quantità piccole essendo gli
angoli 5 ed a molto piccoli in valore assoluto ed anche in confronto cogli altri angoli
De
O+a e P_a nella generalità dei casi.
Se ora si uniscono insieme le formole (5) e (7) e le (6) ed (8) si ottengono le
parti di stadia inclinata alla verticale, compresa fra i fili del micrometro, rispettiva-
mente nei casi 1° e 4° 2° e 3° determinate da formole che si possono ritenerefa
sufficienza approssimate. Indicando con Z,, ed /,, queste parti di stadia si ha :
4
(A)
sen a sen —
2
(9) Pe T(a+) —
cos (D+ a) 00510 =,
A)
sen a sen 3
(10) MIE I
2 cos (P — a) cos (G— a)
Qui poi si deve richiamare tutto ciò che si è detto precedentemente in riguardo
ai segni degli errori e più specialmente che 1 errore nel 1° caso sarà sempre in più,
nel 4° pure in più salvo che per $ = 0, o molto prossimo allo zero ed a piccolo, e
nel 2° e nel 3° caso sarà generalmente in meno e solo in. più in via eccezionale.
Lio
Devesi pure richiamare la regola dei segni delle correzioni rappresentate dai secondi
termini delle sopra scritte equazioni e cioè che i segni superiori servono per il 1°
@ 2° caso © ali intensi jar ICE
Si vede poi da tali equazioni che le correzioni fanno nel 1° e 2° caso crescere i
valori degli errori, ossia le differenze fra { ed /, ed 7, e nel 3° e 4° li fanno di-
minuire.
Le formole (9) e (10) si possono trasformare in espressioni un po’ più semplici,
ossia nelle seguenti.
I è
= e cos @ cos(P+ a) + (a+ bd) sen a sen .
cos (P+ a) ni
Ch È D di, NO)
Lg = —(l1cospcos(P_ a) x (1+0)senasen 5)
cos (PD — a) 7.
VAdL
Nelle applicazioni pratiche invece di considerare la parte di stadia inclinata alla
verticale compresa fra i fili del micrometro, in confronto a quella della stadia verti-
cale, conviene determinare l’ errore per unità «li stadia che si ha in causa della incli-
nazione della stadia stessa alla verticale.
Il passaggio dalle formole trovate sin qui alle altre che danno il detto errore
unitario è molto semplice. Se / è, come al solito, la parte di sladia verticale ed /'
quella della stadia inclinata, |’ errore riferito all’ unità di stadia è dato da
(203) e —_
questa formola da anche il segno dell’ errore, poichè se la differenza l' —/ risulta
positiva sì avrà un errore in più, se negativa lo si avrà in meno.
Considerando le formole (1), (2), (3) e (4) che danno il valore esatto dell errore,
si possono trasformare molto semplicemente in altre che diano 1° errore unitario ed
anche riunirle in una sola formola con doppi segni. Se si indica con € l’ errore uni-
tario che così si ottiene, si avrà la formola :
nella applicazione della quale si dovrà osservare che per ì segni superiori debbono
wie
usarsi nel 1° e 2° caso e gli inferiori nel 3° e 4°; per & i superiori nel 1° e 4° e
gli inferiori nel 2° e 3°.
Dall’ applicazione di questa formola risulterà poi che si avrà un errore in più nel
1° e 4° caso ed un errore generalmente in meno nel 2° e 3°, potendo poi 1’ errore
stesso solo in via eccezionale riuscire in più in questi due ultimi casi ed in via
ancora più eccezionale in meno nel 4° caso, quando per @ = 0, o molto prossimo
allo zero, tale caso si confonde col 2°.
La formola (12) non può essere semplificata volendo manteneria tale da dare
esattamente l’ errore dovuto nei varii casi alla inclinazione della stadia della verticale.
Considerando le formole (5) e (6) che danno un +alore approssimato dell’ errore
e applicando ad esse la (11) si ottengono due equazioni che si possono facilmente
unire insieme in una sola con doppiì segni. Indicando con €, il valore approssimato
dell’ errore dato da tali equazioni vi ha :
BE arcos:0
Î 7 cos (BP Ta) i
ricordando poi che il segno superiore davanti ad a si deve usare nel 1° e 4° caso
e il segno inferiore nel 2° e 83°. Questa formola darà evidentemente essa stessa il
segno dell’ errore €, che sarà positivo nel 1° e 4° caso, negativo in generale nel
2° -@
La formola ora trovata si può facilmente trasformare nell’ altra
(13) og (9==5) sen ( £ 5)
che meglio si presta alle applicazioni numeriche e nella quale i segni superiori da-
vanti ad a e ad si adoperano -per il 1° e 4° caso e gli inferiori pel 2° e 3°.
SN
Considerando ora la correzione da farsi alla (13) per avere un valore dell’ errore
che poco si scosti in ogni caso dal vero, e sia quindi sempre sufficientemente appros-
simato, bisogna ricorrere ai valori già trovati, ma non a quelli esatti perchè si rica-
verebbe una formula non meno complicata della (12).
Conviene ricorrere alle formole (7) ed (8) colle quali si ha sempre una sufficiente
approssimazione. Tali formole danno gli errori in valore assoluto e per trasformarle
in altre che diano i valori unitarii basta dividerle per /. Riunendole in una sola e
— 824 —
indicando con de, la correzione si avrà
a+ dD O
Sen & Sen —
che è meglio scrivere in quest’ altro modo
sa a+ d
(14) AETTZE
I cos (PT a)
sen (# a) sen (e
ws
)
per poter applicare la convenzione generale per i segni, già data per la formola (12)
e cioè che per l’ angolo a i segni superiori servono nel 1° e 4° caso e gli inferiori
nel 2° e 3° e per l’ angolo 5 l superiori per i 1° e 2° e ali imtasioni ae dl 80
n°,
4° caso.
Le formole (13) e (14) si possono pure riunire in una sola che, detto €, il valore
risultante, può con poche trasformazioni ridursi alla seguente :
(15) n-__l2en( +3) c08($£ a)sen (29) +
+ (a+ d)sen (#3) sn(5)|
da applicarsi colla convenzione solita già stabilita, che per 4 o per l segni supe-
WIR
Tiori servono, nel 1° e 4° caso e gli inferiori nel 2° e 3° e per > quelli superiori nel
1° e 2° e gli altri inferiori nel 3° e 4°.
Per fare delle applicazioni numeriche si può supporre / = 1 ed allora d =a+ 1
e la (12) diventa
COS ( = 5) COS (9 re 5)
(IZ) e=(0+1) — a — l
3 ,
cos (0ora=3) cos (fax 5)
la (13) non cambia e la (14) diventa
2a + 1 O
(14) de = —— sen ( a) sen (- 3)
cos @ 22.0)
Le,
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. AT
SES ORA
Colla formola (12') che offre il valore esatto dell’ errore, colla (13) che da il
valore approssimato dell’ errore stesso, si è calcolata la seguente tabella A nella
quale sono pure riportate le correzioni della (14') ed i risultati che si ottengono
unendo insieme le (13) e (14') e quindi nei casi in cui si volesse applicare diret-
tamente la (15).
La tabella A è calcolata, usando per @, come nelle applicazioni numeriche prece-
denti, il valore 0°, 34', 22'', supponendo pure a= 1 e considerando diversi valori
degli angoli @ ed « indicati nella prima e nella seconda colonna della tabella stessa.
Per maggiore semplicità sono riportati nella tabella i valori percentuali dei singoli
errori. 1
—' 329 —
:
)
i
ù
TABELLA A.
Errori unitari percentuali.
| Angoli Formola (12’) Formola (13) Formola (14’) Somme (13) +- (14°)
pi e p.. 1 P. % der P. "o e2 D. %o
gradi
| sessag. Gasì diversi Gasì diversi Gasì diversi Gasì diversi
i DI YACI (9}0) (0)
|| 0° LO 9) 4° 10 40 90 a go Di a st LIM di ne 20 30 VO
Il |
io (1 40,042) — 0,001) +0,042| — 0,011 | +0,015 | +0015 | #0,026 | 0,026 | +0,041 | — 0,011 | + 0,041 | — 0011
De" 0216 | + 0,059 | 40,216 | 40,059 | 40,137 | + 0,137 | # 0,079 | 0,079 | + 0,216 | 4 0.058 | 4+- 0,216 | + 0,058
fo 540514 | +0250 | + 0514 | + 0250 | +0,382 | +-0,352 | +0,132 | +0,132 | + 0,514 | + 0,250 | + 0,514 | +- 0,250
|| -+-0,072 | — 0,042 | 4- 0,011 | + 0,019 | + 0,046 | — 0,015 | # 0,026 | 0,026 | 4-0,072 | — 0,041 | 4 0,011 | 40,020
1 |3|40,307 | — 0,033 | + 0,124 | + 0,151 | +-0,229 | 40,046 | +- 0,079 | 0,079 | +-0,308 | — 0,033 | #4 0,125 | #- 0,150
it | 5) 10,667 | +0.097 | + 0,360 | + 0,403 | 40,535 | +0,229 | +0,132 | 0,131 | + 0,667 | + 0,098 | + 0,360 | + 0,403
GS 0133 — 0102 | — 0054] 4 0,081 | 4 0107 | — 0,076 | +0,026 | 0,026 | +0,133 | — 0,102 | — 0,050 | + 0,081
If 3 40492] — 0215] — 0,059) +0,334| 40,413 | — 0,137 | + 0,079 | 4-0,078 | 4-0,492 | — 0,215 | —0,059 | + 0,334
St os — 0.207. 4 0.054 | ozit| eog44 | — 0,076 | +0.133 | = 0131 | 40,977 —0,207 | 40,055 | + 0,741
RNOT| 140,351 | — 0,318 | —0,264 | + 0,297 | + 0,324 | — 0,291 | 0,027 | 0,027 | 4-0,351 | — 0,318 | — 0,264 | 4- 0,297
MIO) 3 | 41,153 | — 0,859 | — 0,700 | + 0,989 | + 1.071 | — 0,779 | 40,082 | + 0,080 | 41,153 | — 0,859 | — 0,699 | 4- 0,989
non 2094 | — 1274 | dot (1,844 | 4 1,954 | — 1,143 | + 0,140 | 0,132 | + 2,094 | — 1,275) — 1,011 | + 4,814
io | 141069] — 1017 — 0.949 | + 0,997 | + 1,033 | — 0.983 | +0,036 | 0,034 | +1,069 | — 1,017 | — 0,949 | 4-0,997
| 30 i | SES | 20 = 205 | ES ES 2A EEA VIE EZIEA ZORRO
MB0|5| + 5,916) — 4604 | — 4,286 | + 5,528 | + 5.722 | — 4,445 | #0,194 | 0,159 | 45,946 | — 4604 | -- 4.286 | + 5.528
Per avere la corrispondenza fra i risultati di questa tabella e quelli delle tabelle precedenti, ad eguaglianza di angoli y
j
Nore Nei valori di Èe; della formola (14') il segno + serve per i casi 1° e 3° e il — per i casi 2° e 4°.
l
; basta dare in queste a % il valore 2, conservando per a il valore 1.
\
i
— 330 —
La tabella A conferma tutte le deduzioni fatte precedentemente e dimostra come
la formola di correzione (14') abbia una approssimazione tale da dare, unita alla (13),
valori degli errori eguali a quelli che si ottengono dalle formole esatte.
A parità di altre condizioni, sì vede da tale tabella che i maggiori errori in più
ed anche in valore assoluto, sì hanno nel 1° caso; i maggiori errori in meno, per
sensibili inclinazioni all’ orizzonte, che sono quelle più comuni da considerarsi, si hanno
nel 2° caso e quindi l’ inclinazione della stadia dalla verticale influisce meno quando
P è un angolo di depressione.
La tabella A conferma la necessità di tenere la stadia esattamente verticale, poi-
chè solo che l’ angolo F abbia un valore di pochi gradi, gli errori dovuti ad angoli
a, anche molto piccoli, non sono trascurabili.
Una considerazione speciale si deve fare per il caso di 9 = 0 che corrisponde a
quello della stadia perpendicolare alla linea di collimazione del cannocchiale. Le
diverse formole in tale caso riescono evidentemente tutte semplificate ; gli errori che
si hanno nel 1° e 2° caso sono necessariamente eguali a quelli che si hanno rispet-
tivamente nel 3° e nel 4°; gli errori per piccoli valori di a si possono ritenere tra-
scurabili e per valori di a di qualche grado sono sensibilmente minori di quelli che
si hanno per altri valori di @, lo che giustifica l’ asserzione che il metodo della stadia
perpendicolare alla linea di mira è sotto questo rapporto preferibile a quello della
stadia verticale.
Gli errori crescono al crescere di @ e quindi si deve cercare in pratica che la
linea di mira sia inclinata all’ orizzonte il meno che sia possibile.
VIE
Per applicare lo studio fatto sin qui e determinare l° errore A di cui può essere
affetta una distanza orizzontale per una certa inclinazione della stadia alla verticale,
essendo la linea di collimazione del cannocchiale inclinata all’ orizzonte di un angolo
@ di elevazione o di depressione, basta moltiplicare D per 1’ errore unitario = e.
Infatti :
La parte di stadia inclinata compresa fra i fili del micrometro è data da
Mittel
Se X è il coefficiente diastimometrico, la distanza errata ridotta all’ orizzonte sarà
—9
D,= KW el) cos P
mentre la vera distanza sarebbe
9
D= Id sp
— sol —
L’ errore della distanza D sarà quindi dato da
o =
A=D—D= KUl£el)cosp — KI cos$
1
ossia
9
INZEZIRIOI 0
e per il valore di D scritto superiormente
IN tt)
Per fare uso della tabella A basta quindi nei varii casi moltiplicare gli To per
le distanze D che si vogliono considerare, per dedurre quale sarebbe in ogni caso
l’ errore causato da una inclinazione della stadia della verticale.
IX.
Le conclusioni che si possono trarre da tutto lo studio fatto sono le seguenti :
1.° È necessario curare, nel miglior modo possibile, la verticalità della stadia,
poichè gli errori dovuti alla mancanza di tale verticalità non sono in generale tra-
scurabili.
2.° Gli errori sono i minori per @ = 0, ossia per la stadia perpendicolare alla
linea di collimazione del cannocchiale.
3.° Gli errori crescono e sensibilmente al crescere di @, ossia della inclinazione
all’ orizzonte della linea di collimazione del cannocchiale.
4.° Si deve cercare nella pratica di tenere sempre la linea di collimazione
inclinata il meno possibile alla orizzontale.
5.° Nei casi più comuni della pratica, a parità di altre condizioni, gli errori
tanto in più quanto in meno hanno valore minore per $@ angolo di depressione sotto
l’ orizzonte, anzichè per @ angolo di elevazione.
6.° Gli errori dovuti alla inclinazione della stadia dalla verticale sono sempre
in più nel 1° caso contemplato comunemente, ossia in quello di @ angolo di eleva-
zione e della stadia inclinata indietro; sono pure in più nel 4° caso, ossia quando @
è angolo di depressione e la stadia inclinata in avanti, salvo che si abbia p = 0
o molto prossimo allo zero ed a molto piccolo; sono in meno nel 2° e nel 3° caso,
ossia per @ angolo di elevazione e stadia inclinata in avanti e @ angolo di depres-
sione e stadia inclinata indietro, quando si abbiano valori sensibili di @ e si consl-
derino gli a possibili nella pratica; per piccoli valori di @ gli errori anche in
questi casi possono essere positivi.
= Do
(0)
7.° In valore assoluto, e a parità di altre condizioni, l’ errore è sempre massimo
nel 1° caso; è minimo nel 3° nei casi più comuni della pratica, e solo per piccoli
valori di @ l’ errore minore. in valore assoluto, si può avere nel 2° caso.
8.° Gli errori dovuti alla inclinazione della stadia dalla verticale si possono
calcolare colla formola approssimata (13) molto semplice, ricordando che per valori
sensibili di @ si ricavano errori minori dei veri nel 1° e nel 2° caso, errori mag-
clorienelatssfe mez
9.° Volendo determinare pure in modo semplice i valori esatti degli errori sì
può ricorrere alla formola (14') dalla quale si rlcavano le correzioni da farsi ai risul-
tati ottenuti dalla applicazione della formola (13).
X.
L’ inclinazione della stadia dalla verticale produce un errore anche nella proie-
zione verticale della dIstanza inclinata che, proiettata orizzontalmente, serve a dare
la distanza orizzontale D fra due dati punti; errore che si riproduce sulle quote
altimetriche ottenute con istrumenti di altimetria a visuale libera. Un errore consi-
mile, dovuto ad una inclinazione della stadia dalla verticale, sì ha pure sebbene in
generale molto piccolo, nelle quote altimetriche che si ottengono nelle operazioni di
livellazione con strumenti a visuale obbligata alla direzione orizzontale.
La determinazione di questi errori, che sin qui sono stati rare volte presi in con-
siderazione, potrà essere oggetto di un altro studio di completamento del presente.
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HO RREESO NELLA RIDUZIONE
IPPSREN OSS EZTONI ANTERO-ANPERNE
| RBbECLSOMERO: |
MEMORIA
DEL
Prof. ALFONSO POGGI
letta nella Sessione del 28 Maggio 1911
(CON ‘TAVOLA DOPPIA).
A seconda del meccanismo di produzione le lussazioni antero-interne dell’ omero sono
distinte in lussazioni primitive ed in lussazioni secondarie.
Le prime possono essere l’ effetto di un colpo violento applicato nella superficie poste-
riore della spalla, che spostando la testa dell’ omero in avanti, produce la lussazione: ma
oltre questo meccanismo diretto possono essere prodotte anche da causa indiretta, quando
il braccio elevato posteriormente, con forza venga spinto anteriormente nella direzione del
suo asse longitudinale.
In ambedue i casi la lacerazione capsulare interessa tutta, o pressochè, la metà ante-
riore della capsula e quel che più importa resta illesa una porzione del segmento inferiore,
oltre quello posteriore e parte del superiore V. Fig. 2° e 3°.
Le lussazioni secondarie invece si producono precipuamente con la forzata elevazione
del braccio : la lacerazione del segmento inferiore della capsula ne è una conseguenza,
unitamente alla lussazione sotto glenoide temporanea, che con un movimento di circon-
duzione, si trasforma in lussazione anteriore, per successiva lacerazione del segmento ante-
riore della stessa capsula. In questa lussazione anteriore la sede della rottura interessa
sopratutto il segmento inferiore, estendendosi però anche nel segmento anteriore V. Fig. 1°.
Già il Loreta aveva, per induzione, preso in considerazione questa diversa sede della
rottura capsulare, nella riduzione delle lussazioni sottocoracoidee. Egli riteneva nelle lussa-
zioni sotto-coracoidee da causa diretta, appunto perchè l’ occhiello capsulare era anteriore,
irrazionale per la riduzione il metodo delle trazioni a braccio elevato, giacchè 1° innalza-
mento dell’ estremo inferiore omerale doveva necessariamente essere accompagnato da un
corrispondente abbassamento della testa slogata, che andando a premere contro l’ angolo
inferiore dell’ occhiello, creava un’ ostacolo che non esisteva ad omero abbassato, nell at-
teggiamento proprio della lussazione. Per questo atteggiamento la testa omerale, in vero,
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 48
= SÒ
è in diretto rapporto collo squarcio capsulare e non trova altro ostacolo alla riduzione
che nel ciglio glenoideo, che si vince facilmente con un movimento di rotazione esterna
del braccio. Il Loreta per tal ragione raccomandava in questi slogamenti da causa diretta
di impiegare il processo a rotazione esterna del Fort, e nel suo pregievole trattato sulle
lussazioni traumatiche ne riporia un caso felicemente ridotto.
Da queste considerazioni tutte intuitive del Loreta, ho preso le mosse per istituire
ricerche sperimentali coll intento di studiare 1’ azione che la capsula a seconda delle due
principali sede di lacerazione, può avere nel fissare più o meno il capo tanto nelia sua
superficie articolare, quanto fuori di posto, in caso di lussazione antero-interna.
E poi l’ impedimento legamentoso al ritorno in posto dell’ osso slogato, è necessario
conoscerlo in tutte le sue particolarità, perchè non cede alle semplici trazioni nè all’ ane-
stesia generale come la resistenza attiva muscolare e solo è possibile vincerlo, con adatti
movimenti impressi all’ osso lussato, che richiedono evidentemente nozioni precise anatomo-
patologiche.
Nel cadavere ho prodotto una doppia serie di lussazioni sottocoracoidee, una di lus-
sazioni primarie da causa indiretta e l’altra di lussazioni secondarie, mettendo in opera
i convenienti e noti meccanismi di produzione. Poi, a lussazione ridotta, denudando le
articolazioni dalle parti molli, pelle, muscoli ecc., preparavo 1° articolazione con 1’ apparato
legamentoso, nel quale appariva evidente la lacerazione avvenuta.
Una di queste due sedi ben distinte di lacerazione capsulare, non è a ritenere che
avvenga sempre costantemente in tutti i casì nel vivo, anzi è razionale il prevedere che
possono accadere delle varianti ed anche delle eccezioni in relazione alle variabili ed
eccezionali modalità colle quali il traumatismo può a ire, nell’ accidentale produzione della
lussazione. Ma tutto ciò non toglie che le suddette due sedi principali di rottura capsulare
non possano essere prese a tipo delle presenti indagini.
Ho cominciato, dapprima, col ricercare il modo di comportarsi dei lembi capsulari
rimasti illesi, a seconda della sede della lacerazione, nei vari atteggiamenti del braccio
relativamente ai principali processi di riduzione, spettanti, s° intende, al metodo di dolcezza.
I processi manuali di riduzione sono numerosi, però quelli più in uso, si possono
ridurre a due tipi principali, e cioè in quelli nei quali le manualità sì eseguono a braccio
elevaio (Withe, Mothe) e negli altri che si compiono a braccio abbassato, in variabile
grado di abduzione, (Processo del Fort e quello del Kocker, processo misto).
Ora vediamo, come si comportava la capsula quando il braccio veniva elevato oriz-
zontalmente nel piano trasversale del corpo ed in uno stato intermedio di rotazione, ad
osso in posto.
Nei preparati a lacerazione capsulare anteriore, fissata la scapola nella posizione nor-
male ed inalzato 1’ omero fino all’ orizzontale, la testa manteneva l intimo contatto con la
superficie glenoidea come se la capsula fosse stata totalmente integra, e se si eseguivano
trazioni, anche forti, per allontanarla, essa non si discostava punto dalla corrisponaente
superficie articolare. E tutto questo perchè la parte inferiore capsulare rimasta illesa fun-
zionava quale punto di arresto dell’ elevazione del braccio, come in condizioni normali.
Notavasi pure un avvicinamento dei margini della rottura V. Fig. 2°.
egg
Se invece si eseguivano le stesse manualità in una articolazione con rottura infero-
anteriore capsulare, la testa omerale non si fissava punto nell’ innalzamento dell’ osso e
sotto la trazione si allontanava notevolmente dalla superficie glenoidea, tanto da potersi
introdurre fra le superficie articolari quasi due dita trasverse, e 1° apertura dello squarcio
si faceva beante V. Fig. 1°.
Cogli stessi preparati ripetendo l’° osservazione non più a braccio elevato ma abbas-
sato in uno stato di semplice abduzione si osservava col 1° preparato che la testa, nel-
l’abduzione, non si fissava e, colla pressione dell’ omero nell’ ascella, si poteva spostarla in
fuori di un dito trasverso circa perchè in tale posizione si rilasciava il lembo capsulare
inferiore V. Fig. 3°. Ripetendo la stessa prova col secondo preparato a lacerazione capsu-
lare infero-anteriore, sì otteneva a presso a poco il medesimo risultato.
Da queste osservazioni è permesso trarre deduzioni rispetto al grado diverso di rila-
sciamento dei lembi legamentosi a seconda dell’ atteggiamento del braccio, nei due tipi di
lacerazione della capsula fibrosa, che sono significative per giudicare dell’ opportunità 0
meno di un dato processo di riduzione.
1°. A lacerazione capsulare anteriore, |’ elevazione dell’ omero nel piano trasversale
del corpo, tende notevolmente il tratto inferiore della capsula illeso, avvicina ì margini
della rottura e fissa la testa.
2°. Nella lacerazione capsulare inferiore, nelle stesse condizioni dell’arto, i )embi
sono al massimo grado di rilasciamento, così che |’ omero si può allontanare notevolmente
dalla superficie glenoidea.
s°. A braccio abbassato, nell’ abduzione, in ambedue i casi di sede dello squarcio,
si_ha un’ analogo risultato, cedevolezza dei lembi legamentosi ed in grado minore che nel
caso precedente, circa la metà.
Pure a normale rapporto delle ossa ho creduto bene, tanto a braccio elevato quanto
nello stato di abduzione, in un grado intermedio di rotazione, esperimentare 1° azione dei
movimenti di rotazione sia esterna che interna, nel fissare più o meno la testa omerale.
Nel preparato a lacerazione capsulare anteriore, a braccio elevato, le dette rotazioni
non apportano modificazioni rilevanti nella fissazione della testa, coll’ esterna però si allarga
l’ occhiello, coll’ interna invece se ne avvicinano i margini. Nel preparato con lacerazione
inferiore le rotazioni accorciano i lembi che si attorcigliano fra le due superficie artico-
lari e le avvicinano alquanto.
Cogli stessi preparati facendo la prova delle rotazioni a braccio in abduzione, nel
1° preparato la rotazione esterna apre l’ occhiello capsulare, 1° interna chiude l’ apertura e
tende la capsula, nell’ altro preparato la rotazione interna fissa la testa nell’ articolazione,
al contrario la rotazione esterna produce la lussazione sotto coracoidea.
Il qual fatto dimostra che detta lussazione secondaria ridotta ha la possibilità di
riprodursi con una inconsulta rotazione esterna del braccio in abduzione, senza bisogno
dell’ elevazione.
Vengo ora, senza altro, a ricercare l’ importanza della diversa sede della lacerazione
capsulare, ad omero lussato, per le principali manualità di riduzione, tanto nella lussa-
— 398 —
zione sotto che intracoracoidea, questa è veramente la parte che più interessa perchè
finora in queste lussazioni è ben poco nota l’ influenza dei legamenti articolari nel facili
tare o difficultare la ricomposizione dall’ osso lussato, e le conoscenze che si hanno sono
per lo più frutto di induzioni anzichè di osservazioni dirette.
Riferisco intanto il risultato delle mie ricerche fatte col metodo a braccio orizzontale
e con trazioni, adoperando i preparati del 1° tipo a lacerazione capsulare anteriore, nei
quali era stata prodotta la lussazione sotto-coracoidea e cioè con la testa sotto il becco
coracoideo, col collo anatomico in rapporto col ciglio glenoideo e | omero in rotazione
esterna.
Se sollevavo 1’ omero conservando la rotazione esterna propria della lussazione, sotto
l’azione della trazione si riusciva a spostar la testa dal margine glenoideo e la riduzione
era possibile; ma se prima di elevar l’ omero, vi si imprimeva un movimento di rotazione
interna, la trazione a braccio orizzontale, non riusciva a svincolare la testa dal ciglio, se
non quando | omero venisse rimesso in rotazione esterna. L’ esito quindi dei processo
operatorio era subordinato allo stato di rotazione dell’ osso spostato.
Nello stesso pezzo anatomico avendo prodotto la lussazione intra-coracoidea caratte-
rizzata da uno spostamento della testa all’ interno del processo coracoideo e dalla rota-
zione interna dell’ osso se mi accingevo alla riduzione collo stesso processo, esso falliva,
anche con forti trazioni, per una singolare e tenace fissazione del capo omerale.
Io agivo come è prescritto col processo ad elevazione del Mothe. La scapola era
fissata da un assistente, poi l’ omero nel grado di rotazione proprio della lussazione veniva
alzato nel piano trasversale del corpo fino all’ orizzontale, per eseguire poi le trazioni.
Ebbene in tale posizione l’ omero si sentiva fisso come in una morsa e non solo non obbe-
diva alle trazioni ma neppure ai movimenti sia di rotazione esterna che interna.
L'aumento dell’ elevazione del braccio aumentava la resistenza degli ostacoli i quali
cessavano, come per incanto, se per poco fosse abbassato | omero o innalzato | angolo
articolare della scapola, si che avvenisse fra scapola ed omero, un lieve movimento di
adduzione, che rilasciasse, anche di poco, il tratto di lembo capsulare inferiore.
Ho voluto verificare se i punti precisi nei quali esiste la lacerazione capsulare ante-
riore potessero aver influenza, ma l’ incastro accade tanto se la discontinuità è avvenuta
per distacco della capsula dal margine glenoideo o del collo anatomico dell’ omero, quanto
nei punti intermed!.
La fig. IV è la fotografia di un preparato anatomico con lussazione intracoracoidea
primaria e distacco della capsula della metà anteriore del ciglio articolare, a braccio ele-
vato, e con la testa omerale fissa da un cingolo legamentoso, contro il margine anteriore
dlella superficie glenoidea.
È manifesto che il lembo capsulare rimasto aderente al collo omerale ed attaccato
coi suoi due estremi al polo superiore ed inferiore del contorno glenoideo imprigiona la
testa contro il margine della superficie articolare e sotto il processo coracoideo. È un vero
incastro osseo fra la testa omerale e il margine anteriore glenoideo non che 1’ apofesi
coracoldea, mantenuto dall’ eccesiva tensione legamentosa,
— 339 —
Anche se il distacco della capsula ha luogo dal collo dell’ omero, anzichè dal ciglio
articolare, la tensione del margine superiore ed inferiore dell’ occhiello che aderiscono al
collo, agiscono egualmente che l’ intera ansa legamentosa a fissare il capo omerale.
Collo stesso processo operatorio applicato nelle lussazioni secondarie, a lacerazione
capsulare inferiore, sì aveva, tanto nella sotto che infracoracoidea, normalmente una facile
riduzione. Il lembo capsulare stesso disteso dalle trazioni dell’ omero portava in posto la
testa lussata.
E la riduzione accadeva anche con lieve trazione e cioè tanto se all’omero veniva
impresso un movimento di rotazione esterna, oppure di rotazione interna.
Il risultato tanto diverso che si ha dallo stesso processo di riduzione secondo che
venga applicato alle lussazioni primarie o secondarie è intimamente legato all’ esistenza,
anche parziale, del segmento inferiore della capsula nelle prime e alla sua completa lace-
razione nelle seconde: ed è in piena relazione con quanto si è accennato, esperimentando
sugli stessi preparati anatomici, con l’ omero in normale rapporto colla superficie glenoidea.
Il metodo dell’ abduzione e rotazione esterna nella lussazione antero-interna colla lace-
razione capsulare anteriore (lussazioni primitive) ne provoca facilmente la riduzione, la
quale avviene specialmente per opera del tratto postero-inferiore del lembo capsulare.
Questa specie di cordone nella lussazione sotto-coracoidea è teso per lo spostamento in
avanti della testa omerale e per la sua rotazione esterna. Così pure è teso nella lussa-
zione intracoracoidea, non ostante la mancata rotazione esterna dell’ omero, per il mag-
gior spostamento da essa testa, subito. L° esperimento coi pezzi anatomici riguardo al
modo col quale avviene la riduzione sia col processo del Fort che con quello del Kocher,
non fa che confermare cose note, anzi dirò che la teoria emessa dal Kocher per inter-
pretare il modo d’ agire del suo processo nei vari momenti, ha trovato la più ampia con-
ferma.
La capsula adunque in questi casi non solo non oppone nessuna difficoità al ritorno
in posto dell’ osso lussato, che anzi, costituendo come un ipomoclio ai movimenti impressi
al braccio, concorre al buon esito delle manualità operatorie.
Ho messo alla prova gli stessi processi, alla riduzione delle lussazioni pure antero-
interne ma secondarie con lacerazione capsulare infero-anteriore; ed ho visto che i lembi
capsulari nè i margini della rottura si oppongono alla riduzione, però questa non accade
colla stessa facilità e costanza che nelle lussazioni primarie.
In queste lussazioni i movimenti impressi all’ omero non sono più regolati dal lembo
legamentoso postero-inferiore che è rimasto lacerato, ma dal segmento superiore capsulare
che si inserisce al collo anatomico in tutta l’ estensione compresa fra la testa ed i due
trochiti. Coi miei preparati st rivela bene la differenza che passa fra gli effetti della rota-
zione esterna sulla lussazione sottocoracoidea nei due casi di diversa sede della lacera-
zione capsulare. In ambedue le condizioni l’ aumento della rotazione esterna è utile in
quanto svincola il capo dal ciglio glenoideo, e toglie quindi | ostacolo osseo, colla diffe-
renza però che nel caso di lussazione primaria la testa è contemporaneamente spostata in
— 340 —
dietro e si impegna già nella superficie glenoidea, spostamento che non accade nella lussa-
zione secondaria, da ciò il pericolo nella rotazione interna, necessaria per completare la
riduzione, di riprodurre la lussazione.
Può aversi però una buona rotazione con lieve spostamento indietro della testa, anche
nelle lussazioni secondarie se sì ha 1 avvertenza di portare il gomito posteriormente si che
l’abduzione del braccio sia veramente nel piano trasversale del corpo e un po’ anche poste-
riore; questo movimento obbliga la testa ad impegnarsi nella superficie articolare. La cosa
si dimostra all’ evidenza col preparato anatomico e del resto è una conseguenza del fatto
che il movimento dell’omero essendo regolato dal segmento superiore capsulare che vi si
fissa sul vertice, la testa che vi sta sotto, in proporzione minore ed in ragione inversa
della lunghezza del braccio, deve seguire, nella stessa direzione, i movimenti impressi
all’ estremo inferiore, mentre nel caso di lacerazione capsulare anteriore, il fascio lega-
mentoso trovandosi inserito sotto alla testa, i movimenti del braccio si trasmettono a questa
in direzione inversa.
Le varianti sono poi più grandi quando si faccia il confronto col processo del Kocher.
Nulla ho da aggiungere per i due primi tempi del processo, abduzione e rotazione esterna
molto è a dirsi invece pel 3° e 4° momento
Quando esiste la corda legamentosa postero-inferiore i movimenti impressi all’ omero
nel 5° momento, per le ragioni già addotte, sono opportuni perchè sollevando |’ omero
anteriormente nel piano sagittale del corpo la testa altalena indietro e si impegna nel
cavo articolare mentre la pressione sul gomito verso l’ adduzione lo sposta in fuori, con-
dizioni meccaniche le più opportune perchè la rotazione interna del braccio completi la
riduzione.
Nei preparati a lacerazione infero-anteriore, lussazioni secondarie, la meccanica della
riduzione nei due ultimi tempi del processo è più o meno modificata, e non esiste più la
sicurezza dell’ esito favorevole; se non si hanno cautele speciali è possibile il ripristina-
mento della slogatura.
Con i due tipi di preparati anatomici la diferenza del meccanismo sì vede manifesta.
Col preparato di lussazione sotto-coracoidea del 1° tipo, nel 3° momento del processo,
sollevato l’ arto anteriormente se si spinge il gomito nell’ adduzione e sì ruota interna-
mente non si riproduce la lussazione che invece può avvenire, sotto le dette pratiche, coil
preparati della medesima lussazione del 2° tipo; e la ragione sta in ciò che in questa
ultima lussazione è lacerato completamente il segmento inferiore della capsula. In vero
nel sollevare il braccio nel piano sagittale mancando la corda legamentosa inferiore, la
testa non è più sospinta nel piano articolare ma si mette in rapporto collo spazio com-
preso fra il becco coracoideo ed il margine anteriore glenoideo, impegnandosi solo in parte
nella superficie glenoidea. Sicchè nel movimento di rotazione interna (4° tempo) necessario
per completare la riduzione, vi è il pericolo di riprodurre la lussazione. Infatti io ho notato
nei miei preparati, in detto 4° tempo della riduzione, che se la rotazione interna era ac-
compagnata da trazioni la testa si portava sotto il processo coracoideo per il rilasciamento
dei lembi capsulari, che se invece della rotazione interna si spingeva l omero in dietro
nella direzione del suo asse la testa veniva condotta in cavità.
— dla
Nella riduzione della lussazione intracoracoidea è evidente che se differenze si pos-
sono avere a seconda della sede della rottura, queste non potranno trovarsi nella faci-
lità o meno del movimento di rotazione esterna del braccio per trasformare la intra in
sotto coracoidea.
Nel cadavere la trasformazione della sottocoracoidea in intra si ottiene con un movi-
mento forzato di rotazione all’interno dell’ omero senza che avvengano per questo nuove
lesioni di rilievo nella capsula, e con un movimento inverso di rotazione si ripristina la
varietà di prima.
Ora nelle due varietà di preparati anatomici non ho trovato grande divario nell’ otte-
nere la rotazione esterna, indispensabile pel buon esito operatorio, nella lussazione intra-
coracoldea.
Solo dirò che in quelle lussazioni intra-coracoidee con lacerazione capsulare inferiore
sì trova qualche volta un intoppo alla rotazione efficace nel becco coracoideo che ostacola
il passaggio della testa che deve spostarsi all’ esterno. Ciò dipende dal fatto che queste
lussazioni hanno |’ abduzione dell’ omero con il gomito un po’ avanti, a differenza di quelle
a lacerazione capsulare anteriore nelle quali 1’ abduzione è veramente nel piano trasversale
ed anche un po’ posteriore. Invero portando il gomito un po’ indietro l’ ostacolo è presto
superato.
Non mi occupo delle altre cause che possano rendere difficile la rotazione esterna, o
inefficace, come quando avviene la rotazione intorno all’ asso omerale quindi senza sposta-
mento in fuori della testa, perchè sono indipendenti dalle due varietà di sede di rottura
capsulare prese in considerazione, sebbene la buona rotazione sia indispensabile per la
riuscita dei due ultimi tempi del processo.
Il processo di riduzione a braccio abbassato con rotazione esterna, misto del Kocher,
può adunque anche nelle lussazioni sotto ed intra-coracoidea dell’ omero secondarie dare
un risultato buono per riguardo ai lembi capsulari, come nelle primarie, quando si abbiano
le avvertenze speciali indicate dalle condizioni anatomiche della lesione capsulare.
Perciò il detto processo di riduzione è commendevole in quanto ha il vantaggio, su
quelli ad elevazione dell’ omero, di sottrarsi alla resistenza attiva dei muscoli.
Dalle mie ricerche sperimentali, sempre in riguardo relativamente ai lembi capsulari
rimasti illesi, si possono trarre le seguenti conclusioni rispetto alla riduzione delle lussa-
zioni sotto ed intra-coracoidee dell’ omero coi processi più in uso.
1.° La lussazione intra-coracoidea, ed in circostanze speciali anche la sotto-coracoidea,
primarie possono essere ribelli al processo di riduzione del Mothe e Withe a braccio
elevato, perchè il lembo capsulare eccessivamente disteso col margine superiore ed inferiore,
fissa solidamente la testa contro il ciglio glenoideo, ed il processo coracoideo. Coi processi
invece ad omero abbassato a rotazione esterna del Fort e misto del Krocher i lembi
legamentosi concorrono efficacemente alla riduzione di tutte e due le varietà di lus-
sazione.
2.° Le lussazioni sotto ed intracoracoidee, a lacerazione capsulare infero-anteriore,
hanno nella capsula residuata le condizioni più favorevoli per la riduzione a braccio ele-
vato. Nell’ elevazione dell’ omero i lembi e i contorni dell’ occhiello capsulare si trovano
nel massimo grado di rilasciamento. Anche il processo misto del Krocher, non trova in
queste lussazioni secondarie, difficoltà capsulari, però l’ esito non è così facile e costante
come nelle lussazioni primarie.
3.° La teoria che il Kocher ha emesso per spiegare il modo di agire del suo pro-
cesso, se nelle mie ricerche è stato trovata giusta per le lussazioni a lacerazione capsu-
lare anteriore, non così è stato per le lussazioni secondarie a lacerazione infero-anteriore.
Quindi in queste ultime lussazioni il seguire con rigore tutti i particolari del processo può
essere causa di difficoltà o di insuccesso, che è dato evitare facilmente con le opportune
modificazioni suggerite dalle condizioni anatomo-patologiche della capsula articolare.
5.° Infine si può adunque asserire in tesì generale che i margini della lacerazione
capsulare per sè soli non oppongono aleun ostacolo alle manualità operatorie ed i lembi
capsulari regolando ì movimenti dell’ omero, possano assecondar la riduzione, quando però
la scelta del processo, e le manualità siano bene appropriate alle lesioni capsulari.
Memorie. Serie VI, Tomo VIII. 1910-1911,
A. POGGI — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle lussazioni ecc.
lai I
— 3849
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
Tutte le figure sono tolte da preparazioni anatomiche dell’ articolazione scapolo omerale.
Fig. 1.° — La lacerazione capsulare ha sede inferiormente, come nelle lussazioni secon-
darie, accade. E evidente la possibilità di un notevole allontanamento delle
superfici articolari, ad omero orizzontale.
Fig. 2° — Lacerazione capsulare anteriore consecutiva a lussazione primaria: ad omero
orizzontale non è possibile, con la trazione, allontanare le superfici articolari.
Fig. 3.° — Lo stesso preparato anatomico della Fig. 2°, con l’omero abdotto anzichè ele-
vato. Dimostra, in tale atteggiamento, la possibilità di allontanare |’ omero,
in grado modico, dalla superficie glenoidea.
Fig. 4" — Lussazione iufra-coracoidea da causa diretta con lacerazione capsulare ante-
riore, irriducibile col metodo di elevazione orizzontale e trazione. È evidente
il cercine legamentoso che fissa la testa omerale contro il margine ante-
riore glenoideo.
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Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49
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DEL
FRENULO PREPUZIALE SOPRANNUMERARIO
MEMORIA SECONDA
DEL
Pror. DOMENICO MAJOCCHI
(letta nella Sessione del 10 Maggio 1911).
Dopo la pubblicazione della mia memoria sul Frenulo prepuziale sopranzumerario (1),
continuando io le ricerche intorno a questa rara anomalia, mi venne fatto di raccoglierne
due varietà, sugli infermi che frequentano il Dispensario della Clinica Dermosifilopatica
di Sant’ Orsola, ambedue assai rilevanti e degne sotto molti rispetti di essere registrate.
Siffatte varietà, sebbene affini ai tipi già da me studiati e descritti, nullameno pre-
sentano alcune differenze riguardanti e la sede e la forma del frenulo prepuziale soprannu-
merario Ho detto affini ai tipi già descritti, quantunque di questo genere di anomalie sia
difficile stabilire un ipo urico, dal quale tutti gli altri provengano, o anche fissarne un
numero ristretto, ma costante. Sotto questo rispetto, non potendo venire ad una conclusione
recisa, mi par di necessità non allontanarmi dai caratteri anatomici più salienti, già sta-
biliti nel mio precedente lavoro
Su questa guida, quando molte delle varietà del frenulo prepuziale soprannumerario
saranno state raccolte, potranno essere vagliate con una critica più esatta, e in pari tempo
disposte in una classificazione fondata sopra la costanza dei caratteri suddetti, e specie su
quelli di forma, di sede, e anche d’inserzione. Per non dilungarmi di soverchio, passerò
subito a dare una breve descrizione dei casi occorsimi di questa anomala formazione.
Caso I — Si presentò al dispensario della Clinica dermosifilopatica nel Giugno 1910
un tal Bonora Giuseppe di anni 22, ebanista, nato in Bologna, affetto da un’ ulcera del
solco balano-prepuziale, e più precisamente nel lato sinistro. L’ulcera era superficiale, con
margini frastagliali, con fondo necrobiotico, irregolare per forma, alquanto dolente, svi-
luppatasi dopo qualche giorno dall’ ultimo coito. Si fece diagnosi di ulcera venerea e fu
prescritta la miscela di Calomelano e Iodolo.
(1) Majocchi. Sul frenulo prepusziule soprannumerario. Memoria con due tavole e figure inter-
calate nel testo. (Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Serie VI, Tomo V,
1907.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49 A
— ‘846 —
Facendo | esame dall’ulcera, si potè scorgere immediatamente una specie di brighia
nastriforme che si inseriva inferiormente alla faccia interna del prepuzio, a 3 mm. circa
dal fondo del sacco prepuziale e superiormente alla faccia anteriore del ghiande, alla
distanza di 17 mm. dal meato uretrale e a 9 mm. dall’orlo coronale. Il paziente ricorda
di avere questa anomalia fin dalla sua fanciullezza, anzi afferma di esser nato colla me-
desima, siccome in proposito fu assicurato dai suoi genitori. (Nig. 4).
La faccia esterna, o superiore (prepuziale) del nastro è alquanto striata nella sua
lunghezza, ma le strie sono divergenti verso la base del nastro medesimo; inoltre presenta
in alto, e vicino al margine destro, un foro alquanto irregolare, della grandezza di 2 mm;
La distanza del detto foro dal margine sinistro della fascetta nastriforme misura 9 mm..
dal margine destro, 3 mm.; dalla corona del ghiande 7 mm.
La faccia inferiore, o posteriore (balazica) tocca la mucosa del ghiande, ma non ade-
risce del tutto alla medesima, come dirò in appresso.
Fig. I.
Rispetto alla sede di questa fascetta nastriforme, è d’ uopo rilevare che essa non tro-
vasi nel mezzo della regione anteriore del ghiande, ma si porta alquanto a destra, per
modo che il suo margine sinistro si allontana dalla linea mediana di qualche mm. appena,
e soltanto verso la sua base tocca la detta linea. Per stabilirne meglio la sede e postura
valgano le seguenti misure prese dal frenulo normale, alla base della detta fascetta na-
striforme: a) nel suo margine sinistro, 27 mm.; 0) nel suo margine destro, 34 mm.
Per riportare nella linea mediana della faccia anteriore del ghiande la fascetta na-
striforme, basterà tener conto della differenza fra queste due distanze, la quale, come di
per sè è evidente, risulta di 7 mm.
Vista di fronte, presenta la fascetta nastriforme una figura a triangolo smusso, con
base piuttosto larga; misura nei suoi diametri :
Lunghezza co Roe Ro ine
all’apice, inserzione superiore (balan'ca). 9 mm.
Larghezza nel mezzo .. . . a eat IT?
alla base, inserzione inferiore, (prepuziale) 21 mm.
SR
Come ho detto, la sua faccia inferiore non aderisce interamente al ghiande, ma libera
passa, come un ponte, sul solco balanico, per una estensione da 7 a 8 mm.
La descritta fascetta nastriforme è distendibile ed elastica, tanto che nell’atto dello
svaginamento del ghiande può essere sottoposta ad una distensione maggiore di quella,
nella quale è stata fotografata.
Il frenulo normale è regolarmente sviluppato.
L’ulcera, essendo discosta dalla fascetta nastriforme, non ha recato sulla medesima
nessuna irritazione, almeno in apparenza, per modo che il paziente non ha mai sofferto il
minimo disturbo in tutti i movimenti di scoprimento del ghiande; a ciò ha contribuito
anche la cura intrapresa subito con lavande e con polveri antisettiche.
Mentre il paziente era sotto le nostre cure, gli fu proposto di fare |’ estirpazione della
descritta fascetta nastriforme, che. ora possiamo dire senza altro frenulo prepuziale so0-
prannwnerario: e non ostante che egli non ne provasse alcuna molestia, accolse di buon
grado il nostro consiglio.
Non appena cicatrizzata l’ ulcera, feci l’ estirpazione del frenulo suddetto, infilando il
bisturi sotto il ponte del medesimo e recidendo a piatto ambedue le sue inserzioni (bala-
nica e prepuziale), senza lasciare alcuna irregolarità sulla superficie del ghiande Il pezzo
reciso fu conservato per l’ opportuno esame istologico, che più tardi verrà descritto
Caso II — B. B., di anni 20, nativo a Jesi, sergente del 6° Bersaglieri, fu condotto
in Clinica Vl 11 ottobre 1910 dal Dott. F. De Napoli, Capitano medico e assistente onorario
della Clinica dermosifilopatica, perchè affetto da sifiloma della palpebra superiore destra,
seguito da roseola: il paziente fu di poi assoggettato, nell’ ospedale militare, alla cura
antisifilitica col 606.
Nel fare l’ esame del paziente, il Dott. De Napoli si accorse che esso presentava un pic-
colo frenulo soprannumerario; in pari tempo il frenulo normale era regolarmente svilup-
pato e della lunghezza di 5 mm.
Interrogato, il B. B., sull'origine di questa produzione balano-prepuziale, ricorda di
averla vista fin dalla sua fanciullezza: anzi egli crede fermamente che essa rimonti fin
dalla nascita, stando anche a quanto affermano i suoi parenti.
Siffatta anomalia, esaminata attentamente, ci mostra i caratteri di un frenulo sopran-
numerario, 0, per dir meglio, una varietà di esso, sotto forma di un corto cordone, leg-
germente appiattito, sottile nel mezzo e alquanto più largo nelle sue estremità, costituenti
le sue inserzioni. Di queste l’inserzione dalorica si fa precisamente sull’ orlo coronnule con
espansione ristretta, mentre l’inserzione inferiore o prepuziale spicca dalla mucosa del
prepuzio, con espansione alquanto più larga, a 4 mm. dal fondo del sacco prepuziale.
Sebbene si presenti molto corto e sottile, pur esso è assai distendibile nello svagina-
imento del ghiande. Le misure dei suoi diversi diametri sono le seguenti:
Lunghezza normale a ghiande svaginato 5 mm.
Lunghezza con iperdistensione del prepuzio 9 mm.
inserzione superiore (balarica). o mm.
Larghezza nel mezzo SR 4 mm.
Ì inserzione inferiore (prepuziale) . . . .34 mm.
Dal meato uretrale all’inserzione balanica. . . . 34 mm.
DalkireniloamormaletNaN destra e RA Se SEMI
» » VESIUIS(IFA RIA NA NOE
e
Risiede esso nella regione laterale destra del ghiande e si allontana dalla linea
mediana 11 mm.; non aderisce alla sottostante mucosa del ghiande, ma forma un ponte
al disopra del solco balanico della larghezza di 3 mm. (Fig. 2).
Durante la cura della sifilide il giovane bersagliere fu consigliato a farsi estirpare il
frenulo soprannumerario e ai 19 Novembre 1910, col consenso del paziente, fu reciso il
cordoncino intiero, previa legatura alle due inserzioni. La cicatrice avvenne entro 8
giorni.
Il pezzo reciso fu conservato come il primo per le ricerche istologiche.
Esame istologico. —— Per stabilire il modo di comportarsi della struttura in ambedue
le varietà dei frenuii soprannumerari, già descritti, furono fatti tagli di traverso su tutta
la loro lunghezza. Essendo però ben poche le differenze istologiche nei diversi tratti di
ognuno dei medesimi, mi fermerò principalmente a descrivere i tagli microscopici corri-
spondenti, tanto alla parte media, quanto alle due inserzioni, e soprattutto quelli, nei quali
si rinvenne qualche particolarità degna di nota.
I. — Cominciando dall’esame microscopico del Z° Caso, i tagli dell’ inserzione superiore
mostrano le due superfici corrispondenti alle due faccie del frenulo soprannumerario (pre-
puziale e balanica) rivestite da epidermide, disposta in parecchi strati. Vi sono però par-
ticolarità istologiche diverse nelle due superfici suddette, che meritano di essere descritte.
Nella superficie posteriore di rivestimento, lo strato m@/pigRiano è il più sviluppato,
risultante di zaffi, alcuni corti e sottili, altri larghi e tozzi, inferiormente rotondati, tutti
pressa poco uniformi per lunghezza e intercalati da basse e sottili papille. Su queste
ee
poggiano ben distinte le cellule basali, di forma cilindrica e cubica, mentre le rimanenti
cellule epiteliali degli zaffi medesimi spiccano per la loro forma poligonale, e mostrano
assai bene le ciglia e gli spazi intercigliari, nei quali d’ ordinario si scorgono fatti evidenti
di diapedesi leucocitaria. Di mano in mano che si sale in alto, le cellule epiteliali pigliano
una forma fusata, o losangica, mentre si vanno gradatamente schiacciando e perdendo le
loro ciglia, finchè nel limite esterno si fanno piatte e sottili. Non si riesce a distinguere
nettamente uno strato granuloso: questo s' intravvede per la presenza, in qualche tratto,
di due o tre ordini di cellule losangiche rigonfie, ma prive di granuli di cheratojalina,
sebbene esse siano state trattate con adatte colorazioni. Dello strato Zucido, nessuna traccia.
Rispetto poi allo strato delimitante, le cellule più esterne, benchè piatte e sottili, non mo-
strano di avere raggiunto il processo di perfetta cheratinizzazione, anzi quando esse siano
isolate, si scorgono ancora fornite di un bel nucleo elittico, alquanto discentrato: in altri
termini le cellule epiteliali delimitanti, che rivestono la faccia posteriore del frenulo s0-
prannumerario, offrono presso a poco lo stesso carattere corneoide degli epiteli della mu-
cosa balanica. (Fig. 1, 2, 3).
Rispetto al rivestimento epidermico, corrispondente alla faccia anteriore del frenulo
soprannumerario, si scorge immediatamente una maggiore sottigliezza di esso, ed una di-
sposizione sopra un piano irregolare, formante diverse pieghe e insenature; non solo è
più sottile, ma di spessezza ineguale e, mentre in alcuni tagli lo strato di Malpighi si
mostra povero di zafli, d’ ordinario piccoli e disformi, in altri invece ne è pressochè privo,
o appena lascia vedere una lieve ondulatura nella linea epidermica profonda Anche qui
al disopra del corpo malphighiano non si distinguono i due strati, granuloso e lucido:
invece le cellule epidermiche tendono a pigliare la forma fusata, si fanno gradatamente
piatte, lamellari, formando queste un sottile strato corneoide.
Ma ciò che colpisce fin dai primi tagli, fatti in corrispondenza dell’ inserzione supe-
riore, è la presenza di un’ispessimento del corpo malpighiano, nel mezzo circa del rive-
stimento epidermico della faccia anteriore del frenulo soprannumerario, ispessimento che
fa contrasto colla sottigliezza della rimanente epidermide di rivestimento e che ben presto
(nei tagli successivi) si converte in'un grosso zaffo, al quale aderisce una formazione ci-
stica. (Fig. 1).
Siffatta cavità cistica, piccola, di forma ovale, fatta di una sola parete epiteliale,
sottile ed uniforme, è posta, col suo diametro più lungo, orizzontalmente nella spessezza
del derma; e mentre nei primi tagli, fatti poco sotto all’ inserzione balanica, vedesi essa
vicina al rivestimento epidermico della faccia anteriore, aderente al medesimo per un
zaffo malpighiano, vario per dimensione e lunghezza, ove integro, ove interrotto in due 0
tre pezzi: invece nei tagli successivi la cavità stessa si fa totalmente libera, approfondasi
alquanto, arrestandosi circa nella parte media della sosianza dermica del frenulo sopran-
numerario. La parete propria della piccola cisti risulta degli stessi strati epiteliali del ri-
vestimento epidermico, fra i quali il m:a/pighriano conserva presso a poco la stessa spes-
sezza, e mentre lo strato delimitante, fatto di cellule fusate ed allungate, lucenti, diafane
(st. lucido ?), appare a primo aspetto sottilissimo, invece con attento esame si scorge che
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 49 B
350 —
esso forma una massa compatta, molto trasparente, disposta a strati concentrici. Qui pure
lo strato graruloso non si fa palese con alcun metodo di colorazione. Del resto la massa
corneoide in alcuni tagli riempie tutta la cavità cistica, ma in altri si mostra distaccata
dalle pareti della medesima, e talvolta anche alquanto discosta, forse per retrazione, av-
venuta durante la preparazione. (Fig. 1, 2, 3).
Rispetto al derma di questo frenulo soprannumerario, mostrasi esso costituito da fasci
collageni, abbastanza compatti nello strato superiore (prepuziale), aventi una disposizione
orizzontale e una conformazione ondulata, confinante col rivestimento epidermico sovra-
stante, mercè un margine irregolare, formante in qualche tratto piccole rilevatezze pa-
pillari, fra le quali immettonsi zaffi malpighiani. Possiede molta copia di capillari san-
guigni, e tra i fasci collageni le cellule connettive fisse mostransi in file e in gruppi ac-
compagnate da una rada intiltrazione di leucociti polinucieati, specie attorno ai capillari
stessi.
Ai contrario, più lasso appare il derma della faccia inferiore (balanica): quivi i fasci
collageni sembrano alquanto più rigonfi, ondulati anch'essi, disposti prevalentemente in
direzione orizzontale, mentre nel margine confinante del rivestimento epidermico, arcuan-
dosi, formano un corpo papillare più o meno uniforme, in correlazione collo sviluppo del
corpo malpighiano sopradescritto. Ma la particolarità, che spicca più evidentemente, è la
maggiore ricchezza vasale: infatti, oltre la circolazione papillare, che in alcuni tratti pos-
siede anse capillari assai ben conformate, vedonsi ancora in maggior numero tagli tra-
sversi e obbliqui di capillari ectasici (dei quali 1’ endotelio è molto spiccato) nello strato
subpapillare, come pure nel derma medio mostransi in sezione trasversa ampi vasi forniti,
alcuni di uno o due ordini di endoteli e di una sottile tunica avventiziale, altri, oltre di
questa, anche di una tunica media uniformemente sviluppata. Havvi pure una maggior
ricchezza di leucociti polinucleati, che infiltrano uniformemente le papille, ma più abbon-
dantemente lo strato subpapillare, ove formano una vera zona regolare, orizzontalmente
disposta, e quindi parallela all’ epidermide sovrastante. (Fig. 1, 2, 3),
Spiccatissimi poi sono i fatti di diapedesi interepidermica da parte di questi elementi
leucocitari e così pure non manca qualche accenno a spongiosi delle cellule malpighiane,
come nell’inizio di una vescicolazione.
Come si è detto, i fasci collageni del derma, mentre hanno una disposizione orizzon-
tale in corrispondenza delle due faccie, balanica e prepuziale, del frenulo soprannumerario,
pigliano invece un’andatura circolare attorno alla sopradescritta cavità epidermica, quasi
per dare a questa una parete esterna, che però non è affatto distinta.
In questo punto sono più manifesti alcuni elementi istologici, dei quali faccio parola
soltanto ora, non ostante che s’ incontrino (sebbene meno spiccati) nel tratto superiore in
corrispondenza dell’ inserzione balanica, La foro forma fusata e allungata, il loro nucleo ba-
stonciniforme, il protoplasma cellulare omogeneo, in fine, la loro disposizione nastriforme,
ci fanno senz'altro ritenere questi elementi per fibro-cellule muscolari, sia riunite in fasci-
coli, sia a foggia di corti nastrini nella spessezza del derma, e specie in vicinanza dei vasi.
L'importanza di tale reperto non può disconoscersi in siffatta produzione. (Fig. 5).
— 351 —
In alcuni tagli corrispondenti tra il terzo medio e il superiore della fascetta nastri-
forme del detto frenulo, s'incontra la sezione trasversa del foro sopradescritto: il quale
appare come una grande cavità rivestita di epidermide di varia spessezza, ove sottile e
disposta a strati orizzontali, ove grossa, dando luogo a qualche zaffo informe, nel derma
sottostante, e questo, mentre lo circonda, non presenta alcuna particolarità degna di nota,
tranne una certa ricchezza vasale in alcuni punti del suo contorno.
Di mano in mano che si discende coi tagli in serie verso il tratto medio, si trova che
la piccola cavità non è chiusa del tutto, ma lascia vedere un’ apertura nella parete ante-
riore, corrispondente alla faccia prepuziale del frenulo soprannumerario. Siffatta apertura,
assai ristretta, dopo cinque o sei tagli si allarga, formando una specie di doccia (che
termina ben presto) rivestita anch'essa dagli stessi strati epidermici, e continuantesi con
quelli del rivestimento esterno del frenulo medesimo. Quest’ ultima particolarità ci conduce
facilmente a riconoscere che la cavità sopradescritta non è una vera e propria cisti ro-
tondeggiante, ma piuttosto è una cavità alquanto allungata, di cui vedremo più tardi
quale possa essere il meccanismo di formazione. (Fig. 4).
Passando all’ esame dei tagli corrispondenti alla metà del frenulo soprannumerario, si
osserva che esso si espande in basso come un nastro solido, per modo che il derma delle
due faccie, superiore (prepuziale), inferiore (balanica) è in immediata continuazione; non
ostante ciò sì distingue sempre a colpo d’occhio il derma della faccia prepuziale da quello
della faccia balanica, perchè questo non solo presenta maggior regolarità dei zaffi mal-
pighiani e migliore conformazione delle papille, ma ancora ci mostra la regolare zona
d’infiltrazione leucocitaria subpapillare. L’ epitelio di rivestimento circonda tutto attorno il
nastro dermico, stratificandosi presso a poco nella stessa maniera, come nel tratto su-
periore.
Discendendo gradatamente in basso, seguendo le sezioni in serie, s'incontrano sempre
presso a poco le medesime particolarità di struttura, finchè si giunge in corrispondenza
dell'inserzione inferiore del frenulo soprannumerario: quivi notasi maggiore spessezza del
connettivo dermico, notevole sviluppo di vasi, alcuni ettasici, forniti di una sottile parete
avventiziale, e altri invece aventi caratteri di arteriole con tuniche ben sviluppate, spe-
cialmente la media. Parimenti, l'epidermide di rivestimento mostra anche nelle sezioni di
questa estremità le stesse modalità istologiche, tanto nella faccia balanica che prepuziale,
tranne una maggiore spessezza e un maggiore sviluppo di zaffi malpighiani in ambedue
le faccie suddette. |
Un fatto che colpisce maggiormente nei tagli, fatti in tutta la lunghezza della fascetta
nastriforme del frenulo suddetto, è la spiccata differenza nell’epitelio dello strato basale
delle due faccie; dappoichè mentre nella faccia prepuziale l’epitelio basale è assai ricco
di granuli di pigmento, quello della faccia dalarnica ne è assolutamente privo.
In alcune sezioni, corrispondenti ai diversi tratti della fascetta nastriforme del frenulo,
oltre la presenza di fascetti di /îbro-cellule muscolari liscie nella spessezza della sostanza
dermica, e un notevole sviluppo vasale, mercè la colorazione di orceinà (metodo Taenzer-
Unna) si fa palese in tutte una grande ricchezza di fibre elastiche: queste assai scarse
ig ei
nelle papille e nello strato subpapillare della faccia balanica, si mostrano evidentissime e
numerose nel resto del derma e principalmente nello strato medio, attorno ai capillari e
nell’avventizia delle arteriole. La disposizione del tessuto elastico è varia; dappoichè, ove
forma un reticolo a maglie assai strette, ove si dispone in fascicoli serrati assai ben vi-
sibili nella parte media del derma, e ove si espande in forma raggiata, specie attorno
alle arteriole. Inoltre, alcune sezioni, e particolarmente quelle dell’ inserzione inferiore,
mostrano tale dovizia della trama elastica, che insieme al notevole sviluppo vasale e alla
presenza di fascetti di fibro-cellule musco'ari, porterebbero a credere alla struttura di un
tessuto erettile, sul quale mi fermerò più tardi. (Fig. 6).
Da ultimo è d’ uopo rilevare che in tutto il nastro del detto frenulo non si rinviene
traccia alcuna di organi ghiandolari e di follicoli piliferi e, ciò che più importa, manca
assolutamente il pannicolo adiposo. Laonde è d’uopo concludere che il descritto frenulo
soprannumerario è costituito da un’espansione nastriforme dermica, rivestita da epi-
dermide.
II. — Non mì fermerò a lungo sulla descrizione istologica del secondo frenulo sopra-
nnumerario, essendo poche e di poco conto le differenze di struttura dal /° caso sopra-
descritto. Anche di quello furono studiate le sezioni microscopiche, fatte di traverso in
tutta la sua lunghezza, tenendo conto sia delle due inserzioni, sia della sua porzione
media. Sono di forma rotondeggiante le sezioni dell’ inserzione superiore, in forma di tri-
foglio quelle dell’ inserzione inferiore, per la presenza di due solchi nel loro contorno,
corrispondenti ad alcune pieghe naturali del frenulo sopradescritto, e queste sono assai
più grandi delle prime: invece le sezioni del tratto medio hanno forma elittica, e per
dimensione sono le più piccole. (Fig. 7, 8, 9).
Dall’ esame microscopico istituito sulle sezioni medesime fu agevole stabilire, trat-
tarsi anche qui di una produzione cordoniforme, fatta da solo connettivo dermico, ri-
vestita da epidermide, coi caratteri di quella della mucosa balano-prepuziale: manca in-
fatti ogni traccia di pannicolo adiposo. I fasci collageni sono abbastanza compatti, ma
ricchi di cellule fisse, aventi direzione varia, alcuni posti di lungo e quasi paralleli all’ asse
del frenulo stesso, altri invece obliqui e finalmente divergenti verso le due estremità, cor-
rispondenti alle due inserzioni. La massa di connettivo, costituente il cordoncino del fre-
nulo suddetto è abbastanza fornita sia di capillari sanguigni, sia di vasellini ectasici, aventi
un endotelio molto spiccato e una sottile tunica avventiziale, sia anche di qualche arte-
riola, principalmente verso la sua parte centrale, e più scarsamente in quei punti della
sua periferia, ove il derma forma rudimentali papille. Non s'incontrano rudimenti di or-
gani ghiandolari, nè di follicoli piliferi in tutta la sua lunghezza.
Come si è detto più sopra, il rivestimento è costituito da un’epitelio dì superficie che
mostra ì caratteri istologici dell’ epidermide, rivestente la mucosa balano-prepuziale. Lo
strato malpighiano non è molto spesso nel contorno delle diverse sezioni microscopiche,
tranne in alcuni punti, ove forma piccoli zaffi, corrispondenti ai tratti forniti di un rudi-
mentale corpo papillare. Dello strato granuloso e lucido non si riesce a dare una chiara
—— 353 —
dimostrazione: lo strato delimitante è sottile, fatto da cellule piatte, di aspetto corneoide,
assai facile a distaccarsi in alcuni tratti, e talora esfogliantesi in quasi tutto il contorno
della sezione.
Non ostante la sottigliezza del rivestimento epidermico, rinviensi in alcuni tagli, cor-
rispondenti all’inserzione superiore (balanica), un ispessimento rotondeggiante, formato da
un grosso bottone sezionato di traverso e talora in obliquo. Questo parte come una gem-
mazione dal rivestimento epidermico, e approfondandosi nel derma occupa costantemente
un punto circoscritto del contorno del taglio microscopico. Sebbene il detto bottone risulti
degli stessi strati epiteliali del rivestimento epidermico, nullameno merita vederne la di-
sposizione per meglio stabilire il meccanismo di formazione del medesimo. (Fig. 7).
Orbene, perifericamente esso è costituito da un solo strato di cellule basali, di forma
cilindrico-cubica, appresso da cellule poligonali, più internamente da cellule fusate, mentre
circa nel suo mezzo trovasi una piccola massa concentrica di cellule corneoidi. In alcuni
tagli si rinviene nella parte superiore del bottone medesimo una piccola apertura roton-
deggiante, circondata da cellule fusate e piatte: siffatta apertura potrebbe a tutta prima
simulare la sezione trasversa di un tubulo ghiandolare, apparenza che facilmente viene
chiarita da due fatti: 1°) dalla mancanza di ogni traccia di organi ghiandolari e follico-
lari; 2°) dalla presenza di questo foro in sole poche sezioni del bottone epiteliate.
Da ultimo è d’uopo rilevare che tanto nello strato dasale del rivestimento epidermico
di questo frenulo soprannumerario, quanto in quello del bottone epiteliale, non si rinviene
affatto pigmento.
Dalla descrizione anatomo-patologica di queste due varietà si rileva chiaramente che,
sia per la loro origine congenita (1), sia per la loro forma e disposizione, sia per, le loro
inserzioni, sia finalmente per la loro elasticità e distendibilità, possiedono esse i caratteri
proprî del frenulo soprannumerario, non ostante che in ognuna delle medesime si notino
alcune differenze. Ed è su queste che vorrei fermarmi alquanto con qualche considera-
zione che valga a mettere sempre meglio in chiaro alcune questioni riguardanti gli attri-
buti del frenulo soprannumerario, questioni, che verranno poste qui sotto forma di
quesiti.
I. E prima di tutto: A quali tipi anatomici appartengono le suddette varietà di fre-
nulo soprannumerario ?
Dando uno sguardo ad ambedue queste produzioni anomale ben tosto vi riconosciamo
i due tipi anatomici fondamentali del frenulo soprannumerario, già descritti nel mio pre-
(1) Rispetto all’ origine congenita del frenulo soprannumerario, questa mi risultò sempre per via
anamnestica, cioè per assicurazione dei pazienti, e dei loro parenti. Fin qui però non mi fu dato d’in-
contrare siffatta anomalia nei neonati: e confido nelle successive osservazioni d’imbattermi in bam-
bini, colpiti dalla detta anomalia,
cedente lavoro, cioè il tipo a nastro e il tipo a cordone. Se non che havvi qualche par-
ticolarità diversa in ciascheduno dei due tipi, e specie nel primo (tipo a nastro), il quale
come s’ è detto mostra una spessezza varia, una larghezza maggiore di tutti gli altri
esemplari descritti fin qui, e di più ci offre un forame verso il margine superiore del
nastro medesimo. Del pari se nell’ altro tipo (a cordone) la conformazione è regolare, nul-
lameno vi sì nota, come variante, la sua cortezza (lunghezza normale 5 mm.), avendo esso
la sua inserzione superiore sulla corona balanica (fatto rarissimo), cosicchè per farlo spic-
care sulla fotografia si dovette esercitare una sopradistensione del prepuzio sul ghiande,
raggiungendo allora la lunghezza di 9 mm.
Ora nei tipi fondamentali del frenulo soprannumerario, aventi sede nella linea mediana
della faccia anteriore del ghiande, non furono notate fin qui queste varianti morfologiche.
II. Ma ciò che costituisce la differenza più spiccata in queste due varietà di frenulo
soprannumerario è la sede delle medesime. A questo proposito però sorge naturale una
domanda:
La mancanza di sede topografica precisa di queste due varietà deve farle escludere
dal novero dei frenuli soprannumerari?
Come si è detto, ambedue non occupano il mezzo della faccia anteriore, e perciò non
si trovano in opposizione al frenulo normale: laddove è precisamente questa particolarità
di topografia che ha condotto ad attribuire la qualità anatomica di frenulo a questa pro-
duzione nastriforme e cordoniforme balano-prepuziale Tuttavolta un piccolo spostamento
a destra della linea mediana anteriore è stato già da me osservato in qualche esemplare
di frenulo soprannumerario (1), per modo che questo lieve grado di deviazione non ba-
stereobe a fargli perdere siffatto attributo. Ciò ammesso, ne consegue che un grado mag-
giore di deviazione si potrebbe incontrare anche nelle dette produzioni rispetto alla loro
sede, di guisa che il criterio topografico varrebbe solo per le forme tipiche del frenulo
soprannumerario. Che se poi si terrà conto di quanto mi fu dato di esporre intorno alla
teratogenesi del frenulo soprannumerario si vedrà di leggieri come, per la sede topogra-
fica del medesimo, non vi possa essere quella costanza come si vede nel frenulo normale:
dappoichè mentre questo è il risultato di una neoformazione dermo-epidermica, che si de-
termina, allorchè si chiude la porzione balanica della doccia uretrale: invece il frenulo
soprannumerario ha la sua origine nella spessezza dell’ epitelio balano-prepuziale con uno
di quei varî meccanismi, da me ammessi nel precedente lavoro.
Ne consegue pertanto che, se lo sviluppo di questa produzione avviene spesso nel
mezzo della faccia superiore del ghiande, può in ogni modo formarsi ugualmente in un
punto qualsiasi del cappuccio epiteliale balano-prepuziale del ghiande stesso: in altre pa-
role, mentre il frenulo normale ha. una sede fissa, determinata cioè dal suo costante mec-
canismo di sviluppo embrionale, invece nel frenulo soprannumerario manca per la sua to-
(1) Vedi Fig. 7, Tav. 1, della mia citata memoria nella quale havvi uno spostamento del frenulo
soprannumerario (sebbene non registrato) di appena un millimetro dalla linea mediana.
-- 355 —
pografia un punto circoscritto e stabile, embriologicamente prestabilito. Per siffatte ragioni
anatomiche potrebbero considerarsi come frenuli soprannumerarî anche quelle produzioni
nastriformi e cordoniforini che deviassero alquanto dalla linea mediana anteriore, ovvero
se ne allontanassero maggiormente, sviluppandosi nelle regioni laterali del ghiande stesso.
III. Un'altra non meno importante questione si presenta a questo punto: Quali fattori
anatomici possono influire sulla forma del frenulo soprannumerario?
Avendo già fatto rilevare di passaggio l’importanza delle inserzioni rispetto alla con-
formazione anatomica del frenulo soprannumerario, non sarà inopportuno che io mi fermi
alquanto sulle medesime rispetto alle due varietà sopradescritte Nella prima (mastriforme)
l'inserzione prepusziale si fa nella faccia interna del prepuzio, verso il fondo del sacco pre-
puziale, mentre l’inserzione dbalarica sta a 9 mm. al di sopra della corona del ghiande.
Rispetto all'altra varietà (cordoriforme) l'inserzione prepuziale sorge circa alla me-
dietà della faccia interna del prepuzio, laddove quella balanica piglia la sua origine netta
dall’orlo coronale. Ora queste due distinte e nette inserzioni balano-prepuziali, non man-
cano mai nel frenulo soprannumerario e, per meglio dire, ne costituiscono un carattere
formale, laddove nelle sinechie accidentali, e specie in quelle flogistiche, non havvi mai questa
disposizione così regolare: anzi com’ è agevole comprendere le sinechie aderiscono, oltrechè
per i loro margini, bene spesso per tutta la loro superficie alla faccia interna del prepuzio
e del ghiande. Non basta: l’importanza anatomica delle dette inserzioni si può dedurre
dal fatto, che talora esse sono fornite di branche distinte; infatti fra gli esemplari di
frenulo soprannumerario, da me descritti, ve ne hanno due che sono appunto muniti di
attacchi speciali, simmetricamente posti e uniformemente distendibili nello svaginamento
del ghiande. Di questi uno si inseriva con due branche superiori (balaziche), e inferior-
mente con due branche prepuziali press’ a poco uguali: l’altro invece si attaccava supe-
riormente soltanto con due branche e inferiormente col solo margine della produzione na-
striforme; di guisa che uno pigliava la forma di H e l’altro a V maiuscoli (1).
Forse col moltiplicarsi delle ricerche e col reperto di nuovi esemplari di frenulo so-
prannumerario si potranno descrivere altre varietà di inserzioni, e forse alcune anche rare
ed eccezionali per numero e per forma. Comunque però queste speciali forme di inserzioni
meritano di essere tenute in conto per un’altra ragione, ch'è quanto dire, per. stabilire
la distinzione fra i frenuli soprannumerarî e le semplici accidentali sinechie.
Ma per far rilevar sempre più l’ influenza che possono spiegare le inserzioni del fre-
nulo soprannumerario sulla conformazione anatomica del medesimo, non sarà inopportuno
che io mi fermi intorno ad una minuta particolarità, riferita nella descrizione del primo
caso, vale a dire, intorno alla presenza di un forame della grandezza di due mm. circa,
formante una finestra a margini irregolari in vicinanza della inserzione superiore (dala-
nica). A questo proposito ricorderò che pure in uno degli otto casi precedentemente stu-
diati fu trovato un frenulo soprannumerario, fornito di un piccolo pertugio, il quale però
(1) Vedi Fig. 3, 4, Tav. 1, della citata memoria.
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metteva in un canalino rivestito da epitelio, canalino che scorreva in tutta la lunghezza
del frenulo medesimo, e sul quale fu emessa l'ipotesi di una forinazione omologa ad un
canale parauretrale. Al conirario in questa varietà, descritta nel primo caso, si tratta di
un forame semplice che attraversa la spessezza del frenulo soprannumerario e non la lun-
ghezza del medesimo. È molto verosimile che siffatto pertugio sia dovuto ad un difetto
nel primitivo sviluppo della produzione nastriforme dermo-epidermica in un punto della
sua superficie, ma è pur verosimile che esso abbia la sua origine da uno stiramento esa-
gerato di una delle sue inserzioni. E a questo proposito mi basterà richiamare quanto
dissi più sopra intorno all’ influenza che può avere la distensione delle inserzioni del fre-
nulo soprannumerario sulla determinazione della forma del medesimo. Del pari oggi posso
aggiungere che tale influenza si spiega anche sulla spessezza dei frenuli stessi; ammet-
tendo infatti che per lo sviluppo progressivo del ghiande il nastro del frenulo soprannu-
merario venga disteso nelle sue inserzioni, o anche in una sola di esse, ne consegue che
in un punto, ove esso fosse più sottile, verrebbe per lenta atrofia a perforarsi, soprattutto
se la distensione si facesse in maniera disforme. Con questo semplice meccanismo potreb-
bero spiegarsi le aperture fenestrate del frennlo soprannumerario, come nel caso sopra-.
descritto, laddove un processo di necrosi non potrebbe in simili evenienze essere ammesso.
Ma con tutto ciò intendo di aver parlato soltanto di uno dei varî fattori che possono
spiegare la loro influenza sulla forma del frenulo soprannumerario, laddove è verosimile
che altri ancora vi siano non meno importanti, per ora non facilmente determinabili.
IV. E qui si presenta un’altra questione assai affine alla precedente: Quali condizioni
possono influire sulla grande frequenza della forma a ponte del frenulo soprannume-
rario? Intorno a siffatta particolarità anatomica merita fermarsi alquanto, perchè trovata
anche nei due esemplari sopradescritti.
La costituzione del frenulo soprannumerario sotto forma di un ponte, che passa sopra
il soleo balano-prepuziale, si vede a colpo d'occhio nella fig. 1 (tipo nasti/0:me) la quale
ci rappresenta l’arcata del ponte medesimo attraversato da una sonda. Anche l’altro tipo
a cordone forma egualmente un ponte sopra il solco balano-prepuziale, assai più piccolo
del precedente, e in correlazione con la sua brevità. Sotto il rispetto statistico nei dieci
casi, da me descritti fin qui, otto volte rinvenni la forma a porte del frenulo soprannu-
merario. La frequenza di questo fatto non può a meno d’impressionare chi si pone per
poco a considerarlo: ed io mi sono già altra volta fermato su di esso, facendone rilevare
l’importanza che potrebbe avere sulla genesi del frenulo soprannumerario e sulle diffe-
renze di questo con altre produzioni balano-prepuziali. Certo è che nelle sinechie acciden-
tali flogistiche non s'incontra questa formazione a porte, ma sibbene l’aderenza completa
fra le due facce balano-prepuziali; e volendo anche ammettere, nel concetto teoretico,
questa particolarità anatomica nelle sinechie flogistiche, certamente che ciò non avverrebbe
mai con tanta costanza e regolarità, ma solo eccezionalmente.
V. Comunque però un leggero processo fiogistico è stato trovato e descritto nel 7° caso
e in base a questo reperto potrebbe sorgere il dubbio trattarsi qui di sinechia acciden-
o
tale d’ origine flogistica; occorre pertanto rispondere al seguente quesito: Z fatti infiam-
matori sopradescritti, quale origine hanno avuto nel 1° caso di. frenulo soprannu-
merario ?
A tutta prima parrebbe doversi rispondere: che il processo infiammatorio avesse pi-
gliato il suo punto di partenza dall’ulcera venerea, risieGente nel solco balano-prepuziale
ed avesse invaso la fascetta nastriforme del frenulo soprannumerario. Ma, a questo propo-
sito, fa d° uopo tener conto di alcuni argomenti, i quali non sarebbero in appoggio di questa
interpretazione. Innanzitutto si tenga conto del fatto clinico, registrato più sopra, che 1’ ul-
cera era situala nel solco balanico e precisamente nel lato sinistro, laddove il frenulo
soprannumerario volgeva alquanto a destra: ed è per ciò che l’ ulcera era discosta di al
cuni millimetri dal margine sinistro del frenulo medesimo e della sua inserzione prepu-
ziale: come pure è da tener conto che la sollecita cura arrestò l’estendersi del processo
necrobiotico dell’ ulcera stessa.
D'altra parte, nè rossore, nè edema si ebbero mai a notare sul nastro del frenulo so-
prannumerario, tantochè la sua elasticità e distendibilità si conservarono sempre in con-
dizioni funzionali perfette. Ma ciò che ha maggior valore nel caso presente, è la sede ed,
aggiungerò ancora, la circoscrizione del processo infiammatorio nel derma della faccia ba-
lanica sotto forma di una regolare zona d’ infiltrazione leucocitaria nello strato subpapil-
lare, mentre siffatte alterazioni non si notano nel derma della faccia prepuziale. Anzi è da
questa circoscrizione delle lesioni dermitiche sopradescritte che si può stabilire con molta
verosimiglianza quale sia stata 1° origine del lieve processo flogistico, origine che, a mio
avviso, deve attribuirsi ad una irritazione provocata da prodotti (smegma, urina...) rac-
coltisi tra la faccia inferiore del nastro e la faccia balanica del ghiande, ovvero anche
all’attrito che si svolse sulle due superfici di contatto, come nelle forme intertriginose.
VI. Dalla descrizione istologica sopra esposta è agevole rilevare che la struttura del
frenulo sopranumerario non presenta alcunchè di singolare: tutta volta essa ci offre qualche
fatto importante sotto il rispetto funzionale per la presenza di alcuni dei suoi elementi
costitutivi: Fra questi merita di spiccare sugli altri il /essuto muscolare liscio, ed è però
che cade qui opportuno di domandarsi: Quale importanza deve attribuirsi alla presenza,
delle fibrocellule muscolari ?
Riguardate per sè sole, l’importanza anatomo-fisiologica delle fibrocellule muscolari
non è certamente di grande entità: dappoichè a tutti è noto che nella pelle del pene, nel
derma del ghiande, e soprattutto nello scroto è largamente rappresentato il tessuto musco-
lare liscio. Ma se accanto a questo si voglia tener conto della ricchezza dei vasi, assai
sviluppati e spesso ectasici, in pari tempo della grande copia di fibre elastiche, allora la
struttura del frenulo soprannumerario viene ad avvicinarsi a quella dei tessuti erettili,
struttura che primeggia negli organi genitali. Occorre però studiare sotto questo rispetto
la presenza del tessuto muscolare liscio in tutti i casi di frenulo sopranumerario per sta-
bilirne in quali proporzioni e con quale frequenza detto tessuto vi sia rappresentato: dap-
poichè di queste due varietà sopradescritte soltanto in una (7° caso) venne fatto di dimo-
— 358 —
strare fascetti di fibrocellule muscolari. Ma devo qui ricordare che anche nei due casi,
istologicamente studiati e descritti. nella mia precedente memoria, si rinvennero questi
elementi, sebbene non così sviluppati in fascicoli, come nel caso presente: tutta volta feci
rilevare fin d’ allora l’importanza del tessuto muscolare liscio, non che la ricchezza dei
vasi e della trama elastica, in uno spazio tanto ristretto, come è quello delle produzioni
nastriformi e cordoniformi del frenulo soprannumerario; il che ci farebbe proclivi ad am-
mettere, come già feci rilevare nel mio precedente lavoro, che avvenissero (nello stato di
erezione del pene) cambiamenti nella spessezza e lunghezza del frenulo medesimo, in altri
termini, che esso fosse atto ad inturgidirsi, come un tessuto erettile.
Inoltre siffatto reperto istologico potrebbe a mio avviso, servire come criterio diffe-
renziale per distinguere le semplici sinechie balano-prepuziali d’ origine flogistica dalla pro-
duzione del frenulo soprannumerario.
VII. Da ultimo, a quale delle ipotesi, emesse per interpretare lo sviluppo del frenulo
soprannumerario, si possono riportare le due varietà sopradescritte ?
Come già dissi in altro mio lavoro, ben poca luce si è fatta fin qui sopra la %eralo-
genesi del frenulo soprannumerario: alle future ricerche è affidata |’ ultima parola su questa
importante questione e conseguentemente anche sulla formazione a ponte di questa ano-
mala produzione.
Infatti anche per i due casi sopradescritti volendo rimontare alla loro origine terato-
genetica è difficile la. scelta tra le diverse ipotesi, da me invocate a spiegare lo sviluppo
del frenulo soprannumerario. Non si può ricorrere alla genesi dai canali parauretrali,
perchè non si rinvenne in nessuna delle due varietà suddette una vera formazione cana-
liforme, ma soltanto nel 7° caso si ebbe ad incontrare una piccola cavità fornita di rive-
stimento epidermico senza, però, alcuno dei caratteri notati nei canali parauretrali. Del
pari non è qui il luogo per l’ ipotesi. dell’origine del frenulo soprannumerario, da una
anomalia ipospadica, mancando in proposito qualsiasi traccia di questo vizio congenito: e
nemmeno la genesi da una ripiegatura, in un punto circoscritto, della mucosa balano pre-
puziale può acattarsi a spiegare lo sviluppo delle due varietà sopradescritte. Comunque
però il meccanismo di una ripiegatura, o di un invaginamento, del rivestimento epider-
mico potrebbe soltanto darci la spiegazione intorno allo sviluppo della cavità cistica
(4° caso) notata più sopra, come pure nel grosso zaffo epiteliale descritto nel 2° caso: e
forse per la genesi di ambedue queste produzioni non si potrebbe trovare altra ipotesi più
soddisfacente. Ma, per concludere, intorno alla teratogenesi di queste due varietà di fre-
nuli soprannumerari l'ipotesi più verosimile sembrami quella, già ammessa da me per gli
altri casi esposti nella mia precedente memoria, che consiste nella penetrazione di un
tralcio vasale fra le lamine dell'epitelio balano-prepuziale, portante con sè elementi di con-
nettivo embrionale, capaci di organizzarsi e di dar luogo infine ad una fascetta dermica,
che ben presto si riveste dell'epitelio circostante. Con siffatto meccanismo noi possiamo
comprendere in tutti i suoi vari tipi anatomici lo sviluppo del frenulo soprannumerario:
ma, ripeto, l’ ultima parola, 0, meglio, la dimostrazione istologica è riservata alle future
ricerche.
D°Majocchi- Sopra alcune varieta... i Serie VI. Tomo VIII. 1910-1911.
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SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
Fig. 1. — Sezione trasversa del frenulo nastriforme soprannumerario nel suo terzo supe-
riore (7° caso) vicino all’inserzione balanica.
ep) Rivestimento epidermico della faccia superiore (prepuziate).
cc) Cavità cistica aderente all’ epidermide della faccia prepuziale.
<f) Zona flogistica nel derma subpapillare della facciaZinferiore (balarica).
eb) Rivestimento epidermico della faccia balanica.
Fig. 2. — Sezione trasversa del frenulo nastriforme soprannumerario nel terzo superiore,
alquanto più in basso dell’inserzione balanica.
(ep Rivestimento epidermieo della faccia superiore (prepuziale).
cc) La stessa cavità cistica aderente all’epidermide della faccia prepuziale per uno
zaffo malpighiano interrotto.
zf) la stessa zona flogistica del derma subpapillare della faccia eb) balanica.
Fig. 3. — Sezione trasversa del medesimo più in basso ancora, nella quale si vede la ca-
vità cistica cc) libera dall’ epidermide ep) della faccia prepuziale: la stessa
zona flogistica 37) nel derma subpapillare della faccia balanica eb).
Fig. 4. — Sezione trasversa del medesimo tra il terzo medio e superiore nella quale no-
tasi la doccia epidermica de) continuazione della cavità cistica: nel rima-
nente come nelle precedenti figure.
Fig. 5. — Piccolo tratto di una sezione trasversa del frenulo nastriforme soprannumerario
che mostra alcuni fascicoli di fibro-cellule fc.... muscolari nella parte media
del derma.
Fio. 6. — Metà di una sezione trasversa del detto frenulo, nella quale si scorge la faccia
balanica eb) del medesimo, erande copia di fibre elastiche /e), di vasi nel
derma, e la zona flogistica 27) nello strato subpapillare.
Fig. 7. — Sezione trasversa del frenulo cordoriforme soprannumerario in vicinanza della
inserzione superiore (2° caso), la quale mostra l'epidermide di rivestimento,
formata di un grosso zaffo malpighiano tagliato di traverso, e il derma assai
vascolarizzato
Fig. 8. — Sezione trasversa del tratto medio di questo stesso frenulo, corrispondente alla
parte più ristretta del medesimo.
Fig. 9. — Sezione trasversa di questo stesso frenulo nella sua inserzione inferiore, avente
la forma del trifoglio per lo sviluppo di due profonde insenature.
RICERCHE SULLE MUTAZIONI (VARIAZIONI)
DEL GRUPPO COLI-TTFO
MEMORIA
DEL
Prof. FLORIANO BRAZZOLA
(letta nella Sessione dell’ 11 Dicembre 1910).
In questi ultimi tempi sono stati pubblicati diversi lavori sulle possibili mutazioni,
variazioni nello stretto senso della parola, di microrganismi ed in modo speciale del
gruppo coli-t1fo.
Dopo le prime osservazioni di Neisser- Massini sul bacterium coli mutabile, ab-
biamo avuto diversi altri lavori fra i quali ricordo in modo speciale quelli di Burck, di
Sauerbeck, di Miller, di Burri di Jacobsen.
L'attenzione venne pure richiamata sulle mutazioni di altri microorganismi e sulla
questione generale delle variazioni secondo De Vriers dei microrganismi in genere.
La questione è importantissima sia dal punto di vista della biologia, sia dal punto di
vista della patologia. Le variazioni del gruppo coli-tifo poi, i rapporti fra i varî tipi del gruppo
coli (coli classico, coli simili, coli mutabile, coli imperfetto) con altri microorganismi af-
fini e specialmente col paratifo 2, col tifo mutabile, hanno una importanza speciale.
Io ho potuto studiare comparativamente diversi ceppi di coli di varia provenienza,
(intestino, acqua, erbaggi, terreno) in confronto a paratifi, specialmente il paratifo B e
microrganismi affini, (bacillo suipestifer, intossicazioni da carne) ed ho potuto seguire al-
cune mutazioni, od almeno isolare dei tipi i quali presentavono caratteri di veri sottoor-
dini, corrispondenti alle forme mutabili, imperfette.
Per l’isolamento primo dei coli abitualmente usavo o materiali liquidi, brodi fenicati
Vincent-Parietti, o la soluzione di nutrosio, tornasole e glucosio secondo Baziekow,
oi brodi con lattosio e rosso neutro, Savage e modificazioni, o siero di latte Petruscky;
oppure ricorrevo a materiali solidi e specialmente all’ agar lattosio tornasole cristalvioletto
secondo Drigalski-Conradi, all’ agar latiosio fuxina e bisolfito di sodio secondo
Endo, all’agar lattosio fosfato ammonico Dolt, all’agar con rosso neutro.
I materiali e metodi maggiormente usati furono: brodo glucosato con rosso neutro, il
Drigalsky-Conradi, ed il metodo Endo. I brodi glucosati al Î0%
0
con rosso neutro
Se
per l'isolamento generico del gruppo coli servono benissimo e devono essere raccomandati
in modo speciale, sovratutto quando vengono usati contemporaneamente al Drigalsky
ed al metodo Endo, perchè oltre all’isolamento generico, si possono già avere dati per
differenziazione. Per gli ulteriori studi, per la distinzione dei varî tipi e ceppi vennero
usati substrati diversi, con diverse qualità di zuccheri, e vennero pure studiate le pro-
prietà biologiche, specialmente le fermentazio:»i, i prodotti di scambio materiale, acidi, gas,
indolo; come pure vennero studiate le reazioni immunitarie, ed il potere patogenetico.
Rispetto alla provenienza i coli furono isolati da materie fecali dell’uomo e di ani-
mali, da molti campioni di acque superficiali o da pozzi inquinati, da erbaggi, (verdure,
erbe di prati naturali concimati) da terreni superficiali.
Le forme isolate venivano studiate comparativamente a ceppi di laboratorio di diversa
provenienza e sicuramente noti nelle loro proprietà culturali e biologiche.
Riferisco le forme ed i tipi principali che potei isolare e studiare, indicando i caratteri
delle culture, la morfologia dei tipi, i modi di comportamento rispetto ai varî zuccheri, le
diversità dei prodotti di scambio materiale, specie indolo, le differenze sul potere di aggluti-
nazione e le differenze nel potere patogenetico, venendo ad alcune conclusioni generali.
Nell’acqua si trovano gruppi coli-tifo che si comportano molto differentemente. Il
bacterium coli tipico ‘si trova con una certa frequenza nelle acque di recente inquinate
per materie fecali, spesso però si trovano ceppi i quali si comportano come bacterium coli
imperfetto o mutabile, 0 come pseudo paratifi. Io ho avuto l’ opportunità di esaminare
moltissime acque, anche in località in cui dominava il tifo: il bacillo del tifo classico si
riscontra eccezionalmente, si trovano invece forme di paratifi o pseudo paratifi, sempre
però più o meno imperfetti.
Rispetto al gruppo bacterium coli, prescindendo dalle forme classiche (bacterium coli
comune tipico) si trovano spesso dei ceppi i quali hanno caratteri che si avvicinano piut-
tosto a quelli del paratifo, altri anche al bacillo del tifo, almeno per alcuni dati.
Indico i caratteri differenziali principali nelle culture, (specialmente in agar Driga!sky,
in agar Endo, ed in agar col rosso neutro) non che le differenze nella morfologia, nel modo
di comportarsi coi varî zuccheri, in alcuni prodotti dello scambio materiale, nell’ agglu-
tinazione.
Innanzi tutto troviamo spesso dei ceppi di bacterium coli che nelle culture in placca
danno sviluppo a colonie che hanno piuttosto i caratteri del paratifo: colonie piccole,
piuttosto spesse, quasi a cupola, rotondeggianti, di aspetto un pò mucoso, quasi sotto forma
di goccie ed a sviluppo lento. Lo sviluppo però non è così lento come per il paratifo;
in tre o quattro giorni si hanno già colonie di un millimetro e mezzo o due di dia-
metro. Altre volte si trovano dei ceppi che hanno caratteri intermedî fra questi indicati
e quelli del coli tipico: le colonie sono più sottili, più basse, a contorni sfrangiati, di
un’ aspetto più lucente e lo sviluppo è più rapido.
Nelle culture in Drigalsky-Conradi si sviluppano per la maggior parte colonie
rosse, o rosso grigiastre a contorni sfrangiate, piuttosto spesse ed a sviluppo relativamente
rapido: con una certa frequenza però si può avere lo sviluppo di colonie bleu, con appena
— 363 —
una lievissima tinta rosso, un colore bleu-rosa, più piccole, più regolari a sviluppo più
lento.
Coll’agar Endo si hanno pure nella maggioranza dei casi colonie rosse, in due cam-
pioni di acque fortemente inquinate (acque di pozzo) si ebbe lo sviluppo di colonie bianche
e per lo meno appena tinte in rosso, presso a poco come il bacterium coli mutabile di
Neisser-Massini a margini irregolari, sfrangiati ed a sviluppo più lento; non si ebbe
però lo sviluppo di colonie figlie.
Queste differenze di caratteri sì riscontrano anche coll’ agar al rosso neutro. Moltis-
simi ceppi rendono il substrato fiuorescente e danno luogo a bolle di gas; altri, e nelle
acque con una certa frequenza, danno luogo solo a fluorescenza del substrato, altri infine
la modificano pochissimo, sì ha solo un pò di fluorescenza a luce molto obliqua.
Solo da queste differenze di caratteri si vede chiaramente come alcuni ceppi siano o
coli classico o forme molto vicine ai coli, mentre altri hanno più i caratteri dei paratifi
e pseudo paratifi, e persino quasi vicini al bacillo del tifo.
I diversi tipi poi nei passaggi successivi, in varî materiali di cultura, conservano i
loro caratteri, almeno per molto tempo; solo invecchiando, possono perderli in parte.
Anche nella morfologia si riscontrano delle sensibilissime variazioni. In media le di-
mensioni del colibacillo oscillano fra uno e cinque « di lunghezza e 0,4 a 0,7 di spessore.
Si nota però un fatto, e abbastanza frequentemente nei ceppi che si hanno dagli erbaggi
e dalle acque, che le dimensioni cioè souo piccole, da uno a due « di lunghezza, e che si
mantengono tali nei passaggi successivi e nei diversi substrati. Il numero delle ciglia e la
loro lunghezza può pure variare entro limiti abbastanza larghi e conseguentemente a questo
fatto troviamo che il movimento può essere molto diverso nei varî ceppi: dalle forme im-
mobili o quasi si passa a forme dotate di movimento più o meno vivace, a ceppi cioè che
si avvicinano ai caratteri dei paratifi, o pseudo paratifi.
Rispetto al modo di comportarsi dei varî ceppi di fronte alle diverse qualità di zuc-
chero si poterono notare i seguenti fatti più importanti, sovratutto rispetto al saccarosio
e lattosio. La maggioranza dei ceppi isolati dalle acque e dagli erbaggi fanno fermentare
il lattosio ed il saccarosio, come avviene per il coli tipico. Dal contenuto dell’ intestino
però, dagli ortaggi e da acque fortemente inquinate si isolano con una certa frequenza
dei ceppi i quali non fanno fermentare il lattosio e non fanno fermentare il sacca-
rosio, comportandosi quindi come paratifi, dai quali però si differenziano per tutti gli altri
caratteri. Il potere fermentativo poi varia, in generale, moltissimo nei diversi ceppi: alcuni
danno una fermentazione rapida ed un grande sviluppo di gas, altri più lenta e poco svi-
luppo di gas; fino a dare nei substrati solidi solo un intorbidamento diffuso. Rispetto al
maltosio e destrosio non si hanno differenze apprezzabili; la fermentazione avviene per
tutti i ceppi ed in modo tipico.
Conseguentemente a questi fatti anche il modo di comportarsi dei varîì ceppi rispetto
al latte è diverso: di fronte a ceppi i quali si comportano come il bacterium coli tipo, si
trovane dei ceppi i quali non coagulano il latte, anche dopo un tempo lunghissimo; oppure
che danno luogo ad una coagulazione molto incompleta e tardiva. Si notano anche diffe-
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renze notevoli a secondo della temperatura a cui sono tenute le culture: a temperatura
bassa (da 25° a 30°) la coagulazione in generale manca; le prove devono essere fatle a
temperature piuttosto elevate, da 38° a 40°.
Il diverso comportamento dei ceppi rispetto agli zuccheri ed al latte si conserva ne’
passaggi successivi, specialmente per il lattosio; per il saccarosio invece, con una serie
di passaggi successivi ed a temperature un po’ elevate, si può gradatamente ottenere la
fermentazione.
Rispetto alla reazione dell indolo si hanno fatti corrispondenti, vi sono cioè dei
ceppi di coli i quali non danno la reazione. La ricerca venne fatta comparativamente col
metodo Salkowski e con quello di Ebrlich. Nei ceppi isolati dall’ intestino la reazione
dell’ indolo si ha nella maggioranza dei casi, come pure si ha da quelli isolati da acque
di pozzo fortemente e di recente inquinate. Si possono però trovare dei ceppi i quali
assolutamente non danno indolo: dagli erbaggi in genere, dal terreno e da acque non di
recente inquinate si isolano spesso dei ceppi i quali non danno luogo alla produzione di
indolo e che quindi si comportano come il gruppo paratifo e tifo.
Questo diverso modo di comportamento ha un notevole significato, non solo per 1’ iden-
tificazione dei gruppi, ma anche, sovratutto se messo in rapporto con altre proprietà bio-
logiche, per stabilire la provenienza dei germi e può avere un’ utilissima applicazione nel-
l’esame batteriologico delle acque.
Rispetto al potere di agglutinazione vi sono pure differenze grandissime.
Io ho saggiato diversi ceppi di coli con siero preparato con un coli classico, con
sieri agglutinanti il paratifo B, e con altro fortemente agglutinante per il bacillo del tifo.
Rispetto al siero preparato con coli classico si ebbero notevoli differenze ; esso aggluti-
nava alcuni ceppi ed era assolutamente senza azione su altri: l’azione si può dire è sicura
con sieri fatti con ceppi omologhi ; con altri aventi caratteri culturali perfettamente clas-
sici, l’agglutinazione era molto bassa; quasi nulla poi sulle forme mutabile od imperfetto.
Con siero agglutinante il paratifo B nelia proporzione 1:5000 si ebbero pure grandis-
sime differenze. Su ceppi di coli isolati dalle acque, dagli erbaggi e dal terreno il potere
agglutinante era molto basso (1:10 — 1:50 — 1: 100 massimo); sui coli aventi i carat-
teri del mutabile ed imperfetto il potere agglutinante era pure basso (1:100); solo su
alcuni ceppi isolati dall’ intestino, specie dei bovini, il potere agglutinante raggiunse il rap-
porto ll :500.
Gli stessi fatti, anzi più manifesti, si hanno con sieri agglutinanti il bacillo del tifo :
l’azione agglutinante è in generale molto bassa, sia sui ceppi coli-tipico, sia sul coli mu-
tabile ed imperfetto.
Istituii anche ricerche sul potere patogenetico, sovratutto col gruppo coli classico ed
imperfetto. Le ricerche furono fatte sulle cavie per iniezione endoperitoneale di culture in
agar. Nel potere patogenetico del sruppo coli vi sono delle differenze grandissime, anche
con ceppi che presentano tulti i caratteri del coli classico. Alcune razze infatti producono la
morte in breve tempo con ipotermia ed a dosi piccole (2, di ansa): altri ceppi invece
‘10
hanno un’azione patogenetica limitatissima o quasi nulla.
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Le forme di coli mutabile ed imperfetto presentano pure differenze grandissime: dal-
l'intestino di un vitello isolai un ceppo con un elevatissimo potere patogenetico, mentre
in un ceppo isolato da ortaggi il potere patogenetico era assai basso.
Le conclusioni cui si può arrivare da queste osservazioni e ricerche sono le seguenti :
Esistono numerosi ceppi di coli, e delle vere forme intermedie fra il coli classico,
e paratifi; vi sono dei ceppi i quali presentano i caratteri del bacterium coli mutabile ed
imperfetto.
Alcuni di questi ceppi, pur tenendo calcolo di possibili adattamenti all’ ambiente,
devono essere considerati come vere razze, vere variazioni nel senso di De Vries.
La diagnosi differenziale fra coli, gruppo coli, paratifo e tifo non può essere dedotta
da pochi criterî; bisogna ricorrere sempre, e comparativamente, a diversi metodi di cul-
tura ed alle prove biologiche. La prova migliore per la differenziazione e la reazione di
agglutinazione.
La distinzione dei varî ceppi di coli ed alcune differenze nelle proprietà biolo-
giche, (produzione di indolo ed agglutinazione) possono servire per diagnosticare la prove-
nienza dei coli e possono avere un grande significato nell'esame delle acque.
BIBLIOGRAFIA
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Id. Centralblat fiir Bakteriolog. Abt. I°. Bd. 49 pag. 145.
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H. De Vries — Die Mutationstheorie Leipzig. 1901-903.
H. Pringsheim — Die Variabilitàt niederen Organismen - 1910
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ANATOMIA MICROSCOPICA E SVILUPPO DEL
SISTEMA INTERRENALE E DEL SISTEMA
CROMAFFINE (SISTEMA FE0Ck0N0) DEI SALMONIDI
IRALIRSINID) JE
Anatomia microscopica.
MEMORIA
DEL
Prof. ERCOLE GIACOMINI
(letta nella Sessione del 28 maggio 1911)
(CON DUE TAVOLE DOPPIE E SEI FIGURE INI'ERCALATE NEL TESTO)
In precedenti mie Note e Memorie (1), intese ad illustrare la morfologia, ancora quasi
del tutto sconosciuta, del sistema delle capsule surrenali dei Teleostei, accennai già alla
esistenza nei Salmonidi dell’ « interrenale anteriore », al suo sviluppo, non che alle
differenze di struttura e d’organogenesi che passano tra l’interrenale anteriore e i corp u-
scoli di Stannius o « interrenale posteriore ». Ebbi anche occasione di accen-
nare brevemente alle disposizioni del sistema cromaffine (sistema feocromo) in
questa stessa famiglia.
La presente Memoria ha per iscopo di illustrare più ampiamente le disposizioni del
sistema interrenale e del sistema cromaffine (sistema feocromo) nei Salmonidi e lo sviluppo
di questi sistemi, segnatamente dell’ interrenale, e di corredare i fatti osservati con nume-
rose figure, le quali, meglio che le particolareggiate descrizioni, varranno a renderli più
evidenti.
Lo studio è stato eseguito sopra a varie specie di Salmo: Salmo fario, S. lacustris,
S. irideus, S. carpio, S. trutta, S. salar, S. fontinalis, e sopra il Coregonus wartmanni.
(1) Giacomini E. — Il sistema interrenale e il sistema cromaffine (sistema feocromo) in alcune
specie di ‘l’eleostei con rene cefalico (pronephros) persistente. Caratteri differenziali fra interrenale an-
teriore e corpuscoli di Stannius. Cenno sullo sviluppo di questi organi nei Salmonidi. Rendiconto delle
Sessioni della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Classe di Scienze fisiche. N. S.
Vol. XIV. An. Ace. 1909-1910.
— — Il sistema interrenale e il sistema cromaffine (sistema feocromo) in altre specie di Mure-
noidi. Memoria II. Memorie della R. Accademia delle Se. dell’ Istituto di Bologna. Classe di Sc.
fis. Serie VI. Tomi VI (1908-09) e VII (1909-10).
— — Anatomia microscopica e sviluppo del sistema interrenale e del sistema cromaffine (sistema
feocromo) dei Salmonidi. Rendiconto delle Sessioni. Classe di Scienze fisiche. N. S. Vol. XV. Anno
Accad. 1910-11.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 50
— 568 —
Per le ricerche relative allo sviluppo mi servii di una completa serie, ottimamente
fissata, di embrioni, di larve e di giovani di Salmo fario, S. lacustris e di S. irideus.
Dividerò la Memoria in due parti. Nella prima parte tratterò l’ anatomia microscopica
dell’interrenale anteriore, che risiede nel cosidetto rene cefalico, e dei corpuscoli
di Stannius (interrenale posteriore) e porrò in rilievo le differenze strutturali che
passano tra questi corpuscoli e l’interrenale anteriore; dirò pure della distribuzione del
sistema cromaffine.
Le esatte conoscenze anatomo-microscopiche sulla disposizione dei due sistemi nell’ a-
dulto serviranno di valido sussidio alle ricerche sul loro sviluppo, facendoci evitare erronee
interpretazioni.
Nella seconda parte studierò la organogenesi dell’interrenale anteriore e dei
corpuscoli di Stannius, dimostrando che le due serie di organi hanno un’ origine
diversa, poichè i corpuscoli di Stannius derivano come proliferazioni solide dagli ureteri
primari o canali del pronephros, mentre l’interrenale anteriore non ha alcun rapporto
genetico con i canali del pronephros e proviene, in tempo assai precoce, dall’ epitelio celo-
matico, ai lati della radice del mesenterio, subito al disotto (ventralmente) e al di dietro
(caudalmente) del grande corpuscolo malpigliano del pronephros. In questa seconda parte
m’intratterrò anche intorno allo sviluppo del sistema cromaffine dei Salmonidi.
PARTE I.
_Nnatomia microscopica del sistema interrenale
e del sistema cromaffine (sistema feocromo) nei Salmo e nel Coregonus.
Interrenale anteriore o cefalico dei SaZmo.
Per meglio precisare la topografia del sistema interrenale e la distribuzione del sistema
cromaffine, premetto una breve descrizione del rene e dei grossi vasi sanguiferi, partico-
larmente delle vene cardinali posteriori, che lo percorrono (1).
Il rene dei Salo può essere diviso (come nella generalità dei Teleostei) in tre por-
zioni: la porzione anteriore (craniale), indicata col nome di rene cefalico (Fig. 1 a 5 del
testo, 7° ec d, » c s), la porzione media o addominale e la porzione posteriore o caudale.
Nei Salmo adulti, e anche nei giovani, la porzione anteriore craniale del rene è la più
slargata, ha ficura pressochè losangica o lanceolata e si compone di due metà (i due reni
cefalici) destra e sinistra, ciascuna di forma triangolare, riunite sul piano mediano per la
loro base, mentre protendono il loro vertice lateralmente e ventralmente a guisa di ala.
I due reni cefalici sono, come ora si è detto, saldati insieme per quasi tutta la loro esten-
sione. Sulla faccia dorsale convessa della massa comune costituente il rene cefalico corre,
(1) Per la tecnica seguìta rimando alle mie precedenti Memorie sulle capsule surrenali dei Murenoidi.
— 369 —
in un solco longitudinale, il tronco dell’ aorta dorsale. La faccia ventrale della massa del
rene cefalico è concava e mostra, a destra del piano sagittale, |’ uscita dell’ arteria mesen-
terica che, staccandosi dall’ aorta, attraversa, accompagnata dai gangli e dal plesso celiaci,
la massa del rene cefalico per venirne fuori dalla sua faccia ventrale. L’ estremo anteriore
Wes
Fig 1. del testo. — Rappre-
senta l’ intiero rene isolato di un
esemplare di Salmo fario. Gran-
dezza naturale. A, veduto dalla
faccia ventrale. B, veduto dalla
faccia dorsale. ip (cS), interrenale
posteriore (corpuscoli di Stan-
nius); red, res, rene cefalico de-
stro e sinistro; vd, us, uretere
destro e sinistro; vepd, vena car-
dinale posteriore destra, di contro (cYp<< 3
alla quale, dall’ altro Jato, presso > B
il rene cefalico, si veda per breve
tratto la vena cardinale posteriore
sinistra.
In questo esemplare l’ intiero
rene è lungo mm. 136. La lun-
ghezza del rene cefalico è di circa
mm. 18 e la larghezza di mm.
19,5. La larghezza nel tratto di
unione tra rere cefalico e rene
addominale è di mm. 10, quella
del rene addominale mm. 9.
Fig. 1. A Fig. 1. B
od apice della massa può essere acuminato o leggermente arrotondato ovvero presentare
una lieve incisura mediana.
A queste parti anteriori slargate a guisa di spatola, situate tra il cuore e l° esofago,
al disotto, e le prime vertebre, dalla prima (1) alla settima o all’ottava, al di sopra, se-
guono le parti medie del rene come due striscie longitudinali addossate alla parete dorsale
dell’addome, sulle cui depressioni e rilievi si modellano; queste parti medie o addominali
(1) L’apice od estremo craniale del rene cefalico giunge a livello circa della prima vertebra.
— 370 —
sono un poco più strette delle anteriori colle quali però si uniscono piuttosto largamente,
cioè mediante un tratto di passaggio non strozzato che va man mano restringendosi verso
l’indietro per raggiungere le dimensioni della parte addominale. Nella loro porzione poste-
riore o caudale i due reni sono saldati fra loro e questa porzione, pianeggiante nella sua
faccia inferiore, carenata nella superiore, va gradatamente assottigliandosi e termina più
Fig. 2 del testo. -- Rappre-
senta l’ intiero rene isolato di un
esemplare adulto (un po’ meno
grande del precedente) di Salmo
fario. Grandezza naturale. A, ve-
duto dalla faccia ventrale. B, ve-
duto dalla faccia dorsale. ip (c$),
interrenale posteriore (corpuscoli
di Stannius); red, res, rene ce-
falico destro e sinistro; ud, us,
uretere destro e sinistro; vcpd,
vena cardinale posteriore destra.
In questo esemplare l’ intiero
rene è lungo mm. 132. La lun-
ghezza del rene cefalico è di circa
mm. 16 e la larghezza di mm. 25.
La larghezza nel tratto di unione
tra rene cefalico e rene addomi-
nale è di mm. 10, quella del rene
addominale mm. 8-9.
Fig. 2. A Fig. 2. B
o meno appuntata. Il saldamento comincia già più in avanti, poichè le due striscie addo-
minali del rene sono separate soltanto nel loro terzo anteriore circa.
La vena cardinale posteriore destra è molto più ampia della sinistra che è appena
visibile (Fig. 1-5 del testo, v c p d). La destra riceve rami, in qualche caso numerosi
(Fig. 1 del testo), anche dal rene sinistro, percorre il rene cefalico destro fin verso il suo
margine craniale per poi uscirne e raggiungere il rispettivo dotto di Cuvier. La vena
cardinale posteriore sinistra, oltre che essere molto più piccola, è di solito compresa nello spes-
sore della massa linfoide e solo nelle sezioni trasversali microscopiche apparisce distintamente.
— Sil —-
Nell’ adulto il rene cefalico, costituito per la più gran parte da tessuto linfoide, non
contiene nè porzioni dell’ uretere primario nè canalicoli urinari; questi cominciano poco
dopo il rene cefalico, verso la metà del tratto di passaggio che congiunge il rene cefalico
alla parte addominale del rene.
Presso all’apice od estremo anteriore del rene cefalico sì riscontra per altro un resto,
ben riconoscibile, del grande corpuscolo malpighiano del pronephros; quantunque atrofiz-
zate, se ne distinguono chiaramente le sue due parti: la camera interna e il glomerulo.
rcd
Fig. 3 del testo. — Rappre-
senta l’intiero rene isolato di un
esemplare giovane di Salmo fario.
Grandezza naturale. A, veduto
dalla faccia ventrale. B, veduto
dalla faccia dorsale. ip (cS), inter-
renale posteriore (corpuscoli di
Stannius); red, res, rene cefa-
lico destro e sinistro; vepd, vena
cardinale posteriore destra.
In questo esemplare l’ intiero
rene è lungo mm. 102. La lun-
ghezza del rene cefalico è di circa
mm. 13 e larghezza di mm. 18.
La larghezza nel tratto di unione
tra rene cefalico e rene addomi-
nale è di mm. 9, quella del rene
addominale mm. 6.
Fig. 3. A Fig. 3. B
Dopo aver detto della forma del rene, aggiungiamo subito che l’interrenale ante-
riore è situato nella sua porzione craniale rappresentante il rene cefalico, il quale perciò
non risulta di solo tessuto linfoide, e i corpuscoli di Stannius o interrenale po-
steriore risiedono invece in corrispondenza della porzione addominale, a livello del terzo
medio circa dell’ intiero rene.
Macroscopicamente alla superficie del rene cefalico non si notano formazioni o mas-
serelle glandolari e non se ne scorgono nemmeno nella superficie di sezione dei tagli gros-
solani praticati attraverso alla massa dell’ organo, e ciò forse per il colorito loro proprio
e fors’ anche a causa dell’abbondante pigmento di cui è ricca la massa linfoide
Nella serie delle sezioni microtomiche invece, già ad occhio nudo e meglio ancora con
una semplice lente d’ ingrandimento, si veggono delle isole, d’ aspetto diverso da quello del
-- 372 —
tessuto linfoide in mezzo al quale si trovano disseminate, variamente estese, costituite dal
tessuto glandolare rappresentante l interrenale anteriore (Tav. I, Fig. 1, è @). Alcune
delle isole più grandi misurano in Salmo furio da mm. 0,5 a mm. 1-1,5-2 e persino 2,5-3
nel loro asse maggiore e da mm. 0,25 a mm. 0,5 e anche 1 nell’ asse minore. Da queste
isole o lobuli di notevoli dimensioni si passa ad altre molto più piccole, visibili soltanto
all’ esame microscopico.
Studiando al microscopio la serie delle sezioni, si osserva che le isole o lobuli di tes-
suto glandolare rappresentante l’interrenale anteriore, formate di trabecole o cordoni epi-
teliali, non posseggono involucro connettivale proprio e sono di svariatissima forma e va-
riamente orientate (Tav. I, Fig. 1 e 2, è da).
L’interrenale anteriore incomincia già presso l'apice del rene cefalico, cranialmente al
residuo del corpuscolo malpighiano, dove si presenta con due piccole isole, disposte una per
lato del piano mediano, e si continua poi ai lati del corpuscolo malpighiano, al quale livello
Fig. 4 del testo. — Rappresenta l’intiero rene
isolato di un esemplare molto giovane di Salmo
irideus. Grandezza naturale. A, veduto dalla faccia
ventrale. B, veduto dalla faccia dorsale. ip (c$),
interrenale posteriore (corpuscoli di Stannius);
red, res, rene cefalico destro e sinistro; wd, us,
uretere destro e sinistro; vcepd, vena cardinale po-
steriore destra, la quale _s’ intravede in parte anche
dalla faccia dorsale.
L'intiero rene è lungo mm. 48. La lunghezza
del rene cefalico è di circa mm. 7 e la larghezza
di mm. 9. La larghezza nel tratto di unione tra
rene cefalico e rene addominale è di mm. 5, quella
del rene addominale mm. 5.
Fig. 4. A. Fig. 4. B
le isole si mantengono ugualmente una per lato. Da questo estremo anteriore l’interrenale,
sempre sotto forma di isole di varia grandezza, si segue poi indietro fino al limite poste-
riore del rene cefalico e anche sino al principio del tratto di passaggio alla porzione addo-
minale del rene. Progredendo, coll’ esame delle sezioni, dall’ estremo anteriore verso il li-
mite posteriore del rene cefalico, le isole d’interrenale si veggono sulle due metà della
massa dell’ organo disposte irregolarmente una o due per parte, senza simmetria e come
sparse nel tessuto linfoide. Più caudalmente, a livello della parte media e della parte: po-
steriore del rene cefalico, le isole aumentano di numero, sicchè se ne contano persino
quattro o cinque per lato disseminate senz’ ordine (Tav. I, Fig. 1, è a). In qualche sezione
sì possono incontrare tre o quattro fin’ anche cinque isole che si seguono luna all altra
sopra una medesima linea. Le isole possono essere completamente circondate da tessuto
linfoide o pure stare con un loro margine addossate ad un ramo venoso, ad una delle vene
reveenti del rene cefalico. Più indietro, nella regione delle vene cardinali posteriori, sia
allorchè queste stanno per attraversare il rene cefalico e lasciarlo per dirigersi ai dotti di
Cuvier, sia quando percorrono la parte posteriore del rene cefalico, le isole d’interre-
nale si trovano anche addossate alla parete delle dette vene o a far parte di questa stessa
= S719 —
parete spingendosi fino sotto l’endotelio. Le isole d’interrenale situate nella parte media e
posteriore del rene cefalico sono più grandi, più estese di quelle poste nella sua parte an-
teriore. Nella porzione caudale del rene cefalico i lobuli d’interrenale diminuiscono di nu-
mero e di grandezza, ma s'incontrano, come sopra si è già ricordato, sin verso la zona di
passaggio (Tav. I, Fig. 7, 8, è d..
Le isole di interrenale anteriore (Tav. I, Fig. 2, 3, è @) sono costituite da cordoni o
trabecole epiteliali che, ramificandosi e anastomizzandosi fra loro, formano una rete nelle
cui maglie più o meno ampie sono compresi degli spazi sanguigni, dei sinusoidi (s ©), e
l’ endotelio che delimita questi sinusoidi è direttamente applicato alla superficie delle tra-
becole. T'alune isole o parti di quelle più grandi mostrano gli spazi sanguigni, assai larghi,
fittamente ripieni di corpuscoli rossi e risaltano in modo particolare per questo loro carattere.
Ciò si osserva pure in qualche parte della grande isola rappresentata dalla Fig. 2 (a destra
della Figura in s ©).
Non sempre le trabecole o cordoni epiteliali sono disposti in modo da formare un re-
ticolato, con ampi seni interposti fra loro, ma in alcune isole, come si rileva più di fre-
quente in quelle che occupano la porzione anteriore del rene cefalico, e generalmente in
quelle più piccole, essi hanno piuttosto l’ aspetto di lobuletti epiteliali e sono maggiormente
avvicinati fra loro.
Nelle isole più grandi penetra anche del tessuto linfoide che poi s’interpone, più qua
e più là, fra le trabecole (Fig. 2 e 3).
Le trabecole o i cordoni, come dimostra la Fig. 3, sono d’ordinario composti di due
o tre serie, raramente di quattro o cinque ovvero di una sola serie, di cellule schietta-
mente epiteliali, di varia forma: cilindriche o prismatiche non molto alte, cubiche o in altra
guisa poliedriche, con citoplasma finamente granuloso, con nucleo rotondeggiante o legger-
mente ovalare, provvisto di nucleolo.
Nella precedente descrizione, relativa al comportarsi dell’ interrenale anteriore, mi sono
più specialmente riferito a ciò che si osserva nella serie delle sezioni trasversali del rene
cefalico di Salmo fario. Per le altre specie di Sa/z0 studiate dirò soltanto, senza dilun-
garmi, che in Salmo lacustris, S. irideus, S. trutta, S. carpio, S. salar e S. fontinalis si
hanno disposizioni simili a quelle fatte, qui sopra, conoscere per il S. fario.
Conviene tuttavia che io spenda qualche parola per rilevare alcuni particolari delle
disposizioni che l’ interrenale anteriore offre in Salmo salar e in S. fontinalis.
In Salmo salar, di cui ho esaminato un esemplare molto giovane (i reni isolati di
questo esemplare sono rappresentati nella Fig. 5 del testo), l’interrenale anteriore è più
specialmente disposto intorno alle vene cardinali posteriori, sia attorno alla destra, che è
assai più ampia, sia attorno alla sinistra, molto angusta, sotto forma di lobuli di varia
grandezza, 1 quali si seguono in direzione cranio-caudale anche nel tratto di passaggio dal
rene cefalico alla porzione addominale del rene (mesonephros). I lobuli d’interrenale, a
cominciare dall’ estremo anteriore del rene cefalico, s'incontrano già cranialmente al resto
del corpuscolo malpigliano, parecchie sezioni prima di giungere ad esso Sono dapprima
irregolarmente disseminati nel tessuto linfoide e alcuni stanno in vicinanza di grossi rami
— 374 —
venosi 0 sporgono un poco in questi. Su una sezione trasversa si possono contare fino a
dieci isole d’interrenale. Sorpassato il glomerulo, procedendo caudalmente nello studio delle
sezioni seriali, si veggono le isole d’interrenale in più stretto rapporto coi grossi rami ve-
nosi ed allora si osserva pure che vicino o addossato ad esse trovasi il tessuto cromaffine
distribuito lungo questi vasi. Quando si arriva sulle vene cardinali posteriori, particolar-
mente sulla cardinale destra, le isole aumentano di numero e si dispongono soprattutto
attorno alla detta vena (Tav. I, Fig. 4-6, è a), nel perimetro della quale in qualche sezione
se ne possono contare da 5 a 9. Più in dietro s'incontrano poi, di tanto in tanto, piccoli
lobuli nel tratto di passaggio tra rene cefalico e porzione addominale del rene (Tav. I,
Bios SAelavISEri o 0)
Nel rene cefalico, dell’ esemplare di $S. sala» di cui ho qui sopra brevemente discorso,
Fig. 5 del testo. — Rappresenta l’ intiero
rene isolato di un esemplare molto giovane di
Salmo salar. Grandezza naturale. A, veduto
dalla faccia ventrale. B, veduto dalla faccia
dorsale. ip (cS), interrenale posteriore (corpu-
scoli di Stannius); red, res, rene cefalico
destro e sinistro; vepd, vena cardinale poste-
riore destra.
L'intiero rene è lungo mm. 62. La lun-
ghezza del rene cefalico è di circa mm. 7,5 e
la larghezza di mm. 6. La larghezza nel tratto
di unione tra rene cefalico e rene addominale
è di mm. 5, quella del rene addominale mm. 5-6.
Fig. 5. B
sebbene sia ancora conservato il corpuscolo malpighiano col glomerulo, non si scorge più
alcuna traccia del canale del pronephros (uretere primario), resti ben distinti del quale si
notano nella regione di passaggio alla porzione addominale.
Anche in Salmo fontinalis di cui ho esaminato esemplari giovani della lunghezza di
mm. 1]4, le isole o lobuli d’interrenale anteriore appariscono già cranialmente al grande
corpuscolo malpighiano e s’incontrano poi più di frequente aggruppate attorno alle vene
cardinali posteriori destra e sinistra, nel tratto craniale di queste vene che percorre la
massa linfoide del rene cefalico.
Negli esemplari di S. fontinalis, al quali ho ora accennato, trovai, insieme al grande
corpuscolo malpighiano, ancora ben conservato il canale del pronephros od uretere primario
che con anse convolute corre nella sostanza linfoide del rene cefalico. I tagli delle anse,
essendo molto aumentato il tessuto linfoide, sono distanti fra loro e come sparsi in questo
tessuto. Similmente accade in giovani esemplari di Salmo fario, S. lacustris e S. inideus.
Relativamente alla presenza delle anse del canale del pronephros, possiamo dire, in
maniera generale, che nei giovani esemplari delle varie specie di Sa/m0 coesistono nella
oa
massa linfoide del rene cefalico le isole o lobuli d’interrenale anteriore insieme alle anse
del canale del pronephros, sempre però facilmente distinguibili le une dalle altre per i loro
caratteri strutturali. Anche nel caso in cui sezioni tangenziali delle anse del canale del
pronephros appariscano a guisa di cordoni epiteliali, si riesce a determinare con precisione
il loro vero significato, oltre che per i peculiari caratteri degli elementi cellulari che li
compongono (1), anche per il fatto che, seguendo la serie delle sezioni, si scopre sempre il
lume caratteristico dei tratti del canale del pronephros.
In niun caso si possono rilevare segni di derivazione delle isole epiteliali rappresen-
tanti l’interrenale anteriore da trasformazione di tratti del canale del pronephros. Anzi,
seguendo l'evolversi di queste due diverse e distinte formazioni in esemplari sempre più
avanzati in età, si osserva che col tempo le isole o lobuli dell’ interrenale anteriore si ac-
crescono e acquistano i loro caratteri definitivi, mentre le anse del canale del pronephros
si atrofizzano e scompaiono. Il tratto posteriore del canale del pronephros od uretere pri-
mario, quel tratto che percorre la regione di passaggio al mesonephros, permane più a
lungo e lo si può incontrare ancora esistente in esemplari di uno o due anni.
Disposizione dell’ interrenale anteriore o cefalico in Coregonus wartmanni.
Diversa da quella descritta nei Salmo e ancora più interessante da meritare una de-
scrizione a parte, è la disposizione dell’interrenale anteriore o cefalico nel Coregonus wart-
manni, del quale esaminai un esemplare adulto, il cui rene isolato è rappresentato nella
Fig. 6 del testo.
In questo esemplare tutto il rene è lungo mm. 175. Dalla sua parte anteriore (cra-
niale) alla posteriore (caudale) esso va restringendosi gradatamente e in dietro termina
appuntato. Nel suo terzo posteriore cresce di spessore nel senso dorso-ventrale ed è qui
fortemente carenato sulla sua faccia dorsale. Nella parte sua anteriore più slargata, cor-
rispondente al rene cefalico, ha una larghezza di mm. 17. Il contorno craniale di questa
parte, slargata a guisa di spatola, mostra un breve processo o prolungamento mediano a
modo di punta che si spinge in avanti e due brevi prolungamenti laterali. Nella faccia ven-
trale leggermente concava di questa porzione anteriore, verso il mezzo di essa, si vede
sorgere l’arteria mesenterica che, nascendo dall’ aorta, attraversa la massa linfoide per giun-
gere ventralmente e uscirne. L’arteria mesenterica lungo il tratto di emergenza dalla faccia
venirale del rene cefalico è circondata da rami nervosi e grossi gangli simpatici (gangli
celiaci); rami e gangli simpatici l’accompagnano anche durante il tragitto attraverso il
rene cefalico. Nel tratto attraversato dall’arteria mesenterica i due reni cefalici sono se-
parati tra loro, nel rimanente sono saldati assieme.
(1) Le cellule rivestenti le anse del canale del pronephros sono di forma cilindrica prismatica o
cubica, sempre disposte sopra una sola serie, nettamente delimitate e nelle sezioni tangenziali della
parete delle anse appariscono di figura poligonale (esagonale) ben distinta.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11. 51
— 376 —
Poco al di dietro (circa 3 mm.) dell’ estremo craniale del rene cefalico si trova, sui lati
del piano mediano e situato profondamente in mezzo alla massa del tessuto linfoide, un residuo
(240)
Fig. 6 del testo. — Rappre-
senta l’intiero rene isolato di un
esemplare adulto di Coregonus
wartmanni. Grandezza naturale.
A, veduto dalla faccia ventrale.
B, veduto dalla faccia dorsale. ip
(cS), interrenale posteriore (cor-
puscoli di Stannius); red, res,
rene cefalico destro e sinistro; ud,
us, uretere destro e sinistro ; vcpd,
veps, vena cardinale posteriore“de-
stra e vena card. post. sinistra.
Le dimensioni dell’ intiero re-
ne e delle sue parti sono date nel
testo a pag. 375 e 377. È d :
(AS
Fig. 6. A Fig. 6. B
ancora ben riconoscibile del grande corpuscolo malpighiano del pronephros in cui si vede
il glomerulo (1), la camera interna e l’inizio del canale del pronephros od uretere primario.
(1) I due glomeruli sono saldati tra loro sul piano mediano
— 377 —
La vena cardinale posteriore destra (Fig. 6 del testo, v c p d) è molto ampia e assai ben
manifesta e nella figura è mostrata tagliata di traverso in corrispondenza del prolungamento
laterale destro del rene cefalico di dove passa poi al rispettivo dotto di Cuvier. La vena
cardinale posteriore sinistra è molto meno ampia, poco visibile e poco estesa (v c p s).
Al di dietro della parte anteriore (rene cefalico) slargata il rene misura mm 9,5 di
larghezza; verso il mezzo della parte addominale mm. 8 e a metà della porzione poste-
riore mm. 5,5.
Nel Coregonus l’interrenale anteriore si trova pure situato nella porzione anteriore
del rene, in quella porzione, cioè, indicata col nome di rene cefalico, ed incomincia già all’ e-
stremo craniale della medesima, al davanti del rudimento del corpuscolo malpighiano.
Seguendo nello studio la serie delle sezioni in senso cranio-caudale, 1’ interrenale anteriore
s'incontra già fin dalle prime sezioni ai lati del piano mediano. Nella porzione .craniale del
rene cefalico esso è anche maggiormente abbondante e meglio appariscente che nella parte
posteriore del medesimo rene cefalico. In direzione cranio-caudale esso sì estende per la
lunghezza di circa 20 mm.
La disposizione dell’interrenale anteriore nel Coregonus è molto particolare e difficil-
mente se ne può dare un giusto concetto colla semplice descrizione. A farsene un'idea
abbastanza adeguata aiuterà molto uno sguardo alle Fig. 1l e 12 della Tav. II.
Anzichè in forma di isole o di lobuli più o meno grandi, come vedemmo nei Salmo,
l’interrenale anteriore nel rene cefalico di Coregonus è distribuito in forma di sottili tra-
becole epiteliali, le quali, in parte a guisa di uno strato costituito da una o due o tre serie
di cellule, raramente da quattro o cinque, stanno situate, immediatamente sotto 1° endo-
telio, attorno ai rami e ai tronchi venosi più grossi (vene reveenti del rene cefalico) che
formano i tratti principali della ricchissima rete venosa della massa linfoide del rene ce-
falico. Siechè questi tratti venosi appariscono come circondati da un manicotto o guaina
d’interrenale. Ma le pareti e gli strati d’interrenale di tali tratti venosi ron sono continue,
bensì mostrano delle frequenti aperture di comunicazione con spazi venosi attigui, ossia con
i rami venosi o lacune venose più piccole che si aprono negli spazi venosi maggiori; e le
trabecole d’interrenale seguono questi vasi venosi più piccoli, questi sinusoidi, e ramifi-
candosi e anastomizzandosi fra loro vengono a formare in certi punti, in vicinanza dei
tronchi venosi maggiori e dentro la massa linfoide del rene cefalico, un delicato reticolo
di trabecole epiteliali d’iuterrenale, più o meno esteso nei vari livelli in cui cadano le
sezioni. Le trabecole di siffatto reticolo nella loro disposizione imitano e seguono Ia trama
dei tratti o cordoni linfoidi, e pertanto ad una prima osservazione potrebbero sfuggire ed
essere confuse con questi, anche perchè in alcuni punti, più qua e più là, trabecole epi-
teliali d’interrenale e tratti di tessuto linfoide s’intercalano fra loro. Alcune delle trabe-
cole possono essere così tenui che quando le maglie, come accade in certi punti, sono for-
temente ripiene di sangue, difficilmente si scorgono se non si adopera un adeguato ingran-
dimento (vedasi la Fig. 11 a destra). L'insieme delle trabecole d’interrenale e dei tratti
di tessuto linfoide costituiscono una rete ad ampie maglie, nei cui spazi sono racchiusi ampi
—- 378 —
seni sanguigni, l’endotelio dei quali si applica direttamente alla superficie di quelle tra-
becole e di quei tratti (1).
Ma il territorio di distribuzione dell’interrenale è anche lungo la porzione craniale o
prossimale delle vene cardinali posteriori, vale a dire lungo quella loro porzione che per-
corre il rene cefalico e ne raccoglie le vene reveenti. Nella parete delle vene cardinali,
tanto della destra quanto delta sinistra (Tav. II, Fig. 12), si ha, subito sotto 1’ endotelio, uno
strato di lIobuletti o trabecole d’interrenale che in alcuni tratti, anche estesi, delle sezioni
trasverse appariscono come uno strato epiteliale. costituito da una o due serie di cellule
cilindriche basse o cubiche, regolarmente ordinate. E presso queste stesse vene o sul loro
lato mediale, come succede più particolarmente per la vena cardinale posteriore destra, o
verso il lato ventrale esterno e verso il lato mediale, come si osserva per la vena car-
dinale sinistra (Fig. 12, a sinistra e in basso), si trovano gruppi di trabecole ramificate e
anastomizzate che formano reticolati più o meno estesi, ì quali si collegano poi con gli
straterelli d’interrenale che rivestono i rami venosi più grandi, ossia i rami reveenti che
affluiscono alle cardinali.
La disposizione dell’ interrenale anteriore nel Coregonus ricorda molto da vicino alcune
delle disposizioni già da me descritte nei Murenoidi.
Gli elementi cellulari che compongono l’interrenale anteriore del Coregonus sono al-
quanto più piccoli di quelli dell’interrenale di Sa/m0, ma presentano gli stessi caratteri
citologici ed hanno ugualmente forma cilindrica bassa o cubica, o in altra maniera polie-
drica, quando non stanno regolarmente ordinati.
Un’altra caratteristica interessante che si verifica nel Coregonus si è quella di una più
intima associazione (in confronto a quanto sì riscontrò nei Salmo) fra interrenale e tessuto
cromaffine. Infatti, mentre nei Salmo il tessuto cromaffine si trova addossato, in alcuni
punti anche molto strettamente, all’ interrenale, ma non mai intercalato alle trabecole di
questo, nel Coregonus, come meglio dirò parlando del sistema cromaffine, singole cellule
feocromiche o più frequentemente gruppi di esse s°interpongono alle trabecole d’interre-
nale o alle serie di cellule interrenali che a guisa di epitelio rivestono la parete delle vene
cardinali e dei grossi rami venosi (Tav. II, Fig. 11, 12, s c).
Corpuscoli di Stannius o interrenale posteriore nei Salmo e nel Coregonus.
Icorpuscoli di Stannius o interrenale posteriore, tanto nelle diverse specie
di Salmo quanto nel Coregonus, si trovano sempre situati nella porzione addominale del
rene, ossia, e più precisamente, nel terzo medio circa dell’intiero rene (2). La loro posizione
(1) I rami venosi e i sinusoidi della rete venosa sono assai ampli, sicchè le isole e i cordoni di
tessuto linfoide, appariscono, specialmente nelle figure, dove è omesso il sangue, molto discosti fra
loro. Nell'insieme le maglie sono più ampie che in Salmo.
(2) Felix nei suoi studi sullo sviluppo del rene nel Salmo (Anatomische Hefte. Bd. VII. 1897)
vide i corpuscoli di Stannius nell'adulto ma non li interpretò giustamente. Ciò apparirà meglio nella
seconda parte di questa memoria.
Gioverà ricordare che in altri 'eleostei, come ad es. nei Murenoidi, nei Ciprinidi, nei Lofobranchi,
i corpuscoli di Stannius (di solito in numero di due, uno per lato) sono situati presso l’ estremo cau-
dale del rene, e che tali corpuscoli non si riscontrano mai nella porzione anteriore o rene cefalico.
— 879 —
in questa stessa regione, dove essi risiedono, è assai mutevole. Infatti essi appariscono
sia nella faccia ventrale del rene sia, più di frequente, sulla sua faccia dorsale, più o meno
profondamente immersi o sepolti nella sostanza renale. Quasi costantemente qualcuno dei
corpuscoli di Stannius da un lato e dall’ altro è collocato sul margine esterno del rene
[Fig. 1 a 6 del testo, é p (c S)]. Quando i corpuscoli di Stannius sono posti nella faccia
ventrale o nella faccia dorsale del rene, essi risaltano maggiormente per il loro colorito
bianco sul colore scuro della massa renale, quando stanno sul margine esterno dell’ organo
possono confondersi con il tessuto adiposo, che sempre si riscontra lungo questo margine
e dal quale tessuto però si distinguono per essere di un bianco opaco madreperlaceo.
Qualche corpuscolo di Stannius si può trovare completamente sepolto nella sostanza del
rene. Essi variano di numero e difficilmente se ne incontra lo stesso da un lato e dall’ altro;
d’ordinario se ne trova un numero diverso nei due lati; di solito sono più numerosi a
sinistra che a destra; se ne contano da 7 a 9 in un lato e circa 5 nell'altro; e di rado
sì veggono disposti simmetricamente quelli di un lato rispetto a quelli dell’altro lato (1).
Variano anche di grandezza e di forma, la quale però di consueto è rotondeggiante od elis-
soidale. Quanto a grandezza, da corpuscoli di dimensioni abbastanza vistose, di mm. 0,5 fino
a mm. 2-2,5 nel loro diametro maggiore, si passa a corpuscoli minutissimi, di appena qualche
decimo di mm. Sono sempre nettamente contornati e con facilità si separano completa-
mente dai tessuti circostanti, essendo avvolti da un involucro o capsula connettivale (Tav. II,
Fig. 13, c n) che manca invece ai lobuli e alle isole dell’interrenale anteriore.
Esaminati al microscopio nella serie delle sezioni mostrano la caratteristica struttura
dei corpuscoli di Stannius, e come chiaramente si rileva dalla Fig. 13 della Tav. II, che
rappresenta parte della sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius di Salmo fario
adulto, risultano costituiti di otricoli epiteliali pieni (solidi) (è p), più o meno incurvati o
tortuosi, convoluti (2), in parte ramificati e anastomizzati tra loro, ma piuttosto strettamente
addossati l’uno all’altro, di maniera che nei corpuscoli di Stannius non è dato vedere
quegli ampi sinusoidi che invece di regola si scorgono fra i cordoni o trabecole epiteliali
d’interrenale anteriore anche in quei punti dove esse si raccolgono in estese isole. Il con-
nettivo che forma l’ involucro o capsula connettivale del corpuscolo, invia delle tenui pro-
paggini a guisa di sottili sepimenti nell’interno del corpuscolo medesimo, le quali, nello
stesso tempo che servono di sostegno ai vasi sanguiferi e ai nervi dell’ organo, separano
tra loro anche gli otricoli glandolari, di cui contribuiscono a formare la sottile parete con-
nettivale. Le cellule epiteliali che compongono gli otricoli possono essere distinte in cellule
parietali o periferiche e cellule centrali o assiali. Le prime sono di forma cilindrico-pri-
smatica o cilindro-conica, non molto alte, abbastanza regolarmente ordinate in senso ra-
diale sulla parete degli otricoli, con citoplasma meno finamente granuloso che non sia
quello delle cellule dell’interrenale anteriore, con nucleo rotondeggiante o leggermente
(1) Corpuscoli di Stannius vicini, d'uno stesso lato, possono anche fondersi tra loro.
(2) Data questa loro disposizione, alcuni degli otricoli si mostrano nelle sezioni, e così anche nella
Fig. 13, tagliati trasversalmente, altri longitudinalmente od obliquamente.
-— 380 —
ovalare, posto verso la loro parte basale. Le cellule centrali che, in scarso numero, occu-
pano l’asse longitudinale degli otricoli, sono irregolarmente disposte, hanno forma svariata,
sono alquanto più grandi delle parietali e di dimensioni alquanto maggiori è anche il loro
nucleo.
Nei preparati nella parte centrale (assiale) degli otricoli apparisce come una specie di
fessura o di strettissimo lume, ma non si tratta di un vero lume, di una vera cavità glan-
dolare, bensì di stretti spazi prodottisi artificialmente per retrazione del citoplasma delle
cellule determinata dall’ azione dei fissativi. Siffatti spazi non si scorgono o sono assai
meno visibili nei preparati ottenuti con fissazione in liquido di Flemming o di Her-
Manngio)
Le strutture sopradescritte per l’interrenale anteriore e per i corpuscoli di Stannius
(interrenale posteriore) sono quali ci appaiono nei preparati ottenuti con la fissazione nella
miscela di liquido di Miller e formolo. Una più minuta ricerca citologica, che mi pro-
pongo di eseguire, con gli adeguati procedimenti tecnici, porrà in evidenza altri caratteri
differenziali tra gli elementi cellulari dell’interrenale anteriore e quelli dei corpuscoli di
Stannius. Ad ogni modo però non può fin da ora sfuggire la diversità strutturale che
passa tra le due formazioni, ed un confronto tra la Fig. 13, che ci rappresenta parte della
sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius, e le Fig.1-3, che mostrano la disposi-
zione e la struttura dell’interrenale anteriore o cefalico di Salmo fario, come anche il confronto
con le Fig. 4-8, nelle quali si scorgono lobuli d’interrenale anteriore di giovane Salmo
salar, varrà a mettere megiio in risalto la differenza di caratteri strutturali fra le due
formazioni glandolari: corpuscoli di Stannius o interrenale posteriore da un lato e in-
terrenale anteriore o cefalico dall’ altro. La differenza rilevasi ancor più agevolmente con-
frontando tra loro la Fig. 13 e le Fig. 11 e 12.
Sistema cromaffine (sistema feocromo) nei Salmo.
Il sistema cromaffine (sistema feocromo) è distribuito lungo la porzione
craniale delle vene cardinali posteriori e lungo i grossi rami venosi, vene reveenti, che
percorrono il rene cefalico e affluiscono alle vene cardinali. Nella vena cardinale poste-
riore destra (la quale oltre ad essere molto più ampia della sinistra è anche più lunga,
sicchè in dietro ci appare come vena cardinale mediana) si estende caudalmente, dopo
cessato l’interrenale anteriore, anche sino a livello del terzo medio del rene, ossia sino a
(1) Potrebbe dirsi che nel suo complesso la struttura del corpuscoli di Stannius ci dà in qualche .
maniera l'impressione della struttura dei corpuscoli epiteliali.
È inoltre da ricordarsi che cogli elementi dei corpuscoli di Stannius non si associano mai gli
elementi del tessuto eromaffine, mentre invece questi si associano, talvolta in maniera assai intima,
come qui ce ne offre esempio il Coregonus, cogli elementi dell’ interrenale anteriore. Associazione
intima degli elementi cromaffini coll’ interrenale anteriore riscontrasi nei Murenoidi, nei Ciprinidi,
nei Lofobranchi ece. Si veggano in proposito le mie precedenti pubblicazioni sulle capsule surrenali
di tali forme (Memorie e Rendiconto della R. Acc. d. Sc. di Bologna. Classe di Sc. fis.).
SERRE
livello della regione in cui sì trovano i corpuscoli di Stannius, e nelle vene reveenti di
questa regione, particolarmente sui contorno del loro sbocco nella cardinale.
Gli elementi cellulari del sistema cromaffine sono variamente distribuiti o in nidi di
diversa grandezza od anche in estesi gruppi ovvero in singole cellule isolate, a seconda
dei punti in cui s’ incontrano, e varia inoltre anche la loro situazione, essendo posti o subito
al disotto dell’ endotelio o nello spessore della parete delle vene oppure anche più profonda-
mente nel tessuto linfoide (1) che circonda tali vene (Tav. I, Fig. 4-8, e Tav. II, Fig. 9, 10, sc).
Il tessuto cromaffine in Salmo non s’ interpone fra le trabecole che costituiscono i lobuli
od isole dell’ interrenale anteriore nè s’ intercala lungo le medesime, tuttavia si trova
spesso addossato, ed anche più o meno strettamente, alle dette isole in quei punti in cui
esse sono poste nella parete delle vene od hanno immediato rapporto col lume di queste.
In alcuni tratti, specialmente nella regione di passaggio tra rene cefalico e porzione
addominale del rene, il tessuto cromaffine è molto più abbondante e occupa grandi esten-
sioni della parete delle vene, soprattutto della vena cardinale destra ma anche della sini-
stra, ed i nidi di elementi cromaffini possono pure sporgere con superficie convessa nel
lume vasale. In qualche specie, come in Salmo salar, lungo la vena cardinale posteriore
destra, nel tratto di passaggio tra porzione cefalica e porzione addominale del rene, gli
elementi del tessuto cromaffine si dispongono in grandi gruppi od accumuli, segnatamente
sulla parete mediale e sulla laterale del vaso, talvolta anche nella parete dorsale, come
sì osserva nelle Fig. 7 e 8 della Tav. I., 9 e 10 della Tav. II. Oltre che in grandi gruppi,
gli elementi cromaffini si dispongono in questa regione anche in piccoli nidi e in serie o
catene di cellule, come più particolarmente accade di vedere nella parete dorsale e nella
parete ventrale della vena cardinale posteriore destra. Pure lungo la vena cardinale poste-
riore sinistra sì hanno piccoli nidi e brevi catene di cellule cromaffini.
‘l'ale disposizione in piccoli nidi e in brevi serie di cellule cromaffini sì scorge poi,
nelie varie specie di 8470, procedendo in direzione caudale, anche lungo il tratto di vena
cardinale destra (vena cardinale mediana) che corre nella porzione anteriore del rene
addominale fino a livello circa della regione in cui risiedono i corpuscoli di Stanniu S,
se non che lungo questo tratto sono piuttosto rare.
Sistema cromaffine (sistema feocromo) nel Coregonus.
La distribuzione del sistema cromaffine nel Coregonus offre ancora maggiore inte-
resse poichè, come già sopra ricordai, parlando dell’ interrenale anteriore, gruppi di elementi
cromaffini s’ intercalano lungo le trabecole d’ interrenale e altri se ne interpongono fra le
medesime, con le quali pertanto vengono in certa maniera ad intrecciarsi (lav. II, Fig. 11
e 12, sc), determinandosi così un’intima associazione tra sistema interrenale e sistema
cromaffine.
(1) Anche quando sono nel tessuto linfoide trovansi sempre in rapporto con seni sanguigni.
— 382 —
Il tessuto cromaffine è più specialmente situato nella parete del tratto craniale delle
vene cardinali posteriori, di quel loro tratto cioè che percorre il rene cefalico. Si continua
inoltre lungo i grossi rami venosi, che affluiscono a questo tratto, e s° interna nella massa
linfoide per quivi seguive la rete di trabecole dell’ interrenale anteriore, con le quali inti-
mamente si associa. Nella parete delle vene e dei rami venosi, rivestita d’interrenale ante-
riore, il tessuto cromaffine s’ intercala alla serie di cellule interrenali, o mediante elementi
isolati o mediante gruppetti di elementi feocromici o mercè nidi piuttosto grandi. Gli
aggruppamenti di cellule cromaflini sono più vistosi, più estesi presso i punti d’ affluenza
dei grossi rami venosi nelle vene cardinali posteriori, massime nei punti di sbocco nella
vena cardinale posteriore destra. Pure nel Coregorus il tessuto cromaffine estendesi in
dietro, dopo cessato l’interrenale anteriore, sin verso il terzo medio del rene.
Nell’ intercalarsi del tessuto cromaffine al tessuto interrenale nella parete delle vene
si ha una disposizione simile a quella che descrissi per i Murenoidi, segnatamente mag-
giore somiglianza con quella illustrata nell’ Oprisurus (Ophichthys) serpens.
L’ intima associazione fra tessuto cromaffine e tessuto interrenale si rende ancor più
manifesta e più interessante in quei punti in cui l’ interrenale anteriore forma una rete
di trabecole (Fig. 12, a sinistra in basso), poichè qui gruppi di cellule cromaffini si veg-
gono intercalati o interposti alle trabecole d’interrenale, e tutto 1’ insieme strutturale di
questa disposizione ci ricorda il comportamento che sistema interrenale e sistema cro-
maffine mostrano nelle capsule surrenali degli Anfibii e soprattutto degli Anfibii anuri.
Gli elementi del tessuto cromafline, tanto in Salmo quanto in Coregonus, oltre che per
il caratteristico colore giallo-ocra o giallo-aranciato che assumono per l’ azione del bicro-
mato di potassio, si distinguono dagli elementi del tessuto che costituisce 1° interrenale
anteriore anche per i caratteri del loro plasma e del loro nucleo non che per la forma
del loro corpo cellulare. Le cellule del tessuto cromaffine hanno forma molto varia : cilin-
drica, cubica, rotondeggiante, poligonale con contorni irregolari non sempre ben definibili,
talvolta allungata o fusata, determinata così dalla forma dello spazio, che è loro concesso
di occupare, come dal luogo dove esse debbono risiedere per compiere la loro funzione.
Sono più grandi delle cellule dell’ interrenale ed il loro nucleo è pure di volume alquanto
maggiore; esso ha la cromatina divisa in finissimi granuli ed è di figura sferica od ova-
lare, ed ellissoidale quando il corpo cellulare è allungato o fusato.
Rapporti del sistema cromaffine col sistema nervoso simpatico.
Tanto in Salmo quanto in Coregonus ho seguìto nello studio della serie delle sezioni
i gangli della catena gangliare del simpatico, ma non sono riuscito a scorgervi cellule
cromaffini. Nidi, anche discretamente grandi, ho invece ritrovato nei gangli simpatici
celiaci che accompagnano l’ arteria mesenterica e che stanno situati attorno ad essa, sia
quando si stacca dall’ aorta (gangli celiaci dorsali), sia (gangli celiaci medi) lungo il suo
decorso nella massa linfoide del rene cefalico, sia, più specialmente, alla sua uscita dalla
faccia ventrale del rene cefalico (gangli celiaci ventrali). I nidi cromaffini, sebbene in
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— 383 —
scarso numero, SÌ rinvengono tanto nei gangli celiaci dorsali e medi, quanto nei ventrali
dove appariscono più voluminosi. Le Fig. 14 e 15 della Tav. II mostrano appunto sezioni
di gangli celiaci ventrali di Salmo fario con grandi nidi di cellule cromaffini (sc). Qualche
piccolo nido di cellule cromaffini si riscontra pure lungo i tronchicini nervosi simpatici che
corrono dentro la massa linfoide del rene cefalico, accompagnando |’ arteria mesenterica.
Inoltre ramuscoli nervosi del simpatico e piccoli gangli simpatici si rinvengono sparsi qua
e là nell’ interno della massa linfoide del rene cefalico lontani dall’ arteria mesenterica.
E rami nervosi simpatici e anche singole cellule gangliari o gruppetti di esse stanno
non di rado presso gli accumuli maggiori di cellule cromaffini anche lungo la porzione
craniale delle vene cardinali posteriori.
Conclusione generale relativa alla prima parte.
Da quanto ho riferito, in questa prima parte, intorno all’ anatomia microscopica del
sistema interrenale e del sistema cromaffine dei Salmonidi, risulta, come conclusione gene-
rale, che nei rappresentanti di questa famiglia, similmente a ciò che già feci conoscere in
due estese memorie per i Murenoidi e a ciò che in brevi note ho accennato per molti
altri Teleostei di diversi generi e famiglie, oltre ai corpuscoli di Stannius (inter-
renale posteriore), esiste l’interrenale anteriore, situato nel così detto rene
cefalico, in forma di trabecole o cordoni epiteliali, i quali o si raccolgono, come nei Salmo,
in isole più o meno estese e più o meno addossate alla parete della porzione prossimale
(craniale) delle vene cardinali posteriori e alla parete delle reveenti di questa regione, 0,
come in Coregonus, si dispongono lungo la parete di dette vene cardinali e reveenti in
modo da rivestirle come d’ una guaina o manicotto di trabecole d’interrenale anteriore.
Nell’ uno e nell’altro caso le trabecole mostrano la caratteristica disposizione che oftre
l’interrenale negli Anfibii.
Ed esiste d’altro canto il tessuto cromaffine il quale è prevalentemente distri-
buito lungo la porzione craniale delle vene cardinali posteriori, seguendo anche le vene
reveenti, e può stare strettamente addossato, come in Salmo, oppure, come in Coregonus,
intimamente associarsi ail’ interrenale anteriore in modo da risultarne la costituzione di
vere e proprie capsule surrenali, simili, sotto molti riguardi, a quelle
degli Anfibii.
Nidi, anche discretamente grandi, di cellule cromaffini sì riscontrano nei gangli celiaci
e nei tronchicini nervosi simpatici che accompagnano l’ arteria mesenterica nel suo tragitto
‘ dorso-ventrale attraverso la massa del rene cefalico.
Fatte conoscere queste principali disposizioni, passerò, nella seconda parte del lavoro,
ad esporre le ricerche sullo sviluppo del sistema interrenale e del sistema cromaffine dei
Salmonidi, con le quali sarà completato lo studio morfologico di questi due sistemi nella
detta famiglia, studio da servire, insieme alle precedenti mie note sopra agli stessi organi
nei Murenoidi e in parecchie altre forme di Teleostei, quale contributo alle conoscenze in-
torno al sistema delle capsule surrenali dei Teleostei in genere.
Serie VI. Tomo VIII. 1910-11.
UT
(4°)
— 384 —
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
Tutte le figure sono state ritratte con l’aiuto della camera lucida Abbè-Zeiss.
Nelle figure le parti molto in nero rappresentano cellule pigmentate o cumuli di pigmento.
Generalmente, per ragioni di semplicità e di chiarezza, si omise di rappresentare nelle figure il
sangue contenuto sia nelle vene sia nei seni venosi e in altri vasi.
Fissazione: miscela di liq. di Muller e formolo. Colorazione: carminio alluminico od emallume,
soli od associati ad eosina.
INDICAZIONI COMUNI A TUTTE LE FIGURE
am arteria mesenterica sc elementi del sistema cromaffine (so-
cgs cellule gangliari simpatiche stanza cromaffine) o sistema feocromo
cn involucro (capsula) connettivale sv seni venosi, sinusoidi
gsc gangli nervosi simpatici celiaci tl tessuto linfoide
ia interrenale anteriore v vene (rami venosi, vene reveenti)
i p interrenale posteriore (otricoli dei cor- vepa vena cardinale posteriore destra
puscoli di Stannius). vcps vena cardinale posteriore sinistra
p pigmento vs vaso sanguifero
TAVOLA I
Le Fig. 1 a 8 si riferiscono a Salmo fario adulto.
Fig. 1. — Rappresenta un sezione trasversale, veduta a debole ingrandimento, dell’intiero rene cefalico
a livello della sua porzione anteriore. La sezione cade un po’ al davanti dell’estremo
craniale delle vene cardinali posteriori, le quali perciò non compariscono tagliate nella
figura. Il limite superiore, convesso, della sezione corrisponde alla faccia dorsale del
rene cefalico, il limite inferiore, concavo, alla faccia ventrale. Nella massa del tes-
suto linfoide si veggono disseminate (nella sezione se ne contano dieci) le isole dell’in-
terrenale anteriore, i a, alcune più grandi, altre più piccole. Alcune delle isole d’ interre-
nale sono con un loro margine in immediato rapporto coi rami venosi maggiori, v, vene
reveenti, della rete venosa. Nel limite inferiore della figura si vede l'arteria mesente-
rica, am, circondata dai gangli simpatici celiaci, gs c. Ingrand. diam. 16 circa. (Disegno
di I. Biagi).
Fig. 2. — Rappresenta una delle grandi isole d’interrenale anteriore veduta ad un medio ingrandi-
mento. Nell'isola si veggono alcuni dei seni venosi fittamente ripieni di corpuscoli san-
guigni rossi (nella parte destra della figura). Il tessuto linfoide, in mezzo al quale l'isola
si trova, s’intromette in qualche punto anche tra i lobuletti o trabecole epiteliali d’in-
terrenale. Nel tessuto linfoide numerose macchie di pigmento. Ingrand. diam. 80 circa.
(Disegno di I. Biagi).
Fig. 3. — Rappreserta una parte di un’isola (di quella disegnata nella precedente figura) d’interrenale
anteriore veduta a più forte ingrandimento. E un tratto in cui si veggono assai distinte
— 385 —
le trabecole o cordoni d’interrenale anteriore, è a, che formano un reticolato, gli spazi
delle cui maglie sono occupati da ampi sinusoidi, sv, dai quali le trabecole stesse sono
bagnate. È stato omesso il sangue che si trovava nei sinusoidi. Ingrand. diam. 160 circa.
(Disegno di I. Biagi).
Le Fig. 4 a 8 (come anche le Fig. 9 e 10 della Tav. II) si riferiscono ad un giovane esem-
plare di Salmo salar. Furono ricavate più specialmente per rappresentare la distribuzione
del tessuto cromaffine e perciò la scelta delle sezioni da servire per i disegni fu fatta
più in base alla presenza di tessuto cromaffine che in base alla presenza di isole d’inter-
renale, cosicchè in alcune figure le isole d’interrenale sono colpite soltanto tangenzial-
mente. Nel tessuto linfoide di tutte queste figure si veggono piccole macchie di pig-
mento.
Fig. 4. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione
media. Per ragioni di spazio la figura nella tavola è stata messa verticale anziche nella
sua posizione naturale obliqua, di guisa che il suo lato sinistro, volto verso il margine si-
nistro della tavola, è quello che guarda la faccia medio-ventrale del rene cefalico e il destro
è quello che guarda la faccia latero-dorsale. Vi si vede colpita obliquamente la vena car-
dinale posteriore destra, vc pd. Attorno alla vena o nella sua stessa parete si scorgono
isole d’ interrenale anteriore, # a. Un’ isola d’ interrenale, in basso (rispetto alla posizione
naturale) e a sinistra della figura, si nota pure in mezzo al tessuto linfoide. Numerosi grup-
petti o nidi di cellule cromaffini, se, nella parete della vena. Ingrand. diam. 80 circa.
(Disegno di M. Gilardi).
Fig. o. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico. La sezione cade un poco più
al di dietro della precedente. Vi si veggono colpite due isole d’interrenale anteriore, i a.
I nidi di cellule cromaffini, se, contenuti nella parete della vena, sporgono in parte nel
lume del vaso. In basso e a sinistra si scorge un maggiore accumulo di elementi ero-
maffini attorno allo sbocco di un ramo venoso (vena reveente) colpito tangenzialmente.
Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi).
Fig. 6. — Rappresenta parte d’una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione
posteriore. Ventralmente la vena tocca la superficie del rene cefalico e non è circondata
da tessuto linfoide. Vi si veggono colpite tre isole d’interrenale anteriore, i a. Notevole
è la quantità di elementi cromaffini nella parete dorsale, nella parete mediale e in quella
laterale della vena. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi).
Fig. 7. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione tra rene
cefalico e porzione addominale del rene. Il disegno è orientato secondo la posizione na-
turale dell’organo. Il lato mediale guarda a sinistra, il laterale (dove il disegno è inter-
rotto) a destra, il dorsale in alto e il ventrale in basso. Il calibro della vena cardinale
posteriore destra è qui un po’ più ampio. A sinistra vedesi un lobuletto d’interrenale an-
teriore, 2a. Nella parete mediale e nella parete laterale della vena si scorgono nidi o
brevi serie di cellule cromaffini. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi).
Fig. 8. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione tra rene
cefalico e porzione addominale del rene. La sezione cade alquanto più caudalmente della
precedente. Il disegno è orientato come sopra. A sinistra vedesi un lobuletto d’interre-
nale anteriore, 2a, e presso a questo nella parete mediale della vena cardinale posteriore
destra un cumulo di cellule cromaffini. Piccoli nidi o brevi serie di cellule cromaffini si
notano inoltre nella parete mediale, nella parete dorsale e anche in quella ventrale del
vaso. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gilardi).
— 386 —
TAVOLA II.
Le Fig. 9 e 10 si riferiscono, come le Fig. 4-8 della Tav. I, ad un giovane esemplare di
Salmo salar ed appartengono alla medesima serie.
Fig. 9. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione del rene ce-
falico colla porzione addominale del rene. A. destra il disegno è interrotto. La sezione cade
ancor più in dietro di quella della Fig. 8 (Tav. I). Nella parete mediale, nella parete
dorsale ed in quella latero-ventrale della vena cardinale posteriore destra si vedono nidi
o brevi catene di cellule cromaffini, se. Ingrand. diam. 80 circa. (Disegno di M. Gi-
lardi).
Fig. 10. — Rappresenta parte della sezione trasversale della metà destra del tratto di unione del rene
cefalico colla porzione addominale del rene. La sezione cade ancora un poco più caudal-
mente della precedente. Nidi e serie di cellule cromaffini, sc, si veggono nella parete
dorsale, nella parete laterale e in quella ventrale della vena cardinale posteriore destra.
Vi si vede anche un lobulo d’interrenale anteriore, 7a. Ingrand. diam, 80 circa. (Di-
segno di M. Gilardi).
Le Fig. 11 e 12 si riferiscono ad nn esemplare adulto di Coregonus wartmanni.
Fig. 11. — Rappresenta parte d’ una sezione trasversale del rene cefalico. La sezione cade verso
l'estremo anteriore (craniale) del rene cefalico, un poco al davanti del rudimento del cor-
puscolo malpighiano e la parte rappresentata sta medialmente alla vena cardinale destra.
Il lato inferiore della figura guarda la faccia ventrale del rene cefalico. Vi si veggono
tagliati dei grossi rami venosi (vene reveenti), v, e attorno al lume di questi vasi, nella
loro parete, si nota uno strato d’ interrenale anteriore, 2a, ai cui elementi si associano in
modo assai intimo, intercalandosi ad essi, cellule cromaffini, s c, isolate o riunite in gruppi.
Vicino a questi vasi, circondati come da un manicotto o guaina di tessuto interrenale, si
vedono, in parte in rapporto di continuità con lo strato circondante il lume dei detti rami
venosi, delle trabecole d’interrenale anteriore ramificate e anastomizzate tra loro in ma-
niera da formare dei delicati reticoli. Si osservi specialmente la parte destra della figura.
Nel loro andamento le trabecole imitano e seguono il comportarsi dei cordoni o zolle di
tessuto linfoide con le quali in certi punti potrebbero confondersi, senza attenta osserva-
zione. Anche con queste trabecole sono associati gli elementi del tessuto cromaffine. I
sinusoidi, sono molto ampi e perciò anche le zolle o cordoni dì tessuto linfoide appariscono
molto discosti tra loro, la qual cosa nella figura risalta anche maggiormente per il fatto
che è stato omesso il sangue che nel preparato riempie i sinusoidi. Nei cordoni e zolle
di tessuto linfoide si veggono numerose macchie di rigmento. Ingrand. diam. 100 circa.
(Disegno di M. Gilardi).
Fig. 12. — Rappresenta parte di una sezione trasversale del rene cefalico a livello della sua porzione
anteriore in corrispondenza della parte più cvaniale della vena cardinale posteriore sini-
stra, la quale è colpita molto obliquamente e a destra riceve lo sbocco di ampie vene
reveenti, La figura è orientata secondo la posizione naturale dell’organo, di maniera che
la sua parte inferiore guarda la faccia ventrale e la parte sinistra il margine laterale
sinistro del rene cefalico. Per questa figura valgono le stesse avvertenze fatte per la
precedente. lutto all’intorno del lume della vena, nella parete di questa, vedesi uno strato
di trabecole e di lobuletti d’ interrenale anteriore, #@, a cui si associano in nidi più o
meno grandi gli elementi del sistema cromaffine, sc. Notevole è l'insieme delle trabecole
che si vede a sinistra e in basso della figura, presso la faccia ventrale del rene cefalico.
RE
Le trabecole ramificate e anastomizzate tra loro formano un reticolato e gli spazi com-
presi nelle maglie di questo rappresentano ampî sinusoidi. Lungo le trabecole e fra le
medesime si veggono intercalati gruppi di elementi cromaffini, se. Ingrand. diam. 100
circa. (Disegno di M. Gilardi).
Fig. 13. — Rappresenta parte della sezione trasversale di un corpuscolo di Stannius (interrenale
posteriore) di Salmo fario adulto. Un involucro conettivale, cn, avvolge il corpuscolo.
Sottili propaggini dell’involucro si avanzano fra gli otricoli epiteliali, îp, che compon-
gono il corpuscolo. In vs, vaso sanguifero con eritrociti. Per maggior spiegazione veg-
gasi il testo a pag. 379-380. Ingrand. diam. 160 circa. (Disegno di I. Biagi).
Le Fig. 14 e 15 si riferiscono ad un esemplare adulto di Salmo farzo.
Fig. 14. — Rappresenta la sezione di uno dei gangli simpatici celiaci ventrali, nel quale si nota un
grande nido di cellule cromaffini, se. Un altro nido, molto più piecolo, vedesi in alto e
a sinistra (di fronte all’ indicazione per la cellula gangliare). Ingrand. diam. 200 circa
(Disegno di I. Biagi).
°
Fig. 15. — Rappresenta la sezione di un altro ganglio celiaco ventrale. La sezione cade presso al
punto in cui il ganglio sta per continuarsi con un tronchicino nervoso. Vi si vede un nido
discretamente grande di cellule cromaffini, sec. Ingrand. diam. 200 circa. (Disegno di
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Tizzoni — Sulla possibilità di trasmettere la pellagra alla scimmia (con
una. tavola)l fr ee E e eo
Razzaboni — Sulle curve a doppia curvatura in geometria iperbolica. . . >
Ciamician e C. Ravenna — Sul contegno di alcune sostanze organiche mne)
vegetali. IV. Memoria . . . IR RR e
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Righi - Nuove ricerche sul potenziale di scarica nel campo magnetico (cor
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Cavazzi — Processo per la determinazione del manganese nei prodotti side-
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Capellini == Zapwefoss_tmMolognest® (const zuremelbtesto) RR eeeee
Capellini — Zifividi fossili nel museo geologico di Bologna . ......... >»
Pincherle — Appunti di Calcolo Funzionale. I. Memoria... >»
Baldoni — Sulla resezione del condilo della mandibola nell’ artrite purulenta
traumatica temporo-mascellare nel cavallo (con 4 figure nel testo). . . . >»
Pesci — reazioni tra gli acetati di mercurio ed i rantogenati alcalini . . >»
Pesci =ASu/latcosttuzioneRdelloWMerciofenlanr'\ EROE
Ruggi -— Ancora dell’ emiprostatectomia verticale nelle iscurie da ipertrofia
prostatica »
Ruggi — Asportazione completa dello sterno a cura di un trapianto carci-
nomatoso successivo ad amputazione mammaria (con 5 figure nel testo). . >»
Albertoni —- ricerche sulle modificazioni del sangue in seguito all’ estirpa-
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— 389 —
G. Boeris — Appunti cristallografici
I. Novi — Azione disintegrante cerebrale del cloruro sodico in soluzioni fisio-
logiche (Studio critico e sperimentale)
L. Amaduzzi — Nuove osservazioni e ricerche su speciali scariche elettriche
(con quattro figure nel testo)
L. Amaduzzi e M. Padoa — Conducibilità ed isteresi fotoelettrica di miscele
isomorfe solfo-selenio e selenio-tellurio .
V. Simonelli — Avanzi di « Tursiops » del Pliocene senese (con tavola) .
IL. Amaduzzi e M. Padoa — Effetto Hallwachs e Fototropia
M. Rajna — Osservazioni meteorologiche fatte durante Vl anno 1910 nell’ Osser-
vatorio della R. Università di Bologna
F. Guarducci — Sopra un’ Integrafo polare
F. Guarducci — ’etferminazione astronomica di latitudine e di azimut a Fano
(asse del Fanale).
F. Cavani — Sulla verticalità della stadia nella misurazione delle distanze in
planimetria
A. Poggi — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle
lussazioni antero-interne dell’omero (con tavola doppia) . . .. .
D. Majocchi — Sopra alcune varietà del frenulo prepuziale soprannumerario
(con tavola). II. Memoria .
F. Brazzola — Ricerche sulle mutazioni (variazioni) del gruppo coli-tifo .
E. Giacomini — Anatomia microscopica e sviluppo del sistema izterrenale e
del sistema cromaffine (sistema feocromo) dei Salmonidi. Parte I. Anatomia
microscopica (con due tavole doppie e sei figure intercalate nel testo)
FINITO DI STAMPARE
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EbEINIDICE
G. Ruggi — Asportazione completa dello sterno a cura di un trapianto carci-
nomatoso successivo ad amputazione mammaria (con 5 figure nel testo).
P. Albertoni —- Ricerche sulle modificazioni del sangue in Jan all’ estirpa-
zione dell’ apparecchio tiroparatiroideo
G. Boeris — Appunti cristallografici
I. Novi Azione disintegrante cerebrale del cloruro sodico in soluzioni fisio-
logiche (Studio critico e sperimentale)
L. Amaduzzi — Nuove osservazioni e ricerche su speciali scariche elettriche
(con quattro figure nel testo)
. Pag.
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L. Amaduzzi e M. Padoa — Conducibilità ed isteresi fotoelettrica di miscele
isomorfe solfo-selenio e selenio-tellurio .
V. Simonelli — Avanzi di « Tursiops » del Pliocene senese (con tavola) .
L. Amaduzzi e M. Padoa — Effetto Hallwachs e Fototropia
M. Rajna — Osservazioni meteorologiche fatte durante l’anno 1910 nell’ Osser-
vatorio della R. Università di Bologna
F. Guarducci — Sopra un’ Integrafo polare
F. Guarducci — Determinazione astronomica di lutitudine e di azimut a Fano
(asse del Fanale).
F. Cavani — Sulla verticalità della stadia nella misurazione delle distanze in
planimetria . .
A. Poggi — Importanza del lembo capsulare rimasto illeso, nella riduzione delle
lussazioni antero-interne dell’omero (con tavola doppia)
D. Majocchi — Sopra alcune varietà del frenulo prepuziale soprannumerario
(con tavola). II. Memoria .
F. Brazzola — Ricerche sulle mutazioni (variazioni) del gruppo coli-tifo .
E. Giacomini — Anatomia microscopica e sviluppo del sistema interrenale e
del sistema cromaffine (sistema feocromo) dei Salmonidi. Parte I. Anatomia
microscopica (con due tavole doppie e sei figure intercalate nel testo)
FINITO DI STAMPARE
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